Ecco l occhio del tempo: con I luoghi della memoria della Shoah in Italia scruta torvo a cura di Elena Pirazzoli da sopracciglio di sette colori. Fuochi lavano la sua palpebra, la sua lacrima è vapore. La cieca stella vi si avventaGiovanni Borgognone a volo E fonde a quel più scottante ciglio: si fa caldoLA ilSHOAH mondo, i mortidai presupposti alla “soluzione finale” gemmano e fioriscono. Paul Celan (1920-1970) Ecco l’occhio del tempo: scruta torvo da sopracciglio di sette colori. Fuochi lavano la sua palpebra, la sua lacrima è vapore. La cieca stella vi si avventa a volo e fonde a quel più scottante ciglio: si fa caldo il mondo, i morti gemmano e fioriscono.

Paul Celan, Occhio del tempo, in Poesie, trad. it. di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998

Giovanni Borgognone LA SHOAH dai presupposti alla “soluzione finale”

con I luoghi della memoria della Shoah in Italia a cura di Elena Pirazzoli

[email protected] 1 02/03/17 10:19 Revisione del testo: Alfredo Guaraldo Copertina: Alessandro Damin Progetto grafico: Cinzia Marchetti, Silvia Manetta Coordinamento grafico: Cinzia Marchetti Impaginazione elettronica e controllo qualità: Silvia Manetta Segreteria di redazione: Enza Menel

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La Shoah: un sovvertimento della civiltà occidentale 5

1. I PRESUPPOSTI DELLA SHOAH 7

2. LA PERSECUZIONE NAZISTA DEGLI EBREI (1933-1939) 14

3. LA RADICALIZZAZIONE DELLA POLITICA RAZZISTA TEDESCA (1939-1942) 19

4. LO STERMINIO (1942-1945) 24

5. I PROCESSI E LA MEMORIA 35

SUGGERIMENTI FILMICI 43

STORIOGRAFIA 47 1. Memoria e storia dello sterminio 48 2. Da Buenos Aires a Gerusalemme: il dibattito su Adolf Eichmann 53 3. Il negazionismo 60

I LUOGHI DELLA MEMORIA DELLA SHOAH IN ITALIA 62

0040_FA691000273X@0003_0080.indd 3 02/03/17 10:15 0040_FA691000273X@0003_0080.indd 4 02/03/17 10:15 Ecco l’occhio del tempo: scruta torvo da sopracciglio di sette colori. Fuochi lavano la sua palpebra, la sua lacrima è vapore. La cieca stella vi si avventa a volo e fonde a quel più scottante ciglio: si fa caldo il mondo, i morti gemmano e fioriscono.

Paul Celan (1920-1970), poeta romeno ebreo, sopravvissuto alla Shoah

La Shoah: un sovvertimento della civiltà occidentale

I termini Shoah e Olocausto si riferiscono allo sterminio pro- grammato e sistematico di oltre sei milioni di ebrei da parte del nazionalsocialismo tedesco nel periodo compreso tra il 1941-1942 e la fine della Seconda guerra mondiale. Occorre tuttavia introdurre una precisazione terminologica: di derivazione greca (con il significato letterale di “bruciato intera- mente”), Olocausto indicava, nella religione giudaica antica, una forma di sacrificio rituale consistente, per l’appunto, nell’ardere interamente la vittima; Shoah, invece, in lingua ebraica denota distruzione e sciagura (“tempesta devastante”, nella Bibbia), senza connotazioni religiose: per tale ragione viene normalmente con- siderato più appropriato dagli ebrei, essendo la persecuzione e lo sterminio perpetrati dai nazisti effetto anzitutto di un’aberrante ideologia razziale e di complesse motivazioni politiche, militari ed economiche.

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0040_FA691000273X@0003_0080.indd 5 02/03/17 10:15 Tale evento si presenta durante la Seconda guerra mondiale come un’improvvisa e fulminea cesura nella storia. Lo storico Dan Diner ha parlato, a tal proposito, di una «frattura di civiltà» ai danni dell’umanità. Dalla seconda metà del Novecento, in effetti, la Shoah è divenuta incessantemente oggetto di riflessioni da parte di storici, filosofi, psicologi, romanzieri e artisti, nel confronto con l’angosciante interrogativo di come la civiltà occidentale moderna – discesa dalla cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento e fondata sui principi del pensiero illuministico – abbia potuto dare luogo a un simile orrore. All’ingresso nei campi nazisti, l’essere umano vedeva cancellata la propria identità, diventando semplicemente l’esemplare di una specie privo di individualità, in una degradante riduzione a mera corporeità ed esistenza organica spogliata di qualsiasi prerogativa umana. Come è potuto accadere? E perché gli ebrei? Sono domande intorno alle quali ancora oggi continua a svol- gersi un intenso dibattito intellettuale. Dal punto di vista storico si può certamente affermare che, se da un lato la Shoah non fu fatalmente implicita nel diffuso antisemitismo presente tra la po- polazione europea, né nelle travagliate vicende dell’Europa emersa dalla Grande guerra e neppure nei piani espliciti del nazionalso- cialismo giunto al potere nel 1933, d’altro lato tutti questi fattori ne rappresentarono per molti aspetti gli indispensabili presupposti. Da qui, dunque, è necessario partire.

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0040_FA691000273X@0003_0080.indd 6 02/03/17 10:15 1. I PRESUPPOSTI DELLA SHOAH

1.1 L’antisemitismo nella cultura moderna europea Il razzismo ha avuto uno spazio rilevante nella storia mo- derna europea, a partire dall’Illuminismo e dalla sua pretesa di definire “razionalmente” il posto dell’uomo nella natura. I programmi scientifici dell’Illuminismo condussero infatti, nel corso del XVIII secolo, al tentativo di fornire una classificazione delle razze umane sulla base di criteri ispirati ai metodi della scienza. Nacque così il cosiddetto “razzismo scientifico”, a opera soprattutto del tedesco Johann Blumenbach (1752-1840), autore di una catalogazione basata su analisi “craniometriche”, ossia sullo studio delle differenze nelle forme e dimensioni del cranio tra i diversi gruppi umani. Nelle loro indagini sulle razze umane, gli illuministi tesero a sovrapporre ai parametri scientifici anche considerazioni estetiche, frutto dell’eredità della cultura classica greco-romana, fondando spesso le misurazioni e i confronti sul grado di accostamento alla bellezza e alle proporzioni discendenti dai canoni dell’arte clas- sica. Fu sulla base di considerazioni di tal genere che il razzismo scientifico poté avvalersi anche del supporto della fisiognomica, la “scienza della lettura del volto umano” ideata verso la fine del Settecento dallo svizzero Johann Kaspar Lavater (1741-1801), che durante la seconda metà dell’Ottocento troverà un celebre epigono nell’italiano Cesare Lombroso (1835-1909). Sebbene gli ebrei in quanto tali non rientrassero come razza a sé nelle analisi del razzismo scientifico, la classificazione dell’uma- nità in razze – che fu accettata dalla comunità scientifica fino al secondo dopoguerra, quando venne rigettata in nome dell’unita- rietà della specie homo sapiens e della negazione dell’esistenza di razze umane nel senso fino ad allora comunemente inteso – fornì all’antisemitismo un supporto “scientifico” alla teoria della loro non assimilabilità all’archetipo “ariano”.

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Nei suoi studi fisiognomici Lavater attribuì agli ebrei caratteri- stiche somatiche peculiari quali “nasi aquilini” e “menti appuntiti”, ma ammise di non sapere esattamente come classificarli in termini razziali. Fu soltanto nel corso dell’Ottocento che si cominciarono ad applicare agli ebrei sistematicamente i principi razzisti. Ai temi ora visti si aggiunse quello della lingua. I filologi, infatti, avevano cominciato ormai da tempo, nei loro studi sulle origini delle lin- gue, a sostenere che alla base di tutte quelle occidentali vi fosse il sanscrito e che esso fosse stato importato in Europa con la mi- grazione di popoli ariani, anticamente stanziati in India e in Iran. Da lì discese in molti autori razzisti dell’Ottocento la convinzione che coloro che non partecipavano delle comuni radici ariane non potessero neppure avere piena padronanza delle rispettive lingue nazionali, tanto che già nel 1816 in un testo razzista tedesco dal significativo titolo I nostri visitatori si insisteva su una presunta inabilità degli ebrei assimilati a parlare correttamente il tedesco. Un sistematico edificio intellettuale del razzismo fu poi costruito dal conte francese Joseph Arthur de Gobineau (1816-1882) nel Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, in cui per la prima volta si accostavano alle cinque diverse razze individuate dalla classificazione di Blumenbach (bianca o caucasica, rossa, olivastra, gialla e negra) le rispettive caratteristiche e peculiarità di natura intellettuale e morale. La “razza bianca”, rappresentata dagli ariani e considerata superiore a tutte le altre, era caratterizzata, secondo Gobineau, dall’“amore per la libertà” e dal “culto dell’onore”. Il problema del tempo era, però, il mescolamento degli ariani con altre razze, un fenomeno che li poneva a rischio di perdere le loro più alte virtù. Quest’ultima consi- derazione gettava le fondamenta “scientifiche” anche di un’ulteriore aberrazione dell’ideologia razzista: quelle teorie e pratiche eugenetiche che divennero poi parte integrante della Weltanschauung nazista. Ne gli ultimi anni di vita, Gobineau strinse un’intima amicizia con il musicista tedesco Richard Wagner (1813-1883), il quale esaltava nelle sue composizioni il mito germanico. Wagner, inoltre, in uno scritto intitolato Ebraismo nella musica (1850), accusò gli ebrei di essere un popolo privo di una precisa identità e «nemico dell’intera umanità e di tutto ciò che vi è di nobile in essa»: data la loro cre- scente influenza, essi erano pertanto colpevoli, ai suoi occhi, di una degenerazione della società e dell’arte tedesca. La mistica della razza germanica fu poi alla base del libro del britannico naturalizzato tedesco Houston Stewart Chamberlain (1855- 1927) I fondamenti del XIX secolo (1899). Egli sostenne che i “germani”

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erano uniti dal loro sangue comune e dal cristianesimo. Chamberlain era persuaso che Cristo fosse stato un perfetto ariano, incarnando l’amore, la pietà e l’onore, ed essendo il suo animo immune da ogni materialismo. Poco prima di morire Chamberlain conobbe Hitler e, impressionato dalla sua personalità, si iscrisse al Partito nazista. Intanto non soltanto in Germania ma anche in altre nazioni europee, prima fra tutte la Francia, proliferavano gli scritti antise- miti, un filone ideologico culminato nel 1930 con la pubblicazione di quello che divenne il testo di riferimento per i nazisti, accolto con entusiasmo da centinaia di migliaia di discepoli: Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg (1893-1946), massimo ideologo del nazismo, fondatore di un Istituto di studi sulla questione ebraica, quindi responsabile Esteri del partito e ministro per i Territori occupati; tutte posizioni di massimo rilievo nella macchina dello sterminio nazista che lo condussero alla condanna a morte nel processo di Norimberga al termine del conflitto. Nel suo libro egli riprendeva i temi classici dell’ideologia razzista, dalla classi- ficazione in razze al mito della superiorità di quella ariana, nel contesto dell’esaltazione dell’antisemitismo e del mito germanico.

1.2 I massacri d’oltremare Pur nella sua unicità per dimensioni e tragicità, l’eliminazione degli ebrei posta in atto dal nazismo affondava dunque le proprie radici ideologiche in correnti di pensiero ormai consolidate in Europa, ma non era neppure estranea alla pesante eredità delle pratiche occidentali degli stermini coloniali: a partire dai genoci- di compiuti già nel XVI secolo dai conquistadores spagnoli, che nel Nuovo Mondo annientarono intere popolazioni, cancellando progredite civiltà precolombiane come quelle azteca, maya e inca. Nel corso della lunga storia del dominio coloniale, tuttavia, fu soprattutto nell’età dell’imperialismo tardo ottocentesco e primo novecentesco che i massacri perpetrati nelle colonie d’oltremare giunsero a seguire una premeditata sistematicità e logica militare, quale si sarebbe poi ritrovata nella Shoah. Ne costituirono un esempio, con protagonista proprio la Germa- nia, gli eventi nell’Africa tedesca del Sud-Ovest (l’attuale Namibia), dove, dopo l’instaurazione di un protettorato (1883), erano giunti circa 2000 coloni dalla madrepatria. L’imposizione della loro pre- senza sulle terre dei nativi portò, nel 1904, alla rivolta delle tribù

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locali degli herero, che costituivano l’etnia principale nell’area centrale della colonia germanica. Il generale Lothar von Trotha (1848-1920) decise di risolvere il problema semplicemente elimi- nandoli, ponendosi con cruda chiarezza l’obiettivo dello sterminio, come emerge dalle parole di un suo proclama al popolo herero: Ogni herero che sarà trovato all’interno dei confini tedeschi, con o senza un’arma, con o senza bestiame, verrà ucciso. Non accolgo più né donne né bambini: li ricaccerò alla loro gente o farò sparare loro addosso. Queste sono le mie parole per il popolo herero. L’esercito tedesco realizzò sistematicamente il compito affidato- gli, fino alla riduzione della popolazione herero da circa 80 000 a poco più di 15 000 persone. Le forze armate guidate da von Trotha fecero 5000 vittime tra i combattenti e circa 20-30 000 tra i civili. Poi subentrarono le libere azioni irregolari di reparti militari, dai quali furono compiute le più brutali rappresaglie nei rimanenti villaggi. Infine gli herero catturati vennero marchiati e rinchiusi in campi di concentramento, dove furono eliminati attraverso la fame e le pesantissime condizioni di vita.

1.3 La genesi dei campi di concentramento Il caso della guerra contro gli herero, oltre a mettere in luce i precedenti di sterminio programmato da parte dell’esercito tedesco, indica che anche l’origine dei campi di concentramento – uno dei tragici simboli della Shoah – va fatta risalire al mondo coloniale. E in realtà non soltanto alle politiche coloniali della Germania: un significativo modello fu sperimentato anche durante la guerra ispano-americana del 1898 a Cuba. Il progetto attuato dall’esercito spagnolo consisteva per l’appunto nel “concentrare” in isolamento la popolazione civile cubana, in modo da evitare che essa potesse fare da supporto ai guerriglieri in rivolta contro il dominio coloniale. Furono così allestite delle “aree di concentramento e controllo” dotate di baracche e ripari improvvisati, ma prive non soltanto delle risorse per sfamare i deportati, bensì anche di condizioni igieniche adeguate al numero elevato delle persone rinchiuse. L’esito inevitabile fu la morte per malattie e fame di decine di migliaia di persone, soprattutto donne e bambini. Negli stessi anni, anche durante le guerre coloniali del Suda- frica (1899-1902), che videro opposti i boeri (i coloni sudafricani

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di origine olandese) ai britannici, furono istituiti dalle autorità britanniche dei campi di concentramento per internarvi gli uomini boeri, ma i provvedimenti si estesero rapidamente anche a donne e bambini. Gli indici di mortalità nei campi furono impressionan- ti, soprattutto per i bambini, a causa di epidemie favorite dalle precarie condizioni sanitarie dei reclusi. Infine, a partire dal 1914, si assistette alla predisposizione in tutto il mondo coinvolto nella Grande guerra di campi per l’internamento di stranieri e residenti appartenenti a una nazionalità nemica. In Australia furono internati i tedeschi, i belgi nell’Africa tedesca, gli austriaci in Russia; in Germania furono reclusi cittadini americani, belgi, francesi e molti altri, per un totale di circa 100 000 persone. Anche in Gran Bretagna furono adibiti a campo di concentramento edifici e strutture (come un ippodromo a Newbury) per internarvi stranieri e persone sospettate di spionaggio.

PER APPROFONDIRE I campi di concentramento a Cuba Dall’idea di “concentrare” i civili, per più agevole la vittoria. Nell’organizzare isolarli dai rivoltosi ed eventualmente questo grande internamento, Weyler punirne il sostegno, nacquero i campi ordinò ai suoi sottoposti di scegliere di concentramento a Cuba. In un pro- dei luoghi “vivibili” e di concedere ai clama del 17 febbraio 1896, il generale reclusi di coltivare piccoli lotti di ter- spagnolo Valeriano Weyler y Nicolau reno per la propria sussistenza. Ma gli scrisse: «Tutti gli abitanti delle zone ru- ordini erano vaghi, così i militari che li rali o di aree esterne alle città fortificate dovevano mettere in pratica, di regola saranno concentrati entro otto giorni poco inclini a prestare attenzione ai all’interno delle città presidiate dalle civili prigionieri (per di più, in questo truppe. Chiunque violerà quest’ordi- caso, considerati come potenziali tra- ne, o sarà trovato al di fuori delle zone ditori), si limitarono a “concentrare” la autorizzate, sarà considerato un ribelle popolazione rurale dell’isola, senza e processato come tale». Il generale badare alle condizioni abitative e igie- era stato inviato a Cuba dal governo niche. Le testimonianze della vita nei di Madrid per rispondere alla ribellione campi cubani ricordano drammatica- in corso contro la madrepatria. È a lui mente alcune immagini impresse nella che dobbiamo, dunque, il concetto di memoria dei campi nazisti: «Quando “concentramento”. Egli aveva capito entri, a destra e a sinistra vedi i diver- che i rivoltosi godevano dell’appoggio si gruppi di ciascuna famiglia distesi di ampi strati della popolazione e per- per terra sopra dei sacchi; tutti sono tanto ebbe l’idea di isolare i civili cubani pressoché nudi e ridotti pelle e ossa; per indebolire l’avversario e rendere sembrano degli scheletri».

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Un gran numero di reclusi venne poi trasferito nel carcere dell’isola di Man, che tuttavia non era adeguatamente predispo- sto a ricevere internati non criminali. Il culmine del fenomeno concentrazionario durante la Prima guerra mondiale fu raggiunto con il massacro degli armeni da parte dell’esercito dell’Impero ottomano (1915-1916): nei campi in cui furono rinchiusi gli armeni, le carestie e il tifo rappresentarono le principali cause di morta- lità, e nuovamente donne e bambini furono le prime vittime. Si trattò di un vero e proprio genocidio (un evento infamante che la storiografia ufficiale turca si ostina a negare), attestato dalla presenza di innumerevoli fosse comuni.

1.4 Gli sviluppi dell’antisemitismo Oltre ai precedenti di queste pratiche coloniali-militari, all’ori- gine della Shoah, come abbiamo visto, stava l’antisemitismo quale fattore ideologico di fondo. Si trattò di una componente necessaria del processo che condusse allo sterminio, ma non può esserne considerato la “causa sufficiente”, nel senso che il genocidio pia- nificato dal nazismo non era sicuramente predeterminato dalla storia culturale, ideologica e politica dell’antisemitismo. L’odio nei confronti degli ebrei, peraltro, si è manifestato nel corso dei secoli in un repertorio di teorie, simboli e immagini in continua trasformazione, a partire dall’antigiudaismo di carattere religioso (la visione dell’ebreo come uccisore di Gesù), per lungo tempo un elemento intrinseco alla cultura cristiana. Con l’avvento del capitalismo, l’ebreo aveva iniziato a incarnare, nella propaganda dei regimi e in una diffusa cultura popolare, ora il rappresentante di un avido arricchimento borghese, ora l’occulto corruttore della società attraverso il denaro. A partire da queste raffigurazioni, nel corso dell’Ottocento furono contraddistinti da antisemitismo più o meno esplicito anche gli scritti di alcuni autori del nascente pensiero socialista: giunse a invocare l’espulsione degli ebrei dalla Francia perfino uno dei padri dell’anarchismo, Pierre-Joseph Proudhon («L’ebreo è un temperamento antiprodut- tore, né agricoltore, né industriale e neanche veramente commer- ciante. È un intermediario, sempre fraudolento e parassita»). La tradizione antisemita influenzò parimenti lo sviluppo ideologico della destra nazionalista, che indicò spesso negli ebrei i turbatori dell’ordine sociale e i sovvertitori delle regole tradizionali, motivi

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e argomentazioni culminati in Francia negli anni di fine Ottocento con l’affare Dreyfus e in Russia con la fomentazione di pogrom antiebraici. Agli stereotipi socio-culturali si affiancarono quelli espressi anche attraverso la rappresentazione iconografica, come l’effigie dell’ebreo rapace con il naso adunco. Gli ebrei, in ultima analisi, erano considerati una componente etnica e religiosa estranea alle nazioni europee, se non addirittura intenzionata a distrug- gerle per imporre il proprio dominio. In tale prospettiva, uno dei capitoli fondamentali della storia dell’antisemitismo politico fu la diffusione della teoria del complotto ebraico, il cui massimo emblema fu per molti versi rappresentato dai Protocolli dei Savi di Sion, compilati in Russia nel 1902-1903 probabilmente dalla polizia zarista. Questo falso documento pretendeva di contenere la trascrizione di un incontro segreto tra anziani notabili ebrei, nel quale si era discusso di come imporre al mondo – attraverso il controllo sull’informazione e sulla finanza – un nuovo ordine fondato sul dominio ebraico: Per giovare al nostro piano mondiale dobbiamo impressionare i governi dei gentili [i non ebrei, N.d.R.] mediante la cosiddetta pubblica opinione, che in realtà viene dovunque preparata da noi per mezzo di quel massimo fra i poteri che è la stampa, la quale – fatte insignificanti eccezioni di cui non è il caso tener conto – è completamente nelle nostre mani. [...] Circonderemo il nostro go- verno con un vero esercito di economisti. Questo è il motivo per cui si insegna principalmente agli ebrei la scienza dell’economia. Saremo circondati da migliaia di banchieri, di commercianti e, co- sa ancora più importante, di milionari, perché, in realtà, ogni cosa sarà decisa dal danaro. (Protocolli VII e VIII) I Protocolli divennero un potente strumento propagandistico, utilizzato da tutti gli antisemiti, da quelli francesi così come da quelli statunitensi, fino a Hitler e ai nazionalsocialisti tedeschi.

