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Annali del Lazio Meridionale S T O R I A E S T O R I O G R A F I A anno VIII, n 1 – giugno 2008

Due quaderni all’anno. Semestrale. Ambito Direttore editoriale: Antonio Di Fazio territoriale: Lazio meridionale romano, ciocia- e-mail: [email protected] ro e pontino Ambito concettuale-disciplinare: la storia e gli Comitato di redazione svolgimenti culturali del Latium vetus e adiec- A. Di Fazio, Giovanni Pesiri, tum dall’ antichità fino ad oggi. Sfondo di sto- Luigi di Pinto, Giovanni Tasciotti ria nazionale e meridionale. Ricerca storica e Massimiliano Di Fazio, discussione. Spazio didattico. Rosario Malizia, Annibale Mansillo Si collabora alla rivista solo su invito del diret- tore o di un redattore. Sono però libere le ru- Comitato scientifico briche aperte al dibattito. La responsabilità Luigi Cardi (Geografia storica, Università Orien- giuridica e scientifica rimane interamente a ca- tale di Napoli) rico dell’ autore. Dischi, foto e dattiloscritti, se Vincenzo Padiglione (Antropologia sociale, Uni- non pubblicati, possono essere ritirati solo a versità di Roma ‘La Sapienza’) cura degli stessi autori. Silvana Casmirri (Storia moderna e contempo- Gli articoli vanno consegnati in cartaceo e su ranea, Università di Cassino) floppy-disk (possibilmente in Word / Times Giovanni Pesiri (Istituto Storico del Medioevo, New Roman 11). Gli autori hanno diritto a 3 Roma) copie del fascicolo per ogni saggio e 2 copie Massimiliano Di Fazio (Archeologo - Dott. Ri- per le recensioni (3 se più di una). Per gli e- cerca - Università di Roma ‘La Sapienza’) stratti si accorderanno con l’editore. Gli interessati a recensioni e schede possono Casa Editrice ‘Edizioni di Odisseo’, via S.S. inviare le loro opere al Direttore (Via Val- Appia, km 136 – Itri (LT), tel. 0771-727203 maiura 26, 04022 Fondi – Tel/fax 0771- E-mail: [email protected] Un nume- 531879) o ad un redattore. ro: €11. Abbonamento annuale (2 numeri): Supplemento a ‘L’Acropoli’ – Autorizzazione n. ordinario, € 20; sostenitore € 30, con vaglia 803/04 del Tribunale di Latina postale intestato all’editore sito web: www.annalilazio.it

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Stampato con il contributo della Banca Popolare di Fondi

in copertina: foto di gruppo di coloni ferraresi (foto Rossetti)

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ANNALI DEL LAZIO MERIDIONALE, N. 1 / 2008

i n d i c e

il Direttore 5 questo fascicolo - * necrologio

C. Rossetti 7 Un colono ferrarese in Agro Pontino e il riscatto del podere

S. Vona 23 Il Partito comunista in provincia di Latina. Memorie (1944-1975)

E. Di Meo 37 Osservazioni sulla carestia del 1763-1764. Misure adottate ed effetti demografici: il caso di Cori

V. Lifranchi: 63 Canonicato e presenza francescana a Sermoneta a metà Quattrocento

STORIA E STORICI A. Di Fazio 79 La modernizzazione nel Lazio Meridionale. Progetto per un seminario

STORIA E DIDATTICA F. Tetro 83 Dall’Archivio dell’Opera di Cambellotti al Museo di Latina: Dinamica e aspettative di un progetto museale

E. Di Rocco 89 A Gaeta un seminario di aggiornamento sulla storia medievale nel Basso Lazio

recensioni, etc. - Il rilancio del Centro studi ‘B. Nardone’ di Arce e la Conferenza «Gli albori del socialismo e del comunismo in Terra di Lavoro » (Arce, 30 marzo 2008) [A. Di Fazio] - Celebrato a Sperlonga il cinquantenario della scoperta dei gruppi marmorei dell’antro di Tiberio [A. Saccoccio] - Alfredo Sergio, Aspetti e problemi del folklore ciociaro [A. Di Fazio] - Franco Cuomo, I dieci. Chi erano gli scienziati italiani che firmarono il ‘Manife- sto della Razza’ [N. Terracciano] - Agostino Attanasio, La macchina vecchia di Pantano [A. Di Fazio]

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Questo fascicolo

Dedichiamo ancora quest’annata prevalentemente alla perlustrazione del ‘900. In questo fasciclo Cristina Rossetti torna sul tema dell’immigrazione dei Ferraresi nella Pianura pontina, consegnandoci un eloquente documento della condizione di vita lavorativa, di ‘ingaggio’, da parte del fascismo per l’opera di bonificazione ‘integrale’ della Piana stessa. E’ un documento importante che se non altro ci fa entrare nel vivo della vita, dei problemi reali e delle speranze di una famiglia di coloni venuti dal nord per le sorti della mussoliniana ‘bonifica integrale’. Attinente al clima della bonifica pontina è di certo la bella sintesi che France- sco Tetro - grosso professionista e attento studioso della cultura e dell’arte pontina, da questo numero nuovo prezioso collaboratore della rivista - ci invia sul ruolo culturale ma anche didattico che è assegnato al Museo ‘Cambellotti’ di Latina, che custodisce l’opera omnia del grande artista, che Tetro sa illustra- re con la competenza che tutti gli riconoscono. A Sabino Vona, peraltro collaboratore di ‘Annali’, abbiamo chiesto di tracciare una memoria, pur se con caratteri di provvisorietà, della sua personale vicenda politica di esponente politico e sindacale della sinistra lepina, docente impe- gnato per tanti lustri nelle lotte per l’avanzamento della scuola pontina e sinda- co di Roccagorga dal 1990 al 1995. La sua testimonianza è prezioso documen- to per chi vorrà impegnarsi ad una ricostruzione complessiva della vita politica nella provincia pontina, in particolare sui Lepini, dagli anni della Ricostruzione fino alla metà degli anni settanta del ‘900. Nel secondo fascicolo contiamo di allargare l’indagine fino a tempi più recenti. Con gli altri contributi abbandoniamo il ‘900, sul quale proporremo altri studi nel prossimo fascicolo. Ettore Di Meo ci presenta una sua lunga ricerca sui di- sastri arrecati dalla carestia del 1763-64 in Cori e nel contado. La ricerca è al tutto originale, avvalendosi di pazienti e preziose ricerche di archivio. Il pregio del lavoro consiste anche nella intenzione di proporre una sintesi utilizzabile anche immediatamente, attraverso la formalizzazione dei dati in quadri stati- stici molto accurati. Il giovane Vincenzo Lifranchi, nuovo nostro collaboratore, autore già di alcu- ni studi sulla evoluzione storica degli ordini religiosi sermonetani nel XV sec., intesi in particolare a meglio conoscere la presenza significativa di confraterni- te a carattere ospedaliero nella zona, riprende qui le tematiche relative alla condizione del canonicato, in special modo concentrando la ricerca sugli aspet- ti della sussistenza economica, degli spazi religiosi, della composizione dei ca- pitoli e del rapporto di difficile coesistenza del clero con gli Ordini mendicanti, nella Sermoneta di metà ‘400. 6

La prof. Elisabetta Di Rocco ci propone una sintesi ricca e densa dei risultati di un notevole corso di aggiornamento per docenti, tenuto a Gaeta nei giorni 16 e 17 maggio, a cura dell’Istituto storico per il Medioevo. La scarsa partecipazio- ne all’ iniziativa è solo in parte dovuta a difetto di organizzazione, e pone anco- ra una volta l’ accento su una certa ‘distanza’ ed incomprensione che perma- nentemente si registra fra la scuola pontina e gli impulsi che la società civile e le istituzioni culturali del territorio cercano di offrirle.

Questa ‘distanza’ peraltro si riproduce in generale fra la sfera della vita cultu- rale e quella delle amministrazioni locali, dominate quasi dovunque da una ‘ca- sta’ politica poco sensibile e poco preparata, che pensa alla cultura solo in ter- mini di appagamento dei famelici suoi clientes, al massimo per offrire delle opportunità ad aziende produttrici e per il turismo. Non vogliamo qui registrare le nostre rivendicazioni nei confronti di alcuni comuni ed enti montani e parchi, che sistematicamente ci snobbano (sappiano comunque che preferiamo chiudere e ‘andarcene al mare’ piuttosto che piegar- ci a chi esercita il potere per fini ignobili); ma il caso dell’assessorato alla cul- tura della provincia di Latina che dopo tre mesi esatti, al momento di andare in stampa, non è ancora riuscito ad assegnare i finanziamenti accordati dalla l. n. 17/2007 della Regione Lazio, ponendo in grave imbarazzo soprattutto le asso- ciazioni più serie, quelle che – come l’Associazione storico culturale ‘M.ti Au- soni’, la cui proposta illustro nella rubrica ‘STORIA E STORICI’ – hanno magari posto in cantiere importanti convegni o seminari di studio e che proprio perché seri hanno bisogno di mesi per la corretta loro messa a punto e realizzazione, rischia di diventare un vero scandalo, un esempio di dissennatezza ammini- strativa di cui certo non potremo menare vanto. Il Direttore

Necrologio. In maggio è venuto a mancare all’affetto dei cari e dei tanti amici ed e- stimatori Albino Cece, originario di Ausonia ma da tanti anni trapiantato in Itri. Gior- nalista con la passione della storia, si è a lungo interessato ad un ampio spettro di ar- gomenti prevalentemente locali, dalla preistoria e protostoria attestata nel sito itrano di Campello, alla toponomastica itrana, al brigantaggio di ogni stagione, nel quale vedeva soprattutto l’ espressione di una reazione ‘eroica’ contro gli invasori di Francia prima (con Fra’ Diavolo) e poi quelli di Piemonte al momento dell’unificazione nazionale. Pur se i risultati non possono considerarsi tutti sicuri contributi all'avanzamento della ricerca storica, tuttavia resta la traccia indelebile della sua passione civile, resta la sua apertura entusiastica al nuovo e la sua accanita opera di smitizzazione di certa oleogra- fia risorgimentale, che ha creato eroi falsi ed antipopolari, calpestando due volte (nella realtà e negli scritti degli storici di parte) le ragioni del Meridione, terra nobile e sfor- tunata. Noi di ‘Annali’, che lo avevamo quale amico e prezioso collaboratore, questo possia- mo qui fare per esprimere il nostro profondo cordoglio e un incoraggiamento alla mo- glie e ai figli. La redazione

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S A G G I

Un colono ferrarese in Agro Pontino e il riscatto del podere ______CRISTINA ROSSETTI

Cinquant’anni fa Mussolini progettò la bonifica pontina e riuscì a far crescere il grano dove c’erano paludi e malaria. Fu una grande opera, disonesto negarlo. Ricordo che il mio amico Treves era preoccupato: Sandro, mi diceva, se questo continua così siamo fregati. Non continuò, purtroppo. Preferì buttare il Paese nel disastro di una guerra crudele di cui portiamo ancora i lutti e le ferite...1 Sandro Pertini

La famiglia – Il podere – I contratti – Il riscatto del podere - Il documento: la promessa di vendita.

La famiglia La famiglia di Francesco Pirani, originaria di Cento e cresciuta a Bondeno in provincia di Ferrara, emigrò nell’Agro Pontino nel 1934. Il nucleo familiare era costituito dal capofamiglia ex combattente classe 1891, dalla moglie e da undici figli maschi. Francesco era affittuario di un fondo nel Ferrarese, ma coltivava anche un pic- colo appezzamento di terreno di sua proprietà. D’inverno,quando i lavori agri- coli erano fermi, lui e i figli si dedicavano ad attività alternative, quali la lavo- razione di carni insaccate, la produzione di mattoni e qualunque altro lavoro in grado di integrare lo scarso guadagno. Non erano semplici braccianti come tanti coloni che emigrarono come loro in Agro Pontino; possedevano una solida cultura rurale, grazie anche all’ espe- rienza delle leghe e della compartecipazione vissute nel Ferrarese, prima dell’ avvento del Fascismo. Tale cultura ed esperienza risulteranno risorse preziose

1 Cfr. C. GREGORETTI, Rapporto sulla fame nel mondo. Conversazione con Sandro Pertini, in “Epoca”, n.1732, 23 marzo 1984, p.32. Il brano è riportato da ANTONIO PARISELLA che insieme ad EMILIO FRANZINA ha curato il volume La Merica in Piscinara, Francisci editore, Abano Terme (PD) 1986, pag.191. 8

per la famiglia Pirani nell’affrontare da coloni i problemi incontrati in seguito nell’Agro. Le cause dell’emigrazione, secondo le testimonianze del figlio Pri- mo,2 furono di tipo economico, per la grande crisi che l’Italia attraversava nel periodo degli anni trenta, ma anche di tipo politico, per le sollecitazioni ricevu- te dai sindacati a favore dell’emigrazione. Francesco non si era mai piegato a prendere la tessera del Fascio, né ad aderire alla politica di sbracciantizzazione voluta dal Duce. Questo atteggiamento ri- belle era opposto al criterio di fedeltà al Fascismo, che il Commissariato per l’ emigrazione esigeva da chi presentava come lui domanda di emigrazione. La scelta di Francesco da parte dei sindacati agricoli locali, ai quali, per conto del Commissariato, spettava la selezione di coloro che decidevano di emigrare, si configurava dunque come una violazione dei criteri stabiliti. Quale poteva es- sere il motivo di una simile trasgressione? È facile arguire che, favorendo l’ emigrazione della famiglia, i sindacati si sarebbero sbarazzati di persone sco- mode dal punto di vista politico.Altri casi come quello della famiglia Pirani, emersi dalle testimonianze orali, si verificarono fra i Ferraresi, i più numerosi come provincia di provenienza e noti per la loro fede socialista, mentre non so- no stati messi in rilievo casi analoghi fra i Veneti, coloni più numerosi invece come regione di provenienza, secondo lo studio su tale etnia condotto da Oscar Gaspari.3 Il fatto di essere una sola grande famiglia ad occupare il podere, favorì la coe- sione fra i componenti Pirani, a differenza di tante altre famiglie di assegnatari risultate dall’unione di diversi nuclei di consanguinei. Molti di questi, unitisi per raggiungere le unità lavorative necessarie per avere diritto ad un podere, poi furono incapaci di affrontare la convivenza. Tali famiglie allora si sdoppia- rono, quando le circostanze furono favorevoli e l’ONC glielo permise conce- dendo altri poderi, oppure dovettero rinunciare e tornare nel Ferrarese, rimpa-

2 Le interviste a Primo Pirani e ad altri coloni ferraresi, svolte nel 1980, sono riportate nel volume di CRISTINA ROSSETTI, I Ferraresi nella colonizzazione dell’Agro pon- tino, Ed.Bulzoni, Roma, 1994, pp.99 e 102-126. 3 OSCAR GASPARI, L’emigrazione veneta nell’Agro Pontino, Morcelliana 1985. So- no stati effettuati alcuni studi sull’emigrazione ferrarese in Agro Pontino oltre quello citato dell’autrice; esiste una tesi di laurea di GIOVANNI RAPONI dal titolo Propa- ganda di regime e vita quotidiana. I mezzadri di Pontinia dalla fondazione della città alla caduta del fascismo, discussa all’università La Sapienza di Roma nell’a.a.1992-93, che l’autrice non ha potuto riportare in bibliografia nel suo saggio sui Ferraresi, avendo già depositato il manoscritto alla casa editrice al momento della discussione della tesi. Esiste un altro studio curato da ALBERTO GUZZON, ROBERTA MORELLI, STE- FANIA SANNA, Le paludi tra storia, legislazione, colonizzazione ed il sorgere delle città nuove. Il contributo dei Ferraresi alla redenzione dell’Agro Pontino, tipolitogra- fia Olympia, Pomezia 2005, che ignora le opere precedenti, non citandole mai in bi- bliografia, pur riprendendo argomenti di ricerca già svolti, come la rassegna stampa ferrarese dell’epoca. La fede nel socialismo dei Ferraresi fra i mezzadri di Pontinia è confermata anche da Giovanni Raponi a pag. 71. 9

triando volontariamente da clandestini o addirittura cacciati con la disdetta dell’ONC. Naturalmente i motivi dei rimpatri furono diversi: tra i tanti, oltre ai dissidi fa- miliari ci furono l’impossibilità di adattamento al clima, all’ambiente ancora selvaggio, alla lontananza dalla terra natia, dai parenti, dagli amici; ci fu la ne- cessità di obbedire in tutto all’ONC, alle direttive dei fattori, anche se sbaglia- te; ci furono le amarezze per il trattamento umiliante subito, per i grandi sacri- fici necessari a coltivare le terre appena prosciugate e avare di raccolti. Anniba- le Folchi scrive che «il rimpatrio dei coloni si rendeva inevitabile dopo che il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna e l’Unione fascista del sindacato dei lavoratori agricoli, su richiesta dell’ONC, avessero ricono- sciuto la legittimità di rescindere il contratto di mezzadria».4 Tale riconosci- mento però doveva essere ratificato obbligatoriamente da Lino Balbo, federale di Ferrara dal 1934 al 1940, il quale «non si sa in base a quale norma scritta, aveva una posizione di privilegio rispetto al suo collega di Littoria».5 La famiglia di Francesco Pirani seppe superare i grandi disagi incontrati e riuscì a rimanere sul podere assegnatole, in cui alcuni eredi abitano ancora. Avvenne uno sdoppiamento nella famiglia a causa della crescita del numero dei componenti; infatti venne assegnato un altro podere a due figli sposati, che insieme a due fratelli celibi andarono ad occupare prima il n.2.284, oltre l’Appia sempre a Pontinia, poi il n.1.190 nell’azienda di Littoria, a una decina di chilometri di distanza, a Borgo S.Michele. A questo proposito risulta interessante quanto emerge da un carteggio che con- tiene una lettera di Nello Quilici, noto giornalista di Ferrara, scritta nel maggio 1940 un mese prima di morire nell’incidente aereo in Africa con Italo Balbo, ed un’altra lettera analoga di sua sorella Maria, inviate al presidente dell’ONC, in cui si perora la richiesta di Francesco, amico della loro famiglia, affinché i suoi figli, che occupano il podere dell’azienda di Littoria, siano trasferiti in un altro liberatosi vicino a quello del padre. Il presidente dell’ONC accoglie le raccomandazioni e si rivolge ai rappresentanti locali dell’ente chiedendo se è possibile soddisfare la richiesta, ma la risposta è negativa. Il motivo addotto è che la forza lavorativa dei coloni in questione è inadeguata rispetto alle esigenze del podere richiesto; ma il motivo di fondo è il fatto che gli assegnatari di cui si tratta sono stati spostati dal podere precedente, che era proprio vicino a quello del padre, a causa del loro comportamento censurabile. L’accusa era che tali coloni avevano trafugato prodotti, semi e concime ed e- rano stati visti nelle ore pomeridiane in paese anziché nei campi, contravve- nendo alle regole dell’ONC. La punizione ai figli di Francesco, consistita nel loro spostamento nell’azienda di Littoria, era stata inflitta benché si basasse su «voci non confermate», da

4 Cfr. ANNIBALE FOLCHI, I contadini del Duce, Pieraldo Editore, Roma 2000, pag.209. 5 Idem, pag.208. 10

quanto si legge testualmente nel rapporto del direttore dell’azienda di Pontinia del 6 giugno 1940.6 Indipendentemente dal fatto se quanto denunciato sia re- almente accaduto e tenendo presente che le vendite illegali erano abbastanza diffuse, secondo i documenti e le testimonianze orali, per le ristrettezze eco- nomiche in cui vivevano tutti i coloni, è evidente come questo carteggio testi- moni in quale stato di subordinazione vivessero i Ferraresi, dal momento che bastavano dei semplici sospetti su infrazioni vere o presunte del regolamento, riferiti dai fattori o dai guardiani dell’ONC, perché questa punisse i coloni, specialmente quelli come i Ferraresi, le cui opinioni politiche erano scomode.

Il podere Il podere che venne assegnato alla famiglia dall’ONC fu il n.1.357, costituito da un fondo dell’azienda agraria Pasubio, sulla strada Migliara 48, vicino alla Via Appia, distante un paio di chilometri dal paese di Pontinia, nella zona dove furono alloggiati i Ferraresi per la maggior parte. Il fondo era di ha.11,32, la cui dimensione corrispondeva a quella media dei poderi assegnati a Pontinia7. L’ONC aveva calcolato la dimensione in base alla natura del terreno ed alla sua giacitura. In relazione alla potenzialità produttiva del fondo aveva fissato quin- di le unità lavorative necessarie, a cui corrispondevano quelle della famiglia Pirani8. Il terreno era fertile, a differenza di altre zone appoderate, ma essendo recen- temente bonificato, esigeva molto lavoro ed offriva una rendita bassa. Le coltu- re erano imposte dai fattori dell’ONC, i lavori altrettanto; non sempre le diret- tive erano quelle più opportune, ma bisognava obbedire, pena la perdita del podere e la minaccia del rimpatrio. La casa poderale era unita alla stalla e, come tutte le case costruite dall’ONC, aveva un ponticello di accesso sulla strada, oltre a portico, forno, pozzo con pompa a mano, vasca per lavare, doppio abbeveratoio, concimaia, pollaio e porcile. Le coltivazioni erano prevalentemente di grano, granoturco, erba medica, ave- na, barbabietole e per brevi periodi anche di cotone e canapa. Nella stalla veni-

6 Archivio Centrale dello Stato, ONC Agro Pontino, b.45, f.20. 7Cfr. ANNIBALE FOLCHI, cit., p.171, nota 52. Vedi la tabella sulla dimensione me- dia dei poderi, secondo le località. 8 La forza lavoro della famiglia colonica tipo era stata fissata dall’ONC in 0,18-0,20 unità per ettaro, secondo il contratto di mezzadria applicato in Agro pontino. Le unità lavorative venivano calcolate così: dagli otto ai tredici anni maschi e femmine 0,20; dai 14 ai 17 anni maschi 0,50, femmine 0,25; dai 18 ai 65 anni maschi 1,00 femmine 0,55; oltre i 65 anni maschi e femmine 0,25. I dati sono riportati sulla scheda poderale dell’ONC lato A, riprodotta nel documento XX del volume di CRISTINA ROSSETTI, cit., p.241. La scheda poderale della famiglia colonica di Francesco Pirani non è ancora stata ritrovata, dopo la chiusura della sede centrale dell’ONC e la cessione del relativo archivio ad enti diversi. 11

vano allevate le vacche, quelle maremmane, utili nei lavori agricoli anche se piuttosto selvagge, altre razze per il latte e per la carne.

I contratti I contratti agrari hanno una grande importanza, perché rappresentano, secon- do Antonio Parisella, «un punto di passaggio obbligato nella ricostruzione della storia delle campagne, [...] Il contratto agrario infatti, non è solo l’espressione giuridica di rapporti di produzione, ma anche un osservatorio attraverso il qua- le si possono studiare con buona angolazione le gerarchie sociali, i rapporti fa- migliari, gli usi e costumi più generali»9. Il primo contratto, che la famiglia Pirani firmò, stabiliva che l’ONC dava in mezzadria ai coloni il podere assegnato, insieme a macchine, attrezzi, scorte vive, come il bestiame di proprietà dell’ONC concesso in soccida, e scorte morte, come le sementi varie, paglia, letame, attrezzi, ecc., che venivano messe in conto ai coloni, con l’impegno di rimborsarle nel più breve tempo possibile. Il contratto aveva durata indeterminata, ma era rescindibile di anno in anno a mezzo disdetta. In realtà la mezzadria, per la quale gli utili e le perdite si sarebbero dovute di- videre a metà secondo la norma prevista dal contratto nazionale, era solo di nome. Di fatto venivano riprodotte le condizioni del bracciantato, perché per esempio non c’erano spazi per l’indipendenza. La direzione tecnica e ammini- strativa era esclusivamente dell’ONC, che perseguiva l’indirizzo agrario dello Stato fascista, come la “battaglia del grano”. Il raccolto veniva consegnato tutto all’ONC, la quale poi provvedeva a restituirne una parte alla famiglia colonica, facendogliela pagare a un prezzo superiore rispetto a quello stimato per inca- merarlo. La differenza riguardo alla condizione di bracciantato stava nel fatto che per i coloni c’era la speranza di poter riscattare un giorno il podere, se “meritevoli”. Per questo essi erano sottoposti ad un rigido controllo da parte dei fattori e dei guardiani, dipendenti dell’ONC, i quali rispondevano al diretto- re dell’azienda e spesso abusavano della loro autorità10. Il malcontento dei coloni per il trattamento ricevuto dall’ONC, per i debiti ac- cumulati dalla maggior parte di loro (dovuti alle somministrazioni ed agli anti- cipi ricevuti) e per la difficoltà di farvi fronte, visto i magri raccolti dei terreni, fecero esplodere delle proteste, che convinsero l’ONC a definire un nuovo con- tratto di mezzadria. 11

9 Cfr. ANTONIO PARISELLA, Il mondo contadino dalla subalternità al riscatto. Conclusioni, Atti del convegno, Patrica 28 ottobre 1984, 1988, pag.177. I tipi di con- tratto sono riassunti in TOMMASO STABILE, Agro Pontino Romano (1770-1971). Modificazioni sociali, economiche ed ambientali, Latina 1971, pp.75-76. L’autore non cita le fonti. 10 Per una visione più ampia della condizione dei coloni Ferraresi, vedi CRISTINA ROSSETTI, cit., pp.56-59. 11 Fino al 1935 nessun podere era in grado di mantenersi con il proprio raccolto, nel 1936 erano 36 i poderi in grado di farlo e nel 1940, su 2.953, erano solo 400. Da Agro 12

Nel 1936 vennero emanate nuove disposizioni, migliorative delle condizioni sotto certi aspetti, perchè prevedevano il così detto “minimo garantito”, cioè l’assegnazione di una somma fino a 1.500 lire annue per ogni unità familiare a quei coloni, il cui reddito fosse risultato inferiore a quella cifra, ritenuta indi- spensabile per la sussistenza della famiglia. Tale concessione faceva del colono un salariato invece che un vero mezzadro, come avrebbe voluto il Fascismo; Vittore Riccardi ne parla come di «un par- ziale atto di confessione dei propri errori: la fretta di aver voluto indirizzare al rapporto mezzadrile sia una campagna ancora non pronta ad esso, sia un ele- mento colonico che non era in grado di sopportare gli oneri delle spese nella misura del 50%».12 Nel 1938, visto che le nuove disposizioni non avevano dato l’esito sperato, la Confederazione fascista agricoltori, organizzazione sindacale di categoria, ap- poggiò le esternazioni di un suo fiduciario, colono ferrarese, che si fece porta- voce delle nuove accese proteste degli assegnatari, le cui condizioni continua- vano ad essere critiche, se non peggiori, per le insufficienti risorse di cui di- sponevano, per i metodi autoritari e senza scrupoli usati dal personale del- l'ONC, che li teneva in stato di subordinazione sempre maggiore, dal momento che il numero di motivi per licenziare il colono erano aumentati nel nuovo contratto, rispetto a quello precedente. Sorsero roventi polemiche fra l’ONC e la Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura sulle responsabilità dei disagi dei coloni. Tale denuncia indusse l’Opera a sveltire le pratiche che porteranno alla defini- zione del piano di liquidazione con i riscatti, visto anche l’aumento del costo della vita che gravava sui coloni, incapaci ormai, a detta della Confederazione, di far fronte alle necessità di vita.13

Il riscatto del podere Nel 1941 l’ONC concesse ai coloni di riscattare i poderi. C’era la guerra in corso; c’erano i crediti rimasti inevasi che l’ONC vantava presso molti coloni morosi; c’era il mancato raggiungimento dell’autosufficienza per la maggior parte delle famiglie coloniche. Il patto Mussolini, che assicurava un minimo ad ogni famiglia, era in scadenza ed i contributi dello Stato per il minimo garanti- to e per gli interessi sui mutui erano ormai insufficienti.14 Si stava constatando

Pontino anno XVIII, sezione “La trasformazione agraria” di NALLO MAZZOCCHI ALEMANNI, Ispettore generale dell’Agro Pontino, p.172. La citazione è riportata da VITTORE RICCARDI nella sua tesi di laurea Opera Nazionale Combattenti e contrat- ti agrari in Agro Pontino tra il 1932 e il 1941, a.a.1976-77, università La Sapienza di Roma, p.62. 12 Cfr. VITTORE RICCARDI, cit., p.93. 13 Vedi documento n.12 della Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura riportato da PATRIZIA LUZZATTO, Bonificatori e coloni nell’Agro Pontino, in AAVV., Fascio e aratro, Cadmo editore, Roma 1985, p.216. 14 Cfr. ANNIBALE FOLCHI, cit., p.102. 13

l’impossibilità di procedere con il piano di mezzadria e si scelse di avviare la liquidazione, dieci anni prima del 1950 previsto da Mussolini in un discorso del 1932. Tale celerità fu dovuta, secondo Tommaso Stabile, al fatto che, in se- guito alle proteste dei coloni e alle polemiche sorte fra ONC e Sindacati nel 1938, Mussolini «dette disposizioni perché l’ONC sentita la Confederazione dei Sindacati, predisponesse gli strumenti finanziari, economici e giuridici per- ché i poderi entro il termine di cinque anni fissato dal contratto dell’agosto 1936 passassero in proprietà o in promessa di vendita ai coloni».15 Non è la ce- lerità del regime ad aver trionfato però, afferma Vittore Riccardi, che parla in- vece di fallimento aperto e riconosciuto.16 L’8 ottobre 1941 il Presidente dell’ONC, Di Crollalanza, ricevette l’ordine dal Duce di predisporre l’atto per il trapasso dei poderi, da effettuare con solennità in una cerimonia disposta dapprima a Palazzo Venezia a Roma, poi spostata nella piazza del Littorio a Littoria, l’odierna Latina. (Con Annibale Folchi c’è da chiedersi se tale mutamento di programma avvenne perché forse il Duce non volle perdersi l’ultimo bagno di folla e privare l’impresa delle Pontine dei titoli a tutta pagina sui giornali)17. L’ONC calcolò il costo unitario per ettaro, al netto dei contributi statali, in lire 10.200, garantendo l’equità nella ripartizione del costo integrale della trasfor- mazione fra i poderi assegnati.18 Non risulta tuttavia che per ogni podere siano stati calcolati gli introiti incamerati negli anni precedenti, che avrebbero dovuto essere scontati sul prezzo di vendita. Il podere dei Pirani era di ettari 11,32; considerando dunque il pagamento di 10.200 lire per ettaro, il prezzo avrebbe dovuto aggirarsi su 115.464 lire. La differenza per arrivare alle 228.881 stabili- te nel contratto era dovuta al valore dei fabbricati, come recita l’art. 2, con tutti gli annessi, il valore delle scorte morte e delle macchine, strumenti ed attrezzi. Oltre a ciò avrà pesato forse anche la buona capacità produttiva del fondo, se- condo la garanzia di equità proclamata dall’ONC nella ripartizione. Il contratto del 1941 prevedeva tre tipi di impegno: con quelli denominati A e B veniva stipulata la “promessa di vendita” ed il valore del podere veniva ri- partito in un piano di ammortamento trentennale, con rate semestrali. Nel con- tratto di tipo A tali rate avevano decorrenza immediata, mentre nel tipo B esse cominciavano a scadere dopo cinque anni. Con il contratto di tipo C l’ONC concedeva il podere in affitto per un periodo di cinque anni, dopo di che il co- lono avrebbe potuto stipulare il contratto di tipo A. Esisteva un contratto di tipo D che prevedeva un affitto rinnovabile di anno in anno.19

15 Cfr. TOMMASO STABILE, Latina una volta Littoria. Storia di una città, Archimio, Latina 1982, pag.137. 16 Cfr. VITTORE RICCARDI, cit. p.156. 17 Cfr. ANNIBALE FOLCHI, cit., p.315. 18 Ivi, p. 319. 19 Una mappa degli assegnatari dei poderi, fra cui i Ferraresi che stipularono con l’ONC dei contratti di riscatto nel 1941, con numero ed estensione del podere e tipo di 14

Fra i coloni ferraresi, calcolati in circa 230 famiglie ancora presenti all’epoca in Agro pontino, circa il 25 % riuscì a sottoscrivere i contratti di tipo A e B, largamente superiore alla media del 12,1% denunciata dall’ONC sul totale dei poderi assegnati.20 Ciò può significare che la zona dell’Agro assegnata ai Fer- raresi era costituita in buona parte da terreni fertili, ma anche che questa etnia aveva saputo farli fruttare, grazie alla sua cultura rurale, alla capacità ed alla volontà impiegate. Giovanni Raponi così ne parla, scrivendo che in coloro che riuscirono a riscattare il podere «malgrado i mille problemi che si trovarono ad affrontare nel difficile compito destinato a renderli dei futuri piccoli proprietari dell’Agro Pontino, la dote cui fare maggiore affidamento fu certamente quella dell’adattabilità, non disgiunta da una buona dose di caparbietà».21 E’ pur vero che tre quarti dei coloni ferraresi si trovavano in difficoltà nel 1941, dal momento che non potevano impegnarsi subito nel riscatto del podere coi contratti A e B. C’erano famiglie numerose con figli sotto le armi e i lavori agricoli che gravavano sulle spalle delle donne, dei cui meriti non si trova trac- cia nelle relazioni dell’ONC, nè sui giornali dell’epoca. Fra il 1937 ed il 1940 ben 53 famiglie ferraresi lasciarono il podere, alcune vo- lontariamente e altre obbligate22. Addirittura duecento famiglie di varie etnie furono licenziate in tronco dall’ONC, visto che non erano riuscite a far fruttare la proprietà, che rappresentava «un cospicuo premio del Regime per i merite- voli», secondo il presidente dell’ONC in una relazione al Duce del 1941.23 «Ma quale premio !», si chiede Oscar Gaspari a questo proposito, «non è basta- to per i contadini aver combattuto nella prima guerra mondiale con la promessa della terra, non basta aver lavorato, continuare a lavorare, aver rischiato la ma- laria, bisogna essere meritevoli per ottenere il premio. E’ una cosa diversa dall’avere ciò a cui si ha diritto, il podere poi bisogna pagarlo, anche se a rate; anche pagare è un premio?».24 L’idea del podere come premio è ancora radicata nei contemporanei e si con- nette alla questione dell’immaginario collettivo sul mito di Mussolini che si è riscatto, è riportata da CLAUDIO S. GALEAZZI in Pontinia tra storia e cronaca, tip. artig. Latina 1985, pp.75-87. 20 Cfr. GIOVANNI RAPONI, cit, pagg.218-219. L’autore indica come la maggior percentuale fra i mezzadri di Pontinia sia dovuta ad una «raggiunta maturità economica dell’unità mezzadrile, che permise di accedere al tipo A e al tipo B». 21 Ivi, pag.225. 22 Cfr. GIOVANNI RAPONI, cit., tavole 6-10B, pag.271 e segg., dove sono riportati i numeri delle disdette comminate a Ferraresi ed i motivi che le hanno provocate: 12 per abbandono del podere, 3 per ingiurie o atti di insubordinazione o atti di violenza verso rappresentanti o agenti dell’ONC, 3 per abbandono o contrattazione bestiame senza preventivo consenso dell’ONC, 8 per vendita o sottrazione prodotti ONC destinati al podere o ai suoi abitanti, altri 10 per abbandono del podere, 11 per recidiva inadem- pienza alle condizioni del contratto, 6 senza causa specificata. 23 Cfr. A.R. ONC. Relazione del presidente dell’ONC al Duce, maggio 1941, p.7, ri- portata da OSCAR GASPARI, cit., p.134. 24 Ibidem. 15

formato nelle coscienze dei coloni e dei loro discendenti, la cui «immagine del fascismo e della loro vita in Agro Pontino non coincide nè con quella ufficiale (che la esaltava, n.d.a.), nè con quella che sarebbe potuta derivare da una ‘co- scienza di classe’, ma risulta dall’incontro tra le proprie esperienze e la propa- ganda fascista».25 Fancesco Pirani dovette accantonare il suo spirito socialista e chiedere la tesse- ra di iscrizione al partito fascista, per poter accedere al riscatto. Fra i coloni «poteva facilmente accadere che si mettesse da parte la propria fede politica, nella speranza di poter ottenere la tanto sospirata proprietà di quei pochi ettari di terreno che il regime garantiva».26 Venne sottoscritto il contratto di tipo A nella promessa di vendita del podere, di cui Francesco diventava proprietario, potendo disporre da subito della somma necessaria a pagare la prima rata se- mestrale concordata. Egli dimostrava dunque di possedere quella maturità, che l’ONC lamentava essere tutt’altro che frequente fra i coloni dei poderi ponti- ni.27 Con il riscatto la famiglia di Francesco Pirani divenne responsabile del proprio lavoro e poté finalmente decidere autonomamente l’indirizzo agrario da segui- re, scegliendo il tipo di colture più adeguate al terreno ed i metodi più opportu- ni da impiegare. Questo le consentì di riscattare il podere in dieci anni invece dei trenta previsti, nonostante i danni causati dagli eventi bellici specialmente alle opere idrauliche. La storia della famiglia si ferma qui per ora, in attesa di acquisire altri docu- menti che per il momento si trovano presso la Regione Lazio e non sono con- sultabili.

