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Filippo La Porta

Da a : la commedia come via italiana al tragico Premessa: ragioni di un confronto Espongo subito la tesi che tenterò di argomentare, sia pure velocemente. Ma vorrei premettere che nella mia riflessione Italo Svevo, a differenza di altri relatori presenti al convegno, l’ho incontrato a partire dall’oggi, e cioè riattraversando a ritroso l’intero Novecento letterario italiano cominciando dalla sua conclusione. Già dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando andavo compiendo una ricognizione critica sulla nuova narrativa italiana emersa in quel periodo 1, mi interrogavo sui suoi modelli letterari. In particolare notavo che i nostri giovani autori allora esordienti – i De Carlo, Tondelli, Del Giudice, Busi, Lodoli, Veronesi - fossero molto più italiani di quanto volessero apparire. E dunque recitavano l’identità cosmopolita o la radicalità o l’intensità. In cosa erano italiani? Direi in una fondamentale refrattarietà al tragico, in una certa attitudine alla maschera e al travestimento culturale, e soprattutto nella tendenza a rappresentare i conflitti in modo ludico e teatrale(“giocandoli” più che indagandoli). I loro romanzi - anche quando esibivano una patina pensosamente esistenziale o picaresca - mi sembravano sostanzialmente delle commedie. Ora, muovendo da questa ipotesi ho provato a “collaudare” la nostra stessa tradizione letteraria novecentesca, e in essa ovviamente Svevo(d’altra parte questo convegno si intitola proprio alla “legacy of Svevo”): in che senso questa tradizione era ancora operante e riconoscibile dentro la nuova narrativa italiana? Non si tratta quasi mai di filiazioni dirette e, come ho detto, i nostri autori rivendicavano invece - nel pieno fervore del postmoderno - una estraneità perfino spavalda alla tradizione autoctona, dichiarando ad esempio di avere soprattutto modelli extraletterari: la musica rock, il fumeto americano, il cinema di Wenders, etc.(l’unico scrittore italiano davvero presente anche come sponsor di alcune opere prime è stato ). La tradizione sembrava essere solo un repertorio di citazioni da manipolare a piacimento. Eppure leggendo Sandro Veronesi, che aveva esordito proprio con un romanzo 2-che era quasi remake della più celebre commedia all’italiana, “Il sorpasso”, mi sono imbattuto via via in alcune tracce e coincidenze significative(ne ricordo subito solo l’ultima, e forse più esplicita nei racconti ora pubblicati - c’è un personaggio che si chiama proprio Svevo3). Inoltre in Veronesi questi elementi propri della tradizione italiana - la maschera, la messinscena dell’esistenza, la coazione alla recita sociale - vengono tematizzati e non subiti passivamente, come accade invece in tanta narrativa contemporanea. Tanto da maturare l’idea di un confronto della sua opera con la Coscienza di Zeno. Distanze incommensurabili Ovviamente Italo Svevo e Sandro Veronesi appartengono a epoche e mondi culturali tra loro incommensurabili, né mi soffermo sulle abissali differenze di formazione oltre che di qualità degli esiti letterari. Vorrei solo notare, senza indulgere a tentazioni apocalittiche, come Svevo appartiene a una civiltà in cui la letteratura occupava un posto centrale - coscienza critica di una nazione, principale strumento di dialogo con se stessi, interrogazione e utopia - e in cui un singolo romanzo