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0040_FA691000273X@0003_0080.indd 13 02/03/17 10:15 2. LA PERSECUZIONE NAZISTA DEGLI EBREI (1933-1939)

2.1 Gli ebrei d’Europa alla vigilia della catastrofe Nonostante la rilevanza e la pervasività dell’antisemitismo in tutte le sue varianti, tra l’inizio degli anni Venti e la fine degli anni Trenta del Novecento gli ebrei europei non potevano certo immaginare di trovarsi alla vigilia di una catastrofe. Non era infatti in alcun modo prevedibile la furia genocida che di lì a poco si sarebbe scatenata contro di loro. Dopo avere indossato le uniformi delle varie nazioni europee nel corso della Prima guerra mondiale, gli ebrei avevano general- mente continuato a nutrire sentimenti di lealtà verso le rispettive patrie. Erano evidenti, tuttavia, le differenze nelle condizioni di vita tra gli ebrei cittadini di paesi come Francia e Germania e quelli residenti nell’Europa orientale. Gli ebrei dell’Europa centro-occidentale, infatti, avevano goduto di una notevole emancipazione sociale e politica, diventando così cittadini pienamente integrati nelle rispettive comunità nazionali: parlavano la lingua dei loro compatrioti non ebrei e ne accettavano in massima parte la cultura, partecipando a pieno titolo alla vita sociale ed economica dei paesi in cui vivevano. Diversa era la situazione nell’Europa orientale, dove gli israeliti erano rimasti prevalentemente un gruppo distinto rispetto alla maggioranza della popolazione, avevano perlopiù mantenuto le proprie usanze e tradizioni, ed erano riconoscibili per la lingua (l’yiddish), l’abbigliamento e la concentrazione in determinati quartieri urbani o villaggi rurali (shtetl). Nei paesi dell’Europa orientale, pertanto, agli occhi della popolazione gli ebrei erano facilmente individuabili come gruppo separato e spesso rifiutati in quanto avvertiti come stranieri in patria. D’altro canto, l’integrazione stessa degli ebrei occidentali in paesi come Francia o Germania si rivelò un’arma a doppio ta- glio, in quanto contribuì, con l’ascesa della destra nazionalista

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e antisemita, a rendere credibile la propaganda della tesi del complotto e del sabotaggio, attuati attraverso la subdola infiltra- zione e l’apparente inserimento nella società.

2.2 L’allontanamento degli ebrei dalla vita pubblica tedesca (1933-1934) Non appena conquistarono il potere in Germania, i nazisti vollero trasformare in un programma di azione i loro presup- posti ideologici antisemiti. Gli attivisti del partito scatenarono immediatamente, in diverse regioni del paese, un’ondata di violenza antiebraica, rivolta sia contro i beni degli ebrei (ad esempio, imbrattando, devastando e costringendo alla chiusu- ra i negozi), sia contro le persone, attraverso intimidazioni e vere e proprie aggressioni. In un primo tempo, i dirigenti del partito cercarono di arginare queste iniziative spontanee, non intendendo, nella fase di consolidamento del proprio potere, turbare eccessivamente i settori moderati dell’opinione pubblica, contrari a forme di fanatismo razziale: per riportare le pratiche antisemite sotto controllo, senza tuttavia porvi fine, fu pertan- to organizzato il boicottaggio ufficiale dei negozi di proprietà ebraica. In seguito il regime intensificò la propaganda contro gli ebrei, che cominciarono a essere additati come i responsabili dei problemi della società tedesca (dalla disoccupazione alla sconfitta nella Prima guerra mondiale), e varò una prima serie di provvedimenti antiebraici.

PER APPROFONDIRE Yiddish Letteralmente “giudaico”, l’yiddish erano giunti, dall’Italia e dalla Francia è una lingua di ceppo germanico na- settentrionale, nella valle del Reno ta nel X secolo e parlata dagli ebrei (Ashkenaz era infatti, nell’ebraico dell’Europa orientale, ma poi diffusa medievale, il nome della regione). nelle comunità ebraiche di tutto il Prima della Shoah, l’yiddish era par- mondo. Essa trae origine dalla cultura lato in tutto il mondo da 11 milioni di degli ebrei “ashkenaziti”, vale a dire persone; oggi, invece, è conosciuto dei gruppi ebraici che nel Medioevo soltanto da gruppi minoritari di ebrei.

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Una prima misura discriminatoria su base razziale fu appro- vata nel 1933 in merito al riordinamento del pubblico impiego: tutti gli impiegati «di discendenza non ariana» ne furono esclusi. La legge precisava: «È considerato non ariano chi discende da genitori o avi non ariani, in particolare ebrei». In campo scolasti- co, venne ristretto l’accesso agli istituti scientifici superiori, ora riservati esclusivamente a studenti di comprovata discendenza ariana; seguì un nuovo provvedimento, questa volta riguardante il più generale problema del presunto eccesso di popolazione scolastica negli istituti tedeschi: da quel momento in poi, per l’im- matricolazione degli studenti si sarebbe dovuto tenere conto del rapporto numerico tra popolazione ariana e non ariana in tutto il territorio del Reich. In termini non dissimili furono colpiti, tra il 1933 e il 1935, i professionisti di origine non ariana, con una serie di disposizioni legislative riguardanti gli avvocati, i giornalisti e i dentisti (tutte professioni, evidentemente, nelle quali si registra- va un’ampia presenza ebraica). Fu stabilito che l’autorizzazione all’esercizio dell’avvocatura potesse essere revocata alle persone di discendenza non ariana, fu escluso dalla direzione dei giornali chiunque non fosse ariano o anche soltanto coniugato con persona di discendenza non ariana; e un’identica restrizione riguardò la possibilità di essere iscritti all’albo dei dentisti. L’obiettivo perse- guito era ormai chiaro: l’estromissione degli ebrei da ogni forma di vita pubblica, relegandoli progressivamente nelle attività più umili e subalterne. Ma questo si sarebbe rivelato presto soltanto il primo passo di una ancor più tragica persecuzione.

2.3 La discriminazione giuridica (1935-1937) Una nuova e più intensa fase nella politica discriminatoria ebbe inizio nel 1935. Gli attivisti del Partito nazionalsocialista ripresero a organizzare atti di violenza contro gli ebrei (con aggressioni perfino nelle strade del centro di Berlino), che si mitigarono soltanto alla fine dell’estate di quell’anno. Per riprendere il con- trollo della situazione, le gerarchie naziste risposero con ulteriori provvedimenti legislativi restrittivi, volti a offrire all’opinione pubblica l’immagine di un’autorità forte e di una società ordinata. Furono così promulgate le due cosiddette Leggi di Norimberga: la prima – Legge sulla cittadinanza del Reich – privava gli ebrei della cittadinanza tedesca, sopprimendo in tal modo il principio

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di eguaglianza fra tutti i cittadini, in vigore in Germania fin dalla realizzazione dell’unità nazionale nel 1871. La perdita della citta- dinanza significava ipso facto la cancellazione dei diritti associati allo status di cittadino, primo fra tutti quello di voto. Per effetto della legge, cittadini del Reich potevano essere ora soltanto quelli «di sangue tedesco o affine». Il secondo provvedimento – Legge per la difesa del sangue – proibiva i matrimoni, così come le relazioni extraconiugali, tra ebrei e cittadini tedeschi, ponendo un sigillo giuridico a quel principio della purezza della razza che costituiva uno dei pilastri ideologici del nazismo. La popolazione tedesca parve accogliere con soddisfazione le Leggi di Norimberga, soprattutto perché esse sembravano final- mente dare ordine alla società, mettendo inoltre fine alle violenze dei militanti nazisti più fanatici. Seguì in effetti una fase di relativa tranquillità, resa particolarmente opportuna in occasione dei Giochi olimpici del 1936, ospitati dalla Germania, durante i quali il Reich volle presentarsi al mondo come modello di uno Stato ordinato e soltanto moderatamente autoritario.

2.4 Gli ebrei corpo estraneo nella società tedesca (1938-1939) Nella primavera del 1938 fu avviata la terza fase della politica antiebraica, con una rinnovata radicalizzazione, direttamente connessa alla crescente aggressività manifestata dal regime anche sul piano della politica internazionale. Nel periodo dell’Anschluss – l’annessione dell’Austria al Reich – furono emblematiche le immagini degli ebrei viennesi costretti dagli attivisti del partito a pulire in ginocchio le strade della città con acqua e sapone. Nel maggio di quell’anno anche a Berlino furono organizzati nuovi atti di violenza contro la popolazione ebraica. Joseph Paul Goebbels, Gauleiter (“capo area”) nazista della regione della ca- pitale tedesca, incitò la polizia berlinese a colpire con particolare durezza i residenti ebrei ed espresse il suo obiettivo a chiare lettere: gli ebrei avrebbero dovuto essere cacciati dalla capitale. L’attentato ai danni del diplomatico tedesco Ernst vom Rath per mano dell’ebreo polacco Herschel Grynszpan, avvenuto a Parigi il 7 novembre 1938, fu il pretesto con cui il regime poté scatenare la cosiddetta notte dei cristalli, il terribile pogrom antiebraico del 9 novembre fomentato da un durissimo discorso antisemita di Goebbels. Quella notte, uomini del partito, che in massima

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parte non indossavano uniformi affinché l’azione sembrasse frutto dell’indignazione popolare, cominciarono a distruggere i negozi degli ebrei (dalle cui vetrine frantumate prese il nome l’evento), ad appiccare il fuoco alle sinagoghe e ad assalire famiglie ebraiche nelle loro stesse abitazioni. Dopo la notte dei cristalli la macchina legislativa dello Stato si rimise in moto: agli ebrei fu fatto divieto di qualsiasi attività economica, fu imposto il pagamento di un miliardo di marchi alla comunità ebraica a titolo di “risarcimento”, come se essa fos- se colpevole di quanto accaduto, e fu impedito di ottenere dalle assicurazioni l’indennizzo per i danni causati dal pogrom. Essi subirono, infine, l’esclusione dalle scuole e da tutte le istituzioni culturali del paese. Il regime, intanto, si adoperava per organizzare un’emigrazione di massa degli ebrei tedeschi: al momento, infatti, i progetti antisemiti nazisti si ponevano ancora come obiettivo pri- mario l’espulsione dalla Germania di una popolazione considerata un corpo estraneo rispetto al tessuto sociale del paese.

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0040_FA691000273X@0003_0080.indd 18 02/03/17 10:15 3. LA RADICALIZZAZIONE DELLA POLITICA RAZZISTA TEDESCA (1939-1942)

3.1 I programmi eugenetici Mentre il governo del Terzo Reich si adoperava per estromettere gli ebrei dalla vita del paese, sia mediante leggi ad hoc sia con azioni violente, con lo scoppio della guerra la “questione ebraica” si estese su scala continentale: infatti, con la conquista della Po- lonia, erano circa 1 700 000 gli ebrei inclusi nell’Europa nazista. I progetti presi in considerazione dai vertici del Reich per affrontare il problema erano al momento incentrati, come si è detto, sull’idea di un trasferimento forzato. Tuttavia, un’inquietante alternativa sarebbe stata presto suggerita dalla cosiddetta Operazione Euta- nasia, parte del più vasto programma eugenetico della Germania nazista. Essa consisteva nella registrazione sistematica di tutti i neonati e i bambini “deformi” (con un dettagliato catalogo delle patologie rientranti in tale definizione) e nel loro internamento coatto, sottraendoli alle famiglie, in speciali istituti “pediatrici” dove un’apposita commissione ne decretava segretamente l’eliminazione. Inizialmente il progetto non era diretto specificamente agli ebrei, ma con lo scoppio della guerra i criteri di selezione si ampliarono, soprattutto nei confronti dei bambini ebrei. L’Operazione Eutanasia fu poi estesa agli adulti ricoverati in case di cura per problemi neurologici, psichiatrici o cognitivi. Il programma fu terminato nel 1941 dopo che presso l’opinione pubblica era trapelata qualche notizia della sua esistenza, a seguito delle proteste delle famiglie alle quali venivano sottratti i bambini, il cui decesso veniva poi giustificato con malattie come la polmonite. Si stimano in quasi 5000 i bambini vittime di questa mostruosa iniziativa, che causò complessivamente la morte di circa 70 000 persone, quasi un quinto di tutti i ricoverati negli istituti per minorati psichici. In questo tragico frangente, furono sperimentate come strumento di morte le camere a gas, situate in un centro isolato appositamente allestito per l’eutanasia.

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3.2 I piani di deportazione degli ebrei Nel 1939, intanto, i vertici tedeschi misero a punto articolati piani di deportazione degli ebrei. In un primo tempo, fu concepita una sorta di “riserva ebraica”, in cui fare confluire tutti gli ebrei dal Reich e dalle regioni europee occupate dai tedeschi, nella parte orientale del Governatorato generale (ex Polonia) e più in particolare nel distretto di Lublino. A riprova dell’importanza e priorità attribuite dal regime alla “questione ebraica”, al vertice di questo ambizioso programma fu posto uno dei massimi espo- nenti del nazismo, Heinrich Himmler, il responsabile dell’Ufficio centrale della sicurezza del Reich (RSHA), di fatto il numero due della gerarchia nazista dopo Adolf Hitler. L’organizzazione delle deportazioni fu affidata invece al suo diretto sottoposto Adolf Eichmann, che sarebbe poi diventato anche uno dei principali responsabili operativi dello sterminio. Dopo la vittoria nazista sulla Francia (giugno 1940), al piano basato sulla “riserva” ebraica in Polonia fu sostituito un nuovo progetto: il cosiddetto Piano Madagascar. L’idea era di trasferire quattro milioni di ebrei europei – sostanzialmente la totalità della popolazione ebraica del Vecchio continente – nell’isola situata al largo della costa orientale dell’Africa, che era stata fino ad allora una colonia francese. Il piano prevedeva la deportazione degli ebrei al ritmo di un milione all’anno, ma, sebbene in un primo tempo la macchina organizzativa si fosse messa in moto, presto ci si rese conto delle evidenti difficoltà di realizzarlo con la guerra in corso. Tra la fine del 1940 e l’inizio del 1941, parallelamente ai preparativi dell’operazione Barbarossa (l’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica), esso fu soppiantato da un nuovo piano: la deportazione degli ebrei nei territori dell’Unione Sovie- tica, un progetto che evidentemente dava per scontata la vittoria nella guerra lampo contro l’URSS. Del resto, oltre alla sua natura ideologica (la lotta al comunismo) ed economica (il saccheggio delle risorse del paese), la campagna militare a sorpresa contro il paese con il quale era stato sottoscritto un patto di non aggres- sione ebbe fin dall’inizio anche una motivazione razziale: era una guerra di annientamento nella quale i vertici nazisti, sulla base del loro obiettivo fondamentale di dare alla Germania il suo “spazio

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vitale”, partivano dal presupposto che sarebbero dovute morire milioni di persone: [...] adunare il nostro popolo e le sue forze per iniziare la marcia su quella via che dall’odierna ristrettezza di spazio vitale condurrà all’acquisto di nuovo territorio. Così libererà per sempre la nazio- ne tedesca dal pericolo di perire o di servire altrui quale popolo di schiavi. [...] I russi non possono da soli scuotere il giogo degli ebrei; ma gli ebrei non possono, a lungo andare, conservarsi quel formidabile Stato. Perché l’ebreo non è un elemento di organizza- zione ma un fermento di disorganizzazione. Il colossale impero orientale è maturo per il crollo. E la fine del dominio ebraico in Russia sarà pure la fine della Russia come Stato. Noi siamo eletti dal destino a essere testimoni di una catastrofe che sarà la più poderosa conferma della teoria nazionalista delle razze. (da A. Hitler, Mein Kampf )

3.3 I ghetti Nei piani nazisti per la soluzione della “questione ebraica” in Europa, una funzione centrale fu assegnata ai ghetti. Già per tutto il corso della storia moderna, i ghetti ebraici avevano rap- presentato uno strumento di discriminazione e segregazione. Gli ebrei, infatti, erano stati spesso confinati – o nel tempo si erano spontaneamente concentrati, separandosi dal resto della popola- zione – in particolari quartieri delle città europee e non è un caso che il termine derivi proprio dal nome attribuito nel XVI secolo al quartiere veneziano assegnato agli ebrei (gheto). Non sempre, tuttavia, essi avevano avuto effettivamente l’obbligo di risiedervi, anzi, spesso il ghetto si era anche rivelato, come ha osservato lo storico Gustavo Corni, «un rifugio relativamente protetto di fronte a un mondo esterno ostile», in quanto parzialmente autonomo in termini economici e socialmente solidale; non erano mancati neppure i casi, come quello di Venezia, nei quali il ghetto si era rivelato addirittura un quartiere ricco, perché abitato prevalente- mente da mercanti benestanti. Con il nazismo, invece, il ghetto divenne strumento temporaneo di un grande programma antiebraico, considerate le difficoltà nel porre effettivamente in atto altri progetti più ambiziosi come il

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Piano Madagascar o l’evidente impossibilità di una deportazione definitiva in Unione Sovietica. Il confinamento nei ghetti avrebbe consentito di rendere judenfrei – ossia “liberi dagli ebrei” – i ter- ritori posti sotto il dominio tedesco. In tutta la Polonia occupata furono pertanto istituiti circa 400 ghetti, di cui il più grande e importante fu quello di Varsavia. Agli ebrei essi apparvero una situazione destinata a durare nel tempo e in qualche modo tale da offrire, sia pure con grande precarietà, una parvenza di tutela dalle persecuzioni “spontanee” attuate dalla popolazione ai loro danni: furono infatti dotati di forme di autogoverno, costituite da un “consiglio ebraico” e da una polizia ebraica. I ghetti istituiti in- vece nei territori sovietici occupati durante l’operazione Barbarossa furono per forza di cose strutture assai più rudimentali rispetto a quelli polacchi: in genere campi delimitati da una recinzione, all’interno della quale la popolazione era abbandonata perlopiù a se stessa. Ebbero tuttavia anch’essi dimensioni di un certo rilievo: il principale ghetto sul suolo sovietico fu quello di Minsk, che giunse a ospitare fino a circa 100 000 abitanti. In ogni caso, la vita nei ghetti fu drammatica e spesso bre- ve. Costretti, prima di trasferirsi nel ghetto, a vendere a prezzi stracciati i propri beni, il mobilio e la stessa casa di origine, gli ebrei si trovarono in una situazione di intollerabile sovraf- follamento e di carenza di cibo. Tutti i ghetti, grandi e piccoli, furono flagellati dallo spettro della fame e delle malattie. In alcuni, inoltre, furono imposte dai tedeschi condizioni di vero e proprio schiavismo: reclutati nei ghetti, gli abitanti venivano portati in campi di lavoro, dove erano sottoposti a estenuanti turni dall’alba al tramonto, sette giorni su sette, e dove spesso trovavano la morte per sfinimento.

