Il volume è stato pubblicato con il contributo della

© 2010 Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli Varallo, via D’Adda, 6

Sito web: http://www.storia900bivc.it E-mail: [email protected]

Vietata la riproduzione anche parziale non autorizzata “Tra i costruttori dello stato democratico”

Vercellesi, biellesi e valsesiani all’Assemblea costituente

Atti dei convegni

Vercelli, Piccolo Studio, 15 marzo 2008 Biella, Museo del Territorio, 29 marzo 2008 Varallo, Palazzo D’Adda, 10 maggio 2008 a cura di Enrico Pagano

Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli” In copertina: Comizio del presidente del Consiglio dei ministri a Vercelli © Archivio fotografico Luciano Giachetti - Fotocronisti Baita (Vercelli). Riproduzione vietata. Prefazione

La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà. Luigi Sturzo

L’Istituto ha celebrato la ricorrenza del sessantesimo anniversario dell’entrata in vi- gore della Costituzione italiana con varie iniziative, tra cui l’organizzazione di tre con- vegni svoltisi tra la metà di marzo e la prima decade di maggio del 2008 a Vercelli, Biella e Varallo e dedicati alle figure dei deputati vercellesi, biellesi e valsesiani eletti all’As- semblea costituente, le cui esperienze sono state raccontate con l’obiettivo di ricostrui- re il clima politico del tempo, a forte caratterizzazione unitaria sulle questioni fondamen- tali, espressa anche dall’alleanza di governo fra i principali partiti, che si interruppe senza che venisse meno l’intenzione di dotare il Paese di un testo costituzionale condiviso. Una serie di occasioni per ripercorrere le tappe della formazione umana e politica dei protagonisti di un’esperienza istituzionale in cui fu progettata e resa attuabile una democrazia che invertì la rotta anche esistenziale degli abitanti del Paese, avviandoli dalla dimensione secolare di “sudditi” prevista dallo Statuto albertino al cammino verso la libertà della cittadinanza nella consapevolezza dei diritti e dei doveri sanciti dal testo costituzionale, prospettiva su cui ha insistito Bruno Ziglioli nelle relazioni introduttive ai convegni di Vercelli e Biella. Il cambiamento in atto fra il 1945 e il 1948, che oggi con- sideriamo come processo genetico della democrazia, come sottolinea Marco Neiretti nell’introduzione ai lavori del convegno di Varallo, riguardò oltre ai profili istituzionali e costituzionali, il sistema politico, con il passaggio dal partito unico alle forme democra- tiche basate sui partiti di massa, e il sistema di governo, con la graduale rottura dello spirito ciellenistico e l’affermarsi della conflittualità fra partiti di riferimento moderato e cattolico e partiti della sinistra. In questo contesto le elezioni per l’Assemblea costi- tuente furono il primo momento di misurazione del gradimento della popolazione verso la novità della partecipazione democratica e dell’orientamento politico generale dell’elet- torato italiano, più di quanto avevano potuto essere le elezioni amministrative svoltesi tra marzo e aprile del 1946, prima storica occasione di esercizio del suffragio universale nel nostro Paese, che, in varia misura, permisero il ricambio della classe dirigente loca- le rispetto al passato remoto del periodo liberale e a quello prossimo del regime fascista. I risultati delle elezioni politiche del 2 giugno 1946 sono noti. Prima ancora di riesa- minarne in sintesi le caratteristiche, è da sottolineare il dato dell’affluenza alle urne, raf- forzata indubbiamente dalla concomitanza del voto per il referendum istituzionale, co- munque indicativa di una diffusa volontà di esprimersi con gli strumenti democratici, che fu pari all’89,08 per cento degli aventi diritto, valore che sale al 91,12 per cento nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli. Per quanto riguarda gli esiti elettorali, la tendenza evidente a livello nazionale fu la polarizzazione del voto verso i partiti di mas- sa, che complessivamente ebbero il 74,87 per cento dei consensi, ancor più accentuata a livello della circoscrizione Torino-Novara-Vercelli, dove la somma dei voti dei tre principali partiti si attestò all’86,72 per cento, e a livello della provincia di Vercelli, al- l’epoca comprensiva del Biellese, in cui la somma dei risultati percentuali di Dc, Psiup

5 e Pci raggiunse quota 90,20. La concentrazione del voto nell’ambito del collegio eletto- rale interprovinciale ebbe come conseguenza l’attribuzione ai tre partiti di 24 seggi su 25, di cui 9 alla Dc, 9 al Psiup e 6 al Pci; l’unico seggio attribuito ai partiti minori andò all’Udn. Fra gli eletti del territorio locale Cino Moscatelli (Pci) riportò un notevole con- senso in termini di voti di preferenza, 45.282, terzo risultato in assoluto sul territorio regionale e secondo del collegio dietro soltanto a Giovanni Roveda (Pci), che fu il pri- mo sindaco di Torino dopo la Liberazione; Francesco Leone (Pci) ebbe 36.275 prefe- renze, Virgilio Luisetti (Psiup) 27.509, Ernesto Carpano Maglioli (Psiup) 27.207, Er- menegildo Bertola (Dc) 26.543, Giuseppe Pella (Dc) 25.632, Vittorio Flecchia (Pci) 13.423 e Francesco Moranino (Pci) 11.009. Furono inoltre eletti nel collegio unico nazionale Giulio Pastore (Dc) e Pietro Secchia (Pci). L’appuntamento elettorale del 2 giugno ’46 aveva decisamente gratificato la provin- cia di Vercelli in termini di rappresentanza, con particolare riferimento all’area biellese, che poteva contare su sei deputati; per la natura delle funzioni dell’assemblea, essi espri- mevano più la partecipazione del territorio alla costruzione dei fondamenti dello Stato, contribuendo a indirizzare il testo costituzionale verso un’ampia articolazione ammini- strativa decentrata che in prospettiva avrebbe avvantaggiato la dimensione locale, che non la tutela immediata di interessi particolaristici, benché non sia stata irrilevante l’azione dei deputati espressa in forma di interrogazioni su questioni territoriali specifiche. La dimensione quantitativa della rappresentanza politica locale stimola inevitabilmente una riflessione comparativa con l’attualità, in cui si delinea un processo di significativo affievolimento della presenza delle periferie provinciali nei luoghi decisionali istituzionali della politica; pur con tutte le distinzioni necessarie a proposito della diversa legislazione elettorale, che attualmente consente scelte non necessariamente vincolate al territorio, e considerato anche che nel frattempo sono state attivate province e regioni, per cui si sono consolidati i livelli intermedi della rappresentatività territoriale e sono cambiati pure gli equilibri demografici, con una più forte concentrazione di popolazione negli ambiti urbani, che ha determinato nuovi criteri di distribuzione della rappresentanza, spicca l’obiettiva circostanza che all’epoca della Costituente il territorio era rappresentato da 10 deputati sui 556 presenti in Assemblea, l’1,79 per cento dell’insieme, mentre oggi lo stesso territorio esprime 6 parlamentari, di cui 4 deputati e 2 senatori, sui 915 eletti nel- la XVI legislatura, rappresentanza pari allo 0,65 per cento. Permane invece come ele- mento di continuità l’assenza di rappresentanti femminili, caratteristica che appare oggi come il sintomo più rilevante dell’incompiutezza del cammino della democrazia e costi- tuisce l’espressione più marcata dell’arretratezza delle culture politiche nel territorio locale. Sul piano delle storie politiche personali il gruppo di deputati locali eletti all’Assem- blea costituente rappresenta una selezione ottimale delle risorse umane presenti nei partiti riorganizzatisi dopo la guerra. Nessuno tra i deputati locali fu chiamato a far parte della Commissione dei settantacinque, incaricata di istruire la proposta del testo costituzio- nale, né della sottocommissione di diciotto membri che provvide alla stesura materiale di detta proposta, ma ben tre di loro ricoprirono l’incarico di sottosegretario di Stato nel terzo governo De Gasperi: Ernesto Carpano Maglioli all’Interno, Cino Moscatelli alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’assistenza ai reduci e ai partigia- ni, Francesco Moranino alla Difesa, con delega all’esercito. Per i due deputati comuni- sti, come rilevato nelle relazioni a loro dedicate, la nomina era stata caldeggiata da Pie- tro Secchia superando alcune perplessità di Togliatti riferite alle possibili obiezioni di

6 De Gasperi; sul piano politico l’attribuzione a due ex comandanti partigiani di incarichi così delicati, per quanto breve sia stata la loro durata, costituì il momento di massima saldatura dell’esperienza resistenziale nella sua versione popolare con uno dei profili istituzionali più elevati, cioè la partecipazione al governo. A conferma della buona qualità degli esponenti della classe politica locale vi è la cir- costanza che tutti proseguirono il loro impegno parlamentare, alla Camera dei deputati o in Senato, oltre l’esperienza dell’Assemblea costituente, in una o più legislature, co- niugando in genere l’attività politica centrale con quella amministrativa locale. Contri- buì a favorire tale sviluppo delle carriere politiche la relativamente giovane età media degli eletti. Al momento dell’ingresso nel mondo politico istituzionale i più anziani erano Carpano Maglioli, 59 anni, Virgilio Luisetti, 57 anni, Vittorio Flecchia, 56 anni; il più giovane era Moranino, 26 anni; Bertola, 37 anni, Moscatelli, 38 anni, Secchia, 43 anni, Pastore, 44 anni, e Pella, 44 anni, dovevano ancora entrare nella stagione della piena maturità politica; discorso a parte per Leone, la cui data di nascita è incerta fra 1899 e 1900, come si legge nel saggio di Francesco Rigazio a lui dedicato, che tuttavia aveva maturato nella lotta allo squadrismo fascista prima, nell’impegno della guerra civile spa- gnola e nella Resistenza poi un’esperienza da veterano. Ragioni anagrafiche delimitarono l’impegno di Luisetti e Carpano Maglioli alla prima legislatura; le note vicende processuali impedirono a Moranino di esercitare con continuità il proprio mandato; Flecchia, Leone e Moscatelli seguirono la parabola politica di Secchia, finendo progressivamente ai margini della vita politica e istituzionale centrale, non solo per la necessità del ricambio genera- zionale interna al partito; Bertola ebbe alterne fortune nelle tornate elettorali degli anni cinquanta e sessanta, ricoprendo l’incarico di sottosegretario di Stato per il Tesoro nel secondo governo Leone (1968); i più longevi sul piano politico e più gratificati da inca- richi di governo furono Pastore, più volte investito di responsabilità ministeriali, e Pella, che fu capo del governo sia pure per una breve stagione, dal 17 agosto 1953 al 12 gen- naio 1954, e più volte ministro nei dicasteri economico-finanziari e agli Affari esteri. Caratteristica comune a tutti gli eletti locali all’Assemblea costituente è l’origine sociale dal mondo contadino, operaio o della piccola borghesia e l’assenza, o la scarsissima rilevanza, di tradizioni politiche familiari: sono quasi tutti rappresentanti di una classe dirigente che si forgia nelle esperienze del periodo liberale e dell’antifascismo, subendo in qualche caso la persecuzione del regime, e che consolida la propria formazione nel- l’attività di collaborazione con la Resistenza e con i Cln, oscillando tra la propensione all’azione, caratteristica di Moscatelli e Moranino e anche di Leone, la propensione al- l’organizzazione partitica, propagandistica, sindacale e movimentista, tipica a diversi livelli e in diversi ambiti di Secchia, Flecchia, Bertola, Pastore e Carpano Maglioli, la rilevante carriera politica e giornalistica di Luisetti nel periodo prefascista, la compe- tenza in materia amministrativa ed economica di Pella. Questo volume raccoglie le relazioni sviluppate nei convegni che costituiscono tre segmenti di uno stesso percorso, pensato per sottolineare quale sia stato il contributo del nostro territorio alla nascita della democrazia, che non si è esaurito semplicemente nella partecipazione dei deputati locali all’esame e all’approvazione della Costituzione: ognuno di loro singolarmente e nello stesso tempo tutti collettivamente portavano ideal- mente nell’aula dove è risorto il nostro Paese le cittadine e i cittadini biellesi, vercellesi e valsesiani che li avevano votati. Enrico Pagano, direttore dell’Istituto

7

Vercellesi all’Assemblea costituente

L’Assemblea costituente: alcune considerazioni storico-istituzionali

Bruno Ziglioli

Parlare dell’Assemblea costituente significa, in larga misura, parlare del frutto della sua opera, cioè della Costituzione della Repubblica. I valori, i significati, gli equilibri che stanno alla base di quell’esperienza, infatti, sono tutti perfettamente intelligibili nel testo della nostra legge fondamentale. Il modo migliore per capire cos’è stata la Costi- tuente sarebbe perciò quello di leggere la Costituzione: magari attraverso una lettura guidata, corredata dal necessario commento storico, istituzionale e politico. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, ci conviene però partire da alcune premesse storiche e - prima ancora - da una piccola precisazione linguistica. Come è evidente, il termine “costituente” è il participio presente del verbo “costitui- re”. Nel suo significato politico e istituzionale, il termine nasce con la Rivoluzione fran- cese e si sviluppa secondo il seguente assioma: in presenza di “poteri costituiti” si deve supporre una forza che li costituisca. Nell’Ancien régime questa forza era dio, dal qua- le, secondo il principio di legittimità, discendeva direttamente il potere del sovrano. Con la Rivoluzione i principi del diritto divino vengono spazzati via e il “potere costituente” non può che essere esercitato dal nuovo soggetto titolare della sovranità: il popolo1. Declinato in questo modo, il tema della Costituente in Italia era già al centro delle attenzioni e delle rivendicazioni di quelle forze risorgimentali di stampo mazziniano, de- mocratico e federalista che si battevano affinché la costruzione del nuovo stato unita- rio avvenisse su basi effettivamente democratiche e popolari. Così, per esempio, non è un caso che nell’esperienza della Repubblica romana del 1849 venisse immediatamente convocata una Assemblea costituente2. Le cose, come è noto, andarono in un altro modo: lo Statuto albertino, concesso da Carlo Alberto nelle convulse giornate del mar- zo 1848, fu semplicemente esteso a tutti i territori di cui si sarebbe andato a comporre il nuovo Regno d’Italia. Carlo Alberto, come si legge nel preambolo dello Statuto, era sovrano «per la grazia di Dio», anche se, dopo l’Unità, alla formula di rito si aggiunse «e per la volontà della Nazione». Lo Statuto albertino, quindi, era una costituzione “concessa”: il potere costi- tuente che la scrisse e la inserì nell’ordinamento era quello di un sovrano per grazia di dio. Ed era una costituzione “flessibile”: enunciava cioè una serie di principi abbastanza vaghi e generali, tanto da poter essere plasmati e sviluppati in profondità dalla legisla- zione ordinaria e dalla prassi3. L’esempio di maggiore rilevanza storica è quello dell’articolo 5 dello Statuto, che

1 PAOLO POMBENI, La Costituente. Un problema storico-politico, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 8-9. 2 Idem, p. 11 e ss. 3 Sullo Statuto albertino e sulle altre costituzioni del biennio 1848-49 si vedano CARLO GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1994, Roma-Bari, Laterza, 2002 (1a ed. 1974), pp. 19-41, e PAOLO COLOMBO, Con lealtà di re e con affetto di padre. Torino, 4 marzo 1848: la concessione dello Statuto albertino, Bologna, Il Mulino, 2003.

11 recitava in apertura: «Al Re solo appartiene il potere esecutivo». In altre parole, veniva disegnato un assetto dei poteri dello Stato nel quale l’esecutivo avrebbe dovuto confi- gurarsi come un “governo della Corona”, slegato dalla necessità di procurarsi la fiducia di una maggioranza parlamentare. Immediatamente, però, la prassi si orientò verso la formazione di governi parlamentari, perennemente impegnati nella costruzione e nel mantenimento di una maggioranza di sostegno nella Camera elettiva4. Non mancarono tuttavia sbandamenti e tentativi (o tentazioni) di tornare alla lettera dello Statuto (“Tor- niamo allo Statuto” fu appunto il titolo del celebre articolo di Sidney Sonnino scritto nel 1897). Insomma, lo Statuto è una costituzione che si è adattata - di più: si è modellata - con facilità ai diversi indirizzi politici e istituzionali che si sono susseguiti lungo i cento anni della sua vigenza: al liberalismo elitario della destra storica come al trasformismo della sinistra; alla “democrazia autoritaria” di Francesco Crispi e alle velleità prussiane di Um- berto I come al sistema giolittiano. Ma la dimostrazione dell’estrema flessibilità dello Statuto ci è data soprattutto dall’esperienza fascista: il fascismo, con il silenzio-assen- so di una Corona che si faceva vanto del suo legame storico con quella costituzione5, riuscì a operare uno smantellamento sostanziale dello Statuto, senza che ne fosse in- taccata la sua continuità e la sua validità formale. Formalmente, la legalità statutaria fu garantita attraverso il ricorso a elezioni-farsa, con il “listone unico” - da accettare o da respingere in blocco - previsto dalla riforma elettorale del 1928. Nello stesso anno un organismo di partito, il Gran consiglio del fa- scismo, venne trasformato con legge ordinaria in organo costituzionale dello Stato. Nel 1939 l’assetto e la composizione della Camera dei deputati, sempre attraverso legge ordinaria, furono completamente stravolti: i membri della nuova Camera dei fasci e delle corporazioni (questa la nuova denominazione dell’organo) non sarebbero più stati elet- tivi, ma nominati tra i membri di una serie di altri organismi del regime. Tutto ciò, come è noto, fu accompagnato da una sistematica e istituzionalizzata violazione dei diritti e delle libertà individuali e politiche, fino all’inserimento nell’ordinamento giuridico delle leggi di discriminazione razziale. Dopo la caduta del regime, a seguito della riunione del Gran consiglio del 25 luglio 1943, la Corona immaginò di poter gestire direttamente e dall’alto la transizione, sem- plicemente tornando - nell’immediato - alla lettera dello Statuto (il già citato articolo 5) e - in prospettiva - all’assetto istituzionale prefascista. Il primo governo Badoglio era infatti un “governo della Corona”, composto da alti burocrati, magistrati e militari con- siderati molto vicini agli ambienti di corte. Tra i suoi primi atti emanò una serie di di- sposizioni severissime per il mantenimento dell’ordine pubblico, le quali - per esempio - prevedevano il divieto di manifestazione e l’uso della forza per disperdere gli assem-

4 P. C OLOMBO, op. cit., pp. 49-81; LUIGI MUSELLA, Il trasformismo, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 13 e ss. 5 Sul legame tra monarchia e costituzione si veda P. COLOMBO, Una Corona per una na- zione: considerazioni sul ruolo della monarchia costituzionale nella costruzione dell’iden- tità italiana, in MARINA TESORO (a cura di), Monarchia, tradizione, identità nazionale. Ger- mania, Giappone e Italia tra Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp. 21-35.

12 bramenti di più di tre persone. Il 2 agosto il governo emanò una serie di decreti con i quali, tra l’altro, si dichiarava chiusa la XXX legislatura, si scioglievano la Camera dei fasci e delle corporazioni e il Gran consiglio del fascismo, e si annunciava lo svolgi- mento di elezioni generali per la Camera dei deputati entro quattro mesi dalla fine della guerra. Il tentativo della monarchia di gestire in prima persona la nuova situazione fallì, per due ragioni: innanzitutto perché i partiti antifascisti, dei quali si credette inizialmente di poter fare a meno, riemersero e si riorganizzarono con grande rapidità. In secondo luogo la tragedia dell’8 settembre, con la fuga del sovrano e del governo a Brindisi, e con l’esercito lasciato allo sbando senza ordini, tolse definitivamente ogni credibilità ai ver- tici delle istituzioni. Decisamente, l’idea di un automatico ritorno al prefascismo non era più sostenibile. D’altra parte i partiti antifascisti, riuniti nel Comitato di liberazione nazionale, si pre- sentavano divisi riguardo all’atteggiamento da tenere nei confronti della monarchia. Tutti erano consapevoli del livello di compromissione della Corona col fascismo, e delle pe- santi responsabilità nello sbandamento dell’8 settembre; ma, mentre azionisti, socialisti e comunisti chiedevano la fine della monarchia tout court, liberali e democristiani pun- tavano piuttosto a una successione dinastica che salvasse l’istituto monarchico quale elemento di continuità col vecchio Stato6. La svolta si ebbe con il ritorno in Italia del leader del Partito comunista, Palmiro Togliatti, il quale inaspettatamente propose di “congelare” la questione istituzionale fino al termine del conflitto. La nuova posizione dei comunisti permise il raggiungimento di un accordo tra le forze antifasciste, e tra queste e la Corona7: si tratta del cosiddetto Patto di Salerno, poi tradotto in termini giuridici con il decreto del 25 luglio 1944 n. 151, emanato dopo la liberazione di Roma e l’assunzione della luogotenenza generale del Regno da parte del principe Umberto. L’articolo 1 di questo decreto, noto come “costituzione provvisoria”, recitava: «Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo Italiano, che a tal fine eleggerà a suffragio universale, diretto e segreto, una Assemblea costituente per deliberare la nuova Costituzione». Oltre a un definitivo e totale ricono- scimento della sovranità popolare quale fonte del potere costituente, questo decreto af- fidava perciò la scelta della forma istituzionale dello Stato (monarchia o repubblica) al voto dell’Assemblea. Un altro passaggio della transizione costituzionale è segnato dal decreto luogote- nenziale del 10 marzo 1946 n. 74, con il quale si adottava, per l’elezione della Costi- tuente, un sistema elettorale proporzionale che - già sperimentato per due legislature dopo la prima guerra mondiale - modificava il concetto di rappresentanza tipico dell’età liberale, sostituendo al rapporto diretto tra elettore ed eletto, proprio del collegio unino- minale, una relazione mediata dall’attività e dal ruolo dei partiti8; con lo stesso decreto,

6 SIMONA COLARIZI, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1998 (1a ed. 1994), pp. 34-35. 7 Ibidem. 8 MARIA SERENA PIRETTI, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Roma-Bari, La- terza, 1995, pp. 329-330.

13 inoltre, veniva esteso alle donne l’elettorato passivo (quello attivo era stato loro attribuito con un decreto del 1 febbraio 1945)9. Il decreto del 16 marzo 1946 n. 98 - noto come “seconda costituzione provvisoria” - disegnò meglio i compiti, le funzioni e i limiti dell’Assemblea costituente. Innanzitutto affidò la scelta sull’assetto istituzionale dello Stato non più all’Assemblea, ma a un re- ferendum popolare da svolgersi contestualmente all’elezione della Costituente. Era un punto sul quale aveva particolarmente insistito De Gasperi, secondo il quale il pronun- ciamento diretto da parte dei cittadini avrebbe scongiurato i prevedibili tentativi di dele- gittimazione della scelta, basati su presunti tradimenti della volontà del popolo10. Inol- tre, il ricorso al referendum evitava alla Dc di doversi schierare apertamente come parti- to a favore della repubblica: una fetta non trascurabile del suo potenziale elettorato - De Gasperi lo sapeva bene - propendeva infatti per la monarchia11. In secondo luogo, il decreto del 16 marzo confinava il potere di legislazione ordina- ria della Costituente alla “materia costituzionale” e all’approvazione delle leggi elettorali e di ratifica dei trattati internazionali. Il potere di legislazione ordinaria veniva mantenu- to in capo al governo, in modo da non “distrarre” l’Assemblea dal suo compito princi- pale (cioè la redazione del testo costituzionale)12. Durante la campagna elettorale per il voto del 2 giugno 1946, i comportamenti collet- tivi si polarizzarono soprattutto intorno alla scelta tra monarchia e repubblica, mentre nel dibattito pubblico e politico i contrasti tra i partiti del Cln si facevano sempre più evidenti. Poche settimane prima, tra marzo e aprile, si erano svolte in tutta Italia le prime elezioni amministrative del dopoguerra, le quali avevano posto fine all’esperienza dei governi ciellenisti nei comuni: questo fatto era stato presentato dalla Dc come un passo ulteriore verso la normalizzazione del paese. Per la Dc il nuovo avversario da contrastare - una volta sconfitto il fascismo - era il comunismo: e mentre il Pci cercava di equipa- rare anticomunismo e fascismo per sottrarsi alla polemica dei suoi avversari, la Dc contrapponeva la tesi che si potesse essere nel contempo anticomunisti e antifascisti13. I risultati delle elezioni del 2 giugno 1946 sono noti: la Dc ottenne il 35,2 per cento

9 Sull’attribuzione dell’elettorato attivo e passivo alle donne si veda CECILIA DAU NO- VELLI, Introduzione, in MARIA TERESA ANTONIA MORELLI (a cura di), Le donne della Costi- tuente, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. XIII-XX. 10 P. P OMBENI, op. cit., p. 77. 11 AURELIO LEPRE, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, Il Mulino, 2004 (1a ed. 1993), p. 71. 12 Sui vari passaggi della transizione costituzionale si veda PAOLO CARETTI, Forme di governo e diritti di libertà nel periodo costituzionale provvisorio, in ENZO CHELI (a cura di), La fondazione della Repubblica. Dalla Costituzione provvisoria all’Assemblea costi- tuente, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 31 e ss.; C. GHISALBERTI, op. cit., p. 389 e ss. 13 STEFANO CAVAZZA, Comunicazione di massa e simbologia politica nelle campagne elettorali del secondo dopoguerra, in PIER LUIGI BALLINI - MAURIZIO RIDOLFI (a cura di), Sto- ria delle campagne elettorali in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 193-204; EMI- LIO GENTILE, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 363-364. Un’ampia raccolta di documenti relativi alla campagna elettorale per il 2 giugno 1946, corredata in appendice dalle tabelle sulla geografia del voto, si trova in MAURIZIO RI- DOLFI - NICOLA TRANFAGLIA (a cura di), 1946. La nascita della Repubblica, Roma-Bari, Later- za, 1996.

14 dei voti e la maggioranza relativa, il Partito socialista il 20,7 per cento, il Pci il 18,9 per cento. Sui tre grandi partiti di massa si concentrarono perciò i tre quarti dei voti degli italiani. Il Partito d’azione, che tanto aveva dato alla lotta di liberazione, ottenne un quasi irrisorio 1,8 per cento, tre volte meno dell’Uomo qualunque (5,3 per cento). I repubbli- cani ebbero il 4,4 per cento dei voti, mentre i liberali - uniti in lista con la Democrazia del lavoro di Bonomi - ottennero il 6,8 per cento. Infine, i monarchici si limitarono al 2,8 per cento, un risultato esiguo se paragonato ai quasi undici milioni di voti espressi per la monarchia nel referendum istituzionale (contro i quasi tredici milioni di voti a favore della repubblica). La distribuzione geografica del voto evidenziò la presenza di un’Italia della sinistra e di un’Italia del centrodestra, secondo una linea di divisione coin- cidente all’incirca con quella che separava l’Italia repubblicana dall’Italia monarchica: i confini meridionali della Toscana, dell’Umbria e delle Marche14. Le tensioni della campagna elettorale furono sintomatiche della divisione politica in due blocchi contrapposti, che si sarebbe misurata in tutta la sua forza con le elezioni politiche del 1948. Tuttavia l’Assemblea costituente rimase relativamente al riparo dalle polemiche ideologiche che si facevano via via crescenti, così come dalle ripercussioni della fine della coalizione tripartita e dell’estromissione di comunisti e socialisti dall’ese- cutivo, nel maggio 1947. In altre parole, l’attività della Costituente ereditò e proseguì la politica di unità nazionale delle forze antifasciste anche oltre la loro collaborazione go- vernativa. La stesura materiale del nuovo testo costituzionale fu affidata a una apposita com- missione (chiamata comunemente Commissione dei settantacinque, dal numero dei suoi membri), composta dai principali leader e dirigenti dei partiti e da insigni giuristi quali, per esempio, Costantino Mortati e Piero Calamandrei. Al suo interno, la Commissione esprimeva un Comitato di redazione ancora più ristretto, di diciotto membri. I testi e gli articolati elaborati dal Comitato di redazione e dalla Commissione dei settantacinque furono quindi sottoposti all’assemblea plenaria, che con il suo voto fornì la necessaria legittimazione popolare. Quanto agli altri compiti dell’Assemblea, una interpretazione estensiva della catego- ria di “materia costituzionale” permise alla Costituente di svolgere un’azione di indiriz- zo dell’attività legislativa del governo ben al di là delle limitate funzioni attribuite dalla “seconda costituzione provvisoria”. D’altra parte, è ben difficile immaginare di confi- nare il ruolo di una assemblea rappresentativa eletta a suffragio universale a semplici attività di controllo15. Nel corso dei lavori non mancarono di manifestarsi alcuni ostacoli difficili da supe- rare. Per esempio, il problema relativo alla costituzionalizzazione dei Patti lateranensi: l’articolo 7 della Costituzione fu approvato il 24 marzo 1947, con il voto favorevole del Pci e con quello contrario dei socialisti e dei partiti laici, impegnati su questo punto in una dura opposizione. Il Pci scelse di votare a favore per legittimarsi come forza “re-

14 M. S. PIRETTI, op. cit., pp. 342-344; P. L. BALLINI, Il referendum del 2 giugno 1946, in M. RIDOLFI (a cura di), Almanacco della Repubblica. Storia d’Italia attraverso le tradizioni, le istituzioni e le simbologie repubblicane, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 222-229. 15 Sul tema si veda CATERINA FIUMANÒ - ROBERTO ROMBOLI, L’Assemblea costituente e l’at- tività di legislazione ordinaria, in E. CHELI (a cura di), op. cit., p. 381 e ss.

15 sponsabile” anche agli occhi dell’elettorato cattolico, e per propiziare - secondo una prospettiva tipicamente togliattiana - il proseguimento della collaborazione tra i grandi partiti popolari di massa16: in realtà di lì a due mesi le sinistre sarebbero state estromes- se dal governo. Un altro scoglio fu quello relativo all’ordinamento regionale dello Stato. Inizialmen- te le sinistre si dichiararono contrarie a un avanzato modello regionale, e difesero una concezione unitaria e centralista dell’ordinamento statale, temendo che - attraverso le regioni - si potessero “svuotare” o indebolire le grandi riforme sociali da realizzare. Una volta allontanate dal governo, le sinistre operarono un capovolgimento della loro posi- zione originaria: le regioni cominciarono a essere considerate come un possibile con- tropotere a garanzia delle opposizioni. Lo stesso percorso, in senso ovviamente inver- so, fu seguito dalla Dc e dai suoi alleati. In questo modo, gli aspetti più innovativi e garantisti della Costituzione repubblicana rimasero “congelati” per timore di una loro utilizzazione strumentale da parte delle sinistre: per esempio, la Corte costituzionale fu creata solo alla fine del 1955, e le regioni a statuto ordinario nel 1970 (ma la maggior parte dei poteri vennero loro trasferiti dallo Stato soltanto nel 1977)17. La Costituzione della Repubblica italiana fu approvata dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata cinque giorni dopo. Già allora qualcuno le riservò giu- dizi molto duri e sprezzanti, che riecheggiano ancora oggi nei discorsi di alcuni uomini politici. Nel febbraio del 1947, il giurista liberale Giovanni Astuti suffragò l’adagio se- condo il quale il progetto della Commissione dei settantacinque sarebbe stato «scritto metà in latino e metà in russo», in quanto «generiche affermazioni di principio sulla dignità della persona umana e sulla famiglia» sarebbero state pagate dalla Dc «col con- senso alle formule più demagogiche e pericolose nel campo economico-sociale»18. Più recentemente, un importante studioso ha definito quel testo una “Costituzione impos- sibile”, una bandiera da sventolare per propagandare valori e non un mezzo per garan- tire diritti individuali19. Certo, la nostra Carta costituzionale è stata il frutto di un compromesso. Si potreb- be rispondere con le parole di , che nella seduta della Costituente del 6 marzo 1946 disse: «Se [con il termine “compromesso”] si vuol dire che il progetto di Costitu- zione è il frutto di uno sforzo di diversi partiti per trovare una espressione concorde che rappresenti l’espressione della grande maggioranza degli italiani, questo non è un difetto»20. In altre parole, si trattò di un compromesso alto ed equilibrato, tra valori e ideologie forti che creavano contrapposizioni forti, e che richiedevano mediazioni a loro volta alte ed equilibrate, in modo da creare un corpo il più possibile condiviso di valori e di

16 RENZO MARTINELLI, Storia del Partito comunista italiano. Il “Partito nuovo” dalla Liberazione al 18 aprile, Torino, Einaudi, 1995, pp. 263-274. 17 PIERO AIMO, Stato e poteri locali in Italia 1848-1995, Roma, Carocci, 1998 (1a ed. Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997), p. 130. 18 Cit. in P. POMBENI, op. cit., p. 90. 19 Il riferimento è al saggio di GIORGIO REBUFFA, La Costituzione impossibile. Cultura politica e sistema parlamentare in Italia, Bologna, Il Mulino, 1995. 20 Assemblea costituente. Atti. LII. Seduta pomeridiana di giovedì 6 marzo 1947.

16 principi sui quali fondare un nuovo sentimento di appartenenza degli italiani, dopo il disastro civile, economico ed etico del fascismo e della guerra. E oggi, in presenza di contrapposizioni forti generate da valori e ideologie deboli, quel compromesso dimostra la sua efficacia, continuando a garantire l’equilibrio tra i poteri dello Stato e il corretto svolgimento della vita democratica, a fronte dei sempre più frequenti episodi di analfabetismo istituzionale e costituzionale anche ai più alti livelli.

17

Ermenegildo Bertola

Marco Neiretti

Breve nota sull’entrata dei cattolici in politica

In premessa uno sguardo sintetico all’evoluzione del movimento cattolico dai primi anni del Novecento al Partito popolare, alla Democrazia cristiana. Il movimento cattolico fu un insieme di associazioni che, dopo un lungo periodo di preparazione, attorno al 1906 Pio X riconobbe in tre istituzioni fondamentali che si occupavano una di problemi economici e di economia sociale; l’altra, la cosiddetta Unione elettorale, di problemi legati al voto dei cattolici; la terza, l’Unione popolare, della for- mazione del dibattito liberale nell’ambito del movimento cattolico. Queste tre unioni si saldarono a loro volta in un’altra forma associativa di cui fu segretario Luigi Sturzo. Sturzo, nato a Caltagirone nel 1876, era un sacerdote che, con l’intenzione di di- ventare professore universitario, studiò filosofia a Roma, dove, incaricato dal cardinale vicario di benedire le case nella Pasqua di fine secolo, conobbe la degradata realtà delle periferie, sicché decise di impegnarsi sul terreno sociale e politico e di lasciare da parte la filosofia. Nel 1904 avviò la sua militanza politica come prosindaco di Caltagirone e consiglie- re provinciale della Provincia di Catania fino al 1920, impegnandosi anche sui temi del regionalismo e delle autonomie locali, oltreché nelle problematiche della persona e della famiglia. Nell’autunno del 1918 fondò il Partito popolare italiano, che vide impegnati non soltanto gli associati delle vecchie organizzazioni cattoliche, ma anche il sindacato bianco, che avrebbe contato fino a un milione e mezzo di iscritti. Tra le caratteristiche del Ppi, importante fu la laicità, come indipendenza dall’in- fluenza politica dei vescovi, resa possibile dal ristretto collegio uninominale e dalla leg- ge elettorale maggioritaria. Da qui l’istanza “popolare” di ottenere - insieme al Partito socialista - un sistema elettorale pluriprovinciale su base regionale con l’espressione del voto di preferenza, che garantisse la rappresentanza delle masse popolari nel caden- te stato liberale. Altro tratto della laicità dei “popolari” si esprimeva, nello statuto del partito, in un unico riferimento ai valori e agli ideali cattolici, affermando che gli iscritti e gli elettori godevano di piena libertà in base alla propria coscienza e alla propria coerenza con lo statuto e il regolamento del partito. E questo è un tratto importante da rimarcare, perché il percorso della successiva Democrazia cristiana sarà piuttosto diverso. Infatti, la parte nuova dei cattolici militanti in politica, si formò - sotto il regime fa- scista - essenzialmente nel movimento degli studenti, dei laureati cattolici e degli uomi- ni di Azione cattolica, negli anni trenta, dopo i Patti lateranensi tra Stato e Chiesa, che vincoleranno la Democrazia cristiana agli ambienti ecclesiastici, molto più di quanto vi fosse indirettamente legato sui valori il Partito popolare, che pure contava tra iscritti e dirigenti molti preti.

19 L’originalità di un’esperienza

A quale delle due linee si rifaceva nella politica Ermenegildo Bertola? A nessuna delle due, come ebbe a dichiararmi esplicitamente in un incontro-intervista, avvenuto nello studio della sua abitazione il 13 luglio 1991. In questa differenza, rispetto ai curricula di quasi tutta la classe dirigente democra- tico-cristiana, consiste la singolarità dell’esperienza politica del cattolico praticante Er- menegildo Bertola, che pure aveva conosciuto alcuni popolari vercellesi, senza succes- so e senza storia. Pochi altri li incontrò nel periodo della clandestinità. In quell’incon- tro, aggiunse di avere avuto scarne notizie sul partito sturziano e sulle sue attività locali, osservando che «la quasi totalità dei comuni vercellesi era retta da amministrazioni so- cialiste, ed erano pochi quelli amministrati da liberali o indipendenti».

Gli studi e l’insegnamento

Prima di interessarsi di politica, il giovane Bertola studiò a Vercelli sino alla maturità; poi, dopo un periodo dedicato soltanto all’insegnamento negli istituti cittadini, s’iscris- se alla Facoltà di Magistero dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il suo interesse si concentrò sulle materie filosofiche, tanto che, conseguita la laurea, ebbe accesso alla libera docenza in Storia della filosofia medioevale cristiana ed ebraica: di- sciplina che insegnò in corsi universitari, e nella quale produsse ricerche e studi di rilievo1. In quegli anni, in alcune università italiane la presenza di giovani cattolici “impegna- ti” era particolarmente viva, basti ricordare La Pira a Firenze, Andreotti a Roma, Moro a Bari, e, soprattutto, Fanfani alla Cattolica. I futuri dirigenti della nuova Democrazia cristiana provenivano quasi tutti dall’Azione cattolica, nei cui ambienti - diciamo di “debole clandestinità” - si poteva parlare di politica liberamente, senza subire i controlli e le persecuzioni cui invece era soggetta la sinistra. Ora, se pure Ermenegildo Bertola entrò in conoscenza degli uomini nuovi di ambiente cattolico, prossimi a diventare classe dirigente politica nazionale, resta da domandarsi come entrò in contatto con la clandestinità vera e propria. Ebbene, ciò non avvenne né a Milano né in altri ambienti cattolici, bensì nell’ambiente della sinistra vercellese.

1 Tra le pubblicazioni di Bertola si annoverano: La filosofia ebraica, Milano, Bocca, 1947 (citato in NICOLA ABBAGNANO, Storia della filosofia, vol. I, parte III, Nota bibliografica al cap. XI: La filosofia guidaica, Torino, Utet, 1974); Saggi e studi di filosofia medioevale, Padova, Cedam, 1951; Salomon ibn Gebirol (Avicebron). Vita, opere e pensiero, Padova, Cedam, 1953 (citato in N. ABBAGNANO, op. cit.); La dottrina psicologica in Isacco di Stella, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, 1953 (citato in N. ABBAGNANO, op. cit., vol. I, parte II, Nota bibliografica al cap. VIII: Il misticismo); Il pensiero ebraico: studi e ricerche, Padova, Cedam, 1972; La teoria della pace in Avicenna, in “Studi tomistici”, n. 1, 1972; La dottrina psicologica di Al Farabi: il “Trattato sulla natura dell’anima”, in “Annuario di Filoso- fia”, n. 55, 1987; Incarnazione cristiana e incarnazione indiana, in “Archivio di filosofia”, n. 67, 1999. Altre citazioni bibliografiche in: GIOVANNI REALE - DARIO ANTISERI, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, Brescia, Editrice La Scuola, 1983.

20 Il contatto con la clandestinità vercellese

Nell’ultimo incontro che ho avuto con lui nel 1998, mi ha raccontato come il con- tatto fosse avvenuto nell’estate del 1941. Tra i pochi amici con i quali parlare libera- mente, Gildo contava il libraio Giovannacci di Vercelli. Ebbene, in un pomeriggio festi- vo, alla fine di una passeggiata conversatoria per le strade del centro cittadino, Giovan- nacci gli disse che lo avrebbe portato in un posto interessante. I passi dei due volsero a dissimulate stradine sino a un’osteria, ove era in corso una riunione di socialisti ed anarchici alla quale, mercé Giovannacci, anche Gildo venne ammesso. Così, il profes- sor Ermenegildo Bertola - studioso del suggestivo pensiero medioevale, ma sempre con i piedi bene per terra e vivace osservatore del mondo circostante - entrò in contatto con molti che preparavano la Resistenza vercellese: persone nuove per lui, ma anche volti conosciuti, che ora assumevano un profilo specifico nell’ambiente vercellese. A seguito di altri incontri, volti all’aggiornamento e all’approfondimento di quanto accadeva, Ermenegildo Bertola assunse una ben precisa connotazione nel movimento antifascista, sino a raggiungere tra la fine del 1943 e il 1944 la responsabilità di rappre- sentare la Democrazia cristiana nel Comitato di liberazione nazionale provinciale, che avrebbe pure presieduto. Subito dopo l’8 settembre 1943, ancora fuori dalle appartenenze politiche, Bertola - sotto il nome di “dottor Terzi” - si era già fatto promotore, con un gruppo di amici personali, di una commissione per l’espatrio clandestino dei prigionieri di guerra anglo- americani, che, eludendo la sorveglianza dei repubblichini, li aveva instradati verso la Svizzera. Il lavoro di quel gruppo fu interrotto per l’imprudenza di un prigioniero allea- to che, giunto in Svizzera, aveva fatto pervenire al dottor Terzi il suo ringraziamento2.

La militanza nella Resistenza

A questo proposito si presenta un’altra domanda: come entra direttamente Bertola nella pratica della clandestinità democristiana piemontese? Lo racconta lui stesso nell’intervista già citata, ricordando che nel periodo bado- gliano lo sturziano monsignor Roveda ebbe a invitarlo a una riunione di vecchi popolari a Torino, in via Barbaroux, sotto la presidenza di Gustavo Colonnetti3. Nel corso della riunione ogni rappresentante provinciale comunicò quanto si stava muovendo in cam- po cattolico-politico. Tacitianamente, Roveda e Bertola dichiararono: «A Vercelli non abbiamo nulla», e fu a quel punto che il monsignore propose Bertola come rappresen- tante vercellese. Ed ecco ancora la rievocazione diretta di Bertola: «Innanzitutto, ricordo che deci-

2 MARCO NEIRETTI, Ermenegildo Bertola, in CATERINA SIMIAND (a cura di), I deputati pie- montesi all’Assemblea Costituente, Milano, Angeli, 1999, pp. 53-55. Dal colloquio di fine giugno 1998. 3 Gustavo Colonnetti (Torino, 8 novembre 1886 - 20 marzo 1968). Docente universitario di scienza delle costruzioni. Consigliere nazionale e membro della direzione centrale del Partito popolare italiano (1919-1920). Antifascista. Esule in Svizzera durante la Rsi. Consigliere na- zionale della Democrazia cristiana fin dalla fondazione, membro della Consulta nazionale e deputato alla Costituente. Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche fino al 1956.

21 demmo di costituire il nostro Comitato di liberazione quando vi fu a Vercelli la prima riunione del Comitato di liberazione militare regionale piemontese, alla quale partecipai: la Democrazia cristiana vi era rappresentata da Valdo Fusi4. Sull’avvenimento ebbi a stendere una testimonianza storica, in particolare sulla partecipazione di Fusi. Poi, co- stituito il Cln, svolgemmo in pieno la nostra attività, coadiuvando alla lotta clandestina e promuovendo i Cln comunali in vista della Liberazione». In quel ruolo, ormai inserito nell’organizzazione clandestina della Democrazia cristiana piemontese, Bertola divenne amico di Achille Marazza, avvocato di Borgomanero con studio a Milano, autorevole esponente democratico-cristiano nel Comitato di liberazione Alta Italia (Clnai). Non passò molto tempo che Bertola, già sospetto di attività sovversiva, fu raggiun- to, l’uno dopo l’altro, da tre mandati di cattura. I primi due andarono a segno e Bertola venne incarcerato, subendo anche punizioni fisiche, con l’imputazione di cospirazione5. Le incarcerazioni avvennero per iniziativa del battaglione “Tagliamento”. A carico del comandante del “Tagliamento”, Bertola avrebbe deposto a liberazione avvenuta come testimone di accusa. Il secondo arresto ebbe luogo per mano della Guardia nazionale repubblicana: nella circostanza non subì maltrattamenti, finché, dopo una quindicina di giorni, fu trasferito all’Albergo Bel Giardino, sede di un comando repubblichino ove, sempre sotto l’accusa di cospirazione, fu sottoposto a tortura. Stavolta, l’accusa fu di appartenere al Cln. Ciò nonostante, Bertola fu rimesso in libertà. Per quale ragione? Ecco di nuovo la risposta diretta: «Seppi che il comandante del presidio repubblichino aveva trattato la mia liberazione e quella di altri in scambio della promessa di avere, a suo tempo, salva la vita. Per noi cattolici, non interessati alla ven- detta, appariva una richiesta plausibile: a liberazione avvenuta, per evitare che lo am- mazzassero, quel comandante fu trasferito alla “Chatillon”, ma, nonostante la cautela di chi doveva vigilare, una notte entrò nel rifugio una squadra, di cui non si è mai co- nosciuta l’identità, che lo prelevò e lo uccise». La terza volta che i fascisti si presentarono per arrestarlo, Gildo fuggì da una porta secondaria della casa in cui abitava. In bicicletta, si diresse verso il Monferrato, dove un amico partigiano avrebbe potuto aiutarlo. Lungo la strada per Trino incrociò l’avvo- cato Giuseppe Brusasca6 di Casale, che gli trovò una sistemazione nell’Astigiano. Dalle

4 Valdo Fusi (Pavia, 9 maggio 1911 - Torino, 2 luglio 1975). Avvocato. Membro del Co- mando militare regionale del Cln piemontese, fu arrestato e processato dal Tribunale specia- le. Riuscì a fuggire e militò nella divisione “Piave”. Gravemente ferito in un rastrellamento, riportò una mutilazione permanente. È autore del racconto-saggio Fiori rossi al Martinetto, Milano, Mursia, 1968. 5 È assai probabile che l’arresto sia da collegare all’attività, per quanto breve, della com- missione clandestina per l’espatrio dei prigionieri alleati. 6 Giuseppe Brusasca (Cantavenna di Gabiano, Alessandria, 30 agosto 1900 - Milano, 1 giugno 1994). Figlio di Giovanni, deputato Ppi, a soli 20 anni diventò segretario della sezione del partito di Casale. Avvocato. Tra i fondatori della divisione autonoma “Patria”, fu (dopo Marazza) vicepresidente del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia e partecipò alle prime fallite trattative per la resa di Mussolini. Fu segretario provinciale della Dc di Alessandria, presidente della Provincia, consultore nazionale, deputato della Dc dalla Costituente fino al 1968, quindi senatore fino al 1972. Impegnato in politica estera fu sottosegretario al Ministero degli Esteri, prima con Nenni e poi con Sforza, fino al 1951. Ricoprì anche l’interim del Mini- stero dell’Africa italiana. Dal 1955 al 1957 fu sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

22 campagne astigiane Bertola raggiungeva periodicamente Torino per partecipare a in- contri con gli esponenti democratico-cristiani della Resistenza, tra i quali Gioachino Quarello, ex popolare, che sarebbe stato il vicesindaco della liberazione a Torino. Non dimenticava certo il Vercellese, ma evitava di frequentare la città dove era conosciuto. Partecipava sempre alle riunioni del Cln, di cui - come si è detto - era presidente. Alla vigilia della Liberazione, Ermenegildo Bertola si trovava a Torino, ove partecipò alla cacciata dei nazifascisti e all’occupazione del municipio di Torino. Nella circostan- za, ebbe l’orgoglio di esporre di persona al balcone del Palazzo di Città la bandiera na- zionale e di avvertire il vicesindaco Gioachino Quarello, affinché prendesse ufficialmente possesso della sede municipale.

All’Assemblea costituente, in parlamento, nel partito

Tornato a Vercelli, Bertola intensificò i rapporti con gli uomini della Democrazia cristiana e organizzò le sezioni del partito in ogni comune del Vercellese e della Valsesia. Per la sua attività e il suo prestigio il Congresso provinciale lo scelse come candidato della Democrazia cristiana alla Costituente nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli. La campagna elettorale lo vide nei saloni parrocchiali e nelle piazze, ad esporre con la consueta eloquenza piana e raziocinante il programma democristiano: idee chiare e di- stinte, tanto sui principi generali a mo’ della scarna eloquenza degasperiana, quanto nello specifico dei problemi dell’economia locale e della scuola. La circoscrizione elettorale, articolata su quasi mille comuni, vedeva schierate personalità subalpine di primo piano: Giulio Pastore, Giuseppe Pella, Oscar Luigi Scalfaro, insieme al gruppo della vecchia guardia sturziana di Torino, tra cui Gustavo Colonnetti, Albino Stella, Gioachino Quarel- lo, Giuseppe Rapelli. Il 2 giugno 1946 Bertola salì alla Costituente con 26.943 voti prefe- renziali. Lungo l’anno e mezzo che portò alla Costituzione, il deputato vercellese interven- ne diciannove volte in assemblea plenaria: segnatamente, sul disegno di legge costituzio- nale dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e sul disegno di legge ordinaria a ti- tolo “Riordino dei corpi consultivi del Ministero della Pubblica Istruzione”; inoltre pre- sentò qualificate interrogazioni con richiesta scritta, specie in materia di pubblica istru- zione, di economia agraria, sui servizi pubblici in Piemonte e in provincia di Vercelli. A Roma, in quei mesi, Bertola per un certo periodo alloggiò nello stesso apparte- mentino con Scalfaro. Una volta, fu invitato da Amintore Fanfani, che aveva conosciu- to alla Cattolica, a partecipare alle riunioni di quella corrente che poi avrebbe assunto il nome di “Iniziativa democratica”; ma dopo alcuni incontri, nonostante talune sugge- stioni culturali, decise di non aderirvi e di rimanere fedele alla posizione di De Gasperi. Del resto, era tale il suo stile sobrio e incisivo, che sul piano pratico non lasciava spazio a incertezze e a travagli intellettuali. Nel 1948 fu confermato parlamentare, mentre la sua candidatura alla Camera nelle elezioni del 1953 e al Senato nelle elezioni del 1958 e del 1963 non ebbe esito positivo. Il 19 maggio 1968 rientrò in parlamento come senatore del collegio di Vercelli; in quella legislatura fu chiamato come sottosegretario al Ministero del Tesoro nel secondo go- verno di Giovanni Leone. Rieletto al Senato nel 1972, fece parte della VII commissione (Istruzione pubblica e Belle Arti, Ricerca scientifica, Spettacoli e Sport). Lasciata l’at- tività parlamentare, Bertola tornò agli studi e alla ricerca filosofica, continuando a par- tecipare alla vita politica locale, per quanto senza specifici incarichi.

23 L’attività politica locale lo vide principalmente impegnato come segretario provin- ciale del partito, di cui dettò la linea anche attraverso il settimanale “La Libertà”. Il gior- nale, in più di un’occasione, si contrappose a quello della curia, “L’Eusebiano”, che, sotto l’influenza dell’arcivescovo Francesco Imberti, era schierato a destra. Con Im- berti, Bertola ebbe episodici, e freddi, incontri. L’arcivescovo, assai attento alla politi- ca, spingeva per l’alleanza organica tra Dc e Pli, che Bertola non condivideva. A dirige- re “La Libertà”, Bertola invitò Cesare Massa, del gruppo dirigente centrale della gio- ventù di Azione cattolica. Cesare Massa entrò così - a dire di Bertola - nella vita politica vercellese, sino a diventare segretario provinciale della Dc. Come è noto, Cesare Mas- sa, avrebbe interrotto successivamente l’attività politica per dedicarsi totalmente alla missione ecclesiastica. Ermenegildo Bertola nella più tarda età continuò la ricerca filosofica e partecipò alla vita della Dc vercellese sino alla costituzione del Partito popolare. Fu consigliere scien- tifico dell’Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Vercelli “Cino Moscatelli” dal 1974 al 1980 e, fino al 1995, restò attivo come presidente dell’Istituto di Studi filo- sofici “E. Castelli”. Morì a Vercelli il 25 giugno del 2000.

24 La vicenda umana e politica di Francesco Leone*

Francesco Rigazio

Questa contributo intende ripercorrere sinteticamente la vicenda politica e soprat- tutto umana di Francesco Leone, una vicenda scandita dai momenti più significativi della storia del secolo scorso: la grande guerra e le tensioni sociali del primo dopoguer- ra, l’evento epocale della Rivoluzione d’ottobre (evento questo decisivo per la sua av- ventura di “rivoluzionario professionale”), l’avvento del fascismo, il secondo conflitto mondiale e, infine, la nascita della Repubblica. Cercherò di evidenziare il contesto in cui essa si svolse, trascurando le questioni ideologiche, anche perché penso che non lo coinvolgessero più di tanto e che le dele- gasse volentieri ai teorici e ai vertici del partito, partito al quale rimase sempre, senza incertezze, devoto, nonostante il carattere, definito un po’ da tutti oltre che burbero, polemico e ribelle. Leone era infatti - è stato detto da un suo biografo - un uomo d’azio- ne, e le discussioni e le polemiche che lo vedevano coinvolto - aveva, tra l’altro, la «penna molto facile», come ricorderà in un’intervista rilasciata a Cesare Bermani - erano quin- di piuttosto legate ai comportamenti da tenere, alle cose da fare, all’azione concreta, sempre nel solco delle direttive decise dal partito. Questo anche se era dotato di vivace intelligenza e di vasti, seppure non adeguatamente coltivati, interessi culturali. Per rendersene conto, basta scorrere l’inventario della sua biblioteca (o di quel che è ne è rimasto!), oggi depositata all’Archivio di Stato di Vercelli e costituita da circa millesettecento volumi e opuscoli, tra i quali, accanto alle pubblica- zioni di partito, si può trovare un po’ di tutto, dai testi di letteratura, verosimilmente omaggio di compagni, ai fascicoli di storia dell’arte, acquistati in edicola1.

Studente a Vercelli e Biella

Francesco Leone nasce in Brasile, nello stato di San Paolo, ufficialmente il 13 mar- zo del 1900, da Antonio e Caterina Molino, braccianti originari di Asigliano Vercellese. La data è quella costantemente riportata in tutti i documenti, sulla base della trascrizio-

* In questo saggio, per scelta dell’autore, le note sono organizzate cumulativamente alla fine di ciascun paragrafo (ndr). 1 Il testo proposto è sostanzialmente quello della relazione presentata il 15 marzo 2008, in occasione del convegno sui costituenti vercellesi. Per un’analisi più approfondita del perso- naggio, rimando alla voce da me scritta in CATERINA SIMIAND (a cura di), I deputati piemonte- si all’Assemblea costituente, Milano, Angeli, 1999, ripubblicata con l’apparato “Fonti e biblio- grafia” più completo, in “l’impegno”, a. XIX, n. 3, dicembre 1999, con il titolo Una biografia di Francesco Leone, alla quale rinvio per l’elencazione dei documenti utilizzati, in aggiunta a quelli indicati in calce ai diversi paragrafi: di particolare interesse risultano i corposi fascicoli aperti su di lui dai ministeri dell’Interno (Casellario politico centrale) e di Grazia e Giustizia (Isti- tuti di prevenzione e pena, detenuti politici) e dalla Questura di Vercelli (Fondo sovversivi), i primi due depositati all’Archivio centrale dello Stato, l’altro all’Archivio di Stato di Vercelli.

25 ne consolare, a partire dal 1911, anno in cui, a Vercelli, sostiene l’“esame di maturità” - come allora si diceva - per iscriversi alla locale regia Scuola tecnica. Questo anche se, considerando le costanti dichiarazioni dello stesso Leone, l’anno effettivo di nascita va retrodatato al 1899, come del resto attestato dai primi documenti scolastici, quelli delle elementari di Asigliano, verosimilmente redatti in base alle dichiarazioni dei genitori o a certificati da essi prodotti, come potrebbero essere quello originale o quello di battesi- mo: lo Stato e soprattutto l’anno di nascita avranno, come si vedrà, una grande impor- tanza nella sua vita. Quanto alla località, essa è riportata, sempre nei documenti, in modo vario e impre- ciso. Quella più ricorrente è Sant’Anna di Vargen (in realtà Vargem) Grande, toponimo, questo, piuttosto diffuso: si tratta, con ogni probabilità, di uno dei due centri che por- tano quel nome, situati sull’altopiano, a 100-150 chilometri a nord-nord est della città di San Paolo, in una zona ancora oggi caratterizzata da una economia di piantagione (caffè, canna, cotone, tabacco ecc. e anche cereali) e costellata, nella seconda metà dell’Ottocento, da insediamenti urbani in formazione, verso i quali si dirigevano nume- rosi gli emigranti italiani, soprattutto all’epoca della crisi agraria. Se si considera che Maria, una delle due sorelle, risulta nata nella stessa località nel 1892 (tra l’altro, sempre il 13 marzo), non si è forse lontani dal vero se si colloca la data di emigrazione della famiglia verso la fine degli anni ottanta, anni per i quali le cro- nache del tempo parlano di inverni terribili e mancanza di lavoro, e le corrispondenze dal circondario riferiscono di partenze di centinaia di famiglie dalle campagne, battute dagli agenti di emigrazione, «incaricati di reclutare lavoratori e mandarli specialmente in Brasile». La famiglia torna al paese non molto tempo dopo la nascita di Francesco, come sem- brerebbe attestare anche il certificato di vaccinazione, che reca la data del 23 aprile 1901. Nell’anno scolastico 1909-1910, Francesco frequenta la terza elementare: gli allievi sono sessantanove; il maestro Chiocchetti dà una valutazione negativa sul suo compor- tamento, ma lo ritiene «furbo e intelligente». L’anno dopo, in quarta, l’insegnante è un giovane sacerdote, Serafino Ferraris, che non esprime giudizi sugli allievi, ma annota le ragioni delle assenze, segnalando quelle per motivi di lavoro: gli iscritti stavolta sono quarantatré, i frequentanti a fine anno trentasei; quasi tutti vengono promossi a giugno, con dispensa d’esame; due, Francesco e Mario Bodo, figlio di un mediatore, anche lui della classe 1900, sono gli unici ad andare a Vercelli a sostenere l’“esame di maturità”. Promosso in prima sessione, si iscrive, come si è detto, alla Scuola tecnica. L’im- patto non è dei migliori: rimandato in diverse materie (calligrafia, francese, italiano e matematica), viene respinto agli esami di riparazione. Ripete l’anno e, nel luglio del 1915, consegue la licenza tecnica. Può così iscriversi all’Istituto professionale di Biella, nella sezione meccanica-elettrotecnica. Pur considerando che, sul piano delle capacità, era sicuramente più dotato della media dei coetanei, resta da chiarire come, a quei tempi, il figlio di un bracciante, o di un piccolo contadino (categoria che spesso se la passava anche peggio), con figli a carico, tornato al paese dall’America senza avervi fatto all’evidenza fortuna, abbia potuto frequentare la scuola secondaria, per di più lontano da casa e con la possibilità di togliersi anche qualche piccola soddisfazione: lo studente Francesco aveva infatti il suo bravo biglietto da visita e nelle foto di gruppo appare vestito con una certa eleganza. Si può pensare

26 all’aiuto di qualche famigliare in discrete condizioni economiche, così come non si può escludere l’interessamento di qualche esponente del Partito socialista di Vercelli, come possono lasciar presumere l’affettuoso annuncio del conseguimento del diploma pub- blicato ne “La Risaia” e la risentita amarezza con la quale il maestro Gionino polemizze- rà con lui in occasione del dibattito precedente il Congresso di Livorno. Gli anni di Biella sono fondamentali per la sua militanza politica e le future scelte di vita. Nel novembre del 1916, quando ha 17 anni, partecipa alla ricostituzione del locale Comitato giovanile socialista di propaganda: nell’occasione, dalle pagine del “Corriere Biellese”, si rivolge ai giovani, invitandoli ad aderirvi e militarvi con coerenza, con ap- pelli sottoscritti “Leo”; in dicembre partecipa attivamente al Convegno dei giovani so- cialisti biellesi. Negli interventi sull’organo di partito, si rivela polemista caustico e brillante. Si veda, per esempio, come, prendendo spunto dalla chiamata alle armi delle classi 1898 e 1899, ironizzi sullo sconforto che si sta diffondendo tra quegli stessi giovani che avevano precedentemente partecipato con entusiasmo alle manifestazioni interventiste: «La chia- mata alle armi delle classi 1898-99 ha gettato la disperazione nei cuori ardenti di patriot- tismo di tanti studenti. Fra coloro che nelle radiose, memorabili giornate di maggio si spolmonavano al grido di: W. La guerra! Abbasso i panciafichisti! et similia, fra coloro che quasi ogni giorno organizzavano chiassose dimostrazioni patriottiche e innalzava- no tanti osanna alla patria, alla guerra, tale notizia è giunta inaspettata. Ed ora si vedono, prima dell’entrata alla scuola, a gruppi, con un giornale tra le mani, commentare con aria afflitta, compunta, la notizia che li riguarda. In nessuno è più l’entusiasmo, lo strombazzato patriottismo: è bastato un semplice decreto a far tanto effetto. Eppure essi della colta, patriottica gente d’Italia, dovrebbero gioirne». L’anno successivo, il 1 luglio, nel corso di un perquisizione alla Camera del lavoro, viene arrestato con altri giovani socialisti, trovati in possesso di manifestini di intona- zione rivoluzionaria, con l’accusa di voler perseguire la mutazione violenta della Costi- tuzione. Per reclamare la loro liberazione, il 4 luglio, calano a Biella più di mille operaie della valle Mosso; il giorno dopo, lo sciopero diventa generale e gli industriali attuano la serrata; il 9 riaprono le fabbriche e gli imputati vengono rimessi in libertà. È il suo pri- mo arresto: sul retro della fotografia che lo ritrae con i compagni di carcere, annota: «1 luglio 1917. Giorni indimenticabili della mia vita». Nell’aprile del 1918 si diploma nella sessione straordinaria di esami per la classe 1900 e parte subito per il servizio militare, che presta dal 20 aprile al 1 marzo dell’anno suc- cessivo, aggregato al 33o reggimento Fanteria di stanza a Cuneo. “La Risaia” del 27 aprile annuncia il conseguimento del diploma da parte dello «studioso compagno» con un affettuoso trafiletto: «Presso la Sezione Meccanica-Elettrotecnica della Scuola Pro- fessionale di Biella sostenne testé con esito brillantissimo l’esame di licenza il nostro giovane amico Leone Francesco. Allo studioso compagno, ora chiamato alle armi, auguriamo di gran cuore uno splen- dido avvenire come ben si meritano le sue doti. Noi ci congratuliamo con lui e col suo buon papà, il compagno Antonio Leone, che ha ben ragione di essere lieto, se anche questo giorno di gioia è amareggiato da un doloroso distacco». Durante il servizio militare, evita di essere inviato al fronte o nelle retrovie, “arrangian-

27 dosi” (come non avrà difficoltà ad ammettere nel corso di una successiva polemica) e ottenendo di frequentare il corso per motoristi d’aviazione all’Istituto Feltrinelli di Mi- lano2.