1 Cfr. F.La Porta, La nuova narrativa italiana, Bollati Boringhieri 1995

2 S.Veronesi, Per dove parte questo treno allegro, Theoria, 1988

3 S.Veronesi, Baci scagliati altrove -, Fandango 2011 riusciva a essere un’opera-mondo, capace di riassumere il significato di un’epoca(una cosa oggi inimmaginabile, almeno in questa parte di mondo, dove alla letteratura viene richiesto di intrattenere e di consolare… ). Eppure Svevo e Veronesi, da un altro punto di vista, rientrano entrambi in una italianissima elaborazione del tragico attraverso l’ironia lieve e il tono della commedia, conservando però - del tragico - il disincanto totale e la sfiducia in ogni sintesi, una percezione acuta del nulla che sottende le nostre relazioni sociali ( a proposito di questa disposizione ricordo solo come Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani(1824) accennasse a un nichilismo istintivo e pratico degli italiani, direi pre-filosofico: i nostri connazionali sentono più di altri popoli “la vanità reale delle cose umane e della vita”. Il che forse, oltre a generare secondo Leopardi una immoralità diffusa spiega in parte la scarsa dimestichezza con il romanzo, genere letterario legato indissolubilmente alla ricerca stendhaliana dell’aspra verità: non abbiamo mai creduto all’esame di coscienza o alla ricerca della verità perché sappiamo che la coscienza ci inganna e che la verità ultima è il nulla…). Il protagonista della narrativa di Veronesi Il protagonista che attraversa le opere più recenti di Veronesi(benché si presenti sulla scena in versioni lievemente diverse) - non è distante dalla fisionomia di Zeno: insidiato dal fallimento, pieno di sensi di colpa e autoindulgente, e poi sentimentale e arido, inetto e velleitario. Insomma “duella” incessantemente con la propria maschera(Geno Pampaloni su Svevo 4), in modi via via comici o drammatici, entro una commedia degli equivoci inesauribile che non rinuncia però a cercare oltre la recita sociale una ulteriore verità morale. Quando comincia una indagine su chi è veramente scopre di essere il contrario di quello che credeva. In un certo senso quel protagonista, con i suoi mutamenti interni, scandisce i capitoli di una “autobiografia della nazione” che ritroviamo nella antropologia della nostra letteratura novecentesca. In un confronto sistematico tra i romanzi di Veronesi e La coscienza di Zeno bisognerebbe registrare le analogie tematiche(l’ossessione della famiglia, del rapporto genitori-figli, l’interesse per il mondo degli affari, poi sia Zeno che il Gianni della Forza del passato provano vanamente a smettere di fumare, mentre nel recente XY di Veronesi c’è una critica della psicanalisi…), le analogie strutturali(la predilezione per il romanzo digressivo), le ricorrenze diciamo così narratologiche(in entrambi si usano codici dell’infanzia in una funzione rituale, quasi scaramantica: “nella Coscienza di Zeno, largamente dominata dai meccanismi infantili è spesso in opera il tentativo di addomesticare il mondo cercando d’imbrigliarne la casualità, ma anche di ingannare l’ordine morale che governa le relazioni adulte fra gli uomini”5 –– nel Caos calmo l’uso reiterato di elenchi), e soprattutto i loro personaggi, scettici sulla possibilità di conoscere alcunché del reale, tentano di abbandonarsi al fluire degli eventi, semplicemente assecondandone l’inclinazione e , per parafrasare su Svevo, “dopo aver messo in subbuglio tutto” si riconciliano beffardamente col reale: una singolare, quasi istintiva arte del vivere che si traduce in non-scelta, rifiuto del rischio, senilità programmata, ipocondria, sospensione indefinita… Eppure - insisto su questo punto - il tragico benché dissimulato nel “codice” della commedia, e in parte contraddetto dal ritmo narrativo frammentato, dal susseguirsi di scene umoristiche e di siparietti movimentati, si manifesta per intero: come impossibilità di “chiudere” le contraddizioni, come scarto ineliminabile tra essere e apparire, tra finzione e realtà, come presentimento apocalittico e presagio di un male radicale, inestirpabile. E infine come consapevolezza del relativismo di ogni punto di vista: secondo la fulminante definizione che ne diede Karl Jaspers in un libretto del 1952 “tragico è quel conflitto in cui le forze che si combattono