Allegato: La seguente promessa di vendita (fornita gentilmente dal signor Giuseppe Pirani, fi- glio di Primo ex sindaco di Pontinia, e nipote di Francesco, intestatario del contratto), rappresenta un utile riferimento per quanti intendono acquisire una conoscenza com- pleta del documento con le modalità di riscatto di tipo A, dal momento che ne sono sta- ti forniti in passato soltanto degli stralci.

25 Ivi, p.155. Per quanto concerne l’immaginario collettivo, vedi LUISA PASSERINI, Mussolini immaginario, Laterza, Roma-Bari 1991, in cui l’autrice riporta come è av- venuta la costruzione agiografica della figura del Duce. 26 Cfr. GIOVANNI RAPONI, cit., pag.72. 27 Cfr.“Sistemi di conduzione in Agro Pontino”, in La conquista della terra, ottobre 1936, pp.389-390. 16

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Bibliografia AA.VV., Fascio e aratro, la condizione contadina nel Lazio tra le due guerre, Cadmo editore, Roma 1985. Folchi Annibale, I contadini del Duce. Agro Pontino 1932-1941, Pieraldo editore, Roma 2000. Galeazzi Claudio S., Pontinia tra storia e cronaca, Latina 1985. Gaspari Oscar, L’emigrazione veneta nell’Agro Pontino durante il periodo fascista, Morcelliana, Brescia 1985. Parisella Antonio, Il mondo contadino dalla subalternità al riscatto. Conclusioni, Atti del convegno, Patrica 28 ottobre 1984, Patrica (FR)1988. Parisella Antonio, Bonifica e colonizzazione dell’Agro Pontino. Elementi e problemi, in Emilio Franzina e Antonio Parisella, a cura di, La Merica in Piscinara, Francisci Editore, Abano Terme (PD) 1986. Passerini Luisa, Mussolini immaginario, Laterza, Roma-Bari 1991. Raponi Giovanni, Propaganda di regime e vita quotidiana. I mezzadri di Pontinia dalla fondazione della città alla caduta del fascismo, tesi di laurea discussa nell’a.a.1992-93 presso l’università La Sapienza di Roma. Riccardi Vittore, Opera Nazionale Combattenti e contratti agrari in Agro Pontino tra il 1932 e il 1941, tesi di laurea discussa nell’a.a.1976-77 presso l’università La Sapien- za di Roma. Rossetti Cristina, I Ferraresi nella colonizzazione dell’Agro Pontino, Bulzoni editore, Roma 1994. Stabile Tommaso, Latina una volta Littoria. Storia di una città, Archimio, Latina 1952. Stabile Tommaso, Agro Pontino Romano (1770-1971). Modificazioni sociali, econo- miche ed ambientali, Raimondo, Latina 1971.

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P A G I N A D I P U B B L I C I T À

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Il Partito comunista in provincia di Latina. Memorie (1944-1975)* ______SABINO VONA

« 1. La nascita del Partito comunista italiano in provincia di Latina. Gli anni dell'occupazione delle terre e della sconfitta del '48.

Nel settembre del 1944 il Centro del Partito comunista italiano inviò a Litto- ria tre ‘costruttori’. Erano passati poco più di tre mesi dalla liberazione della città. “Ricordo bene Nencini, Bonistalli e Ceni - dice Mario Berti -. I primi due erano stati in carcere durante il fascismo. Venivano rispettivamente da Empoli e da Prato. Ceni, ex tenente di fanteria, veniva da Grosseto. Si fermarono per un anno nella nostra provincia, fino al congresso dell'ottobre 1945 “ . Ma non si partiva da zero. Dopo la scissione di Livorno (21 gennaio 1921) nel- la maggior parte dei comuni dei Lepini e in alcuni centri del sud, molti sociali- sti avevano aderito al Partito comunista. Essi tentarono di formare una organiz- zazione politica. “A Terracina - ricorda l' onorevole Aldo D'Alessio - sorse su- bito una sezione, direttamente collegata con la federazione romana. Essa venne sciolta durante il periodo fascista. L’opposizione al regime non si sviluppò molto. Ci furono però alcune iniziative (diffusione clandestina de L’ Unità, proselitismo sotterraneo, e non collaborazione con gli invasori durante la guer- ra). Il numero dei simpatizzanti e degli aderenti al nuovo partito aumentò. E così subito dopo la liberazione di Littoria, sorsero sezioni comuniste in tutti i centri più importanti della provincia”.

______* Abbiamo chiesto al prof. Sabino Vona, uno dei protagonisti della vita del PCI in provincia di Latina, una sua sintesi delle sue esperienze politiche. Ci ha invitati ad uti- lizzare, con le opportune modifiche, due suoi scritti già apparsi in I partiti politici in provincia di Latina (a c. di A. Attanasio e P.G. Sottoriva), Carte pontine n. 2, Latina 2005. Le parti poste in corsivo fra parentesi quadre sono sintesi nostre. 24

A Littoria emerse la figura di Ignazio Raimondo, eletto presidente del Comi- tato provinciale di liberazione nazionale. Ignazio, persona mite e sensibile, era giunto nel capoluogo pontino nel 1942, dopo aver scontato tre anni di confino a Ventotene. Ed era diventato un punto di riferimento prezioso per i comunisti della città. Intanto molti giovani si avvicinavano al partito. Che puntò su di lo- ro. Ma erano inesperti. I ‘costruttori’ inviati dalla direzione centrale avevano il compito di organizzare il partito su basi federali, con una forte struttura centralizzata. Guglielmo Nen- cini aveva l' autorevolezza e l’ esperienza per farIo. Nel giro di pochi mesi, in- fatti, preparò la conferenza di costituzione del partito, che si tenne il 10 feb- braio 1945. E venne eletto segretario reggente. Ho conosciuto Nencini verso la fine del 1976. Lo accompagnò nella sede della federazione del Partito comunista di Latina Antonio Amodio. Me lo presentò dicendo che era stato il primo segretario provinciale del Partito comunista ita- liano, “per pochi mesi però “, aggiunse. Mi parve di cogliere un po’ di ironia amara nelle parole e nel sorriso di Amodio. Lì per lì non ci feci caso. Ho ripen- sato a quell' incontro. Conoscevo bene Tonino. Quando si trattava di scegliere un dirigente, lui preferiva sempre una soluzione locale. Forse non ci fu accordo in quella conferenza. O forse la direzione nazionale non riteneva ancora maturo il gruppo dirigente che si stava formando. E così venne eletto segretario reg- gente il ‘costruttore’ venuto dalla Toscana. Guglielmo Nencini restò in carica fino al congresso provinciale che si svolse a Latina dal 26 al 28 ottobre 1945. Venne eletto segretario l’ex sindaco di Sezze Carlo . Che diresse il partito per pochi mesi. Nel giugno del ‘46, infatti, fu sostituito da Se- verino Spaccatrosi, un altro esterno al gruppo dirigente pontino, un 'commissa- rio politico' mandato dal centro. Veniva da Albano. “Sul piano organizzativo - afferma Aldo D'Alessio - fu una scelta giusta, che diede eccezionali frutti. In poco tempo il Pci superò il Psi che pur godeva di un vasto consenso popolare. Meno sul piano politico, perche non si riuscì a stabili- re un legame fecondo con la realtà di una provincia nata da poco, e che com- prendeva territori diversi per storia e cultura “. Tra il '45 e il '47 ci fu l'occupazione delle terre. “Il Pci - ricorda Mario Berti - sostenne le lotte dei contadini poveri e senza terra dei Lepini. Grazie a quelle lotte vennero assegnate loro alcune terre bonificate della pianura, da coltivare per un anno. Con una responsabile azione politica, inoltre, riuscimmo ad evita- re che lo scontro tra i contadini dei Lepini e i coloni assumesse risvolti dram- matici. La Dc ebbe invece un atteggiamento ambiguo. Nei comuni lepini ci ac- cusava di non voler dare la terra bonificata ai contadini poveri, mentre in pia- nura diceva il contrario, che volevamo togliere la terra ai coloni" . Il 20 febbraio 1946 venne a Latina il ministro dell'agricoltura Fausto Gullo, comunista. Visitò lo zuccherificio e il Consorzio agrario.

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L'anno dopo ci fu la rottura dell'unità nazionale, “vissuta con rabbia e desiderio di rivincita da noi comunisti “, ricorda D' Alessio. Il 1948 fu un anno brutto per la sinistra. Ci fu una campagna elettorale dura ed aspra. Con comizi affollati. Nei Lepini, nel Sud, a Latina. "In alcuni comuni lepini - ricorda Mario Berti - ci furono memorabili contraddittori. Specialmente tra l'onorevole Gazzorra, democristiana, e l' onorevole Pietro Ingrao, comunista “. Il Fronte democratico popolare venne sconfitto. Il 14 luglio ci fu l' attentato a Palmiro Togliatti. Per il 15 luglio venne proclamato lo sciopero generale na- zionale. A Sezze e a Cori nella notte tra il 15 e il 16 luglio ci furono blocchi stradali. Vennero arrestati alcuni dirigenti del Psi e del Pci, tra i quali Alessan- dro Di Trapano, il futuro sindaco di Sezze. Chiedo ad Aldo se i giovani comunisti trovavano il tempo di divertirsi. “Cer- tamente - risponde -. Il sabato e la domenica, ad esempio, andavamo a ballare nei locali della sezione, che si trovava nell' ex Casa dell' Agricoltore di Latina. Per convincere gli anziani, talvolta restii, utilizzavamo una argomentazione nobile e infallibile: la conquista politica, dicevamo, avviene anche attraverso il ballo".

2. Gli scioperi a rovescio. La fine dell'occupazione delle terre. La costruzione della Casa del Popolo di Roccagorga Nel 1948, dopo la proclamazione dello sciopero generale per l'attentato a To- gliatti, ci fu la prima scissione sindacale. La seconda avvenne nel 1949. La CGIL lanciò allora il Piano del lavoro. E la Camera del lavoro di Latina e- laborò il Piano di rinascita. Anni duri. Disoccupazione. Miseria infinita. I salari da noi erano più bassi ri- spetto alle aree vicine. Per questo nel 1949 venne fatto uno sciopero provincia- le, il primo contro le gabbie salariali. Nel gennaio del 1951 il Comitato di rinascita fece un 'inchiesta sulla miseria. Vennero intervistati migliaia di contadini dei Lepini e di coloni dell'Agro pon- rino. Emerse una situazione di abbandono e di degrado. Drammatica. Insopportabile. Il Partito comunista, con il sostegno della Cgil, lanciò l'idea di una nuova, ori- ginale forma di lotta, lo sciopero a rovescio, il rovescio dello sciopero, perche si lavorava senza essere retribuiti. A Sezze lo sciopero alla 'riversa' iniziò il 18 febbraio, a Privemo qualche gior- no dopo, a Roccagorga il primo marzo. Undici mesi dopo toccò a Bassiano e a Sonnino. Uno sciopero a rovescio ci fu anche nell' Agro pontino, vicino a San Donato, che si concluse con una grande manifestazione a ponte Ferraioli. I disoccupati di Roccagorga andarono a lavorare alla strada delle Paludi, utile per raggiungere i piccoli appezzamenti di terreno che i rocchigiani avevano in Agro pontino, dopo il ponte Ferraioli, sulla destra della migliara 47. C'erano anche molte donne, che trasportavano i sassi per fare la massicciata. Erano trascorsi pochi giorni, quando una mattina intervennero carabinieri e po- lizia. Quasi tutti i lavoratori riuscirono a fuggire. Ma ventuno di essi furono ar- 26

restati e condotti in carcere a Terracina. Ricordo quel giorno. Abitavo in cam- pagna, ai Prati. Frequentavo la seconda elementare, in una pluriclasse. La scuo- la si trovava su una collina. Eravamo una trentina di bambini. Il maestro non riuscì a trattenerci, o non volle. Uscimmo dalla classe. Vedem- mo la fila dei carabinieri e dei poliziotti che correvano per catturare i disoccu- pati. Avevamo paura. Perche ognuno di noi aveva almeno un parente che scio- perava. C'erano anche i miei due cugini. [..]. La sera, quando Vitale e Cataldo, i miei cugini, venivano a casa a trovarci, raccontavano tutto. Specie Vitale, il più estroverso dei due. Sentii parlare allora per la prima volta di Pietro Ingrao che un giorno, insieme alla solidarietà della Direzione del partito e de L'Unità di cui era direttore, ave- va portato anche una 'copella', una botticella di vino ai disoccupati in sciopero. Venimmo a sapere che Ingrao, insieme a Marisa Cinciari Rodano, aveva conte- stato l'operato di un commissario di polizia che, senza autorizzazione, aveva fatto perquisire dai suoi uomini la sezione del Partito comunista di Roccagorga. E che, insieme ai dirigenti provinciali comunisti, era venuto anche Giancarlo Pajetta. Accanto ai vecchi dirigenti locali, in quei giorni di altissima tensione si sperimentarono parecchi giovani comunisti, incoraggiati anche dalla presenza dei dirigenti nazionali. A Sonnino, durante lo sciopero, i registi Gillo Pontecorvo e Giuseppe De San- tis effettuarono alcune riprese cinematografiche. Il regista di Fondi girò poi un film su quegli avvenimenti, Una Strada lunga un anno. Pietro Ingrao è tornato più volte a parlare degli scioperi a rovescio, delle con- dizioni di vita delle popolazioni lepine... Come in questi brani, ad esempio, tratti da una intervista rilasciata nel 1989. "Sui Lepini si riflette anche l'eco di tutta un'azione con cui la sinistra, i sindacati ma soprattutto il Pci, si riporta all' attacco dopo la sconfitta che aveva subito nel 1948 e trova in queste lotte un radicamento, un terreno favorevole. [...] lo me li ricordo molto bene i paesi dei Lepini, soprattutto Roccagorga, Priverno, Sezze, come paesi molto poveri, di- seredati, imparagonabili lontanamente a quelli di oggi. (...) Roccagorga me la ricordo fisicamente come il paese più misero, più povero, più diseredato. (...) Quelle lotte sono state il germe che successivamente ha segnato i lineamenti di una socretà di tipo avanzato anche sui Lepini. In qualche modo possiamo dire che lì, sui Lepini, con queste lotte, si affermava il diritto di presenza, anche nelle condizioni più difficili; si affermava, cioè, una volontà di intervenire, progettando, rivendicando un ruolo da protagonisti, nel senso che anche loro, i contadini, i lavoratori e i disoccupati poveri dei Lepini volevano decidere e non solo chiedere lavoro. Essi rivendicavano il diritto di pensare, di contare sulla configurazione della loro vita, dei loro paesi; rivendicavano il diritto, in defini- tiva, di decidere sul proprio destino " (1). Negli anni Cinquanta Pietro Ingrao è tornato spesso a Roccagorga. "Durante la campagna elettorale del 1953 - ricorda Francesco La Banca - nella piazza di Roccagorga ci fu un contraddittorio tra Pietro Ingrao e l' onorevole Gazzorra, una democristiana molto battagliera, che seguiva Ingrao, per scontrarsi con lui, 27

in quasi tutti i comuni lepini. La piazza era stracolma di gente. Fu un duello bellissimo. Che Pietro vinse nettamente". Francesco aveva allora 14 anni. Divenne grande amico di Pietro Ingrao. Intanto le iniziative politiche si intensificavano. "Nei comuni - ricorda Aldo D'Alessio - ci inventammo la politica di assistenza sanitaria, con l'utilizzazione diffusa dei libretti dei poveri. Ed anche la riforma del fisco, con l'abolizione del focatico, l'imposta di famiglia". In quegli anni di scontri aspri e duri un ruolo importante venne svolto dalla li- breria di Ignazio Raimondo, un dirigente comunista aperto, intelligente, genti- le. Lì si incontravano poeti, artisti, uomini di cultura di orientamento politico diverso, laici e cattolici, democristiani, repubblicani, socialisti, comunisti. Intanto il Pci si organizzava meglio. E si consolidava in molti luoghi di lavoro. Alla fine del 1955 Severino Spaccatrosi lasciò la direzione della federazione comunista di Latina. Venne eletto segretario provinciale Mario Berti, sindaco di Sezze. Intorno alla metà degli anni Cinquanta intanto si concludeva la lunga storia delle occupazioni delle terre. "Nel 1955 - ricorda Mario Berti – un migliaio di contadini di Sezze, Cisterna, Roccagorga, Cori e Giulianello, con donne e bambini, occuparono alcuni terreni delle proprietà Sbardella e dell' onorevole Fiammingo. La polizia li allontanò con la forza ed arrestò trenta persone tra cui mia moglie Laura, Carlo Monte, Armando Agelini e la poetessa Adele Ricci. lo ero membro della Commissione per l'assegnazione delle terre incolte. Quella mattina dovevamo andare a fare un sopralluogo proprio da Sbardella e Fiam- mingo. Andai in Prefettura. Feci finta di non sapere niente di quanto era acca- duto. Salimmo in macchina. Con me c'era anche Angelo Barbato, capo di gabi- netto della Prefettura e presidente della Commissione. Che subito mi chiese: "Come sta tua moglie?". "Bene, grazie. L 'ho lasciata a casa. Dormiva ancora". Dopo pochi minuti mi fece la stessa domanda. Stessa risposta. Arrivammo a Cisterna. E di nuovo Barbato mi chiese di mia moglie. Persi la pazienza. "Se la polizia non rilascia subito gli arrestati - dissi - o almeno non li porta nelle car- ceri di latina, sarà difficile contenere la rabbia dei contadini. Comunque, per quanto mi riguarda, questa mattina non ci sarà sopralluogo". Riuscimmo a calmare i contadini. Le trenta persone arrestate furono condotte a Latina. Dove si fecero una decina di giorni di carcere. Nel 1956… alcune centinaia di ettari delle proprietà Sbardella e Fiammingo vennero concessi a 700 coloni" . In quello stesso anno la provincia di Latina venne inserita nell' area della Cassa per il Mezzogiorno. Iniziò un rapido processo di industrializzazione. E tutto cominciò a cambiare. Nel 1958 i comunisti di Roccagorga decisero di costruire una Casa del popolo. L'idea era stata di Manfredo Tretola, che aveva avuto occasione di vederne al- cune in Toscana e in Emilia Romagna. Il lavoro venne fatto gratuitamente da molti cittadini, alcuni dei quali non appartenenti al partito. I fondi necessari per l' acquisto dei materiali da costruzione furono raccolti con sottoscrizioni popo- 28

lari. I lavori terminarono nel 1960. La Casa del popolo venne inaugurata da Enrico Berlinguer, nel 1961. Fu un evento memorabile (2).

3. E il Pci si apre sempre più ai giovani. L'industrializzazione e il rafforzamen- to del sindacato Nel 1958 ci furono le elezioni politiche. Per il Pci erano un banco di prova importante, perché cadevano a due anni dai fatti drammatici di Ungheria. In provincia di Latina non c'erano state ripercussioni pesanti all' interno del parti- to. Non era andato via quasi nessuno. La campagna di stampa però era stata forte. E avrebbe potuto condizionare le scelte dell' elettorato. "Le elezioni in- vece andarono piuttosto bene - ricorda Mario Berti -. Riuscimmo infatti a mantenere e consolidare la nostra forza" . Chiedo a Mario come mai in quelle elezioni non venne eletto nessun parlamen- tare comunista della nostra provincia. Eppure i numeri c'erano. E c'era una esi- genza oggettiva.

[Qui Berti spiega gli equivoci nati sulle candidature sua e di Aldo D’Alessio: per la mancata concertazione fra Federazione e Direzione nazionale ci fu disorientamento, che portò al negativo risultato. Aldo D’Alessio sarà eletto nel 1963.La politica per i giovani porta alla creazione di molti circoli Fgci, alla cui Federazione nel 1961 venne eletto Lelio Grassucci. Ma, mentre nascono le fabbriche, si osserva che la presenza del Pci, forte nell’edilizia, era “pressoché inesistente nelle nuove fabbriche”, n.d.r.]

La federazione comunista di Latina allora intervenne con una intensa azione politica e organizzativa. E contribuì al rafforzamento del sindacato. Da Torino giunse a Latina in quegli anni Gisella Di Juvalta, che in breve tempo riorganiz- zò la Fiom, il sindacato dei metalmeccanici. Gisella era una donna forte, gene- rosa e sensibile. Veniva dalla scuola di Bruno Trentin, di Sergio Garavini e di Emilio Pugno. “Nel 1964 - dice Lelio Grassucci – tenemmo presso l’Hotel Europa di Latina un convegno sulla presenza comunista dentro le fabbriche. Partecipò Giorgio Amendola. La sala era gremita. Ma sai quanti erano gli operai presenti iscritti al Pci? Soltanto tre. Perche nei luoghi di lavoro la repressione era dura. E gli operai avevano paura dei licenziamenti. Decidemmo allora di costruire nuclei di operai comunisti dentro le fabbriche più importanti. Come punto di riferi- mento avevamo le sezioni di Gaeta, di Campo Boario a Latina e di Aprilia”. Nel giro di pochi anni in quasi tutte le fabbriche la presenza dei comunisti di- venne visibile e forte. Nel 1966 venne eletto segretario della federazione co- munista di Latina Paolo Ciofi, un politico intelligente e accorto che aveva stu- diato economia a Mosca. E fu subito svolta negli indirizzi di politica economi- ca. “Fino ad allora - ricorda Lelio Grassucci - avevamo avuto un atteggiamento elastico nei confronti dell'intervento straordinario della Cassa per il Mezzo- giorno nella nostra provincia. Anche perché le fabbriche erano arrivate. Paolo 29

Ciofi puntava invece sull'intervento ordinario, e sullo sviluppo delle forze im- prenditoriali locali. La sua critica all'intervento straordinario fu perciò molto forte"

L’altro scritto di Vona idealmente si salda a questo punto. E’ infatti sul finire degli anni ’60 che inizia ad incidere l’attività politica di Vona, prima nel sindacato scuola poi nel partito. Chiaramente l’approccio è differente, più personale, più di memoria legata a tanti eventi di diversa valenza. Per questo si rileva anche che lo scenario è quasi sempre limitato alla zona di Latina e dei Lepini, e quasi scompare la storia del PCI nel sud pontino, dove si verificarono lotte importanti nei nuclei industriali (la ve- treria di Gaeta. la D’Agostino, etc.) come nelle campagne, che furono segnate forte- mente dalle lotte contadine della Piana di Fondi e Monte S. Biagio, sulle quali abbia- mo discusso nello scorso numero di questa rivista. Ma la memoria di un uomo da subito protagonista ad ampio raggio come Sabino Vona contiene una valenza rievocativa del ‘clima’ di un intero periodo, che è più importante e veritiero di tante pagine di storia più o meno ‘ufficiale’.(n.d.r.)

4. La lotta contro le gabbie salariali. L'occupazione dell' aula consiliare di La- tina. I sindacati scuola diventano protagonisti Su incarico della Cgil nazionale, il 2 gennaio 1968 venne a Latina Antonio Muscas. Antonio aveva una grande esperienza. Si era formato alla scuola di Giuseppe Di Vittorio. Veniva da Roma, dove per otto anni era stato nella se- greteria della Fillea, il sindacato degli edili e affini. "Quando giunsi a Latina - ricorda - la Cgil aveva poco più di 2.700 iscritti. In due anni, grazie alla lotta contro le gabbie salariali e per la conquista di miglio- ri condizioni di lavoro, passammo a 18.000 tesserati" . L’ Italia allora era divisa in sette zone salariali. Latina era inserita nella sesta. Da noi i lavoratori venivano pagati meno che altrove: i loro salari erano infe- riori del 30 % circa a quelli della prima zona. Il Pci era ancora debole dentro le fabbriche. I comunisti che venivano dai comuni lepini erano in silenzio, e subi- vano senza reagire. Perché avevano paura di essere licenziati. "Il 30 settembre 1968 - afferma Antonio - facemmo uno sciopero generale. Al centro di esso avevamo posto l'obbiettivo del superamento delle gabbie salaria- li e il tema del riscatto dalla condizione di assoggettamento dei lavoratori (ritmi di lavoro, qualifiche, ambiente di lavoro, ecc..). Lo avevamo preparato bene. Avevamo lavorato molto. Fu un grande successo. Al corteo e al comizio parte- ciparono più di cinquemila persone, tra operai e studenti" . Ci fu l’attenzione di tutta la stampa nazionale. "Il Sole 24 Ore - ricorda l'onorevole Lelio Grassucci - riportò la notizia in pri- ma pagina". "Paul Ginsborg - aggiunge Muscas - nella sua Storia d'Italia 1943- 1996, riconosce che fummo noi i primi a rivendicare e ottenere, con scioperi e manifestazioni, l'abolizione delle gabbie salariali " L'iniziativa si sviluppò poi in 204 aziende. Vennero stipulati subito 103 accordi aziendali. In breve tempo quell' ingiustizia scomparve in tutte le aziende della provincia. 30

Chiedo ad Antonio Muscas quale fu l'atteggiamento della Cgil nazionale. "All'inizio - risponde - ci fu qualche incomprensione. Ma poi la Cgil capì. E, insieme alle altre confederazioni, proclamò lo sciopero generale del 12 feb- braio 1969 al centro del quale pose l'abolizione delle gabbie salariali" . In alcune fabbriche ci furono momenti di tensione. Alla Mistral, ad esempio, alla Good Year, e alla Car Sud di Aprilia, dove il 17 ottobre 1969 uno dei tito- lari sparò contro i lavoratori, ferendone tre. Dinanzi alle fabbriche e alle scuole ogni tanto, insieme alle polemiche, c'era qualche scazzottata, provocata soprattutto dai gruppi estremisti di destra e di sinistra. Qualche volta però venivano coinvolti anche esponenti del Pci e del Msi. Il Partito comunista intanto cominciò ad affermare la sua presenza dentro le fabbriche. E si consolidò tra gli operai dei Lepini che ogni mattina si recavano a Roma per lavoro. "Una volta a settimana - dice Grassucci all’ epoca segreta- rio provinciale del Pci - andavamo a Roma Ostiense, salivamo sui treni e face- vamo volantinaggio. Ricordo che anche tu in quegli anni sei venuto spesso con noi". Il 7 giugno del 1970 si svolsero le elezioni amministrative. Ai primi di ottobre non era stata ancora fissata la data di convocazione del consiglio comunale di Latina. Eppure c'era stata una richiesta formale avanzata dal Pci intorno alla metà di luglio. L'onorevole Pietro Ingrao, inoltre, aveva presentato una interro- gazione alla Camera dei Deputati. Niente. La Democrazia cristiana non ascol- tava nessuno, presa com' era dai suoi problemi interni. Allora Alfio Calcagnini, Lelio Grassucci, Franco Luberti e Nicola Lungo, i quattro consiglieri comuni- sti, occuparono l'aula consiliare. Era il 3 ottobre 1970, un sabato. […] Il giorno dopo la Dc fu costretta a convocare il consiglio comunale. Per il parti- to di maggioranza fu una sconfitta bruciante. E un successo per il Pci di Latina. Che si organizzò meglio, e rilanciò l'iniziativa politica nella città. “Con una du- ra battaglia contro la speculazione edilizia e per risanare i quartieri degradati della città - afferma Lelio -. Facemmo ricerche. Pubblicammo due volumi, La- tina una città da cambiare e Il libro azzurro, una indagine sull’ abusivismo e sulla speculazione edilizia lungo la fascia costiera. Poi li presentammo alla Procura della Repubblica. La delegazione era guidata da Pietro Ingrao e Aldo D'Alessio" . Il Partito comunista fino al 1968 aveva avuto una presenza marginale dentro le scuole. Nel giro di pochissimi anni il suo peso tra gli insegnanti divenne rile- vante. E conquistò simpatie e consensi in una vasta area di studenti. In quegli anni nacque il Sindacato scuola Cgil, che insieme al Sism CisI (il sindacato dei professori di quella confederazione), si impegnò a fondo sui temi della condi- zione degli insegnanti e della riforma della scuola. Venni eletto segretario provinciale della Cgil scuola nel 1969. Avevamo 16 i- scritti. Alla fine del 1969 eravamo 34. Centoquaranta nel 1971. Ottocentoset- tanta agli inizi del 1975. Molti insegnanti diventarono dirigenti di primo piano del Partito comunista italiano. Insieme a Giorgio Alessandrini, segretario del 31

Sism Cisl, costruimmo con pazienza un legame forte con il mondo del lavoro. E aiutammo il movimento degli studenti democratici. Il primo maggio 1972 venne a Latina Enrico Berlinguer. Parlò a piazza del Po- polo. C'era tantissima gente. Nelle elezioni politiche di giugno il Pci confermò il brillante risultato del 1968. La lotta sindacale era sempre aspra e dura. Nelle fabbriche e nelle scuole. La Cgil, la Cisl e la Uil proclamarono uno sciopero generale per la scuola. Diffon- demmo decine di migliaia di volantini. Lo scioperò riuscì molto bene. Il 28 settembre 1972 partecipammo a una grande manifestazione per la scuola a Roma. Riempimmo due pullman, più di cento insegnanti. Una delegazione, guidata da Aurelio Misiti, da Giorgio Alessandrini e da me, venne ricevuta dal Ministro della pubblica istruzione Malfatti. Poi andammo tutti a pranzo alla Festa nazionale de L'Unità. […] Nel mese di dicembre organizzammo uno sciopero per il diritto allo studio, per la democrazia nella scuola, e per migliorare le condizioni giuridiche e di lavoro degli insegnanti. In piazza del Popolo, a Latina, c'erano più di 1500 insegnanti, moltissimi studenti, e delegazioni di operai della Massey Fergusson, della Mi- stral, della Pozzi, della Slim, della Ime, degli edili. Non ce lo aspettavamo. Fa- cemmo il comizio senza amplificazione. Al termine io e Giorgio non avevamo più voce.

Uno striscione di successo

Nella fabbrica di manufatti in cemento di Sante Palumbo non venivano con- cesse pause al di fuori di quella per il consumo del pasto a mezzogiorrno. "Durante la preparazione di uno sciopero - ricorda Antonio Muscas - un ope- raio di quella fabbrica mi chiese se poteva fare uno striscione. Gli risposi di sì. Poco dopo si presentò con questa scritta: . Nacque così uno striscione che ebbe un grande successo".

5. Le bombe sui treni. Il grande movimento nelle scuole. Il referendum sul divorzio Dopo le elezioni politiche del giugno del 1972, si formò il governo Andreot- ti Malagodi, nettamente spostato a destra. La strategia della tensione riprese vigore. Le bombe sui treni e nelle piazze seminavano morte e distruzione. Nel 1972 vennero messe le bombe sui treni che portavano a Reggio Calabria i lavoratori del nord e del centro. I sindacati avevano indetto in quella città una manifestazione per l' occupazione e lo sviluppo del Mezzogiorno. Reggio era sconvolta da una rivolta popolare organizzata dalla destra che rivendicava la sede della Regione. Le bombe scoppiarono a Cisterna. Il treno non si fermò nella stazione di Latina, dove lo aspettavamo in molti, almeno centocinquanta persone. C'erano insegnanti, operai, tecnici. Quanta fa- tica facemmo quella sera Umberto Gigli, sindacalista della Cgil, Vittoriano Ca-

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vadi ed io per calmare gli animi quando si seppe dell' attentato. I feriti vennero ricoverati nell'ospedale di Priverno. Quell' anno il congresso provinciale del Pci di Latina si tenne presso l'Hotel Sorrento. "Nella relazione introduttiva - ricorda Lelio Grassucci - posi il pro- blema del rapporto con il mondo cattolico. Esso, a mio parere, doveva coinvol- gere tutti e due i partiti storici della sinistra, il Pci e il Psi. E il confronto dove- va esserci con tutta la Dc, e non con una parte di essa, come sostenevano alcuni compagni di partito. Al congresso nazionale venni eletto nel Comitato centrale del partito". Il 1973 fu un anno difficile per l'economia. L'inflazione salì alle stelle, sotto la spinta degli Stati Uniti d'America. Che così scaricarono sui paesi più deboli il costo della guerra in Vietnam. Contro quella guerra, e per la pace e la libertà in Vietnam, il partito organizzò decine di manifestazioni con cortei, comizi e veglie in tutti i comuni della provincia. Parteciparono migliaia di gio- vani. Le iniziative nelle scuole e nelle fabbriche si intensificarono. Uno dei temi più sentiti era quello del diritto allo studio. L'impegno dei sindacati scuola Cgil e Cisl fu grande. In due giorni riuscimmo a organizzare ottanta assemblee nelle maggiori fabbriche della provincia. Ad ogni assemblea mandammo due inse- gnanti. Che furono contenti di quella esperienza. Alcuni però restarono un po' scioccati, perche gli operai in carne ed ossa erano diversi dalla mitica classe operaia che essi avevano immaginato. lo andai alla Manuli di Castelforte e alla Findus di Cisterna. Si formò allora una nuova leva di dirigenti comunisti e di indipendenti di sini- stra, tra i quali desidero ricordare Ubaldo Radicioni, Marcello Ciccarelli, Vitto- riano Cavadi, Antonio Di Fazio, Silvano Campanelli, Anna Maria Cammisa, Vincenzo Mattei, Enzo Liguori e Antonio Troisi. Il 4 maggio 1973 ci fu lo sciopero generale dell' area dei Lepini e degli Ausoni. Rivendicavamo, vole- vamo lo sviluppo di Mazzocchio. Per assicurare un futuro alle popolazioni dei comuni di quell'area, già allora segnati da un lento declino. Dopo lo sciopero vennero realizzate le infrastrutture principali. Vennero alcune aziende. Poche. E qualcuna scomparve in un lampo. L'undici settembre 1973 il golpe militare in Cile mise fine alla esperienza del governo di ‘Unidad popular’ di Salvador Allende. Esso segnò anche la vita po- litica italiana. Il segretario del Pci Enrico Berlinguer, infatti, riflettendo su quei fatti, propose il compromesso storico. Il partito allora intensificò i rapporti po- litici e istituzionali con la Democrazia cristiana. In provincia di Latina l'incontro con gli elettori e gli iscritti di questo e degli altri partiti dell'arco costituzionale, come si diceva allora, avvenne soprattutto nelle scuole. Dove creammo un movimento di massa straordinario. Nel 1974 vennero approvati i decreti delegati della scuola. Lelio Grassucci mi chiese di elaborare una proposta sulla zonizzazione dei distretti scolastici. La preparai insieme a Giancarlo Siddera e a Rodolfo Buggiani, un insegnante del Liceo artistico di Latina che veniva da Roma. Dividemmo la provincia in cin- que distretti trasversali, in modo da comprendere in ognuno di essi sia i comuni 33

montani che quelli di pianura. Fummo i primi in Italia. Ricordo la soddisfazione di Lelio quando la Federa- zione comunista di Bologna ne chiese una copia. Intanto a Latina il movimento degli studenti democratici si rafforzava sempre più, sostenuto dai sindacati scuola Cgil e Cisl. Nelle prime elezioni per gli or- ganismi scolastici andarono a votare decine di migliaia di genitori. Alle assem- blee indette nelle scuole di Latina per definire programmi e liste avevano par- tecipato quasi 20.000 persone. Le liste unitarie, definite sulla base di un accordo programmatico firmato dai sindacati e da tutti i partiti dell'arco costituzionale, ottennero un grande succes- so. Per la Dc aveva firmato l'accordo Andrea Nascani, responsabile dell' ufficio scuola di quel partito. Il segretario nazionale della Dc lo so- spese dall'incarico. Andrea venne a trovarmi al ‘Vittorio Veneto’. Mi mostrò il telegramma. Era molto amareggiato. L'accordo venne rispettato in tutte le scuole della provincia. Il 12 maggio 1974 si votò per il referendum contro l'aborto. La campagna elet- torale era stata lunga e difficile. Erano scesi in campo i massimi dirigenti dei partiti. "A Scauri - ricorda Grassucci - venne a fare il comizio Umberto Terra- cini. Era già anziano, ma volle tornare a Roma con il treno". Ci fu una netta vittoria dei sostenitori della legge. Nel marzo del 1975 Lelio Grassucci mi convocò nella nuova sede della Fede- razione, in via Isonzo. Il segretario era impegnato in una riunione. Lo aspettai nel suo ufficio. Appeso a una parete c'era un dipinto di Ennio Calabria, L'uomo con la bandiera rossa. Grassucci mi aveva chiamato per propormi di lavorare nel partito. lo ero indeciso. La scelta era difficile, perché la prospettiva era quella di fare il segretario provinciale del Pci. Quel dipinto, così affascinante e misterioso, mi inquietò. Un uomo porta una bandiera rossa, che lo avvolge. Curvo sotto il peso, l'uomo stringe l'asta nel suo pugno poderoso. E' solo. Cammina lento nel silenzio di una pianura che immagini immensa. Colori splendidi. Bellissime trasparenze. Eppure L'uomo con la bandiera rossa fece aumentare i miei dubbi. Forse per quella verità appena accennata: nei momenti più duri sei solo, e da solo devi portare avanti le tue battaglie. Alla fine preval- se la passione politica. Insieme alla condizione, accolta da Lelio, che non sarei mai diventato funzionario di partito. Era una anomalia, lo sapevo. Ma deside- ravo continuare a fare l'insegnante. E mantenere la mia piena libertà personale. E così accettai.