Giovane socialista a Vercelli

Una volta congedato (il 1 marzo 1919), Francesco rientra a Vercelli e torna ben pre- sto alla militanza attiva. L’occasione gli viene offerta dallo sciopero generale indetto in luglio, in difesa delle rivoluzioni russa e ungherese. Nei pressi della stazione - ricorda nelle sue memorie Paolo Robotti, in una ricostruzione della vicenda, che, alla luce delle cronache del tempo, appare un po’ approssimativa e alquanto enfatizzata -, davanti a quasi diecimila manifestanti, perlopiù contadini, parlano, tra gli altri, il riformista Lo- renzo Somaglino (che sarà poi sindaco di Vercelli) e, in senso rivoluzionario, lo stesso Robotti (membro del Gruppo torinese de “L’Ordine Nuovo”, da poco trasferito a Ver- celli per aprirvi una succursale dell’Istituto medico legale per gli infortuni sul lavoro); al termine del comizio, si forma un grande corteo non autorizzato, che - stando sempre ai ricordi del futuro cognato di Togliatti - si scontra con i cavalleggeri, in corso Vinza- glio, nei pressi della Camera del lavoro: «Proprio mentre infuriava la mischia, un giova-

2 Nostra corrispondenza dal Circondario. Crescentino, San Germano, Costanzana, in “Il Lavoro. Giornale delle Società operaie e cooperative vercellesi”, 20-21 ottobre 1888 (a San Germano, i braccianti non trovavano «più lavoro nemmeno alla ben misera mercede di 12 soldi» al giorno, meno di un chilo e mezzo di pane); Archivio di Stato di Vercelli (d’ora in poi ASV), Direzione Didattica di Asigliano, mazzo 67; ASV, Regia Scuola Tecnica di Vercelli, Registro generale dei voti trimestrali e degli esami (a Vercelli, Francesco viveva presso una famiglia, il primo anno in via San Cristoforo, poi all’“Isola”; anche a Biella, era, ovviamente, a pensione. Il padre si trasferì successivamente a Vercelli, dove, nel 1931, campava facendo il venditore ambulante di sapone e frutta); Un giovane ai giovani di Biella, di “Alfa, studente”, in “Corriere Biellese”, 24 novembre 1916; Cronaca Rossa. Ai giovani [di Biella], di “Leo”, in “Corriere Biellese”, 28 novembre 1916 e 19 gennaio 1917 (in questi mesi, Leone partecipa anche al dibattito e alle manifestazioni studentesche per la riqualificazione della Scuola profes- sionale biellese); Il riuscitissimo Convegno giovan. socialista Biellese, in “Corriere Biellese”, 12 dicembre 1916; La chiamata alle armi delle classi 1898-99 e Gli studenti e l’ultima chia- mata alle armi, in “Corriere Biellese”, 9 e 13 febbraio 1917, sottoscritti rispettivamente “Leo” e “Leo, studente”; Archivio di Stato di Biella (d’ora in poi ASB), Fascicoli penali, mazzo 735, Peletto G. e altri (al fascicolo, oltre ad alcune fotografie, sono allegate copie del manifestino, stampato alla macchia, che non è, come altrove riferito, né quello di Zimmerwald, né quello di Kienthal; la vicenda giudiziaria si concluderà il 29 agosto dell’anno successivo, quando la procura presso la Corte d’Appello di Torino ordinerà l’archiviazione degli atti per insufficienza di prove); R. Scuola Professionale di Biella. Alunni licenziati nella sessione straordinaria di Esami per la classe 1900 che ebbe luogo dal 2 all’11 aprile 1918, in “Gazzetta di Biella”, 20-21 aprile 1918; Distretto militare di Vercelli, Ufficio Matricola, matricola n. 3436; Uomini e cose. Una volta per sempre, di “Don Biagio Bolscevico”, in “La Risaia”, 1 gennaio 1921 («So solo di essere stato militare e di essermi arrangiato [...] Ho fatto la guerra alla scuola... Fel- trinelli di Milano e me ne vanto!»); Archives Nationales, Police Nationale, MF7/14747, Car- teggio tra la Direzione generale della Sicurezza nazionale del Ministero dell’Interno e il pre- fetto di Polizia di Parigi, nota biografica al dicembre 1939, dove si dice che Leone (“Marini”, “Re Leone”) «ha prestato il servizio militare in Italia nell’aviazione»: ringrazio Roberto Grem- mo per avermi consentito di consultare il piccolo fascicolo contenente il carteggio.

28 ne, molto combattivo, si avvicinò a me e disse: “Bravo! Sono d’accordo con lei per quanto ha detto sulla Rivoluzione”. “Se è d’accordo venga con noi nella gioventù so- cialista”. “Ci sono già stato quando ero a Biella, ma mi hanno stufato troppi discorsi. Mi chiamo Francesco Leone”. “Andiamo”, gli risposi. Alla Camera del lavoro ci accor- dammo che si sarebbe iscritto alla Fgsi e avrebbe lavorato al mio fianco. [...] Francesco Leone mantenne la promessa e si mise al lavoro con slancio ed entusia- smo. Formammo un comitato circondariale della gioventù e tutte le domeniche, e so- vente anche nelle sere della settimana, andavamo a tenere comizi in qualche paese vici- no facendo propaganda socialista ed opera di proselitismo». Nel successivo agosto, Leone partecipa al Congresso circondariale socialista, schie- randosi con gli “elezionisti”, poiché - sostiene - «gli astensionisti ci chiamano con loro a fare un salto nel buio»: si tratta di una posizione ribadita anche in seguito (maturata evidentemente a contatto con l’“ordinovista” Robotti), posizione piuttosto atipica, poi- ché i giovani, come noto, subivano nella stragrande maggioranza il fascino di Amadeo Bordiga, futuro fondatore e primo segretario del Pcd’I, decisamente contrario a parte- cipare alle elezioni, perché ritenute strumento borghese. Il 1920 è un anno decisivo per le sue scelte di vita. Lavora come disegnatore alla fabbrica di bottoni “Aclastite-Segre”; la sua conce- zione della vita è antitetica a quella dell’austero Robotti: in febbraio, per esempio, par- tecipa alla “Serata rossa a favore dei bambini viennesi”, declamando una poesia del maestro Fietti e interpretando con successo un brano del “Cyrano di Bergerac”. Sem- pre in febbraio, prende parte al Congresso provinciale giovanile, nel quale Gramsci relaziona sui consigli di fabbrica, un tema portato avanti con grande determinazione da Robotti in seno alla sezione socialista vercellese. In primavera partecipa attivamente alla direzione di quello che risulterà il più lungo sciopero delle risaie vercellesi, lo “sciopero dei cinquanta giorni”, durante il quale, uni- tamente a Robotti, mantiene i contatti con le organizzazioni economiche e politiche torinesi, impegnate nel cosiddetto sciopero delle lancette. Anche alla luce di questa espe- rienza, la successiva vicenda dell’occupazione delle fabbriche matura in lui la convin- zione che sono presenti nelle masse energie veramente «rivoluzionarie» e che il «gran- de urto» decisivo è imminente ed è pertanto «utopistico» pensare alla rivoluzione con la sola «arma del voto», l’arma dei riformisti. In ottobre ottiene il suo primo incarico politico: sostituisce infatti Robotti, chiamato alle armi, alla guida dei giovani socialisti vercellesi. Sempre in ottobre, prende parte al Congresso straordinario della Gioventù sociali- sta piemontese (dove conosce il segretario nazionale della Fgsi Luigi Polano, uno dei promotori della frazione comunista). Accantonate preoccupazioni che considera di in- dole sentimentale, si convince definitivamente della necessità di combattere con ogni mezzo il riformismo e i vecchi compagni, come il tipografo Lorenzo Somaglino e il bracciante Francesco Costa, di Olcenengo, che pure tanto avevano dato per il “bene della causa”, riformismo che - afferma - «si è messo fuori del metodo e [della] conce- zione socialista in questo periodo profondamente dinamico della storia». Come Robot- ti, però, «si sente preoccupato ed incerto di fronte all’eventualità di una scissione e sulla ripercussione che essa avrebbe nelle masse contadine [che hanno nei riformisti il loro punto di riferimento, per le loro necessità più importanti, se non vitali, come quelle sindacali]. Egli [...] crede che l’eliminazione dal Partito degli esponenti riformisti sia

29 bastevole a mantenere il Partito forte e coeso in una precisa azione comunista [anche se], qualunque siano i risultati ultimi di questa lotta di tendenze, i giovani vercellesi sa- ranno sempre con i comunisti, siano essi costituiti in Partito, o in Frazione»3.

L’adesione al Pcd’I e i primi scontri con i fascisti

In quest’ottica, in vista del Congresso nazionale, Leone, che, avendo compiuto i vent’anni, è passato tra gli adulti, nel precongresso di Vercelli presenta con l’avvocato Pedrotti (massimalista), un ordine del giorno che recepisce le posizioni espresse dalla cosiddetta circolare Marabini-Graziadei, la quale puntava ad evitare la rottura fra le due frazioni comuniste: quella dei “comunisti unitari” di Serrati e Baratono, aderente con riserve alle tesi della Terza Internazionale, e quella dei “puri” (i principali esponenti della quale erano Bordiga, Fortichiari e Terracini, in rappresentanza, rispettivamente, degli astensionisti, degli operaisti di Milano e del Gruppo de “L’Ordine Nuovo” di Torino, che avrà un ruolo meno rilevante nel Congresso). Nella sezione di Vercelli, l’ordine del giorno Leone-Pedrotti, sul quale confluiscono i “comunisti puri”, prevale nettamente su quello degli “unitari”, appoggiato anche dai riformisti. Il risultato viene però ribaltato dalla sottosezione dei Cappuccini, che, schie- randosi pressoché compatta con la “mozione Serrati”, dà a quest’ultima una leggera prevalenza nel risultato complessivo. Leone va a Livorno come delegato, ma non partecipa alla votazione: «Mi sono aste- nuto dal voto - spiegherà - perché convinto che la circolare Marabini-Graziadei, men- tre rappresentava, nell’intenzione di tutti gli aderenti, la decisa volontà di giungere ad ogni costo all’unità [...] di tutti i comunisti sinceri, in realtà apparve come un tentativo di sbloccamento degli unitari per ottenere la maggioranza dei comunisti puri.

3 PAOLO ROBOTTI, Scelto dalla vita, Roma, Napoleone, 1980, pp. 66-68: nel suo intervento, Robotti aveva affermato che la «rivoluzione non si fa[ceva] con i canti e con gli inni, ma come l’avevano fatta i bolscevichi in Russia e i lavoratori d’Ungheria»; Sciopero Generale Internazionale. 20-21 luglio e L’imponente riuscita dello sciopero generale, in “La Risaia”, 19 e 26 luglio 1919 (la pur dettagliata cronaca del giornale socialista ridimensiona alquanto la versione di Robotti: accenna, infatti, a «un po’ di agitazione», quasi subito rientrata, in se- guito al ritiro dei cavalleggeri); Il Congresso dei Socialisti del Vercellese, in “La Risaia”, 23 agosto 1919; Il Congresso provinciale giovanile socialista di domenica scorsa e La serata musicale “Pro bimbi di Vienna”, in “La Risaia”, 28 febbraio 1920 (Leone viene descritto come un simpatico giovane «dalle spiccate attitudini artistiche [protagonista di] un saggio di dizione corretta ed espressiva»); La vittoria dei contadini e Lo sciopero generale, in “La Risaia”, 21 aprile 1920 (lo sciopero si chiude prima di quello “delle lancette”, con l’assenso dei dirigenti di quest’ultimo, coi quali erano andati a conferire Robotti e Leone: questo par- ticolare mi è stato confermato da Battista Santhià, in una testimonianza rilasciata a Torino nel 1974); NOI, Quello che si dovrà fare, in “La Risaia”, 30 marzo 1920 (nell’articolo, redatto si- curamente da Robotti, si avanza l’ipotesi di occupare le terre e di costituire i consigli di casci- na, ipotesi rivelatasi impraticabile, anche perché i lavoratori di risaia erano soprattutto avven- tizi stagionali); Un saluto ai giovani socialisti, in “La Risaia”, 9 ottobre 1920; FRANCESCO LEONE, Verso il Congresso di Firenze, in “La Risaia”, 20 novembre 1920; FOX [F. LEONE], Polemiche in famiglia, in “La Risaia”, 1 gennaio 1921; FGSI, COMITATO REGIONALE PIEMONTESE DI PROPAGANDA, Resoconto del Congresso regionale piemontese. Torino, [24-25 ottobre] 1920, Torino, S. An. Tipografica Alleanza, 1920, p. 13.

30 Perché si manifestarono dissensi fra gli stessi firmatari di essa [...] Perché, più che aderire ad una circolare, avevo sposato una causa: la causa dell’unità comunista, la quale non ha avuto il suo trionfo per colpa di pochi dirigenti dell’una e dell’altra sponda. Dopo queste constatazioni io non mi sentivo più in diritto di vincolare, col mio voto, i compagni rappresentati a questo o a quel partito. Scelgano essi stessi la loro via. [Nel giustificare il suo comportamento, aggiungerà ancora che] soltanto l’incosciente testardaggine, il delittuoso orgoglio di pochi, l’atteggiamento troppo rigido, unilaterale e poco tattico dei rappresentanti della III Internazionale [hanno] provocato la scissione a sinistra piuttosto che a destra come era nell’intenzione della stragrande maggioranza dei congressisti». Ai primi di febbraio del 1921, all’atto di entrare nella Federazione giovanile comuni- sta, redige per l’ultima volta ne “La Risaia” la rubrica “Uomini e cose”, congedandosi definitivamente dai vecchi compagni; un congedo che conclude un’aspra polemica con alcuni esponenti del partito, che aveva fatto grande affidamento su di lui, lo aveva aiu- tato e molto valorizzato. Leone inizia quindi un’intensa attività organizzativa e politica nel nuovo partito, che, nel Vercellese, allora in provincia di Novara, si andava costituendo attorno all’organiz- zazione giovanile; ricopre incarichi a livello provinciale, sia tra i giovani che tra gli adul- ti, e, nel marzo del 1922, prende parte, in qualità di delegato, ai lavori del II Congresso nazionale giovanile. Collabora assiduamente a “Il Bolscevico” - l’organo della Federa- zione comunista di Novara -, alimentando una violenta polemica antisocialista, come titolare di una rubrica settimanale (“Et ab hoc et ab hac”) e con una fitta serie di corri- spondenze, per le quali utilizza, come di consueto, diversi pseudonimi, tra i quali “L’occhio di Mosca nella ditta Aclastite”, la ditta nella quale lavora. Si distingue subito come uno dei più attivi protagonisti degli scontri con i fascisti. Ritenuto «molto pericoloso», è attentamente vigilato. Licenziato dal proprietario del- l’“Aclastite”, a cui non va giù che sia «tutti i giorni sul giornale», trova lavoro nelle operazioni di censimento e successivamente nell’ufficio tecnico dell’Ospedale di Vercelli. Nel gennaio del 1922 viene arrestato e incarcerato per un mese, perché ritenuto coinvolto in una sparatoria contro il direttissimo Trieste-Bordeaux avvenuta nei pressi di Vercelli, nell’ambito dell’agitazione “Pro Sacco e Vanzetti”, sparatoria rivelatasi poi di matrice anarchica. In questa fase, Leone agisce d’intesa con gli anarchici del gruppo “La Folgore”, costituito nella seconda metà del 1919, in seguito alla venuta a Vercelli di Luigi Galleani, tornato in famiglia per qualche tempo, dopo essere stato espulso dagli Stati Uniti. Si trattava di poco più di una decina di militanti, piuttosto decisi, di cui avrebbe conserva- to un ottimo ricordo e tra i quali c’erano Mario Serassi (classe 1899) e Giuseppe Rigola (classe 1904), che sarebbe morto durante la Resistenza, in val di Lanzo. Sempre nel 1922, la sera dell’11 luglio, con questo gruppo di anarchici e un altro in cui figuravano ex combattenti (e con la preventiva esclusione dei socialisti), a nome della componente comunista, partecipa alla costituzione della sezione vercellese degli Arditi del popolo. La riunione si svolge al ridotto del Civico; gli intervenuti (stando alle corrispondenze apparse ne “L’Ordine Nuovo” e in “Umanità Nova”) sono circa duecento: gli anarchici sono rappresentati da Claudio Corona (classe 1901, ultimo anno di Ragio- neria, che successivamente emigrerà in Messico, per fare ritorno a Vercelli nel 1965);

31 i reduci dal geometra Aurelio Malinverni (classe 1900, volontario appena diciassettenne e successivamente passato al fascismo, già suo compagno di classe all’ultimo anno delle Tecniche). Leone è entusiasta. Ma, ai primi di agosto, in ottemperanza alle deci- sioni del partito, chiuderà questa esperienza, per dare vita, con scarso successo, alle Squadre d’azione comuniste. Dovendo scontare otto mesi e venti giorni di detenzione, che gli erano stati inflitti per pubblica istigazione a mutare la costituzione dello Stato, durante il comizio del Pri- mo maggio dell’anno precedente, in novembre viene colpito da mandato di cattura e iscritto nel “Bollettino delle ricerche”. In ottobre era peraltro già emigrato clandestina- mente, anche perché coinvolto in altre vicende legate alla sua attività sovversiva, diri- gendosi alla volta della capitale francese. Avendo potuto fruire di provvedimenti di clemenza, agli inizi del 1923 rientra in Ita- lia munito di regolare passaporto e riprende a svolgere l’attività politica; a fine maggio, però, nel corso di una perquisizione domiciliare effettuata in sua assenza, viene seque- strato un elenco, da cui risulta essere il fiduciario del partito per la provincia di Novara. Costretto a riparare nuovamente in Francia, è inviato in Unione Sovietica, dove ri- siede per quasi un anno e mezzo, tra il 1924 e il 1925, frequentando per circa nove mesi il corso per commissari di reggimento all’Accademia militare Tolmaceva di Le- ningrado. Secondo informazioni in possesso della questura (che ha un confidente infil- trato nel movimento giovanile vercellese), prima di questo nuovo espatrio, era il re- sponsabile dell’organizzazione militare comunista per il Piemonte. Nella seconda metà del 1925 viene fatto rientrare temporaneamente in Italia: ricopre l’incarico di segretario interregionale per la Lombardia e l’Emilia-Romagna e collabora alla preparazione del III Congresso del partito, che si svolge a Lione nel gennaio del- l’anno successivo. Nel 1926, risiede nuovamente a Parigi4.

4 Gioventù ribelle è la tua ora, supplemento al “Corriere Biellese” del 3 settembre 1920 (Leone - “De Vercelli-Ranat”, “Leo” - ribadisce le sue critiche all’astensionismo e proclama la sua fede nel «Comunismo di stato», e nella «ferma disciplina», dichiarandosi soprattutto contrario agli anarchici antiorganizzatori e all’«azione diretta»; nel numero unico compaiono anche articoli di Robotti, sotto l’abituale pseudonimo di “L. Sobar”); La discussione sulle varie tendenze a Vercelli e nel Circondario, in “La Risaia”, 18 dicembre 1920; Dopo il Con- gresso di Livorno. Una dichiarazione del compagno Leone, in “La Risaia”, 29 gennaio 1921; MEDIUS [ALESSANDRO GIONINO], Risposta unica al compagno Fox, in “La Risaia”, 8 gennaio 1921 («Che proprio “Fox” debba lagnarsi del trattamento dei vecchi compagni è il colmo dei colmi; proprio lui che fu da essi varato e lanciato nella grossa politica, da essi ha ricevuto de- licatissimi incarichi di fiducia, essi gli concedono a palestra del suo vivace ed esuberante in- gegno quasi un intero settimanale»); FRANCESCO RIGAZIO, Alle origini del movimento comu- nista nella Bassa Vercellese, in ADOLFO MIGNEMI (a cura di), Figure e centri dell’antifascismo in terra novarese. Atti della giornata di studio. Novara 10 ottobre 1987, Fontaneto d’Ago- gna, Comune-Comitato Cacciana; Novara, Istituto storico della Resistenza “Piero Fornara”, 1992; CESARE BERMANI (a cura di), “I fascisti in cento contro uno”. Colloquio con France- sco Leone, in “l’impegno”, a. XX, n. 1, aprile 2000 (nell’intervista, dichiara di non ricordarsi bene se si era astenuto o meno a Livorno); F. RIGAZIO, Documenti anarchici, socialisti e co- munisti. Inventario, in “Archivi e Storia”, n. 2, 1989; Et ab hoc et ab hac, di “Bicciolano Stra- fottente”, in “Il Bolscevico”, 14 luglio 1921 (commenta con entusiasmo la nascita degli Arditi del popolo a Vercelli); F. RIGAZIO, Gli Arditi del popolo a Vercelli (luglio-agosto 1921), in “Archivi e Storia”, n. 15-16, 2000.

32 La condanna del Tribunale speciale e l’emigrazione in Brasile

Leone era nel frattempo ricercato quale responsabile dell’uccisione di un fascista, avvenuta nel corso dei fatti di Novara del 18 luglio 1922; ma, nel maggio del 1927, essendo stato revocato il mandato di cattura per insufficienza di prove, rientra dalla Francia per continuare a operare nell’organizzazione illegale del partito. Il 28 luglio viene arrestato a Milano mentre ritira alcuni pacchi di copie de “Lo Stato operaio” stampato a Parigi e con in tasca le bozze di un suo articolo di fondo per “L’Unità” clandestina. Viene sottoposto a un pesante interrogatorio. Accusato di insurrezione contro i poteri dello Stato, dopo quasi quindici mesi trascorsi a San Vittore e a Regina Coeli, il 26 ottobre 1928 è condannato dal Tribunale speciale a sette anni e sette mesi di reclu- sione e a tre anni di libertà vigilata. Sconta la pena in diversi stabilimenti. Il 27 maggio 1933 viene dimesso per amnistia da quello di Civitavecchia e va ad abitare a Vercelli, dalla sorella Maria. È sottoposto a «continua vigilanza». Non riesce a trovare lavoro. L’unico che cerca di dargli una mano è il vecchio com- pagno della “gioventù socialista”, Serafino Somaschini, che ha appena aperto un nego- zio di tessuti e seterie in via Lanza. Somaschini, già da lui affrontato in passato con metodi settari e violenti - come ricorderà nel colloquio con Cesare Bermani - lo assume come commesso, aiuto contabile e viaggiatore sulle piazze di Santhià, Trino, Casale, Ivrea e Biella. Anche se giustificata con il «proposito di dare nuova anima e nuova co- scienza patriottica a un giovane italiano già graziato dalla generosità veggente del Duce», è evidente che la cosa non sta in piedi, se non altro per le mansioni di viaggiatore che gli sono state affidate, le quali renderebbero praticamente impossibile l’azione di sorve- glianza a cui i carabinieri lo devono sottoporre. Viene licenziato. Nonostante non dia «luogo a rilievi con la sua condotta politica e morale», mantiene le sue idee di «fervente comunista [ed è pertanto sempre] compreso nell’elenco delle persone da fermare in determinate circostanze». Continua a essere disoccupato. Qual- che mese dopo, si rivolge, anche stavolta senza risultati, alla zia Antonia Chiocchetti, vedova Leone, e alla cugina Marta, entrambe residenti a Torino e impiegate alle edizioni salesiane. Considerando che in Italia non è sicuro - scriverà in seguito alla sorella - e rischia di essere arrestato da un momento all’altro, che è senza lavoro e non può pensare di farsi mantenere «eternamente» da lei, verso la fine di febbraio dell’anno successivo - siamo nel 1934 - decide di recarsi a Genova, al Consolato generale brasiliano. Ha con sé il certificato originale di nascita e tre fotografie. Il console - ricorderà a Bermani - è un tipo «abbastanza comprensivo» e non fa troppe domande: «Mezz’ora dopo avevo il passaporto brasiliano, del quale mi sono servito per tagliare la corda. Un giorno ho fat- to portar le valigie a Torino; poi un compagno al mattino presto in bicicletta m’ha ac- compagnato fino alla stazione di Santhià. Ho preso le valigie; ho preso il treno da Tori- no, sono andato a Genova e con il passaporto brasiliano mi sono imbarcato». È il 28 marzo; ha acquistato il biglietto con i soldi ereditati dal padre. Il successivo 10 aprile sbarca a Santos, dopo un viaggio che definisce «magnifico» sul piroscafo “Augustus”. Lo stesso giorno invia un telegramma all’altra sorella Marta, sposata Ramazzotti, che risiede a Palmeira, annunciandole il suo arrivo, e spedisce due lettere a Vercelli, una alla sorella Maria e l’altra «All’Ill.mo Sig. Questore di Vercelli»,

33 notificandogli che il suo espatrio non è stato clandestino, ma bensì regolare e pregan- dolo di prenderne atto. Una volta in Brasile, si sposta a Rio, lavora in un cantiere e continua il suo impegno politico, entrando nel Partito comunista brasiliano. Nel novembre del 1935 partecipa al tentativo insurrezionale guidato da Prestes e ispirato dal Comintern, un tentativo prati- camente abortito sul nascere, controllato, se non addirittura pilotato, dal governo del dittatore Vargas, che attua una spietata repressione. All’Istituto Gramsci di Roma è conservata una sua lettera da Rio, datata 3 dicembre 1935, che accenna a una precedente sua relazione sull’intera vicenda. Essa ne testimonia un ruolo più importante di quello che - per una certa modestia o per la riservatezza legata alla mentalità di rivoluzionario professionale - emerge dalla citata intervista a Bermani: Leone, come del resto è anche logico, data la formazione all’Accademia Tolma- ceva, risulta essere l’uomo (o uno degli uomini) del Comintern all’interno del Partito comunista brasiliano. Al termine della lettera, vista la situazione, la perdita del posto di lavoro e la concreta possibilità di essere arrestato, chiede di essere fatto espatriare e inviato in Unione Sovie- tica5.

La guerra civile spagnola e la Resistenza in Francia e in Italia

Viene invece mandato in Francia e destinato all’organizzazione del Soccorso rosso internazionale. Nell’agosto del 1936 sottoscrive l’appello del Partito comunista italiano per la ri- conciliazione tra fascisti e antifascisti, echi del quale si possono cogliere in un suo messaggio inviato a fine anno, alle ore 23.45 del 29 dicembre, «a tutti gli italiani fascisti e non fascisti», dalla stazione radiofonica di Barcellona, dove si trovava durante un perio- do di convalescenza. In agosto era infatti stato tra i primi ad accorrere in Spagna, contribuendo a costi- tuire la centuria che aveva voluto intitolata a Gastone Sozzi, l’antifascista morto in carcere, che era stato suo compagno alla scuola di Leningrado. In Spagna, Leone ha modo di confermare le sue doti di coraggioso combattente: il 23 novembre, mentre guida un assalto nel quadro delle operazioni di difesa della capitale, viene gravemente ferito e ricoverato in un ospedale della città catalana. Nonostante il prestigio acquisito, secondo Gianni Isola, il ferimento costituisce l’oc- casione per allontanarlo dal fronte: è evidente, sempre secondo questo autore, che il suo carattere «impulsivo e insofferente dei torti subiti» lo avrebbe, infatti, prima o poi portato a scontrarsi con i membri dell’apparato del partito provenienti dall’Unione So- vietica. Dopo un lungo periodo di convalescenza, trascorso in parte in Unione Sovietica -

5 C. BERMANI (a cura di), art. cit. (rievocando l’episodio di Novara del 1922, Leone fa il no- me di quello che ritiene essere stato l’autore del tragico evento, al quale aveva assistito di persona); ASV, Questura di Vercelli, “Sovversivi”, fasc. “Francesco Leone”, Carteggi, Ver- celli, 8 giugno, 7 luglio e 23 agosto 1933, 23 gennaio 1934; Fondazione Istituto Gramsci di Roma, Archivio Partito comunista, “F. Leone (1935)”, fasc. “Anni 1930”, Lettera datata Rio de Janeiro, 3 dicembre 1935.

34 un suo articolo, corredato da una sua fotografia, relativo a un episodio della guerra civile spagnola, compare sull’“Isvestia” del 20 marzo 1937 - è nuovamente destinato a Parigi. Scoppiata la seconda guerra mondiale, nel dicembre 1939 viene arrestato e internato al “Roland Garros”: l’arresto è eseguito in seguito a una lettera anonima del precedente 14 ottobre, nella quale si denuncia che «i comunisti italiani Sereni Vittorio, Jacoponi Vasco, Leone Francesco, ecc si riuniscono in alcuni caffè presso la Place de la Nation con un altro stalinista Di Vittorio e parlano contro la Francia». Viene quindi internato per due anni nel campo di Vernet d’Ariège, nella regione pirenaica, e successivamente trasferito in Provenza, in quello di Les Milles, dal quale evade nel dicembre del 1941, riprendendo l’attività nell’organizzazione del partito ed entrando in contatto con la Re- sistenza francese. Nel 1943 è nuovamente arrestato e incarcerato a Tolone, e quindi rinchiuso nel campo di Nizza; dopo aver subito pesanti interrogatori da parte dell’Ovra, verso la metà di ago- sto, viene trasferito a Breil, nelle Alpi Marittime, in attesa di essere giudicato da quel tribunale militare, dato che è iscritto per l’arresto nella “Rubrica di frontiera”. Rilasciato dopo l’8 settembre, Leone svolge un ruolo di primo piano nella Resisten- za, sia nell’organizzazione delle brigate d’assalto “Garibaldi” che nei comandi militari unificati dell’Italia settentrionale, sempre come rappresentante del Partito comunista. Nell’inverno del 1943 ottiene l’incarico di responsabile dell’attività militare del par- tito in Piemonte; nella primavera dell’anno successivo viene inviato in Toscana con la carica di membro del triumvirato insurrezionale e di comandante militare delle brigate garibaldine della regione, dove è alla testa dell’insurrezione di Firenze, con un gruppo di garibaldini già penetrati in città in piena occupazione tedesca. Sempre nella primavera del 1944 fa parte della delegazione che, a nome del Partito comunista e delle brigate “Garibaldi” (di cui era ispettore generale), conduce le trattative per coordinare l’azione tra partigiani italiani e jugoslavi6.

Consultore, costituente e parlamentare. Gli ultimi anni

Dopo la Liberazione, Leone viene inviato a Roma, come vice responsabile dell’atti- vità di stampa e propaganda del Partito comunista e lancia la proposta della “Giornata dell’Unità”, maturata sulla base della sua esperienza francese. In agosto, torna a Ver- celli, per organizzare la locale federazione, di cui è il primo segretario.

6 PAOLO SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin, la guer- ra, Torino, Einaudi, vol. III, 1978, p. 66 (nel cosiddetto Appello ai fratelli in camicia nera, il Partito comunista, anche alla luce dei risultati ottenuti dal fascismo, privilegia i temi della “lotta di classe” e della “democratizzazione” del regime); voce biografica a cura di GIANNI ISOLA, in FRANCO ANDREUCCI - TOMMASO DETTI (a cura di), Il movimento operaio italiano. Di- zionario biografico. 1853-1943, Roma, Editori Riuniti, vol. III, 1977; Mini Facelli ricorda Leone. Da Radio Barcellona parlava “il capitano”. Seguitissima a Vercelli la sua trasmis- sione, in “L’amico del popolo”, 22 giugno 1984; Archives Nationales, Police Nationale, MF7/ 14747, Carteggio tra la Direzione generale della Sicurezza nazionale del Ministero dell’Interno e il prefetto di Polizia di Parigi (nella nota biografica allegata al fascicolo, si riferisce che: «Durante i suoi soggiorni a Mosca [del 1937-38] Leone avrebbe seguito dei corsi speciali militari e sarebbe uno degli specialisti militari comunisti da impiegare nelle eventuali guerre civili»).

35 È anche membro del Comitato centrale del partito dal 1946 al 1960. Nel V Congres- so (29 dicembre 1945 - 6 gennaio 1946), ritenendo unitaria la base socialista, prende posizione a favore del partito unico della classe operaia e dei lavoratori, idea di cui ri- mane sempre convinto, anche quando cominciano a delinearsi i connotati di una socie- tà più articolata e si hanno, anche a Vercelli, le prime prove di centrosinistra. Dall’aprile 1945 al maggio 1946 fa parte della Consulta, su designazione del partito, e, il successivo 2 giugno, viene eletto all’Assemblea costituente, dove non svolge un ruolo di particolare rilievo. Come si è detto, era infatti più portato all’azione e i suoi contributi personali si limitano a due interrogazioni: una relativa alla concessione di una sessione straordinaria di esami riservata a partigiani, reduci ed ex detenuti politici; l’al- tra alla posizione dei militari reduci ed ex internati in Germania colpiti da tubercolosi. Nella prima legislatura repubblicana viene nominato senatore di diritto, come costi- tuente condannato dal Tribunale speciale che aveva scontato più di cinque anni di car- cere per attività antifascista. Sensibile ai problemi delle campagne, anche perché proveniva da una zona caratte- rizzata da forti tensioni sociali nell’agricoltura, ha, in quel campo, incarichi di partito a livello regionale: in questa veste, fonda e dirige dal 1949 al 1952 “Il Contadino piemon- tese”, un periodico destinato ai piccoli produttori agricoli, delle cui istanze si fa porta- tore in parlamento e anche nelle conferenze nazionali del partito. Nelle elezioni per il Senato del 1953 viene sconfitto dal candidato democristiano, il celebre avvocato Caron; nella terza legislatura repubblicana, è, invece, eletto alla Ca- mera, nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli, con un altissimo numero di prefe- renze. Nel 1963, in vista delle elezioni del 28 aprile, i giornali locali annunciano che, nel- l’ambito del rinnovamento dei quadri operato dal Pci, il leader dei comunisti vercellesi, l’onorevole Francesco Leone, esce dalla scena parlamentare. Nell’accomiatarsi dai suoi elettori, Leone riassume la sua vicenda politica del dopo- guerra e precisa di averlo fatto «non per elencare dei titoli di merito, ma per sottolineare quanto [egli dovesse al] partito ed alla stima che [essi gli avevano] espresso coi [loro] voti»; motiva quindi la decisione di non ripresentarsi col proposito di favorire il riequi- librio tra la rappresentanza parlamentare biellese e vercellese e, soprattutto, di consen- tire la valorizzazione di forze nuove, più adeguate a rispondere alle situazioni nuove che erano venute maturando, anche se, qualche mese prima, nell’anticipare la decisione, aveva puntigliosamente affermato che il rinnovamento del partito, di cui tanto si parla- va, era tutt’altro che una questione anagrafica: «Le tesi condannano seccamente [...] quel rinnovamento inteso sotto l’aspetto anagrafico. Il Partito si rinnova elevando la sua capacità di comprendere ed applicare la linea politica tracciata dai nostri congressi, elevando la sua preparazione ideologica e politica, la sua capacità di unire, di fondere la teoria con la pratica, la sua capacità d’essere fermo e duttile, saggio e audace, elevando la capacità di comprendere i suoi compiti immediati e storici e di saperli assolvere nella situazione, nelle circostanze, nella realtà in cui è chiamato a lavorare per trasformarla nella lotta, all’avanguardia delle classi lavoratrici e popolari, di tutte le forze democra- tiche, antimonopoliste, per la pace, per il socialismo». In realtà, gli sta capitando quel che era successo cinque anni prima al biellese Flecchia, anche lui costituente, e a molti della vecchia guardia rivoluzionaria, come Silvio Orto- na, che erano venuti a trovarsi, col tempo, un po’ ai margini del partito.

36 Mastica certamente anche amaro e non è difficile immaginare che riflettesse sulle occasioni perdute per una certa “imprudenza” e una certa “indolenza”, con le quali si era talvolta comportato, lui che, nel 1924 era stato cinque minuti in piedi, sotto la neve, quando le sirene annunciavano che Lenin stava morendo e tutta la Russia si era fermata («uno spettacolo formidabile!»), aveva frequentato la “Tolmaceva”, preso parte al ten- tativo rivoluzionario di Prestes, combattuto in Spagna e resistito a duri interrogatori. Nel 1970, dopo ventiquattro anni, chiude anche la sua esperienza nel Consiglio co- munale di Vercelli, dove era stato costantemente eletto con grande numero di preferen- ze. Rimane membro del Consiglio federale del partito, al quale tanto doveva, come ave- va detto, accomiatandosi dai suoi elettori nel 1963, e al quale non aveva mai lesinato generosi contributi. Continua a coltivare quella passione per il giornalismo che lo aveva contraddistinto, fin dai tempi giovanili del “Corriere Biellese”, de “La Risaia” e de “Il Bolscevico” e suc- cessivamente in Brasile e nei giornali dell’emigrazione in Francia. In quel periodo scrive ne “L’amico del popolo”, il periodico della Federazione pro- vinciale, che aveva fondato nel 1945, scegliendo un titolo che evocava il Ranza e Ma- rat, in tempi in cui la realizzazione delle giovanili aspirazioni sembrava a portata di mano. Non è più il “Don Biagio Bolscevico” de “La Risaia” o il “Bicciolano Strafottente” de “Il Bolscevico” e i suoi corsivi, sottoscritti, meno impegnativamente, “Asianotu” (dal nome del paese d’origine della famiglia), sono più moderati rispetto a quelli della giovinezza, ma come quelli caustici e brillanti. Leone si spegne a Vercelli il 23 maggio 1984; Gian Carlo Pajetta tiene l’orazione fu- nebre e, tra i numerosi messaggi di cordoglio, non mancano quelli delle organizzazioni partigiane toscane e del Partito socialista unificato della Catalogna7. Concludendo, vorrei osservare come l’approccio biografico alla storia, che oggi sembra godere di un certo favore, consenta di evidenziare le differenze, anche notevo- li, tra personaggi - nel caso di questo convegno, Bertola e Leone - che (sia pure con uno sfasamento temporale di una decina d’anni, dovuto a ragioni anagrafiche) si trova- rono immersi nelle stesse vicende. Mi viene allora in mente Émile Chartier, l’“Alain” di “Esprit”, citato da Pietro Secchia nei suoi “Quaderni”, il quale «non amava la storia degli storici [perché] la vera storia, diceva, è apprendere nelle cronache, nelle lettere, nei memoriali».

7 Francesco Leone nei ricordi di Mini Facelli. Cestino della merenda, falce messoria e vestito da tagliariso..., in “L’amico del popolo”, 29 giugno 1984; Il dibattito al VII Congres- so dei comunisti italiani, in “L’amico del popolo”, 30 novembre 1962 (Leone aveva annun- ciato che «[considerava] chiusa, con questa legislatura, la sua attività parlamentare e [la- sciava] ben volentieri il posto a qualche altro compagno meritevole di iniziare la sua prima esperienza in questo campo»); I partiti designano i candidati alle elezioni politiche del 28 aprile. L’on. Leone si allontana dalla scena politica, in “La Sesia”, 19 febbraio 1963 (alla Camera sono presentati il giovane Irmo Sassone, Gioacchino Ghisio e Nando Schellino; al Senato viene rieletto Domenico Marchisio, ma alla Camera, il Pci non riesce a confermare il seggio “vercellese” di Leone); Perché non mi sono candidato. Lettera agli elettori del- l’On. Francesco Leone, in “L’amico del popolo”, 22 febbraio 1963; “L’amico del popolo”, 25 maggio e 1 giugno 1984 (numeri dedicati al ricordo e ai funerali, che si svolgono il 26 maggio).

37 La storia è, infatti, anche il prodotto di decisioni e di comportamenti legati all’in- treccio di diversità di caratteri, di emotività, di sentimenti, di esperienze di vita familiare e non, in altre parole, prendendo a prestito il titolo di un celebre romanzo, è anche il prodotto del “fattore umano” - si pensi al ruolo esercitato dalla religione nell’attuale mo- mento storico - da elementi, cioè, che sfuggono (o possono sfuggire) alle “griglie scien- tifiche” della storiografia.

38 Biellesi all’Assemblea costituente

L’intervento introduttivo di carattere generale sull’Assemblea costituente è stato tenuto a Biella da Bruno Ziglioli, già relatore sullo stesso tema nel convegno di Vercelli. Nelle pagine che seguono sono pertanto riportati solo i saggi sui costituenti biellesi di Marco Neiretti, Gustavo Buratti e Federico Caneparo, mentre per l’introduzione si rimanda a p. 11.

Giuseppe Pella

Marco Neiretti

Giuseppe Pella nacque a Valdengo il 18 aprile 1902 da genitori coltivatori diretti. Dopo le scuole elementari, frequentate nella scuola di don Felice Perazio (1866-1959), parro- co di Cerreto Castello, passò a Biella alle scuole medie e al biennio di ragioneria all’Isti- tuto “Eugenio Bona”, trasferendosi successivamente a Torino all’Istituto “G. Sommeil- ler”, dove si diplomò con lode in ragioneria1.

L’impegno nel movimento cattolico

Gli anni di Torino furono assai fecondi per il giovane Pella, che - «popolare della prima ora»2 - nel 1919 fondò il Circolo cattolico studentesco “Giuseppe Toniolo”. A Torino operava in quegli anni come segretario provinciale del Ppi don Alessandro Can- tono (1874-1959), nativo di Ronco Biellese, comune limitrofo a Valdengo. Alessandro Cantono, figura primaria, con Murri e Sturzo, della prima Democrazia cristiana, fu sociologo e scrittore di chiara fama. Commemorando Cantono, nel ventennale della morte, Giuseppe Pella avrebbe ricordato quel periodo come centrale della sua forma- zione politica, che si avviò nell’ala sociale del popolarismo subalpino: la “sinistra” gui- data da Attilio Piccioni e da Giuseppe Rapelli. “Pensiero popolare” era il giornale-testi- monianza di quel gruppo, che tra i collaboratori contava Giuseppe Cappi, di Cremona3, e (anche finanziariamente) i biellesi Pier Giorgio Frassati ed il suo collega di studi al Po- litecnico, l’amico Enrico Delpiano4. L’indirizzo di “Pensiero popolare” era decisamente antifascista: per la politica agraria la sinistra torinese seguiva Guido Miglioli; in materia sindacale e di politica industriale puntava a superare il corporativismo cattolico sotto la spinta di Giuseppe Rapelli. In quel gruppo, lo studente d’economia Giuseppe Pella offriva il suo apporto secondo una linea aperta alle ragioni del sistema economico e pure alle ri- vendicazioni popolari della Torino degli anni venti, la città industriale ancora appesan-

1 Giuseppe Pella non si diplomò - come erroneamente è stato scritto - all’Istituto per ragio- nieri “E. Bona” di Biella, ove invece insegnò per sette anni. 2 Lo riportò nel 1972 nella scheda di documentazione che accompagnava la ripresenta- zione della candidatura al Senato della Repubblica. 3 Giuseppe Cappi (Cremona, 1883 - Roma, 1963), collaboratore di Miglioli, in rapporto con i fratelli Ludovico e Giovanni Battista Montini, con padre Bevilacqua e padre Pini. Fu consigliere nazionale della sinistra Ppi e membro della Direzione nazionale nel 1924. Costi- tuente e poi parlamentare della Dc, di cui fu segretario nazionale, fu poi giudice costituziona- le, e infine presidente dell’Alta Corte. 4 Enrico Delpiano (Biella, 1900 - Torino, 1974), laureato in ingegneria al Politecnico di To- rino, allievo di Gustavo Colonnetti e di Modesto Panetti (fu ministro delle Poste e Telecomu- nicazioni nel governo Pella), lavorò all’Italgas (società con forte partecipazione azionaria di Alfredo Frassati, poi assorbita dall’Eni) sino a diventarne il vicepresidente. Dal 1950 al 1965 fu segretario amministrativo della Dc piemontese. Negli anni venti fece parte, con Rapelli, della delegazione torinese che andò a studiare per alcuni mesi in Russia il regime sovietico.

41 tita dai costi del dopoguerra, scossa dall’occupazione delle fabbriche, travagliata dai conflitti di classe, “agitata” dai “cervelli forti” della sinistra. Nella “ricerca della terza via”, Pella avrebbe sviluppato per decenni un dinamico confronto con il giovane Giuseppe Rapelli, il quale - assertore del sindacato cristiano - avrebbe continuato ad affiancarlo tra il 1949 ed il 1964, quando Pella fu ministro economico-finanziario, presidente del Consiglio, uomo di punta contro il centrosinistra, secondo la politica del centrismo5. Nella Torino degli anni venti, dopo il diploma al “Sommeiller” e nel corso degli studi all’Istituto universitario, Giuseppe Pella coltivò “relazioni di ambiente”, destinate a du- rare nel tempo e, spesso, a trasformarsi in rapporti di alta fiducia. È il caso di Modesto Panetti (1875-1957), docente con Gustavo Colonnetti al Politecnico, assessore ai ser- vizi tecnici del Comune di Torino negli anni venti, poi deputato democristiano alla Co- stituente e senatore della prima legislatura, che Pella avrebbe voluto ministro delle Po- ste e Telecomunicazioni nel suo governo (1953). E come non ricordare l’amicizia degli anni trenta con Silvio Golzio (Torino, 1909-1994), specialista di statistica, presidente del Cir6, attivissimo nella Fuci (Federazione degli universitari cattolici) ai tempi di don Giovanni Battista Montini (papa Paolo VI), Giorgio La Pira, Sergio Paronetto, Guido Gonella. Silvio Golzio, figura eminente anche nell’ambiente cattolico, sarebbe stato pre- sente al Concilio Vaticano II quale “uditore laico”7. Con quel patrimonio di idee e di azione, Pella svolse già allora attività politica anche nel Biellese, intervenendo ai maggiori convegni zonali e diocesani, ora a titolo personale ora in rappresentanza del circolo cattolico valdenghese “Fides et robur”. Per il giovane Pella era fondamentale formare i giovani dirigenti del movimento cattolico: ad esempio, sul finire del 1921 organizzò, nei locali delle scuole serali di Valdengo, un corso di “Eco- nomia sociale”, inaugurato dalla relazione “La questione sociale in rapporto alle diverse scuole economiche”, e sviluppato dalle lezioni di Alessandro Cantono e Federico Mar- concini (docente all’Università di Torino). Nello stesso anno, al Convegno delle asso- ciazioni cattoliche in Vigliano, Pella si rivelò «oratore geniale e ascoltatissimo», come riconobbe il giornale “Il Biellese”. Sempre nel 1921, il diciannovenne propagandista del Ppi, tenne comizi elettorali in molti centri del Biellese, nell’amichevole sodalizio con il coetaneo Bruno Blotto Baldo, che sarebbe stato sindaco di Biella dal 1951 al 1960.

La libera professione e l’insegnamento

Gli anni venti furono per il giovane Pella decisivi anche per l’apprendistato - tanto professionale che di insegnamento - avviato ancora nel pieno degli studi universitari al Lanificio Lanzone di Andorno. Il 31 marzo 1924 Pella si laureò in Scienze economiche

5 Giuseppe Rapelli (Castelnuovo Don Bosco, Asti, 16 giugno 1905 - Roma, 16 giugno 1977). Dal 1924 particolarmente intense furono le intese con i comunisti (nei gruppi facenti capo al “Lavoratore” e ai “Comitati operai e contadini”). Nel 1926 compì un viaggio in Urss con una delegazione di studio del “Lavoratore”. Si veda BARTOLO GARIGLIO, ad vocem Giuseppe Rapel- li, in FRANCESCO TRANIELLO - GIORGIO CAMPANINI (a cura di), Dizionario storico del movimen- to cattolico in Italia. 1860-1980. I protagonisti, Casale Monferrato, Marietti, vol. II, 1982. 6 Comitato per la ricostruzione industriale del secondo dopoguerra. 7 CLAUDIO BERMOND, ad vocem Silvio Golzio, in F. TRANIELLO - G. CAMPANINI (a cura di), Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, Genova, Marietti, 1997.

42 e sociali al Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Torino. Assolto l’obbligo del servizio militare, da cui venne congedato come caporale del Ge- nio, scelse la duplice strada della libera professione e dell’insegnamento. Fin dal luglio del 1924 si era iscritto al sindacato interprovinciale dei dottori commercialisti di Tori- no; intraprese la pratica professionale a Biella presso lo Studio Cantone, attivo in viale Regina Margherita (l’attuale viale Matteotti). Successivamente si associò allo studio del dott. Virginio Bernero8. Il percorso dell’insegnamento, che aveva iniziato, già da universitario, alla Scuola commerciale “Giulio Cesare Rama” di Andorno, lo proseguì quale professore ordinario di Ragioneria industriale e Tecnica commerciale all’Istituto per ragionieri “Eugenio Bona” di Biella, dove insegnò dal 1925 al 15 ottobre del 1930. Come nella professione, si im- pegnò a fondo nello studio e nella ricerca: collaborò a riviste specializzate e frequentò gli ambienti dell’università, dedicando una cura tutta particolare alle pubblicazioni scien- tifiche. Sono di quel periodo gli studi su “Lavorazione per terzi e tassa scambi”, “Il riporto sui titoli (di Borsa e fuori-Borsa)” pubblicato in una collana della Utet, cui sa- rebbe seguito nel 1938, nella rivista milanese “Realtà”, il saggio “Cicli economici e pre- visioni di crisi”. Sempre negli anni trenta Giuseppe Pella collaborò, da assistente volon- tario, alla cattedra di Tecnica mercantile e bancaria dell’Università di Torino e svolse docenza di Costi industriali nell’ambito del Corso superiore per dirigenti di azienda ne- gli anni 1930-31 e 1934-35, collega di cattedra di Luciano Jona, Vittorio Valletta, Gino Olivetti, Domenico Peretti-Griva.

Dalle conferenze laniere all’amministrazione comunale di Biella

In campo strettamente professionale il giovane commercialista continuò a farsi un nome. Seguì e intervenne nelle crisi della Banca commerciale biellese e della banca cat- tolica Credito Biellese. A soli 25 anni, nel 1927, fu relatore al Congresso laniero italiano sul tema: “Lo studio dei costi di produzione nell’industria laniera italiana”. Nella qualità di delegato italiano partecipò alle conferenze internazionali laniere di Amsterdam (1932), Budapest (1933), Roma (1934), Berlino (1935), Varsavia (1936), Parigi (1937). E pure nel contesto delle competenze professionali può situarsi l’esperienza di consultore co- munale di Biella (corrispondente all’odierno assessore) di Giuseppe Pella che, dopo un paio d’anni di attività (1933-34), venne invitato a dimettersi in ossequio alla legge che precludeva determinate cariche pubbliche ai celibi. Caduta la preclusione gli sarebbe stato offerto dal podestà Serralunga l’incarico di vicepodestà, che svolse dal 17 luglio 1935 al 24 marzo 1937, curando il risanamento del bilancio, dissestato da lunghi anni di commissari prefettizi. Nel marzo del 1937 avrebbe presentato le «dimissioni volontarie per esigenze professionali». Del resto Pella non era mai stato un entusiasta del regime fascista, cui si era sottoposto soltanto nel 1932, per poter venire ammesso al concorso per la formazione del ruolo di revisore dei conti prima e di amministratore giudiziario poi. Al più, si era sentito in dovere di svolgere un qualche specialistico servizio ammi- nistrativo alla sua città, allo stesso modo in cui, dieci anni dopo, avrebbe affiancato con la sua autorità e competenza il Cln locale nel reperimento e nell’amministrazione dei

8 Allo studio Bernero-Pella si sarebbe aggiunto negli anni quaranta Renzo Barazzotto.

43 fondi per la lotta di liberazione, collaborando con amici dell’Azione cattolica impegnati attivamente nella Resistenza, tra i quali Alessandro Trompetto del Cln militare e Guido Martignone di quello cittadino.

Il 25 luglio 1943 e l’avvio della Democrazia cristiana

Il 25 luglio del 1943, con l’arresto di Mussolini e il ritorno della libertà, si visse in Italia, per quarantacinque giorni, un periodo di febbrile illusione, durante il quale i partiti della clandestinità apparvero alla luce del sole, impegnandosi a trovare iscritti e dirigenti e ad elaborare programmi. In campo cattolico si formò a Biella un gruppo dalle provenienze “popolari” e dalla più recente esperienza nell’Azione cattolica, in particolare dal Movimento laureati cat- tolici e dalla Fuci di Giovanni Battista Montini e di Igino Righetti (1904-1939). A Biella il collegamento era tenuto, in via primaria e per l’aspetto politico, dall’architetto Ales- sandro Trompetto, fratello del canonico Mario. Alessandro Trompetto frequentava da tempo gli ambienti dell’intellettualità cattolica milanese e, sempre teso agli studi ed al- l’aggiornamento, aveva frequentato nel febbraio del 1943 la Facoltà di Architettura di Valle Giulia a Roma. In quella circostanza aveva incontrato Giovanni Gronchi, già se- gretario generale della Cil (il sindacato bianco che negli anni venti aveva contato oltre un milione e mezzo d’iscritti), il quale era in relazione con i gruppi milanesi, fiorentini, romani della “clandestinità bianca”. Nel marzo del ’43, con i primi “scioperi resistenziali”, Trompetto si era messo in contatto con il sindaco socialista della Biella degli anni venti, Virgilio Luisetti, con i co- munisti Pasquale Finotto e Domenico Bricarello e con il direttore de “Il Biellese”, Germa- no Caselli. Così, nei giorni che intercorsero tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, Trompet- to ritessé le fila tra i cattolici biellesi, per promuoverne una presenza politica attiva nella società. L’incontro decisivo avvenne la mattina di domenica 29 agosto 1943 nella casa della parrocchia di San Paolo di Biella, sotto l’ala di don Irmo Buratti, già dirigente del Partito popolare di Sturzo. A quella «prima adunanza della Commissione democratico- cristiana di Studi Politici - Sottocommissione di Biella», come verbalizzò lo stesso Trom- petto, intervennero una quarantina di persone. Presiedette l’incontro il professor Gustavo Colonnetti, che villeggiava a Pollone. Colonnetti era stato tra i fondatori del Ppi e mem- bro della direzione centrale (sarebbe stato consultore nazionale e costituente per la Dc). Tra coloro che presero la parola si distinsero don Alessandro Cantono, Giuseppe Pella, Germano Caselli, Renato Botto, ultimo segretario del Ppi biellese e della Cil biel- lese. La discussione si svolse sui “toni alti” del programma politico, e poi sui nomi da proporre al comitato cittadino di Biella per ricoprire le cariche amministrative nel Co- mune e negli enti della Città di Biella abbandonate dai fascisti. Dal quaderno di Alessan- dro Trompetto - che poi si arricchisce di notizie sulla riunione che, nel pomeriggio, si sarebbe svolta tra i rappresentanti dei rinati partiti costituzionali sotto l’egida di un im- provvisato Fronte nazionale (dal quale però mancavano i comunisti) - Giuseppe Pella emerge come personalità di rilievo, come uomo di prestigio capace di interpretare au- torevolmente le attese, le opinioni e la rappresentanza dei cattolici biellesi nel nuovo tempo politico e civile. Fin dalla riunione di San Paolo, Pella enunciò i principi sui quali, tre anni dopo, avrebbe costruito la sua azione di ministro della ripresa economica. A Co- lonnetti, che illustrò le linee programmatiche degasperiane e della scuola sociale cristia-

44 na, e a Germano Caselli, che insisté sulla strategia dei rialzi salariali, Pella «precisa che alti salari sono un’utopia e sostiene la sua tesi che qualora la produzione sia rimunera- tiva all’imprenditore, il salario potrebbe aumentare ma di una percentuale bassa», e poi, verbalizzò ancora Trompetto, «Pella non vede come si potrà praticamente organizzare la partecipazione degli operai agli utili ed al capitale dell’azienda». Quest’ultima battuta, se appare riferita in primis alla concezione organicistica della socialità cattolica (tale era stata preconizzata dalle encicliche leoniane, tale sviluppata dalla scuola sociale del Toniolo), sarebbe tornata della massima attualità di lì a qualche mese, quando - sulla base della famosa “Carta di Verona” - Mussolini avrebbe proposto un’economia rivolu- zionaria e corporativa con un nuovo modello sindacale e con la nazionalizzazione delle imprese, momento terminale della fallimentare economia autarchica del secondo de- cennio del regime. Del resto, il Pella consulente del commercio e dell’industria laniera biellese e italiana si era sempre dichiarato contrario ad ogni chiusura autarchica verso il mondo, donde venivano le materie prime del sistema tessile e in cui, sovrana ed odia- ta dal duce e dal regime, regnava la britannica sterlina9. Lo sfascio dell’8 settembre 1943 rimise, dieci giorni dopo quelle riunioni, tutte le carte in gioco. E fu guerra molteplice e feroce, e fu la clandestinità. Il cattolicesimo biellese non si sottrasse all’emergenza. L’istituzione-Chiesa intervenne a tutela delle popolazioni e della giustizia con la ieratica figura del vero e proprio defensor civitatis, il vescovo Carlo Rossi in prima persona: al suo fianco, l’esempio e la guida di don An- tonio Ferraris. Clero e cattolici furono tutt’uno con la popolazione e in collaborazione con la Resistenza; salvo il deplorevole episodio, non del tutto ancora chiarito, di don Vernetti, che invitò alla tregua mediante una radio collaborazionista. Alessandro Trompetto continuò la sua missione di punta nel movimento: partecipò alla fondazione dei Cln biellese e di molti comuni in cui la Dc ebbe attivi rappresentanti. Egli fu in quel biennio di fuoco anche esponente del Cln militare, come una “primula bianca” dei cattolici biellesi. Si era autobattezzato Giovacchino Micca fu Pietro e fu Sogno Clotilde, vedovo, muratore, con nascita nel luogo di Andorno Micca, patria di Pietro Micca: così attestava la carta d’identità rilasciata dal commissario prefettizio del Comune di Modigliana, in provincia di Grosseto, ben al di sotto della Linea gotica (per il vero esiste un Comune di Modigliana, ma situato in provincia di Forlì). Nell’ufficio di Trompetto, a Palazzo Ronco, si svolse la maggior parte delle riunioni del Cln biellese, e in quello stesso palazzo di via Mazzini, ove abitava Pella, ebbero luogo gli incontri quo- tidiani tra i due. Trompetto faceva parte inoltre (come attesta la documentazione uffi- ciale del Cln biellese del 29 maggio 1945) della Commissione economica del Cln, la quale doveva provvedere a raccogliere e poi a ripartire i contributi finanziari a sostegno dei partigiani e della lotta armata. In quelle circostanze Giuseppe Pella coadiuvò il Cln, e così in un memoriale ne dice lo stesso Trompetto: «Verso il Novembre [1944] Giu- seppe Pella ci fu di valido aiuto per stabilire una tassazione proporzionale ad ogni citta- dino di censo elevato per il bisogno dei partigiani», ed ancora: «Somme notevoli attra- verso il Comitato affluirono così in montagna inviate da noi settimanalmente»10.

9 Cfr. ISRSC BI-VC, fondo Alessandro Trompetto, b. 55. 10 Purtroppo, in un cd dedicato a Pella in occasione del centenario della nascita (1902), egli viene erroneamente detto “tesoriere del Cln”, il che è falso e non proviene dalla mia consulenza storiografica.

45 Frattanto, Trompetto e Pella ampliavano la rete dei collaboratori, pensando all’indo- mani di Biella. Oltre agli antichi amici, oltre ai sodali dell’Azione cattolica, impegnarono Bruno Blotto Baldo11, già popolare degli anni venti e coetaneo d’entrambi, ragioniere e industriale in Biella, e un dirigente dei Cotonifici Poma, Pietro Sidro. Nei Cotonifici Poma agiva il nucleo forte del sindacalismo bianco, con Nino Rapa, Francesco Colombo, Leo- nardo Forgnone, che era stato allievo di Pella alla scuola commerciale di Andorno. For- gnone, oggi sulla soglia dei 100 anni, avrebbe partecipato alle trattative e alla firma dello storico Patto della montagna tra marzo e aprile 1945. Forze nuove si erano, infine, ag- gregate al movimento democratico-cristiano ed avrebbero costituito il gruppo dirigente centrale nel biennio 1946-1948: come Silvio Mello Grand, allora Fratello delle Scuole cristiane, poi segretario particolare di Pella e deputato della Dc biellese nel 1958; Se- condino Bertola, della gioventù Dc e poi consigliere provinciale del collegio di Cavaglià; Lidia Lanza, presidente della Gioventù femminile di Azione cattolica e massima rappre- sentante per più di quarant’anni dell’impegno cattolico e democristiano al Comune di Biella, leader della corrente fanfaniana nella Dc biellese.

La Liberazione e le prime elezioni amministrative

E giunse finalmente il giorno della Liberazione. Quella sera, la notte, il giorno seguente furono di grande festa, come ricorda anche don Antonio Ferraris in un articolo ne “Il Biellese” in occasione del 25 aprile 1975. A Biella s’insediò in municipio la “Giunta del Cln”, guidata dal sindaco Virgilio Luisetti, il socialista della continuità tra il pre e il post fascismo, affiancato dagli assessori Domenico Bricarello e Pietro Sidro, democratico- cristiano. L’amministrazione provvisoria durò in carica un anno ed operò bene nell’emer- genza, come Pella sottolineerà all’indomani delle amministrative del ’46. Il vero leader della Dc biellese - anzi, del Biellese - fu, dal 1945 al 1981, Giuseppe Pella. Il “grande gentiluomo” - così hanno descritto Pella i maggiori giornalisti italiani, così lo hanno conosciuto i biellesi in prima persona - era davvero un “uomo tutto d’un pezzo”. E non è retorica aggiungere che Giuseppe Pella nacque povero e non morì ricco. Nella sua vita pubblica dimostrò sempre un alto senso dello Stato, della sacralità della “cosa pubblica”. Bruno Blotto Baldo raccontava che all’atto della nomina a sotto- segretario alle Finanze, Pella - per scrupolo morale e dovere civico - si dimise da oltre novanta consigli di amministrazione, comitati esecutivi, consulenze aziendali. Tanto era “trasparente” l’uomo, che fu tra i pochissimi a querelare con ampia facoltà di prova l’organo comunista “l’Unità” del 31 maggio 1953, che l’aveva elencato tra i parlamen- tari con incarichi di amministratore di società private; “Il Tempo” del 6 giugno dava notizia della querela e l’Ansa (Agenzia giornalistica nazionale) diffondeva una nota del Ministero del Tesoro con cui si precisava che «l’on. Pella - figura unanimemente nota per la sua onestà e probità - non appena chiamato a responsabilità di governo, e cioè nell’ottobre 1946, lasciò immediatamente gli incarichi ricoperti». Così, nel 1946 Giuseppe Pella rappresentava l’uomo nuovo per la maggioranza dei

11 Bruno Blotto Baldo aveva giurato il falso dinanzi al Tribunale speciale per la difesa dello Stato per difendere un autorevole comunista dipendente della sua ditta.

46 biellesi, l’ideale testimone di un moderato progressismo, capace di fare i conti con la realtà del momento guardando al futuro. L’autorevole giornale tedesco “Die Weltwo- che” avrebbe scritto, il 18 dicembre 1953, quando Pella era presidente del Consiglio, sotto il titolo “Giuseppe Pella ha fortuna”: «Egli, proviene, al pari di Pinay e di Laniel12, da una massa grigia ed ignota, al di sopra della quale si è elevato [...] per merito del suo valore e della sua cultura personale». La «massa grigia» del “Die Welt” era la nuova, nuovissima Italia, che all’indomani del fascismo, dell’emergenza e dello strazio delle guerre, voleva ad ogni costo darsi una propria normalità, con molta democrazia, il de- centramento, le autonomie locali. Riforme poi (e purtroppo) differite in tempi lunghi.

Dalla Dc biellese al Comune di Biella

Il proprio percorso pubblico Giuseppe Pella lo avviò tra l’inverno e la primavera del 1946 come capolista dello scudo crociato alle elezioni comunali di Biella. Alle spalle aveva la militanza giovanile nel Partito popolare di Sturzo, la frequentazione costante dell’Azione cattolica, la stima del vescovo Carlo Rossi, che lo appoggiava anche presso l’episcopato subalpino. Un curriculum di tutto rispetto per l’elettorato cattolico e per larghe fasce di biellesi. Si trattava dunque di una carriera che partiva dal basso, che si avviava appog- giata anche dal giornale “Il Biellese” - principe dei media di allora - per quanto senza enfasi e a dosi calibrate. Fin dagli anni venti Pella aveva collaborato a “Il Biellese”: rilevanti furono i suoi ar- ticoli del 1926 su “Imposta complementare e tassa di famiglia” (24 agosto 1926), ed i due sulla “Situazione finanziaria” dell’ottobre successivo. Dal 1946 al 1970 Pella sa- rebbe stato presente sul bisettimanale cattolico con una trentina di articoli. Ma alle pri- me mosse, Pella non ricorse a “Il Biellese” bensì - e con lo pseudonimo di “Max” - al settimanale della Democrazia cristiana “Vita Biellese”, diretto dal sindacalista France- sco Colombo, ma dovuto quasi tutto alla penna di Silvio Mello Grand. Il settimanale, in edicola ogni martedì dal settembre 1945 al dicembre 1946 (poi sarebbe comparso come supplemento de “Il Biellese” ogni due-tre mesi sino al 1948), si richiamava nel titolo al giornale dei democratico-cristiani di inizio Novecento di don Delfino Guelpa e don Ales- sandro Cantono. Ora, in “Vita Biellese” Pella-Max trattava della politica economica, del- l’industria laniera, dell’economia biellese; ed Alessandro Trompetto - a volte ancora con il nome di “Micca” - sviscerava le tematiche del territorio, a cominciare dalle grandi infrastrutture di cui occorreva il Biellese per uscire dall’isolamento, sino alla diatriba sulle nuove province, sulla Provincia di Biella, sulle autonomie comunali, sul ripristino dell’autonomia di Miagliano e Tavigliano, dal fascismo aggregati ad Andorno; mentre la corrente sindacale cristiana (Csc)13, capeggiata da Francesco Colombo, portava avan- ti le rivendicazioni operaie.

12 Antoine Pinay (1893-1969), deputato radicale e poi indipendente all’Assemblea nazio- nale francese, fu presidente del Consiglio e ministro delle Finanze nel 1952. Joseph Laniel (1889-1975), deputato all’Assemblea nazionale fin dal 1932 come indipendente, succedette a Pinay come presidente del Consiglio dal giugno 1952 al giugno 1953. 13 Nella Cgil unitaria la corrente cristiana (detta anche democratico-cristiana) contava non più del 14-15% degli iscritti.