4 Cfr. G.Pampaloni, Il critico giornaliero, Bollati Boringhieri, 2001, dove si stabilisce tra l’altro, sulla scia di una intuizione montaliana, una prossimità tra la Noia di Moravia e Senilità di Svevo, ricordo come Moravia è stato per Veronesi un autore decisivo(p. 212)

5 C.D’Angeli-G.Paduano, Il comico, Il Mulino,1999, p.68 hanno tutte ragione, ognuna dal suo punto di vista. La molteplicità del vero, la sua non-unità, è la scoperta della coscienza tragica”6 Qualche anno più tardi George Steiner attribuisce una visione tragica ai soli greci, per i quali il destino ha qualcosa di irreparabile e misterioso, mentre per la tradizione giudeo-cristiana (e in seguito per il marxismo) c’è sempre una ricompensa alle sofferenze, e dunque una giustizia finale7. La bibliografia sul tragico è sterminata e questo non è un convegno di studi filosofici, perciò atteniamoci per il momento a questa definizione sintetica di Jaspers, che mi pare almeno un buon punto di partenza.

Tre romanzi di Veronesi: La forza del passato, Caos calmo, XY Prendo in esame tre romanzi di Sandro Veronesi scritti nell’ultimo decennio: La forza del passato 8, Caos calmo 9 e in subordine XY10, che rappresenta un’opera più atipica e in qualche modo spiazzante. E ora qualche parola sulle loro rispettive trame e su alcuni personaggi che mi sembrano fondamentali per il nostro confronto. La forza del passato narra di Gianni Orzan, scrittore per ragazzi dalla vita tranquilla, che viene avvicinato da Brogliasco, misterioso tassista e amico del padre, morto da poco, del quale conosce tutti i segreti. Bogliasco a un certo punto gli dice che la gente mente sempre, anche quando riempie i oduli del censimento(lui è stato un rilevatore), e poi “i figli mentono ai genitori, i genitori ai figli, i fratelli mentono fra loro, e marito e moglie mentono fra loro…”, concludendo che il mondo è una “grande illusione” ma credere a questa illusione è questione di buon senso (una conclusione che non sarebbe spiaciuta a Zeno). In particolare gli rivela che il padre non sarebbe stato il generale democristiano e bigotto che appariva, ma una spia russa al servizio del KGB. Niente è come sembra. Da questo momento si incrina la visione del mondo di Orzan, e tutte le sue certezze: la normalità è solo un velo che nasconde storie torbide e paradossali. Non solo la vera identità del padre ma anche i tradimenti della moglie. Scopre di essere diverso da come credeva di essere, con un padre diverso (una spia russa ) e una moglie diversa (infedele). Ho già detto del suo proposito, analogo a quello di Zeno: si iscrive infatti a un corso per smettere di fumare, e anzi per non ricominciare, dove gli insegnano – ma inutilmente – la tecnica per resistere all’”impulso fatale”, che dura circa 20 secondi… In Caos calmo Pietro Palladini è un quarantenne di successo, padre di una bambina di 10 anni, che si ritrova improvvisamente vedovo mentre salva una donna dall’annegamento. A quel punto decide di non andare più in ufficio. Resta con la sua auto ogni giorno - per due mesi - di fronte alla scuola della figlia dalle otto alle quattro e mezza( e lì lo andranno a trovare amici, familiari e colleghi quasi in processione a rivelargli il proprio dolore e il proprio lato oscuro). Poi si licenzierà dal lavoro e soprattutto grazie alla figlia troverà un senso alla propria vita. La pagina di Veronesi è sovreccitata e spettacolare(in ciò assomiglia alla società dell’apparenza con la quale la letteratura è fisiologicamente in conflitto). Eppure ha trovato uno stile abbastanza duttile, variato, pieno di registri diversi, per poter parlare di sé, della sua generazione, di figli e di genitori, della vita e della morte, del lavoro e dell’eros, della deriva del nostro paese, dell’entropia affettiva e della difficoltà di fare ancora esperienza di qualcosa. Il suo patto con i lettori si origina dall’infanzia.