Il documento dei cattolici per il no Pochi giorni prima del voto del 12 maggio 1974, un sabato sera, i cattolici per il ‘no’ mi invitarono a una riunione riservata, a casa di Giorgio Alessandrini. Insieme a Giorgio c'erano Tommaso Capirci, Michele Briganti e Gianni D'A- chille. Elaborammo il testo di un appello ai cattolici. Finimmo verso l'una di notte. Dovevamo ciclostilare il documento. Telefonai allora a Vittoriano Cava- di, che aveva le chiavi della sezione ‘Gramsci' di Latina. Vittoriano mi mandò 34

un sacco di accidenti. Poi venne ad aprire la sezione. La mattina dopo i cattoli- ci per il ‘no’ diffusero il volantino davanti a tutte le chiese della città.

La visita di Paolo VI a Fossanova e i veleni del dopo referendum.

Il 7 marzo 1974 ricorreva il settimo centenario della morte di San Tommaso d’ Aquino. Le manifestazioni in onore del Santo si conclusero il 14 settembre del 1974 con la visita di Paolo VI a Fossanova, dove il grande Dottore della chiesa si era spento il 7 marzo 1274. La visita fu richiesta, e voluta fortemente, dal presidente dell' Amministrazione provinciale Giovanni Matteis e dal sindaco di Priverno Ernesto Pucci. "Non lasciammo niente al caso - ricorda Franco Falascina, all’ epoca giovane dipen- dente della provincia, che ebbe un ruolo decisivo nell'organizzazione dell'even- to -. Studiammo ogni minimo particolare. E le cose andarono molto bene". Niente era scontato, però. Perche erano tempi difficili. Il 12 maggio di quell'anno, come già ricordato, c'era stato il voto per il referen- dum sul divorzio. Amintore Fanfani, segretario nazionale della Democrazia cristiana, dopo la sconfitta su quel referendum, si preparava per la rivincita. L'alleanza con resisteva, anche se ognuno dei due leader pensava a prospettive politiche diverse. A luglio il Consiglio nazionale della Dc si tenne proprio a Fossanova. "Alcuni giorni prima di quella riunione - ricorda Ernesto Pucci - chiamai il sindaco di Latina Nino Corona e il segretario provinciale della Dc Fabrizio Abbate. Chiesi loro se era gradito il saluto agli ospiti da parte dell'Amministrazione comunale. Risposero che mi avrebbero fatto sapere. Passarono un paio di giorni. E poi i due esponenti della Dc pontina, mortificati, vennero a scusarsi con me, perche Fanfani non aveva voluto". In quella riunione il segretario nazionale del partito ribadì il suo fermo rifiuto di ogni "allargamento delle alleanze". E Moro, pur continuando a dare il suo appoggio a Fanfani, mantenne le sue aperture di dia- logo al Partito comunista italiano. Alla vigilia della visita di Paolo VI il clima politico non era affatto sereno. Specie a Priverno, dove i cattolici più integralisti non riuscivano ad accettare l' idea che un sindaco comunista potesse accogliere il papa. L'undici settembre il Comune rendeva omaggio, con un bel manifesto, a Paolo VI. "Priverno, che ha il privilegio di custodire i luoghi che furono testimoni degli ultimi giorni di vita del grande Dottore della Chiesa - si leggeva tra l'altro -, porge il suo cordiale benvenuto ai Sindaci della Provincia, alle Autorità Re- ligiose, Civili e Militari qui convenute per salutare il Papa e conserverà incan- cellabile il ricordo di questa significativa data della sua storia" . Fossanova si presentava bellissima come sempre, e con una nuova illuminazio- ne. Era pronta ad accogliere il Papa. Durante la notte tra il 13 e il 14 settembre il Borgo di Fossanova venne ricoper- to da centinaia di manifesti. Che attaccavano e insultavano il sindaco della città e la sua amministrazione. 35

"Appena lessi il manifesto - racconta Ernesto - chiamai subito il questore. Ero molto preoccupato. Ma il questore mi rassicurò. E mi garantì il suo intervento, fermo e discreto". L'elicottero con il Papa a bordo atterrò in un campo vicino al complesso dell' abbazia. "Secondo gli accordi presi con il cerimoniale del Vaticano - ricorda ancora Ernesto Pucci - andai a ricevere il Papa insieme al prefetto, al presiden- te della Provincia e al parroco di Fossanova. Paolo VI passò tra due ali di folla ed entrò nell' abbazia. Celebrò la Messa e fece una splendida lezione su San Tommaso. Al termine del discorso del Papa Nino Corona si alzò per andargli incontro e salutarlo. Il servizio d' ordine scattò. In un lampo. Due energumeni presero per le braccia il sindaco di Latina e lo riportarono di peso sulla sua sedia" .

6. Il successo del Partito comunista nelle amministrative del 1975. La giunta di sinistra alla Provincia Il '75 ed il '76 furono anni di grandi successi per il Partito comunista italiano. Alcuni mesi prima delle elezioni amministrative del 1975, il partito tenne il suo congresso provinciale presso il Garden Hotel di Latina. "La parola d' ordine di quel congresso - ricorda Lelio Grassucci - fu quella del rinnovamento e del ri- sanamento morale del paese. Al centro del dibattito ci fu la proposta del com- promesso storico, elaborata da Enrico Berlinguer nell'autunno del 1973. Con- solidammo il gruppo dirigente del partito in tutte le sezioni, e ci preparammo per le elezioni" . In quel congresso venni eletto negli organismi dirigenti provinciali del partito. Entrai in segreteria con l'incarico di responsabile dell' organizzazione. E parte- cipai, come delegato, al congresso nazionale del partito che si tenne a Roma, all'Eur, nel Palazzo dello sport. Nella tarda primavera si svolse a Latina una grande manifestazione sindacale. Venne Luciano Lama, segretario generale della Cgil. Fece il comizio in Piazza del Popolo di fronte a migliaia di lavoratori provenienti da tutta la provincia. Insieme a Lelio Grassucci organizzai la campagna elettorale. Rinnovammo le liste. Con insegnanti, studenti, medici, ingegneri, architetti, giovani operai e tecnici. Che portarono entusiasmo e voglia di fare.

[Fu una campagna forte, con intervento di molti esponenti di primo piano. A Latina tenne un grande comizio Umberto Terracini. “Tutto contro il compromesso storico, che lui non condivideva”. Le elezioni furono un grande successo: alla regione andarono Mario Berti e Angela Vitelli]

Nei consigli comunali entrarono molti giovani. Io venni eletto consigliere pro- vinciale e consigliere comunale a Roccagorga. A Latina furono eletti Franco Luberti, Lelio Grassucci , Alfio Calcagnini, Nicola Lungo, Rosanna Santangelo e Dario Roncon.

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[In provincia, oltre Vona, entrarono Lamante (indip. di sin.), Bove, Forte, Stradaioli, Bernardini, De Angelis, P. Vitelli] Nel mese di luglio di quell’anno organizzammo a Frattocchie, nella scuola di partito, un corso per i nuovi consiglieri. Parteciparono più di cento persone. Le sezioni si riempirono… L’otto luglio di quell’anno Luigi Longo, presidente del partito, venne a inaugurare la nuova sede della Federazione di Latina, in via Isonzo… [Si stringono i rapporti con i ceti medi produttivi, in particolare con commer- cianti ed artigiani, rafforzando la Confesercenti e creando la Confartigianato. Ma…] Nell’ autunno del ’75 cominciarono a manifestarsi i primi segni della crisi industriale. Nel tessile e abbigliamento, ad esempio (Confezioni Europa, Mit, Rossi Sud). E nell’elettronica di consumo (Mila, Ducati, Sel, Mistral). Il compromesso storico, intanto, faceva discutere. A tutti i livelli…. […si allacciarono con difficoltà molteplici fili con la Dc, il Psi e altri partiti di centro, ma con scarso successo]. Tra il 1975 e il 1980 venne fatta una sola giunta di larghe intese, a Terracina, un monocolore democristiano con l’appoggio esterno del Partito comunista… Nel novembre di quell’anno venne eletto segretario provinciale delle federa- zione giovanile comunista Domenico Di Resta… Il 1976 fu un anno indimenticabile. Fu l’anno della grande avanzata del Pci»

NOTE 1. G. CANTARANO, Alla riversa, Edizioni Dedalo, 1989, pagg. 189 e seguenti. 2. Oggi la Casa del popolo in parte viene utilizzata come sede dei Democratici di Sini- stra e in parte come luogo di incontro per attività culturali e ricreative.

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Osservazioni sulla carestia del 1763-1764. Misure adottate ed effetti demografici: il caso di Cori ______ETTORE DI MEO

Nel 1763-1764 il Regno di Napoli, la Toscana e lo Stato pontificio1 furono colpiti da una gravissima carestia. Sulle cause di tale fenomeno, che ebbe ri- percussioni disastrose, non c’è accordo; esso viene ascritto all’eccessiva piovo- sità della stagione, che aveva portato «frane e inondazioni orribili», agli estre- mi rigori dell’inverno del ‘63 o ad una grande siccità. Sembra che un ruolo l’abbiano avuto anche l’esaurimento del suolo – specie nei terreni di montagna – e il maggiore intervento di fattori speculativi2. Carlo Tapia, in un suo trattato del 1638, scrive che la carestia «si cagiona primieramente da quelli li quali comprano il grano, e l’occultano o nelle fosse, o in altri luoghi, per riservarlo poi a tempo del mancamento del grano, acciòche si venda a prezzi maggiori (…). Si caggiona anco la carestia dall’estraersi il formento fuori dal regno». Un anonimo campano denuncia come nel 1764 non solo i grandi proprietari na- scondevano il grano e lo vendevano poi in altri paesi per ricavarne un maggiore profitto, ma la maggior parte dei cittadini seguivano le orme di questi “nemici della patria” e gli stessi deputati pubblici, indicati come «li peggiori istrumenti della morte de poverelli», partecipavano al saccheggio: «si vendono il grano,

1 Gaetano Moroni, parlando della carestia, dice appunto che “afflisse tutto lo Stato ec- clesiastico” (G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. 14, Ve- nezia, Tipografia Emiliana, 1842, p. 80). 2 Carestia e malanni in Guardia Sanframondi (1763-1764), Napoli, Francesco Perrella, 1911, p. 7; T. FASANO, Della febbre epidemica sofferta in Napoli l’anno 1764, Napo- li, Raimondi, 1765, p. 1; A. M. DE CECCO – M. CIARMA TRANQUILLI, Cultura alimentare attraverso le platee dei beni del monastero di S. Domenico in Chieti (secolo XVIII), in Gli archivi per la storia dell’alimentazione. Atti del convegno. Potenza– Matera 5-8 settembre 1988, a cura di P. Carucci e M. Buttazzo, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1995, vol. 3, (Pub- blicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 34), p. 1399; F. VENTURI, Quattro anni di carestia in Toscana (1764-1767), in «Rivista Storica Italiana». 88 (1976); L. PASTOR, Storia dei papi dalla fine del medioevo, vol. XVI, Parte I, Roma, Desclées & C., 1933, p. 485; A. CARACCIOLO, Da Sisto V a Pio IX, in M. CARAVALE–A. CARACCIOLO, Lo Stato pontificio da Martino V a Pio IX, Torino, UTET, 1978, p. 508. 38

ed i poveri piangono l’errore, loro si cumulano di ricchezze, ed essi di lamenti, e per premio dell’errore li lasciano in preda della morte»3. Nella Francia del XVIII secolo nacque addirittura l’idea di vere e proprie cospirazioni per far morire di fame il popolo, attribuite di volta in volta ad agenti differenti, all’interno ed all’esterno dello Stato; diversi storici sono tuttora convinti che si trattasse di reali cospirazioni e che il governo, per varie ragioni, direttamente o indirettamente, facesse ricorso a tale atroce strumento4. A Napoli il Tanucci so- spettò che gruppi organizzati dal partito austriaco, che aveva contribuito a sconfiggere un quarto di secolo prima, avessero strumentalizzato la grave si- tuazione per rialzare la testa, ma se collegamenti internazionali ci furono, do- vettero essere molto aleatori5. Resta comunque assodato che alla base della carestia di cui ci stiamo interes- sando ci fu una reale e sostanziale riduzione della disponibilità di cibo, e se è vero che ci furono manovre economiche speculative da parte della classe do- minante, esse giocarono un ruolo nell’aggravamento della crisi ma non la de- terminarono6. Il rapporto tra carestia e mortalità è assai controverso. In particolare non è sem- pre chiaro il ruolo giocato dal fattore ‘denutrizione’ e in che relazione sia questo con le ‘malattie concorrenti’. In realtà non sempre è provata la sequenza carestia-epidemia-mortalità; si danno esempi di crisi senza epidemie e di epi- demie senza crisi; talvolta c’è semplice concomitanza, e non un nesso causale, tra cattivi raccolti e fenomeni epidemici. Carlo Cipolla, scrivendo del rapporto tra carestia ed epidemia, spiega che il concetto di riduzione dei poteri di difesa biologici dell’organismo, in seguito alla denutrizione, per spiegare la maggiore efficacia dell’azione microbica, è insufficiente; bisogna introdurre anche la va- riabile “condizioni igienico-sanitarie ambientali”; se esse sono buone, certe malattie infettive (come tifo o peste) non possono comparire. Nel caso di Cori, nei documenti d’archivio non ho trovato nessuna notizia di epidemie, nessuna traccia di particolari allarmi da parte dei medici; tuttavia un aumento della mortalità ci fu e la mancanza di documenti (non è detto che i medici si preoc- cupassero di stilare delle relazioni) non basta ad escludere che anche qui si sia

3 C. TAPIA, Trattato dell’Abbondanza … nel quale si mostrano le cause, dalle quali procede il mancamento delle vittovaglie, e i rimedij, che a ciascuna si possono dare, acciò non succeda, o succeduto, non si senta il danno di esso, Napoli, 1638, p. 33; Ca- restia e malanni … cit., pp. 13-25. 4 Per un esauriente quadro sulla situazione francese si veda S. L. KAPLAN, The Fami- ne Plot Persuasion In Eighteenth-Century France, in «Transactions of the American Philosophical Society», vol. 72, part 3, 1982. 5 D. SCARFOGLIO, Il Gioco della Cuccagna. Spreco e tumulti festivi nella carestia del 1764 a Napoli, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2001, pp. 79-81. 6 Per un analisi di fattori diversi – oltre al rapporto andamento dei raccolti/prezzo – nel- le dinamiche agrarie delle economie preindustriali si veda A. SALVATICO, Crisi reali e carestie indotte. La produzione cerealicola nelle castellanie sabaude del Piemonte occidentale tra la metà del Duecento e il 1348, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004. 39

avuta un’epidemia di tifo simile a quelle che negli anni 1763-64 si svilupparo- no nell’Italia centro-meridionale, rendendo tragicamente reale la sequenza ca- restia-epidemia-mortalità7. Nello Stato della Chiesa, per sussidiare i comuni, Clemente XIII fondò nel 1763 un nuovo Monte, detto ‘dell’Abbondanza’. In seguito alla carestia giunse- ro a Roma da tutto lo Stato pontificio, dalla Toscana e dal napoletano migliaia di bisognosi. Nel marzo la situazione era talmente caotica che si temette si po- tesse verificare quanto già avveniva a Napoli, dove le cose avevano raggiunto un grado tale di gravità che alla fine della crisi si contarono 45.000 morti (in tutto il Meridione le persone decedute assommarono a circa 200.0008). Il papa cercò di ottenere grano dalla Francia, che proprio in quegli anni (1763 e 1764) con due editti aveva liberalizzato il commercio interno ed internazionale dei grani, ma secondo il Pastor i francesi rifiutarono. Più disponibile fu invece Car- lo Emanuele di Savoia, che permise l’esportazione di grano dalla Sardegna e dal Piemonte, ma ad un prezzo doppio di quello dell’anno precedente; Clemen- te XIII ringraziò il sovrano savoiardo con breve del 21 aprile 17649. Anche nello Stato pontificio i morti furono migliaia, tanto che Roma impiegò un decennio a recuperare il numero dei cittadini perduti. Per evitare in futuro una dipendenza totale dall’estero, Clemente XIII si sforzò inutilmente di co- stringere i grandi proprietari terrieri della campagna romana a una coltivazione intensiva di grano10; un suo disegno del 1765 tendente a ridurre a coltura circa

7 C. CIPOLLA, I pidocchi e il Granduca, Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 23-24; L. GUERCI, Il balzo in avanti demografico, in Il Settecento: l’età dei lumi, in «La Sto- ria», IX, Novara, De Agostini, 2004, p. 423; L. DE ROSA, Organizzazione e gestione delle strutture alimentari: l’evoluzione del tempo, in Gli archivi per la storia dell’alimentazione. Atti del convegno. Potenza–Matera 5-8 settembre 1988, a cura di P. Carucci e M. Buttazzo, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1995, vol. 2, (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Sag- gi, 34), p. 741; L. DEL PANTA, Dalla metà del Settecento ai nostri giorni, in L. DEL PANTA, M. LIVI BACCI, G. PINTO, E. SONNINO, La popolazione italiana dal me- dioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 147; p. 152; E. SONNINO, L’età moderna (secoli XVI-XVIII) in L. DEL PANTA, M. LIVI BACCI, G. PINTO, E. SONNINO, La popolazione italiana dal medioevo a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 93. 8 PASTOR, Storia dei papi … cit., p. 485; A. CARACCIOLO, La storia economica, in Dal primo Settecento all’Unità, in «Storia d’Italia», III, Torino, Einaudi, 1973, p. 522; GUERCI, Il balzo … cit., p. 423. Per quanto riguarda Napoli, Giuseppe Galasso ritiene che, per quanto grave, la carestia del 1764 e quelle successive produssero effetti meno acuti che in passato sulla consistenza e sulle possibilità di immediato recupero della popolazione a ragione di un ormai sopravvenuto superamento dell’antico circolo vizio- so tra una economia ed un regime in perenne crisi potenziale (G. GALASSO, Mezzo- giorno medievale e moderno, Torino, Einaudi, 1965, pp. 309-310). 9 DE ROSA, Organizzazione … cit., p. 742; PASTOR, Storia dei papi … cit., p. 486. 10 CARACCIOLO, La storia economica ... cit., p. 522; PASTOR, Storia dei papi … cit., p. 486. Come scrive Donatella Strangio, i grandi proprietari non erano certo stimo- lati ad incrementare la produzione agricola per vedere così scendere il prezzo del pro- 40

200.000 rubbi nell’Agro pontino, coordinato dal commissario per la bonifica (dal 23 XI 1763) Simone Bonaccorsi su progetto del geometra Angelo Sani, fu bloccato dalle precarie condizioni dell’erario pontificio, gravato anche dalle spese sostenute per alleviare i disagi della carestia11; i papi successivi, Clemen- te XIV e soprattutto Pio VI, si rivolsero al capitale privato, sul cui intervento associato e interessato contavano per finanziare un’impresa di cui erano palesi gli alti costi. Prima che gli eventi politici precipitassero, nelle sue grandi linee la bonifica era tracciata, e lo scolo delle acque verso Terracina aveva reso col- tivabili dieci o quindicimila ettari, anche se il problema sostanzialmente non si poteva dire risolto 12. Dallo stato delle anime, “esattam[en]te compilato” nella Pasqua del 1764 dai parroci delle 6 parrocchie in cui era divisa la città, risulta che quell’anno Cori aveva una popolazione di 4.440 anime, alle quali bisognava aggiungere 60 fo- restieri «che stanno all’attuale servizio dei cittadini in custodia di bestie»13. Si trattava quindi di una comunità che, sebbene in flessione rispetto ai 6.000 abi- tanti del 171314, era relativamente grande e certamente aveva un rilievo mag- giore di quanto non abbia oggi (si pensi che l’importante città di Anagni, chia- mata cerealis Anagnia e considerata una specie di serbatoio da parte del potere centrale, nei primi anni del XVIII secolo contava 5.000 abitanti15). dotto coltivato e diminuire proporzionalmente la rendita dei loro terreni (D. STRANGIO, L’approvvigionamento della Città di Roma nell’età moderna, Tavola ro- tonda, Aix-En-Provence 31 marzo 2000, p. 17). 11 G. PIGNATELLI, Bonaccorsi Simone, in «Dizionario biografico degli italiani», 11, (1969), pp. 459-460. Sulle bonifiche è utile vedere E. BOLOGNINI, Memorie dell’antico e presente stato delle Paludi Pontine, rimedj e mezzi per disseccarle a pub- blico e privato vantaggio … Roma, Eredi Barbiellini, 1759 (rist. anast. 1981). 12 CARACCIOLO, Da Sisto V … cit., pp. 509-510. «Il governo di Roma travaglia in Terracina a riaprire il porto, e a dare scolo alle acque stagnanti con più difficile bonifi- cazione, ad introdurvi arti e commercio, e tutto questo si fa a spese del Regno e spe- cialmente della vicina contrada di Fondi», scriveva il Galanti parlando dello spopola- mento dell’area fondana (G. M. GALANTI, Descrizione geografica e politica delle Sicilie, vol 4, Napoli, Gabinetto letterario, 1786-1794, citato da M. SILVESTRI, Vi- cende della bonifica prima dell’Unità, in La piana di Fondi e Monte S. Biagio. Bonifi- ca ed evoluzione del territorio, Roma, Quasar, 1993, p. 122). 13 Archivio storico comunale di Cori, Preunitario (d’ora in poi AC Cori, PR), Registri di lettere, registro 6, c. 29r/v (5 maggio 1764). 14 Cfr. E. SCARNICCHIA, Cori attraverso i secoli, Cori, Edizioni tipografiche, 1968, p. 61, dove però non si garantisce l’esattezza dei dati riportati. 15 D. STRANGIO, Il monte frumentario di Anagni: un modello di gestione del grano in una comunità del Basso Lazio nell’età moderna (1636-1718), in «Latium», 10 (1993), pp. 255-260. Nel XVIII secolo nel territorio di Anagni si coltivavano 4.000 rubbi a gran- turco, con una produzione di 16.000 rubbi, e 8.000 a grano, con una produzione di 40.000 rubbi, ma, secondo un anonimo relatore, con gli opportuni miglioramenti (stabbiatura dei terreni e promozione della permanenza in campagna dei contadini – che, come a Cori, risiedevano in città – con l’eliminazione dell’eccessivo frazionamento dei fondi e l’obbligo per i possidenti, tramite permute “vicendevoli”, di costituire appezzamenti tali 41

Sull’entità dell’immigrazione temporanea di manodopera può essere utile un confronto con Tuscania. Nella città del viterbese, che nel Medioevo contava sei-settemila abitanti, nel 1761, cioè due anni prima della carestia, su 2.135 re- sidenti erano addirittura 600 i forestieri impegnati nei lavori agricoli stagionali, mentre i cittadini erano solo 1.535. Si trattava dunque di una grossa porzione di residenti quasi stabili per nove mesi su dodici, senza i quali, data l’insufficienza di braccianti locali, difficilmente il vasto territorio comunale a- vrebbe potuto essere coltivato16. Il basso numero di forestieri presenti a Cori, di cui si sottolinea l’occupazione nella pastorizia, potrebbe quindi indicare gene- ricamente la sufficienza del bracciantato locale rispetto all’estensione del terri- torio da coltivare oppure potrebbe essere un dato puramente congiunturale, le- gato cioè alla momentanea scarsità dei raccolti, con conseguente riduzione del- la necessità di manodopera esterna; è difficile dare una risposta definitiva. Si può però riflettere che un secolo dopo, nel 1873, la presenza di agricoltori fore- stieri doveva essere tanto significativa che, pensando all’erezione di un ospeda- le, addirittura lo si riteneva necessario soprattutto per la loro assistenza17. Nelle carte dell’Archivio storico comunale di Cori la prima notizia relativa alla carestia risale al 20 agosto 1763. Si tratta di una lettera, indirizzata al go- vernatore, con cui la Sacra congregazione del buon governo (organo deputato al controllo della finanza locale), attesa la scarsità del raccolto, permetteva alla comunità di prendere ad interesse 4.000 scudi, col fruttato annuo del 3%; la somma doveva essere destinata all’acquisto di grano «per lo sfamo di questo popolo». Un problema non secondario era costituito dal fatto che la scarsità di frumento rendeva economicamente rischiosa la gestione del forno pubblico, tanto che quell’estate nessuno si era ancora offerto come affittuario ad annum. Nel consiglio comunale del successivo 29 agosto il consigliere Pasquale Prence si dichiarò favorevole alla proposta del Buon governo di prendere a censo 4.000 scudi e propose di tornare ad affiggere degli editti pubblici18 nei luoghi circostanti la città per trovare un affittuario del forno pubblico. Così facendo si sarebbero evitate tutte quelle difficoltà che si sarebbero incontrate se nel forno ci fosse stato «il semplice spianataro» per conto della comunità, che avrebbe

da permettere la realizzazione di tante case “contadinesche”), si sarebbe arrivati a 48.000 rubbi di granturco e 64.000 di grano. Allora il territorio di Anagni avrebbe potuto alimen- tare la città di Roma «almeno per molti mesi all’anno almeno con i tre generi più essen- ziali, cioè grano, vino e granturco, senza parlare dei legumi, biade, frutta, scope, bestia- me» (G. GIAMMARIA, Una memoria sull’agricoltura in Anagni nel XVIII secolo, in «Latium», 4 (1987), pp. 241-244). 16 G. GIONTELLA, Vita economica, sociale e politica a Tuscania negli ultimi decenni del Settecento, in «Rivista storica del Lazio», VI, (1998), 8, pp. 103-121. 17 E. DI MEO, La divina arte. Medici e chirurghi pubblici, speziali, flebotomi, barbieri e levatrici a Cori, nella Marittima pontificia, dal XVI al XIX secolo, Cori, Moderata durant, 2006, p. 244. 18 «Al uomo che ha portato gli editti del forno [scudi] 1.35» (AC Cori, PR, Sindacazio- ni, registro 10, c. 81v). 42

avuto anche il vantaggio di evitare in parte l’aggravio del debito dei 4.000 scu- di19. Tutti i tentativi fatti per trovare un affittuario del forno, al quale era riconosciu- to un prestito di 1.000 scudi per l’acquisto del grano, risultarono però vani, e siccome il tempo passava ed il forno non aveva più «provedimento di grani per il mantenimento di questo numeroso popolo», l’8 settembre successivo si pro- pose di aumentare il prestito, dando al magistrato la facoltà di rilasciare al pro- curatore Gaspare Battaglia il mandato di procura per prendere a censo 4.000 scudi, da una o più persone, al tasso del 3%, impegnando i beni della comunità, tra i quali la selva delle castagne, a garanzia di chi avrebbe prestato i soldi20. Ancora il 18 settembre non si era trovato affittuario, per cui vennero affissi nuovi editti, nei quali si dichiarava che il prestito all’eventuale gestore del for- no pubblico era portato a 2.000 scudi21. Finalmente il 2 ottobre Virgilio del Quattro presentò la propria offerta; avrebbe fornito pagnotte di otto once22 per tutta la stagione, ma a patto di ottenere un prestito di 2.500 scudi. Non viene specificato di quale tipo di pane si trattasse (bianco o bruno23). L’affitto doveva avere durata annuale, dal 1° settembre 1763 al 31 agosto 1764. Come garante proponeva Lorenzo Chiari24. Qualche giorno dopo si propose anche Clemente Jannoni; egli si impegnava a fornire pane “a gelosia”, di otto once a pagnotta, pane tondo, del peso di sette once25, e pagnottelle da quattro once26 e del costo di quattro quattrini, con la solita tolleranza di due once per ogni sei pagnotte. Clemente si accontentava del prestito di 2.000 scudi, 1.600 da versargli all’atto della stipula dell’ istru- mento e altri 400 entro il mese di novembre; però «in occorrenza di mancanza di grano» chiedeva alla comunità l’impegno a prestare tutta l’assistenza possi- bile, eventualmente anche con l’opera del procuratore. La comunità era tenuta anche a fornire il proprio granaio, con la solita pigione. «Per sicurtà di d[ett]o spaccio» presentava Francesco Cataldi27.

19 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 208v-210v. 20 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 211v-213r. 21 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 214v-215r. 22 Circa 226 grammi (Cfr. A. MARTINI, Manuale di metrologia ossia misure, pesi e monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli, Torino 1883 (rist. anast. Roma, E.R.A., 1976), p. 598). 23 Nel 1650 ad Anagni il forno pubblico era tenuto a produrre pane bianco del peso di 8 on- ce e pane bruno del peso di 12 once (Cfr. STRANGIO, Il monte frumentario … cit., p. 259). 24 AC Cori, PR, Istrumenti, registro 11, cc. 68v-69r. 25 Circa 198 grammi (Cfr. MARTINI, Manuale … cit., p. 598). 26 Circa 113 grammi (Cfr. MARTINI, Manuale … cit., p. 598). 27 AC Cori, PR, Istrumenti, registro 11, cc. 70r-71r (10 ottobre 1763). 43

Comunque i priori di Cori decisero di concedere a Virgilio del Quattro l’affitto del forno pubblico «o sia spiano di esso». L’affittuario si impegnava a fornire il pane a gelosia e quello tondo, di otto once di peso, con tolleranza di due once per ogni palata di sei pagnotte. La comunità gli metteva a disposizione 2.500 scudi, 1.600 dei quali, avuti dalla primogenitura Pichi, gli erano immediata- mente versati sotto forma di cedole bancarie. Alla scadenza del contratto, l’affittuario si impegnava a restituire la somma avuta in prestito più gli interes- si e le spese di senseria. Nel caso però che entro dieci giorni fosse pervenuta un’offerta migliore, questa sarebbe stata accettata, a meno che il del Quattro non avesse migliorato la sua. La pratica andò avanti per qualche giorno, con offerte del del Quattro e dello Jannoni, fino al 5 novembre successivo, quando, accesa la candela, Virgilio finì per ottenere l’affitto del forno con offerta di scudi 53,5028. Restava il problema dei 900 scudi mancanti, che non si erano po- tuti trovare; la comunità chiese allora di essere ammessa ai «luoghi Monti ab- bondanza»29. I Luoghi di Monte, Loca Montium, erano crediti di somme de- terminate in un monte. Clemente XIII, con il suo chirografo Per la penuriosa raccolta, aveva eretto – come ho già detto – il Monte dell’Abbondanza a ra- gione di cento scudi per ogni luogo, «acciò le comunità dello Stato potessero prendere denaro a frutto onde provvedersi di grano»30. In pratica, un luogo e- quivaleva a cento scudi; due luoghi a duecento scudi e così via.

Credo che valga la pena di fare ora un inciso e parlare del forno pubblico, che si trovava sotto il palazzo comunale; purtroppo questo è stato pesantemente ri- maneggiato con un discutibile intervento di ristrutturazione negli anni settanta del secolo scorso, tanto che antiche strutture, come le carceri o il forno, non sono più leggibili, così come non è stato conservato il soffitto decorato della sala del consiglio, il vecchio ufficio postale o la fontana sulla pittoresca piaz- zetta prospiciente s. Oliva. Riguardo al forno, nel 1782, per permettere al for- naio di tenere «un puoco di grano, semmola e tritello» i maggiorenti decisero di spostare la scuola «nel suo antico luogo, dove presentemente è la deposite- ria» e che questa si trasferisse nella sua “antica stanza” sotto il forno31. Fortunatamente disponiamo di una Descriptio furni panis venalis communitatis Corae (redatta nel 1769). Il forno era costituito da un insieme di locali e com- prendeva: - la legnaia, situata «sotto la dep[osite]ria de’ pegni»; - la cantina, nella stanza sotto al forno; - l’abitazione del forno, arredata con un banco per la vendita del pane, con quattro cassetti, due dei quali forniti di serratura, anche se la vecchia chiave era «bisognosa di esser risarcita»; il bancone era «foderato per tutte le sue parti e vi è comodo da tenere il pane dentro»; una tavola lo prolungava fino al muro,

28 AC Cori, PR, Istrumenti, registro 11, cc. 71r-73r (11 ottobre) e 74v-76r. 29 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 219v-220r (4 dicembre 1763). 30 MORONI, Dizionario … cit., vol. 40, (1846), p. 158. 31 AC Cori, PR, Consigli, registro 43, c. 2v (24 settembre 1782). 44

al quale era fissato tramite due maschiettoni32, uno dei quali rotto; presso il bancone c’era un cancelletto con «gangheri, bandelle e serratura a molla vec- chia». In questo locale c’era una tina per l’acqua, della capacità di cinque bari- li, una vaschetta «da far panni», una bilancia con piatto di rame, «che nel minu- to porta libre undici e mezza, con sua marca d’ottone, con catene di fil di ferro grosso pendente da un ferro fatto ad ancora con uncino in mezzo», quattro vec- chi mastelloni del diametro di quattro palmi, dove il fornaio teneva le pagnotte e la semola e una mastra. Sul muro c’erano due ordini di tavole «da tenere i fi- lari del pane»; - la stanza con il forno «da far pane», con «sua paratura di ferro, bocchino degl’ardenti con sua parata di ferro e sopra la bocca del forno altri due bocchini con sue parate di ferro. Un cavalletto di legno per infornare. Una tavola da mangiare, bislunga, con suo cassetto, e un banco o sia scandellone. Due tira- brace di ferro e sua forcina di ferro; due fenestre con suoi scuri»; - una stanza chiamata stufa, con quattro mastelloni, una spianatoia per ma- neggiare il pane, una bilancia, la gramola33 «con sua stanga e orecchie di ferro con suoi annessi, da riattarsi nel legname», diciotto tavole per il pane con i ri- spettivi pannelli, una tromba di tavole per la farina che calava dalla stanza su- periore; nell’appartamento superiore c’erano: - una stanza con un «frolloncino34 nuovo di albuccio35 per uso delle pagnottel- le, con stamignapori36 in molte parti lacera; il detto frolloncino ha tutti i suoi annessi et altro, la ruota che serve per lavorare d[etto] frolloncino è crepata»; - un'altra stanza dove vi era «altro frollone per la semmola», nel quale era da riattarsi il ponte, la stella, lo spadone e l’orecchie, fornito di coperchio di tavola e «una tavola circa il fondo, con essere rifermati li cavalletti della tremoggia»; - la stanza del granaio, con quattro finestre con inferriate; - una stanza contigua al granaio, «che si ritiene a pig[io]ne dall’affittuario»37.