3.4 Dalla politica di eliminazione allo sterminio L’operazione Barbarossa impresse ai progetti di eliminazione degli ebrei una definitiva accelerazione e radicalizzazione. Con l’avanzamento nei territori sovietici, infatti, alle unità di SS e di polizia che affiancavano l’esercito tedesco fu impartito l’ordine di uccidere sul posto la popolazione ebraica locale. Le formazioni operanti nelle regioni invase dalla Wehrmacht furono dette Ein- satzgruppen (letteralmente “unità operative”) ed erano integrate

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spesso anche da milizie indigene, reclutate dai collaborazionisti locali. La gestione dei loro compiti spettò al vice di Himmler ed ex direttore della Gestapo, Reinhard Heydrich, ora a capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich. Heydrich assegnò a queste unità il compito primario di elimi- nare tutti gli ebrei che ricoprivano incarichi di partito o pubblici nelle regioni di nuova conquista. Presto però le Einsatzgruppen cominciarono a fucilare in massa gli uomini ebrei adulti, e di lì a poco si mostrarono ancora più spietate, senza risparmiare neppure donne e bambini. Tali carneficine, effettuate mediante indiscriminate fucilazioni all’aperto, prevedevano che le vittime fossero sepolte in fosse comuni scavate da loro stesse: si trattò, per molti aspetti, di un primo passo verso l’attuazione di una po- litica di sterminio sistematico. Tra gli episodi più efferati si ricorda il massacro di Babij Jar, presso Kiev: tra il 29 e il 30 settembre 1941 furono assassinati e ammassati in un fossato 33 771 ebrei. Mentre l’esercito nazista avanzava verso Mosca, le Einsatzgruppen annientarono quasi un milione e mezzo di persone, in grande maggioranza ebrei. Le esecuzioni così compiute comportavano conseguenze anche per i carnefici: oltre al danno derivante dall’eccessiva esposizione pubblica, si verificava spesso il crollo psicologico dei responsabili delle uccisioni, in molti casi semplici soldati di leva. Per rendere il compito meno pesante, e per consentire di eliminare contempora- neamente un numero più elevato di persone, il comando berlinese decise allora di sperimentare nuove soluzioni. Fu così che, ripren- dendo il metodo adoperato nell’Operazione Eutanasia, si pensò di utilizzare il gas per l’asfissia collettiva. Le Einsatzgruppen in Russia furono pertanto dotate, nell’autunno del 1941, di camere a gas mobili, montate su autocarri (spesso camuffati da ambulanze) e funzionanti con i gas di scarico: si trattava di un progressivo perfezionamento delle tecniche di annientamento che di lì a poco sarebbero state messe in pratica nei campi di sterminio. Sempre nell’autunno del 1941, Hitler decise di avviare la de- portazione degli ebrei dal grande Reich tedesco. In quello sce- nario furono presi provvedimenti amministrativi come l’obbligo di indossare la stella gialla quale segno di riconoscimento per gli ebrei tedeschi e il divieto di emigrazione in tutto il territorio controllato dalla Germania.

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0040_FA691000273X@0003_0080.indd 23 02/03/17 10:15 4. LO STERMINIO (1942-1945)

4.1 La “soluzione finale” Già in un discorso al Reichstag del gennaio 1939, Hitler aveva parlato espressamente di Vernichtung (“distruzione”) della razza ebraica in Europa. All’epoca, tuttavia, non era ancora stato messo a punto un progetto preciso di sterminio poiché, per ammissio- ne dello stesso Führer, il popolo tedesco non appariva ancora pronto ad accettare misure così radicali e, come si è visto, per la soluzione della “questione ebraica” erano stati concepiti svariati piani di deportazione: il distretto di Lublino, il Madagascar, i territori sovietici annessi al Reich. Gli sviluppi del conflitto non consentirono di realizzare tali propositi e così, a partire dal 1941, i vertici nazisti iniziarono a servirsi dell’espressione “soluzione finale” (o di altre analoghe, come “soluzione totale” o locuzioni burocratiche eufemistiche) per intendere propriamente lo ster- minio in massa degli ebrei.

Adolf Eichmann (1906-1962) Cresciuto in Austria, si iscrisse al- territorio polacco. Intanto la sua car- la sezione austriaca del Partito na- riera procedeva, con il trasferimento zista. Nel 1934 iniziò a lavorare per a Berlino e l’incarico di coordinare il l’SD (il Servizio di sicurezza), appa- nuovo Ufficio del Reich per l’emigra- rato di polizia delle SS alle dirette zione ebraica. Lavorò allora al Piano dipendenze di Heinrich Himmler. Fu Madagascar (l’isola africana sarebbe destinato all’ufficio che si occupava stata trasformata in un enorme ghet- della “questione ebraica” e divenne to per gli ebrei, consentendo così di un esperto in tale materia; nel 1937 liberare l’Europa dalla loro presenza); fece anche un viaggio in Palestina, abbandonato tale progetto, Eichmann studiando la possibilità di trasferire in e l’ufficio da lui diretto furono al centro quel territorio gli ebrei tedeschi. Due della complessa macchina organizza- anni dopo fu l’ideatore del progetto tiva della “soluzione finale”. Nel pre- della deportazione di tutti gli ebrei in disporre la deportazione e dunque

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Il progetto – elaborato da Reinhard Heydrich e dall’esperto di “questione ebraica” Adolf Eichmann – fu presentato ai vertici nazisti nel gennaio del 1942 nel corso di una riunione in una villa sul lago Wannsee, a pochi chilometri da Berlino (oggi la villa, trasformata in museo, contiene un monumento memoriale e un’esposizione perma- nente sulla Shoah). Il verbale della riunione, redatto da Eichmann in piatto linguaggio burocratico e diffuso tra i ministeri e gli uffici, prese pertanto il nome di protocollo di Wannsee. Nonostante i rovesci che la Wehrmacht stava subendo in Russia, dal resoconto emerge come i vertici nazisti fossero ancora persuasi dell’inevitabile vittoria finale nel conflitto, con conseguente dominio totale sull’Europa. Le parole di Eichmann sulla sorte da riservare agli ebrei, che andavano scrupolosamente rastrellati in tutti i territori sotto la sovranità del Reich, appaiono, nella loro fredda essenzialità, agghiaccianti: Ora, nel quadro della soluzione finale della questione ebraica e sotto la necessaria guida, gli ebrei devono essere utilizzati all’Est nei com- piti lavorativi giudicati più opportuni. Inquadrati in grandi colonne e separati per sesso, gli ebrei abili al lavoro saranno condotti in quei territori a costruire strade, operazione durante la quale senza dubbio una gran parte di loro soccomberà per riduzione naturale. Il nucleo che alla fine sopravvivrà a tutto questo, e si tratterà della parte dotata della maggiore resistenza, dovrà essere trattato in maniera adeguata, poiché rappresentando il frutto di una selezione naturale, qualora fosse lasciato andare libero, dovrebbe essere considerato la cellula germinale di una nuova rinascita ebraica (si veda l’esperienza storica).

Adolf Eichmann (1906-1962) lo sterminio degli ebrei, Eichmann trovare rifugio in Argentina. Nel 1960 sosterrà poi di essersi comportato fu però individuato dai servizi segreti come burocrate ligio al proprio do- dello Stato di Israele, che lo cattura- vere, solerte esecutore degli ordini rono con un’operazione clandestina impartitigli dall’alto. Egli assunse, tut- e lo trasferirono nel loro paese. Dopo tavia, anche un ruolo meno “freddo” il processo a Gerusalemme, nel cor- e più partecipe nel marzo del 1944, so del quale egli tentò di presentarsi quando si trasferì personalmente a come un semplice soldato con l’unica Budapest per dirigere la deportazione colpa di aver assolto al proprio dovere degli ebrei ungheresi. La sua funzione obbedendo agli ordini (tanto che la nella macabra macchina della Shoah filosofa Hannah Arendt lo definì «l’in- non fu pienamente compresa dagli Al- carnazione della banalità del male»), leati dopo la guerra e ciò gli consentì fu condannato a morte e giustiziato di evadere da un campo di prigionia e in Israele nel 1962.

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4.2 Campi di concentramento e campi di sterminio Il regime nazista aveva già fatto ricorso a diversi tipi di campi, per mettere al bando i propri nemici. In generale, sono stati de- finiti campi di concentramento quelli genericamente destinati a oppositori e a persone sgradite al nazismo, dai comunisti agli ebrei. Dal 1942 questi campi furono pienamente asserviti al l’economia di guerra tedesca, diventando serbatoi di manodopera coatta: a tal fine, le SS stipularono veri e propri contratti di lavoro con imprese pubbliche e private, che sfruttavano il lavoro dei prigio- nieri schiavizzati. All’interno di queste strutture era messo in pratica, sostanzial- mente, un annientamento mediante il lavoro, oltre che per fame o per malattie. Nei campi di concentramento furono deportate, tra il 1933 e il 1945, circa 1 600 000 persone, metà delle quali vi trovarono la morte. Il tasso di mortalità si elevò quando, di fronte all’avanzata dell’Armata Rossa, furono organizzate le cosiddette marce della morte, ovvero il trasferimento dei deportati, a piedi e in condizioni inumane, in campi più lontani dalle zone interessate dai combattimenti. A metà del 1942, però, sulla base delle disposizioni del pro- tocollo di Wannsee, fu messa completamente in moto anche la macchina dello sterminio sistematico, significativamente denomi- nata “Operazione Reinhard”, in memoria di Reinhard Heydrich, il quale a maggio era rimasto vittima di un attentato. L’operazione prevedeva la costruzione e la messa in funzione di campi di annientamento (Vernichtungslager), che la storiografia indica anche con l’espressione “campi di sterminio”: essi, infatti, avevano come obiettivo esplicito e diretto l’uccisione degli ebrei, alla cui eliminazione si aggiunse anche quella degli zingari, come scrisse nelle sue memorie il capo del campo di Auschwitz, Rudolf Höss: [Himmler] diede l’ordine di annientarli, dopo aver scelto tra loro gli abili al lavoro, come tra gli ebrei. [...] L’operazione durò due anni. Gli zingari atti al lavoro vennero trasferiti in altri campi, e alla fine rimasero da noi (era l’agosto del 1944) circa 4000 individui da mandare nelle camere a gas. Costoro, fino a quel momento, non sapevano affatto la loro sorte imminente; solo quando furono avviati, divisi per baracche, al crematorio I, compresero. Non fu facile farli arrivare fino alle camere a gas. (da R. Höss, Comandante ad Auschwitz)

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4.3 La pratica dello sterminio Alle fucilazioni e alle camere a gas mobili organizzate dalle Einsatzgruppen si sostituì l’eliminazione degli ebrei in campi appositamente allestiti a tale scopo. Il primo, entrato in funzione già nel dicembre del 1941, fu quello di Chełmo, collocato in un castello disabitato nella parte della Polonia incorporata nel Reich, dove furono ancora adoperati i gas di scarico degli autocarri. Nel marzo del 1942 entrò in funzione il campo di Birkenau, fa- cente parte dell’enorme complesso di campi denominato Auschwitz , che resta ancora oggi uno dei più tragici emblemi della Shoah. Scrive ancora Höss nelle sue memorie: Il Führer ha ordinato la definitiva soluzione del problema ebraico. Noi SS stiamo per adempiere questo ordine. I luoghi di sterminio che si trovano a oriente non bastano per effettuare in grande scala le operazioni progettate.

PER APPROFONDIRE La persecuzione nazista degli zingari Il concetto di “zingaro” aveva per la 2800 persone; quelli rimasti entro i Germania nazista un duplice signi- confini tedeschi e austriaci furono ficato: da un lato designava in ge- costretti alla stanzialità in località nerale la totalità della popolazione predeterminate. Nel Protettorato di dedita al nomadismo, descritta in Boemia e Moravia molti zingari furono termini spregiativi come “truffato- rinchiusi in campi di concentramento ri e mendicanti”; dall’altro lato, era e sottoposti al lavoro forzato. Nel di- associato anche all’idea di “stirpe”, cembre del 1942 si giunse, infine, a una e dunque identificato sempre più radicalizzazione della persecuzione come una “razza”. In una prima fase, nei loro confronti. Himmler emise un la polizia e le burocrazie del Reich ordine di deportazione delle “persone procedettero oscillando tra l’obiet- zigane” di Germania, Austria, Boemia tivo dell’espulsione dalla Germania e Moravia, Paesi Bassi, Belgio e Fran- degli zingari e quello dell’imposizione cia: il campo prescelto fu quello di di una residenza fissa. Nel frattem- Auschwitz-Birkenau, dove, degli oltre po gli scienziati razzisti del regime 22 000 internati, più di 19 300 trovarono estendevano le loro ricerche alle ca- la morte. Sul numero complessivo di ratteristiche razziali degli zingari, a zingari trucidati nei territori del Reich conclusione delle quali fu stabilito e in quelli dell’Europa occupata dai di cancellare la presenza di quella nazisti esistono a oggi soltanto stime minoranza all’interno della Germania. approssimative: probabilmente furo- Nel 1940 si procedette, pertanto, alla no più di 50 000, a cui si aggiungono deportazione degli zingari nella Po- le circa 40 000 vittime negli Stati “sa- lonia occupata, per un totale di circa telliti” di Croazia e Romania.

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Perciò ho destinato a questo scopo Auschwitz sia per la sua situa- zione favorevole per il traffico, sia perché in questo terreno è facile poter isolare e mascherare. (da R. Höss, op. cit.) A Birkenau furono installate quattro grandi camere a gas, rimaste ininterrottamente in funzione fino al novembre del 1944. Esse consentirono il massacro di oltre un milione di persone. Il gas adoperato a Birkenau fu lo Zyklon B, ricavato da cristalli di acido prussico, dagli effetti devastanti: i cadaveri degli avvelenati erano generalmente ricoperti di sangue, escrementi e vomito, e la pelle assumeva un innaturale colore rosa. Fu poi la volta, sempre in Polonia, dei campi di Bełz˙ec (dove tra marzo e dicembre del 1942 morirono 600 000 ebrei), Sobibór (che fece 250 000 vittime tra il 1942 e l’ottobre 1943) e Treblinka (900 000 vittime tra luglio 1942 e agosto 1943).

PER APPROFONDIRE Auschwitz Il “pianeta Auschwitz”. Così è stato da numerosi collaboratori per que- definito quell’“impero della soffe- sto imponente progetto, che incluse renza” per 150 000 abitanti che i na- addirittura una linea ferroviaria co- zisti costruirono dal nulla. Una città struita appositamente per servire delle dimensioni di Tangeri o di Ber- il campo. Per i nazisti non fu meno gamo, creata nelle pianure paludose importante l’installazione di un terzo della Vistola. Non nacque insieme campo nel complesso di Auschwitz: agli altri campi di annientamento del Auschwitz III, o Campo di lavoro di Governatorato generale, nella fase Monowitz. Esso fu costruito dagli dello sterminio organizzato nazi- stessi detenuti di Auschwitz e fu sta, ma era stato inaugurato già nel- adoperato per fornire di manodopera l’aprile del 1940. Nel primo anno do- l’economia di guerra nazista: si trat- po la fondazione, Auschwitz fu uno tò, sostanzialmente, di un comples- dei tanti campi di concentramento, so di fabbriche con operai-schiavi al cui comando fu nominato il capi- al servizio delle esigenze belliche tano delle SS Rudolf Höss. Nel 1942 del Reich. I prigionieri di Monowitz, venne effettuato un primo rilevante tuttavia, ebbero maggiori possibilità ampliamento: nacque il sottocampo di salvezza rispetto a quelli degli Auschwitz II, detto Birkenau, desti- altri sottocampi, dal momento che il nato a diventare il più grande centro loro lavoro si rivelava prioritario per di sterminio degli ebrei in tutta Eu- i nazisti. Due famosi sopravvissuti ropa. Höss, promosso nel frattempo di Monowitz furono gli scrittori Elie al grado di maggiore, fu coadiuvato Wiesel e .

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Diversamente dai campi di concentramento, utilizzati dal regime anche come strumento di dissuasione, i campi di annientamento furono tenuti nell’ombra, sebbene il cordone del silenzio non potesse certo estendersi ai civili residenti nei pressi dei campi, ai quali giungevano inevitabilmente notizie piuttosto precise, oltre al fumo e all’odore acre proveniente dai forni crematori nei quali erano eliminati i cadaveri (furono installati in numerosi campi, in sostituzione delle fosse comuni, dato l’elevato numero di cadaveri). Prima di abbandonare i campi sotto l’incalzare delle truppe allea- te, i tedeschi tentarono di cancellare ogni traccia dello sterminio distruggendo le installazioni.

4.4 La Shoah in Italia L’Italia fascista non fu estranea alla tragedia della Shoah. Anche Mussolini, al pari dell’alleato nazista, volle adottare una politica di “difesa della razza ariana” fornendo anzitutto all’opinione pubblica una parvenza di legittimazione “scientifica” alle misure pratiche che si sarebbero successivamente adottate. Fu così che, a partire dal 1937, si intensificò la propaganda del regime sulle tematiche razziali, attraverso i pronunciamenti di presunti scienziati e la diffusione di pubblicazioni sull’argomento. La propaganda mirava anzitutto a distinguere la razza ariana da tutte le altre considerate inferiori (nel 1937, per esempio, venne vietato il matrimonio tra italiani e “sudditi delle colonie africane”), ma anche in Italia il bersaglio principale furono gli ebrei. Nel luglio del 1938 fu pubblicato sul “Giornale d’Italia” il Ma- nifesto degli scienziati razzisti (noto anche come Manifesto della razza), nel quale si sostenevano il fondamento biologico delle differenziazioni razziali, l’esistenza di una pura razza “italiana” e la non assimilabilità di quella ebraica, in quanto non europea: È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. [...] La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico [...] un modello fisico e soprat- tutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee. [...] Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome;

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e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani. Il manifesto recava le firme di studiosi e docenti universitari più o meno noti, nessuno dei quali, tuttavia, era stato interpella- to prima della pubblicazione (furono soltanto in due a sollevare qualche protesta contro questa modalità). In realtà il testo, che configurava un primo evidente allineamento alle teorie naziste, era stato scritto da un assistente universitario di Antropologia su diretta ispirazione di Mussolini. Il Manifesto e la successiva uscita di una rivista ad hoc, “La difesa della razza”, prepararono il terreno per la promulgazione, il 17 novembre 1938, della legge n. 1728 “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, nelle quali si definivano precisamente, con una meticolosità addirittura superiore alle leggi naziste, le caratteristiche distintive dell’appartenenza alla razza ebraica e, soprattutto, le limitazioni imposte ai suoi esponenti: I cittadini italiani di razza ebraica non possono: a) prestare ser- vizio militare in pace e in guerra; b) esercitare l’ufficio di tutore o curatore di minori o di incapaci non appartenenti alla razza ebraica; c) essere proprietari o gestori, a qualsiasi titolo, di azien- de dichiarate interessanti la difesa della Nazione e di aziende di qualunque natura che impieghino cento o più persone, né avere di dette aziende la direzione né assumervi comunque, l’ufficio di amministrazione o di sindaco; d) essere proprietari di terreni che, in complesso, abbiano un estimo superiore a lire cinquemila; e) essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un imponibile superiore a lire ventimila. Il genitore di razza ebraica può essere privato della patria potestà sui figli che appartengono a religione diversa da quella ebraica, qualora risulti che egli impartisca ad essi una educazione non corrispondente ai loro principi religiosi o ai fini nazionali. Gli appartenenti alla razza ebraica non possono avere alle proprie dipendenze, in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. Seguiva il dettagliato elenco dei ruoli nelle amministrazioni pubbliche e private che venivano preclusi agli appartenenti alla “razza ebraica”. Le leggi razziali, che restarono in vigore fino al 1944, ebbero effetto immediato sulle condizioni di vita degli

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ebrei italiani: gli studenti ebrei furono allontanati dalle scuole e nelle amministrazioni pubbliche si effettuarono i licenziamenti prescritti. Esse ebbero un particolare impatto sulle università, da cui furono espulsi oltre 300 tra insegnanti e assistenti, tra cui 96 docenti anche di grande prestigio, in gran parte costretti a emigrare in paesi come la Svizzera o gli Stati Uniti; alcuni furono depor- tati ad Auschwitz, dove trovarono la morte. A parte casi isolati, tuttavia, le leggi razziali italiane ebbero effetti meno devastanti di quelle naziste: l’organizzazione sistematica dello sterminio da parte tedesca, infatti, non ebbe pari in nessuno dei paesi alleati della Germania. Lo scoppio del conflitto, con il generale deteriorarsi delle con- dizioni di vita, fomentò un certo sentimento popolare antisemita anche in Italia. Si moltiplicarono in tutta la penisola gli episodi di violenza ai danni degli ebrei: in molti casi i negozi di proprietà ebraica furono devastati e gli attacchi alle persone divennero più brutali. I picchiatori fascisti entravano nei caffè frequentati da ebrei e malmenavano chiunque vi si trovasse. Si deve precisare che queste e altre violenze furono precedenti all’occupazione tedesca dell’Italia, e dunque non attribuibili alla volontà nazista ma ai comportamenti razzisti degli attivisti e alla colpevole acquie- scenza della popolazione (non fu sempre così, fortunatamente, come vedremo tra breve). Nel 1942, inoltre, un decreto fascista impose agli ebrei italiani il lavoro obbligatorio: di fatto un loro totale asservimento, che li costringeva a massacranti turni di lavoro con una paga “simbolica”. Dopo la caduta di Mussolini, le speranze in un migliora- mento delle condizioni degli ebrei si rivelarono subito illusorie. Il territorio italiano, infatti, fu occupato da truppe tedesche in numero crescente, alle cui violenze antisemite si sommavano i risentimenti e la furia dei fascisti e delle milizie della Repubblica sociale italiana, ormai consapevoli dell’incombente sconfitta. Per gli ebrei italiani ebbe così inizio una fase drammatica, che ne accomunò la sorte a quelli dei territori del Reich. Soprattutto nell’Italia centrale e settentrionale occupata, i tedeschi arrestarono e massacrarono centinaia di ebrei e avviarono le deportazioni. Sono tristemente noti gli eccidi di Meina (sul lago Maggiore), di Ferrara, delle Fosse Ardeatine a Roma (dove 75 delle 335 vittime erano ebrei) e le deportazioni verso i campi di sterminio di intere comunità ebraiche, come quelle di Genova e Firenze, oltre al rastrellamento del ghetto ebraico di Roma nell’ottobre del 1943.

