Diacronie Studi di Storia Contemporanea

N° 30, 2 | 2017 Ponti fra nazioni e continenti Diplomazia, immaginari e conoscenze tecniche

Jacopo Bassi (dir.)

Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/diacronie/5562 DOI: 10.4000/diacronie.5562 ISSN: 2038-0925

Editore Association culturelle Diacronie

Notizia bibliografica digitale Jacopo Bassi (dir.), Diacronie, N° 30, 2 | 2017, « Ponti fra nazioni e continenti » [Online], Messo online il 29 juillet 2017, consultato il 08 octobre 2020. URL : http://journals.openedition.org/diacronie/5562 ; DOI : https://doi.org/10.4000/diacronie.5562

Questo documento è stato generato automaticamente il 8 octobre 2020.

Creative Commons License 1

INDICE

I. Articoli

Storia del contributo italiano alla viticoltura sudafricana dalle origini alla contemporaneità Claudio Sessa

Gli italo-somali dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (AFIS) Una memoria dimenticata tra le pagine dell’Italia postcoloniale Michele Pandolfo

Spy and Counterspy as a “Cultural Hero” in the Soviet Cinema of the Cold War Viktoria A. Sukovataya

Perché indagare la lotta al terrorismo italiano in chiave transnazionale Nuove ipotesi e percorsi di ricerca Lisa Bald e Laura Di Fabio

Gli Stati Uniti e la Spagna Repubblica e Guerra Civile (1931-1939) Enrico Gori

II. Recensioni

Renato Agazzi, La rivoluzione del 1848, vol. 1, La nascita della patria Edoardo Grassia

Benito Mussolini, Il mio diario di guerra (1915-1917) Matteo Anastasi

Renato Camurri (a cura di), Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo Camilla Poesio

Giorgio Peresso, Giuseppe Donati and Umberto Calosso. Two Italian Anti-fascist Refugees in Malta Deborah Paci

Edoardo Grassia, Sabato Martelli Castaldi. Il generale partigiano Matteo Tomasoni

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 2

I. Articoli

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 3

Storia del contributo italiano alla viticoltura sudafricana dalle origini alla contemporaneità

Claudio Sessa

Premessa

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 4

1 Negli ultimi decenni il comparto viti- vinicolo sudafricano ha fatto registrare una crescita quantitativa e qualitativa senza precedenti affermandosi a livello mondiale tra i più rinomati mercati vinicoli. Dietro questa ascesa si cela una storia molto complessa1 e dalle radici antiche che coinvolge, in parte, anche gli italiani. Il presente contributo vuole ricostruire la storia della presenza e del contributo italiano nel settore viti-vinicolo sudafricano focalizzando l’attenzione maggiormente su quelle esperienze “innovative” che hanno segnato in modo indelebile il destino del vino e della storia enologica locale2.

1. Le origini: la Compagnia delle Indie Orientali Olandese (VOC)

2 Le origini della viticoltura sudafricana sono strettamente intrecciate con la storia della presenza della VOC, la Compagnia delle Indie Orientali Olandese3, presso il Capo di Buona Speranza e del progetto di trasformazione di quest’ultimo in stazione di rifornimento e di assistenza in grado di fornire approvvigionamenti ai convogli marittimi impegnati nel commercio con le Indie. A questo scopo, sotto le pressioni del segretario della Compagnia, Van Dam, il Consiglio dei Diciassette, decise di prendere in considerazione la proposta di fondare una roccaforte alla punta meridionale del continente africano qualora ci fossero state le condizioni4. Già i portoghesi, con la scoperta di Bartolomeo Diaz nel 1487, avevano beneficiato di tale sito come scalo commerciale per i loro traffici con l’Oriente e successivamente gli olandesi designarono Jan Van Riebeeck5 quale capitano di una spedizione con l’incarico di costruire una stazione di scalo presso il Capo di Buona Speranza. Egli approdò sulle coste dell’odierno Sudafrica nel 16526 costruendo dapprima un forte, poi selezionando un sito per le attività di giardinaggio ed infine del terreno utile alla semina. Dopo aver stabilito un punto d’approdo sicuro ed uno scalo utile ai marinai, il Governatore Van Riebeeck iniziò a cercare una soluzione che limitasse l’incidenza dello scorbuto tra gli equipaggi e che potesse sostituire l’acqua come bevanda di bordo. All’epoca tutti i capitani di vascello portavano con sé una copia del testo di un certo Conrad Knuthman dal titolo Medulla Destillatoria et Medica7 dove nel capitolo iniziale venivano descritte le proprietà naturali del vino nel trattamento dello scorbuto e nell’apporto di vitamine. La Compagnia così ordinò a tutte le imbarcazioni di caricare sui vascelli grandi quantità di vino ma sfortunatamente la bevanda, di bassa qualità, risultava inservibile ancor prima di raggiungere l’equatore.

3 Il Governatore allora decise di impiantare delle viti nella regione del Capo. Nel 1654 il primo carico di viti (con Muscat, Green Grape, Muscadel and French Grape) e di esperti viticoltori approdò alla punta meridionale del continente africano. Dopo le prime difficoltà dettate dall’inesperienza e dalla dura lotta contro la natura, il 2 febbraio del 1659, data simbolo nella storia del vino sudafricano, il Governatore Van Riebeeck annotava nel suo diario:

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 5

Today – God be praise – wine press for the first time from the Cape grapes, and from the virgin must, fresh from the coop, a salpe take [...] prende from the three young vines that have been growing here for two years [...] yielding 12 mengles must (15 litres) from French or Muscadel Grapes, the Hanepoot Spanish not yet ripe8.

4 I coloni iniziarono a fondare nuove fattorie ed incrementarono il terreno per la coltivazione della vite ma le resistenze dei popoli indigeni, tra cui i Khoi-san, rallentarono l’espansione territoriale dei free burgers (liberi cittadini) e della compagnia olandese. Solamente con l’elezione e l’arrivo del Governatore Simon Van der Stel9 ebbe inizio un progetto di espansione strutturato consistente nella fondazione di diversi centri nella regione del Capo, tra cui Stellenbosch nel 1683 e Paarl nel 1687, nei decenni successivi centri principali della produzione vinicola.

5 Il nuovo Governatore, Van der Stel, (raggiunse la carica di Governatore a circa quarant’anni il 12 ottobre del 1679) era un uomo di grande cultura, educato nelle migliori accademie olandesi e dotato di una grande passione per l’agricoltura, in particolare per i vini; per la coltivazione di quest’ultimo si avvalse della consulenza di un francese, il cui nome era Jean Marieau, esperto viticoltore con esperienza nei vitigni del sud della Francia10. “L’industria vinicola” sudafricana conseguì i primi successi sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, dimostrando l’importanza delle intuizioni del Governatore riguardo la pigiatura di uve mature e la salubrità della cantina dove far fermentare il vino. La sua tenuta, chiamata Constantia11 fu il centro della sperimentazione e della produzione vinicola, basata sulla diversità e sulla varietà dei vitigni. Il vino prodotto nella tenuta del Governatore conquistò una reputazione di eccellenza nella regione del Capo ma anche a livello internazionale: «the wine from Constantia is of a much higher quality than any sent out so far»12. Il viaggiatore francese Francois Valentijn visitò Constantia ed annotò nel suo resoconto di viaggio: «also that until name there is no wine to be compared to the red Constantia wine»13.

6 Alla fine del secolo, a seguito della formazione di piccoli latifondi, furono piantate più di un milione e mezzo di viti, così diceva Van der Stel: «On account of the vine fluorishing here so well, many persons are incline to neglect other farming and to plant large vineyards»14. Inoltre il Governatore iniziò ad incoraggiare la diversificazione del prodotto, spronando i latifondisti ad utilizzare diversi vitigni per incrementare ulteriormente la qualità del prodotto ancora troppo «exceptionally harsh»15. Incominciò anche l’esportazione verso Batavia e l’Olanda, dove i il Consiglio dei Diciassette lo giudicò «not bad»16 ma troppo costoso e meno competitivo di quello Spagnolo.

7 Per migliorare ulteriormente la produzione e la qualità del vino gli olandesi pensarono bene di sfruttare a proprio vantaggio un evento politico di grande rilevanza che scosse l’Europa, la revoca dell’Editto di Nantes, il 18 ottobre del 1685, con il quale Luigi XIV proibiva il culto evangelico in tutto il Regno di Francia.

2. Ugonotti e Valdesi: le trattative con il Consiglio dei Diciassette ed il popolamento della Colonia del Capo

8 La revoca dell’Editto di Nantes ebbe conseguenze importanti sugli equilibri socio- politici degli Stati Europei e sui relativi possedimenti coloniali. All’indomani della decisione del Re di Francia di limitare nuovamente la libertà religiosa, la popolazione

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 6

francese di origine Ugonotta fu costretta ad intraprendere la strada dell’esilio, muovendo verso territori occupati da propri correligionari: Germania, Svizzera, Olanda ed il Piemonte savoiardo.

9 Luigi XVI stizzito dalla posizione accondiscendente di quest’ultimo Stato, esortò il Duca Vittorio Amedeo II di Savoia ad emulare la decisione transalpina così da poter estirpare, a sua volta, il ceppo ereticale valdese17. Il Duca, sotto pressione, alla fine decise di promulgare l’Editto con cui cancellava la libertà religiosa. Tale decisione ebbe come prima conseguenza lo spopolamento delle valli valdesi e sancì l’inizio dell’esodo Valdese verso i territori d’oltralpe, con Svizzera e Germania come mete privilegiate. Altri invece decisero di rifugiarsi presso le Province Unite Olandesi, sebbene i territori fossero già stracolmi di rifugiati.

10 Gli alti funzionari olandesi iniziarono ad elaborare una strategia che potesse risolvere il problema dell’accoglienza degli esuli: dirottare il flusso verso le colonie sembrò la soluzione ideale. Il Consiglio dei Diciassette esaminò le prospettive di tale proposta e decise di inviare famiglie ugonotte e successivamente, nell’inverno tra il 1687 e la primavera del 1688, famiglie valdesi rifugiate in Germania, a Norimberga, nei territori della Colonia del Capo come free burghers (liberi cittadini).

11 Il Consiglio dei Diciassette, inoltre, stabilì precise condizioni per gli emigrati: veniva garantito il trasporto gratuito sulle navi della Compagnia fino a Table Bay con conseguente dono di una somma di 125- 210 franchi ai capi famiglia e di 62-104 franchi agli emigranti celibi e concessione gratuita di terre da coltivare. Inoltre veniva anticipato dalla Compagnia del bestiame e degli attrezzi necessari ai lavori dei campi e garantita l’assistenza di un pastore di lingua francese. Oltre a ciò ai rifugiati valdesi venne riconosciuto lo status di correligionari18. A ciò seguiva l’obbligo di prestare giuramento in forma solenne: Je promets et pure de restare fidale Leurs Hautes Puissances, le Etats Gènèraux des Provinces Unies, notre très haut et souverain gouvernement, à Son Altesse le prince d’Orange, gouverneur, capitaine et amiral général, au Directeur de la Compagnie générale à charte des Indes Orientales desdites Provinces, ainsi qu’au gouverneur général et aux conseillers de l’Indie, enfin à tous les gouverneurs, commandeurs et officiers qui seront mes supérieurs sur mer et plus tard à terre. En toute occasion et de mon mieux j’observerai et ferai observer toutes le lois, dits et ordonnances publiés ou qui seront publiés par les Seigneur Directeurs, le Gouverneur général et les conseillers de l’Inde ou le Gouverneur ou le Commandeur de ma future résidence, Enfin je promets en tous sens de me conduire ainsi qu’un bon et fidèle sujet est tenu de le faire. Ainsi fidèle, que Dieu Tout-Puissant, me sort en aide19.

12 Un giuramento che esplicitava le reali intenzioni del governo olandese che assunse un atteggiamento oscillante tra lo spirito umanitario di accoglienza e quello utilitaristico: i rifugiati erano delle pedine, in mano olandese, facenti parte di un disegno molto più ampio in cui essi diventavano un investimento economico per la Colonia del Capo e per la Compagnia stessa. A conferma di ciò, Simon van Der Stel, appuntò in una lettere del 26 aprile del 1688 al Consiglio dei Diciassette le seguenti riflessioni: «Riteniamo di incontrare tra i rifugiati francesi ed i piemontesi che verranno, uomini esperti nella coltivazione della vite dell’ulivo che istruiranno i vecchi coloni che ignorano del tutto questa coltura»20.

13 La risolutezza politica del nuovo Governatore impresse un cambio deciso di rotta ai negoziati a cui fecero seguito i primi accordi e le prime partenze. Il Consiglio dei

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 7

Diciassette si riunì nuovamente il 22 marzo del 1688 per esaminare una comunicazione del 19 Febbraio fatta dalla Camera di Amsterdam degli Stati Generali; in essa si leggeva: Consta che una parte dei poveri profughi dalla valli del Piemonte ha trovato temporaneo rifugio nei pressi di Norimberga; si tratta di 200 famiglie che contano circa 1000 anime tra uomini, donne e fanciulli. essi sono esperti agricoltori ed in più muratori, carpentieri, ferraioli e bottai e tra costoro vi sono pure quatto pastori. Tutti sono inclini a partire per l’una o l’altra colonia sotto il dominio della Compagnia delle Indie orientali ed occidentali, alla sola condizione di essere autorizzati nei limiti del possibile ad essere sistemati gli uni vicino agli altri allo scopo di poter praticare assieme la loro religione per la gloria di Dio e per la sua futura estensione. Perciò le loro Alte Eminenze desiderano che i Diciassette dichiarino se possono o meno trovare una località conveniente ad un largo numero di questo povero popolo in uno o in un altro distretto della Compagnia21.

14 Venne intavolata una trattativa tra rappresentanti del governo olandese ed i rifugiati ugonotti e valdesi, il cui portavoce fu un tale Jean Pastre Marchand, commerciante che si recò personalmente ad Amsterdam. Le condizioni richieste dai rifugiati furono rese note dal Consiglio: invio a spese della Compagnia e degli Stati Generali di un primo contingente di 6-700 valdesi da assistere a lungo anche in altre colonie seguito dalla nomina di un comitato ristretto di tre persone incaricato di mantenere i contatti tra emigranti e governo e l’assicurazione per il Comitato della piena libertà di azione e di indagine in merito alla sistemazione dei valdesi.

15 Nel contempo iniziarono a montare polemiche e dubbi tra le fila valdesi; i capi-famiglia e gli esponenti di spicco della comunità ritenevano le condizioni proposte dagli olandesi lesive della libertà e della sopravvivenza della comunità. Iniziò così un periodo di intensi contatti tra le parti fin quando un episodio segnò la svolta: l’elettore del Brandeburgo avanzò una proposta di asilo con conseguente insediamento dei rifugiati valdesi presenti a Norimberga22. La maggioranza degli esuli valdesi, così, decise di non partire più ed aspettare in Germania che l’editto emanato dal Duca di Savoia venisse ritirato, per poi poter fare ritorno nelle proprie valli di origine23 nonostante fosse stata raggiunta una parziale intesa con gli olandesi: infatti venne redatto, il 1 aprile del 1688, un elenco di 126 persone tra Ugonotti e Piemontesi pronte ad imbarcarsi per la stessa destinazione dal porto di Amsterdam prima con la nave Schielandt e poi con la Wapen van Alkmaar. A seguito dello strappo tra comunità valdese ed autorità olandesi solamente pochi avventurieri tra questi, di lingua francese, con a seguito le proprie famiglie, decisero comunque di imbarcarsi per il Capo, facendosi passare per Ugonotti. Alcuni di loro arrivarono sulle coste del Sudafrica il 12 maggio del 1688, a bordo della Borssenburg24, partita il 6 gennaio dello stesso anno da Texel, prima che le trattative tra i valdesi e gli olandesi fossero naufragate. Tra di essi ricordiamo i vari Joubert, Malan, Jourdan, Davit, Durand, Fracha, Gardiol, Martinel, Peron, Pelanchon, Savoie, Malerba, Pisani, Lombard e Botta (Botha in Afrikaans) ed altri cognomi che al momento della registrazione da parte delle autorità olandesi vennero traslitterati e modificati o semplicemente francesizzati, così da rendere più difficile la distinzione tra ugonotti e valdesi25. Oltre a ciò subirono una ulteriore snazionalizzazione poiché furono obbligati ad integrarsi all’interno della società olandese del Capo, modificando ulteriormente i propri cognomi. Ad esempio il cognome Jourdan, tipico cognome di origine valdese, venne modificato in Jordaan e poi Jordan cognome presente ancora oggi nella regione del Capo (infatti è presente una winefarm chiamata Jordan Estate di cui però non è stato possibile, a seguito delle ricerche svolte in loco scoprirne le origini) ed ancora Pisani, venne francesizzato in du Pisanì o ancora Malerba, in Malerbhe e Lombardo in

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 8

Lombard o Luumbard. Un processo di assimilazione ancora più evidente emerge se si consultano gli elenchi dei passeggeri imbarcati sulle navi olandesi e registrati all’arrivo sulle coste della colonia infatti molti cognomi hanno una triplice trascrizione che va dall’italiano al francese ed infine all’olandese26.

16 Nelle liste complete dei rifugiati è possibile notare come accanto ad alcuni nomi non venga specificata la provenienza oppure il luogo di nascita dell’individuo mentre per altri soggetti, tutti ugonotti francesi, vengono riportate le generalità ed anche il successivo luogo d’insediamento. Ciò indurrebbe a pensare che coloro i quali non avevano dichiarato il luogo d’origine, ma solamente il proprio nominativo, fossero di origine valdese, avendo cognomi tipici delle valli piemontesi. Un esempio è quello di Jean Gardiol: nella lista completa dei rifugiati arrivati al Capo tra il 1688 ed il 1700 non si trovano dati inerenti al luogo di origine dell’individuo, ma solamente il nominativo. Facendo ulteriori ricerche ritroviamo il nome di Jean Gardiol riportato nel Bollettino della società degli studi valdesi, n.18, del 190027, in cui, come si dirà tra breve, viene riportata la storia di un proprietario terriero, dal nome Jean Gardiol, nella zona di Stellenbosch. Questo tipo di ricerca incrociata potrebbe portare ad ulteriori risultati avvalorando la tesi secondo cui le autorità olandesi registrassero solamente i dati dei rifugiati francesi, molto meno difficili da capire e da trascrivere, per vicinanza geografica e conoscenza delle località francesi, rispetto a quelli dei valdesi. A ciò bisogna aggiungere il timore da parte delle autorità olandesi di concedere troppa autonomia ai rifugiati e ritrovarsi così delle enclaves autonome, di difficile governabilità, sul territorio della colonia. La soluzione a tale problema fu l’assimilazione e l’omologazione totale degli immigrati comprendente anche la modifica dei loro nomi e cognomi. Il nome in tale logica rappresentava un segno distintivo, un passaporto di origine da cancellare, eliminare, trasformando i nuovi arrivati in soggetti a-storici, privi di radici comunitarie e solidaristiche. Nonostante l’esiguità del materiale sulla comunità valdese del Capo è possibile affermare che l’arrivo dei nuovi coloni, sia essi valdesi sia ugonotti, segnò un passo decisivo ed importante per l’espansione della colonia e per l’incremento della produzione vinicola. I rifugiati ugonotti esperti nel campo agricolo e nella coltivazione della vite, importarono tecnologie e conoscenze fino ad allora sconosciute dai produttori del Capo. La produzione aumentò notevolmente, furono messi a coltivazione nuovi terreni ed il grosso della produzione si concentrò nella valle del Drakenstein, nel quartiere francese di Fransche Hoek, l’attuale Franschoek e nei pressi di Stellenbosch dove furono concentrati dopo il loro arrivo gli esuli e da qui ebbe inizio l’espansione del settore viti-vinicolo sudafricano28.

17 Anche i valdesi, assimilati alla maggioranza ugonotta, fecero la loro parte, furono infatti i pionieri italiani (allora piemontesi) dell’emigrazione e della produzione vinicola in Sudafrica, come è testimoniato da alcuni documenti che riportano atti di concessione (venivano dati in concessione, ai migranti, terreni agricoli e farms per metterle in produzione ed iniziare un progetto di espansione coloniale pianificata) di fattorie e terreni. Alcuni esempi sono la Vrede in Lust, affidata a Jacques De Savoye, nella regione di Stellenbosch e sempre nella stessa area la Rhome et Languedoc data in concessione al piemontese Pietro Benozzi nel 1691 ed ancora La Cotte rilevata dal Jean Gardiol precedentemente citato29. Ad essi, nei secoli successivi succederanno altri italiani impegnati nel settore memori di un eredità passata importante30 di un know how utile all’innovazione ed alla creazione di nuove realtà economiche e sociali.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 9

3. L’arrivo degli inglesi tra ricerca della qualità e la sciagura della fillossera

18 Il Governatore Simon Van der Stel (1679-1699) lasciò l’incarico nel 1699 al figlio Willem Adriaan il quale si dimostrò un uomo mosso da egoismo ed ambizione che frappose gli interessi privati a quelli collettivi. Sotto la sua guida nella colonia le tensioni tra coloni ed istituzioni aumentarono sfociando in aperto scontro quando il neo governatore cercò di accaparrarsi il monopolio della distribuzione del vino. A seguito di un’amministrazione poco oculata Willem Adriaan Van der Stel fu costretto a dimettersi31 nel 1707 e nel 1712 venne a mancare il padre, Simon, lasciando così la magnifica tenuta di Constantia priva di una vera guida e destinata allo smembramento. Fu il primo episodio in cui rifugiati ugonotti e valdesi si allearono e collaborarono con i burghers olandesi, sancendo una sorta di patto di solidarietà contro un nemico comune rappresentato dalla figura del Governatore tiranno. La proprietà della famiglia Van der Stel, centro, fino a quel momento, della sperimentazione agricola e vinicola, venne smembrata e divisa in Groot Constantia (Grande Constantia) e Klein Constantia (Piccola Constantia)32. Dopo un periodo di declino, l’intera tenuta, venne rilevata da Hendrik Cloete33, il quale restituì lustro alla proprietà propiziandone la rinascita. Mise in produzione un vino che prese il nome di Constantia, un vero prodotto d’eccellenza, apprezzato e conosciuto finanche nei salotti dell’alta nobiltà europea: tra i suoi estimatori si annoverano Napoleone, Baudelaire, Federico di Prussia e molti alti dignitari dell’epoca34.

19 Gli sconvolgimenti politici ed i venti rivoluzionari che spiravano dall’Europa sconvolsero il piccolo avamposto ai piedi del continente africano. A seguito dei cambiamenti degli assetti politici europei anche la colonia del Capo mutò pelle vivendo un periodo di confusione istituzionale in cui inglesi ed olandesi si alternarono, fin quando nel 1814, il Congresso di sancì la definitiva assegnazione della colonia all’impero britannico35. Iniziò così un periodo di rinascita e di espansione per il settore vinicolo della colonia, che sfruttò i lasciti del periodo olandese e l’organizzazione delle winefarms (basti pensare ai grandi appezzamenti di terreno su cui erano impiantate le viti e le strutture delle farms: ricordiamo che sotto il Governatore Simon Van der Stel le cantine vennero risanate, ripulite e divennero veri e propri ambienti a se stanti, divisi dal resto della struttura principale della farm). Come scrive, Giorgio Dalla Cia36, produttore ed enologo italiano residente in Sudafrica: «é facile immaginare quindi che il governo inglese cercasse di incentivare l’importazione di vini dalla loro colonia del Capo a scapito della Francia, della Spagna e del Portogallo, aumentando le tariffe doganali. Nel 1859 il vino esportato in Inghilterra superò i 150 mila hl»37.

20 Furono incrementati i terreni per la coltivazione, si cercò di migliorare la qualità del prodotto, vero punto debole che limitava l’esportazione e si cercò di stabilire una sorta di filiera produttiva censendo tutte le farms presenti sul territorio. Fu così che nel 1823 furono censite 374 winefarms e nel 1865 si contavano già 55 milioni di viti, un aumento esponenziale se considerate le giovani origini della viticoltura sudafricana38. Un periodo florido che conobbe un brusco arresto quando, alla fine dell’Ottocento e precisamente nel 1866, la fillossera39 distrusse i vitigni ed azzerò la produzione, rendendo vani tutti gli sforzi precedenti40. Da questo momento in poi si realizzò che per portare avanti una produzione di tipo industriale bisognava ripartire da zero con

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 10

conoscenze e materiale umano ed artigianale di nuova generazione. In poche parole serviva modernizzare il settore, regolarizzarlo e renderlo meno vulnerabile.

21 In questi anni non si segnalano figure di spicco di origine italiana nel settore, è lecito pensare che i discendenti di quei Valdesi giunti al Capo quasi due secoli prima abbiano continuato ad occuparsi della cura dei vitigni ed abbiano concorso come i propri antenati all’espansione del settore.

22 Riguardo alla comunità Valdese, a seguito del processo di assimilazione descritto precedentemente, non è stato possibile reperire materiale documentario riguardante il XIX sec., se si eccettua, la presenza di Missionari come Giacomo Weitzecker e Luigi Adolfo Jalla41. Saranno i decenni successivi a segnare indelebilmente la storia degli italiani nel settore e la storia della stessa viticoltura sudafricana, la quale compirà un passo decisivo verso la modernità e la sua affermazione a livello mondiale.

4. Il Novecento e la modernizzazione del settore

23 Il mercato vinicolo sudafricano si affacciò alle soglie del XX secolo in piena crisi, a causa della fillossera che aveva distrutto i vitigni ed a seguito della depressione post guerra anglo-boera che aveva avuto ripercussioni anche sul settore. Furono istituite diverse Commissioni Governative con l’incarico di misurare lo stato di salute dell’industria vinicola e ricercare soluzioni al problema.

24 Iniziarono ad essere impiantate viti innestate su un ceppo americano e venne promossa la formazione di cooperative basate sull’utilizzo di tecnologie avanzate così da abbattere i costi di produzione con maggiori profitti per tutti. A seguito dei finanziamenti governativi nacquero nove cooperative come la Drostdy di Tulbagh fondata nel 190642. Tale politica impresse nuova linfa vitale al settore e soprattutto segnò una tappa fondamentale nella creazione di una “South African wine production” 43, un settore dell’economia non solo della regione del Capo ma di tutto il territorio nazionale. I Governi sudafricani si impegnarono a livello legislativo introducendo leggi che regolassero il mercato della produzione e della vendita, calmierando i prezzi e garantendo maggior controllo su tutte le fasi di produzione. Nel 1924 la K.W.V. (Ko- operatieve Wijnbouwers Vereeniging) nata dalla fusione tra i produttori del Capo e l’associazione dei commercianti, venne incaricata dal Governo Smuts con la legge Wine and Spirits Control Act N. 5 di fissare il prezzo minimo per il vino da distillazione dando inizio ad un processo di controllo legale sull’intera produzione vinicola44. Nel corso dei decenni si susseguiranno ulteriori provvedimenti legislativi che avranno come scopo principale la regolamentazione del sistema produttivo sudafricano con l’intenzione di raggiungere standard qualitativi di assoluta eccellenza così da potersi affermare anche sul mercato internazionale entrando in competizione con i vitigni californiani, italiani e francesi.

25 Il progetto era quello di fornire un’adeguata istruzione ai futuri enologi ed ai futuri professionisti del settore: si iniziò ad insegnare (a Stellenbosch) viticoltura ed enologia nel 1887 fino a quando nel 1918 venne fondata la facoltà di Agraria presso l’Università di Stellenbosch. Il punto di riferimento della neonata facoltà era la Scuola tedesca di Geisenheim, sia per affinità religiose sia perché in Sudafrica i vini bianchi, soprattutto quelli tedeschi, erano diventati i più apprezzati. Molti docenti e studenti sudafricani soggiornavano per lunghi periodi in Germania, dedicandosi a tirocini di lavoro e corsi universitari che avrebbero poi permesso agli stessi di fregiarsi del titolo accademico

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 11

tedesco, meglio spendibile e prestigioso di quello conseguito nella madrepatria. In tale contesto è bene ricordare come nel 1925 il professor Perold, dell’Università di Stellenbosch, incrociando il Pinot Nero ed il Cinsaut creò la varietà del Pinotage, ritenuta da tutti il primo vino veramente Sudafricano45.

26 Fino alla metà del Novecento le tecnologie ed i modi di produzione venivano mutuati dai maestri tedeschi, ignorando la tradizione francese e le tecnologie italiane, che avevano dato inizio all’industria viti-vinicola sudafricana e che saranno riutilizzate nei decenni successivi sotto la decisa spinta dei produttori italiani.

5. Gli italiani e l’enologia sudafricana contemporanea

27 Nel contesto di restaurazione del settore viti-vinicolo sudafricano si affermarono importanti esponenti dell’imprenditoria e del mondo accademico di origini italiane che risulteranno essere tra maggiori innovatori del comparto promuovendo una rivoluzione socio-culturale nella produzione e nel consumo del vino.

28 Il primo grande nome che si affermò nel panorama viti-vinicolo sudafricano fu Francesco Eschini, originario di Pontremoli, arrivato a Cape Town dall’Argentina con tutta la famiglia a cavallo tra Ottocento e Novecento46. Iniziò la sua attività come gestore di una pensione, che ospitava soprattutto connazionali. Stando a stretto contatto con essi imparò quelle che erano le esigenze primarie dei pensionanti. Molti richiedevano del vino da tavola da accompagnare ai pasti, non quello corposo e robusto che veniva prodotto nella zona del Capo. Eschini a tal proposito si rivolse ad un possidente locale, un certo D.J. Krige, proponendogli di produrre vini leggeri, per il consumo quotidiano. Dopo un’attenta analisi del progetto e delle competenze i due si accordarono e poterono iniziare la produzione. In breve tempo il nuovo tipo di vino si affermò a livello nazionale fin tanto da costringere l’intraprendente Eschini ad aprire una cantina propria, a Bellville, dotandola di ampi locali con serbatoi di cemento ad alta capacità e tecnologie moderne. La Bellville Winery continuò la sua intensa produzione di vini da tavola fino a quando nel 1926 venne rilevata dalla ditta Luigi Fatti di Johannesburg, anche questa di chiare origini italiane.

29 Il toscano Eschini avviò la produzione di vini in un momento importante della storia enologica del paese, in piena fase di ricostruzione dopo le sciagure della fillossera ed in un contesto politico-sociale avverso alla presenza di immigrati, sopratutto italiani. A lui va il merito di aver introdotto nel mercato del vino sudafricano un prodotto fino ad allora sconosciuto, il vino da pasto, che nel corso dei decenni entrerà prepotentemente nel costume enogastronomico locale47 iniziandone a modificare lentamente i lineamenti elitari che fino ad allora ne avevano caratterizzato lo sviluppo.

30 Anche il piemontese Michele Angiolo Zoccola, trasferitosi nel 1888 a Johannesburg dall’Inghilterra, aprì il Gran National Hotel ed acquistò una farm dal nome Bergvlei di 1600 ettari che ribattezzò Lombardy Estate (oggi Wynberg presso Sandton). Fu il primo ad impiantare le viti nel Transvaal, fino ad allora ritenuto un territorio aspro ed inadatto ad ospitare vitigni, affermandosi sul mercato sudafricano e divenendo una colonna portante della comunità di Johannesburg e consigliere della Witwatersrand Agricultural Society.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 12

31 Un’altra figura di spicco del panorama enologico italo-sudafricano è sicuramente quella del Dottor Nino Costa, innovatore, precursore dei tempi che con la sua preparazione e la sua intraprendenza introdusse nuovi modi di produzione.

32 Alla fine degli anni trenta si trasferì a Paarl ed inaugurò con l’ausilio dell’enologo friulano Agostini una fase di sperimentazione che servì per la messa a punto di un massiccio concentratore di mosti a freddo importato dall’Italia. Durante la Seconda Guerra Mondiale ebbero così l’opportunità, sfruttando le infrastrutture frigorifere del concentratore, di sperimentare la prima fermentazione a temperatura controllata (10- 15 ° C) dei vini bianchi [...] Nino Costa invece continuò nel suo ruolo di innovatore, adottando nel 1960 il primo impianto di pastorizzazione per bottiglie di vino, usando un pastorizzatore tedesco per birra. Tra il 1962 e il 1964 riuscì a mettere a punto un ciclo integrale per l’elaborazione dei vini in continuo: partendo dal taglio dei vini, passava alla chiarificazione, stabilizzazione, filtrazione, imbottigliamento, tutto in continuo [...] nel 1963 iniziò i primi esperimenti di fermentazione in bottiglia con il sistema classico48.

33 Il Sudafrica conobbe anche l’affermazione dei fratelli Moni, colossi dell’agroalimentare. La storia della famiglia Moni è inestricabilmente intrecciata con lo sviluppo dell’industria agro-alimentare sudafricana. Tre dei sei fratelli Moni emigrarono alla volta del Sudafrica alla fine dell’Ottocento a seguito della crisi economica che aveva investito l’Italia; giunti all’estrema punta del continente africano e dopo diverse occupazioni i fratelli decisero di associarsi e dedicarsi al commercio di specialità alimentari italiane. Negli anni riuscirono ad espandere il proprio mercato e fondarono diversi empori in varie città del Sudafrica; investirono capitali nella produzione della pasta prima con la ditta Moni Brothers Pty. Ltd. e poi nella fusione con la famiglia Fatti che sfociò nella United Macaroni Factories Ltd.

34 Al loro impegno nella produzione della pasta affiancarono anche quello nel settore vinicolo: a causa della prima guerra i prodotto importati scarseggiavano e così i fratelli decisero di comprare una cantina a Huguenot e produrre in proprio i vini per poi smerciarli negli empori di proprietà. La scelta ebbe esiti positivi e nel 1922 la cantina Moni venne registrata come compagnia privata (Moni’s Winery) divenendo un modello aziendale efficiente e all’avanguardia, avendo annesse anche la distilleria. Negli anni trenta ormai il vino dei Moni si era affermato a livello nazionale, spaziando dalla produzione di spumanti, a vini più leggeri, finanche al marsala e diversi distillati come il brandy ed altri liquori.

35 Nel secondo dopoguerra le Cantine Moni fecero segnare successi importanti come il conseguimento della medaglia d’oro ai Rand Shows del 1948 e del 1952, grazie soprattutto all’innovazione scientifica e la ricerca promossa e finalizzata nei laboratori di Huguenot dal Dottor Nino Costa. Nei decenni successivi, la società dei Moni assorbì la ditta L. Fatti & Co. e controllava 15 compagnie, 24 locali di distribuzione, 6 bottiglierie e diverse rivendite di vini e liquori. Ancora oggi la famiglia Moni rappresenta l’élite industriale del Paese nel campo dell’agroalimentare e punto di riferimento della storia degli italiani in loco49. Cresciuti in un momento critico per l’economia sudafricana, i Moni riuscirono a trovare nelle difficoltà causate dalla prima guerra mondiale la chiave del proprio successo, introducendo nella cultura del paese la produzione industriale di pasta e l’introduzione del marsala e del moscato, sconosciuti all’epoca. L’azienda ha posto le basi di quella che sarà tutta la futura industria agro-alimentare del dopo- guerra ed ancora oggi il marchio Moni rappresenta il più grande produttore alimentare del Paese. Nel ramo vinicolo produce vini da tavola, spumanti, vermouth bianco e rosso,

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 13

sherry, gin e molti altri vini ma ciò che resta dell’impegno dei fratelli Moni non è soltanto un colosso industriale ma il merito di aver contribuito, insieme agli altri produttori italiani del periodo, a modificare le abitudini enologiche sudafricane introducendo un prodotto italiano come il vino da pasto ed iniziando un processo di democratizzazione dei consumi che travalicava le frontiere del colore e della razza.50

6. L’ultima generazione di produttori italiani

36 Il presente paragrafo è il frutto della ricerca sul campo in Sudafrica, nella zona di Stellenbosch-Paarl, centro per eccellenza della produzione vinicola del Paese. L’esperienza diretta ed il contatto con la realtà dei produttori di vino ed i farmieri italiani ha permesso una maggiore comprensione del fenomeno qui trattato e soprattutto è stata utile nella fase di ricostruzione storica dell’intero settore enologico. Le testimonianze, le ricostruzioni, la semplice interazione e la partecipazione diretta ad un evento, ad una fase produttiva, quale può essere la distillazione o l’imbottigliamento del vino, permettono al ricercatore di carpire, sentire, storie, aneddoti e racconti di esperienze personali che arricchiscono la ricerca d’archivio.

37 Gli anni Settanta hanno visto l’affermazione di Giorgio Dalla Cia, sicuramente uno dei personaggi più influenti nella storia enologica sudafricana e si colloca in quella schiera di italiani che nel settore sono riusciti ad innovare e ad aprire nuovi mondi enologici fino ad allora sconosciuti.

38 Nel 1976 entrò nel Gruppo Distillers Corporation, a seguito della chiusura degli stabilimenti della Stock, e si trasferì a Stellenbosch, uno dei maggiori centri enologici del Paese. Assunse l’incarico di dirigere le Cantine Meerlust, dove le sue idee e le sue proposte vennero da subito accettate dal proprietario Nico Myburgh che lo spronò a mettere in produzione dei vini di tipo bordolese, un prodotto poco conosciuto ed apprezzato ai tempi. Nel corso degli anni, Giorgio Dalla Cia, mise appunto un vino di tipo Medòc e mutò radicalmente tutta la tecnologia e le modalità produttive precedenti (di stampo tedesco, come precedentemente illustrato) sostituendoli con la tradizione francese. Lo stesso Dalla Cia dice: Quando sono arrivato possedevo delle tecnologie abbastanza avanzate che qui non si conoscevano; ho, in un certo qual modo, reinventato la tecnologia della fermentazione dei vini rossi ed anche dello Chardonnay. Infatti il mio vino è stato considerato ed ancora lo è, tra i migliori vini bordolesi nel mondo51.

39 Come Cesare che pronunciò le fatidiche parole sul Rubicone «Alea Iacta Est», il primo vino prodotto seguendo il metodo bordolese, chiamato appunto Rubicon, con accentuato valore metaforico, segnò l’inizio di una nuova era per il settore enologico sudafricano e la conquista, non di Roma, ma dei mercati nazionali ed internazionali. Nel 1980 il Rubicon fu premiato, in Sudafrica, come miglior vino ed il Dalla Cia stesso come miglior produttore e nel 1984 produsse il Merlot, oggigiorno uno dei vini più apprezzati e presenti a livello mondiale. Come lui stesso dice in uno stralcio d’intervista: «Il Merlot è uno o forse il vino più amato dai sudafricani e viene apprezzato nell’intero Paese ed in tutto il mondo»52 puntellando quel processo di cambiamento nel consumo e nelle abitudini dei sudafricani.

40 Facendo tesoro dell’esperienza accumulata nei decenni precedenti e della fama riconosciutagli, alla metà degli anni Novanta, Giorgio Dalla Cia aprì una distilleria propria e riuscì, dopo vari tentativi, a produrre due vini, il Pinot Nero Riserva, raffinato

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 14

in barrique di Allier, e lo Chardonnay, anch’esso fermentato in barrique di Allier. Da ultimo mise in produzione la grappa di Pinot-Chardonnay e quella di Cabernet-Merlot.

41 Un altro affermatissimo produttore di vini è Giulio Bertrand53, industriale toscano del settore laniero, che nel 1992 decise di ritirarsi in Sudafrica dall’Italia in una tenuta storica. Comprò Morgenster, fondata nel 1711, con l’intento di ritirarsi a vita privata ma nel contempo comprese le potenzialità del territorio e del mercato in espansione del Sudafrica decidendo con forza di piantare delle viti. Da ciò nacquero due vini rossi di stile Bordeaux di fama internazionale: il Morgenster ed il Loures River Valley che hanno ricevuto negli anni prestigiosi riconoscimenti. Dall’intervista del Dalla Cia: Sulle orme paterne nel momento del ritiro dall’attività Giulio liquidò l’azienda in Italia, era un industriale del comparto tessile, e decise di investire qui in Sudafrica, restaurando Morgenster, un’antica farm. Iniziò a mettere a coltura gli ulivi, importando dall’Italia le varietà che non si trovavano in Sudafrica. Divenne così il più grande produttore di olio della nazione. Ha vinto, in Italia, per dodici anni consecutivi il premio l’Orciolo d’Oro per il suo olio extravergine. Così pian piano iniziando dall’olio decise di piantare viti: lo portai a Bordeaux per un soggiorno di tre settimane nel quale visitammo tutte le Chateau, tra cui ricordo la Chateau Cheval Blanc. Tornato dal viaggio chiese la mia consulenza per aprire una cantina che oggi è affermata e conosciuta in tutto il Paese54.

42 L’ultima generazione, cronologicamente parlando, di produttori vinicoli e farmieri italiani è rappresentata da una coppia di giovani friulani, Michela e Vittorio Dal Piaz: nel 2004 rilevarono la Slendt Farms, una proprietà di 172 ettari, ai quali negli anni successivi si aggiunsero altri 48 ettari di terreno destinati alla produzione di vino.

43 Esperti del settore, valutarono subito le potenzialità del posto, che all’epoca produceva vini quali lo Chenin, il Cabernèt, lo Shiraz ed il Merlot e decisero di imprimere una svolta alla conduzione dell’azienda e diversificare il prodotto. Nel corso degli anni hanno sperimentato, hanno cercato e creato nuove “strade enologiche” arrivando a produrre dell’ottimo Pinotage, tra i migliori vini del Sudafrica fino all’esportazione intercontinentale del proprio prodotto.

44 Nel 2014, hanno conseguito un ulteriore primato, riuscendo a piantare la prima vigna di Vermentino (della Gallura) in Sudafrica, così da mettere in produzione uno dei pochi vitigni italiani, se si eccettua il Sangiovese, presente sul territorio nazionale: Chiedemmo ad uno dei più importanti esperti di selezione clonale italiano nonché nostro amico, Augusto Fabbro, quale vitigno italiano avremmo potuto impiantare qui, in Sudafrica, così da avere qualcosa di nostro. Qui ci sono alcune varietà di rosso italiano ma di bianco non ne trovavi. Lui subito disse che questa era una zona per il Vermentino, specificatamente quello della Gallura, perché abbiamo terreni sabbiosi da sgretolamento granitico e vento caldo. Decidemmo di provarci ed importammo le viti: ci abbiamo messo sei anni per averle e finalmente nel novembre del 2014 abbiamo impiantato la prima vigna di Vermentino in Sudafrica55.

45 Una storia di successo che pone i proprietari di Ayama (il nome dell’azienda) nel solco della tradizione italiana del settore viti-vinicolo Sudafricano. Successo non solo in ambito produttivo ma anche dal punto di vista dell’integrazione e dell’adattamento culturale a contesti umani ed ambientali differenti: Rilevare una proprietà terriera in Sud Africa non significa solo comprare del terreno per poi produrci, significa prendere con sé anche gli operai che ci lavoravano in precedenza, con tutti i problemi e le esigenze ad essi connessi. Significa vivere in simbiosi con loro, capirne le difficoltà, cercare di aiutarli: il proprietario terriero è un mentore, un punto di riferimento per la piccola comunità

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 15

degli operai. Se c’è qualche problema vengono da noi a chiedere consiglio, a farsi aiutare. Essere proprietari è molto più complesso di quanto si possa immaginare56.