6 K.Jaspers, Del tragico, Il Saggiatore, 1959, p. 32 – o Milano 1987 p.39).

7 Cfr. G.Steiner, La morte della tragedia, Garzanti 1964

8 S.Veronesi, La forza del passato,Bompiani, 2000

9 S.Veronesi, Caos calmo, Bompiani, 2005

10 S.Veronesi, XL, Fandango, 2010 Prendiamo l’iterazione degli elenchi, che accompagnano tutta la narrazione. Elenchi delle compagnie aeree con cui il protagonista ha volato, delle ragazze che ha baciato, dei traslochi, delle comete, dei mostri dei film dell’orrore. A un certo punto Pietro deve evitare una imbarazzante erezione in presenza di una ragazza e allora si mette a immaginare cose disgustose, come i porri, il pus, il sudore di colleghi e anche cose pubbliche come Previti che giura fedeltà alla Costituzione, la Parmalat, la benzina che aumenta Il romanzo è inoltre affollato di digressioni: una volta stabilito il Leit-motiv (crisi del protagonista e sua possibile rigenerazione) l’estro dell’autore si esprime soprattutto nelle pause dalla narrazione principale, nelle molteplici invenzioni che ritroviamo ai margini e dentro la storia (il gioco a distanza con un bambino down attraverso il telecomando)che la illuminano da un’angolazione insolita, che per un momento ce ne distraggono. Ricordo nella Coscienza di Zeno le poesiole che lui improvvisa. Gli incontri che avvengono in quella automobile scatenano un gioco della verità dalle conseguenze irreparabili. Vanno a trovarlo, in una specie di rito confessionale – e come entrando e uscendo da un palcoscenico - colleghi e capi d’ufficio, il fratello, la cognata,,Nessuno di loro sa chi è: come il protagonista della Forza del passato e come l’Edipo sofocleo, anche Pietro scopre di essere il contrario di quello che pensava di essere: crede di aver amato la moglie e non è così, crede che lei era felice, e non è così…). Il non-luogo per eccellenza, l’interno di un veicolo, mette a nudo le identità di ciascuno, e ne scopre il risvolto inconfessabile. Poi decide che è ora di smettere di giocare e di non aspettare più la palla lanciata in aria durante l’adolescenza…E così nelle ultime pagine si rivolge idealmente a tutti i personaggi per spiegargli quello che ha capito dell’esistenza. Pietro sembra indifferente a tutto. Non gli importa della moglie defunta, non gli importa del lavoro… Però non finge più. Affronta senza veli la sua stessa “superficialità” e aridità affettiva. Non la rimuove, e anzi la ritrova eguale nel padre, anziano ormai un po’ demente. Riparte soltanto dal legame con la figlia, dagli affetti reali, e dal riconoscimento delle proprie colpe. Nei dialoghi con la figlia ha paura che lei gli chieda della madre, che lei cioè scopra con dolore la spietata irrevocabilità delle nostre vite. ma non si può che accettare questa irreversibilità, quasi suggello ultimo della realtà, del suo sottrarsi ad ogni controllo, mentre possiamo ridere o sorridere di ogni pretesa di immortalità(come è della tradizione comica). L’importante è non bloccare l’esistenza dentro una forma rigida ma lasciarla – direi “svevianamente” - scorrere, e afferrarne la verità, sempre sfuggente. Assecondare, come qui si dice, l’inclinazione del mondo. Increspare il caos calmo - stagnante, mortifero - in un perturbamento che sia principio di un nuovo, vitale ordine. XY inizia con una visione horror. Borgo San Giuda, sperduto paesino innevato del Trentino, vengono ritrovati di fronte a un albero ghiacciato intriso di sangue 11 corpi straziati – “ i resti sparpagliati come giocattoli rotti” - , ciascuno dei quali morto per cause diverse. Mistero fitto. Proveranno a capirci qualcosa don Ermete, parroco del paese, e la psichiatra Giovanna (X e Y :scienza e fede), impegnati a curare gli abitanti da una “alluvione di follia”. Tornano le virtuosistiche tecniche narrative dell’autore, ad es. il montaggio alternato di dialogo e frasi prese da una rivista lasciata sul tavolino o il monologo interiore finale. Ogni cosa possiede un ritmo incalzante, e senza che si tratti di un vero noir. Stephen King(al suo meglio)ma contagiato da un raccontare spaesante alla David Lynch, che procede per ossessioni, per storie che forse non sono storie. Ogni cosa sembra ribaltarsi nel contrario: san Giuda Taddeo degli Impossibili diventa Giuda Iscariota Ma come salvarsi dal male assoluto(sia esso orrore splatter o caos calmo o la bolla che contiene tutte le paure del mondo)? Non affidandosi solo alla ragione ma sviluppando associazioni intuitive, lasciando che l’attenzione fluttui, accettando di non capire tutto. L’“osservazione pura delle cose” diventa qui una tecnica zen che libera dall’illusione di padroneggiare ogni cosa. La dottoressa Giovanna recandosi a borgo San Giuda, il paesino della strage, si porta con sé pochi libri, tra cui Elias Canetti(siamo in piena Mitteleuropa) e Il cambiamento catastrofico dello psicanalista inglese Wilfred Bion. . Già la dottoressa aveva detto che in quella storia “ogni tentativo di scoprire qualcosa con metodi diciamo così scientifici viene umiliato” 11 e che l’unico strumento per indagare e è “l’osservazione pura delle