47 La lista che Giuseppe Pella, contestualmente al programma, presentò il 24 marzo 1946 ad un superaffollato Teatro Sociale era composta da una misurata rappresentanza delle categorie sociali e dei rioni cittadini: il nucleo forte era costituito dal ceto medio impiegatizio (comprensivo dei tecnici di fabbrica), in tutto 14 candidati su 40; seguiva- no 6 artigiani, 5 liberi professionisti, 4 operai, 4 commercianti, 2 contadini, 2 pubblici dipendenti, un industriale, un impresario, un dirigente d’azienda. Il programma della Dc di Biella s’ispirava alle dieci proposizioni del programma nazionale, calato con forte specializzazione nella realtà locale. Infatti il titolo dichiarava: “Per l’avvenire di Biella e del Biellese”. Dopo un’affermazione di principio sull’autonomia locale, il programma affermava la «funzione regionale di Biella», proponeva un moderno modello di finanza locale (con prestiti fiduciari, tipo gli attuali “Boc”), indicava le iniziative concrete per la ricostruzione e il rilancio edilizio, per la riattivazione di trasporti e comunicazioni e, in- sieme agli interventi di settore (agricoltura e artigianato, istruzione, istituti di assistenza e beneficenza) indicava la strada da seguire per venire incontro alle esigenze dei rioni e dei “comuni associati”. A Giuseppe Pella seguì, nell’esposizione delle linee program- matiche della Dc, Lidia Lanza, con un intervento sul compito delle donne al Comune: un tema scottante, visto che per la prima volta nella storia nazionale le donne andavano al voto. Un voto che si concluse in Biella con la vittoria della Dc, che, su 26.042 voti validi, ne totalizzò 8.599 (e 13 consiglieri: Pella ebbe 3.212 voti di preferenza), seguita dai socialisti con 8.448 voti e 13 consiglieri, dai comunisti con 6.841 voti e 11 consi- glieri, e dai liberali con 2.052 voti e 3 consiglieri. All’inizio di maggio s’insediò il nuovo Consiglio comunale. Giuseppe Pella - scrissero i giornali - «tessé l’elogio della passata amministrazione [...] e in particolare del sindaco Luisetti», che egli ripropose. Luisetti ottenne 36 voti su 39 presenti. La giunta fu com- posta dal democristiano Pietro Sidro, vicesindaco, e dagli assessori Francesco Cane- paro (Dc), Pasquale Finotto e Mario Coda (sarebbe stato sindaco dopo Luisetti) del Pci, Remo Lanza e Odetto Ramella Germanin socialisti. Supplenti furono nominati il democristiano Antonio Perona e il comunista Nello Poma. Per quanto intensa nelle sedute di avvio, l’attività comunale di Giuseppe Pella sarebbe stata molto breve. Nuove sfide incalzavano; già il calendario istituzionale annotava: «2 Giugno 1946, referendum monarchia-repubblica, ed elezioni dell’Assemblea costituente».

La battaglia per la Costituente

Ci sono momenti nella storia in cui la vita si fa densa, i giorni e le settimane acqui- stano una “massa maggiore”. Ebbene, tale fu la fase politica che corse tra il marzo e il giugno del 1946: in quei novanta giorni nacque la “nuova Italia”. Cattolici e marxisti, con i rispettivi partiti, entrarono in massa nelle istituzioni democratiche, con la leadership di Alcide De Gasperi (Trento, 1881-1954), di Palmiro Togliatti (Genova, 1893 - Yalta, 1964), di (Faenza, Ravenna, 1891 - Roma, 1980). Indro Montanelli avrebbe ricordato De Gasperi come grande politico in quanto «meno italiano di tutti»; meglio sarebbe però ricordarlo come il grande italiano più europeo di tutti. De Gasperi parlò a Biella due volte nel corso della sua vita. La prima nel 1925, ospite dell’aventiniano deputato popolare e sindaco di Chiavazza, on. Vittorio Buratti; la seconda, per le elezioni del ’48, in amicizia ed appoggio a Giuseppe Pella, che aveva scelto come collaboratore primario per l’economia della ricostruzione.

48 Quei mesi erano ancora travagliati dalla mancanza del pane quotidiano (i panettieri reclamavano contro il razionamento delle farine), del riscaldamento (la legna ormai scar- seggiava a causa del disboscamento e il carbone arrivava irregolarmente e a piccoli quantitativi), dei disoccupati, delle vedove e degli orfani di guerra, dei mutilati e degli invalidi (di guerra e civili). Tra quelle rovine, ovunque disseminate dal nazifascismo, Giuseppe Pella “alzò la mira” sul periglioso terreno dell’economia e toccò il cuore del problema, che si chiamava a chiare lettere “inflazione e debito pubblico”, il fronte aper- to sulla cui linea la nazione o si rialzava o affogava. Pella - studioso della crisi economica del primo dopoguerra con particolare riferimento al caso tedesco - aveva chiara la prospettiva nel caso non si fosse intervenuti con ener- gia a salvare la capacità di acquisto della moneta e della base degli investimenti che, con le merci e i servizi, producevano occupazione. I temi connessi erano ben identificati, a cominciare dal debito pubblico, di cui trattò a fondo nel settimanale democristiano “Vi- ta Biellese” tra aprile e maggio 1946, nel pieno della battaglia per la Costituente. Quegli articoli furono ripresi da “Il Popolo Nuovo”, quotidiano della Democrazia cristiana piemontese, per rimbalzare dalla testata torinese all’Ansa e ad alcuni quotidiani nazio- nali. L’analisi del tecnico e le proposte del politico culminarono nell’articolo (in “Vita Bielle- se” del 7 maggio 1946) con il quale Pella tracciava la sua “linea del fronte” per i cinque anni a venire. «Prima dell’impostazione di un efficace programma di riassetto tributario, inesorabile apparirebbe all’orizzonte lo spettro dell’inflazione», ammoniva, rivolto sia a destra che a sinistra, dal momento che da entrambe le parti si pensava che il rimedio della riforma tributaria, in periodo di crisi galoppante, potesse risolvere i problemi della congiuntura. Per Pella invece la priorità della lotta era «l’inflazione [...] con tutte le tragiche conseguenze di ordine politico, economico e sociale». La storia gli avrebbe dato ragione, con la ricostruzione accelerata, il “miracolo economico” sul finire degli anni cinquanta, l’emblematico conferimento alla “liretta” italiana dell’Oscar della stabilità, del valore e del cambio. I problemi sul tappeto non erano tuttavia solo quelli economici. C’erano armi na- scoste, che non venivano consegnate alle autorità, mentre sopravvivevano isole rivolu- zionarie di entrambi gli estremismi; già si delineava la contrapposizione tra il mondo libero e il totalitarismo sovietico e delle rispettive aree di influenza. Il tema prevalente della cattolicità, della fede religiosa, era in quei mesi quello della pace. Dalle colonne di “Vita Biellese” lo celebrò con suggestiva levità “La riconquista ovvero la sera del villag- gio”, una poesia di Giulia Poma, che scandiva: Non più le sirene allarmanti/ ma giuo- chi, urla/ di bimbi, mentre serpeggia/ sorniona, ma senza burla,/ la Pace. Perché non fosse una parola vana, o, peggio, il passepartout di nuovi imperialismi, di nuove ditta- ture, Pella la compose nel trinomio libertà-sicurezza-pace. Giuseppe Pella, fin dalla cam- pagna elettorale per la Costituente, puntò sull’alleanza organica del mondo libero, sul patto di ferro dell’Occidente tra piccole e grandi, vecchie e nuove, democrazie, che poi sarebbe diventato il Patto atlantico, la Nato. In quel clima venne messa a punto la lista dei ventotto candidati della Dc per la Co- stituente. I biellesi erano Giuseppe Pella, commercialista, e Lidia Lanza, “lavoratrice dell’abbigliamento”. Lidia Lanza era una delle tre donne democristiane della circoscrizio- ne Torino-Novara-Vercelli, con le torinesi Anna Rosa Gallesio, giornalista, e Maria Guerra, operaia.

49 Monarchia o repubblica? Verso l’Assemblea costituente

Il traguardo del 2 giugno riguardava non solo le elezioni dell’Assemblea costituente, ma anche il referendum monarchia-repubblica. Sul referendum i democratico-cristiani erano all’80 per cento a favore della repub- blica, ma si trattava pur sempre di una scelta di partito, sicché lo scudo crociato - che puntava a un forte rassemblement democratico - si trovava nei rapporti con l’elettorato moderato in più d’una difficoltà; perciò, anche nel Biellese, per quanto spirasse “aria repubblicana”, la Dc non volle spingersi con la propaganda più di tanto in quella direzio- ne, sicché, dando per acquisita la scelta repubblicana, lasciò anche un po’ di spazio alla tendenza monarchica, interpretata in Piemonte da Silvio Geuna (Chieri, Torino, 1909 - Torino, 1998), un vivace giornalista torinese - già comandante partigiano, scampato per il rotto della cuffia alla fucilazione nazifascista del Martinetto, condannato all’erga- stolo - che percorse il Biellese in lungo e in largo e riuscì, anche come portatore del verbo monarchico, a farsi eleggere alla Costituente. La campagna elettorale per la Costituente si rivelò per Giuseppe Pella tutt’altro che facile, così seminata com’era di mine propagandistiche. Da destra, “Eco dell’Industria”, portavoce dei liberali, gli rimproverava di aver portato i socialcomunisti a Palazzo Oro- pa con l’avallo del biancofiore, mentre dall’altra i comunisti risfoderavano la questione dell’ex vicepodestà di Biella. Quanto alla collaborazione di Palazzo Oropa, la Dc pun- tualizzava che la partecipazione alla giunta Luisetti rispondeva al proposito di servire la città e, nello stesso tempo, alla volontà di controllare e ridurre lo strapotere delle sini- stre nell’amministrazione locale. Infatti, l’articolo che spiegava questa posizione in “Vita Biellese” del 14 maggio 1946, concludeva: «Se la nostra collaborazione contribuirà molto a svestire l’amministrazione locale del colore politico, e se ci riuscisse in pieno a van- taggio di Biella, sarebbe quella davvero la vittoria democristiana». Quanto agli attacchi personali al Pella ex vicepodestà, la Dc rispose con un manife- sto che accennava a particolari aspetti amministrativi della clandestinità, periodo in cui Pella aveva prestato una certa collaborazione con il Cln nella raccolta di finanziamenti. Egli fu accusato di essere il promotore del manifesto, ma non era così. Con il solito bon ton, buttando acqua sul fuoco, Pella prese posizione il 30 maggio 1946 dalla tribu- na del Teatro Sociale, dichiarando: «Fra le opposte tesi, di chi troppo mi vorrebbe attri- buire e di chi tutto mi vorrebbe negare, desidero precisare quale fu il modesto contri- buto a favore dei bisogni delle formazioni partigiane nel Biellese e altrove: 1) volentieri diedi la mia consulenza per l’elaborazione del piano organico di richiesta di aiuti finan- ziari, resasi necessaria per porre termine alle iniziative individuali; 2) nei privati e con- fidenziali contatti con numerose ditte ho svolto opportuna opera di persuasione perché le richieste trovassero accoglienza: questa forma di collaborazione, ignorata dai più, perché ravvolta nel riserbo d’ufficio, ha raggiunto un elevato grado di efficacia; 3) non mi son fatto tramite di alcun versamento, salvo la rimessa della somma d’un amico che non poteva provvedere direttamente. Non potrei accettare altre versioni che ampliasse- ro la portata del mio intervento o tendessero ad annullarla»14. Pella riconfermò con una

14 “Vita Biellese”, 31 maggio 1946.

50 lettera al Cln provinciale biellese di essere stato tenuto all’oscuro del bellicoso manife- sto degli amici di partito. A sua volta, il Cln - a firma dei partiti socialista, comunista, liberale, democristiano, azionista - gli indirizzava il 31 maggio un comunicato in cui si dichiarava: «Questo Cln è lieto di prendere atto della cortese Sua lettera in data odierna, e del contenuto di essa che corrisponde ad obbiettiva valutazione. Esprime l’unanime convinzione dell’essere stato Lei completamente estraneo sia al tenore che alla diffu- sione del manifesto in questione». La campagna elettorale venne ancora movimentata dall’anticlericalismo, soprattut- to di marca azionista e socialista. Gli ultimi mortaretti nei «luoghi forti dei bianchi» cul- minarono nella gazzarra di Lessona, attizzata dal professore socialista Giulio Carletto in contraddittorio con il democristiano ingegner Ferraris. Ma un altro clamoroso contrad- dittorio già si era tenuto a Biella tra la trentenna sartina Lidia Lanza e Umberto Calosso, direttore del quotidiano socialista torinese “Sempre avanti!”. Stando ai giornali, Lidia Lanza aveva avuto la meglio, e in modo brillante, nel dibattito. E il 2 giugno nel Biellese fu “repubblica” al 67 per cento dei voti. Alla Costituente i socialisti raccolsero nel Biellese il 31 per cento dei voti, i democristiani il 29,8, i comunisti il 25,2, i liberali il 7, l’Uomo qualunque il 3,7 per cento. Gli altri si divisero il restante 3,3 per cento. Nella gara, Giuseppe Pella andò ben oltre la capacità elettorale del Biel- lese, conquistando il quinto posto nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli con 25.632 voti preferenziali. Con Pella, vennero eletti il comunista Francesco Moranino ed i so- cialisti Ernesto Carpano e Virgilio Luisetti. Un risultato di rappresentanza biellese ripe- tuto soltanto nel 1948. Tra i quattro, Giuseppe Pella sarebbe stato il secondo presidente del Consiglio biellese (dopo l’ottocentesco Alfonso La Marmora) e il ministro di più lunga carriera della storia biellese dal 1848 ad oggi.

A Roma: dalla Costituente al governo

Pochi giorni dopo il 2 giugno 1946, Giuseppe Pella raggiunse Roma. Erano ancora giorni di tensione, per il passaggio all’istituzione repubblicana che segnava qualche dif- ficoltà nei rapporti tra il presidente provvisorio, Alcide De Gasperi, ed il “re di maggio”, Umberto II di Savoia. Gli italiani intanto dimostravano entusiasmo per il tempo nuovo, che si annunciava ricco di speranze. La solidarietà ciellenista ed antifascista era ben solida, tanto più che il Paese aveva riconquistato finalmente la piena sovranità. Qualche giorno ancora e la Costituente avrebbe eletto il capo provvisorio dello Stato: Enrico De Nicola, uomo dell’ancien régime e d’ispirazione monarchica, giurista di fama e al di sopra delle parti. Nella capitale Pella prese alloggio in una modesta pensione e si dedicò subito all’at- tività parlamentare con gli amici di partito, soprattutto con coloro che aveva conosciu- to nel Partito popolare a Torino negli anni venti: Attilio Piccioni, fiorentino, vicesegre- tario nazionale della Dc; Giuseppe Cappi, cremonese, che succederà a De Gasperi come segretario del partito; Giuseppe Rapelli, torinese, leader della corrente sindacale cristia- na; Pier Carlo Restagno, parlamentare e poi sindaco di Pompei; Giovanni Bovetti, de- putato di Ivrea. Alle prime battute parlamentari, Giuseppe Pella si distinse per il ragionar pacato e documentato nelle materie economiche. I tempi erano duri: l’inflazione galoppante bru- ciava le poche conquiste salariali, distruggeva il risparmio, comprimeva il reddito fisso.

51 A ogni problema Pella propose una soluzione precisa, coerente con il disegno di aziona- re in modo adeguato la leva fiscale, di governare il sistema monetario, di ridurre il de- ficit del bilancio statale, secondo una politica economica inquadrata nel bilancio dello Stato. La visione di Giuseppe Pella non era meramente teorica, ma neppure limitata- mente pragmatica; si trattava dell’applicazione pratica di una cultura dell’economia in- ternazionale e nazionale che egli aveva maturato nella ventennale esperienza di esperto delle conferenze internazionali laniere e di consulente del sistema industriale e commercia- le biellese, oltre che nel mai interrotto studio delle dottrine e delle scienze economiche. Ebbene, per l’elevata professionalità applicata ai problemi generali del momento, Pella fu nominato segretario della Commissione finanze e tesoro della Costituente, in cui fece maturare le sue idee per il risanamento economico, che aveva esposto - suscitando il sorpreso interesse di molti - il 19 settembre 1946, con il suo primo intervento in aula a nome del gruppo democristiano. In tale circostanza, si era dichiarato favorevole all’ap- plicazione di un’imposta patrimoniale straordinaria e di prelievi fiscali sui profitti di guer- ra, ed aveva enunciato i capisaldi della politica economica della ricostruzione. Dopo alcune settimane, De Gasperi designò Giuseppe Pella sottosegretario alle Fi- nanze, il Ministero retto dal comunista Mauro Scoccimarro. Successivamente, Pella fu sottosegretario al Tesoro con Luigi Einaudi, e poi ministro delle Finanze dal giugno 1947 al maggio 1948, nel governo presieduto da De Gasperi, col sostegno di Dc, Pli, Uomo qualunque e di alcuni monarchici. In questi passaggi ministeriali Pella non forzò mai la mano; egli era presente con la sua competenza, pronto ad assumere gli incarichi nei momenti difficili. È il caso appunto della nomina a vice di Scoccimarro quando, il 20 ottobre 1946, Salvatore Scoca, promosso avvocato generale dello Stato, passò la mano; e Pella, tre giorni dopo (il tempo di abbandonare tutti gli incarichi che ricopriva come amministratore e consulente di circa novanta aziende) gli subentrò e organizzò con efficienza biellese il Ministero. Stessa situazione nel giugno 1947, alla nomina a mini- stro delle Finanze: Pella lo divenne in seconda battuta nei tempi di formazione del go- verno, quando si ristrutturarono i ministeri economici all’indomani del superministro Einaudi, e De Gasperi volle per l’incarico un uomo dal polso fermo ma dai modi e dalle strategie aperte al dialogo; e quell’uomo era Giuseppe Pella. Cinque anni dopo, ne “L’Eco di Biella” dell’agosto 1953, in occasione dell’investi- tura di Pella a presidente del Consiglio, Germano Caselli avrebbe commentato: «Pella è nuovo [...] il suo linguaggio ha superato di colpo 70 anni di retorica parlamentare per rifarsi alla tradizione dei padri [...] del Parlamento subalpino». Impegnato nell’attività di governo, Pella non poté svolgere un ruolo di primo piano all’Assemblea costituente, ove i suoi oltre duecento interventi furono dettati dall’attività di governo, per esporne i provvedimenti e per rispondere ad interrogazioni ed interpel- lanze. Il parlamentare biellese tuttavia si adoprò presso i membri della seconda sottocom- missione dei settantacinque, allo scopo di introdurre nel testo costituzionale il principio secondo cui - cfr. art. 81 della Costituzione - «(Comma 3) Con la legge di approvazio- ne del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. (Comma 4) Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Negli anni dell’emergenza, quando l’economia di guerra continuava a proiettare l’om- bra gelida e lunga delle devastazioni, della disoccupazione, dell’inflazione, della svalutazio- ne, del disordine pubblico, della minaccia rivoluzionaria, dei sospetti per eventuali “proto- colli coperti” delle intese di Yalta tra le grandi potenze, Giuseppe Pella sviluppò con Luigi

52 Einaudi il disegno che avrebbe portato al “miracolo economico italiano”. Il suo nome sarebbe rimasto legato alla “frontiera” della ricostruzione e del perseguimento della stabi- lità monetaria. La strada non fu facile, percorsa anche tra continui conflitti sociali: basta ricordare lo slogan lanciato dopo l’uccisione di scioperanti avvenuta a Modena in una manifestazione di piazza, che scandiva «Pella li fa (i disoccupati), e Scelba li ammazza».

Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri

Attuata la ricostruzione e all’indomani della sconfitta elettorale del 1953, che mise in crisi il centrismo quadripartito, Giuseppe Pella divenne presidente del Consiglio di un governo monocolore democristiano; un governo di emergenza, anche definito governo tecnico. Quel governo ottenne, non concordata e senza condizioni, l’astensione dei mo- narchici, forti dei voti strappati alla Dc alle elezioni del giugno 1953. Il “governo tecni- co” dovette però affrontare subito il nodo politico della cosiddetta crisi di Trieste, per bloccare le pretese di espansione territoriale del presidente jugoslavo Josip Broz Tito. Con fermezza, Pella costrinse gli alleati occidentali (Usa, Francia, Gran Bretagna) ad onorare le intese del 1948 per la restituzione del Territorio libero di Trieste all’Italia. In dicembre, per una controversia nella sostituzione del ministro dell’Agricoltura nel cor- so della quale egli sostenne il principio dell’autonomia del presidente del Consiglio nella scelta dei ministri, Pella passò la mano. Dopo un fallito tentativo di Fanfani, Mario Scelba compose un governo centrista, che avrebbe festeggiato, senza merito, il ritorno di Trieste all’Italia. Quello di seminare perché gli altri raccogliessero fu anche destino del Pella anticipatore e lavoratore: sa- rebbe stato così per l’Europa, allorché i Patti di Roma, che avrebbero avviato il Merca- to europeo comune, sarebbero stati sottoscritti dal liberale Gaetano Martino, ministro da pochi mesi; sarebbe stato così quando la lira avrebbe ottenuto l’Oscar delle monete per la stabilità del suo potere di acquisto e di scambio e sarebbe esploso il miracolo economico che avrebbe portato al centrosinistra; sarebbe stato ancora così per le ri- forme fiscali dei primi anni settanta, da Pella avviate nel suo ultimo incarico ministeriale alle Finanze nei primi due governi Andreotti. Degli anni cinquanta e di Pella ministro della ricostruzione sono da ricordare, oltre i notevoli risultati, la sua determinatezza non solo nella lotta contro l’inflazione, ma anche contro le ingerenze americane nella politica economica italiana: è nota agli specialisti la “questione del rapporto Hoffmann” con cui gli Usa volevano imporre i tempi e i modi dell’impiego dei loro aiuti (il Piano Marshall) in funzione del loro commercio estero pri- ma che della rinascita italiana. Un altro braccio di ferro ebbe a compierlo quando, scop- piata la guerra di Corea (1950-1953), si oppose decisamente all’aumento delle spese militari italiane che avrebbero squilibrato la sua impostazione di bilancio in una delicata fase della ricostruzione. Egualmente è giusto riconoscere a Pella la costante fedeltà ad una linea di anticomunismo dottrinario e politico da cui non demorderà nel corso della sua lunga attività politica, senza peraltro nulla concedere a fruste forme plateali e pro- pagandistiche. La sua era un’alternativa di libertà, prima ancora che economica, politi- ca, senza pregiudizi per il confronto civile che la stessa democrazia parlamentare pre- supponeva. Questa linea di autonomia dai condizionamenti si ritrova ancora nella politica estera di cui fu protagonista, oltre che nei mesi del suo breve governo, anche quale ministro

53 degli Esteri nei governi Zoli (1957-1958) e Segni II (1959-1960), una linea poi definita “neoatlantismo”, che rivendicava ai singoli paesi l’autonomia di elaborare proprie “po- litiche regionali” nell’ambito dell’alleanza occidentale. Su quel terreno possono consi- derarsi: a) i rapporti intessuti con la Turchia (1953) e con l’Iran (1957), ai quali l’Eni di Mattei riconobbe il 75 per cento dei proventi della vendita del greggio, sfidando le co- siddette sette sorelle, ossia le oligopolistiche società che allora dominavano il mercato mondiale; b) l’elaborazione del cosiddetto Piano per gli aiuti economici all’area medio- rientale; c) il viaggio in Russia nel febbraio del 1960 con il presidente Giovanni Gron- chi, nell’intento di avviare per parte italiana i primi passi della distensione. Ancora nel 1960-62, ministro del Bilancio con Amintore Fanfani, presidente di un governo centrista, Giuseppe Pella lasciò significative impronte di originalità: aprì il di- scorso sulle procedure di attuazione dei programmi economici, inaugurò le “consulta- zioni triangolari” (governo, sindacati, industriali), presentò un progetto di legge per di- sciplinare il finanziamento dei partiti. Poi, non condividendo la linea del centrosinistra, in quanto convinto della possibile prosecuzione del centrismo pur con talune innovazioni, Pella non accettò più incarichi di governo e si dedicò intensamente all’attività di partito, fondò e diresse il settimanale politico “Domani” e si impegnò a fondo nel rappresentare le istanze del Piemonte. A Torino, dopo aver presieduto le celebrazioni del primo centenario dell’Unità d’Ita- lia, fondò “Piemonte-Italia”, un organismo di studi di programmazione economico- territoriale, inteso a promuovere le iniziative subalpine presso i poteri centrali dello Sta- to; riunì periodicamente il “Gruppo dei parlamentari piemontesi”; seguì a Biella la crisi tessile, avviando studi e incontri, che sarebbero culminati nella “legge tessile” del 1970; promosse l’istituzione della Città degli Studi; e, ancora, a Roma presiedette la “Famija piemunteisa”.

Lo studioso della contabilità nazionale

Pella in quegli anni fu costantemente attivo sul piano culturale, dell’economia, della militanza cattolica. Professore di Contabilità nazionale nelle università di Palermo, Par- ma, Torino, Roma, contribuì allo sviluppo della disciplina come presidente dell’Iscona (Istituto per la Contabilità nazionale), che aveva fondato nella seconda metà degli anni cinquanta allo scopo di promuovere, stimolare, sviluppare studi e ricerche «intorno alla definizione e misurazione del reddito nazionale, inteso nei suoi tre fondamentali mo- menti della produzione, della distribuzione e impiego delle risorse»15. Pella resse la pre- sidenza dell’Iscona dalla fine del 1957 al 1981. A quel filone di studi aveva già ispirato l’attività di governo fin dal 1949, fino alla presentazione al parlamento il 30 gennaio 1951 della Relazione generale sulla situazione economica del Paese, nella qualità di mi- nistro economico. Infine, è degli anni settanta l’assunzione della presidenza dell’Ania (Associazione nazionale imprese assicuratrici) e di altri incarichi economici anche di portata internazionale.

15 GAETANO ESPOSITO - LAURA ESPOSITO, Nascita e sviluppo della contabilità nazionale in Italia, in G. ESPOSITO (a cura di), Contabilità nazionale, finanza pubblica e attività di controllo, Roma, Iscona, 2007.

54 Nel 1968 Pella era passato dalla Camera dei deputati (ove rappresentava fin dal 1946 la circoscrizione Torino-Novara-Vercelli, sempre eletto al primo posto) al collegio se- natoriale di Mondovì, in successione a Giovanni Battista Bertone. Il suo trentennale im- pegno parlamentare si concluse nel 1976. in seguito a brevissima malattia, Giuseppe Pella morì a Roma il 31 maggio 1981. Dopo i solenni funerali celebrati nel Duomo di Biella, la sua salma fu tumulata a Valdengo nella cappella di famiglia.

Altre fonti bibliografiche: MARCO NEIRETTI, Giuseppe Pella, in FRANCESCO TRANIELLO - GIORGIO CAMPANINI (a cura di), Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, Genova, Mariet- ti, 1997. MARCO NEIRETTI, Giuseppe Pella. Dal Partito popolare all’Assemblea costituente, Biella, Sandro Maria Rosso, 1986. MARCO NEIRETTI (a cura di), Giuseppe Pella. Attualità del pensiero economico e politico, Atti del Convegno di studi nel centenario della nascita, Biella, Sandro Maria Rosso, 2004. Con relazioni di Francesco Traniello, Francesco Malgeri, Alberto Cova, Piero Barucci, Dio- mede Ivone. GABRIELLA FANELLO MARCUCCI, Giuseppe Pella, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006.

55

Ernesto Carpano Maglioli e Virgilio Luisetti

Gustavo Buratti

Ernesto Carpano Maglioli nacque a Biella il 16 febbraio 1887 da Antonio e Giacinta Borello. Il padre era originario della frazione Carpano di Bioglio ed era titolare di una celebre drogheria situata in via Umberto (ora via Italia); insegna tuttora esistente, an- che se trasferita e non più da tempo di proprietà della famiglia Carpano. Iscrittosi a Giurisprudenza a Roma, si laureò colà e iniziò l’attività forense in uno studio di Torino specializzato in diritto civile; presto tuttavia si dedicò al diritto penale, più consono alla sua sensibilità e al suo temperamento. Nel 1920 si iscrisse al Psi. Nel 1922 aderì alla corrente socialista moderata guidata da Turati e uscì con essa dal parti- to rimasto ai massimalisti, facendo parte del nuovo Partito socialista unitario, insieme ad altri socialisti biellesi, tra i quali i deputati Rinaldo Rigola e Umberto Savio, Virgilio Luisetti, già direttore del “Corriere Biellese”, organo della locale federazione, Remo Lanza e Federico Grosso, con i quali fonderà il nuovo settimanale del Psu “Il Biellese socialista”, che durò otto mesi. In quel periodo le organizzazioni socialiste biellesi erano sconvolte dalle violenze e private delle sedi; la Casa del popolo venne illegalmente occupata dai fascisti e purtroppo non ritornò più alle organizzazioni politiche progressiste, neppure dopo la caduta del fascismo: in quei locali in via Mazzini si insediò invece l’omonima sala cinematografica. Dal novembre 1922 la sezione di Biella del Psu fu ospitata nello studio legale Carpa- no-Savio. Chiuso “Il Biellese socialista”, il 4 dicembre 1924 i socialisti unitari biellesi non si arresero, ed uscirono con un nuovo settimanale, “Il lavoro”, diretto da Rigola. Il periodico ebbe vita stentata tra censure e sequestri ordinati dalla sottoprefettura; i re- dattori rispondevano con edizioni emendate, riportando citazioni celebri, esaltanti la li- bertà, di Mazzini, De Amicis e di altri, tutti intoccabili anche per il regime, che andava imponendosi soffocando ogni dibattito e la libera stampa. Il giornale fascista locale, “Il Popolo Biellese”, cercò di infangare i leader socialisti chiamandoli «succhiatori del proletariato» e squadracce nere danneggiarono lo studio legale Carpano-Savio. Nell’ottobre 1925 il giornale uscì con un fondo critico in occa- sione del primo anniversario della marcia su Roma. Quella voce libera non era ormai più tollerabile e “Il lavoro” fu definitivamente soppresso. In quegli anni Carpano presiede- va l’amministrazione dell’Ospedale di Biella e, come supplemento de “Il lavoro”, pub- blicava un foglio, “L’Ospedale”, che pure cessò le pubblicazioni quando fu costretto a lasciare la presidenza del nosocomio. Nel 1924 si coniugò con Dina Antonelli, da cui non ebbe discendenza. Virgilio Luisetti era di due anni più giovane di Carpano, essendo nato il 2 dicembre 1889 a Campiglia Cervo, dove il padre era vetturale, cioè conducente di carrozza; era un valët1 di nascita, ma anche di elezione. Infatti fu per tutta la vita molto legato senti- mentalmente all’alta valle Cervo, dove si recava di frequente per incontrare amici e com- pagni e partecipare a riunioni politiche e conviviali.

1 Il termine dialettale valët sta ad indicare l’abitante dell’alta valle Cervo (ndr).

57 A differenza di Carpano, il giovane Virgilio ebbe una formazione cristiana, pur rima- nendo fieramente laico; nei suoi discorsi politici si sarebbero sempre riscontrati, in ef- fetti, accenti di fraternità evangelica. Giovanissimo, si dedicò alla politica: a 13 anni fu fermato dalla polizia a Borriana in quanto venditore non autorizzato del periodico con- tadino socialista “Il seme”, e fu per questo ammonito dalla procura. Attivo nei circoli giovanili socialisti, nel 1904 prese parte al Congresso circondariale socialista tenutosi a Cossato e nel giugno 1905 fu militante impegnato nella campagna elettorale manda- mentale e comunale; l’anno successivo divenne dirigente della Federazione giovanile socialista che aveva contribuito a fondare. Tipografo, a differenza di Carpano, fu auto- didatta, ma ciò non gli impedì di essere un prezioso collaboratore del “Corriere Bielle- se” e di aver successo nei pubblici comizi. Come Carpano, militò nella corrente di “destra”, moderata, all’interno del partito. Nel 1912, quando al Congresso nazionale di Reggio Emilia prevalse la corrente rivolu- zionaria di Mussolini, egli era un esponente della minoranza guidata da Rinaldo Rigola. Il nuovo direttore del “Corriere Biellese”, Riccardo Momigliano, lasciò una nota signi- ficativa riguardante il suo giovane collaboratore: «Difficilmente, nel lavoro non facile dei nostri giornali proletari, mi sono incontrato con un collaboratore dalla vena fluida e limpida quale era Luisetti. Tante volte lo osservavo quando, senza sentirsi disturbato dai rumori e dalle voci della tipografia, lasciava scorrere la penna sulle cartelle che si ammucchiavano sul tavolo, e non aveva mai quelle incertezze e quei pentimenti che colgono sempre coloro che scrivono, tanto più quelli che, come Luisetti, hanno fre- quentato per breve tempo le scuole e si sono formati da sé [...] Era sempre la volente- rosa riserva del lavoro di redazione. Quando all’ultimo momento mancava il materiale per il giornale, egli senza farsi pregare si metteva al tavolo e sviluppava note polemiche, spunti di cronaca, e faceva tutto di getto, talvolta addirittura improvvisando al compo- sitoio, senza prima aver dato forma sulla carta alle idee». Nelle elezioni politiche del 1913 Luisetti fu l’outsider che stupì tutti per il successo riportato. Nel mandamento di Cavaglià riuscì a battere, come candidato al consiglio provinciale, l’avvocato Barbisio, direttore de “Il Risveglio-L’Eco dell’Industria”, e fu così il più giovane consigliere. Nelle stesse elezioni riuscì pure eletto nella minoranza al consiglio comunale di Biella. Nel 1920 portò il Partito socialista alla vittoria nel Comune di Biella e a soli 31 anni fu eletto sindaco. Ma soltanto due anni dopo l’intero consiglio comunale fu costretto a dimettersi in seguito alle pressioni ed intimidazioni fasciste; e così pure il suo programma di riforme a favore delle classi meno abbienti, impostato soprattutto sulla costruzione di case popolari, ebbe soltanto una parziale attuazione. Come abbiamo già detto, nel 1922, in seguito all’espulsione della corrente moderata dal partito, Luisetti, come Carpano, seguì Turati nella costituzione del Partito socialista unitario. Poco prima della marcia su Roma, Luisetti fu direttore del nuovo “Il Biellese socialista”, che dovette chiudere dopo ventotto numeri. In seguito all’assassinio di Gia- como Matteotti, fu uno dei promotori del convegno clandestino tenutosi a Chiavazza. Come già detto, un nuovo periodico, “Il lavoro”, rimpiazzò il giornale soppresso; uscì sino al 1925, quando tutta la stampa libera dovette cessare. Durante il fascismo, Carpano e Luisetti si mantennero ben saldi nei loro ideali e parteciparono costantemente all’attività clandestina socialista, unitamente ad Alfonso Ogliaro, Innocente Porrone, Renato Martorelli ed altri. Fin dal 1927 Carpano aveva sta- bilito rapporti con la concentrazione antifascista di Parigi, partecipando anche a qual-

58 che riunione. Soltanto quattro avvocati (Umberto Luigi Ronco, Alessandro Jona, Ales- sandro Verdoia e, appunto, Carpano) non si iscrissero al Pnf. Anche Luisetti mantene- va frequenti contatti con il fuoruscitismo politico; grazie al suo lavoro di tipografo, faceva anche frequenti viaggi d’affari all’estero, mantenendo i collegamenti tra gli oppositori del Biellese, del Vercellese e del Torinese. Nel 1942 si costituì a Biella il Fronte nazionale della Libertà tra i vari partiti antifasci- sti; Carpano e Luisetti furono tra i vari promotori. Il 25 luglio 1943, con la caduta di Mussolini e la proclamata fine del regime fascista, Luisetti, ultimo primo cittadino libe- ramente eletto prima del fascismo, fu acclamato sindaco. Dopo l’8 settembre e la na- scita della Repubblica sociale italiana, strumento dei nazisti, Carpano divenne latitante e Luisetti, con il sorgere dei primi Cln, fu il rappresentante socialista in seno al locale comitato e l’animatore del lavoro di riorganizzazione del Partito socialista. Nel 1944 divenne segretario della Federazione regionale del Psi. Nella primavera di quell’anno riuscì a sfuggire all’arresto ordinato dai tedeschi in seguito alla rappresaglia per l’ucci- sione a Biella di un ufficiale delle Ss. Da allora si rifugiò in incognito a Torino, conti- nuando a dedicarsi alla riorganizzazione clandestina del partito. Condivise il rifugio to- rinese con Luigi Carmagnola, cambiò identità anagrafica e fu noto nella Resistenza con il nome di battaglia di “Felice”. Rischiò ancora di essere arrestato quando la polizia entrò nella sua tipografia a Torino, dove clandestinamente si stampava l’“Avanti!”, e se la cavò d’astuzia, ingannando il commissario che lo interrogava. Fin dal marzo 1944 ela- borò la prima circolare d’intesa tra socialisti e comunisti in vista dell’insurrezione ge- nerale prevista a Torino; del ristretto gruppo esecutivo socialista, con Luisetti c’erano Filippo Acciarini, Filippo Amedeo, Pier Luigi e Mario Passoni, Renato Martorelli, Al- fonso Ogliaro, Domenico Chiaramello, Luigi Chignoli, Luigi Carmagnola. Carpano, prima di darsi alla latitanza, nei quarantacinque giorni tra il 25 luglio e l’8 settembre, fu richiamato a presiedere l’amministrazione dell’Ospedale di Biella. Quan- do il Comando provinciale militare repubblicano di Vercelli rivolse a tutti gli ufficiali in congedo l’invito a prestare giuramento alla Rsi a pena di severe rappresaglie, Carpano, quale capitano in congedo, chiese indicazioni alla Federazione socialista che, in data 20 marzo 1944, a firma Virgilio Luisetti e Federico Grosso, quali membri del Comitato esecutivo, gli rispose di eseguire quella formalità per non abbandonare la località di residenza e la professione, in quanto utili ai compagni. Nella campagna elettorale del 1946 alcuni espulsi dal Psi tentarono di denigrare Carpano rinfacciandogli di aver giu- rato alla Rsi, ma il “Corriere Biellese” replicò indignato, pubblicando la documentazione che discolpava completamente l’esponente socialista. Dopo la Liberazione, quale riconoscimento dei suoi meriti, Carpano venne designa- to dal Cln regionale ad assumere la presidenza della Provincia di Vercelli, ma chiese di essere esonerato per dedicarsi interamente alla riorganizzazione del Psi. Nel 1945 ac- compagnò l’onorevole Dino Rondani, bandiera del socialismo biellese, tornato dall’esi- lio, per un giro di conferenze nella terra che l’aveva eletto deputato nel periodo prefa- scista; insieme a Virgilio Luisetti era stato uno dei suoi antichi allievi. Dopo il 25 aprile, anche Luisetti poté finalmente tornare alla sua famiglia; il Cln lo reinsediò alla carica di sindaco di Biella. Luisetti mantenne l’incarico di condirettore de l’“Avanti!” piemontese, con Umberto Grosso, ma tornò pure ad occuparsi del rinato suo vecchio giornale, il “Corriere Biellese”. Le elezioni amministrative del maggio 1946 lo riconfermarono con amplissimo suffragio nella carica di sindaco; Carpano fu eletto

59 consigliere comunale e si occupò in primo luogo della crisi delle abitazioni, battendosi affinché gli imprenditori provvedessero a fornirne di adeguate ai propri lavoratori.

La Costituente

Nel giugno 1946 Carpano e Luisetti furono candidati alla Costituente ed eletti, con- fortati da ampio suffragio: Luisetti con 27.509 voti preferenziali e Carpano, a ruota, con 27.207. Aveva destato scalpore la difesa, cui Carpano era stato designato d’ufficio, in alcu- ne cause all’Assise straordinaria a carico di ex fascisti; in particolare, ottenne l’assolu- zione dell’industriale Ernesto Porrino, imputato di collaborazionismo, anche grazie alla testimonianza a suo favore di partigiani. Questa sua attività professionale, autorizzata dal partito, gli procurò ancora una volta ingenerosi attacchi. Nei lavori della Costituente i due parlamentari biellesi svolsero compiti differenti: la competenza giuridica di Carpano lo vide particolarmente impegnato nella discussione degli articoli riguardanti il parlamento, il capo dello Stato, il governo e la magistratura; lamentava i poteri limitati che ai sensi del Rdl 16 marzo 1946 erano attribuiti all’Assem- blea, e si batté per limitare i poteri dell’esecutivo, rafforzando invece quelli del parla- mento, opponendosi ad ogni accenno di concessione a tesi presidenzialiste. Il 19 febbraio 1947 lasciò l’incarico di componente della giunta per le elezioni per assumere quello di sottosegretario all’Interno (nomina del 6 febbraio 1947). Luisetti invece fu meno impegnato di Carpano nella elaborazione del testo costitu- zionale, intervenendo soltanto su questioni amministrative più vicine alla sua esperienza in quel campo. Al ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti nel gennaio 1947, De Gasperi dimissionò la compagine ministeriale; Carpano fu nominato sottosegretario all’Interno, ma nel mag- gio successivo si aggravò la crisi governativa; del quarto governo De Gasperi, centri- sta, non fecero più parte né comunisti né socialisti e Carpano cessò la sua funzione di sottosegretario. Si era aggravata nel frattempo la crisi socialista del dopoguerra: un au- tentico dramma per Luisetti e Carpano, entrambi di tradizione moderata, nel solco del- l’eredità turatiana, eppur sensibili all’unità di azione con i comunisti, forgiata durante gli anni della clandestinità antifascista e della Resistenza. Nel XXIV Congresso (Firenze, aprile 1946) si delinearono le correnti interne; Lui- setti si schierò con la minoranza di “”, saragattiana. Al XXV Congresso (Roma, gennaio 1947) si scontrarono le tre correnti facenti capo a Nenni, “Iniziativa socialista” (Saragat) e “Sinistra”. Carpano non si risparmiò nel tentare di scongiurare le divisioni e nel difendere in buona fede l’unità d’azione con il Pci. “Iniziativa socialista” uscì dal partito fondando il Psli, ma Carpano e Luisetti rimasero nel vecchio Psiup. Luisetti fu promotore con Ignazio Silone della rivista “Europa socialista” e firmò, con Ivan Matteo Lombardo e Luigi Carmagnola, una lettera alla segreteria di Lelio Basso, frontista, per rivendicare l’autonomia dello Psiup, cosa che causò il suo deferimento ai probiviri e le dimissioni da tutte le cariche in seno al partito, compresa la direzione del “Corriere Biellese” e l’incarico di sindaco di Biella. Carpano e Luisetti furono comunque ancora candidati alle elezioni del 18 aprile 1948, e furono entrambi eletti: il primo alla Camera e il secondo al Senato. La campagna elet- torale fu funestata dalle violente contrapposizioni con i socialdemocratici e molto ama-

60 ra per Luisetti che, con il suo maestro di sempre, Rinaldo Rigola, ed altri compagni di corrente, come l’amico Luigi Carmagnola, si era dimesso, costituendo i gruppi di “Unità socialista”, poi confluiti nel Psli. La mancata vittoria del Fronte popolare accrebbe la crisi nel Psi dal quale si allonta- narono ad uno ad uno i compagni che avevano rappresentato la corrente turatiana di “Critica sociale”; Felice Grosso già nel 1947 e poi quelli che seguirono le antiche ban- diere del socialismo biellese, Rinaldo Rigola e l’anziano Dino Rondani. La corrispon- denza personale di Carpano (in particolare con l’amico e compagno Umberto Zaninet- ti) documenta il disorientamento della base e il suo impegno a chiarire, incoraggiare, esortare i compagni che mal sopportavano le scissioni, ma pure il patto d’unione con il Pci. Era inoltre affaticato e malato, tanto da non poter prendere parte ai lavori della Camera sino all’ottobre. Nel Congresso del Psi biellese del 24-25 aprile 1949, che precedette il XXVIII Con- gresso nazionale a Firenze, Luisetti fece la sua ultima battaglia autonomista nel partito, come esponente della corrente “Per il Socialismo”, contraria al mantenimento del patto d’azione con i comunisti. In Carpano prevalse invece la preoccupazione di salvare, nel disastro elettorale, l’unità dei lavoratori, e con Mombello guidò invece la corrente favo- revole al patto con il Pci. Luisetti risultò perdente. Nel novembre, anche Luisetti ritenne incomprensibile la sua permanenza nel vec- chio partito e aderì al Psu di Romita, unitamente ai biellesi Franco Novaretti, Ottavio Capra ed altri. Si chiudeva quindi dolorosamente un sodalizio, quello tra Carpano e Lui- setti, nato sin dai tempi della loro giovinezza e della strenua resistenza al fascismo. Carpano riprese il suo posto alla Camera per condurre ancora numerose battaglie: ripetute furono le polemiche contro il ministro dell’Interno Scelba e i suoi interventi sull’ordine pubblico. Il 9 marzo 1949 prese la parola sulla modifica della legge di Pub- blica sicurezza, contro gli emendamenti Scelba tendenti ad aumentare i poteri di con- trollo della polizia circa le attività dei partiti e delle organizzazioni; ottenne che il disegno di legge fosse rinviato alla commissione. Stigmatizzò l’operato del governo, che pone- va praticamente sullo stesso piano l’occupazione dei contadini senza pane dei latifondi e l’azione di difesa contro il neofascismo, protestando contro il divieto, in palese viola- zione della Costituzione, di tenere comizi e cortei. Nella seduta della Camera del 20 giugno 1951 Carpano fu relatore di minoranza nella discussione in aula sul disegno di legge sulla difesa civile, che definì «difesa incivile», in quanto «costituiva una lesione delle libertà singole e collettive, e consentiva qualsiasi arbitrio attraverso la discrezionalità del potere esecutivo». Fu strenuo arbitro difensore del proporzionalismo e fu quindi contrario al Dl del 7 gennaio 1946 che introduceva il sistema di apparentamento e il premio di maggioranza, con la conseguenza di falsare le rappresentanze elette, rendendole artificiose, in spregio alla volontà degli elettori. Il decreto non venne approvato. Nel 1952 si fece tesa la polemica sulla nuova legge elettorale proposta dalla maggio- ranza centrista per le elezioni politiche. Carpano fu in prima linea nella violenta campa- gna contro la “legge truffa”; il gruppo socialista gli affidò la presentazione dell’ordine del giorno nel dibattito svoltosi il 20 dicembre 1952, in cui concluse l’intervento affer- mando: «Noi vogliamo un’onesta consultazione elettorale; uomini liberi, vogliamo libe- re elezioni». Il 18 gennaio 1953, nella dichiarazione di voto contro la “legge rubaseggi”, dava sfogo alla polemica che accomunava tutta la sinistra: «Con questa legge si ingan-

61 na la democrazia e si risolve una vera truffa, fate un gioco sleale con il quale sperate di continuare a spadroneggiare il Paese». Luisetti affaticato e malato, da laico coerente qual era, convinto che la sfera religio- sa dovesse essere separata da quella pubblica, non volle presenziare a Biella alla ceri- monia in onore della Madonna d’Oropa. Fu questa l’occasione per il consiglio comu- nale di accettare le sue dimissioni da sindaco, in un primo tempo respinte. Alle elezioni amministrative del 1951 il Comune di Biella fu conquistato dai moderati: si insediava così una giunta democristiana-liberale; Luisetti fu rieletto ma prese posto nei banchi della minoranza. Da anni sofferente per una grave malattia cardiaca, costretto a lunghi periodi di inattività anche nei lavori parlamentari, morì a Biella il 30 gennaio 1952. Alla Camera, l’onorevole Carpano tenne una commossa commemorazione dell’antico com- pagno, ormai schierato diversamente. Alle elezioni del 7 giugno 1953 Carpano fu candidato al Senato nel collegio di Biella: la sua fu soltanto una candidatura di bandiera, in un collegio difficile, e pertanto non venne rieletto. Ancora consigliere comunale di Biella, ridusse l’attività politica, ma con- tinuò assiduamente la collaborazione con il “Corriere Biellese” con la rubrica “Note da Roma”. Il suo ultimo intervento (9 giugno 1955) fu per sostenere la Provincia di Biella. Poco dopo morì (17 agosto 1955). Un suo antico avversario politico, l’avvocato Ca- millo Ronco, liberale, ne ricordava la straordinaria umanità, come quando, nel 1945, aveva preso la difesa di colleghi fascisti convocati alla Corte d’assise straordinaria, in nome del principio secondo cui «la società umana non si salva con sterili rancori, ma soltanto con l’equilibrio e la bontà», e ne aveva richiesto l’assoluzione, «perché non costituisce colpa il professare una dottrina diversa dalla nostra». Carpano e Luisetti furono accomunati nella lotta per la democrazia e per il riscatto delle classi popolari e, pure se alla fine il loro cammino li condusse a scelte diverse, vissero entrambi il dramma della crisi del socialismo: nell’uno, Carpano, prevalse la fe- deltà al vecchio partito e l’esigenza di salvarne l’unità, e la solidarietà con le forze so- ciali che avevano guidato la resistenza al fascismo; nell’altro, Luisetti, fu invece preva- lente la preoccupazione di affermare l’autonomia del socialismo, evitando ogni commi- stione con i comunisti rimasti nell’orbita sovietica. Entrambi rimangono pregnanti testimonianze del socialismo più genuino, avverso ad ogni tentazione presidenzialista od anche soltanto personalistica, contrario ad ogni iniziativa che costituisca lesione per i principi della democrazia radicale, della laicità dello Stato e che implichi lo stravolgimento della volontà degli elettori e contrario quindi a leggi elettorali che comportino il sacrificio delle minoranze e l’aumento del potere delle maggioranze. Una nobile eredità rimasta purtroppo giacente, che il rampante socialismo craxiano non seppe, purtroppo, onorare.

Per maggiori notizie biografiche e bibliografiche si rimanda alle voci Ernesto Carpano Ma- glioli (di Gustavo Buratti) e Virgilio Luisetti (di Caterina Simiand), in MARCO NEIRETTI (a cura di), All’alba della Repubblica Italiana, Biella, Fondazione cassa di Risparmio, 2006.

62 Vittorio Flecchia, Francesco Moranino, Pietro Secchia

Federico Caneparo

Può sembrare sorprendente, ma questo saggio più che riguardare la figura dei padri costituenti comunisti biellesi e il loro apporto ai lavori per la redazione della Carta costi- tuzionale, dovrebbe avere come oggetto l’analisi del perché queste tre figure non svol- sero alcuna attività di rilievo nel periodo costituente. Anzi, con l’esclusione dell’attività, peraltro marginale, svolta da Vittorio Flecchia, nessuno degli altri due dirigenti comuni- sti prese mai la parola nel periodo dell’Assemblea costituente. A confermare questo com- portamento sono gli stessi atti dell’Assemblea. L’attenzione dovrebbe dunque spostarsi attorno all’analisi dei motivi che portarono ad una presenza così limitata di questi dirigenti nei lavori della Costituente. Quale giu- dizio circa la Costituente? Quale valore affidato alla Carta? Anche in questo caso la ri- costruzione si presenta difficile: è dunque sicuramente utile spostare il campo di inda- gine dall’analisi dell’attività svolta all’interno dell’Assemblea a quanto detto e scritto da questi dirigenti nel loro quotidiano lavoro politico e sindacale. Tuttavia, almeno per ciò che riguarda Moranino e Flecchia, le fonti a disposizione sono assai scarse, per non dire praticamente inesistenti. Difficile da ricostruire, ma fattibile almeno in parte, è la riflessione svolta da Secchia nel corso degli anni attorno al problema della Costituzione e della sua realizzazione: se l’archivio personale, conservato alla Fondazione Giangia- como Feltrinelli, non è attualmente ancora aperto alla consultazione pubblica, sono sta- ti però pubblicati alcuni documenti d’archivio utili alla ricostruzione del suo pensiero1. Allo stesso modo e, in maniera egualmente utile, lo stesso Secchia, nel corso degli anni, in particolare successivamente alla sua estromissione da ruoli dirigenziali di carattere nazionale (1953-1956), ha pubblicato in più opere ampia parte dei suoi discorsi parla- mentari e degli interventi svolti nel corso della sua attività politica2. Di qui nasce la necessità di abbandonare alcuni degli obiettivi iniziali per soffermar- si, in particolare per ciò che riguarda Moranino e Flecchia, sulla ricostruzione del loro percorso biografico; per quanto riguarda Pietro Secchia, al di là della biografia politica, sarà invece possibile evidenziare le linee fondamentali del giudizio da lui maturato nel corso del tempo riguardo al tema della Costituzione e della sua applicazione. Prima di passare a riassumere brevemente la vita dei tre dirigenti comunisti biellesi è però utile istituire un confronto tra le loro figure; ciò contribuirà alla comprensione delle ragioni della loro elezione e chiarirà, almeno parzialmente, come mai diedero un apporto così marginale ai lavori dell’Assemblea. Flecchia, Secchia e Moranino appartenevano, sostanzialmente, a due differenti ge- nerazioni di militanti. I prime due, nati rispettivamente nel 1890 e nel 1903, erano rivo-

1 ENZO COLLOTTI (a cura di), Archivio Pietro Secchia. 1945-1973, Milano, Feltrinelli, 1979. 2 PIETRO SECCHIA, Le armi del fascismo (1921-1971), Milano, Feltrinelli, 1971; ID, La Re- sistenza accusa (1945-1973), Milano, Mazzotta, 1973; ID, Lotta antifascista e giovani ge- nerazioni, Milano, La Pietra, 1973.

63 luzionari di professione: entrambi parteciparono attivamente ai più importanti avveni- menti che scandirono la storia del Pcd’I nei suoi primi vent’anni di vita3: l’attività anti- fascista precedente la marcia su Roma; la lotta clandestina; l’emigrazione e la reclusio- ne e, all’indomani della caduta del fascismo, l’organizzazione della resistenza armata. Moranino, invece, classe 1920, apparteneva alla generazione dei militanti che aderirono al movimento comunista negli anni della guerra. La sua formazione antifascista avven- ne, sostanzialmente, sul campo di battaglia, nello scontro armato con le forze nazifa- sciste e nell’organizzazione delle bande partigiane. Nessuno di loro aveva una preparazione giuridica e teorico-politica tale da poter par- tecipare attivamente ai lavori dell’Assemblea costituente: Secchia e Flecchia si forma- rono alla scuola politica della Terza Internazionale; probabilmente, come riferisce Roa- sio, altro dirigente comunista di origine biellese, Flecchia stesso frequentò la scuola quadri di Leningrado. La formazione culturale di Moranino fu invece essenzialmente da auto- didatta; nondimeno, ben presto le si affiancò quella acquisita come comandante parti- giano prima e commissario politico poi nelle zone del Biellese orientale. All’indomani del conflitto, i tre dirigenti biellesi assursero a figure “eroiche” del movimento comunista nazionale: “Valbruna”, il nome di battaglia di Flecchia, rappre- sentava la generazione fondatrice del partito, quella che era stata in prima linea contro il fascismo nel corso degli anni venti, che aveva collaborato fianco a fianco con Gram- sci nella costruzione del Partito comunista dopo la parentesi bordighiana; Moranino “Gemisto”, invece, fin dall’inizio delle operazioni partigiane manifestò le sue qualità po- litico-organizzative: riuscì a costruire un movimento antifascista capace di coniugare alla lotta armata le rivendicazioni operaie. Il risultato fu che attorno a lui si creò un pro- fondo sentimento di ammirazione popolare. Secchia, infine, riassumeva su di sé le ca- ratteristiche degli altri due: fondatore del Partito comunista, dirigente di primo piano nel periodo della clandestinità, prigioniero del nemico nel corso degli anni trenta e organiz- zatore della lotta clandestina nel corso degli anni quaranta. Probabilmente fu proprio il prestigio conquistato presso le masse operaie nel corso della militanza politica, unito agli incarichi affidati loro all’indomani dell’insurrezione, a contribuire alla loro inclusione nelle liste per l’elezione all’Assemblea costituente. In particolare, Flecchia e Secchia incarnavano la politica coerentemente antifascista pro- mossa dal Pci fin dalla sua costituzione e rappresentavano la saldatura tra il partito bolscevico e clandestino e il “partito nuovo” attivo nella nascente Italia repubblicana. Ma veniamo ad illustrare brevemente la biografia politica dei tre padri costituenti biellesi, cominciando da Vittorio Flecchia4.

3 PAOLO SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, Torino, Einaudi, 1967; ID, Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, Tori- no, Einaudi, 1969; ID, Storia del Partito comunista italiano. I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970; ID, Storia del Partito comunista italiano. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Torino, Einaudi, 1973; ID, Storia del Partito comu- nista italiano. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Torino, Einaudi, 1975. 4 Cfr. lemma Flecchia Vittorio, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Mi- lano, La Pietra, vol. II, 1971, p. 369; Flecchia Vittorio, in FRANCO ANDREUCCI - TOMMASO DETTI (a cura di), Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico. 1853-1943, Roma, Edito- ri Riuniti, vol. II, 1976, pp. 366-367; FRANCESCO RIGAZIO, Vittorio Flecchia, in CATERINA SI- MIAND (a cura di), I deputati piemontesi alla Costituente, Milano, Angeli, 1999, pp. 167-173.

64 Vittorio Flecchia

Nel 1908, quando aveva già 18 anni e si era trasferito da qualche anno a Torino per lavorare come operaio decoratore, una nota della Regia Questura raccomandava alla polizia di tenere d’occhio Vittorio Flecchia in quanto «professava apertamente idee so- cialiste rivoluzionarie antimilitariste e frequentava la compagnia degli anarchici». Questa sarebbe stata solamente la prima delle molte attenzioni che lo stato liberale e, successivamente, quello fascista avrebbero riservato a Flecchia nel corso della sua mi- litanza politica. Una militanza che lo avrebbe visto protagonista di tutta la vicenda poli- tica del movimento operaio italiano e internazionale della prima metà del secolo scorso. Vittorio Flecchia nacque a Magnano il 18 aprile del 1890. Come la maggior parte dei compaesani, ed in generale come la maggior parte delle famiglie popolari biellesi della fine del XIX secolo, il padre alternava il lavoro nei campi con l’emigrazione stagionale per integrare i redditi provenienti dal lavoro agricolo. Così, all’età di 12 anni, nel 1902, Flecchia si trasferì a Torino, dove apprese la professione di operaio decoratore. Questa qualifica lo avrebbe accompagnato per tutto il periodo della sua militanza politica, sottolineando la sua volontà di presentarsi pubblicamente come “figlio della classe ope- raia”; sarebbe apparso così finanche nelle brevi biografie elettorali redatte per i candi- dati all’Assemblea costituente. È proprio in quel periodo, probabilmente, che avvenne la sua socializzazione politi- ca. Inizialmente aderì al Gruppo socialista rivoluzionario, che si riuniva attorno alla pub- blicazione della rivista “Guerra sociale”. Solo l’anno successivo aderì all’organizzazio- ne giovanile del Partito socialista italiano, per la quale avrebbe poi svolto un’intensa attività di propaganda antimilitarista. Dopo la parentesi del servizio militare, Flecchia emigrò in Svizzera in cerca di lavoro. Qui continuò la sua attività politica assumendo anche inca- richi sindacali. Ben presto catturò l’attenzione delle autorità svizzere che, nel marzo del 1919, lo arrestarono ed espulsero dalla Confederazione. Tornò in Italia nella fase culminante di quello che è ricordato dagli storici come il “biennio rosso”. In un paese attraversato da profonde e drammatiche tensioni econo- miche e sociali, Flecchia si mise immediatamente al lavoro: aderì alla Federazione na- zionale operai edili e venne inviato a Vicenza per costituire la locale federazione. Le doti di organizzatore che avrebbe dimostrato nel lavoro di ricostruzione del sindacato sa- rebbero state uno degli elementi caratterizzanti la sua futura militanza politica. Succes- sivamente diventò segretario cittadino e provinciale della Camera del lavoro di Vicenza. Quello fu il periodo in cui, anche in ambito politico, maturarono alcune scelte fonda- mentali: dopo aver abbandonato definitivamente la prospettiva anarchica ed essere en- trato a far parte a pieno titolo del Partito socialista, nel 1921, con la scissione di Livor- no, aderì al nascente Partito comunista d’Italia: da quel momento in poi diventò un “ri- voluzionario di professione” a tutti gli effetti. Un anno più tardi, nel 1922, in occasione del Congresso di Roma, fu eletto nel Co- mitato centrale del partito. Dopo la crisi del 1923-1924 e l’abbandono della posizione bordighista, Flecchia aderì al nuovo gruppo dirigente che si andava costituendo attor- no a Gramsci e Togliatti. La sua militanza assunse una dimensione internazionale quan- do, nel febbraio del 1925, venne inviato a Mosca come relatore sulla situazione orga- nizzativa del partito nell’ambito dei lavori dell’Internazionale comunista. In quella stessa veste Flecchia partecipò al III Congresso del Pcd’I, nel gennaio del

65 19265. Ritornato a Mosca, prese parte a uno degli ultimi contrasti pubblici che avven- nero all’interno dell’Internazionale comunista e che vide coinvolto Amadeo Bordiga, fondatore del Pcd’I e suo dirigente principale fino al 1922, e Stalin. Bordiga pronunciò una appassionata denuncia della subordinazione dell’Internazionale nei confronti del- l’Urss ed espresse forti perplessità sulla sorte dell’Unione Sovietica in assenza dell’av- vento della rivoluzione socialista in Europa, suscitando la risposta indispettita di Stalin («Questa domanda non mi è mai stata rivolta. Non avrei mai creduto che un comunista potesse rivolgermela. Dio vi perdoni di averlo fatto»)6. La stretta autoritaria fascista era imminente e Flecchia fu richiamato in Italia per ricoprire l’incarico di segretario interregionale per il Veneto e per consolidare la struttu- ra clandestina del partito ormai quasi completamente votato all’attività illegale. Nono- stante le precauzioni del lavoro cospirativo, il dirigente biellese fu arrestato a Milano nel gennaio del 1926, poche settimane dopo l’instaurazione della dittatura e la cattura di tutti gli altri componenti il gruppo dirigente del Partito comunista d’Italia. La sorte che lo attendeva era simile a quella dei suoi compagni: nel 1928 venne condannato dal Tri- bunale speciale per la difesa dello Stato a più di quindici anni di reclusione, che scontò nelle carceri di Sassari, Lecce e Civitavecchia. Nel carcere laziale, luogo di concentra- zione di numerosi detenuti antifascisti, partecipò attivamente a quella che venne ricor- data come “l’università del carcere”, esperienza che per molti giovani militanti rappre- sentò il primo momento di studio e riflessione dopo l’impegno politico profuso negli anni dell’avvento del fascismo. Flecchia ritornò in libertà nel 1934. Tornato al paese natale, nell’ottobre dello stesso anno riuscì ad espatriare e raggiunse Mosca, dove assunse il ruolo di rappresentante italiano all’Internazionale dei sindacati russi. Dopo aver vissuto in Unione Sovietica nel periodo dei processi staliniani, nel 1936 si trasferì a Marsiglia ed entrò a far parte della segreteria della Confederazione generale del lavoro. Contemporaneamente, in qualità di responsabile dei collegamenti con il Partito comunista in Italia, curò il reclutamento di militanti per il lavoro clandestino nel paese e di volontari da inviare in Spagna per com- battere nelle brigate internazionali a fianco della Repubblica. La sua assidua attività po- litica attirò l’attenzione delle autorità francesi che, all’indomani dello scoppio della guerra, nel 1940, lo incarcerarono nel campo di Vernet, dove confluirono numerosi militanti comunisti e i reduci della guerra civile spagnola. Consegnato alle autorità italiane nel novembre del 1940, venne inviato al confino nella colonia penale delle Tremiti, dove rimase fino alla caduta del regime fascista, il 25 luglio 1943. Flecchia aveva ormai più di cinquant’anni, molti dei quali trascorsi all’estero, al con- fino e in carcere. Nonostante ciò, appena liberato si rigettò a capofitto nell’attività po- litica, riprese i contatti con il centro del partito e partecipò attivamente all’organizzazione del movimento partigiano nel Biellese, nell’Ossola e nella Valsesia divenendone, nel novembre dello stesso anno, ispettore politico-militare; contemporaneamente promos- se la ricostituzione del Partito comunista nel Novarese, una della zone più “rosse” del- l’Italia del primo dopoguerra.

5 P. S PRIANO, Storia del Partito comunista italiano. Da Bordiga a Gramsci, cit., pp. 511-512. 6 DANIELE CHIARA (a cura di), Gramsci a Roma. Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Torino, Einaudi, 1999, pp. 168.