46 Soprattutto essere proprietari in un contesto culturale ed ambientale differente da quello di origine richiede adattamento e comprensione dei meccanismi socio-culturali vigenti. Come ricorda Michela dal Piaz nell’intervista: Qui esiste ancora la Lobola, una sorta di prezzo della sposa o dote a cui devono far fronte le famiglie delle spose che intendono prendere marito. Quando alcuni non possono vengono a chiedere aiuto a noi, a chiedere consigli. Esistono ancora i riti di passaggio per diventare adulti: molti ragazzi al momento del passaggio tra adolescenza e maturità partono e vanno nella savana per qualche mese, praticano la circoncisione ed a volte non tornano. Noi dobbiamo conoscere e convivere con le realtà culturali del posto che sono importanti anche per il lavoro stesso nella farm e per la convivenza57.

47 In questo i giovani proprietari friulani hanno conseguito un ulteriore successo, riuscendo a costruire un rapporto simbiotico con i propri operai, facendosi carico di progetti di istruzione per i bambini, di dopo-scuola e di avviamento al lavoro.

48 Un’innovazione per il contesto sudafricano, che apre nuovi scenari per la produzione e la gestione di una farm ma anche per l’integrazione culturale requisito fondamentale per il successo di un’attività come quella descritta. Il concetto alla base di questa esperienza è ben descritto e rappresentato dal nome scelto per l’azienda: Ayama, una parola xhosa, dal significato importante ed evocativo, «qualcuno su cui contare».

49 Una storia significativa, importante sia dal punto di vista economico e sia dal punto di vista umano in cui l’osmosi tra il tradizionale concetto di proprietario terriero (farmer) e le esigenze della contemporaneità hanno inaugurato un nuovo cammino dell’industria viti-vinicola sudafricana ritenuta per molti secoli, ed a ragione, produttrice di ineguaglianze58 e non di congruenze.

Conclusioni

50 La storia del vino sudafricano è intimamente intrecciata alla storia della presenza italiana in Sudafrica e parlare di essa ci permette di descrivere come il contributo che le maestranze e le professionalità importate da questi ultimi abbiano avuto il merito di aver plasmato, modificato e spinto verso nuovi orizzonti, nuovi mercati e nuove dinamiche produttive il settore viti-vinicolo locale. Oltre a ciò, questa vicenda ha il merito di accendere i riflettori su una storia, quella dei migranti italiani del Sudafrica, poco studiata e relegata ancora oggi dagli specialisti ad un’analisi superficiale e priva di interesse.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 16

NOTE

1. Cfr. FOURIE, Johan, VON FINTEL, Dieter, The Fruit of the Vine? An Augmented Endowments-Inequality Hypothesis and the Rise of an Elite in the Cape Colony, Helsinki, UNU- WIDER, WIDER Working Paper, 112, 2010, pp. 1-29. 2. Riguardo alla storia degli italiani in Sudafrica si veda: SANI, Gabriele, Storia degli italiani in Sudafrica 1489-1989, Edenvale, Zonderwater Block, 1989; per un primo tentativo di ricostruzione dei flussi migratori italiani in Sudafrica si vedano anche: IACOPONI, Valentina, Campi d’oro e strade di ferro, il Sudafrica e l’immigrazione italiana tra ottocento e novecento, Roma, XL Edizioni, 2013; MACIOTI, Maria Immacolata, ZACCAI, Claudia, Italiani in Sudafrica, le trasformazioni culturali della migrazione, Milano, Guerini scientifica, 2006; GIULIANI-BALESTRINO, Maria Clotilde, Gli italiani nel Sudafrica, Napoli, Geocart Editrice Sas, 1995; BINI, Adolfo Giuseppe, Italiani in Sudafrica, Milano, Scuola Arti Grafiche Gianelli, 1957; OTTAVIANO, Chiara, Italians in South Africa, in L’emigrazione italiana, 1870-1970. Atti dei colloqui di Roma, vol. II, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2002; NATILI, Daniele, Una parabola migratoria. Fisionomie e percorsi delle collettività italiane in Africa, Viterbo, Sette Città, 2009. In merito al contributo degli italiani allo sviluppo del Sudafrica cfr. FERREIRA, Ilse, Sulle orme degli italiani in Sudafrica, Kruger National Park, Jacana Media, 2009. 3. Il nome ufficiale era: Vereenigde Nedeslantsche Geoctroyeer Oostindische Compagnie. 4. Nel 1645 venne costruito un approdo nella regione del Capo ma non ebbe successo. Solo nel 1647, a seguito del naufragio della Nieuw Haarlem, avvenuto il 25 marzo del 1647 nella Baia della Tavola, gli olandesi cominciarono a valutare la possibilità di installare un approdo sicuro nella regione. Infatti, a seguito dell’esperienza di sessanta coloni naufragati sulle coste del Sud Africa e sopravvissuti per un anno, commerciando e stabilendo rapporti con gli indigeni, fu chiaro che le possibilità di insediamento erano concrete. Il 26 luglio del 1949 Janszen e Matthys Proot presentarono il rapporto al Consiglio dei Diciassette nel quale veniva paventata la reale possibilità di costruire installazioni permanenti sotto il controllo della sede regionale della Compagnia, situata a Batavia in Insulindia. Per saperne di più cfr. LUGAN, Bernard, Storia del Sudafrica dall’antichità ad oggi, Milano, Garzanti, 1989. 5. Johan Anthoniszoon van Riebeeck (21 aprile 1619 – 21 gennaio 1677) è stato un esploratore olandese, amministratore di colonie olandese ed è stato il fondatore di Città del Capo e del settore enologico sudafricano. 6. Partirono dall’Olanda il 25 dicembre del 1651 a bordo di cinque navi dirette verso il Sud Africa: Dromaderis, Goede Hoop, Reiger, Wallis e Oliphant. Il comandante era Jan Van Riebeeck che portò con se la moglie Maria de la Queillerie ed il figlio di quattro anni. Per saperne di più cfr. LUGAN, Bernard, op. cit. 7. LEIPOLDT, Louis Christian Frederik, 300 years of Cape wine, London-Cape Town- Johannesburg, Tafelberg-Uitgewers Beperk-Nasionale Boekhandel (Publishers) Ltd., 1952, p. 3. 8. Ibidem, p. 4. 9. Simon Van der Stel (1 giugno 1691 – 2 novembre 1699) fu comandante e governatore della Colonia del Capo. Espanse i territori controllati dal governo olandese e fondò diversi centri; favorì lo sviluppo delle attività agricole mediante la fondazione di

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 17

fattorie (farms) e la coltivazione della vite, che sarebbe diventato un elemento fondamentale della vita della colonia. Fu il fondatore di Constantia, un tenuta in cui mise a coltura diversi prodotti tra cui il vino. 10. NOBLE, John, South Africa, Past and Present- Short History of European Settlements at the Cape, London, Longmans & Co., 1877. 11. Constantia è il nome dato alla tenuta fondata da Simon Van der Stel nel 1685. 12. JAMES, Tim, Wines of the new South Africa- tradition and revolution, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press,, 2013, p. 26. 13. Ibidem. 14. LEIPOLDT, Louis Christian Frederik, op. cit., p. 22. 15. JAMES, Tim, op. cit., p. 25. 16. Ibidem. 17. RAINERO, Romain, «Il popolamento ugonotto della Colonia del Capo e le trattative per un emigrazione valdese nel Sud Africa attorno al 1688-89», in Bollettino della società degli studi valdesi, 116, 1961, pp. 33-42. 18. BOTHA, Graham, The french Refugees at the Cape, Cape Town, C. Struyk (PTY) Ltd., 1970, p. 2. 19. RAINERO, Romain, op. cit., p. 35, da ricordare come il giuramento venne tradotto dall’olandese al francese per agevolare la comprensione del testo. Il giuramento tradotto in italiano si trova in LUGAN, Bernard, op. cit., p.54. 20. VON LEIBBRANDT, Hendrik Carel, Rambles through the Archives of the Colony of the Cape of Good Hope, 1688-1700, Capetown, J.C. Juta and Co., 1887, p. 37. 21. Ibidem, p. 89. 22. RAINERO, Romain, op. cit., p. 39. 23. I Diciassette scrissero al Capo: «these people, being averse to the sea and long voyage, had changed their minds and stelle in Germany, and that forty French Refugees bred to agricolture were being in sent out in ’t Wapen van Alkmaar». Cit. in McCALL THEAL, George, The history of South Africa 1652-1795, London, G. Allen & Unwin, 1915, p. 10. Nel 1689, quattro anni dopo la revoca dell’editto di Nantes, salì al trono Guglielmo III d’Orange il quale ricostituì il fronte anti-francese della Lega di Augusta ed inviò una spedizione ad agevolare il rimpatrio dei Valdesi nelle valli piemontesi. A capo della spedizione ci fu Herni Arnaud (1643-1721), che attraverso i valichi della Savoia dopo quattordici giorni sconfisse le truppe franco-sabaude a Salbertrand. Si compì così il Glorioso Rimpatrio (Glorieuse rentrée) dei valdesi nelle proprie terre d’origine. La piena libertà giunse soltanto con l’entrata in vigore dello Statuto Albertino nel 1848. 24. Cfr. BOTHA, Graham, The French Refugees at the Cape, Cape Town, C. Struyk (PTY) Ltd. ,1970. 25. RAINERO, Romain, op. cit., p. 40 26. BOTHA, Graham, passim. 27. COCORDA, Oscar, «Les origines de la Colonia Hollandaise du Cap», in Bollettino della società degli studi valdesi, 18/1900, pp. 20-27. 28. MONTBARBUT DU PLESSIS, Jean-Marie, Les Huguenots en Afrique du Sud, Montréal, L’Envers du décor-Les Editions Balzac, 2001.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 18

29. COCORDA, Oscar, op. cit., pp. 20-27; cfr. TROTTER, Alys F., «Old Cape Homesteads and their founders», in Cape Times, 25 dicembre 1898. 30. Uno dei discendenti valdese più illustre nella storia del Sudafrica fu Pietro J. Joubert esponente di spicco, insieme a Paul Kruger, della Repubblica del Transvaal e generale boero nelle loro guerre contro gli inglesi. Perì durante il conflitto anglo-boero. 31. Questo episodio viene citato da Gabriele Sani in SANI, Gabriele, op. cit., p. 15. 32. JAMES, Tim, op. cit., p. 28. 33. Hendrik Cloete era un proprietario terriero; possedeva la Nooitgedacht farm, nei pressi di Stellenbosch, quando nel 1778 rilevò la tenuta Constantia. 34. DALLA CIA, Giorgio, 300 anni di evoluzione vitivinicola ai limiti del continente africano, in Il contributo italiano alla diffusione della civiltà del vino nel mondo, Vicenza, Biblioteca Internazionale La Vigna, 2000, p. 91. 35. Cronologia degli eventi politici: 1795 i britannici si insediarono e rimasero al governo fino al 1803, quando ritornano gli olandesi. Nel 1806 i territori del Capo tornarono in mano inglese e nel 1814 il Congresso di Vienna ne riconobbe definitivamente l’influenza britannica. 36. Giorgio Dalla Cia, friulano di origini, trasferitosi in Sudafrica negli anni Settanta è uno dei produttori vinicoli più conosciuti e noti. Diplomato presso la Scuola enologica di Conegliano in Italia ha messo le sue conoscenze al servizio di diverse grandi aziende prima di fondare una sua distilleria a Stellenbosch. 37. DALLA CIA, Giorgio, op. cit., p. 91. 38. Ibidem; cfr. Report of the Select Committee on Government Wine Farm (1889), in JS Gericke Library, University of Stellenbosch (South Africa), loc. E PAM, 18 cap. 39. La fillossera della vite (Daktulosphaira vitifoliae) è un insetto della famiglia dei Phylloxheridae. È un fitofago associato alle specie del genere Vitis che attacca le radici delle specie europee (Vitis Vinifera) e l’apparato aereo di quelle americane. Questo dannoso fitofago della vite, originario del Nordamerica, è comparso in Europa nella seconda metà dell’Ottocento e oggi è diffuso in tutti i paesi viticoli del mondo. Provoca in breve tempo gravi danni alle radici e la conseguente morte della pianta attaccata, con l’eccezione di alcuni vitigni americani. 40. JAMES, Tim, op. cit., p. 32. 41. Importante è ricordare come Giacomo Weitzecker fosse un missionario valdese inviato dalla società Evangelica di Parigi con il compito, nel 1884, di evangelizzare i territori del Basutoland. Dopo di lui altri missionari valdesi percorsero i sentieri dell’Africa australe: ricordiamo Luigi Jalla e la moglie Maria Jalla. Tale episodio viene riportato in WEITZECKER, Giacomo, I Valdesi nell’Africa australe, Torino, UTET, 1906, p. 22-23. 42. Vedi in Report of Committee Nominated by Western Province (1905), in JS Gericke Library, University of Stellenbosch (South Africa), loc. SP (G.30-1905), Government Publications. 43. Vedi in Report of the Select Committee on Improvement of the Wine Industry, in JS Gericke Library, University of Stellenbosch (South Africa), loc. E PAM 18 cap. 44. DALLA CIA, Giorgio, op. cit., p. 91. 45. Estratto dall’intervista con Giorgio Dalla Cia, del 25 agosto 2015, Stellenbosch (Sudafrica).

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 19

46. SANI, Gabriele, op. cit., pp. 188-189. 47. Ibidem. 48. DALLA CIA, Giorgio, op. cit., p. 97. 49. La storia dei Fratelli Moni viene descritta nei testi SANI, Gabriele, op. cit., pp. 193-195; DALLA CIA, Giorgio, op. cit., p. 97. 50. A tal proposito servirebbe un ulteriore approfondimento che tenga conto dell’impatto socio-culturale dell’industria vinicola sudafricana sulla società e sulle relazioni comunitarie in quanto per molti secoli promotrice di disuguaglianze e fratture sociali. Questa però è un’altra storia che si discosta dal focus del presente lavoro e per il quale servirebbe maggiore approfondimento ed una trattazione autonoma. Sul tema si rimanda a FOURIE, Johan, VON FINTEL, Dieter, passim. 51. Estratto dall’intervista con Giorgio Dalla Cia, del 2 settembre 2015, Stellenbosch (Sudafrica). 52. Ibidem. 53. Nel periodo di permanenza in Sudafrica non fu possibile intervistare Giulio Bertrand a causa delle condizioni precarie di salute. 54. Estratto dall’intervento del 13 settembre 2015 di Giorgio Dalla Cia, presso Ayama Farm (Paarl-Sudafrica), durante l’intervista a Michela Dal Piaz. 55. Estratto dall’intervista del 13 settembre 2015 a Michela Dal Piaz, presso Ayama Farm (Paarl-Sudafrica). 56. Ibidem. 57. Ibidem. 58. Cfr. FOURIE, Johan, VON FINTEL, Dieter, passim.

RIASSUNTI

Gli italiani nel tempo hanno stretto un rapporto simbiotico con la pianta della vite, con il suo frutto, l’uva e con il suo prodotto, il vino. Hanno esportato nel mondo le abilità e le qualità artigianali, il know how di conoscenze utili allo sviluppo dell’industria viti-vinicola in qualsiasi luogo o regione del mondo, come in Sudafrica. La grande abilità maturata nei secoli ha rappresentato un utile strumento, un “biglietto da visita” con cui potersi inserire in società e contesti differenti da quello nazionale, mediante un processo di integrazione e confronto che ha concorso alla modificazione ed all’evoluzione del settore viti-vinicolo e dei costumi alimentari sudafricani. Il presente articolo mira a ricostruire la storia enologica sudafricana mediante l’analisi del contributo italiano allo sviluppo del settore stesso in una prospettiva di lungo termine che va dal XVII sec. fino alla contemporaneità approfondendo episodi trascurati ed esenti da trattazione scientifico-accademiche.

Italians over time have formed a symbiotic relationship with the plant of the vine, with its fruit, the grape and its product, the wine. Exported in the world the skills and quality craftsmanship, the know-how of useful knowledge to the development of winemaking in any place or region of

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 20

the world, as in South Africa. The great skill matured over the centuries has been a useful tool, a “business card” with which to enter into society and different national contexts other than through an integration and comparison process which contributed to the evolution and modification of the screws viticulture sector of South African food and costumes. This article aims to reconstruct the South African wine-making history through the analysis of the Italian contribution to the development of the sector itself in a long-term perspective that goes from the XVII century to contemporary deepening episodes neglected and free from scientific-academic discussion.

INDICE

Parole chiave : filossera, produttori italiani, Sudafrica, Valdesi, vino Keywords : filossera, Italian wine-makers, South Africa, Waldensian, wine

AUTORE

CLAUDIO SESSA Claudio Sessa è dottorando (Ph.D.) in Storia Contemporanea presso l’Università di Genova. Ha conseguito la laurea triennale in Scienze umane – Antropologia presso l’Università di Siena e la laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Bologna. È stato Affiliate Researcher tra l’agosto e l’ottobre 2015 presso l’Universiteit Stellenbosch (Sudafrica). Si è occupato di storia delle migrazioni ed in particolare di quelle italiane in Sudafrica, tema a cui ha dedicato le ricerche degli ultimi anni e su cui verte la sua tesi magistrale: Da ospiti indesiderati ad imprenditori affermanti: la migrazione italiana in Sudafrica e lo sviluppo del settore viti-vinicolo (1688-1970). Attualmente si occupa di storia economica del Corno d’Africa in particolare del passaggio storico- politico tra età pre-coloniale ed età imperiale. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Sessa >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 21

Gli italo-somali dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (AFIS) Una memoria dimenticata tra le pagine dell’Italia postcoloniale

Michele Pandolfo

1 Nonostante siano stati numerosi gli studi che hanno esplorato i rapporti coloniali tra l’Italia e la Somalia, la vicenda degli italo-somali nasce in un periodo che è stato affrontato marginalmente dalla storiografia: il decennio dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (AFIS), iniziato nel 1950 e terminato nel 19601.

2 Alla stipula del trattato di pace di Parigi che concluse la Seconda Guerra Mondiale, non venne riconosciuto all’Italia alcun diritto di rientrare in possesso delle sue ex colonie africane, anche se una soluzione definitiva riguardo la questione coloniale venne rinviata all’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che nel 1949 affidò all’Italia, mediante lo strumento giuridico del trusteeship system, una speciale tutela fiduciaria sulla Somalia per accompagnarla nel difficile cammino verso una futura indipendenza2.

3 Al momento del ritorno degli italiani, la situazione della Somalia si poteva però descrivere in maniera estremamente critica, in quanto «l’Italia non aveva provveduto a creare una classe dirigente somala, convinta com’era che non si potesse governare per il tramite dei nativi. Quando Giovanni Fornari, nell’aprile del 1950, si insediò a Mogadiscio come primo amministratore dell’AFIS, sulla Somalia gravava la più buia notte coloniale. I suoi primati erano tutti negativi»3. D’altro canto i compiti che il mandato internazionale affidava all’Italia erano tutti estremamente complessi: dalla formazione di una classe politica adeguata alla preparazione di un esercito moderno,

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 22

dal risanamento economico alla costruzione di infrastrutture per trasporti e comunicazioni, dall’ambito sanitario al campo dell’istruzione4.

4 Durante quei difficili anni di transizione politica e istituzionale molti italiani continuarono a risiedere in Somalia: infatti la presenza degli ex colonizzatori e la loro mobilità nel Corno d’Africa si può descrivere come un fenomeno in costante evoluzione, così come risulta complesso ricostruire un quadro generale della presenza degli ex sudditi africani nel territorio italiano5.

5 Dopo l’eccidio di Mogadiscio compiuto l’11 gennaio 1948 da gruppi somali entrati nel quartiere italiano, il contesto sociale rimase caratterizzato da una situazione di generale malcontento e di reciproca insofferenza tra le varie parti6. Proprio in quel clima d’incertezza arrivò la decisione della tutela fiduciaria che avrebbe dovuto accompagnare la Somalia verso una matura e stabile indipendenza democratica, ma oltre ai dubbi insiti nella maggior parte dei somali e alle speranze infrante di un’esigua minoranza che credeva in una subitanea indipendenza del paese, anche nelle istituzioni italiane la fiducia per la buona riuscita del protettorato stentava a decollare, nonostante le altisonanti promesse alla popolazione somala pronunciate al momento dell’assunzione dell’incarico.

6 Difatti di fronte al cammino dell’Italia si posero alcuni spinosi problemi: innanzitutto si manifestò la complessa questione del reclutamento del personale amministrativo da inviare nel nuovo protettorato, in quanto furono numerosi gli ex funzionari coloniali di formazione fascista provenienti dal vecchio Ministero dell’Africa Italiana (MAI) che vennero ricollocati a Mogadiscio7. Il governo italiano non si curò delle loro passate appartenenze politiche, ma soprattutto del loro atteggiamento nel nuovo clima democratico che avrebbe dovuto caratterizzare anche il sistema fiduciario, così come avevano richiesto le Nazioni Unite. Questo aspetto aprì un forte contenzioso sia materiale che morale tra passato e presente perché, così come afferma Antonio Morone: «La continuità dello Stato al di là dei rivolgimenti di regime condizionò il ritorno della nuova Italia repubblicana in Somalia: non aver condannato esplicitamente il passato non lavorò solo contro un riavvicinamento ai somali, ma permise anche che nella nuova amministrazione venissero impiegate pratiche e schemi vecchi»8.

7 Sicuramente la pretesa italiana di ritornare in Somalia era stata giudicata negativamente dai somali soprattutto perché le personalità che si apprestavano a tornare a Mogadiscio riproducevano la vecchia ideologia fascista nei confronti della popolazione somala. Proprio per queste ragioni, non appena il personale militare e i funzionari amministrativi giunsero in Africa, il governo italiano, cercò di monitorare attraverso diversi strumenti, anche informali, la situazione politica e sociale del protettorato perché la diffusione di un imperante fascismo di ritorno avrebbe potuto realmente rischiare di incrinare verso una piega fallimentare l’intero progetto fiduciario.

8 Una delle questioni meno riportate all’attenzione collettiva del periodo dell’AFIS è rappresentata dalle relazioni tra gli uomini italiani e le donne somale: da queste unioni continuarono a nascere, così come nel precedente periodo coloniale, dei figli meticci, che avranno destini differenti a seconda dei casi. Infatti la presenza in Somalia degli italiani, la maggior parte funzionari e militari non accompagnati dalle loro famiglie e che continuavano una relazione di madamato o madamismo con le donne somale, costituiva una delle maggiori fonti di preoccupazione sia per le autorità civili che per quelle religiose. Questo si evince soprattutto nella fitta corrispondenza tra Monsignor

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 23

Filippini, vescovo cattolico di Mogadiscio, e il Sottosegretario agli Affari Esteri Giuseppe Brusasca dove emergono le preoccupazioni che l’accrescersi di quel fenomeno sociale, vecchio retaggio del periodo coloniale, potesse condurre verso nuovi malesseri e a un aumento della prole meticcia. Inoltre si registrano casi di licenziosità morale e di estrema liberalità nei costumi che ricalcavano i vecchi modelli di potere di impronta coloniale in un clima frivolo e privo di responsabilità, nonostante la particolarità del contesto somalo ancora diviso tra una palese fragilità italiana e un debole contesto internazionale. Mogadiscio, 4 novembre 1951 Cara Eccellenza, è un po’ di tempo che non le scrivo, anche perché ho avuto l’impressione di essere seccante, di insistere su cose che forse sono impossibili, di ripetere inconvenienti ai quali non si può o non si vuole rimediare… […] Io continuo a strillare con tutti, ma nessuno mi ascolta. I due ritrovi notturni pubblici frequentati da donne somale (tutte di malavita) sono praticati da molti dipendenti dall’AFIS. Le donne pubbliche la sera tardi si trovano ad ogni angolo adescando i passanti. La coabitazione fra italiani e somale mi sembra che sia legalizzata, perché parecchie case demaniali per famiglie, sono date a questi conviventi, mentre vi sono famiglie normali a disagio. I meticci aumentano continuamente, con le note tristi conseguenze e ad aggravio della Amministrazione. Moltissimi dell’AFIS e del Corpo di Sicurezza hanno la madama somala e parecchi hanno famiglia in Italia. E di tutte queste cose nessuno si interessa, come se fossero cose indifferenti. […] La saluto caramente. Sempre mi ricordo di lei al Signore. Suo aff.mo Filippini9

9 Proprio durante i primi difficili anni dell’Amministrazione Fiduciaria il contesto sociale della Somalia e le conseguenti tensioni non solo non si attenuarono, bensì continuarono ad essere alimentate da comportamenti intrisi di una pervasiva cultura razzista da parte della comunità italiana che risiedeva nell’ex colonia. Purtroppo in quel momento storico di trapasso, il razzismo costruito nel corso del dominio coloniale si ripresentava in molte delle sue forme più becere e gli italiani non si dimostrarono abbastanza maturi per un cambiamento culturale. Infatti anche il sottosegretario Brusasca esprime all’Amministratore Giovanni Fornari la propria preoccupazione di non riuscire a risolvere la questione delle convivenze tra gli italiani e le somale. Roma, lì 16 novembre 1951 Caro Fornari, rispondo alla Sua 12 novembre n. 1082/S. […] Prostituzione: Faccio studiare i provvedimenti, come da Lei desiderato, e Le comunicherò al più presto le proposte che appariranno possibili. Lei disponga intanto per le più energiche repressioni consentite dai mezzi normali di polizia. So benissimo che qualcuno tenta di difendersi dicendo che noi non dobbiamo più fare oggi delle distinzioni razziali: c’è da rispondergli, prescindendo da ogni altra considerazione, che il peggior razzismo lo fanno coloro i quali sul loro criminale egoismo approfittano di donne di colore e le lasciano con figli sapendo di potersi facilmente esimere dalla responsabilità di queste paternità. Sotto questo aspetto il madamismo è una manifestazione di vieto colonialismo, che deve perciò essere stroncato con ogni rigore. […] Con viva e cordiale amicizia mi abbia Suo10

10 La condanna da parte dell’autorità politica nei confronti di quegli atti consuetudinari di impronta marcatamente razzista non si traduce purtroppo in un’azione concreta ed efficace a dissuadere gli uomini italiani dalla recidività di tali atti. Nel corso del periodo coloniale italiano, la giurisdizione che venne varata per cercare di risolvere sia il

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 24

problema sociale delle relazioni tra gli italiani e le africane sia la presenza della numerosa prole meticcia verrà quasi sempre disattesa11. Proprio per questo, le restrizioni e le normative crearono delle costanti e diffuse situazioni di mescolamento e ibridità, portando a decretare il fallimento l’architettura giuridica creata dal regime fascista.

11 Una delle maggiori conseguenze è stata l’aumento delle relazioni più o meno clandestine tra italiani e donne africane, dalle quali nascevano spesso dei figli meticci il cui destino rimaneva incerto e dipendeva soltanto dal contesto affettivo e relazionale nel quale nascevano. Inoltre spesso la prole meticcia veniva affidata dalle madri somale di fede musulmana ai collegi allestiti dai missionari cattolici, che si assunsero il compito d’istruire questi bambini fino al raggiungimento della loro maggiore età. Per questi motivi le missioni religiose ricevevano dei finanziamenti dallo stato italiano per la gestione di questa complessa attività già durante il periodo coloniale, poi in seguito negli anni dell’Amministrazione Fiduciaria e anche dopo l’indipendenza somala del 196012. Questo elemento di continuità attesta la presenza di alcune centinaia di ragazzi meticci nelle missioni religiose in Somalia, che svolsero di fatto un ruolo di supplenza dell’autorità statale che non si volle assumere l’onere di quella gravosa tutela materiale e morale.

12 Con un futuro già probabilmente segnato, in quanto l’ex madrepatria si rivelò incapace per diverse ragioni di elaborare soluzioni politiche e istituzionali durevoli per il futuro dello stato somalo, si arrivò alla proclamazione dell’indipendenza il 01 luglio 196013. Dopo quella data, molti italiani rimasero in Somalia e la comunità italiana continuò a sviluppare le proprie attività lavorative interagendo con un tessuto sociale ed economico già conosciuto e che sostanzialmente non mutò.

13 Rispetto al periodo precedente, l’elemento di continuità più allarmante consistette nella riproposizione degli stessi atteggiamenti degli italiani nei confronti degli africani e delle africane. Infatti i connazionali che rimasero in Somalia conservarono gli stessi pregiudizi sia verso le donne africane, che incarnavano ancora negli anni Cinquanta e Sessanta quei miti esotici ed erotici propri della passata esperienza coloniale, sia riguardo gli africani in generale, favorendo la nascita di un atteggiamento di pretesa superiorità, soprattutto a livello culturale14. Sin dalle origini del colonialismo italiano nel Corno d’Africa, da alcuni mezzi culturali di propaganda, come la fotografia, le cartoline e un certo tipo di letteratura, sono sorte le premesse per la giustificazione delle diverse forme di relazione che hanno unito gli italiani colonizzatori e le donne africane delle colonie15. Questi rapporti si manifestarono attraverso diverse tipologie di convivenza dalle quali nascevano spesso dei figli: alcuni vennero riconosciuti e crebbero all’interno del nuovo nucleo famigliare formato dalla madre e dal padre italiano che, in alcuni casi, sposò la donna africana, salvaguardando in questa maniera sia lei che la prole della coppia. Inoltre nei casi di riconoscimento dei figli, in una società patrilineare come quella somala, ciò equivaleva a poter ereditare dal proprio padre il nome, le cariche e i beni alla pari di eventuali fratelli nati da un altro matrimonio. In questo senso non potevano esistere figli illegittimi o senza un gruppo domestico di riferimento verso cui tornare. D’altro canto invece quando gli uomini italiani non riconoscevano i figli nati dal concubinaggio con donne native, il problema consisteva proprio nel fatto che questi risultavano essere figli senza nome e senza un gruppo a cui poter far riferimento. Questa condizione generò la marginalità sociale e giuridica dei meticci, nonché enormi problemi economici per le madri. Per questo le

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 25

donne coinvolte da questo fenomeno tentano di dare ai figli meticci un’educazione di impronta italiana affidandoli alle cure delle missioni: infatti le madri potevano ritornare al proprio gruppo paterno solo una volta rimaste sole perché questi bambini non potevano seguirle in quanto risultavano, secondo la tradizione, appartenenti al gruppo paterno, nello specifico a quello italiano.

14 Infine se si può parlare di casi di violenza e costrizione durante le prime fasi del colonialismo nel Corno d’Africa, successivamente quando si affronta il tema delle relazioni tra italiani e africane, soprattutto negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, si devono prendere in considerazione altri importanti criteri di scelta e di opportunità perseguiti dalle donne africane, pur sempre all’interno di un contesto di dominio gerarchico come è stato il colonialismo italiano e in parte anche il protettorato dell’AFIS.

15 Dalla storia dimenticata del meticciato italo-africano degli anni Cinquanta, è sorta a Roma il 05 luglio del 1996 l’ANCIS, acronimo di Associazione nazionale comunità italo- somala, che raccoglie la maggior parte degli italo-somali presenti in Italia e nati soprattutto durante il periodo dell’AFIS. La storia di questa comunità non è mai entrata nella narrazione storiografica del colonialismo italiano, nonostante questa minoranza rappresenti una delle eredità del passato coloniale in Africa e nello specifico del periodo dell’AFIS, ultima esperienza politica e amministrativa dell’Italia nel Corno d’Africa. Leggendo lo statuto fondativo dell’associazione, precisamente all’articolo tre, vengono citati i seguenti obiettivi che l’ANCIS si prefiggeva di raggiungere: L’Associazione non ha fini di lucro ed ha come scopo: a) Il sostegno al processo di pacificazione, sviluppo della Somalia; b) la conoscenza dell’identità sociale e storica della Comunità Italo-Somala che si configura quale minoranza culturale e a tal fine dovrà assumere rilevanza lo studio sistematico della storia coloniale somala; il suddetto studio costituirà la base delle relazioni bilaterali; c) tutela della comunità nelle sue componenti di cittadini italiani e somali; d) sviluppo delle relazioni tra le istituzioni italiane e la comunità italo-somala finalizzata alla configurazione della stessa come soggetto di mediazione tra l’Italia e la Somalia in forza della realtà storica comune che la Comunità rappresenta16.

16 Questi scopi erano sicuramente ambiziosi perché, richiamando i legami storici tra Italia e Somalia, si ponevano il traguardo di riallacciare i rapporti tra i due paesi auspicando una pacificazione della Somalia e proponendo all’ANCIS un ruolo di mediazione privilegiato tra l’ex madrepatria e l’ex colonia martoriata dal 1991 da una tragica guerra civile.

17 Dalla data della sua costituzione, l’associazione ha registrato un aumento della propria attività, soprattutto durante gli anni Duemila, quando i suoi rappresentanti hanno cercato un confronto con il mondo politico e istituzionale italiano formulando alcune richieste per un riconoscimento specifico della loro storia attraverso delle corrispondenze con le più alte cariche dello Stato italiano, dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite. Nella missiva rivolta al governo italiano si leggono le seguenti richieste: «[…] CHIEDIAMO al Governo Italiano, un provvedimento legislativo contenente forti riferimenti alla responsabilità storica e politica dell’Italia nella nostra vicenda e la ferma volontà di sanare la povertà e l’emarginazione della nostra comunità, anche con l’adeguamento della legislazione sui profughi e sulle fasce protette»17.

18 Gli italo-somali reclamano innanzitutto una dichiarazione di responsabilità da parte delle autorità italiane per ciò che avvenne in Somalia durante gli anni dell’AFIS, cioè per gli atteggiamenti discriminanti nei riguardi delle donne somale e dei loro figli

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 26

meticci. Inoltre si aggiunge anche la richiesta di un possibile indennizzo economico da parte dello stato italiano, che è sempre rimasto indifferente a tutte le esortazioni dell’ANCIS, seppur con limitate eccezioni18.

19 Oltre alla dinamica politica e istituzionale, è mancata soprattutto un’approfondita riflessione culturale della storia coloniale e degli errori commessi dagli italiani in Somalia; anche per questo la vicenda degli italo-somali è rimasta una narrazione ai margini sia degli studi specialisti sia dell’opinione pubblica, che non ha aperto uno spazio di conoscenza e confronto con la comunità dell’ANCIS, impedendo di fatto la costruzione di una memoria condivisa19.

20 La vicenda degli italo-somali deve essere contestualizzata nella tematica del colonialismo italiano e nello specifico della sua esperienza nel Corno d’Africa. Rispetto a questa considerazione la narrazione degli italo-somali può essere il risultato di un lungo processo di costruzione dell’immaginario coloniale che parte dalla fine dell’Ottocento: infatti anche i meticci, figli dell’unione tra il colonizzatore bianco e la donna nera, furono uno dei prodotti di questo immaginario in cui il corpo delle africane venne prima rappresentato in maniera stereotipata e poi piegato ai desideri degli occupanti europei. Da ciò nascerà una forma di razzismo che, dalla prima fase del colonialismo italiano, crescerà sino a essere codificata in una precisa struttura di potere durante il regime fascista negli anni Trenta del Novecento20.

21 Quel modello di dominio ha fortemente condizionato la rappresentazione degli italo- somali nella società italiana e soprattutto la loro auto-rappresentazione: in entrambi i casi essi non compaiono nell’immaginario collettivo. Infatti la maggioranza degli italiani non conosce né la loro storia né quali siano le loro richieste. D’altra parte il modo in cui gli italo-somali sono stati osservati dagli altri italiani è significativo per poter interpretare la loro presenza nel contesto nazionale che risale ormai agli anni Sessanta e Settanta del Novecento: in quei decenni erano pochi gli italiani che conoscevano la storia dell’Italia in Somalia e soprattutto di quello che gli uomini avevano lasciato in quella terra africana, compresi i loro figli meticci che stavano tornando invece nel paese di origine dei loro padri per ragioni sia politiche che economiche21.

22 Una volta giunto nell’ex madrepatria, il meticcio italo-somalo ha rappresentato nel contesto sociale italiano un elemento impuro generante disordine: il primo elemento di disturbo era rappresentato dal colore della pelle non marcatamente definito22. Di conseguenza l’isolamento degli italo-somali in zone di marginalità sociale è avvenuto anche perché l’incontro avrebbe intaccato i canoni tradizionali su cui si basava l’identità italiana. Riguardo il colore della pelle, esso è stato infatti l’elemento discriminante che ha confinato la figura del meticcio nell’incertezza e nella diversità in quanto non classificabile in categorie già definite. Inoltre questo aspetto andrebbe contestualizzato nel periodo dell’AFIS, quando la giovane Italia democratica continuava a perseguire l’ideale di bianchezza della pelle sia per vecchie che nuove ragioni, così come sostiene Cristina Lombardi-Diop: La nostra ipotesi è che la società italiana del dopoguerra – democratica, post- fascista e post-coloniale – si basasse sul consolidamento di un’identità razziale che si vedeva «bianca» in modo uniforme proprio nel momento storico in cui l’esperienza coloniale e le migrazioni interne avevano al contrario prodotto una crescente eterogeneità demografica. In altre parole, la bianchezza italiana non era più confinata ad una temporalità specifica (il Ventennio fascista) e non era più imposta sulle masse dalla classe media e dalle élite intellettuali23.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 27

23 Sicuramente indagare le costruzioni razziali che sorsero nella cultura italiana dall’Unità fino agli anni del Secondo dopoguerra permette in parte di comprendere le ragioni dell’esclusione dei meticci italo-somali dal contesto sociale, ma anche del riprodursi oggigiorno di quegli stereotipi razzisti che pervadono il linguaggio quotidiano. Anche su questo piano la vicenda degli italo-somali potrebbe avere delle forti ripercussioni sulle dinamiche del presente. Al momento del loro arrivo in Italia, gli italo-somali avrebbero potuto rappresentare l’incontro tra una specifica forma di ibrido e la società italiana, che ha però ignorato questo gruppo minoritario, perdendo un’importante occasione di maturazione e rinunciando a una riflessione riguardo un aspetto rilevante del passato coloniale, cioè i rapporti tra colonizzatori e colonizzati.

24 Un’altra questione che riguarda la comunità italo-somala è quella identitaria, in quanto gli italo-somali definendosi sia italiani che somali aprono uno spazio interpretativo che lascia aperti molti interrogativi. Sarebbe possibile ipotizzare, seguendo il concetto di transnazionalità, degli elementi che favoriscano questa doppia identità, tra cui un sistema di reti culturali ed economiche che attraversa i confini politici degli stati- nazione e un insieme di pratiche sociali relazionali sia familiari che amicali. Lasciando da parte l’aspetto economico difficile da sviluppare vista la situazione di permanente crisi nel Corno d’Africa, tra i fattori culturali che uniscono gli italo-somali alla Somalia e che rafforzano il loro senso identitario, soprattutto nei rapporti personali all’interno del gruppo, emerge decisamente quello linguistico. Infatti gli italo-somali dimostrano, a livelli differenti, di saper parlare la lingua somala e anche, solo per alcuni di loro, di saperla scrivere, nonostante l’alfabeto somalo sia stato codificato soltanto nel 1972. Questa radice linguistica comune è stata nutrita dai legami con le madri africane e le relative famiglie materne attraverso la trasmissione di racconti orali, che costituivano una delle forme culturali tipiche della tradizione nomade. Certamente il senso di appartenenza all’origine somala è ancora molto forte, nonostante la permanenza in Africa degli italo-somali sia relegata ai soli periodi dell’infanzia o al più della tarda adolescenza. Inoltre la devastante storia della Somalia e la tragica situazione attuale non hanno permesso nei fatti dei legami stabili tra le due parti. Tuttavia è forse proprio l’impossibilità d’uscita dal caos somalo che ha concentrato l’attenzione degli italo- somali nei confronti di una terra così martoriata che, nelle loro parole, non abbandonano mai e verso cui anche l’Italia ha maturato nel corso dei decenni delle gravose responsabilità politiche e culturali.

25 In un contesto globale così stratificato che coinvolge anche l’Italia e la sua società, quella degli italo-somali può essere considerata un’esperienza originale. Infatti la diversità si differenzia e si specializza sempre di più sfruttando varie modalità offerte sia dal nuovo quadro attuale, come le migrazioni di massa e le emergenze umanitarie, sia dalle recenti tecnologie, che conducono verso un’appartenenza fluida e stratificata dei cittadini al mondo globale. Di conseguenza, nella complessità della situazione attuale, gli italo-somali continuano a trovare una crescente difficoltà a inserirsi nella società e ad auto-rappresentarsi in maniera adeguata.

26 Inoltre, vista la complicata situazione geopolitica del Corno d’Africa e i flussi dei profughi che, in maniera costante, raggiungono i confini italiani, l’esigua comunità italo-somala potrebbe davvero costituire uno strumento di collegamento e mediazione tra il contesto sociale e culturale italiano e proprio quei profughi che dal Corno d’Africa, attraverso nuove e incessanti diaspore, approdano in Italia in parte per rimanere, ma la maggior parte per raggiungere altri paesi europei. Del resto questo era

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 28

ciò a cui gli italo-somali aspiravano già nel loro statuto fondativo del 1996 e che purtroppo non si è mai concretamente realizzato: la loro volontà di porsi come mediatori fra l’Italia e la Somalia è naufragata nel corso degli ultimi vent’anni per diverse ragioni. La prima potrebbe essere stata il mancato riconoscimento della storia individuale e collettiva della minoranza degli italo-somali che presentava delle caratteristiche peculiari che andavano indagate sin dalle origini della loro presenza in Italia. Purtroppo però quegli stessi tratti che li avrebbero potuti definire, vennero subito rigettati e taciuti per decenni, essendo così facilmente collegabili ai comportamenti razzisti che gli italiani adottarono durante il loro dominio in Africa. La seconda ragione è costituita da una evidente incapacità degli stessi italo-somali di progettare una visione nuova e diversa del loro futuro in rapporto alla società italiana che cambia. Questo blocco ha impedito loro sin dall’inizio di avere una prospettiva di lungo periodo attraverso la quale costruire delle pratiche di convivenza e di scambio con la società italiana. Tutto ciò ha recato innanzitutto un forte danno agli stessi italo- somali, ma anche all’opinione pubblica nazionale, in quanto essa avrebbe potuto beneficiare, soprattutto negli anni dei primi flussi migratori provenienti dall’Africa, di un apporto originale e significativo finalizzato all’accettazione del diverso, oltre che a possibili progetti concreti legati all’accoglienza. Quest’ultima esigenza rappresenta oggi una reale emergenza nel contesto italiano, così come in quello europeo. Questa mancanza dimostra ancora una volta l’arretratezza del sistema culturale italiano nell’affrontare sia le sue dinamiche più interne, che comprendono la storia coloniale in Africa dalla quale nascono gli stessi italo-somali, sia le necessità che provengono dall’esterno, come i drammi delle grandi migrazioni contemporanee. La mancata formazione di una memoria coloniale e di una sua corretta interpretazione ha pesato molto più di quanto si possa oggi immaginare, conducendo purtroppo a conseguenze negative: Anche l’Italia ha un suo passato coloniale e post-coloniale e, sebbene ambedue tendano spesso a mantenere contorni sfumati e piuttosto vaghi nella memoria e nell’immaginario degli italiani, essi hanno avuto le loro cause e oggi se ne vivono gli sviluppi e le conseguenze, storici e culturali. Il terrore e la prevenzione del meticciato sono stati presenti nell’agenda politica e sociale dell’Italia, e non si debbono relegare a un periodo storico da considerare concluso. Le attitudini e le predisposizioni verso gli immigrati affondano le loro radici in un passato storico e in una cultura identitaria nazionale ben definiti24.