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I tedeschi e le autorità della RSI misero in funzione, quali campi di concentramento e transito dei deportati verso la Germania, i campi di Fossoli, in Emilia Romagna, e di Bolzano, oltre alla a Trieste, a tutti gli effetti un campo di sterminio (v. p. 72), dove furono massacrate, spesso in camere a gas improvvisate, fra le tremila e le cinquemila persone.

4.5 I “Giusti” Tra i grandi interrogativi ancora al centro del dibattito storio- grafico sul nazismo vi è quello relativo al comportamento della popolazione civile tedesca di fronte alle atrocità delle deportazioni e dello sterminio degli ebrei. Hanno avuto grande risonanza, a tal proposito, le tesi sostenute dallo storico statunitense Daniel J. Goldhagen nel fortunato volume I volenterosi carnefici di Hitler (1996), incentrato intorno all’idea di un “antisemitismo eliminazio- nista” epidemicamente diffuso nella popolazione tedesca, all’origine del genocidio. È indubbio che i nazisti poterono organizzare e

PER APPROFONDIRE La razzia del ghetto di Roma A Roma il capo della polizia di si- incombente: all’alba del 16 ottobre il curezza nazista era il maggiore SS ghetto di Roma fu sottoposto al fero- , il quale, nel set- ce rastrellamento. I residenti vennero tembre del 1943, ricevette dalla Ger- radunati presso il Collegio militare, mania l’ordine di rastrellare tutti gli a poca distanza dal Vaticano; qui, ebrei della capitale per deportarli nei dopo due giorni di attesa, furono campi di sterminio. Kappler sferrò il caricati su autocarri e trasportati primo colpo il 26 settembre: chiese alla stazione Tiburtina, dove furono agli ebrei di Roma di consegnargli stipati sui vagoni di un treno merci. 50 chili di oro per risparmiare la vita Il convoglio, privo di servizi igienici a 200 di loro. La richiesta, sia pure e di qualunque assistenza, viaggiò tra molte difficoltà, fu soddisfatta, per cinque giorni; solo a Padova e a ma ciò non mutò i piani del gerarca Norimberga fu concesso ad alcune nazista. Alcuni ebrei di rango, messi crocerossine di accedervi per distri- a conoscenza di quanto stava per buire dei viveri. I corpi dei molti che accadere, riuscirono a rendersi irre- non erano sopravvissuti al viaggio si peribili, ma la gente comune non eb- trovavano ancora sui vagoni quando be alcun presentimento del dramma il treno varcò i cancelli di Auschwitz.

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porre in funzione l’immane e complessa macchina dello sterminio anche grazie all’acquiescenza, quando non alla connivenza, di larghi strati di popolazione fedele al regime. C’è chi sostiene che la popolazione civile non si fosse opposta alla politica antisemita del regime sia per effetto della martellante propaganda contro gli ebrei – presentati come i responsabili di tutti i problemi passati, presenti e futuri della società tedesca –, sia per timore delle gravi conseguenze cui si poteva andare incontro nel manifestare dissenso o, peggio, nell’agire in opposizione al regime, sia perché non vi era forse piena cognizione delle effettive dimensioni della trage- dia. Se è vero che probabilmente buona parte dei civili non era a conoscenza o non disponeva di notizie precise circa l’esistenza e l’attività dei campi di sterminio (ma questo non vale certamente per i residenti delle zone in cui questi ultimi erano operativi), è altrettanto vero che le violenze ai danni degli ebrei, le uccisioni, le spoliazioni, le colonne di deportati erano sotto gli occhi di tutti. In questo quadro assume ancora più rilevanza e valore l’opera clandestina di numerosi non ebrei (“gentili”, nel linguaggio ebrai- co) che nei territori del Reich e in quelli occupati, come l’Italia, si adoperarono nel tentativo di salvare chi singoli ebrei, chi intere famiglie, chi gruppi numerosi dalla sorte loro decretata dal regime nazista. Vi fu chi nascose vicini di casa durante i rastrellamenti, chi aiutò famiglie a sconfinare in Svizzera, chi riuscì a ingannare la meticolosa burocrazia dello sterminio a favore di amici e cono- scenti ebrei, chi riscattò vittime già designate corrompendo fun- zionari... furono di ogni tipo gli espedienti posti in atto da questi eroi, perlopiù anonimi, disposti a mettere a rischio la propria vita per salvare quella altrui. Dal 1963 è all’opera nello Stato di Israele un’apposita commis- sione con lo scopo di individuare, attraverso ricerche documentali e testimonianze, chi si sia adoperato nel salvataggio di ebrei dallo sterminio nazista. Costoro – viventi o meno – vengono insigniti dell’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” e ricordati con il proprio nome nel “Giardino dei Giusti” di Gerusalemme. A tutt’oggi i Giusti riconosciuti e onorati sono oltre 26 000, di cui quasi 700 italiani, ma la maggior parte di questi eroici cittadini comuni resta anonima. «Il Giusto – ha scritto Avner Shalev, presidente dell’Autorità israeliana per la memoria – simboleggia l’essere umano e la sua capacità di scegliere il bene contro il male e di non restare indifferente». Tra i Giusti italiani figurano con nome e cognome persone di ogni ceto sociale, professione e fede: giovani, anziani, operai e

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contadini che salvarono i loro datori di lavoro, donne di servi- zio che accolsero nella propria casa la famiglia ebrea presso cui lavoravano, negozianti che nascosero i propri commessi ebrei. , dopo essersi rifiutato di giurare fedeltà alla Repubblica sociale italiana, si rifugiò presso l’ambasciata spagno- la; spacciandosi poi per diplomatico spagnolo, salvò a Budapest circa 5000 ebrei dotandoli di documenti falsi. La sua storia è stata narrata da Enrico Deaglio nel volume La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca (Feltrinelli, 1991) e poi dallo stesso protagonista in un volume postumo di memorie, L’impostore (il Mulino, 1997). A San Maurizio Canavese Carlo Angela, direttore sanitario di una casa di cura psichiatrica e convinto antifascista, diede rifugio a ebrei ricoverandoli, spesso sotto falso nome, come malati di mente; il figlio Piero Angela, noto giornalista scientifico, fu testimone e partecipe degli eventi. Ad Alba il maresciallo dei carabinieri Carlo Ravera, mettendo a rischio la propria carriera e la propria vita, riuscì a salvare dodici famiglie ebree. Il conte Luigi Perez di Verona e la moglie Sandra contribuirono a salvare il diciottenne Moshe Shapiro, assumendolo come aiuto cameriere. E poi centinaia di altri eroi anonimi seppero anteporre il senso di umanità e di giustizia a ogni altra considerazione e si esposero personalmente per salvare vite dallo sterminio.

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0040_FA691000273X@0003_0080.indd 34 02/03/17 10:15 5. I PROCESSI E LA MEMORIA

5.1 I processi Al termine della Seconda guerra mondiale, i criminali di guerra nazisti furono sottoposti a procedimenti giudiziari da parte di corti di giustizia appositamente create dagli Alleati per punire i crimini di guerra e contro l’umanità (questi ultimi definiti come «l’assassinio, lo sterminio, la messa in schiavitù, la deportazione e la persecuzione su basi politiche, razziali o religiose»). Il processo più celebre fu quello tenutosi a Norimberga dal 18 ottobre 1945 al 1° ottobre dell’anno successivo davanti a un Tribunale militare internazionale costituito da giudici provenienti da Gran Bretagna, Francia, Unione Sovietica e Stati Uniti. L’impegno a sottoporre a giudizio al termine del conflitto i responsabili dei crimini di guerra era già stata assunto nel 1943 da Churchill, Roosevelt e Stalin, e i tribunali furono costituiti non appena concluse le operazioni belliche. Il processo di Norimberga, la cui sede fu individuata, non a caso, in una città di notevole valenza simbolica per il nazismo (aveva ospitato i raduni del Partito nazionalsocialista), ebbe come imputati i più importanti dirigenti nazisti fino ad allora catturati (molti, infatti, erano riusciti a fuggire) e accusati di responsabilità nelle politiche criminali del regime hitleriano. Tra i protagonisti, non mancarono alcuni dei massimi leader della Germania nazista: Martin Bormann, capo del Partito nazista e segretario persona- le di Hitler, fu giudicato in contumacia e condannato a morte (probabilmente era morto nel 1945 in seguito a un’esplosione, come testimonierebbero dei resti ritrovati e identificati negli anni Settanta, ma la sua fine resta comunque misteriosa); Hermann Göring, ex comandante della Luftwaffe (l’aviazione militare) e alto gerarca nazista, condannato a morte (ma si suicidò con una cap- sula di cianuro la notte precedente l’impiccagione); Hans Frank, governatore del Governatorato generale in Polonia – dove furono perpetrati i più efferati crimini contro gli ebrei –, fu condannato

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a morte (sentenza eseguita); Wilhelm Frick, ministro dell’Interno di Hitler, tra gli ideatori ed estensori delle leggi razziali contro gli ebrei, fu giudicato colpevole di crimini di guerra e contro l’uma- nità e giustiziato; Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri di Hitler, sottoscrittore del patto di non aggressione con l’Unione Sovietica, fu catturato dagli inglesi vicino ad Amburgo, riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità e giustiziato. Tra il 1946 e il 1949, sempre a Norimberga, furono poi celebrati altri processi che videro imputati, fra gli altri, i medici responsabili di sperimentazioni sui prigionieri; i giuristi artefici dell’architettura giuridica del Terzo Reich; la IG Farben, colosso chimico che aveva venduto lo Zyklon B alle SS; le Einsatzgruppen, responsabili dei massacri durante l’operazione Barbarossa. Tuttavia in questi processi lo sterminio degli ebrei non fu classificato come un crimine a sé stante, ma rubricato sotto l’imputazione di “crimini contro l’umanità”. Soltanto anni dopo, infatti, e non nell’immediato dopoguerra – an- che in virtù del completarsi della ricostruzione storica degli eventi attraverso documenti e testimonianze – emerse la persuasione che la Shoah fosse stata un’immensa barbarie non trattabile semplicemente come una delle atrocità commesse durante la guerra. Va infine rilevato che purtroppo molti criminali nazisti, anche con responsabilità di alto livello durante il regime, riuscirono a

PER APPROFONDIRE La fuga dei gerarchi nazisti Già nel 1944, essendo ormai chia- in America Latina assunsero addirit- ro che la guerra era perduta e che tura le dimensioni di un vero e pro- di conseguenza anche le sorti del prio esodo, che poté contare su una regime erano segnate, tra i gerar- vasta rete di rifugi e protezioni, nella chi nazisti cominciarono a prendere quale ebbero un ruolo attivo anche forma progetti di fuga dall’Europa. esponenti ecclesiastici. Il principale I piani furono delineati il 10 giugno, paese prescelto per l’emigrazione pochi giorni dopo lo sbarco alleato in fu, come si è detto, l’Argentina, go- Normandia, in un hotel di Strasbur- vernata dal presidente Juan Perón, go. Attingendo a fondi segreti del che aveva già mostrato simpatie per Partito nazista depositati in banche il fascismo e il nazismo durante il di paesi neutrali, più di 5000 diri- conflitto. Nel paese latinoamericano, genti del Reich poterono acquistare la presenza degli immigrati nazisti un passaporto argentino. A partire stimolò la nascita di numerose orga- dall’anno successivo i trasferimenti nizzazioni semiclandestine ispirate

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sfuggire al giudizio e alle punizioni con la fuga all’estero (perlo- più in paesi, come l’Argentina, privi di trattati di estradizione), o semplicemente reimmergendosi nell’anonimato di una vita nor- male nella società tedesca. Le potenze alleate proseguirono nella ricerca dei principali esponenti del nazismo contumaci soltanto nei primissimi anni del dopoguerra, poi con le nuove tensioni internazionali della Guerra fredda la questione non venne più considerata una priorità. Così non fu, invece, per numerosi ex deportati nei campi di concentramento o sopravvissuti all’eccidio della propria famiglia, intenzionati a rintracciare e portare in giudizio i responsabili delle atrocità commesse dal nazismo. Il più celebre di questi “cacciatori di nazisti” fu senza dubbio Simon Wiesenthal (1908-2005), un in- gegnere ucraino, poi naturalizzato austriaco, scampato alla morte nel campo di Mauthausen, da cui fu liberato dagli Alleati nel 1945. Wiesenthal dedicò l’intera sua esistenza alla raccolta di documenti e informazioni tali da permettere l’individuazione dei criminali nazisti ancora in vita, ovunque essi avessero trovato rifugio: a lui si deve la cattura, tra gli altri, di Karl Silberbauer, l’ufficiale della Gestapo che arrestò Anna Frank ad Amsterdam; di Franz Stangl, a capo dei campi di Treblinka e Sobibór; di Hermine Braunsteiner-Ryan, responsabile dell’uccisione di centinaia di donne e bambini, che

PER APPROFONDIRE

all’ideologia nazionalsocialista e an- Egitto. Proprio la Spagna franchista tisemita. Oltre a ottenere molteplici sarebbe divenuta, poi, il centro di appoggi nell’organizzazione della irradiazione di una rete capillare di fuga, i nazisti stessi crearono una propaganda e di riorganizzazione rete di assistenza per offrire rifugi neonazista in Europa all’inizio degli sicuri e aiuti materiali: fu la cosid- anni Cinquanta. Dal Cairo, inoltre, detta “Operazione Odessa”, diretta Johann von Leers, che era stato uno da Otto Skorzeny, già alla guida del dei segretari di Goebbels, finanziò commando di paracadutisti nazisti e diresse numerose campagne anti- che aveva liberato Mussolini sul Gran semite sulla stampa neonazista eu- Sasso. Odessa ebbe successo nel ropea e nel 1951 fece pubblicare una consentire a numerosi ufficiali SS e traduzione in arabo dei Protocolli dei quadri della Gestapo di trasferirsi in Savi di Sion, il noto “falso” testo che Spagna (con l’accoglienza garantita presentava la tesi di un complotto dal regime di Franco), Portogallo ed ebraico per la conquista del mondo.

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viveva nell’ombra a New York come un’anonima casalinga. Le meticolose ricerche di Wiesenthal furono anche cruciali nel por- tare alla cattura, in Argentina, di Adolf Eichmann, poi giustiziato in Israele. All’instancabile combattente per la giustizia è dedicato il Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles, aperto nel 1977 per coltivare la memoria della Shoah e proseguire l’opera di ricerca: la caccia ai criminali nazisti continua ancora oggi.

5.2 La memoria della Shoah Gli ebrei sopravvissuti alla Shoah sentirono da subito la for- tissima esigenza di lasciare una testimonianza, spesso connotata intensamente dal dolore del ricordo. L’obiettivo principale era di fare sì che le generazioni future sapessero e non dimenticassero, per evitare per sempre il riprodursi di tali orrori. Ciò nonostante, fino alla metà degli anni Cinquanta, l’editoria e le élite intellet- tuali furono più orientate a soffermarsi sulla vittoria contro il nazifascismo e sulla lotta resistenziale che sulla tragedia della Shoah. Il clima mutò gradualmente grazie anche all’attenzione mediatica suscitata dai processi, e in particolare da quello contro Adolf Eichmann, celebrato a Gerusalemme dopo la sua cattura in Argentina e conclusosi nel 1962 con la condanna a morte di colui che aveva di fatto organizzato e diretto la meticolosa burocrazia dello sterminio. Alla diffusione della conoscenza della tragedia degli ebrei contribuì anche, nel 1959, il successo cinematografico del Diario di Anna Frank, un film tratto dalle celeberrime pagine scritte da una ragazza ebrea nata a Francoforte, rifugiatasi con la famiglia ad Amsterdam e costretta a nascondersi per oltre due anni in una stanza segreta dell’appartamento di famiglia per sfuggire alla deportazione nazista, finché venne scoperta e deportata ad Auschwitz, dove avrebbe trovato la morte. Ci vollero però altri vent’anni prima che la Shoah diventasse anche oggetto di una serie televisiva, con la produzione americana di Olocausto (1979). Quando fu messa in onda in Germania, per l’opinione pubblica tedesca essa rappresentò un evento traumatico che riaccese il dibattito e la riflessione sul proprio recente passato. Da allora, in tutto l’Occidente si sono moltiplicati i titoli di produzioni cinema- tografiche e televisive dedicate alla Shoah: basti citare, fra i tanti, il capolavoro di Steven Spielberg Schindler’s List (1993).

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Si iniziò anche a realizzare monumenti e creazioni artistiche dedicati alla memoria della Shoah. Ricevettero sempre maggiore attenzione da parte di un ampio pubblico, inoltre, i luoghi della memoria, ossia i campi di concentramento e sterminio, in molti casi conservati nelle condizioni in cui erano stati trovati dalle truppe alleate e aperti al pubblico. Con il turismo di massa, tuttavia, essi si sono in parte trasformati anche in attrattive tu- ristiche, compromettendone l’aura di “sacralità della memoria” e suscitando di conseguenza numerose perplessità tra gli stu- diosi della Shoah e gli stessi sopravvissuti. Nel contempo, oltre a questa “volgarizzazione” della Shoah, si è anche profilato un rischio assai più grave, costituito dalla sua negazione da parte di alcuni autori e politici, evidentemente al di fuori di ogni serio dibattito storiografico.

5.3 Il negazionismo All’estremismo di destra, negli Stati Uniti e in Europa si è sovente accompagnato, a livello editoriale e propagandistico, il fenomeno del negazionismo, vale a dire la negazione dell’esistenza della Shoah e dei campi di sterminio da parte di autori che non di rado si sono voluti presentare come “storici”, ma che lo storico - se Pierre Vidal-Naquet ha efficacemente definito “assassini della memoria”. A partire dagli anni Settanta e Ottanta del Novecento, hanno preteso di inserirsi nel dibattito sulla Shoah negando non soltanto le dimensioni dell’eccidio, ma anche la veridicità degli eventi, spinti da una varietà di motivazioni e obiettivi, di cui due sono i più ricorrenti. Una prima fondamentale motivazione è chiaramente quella di coloro che, per simpatie nei confronti del nazismo, hanno inteso negarne o attenuarne le responsabilità. Un secondo approccio trae invece le sue ragioni dalla lotta della po- polazione araba palestinese contro Israele, che perdura ininterrotta dal dopoguerra, quando nel 1948 fu creato in Palestina lo Stato ebraico. L’“antisionismo” filoarabo intende talvolta denunciare la Shoah come un “alibi” storico, ideologico e morale utilizzato dagli ebrei a sostegno dell’occupazione del suolo palestinese, facendo leva sul senso di colpa del mondo occidentale per le persecuzioni e le sofferenze inflitte dalla Germania nazista. Negare l’esistenza della Shoah, in questa prospettiva, significa pertanto abbattere l’argomento più forte a sostegno dell’esistenza dello Stato di Israele.