Ma ritorniamo alla carestia. Il 17 gennaio 1764 la Sacra congregazione del buon governo ordinò alla comunità di acquistare 50 rubbi38 di fave o di gran

32 Arpioni che entrano nelle bandelle o nei gangheri o altrimenti uniscono insieme le parti di un arnese che si debbano ripiegare. 33 Piccola madia triangolare a due sponde nella quale si gramola la pasta con la stanga per renderla soda. 34 Da Frullone. È un cassone di legno in cui si separa il fior di farina dalla crusca fa- cendo girare con una manovella il burattello. 35 Albaro, pioppo bianco. 36 Probabilmente un vaglio fino, di tessuto o tela, per separare la farina più fina da quella meno fina. 37 AC Cori, PR, Contabilità, registro 17, cc. 1r-4r (15 settembre 1769). 38 Il rubbio era un’unità di misura variabile. Come misura di capacità, per gli aridi cor- rispondeva a poco più di 294 litri mentre per le fave equivaleva a circa 250 litri. Come misura di peso e considerando un rubbio equivalente a 5 quarte, cioè 720 libbre roma- ne, corrispondeva a circa 244 chilogrammi. Quando però si trattava del carico di navi, l’unità di misura di peso era il rubbio del grano, equivalente a 4 quarte, cioè 640 libbre, 45

turco per distribuirli ai poveri. Ignazio Cardoni, uno dei consiglieri, fece però notare che sarebbe stato meglio prendere in prestito 600 scudi e distribuirli ai poveri, tanto a famiglia, dato che una tale mole di fave e granturco non era di- sponibile sul mercato39, testimoniando in tal modo anche una grave penuria di leguminose e graminacee. Il Buon governo ordinò pure al fornaio di dare a credito il pane ai poveri, ma Lorenzo Chiari, consocio dell’affittuario del forno, replicò che il forno pubblico non aveva grano e si trovava nella necessità di farne provvista, per cui era impossibilitato a fornire il pane a credito. Si decise allora, per non sentire ulteriormente «li clamori dei poveri che gemono per la fame», di ricorrere al Monte dell’abbondanza per chiedere 600 scudi a credito, da consegnare all’affittuario, che avrebbe così potuto provvedersi di grano e poi distribuire il pane ai poveri secondo la necessità «che averanno»; avrebbe fatto fede a tale proposito una testimoniale dei parroci40. Il 25 marzo i “pizziga- roli” chiesero trenta scudi per l’elemosina di tre o quattro rubbi di grano man- canti per il mantenimento «de peligrosi di d[etta] comunità, att[es]a la necessità della corrente stag[ion]e»; il consigliere Giacomo Tommasi replicò che non c’era grano, e propose di erogare al suo posto i trenta scudi41. Il 2 aprile 1764, visto che la città si trovava ormai in estremo bisogno di prov- viste, mancando pane, grano e “minuti”, in «procinto che i cittadini tutti peri- scano sotto l’oppressione della fame», e visto che tutti i tentativi di ottenere scorte di grano e derrate alimentari erano miseramente falliti, si decise di im- plorare la Città di Roma di soccorrere il languente popolo di Cori, e si elesse Tommaso Celli come deputato, perché potesse chiedere ed ottenere scorte di pane, grano, riso e “minuti” per sfamare la comunità corese, ricevendo tali scorte [grasce] per conto degl’affittuari del forno pubblico a prezzi convenienti. Le spese di spedizione erano a carico del fornaio42. Il Celli scrisse due giorni dopo da Roma di essersi incontrato con il marchese Origo, il quale gli aveva detto che nessuno sapeva cosa fare, che non essendoci scorte in Roma non potevano esserci altrove e che qualora fossero arrivati aiuti allo Stato, la comunità di Cori sarebbe stata la prima a beneficiarne. Ancora peggiore era stato l’incontro con il vescovo [il camerlengo Rezzonico?], che aveva accusato il Celli di raccontare frottole, che lui sapeva per certo che Cori era provvisto di riso e altre scorte per tutto il corrente mese e che in fin dei con- ti anche le altre comunità soggiacevano alle “istesse angustie”43. Lo stesso giorno il deputato della comunità corese incontrò il marchese Serlupi Crescenzi e gli palesò l’estremo stato di bisogno in cui versava Cori; il marchese lo ac- compagnò dal segretario della Sacra consulta per chiedere un aiuto, ma questi ovvero 217 chilogrammi (Cfr. MARTINI, Manuale … cit., pp. 597-598; AC Cori, PR, Affari vari, b. 6, n. 117). 39 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 234v-235r (22 gennaio 1764). 40 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 236v-237v (12 febbraio 1764). 41 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 238v-239r. 42 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 1r/v. 43 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 2r/v e 23r (4 aprile 1764). 46

rispose di non potersi ingerire nell’affare del grano, materia di pertinenza del camerlengo e del suo tribunale44. Il 5 aprile fu pubblicato un editto con il quale si proibiva l’esportazione fuori Roma del pane nero e si raddoppiava il prezzo del pane bianco, così che la pagnotta da un baiocco passava a due baiocchi e quella da un baiocco e mezzo a tre baiocchi. Dato che per la massa della gente il pane era l’alimento principale e che normalmente si viveva in stato di sotto- nutrizione, per molti un tale aumento voleva dire letteralmente la fame. Corre- va intanto voce che si potesse ottenere della farina, ma il Celli si riservò di dar- ne più precise informazioni quanto prima possibile, ed invitò intanto la comu- nità a fare provvista di riso e a ridurre l’assegnamento di due pagnotte ad una soltanto al fine di tirare avanti, e «coll’uso insieme della carne non si mori- rà»45. Il 9 aprile, accompagnato da Francesco De Rossi, il Celli si recò da monsignor Vicentini, segretario del Buon governo, per controllare se il camerlengo avesse preso l’elenco delle comunità che chiedevano aiuto, ma, con sua sorpresa fu informato che Cori non poteva essere preso in considerazione perché non rien- trava nel Lazio ma nella provincia di Marittima e Campagna. Presso la compu- tisteria del Buon governo risultava la stessa cosa, sicché, aggiunse sconsolato nella sua lettera, «non v’è rimedio; quantunque mentalm[en]te parlando e geo- graficamente riflettendo il Lazio antico si stenda anche in Cori, con tutto ciò, secondo gl’antichi ripartimenti delle provincie dello Stato, Cori non vi entra, essendo della provincia Marittima e Campagna, e secondo questi ripartimenti si regola Roma, e così s’intende l’editto». Padre Vittori e monsignor Campilli, commissario generale “della cammera”, consigliarono al Celli di chiedere al camerlengo almeno un po’ di tritello46. Quattro giorni dopo il deputato corese scrisse dei passi “incredibili” fatti nell’interesse della comunità, tanto da non aver avuto un attimo di riposo nep- pure per rispondere alle lettere del fratello Giuseppe, e che, Dio benedicendo le sue fatiche, pur non mancando motivi di disperazione, lui non disperava e quando avesse avuto notizie, le avrebbe immediatamente comunicate47. Intanto si cominciavano a manifestare segni di insofferenza da parte del popo- lo, tanto che i conservatori prima chiesero alla corte papale un aiuto in soldati o birri per il controllo del paese, che il governatore supponeva “già tumultuante”, e qualche giorno dopo informarono i maggiorenti coresi che – ovviamente per motivi di ordine pubblico – tutte le feste in Roma erano sospese48. Il Celli suggerì di spedire qualcuno, con molto denaro, al porto di Nettuno, do- ve sembrava fosse approdata una nave carica di grano che Roma aveva destina- to alla comunità di Albano, ma a condizione che questa ne cedesse parte a Cori

44 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 8r (4 aprile 1764). 45 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 3r/v e 22r (5 aprile 1764). 46 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 5r/v e 20r/v. 47 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 6r/v (13 aprile 1764). 48 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 9r/v (14 aprile 1764) e c. 26r (28 aprile 1764). 47

e ad altre comunità 49. Dopo aver inviato questa prima lettera, il Celli ne spedì una seconda, con la quale informava il magistrato corese che il camerlengo, cardinale Rezzonico, aveva destinato a Cori 50 rubbi di grano, da prendersi nel porto di Anzio (Nettuno-Porto d’Anzio era considerato un unico centro portua- le50). Sul costo del grano il Celli non poteva dare indicazioni precise perché il camerlengo si era riservato di stabilirne il prezzo51. Lo stesso giorno i maggio- renti coresi scrissero al cavaliere Borgia in Nettuno di quale indicibile consola- zione avesse procurato nel pubblico la notizia che in quel porto erano arrivati circa 1.500 rubbi di grano, il che dava motivo alla popolazione, nelle angustie in cui si trovava, di «concepir speranza di sollievo». Per evitare complicazioni, in attesa di ricevere la licenza di carico da Roma, inviavano due delegati con i soldi della caparra52, mentre il procuratore Gaspare Battaglia si interessava di ottenere 600 scudi dal Monte dell’Abbondanza; dieci giorni dopo fu avanzata la proposta di chiederne altri 600 53. Una lettera anonima, scritta (il 14 aprile?) da un “umilissimo servidore”, ci in- forma che nel “Porto danze” [porto di Anzio] era arrivato anche del riso e che se la comunità corese voleva provvedersene, doveva farlo con sollecitudine, «acciò non abino da restare senza anche di questo, mentre moltisime comunità fanno forzza p[er] averlo» 54. Il 27 aprile i priori di Cori, Romolo Silvio Cataldi, Fabrizio Cerracchi e Pa- squale Prence, evidentemente insoddisfatti dell’operato del Celli, elessero co- me deputato il conte Nicola Finy, affidandogli l’incarico di chiedere aiuto per il «lagrimevole e miserabilissimo stato» in cui si trovava la Città, della quale si evocava l’estrema “desolazione”; le scorte di farina e grano potevano coprire il fabbisogno cittadino per altri sette giorni, non arrivando al forno pubblico più nessun contributo in granaglie da parte dei privati cittadini, e si calcolava che per arrivare al 15 giugno erano necessari 585 rubbi di grano, distribuendo gior- nalmente due sole pagnotte a testa55. Il Finy riuscì ad ottenere 50 rubbi di grano al prezzo di dodici scudi al rubbio56, e per il trasporto di una tale quantità di grano [dal porto di Ripa Grande] chiese

49 AC Cori PR, Registri di lettere, registro 6, c. 9r/v (14 aprile 1764). 50 Cfr. F. SALVATORI, M. RICCI, C. CERRETI, M. SIMONCELLI, Lo Stato pontificio 1860-1870: tra implosione territoriale e integrazione spaziale, in F. BARTOCCINI e D. STRANGIO (a cura di), Lo Stato del Lazio 1860-1870, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1997, p. 84. 51 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 7r/v . 52 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 14r/v. 53 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 10r; Consigli, registro 39, c. 241r (24 aprile 1764). 54 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 11r. 55 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 25r/v. 56 Il prezzo del grano era ufficialmente imposto dalle autorità di governo. Ad Anagni una registrazione dell’evoluzione dei prezzi nell’arco di un secolo (1608-1708) mostra che negli anni di carestia il costo poteva quasi raddoppiare, passando da 6 a 10 scudi a rubbio (STRANGIO, Il monte frumentario … cit., p. 266, grafico 1). Dai registri 48

l’invio di cento bestie da soma. Il camerlengo invitò i maggiorenti a stilare una stima verosimile del fabbisogno di grano fino alla raccolta57, e i pubblici rap- presentanti coresi inviarono un attestato con il quale dichiaravano, sotto giura- mento, che per sfamare tutti gli abitanti di Cori – escludendo i lattanti – e i fo- restieri temporaneamente presenti, erano necessari almeno 450 rubbi di grano 58. Contestualmente gli affittuari del forno pubblico, lamentando una “esorbitante lesione” dei loro interessi, chiesero la rescissione del contratto59. Il grano arrivò il 6 maggio e qualche giorno dopo il consiglio, dovendo provvedere al denaro necessario per l’acquisto degli altri 400 rubbi, decise di chiedere al Buon go- verno l’autorizzazione a prendere intanto ad interesse 2.500 scudi oppure l’ammissione ai Luoghi di Monte60. Il 16 maggio giunsero a Roma i muli per prelevare altri 50 rubbi di grano, ma dato che il governatore Alessi aveva trat- tenuto presso di se il rescritto con il quale il camerlengo aveva concesso il gra- no, l’annona61 non solo non aveva permesso il carico, ma non aveva neppure voluto accettare il deposito del denaro62. Il giorno successivo il rescritto fu por- tato celermente a Roma e, avutolo, Nicola Finy si affrettò a fare il deposito e

dell’archivio di Cori risulta che nel 1741 il grano costava scudi 7.10 al rubbio (6.60 e 6.70 rispettivamente quello “sporco” e quello “cascato”), ma già nel 1743, anno di pe- nuria, era salito a 10 scudi al rubbio (AC Cori, PR, Sindacazioni, registro 8, pp. 12, 17, 20, 113), mentre sulla piazza di Velletri si trovava ancora a scudi 7.20/7.30 (G. GIAMMARIA, Le proprietà dei benedettini sublacensi in Cori, II, in «Latium», 7 (1990), p. 147). È documentato che nel 1798 il prezzo del grano arrivò addirittura a 30 scudi il rubbio (A. COPPI, Relazione sulla tariffa e sulla libertà di fare e vendere il pane, in «Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti», 116 (1848), p. 202). 57 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 27r/v e 71r. 58 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 29r/v (5 maggio 1764). 59 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 28r/v. 60 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 241r-242r (9 maggio 1764). 61 Nell’epoca qui considerata il tribunale dell’annona era diviso in due rami, presieduti da due chierici di camera, rispettivamente con il titolo di prefetto dell’annona e di pre- sidente della grascia. Il prefetto dell’annona aveva competenza in materia di granaglie, tanto che senza la sua approvazione non si poteva vendere, alienare o trasferire grano da un luogo all’altro dello Stato. Il presidente della grascia aveva simili facoltà circa il bestiame, l’olio e altri generi di consumo (MORONI, Dizionario … cit, vol. 2, (1840), p. 145). Per una riflessione sull’annona come deformazione del principio di mercato, si rimanda a DE ROSA, Organizzazione … cit., p. 743 e segg. 62 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 32r/v e 66r. 49

quindi si recò a Ripa Grande63 per sollecitare il carico, ma essendo ormai abba- stanza tardi, non riuscì ad ottenere che 19 rubbi e mezzo di grano, che pronta- mente inviò verso Cori64. Circa il forno, l’uditore del camerlengo, monsignor Braschi, non accettò la re- scissione del contratto di affitto e dispose che il fornaio continuasse a panifica- re, rendendo conto settimanalmente delle spese e consegnando il denaro ricava- to dalla vendita del pane alla comunità, che era però tenuta a provvedere il gra- no. Per snellire la procedura, il tribunale dell’annona decise di dare il grano a credito, con fede del computista delle «com[u]nità della ottenuta ammissio- ne»65. Il 20 maggio la comunità corese, che aveva ottenuto 2.000 scudi dal Monte dell’Abbondanza, rinnovò l’incarico al procuratore Nicola Finy, riconoscendo- gli un compenso di tre zecchini66; questi, tre giorni dopo, insieme a Marco Ma- ria Stampiglia, si occupò di iniziare il carico di 166½ rubbi di grano dei 400 concessi dal camerlengo, pagandoli 12 scudi al rubbio, per un totale di 1998 scudi. Esaurita la somma ricevuta ad interesse, per caricare quanto rimaneva dei rubbi assegnati si sarebbe dovuto aspettare il ricavo della vendita del pane, onde mettere insieme la somma necessaria a formate il deposito preventivo. Lo Stampiglia consigliava inoltre di non inviare più di cento bestie da soma per il carico del grano, perché nel porto di Ripa Grande la folla che gli addetti dove- vano servire era talmente numerosa, che più di 50 rubbi al giorno non era pos- sibile caricare67. Inoltre c’era il problema che il grano, di cui si paventava un aumento fino a 15 scudi al rubbio, si misurava “a quarto” e non “a peso”68, cosa che si traduceva in un danno per la comunità. Scrisse infatti il Finy qualche giorno dopo, in una lettera affidata ai vetturali per il trasporto di 31½ rubbi di grano69:

63 Il porto di Ripa Grande era sede della dogana di mare, destinato ad accogliere le merci provenienti dall’estero; una volta giunte alla foce del Tevere, queste erano tra- sbordate su piccole imbarcazioni che risalivano il fiume mediante il tiro delle bufale e di uomini (piloricatori). È evidente quindi che questo grano non era di provenienza in- terna, anche perché in tal caso esso sarebbe stato sbarcato nel porto di Ripetta, che ac- coglieva le merci provenienti dal nord dello Stato. Forse si trattava del grano concesso da Carlo Emanuele di Sardegna. Per più puntuali notizie sui due porti romani si veda O. VERDI, Il commercio delle derrate alimentari a Roma nei porti di Ripa e Ripetta (sec. XVIII), in Gli archivi per la storia dell’alimentazione. Atti del convegno Potenza– Matera 5-8 settembre 1988, a cura di P. Carucci e M. Buttazzo, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1995, vol. 2, (Pub- blicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 34), pp. 1162-1187. 64 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 34r/v e 64r (17 maggio 1764). 65 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 35r/v (19 maggio 1764). 66 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 244v-245v. 67 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 36r/v e 62r. 68 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 37r. 69 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 40r/v (25 maggio 1764). 50

In quanto alle premure che mi avanzano per avere il grano a peso e non a misura, ho fatti de’ passi e ne ho con calore parlato, ma siccome questo modo di dare il grano a misura non si usa dall’annona solamente con la communità di Cori, ma bensì è gene- rale con tutte l’altre communità senza numero, che qui tutto dì sono a provedersi di grano, onde soccombono pazientem[en]te al calo considerabile che si trova in ogni rubbio; così si rende impossibile il conseguire il desiderato partiale favore, se bene giusto. Ciò non ostante già ho fatto presentare supplica all’e[minentissi]mo cammer- lengo, dalla quale staremo a vedere cosa ne risulterà.

Probabilmente, dato che il grano veniva scaricato da navi, per esso era adottata l’unità di misura prevista per i carichi navali, il rubbio del grano, equivalente a circa 217 chili, con perdita secca di 27 chili ogni rubbio rispetto al rubbio per la farina, granone, fagioli, piselli, ecc. (cfr. nota 38). La magistratura corese fece ogni sforzo per ottenere il grano “a peso”, ma il deputato Stampiglia, nel mentre presentava supplica al camerlengo in tal senso, consigliava di ordinare al fornaio, a voce e senza strepito, il calo di un’oncia a pagnotta, tanto più che questo calo sarebbe stato poco avvertito perché sarebbe durato solo quanto il bisogno di grano da Roma70. Il 28 maggio Cori ricevette 38½ rubbi di grano e il giorno successivo altri 28 rubbi, sicché dei 166½ rubbi concessi a credito, ne erano stati complessiva- mente caricati 137, per cui ne rimanevano da prendere 29½. Calcolando quello ottenuto anteriormente, la comunità di Cori aveva ricevuto in tutto rubbi 255½ di tutto grano; ora però le cose stavano diventando difficili e, avvertiva Nicola Finy, in futuro parte della fornitura sarebbe stata di segale71, della quale c’era una buona scorta e la si voleva distribuire alle varie comunità72. Ancora il 7 giugno però Cori ricevette 32 rubbi di solo grano73. A complicare ulteriormente le cose, già difficili, contribuì il rifiuto da parte dell’annona di accettare pagamenti con moneta deteriorata. Già il 22 maggio il Finy aveva potuto inviare a Cori 22½ rubbi di grano, due rubbi e mezzo in me- no di quanto dovuto perché trenta degli scudi necessari all’acquisto, messi in- sieme in “quatrinacci”, erano stati rifiutati. Si rese quindi necessario barattare con privati questi ‘quatrinacci’, accordando un aggio di un grosso per ogni scu- do, e anche così inizialmente non fu possibile cambiare che cinquanta scudi. Della residuale somma di centouno scudi in suo possesso, il procuratore Finy ne trattenne venti “per suo mantenimento”, e forse per questo fu richiamato in patria il 9 giugno seguente. Neppure erano accettate monete del Regno di Na- poli, che «non vogliono prenderle in conto veruno». Un nuovo baratto fu pos- sibile il 16 giugno, quando il Finy riuscì a cambiare trentaquattro scudi, ricono-

70 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, c. 37r; c. 38r/v (26 maggio 1764). 71 La segale si adatta ai suoli freddi e poco assolati. Coltivata in vaste zone dell’Italia setten- trionale, forniva un pane di poco inferiore a quello di frumento. Già però dalla Toscana in giù il pane di sola segale non era molto usato (Cfr. G. PINTO, Il libro del biadaiolo. Care- stie e annona a Firenze dalla metà del ‘200 al 1348, Firenze, Olschki, 1978, pp. 35-36). 72 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 39r/v e 59r (29 maggio 1764). 73 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 43r/v. 51

scendo un aggio di tre baiocchi a scudo. La somma ricavata, in cedole e in oro, era a disposizione per il deposito in conto acquisto del grano. Un altro scudo e cinquanta baiocchi, in soldi «puzzi e francesi, che qui non corrono», si sarebbe potuto usare «colli vitturali, com’è stato fatto fin’ora»74. La comunità decise di chiedere ad interesse altro denaro, e il 9 giugno fu ammessa a 5 Luoghi di Monte, pari a 500 scudi; Marco Stampiglia si affrettò a scrivere a Cori chie- dendo l’annullamento del richiamo in patria del Finy, dato che la consegna del grano poteva essere fatta solo al deputato del consiglio. La richiesta era per 50 rubbi di grano, ma con la somma ottenuta a credito e quella residuale si pote- vano ottenere 36 rubbi; per i rimanenti 14 il procuratore Gaspare Battaglia chiese di provvedere in contanti, non «complendo» di fare un altro giro di con- sigli per un nuovo debito75. Con la nuova fornitura di frumento, insieme a 40 rubbi di grano furono destina- ti a Cori anche 10 rubbi di segale, «essendovene ora gran quantità», al costo di dieci scudi al rubbio. Dato che fino a quel momento la comunità corese aveva ricevuto solo grano, non c’era di che lagnarsi, ma qualora non si fosse voluta la parte di segale, il procuratore Stampiglia si impegnava alla permuta, anche se a suo giudizio era meglio lasciar correre76. Viste le reiterate, drammatiche dichia- razioni circa le misere condizioni di vita della comunità, si resta quantomeno sconcertati leggendo una tale sorprendente proposta, ma forse vi si può vedere una scarsa abitudine da parte del popolo corese all’uso alimentare della segale. Questa impressione è rinforzata da quanto è registrato in uno specchietto, ela- borato nel 1853, circa la produzione locale di cereali e legumi; almeno per quell’anno non solo non si produssero orzo, cicerchie e segale ma nemmeno se ne acquistò altrove per uso della popolazione, come invece avvenne per il riso, che fu importato direttamente da Roma77. Per la fornitura del 16 giugno Bene- detto Bucciarelli portò a Roma una prima quota di 400 scudi, 300 per il paga- mento di venticinque rubbi di grano e 100 per dieci rubbi di segale, e poi una seconda quota di 180 scudi per il pagamento dei restanti quindici rubbi di gra- no78.

A metà luglio ci si preoccupò di trovare un nuovo affittuario del forno pub- blico. Il 20 agosto presentò la propria offerta Francesco Franzetti; egli offriva 100 scudi annui per l’affitto, da pagarsi posticipati tre mesi per tre mesi e si impegnava a fornire pane di buona qualità79.

74 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 43r/v, 44r/v e 54r/v, 47(bis)r/v. 75 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 43r/v, 44r/v e 54r/v, 45r. 76 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, cc. 46r-47r (15 e 16 giugno 1764). 77 AC Cori, PR, Affari vari, b. 6, n. 117. 78 AC Cori, PR, Registri di lettere, registro 6, ricevute del 18 e 22 giugno 1764. 79 AC Cori, PR, Consigli, registro 39, cc. 248v-249r (16 luglio 1764); Istrumenti, regi- stro 11, c. 89v. 52

L’anno seguente, mentre il Buon governo invitava il consiglio ad eleggere due soggetti che esaminassero la richiesta di risarcimento presentata da Virgilio del Quattro e Lorenzo Chiari, i maggiorenti si ritrovarono da capo con il problema di trovare un affittuario del forno, in quanto, «stante la pre[sen]te annata penu- riosa», nessuno si offriva. Solo il 1° settembre il cisternese Antonio Tartaglioni80 chiese di poter gestire il forno, con offerta di 100 scudi di affitto annui, per quattro anni, e abbuono del primo anno di affitto81. L’esplorazione delle carte d’archivio attesta che il defi- cit nella produzione di granaglie nel territorio corese andò ben oltre il 1764 e si prolungò negli gli anni successivi, avendo un notevole peso fino al 1767 e an- che oltre. La brutta esperienza della carestia consigliò i maggiorenti di farne previsione nel contratto di affitto del forno; per il quadriennio 1769-1773 troviamo infatti tra le varie voci, anche quella che dispone che «d[etto] affittuario [Francesco Franzetti] non possa in veruna maniera domandare defalco veruno per qualsi- voglia caso, causa, titolo ed occasione di sterilità, ristrette, scorrerie de soldati, devastazione della campagna, sacco, siccità, grandine, tempesta, carestia ecc. o per altro caso fortuito e causa, ancorché non pensata»82.

Effetti demografici Per avere un’idea delle conseguenze della carestia sulla popolazione corese, ho consultato i registri dei morti e quelli dei battesimi sia delle quattro parroc- chie di Cori Valle (Archivi della Collegiata di santa Maria della Pietà - ASM) che quelli delle due parrocchie di Cori Monte (Archivi –non riordinati– della Collegiata dei santi Pietro e Paolo - ASP) 83. I due aggregati demografici ven- gono considerati separatamente. Ho dedicato speciale attenzione alla mortalità infantile in quanto indicatore molto sensibile delle variazioni socio- economiche e sanitarie.

80 Sull’interessante figura di Antonio Tartaglioni si veda L. PLOYER, Il Settecento a Terracina, in «Supplementi all’Archivio Storico», Società di Storia Patria della Pro- vincia di Latina, 1, (2001), pp. 22-23, 29. 81 AC Cori, PR, Lettere dei superiori, fasc. 5 (23 marzo 1765); Consigli, registro 39, cc. 266r-267v (14 aprile 1765); cc. 274r-275v (25 luglio 1765); cc. 275v-276r (10 ago- sto 1765); cc. 276v-277r (1 settembre 1765). 82 AC Cori, PR, Istrumenti, registro 12, cc. 120v-123v (1 settembre 1769). 83 Colgo l’occasione per ringraziare della collaborazione ed estrema cortesia don Otta- viano Maurizi, la dottoressa Maria Carmine Nazzari, responsabile degli Archivi della Collegiata di santa Maria della Pietà in Cori, e don Fabio Fiorini. 53

Cori Valle. Bambini nati e bambini morti entro il 1° anno Nati Morti ‰ Nati Morti ‰

1700-1704 608 167 274,7 1750-1754 363 77 212,1 1705-1709 567 163 287,5 1755-1759 363 68 187,3 1710-1714 537 87 162,0 1760-1764 378 103 272,5 1715-1719 469 103 219,6 1765-1769 405 92 227,2 1720-1724 438 104 237,4 1770-1774 421 107 254,2 1725-1729 400 141 352,5 1775-1779 481 118 245,3 1730-1734 455 146 320,9 1780-1784 399 92 230,6 1735-1739 444 109 245,5 1785-1789 420 112 266,7 1740-1744 435 112 257,5 1790-1794 416 87 209,1 1745-1749 423 91 215,1 1795-1799 401 89 221,9 Tab. 1. Nella seconda e sesta colonna è indicato il totale dei bambini nati; nella terza e settima quelli morti entro il primo anno di età. Le colonne quarta e ottava riportano i quozienti di mortalità per 1.000 nati.

Nella tabella 1 è riportata sia la natalità che la mortalità infantile entro il pri- mo anno di vita. I valori riportati si riferiscono a tutte e quattro le parrocchie di Cori Valle rispettivamente solo fino al 1724 per le nascite e al 1731 per le mor- ti, mancando per il periodo successivo i dati di santa Caterina. In caso di morte entro breve tempo dalla nascita, molto spesso venivano indicati i giorni di vita, a volte le ore, ma sovente si faceva ricorso ad espressioni come “nato di recen- te”, “nato da pochi giorni”, “pochi giorni dopo il battesimo” o “dal lavacro bat- tesimale”, “in stato di innocenza”, “nato e morto”. Quando c’era pericolo di morte, il bambino veniva battezzato dall’ostetrica. Per i primissimi anni del periodo studiato, e molto saltuariamente anche dopo, alcune registrazioni non riportano l’età ma solo l’indicazione della tumulazione nel sepolcro infantile; in questo caso, ai fini dell’elaborazione delle statistiche, ho arbitrariamente considerato l’età di un anno (anche se poteva arrivare fino ai sei-sette anni per santa Maria e fino agli 11 anni per san Michele).

54

800

703 700

608 600 546 495 478 501 472 481 500 472 488 455 460 510 422 438 395 400 421 400 363 399 401 361 344 300

254 200 141 146 112 118 112 167 103 89 100 109 87 92 92 87 68 0

Graf. 1. Cori Valle. Morti totali (linea spessa e valori in corsivo), bambini nati e bambini morti entro il primo anno di età (rispettivamente linee sottili superiori e inferiori, con valo- ri in tondo) nel corso del XVIII sec. La linea continua indica che i valori si riferiscono a tutte e quattro le parrocchie.

Come si vede dalla tabella 1 e dal grafico 1, che sono stati costruiti consideran- do intervalli quinquennali, la mortalità infantile entro il primo anno conosce un’ampia oscillazione nei valori assoluti, con un massimo di 167 bambini morti e un minimo di 87 nel periodo 1700-1729 (4 parrocchie), contro un mas- simo di 146 e un minimo di 68 nel periodo 1730-1799 (3 parrocchie). L’escursione dei quozienti ogni 1.000 nati va da un massimo di 352,5‰ ad un minimo di 162,0‰; in altre parole, nel quinquennio più sfavorevole morirono 35 bambini su 100, mentre in quello migliore tale percentuale si abbassa a 16 bambini ogni 100. Il grafico mostra anche che nel corso del primo quarto del Settecento la natalità subisce un notevole decremento (-28,0%) mentre la mor- talità entro il primo anno scende costantemente dal quinquennio 1730-1734 al 1755-1759. Durante il primo trentennio la mortalità totale registra variazioni spettacolari, mentre per il resto del secolo conosce un andamento declinante fino al quinquennio 1755-1759, quando tocca le 254 unità. Dal 1760 al 1764, il periodo che qui ci interessa maggiormente, ci fu un incremento della mortalità, 55

che pur arrivando a 472 unità, tuttavia si mantenne più bassa rispetto ad alcuni periodi antecedenti e successivi.

Cori Valle. Morti (1700-1731)

Entro il 6° anno In tota- Entro il 6° an- In totale le no 1700 34 - (42,5%) 80 1716 77 - (53,8%) 143 1701 105 - (74,4%) 145 1717 32 - (39,5%) 81 1702 37 - (45,7%) 81 1718 48 - (40,7%) 118 1703 49 - (44,1%) 111 1719 58 - (43,9%) 132 1704 42 - (45,2%) 93 1720 38 - (31,1%) 122 1705 49 - (45,6%) 103 1721 39 - (40,6%) 96 1706 25 - (36,2%) 69 1722 46 - (45,5%) 101 1707 94 - (48,9%) 192 1723 34 - (40,0%) 85 1708 72 - (47,7%) 151 1724 31 - (41,9%) 74 1709 117 - (62,2%) 188 1725 98 - (63,2%) 155 1710 21 - (42,0%) 50 1726 56 - (46,3%) 121 1711 42 - (40,0%) 105 1727 29 - (40,3%) 72 1712 33 - (37,1%) 89 1728 43 - (51,2%) 84 1713 30 - (34,1%) 88 1729 27 - (42,8%) 63 1714 37 - (41,6%) 89 1730 61 - (53,5%) 114 1715 23 - (31,9%) 72 1731 106 - (70,7%) 150

Tab. 2. Morti entro il sesto anno di età e morti in totale tra il 1700 e il 1731. I valori ripor- tati si riferiscono a tutte e quattro le parrocchie. Tra parentesi sono riportate le percentuali dei bambini morti rispetto ai morti totali.

Nella tabella 2 è riportata la mortalità infantile entro il sesto anno di vita e la mortalità assoluta. Alcuni anni spiccano particolarmente: il 1701, il 170784; il 1708; il 170985; il 1716; il 172586 e il 173187. Nel 1729, anno che pure vide una certa penuria di prodotti agricoli e la minaccia di morire di fame fu generaliz- zata, tanto che il comune di Cori vietò l’uscita dei grani88, il numero dei morti non fu particolarmente alto. Una statistica elaborata da Fernando De Mei mo- stra che negli anni 1709, 1716-17 e 1725 anche a Norma ci fu una netta cresci- ta della mortalità, che restò invece relativamente bassa nel 173189.

84 Anno che vide una pessima raccolta di grano (GIAMMARIA, Le proprietà … cit., p. 143). 85 Sembra che quell’anno ci sia stato un rigido inverno (Cfr. DEL PANTA, Dalla metà del Settecento … cit., p. 152). Dai registri risulta che a Cori Valle le morti si concen- trano particolarmente nei mesi di giugno, luglio e agosto. 86 L’anno precedente sembra ci fu una raccolta molto scarsa, tanto che «in molti luoghi à pena si rifà la sementa» (GIAMMARIA, Le proprietà … cit., pp. 139-144). 87 Dal giugno 1730 al marzo 1731 una grave crisi demografica interessò la sola parroc- chia di santa Maria della Pietà, provocando ben 89 morti in soli 9 mesi (ASM, parroc- chia di santa Maria, Morti, b. 9, registro 6, cc. 58r-62v). 88 GIAMMARIA, Le proprietà … cit., pp. 134-146. 89 F. DE MEI, Norma. Cinque secoli di storia, s.l., 1990, p. 127. 56

La tabella 2 permette altre interessanti considerazioni; la percentuale dei bam- bini (da 0 a 6 anni) morti rispetto ai morti totali oscilla da uno spaventoso 74,4% del 1701 (quasi replicato da un 70,7% del 1731) – e come non sospetta- re l’azione di un qualche agente patogeno infantile – ad un minimo del 31,1% del 1720. Il valore medio si aggira intorno al 45,7%, cioè mediamente quasi la metà dei morti aveva un’età compresa tra zero e sei anni.

Cori Valle. Morti (1732-1765)

Entro il 6° anno In tota- Entro il 6° an- In totale le no 1732 31 - (43,0%) 72 1749 19 - (33,3%) 57 1733 32 - (35,5%) 90 1750 38 - (42,7%) 89 1734 70 - (64,2%) 109 1751 20 - (31,7%) 63 1735 34 - (53,1%) 62 1752 27 - (30,3%) 89 1736 38 - (51,3%) 74 1753 26 - (31,7%) 82 1737 63 - (37,0%) 170 1754 23 - (31,9%) 72 1738 28 - (32,9%) 85 1755 66 - (75,0%) 88 1739 37 - (45,7%) 81 1756 22 - (48,9%) 45 1740 39 - (42,8%) 91 1757 24 - (70,5%) 34 1741 77 - (53,1%) 145 1758 18 - (38,3%) 47 1742 58 - (54,7%) 106 1759 18 - (45,0%) 40 1743 34 - (40,5%) 84 1760 38 - (38,0%) 100 1744 31 - (41,3%) 75 1761 61 - (57,0%) 107 1745 21 - (32,3%) 65 1762 39 - (50,6%) 77 1746 31 - (42,5%) 73 1763 23 - (37,7%) 61 1747 31 - (43,0%) 72 1764 58 - (45,6%) 127 1748 54 - (57,4%) 94 1765 28 - (31,5%) 89

Tab. 3. Morti entro il sesto anno di età e morti in totale tra il 1732 e il 1765. I valori ripor- tati si riferiscono alle tre parrocchie di santa Maria della Pietà, san Michele Arcangelo e san Salvatore. Mancano i dati di santa Caterina. Tra parentesi sono riportate le percentua- li dei bambini morti rispetto ai morti totali.

In tabella 3, che considera però solo i dati di tre parrocchie, tra i periodi “dif- ficili” spiccano il 1734, quando la grandine aveva «delapidato» i territori di Sermoneta, Norma, Cisterna, Velletri e Cori, «a segno che de campi non sono stati mietuti, e le vigne si dicono vendemmiate»90; il periodo tra l’agosto 1737 e l’aprile 1738, quando nella parrocchia di santa Maria della Pietà morirono ben 111 persone; il quadrimestre settembre-dicembre del 1741, quando fu regi- strato in tutte e tre le parrocchie un elevato numero di morti; il bimestre luglio- agosto 1755, quando ancora nella parrocchia di santa Maria si sviluppò una qualche forma di infezione che uccise ben 25 bambini sotto i 6 anni, interes- sando più debolmente le altre due parrocchie e infine la crisi del 1764, quando

90 GIAMMARIA, Le proprietà … cit., p. 144. 57

in seguito alla carestia si sviluppò probabilmente una grave infezione di tifo (come ho gia detto di tale fenomeno non ho trovato nemmeno un cenno nei do- cumenti d’archivio, ma esso è ben documentato altrove91). Come si vede, la percentuale dei bambini morti rispetto ai morti totali tocca il massimo nel 1755, quando raggiunge addirittura il 75%; vale a dire che ben tre morti su quattro avevano un’età compresa tra zero e sei anni! La percentuale più bassa è quella del 1732, con il 30,3%, mentre la percentuale media si ab- bassa leggermente rispetto al trentennio precedente, attestandosi sul 44,4%. Microbi e batteri avevano vita facile. L’azione di agenti infettivi è sospettabile in molti dei casi registrati92. Come non pensare poi che proprio dell’infezione che accompagnò la carestia del 1764 morirono Simone, 1 anno, figlio del me- dico condotto Domenico Galeotti e Francesca, 6 anni, figlia del chirurgo con- dotto Ludovico Pantaleoni 93. Dovendo curare i malati, probabilmente finirono per portarsi in casa qualcosa di brutto. La mortalità infantile era molto elevata e le condizioni igieniche in generale erano quelle che erano, per cui poteva capitare ad un genitore di perdere in po- co tempo diversi figli94. A peggiorare la situazione contribuiva la scarsa attenzione verso le gestanti, come testimoniano i casi di bambini nati per loro sfortuna in carcere, battezzati dall’ostetrica e morti subito dopo95. E’questa un’indicazione della condizione della donna, tenuta in prigione anche se in procinto di partorire!