27 Infine, proprio per queste ragioni, è auspicabile che si possa praticare una doppia inversione di marcia che porti a un avvicinamento culturale tra gli italo-somali e la restante società italiana. Inoltre sarebbe opportuno un nuovo dinamismo da parte dell’associazione ANCIS e della comunità italo-somala nel suo complesso per favorire una maggiore conoscenza e diffusione della loro storia, ma soprattutto per delineare delle nuove aspirazioni che siano condivise e costruttive per tutta la società italiana, cercando di non perseverare lungo la strada del ritardo storico e delle occasioni perdute.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 29

NOTE

1. Per una bibliografia ragionata di studi sulla Somalia rimando ai seguenti titoli: DEL BOCA, Angelo, Gli italiani in Africa Orientale, 4 voll., Roma-Bari, Laterza, 1976-1984, GRASSI, Fabio, Le origini dell’imperialismo italiano. Il caso somalo (1896-1915), Bari, Milella, 1980, DEL BOCA, Angelo, L’Africa nella coscienza degli italiani: miti, memorie, errori, sconfitte, Roma-Bari, Laterza 1992, ID., Una sconfitta dell’intelligenza: Italia e Somalia, Roma-Bari, Laterza, 1993, ID., La trappola somala – Dall’operazione Restore Hope al fallimento delle Nazioni Unite, Bari-Roma, Laterza, 1994, CALCHI NOVATI, Gian Paolo, Il Corno d’Africa nella storia e nella politica: Etiopia, Somalia e Eritrea fra nazionalismi, sottosviluppo e guerra, Torino, SEI, 1994, ARUFFO, Alessandro, Dossier Somalia. Breve storia del mandato italiano all’intervento dell’ONU (1948-1993), Roma, Datanews, 1994, LABANCA, Nicola, Oltremare: storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002, GUGLIELMO, Matteo, Somalia. Le ragioni storiche di un conflitto, Torrazza Coste, Altravista, 2008; ID., Il Corno d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia, Bologna, Il Mulino, 2013. 2. Per una riflessione riguardo il trusteeship system segnalo: BAIN, William, Between Anarchy and Society. Trusteeship and the Obligation of Power, Oxford, Oxford University Press, 2003; MORONE, Antonio Maria, L’ultima colonia. Come l’Italia è tornata in Africa 1950-1960, Roma-Bari, Laterza, 2011. 3. DEL BOCA, Angelo, «La politica italiana nei confronti delle sue ex colonie africane», in Materiali di lavoro. Rivista di studi storici, 2-3/1991 – 1/1992, pp. 231-248 p. 241. 4. Gli Amministratori Fiduciari inviati in Somalia furono quattro: Giovanni Fornari (1950-1953), Enrico Martino (1954-1957), Enrico Anzillotti (1957-1958) e Mario Di Stefano (1958-1960). Il 6 settembre 1954 venne esposta la nuova bandiera somala, costituita da un rettangolo azzurro con al centro una stella bianca a cinque punte, che per il pansomalismo rappresentavano i cinque territori da riunificare: la Somalia italiana, la Somalia britannica, cioè il Somaliland, la Somalia francese cioè Gibuti, l’Ogaden etiopico e la parte nord-orientale del Kenya. 5. Cfr. MORONE, Antonio Maria, Ascari, clandestini e meticci: mobilità fisica e sociale nel secondo dopoguerra, in DORE, Gianni, GIORGI, Chiara, MORONE, Antonio Maria, ZACCARIA, Massimo (a cura di), Governare l’Oltremare. Istituzioni, funzionari e società nel colonialismo italiano, Roma, Carocci, 2013, pp. 203-217; ID., Amministrazione, confini e mobilità nello spazio coloniale italiano: il caso della Somalia, in ROSONI, Isabella, CHELATI DIRAR, Uoldelul, Votare con i piedi. La mobilità degli individui nell’Africa coloniale italiana, Macerata, Edizioni Università di Macerata, 2012, pp. 257-270. Angelo Del Boca ci fornisce invece i numeri della popolazione quando scrive che la comunità italiana nel 1941 contava ancora 9.000 persone, ma che poi scesero a 4.600 nel 1945 e a 3.680 nel 1947; dopo gli scontri dell’11 gennaio 1948 subisce un’ulteriore flessione scendendo a 2.692 unità: DEL BOCA, Angelo, Gli Italiani in Africa Orientale. Nostalgia delle colonie, Roma- Bari, Laterza, 1984, p. 169. Un altro dato viene fornito invece da Nicola Labanca che riporta come nel censimento del 1921 la Somalia contasse soltanto 674 italiani presenti, tra cui 239 ufficiali e 68 amministrativi: LABANCA, Nicola, Italiani d’Africa, in DEL BOCA, Angelo (a cura di), Adua. Le ragioni di una sconfitta, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 193-229, p. 210. Dopo pochi anni gli italiani in Somalia saranno 1.500 (dati 1929, tabella 4, p. 229). Un recente lavoro che analizza il contesto italiano è il seguente: DEPLANO, Valeria, La

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 30

madrepatria è una terra straniera. Libici, eritrei e somali nell’Italia del dopoguerra (1945-1960), Firenze, Mondadori Le Monnier, 2017. Alcune personalità italiane che avevano già una lunga esperienza d’Africa mantennero la loro presenza a Mogadiscio: si veda il dattiloscritto di Pietro Beritelli, L’amministrazione municipale di Mogadiscio negli anni dal 1941 al 1949. Il memoriale risale al 1950 e una copia è depositata presso ASDMAE, Ministero Africa Italiana IV, 90, Fondo Bruno 1947-1961, 4. 6. Cfr. CALCHI NOVATI, Gian Paolo, «Gli incidenti di Mogadiscio del gennaio 1948: rapporti italoinglesi e nazionalismo somalo», in Africa, XXXV, 3-4/1980, pp. 327-356; ID., «Una rilettura degli incidenti di Mogadiscio del gennaio 1948 e il difficile rapporto fra somali e italiani», in Studi piacentini, 15, 1994, pp. 223-234. 7. Il Ministero dell’Africa Italiana venne ufficialmente soppresso il 29 aprile 1953 con la legge n. 430 e i suoi documenti verranno trasferiti all’archivio del Ministero degli Affari Esteri (MAE). 8. MORONE, Antonio Maria, L’ultima colonia. Come l’Italia è tornata in Africa 1950-1960, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 51. 9. ARCHIVIO STORICO DI CASALE MONFERRATO (ASCM), Fondo Giuseppe Brusasca, Ministero dell’Africa Italiana: corrispondenza 33, 20 Mons. Filippini. 10. ASCM, Fondo Giuseppe Brusasca, Ministero Africa Italiana: Somalia 46, 263 Corrispondenza con S.E. Fornari Amministratore della Somalia. 11. Nonostante nel 1933 fosse entrata in vigore la legge del 6 luglio n. 999 Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia che cercò di dare una configurazione generale e inclusiva all’assetto giuridico delle due colonie, si può affermare che fino al 1935 non ci furono specifiche norme che regolarono i rapporti e le unioni fra i colonizzatori bianchi e i colonizzati indigeni. Dopo la guerra italo-abissina del 1935-1936 e la proclamazione dell’impero coloniale (AOI), entrò in vigore nel 1936 il RDL n. 1019 chiamato Ordinamento e amministrazione dell’Africa orientale italiana: esso costituì l’assetto generale della nuova forma imperiale edificata dal regime fascista. Nel 1937 viene promulgata la legge n. 2590 intitolata Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi: in questa norma vengono vietate e punite le convivenze tra un italiano e una donna indigena. In seguito nel 1939 arrivò la legge n. 1004 chiamata Sanzioni penali per la difesa del prestigio della razza di fronte ai nativi dell’Africa italiana, che sanciva la formale separazione tra i coloni italiani presenti nei territori africani e le popolazioni indigene. L’ultima norma varata per completare questo quadro giuridico fu la legge n. 822 del 1940 intitolata Norme relative ai meticci, con la quale si stabilì che tutti i figli meticci non potevano essere riconosciuti dal genitore italiano, e proprio per questa impossibilità dovevano essere considerati sudditi e assumere lo status giuridico del genitore indigeno. Quest’ultima norma venne abrogata durante i lavori dell’Assemblea Costituente (1946-1947) mediante il decreto n. 1096 del 1947. 12. Si veda la proposta di legge per il finanziamento delle missioni religiose nelle ex colonie italiane presentata dall’onorevole Giuseppe Vedovato del 20 febbraio 1964 dal titolo Autorizzazione al Ministero degli affari esteri a concedere speciali sussidi alle Missioni cattoliche italiane in Etiopia, Libia e Somalia, rintracciabile al seguente indirizzo internet, URL: < http://storia.camera.it/documenti/progetti-legge/19640220-1000-vedovato- autorizzazione-al-ministero#nav > [consultato l’11 ottobre 2016]. Nel testo della proposta di legge viene citata come cifra quella di circa 250 bimbi meticci che si trovavano nei collegi distribuiti fra tutte le ex colonie italiane.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 31

13. Cfr. PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, Italia e Somalia. Dieci anni di collaborazione, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1962. Sicuramente la costituzione somala era stata uno dei risultati più significativi dello sforzo democratico italiano: in essa era stato inserito il riconoscimento della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948. Nonostante ciò la democrazia parlamentare in Somalia durò soltanto nove anni finché il 21 ottobre 1969 il generale Mohamed Siad Barre (1919-1995), formatosi culturalmente in Italia durante gli anni dell’AFIS, prese il potere con un colpo di stato militare. Diverse furono le fasi della lunga dittatura che terminò nel 1991 con lo scoppio della guerra civile somala che portò alla deflagrazione del paese e alla divisioni in tanti piccoli stati regionali non riconosciuti dalla comunità internazionale. 14. A questo proposito si veda: EMANUELLI, Enrico, Settimana nera, Milano, Mondadori, 1960 e il film tratto dal libro: MOSER, Giorgio, Violenza segreta, Film Studio Spa, Italia, 1963, 105’. Per un’analisi teorica segnalo i seguenti contributi: SKOCKI, Tomas, «Il perdurare della violenza in Settimana nera di Enrico Emanuelli: tra echi flaianei e problematiche della decolonizzazione», in Oblio. Osservatorio bibliografico della letteratura italiana Otto-novecentesca, III, 11, 9/2013; DEPLANO, Valeria, “Settimana nera” e “Violenza segreta”. Denuncia e rimozione dell’eredità coloniale negli anni Sessanta, in DEPLANO, Valeria, MARI, Lorenzo, PROGLIO, Gabriele (a cura di), Subalternità italiane. Percorsi di ricerca tra letteratura e storia, Ariccia, Aracne, 2014, pp. 121-138. È un esempio di questa condizione il circolo Casa d’Italia a Mogadiscio che costituiva il ritrovo della comunità italiana nella capitale somala e dove i meticci italo-somali potevano entrare soltanto se erano stati riconosciuti dal padre italiano e avevano per questo ottenuto una riconosciuta posizione sociale ed economica. 15. Riguardo questi argomenti segnalo un’ampia bibliografia: SURDICH, Francesco, «La donna dell’Africa orientale nelle relazioni degli esploratori (1870-1915)», in Miscellanea di storia delle esplorazioni, 4, 1979, pp. 193-220; CAMPASSI, Gabriella, «Il madamato in Africa Orientale. Relazioni tra italiani e indigene come prima forma di aggressione coloniale», in Miscellanea di storia delle esplorazioni, XII, 1987; BARRERA, Giulia, «Dangerous Liaisons. Colonial concubinage», in Eritrea (1890-1941), Program of African Studies Working Papers n. 1, Evenston, Northwestern University, 1996; ID., «Patrilinearità, razza e identità: l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo italiano (1885-1934)», in Quaderni storici, XXXVII, 109, 1/2002, pp. 21-53; ID., «Mussolini’s colonial race laws and state-settler relations in Africa Orientale Italiana (1935-41)», in Journal of Modern Italian Studies, 8 3/2003, pp. 425-443; ID., The contruction of racial hierarchies in colonial Eritrea. The liberal and early fascist period (1897-1934), in PALUMBO, Patrizia (edited by) A place in the sun. Africa in Italian colonial culture from post- unification to the present, Berkley, University of California Press, 2003, pp. 81-115; ID., «Sessualità e segregazione nelle terre dell’Impero», in Storia e memoria. Rivista semestrale, XVI, 1/2007, pp. 31-49; SORGONI, Barbara, Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Napoli, Liguori, 1998. 16. Lo statuto dell’associazione è stato consultato al seguente indirizzo internet, URL: < http://www.italosomali.org > [visitato il 18 ottobre 2015]. 17. Il testo della lettera raccomandata inviata il 22 dicembre 2004 al Governo italiano, al Presidente della Repubblica, al Presidente del Senato, al Presidente della Camera e al

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 32

Ministro degli Esteri è stato consultato all’URL: < http://www.italosomali.org > [visitato il 20 ottobre 2015]. 18. Diverse sono state nel corso degli anni le interrogazioni parlamentari che hanno avuto come oggetto la causa degli italo-somali dell’ANCIS, in ordine queste risalgono al 2000, 2001, 2002, 2005 e altre tre interrogazioni nel 2008 che si focalizzavano su questioni finanziarie e previdenziali. I testi delle interrogazioni si trovano sui siti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica e sono stati visitati il 30 novembre 2015. Nel testo della prima interrogazione del 2008 viene utilizzata l’espressione “adolescenti somale” quando il relatore interrogante afferma: «Nei primi anni ‘60 in seguito all’indipendenza della Somalia, si creò un clima ostile agli italiani ed in particolare verso i loro figli avuti con le adolescenti somale, che vennero frettolosamente e impunemente abbandonate al termine dell’Amministrazione». 19. Si vedano i seguenti interventi sulla questione degli italo-somali: CAFERRI, Francesca, «Noi figli di coppie miste ora chiediamo giustizia», in la Repubblica, 27 settembre 2006 all’URL: < http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/ 2006/09/27/noi-figli-di-coppie-miste-ora-chiediamo.html >, [consultato il 3 dicembre 2015]; ID., «I bimbi italiani strappati alla Somalia», in la Repubblica, 17 giugno 2008, URL: < http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/06/17/bimbi- italiani-strappati-alla-somalia.html >, [consultato il 1 giugno 2014]; è possibile seguire uno speciale tratto da questo articolo sul canale web de «la Repubblica». La prima parte della trasmissione è visibile agli URL: < https://www.youtube.com/watch? v=GCCdapTHIoc&gl=IT&hl=it > ; < https://www.youtube.com/watch?v=pzs18zj14tY >, [consultati il 22 settembre 2015]. Segnalo inoltre: FAEDDA, Barbara, «Italo-somali: una minoranza che l’Italia vuole ignorare. Le tristi conseguenze della politica italiana coloniale e post-coloniale. Intervista a Gianni Mari, Presidente dell’ANCIS Associazione Nazionale Comunità Italo-Somala», URL: < http://www.diritto.it/materiali/ antropologia/faedda16.html >, [consultato il 2 luglio 2014]; ID., «Stolen Generations and a Missing Reconciliation», in Anthropology News, 51, 4/2010, pp. 32-50, p. 36; LORI, Laura, «Ciyaal Missioni: la stolen generation somala», URL: < http://acis.org.au/2014/01/15/ ciyaal-missioni-la-stolen-generation-somala/ >, [visitato il 2 gennaio 2015]. Anche il programma televisivo Chi l’ha visto? di Raitre nella puntata del 22 aprile 2009 trasmise un servizio dedicato agli italo-somali rintracciabile all’URL: < http:// www.youtube.com/watch?v=tj0rle92MlA >, [consultato il 9 giugno 2014]. Infine un intervento radiofonico dell’allora presidente dell’ANCIS Gianni Mari si trova al link < http://www.amisnet.org/agenzia/2008/12/19/passpartu-11-la-somalia-dimenticata >, [consultato il 15 ottobre 2016], mentre un intervento più recente di Mauro Caruso, attuale presidente dell’ANCIS, si trova all’URL: < http://www.radioradicale.it/scheda/ 497603/voci-africane >, [consultato il 31 gennaio 2017]. 20. Si vedano alcune tipiche espressioni che designavano i meticci nell’ambito del colonialismo italiano: “rancoroso”, “ribelle”, “afamiliale”, “asociale”, “astatale”, “antisociale”, “antistatale”, “colpevole oppure figlio della colpa”, “ligio a influenze contrastanti”, “sessualmente precoce”, “violento”, “degenerato”, “bastardo”, “negativo”, “spostato”, “ramo anormale della famiglia umana”, “dolorosa piaga”, “una sorgente di infelici e di spostati”, “spiacenti a dominati e a dominatori”, “cause di irrequietudini e di debolezze per la compagine coloniale”; “disarmonico nel fisico e nella psiche”, “portatore di patologie innate”, “elemento sovversivo per eccellenza”, “facile preda della propaganda comunista”, “tendenzialmente sterile”. Per un

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 33

riferimento bibliografico che chiarisca questo tipo di letteratura si veda: ZAGATTI, Paola, «Quanto pesa il cervello di un Negro. L’antropologia italiana del secondo Ottocento di fronte all’uomo di colore», in I Viaggi di Erodoto, 1, 3/1987, pp. 92-105. 21. Non appena ottenuta l’indipendenza nel 1960, lo Stato somalo ottenne il rimpatrio di molti meticci rimasti nei collegi dei missionari: questi italo-somali arrivarono in Italia con un’attestazione di profughi oppure con un certificato biotipologico che attestava l’appartenenza alla razza afro-europea e vennero condotti in altre strutture protette. Invece per i meticci inseriti in un contesto familiare il destino sarà diverso: agli inizi degli anni Settanta le nuove norme in materia economica stabilite dal governo del dittatore Siad Barre prevedevano inizialmente l’obbligo di assumere nelle aziende private del personale somalo che avrebbe sostituito rapidamente il personale italiano e quello straniero in generale. Successivamente fu previsto l’obbligo di affiancare un cittadino somalo nella conduzione delle aziende cedendo al nazionale il 51% del controllo dell’intera proprietà. Questi cambiamenti mutarono considerevolmente i destini di molti nuclei familiari che non accettarono la nuova normativa e per questo decisero di partire: molti italiani ritornarono in Italia portando con sé le donne somale, che avevano in taluni casi sposato, e i figli avuti con loro. 22. Gli studi sulle tematiche del colore, visti come nuovo strumento metodologico utilizzato per approfondire e interpretare aspetti della formazione dell’identità italiana e del postcoloniale, hanno avuto recentemente un notevole sviluppo bibliografico: PETROVICH NJEGOSH, Tatiana, SCACCHI, Anna (a cura di), Parlare di razza. La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti, Verona, Ombre Corte 2012; GIULIANI, Gaia, LOMBARDI-DIOP, Cristina, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Firenze, Le Monnier 2013; LOMBARDI-DIOP, Cristina, ROMEO, Caterina (a cura di), L’Italia Postcoloniale, Firenze, Le Monnier, 2014 [ed. or. Postolonial : Challenging National Homogeneity, Palgrave Macmillan, New York, 2012]; GIULIANI, Gaia (a cura di), Il colore della nazione, Firenze, Le Monnier, 2015. 23. LOMBARDI-DIOP, Cristina, L’Italia cambia pelle. La bianchezza degli italiani dal Fascismo al boom economico, in GIULIANI, Gaia, LOMBARDI-DIOP, Cristina (a cura di), Bianco e nero. Storia dell’integrità razziale degli italiani, cit., pp. 67-116, p. 69. 24. FAEDDA, Barbara, Emozioni e paure. Come la politica utilizza l’Altro, in MORRIS, Penelope, RICATTI, Francesco, SEYMOUR, Mark (a cura di), Politica ed emozioni nella storia d’Italia dal 1848 ad oggi, Roma, Viella, 2012, pp. 263-283, p. 274.

RIASSUNTI

Al termine della Seconda Guerra Mondiale le Nazioni Unite affidano all’Italia il protettorato sulla propria ex colonia mediante lo strumento dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (AFIS) che termina nel 1960. Durante gli anni Cinquanta le relazioni tra uomini italiani e donne somale sono numerose: da queste unioni nasce una prole meticcia che ha destini differenti e la cui vicenda rappresenta una delle eredità del passato italiano in Africa. Da questo meticciato italo-somalo sorge un’associazione che chiede il riconoscimento di tutte le sofferenze subite da

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 34

una parte della comunità meticcia e allo stesso tempo preme per una riflessione collettiva sulla memoria storica del periodo dell’AFIS.

At the end of the Second World War the United Nations gave to Italy a special protectorate on the own former colony by the International Trusteeship System of Somalia, which concludes in 1960. During the Fifties there are many relationships between the italian men and the somali women: from these liaisons there are a lot of children which have different destinies and their history represents one of the heredity of the italian past in Africa. From this italo-somali métissage, rises an association who asks the recognition of all the pains suffered by a part of that community and in the same time it asks a collective reflections of the historic memories about the Trusteeship System.

INDICE

Keywords : Somalia, Italy, italo-somalian people, minority, racism Parole chiave : Somalia, Italia, Italo-somali, minoranza, razzismo

AUTORE

MICHELE PANDOLFO Michele Pandolfo ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia: culture e strutture delle aree di frontiera presso l’Università degli Studi di Udine. Nelle sue ricerche ha indagato le relazioni tra gli uomini italiani e le donne somale durante il periodo dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia. In generale i suoi interessi riguardano gli studi storici e antropologici sul colonialismo italiano, la diaspora somala in Italia e le sue rappresentazioni culturali, la letteratura della migrazione e le questioni di genere. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Pandolfo >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 35

Spy and Counterspy as a “Cultural Hero” in the Soviet Cinema of the Cold War

Viktoria A. Sukovataya

1. Introduction: Cold War as a cultural epoch

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 36

1 Recent academic and public interest in the cultural studies of the Cold War has become one of the main trends in the study of the Cold War for last decades1. There appeared an opportunity to research the Cold War not as a military confrontation of two political blocs but as a conflict of cultural ideas and images. As T. Shaw writes2, the tensions between East and West were institutionalized in the cultural production of the Cold War and due to television and cinema penetrated in hearts and minds of American and Soviet people.

2 The mutual distrust and public fears of a possible hegemony of the ideological and cultural “Other” have generated plots, among which the most representative genres in Western cinematography became the anti-communist films, the film noir, spy detective, horrors, and fantasies about “nuclear apocalypses”. The Cold War cultural production had some national specific features in different countries and while the significant part of the Western (American and Western European) cinema during the Cold War was focused on the nuclear fears and atomic apocalypses3, the Soviet cinema of the Cold War did not create the nuclear fantasies: the Space and “the peaceful atom” were presented as the “friendly” substances in the Soviet popular culture. The Soviet people was proud of space and military achievements of the Soviet country: launching the first artificial satellite “Sputnik” (1957) and putting the first human into orbit, the Soviet cosmonaut Yuri Gagarin (1961). In the 1953 the Soviet Union tested the world’s largest hydrogen bomb, but the military-technological experiments stimulated not atomic phobias in the Soviet mass consciousness but the development of the science fiction genre in the Soviet popular culture. Despite the fact that the discourse of the Soviet science fiction also contained the tropes of the Cold War, one should consider the spy movie as the most representative genre of the Cold War4, because it reflected the basic cultural notions of that epoch about the complicated opposition between the Soviet and the Western societies in the greatest degree. The spy detective in the Soviet popular culture represents the Soviet undercover agents as the “invisible defenders” of the Soviet state and the Soviet citizens against its external and internal enemies whose attempts “to penetrate the borders of the Soviet state”: the slogan “people, to stay on alert!” was a common phrase of the Soviet Cold War propaganda in 1950-1960s.

3 In spite of the popularity of the spy movie in the Soviet Cold War the common opinion was that the spy detectives were products primarily of Western mass culture and the Western anti-Soviet hysteria, the spy detective in the Soviet cultural studies was referred to the “low genres”, a kind of “pulp fiction”. My opinion is that although the Western term “spy movie” was not widespread in the Soviet cultural studies, the spy genre was a very influential direction in the Soviet popular culture during the Cold War because it met the demands of both entertainment and ideological functions. While the monotonous Soviet everyday life with a number of official rules and regulations, limited entertainment possibilities and spreading “occupation novels” in a socialist realism style, the spy detectives appeased hunger of the mass audience in bright adventures, discovering the inner mechanism of the political intrigues and necessary individualism of any secret agent (which was opposed to the official Soviet “mass

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 37

collectivism” and which was not encouraged in the official Soviet rhetoric). An other specific feature of Soviet cultural discourse was that the Soviet intelligence officer was always titled as “intelligence man” (razvedchik, similar with “investigator” in Russian semantic), with completely a positive sense, whereas the word “spy” had only a negative meaning and was indicated any foreign agent, a foe, who worked against the Soviet state or the Soviet people at any level.

4 The popular culture and movie of the Cold War have been studied quite extensively in the West5 for the last decades, but the Soviet popular culture and especially the Soviet spy films were not examined in the Soviet time, and they were studied partly in the contemporary Russia6. The first monographs on the Cold War cinema in the Soviet Union were published in the West after 1990s as the result of the rethinking Cold War ideological oppositions7. While the period under Stalin’s rule can be considered in the context of totalitarian relations as the obvious tension between state and freedom8, the later socialist period after the Stalin’s death can be not interpreted in the same way. Many contemporary Western scholars changed their opinion about the Soviet culture as something “prim, boring and rigid” and tried to delve the different Soviet decades into the cultural anthropology9. For example, American scholar Katerina Clark analyzed the Soviet culture as evolution of a certain number of archetypes which were dominant at the different socio-historical periods of the Soviet culture10. Other investigators put Soviet cinema in the comparative cultural perspective11. However, either Western or Russian studies of the Soviet Cold War culture were not focused on the Soviet spy films as a mirror of the Soviet public moods of the Cold War time.

5 The goal of my paper is to analyze evolution of the Soviet spies’ images in the Soviet cinema not only in its poetic perspectives, but in the cultural atmosphere of the Cold War and political context of the Soviet Union’s secret service operations. Also, I would like to define how the Soviet spies were connected with ideological construction of the “ideal Soviet person”, and how the Soviet spies’ images were evolved during decades of the Cold War. The actuality of the my studies is stipulated also by the fact that the Soviet mass culture of the Cold War (and even post-Soviet culture) was extremely sensitive and perceptive towards the feats of the Soviet agents both during the World War II and during the Cold War time. Many literary and cinema spies-characters became the “cult” figures in the Soviet mass consciousness and continue to be presented in the contemporary Russian everyday discourses and public rhetoric. The Soviet spy in the public mind was often presented as a “true knight”, a hero without fear and beyond reproach, symbolizing the best masculine qualities: a valiant warrior, defender of the fatherland and intellectual. The image of a Soviet intelligence officer who fights against the Nazis in the enemy’s rear conceptualized the Soviet notions of “inner” heroism very much, courageous but invisible heroism that was different from the heroism on the battlefield. I plan to analyze the Soviet spy films not at the level of their aesthetic value, but according to the ideas of L. Drummond12 and some American anthropologists13 about the cultural politics who consider the cultural texts (cinema, in particular) as the “authentic” reflection of the political, socio-cultural and everyday situation in a particular society, the ordinary life, talks and common humor that were typical for some society or its cultural groups in some historical period. Also I use semiotic analyses14 and visual art critique15.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 38

2. Nikolai Kuznetsov and a cult of a fearless agent in the Soviet post-war movie

6 The most representative spyware Soviet detective of the first post-war decade was the film Secret Agent16 which was popular in the Soviet (especially, teenagers’) audience for the several Cold War decades because it presented a very dynamic, adventurous plot and the patriotic character. The film was devoted to the fate of the semi-legendary Soviet spy-saboteur Nikolai Kuznetsov, operating on the territory of Western Ukraine during the Nazi occupation. The true and the most successful Kuznetsov’s sabotage operations in 1943-1944 included execution of the German officers of the highest ranks: German Oberfuhrer Alfred Funk, Deputy Governor of Galicia District Otto Bauer, General Inspector of Commissariat of the Rovno region Adolf Winter, General Max Ilgen. Kuznetsov also became famous in the post-war Soviet culture as the first Soviet agent who uncovered the German plans to launch a massive tank attack in the Kursk region (1943) and he transmitted that secret information about the Hitler’s plan to kill the heads of the USSR, USA and Great Britain during the Tehran Conference (1943) to the Soviet Intelligence Office. Kuznetsov was posthumously awarded with the title of Hero of the Soviet Union, the highest military honor, however he continues to be a mysterious figure in the post-Soviet war history and provokes many discussions in the post-Soviet culture17. In spite of his semi-legendary personality and popularity in the Soviet mass culture, many facts of his biography are unknown to the wide audience until now.

7 In the first post-war decades there were published several novels and Soviet partisans’ memories about their contacts with Nikolai Kuznetsov during the war and about his charismatic personality, and the Soviet mass mythology turned Nikolai Kuznetsov into a kind of “the icon”, in the exemplary spy and infiltrator of the highest level. Even post-Soviet Russia shot a TV series devoted to the fate and the anti-Nazi activity of Nikolai Kuznetsov and many documentaries. However, in fact, Kuznetsov became known to the wide Soviet post-war audience only because his spy’s cover was blown by the Germans and his final fate (death or survival) still causes discussions. But, apart from Nikolai Kuznetsov, there were several Soviet deeply secret agents during the war who having phenomenal skills of spying and being as Germans in appearance, were transferred into the German rear with their various life legends for sabotage against Nazis. Most of them and their activities are still unknown to the mass audience. Only during last decades there were shot several artistic films and TV series devoted to the hard fates of the Soviet spies and diversionists in the war and the pre-war time18. Despite the fact that they were the artistic films they demonstrated the elements of the complex professional and emotional training of the Soviet agents which were in secret during the Soviet decades.

8 A Soviet spy “under cover” Kuznetsov posed himself as an agent with many faces and names, but having a “true Aryan appearance” — blue eyes, blond hair and a straight nose, and mastering German language perfectly — he presented himself mostly as a German Oberleutnant Paul Siebert or from , and he acted in the German environment all the time. The dramatic episodes in that film were interleaved with comic ones (especially in the portraying of arrogant and self-satisfied Germans, realized themselves as the “master race” in the Soviet lands during the Nazi occupation). It is not surprising that Nikolai Kuznetsov became a “cultural hero” in the

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 39

early post-war Soviet culture, because his bold, smart and successful operations in the Soviet post-war film could play compensatory emotional function in the Soviet mass consciousness, in the country which experienced the bloody war and the brutal Nazi occupation of the Soviet territories just several years ago. Of course, the first Soviet post-war film about the spies greatly simplified the agent’s psychology and all interrelations between Soviet agents, their subagents from locals and non combat population of Nazi-occupied territories. However, picturing dramatic details of the Soviet agent’s activity in the film was not required in the post-war Soviet audience: the just ended war and the Nazi occupation were so traumatic for the Soviet people that many people were not ready to see the dramatic reality on the screen. Therefore, the early post-war Soviet spy films created a kind of fairy tale about fearless Soviet agents who acted as mythological epic heroes or powerful magicians. Namely such fearless and invulnerable character should present the “heroic spirit” of the Soviet people during the war in mind of the Soviet post-war audience which continued to mourn about its killed twenty seven millions Soviet sons and daughters.

3. Soviet spy films of the “Thaw” and attempts to reflect the hot issues of the Soviet society

9 The ideological confrontation of the “Communist East” and the “bourgeois” West was absent in the early post-war Soviet films about the spies, and there were several reasons for that. The first Soviet films about Soviet agents demonstrated the post-war celebratory moods in the Soviet society: happiness at the end of the war and the Great Victory, belief in the flourishing future which should come after the war sufferings. The other reason was that during the war time the Soviet propaganda formed absolutely positive image of the United States, Great Britain, the anti-Nazi resistance in France and in other countries of Europe. Friendly feelings of the Soviet people to the allies were strengthen by the mutual cooperation during the war: Soviet-French battalion “Normandy-Neman”, Arctic convoys to Murmansk and Archangelsk, participants of Spanish international brigades and German anti-Fascists in the Soviet partisan and diversionist groups. The Soviet film-makers even at the height of the Cold War shot the films and nostalgic songs about the international armed brotherhood of the Soviet and Western combatants during the all-European struggle against the Nazis.

10 With the beginning of the Cold War, those who recently were “armed friends”, increasingly became the “enemies”, but it was difficult to explain a transition from the Soviet media admiration of allies to their condemnation. Therefore, the post-war driftage of the image of the former allies from friendly to a hostile required not only political, but also certain moral explanations in the Soviet mass audience. The film Encounter at the Elbe19 by Grigory Alexandrov can be considered as such an artistic explanation. The film tells us about the beginning of the American-Soviet relations in the post-war Germany just after the end of the war on the example of two German neighbor cities and beginning of the “spy game” of the American intelligence service against the Soviet Union. The image of both the Western enemies and allies ceased to be homogeneous in the film: the Germans were shown not as “fascists”, but as misinformed victims of the Nazi propaganda. Americans were also pictured in a different way (according to the class ideology and the war ethics): those who remained committed to the ideals of the allied brotherhood were portrayed as positive characters

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 40

(for example, the commandant of the American sector), but representatives of the American aristocracy and CIA agents were depicted as enemies. The film itself and the prima-actress Liubov’ Orlova have received the Stalin Prize for that film, and it demonstrated “ideological correctness” of that film in the eyes of the Soviet government. Another Soviet spy movie which was awarded with the Stalin Prize in 1951, was The Secret Mission20 and it was devoted to the operation of the Soviet secret service to prevent the secret operation “Sunrise-Crossword”, the separate negotiations between German and Western Allies behind the Soviet Union. The Soviet agents were presented there as the brave and patriotic heroes who risking their lives fought for the justice and the post-war interests of the USSR.

11 The Soviet cinema 1940-1950s was a single-piece product, due to it only few films were coming out, despite the considerable interest of the Soviet mass audience. The limited production of the Soviet films during Stalin’s rule was stipulated by the fact that Stalin believed that cinema industry was an extremely important state matter, and he often personally studied the plans for the new films, controlled the production of the film from the idea and to the script work. The Soviet studios released much more films after the death of Stalin and beginning the “Thaw” (Ottepel’), when the cinema became the most popular and accessible entertainment of the Soviet people. “Thaw” was a period of the political liberalization in the USSR, softening censorship in cultural politics, opening new themes in literature, such as experience of GULAG (in novels by A. Solzhenitsyn, Y. Dombrovsky), widening specter of the genres in the Soviet cinema. The “Golden era” of the Soviet spy genre has started since the 1960s, the most famous and classical movies were created during that period. The spy detective gave a space for hidden allusions to depict political confrontation between the USSR and the Western bloc, which could not be discussed openly in the Soviet mass audience.

12 The specificity of the Soviet spy movies of the 1960-1970s was that the post-war Soviet spy films can be identified as the “war detectives” because they were devoted to the events of the recent war when the main opposition was the struggle of Soviet people against Nazis. The Soviet spy was fighting against the Nazis at the beginning of the creation of the “spy genre” in the Soviet Union, and it acquitted any spy’s behavior. Despite the Cold War and the opposition between Soviet and Western blocks, the majority of the Soviet spy films of the Cold War continued to refer to the opposition between the Soviet and German intelligence services during the World War II or cooperation of the Soviet agents with the European resistance. The issue of the World War II as the “Good War” was always popular in the Soviet culture, that is why it was necessary to fight against the Nazis and to destroy them, as if it “sanctified” and justified any sabotage operation, any violence or severity of spies, not only towards the enemy, but even towards its own Soviet agents or ordinary people who could occasionally be in the circle of the espionage or saboteur operation. Using realities of the World War II as a background for the espionage intrigue, the Soviet spy cinema performed several important functions: the Soviet cinema was based on the doctrine of historical authenticity, and the experience of real Soviet agents and their secret operations of the Cold War time could not be revealed to contemporaries. The artistic reference to the war past as if legitimized the opposition of the Soviet agent and his implacable Western enemies. At the same time the reference to the World War II allowed to use an adventurous plot and hint at the realities of secret service activity.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 41

13 As an example of such a combination of the ideology of the Cold War and the plot from the World War II would be the spy novels of Vasilij Ardamatskii Counterblow (1959) and “Saturn” is almost invisible (1963) which were successfully screened in three spy films: The way to “Saturn”21, The End of “Saturn”22, and The Battle after Victory23. These films were devoted primarily to the Soviet intelligence operations against the Nazis and the Western secret services in the first post-war years. The intrigue was focused on the secret center for training commandos against the Soviet Union, and Western emissaries tried to use Nazi collaborators and Soviet prisoners of war as the training enemies of the post-war Soviet country. The issue of the Soviet prisoners of war was one of disputable subject matters in the Soviet mass-media during the Cold War, because the Soviet POWs were considered as the “potential enemy’ agents” in the post-war Soviet official culture. Some Soviet people who were captives in the or survived on the territories occupied by Nazi, were suspected either in espionage, or treachery, or collaboration 24. They were considered as the “ambivalent” Others in the Soviet official culture, as the former “own” but turned into “alien” for the Soviet state. Another ambivalent Others in the Soviet official culture were Russian emigrants (especially, members of the White movement, who struggled against the Bolsheviks during the Civil war in Russia, 1917 – 1922). Both of that cultural and ideological “Others” were not presented in the Soviet war films but they were depicted in the Soviet spy films of the Cold War.

4. Fate of agent as a drama: a new look at Russian history in Soviet spy cinema of 1960-1980

14 Several significant spy films appeared on the Soviet screen in 1968, they were The Shield and the Sword25, The Secret Agent’s Blunder26, and Dead Season27. Each of these films has become a cultural event and contributed to the genre of the Soviet “spy movie”. The difference between them was that The Shield and the Sword was closer to the genre of “military adventures” about a heroic Soviet spy Belov who was an agent “under cover” inside Germans, while The Dead Season and The Secret Agent’s Blunder used the motives of the World War II only as a precondition of the spy narrative, and the main intrigue was built as a classic spy story about the confrontation between Soviet and Western intelligence services.

15 The historical allusions on the Cold War secret operations were presented in Dead Season, where some facts from biographies of the famous Soviet “sleeper agents” of the Cold War time ─ Rudolf Abel (Fisher) and Konon Molody (known in the Great Britain as Gordon Arnold Lonsdale), ─ were used. These agents were arrested as a result of the betrayal and convicted by courts in the Western countries (in the USA and Great Britain) for long terms; after several years of imprisonment both of them returned to the Soviet Union as a result of the exchange of the arrested agents between Western and Soviet intelligence agencies. Abel’s exchange took place on the Glienicke Bridge in West Berlin, which later became famous as the Bridge of Spies. The movie episode of the agents exchange on the bridge in the film Dead Season became a classical part of the Soviet spy cinema and conveyed the atmosphere of the Cold War as a general distrust and emotional detachment. The history of the Soviet spy Konon Molody (Londsdale) acquired a wide popularity as part of the “spy scandals” of the 1960th: being a Soviet illegal resident spy and the mastermind of the Portland Spy Ring, he was a very

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 42

successful British businessman and a millionaire. After his discovery and arrest the British film Ring of Spies28 was based on Lonsdale’s biography.

16 The originality of the Soviet film Dead Season, in my opinion, opens some details of routine “spy job”: these are patience, self-discipline and belief, which are especially necessary in the situations of “breakdown”, uncovering of an agent. The risk of the spy profession lies not in the possibility of a betrayal at any time, or a failure and agents’ death, but also in the fact that even the highest self-discipline and good fortune does not guarantee survival after arrest. In particular, Rudolf Abel was released from prison, but it was not typical for the Soviet secret service of 1930-1940s which did not struggle for own arrested agents and did not save them. The story of the brilliant Soviet spy Richard Sorge who was executed in a Japanese prison during the World War II, is demonstrative in this case. The Soviet Union denied Sorge’s connection with the Soviet secret service for about a quarter of the century. Only after the release of the movie Who Are You, Mr. Sorge?29, the Soviet government recognized Sorge’s feat and awarded him posthumously with the highest military title of the Hero of the Soviet Union (1964). Rudolf Abel was more successful in comparison with Sorge, and he was the first Soviet agent who was exchanged and returned to the USSR after his discovering in Western country.

17 The Soviet spy movies The Secret Agent’s Blunder30, The Resident’s Fate31, Returning of the Resident32 and The End of Operation “Resident”33, were based on V. Vostokov and O. Shmelyov’s novels of the same title, they are of great interest as vivid examples of the spyware genre where some elements of espionage training, human source screening and agent recruitment were shown. The filming of new parts about the Soviet agent Tuljev during 18 years was due to the extreme popularity of the first films in the Soviet mass audience, as well as the emergence of new topics that became actual in the Soviet public consciousness. All those films depicted some details of espionage job. For example, the film The Secret Agent’s Blunder shows how the Western intelligence agencies recruited the agents in the post-war Soviet Union, it is a typical enlistment34 : money, or blackmail, or provocation for sexual contact and then, forcing a person to carry out orders of intelligence. The Soviet people who collaborated with the Nazis during the war and escaped punishment for it after the war were described as the first source for recruiting agents; the fear to be discovered forced those people to conduct new betrayals. The second source, (as it was depicted in the Soviet spy movies of the 1970-1980s), are the criminals who are primarily interested in money and ready to do anything to get it. The third source is hidden opponents of the Soviet system. Thus, the film The Secret Agent’s Blunder reproduces the Soviet propaganda schemes of the Cold War and performs ideological functions. However, the actors who portrayed the recruited agents played a psychological complex of complicated feelings: fear, remorse, humiliation, resentment, despair, and due to this fact the Soviet spectators could feel some pity to those people. The drama of people who have to be “agents” against their will was first shown in the Soviet cinema. The film was an attempt to romanticize the work of the Soviet secret and counterspy services and to show that KGB defends the Soviet citizens against the Western provocations and the political intrigues abroad.

18 The main character of films about the “Resident” was an intelligence service officer Michael Tuljev who was born in a Russian aristocratic family which emigrated from Russia to Western Europe after the Bolshevik revolution. The Russian emigrant and Western spy Michael Tuljev came to the Soviet Union as a resident of the Western

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 43

intelligence agency (with allusions on Western Germany and the USA simultaneously) and voluntarily moved to the Soviet counter-espionage service. The theme of emigration took a significant place in those films because, in my opinion, they reflected the true cultural discourses in the USSR during the period of the Cold War, such as opposition of the Soviet intelligentsia towards the government. The spy movies of the 1960-1970 demonstrate the liberalization of the state attitude to the Russian aristocrats and noble families who fled from the Bolshevism to the Western Europe or the USA. This liberalization can be explained by the political and cultural post-war reasons: some Russian emigrants fought against the Nazis in the European resistance. It was impossible to deny the contribution of the Russian emigrants to the anti-Nazi struggle even for the reason that many of the Russian immigrants occupied high positions in the Western political establishment and could support the Soviet political initiatives, expanding the Soviet influence. The cinema plot in which the former emigrant Tuljev, a Russian nobleman, a professional secret service officer, came over to the Soviet counter-espionage service, is symptomatic for the Soviet cinema of that time: it can be seen as a symbolic call of the Soviet authorities to the Soviet intellectuals, who preferred to be in opposition, to cooperate with the Soviet political system. The image of Tuljev, who had passed a difficult way from the enemy of the Soviet authority to the loyal Soviet officer of the secret service security, was aimed at strengthening patriotism inside the Soviet society during the Cold War, showing the Soviet audience that even former enemies of the Soviet state go over to the Soviet side just because of their love to Russia. So, these films were not only about the battle between the Western and the Soviet secret services, but more about the relations of the Soviet state and the Soviet opponents inside the USSR. As Sabine Hake notes35, both Soviet agents ─ Belov (from The Shield and the Sword) and Tuljev (from The Secret Agent’s Blunder), as a legendary Stierlitz (from Seventeen Moments of Spring) who became the heroes in the Soviet mass consciousness, represented the “ideal Soviet man”: rational, but still soulful, deeply patriotic, embodiment of duty and service for Motherland.