66 L’esperienza organizzativa di Flecchia, nel periodo della guerra partigiana, venne uti- lizzata in diversi contesti e ambiti. Dopo gli scioperi del marzo 1944 fu trasferito alla Federazione comunista di Torino e all’indomani dell’insurrezione entrò a far parte della segreteria della Camera del lavoro. Nondimeno la guerra di liberazione segnò uno spar- tiacque nella militanza politica di Flecchia: per i dirigenti che avevano aderito al movi- mento comunista fin dalla sua costituzione, l’impegno nella Resistenza rappresentava l’epilogo di un conflitto che non si era aperto nel 1943, bensì venti anni prima, all’indo- mani della marcia su Roma. Dopo la prova della clandestinità, dopo l’esperienza sovie- tica, avevano la possibilità di chiudere definitivamente i conti con il fascismo sconfig- gendolo militarmente. All’indomani della Liberazione e del ritorno alla democrazia, questi dirigenti acquisirono un vasto prestigio presso le masse popolari: rappresentavano il trait d’union tra il partito sorto sull’onda dell’Ottobre russo e della prospettiva immedia- tamente rivoluzionaria e il partito che, vittorioso dopo due anni di guerra civile (1943- 1945), si apprestava a contribuire in maniera determinante alla ricostruzione in senso democratico dello stato italiano; rappresentavano quella memoria storica vivente che garantiva la continuità tra i militanti della fondazione del partito e quelli che avevano aderito al movimento nel corso della lotta partigiana7. Probabilmente, proprio queste furono le motivazioni che spinsero i dirigenti delle locali federazioni, in accordo con la direzione nazionale, alla candidatura di Flecchia all’Assemblea costituente nel collegio elettorale di Torino-Novara-Vercelli, dove venne eletto con più di tredicimila preferenze. Uomo d’azione con notevoli competenze nel- l’ambito dell’organizzazione politica, Flecchia, come del resto buona parte dei deputati comunisti alla Costituente, non aveva la preparazione giuridica necessaria per incidere direttamente sui lavori dell’Assemblea dove, difatti, non ricoprì un ruolo specifico. Tut- tavia, grazie alla sua biografia politica, venne nominato senatore di diritto nel primo par- lamento repubblicano. In qualità di senatore svolse attività fino al 1958 quando, conclusa la sua esperienza parlamentare, tornò a Magnano, suo paese natio. Ormai la sua carriera politica nazio- nale poteva ritenersi conclusa. E del resto la sua non era una posizione solitaria, perché ormai un po’ tutta la vecchia guardia rivoluzionaria era stata messa ai margini dell’atti- vità politica del partito per favorire il “rinnovamento” e la formazione di un nuovo gruppo dirigente. Flecchia morì all’età di settant’anni, il 19 aprile 1960.

Francesco Moranino8

Nato a Tollegno nel 1920, Moranino, nel 1940, giovanissimo, si iscrisse all’allora Partito comunista d’Italia. L’anno successivo fu arrestato e condannato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a dodici anni di reclusione, che scontò nel carcere di

7 MARCELLO FLORES - NICOLA GALLERANO, Sul Pci. Un’interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 43-105. 8 Cfr. lemma Francesco Moranino, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, cit., vol. IV, 1984, p. 824; Francesco Moranino, in ENZO COLLOTTI - RENATO SANDRI - FREDIANO SESSI (a cura di), Dizionario della Resistenza. Luoghi, formazioni protagonisti, Torino, Ei- naudi, vol. II, 2001, p. 592; ADRIANO BALLONE, Francesco Moranino, in C. SIMIAND (a cura di), op. cit., pp. 344-351.

67 Civitavecchia e di Castelfranco Emilia. La reclusione si concluse il 25 luglio 1943 con la caduta del fascismo. Ritornato nel Biellese, all’indomani dell’8 settembre 1943, fu tra i primi animatori della Resistenza biellese: comandante del distaccamento garibaldino “Pisacane”, poi della 50a brigata “Garibaldi”, successivamente fu nominato commissario politico della XII divisione Garibaldi “Nedo”. Nelle vallate del Biellese orientale, la figura e l’azione di Mo- ranino “Gemisto” furono tali da garantirgli grande prestigio e consenso. Il comandante e la sua brigata partigiana furono il nodo attorno al quale si svilupparono, nell’estate- autunno del 1944, sia la breve esperienza della zona libera della Valsessera e Valstrona, che la mobilitazione operaia nelle fabbriche. All’indomani della Liberazione entrò a far parte del gruppo dirigente della Federa- zione del Pci di Biella e della Valsesia. Inserito nella lista dei candidati per le elezioni dell’Assemblea costituente, fu eletto con circa undicimila preferenze: era il più giovane deputato (25 anni) dell’Assemblea. Moranino era sicuramente uno degli esponenti di punta del “vento del Nord”, ovvero era espressione di quella generazione che, formata- si politicamente nel corso della guerra e della Resistenza, aspirava a ricoprire incarichi di primo piano nella ricostruzione democratica dell’Italia. Questa fu una delle motiva- zioni che indussero Secchia a fare il suo nome per l’incarico di sottosegretario alla Difesa dell’ultimo governo di unità nazionale guidato da Alcide De Gasperi. «Il 3 febbraio il governo è costituito. Riesco a far includere nella lista di sottosegretari Moscatelli, sot- tosegretario alla presidenza del Consiglio e Moranino alla Difesa. È un rospo da trangu- giare per De Gasperi. Naturalmente devo insistere, perché di fronte alla resistenza di De Gasperi Togliatti era orientato a cedere e mi diceva: “Ma perché vuoi proprio insi- stere su quei due, ci sono altri partigiani che si possono includere nella formazione governativa”. Rispondevo che aveva un grande significato se nel governo includevamo dei partigiani combattenti e tra quelli che più si erano distinti nelle operazioni della lotta insurrezionale al Nord. E poi proprio perché De Gasperi non li vuole, li dobbiamo vo- lere noi. E la cosa passò»9. In qualità di sottosegretario, Moranino si sarebbe occupato della sistemazione dei partigiani smobilitati e della riorganizzazione delle forze armate. Rieletto alla Camera dei deputati nel 1948, nel 1951 fu nominato segretario della Federazione mondiale della gio- ventù. Sempre nello stesso anno fu accusato di aver ordinato l’omicidio, all’epoca della guerra di liberazione, di cinque persone sospettate di essere spie e delle mogli di due di queste. Malgrado a suo favore si mobilitassero esponenti della sinistra, sindacati, organiz- zazioni partigiane, uomini di cultura e finanche esponenti del Partito liberale, la Camera approvò l’autorizzazione a procedere ed il suo arresto. Per sottrarsi alla carcerazione, da lui ritenuta ingiustificata in quanto quei fatti sa- rebbero dovuti essere derubricati ad atti di guerra, si rifugiò in Cecoslovacchia, dove lavorò per l’emittente radiofonica Radio Praga. Ritornò in Italia nel 1953, dopo essere stato nuovamente eletto alla Camera dei deputati; tuttavia, due anni più tardi, essendo approvata una nuova autorizzazione a procedere per la stessa imputazione, emigrò nuo-

9 P. S ECCHIA, Promemoria autobiografico, in E. COLLOTTI (a cura di), op. cit., p. 204.

68 vamente in Cecoslovacchia. Il 22 aprile 1956, il processo svoltosi a Firenze si concluse con la condanna all’ergastolo di Moranino. La sentenza di condanna fu confermata anche dalla Corte d’assise d’appello. Nel 1958, a seguito della sollevazione di alcuni rilievi sullo svolgimento delle indagini e del processo, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi commutò la pena in dieci anni di reclusione (cosa che avrebbe permesso a Moranino di rientrare in Italia). Il deputato biellese tornò in Italia solo alcuni anni più tardi, dopo che il presidente Saragat gli concesse la grazia in occasione del ventennale della Resistenza (1965) con l’obiettivo di chiudere definitivamente una stagione apertasi all’indomani della fine della guerra10. Nel 1968 fu eletto senatore nel collegio di Vercelli. Morì, stron- cato da un infarto, nel 1971. Il nome di Moranino nel secondo dopoguerra è indissolubilmente legato alle vicende giudiziarie a cui fu sottoposto nel periodo compreso tra il 1948 e il 1957. Il deputato comunista fu accusato di essere il mandante di un omicidio plurimo avvenuto in un periodo compreso tra il novembre del 1944 e il gennaio del 1945. Una delle vittime, Emanuele Strassera, era un agente del governo italiano (e contemporaneamente agente dell’Ufficio dei Servizi strategici statunitensi), residente allora nel Sud liberato, sbarca- to sulla costa ligure da un sommergibile Usa all’inizio dell’estate 1944 ed inviato nel Nord Italia dagli angloamericani con il compito di coordinare la lotta partigiana e riferi- re della situazione presente. A questo scopo aveva arruolato quattro partigiani. Strasse- ra aveva il compito di consegnare un rapporto agli agenti alleati operanti in Svizzera. Al momento di portare in Svizzera le informazioni, aveva chiesto aiuto alle formazioni parti- giane vicine al confine per essere scortato in Svizzera. Sospettando fossero delle spie, i cinque componenti della missione vennero uccisi il 26 novembre 1944 presso la località di Portula. Le vittime furono: Emanuele Strassera, capo missione, Gennaro Santucci, Ezio Campasso, Mario Francesconi e Giovanni Sci- mone. Successivamente, il 9 gennaio 1945, vennero uccise le spose di due dei partigia- ni, Maria Santucci e Maria Francesconi. La “vicenda Moranino”, come detto più sopra, travalicò ben presto la dimensione locale per assurgere a vero e proprio caso nazionale. A dare risonanza al caso furono una serie di fattori: il fatto che il deputato comunista fosse stato una figura “popolare” del movimento di liberazione; che avesse ricoperto incarichi nell’ultimo governo di unità nazionale; che, per sottrarsi alla carcerazione, che riteneva ingiustificata, si fosse rifu- giato in Cecoslovacchia.

10 Nell’intervenire al Senato per rispondere ad alcune interrogazioni svolte in merito alla concessione della grazia a Francesco Moranino il ministro di Grazia e Giustizia Reale avreb- be ricordato come il provvedimento fosse stato ideato dal presidente della Repubblica con l’obiettivo di chiudere definitivamente la stagione dell’uso politico e giudiziario della Resi- stenza. In questo senso si esprimeva il ministro Reale quando affermava che il ventennale della Liberazione era «l’occasione che, suggerendo di cancellare ogni residua conseguenza nel campo criminale del difficile periodo al cui centro sta l’evento glorioso e felice della Libe- razione, ha giustificato una particolare generosità rispetto ai delitti - anche se gravissimi e anche se politici soltanto in senso assai lato - compiuti nel periodo già considerato a suo tempo nel provvedimento generale di indulto, da coloro che a quell’evento parteciparono, contribuendovi o perfino avversandolo», intervento del ministro Reale nella seduta del Se- nato del 15 giugno 1965, in Atti Parlamentari. Senato 1965, Roma, Senato, 1965.

69 Anche da queste prime considerazioni emerge come la ricostruzione della vicenda Moranino nel periodo repubblicano sia piuttosto articolata. Di fronte a tale complessità l’obiettivo che ci si pone in questa relazione è abbastanza limitato: contestualizzare sto- ricamente il processo Moranino ovvero collocare le vicende giudiziarie del deputato comunista all’interno del più generale clima politico-culturale dei primi due decenni di vita della Repubblica italiana. Questa scelta ha portato alla decisione di non occuparsi direttamente della ricostruzione dell’episodio avvenuto nella guerra di liberazione ma, come detto, di prestare attenzione all’uso politico-culturale che se ne fece nel corso del secondo dopoguerra. A partire da ciò è possibile articolare l’analisi della vicenda Moranino su tre diversi piani di lettura. Per essere più precisi, nel processo al deputato biellese si intrecciano: una dimensione strettamente giudiziaria, che è necessario però collocare all’interno della più vasta vicenda dei processi promossi contro partigiani accusati di aver commesso reati comuni nel periodo della guerra di liberazione; una strategia politico-culturale pro- mossa dai gruppi dirigenti conservatori italiani che, agli occhi dell’opposizione sociali- sta e comunista mirava, attraverso la celebrazione dei processi contro i partigiani, a modificare l’interpretazione ufficiale della Resistenza e, così facendo, a delegittimare il Partito comunista e quello socialista; infine, e più in generale, il processo a Moranino era espressione del durissimo scontro politico-sociale che contraddistinse tutta la pri- ma legislatura repubblicana e che vide contrapposte un’opposizione allarmata di fronte ai provvedimenti adottati dal governo ed interpretati come manifestazione di un proget- to politico conservatore e autoritario, e un governo che, preoccupato dalla possibile esistenza di una struttura militare illegale comunista della quale, secondo le fonti della Prefettura di Vercelli, Moranino era responsabile locale, non esitava a interpretare il ruolo di protettore della neonata democrazia italiana anche attraverso l’adozione di politiche repressive nella gestione dell’ordine pubblico e delle manifestazioni politiche. I processi ai militanti delle formazioni partigiane si moltiplicarono solamente a par- tire dal 1948, ovvero a più di tre anni dalla conclusione del conflitto e dopo che, nel 1946, venne promulgata l’amnistia da parte dell’allora guardasigilli Togliatti. Questa svol- ta politico-giudiziaria si sviluppò in concomitanza con la sconfitta del fronte delle sini- stre alle elezioni dell’aprile 1948 e con i moti popolari scatenatisi dopo l’attentato a To- gliatti nel luglio successivo. Se non è possibile affermare l’esistenza di un nesso diretto tra l’avvio delle indagini e una precisa volontà politica del governo e, in particolare del suo ministro dell’Interno Scelba, è però molto probabile che il clima da “democrazia assediata dal pericolo rosso” che avvolgeva la società italiana di quegli anni abbia in- fluenzato anche le decisioni della magistratura11. I processi nei confronti dei partigiani infatti si svilupparono in particolare nel periodo del centrismo democristiano, ovvero

11 Per quanto riguarda la campagna antipartigiana e, in particolare, sui processi contro i partigiani svoltisi nel periodo del centrismo democristiano cfr. LUCA ALESSANDRINI - ANGELA MARIA POLITI, Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953. Contesto politico e organizzazione della difesa, in “Italia contemporanea”, n. 178, 1990, pp. 304-327; A. M. PO- LITI, Una fonte sui processi contro i partigiani: gli archivi degli avvocati difensori, in “Ri- vista di storia contemporanea”, n. 2, 1990, pp. 41-62.

70 tra il 1948 e il 1953: vennero arrestati 1.697 partigiani; 884 di questi furono condannati a complessivi 5.806 anni di reclusione. «Nel corso dei processi spesso vengono meno anche le garanzie elementari che lo Stato democratico offre agli accusati, difatti diversi imputati sono stati minacciati e percossi nel corso degli interrogatori con l’intento di indurli a confermare gli indizi degli inquirenti. La persecuzione partigiana si fonda su un uso distorto e strumentale della macchina giudiziaria: i pubblici ministeri costruiscono ipotesi di reato fingendo di ignorare le cause reali di molte esecuzioni, estrapolandole dal loro contesto storico. L’esecuzione del nemico diviene così in questa rilettura un semplice omicidio comune, dove l’accaduto è privato delle precedenti sequenze di azioni e risposte, e il passato fascista delle vittime viene depurato. Le azioni di guerra partigia- na sono trasformate alla stregua di omicidi in tempo di pace, arrivando così a legittima- re l’ordine della Rsi, nel momento in cui vengono perseguite azioni commesse prima della liberazione»12. In molti casi gli accusati furono incarcerati preventivamente fino a quando i casi vennero archiviati in quanto svoltisi durante il periodo bellico o perché commessi nel corso di azioni di guerra e quindi non perseguibili. Come riportato nella citazione, non sarebbe mancato, nel corso degli interrogatori, il ricorso alle percosse o a metodi inti- midatori. Per quella parte politica, in particolare comunisti e socialisti, che legava indis- solubilmente il movimento di liberazione alla nascita della Repubblica e individuava nel nuovo assetto istituzionale lo strumento per realizzare gli ideali di giustizia sociale che erano stati il cardine della Resistenza, la serie dei processi intentati nei confronti dei partigiani rappresentava il rovesciamento degli ideali della Costituzione e la messa in discussione della legittimità della Carta stessa. L’importanza di questa campagna e del significato eminentemente politico che que- sta ricoprì fu infatti ribadita con forza dal senatore Pietro Secchia prima ancora che il caso Moranino approdasse in parlamento. Nel discorso dal titolo significativo, “La Re- sistenza accusa”, pronunciato al Senato il 28 ottobre 1949, il vicesegretario del Pci ri- chiedeva al governo un provvedimento per bloccare la celebrazione dei processi ai partigiani «per azioni di guerra compiute prima dell’aprile 1945 e nei primi mesi della liberazione fino al 31 luglio [...] chiediamo che la si finisca di arrestare i partigiani per pretesi delitti avvenuti nel corso della guerra di liberazione; chiediamo venga applicato nella lettera e nello spirito il decreto luogotenenziale del 12 aprile 1945 che tra l’altro dice: “Sono considerati azioni di guerra e pertanto non punibili a termini delle leggi comuni gli atti di sabotaggio, le requisizioni ed ogni altra azione compiuta dai patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo di occupazione nemica”; chiediamo che si ponga termine a questa vergogna alla quale da due anni assistiamo, quella cioè di mettere sotto processo partigiani per azioni di guerra, per operazioni com- piute per necessità di lotta contro tedeschi e fascisti. [...] mai nella storia d’Italia si è assistito ad un procedimento così scandaloso che a distanza di cinque anni da una guerra di popolo si mettono sotto processo coloro che hanno combattuto per la libertà contro l’invasore e contro i traditori, su denuncia delle famiglie delle spie, dei fascisti repubbli-

12 MIRCO DONDI, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999, pp. 180-181.

71 chini, su denuncia di coloro che stavano dalla parte del nemico e che nella migliore delle ipotesi non possono che essere mossi da spirito di vendetta»13. Il processo a Moranino va collocato all’interno di questo clima politico, all’interno della serie di inchieste istruite nei confronti dei partigiani. Per l’incarico parlamentare da lui ricoperto, il processo a Moranino fu uno dei casi più emblematici di quel periodo. Ne è conferma il fatto che, allorquando la Camera dei deputati discusse l’autorizzazio- ne a procedere nei suoi confronti, molti deputati del gruppo di opposizione fecero iro- nicamente rilevare come in poche altre occasioni l’aula fosse stata così affollata14. Rispetto ad altre indagini avviate solamente tre anni dopo la conclusione della guer- ra, quella sulla vicenda della missione Strassera iniziava nei mesi successivi alla Libera- zione. Infatti, già nel mese di marzo del 1946, gli Alleati avevano richiesto informazioni ai carabinieri di Biella su tale vicenda, senza però arrivare a nulla. Solo alcune settimane più tardi alcuni articoli pubblicati nel giornale “La verità. Settimanale liberale biellese”, accusando Moranino di essere il mandante dell’uccisione dei membri della missione Strassera, avrebbero svelato all’opinione pubblica l’episodio accaduto nell’inverno del 1944. Nondimeno bisognò aspettare più di due anni, ovvero fino alla fine di ottobre del 1948, dopo la sconfitta elettorale e il ridimensionamento del Pci, perché la Procura di Vercelli, dopo la denuncia dei familiari delle vittime, avviasse un’indagine nei confronti di Moranino e degli esecutori dell’omicidio con l’accusa di aver agito anche a scopo di rapina, dunque con un movente comune piuttosto che politico. Alcuni mesi dopo, se- guendo una prassi usata anche in altri processi svoltisi nei confronti di partigiani, le forze dell’ordine avrebbero arrestato preventivamente i garibaldini accusati di essere gli esecutori degli omicidi. Questi sarebbero successivamente stati scarcerati e l’inda- gine nei loro confronti sarebbe stata archiviata. Il vero obiettivo dell’indagine rimaneva l’onorevole Moranino che, in quanto deputato, godeva dell’immunità parlamentare. Il 21 settembre 1950 la giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati concesse l’autorizzazione a procedere nei confronti di Moranino, così come autorizzò il suo arresto. Tuttavia l’autorizzazione fu inizialmente negata dalla Camera dei deputa- ti, che solo l’anno successivo si espresse favorevolmente. Il 27 gennaio 1955, in se-

13 P. S ECCHIA, La Resistenza accusa, discorso pronunciato al Senato della Repubblica il 28 ottobre 1949, in ID, La Resistenza accusa 1945-1973, cit. Questa opera raccoglie nume- rosi interventi svolti da Secchia su questo tema. Ne possiamo ricordare alcuni come: La con- danna di Gemisto-Franco Moranino, in “Vie Nuove”, 4 maggio 1957; Partigiano ascolta!, in “Vie Nuove”, 25 aprile 1947; Sulle orme del fascismo. La liberazione di Borghese, in “Vie Nuove”, 27 febbraio 1949. Su questo tema cfr. anche LUIGI LONGO, Si libera Borghese, si in- carcerano i partigiani, si tradisce la Resistenza, discorso pronunciato alla Camera dei de- putati il 25 febbraio 1949, in ID, Chi ha tradito la Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1975. 14 Autorizzazione a procedere nei confronti dell’onorevole Francesco Moranino, seduta della Camera dei deputati del 29 novembre 1950, in Atti Parlamentari. 1950, Roma, Camera dei deputati, 1950, pp. 24.072-24.085; Autorizzazione a procedere nei confronti dell’onorevo- le Francesco Moranino, seduta della Camera dei deputati del 14 dicembre 1951, in Atti Par- lamentari. 1951, Roma, Camera dei deputati, pp. 34.147-34.185; Autorizzazione a procedere nei confronti dell’onorevole Francesco Moranino, seduta della Camera dei deputati del 27 gennaio 1955, in Atti Parlamentari. 1955, Roma, Camera dei deputati, 1955, pp. 16.461-16.495.

72 guito alla rinnovata elezione a deputato di Moranino, il parlamento concesse nuovamente l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti per reati di omicidi continuati e doppia- mente aggravati. Il processo, celebratosi l’anno successivo, avrebbe visto, come già detto, la condanna di Moranino all’ergastolo. Il periodo compreso tra il 1947 e il 1953 segnò la crisi della narrazione egemonica antifascista15. La rottura dell’alleanza antifascista determinò la costruzione di memorie diverse. Non si trattò esclusivamente di ridefinire il modo attraverso il quale i soggetti politici e le istituzioni si sarebbero rapportati al movimento resistenziale. La costruzione di una nuova narrazione antifascista infatti si legava strettamente al discorso sulla legit- timazione politica del nuovo stato repubblicano e sul rapporto tra questo e le forze po- litiche che avevano partecipato alla guerra di liberazione. Agli occhi delle sinistre la sva- lutazione della Resistenza, attuata ricorrendo ai processi contro i partigiani, investiva la legittimazione stessa della Repubblica: il crollo o il ridimensionamento del ruolo del movimento di liberazione avrebbe nuovamente legittimato le forze politiche conserva- trici esponendo il nuovo Stato alla possibilità di derive autoritarie e antidemocratiche. Per questo gli esponenti socialisti e comunisti nelle ricorrenze pubbliche richiamavano costantemente alla vigilanza per la difesa delle istituzioni democratiche, della libertà e del progresso sociale16. Sempre per questo motivo le sinistre insistevano nell’accusare la Democrazia cri- stiana, con la svolta politica centrista e la rottura dell’unità antifascista, di aver blocca- to il rinnovamento democratico dello Stato e di aver affidato le sue leve nelle mani di una burocrazia statale collusa con il passato regime fascista ed incapace di autorifor- marsi in senso democratico17. Si comprende quindi per quale motivo il processo a Mo- ranino assumesse una tale rilevanza “politica”: una sua condanna, agli occhi dei so- cialisti e dei comunisti, avrebbe rappresentato la messa in discussione di tutta la Resi- stenza e della sua legittimità come guerra di liberazione ed epopea fondativa della Re- pubblica. Negli interventi svolti dai deputati dell’opposizione nelle sedute della Camera dei deputati dedicate alla discussione sull’autorizzazione a procedere nei confronti di Mo- ranino, al di là del pathos dettato dall’avvenimento politico, emerge con chiarezza come, per i socialisti e i comunisti18, il caso del deputato biellese fosse emblematico di un processo iniziato negli anni immediatamente precedenti. È lo stesso relatore di minoranza, il deputato Ferrandi, a lasciar intuire come il procedimento contro Moranino si collo-

15 FILIPPO RICCARDI, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico ita- liano dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005. 16 Uniti contro il fascismo, in “Avanti!”, 25 aprile 1948; ARRIGO BOLDRINI, Il 25 aprile, in “l’Unità”, 25 aprile 1949; RICCARDO LOMBARDI, 25 aprile, in “Avanti!”, 24 aprile 1949; Batta- glia aperta e a fondo, in “Avanti!”, 1 febbraio 1948. 17 Cfr. di seguito la parte della relazione dedicata all’analisi elaborata da Pietro Secchia sui caratteri del neonato stato democratico italiano. 18 È utile constatare come nel corso delle discussioni svoltesi alla Camera dei deputati intervenissero importanti dirigenti del movimento comunista e socialista; in particolare quegli esponenti che avevano ricoperto ruoli di primo piano nella guerra di liberazione. Nondimeno, a parte Secchia, non prese la parola nessuno dei leader storici del movimento comunista.

73 casse all’interno di un più ampio disegno politico che mirava a delegittimare il ruolo fondativo della Resistenza: «Se voi concederete questa autorizzazione a procedere, tut- to quello che è avvenuto dal 25 luglio 1943 in poi, tutto - dico - potrà essere portato al giudizio di un tribunale o di una corte d’assise, perché non c’è morto non c’è spia fu- cilata, non c’è traditore giustiziato che non possa far invocare qualcosa che giustifichi l’inizio di una azione penale. È vero, purtroppo, che tutto questo è stato fatto e si fa; ma voi sapete come sono finiti nella stragrande maggioranza i processi fabbricati per fatti di guerra, farisaicamente denunciati e definiti come delitti comuni. [...] gli errori tragici, la somma di errori che sono stati fatalmente commessi durante la Resistenza nei confronti di incolpevoli, non possono essere rievocati per mettere in moto la mac- china della giustizia penale, perché voi in quel momento, negando la comprensione dell’errore, neghereste la legittimità stessa della guerra partigiana e aprireste la via ad ogni più mostruosa conseguenza»19. L’onorevole Boldrini, invece, intervenendo nel corso del dibattito, riprendeva il di- scorso di Ferrandi per sottolineare come la delegittimazione della Resistenza fosse una delle caratteristiche dell’iniziativa politica promossa dagli apparati dello Stato e dalle for- ze politiche moderate a partire dalla fine della guerra: «[...] la campagna di svalorizza- zione che da tempo viene condotta dai gruppi antinazionali e antirisorgimentali contro la Resistenza [...] è stata condotta con ogni mezzo fin dal 1945, per gettare fango sulla gloriosa epopea partigiana. [...] quando ufficialmente le associazioni partigiane fecero presente la gravità della situazione (che si sintetizza in arresti partigiani, in non applica- zione delle leggi promulgate in difesa della Resistenza, in rinascita del fascismo), da tutti i settori politici si elevarono voci autorevoli per dire che era l’ora di finirla e che bisognava riconoscere la Resistenza per quella che era stata. [...] a questo punto, ono- revoli colleghi della maggioranza, mi potreste dire che anche voi siete d’accordo nel difendere la Resistenza. Il fatto è, però, che la richiesta a procedere contro l’onorevole Moranino non è un caso isolato, ma si unisce ad una serie di altre denunce contro i partigiani, presentate dai fascisti e dalle famiglie dei fascisti, e ad una campagna che ha ripreso la sua azione in grande stile»20. Infine intervenne Fausto Gullo, dirigente nazionale del Pci, il quale, riprendendo e sviluppando quanto già affermato dagli altri membri del gruppo parlamentare, sottoli- neò come la delegittimazione della Resistenza avrebbe minato alle fondamenta tutto il progetto repubblicano: «Qui è vittima di una persecuzione politica qualche cosa di molto più grande del collega Moranino: è vittima di una persecuzione politica la stessa tradi- zione della Resistenza e della guerra di liberazione! [...] Si è ricordato il decreto del 12 aprile 1945, e anche quel decreto si è voluto considerare come un provvedimento di ordinaria amministrazione. Non si è ricordato lo spirito di quel decreto, si dice che occorre considerare come azione di guerra la lotta partigiana (e dico partigiana, qui, per usare un aggettivo che compendia e riassume tutte le varie azioni in difesa del territorio della

19 Intervento dell’onorevole Ferrandi nella seduta della Camera dei deputati del 14 no- vembre 1951, in Atti Parlamentari. 1951, Roma, Camera dei deputati, 1951, p. 34.153. 20 Intervento dell’onorevole Boldrini nella seduta della Camera dei deputati del 14 no- vembre 1951, in idem, p. 34.168.

74 patria), nel momento in cui quel decreto dà questa definizione della lotta partigiana, esso la equipara senz’altro alla guerra guerreggiata da un esercito regolare. [...] Così è la Resistenza, onorevole Scalfaro e onorevoli colleghi! Vi sono fatti storici grandiosi, che stanno alla base stessa della vita, di più, alla base stessa della ragione di vita di una nazione. Ebbene, questi fatti non possono essere sottoposti ad una critica disintegratrice, soprattutto ad una critica di carattere giudiziario. [...] guai a voi se scuo- tiamo il fondamento ideale della nuova Repubblica democratica! E purtroppo sono molte le ragioni per le quali noi ci sentiamo autorizzati a pensare che si voglia appunto scuo- tere questo fondamento ideale. E siamo qui a difendere la grande idealità, che sta alla base della Repubblica democratica. [...] sentiamo che se queste grandi ragioni storiche dovessero essere tradite, allora sarebbe l’ora della fine per la Repubblica democratica italiana. Noi vogliamo che la Repubblica democratica italiana esista e si consolidi, e che in essa il popolo nostro trovi la via del suo progresso e del suo avvenire»21. La ricostruzione, seppur schematica, delle conseguenze politiche che avrebbe ge- nerato la completa delegittimazione storica della Resistenza conduce all’ultimo nodo legato alla vicenda del processo a Moranino: si tratta di considerazioni strettamente politiche e che non hanno riscontro immediato con le vicende giudiziarie del deputato comunista. Tuttavia collocano appieno il caso Moranino all’interno del clima politico di quel periodo. Come accennato più sopra, il periodo compreso tra il 1947 e il 1953 rap- presentò la fase più acuta dello scontro politico e sociale tra le forze politiche centriste e quelle socialcomuniste. In questa fase erano le stesse forze di governo a promuovere una politica conservatrice e repressiva nei confronti di ogni movimento politico e so- ciale di opposizione. Per il governo democristiano la necessità di adottare provvedi- menti per proteggere la democrazia era funzionale alla prevenzione di eventuali derive insurrezionali o rivoluzionarie da parte delle forze di sinistra. A corroborare questa tesi intervenivano anche le segnalazioni provenienti da diverse prefetture che insistevano sull’esistenza nel Pci di un apparato militare clandestino formato da ex partigiani e pronto ad intervenire nel caso di tentativo di colpo di stato o per organizzare il moto rivoluzio- nario22. Le note informative che arrivavano dalla Prefettura di Vercelli individuavano nella figura di Francesco Moranino il responsabile biellese dell’organizzazione parami- litare23 del Pci. All’inizio del 1950, infatti, il Sifar redasse un rapporto nel quale rico-

21 Intervento dell’onorevole Gullo nella seduta della Camera dei deputati del 14 novem- bre 1951, in idem, p. 34.177. 22 Sulla presunta organizzazione paramilitare del Pci e sullo scontro interno tra tendenza legalitaria e tendenza insurrezionale cfr. PIETRO DI LORETO, Togliatti e la doppiezza. Il Pci tra democrazia e insurrezione (1944-1949), Bologna, Il Mulino, 1992. 23 Cfr. anche le riflessioni svolte da Cesare Bermani in merito alla presunta esistenza di una organizzazione paramilitare del Pci nel Vercellese e, più in generale sul rapporto tra par- tigiani-Partito comunista-organizzazioni paramilitari. Bermani sostiene che la scelta partigiana di continuare ad avere una struttura militare clandestina fosse stata assunta autonomamen- te rispetto al Pci o, quantomeno, non incontrasse il favore della maggioranza dei dirigenti comunisti. «Nel clima turbolento del dopoguerra tutti quanti i partiti mantennero a lungo forme più o meno robuste di organizzazione armata. E così fecero anche i garibaldini di Mosca- telli. [...] era una decisione tutta partigiana, quella di Cino e Ciro, non del Pci, o quantomeno

75 struiva la struttura organizzativa dell’apparato paramilitare comunista. Moranino, as- sieme ad altri ex dirigenti del movimento partigiano, veniva indicato quale responsabile per la provincia di Vercelli di una struttura militare clandestina. Questa sarebbe stata in grado di organizzare nuclei di difesa armata in ogni località della provincia24. Due anni più tardi, nel 1952, in una segnalazione anonima consegnata alla Prefettura di Vercelli e recante una serie di informazioni relative alla struttura di una “Organizzazione clande- stina del Pci in Piemonte”, Moranino sarebbe invece stato indicato come il vero orga- nizzatore della struttura militare eversiva regionale25. Agli occhi delle forze dell’ordine, Moranino identificava non solo il comandante partigiano senza scrupoli che non aveva esitato a uccidere altri partigiani per conservare l’egemonia delle formazioni militari comuniste sul Biellese orientale, bensì anche un pericolo sovversivo che continuava a tramare per il sovvertimento dell’ordine costituito e l’avvento della rivoluzione anche in tempo di pace. Il caso Moranino, messo sotto questa triplice lente, viene così a rivestire un signi- ficato paradigmatico: non si tratta esclusivamente di un avvenimento giudiziario, ma di un episodio che riunisce in sé tutte le tensioni della prima fase della storia della Repub- blica italiana, appunto quella in cui fu più acuto lo scontro tra forze di sinistra e forze centriste. Astrarre l’elemento giudiziario dal contesto, tener conto solamente di questo, rischia di non far comprendere appieno il significato storico del processo a Moranino e il ruolo esemplare che svolse nello scontro politico di quegli anni. D’altronde sono gli stessi protagonisti di quell’epoca a ricordare indirettamente, nel 1965, in occasione della grazia concessa dal presidente della Repubblica ad alcuni ex partigiani ed ex fascisti, tra i quali anche Moranino, come il caso del deputato biellese

non di tutto il Pci. Giorgio Amendola del resto ha ricordato che, negli anni successivi alla Liberazione, il Pci “era una forza ribollente e non politicamente disciplinata, anche attratta dal miraggio della rivoluzione armata, fiduciosa nell’aiuto sovietico [...]. La linea del centro del partito veniva accettata, ma con grandi riserve con quella doppiezza di cui tanto si è par- lato, che non era atteggiamento di Togliatti o di pochi dirigenti, ma una posizione largamente diffusa nella base e nei quadri del partito. Sì, bisognava utilizzare le possibilità legali, conqui- stare comuni e seggi in parlamento, ma per occupare posizioni che sarebbero servite quando l’ora X sarebbe finalmente scoccata. [...] La conservazione di depositi d’armi, gli atti di vio- lenza effettuati come strascichi della guerra partigiana, i diffusi atteggiamenti di intimidazio- ne non furono tutte invenzioni della propaganda democristiana”. [...] La posizione del Pci può essere così sintetizzata: se la gente per conto proprio e spon- taneamente vuole accantonare le armi sono faccende sue, inclusi i rischi che corre e non sono problemi di nessuna organizzazione di massa. E i depositi di armi, che gruppi di parti- giani non solo comunisti avevano costituito, non debbono avere niente a che vedere diret- tamente con l’azione politica e il comportamento politico ufficiale né del Partito comunista né delle varie organizzazioni di massa sorte attorno a lui. E addirittura la mappa di dove fos- sero le armi nessuno voleva averla nel Pci, perché non c’era bisogno di averla, dal momento che, secondo la concezione della guerra di popolo, è il popolo che deve avere le armi e quan- do serviranno salteranno fuori», in CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia, Borgosesia, Isrsc Bi-Vc, vol. III, 1996, pp. 313-314; 322. 24 ROBERTO GREMMO, Il processo Moranino. Tragedie e segreti della Resistenza biellese, Biella, Storia Ribelle, 2005, pp. 229-240. 25 Idem, pp. 233-234.

76 travalicasse la dimensione giudiziaria assumendo connotati eminentemente politici26. Come concludere? Il modo migliore sembra quello di riportare le parole dette dal- l’onorevole Riccardo Lombardi nell’intervento svolto in occasione del dibattito parla- mentare occorso nel settembre del 1956. In quell’occasione Lombardi espresse in modo chiaro e definitivo le motivazioni per le quali si dovesse ritenere l’omicidio delle cinque persone sospettate di essere spie e delle due mogli, per quanto violento e probabilmente anche frutto di un errore di valutazione, un atto di guerra e quindi non perseguibile dalla giustizia ordinaria: «In sostanza, che cosa si domanda per concedere o meno l’autoriz- zazione a procedere in giudizio contro il collega Moranino? Si domanda di accertare se le azioni che egli ha commesso sono state o non dipendenti da fatti di guerra, perché se le sue azioni sono state in qualche modo determinate da fatti di guerra è evidente che vengono completamente coperte da amnistia. E si domanda alla Camera, con una finzione che a me pare rasenti l’ipocrisia, di dare fiducia ai giudici. Onorevoli colleghi, tutta la fiducia ai giudici, ma nessuna fiducia a giudici che sono nell’impossibilità, qualunque sia il loro valore, la loro onestà, e la loro buona volontà, di apprezzare, a distanza di tempo, il clima e le condizioni in cui si sono svolte quelle azioni, e che pertanto non sono più in grado di stabilire, né attraverso documenti né attraverso indizi, se quei fatti furono o no connessi con lo stato di guerra. Trattandosi di esecuzioni contro spie o presunte spie fatte attraverso un giudizio sommario, nel corso di una azione durante la quale la formazione di cui l’onorevole Moranino era responsabile era minacciata alla distanza non di mesi o anni, ma di ore, essendosi alla vigilia del giorno in cui le avanguardie delle truppe di rastrellamento sta- vano per invadere la zona nella quale operava la formazione dell’onorevole Moranino; trovandosi l’onorevole Moranino di fronte alla necessità di decidere subito per poter salvare i suoi uomini e reagire alle insidie che lo circondavano da tutte le parti; trovan- dosi l’onorevole Moranino di fronte ad elementi sospetti, dei quali ebbe ad accertare

26 Ci si riferisce ad una interrogazione presentata da onorevoli del gruppo parlamentare del Movimento sociale italiano nella quale si chiedevano chiarimenti sulla validità dell’istituto della grazia e sulla perseguibilità di Moranino per i reati antinazionali da lui commessi nel periodo del suo soggiorno a Praga: «Con riferimento alla notizia della concessione della gra- zia all’ex deputato Moranino, condannato per una serie di delitti comuni di particolare effe- ratezza, commessi contro persone di sua parte e loro familiari, senza considerare i fatti di strage dell’ospedale psichiatrico di Vercelli, coperti con il compiacente velo degli atti di guerra, e sfuggito ai ferri della giustizia punitiva con passaporto di servizio, verso ospitali cortine, per conoscere a parte la procedura motu proprio di esclusiva competenza del Presidente del- la Repubblica, a norma dell’articolo 87 comma 11 della Costituzione, se siano state osservate, per la forma, garanzia di sostanza, le norme previste dallo articolo 595 del Codice di proce- dura penale ed una prassi cinquantennale; inoltre se la grazia deve intendersi estendibile anche all’attività antinazionale del Moranino all’estero, che integra un grave reato previsto e punito dall’articolo 269 del Codice penale nell’ipotesi continuata ed aggravata per la sua attività antitaliana da Radio Praga; se un procedimento penale sia in corso di istruzione o se ritenga che la grazia crei un’aureola di immunità anche per azioni criminose successive». In- terrogazione presentata dagli onorevoli Gray, Nencioni, Basile, Cremisini, Crollalanza, Fer- retti, Fiorentino, Franza, Grimaldi, Latanza, Lessona, Maggio, Pace, Picardo, Pinna, Ponte e Turchi nella seduta del Senato del 15 giugno 1965, in Atti Parlamentari. 1965, Roma, Sena- to, 1965, pp. 16.191-16.192.

77 indizi abbastanza probanti, come è possibile oggi, ai giudici, anche animati dal maggio- re disinteresse, dalla migliore buona fede giudicare? E in base a che cosa possono giu- dicare? Forse in base ai verbali del tribunale? Ma, onorevoli colleghi, quale tribunale di guerra, e quale tribunale di guerra partigiana può oggi esibire i suoi archivi?»27.

Pietro Secchia28

Pietro Secchia è sicuramente il più autorevole tra i tre dirigenti biellesi comunisti eletti all’Assemblea costituente. Nacque a Occhieppo Superiore il 19 dicembre 1903 da famiglia operaia. Fin da gio- vane, nel 1919, aderì alla Federazione giovanile del Partito socialista, cominciando così una lunga militanza politica che terminò solamente con la morte il 7 luglio 1973. Negli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale, Secchia parteci- pò alle più importanti lotte promosse dal movimento operaio: organizzò scioperi in va- rie fabbriche del Biellese e nel 1920 aderì, unico impiegato della fabbrica nella quale lavorava, all’occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze e collaborò ad or- ganizzare la produzione. Per questo motivo venne licenziato e fu costretto ad emigrare temporaneamente in Francia. Due anni più tardi fu licenziato una seconda volta perché aveva partecipato allo sciopero legalitario, ultimo movimento di piazza promosso dalle organizzazioni operaie contro il fascismo. Contemporaneamente aderì al Partito comu- nista d’Italia, divenendo dirigente nazionale dell’organizzazione giovanile. Naturalmen- te, l’attivismo di Secchia catturò fin dall’inizio l’attenzione delle forze dell’ordine. In- fatti il giovane biellese subì un primo arresto nel febbraio del 1923 per detenzione abu- siva di munizioni per pistola. Da quel momento, e per i successivi tre anni, trascorse la sua esistenza alternando all’attività di partito il carcere. Venne infatti arrestato nuova- mente nel maggio del 1925 per aver distribuito volantini contro il governo fascista; alla fine dello stesso anno fu nuovamente fermato con l’accusa di reato a mezzo stampa (diffusione di propaganda antimilitarista). Fu rilasciato solo dieci mesi più tardi. Desti- nato al confino nel novembre del 1926, riuscì a scappare dandosi alla latitanza. Iniziò il periodo della clandestinità. Negli primi anni dopo l’instaurazione della ditta- tura fascista la sua attività, anziché affievolirsi, si intensificò: girò per l’Italia, contattò i militanti, curò la stampa clandestina di partito. Fu l’anima della resistenza antifascista in Italia. Il ruolo assunto nell’organizzazione dell’apparato clandestino gli consentì, ben presto, di essere cooptato all’interno degli organismi dirigenti nazionali del Pcd’I. Il periodo che seguì fu una delle stagioni più intense dell’attività politica di Secchia. Alter- nò il suo lavoro in Italia con le missioni all’estero; partecipò attivamente alle riunioni dell’Internazionale comunista; fu tra i più convinti sostenitori della “svolta” del 1930,

27 Intervento di Riccardo Lombardi nella seduta del Senato del 27 gennaio 1955, in Atti Parlamentari. 1955, Roma, Senato, 1955, p. 16.472. 28 Cfr. lemma Pietro Secchia in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, cit., vol. V, 1987, pp. 454-464; Pietro Secchia, in E. COLLOTTI - R. SANDRI - F. SESSI (a cura di), op. cit., pp. 641-642; A. BALLONE, Pietro Secchia, in C. SIMIAND (a cura di), op. cit., pp. 537-552; Pietro Secchia, in F. ANDREUCCI - T. DETTI (a cura di), op. cit., vol. IV, 1978, pp. 597-604.

78 cioè del ritorno al lavoro politico del partito in Italia. A causa dei continui arresti di di- rigenti, divenne il responsabile del Centro interno del partito. In questa veste tentò di formare le “squadre di difesa antifascista” e i “giovani arditi antifascisti” con l’obiettivo di organizzare la lotta militare contro il fascismo. Similmente a quanto accadde agli altri dirigenti comunisti rientrati in Italia, anche per Secchia la cattura da parte della polizia fascista era questione di mesi. Infatti, il 3 aprile 1931 venne arrestato a Torino: non aveva ancora compiuto 28 anni ma nella sua già lunga militanza politica aveva parteci- pato ad avvenimenti fondamentali nella storia del movimento comunista italiano. Da quel momento e fino al luglio del 1943 Secchia fu costretto ad una relativa inattività. Il Tri- bunale speciale per la difesa dello Stato lo condannò a diciassette anni e nove mesi di reclusione, la maggior parte dei quali li trascorse nel carcere di Civitavecchia e al con- fino. Si è detto che la sua inattività politica era relativa: infatti, anche nel periodo di re- clusione, partecipò a numerose discussioni e dibattiti, così come promosse, assieme ad altri dirigenti comunisti, cicli di lezioni teoriche sul marxismo e la storia della Rivo- luzione russa. Per la sua irriducibilità le stesse autorità di polizia lo indicarono come “elemento pericolosissimo”. Liberato nell’agosto del 1943, dopo la caduta del fascismo riprese immediatamente i collegamenti con il Pci e a Roma partecipò all’organizzazione della resistenza armata della città. Dopo la caduta della capitale si trasferì al Nord dove, assieme ad altri diri- genti comunisti, promosse l’organizzazione dei primi nuclei partigiani. Finalmente, dopo più di quindici anni, poté mettere in pratica ciò che andava sostenendo fin dalla II Con- ferenza di organizzazione del Pci. Nel ruolo di commissario generale delle brigate “Ga- ribaldi” e assieme a coloro che avevano fatto parte delle brigate internazionali in Spagna (Longo, Roasio), Secchia cercò, riuscendoci, di coniugare l’azione militare con quella di massa, la resistenza armata con quella di popolo. Nei venti mesi di lotta clandestina lavorò costantemente per ampliare il movimento garibaldino e, contemporaneamente, per rafforzare, sviluppare e ramificare il Partito comunista e gli organismi di massa ad esso collegati. A questo obiettivo subordinò anche le discussioni che si svolgevano al- l’interno del gruppo dirigente attorno alla svolta di Salerno: Secchia, come del resto la direzione del Nord Italia, non metteva in discussione l’applicazione della linea unitaria proposta da Togliatti, anche se la interpretava nell’ottica della continuità con la politica da loro svolta fin dall’inizio della guerra di liberazione. Fu in quel periodo che Secchia iniziò a riflettere sul tema della costruzione di uno Stato pienamente democratico e sul rapporto che questo avrebbe dovuto avere con il movimento democratico e operaio, enucleando alcuni dei nodi tematici che poi avrebbero attraversato, sottotraccia, tutta la sua successiva attività politica29. Dopo la Liberazione, Secchia fu chiamato a Roma a ricoprire incarichi di primo pia- no all’interno del partito. Nel gennaio 1945 venne nominato responsabile nazionale del- l’organizzazione. In questo ruolo Secchia lavorò alla costruzione e al radicamento ca-

29 Sull’attività svolta da Secchia nel corso della guerra di liberazione e, in generale, sul- l’enucleazione delle linee che avrebbe dovuto avere il futuro assetto democratico dell’Italia cfr. P. SECCHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945. Ricordi, documenti inediti e testimonianze, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 389-613.

79 pillare del partito nuovo nel tessuto sociale italiano. Di più, per la sua posizione, per la capacità di controllare e condizionare, attraverso la gestione della struttura del partito, l’applicazione della linea politica nazionale, Secchia, almeno fino alla metà degli anni cinquanta, fu uno tra i dirigenti più influenti all’interno del partito. Pur confermando la linea nazionale proposta da Togliatti, ne dava una interpretazione più movimentista, in- sistendo sulla necessità che il Pci, per difendere le conquiste operaie ottenute negli anni successivi alla fine della guerra e per promuovere il rinnovamento democratico del paese, adottasse un metodo d’azione capace di coniugare efficacemente l’iniziativa parlamen- tare con una costante iniziativa di mobilitazione popolare. Si trattava di una lettura di- vergente della strategia del Pci. Lo stesso Secchia ne era consapevole quando, nei suoi diari, riportava un episodio accaduto nel corso della campagna condotta contro l’ap- provazione della riforma elettorale del 1953. «La legge truffa ci metteva alle corde, do- vevamo batterci. Andai da Togliatti e gli dissi: “Bisogna fare qualcosa, far ritirare le si- nistre dal Senato”. “Già - disse lui - e poi che facciamo, la rivoluzione?”. “No - gridai io - non facciamo la rivoluzione. Ma se ascoltiamo te non facciamo mai niente”»30. Il contrasto politico si risolse solo un anno più tardi, quando un collaboratore di Secchia scappò portando con sé ingenti somme di denaro. A causa di ciò il dirigente biellese fu allontanato dalla segreteria e, successivamente, dalla stessa direzione. L’estro- missione di Secchia da incarichi nazionali coincise però con l’apertura di una nuova fase della sua biografia politica: dopo una breve parentesi come segretario regionale del Pci in Lombardia e come responsabile dell’attività editoriale del partito, si dedicò all’at- tività di storico del Partito comunista e della Resistenza. Contemporaneamente conti- nuò con assiduità l’attività come senatore. La morte di Togliatti e la nomina di Longo a nuovo segretario del Pci riabilitarono in parte la figura di Secchia, che venne incaricato di compiere numerose missioni di partito all’estero. Al ritorno da uno di questi viaggi, nel gennaio del 1972, cominciò a manifestare i primi sintomi del male che, di lì a pochi mesi, lo avrebbe portato alla morte. Morì a Roma il 7 luglio 1973. Per quanto riguarda Pietro Secchia è possibile ricostruire, o quantomeno delineare quelli che sono i giudizi e le riflessioni da lui svolti in merito al ruolo dell’Assemblea costituente e della Costituzione nel processo di edificazione dello stato democratico post- bellico. Giova preliminarmente ripetere che anche Secchia, nonostante ricoprisse incarichi di primo piano all’interno dell’organizzazione nazionale del Pci, non partecipò attiva- mente ai lavori dell’Assemblea costituente, essendo costantemente impegnato nell’opera di riorganizzazione e costruzione del “partito nuovo”. L’impasse cui si trova di fronte chi voglia ricostruire le riflessioni svolte da Secchia su questo argomento è però risol- vibile se si allarga lo spettro dell’indagine ad altri documenti e se si ampia cronologica- mente il campo di ricerca fino ad abbracciare l’attività da lui svolta nel corso di tutto il periodo repubblicano: ci si accorge allora che il tema della Costituzione permeava, sot- totraccia, molti degli interventi politici svolti da Secchia in quegli anni. Certo, questo non significa che questa venisse posta al centro della sua riflessione sin dalla fine della

30 P. S ECCHIA, Promemoria autobiografico, cit., p. 237.

80 guerra. Ne è riprova quello che lui stesso disse a proposito del ruolo svolto appena no- minato responsabile dell’organizzazione del partito, alla fine di giugno del 1945: «Fine giugno 1945: sono incluso nella segreteria di partito e designato come responsabile della sezione nazionale di organizzazione, mi impegno in pieno nel lavoro organizzativo del partito. Forse, tutto dedito al lavoro di ricostruzione e di sviluppo del partito, trascuro o non do sufficiente attenzione all’attività politica, specialmente l’attività di governo. Allora vi era una certa divisione, alcuni compagni si occupavano quasi esclusivamente dell’attività di governo, altri dell’attività di partito. Fu questa divisione troppo netta, unitamente al senso di amarezza che provavo per come le cose erano andate, che for- se, sia pure senza accorgermi, mi fecero rivolgere l’attenzione esclusivamente al par- tito lasciando che altri facesse ciò che voleva sul piano dell’attività governativa, tanto per quella strada non si sarebbe concluso nulla di buono. Ma ritengo che qui ci sia stato un errore, ritenere di poter in qualche modo correggere le debolezze di governo e l’azione sul piano parlamentare, intervenendo in altro modo, facendo pesare il peso dell’azione del partito e delle masse»31. Si ritornerà sulle ultime considerazioni condotte da Secchia nella citazione. Quello che è utile sottolineare, è che nelle riflessioni svolte dal nostro sul ruolo della Costitu- zione negli anni della Repubblica, incidevano profondamente sia le vicende della sua biografia politica che l’evolversi della situazione nazionale: la carica di responsabile del- l’organizzazione del Pci, il ruolo di vicesegretario del partito, la sua estromissione dal gruppo dirigente e la successiva riduzione della possibilità di intervenire nella vita pub- blica, l’attività di senatore e storico del movimento operaio si intrecciavano con le vi- cende del periodo della ricostruzione postbellica, a cui seguì quello della fase più dura della “guerra fredda”, del risveglio dei movimenti di massa a partire dal luglio 1960 e del pericolo di colpo di stato che avrebbe attraversato tutto il decennio successivo. Schematicamente possiamo suddividere la riflessione di Secchia in tre fasi fonda- mentali: il periodo della clandestinità (1943-1945); la fase della Costituente e degli anni immediatamente successivi (1945-1953); quella dell’emarginazione politica. In quest’ulti- ma fase l’attività di Secchia fu profondamente legata agli avvenimenti nazionali, tanto che è possibile articolare maggiormente la sua riflessione e individuare un periodo, aper- tosi con i fatti del luglio 1960, che fu caratterizzato dal suo impegno parlamentare nel promuovere progetti di legge per la realizzazione della Costituzione, e un’altra fase che risentì dell’esplodere della protesta operaia e studentesca della fine degli anni sessanta. Nel periodo della clandestinità e della lotta di liberazione Secchia ricoprì incarichi di primo piano, a fianco di Luigi Longo, nell’organizzazione del Partito comunista e del movimento partigiano nell’Italia occupata. Coinvolto nell’organizzazione quotidiana delle iniziative politico-militari, non affrontò puntualmente e approfonditamente il tema della ricostruzione dello stato democratico; tuttavia i dibattiti che si svilupparono a partire dall’inizio del 1944 attorno al ruolo dei Cln, alla svolta di Salerno e alla formula della “democrazia progressiva” forniscono utili indicazioni circa le aspettative che i dirigenti del Nord nutrivano nei confronti del futuro assetto istituzionale dell’Italia. Il successo degli scioperi del marzo 1944 e dell’iniziativa del Pci spinsero i dirigenti del Nord a ri-

31 Idem, pp. 192-193.

81 valutare il ruolo dei Cln come istituti di autogoverno popolare, strutture di potere di un “ordine nuovo” che avrebbero dovuto contrapporsi alle vecchie forme dello stato ita- liano, con prefetti, governatori o podestà32. I comitati di liberazione nazionale sarebbe- ro dovuti diventare strumenti di rappresentanza diretta ed espressione della volontà delle masse popolari in tutte le realtà sociali del Paese. L’idea era quella di costruire una de- mocrazia organizzata che si articolasse a livello territoriale in Cln che coordinassero e dirigessero l’attività e la vita collettiva della società italiana. In quanto espressione delle masse popolari, questa democrazia organizzata avrebbe avuto nella classe operaia il sog- getto motore e detentore del potere. Insomma, i dirigenti del Nord delineavano le forme di una democrazia organizzata in grado di gestire ed esplicare efficacemente l’egemo- nia politica e sociale della classe operaia così come si era andata definendo nei primi mesi della lotta di liberazione33. Era lo stesso Secchia a insistere, ancora all’inizio del 1945, sul fondamentale ruolo politico ricoperto dai comitati di liberazione nazionale. I Cln, in particolare con l’ingresso dei rappresentanti dei comitati di agitazione, dei comi- tati di difesa dei contadini, dei gruppi di difesa della donna e del Fronte della gioventù, avrebbero costituito il nucleo originario di un regime democratico che fosse diretta espressione della volontà popolare. Un regime caratterizzato dalla larga partecipazione delle masse34. «Il Comitato di liberazione nazionale che è stato sinora solo una coalizione di partiti, deve estendere la sua base unitaria, riunire in un solo fronte tutti gli italiani disposti a lottare contro gli oppressori, collegarsi con tutti gli organismi di massa e diventare l’or- gano rappresentativo di tutte le forze nazionali organizzate ed attive nella lotta contro i tedeschi e i fascisti [...] è nel corso della lotta stessa che si creeranno le nuove forme della vita democratica di domani e cioè di una democrazia progressiva, aperta a tutte le conquiste»35. L’anticipazione del futuro regime democratico avrebbe dovuto costruirsi nei terri- tori che le forze partigiane nel corso della loro attività militare andavano liberando. Sec- chia, riferendosi all’attività del movimento di liberazione jugoslavo, individuava nella formazione di zone libere36 dalle autorità fasciste la prima fase del progetto di costru-

32 GUIDO QUAZZA, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Fel- trinelli, 1975, p. 425 e ss. 33 FRANCO SBARBERI, I comunisti italiani e lo stato. 1929-1956, Milano, Feltrinelli, 1980. 34 P. S ECCHIA, Nascita di una nuova democrazia, in “La nostra lotta”, n. 9, maggio 1944, pp. 7-8, in ID, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione, cit., pp. 425-426. 35 ID, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945, cit., pp. 425-426. 36 Secchia sottolineava l’importanza politica della costruzione di zone libere; zone all’inter- no delle quali sarebbe stato possibile per i Cln esercitare con esclusiva sovranità i suoi po- teri. Nondimeno l’autore riconosceva i limiti dell’esperienza delle zone libere: «Purtroppo i fatti dimostrarono che, data la situazione generale, i rapporti di forza esistenti e la mancanza, anzi il rifiuto di un aiuto adeguato da parte degli alleati [...] non fu possibile tenere a lungo i territori liberati. Si arrivò, nella seconda metà del 1944 ad avere diverse importanti zone libere e numerose unità di manovra abbastanza forti sia per il numero degli effettivi che per capa- cità combattive. Complessivamente le zone libere furono una quindicina. In Piemonte: le zone delle valli di Lanzo, Maira e Varaita, delle Langhe, dell’Astigiano e dell’Alto Monferrato, del- la Valdossola, della Valsesia, una parte del Biellese e della Valle d’Aosta; in Liguria: la val

82 zione di un governo democratico basato sulle masse popolari37. Per avere un’idea delle caratteristiche che, secondo Secchia, avrebbe potuto assumere la nuova democrazia italiana, è utile riproporre un estratto tratto da un lettera inviata al Comando della I di- visione “Garibaldi” della Valsesia il 10 luglio 1944: «Creare gli organismi di potere po- polare: appena liberato un paese, un villaggio, una città, appena cacciati i nazifascisti bisogna creare delle giunte popolari, bisogna creare degli organismi di potere popolare che siano emanazione diretta delle masse in lotta e delle loro organizzazioni. Queste giunte popolari devono essere composte da rappresentanti delle unità partigiane, da delegati dei comitati contadini, dei comitati di agitazione di fabbrica, del Fronte della gioventù, dei gruppi di difesa delle donne, dei migliori elementi antifascisti di partito e senza par- tito. Quello che importa è che gli organismi di potere popolare siano emanazione diretta del popolo e siano composti da elementi di provata fede antifascista e che abbiano dato prova di combattività e di attaccamento agli interessi delle larghe masse popolari. Ele- menti decisi a lottare per la libertà, la democrazia ed il progresso del nostro paese. Gli organismi di potere popolare devono essere composti da uomini che siano effettiva- mente alla testa della lotta di liberazione nazionale, che siano espressione della parte migliore e più combattiva del popolo italiano, che riscuotano la fiducia delle larghe masse. Gli organismi di potere popolare devono subito prendere nelle loro mani l’amministra- zione del paese, del villaggio, della vallata e se riusciremo a liberare la provincia, della provincia. [...] noi constatiamo con piacere che voi siete già su questa linea e che nei paesi da voi liberati avete provveduto a fare sorgere amministrazioni comunali, a gesti-

Trebbia, la Borbera, la valle del Taro, la zona ligure occidentale comprendente il territorio tra il monte Coppo, il col di Nava, e Bagnasco; in Lombardia: l’Oltrepò Pavese; in Emilia: le zone dell’alta valle del Ceno in provincia di Parma; la Repubblica di Montefiorino in provincia di Modena; la zona libera della Carnia in Friuli; l’altopiano del Cansiglio ed alcune altre nel Veneto ed in Toscana», in idem, pp. 510-511. 37 In una lettera inviata al comando della I divisione d’assalto “Garibaldi” Zona Valsesia, il 10 luglio 1944, Secchia illustrava quale significato politico-militare ricoprisse la lotta per la formazione delle zone libere. Zone che, tuttavia, per diventare vere e proprie anticipazioni del futuro stato democratico avrebbero dovuto avere una estensione ben più ampia di quelle fino ad allora liberate: «Occupazione di grandi zone: altro compito che il nostro partito si pro- pone in questo momento è quello di agire secondo un piano preciso che comporti la libera- zione attraverso la lotta partigiana di territori abbastanza vasti nei quali il potere sarà eserci- tato da organismi popolari, giunte popolari [...] questo significa che non basta cacciare i te- deschi ed i fascisti da un villaggio o da una vallata, ma è necessario collegare tra di loro ed estendere i territori liberati; è necessario procedere con un piano che permetta di liberare am- pi territori che comprendano una o più province nelle quali vi dovrà essere un potere centrale che amministri e diriga tutta la zona. Noi dovremmo riuscire a creare nell’Italia occupata dai tedeschi alcune zone abbastanza ampie e completamente nelle mani dei partigiani e nelle quali l’autorità sarà esercitata esclusivamente dal potere popolare. Per dare un’idea dell’am- piezza che dovrebbero avere queste zone facciamo alcuni esempi: noi dovremo tendere nei nostri piani a liberare una zona dalla alta valle Po sino a Savona ed Imperia. Un’altra zona po- trebbe essere quella tra Genova-Spezia-Parma e Piacenza. Una terza zona potrebbe essere un territorio che comprendesse la valle d’Aosta, la valle di Susa e la Valsesia», Pietro Secchia al Comando della I divisione d’assalto “Garibaldi” Zona Valsesia, il 10 luglio 1944, in P. SEC- CHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945, cit., p. 524.

83 re fabbriche, a far funzionare l’apparato giudiziario, le mense per i disoccupati ed i bi- sognosi, a creare amministrazioni popolari delle mense aziendali»38. Al di là del problema relativo al rapporto tra la ricezione che i dirigenti del Nord die- dero della formula togliattiana della “democrazia progressiva” e i conseguenti problemi circa la possibile esistenza di due linee politiche all’interno del Partito comunista (nodo sul quale in questi decenni è stata pubblicata una corposa letteratura storiografica e che esula dall’oggetto di questa relazione39), è interessante sottolineare quelle che sono le aspettative che Secchia sembrava nutrire circa l’assetto del futuro stato democratico. Aspettative e temi che percorsero tutta l’attività politica del dirigente comunista nel periodo postbellico. Il nuovo stato democratico si sarebbe dovuto fondare sul completo sradicamento del fascismo. L’eliminazione di ogni possibile “rigurgito” fascista era vincolata, secon- do Secchia, all’adozione di adeguate riforme in campo industriale e agricolo, così come nel campo degli apparati dello Stato. Come si vede, il problema del fascismo e della sua eliminazione non era legato solamente alla scomparsa del fenomeno politico, bensì al- l’eliminazione delle sue condizioni economiche e sociali. È altresì evidente, in questa interpretazione del fascismo, l’influenza della Terza Internazionale e della sua lettura del fascismo come fenomeno internazionale strettamente legato alle sorti del capitali- smo. Le aspettative nutrite da Secchia, e con lui da una parte dei dirigenti comunisti, circa l’adozione di misure di riforma strutturale per eliminare il pericolo fascista sareb- bero rimaste, nel dopoguerra, disilluse ed inattuate. Nondimeno il carattere antifascista nel senso più lato del termine rimase uno dei cardini della riflessione svolta da Secchia circa l’attuazione della Costituzione. L’assetto istituzionale della “nuova” Italia si sarebbe dovuto fondare esclusivamen- te sulla sovranità popolare: come disse nel maggio del 1946 in un articolo pubblicato in vista dell’elezione dell’Assemblea costituente, «ciò che importa è che non debba esi- stere nel nuovo Stato italiano nessun potere, nessun autorità che non tragga la sua ori- gine dalla volontà del popolo»40. Cosa si debba intendere con il concetto di popolo è abbastanza complesso; probabilmente Secchia lo intendeva come comprensivo, sotto la direzione egemonica della classe operaia, di intellettuali, tecnici, contadini, ceti medi, ovvero di tutte le categorie produttive che non erano collegate con la grande borghesia capitalista. Tuttavia, come accennato prima, la sottolineatura della centralità del popolo permise a Secchia, pur nella accettazione complessiva della politica proposta da To- gliatti, di insistere sul carattere centrale della politica di classe nella costruzione dell’as- setto sociale postbellico. Nondimeno la costruzione di una democrazia “popolare” or- ganizzata sollevava numerosi nodi problematici: come il popolo avrebbe espresso la sua volontà? Attraverso quali istituti si sarebbe articolata la democrazia? Quale rapporto

38 Idem, pp. 524-525. 39 Di seguito ricordiamo solo alcuni dei più significativi contributi storiografici e biogra- fici comparsi nel corso del tempo attorno a questo problema: P. SPRIANO, Storia del partito comunista. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, cit.; G. QUAZZA, op. cit.; G. AMENDO- LA, Lettere da Milano: ricordi e documenti. 1939-1945, Roma, Editori Riuniti, 1973; P. SEC- CHIA, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione. 1943-1945, cit., pp. 389-503. 40 P. S ECCHIA, Libertà e repubblica, in “Vie Nuove”, 26 maggio 1946, in E. COLLOTTI (a cura di), op. cit., p. 198.