91 Anche a Norma è documentato un aumento della mortalità per gli anni 1763-64 (DE MEI, Norma … cit., p. 129). 92 Come ad esempio in quello di Martino, “projectus” del Santo Spirito in Sassia, nutri- to da Marta moglie di Marco, morto sette giorni prima di Teresa, figlia della coppia (ASM, parrocchia di san Michele, Morti, registro 3 (24 e 31 dicembre 1734), oppure nel caso di Maddalena, morta due giorni dopo il figlio neonato Agostino e sei giorni prima di Filippo, altro figlio di 11 anni (ASM, parrocchia di san Salvatore, Morti, b. 5, registro 2 (16,18 e 24 marzo 1707). 93 ASM, parrocchia di santa Maria, Morti, b. 9, registro 8 (29 settembre e 16 ottobre 1764). 94 Come accadde ad Angelo, che vide morire la figlia Santa di 11 anni e pochi giorni dopo Angela, di 2 giorni (ASM, parrocchia di san Michele, Morti, registro 3 (29 agosto e 4 settembre 1733) o a Giovan Battista, che perse Caterina, di 2½ anni e subito dopo Agnese, di 4 anni (ASM, parrocchia di san Michele, Morti, registro 4 (16 e 21 agosto 1753) oppure al già ricordato chirurgo Pantaleoni, che nel 1765 vide morire Francesco, il figlio appena nato (ASM, parrocchia di santa Maria, Morti, b. 9, registro 8 (31 di- cembre). 95 ASP, parrocchia dei santi Pietro e Paolo, Liber mortuorum VIII, (29 luglio 1783); ASM, parrocchia di santa Maria, Morti, b. 10, registro 10 (2 maggio 1798). 58

Cori Valle. Morti (1766-1799)

Entro il 6° an- In tota- Entro il 6° an- In totale no le no 1766 45 - (51,7%) 87 1783 35 - (32,7%) 107 1767 22 - (37,2%) 59 1784 28 - (31,4%) 89 1768 23 - (28,0%) 82 1785 85 - (59,4%) 143 1769 34 - (43,6%) 78 1786 22 - (32,3%) 68 1770 41 - (47,1%) 87 1787 33 - (43,4%) 76 1771 33 - (49,3%) 67 1788 40 - (37,4%) 107 1772 30 - (34,5%) 87 1789 29 - (41,4%) 70 1773 53 - (61,6%) 86 1790 52 - (55,9%) 93 1774 14 - (38,9%) 36 1791 30 - (44,8%) 67 1775 33 - (52,4%) 63 1792 9 - (18,4%) 49 1776 42 - (65,6%) 64 1793 45 - (36,9%) 122 1777 43 - (66,1%) 65 1794 71 - (55,0%) 129 1778 39 - (52,0%) 75 1795 20 - (24,7%) 81 1779 39 - (50,6%) 77 1796 24 - (32,0%) 75 1780 63 - (50,8%) 124 1797 36 - (38,3%) 94 1781 32 - (34,8%) 92 1798 42 - (46,7%) 90 1782 26 - (34,2%) 76 1799 42 - (51,2%) 82

Tab. 4. Morti entro il sesto anno di età e morti in totale tra il 1766 e il 1799. I valori riportati si riferiscono alle tre parrocchie di santa Maria della Pietà, san Michele Arcangelo e san Salvatore. Tra parentesi sono riportate le percentuali dei bambini morti rispetto ai morti tota- li.

La tabella 4 analizza l’ultimo terzo del secolo. Nel 1780 sia la mortalità infan- tile che quella degli adulti è elevata per tutto l’anno e non sembra legata a crisi specifiche96. Nel 1785, anno a mortalità elevatissima, il quadrimestre settem- bre-dicembre segna un picco di quella infantile, tanto che nelle tre parrocchie considerate morirono ben 61 bambini. Dei 71 bambini morti nel 1794, 47 peri- rono nei due mesi di ottobre e novembre. Da segnalare l’eccezionalità del 1774, l’anno con meno morti: 36, con solo 14 bambini. La percentuale dei bambini morti rispetto ai morti totali tocca il massimo nel 1777, con il 66,1%, e il minimo nel 1792, con il 18,4% (morirono solo 9 bambini), mentre la per- centuale media si abbassa leggermente rispetto al trentennio precedente, atte- standosi sul 43,5%. Nel caso di Cori Monte, l’esiguità del numero dei registri che si sono conserva- ti (entrambe le chiese parrocchiali sono state infatti distrutte dai bombardamen- ti del 1944), non permette un’indagine analitica.

96 A Norma una qualche forma di epidemia colpì l’anno precedente, quando morirono 100 persone, più del doppio della media (DE MEI, Norma … cit., p. 129). 59

Cori Monte. Morti (1700-1785)97

Entro il 6° an- In tota- Entro il 6° an- In totale no le no 1700 8 - (40,0%) 20 1773 39 - (66,1%) 59 1701 28 - (80,0%) 35 1774 12 - (54,5%) 22 1733 12 - (63,2%) 19 1775 10 - (55,5%) 18 1734 15 - (68,2%) 22 1776 21 - (53,9%) 39 1735 6 - (30,0%) 20 1777 13 - (72,2%) 18 1736 10 - (52,6%) 19 1778 8 - (34,8%) 23 1737 17 - (39,5%) 43 1779 23 - (50,0%) 46 1738 15 - (38,5%) 39 1780 20 - (51,3%) 39 1739 6 - (35,3%) 17 1781 17 - (39,5%) 43 1740 13 - (48,1%) 27 1782 18 - (34,0%) 53 1741 23 - (57,5%) 40 1783 14 - (32,5%) 43 1771 14 - (51,9%) 27 1784 16 - (29,7%) 54 1772 9 - (47,4%) 19 1785 33 - (56,0%) 59

Tab. 5. Cori Monte. Morti entro il sesto anno di età e morti in totale tra il 1700 e il 1785. Gli anni sottolineati si riferiscono ai dati della parrocchia dei santi Pietro e Paolo; i re- stanti anni sono relativi ai dati della parrocchia di santa Maria della Trinità. Tra parentesi sono riportate le percentuali dei bambini morti rispetto ai morti totali.

Come si vede dalla tabella 5, i dati per Cori Monte sono molto frammentari, ma anche se non permettono di definire un quadro completo e non coprono purtroppo il periodo della carestia, pure offrono delle indicazioni preziose. Anche nella parrocchia dei santi Pietro e Paolo si registra un aumento della mortalità infantile nel 1701; il 1773 è un anno di forte mortalità (e due morti su tre hanno meno di 6 anni); il 1785, in linea con il resto del paese, è ancora un anno difficile. Per quanto riguarda santa Maria della Trinità, il biennio 1733-1734 è marcato da una forte mortalità infantile, che raggiunge quasi il 70%, abbassandosi poi fino al 30% nel 1739. Per quanto riguarda la natalità, che pure è in qualche maniera collegata con le variazioni socio-economiche e sanitarie, i dati disponibili sono più abbondanti, anche se non completi. Dal 1700 al 1702 e dal 1720 al 1741 sono disponibili le registrazioni dei battezzati in entrambe le parrocchie. Per il periodo successivo, che purtroppo non copre il trentennio 1742-1770, si sono conservati i soli regi- stri della parrocchia dei santi Pietro e Paolo.

97 I dati provengono da: ASP, parrocchia dei santi Pietro e Paolo, Liber mortuorum (1680 feb 17 – 1701 ott 19) e Liber mortuorum VIII (1771 gen 2 – 1785 dic 31); parroc- chia di santa Maria della Trinità, Liber quintus mortuorum (1733 apr 3 – 1741 nov 8). 60

Cori Monte. Bambini nati S. Maria S. Pietro S. Maria S. Pietro 1700-1704 78 (1700-1702) 163 1740-1741 56 81 1705-1709 199 … 1710-1714 180 1771-1774 155 1715-1719 183 1775-1779 181 1720-1724 94 184 1780-1784 165 1725-1729 119 182 1785-1789 160 1730-1734 131 194 1790-1794 184 1735-1739 134 166 1795-1799 192

Tab. 6. Cori Monte. Bambini nati nel corso del XVIII secolo.

È possibile elaborare un grafico che, limitatamente al periodo 1720-1741, è relativo alle due parrocchie. Per il periodo precedente e, parzialmente, per quello successivo, il grafico si riferisce invece alla sola parrocchia dei santi Pietro e Paolo.

Graf. 2. Cori Monte. Con la linea continua sono indicati i bambini nati nel periodo 1720- 1741 nelle due parrocchie, mentre la linea spezzata indica i bambini nati nella sola par- rocchia dei santi Pietro e Paolo.

La frammentarietà dei dati non permette conclusioni, anche se sembra che ci sia una tendenza verso una diminuzione della natalità nei periodi segnati da e- levata mortalità, come ad esempio nel quinquennio 1780-1784. 61

Conclusioni Da quanto su esposto mi sembra di poter concludere che se è evidente che ne- gli anni di carestia ci fu un aumento della mortalità – forse a causa di una infe- zione (tifo?) che si sviluppò in seguito all’abbassamento delle difese biologiche in conseguenza del peggioramento delle condizioni alimentari –, quella del 1763-64 non fu né l’unica né la peggiore delle crisi demografiche a Cori nel corso del XVIII secolo. Molto più duri furono gli anni 1701, 1707-9, 1725, 1731, 1741 e 1785, quando si raggiunsero picchi di mortalità ben maggiori. Probabilmente, visto l’impatto che ebbe la carestia sulle altre comunità dello Stato e all’estero, le misure adottate dal comune di Cori, se non impedirono un deciso peggioramento nelle condizioni alimentari dei cittadini, almeno riusci- rono ad evitare quel completo tracollo che invece conobbero altre realtà. Mi sono chiesto come potessero i nostri maggiori fare fronte a tanto dolore; le per- sone di quell’epoca erano più corazzate di noi, più dure, più forti? Oppure c’era una certa abitudine alla morte, una sorta di immunizzazione? L’alta natalità, l’elevato – in genere – numero di figli e un certo rassegnato fatalismo di fronte all’ineluttabilità del destino, inducevano forse un diverso atteggiamento verso la perdita dei propri cari. Tuttavia Sante Laurienti, il nostro primo storico loca- le, nel descrivere i sentimenti di un padre verso la figlia scomparsa, tratteggia una realtà diversa; nel suo dramma La ritrovata Oliva fa dire ad Agostino, pa- dre della bambina Oliva:

Ma vince di gran lunga Ogni ardore, ogni amor l’amor de figli, Massime quand’al mondo unico, e solo Ti ha dato il Cielo un amoroso figlio Ahi che perdendo lui Si perde il cor, la forza, i sensi, e l’tutto.

Isabella, moglie di Agostino, rivolgendosi al prete Artemio aggiunge:

Tu non hai mai provato haver figliuoli, Né sai che cosa sia l’amor di quelli, S’il provassi, diresti: io stimo, e tengo Non essere dolore 98 Del perdere i suoi figli, ohimè, maggiore .

Non mi pare che si tratti di sentimenti ovattati.

98 S. LAURIENTI, La ritrovata Oliva, Viterbo, Diotallevi, 1632, Atto II, Scene prima e seconda (Ristampa anastatica in F. MORONI, La Madonna del Soccorso e la sacra rappresentazione di Sante Laurienti: La ritrovata Oliva, Pontinia, Grafica 87, 2007, pp. 101-197). 62

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Canonicato e presenza francescana a Sermoneta a metà Quattrocento ______VINCENZO LIFRANCHI

In un recente studio ho messo in evidenza come gli enti ecclesiastici sermo- netani vivessero, nella prima metà del XV secolo, a stretto contatto con comu- nità di carattere confraternale che gradualmente iniziavano a modificare, in se- no alla società dei fedeli, le espressioni della devozione, riconducendole, sep- pur con ritardo, alle esperienze di matrice laica riscontrabili nelle maggiori re- altà cittadine italiane. In particolare, ho dedicato gran parte di quella trattazione a far emergere la presenza significativa di confraternite a carattere ospedaliero, alle quali la popolazione iniziava ad aderire in termini di lasciti, donazioni e partecipazione, determinando l’ allargamento della sfera religiosa verso forme più tipicamente laicali1. Intendo riprendere in questo breve contributo le tematiche relative alla condi- zione del canonicato, in special modo concentrando la ricerca sugli aspetti del- la sussistenza economica, degli spazi religiosi, della composizione dei capitoli e del rapporto di difficile coesistenza del clero con gli Ordini mendicanti. Il quadro che si cercherà di tracciare intende portare alla luce una situazione di immobilismo e precarietà degli enti ecclesiastici, dovuta non soltanto all’ esi- guità del numero di canonici presenti nel castrum, ma anche alla loro incapaci- tà di gestire i patrimoni fondiari di pertinenza degli enti medesimi.

Le risorse patrimoniali di enti ecclesiastici e luoghi pii La sopravvivenza economica degli enti ecclesiastici e delle confraternite laicali di Sermoneta è indissolubilmente legata a due tipologie di entrate: quelle rela- tive alla cura animarum e le rendite dei patrimoni e delle pertinenze fondiarie. Dallo studio dei documenti notarili2 è emerso come gli enti ecclesiastici e le

1 Cfr. V. LIFRANCHI, Sermoneta pia: laici, chierici e vita di devozione in Marittima nel XV secolo, in corso di pubblicazione in Latium. 2 Il lavoro citato (cfr. supra, nota 1) ed il presente sono basati sullo studio dei cartulari del notaio quattrocentesco Antonio Tuzi, conservati presso l’archivio di Stato di Latina 64

confraternite si approvvigionassero di ceri, lanterne, paramenti ed arredi sacri attraverso il fertile canale delle donazioni pro anima. Nei testamenti dei ser- monetani è inoltre costante il riferimento al pagamento della decima, per la quale, però, si ignora se il versamento sia effettivamente da attribuirsi a decime sacramentali o a entrate di natura patrimoniale. In ogni atto è previsto, comun- que, una somma di denaro esigua pro satisfactione decimarum, accompagnata dal denaro pro tummatico (l’inumazione)3. La chiesa che sembra trarre maggiore vantaggio economico dal funerale è quel- la prescelta come ultima dimora, i cui chierici partecipano, in testa al corteo funebre, portando le insegne della parrocchia, ma sembra verosimile che anche i membri delle fratansie, proprio perché destinatari di somme in denaro o di provvigioni di cera, partecipino al corteo come accompagnatori graditi4. Accanto a questi lasciti, però, le principali collegiate e le confraternite entrava- no in possesso di beni immobili (case, seminativi, vigne) assegnate loro da qualche testatore particolarmente devoto, il quale ne lasciava comunque ai pro- pri eredi l’usufrutto finché fossero rimasti in vita. Quanto più era stato forte, in vita, il legame con la dimensione della carità, tanto più, al momento della mor- te, tale legame si configurava come una redistribuzione di beni presso un gran numero di enti ecclesiastici. In moltissimi testamenti vi sono lasciti esigui di denaro in opere per la ristrutturazione degli edifici sacri di Sermoneta, i quali necessitano tutti di lavori di ristrutturazione, mentre emerge, in alcuni casi, la volontà che all’eventuale morte degli eredi subentri nell’eredità questo o quell’ente religioso. Nel suo testamento, Antonio di Napoli, speciarius, stabili- sce che «in reliquis autem bonis sue hereditatis adveniente conditione predicta [la morte in giovane età dei suoi figli] substituit omnes alias ecclesias sermineti inter ipsas pariter dividendos»5.

(Archivio di Stato di Latina, Fondo notarile di Sermoneta, bb. 49/51: da qui in avanti ASLT, FnSermoneta). Per la descrizione del supporto documentario ed un parziale re- gesto relativo al primo trentennio del Quattrocento, rimando al mio lavoro di tesi, in copia presso la biblioteca dell’Archivio di Stato di Latina: V. LIFRANCHI, Sermoneta nel primo ’400: una comunità in crescita dalle carte del notaio Antonio Tuzi, Tesi di Laurea in Storia economica e sociale del Medioevo. Relatrice prof.ssa M.T. Caciorgna, correlatrice prof.ssa S. Boesch Gajano. Università degli Studi di Roma Tre, Anno ac- cademico 2001-2002. 3 S. CAROCCI, Tivoli nel basso medioevo. Società cittadina ed economia agraria, Roma 1988, p. 157, nota 1, considera come la storiografia sull’argomento non sia unanime- mente concorde nell’assegnare alla decima ecclesiastica, relativamente all’area laziale, un ruolo di rilievo. 4 Per una casistica similare cfr. ivi, pp. 157sgg.. M. VOVELLE, La morte e l’Occidente, Roma-Bari 1993, p. 18, propone un’interessante descrizione del corteo funebre nell’Italia di fine Quattrocento (descrizione suffragata da riferimenti iconografici): il corpo viene trasportato verso la sepoltura prescelta in una bara di legno provvisoria; i ricchi riposeranno infatti in sarcofagi di pietra, mentre i poveri direttamente nella terra. 5 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 7, f. 1r. 65

Solo in pochi atti, invece, si riscontra una grande redistribuzione dei beni. Un caso esemplare è rappresentato dal testamento di Antonio Di Pacco, laicus de Sermineto, con probabilità membro di una delle confraternite sermonetane. Nel suo testamento dispone un lascito per le confraternite di Sermoneta, consistente nell’acquisto di dieci capi di bestiame, di un fiorino per la copertura della chie- sa di S. Antonio e di due fiorini per la ristrutturazione di S. Angelo. Stabilisce, inoltre, che alla morte dei suoi eredi diretti subentri nell’eredità il monastero di Marmosolio, per le vigne, e che la sua casa sia venduta ed il denaro impiegato per le opere di riparazione delle chiese di Sermoneta. Ancora, dispone che 18 fiorini siano impiegati per l’acquisto di due calici per le chiese di S. Maria e S. Angelo di Sermoneta. Dopo la morte dei suoi nipoti, i beni loro assegnati sa- ranno affidati in usufrutto perpetuo alla chiesa di S. Angelo. Non mancano i lasciti alle persone fisiche: il cappellano di S. Angelo riceve una sua terra se- minatoria, i presbiteri di S. Maria di Sermoneta una sua terra in contrada E- schieto6. È inoltre possibile che i lasciti di immobili alle chiese derivino da testatori non residenti, i quali intendono così beneficiare gli enti ecclesiastici dei luoghi d’ origine per rinsaldare, anche dopo la morte, il legame con essi, vincolando le proprie pertinenze fondiarie. Il notaio Giacomo Pistillioni, verosimilmente di origine ceccanense, dispone che tutti i suoi possedimenti interni ed esterni al castrum di Ceccano vengano lasciati alla chiesa di S. Maria in Flumine e ai confratelli della chiesa di S. Giovanni di Ceccano7. L’assegnazione di beni immobili alle chiese, però, non è necessariamente indi- ce di una ricchezza acquisita. Se è vero che la distribuzione della proprietà ecclesiastica doveva essere caratterizzata da profonde disuguaglianze, bisogna sottolineare come anche gli enti destinatari di lasciti maggiori non sempre fos- sero in grado di gestirli per ricavarne buone rendite8. Ogni qualvolta, negli atti, compare un ente ecclesiastico come locatore di una proprietà, ci si trova di fronte a clausole contrattuali che prevedono l’affitto a tre generazioni o in perpetuo; in pochissimi casi la locazione si limita a cinque anni. Appare dunque evidente che le locazioni di lunga durata, se da un lato e- rano tese a ricompensare efficacemente gli sforzi del locatario, il quale nel lun- go periodo trovava la garanzia di poter lavorare e sfruttare al meglio i terreni affidatigli, dall’altro soffocavano quel dinamismo produttivo così necessario per risollevare le sorti finanziarie delle comunità religiose, le quali affidando il proprio sistema di sfruttamento alla ricezione di rendite fisse per lunghi periodi di tempo, si sottoponevano non soltanto al rischio di svalutazione della moneta, ma anche a tutta una serie di ulteriori rischi legati, ad esempio, alla qualità del- la conduzione della terra, o all’eventualità che nel tempo si perdesse traccia del negotium a scapito dell’ente concedente. Questa linea di comportamento, ten-

6 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 8, f. 5v. 7 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 8, f. 35v. 8 Una palese immobilità dei beni fondiari viene rilevata da CAROCCI, Tivoli nel basso medioevo, p. 177. 66

dente ad uno sfruttamento finanziariamente inadeguato delle proprie pertinenze da parte degli enti ecclesiastici, si riscontra peraltro anche nei territori di Cam- pagna, per i quali gli studi compiuti da Alessandra Mercantini e Antonella Nel- li dimostrano sostanzialmente la sussistenza delle medesime condizioni con- trattuali 9. A Sermoneta, la quantità del patrimonio ecclesiastico, ove anche fosse ingente, era diffusamente caratterizzata, dunque, da una certa immobilità che lasciava prevedere, per le parrocchie più piccole, una prematura scomparsa o quanto- meno una prolungata indigenza; lo prova il fatto che all’interno di questi do- cumenti in genere si trovano esplicitamente premesse le motivazioni che spin- gono i Capitoli ad affittare o a vendere. Le giustificazioni maggiormente ricor- renti fanno riferimento a due parametri ineludibili: la povertà in cui attualmente versa la chiesa in questione e l’auspicabile proficuità del negotium in corso, sebbene il diritto canonico prevedesse una serie di pronunciamenti proprio con- tro i contratti enfiteutici ed a lungo termine. Le istituzioni ecclesiastiche, però, tesero costantemente ad aggirare i divieti richiamandosi, nei contratti, a quelle necessità di particolare gravità ed imminente indigenza che risultano costante- mente presenti anche nei contratti da me presi in esame 10.

La ristrutturazione e la trasformazione degli spazi religiosi Ho già più volte sottolineato come tutte le chiese di Sermoneta necessitassero di lavori di mantenimento e ristrutturazione; in larga parte, queste spese erano finanziate dai lasciti in opere dei testatori e dalle elemosine dei fedeli. Cantieri aperti, dunque, le chiese di Sermoneta, che offrono un quadro ben rispondente al movimento di una società in espansione, la quale richiede spazi rinnovati per il culto e per la preghiera. In questa direzione sembra muoversi, ad esempio, la confraternita di S. Anto- nio de Vienne, attraverso l’atto (già in precedenza menzionato), attraverso cui il questore pro elemosinis dell’Ordine antoniano per la provincia di Campagna e

9 Si veda il volume Terra e lavoro nel Lazio meridionale. La testimonianza dei contrat- ti agrari (secoli XII-XV), a cura di G. GIAMMARIA e A. CORTONESI, Roma-Bari 1999, in particolare i saggi di A. MERCANTINI, I contratti agrari negli archivi di Alatri, Ca- samari, Ferentino, Guarcino, Trisulti e Veroli. Note per una rassegna, ivi, pp. 58-74 e di A. NELLI, Il patrimonio fondiario della Chiesa anagnina nel Duecento e nella prima metà del Trecento, ivi, pp. 75-99. Nel proprio contributo, la Mercantini rileva come dal Quattrocento, in particolare per l’area verolana, si registri una tendenza a migliorare le tipologie contrattuali: breve durata e presenza di un alto numero di clausole imposte dall’ente locatore, a tutto vantaggio di un più efficace sfruttamento dei beni. Un’ottima introduzione alla contrattualistica agraria è fornita da A. CORTONESI, Per un’indagine sui contratti agrari del Lazio meridionale nei secoli XII-XV, ivi, pp. 10-23; per uno sguardo d’insieme sulla proprietà ecclesiastica alla fine del Quattrocento, si veda G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia. II/1. Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 875-974. 10 Sui pronunciamenti del diritto canonico in merito ai contratti enfiteutici CORTONESI, Per un’indagine, p. 11 e 19, nota 38. 67

Marittima ed il procuratore sermonetano di S. Antonio, concedono in appalto i lavori di ristrutturazione da compiere nella chiesa11. Il capitolo di S. Lorenzo dispone, invece, che si ristrutturi l’ampia scalinata d’ingresso alla chiesa, e che sopra di essa vengano edificate delle botteghe, avviando con molta probabilità anche quel processo di riconfigurazione architettonica della piazza Maggiore (successivamente del Mercato) che oggi accoglie la cosiddetta Loggia dei mer- canti12. In questo come in altri casi, si assiste ad un fenomeno di erosione dello spazio ecclesiastico per far posto alle attività commerciali, le quali erano inte- ressate indubitabilmente da un fenomeno di progressiva crescita quantitativa. La trasformazione del tessuto urbano, in un contesto abitativo limitato come quello di Sermoneta, avviene dunque a scapito degli enti ecclesiastici, costretti a cedere il proprio spazio per il miglioramento delle strutture commerciali e re- sidenziali13. In alcuni casi, però, la presenza nel rione di una chiesa importante condiziona le più semplici modifiche architettoniche. Cola Jardinelli14 vuole ricavare una nuova porta di ingresso per la sua abitazione in una parete prospiciente la piaz- za della chiesa di S. Angelo. Il capitolo di S. Angelo, riunitosi appositamente per deliberare, gli concede di attuare il progetto ma vieta al bonum parrocchia- num di tenere asini o altre bestie in prossimità della porta, nonché di caricare o scaricare merci a mezzo di animali; infine, dispone che qualora sia necessario costruire un altro edificio adiacente alla piazza, Cola dovrà chiudere con assi la porta o murarla definitivamente. In questo caso lo spazio sacro adiacente alla chiesa non va corrotto con operazioni commerciali, ma il capitolo stesso pren- de coscienza che la piazza potrà accogliere, prima o poi, nuove strutture abita- tive. Anche la pratica di creare all’interno delle chiese nuove cappellanie (ossia cappelle adiacenti allo spazio liturgico, provviste di arredi sacri e di un proprio cappellano che ne curi la manutenzione e gli interessi) trova uno sfogo limitato che si traduce semplicemente nell’addossare un altare alle pareti o ai pilastri dell’edificio. Nel suo testamento, Maria di Giacomo Rizzi lascia soltanto 10

11 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 11, f. 1r. 12 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 8, f. 30v. 13 Nonostante a Sermoneta il popolo vivesse una stretta vicinanza fisica con il luogo di culto, data la fitta configurazione del tessuto urbano, i cittadini sermonetani sono iden- tificati, negli atti notarili, attraverso dati onomastici e le loro abitazioni o possedimenti sono contestualizzate in un rione, in una decarcia, in una contrada, quasi mai in riferi- mento alla vicinanza con una chiesa o con un bene di proprietà ecclesiastica; sul tema cfr. G. BARONE, Chierici, monaci e frati, in Roma medievale, a cura di A. VAUCHEZ, Roma-Bari 2001, p. 203. La studiosa mette in luce il medesimo fenomeno per i cittadi- ni romani, per l’identificazione dei quali, negli atti notarili, nulla si deve – o quasi – alla geografia religiosa dell’Urbe. 14 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 7, f. 12v. 68

fiorini alla chiesa di S. Maria per la costruzione dell’altare-cappella in cui vuol essere sepolta, e per qualsiasi altra opera in essa si voglia realizzare15. Il primo Quattrocento non sembra essere, per Sermoneta, un secolo di costru- zioni ex novo di luoghi sacri, bensì un periodo votato alle ristrutturazioni e agli abbellimenti delle strutture preesistenti16. La causa di questo fenomeno sembra individuabile nella dimensione ridotta dello spazio urbano, così come ad una generalizzata scarsezza di fondi, ascrivibile all’immobilità gestionale dei pa- trimoni che inibisce la progettazione di modifiche significative. Come si è già sottolineato, anche per questo motivo – nonché per la loro funzione di assisten- za ai viaggiatori lungo le principali vie di transito – la presenza degli Ordini caritativo-assistenziali a Sermoneta fu relegata all’esterno dell’abitato principa- le, dove sorsero le loro strutture di culto e accoglienza.

La composizione dei capitolo Alla luce degli atti di Tuzi, trovano conferme e smentite i dati sulla composi- zione dei capitoli delle collegiate di S. Maria, di S. Lorenzo e di S. Angelo, ri- spetto a quanto riportato dall’erudito canonico sermonetano Pietro Pantanelli17. Alla formazione dei capitoli concorrevano, nel Medioevo, una serie di elementi talvolta in contrasto tra loro. Da un lato, com’è ovvio, il desiderio del capitolo stesso poteva essere quello di provvedere autonomamente al proprio recluta- mento; dall’altro anche il vescovo aveva interesse a riservarsi alcune nomine interne ai capitoli delle collegiate o delle chiese più strategicamente importanti per il proprio mandato. I signori, non da ultimo, riponevano un interesse di or- dine economico-politico, legato ad accrescere, attraverso i canonici da essi candidati, i legami di fedeltà della chiesa locale alla propria famiglia18. Sebbe- ne il regime dei rapporti fosse frequentemente votato allo jus simultaneae col- lationis, e pertanto volto alla collaborazione formale tra vescovo, capitolo e si- gnore, è evidente che le piccole realtà rurali, animate non solo da un'applica- zione non ben definita del diritto canonico, ma anche da una serie di interessi particolari di stampo localistico da parte di vescovi e signori, dovessero presen- tare situazioni via via differenti. Giulia Barone sottolinea, ad esempio, come il reclutamento dei capitoli delle grandi basiliche romane dovesse essere compiuto quasi certamente tra i gruppi aristocratici, all’interno dei quali era possibile individuare il predominio di al- cune famiglie; una conclusione cui perviene anche Sandro Carocci esaminando gli assetti ecclesiastici di un centro minore come Tivoli19.

15 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 8, f. 27r. 16 Questo dato è assimilabile alla situazione analizzata per la realtà di Tivoli da CA- ROCCI, Tivoli nel basso medioevo, p. 178. 17 P. PANTANELLI, Notizie storiche della Terra di Sermoneta, 2 voll., Roma 1908-1909. 18 Cfr. G. LE BRAS, Le istituzioni ecclesiastiche della cristianità medioevale, in Storia della Chiesa, XII/2, Torino 1974, pp. 508 e sgg. 19 Cfr. CAROCCI, Tivoli nel basso medioevo, p. 127sgg.; BARONE, Chierici, monaci e frati, p. 201sgg. 69

La realtà di Sermoneta, in un ambito ancora più ristretto, presenta una situazio- ne non dissimile, caratterizzata da due elementi fondamentali: la partecipazione e l’accesso di un ristretto numero di famiglie alle cariche religiose e, in partico- lare, al canonicato; l’accentramento nelle mani di pochi individui di diversi in- carichi e benefici. Se a Roma e nei centri maggiori d’Italia, si assiste a veri e propri meccanismi di ascesa sociale all’interno dei rioni cui faceva capo l’ente ecclesiastico20, a Sermoneta lo spazio che interessa l’attribuzione delle cariche ecclesiastiche riguarda l’area più ristretta del castello. Il massimo della carica a cui un canonico può aspirare è la funzione di archipresbiter, che reca con sé il vicedominatus del vescovo di Terracina; il resto si riduce – per così dire – for- malmente all’accesso ad una qualche prebenda in seno al capitolo della chiesa cattedrale o alla gestione di una piccola parrocchia. D’altra parte, però, anche il semplice attendere ad uno di questi incarichi com- portava l’incameramento di un beneficio praticamente vitalizio. Non solo i be- nefici istituiti presso le collegiate, ma anche quelli legati ad enti minori o addi- rittura scomparsi, persistono nei secoli a venire. Sul finire del secolo XIX, nelle referte di catasto della comunità sermonetana, si trovano ancora iscritti terreni seminativi di cui godono il priore e i beneficiati di S. Pietro in Corte (chiesa scomparsa agli inizi del ’500), di S. Antonio (in stato di fatiscenza già dal XV secolo) e di S. Lorenzo21. Né sembra, oltretutto, che le decime riscosse dalla Chiesa nel Lazio, in partico- lare nei territori di Marittima, potessero incidere corposamente sulle uscite per- sonali dei canonici. A Sermoneta, la decima interessa (negli anni trenta del se- colo XIV) i chierici di S. Nicola per un totale di 15 soldi, i chierici di S. Pietro per 20 soldi, la chiesa di S. Angelo per 18 soldi, i chierici di S. Lorenzo per 5 soldi e l’arciprete e i canonici di S. Maria per un totale di 7 libbre e 10 soldi22. Tra le famiglie più importanti di Sermoneta, per vicinanza e per fedeltà al signore, troviamo i Razza, i Quatrassi e i Porcelli. Attorno a queste gravitano una serie di personaggi appartenenti a famiglie di minore importanza, ma pur sempre presenti, in alcuni casi da generazioni, tra il clero sermonetano23. Queste famiglie minori che avevano accesso ai benefici canonicali si ritrovano menzionate, già da metà Trecento, anche in documenti che riguardano altri centri della Marittima. Ad esempio, il canonico di S. Pietro di Roccagorga è Pietro Gualis, mentre a Terracina si trova menzione di Clemente, Pietro e Cicco Perunto. La famiglia Perunti è inoltre attestata, sempre in ordine

20 Ivi, pp. 201-202, il caso dei canonici di S. Angelo, i quali rappresentano le maggiori famiglie di commercianti del pesce di Roma, in ascesa fra Tre e Quattrocento. 21 ASLT, Referta di Catasto del territorio di Sermoneta, reg. 484, 1865-70, ff. 79, 80 e 82. 22 Cfr. Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Latium, a cura di G. BATTELLI, Città del Vaticano 1946 (Studi e Testi, 128), p. 257 sgg. 23 Cfr. PANTANELLI, Notizie storiche, II, ad vocem. 70

runto. La famiglia Perunti è inoltre attestata, sempre in ordine all’accesso ai benefici canonicali, nelle chiese di Maenza (Pietro) e Sonnino (Pietro)24. Si tratta ora di comprendere se i dati siano da leggere nella direzione di un fe- nomeno – seppur modesto – di mobilità nel tempo, che interessava personaggi appartenenti a gruppi familiari in movimento da un centro della regione all'al- tro, al fine di conseguire incarichi ascrivibili all’esercizio di quello che si può oramai considerare, alla metà del Quattrocento, un vero e proprio mestiere, op- pure se l’attestazione negli atti del canonico titolare del beneficio faccia riferi- mento soltanto al beneficio stesso, separando l’assegnazione della prebenda dall’effettivo esercizio della cura d’anime. È verosimile, per quanto ci riguarda, che dove le condizioni numeriche dei ca- nonici erano modeste, la titolarità del beneficio potesse coincidere con l’esercizio della cura d’anime e che pertanto il movimento dei canonici da una sede all’altra dovesse avvenire non solo virtualmente. La geografia territoriale all’interno della quale sembrano avvenire i movimenti, inoltre, sembra abba- stanza ristretta da consentire ad un canonico di Priverno, ottenuto un beneficio a Sermoneta, di recarsi di persona a coglierne i pur magri frutti. Vi è da considerare, in ultimo, la grande attenzione prestata dai canonici ser- monetani a non perdere i privilegi economici derivanti dalle elemosine, che sempre con maggior consistenza si attribuivano a vantaggio dei francescani e delle confraternite laicali. All’interno dei capitoli delle chiese moltissimi di questi uomini si alternano e si incrociano con i membri delle famiglie di maggior prestigio. Nicola Porcelli, assieme a Cola di Nardo di Luca e Gilio di Giovanni Corradini, compare nel capitolo di S. Maria, in un beneficio del 1421, in qualità di clericus beneficia- tus 25. Nel 1423 troviamo, tra i canonici di S. Maria più eminenti, il dominus Leonar- do Porcelli, Lorenzino Quatrassi e Giovanni di Razza26. Anche i Giudici ave- vano un ruolo importante in questo capitolo: pur non essendo menzionato nel 1423, Giacomo Giudici, nipote del defunto arciprete di S. Maria, Giovanni, compare in un atto del 1422 come canonico della collegiata 27. Ancora nel 1423, i canonici di S. Lorenzo sono Nicola Porcelli, Giacomo di Razza e lo stesso Giovanni di Razza28. Nel 1424 i componenti del capitolo di S.