19 The climate of the Cold War was shown in the movie The End of Operation “Resident” in the situation devoted to the spy games around the Soviet nuclear physicist Nesterov, whose figure had clear allusions to the figure of a well-known Soviet physicist and dissident Andrei Sakharov during his exile in Gorky city. Other essential aspects of such films were in showing the professional relations in the security services: for example, the films showed the recruiting of informants and sabotage performers, as well as the principles of agents’ verification who “came from in the cold”; that film first demonstrated the procedure of the “lie detector’s” work; everyday intrigues in the spy agency and the permanent suspicions on each other were also depicted. The films about Tuljev contributed to the ideological matrix of the Cold War time, because all Soviet officers were portrayed as good, honest, sincere people who did their hard work for the defense of the homeland, while all Western officers of secret service were depicted as dishonest people and often as the Nazi criminals in the past.

20 Despite the ideological filling, those spy films were extremely successful on the Soviet screen: the ideology was skillfully hidden in the complicated spyware intrigue and adventure plot. Every part about the Soviet spy Tuljev presented first some professional details of the intelligence and counterintelligence job for the Soviet spectators. The first image of the Foreign Legion was represented in the film (Return of the Resident and The End of Operation “Resident”) for the Soviet audience. It was a completely new phenomenon for the Soviet culture: to humanize those who were

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 44

portrayed in the Soviet propaganda as «predators of imperialism» and «soldiers of fortune».

5. The Soviet spy Stierlitz as the “Cultural Hero” in the Soviet mass consciousness

21 The most famous Soviet secret service officer of the Cold War was Stierlitz (SS- Standartenführer Max Otto von Stierlitz on the Soviet screen), a spy-intellectual from the extremely popular Soviet TV series Seventeen Moments of Spring36, who had been infiltrated into the German secret service many years before the World War II. The film was based on the novel with same title written by the Soviet political and spy detective writer Yulian Semyonov, author of the many Soviet bestsellers. Semyonov was a recognized Soviet novelist, journalist, screenwriter, and during his lifetime there were talks that he had either been closely linked with the KGB or even undercover KGB officer (). Semyonov himself always rejected the questions about his connections with KGB but his way of life suggested such thoughts: when the majority of the Soviet people lived behind the Iron Curtain and had a little opportunity to travel abroad, Semyonov regularly traveled to Western Europe, met with Western businessmen, Italian mafia, Russian aristocrats-émigrés and Nazi criminals which, of course, was hardly possible without the authorization of the KGB. For example, Semyonov became widely known in the Soviet Union as a journalist who in 1974 managed to interview a Nazi war criminal Otto Skorzeny, who had categorically refused to meet any journalist before. Then, being a correspondent in , Semyonov succeeded to interview the former reichsminister Albert Speer and one of the SS leaders Karl Wolff. So, Semyonov himself was perceived in the Soviet mass consciousness as a kind of mediator between the world of ordinary people and the Soviet secret service, making visible the mechanisms of espionage operations and the “big policy”.

22 The novel Seventeen Moments of Spring to have been inspired by a personal request of the KGB chief Yuri Andropov to Yulian Semyonov to write a novel about a Soviet spy who would strengthen the positive image of Soviet secret service in the Soviet mass consciousness. Politically, it should be a Soviet answer to the popularity of the Western spy Bond, but it has to be the “Soviet Bond”. Semyonov met to Andropov’s demands, and after working in the archives of the KGB wrote a dynamic novel two weeks later. (We can note that Semyonov fulfilled the KGB require successfully and created the image of a Soviet agent who, by his popularity in the Soviet audience, far surpassed all Western super-spies). The character of Stierlitz reflected Andropov’s own concept of the ideal Soviet secret service officer: he is to be rational, modest, absolutely loyal to his own country and above all he has to be an intellectual, who had his mission by outwitting his enemies. Distinct from Bond, Stierlitz was not a playboy and adventurer, psychologically he was closer to a mathematical researcher, or to a classic British detective: he was a cold rationalist but resourceful investigator as Sherlock Holmes. Stierlitz became a favorite hero of the Soviet mass audience, he embodied the best qualities of a Soviet intellectual, but intellectual who was not defenseless in a face of the state power but who had special abilities to defend his close people and to serve for the state.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 45

23 Describing Stierlitz’s biography, Semyonov used some facts from biographies of several Soviet agents (in particular, SS-Hauptsturmführer and Soviet informer Willy Lehmann 37) who held high positions in the German Gestapo during the World War II and were Soviet informers. The plot of novel develops around the American-German negotiations on separate peace without the participation of the Soviet Union. They took place in the spring 1945 in Switzerland between the head of the American secret agency Allen Dulles and the German General Karl Wolff and was titled “Sunrise Crossword”. According to the plot the Soviet super-agent Stierlitz destroyed the separate peace between the Germans and the Western Allies by a complicated intrigue. It should be noted that this conspiracy plot about the prevention of the separate negotiations at the end of the World War II was used by the Soviet filmmakers in earlier Soviet film The Secret Mission.

24 Soviet director Tatyana Lioznova from the Gorky Film Studio desired to shot the Semyonov’s novel as a 12-part TV film and that process took her about two years. Many episodes were shot in East Germany and some East German actors were involved in the film. Especially, German actor Fritz Diez played a role of Adolf Hitler because no Soviet actors wanted to play that role. The work on the series was supervised by the KGB: Andropov’s deputy, Semen Tzvigun served as a chief consultant, alongside other high-ranking officers of the service. He demanded that some changes in the plot should be made, however, Tzvigun died just before the film premier, and the film came out in Lioznova’s redaction.

25 Some Western scholars wrote that Seventeen Moments of Spring was a typical product of the anti-Western modes in the Soviet society during the Cold War because the central intrigue of the film lay around the treachery of the Western Allies38. But the most significant fact is that in spite of the Cold War ended more than twenty five years ago and the Soviet Union collapsed, the film continues to be popular among very different people, generating a big post-Soviet cultural industry of memes, urban and Internet folklore, computer games and computer programs, TV and literary parodies, documentaries about the actors and the history of the creation of film, and even complete literary biography of Shtierlitz as a reconstruction of his life from all Semyonov’ books about him39. I think that such higher popularity of Shtierlitz in the mass audience can be accounted for by multiply of his image: Shtierlitz’s behavior as a combination of Victorian gentleman’s intelligence and Soviet patriotism, aristocratic manners and care for those who were weaker (children, women, elders). For example, one of the impressive episodes in the film was a conversation between Shtierlitz and a stray dog and feeding it. Another human nature of the Shtierlitz was his gentle, almost family attitude to an old German woman whose sons died at the front. It is important to note that unlike the “ideal” Western spy Bond, the Soviet Shtierlitz has no passions for gain, women, luxurious life, gambling or money: he embodies the Soviet variant of the “aristocrat of the spirit and duty” in the best traditions of Victorian gentlemen created by the imagination of R.L. Stevenson (Dr. David Livesey in “Treasure Island”), A. Conan- Doyle (Dr. Watson in stories about Sherlock Holmes) or Agatha Christie (Major Hastings in the novels about Hercule Poirot). Nobility and reliability, despite the profession of a spy, are the parts of the true nature of Shtierlitz.

26 But it was the external level of the TV film. Many scholarly works have been devoted to the inner structure of the film40 and the common opinion of the scholars was that the spy intrigue was just a plan of expression in that movie (using semiotic terminology),

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 46

while the plan of content was the image of the Nazi bureaucracy which reflected the system of the Soviet political bureaucracy41. Not only Soviet, but the post-Soviet intelligentsia comprehended the film in such plural meaning, and this multiplicity of meanings guaranteed a long life of the series. The professional spy became a symbol of the opportunities to survive for any person in the situation of political lack of freedom, bureaucratic pressing or any unbearable life circumstances.

6. Conclusions

27 I conclude that the Soviet spy and the counterspy agent were presented as an “ideal man” in the Soviet spy films, and many Soviet spy films have kept their “cult” status in the post-Soviet audience until now. The history of espionage and own secret service as an important part of the state machinery’s functioning was a kind of a taboo in the Soviet Union for a long time. There were rare and short popular articles published in the newspapers about the courageous fighters of “the invisible front” in the Soviet time (“the Invisible Front” was the Soviet propaganda metaphor for depicting the Soviet agents’ job). I can pose that the attractive quality of the spyware detectives for the Soviet audience was that this genre as if cracked open a veil of secrecy over such absolute secret things in any state as agents training, the development of espionage operations abroad and even some top secrets of the “big policy”. The Soviet spy movie was one of a few opportunities for the Soviet people to look behind the Iron Curtain, but also to consider the inner mechanism of the Soviet power through the cinema metaphors.

28 The Soviet spy film of the Cold War played ideological functions, creating a positive image of the Soviet spy and counterspy agents and the Soviet intelligence service (ChK – NKVD – KGB); the representatives of the Western countries were described in accordance with the stamps of the Soviet official propaganda: the capitalists were presented as enemies of the Soviet state, while the ordinary citizens of the Western countries bleed for the Soviet agents in those Soviet spy movies. However, later a Soviet spy movie often reflects the social and political problems of the Soviet society which were not discussed openly in media or in the cinema of other genres (for example, the issue of Russian emigration and desire of the Soviet state to establish relations with it; the post-war fate of Soviet prisoners of war; the relationships between Soviet power and Soviet intelligentsia or Soviet dissidents). The struggle between different secret services often had a metaphorical meaning in the Soviet cinema and the spy could symbolize various types of the dual or multiple identity in culture: exile, emigrant, intellectual, national or gender minority. The figure of the spy in the Soviet cinema in the metaphorical form embodied the contradictions that existed in the Soviet society and relations between an individual, society and state.

29 If the early Soviet spy films were created as the “advertising image” of the Soviet secret agent, as a person without any psychological dramas and doubts, the Soviet spy since the 1960s has created the image of a Soviet spy as intellectual and intuitive person with difficult fate. The tragic motives in the picturing of the Soviet agents had been developing in the Soviet spy films since the Thaw (1960s), when the image of a just lucky agent (created in the film The Secret Agent) was transferred to the suffering agents as a result of the agent’s mistake or treachery.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 47

30 I can assert that the Soviet spy film of the Cold War, despite its ideological tasks, performed a significant emancipatory function in the Soviet mass culture and implicitly liberalized the Soviet consciousness. This feeling appears after viewing a large number of the Soviet spy films which were devoted much of the screen time to depicting Western life and its comfort details, doing it with liking and even nostalgia. Traveling abroad for the majority of ordinary Soviet people was extremely difficult during the Cold War, although the interest to the Western world was common. So, the spyware movie allows the Soviet viewers to see at least fragments of that distant and forbidden world. From the logical point of view, the detailed visualization of the Western places and people could be explained by the fact that the West was the world where the Soviet spies under cover had to perform their responsible job. But the Soviet spy in those films made friends in the West and participated in the bourgeois social life, never expressing his hatred to the people he lived and worked with for many years. For example, the most famous Soviet spy Stierlitz openly expressed his love to the Germans among whom he had lived for twenty years, and he stressed that he fought against the Nazi state, but not against the German people. Thus, the idealization of the Soviet agent arises through underlining his serving not only for the state, but for the people of his own country. So, the Soviet spy was presented as a man who contributed to the preservation of peace. This is a specificity of the spyware discourses in the Soviet spy cinema.

31 Since 1970s the Soviet spy films have become more open in picturing the professional training of the spies and the details of the espionage operations: typically, some facts from the biography of the former Soviet spy or spy actions were the basis for the Soviet spy film. It was a requirement of the realism in the Soviet cinema of 1960-1980s; but at the same time it was a reference to the true facts from the espionage history which created “a visual” and “a popular” history of the Soviet past (even in transformed forms). As a rule, the consultants for the Soviet spy films were invited from the KGB and they were themselves the former agents or their curators. The names of such consultants were either not mentioned in the captures of the film or they were mentioned under pseudonyms, but these people’s advice guaranteed the “authenticity” of the details of the spy job in the Soviet spy films.

32 Viewers during the premiere of the spy film certainly did not know about the secret advisers from the KGB, but every Soviet spy film contained some professional details of espionage job that could only be known to those who were initiated into this craft. The ordinary Soviet citizens had an opportunity to reconstruct all “espionage occupation“ through those details and such an aspect of the spy movies stimulated the creative imagination of the Soviet audience. After some time the authors of the film could freely tell people in their interviews or during their conferences with the spectators that the former agents advised them during the filming. Such attention of the KGB to the spy films was not a secret from the Soviet cinema fans, the secret was only the concrete surnames, positions and other details of agents’ professional biographies. Thus, the Soviet spy cinema was mantled in the romantic aura of invisible presence of a real spy, watching spy movie was an opportunity for an ordinary person to look on the secret job, to became a kind of “an eyewitness”. This aspect stimulated the popularity of the spy films (especially, among the Soviet intellectuals), even for decades after the film’s release.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 48

33 Many Soviet spy films were adventures only at the outer level, but their inner level presented existential reflections on man’s choice of his destiny, boundaries between good and evil, loyalty and betrayal, the priority of family or duty. Such human issues turned many Soviet spy movies from adventurous films into narratives about the history of the generation. Of course, good direction and convincing actors’ play added popularity to the spy films.

34 The Soviet spy films, in which a Soviet agent is able to win the Western intelligence service and their representatives, have indirectly shaped the conviction of the Soviet audience that «even one soldier inside the enemy can be a warrior» and as long as the Soviet state has at least one active agent, it retains invincibility. So, the spy or counterspy officer was presented as an “ideal Soviet hero”, fearless, brave, intelligent, highly professional and totally patriotic. The ideological discourse of a spy’s job turns into the discourse of a cultural and national identity, and it can explain the popularity of the classic Soviet spy films.

NOTES

1. WHITFIELD, Stephen, The Culture of the Cold War, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1996; HIXSON, Walter, Parting the Curtain: Propaganda, Culture, and the Cold War, 1945-1961, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 1997. 2. SHAW, Tony, Negotiating the Cold War in Film. The Other Side the Hollywood’s Cold War: Images of Dissent in the 1950s, in HOLLOWAY, David, BECK, John (eds.), American Visual Cultures, London – New York, Continuum, 2005, pp. 133-141. 3. KUBRICK, Stanley, Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, Hawk Film, USA, , 1964, 94’; BRICKMAN, Marshall, The Manhattan Project, 20th Century Fox, USA, 1986, 117’; and many others. 4. HEPBURN, Allan, Intrigue. Espionage and Culture, New Haven – London, Yale University Press, 2005. 5. For example, HOBERMAN, James, An Army of Phantoms: American Movies and the Making of the Cold War, New York – London, New Press, 2012; SHAW, Tony, Hollywood’s Cold War, Cambridge, Cambridge University Press, 2007. 6. ТУРОВСКАЯ, Майя, «Фильмы “холодной войны”» [TUROVSKAYA, Maya, «“Cold War” films»], in Искусство кино, 9, 1996, pp. 98-106; ФЕДОРОВ, Александр, «Холодная война на экране. Образы холодной войны: проекция политики противостояния на экране» [FEDOROV, Aleksandr, «Cold war on the screen. Images of the Cold War: the projection of a policy of confrontation on the screen»], in Полис, 4, 2010, pр. 48-64; СЕКИРИНСКИЙ, Сергей, «Советские реалии в зеркале телесериала “Семнадцать мгновений весны”» [SEKIRINSKY, Sergey, «Soviet reality in the mirror of the television series “Seventeen Moments of Spring”»], in Россия и современный мир, 40, 3/2003, pp. 148-160. 7. STITES, Richard, Russian popular culture. Entertaiment and society since 1900, Cambridge, Cambridge University Press, 1994; STRADA, Michael, TROPER, Harold, Friend or Foe? Russians in American Film and Foreign Policy, 1933-1991, Lanham, Scarecrow Press, 1997; WOLL, Josephine, Real Images: Soviet Cinema and the Thaw, London, Victoria House, 2000;

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 49

BEUMERS, Birgit. Popular Culture Russia!, Santa Barbara – Denver – London, ABC Clio, 2005; YOUNGBLOOD, Denise, SHAW, Tony, Cinematic Cold War: The American and Soviet Struggle for Hearts and Minds, Lawrence, University Press of Kansas, 2010. 8. KENEZ, Peter, Cinema and Soviet Society: From the Revolution to the Death of Stalin, London, I.B. Tauris, 2001; LAURENT, Natacha, L’œil du Kremlin. Cinéma et censure en URSS sous Staline, Toulouse, Privat, 2000. 9. SUNY, Ronald Grigor, Reading Russia and the Soviet Union in the twentieth century: How the ‘West’ wrote its history of the USSR, in SUNY, Ronald Grigor (ed.), The Cambridge history of Russia, vol. 3, The Twentieth century, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 5-64; DOBSON, Miriam, «The Post-Stalin Era: De-Stalinization, Daily Life, and Dissent», in Kritika, 12, 4/2011, pp. 905-924; BEUMERS, Birgit, A History of Russian Cinema, New York, Berg Publishers, 2009. 10. CLARK, Katerina, The Soviet Novel. History as Ritual, Bloomington (IN), Indiana University Press, 2000. 11. GRAFFY, Julian, Scant Sign of Thaw: Fear and Anxiety in the Representation of Foreigners in the Soviet Films of the Khrushchev Years, in HUTCHINGS, Stephen (ed.), Russia and its Other(s) on Film: Screening Intercultural Dialogue, New York, Palgrave Macmillan, 2008, pp. 27-46. 12. DRUMMOND, Lee, American Dreamtime: A Cultural Analyses of Popular Movies, New York: Littlefield Adams, 1996. 13. GAYLES, Jonathan, BIRD, Elizabeth, Anthropology at the Movies, in HOLLOWAY, David, BECK, john (eds.), op. cit., pp. 284-290. 14. UMBERTO, Eco, The Narrative Structure of Ian Fleming, BENNETT, Tony. (ed.), Popular Culture: Past and Present, Kent, The Open University, 1981, pp. 242-262; LOTMAN, Jury, USPENSKY, Boris, «On the Semiotic Mechanism of Culture», in New Literary History, 9, 2/1978, pp. 211-232. 15. NOCHLIN, Linda, The politics of vision: essays on nineteenth-century art and society, New York, Harper & Row, 1991. 16. BARNET, Boris, Secret Agent, Dovzhenko Film Studio, USSR, 1947, 87’. 17. ГЛАДКОВ, Теодор, Кузнецов: легенда советской разведки [GLADKOV, Teodor, Kuznetsov: the legend of Soviet intelligence], Москва, Вече, 2004. 18. ATANESYAN, Aleksandr, Bastards, Russia, 2006, 94’; MOROZ, Uruj, Apostle, Russia, 2008, 600’; HYDOJNAZAROV, Bahtijor, The Hetaeras of Major Sokolov, Russia, 2014, 392’. 19. ALEXANDROV, Grigory, Encounter at the Elbe, Mosfilm, USSR, 1949, 104’. 20. ROMM, Mikhail, The Secret Mission, Mosfilm, USSR, 1950, 98’. 21. AZAROV, Villen, The way to “Saturn”, Mosfilm, USSR, 1967, 78’. 22. AZAROV, Villen, The End of “Saturn”, Mosfilm, USSR, 1967, 91’. 23. AZAROV, Villen, The Battle after Victory, Mosfilm, USSR, 1972, 156’. 24. REINHARD, Otto, The Fate of Soviet Soldiers in German Captivity In: The Holocaust in the Soviet Union. Collection of papers, Washington DC, United States Holocaust Memorial Museum, Center for Advanced Holocaust Studies, 2005, pp. 127-138. 25. BASOV, Vladimir, The Shield and the Sword, Mosfilm, USSR, 1968, 325’. 26. DORMAN, Veniamin, The Secret Agent’s Blunder, Gorky Film Studios, USSR, 1968, 202’. 27. KULISH, Savva, Dead Season, Lenfilm, USSR, 1968, 138’. 28. TRONSON, Robert, Ring of Spies, British Lion Films – Paramount Pictures, United Kingdom, 1964, 90’.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 50

29. GIAMPI, Yves, Who Are You, Mr. Sorge? Cinétel, Cité Films, Cormoran Films, Jolly Film, Pat, Shôchiku Eiga, Silver Films, Terra Films, France-West Germany-Italy-Japan, 1961, 112’. 30. DORMAN, Veniamin, The Secret Agent’s Blunder, Gorky Film Studios, USSR, 1968, 202’. 31. DORMAN, Veniamin, The Resident’s Fate, Gorky Film Studios, USSR, 1970, 157’. 32. DORMAN, Veniamin, Returning of the Resident, Gorky Film Studios, USSR, 1982, 129’. 33. DORMAN, Veniamin, The End of Operation “Resident”, Gorky Film Studios, USSR, 1986, 145’. 34. CROWDY, Terry, The Enemy Within. A History of Espionage , Oxford – New York, Osprey, 2006. 35. HAKE, Sabine, Screen Nazis: Cinema, History, and Democracy, Madison, University of Wisconsin Press, 2012. 36. LIOZNOVA, Tatyana, Seventeen Moments of Spring, Gorky Film studio, USSR, 1973, 840’. 37. COPPI, Hans, Willy Lehmann, in SCHAFRANEK, Hans, TUCHEL, Johannes (hrsg.), Krieg im Äther. Widerstand und Spionage im Zweiten Weltkrieg, Wien, Picus Verlag, 2004; ГЛАДКОВ, Теодор, Король нелегалов, [GLADKOV, Teodor, King of illegals], Москва, Гея Итэрум, 2000; СТАВИНСКИЙ, Эрвин, Наш человек в гестапо. Кто вы, господин Штирлиц? [STAVINSKY, Erwin, Our man is in the Gestapo. Who are you, Mr. Stirlitz?], Москва, ОЛМА-Пресс, 2002. 38. LOWELL, Steven, In Search of an Ending: Seventeen Moments and the Seventies, in KOENKER, Diane, GORSUCH, Anne (eds), The Socialist Sixties: Crossing Borders in the Second, Bloomington:, Indiana University Press, 2013, pp. 303-322. 39. СЕВЕР, Александр, Все о Штирлице. Информация к размышлению [SEVER, Aleksandr, All about Stirlitz. Information for consideration], Москва, Яуза, Эксмо, 2009; ГОРЬКОВСКИЙ, Павел, Расшифрованный Исаев [GORKOVSKY, Pavel, Decoded Isayev], Москва, Яуза, Эксмо, 2009. 40. NEPOMNYASHCHY, Catharine, «The Blockbuster Miniseries on Soviet TV: Isaev- Stierliz, the Ambiguous Hero of Seventeen Moments in Spring», in The Soviet and Post- Soviet Review, 29, 2002, pp. 257-276; PROKHOROVA, Elena, Fragmented Mythologies: Soviet TV Mini-Series of the 1970s, University of Pittsburg, Doctoral Dissertation, 2003, URL: < http://d-scholarship.pitt.edu/8019 > [consulted on 14 july 2017]. 41. ЗАЛЕССКИЙ, Константин, Семнадцать мгновений весны: Кривое зеркало Третьего рейха [ZALESSKY, Konstantin, Seventeen Moments of Spring: The Curved Mirror of the Third Reich], Москва, Вече, 2006; ЛИПОВЕЦКИЙ, Марк, Искусство алиби: “Семнадцать мгновений весны” в свете нашего опыта [LIPOVETSKY, Mark, The art of the alibi: “Seventeen Moments of Spring” in the light of our experience], in Неприкосновенный запас, 3/2007, URL: < http://magazines.russ.ru/nz/2007/3/li16.html#_ftn1 > [consulted on 14 july 2017].

ABSTRACTS

This article aim to analyze the evolution of the Soviet spy cinema of the Cold War in the context of the cultural history and the social changes in the USA and the Soviet Union, and the relations

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 51

with the political opponents. The public reception of the Soviet spy and spying was evolved in the Soviet Union and it was reflected in the cinema plots and characters transformations.

Questo articolo prende in esame l’evoluzione del cinema di spionaggio sovietico durante la Guerra fredda calandola nel contesto della storia culturale degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica e delle relazioni fra i due contendenti. La ricezione da parte del pubblico della spia sovietica e dello spionaggio in Unione Sovietica andò mutando e questo è riscontrabile sia dalle sceneggiature cinematografiche sia dai personaggi.

INDEX

Keywords: Cold War cultural politics, Soviet spy cinema, public image of espionage, national mythology, USSR Parole chiave: politiche culturali della Guerra fredda, cinema di spionaggio sovietico, immagine pubblica dello spionaggio, mitologia nazionale, URSS

AUTHOR

VIKTORIA A. SUKOVATAYA Viktoria A. Sukovataya is Ph. D. and Doctor of Habilitation in Cultural Studies, professor of Theory of Culture and Philosophy of Science Department, Kharkiv National Karazin University, Ukraine. She published more 150 articles in the area of Soviet and post-Soviet identity, Gender and Visual Arts in Ukrainian, Russian, Byelorussian, Serbian, Romanian, Polish, German, Brazilian, and American journals. She is author of three textbooks and one monograph. She was invited as scholar in different academic centers, including University of Virginia (USA), Lund University (Sweden), University (Germany), Free University (Berlin, Germany), University of Bologna (Italy), George Washington University, USA and Berkeley University in California (USA). URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Sukovataya >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 52

Perché indagare la lotta al terrorismo italiano in chiave transnazionale Nuove ipotesi e percorsi di ricerca

Lisa Bald e Laura Di Fabio

1. Statistiche a confronto

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 53

1 Nel mese di luglio 2016 un noto portale di statistiche ha pubblicato questo grafico, che presenta il numero delle vittime di attacchi terroristici in Europa occidentale tra il 1970 e il 2016 (fonte delle cifre: Global Terrorism Database)1.

Figura 1. Vittime di attacchi terroristici nell’Europa occidentale

Numero di persone uccise in attacchi terroristici fra il 1970 e il 28 giugno 2016

Fonte: Global Terrorism Database

2 Guardandolo salta subito all’occhio la sproporzione tra il numero di vittime degli attentati terroristici nella sola Europa tra il 1970 e la fine degli anni Novanta e il quindicennio post 11 Settembre 2001. Il grafico non poteva ancora includere gli attentati che hanno colpito la Francia e il Belgio nella primavera-estate del 2016 e gli ultimi episodi di Berlino e Londra2. Tuttavia, pur inserendo i recenti avvenimenti, siamo ancora lontani dal raggiungere le cifre di un tempo.

3 Senza nascondere un certo stupore, il grafico ribalta l’idea e la percezione abbastanza comune che il terrorismo internazionale sia un fenomeno “nuovo” e che si sia diffuso a macchia d’olio a partire dai fatti drammatici dell’11 settembre 20013. Questa visione alimenta l’idea ingannevole che in Europa e nel resto del mondo fenomeni di destabilizzazione armata, non riconducibili nei parametri classici di una logica di guerra tra gli Stati4, non esistevano fino a quel mattino di settembre o fosse inteso soltanto come retaggio di una conflittualità locale e sporadica.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 54

4 Siamo consapevoli che nello studio della violenza politica armata è importante contestualizzare e differenziare le pratiche degli anni del “Secolo Breve”5 dalle forme coeve – sia per motivazioni ideologiche, sia in base alle forme della lotta o della reazione, che per contesti socio-culturali6. Tuttavia, quando si parla di lotta al terrorismo ci riferiamo a una relazione e, quindi, a una percezione e ricezione del pericolo da parte delle istituzioni (a prescindere dalle diverse analisi della radicalizzazione armata dei gruppi, dalle motivazioni politiche etc.). Per questa ragione, con il termine “terrorismo” intendiamo tutte quelle attività armate percepite dagli Stati (e dal diritto penale) come pericolose per l’ordine democratico costituzionale. Generalmente uno Stato non riconosce, e quindi non legittima, la lotta armata come tattica e pratica politica. Qualsiasi atto militare volto a creare disordine nella società o che procura vittime sia tra i civili che tra i rappresentanti dello Stato è considerato dallo Stato come “terrorismo”. In questo articolo ci riferiamo, anche, al terrorismo cd. “di Stato”, ovvero quello sponsorizzato da Stati terzi e – per il caso italiano – da alcune frange all’interno delle istituzioni stesse, con l’intento di alimentare un clima di tensione volto a giustificare l’emergenza con nuovi provvedimenti e misure di sicurezza7.

5 Se letta in questi termini, è evidente che gli attentati terroristici in Europa e la lotta degli stati democratici al “terrore” – almeno fino all’ultimo anno e mezzo8 – rappresentino un fenomeno di lunga durata nelle dinamiche politiche interne allo Stato e nelle relazioni estere. E da una rilettura parziale, e per molti aspetti ancora transitoria del tempo presente, nascono alcuni interrogativi nuovi per approfondire e sviluppare insieme alla comunità degli storici un’adeguata metodologia sul tema. Crediamo ci sia bisogno di una riflessione che provi a comprendere le cause e gli effetti di una storia resiliente, una narrazione che ritroviamo quotidianamente nelle prime pagine dei giornali e che influenza la vita di tutti i giorni. E quindi ci domandiamo: quali sono gli aspetti internazionali da prendere in considerazione nello studio dell’antiterrorismo? Perché indagare in prospettiva internazionale la lotta al terrorismo in Italia e in Europa? Come aprire l’indagine storiografica sulla lotta al terrorismo al panorama degli studi internazionali?

2. Terrorismo e antiterrorismo

6 Gli attacchi dell’11 settembre 2001 a New York e Washington hanno rappresentato un tipico esempio di un «Black Swan Event»9. Con questa metafora Nassim Nicholas Taleb descrive come un singolo evento abbia avuto il potere di cambiare completamente la percezione di un intero fenomeno nell’opinione pubblica e tra le élite di governo. Da un giorno all’altro, il dibattito pubblico si è costruito sulla “nuova”, quanto mai inedita, minaccia del «terrorismo internazionale»10. Anche se la versione apocalittica della “terza guerra mondiale” lanciata dal «New York Times» non fu sostenuta da un gran numero di testate, un quotidiano diffuso come il Frankfurter Allgemeine Zeitung – in occasione del 15° anniversario – dipinse l’accaduto come l’esordio di una «nuova epoca del terrorismo»11. Il discorso sull’antiterrorismo ha assunto, così, un ruolo sempre più centrale nelle prime pagine dei quotidiani e la diffusione di molteplici minacce ha alimentato un clima d’insicurezza e di panico generalizzato. Negli ultimi quindici anni non è trascorso un giorno in cui i media non diffondessero notizie su attentati terroristici e lotta al terrore. Spesso, però, i contenuti delle notizie si sono rivelati falsi perché non provenivano da fonti sicure12. Non appena avvengono degli attentati

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 55

terroristici in qualsiasi parte del mondo possiamo imbatterci in delle interpretazioni approssimative che esulano dall’accertamento dei fatti. L’importante è che si possa far leva sui sentimenti di paura e insicurezza dell’opinione pubblica13; le rettifiche arriveranno a tempo debito. Emozionalità e Sensazionalismo sono i pilastri su cui sembra reggersi l’informazione, per ritrovarsi tutt’a un tratto come i protagonisti dei profetici film di Sydney Lumet14. Infatti, il dibattito sul terrorismo nel XXI secolo tra fazioni politiche, élite di governo, associazioni e opinionisti di vario genere bucano quotidianamente lo schermo televisivo, entrando nelle case della gente. Sia ben inteso: un pluralismo di voci è un fattore senz’altro positivo nel dibattito pubblico di un Paese democratico. Tuttavia, il mondo della comunicazione ha subito enormi stravolgimenti con l’avvento di internet e dei social network15. La rete virtuale rappresenta un fattore di ampia democratizzazione dell’informazione, tuttavia nella narrazione sulla radicalizzazione e sul terrorismo – e quindi nel delinearsi un’immagine del terrorista (quasi sempre di religione musulmana) – il pericolo diventa concreto se immaginato e la sua rappresentazione subisce delle resignificazioni continue16. L’evento terroristico, preso singolarmente, alimenta un discorso securitario che coinvolge non soltanto il fenomeno della violenza armata e del terrorismo ma anche la delinquenza comune, la criminalità organizzata e altre forme di devianza sociale. Il panico, la paura e l’insicurezza trasformano quindi il reale e i comportamenti quotidiani delle persone17.

7 Fin dal 1980 la storia del terrorismo in Italia, come in altri paesi europei, è stata per lungo tempo raccontata e approfondita18. Una storia della lotta al terrorismo ha scontato, invece, un ritardo che è stato in gran parte recuperato soltanto in anni recenti19. Infatti, le ricerche sulle contromisure degli Stati per far fronte al fenomeno su scala globale hanno registrato un incremento dopo i fatti americani del 200120. Johannes Hürter, Bernhard Blumenau, Tobias Hof, Eva Oberloskamp, Beatrice De Graaf, Robert Gerwarth, Heinz-Gerhard Haupt, Klaus Weinhauer, Didier Bigo, Philip Cooke e Anna Cento Bull (soltanto per citarne alcuni) hanno senz’altro arricchito il panorama degli studi internazionali sul tema21. Un altro filone altrettanto prolifico si rivela quello dei Surveillance Studies, che adotta proprio una metodologia di lungo periodo per indagare gli effetti del disciplinamento e del controllo sociale in varie epoche storiche22. In Italia si registrano recenti studi storiografici che focalizzano l’attenzione sulla dimensione periferica e nazionale del terrorismo politico sulla risposta delle polizie e della magistratura alla lotta armata23, ma fatica ad affermarsi un dibattito in chiave comparata e transnazionale24. Per questa ragione ci auguriamo che le nostre ricerche possano apportare un contributo in questo senso e che le riflessioni seguenti avviino un dibattito tra i ricercatori che si apprestano, oggi, a indagare una storia insidiosa ma altrettanto affascinante.

3. Come indagare la lotta al terrorismo transnazionale?

8 Dalla seconda metà degli anni Settanta anche in Italia si diffuse la consapevolezza che il terrorismo fosse diffuso non soltanto a livello locale ma che intrattenesse delle relazioni transnazionali con gruppi armati stranieri. Un’analisi dei metodi e delle strategie elaborate dalle organizzazioni armate in varie parti dell’Europa ha disegnato una mappa di obiettivi ritenuti simili dagli apparati di sicurezza, che cominciarono a prendere consapevolezza del problema. Ci sembra utile, quindi, ricordare le differenze

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 56

tra il terrorismo internazionale da quello transnazionale. Come osserva Walter Laqueur, il primo – più difficile da documentare in sede storiografica – è supportato e/o sponsorizzato da stati sovrani, i cd. Stati canaglia25. Le ragioni sono molteplici ma, di fondo, l’intenzione era quella di alimentare una lotta asimmetrica utile soprattutto a indebolire la parte avversaria in un mondo bipolare e condizionato fortemente dalla Guerra Fredda26. Il secondo, il cd. terrorismo transnazionale, si manifestava in una cooperazione tra i gruppi militanti armati europei e quelli dislocati tra il Medio Oriente e l’America Latina27.

9 Preso atto che diversi Paesi europei vennero colpiti da fenomeni di violenza armata e che spesso questi attacchi erano coordinati a livello internazionale, i capi di Stato e i ministeri dell’Interno cominciarono a formulare strategie di difesa orientate alla cooperazione con gli altri Stati europei. Il dibattito sulla cooperazione diventò, quindi, una priorità all’ordine del giorno nelle agende politiche ministeriali e di governo. Possiamo collocare un’intensificazione degli scambi e degli incontri intorno agli anni Settanta, in concomitanza con l’avvento del terrorismo transnazionale nello scenario europeo. Basti ricordare, infatti, gli attentati alle Olimpiadi di Monaco del 197228 e all’aeroporto di Fiumicino nel 197329.

10 Nella seconda metà della decade la cooperazione tra polizie mirò ad intensificare lo scambio di dati, di saperi e d’informazioni tra gli organi di sicurezza30. Ed è per questa ragione che la lotta al terrorismo si può inquadrare in una storia internazionale nella sua più ampia accezione: come la storia dell’antiterrorismo internazionale ha condizionato l’esperienza dell’antiterrorismo italiano?

11 Per comprendere a fondo questo processo riteniamo sia utile soffermarsi su cinque piani analitici:

12 1. Quello politico (sia nazionale che nelle sue implicazioni internazionali), dove l’armonizzazione legislativa riflette sia la percezione statale dei terrorismi politici in ambito nazionale, sia le trasformazioni e i mutamenti nel dibattito interno alla cooperazione europea e internazionale.

13 2. Se consideriamo invece l’aspetto giudiziario, l’avvento del terrorismo ha influito sulla creazione di nuovi reati e ha innescato un processo di ridefinizione del nemico interno. Riscontriamo, infatti, maggiori cambiamenti in ambito penale in tutti quei Paesi che hanno subito l’arrivo del terrorismo. L’internazionalità della minaccia ha causato, al contempo, uno spostamento oltre i confini nazionali del dibattito interno alla dottrina penale e l’internazionalizzazione della lotta al terrorismo ha visto protagonisti la magistratura e i giuristi di ogni nazionalità31.

14 3. Stesso discorso vale per le trasformazioni nell’amministrazione della Pubblica Sicurezza e nel campo militare. L’influenza che altre esperienze di polizia hanno avuto nell’apprendimento di nuovi schemi d’indagine – sia interpretativi che metodologici – avvia una rapida trasformazione sia nella struttura di Pubblica Sicurezza, sia nella sua attività di repressione e prevenzione del crimine, sia nella democraticità o meno delle pratiche di polizia32.

15 4. Sul piano del discorso pubblico. Il terrorismo politico assume i caratteri di una minaccia inedita, che arriva dall’esterno e va ad aggiungersi e ad intrecciarsi con quella locale. Quindi, da parte dell’opinione pubblica e dei governi sembra rappresentare una minaccia multipla. Il prolungamento di una situazione dapprima ritenuta emergenziale assumerà dei caratteri di normalità dal momento che non potrà più tornare alla

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 57

situazione precedente33. Si sottolinea, infine, che la percezione della minaccia e della sua internazionalità assume forme diverse in base al retaggio storico e alle relazioni diplomatiche e culturali tra i diversi Paesi34. Infatti, peculiare a ogni società non è soltanto l’opinione pubblica di fronte alla violenza armata ma anche la reazione della società all’introduzione e all’applicazione di misure preventive e repressive da parte dello Stato. E quindi si rivela utile indagare cosa ha rappresentato, per le opinioni pubbliche di ogni Paese, rispondere a una minaccia e saper difendere un’idea di democrazia che varia a seconda delle diverse tradizioni politiche e di culture democratiche a volte distanti tra loro.

16 5. Infine, un piano meno esplorato ma che ci sembra invece in relazione con gli altri temi sopracitati è quello degli studi sulla territorializzazione della sorveglianza, in cui la lotta al terrorismo politico assume una funzione organizzativa e di controllo del territorio e – a volte – di violazione dello spazio sociale, dei confini e della sovranità nazionale35.

4. Perché approfondire l’aspetto internazionale della lotta al terrorismo in Italia e in Europa?

17 La cooperazione antiterrorismo istituita e promossa da diversi Paesi è una storia di atti concreti, di operazioni di polizia e di sorveglianza transfrontaliera. Il trasferimento di metodi e di saperi tra istituzioni (ministeri, governi, forze di polizia, magistratura) non rappresenta un aspetto da indagare da una prospettiva solo istituzionale ma pretende un’analisi più profonda, che miri a scoprire i legami – spesso anche personali – che sono intervenuti nella risoluzione di determinati casi d’emergenza36. L’elenco delle questioni affrontate pocanzi possono confermare (o meno) un mutamento nella percezione da parte dell’opinione pubblica e dei governi sia dell’idea di Sicurezza Interna, che dell’ordine pubblico, che della difesa dello Stato e dello Stato di Diritto.

18 Nel contesto di una più stretta collaborazione tra Stati avviene, inevitabilmente, quel processo di de-nazionalizzazione per cui in alcuni settori specifici la sovranità politica viene erosa in cambio della negoziazione e del soccorso mutuale. Le entità nazionali perdono dei margini di manovra nel momento in cui decidono di condividere informazioni sensibili con i “vicini”. A questo proposito, si può analizzare la cooperazione degli Stati europei contro il terrorismo politico degli anni Settanta e Ottanta come un campo di prova dei processi integrativi e/o disgreganti nel processo di europeizzazione della sicurezza.

19 Dalla seconda metà degli anni Settanta i vari livelli di cooperazione tra gli Stati europei contro il terrorismo consistevano in accordi diplomatici bilaterali e in sforzi più ampi nell’ambito multilaterale tra i ministeri degli Interni e della Giustizia. Concretamente, furono organizzate delle riunioni tra i capi di agenzie di sicurezza nazionali. Nel 1976 nacque il cd. gruppo TREVI, una cooperazione intergovernativa promossa dai ministeri degli interni e della giustizia di vari Paesi europei volta a rafforzare una reciproca assistenza nei settori riguardanti la lotta al terrorismo, la tecnologia e lo scambio di personale, la sicurezza dell’aviazione civile, la sicurezza dei trasporti di materiale nucleare e la lotta contro le calamità naturali e gli incendi37.

20 Perché, quindi, approfondire l’aspetto internazionale della lotta al terrorismo in Italia e in Europa?

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 58

21 Riteniamo sia necessario analizzare il ruolo dell’Italia nella rete di politiche di sicurezza europea, per esaminarne le interdipendenze; confrontarsi, quindi, con la storiografia, la politologia e la sociologia internazionale e disporre dell’ampia mole documentaria disponibile nella rete degli archivi all’estero38. Al contempo, indagare se e come l’Italia abbia influenzato l’idea di sicurezza interna europea. L’Italia del secondo dopoguerra è stato spesso oggetto di numerose ricerche storiografiche e viene intesa da molti studiosi come un laboratorio inedito per esaminare alcuni aspetti peculiari. Sarebbe quindi auspicabile comprendere le implicazioni internazionali del caso italiano analizzando la letteratura e la documentazione straniera, in una prospettiva comparata e transnazionale. Questo approccio permetterebbe, inoltre, di capire che posizione ha assunto l’Italia nella concezione di una Sicurezza “interna” estensibile ad un’idea di Europa come spazio comune e fattore d’integrazione. La cooperazione in materia di sicurezza interna è un campo d’azione politica che ha contribuito a rinsaldare e/o problematizzare le relazioni diplomatiche con altri Paesi, a consolidare un’idea condivisa o divergente dei valori democratici in Europa – in un processo non sempre lineare, intervallato da cesure, discontinuità e resignificazioni.