84 sarebbe intercorso tra i diritti individuali e quelli che si esercitano collettivamente? E tra l’operaio, la classe e le istanze che li rappresentano? Secchia non affrontò in modo ar- ticolato e approfondito questi temi: la sua riflessione seguì quella del gruppo dirigente del Nord Italia; nel periodo della clandestinità, la direzione popolare si sarebbe dovuta sviluppare, sottolineava Secchia, attraverso la diffusione capillare dei comitati periferi- ci e degli organismi di massa; nella fase postbellica, dopo il venir meno di ogni possibile ricostruzione ciellenistica delle strutture dello Stato, l’esercizio della sovranità popolare sarebbe invece avvenuto riconoscendo la centralità del potere legislativo rispetto a quello esecutivo e a quello giudiziario. Questo tema, che percorse sottotraccia tutta la riflessione svolta da Secchia, sarebbe riemerso come elemento centrale della sua attività politica a partire dagli anni sessanta, quando si sarebbe battuto per promuovere una riforma in senso democratico di alcuni apparati dello Stato. L’ipotesi di trasformazione in senso ciellenistico dello stato italiano tramontò ben prima della conclusione del conflitto. Con l’insurrezione e il ritorno alla vita democra- tica, tutta l’attenzione dei dirigenti del Pci si concentrò attorno ai problemi relativi alla costruzione del “partito nuovo”, al referendum monarchia/repubblica e all’elezione del- l’Assemblea costituente. Secchia, impegnato nell’attività organizzativa, non intervenne se non raramente nel dibattito attorno al ruolo e ai compiti della Costituente. Nondime- no, se si sposta l’attenzione dal tema specifico della Costituente a quello dell’analisi dei rapporti di forza nella società italiana e della realizzazione della formula della “democra- zia progressiva” svolta dal dirigente biellese, si possono trarre altre considerazioni cir- ca il ruolo e la funzione da lui affidata alla Costituzione nel futuro assetto dello stato democratico. Vale la pena riprodurre quanto affermato da Secchia nella famosa “Rela- zione sulla situazione italiana” presentata a Mosca nel dicembre del 1947: «La situazio- ne nella quale ci muoviamo in Italia è determinata da due elementi fondamentali: la lotta acutissima di classe che si svolge nel nostro paese e la lotta internazionale che si svolge tra le forze della libertà e del socialismo e le forze reazionarie imperialiste. [...] ci trovia- mo, a nostro modo di vedere, in un momento molto delicato e direi anche decisivo della vita e della storia del nostro paese. Personalmente penso che si tratta di decidere oggi se impegnarci in battaglie decisive o meno. Il seguire oggi una strada piuttosto che un’altra può avere conseguenze decisive per lo sviluppo della democrazia in Italia nei prossimi anni. Possiamo tornare al governo? Oggi non ne vedo la possibilità [...] propongo io di cambiare la nostra prospettiva o di lavorare con le due prospettive? No, io non propon- go di cambiare l’obiettivo di lotta per un regime di democrazia progressiva, di lottare per portare avanti la democrazia. Ma come noi portiamo avanti la democrazia in una situazione quale si è creata nel nostro paese? [...] possiamo fidarci soltanto sullo svi- luppo e sulle progressive vittorie elettorali? [...] il pericolo dal quale dobbiamo guardar- ci è quello di cedere oggi una posizione, domani un’altra e trovarci poi nella condizione di non poter più avere l’iniziativa. [...] noi dobbiamo orientarci verso lotte più ampie, più dure, più decise»41. Al di là delle considerazioni circa il significato del riferimento a lotte più decise, quello che affiora qui è la constatazione svolta dal deputato comunista circa il fatto che l’ini-

41 Relazione sulla situazione italiana presentata a Mosca nel dicembre del 1947, in E. COLLOTTI (a cura di), op. cit., pp. 625-626.

85 ziativa operaia avesse assunto caratteristiche difensive rispetto alle conquiste ottenute nell’immediato dopoguerra. Di fronte al rovesciamento dei rapporti di forza tra classe operaia e borghesia, Secchia si domandava quali strategie si sarebbero potute adottare per promuovere una politica di classe in grado di difendere le conquiste “democratiche”. La risposta che dava era tutta centrata attorno all’utilizzo del partito e delle organizza- zioni di massa nella lotta politica, nella politicizzazione delle lotte sociali e nel rovescia- mento nella società di quelle politiche. Anche l’iniziativa dei comunisti all’Assemblea costituente doveva dunque essere supportata dall’azione extraparlamentare. Questo è quanto traspare dall’intervento svolto da Secchia nella riunione della direzione naziona- le del 20-22 giugno 194642. Per il dirigente comunista era necessario «far sorgere in ogni officina, in ogni quartiere, in ogni villaggio, delle leghe repubblicane o dei comitati di difesa della Repubblica per una Costituente repubblicana». Ritorna qui il richiamo all’importanza di articolare la lotta attraverso istanze organizzative in grado di raccogliere e dirigere la volontà delle masse popolari. Così come per i Cln nel periodo della clande- stinità, i comitati di difesa della Repubblica avrebbero avuto il compito di esprimere l’influenza diretta e unitaria del popolo nei confronti del lavoro svolto dalla Costituente. «L’opera dei deputati democratici e repubblicani alla Costituente, l’opera del nostro partito e delle forze sinceramente democratiche deve poggiarsi sulla volontà e sulle aspirazioni liberamente espresse dalle larghe masse lavoratrici, attraverso ai comitati di unità repubblicana, attraverso alle leghe repubblicane»43. Comunque, ben presto, al tema del condizionamento di classe dei lavori dell’As- semblea costituente si sostituì quello della difesa dei diritti sanciti dalla Costituzione. Il periodo compreso tra la seconda metà degli anni quaranta e le elezioni politiche del 1953 rappresenta la fase più acuta della “guerra fredda”. Agli occhi dei dirigenti comunisti l’atmosfera politica e sociale italiana sembrava poter preludere da un momento all’altro ad una svolta autoritaria. Ad alimentare la tensione interveniva anche la gestione repres- siva dell’ordine pubblico attuata dal governo democristiano. Effettivamente, nel corso degli anni cinquanta, i morti nelle mobilitazioni di piazza furono numerosi. Il 9 gennaio 1950, nel corso di una manifestazione operaia davanti alle Fonderie Riunite di Modena, la polizia sparò sulla folla e tra i dimostranti uccidendo sei persone. Nel 1947 furono uccisi quattordici lavoratori; sedici nel 1948 e quindici nel 1949. Nel 1950 ne furono uccisi altri diciassette. I feriti occorsi durante gli scontri di piazza sviluppa- tisi in quegli anni furono 3.126; i fermati 92.169. I quattro quinti dei caduti, feriti e ar- restati erano comunisti. Di fronte ad una situazione così compromessa l’attività politica di Secchia e dei dirigenti comunisti si concentrò inevitabilmente attorno alla difesa dei diritti garantiti dalla Costituzione. Ciò che è interessante è che Secchia, nel recuperare il dettato costituzionale in funzione difensiva, attribuì grande significato alla tutela e alla difesa dei diritti civili e politici che definiscono il sistema politico liberaldemocratico44.

42 Verbale della seduta della direzione nazionale del Pci 20-22 giugno 1946, in RENZO MAR- TINELLI - MARIA LUISA RIGHI (a cura di), La politica del Partito comunista italiano nel perio- do costituente. I verbali della direzione tra il V e il VI Congresso 1946-1948, Roma, Editori Riuniti, 1992. 43 Ibidem. 44 P. S ECCHIA, La nostra lotta per la libertà, la pace e la costituzione, discorso pronunciato al Senato della Repubblica il 13 marzo 1953, in ID, La Resistenza accusa, cit., pp. 155-198.

86 Sembrava passare in secondo piano, di fronte alla necessità che fossero garantite le possibilità ai soggetti politici all’opposizione di poter manifestare liberamente ed espri- mere il proprio dissenso rispetto all’operato del governo, la rivendicazione della realiz- zazione dei diritti sociali. Si tratta, come detto, di un vero e proprio recupero della di- mensione garantista della Carta costituzionale. La difesa dei diritti costituzionali riguardava tutti gli ambiti della società, a partire dai luoghi di lavoro all’interno dei quali la ristrutturazione produttiva era passata attraverso un ridimensionamento dell’influenza delle organizzazioni operaie e l’espulsione di un significativo numero di militanti comunisti. L’importanza della fabbrica dunque rimandava inevitabilmente ai primi articoli della Costituzione. Non esiste discorso pronunciato da Secchia in quel periodo nel quale non affermasse con forza la centralità del primo com- ma dell’articolo 1 della Carta: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». Il lavoro è il veicolo attraverso il quale il cittadino realizza se stesso, lo strumento con cui conquista e afferma la sua dignità La centralità ad esso assegnata nella Costi- tuzione esigeva, per poter essere concretamente realizzata, il pieno esercizio collettivo dei diritti politici, civili, sindacali sanciti dalla Carta. Di qui le continue accuse rivolte al governo democristiano di violare i diritti fondamentali del movimento operaio negando il diritto di riunione, di manifestazione, di sciopero. Una politica, questa, che Secchia non esitò a definire anticostituzionale, fuori dalla legalità democratica. Le strategie attraverso le quali promuovere la difesa dei diritti e delle garanzie costi- tuzionali passava, naturalmente, secondo Secchia, attraverso l’organizzazione di vasti movimenti di massa. Ancora una volta era attorno all’incapacità del partito di legare lotta di massa e difesa della Costituzione che si appuntavano le maggiori critiche. «[...] da tempo la Costituzione ha cessato di avere valore nelle fabbriche [...] il potere nella soluzione dei problemi di lavoro è notevolmente ridotto nelle fabbriche e fuori dalle fabbriche [...] il problema è ancora e sempre quello di riuscire a convincere, a persua- dere che le forze per operare con successo, per dare scacco all’attacco clerico-reazio- nario, esistono: esistono le forze per salvare e fare avanzare la democrazia (lo scivola- mento sul piano inclinato verso il fascismo non è affatto inevitabile)»45. La citazione più sopra rimanda ad un intervento svolto da Secchia al Comitato centrale nella riunione del 15-17 ottobre 1958. Erano passati quattro anni dai fatti che avevano segnato il suo declino politico, due dalla sua estromissione dalla direzione nazionale del partito. L’emarginazione politica e l’estromissione dai posti dirigenziali modificarono il suo impegno all’interno del partito. Dopo una breve ed inconcludente parentesi come responsabile della stampa comunista, Secchia investì tutte le sue energie nell’attività di senatore e nel lavoro di ricostruzione dell’azione svolta dal Pci nel periodo della clande- stinità e della lotta di liberazione. In questa duplice veste Secchia non smise di riflettere sul ruolo della Costituzione e sulle strategie da adottare per giungere alla sua completa realizzazione. Di più, come senatore, si fece promotore di una serie di iniziative che scandirono una nuova fase della sua riflessione sulla costruzione dello stato democratico. L’avvenimento che segnò il recupero in chiave propositiva dell’iniziativa di Secchia

45 Intervento al Comitato centrale, ottobre 1958. Il testo dell’intervento è riportato nel Quaderno n. 4: 1957, 1958 (e storia memoriale), in E. COLLOTTI (a cura di), op. cit., p. 432.

87 fu il movimento popolare che si sviluppò a Genova e si diffuse in tutta Italia nel luglio del 1960. L’esplodere quasi spontaneo della protesta popolare, l’ampia componente gio- vanile che partecipò al movimento e il suo riallacciarsi alle tematiche dell’antifascismo e della Resistenza aprirono, di fatto, una nuova fase della mobilitazione collettiva dopo la crisi e il silenzio della seconda metà degli anni cinquanta. Quasi subito, al “movimen- to antifascista” si affiancò e sovrappose la ripresa delle lotte operaie e della conflittua- lità sociale che caratterizzò i primi anni sessanta. Ciò che più colpì in primo luogo i dirigenti comunisti non fu solamente l’ampiezza del movimento, bensì i suoi protago- nisti. In un appunto redatto nel pieno della crisi del luglio 1960, Secchia sottolineava la novità del protagonismo giovanile e il suo orientarsi in senso antifascista. «I giovani partecipano in massa alle manifestazioni antifasciste. Si tratta di un fenomeno nuovo e di grande importanza»46. Cosa dovevano fare le organizzazioni operaie, e il Partito co- munista, per concretizzare in conquiste politiche la protesta popolare? Secchia, nuova- mente, constatava come tutto il movimento comunista fosse rimasto impreparato di fronte all’esplosione della protesta popolare, bloccato nella riproposizione di una stra- tegia politica immobilista, legata alla dimensione istituzionale ed incapace di portare tutta l’organizzazione sul piano della “lotta di strada”. «La situazione creatasi improvvisa- mente nel paese nel mese di luglio trovò impreparati i partiti di sinistra. Non si può dopo un orientamento diverso che dura da anni portare di colpo il partito e le masse ad una lotta di strada e per obiettivi più avanzati. Le parole d’ordine: scioglimento del Msi, at- tuazione della Costituzione, finiranno di essere soltanto delle parole agitatorie senza al- cune possibilità di tradurle in qualche risultato positivo entro breve scadenza»47. Esula dall’ambito di questa relazione chiarire se Secchia vedesse nelle agitazioni del luglio 1960 l’apertura di una nuova fase offensiva del movimento popolare e operaio e se riconoscesse in questi movimenti un processo di rovesciamento dei rapporti di forza tra i diversi soggetti sociali. Nondimeno, il fulcro della sua attività parlamentare nel decen- nio successivo ruotò attivamente attorno ai temi dell’antifascismo e della riforma degli apparati dello Stato. Non di trattava più, come nel decennio precedente, di rifarsi al dettato costituzionale in senso difensivo, ovvero per riaffermare il riconoscimento e il rispetto dei diritti civili e politici del movimento operaio. Adesso Secchia, e con lui altri esponenti del movimento comunista, insistevano sulla necessità di passare ad una fase propositiva, ovvero alla lotta per promuovere una serie di riforme tali da poter portare alla realizzazione della Costituzione e alla trasformazione in senso democratico dello stato italiano. Per il dirigente comunista il limite della Costituzione rimaneva nella sua natura di compromesso48 tra forze politiche e concezioni dello Stato differenti49. Questa latente

46 Quaderno n. 3: 1957, 1958, 1959, 1960, 1961, in E. COLLOTTI (a cura di), op. cit., p. 376. 47 Idem, p. 377. 48 P. S ECCHIA, La Costituzione e i rapporti tra i cittadini e lo stato, discorso tenuto il 4 ottobre 1962 sulla discussione sul bilancio dell’Interno, Roma, 1962. Estratto dal volume II dell’opera Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, Roma, Vallecchi, 1969. 49 ID, Come si difende la Repubblica, conferenza tenuta al Circolo Che Guevara di Trieste il 4 giugno 1971, in ID, Lotta antifascista e giovani generazioni, cit., pp. 105-116.

88 «contraddittorietà», continuava Secchia, risultava evidente se si scorreva il testo costi- tuzionale: la prima parte aveva carattere programmatico, ovvero promuoveva la possi- bilità di attuare riforme di struttura in campo economico e sociale sancendo il carattere universale dei diritti civili, politici e sociali con l’aspirazione a realizzare una condizione di uguaglianza non solo civile di tutti i cittadini. La seconda, invece, prospettava un’or- ganizzazione conservatrice dello Stato, antiquata ed in ritardo rispetto allo sviluppo eco- nomico, scientifico e culturale della società italiana. Nonostante il cambiamento di re- gime dovuto alla crisi del fascismo e alla caduta della monarchia, sottolineava Secchia, gli apparati dello Stato erano rimasti sostanzialmente immutati nella loro struttura orga- nizzativa e nel loro ordinamento giuridico. Di qui l’esigenza di promuovere un programma politico di riforme solidamente an- tifascista e democratico per rafforzare la fragile struttura della Repubblica italiana. Il carattere antifascista del programma rimandava, almeno in parte, al periodo della clan- destinità, e insisteva sulla necessità di sradicare il pericolo fascista mettendo fuori leg- ge qualsiasi riproposizione del fascismo come fenomeno politico ed organizzativo. In questo senso Secchia appoggiò il disegno di legge per lo scioglimento del Movimento sociale italiano presentato da Parri nel 196050 e, alcuni anni più tardi, nel 1973, si sareb- be fatto promotore, assieme ai senatori Cossutta, Modica, Germano, Maffioletti, Venan- zi, Sabatini e Pirastu, di un disegno di legge per promuovere lo scioglimento «delle squadre fasciste e delle organizzazioni paramilitari fasciste»51. La realizzazione della Costituzio- ne, infatti, passava attraverso il riconoscimento del suo carattere pienamente antifasci- sta, e Secchia, in tutti i suoi interventi non smetteva di “battere il ferro” su questo tema. «Non si può dimenticare che quei principi della nostra Costituzione hanno fondamento giuridico per tutti i cittadini, per tutte le associazioni, per tutti i movimenti e partiti, fatta eccezione per la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. Quest’eccezione è stabilita in modo preciso dalla norma XII delle disposizioni transito- rie e finali della Costituzione»52. Ma la democrazia italiana sarebbe stata compiutamente antifascista solo se le forze democratiche, oltre a procedere allo scioglimento di qualsiasi organizzazione politica che si ricollegasse all’esperienza della dittatura, avessero promosso una politica rifor- matrice nei confronti dello Stato, della società e dell’economia. Riemergeva nuovamente, negli scritti di Secchia, la lettura di matrice internazionale e terzinternazionalista che collegava la trasformazione in senso democratico della società con la rottura e il supe-

50 ID, Sciogliere il Msi attuare la Costituzione, in ID, Lotta antifascista e giovani gene- razioni, cit., pp. 62-73. 51 ID, Per lo scioglimento delle squadre fasciste e delle organizzazioni paramilitari fasciste, intervento del 20 febbraio 1973 al Senato per illustrare l’ordine del giorno presenta- to da Secchia, Cossutta, Modica, Germano, Maffioletti, Venanzi, Sabatini e Pirastu, in ID, Lotta antifascista e giovani generazioni, cit., pp. 37-43. L’ordine del giorno, votato a scru- tinio segreto, ebbe 125 voti favorevoli e 156 voti contrari. 52 ID, Sciogliere il Msi attuare la Costituzione, cit., p. 66. Si tratta della relazione di mino- ranza presentata al Senato il 10 maggio 1961 dai senatori Secchia e Sansone, in appoggio al disegno di legge proposto dal senatore Parri per lo scioglimento del Msi. Cfr. anche ID, Non mollare nella lotta contro il fascismo, pp. 87-104, discorso tenuto al Senato il 30 novembre 1961 per la presentazione del progetto di legge Parri per lo scioglimento del Msi.

89 ramento del modo di produzione capitalista. Quello che colpisce tuttavia, al di là della riproposizione di vecchi schemi interpretativi, è il fatto che l’attenzione di Secchia si concentrasse sull’aspetto istituzionale rispetto a quello economico e sociale. La politica di democratizzazione e realizzazione della Costituzione doveva passare attraverso la ri- forma degli apparati dello Stato, in particolare di quelli delle forze dell’ordine e delle forze armate; contemporaneamente dovevano essere modificati anche gli ordinamenti giuridici civili e penali, abolendo quelli promulgati nel periodo della dittatura fascista. Dunque, era necessario adottare una diversa disciplina dell’uso delle armi da fuoco da parte delle forze di polizia; promuovere un rinnovamento del corpo di polizia e di quello delle forze armate rafforzando la coscienza democratica dei loro aderenti; adottare un diverso regolamento di disciplina delle forze armate e modificare il Testo unico sulla Pubblica sicurezza, redatto nel 193153. Detto ciò, è bene aggiungere che l’attività svolta da Secchia su questi temi nel corso degli anni sessanta, sebbene fosse costante e assor- bisse buona parte del suo impegno politico, non produsse una riflessione approfondita e articolata attorno al tema delle istituzioni pubbliche e della loro democratizzazione: lo Stato era identificato quasi esclusivamente con i suoi apparati repressivi e coercitivi, organizzazioni legate direttamente al potere esecutivo, ovvero al governo, o peggio anco- ra, autonomi rispetto a qualsiasi potere di controllo, corpi separati all’interno dello Sta- to stesso. Come collegare la democratizzazione degli apparati repressivi dello Stato con il più generale tema della realizzazione della Costituzione? Ovvero quali provvedimenti adot- tare per realizzare pienamente il carattere democratico della Repubblica? L’unica solu- zione possibile era quella di subordinare tutti gli apparati dello Stato al controllo del par- lamento, l’organo che rappresentava ed esprimeva la volontà del popolo. Più volte, nei suoi interventi, Secchia sottolineò la necessità che venisse ribaltato il rapporto tra Stato e cittadini a favore di questi ultimi, con l’obiettivo che il dettato del primo articolo della Costituzione fosse effettivamente rispettato, ovvero che la sovranità appartenesse effettivamente al popolo. Nella difesa della sovranità popolare arrivò finan- che a recuperare un diritto schiettamente liberale, come quello di resistenza, per sanci- re la legittimità dei componenti delle forze armate, e più in generale della popolazione, di ribellarsi di fronte ad una autorità statale che rompesse la legalità repubblicana54. Naturalmente non si trattava di una novità, se non per il fatto che Secchia, nell’af- fermare la centralità del ruolo del parlamento come luogo dell’espressione della volontà popolare, sembrava porre sullo sfondo il ruolo e la funzione di altre istanze rappresen- tative. Sottolineo sembrava, perché a me pare che nell’ultima fase della sua attività po- litica assistiamo ad un recupero del ruolo degli organismi di massa come strumento per l’espressione della volontà del movimento popolare. L’ultima fase dell’attività politica di Secchia si apre con l’esplodere del movimento studentesco del 1968 e della conflittualità operaia. Similmente a quanto avvenne per gli

53 ID, La Costituzione e i rapporti tra i cittadini e lo stato, cit. 54 ID, Stato e polizia, in ID, Colpo di stato e legge di Pubblica sicurezza, Milano, Feltri- nelli, 1967. I due testi di Pietro Secchia pubblicati in questo volume, Stato e polizia e Leggi eccezionali, sono discorsi pronunciati in Senato rispettivamente il 22 maggio 1967 e il 16 giugno 1967.

90 avvenimenti del luglio 1960, il dirigente comunista sottolineò la carica potenzialmente innovatrice del movimento sessantottino. Nell’occupazione degli atenei, nel diffondersi capillare di nuovi organismi di massa, nella mobilitazione continua che contraddistinse quegli anni, Secchia indicò il movimento più impetuoso degli ultimi cinquant’anni: mo- vimento di generazione e di classe che i comunisti avrebbero dovuto dirigere «sulla base della loro esperienza». Quello che qui interessa è come Secchia intrecciò le sue riflessioni sul valore della Costituzione con il Sessantotto. Il dirigente comunista individuava nelle giovani ge- nerazioni lo spirito della Resistenza e, aprendosi ad una previsione ottimista, sottolinea- va come sarebbero state loro a promuovere la completa trasformazione in senso pro- gressivo e socialista dello Stato e della società italiana. Per Secchia il movimento giova- nile, che fece la sua prima apparizione nei moti del luglio 1960, ma esplose nel 1968, era il sintomo di una rinnovata iniziativa delle forze democratiche e progressive verso la completa realizzazione della Carta costituzionale; i giovani erano la “nuova resistenza”, che si collegava a quella partigiana e si sostanziava in una alleanza tra la gioventù ope- raia e quella studentesca55. All’interno di una posizione così delineata rimanevano aperti numerosi nodi: quale rapporto doveva esistere tra il Pci e il movimento studentesco? In che modo gli orga- nismi di democrazia diretta sorti dopo il Sessantotto si collegavano a quelli tradizionali del movimento operaio? In che modo il movimento studentesco poteva promuovere la completa realizzazione del dettato costituzionale? Sono tutti quesiti che abbisognano di un approfondimento maggiore rispetto a quello svolto per la realizzazione di questa re- lazione. Nondimeno, in questa fase, sotto la spinta delle esigenze del movimento, e nel tentativo di trovare un punto di contatto con questo, assistiamo, nella attività politica di Secchia, ad una enfatizzazione dei limiti dello stato centrale contemporaneamente ad un recupero del valore degli istituti della democrazia diretta e decentrata, degli organi- smi di massa quali strumenti per l’effettiva espressione della volontà popolare. Il nodo centrale della sua riflessione rimaneva ancora quello di individuare gli istituti e le strategie politiche utili a garantire la concreta espressione della volontà popolare all’interno delle istituzioni statali. Il parlamento, il cui ruolo centrale era messo in scac- co dalle trasformazioni sociali ed economiche che avevano attraversato l’Italia nei de- cenni precedenti, doveva essere affiancato da nuove istanze di democrazia a livello pe- riferico e locale, in grado di rappresentare con maggior efficienza la volontà popolare in tutte le sue articolazioni sociali e generazionali. Secchia, probabilmente, non pensava solamente alla costituzione dell’ente Regione o degli enti locali, bensì anche ai comitati di base che si diffondevano in molte realtà lavorative, ad esempio nelle scuole, negli uffici pubblici, ecc. «Non si può accettare che la sovranità appartenga soltanto a quella parte di cittadini rappresentata dai partiti che siedono in Parlamento. Intanto perché molti cittadini attivi socialmente nella produzione, nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici e nelle uni- versità non hanno, perché giovani, il diritto di voto, non appartengono spesso ad alcun partito anche se fanno parte di associazioni economiche, culturali, sindacali o politiche:

55 ID, Come si difende la Repubblica, cit.

91 e in secondo luogo perché il Parlamento non è più il centro del potere. Centri ben più potenti sono sorti al di fuori del Parlamento: i grandi monopoli si sovrappongono al Parlamento e allo Stato. È quindi non soltanto inevitabile, ma necessario che si realiz- zino - per contrapporsi efficacemente ai primi, assieme al Parlamento - le Regioni, gli Enti locali con la necessaria autonomia e una molteplicità di centri autonomi, dai sinda- cati alle associazioni democratiche, con partecipazione popolare ad ogni grado delle strutture sociali»56. Dunque, la realizzazione della Costituzione sarebbe passata attraverso la sua com- pleta applicazione ed il recupero di istanze di democrazia diretta, utili per innervare lo stato repubblicano dello spirito democratico del movimento popolare sorto all’indoma- ni del 1968. Come concludere, come riassumere quanto fin qui illustrato? Forse la cosa più utile è ricorrere alle parole dello stesso Secchia, a quanto da lui detto nel 1967 in occasione della discussione sulla modifica del Testo unico di Pubblica sicurezza: «Nella Repubbli- ca democratica italiana, la forza prima, la forza motrice che a tutto dovrebbe dare im- pulso, è rappresentata dalla volontà e dalla sovranità popolare. Così dovrebbe essere, ma lo so, lo sappiamo tutti, noi e voi, che così non è; questa stessa discussione lo sta a dimostrare, se ve ne fosse bisogno. Sappiamo bene che le cose vanno diversamente perché la nostra Costituzione democratica, di tipo nuovo, è sorta sulle vecchie struttu- re economiche e politiche della società italiana; sono queste strutture che impediscono e che limitano notevolmente la sovranità popolare e il libero esplicarsi della volontà del popolo. Esiste cioè una aperta contraddizione tra la Costituzione scritta che stabilisce e riconosce la sovranità popolare e lo Stato italiano così come è rimasto strutturato. Di qui le nostre continue lotte per attuare le riforme di struttura poiché, sino a quando rimangono in piedi le vecchie strutture, il popolo non potrà mai esercitare effettiva- mente la sua sovranità, le libertà saranno sempre in pericolo e noi staremo sempre sot- to la minaccia di possibili colpi di stato o tentativi reazionari»57.

56 ID, L’ondata repressiva contro la Costituzione e le libertà democratiche, discorso svolto al Senato il 27 gennaio 1970, [sl, sn], 1970. 57 ID, Leggi eccezionali, in ID, Colpo di stato e legge di Pubblica sicurezza, cit., p. 35.

92 Valsesiani all’Assemblea costituente

L’Assemblea costituente

Marco Neiretti

La storia costituzionale del nostro paese si era aperta nel 1848 con la concessione da parte del re di uno statuto ispirato ai principi liberali delle libertà civili, politiche, re- ligiose, del governo parlamentare, della monarchia costituzionale, della separazione dei poteri. Lo Statuto albertino aveva «un carattere flessibile, cioè modificabile con legge ordinaria [...] con una profonda capacità di adeguarsi alle trasformazioni politiche e di seguire l’evoluzione delle circostanze che ne caratteriz[zavano]la vita»1. Un quadro co- stituzionale “debole”, che permise al fascismo - sia pure con pesanti forzature - di in- trodurre una legislazione che stravolse i principi dello stato liberale e produsse quella forma di stato assolutista e autoritario che dominò per vent’anni la vita italiana2. Per circa settant’anni di regime liberale operò, per l’elezione della Camera dei deputati, il sistema maggioritario, basato sul collegio uninominale, finché - dopo l’introduzione del suffragio universale maschile - socialisti e popolari riuscirono, all’indomani della prima guerra mondiale, a far introdurre il sistema proporzionale3. Invece il Senato con- tinuò ad essere di nomina regia. Nel 1923 fu approvata una legge elettorale «che non limitò il suffragio, ma ne falsò l’espressione [...] stabilendo che una lista potesse riuscire vincente, pur riportando soltanto il suffragio del 25% dei votanti”4. Nel 1925 fu ripristina- to il sistema maggioritario con il collegio uninominale, per mettere in sicurezza il fasci- smo dalla formazione di una grande coalizione dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti5.

1 CARLO GHISALBERTI, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1948, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 35. 2 «La costituzione della dittatura italiana ci offre un esempio perfetto di quello che uno stato a partito unico è obbligato ad essere. Il partito fascista è il solo partito di cui sia con- sentita l’esistenza. Tutti gli altri sono illegali». Così Gaetano Salvemini, che prosegue: «Il fascismo non è un’organizzazione privata ma un istituto pubblico riconosciuto dalla legge. Lo statuto è pubblicato mediante regio decreto e il suo testo ha valore di legge. L’emblema del partito fascista fa parte dello stemma nazionale, e cinge lo stemma dinastico», in GAETANO SALVEMINI, Le origini del fascismo in Italia, Milano, Feltrinelli, 1975. 3 Della rappresentanza proporzionale «se ne fece banditore il partito popolare che inau- gurò appunto in Italia, nella misura concessa agli italiani, una rivoluzione di carattere prote- stante sia per la sua etica cristiano-liberale, sia per lo spirito laico e cavouriano con cui con- sidera il clericalismo (Sturzo e Donati)», in PIERO GOBETTI, La rivoluzione liberale, Torino, Einaudi, 1983 (nuova edizione a cura di Ersilia Alessandrone Perona), p. 141. 4 FRANCESCO LUIGI FERRARI, Il regime fascista italiano, Roma, Edizioni di Storia e Lettera- tura, 1983, pp. 112-113, (1a ed. Le Régime fasciste italien, Paris, Spes, 1928). 5 Nello sforzo di salvare una qualche apparenza di libertà, in quella circostanza (e dopo lungo dibattito alla Camera) venne riconosciuto il diritto elettorale alle donne, ma per le sole elezioni amministrative, a condizione che fossero in possesso di certi requisiti di istruzione e cultura. La legge fu posta in ridicolo dall’opinione pubblica, al punto che meno del 10% delle donne aventi il diritto il voto provvide a chiedere l’iscrizione nelle liste elettorali. Cfr. idem, p. 113.

95 Negli anni che seguirono, il regime “fascistizzò” tutte le istituzioni e le associazioni. Lo sport e il tempo libero erano inquadrati nell’Opera fascista del dopolavoro, gli studenti universitari unificati nel Guf, i bambini nei “balilla”, poi nei servizi premilitari, le ragazze nelle “giovani italiane”. A stento, e non senza crisi, scontri, scioglimenti (1931-32), li- mitazioni, soltanto l’Azione cattolica riuscì a sottrarsi alla fascistizzazione integrale, in virtù delle norme dei Patti lateranensi e della conciliazione del 1929 e a mantenersi in quell’atmosfera di afascismo e di fievole clandestinità che consentì la nascita e la cre- scita della generazione post popolare, che si sarebbe ritrovata nel 1946 alla Costituente. Ecco: all’indomani del disastro della seconda mondiale e della nazifascista Repub- blica sociale italiana, in pieno disfacimento materiale e morale, l’Italia riconquistò le li- bertà fondamentali e la quasi totale integrità territoriale, sotto la guida dei vecchi partiti rinnovati, dei valori che la Resistenza aveva germogliato. Al monolitico delle “masse nazionalizzate”, seguì la primavera del pluralismo riconquistato. Le diverse forme partiti- che e di organizzazione della società civile si espansero con impeto e vitalità. Ma, tra lo sbarco americano in Italia (1943), la caduta del fascismo e l’imprigiona- mento di Mussolini, le peregrinazioni del cosiddetto residuo istituzionale e governativo del Regno del Sud, l’insurrezione dell’aprile 1943 e la Liberazione, che cosa era avve- nuto sul terreno costituzionale? Per comprenderlo, sia pure approssimativamente, è utile ricorrere ad alcune specifiche notizie.

Come si arrivò alla Repubblica

Le forze programmaticamente impegnate per l’istituzione repubblicana in Italia fu- rono i partiti socialista, comunista, i mazziniani (repubblicani) e il Partito d’azione. Ad essi si aggiunsero buona parte degli ex popolari e dei nuovi democratico-cristiani, so- prattutto del Centro-Nord6. Non minore importanza dei movimenti politici ebbero anche altri fattori, quali la disaffezione di influenti intellettuali meridionali, nonché spezzoni del fascismo. E nep-

6 Luigi Sturzo, ancora invitato a rimanere in esilio perché si temeva che, come convinto repubblicano, avrebbe potuto influenzare i cattolici nella scelta istituzionale, il 17 aprile 1946, inviò una lunga lettera a De Gasperi esortando la Dc a prendere posizione. Ciò avvenne all’in- terno del partito nel Congresso di Roma (24-28 aprile 1946). Su 836.812 voti, 503.085 (60%) andarono alla repubblica, 146.061 alla monarchia (17%), mentre i neutrali furono 187.666 (23%). Le difficoltà per la scelta repubblicana venivano soprattutto dall’ambiente cattolico. L’11 aprile Mario Scelba aveva scritto a Sturzo, che «[De Gasperi] Deve essere anche sottoposto a pressioni vigorose dagli esponenti altolocati del clero. Quasi tutti i vescovi sono per la mo- narchia». Cfr. PIETRO SCOPPOLA, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 235-237. Gli ambienti cattolici d’ispirazione monarchica si presero tuttavia la rivincita alle elezioni per la Costituente. Scelba scrisse a Sturzo il 1 luglio 1946: «Ciò che è apparsa intollerabile è stata l’azione diretta e in vasta scala per la monarchia e per i candidati monarchici inclusi nelle liste della Dc. Ordini precisi e perentori; esclusioni altrettanto precise e perento- rie. E si sono viste cose che rimarranno memorabili. Uomini di nessun valore, solo perché monarchici, saltati in primo piano; e uomini di primo piano combattuti, calunniati, caduti», in idem, p. 241. La corrispondenza tra Scelba e Sturzo era frequente e confidenziale, perché Scelba era stato segretario particolare del fondatore del Ppi.

96 pure si può trascurare il disimpegno dalla monarchia dell’Uomo qualunque, il movi- mento molto diffuso nel Sud che avrebbe raccolto oltre un milione e duecentomila voti alle elezioni della Costituente: infatti, nel Congresso nazionale della primavera del ’46, i qualunquisti avevano accantonato la questione monarchia-repubblica nel nome della pace sociale, lasciando libertà di voto agli aderenti. Nel popolo non impegnato nei partiti, il grande e sentimentale spartiacque tra il pas- sato monarchico e il futuro repubblicano era costituito dalla fallimentare conclusione del fascismo e dalla tragedia della guerra, imputate in gran parte a un re che aveva tra- dito lo Statuto privando il Paese della libertà e che si era piegato all’alleanza con la Ger- mania nazista. Tra queste posizioni viene a situarsi anche la passività, l’agnosticismo, di coloro che dal punto di vista istituzionale si dichiaravano, ed erano, monarchici, ma che sul terreno pratico avrebbero accettato lealmente, come poi fecero, l’istituzione repubbli- cana, come Benedetto Croce, Enrico De Nicola, Luigi Einaudi. De Nicola ed Einaudi furono addirittura i due primi presidenti della Repubblica. Per comprendere ciò che accadde tra l’8 settembre 1943 e il 2 giugno 1946 occorre scendere in alcuni particolari, tenendo sott’occhio la questione istituzionale intrecciata con i problemi della “nuova legislazione”, che da una parte doveva abrogare le norme liberticide del ventennio fascista e dall’altra colmare il vuoto con provvedimenti impo- stati - se così si può dire - nella prospettiva del nuovo Stato che i partiti del Cln inten- devano creare.

Tra “questione istituzionale” e “nuova legiferazione”

La questione istituzionale si era formalmente posta fin dal 25 luglio 1943, giorno dell’arresto di Benito Mussolini e della fine del ventennale accordo tra fascismo e mo- narchia, giorno in cui Vittorio Emanuele III era fuggito a Pescara, per peregrinare poi a Brindisi, e, infine, a Salerno, ove i partiti dell’antifascismo e del Cln - sotto l’ala degli alleati anglo-franco-americani e con una parte del mutilato esercito italiano - si avviava- no a riconquistare l’Italia all’unità ed alla democrazia. Come erano vissuti gli avvenimenti ben lo rappresentano le parole scritte da Bene- detto Croce nel “Giornale di Napoli” il 13 ottobre 1944, in polemica con Luigi Salvato- relli, sulle responsabilità della Corona nella storia d’Italia e sulle relative conseguenze. «Ciò che egli dice della responsabilità di Vittorio Emanuele III nel triste e vergognoso periodo chiuso della nostra vita nazionale, è già stato gridato da noi, qui in Napoli [...] noi nel dire e nell’esortare e nel premere perché il re lasciasse il potere come alla fine ottenemmo, facevamo politica e non già scrivevamo storia». Erano le tinte fosche del dramma italiano, vissuto e interpretato in quei giorni da quel prestigioso protagonista della cultura nazionale del Novecento, che culminavano nell’esecrazione finale dell’epi- gone della tragedia, dell’imbelle (oh, ironia dell’appellativo di “re soldato”!) Vittorio Emanuele III. Esclamava Croce: «Forse anche nella nostra indignazione per l’accaduto c’era, almeno in alcuni di noi, il senso doloroso dell’offesa che si era recata da un re dei Savoia a questa veneranda casa sovrana, la più antica d’Europa, che noverava nove secoli di vita, ricchi di nobili e severe memorie». Riecheggiava quel grido il compro- messo Croce-De Nicola, accettato poi da Vittorio Emanuele III il 20 febbraio 1944, con la delega dei poteri del sovrano al luogotenente, il figlio Umberto. Un passaggio di

97 estrema delicatezza, che (a parere di molti), se fosse stato percorso dal vecchio re nei modi proposti, avrebbe forse potuto salvare in extremis la monarchia sabauda. Ora, le forze politiche - di cui si è vista l’ispirazione - erano variegate nel loro muo- versi, tanto che vale la pena rilevarne i passaggi, per meglio configurare gli approdi finali dell’innovazione istituzionale sulla strada del referendum. Ebbene, si abbia a mente la posizione dell’Italia giolittiana, quella della continuità, interpretata da Croce-De Nicola, volta a mantenere in vita l’istituzione monarchica me- diante l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, abdicazione che non vi fu, dal momento che il re si ritirò semplicemente a vita privata, lasciando al principe ereditario l’onere della luogotenenza, istituto costituzionalmente indefinito, attraverso il quale - tuttavia - si giunse per gradi al governo del Regno del Sud e, in certo senso, anche alla progres- sione della riforma costituzionale. Poi la posizione intransigente, e già richiamata, di repubblicani, azionisti, socialisti, che volevano il passaggio immediato al sistema repubblicano. Ed ancora, l’attendismo dei democratico-cristiani, condizionati dall’opinione della segreteria di Stato vaticana, favorevole alla monarchia ed ostile a De Gasperi. Infine, fondamentale tra gli avvenimenti di quei mesi, si colloca la cosiddetta svolta di Salerno da parte di Togliatti e dei comunisti, che stabilivano una tregua sulla questio- ne istituzionale. Il fatto nuovo si accompagnava al riconoscimento del governo del re da parte dell’Urss nel marzo 1944 e allo sbarco a Salerno, il 27 marzo del 1944 (dopo diciotto anni di assenza dall’Italia) di Palmiro Togliatti. Togliatti dichiarava: «Vogliamo un governo di carattere transitorio, ma forte e autorevole per l’adesione dei grandi par- titi di massa» e, poi, per la questione istituzionale, proponeva «un’assemblea nazionale costituente eletta a suffragio universale diretto e segreto subito dopo la fine della guerra»7 . Ed ancora, non si può non aggiungere che i giornali erano in buona parte sostenitori del cambiamento istituzionale e che risentivano della pressione delle classi dirigenti e, insieme, dei due-tre milioni di italiani tesserati dei partiti ciellenisti, sui quali aveva agito da tempo quella specie di riflesso condizionato che Giuseppe Antonio Borgese, fin dal- l’esilio, nel 1937 aveva così descritto: «Quando la monarchia fu definitivamente coin- volta nel fascismo, tutti gli italiani antifascisti diventarono repubblicani». Ciò che, però, contenne le spinte massimaliste degli azionisti e di Pietro Nenni, che insistevano per l’immediato cambiamento istituzionale, fu il moderato procedere di Al- cide De Gasperi, trentino irredentista di patria italiana ma anche di ferme convinzioni repubblicane ed europeiste. Ebbene, De Gasperi comprese che, dopo il regime fascista e la guerra, i destini della nazione non potevano affidarsi - come voleva Togliatti - al- l’elitarismo di un collegio di “padri coscritti”, che scegliessero la forma istituzionale, sicché insistette nell’affermare la priorità del ricorso diretto al “popolo sovrano”. Nello stesso tempo, De Gasperi - ora da ministro nei governi Bonomi e Parri ora da presidente del Consiglio - accompagnava il cammino verso la decisione istituzionale appoggiando la progressiva trasformazione costituzionale, che, superando le secche dell’ormai ina- deguato Statuto albertino, già volgesse al nuovo patto istituzionale. In questo senso si

7 GIUSEPPE MAMMARELLA, L’Italia dalla caduta del fascismo ad oggi, Bologna, Il Muli- no, 1978, p. 75.

98 spiega la contemporaneità dell’urna del 2 giugno 1946: scheda repubblica-monarchia/ scheda deputati della Costituente. Ora, per quanto con soli accenni, appare utile qualche richiamo ai documenti della “marcia verso la nuova costituzione”, l’altra pagina di storia della fondazione della Re- pubblica.

La “costituzione provvisoria”

Quella che gli storici del diritto chiamano prima “costituzione provvisoria” prese corpo dal decreto legge luogotenenziale del 25 giugno 1944, n. 151; la “seconda costitu- zione provvisoria” nacque dal decreto legge luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98. Si tratta di passaggi che comportarono già di per sé delle importanti modifiche isti- tuzionali, per quanto influenzate dalla contingenza e dal travaglio della politica pratica. La “prima costituzione provvisoria”, nota anche come il “più significativo atto della svolta di Salerno”, rappresenta il taglio netto con l’anteriorità del regime liberale, che il re aveva cercato di ripristinare con il regio decreto legge del 2 agosto 1943, n. 705, con cui - a seguito dello scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni - si metteva fine alla XXX legislatura del regno, disponendo che entro quattro mesi dalla fine dello stato di guerra si sarebbe eletta una nuova Camera dei deputati. La “prima costituzione prov- visoria” storna il disegno restauratore, cambia le carte in tavola e stabilisce che, a guer- ra conclusa, si provvederà alla scelta istituzionale con l’elezione di un’Assemblea co- stituente, provvista del mandato di «deliberare la nuova costituzione dello Stato». Un altro cambiamento di scenari avvenne tuttavia, ad avanzate modificazioni belliche, con il decreto legge luogotenenziale del marzo 1946, allorché il governo - il 10 marzo - decise di sottrarre alla Costituente il potere di deliberare sulla forma istituzionale «rimettendolo direttamente al popolo mediante un referendum da effettuarsi contemporaneamente all’elezione dei deputati per la Costituente», di modo che «l’Assemblea costituente si sarebbe trovata di fronte a una soluzione precostituita della questione istituzionale, po- tendo così dedicarsi esclusivamente alla redazione della nuova costituzione». Inutile aggiungere che, di conseguenza, si doveva affrontare il problema massimo della formazione della rappresentanza mediante un idoneo sistema elettorale, individua- to da quasi tutti nel sistema proporzionale, cui era connessa - ed ormai storicamente acquisita - la concessione del voto alle donne, già fatta approvare dalla Camera dei de- putati ad iniziativa del Partito popolare italiano nel dicembre del 1921, ma mai attuata. Con il regime democratico, e in vista della nuova costituzione, il sistema proporzionale era ritenuto indispensabile per dare legittimità alle nuove istituzioni. Con queste premesse si giunse alla convocazione dei comizi elettorali del 2 giugno 1946. A un mese dalle urne, il pervicace Vittorio Emanuele III si decise ad abdicare, strumentalmente ed all’ultimo momento, nell’ormai disperata illusione di salvare la monarchia. Umberto, il successore, regnò pertanto un solo mese, il maggio della cam- pagna elettorale. E il 2 giugno 1946 il popolo italiano nella sua maggioranza voltò pagina e fu repubblica. La scelta repubblicana ottenne 12.717.923 voti, pari al 54,3 per cento dei voti validi, contro i 10.719.284 suffragi ottenuti dalla monarchia. Umberto II, il “re di maggio”, dovette prendere atto - non senza una certa tensione con il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi - che la svolta repubblicana c’era stata ed era legittima. In attesa dell’elezione del presidente della Repubblica da parte dell’As-

99 semblea costituente, De Gasperi assumeva le funzioni di capo provvisorio dello Stato. Il 28 giugno 1946 venne eletto dall’Assemblea costituente capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. Due anni dopo, a Costituzione emanata, il presidente Luigi Einaudi, ricordando - nel suo messaggio dopo il giuramento - l’istituzione della Repubblica commentava: «Il tra- passo avvenuto il 2 giugno dall’una all’altra forma istituzionale dello Stato fu non solo meraviglioso per la maniera legale, pacifica del suo avveramento, ma anche perché fornì al mondo la prova che il nostro paese era ormai maturo per la democrazia; che se è qualcosa è discussione, è lotta, anche viva, anche tenace fra opinioni diverse ed oppo- ste; ed è, alla fine, vittoria di una opinione, chiaritasi dominante, sulle altre». E quindi concludeva affermando che il processo formativo della Repubblica si completava con la Costituzione, che - osservava - «afferma due principi solenni: conservare della strut- tura presente ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza».

Il regime democratico

In quella fase storica, tra il 1945 e il 1948, avrebbero pertanto preso forma defini- tiva: 1) un nuovo profilo istituzionale e costituzionale dello Stato, con il passaggio dalla monarchia alla repubblica e dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana; 2) un nuovo sistema politico, con il passaggio dalla dittatura del partito unico di modello fa- scista alla democrazia basata sui partiti di massa; 3) un nuovo equilibrio di governo, con il passaggio dall’alleanza tra i partiti antifascisti al conflitto tra i partiti di centro e i partiti della sinistra; 4) un sistema economico diverso nei suoi tratti essenziali rispetto a quello dell’epoca fascista, di cui tuttavia sopravvivevano alcune strutture. Il cammino fu rapido. Ristabilite l’unità, la libertà, la legalità in tutta Italia, nel marzo del 1946 il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi firmò il decreto legislativo per l’indizione, il giorno 2 giugno 1946, del referendum istituzionale e l’elezione dell’As- semblea costituente. Nei tre mesi di preparazione al voto ebbero corso due importanti avvenimenti: il pas- saggio del governo locale dal paritario dei Cln (Dc, Pci, Psi, Pli, Partito d’azione) alle amministrazioni comunali liberamente elette; la celebrazione dei congres- si dei partiti, che ratificarono le scelte precedentemente compiute e lanciarono i pro- grammi per l’Assemblea costituente.

I programmi dei partiti

La Democrazia cristiana eleggeva come idea-forza la libertà, definita come «la ca- pacità di obbedire alla ragione e di praticare la virtù»; libertà che, sul piano sociale non era vista come collegata a uno specifico contenuto, ma come «autodeterminazione della persona garantita dallo Stato»8. Dunque, la centralità assoluta era (è) la persona. Nella presentazione del pensiero cattolico, secondo cui i diritti naturali preesistono allo

8 GUIDO GONELLA, Il programma della Democrazia cristiana, Roma, Seli, 1946.

100 Stato e i rapporti interpersonali si svolgono come momento autonomo dallo Stato, si affermava che lo Stato è di diritto in quanto riconosce questi rapporti giuridici ed offre ad essi la sua sanzione9. Il criterio dell’organizzazione statale, asserito dalla Dc, era quindi decisamente garantista, sulla base di un modello avanzato di “costituzione-program- ma”. In materia istituzionale, la Dc - al suo interno in maggioranza repubblicana - adot- tò le stesse conclusioni cui sarebbero pervenuti i liberali: non impegnò i suoi elettori a pro dell’una o dell’altra forma istituzionale. D’altra parte la scuola sociale cristiana, in cui il partito affondava le radici, non privilegiava alcuna formula, purché la persona fosse centrale e la libertà, con acconci meccanismi democratici, fosse garantita. Oltre- tutto, la “non scelta ideologica” faceva alla pari col realismo politico: i democristiani erano ben convinti che si sarebbero affermati come prima forza parlamentare, proprio come era avvenuto due mesi prima nelle elezioni amministrative, sicché buona politica sconsigliava prese di posizione che potessero alienare il voto moderato allo scudo cro- ciato. Il Pci si collocava come forza nazionale atta a far superare i limiti del Risorgimento: i suoi strumenti ideologici si ponevano tra le analisi gramsciane e la teoria delle alleanze e della “democrazia progressiva”, con riferimento sul piano internazionale all’Unione Sovietica. Il Pci cercava la strada per un patto costituzionale tra la sinistra e la Democrazia cristiana. Palmiro Togliatti, in un discorso all’Assemblea costituente nel marzo del ’47, avrebbe infatti dichiarato come punto di arrivo una costituzione in cui si affermassero i nuovi diritti del lavoro, i nuovi diritti sociali, secondo una «nuova concezione del mondo economico, non individualistica, né atomistica ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro: è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà». Ed avrebbe aggiunto: «Se questa confluenza di due diverse conce- zioni [della Dc e del Pci] su un terreno ad esse comune volete qualificarla come un “compromesso” fate pure. Per me si tratta invece di qualcosa di molto più nobile ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per fare la Costituzione»10. Il Psiup, partito maggioritario della sinistra, era travagliato dalla ricerca di un defini- tivo, comune programma, conteso come sempre tra le storiche due anime, la massi- malista e la riformista: l’anima della fusione con i comunisti e l’anima autonomista, e questa - a sua volta - scissa tra l’indirizzo dell’umanesimo marxista di Giuseppe Sara- gat e la neutralità nella scelta tra fusione ed autonomia di Pietro Nenni. Il Partito d’azione era dilaniato da molti contrasti. Composto da un elevato numero di intellettuali, discettava e si scontrava sulle opposte tesi della netta impostazione so- cialista e della laboriosa, per certi versi indefinibile, sintesi liberal-socialista. Il Partito liberale, egemonizzato dai prestigiosi leader del prefascismo e intento ad assorbire gruppi minori capeggiati da Bonomi e da Nitti, restava fermo nella propria idea di liberalismo come metodo e non come concreto sostenitore di interessi politici. Contro il suggerimento dell’agnosticismo istituzionale di Benedetto Croce, si procla- mava monarchico, lasciando però a ogni aderente la libertà di scelta.

9 GIANNI BAGET BOZZO, Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti. 1945-1954, Firenze, Vallecchi, vol. I, 1974. 10 Discorso di Palmiro Togliatti all’Assemblea costituente, 11 marzo 1947. Cfr. GIORGIO BOCCA, Palmiro Togliatti, Roma-Bari, Laterza, 1973, p. 448.

101 Lo scarto emotivo, i contrasti, le stesse contestazioni - che comunque ebbero un qualche strascico nei mesi successivi - furono assorbite dall’impegno della Costituen- te. L’opinione pubblica si concentrò su quanto avveniva nell’aula, sia nell’iter della carta costituzionale che nel dibattito dei problemi scottanti del “primum vivere” e dei provve- dimenti adottati. L’Assemblea costituente fu composta da nove formazioni politiche, che, sia pure con delle variazioni non di rilievo, si sarebbero mantenute nella medesima forma sulla scena politica fino al 1994. La Democrazia cristiana, il 2 giugno 1946, si rivelò forza leader con il 35,2 per cento dei voti, seguita dai socialisti con il 20,7, e dai comunisti con il 18,9; gli altri sei partiti registrarono adesioni singolarmente inferiori al 7 per cen- to dei suffragi.

Verso la Carta costituzionale

In poco più di sei mesi la Commissione dei settantacinque mise a punto il progetto di Carta costituzionale, la cui redazione definitiva venne affidata alla cerchia ristretta di diciotto colleghi di consumata esperienza nelle scienze e nel linguaggio giuridico. L’As- semblea discusse criticamente il testo, apportando integrazioni, modifiche, puntualiz- zazioni; sicché, il 22 dicembre del 1947, il progetto divenne la Costituzione della Re- pubblica italiana, con l’approvazione di 453 voti favorevoli, contro 62 contrari. Pro- mulgata il 27 dicembre dal capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, la Costitu- zione entrò in vigore il primo gennaio del 1948. Ma torniamo a vedere nei particolari la strada che condusse al testo. Il 24 di giugno si insediò l’Assemblea costituente sotto la presidenza del comunista Umberto Terraci- ni. I 556 costituenti appartenevano: 207 alla Democrazia cristiana, 115 al Partito socia- lista italiano di unità proletaria, 104 al Partito comunista, 41 all’Unione democratica nazionale, 30 al Fronte dell’Uomo qualunque, 23 al Partito repubblicano italiano, 16 al Blocco nazionale della libertà, 13 ad altre liste, 7 al Partito d’azione. Fissati alcuni criteri procedurali e organizzativi, si demandò ad una commissione, detta “dei settantacinque” (dal numero dei componenti) la discussione e la redazione del testo costituzionale, ri- servando all’aula la successiva analisi e definizione, sino all’approvazione. All’aula, ol- tre alla funzione costituente, erano attribuiti il potere di eleggere il capo provvisorio dello Stato, il controllo politico sul governo, la legislazione ordinaria «nelle materie che non si potesse o non si giudicasse opportuno lasciare alla potestà legislativa del governo»11. La Commissione dei settantacinque si suddivise a sua volta in tre sottocommissioni: diritti e doveri dei cittadini; organizzazione costituzionale dello Stato; lineamenti econo- mici e sociali. Le sottocommissioni avviarono l’attività il 26 luglio 1946. Un comitato ristretto - detto Commissione dei diciotto - coordinò i lavori delle tre sottocommissioni. I lavori della Costituente, previsti nell’arco di otto mesi, furono poi prorogati a di- ciotto, data la complessità delle materie trattate. Fondamentale fu il lavoro della I sottocommissione, presieduta da Umberto Tupini, democristiano, ed ex popolare. In essa furono molto attivi Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Aldo Moro, democristiani, e i due maggiori esponenti della sinistra, Palmiro

11 ALESSANDRO PIZZORUSSO, Lezioni di diritto costituzionale, Roma, Il foro italiano, 1981, p. 82.

102 Togliatti (Pci) e Lelio Basso (Psiup). In particolare, sui più complessi nodi politici e di dottrina, il dibattito venne caratterizzato da Dossetti e Togliatti. Tra i problemi affrontati e portati a soluzione è utile richiamare la vexata quaestio del riconoscimento nella Costituzione italiana dei Trattati del Laterano, che portarono alla costituzione dello Stato della Città del Vaticano e alla conciliazione tra la chiesa cat- tolica e lo stato italiano, sottoscritti l’11 febbraio 1929 dal cardinale segretario di Stato Gasparri e dal capo del governo, Benito Mussolini. La scelta di parte comunista di votare a favore dell’articolo 7 sarà motivata dalla necessità di evitare scontri con il vasto mondo cattolico, ma pure dalle considerazioni di diritto internazionale relative alla bilateralità dei patti. Giocarono a sostegno del voto anche la considerazione che con l’articolo 7 si sarebbe avuto l’implicito riconoscimen- to della Costituzione italiana da parte della chiesa cattolica, oltre ad evitare che il mondo cattolico ricorresse ad un referendum confermativo della Carta costituzionale. Egualmente difficile per parte democristiana fu la discussione sull’indissolubilità del matrimonio, soprattutto per le forti pressioni vaticane. I dossettiani erano disposti a dare battaglia su tale principio, mentre - ricorda “La Civiltà Cattolica” - «il gruppo dei degasperiani preferiva invece non spingere troppo su tale materia, che essi considera- vano, a motivo del suo contenuto confessionale, difficilmente negoziabile»12. E ciò sta a documentare come da entrambe le parti il cammino verso l’intesa fosse difficoltoso. Un’altra questione da definire era quella della repubblica come “istituzione definiti- va”, poiché alcuni giuristi sollevavano fondate obiezioni. Alla fine del confronto preval- se la tesi di Togliatti, di stabilire come definitiva la forma repubblicana, tesi sostenuta anche da Moro e Dossetti. Un altro problema dibattuto a fondo, anche a causa di uno stato di fatto di cui oc- correva tener conto, era quello delle autonomie. La situazione si presentava complessa, poiché fin dal 7 settembre del ’45 la Valle d’Aosta aveva ricevuto un ordinamento prov- visorio, che di fatto ne riconosceva l’autonomia. A sua volta, la Sicilia già disponeva di fondamentali attribuzioni nella materia. La Sardegna istituiva una consulta proprio a quel fine; Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia restavano ferme alle discussioni sia in- terne che internazionali. Antiregionalisti erano soprattutto i socialisti: per Basso l’istitu- to regionale era una regressione, per Nenni si sarebbe trattato di una specie di federa- lismo regionale. Per quanto negativa, l’opposizione comunista appariva più sfumata13.

12 GIOVANNI SALE, I cattolici alla Costituente, in “La Civiltà Cattolica”, a. CLVIII, n. 3.777, novembre 2007, p. 225. In nota (n. 27) si aggiunge che l’on. Corsanego, relatore democristia- no sui problemi della famiglia nella I sottocommissione, aveva chiesto il parere della segre- teria di Stato vaticana sulla formula: «Lo Stato (o la legge) garantisce la stabilità della fami- glia secondo la tradizione morale giuridica del popolo italiano». Ovviamente il parere fu nega- tivo, specie per le due parole “morale” e “giuridica”. 13 Nella Conferenza di organizzazione del Pci a Firenze, nel gennaio 1947, Togliatti avrebbe detto: «Sappiamo benissimo che lo spezzettamento del paese per molti non è altro che un espediente a mezzo del quale si vorrebbe porre una barriera alla penetrazione in Italia di qua- lunquismo, di democrazia avanzata che proviene dalle regioni più progredite. Per cui, ad e- sempio, quando vi sarà da fare una riforma agraria, essa dovrebbe essere limitata alle regioni emiliana e lombarda e non dovrebbe estendersi proprio laddove è più necessaria, in quelle regioni agrarie arretrate del Mezzogiorno e delle isole che dovrebbero restare, grazie all’isola- mento, sotto il controllo delle vecchie cricche legate a una struttura di arretratezza reazionaria».

103 Convinti regionalisti erano i costituenti democristiani, stimolati dal gruppo degli ex popolari, che si rifacevano addirittura al Congresso di Venezia del Partito popolare del 1920, e alla successiva rielaborazione sturziana della proposta regionalista.

Una costituzione viva, una “costituzione-programma”

Pur non essendo consentito in questa sede toccare molti altri temi di interesse gene- rale, qualche stimolo è stato comunque offerto riguardo al cammino per arrivare alla Costituente, e poi alla Costituzione; che, a nostro avviso, è più appropriato definire come una grande “intesa” per costruire, anziché - come spesso si dice - semplicemente un “compromesso”. La Carta costituzionale introdusse fondamentali obiettivi di carattere sociale da «porre come traguardi normativi al legislatore»14. Emergeva dal suo dettato una concezione del rapporto tra Stato e società ben diversa da quella del liberalismo risorgimentale, e, pure, si ponevano in essa sicure garanzie contro tralignamenti verso forme autoritarie, diversamente da com’era potuto accadere nel passato. Per cogliere il forte rinnovamento introdotto nel sistema dalla Costituzione repub- blicana, basta sottolineare come la Carta fondativa riconosca l’attività propulsiva dello Stato nei confronti della società e della sua azione per il progresso delle classi inferiori: gli esempi sono numerosi. Basti ricordare la definizione introduttiva di «Repubblica fon- data sul lavoro», con le «conseguenti affermazioni sul diritto al lavoro, da realizzarsi con l’intervento economico dello Stato e con una pianificazione vista come il prezzo per realizzare un’eguaglianza non soltanto giuridica e civile tra le diverse classi»15, nonché «le molteplici disposizioni relative ai rapporti economico-sociali», e, ancora, la «rivolu- zione costituzionale» nella struttura e negli organi dello Stato, sino alle autonomie loca- li. Inoltre, la Costituzione repubblicana si presentava come una “costituzione program- ma”16 di uno Stato nuovo in corso di costruzione; ben al di là di quelle “a struttura in- definita”. I mesi della Costituente furono un tempo eccezionale nella storia nazionale. Infatti quell’Assemblea è ritenuta da eminenti giuristi organo straordinario sotto un triplice ri- guardo: «Anzitutto per la straordinarietà della funzione fondamentale: la deliberazione cioè di un nuovo testo costituzionale; inoltre per la composizione quale organo unica- merale (a differenza del sistema bicamerale, ordinario nella storia politica italiana) e, infine, per la temporalità del mandato, non essendo destinata a rivivere un’assemblea del genere nemmeno per eventuali revisioni del testo adottato»17. Di recente, e con lo strumento referendario, il popolo italiano a grande maggioranza ha bloccato i tentativi avventuristici di modificare alcuni articoli vitali della Costituzione repubblicana, perché ha compreso che in questa delicata materia non sono consentite fantasiose fughe in avanti, che potrebbero rivelarsi deleterie per i fondamenti e la vita della Repubblica e della democrazia.

14 C. GHISALBERTI, op. cit., p. 417. 15 Ibidem. 16 A. PIZZORUSSO, op. cit. 17 FERRUCCIO PERGOLESI, Lineamenti della Costituzione italiana, Roma, 5 Lune, 1956.

104 Giulio Pastore al tempo della Costituente

Gianfranco Astori

I giornalisti sono, normalmente, testimoni degli avvenimenti: la mia età e la mia pro- fessione, di conseguenza, non fanno di me il più qualificato a gettare lo sguardo su un arco di tempo che abbraccia sette decenni del Novecento. Giulio Pastore nasce nel 1902 e, come è noto, muore nell’ottobre del 1969. L’opportunità di poter indagare sulla sua figura nondimeno mi è grata. Pastore è giornalista quando esserlo significa testimoniare un’idea, una posizione culturale, convinzioni profonde; quando il rapporto tra esercizio dell’attività pubblicistica su giornali e quotidiani e impegno su altri terreni, quello associativo, quello politico, è intimo. La vita politica italiana non era sicuramente all’epoca molto sviluppata, si affaccia- vano i soggetti popolari di massa, in quel periodo a cavallo della prima guerra mondiale, a partire da quello cattolico. Il giornalismo è quindi la palestra attraverso la quale avviene la sua formazione. Il Pastore che entra all’Assemblea costituente nel 1946 è profonda- mente diverso da quello che, negli anni venti, aveva unito l’attività giornalistica a quella di propagandista dell’Azione cattolica e di organizzatore sindacale. Una personalità molto più complessa: attraverso la sua figura - come attraverso quella di altri protagonisti del Novecento - è possibile in realtà intravedere le tante storie che hanno intersecato il se- colo sul piano politico, delle idee e sul piano sociale. Nel suo caso, potremmo ricordare il tormentato percorso del movimento cattolico italiano prima, durante e dopo il fascismo. Non senza contraddizioni, anzi. Su quelle storie potremmo in qualche modo vedere ri- flessa, come in uno specchio, la stessa vicenda del sindacalismo moderno. Pastore, se fosse qui oggi, sarebbe assai sorpreso di vedere come le idee per le quali si è trovato a combattere in quegli anni in assoluta minoranza, e che hanno portato anche alla rottura dell’unità sindacale così faticosamente raggiunta nel 1944 con il Patto di Roma, siano divenute in larga misura patrimonio comune delle organizzazioni sindacali esistenti. Pastore è testimone, vittima, attore, nel processo di nascita, affermazione e trasfor- mazione della Democrazia cristiana in forza definitivamente moderata e “centrale” della vita politica del Paese. L’abbandono di Dossetti, dopo un rinnovato tentativo nel 1950, è rappresentativo del significato che aveva avuto il 18 aprile 1948: era mutato il quadro della lotta politica nel nostro Paese. Infine, Pastore, nella fase conclusiva della sua vita, è il protagonista indiscusso della costruzione di una politica di sviluppo dei territori più poveri del Paese, il Mezzogiorno e le altre aree “depresse”. Ne parla in modo esemplare Mario Romani (uno fra gli ispiratori a lui più vicini e professore di Storia economica all’Università cattolica), quasi come di una fase non necessaria nella vita del leader cat- tolico. Quanto egli aveva già realizzato, scrive Romani, gli avrebbe consentito di «porsi dietro le spalle un successo che sarebbe bastato a riempire degnissimamente una vita» ed invece ricomincia «un durissimo lavoro di applicazione di principi a lui cari», quelli di una «concezione pluralistica della vita sociale e politica»1.