11 S.Veronesi, Xl, p.310 cose, come ti dicevo, la mera constatazione di quello che sono, senza la necessità di scoprirvi per forza un senso”12. Dunque: osservare con pazienza, allineare le cose, potremmo anche dire non “violarle” con una smania di comprensione. Nel romanzo un personaggio si chiama Zeno, orfano di madre(“seppellita” in un manicomio: la malattia serpeggia per tutto il romanzo), cresciuto nei boschi e poi campione di salto con gli sci, è il primo a scoprire l’eccidio, a vedere i 9 corpi straziati e decapitati, l’albero ghiacciato tutto rosso all’imboccatura del bosco. Inoltre dopo rivelerà, proprio lui che è un soggetto psichicamente borderline, una qualità rara, di “comprensione epifanica per intuizione”(p.239). Ultima notazione, in margine. A proposito delle sgrammaticature di Svevo, quasi proverbiali - “equivaluta”, “avessi esistito”, “prolungazioni” - si potrebbero segnalare alcune sgrammaticature di Veronesi, peraltro virtuoso della lingua, come ad es. “si aveva avuto l’ardire di intitolare…” e non “si era avuto l’ardire di intitolare…”13, o anche di contro alle ricercatezze sveviane(“per istrada”, “in Isvizzera” - i certi vezzi di Veronesi per cui dice “d’attorno” al posto di “intorno”. La coscienza di Zeno: umorismo e impossibilità della sintesi Anche la Coscienza di Zeno, che parte dalla premessa che il mondo non sia spiegabile né davvero comprensibile, e anzi ride esattamente della pretesa di spiegarlo, giunge a conclusioni simili. Accettare la mancanza di senso, il caso, la non coerenza delle cose, il peso enorme dell’immaginario nella costruzione di quella che chiamiamo realtà. Accettare il vuoto, l’incertezza. Zeno non saprà mai bene per quale ragione il padre morente gli diede uno schiaffo. Non per rassegnarsi o chiudersi in una passività impotente. Anzi, quella nostra accettazione dell’insensatezza diventa un agire. Solo se “tolleriamo” il mistero, ci aveva suggeito Veronesi, possiamo andare oltre e infine trovare un senso. Dove? Nel fatto che comunque la lotta tra il bene e il male si svolge dentro ciascuno di noi, e che prima ancora di spiegarla dobbiamo scegliere una parte. I rapporti di Zeno con gli altri sono complessi e ambivalenti: con la moglie oscilla tra amore e indifferenza, con l’amico Guido tra affetto e sostilità. Zeno vorrebbe razionalizzare il suo comportamento ma la sua soggettività”celandosi dietro l’ovvietà e le convenzioni sociali, si manifesta comicamente” 14 La confessione di Zeno è sempre autoapologetica e verità e menzogna si sovrappongono, ma, come sottolinea Mario Lavagetto, “senza confondersii”(L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, Einaudi 1975, p. 89). E infatti il medico che non salva Guido dopo il falso suicidio per pigrizia ed egoismo - perché non vuole riattraversare la città con la pioggia e prendere gli strumenti - è inequivocabilmente colpevole. Qui non c’è doppio fondo, né il vero si scambia con il falso. E così quando Zeno vede Guido abbracciare Ada squassata dal morbo di Basedow pensa: “Si rivelò qual era, cioè falso e simulato”. Il carattere doppio della realtà non ci impedisce di percepire un comportamento come inequivocabilmente falso. Ma la verità si esprime soprattutto nella scrittura, capace di rappresentare l’ambiguità indecifrabile dell’esistenza, composta egualmente di reale e immaginario, di oggettività e soggettività. La coscienza intesa come narratore principale è continua fonte di equivoci, bugie, aggiustamenti, razionalizzazioni. Eppure la sua malafede viene smascherata attraverso il romanzo, attraverso quella che una volta chiamò la “chiarezza radicale” di Svevo, la sua nuda disperazione aliena da ogni estetismo . Ed è certo paradossale constatare ogni volta che si viene a capo della verità solo attraverso una finzione. Il gioco delle maschere e l’abbandono ai ritmi del mondo.