5. Considerazioni finali e spunti di riflessione

22 Come già ricordato, le molteplici peculiarità che caratterizzano la storia dell’Italia Repubblicana rappresentano un ostacolo (o una risorsa) allo studio in chiave internazionale e transnazionale della lotta al terrorismo. Un’eredità complessa è quella del periodo drammatico delle attività di destabilizzazione della rete militare Gladio e della fase della Strategia della tensione (1969-1974)39. Ma proprio per questa ragione, pensiamo sia necessario analizzare la storia della lotta al terrorismo italiano in relazione a un contesto globale, e provare quindi a “transnazionalizzare” non soltanto l’oggetto della ricerca ma la prospettiva dell’indagine stessa, sottolineando le criticità e le interconnessioni tra il dentro e il fuori della storia nazionale, comparandola ad altri contesti storico-politici (Stati Uniti, Repubblica Federale di Germania, Francia, Gran Bretagna etc.).

23 Per farlo, grande importanza assume un approccio di lungo periodo, che non consideri la violenza armata (in ogni sua forma) come una parentesi isolata dal contesto sociale, economico, politico e culturale di riferimento40. Per farlo, c’è bisogno di un’analisi che interconnetta la prospettiva locale, quella nazionale, internazionale e globale. Agli storici è dato il compito di riformulare paradigmi nazionali internazionalizzabili. Intendiamo dire che per affrontare una storia transnazionale di questo tipo c’è bisogno di riflettere sulle categorie e la specificità degli attori della ricerca. Saper guardare, cioé, alle differenze tra le storiografie e gli approcci metodologici – prediligendo un’interdisciplinarietà che permetta di utilizzare gli strumenti del mestiere al servizio di una storia dei concetti. Quegli stessi concetti o definizioni che non sempre mastichiamo bene. Ad esempio, cosa intendiamo per antiterrorismo? In cosa si differenziano i vari terrorismi che appaiono sulla scena mondiale degli anni Settanta e le risposte statali in relazione ai diversi sistemi politici di riferimento? A cosa ci riferiamo quando parliamo di Stato? Ai partiti politici, alle associazioni non governative, alle polizie, alle forze armate, alla magistratura? Cosa s’intende per lotta al terrorismo efficiente? Come misuriamo l’efficienza di strategie i cui risultati dipendono massivamente dal contesto storico-sociale su cui agiscono (ad es. il consenso sociale), in

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 59

relazione anche alle dinamiche evolutive dei processi di radicalizzazione politica e alle manifestazioni di violenza armata.

24 Per la storia dell’antiterrorismo americano, anglosassone e tedesco – come abbiamo osservato – è facile perdersi in diversi filoni storiografici che hanno il merito di essere interdisciplinari, in prospettiva comparata e transnazionale. Quindi, è il momento di riflettere su come formulare una metodologia che sappia rendere l’idea dei concetti nel loro divenire, rielaborare dunque delle definizioni ormai socialmente assunte ma che necessitano di una contestualizzazione. Da un punto di vista storiografico e metodologico consideriamo lo studio della storia dei concetti un quid per leggere e saper interpretare le sfumature o gli abissi che differenziano le storiografie europee sul tema. La riformulazione di parole d’ordine offrirebbe un ventaglio di opzioni per delineare percorsi simili o differenziati, tuttavia riconducibili a modelli d’analisi precisi con cui poter integrare l’analisi della documentazione primaria e secondaria.

25 Infine, la criticità nello studio del caso italiano risiede, ancora oggi, nell’incompletezza di alcune fonti documentarie fondamentali per ricostruire la risposta delle istituzioni al terrorismo politico dalla fine degli anni Sessanta in poi41. Non c’è dubbio che una ricerca internazionale può correre in aiuto dello studioso che ha la possibilità di consultare dei fondi inediti conservati in archivi stranieri. Tuttavia, questa disponibilità permette solo una parziale ricostruzione delle attività istituzionali di sorveglianza durante l’emergenza terroristica in Italia. Attendiamo (e chiediamo), dunque, che molto delle carte su quegli anni drammatici venga resa disponibile alla consultazione di un pubblico di ricercatori, esperti e cittadini sempre più numeroso – nella sua forma originaria e quindi, completa.

NOTE

1. URL: < https://www.statista.com/chart/4554/terrorist-attack-victims-in-western- europe/ > [consultato il 15 giugno 2017]. Il Global Terrorism Database è gestito dallo centro di ricerca START – National Consortium for the Study of Terrorism and Responses to Terrorism, disponibile on line, URL: < https://www.start.umd.edu/gtd/ > [consultato il 15 giugno 2017]. 2. Se ci riferiamo agli attentati che hanno visto vittime tra i civili (non i feriti, come quelli in Germania per i casi legati a piste terroristiche ancora da verificare. Non s’includono, quindi, i casi di Berlino e di Londra, ricordiamo gli ultimi episodi: il 19 dicembre 2016, Berlino, attacco con un camion ad un mercatino di natale, 12 morti; 22 marzo 2017, Londra, attacco al Westminster Bridge, 4 morti. 3. Sulle continuità e le discontinuità tra un vecchio e un nuovo terrorismo si cfr. DUYVESTEYN, Isabelle, «How New is the New Terrorism?», in Studies in Conflict & Terrorism, 27, 5/2004, pp. 439- 454. 4. Sul concetto di terrorismo inteso come guerra e sulla relazione tra conflitto armato, leggi di guerra e strumenti antiterroristici dopo l’11 settembre 2001 si cfr. il contributo di SASSOLI, Marco, «Terrorism and War, in Criminal Law Responses to Terrorism After

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 60

September 11, Special Issue», in Journal of International Criminal Justice, 4, 5/2006, pp. 959-981. 5. HOBSBAWM, Eric, The Age of extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991, London, Abacus, 1994. 6. Il termine terrorismo assume diversi significati e per questo motivo si rende necessario distinguerlo da altre forme di violenza quali la guerra (in particolare dalla c.d. “new war”, dalla guerriglia, dal crimine organizzato e dal terrorismo di stato), di cui si sono occupati molti studiosi negli ultimi anni. La definizione di “nuove guerre” fu coniato nel 1991 per distinguere dalle “vecchie” guerre tra Stati le sempre più frequenti forme di lotta tra organizzazioni non statali, si cfr. CREVELD, Martin van, The transformation of War, New York, Free Press, 1991. Le somiglianze tra il terrorismo e le tattiche di guerriglia sono impressionanti, di conseguenza, una catena di atti terroristici è spesso percepita come la complementazione urbana di questi ultimi, che si verifica piuttosto nelle zone rurali, difficilmente accessibili. Il fatto che la differenza tra combattenti e civili appaia sfocata nella “guerriglia urbana”, o terrorismo, sottolinea al tempo stesso la sua vicinanza a una guerra civile. Diversamente dai gruppi di guerriglia e dalle parti in una guerra civile, i terroristi spesso credono di essere sostenuti da un folto gruppo di cittadini. Ma in realtà, i loro attacchi non dipendono da un sostegno/ consenso reale. Per una distinzione tra terrorismo e terrore di stato o guerriglia si cfr. WALDMANN, Peter, Terrorismus. Provokation der Macht, München, Gerling, 1998. Per una distinzione tra strategie terroristica, guerriglia e crimine organizzato si veda MÜNKLER, Herfried, Guerrillakrieg und Terrorismus. Begriffliche Unklarheit mit politischen Folgen, in KRAUSHAAR, Wolfgang (herausgegeben von), Die RAF. Entmythologisierung einer terroristischen Organisation, Bonn, Lizenzausgabe BpB, 2008, pp. 71-108. Hess ha riflettuto sulle difficoltà nel saper differenziare il terrorismo dalla guerra e dal crimine, ma sostiene debba essere sottolineata attentamente una distinzione, in HESS, Henner, Die neue Herausforderung. Von der RAF zur Al-Quaida, in KRAUSHAAR, Wolfgang (herausgegeben von), Die RAF, cit, pp. 113-115. Anche Berger e Weber hanno lavorato sulle differenze tra terrorismo e guerra e, inoltre, spiegano una classificazione della strategia terroristica in relazione ai suoi obiettivi sia nella lotta rivoluzionaria, che in quella etnonazionalista fino a quella d’ispirazione religiosa. A tal proposito si cfr. BERGER, Lars, WEBER, Florian, Terrorismus, Erfurt, Landeszentrale Politische Bildung Thüringen, 2008. Si cfr. inoltre CASILIO, Silvia, «Il peso delle parole. La violenza politica e il dibattito sugli anni Settanta», in Storia e problemi contemporanei, XXIII, 55, 4/2010, pp. 11-28. 7. DONDI, Mirco, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione (1965-1974), Roma-Bari, Laterza, 2015; BISCIONE, Francesco Maria, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; PACINI, Giacomo, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014. GANSER, Daniele, NATO’s Secret Armies. Operation GLADIO and Terrorism in Western Europe, London, Routledge, 2005. 8. Dopo gli attentati di Parigi del 14 novembre 2015, di Bruxelles e di Nizza stiamo assistendo a un nuovo incremento degli episodi terroristici. Si cfr. inoltre BEAUMONT, Peter, «The Nice attack heralds a new kind of terror-one we can’t define», in The Guardian, 18 luglio 2016, URL: < https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/ jul/18/nice-attack-new-kind-of-terror-isis-lone-wolf-strikes-distinction-fades > [consultato il 30 marzo 2017].

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 61

9. TALEB, Nassim Nicholas, «The Black Swan: Chapter 1. The impact of the Highly Improbable», in The New York Times, 22 aprile 2007, URL: < http://www.nytimes.com/ 2007/04/22/books/chapters/0422-1st-tale.html > [consultato il 30 marzo 2017]. 10. Una eco alle dichiarazioni di G. Bush che gli Stati Uniti fossero “in guerra con un nuovo e diverso tipo di nemico”, in The 9/11 Report: The National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States, Macmillan, 2 agosto, 2004, p. 330; HOFFMAN, Bruce, «Rethinking Terrorism and Counterterrorism Since 9/11», in Studies in Conflict & Terrorism, 25,5/2002, pp. 303-316; un esempio di stampa mainstream: «The day that changed the World», in The Sun, 12 novembre 2001, p.1. 11. «Terror nach 9/11. 15 Jahre später», in Frankfurter Allgemeine Zeitung, URL: < http:// www.faz.net/aktuell/politik/kampf-gegen-den-terror/umgang-mit-dem-terror- nach-9-11-14427946.html > [consultato il 30 marzo 2017]. 12. Paradigmatici i casi del The Sun e della BILD sui fatti di Parigi, si cfr. «Six days to terror», in The Sun, si cfr. The Guardian dell’8 dicembre 2015, URL: < https:// www.theguardian.com/media/2015/dec/08/sun-apologises-over-misleading-six-days- to-terror-story > [consultato il 30 marzo 2017]; per la BILD si cfr., «Fallen, Fake, Alarm: Die Paris-Berichterstattung von Bild.de», in BILDBlog, URL: < http://www.bildblog.de/ 73965/fallen-fake-alarm-die-paris-berichterstattung-von-bild-de/ > [consultato il 30 marzo 2017]. 13. LINDER, Bernadette, Terror in der Medienberichterstattung, Wiesbaden, VS Verlag für Sozialwissenschaften, 2011, p. 18. 14. Il riferimento è al film LUMET, Sidney, The Network, MGM, Stati Uniti 1976, 121’. 15. LEWIS, Jeffrey, Language wars: the role of media and culture in global terror and political violence di Lewis, London, Pluto Press, 2005. 16. Per un’analisi sociologica sulla questione cfr. GUIBET LAFAYE, Caroline, BROCHARD, Pierre, «La radicalisation vue par la presse: fluctuation d’une représentation», in Bulletin de Méthodologie Sociologique/Bulletin of Sociological Methodology, 130, 1/2016, pp. 1-24. 17. Cfr. RIEDEL, Bruce, The Grave New World: Terrorism in the 21st Century, URL: < https:// www.brookings.edu/articles/the-grave-new-world-terrorism-in-the-21st-century/ > [consultato il 30 marzo 2017]. 18. Gli studi sociologici sul terrorismo e la violenza politica di Raimondo Catanzaro e Donatella Della Porta rappresentano senza ombra di dubbio un terreno storiografico da cui partire per analizzare i processi di radicalizzazione politica in Italia. Cfr. CATANZARO, Raimondo, La politica della violenza, Bologna, Il Mulino, 1990; CATANZARO, Raimondo, MANCONI, Luigi (a cura di), Storie di lotta armata, Bologna, Il Mulino, 1995; DELLA PORTA, Donatella, Social movements, political violence and the state. A comparative analysis of Italy and Germany, New York, Cambridge University Press, 1995. Inoltre, per una selezione di studi storiografici e sociologici in ambito europeo e internazionale, cfr.: CRENSHAW, Martha, «The Causes of Terrorism», in Comparative Politics, 13, 4/1981, pp. 379-399; WEINBERG, Leonard, EUBANK, William, The rise and fall of Italian Terrorism, Boulder, Westview Press, 1987; WUNSCHIK, Tobias, Baader-Meinhofs Kinder: die zweite Generation der RAF, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1997; WALDMANN, Peter, Terrorismus. Provokation der Macht, München, Gerling, 1998; JANSEN, Christian, Brigate Rosse und Rote Armee Fraktion. Protagonistinnen, Propaganda und Praxis des Terrorismus der frühen siebziger Jahre, in VON MENGERSEN, Oliver (herausgegeben von), Personen-Soziale

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 62

Bewegungen-Parteien, Heidelberg, Manutius, 2004; WEINHAUER, Klaus, REQUATE, Jörg, HAUPT, Heinz Gerhard (herausgegeben von), Terrorismus in der Bundesrepublik. Medien, Staat und Subkulturen in den 1970er Jahren, am Main, Campus Verlag, 2006; TERHOEVEN, Petra, Deutscher Herbst in Europa. Der Linksterrorismus der siebziger Jahre als transnationales Phänomen, München, Oldenbourg, 2014; CORNELIEßEN, Christoph, MANTELLI, Brunello, TERHOEVEN, Petra (a cura di), Il decennio rosso. Contestazione sociale e conflitto politico in Germania e in Italia negli anni Sessanta e Settanta, Il Mulino, Bologna, 2012; HANIMÄKI, Jussi, BLUMENAU Bernhard (eds.), An international History of Terrorism. Western and Non-Western experiences, London-New York, Routledge, 2013. CARR, Gordon, The Angry Brigade. A History of Britain’s first Urban Guerrilla Group, London, PMPress, 1975; FILLIEULE, Oliver (dir.), Le désengagement militant, Parigi, Belin, 2005; DONOHUE, Laura K., Counter-terrorist law and emergency powers in the United Kingdom, 1922-2000, Dublin, Irish Academic Press, 2000; DARTNELL, Michael Y., Action Directe: Ultra Left Terrorism in France 1979-1987, London, Frank Cass, 1995; HAMON, Alain, MARCHAND, Jean-Charles, Action directe. du terrorisme français à l’euroterrorisme, Paris, Seuil, 1986. 19. Tra i lavori sull’antiterrorismo e la risposta delle istituzioni discussi come tesi di dottorato o pubblicati prima del 2001, cfr. STORTONI, Luciana, La repressione del terrorismo in Italia: l’intervento delle forze dell’ordine fino all’inizio degli anni Ottanta, Tesi di dottorato – Istituto Universitario Europeo, Fiesole, 1992; DELLA PORTA, Donatella, Institutional responses to Terrorism: The Italian Case, in CRELINSTEN Ronald D., SCHMIDT, Alex P. (eds.), Western Responses to Terrorism, London, Frank Cass, 1993, pp. 151-170; PASQUINO, Gianfranco (a cura di), La prova delle armi, Bologna, Il Mulino, 1984. 20. CECI, Giovanni Mario, Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito, Roma, Carocci, 2014, p. 296. Cfr. ID., «A Historical Turn in Terrorism Studies?», in Journal of Contemporary History, 51, 4, 2016, pp. 888-896. 21. HÜRTER, Johannes (herausgegeben von), Terrorismusbekämpfung in Westeuropa. Demokratie und Sicherheit in den 1970er und 1980er Jahren, Berlin-New York, De Gruyter, 2014; BLUMENAU, Bernhard, The United Nations and Terrorism. Germany, Multilateralism, and Antiterrorism Efforts in the 1970s, London, Palgrave Macmillan, 2014; HOF, Tobias, Staat und Terrorismus in Italien, München, De Gruyter-Oldenbourg 2010; OBERLOSKAMP, Eva, Codename TREVI. Terrorismusbekmpfung und die Anfänge einer europäischen Innenpolitik in den 1970er Jahren, München, De Gruyter, 2016; DE GRAAF, Beatrice, Evaluating counterterrorism performance: A comparative study, London, Routledge, 2011; GERWARTH, Robert, HAUPT, Heinz-Gerhard, «Internationalising Historical Research on Terrorist Movements in Twentieth-century Europe», in European Review of History, 14, 3/2007, pp. 275-281; CENTO BULL, Anna, COOKE, Philip, Ending terrorism in Italy, London, Routledge, 2013; BIGO, Didier, «The emergence of a consensus: Global terrorism, global insecurity, and global security», in D’APOLLONIA, Ariane Chebel, REICH, Simon (eds.), Immigration, integration and security: America and Europe in comparative perspective, Pittsburgh, Pittsburgh University Press, 2008, pp. 67-94; in chiave comparata italo-tedesca cfr. REITER, Herbert, WEINHAUER Klaus, «Police and Political Violence in the 1960s and 1970s: Germany and Italy in a Comparative Perspective», in European Review of History – Revue européenne d’Histoire, 14, 3/2007, pp. 373-395. Per una panoramica del dibattito storiografico tedesco sul tema mi permetto di rimandare a DI FABIO, Laura, «Legge e ordine. La lotta al terrorismo degli anni Settanta-Ottanta nella storiografia tedesca», in Historia Magistra, 19, 2015, pp. 21-34.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 63

22. Cfr. CONRAD, Christoph, REICHARDT, Sven, «Geschichte und Gesellschaft», in Surveillance Studies, 42, 1, 2016; HEITMEYER, Wilhelm, HAUPT, Heinz-Gerhard, MALTHANER, Stefan et al. (eds.), Control of Violence. Historical and International Perspectives on Violence in Modern Societies, New York, Springer, 2011; BOERSMA, Kees, VAN BRAKEL, Rosamunde, FONIO, Chiara, WAGENAAR, Pieter, Histories of State Surveillance in Europe and Beyond, London-New York, Routledge, Routledge, 2014. 23. BARAVELLI, Andrea, Istituzioni e terrorismo negli anni Settanta. Dinamiche nazionali e contesto padovano, Roma, Viella, 2016; SATTA, Vladimiro, «Il contributo delle forze di Polizia alla repressione del terrorismo in Italia. Con particolare riferimento ai nuclei dei Carabinieri del generale Dalla Chiesa», in Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento-Jahrbuch des italienisch-deutschen historischen Instituts in Trient, 34, 2008, pp. 349-358; FALCIOLA, Luca, «Gli apparati di polizia di fronte al movimento del ‘77: organizzazione e dinamiche interne», in Ricerche di Storia Politica, 16, 2/2013, pp. 161-182; DELLA PORTA, Donatella, REITER, Herbert, Polizia e protesta: l’ordine pubblico dalla liberazione ai no global, Bologna, Il Mulino, 2003; CALOGERO, Pietro, FUMIAN, Carlo, SARTORI, Michele, Terrore rosso. Dall’Autonomia al partito armato, Roma-Bari, Laterza, 2010; GALFRÉ, Monica, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1982, Roma- Bari, Laterza, 2014; FOCARDI, Giovanni, «(Auto)rappresentazioni di settori della magistratura tra Stato e società, 1945-1992», in Medicina democratica, 207, 2013, pp. 10-24; ISRAËL, Liora, «Défendre l’ennemi public . L’affaire Croissant», in Le Mouvement social, 240, 3/2012, pp. 67-84; LAZAR, Marc, MATARD-BONUCCI, Marie Anne (a cura di), Il libro degli anni di piombo, Milano, Rizzoli, 2010. MATARD-BONUCCI, Marie Anne, DOGLIANI, Patrizia (a cura di), Democrazia insicura. Violenze, repressioni e stato di diritto nella storia della Repubblica (1945-1995), Roma, Donzelli, 2017. 24. REICHARDT, Sven, «Nuove prospettive sul terrorismo europeo degli anni Settanta e Ottanta», in Ricerche di Storia Politica, 13, 3/2010, pp. 343-366. 25. LAQUEUR, Walter, L’età del terrorismo, Milano, Rizzoli, 1987. 26. DEERY, Phillip, DEL PERO, Mario, Spiare e tradire. Dietro le quinte della Guerra Fredda, Milano, Feltrinelli, 2011; WUNSCHIK, Tobias, Combat and Conciliation: State Treatment of Left-Wing Terrorist Groups in West and East Germany, in FAHLENBRACH, Kathrin, KLIMKE Martin, SCHARLOTH, Joachim (eds.), The Establishment Responds. Power, Politics, and Protest since 1945, New York, Palgrave macmillan, 2012, pp. 157-177; ID., «I Servizi segreti e il terrorismo di sinistra nella Repubblica federale e nella Ddr», in Ricerche di Storia Politica, 3/2008, pp. 311–326. 27. TERHOEVEN, Petra, Deutscher Herbst in Europa. Der Linksterrorismus der siebziger Jahre als transnationales Phänomen, München, Oldenbourg, 2014. 28. OBERLOSKAMP, Eva, «Das Olympia-Attentat 1972. Politische Lernprozesse im Umgang mit dem transnationalen Terrorismus», in Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte, 60, 3/2012, pp 321-352; DAHLKE, Matthias, Demokratischer Staat und transnationaler Terrorismus: drei Wege zur Unnachgiebigkeit in Westeuropa 1972-1975, München, De Gruyter, 2011. 29. PARADISI, Gabriele, PRIORE, Rosario, La strage dimenticata. Fiumicino, 17 dicembre 1973, Reggio-Emilia, Imprimatur, 2015. 30. BIGO, Didier, Polices en réseaux: l’expérience européenne, Paris, Presses de la Fondation nationale des sciences politiques, 1996; DI FABIO, Laura, Due democrazie, un nemico comune. Italia e Repubblica Federale Tedesca contro il terrorismo (1972-1982)-Zwei Demokratien,

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 64

ein gemeinsamer Feind. Italien und die Bundesrepublik Deutschland gegen den Terrorismus (1972-1982), Tesi di dottorato, Università degli studi di Roma Tor Vergata – Westfälische Wilhelms Universität (WWU) in Münster, 2015. 31. OEHMICHEN, Anna, Terrorism and anti-terror legislation. The terrorised legislator? A comparison of counter-terrorism legislation and its implications on human rights in the legal systems of the United Kingdom, Spain, Germany, and France, Tesi di dottorato, Università di Leida, 2009; DIEWALD-KERKMANN, Gisela, Justiz gegen Terrorismus. “Terroristenprozesse” in der Bundesrepublik, Italien und Großbritannien in HÜRTER, Johannes (hrsg.), Terrorismusbekämpfung in Westeuropa, cit. 32. WEINHAUER, Klaus, Polizeikultur und Polizeipraxis in den 1960er und 1970er Jahren: Ein (bundes-)deutsch-englischer Vergleich, in BENNINGHAUS Christina et al. (hrsg.), Unterwegs in Europa. Beiträge zu einer vergleichenden Sozial-und Kulturgeschichte, Frankfurt-New York, Campus Verlag, 2008, pp. 201-218; MOKROS, Reinhard, Polizeiliche Zusammenarbeit in Europa, in LISKEN, Hans, DENNINGER, Erhard (hrsg.), Handbuch des Polizeirechts, München, C.H. Beck, 2001, pp. 1138-1230; LABANCA, Nicola, DI GIORGIO, Michele (a cura di), Una cultura professionale per la polizia dell’Italia liberale. Antologia del ‟Manuale del funzionario di Sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria (1863-1912), Milano, Unicopli, 2015. 33. AGAMBEN, Giorgio, Stato di eccezione, Homos sacer, II, 1, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; PASQUINO, Gianfranco (a cura di), La prova delle armi, Bologna, Il Mulino, 1984. 34. Cfr. TERHOEVEN, Petra, Deutscher Herbst in Europa, cit. 35. Sulla storia delle polizie in relazione alla società e al territorio nasce nel 2012 un valido esempio di cooperazione tra varie università italiane (Milano, Bergamo, Genova, Messina, Napoli “Federico II”, Pisa e Siena), il CEPOC (Il centro Interuniversitario di Studi sulle Polizie e il Controllo del Territorio, URL: < http://www.cepoc.it >). Cfr. ANTONIELLI, Livio (a cura di), Gli spazi della polizia. Un’indagine sul definirsi degli oggetti di interesse poliziesco, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013. Per un’introduzione metodologica generale agli Area Studies: MIDDELL, Matthias, NAUMANN, Katja, «Global History and the Spatial Turn. From the Impact of Area Studies to the Study of Critical Junctures of Globalisation», in Journal of Global History, 5, 1/2010, pp. 149-170; sul rapporto tra spazio e violenza si cfr. GREGORY, Derek, PRED, Allan (eds.), Violent Geographies: Fear, Terror, and Political Violence, London, Routledge, 2006; FOUCAULT, Michel, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al College de France 1977-1978, Milano, Feltrinelli, 2005. 36. Paradigmatico della sovrapposizione tra rapporti personali e ufficiali è il numero delle telefonate intercorse nell’inverno 1977-1978 tra l’allora Cancelliere Helmut Schmidt e il Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti. Si vedano gli Akten zur Auswärtigen Politik der Bundesrepublik Deutschland (AAPD), 1977, vol. II, München, Oldenbourg-De Gruyter, 2013, pp. 1650-1666. 37. OBERLOSKAMP, Eva, Codename TREVI. Terrorismusbekmpfung und die Anfänge einer europäischen Innenpolitik in den 1970er Jahren, München, De Gruyter-Oldenbourg, 2016; si veda inoltre BALD, Lisa, «Pubblica Sicurezza» in the European Context. Italy, securitization and a transnational counterterrorism policy, relazione presentata in occasione dell’Association for Political History (APH) Conference del 10-13 giugno 2015, BGHS, Bielefeld; DI FABIO, Laura, Due democrazie, un nemico comune. Italia e Repubblica Federale Tedesca contro il terrorismo (1972-1982), cit.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 65

38. Una selezione degli archivi esteri: il Bundesarchiv di Coblenza, il Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes (PAAA) e il Commissariato Federale per gli Archivi della Stasi (Der Bundesbeauftragte für die Unterlagen des Staatssicherheitsdienstes der ehemaligen Deutschen Demokratischen Republik-BStU) in Berlino; The National Archives in Inghilterra, the American Presidency Project, Digital National Security Archives degli Stati Uniti d’America, Les Archives Nationales francesi. 39. Si cfr. le rivelazioni dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti alla Camera dei Deputati il 24 ottobre 1990, nel corso delle interrogazioni sul caso Moro, anche in «La Nato parallela è ancora in piedi», in la Repubblica, 25 ottobre 1990; per una visione d’insieme, si cfr. PACINI, Giacomo, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991, Torino, Einaudi, 2014. 40. Per indagare le polizie e le attività di sorveglianza in un’ottica di lungo periodo si cfr. ad es. BRUNELLO, Piero, Storie di anarchici e spie. Polizia e politica nell’Italia liberale, Roma, Donzelli, 2009; LABANCA, Nicola, DI GIORGIO, Michele (a cura di), Una cultura professionale per la polizia dell’Italia liberale, cit.; CANALI, Mauro, Le spie del regime, Bologna, Il Mulino, 2004. 41. La direttiva del Presidente del Consiglio del 22 aprile 2014, la cd. Direttiva Renzi, ha previsto la declassificazione di una parte della documentazione prodotta dalle istituzioni durante gli anni Settanta e Ottanta. Sono state versate all’Archivio Centrale di Stato le carte relative agli eventi di Piazza Fontana a Milano, di Gioia Tauro, di Peteano, alla Questura di Milano, alla strage di Piazza della Loggia a Brescia, all’attentato al treno Italicus, all’abbattimento dell’aereo di Ustica, la bomba alla Stazione di Bologna e l’attentato al Rapido 904. Si cfr. l’elenco disponibile in URL: < http://acs.beniculturali.it/cosa-conserviamo/documentazione-declassificata/ > [consultato il 16 dicembre 2016]. Il problema della declassificazione versata seguendo criteri diversi ha portato recentemente alla creazione di un Comitato consultivo sulle attività di versamento agli archivi di Stato e all’Archivio Centrale dello Stato della direttiva 22 aprile 2014 che ha il compito di garantire il corretto versamento dei fondi dagli enti agli archivi in base a precise regole e parametri archivistici. Si cfr. anche la recente (e necessaria) discussione sulla digitalizzazione della documentazione giudiziaria su stragi, terrorismo e criminalità organizzata dal Centro Documentazione Archivio Sergio Flamigni reperibile sul canale ufficiale, URL: < https:// www.youtube.com/playlist?list=PLICE7Htb0A21y7hYxMWZkchjpd-TkWA8n > [consultato il 30 marzo 2017].

RIASSUNTI

Con questo articolo vorremmo contribuire al dibattito storiografico su che cosa significhi, oggi, studiare la storia della lotta al terrorismo in Italia da una prospettiva internazionale. Questo aspetto, finora rimasto in un cono d’ombra nell’ambito della storiografia italiana, vorrebbe concentrarsi sul ruolo che la cooperazione internazionale tra i Paesi europei ha svolto dagli anni Settanta del Novecento. La comparsa della violenza politica armata nel cuore dell’Europa, nella

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 66

seconda metà del 20° secolo, ci fornisce gli strumenti per poter oggi inserire la storia dell’antiterrorismo italiano in una dimensione globale. Tuttavia, questo discorso non esula dall’interconnettere la dimensione internazionale alle compresenti specificità nazionali. Si vorrebbe così stimolare una riflessione che provi a sintetizzare alcuni degli aspetti più significativi di cui dovrebbe tener conto una storia transnazionale di questo tipo. In secondo luogo, crediamo che un’indagine aperta alla comparazione e alla transnazionalità potrà senz’altro arricchire la storiografia italiana da diversi punti di vista. In terzo luogo, proponiamo dei percorsi metodologici che si aprano all’internazionalizzazione delle ricerche sul terrorismo e sull’antiterrorismo e che attingano dalla storia delle relazioni internazionali e dell’integrazione europea.

With this article, we aim at drawing attention to a hitherto less studied perspective in the history of Italian counterterrorism: the international cooperation in order to tackle the transnational threat of terrorism. Departing from the observation of several similar phenomena of political violence in the second half of the 20th century, we understand the Italian “storia della lotta al terrorismo” as embedded in its global context. However, this does not mean neglecting national particularities. Firstly, we explain which are the most important aspects of a transnational history of the fight against terrorism. Secondly, we argue that the investigation of these aspects can enrich the Italian history of counterterrorism in manifold ways. Thirdly, we propose manners and methods to open up Italian contemporary historiography on the topic towards a broader field of historical analysis, intertwined with the histories of international relations and European Integration. Concluding, we claim that the histories of Italian and of European antiterrorism efforts complement each other and that the links between both of them can help to better understand a complex history of diplomatic duties, legal frameworks, and institutional structures

INDICE

Parole chiave : terrorismo italiano, antiterrorismo, politiche di sicurezza, cooperazione europea sulla sicurezza, storia transnazionale. Keywords : Italian terrorism, counterterrorism, European Security Cooperation, security politics, transnational history

AUTORI

LISA BALD Lisa Bald è dottoranda presso l’IMT School for Advanced Studies di Lucca. La sua tesi di dottorato “Pubblica Sicurezza in the European context. Italy and the internationalisation of counterterrorism policy 1972-1982” è stata discussa nel luglio 2017. Interessata ai legami tra violenza politica, sicurezza e Stato, si occupa di cooperazione europea nella lotta al terrorismo. Ha studiato a Marburgo, Roma, Aarhus e Londra, e oggi sta lavorando al centro di ricerca interdisciplinare SFB “Dynamics of Security” dell’Università di Marburgo. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Bald >

LAURA DI FABIO Laura Di Fabio è dottore di ricerca dal 2015 (Università Tor Vergata in cotutela con l’Università di Münster, WWU). Ha dedicato i suoi studi alla cooperazione italo-tedesca nella lotta al terrorismo politico degli anni Settanta e alla radicalizzazione politica in Europa. Visiting fellow

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 67

all’Università di Treviri e di Lipsia, dal 2016 è ricercatore associato al Centro Maurice Halbwachs di Parigi. Ha pubblicato: «Legge e ordine. La lotta al terrorismo degli anni Settanta-Ottanta nella storiografia tedesca», in Historia Magistra, 19, 2015; Simpatizzante quindi terrorista? La sorveglianza delle polizie in Italia e nella Repubblica Federale di Germania (1968-1982), in MATARD-BONUCCI, Marie- Anne, DOGLIANI, Patrizia (a cura di), Democrazia insicura. Violenze, repressioni e stato di diritto nella storia della Repubblica (1945-1995), Roma, Donzelli, 2017, pp. 113-123. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#DiFabio >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 68

Gli Stati Uniti e la Spagna Repubblica e Guerra Civile (1931-1939)

Enrico Gori

1 Il 16 aprile 1931 Irwin Laughlin, ambasciatore americano in Spagna trasmise al Dipartimento di Stato, guidato da Henry Stimson, la notizia della nascita della Seconda Repubblica spagnola, proclamata due giorni prima in un’atmosfera di frenetico (delirious) entusiasmo1; le voci circa disordini e violenze, continuava, erano infondate, e contribuivano solo a deprezzare la peseta, danneggiando gli investimento americani; la situazione era invece del tutto stabile e pacifica, ci si attendeva «una nuova dittatura, non di tipo militare»2, e il nuovo governo annoverava tra i suoi ministri un ampio spettro di posizioni politiche, tra cui i liberali ex monarchici Niceto Alcalá Zamora, eminente giurista di salda fede cattolica, già ministro di Opere Pubbliche e Transporti (Ministro de Fomento) nel 1917-19183, in veste di Presidente del governo provvisorio, e Miguel Maura, figlio del più volte primo ministro Antonio, al ministero dell’Interno4. La sinistra era rappresentata dai socialisti moderati Fernando de los Ríos alla Giustizia, da Indalecio Prieto alle Finanze, e dal massimalista Francisco Largo Caballero al Lavoro. Presiedeva il Governo e il Ministero della Guerra Manuel Azaña, intellettuale e giurista appartenente alla sinistra repubblicana5.

2 Il cambiamento di governo, benché pacifico, inquietò Stati Uniti e Gran Bretagna, che si rifiutarono di considerare decaduta la monarchia e di riconoscere il governo provvisorio, che secondo Laughlin rischiava di essere contaminato dalla “influenza comunista” che aveva traviato l’ingenuo e arretrato popolo spagnolo6. Inoltre, da Riga giungeva la notizia che la «Pravda» e le «Izvestija» avevano salutato la “rivoluzione” con entusiasmo sospetto, tracciando analogie tra la Russia di Kerenskij, la Germania di Brüning e la Repubblica di Alcalá Zamora7. La prima rassicurazione che il governo sarebbe stato stabile venne dallo stesso Presidente Alcalá Zamora, che il 17 aprile

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 69

incontrò Laughlin8. Il giorno dopo, la Repubblica fu riconosciuta da Francia, Germania e Italia; Washington e Londra tuttavia esitavano, nonostante Alejandro Lerroux, Ministro degli Esteri spagnolo appartenente al Partito Radicale, allora collocato a destra, avesse dichiarato in una lettera all’ambasciatore che il re Alfonso XIII aveva inequivocabilmente abdicato9. Il 20 aprile Laughlin fu in grado di rassicurare Stimson: gli investimenti americani, calcolati in 5 milioni di dollari, sarebbero stati rispettati, in particolar modo la Compañía Telefónica Nacional Española, filiale dell’americana International Telephone and Telegraph Company, il cui presidente Hernand Behn aveva contribuito a rassicurare Washington sull’inesistenza del pericolo comunista10.

3 L’opinione pubblica americana era però di un altro avviso: il 15 aprile il «New York Times» espresse il timore che la transizione pacifica potesse degenerare in una guerra civile, richiamando l’esempio dell’effimera Prima Repubblica (1873-1874), nata e morta durante la sesta e ultima guerra carlista (1869-1876). Anche se la guerra non fosse scoppiata, continuava con toni più ragionevoli il quotidiano, il nuovo governo si sarebbe presto confrontato con numerosi problemi di ordine pubblico, causati in primo luogo dagli scioperi indetti dalla CNT. Destava invece simpatia la proclamazione dello Statuto federale catalano11. Ancora più pessimista era lo «Washington Post», che echeggiava, moltiplicandone l’intensità, le preoccupazioni di Laughlin: occorreva al più presto un dittatore che prevenisse l’insorgere di disordini ispirati dai comunisti, se non addirittura di un governo comunista, secondo presunti piani di Mosca; Niceto Alcalá Zamora era solo un debole Kerenskij che sarebbe stato presto rovesciato, tanto il governo era “intriso” di comunismo12. Ma il Dipartimento di Stato si dimostrò pragmatico, e il 20 aprile, seguendo la Gran Bretagna, riconobbe la Repubblica spagnola, poiché, secondo Laughlin, il riconoscimento diplomatico avrebbe diminuito il rischio di una deriva rivoluzionaria13.

4 L’11 e il 12 maggio, numerosi edifici religiosi furono incendiati in tutta la Spagna, in seguito alle drastiche misure di secolarizzazione decise dal governo e inserite nella nuova Costituzione14. Subito il «Washington Post» gridò alla sovversione comunista, ma Laughlin gettò acqua sul fuoco: la quema de los conventos non era stata organizzata né dal Comintern né dalla CNT: era stato un momento spontaneo di follia collettiva e trasversale, uno sfogo che il governo non prevenne e non represse, limitandosi ad arrestare per breve tempo 80 comunisti e qualche aristocratico15. Dopo questi fatti, il Dipartimento di Stato preferì non discutere la situazione interna del Paese nella corrispondenza diplomatica, che fu in ogni caso pressoché inesistente fino al 10 novembre, quando emerse una importante vicenda commerciale.

1. La questione dei dazi e la nazionalizzazione delle telecomunicazioni

5 Fino a quel momento, gli interessi americani in Spagna erano limitati all’industria petrolifera, dove la Standard Oil Company aveva investimenti per 5 milioni di dollari, già messi a rischio dalla prima nazionalizzazione delle raffinerie decisa dal generale Miguel Primo de Rivera nel 1928, un anno prima della sua deposizione; la misura stabiliva il monopolio della compagnia nazionale CAMPSA, che ne approfittò per stipulare un contratto per le forniture di petrolio con l’Unione Sovietica16. La reazione fu l’incremento dei dazi doganali sulla frutta, in particolare l’uva coltivata ad Almeria, sulla costa occidentale andalusa, soprattutto per evitare la diffusione del moscerino

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 70

mediterraneo della frutta negli Stati Uniti17; questa ultima preoccupazione sarà oggetto di una discussione commerciale che caratterizzerà interamente gli scambi diplomatici tra Stati Uniti e Spagna, facendo passare in secondo piano le preoccupazioni circa l’ordine pubblico, che invece inquietavano Londra. I messaggi inviati dagli ambasciatori Laughlin e, dal 1933, Claude Bowers a Washington riguarderanno, fino allo scoppio della guerra civile, quasi esclusivamente conflitti commerciali.

6 Il 10 novembre 1931 entrò in vigore il trattato franco-spagnolo sulla riduzione dei dazi, e gli Stati Uniti pretesero di beneficiarne, ma il governo spagnolo richiese, come del resto aveva fatto con tutti i Paesi inclusi nel trattato, la semplificazione dei controlli amministrativi su determinati beni: armi da fuoco a canna corta, arance, uva e aglio. Gli Stati Uniti rifiutarono, e si riservarono il diritto di rispondere in modo speculare se la loro richiesta non fosse stata accolta, cosa che il Dipartimento di Stato si aspettava in base a un decreto reale del 27 maggio 1927, consolidato il 30 dicembre 192818. Dopo una settimana di stallo, gli Stati Uniti decisero di venire incontro agli spagnoli, esaminando in un memorandum una serie di beni la cui importazione in terra americana era vietata o resa difficile: • uva, che necessitava di un apposito certificato che attestasse l’assenza del moscerino mediterraneo; • sughero, la cui esportazione era scoraggiata dai dazi molto alti. • tappi, che dovevano essere marchiati uno ad uno; nel memorandum presentato al Dipartimento di Stato si proponeva di marchiare le confezioni; • acqua minerale, di cui si chiedeva la revoca dell’embargo; • peperoncino e pesce in scatola, per i quali si chiedeva un rilassamento delle norme sanitarie; • armi, che non presentavano in realtà problemi; si consigliava tuttavia di facilitarne l’ingresso; • aglio; si richiedeva un rilassamento delle norme fito-sanitarie, ritenute troppo cavillose, poiché si concentravano sul potenziale infettivo del laccio usato per legare i bulbi; • patate delle Isole Canarie, che si suggeriva di ricevere avvolte nella segatura o nel sughero, come accadeva per i pomodori19.

7 Il memorandum si chiudeva raccomandando di contrastare la falsificazione delle etichette sull’uva della California, spesso spacciata per uva di Almeria o Valencia, problema irrisolto nonostante le reiterate proteste del governo spagnolo. La risposta del Dipartimento dell’Agricoltura fu cordiale ma ferma: il moscerino mediterraneo era stato recentemente debellato in Florida dopo un trattamento costato 7 milioni di dollari. Sii richiedeva quindi al Governo spagnolo di fare altrettanto, e di migliorare i controlli amministrativi sulle merci indicate. Intanto, la Camera di Commercio per la Motorizzazione premeva perché la Spagna fosse privata del trattamento di nazione più favorita e le si applicassero dazi più alti20.

8 Il 22 aprile 1932 la disputa sembrava essere giunta al termine: il governo spagnolo era pronto a concedere la sospirata posizione agli Stati Uniti, e a non estendere la lista dei beni di cui si richiedeva la revisione commerciale21. Tuttavia, il problema dell’uva restava: 400 viticoltori di Almería avevano organizzato una protesta contro Madrid, e la concessione rischiava di finire in Parlamento per danni economici22. Il 2 giugno il governo spagnolo riferì al Dipartimento di Stato che avrebbe isolato le vigne libere dal moscerino della frutta, e proponeva di esportare l’uva a nord della Mason-Dixon Line, vale a dire nel Midwest e nel New England, poiché, prima dell’embargo, l’uva era

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 71

spedita solo tra dicembre e gennaio, quando il freddo impediva all’insetto di propagarsi. Le proposte furono rifiutate, e le trattative si arenarono23.

9 Il 10 dicembre 1931, il governo spagnolo denunciò il contratto della International Telephone and Telegraph Company con la compagnia nazionale, di cui la prima era azionista di maggioranza, e minacciò di far votare alle Cortes un decreto di confisca dei beni della compagnia. Il Dipartimento di Stato, temendone le ripercussioni negative sulla fiducia degli investitori, minacciò a sua volta di chiedere una forte indennità, che avrebbe intaccato il già precario bilancio spagnolo. Esattamente 23 giorni più tardi, il decreto fu congelato per ricomparire quasi un anno dopo, il 18 novembre 1932. Il Presidente del Consiglio spagnolo Manuel Azaña assicurò che non ci sarebbero state confische, aggiungendo però che il contratto nuoceva agli interessi nazionali. Davanti alla prospettiva di un crollo della peseta e di uno sciopero dei telefonisti, che sarebbe stato affrontato con la forza, danneggiando il governo, già provato da azioni simili24, il decreto fu ritirato il 6 dicembre25. Tutto ciò dimostra come, nonostante la preoccupazione per la turbolenta situazione sociale, gli Stati Uniti continuassero a dare la precedenza ai dettagli commerciali fino alla sollevazione di Franco.