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Al proposito, ancora in tempi recenti, hanno destato scalpore in tutto il mondo le ripetute affermazioni dell’ex presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad: In nome dell’Olocausto gli Europei hanno creato una leggenda per giustificare la presunta superiorità del loro Dio, della loro religione e dei loro Profeti. [...] Se l’Occidente crede all’assassinio di 6 milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale, l’Occidente stesso dovrebbe trasferire un pezzo della terra d’Israele negli USA, in Canada o in Alaska. (2005) Il vero Olocausto viene perpetrato quotidianamente in Palestina e in Iraq, dove i musulmani vengono uccisi tutti i giorni. (2006) L’Olocausto è una falsità e un pretesto per creare il regime sioni- sta. (2009) Sul fronte storiografico, tra i più celebri sostenitori di tesi ne- gazioniste vi è stato il saggista britannico David Irving (n. 1938). Egli ebbe successo, a partire dalla fine degli anni Settanta, con alcuni libri in cui ricostruì la storia del nazismo utilizzando docu- menti inediti, ottenuti grazie alla sua amicizia con alcuni reduci tedeschi. Le sue tesi divennero, con il tempo, sempre più conno- tate dalla giustificazione del nazismo (e il suo autore sempre più vicino politicamente alle associazioni di estrema destra e ai partiti neonazisti europei), finendo con il negare apertamente la Shoah, come affermò chiaramente nel suo saggio La guerra di Hitler del 1988: «Io non posso accettare l’idea [...] che non esista nessun documento firmato da Hitler, Himmler o Heydrich che parli dello sterminio degli ebrei». Anche a causa della sua disinvoltura nel selezionare, manipolare e omettere le fonti documentali, la sua reputazione di storico risultò, a questo punto, del tutto screditata. A causa della sua propaganda negazionista fu inoltre coinvolto in vicende giudiziarie che evidenziarono i suoi legami con la destra antisemita e neonazista. Nel 2005 Irving fu arrestato in Austria, riconosciuto colpevole da un tribunale per apologia del Partito nazista (un reato secondo la legge austriaca) e condannato a tre anni di reclusione (fu poi scarcerato dopo poco più di un anno). Un altro celebre esponente del negazionismo fu il filosofo, scrittore e politico francese Roger Garaudy (1913-2012), giunto al negazionismo dopo un tortuoso percorso intellettuale e politico tra marxismo (combatté anche nella Resistenza francese contro i nazisti), cattolicesimo militante e fervente conversione all’islam. In I miti fondanti del moderno Stato di Israele (1995) sostiene che la

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Shoah è un mito creato dal sionismo e che il regime nazista non operò alcuno sterminio degli ebrei, avendo come obiettivo soltanto la loro espulsione dal Reich. La causa della morte di tanti ebrei va ricercata, secondo Garaudy, nelle epidemie – in particolare di tifo – che ne colpirono la popolazione, in misura tale da rendere necessaria la costruzione di forni crematori per lo smaltimento dei cadaveri. Le camere a gas, invece, non sarebbero mai esistite. Anche Garaudy fu perseguito dalla giustizia francese e condannato a una breve pena detentiva. Tutti gli storici seri oggi concordano sul fatto che con i ne- gazionisti non si debba instaurare alcun dibattito, proprio per non conferire loro alcuna dignità storiografica, e che si debba piuttosto studiarne le argomentazioni in chiave di rielaborazione dell’antisemitismo. Del classico repertorio antisemita, infatti, essi riprendono anzitutto la tesi di un complotto da parte degli ebrei, i quali sarebbero riusciti, questa volta, addirittura a farsi passare per vittime di un genocidio mai avvenuto.

5.4 Dopo la Shoah L’antisemitismo novecentesco non può che ruotare intorno alla Shoah quale evento cruciale, che ne ha segnato indelebilmente la storia. Ma, come abbiamo osservato, la barbarie nazista non è stata soltanto una tragica parentesi, né il punto finale di una millenaria storia di pregiudizi e di discriminazioni. L’intolleranza nei confronti degli ebrei, o comunque l’uso della figura dell’ebreo quale fulcro di una politica dell’odio, non si è esaurita e ancora oggi non mancano in ogni parte del mondo manifestazioni di anti- semitismo. Esso è un fenomeno ampio e sfaccettato, che trae linfa dalla propaganda neonazista ma include altresì frange dell’estrema sinistra, le quali vedono negli ebrei i rappresentanti per eccellenza del capitalismo, e si arricchisce degli attacchi rivolti contro lo Stato di Israele, condotti sia dall’estrema destra occidentale sia da Stati e gruppi politici islamisti in Medio Oriente, i quali vorrebbero vedere cancellata la presenza di una nazione ebraica nella regione. Un rilevante sviluppo della parabola dell’antisemitismo dopo la Shoah si è accompagnato a una sorta di slittamento semantico che lo ha visto in parte trasformarsi in antisionismo, ossia opposi- zione all’esistenza di Israele. I successi israeliani e le sconfitte dei paesi arabi lungo tutto il corso della seconda metà del Novecento

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hanno contribuito infatti a ridare vigore tra gli oppositori dello Stato ebraico a un’immagine già tipica dell’antisemitismo: quella dell’ebreo che si infiltra subdolamente, “contaminandolo”, nel contesto sociale, economico e culturale che lo accoglie, nella fatti- specie intaccando il “corpo sano” dell’islamismo in Medio Oriente. A livello di azione politica, in tutti i paesi d’Europa ma anche negli Stati Uniti, nel corso della seconda metà del Novecento sono riapparse sulla scena formazioni politiche di evidente richiamo al fascismo e al nazismo, che non di rado hanno ripreso anche slogan e atteggiamenti antisemiti. Nel 1960, per esempio, molti movimenti dell’estrema destra reagirono al processo contro il cri- minale nazista Adolf Eichmann, celebrato a Gerusalemme, dando vita a manifestazioni antisemite; a Roma, in tale occasione, il quartiere ebraico fu teatro di un vero e proprio raid squadristico. Al di là, tuttavia, del caso di partiti e movimenti esplicitamen- te inneggianti ai totalitarismi italiano e tedesco (che peraltro in numerosi paesi europei, Italia compresa, sono considerati fuori legge, anche se talora tollerati dalle autorità), atteggiamenti antise- miti più o meno espliciti si sono manifestati, anche di recente, nei discorsi e nella propaganda di movimenti politici xenofobi, che in alcuni casi – con un’inquietante ripresa di un argomento caro alla propaganda hitleriana – hanno addirittura indicato gli ebrei (in questo accomunati a migranti e profughi) tra i responsabili della crisi economica europea. Ciò è avvenuto, paradossalmente, anche in paesi nei quali non sono di fatto presenti comunità ebraiche.

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Notte e nebbia, di Alan Resnais (Francia 1956). Primo impor- tante documentario storico sui lager nazisti, costruito a partire da materiali d’archivio, con alternanza di immagini in bianco e nero e a colori.

Il diario di Anna Frank, di George Stevens (USA 1959), 3 premi Oscar. Trasposizione cinematografica della vicenda di Anna Frank, tratta dalle pagine del suo diario, dai due anni trascorsi nascosta nella camera segreta dell’appartamento di Amsterdam fino alla cattura e alla tragica fine.

L’uomo del banco dei pegni, di Sidney Lumet (USA 1964). Rod Steiger interpreta un ebreo polacco che gestisce un banco dei pegni nel quartiere newyorkese di Harlem e che vive chiuso in se stesso, prigioniero dei dolorosi ricordi del campo di concentramento.

Shoah, di Claude Lanzmann (Francia 1985). Il capolavoro ci- nematografico assoluto sulla tragedia della Shoah, della durata di oltre 9 ore e mezza, realizzato in 12 anni di lavoro. I luoghi dello sterminio a quarant’anni di distanza; i volti, le parole e le storia dei sopravvissuti, dei testimoni e dei carnefici.

Arrivederci ragazzi, di Louis Malle (Francia 1987). Nella Francia occupata, l’amicizia tra due ragazzi in collegio deve confrontarsi con la brutalità della persecuzione degli ebrei: in seguito a una delazione, la Gestapo scopre e arresta per la deportazione tre stu- denti ebrei, tra cui l’amico del protagonista, che avevano trovato rifugio nella scuola.

Jona che visse nella balena, di Roberto Faenza (Italia, Francia 1993). L’esperienza del lager attraverso gli occhi di un bambino

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di Amsterdam, deportato insieme con tutta la sua famiglia. Tratto da un romanzo autobiografico.

Schindler’s List - La lista di Schindler, di Steven Spielberg (USA 1993), con Liam Neeson, 7 premi Oscar. Grandiosa e commovente ricostruzione della vera storia di Oscar Schindler, un industriale tedesco che produce per le esigenze belliche, divenendo noto e benvoluto negli ambienti militari. Si fa assegnare come operai centinaia di ebrei del ghetto di Cracovia nell’intento di salvarli dalla deportazione dei campi di sterminio. La storia di un “Giusto” che, senza concedere nulla alla retorica, presenta in tutto il suo orrore la realtà della Shoah.

La tregua, di Francesco Rosi (Italia, Francia, Germania, Svizzera 1997), con John Turturro e Claudio Bisio. Tratto dall’omonimo romanzo di Primo Levi, racconta il viaggio di un gruppo di ebrei italiani scampati a un campo di concentramento dopo la libera- zione da parte dei soldati dell’Armata Rossa.

La vita è bella, di Roberto Benigni (Italia 1997), con Horst Buchholz, Roberto Benigni, Giustino Durano, Nicoletta Braschi, 3 premi Oscar. Una moderna fiaba sullo sfondo di una grande tragedia. Padre e figlio ebrei sono deportati in un campo di con- centramento, dove, tra drammatiche difficoltà, il padre cerca di preservare l’innocenza e l’amore per la vita del figlio.

Train de vie - Un treno per vivere, di Radu Mihaileanu (Francia, Belgio, Romania, Israele, Paesi Bassi 1998). Una tragicommedia pervasa di umorismo yiddish che narra la lotta per la vita di un gruppo di ebrei nel tentativo di sfuggire alla cattura da parte dei nazisti. Autoironia e amaro sorriso sullo sfondo della tragedia.

Concorrenza sleale, di Ettore Scola (Italia 2001), con Claudio Bigagli, Gérard Depardieu, Diego Abatantuono, Sergio Castellit- to. Gli effetti delle leggi razziali in Italia. Due commercianti in astiosa concorrenza in una via di Roma, fino a quando uno dei due, ebreo, comincia a subire atti di intimidazione che lo costrin- geranno a chiudere l’attività e a lasciare il quartiere. Ma esiste anche la solidarietà.

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Il pianista, di Roman Polanski (Polonia 2002), con Adrien Brody, 3 premi Oscar. A partire dal 1938, la storia delle crescenti restrizioni e violenze ai danni degli ebrei residenti nel Reich, fino alle deportazioni, allo sterminio e alla liberazione da parte degli Alleati nella vicenda di un giovane ebreo provetto pianista.

Monsieur Batignole, di Gerard Jugnot (Francia 2002). Rifles- sione e senso di umanità trasformano un gretto bottegaio in un anonimo “Giusto”, che, a rischio della vita, aiuterà un bambino ebreo e le sue due cuginette, ricercati dalla Gestapo, a lasciare la Francia occupata per trovare rifugio in Svizzera.

Il bambino con il pigiama a righe, di Mark Herman (USA 2008). Un’amicizia infantile separata da un filo spinato: Bruno, figlio di un gerarca nazista, e Shmuel, internato nel campo di concentra- mento. La Shoah attraverso lo sguardo dei bambini.

Il labirinto del silenzio, di Giulio Ricciarelli (Germania 2014), con Alexander Fehling, André Szymanski, Johannes Krisch. Nella Germania della fine degli anni Cinquanta, un giovane avvocato animato dalla ricerca del “giusto” si imbatte in alcuni documenti che coinvolgono importanti personaggi pubblici, riconoscendoli come aguzzini di Auschwitz. Testimonianza dopo testimonianza, il procuratore ricostruisce gli orrori della Shoah, rompendo la coltre di silenzio e dando avvio al “secondo processo di Auschwitz” (il primo si era tenuto nel 1947 a Cracovia contro 40 nazisti respon- sabili della gestione del campo di Auschwitz).

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1. MEMORIA E STORIA DELLO STERMINIO Primo Levi, I sommersi e i salvati Liliana Picciotto, Lo sterminio degli ebrei nel Governatorato generale

2. DA BUENOS AIRES A GERUSALEMME: IL DIBATTITO SU ADOLF EICHMANN Hannah Arendt, La banalità del male Bettina Stangneth, La “sceneggiata” di Eichmann a Gerusalemme

3. IL NEGAZIONISMO Pierre Vidal-Naquet, Assassini della memoria

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1. Memoria e storia dello sterminio

Uno dei maggiori problemi che emergono dalla ricostruzione stori- ca della Shoah è stato espresso nella forma più efficace e drammatica non da uno storico di professione, ma da un grande scrittore, Primo Levi, autore del primo brano qui presentato. Egli si è infatti interrogato sulla possibilità stessa della memoria e della testimonianza dello sterminio: la questione di fondo, a parere di Levi, è che la tragedia dei Lager è stata scritta soltanto da chi è tornato a casa, e dunque, a ben vedere, da chi non l’ha conosciuta fino in fondo. Il testo successivo è tratto da un saggio di Liliana Picciotto de- dicato ai campi di annientamento nazisti. Nella fattispecie, il brano riprodotto è focalizzato sulle acquisizioni storiografiche a proposito dello sterminio degli ebrei nel Governatorato generale (le aree della Polonia occupate dai nazisti e non annesse direttamente al Reich), nei campi di Bełz˙ec, Sobibór e Treblinka.

Primo Levi I sommersi e i salvati Primo Levi (1919-1987), partigiano antifascista, fu catturato dai nazifa- scisti nel 1943 e deportato ad Auschwitz in quanto ebreo. Si salvò grazie al fatto che, per le sue competenze di chimico, fu mandato a lavorare in una fabbrica per la produzione della gomma sintetica, presso il campo di Auschwitz III - Monowitz. Dopo la liberazione da parte dei russi, poté fare ritorno in Italia, affrontando un viaggio lungo e avventuroso. Rimessosi in salute, scrisse il suo capolavoro, il romanzo Se questo è un uomo, che però in prima battuta, nel 1947, l’editore Einaudi rifiutò. Il testo fu pubblicato soltanto nel 1958 e divenne subito un “classico” della letteratura sulla Shoah. Il titolo originariamente pensato da Levi per il libro era I sommersi e i salvati, che fu ripreso per l’ultimo suo lavoro, pubblicato nel 1986, un anno prima della morte per suicidio.

Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte...), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. È solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico

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«noi» in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride. Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua personale, che però mi è sempre parsa severa e seria. Era contento di ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e for- tificato, certamente arricchito. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circo- stanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia? Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima: potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso. I «salvati» del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i colla- boratori della «zona grigia», le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato fra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti. È morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio, che a di- spetto delle difficoltà di linguaggio si era sforzato di capirmi e di farsi capire, e di spiegare a me straniero le regole essenziali di sopravvivenza nei primi giorni cruciali di cattività; è morto Szabò, il taciturno contadino ungherese, che era alto quasi due metri e perciò aveva più fame di tutti, eppure, finché ebbe forza, non esitò ad aiutare i compagni più deboli a tirare ed a spingere; e Robert, professore alla Sorbona, che emanava coraggio e fiducia intorno a sé, parlava cinque lingue, si logorava a registrare tutto nella sua memoria prodigiosa, e se avesse vissuto avrebbe risposto ai per- ché a cui io non so rispondere; ed è morto Baruch, scaricatore del porto di Livorno, subito, il primo giorno, perché aveva risposto a pugni al primo pugno che aveva ricevuto, ed è stato massacrato

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da tre Kapos coalizzati. Questi, ed altri innumerevoli, sono morti non malgrado il loro valore, ma per il loro valore. L’amico religioso mi aveva detto che ero sopravvissuto affinché portassi testimonianza. L’ho fatto, meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; e ancora lo faccio, ogni volta che se ne presenta l’occasione; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni, senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo propor- zione fra il privilegio e il risultato. Lo ripeto, non siamo noi superstiti i testimoni veri. È questa la nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggen- do le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per la loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tor- nato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i «mussulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione. Sotto altro cielo, e reduce da una schiavitù simile e diversa, lo ha notato anche Solženicyn: «Quasi tutti coloro che hanno scontato una lunga pena e con i quali vi congratulate perché sono dei soprav- vissuti, sono senz’altro dei pridurki o lo sono stati per la maggior parte della prigionia. Perché i Lager sono di sterminio, questo non va dimenticato». Nel linguaggio di quell’altro universo concentra- zionario, i pridurki sono i prigionieri che, in un modo o nell’altro, si sono conquistati una posizione di privilegio, quelli che da noi si chiamavano i Prominenti. Noi toccati dalla sorte abbiamo cercato, con maggiore o minore sapienza, di raccontare non solo il nostro destino, ma anche quello degli altri, dei sommersi, appunto; ma è stato un discorso «per con- to di terzi», il racconto di cose viste da vicino, non sperimentate in proprio. La demolizione condotta a termine, l’opera compiuta, non l’ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale. Settimane e mesi prima di spegnersi, avevano già perduto la virtù di osservare, ricordare, commisurare ed esprimersi. Parliamo noi in loro vece, per delega.

P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, pp. 62-65

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Liliana Picciotto Lo sterminio degli ebrei nel Governatorato generale Liliana Picciotto (n. 1947) è una storica italiana che ha concentrato i propri studi sulle strutture dello sterminio nazista. Tra le sue opere, i volumi Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945) (1991), Per ignota destinazione. Gli ebrei sotto il nazismo (1994), I giusti d’Italia (2006), L’alba ci colse come un tradimento. Gli ebrei nel campo di Fossoli 1943-44 (2010). È inoltre coautrice di un film-documentario, Memoria (1997). Le procedure descritte nel brano proposto si riferi- scono alla terza fase dello sterminio, dopo quella delle fucilazioni sommarie in Unione Sovietica e quella dell’eliminazione nei camion a gas nel Wartheland (regione della Polonia occidentale annessa al Reich). Nel Governatorato si procedette alla gassazione con impianti fissi e alla cremazione a cielo aperto dei cadaveri (sarebbe poi seguita l’introduzione di appositi impianti di cremazione dei corpi).

Il primo a essere predisposto fu Bełz˙ec, nel distretto di Lublino: i lavori iniziarono il 1° novembre 1941 e fu operativo il 16 marzo 1942. Nello stesso distretto di Lublino fu progettato un secondo centro di sterminio, Sobibór, costruito nel marzo 1942 e operativo in aprile. Nel distretto di Varsavia ne fu creato un terzo, Treblinka, edificato tra fine aprile e inizio maggio 1942 e operativo dal luglio 1942. Il 16 dicembre 1941 il governatore Frank, in una riunione al vertice della sua amministrazione a Cracovia, così si espresse senza veli: Lasciatemelo dire francamente: in un modo o nell’altro dobbiamo finirla con questi ebrei [...] Il Governatorato generale deve diventare judenfrei al pari del Rei- ch. Dove e come ciò debba essere attuato riguarda strutture che dovremo creare e sulla cui attività vi informerò a tempo debito. Per attuare questo progetto furono creati i tre centri di sterminio, concepiti alla stessa maniera: immersi nelle foreste e collegati da un tratto secondario di ferrovia alla linea principale, comprendevano una rampa di scarico delle persone e un campo recintato con filo spinato intrecciato con rami. Il primo settore comprendeva gli alloggi delle SS e i laboratori dei pochi ebrei salvati dalla morte immediata per lavorare al loro servizio (sartoria, calzoleria, falegnameria); nel secondo affluivano continui convogli, con locali-deposito per i beni strappati ai deportati e baracca spogliatoio; il terzo, infine, era de- stinato allo sterminio. Gli ebrei venivano fatti discendere dai vagoni sulla rampa di arrivo e raccolti in un cortile. Di là, a gruppi, erano fatti entrare in uno spogliatoio dove erano costretti a lasciare la roba minuta e i vestiti, e poi erano avviati, nudi, verso un anonimo viottolo, di una

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ventina di metri, delimitato da una recinzione di fronde, attraverso il quale si arrivava direttamente, senza rendersene conto, all’edificio con le camere a gas, camuffato esternamente da locale per docce. Le camere erano tre; ciascuna aveva un’entrata indipendente da un lato, dall’altro lato un’uscita per sgomberare i corpi. A poche decine di metri erano pronte gigantesche fosse aperte dove buttare i cadaveri. Ogni camera era collegata, mediante una conduttura esterna, con un unico pesante motore da autocarro sistemato in un locale adiacente all’edificio. Una volta acceso, il motore emetteva il gas di scarico monossido di carbonio che, convogliato verso le camere chiuse, provocava l’asfissia collettiva in pochi minuti. Dopo l’avvelenamento, gli addetti del Sonderkommando (commando speciale formato da deportati costretti a lavorare nel ciclo assassino) precedentemente scelti fra i nuovi arrivati aeravano il locale aprendo dall’esterno le porte di ciascuna camera e procedevano all’estrazione dei corpi che giacevano a terra e al loro seppellimento in fosse comuni. A metà giugno 1942 furono avviati lavori per ingrandire la capacità di “accoglienza” dei tre campi e per sostituire le baracche di legno con edifici di mattoni fissi. Le camere a gas furono ristrutturate, aumentate di numero e di superficie. I tre campi di sterminio non erano dotati di crematorio tanto che quando, più tardi, la massa di corpi ebbe colmato il terreno circostante, fu necessario riesumarli per bruciarli su rudimentali roghi all’aperto. Metodo che da un certo momento in poi fu usato direttamente, senza seppellire prima i corpi.