1 MARIO ROMANI, Introduzione, in GIULIO PASTORE, I lavoratori nello Stato, Firenze, Val- lecchi, 1963.

105 Per Pastore, inoltrarsi su un terreno come quello dell’attivazione di una politica di sviluppo territoriale utile alla ripresa del nostro Paese, corrisponde all’urgenza di una ulteriore tappa nell’applicazione delle sue idee, la continuazione del disegno dei “lavora- tori nello Stato”. Prima della sua azione, questa politica non era mai stata gestita come disegno complessivo. È la grande fase della riscoperta di due Italie, in cui la matrice cattolica rivisita la riflessione culturale prevalentemente laica di Guido Dorso e di altri sul Mezzogiorno, e riflette, con Sturzo, sulla sfida che ne deriva alla stessa questione democratica, proponendosi di affrontarla “liberandola” con le azioni della politica, gli strumenti di governo e attraverso istituzioni che vengono create appositamente. È il Giulio Pastore sostenitore della causa repubblicana quello che viene eletto al- l’Assemblea costituente. Pastore, nel periodo dal 25 luglio 1943 (la caduta di Mussolini e del regime fascista) al 2 giugno 1946, ha assunto responsabilità crescenti nel movi- mento cattolico sulla base di un coerente antifascismo che non verrà mai meno. L’espe- rienza vissuta nell’ambito della lotta al fascismo rappresenta per lui un crinale non su- perabile. È quel crinale che lo porta alle dimissioni dal governo Tambroni, l’8 aprile 1960, con una lettera al presidente del Consiglio, assolutamente eloquente. Pastore si dimette dal governo e scrive: «Risolvo così il mio duplice caso di coscienza: innanzitut- to quello del tutto personale derivante dalla meditata convinzione che, professandosi il Movimento sociale italiano come una naturale continuazione del fascismo, non mi è possibile mantenere il mandato che trae il suo sostegno dai voti di quella parte; in se- condo luogo perché non ritengo in alcun modo positivo per il Paese il perpetuarsi di incoerenti comportamenti quando si partecipa a posti di responsabilità nella guida poli- tica del Paese». Non ci sono mezze misure nella personalità di Pastore, lo vediamo su questo terreno, lo vedremo su un altro terreno, quello dei rapporti all’interno della Cgil che lo porteranno a un gesto così clamoroso come la rottura dell’unità nel momento in cui riterrà che l’utilizzo politico dello strumento sindacale venga a prevalere sugli aspetti di organizzazione del movimento dei lavoratori. Pastore, il 25 luglio 1943, dopo la caduta di Mussolini, riprende subito l’attività sin- dacale. Il trionfo fascista lo aveva visto lasciare nel 1926 la sua funzione a cavallo tra giornalismo e sindacato - la Cil, Confederazione “bianca” - che aveva esercitato accan- to a Grandi, a Monza, in una scuola di grande significato culturale e politico oltre che sindacale. Il leader cattolico partecipa all’attività clandestina che si sviluppa e che, naturalmente, dopo l’8 settembre 1943 e l’occupazione nazista dell’Italia, in particolare di Roma, presenta rischi. Il 29 aprile del ’44 viene arrestato in un agguato della polizia, mentre si sta recando ad una delle riunioni clandestine e viene tradotto al carcere romano di Re- gina Coeli. Accade subito dopo le Fosse Ardeatine, quando il carcere di via della Lun- gara è la “riserva” alla quale attingono le rappresaglie scatenate dai nazifascisti. A Regina Coeli non si perde d’animo e, da giornalista, dà vita a un foglio all’interno del carcere. Un foglio manoscritto, un foglio di carta, di cui è conservata traccia al- l’Archivio di Stato a Roma. Pastore, ironicamente, lo chiama “Radio Buiolo”2. Quella del bugliolo non è esattamente la parte migliore dell’esperienza carceraria e, assumen-

2 A distanza di tanti anni, “Radio Bugliolo” è oggi il titolo di uno spettacolo teatrale di Salvatore Ferraro che denuncia le condizioni delle carceri italiane.

106 dola a ironico pretesto, Pastore riporta una serie di scritti a cavallo tra l’umoristico e il sarcastico. Questo foglio viene fatto circolare tra gli altri detenuti del braccio “politici” di Regina Coeli e rappresenta un momento di collegamento. Arrivano poi a Roma gli americani e ciò comporta lo svuotamento del braccio pri- gionieri politici di Regina Coeli: Pastore riprende subito il suo posto nel movimento antifascista. Due persone sono importanti nell’esperienza di Pastore, anche se da esse si diffe- renzierà: Giovanni Gronchi e Achille Grandi, due protagonisti nella storia del Paese (Gio- vanni Gronchi sarà poi presidente della Repubblica) e due grandi dirigenti sindacali di ispirazione cattolica, che il futuro ministro conosceva sin dai tempi dell’Unione del la- voro di Varallo. Erano coloro che stavano negoziando con Buozzi e Di Vittorio il Patto di Roma sull’unità sindacale, che poi il 3 giugno del 1944 sarebbe stato siglato3. Il movimento cattolico si presenta ricco di contraddizioni all’appuntamento: per Pa- store non è una novità (vedremo poi le esperienze degli anni venti) e ritiene suo compi- to contribuire a far crescere una sensibilità che superi un atteggiamento strumentale presente nel mondo cattolico. Il matrimonio tra democrazia e mondo cattolico passa attraverso la cruna di un ago molto sottile: la soluzione della questione religiosa, nei suoi aspetti materiali come quelli dei Patti lateranensi, e nell’aspetto, apparentemente più banale, del venir meno di quell’anticlericalismo che, soprattutto a cavallo della pri- ma guerra mondiale, si era manifestato attraverso una massoneria onnipresente (e onni- potente in molte realtà), che si esprimeva fondamentalmente mediante il ceto politico di impronta liberale. Anticlericalismo presente però anche nell’ambito del Partito sociali- sta e in qualche modo nella sinistra. Sulla questione dell’unità sindacale fa premio, nel mondo cattolico, il tema della libertà religiosa. Da parte cattolica la preoccupazione pre- valente non riguarda ancora la capacità di organizzazione, di mobilitazione, di impegno e di tradizione sociale delle forze di sinistra, e del Partito comunista in particolare che, durante il fascismo, aveva tenuto viva una serie di riferimenti. La scelta che il mondo cattolico fa è a netto favore dell’unità sindacale, immaginando che questo sia lo strumen- to attraverso il quale la pace, dal punto di vista della libertà religiosa e dell’accoglimento delle fedi, venga maggiormente garantita proprio a mezzo del coinvolgimento di una componente sociale così ampia e rilevante come quella del movimento dei lavoratori. Alcune cose, dal punto di vista dell’aneddotica, possono sembrare curiose per chi si è formato in una fase successiva e, di conseguenza, solo con difficoltà può sintoniz- zare i propri codici culturali con quegli anni. Che fa il mondo cattolico di fronte a questa scelta? Si organizza e cerca contempo- raneamente alleati. Le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (Acli) nascono nel 1944. Pio XII le approva fondamentalmente per uno scopo: fare entrare il movimento catto- lico dei lavoratori dentro l’unità sindacale, agendo al tempo stesso in termini formativi

3 Vi è discussione sulla data, si dice che in verità il patto sia stato siglato dopo, ma si vuole sottolineare che già in clandestinità - perché la liberazione di Roma da parte degli ame- ricani avviene appunto il 4 giugno - vi era stata la capacità delle grandi forze politiche e sin- dacali di intendersi e di pervenire a questo risultato significativo. Cfr. VINCENZO SABA, Il “Patto di Roma”. Dichiarazione sulla realizzazione dell’unità sindacale 3 giugno 1944. Il movi- mento sociale cattolico alla ricerca della terza via, Roma, Edizioni Lavoro, 1994.

107 sui lavoratori di impronta cattolica perché non tradiscano la loro identità e la loro testi- monianza di carattere religioso. Ma non solo: alla salita al potere del fascismo, un vul- nus era stato arrecato sul terreno del rapporto tra mondo cattolico e lavoratori organiz- zati. Siamo nel 1926 e la legge Rocco sopprime il diritto di sciopero e di organizzazione sindacale: l’avvicinamento progressivo tra Vaticano e fascismo porta l’Azione cattolica a consigliare ai propri aderenti di aderire al sindacato fascista. Conferma che, a preva- lere su ogni altra cosa, è la soluzione della “questione romana”. Sarà la stessa Azione cattolica a caldeggiare nel 1929 il voto favorevole al plebiscito indetto dal fascismo, poco dopo la firma dei Patti lateranensi. Caduto il fascismo, appare necessario ricostruire un ponte tra un movimento che si era caratterizzato nella direzione ricordata e la condizione dei lavoratori. Ad Achille Grandi viene attribuita la battuta, riferita alle autorità ecclesiastiche, a proposito dell’unità sin- dacale: «Essi l’hanno voluta coi fascisti, l’abbiano anche coi comunisti»4. Per definire il clima di quei giorni riferiamo un episodio che, letto con le lenti delle polemiche successive, appare significativo. Pio XII riceve in udienza generale i dirigenti aclisti, dando un viatico verso l’unità sindacale e nel giornale della Cgil, “Lavoratori”, leggiamo questo titolo: “Ieri un papa sindacalista ha ricevuto centinaia di lavoratori”. Va sottolineato che le visioni dei protagonisti del sindacato in quegli anni già tendono a differenziarsi. Pastore è insofferente nei confronti di una attività sindacale che vede piegata a scopi politici e propone una visione nuova. Secondo la tradizione di altri paesi europei, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania e anche nella stessa Austria, i sinda- cati sono molto legati alla sinistra politica. Pastore, invece, si propone di realizzare un sindacato destinato a presidiare e tutelare i diritti dei lavoratori nel campo economico e la cui cultura sindacale si sarebbe potuta trasformare in patto politico (un sindacato che poi tratta come soggetto fino agli anni novanta; un sindacato che negozia con il governo su questioni salariali, ma crea politiche a partire ad esempio dalla condizione generale dei salari). E lo fa proprio sulla base dell’esperienza che la Cgil si trova a vive- re in quel momento. Un’esperienza legata non tanto al confronto con gli imprenditori, il padronato, l’industria, ma soprattutto con l’interlocutore pubblico, il governo, per evitare che il rapporto tra aumento del costo della vita, salari e prezzi impedisca alla nascente democrazia di svilupparsi e di crescere. Troviamo traccia di questo in un carteggio che De Gasperi intrattiene con Giulio Pastore. A Varallo, così come in Valsesia e in tutto il Vercellese e il Novarese, Pastore, nel dopoguerra, viene percepito come un leader di forte radicamento locale. In verità Pa- store è anzitutto un leader nazionale. La sua leadership politica non si costruisce a par- tire da un territorio, bensì nasce all’interno di un movimento, di un ideale, e si confron- ta in un rapporto con leadership di prima grandezza. Nel 1944 i suoi interlocutori abi- tuali sono Achille Grandi, Giuseppe Spataro5, Alcide De Gasperi che, proprio quell’an- no, gli invia una lettera manoscritta molto bella6, in cui sostanzialmente gli dice: «Caro

4 Cfr. GIANCARLO VIGORELLI, Gronchi, battaglie d’oggi e di ieri, Firenze, Vallecchi, 1956. 5 La personalità alla quale faceva capo, a Roma, una vera e propria rete per la ricostituzione della presenza dei cattolici democratici in politica. 6 L’originale manoscritto è riprodotto nel citato volume di scritti di Giulio Pastore I lavo- ratori nello Stato.

108 Giulio, io so che sei preoccupato sulla scelta che stiamo facendo, il patto di unità sin- dacale con le forze della sinistra, ma la ragione fondamentale - troviamo conferma di quanto anticipato poco fa - è l’aver ottenuto dalle altre parti contraenti il Patto di Roma una solenne dichiarazione di rispetto e tolleranza religiosa. È l’elemento fondante di una nuova convivenza». Torna quella tematica che aveva aiutato ad uscire dalla contrappo- sizione di tipo religioso. Se questo è un argomento che aveva lacerato il movimento popolare prima del fascismo e a cavallo del successo del fascismo, impedendo soluzio- ni di collaborazione non a livello locale, che c’erano state, ma più ampie, ora appare lasciato alle spalle. Molta acqua è passata sotto i ponti. Dunque, Pastore è considerato un interlocutore autorevole, le sue capacità organiz- zative e di pensiero sono note7. Tra le persone con cui si confronta, in quella era di nascente democrazia, spicca Giuseppe Dossetti, che tanta parte ha avuto nella storia del nostro Paese, nella redazio- ne della Costituzione in particolare. Pur venendo da esperienze molto diverse - “profes- sorino” Giuseppe Dossetti, autodidatta Giulio Pastore - entrano in sintonia nella Demo- crazia cristiana. Tanto che, su insistenza di Dossetti, e contemporaneamente al venir meno di una stretta intesa con Grandi, Pastore fa alcune scelte nella sua vita rinnovata dopo la liberazione dell’Italia. Lascia le Associazioni cristiane dei lavoratori italiani, la- scia l’impegno nella corrente cristiana del sindacato e diventa segretario organizzativo della Democrazia cristiana. In questa qualità gestisce il congresso del partito che deci- de il voto a favore della repubblica nel referendum istituzionale (con un consenso pari all’80 per cento dell’assise), gestisce le elezioni amministrative, il referendum istituzio- nale stesso, in cui Pastore intravede la rottura dell’equilibrio non solo politico ma eco- nomico-sociale preesistente e, infine, l’elezione della Costituente. Con successo, per- ché la Democrazia cristiana in quell’occasione diventa la prima forza politica per con- sensi elettorali. Pastore inizia il suo lavoro, viene eletto alla Costituente, con Dossetti partecipa al gruppo di “Civitas Humana”, dove appunto Dossetti, Lazzati, ma anche personaggi come La Pira e Fanfani, contribuiscono a definire una posizione che oggi potremmo chiama- re di una sinistra a un tempo sociale e a un tempo pienamente cattolica nell’ambito della Democrazia cristiana. E comincia il conflitto con la linea degasperiana e con chi gesti- sce il partito: un grande vecchio, notabile di alta dignità, Attilio Piccioni, ultimo espo- nente all’epoca della chiusura del Partito popolare a tenere aperta la vicenda del catto- licesimo democratico nel Paese e che aveva assunto la guida della Democrazia cristia- na. Il Consiglio nazionale Dc del dicembre 1946 vede l’uscita dalla direzione centrale del partito di questi giovani che avevano contribuito al decollo della presenza politica nella Costituente. La diversa sensibilità sui temi sindacali porta Pastore in conflitto con Achille Gran- di, un personaggio di grande rilievo, ormai gravemente ammalato (morirà nel settem-

7 È lui l’incaricato di dare alle stampe il 27 luglio 1943, due giorni dopo la caduta del fasci- smo, lo schema di programma della Democrazia cristiana. Ed è lui stesso a dare il titolo al- l’opuscolo che sarà poi universalmente conosciuto come Idee ricostruttive della Democra- zia Cristiana, a firma di Demofilo, come si evince da una lettera dello stesso Pastore a Giu- seppe Spataro. Cfr. GABRIELLA FANELLO MARCUCCI, Alle origini della Democrazia cristiana. 1929-1944, Brescia, Editrice Morcelliana, 1982.

109 bre del 1946), che non lo considera l’erede della propria testimonianza. Teniamo conto che Grandi è uno dei dirigenti che “salvano” Pastore nel momento del contrasto coi fascisti valsesiani, col trasferimento da Varallo - siamo nel 1924 - a Monza8. Emergono visioni diverse del ruolo e della collocazione del sindacato da parte di Grandi e di Pastore9, che viene curiosamente accusato di essere la longa manus di De Gasperi nell’ambito del sindacato, nella corrente sindacale cristiana. Tutto questo mentre Pa- store, in conflitto con la linea degasperiana, si è appena dimesso dagli incarichi di par- tito. Grandi indica Giuseppe Rapelli (torinese, figura molto significativa del movimento sociale di impronta cattolica, membro nel 1926 con lo stesso Grandi e Gronchi del triu- mvirato che guidava la Cil prima dello scioglimento) e Renato Cappugi (un toscano vicino all’ala gronchiana, che sarà poi dirigente anche lui del sindacato) come suoi successori nell’ambito della Cgil. Pastore è fuori dalle Acli, è fuori dalla Cgil, è fuori dall’attività della Democrazia cristiana, è, ovviamente, un costituente. Tuttavia, molto spesso è la vita che si incarica di scegliere e non sono gli uomini esclusivi arbitri del proprio destino. Morto Achille Grandi, Rapelli diventa segretario generale della Cgil, ma si ammala a sua volta e non è più in condizione di rappresentare la corrente cristiana nell’ambito del sindacato. Tocca a Pastore diventare responsabile - siamo a maggio del 1947 - della corrente sindacale cristiana su indicazione del Cis (Comitato d’intesa sindacale, che comprendeva l’Azione cattolica, la Democrazia cri- stiana, l’Icas, la Coldiretti, la Confcooperative, le Acli)10. Le spiegazioni sono tante e non è questa la sede per illustrare le ragioni che portano in particolare la Dc a scegliere la figura di Pastore, preferendola al gronchiano Cappugi. In quel contesto il leader valsesiano si trova ad essere un personaggio che occupa uno spazio crescente nella Costituente e non solo. La nuova stagione nella vita delle istituzioni e nella vita economico-sociale apertasi con la Liberazione, si accompagna, in parallelo, alla crescita impetuosa dei partiti di massa, alla crescita del ruolo delle organizzazioni sindacali che nella lotta per la salva- guardia delle condizioni dei lavoratori hanno evidentemente la loro radice. Sono sfide per le quali, non solo i cattolici, come osservato in precedenza, ma i vec- chi dirigenti sindacali tutti non sono culturalmente attrezzati. Tanto è vero che se noi abbiamo un elemento di contraddizione nella nostra Costituzione è in materia di libertà sindacali tra la costituzione materiale del vissuto di questi decenni e la norma formale

8 Per testimoniare i sentimenti di Pastore nei confronti di Grandi si veda l’articolo comme- morativo scritto in “Civitas” (aprile 1947, n. 1): «Quando altri cedevano alle lusinghe (il rife- rimento è al fascismo, nda), egli resisteva rincuorando sé e gli amici; e chi scrive ha ricordi incancellabili dei frequenti incontri a Milano, dove discutendo degli avvenimenti si cercava insieme di scoprire i motivi che consentissero di alimentare la comune speranza». Nel 1934 Grandi aveva rifiutato la nomina a senatore del Regno propostagli, a nome di Mussolini, dal prefetto di Milano in vista di una pacificazione nazionale strumentale all’acquisizione di un vasto consenso alla guerra etiopica. Cfr. GIOVANNI DI CAPUA, Achille Grandi e la laicità della politica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004. 9 Per una significativa ricostruzione della vicenda si veda V. SABA, Giulio Pastore sinda- calista, Roma, Edizioni Lavoro, 1989. 10 Cfr. CARLO FELICE CASULA, Rapelli e le Acli, in AA. VV., Giuseppe Rapelli, un’idea cri- stiana del sindacato, Roma, Studium, 1999.

110 dell’articolo 39, scritta interpretando una concezione di tipo corporativo ancora pre- sente in larga parte del movimento sindacale. Non a caso si era ipotizzata addirittura l’adesione obbligatoria dei lavoratori e il controllo formale da parte dello Stato sull’atti- vità delle organizzazioni sindacali stesse. L’articolo 39, tuttora vigente, della Costituzione (e mai applicato fra i tanti che han- no trovato difficoltà di applicazione), non darà poi sbocco alla legge sul registro obbli- gatorio delle organizzazioni sindacali, improntate a democraticità per quanto riguarda il loro ordinamento interno. Così come la problematica dell’efficacia dei contratti di la- voro trova nella Costituzione una definizione la cui applicazione nel corso degli anni si amplierà via via. Siamo in una fase di profonda trasformazione e non bastano le “at- trezzature” lasciate in eredità dal ventennio fascista11. Che ruolo gioca Pastore nell’Assemblea costituente? Che ci faceva? Non era certo un giurista! Il clima in cui l’Assemblea costituente si riunisce per la prima volta, il 25 giugno 1946, è ad un tempo di trepida attesa e di acuta preoccupazione, a partire dall’irrisolta questione del trattato di pace. Manca, anzitutto, un gruppo di deputati che non è stato possibile eleggere, quelli di Bolzano, di Trieste e della Venezia Giulia: primo triste retag- gio del regime fascista. Tutta la retorica della prima guerra mondiale era stata giocata fondamentalmente sul raggiungimento dell’unità d’Italia: si riunisce ora per prima volta l’Italia liberata e la prima cosa che si registra è che manca un pezzo di quell’Italia che era stata annessa al resto del paese con gravi sacrifici nel 1915-1918. Poi, la Costituente è un’assemblea deliberante un po’ dimezzata, perché il potere legislativo, con decreto luogotenenziale, è delegato al governo. Viene in mente l’Unione europea oggi ed il ruolo del parlamento europeo. È il governo che fa le leggi (in base ad un decreto del luogotenente) e l’Assemblea costituente si limita a due o tre compiti: innanzitutto ad approvare la Costituzione, che è la ragione principale per la quale tutto è stato messo in piedi; oltre a questo provvede ad un aspetto non banale, quale la rati- fica del trattato di pace, certo non poca cosa per un Paese che usciva devastato da una serie di guerre volute dal fascismo. L’Assemblea costituente si impadronisce, in verità, di un ruolo un po’ più ampio attraverso le commissioni a cui il governo deve sottoporre in via preventiva l’attività legislativa che propone. Infine, l’Assemblea è il luogo che registra le volontà politiche del Paese, tanto è vero che si trova a votare la fiducia al governo, come un vero e proprio parlamento, in particolare al secondo, al terzo e al quarto governo De Gasperi, il quale costituisce il momento della rottura tra le forze del Cln e del passaggio all’opposizione del Partito comunista e del Partito socialista. Oltre a queste funzioni, l’Assemblea costituente si esprime attraverso tradizionali strumenti che oggi definiremmo di sindacato ispettivo. Non sono quindi anni di routine, anche se lo snodo politico determinante, una volta approvata la Costituzione, sarà il 18 aprile 1948, ma la rottura nella collaborazione con il Partito comunista e il Partito socialista già pre- figura inevitabilmente un clima politico pesante nel pieno del lavoro di redazione della prima Costituzione democratica italiana. È veramente un miracolo la capacità delle forze politiche del dopo Resistenza di saper

11 Cfr. GIUSEPPE FEDERICO MANCINI, Libertà sindacale e contratto collettivo erga omnes, Milano, Giuffrè, 1963.

111 distinguere il terreno dello scontro più politico e immediato di tipo elettorale sui proble- mi che la comunità affronta in quel momento, dalla scrittura delle regole che invece viene largamente salvaguardata. Ma sono anche gli anni del trattato di pace, gli anni della scelta di partecipare al Piano Marshall, lo strumento attraverso cui i paesi cosid- detti liberi, a partire dagli Stati Uniti d’America, si propongono, secondo le letture che ne sono state date, di contribuire alla ricostruzione economica dei paesi devastati dalla guerra e insieme di procedere all’integrazione, nell’ambito del mercato americano ed internazionale, di economie che affacciandosi all’indomani della seconda guerra mon- diale sono sicuramente in ginocchio, con tutti i problemi della smobilitazione degli eser- citi (dei prigionieri di guerra) e delle riconversioni dell’industria bellica. Qui soccorre la grande capacità di George C. Marshall, segretario di Stato Usa, di intuire che la solu- zione dei due problemi può rappresentare un successo internazionale. La Costituente raccoglie giuristi, ma, soprattutto, personalità dell’antifascismo. La Consulta nazionale, che l’aveva immediatamente preceduta, comprendeva colo- ro che al fascismo si erano opposti nell’Aventino e nell’antifascismo militante. La Co- stituente mette insieme, in questa fase di transizione, figure del vecchio antifascismo e figure emergenti nella lotta democratica. Pastore viene chiamato a far parte della terza commissione per gli esami dei disegni di legge e in questa qualità interviene in una serie di riunioni discutendo fondamental- mente le problematiche relative al movimento dei lavoratori, le condizioni alimentari, il tema della previdenza, in particolare l’Inps, che era stata istituita durante il fascismo ed era stata commissariata alla caduta del regime ed i cui organi vanno ricostituiti, l’assi- curazione contro la malattia della tubercolosi. Va affrontata la riforma della previdenza per estendere l’assicurazione contro la tubercolosi ai piccoli coltivatori diretti, così come va migliorato il trattamento degli infortuni sul lavoro. Vi è, infine, il problema del rico- noscimento degli istituti di patronato ed assistenza sociale, che sono gli strumenti che vengono messi in campo dal movimento sindacale in quel momento per tutelare mag- giormente i lavoratori. Ma al di là di questi interventi relativamente modesti, pronunciati il 7 maggio, l’8 maggio e il 18 luglio 1947, l’attività ispettiva di Pastore si concentra in particolare sulla Valsesia. La sua prima preoccupazione è quella dell’imposta sui redditi agrari dei terreni (10 dicembre 1946). Vaste zone montane della Valsesia - scrive Pastore - subiscono una palese ingiustizia per l’interpretazione che concede l’esenzione ai terreni la cui sede comunale è situata sotto i 700 metri sul livello del mare. In montagna - scrive Pastore - ci sono terreni che si trovano sopra i 700 metri ma la cui sede comunale è al di sotto... Sembra il dibattito sulle comunità montane di questi anni duemila! Il ministro delle Finanze, il comunista Scoccimarro, assicura che un provvedimen- to legislativo sarà preso per risolvere il problema e avverrà infatti di lì a poco nell’am- bito delle manovre di bilancio. Ancora, lo stesso 10 dicembre 1946, Pastore richiama l’attenzione sullo stato di assoluto abbandono e sul totale isolamento dei comuni di montagna situati nelle vallate Mastallone e Sermenza per la soppressione dei servizi automobilistici festivi. Leggiamo queste righe che ci restituiscono il clima dell’epoca, le difficoltà dell’ambiente e le con- dizioni di vita in quel momento prevalenti: «Le popolazioni locali - scrive Pastore - sono indignate per il fatto che quando si tratta di servire i forestieri e i ricchi che in estate frequentano le vallate per puro diletto il servizio festivo è concesso. Quando si tratta

112 invece di assicurare un minimo di comodo alle derelitte popolazioni montane allora su- bentrano rigide applicazioni di criteri restrittivi». Il ministro dei Trasporti, Ferrari, ri- sponde a Pastore, in una situazione di assoluta carenza di benzina: anche solo per auto- rizzare una corsa da Varallo ad Alagna occorre il bollo della sottoprefettura e dei cara- binieri, perché il carburante viene fornito materialmente in quel momento. Il ministro dei Trasporti sottolinea l’intento promozionale delle autolinee stagionali estive a sup- porto della crisi economica e assicura che non appena la situazione del carburante mi- gliorerà si potrà deliberare per quali autolinee sia consentito riprendere il servizio festivo. Il 19 maggio ed il 27 maggio 1947 Pastore sollecita due volte il ministro dell’Agri- coltura Segni (unitamente all’altro costituente Dc vercellese, Ermenegildo Bertola), affinché intervenga contro il mercato clandestino dei fertilizzanti azotati che affliggono la coltivazione dei cereali da pane, da riso e da altre colture (sostanzialmente c’era l’am- masso obbligatorio), con grave danno per la produzione dei grassi e della carne. Siamo in tempi di tessera per i beni alimentari e a ciascuno vengono assegnati, in funzione del nucleo familiare, un certo numero di grammi di grassi, di farina e quant’altro; siamo ancora in piena emergenza. Successivamente, Pastore, nel settembre 1947, sollecita il ministro della Giustizia Grassi a ricostituire il Tribunale di Varallo «ingiustamente sop- presso dai fascisti»; la risposta non è incoraggiante e la questione viene rinviata alla revisione della pianta degli uffici giudiziari; sarà poi la pretura ad essere conservata12. Il costituente Pastore interviene anche presso il ministro del Lavoro, Fanfani, a fa- vore dei titolari di rendita vitalizia per infortunio. Pastore vive una situazione personale molto aspra. La sua famiglia era stata vulnerata dagli infortuni sul lavoro dal momento che suo padre ne era stato colpito, quindi possiamo cogliere il motivo per cui, una volta giunto in parlamento, una delle sue prime iniziative assuma proprio questa questione come elemento di spicco. E chiede che venga concesso ai titolari un assegno tempora- neo di carovita, perché evidentemente costoro non sono beneficiari dei pochi aumenti salariali. Poi chiede al ministro dei Lavori pubblici il pagamento delle spettanze alle im- prese di costruzioni che vantano crediti presso l’Anas, perché queste imprese non pa- gano i salari ai dipendenti come conseguenza; si rivolge al ministro della Difesa per ri- chiedere il condono ai militari degli anticipi ricevuti durante il periodo di prigionia o di concentramento (in Italia venivano dati anticipi che consentissero alle famiglie, mentre i nostri militari erano nei campi di concentramento, di poter campare). Pastore mostra questa inusitata attività a favore della vallata che pure non rappre- senta in parlamento. Eletto anche nel collegio elettorale 1 (Torino-Novara-Vercelli), per la Democrazia cristiana, conquistando il secondo posto subito dopo Oscar Luigi Scal- faro e prima di Bertola e Pella, Pastore opta per il collegio unico nazionale, la lista che a livello nazionale recupera i resti non assegnati nei rispettivi collegi. Il primo dei non eletti in Piemonte, Giuseppe Rapelli appunto, sollecita il subentro. Che ci faceva Pastore al quinto posto nella lista del collegio unico nazionale, dietro i dirigenti più significativi del partito della Democrazia cristiana? La lista del Pci era guidata da Togliatti, quella del Psiup da Nenni e via via da tutti i personaggi di maggior rilievo.

12 Le commissioni della Costituente si occuperanno della Valsesia - prima commissione, il 30 settembre 1947 - anche per l’esame della ricostituzione dei comuni di Civiasco e Vocca soppressi durante il fascismo a proposito dei quali il governo (proponente Scelba) avrebbe deliberato il 3 settembre dello stesso anno la relativa proposta.

113 Semplicemente Pastore si era conquistato un posto di rilievo fra le personalità alle quali si voleva garantire l’elezione grazie alla sua attività di segretario organizzativo della Dc, ma aveva superato brillantemente il confronto elettorale diretto. Pastore parla anche in aula. Accanto a queste tematiche più locali, i suoi interventi riguardano due aspetti non banali che, da un lato, ci danno il senso della sua profonda attenzione alla condizione sociale complessiva e, dall’altro lato, anche della sua grande attenzione a quanto sta maturando sul terreno delle forze sociali ed economiche. Il pri- mo intervento è sulla tematica dell’emigrazione, a cui risponderà il sottosegretario al Lavoro Togni, l’11 marzo 1947. Gli argomenti ci restituiscono uno spaccato utile a leg- gere e interpretare vicende attuali. Pastore chiede al governo perché si opponga a che l’emigrazione in Francia avvenga in via normale mediante richieste o contratti indivi- duali ed insista nel dare assoluta precedenza al sistema dell’emigrazione collettiva, no- nostante i gravi inconvenienti a cui aveva già dato luogo. Pastore nota che sono migliaia le richieste di emigrazione giacenti nel Ministero - basta immaginare cos’era l’Italia in quel periodo, tra le distruzioni operate e la smobilitazione che gradualmente immetteva sul mercato del lavoro centinaia di migliaia di persone relativamente giovani che torna- vano dalla guerra, senza una ripresa economica che fosse minimamente iniziata. Dal- l’intervento di Pastore ci viene restituita l’immagine di un Paese allo stremo, dove re- gna la disoccupazione e che vede nell’emigrazione una valvola di sfogo. La risposta di Togni è altrettanto significativa e importante: «Domande di emigrazione ce ne sono an- cora circa duemila in corso di istruttoria» e le province dalle quali si emigra nel 1947, in base a quei dati, sono: Udine, 1.451, Belluno, 131, Vicenza, 296, Varese, 340. Pastore non si accontenta di questa indicazione di Togni e replica che rimangono oltre ventimila richieste italiane di emigrazione inevase, ma soprattutto attira l’attenzio- ne sul fatto che l’emigrazione di massa determina il danno dei lavoratori e cita il modo con cui i lavoratori sono trattati nei cosiddetti campi di triage francesi dove - afferma Pastore - per mancanza di contratti individuali gli operai sono trattenuti senza libertà di movimento con gendarmi all’uscita dei campi, quindi non campi di raccolta ma di con- centramento, quasi di prigionia. Il fascismo - prosegue - si è assunto un falso merito quando, irreggimentati i nostri emigrati verso l’estero, ha creduto di realizzare una maggiore difesa dei nostri lavoratori. Ora è strano che il regime democratico inauguri la sua politica migratoria battendo la stessa strada che ha battuto il fascismo. Il governo, di lì a pochi mesi, opterà per la strada dei contratti individuali in modo che chiunque, arrivando, abbia una casa, un posto di lavoro, uno stipendio contrattato e non ci siano luoghi dove attendere che qualcuno venga a reclamare manodopera a basso costo per l’economia francese. Pastore è protagonista, con Gronchi, Storchi e Fanfani, della battaglia per l’intro- duzione, nel titolo III della Costituzione (quello dedicato ai rapporti economici), di un principio caro alla tradizione del sindacalismo di impronta cattolica, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese13. Con il concorso del Partito comunista italia-

13 Interessante il collegamento con il pensiero espresso prima del fascismo dalla Cil, la Confederazione “bianca’’ dei lavoratori. Cfr. l’articolo critico La scatola vuota, dedicato alla proposta governativa di istituire una commissione nazionale e di stabilimento di lavoratori per il controllo nelle imprese, alla quale si contrapponeva l’idea della «partecipazione effetti- va agli utili, alla gestione e alla proprietà delle aziende», in “Il Monte Rosa”, 5 febbraio 1921.

114 no (prenderà la parola Di Vittorio, segretario generale della Cgil, per annunciare il voto favorevole all’emendamento firmato dai quattro esponenti della Democrazia cristiana, precisando che attribuiva «al concetto di collaborazione il significato di partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda, e quindi allo sviluppo dell’azienda stessa nell’interesse dei lavoratori e del Paese»), l’Assemblea costituente approverà il testo dell’attuale art. 46 della Costituzione: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro, ed in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il dirit- to dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». L’intento è quello di rafforzare nella nuova Carta costituzionale il concetto di “preminenza del lavoro”, in stretto collegamento con il dettato dell’art. 1. Sarà lo stesso Gronchi ad illustrare, a nome anche degli altri firmatari, il senso pro- fondo della proposta: «La nostra posizione rispetto ai problemi del lavoro è sintetizzata nella frase che noi siamo risoluti a non mantenere nel vuoto sostanziale delle afferma- zioni oratorie, ma a riempire di un contenuto di progressive riforme sociali. Intendo dire: “la preminenza del lavoro”. Questo, nella sua attuale posizione, è uno strumento della produzione, più che un suo collaboratore. Da una tale inferiorità noi vogliamo ele- varlo». «Il nostro emendamento - prosegue il futuro presidente della Repubblica - con- tiene due concetti. Il primo si rifà esplicitamente alle esigenze della produzione. Noi non siamo di quelli che sul tavolo anatomico della teoria distinguono e separano il pro- cesso della produzione in due fasi nettamente distinte e quasi per sé stanti: la prima produttiva e la seconda distributiva. [...] Noi siamo però convinti che l’imperativo ca- tegorico sia [...] quello di produrre di più affinché vi siano più utili, più frutti da distri- buire [...] È per questo che noi, finalizzando lo scopo di questo articolo, abbiamo posto in primo luogo la nostra mira di elevare economicamente e socialmente il lavoro; ma vi abbiamo associato anche il concetto dell’armonia con le esigenze della produzione. Il secondo concetto che abbiamo voluto affermare è quello della collaborazione [...]; debbono essere salvi taluni principi senza dei quali non vi è ordinata e perciò feconda attività produttiva; primo fra tutti quello che potrebbe essere nella unità di comando delle aziende produttive»14. Un dibattito di grande interesse (vi prenderà parte anche un esponente politico liberale destinato ad essere il primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi) per un’altra norma costituzionale non particolarmente fortunata, tanto che né consigli di gestione né compartecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa sono espe- rienze entrate nella legislazione del lavoro italiana. Di segno squisitamente politico l’intervento di Pastore nella seduta del 21 giugno 1947 dell’Assemblea costituente dedicata alla discussione della fiducia al quarto gover- no De Gasperi. A maggio si è rotto l’equilibrio del terzo governo guidato dallo statista trentino che vede la presenza ancora di tutti i partiti del Cln e si arriva alla creazione di un governo senza la partecipazione del Partito comunista e di quello socialista. Pastore risponde, da componente della segreteria della Cgil, al comunista Giuseppe Di Vittorio, segretario responsabile della stessa Confederazione generale del lavoro, in- tervenuto il giorno prima. Accanto a una serie di osservazioni che riguardavano le espe- rienze proprie del movimento sindacale, Di Vittorio aveva criticato duramente il gover- no per la situazione politica che si era venuta a creare: «Questo governo - sono le pa-

14Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 14 maggio 1947.

115 role del leader sindacale pugliese -, per la sua composizione e per gli scopi effettivi che si propone di realizzare, non può reggersi che con l’appoggio totale delle destre; cioè con quelle forze parlamentari che sono più rappresentative delle oligarchie economiche privilegiate e reazionarie, i cui interessi non contrastano soltanto con gli interessi dei lavoratori, ma anche con gli interessi generali della Nazione [...] È chiaro che, con questo governo, si vuole far pagare ai lavoratori e si vogliono proteggere i ricchi». Nella sua qualità di responsabile della corrente sindacale cristiana, Pastore contesta a Di Vittorio l’uso fatto del nome della Cgil e precisa che l’organizzazione sindacale non deve essere coinvolta nella questione della fiducia al governo e annuncia, al contrario di Di Vittorio (che esprimerà voto negativo), il suo voto favorevole al gabinetto De Ga- speri. Pastore si dice convinto che «la maggioranza degli uomini che lo compongono ispireranno la loro azione all’indirizzo sociale» della Democrazia cristiana. «Il che - con- tinua - mi garantisce fin d’ora che sarà intrapresa una immediata ed energica azione contro gli speculatori e che saranno prontamente adottati tutti i provvedimenti atti ad assicurare alle classi lavoratrici, in primo luogo i pensionati e i disoccupati, un più alto tenore di vita». Il contrasto emerso in sede di discussione della fiducia al quarto governo De Ga- speri riflette, in realtà, un clima di disagio già ampiamente manifestatosi al Congresso di Firenze della Cgil ancora unitaria (1-7 giugno 1947). Oggetto del contendere lo “scio- pero politico”, vale a dire non legato a specifiche rivendicazioni salariali: nella approva- zione dell’art. 9 dello statuto del sindacato si registra l’esplicita riserva della corrente sindacale cristiana. Una mediazione dell’esponente socialista Fernando Santi aveva pre- visto un quorum dei tre quarti dei componenti degli organismi dirigenti per prese di posizione su temi politico-sociali. Pastore ribadisce che considera la materia presa in considerazione dall’art. 9 «non soltanto estranea ai problemi sindacali, ma implicita- mente ispirata a motivi ideologici e politici, cioè a dire a motivi destinati, anche involon- tariamente, a dividere i lavoratori». È un tema che tornerà nella storia, non solo sinda- cale, d’Italia con il venir meno dell’unità di organizzazione sindacale nel 194815. Pastore manca ormai dalla Valsesia dal 1926. Passata la fanciullezza ad Aranco di Borgosesia, vi frequenta le elementari. Nel settembre del 1914 viene assunto, a dodici anni, alla Manifattura Lane come attaccafili. Licenziato nel 1917, viene riassunto nel 1919, per poi dimettersi definitivamente nel 1920, assunto questa volta come propa- gandista di plaga dell’Azione cattolica. Nel frattempo aveva costituito il circolo giova- nile Giosuè Borsi nel 1918 a Borgosesia, in un clima di antagonismo fra cattolici, socia- listi da un lato e massoni dall’altro. L’episodio di Crevacuore nel 1919, dove viene so- stanzialmente impedito ai cattolici di poter effettuare una processione, rimane molto impresso nella memoria del giovane cattolico, che in quel momento partecipa di un’espe- rienza molto vivace, quella del mondo cattolico novarese, dove una serie di opinioni si confrontano: quella di impronta sociale e quella più tradizionale di notabilato cattolico, ma con una osmosi tra ciò che è la vita dell’Azione cattolica, ciò che è la vita dei sin- dacati, e quindi della Cil, e la nascita del Partito popolare italiano.

15 «Siamo arrivati alla constatazione che la subordinazione dell’azione sindacale alle lo- giche della lotta politica, imposta duramente e senza mediazione dalla maggioranza comuni- sta, contrasta con un’elementare esperienza di libertà», dal discorso di Pastore alla Camera dei deputati, 25 ottobre 1948.

116 Pastore diventa nel 1921 commissario di Borgosesia dell’Unione del lavoro (quindi dell’organo sindacale della Confederazione italiana del lavoro) e partecipa all’esperien- za della creazione dell’Avanguardia, detta anche “cravatta bianca”: si avvertiva la ne- cessità da parte dei movimenti di dotarsi di giovani che potessero garantire l’ordine durante le manifestazioni e la possibilità di svolgerle pacificamente. Pastore in partico- lare partecipa alla squadra Pio XI Alta Valsesia, che esce in occasione di alcune proces- sioni per garantire, rispetto ai massoni che vogliono impedirlo, la possibilità di portare il Santissimo in processione16. Viene poi nominato anche segretario dell’Unione del la- voro di Varallo: Pastore si trasferisce nella cittadina valsesiana nel 1922, proprio per rispondere all’impegno che gli viene affidato in quel momento, ossia quello di redattore de “Il Monte Rosa”, il giornale cattolico locale che veniva non solo redatto ma stampa- to in loco e quindi aveva bisogno di una presenza assidua. Vi resterà per due anni fino al suo trasferimento a Monza nel Natale del 1924, avendo avuto modo nel frattempo di incontrare sua moglie, che gli darà due figli. Pastore è orgogliosamente autodidatta, non certo per scelta, ma perché le condizio- ni dell’epoca gli avevano impedito di sviluppare la sua naturale inclinazione agli studi. Per dirigere “Il Monte Rosa” il suo titolo di studio di licenza elementare non è esatta- mente il massimo. Con orgoglio decide di presentarsi all’esame di ammissione alla quarta ginnasio, obbligato dalla nuova legge sulla stampa che i fascisti avevano rapidamente promulgato e che definiva le caratteristiche dei responsabili degli organi di informazio- ne. Supera alcune materie, non ne supera altre e poi non si presenterà all’esame di ripa- razione e allora ecco che dal “Corriere Valsesiano”, legato agli ambienti massonici e diretto dal fascista Oscar Zanfa, si annota: «A dirigere il Monte Rosa non c’è un gior- nalista ma un giornalaio»17. Nel frattempo la pressione del movimento fascista, nonostante il tentativo di pacifi- cazione del luglio 1923 dopo le violenze contro “Il Monte Rosa”, diventa sempre più dura. Nel mondo cattolico novarese si afferma, non senza contrasti, la linea “pattizia” con il nuovo potere fascista e a farne le spese è anche Pastore che, con Carlo Torelli, pre- sidente della plaga aronese della Gioventù cattolica, viene messo sotto accusa per ave- re appoggiato nelle elezioni del 1924 (quelle del sistema maggioritario introdotto dalla legge Acerbo), il Partito popolare18: Giulio Pastore si dimetterà da presidente della plaga Alta Sesia e e da membro della presidenza federale.

16 A conferma di questo suo impegno lo troviamo, nel 1923, delegato nella presidenza diocesana della Gioventù italiana di Azione cattolica al «segretariato dei Gruppi Eucaristici, dei Santi Esercizi e dell’Avanguardia». Cfr “Il Monte Rosa”, 29 dicembre 1923. 17 Cfr. ANDREA CIAMPANI, La buona battaglia. Giulio Pastore e i cattolici sociali nella crisi dell’Italia liberale, Milano, Angeli, 1990. 18 «Gli accordi ebbero delle gravi ripercussioni sulle coscienze più politicamente avver- tite, soprattutto di Giulio Pastore e di Carlo Torelli, l’uno propagandista di plaga, presidente di plaga e membro della federazione, l’altro presidente della plaga aronese. Per le elezioni del 1924 i due esponenti ripresero la propaganda per il Partito popolare. I casi furono portati davanti alla Federazione giovanile diocesana. Luigi Cappa, presidente, aveva ribadito di non mettere i giovani cattolici a disposizione di nessun partito per la propaganda. [....] Torelli, frattanto, continuava a fare propaganda, in modo diretto o indiretto per il Partito popolare,

117 Pastore si trasferisce, su richiesta degli amici di Monza con cui aveva già collabo- rato e che rappresentavano un punto di riferimento importante nell’esperienza del mo- vimento cattolico italiano del Nord, al giornale “Il Cittadino”. Tra di loro Achille Grandi, che a sua volta, a conferma della centralità di Monza, quando era stato cacciato dal vescovo di Como perché nel 1913 si era schierato contro il patto Gentiloni, vi aveva trovato asilo. Pastore dirige per due anni “Il Cittadino”, ma alla fine del 1926 arriva il decreto di sequestro del giornale da parte del prefetto e la chiusura. Condizione per poter riaprire, quella di cambiare direttore. Pastore si trova disoccupato, Grandi anche, perché con- temporaneamente la Confederazione italiana del lavoro viene chiusa. Lasciata Monza, Pastore trascorre alcuni anni lavorando a Novara come fattorino per una banca19 fino al 1935, quando il suo compagno della Gioventù italiana di Azione cattolica, Luigi Ged- da, diventato presidente nazionale dell’associazione, lo chiama a Roma come collabo- ratore. Sono gli anni della preparazione, della lunga vigilia, quella che vede molte perso- ne esuli20, talvolta nella propria stessa patria (quando non rinchiuse nella Biblioteca va- ticana), per preparare la vita democratica della nuova Italia. Le parole d’ordine della gioventù italiana antifascista di impronta cattolica in quegli anni sono “resistere e pre- gare” e studiare per prepararsi ad una nuova vita. In Pastore, identità cristiana, esperienze di fede vissute attraverso la Gioventù italia- na di Azione cattolica e le Acli, attività sindacale, attività pubblicistica, attività politica vanno di pari passo: questi diversi momenti non sono scindibili nella sua personalità. Egli è stato portatore e testimone di una vocazione totalizzante di cui oggi probabilmen- te abbiamo smarrito l’impronta, la proiezione di quel “magma” che, dal “non expedit” (il divieto papale di partecipazione alla vita politica e sociale nell’Italia dei Savoia), do- veva portare il movimento cattolico ad essere protagonista di una inimitabile stagione di consolidamento della democrazia. Il mondo cattolico che si presenta all’indomani della Liberazione è ben lontano dal costituire un monolite. La Chiesa si interroga su quale sia il percorso migliore per una

così Pastore in Valsesia. [...] Durante l’adunanza dell’8 giugno 1924 fu approvato il seguente ordine del giorno proposto da Luigi Gedda e da Giuseppe Silvestri: “Per esigenze locali e per maggiore prosperità del movimento si delibera di non permettere che i presidenti dei circoli, i presidenti di plaga, i membri della presidenza federale ed i propagandisti facciano propa- ganda pubblica e ufficiale politica”. [...] Per questo veto Giulio Pastore, con una lettera dell’8 giugno 1924 a Luigi Cappa, immediatamente rassegnò “con dispiacere” le dimissioni da pre- sidente della plaga Alta Sesia e da membro della presidenza federale», in PIER GIORGIO LON- GO, L’antifascismo cattolico valsesiano, in PATRIZIA DONGILLI (a cura di), Aspetti della sto- ria della provincia di Vercelli tra le due guerre mondiali, Borgosesia, Isrsc Vc, 1993. 19 In un’intervista rilasciata a Franco Amadini ne “L’Avvenire d’Italia” (11 gennaio 1962), Pastore spiegherà: «fattorino ambulante e proprio tra la città ed il mio paese, dove avevo lottato. La mortificazione non poteva essere maggiore». 20 Achille Grandi durante il fascismo farà il tipografo, tornando alla sua antica occupazio- ne. Giovanni Gronchi, invece, lascerà la sua Toscana e si ritirerà in alta Lombardia, a fare il rappresentante di prodotti industriali. Secondo quanto riferisce Maurizio Serio (in Il mito della democrazia sociale. Giovanni Gronchi e la cultura politica dei cattolici italiani 1902-1955, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009), Gronchi non subisce sanzioni più severe grazie ad un decreto di Mussolini che le risparmiava ai decorati di guerra, come nel suo caso.

118 testimonianza dei cattolici nella vita sociale e politica, se quello della tendenziale unità o quello della presenza nelle diverse organizzazioni sociali e partitiche. A testimoniare la complessità di quel passaggio, basti pensare che le Acli, al mo- mento della loro nascita nell’agosto 1944, registrano all’interno del loro direttivo tre componenti principali, accanto all’Azione cattolica, tre partiti: Democrazia cristiana, Sinistra cristiana (poi sciolta nel dicembre del 1945) e Partito cristiano sociale, che si dissolverà all’indomani dell’insuccesso registrato il 18 aprile 1948. Di questa complessità Pastore si fa carico, traguardandola oltre la dimensione del- l’identità confessionale e traducendola in nuove esperienze, come con la realizzazione di una novità assoluta sul piano dell’organizzazione sindacale: la Cisl. Per Pastore, i luoghi della formazione nel contrasto e nel confronto, subito dopo gli anni giovanili, sono lontani dalla Valsesia: potremmo indicare Monza e poi Roma. Nel dopoguerra è Pastore ad eleggere la Valsesia a primo luogo dei suoi affetti, as- sumendosi anche l’onere della costruzione di quell’intelaiatura, il Consiglio di valle21, che sarà protagonista della stagione della rinascita valsesiana. Un ritorno il suo, ormai uomo maturo e dirigente affermato, a quella Valsesia che pure non lo aveva molto amato, tanto da costringerlo ad andarsene vent’anni prima, nel 1924.

21 Sarà un’assemblea tenutasi a Varallo il 19 agosto 1946, dunque a poche settimane dal- l’insediamento dell’Assemblea costituente, a dare il via a questa esperienza.

119

Vincenzo “Cino” Moscatelli

Bruno Ziglioli

Al momento della Liberazione Cino Moscatelli era considerato, negli ambienti parti- giani e non solo, una leggenda vivente, uno dei massimi eroi della Resistenza italiana1. Aveva 37 anni (era nato a Novara il 3 febbraio 1908) e un curriculum di antifascista di tutto rispetto. A 12 anni aveva partecipato al movimento di occupazione delle fabbri- che. A 14 si era impegnato nella difesa delle sedi delle istituzioni proletarie di Novara dalla violenza delle squadracce fasciste. Nel 1925 si era iscritto alla gioventù comunista e due anni dopo era espatriato in Svizzera dove, nei pressi di Basilea, aveva frequentato una scuola di partito diretta da Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Ruggero Grieco. Si era quindi spostato prima a Berlino, poi a Mosca, dove aveva proseguito gli studi politici e completato la sua formazione ideologica. Nel gennaio del 1930 si era trasferito a Parigi, per lavorare al centro estero del Partito comunista2. Quando il partito aveva deciso di ricostruire un “centro interno” - cioè una struttura clandestina di militanti sul territorio italiano - Moscatelli era stato inviato in Italia con un passaporto falso, nel giugno 1930, con l’incarico di dirigere la Federazione giovanile comunista in Emilia-Romagna. L’8 novembre 1930 Cino era stato arrestato e, deferito al Tribunale speciale, era stato condannato nell’aprile del 1931 a sedici anni e sei mesi di reclusione. Era stato assegnato prima al carcere di Volterra, poi a quello di Civitavec- chia, e infine a quello di Alessandria. A seguito della cosiddetta amnistia del decennale la pena gli era stata ridotta a sette anni, di cui due poi condonati. Ha scritto Enzo Barbano: «I corsi di marxismo [...] ebbero un’importanza relativa nella sua formazione. [...]. Determinante fu invece per la sua maturazione politica la condanna del Tribunale speciale del 1931 e gli anni di detenzione che ad essa seguirono [...]. L’uomo che esce dal carcere nel 1935 è un rivoluzionario agguerrito ed addestrato. Non più un ragazzo di periferia temerario e incolto, ma un avversario ben più sottile e temibile per il regime al potere»3.

1 Sulla nascita e sul consolidamento del mito di Moscatelli si veda FILIPPO COLOMBARA, Il fascino del leggendario. Moscatelli e Beltrami: miti resistenti, in “l’impegno”, a. XXVI, n. 1, giugno 2006, pp. 33-47; STEFANO SALA, Morte di un mito. La fine del “romanticismo parti- giano” nella Resistenza novarese, in “l’impegno”, a. XXX, n. 1, giugno 2010, pp. 25-39. 2 Le notizie biografiche su Cino Moscatelli, dove non diversamente indicato, sono tratte dalla voce Moscatelli Vincenzo (Cino), redatta da Stefano Caretti, in FRANCO ANDREUCCI - TOMMASO DETTI (a cura di), Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori Riuniti, vol. III, 1977, pp. 596-599; da ENZO BARBANO, Storia di un rivoluzionario, in “Corriere Valsesiano”, 6 novembre 1981 (entrambi questi articoli sono anche pubblicati nel volume Ricordo di Cino Moscatelli, Borgosesia, Isr Vc, 1982, pp. 1-16); dalla voce Moscatelli Vincenzo, redatta da Francesco Omodeo Zorini, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Milano, La Pietra, vol. III, 1976, pp. 832-833; infine dalla voce Moscatelli Vincenzo, redatta da Mario Giovana, in ENZO COLLOTTI - RENATO SANDRI - FREDIANO SESSI (a cura di), Di- zionario della Resistenza. Luoghi, formazioni, protagonisti, Torino, Einaudi, vol. II, 2001, p. 595. 3 E. BARBANO, art. cit.

121 Si era stabilito in Valsesia, dove era rimasto sotto continua vigilanza da parte degli organi di polizia. Nel 1937 aveva scontato altri sei mesi di carcere a Vercelli, con l’ac- cusa di aver scritto «morte al duce» sui muri della cartiera di Serravalle. Il 26 luglio 1943, quando era stata annunciata la deposizione di Mussolini, aveva organizzato una manifestazione a Borgosesia ed era ritornato a dirigere il movimento antifascista in valle. Dopo l’8 settembre era stato tra i promotori - in rappresentanza del Pci - del Comitato valsesiano di Resistenza, il futuro Cln di zona Valsesia. Il 29 ottobre il Comando germa- nico di Vercelli ne aveva ordinato l’arresto, ma Cino era stato subito liberato dai suoi compagni, dopo un attacco alla caserma nella quale era stato trattenuto. Con un primo gruppo di ribelli si era rifugiato sul monte Briasco, dando avvio alle prime azioni di guerriglia e organizzando - insieme a Eraldo Gastone “Ciro” - i primi nuclei partigiani della Valsesia. Comincia qui la storia del partigiano “Cino”, destinato a diventare una figura leggendaria della Resistenza. Le bande poste sotto il suo comando erano cresciute progressivamente di numero e di organico, ed erano sfuggite ai duris- simi rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti. Dopo la primavera del 1944 e l’esaltante esperienza della zona libera della Valsesia, si era costituito il raggruppamento delle divi- sioni garibaldine della Valsesia-Ossola-Cusio-Verbano, del quale Cino era stato il com- missario politico e Ciro il comandante militare. Nell’aprile del 1945 le dodici brigate garibaldine poste sotto il comando di Moscatelli, inquadrate in quattro divisioni, rag- gruppavano complessivamente circa tremila uomini. Le formazioni di Moscatelli avevano partecipato alla liberazione di Novara e poi si erano dirette su Milano, dove erano giunte il 28 aprile. “Il Monte Rosa è sceso a Mila- no”: questo è il titolo evocativo che Moscatelli, insieme a Pietro Secchia, diede al suo racconto di quei giorni4. Subito dopo la Liberazione, Moscatelli assunse l’incarico di sindaco di Novara, su indicazione del Cln. Il Partito comunista italiano, seguendo la nuova linea politica elabo- rata da Togliatti nell’aprile 1944, stava cercando di legittimarsi agli occhi degli italiani come partito nuovo, nazionale, di massa. Questa ricerca di legittimazione venne perse- guita valorizzando l’esperienza antifascista e resistenziale come elemento fondativo (o rifondativo) del partito. Il mito della Resistenza fu assunto come caposaldo dell’identità del partito e come paradigma a cui attenersi nella creazione del nuovo stato italiano5. Per questo il partito aveva bisogno di uomini come Moscatelli a livello nazionale, non poteva confinarli nell’ambito locale. I capi della Resistenza dovevano diventare i nuovi quadri dirigenti del Pci, in considerazione del prestigio e del consenso di cui go- devano presso la classe operaia. Nell’autunno del 1945, Moscatelli venne chiamato a Roma, per rappresentare il partito all’interno della Consulta nazionale, l’organo com- posto da circa quattrocento membri in cui erano rappresentati tutti i partiti antifascisti e che - in attesa dell’elezione dell’Assemblea costituente - svolgeva funzioni consultive e di controllo sull’attività di governo. Inoltre Moscatelli venne chiamato dalla direzione del Pci a presiedere la commissio-

4 PIETRO SECCHIA - CINO MOSCATELLI, Il Monte Rosa è sceso a Milano. La Resistenza nel Biellese, nella Valsesia, nella Valdossola, Torino, Einaudi, 1958. 5 EMILIO GENTILE, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari, La- terza, 2006, pp. 355-363.

122 ne per l’assistenza ai reduci partigiani. Dati gli impegni romani, nel novembre 1945 Moscatelli lasciò la carica di sindaco di Novara a Ermanno Lazzarino6, senza però ri- nunciare a candidarsi - insieme a Ciro - alla carica di consigliere comunale nelle elezioni amministrative della primavera del 19467. Per le stesse ragioni, Moscatelli venne can- didato alle elezioni per l’Assemblea costituente previste per il 2 giugno dello stesso anno. Il collegio elettorale - che rimarrà geograficamente inalterato fino alle elezioni del 1992 - era estremamente ampio: comprendeva infatti le province di Torino, Novara e Vercelli. Questa estensione territoriale consentì a Moscatelli di capitalizzare preferenze in un bacino molto ampio, che includeva le zone partigiane delle sue formazioni (la Val- sesia e la Valdossola), la città nella quale era nato e della quale era stato sindaco, e anche le zone industriali del Torinese e del Canavese, dove non aveva combattuto, ma dove certo era arrivato il suo mito. Sembra evidente, scorrendo i risultati delle elezioni am- ministrative del marzo 1946, che il bacino elettorale della Valsesia di per sé non sarebbe stato sufficiente a eleggerlo. Non per questo Moscatelli rinunciò a fare campagna elettorale nella “sua” valle. Per esempio, alla fine di maggio 1945 parlò a Varallo e a Borgosesia, accompagnato da Camil- la Ravera e - non a caso - dal filosofo torinese Felice Balbo, uno dei più eminenti cat- tolici comunisti8. Non a caso, si è detto, perché uno dei maggiori problemi nel radica- mento del Pci in Valsesia, così come nelle valli alpine in generale, era quello evidenziato dal settimanale cattolico “La Gazzetta della Valsesia”, il quale - commentando le elezioni amministrative di qualche settimana prima - scrisse: «Il bolscevismo è una pianta eso- tica che non può vivere in queste nostre terre, e Moscatelli si è illuso di poterla innesta- re sull’albero secolare della civiltà cristiana nostra»9. Nel commentare il comizio di Moscatelli, Ravera e Balbo, lo stesso settimanale esordì in modo caustico: «Questo ebbe un carattere diverso dai soliti comizi comunisti: più serio. I battimani furono infatti molto più modesti». Più avanti, in realtà, il giornalista lasciava trasparire un sentimento di rispetto: «La Ravera, che nella pacatezza della voce e nella mestizia del volto, sembrava portare il peso incrollabile di 13 anni fra carcere e confino, ricordò del programma comunista i punti che maggiormente possono attirare il consenso del popolo. Il Balbo dimostrò una validità propagandistica notevole. Que- sto, in sintesi, il contenuto delle sue parole: il Pci non è al soldo di Mosca, il Pci non è rinunciatario circa le province della Venezia Giulia, il Pci non è antireligioso, ma acco- glie e rispetta tutti i culti: un esempio, egli, cattolico praticante, poté militare attivamen- te nel Pci, senza rinunciare a nessuna delle sue convinzioni religiose»10. Un comizio tenuto da Pietro Secchia a Varallo nell’immediata vigilia del voto non godette della stes- sa “benevolenza” da parte del settimanale cattolico, che infatti titolò: “Sproloqui so- cialcomunisti al Civico di Varallo”11. Moscatelli venne eletto all’Assemblea costituente con un numero di preferenze si-

6 Il nuovo sindaco di Novara, in “La Stella Alpina”, 18 novembre 1945. 7 Presentiamo oggi i nostri candidati, in “La Stella Alpina”, 10 marzo 1946. 8 Comizi elettorali, in “Corriere Valsesiano”, 24 maggio 1946. 9 Insegnamenti della Valsesia, in “La Gazzetta della Valsesia”, 27 aprile 1946. 10 Comizi elettorali, in “La Gazzetta della Valsesia”, 25 maggio 1946. 11 Sproloqui socialcomunisti al Civico di Varallo, in “La Gazzetta della Valsesia”, 1 giu- gno 1946.

123 gnificativamente elevato, 45.28212, a conferma del fatto che Cino era molto più di un promettente dirigente e di un candidato a base locale: personificava un mito. Nella Costituente, Moscatelli fu assegnato alla prima commissione per l’esame dei disegni di legge, una delle commissioni istituite per vagliare le iniziative legislative che il governo intendeva adottare. Non facendo parte della Commissione dei settantacinque, non svolse un ruolo di particolare rilievo nei lavori dell’Assemblea e - come la maggior parte dei suoi colleghi - prese la parola molto raramente: intervenne quattro volte, bre- vemente e su questioni tutto sommato marginali. Tuttavia, uno di questi interventi ri- chiamò l’attenzione della stampa nazionale, innescando molte polemiche. Per capire di cosa si tratta, occorre fare una premessa. Nell’agosto del 1946 ad Asti era scoppiata una rivolta partigiana. Il 22 di quel mese, una trentina di ex partigiani agenti della polizia ausiliaria, agli ordini del capitano Lava- gnino, avevano abbandonato la loro caserma ed erano “tornati in montagna” - o, me- glio, in collina - nel territorio del comune di Santo Stefano Belbo. A loro si erano uniti altri quattrocento garibaldini armati, ed era stato creato un comando generale di parti- giani rivoluzionari13. Questi uomini esprimevano un malcontento che serpeggiava tra i combattenti delle formazioni garibaldine: molti di loro, inglobati nelle forze di polizia, ne erano stati presto allontanati. Anche per chi era rientrato in fabbrica la vita non era fa- cile: il passato partigiano e la militanza comunista non costituivano un buon viatico agli occhi dei capireparto e delle dirigenze aziendali. Molti, inoltre, provavano una profonda insofferenza verso l’amnistia di Togliatti e verso la declinazione in senso parlamentare dell’obiettivo della “democrazia progressiva”. Alcuni avevano cominciato a pensare di aver combattuto per niente e si erano affidati alla speranza di suscitare una insurrezione armata. Si trattava di un sentimento piuttosto diffuso, che la dirigenza del Partito comunista non poteva affatto ignorare. Lo dimostra l’avventata solidarietà che “l’Unità” del 24 agosto aveva espresso ai rivoltosi di Asti: «È inutile voler limitare la portata di questo gesto a un atteggiamento inconsiderato e arbitrario di un gruppo isolato. A quel gesto hanno ieri idealmente sottoscritto milioni di lavoratori, migliaia di partigiani»14. E infatti la rivolta si era estesa: alcuni gruppi di partigiani dell’Oltrepò pavese avevano seguito l’esempio dei loro compagni di Asti ed erano tornati anch’essi in montagna15. Nei giorni immediatamente successivi, però, questo slancio e questo entusiasmo si erano smorzati e il partito - preoccupato per le ripercussioni che questa vicenda poteva avere - si era impegnato in un’opera di mediazione, nella quale era stato coinvolto in prima persona Moscatelli. Una rappresentanza di partigiani piemontesi si era recata a Roma a colloquio col ministro Nenni, mentre una delegazione di dirigenti comunisti era andata a Santo Stefano Belbo, a parlare con i “ribelli”16. Alla fine la rivolta era rientrata, dopo la concessione della garanzia che nessun provvedimento punitivo sarebbe stato

12 La Costituente, in “Corriere Valsesiano”, 20 giugno 1946. 13 MIRIAM MAFAI, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Milano, Rizzoli, 1984, p. 46. 14 Cit. in ibidem. 15 I partigiani ritornano alle montagne, in “La Provincia Pavese”, 28 agosto 1946. 16 M. MAFAI, op. cit., p. 47.