2. L’ambasciatore e il Presidente: Roosevelt, Bowers e il ‘biennio nero’

10 Il 4 marzo 1933 Franklin Delano Roosevelt entrò in carica come trentaduesimo Presidente degli Stati Uniti. Il padre del New Deal non amava la Spagna e il suo popolo, ritenuto indolente e arretrato, e nei viaggi europei con la moglie Eleanor, che tenterà fino alla fine di influenzare la politica del marito durante la Guerra Civile, si era sempre rifiutato di visitarla. Fino allo scoppio della guerra mantenne l’approccio del suo predecessore in materia di rapporti economici, in parte a causa della scarsa conoscenza che aveva della vicenda26. Fece però un gesto di apertura sostituendo il rigido e prevenuto Irwin Laughlin con Claude Bowers, che fu accreditato il 1° giugno. Storico delle presidenze Jefferson e Jackson, membro del Partito Democratico e amico personale del Presidente, amante della Spagna, sostenitore della Repubblica, le cui personalità imparò presto a conoscere, Bowers aveva grande stima e ammirazione per il Presidente del Consiglio Manuel Azaña27.

11 Nei mesi precedenti la nomina del nuovo ambasciatore, la disputa sull’embargo della frutta non era proseguita; Bowers e Cordell Hull, il nuovo Segretario di Stato, si ritrovarono a discutere degli stessi impedimenti, con l’aggiunta di un’altra merce contestata: il vino, la cui quota d’acquisto era, secondo gli spagnoli, troppo bassa. Gli Stati Uniti ricordarono alla controparte le restrizioni alla vendita di alcool, e la questione fu chiusa28.

12 Quando, il 19 novembre 1933, la destra spagnola vinse le elezioni politiche, il nuovo Presidente del Consiglio Alejandro Lerroux, già ministro degli Esteri, e José María Gil Robles, capo della coalizione monarchica CEDA, abrogarono la riforma agraria e promossero ufficiali fortemente ostili alla Repubblica tra cui il generale Francisco Franco29. Nonostante Bowers nutrisse fondati timori che la Repubblica fosse minata da questi provvedimenti, i rapporti tra i due Paesi si rilassarono, venendo meno l’ondata di scioperi, soprattutto anarchici, che aveva caratterizzato il periodo Azaña, e quindi il «pericolo comunista»30.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 72

13 Il primo segnale positivo fu la liberazione di cinque americani dal carcere di Palma de Mallorca: il 4 giugno i rei, ubriachi, avevano aggredito una pattuglia della Guardia Civil (gendarmeria), ferendo un agente; condannati a 45 giorni, furono liberati con la condizionale il 21 luglio, ma il caso restò aperto contro la volontà di Azaña; furono graziati da Lerroux il 29 gennaio 193431.

14 La questione del vino fu risolta il 13 marzo: il Dipartimento dell’Agricoltura avrebbe approvato l’importazione con licenza di 1.100.000 galloni di vino in cambio dell’acquisto da parte spagnola di 1.585.000 kg di tabacco della Virginia. Come ulteriore prova del netto miglioramento delle relazioni, il 20 marzo il Dipartimento di Stato comunicò al governo spagnolo l’inizio dell’importazione di uva, anche dalle aree infestate dal moscerino, a partire dal 1° maggio, previo imballaggio in barili, che sarebbero poi stati sterilizzati in un apposito stabilimento alla temperatura di -1° per 24 ore, una volta giunti nei porti a nord della Mason-Dixon Line32.

15 Nel frattempo, l’ordine pubblico, pur continuando ad essere assente nelle comunicazioni diplomatiche, tornò a preoccupare il Dipartimento di Stato, anche se per ragioni opposte alle solite: il governo Lerroux era caduto il 28 aprile, sostituito da un interim guidato dall’ex ministro dell’Industria Ricardo Samper, che si distinse per numerosi arresti di operai e attivisti di sinistra. Hull e Bowers espressero concordemente i propri timori, che in autunno trovarono una tragica conferma.

16 Il 4 ottobre Samper lasciò di nuovo il posto a Lerroux, e Gil Robles richiese, in cambio della fiducia al politico radicale, tre dicasteri per la CEDA. Questo mise in allarme i socialisti, il cui sindacato, la UGT, proclamò uno sciopero generale per evitare che accadesse come in Austria, dove il 4 marzo 1933 il cancelliere democristiano Engelbert Dollfuss aveva sospeso i partiti e promulgato una costituzione di stampo fascista. Il 12 febbraio 1934 i socialisti si scontrarono con esercito, forze dell’ordine e Heimwehren (le organizzazioni fasciste austriache)33. Bowers si mise immediatamente in contatto con il segretario di Stato Cordell Hull per aggiornarlo costantemente. Il 4 ottobre gli operai di Barcellona occuparono una grande fabbrica di armi e interruppero le comunicazioni con la Francia, e due giorni dopo Lluís Companys, Presidente della Generalitat Catalana proclamò l’indipendenza della regione. Alle 21:15, un’ora dopo l’annuncio, l’aviazione bombardò Barcellona. Companys fu arrestato, e fu proclamata la legge marziale34.

17 I dissensi tra socialisti e anarchici , divisi sulla questione se lo sciopero dovesse avere uno sbocco rivoluzionario, esaurirono ben presto il movimento a Madrid, Barcellona e nel Sud. Nel Nord, in Galizia, Cantabria e Asturie, dove operavano le Alianzas Obreras, comitati rivoluzionari composti da anarchici, socialisti e comunisti, gli operai, con armi di contrabbando, proclamarono ‘repubbliche socialiste35; Diego Hidalgo, ministro della Guerra inviò l’esercito, guidato dai generali López Ochoa e Francisco Franco, promosso sette mesi prima, e dal tenente-colonnello Juan Yagüe, che impiegò il Tercio de Extranjeros, la Legione marocchina, come se si trattasse di una guerra coloniale, poiché per Franco era veramente «una guerra le cui frontiere sono il socialismo, il comunismo e quanto attacca la civiltà per sostituirla con la barbarie», secondo una dichiarazione riportata dal suo secondo Franco Salgado-Araujo nelle sue memorie36. Domata l’insurrezione, costata, secondo il governo, 1.335 morti, tra cui 34 religiosi, e circa 2.670 feriti37, i più importanti capi della sinistra repubblicana, tra cui Francisco Largo Caballero, Luís Companys, Presidente della Generalitat Catalana Lluís Companys, e persino Manuel Azaña, del tutto estraneo agli eventi, furono arrestati38; la legge

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 73

marziale, proclamata il 6 ottobre fu prolungata, e così la censura ai giornali socialisti, comunisti e anarchici39.

18 Bowers, che aveva avvertito il Dipartimento di Stato delle conseguenze nefaste della CEDA al governo, si disse convinto che, nonostante la repressione, la Repubblica ne sarebbe stata rafforzata, un pensiero che anche i futuri generali ribelli, in quel momento, condividevano40.

19 Ristabilito, apparentemente, l’ordine, e incoraggiati dalla politica liberista dal punto di vista economico e centrista dal punto di vista politico, nonostante la presenza di Gil Robles al ministero della Guerra, gli americani ripresero le trattative commerciali, tentando di ottenere un trattamento favorevole per l’esportazione di automobili. La fiducia americana fu scossa in ottobre, quando le Cortes discussero una grave accusa di corruzione a carico di Alejandro Lerroux, che l’anno prima aveva accettato tangenti da parte di due imprenditori tedeschi, Strauss e Perlowitz, per introdurre in Spagna il gioco d’azzardo, che era proibito. Questo segnò la fine delle ambizioni politiche del Partito Radicale, e anche della CEDA, che sperava di raccoglierne il testimone dopo le dimissioni del premier ad interim Joaquín Chapaprieta, autore della suddetta politica economica. Ma Alcalá Zamora non volle ripetere l’ottobre 1934, e incaricò l’avvocato Manuel Portela Valladares di formare il governo in attesa delle elezioni politiche, fissate per il 16 febbraio 193641.

20 Ormai la stabilità era un’illusione infranta: destre e socialisti rivendicavano il diritto a un colpo di mano, mentre i comunisti si preparavano ad applicare lo schema del Fronte Popolare elaborato l’anno prima e confermato dal VII Congresso dell’Internazionale Comunista (25 luglio-20 agosto 1935), il che, nonostante i propositi di alleanza con i repubblicani moderati, allarmava il Dipartimento di Stato più di una sovversione di destra. Quando le elezioni diedero una risicata maggioranza alla coalizione di sinistra, cosa prevista da Bowers, grazie al carisma e alla moderazione di Azaña e a 500.000 voti anarchici, Franco si presentò due volte da Portela Valladares per richiedere, echeggiando Gil Robles, l’annullamento delle elezioni, che il premier rifiutò, pur temendo il peggio e detestando Azaña42.

21 Il nuovo governo ritornò al protezionismo del 1931, inasprendo i controlli sulla valuta, mettendo in forse il trattato del 23 ottobre 1935, e certamente non diede garanzie di stabilità, poiché Largo Caballero continuava a incitare governo e militanti alla rivoluzione. Lo spettro del comunismo, secondo Washington, aleggiava di nuovo su Madrid, soprattutto dopo il 7 maggio, quando le Cortes costrinsero Alcalá Zamora a dimettersi per aver violato la Costituzione sciogliendo le camere due volte in sei mesi; gli successe Azaña, che il 13 maggio nominò Primo Ministro Santiago Casares Quiroga. Illusi dalla calma apparente che regnava in Spagna nell’estate del 1936, gli osservatori internazionali ignorarono le avvisaglie della cospirazione di Francisco Franco e dei suoi colleghi generali43, che nella notte tra il 17 e il 18 luglio, prendendo a pretesto l’uccisione del celebre politico monarchico José Calvo Sotelo avvenuta il 13, chiamarono alla rivolta contro il governo dalle Canarie e dalle Baleari, dove erano stati confinati44.

3. La neutralità ad ogni costo

22 Con avversari così tenaci, Roosevelt non ebbe altra scelta che comportarsi come nel 1931: attendere la risposta di Francia e Inghilterra. Non dovette attendere a lungo: il premier francese Léon Blum, dopo una iniziale decisione di inviare armi alla Repubblica

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 74

spagnola, rinunciò il 27 luglio, convinto della buona fede degli altri Paesi europei, e dissuaso dall’aggressività dell’opposizione e dal Primo Ministro inglese Stanley Baldwin45. La scelta della neutralità, che si tradusse nel non riconoscimento dello status di belligeranti a nessuna delle due parti46, misura, questa, adottata per garantire il transito delle navi inglesi e francesi, e non provocare incidenti diplomatici, che sarebbero stati inevitabili in caso di riconoscimento dello stato di guerra civile. Questa posizione fu assunta e formalizzata il 2 agosto con la nascita del Comitato di Non Intervento di Londra, al quale aderirono 26 Paesi47.

23 Il Dipartimento di Stato verificò subito tre importanti sospetti: se l’Unione Sovietica inviasse armi alla Repubblica, cosa di cui gli inglesi erano certi48; se il blocco navale imposto dai ribelli sulle coste marocchine era legale, e se i cittadini americani residenti in Spagna fossero al sicuro. I risultati furono i seguenti: l’Unione Sovietica non stava inviando armi, ma solo promuovendo collette di solidarietà49; il blocco navale era illegale, in quanto violava gli accordi di Tangeri del 18 dicembre 1923, che pure non includevano gli Stati Uniti, secondo i quali il porto marocchino era zona neutrale; il Dipartimento di Stato, poiché le compagnie petrolifere che operavano nell’area erano incerte sul da farsi, preferì inoltrare protesta a Franco, i cui aerei impedivano il rifornimento delle navi americane50.

24 ll 4 agosto 1936 Cordell Hull ricevette formale proposta di aderire al neonato Comitato di Non Intervento. Il segretario di Stato, di formazione e credo wilsoniano, era convinto del carattere morale prima che politico della neutralità, un deciso cambiamento rispetto all’avversione nutrita fino a quel momento per il principale gruppo isolazionista al Congresso, il Nye Committee, guidato dal Repubblicano Gerald Nye, ideatore del Neutrality Act del 2 settembre 1935. Hull, che fino ad allora aveva seguito con apprensione l’invasione italiana dell’Etiopia, non potendo opporsi alla maggioranza isolazionista, suggerì al Presidente di inserire una clausola di flessibilità, perché, rifletteva, se un Paese amico inerme era attaccato da un nemico bene armato, un embargo sulle armi esteso a entrambe le parti avrebbe inevitabilmente favorito il secondo51. Ironia della sorte, in Spagna si presentò esattamente questa situazione. La soluzione legale adottata da Londra e Parigi, non considerare belligeranti repubblicani e ribelli spagnoli, invalidava di fatto l’embargo generale previsto dal Neutrality Act, che menzionava esplicitamente lo stato di guerra dichiarata, ma Hull, forte del consenso generale, fece appello al carattere non interventista della dottrina internazionale americana, formalizzata della Convenzione di Montevideo del 26 dicembre 1933, e alla necessità di aderire alla politica europea, che vedeva nel fragile patto, subito violato da Italia, Germania e Portogallo a favore dei ribelli, cui l’Unione Sovietica rispose violandolo a sua volta il 10 ottobre 1936, un modo sicuro per evitare una guerra globale. Armare il governo, avrebbe significato aumentare l’instabilità nella zona repubblicana, da dove provenivano notizie allarmanti di uccisioni di massa, incendi di chiese e saccheggi (Roosevelt però non mancò mai di notare che la United Press di Hearst non riportava mai i fatti di sangue nella zona ribelle)52. Quando l’ambasciatore spagnolo a Washington Fernando de los Rios fece notare a Hull che gli Stati Uniti si erano sempre schierati a favore dei governi legittimi, il Segretario di Stato invocò la necessità di avere una visione più ampia (to seek a broader course), per non pregiudicare ulteriormente la situazione internazionale, e attenersi alla dottrina di Montevideo53. Anche Bowers, più emotivamente coinvolto dell’imperturbabile Hull, si dichiarò a favore dell’embargo, convinto che la Repubblica ne avrebbe beneficiato54.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 75

4. L’anno 1937: l’embargo si rafforza e la società si polarizza

25 Mantenere la neutralità, come si è detto, era fondamentale, in previsione delle elezioni presidenziali, che si sarebbero tenute il 3 Novembre 1936. Roosevelt non aveva bisogno di rinunciare a intenzioni che non aveva per compiacere gli elettori, poiché riteneva che la guerra spagnola non minacciasse gli interessi degli Stati Uniti; eppure non poteva ignorare due fatti: la dura contrapposizione tra l’elettorato cattolico, favorevole a Franco, e l’elettorato protestante, favorevole alla Repubblica, e la costatazione che il Non Intervento europeo non impediva l’afflusso massiccio di aiuti ai ribelli. Tuttavia, il carattere morale dell’embargo imponeva il suo mantenimento, soprattutto per evitare che i commercianti di armi ricattassero la Repubblica, cosa che quasi avvenne quando due di loro, Robert Cuse e Richard Dinely tentarono, il primo tramite licenza, il secondo illegalmente, di vendere armi alla Repubblica55.

26 Il 6 gennaio 1937 il Congresso si pronunciò all’unanimità a favore dell’embargo legale, con solo voto contrario alla Camera56, mentre una nave con a bordo armi commissionate da Robert Cuse salpava per la Spagna, per poi essere catturata nel mar Cantabrico dai ribelli. Nello stesso giorno 96 americani, partiti da New York sulla nave S. S. Normandie diretta a Le Havre giunsero a Barcellona, quindi ad Albacete: erano i primi volontari americani delle Brigate Internazionali, ideate e sostenute dal Comintern per combattere Franco insieme all’Esercito Popolare della Repubblica57. Ne sarebbero arrivati almeno 2.67558. Roosevelt, che due giorni prima aveva approvato che i loro passaporti fossero bollati “non validi per la Spagna”, annunciò il giorno 13 che l’arruolamento volontario in entrambi i campi era proibito in quanto “antipatriottico”; tuttavia, il 2 febbraio impedì al Dipartimento di Giustizia di perseguire reclutatori e volontari, poiché, disse, «tutto questo è iniziato prima che si comprendesse il significato degli eventi spagnoli». Lo stesso Earl Browder, capo del Partito Comunista Americano, reclutatore con il nome in codice di Rulevoi (“Timoniere” in russo), riconobbe di aver violato la legge, ma non fu mai interrogato o punito per questo59. È probabile che il Presidente sia stato convinto da Bowers, che in un lungo rapporto sulla situazione dell’intervento straniero in Spagna datato 12 gennaio (ricevuto il 25), criticava apertamente la Gran Bretagna, che continuava a ignorare la presenza italiana e tedesca anche a fronte delle prove fornite dal governo spagnolo, e osservava, lodando l’azione delle prime Brigate Internazionali, che: Se escludiamo adesso i volontari, e i soldati professionisti degli Stati fascisti continuano ad arrivare, il risultato sarà inevitabile60.

27 I ribelli avevano capito che il Non Intervento li favoriva, al punto che il generale Gonzalo Queipo de Llano, comandante della guarnigione di Siviglia, famoso per i suoi discorsi radiofonici, lodò in uno di questi gli Stati Uniti61, cosa che lusingò Bowers, forse ignaro del fatto che Franco aveva espresso la stessa soddisfazione il 1 ottobre 193662. Il Presidente non ricambiò la cortesia: era venuto a sapere che la Texaco Oil Company riforniva a credito i ribelli di petrolio, che non era soggetto a embargo, come non lo erano i veicoli non militari che la General Motors e la Firestone avevano già venduto; tuttavia, il credito era illegale, e il colonnello Thorkild Rieber, presidente della Texaco dovette pagare una multa di 20.000 dollari, il che non impedì a Franco di ricevere un totale di tre milioni e mezzo di tonnellate di petrolio fino alla vittoria finale63.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 76

28 Il 26 aprile 1937 l’aviazione tedesca bombardò Guernica, città sacra dei Baschi, al fine di facilitare l’avanzata franchista su Bilbao. La Germania negò le proprie responsabilità, incolpando i “bolscevichi” di aver incendiato la città mentre si preparavano a lasciarla, pretendendo dalla stampa inglese, che aveva divulgato la notizia, una smentita ufficiale64. Questa versione, ‘copiata’ dalla resa di Irún (5 settembre 1936), sempre nei Paesi Baschi, che era stata parzialmente incendiata una volta evacuata la popolazione, e fornita da due emittenti nazionaliste Radio Requeté e Radio Nacional la sera del 27 aprile65, fu immediatamente raccolta e propagandata da Edward Knoblaugh della Associated Press66. Bowers definì «incredibile» la diffusione delle menzogne tedesche e ribelli, tanto più che un corrispondente del «Times» di Londra era stato quasi ucciso in un mitragliamento a bassa quota. Fu proprio il «Times», di orientamento conservatore, a descrivere accuratamente il bombardamento, specificando che gli aerei tedeschi erano di tre tipi: , caccia Hinkel e bombardieri dello stesso tipo, che avevano sganciato bombe da 1.000 libbre in giù e 3.000 libbre di proiettili di alluminio67. Hildreth Meière, una muralista di New York, promotrice dell’associazione filo-franchista Union of Americans for Nationalist Spain, visitò la città distrutta per fare delle riprese. Non ripeté la versione nazionalista, ma non poté fare a meno di scrivere a Bowers, chiedendogli perché gli Stati Uniti non si fossero preoccupati fino ad allora di accogliere i profughi nelle ambasciate, come invece aveva fatto il Messico, e perché l’ambasciatore risiedesse in Francia, a Saint Jean de Luz, e non in territorio spagnolo. Bowers non rispose68.

29 Il dibattito non fece cambiare idea a Roosevelt, che scelse di ignorare ancora una volta l’intervento degli Stati fascisti, nonostante William Bullitt, ambasciatore a Parigi, accanito anticomunista, scrivesse di 50.000 soldati italiani e 10.000 piloti tedeschi in Spagna69. Anche la First Lady preferì non complicare le cose, e decise a malincuore di non accogliere i bambini baschi sfollati in Francia, ritenendo ingiusto allontanarli dalla Spagna. Riuscì a intervenire collaborando con il Quakers Relief Committee, inviando denaro allo Spanish Children Fund, presieduto dal giurista Allen Wardwell70.

30 Il 1 maggio 1937 il Presidente proibì ufficialmente la vendita di armi, munizioni, macchine da guerra, gas ed esplosivi ai belligeranti spagnoli, escludendo, come abbiamo visto, le materie prime71. Incoraggiato da questo provvedimento, il giorno 25 Gerald Nye propose di estendere l’embargo a Germania e Italia, ma Cordell Hull e il Presidente si attennero al consueto cavillo: poiché la Repubblica combatteva contro un governo non riconosciuto internazionalmente, e non era in guerra con Italia e Germania, non c’era ragione di violare il Neutrality Act: porre l’embargo sugli Stati fascisti avrebbe determinato una scelta di campo, con il rischio di aumentarne ulteriormente l’aggressività72. È degno di nota il fatto che, nonostante anni di timori sull’influenza sovietica in Spagna, né il Presidente né i suoi collaboratori mettessero in discussione gli aiuti alla Repubblica, peraltro resi sempre più scarsi a causa della progressiva occupazione fascista delle coste e dal pattugliamento di sottomarini italiani73.

31 Nonostante la perdita dei Paesi Baschi, quell’estate l’Esercito Popolare della Repubblica ottenne importanti successi, riuscendo a penetrare in Aragona, conquistando Quinto e Belchite. Entro la fine dell’anno avrebbe riconquistato Teruel. Harold Ickes, segretario agli Interni, ne scrisse nel suo diario il 25 dicembre come «la cosa più confortante che sia accaduta in tutto questo tempo», e Hull disse, l’8 gennaio, che i combattimenti sarebbero giunti a un punto morto74. In realtà, da allora in poi gli eventi precipitarono.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 77

5. L’anno 1938: il dibattito si inasprisce. Tentativi di invertire la rotta

32 Teruel fu riconquistata dai ribelli il 22 febbraio 1938, segnando la fine dell’avanzata dei repubblicani, che fino a settembre saranno costretti a una lunga ritirata verso la Catalogna, isolata da Madrid a partire da aprile. Fu allora che Roosevelt cominciò a comprendere l’assurdità della politica di appeasement davanti a una Germania sempre più minacciosa, e giunse a paragonare il premier britannico Chamberlain, di cui non si fidava, a «un Capo della Polizia che scende a patti con i gangster rischiando di finire egli stesso in prigione»75.

33 Ai primi di marzo, non conosciamo la data precisa, il Presidente decise di giocare una carta rischiosa: aggirare illegalmente l’embargo. Dopo che l’ambasciatore sovietico a Washington ne fu informato, tra maggio e giugno si susseguirono alla Casa Bianca visite inaspettate: il 19 maggio Joseph Greene, capo della Commissione Armi e Munizioni ricevette Joseph Hartfield della compagnia di aviazione Glenn L. Martin, che affermava di aver ricevuto un’offerta di 50 milioni di dollari per una flotta di cacciabombardieri da inviare in Spagna; l’8 giugno la scena si ripeté con la visita del Maggiore Victor Bertandias della Douglas Aircraft Company, che riferì di tentativi da parte di ignoti di acquistare «DC-2 e DC-3 usati da inviare in Svezia, Svizzera e Grecia». Greene comprese che qualcuno stava architettando un piano, ma la cosa fini lì.

34 Il 21 giugno William Bullitt ricevette nel suo ufficio all’ambasciata parigina Georges Bonnet, ministro degli Esteri francese. Bonnet, che il giorno 13 aveva fatto chiudere il confine franco-spagnolo agli armamenti, riferì che l’ambasciatore spagnolo si era lasciato sfuggire che il suo governo era in procinto di acquistare mille aerei con disponibilità immediata via Francia, garante lo stesso Presidente Roosevelt.

35 Bullitt trasmise subito la notizia all’interessato. Subito dopo, l’ambasciatore ricevette la chiamata di Gracie Hall Roosevelt, cognato del Presidente, pilota, già protagonista di consegne illegali alla Repubblica spagnola. Bullitt era stato avvertito da Eleanor Roosevelt dell’imminente visita del fratello, ma non si aspettava che questi gli illustrasse un piano per far passare 150 aerei da guerra in Spagna. Bullitt notò che in quel periodo la Società delle Nazioni si preparava al ritiro dei volontari (che inizierà solo il 21 settembre), e che consegnare armi avrebbe fatto una cattiva impressione sugli alleati europei. A quel punto il Dipartimento di Stato, che secondo Harold Ickes non era a conoscenza dei voleri del Presidente, intervenne e revocò le licenze, con il pretesto delle garanzie insufficienti76.

36 Il Presidente non si pronunciò mai a favore della fine dell’embargo, ma le pressioni pubbliche, a favore e contro la Repubblica, aumentarono: nonostante la maggioranza degli americani favorisse la neutralità, le percentuali erano cambiate: i sondaggi registravano tra il 33 e il 52% contro il 66-79% dell’anno prima, mentre i favorevoli alla Repubblica avevano raggiunto il 51%77. Il Presidente era infastidito da tutta questa eccitazione, ma non poteva ignorare le 18.299 lettere che, in maggio, richiedevano la fine dell’embargo78. Ma il giorno 13 Cordell Hull spazzò via ogni illusione: l’embargo restava. Il quotidiano cattolico «The Nation» esultò: 20 milioni di cattolici avevano avuto la meglio sull’indecisione del Presidente!79

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 78

37 L’offensiva dell’opinione pubblica pro-Franco, al pari di quella del loro beniamino era in pieno svolgimento: in gennaio Ellery Sedgwick, lo ricordiamo, editore dell’Atlantic Monthly, animatore dei circoli pro-Franco, aveva fatto un viaggio nell’Andalusia nazionalista in compagnia del magnate William Cameron Forbes, altro ardente sostenitore di Franco già ricordato. Al ritorno erano entrambi entusiasti: gli agricoltori erano liberi dai ricatti dei sindacati anarchici, si costruivano case popolari, e il generale Queipo de Llano in persona li aveva ospitati a pranzo. Quindi visitarono Badajoz, dove il 14 agosto 1936 i ribelli trionfanti avevano ucciso 4.000 repubblicani. Il fatto, riportato da Jay Allen per il «Chicago Tribune» il 30 agosto di quell’anno, aveva fatto grande scalpore, e i due viaggiatori erano intenzionati, quasi due anni dopo, a dimostrarne la falsità. Naturalmente non trovarono segni di mitragliatrice, e conclusero che sì, i nazionalisti avevano ucciso 400 “rossi”, ma non erano stati uccisi civili.

38 Dieci giorni dopo, il «New York Journal» di W. R. Hearst pubblicava il resoconto del viaggio reclamizzandolo a caratteri cubitali, e rifiutava un analogo resoconto dalla zona repubblicana della commediografa hollywoodiana Lillian Hellman. Forbes fu invitato a tenere una conferenza a Baltimora, dove assicurò che Franco desiderava ristabilire l’ordine, restituire ‘la Spagna agli spagnoli’, e impedirne la sovietizzazione, poiché il Generalissimo era, secondo Forbes, un uomo del destino al pari di Cesare, Washington, Garibaldi e Mussolini. L’ammirazione suscitata da Forbes per Franco, difensore del cosiddetto ‘capitalismo sociale’ contro il comunismo, convinse Sedgwick ad alzare il tiro: i comunisti volevano impadronirsi dell’America Latina, e la prova era nell’orientamento filo-repubblicano del Presidente messicano Lazaro Cárdenas, che per Sedgwick equivaleva a dire che il Messico era già stato sovietizzato80. Gli elogi per la ricostruzione economica operata da Franco portarono l’editore a dichiarare che preferiva «il vigoroso ordine di una dittatura corporativa» al New Deal di Roosevelt, definito «caotico fallimento» [failing chaos]81.

39 Questo linguaggio apertamente fascista scandalizzò la American League of Writers’, molti insegnanti e il clero di più confessioni protestanti. Sedgwick rispose in un’intervista, accusando i leaders protestanti di promuovere «dottrine sociali rivoluzionarie», e affermando che «il fascismo è nato dalla paura del comunismo: distruggete il secondo, e il primo sparirà»82. Dopotutto, riflettevano i partigiani di Franco, come poteva Sedgwick, editore di un rispettabile mensile liberal essere fascista? Sedgwick parlava a nome dei valori americani: la tradizione, il capitalismo, l’autorità; il fascismo non era che un antidoto al comunismo. E se fossero stati i protestanti, aveva provocatoriamente chiesto Sedgwick, ad essere «massacrati davanti agli altari da folle sanguinarie [bloodthirsty mobs]»83? Nel dicembre 1938 un sondaggio di Gallup certificò che l’83% dei protestanti sosteneva la Repubblica, contro il 42% dei cattolici a favore di Franco; un mese dopo, il 75% degli americani, senza distinzione confessionale, sosteneva la Repubblica, nonostante fosse moribonda, contro il 25% che favoriva Franco84.

6. La fine della Repubblica

40 La seconda metà del 1938 riservò al Presidente due amare sorprese: il Patto di Monaco (30 settembre) e la sconfitta del Partito Democratico alle elezioni di medio termine (8 novembre), che i Repubblicani attribuirono alla partigianeria “rossa” del Governo. La baldanza di Franco e Hitler, e l’abbattimento dei repubblicani, sconfitti sull’Ebro,

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 79

privati delle Brigate Internazionali, e definitivamente abbandonati dalle democrazie occidentali preludeva, secondo Roosevelt, a una sempre maggiore influenza fascista in America Latina.

41 Il 12 ottobre era stata convocata una conferenza di pace a Lima, con l’obiettivo di conciliare repubblicani e nazionalisti spagnoli, ma la Dichiarazione che ne uscì non sortì alcun effetto: non solo le parti erano inconciliabili e il Vaticano, mediatore supremo e necessario, aveva riconosciuto il governo di Franco in primavera, ma gli stessi Stati latinoamericani erano divisi: il Messico non poteva accettare che i nazionalisti fossero messi sullo stesso piano dei repubblicani; il Paraguay aveva una rigida politica di non intervento. Cuba si era pronunciata per l’aiuto l’anno prima, e adesso presentava una mozione per inviare una commissione di pace. Cordell Hull, che temeva fratture nel continente, e quindi un danno per la politica di buon vicinato, la respinse, e così la mozione ebbe i voti di pochi Stati: Messico, Cuba, Argentina e Haiti85.

42 La situazione della Repubblica era disperata: era comparsa la fame, e lunghe file di profughi costipavano le strade verso gli ultimi capoluoghi leali, Madrid, Barcellona e Valencia, e verso la Francia. Non restava al Presidente che aiutare la Croce Rossa a inviare derrate alimentari alla popolazione: dei 100.000 barili di grano mensili disposti dall’amministrazione ne erano giunti a destinazione solo 60.000 per mancanza di fondi, poiché gli organizzatori temevano di essere considerati “comunisti”. Per non indispettire i cattolici, il 19 dicembre 1938 Roosevelt nominò uno di loro, il finanziere George McDonald, a capo del nuovo Committee for Impartial Civilian Relief in Spain, di cui facevano parte quattordici magnati; l’obiettivo del Comitato era aiutare la Croce Rossa Internazionale e l’American Friends Committee a raccogliere 500.000 dollari per gli aiuti. Poiché i più bisognosi erano inevitabilmente i repubblicani, l’opinione pubblica cattolica insorse: era noto che i sostenitori della Repubblica al governo speravano che i Repubblicani,una volta risollevato il morale, avrebbero ripreso a combattere. McDonald fu vessato a tal punto che abbandonò il comitato, paralizzandolo86. Nel gennaio 1939 le proteste a favore e contro l’embargo tornarono a farsi sentire; Roosevelt si mostrò ancora una volta riluttante ad esporsi in prima persona, nonostante i sondaggi incoraggianti. Eleanor Roosevelt, che aveva sempre trovato l’atteggiamento del marito inaccettabile, lei che con i suoi fondi sulla rubrica “My Day” aveva sempre difeso la Repubblica87, lo affrontò direttamente. Ma il giorno 25 il Presidente disse che non pensava che firmare un ordine esecutivo sarebbe bastato a porre fine all’embargo: i congressisti ritenevano che l’opinione pubblica non ne comprendesse le eventuali conseguenze88. Due giorni dopo, in riunione con il Gabinetto, ammise che l’embargo era stato un grave errore, ma ormai Barcellona era caduta89. L’amarezza di Eleanor fu grande quando Washington riconobbe il governo di Franco il 3 aprile, due giorni dopo la fine della guerra90.

43 Ma il Presidente non era affatto sollevato: quando l’ambasciatore Bowers tornò dalla Spagna, subito dopo la caduta di Madrid, trovò il Presidente afflitto e si sentì dire: «Lei ha sempre avuto ragione; mi sono sbagliato a causa di false informazioni»91. Il suo non era, come pure si è sostenuto, un tentativo di placare il vivace Bowers o di evadere le proprie responsabilità, poiché i tentativi di intervenire erano stati sinceri, benché sempre sottobanco. Persino l’inflessibile e poco emotivo Hull dovette sentirsi in imbarazzo: la scelta di riconoscere Franco solo dopo la vittoria finale era quasi un segnale di speranza, un rifiuto di liquidare bruscamente la questione, come invece avevano fatto Francia e Inghilterra, il cui riconoscimento era giunto molto prima, il 27

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 80

febbraio. L’ormai ex-ambasciatore spagnolo venne a salutarlo, ottenendo la promessa di intercedere presso Franco perché il nuovo governo fosse clemente con i prigionieri. Hull non dimenticò la promessa, e fu sempre severo con il nuovo ambasciatore Juan Francisco de Cárdenas92. L’impegno nella Seconda Guerra Mondiale doveva rappresentare il riscatto collettivo.

7. Conclusioni

44 Franklin Delano Roosevelt fu sempre un uomo riservato: preferiva che fossero i suoi collaboratori a dirigere la politica statunitense, e non affidava volentieri i propri pensieri a diari o memorie, benché fosse molto solerte nell’illustrare il suo grande progetto di risanamento economico. La politica estera fu sempre valutata avendo in mente le conseguenze sugli Stati Uniti prima e sul resto del mondo poi; pur conoscendo l’importanza dei buoni rapporti, non si propose mai di guidare la politica estera europea, ma solo di seguirla. L’embargo alla Spagna fu una sua idea, che mantenne a lungo con convinzione, perché, riteneva, così si sarebbe evitata la guerra e gli Stati Uniti non sarebbero stati danneggiati sul piano internazionale.

45 A differenza dei premier britannici Baldwin e Chamberlain, il Presidente non si augurò mai la vittoria di Franco93, sorretto in questo da molti suoi amici e collaboratori, e nemmeno gli mancò il coraggio di osare, ma temé sempre che esporsi in prima persona avrebbe innescato una crisi interna ed esterna. Seppe cambiare l’atteggiamento proprio dello Stato, da una profonda diffidenza contaminata dall’anticomunismo al sostegno aperto che si spinse fino ai contatti con gli agenti sovietici negli USA e alla tolleranza nei confronti dei volontari internazionali; non seppe e non poté cambiare il corso degli eventi, e anche dopo la vittoria su Hitler la Spagna fu per Roosevelt una costante fonte di rimorsi, al punto da immaginare, come suo solito, un altro piano avventuroso per rimuovere l’odiato generale. Ma ancora una volta, l’opposizione britannica, la prudenza di Cordell Hull e, infine, la sua prematura scomparsa il 12 aprile 1945, impedirono a F. D. Roosevelt di cambiare il corso della storia.

NOTE

1. Foreign Relations of the United States. Diplomatic Papers (d’ora in poi: FRUS), 1931, I, Washington, Government Printing Office 1946, p. 985. 2. Laughlin era convinto che il trionfo repubblicano si sarebbe limitato solo ad alcune grandi città e che il risultato finale avrebbe premiato la monarchia. Si veda BOSCH, Aurora, Miedo a la democracia, Barcelona, Crítica, 2012, p. 8. 3. ALCALÁ ZAMORA, Niceto, Memorias, Barcelona, Planeta, 1977, p. 50. 4. BAHAMONDE, Ángel (coord.), Historia de España 1875-1939, Madrid, Cátedra, 2005, pp. 351, 531. 5. Ibidem, p. 547. 6. FRUS, 1931, I, p. 986; BOSCH, Aurora, op. cit., p. 22.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 81

7. Tuttavia, dopo i violenti scioperi organizzati in estate dalla potente rete sindacale anarchica CNT, i sovietici si resero conto che anarchici e socialisti erano molto più influenti del piccolo e male rappresentato Partito Comunista Spagnolo; BOSCH, Aurora, op. cit., pp. 34-36. 8. FRUS, 1931, I, p. 988. Il Presidente spagnolo era ben deciso a non fare la parte di Kerenskij: già il 13 aprile, 1930, quasi un anno prima della proclamazione della Repubblica, in un discorso al Teatro Apolo di Valencia: «una Repubblica possibile, di governo, conservatrice, che attragga le forze governative della classe media e degli intellettuali spagnoli, la servo, la gestisco, la propongo e la difendo; una Repubblica convulsa, epilettica, piena di entusiasmo e idealismo, ma priva di ragione, non assumerò la responsabilità di instaurarla in Patria». Cfr., MAURA, Miguel, Así cayó Alfonso XIII. De una dictadura a otra, Barcelona, Ariel, 1966, p. 57. 9. FRUS, 1931, I, p. 990. 10. FRUS, 1931, I, p. 993. 11. BOSCH, Aurora, op. cit., p. 21. 12. Ibidem, pp. 21-22. 13. FRUS, 1931, I, pp. 993-994. 14. L’articolo 5 della Costitución de la República Española, 1931, recitava: «Lo stato spagnolo non ha religione ufficiale»; l’articolo 25 stabiliva, tra le altre cose, che: la religione non poteva essere fonte di privilegio sociale; che lo Stato e gli enti locali non erano tenuti a farsi carico delle istituzioni religiose; che tutte le religioni erano considerate Associazioni e ricadevano sotto legislazione speciale, così come gli Ordini religiosi che non «imponevano giuramento a un potere diverso da quello statale», nel qual caso si sarebbe proceduto alla loro soppressione e alla nazionalizzazione e redistribuzione dei loro beni a scopi benefici e didattici; che l’insegnamento e il commercio erano proibite a persone e ordini religiosi. 15. BOSCH, Aurora, op. cit., pp. 26-28. 16. Ibidem, p. 28. Il contratto fu rescisso due anni dopo dal generale Damaso Berenguer, ma la Repubblica lo rinnovò nel 1931, con grande allarme degli Stati Uniti, che vi scorsero un avvicinamento tra Spagna e URSS. Il che era improbabile, dal momento che i due Paesi non avranno rapporti diplomatici fino all’agosto del 1936. 17. FRUS, 1931, I, p. 1001. 18. FRUS, 1931, I, pp. 997-998. 19. FRUS, 1931, I, pp. 1001-1002. 20. FRUS, 1931, I, pp. 1006-1007. 21. FRUS, 1932, II, Washington, Government Printing Office 1947, p. 545. 22. FRU, 1932, II, pp. 547-560. 23. FRUS, 1932, II, pp. 560-578. 24. Il periodo tra la fine del 1931 e il principio del 1933 era stato segnato da numerosi scioperi organizzati dagli anarchici, che si erano trasformate in vere e proprie insurrezioni, con tanto di proclamazione di “repubbliche socialiste”. Fatti del genere si erano verificati a Castilblanco (31 dicembre 1931), Arnedo (5 gennaio 1932), a Logroño, a Manresa etc. Tutti i moti erano stati domati con la forza. Il 4 luglio era iniziato uno sciopero dei telefonisti che terminò solo il 29 con un saldo di 20 morti e 40 feriti. AZAÑA, Manuel, Diarios completos, Barcelona, Crítica, 2004, pp. 245-247; BOSCH, Aurora, op. cit., pp. 34, 68-69. Desterà particolare preoccupazione in Laughlin la seconda insurrezione nell’Alto Llobregat, e l’eccidio di Casas Viejas nel gennaio 1933. 25. FRUS, 1932, II, pp. 577-578. 26. CHAPMAN, Michael E., Arguing Americanism. Franco Lobbyists, Roosevelt’s Foreign Policy and the Spanish Civil War, Kent (OH), Kent State University Press, 2011, pp. 78-80. 27. BOWERS, Claude, My Life. The Memoirs of Claude Bowers, New York, Simon & Schuster, 1962, pp. 265-268. 28. FRUS, 1933, II, Washington, Government Printing Office 1949, p. 697.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 82

29. Fin dalla proclamazione della Repubblica, i suoi governanti erano a conoscenza delle intenzioni eversive degli alti ufficiali, principalmente a causa dei frequenti disordini provocati da anarchici ed estremisti di destra, e del drastico ridimensionamento dell’esercito. Manuel Azaña, che in qualità di Ministro della Guerra ne era il diretto responsabile, scrisse nel suo diario che Franco era «il più temibile» tra i potenziali golpisti; AZAÑA, Manuel, op. cit., p. 217. Ciononostante, e pur essendo monarchico, non partecipò al putsch del 10 agosto 1932, preferendo attendere il momento propizio. Cfr. PALACIOS, Jesús, PAYNE, Stanley, Franco, Barcelona, Planeta de los Libros, 2014, pp. 119-135. 30. LITTLE, Douglas, Malevolent Neutrality, Ithaca (NY), Cornell University Press, 1985, pp. 136-137. 31. FRUS 1933, II, pp. 706-718. 32. FRUS 1934, II, Washington, Government Printing Office 1951, pp. 687-695. 33. BOSCH, Aurora, op. cit., pp. 89-90; Dollfuss sarà ucciso a sua volta dalle Heimwehren il 25 luglio 1934. 34. Ibidem, pp. 98-99. 35. LIZ, Carlos, Octubre 1934. Insurrecciones y revolución, Sevilla, Espuela de Plata, 2009, pp. 62-70. 36. PRESTON, Paul, Franco, Caudillo de España, Barcelona, Grijalbo, 1994, p. 138. 37. I danni materiali furono i seguenti: 60 edifici pubblici, 54 (o 58) chiese, 32 fabbriche e 740 abitazioni private. I rivoltosi causarono 66 interruzioni ferroviarie e 31 interruzioni stradali. Infine, il governo sequestrò 89.935 tra moschetti, fucili e mitragliatrici, 33.211 pistole, 50.585 candelotti di dinamite e 41 cannoni, questi ultimi tutti in possesso dei minatori asturiani. RUIZ, David, Octubre de 1934. Revolución en la República Española, Madrid, Síntesis, 2008, p. 10; si veda anche BOSCH, Aurora, op. cit., p. 100. 38. Sia Claude Bowers che Diego Martínez Barrio, ex radicale, più volte ministro, si dissero convinti che la ‘normalizzazione’ fosse solo un pretesto usato da Lerroux e Gil Robles per sbarazzarsi temporaneamente degli avversari politici. BOWERS, Claude, Missione in Spagna, Milano, Feltrinelli, 1957, p. 122; MARTÍNEZ BARRIO, Diego, Memorias, Barcelona, Planeta 1983, pp. 263-264. 39. LIZ, Carlos, op. cit, pp. 78-85. Nelle sue memorie Bowers scrisse di perquisizioni di giornalisti, edifici pubblici e alberghi costantemente presidiati dall’esercito e retate di oppositori di tutte le tendenze, mentre Lerroux riceveva saluti fascisti, e la stampa di destra riversava su Azaña, contrario all’insurrezione fin dall’inizio, epiteti irriferibili. BOWERS, Claude, op. cit., pp. 121-126. 40. LITTLE, Douglas, op. cit., p. 142. 41. Ibidem. 42. PORTELA VALLADARES, Manuel, Memorias, Madrid, Alianza, 1988, pp. 184-198. 43. I tentativi insurrezionali dei generali ostili alla Repubblica risalivano al 1932, quando il generale José Sanjurjo si recò a Roma per sollecitare aiuti da Italo Balbo per il putsch del 10 agosto, benché Mussolini si dissociasse dalla cosa; due anni dopo, una delegazione guidata dal leader monarchico Antonio Goicoechea incontrò Italo Balbo, mentre José Primo de Rivera, capo della Falange (l’organizzazione fascista spagnola) si rivolgeva alla Germania. capo della Falange (l’organizzazione fascista spagnola) si rivolse alla Germania. Cfr. GUARIGLIA, Raffaele, Ricordi: 1922-1946, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1945, pp. 188-190, 203; LIZARZA IRIBARREN, Antonio, Memorias de la conspiración, Madrid, Dyrsa, 1986, pp. 28-32. 44. Il governo era stato informato da più fonti della cospirazione, maturata l’8 marzo: Azaña ne era stato informato dal generale Hidalgo de Cisneros, assistente di Casares Quiroga al Ministero della Guerra, il quale era stato più volte avvertito da Largo Caballero. Il primo ministro preferì tuttavia fidarsi della parola d’onore di Emilio Mola, vero architetto dell’insurrezione, i cui piani erano, in parte, trapelati. VIÑAS, Ángel, La soledad de la República, Barcelona, Crítica, 2010, pp. 31-34. 45. HULL, Cordell, Memoirs, New York, Macmillan Co., 1948, p. 476.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 83