L. Picciotto, I campi di sterminio nazisti. Un bilancio storiografico, in AA.VV., Lager, totalitarismo, modernità, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 89-127

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2. Da Buenos Aires a Gerusalemme: il dibattito su Adolf Eichmann

Tra le questioni più complesse generate dalla tragedia della Shoah vi è indubbiamente quella delle “responsabilità”, sul piano giudiziario così come su quello morale e culturale, per lo sterminio degli ebrei. Ne è derivato un grande dibattito, che ha accompagnato i processi ai criminali nazisti nel secondo dopoguerra e che, a livello sia storiografico sia filosofico-politico, continua ancora oggi. Si inscrive in questo quadro il giudizio espresso dalla più celebre filosofa del XX secolo, Hannah Arendt, su Adolf Eichmann, gerarca nazista che era stato tra i principali organizzatori della “soluzione finale”. Catturato dagli americani, Adolf Eichmann mascherò la pro- pria identità, facendosi passare per un comune ufficiale tedesco, in un campo di prigionia. Già all’inizio del 1946, però, un suo ex aiutante testimoniò a Norimberga, indicandone le responsabilità nella Shoah. Eichmann allora evase dal campo: riuscì a ottenere in Italia un passa- porto falso e dal consolato dell’Argentina un visto permanente; nel 1950 si trasferì dunque a Buenos Aires. Dieci anni dopo, individuato dal Mossad (il servizio segreto israeliano), fu sequestrato mentre tornava a casa dal lavoro, trasferito in un luogo segreto, camuffato da steward di una compagnia aerea e portato in Israele. Il governo del paese mediorientale poté, a questo punto, annunciare al mondo la sua cattura. Ebbe quindi inizio il processo a Gerusalemme, che si sarebbe concluso nel maggio del 1962 con la condanna a morte e l’impiccagione di Eichmann. Inviata dal periodico statunitense “The New Yorker” in Israele a seguire le udienze del processo, Hannah Arendt ne ricavò alcune riflessioni destinate a suscitare grandi polemiche nei circoli culturali ebraici a cui la stessa filosofa apparteneva, ma nel contempo a eser- citare un’enorme influenza sulle generazioni successive di storici e filosofi. Eichmann in : A Report on the Banality of Evil (1963) ha dato vita infatti a un vero e proprio paradigma interpretativo: sul modello del criminale nazista giustiziato a Gerusalemme, gli uomini “di secondo livello” del Terzo Reich sono stati spesso descritti come “macchine” del regime, esecutori privi di pensiero. Arendt presen- tava Eichmann come un essere «spersonalizzato», per molti aspetti incapace di pensare, «suggestionabile dalle parole d’ordine», sempre pronto a eseguire con zelo le istruzioni impartitegli. Su tali basi, la filosofa coniò l’espressione «banalità del male», che si coniugava peraltro perfettamente con l’immagine delle masse prive di autentica coscienza e personalità politica che aveva descritto nel suo lavoro

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più noto, Le origini del totalitarismo (1951), e con la riflessione sulla necessità di recuperare la partecipazione politica nel mondo moderno condotta in The Human Condition (1958). Alla fine degli anni Sessanta Arthur Koestler, popolare scrittore ungherese naturalizzato britannico, affermava che Eichmann non era stato «un mostro o un sadico, ma un burocrate coscienzioso che considerava suo dovere eseguire gli ordini ricevuti, e che credeva nell’obbedienza come virtù suprema»; «lungi dall’essere un sadico», Eichmann, secondo Koestler, si era sentito «fisicamente male quell’u- nica volta che guardò lavorare il gas Zyklon». Si tratta, evidentemente, di un’immagine del criminale nazista del tutto coerente con quella rappresentata da Arendt. Alcuni anni fa, tuttavia, questo modello interpretativo è stato messo in discussione da una studiosa tedesca, Bettina Stangneth, con un volume pubblicato nel 2011 e poi divenuto noto a livello mon- diale nella traduzione in inglese, Eichmann Before Jerusalem. The Unexamined Life of a Mass Murderer (2014). Pur accostandosi con il dovuto rispetto alla tesi di fondo di Hannah Arendt, Stangneth non si basa unicamente su quanto Eichmann sostenne durante il processo a Gerusalemme, ma esamina anche la grande quantità di scritti del criminale nazista denominati Argentina papers, la cui stesura risale agli anni di permanenza di Eichmann a Buenos Aires. Emerge da questa analisi come egli si fosse sentito importante, assoluto padrone del destino di molti uomini, nonché ingegnoso inventore di “soluzioni” alla questione degli ebrei.

Hannah Arendt La banalità del male Nel volume Eichmann in Jerusalem (tradotto in italiano con il sottotitolo dell’edizione originale, La banalità del male) Arendt (1906-1975) si sof- ferma su come Eichmann, nelle udienze del processo a Gerusalemme, tentasse di difendersi affermando di avere semplicemente compiuto il proprio dovere, da uomo «ligio alla legge»: era questo in fondo, per la filosofa, l’esito estremo e drammatico della politica moderna, che aveva trasformato i cittadini attivi in “masse”, terreno di conquista per l’opera di mobilitazione da parte dei movimenti totalitari.

Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere

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obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge. Eichmann aveva la vaga sensazione che questa fosse una distinzione importante, ma né la difesa né i giudici cercarono di sviscerare tale punto. I logori temi degli «ordini superiori» oppure delle «azioni di Stato» furono discussi in lungo e in largo: essi già avevano dominato tutti i dibattiti al processo di Norimberga, per la semplice ragione che davano l’illusione che fatti senza precedenti potessero essere giudicati in base a precedenti e a criteri già noti. Eichmann, con le sue doti mentali piuttosto modeste, era certamente l’ultimo, nell’aula del tribunale, da cui ci si potesse attendere che contestasse queste idee e impostasse in altro modo la propria difesa. Oltre ad aver fatto quello che a suo giudizio era il do- vere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini – preoccupandosi sempre di essere «coperto» –, e perciò ora si smarrì completamente e finì con l’insistere alternativamente sui pregi e sui difetti dell’obbedienza cieca, ossia dell’«obbedienza cadaverica», Kadavergehorsam, come la chiamava lui. La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana, e in particolare con- formemente a una definizione kantiana del dovere. L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza. Il giudice istruttore non approfondì l’argomento, ma il giudice Raveh, vuoi per curiosità, vuoi perché indignato che Eichmann avesse osato tirare in ballo il nome di Kant a proposito dei suoi misfatti, decise di chiedere chiarimenti all’impu- tato. E con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico: «Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali» (il che non vale, per esempio, nel caso del furto o dell’omicidio, poiché il ladro e l’omicida non possono desiderare di vivere sotto un sistema giuridico che dia agli altri il diritto di derubarli o di assassinarli). Rispondendo ad altre domande, Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principi kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più «padrone delle proprie azioni», che non poteva far nulla per «cambiare le cose.» Alla Corte non disse però che in questo periodo «di crimini legalizzati dallo Stato» – così ora lo chiamava – non solo aveva abbandonato la

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formula kantiana in quanto non più applicabile, ma l’aveva distorta facendola divenire: «agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese», ovvero, come suonava la definizione che dell’«imperativo categorico nel Terzo Reich» aveva dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: «agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe» (Die Technik des Staates, 1942, pp. 15-16). Certo, Kant non si era mai sognato di dire una cosa simile; al contrario, per lui ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in cui comin- ciava ad agire: usando la «ragion pratica» ciascuno trova i principi che potrebbero e dovrebbero essere i principi della legge. Ma è anche vero che l’inconsapevole distorsione di Eichmann era in armonia con quella che lo stesso Eichmann chiamava la teoria di Kant «ad uso privato della povera gente.» In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più che obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge – la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann, era la volontà del Führer. Buona parte della spaventosa precisione con cui fu attuata la soluzione finale (una precisione che l’osservatore comune considera tipicamente tedesca o comunque caratteristica del perfetto burocrate) si può appunto ricondurre alla strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce. Da qui la convinzione che occorra fare anche di più di ciò che impone il dovere. Qualunque ruolo abbia avuto Kant nella formazione della mentalità della «povera gente» in Germania, non c’è il minimo dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti kantiani: una legge è una legge e non ci possono essere eccezioni. A Gerusalemme egli ammise di aver fatto un’eccezione in due casi, nel periodo in cui «ottanta milioni di tedeschi» avevano ciascuno «il suo bravo ebreo»: aveva aiutato una cugina mezza ebrea e una coppia di ebrei viennesi, cedendo alle raccomandazioni di suo «zio». Questa incoerenza era ancora un ricordo spiacevole, per lui, e così durante l’interrogatorio dichiarò, quasi per scusarsi, di aver «confessato le sue colpe» ai suoi superiori. Agli occhi dei giudici questa ostinazione lo condannò più di tante altre cose meno incomprensibili, ma ai suoi occhi era proprio questa durezza che lo giustificava, così come un tempo era valsa a tacitare quel poco di coscienza che ancora poteva avere. Niente eccezi- oni: questa era la prova che lui aveva sempre agito contro le proprie «inclinazioni», fossero esse ispirate dal sentimento o dall’interesse;

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questa era la prova che lui aveva sempre fatto il suo «dovere». E fu facendo il suo «dovere» che alla fine egli entrò in conflitto con i suoi superiori. Nell’ultimo anno di guerra – due anni dopo la conferenza di Wannsee – ebbe l’ultima crisi di coscienza. Approssimandosi la disfatta, si trovò di fronte a uomini che, pur venendo dalle sue stesse file, premevano sempre di più perché si facessero eccezioni e, infine, perché si sospendesse lo sterminio. Fu allora che egli abbandonò la sua tradizionale cautela e riprese a compiere azioni di propria iniz- iativa: per esempio, quando i bombardamenti alleati paralizzarono completamente il sistema dei trasporti, organizzò le marce a piedi di ebrei da Budapest in direzione del confine austriaco. Si era ormai nell’autunno del 1944, e lui sapeva che Himmler aveva ordinato lo smantellamento degli impianti di sterminio e che il gioco era finito. Verso quell’epoca ebbe uno dei suoi rarissimi colloqui personali con Himmler. Quest’ultimo gli avrebbe gridato: «Se finora Lei si è occupato di liquidare gli ebrei, d’ora in avanti avrà buona cura degli ebrei, sarà la loro balia: gliel’ordino io! Le ricordo che sono stato io, e non il Gruppenführer Müller e tanto meno Lei, a fondare l’RSHA nel 1933. Qui comando solo io!» L’unico testimone che ricordò queste parole fu il poco attendibile Kurt Becher; Eichmann negò che Himmler avesse gridato, ma non negò che un colloquio del ge- nere avesse avuto luogo. Himmler, naturalmente, non poteva essersi espresso in quella forma, poiché doveva saper bene che l’RSHA era stato fondato nel 1939 e non nel 1933, e non propriamente da lui, ma da Heydrich, col suo benestare. Tuttavia, qualcosa di vero nel racconto di Becher ci doveva essere; a quel tempo Himmler ordinava a destra e a sinistra che si trattassero bene gli ebrei (i quali erano il suo «investimento più sicuro»), e per Eichmann quella dovette essere un’esperienza sconvolgente.

H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 142-145

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Bettina Stangneth La “sceneggiata” di Eichmann a Gerusalemme Il libro di Bettina Stangneth (n. 1966) Eichmann Before Jerusalem ha ottenuto notevole attenzione internazionale per la sua dettagliata ricostruzione della vita del criminale nazista nel secondo dopoguerra. Il brano qui riprodotto è focalizzato in particolare sull’immagine che Eichmann tentò di dare di sé in Israele.

Il famigerato specialista della “questione ebraica”, il coordinatore interministeriale del progetto di sterminio, l’uomo che con i suoi superiori ne esaltava i risultati sorseggiando un cognac di fronte al camino... ebbene, quest’uomo volle farsi passare per un inerme, umile esecutore privo di qualsiasi potere: giungendo persino a sostenere che alla Conferenza di Wannsee si era «tenuto in disparte, occupato a temperare le matite». In Argentina, invece, Eichmann aveva spiegato con orgogliosa pignoleria perché fin da prima della guerra il suo nome fosse assurto a simbolo. Conosceva riga per riga gli articoli giornalistici su di lui, dei quali conservava un’intera collezione, ma ora [a Gerusalemme] dichiarò che «fino al 1946 ero pressoché scono- sciuto all’opinione pubblica». Ai suoi occhi, il processo che si stava istruendo non era altro che frutto di un equivoco originato «dalle accuse e dalle calunnie che lo avevano perseguitato in tutto il mondo negli ultimi quindici anni». «Anch’io, – affermò indignato nella sua dichiarazione finale di fronte alla corte – anch’io sono una vittima». Fedele a questa sua sceneggiata, Eichmann si descrisse in termini che negli anni del potere gli sarebbero apparsi un intollerabile affronto: uno «scribacchino di vedute limitate», un «pedante burocrate» incapace di «sconfinare dalle mansioni assegnate»... menzogne di cui l’ultima tale da apparire ridicola forse anche al suo stesso autore. Se i suoi ex colleghi del ministero degli Esteri avessero avuto la possibilità di smentirlo, avrebbero raccontato una storia ben diversa sull’abitudine di Eichmann di «sconfinare dalle mansioni assegnate»: si era sempre mostrato orgoglioso dei suoi inganni e maneggi, e ora l’acuto magi- strato che conduceva l’interrogatorio notò che il prigioniero sembrava prendere nuovo vigore quando inscenava qualche tatticismo. Tutte le etichette che Eichmann cercò di attribuirsi in Israele corrispondevano perfettamente alla nozione di nemico del nazio- nalsocialismo, giacché quella del “burocrate” era un’immagine agli antipodi del modello SS. Naturalmente, anche la burocrazia poteva diventare un’arma, soprattutto ai danni di coloro che la rispettavano: ogni volta che ne aveva avuto l’opportunità, Eichmann, vero maestro in questa sottile forma di potere, si era avvalso con spregiudicatezza di tutto l’armamentario burocratico a sua disposizione non soltanto

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per perseguitare le sue vittime, ma anche per mettere i bastoni tra le ruote ad altre istituzioni del Reich. Ora, però, recluso in una cella in Israele, la qualifica di burocrate appariva assai più inoffensiva di quella di gerarca delle SS. Come poteva un prudente burocrate essere un nazista fanatico? Non era che un uomo ordinario, amante della natura, con una certa inclinazione per la cultura e un anelito illuminista e cosmopolita; un uomo che negli ultimi quindici anni era finalmente riuscito a lasciarsi alle spalle ciò che gli era stato imposto di fare da un governo criminale e a ritrovare le proprie radici. Questa fu l’immagine di sé che, a Gerusalemme, Eichmann scelse di trasmet- tere nel suo ultimo anno di vita. La sua capacità di immedesimarsi nel ruolo, via via perfezionandolo, gli permise di reggere la finzione con sorprendente coerenza. Anzi, la affinò ulteriormente, integrando l’immagine del prigioniero collaborativo e del meticoloso ricostruttore di fatti con quella del pacifista rispettoso delle leggi internazionali, e infine del filosofo che si macera sui grandi temi dell’etica e del- l’esistenza appellandosi a Kant e Spinoza (senza richiami, almeno per questa volta, alla “voce del sangue”). Uno studio sull’antisemitismo razzista del periodo nazista, tuttavia, mette a nudo i cliché antisemiti presenti anche in questi ruoli che Eichmann si attribuisce e rivela che il gerarca in realtà continuava a pensare come un lucido antisemita. Gli ebrei, come andava pre- dicando fin dagli anni Trenta, erano universalisti: la loro debolezza risiedeva proprio nel primato attribuito alle idee universali, come la conoscenza, rispetto al linguaggio del sangue. Eichmann era persuaso che si trattasse di un loro istinto “innato”, e probabilmente sperava che appellandovisi si sarebbe aperto una via di scampo.

B. Stangneth, Eichmann Before Jerusalem. The Unexamined Life of a Mass Murderer, Alfred A. Knopf, New York 2014, pp. 364-365, trad. it di A. Guaraldo

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3. Il negazionismo

Come è noto, il negazionismo consiste nella pretesa di negare l’esistenza storica della Shoah, sulla base di pseudo-argomentazioni storiografiche, a partire dall’idea che la cifra di sei milioni di ebrei vittime del nazismo sia una “leggenda” diffusa dagli ebrei stessi nel secondo dopoguerra. La comunità degli storici è generalmente con- corde sul fatto che ai negazionisti non si debba neppure rispondere (lo si fa implicitamente, con il racconto della tragedia della Shoah e con la memoria viva e dolente dei sopravvissuti), e che piuttosto li si debba studiare nella loro fenomenologia. A ciò si è dedicato, tra gli altri, Pierre Vidal-Naquet, che ha significativamente definito i negazionisti «assassini della memoria».

Pierre Vidal-Naquet Assassini della memoria Lo storico francese Pierre Vidal-Naquet (1930-2006) è stato uno dei principali studiosi del fenomeno negazionista. Nel brano qui riprodotto, egli osserva acutamente come la “negazione” della Shoah fosse in fondo un aspetto della stessa “soluzione finale”.

Una delle caratteristiche della Distruzione degli ebrei d’Europa, come l’ha definita Raul Hilberg, è che la distruzione della storia ha avuto corso parallelamente alla storia stessa. Con questo voglio dire essenzialmente tre cose. a) La storia della distruzione degli ebrei e degli zingari non è qualcosa di cui i nazisti abbiano menato vanto. Da un certo punto di vista ne erano fieri, ma erano coscienti che si trattava di qualcosa di talmente eccezionale da doverlo dissimulare non solamente di fronte alle vittime [...], non solamente di fronte alle popolazioni in seno alle quali vivevano gli ebrei, sia come stranieri che come cittadini, ma anche di fronte al popolo tedesco e di fronte a se stessi. [...] Le camere a gas, che cominciano a funzionare ad Auschwitz, per gli ebrei, nella primavera del 1942, sono state al contempo l’arma del crimine e lo strumento della negazione del crimine. Non vi è in questo alcun paradosso, poiché le camere a gas sono uno strumento di morte anonimo. Nessuno è responsabile. Nessuno è un assassino. E la situazione che crea Ulisse quando prende il nome di Nessuno (Outis) e il disgraziato Polifemo grida che Nessuno l’ha accecato. Chi è l’assassino? Il medico che seleziona, lo Häftling che conduce la folla

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dei condannati, le SS che introducono nella camera a gas lo Zyklon B? Nessuno è il carnefice perché tutti partecipano all’uccisione, cosa che rende facili tutte le negazioni. b) A questo si aggiunge la questione del linguaggio in codice. Bisogna comprendere bene che dietro questo termine si celano due realtà assai diverse. La prima è quella che Eichmann definiva l’Amt- sprache. Eichmann sostenne durante il suo processo di non conoscere che una lingua: l’Amtsprache [il linguaggio ufficiale, ndr], e Hannah Arendt ha brillantemente commentato questa parola nel suo libro La banalità del male. Nell’Amtsprache le esecuzioni con la camera a gas si chiamano Sonderbehandlungen, o, più semplicemente, SB e poiché SB (trattamento speciale) può anche significare essere alloggiati in un albergo di lusso, come ha sostenuto Kaltenbrunner durante il processo di Norimberga, questo lascia spazio a tutte le negazioni. Nello stesso linguaggio, la camera a gas si chiama Leichenkeller (camera mortuaria) e c’è stato bisogno che Jean-Claude Pressac studiasse attentamente la documentazione del museo di Auschwitz per scoprire che la Leichenkeller non era altro che la Gazkammer, la camera a gas. [...] c) Bisogna osservare infine che le installazioni criminali stesse sono state sistematicamente distrutte dai nazisti. È stato il caso, dal 1943, dei centri di sterminio di Belzec, Chelmno, Sobibor e Treblin- ka, è stato il caso, nel novembre 1944, di Auschwitz, dove bisogna impegnarsi in una difficile impresa archeologica per ristabilire la verità storica. Terminata la guerra, tutto era pronto per la distruzione della memoria, tutto tranne proprio la memoria dei testimoni, poiché molti di essi erano, nonostante tutto, sopravvissuti e le rovine erano ancora fumanti.