24 Cfr. Rationes decimarum. In particolare sulla famiglia Perunti cfr. M.T. CACIOR- GNA, Marittima medievale. Territori, società, poteri, Roma 1996, p. 28. Nella fattispe- cie, si tratta degli eredi di Giordano Pironti, vicecancelliere e notaio pontificio alla metà del XIII secolo; la famiglia Pironti/Perunti ebbe una notevole influenza su Terracina, dov’erano maggiormente incentrati i suoi interessi, e la Marittima, ancora fino agli inizi del ’300. 25 PANTANELLI, Notizie storiche, I, p. 430; di che tipo di beneficio si tratti non è dato d’intendere. 26 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 8, f. 28v. 27 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 7, f. 11r. 28 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 8, f. 30v. 71

Pietro in Corte sono, come si è visto, Cicco Perunti, che ne è il priore, Onofrio di Pietro Gualis, Antonio di Stefano Saccozzi, Antonio Di Matteo, Antonio di Cola di Gregorio e Francesco Cappelli di Sermoneta. Alla luce di questi dati, considerando che in essi si tratta di un esiguo numero di individui, si ha la conferma che le cariche canonicali, oltre ad essere nelle mani di poche famiglie eminenti (Porcelli, Razza, Quatrassi) e dei loro pochi esponenti, portassero con sé più un ruolo di gestione delle pertinenze economi- che, peraltro scarse, piuttosto che di cura animarum. La compresenza, nell’arco di pochi anni, degli stessi canonici in due capitoli differenti ci fa rile- vare anzitutto la situazione di precarietà di S. Lorenzo, la quale, pur ospitando in un primo momento i Frati minori trasferiti dalla chiesa di S. Giovanni di Ninfa29, non possedeva un proprio capitolo esclusivo; in secondo luogo la co- gestione di due enti differenti da parte del capitolo di S. Maria, non solo con- ferma l’individuazione dei due poli religiosi principali in S. Angelo e S. Maria, ma testimonia la situazione di grave crisi in cui versava l’istituto del canonica- to a Sermoneta nel primo trentennio del Quattrocento. Al di là degli appartenenti alle grandi famiglie, i canonici di più umile estra- zione erano gestori in prima persona di alcune modeste attività produttive, sempre nell’interesse della comunità ecclesiastica di appartenenza. Il presbiter Onofrio di Pietro Gualis30, membro del capitolo di S. Maria già dal 1421 e del capitolo di S. Pietro in Corte, riceve personalmente in locazione dal capitolo della collegiata un fraginale interno alle mura di Sermoneta, con lo scopo di renderlo nuovamente produttivo 31. In riferimento ai difficili anni della prima metà del Quattrocento, lo stesso Pan- tanelli scrive che «per causa della desolazione delle campagne, si viveva una vita assai miserabile; e li stessi ministri dell’altare, e canonici delle collegiate, erano necessitati da loro medesimi coltivare qualche porzione de’ terreni, per non morire di fame; né solamente la miseria li obbligava a lavorare il terreno, ma ad esercitare di più vili servigj per sostentarsi» 32. Nonostante le difficoltà economiche in cui le collegiate versavano, sappiamo che difficilmente venivano sospese le feste popolari in occasione del giorno di

29 PANTANELLI, Notizie storiche, I, p. 410. 30 Lo stesso presbitero che il 4 marzo 1428, in qualità di commissario del vescovo di Terracina Nicola de Aspera, nomina Antonio notari Angeli nuovo abate e rettore di S. Angelo, dopo la morte di Leonardo Porcelli (ASLT, b. 49, quat. 6 gennaio-4 aprile 1428, f. 23v.). 31 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 11, f. 33v. Il presbitero Onofrio di Petro Gualis viene menzionato, in atti concernenti gli anni 30 del secolo, in qualità di priore di S. Pietro e membro del capitolo di S. Maria Assunta. Muore verosimilmente nel 1447 (cfr. in ASLT, FnSermoneta, b. 50, quat. n. 54, il testamento ultimo del canonico). 32 PANTANELLI, Notizie storiche, I, pp. 452-453. 72

Pasqua, le quali prevedevano preparazione di torte a base di formaggio e uova, seguite dalla distribuzione al popolo dei fedeli33. Attraverso la locazione o, nei casi di maggiore bisogno, la vendita dei loro be- ni, i capitoli delle chiese di Sermoneta sembrano navigare a vista, operando una politica economica votata all’immobilismo e tesa a risolvere soltanto le ne- cessità contingenti ovvero a favorire il beneficio dei singoli, piuttosto che a strutturare una strategia di sfruttamento oculata dei beni che fosse progressi- vamente più redditizia.

Il mestiere di canonico: Leonardo Porcelli, abbas secularis ecclesie S. An- geli e canonico di S. Maria Un chiaro esempio della tenacia con cui i canonici rimanevano a guardia dei propri privilegi, è la vicenda dell’abate Leonardo Porcelli. Si è già detto della preminenza condivisa tra le collegiate di S. Maria Assunta e S. Angelo. La composizione del capitolo di quest’ultima, purtroppo, non ci è pervenuta nella sua interezza. Sappiamo che nel 1406 il rector ecclesie della collegiata, consacrata nel 1120 dal vescovo di Terracina Gregorio, è il religio- sus vir Leonardo Porcelli34. Nel 1411 lo stesso Leonardo è menzionato con il titolo di «Abbas ecclesiae S. Angeli de Sormineto ac vicarius generalis reve- rendi in Christo patris domini Antonii de Zagarolo, episcopi Terracinensis & c.» 35. Leonardo Porcelli ricopriva una sorta di doppio incarico, partecipando di diritto alle riunioni del capitolo di S. Maria, in qualità di arciprete, e assumendo per- sonalmente la rectoria della chiesa di S. Angelo, sprovvista evidentemente di clero referenziato per ricoprire tale incarico. In un atto del 1422 egli è ancora vicario generale del vescovo di Terracina, Andrea, ma è denominato venerabi- lis vir Leonardus Porcelli canonicus ecclesie S. Marie de Sermineto. Nell’incipit del suo testamento, rogato il 29 gennaio 1428, si qualifica ancora come abate secolare della chiesa di S. Angelo; dispone, però, di essere sepolto nella chiesa di S. Maria. Tutti i suoi lasciti, per la maggior parte in denaro sono indirizzati alla collegia- ta principale di Sermoneta, nonché ai canonici Nicola Porcelli (suo nipote) e

33 Ho messo in luce altrove, come anche in periodi di carestia, nel giorno di Pasqua il clero di S. Maria fosse dedito alla preparazione di torte da distribuire ai parrocchiani dopo la celebrazione, considerando questa occasione un imprescindibile momento di condivisione popolare (V. LIFRANCHI, Matrimonio e consuetudini alimentari a Sermo- neta nella prima metà del XV secolo da un inedito atto notarile, in Latium, 19 [2002], pp. 23 e sgg., in specie nota 26). Da un atto del 1443 sappiamo, infatti, che la locazione di una casa della collegiata di S. Maria stava per essere compiuta «praetextu et vigore emptionis casei et ovorum necessariorum pro caseatis paschalibus perficiendis, de mo- re solito, anno quolibet parrochianis eorum» (PANTANELLI, Notizie storiche, I, p. 454). 34 Ivi, I, p. 216. 35 Ivi, II, p. 416. 73

Onofrio di Pietro, evidenziando il saldo legame che lo ha unito a quell’istituzione ed ai propri confratelli36. L’abate è sposato, conferma le doti assegnate alle figlie, assegna denaro ai cu- gini ed al genero, Antonio Pilozzi; dispone che si celebrino messe di suffragio per la moglie Altadonna e per il cugino, il defunto notaio Mattia Porcelli. Af- ferma di aver fatto restaurare la chiesa di S. Maria di Ninfa, su consenso e ap- provazione di Petrum episcopum Pennensem e di Antonius de Zagarolo epi- scopum Terracinensis, facendone murare le porte secondarie per impedire lo scellerato bivacco degli armigeri e dei pastori e dotando la porta principale di serrature. Per finanziare questi lavori – ulteriore testimonianza di staticità delle pertinenze immobiliari della collegiata – ha fatto vendere un antifonario festi- vo, una pianeta e un dorsale d’altare. Istituisce erede universale suo figlio Gia- como, legittimato dall’autorità apostolica ad ottenere il beneficio del canonica- to e ad ereditare i suoi beni. Quest’ultima indicazione permette di rilevare come il canonicato, proprio per lo status di visibilità che comportava, nonché per gli introiti pecuniari supple- mentari ottenibili, fosse una condizione ambita tra le famiglie sermonetane, trasmissibile anche per una sorta di via ereditaria e soggetta a pratiche di nego- ziazione e compravendita37. Per altro verso, non c’è dubbio che il canonicato comportasse approvazione e fiducia da parte dei fedeli: moltissimi sermonetani nominarono infatti Leonardo Porcelli e il suo primo figlio Antonio, esecutori e fidecommissari dei propri testamenti, lasciando a favore dei due quod sufficiet.

Cenni sul difficile rapporto tra canonici secolari e Ordini mendicanti Le epidemie e le pestilenze cui Sermoneta andava ciclicamente soggetta, senza dimenticare l’azione distruttiva che dovette esercitare sulla popolazione la grande peste del 1348, furono probabilmente i fattori concomitanti che cau- sarono una drastica riduzione anche nel numero dei canonici. Se nelle Rationes decimarum del primo trentennio del XIV secolo gli enti ec- clesiastici di Sermoneta attivi e contribuenti risultano ben cinque38, neanche un secolo dopo la scarsità di canonici aveva costretto quei pochi rimasti a Sermo-

36 Cfr. ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. 6 gennaio-4 aprile 1428, f. 14v; il testamento dell’abate Leonardo Porcelli, abbas saecularis ecclesie S. Angeli de Sermineto. 37 Cfr. ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 7, f. 12v, in cui Giovanni di Antonio di Ro- berto è investito, nel 1422 del canonicato di S. Maria per una resignatio in favorem di Cola di Oddone, giurando poi, sul messale consacrato, di curare, osservare, difendere ed adempiere a tutte le bolle papali, le costituzioni episcopali, le consuetudini e le anti- che giurisdizioni della chiesa di S. Maria. Sulle resignationes in favorem cfr. D. HAY, La Chiesa nell’Italia rinascimentale, Roma-Bari 1979. Anche per quanto concerne il sistema delle ordinazioni dei canonici, della loro formazione e dei rapporti con i poteri forti dell’amministrazione ecclesiastica rimando al testo di HAY, sebbene piuttosto da- tato ed incline a fornire sul problema un quadro di generale lassismo, permeato da un sottile tono di sdegno. 38 Rationes decimarum, cit. 74

neta a suddividersi i benefici e gli incarichi rimasti vacanti, peraltro dando vita ad un meccanismo di gestione quasi monopolistico da parte di alcuni di loro. Del resto, è opportuno ricordare che parallelamente ad uno stato di crisi interna all’istituzione canonicale, nel corso del secolo si assistette ad una fioritura delle realtà confraternali, che contribuirono da un lato ad incrementare la partecipa- zione religiosa dei fedeli, ma anche a spostare quel baricentro economico (co- stituito dalle donazioni in opere, in arredi sacri, in beni immobili) che sino all’inizio del Trecento era proteso, quasi esclusivamente verso le casse della realtà secolare. In questo quadro sintetico troviamo forse le prime motivazioni che spinsero i canonici a chiudersi all’interno delle proprie prerogative sacramentali, nel ten- tativo di conservare quanto più a lungo possibile i benefici legati alla pietà dei fedeli. A fronte di una realtà ecclesiale dedita maggiormente alla conservazione delle proprie rendite piuttosto che alla cura d’anime, spettava al carisma fran- cescano veicolare nuove forme di spiritualità e promuovere nuovi culti, dando ulteriore impulso alle esperienze confraternali e al culto della Vergine39. Dun- que, non solo due atteggiamenti differenti nei confronti dei fedeli, ma anche un mondo, quello minoritico, nettamente lontano dalla ricerca del tornaconto per- sonale, che attraverso l’attività pastorale, l’assistenza, la presenza nelle strade, la predicazione (dove possibile) era in grado di stimolare un rinnovamento del- la fede ed una nuova fioritura nelle pratiche religiose40. A Sermoneta, però, le cose sembrano andare diversamente. Fin dal XIII secolo i Francescani erano presenti nella provincia di Campagna e Marittima a Terracina, a Priverno, a Sezze e a Ninfa, senza considerare che fungevano da riferimenti forti ed attivi per i lasciti testamentari anche nelle re- altà di Velletri, Albano e di Roma stessa. È proprio il testamento del sermone- tano Giovanni Sapiente, datato 16 febbraio 1266, a svelare questa piccola geo- grafia degli insediamenti sul territorio e a confermare, una volta di più, come

39 M.T. CACIORGNA, Sviluppo cittadino e culto dei santi nel Lazio medioevale (secoli XII-XV), in Santi e culti del Lazio. Istituzioni, società, devozioni, a cura di S. BOESCH GAJANO e E. PETRUCCI, Roma 2000 (Miscellanea della Società romana di Storia patria, XLI), pp. 327-367. 40 Per ciò che riguarda uno sguardo d’insieme sui Francescani e sul francescanesimo cfr. A. POMPEI, Francescanesimo, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, IV, Roma 1977, pp. 446-464; L. DI FONZO, Francescani, ivi, pp. 464-511; G. BARONE, Gli ordini mendicanti, in Storia dell’Italia religiosa, a cura di G. DE ROSA - T. GREGORY - A. VAUCHEZ, 3 voll., Roma-Bari 1993, I, pp. 347-373; per quanto concerne le peculia- rità della pastorale francescana, nonché le modalità di interazione con le comunità dei fedeli, data la ingente mole bibliografica prodotta sugli argomenti, mi limito a segnala- re MICCOLI, La storia religiosa, pp. 793sgg.; La predicazione dei frati dalla metà del ’200 alla fine del ’300, Atti del XXII Convegno internazionale, Assisi 13-15 ottobre 1994, a cura di E. MENESTÒ, Spoleto 1995 (Società Internazionale di Studi Francesca- ni, XXII); Dalla penitenza all’ascolto delle confessioni: il ruolo dei frati mendicanti, Atti del XXIII Convegno internazionale, Assisi 12-14 ottobre 1995, a cura di E. MENESTÒ, Spoleto 1996 (Società Internazionale di Studi Francescani, XXIII). 75

anche gli Ordini mendicanti fossero destinatari di lasciti pro anima da parte dei fedeli devoti di tutta la provincia41. L’insediamento mendicante che maggiormente ci interessa, alla luce del perio- do preso in esame, è il locus di Ninfa, situato appena sotto il castrum di Norma e su una linea di percorrenza che, senza soluzione di continuità, interessava la via Pedemontana giungendo dall’odierna Cisterna fino a Terracina, passando per Ninfa stessa e Sezze. Nel 1382 Ninfa viene distrutta dalle milizie di Onorato Caetani e parte dei suoi abitanti, assieme alla locale comunità minoritica è costretta a trasferirsi a Ser- moneta. La popolazione è destinata a riabitare la contrada Torrenuova, mentre ai Francescani, viene assegnata la collegiata di S. Lorenzo, oggi scomparsa, e solo in un secondo momento – successivamente all’atto di accorpamento di S. Nicola con S. Angelo – l’usufrutto della duecentesca chiesa di S. Nicola. Tutto ciò interessa il nostro discorso nella misura in cui si sia in grado di legge- re tra le righe della complessa architettura gestionale delle pratiche sacramenta- li e devozionali: il clero secolare pone evidentemente un limite per non conce- dere ai frati alcunché di quanto fosse già in precedenza amministrato dalle pre- esistenti comunità ecclesiastiche42. Lo stesso atto di accorpamento delle due collegiate di S. Nicola e S. Angelo, ai primi del ‘400, insisteva sui diritti del rettore di quest’ultima, sottolineando come ai Frati minori non dovesse spettare né la cura d’anime né tanto meno la gestione dell’esiguo patrimonio43. La presenza francescana, dunque, si configura nel primo trentennio del secolo decisamente come un fastidioso problema da arginare per gli enti ecclesiastici sermonetani, i quali, come si è visto, non versano in condizioni di benessere economico. Nonostante questo, i Frati minori, pur non essendo in quel periodo determinan- ti per un consistente mutamento dei vettori devozionali dei fedeli, agiscono al- meno in parte nel rinnovarne le forme cultuali. Nei documenti del notaio Tuzi i riferimenti alla comunità minoritica di S. Nicola ed al suo operato sono scarsi. Soltanto in un testamento (sui cinquanta relativi al primo trentennio del XV se-

41 Cfr. il documento in PANTANELLI, Notizie storiche, I, p. 304, ove sono menzionati, tra gli altri, anche lasciti «fratribus Praedicatoribus de Urbe» e «fratribus Praedicatori- bus de Anagnia». Cfr. anche da G. BARONE, Istituzioni e vita religiosa a Sermoneta nel Medio Evo, in Sermoneta e i Castani. Dinamiche politiche sociali e culturali di un ter- ritorio tra medioevo ed età moderna, Atti del Convegno della Fondazione Camillo Ca- etani, Roma-Sermoneta, 16-19 giugno 1993, a cura di L. FIORANI, Roma 1999, p. 79. Sulle modalità assunte dalla presenza mendicante (Francescani, Domenicani, Agosti- niani) nell’area da noi studiata, cfr. C. CIAMMARUCONI, Modalità e caratteri della pri- ma penetrazione degli eremitani di sant’Agostino nel Lazio meridionale (XIII-XIV se- colo), in corso di stampa. 42 Per la complessa realtà romana all’interno della quale una vera e propria corporazio- ne di canonici – la romana fraternitas – impone ai Mendicanti le medesime limitazioni di ordine gestionale, BARONE, Chierici, monaci e frati, pp. 203-207. 43 PANTANELLI, Notizie storiche, I, p. 412. 76

colo) è presente un riferimento esplicito ai fratres di Sermoneta, attraverso una donazione di cera alla comunità di S. Nicola da parte di Nicola Pilioni44. Da altri testamenti emerge, tuttavia, che molti degli abitanti del rione di S. Nicola, ossia i testatori che scelgono di farsi seppellire nella chiesa o nel cimitero adia- cente, portano il nome di Francesco, a dimostrare come l’esperienza francesca- na avesse comunque permeato il tessuto sociale del castrum45. Uno spoglio degli atti concernenti i decenni successivi al terzo del secolo, mo- stra per la prima volta una piccola comunità francescana composta in modo va- riabile da un numero di due o quattro frati, nell’atto di far rogare dal notaio in- strumenta relativi ad una ritrovata gestione delle pertinenze loro assegnate. In un primo atto, datato 12 luglio 1444, frate Ludovico di Priverno e frate Gio- vanni di Sonnino, rispettivamente guardiano e vicario di S. Nicola, riuniti a ca- sa di Giacomo Tuzi Razza assieme a frate Francesco Perunti di Terracina, cu- stode della provincia francescana di Marittima, ricevono da un esecutore te- stamentario 50 fiorini per l’acquisto di una croce d’oro da dislocare nella chie- sa di S. Nicola, croce peraltro già commissionata ad orafi romani46. In un se- condo documento, risalente al 3 febbraio 1446, il magister Marco di Ferentino, ministro dell’Ordine dei Minori della Provincia romana, in presenza di frate Vincenzo da Velletri, nuovo custode della provincia francescana, del frate guardiano Stefano di Sermoneta e di frate Francesco, elegge il nobile Nicola di Nardo de scriniariis di Sermoneta – maestro in retorica e grammatica – procu- ratore ed economo di S. Nicola47. Emerge dunque la rinnovata possibilità, da parte della piccola comunità mino- ritica, di gestire le proprie pertinenze indipendentemente dalla supervisione del rettore di S. Angelo, stabilita dall’atto di accorpamento di S. Nicola e S. Ange- lo più volte menzionato, risalente agli inizi del secolo. Appare così motivata l’ipotesi che la gestione della signoria da parte di Onora- to III avesse concesso ai Francescani maggiori libertà rispetto al passato, tanto da consentire alla loro piccola comunità di reinsediarsi, a distanza di cinquanta anni, nella chiesa di S. Lorenzo, che aveva accolto i primi fratidopo

44 ASLT, FnSermoneta, b. 49, quat. n. 6, f. 9r. 45 Sebbene il paragone sia improprio, solo a titolo di registrazione di un dato facciamo rilevare che su un totale di circa 1700 nomi raccolti in un apposito database durante lo studio degli atti, soltanto 13 individui si chiamano Francesco, e tutti abitano nel rione di S. Nicola. Risulta comunque difficile immaginare un piccolo gruppo di frati, privato della cura d’anime dei propri fedeli, rimanere inerte di fronte ad una comunità compo- sita come quella sermonetana, in cui fanno la loro comparsa malati, poveri e indigenti, pellegrini in viaggio da e verso Roma, sebbene il loro intervento nelle pratiche di assi- stenza possa essere considerato oramai come integrato nelle strutture e nelle direzioni di intervento religiose ufficiali. Per alcuni elementi sull’architettura di S. Nicola, cfr. C. BOZZONI, Insediamenti mendicanti a Sermoneta e nel territorio, in Sermoneta e i Cae- tani, pp. 387-401. 46 ASLT, FnSermoneta, b. 50, quat. n. 48, f. 10r. 47 ASLT, FnSermoneta, b. 50, quat. n. 52, f. 31v. 77

l’abbandono di Ninfa, e di costituirne il capitolo48. Al 3 agosto 1451 risale in- fatti il Procuratorium ecclesiae Sancti Laurentii in personam notarii Nicolai notarii Stephani, atto dal quale si evince che, a quella data, il capitolo non è più costituito dal priore secolare e dai chierici beneficiati, bensì dal guardiano Ste- fano, dal vicario Francesco, dal lettore Sanctus e dal frate Pietro di Velletri. Nel documento, con il beneplacito e per speciale volontà ed incarico di Onora- to III Caetani, si nomina procuratore di S. Lorenzo il notaio Nicola notarii Ste- phani, con l’incarico di predisporre un inventario dei beni della chiesa, nonché di istituire un quaderno di amministrazione da utilizzare per la ristrutturazione e l’ampliamento della struttura. Alla base di questa rinnovata presenza a S. Lorenzo bisogna leggere forse una controversia – impossibile da ricostruire allo stato attuale delle fonti – con il clero secolare, che ne aveva detenuto la gestione nel lungo periodo in cui i frati erano stati relegati tra le mura di S. Nicola. Probabilmente una rivendicazione delle pertinenze da parte di quest’ultimi aveva visto riassegnare loro la gestione della chiesa da parte del vescovo di Terracina, che già negli anni Cinquanta del secolo risulta essere il dominus Alessandro Caetani49. Maggiormente considerati anche nell’azione pastorale, probabilmente sostenuti dal potere signorile nella loro seppur marginale espansione, sul finire degli an- ni Sessanta i Francescani sembrano aver ormai acquisito una funzione ben de- finita nella realtà religiosa sermonetana, poiché compaiono chiaramente come redattori di regole e capitoli indirizzati alle confraternite locali. È il caso della confraternita dei Flagellanti, i cui membri dovranno osservare fedelmente «ca- pitula eis facta pro salute animarum suarum per religiosum virum fratrem Pau- lum de Grosseto valentem predicatorem de ordine minorum»50. Sembra questo, pertanto, il contesto adatto alla fondazione di quell’ insedia- mento autonomo che è l’odierno convento di S. Francesco, al di fuori del tessu- to urbano di Sermoneta, i cui lavori di costruzione sembrano potersi datare nel periodo in cui Onorato III Caetani si trovava alla guida della signoria, e la cui

48 Sulle dinamiche di appoggio alla presenza francescana sul territorio da parte dei Ca- etani, cfr. BOZZONI, Insediamenti mendicanti, in particolare la nota 22, che sintetizza i problemi relativi alle fonti e agli studi compiuti dagli storici francescani sugli insedia- menti sermonetani. 49 PANTANELLI, Notizie storiche, I, p. 457. Il Pantanelli riporta il nome del vescovo A- lessandro Caetano ma poche pagine dopo (cfr. ivi, p. 463) riporta un atto in cui il ve- scovo è chiaramente definito Alexandrus Gaytani. Non vi sono invece dubbi per il no- stro notaio, sull’appartenenza del vescovo alla famiglia signorile (cfr. ASLT, FnSer- moneta, b. 50, quat. n. 63 e passim). 50 ASLT, FnSermoneta, b. 52, quat. n. 100, f. 1r. L’atto è datato 16 novembre 1460: ancora una discordanza tra gli atti notarili e le Notizie di Pantanelli. Il canonico afferma infatti erroneamente che nel 1463 fu il padre Paolo da Prossedi a prescrivere le regole ai Flagellanti (PANTANELLI, Notizie storiche, I, p. 479). 78

assegnazioneall’ Osservanza francescana è databile al 1495, per decreto di pa- pa Alessandro VI51. In particolare sotto Onorato III, i Francescani sembrano quindi modificare il loro rapporto con il clero secolare sermonetano, che viene soppiantato nella ge- stione di alcune pertinenze, mentre acquisiscono la possibilità di ampliare le strutture loro affidate e, di conseguenza, la visibilità e la loro peculiare opera pastorale e di cura animarum.

51 Ivi, I, pp. 525-526. Nel testamento di Onorato si fa riferimento ad un «novum locum inceptum ad honorem beati Francisci», pertanto iniziato a costruire durante il suo do- minatus. 79

S T O R I A E S T O R I C I

La Modernizzazione nel Lazio Meridionale. Progetto per un seminario ______ANTONIO DI FAZIO

Come i lettori sanno è da tempo in animo della Redazione di questa rivista l’ organizzazione di un convegno-seminario sulla modernizzazione nel Lazio me- ridionale. Oltre alla puntualizzazione di concetti e di storia di un processo av- viato già dal ‘600 ma realizzatosi con ritardi, problemi e contraccolpi nelle di- verse zone, l’evento dovrà essere occasione per conferire un senso ed un coor- dinamento significativo a tanti studi settoriali di microstoria realizzati specie negli ultimi 30-40 anni nel territorio suddetto. Da queste riflessioni che qui sotto si pubblicano è stata ricavata la sintetica progettazione che l’Associazione storico culturale ‘Monti Ausoni’ (con sede a Lenola) ha presentato all’assessorato provinciale alla cultura per l’ assegnazio- ne di fondi regionali (l.r. 17/2007) per la realizzazione entro l’anno, in collabo- razione con questa rivista storica, del Convegno in questione.

A- I concetti-base 1- La modernizzazione è strettamente correlata al concetto di sviluppo eco- nomico che si fa strada a partire dal ‘5-600, con i grandi mutamenti economici e sociali che allora si verificarono in conseguenza della conquista delle Ameri- che, dello sviluppo del mercantilismo e del capitalismo, e con l’eccezionale in- cremento delle conoscenze e sviluppo delle scienze. Componenti sicure della modernizzazione sono l’innovazione e il cambiamen- to, in una concezione generale della storia che considera la società investita da processi evolutivi e di sviluppo socio-economico, che la differenziano sempre più dalle strutture del passato. Specialmente a partire dal Settecento - inizialmente solo in alcune zone dell’ Europa, ma poi con l’Ottocento in quasi tutto il continente - si verifica il pro- gressivo incremento delle capacità produttive in ogni settore, capacità che tro- 80

vano un forte sostegno nel concomitante allargamento del mercato e la specifi- cazione comune in questi tre elementi: a- Accelerazione dell’ evoluzione tecnologica b- le migliorate condizioni generali di vita c- le più avanzate capacità organizzative.

2- Il primo e più clamoroso effetto di questo balzo fu una condizione nuova e non verificata da molti secoli: cioè la disponibilità sempre più diffusa nella po- polazione di una quantità di beni e servizi mai in precedenza osservata; condi- zione che – si capisce – a sua volta ha costituito volano per l’emersione di ul- teriori bisogni e per nuovi decolli economici e sociali, divenendo la premessa al cambiamento nell’intera società, nelle istituzioni sociali ed economiche, nelle concezioni e negli stili di vita, nei comportamenti e nei sistemi culturali. Si avvia quindi e sempre meglio si fissa in forme nuove un processo di muta- zione socio-antropologica, che porta alla rapida sparizione dei segni e delle psicologie della società tradizionale, verso un modello sempre più articolato, ricco, aperto alle sollecitazioni culturali della società di massa.

3- A livello strutturale i processi di lunga durata che si conseguono nel cor- so del più ampio processo di modernizzazione sono: - sul piano politico generale, il tramonto della società feudale e il decollo di sistemi di democrazia parlamentare e di strutture sociali e amministrative fon- date sull’uguaglianza dei diritti e degli obblighi, senza distinzioni di ceto socia- le; - sul piano economico, la progressiva riduzione del settore agricolo, assolu- tamente prevalente nelle società tradizionali, correlata all’incremento degli al- tri settori, quello industriale e quello commerciale e terziario; - la diffusione capillare della produzione industriale, con la correlata espansio- ne della tecnologia e del macchinismo; - la conseguente progressiva sostituzione del lavoro umano e animale con e- nergia meccanica ed elettrica; e la realizzazione di - nuovi sistemi organizzativi, come la divisione del lavoro e la specializzazio- ne, che mettono in moto anche nuovi processi formativi dei quali è investita la società intera; - modifiche profonde nel mercato e nei sistemi commerciali e distributivi, che sempre meglio allargano gli orizzonti, interagendo con la produzione, e solleci- tando l’estensione capillare delle comunicazioni (strade, porti, ferrovie, etc.), fino all’attuale globalizzazione; - l’emergere continuo di nuove funzioni e nuove figure professionali- amministrative ed intellettuali, cioè di una complessa e vasta terziarizzazione che richiede adeguati e innovati sistemi di formazione ed informazione in gra- do di rapportarsi efficacemente a competenze e conoscenze in continua evolu- zione.

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B- I temi e i tempi Per il seminario-convegno è necessario stabilire limiti di cronologia e di conte- nuti: perché oggi si parla ancora di MODERNIZZAZIONE, ad esempio, nei pro- cessi di informatizzazione delle amministrazioni, delle società, delle comuni- cazioni, etc. Allora parlerei, in riferimento alle nostre specifiche finalità, di PRIMA MODERNIZZAZIONE, quella avviata nel ‘700 in alcune aree d’Europa, e decisamente progredita nel corso dell’800 e fino alla metà del secolo scorso. Solo per questa si hanno gli elementi della ricostruzione storica e della rileva- zione di un senso complessivo. I progressi tecnologici (elettronici, informatici, nucleari, etc. ) avviati nel corso della seconda guerra mondiale e successivamente, hanno dato inizio ad una nuova modernizzazione (la seconda), che ha anche un significato ed un senso nuovi, in uno scenario che ad esempio si allarga sempre più oltre i confini del globo. Ma questa per ora non rientra nel nostro discorso. Tornando alla PRIMA MODERNIZZAZIONE, quella su cui vogliamo indagare nel seminario (se si terrà), relativamente alla storia del vasto territorio del Lazio meridionale negli attuali confini, da Roma (esclusa) fino al Garigliano, pos- siamo qui solo indicare alcuni dei temi più ricorrenti emersi storicamente nel periodo già indicato (grosso modo 1830-1950), tentando anche un loro rag- gruppamento, in tal modo:

V i t a c i v i l e e d e c o n o m i c a Il progresso della ‘democrazia’ e dei diritti civili. La partecipazione alla vita politica I movimenti migratori delle popolazioni Industrializzazione Meccanizzazione ed elettrificazione delle campagne Commercio e Distribuzione. Dal negozio al supermercato Banche e Credito

N e l t e r r i t o r i o Opere di urbanizzazione (lastricature strade interne, acquedotti, fogne, servizi di nettezza urbana, etc.) Bonifiche nel Lazio meridionale Trasporti e comunicazioni. Strade esterne e ferrovie Arredi urbani (parchi, panchine, pensiline, insegne pubblicitarie, etc.)