12 , ivi, p.311

13 ivi, p.189

14 G.Guglielmi, in Il caso Svevo. Guida storia e critica a cura di E.Ghidetti, Laterza 1984, p. 88. Nelle storie che racconta Veronesi c’è sempre un momento di forte crisi, una incrinatura improvvisa, determinata da un evento, che mette a rischio le certezze del protagonista. Ma in tutti la scoperta del “caos”, della inconoscibilità e ingovernabilità del reale, approda ad una saggezza antica, che viene dal passato e che proprio nel Caos calmo si condensa nelle parole dell’Imperatore del Giappone “Che ognuno faccia quel che deve. Che la vita continui normalmente”. In Caos calmo il protagonista tornerà alla vita normale imparando ad “assecondare l’inclinazione del mondo”. Mentre in XY la giovane psichiatra, sulla scia di Wilfred Bion, apprende l’“attitudine a tollerare l’insaturo”, (il vuoto), senza preoccuparsi di capire, poiché solo così si noteranno tanti dettagli prima trascurati( “se si osserva solo ciò che si comprende finisce che si esiste solo in ciò che si comprende”15Anche Zeno, verosimilmente, avrebbe acconsentito a questo “stare nell’indeterminatezza senza nessun bisogno di cercare fatti e ragioni”, ad acquisire quella “attenzione fluttuante” di cui parla Freud. La vita è una malattia incurabile, ma possiamo conoscerla e “sopportarla”, almeno in parte, se rinunciamo a possederla, se ci affidiamo a una passività attenta, ricettiva, e forse possiamo viverla decentemente soltanto se ci abbandoniamo ai suoi ritmi imperscrutabili. e se ne accettiamo il vuoto costitutivo. Nelle loro storie la catastrofe può all’improvviso essere vissuta come possibilità. Tutto dipende da come ce la raccontiamo, dalla lingua che usiamo. Anche in Veronesi non c’è una parola ultima. E anzi nella sua opera troviamo o scardinamento della “logica binaria di vero e falso” di cui parla Guido Guglielmi in riferimento a Svevo e Pirandello. In questo senso sarebbe più corretto parlare non tanto di via comica al tragico quanto di via umoristica al riconoscimento della natura tragicomica della realtà Come osserva Guglielmi l’umorismo, nel celebre saggio di Pirandello coincide con il “sentimento del contrario” come “sentimento della non identità della cosa con se stessa, della dissonanza come fondamento della cosa”. Dunque se il disordine appartiene alle cose stesse la parola non si pone né tragicamente né comicamente(“tragico e comico presuppongono un ordine già dato del mondo”), ma solo umoristicamente, come “strutturalmente discordante e doppia” 16 . Ma, come abbiamo visto, nel ‘900 anche la nostra narrativa di fronte alla questione della verità tende a decantare la visione tragica nel tono della commedia, a sciogliere la cognizione del dolore in una rappresentazione relativistica che sfocia nell’umorismo: “la