46. PADELFORD, Norman, «International Law and the Spanish Civil War», in American Journal of International Law, 31, 2, 4/1937, pp. 226-243; O’ROURKE, Vernon, «Recognition of Belligerency in the Spanish Civil War», in American Journal of International Law, 31, 2, 4/1937, pp. 398-413. 47. HULL, Cordell, op. cit., p. 481. 48. EDEN, Anthony, Di fronte ai dittatori. Memorie 1931-1938, Milano, Garzanti, 1962, p. 504. 49. FRUS, 1936, I, p. 452. 50. Ibidem, pp. 444-446. 51. HULL, Cordell, op. cit., pp. 397-418. 52. TIERNEY, Dominic, FDR and the Spanish Civil War. Neutrality and Commitment in the Struggle that divided America, Durham (NC), Duke University Press, 2007, p. 33. 53. HULL, Cordell, op. cit., p. 484. 54. TIERNEY, Dominic, op. cit., p. 42. 55. Ibidem, p. 63 e pp. 48-51. 56. Ibidem, p. 51. 57. LANDIS, Arthur, Death in the Olive Groves, New York, Paragon House Publishers, 1988, p. 3. 58. Abraham Lincoln Brigades Archives, Alba – Database, URL: < http://www.alba-valb.org/ volunteers > [consultato il 27 giugno 2017]. 59. TIERNEY, Dominic, op. cit., pp. 66-67. 60. FRUS, 1937, II, Washington, Government Printing Office 1954, p. 224-226. 61. Ibidem, pp. 223-224. 62. THOMÁS, Joan María, (coord.), Estados Unidos, Alemania, Gran Bretaña, Japón y sus relaciones con España entre la guerra y la posguerra, Madrid, Comillas 2016, p. 15. 63. TIERNEY, Dominic, op.cit., p. 168. Le forniture americane di armi e carburante alla Spagna saranno autorizzate solo dal Presidente Dwight D. Eisenhower nel gennaio 1954, poiché Harry S. Truman si rifiutò sempre di scendere a patti con il Caudillo, considerato dal successore di Roosevelt sì un valido alleato contro il comunismo, ma non per questo migliore di Hitler, Mussolini o Stalin. Si veda BOWEN, Wayne H., Con la mayor reticencia. Harry Truman, Francisco Franco y la alianza España-Estados Unidos, in THOMÁS, Joan María, op. cit., pp. 63-101. 64. Il 26 aprile 1937 lo Stato Maggiore franchista compilò un riassunto delle operazioni aeree in tutta la Spagna: l’operazione su Guernica, che in realtà mirava a distruggere solo il ponte per tagliare la ritirata ai “rossi”, occupava il primo posto. Vi parteciparono spagnoli, tedeschi e italiani. Il documento, accompagnato da un analoga nota italiana, è riprodotto in FONTES DE GARNICA, Ignacio, 1937. El crimen fue en Guernica. Análisis de una mentira, Madrid, Fontana, 2014, pp. 91-92. Una testimonianza del bombardamento, tratta dal diario del pilota neofita Harro Harder, si trova in RIES, Karl, RING, Hans, Legion Condor 1936-1939. Eine illustrierte Dokumentation, Mainz, Verlag Dieter Hoffmann, 1980, p. 62. Harder, allora ventiquattrenne, definisce l’azione «una porcheria inaudita» [eine unerhörte Schweinerei]. 65. SOUTHWORTH, Herbert, Guernica! Guernica! A Study in Journalism, Diplomacy, Propaganda and History, Berkeley, California University Press, 1977, p. 32. 66. Ibidem, pp. 223-224. 67. Ibidem, p. 14. 68. CHAPMAN, Michael, op. cit., p. 119. 69. FRUS, 1937, II, p. 292. 70. Si faccia riferimento al saggio di WIESEN COOK, Blanche, Eleanor Roosevelt. The Defining Years 1933-1938, London, Penguin Books, 2000. 71. The Public Papers and Addresses of Franklin D. Roosevelt. 1937. The Constitution Prevails, New York, Macmillan, 1941, pp. 185-186. 72. HULL, Cordell, op. cit., p. 511. 73. TIERNEY, Dominic, op. cit., p. 36 e p. 72.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 84

74. ICKES, Harold, The Secret Diary of Harold Ickes, vol. II, The Inside Struggle 1936-1939, New York, Simon & Schuster, 1954, p. 277. 75. TIERNEY, Dominic, op. cit., pp. 76-77. 76. ID., «Franklin D. Roosevelt and Covert Aid to the Loyalists in the Spanish Civil War, 1936-39», in Journal of Contemporary History, 39, 3, 7/2004, pp. 299-313. 77. Ibidem, p. 90. 78. Ibidem, p. 91. 79. VALAIK, J. David, Catholics, «Neutrality, and the Spanish Embargo, 1937-1939», in The Journal of American History, 54, 1, 6/1967, pp. 73-85. 80. CHAPMAN, Michael, op. cit., pp. 27-32. 81. ID., «Pro-Franco Anti-Communism: Ellery Sedgwick and the Atlantic Monthly», in Journal of Contemporary History, 41, 4, 10/2006, pp. 641-662. 82. Ibidem, p. 650. 83. Ibidem. 84. TIERNEY, Dominic, op. cit., pp. 89-90. 85. Ibidem, pp. 115-121; HULL, Cordell, op. cit., pp. 601-611. 86. TIERNEY, Dominic, op. cit., pp. 121-123. 87. WIESEN COOK, Blanche, op. cit., p. 401. 88. TIERNEY, Dominic, op. cit., cit., p. 128. 89. Ibidem, p. 86. 90. Ibidem, p. 132. 91. Ibidem, p. 139. 92. HULL, Cordell, op. cit., pp. 616-618. 93. Il governo britannico interpretò sempre la guerra civile spagnola come uno scontro tra la ‘barbari comunista’ (la Repubblica) e l’ordine tradizionale, incarnato da Franco. Il principale divulgatore della causa nazionalista nel Paese fu il giornalista anglo-spagnolo Luís Bolín, corrispondente del quotidiano monarchico ABC. Bolín ebbe un ruolo chiave nella riuscita dell’insurrezione, poiché affittò il Dragon Rapide che trasportò Franco dalle Canarie a Tetuán, nel Marocco spagnolo. Cfr. BOLÍN, LUÍS, Spain. The vital years, Worthing, Littlehampton Books Service, 1966, p. 11. Sull’atteggiamento dei Conservatori di veda BUCHANAN, Tom, Britain and the Spanish Civil War, Cambridge University Press, 1997, pp. 39 et seq. Una trattazione sintetica si trova in CROWSON, Nick J., Facing Fascism. The Conservative Party and the European Dictators 1935-1940, London-New York, Routledge 1997, pp. 21-51. Un’indagine più aggiornata sulla complicità del MI6 nella sollevazione e vittoria di Franco è di DAY, Peter, Franco’s Friends. How British Intelligence helped bring Franco to Power, London, Biteback Publishing, 2011. Infine, si consiglia anche la lettura di VIÑAS, Ángel, La conspiración del general Franco y otras revelaciones acerca de una guerra civil desfigurada, Barcelona, Crítica, 2011.

RIASSUNTI

Questo articolo analizza la politica degli Stati Uniti nei confronti della Spagna durante la Guerra Civile Spagnola, studiandone i rapporti con la Repubblica, le considerazioni che ne determinarono la neutralità, le reazioni della società, e i tentativi, falliti, del Presidente Franklin Delano Roosevelt di intervenire a favore della Repubblica in guerra.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 85

This paper analyzes the United States’ foreign policy towards Spain during the Spanish Civil War, focusing on the diplomatic relationships with the Second Spanish Republic, the reasons behind neutrality, the reactions of the American public opinon and the failed attempts by President F. D. Roosevelt to help the beleaguered Spanish Government.

INDICE

Parole chiave : Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, politica estera della Repubblica spagnola, Guerra Civile Spagnola, rapporti diplomatici USA-Spagna Keywords : USA, Franklin Delano Roosevelt, Second Spanish Republic foreign policy, Spanish Civil War, U.S. Policy towards Spain

AUTORE

ENRICO GORI Enrico Gori si è laureato nel 2010 presso l’Università degli Studi “Roma Tre” in Civiltà bizantina (110/110) e ha conseguito la laurea magistrale in Storia Contemporanea presso lo stesso ateneo nel (110/110 cum laude) con una tesi sulla Resistenza nella provincia di Arezzo. Dopo una collaborazione in qualità di traduttore (inglese, francese, spagnolo, romeno) con Sciara S.r.L., ha partecipato al progetto scientifico-culturale dedicato allo studio della civiltà etrusca “Catha”. Dal settembre 2014 collabora con la Prof.ssa Daniela Rossini dell’Università degli Studi “Roma Tre”. Ha curato la traduzione di: WAGENKNECHT, Achim, La filosofia politico di Hannah Arendt [Einführung in die politische Philosophie Hannah Arendts, Marburg, Tectum Verlag, 1995], URL: < http://www.achimwagenknecht.de/arendt-it/index.html >; COSTANTINO MANASSE, «Hodoiporikon», in Porphyra, VIII, 10, Supplemento 12, 2011. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Gori >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 86

II. Recensioni

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 87

Renato Agazzi, La rivoluzione del 1848, vol. 1, La nascita della patria

Edoardo Grassia

NOTIZIA

Renato Agazzi, La rivoluzione del 1848, vol. 1, La nascita della patria, Udine, Gaspari, 2015, 191 pp.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 88

1 Dal Mito del vampiro in Europa1 del 1979 all’analisi del romanzo gotico inglese con I romantici dell’orrido2 del 1984, Renato Agazzi si è confrontato, nel 2006, anche con uno studio che differisce profondamente dai sui precedenti per collocarsi nell’ambito della storia militare, presentando Giulio Cesare, stratega in Gallia3. Fu probabilmente una esperienza coinvolgente tanto che nel 2015 l’autore – restando nell’alveo della storia militare, ma spostando il proprio focus dalla storia antica al Risorgimento italiano – ha proposto un nuovo studio: La rivoluzione del 1848. La nascita della patria. Volume I: Dall’inizio delle ostilità alla battaglia di Goito. Un testo che, come indicato, è il primo di una trilogia che si completerà con il Da Custoza a Novara e Gli assedi.

2 Renato Agazzi è dottore in scienze naturali, non propriamente uno storico, ma un grande appassionato di storia militare, materia coltivata anche grazie alla professione di libraio di testi d’antiquariato.

3 Prima di introdurci in una disamina del testo, vogliamo proporre qualche riflessione sull’argomento. In Italia sono sempre più rari gli studi di storia militare, soprattutto quelli focalizzati sul periodo preunitario. Tale limite non è probabilmente dovuto alla mancanza di interesse per questi studi – comunque un interesse ristretto che trova poco spazio in ambito accademico – ma per alcune difficoltà tra le quali occorre segnalare il fatto che pochi ricercatori si vogliono o possono confrontare con un approccio che deve necessariamente tener conto di componenti umane e tecniche militari, con la scarsa e datata bibliografia e la difficoltosa ricerca archivistica agevolata da pochi istituti, per quanto molto validi.

4 Pubblicare un testo come quello in esame nel 2015, ovvero nell’anno in cui la maggior parte delle superfici degli scaffali di storia sono occupate da vecchie e nuove ricerche legate alla commemorazione della Grande Guerra che troppo spesso evitano di guardare prima del 1914, non è cosa di poco conto.

5 Infine, un’ultima nostra riflessione è rivolta al fatto che nonostante celebrazioni di anniversari, di dialoghi sulla bandiera tricolore e sull’unità storica e sociale italiana, l’ultimo testo di storia militare legato al Risorgimento italiano, per quanto ancora valido, è comunque il saggio di Pieri datato 19624 – fatta eccezione per il testo specifico sulla campagna navale 1860-1861 pubblicato nel 20125 e pochissimo altro6 – a differenza della memorialistica e della storia sociale del Risorgimento che, dagli anni Ottanta e nei più recenti anni Novanta del Novecento e inizi del Duemila hanno fornito numerose produzioni letterarie7.

6 Agazzi è molto diretto nel fornire delle chiavi di lettura al suo studio. Non vuole dare una visione dal basso. Egli non ha voluto prendere in considerazione anche diaristica e carteggio dei soldati perché giudicate testimonianze «molto interessanti da un punto di

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 89

vista psicologico e sociale, ma che si possono rintracciare sempre uguali a se stesse, in ogni battaglia8». Questa è una scelta che poco ci convince, soprattutto se si vuole focalizzare il testo anche sulla nascita del sentimento patriottico-unitario e non considerare la “patria” solo da un punto di vista di annessione territoriale derivante da una conquista militare9. Un’analisi di questa documentazione – scartata a priori anche perché valutata «di una monotona ripetitività» e non così decisiva da «cambiare il quadro d’insieme di una battaglia»10 – avrebbe invece potuto porre in luce nuove informazioni sulla vita nei campi di battaglia, sul rapporto tra le diverse forze che, per coscrizione o volontariamente, si batterono contro gli austriaci – o contro gli italiani, guardando dall’opposta direzione – e sull’eventuale reciproca conoscenza dei soldati provenienti dalle diverse regioni d’Italia, tra i punti evidentemente fondamentali della “nascita della patria”, di cui al titolo del libro. Sarebbe stato interessante ricercare su queste fonti dirette anche notizie più specificatamente tecnico-militari.

7 Un importante merito dell’opera, dichiarato dall’autore, è quello di dar voce ad entrambi gli schieramenti in lotta. Le guerre di indipendenza costituiscono sicuramente un importante retaggio nazionale, ma oggi, in termini di storia europea – cui, a nostro avviso, anche la storia militare deve necessariamente tendere – appare indispensabile studiare lo stesso evento dalle diverse postazioni che, in questo specifico caso, sono tanto sabaude quanto austriache, ma anche toscane o papaline o, nel complesso, meridionali. Renato Agazzi ci propone proprio questo, risultando tra i pochi autori che permette quindi una lettura comparativa degli eserciti in lotta e dei rispettivi comandanti.

8 Il 18 marzo 1848 Milano insorse e l’autore rivolge da subito il suo sguardo su ciò che accadde non solo nel vicino Piemonte ma in tutti i diversi stati italiani. Carlo Alberto viene analizzato, almeno inizialmente, sotto un profilo più psicologico che militare confrontando il suo operato con la dimensione repubblicana della rivolta di Milano. Nella città lombarda, infatti, erano i mazziniani repubblicani e i democratici riformisti la componente fortemente maggioritaria che guidò l’insurrezione. L’espansione della rivolta negli stati vicini, o l’esempio da questa fornito, avrebbe potuto coincidere con la diffusione di un pensiero politico ostile e antitetico alle monarchie mettendo così a forte rischio le vicine case regnanti. La volontà di arrestare la rivolta scoppiata a Milano e di impedire nuove insurrezioni, da questo punto di vista, poteva allora divenire un collante tra le corona piemontese e quella austriaca, avendo entrambe la comune necessità di combattere il pensiero diffuso dai seguaci del Mazzini o del Cattaneo. E questa analisi viene ripetuta e proposta da Agazzi anche per gli altri regnanti, il Duca di Toscana, Papa Pio IX e Ferdinando II di Borbone. Per questi, l’autore fornisce anche delle opportune valutazioni relative al fatto che, oltre alla necessità di sopprimere sentimenti antimonarchici, dovevano parimenti tener conto di altri fattori, spesso contrastanti, come l’autorizzazione all’arruolamento di truppe volontarie che chiedevano di partire per il Lombardo-Veneto o l’opportunità di inviare proprie truppe regolari, la volontà o meno di rompere i rapporti con l’Austria, la gestione dei movimenti di ribellione interni ai propri territori – soprattutto nel meridione borbonico – e le mire espansionistiche di Carlo Alberto su un futuro assetto unitario dell’Italia sotto la corona sabauda. Affrontare anche questi argomenti, pur senza giustamente entrare troppo in profondità, ha permesso all’autore di trasmettere anche il senso di disagio sociale presente in molte parti della penisola. Esponendo questa storia dall’alto Agazzi, prima di immergersi nei campi di battaglia, raccoglie e riassume questi pensieri – traendoli dalle memorie di uomini contemporanei ai fatti o dalla

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 90

datata storiografia della seconda metà dell’Ottocento indicata nelle note – in modo tale da poter fornire al lettore una giusta panoramica e degli appropriati strumenti che serviranno, successivamente, per spiegare anche le dinamiche militari o, quantomeno, le decisioni e gli ordini impartiti dai regnanti e dagli alti comandi.

9 I soggetti principali del testo sono, quindi, gli stessi regnanti e i loro generali. Per ciascuno Agazzi redige una breve biografia che, per quanto possa rendere più pesante la lettura, riesce a far comprendere al lettore più esigente le scelte che ciascun singolo operò concretamente quando dovette guidare i propri uomini in battaglia. Le pagine dedicate a Carlo Alberto e Radetzky sono ben concentrate e in grado di suscitare curiosità nel lettore.

10 Come detto, una storia dall’alto, ma non mancano alcune pagine descrittive degli eserciti coinvolti e delle diverse battaglie che, per la terminologia usata, sono di profonda “cultura militare” e fanno trasparire una certa precisione nello studio, seppur probabilmente risulteranno di non facile lettura per i non avvezzi.

11 Agazzi scrive brevemente anche di alcuni riferimenti simbolici, soprattutto sull’uso del tricolore e sul fatto che ad esso fu affiancato talvolta lo scudo sabaudo. Sarebbe stato interessante aprire un discorso più ampio di tali episodi, non solo per “la nascita della patria”, ma, volendo concentrarsi sulla specifica storia militare, anche per l’importanza che questi assunsero nei campi di battaglia.

12 Le battaglie. Pastrengo (30 aprile 1848), Santa Lucia (6 maggio 1848), Vicenza (24 maggio 1848), gli assedi di Peschiera, la battaglia di Curtatone e Mantova e, infine, quella di Goito del 30 maggio 1848 descrivono anche altri avvenimenti militari che si svolsero nello stesso periodo, come la rivolta siciliana e quella calabrese. Questi eventi, su cui non ci soffermeremo singolarmente, vengono ricostruiti dall’autore con accurata precisione, riportando per ciascuno di essi più cartine geografiche di grande ausilio non solo per focalizzare i campi di battaglia ma anche per seguire bene i singoli avvenimenti e il loro procedere, l’organizzazione delle forze in campo, gli ordini impartiti e le relative decisioni di volta in volta prese, facendo spesso riferimento alle relazioni e ai resoconti scritti dai principali comandanti, editi ormai all’inizio del Novecento e difficilmente reperibili11. L’autore, oltre a trarne indicazioni, utilizza spesso direttamente la fonte e, talvolta, ne propone attente analisi relative al giusto impiego delle truppe, agli errori di valutazione, come nel caso degli assedi di Peschiera, Mantova e Verona, e i relativi insegnamenti che ne poté trarre Carlo Alberto. Come accennato, un elemento di sicuro interesse è l’osservare gli avvenimenti da entrambi gli schieramenti in guerra: proprio a partire dall’analisi delle relazioni e dei rapporti, Agazzi, come scrive chiaramente nelle indicazione metodologiche riportate in prefazione12, si impegna a non dare solo le informazioni che è possibile trarre dagli scritti dei comandanti in campo “italiani” ma, per una più completa analisi, concede, per la trattazione delle medesime vicende, analoghi spazi anche ai resoconti di Radetzky e agli scritti di Karl Schönhals che forniscono quindi il punto di vista austriaco.

13 Leggendo di volta il volta le note, si comprende il difficile e importante lavoro che l’autore ha realizzato nell’analisi bibliografica del suo oggetto di studio. I testi che analizza – e questo è un altro dato significativo sulla difficoltà degli studi storico- militari del Risorgimento – sono prevalentemente della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento. Anche per quanto concerne la documentazione afferente ai molti rapporti e relazioni utilizzati e puntualmente indicati in nota, si tratta sempre e come

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 91

indicato più sopra, di pubblicazioni a stampa raccolte in tomi editi ormai da oltre cento anni13. Parimenti, però, non compaiono particolari e interessanti indicazioni di ricerche archivistiche, e uno studio storico privo di approfondimenti delle fonti primarie ne risente sicuramente in termini di contributo innovativo alla ricerca storica. Alla disponibilità di una “biblioteca antiquaria” sarebbe stato interessante quindi affiancare una ricerca d’archivio quale unico mezzo per far emergere eventuali importanti scoperte o analizzare la documentazione dell’epoca alla luce di nuove tesi e interpretazioni.

14 Il volume presenta anche un inserto fotografico che fornisce immagini di tele che ritraggono singoli militari o immagini di battaglie. Per quanto le seconde possano apparire più sceniche, di particolare interesse risultano quelle relative ai singoli. Come per il testo, anche nell’inserto fotografico l’autore si sforza di dare lo stesso spazio sia ai piemontesi che agli austriaci e le immagini forniscono così indicazioni sulle divise e sugli armamenti in dotazione ai due schieramenti. Ci appare proficua la scelta di accompagnare il testo con queste immagini che spesso passano inosservate all’interno dei musei, mentre nel contesto dello studio proposto forniscono interessanti indicazioni storiche e collegamenti con lo scritto.

15 Un particolare che colpisce, infine, sono i nomi delle Brigate militari di cui ci dà conto Agazzi per entrambi gli schieramenti. Quei nomi accompagneranno lo svolgersi della storia nazionale fino ai giorni nostri.

16 Nel complesso, seppur con alcune riserve qui indicate, il volume si fa apprezzare oltre che per la precisa ricostruzione degli avvenimenti bellici – tratto peculiare di un buon testo di storia militare, dove spesso risulta importante descrivere le azioni anche fornendo un’indicazione oraria, come fatto da Renato Agazzi – per aver affiancato ad essi, con un giusto bilanciamento e permettendone una maggiore comprensione, anche alcune importanti indicazioni su ciò che circondò il puro evento militare. In questo senso le rivolte, il pensiero politico d’impronta liberale o repubblicana, l’adesione alla Lega Federativa di Stati Italiani o ad una Lega Italiana di cui ci rende conto l’autore, ben si coniugano con gli “ordini di battaglia”, con i “corpi d’armata o con la “fanteria di linea”.

NOTE

1. AGAZZI, Renato, Il mito del vampiro in Europa, Poggibonsi, Lalli, 1979. 2. ID., I romantici dell’orrido. Uno studio sul romanzo gotico inglese, Poggibonsi, Lalli, 1984. 3. ID., Giulio Cesare stratega in Gallia, Pavia, Iuculano, 2006. 4. PIERI, Piero, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Torino, Einaudi, 1962. 5. BATTAGLIA, Antonello, Il Risorgimento sul mare. La campagna navale 1860-1861, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2012. 6. Tra i più recenti, si segnala SCARDIGLI, Marco, Le grandi battaglie del Risorgimento, Milano, BUR, 2011.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 92

7. Si segnalano, tra gli altri, BANTI, Alberto Mario, Il Risorgimento Italiano, Roma-Bari, Laterza, 2009; CAVOUR, Camillo Benso, Discorsi per Roma capitale, Roma, Donzelli, 2010; PÉCOUT, Gilles, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea, Milano, Mondadori, 1999; RIALL, Lucy, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Roma, Donzelli, 1997; ALBERTINI, Mario, Il Risorgimento e l’unità europea, Napoli, Guida, 1979; Giuseppe Cesare Abba e la memorialistica garibaldina, Brescia, Ateneo di Brescia, 1980. 8. AGAZZI, Renato, La rivoluzione del 1848. La nascita della patria, Udine, Gaspari, 2015, p. 10. 9. Il termine-concetto “patria”, oltre al “territorio”, include anche il “popolo” che vi risiede e che per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni vi si sente di appartenere. 10. AGAZZI, Renato, La rivoluzione del 1848. La nascita della patria, cit., p. 10. 11. COMANDO DEL CORPO DI STATO MAGGIORE. UFFICIO STORICO, Relazioni e rapporti finali sulla campagna del 1849 nell’Alta Italia, Roma, Officina Poligrafica, 1911; Relazioni e rapporti finali sulla campagna del 1848 nella Alta Italia, vol. I, Roma, Lab. tip. del Comando del Corpo di Stato Maggiore, 1908; AA.VV., Relazioni e rapporti finali sulla campagna del 1848 nella Alta Italia, voll. II-III, Roma, Lab. tip. del Comando del Corpo di Stato maggiore, 1910; BRANCACCIO, Nicola, PAGANELLI, Carlo, RAGIONI, Rodolfo, Relazioni e rapporti finali sulla campagna del 1849 nella Alta Italia, Roma, Officina Poligrafica, 1911; RAGIONI, Rodolfo, GIACCHI, Nicolò, BRANCACCIO, Nicola, La campagna del 1849 nella Alta Italia, Roma, Ministero della Guerra, 1928. 12. AGAZZI, Renato, La rivoluzione del 1848. La nascita della patria, cit., p. 11. 13. Vedasi nota 11.

AUTORI

EDOARDO GRASSIA Edoardo Grassia, diploma di laurea in Sociologia e laurea in Storia medievale, moderna e contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma, è dottorando di ricerca in Storia dell’Europa presso lo stesso ateneo. Si è occupato dell’Aviazione Legionaria da Bombardamento, da cui è nata la pubblicazione L’Aviazione Legionaria da bombardamento (Spagna 1936-1939). Iniziare da stanotte azione violenta su Barcellona (Roma, IBN Editore, 2009) e di Resistenza e guerra di Liberazione con lo studio Sabato Martelli Castaldi. Il generale partigiano (Milano, Mursia, 2016). È autore di alcuni articoli editi da «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea». Membro della Società Italiana di Storia Militare (SISM), svolge regolarmente attività di studio e di ricerca in ambito storico-sociale e storico-militare. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Grassia >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 93

Benito Mussolini, Il mio diario di guerra (1915-1917)

Matteo Anastasi

NOTIZIA

Benito Mussolini, Il mio diario di guerra (1915-1917), Bologna, Il Mulino, 2016, 225 pp.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 94

1 È merito di uno dei più affermati storici italiani, Mario Isnenghi, l’aver riportato alla luce, restituendogli «quell’attenzione – dovuta – che gli è stata a lungo lesinata» 1, il diario di guerra redatto da Benito Mussolini nei suoi tre anni al fronte durante il primo conflitto mondiale. Isnenghi si è occupato di Grande guerra fin dai suoi primi passi nel mondo accademico, con molteplici opere legate a quel periodo2.

2 In questa circostanza Isnenghi ha inteso riconferire dignità storiografica all’esperienza bellica vissuta al fronte dal futuro Duce d’Italia, di sicura influenza sulla sua formazione personale e sulla sua visione politica dei decenni a seguire. Come ricorda nel testo in esame lo stesso storico veneziano, l’idea di riportare in auge i diari ha accompagnato il suo percorso di studioso per circa un trentennio, durante il quale questa convinzione non ha perso smalto, conoscendo anzi costante vigore, fino a concretizzarsi nel gennaio 2016 con la pubblicazione di questo lavoro3.

3 Richiamato alle armi il 31 agosto 1915 e assegnato inizialmente come soldato semplice al 7° reggimento bersaglieri, Mussolini raggiunse i soldati italiani il 13 settembre, aggregandosi all’11° bersaglieri. Il 28 dicembre del 1915 «Il Popolo d’Italia» – il quotidiano da lui diretto e fondato poco più di un anno prima, il 15 novembre 1914, per dar voce all’area interventista socialista di cui era esponente principale – iniziò la pubblicazione a puntate del Giornale di guerra, una cronaca delle ostilità densa e partecipata, che accompagnò i lettori con quindici puntate stampate in quattordici mesi. Le pubblicazioni non ebbero scadenza sistematica: sei uscirono in rapida sequenza fra il 28 dicembre 1915 e il 9 gennaio 1916; due a maggio, quattro a luglio e tre nel febbraio 1917. Il 23 febbraio 1917 Mussolini rimase seriamente ferito durante un’esercitazione, incidente che pose fine alla sua esperienza bellica così come alla sua narrazione dal fronte.

4 Successivamente queste memorie furono pubblicate nel febbraio 1923 da Imperia, la casa editrice di riferimento del Partito Nazionale Fascista, col titolo Il mio diario di guerra (1915-1917). Durante il Ventennio si susseguirono altre edizioni, riportanti un testo leggermente modificato rispetto a quello del 1923, pubblicate dalla Libreria del Littorio e una versione contenuta nel primo dei dodici volumi degli Scritti e discorsi di Benito Mussolini, dati alle stampe da Hoepli nel 1934 e dal Poligrafico dello Stato nel 1939. Dopo la caduta del fascismo, il diario è stato nuovamente pubblicato nel 1961 nel trentatreesimo volume dell’Opera omnia di Mussolini curata da Edoardo Susmel prima, e dal figlio Duilio poi, per La Fenice.

5 «Poiché le edizioni uscite durante la vita di Mussolini presentano tutte interventi o modifiche»4, Isnenghi ha deciso di riprendere fedelmente – e questo è certamente un

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 95

merito ai fini dell’analisi storiografica – le puntate pubblicate negli anni di guerra su «Il Popolo d’Italia». In appendice al diario, il curatore ha inteso raccogliere una serie di materiali, utili al lettore per giungere a una valutazione più sistematica di quanto offerto dalle righe che li precedono. Nel dettaglio, si trova la seguente documentazione: alcune fotografie comparse nell’edizione Imperia del diario, con l’esclusione di quella della casa nativa di Mussolini, ritenuta inutile nel contesto preso in esame; il brano Il nostro Direttore, introduzione alla pubblicazione de «Il Popolo d’Italia» del 23 luglio 1916 intitolata Un mese sulla difensiva fra le montagne della Carnia, contenuta nell’edizione Imperia e non rinvenibile nelle successive; i due articoli relativi al ferimento e al ricovero di Mussolini, pubblicati nell’edizione Imperia ed espunti dalle successive, Al capezzale di Benito Mussolini di Sandro Giuliani del 5 marzo 1917 e Il Re visita Benito Mussolini e i suoi compagni feriti di Raffaele Garinei, pubblicato l’8 marzo 1917; il foglio matricolare di Mussolini, pubblicato da Renzo De Felice in appendice al suo Mussolini il rivoluzionario (1883-1920)5.

6 L’opera si colloca nel filone degli studi sulla prima “conversione” di Mussolini6, un Mussolini interventista, che ha rotto con l’«Avanti!» e i socialisti “ortodossi” per propagandare le ragioni della guerra sulle pagine de «Il Popolo d’Italia»: siamo ancora nella fase del Mussolini il rivoluzionario7, secondo la periodizzazione adottata da Renzo De Felice. Si tratta di un Mussolini estremamente toccato dall’esperienza delle masse in guerra, che fa emergere una duplice personalità: da un lato il disciplinato e rispettoso soldato in divisa grigioverde, dall’altro lato il leader rivoluzionario, che matura al fronte – trasponendo le sue convinzioni sulla carta stampata del giornale di cui è direttore – la necessità di cancellare l’«io» per far spazio al «noi» di un popolo inteso come soggetto unico, privo di divisioni classiste. Un tema, quest’ultimo, d’ora in avanti mai abbandonato, cui saranno molto sensibili i reduci e gli interventisti al momento della sua ascesa nel 1922, quando da semplice soldato Mussolini diverrà capo del governo nel giro di poco più di un quinquennio. Proprio nell’eliminazione di questi paradigmi di classe e delle conseguenti antitesi di ruolo, Mussolini vede l’azione benefica della guerra, della vita comunitaria in trincea, della mescolanza dei diversi dialetti che si fondono in un’unica massa grigioverde volta al medesimo obiettivo, dando vita a livelli fino ad allora inediti di nazionalizzazione.

7 Il tema dell’esercito/popolo al fronte è reso in passaggi di discreta godibilità attraverso la penna di Mussolini. Si pensi, in particolare, al Mussolini “antropologo”, dedito allo studio delle canzoni intonate dai soldati in trincea, che preferiscono accantonare i brani patriottici in favore di «canzoni sgorgate dall’anima primitiva del popolo», versi «rozzi» ma dotati di «una fresca vena di sentimento»8: da Daghela ben biondina a Osteria del numero uno. Nell’analisi complessiva non va trascurata, certo – e questo Isnenghi lo sottolinea a più riprese – la necessità mussoliniana di costruire attorno a sé, mediante i suoi lettori, una narrazione quasi epica, che lo elevi a leader in prima linea (nel senso fisico del termine in questo caso) per le sorti della nazione, con uno slancio nuovo, che ha superato, ma non accantonato, quello risorgimentale (la denominazione de «Il Popolo d’Italia» ricorda, e non poco, la testata mazziniana «L’Italia del Popolo») e si propone come sua necessaria evoluzione.

8 L’originalità dell’opera è individuabile in molteplici aspetti. Anzitutto, il merito di Isnenghi – primo studioso ad attirare l’attenzione su questo testo – è di far luce su un’opera di assoluta importanza per la comprensione dell’uomo e di alcune sue caratteristiche forgiate dall’esperienza di guerra, che Mussolini porterà a lungo con sé,

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 96

e che influenzeranno negli anni a venire tanto le scelte di politica estera quanto quelle di politica domestica. Un compito, quello di Isnenghi, per decenni serenamente declinato dagli storici, attenti a non commettere l’incauto approccio alle memorie di un autore la cui impronunciabilità politica ha caratterizzato lungamente il mondo scientifico del dopoguerra.

9 Nondimeno – altro dato meritorio – il diario fornisce un interessante quadro del fronte: spazi, luoghi, momenti di vita quotidiana, uomini, pulsioni. L’affresco è completo e minuzioso: la narrazione procede secondo il ritmo della giornata, dalla sveglia alla ritirata, fra descrizioni paesaggistiche, azioni militari, ritratti di superiori, valutazioni dei ranci, ambizioni e aspettative dei commilitoni. Fra le numerose memorie pervenuteci dalle trincee della Prima guerra mondiale9, quelle di Mussolini, soldato fra i soldati, non vanno collocate in una posizione secondaria, oltreché per le motivazioni delineate, per la peculiarità di essere scritte da un giornalista, con l’acutezza delle osservazioni e la fluidità di scrittura proprie della categoria.

NOTE

1. MUSSOLINI, Benito, Il mio diario di guerra (1915-1917), Bologna, Il Mulino, 2016, p. 7. 2. Cfr. ISNENGHI, Mario (a cura di), La prima guerra mondiale, Bologna, Zanichelli, 1972; ID., Giornali di trincea (1915-1918), Torino, Einaudi, 1977; ID. (a cura di), Operai e contadini nella Grande guerra, Bologna, Cappelli, 1982; ID., La Grande guerra, Firenze, Giunti, 1993; ID., La tragedia necessaria. Da Caporetto all’otto settembre, Bologna, Il Mulino, 1999; ID., Convertirsi alla guerra. Liquidazioni, mobilitazioni e abiure nell’Italia tra il 1914 e il 1918, Milano, Donzelli, 2015. 3. «Personalmente ho cominciato a fare pubblicamente i conti con questo testo in uno dei convegni animati da Gianfranco Folena a Bressanone, nell’ambito dei lavori estivi dell’Università di Padova (1984), dedicato a Le forme del Diario e poi confluito nel n. 2 dei Quaderni di retorica e poetica diretti da Folena, Padova, Liviana, 1985: Il diario di guerra di Benito Mussolini, pp. 123-130; e nella Postfazione a Il mito della Grande guerra, Bologna, Il Mulino, 1989, una terza edizione che affida l’aggiornamento di quel lavoro del 1970 all’aggiunta delle pp. 395-439». Cfr. la prefazione del curatore in MUSSOLINI, Benito, Il mio diario di guerra, cit., p. 7. 4. MUSSOLINI, Benito, Il mio diario di guerra (1915-1917), cit., p. 44. 5. DE FELICE, Renzo, Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Torino, Einaudi, 1965, pp. 665-667. 6. Oltre a quelli di Renzo De Felice, confluiti nella sua monumentale biografia di Mussolini, di sicuro interesse e fondamento scientifico per questa fase della vita, sono, fra gli altri, di vario orientamento, gli studi di BOSWORTH, Richard, Mussolini, London, Arnold, 2002; GENTILE, Emilio, Le origini dell’ideologia fascista 1918-1925, Bari, Laterza, 1975; MACK SMITH, Denis, Mussolini, Milano, Rizzoli, 1981; MILZA, Pierre, Mussolini, Paris, Fayard, 1999; PERFETTI, Francesco, Il movimento nazionalista in Italia 1903-1914, Roma, Bonacci, 1984. 7. DE FELICE, Renzo, op. cit. 8. MUSSOLINI, Benito, Il mio diario di guerra (1915-1917), cit., p. 140. 9. Fra le opere pubblicate recentemente, riguardo il fronte italiano, cfr. BUGANI, Flavia, Italo Stegher. Memorie di un giovane ufficiale, Udine, Gaspari, 2016; FERRARI, Pierangelo, MACULOTTI, Giancarlo, La guerra bianca di Carlo Emilio Gadda. La permanenza in Valle Camonica nelle note del Giornale di guerra e di prigionia 1915-1916, Roccafranca, Compagnia della stampa Massetti Rodella,

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 97

2016; PUCCINI, Mario, Davanti a Trieste. Esperienze di un fante sul Carso, Milano, Mursia, 2016; STUPARICH, Giani, Guerra del ’15, Macerata, Quodlibet, 2015.

AUTORI

MATTEO ANASTASI Matteo Anastasi (1989) nel 2011 si è laureato con lode in Scienze Storiche presso l’Università Europea di Roma e nel 2014, sempre con lode, in Relazioni Internazionali presso la LUISS Guido Carli. Attualmente è dottorando di ricerca presso la LUMSA e cultore della materia in Storia contemporanea presso l’Università Europea di Roma. Si occupa di storia politica e diplomatica italiana. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Anastasi >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 98

Renato Camurri (a cura di), Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo

Camilla Poesio

NOTIZIA

Renato Camurri (a cura di), Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo, Venezia, Marsilio, 2016, 507 pp.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 99

1 Non è facile fare la recensione di questo volume perché, nel momento in cui ci si appresta ad affrontare le quasi cinquecento pagine che lo compongono, ci si trova davanti, di fatto, non ad uno ma a due libri. Il primo è il bel saggio introduttivo del curatore del volume, Renato Camurri, professore di storia dell’Europa contemporanea all’Università di Verona e autore di numerose ricerche sulla storia delle classi dirigenti e delle élites nell’età liberale 1, ma anche sull’emigrazione, sull’esilio e sugli intellettuali2; il secondo libro sono i quaderni che Antonio Giuriolo scrisse su temi disparati, dalla filosofia alla letteratura, dalla storia alla politica, e che ci illustrano la significativa cifra culturale che caratterizzò l’intellettuale veneto. L’obiettivo è quello di capire il suo mondo e le sue letture per delineare una figura di spicco dell’antifascismo italiano, vicina a Norberto Bobbio, Carlo Ludovico Ragghianti, Aldo Capitini – per dirne alcuni – e che è rimasta in ombra per troppi anni.

2 Antonio Giuriolo (San Pietro a Castello di Arzignano, Vicenza – 12 febbraio 1912, Corona di Lizzano in Belvedere, Bologna, 12 dicembre 1944), figlio dell’avvocato Pietro, antifascista laico e socialista militante tanto da subire le violenze degli squadristi, e di Marina Arrenghini, donna profondamente cattolica, secondogenito di tre fratelli, frequentò il ginnasio prima a Bologna nel collegio San Luigi e poi nel liceo Pigafetta di Vicenza, dove la famiglia si trasferì nell’autunno del 1922. Nel 1930 si iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Università di Padova e si laureò con una tesi sulla poesia di Antonio Fogazzaro.

3 I quaderni – solo in parte pubblicati in questo volume – sono stati donati all’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Vicenza “Ettore Gallo” dagli eredi di Antonio Giuriolo nel 2004, un lascito che ha permesso di dare vita a un prezioso fondo costituito da lettere, articoli di stampa e quarantasette quaderni dalla copertina nera. Questi ultimi non sono datati: non deve essere stato facile, dunque, ricostruire una loro cronologia. Camurri ha risolto il problema attraverso congetture, verifiche incrociate e con lo strumento della comparazione, confrontando cioè i percorsi di altri coetanei di Giuriolo. Ne ha concluso che una prima parte dei quaderni sia stata scritta tra il 1930 e il 1935, una seconda tra il 1937 e il 1943, inframezzati da un diario redatto negli anni in maniera discontinua (inizia il 5 settembre 1936 e si ferma il 9 settembre, riprende dal 16 maggio 1939 al 19 settembre, si ferma di nuovo per tre anni e riprende nel 1942, senza data ma sicuramente il 19 gennaio, il giorno dopo la morte del padre), anni durante i quali Giuriolo conobbe e frequentò l’antifascismo organizzato che gravitava a Firenze, attorno alla rivista «La Nuova Italia», e a Parigi. Se ricostruire una cronologia di questi quaderni deve essere stato compito non grato, altrettanto deve esserlo stato decifrarli: il particolare di una

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 100

pagina autografa di Giuriolo, che si vede sulla copertina del volume, ci dà un piccolo assaggio di una scrittura fitta e minuta intervallata da cancellature.