N e l l e a b i t a z i o n i p r i v a t e: L’acqua nei rubinetti domestici La refrigerazione, il lavaggio, la conservazione… Sistemi e impianti di riscaldamento Servizi igienici completi L’evoluzione della cucina

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S e r v i z i Scolarizzazione Sanità: da ‘privata’ a pubblica. Ostetrica e ginecologo sostituiscono la ‘mam- mana’: non si partorisce più in casa. Ospedali Impianti sportivi - Sport e tempo libero La sicurezza. I pompieri L’elettrificazione L’acqua nelle fontane pubbliche e nelle case Gas di città Il telefono

V i t a s o c i a l e e c u l t u r a l e La radio e la multimedialità Il tempo libero. Circoli ricreativi Teatri-cinema Biblioteche Libri e riviste Stamperie/tipografie Vendita di giornali e annessi

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STORIA E DIDATTICA

Dall’Archivio dell’Opera di Duilio Cambellotti al Museo di Latina: Dinamica e aspettative di un progetto museale ______FRANCESCO TETRO

La donazione, avvenuta nel 1996, da parte degli architetti Adriano e Lucio Cambellotti, di alcune opere del padre Duilio (1876-1960), costituisce l’ ante- fatto della successiva donazione che fonda il contenuto e il significato stesso del museo che la città di Latina ha dedicato a Duilio Cambellotti. In quella occasione furono destinati alla “Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Latina” (appena ricostituita dopo la quasi totale dispersione, avvenuta a partire da 2 aprile del 1944 e purtroppo proseguita fino agli anni ot- tanta del XX sec.) il gesso dei “Vannini”, i tre bozzetti a tempera del fregio “La Redenzione dell’Agro”, per il Palazzo del Governo, e i due bozzetti in ges- so, il cosiddetto “Ciclo della Giustizia”, per la decorazione della Corte d’ As- sise del Palazzo di Giustizia, due fra i principali edifici pubblici di Littoria. Da quella prima fase appare evidente l’intenzione dei donatori che, volendo ri- conoscere le radici pontine dell’attività del padre, legavano ad un museo del capoluogo di quel territorio tanto amato una piccola selezione di opere. Si sta- biliva pertanto un legame significativo anche tra la Galleria Civica d’Arte Mo- derna e Contemporanea di Latina, (che ospitava in quegli anni le sei opere do- nate e la copia in bronzo della “Fonte della palude”, donata quest’ultima nel 1982 dalla Regione Lazio per il Cinquantesimo anniversario della fondazione della città) e alcuni edifici di Latina che conservano le opere monumentali di Duilio Cambellotti, oltre il Tribunale e la Prefettura. In questo ideale percorso vanno inserite pertanto Casale delle Palme e la sede dello I.A.C.P. che, all’esterno e all’interno, ospita le copie in bronzo rispettivamente di “La fonte della vacca” e di “Le vacche aratrici”, come venne evidenziato in una guida della città di Latina e del suo territorio comunale, pubblicata dallo scrivente 84

nell’occasione della presenza del Comune di Latina agli appuntamenti annuali della Borsa Internazionale del Turismo di Milano. L’istituzione infine nel 1998 del Museo “Mario Valeriani” dedicato all’arte della medaglia, della moneta, della grafica incisa e della fotografia, museo inti- tolato all’insigne medaglista e storico dell’arte della medaglia Mario Valeriani, che ne avviò la realizzazione con la donazione dell’intero archivio personale, creò l’occasione per un’altra consistente donazione da parte dell’ “Archivio dell’Opera di Duilio Cambellotti”: oltre alla medaglia “Il buttero”, donata dal- lo scrivente, e alle due medaglie commemorative realizzate da Giovanni Di Natale, allievo del Cambellotti, e riproducenti il “Ritratto del Maestro”, è stata acquisita, sempre per donazione, la collezione dell’artista ricca di circa cento medaglie e calchi di monete, di sigilli, placchette e di medaglie storiche (molte rinascimentali e tra queste, notevoli quelle del Pisanello, di Matteo de’ Pasti, etc.), a documentare l’interesse di Duilio Cambellotti per la produzione antica, dal maestro evidentemente considerata una eccellente fonte di ispirazione. Lo stretto rapporto fra Cambellotti e i luoghi pontini, indagato già nel 1984 nell’ esaustiva antologica allestita a Latina negli spazi dell’ex O.N.B., suggerì agli amministratori e ai responsabili dell’“Archivio dell’Opera di Duilio Cambel- lotti” l’idea di raccogliervi - sentita la disponibilità dell’Amministrazione co- munale a mettere a disposizione quel prestigioso edificio, progettato dall’arch. Oriolo Frezzotti (1888-1965) - un nucleo più ricco e articolato di opere. Tale volontà fu confermata dall’acquisto, deliberato dall’Amministrazione Comunale, di trenta disegni relativi all’illustrazione di “Usi e Costumi della Campagna Romana” (1924) di Ercole Metalli. Del resto l’esposizione delle diciannove tempere realizzate dall’artista per l’illustrazione di “Le Mille e una notte” (1912-‘13), che era stata ospitata nel 1997 a Latina, nell’ambito dell’edizione del Premio Tascabile, sottolineava anche a Latina una sorta di rinascita dell’attenzione degli storici dell’arte e del pubblico alla produzione dell’artista, attraverso numerose retrospettive e qualificanti presenze in rasse- gne tematiche un po’ ovunque, fino ad arrivare alla grande mostra antologica del 1999-2000 che ha inaugurato la nuova sede della “Galleria Comunale d'Arte Moderna e Contemporanea” di Roma. Nel frattempo a Latina maturava e si andava precisando il progetto per un Mu- seo interamente dedicato all’opera di Duilio Cambellotti. Nella produzione dell’artista vennero così individuati i temi in cui è, più o meno esplicitamente, espresso il rapporto instaurato con il territorio pontino; da tale fase, parallela ad una inventariazione capillare dell’archivio dell’artista, si passò, in accordo con la famiglia, a scegliere quanto questa fosse disposta a cedere al Comune di La- tina: prime fra tutte molte opere relative al tema dell’ “acqua” e della “fonta- na”, illustrato e documentato spesso da inediti che attraversano l’intero arco di attività dell’artista. Di quasi tutte le fontane progettate e realizzate sono presen- ti nel Museo gli studi grafici e plastici, che permettono di cogliere la nascita dell’idea, la sua evoluzione e, in molti casi, la realizzazione, come nel caso di: “La fonte della palude I e II realizzazione”, “La fonte delle lavandaie” “La 85

fonte della vacca”, “Il fontanile dei cavalli”, “Il fontanile delle pecore”, “La fontana delle anfore” o “delle lavone”, “La fontana delle portatrici d’acqua”, “La fontanina dei boccali”. Altro tema scelto fu quello di “Roma 1911”, l’importante rassegna organizzata per il Cinquantenario di Roma Capitale, che vide l’artista presentare, collocate nella cosiddetta “Grande Capanna” (di cui sono presenti nel museo i disegni relativi al prospetto e all’assonometria), ope- re d’arte accostate provocatoriamente agli umili manufatti dei guitti e dei tran- sumanti. Una esauriente sezione documentaria affronta poi il tema delle “Scuole della Campagna Romana e dell’Agro Pontino”, caratterizzato dalle esperienze di Sibilla Aleramo, Giacomo Balla, Angelo Celli, Giovanni Cena, Alessandro Marcucci, e di altri loro sodali. In particolare, sul tema della “Scuola di Casale delle Palme” (sorta su un terreno affacciato sull’Appia, donato dai Caetani), accanto alle immagini delle opere purtroppo perdute sono presenti nel Museo opere d’arte che con quelle hanno uno stretto rapporto, come: i ritratti a tempe- ra e in xilografia di Giovanni Cena, molti fogli originali di abecedari, il Mo- numento ad Angelo Celli, i Disegni pontini, una esemplificazione di quelle ce- ramiche popolari che, simili a quelle usate dai contadini, venivano scelte per decorare gli esterni delle scuole. I temi della scultura e di Cambellotti animalista, sono rappresentati attraverso opere importanti, come:“Le vacche aratrici”, “Il Vomere”,“Buoi della Cam- pagna romana”, “Sostegno per rython”, “Corno rython”, “Buoi accosciati”, “Le curiose”. “La Madre terra”, “la Pace” (o “La Vagante”), quest’ultima opera, nel duplice originale in gesso e legno-cera (la copia in bronzo è stata collocata davanti al Tribunale di Latina), “L’Aquila” dell’Istituto Eastman di Roma, “L’Aquila Romana” di Tokyo, “Il Buttero”, “Le Vacche aratrici”, “Il Vomere”, “Il cieco”, “Donna paesaggio” e “Buoi distesi”, opere tutte alle quali è stata accostata la relativa sezione grafica e documentaria. Ma il tema dominante, anche per l’estensione della superficie (86 metri quadra- ti) è il “fregio della Prefettura”, nei suoi cartoni originali, che simbolicamente ambienta nel territorio pontino tutte le opere esposte. Ed è per tale ragione che l’allestimento del Museo prende l’avvio proprio dall’ampia documentazione relativa alla decorazione pittorica di tale fregio, “La redenzione dell’Agro”. Una sezione particolarmente interessante, perché ricca di molti inediti, è costi- tuita dalle arti decorative, caratterizzate dall’attenzione di Cambellotti per la produzione ceramica antica e per la tradizione popolare più recente. Alla dona- zione di ceramiche dell’artista, legate soprattutto alla decorazione di semplici oggetti d’uso, si affiancano infatti un gruppo di reperti etruschi, romani e della Magna Grecia, un gruppo di ceramiche popolari (raccolte dall’artista negli anni del suo insegnamento nel viterbese e durante la sua esperienza al Teatro di Si- racusa) e un gruppo di ceramiche realizzate da Enea Antonelli (1887-1951), Fernando Frigiotti (1876-1948) e Virgilio Retrosi (1892-1975), i suoi più sti- mati allievi. E’ possibile così scoprire il legame che corre tra le invenzioni di Cambellotti e lo studio della forma, tra le forme antiche e la progettazione di 86

“nuove” forme che esprimono la sapienza acquisita. Questa sezione comprende anche piccole sculture, medaglie e tessili (questi ultimi particolarmente interes- santi, perché riproducono la spiga che Cambellotti, dal 1907, utilizzerà come firma simbolica, e altri motivi che ben illustrano il suo repertorio animalistico). Un altro tema, legato al rapporto fra l’artista e la committenza pubblica, è quel- lo della progettazione di vari monumenti ai caduti; nel Museo sono infatti do- cumentati: il “Monumento ai caduti di Priverno”, il “Monumento ai caduti di Terracina” e il “Monumento ai caduti di Borgo Hermada-Terracina”, con le rispettive elaborazioni e varianti grafiche e plastiche. Per concludere, una se- zione è dedicata a Cambellotti scenografo e coreografo nel cinema: “Scipione l’Africano” di Carmine Gallone e “Cielo sulla palude” di Augusto Genina, sono i films girati rispettivamente nel 1937 e nel 1948 a Caprolace e a Fondi. L’artista disegna il cartellone e i raggruppamenti scenici del primo, mentre del secondo realizza i “bozzetti d’atmosfera” per le quattordici scene principali del film e gli studi dei tipi e dei caratteri dei personaggi, dopo l’attenta lettura della sceneggiatura di Suso Cecchi D’Amico (presente ed esposta nel museo), attin- gendo soprattutto alla ricca raccolta personale di foto, scattate all’inizio del se- colo con Giacomo Balla, Giovanni Cena e Alessandro Marcucci nelle loro note “gite fuori porta”. Accanto alle opere d’arte, c’è dunque una ricca raccolta do- cumentaria relativa anche alla “Mostra delle bonifiche”, alla “Scuola di Scau- ri”, allo “Stemma della Provincia di Latina”, etc., raccolta che costituisce da una parte il nucleo di un Museo dedicato all’artista nel suo rapporto con il La- zio meridionale, dall’altra un tassello d’eccellenza della rete museale, non solo civica. A tale nucleo iniziale vanno aggiunti l’acquisto da parte dell’Amministrazione comunale del manifesto cinematografico “Cielo sulla palude” del grafico An- gelo Cesselon (1922-1992), di un centinaio di libri illustrati dal maestro (il museo latinense si configura così come una struttura specializzata nell’illustrazione cambellottiana), delle tavole tratte da “I Fioretti di S. Fran- cesco” e la donazione di decine di opere, sempre di Cambellotti, da parte di privati cittadini, come la serie dei volumi editi dall’Istituto Editoriale Italiano (donati dal dr. Adriano Rocco), i manifesti per la Croce Rossa (donati dalla Se- zione della Croce Rossa di Latina) e per le tragedie “I Sette a Tebe” e l’ “Anti- gone” di Sofocle, realizzati per le rappresentazioni teatrali di Siracusa (dona- zione dell’Associazione Culturale “Amici dei Musei-Città di Latina” che ha curato anche il restauro di tre quarti dei cartoni del fregio “La Redenzione dell’Agro”), mattonelle in maiolica (marchi per case editrici, donate dall’avv. Giuseppe Veronese), ceramiche (caffettiera e zuccheriera) ed ex libris (donati dal club di servizio Inner Wheel di Latina), quattordici cartoni e bozzetti per vetrate (donati dal dr. Ezio Comparini) e la scultura monumentale del “Semi- natore” (donata dalla sig.ra Giuseppina Nicolosi). Una visita al museo pertanto, oltre ad offrire la possibilità di conoscere il modo di produrre dell’artista su svariati fronti tematici e tipologico-tecnici (disegno, incisione, scultura, ceramica, tessitura, lavorazione dei metalli, medaglistica, 87

decorazione, pittura in senso stretto, illustrazione, fotografia, etc.), permette, attraverso la lettura delle opere che vi sono custodite, la ricostruzione visiva di un habitat perduto e costruisce, per una nuova memoria, le condizioni e l’ am- biente che le generazioni succedutesi nel tempo hanno vissuto, condiviso, ne- gato e trasformato. Ospitando un centro di studi sul Novecento e iniziative cul- turali periodiche congruenti, il “Museo Duilio Cambellotti” di Latina dovrebbe essere propulsore di cultura, realtà viva, sede di confronti e di elaborazione di idee; solo così sarebbe realizzato il sogno di quella generazione di artisti e di educatori che frequentò i luoghi pontini, ne scoprì il fascino (la “malia inten- sa”, scriveva Cambellotti nei suoi ricordi) e che fu promotrice di iniziative cul- turali (le letture dantesche, ad es.) e sociali (la lotta alla malaria, all’analfabetismo, l’educazione all’igiene e la creazione della rete, prima delle scuole itineranti festive, poi di quelle permanenti, serali e diurne) nell’intento di “richiamar con l’arte” per garantire la qualità della vita anche a chi sembrava non ne avesse diritto.

Bibliografia essenziale con particolare riferimento al tema pontino -AA.VV, Augusto Genina (1892-1957), a cura della Biennale Cinematografica di Ve- nezia, 1959 -P. Pallottino, Il buttero cavalca Ippogrifo. Duilio Cambellotti, Ediz. Cappelli Bolo- gna, 1978 -F. Savio, Cinecittà anni Trenta, Roma, 1979 -M. Quesada, Duilio Cambellotti. Catalogo delle incisioni, Ner Roma, 1982 -M. Quesada (a cura di), Natura e forma. La campagna romana e la palude pontina nell’opera di Duilio Cambellotti (1876-1960), Rotostilgraf S.p.A., Pomezia/Roma, 1982 -M. Quesada, Teatro Storia Arte. Scritti di Duilio Cambellotti, Palermo Ediz. Nove- cento, 1982 -M. Quesada (a cura di), Duilio Cambellotti scultore e l’Agro Pontino, Ediz. Palombi Roma, 1984 -R. Barbiellini Amidei, La riscoperta del monumento ai caduti di Priverno, opera di Duilio Cambellotti, in “Bollettino d’Arte”, Libreria dello Stato Roma, 1987 -M. Quesada, Augusto Genina e Duilio Cambellotti, in S.G.Germani, V.Martinelli, “Il cinema di Augusto Genina”, Udine 1989 -A. Campesato, F. Tetro, Bianco e nero-Ex libris-Grafica minore, illustrazione. Profili e materiali, Romana Editrice San Cesareo/Roma, 1990 -F. Tetro, Opere di Duilio Cambellotti a Latina e nel suo territorio, in “Atlante storico delle città italiane. Lazio n. 5: Latina” (a cura di E. Guidoni e A. Muntoni), Multigrafi- ca Editrice Roma, 1990 -F. Tetro, La fonte della palude di Duilio Cambellotti, in “Elicona”, anno II n.1, Cipes Latina, 1993 -F. Tetro, Il ciclo pittorico “La conquista della terra” o “La Redenzione dell’Agro”. Le tempere di Duilio Cambellotti per il palazzo del Governo di Littoria realizzate nel 1932-34 e restaurate nel 1947-’48, in “Elicona”, anno II n.2, Cipes Latina, 1993 -F.Tetro, Esedra della Giustizia: Aula della Corte d’Assise del Palazzo della Giustizia di Littoria (1934) di Duilio Cambellotti e Oriolo Frezzotti, in “Elicona”, anno III n. 4, Cipes Latina, 1994 88

-F. Tetro, Due bronzi di Duilio Cambellotti presso lo I.A.C.P. di Latina, in “Elicona”, anno IV n. 2, Cipes Latina, 1995 -S. Spinazzè, A. Piattella, Duilio Cambellotti, in “Galleria d’Arte Moderna e Contem- poranea di Latina. Catalogo Generale” (a cura di F. Tetro), vol. 1, Editrice Il Gabbiano Latina, 1997 -P. Pallottino, A. Piattella, F. Tetro, Le Mille e una notte. Tempere di Duilio Cambel- lotti-1913, Editrice Pair 2000 Latina, 1997 -A. Franchi (a cura di), Duilio Cambellotti e la Palude Pontina, IGER Roma,1997 -M. Vittori, Duilio Cambellotti e la terra pontina, Arti Grafiche Archimio Latina, 1997 -G. Alatri, E. Ansovini, F. Gagliardo, M. Iacomini, A come alfabeto…Z come zanzara. Analfabestismo e malaria nella Campagna romana. Duilio Cambellotti: una parentesi d’arte, Fratelli Palombi Editori Roma,1998 -A. Serarcangeli, M. Vittori, La scultura monumentale in provincia di Latina, Latina, 1998 -G. Bonasegale, A.M. Damigella, B. Mantura, Duilio Cambellotti (1876-1960), Edi- zioni De Luca Roma, 1999 -E. Angelini, M. Vittori, Duilio Cambellotti: Il monumento ai caduti di Priverno, Lati- na 1999 -F. Tetro, Itinerario cambellottiano a Latina e nel territorio comunale, in C. Pumpo, F. Tetro, “Latina. Città del Novecento. Guida della città e del territorio comunale”, Etic grafica Latina, 1999 -A. Raffaelli, Duilio Cambellotti. L’arte moderna e la divulgazione dell’immagine, Di- segni, acquerelli, tempere, vetrate e bronzi dal 1897 al 1952, Italprint ’90 Roma, 2001 -F. Tetro (a cura di), Il museo “Duilio Cambellotti” a Latina. Opere scelte dalla colle- zione, Palombi Editori Roma, 2002 -A. Damigella, R. Miracco, F. Tetro, Duilio Cambellotti. Opere scelte dall’archivio, Mazzotta Editore Milano, 2003 -F. Tetro, Duilio Cambellotti. Magister Equitum, 16 march 2005, Gift to the City of London from the President of the Italian Republic, Mazzotta Editore Milano, 2005 -F. Tetro, Duilio Cambellotti illustratore e il suo incontro con Edoardo De Fonseca: la vicenda intellettuale tra dichiarazione di intenti, invenzione e sperimentazione, in “Duilio Cambellotti. Mito, Segno e immagine” (a cura di D. Fonti, N. Muratore, I. de Stefano), Editore De Luca, Roma 2006 -F. Tetro (a cura di), Museo civico “Duilio Cambellotti”. Nuove acquisizioni, Edizione Il gabbiano Latina, 2006 -F. Tetro, Duilio Cambellotti schede, in F.Tetro “Continuità del “Sentimento del tem- po” nella pittura di paesaggio. Vedute laziali dal 1854 al 2004”, Tipografia Monti Ci- sterna di Latina, 2006 -V. Scozzarella (a cura di), Duilio Cambellotti. L’uomo e la terra tra mito e sacralità, Pubblicarcoop di Latina, 2007 -F. Tetro, Duilio Cambellotti e il mito, in AA.VV., “I luoghi di Enea”. Rotostampa Group Srl Pomezia/RM, 2007 -G. Di Spigno, Il Monumento ai Caduti di Duilio Cambellotti a Borgo Hermada, in V. Grossi, M.I. Pasquali, R. Malizia, “Il Borgo Hermada di Terracina. Un modello urbano ed urbanistico-territoriale da recuperare e valorizzare”, Graficart Formia/LT, 2007 -G. Alatri, P. Cintoli, J. De Guttry, M.V. De Matteis, M.P. Maino, M. Margozzi, G. Raimondi, E. Sturani, F. Tetro, Il Modernismo a Roma (1900-1915) tra le riviste “No- vissima” e “La Casa”, Palombi Editori Roma, 2007

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A Gaeta un seminario di aggiornamento sulla storia medievale nel Basso Lazio ______ELISA DI ROCCO

“ Vivere il territorio “ nella sua dimensione storica, riscoprire radici e delineare evoluzioni antropologiche, economiche e sociali dovrebbe essere un momento importante del percorso formativo delle giovani generazioni e pertanto va salu- tata positivamente qualsiasi iniziativa che miri a sollecitare sia negli insegnanti che negli alunni l’interesse per la storia locale, soprattutto in un territorio che ha avuto la ventura di essere stato al centro di importanti intrecci storici, di cui conserva memorie e documenti oggetto di interessanti studi da parte di esperti nazionali ed europei. Venerdì 16 e sabato 17 Maggio, si è tenuto presso la Bi- blioteca comunale di Gaeta, con la collaborazione del Centro storico culturale di Gaeta, un seminario di formazione sul tema: “ I Ducati tirrenici (X-XII seco- lo)”. Il seminario è stato promosso dall’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e dalla Scuola Storica Nazionale di Studi Medievali ed ha trovato la fattiva col- laborazione del Comune di Gaeta, del Centro Storico Culturale di Gaeta e di alcune Associazioni legate al settore turistico della città. L’organizzazione scientifica è stata curata dai Professori Amedeo Feniello e Giovanni Pesiri. In verità la storia dei Ducati tirrenici non occupa grande spazio all’interno della ricerca storiografica italiana, ma ha attirato ed attira l’interesse di storici euro- pei e sono state pubblicate opere in tedesco ed inglese sulla storia dei Ducati, in particolare quello di Gaeta, che ancora non sono state tradotte. E’ trascorso un decennio da quando l’Abbazia di Montecassino ha promosso un Convegno di Studi sull’argomento, ma da allora nessun’altra iniziativa è stata presa in merito; per questo il Seminario di formazione che si è svolto a Gaeta merita di essere segnalato, anche se disguidi di ordine organizzativo ne hanno limitato la partecipazione, nonostante l’impegno delle Organizzazioni che lo hanno promosso. E’ da segnalare soprattutto, alla luce di quanto detto inizialmente, la presenza di un gruppo attento ed interessato di alunni del Liceo Scientifico ”Fermi” di Gaeta. Il Seminario ha avuto due intenti fondamentali: tracciare una panoramica delle vicende storiche dei vari centri (Gaeta, Napoli, Sorrento, Amalfi e il Principato longobardo di Salerno) ed analizzare le peculiarità antropologiche, socio- 90

economiche e politiche di questi territori nell’ambito dello sviluppo dei tessuti urbani medievali. La particolarità del territorio è stata proprio quella di essersi trovato alla con- fluenza fra tre diverse culture: bizantina, latina e musulmana e di aver visto quindi l’intrecciarsi di motivi politici, religiosi ed antropologici che hanno pro- dotto la sperimentazione di forme di potere nuove, espressione di forze econo- mico-sociali che si stavano evolvendo in un contesto nuovo e in un orizzonte culturale aperto( sotto qualche profilo forse più aperto di quello odierno). Questi aspetti sono stati oggetto dell’interessante relazione del Professore Jean- Marie Martin, dell’Ecole Française de . Il Professor Martin è partito da un’analisi generale dei ducati tirrenici dal mo- mento dell’invasione longobarda del 569 e della costituzione del Ducato lon- gobardo di Benevento nel 570. Dal VI al IX secolo il territorio di Gaeta era sot- tomesso al potere del Duca di Napoli, funzionario imperiale che comandava la milizia e governava il territorio in nome dell’Impero bizantino e nell’ambito di una connotazione socio-politica di cultura greca. L’evoluzione del ruolo e del potere del Duca è uno degli elementi storicamente più rilevanti: da comandante militare e semplice funzionario imperiale a titolare di una carica istituzionale che diventerà ereditaria. Questa evoluzione sarà evidente a Gaeta, dove l’Ipata (funzionario imperiale dipendente dal Duca di Napoli fino all’839) nel X secolo si emancipa e da sem- plice governatore si trasforma in Duca, dando vita ad una dinastia. Il X e l’XI secolo è il periodo in cui nell’Italia centro-meridionale si assiste al fenomeno dell’ ”incastellamento” ed è interessante notare come nei Ducati tir- renici in concomitanza con le ”particolarità “ geografiche siano presenti delle ”particolarità” giuridico-sociali. Infatti, mentre nei Principati longobardi vige il diritto germanico, negli altri territori il riferimento giuridico è quello romano, molto diverso soprattutto per quanto riguarda il diritto privato, il ruolo della donna e la coesione familiare. Fino al XII secolo il diritto romano sarà la base giuridica del territorio di Gaeta, che subirà l’influenza del diritto longobardo dal XIII secolo. Naturalmente an- che l’antroponimia – sottolinea Martin - distinguerà le zone longobarde da quelle bizantine, così come l’evoluzione nella classe aristocratica, che nei Du- cati tirrenici dopo il X secolo appare ancora costituita dalla “nobiltà di sangue”. A Gaeta i rami della famiglia ducale (nata da un’aristocrazia “di funzione” mi- litare) vengono ad integrarsi con l’aristocrazia feudale; successivamente l’ alta aristocrazia si unirà a quella longobarda e poi a quella normanna. Lo sviluppo economico-politico dei Ducati tirrenici è stato studiato attraverso le monete usate in questo bacino di intensi scambi fra Oriente ed Occidente: il soldo d’oro di Costantinopoli, il dinaro, il tarì, il denaro d’argento di prove- nienza carolingia. A Gaeta troviamo prima la presenza di monete orientali e poi quella del denaro d’argento, probabilmente entrato in uso più per ragioni eco- nomiche che politiche. 91

Da quanto fin qui detto, anche se sommariamente, appare chiaro che gli spunti offerti dalla relazione del professor Martin sono stati numerosi ed interessanti, soprattutto dal punto di vista politico, economico e sociale. La relazione del dottor Giovanni Pesiri, dell’Istituto storico italiano per il Medievo, ha avuto come oggetto “Il frazionamento del Ducato di Gaeta. Il caso di Fondi”. Il relatore ha analizzato le vicende del ducato di Fondi dal X al XII secolo nel più generale ambito della storia del ducato di Gaeta e delle evolu- zioni che hanno portato al suo frazionamento. Il fenomeno dell’incastellamento ed il frazionamento dl territorio in una pluralità di giurisdizioni autonome go- vernate dai parenti dei duchi di Gaeta ha originato la nascita del ducato di Fon- di. Mentre nella parte meridionale del ducato gaetano l’affermarsi di tendenze disgregatrici ha prodotto un indebolimento del Ducato ed ha favorito la conqui- sta del territorio da parte dei Longobardi e dei Normanni nella prima metà del XI secolo e quindi la fine della dinastia di Docibile, il ramo fondano della dina- stia si è mantenuto forte ed unito, governando il territorio con lungimiranza e trovando nella potente Abbazia di Montecassino un valido alleato. Solo intorno al 1140 il ducato di Fondi si trasformerà in contea normanna. Il dottor Pesiri, in sintonia con le finalità del Seminario, ha corredato la sua re- lazione con un apparato iconografico che ha suscitato l’interesse di tutti i pre- senti, in particolare degli studenti. Ha presentato e commentato le immagini di alcuni “manufatti” del XII secolo assai poco conosciuti: l’”Exultet” di Fondi e il ciclo di affreschi raffigurante alcuni episodi della vita di S. Benedetto, ritro- vato recentemente nel corso degli scavi effettuati nell’abbazia si S. Magno di Fondi. I lavori del Seminario sono proseguiti poi con un’analisi delle vicende storiche del Ducato di Napoli, operata dal Professor Feniello, dell’Istituto storico italia- no per il Medioevo, mentre il Professore Sangermano, dell’Università degli studi di Salerno ha presentato una relazione sul Ducato di Amalfi e la Professo- ressa Galdi, dell’Università degli Studi di Salerno, si è occupata della Salerno longobarda. Sabato 17 Maggio il Professore Luigi Cardi, dell’Istituto Universitario Orienta- le di Napoli, brillantemente come è il suo solito, ha concluso i lavori del Semi- nario fornendo ai presenti un panorama degli studi sul Ducato di Gaeta operati negli ultimi decenni ed analizzando l’evoluzione di Gaeta da castrum a civitas e l’importanza storica del Codice Diplomatico Gaetano. Poi, in coerenza con le finalità del Seminario e quindi come sua degna chiusu- ra, il Professore Cardi ha guidato una visita al centro storico medioevale di Ga- eta. Resta da augurarsi che simili iniziative possano ripetersi, nello spirito che ha ispirato questo Seminario di formazione, ma con un impegno organizzativo a- deguato alle finalità che si intendono perseguire.

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r e c e n s i o n i

Conferenza «Gli albori del socialismo e del comunismo in Terra di Lavoro attra- verso l'opera dei suoi protagonisti» (Arce, 30 marzo 2008) Nella sede della Banda musicale comunale e parrocchiale «Città di Arce», si è svolto domenica pomeriggio 30 marzo il Convegno «Gli albori del socialismo e del comuni- smo in Terra di Lavoro attraverso l'opera dei suoi protagonisti: Gaetano Di Biasio, Vincenzo Francati, Vincenzo Giovannone, Maria Lombardi, Domenico Marzi, Bernar- do Nardone, Ettore Valente», organizzato dal Centro studi ‘Bernardo Nardone’. Occa- sione del Convegno è stata l'inaugurazione della nuova sede del Centro studi sito all' interno dell'antico palazzo Quattrucci in via Costarelle, in Arce. Il Centro studi ‘Bernando Nardone’ è stato fondato nel 1997 per iniziativa di Romeo Fraioli, fotografo-ricercatore e di Fabio Simonelli, archivista-paleografo free lance. È un’ associazione senza fini di lucro che persegue scopi culturali. Attualmente il Centro è retto da un Consiglio direttivo e si avvale della consulenza storico-documentaria di un Comitato scientifico. Il Centro ha creato, nella sua sede di via Costarelle 15 in Arce, uno spazio per la ricer- ca storica aperto a tutti gli studiosi che ne facciano richiesta. La sua attività si esplica attraverso una Biblioteca, un Archivio fotografico ed un Centro di documentazione ar- chivistica. La Biblioteca, che conta ormai più di 3000 volumi catalogati secondo il Si- stema bibliotecario nazionale (SBN), in continuo aggiornamento, è specializzata nei seguenti settori: storia contemporanea con particolare riferimento al movimento sinda- calista e contadino del Lazio meridionale; storia locale del Lazio meridionale con par- ticolare riferimento alla regione storica di Terra di Lavoro. L’Archivio fotografico rac- coglie immagini d’epoca relative ad Arce ed ai paesi limitrofi a partire dagli inizi del ’900. Il Centro di documentazione archivistica raccoglie indici, inventari e documenti di fondi relativi alla storia di Arce, Rocca d’Arce, Fontana Liri e Santopadre dal Cinque- cento al Novecento. Le attività del Centro si concretizzano nella promozione di mani- festazioni culturali attraverso mostre, conferenze, presentazioni di volumi, seminari nonché la ricerca storica incentrata principalmente sulle tematiche locali riferite ad Ar- ce e ai paesi limitrofi e sul movimento operaio e contadino del Lazio meridionale. Il Convegno affrontava quindi una tematica di notevole spessore, in pieno “accordo” con gli orientamenti culturali del Centro. Ha aperto i lavori il presidente del Centro stesso Romeo Fraioli, illustrando l’attività dell’Istituto nel panorama degli istituti cul- turali del Lazio, anche attraverso la descrizione del sito internet all’interno del quale è ora possibile consultare la biblioteca in continuo aggiornamento che conta allo stato attuale più di 3000 volumi, schedati secondo il sistema bibliotecario nazionale (SBN); mentre sono in corso di schedatura l’Archivio fotografico ed i materiali del Centro di documentazione, comunque consultabili in sede. Il primo intervento è stato quello di Maurizio Federico che nella sua relazione «I so- cialisti in Terra di Lavoro nell'età liberale» ha illustrato l'attività politico-sindacale di Gaetano Di Biasio, Vincenzo Francati, Vincenzo Giovannone, Maria Lombardi, Do- menico Marzi, Bernardo Nardone ed Ettore Valente, contestualizzandone l'operato sia all'interno del Circondario di appartenenza che nel quadro più generale della provincia. Il relatore - che ha redatto per ogni personaggio una vera e propria scheda biografica -, 93

ha messo altresì in evidenza le «affinità» e le «differenze» che animavano l'attività di ognuno, nell'ambito di una fitta rete di rapporti e relazioni mirate comunque a portare avanti le proprie lotte e le proprie rivendicazioni in sinergia con i compagni di partito. Ma oltre a ciò, Maurizio Federico ha delineato per ogni personaggio le principali vi- cende umane e politiche, proponendo una sorta di vero e proprio «Dizionario biografi- co dei socialisti della provincia di Terra di Lavoro». Ha fatto poi seguito il dotto contributo di Fabio Simonelli, che nella relazione «Ber- nardo Nardone nella storiografia italiana del Novecento» ha passato in rassegna saggi, monografie, finanche un “romanzo storico”, mettendo in evidenza il ruolo di primo piano svolto dal Nardone sia a livello locale che nazionale. In questo contesto partico- larmente suggestiva è stata la lettura di un brano tratto dal romanzo storico di cui so- pra, Il sole dell'avvenire, opera di Giuseppe Neri pubblicata nel 2003 per i tipi di Man- ni (San Cesario di Lecce), che descrive così il nostro personaggio: «[...] Era un uomo smilzo ma piuttosto alto l’avvocato Nardone, con due occhi mobili e vivaci e portava al collo una cravatta a fiocco. Rossa. [...]» (p. 57). Ha concluso i lavori, l’avvocato Ferdinando Corradini («L'on. Federico Grossi e l'avv. Bernardo Nardone nello scenario politico arcese di inizio Novecento») che ha ripercor- so con dovizia di informazioni e il consueto equilibrio le tappe dell'attività politica svolta da Nardone all'interno del Consiglio comunale di Arce, ponendo in evidenza in particolare i rapporti che quello seppe sempre mantenere con la presenza e l’ attività svolta localmente dall’ onorevole Federico Grossi. Ha svolto le funzioni di moderatore del Convegno il prof. Bernardo Donfrancesco, a cui Romeo Fraioli e Fabio Simonelli, in qualità di coordinatori del Centro studi ‘Nar- done’, hanno consegnato un simbolico riconoscimento come «promotore e uomo di cultura». Alla fine del Convegno l'Amministrazione comunale, nelle persone del sinda- co Giuseppe Corsetti e dell' assessore Marcello Marzilli, ha consegnato a Fraioli e Si- monelli due targhe di riconoscimento per l' attività culturale finora svolta. Antonio Di Fazio

Celebrato a Sperlonga il cinquantenario della scoperta dei gruppi marmorei dell’antro di Tiberio Presso il Museo Nazionale archeologico di Sperlonga si è svolta il giorno 15 feb- braio 2008 la rievocazione dei cinquanta anni della scoperta dei celeberrimi gruppi marmorei della Grotta di Tiberio. L’avvenimento si è aperto con la rievocazione del sindaco di Sperlonga, Rocco Scalingi, a cui sono seguite le dotte relazioni della dott.ssa Marina Sapelli Ragni, Soprintendente archeologico del Lazio, della prof.ssa Gabriella de Martiis Bellante, del prof. Baldo Conticello e della dott.ssa Nicoletta Cas- sieri. Ha concluso i lavori Armando Cusani, presidente della Provincia di Latina. Molto interessante la mostra dei disegni di Vittorio Moriello per la ricostruzione dei gruppi marmorei della Villa Imperiale, con relativo catalogo. Rammentiamo che in una grotta naturale che si apre in una rupe adiacente, fra Amyclae e Gaeta, l’imperatore Tiberio, che possedeva una grandiosa e sontuosa villa, degna di un Augusto, diede una cena, durante la quale, come narrano Tacito e Svetonio, si stac- carono improvvisamente dalla volta alcuni grossi massi, che l’avrebbero schiacciato se il prefetto del Pretorio Seiano non l’avesse salvato facendogli scudo col suo corpo. In 94

questo frangente rimasero uccisi molti cortigiani e servi. Per quersto atto di supremo eroismo Seiano poté accattivarsi le simpatie ed i favori del tiranno, accrescendo la sua potenza, Il diffidente Tiberio, però, sospettando che quegli stesso ordendo delle trame contro di lui, lo fece uccidere e le sue misere spoglie furono gettate nel Tevere. Ingrati- tudine umana! La famosa grotta, alta 15 metri, profonda 25 e larga 40, posta all’estremità orientale della spiaggia di Angolo, presenta ancora i maestosi ruderi delle divisioni, dei sedili, dei portici, la grande peschiera e gli ornati in stucco colorati, simili alle policromie del- le ville di Baia, e i lacerti di affresco, del IV stile. Il sentiero che vi conduce, lungo la spiaggia, è fiancheggiato dalle vestigia di costruzione romana rivestita di superbe fab- briche alla maniera reticolata e in opera incerta, del 1° secolo, la maggior parte sepolta sotto quasi tre metri di sabbia del mare. Queste due tecniche murarie fanno presumere che alla grotta, dall’ampia apertura a ponente, può asssegnarsi una lunga vita edilizia, partendo da una fase ad opera incerta fino alle strutture di epoca primo Impero e flavia. «La casuale scoperta dei marmi, che hanno formato quelli che, oggi, sono i famosissi- mi gruppi sperlongani, ebbe inizio – dichiara Marisa de’ Spagnolis - l’11 settembre del 1957, con l’ing. Erno Bellante, addetto ai lavori della nuova strada litoranea Terra- cina-Gaeta. Egli, appassionato archeologo, attratto dall’idea che alcune strutture mura- rie di varia epoca e di varia entità, visibili presso una grotta, sita a mare, ai piedi del monte Ciannito (m. 247), potessero essere indizio di maggiore materiale archeologico, mandò alcuni operai ad effettuare dei saggi di scavo. Era iniziata la straordinaria av- ventura, che doveva portare alla luce frammenti di vari gruppi statuari, di eccezionale valore archeologico, e dare una notorietà mondiale al centro del Lazio meridionale. Prima dei lavori di scavo promossi, con grande intuizione, dal Bellante nella grotta, all’ occhio del visitatore si offrivano pochi ruderi visibili: tracce di una banchina in opera incerta, qualche sedile scavato nel vivo masso, un padiglione sulla spiaggia, un po’ rovinato, poco lontano dall’imbocco della caverna, anch’esso in opus incertum. Le esplorazioni del Bellante diedero presto risultati notevoli, con ventinaia di pezzi di marmo, di pregevole fattura: teste ed arti giganteschi, torsi di uomini nerboruti, figure di donne dal portamento ieratico furono trovate nelle tre vasche per l’itticoltura del complesso architettonico sperlongano: una grande, rettangolare, con isolotto e nidi di pesci; un’altra, circolare, comunicante con la prima, ed una terza, trapedoizale» Di prino acchito si ebbe la sensazione della grandezza degli esemplari, che si era di fronte a sculture di soggetto omerico, ridotte in frantumi dalla furia iconoclasta dei primi cristiani, che cercarono di far scomparire ogni traccia di gentilesimo. A confer- mare questa impressione, si rinvenne sulla chiglia della nave marmorea di Ulisse un’iscrizione greca, di una trentina di centimetri di lunghezza, ‘firmata’ da Atenodoro, Agesandro e Polidoro, artisti rodii allievi di Fidia, autori del Laocoonte (I sec. A. C.). Da un’altra epigrafe latina, dovuta a Faustino,di gusto virgiliano, risiultava chiaro che lo speco ospitava il gruppo di ‘Polifemo’, il gigante ubriaco ed insonnolito accecato dagli uomini dell’Itacense, che ha diretto l’operazione contro il mostro, a cui è stato conficcato un palo infuocato nell’unico occhio centrale. Sull’autenticità della testa di Odisseo, contrassegnata dal copricapo dei marinai, non si nutrirono dubbi. Dall’iscrizione si evinceva chiaramente che la grotta di Tiberio ospi- tava un altro gruppo fondamentale, quello di Scilla con la nave di Ulisse, un altro epi- sodio di ispirazione omerica, in cui la nave dell’eroe greco è assalita dal mostro mari- no, dalle spire pisciformi e dalle protomi canine. Questo gruppo, a parere di molti stu- diosi, raggiunge tale virtuosismo, che gli permette di trovare posto tra i più grandi tra- mandatici dall’antichità, similmente al gruppo ciclopeo, con il quale ha in comune la 95

lotta disperata, patetica, spasmodica, di uomini contro mostri. In esso si può cogliere il suadente pathos del momento, l’implorante intensità degli sguardi. Alfredo Saccoccio