124 preso nei confronti di Lavagnino. I partigiani erano tornati in città, ad Asti. Ad acco- glierli c’era proprio Moscatelli, che in quella occasione aveva detto: «Noi non tornere- mo in montagna, resteremo in città, dove si suda e si guadagna il pane. Vadano loro in montagna, i fascisti! Forse impareranno ad amare la Patria!»17. La rivolta di Asti aveva avuto comunque una vasta eco in tutto il paese ed era stata ampiamente utilizzata dalle forze anticomuniste per puntare il dito contro la scarsa propensione democratica del Pci e contro le sue pulsioni insurrezionali e rivoluzionarie. A settembre la questione venne sollevata anche in sede costituente, durante una di- scussione in assemblea plenaria. Il celebre comandante partigiano cattolico piemontese Silvio Geuna espresse tutta la sua condanna per la vicenda di Asti e per il comporta- mento tenuto dalle sinistre, mentre l’aula rumoreggiava e Moscatelli e Pajetta interrom- pevano più volte l’oratore. «Stupisce - dichiarò Geuna - che proprio da uomini di quei banchi della sinistra di cui tutti noi, anche se avversari politici, dobbiamo lealmente ammirare la fedeltà e la ferrea disciplina al proprio movimento, si levi un inno in difesa della indisciplina più sfrontata. Ed io, commilitone di lotta, sia pure sotto altri colori, del partigiano onorevole Moscatelli, deploro vivamente che egli, deputato al parlamento italiano di un partito che ha i suoi uomini al governo, si sia recato ad Asti ad accogliere festosamente il ritorno del funzionario ribelle al proprio governo»18. A Geuna rispose subito lo stesso Cino, a sua volta contestato e interrotto: «È stato fatto il mio nome, deplorandosi che io, come partigiano, sia andato ad Asti a fare opera di chiarificazione e pacificazione (interruzioni) [...] Perché sono andato ad Asti? Per- ché ero stato richiesto dagli stessi partigiani di Asti, perché mandato dal consiglio na- zionale dell’Anpi, perché mandato dall’onorevole Nenni. Il fatto che migliaia e migliaia di cittadini di Asti hanno salutato entusiasticamente i partigiani che rientravano dalle montagne, indica che non solo i partigiani hanno solidarizzato con coloro i quali, con il loro gesto di protesta, hanno voluto dimostrare al governo che con la pazienza dei par- tigiani non si scherza (applausi a sinistra - rumori)»19. Il confronto con Geuna, e quest’ultima frase soprattutto, rinfocolarono la polemica sui giornali nazionali, stavolta concentrandosi specificamente su Moscatelli. Il “Popolo Nuovo” del 27 settembre, ripreso a livello locale da “La Gazzetta della Valsesia”, scris- se: «Non è la reazione in agguato che ha distrutto l’epopea partigiana, sono proprio loro, i partigiani suicidi [...] che hanno pugnalato il nostro buon nome. [...]. Nessuno ha mai fatto tanto male alla causa partigiana come l’on. Moscatelli: [con le sue parole] ha offeso tutti i partigiani d’Italia, tutta la Resistenza»20. Inaspettatamente, in Valsesia le difese di Moscatelli furono prese da un altro giornale che non gli era certo politicamente amico. In un corsivo del “Corriere Valsesiano” dell’11 ottobre si legge infatti: «Da un po’ di tempo a questa parte giornali di tutte le tendenze e di tutte le qualità attaccano a fondo l’on. Moscatelli, dicendogliene di cotte e di crude [...]. Non entriamo nel merito a tali accuse e a tali appunti, per quanto francamente, il

17 I partigiani in agitazione, in “Corriere Valsesiano”, 30 agosto 1946. 18 Assemblea costituente. Atti. XXII. Seduta di martedì 24 settembre 1946. 19 Ibidem. 20 Generale Moscatelli! Risuscita le tue legioni!, in “La Gazzetta della Valsesia”, 5 otto- bre 1946.

125 metodo prescelto non ci persuada». Che cosa non persuada il giornale è specificato poco più sotto: «[...] che, attaccando Moscatelli come comunista, qualcuno cerchi di attaccarlo come partigiano. Anche qui si potrà dire che Moscatelli ha fatto poco o ha fatto molto, che ha fatto bene o ha fatto male, che si è comportato saggiamente o im- prudentemente. Ma conviene distinguere. Si combatta Moscatelli quale esponente co- munista, se non si è della sua idea (e noi non siamo della sua idea), ma lo si lasci stare quale comandante partigiano. Su questo punto, per impancarsi a maestro, bisogna es- sere stati quantomeno al suo posto, bisogna aver fatto qualcosa più di lui. E qualcosa, se non andiamo errati, è pur riuscito a fare se i combattenti della Valsesia sono stati citati in tutta Italia. Sarebbero riusciti gli altri a fare altrettanto? O di più? O di meglio?»21. Questo è senza dubbio l’episodio dell’attività di Moscatelli all’Assemblea costituen- te che ebbe la maggiore “esposizione mediatica”, come si dice oggi. Moscatelli presen- tò anche alcune interrogazioni al governo su alcuni temi molto specifici e circoscritti: la liquidazione degli assegni spettanti ai militari della marina sbandati dopo l’8 settembre 194322; il divieto di circolazione degli automezzi nei giorni festivi nelle Marche (che avrebbe impedito lo svolgimento di un raduno di partigiani programmato a Macerata)23,la paventata espulsione dal territorio della Repubblica di un cittadino spagnolo, rappre- sentante della gioventù socialista spagnola in Italia24. A prima vista, colpisce l’assenza di interrogazioni o di interventi relativi ai territori di elezione: Novara, l’Ossola, la Valsesia. Anche scorrendo i giornali locali, per parecchio tempo - almeno fino all’aprile del 1947 - non si segnala uno specifico interessamento territoriale di Moscatelli nell’espletamento del suo mandato. E qui salta agli occhi una grande differenza tra l’approccio al mandato proprio di Moscatelli e quello, per esem- pio, di Giulio Pastore. Pastore, sin dall’esperienza nella Consulta nazionale25, e poi nella Costituente, inter- pretò subito il suo ufficio come un mandato parlamentare tradizionale. È evidente il recupero dall’esperienza liberale della figura del politico nazionale con un forte radica- mento sul territorio di elezione. Come in epoca liberale, c’era in Pastore uno scambie- vole rapporto, una continua dialettica tra interessi locali e centrali, che si risolveva sot- to il segno della mediazione e dello scambio reciproco tra i due livelli26. Il collegio di provenienza era una risorsa politica preziosa, gli interessi locali andavano seguiti con attenzione. Naturalmente in un contesto nuovo rispetto a quello dell’Italia liberale, non più elitario ma di massa: gli interessi da rappresentare non erano più, o non solo, quelli dei notabili locali, ma anche quelli più minuti.

21 Il partigiano Moscatelli, in “Corriere Valsesiano”, 11 ottobre 1946. 22 Assemblea costituente. Atti. Allegato alla XXX seduta del 6 febbraio 1947. Risposte scritte ad interrogazioni. 23 Ibidem. 24 Assemblea costituente. Atti. Allegato delle risposte pervenute dopo la chiusura dei la- vori dell’Assemblea costituente. Risposte scritte ad interrogazioni. 25 L’interessamento del Consultore Nazionale Giulio Pastore per i problemi della Valse- sia, in “La Gazzetta della Valsesia”, 18 maggio 1946. 26 SALVATORE ADORNO - CARLOTTA SORBA, Introduzione, in ID (a cura di), Municipalità e borghesie padane tra Ottocento e Novecento. Alcuni casi di studio, Milano, Angeli, 1991, pp. 8-9.

126 Per esempio, e per fare un rapido elenco: nel gennaio 1946 Pastore, nella Consulta nazionale, rivolse una interrogazione al ministro degli Interni chiedendo quali provvedi- menti intendesse adottare per la ricostituzione degli ex comuni accorpati a Varallo dal fascismo27. Nell’agosto 1946 a Varallo si svolse un convegno sui problemi della valle, promosso da Pastore, al quale parteciparono sindaci e parroci valsesiani28: in quella se- de si decise di dare vita al Consiglio della valle, che nacque il mese successivo e fu presieduto dallo stesso Pastore29. Nello stesso agosto ebbe luogo il primo convegno dell’Unione valsesiana agricoltori: Pastore vi accompagnò il ministro dell’Agricoltura Antonio Segni30. A dicembre il ministro della Pubblica Istruzione, accompagnato da Pa- store e da Ermenegildo Bertola, visitò gli istituti scolastici di Varallo e Borgosesia31. Nello stesso mese Pastore depositò due interrogazioni parlamentari, l’una per chiedere al ministro delle Finanze provvedimenti tributari a favore delle zone montane della Valse- sia, l’altra per invitare il ministro dei Trasporti a ripristinare tempestivamente i servizi di trasporto pubblico nella Valsesia, in Valmastallone e in Valsermenza32. Nel marzo del 1947 Pastore scrisse una lettera al ministro di Grazia e Giustizia, con la quale chiese che fosse ricostituito il Tribunale di Varallo33; su questo stesso tema l’esponente politico varallese svolse una interrogazione in Assemblea costituente, nel settembre dello stesso anno34. E via discorrendo. Il partito democratico cristiano, d’altronde, aveva capito meglio e prima degli altri partiti quali fossero le domande politiche e gli atteggiamenti radicati nelle montagne e nelle campagne: il desiderio di stabilità, il bisogno di rifarsi alle tradizioni e al territorio, il richiamo alla continuità tra passato e presente35, gli echi di tipo neocorporativo36.In valle (da Varallo in su) la Dc andò così a occupare lo spazio che prima era stato occu- pato dai liberali, e in parte anche dai socialisti, diventando il punto di riferimento politi- co per larghi strati della popolazione. Quasi tutti i membri dei Cln comunali dell’alta valle che si definivano “apolitici” finirono per aderirvi. Il risultato fu che, dopo le ele- zioni amministrative del 31 marzo 1946, in tutta l’alta valle (Varallo compresa) si inse- diarono giunte comunali dominate dal partito cattolico37.

27 Per l’autonomia degli ex Comuni, in “La Gazzetta della Valsesia”, 2 marzo 1946. 28 Il grande convegno di Varallo per l’esame dei problemi valsesiani, in “La Gazzetta della Valsesia”, 10 agosto 1946. 29 È nato il Consiglio della Valle, in “Corriere Valsesiano”, 20 settembre 1946. 30 Il I Convegno dell’Unione Valsesiana Agricoltori, in “La Gazzetta della Valsesia”, 24 agosto 1946. 31 Il Ministro della Pubblica Istruzione ha visitato gli istituti scolastici cittadini, in “Corriere Valsesiano”, 8 dicembre 1946. 32 Assemblea costituente. Atti. Allegato alla XXV seduta del 10 dicembre 1946. Risposte scritte ad interrogazioni. 33 Per il ripristino del Tribunale a Varallo, in “Corriere Valsesiano”, 14 marzo 1947. 34 Assemblea costituente. Atti. Allegato alla CCXII seduta del 9 settembre 1947. Risposte scritte ad interrogazioni. 35 AURELIO LEPRE, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, Il Mulino, 2004 (1a ed. 1993), pp. 27-28. 36 PIERO AIMO, Stato e poteri locali in Italia 1848-1995, Roma, Carocci, 1998 (1a ed. La Nuova Italia Scientifica, 1997), p. 129. 37 BRUNO ZIGLIOLI, Ipotesi per una sconfitta. Il fallimento dell’esperienza dei Cln valse- siani, in “l’impegno”, a. XXIV, n. 2, dicembre 2004, pp. 104-106.

127 Su un terreno di questo tipo Moscatelli e i comunisti non si potevano trovare a loro agio. Cino era cresciuto avendo come modello il partito leninista. La cultura comunista - tendenzialmente monoclassista e perciò speculare a quella interclassista cattolica - metteva al centro della propria riflessione e della propria azione il partito, strumento e avanguardia della classe operaia. Per Moscatelli il mandato costituente significava pri- ma di tutto lavorare per il Pci: i contatti con il territorio andavano tenuti non personal- mente, ma attraverso l’organizzazione del partito. Si può immaginare con quanta fatica i dirigenti addestrati nelle scuole di partito di Mosca e forgiati nella lotta partigiana, come Moscatelli, o Secchia, potessero adeguarsi alla strategia togliattiana del partito nuovo38, che doveva essere potenzialmente capace di raccogliere i voti delle classi medie e dei ceti intellettuali39. Ha argutamente notato Enzo Barbano: «[Moscatelli] fu sempre accusato di aver politicizzato la Resistenza in Valsesia, nel senso che avrebbe cercato di inquadrarla nella strategia comunista. [...]. Penso che l’obiezione però abbia fatto il suo tempo. Mi sembra invece di dover conclu- dere che Moscatelli [...] non abbia curato particolarmente l’opera di proselitismo poli- tico in Valsesia. Se lo fece [...] fu ben lungi dal riuscirvi. La sua attività politica succes- siva lo vide, vicino a Secchia, battersi soprattutto per l’unità e la disciplina del suo par- tito»40. In effetti, almeno fino alla primavera del 1947, Moscatelli in Valsesia partecipò soprattutto alle iniziative di partito, all’inaugurazione di sezioni o di bandiere, o alle com- memorazioni partigiane41. Poi si verificò un cambiamento. Il Pci, in quel periodo, stava compiendo una riflessione sui risultati elettorali del 2 giugno 1946 - giudicati insoddisfacenti - anche in vista delle prime elezioni politiche dell’epoca repubblicana. A chi, come Secchia, riteneva che i risultati, soprattutto al Nord, fossero stati deludenti perché alla guerra di liberazione non avevano fatto seguito risultati concreti, creando malcontento nei partigiani, Togliatti rispose che durante la guerra ci si era posti «obbiettivi molto avanzati, che non potevano diventare dopo la liberazione obbiettivi di tutto il popolo». Per esempio, nei centri industriali non si era capito che «lo strato avanzato degli operai è circondato da una massa di operai a fisionomia moderata, da un ceto medio legato alla produzione e al commercio, da professionisti e intellettuali»42. Nel progetto togliattiano si trattava di consolidare la struttura del partito di massa, bisognava conquistare la gente, non solo gli operai, ma anche i ceti medi, gli intellettua- li, le donne, i contadini43. Il mondo garibaldino ottenne comunque una soddisfazione:

38 ALDO AGOSTI, Togliatti, Torino, Utet, 1996, pp. 312-313. 39 RENZO MARTINELLI, Storia del Partito comunista italiano. Il “Partito nuovo” dalla Liberazione al 18 aprile, Torino, Einaudi, 1995, p. 22; ALBERTINA VITTORIA, Storia del Pci 1921-1991, Roma, Carocci, 2006, pp. 59-65; ROBERTO CHIARINI, Le origini dell’Italia repub- blicana (1943-1948), in GIOVANNI SABBATUCCI - VITTORIO VIDOTTO (a cura di), Storia d’Italia. La Repubblica, Roma-Bari, Laterza, vol. V, 1997, pp. 74-75. 40 E. BARBANO, art. cit. 41 La cerimonia di Borgosesia per l’apoteosi degli eroi della Patria, in “Corriere Valse- siano”, 27 dicembre 1946. 42 M. MAFAI, op. cit., p. 45; R. MARTINELLI, op. cit., pp. 98-100; A. AGOSTI, op. cit., pp. 321-322. 43 R. MARTINELLI, op. cit., pp. 101-102; DONALD SASSOON, La concezione del partito in Togliatti, in A. AGOSTI (a cura di), Togliatti e la fondazione dello Stato democratico, Mila- no, Angeli, 1986, pp. 75-82.

128 l’inserimento di Francesco Moranino e dello stesso Moscatelli nel terzo governo De Gasperi, il primo come sottosegretario alla Difesa, il secondo come sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’assistenza ai reduci e ai partigiani. L’esperienza di governo di Moscatelli fu molto breve. Nel maggio 1947 si formò il nuovo governo De Gasperi (il quarto), che pose fine all’esperienza dei governi di unità nazionale e al patto tripartito. Le sinistre ne furono escluse: i comunisti non entrarono più a far parte di un esecutivo con ministri propri per tutto il tempo della cosiddetta Prima Repubblica. In ogni modo, la nuova linea togliattiana non venne sconfessata: oc- correva conquistarsi i consensi sul territorio, palmo a palmo, voto per voto44. Mosca- telli, da questo momento, si fece interprete di questa impostazione del partito sul terri- torio valsesiano e cominciò anch’egli a diventare un “deputato territoriale” in senso pie- no. Così, nel maggio del 1947 Cino prese parte ai lavori del convegno sul turismo val- sesiano, organizzato dal Consiglio della valle. Prese la parola, dichiarando la sua precisa volontà di occuparsi direttamente dei problemi valsesiani. Fece rilevare di non essere stato invitato ai precedenti convegni e di non essere quindi in condizione di conoscere a fondo tutti i problemi già discussi e tutte le iniziative già prese, ma assicurò, da quel momento in avanti, la sua attiva partecipazione e il suo costante interessamento. Di- chiarò infine che, non appena rientrato a Roma, avrebbe immediatamente chiesto udienza al ministro dei Lavori pubblici per sottoporgli il problema della ricostruzione degli al- berghi e del riassetto stradale della zona45. Passarono poche settimane e Cino indirizzò una lettera pubblica al presidente della Pro Valsesia (una delle associazioni che componevano il Consiglio della valle) Ezio Grassi, nella quale diede conto di un suo incontro, insieme a Pastore e a Bertola, con il ministro della Pubblica Istruzione sul problema della sistemazione giuridica del Collegio D’Ad- da. Nella stessa lettera segnalò anche il suo interessamento presso il ministro dei Lavori pubblici, annunciando di aver ottenuto nel complesso uno stanziamento straordinario di venticinque milioni di lire per il riattamento e la ricostruzione di edifici scolastici e di strade a Varallo, a Borgosesia, a Rimella, a Fobello e a Rimasco46. Il lavoro di rappresentanza degli interessi locali svolto da Moscatelli diventò sempre più intenso: a giugno inviò una lettera all’assemblea dell’associazione dei proprietari di casa valsesiani, nella quale sostenne che «le parti contrapposte [proprietari e locatori] hanno entrambe ragione da vendere» e che il problema della casa «non può essere ri- solto in modo unilaterale» ma solo tramite «una energica politica di ricostruzione edili- zia adeguatamente appoggiata dallo Stato»47. In agosto prese parte all’inaugurazione della mostra dell’arte, dell’artigianato e del-

44 Togliatti disse che il partito avrebbe dovuto saper «organizzare la propria attività in tutte le direzioni, cioè nella direzione di tutti gli strati sociali che esso vuol dirigere e in- fluenzare. Il problema è veramente nuovo, e nella storia del movimento operaio e anche nella storia del bolscevismo, prima della conquista del potere, una soluzione bella e fatta non la troviamo. Dobbiamo elaborarla noi attraverso la nostra esperienza, e studiando le esperien- ze degli altri partiti». Cit. in R. MARTINELLI, op. cit., pp. 171-172. I corsivi sono miei. 45 Per il maggior sviluppo del turismo in Valsesia, in “Corriere Valsesiano”, 2 maggio 1947. 46 Altri 25 milioni per la Valsesia, in “Corriere Valsesiano”, 23 maggio 1947. 47 L’assemblea dei proprietari di casa, in “Corriere Valsesiano”, 13 giugno 1947.

129 l’industria valsesiana, che si svolse a Borgosesia48. A settembre partecipò alla nuova riunione dell’assemblea del Consiglio della valle, dove venne discusso e adottato un nuovo statuto, che prevedeva un grande ampliamento dei soggetti e degli organismi chiamati a farne parte49. In ottobre, un’altra riunione di questo Consiglio ospitò il ministro delle Finanze Pella: Pastore e Moscatelli presero la parola, auspicando che il governo met- tesse in atto le provvidenze necessarie alle zone montane, le quali - disse Cino - «spet- tano di diritto [alla Valsesia], anche per l’importante ruolo assunto nella guerra di Libe- razione»50. In novembre, sempre insieme a Pastore, Moscatelli si fece portavoce del- l’istanza per la costruzione della strada lungo la sponda destra del Sesia51. Infine, nello stesso mese, entrò a far parte della giunta direttiva del Consiglio della valle, diventando- ne vicepresidente insieme al presidente riconfermato Pastore52. Insomma, da quel momento Cino dedicò grande impegno alla politica locale e alla rappresentanza delle istanze della valle, e tale attenzione avrebbe caratterizzato tutta la sua carriera politica successiva. Moscatelli non fu candidato alle elezioni politiche del 1948: entrò al Senato come membro di diritto, in base alla terza disposizione transitoria della nuova Costituzione repubblicana, che prevedeva questa possibilità per coloro i quali avessero scontato almeno cinque anni di carcere in seguito a condanna del Tribunale speciale fascista. Nel 1953 e nel 1958 venne invece candidato, ed eletto, alla Camera dei deputati. Al termine della terza legislatura, a causa di problemi di salute derivanti dalla sua carcerazione in epoca fascista, lasciò la vita parlamentare, ma non si ritirò a vita privata: tra l’altro, diventò in seguito consigliere comunale e capogruppo del Pci a Borgosesia, carica che ricoprì fino al 1975. Fu sempre un attento osservatore dei movimenti e dei cambiamenti giovanili. Le sue antenne politicamente sensibili seppero captare immediatamente le potenzialità del movi- mento studentesco in Valsesia, alla fine degli anni sessanta. La sua abitazione borgosesia- na si trasformò in un luogo di riunione e di discussione con i giovani contestatori: fu una vera scuola di politica che contribuì, tra l’altro, al rapido recupero verso il Pci di una parte consistente di quel movimento in valle. Furono queste nuove leve di militanti comunisti e socialisti, non più la “vecchia guardia” partigiana e operaia, il perno delle nuove amministrazioni di sinistra che si insediarono in Valsesia alla metà degli anni set- tanta53.

48 Mostra Valsesiana industriale-artigiana-artistica. L’inaugurazione, in “Corriere Val- sesiano”, 8 agosto 1947. 49 Consiglio della Valle. Il nuovo statuto, in “Corriere Valsesiano”, 5 settembre 1947; Il Consiglio della Valle approva il nuovo statuto, in “Corriere Valsesiano”, 26 settembre 1947. 50 Consiglio della Valle. L’Assemblea di popolo è stata presenziata dal ministro Pella, in “Corriere Valsesiano”, 17 ottobre 1947. 51 Per la difesa degli interessi dei comuni della destra del Sesia, in “Corriere Valsesia- no”, 14 novembre 1947; La pratica per la strada della destra del Sesia trasmessa al capo del Governo, in “Corriere Valsesiano”, 21 novembre 1947. 52 Il Consiglio della Valle ha varato il programma dell’Estate Valsesiana 1948. La nuova giunta direttiva, in “Corriere Valsesiano”, 28 novembre 1947. 53 ALESSANDRO ORSI, Il nostro Sessantotto. 1968-1973. I movimenti giovanili studenteschi e operai in Valsesia e Valsessera, Varallo, Isrsc Bi-Vc, 2008 (1a ed. 1990), pp. 31-38; GIANLUI- GI TESTA, Moscatelli, uomo politico valsesiano, in Ricordo di Cino Moscatelli, cit., pp. 17- 32. Sul fascino che la figura di Moscatelli ha esercitato sulla generazione del Sessantotto v. anche F. COLOMBARA, art. cit., p. 60.

130 Moscatelli morì a Borgosesia il 31 ottobre 1981. Ai suoi funerali partecipò, insieme a moltissimi esponenti del mondo politico e ai più alti dirigenti del Pci, il presidente della Repubblica , che agli inizi di quello stesso mese si era recato privatamen- te al suo capezzale. In conclusione, è il caso di ricordare che si deve all’impegno di Cino la creazione dell’Istituto per la storia della Resistenza che porta il suo nome. Conserva un profondo significato memoriale il fatto che l’Istituto abbia preso sede non nel capoluogo di pro- vincia, come accade per quasi tutti gli istituti della rete dell’Istituto nazionale per la sto- ria del movimento di liberazione in Italia, ma in Valsesia, dove lui, insieme ai suoi parti- giani, aveva combattuto.

131

Appendice a cura di Enrico Pagano

Il voto per l’Assemblea costituente nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia

Nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli si presentarono dieci liste: la Democra- zia cristiana (Dc), il Partito socialista (Psiup), il Partito comunista (Pci), l’Unione de- mocratica nazionale (Udn), il Fronte dell’uomo qualunque (Uq), il Partito repubblicano (Pri), il Blocco nazionale della libertà (Bnl), il Partito d’Azione (Pda), il Partito dei con- tadini d’Italia (Pdc), la Concentrazione democratica repubblicana (Cdr). Per effetto del voto raggiunsero i quozienti per l’elezione dei 25 deputati assegnati alla circoscrizione, quattro liste: la Dc e il Psiup si aggiudicarono 9 seggi, il Pci 6, l’Udn 1; gli altri voti confluirono nel conteggio dei resti su base nazionale. Nell’ambito della circoscrizione gli elettori della provincia di Vercelli, considerata nei suoi confini originari, costituivano il 17,7 dell’insieme, percentuale che sale al 18,19 se calcolata sui votanti, in conse- guenza dell’affluenza alle urne più elevata di due punti e mezzo (93,62 per cento contro 91,12 per cento). Aldilà delle risultanze elettorali, ampiamente prevedibili e previste, il dato più ecla- tante del primo appuntamento con il voto politico fu l’altissima affluenza. Concorsero a determinarla in queste dimensioni due motivazioni contrastanti: l’obbligatorietà del voto, stabilita dalla legge elettorale, e lo spirito collettivo che individuò nell’espressione del diritto di voto, finalmente a suffragio universale anche femminile1, l’opportunità di ren- dere concreta la partecipazione alla ricostruzione del Paese dopo l’esperienza bellica. Individuare quale sia stata la motivazione prevalente è un esercizio il cui svolgimento lascerà sempre divise le opinioni, tuttavia non ci si può esimere da alcune considerazio- ni obiettive. La legge elettorale per lo svolgimento delle elezioni per l’Assemblea costi- tuente, impostata sul sistema proporzionale, fu introdotta con il decreto legislativo luo- gotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, al termine di una concitata fase dibattimentale in seno alla commissione preposta nominata dalla Consulta nazionale, nell’ambito della Consulta stessa e del governo su vari temi, tra cui la questione del voto obbligatorio che occupò a lungo i lavori dei vari organi prima di trovare una formulazione che co- stituì un modello di compromesso ragionevole. A favore dell’obbligatorietà del voto si espressero partiti e movimenti di centro e di destra, quali la Dc, i liberali e, sebbene non rappresentati nella Consulta, i qualunquisti2,

1 Contrariamente a quanto capita talvolta di leggere, la prima occasione in cui fu eserci- tato il voto a suffragio universale maschile e femminile furono le elezioni amministrative che si svolsero nella primavera del ’46; le elezioni politiche e il referendum del 2 giugno ’46 ave- vano dunque già avuto una prova generale durante la quale si registrò comunque un’altis- sima affluenza alle urne. 2 L’assenza di rappresentanti del movimento fondato da Giannini è dovuta al fatto che della Consulta fecero parte i rappresentanti dei partiti che avevano costituito i Cln, oltre ad esponenti di sindacati, associazioni di reduci, rappresentanti del mondo culturale, delle libe- re professioni, delle aziende ed ex parlamentari antifascisti. La Consulta fu attiva dal 25 set- tembre 1945 e fu sciolta con le elezioni del 2 giugno 1946, pur essendosi riunita per l’ultima seduta plenaria il 9 marzo 1946.

135 sostenendo la necessità di combattere l’astensionismo che storicamente aveva caratte- rizzato le consultazioni elettorali prefasciste per garantire la più ampia partecipazione e avvalorare di conseguenza l’esito della consultazione rafforzandone il significato de- mocratico. A sinistra socialisti, comunisti e azionisti consideravano il libero esercizio del diritto di voto come un’occasione per conoscere la reale situazione dello spirito nazionale e rifiutavano l’applicazione di criteri meccanici coercitivi come strumento per la costruzione della democrazia, individuando come rimedio di medio-lunga scadenza all’astensionismo storico l’impegno per l’educazione della coscienza politica delle masse popolari e sostenendo l’ineluttabilità di sottoporsi al rischio di un’affluenza non molto alta all’inizio del processo democratico. Una lettura strumentale delle diverse posizioni porta ad individuare come elemento discriminante della discussione l’universalmente riconosciuta superiore capacità di mo- bilitazione popolare che avevano i partiti della sinistra: l’obbligo di andare a votare ap- pariva un rimedio ad una situazione di partenza che vedeva potenzialmente in svantag- gio i partiti di opinione o che, come la Dc, si rivolgevano ad un elettorato più indistinto sul piano socioeconomico e meno mobilitabile rispetto a quello delle sinistre, che per le ragioni opposte avversavano l’obbligatorietà. Nel dibattito alcuni esponenti del Pci ten- tarono di introdurre altre innovazioni, senza esito, come l’ampliamento del diritto attivo di voto ai diciottenni, provvedimento che avrebbe consentito di votare a gran parte del mondo partigiano delle classi 1925 e 1926, e l’abbassamento del diritto passivo da 25 a 21 anni3; altro argomento caldo fu la discussione delle sanzioni nei confronti dei mi- nistri di culto che avessero fatto propaganda politica. La legge elettorale per l’Assemblea costituente fu il risultato di un serrato confronto in cui emersero in tutta evidenza tattiche e strategie di convenienza di parte, in un clima tuttavia di apertura alla conciliazione e alla ricerca della soluzione equilibrata. È da in- tendersi in questo senso la scelta sulle sanzioni da applicare a chi non avrebbe adem- piuto all’obbligo del voto, che si ridussero ad un livello solo morale, nel senso che per chi non si recò alle urne senza giustificato motivo le conseguenze furono l’inclusione in un elenco esposto per un mese presso gli albi pretori comunali e la menzione per cinque anni sul certificato di buona condotta della formula “non ha votato per l’elezio- ne dell’Assemblea costituente”. Molto meno rispetto all’esclusione dalla partecipazione ai concorsi pubblici profilatasi in un primo tempo come sanzione punitiva proposta dai liberali. Come valutare allora lo straordinario dato relativo all’affluenza, che nella nostra provincia risultò superiore di più di cinque punti percentuali rispetto al dato nazionale, attestato all’89,08 per cento? Gli elettori che si recarono alle urne in massa furono ani- mati da libero spirito democratico o desideravano molto più semplicemente evitare la gogna dell’albo pretorio? Difficile trovare una risposta esaustiva di tutte le possibili di- stinzioni, però è importante evidenziare che chi si recò alle urne lo fece esprimendo, oltre alla scelta obbligata della partecipazione, anche la scelta libera del voto ad una delle

3 Le proposte di anticipare a 18 anni l’età per l’esercizio del diritto di voto e il limite d’età per l’eleggibilità furono avanzate dai consultori Spallone e Pajetta, ma non furono in realtà mai dibattute, poiché gli stessi presentatori preferirono ritirarle di fronte all’obiezione che la discussione avrebbe ritardato irreparabilmente l’approvazione della legge elettorale causando il rinvio della consultazione.

136 liste in lizza: la percentuale delle schede bianche sui votanti fu del 2,13 a fronte del 2,10 della circoscrizione e del 2,57 nazionale; il computo relativo dei voti non validi, schede bianche comprese, sale al 4,96 per cento, inferiore sia al livello circoscrizionale del 5,16 per cento, sia al livello nazionale del 7,93 per cento. Insomma, chi andò a votare non assolse soltanto ad un dovere, ma esercitò consapevolmente il proprio diritto di elettore. L’analisi più particolare dell’affluenza territoriale consente di verificare che nell’in- sieme dei 163 comuni della provincia il dato più basso si registrò a Sabbia, dove andò a votare il 70,72 per cento dell’elettorato; altri cinque comuni, di cui quattro collocati territorialmente in alta Valsesia, fecero registrare un’affluenza inferiore all’80 per cento; in altri 30 comuni l’affluenza si attestò fra l’80 e il 90 per cento; la gran parte dell’insie- me, 113 comuni, presenta percentuali di affluenza tra il 90 e il 97 per cento; 10 comuni sono oltre il 97 per cento e 3 addirittura oltre il 98 per cento (Collobiano, Crova e Motta de’ Conti, comune primatista di affluenza con la stratosferica percentuale del 98,78: solo 15 dei 1.229 iscritti alle liste elettorali restò a casa). L’incrocio dei dati relativi all’affluenza e ai voti non validi evidenzia un rapporto in- versamente proporzionale: la presenza di voti non validi tende ad essere più significati- va nei comuni a minore affluenza, affievolendosi nei comuni a più alta partecipazione al voto. Raggruppando gli insiemi infatti osserviamo che, laddove l’astensionismo si col- loca fra il 21 e il 30 per cento dell’elettorato, la media delle schede bianche o nulle si attesta al 12,38 per cento; nella fascia successiva di astensionismo, fra l’11 e il 20 per cento, i voti non validi diminuiscono all’8,38 per cento; nella fascia compresa fra il 10 e il 3 per cento di astensionismo l’incidenza scende al 4,72 per cento e sotto il 3 per cento di astensionismo arriva al 3,54 per cento. I dati sembrano indicare che gli elettori si recarono alle urne con le idee piuttosto chiare sulle liste cui attribuire i consensi e, nonostante la desuetudine all’esercizio del diritto di voto, fu relativamente bassa l’inci- denza degli errori, considerando che coloro che votarono scheda bianca, ammesso che avessero optato in questo senso per incertezza politica, a livello provinciale furono sol- tanto il 43 per cento dell’insieme che non espresse voti validi, che a sua volta costitui- sce il 2,13 per cento del corpo elettorale. Ovunque si votò in massa, con qualche dif- ferenze nelle percentuali di affluenza ma in un quadro che consente di giudicare asso- lutamente rappresentativo l’esito della consultazione; al di sotto del 90 per cento di af- fluenza si collocano soltanto i dati relativi all’insieme dei comuni il cui corpo elettorale è inferiore a 500 cittadini (89,61 per cento) e ai comuni dell’alta Valsesia (87,27 per cento), mentre il primato di affluenza riguarda l’area delle Grange (95,66 per cento) e in generale i comuni della pianura (95,59 per cento). In conclusione, i timori di alcune forze politiche che alla vigilia paventavano un forte astensionismo si rivelarono infon- dati, così come gli auspici di altre forze politiche, che giudicavano necessario il libero afflusso alle urne per avere il quadro esatto del livello di educazione politica del popolo, furono superati dalla manifestazione di fermo orientamento elettorale che privilegiò decisamente i partiti di massa, cui in ambito provinciale andarono consensi complessi- vamente superiori al 90 per cento. L’analisi sugli insiemi territoriali4 conferma il dato con sfumate differenze: nel Biel-

4 Per condurre l’analisi sono stati individuati alcuni sottoinsiemi, comprendenti i comuni esistenti nel 1946 con la denominazione dell’epoca, che di seguito riportiamo.

137 lese la somma dei consensi dei tre principali partiti raggiunse il 91,16 per cento, nel Vercellese si attestò all’89,85 per cento e in Valsesia all’87,28 per cento. La tendenza è ampiamente confermata dalla suddivisione per zone altimetriche: nei comuni di monta- gna Dc, Psiup e Pci si accaparrarono il 90,1 per cento dei voti, in quelli di collina l’89,38 per cento, in quelli di pianura il 90,91 per cento. Anche la suddivisione per dimensione dei comuni conferma il dato: le somme di voti relativamente inferiori si registrarono nei comuni fino a 500 elettori (87,05 per cento) e nei capoluoghi (87,75 per cento); nei centri a popolazione elettorale superiore a 5.000 si colloca la somma percentuale più

Biellese: Ailoche, Andorno Micca, Benna, Biella, Bioglio, Borriana, Brusnengo, Callabia- na, Camandona, Camburzano, Campiglia Cervo, Candelo, Caprile, Casapinta, Castelletto Cer- vo, Cavaglià, Cerreto Castello, Cerrione, Coggiola, Cossato, Crevacuore, Crosa, Curino, Do- nato, Dorzano, Gaglianico, Gifflenga, Graglia, Guardabosone, Lessona, Magnano, Massaz- za, Masserano, Mezzana Mortigliengo, Mongrando, Mosso Santa Maria, Mottalciata, Muzza- no, Netro, Occhieppo Inferiore, Occhieppo Superiore, Pettinengo, Piatto, Piedicavallo, Pisto- lesa, Pollone, Ponderano, Portula, Postua, Pralungo, Pray, Quaregna, Quittengo, Ronco Biel- lese, Roppolo, Rosazza, Sala Biellese, Salussola, Sandigliano, San Paolo Cervo, Selve Marco- ne, Soprana, Sordevolo, Sostegno, Strona, Ternengo, Tollegno, Torrazzo, Trivero, Valdengo, Vallanzengo, Valle Mosso, Valle San Nicolao, Veglio, Verrone, Vigliano Biellese, Villanova Biellese, Viverone, Zimone, Zubiena, Zumaglia. Vercellese: Albano Vercellese, Alice Castello, Arborio, Asigliano Vercellese, Balocco, Bian- zè, Borgo D’Ale, Borgovercelli, Buronzo, Caresana, Caresanablot, Carisio, Casanova Elvo, Cascine San Giacomo (oggi San Giacomo Vercellese), Cigliano, Collobiano, Costanzana, Crescentino, Crova, Desana, Fontanetto Po, Formigliana, Gattinara, Ghislarengo, Greggio, Lamporo, Lenta, Lignana, Livorno Ferraris, Lozzolo, Moncrivello, Motta de’ Conti, Olcenen- go, Oldenico, Palazzolo Vercellese, Pertengo, Pezzana, Prarolo, Quinto Vercellese, Rive, Roa- sio, Ronsecco, Rovasenda, Salasco, Sali Vercellese, Saluggia, San Germano Vercellese, San- thià, Stroppiana, Tricerro, Trino, Tronzano Vercellese, Vercelli, Villarboit, Villata. Valsesia: Alagna, Balmuccia, Boccioleto, Borgosesia, Breia, Campertogno, Carcoforo, Cellio, Cervatto, Cravagliana, Fobello, Mollia, Pila, Piode, Quarona, Rassa, Rima San Giusep- pe, Rimasco, Rimella, Riva Valdobbia, Rossa, Sabbia, Scopa, Scopello, Serravalle Sesia, Val- duggia, Varallo. Montagna (suddivisioni riferite al censimento Istat 2001, come per le successive voci “collina” e “pianura”): Ailoche, Alagna, Andorno Micca, Balmuccia, Boccioleto, Borgose- sia, Breia, Callabiana, Camandona, Campertogno, Campiglia Cervo, Caprile, Carcoforo, Cellio, Cervatto, Coggiola, Cravagliana, Crevacuore, Donato, Fobello, Graglia, Guardabosone, Mollia, Mosso (Mosso Santa Maria + Pistolesa), Muzzano, Netro, Occhieppo Superiore, Piatto, Pie- dicavallo, Pila, Piode, Pollone, Portula, Postua, Pralungo, Pray, Quarona, Quittengo, Rassa, Rima San Giuseppe, Rimasco, Rimella, Riva Valdobbia, Rosazza, Rossa, Sabbia, San Paolo Cervo, Scopa, Scopello, Sordevolo, Tollegno, Trivero, Valduggia, Valle Mosso, Varallo, Veglio. Collina: Alice Castello, Biella, Bioglio, Borgo D’Ale, Brusnengo, Camburzano, Casapinta, Castelletto Cervo, Cavaglià, Cerreto Castello, Cerrione, Cossato, Crosa, Curino, Dorzano, Gattinara, Lessona, Lozzolo, Magnano, Masserano, Mezzana Mortigliengo, Mongrando, Mottalciata, Occhieppo Inferiore, Pettinengo, Quaregna, Roasio, Ronco Biellese, Roppolo, Sala Biellese, Selve Marcone, Serravalle Sesia, Soprana, Sostegno, Strona, Ternengo, Torraz- zo, Valdengo, Vallanzengo, Valle San Nicolao, Vigliano Biellese, Viverone, Zimone, Zubiena, Zumaglia. Pianura: Albano Vercellese, Arborio, Asigliano Vercellese, Balocco, Benna, Bianzè, Borgo- vercelli, Borriana, Buronzo, Candelo, Caresana, Caresanablot, Carisio, Casanova Elvo, Cascine San Giacomo, Cigliano, Collobiano, Costanzana, Crescentino, Crova, Desana, Fontanetto Po, Formigliana, Gaglianico, Ghislarengo, Gifflenga, Greggio, Lamporo, Lenta, Lignana, Li-

138 alta (91,95 per cento). Infine, nei comuni dove la vocazione socioeconomica risultava più omogenea, le somme percentuali dei partiti di massa superarono abbondantemente la media provinciale, raggiungendo il 92,16 per cento nei comuni a vocazione agricola, il 93,67 per cento in quelli a vocazione industriale. La destra proponeva tre liste diversamente articolate e schierate riguardo alla scelta referendaria. Il Blocco nazionale della libertà era una coalizione elettorale di orientamento monarchico e di ispirazione conservatrice formata dai gruppi denominati Concentra- zione nazionale democratica liberale e Centro democratico, oltre che dal Partito demo-

vorno Ferraris, Massazza, Moncrivello, Motta de’ Conti, Olcenengo, Oldenico, Palazzolo Vercellese, Pertengo, Pezzana, Ponderano, Prarolo, Quinto Vercellese, Rive, Ronsecco, Ro- vasenda, San Germano Vercellese, Salasco, Sali Vercellese, Saluggia, Salussola, Sandiglia- no, Santhià, Stroppiana, Tricerro, Trino, Tronzano Vercellese, Vercelli, Verrone, Villanova Biellese, Villarboit, Villata. Comuni fino a 500 elettori: Ailoche, Alagna, Balmuccia, Boccioleto, Breia, Callabiana, Campertogno, Caprile, Carcoforo, Caresanablot, Cerreto Castello, Cervatto, Collobiano, Crosa, Dorzano, Fobello, Formigliana, Gifflenga, Guardabosone, Massazza, Mollia, Oldenico, Piatto, Pila, Piode, Pistolesa, Postua, Quaregna, Rassa, Rima San Giuseppe, Rimasco, Rimella, Riva Valdobbia, Rosazza, Rossa, San Paolo Cervo, Sabbia, Salasco, Sali Vercellese, Scopa, Sco- pello, Selve Marcone, Ternengo, Torrazzo, Vallanzengo, Verrone, Villanova Biellese, Zimone. Comuni da 501 a 1.000 elettori: Albano Vercellese, Balocco, Benna, Borriana, Camandona, Camburzano, Campiglia Cervo, Casanova Elvo, Casapinta, Cascine San Giacomo, Castelletto Cervo, Cravagliana, Crova, Curino, Donato, Ghislarengo, Greggio, Lamporo, Lenta, Lozzolo, Magnano, Muzzano, Pertengo, Piedicavallo, Prarolo, Quinto Vercellese, Quittengo, Rive, Rop- polo, Rovasenda, Sala Biellese, Soprana, Sostegno, Valdengo, Veglio, Villarboit, Zumaglia. Comuni da 1.001 a 2.000 elettori: Alice Castello, Arborio, Bioglio, Borgovercelli, Brusnen- go, Buronzo, Caresana, Carisio, Cellio, Cerrione, Costanzana, Crevacuore, Desana, Fonta- netto Po, Gaglianico, Graglia, Lessona, Lignana, Mezzana Mortigliengo, Moncrivello, Mos- so Santa Maria, Motta de’ Conti, Mottalciata, Netro, Occhieppo Superiore, Olcenengo, Pa- lazzolo Vercellese, Pettinengo, Pezzana, Pollone, Ponderano, Portula, Quarona, Ronco Biel- lese, Ronsecco, Salussola, Sandigliano, Sordevolo, Strona, Stroppiana, Tricerro, Valduggia, Valle San Nicolao, Villata, Viverone, Zubiena. Comuni da 2.001 a 5.000 elettori: Asigliano Vercellese, Bianzè, Borgo D’Ale, Candelo, Cavaglià, Cigliano, Coggiola, Crescentino, Gattinara, Livorno Ferraris, Masserano, Mongran- do, Occhieppo Inferiore, Pralungo, Pray, Roasio, San Germano Vercellese, Saluggia, Serra- valle Sesia, Tollegno, Tronzano Vercellese, Valle Mosso, Vigliano Biellese. Comuni oltre i 5.000 elettori: Andorno Micca, Borgosesia, Cossato, Santhià, Trino, Trivero, Varallo. Capoluoghi: Biella, Vercelli. Comuni con percentuale di addetti all’agricoltura superiore al 70% (censimento 1951): Albano Vercellese, Alice Castello, Arborio, Asigliano Vercellese, Balocco, Bianzè, Borgo D’Ale, Carcoforo, Caresana, Caresanablot, Carisio, Casanova Elvo, Cascine San Giacomo, Collobiano, Costanzana, Crova, Desana, Dorzano, Fontanetto Po, Formigliana, Gifflenga, Greggio, Lamporo, Lignana, Magnano, Moncrivello, Motta de’ Conti, Olcenengo, Oldenico, Palazzolo Vercellese, Pertengo, Pezzana, Prarolo, Quinto Vercellese, Rassa, Rima San Giu- seppe, Rimasco, Riva Valdobbia, Rive, Ronsecco, Rovasenda, Salasco, Sali Vercellese, Strop- piana, Tricerro, Villanova Biellese, Villarboit, Villata, Zimone. Comuni con percentuale di addetti all’industria superiore al 70% (censimento 1951): Andorno Micca, Borgosesia, Callabiana, Camandona, Candelo, Casapinta, Coggiola, Cos- sato, Crevacuore, Crosa, Gaglianico, Guardabosone, Lessona, Mezzana Mortigliengo, Mon- grando, Mosso Santa Maria, Occhieppo Inferiore, Occhieppo Superiore, Pettinengo, Piatto,

139 cratico italiano, ed appoggiata dall’Unione monarchica; ad esso faceva riferimento un personale politico legato alla dinastia sabauda da vincoli di tradizione nobiliare e milita- re. Il Fronte dell’uomo qualunque era una formazione politica intorno a cui si erano aggregati molti ex fascisti, sebbene la proposta qualunquista fosse agli antipodi dell’idea di Stato incarnata dal regime mussoliniano, che aspirava a raccogliere consensi soprat- tutto fra chi era scontento degli esiti del conflitto, chi si opponeva al sistema dei partiti e chi temeva provvedimenti di epurazione. Infine l’Unione democratica nazionale era il risultato dell’accordo elettorale del Partito liberale e di Democrazia del lavoro, più altri gruppi minori, ma soprattutto veniva identificata come la coalizione dei quattro “grandi” della politica prefascista italiana: Benedetto Croce, presidente del Partito liberale, Iva- noe Bonomi, leader del gruppo Democrazia del lavoro di ispirazione democratico-pro- gressista, Francesco Saverio Nitti a capo dell’Unione nittiana per la ricostruzione e Vittorio Emanuele Orlando, divisi in linea di principio sulla questione istituzionale (liberali e nittia- ni erano favorevoli alla monarchia, i demolaburisti si erano espressi per la repubblica), ma rappresentativi di interessi e valori conservatori, a difesa della libertà contro i tota- litarismi di destra e di sinistra e contrari all’ingerenza della Chiesa nella vita pubblica.

Pistolesa, Ponderano, Portula, Pralungo, Pray, Quarona, Quittengo, Ronco Biellese, San Paolo Cervo, Selve Marcone, Serravalle Sesia, Soprana, Strona, Ternengo, Tollegno, Trivero, Val- lanzengo, Valle Mosso, Valle San Nicolao, Veglio, Vigliano Biellese, Zumaglia. Regioni altimetriche (censimento 1936): Altopiano biellese: Benna, Borriana, Candelo, Gaglianico, Massazza, Ponderano, Sandi- gliano, Verrone. Baraggia vercellese: Albano Vercellese, Arborio, Balocco, Buronzo, Carisio, Casanova Elvo, Cascine San Giacomo, Collobiano, Formigliana, Ghislarengo, Gifflenga, Greggio, Len- ta, Oldenico, Rovasenda, Villanova Biellese, Villarboit. Collina morenica: Alice Castello, Borgo D’Ale, Cavaglià, Cerrione, Cigliano, Dorzano, Magnano, Moncrivello, Roppolo, Salussola, Viverone, Zimone, Zubiena. Collina prealpina: Brusnengo, Castelletto Cervo, Curino, Gattinara, Lozzolo, Masserano, Mottalciata, Roasio, Sostegno. Grange: Asigliano Vercellese, Bianzè, Borgovercelli, Caresana, Caresanablot, Costanza- na, Crescentino, Crova, Desana, Fontanetto Po, Lamporo, Lignana, Livorno Ferraris, Motta de’ Conti, Olcenengo, Palazzolo Vercellese, Pertengo, Pezzana, Prarolo, Quinto Vercellese, Rive, Ronsecco, San Germano Vercellese, Salasco, Sali Vercellese, Saluggia, Santhià, Strop- piana, Tricerro, Trino, Tronzano Vercellese, Villata. Prealpi biellesi: Casapinta, Cerreto Castello, Cossato, Crosa, Lessona, Mezzana Morti- gliengo, Piatto, Quaregna, Strona, Valdengo, Vigliano Biellese. Valle Cervo: Andorno Micca, Campiglia Cervo, Piedicavallo, Pralungo, Quittengo, Ron- co Biellese, Rosazza, San Paolo Cervo, Ternengo, Tollegno, Zumaglia. Valle Elvo: Camburzano, Donato, Graglia, Mongrando, Muzzano, Netro, Occhieppo Infe- riore, Occhieppo Superiore, Pollone, Sala Biellese, Sordevolo, Torrazzo. Valle Mosso: Bioglio, Callabiana, Camandona, Mosso Santa Maria, Pettinengo, Pistole- sa, Selve Marcone, Vallanzengo, Valle Mosso, Valle San Nicolao, Veglio. Valsesia superiore: Alagna, Balmuccia, Boccioleto, Campertogno, Carcoforo, Cervatto, Cravagliana, Fobello, Mollia, Pila, Piode, Rassa, Rima San Giuseppe, Rimasco, Rimella, Riva Valdobbia, Rossa, Sabbia, Scopa, Scopello, Varallo. Valsesia inferiore: Borgosesia, Breia, Cellio, Quarona, Serravalle Sesia, Valduggia. Valsessera: Ailoche, Caprile, Coggiola, Crevacuore, Guardabosone, Portula, Postua, Pray, Soprana, Trivero.

140 Al centro, con un programma di mediazione e conciliazione ispirato a valori religiosi e guidato da un leader riconosciuto per equilibrio, statura morale ed intellettuale come Alcide De Gasperi, la Democrazia cristiana si ergeva come antagonista del comunismo cui contrapponeva il solidarismo spiritualista cristiano, con ambizioni di leadership nel- la ricostruzione nazionale; a proposito della questione referendaria il partito aveva scel- to la repubblica, ma in conseguenza di un referendum interno a bassa partecipazione: l’elettorato democristiano non iscritto al partito propendeva in maggioranza per la con- servazione e la monarchia. Oltre ai due partiti di massa, il Psiup e il Pci, si collocavano a sinistra il Partito d’azione, la Concentrazione democratica repubblicana, il Partito repubblicano. Quest’ultimo si presentava come l’erede della tradizione mazziniana, con un forte radicamento nei ter- ritori già appartenuti allo Stato pontificio e in Toscana, ma con uno scarso appeal in Piemonte. Gli azionisti si dividevano invece in due tronconi, effetto dello scontro insa- nabile avvenuto in seno al congresso del partito nel febbraio 1946 fra la tendenza socia- lista, guidata da Emilio Lussu, e quella radical-democratica, guidata da , che alla fine abbandonò il partito dando vita alla Cdr, con l’appoggio di Ferruccio Parri; per entrambe le liste il risultato elettorale fu scarso. Il Psiup, pur senza rompere il patto d’unità d’azione con il Pci, si presentava con una forte rivendicazione di autonomia e con prospettive di ritagliarsi un ruolo di media- zione nel dialogo fra democristiani e comunisti, candidando il proprio leader Pietro Nenni ad assumere la responsabilità del potere, in altre parole a diventare presidente del Con- siglio. Il Partito comunista accentuò le tendenze moderate nel proprio programma, ope- razione che veniva giudicata dagli avversari come prodotto di un’astuzia tattica contin- gente; tuttavia osservatori non di parte come Enrico Mattei riconoscevano che l’obiet- tivo immediato del partito non era «la repubblica comunista o socialista, ma la repubbli- ca democratica»5 . L’insieme delle liste fu completato dal Partito dei contadini d’Italia, una formazione attiva già in epoca prefascista con la finalità propagandistica di «dare ai Rurali una co- scienza politica ed agli Italiani una coscienza rurale»; riorganizzatosi nel dopoguerra dopo lo scioglimento del 1926, si presentava con forte connotazione regionale e di in- dipendenza dagli schieramenti politici, posizioni che diedero origine a rivalità e incom- prensioni con i partiti di massa: il Pci rimproverava al Pdc di impedire l’unificazione del mondo operaio e contadino in una lotta comune, la Dc vedeva in esso un ostacolo al proprio radicamento elettorale nelle campagne. L’elettorato che scelse liste al di fuori di quelle dei partiti di massa fu quantitativa- mente molto ridotto e concentrato sulle altre formazioni di destra, soprattutto sull’Udn, che raccolse risultati superiori alla media nazionale in Valsesia (7,56 per cento), risul- tando il primo partito ad Alagna con il 48,09 per cento dei consensi, e nei comuni con popolazione elettorale inferiore a 500 (7,86 per cento). Ebbe un discreto successo elet- torale se confrontato con gli esiti nazionali anche il Partito dei contadini, che nel Vercel- lese ottenne il 2,34 per cento dei suffragi rispetto allo 0,45 per cento nazionale, con risultati percentualmente molto significativi, oltre l’11 per cento, a Ghislarengo, Rop-

5 ENRICO MATTEI, Calcolo delle probabilità alla vigilia della grande giornata, in “Gaz- zetta d’Italia”, 1 giugno 1946.

141 polo, Cavaglià, Alice Castello e Moncrivello, centri in gran parte raccolti nella collina morenica, dove complessivamente alla lista di Scotti toccò il 6,58 per cento dei con- sensi. Minore impatto politico ebbero invece i qualunquisti di Giannini, che superarono la media nazionale soltanto a Rosazza, Piatto, Campiglia Cervo e Piedicavallo, dove ottennero la percentuale del 16,05 e furono il terzo partito dietro Dc e Psiup: un suc- cesso molto localizzato e comunque non di dimensioni tali da alterare il risultato mode- sto nell’area della valle Cervo, dove riportarono l’1,99 per cento dei voti. Il Blocco nazionale della libertà ottenne risultati inferiori alla media nazionale in tutti i comuni, ad eccezione di Caprile, Alice Castello, Caresanablot, Rimasco e Roppolo, dove i risultati si contennero nella fascia fra il 2,95 e il 4,43 per cento. Il Pda ebbe risultati superiori alla media nazionale, con oscillazioni peraltro molto contenute, in 32 comuni distribuiti non uniformemente sul territorio: il risultato più significativo e decisamente differen- ziato fu riportato a Riva Valdobbia con il 9,13 per cento. L’ala scissionista che si espresse nella Cdr conquistò un risultato superiore alla media nazionale in 70 comuni, in 21 dei quali soltanto riuscì a superare la soglia dell’1 per cento; la formazione di Parri e La Malfa ottenne il risultato più favorevole a Piode, con il 2,61 per cento. Sorte ancora più negativa per il Pri, che superò la barriera dell’1 per cento in 9 comuni e raggiunse il risultato più favorevole a San Paolo Cervo con l’1,57 per cento. L’elettorato liquidò piuttosto bruscamente i partiti minori, riconoscendosi in misura relativamente apprezzabile soltanto nella tradizione liberale; la scelta si restrinse ai par- titi che rappresentavano la tradizione cattolica o socialista e quella di segno comunista, rafforzata dalla recente esperienza resistenziale politicamente egemonizzata nel territo- rio provinciale: i partiti di massa. L’analisi dei risultati della Dc, primo partito in provincia con percentuale di voti in- feriore di 2,04 punti rispetto al resto della circoscrizione e di 3,69 punti rispetto al dato nazionale, rivela un andamento piuttosto omogeneo, con scarti ridotti fra i risultati della montagna, della collina e della pianura, benché soltanto in quest’ultima regione man- tenga il primato di voti e con leggero margine sul Pci. Analizzando il dato per dimensio- ni dei comuni si conferma la regolarità del voto democristiano che non scende mai al di sotto della soglia del 29 per cento; soltanto nei comuni ad alto tasso di elettori impiegati nell’industria il risultato democristiano cala al 25,15 per cento. Un esame più particola- re delle varie aree territoriali rivela invece un andamento più contraddittorio: la Dc con- quista il primato di voti nel Vercellese e in Valsesia, ma è largamente al di sotto del dato provinciale nei comuni dell’altopiano biellese, nelle valli Cervo, Mosso e Sessera e nelle Prealpi biellesi, riportando complessivamente nell’area una percentuali di voti inferiore di più del 4 per cento rispetto al risultato provinciale e classificandosi al terzo posto distanziata di quasi 8 punti dal Psiup e di 1,5 punti dal Pci. La Dc è il partito di maggio- ranza relativa nella Baraggia vercellese, nella collina morenica, nella collina prealpina e, con il massimo risultato, in alta Valsesia, unico territorio dove si registra, sommando i voti democristiani e liberali, una maggioranza assoluta di centrodestra pari a quasi il 60 per cento dei suffragi. La Dc conquista la maggioranza assoluta in 12 comuni, rag- giungendo il massimo risultato a Cervatto con il 70,33 per cento, e quella relativa in 49 comuni; il risultato più scarso lo riporta a Sala Biellese con il 5,63 per cento. Più altalenante il risultato dei due partiti principali della sinistra. Entrambi a livello provinciale superano il dato nazionale di più di 9 punti percentuali; il Psiup è il partito di maggioranza relativa nel Biellese, dove il Pci si classifica secondo; nel Vercellese e in

142 Valsesia l’andamento è inversamente proporzionale: il Psiup supera nei consensi di cir- ca 17 punti il Pci in Valsesia, ma a sua volta cede più di 8 punti nel Vercellese. I socialisti sono il primo partito nei comuni di montagna e collina, mentre in pianura riducono notevolmente i loro consensi, ottenendo un risultato inferiore di più di 9 punti rispetto ai comuni collinari e più di 11 rispetto ai comuni di montagna. Rispetto alla lista comu- nista, i socialisti radicano maggiormente i loro consensi nei comuni il cui corpo eletto- rale è inferiore a 500 elettori: in questo caso i consensi al Psiup sono quasi doppi rispet- to a quelli al Pci. Con il crescere delle dimensioni del corpo elettorale le differenze si attenuano e nei comuni con un elettorato superiore a 5.000 persone il trend si inverte, fino a marcare una differenza di quasi 6 punti percentuali a vantaggio del Pci nei capo- luoghi. Analizzando il risultato elettorale del Psiup nei comuni a marcata vocazione so- cioeconomica, si riscontra un significativo divario fra i dati dei comuni ad alto tasso di addetti all’agricoltura, in cui i socialisti raccolgono il consenso relativamente più basso, pari al 24,71 per cento, e quello dei comuni ad alto tasso di addetti all’industria, dove la percentuale si attesta al 35,66 per cento. Il Psiup è il partito di maggioranza relativa nell’altopiano biellese, nelle valli Elvo, Mosso e Sessera, nei comuni territorialmente in- feriori della Valsesia. In nove subaree della provincia il Psiup è il primo partito della si- nistra, superato nei consensi dal Pci soltanto nelle Grange, in valle Cervo e nelle Prealpi biellesi. Il Psiup conquista la maggioranza assoluta in 13 comuni, raggiungendo il mas- simo risultato a Donato con il 58,64 per cento e quella relativa in 48 comuni; il risultato più scarso lo riporta a Carcoforo con l’1,45 per cento. Il Pci ottiene in provincia un risultato decisamente superiore, nell’ordine di quasi il 10 per cento, rispetto al dato nazionale; i consensi sono molto alti nel Vercellese, dove risulta il primo partito della sinistra, e nel Biellese, inferiori alla media nazionale in Valse- sia. Il Pci conquista la maggioranza assoluta in 8 comuni, raggiungendo il massimo risultato a Sali Vercellese con il 66,18 per cento e quella relativa in 32 comuni; il risul- tato più scarso lo riporta a Rassa con lo 0,60 per cento. La tendenza elettorale è cre- scente nel passaggio dalla fascia montana alla collinare e alla pianura con progressione inversa rispetto al voto socialista. Analogo trend si riscontra nel passaggio dai comuni a minor dimensione elettorale ai centri più popolosi, anche se nei capoluoghi il partito è leggermente più debole rispetto ai comuni con più di 5.000 elettori. La suddivisione per vocazione economica rivela la tendenza all’affermazione sia nei comuni ad alto tasso di addetti all’industria, sia in quelli ad alto tasso di addetti all’agricoltura. Analizzando il risultato nelle varie subaree, si evidenziano l’assoluta debolezza del Pci in alta Valsesia e le difficoltà nel territorio collinare morenico; nelle Grange, in valle Cervo e nelle Prealpi biellesi il Pci si afferma come partito di maggioranza relativa. Analizzati nel particolare, i risultati elettorali prefigurano le dinamiche che porteran- no in breve al ribaltamento delle posizioni di forza interne alla sinistra: il voto al Psiup risulta forte nelle aree meno dinamiche dal punto di vista socioeconomico, il Pci si pro- pone come forza capace di intercettare consensi nelle zone a più veloce evoluzione.