4 Il libro si divide in due grandi parti. La prima è costituta da un denso saggio del curatore, la seconda da quindici di quarantasette quaderni autografi. Già qualche anno fa Camurri aveva tracciato un profilo biografico e politico di Giuriolo3; adesso lo storico inquadra e spiega la figura dell’intellettuale facendola emergere dai suoi scritti e dalle sue riflessioni su Machiavelli, Tocqueville, Cavour, Guido Calogero, Henri De Man.

5 Attraverso un difficile lavoro filologico il curatore ha selezionato i quaderni forse più interessanti, quelli in cui Giuriolo affronta concetti di grande portata come libertà, uguaglianza, patria, educazione, Storia, marxismo, socialismo. Lette con attenzione queste riflessioni – talvolta semplici annotazioni su cui Giuriolo si promette di tornare in un secondo momento – non sono altro che la visione politica e umana di un uomo che dello studio fece non un rifugio sterile, bensì un modo per prepararsi alla lotta antifascista. Se la lettura dei classici latini e greci lo aiutarono a sviluppare riflessioni acute sul concetto di libertà e sulla figura del tiranno, Machiavelli gli servì per affrontare il rapporto tra potere e cittadini. Pertanto, come spiega Camurri, «questi commenti non sono meri esercizi di erudizione. Essi vanno [...] sempre letti cercando di contestualizzarli e di decodificare quello che l’autore vuole dissimulare usando un linguaggio in alcuni casi volutamente evocativo»4.

6 A ciò mi permetterei di aggiungere che, non di rado, alcune affermazioni di Giuriolo sono vere e proprie prese di posizione politiche critiche al regime fascista. Per fare alcuni esempi, scrive Giuriolo: Come si vede chiaramente, lo Stato tranquillo e ordinato, senza dissenso e senza lotte interne, non è l’ideale del M. [Machiavelli], il quale vedeva anzi in quei dissensi lo stimolo più potente a un rinforzamento della libertà e della grandezza5.

7 Oppure: La potenza di uno stato non si misura dalla permanenza più o meno lunga di un governo (v. la decadenza di Venezia) ma dalla sua capacità di rinnovarsi, di adattarsi, di trasformarsi secondo le contingenze6.

8 È significativa una frase del genere se contestualizzata a un presente in cui il regime fascista si proponeva, invece, come unico scopo quello di durare. E ancora: L’ideale del principe m. [machiavelliano] non è quello che fonda il suo dominio su un programma di violenza e di costrizione, ma quello che si fa amare dai sudditi, che rispetta le leggi7.

9 Fino ad arrivare: Scopo essenziale della politica non è dare effimero lustro a un popolo e a un individuo, ma prepararlo per le lotte del futuro, educarlo con istituzioni durature […]. Per questo l’opera dei dittatori è spesso effimera: non si curano del futuro, non si negano la propria personalità nelle istituzioni: il loro successo dipende infine da “un colpo di pistola”8.

10 Per utilizzare una categoria gobettiana Giuriolo fu un esule in patria – così titola uno dei capitoli del volume – perché effettivamente la sua scelta fu quella di un esilio spirituale, esistenziale, di una estraneità profonda e di un ritiro nello studio dei classici, della filosofia, della scienza politica e della letteratura non per fuggire dal presente, bensì per imparare, prendere ispirazione, “imitare”, (proprio come aveva fatto a sua volta Machiavelli da lui tanto studiato) dal passato e agire sul presente in vista della costruzione di un’altra patria una volta sconfitta la dittatura.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 101

11 Parlando forse a sé stesso, riteneva coraggiosa l’attività culturale antifascista al pari di colui che agisce: Il coraggio non appartiene solo al martire o all’eroe, ma anche al filosofo, al poeta, i quali devono affrontare lotte interiori durissime […] qualunque forma d’attività impegna tutta la personalità; moralmente nemmeno, perché ogni fede impone all’individuo il sacrificio totale, quando sia necessario (v. Bruno)9.

12 Ma Giuriolo non si limitò a questo. Nel 1937 cominciò a frequentare ambienti in cui giravano copie clandestine di Socialismo liberale di Carlo Rosselli, libro vietato a cui l’intellettuale arrivò grazie a Carlo Ludovico Ragghianti; lesse Elementi di un’esperienza religiosa di Aldo Capitini uscito in quell’anno e il Primo manifesto del liberalsocialismo di Guido Calogero divulgato nel corso della primavera del 194010. Conobbe, inoltre, Luigi Russo, Francesco Flora, Aldo Capitini, i giovani vicini alla rivista «La Nuova Italia», tra cui Enriques Agnoletti. Nel 1938, ospite della zia materna Anita Arreghini Hugonin, si recò a Parigi dove frequentò l’antifascismo internazionale, ma soprattutto fece vita politica attiva incontrando militanti antifascisti, operai, emigranti italiani, sindacalisti. Infine, subito dopo l’8 settembre, entrò nella Resistenza dove trovò la morte in combattimento.

13 È in questa ottica, allora, che vanno letti i suoi ragionamenti, che partono da letture antiche, su grandi questioni come la libertà, l’uguaglianza, le strutture economiche, la forma di stato – se centralizzato o decentrato. Attraverso gli appunti e le sue riflessioni, capiamo che è a Rosselli che si sentì più vicino politicamente: Giuriolo si può cioè collocare politicamente nel filone del socialismo liberale – né il liberalismo, né la democrazia, né il comunismo, né il nazionalfascismo erano esperienze politiche da tenere a modello11 –, sia per la nozione di libertà, secondo la quale non si è liberi per nascita ma per comportamento e attività di vita e di coscienza, sia per quella di dignità (che non è condizione innata o causale ma che si acquisisce attraverso le proprie azioni), sia per questioni relative al decentramento e alla valorizzazione delle autonomie locali, temi ampiamente discussi nell’ambiente gravitante attorno a Giustizia e Libertà. Scrive il curatore: Di lui direi che è stato un giovane con una forte vocazione al lavoro intellettuale; profondamente ancorato ad una precisa tradizione culturale italiana ma dotato di una mentalità aperta, cosmopolita […]. La sua collocazione politica è nel filone del socialismo liberale di matrice rosselliana, con forti venature libertarie e antitotalitarie12.

14 Intimamente convinto dell’importanza nella società del ruolo dell’educazione come elemento fondamentale per la formazione politica e morale del popolo, la cultura, lo studio, i libri servirono a Giuriolo per rafforzare un senso profondo di cittadinanza democratica e di partecipazione politica e dare vita a un nuovo umanesimo, a una nuova società. Sono indicative in questo senso le sue riflessioni sulla storia: Intendo per storia tutto quello che gli uomini hanno compiuto […] a me importa intendere cosa [i personaggi storici] compirono; è la loro opera insomma che non appartiene più a loro come individui, ma appartiene alla storia, nella quale vive. La storia degli individui ha perciò solo un valore in quanto essi vengono legati all’umanità, per la quale operano e in riferimento alla quale soltanto ha senso la loro azione13.

15 Dotato di un grande carisma, diventò maestro de I piccoli maestri, il gruppo di studenti universitari di cui faceva parte anche Luigi Meneghello14, più giovani di lui di una decina di anni essendo nati intorno agli inizi degli anni Venti, che salirono

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 102

sull’Altopiano di Asiago per combattere i nazifascisti. «Finalmente avevo trovato ciò che inconsciamente cercavo: un maestro di pensiero e d’azione»15, scrisse uno di loro.

16 Fu un intellettuale che dal pensiero passò all’azione: nel 1936 rifiutò la tessera del Partito nazionale fascista, decisione che lo interdisse dall’insegnamento delle scuole pubbliche e che lo costrinse a dare lezioni private e per questo è stato definito professore senza cattedra; nell’estate del 1942 fu fondatore del Partito d’Azione nel Vicentino e nel 1944, il 12 dicembre, a trentadue anni, morì in combattimento alla guida di una delle due formazioni della Brigata Matteotti a La Corona, nei pressi di Lizzano Belvedere sull’Appenino tosco-emiliano.

17 Oltre all’evidente utilità pratica di aver riportato fedelmente alcuni scritti, finora accessibili solo in archivio, questo libro ha un altro grande merito: quello di avere valorizzato la figura di questo intellettuale all’interno dell’antifascismo italiano, strappandolo all’oblio in cui era stato relegato e demolendo quel mito-Giuriolo creato dagli scritti di Norberto Bobbio16 e dai romanzi di Luigi Meneghello, che ne aveva fatto un eroe per la sua coerenza e rettitudine, per la sua biografia esemplare culminata con una morte altrettanto esemplare. La mitizzazione della figura del “capitano Toni” aveva significato anche mitizzare l’esperienza intransigente e contraria a ogni compromesso dell’azionismo. Eppure, nonostante questa sorta di aura sacrale, di Giuriolo non si è più parlato pubblicamente dopo l’intervento di Bobbio del 1948 e quello, sempre del filosofo, del 1964 in occasione dei vent’anni dalla morte dell’intellettuale, «complice anche il ritardo con il quale la storiografia italiana iniziò a occuparsi della storia del Partito d’Azione, ritardo che aveva provocato il “congelamento” del suo profilo intellettuale […]»17.

18 Camurri lo ha riesumato non solo per rendere giustizia all’uomo-Giuriolo, ma anche per aggiungere un tassello in più al variegato mosaico dell’antifascismo italiano: [L’esperienza di Giuriolo] ci insegna che non basta ricostruire le vicende dei gruppi consolidati organizzati secondo appartenenze che rimandano alle classiche famiglie politiche. Occorre intrecciare queste conoscenze con storie individuali e i percorsi dei piccoli gruppi. […] È a queste biografie, a queste storie individuali, a questi materiali che bisogna guardare, con rispetto e ammirazione, per capire cosa è veramente stata la Resistenza italiana18.

NOTE

1. Per citarne alcuni: CAMURRI, Renato, ZURITA, Rafael, Les élites en Italia y en Espana, 1850-1922, Valencia, Puv, 2008; CAMURRI, Renato, «Introduzione», in Ricerche di Storia Politica : Notabili e sistemi notabilari nell’Europa liberale, XV, 3/2012, pp. 257-260; ID., «I Tutori della nazione: i “grandi notabili” e l’organizzazione della politica nell’Italia liberale», ibidem, pp. 261-278. 2. CAMURRI, Renato (a cura di), Franco Modigliani. L’Italia vista dall’America. Riflessioni e battaglie di un esule, Torino, Bollati Boringhieri, 2010; ID. (a cura di), Max Ascoli. Antifascista, intellettuale, giornalista, Milano, Franco Angeli, 2012; ID. (a cura di), Gaetano Salvemini. Lettere Americane. 1927-1949, Roma, Donzelli, 2015; CAMURRI, Renato, GENTILE, Emilio, The March on Rome: how antifascists understood the origins of totalitarianism (and coined the word), Roma, Viella, 2013.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 103

3. CAMURRI, Renato, Tra mito e antimito: note sulla formazione di Antonio Giuriolo, in ID. (a cura di), Antonio Giuriolo e il “partito della democrazia”, Verona, Cierre, 2008, pp. 31-52; ID., Il capitano con gli occhi da bambino, cit., pp. 11-15. 4. CAMURRI, Renato (a cura di), Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo, Venezia, Marsilio, 2016, p. 133. 5. Ibidem, p. 317. 6. Ibidem, p. 315. 7. Ibidem, p. 345 8. Ibidem, p. 323. 9. Ibidem, p. 452. 10. ROSSELLI, Carlo, Socialismo liberale, s.l., Edizioni di Giustizia e Libertà, [1944]; CAPITINI, Aldo, Elementi di un’esperienza religiosa, Bari, Laterza, 1937; CALOGERO, Guido, Primo manifesto del liberalsocialismo, 1940, Roma, s.e., 1945. 11. CAMURRI, Renato (a cura di), Pensare la libertà, cit., p. 212. 12. Ibidem, p. 179. 13. Ibidem, p. 285. 14. MENEGHELLO, Luigi, I piccoli maestri, Milano, Feltrinelli, 1964. 15. CAMURRI, Renato (a cura di), Pensare la libertà, cit., p. 29. 16. BOBBIO, Norberto, L’uomo e il partigiano, in Per Antonio Giuriolo, Vicenza, s.n., 1966, pp.19-32, ripubblicato poi in BOBBIO, Norberto, Italia civile. Ritratti e testimonianze, Firenze, Passigli, 1986, pp. 311-323 e, recentemente, nel Meridiano in ID., Etica e politica. Scritti di un impegno civile, Milano, Mondadori, 2009, pp. 544-558. 17. CAMURRI, Renato (a cura di), Pensare la libertà, cit., p. 11. 18. Ibidem, pp. XIV-XV.

AUTORI

CAMILLA POESIO Camilla Poesio si è addottorata presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia in cotutela con la Freie Universität Berlin; collabora con l’Università di Paderborn e da gennaio 2017 sarà Visiting Fellow presso il Department of History and Civilization del European University Institute; è Cultore della materia presso il DSLCC-Università Ca’ Foscari Venezia. Ha vinto con la sua tesi di dottorato il Premio Nicola Gallerano 2009 e il Premio Ettore Gallo 2009. È autrice dei volumi Reprimere le idee, abusare del potere. La Milizia e l’instaurazione del regime fascista (Roma Aracne, 2010); Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime, (Roma-Bari, Laterza, 2011) e ha pubblicato saggi su numerose riviste. I suoi interessi sono focalizzati sulla storia dell’Italia e della Germania del XX secolo in prospettiva comparata e transnazionale, i rapporti fra fascismo italiano e nazismo, i diritti umani, l’uso della violenza, la memoria pubblica e privata, il jazz e la musica nel fascismo. URL: < http://www.studistorici.com/progett/autori/#Poesio >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 104

Giorgio Peresso, Giuseppe Donati and Umberto Calosso. Two Italian Anti- fascist Refugees in Malta

Deborah Paci

NOTIZIA

Giorgio Peresso, Giuseppe Donati and Umberto Calosso. Two Italian Anti-fascist Refugees in Malta, Gudja, SKS, 2015, 271 pp.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 105

1 Giuseppe Donati and Umberto Calosso. Two Italian Anti-fascist Refugees in Malta1 è la prima monografia di Giorgio Peresso, che trae origine dalla tesi di laurea incentrata sulla vita e l’opera di Giuseppe Donati e Umberto Calosso a Malta, entrambi fuorusciti antifascisti nell’allora arcipelago britannico negli anni Trenta.

2 Studioso delle relazioni italo-britanniche nel periodo tra le due guerre, Peresso ha conseguito nel 2011 il titolo di dottore magistrale presso l’University of Malta con una tesi intitolata The Enigma of Malta Italica – the saga of irredentism while it lasted. Peresso è inoltre autore di numerosi interventi presentati presso università britanniche tra i quali spiccano, tra i più recenti, When non-belligerency became belligerent (University of Edinburgh 2014) e Umberto Calosso – Ramingo – the wandering antifascist (University of Reading 2015).

3 Il libro ricostruisce le traiettorie biografiche di Giuseppe Donati e Umberto Calosso, antifascisti italiani accomunati dall’aver svolto, in periodi distinti, la professione di insegnanti di italiano presso il St. Edward College. Mentre il primo consacrò a Malta gli ultimi nove mesi della sua vita nel 1931, prima di essere colpito mortalmente dalla tubercolosi, Calosso, che lo sostituì nel ruolo di professore di italiano, trascorse ben nove anni nel piccolo arcipelago seppur in maniera intermittente.

4 Malta fu terra di esilio per eccellenza per gli italiani: basti pensare ad illustri personalità che, come Francesco Crispi e Nicola Fabrizi, scelsero Malta, in epoca risorgimentale, per poter sfuggire alla censura ed esprimere liberamente il proprio pensiero2.

5 Il volume si snoda – nelle sue 271 pagine – nel ripercorrere la vicenda umana e pubblica dei due antifascisti che poterono esercitare la professione di insegnanti di italiano in grazia della loro origine italiana, del credo cattolico e della fede antifascista. Difatti tra le caratteristiche richieste per occupare un posto, da assegnare a un madrelingua italiano, al St. Edwards College di Malta vi era quella – oltre ad essere cattolico – di avere un comprovato orientamento antifascista3.

6 Il volume è ripartito in dieci capitoli, una parte dei quali dedicati a Donati, l’altra a Calosso. Nel primo capitolo (A one-man battle against Mussolini4) l’autore ricostruisce il clima politico degli anni immediatamente successivi al primo dopoguerra; la ricostruzione è affiancata dalla narrazione della vicenda umana e politica di Giuseppe Donati, nato a Granarolo di Faenza il 5 gennaio 1889. Di provata fede cattolica secondo lo spirito dell’enciclica Rerum Novarum, Donati si schierò dalla parte degli interventisti durante il primo conflitto mondiale, avendo concepito la guerra come uno strumento di emancipazione, in senso cristiano, delle classi lavoratrici5. Tornato al fronte dopo il matrimonio con Vidya Morici nel 1916, gli fu assegnato l’incarico di giornalista

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 106

responsabile della propaganda indirizzata ai soldati. In quel frangente lavorò fianco a fianco con Ugo Ojetti6, noto giornalista firma del «Corriere della Sera» e assiduo frequentatore dell’arcipelago maltese. Proprio a Ojetti fu attribuita la famosa frase: «i maltesi vogliono la lingua di Dante, la religione di Roma e la sterlina di Londra»7. L’avvento del fascismo fu condannato da Donati che fu uno dei pochi giornalisti ad accusare per primo apertamente il governo mussoliniano per la scomparsa – e, in seguito, per il delitto – del deputato socialista Giacomo Matteotti. Questa presa di posizione costò a Donati l’ostilità degli ambienti fascisti, che desideravano sbarazzarsi di lui al più presto; la mediazione dell’allora Ministro dell’interno Luigi Federzoni convinse Donati ad abbandonare l’Italia per trasferirsi in Francia dove girovagò per cinque anni: non gli fu però possibile portare con sé la sua famiglia, che rimase in Italia, potenziale ostaggio delle forze di polizia fasciste8.

7 Il secondo capitolo (Interlude in Malta9) è dedicato a un approfondimento della condizione del sistema scolastico e dell’insegnamento della lingua italiana nell’arcipelago maltese negli anni Venti. L’allora Primo Ministro maltese Lord Gerald Strickland, che negli anni Trenta avrebbe ingaggiato una strenua lotta contro la lingua e la cultura italiana a Malta opponendosi al suo più ferreo avversario, il nazionalista Enrico Mizzi10, fu intenzionato a rimediare al deficit della cultura britannica nell’arcipelago stabilendo una scuola, il St. Edward College, che potesse fornire agli alunni un’educazione imperniata sui valori etici britannici11. Qui la vicenda personale di Donati si interseca con quello dei destini della lingua e della cultura italiana sull’isola. Peresso si sofferma sulla vicenda umana del Donati esule: dopo un periodo di soggiorno a Parigi, decise di trasferirsi a Malta anche per uscire dalla condizione di ristrettezze economiche patite nella capitale francese. L’autore si sofferma poi sulla vita di Donati dall’arrivo a Malta: lo fa soprattutto traendo informazioni dalla corrispondenza epistolare, da cui ricava anche elementi per sondarne lo stato d’animo. Ad esempio Peresso riferisce come il fuoruscito fosse sensibile alle condizioni climatiche e in particolare al vento di scirocco che spirava in tutto l’arcipelago, in grado – a suo giudizio – di condizionarne l’umore12.

8 A Malta Donati dovette fronteggiare il fatto che la difesa dell’italianità fosse divenuta – in un’epoca in cui l’Italia fascista aveva esplicitato le proprie mire sull’isola – quasi conseguentemente l’espressione di sentimenti filofascisti. Ad esempio firmò un articolo pubblicato sul «Malta» il 22 maggio 1931 intitolato Fandonie stricklandesche in cui condannò in maniera risoluta i tentativi da parte di Gerald Strickland di sminuire l’importanza della lingua e della cultura italiana a Malta13. Donati si trovò così ad affrontare un “esilio nell’esilio”14, osteggiato da chi guardava con sospetto a quell’italiano che insegnava la lingua che Mussolini avrebbe voluto imporre insieme al suo regime.

9 L’esule italiano sarebbe morto nel 1931 a Parigi, rientrato in Francia per non concludere i suoi giorni su quello che chiamava «uno scoglio mediterraneo»: la tubercolosi di cui si era ammalato si era infatti aggravata fino all’esito finale. Morì a Parigi il 16 agosto 1931 sepolto nel cimitero di Pantin, dove gli diedero l’ultimo omaggio altri fuorusciti, tra i più noti Carlo e Nello Rosselli, Pietro Nenni, Riccardo Bauer, Ferruccio Parri e Gaetano Salvemini15.

10 Fu Umberto Calosso – a cui sono dedicati tutti i capitoli successivi – a sostituire Donati al St. Edward College. All’anagrafe Umberto Matteo Carlo Calosso, nato a Belveglio d’Asti il 23 settembre 1895, si formò negli ambienti dell’antifascismo torinese (capitolo

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 107

tre: Another anti-fascist in Malta: Umberto Calosso16); in contatto con Antonio Gramsci e Piero Gobetti, consacrò la sua vita ad un antifascismo militante e a Malta si impegnò, assieme alla moglie, a disgiungere l’insegnamento della letteratura italiana dal fascismo (capitolo quarto: Umberto Calosso roams in Malta17). Tale era il suo profilo di intellettuale che, benché fosse di fatto un “dipendente” di Gerald Strickland, per lui ebbe parole di stima persino l’allora ministro dell’educazione Enrico Mizzi18. Calosso si spostò poi in Spagna dove prese parte alla Guerra civile tra le fila dei lealisti repubblicani (capitolo cinque: The freedom fighter in action19).

11 Con il rientro a Malta, Calosso si trovò in una situazione ancora più difficoltosa, osteggiato da clerici e filofascisti per il suo impegno attivo durante la guerra di Spagna. Pur avendo ottenuto il passaporto maltese nell’aprile 1940 divenendo a tutti gli effetti suddito della Corona, non poté vedere esaudito il desiderio di occupare il posto di professore di letteratura italiana all’università (capitolo sesto: The quest for the Chair of Italian Literature – a mirage20). La sua vicenda, durante il periodo bellico è particolarmente significativa delle peregrinazioni degli antifascisti in questo periodo. Fu dapprima in Tunisia (per organizzare, su proposta del servizio di intelligence del Regno Unito, la propaganda e la pubblicazione di un giornale antifascista in lingua italiana di orientamento filo-britannico), poi a Lisbona con la moglie per nove mesi (impossibilitato a rientrare a Malta dalla possibile imminenza dell’invasione italo- tedesca) e infine in Egitto (come coordinatore della propaganda alleata per gli italiani in Medio Oriente). Proprio nella capitale egiziana Calosso avrebbe maturato l’idea, per la verità ancora prematura, dell’urgenza di creare un fronte comune, sul modello del Fronte popolare spagnolo ma con l’inclusione dei cattolici di Don Luigi Sturzo, da opporre al regime fascista (capitolo settimo: At Tunisia, Lisbon, Egypt and England21). Fu anche tra le voci di Radio Londra che, come rileva Peresso, con il suo inconfondibile accento piemontese espresse in modo inequivocabile il suo pensiero antifascista22.

12 Ritornato a Malta dopo la guerra, perse la cittadinanza britannica – acquisita anni prima – a seguito del suo successivo rientro in Italia23. Entrò nel Partito socialista dei lavoratori italiani quando questo si scisse dal Partito socialista italiano: non si riconosceva appieno negli ideali e nella linea politica del PSI caratterizzata in quel periodo dalla stretta alleanza con il Partito comunista (capitolo ottavo: Calosso’s Republican ideals triumph24). Divenuto parlamentare, portò avanti una serie di battaglie, soprattutto nel campo dell’istruzione, fino alla sua morte, sopravvenuta il 9 agosto 1959 (capitolo nono: The storm in a teacup25). Negli ultimi due capitoli (The final act26 e Linking Donati and Calosso27) Peresso rileva come i due fuorusciti, in particolare Calosso, abbiano lasciato un ricordo positivo presso molti a Malta. Prova ne è la decisione nel 1972 da parte del Primo Ministro laburista Dom Mintoff di intitolare a Calosso una nuova scuola.

13 Peresso fa ricorso ad una pluralità di fonti primarie, fra cui spicca il costante e minuzioso ricorso all’epistolario dei due antifascisti, avendo avuto accesso alla documentazione rinvenibile presso gli archivi privati e istituzionali in Italia, Gran Bretagna e a Malta. Il libro risulta di particolare interesse sotto differenti punti di vista: è anzitutto un doppio profilo biografico, focalizzato sugli anni trascorsi nell’arcipelago maltese, utile per chi volesse avviare una ricerca complessiva sulla biografia dei due antifascisti. Come Peresso rileva nelle pagine conclusive, i due fuorusciti non tennero lo stesso atteggiamento rispetto alla scena politica maltese: «while Donati in Malta was not anti-British, he defended italianità using the same platform of perceived fascist

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 108

fellow travellers. Calosso was very pro-British but, while in Malta, he did not participate in openly supporting the agenda of his sponsors»28. Il contesto in cui agivano Donati e Calosso è ricostruito in modo da restituire un quadro di insieme ricco e variegato. Questo aspetto ne fa un’opera adatta anche ad un pubblico di non addetti ai lavori. Uno dei pregi maggiori del lavoro di ricerca di Peresso, tuttavia, è dato dalla sua ricostruzione minuziosa degli spostamenti di Donati e Calosso. Le vite di questi due antifascisti divengono un caso di studio per analizzare le condizioni di vita e di azione degli intellettuali europei costretti all’esilio durante gli anni Venti e Trenta. La storia intellettuale tracciata da Peresso – incentrata sul St. Edward College di Malta – si fa così, giocoforza, transnazionale e giunge a cogliere e a narrare dinamiche più vaste e complesse delle singole vicende biografiche. Infine, bisogna considerare la ragione che ha indotto Peresso a occuparsi di queste due figure di antifascisti italiani: il loro incarico di professori d’italiano a Malta. In questa veste dovettero infatti affrontare una condizione di “esilio nell’esilio”: esuli dall’Italia per il loro credo politico antifascista, si ritrovarono ad essere guardati con sospetto dai maltesi per via dell’erronea equazione italiano-fascista. A questo non contribuì certamente l’annosa questione linguistica e la lotta politica che vide i due principali schieramenti politici, il partito costituzionale e il partito nazionalista, fronteggiarsi sul terreno della difesa della lingua e della cultura italiana29.

14 A Donati e Calosso spettò – l’uno dopo l’altro, visto che si succedettero nell’incarico – il compito di disgiungere l’insegnamento della lingua italiana dalle mire espansionistiche dell’Italia fascista, riportando – o cercando di riportare – i rapporti tra l’Italia e Malta su di un piano culturale.

15 Il volume è corredato di un’ingente mole di foto, che accompagnano i singoli paragrafi e svolgono un’utile funzione didascalica. Completano il libro di Peresso tre appendici, alcune pagine di note bibliografiche dedicate alle principali personalità trattate nel testo, un apparato bibliografico e un indice dei nomi.

NOTE

1. PERESSO, Giorgio, Giuseppe Donati and Umberto Calosso. Two Italian Anti-fascist Refugees in Malta, Gudja, SKS, 2015. 2. Ampia è la letteratura sugli esuli italiani a Malta. Si vedano a titolo di esempio ISABELLA, Maurizio, Risorgimento in exile: Italian émigrés and the liberal international in the post-Napoleonic era, Oxford-New York, Oxford University Press, 2009; PACI, Deborah, «Le dialogue des élites méditerranéennes à travers les médias au XIXe siècle: le cas de Malte et de la Corse», Cahiers de la Méditerranée, 43, 85, 2/2012, pp. 11-30; PORTELLI, Sergio, La stampa periodica in italiano a Malta, Msida, Malta University Press, 2010; BONELLO, Vincenzo, FIORENTINI, Bianca, SCHIAVONE, Lorenzo, Echi del Risorgimento a Malta, Malta, Comitato della Società ‘Dante Alighieri’, 1963. 3. PERESSO, Giorgio, op. cit., pp. 33-37. 4. Ibidem, pp. 3-31. 5. Ibidem, p. 4.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 109

6. Ugo Ojetti avrebbe inaugurato l’Istituto Italiano di Cultura a Valletta il 14 febbraio 1932. Cfr. PACI, Deborah, Corsica fatal, Malta baluardo di romanità. L’irredentismo fascista nel mare nostrum (1922-1942), Firenze, Le Monnier-Mondadori Education, 2015, p. 188. 7. PERESSO, Giorgio, op. cit., p. 6. 8. Ibidem, p. 24. 9. Ibidem, pp. 33-84. 10. PACI, Deborah, Corsica fatal, Malta baluardo di romanità, cit., pp. 159-167. 11. PERESSO, Giorgio, op. cit., p. 38. 12. Ibidem, p. 49. 13. Ibidem, pp. 65-66. 14. Ibidem, pp. 51-52. 15. Ibidem, pp. 71-74. 16. Ibidem, pp. 87-95. 17. Ibidem, pp. 97-124. 18. Ibidem, pp. 99-101. 19. Ibidem, pp. 125-140. 20. Ibidem, pp. 141-158. 21. Ibidem, pp. 159-187. 22. Ibidem, p. 176. 23. Ibidem, pp. 190-193. 24. Ibidem, pp. 189-203. 25. Ibidem, pp. 205-216. 26. Ibidem, pp. 217-225. 27. Ibidem, pp. 229-231. 28. Ibidem, p. 231. 29. HULL, Geoffrey, The Malta language question. A case History in Cultural Imperialism, Valletta, Said International, 1993; PACI, Deborah, Corsica fatal, Malta baluardo di romanità, cit., pp. 22-29.

AUTORI

DEBORAH PACI Deborah Paci è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi linguistici e culturali comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e ricercatrice associata al Centre de la Méditerranée Moderne et Contemporaine dell’Université de Nice Sophia Antipolis. È autrice delle monografie: L’arcipelago della pace. Le isole Åland e il Baltico (XIX-XXI sec.), Milano, Unicopli, 2016; Corsica fatal, Malta baluardo di romanità. L’irredentismo fascista nel Mare nostrum (1922-1942), Firenze, Le Monnier-Mondadori Education, 2015. URL: < http://www.studistorici.com/2009/02/24/deborah-paci/ >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 110

Edoardo Grassia, Sabato Martelli Castaldi. Il generale partigiano

Matteo Tomasoni

NOTIZIA

Edoardo Grassia, Sabato Martelli Castaldi. Il generale partigiano, Milano, Mursia, 2016, 338 pp.

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 111

1 Quando l’8 settembre del 1985 in una solenne cerimonia in Campidoglio venne conferita postuma al generale Sabato Martelli Castaldi la Medaglia d’oro al valore militare, pochi sapevano i retroscena e le vicissitudini di questo personaggio. Fu solo nell’anno 1996 quando lo storico e giornalista Mario Avagliano pubblicò un testo1 che, a distanza di più di cinquant’anni dalla sua morte, prese in considerazione quell’«esempio nobilissimo di completa e disinteressata dedizione alla causa della libertà del proprio Paese»2 – così come si dichiarava nell’onorificenza conferita pochi anni prima – che venne riscoperta questa figura. Ma la vita di Sabato Martelli fu ben più complessa ed articolata della sola adesione alla Resistenza romana, così come dimostrato dalla sua partecipazione nella Prima guerra mondiale in veste di ufficiale, dalla sua rapida carriera nell’Aeronautica, dall’iniziale avvicinamento al fascismo ma anche dal suo rapido disinganno e dal graduale allontanamento da Mussolini.

2 Il merito di aver ridato “voce” a questo poco conosciuto protagonista della storia militare italiana del XX secolo spetta allo storico Edoardo Grassia, il quale ha saputo ricostruire con precisione e caparbietà un difficile capitolo del periodo interbellico. Parlare di Sabato Martelli non vuol dire limitarsi ai suoi anni come ufficiale dell’Aeronautica, né al suo particolare rapporto con l’«esuberante, irrequieto e amante della vita»3 Italo Balbo – quest’ultimo nominato Ministro dell’Aeronautica proprio da Mussolini nel 1929 – ma nemmeno ridurre la sua esperienza politica agli anni della Resistenza, quando si fece conoscere con il nome di battaglia “Tevere”. Nell’introduzione al testo l’autore ci informa della particolarità del personaggio, ma soprattutto avvisa della necessità di retrocedere nel passato proprio perché il generale Martelli deve inserirsi tra i limiti imposti dalla Grande Guerra sino alla Resistenza, passando attraverso uno dei momenti decisivi della storia italiana di quell’epoca: il fascismo. Fondamentali sono stati i colloqui che l’autore ha mantenuto con gli eredi della famiglia, ma anche le frequenti visite ai numerosi archivi elencati nell’opera, fra cui si distinguono quelli militari e particolarmente l’Ufficio Storico dell’Aeronautica dove da tempo Grassia collabora nell’ambito della ricerca storica.

3 L’autore dà inizio alla sua opera partendo da un episodio fondamentale della vita di Sabato Martelli e cioè il primo conflitto mondiale. Durante questo periodo il giovane ufficiale sperimentò e condivise in prima persona la drammatica esperienza della guerra insieme a colui che sarà suo amico “sino alla fine”, Roberto Lordi, ma conobbe anche l’affascinante modernità dell’esperienza bellica che lo spinse – con sempre più interesse – ad avvicinarsi alla neonata Aeronautica militare. Ben presto, già nell’aprile del 1917, Martelli abbandonò le trincee dell’Isonzo per spostarsi nei cieli del Carso per

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 112

poi – dopo la disastrosa sconfitta di Caporetto – partecipare alla guerra aerea sopra il Tagliamento ed il Piave. Finì il conflitto nei cieli della Libia, dove continuò sino al 1919 combattendo contro la resistenza delle tribù locali.

4 Il seguente e “logico” passo nella vita di Sabato Martelli fu la sua adesione al Partito Nazionale Fascista, attraverso un gruppo di ex-combattenti che finalmente lo portò ad essere una figura di rilievo all’interno della Regia Aeronautica. La sua carriera fu fulminea, così come il suo allontanamento dal corpo: se nel 1931 ricoprì l’incarico di Capo Gabinetto del ministro Italo Balbo e nel 1933 venne addirittura nominato come il più giovane generale d’Italia, il suo stretto legame con i “balbisti” sarebbe poi stato considerato inopportuno dal Duce che non esitò a decretare – nel novembre del 1935 – un “riposo forzato” del giovane generale.

5 Lodevole, in questo senso, è il lavoro dello storico Edoardo Grassia il quale, attraverso la ricostruzione delle esperienze politiche e militari del generale Martelli, riesce anche a proporre un’analisi più sostanziale e quasi intima del personaggio nelle fasi più delicate della sia vita. La risolutezza dell’ex-generale nel voler scoprire la verità sulla complicata (e spesso contrastante) relazione tra Balbo e Mussolini fu, con ogni probabilità, la causa di molti dei problemi che Martelli dovette affrontare durante i successivi dieci anni: dal congedo forzato, al lavoro precario, alle minacce, al controllo da parte dell’OVRA (la polizia segreta fascista) fino alla vera e propria persecuzione dopo l’8 settembre 1943. L’autore è stato particolarmente attento a quest’ultima esperienza; non solo perché si tratta di un periodo nel quale l’ex-generale visse sotto l’attento controllo delle autorità nazifasciste, ma anche per la sua minuziosa descrizione degli eventi – l’occupazione di Roma, l’organizzazione partigiana, i rastrellamenti, gli attentati, la vita in carcere, ecc. – che caratterizzarono quel preciso periodo storico: dal settembre del 1943 al 23 marzo 1944, giorno della sua morte.

6 Sebbene Grassia riferisce che sin dall’ottobre del 1943 Martelli Castaldi aderì con lucidità alla Resistenza, è anche vero che i primi mesi dell’occupazione furono dedicati ad un pericolosissimo “doppio gioco” che l’ex-generale portò avanti finché gli fu possibile. La sua esperienza come militare, i suoi numerosi contatti anche nei servizi di sicurezza o le storiche amicizie nell’esercito furono fondamentali per il suo lavoro di informatore per i membri della Resistenza. Martelli fornì indicazioni riservate che furono essenziali per l’organizzazione e l’operato della lotta antifascista romana, specialmente durante le prime concitate fasi dell’occupazione tedesca portata a termine dal feldmaresciallo . Eppure Sabato Martelli fu anche un uomo d’azione così come lo era stato durante il primo conflitto: non esitò a prender parte insieme al Fronte Militare Clandestino (FMC) e ad altre formazioni partigiane – in cui militavano personaggi politici di spicco come Emilio Lussu, Giordano Amidani o Mario Colacchi (tutti esponenti del CLN fondato a Roma proprio in quei giorni) – ai primi combattimenti di Porta San Paolo, della Montagnola ma anche di Porta San Giovanni sino alla dolorosa resa del 10 settembre. Secondo la ricostruzione di Grassia, la collaborazione con il FMC fu indubbiamente frenetica: Martelli rischiò numerose volte la vita per estrarre armi da alcuni edifici presidiati della capitale occupata, fra cui – lo conosceva particolarmente bene – la sede del Ministero dell’Aeronautica; oppure nei vari tentativi di assistere altri partigiani impegnati in missioni che avevano l’obiettivo di ostacolare le autorità nazifasciste in città.

7 Nonostante le precauzioni e la certezza di non mettere a repentaglio la vita dei suoi familiari, Sabato Martelli fu uno dei tanti partigiani che caddero nelle mani dei tedeschi

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 113

durante un rastrellamento realizzato dalla Schutzstaffeln di , responsabile dell’ordine cittadino. È proprio qui che l’autore ricostruisce al dettaglio – con i pochi documenti disponibili – non solo l’arresto e l’immediata reclusione di Sabato Martelli nell’improvvisato carcere di via Tasso (17 gennaio 1944), ma anche la drammatica esperienza di quei pochi ma durissimi mesi di prigionia. In quell’oscuro luogo, un vecchio palazzo signorile nel pieno centro di Roma, Sabato e l’inseparabile amico Roberto Lordi passarono gli ultimi giorni della loro vita nella speranza che gli Alleati portassero a termine l’operazione militare che da Anzio (22 gennaio) doveva, nel giro di pochi giorni, portare alla liberazione di Roma (Operation Shingle). Come ben sappiamo ci vollero però quasi cinque mesi per vedere i mezzi corazzati statunitensi transitare per le vie della capitale, motivo per il quale l’unica resistenza al controllo nazifascista in città fu ancora una volta portata avanti dai partigiani i quali combattevano con le poche risorse a loro disposizione.

8 Il 23 marzo del 1944 un attentato in via Rasella provocò la morte di trentasette militari, molti di essi appartenenti al SS-Polizeiregiment “Bozen” composta da sudtirolesi inquadrati nella polizia tedesca. Questo fatto segnò, il giorno dopo, la condanna a morte di oltre trecento persone fra cui vi erano ebrei della comunità romana, alcuni civili legati all’attentato, partigiani e membri della Resistenza prelevati dal carcere di via Tasso e da quello di Regina Coeli. La rappresaglia fu voluta dallo stesso Hitler come avvertimento per la popolazione civile, ma ancora oggi stupiscono la freddezza e la celerità nella pianificazione di un crimine di queste proporzioni, portato a termine nel giro di poche ore lo stesso 24 marzo. Fra i criminali di guerra che furono condannati dai tribunali militari per l’Eccidio delle Fosse Ardeatine, ricordiamo i già citati Albert Kesselring e Herbert Kappler, ma anche Kurt Mälzer, Eberhard von Mackensen e l’ufficiale (aiutante di Kappler), molti dei quali però finirono per scontare pene minime nonostante la loro diretta partecipazione a questi crimini di guerra.

9 Sabato Martelli, così come l’amico Roberto Lordi e molti altri dirigenti della Resistenza romana, venne assassinato con un colpo alla nuca nelle fosse allora conosciute come “cave Ardeatine” proprio quel 24 marzo del 1944. Pochi mesi dopo, con la città già liberata, si procedette al recupero delle salme fra le quali si poté ancora riconoscere la maggior parte delle persone lì selvaggiamente uccise. L’autore, meticoloso sino alla fine del suo lavoro, indica che il cadavere dell’ex-generale e partigiano “Tevere” fu riconosciuto e deposto nel sarcofago nº 115, per poi essere seppellito nel mausoleo costruito all’interno delle Fosse inaugurato dal Capo dello Stato, Enrico de Nicola, nel marzo del 1948.

10 La storia di Sabato Martelli Castaldi è una delle tante pagine dimenticate della storia italiana; una figura a lungo omessa dalla storiografia nazionale in quanto vittima – suo malgrado – di quello che l’autore chiama esser stata una parabola tragica ed allo stesso tempo eroica della sua vita4. Eppure, l’obiettivo di quest’opera è proprio quella di riconsegnare ad ognuno di noi la memoria di una persona qualunque che, l’8 settembre del 1943, non esitò ad aderire al movimento della Resistenza. Non negò mai la sua adesione al fascismo durante gli anni della Marcia su Roma, eppure quest’esperienza gli servì per capire anche cosa fosse veramente questo movimento. Sabato Martelli fu forse uno dei primi – tra coloro che avevano appoggiato il fascismo – ad allontanarsi da esso, con la speranza di poter ricondurre il popolo italiano verso quella libertà che gli era stata sottratta. Con il senno di poi potremmo dire che il partigiano “Tevere” riuscì a

Diacronie, N° 30, 2 | 2017 114

portare a termine la sua missione, sebbene l’impresa gli costò la vita e un lungo silenzio.

NOTE

1. AVAGLIANO, Mario, Il partigiano Tevere. Il generale Sabato Martelli Castaldi dalle vie dell’aria alle Fosse Ardeatine, Cava de’ Tirreni, Avagliano Editore, 1996. 2. PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA, Martelli Castaldi, Sabato – Medaglia d’oro al valor militare, decreto del 1944 (cerimonia di consegna postuma, 1985); il testo completo della motivazione in URL: < http://www.quirinale.it/elementi/DettaglioOnorificenze.aspx?decorato=13318 > [consultato il 15 febbraio 2017]. 3. Cfr. CIANO, Galeazzo, Diario 1937-1943, Milano, Rizzoli, 1980, p. 447, nota del 29 giugno 1940. 4. GRASSIA, Edoardo, Sabato Martelli Castaldi. Il generale partigiano, Milano, Mursia, 2016, pp. 12-13.

AUTORI

MATTEO TOMASONI Matteo Tomasoni ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Storia presso l’Universidad de Valladolid (Spagna, 2014), con una tesi sul fascismo spagnolo. Già dottore magistrale in Storia d’Europa presso l’Università di Bologna (2008), negli ultimi anni ha svolto attività di ricerca tra Spagna, Italia e Germania e collabora con vari gruppi fra cui il SIdIF (Seminario Interuniversitario de Investigadores del Fascismo), e la rivista «Zibaldone. Estudios italianos» di cui è membro della redazione. I suoi interessi sono rivolti allo studio dell’evoluzione storica del fascismo e dei movimenti politici del periodo tra le due guerre mondiali, oltre allo studio di alcuni aspetti della Prima Guerra Mondiale. Ha pubblicato El caudillo olvidado. Vida obra y pensamiento de Onésimo Redondo (1905-1936), Granada, Comares, 2017. URL: < http://www.studistorici.com/2008/09/14/matteo-tomasoni/ >

Diacronie, N° 30, 2 | 2017