Alfredo Sergio, Aspetti e problemi del folklore ciociaro, ISALM- Collana ‘Etnosto- rica’ n. 16, Anagni 2006, pp. 156, s.i.p. Nella collana ‘Etnostorica’, curata dall’ISALM di Anagni appare questo smilzo vo- lumetto che raccoglie parte delle dispense universitarie compilati al ciclostile da Al- fredo Sergio, collaboratore alla cattedra di Storia delle tradizioni popolari dell’Ateneo di Cassino, nell’a.a. 1977-78. E’ un doveroso omaggio ad un onesto studioso delle tra- dizioni popolari della Ciociaria prematuramente scomparso qualche anno fa, postosi in luce con un fortunato studio (ricavato dalla tesi di laurea) sul particolare carnevale fru- sinate, La ràdeca. Una tradizione della Ciociaria (Roma, 1976), subito adottato in quella ed in altre Università. In questi scritti che compongono il nuovo volume si delinea un progetto, anche se solo abbozzato e – per sua stessa ammissione – da “approfondire, ampliare, perfezionare” (p.37): quello di trovare un senso alle tante ricerche slegate ed occasionali che dall’800 si sono prodotte sulle popolazioni ciociare, provandosi ad una ricostruzione storica nel quadro degli studi demologici nazionali e delle aggiornate metodologie di indagine, che Sergio mostra più volte di aver assunto dalla importante lezione di Alberto M. Ci- rese. Il progetto appare talvolta velleitario, o comunque mostra carenze e scompensi dovuti alla mancanza di ulteriori elaborazioni ed approfondimenti. Ma si apprezzano altresì l’ impegno intellettuale nei confronti di una vicenda culturale che investe tutt’intero il territorio della Ciociaria, che l’A. intende sottrarre alla destorificazione cui la sottopo- sero in particolare certi vaghi cultori del ‘popolo’ di epoca romantica, come il Visconti e il Marsiliani, che piombarono su queste terre con idee precostituite quanto evasive e falsificanti sulla cultura popolare. Solo con il livornese Giovanni Tragioni-Tozzetti, sceso in Ciociaria nel 1877 come docente al liceo di Ceccano, le cose cambiano. Il suo Saggio di novelline, canti ed usanze della Ciociaria (Palermo 1891), edito nella glorio- sa collana etnografica del Pitrè risentono opportunamente del nuovo clima culturale del Positivismo, più concreto e ‘scientifico’. E infatti c’è finalmente nel volume del Tra- gioni-Tozzetti un importante tentativo non solo di registrare correttamente i canti po- polari, ma soprattutto di inquadrare le tradizioni orali nel sistema di usi e comporta- menti dei gruppi sociali, “per fare – scrisse lo stesso studioso livornese - meno incom- piuto il quadretto della vita sociale”. L’ultimo saggio di questa provvisoria e ancora lacunosa ‘Storia degli studi’ concerne l’illustrazione informata e puntuale dell’attività del musicologo ciociaro Luigi Colacic- chi, saggio però non inedito, in quanto già inserito – come avverte Gioacchino Giam- maria, autore della dotta Premessa – in uno studio già pubblicato nella stessa collana di ‘Etnostorica’ (Anagni, 2003). Antonio Di Fazio

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Franco Cuomo, I dieci. Chi erano gli scienziati italiani che firmarono il ‘Manifesto della Razza’, Baldini e Castaldi - Dalai, Milano, 2005, pp. 273, € 16,00

Questo libro di Franco Cuomo, pubblicato tre anni fa, torna oggi di forte attualità, visto che ci accingiamo a ricordare i 70 anni dall’emanazione delle leggi fasciste sulla razza. Il libro ha nella retrocopertina questa frase-appello ”Nessuno dimentichi i dieci scienziati del ’38. Si chiamavano Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Le- one Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco ed Edoardo Zavattari. Legittimarono la deportazione in Germania di ottomila persone, tra cui settecento bambini. Volevano dimostrare che esistono esseri inferiori. E ci riuscirono, in prima persona. Perché lo furono.” Il libro è molto più ricco della ricerca sui dieci firmatari del ’Manifesto della razza’, del 15 luglio 1938 (riportato nella prima appendice, pp. 199-201, che apparve sui mag- giori quotidiani dell’epoca, a partire dal ‘Giornale d’Italia’), perché si estende al conte- sto, agli altri responsabili e corresponsabili di questa pagina vergognosa della storia italiana del Novecento, una delle pagine più vergognose del già drammatico ventennio fascista. Sono riportati in appendice tutti i documenti, che si riferiscono alla campagna razziale e antisemita, cioè: I - Manifesto della razza, detto anche Manifesto degli scienziati razzisti (15 luglio 1938). II - Il censimento dei razzisti italiani (quelli che sottoscrissero il 'Manifesto'). III - I ‘Giusti’ italiani (che a rischio della vita salvarono numerosi ebrei, sottraendoli alla caccia dei nazifascisti). IV- I conventi della salvezza (le case religiose cattoliche che nella sola città di Roma ospitarono e nascosero ebrei perseguitati). V- Organigramma dei funzionari preposti alla politica della razza (Il consiglio superio- re della demografia e razza - Il tribunale della razza- La commissione per le discrimi- nazioni- Consiglio di amministrazione dell’EGELI (Ente per la gestione e liquidazione immobiliare dei bene confiscati agli ebrei). VI - Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del fascismo (6 ottobre 1938). VII - Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista (Regio decreto legge n.1390, 5 settembre 1938). VIII - Integrazione e coordinamento in unico testo delle norme già emanate per la dife- sa della razza nella scuola italiana (Regio decreto legge n. 1799 del 15 novembre 1938). IX – Provvedimenti per la difesa della razza italiana (regio decreto legge n.1728 del 17 novembre 1938). X - Ministero dell’Educazione Nazionale. Provvedimenti per l’abolizione dei libri di testo di autori di razza ebraica (Circolare del 30 settembre 1938). Sono segnati 114 au- tori, tra i più prestigiosi anche dell’Università italiana. La circolare è firmata dal mini- stro Bottai (al quale il sindaco Rutelli voleva intestare una strada, iniziativa contrastata energicamente dalla comunità ebraica e poi abbandonata). XI – Ministero dell’Interno: Provvedimenti razziali nel settore dello spettacolo (circo- lare del 18 giugno 1940. Direzione generale per la demografia e per la razza). Nel di- vieto di esercitare qualsiasi attività nel settore dello spettacolo erano compresi autori, librettisti, soggettisti, scenografi, attori di qualsiasi rango, registi, comparse, compo- nenti i cori, i direttori e componenti di orchestre, il corpo di ballo e chiunque eserciti la 97

sua attività nel campo teatrale come tecnici operai, personale di sala, di pulizia, di cu- stodia (p.245). XII - Ministero delle Finanze della Repubblica Sociale Italiana. Appunto per il duce sulla confisca dei beni ebraici (situazione al 31 dicembre 1944). XIII - Ministero dell’Interno: precettazione e mobilitazione degli ebrei a scopo di la- voro (Circolare del 5 agosto 1942). Direzione generale per la demografia e la razza. XIV - Processo’ a Pende (dalla rivista’Israel’ del 13 gennaio 1949). Sono fatti con coraggio e chiarezza nomi e cognomi. La tragedia che spiega tanti limiti ancora presenti nella nostra cara, amara Repubblica italiana è che molti responsabili di quella vergognosa pagina non pagarono alla fine del fascismo, né dopo, anzi mantennero cattedre e onori, divenendo esempio di impunità storica e di corruzione etico-politica. Mai come in questo caso è doveroso ricordare, è doveroso non dimenticare. Così il re Vittorio Emanuele III, firmatario delle indegne leggi razziali, ha pagato con la fine della monarchia e l’esilio, Mussolini ha pagato la regìa dell’operazione e la sua conduzione al sommo grado con la fucilazione, insieme a gerarchi collaboratori in tali direzioni. Invece non hanno pagato: -Nicola Pende, direttore dell’Istituto di patologia speciale medica dell’Università di Roma; -Sabato Visco, direttore dell’Istituto di fisiologia generale dell’Università di Roma e dell’Istituto nazionale di biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche; -Arturo Donaggio, direttore della clinica neuropsichiatrica dell’Università di Bologna, presidente della società italiana di psichiatria; -Franco Savorgnan, ordinario di demografia dell’Università di Roma, presidente dell’ Istituto centrale di statistica; -Edoardo Zavattari, direttore dell’Istituto di zoologia dell’Università di Roma; -Lino Businco, assistente di patologia generale all’Università di Roma; -Lidio Cipriani, incaricato di antropologia all’Università di Firenze, direttore del mu- seo nazionale di antropologia ed etnologia di Firenze; -Leone Franzi, assistente nella clinica pediatrica dell’Università di Roma; -Guido Landra, assistente di antropologia nell’Università di Roma; -Marcello Ricci, assistente di antropologia nell’Università di Roma. Essi mantennero le cattedre nel dopoguerra (mentre ci furono problemi per il rientro dei docenti ebrei), hanno avuto onori e riconoscimento di toponomastica. Il ‘Manifesto della razza’, dopo che fu pubblicato sul primo numero della rivista ’Di- fesa della razza’, diretta da Telesio Interlandi in data 5 agosto 1938, accanto ai primi sottoscrittori ebbe poi l’adesione di 392 personaggi, tra i quali Giorgio Almirante, Pie- tro Badoglio, Piero Bargellini, Renato Biasutti, Giorgio Bocca, , mons. Giovanni Cazzani, vescovo di Cremona, Luigi Chiarini, , Giuseppe Cocchiara, Gabriele De Rosa, Julius Evola, Amintore Fanfani, Roberto Farinacci, dott. Cersare Frugoni, Luigi Gedda, padre Agostino Gemelli, Giovanni Gentile, Rodolfo Graziani, Giovannino Guareschi, Mario Missiroli, , Romolo Murri, Paolo Orano, prof. Antonino Pagliaro, Giovanni Papini, Alessandro Pavolini, Camillo Pellizzi, mons. Giuseppe Maria Petazzi, Giovanni Preziosi, Enzo Santarelli, Ardengo Soffici, prof. Sergio Sergi, padre Pietro Tacchi Venturi (della Compagnia di Gesù e di ’Civiltà Cattolica’), Achille Starace. L’elenco completo è alle pp. 202-207. Uno degli intellettuali organici al regime fascista e amico e protettore di alcuni di quel- li che firmarono il ‘Manifesto della razza’, in particolare di Nicola Pende, fu il prof. sen. Pietro Fedele, che fu anche membro del comitato scientifico della rivista ”Diritto 98

razzista” di Stefano Cutelli (p.140), che diede spazio come consulenti del suo diziona- rio Utet ad alcuni dei firmatari del ‘Manifesto della razza’, come Lidio Cipriani, che curava i temi connessi a razza e razzismo (pp. 139-140). Il tragico che emerge è che fu strettissimo il collegamento con gli ambienti e i respon- sabili della campagna razziale e antisemita di Germania con visite reciproche e cono- scenze precise dello spirito, delle linee direttive, degli strumenti attivati per la soluzio- ne finale nei confronti dei diversi e degli ebrei. L’idea di una Italia non razzista e non antisemita non corrisponde affatto alla realtà storica ‘effettuale’, che la vede corre- sponsabile di primo piano a diversi livelli, e va sempre più approfondita, specialmente in questo anno, che è il 70° dell’inizio ufficiale della campagna razziale e antisemita. Nicola Terracciano

Agostino Attanasio, La macchina vecchia di Pantano, ‘Carte pontine’ n. 5, Latina 2006, p. 222, ill., € 18,00

Il sottotitolo di questa quinta opera della collana ‘Carte pontine’ promossa dall’ Ar- chivio di Stato di Latina, diretto dallo stesso Agostino Attanasio autore del libro, ben ne rappresenta il contenuto, che concerne una notevole ricostruzione – anche difficile per lo stato attuale delle fonti, in particolare quelle (quasi inesistenti) dell’ archivio comunale di Fondi e del locale Consorzio di bonifica del Sud Pontino – delle secolari vicende della bonifica della Piana di Fondi, vicende concluse solo negli anni ’50 del secolo scorso e che nell’immaginario collettivo dei Fondani vengono diffusamente i- dentificate col simbolo della ‘macchina vecchia’ di Pantano, cioè la potente idrovora realizzata negli anni 1879-82 e successivamente più volte adattata, e ampliata con pro- getto del 1907. Agostino Attanasio sa dare in questo ponderoso lavoro la misura delle sue notevoli ca- pacità di indagine critica, la sua agilità nel muoversi anche trasversalmente tra i fondi archivistici di ogni genere, la sua cautela di storico accorto che rifugge dal formulare giudizi che non siano almeno in buona sostanza suffragati da prove. Non per altro le prime dense pagine del saggio costituiscono una preziosa messa a punto dello stato delle fonti, nel corso della quale l’A ha l’opportunità di chiedersi dove siano finite le importantissime carte dell’ Amministrazione delle Bonifiche che già dal periodo bor- bonico “aveva in Fondi una propria sede, con un segretario, agenti, custodi e soprastan- ti” (p. 5). I tanti ragionamenti e supposizioni e sospetti avanzati da tanti studiosi (a par- tire dal De Giorgio, autore di una ricostruzione in buona sostanza strumentale delle vi- cende della bonifica ottocentesca1, citata ed utilizzata con cautele da Attanasio) su tale vicenda di eliminazione delle fonti - che di certo però non era l’intenzione dei ‘rivolu- zionari’ fondani che nel novembre del 1969 dettero l’ assalto al Municipio di Fondi mettendone a fuoco un’ala e provocando seri danni anche alle carte d’archivio - reste-

1- De Giorgio, Il bonificamento delle terre paludose nei Comuni di Fondi e Monte S. Biagio dal 1639 al 1900, ed Pansera, Fondi 1900. Ora riedito in anastatica ed inserito in AA.VV., La Piana di Fondi e Monte S. Biagio: bonifica ed evoluzione del territorio (Roma 1993), peraltro recensito su questa rivista, n.1/2001. 99

ranno a mio vedere tali se non si intreccia la lunga e tormentata vicenda che qui si di- rada notevolmente, con il coevo processo – avviato, non si dimentichi, già dai Borbone – di smantellamento del sistema feudale e delle proprietà ecclesiastiche; processo de- collato con la legislazione napoleonica del 1806 e poi ribadito con altri provvedimenti borbonici della Restaurazione e infine con gli incameramenti e le vendite dei beni de- maniali e dell’asse ecclesiastico effettuati dal neocostituito Regno d’Italia. Processo che ancora la storiografia locale non ha saputo affrontare, certo anche a causa della sparizione delle fonti che si lamenta, ma anzitutto per motivi ignobili, essendo gli A- mante, Sotis, Conte-Colino, lo stesso De Giorgio, etc. – il ceto intellettuale del periodo - tutti ampiamente coinvolti nell’ ‘assalto alla diligenza’. Voglio dire che la sottrazione e distruzione fu molto probabilmente dovuta ai signorotti locali, i quali amavano (come in tutto il Meridione agricolo e ancora latifondista) man- tenere in casa i loro archivi, e che - a cominciare dagli Amante e finire allo stesso cita- to avvocato Gaetano Maria De Giorgio (sindaco di Fondi dal 1870 al 1877), che nel suo libro si mostra in possesso di documenti poi spariti - furono i ricchi e potenti acca- parratori di terre, che spesso sottrassero ai contadini con i raggiri e gli espedienti noti anche alla storiografia nazionale, e furono nel contempo i dominatori – sotto diverse bandiere (Giuseppe Amante lo fu prima ripetutamente sotto i Borbone e poi sotto i Sa- voia) – dell’ amministrazione locale. Per conoscerli basta scorrersi i nomi più ricorrenti di decurioni, sindaci e consiglieri comunali (e di storici e scrittori) dell’intero periodo, fino almeno al primo ventennio del ‘900. E in effetti anche per l’incidenza di questo processo lunga e tormentata è stata la storia dei tentativi di bonificazione succedutisi in Fondi e Monte S. Biagio nell’età moderna e contemporanea. Dopo l’intervento di Anna Carafa nel ‘600, finito malamente per l’incuria dei suoi successori, si deve arrivare alla fine del ‘700, per registrare nuove reali iniziative: fu Ferdinando IV di Borbone che tra il 1792 e ’93 spinse per una pro- gettazione, per l’ attivazione di un sistema di finanziamento che giustamente gravava soprattutto sui possedimenti dell’ assenteista principe di Fondi Vincenzo di Sangro, e per un rapido avvio dei lavori. Malgrado le persistenti lamentele e insoddisfazioni lo- cali e certa tendenza antiborbonica avviata dagli storici ed intellettuali del Regno d’Italia (e viva, senza più giustificazione, ancora oggi), pare, almeno dalla relazione di Tommaso Oliva, funzionario di re Ferdinando, che dopo appena un anno e mezzo (nel gennaio del ’95) le opere realizzate fossero già notevoli e avessero procurato un vasto prosciugamento dei Pantani alti e di parte di quelli bassi e la loro produttiva messa a coltura. Qualche anno dopo il re napoletano dispone i finanziamenti ulteriori per la de- cisiva opera di deviazione dell’alveo del fiume Vetere, per portarlo direttamente al ma- re evitando di intasare ancora il Lago, secondo il progetto - anch’esso da taluni ‘risor- gimentali’ nostri storici bistrattato - del Baratta. Ma l’ invasione francese e i gravi e- venti che ne conseguirono bloccarono il progetto. La connessione fra bonifica e vicende della proprietà terriera, dell’ uso e assalto alle terre del demanio comunale, etc., si accentua ed anzi esplode con virulenza nel periodo della Restaurazione, in concomitanza con sopraggiunte difficoltà finanziarie ed orga- nizzative per il Regno napoletano e per Terra di Lavoro; ed è presente, pur se sotto traccia, nella difficile opera di ricostruzione storiografica qui tentata da Attanasio, rico- struzione cui molto impulso seppe già dare una ventina di anni fa la prof. Maria Silve- stri, in un lavoro (molto utilizzato dallo stesso Attanasio) di grande valore sulla bonifi- ca d’ancien régime, suffragato da notevole documentazione rimasta fino ad allora qua- 100

si intonsa nel grande Archivio di Napoli (La bonifica di Fondi: società e territorio in Terra di Lavoro durante l’Ancien Régime, Roma 1990) 2. Ma i risultati dell’indagine su questi intrecci sono insufficienti, evidentemente per la suddetta carenza delle fonti. In più l’A. mostra di dare eccessivo ascolto alle aggressive invettive e ai giudizi tranchant dell’avvocato De Giorgio, portavoce di parte della pos- sidenza, allora tutta assorbita non solo in contenziosi con lo Stato per ottenere il con- trollo delle opere di bonifica, ma anche in lotte interne per il controllo dell’ ammini- strazione locale, in competizione con altri gruppi di potere. Per i quali è sbagliato par- lare di ‘destra’ e ‘sinistra’ con riferimento al quadro nazionale, perché le aggregazioni – già quelle fra leali ai Borboni o i ‘rivoluzionari’ - avvenivano esclusivamente sulla base di accordi sugli interessi del momento. Fu un periodo storico infausto quanto mai, dominato da questi gruppi di nobili accapar- ratori, mestatori e profittatori, che espressero anche figure di senatori e politici inseriti nell’ amministrazione provinciale, nonché di storici (Sotis, Amante, Conte-Colino, lo stesso De Giorgio, etc.) biliosi partigiani, attardati cultori di antiquaria e di ‘glorie pa- trie’, accaniti propagandisti di blasoni di famiglia, e che proprio per tutto questo ancora agli inizi del nuovo secolo non seppero (non vollero) allargare lo sguardo alle gloriose imprese di casta trionfante sopra la ‘bestialità’ (così la pensavano, in tutta evidenza) di tutti gli altri, in particolare dei contadini. Si trattò, sul piano più squisitamente ‘politico’ (ma per essi è parola sprecata), di un gruppo di ‘risorgimentali’ dell’ultima ora, che subito mostrarono anche di fronte allo Stato unitario le loro intenzioni speculative e arraffatrici, con il solo risultato di ritar- dare con la loro azione l’evoluzione e l’ammodernamento della città. Questo gruppo, dopo tanto agitarsi, venne sonoramente smascherato e messo in breccia da una serie di sfavorevoli sentenze (che l’A. sa opportunamente richiamare e utilizza- re), in particolare quella del 1874 che restituiva la proprietà della tenuta della Fasana e di parte di Selva Vetere agli eredi del feudatario, chiamando poi le amministrazioni di Fondi e Monte S. Biagio al risarcimento anche delle mancate rendite (interrottesi dal 1812). Per un momento questi ‘signori’ dovettero tacere ed accettare. E fu proprio allo- ra, come sa opportunamente rilevare l’A., che l’amministrazione statale – che pure cin- cischiava molto di suo, agitandosi fra mutamenti istituzionali e produzione legislativa poco accorta e farraginosa, fino all’ emanazione della legge Baccarini del 1882 - riuscì finalmente ad operare con primi provvedimenti seri ed efficaci, innanzitutto costruendo e mettendo in opera, a cura del Genio Civile di Caserta, l’idrovora di Acquachiara ed altri manufatti di servizio, il cui progetto (firmato dall’ Ing. Sammartino il 27 ottobre 1879) riceve qui per la prima volta ampia illustrazione (in tutto il cap. 5) anche me- diante le bellissima riproduzioni a colori delle sue parti più significative. Peraltro ancora nel 1900, quando pubblica il suo noto pamphlet, il De Giorgio rimane tra i pochissimi ad insistere nel negare acriticamente ogni valore ed ogni efficacia alla famosa ‘macchina’, che se pure dovette più volte subire interventi di manutenzione straordinaria e di potenziamento, senz’altro rimase la protagonista dell’azione di irreg- gimentazione delle acque dei Pantani bassi. La sua insufficienza progressiva dipese esclusivamente dal carico di lavoro che le si accollò, che superò di molto quello indica- to nella progettazione.

2- La Silvestri si ripeté tre anni dopo estendendo l’indagine fino al 1860 con il saggio Vicende della bonifica prima dell’Unità, edito in AA.VV., La Piana di Fondi e Monte S. Biagio: bonifi- ca ed evoluzione del territorio (Roma 1993), cit.

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Ma è vero che da allora lo Stato fu a lungo latitante, invischiato in tante questioni tec- niche e giuridiche, e per il ventennio di fine secolo si operò alla sola ordinaria gestione manutentiva di quegli impianti, che col tempo si mostrarono sempre più insufficienti. La suddetta legge Baccarini n. 869 del 1882 costituì “la prima organica regolamenta- zione” (p. 33) in materia di bonifica. Con essa finalmente lo Stato individua un preciso interesse della nazione all’ esecuzione dei lavori di bonifica, che d’ora in poi hanno senso anche per il più generale progresso igienico-sanitario. Per l’esecuzione lo Stato partecipava per la metà delle spese, e per il resto intervenivano enti locali e privati, in- vitati anche alla costituzione di Consorzi. Ma evidentemente con il decollo dello Stato unitario decollarono anche i caratteri negativi dell’ amministrazione pubblica e dell’ apparato burocratico che ancora oggi affliggono gli Italiani. Le previsioni che furono fatte intorno al 1900 per gli definitivi interventi di bonifica, con relativi piani di spesa, per ben 47 aree dello stivale, furono in gran parte fallaci e velleitarie: per la bonifica posta al numero nove dell’elenco, quella della Piana di Fondi e Monte S. Biagio, si im- piantò uno schema operativo e finanziario di quattro anni, da chiudere entro il 1904! Malgrado ciò, negli anni a cavallo fra i due secoli si registra una notevole produzione di studi e documentazione tecnica e di discussioni sull’intero arco della bonifica, cui partecipano con ruolo notevole i tecnici del Genio Civile di Caserta. Le linee generali di una progettazione che si va delineando parlano dell’estensione dell’uso dell’idrovora di Acquachiara, per prosciugare altri terreni non coperti, mediante una serie di canaliz- zazioni, scavo di fossi di scolo e ricavamento dei canali Vetere (col controfosso di sini- stra) e Vetere Baratta, lavori di spurgo alle foci di Canneto a nord, per il miglior de- flusso delle acque di Monte S. Biagio e di S. Anastasia a sud. Si tratta di ampia serie di sistemazione idraulica nell’intero comparto a ridosso del La- go di Fondi, che si realizza negli anni a cavallo dei due secoli, e che danno peraltro luogo anche a dubbie concessioni di lavori di derivazione di acque per irrigazione fatte a privati, tutti esponenti in vista del ceto proprietario locale, quali i Cantarano e i Padu- la citati in una nota, ma anche tanti altri sui quali si sorvola. «Uno sguardo alla plani- metria allegata ci convince facilmente – sintetizza questa fase l’A. – che questi lavori non fanno altro che proseguire oltre le terre di Spinolara raggiunte nel 1897, e fino al Pantano Grande, la rete di canalizzazioni che converge verso l’idrovora di Acquachia- ra, confermandone la funzione di fulcro della bonifica della Piana» (p. 37). Da qui i vari interventi in modifica e potenziamento della macchina, che ad esempio al 1905 solo a luglio inoltrato riuscì a prosciugare i 2264 ettari (molti più di quelli dovu- ti), tant’è che si potettero registrare gravi danni non solo alle colture, ma anche all’igiene. L’A. con perizia consumata sa interessarsi puntualmente dei complessi pro- blemi tecnici e giuridici connessi a questi interventi, sintetizzando i vari progetti pro- dotti dal Genio Civile di Caserta, e soffermandosi in particolare su quello del 1907 (dovuto all’Ing. Ettore Andreocci) che oltre al potenziamento dell’ idrovora già esi- stente ne prevedeva una seconda da collocare in prossimità dello sbocco del canale S. Magno al lago, «così da assorbire tutto il deflusso dei terreni posti a destra del S. Ma- gno, una delle zone di più difficile prosciugamento» (p. 43). Magnifiche ci paiono le riproduzioni a colori delle diverse planimetrie allegate al progetto. I lavori vennero affidati nel 2007 ad Adriano Cantarano, per una cospicua somma; an- cora un Cantarano, e lo rileva lo stesso A., ricordando i precedenti incarichi conferiti nel 1889 a un Camillo Cantarano e nel 1901 a Guglielmo, allora deputato. Stretta quan- to scandalosa fu nei decenni a cavallo dei due secoli la collusione fra potere politico ed affari di questa famiglia: che allora poté collocare Achille Cantarano alla guida del Comune dal 1896 al 1905, il citato Guglielmo deputato al Parlamento dal 1900 al 102

1909, tanti altri consiglieri e assessori in tutte le amministrazioni del periodo, e dal ’39 al ’43 il senatore fascista Camillo. Ovviamente lo stesso A. si rende conto di come do- vette essere vasta questa perversa commistione di politica e affari nella storia di Fondi fino almeno al 1922, pur se non è in grado di riesumarla per intero. Ma una documen- tazione illuminante esiste (chi la possiede?). Si tratta della coraggiosa quanto circo- stanziata denuncia pronunciata in pieno consiglio comunale nell’aprile del 1911 da Onorato De Arcangelis, assessore di una amministrazione ‘popolare’ (allora capeggiata da Gabriele Nardone), il quale elencò con precisione nomi e reati portando alla luce – scrive Geremia Iudicone, unico a darne memoria - «le numerose usurpazioni perpetrate ai danni del demanio comunale da fondani, forestieri e soprattutto da… amministratori comunali nel decorso del precedente secolo» 3 .

Durante i lavori, che si conclusero nell’estate del 1911, emerse una questione pedo- logico-ambientale che ci pare di grande importanza, anche alla luce di quanto accadrà successivamente. In breve si delinearono già dai primi del ‘900 due linee strategiche: quella sostenuta dal Genio Civile di Caserta, che presto si orientò per il prosciugamen- to totale e per l’intero anno delle terre sottoposte, forse anche per risolvere la perma- nente opposizione e litigiosità di contadini e proprietari, che si sentivano malserviti (contrasti che spesso opposero contadini di Fondi e quelli di Monte S. Biagio); e quella – portata avanti dalla Commissione centrale delle Bonifiche – che sosteneva anche con ragioni pedologiche ed ambientali generali, che era un bene mantenere allagate le terre dei Pantani bassi nei mesi invernali: perché alla ripresa di primavera le terre liberate dalle acque potevano produttivamente essere poste a coltura. La quaestio meritava un approfondimento. Che non si fece in tempo a pensarlo, perché proprio la necessità di smorzare le agitazioni contadine, divenute particolarmente aggressive nel maggio del 1912, suggerì anche agli esponenti della Commissione centrale di prosciugare a largo raggio e permanentemente, a partire da una breve fase sperimentale. Ma fu anche la fine della gloriosa ‘macchina vecchia’ di Acquachiara, come dell’altra di S. Vito, che ovviamente non erano in grado di operare per un territorio tanto pià va- sto e senza soste, per tutto l’anno. Le nuove opere furono avviate, ma le conclusioni non si raggiunsero se non in parte. Cominciavano ad emergere anche in questo settore in quei frangenti problemi e abusi amministrativi, che già erano esplosi con i tanti scandali finanziari di fine secolo, legati in buona sostanza alla partecipazione del capi- tale privato, che lo Stato cominciò allora a sollecitare. Basti ricordare quante volte si dovette procedere a rifinanziamenti con somme aggiuntive, quante volte i lavori non furono terminati entro le date stabilite o risultarono scadenti, o citare il dato di confron- to sul costo delle bonifiche nel Meridione e nel Nord, denunciato nel congresso di S. Donà di Piave del marzo del 1922 dall’ing. Omodeo: 180 lire per ogni ettaro bonificato al Nord, contro le ben 414 lire al Sud. Gli anni dal 1915 al 1920-22, segnati dalle tragedie della Grande Guerra e dal turbo- lento periodo postbellico, posero in discussione – assieme all’assetto dello Stato libera- le, che stava cedendo al fascismo, e sotto la pressione di un popolo contadino che re- clamava assegnazioni di terre quasi a ‘risarcimento’ dei sacrifici affrontati – istituzioni, politiche agrarie, assetti normativi, concezioni e destinazioni, etc. Così in tante discus-

3- Cfr. G. Iudicone, Cenni sulla cronologia delle amministrazioni civiche di Fondi, Latina 1960, ora consultabile in Le amministrazioni civiche di Fondi (ed. Confronto, Fondi 2006), pp. 275-6. Come per altri studi e documenti Iudicone – che è stato a lungo ufficiale di Stato civile al Comu- ne di Fondi - non dà indicazioni sulle fonti consultate. 103

sioni, ma principalmente nel citato Congresso per le bonifiche venete di S. Donà di Piave del marzo del ’22, si viene formando l’idea della ‘bonifica integrale’, che sarà il punto di forza dell’azione del fascismo in questo campo. L’ultimo atto della ricostruzione, che – come sappiamo – si proietta solo fino al 1930, cioè alla costituzione del Consorzio della bonifica della Piana di Fondi e Monte S. Biagio, contempla i nuovi radicali mutamenti di scenario – politico, sociale, economico – avviati con gli anni ’20 e con la ‘rivoluzione’ fascista. Nuove idee e nuovi soggetti si fanno avanti, come già in parte ricordato. Peraltro nel 1920 scompare dalla scena l’ex feudatario di Sangro, che vende ai Pantanella i suoi 1300 ettari di Selva Vetere (l’intera quota assegnata ai di Sangro con sentenza della Commissione feudale del 20.11.1809). Ma appena tre anni dopo la ‘Società anonima per la bonifica delle paludi di Fondi’ da quelli costituita viene acquisita dalla famiglia Bisleti, che danno vita alla società ‘Salto di Fondi’, che come la precedente, più che ad apportare miglioramenti importanti, mira all’ esenzione dei contributi di bonifica e al ‘drenaggio’ per decenni di cospicui finan- ziamenti, per lo sviluppo di attività produttiva (uva, frutteti, agrumeti, floricoltura, etc.) tutta privata. Sono le prime infelici prove della penetrazione anche in queste campagne del capitalismo agrario. L’idea nuova sulla bonifica è ancora quella del prosciugamento permanente del territo- rio di competenza, quindi del potenziamento delle strutture, cui si aggiunge la consa- pevolezza nuova che una bonifica non può essere solo regimentazione delle acque, né solo risanamento igienico, ma deve condurre alla rinascita della produzione agraria, con la messa a coltura delle terre ‘redente’. In più da più parti ormai si sollecitano i proprietari alla costituzione di Consorzi, per la compartecipazione, la realizzazione tecnica, infine per la messa a regime delle opere e lo sfruttamento agrario. E’ quanto si afferma e conferma con la legge Serpieri del 1924 e con la legge Mussoli- ni sulla bonifica ‘integrale’, del 1928. Ed è quanto da subito si iniziò a realizzare nella vicina bonifica pontina, che avrà gli esiti sostanzialmente positivi che si conoscono, ma che non si poté allora avviare nella nostra Piana, i cui terreni fino almeno al 1926 – quando con atto di transazione del 23 febbraio vengono definitivamente riconsegnati al Comune di Fondi i quasi 600 ettari di Selva Vetere e Riserva Mortetto, assegnati all’ Amministrazione borbonica delle bonifiche ed invano richiesti in restituzione ai sensi del decreto del giugno 1863 - rimasero sotto il possesso e il controllo del Ministero dei lavori pubblici quale soggetto primo delle opere di bonifica. Ma il decollo del Consor- zio trovava difficoltà anche nella frammentazione già notevole delle proprietà e nelle connesse difficoltà finanziarie. Dunque gli ultimi e più deludenti atti di bonificazione che si realizzano prima del 1930, portano il nome del commendator Vincenzo De Stefano il quale dopo un discreta presenza per lavori collaterali (edilizia, spurgo, etc.) nel maggio del ’23 presenta al Genio Civile di Caserta una complessa e pretensiosa progettazione per la definitiva realizzazione del prosciugamento permanente non solo del primo bacino, della Piana, ma anche degli altri due, del Salto e di Selva Vetere. La lungimiranza di questo perso- naggio lo portava a sottolineare i grandi risultati che si potevano sperare in termini di economia, visto che le opere promesse si armonizzavano con il vicino completamento della ferrovia ‘direttissima’ Roma-Napoli, il cui scalo fondano avrebbe potuto con faci- lità collegarsi con l’ampia darsena di Acquachiara per lo smistamento dei prodotti orto- frutticoli di tutto il territorio della Piana. La storia ricostruita da Attanasio si interrompe al 1930, quando inizia il capitolo defini- tivo, o forse il penultimo, di una vicenda de la longue durée destinata a concludersi con la metà degli anni ’50, per l’accorta attività del Consorzio di Bonifica. 104

Il libro, come si è capito, è ricco, prezioso intanto per il grosso lavoro di scavo negli archivi e per l’immane fatica della lettura, comprensione e ampia riproduzione dei do- cumenti cui Attanasio si è sottoposto a pro non solo del suo saggio, ma direi ancor più della stessa memoria storica, perché anche nuovi studiosi abbiano a fruirne. Ma la lon- gue durée resta, come dire, troncata dal limite imposto al saggio; che per questo appare anche qua e là ripetitivo, mentre lo stesso filo conduttore risulta necessariamente labile, tale da non consentire ancora un’ interpretazione generale. E ci sono nodi da sciogliere. Uno dei quali concerne la quaestio che per un momento si affacciò, e che l’A. non può conchiudere: se davvero fosse necessario bonificare e pro- sciugare tutto, e permanentemente – come sostenevano i bravi tecnici del Genio di Ca- serta –, o non fosse più utile lasciare intatto l’ambiente, con i boschi e con la sommer- sione nel solo periodo invernale in un’ampia zona dei Pantani bassi e nella Selva. Si sa che nel dopoguerra questo risanamento radicale, che inaridì i Pantani, apportò muta- menti climatici che si sono dimostrati deleteri per la produzione agrumicola dell’ intera Piana4. Anche per tutto questo si attende con vivo interesse il nuovo studio che più volte l’A. promette, per portare alla necessaria conclusione la grandiosa storia della secolare bo- nifica della Piana di Fondi e Monte S. Biagio. Antonio Di Fazio

Finito di stampare in luglio 2008 nella Tipografia Fabrizio di Itri

4- Una recente riconsiderazione del caso è proposta in A. Di Fazio, La crisi dell’economia agra- ria fondana e la rivolta del 3 febbraio 1969, in ‘Annali del Lazio Meridionale’ n. 2/2007, in par- ticolare nelle pp. 56-58.