P. Vidal-Naquet, Chi sono gli assassini della memoria?, in Id., Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008

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a cura di Elena Pirazzoli

Dalle leggi razziali all’armistizio: la discriminazione (1938) e i campi di internamento fascisti (1940-1943) A partire dal 1937 il regime fascista intensificò la propaganda razzista, supportando le teorie con la pubblicazione di presunte po- sizioni scientifiche in merito. L’obiettivo era quello di mostrare come la razza ariana fosse superiore sia ai “sudditi delle colonie africane” sia agli ebrei. Nel luglio 1938 venne pubblicato sul “Giornale d’Italia” il cosiddetto Manifesto della razza (più correttamente Manifesto degli scienziati razzisti), in cui si sosteneva la superiorità della “pura razza italiana”, affermando l’esistenza di differenze biologiche tra le razze e indicando come quella ebraica fosse non europea e, quindi, non assimilabile. Nell’agosto del 1938 venne effettuato un censimento degli ebrei italiani e stranieri residenti nel Regno d’Italia: la normativa razzista era in preparazione e per renderne possibile l’immediata applicazione il Ministero dell’Interno doveva effettuare una rilevazione precisa. Nel novembre dello stesso anno venne approvato dal Consiglio dei ministri e firmato dal re Vittorio Emanuele III il regio decreto n. 1728 “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”, che limitava i diritti degli ebrei italiani. Ma già nel settembre era stato emanato il regio decreto-legge n. 1381 destinato ai “Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri”, in cui veniva fatto divieto di soggiornare sta- bilmente nel Regno per coloro che avevano ottenuto la cittadinanza italiana dopo il 1° gennaio 1919. La situazione peggiorò ulteriormente con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno 1940: il regime usò allora lo strumento dell’inter- namento per controllare determinate categorie di civili considerate “pericolose”. Oggetto di queste restrizioni furono i “sudditi nemici” (come avveniva, in caso di conflitto, per molti Stati), i dissidenti poli- tici, gli “allogeni” della Venezia Giulia, ovvero i cittadini di minoranza slava, gli apolidi e gli ebrei stranieri. Venne così creata una rete di “campi di concentramento per gli internati civili in guerra”: centri

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di competenza del Ministero dell’Interno, situati nelle regioni del Centro-Sud. La vita all’interno di questi campi, normata dal decreto del Duce del 7 settembre 1940, non si discostava da quella delle colonie di confino per oppositori politici, attive già dai primi anni di affermazione del regime. Il principale di questi campi fu Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, ma altre strutture vennero create in Emilia Romagna, Toscana, Marche, Abruzzo, , Umbria, Campania, Basilicata e Puglia. Diverso fu il caso degli “allogeni” slavi (in particolare sloveni e croati), che furono internati dopo l’occupazione della Iugoslavia nell’aprile 1941: vennero rinchiusi in campi come Gonars (Udine), Renicci (Anghiari) o Arbe (isola del Quarnaro, in croato Rab), dove le condizioni erano durissime e il tasso di mortalità molto alto. Questa situazione si protrasse fino alla caduta del fascismo nel luglio 1943 e al successivo armistizio con le forze alleate, l’8 settembre.

L’occupazione tedesca e la Repubblica sociale: stragi, campi di concentramento e deportazione (1943-1945) Dopo quella data accadde una sorta di rovesciamento geogra- fico: i campi di internamento fascista del Sud Italia vennero presto raggiunti dall’avanzata delle truppe anglo-americane. In alcuni casi vennero trasformati in campi profughi. Nel Centro-Nord, invece, l’occupazione tedesca portò con sé stragi (le prime avvennero sul lago Maggiore, tra Meina e Baveno), rastrellamenti (come quello del 16 ottobre nel ghetto di Roma) e la creazione di campi di transito (, Fossoli, Bolzano-Gries) o di veri e propri campi di concentramento ed eliminazione (Risiera di San Sab- ba). Gli ebrei italiani, fino a quel momento rimasti liberi (benché discriminati), furono rastrellati, deportati, uccisi, condividendo il destino di antifascisti e partigiani (come nell’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma), ma anche della popolazione civile accusata di proteggere gli oppositori politici (si pensi alle stragi di Monte Sole e Sant’Anna di Stazzema). Le operazioni furono condotte dalle truppe tedesche occupanti e dagli appartenenti alla Repubblica sociale italiana (RSI), che si spartivano il controllo e l’amministrazione dell’Italia centro-set- tentrionale. I tedeschi crearono due “zone di operazioni” che amministravano direttamente: l’Operationszone Alpenvorland, Zona d’operazioni delle Prealpi, corrispondente alle province di Bolzano, Trento e Belluno, e l’Operationszone Adriatisches Küstenland, Zona d’ope razioni del Litorale Adriatico, che comprendeva il Friuli Venezia Giulia, l’Istria, Fiume e Lubiana. La RSI, il nuovo “Stato fascista”

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guidato da Mussolini e fondato dal Manifesto di Verona, benché formalmente esteso fino alla Campania, aveva i propri centri ammi- nistrativi attorno al lago di Garda, tra il Veneto e la Lombardia. Tra i punti del Manifesto di Verona, il settimo indicava espressamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». Membri della Guar- dia nazionale repubblicana, delle Brigate nere e delle SS italiane contribuirono attivamente ai rastrellamenti degli ebrei: a Venezia, Ferrara, Torino, Roma, Milano. Convogliati prima nelle carceri cit- tadine, poi caricati su vagoni merci (ad esempio, al binario 21 della stazione di Milano), gli ebrei venivano inviati ai campi di transito (prima Fossoli poi, da luglio 1944, Bolzano-Gries) da dove, dopo una breve permanenza, erano deportati verso i campi d’Oltralpe: Dachau, Buchenwald, Mauthausen, Ravensbrück, Bergen-Belsen, Flossenbürg, Auschwitz.

I luoghi del rifugio e della salvezza: il lavoro della Delasem e i campi profughi degli Alleati in Puglia Rispetto alle vicende della deportazione e dello sterminio, meno note sono le storie dei luoghi del rifugio e della salvezza. È alto il nume- ro di persone che aiutarono gli ebrei a nascondersi e a fuggire: i “Giusti tra le Nazioni” italiani riconosciuti sono quasi cinquecento. Un caso particolare è rappresentato da Villa Emma di Nonantola (Modena): nell’estate del 1942 vi si stabilirono 73 ragazzi ebrei provenienti dalla Germania e dai Balcani; dopo l’8 settembre la popolazione locale li aiutò prima a nascondersi, poi a fuggire verso la Svizzera. In questo caso fu fondamentale l’apporto della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei: un’organizzazione facente capo all’Unione delle comunità israelitiche in Italia, che lavorò dal 1939 per assistere gli ebrei internati e profughi, con l’autorizzazione del fasci- smo. Il suo operato continuò fino al 1947. L’Italia, infatti, fu un luogo fondamentale per la storia ebraica anche dopo la fine del conflitto: su tutto il territorio, ma in particolare nelle regioni meridionali, furono creati centri di raccolta per Displaced Persons (ovvero persone che si trovavano al di fuori dei confini dei propri paesi di origine, spesso impossibilitate a ritornarvi, di cui la comunità internazionale doveva occuparsi). In molti casi si trattava di profughi ebrei sfuggiti o so- pravvissuti ai campi di concentramento e di sterminio. Il passaggio in Italia rappresentò per loro il momento della rinascita, in attesa di riuscire a salpare per la Palestina o gli Stati Uniti. Una forte concen- trazione di questi centri si ebbe in Salento, tra Santa Cesarea, Santa Maria al Bagno e Santa Maria di Leuca.

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Ferramonti di Tarsia (Cosenza) giugno 1940 - settembre 1943 settembre 1943 - dicembre 1945

Dopo l’entrata in guerra dell’Italia vennero creati “campi di concentramen- to per gli internati civili in guerra”, situati nelle regioni centro-meridio- nali. Ebrei stranieri e successivamente ebrei italiani antifascisti vennero reclusi in queste strutture di pertinenza del Ministero dell’Interno, dove la vita degli internati era simile a quella di chi, prima del conflitto, venne destinato alle colonie di confino. In località Ferramonti, nel Comune di Tarsia, venne creato il più grande di questi campi: la scelta di una zona insalubre e malarica dipese dagli interessi del costruttore, l’imprendi- tore Eugenio Parrini, vicino al regime. In quell’area esistevano già delle baracche usate precedentemente da operai della sua ditta impegnati nella bonifica. Il primo gruppo di internati era composto da 160 uomini ebrei stranieri provenienti da Roma: professionisti che da tempo vivevano nella capitale con le proprie famiglie. Nel tempo furono inviati in questo campo diversi gruppi di ebrei stranieri, di nazionalità tedesca, polacca, cecoslovacca, iugoslava, e gli apolidi. Un gruppo molto numeroso fu quello di giovani sionisti partiti da Bratislava su un battello fluviale, naufragati nell’Egeo mentre cercavano di raggiungere la Palestina: una nave militare italiana li trasse in salvo portandoli a Rodi, da cui furono trasferiti nel campo in Calabria. Vi erano anche gruppi di stranieri non ebrei: greci ortodossi, partigiani iugoslavi, cinesi. All’interno del campo era attiva la Delasem (la Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei), e la “Mensa dei bambini” di Milano diretta da Israel Kalk. Anche il Vaticano conosceva la situazione del campo, che seguiva grazie al cappellano padre Callisto Lopinot. Il 14 settembre, grazie alla veloce avanzata alleata dalla Sicilia, Ferramonti venne liberato dalle avanguardie della VIII Armata britannica: in quel mo- mento si trovavano nel campo 1604 internati ebrei e 412 non ebrei. Iniziò così la seconda fase di vita del campo, divenuto centro di raccolta per Displaced Persons sotto controllo anglo-americano. Ferramonti divenne una delle più numerose comunità ebraiche dell’Italia liberata. Da qui diversi gruppi riuscirono a partire verso la Palestina, il Nord Africa, gli Stati Uniti. Le baracche del campo rimasero in piedi fino agli anni Sessanta, quando i terreni passarono a uso agricolo. Successivamente l’area venne tagliata in due dal tracciato dell’autostrada A3. Il ricordo del campo si affievolì e soltanto a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta il lavoro degli storici ha permesso di recuperare questa vicenda.

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Oggi Nel 1999 l’area del campo è stata sottoposta a vincolo, benché non vi sia più alcuna traccia delle sue strutture. Il 12 aprile 2004 è stato inaugurato il Museo internazionale della memoria, allestito all’interno degli edifici dove abitavano il direttore e il personale. Attorno alla vicenda del campo sono state create due fondazioni: la Fondazione Internazionale “Ferramonti di Tarsia” per l’Amicizia tra i Popoli (1988, Cosenza) e la Fondazione “Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia” (Tarsia).

www.progettoferramonti.it www.museoferramonti.org

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Lago Maggiore e Meina (Novara) 13 settembre - 10 ottobre 1943

Tra il 13 settembre e i primi di ottobre del 1943 sulle sponde del lago Maggiore avvenne la prima strage nazista di ebrei in Italia. Al momento dell’armisti- zio, nell’alto Novarese erano presenti circa un centinaio di ebrei: famiglie residenti nella zona da tempo, sfollati da Milano, Genova e Torino, stranieri provenienti in particolare da Salonicco, fuggiti alla deportazione dalla Gre- cia grazie all’aiuto del Consolato italiano. Molti di loro alloggiavano negli alberghi sul lago. La notte dell’11 settembre il 1° battaglione della Panzer Division Waffen SS – LSSAH (Leibstandarte Adolf Hitler), precedentemente operativa sul fronte orientale, si installò nell’Hotel Beaurivage di Baveno. Nei giorni successivi iniziò il rastrellamento degli ebrei in diverse località dei nove comuni della zona: Arona, Baveno, Bée, Meina, Mergozzo, Novara, Orta, Stresa, Verbania. L’episodio più noto è quello di Meina dove, nelle notti del 22 e del 23 settembre, vennero uccise e gettate nel lago 16 persone, tra cui bambini e ragazzi. In tutto le vittime accertate furono 57.

Oggi Due stele ricordano le vittime della strage di Meina: una posta lungo la Statale del Sempione e una nel Parco della Fratellanza. Dal 2009 le scuole di Meina sono dedicate ai fratelli Jean, Robert e Blanchette Fernandez Diaz, le vittime più giovani. Nel 2015 e nel 2016 sono state posate in loro ricordo Stolpersteine (pietre d’inciampo) davanti all’Hotel Meina.

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Ghetto di Roma 16 ottobre 1943

Il ghetto di Roma venne istituito con l’emanazione della bolla di papa Pa- olo IV Cum nimis absurdum nel luglio 1555, che andava a limitare i diritti delle comunità ebraiche esistenti nel territorio dello Stato Pontificio. In particolare, a Roma risedeva dal II secolo a.C. una comunità divenuta sem- pre più numerosa (in particolare dopo le guerre giudaiche), concentrata soprattutto nel rione Sant’Angelo, dove costituiva la popolazione prevalente: per questo motivo, i limiti del ghetto furono fissati nella zona limitrofa al Teatro di Marcello. A partire da quel momento, agli ebrei venne imposto di risiedere in zone separate e cintate della città, di portare un segno distin- tivo, di non possedere beni immobili e di svolgere lavori esclusivamente commerciali, limitazioni che si protrassero fino all’annessione di Roma al Regno d’Italia. Il piano regolatore del 1888 modificò l’assetto del ghetto, demolendo le anguste e malsane viuzze che l’attraversavano e creando nuovi assi, come via del Portico d’Ottavia e via del Tempio. Venne anche indetto un concorso per la creazione di una nuova sinagoga: il Tempio Maggiore fu inaugurato nel 1904. Il 16 ottobre 1943 i tedeschi, che occupavano la città dal 10 settembre, effet- tuarono un rastrellamento di ebrei concentrandosi nella zona dell’ex ghetto, dove avevano continuato ad abitare i più poveri. Tuttavia furono raggiunti dalla retata anche gli ebrei che grazie all’ascesa sociale erano riusciti a sta- bilirsi in altre zone della capitale. Le operazioni furono coordinate da Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS e comandante della Gestapo a Roma. Inizialmente venne chiesto ai rappresentanti della comunità di raccogliere oro e consegnarlo, promettendo in cambio l’incolumità per gli ebrei romani. La consegna avvenne alla fine di settembre, ma non bastò. Nei primi giorni di ottobre i tedeschi saccheggiarono le biblioteche della comunità e del Collegio rabbinico, trafugando e inviando in Germania due carri ferroviari stipati di antichi documenti, incunaboli, manoscritti, libri di preghiera ecc. Furono requisiti anche gli elenchi dei membri della comunità e i loro indirizzi. Con queste indicazioni venne svolto il rastrellamento, casa per casa, all’alba del 16 ottobre: sabato, ovvero il giorno del riposo, in cui sarebbe stato più facile trovare gli ebrei nelle loro abitazioni. Vennero portate via 1259 persone, per la maggior parte donne e bambini. In 1023 furono deportati ad Auschwitz, dove arrivarono il 22 ottobre: 820 di loro morirono immediatamente nelle camere a gas, mentre gli abili al lavoro furono suddivisi in diversi campi (Buchenwald, Bergen-Belsen, Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück). Dopo la guerra, tornarono a casa soltanto 15 uomini e una donna.

Oggi Per ricordare l’inizio del rastrellamento è stata posta una lapide sulla fac- ciata della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte in via del Portico d’Ottavia. Dal 2010 sono state posate in tutta Roma, ma in particolare nella zona del ghetto, 260 Stolpersteine (pietre d’inciampo) in memoria di deportati razziali e politici.

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Borgo San Dalmazzo () 18 settembre 1943 - 15 febbraio 1944

Dopo l’8 settembre un gruppo di 800 ebrei stranieri, fino a quel momento radunati nella residenza coatta di St. Martin Vésubie, creata dagli italiani nella propria area di occupazione nella Francia meridionale, fuggirono in Piemonte. Confidavano che l’Italia potesse offrire loro rifugio più della Francia occupata dai tedeschi o del regime di Vichy. Ma con l’arrivo dei tedeschi a Cuneo iniziò il rastrellamento degli ebrei: il 18 settembre 349 stranieri vennero catturati e imprigionati nell’ex caserma degli Alpini di Borgo San Dalmazzo, un edificio fatiscente collocato vicino alla ferrovia. La parte restante del gruppo riuscì a nascondersi e a scappare grazie al- l’aiuto della popolazione, alla rete di resistenza civile attivata dai sacerdoti Raimondo Viale e Francesco Brondello, poi al supporto della Delasem (la Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei). Gli arrestati rimasero nella caserma di Borgo San Dalmazzo fino al 21 novembre, quando in 328 furono caricati su vagoni bestiame e inviati prima al campo di transito di Drancy (Parigi) e da lì ad Auschwitz. Il 9 dicembre l’ex caserma passò in gestione alla Repubblica sociale, che vi insediò un campo di internamento e deportazione per gli ebrei italiani, rastrellati prevalentemente nel saluzzese: il 15 febbraio 1944 partirono per Auschwitz, via Fossoli, 26 ebrei, uomini, donne e bambini.

Oggi L’edificio è stato profondamente rimaneggiato tra gli anni Sessanta e Set- tanta per essere trasformato in una scuola, al cui ingresso è stata posta una lapide che ricorda le vittime della detenzione e della deportazione. Nella stazione ferroviaria è stato realizzato un memoriale. Nel 2000 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito a Borgo San Dalmazzo la medaglia d’oro al merito civile per l’aiuto offerto agli ebrei perseguitati. Nel 2001 don Raimondo Viale e don Francesco Brondello sono stati riconosciuti “Giusti tra le Nazioni”.

comune.borgosandalmazzo.cn.it/citta/campo_ebrei.html

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Fossoli di Carpi (Modena) dicembre 1943 - agosto 1944

Il campo di Fossoli, località nei pressi di Carpi, venne istituito nel mag- gio 1942 per l’internamento di prigionieri di guerra in un’area individuata dall’Ufficio del Genio del VI Corpo d’Armata di Bologna. Dopo l’8 settem- bre 1943 passò in gestione alla Repubblica sociale, che nel dicembre 1943 vi aprì un campo di concentramento per ebrei e oppositori politici. Nel marzo 1944 subentrò anche il comando nazista di Verona e il campo venne suddiviso in due zone: una sotto controllo italiano (il “campo vecchio”) e una sotto la giurisdizione tedesca (il “campo nuovo”). Il campo divenne un Polizei- und Durchgangslager, “campo di polizia e di transito” per ebrei e politici destinati ad Auschwitz, Bergen-Belsen, Ravensbrück, Dachau, Buchenwald, Mauthausen. Gli storici stimano che siano passati da Fossoli 5000 prigionieri di guerra nella prima fase; successivamente, dal dicembre 1943, 2500-3000 politici che furono inviati soprattutto a Mauthausen e a Gusen, mentre circa un terzo degli 8000 ebrei deportati dall’Italia venne convogliato qui tra il febbraio e l’agosto 1944 e in seguito inviato ai campi d’Oltralpe. Anche Primo Levi fu tra questi: in Se questo è un uomo racconta della sua permanenza nel campo, un luogo sospeso nell’attesa di qualcosa di ignoto. Il campo italiano fu dismesso per ordine del Ministero dell’Interno della RSI a metà luglio 1944, mentre gli ultimi convogli in partenza dal campo tedesco risalgono all’agosto; nei mesi successivi l’avanzata alleata costrin- se il comando del Sicherheitsdienst (il Servizio per la sicurezza del Reich) di Verona a spostare le funzioni del campo a Bolzano-Gries. Il campo di Fossoli continuò a essere operativo fino al novembre 1944 come centro di raccolta di lavoratori coatti da inviare in Germania. Immediatamente dopo la fine della guerra venne riutilizzato prima per la detenzione di fascisti della RSI, poi fu trasformato in campo di raccolta per “indesiderabili”, ovvero stranieri che nel 1945 si trovavano nel territorio italiano; tra questi, anche ebrei che cercavano di salpare per la Palestina. Nel 1947 il campo divenne sede di Nomadelfia, comunità voluta da don Zeno Saltini per occuparsi di ragazzi orfani di guerra, fondata sui precetti evangelici e sul lavoro della terra. Le baracche diventarono case e laboratori. Nel 1952 Nomadelfia si spostò in Toscana e due anni dopo nelle baracche trasformate in case vennero accolti profughi istriano-dalmati: il villaggio San Marco sarà abitato fino al 1970.