passione della verità non si estingue, si potenzia anzi, ma assume un’altra configurazione, si fa appunto sentimento del contrario” 17(ibidem, Guglielmi). Anche se, aggiungo, quella passione della verità non può non esserne destabilizzata. Questa attitudine, che prima seguendo Leopardi ho voluto definire “nichilista”, tende a generare comportamenti aberranti sul piano etico e civile(la democrazia ha disperatamente bisogno della verità), ma forse può suggerire una modalità meno traumatica di vivere dentro la contemporaneità, una idea di salute che incorpori però la malattia, la scoperta di una parola non monologica, capace di integrare gli opposti però in un equilibrio sempre aperto, precario, che rinunci a ogni sintesi. Conclusioni provvisorie: ancora la commedia All’inizio ho accennato alla distanza incommensurabile tra Svevo e Veronesi. Da una parte infatti nell’ironia sveviana possiamo ritrovare il precipitato chimico di una serie di fattori culturali estranei all’universo postmoderno di Veronesi(ebraismo e Mitteleuropa, ambiente filosofico austriaco fine Ottocento - kantiano, anti-hegeliano - , Cultura della Crisi, Schopenhauer e Nietzsche,

15 XL, p.317

16 in Manuale per generi e problemi di letteratura italiana, Bollati Boringhieri, vol. I, 1996, p. 562

17 G. Guglielmi, op. cit., ibidem etc., e chissà che George Steiner non possa attribuire proprio all’ebraismo, cui sarebbe estranea una concezione tragica del mondo, l’attitudine ironico-beffarda, l’esplosione della Terra come parodia del riposo finale in Dio e della liberazione dal dolore). Dall’altra Svevo si allontana da noi irreparabilmente poiché nella nostra contemporaneità allenata a un cinismo sistematico, capace di “consumare” disinvoltamente ogni cosa, dalla psicanalisi all’apocalisse, non è più riproducibile quello sguardo sulle cose, uno sguardo insieme sottile e ingenuo fino alla puerilità(come volle definirlo 18), iper-analitico e sempre anche un po’ stupito. Eppure mi sembra che in entrambi sia operante, benché diversamente declinata, una specifica tradizione italiana che pur condividendo una visione tragica, consapevole della “molteplicità del vero”(Jaspers) - e dunque: ii conflitti dell’esistenza sono irrisolvibili, la sofferenza è senza riscatto, le colpe che commettiamo sono inespiabili…- , e pur confrontandosi con il male radicale(la guerra in un caso, l’implosione della società stessa nell’altro), tenta di addomesticare il mondo attraverso una strategia di elusione fondata sulle digressioni narrative, sull’umorismo lieve, su una parziale regressione all’infanzia, e soprattutto sull’italianissimo tono dominante della commedia.

18 Cfr. Aldo Palazzeschi, in G.Guglielmi, in Il caso Svevo. Guida storia e critica a cura di E.Ghidetti, Laterza 1984, p. 47