143

440.624.1 434.952 619.52 781.749.42 292.121 622.211 14,59 80,98 21,19 26,39 09,29 46,98 itnatoV itnatoV 00,001 00,001 00,001 00,001 00,001 00,001 149.465.1 701.772 219.82 944.500.82 865.031 726.711 irottelE irottelE 18,4 26,8 54,5 22,5 51,5 84,7 109.879.1 568.21 308.1 207.37 965.5 394.5 illuN illuN 83,19 55,49 87,49 91,59 58,49 25,29 965.642 311.42 682.869.22 243.253.1 327.511 337.601 096.79 393.201 293.51 459.8 847.433 577.32 823.736 047 566.1 779.1 442.3 740.1 700.300.1 522.7 417.81 792 577953 376 637 376 299 444 7942 364 122.33 179.4 154.2 140.2 659.112.1 974 48 451 213 47 041 97,6 82,5 73,4 77,2 64,1 54,0 34,0 43,5 64,2 35,0 83,1 67,1 41,1 66,0 52,4 20,2 03,0 86,0 08,0 23,1 24,0 42,4 21,2 62,0 76,0 85,0 85,0 83,0 05,3 19,165,7 43,0 99,1 96,0 53,0 39,0 46,0 43,2 92,1 34,0 13,0 85,0 836.065.1 452.27 074.01 019.4 737.3 328.1 centuali 18,82 79,81 81,32 37,82 27,13 43,61 149.3 686.653.4 935.313 840.17 052.33 758.33 27,02 04,03 29,92 81,53 34,32 83,33 921.857.4 370.114 077.37 517.04 600.52 940.8 ee in valori per ee 17,43 81,53 41,33 94,13 52,72 65,73 466.080.8 022.844 736.77 535.13 540.73 750.9 ar ar cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV cV-oN-oT.rcsocriC cV-oN-oT.rcsocriC illecreVidaicnivorP aerA cVaicnivorP aerA esellecreV esellecreV aiseslaV aiseslaV eselleiB eselleiB ailatI ailatI abella 1b. Il voto per abella 1a. Il voto per T T

145 itnatoV% 12,39 14,69 37,19 99,09 67,59 48,29 88,39 45,09 66,59 56,59 itnatoV 701.82 649 246.03 19 762 79 8 1 0 0 3 3 1 174 32 115 494 76,69 14141 56 161 31 981 621 61 5 11 0 0 4 7 3 3 0 2 5 4 262 435 13 13 593 685 392 565 81,47 24,69 632.8 415.8573 648.6 009.1702 143 750.1888 75 371 25914.2 709 03 7 007.2 162565 731 002.1 8 121281 863 383 32 1638 54 661 071 145 3 2043 11 221 541 42 81 921 584 3 9 03 2 65 161.72 95 33 97 2 3 7 7 1 6 46 381 0 4 2 61 51 23 6 8 4 43 75 9 2 3 3 9 630.7 41 6 2 2 549 5 793 841 321.2 04 961.8 7 41 1 381 2 313 334.7 180.1 474.2 3 75 537.1 589 0 1 603.2 69 754 4 21,19 415 1 219.1 073 138.1 43 431.1 992 27 69,08 785 31 992.1 845 602.1 553 63,39 213 98,78 986 884 097 83 61 1 11 31 46 8 811.2 411 513.2 232.2 95902 15 671 4 941 71 32 9 2 1 0 3 2 7 2 11 0 3 0 585 341 53 02 656 471 026 361 15,49 86,39 25 061 74234 4 034884.1 648.1 68323 741.2 2 381736 332 45 0 57 674 011 82 076 491 71 2 8 02 32 62 3 2 2 04 82 1 91 4 8 91 841 2 7 6 21 71 372 13 638.5 6 262.1 102 81 531 8 5 113.6 923 345.1 730.6 793.1 449 192 9 98 54,88 538.1 080.1 211 330.1 470.2 749.1 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottelE esellecreVonailgisA esellecreVonablA acciMonrodnA enumoC illecrevogroB olletsaCecilA elA’DogroB aisesogroB oteloiccoB ognensurB aiccumlaB anairroB occolaB oirobrA ehcoliA angalA oilgoiB èznaiB anneB alleiB aierB abella 2a. Il voto nei comuni T

146 itnatoV% 25,39 25,49 24,69 86,49 58,68 94,39 itnatoV 101 541 732 0 1 0 6 2 1 1 494 25 516 645 87,88 76398 692331 181 901281 082 85 7369 582 67 51 3502 69 58 33 1306 38 1 62 21 0205 078 01 71 81 1 74 043 002.1 221 71 08 021 2 3 25 1 1 1 22 72 03 9 1 0 0 1 3 4 21 2 2 1 3 489 0 13 41 4 6 07 3 0 0 5 52 0 0 2 721.1 32 11 0 7 450.1 2 142 155 0 41 436 11 43 1 1 3 1 13 498.2 962 766 721 2 1 652 517 252 624 585 691.3 42 566 0 1 21 120.3 86,39 17,78 833 225 10,39 0 732 082 834 81 96 48,28 662 19,38 01 552 18 68,59 97 35,79 08838 082592 584 26221 882 52 58 901 054 21 3 203 93 2 61 01 3 31 6 2 0 21 1 8 8052 4 046 6 264 1 5 391 01 1 5 1 25 817.1 5 2 511 01 61 0 109.1 6 0 311.1 338.1 1 79 642 0 955 51 41 872.1 012.1 51 1 672 5 885 162 2 92 475 75,49 2 31 26,79 530.1 0 88 1 392.1 321.1 19 11 511 201 07,88 841312 931 431 232365 021 33523 636 6 253 324 713 4 1 911 33 55 11 0 81 0 15 5 4 1 11 4 5 2 21 1 1 21 22 0 2 5 7 412 2 5 565 9 1 42 1 684 828.1 8 53 79 416 0 985 745 950.2 619 1 529.1 125 56 39,59 851 131.1 52,59 189 01 471 47,68 861 55,69 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottelE omocaiGnaSenicsaC ovreCottelletsaC ovreCailgipmaC olletsaCoterreC enumoC ovlEavonasaC tolbanaseraC ongotrepmaC onazrubmaC anodnamaC anaiballaC orofocraC atnipasaC anaseraC enoirreC ottavreC àilgavaC oznoruB olednaC elirpaC oisiraC oilleC

147 itnatoV% 54,49 90,59 03,49 63,59 93,79 35,59 28,49 85,69 44,59 85,59 itnatoV 624 332 684 9 11 2 0 12 7 3 891.1 26 433.1 062.1 652 562531 591001 633 7 921 24 2716 14 32 164 6 6 4 674 1 6 71 6 02 3 2 2 0 3 2 71 9 1 51 6 3 31 937 2 05 0 6 375 729 413 96 4 987 22 187 316.1 11,58 163 15 246 633 327.1 02,28 466.1 70,39 503.1 157406 38477 559 33210.1 629 94 974.1894 61 44 933.2 701 721813 451 9 81 4898 26 29 426 3 71744 094.1 71 0 11 02 85678 564 22 6 4 03 33 352 1423 843 251 162 55 5 52 2 761 2 03 511 1 7 892 61 21 32 11 01 4 11 1 6 409.2 66 91 1 2 2 831 4 2 1 5 05502 611.5 991.3 0 7 375.2 7 413 240.3 51 37 09 163 0 1 496.5331 1 3 1 3 62 51 034.5 428.2 142 2 631 366.2 378.3 2 0 81 5 423.1 01 011 113 85 3 5 41 0 652 083.4 1 294 914.1 481.4 0 152 67 283.1 91 0 0 413.1 77 607 3 0 50,89 0 183 865 764.1 908 2 8 193.1 7 54,08 73 0 514 1 858 983 1 648 3 37,39 1 06,89 723 97 614 71 374 604 254 334 48,58 08,59 812632.1 625 861.1013 054 70765 931 81 971 301 03 151 8 61 62 42 3 32 0 82 0 1 89 0 2 6 793 1 92 3 1 0 710.4 67 002 3 0 214.4 7 332.1 712.4 0 46 086 953.1 0 85 792.1 777 311 837 7 89,49 521 021 00,69 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottelE enumoC oPottenatnoF onitnecserC eroucaverC anailgavarC anailgimroF ogneralsihG anaznatsoC onaibolloC ocinailgaG aranittaG aloiggoC agnelffiG onazroD otassoC onailgiC olleboF anaseD otanoD oniruC avorC asorC

148 itnatoV% 14,79 74,39 59,59 06,49 87,89 76,29 58,19 70,59 84,68 24,59 25,39 itnatoV 145 661 254 0 2 3 3 0 0 2 961.1 54 922.1 412.1 763 866 862 58 03 7 5 7 7 9 354.1 39 456.1 645.1 957 34577 454446 04 13227 313 82 91 849 251 5 01 475 91241 33 1 31 7 144 22 81523 0 4 552 8 984 3 62 2 7 811 8 6 4 04 1 13 61 2 768.1 94 061 0 401 1 9 4 01 641.2 1 179.1 4 5 643.1 9 241 57 633.2 4 9 91 001 184.1 124.1 7 381 575.2 7 634.2 161 898 5 89,78 18 550.1 960.1 07 979 412.1 521.1 85,19 243032 32576 791 531 22 821 781 34 48 4715 8 4 0022 374 02200.1 571 695 2 1 358403 935 42 31 928 0811 821 8 8 13 1 651721 781 82 1 4 9 4 16 521 402 5 02 2871 3 64 7 5 3 11 51 812.1 803 211 7 1 4 92 6 3 01 4 264 835.1 71 1 033.1 0 21 3 2 2 474 0 461 93 0 0 843 8 4 3 7 81 535 12 0 0 6 666.1 5 231.3 8 315551 26 793 271 0 0 189 251 963 1 335.3 118.1 98,59 2 827.1 403.3 33 86 5 1 59,29 3 615 140.1 21 0 4 410.1 59 635 11 28 066 3 113 0 116 7 387 869 6 816 85,29 43 723 1 813 39,87 450.1 200.1 2 52,79 1 804 33 145 144 25,18 291323 241 881 152 361 301 5 3 61 1 0 2 0 8 1 21 7 3 2 456 22 867 407 24 676 538 018 20,69 10,79 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottelE ogneilgitroManazzeM airaMatnaSossoM itnoC’edattoM sirarreFonroviL enumoC enosobadrauG ollevircnoM odnargnoM ataiclattoM onaressaM azzassaM onangaM oropmaL onazzuM anosseL anangiL olozzoL oiggerG ailgarG ailloM orteN atneL

149 itnatoV% 10,69 43,59 72,59 52,59 46,39 91,69 65,19 69,49 57,59 41,69 itnatoV 103 667 564 61 12 0 6 6 4 4 985.1 55 627.1 446.1 99 031 16 21 0 0 6 2 2 1 313 51 053 823 17,39 825452 056934 951 486 538 003 52 032.1 22 9 64 41 73 4 2 5 5 9 9 7 6 31 3 1 2 6 3 6 129.1 56 077 226.2 911 95 380.2 689.1 558.2 758 147.2 928 37,69 74714 811 034 17 042 31431 78 0 422 81 91 0 6 01 0 31 1 1 1 2 9 1 1 6 1 01 722.1 252 4 301 11 693.1 3 033.1 482 362 804 23 16,29 394 044 52,98 55 02 2443 52 584 2 456 1 61 51 1 3 4 5 2 2 3 2 511 31 1 861 725.1 97 821 517.1 91,67 606.1 66 54 8 11 2 0 3 1 0 1 731 61 561 351 37,29 57341 361 731 05 05 7 63 91 47 1 2 1 6 0 8 2 2 0 3 813 164 41 32 363 855 233 484 64,19 47,68 436 955 093 7 4 2 6 7 3 2 416.1 25 237.1 666.1 558553 827082 344 394211 933 33 153 78 622 43 52 31 441 6 6693 01 22 3 563 91 0 4 813 5 9 24 0 21 6 4 81 7 4 3 3 6 2 7 2 571.2 4 7 88 1 802.1 21 383.2 219 35 0 362.2 1 15 713.1 563 162.1 310.1 5 02 369 761.1 314 60,59 96 583 053.1 632.1 22,39 974262 643 74 616 99 133 31 03 2 1 0 4 9 1 4 1 2 01 995.1 1 17 956 737.1 076.1 51 107 476 51,69 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottelE eroirepuSoppeihccO esellecreVolozzalaP eroirefnIoppeihccO enumoC ollavacideiP onarednoP ogneneclO ognenitteP angerauQ aselotsiP ocinedlO ognetreP ognularP anazzeP enolloP olorarP alutroP autsoP edoiP ottaiP yarP aliP

150 itnatoV% 10,49 14,59 91,49 57,88 89,29 itnatoV 821 022851 041 451 3 96 15 4 1 0 3 3 11 8 4 1 3 1 3 805 754 92 73 855 995 735 494 42,69 93 74,28 05 142 13 5 0 4 4 2 5 183 81 314 993 16,69 583 415 107 64001 5224 86 92 1 7 6 53 31 0 8 7 0 1 3 4 0 5 2 2 947.1 37 0 1 839.1 228.1 0 0 761 194 8 0992 56 091 5 141 3 571 823 911 82 3 11,29 59 2 0 38,97 2 1 0 3 8 3 1 5 1 2 951 515 72 34 362 485 681 855 27,07 55,59 46 43 4 53 3 0 6 3284 8 627411 670.1 1 99 311 94 851 03 91 58 5 712 61 4 771 6 21 75,18 3 6 5 5 0 954.2 401 5 127.2 365.2 283 81 964 004 92,58 602 00107 51581 47 211 71 5 734 6923 0 66691 142 1 2 6 256 451651 5 1 8 86 38901 5551 12 5 21 6 5 61 1 132 2 11 2 4 92 32 521 4 71 1 141 61 3 1 4 1 91 1 42 2 853 3 2 4 1 0 11 93 2 252 6 557 4 26 364 3 73 0 71 3 793 3 01 933 4 0 397 562.1 982 57,58 11 245 277 64 0 0 95 6 52,58 473.1 53,79 2 456 113.1 492 307 106 6 951 58 92 09,19 833 438 003 232 887 881 67,88 84,49 30,18 797892 684 974 853 762 051 61 82 02 11 0 61 34 6 24 6 31 0 449.1 871 4 193.2 221.2 690.1 34 522.1 931.1 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottelE esellecreVonamreGnaS eppesuiGnaSamiR esellecreVotniuQ ovreColoaPnaS enumoC aibbodlaVaviR eselleiBocnoR eselleiBalaS adnesavoR occesnoR ognettiuQ oloppoR anorauQ ocsamiR azzasoR ocsalaS allemiR aibbaS oisaoR assoR assaR eviR

151 itnatoV% 01,79 90,79 03,29 20,49 22,49 75,69 01,69 06,69 55,09 23,19 85,69 20,59 57,39 itnatoV 113 606 273 56 12 7 82 21 71 92 864.1 011 827.1 875.1 434949.2 782 028 263 653.3 2 621 16 02 9 2 7 1 32 4 9 4 7 2 763.7 962 811.1 22 568.7 636.7 471.1 041.1 452014 772566 614 64 702 693 02 207 04 369 61 41 2 251 51 2 82 1 2821.1 1 339.1 4441.1 874.1 3 3 007 221 4 01 040.1 391 3 8 92 1 3 8 71 2 0 1 2 9 2 4 516 582.1 5 42 92 25 12 816.1 34 0 21 017 914.1 71 733.1 446 027.1 21 81 1 166.1 919.4 07,09 31 103 302 32 100.3 945.5 221 221.5 863 332.3 321.3 423 40,88 28668 72 597 722613 653 1832.1 573 64 726.1501 872 2 354.1 02 48169 17 15 33 1 0965 97 33 9 02368 9 75 1 03 12 2301 382.1 54 21 929 82 95 1 3915 103 3 832 83 3 043 693 33 2 0 0 9 55 051 4 6 68 0 1 1 08 1 824.2 01 0 5 61 71264 0 6 12 343 22 9 129.2263 467.4 2 0 89 546.2 0 971 12 8 04 11 255 0 75 202.5 040.1 1 573 239 0 9 1 4 349.4 33 1 1 463 03 1 111.1 4 01 1 6 352 370.1 22 4 70,79 0 952.3 0 972 24 51 4 441 0 54 2 373 6 036.3 031 5 304.3 0 453 592 01 518 941.1 423 5 16 63 0 641 90,97 782.1 041 35,19 1 698 0 012.1 158 98,59 2 0 89,49 519.1 602 75 31 250.2 279.1 532 912 91,39 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottelE esellecreVonaznorT aiseSellavarreS enumoC enocraMevleS esellecreVilaS onailgidnaS anaipportS olovedroS alossulaS ognenreT ongetsoS ozzarroT ollepocS anarpoS ongelloT aiggulaS orrecirT àihtnaS orevirT anortS apocS onirT

152 itnatoV% 73,88 93,59 24,39 90,19 69,59 52,59 62,49 42,19 itnatoV 908.82 151.1 320.03 182.1 889 351 932 113 46 311 856.72 156 810.1 362.1 721 14 6 51 61 4 5 641.3 201 014.3 842.3 262925 77225 814 112327 681 33 431762 742.1 19 54 3 131.1093.2 254 541 64 3 835.1 3621 694 455 98 7704.9 323 7 21 306 4 7 101.537 911 2 78 100.01 1 02 3 22 02 511 22 52 4 026 43 5 21 7 71 7032 25 5 1 1 4 1077 241 1 45 81 34 7813 613 0 723 0 51 2 51 408 923.1 61921 962 772 4 161 3 393.3 2 14 0 32 9222 412 4 101 641 1 686.1 6 478 303.5801 463 63 2 094.1 052 18 017.3 1 2 71 343 0 935.3 548 312 102 9 0 52 22 362.1 891.6 3 1 781 8 1 0 85 646.5 86,69 0 31 272 31 12 1 4 414.1 016 41 952 0 32 6 2 123.1 2 16 1 3 41 22,59 11 0 2 1 6 237 4 922 2 55 0 176 4 11 22 4 31 4 51 471 76,19 2 437 952 7 609 3 114.1 7 05 152 76 2 401 2 8 428 981 701.1 865.1 19,69 224 010.1 874.1 487 181 2 048 03 17 51,59 77,59 255 894 530.1 12 254 119 316 67,09 20,88 375 74,39 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottelE oalociNnaSellaV eselleiBavonalliV eselleiBonailgiV enumoC ossoMellaV ogneznallaV aiggudlaV tiobralliV ognedlaV enoreviV ailgamuZ illecreV enorreV aneibuZ enomiZ ollaraV atalliV oilgeV

153 19,1 15,0 12,0 37,0 21,0 58,0 57,0 53,1 06,1 94,0 00,0 23,0 83,0 74,0 66,0 84,0 00,0 33,0 53,0 04,0 rdC 12,0 12,0 33,0 73,0 00,0 82,3 73,0 37,11 72,0 88,1 69,0 00,0 20,3 71,0 86,2 91,0 33,0 46,0 35,8 62,0 cdP 15,1 16,0 15,1 19,0 84,0 72,1 01,1 51,1 65,0 33,0 02,1 29,1 04,1 47,0 46,0 54,0 93,0 76,0 32,1 25,0 adP 13,1 15,0 54,0 58,0 35,1 23,0 37,0 71,3 33,0 04,1 23,0 25,0 33,0 57,1 76,0 35,0 00,0 69,0 74,0 64,0 lnB 12,0 00,0 92,0 00,0 00,0 36,0 22,0 71,0 46,0 00,0 23,0 24,0 53,0 00,0 50,0 91,0 62,0 53,0 00,0 76,0 irP 19,1 11,0 14,1 12,0 44,2 92,1 37,0 60,2 22,2 04,1 45,1 46,0 58,0 25,0 67,0 98,3 24,2 04,3 93,0 43,1 qU 19,2 55,02 90,84 74,1 41,3 90,1 53,7 00,3 82,4 80,61 78,2 41,61 07,1 71,3 44,5 83,1 00,1 97,1 00,7 48,5 ndU 15,63 18,6 13,81 12,52 56,11 69,4 97,63 22,71 93,53 74,52 42,2 08,2 54,6 79,6 95,02 60,71 81,13 37,81 03,73 47,32 centuali icP 18,42 16,85 12,81 12,12 86,42 36,13 49,52 51,03 70,43 66,53 90,03 27,24 96,65 80,63 77,24 53,13 73,83 94,84 40,32 03,23 puisP 17,43 14,53 22,43 56,51 05,52 50,91 04,62 32,43 62,14 37,53 31,66 38,14 23,91 89,92 23,03 86,93 83,43 65,23 67,72 35,23 cD esellecreVonailgisA esellecreVonablA acciMonrodnA enumoC illecrevogroB olletsaCecilA elA’DogroB aisesogroB oteloiccoB ognensurB aiccumlaB anairroB occolaB oirobrA ehcoliA angalA oilgoiB èznaiB anneB alleiB aierB abella 2b. Il voto nei comuni in valori per T

154 22,1 00,0 00,0 47,1 71,1 32,0 84,0 24,0 00,0 92,0 00,0 09,0 00,0 88,0 30,1 02,0 94,0 78,0 36,0 62,1 01,1 rdC 14,0 14,0 17,11 11,0 47,2 00,0 37,0 74,0 87,0 00,0 97,0 48,0 00,0 32,0 54,0 63,0 81,0 02,0 00,0 08,2 00,0 cdP 14,0 17,0 12,0 37,1 00,0 37,0 23,0 59,1 74,0 68,0 24,0 54,1 07,0 45,0 81,0 04,0 02,1 67,0 36,0 84,0 02,2 adP 14,0 14,1 12,0 12,1 13,1 20,1 81,0 24,1 71,1 84,0 59,2 54,1 67,0 52,3 27,0 00,0 00,0 66,0 72,1 53,1 02,2 lnB 14,0 01,0 00,0 23,0 00,0 74,0 01,0 00,0 00,0 21,0 00,0 81,0 81,0 81,0 00,0 00,0 22,0 55,0 00,0 01,0 01,1 irP 14,0 25,1 36,3 48,2 71,1 40,7 67,0 24,0 00,0 07,0 22,1 09,0 70,1 53,0 28,0 02,0 89,0 55,0 72,1 55,1 00,0 qU 18,1 98,5 42,1 99,5 01,4 63,81 87,81 51,4 24,0 39,44 64,1 22,1 05,3 68,2 48,5 32,1 00,0 02,1 69,6 20,5 95,6 ndU 93,81 53,51 97,31 41,51 96,4 99,3 74,14 49,12 54,1 32,82 55,43 34,04 30,45 60,14 96,42 89,74 43,71 99,21 82,23 56,81 94,5 icP 18,43 80,03 32,54 28,05 59,44 02,33 84,91 60,03 84,15 54,1 03,61 02,52 88,52 05,91 06,42 75,72 53,92 97,43 81,64 46,44 99,01 puisP 17,82 03,73 39,63 41,42 05,73 21,84 48,02 01,12 82,94 22,15 47,33 05,62 28,12 91,62 38,34 54,02 08,03 84,53 51,22 51,42 33,07 cD omocaiGnaSenicsaC ovreCottelletsaC ovreCailgipmaC olletsaCoterreC enumoC ovlEavonasaC tolbanaseraC ongotrepmaC onazrubmaC anodnamaC anaiballaC orofocraC atnipasaC anaseraC enoirreC àilgavaC ottavreC oznoruB olednaC elirpaC oisiraC oilleC

155 00,0 30,1 27,0 42,0 42,0 52,0 29,0 00,0 53,0 41,0 52,0 73,0 00,0 80,0 76,0 20,1 32,0 73,0 00,0 80,0 42,0 rdC 13,0 14,0 14,0 00,0 81,11 88,9 80,0 42,0 73,0 41,4 50,1 85,0 00,0 00,0 00,0 23,9 02,0 35,0 32,0 93,0 99,8 cdP 14,0 14,0 00,0 44,0 44,2 94,0 00,0 91,0 41,2 87,4 79,2 57,1 73,0 25,0 32,0 92,1 50,3 03,0 94,0 91,0 67,0 adP 14,0 14,0 00,0 92,0 07,0 00,0 84,0 65,0 00,0 46,0 53,0 41,0 00,0 52,0 62,0 35,0 07,1 38,0 95,0 32,0 95,0 lnB 18,0 14,0 18,0 14,0 13,0 80,1 51,0 06,0 42,0 00,0 00,0 00,0 46,0 50,1 71,0 21,0 00,0 51,0 51,0 22,0 21,0 irP 19,1 14,0 12,1 00,0 83,3 67,3 56,0 75,4 42,1 35,1 07,0 72,0 29,0 26,0 62,0 48,0 24,1 03,0 00,0 55,0 07,0 qU 19,1 10,4 17,6 17,1 00,0 53,2 64,4 64,1 73,3 50,1 05,5 59,0 57,0 47,0 40,6 82,2 35,6 82,1 84,2 66,1 41,1 ndU 10,32 15,92 51,51 06,71 05,63 44,62 95,4 60,31 33,7 93,62 75,04 48,63 81,03 84,62 99,61 70,4 31,74 27,54 04,44 36,61 99,53 icP 19,82 55,62 44,02 80,92 66,24 85,82 96,23 23,22 80,14 46,85 68,53 54,91 46,02 09,93 93,53 74,83 07,81 36,11 33,02 68,52 21,73 puisP 16,73 65,94 95,54 77,03 86,71 52,83 79,13 96,26 58,13 65,32 46,43 65,53 50,04 38,22 20,43 91,32 36,46 87,91 59,13 49,44 74,32 cD enumoC oPottenatnoF onitnecserC eroucaverC anailgimroF anailgavarC ogneralsihG anaznatsoC onaibolloC ocinailgaG aranittaG aloiggoC agnelffiG onazroD otassoC onailgiC olleboF anaseD otanoD oniruC avorC asorC

156 13,0 12,0 16,0 14,0 74,0 87,0 52,0 71,0 71,0 26,0 76,0 07,0 65,0 92,1 93,0 75,0 42,0 64,0 62,0 36,0 00,0 rdC 19,0 66,0 54,0 94,0 00,0 40,0 84,0 98,11 00,0 00,0 91,0 23,0 61,0 55,1 42,5 28,0 21,0 38,1 50,1 92,0 80,0 cdP 13,0 58,0 65,0 52,0 00,0 86,0 84,0 03,2 25,0 07,0 39,0 00,0 69,0 63,1 45,0 42,0 22,1 31,0 48,0 75,0 70,1 adP 11,1 14,1 13,0 58,0 74,1 62,0 43,0 43,0 25,0 00,0 65,0 00,0 07,0 00,0 39,0 20,1 66,0 00,0 96,1 92,0 46,1 lnB 13,0 12,0 83,0 22,0 00,0 62,0 43,0 84,0 03,0 00,0 00,0 73,0 00,0 72,0 87,0 01,0 42,0 51,0 00,0 00,0 66,0 irP 19,2 46,4 76,0 07,2 71,0 49,0 60,2 25,0 00,0 07,0 21,1 23,0 05,1 59,1 29,0 68,1 64,0 80,2 00,0 75,0 35,3 qU 14,1 14,1 13,1 15,01 97,3 09,2 49,2 00,0 58,5 42,1 40,7 52,2 41,2 88,3 89,4 28,0 44,1 57,51 56,0 48,0 51,1 ndU 81,11 04,82 76,61 76,83 75,42 44,81 92,11 37,74 83,31 60,83 97,41 23,42 34,5 74,62 49,45 77,53 57,82 22,12 46,4 41,42 80,11 icP 11,94 18,42 17,12 53,64 52,73 02,41 85,04 79,54 52,32 28,13 38,12 98,43 91,04 80,92 32,72 48,71 93,82 86,23 65,14 47,35 49,24 puisP 18,03 18,51 19,03 10,22 19,85 99,73 82,64 62,52 58,74 93,81 32,45 48,04 56,04 99,13 30,13 34,22 63,92 60,24 25,84 52,91 80,82 cD ogneilgitroManazzeM airaMatnaSossoM itnoC’edattoM sirarreFonroviL enumoC enosobadrauG ollevircnoM odnargnoM ataiclattoM onaressaM azzassaM onangaM oropmaL onazzuM anosseL olozzoL anangiL oiggerG ailgarG ailloM orteN atneL

157 16,2 13,0 41,0 71,0 77,0 00,0 36,0 51,0 34,0 21,0 00,0 56,0 37,0 04,0 94,0 52,0 70,0 47,0 93,0 32,0 23,0 rdC 81,0 52,0 22,0 72,0 52,0 03,0 90,0 91,0 36,0 34,0 00,0 47,1 04,0 37,0 52,0 31,0 89,0 61,0 31,0 80,0 46,0 cdP 14,0 05,0 77,0 29,1 65,0 51,0 30,1 34,0 00,0 47,1 37,0 84,3 04,0 80,0 83,0 31,0 54,2 63,0 87,0 05,0 46,0 adP 14,0 13,0 78,0 23,1 01,1 52,0 51,0 43,0 73,0 03,1 91,2 78,0 00,0 60,1 83,0 33,0 52,0 62,0 71,1 43,0 29,1 lnB 15,0 13,0 12,0 82,0 52,0 44,0 00,0 31,0 00,0 21,0 34,0 00,0 78,0 00,0 94,0 00,0 02,0 94,0 62,0 91,0 00,0 irP 14,2 14,1 51,1 05,0 00,0 88,1 51,0 45,1 52,0 79,5 50,61 64,1 47,1 00,0 74,1 23,1 89,0 52,0 74,0 28,1 00,0 qU 18,2 18,7 10,1 25,1 34,1 47,2 91,6 79,1 06,3 34,0 02,2 30,8 47,12 61,5 90,7 50,1 54,2 03,1 68,2 57,1 38,3 ndU 16,53 19,64 76,22 60,92 87,42 54,93 25,83 32,05 52,72 61,42 27,51 58,01 48,5 47,1 71,82 65,91 62,92 38,24 66,4 69,83 94,91 icP 12,84 74,33 76,63 71,73 48,32 46,12 31,7 82,13 36,43 62,15 27,92 58,23 93,71 38,64 40,53 67,13 09,45 48,33 56,02 58,13 35,14 puisP 13,93 93,92 07,03 86,03 69,92 67,93 39,33 82,93 85,32 20,13 81,84 38,74 56,81 99,33 49,81 35,22 48,23 94,72 99,23 47,61 36,13 cD eroirepuSoppeihccO esellecreVolozzalaP eroirefnIoppeihccO enumoC ollavacideiP onarednoP ogneneclO ognenitteP angerauQ ocinedlO ognetreP aselotsiP ognularP anazzeP enolloP olorarP alutroP autsoP edoiP ottaiP yarP aliP

158 11,1 13,1 13,1 92,0 02,0 66,0 00,0 36,0 82,0 91,1 35,0 76,0 63,0 42,0 55,0 00,0 62,1 58,0 02,0 36,0 93,0 rdC 71,0 02,0 66,0 00,0 00,0 60,5 65,0 91,1 31,0 61,2 00,0 74,0 44,11 00,0 00,0 65,1 42,0 00,0 36,0 79,0 25,0 cdP 11,1 12,2 13,1 04,0 75,1 88,0 02,1 90,1 04,1 31,9 35,0 55,0 61,0 30,2 00,0 25,2 24,1 94,0 30,5 85,0 50,1 adP 14,2 47,0 95,0 04,2 22,2 08,3 04,1 89,1 31,0 28,0 55,0 23,0 34,4 86,0 98,1 75,0 61,0 00,0 97,0 85,0 50,1 lnB 04,0 00,0 66,0 00,0 00,0 00,0 82,0 04,0 66,0 75,0 00,0 23,0 81,0 86,0 00,0 41,0 02,0 62,1 75,1 91,0 00,0 irP 11,1 13,1 98,3 97,0 22,0 00,0 09,1 86,1 97,0 97,0 44,1 28,1 62,1 30,2 44,5 36,0 07,2 22,1 91,4 62,1 00,0 qU 12,2 16,71 36,2 95,0 61,11 69,02 98,8 51,22 57,4 91,62 00,0 27,7 64,1 36,0 68,9 96,01 60,02 06,4 52,22 85,0 41,8 ndU 80,04 65,72 01,51 06,0 76,6 35,2 91,4 89,1 88,75 24,81 63,42 45,15 55,21 40,2 62,1 87,71 67,34 38,21 98,1 96,36 52,36 icP 13,34 14,82 12,31 93,92 07,33 79,41 22,23 25,12 39,72 73,92 38,41 00,52 07,34 50,91 32,82 68,23 25,92 29,52 88,04 83,72 21,31 puisP 10,22 15,04 10,62 02,52 75,43 88,95 76,64 45,75 87,72 05,42 00,14 91,72 61,63 60,35 55,86 50,22 06,91 48,92 28,03 36,5 42,01 cD esellecreVonamreGnaS eppesuiGnaSamiR esellecreVotniuQ ovreColoaPnaS enumoC aibbodlaVaviR eselleiBocnoR eselleiBalaS adnesavoR occesnoR ognettiuQ anorauQ oloppoR ocsamiR azzasoR ocsalaS allemiR oisaoR aibbaS assoR assaR eviR

159 13,0 34,0 42,0 81,0 01,0 33,0 00,0 01,0 52,0 80,0 00,0 25,0 00,0 52,0 34,1 04,0 43,0 91,0 89,1 73,0 92,0 rdC 13,1 18,1 06,0 42,0 63,0 21,0 00,0 00,0 50,0 21,0 80,0 03,1 77,0 00,0 82,0 00,0 00,0 00,0 61,1 08,9 00,0 cdP 13,0 13,0 75,0 94,0 63,0 66,1 00,0 62,0 91,0 94,0 25,0 77,0 21,0 32,1 49,3 65,3 96,0 83,0 28,0 58,1 92,0 adP 19,1 07,0 01,0 81,0 90,0 66,0 00,0 62,0 80,0 91,0 33,0 53,0 00,0 21,0 86,0 51,2 04,0 95,0 92,0 28,0 92,0 lnB 12,0 13,0 70,0 21,0 61,0 81,0 00,1 00,0 61,0 60,0 33,0 07,0 00,0 00,0 63,0 00,0 91,0 91,0 84,0 63,1 92,0 irP 16,0 75,0 38,0 29,3 97,1 51,1 23,3 49,1 90,1 39,0 94,0 38,1 00,0 96,1 27,0 91,1 98,1 78,0 34,1 28,0 85,0 qU 17,1 11,3 13,2 79,0 84,2 81,0 75,1 33,1 94,0 99,0 52,3 69,6 71,1 47,0 51,12 68,11 68,3 09,4 34,4 98,1 92,0 ndU 15,82 66,43 55,54 50,03 83,23 76,84 03,9 76,72 28,03 93,34 84,7 50,31 32,9 95,84 35,7 40,31 05,03 37,62 43,52 66,41 81,66 icP 33,32 31,11 03,93 76,52 38,82 05,05 75,74 73,23 97,21 40,54 95,92 73,93 58,34 39,63 23,82 60,82 51,43 60,63 82,14 47,23 78,7 puisP 19,13 14,43 19,32 21,83 30,04 39,22 28,83 09,81 98,13 33,22 01,14 03,14 71,54 84,62 80,34 46,21 05,14 99,52 83,03 91,12 76,53 cD esellecreVonaznorT aiseSellavarreS enocraMevleS enumoC esellecreVilaS onailgidnaS anaipportS olovedroS ognenreT alossulaS ongetsoS ozzarroT ollepocS ongelloT anarpoS aiggulaS orrecirT àihtnaS orevirT anortS apocS onirT

160 14,0 61,0 21,0 53,1 08,0 44,0 34,0 61,0 44,0 00,0 34,1 61,0 45,0 82,0 74,0 59,0 63,0 rdC 31,0 78,0 35,0 00,0 21,0 82,0 33,0 00,0 42,0 44,0 72,0 82,0 70,6 63,0 32,0 74,0 63,0 cdP 15,0 13,1 12,1 16,2 73,0 88,1 04,0 53,0 20,1 84,1 00,0 55,0 28,0 99,0 97,1 21,1 72,1 adP 05,0 51,0 00,0 95,0 23,0 33,0 84,0 00,0 04,0 77,1 82,0 42,0 68,0 44,0 45,2 27,0 42,0 lnB 12,0 14,0 73,0 35,0 04,0 61,0 91,0 00,0 23,0 00,0 70,0 63,0 55,0 00,0 34,1 90,1 74,0 irP 73,0 64,3 03,1 75,0 08,4 26,2 85,1 46,1 28,0 28,0 02,1 76,1 75,3 00,0 34,2 63,0 00,0 qU 16,3 01,4 02,9 58,6 40,4 02,1 72,4 55,0 73,11 45,0 82,0 49,8 59,0 36,4 44,0 29,5 08,3 ndU 17,42 15,91 42,62 00,41 51,04 00,81 33,33 72,93 54,01 55,44 36,91 51,11 39,32 61,63 58,41 35,8 88,33 icP 17,05 54,43 98,92 54,13 59,25 63,23 06,35 57,63 97,53 00,92 44,81 53,91 04,22 96,92 33,34 22,05 95,83 puisP 13,12 10,43 95,23 36,53 08,93 41,12 66,02 96,02 08,02 70,54 88,13 43,13 75,45 01,53 75,03 34,62 75,91 cD oalociNnaSellaV eselleiBavonalliV eselleiBonailgiV enumoC ossoMellaV ogneznallaV aiggudlaV tiobralliV ognedlaV enoreviV ailgamuZ illecreV enorreV aneibuZ enomiZ ollaraV atalliV oilgeV

161 144.51 646.8 085.01 027.61 580.31 220.85 240.41 585.31 797.01 927.51 693.51 574.01 itnatoV 512.81 656.06 irottelE 168 922.41 707 201.11 491.1 546.2 694 500.51 687 996.41 245 975.11 396 197.61 676 871.61 059 300.21 358 909.61 721 625.51 491 773.55 131 53 07 761 83 46 525.9 636 621 113 053 671.1 152 46 8 33 94 43 92 182.8 563 670.9 526 052 85 28 391 964 16 422.21 693.1 755 962305 64 722683 55 47 302382 03 001 27 582944 88 32 03 14 571 65 82 84 33 16 84 46 52 645.31 17 997.21 66 43 83 03 552.01 13 04 630.51 027.41 193.2 654 671 56 081 112 220.1 191.3 275 843 94 48 541 63 67 885.41 296.2 953.2 303.91 564.4 326.2 647.2 432.5 677.5 057 152.1 ovinciali 117.2 176.2 065 261 21 17 97 481 56 378.9 ee pr 224.5 839.3 390.31 493.4 769.4 766.5 016.4 665.2 384.5 119.1 012.3 136.2 490.4 853.3 674.5 981.4 297.81 606.3 231.4 863.3 474.3 354.4 406.4 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN esellecrevaiggaraB eroirepusaiseslaV eselleibonaipotlA eroirefniaiseslaV acineromanilloC aniplaerpanilloC iselleibiplaerP aerabuS ossoMellaV ovreCellaV aresseslaV ovlEellaV egnarG abella 3a. Il voto nelle subar T

162 69,19 66,59 24,29 97,19 85,39 52,39 86,39 71,59 62,59 51,59 72,78 23,19 itnatoV irottelE 14,4 00,001 85,6 00,001 65,4 00,001 41,7 00,001 35,3 00,001 20,5 00,001 22,4 00,001 86,6 00,001 70,9 00,001 25,5 00,001 centuali 83,1 73,0 37,0 57,1 04,0 76,0 39,09 11,5 50,2 74,0 76,0 85,1 48,3 05,0 24,39 11,4 99,1 43,0 55,0 35,0 22,0 42,0 74,69 25,2 51,1 32,039,3 65,0 77,1 36,0 34,0 21,2 87,0 53,0 96,0 44,59 44,0 83,0 12,49 97,5 00,001 49,2 31,1 24,0 61,1 63,1 85,6 28,0 68,29 67,3 89,1 92,050,3 04,0 91,1 95,0 91,0 42,0 84,0 73,0 54,0 89,49 12,0 72,0 16,59 93,4 00,001 76,5 46,1 21,0 27,0 08,0 68,1 66,0 23,39 29,3 93,2 43,0 85,0 99,0 52,0 25,0 84,49 15,23 30,3 77,0 01,0 04,0 95,0 14,0 53,0 87,59 18,43 88,1 09,1 51,0 23,0 34,0 32,0 02,0 95,59 03,91 68,43 04,51 69,23 87,62 42,93 50,72 78,7 31,31 78,12 ovinciali in valori per ee pr 18,83 94,02 22,23 46,32 29,43 44,23 29,93 23,13 67,83 96,73 49,62 95,73 10,43 64,72 72,43 39,33 72,53 26,62 82,23 66,52 06,32 04,22 57,64 80,32 65,13 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN esellecrevaiggaraB eroirepusaiseslaV eselleibonaipotlA eroirefniaiseslaV aniplaerpanilloC acineromanilloC iselleibiplaerP aerabuS ossoMellaV ovreCellaV aresseslaV ovlEellaV egnarG abella 3b. Il voto nelle subar T

163 920.46 56,19 85,29 95,59 703.38 890.211 itnatoV itnatoV 268.96 089.98 irottelE irottelE 191.5 562.711 606.3 36,5 00,001 88,4 00,001 36,4 00,001 860.4 363 932.97 644 709.601 981 233232 084 726 091 346 832 851.1 324.06 913 607 458 698.1 centuali 362.1 418.1 498.1 15,4 92,2 92,0 97,0 18,0 64,1 64,0 21,59 392.3 275.3 54,5 90,2 13,0 55,0 97,073,3 13,0 77,1 93,0 03,0 73,49 66,0 08,0 77,1 24,0 73,59 506.3 066.41 417.02 62,42 41,62 73,33 476.53 753.12 826.62 53,53 06,33 21,42 587.52 124.81 94,03 24,33 884.32 827.53 46,92 zone altimetriche in valori per zone altimetriche cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdPcD rdC idilaV puisP illuN icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN anoZ anoZ angatnoM angatnoM arunaiP arunaiP anilloC anilloC abella 4b. Il voto per abella 4a. Il voto per T T

164 16,98 10,49 19,39 205.32 358.26 619.65 368.06 742.24 350.31 61,29 00,49 28,39 itnatoV itnatoV 205.52 675.66 566.06 889.44 irottelE irottelE 162.3 018.46 15,4 00,001 435.1 090.3 790.2 609.1 779 665.41 84,7 00,001 35,6 00,001 63,5 00,001 49,4 00,001 86,3 00,001 132 367.95 centuali 502 005 234 901 242 918.45 088 561397 873 281837 293 373 49 657 345 051 982 198.1 152 206.75 861 811 143.04 181.3 540.2 888 543239.1 06297.1 851827.1 281 062 99 869.12 949 071 43 601 771 06 86 670.21 68,7 14,140,4 82,0 75,153,3 88,0 72,0 35,1 74,1 27,0 92,0 05,0 38,0 66,0 65,0 81,1 86,0 25,29 54,0 13,1 74,39 05,0 46,49 00,3 33,1 03,008,5 26,0 37,3 19,0 73,0 61,3 19,0 93,0 97,0 60,59 02,0 44,0 23,69 82,4 38,1 32,0 73,0 26,0 24,0 92,0 94,59 201.6 971.61 732.71 725.21 748.61 651.2 58,71 87,72 90,82 48,82 37,03 16,92 50,13 988.6 810.81 501.91 349.11 516.31 002.4 87,43 63,13 79,13 48,42 13,23 82,13 589.6 316.81 616.71 426.21 346.71 651.4 24,43 08,13 84,92 81,23 92,13 dimensioni del corpo elettorale in valori per dimensioni del corpo elettorale cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdPcD rdC idilaV puisP illuN icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN irottele005aoniF irottele005aoniF elarotteleoproC elarotteleoproC 000.5a100.2aD 000.5a100.2aD 000.2a100.1aD 000.2a100.1aD 000.1a105aD 000.1a105aD ihgoulopaC ihgoulopaC 000.5ertlO 000.5ertlO abella 5a. Il voto per abella 5b. Il voto per T T

165 010.67 611.34 01,59 00,49 itnatoV 168.08 833.54 irottelE 83,5 00,001 392.3 33,4 00,001 813.2 171 513 504 361 402 717.27 291.1 514 18 562 543 416 581 897.04 71,3 20,1051.2 02,0 56,069,2 58,0 46,1 05,1 42,0 54,0 34,0 26,49 65,0 22,0 82,0 76,59 392.1 198.21 798.32 68,23 vocazione socioeconomica 17,42 06,13 139.52 66,53 280.01 58,53 51,52 982.81 726.41 cD puisP icP ndU qU irP lnB adP cdP rdC idilaV illuN arutlocirga%07> ilautnecrepirolaV ilautnecrepirolaV airtsudni%07> itteddA abella 6. Distribuzione del voto per T

166 I relatori

Gianfranco Astori (1948) ha presentato la relazione su Giulio Pastore al convegno di Varallo. Giornalista professionista dal 1980, è attualmente direttore responsabile del- l’agenzia di stampa quotidiana nazionale Asca. Deputato al parlamento per la Democra- zia cristiana nella IX, X e XI legislatura repubblicana, nei governi Goria, De Mita, An- dreotti VI ed Andreotti VII ha ricoperto l’incarico di sottosegretario di Stato al Ministe- ro dei Beni culturali ed ambientali. A livello locale è stato eletto, fra l’altro, sindaco di Rassa (1970), ultimo presidente del Consiglio di Valle-Valsesia e primo presidente del Comprensorio di Borgosesia, mentre nel 1975 e nel 1980 ha rappresentato il collegio Varallo-Alta Valsesia nel Consiglio dell’amministrazione provinciale di Vercelli, della quale è stato anche assessore. Ha presieduto il Comitato organizzatore per la medaglia d’oro al valor militare alla Valsesia per attività partigiana (1971-1972).

Gustavo Buratti Zanchi (1932-2009) ha presentato la relazione su Ernesto Carpano Maglioli e Virgilio Luisetti al convegno di Biella. Pubblicista, ha svolto attività politica nel Psi fino al 1984 e successivamente nei Verdi. Autore di saggi e libri giuridici, storici e letterari, con particolare attenzione alla storia delle eresie, alla cultura e alle lingue delle Alpi. È stato tra i fondatori dell’Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate, coordinatore del Centro studi dolciniani e fiduciario dell’Ope- ra nomadi per il Biellese, nonché dirigente dell’Istituto e, più recentemente, membro del comitato scientifico. Ha curato la voce “Ernesto Carpano Maglioli” nel volume, a cura di Caterina Simiand, “I deputati piemontesi all’Assemblea costituente” (Torino, Consiglio regionale del Piemonte; Milano, Franco Angeli, 1999).

Federico Caneparo (1975) ha presentato la relazione su Pietro Secchia, Vittorio Flec- chia e Francesco Moranino al convegno di Biella. Insegnante di scuola superiore. Col- laboratore dell’Istituto e autore di numerosi saggi comparsi ne “l’impegno”, ha svolto attività di ricerca alla Fondazione Isec di Sesto San Giovanni, per la quale ha curato la pubblicazione di scritti scelti del dirigente comunista Arturo Colombi “Per un partito di combattimento (Milano, Franco Angeli, 2004).

Marco Neiretti (1937) ha presentato le relazioni su Ermenegildo Bertola al convegno di Vercelli, Giuseppe Pella al convegno di Biella e la relazione introduttiva al convegno di Varallo. Consigliere scientifico e, in passato, dirigente dell’Istituto, ha ricoperto nume- rosi incarichi amministrativi, politici e sindacali; ha insegnato Storia economica alla Scuola di amministrazione aziendale di Biella, dipendente dalla Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino. Ha collaborato a numerose riviste, anche a livello nazionale, e ha pubblicato significativi saggi di storia locale relativi ai secoli XVIII, XIX e XX. In particolare, ha curato le voci “Ermenegildo Bertola” e “Giuseppe Pella” nel volume, a cura di Caterina Simiand, “I deputati piemontesi all’Assemblea costituente” (Torino, Consiglio regionale del Piemonte; Milano, Franco Angeli, 1999).

167 Francesco Rigazio (1938) ha presentato la relazione su Francesco Leone al convegno di Vercelli. Dopo essersi laureato con una tesi sull’occupazione italiana del Dodecane- so, ha insegnato Geografia economica negli istituti tecnici e svolto attività di ricerca, occupandosi in particolare di storia del movimento operaio biellese e vercellese. Ha anche fatto parte del direttivo dell’Istituto dal 2004 al 2006. Nel 1985 e nel 1993 ha curato due mostre sul movimento operaio vercellese dal 1882 al 1922. Ha curato inoltre le voci “Francesco Leone” e “Vittorio Flecchia” nel volume, a cura di Caterina Simiand, “I deputati piemontesi all’Assemblea costituente” (Torino, Consiglio regionale del Pie- monte; Milano, Franco Angeli, 1999). Più recentemente, ha pubblicato in “Archivi e Storia” diversi contributi, tra cui quelli sull’emigrazione politica biellese nell’Unione Sovietica degli anni trenta, sulla catena migratoria da Cigliano a Tucumán e sull’attività degli anarchici biellesi a Paterson, New Jersey. Attualmente si sta occupando della Società di mutuo soccorso di Santhià e dell’emigrazione piemontese in Argentina.

Bruno Ziglioli (1973) ha presentato le relazioni introduttive ai convegni di Vercelli e Biella e la relazione su Cino Moscatelli al convegno di Varallo. Dottore di ricerca in Storia contemporanea e collaboratore dell’Istituto, è assegnista al Dipartimento di Studi poli- tici e sociali dell’Università di Pavia. Si occupa di storia dell’antifascismo, dell’Italia repubblicana e di élites politiche nell’Ottocento. Ha pubblicato il libro “La mina vagan- te. Il disastro di Seveso e la solidarietà nazionale” (Milano, Franco Angeli, 2010).

168 Indice dei nomi

Abbagnano, Nicola 20 Buratti, Irmo 44 Acciarini, Filippo 59 Buratti, Vittorio 48 Adorno, Salvatore 126 Agosti, Aldo 128 Calamandrei, Piero 15 Aimo, Piero 16, 127 Calosso, Umberto 51 Alessandrini, Luca 70 Campanini, Giorgio 42, 55 Alessandrone Perona, Ersilia 95 Campasso, Ezio 69 Amadini, Franco 118 Caneparo, Francesco 48 Amedeo, Filippo 59 Cantono, Alessandro 41, 42, 44, 47 Amendola, Giorgio 76, 84 Cappa, Luigi 117, 118 Andreotti, Giulio 20 Cappi, Giuseppe 41, 41, 51 Andreucci, Franco 35, 64, 78, 121 Cappugi, Renato 110 Antiseri, Dario 20 Capra, Ottavio 61 Antonelli, Dina 57 Caretti, Paolo 14 Astuti, Giovanni 16 Caretti, Stefano 121 Carletto, Giulio 51 Baget Bozzo, Gianni 101 Carmagnola, Luigi 59-61 Balbo, Felice 123 Caron, Luigi 36 Ballini, Pier Luigi 14, 15 Carpano Maglioli, Antonio 57 Ballone, Adriano 67, 78 Carpano Maglioli, Ernesto 6, 7, 51, 57-62 Baratono, Adelchi 30 Carpano Maglioli, famiglia 57 Barazzotto, Renzo 43 Caselli, Germano 44, 45, 52 Barbano, Enzo 121, 121, 128, 128 Casula, Carlo Felice 110 Barbisio, Dante 58 Cavazza, Stefano 14 Barucci, Piero 55 Cheli, Enzo 14, 15 Basile, Michele 77 Chiara, Daniele 66 Basso, Lelio 16, 60, 103 Chiaramello, Domenico 59 Bermani, Cesare 25, 32, 33, 34, 34, 75, 76 Chiarini, Roberto 128 Bermond, Claudio 42 Chignoli, Luigi 59 Bernero, Virginio 43 Chiocchetti, Antonia 33 Bertola, Ermenegildo 6, 7, 20, 20, 21-24, 37, Chiocchetti, Eusebio 26 113, 127, 129 Ciampani, Andrea 116 Bertola, Secondino 46 “Cino” v. Moscatelli, Vincenzo Bertone, Giovanni Battista 55 “Ciro” v. Gastone, Eraldo Bevilacqua, padre Giulio 41 Coda, Mario 48 Blotto Baldo, Bruno 42, 46, 46 Colarizi, Simona 13 Bocca, Giorgio 101 Collotti, Enzo 63, 67, 68, 78, 84, 85, 87, 88, Bodo, Mario 26 121 Boldrini, Arrigo 73, 74, 74 Colombara, Filippo 121, 130 Bonomi, Ivanoe 15, 101, 140 Colombo, Francesco 46, 47 Bordiga, Amadeo 29, 30, 66 Colombo, Paolo 11, 12 Borello, Giacinta 57 Colonnetti, Gustavo 21, 21, 23, 41, 42, 44 Borgese, Giuseppe Antonio 98 Corona, Claudio 31 Botto, Renato 44 Corsanego, Camillo 103 Bovetti, Giovanni 51 Cossutta, Armando 89, 89 Bricarello, Domenico 44, 46 Costa, Francesco 29 Broz, Josip “Tito” 53 Cova, Alberto 55 Brusasca, Giovanni 22 Cremisini, Antonio 77 Brusasca, Giuseppe 22, 22 Crispi, Francesco 12 Buozzi, Bruno 107 Croce, Benedetto 97, 98, 101, 140 Buratti, Gustavo 62 Crollalanza, Araldo 77

169 Dau Novelli, Cecilia 14 Germano, Pietro 89, 89 De Amicis, Edmondo 57 Geuna, Silvio 50, 125 De Gasperi, Alcide 6, 14, 23, 48, 51, 52, 60, 68, Ghisalberti, Carlo 11, 14, 95, 104 96, 98-100, 108, 110, 141 Ghisio, Gioacchino 37 Delpiano, Enrico 41, 41 Giannini, Guglielmo 135, 142 De Nicola, Enrico 51, 97, 98, 100, 102 Gionino, Alessandro 27, 32 Detti, Tommaso 35, 64, 78, 121 Giovana, Mario 121 Di Capua, Giovanni 110 Giovannacci, Giovanni 21 Di Loreto, Pietro 75 Gobetti, Piero 95 Di Vittorio, Giuseppe 35, 107, 115, 116 Golzio, Silvio 42 Donati, Giuseppe 95 Gonella, Guido 42, 100 Dondi, Mirco 71 Gramsci, Antonio 29, 64, 65 Dongilli, Patrizia 118 Grandi, Achille 106-110, 110, 118, 118 Dorso, Guido 106 Grassi, Ezio 129 Dossetti, Giuseppe 102, 103, 105, 109 Grassi, Giuseppe 113 Dzugasvili, Josif Vissarionovic “Stalin” 66 Gray, Ezio Maria 77 Gremmo, Roberto 28, 76 Einaudi, Luigi 52, 53, 97, 100, 115 Grieco, Ruggero 121 Esposito, Gaetano 54 Grimaldi, Luigi 77 Esposito, Laura 54 Gronchi, Giovanni 44, 54, 69, 107, 110, 114, 115, 118 Fanello Marcucci, Gabriella 55, 109 Grosso, Federico 57, 59 Fanfani, Amintore 20, 23, 53, 54, 109, 113, 114 Grosso, Felice 61 Ferrandi, Giuseppe 73, 74, 74 Grosso, Umberto 59 Ferrari, Francesco Luigi 95 Guelpa, Delfino 47 Ferrari, Giacomo 113 Guerra, Maria 49 Ferraris, Antonio 45, 46 Gullo, Fausto 74, 75 Ferraris, ingegnere 51 Ferraris, Serafino 26 Imberti, Francesco 24 Ferraro, Salvatore 106 Isola, Gianni 34, 35 Ferretti, Lando 77 Ivone, Diomede 55 Fietti, Angelo 29 Finotto, Pasquale 44, 48 Jacoponi, Vasco 35 Fiorentino, Gaetano 77 Jona, Alessandro 59 Fiumanò, Caterina 15 Jona, Luciano 43 Flecchia, Vittorio 6, 7, 36, 63-67 Flores, Marcello 67 La Malfa, Ugo 141, 142 Forgnone, Leonardo 46 La Marmora, Alfonso 51 Fortichiari, Bruno 30 Laniel, Joseph 47, 47 Francesconi, Maria 69 Lanza, Lidia 46, 48, 49, 51 Francesconi, Mario 69 Lanza, Remo 48, 57 Franza, Enea 77 La Pira, Giorgio 20, 42, 102, 109 Frassati, Alfredo 41 Latanza, Domenico 77 Frassati, Pier Giorgio 41 Lavagnino, Carlo 124, 125 Fusi, Valdo 22, 22 Lazzarino, Ermanno 123 Lazzati, Giuseppe 109 Galleani, Luigi 31 “Lenin” v. Ulianov, Vladimir Ilic Gallerano, Nicola 67 Leone, Antonio 25, 27 Gallesio, Anna Rosa 49 Leone, Francesco 6, 7, 25-28, 28, 29, 30, 30, Gariglio, Bartolo 42 31, 32, 32, 33, 34, 34, 35, 35, 36, 37, 37 Gasparri, Pietro 103 Leone, Giovanni 23 Gastone, Eraldo “Ciro” 75, 122, 123 Leone, Maria 26, 33 Gedda, Luigi 118, 118 Leone, Marta, sorella di Francesco 33 Gentile, Emilio 14, 122 Leone, Marta, cugina di Francesco 33

170 Lepre, Aurelio 14, 127 Nencioni, Gastone 77 Lessona, Alessandro 77 Nenni, Pietro 22, 48, 60, 98, 101, 103, 113, Lombardi, Riccardo 73, 77, 78 124, 125, 141 Lombardo, Ivan Matteo 60 Nitti, Francesco Saverio 101, 140 Longo, Luigi 72, 79-81, 121 Novaretti, Franco 61 Longo, Pier Giorgio 118 Luisetti, Virgilio 6, 7, 44, 46, 48, 51, 57-62 Ogliaro, Alfonso 58, 59 Lussu, Emilio 141 Olivetti, Gino 43 Omodeo Zorini, Francesco 121 Mafai, Miriam 124, 128 Orlando, Vittorio Emanuele 140 Maffioletti, Roberto 89, 89 Orsi, Alessandro 130 Maggio, Giuseppe 77 Ortona, Silvio 36 Malgeri, Francesco 55 Malinverni, Aurelio 32 Pace, Nicola Tommaso 77 Mammarella, Giuseppe 98 Pacelli, Eugenio (Pio XII) 107, 108 Mancini, Giuseppe Federico 111 Pajetta, Gian Carlo 37, 125, 136 Marat, Jean-Paul 37 Panetti, Modesto 41, 42 Marazza, Achille 22, 22 Paolo VI v. Montini, Giovanni Battista Marchisio, Domenico 37 Paronetto, Sergio 42 Marconcini, Federico 42 Parri, Ferruccio 89, 89, 141, 142 Marshall, George C. 112 Passoni, Mario 59 Martignone, Guido 44 Passoni, Pier Luigi 59 Martinelli, Renzo 16, 86, 128, 129 Pastore, Giulio 6, 7, 23, 105, 105, 106-108, Martino, Gaetano 53 108, 109, 109, 110, 110, 111-116, 116, 117, Martorelli, Renato 58, 59 117, 118, 118, 119, 126, 127, 129, 130 Massa, Cesare 24 Pedrotti, avvocato 30 Mattei, Enrico 54, 141, 141 Pella, Giuseppe 6, 7, 23, 41, 41, 42-45, 45, 46- Matteotti, Giacomo 58, 95 55, 113, 130 Mazzini, Giuseppe 57 Perazio, Felice 41 Mello Grand, Silvio 46, 47 Peretti-Griva, Domenico 43 Menotti Serrati, Giacinto 30 Pergolesi, Ferruccio 104 Micca, Pietro 45 Perona, Antonio 48 Miglioli, Guido 41, 41 Pertini, Sandro 131 Mignemi, Adolfo 32 Picardo, Luigi 77 Modica, Enzo 89, 89 Piccioni, Attilio 41, 51, 109 Molino, Caterina 25 Pinay, Antoine 47, 47 Mombello, Oreste 61 Pini, padre Giandomenico 41 Momigliano, Riccardo 58 Pinna, Gavino 77 Montanelli, Indro 48 Pio X v. Sarto, Giuseppe Melchiorre Montini, Giovanni Battista (Paolo VI) 41, 42, 44 Pio XII v. Pacelli, Eugenio Montini, Ludovico 41 Pirastu, Ignazio 89, 89 Moranino, Francesco “Gemisto” 6, 7, 51, 63, Piretti, Maria Serena 13, 15 64, 67-69, 69, 70, 72, 72, 73-77, 129 Pizzorusso, Alessandro 102, 104 Morelli, Maria Teresa Antonia 14 Polano, Luigi 29 Moro, Aldo 20, 102, 103 Politi, Angela Maria 70 Mortati, Costantino 15 Poma, Anello “Nello” 48 Moscatelli, Vincenzo “Cino” 6, 7, 68, 75, 121, Poma, Giulia 49 121, 122, 122, 123-126, 128-130, 130, 131 Pombeni, Paolo 11, 14, 16 Murri, Romolo 41 Ponte, Salvatore 77 Musella, Luigi 12 Porrino, Ernesto 60 Mussolini, Benito 23, 44, 45, 58, 59, 96, 97, Porrone, Innocente 58 103, 106, 110, 118, 122 Prestes, Luis Carlos 34, 37

Neiretti, Marco 5, 21, 55, 62 Quarello, Gioachino 23

171 Quazza, Guido 82, 84 Scalfaro, Oscar Luigi 23, 75, 113 Scelba, Mario 53, 61, 70, 96, 113 Ramella Germanin, Odetto 48 Schellino, Nando 37 Ranza, Giovanni Antonio 37 Scimone, Giovanni 69 Rapa, Nino 46 Scoca, Salvatore 52 Rapelli, Giuseppe 23, 41, 41, 42, 51, 110, 113 Scoccimarro, Mauro 52, 112 Ravera, Camilla 123 Scoppola, Pietro 96 Reale, Giovanni 20 Scotti, Alessandro 142 Reale, Oronzo 69 Secchia, Pietro 6, 37, 63, 63, 64, 68, 68, 71, Rebuffa, Giorgio 16 72, 73, 78, 79, 79, 80, 80, 81, 82, 82, 83, Restagno, Pier Carlo 51 83, 84, 84, 85, 86, 86, 87, 88, 88, 89, 89, Riccardi, Filippo 73 90, 90, 91, 92, 122, 122, 123, 128 Ridolfi, Maurizio 14, 15 Segni, Antonio 113, 127 Rigazio, Francesco 7, 32, 64 Serassi, Mario 31 Righetti, Igino 44 Sereni, Vittorio 35 Righi, Maria Luisa 86 Serio, Maurizio 118 Rigola, Giuseppe 31 Serralunga, Giuseppe 43 Rigola, Rinaldo 57, 58, 61 Sessi, Frediano 67, 78, 121 Roasio, Antonio 64, 79 Sforza, Carlo 22 Robotti, Paolo 28, 29, 30, 32 Sidro, Pietro 46, 48 Romani, Mario 105, 105 Silone, Ignazio 60 Romboli, Roberto 15 Silvestri, Giuseppe 118 Romita, Giuseppe 61 Simiand, Caterina 21, 25, 62, 64, 67, 78 Ronco, Camillo 62 Somaglino, Lorenzo 28, 29 Ronco, Umberto Luigi 59 Somaschini, Serafino 33 Rondani, Dino 59, 61 Sonnino, Sidney 12 Rossi, Carlo 45, 47 Sorba, Carlotta 126 Roveda, Giovanni 6 Sozzi, Gastone 34 Roveda, mons. Ferdinando 21 Spallone, Giulio 136 Spataro, Giuseppe 108, 109 Saba, Vincenzo 107, 110 Spriano, Paolo 35, 64, 66, 84 Sabatini, Armando 89, 89 “Stalin” v. Dzugasvili, Josif Vissarionovic Sabbatucci, Giovanni 128 Stella, Albino 23 Sala, Stefano 121 Storchi, Ferdinando 114 Sale, Giovanni 103 Strassera, Emanuele 69 Salvatorelli, Luigi 97 Sturzo, Luigi 19, 41, 44, 47, 95, 96, 106 Salvemini, Gaetano 95 Sandri, Renato 67, 78, 121 Terracini, Umberto 30, 102 Sansone, Luigi Renato 89 Tesoro, Marina 12 Santhià, Battista 30 Testa, Gianluigi 130 Santi, Fernando 115 “Tito” v. Broz, Josip Santucci, Gennaro 69 Togliatti, Palmiro 6, 13, 28, 48, 65, 68, 70, 76, Santucci, Maria 69 79, 80, 84, 98, 101, 101, 103, 103, 113, Saragat, Giuseppe 60, 69, 101 121, 122, 124, 128, 129 Sarto, Giuseppe Melchiorre (Pio X) 19 Togni, Giuseppe 114 Sassone, Irmo 37 Toniolo, Giuseppe 45 Sassoon, Donald 128 Torelli, Carlo 117, 117 Savio, Umberto 57 Tranfaglia, Nicola 14 Savoia, Carlo Alberto 11 Traniello, Francesco 42, 55 Savoia, famiglia 97, 118 Trompetto, Alessandro 44-47 Savoia, Umberto I 12 Trompetto, Mario 44 Savoia, Umberto II 13, 51, 97, 99 Tupini, Umberto 102 Savoia, Vittorio Emanuele III 97-99 Turati, Filippo 57, 58 Sbarberi, Franco 82 Turchi, Francesco 77

172 Ulianov, Vladimir Ilic “Lenin” 37 Vidotto, Vittorio 128 Vigorelli, Giancarlo 108 Valletta, Vittorio 43 Vittoria, Albertina 128 Vargas, Getulio D. 34 Venanzi, Mario 89, 89 Zanfa, Oscar 116 Verdoia, Alessandro 59 Zaninetti, Umberto 61 Vernetti, Giuseppe 45 Ziglioli, Bruno 5, 127

173

Indice

Prefazione p. 5

Vercellesi all’Assemblea costituente Bruno Ziglioli L’Assemblea costituente: alcune considerazioni storico-istituzionali ” 11 Marco Neiretti Ermenegildo Bertola ” 19 Francesco Rigazio La vicenda umana e politica di Francesco Leone ” 25

Biellesi all’Assemblea costituente Marco Neiretti Giuseppe Pella ” 41 Gustavo Buratti Ernesto Carpano Maglioli e Virgilio Luisetti ” 57 Federico Caneparo Vittorio Flecchia, Francesco Moranino, Pietro Secchia ” 63

Valsesiani all’Assemblea costituente Marco Neiretti L’Assemblea costituente ” 95 Gianfranco Astori Giulio Pastore al tempo della Costituente ” 105 Bruno Ziglioli Vincenzo “Cino” Moscatelli ” 121

Appendice Il voto per l’Assemblea costituente nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia ” 135 Tabelle dei risultati elettorali ” 145 I relatori ” 167

Indice dei nomi ” 169

175