Oggi Nel 1955 il Comune di Carpi organizzò la prima mostra nazionale dei lager nazisti: una raccolta fotografica che, concepita come esposizione itineran- te, viaggiò attraverso l’Italia. Nel 1973 venne inaugurato a Carpi il Museo Monumento al Deportato politico e razziale, tra i primi luoghi memoriali

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dedicati alla deportazione. Il progetto era del gruppo di architetti BBPR, ovvero Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peres- sutti ed Ernesto Nathan Rogers. Per attività clandestine antifasciste Banfi e Belgiojoso erano stati arrestati nel marzo 1944 e inviati prima a Fossoli e poi a Gusen, da cui era tornato soltanto Belgiojoso. Nel 1984 l’area dell’ex campo di Fossoli fu concessa al Comune di Carpi: venne indetto un concorso per la sua sistemazione, ma il progetto vincitore non è stato realizzato. Nel 1996 è stata creata la Fondazione ex campo Fossoli, a cui successivamente è stata affidata la gestione del museo e del campo.

www.fondazionefossoli.org

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Risiera di San Sabba (Trieste) settembre 1943 - aprile 1945

La Risiera di San Sabba, ovvero lo stabilimento per la pilatura del riso di Trieste, fu costruita a partire dal 1898 nella periferia industriale della città, nel rione San Sabba. Dopo l’8 settembre 1943 il complesso di edifici venne requisito dall’esercito tedesco occupante e trasformato in campo di pri- gionia per militari italiani, con la denominazione di “Stalag 339”. In seguito all’armistizio la Venezia Giulia era diventata Zona d’operazioni Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico), direttamente amministrata dal Reich, che affidò il ruolo di alto commissario a Friedrich Rainer, Gauleiter della Ca- rinzia, capo dell’NSDAP e governatore di quella regione. Il controllo e la repressione vennero affidati al comandante delle SS Odilo Globocnik (nato a Trieste sotto l’Impero austroungarico in una famiglia slovena di lingua tedesca), tra i principali organizzatori dell’Aktion Reinhard, il massacro sistematico di ebrei messo in opera nel Governatorato generale di Polonia. Con lui arrivarono a Trieste e operarono nella Risiera numerosi membri degli Einsatzkommandos (reparti speciali) che avevano gestito le opera- zioni di eliminazione nei Vernichtungslager (campi di sterminio) di Bełz˙ec, Sobibór e Treblinka. Alcuni, come Christian Wirth, avevano partecipato anche all’Aktion T4, il piano di eliminazione di malati mentali e “incurabili” (la cosiddetta Operazione Eutanasia), attivo dal 1939 e “ufficialmente” terminato nell’agosto 1941. Alla fine di ottobre, Risiera divenne Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia), un luogo con diverse finalità: carcere per partigiani, oppositori politici ed ebrei, centro di smistamento per deportati da inviare nei campi in Germania e in Polonia, deposito di beni razziati. Al suo interno venivano eseguite le condanne a morte dei prigionieri: per fucilazione, gassazione, colpo di mazza alla nuca. Inizialmente fu usato per bruciare i corpi l’impianto dell’essiccatoio, poi nell’aprile 1944 venne costruito un forno crematorio. Proprio quell’edificio fu fatto esplodere dai nazisti in fuga alla fine di aprile 1945, per cancellare le tracce dei loro crimini. Si stima che le vittime della Risiera siano state tra le 3000 e le 5000, più alta ancora è la cifra di persone che transitarono da qui prima di essere deportate verso i campi in Europa centrale. Alla fine della guerra, durante il periodo di occupazione alleata di Trieste e fino al 1965, la Risiera venne utilizzata come centro di accoglienza per i profughi in fuga dai paesi oltre la “cortina di ferro” e in particolare per gli istriano-dalmati. Nel 1965 il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat dichiarò la Risiera di San Sabba Monumento Nazionale (D.P.R. n. 510 del 15 aprile 1965). L’anno successivo il Comune di Trieste indisse un concorso per trasformare quello che restava degli edifici della Risiera (alterati dalle demolizioni tedesche e dai riusi alleati) in un monumento. Il progetto vincitore fu quello di Romano Boico: gli edifici in rovina vennero eliminati, perimetrando l’area rimasta con alti muri di cemento. In questo modo l’accesso alla Risiera avviene

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attraverso due alte pareti di cemento, un passaggio stretto che separa lo spazio della Risiera da quello della città. Sul muro dell’edificio principale è visibile l’impronta del volume dei forni e dal lato opposto si innalza una scultura in metallo che segna il punto dove sorgeva la ciminiera e si levava il fumo. Scrive Boico: «Il cortile cintato si identifica, nell’intenzione, quale una basilica laica a cielo libero». La cerimonia di inaugurazione si svolse il 24 aprile 1975.

Oggi Nel 2016 è stato realizzato il nuovo allestimento del Museo della Risiera di San Sabba, con una forte attenzione dedicata alle testimonianze dei sopravvissuti e al processo, tenutosi nel 1976, contro alcuni nazisti e in particolare contro il comandante del campo, Joseph Oberhauser: condan- nato all’ergastolo, non verrà estradato in Italia per mancanza di accordi italo-tedeschi relativi ai crimini commessi prima del 1948.

www.risierasansabba.it

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Fosse Ardeatine (Roma) 24 marzo 1944

Il 23 marzo 1944 i partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) fecero esplodere una bomba in via Rasella a Roma, al passaggio di una colonna di militari tedeschi. Il comandante delle SS Herbert Kappler e quello della Wehrmacht generale Kurt Mälzer, con l’approvazione di Albert Kesselring, comandante in capo dell’esercito schierato a Sud, scelsero di reagire con un’azione di rappresaglia: fucilare dieci italiani per ogni vittima tedesca. Dato che il numero dei condannati a morte rinchiusi nelle carceri di Regina Coeli e via Tasso non era sufficiente a raggiungere la quota, i capitani delle SS e selezionarono altri detenuti politici, comuni e imprigionati in base alle politiche razziali: 57 ebrei furono inclusi nella lista. Vennero addirittura rastrellati alcuni civili nelle strade. Al momento dell’esecuzione, che si doveva svolgere nelle cave di pozzolana della via Ardeatina nella periferia della città, furono contate cinque persone in so- prannumero. Temendo la reazione partigiana, l’operazione venne condotta in totale segretezza e i cinque ostaggi in più non furono rilasciati. Tutti i 335 uomini vennero fucilati. Per nascondere i corpi le cave furono fatte saltare. Il concorso per un monumento dedicato all’eccidio delle Fosse Ardeatine si svolse appena dopo la liberazione di Roma (avvenuta il 4 giugno 1944), a pochi mesi dalla strage. Vincitori ex aequo furono i due gruppi guidati dagli architetti Mario Fiorentino e Giuseppe Perugini, che realizzarono congiuntamente un monumento concepito come sepoltura delle vittime e luogo del ricordo civile: un’immensa lastra posta sull’area delle tombe, alla fine dei cunicoli che furono percorsi dai prigionieri, fatti saltare dai nazisti e nuovamente scavati per recuperare i corpi. Si coglie l’importanza di segnare il luogo del massacro, senza spostare la memoria dei fatti all’interno della città. La cancellata dell’artista Mirko Basaldella segnala il punto dell’ecci- dio; in un secondo tempo venne aggiunto il gruppo scultoreo di Francesco Coccia per mitigare la percepita freddezza del complesso. Nessun simbolo politico compare, data la molteplicità di cause che avevano portato quelle persone a essere scelte come vittime: antifascisti, comunisti, ebrei, ma anche ufficiali del Regio esercito.

Oggi Il Mausoleo delle Fosse Ardeatine, gestito dall’Anfim (Associazione na- zionale famiglie italiane martiri caduti per la libertà della patria), è visitabile tutto l’anno.

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Binario 21 della Stazione centrale di Milano dicembre 1943 - gennaio 1945

Dopo l’occupazione di Milano da parte delle truppe naziste, l’area per le spedizioni postali della Stazione centrale venne utilizzata per la deportazio- ne verso i campi in Germania e Polonia. Il 13 settembre fu requisito l’Hotel Regina, che diventò sede del comando SS e della Gestapo. Antifascisti, partigiani ed ebrei vennero qui imprigionati e torturati, successivamente inviati nel carcere di San Vittore prima di essere destinati alla deporta- zione. Per questa funzione nel dicembre iniziò a essere utilizzato in modo sistematico il binario 21: posto sotto il piano del ferro, lungo la via Ferrante Aporti, permetteva di svolgere in uno spazio chiuso le operazioni di cari- co dei vagoni che, una volta sigillati, venivano sollevati con un elevatore idraulico e disposti sulla banchina. Da qui partirono 23 convogli: verso i campi di transito italiani (Fossoli, Verona, Bolzano-Gries), Mauthausen, Bergen-Belsen, Ravensbrück, Flossenbürg, Auschwitz.

Oggi Rimasto intatto con il passare dei decenni e non più in uso, il binario 21 è stato trasformato in Memoriale della Shoah: il progetto degli architetti Guido Morpurgo e Annalisa de Curtis ha previsto il suo mantenimento come “luogo-testimone”, come “reperto”. Il 27 gennaio 2013 è stato inaugurato lo spazio di 7000 mq a sviluppo longitudinale, dove un treno originale, proie- zioni, allestimenti di mostre, il “muro dei nomi” e un “luogo di riflessione” raccontano ai visitatori la deportazione nel luogo stesso in cui avvenne. La parola “indifferenza” (che, per , deportata dal binario 21 e sopravvissuta ad Auschwitz, è ciò che ha permesso la Shoah) campeggia su uno dei muri del memoriale.

www.memorialeshoah.it

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Bolzano Gries luglio 1944 - 3 maggio 1945

Il Polizeiliches Durchgangslager Bozen, “campo di transito” di Bolzano, divenne operativo nel luglio 1944, dopo la dismissione di Fossoli, reputato non più sicuro per lo svolgimento delle operazioni di deportazione. Situato nel quartiere di Gries, consisteva in un’area recintata di vecchi capannoni del Genio militare italiano, già utilizzati per i prigionieri di guerra. Dopo l’8 settembre Bolzano era diventata parte della Zona d’operazioni delle Prealpi (Operationszone Alpenvorland) corrispondente alle province di Bolzano, Trento e Belluno, direttamente amministrata dal Reich. Per gestire il campo furono designati due ufficiali delle SS, Karl Friedrich Titho e Hans Haage, già comandanti di Fossoli. Responsabili di molte violenze furono due SS ucraine, addette alle celle: Otto Sein e Michael (Mischa) Seifert (quest’ultimo è stato processato dal Tribunale di Verona nel 2000, estradato in Italia nel 2008 e recluso nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere fino alla morte, avvenuta nel 2010). Il campo funzionò sia per lo smistamento dei prigionieri (antifascisti, ebrei, partigiani, zingari, rastrellati, italiani e stranieri) verso i lager d’Oltralpe sia per lo sfruttamento del loro lavoro coatto in loco: nelle officine interne, ma anche per aziende esterne (come la IMI, “Industria meccanica italiana”, che aveva uno stabilimento di cuscinetti a sfera per l’impiego bellico dentro al rifugio antiaereo della galleria del Virgolo). Inoltre il campo di Bolzano, unico tra quelli italiani, aveva anche alcuni sottocampi di lavoro: Sarentino, Maia Bassa a Merano, Moso in Val Passiria, Certosa in Val Senales, Vipiteno, Colle Isarco, Dobbiaco. Si stima che circa 10 000-11 000 persone siano passate attraverso il campo di Bolzano Gries, di cui 3500 partirono su 13 convogli diretti a Mauthausen, Flossenbürg, Dachau, Ravensbrück, Auschwitz. Nel dopoguerra le baracche del campo vennero usate per accogliere pro- fughi e persone rimaste senza casa. Negli anni Sessanta gli edifici furono abbattuti per realizzare un quartiere residenziale. Soltanto una porzione del muro di cinta è rimasta in piedi e posta sotto tutela.

Oggi Lungo il muro del campo sono stati disposti pannelli informativi e alcuni monumenti: una stele e una scultura di Carlo Trevi, realizzati nel 1985, e le quattro installazioni di Christine Tschager, vincitrice di un concorso indetto nel 2005. Nel 2012 è stato inaugurato il Passaggio della Memoria/Passage der Erinnerung: un percorso di pannelli didattici creato sulla strada di accesso al campo, in via Resia 80.

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Villa Emma (Nonantola) luglio 1942 - ottobre 1943

Villa Emma fu costruita nel 1898 come residenza estiva per la famiglia di Carlo Sacerdoti, un proprietario terriero ebreo di Modena che la volle dedicare alla moglie. Nel 1913 Sacerdoti fu costretto a venderla. La villa rimase disabitata fino a quando, nei primi anni Quaranta, venne presa in affitto dalla Delasem, la Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei, un’organizzazione autorizzata dal fascismo e facente capo all’Unione delle comunità israelitiche in Italia, che operò tra il 1939 e il 1947 per assistere gli ebrei internati e profughi. Tra l’estate del 1942 e la primavera del 1943 la Delasem organizzò l’arrivo a Nonantola di 73 ragazzi ebrei provenienti dalla Germania e dai Balcani. La loro fuga era iniziata molto prima: affiliati al gruppo sionista di ispirazione scoutistica Hashomer Hatzair (“il giovane guardiano”), erano diretti in Pa- lestina, ma il 6 aprile 1941 l’invasione tedesca li aveva bloccati a Zagabria. Ottennero il permesso di soggiornare a Lesno Brdo, in Slovenia, grazie a un’autorizzazione straordinaria del Ministero dell’Interno italiano, che occupava quel territorio, ma l’avanzare della guerra li costrinse a cercare un nuovo rifugio. A Nonantola furono accolti dalla popolazione locale, incuriosita dalla loro presenza. In un anno e mezzo di permanenza vennero intessute relazioni di amicizia sia tra i ragazzi e i loro coetanei nonantolani, sia tra gli adulti: in particolare tra Josef Indig, guida del gruppo, don Arrigo Beccari e Giuseppe Moreali, medico del paese. Questi legami permisero di creare la rete di fiducia che rese possibile nascondere i ragazzi all’indomani dell’8 settembre, produrre documenti falsi e organizzare la loro partenza per la Svizzera. Si salvarono tutti tranne Salomon Papo, un ragazzo di Sa- rajevo che al momento della fuga si trovava nel sanatorio di Gaiato da dove venne deportato a Fossoli e poi ad Auschwitz. Dopo la guerra riuscirono a imbarcarsi a Barcellona e a raggiungere la Palestina. Dal 1945 al 1947 la villa venne utilizzata per ospitare un centinaio di ebrei che, sopravvissuti ai campi, cercavano di attraversare clandestinamente l’Italia per salpare verso la Palestina. Nel 1964 don Arrigo Beccari e Giuseppe Moreali furono riconosciuti come “Giusti tra le Nazioni”.

Oggi Nel 2004 è stata creata la Fondazione Villa Emma, che preserva e valorizza la memoria di quel salvataggio ponendo al centro del proprio lavoro il tema dell’infanzia in guerra e in fuga, nel passato e nel presente.

www.fondazionevillaemma.org

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Santa Maria al Bagno, Nardò (Lecce) 1944 -1947

Dopo l’armistizio, le truppe anglo-americane liberarono le regioni del Sud Italia. Alcuni campi d’internamento fascista, come nel caso di Ferramonti (Cosenza), vennero trasformati in campi profughi. Un caso molto partico- lare fu quello della Puglia, e soprattutto di alcune località del Salento, dove furono creati centri di accoglienza per ebrei sfuggiti o – dopo il maggio 1945 – sopravvissuti allo sterminio. A partire dal 1944 e fino al 1947 a Santa Maria al Bagno (Nardò), Tricase, Santa Cesarea e Santa Maria di Leuca gli inglesi requisirono numerose ville (residenze estive di facoltose famiglie, in quel momento vuote) dove si stabilirono diversi gruppi di profughi, arrivati perlopiù dall’Est Europa, spesso divisi a seconda delle ideologie politiche (dal sionismo socialista al sindacato operaio Poalei Agudat Yisrael, al movimento revisionista e anticomunista Betar). Si vennero a creare così veri e propri kibbutzim: luoghi fortemente comunitari, in cui i sopravvissuti ricominciarono a vivere. Moltissimi furono i matrimoni celebrati nei centri salentini e registrati nei Comuni del leccese, centinaia i bambini nati. Il rapporto con la popolazione locale fu di relazione e scambio. Allo stesso tempo, i profughi protestavano contro gli inglesi che impedivano loro di salpare per la Palestina, in quel periodo amministrata proprio dal Mandato britannico (1920-1948).

Oggi Il 27 gennaio 2005 il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito a Nardò la medaglia d’oro al valor civile per la solidarietà dimo- strata. Nel 2009 è stato aperto il Museo della Memoria e dell’Accoglienza a Santa Maria al Bagno, disegnato dall’architetto Luca Zevi. Al suo interno è esposto materiale fotografico e soprattutto i murales realizzati da Zivi Miller, raffiguranti il nuovo esodo del popolo ebraico dalla galut, ovvero l’“esilio” sofferto in Europa, circondata da filo spinato, verso Eretz Israel, la “terra d’Israele”: un cammino attraverso l’Italia, in attesa di partire dai suoi porti.

www.comune.nardo.le.it/citta-territorio/museo-della-memoria.html

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LUOGHI, MEMORIALI E MUSEI PER LA SHOAH IN ITALIA: PROGETTI DEL PASSATO E PROGETTI FUTURI

I luoghi della Shoah in Italia sono stati soltanto in parte preser- vati; in molti casi se n’è persa memoria per lungo tempo; quasi tutti sono stati trasformati per le esigenze del dopoguerra: alcuni sono diventati campi per profughi, altri sono stati abbattuti per lasciare spazio a nuovi edifici. Tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, tuttavia, sono state realizzate importanti iniziative per dare corpo alla memoria: il Museo Monumento al Deportato politico e razziale di Carpi e la trasformazione della Risiera di San Sabba in monumento nazionale. Va sottolineato, però, come il tema della deportazione politica e della sua commemorazione abbia a lungo inglobato anche la speci- ficità ebraica. Per diversi decenni, infatti, le vicende legate alla Se- conda guerra mondiale sono state interpretate secondo il cosiddetto “paradigma resistenziale”, identificando le vittime della persecuzione nazifascista soprattutto come partigiani o antifascisti. Questa pro- spettiva si spiega sia per il clima politico del dopoguerra, sia per l’altissimo numero di deportati politici italiani, quantitativamente preminente. La comprensione della specificità razziale ed ebraica dello sterminio, all’interno del quadro generale della deportazione, è emersa soltanto con il tempo: è soprattutto a partire dai tardi anni Ottanta che in Italia abbiamo assistito a una crescente attenzione per la Shoah. In questo clima, se i luoghi erano stati alterati, erano rimaste le storie: recuperate dal lavoro di singoli studiosi o di fon- dazioni legate alle memorie di quelle vicende. Gli anni Novanta hanno portato, a livello europeo, una rinnovata attenzione per i luoghi e le memorie: si pensi alle iniziative realizzate in Germania e a Berlino in particolare (lo Jüdisches Museum, il Den- kmal für die ermordeten Juden Europas e Topographie des Terrors). In tale quadro si colloca anche il progetto Stolpersteine (“pietre d’inciampo”) dell’artista tedesco Gunter Demnig, iniziato a metà degli anni Novanta e diffuso in molti paesi europei dai primi anni Duemila. Tutte le vittime del nazismo, deportati politici o razziali, uccisi nella

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Operazione Eutanasia, perseguitati per l’orientamento sessuale o il pensiero politico, possono essere ricordati da una pietra d’inciampo, ovvero un sampietrino dalla superficie di ottone dove vengono indi- cati il nome, la data e il luogo di nascita e morte. Il punto prescelto per la posa è quello dell’ultimo domicilio noto: la pietra d’inciampo diviene così una “soglia” tra la libertà e la deportazione, la vita e la morte, il passato e il presente. A partire dal 2010 sono state posate numerose Stolpersteine in Italia, contribuendo fortemente a riportare l’attenzione sulle vicende di singoli deportati o episodi di strage e rastrellamento nel territorio italiano (www.memoriedinciampo.com). In questi ultimi anni sono stati progettati e in parte realizzati nuovi luoghi dove ricordare gli ebrei italiani e la Shoah. Oltre al Memoriale della Shoah di Milano presso il Binario 21, è prevista per dicembre 2017 l’inaugurazione del MEIS, il Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara (www.meisweb.it), città di antica tradizione ebraica e nota internazionalmente per essere la patria di Giorgio Bassani, autore de Il giardino dei Finzi-Contini. Il museo permetterà di conoscere la millenaria presenza ebraica in Italia, le sue diversifi- cazioni cronologiche e geografiche, ma avrà anche una sezione sulle discriminazioni, sulle persecuzioni e sulla violenza subita dagli ebrei durante gli anni del fascismo e della guerra, ricordando anche i casi di solidarietà e aiuto ricevuto per nascondersi e fuggire. Anche per Roma, sede di un’antichissima comunità ebraica, il Comune della capitale (insieme agli enti locali e alla comunità ebrai- ca della città) ha iniziato a ideare un Museo della Shoah, indicando come area per l’edificazione Villa Torlonia, ora parco cittadino ma durante il regime residenza privata di Mussolini: non un luogo di eccidi o deportazioni, bensì un luogo del fascismo. Il progetto degli architetti Luca Zevi e Giorgio Maria Tamburini prevede la realizzazione di un’enorme scatola nera con incisi tutti i nomi delle vittime italiane della Shoah, incombente sul parco e sui visitatori, come una forma di ammonimento per le responsabilità degli italiani, spesso dimenticate. Tuttavia, a quasi vent’anni dalla prima ipotesi, dopo l’istituzione nel 2008 di una fondazione preposta allo sviluppo del progetto, il Museo della Shoah di Roma è ancora sulla carta. Nella sede provvisoria della Casina dei Vallati, situata nel ghetto, è possibile visitare mostre e approfondimenti, ad esempio sul rastrellamento del 16 ottobre 1943.

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