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Donato D’Urso

Pagine sparse Prefetti nella storia

Roma 2006 Indice

5 L’avventura di Biagio Miraglia 13 Carmelo Agnetta prefetto garibaldino 19 Temistocle Solera non solo questore 23 Giacinto Scelsi 29 Vittorio Zoppi prefetto a Salerno 43 L’omicidio Escoffier fu un delitto politico? No, peggio! 49 Rodolfo D’Afflitto 59 Rapporti istituzionali tra prefetti e sottoprefetti nell’Italia liberale 71 Ottavio Lovera di Maria e l’organizzazione della pubblica sicurezza 87 Achille Basile 101 Una curiosa polemica contro Carlo Astengo 107 Angelo Pesce 115 Alberto Pironti 125 Giovanni Gasti 135 Francesco Crispo Moncada capo della polizia 145 Cesare Mori prefetto di ferro 151 Adalberto Mariano l’eroe del Polo Nord che diventò prefetto 157 Prefetti italiani caduti sul campo di battaglia 165 Dante Almansi 173 Enzo Giacchero 203 Bartolomeo Casalis prefetto “Niente paura!” 213 Indice dei nomi NOTA INTRODUTTIVA

L’opera che qui di seguito si presenta costituisce un evento di grande rilievo.

In generale è da considerarsi il prodotto di una rara sensibilità del Dott. Donato D’Urso nei riguardi della memoria storica dell’Amministrazione dell’Interno e della documentazione che ne consente la ricostruzione. Sotto quest’ultimo profilo, anzi, questo libro rappresenta un esempio virtuoso: nella convinzione, condivisa da chi l’ha promosso e da chi lo ha realizzato, che l’identità dell’Amministrazione dell’Interno, e quindi la sua stessa legittimazione culturale in tempi di così rapida evoluzione costituzionale quali quelli attuali, possa ed anzi debba necessariamente fondarsi anzitutto sulla piena conoscenza e valorizzazione della sua specifica tradizione storica.

Rispetto ai precedenti “Quaderni” a carattere storiografico pubblicati dalla SSAI (Per una storia dei Prefetti(1994), Studi per la storia dell’Amministrazione pubblica italiana (Il Ministero dell’Interno e i prefetti) (1998), Pagine di storia del Ministero dell’Interno (1998), I Prefetti del Regno nel ventennio fascista (1999)), la raccolta che qui si presenta ha alcune caratteristiche di novità.

Per la prima volta, infatti, si tenta qui di dar conto di momenti significativi dell’attività istituzionale di prefetti (e di un questore), ricostruendola attraverso racconti ampi e significativi nel contesto storico della loro azione. Emerge così, e diviene elemento sostanziale di ogni segmento biografico, insieme alle informazioni essenziali sul percorso professionale e culturale e alle notizie sul ruolo “esterno” (spesso di grande rilievo), anche una inedita documentazione sul contributo specifico del singolo funzionario.

Emergono da questa ampia rassegna di “frammenti” biografici molti dati importanti che meritano d’essere segnalati.

Il primo, evidente in quasi tutte le biografie, è la fusione tra l’attività interna al Ministero dell’Interno e l’espletamento, nelle varie epoche, di rilevanti funzioni esterne, talvolta altissime strettamente connesse a quell’expertise istituzionale e amministrativa che, in varie epoche, è stata favorita dalla naturale configurazione “generalista” degli esponenti della carriera prefettizia. Si può ben dire perciò, sotto questo primo profilo, che la biografia di gruppo delineata nelle pagine che seguono appartenga non solo alla specifica storia del Ministero dell’Interno, ma più in generale alla storia delle istituzioni e della politica dell’Italia unita.

Un secondo dato: attraverso il prisma delle biografie, non è difficile scorgere in controluce i tanti mondi della burocrazia post-unitaria e avvertire il peso delle varie tradizioni amministrative, l’influenza delle “culture dell’amministrazione”. Sotto questo specifico profilo le biografie appartengono a buon diritto alla storia dell’amministrazione italiana, della quale consentono di illuminare aspetti e problemi spesso non secondari.

Non si potrebbe però licenziare questa sia pur breve presentazione senza prima avere accennato ai problemi legati allo stato non sempre felice delle fonti.

Al di là della serie dei fascicoli personali, la ricerca ha richiesto approfondimenti in numerosi archivi e biblioteche. L’Autore ha dovuto ricorrere ad archivi periferici, ad archivi e carteggi privati, a raccolte documentarie di altre grandi istituzioni , esaminare collezioni intere di Annuari e Calendari generali del Regno, dizionari letterari e politici, passare in rassegna raccolte di saggi, cataloghi di biblioteche, indici dei nomi di più o meno significative opere storiografiche.

Non sempre invece, nonostante l’impegno dell’Autore, è stato possibile chiarire sino in fondo certi passaggi della carriera, la natura di certi rapporti interpersonali, la partecipazione a talune attività esterne. Per questi aspetti, e per altri analoghi che qui non si menzionano, la ricerca è dunque da considerarsi ancora aperta ed è anzi ambizione di quest’opera porsi come stimolo e occasione di ulteriori approfondimenti. L’avventura di Biagio Miraglia

da Amministrazione civile, febbraio 2004

5 Nel bel tempo antico, quando i prefetti erano anche letterati, poeti, giornalisti, combattenti e altro ancora, Biagio Miraglia fu un po’ tutto questo. Calabrese di Strongoli nacque il 3 febbraio 1823. Studiò nei seminari di Crotone e Cariati dimostrando ingegno vivace e brillante nel commento delle sacre scritture. Abbandonò l’idea del sacerdozio pare per una passione d’amore e si trasferì a Napoli dove frequentò come esterno il collegio dei Gesuiti, poi la scuola filosofica del celebre Pasquale Galluppi. L’inclinazione per le lettere fece di Miraglia un “poeta improvvisatore” di successo. Insieme con Domenico Mauro, Giuseppe Campagna, Vincenzo Padula diede vita a un movimento letterario e politico che meritò l’attenzione di Francesco De Sanctis: «Mentre in Napoli si preparava una scuola, che dirò d’imitazione romantica, c’era in Calabria una schiera di bravi giovani che sentivano tutte quelle impressioni; ma in modo vergine e più acconcio alle loro immaginazioni, con più naturalezza. Benché venuto di fuori, chiameremo questo romanticismo naturale.» Come tanti coetanei, Miraglia aderì alla Giovine Italia di Mazzini e compì attività propagandistica anche in abito talare, tanto da destare i sospetti della polizia che finì per arrestarlo. Fu scarcerato dopo la concessione della Costituzione da parte di Ferdinando II nel gennaio 1848. Nel teatro di Cosenza, quando comparve nelle vesti di ex-detenuto politico, i presenti gli dedicarono un’ovazione e, invitato a gran voce, improvvisò dei versi, una delle cose che sapeva fare meglio. Intanto aveva anche aderito alla massoneria. Scrisse in un articolo: «Io starò chiuso e osservo tutto. Se vedrò qualcuno che aspiri a ridicole supremazie, se vedrò in carica uomini che non meritano e non godono la fiducia pubblica, io smaschererò l’intrigo, si trattasse anche di mio padre, e farò uso del tremendo potere della stampa.» Era il 1848 e già s’evocava il famoso quarto potere. Il 15 maggio di quell’anno Miraglia si trovava sulle barricate a Napoli quando le truppe regie soffocarono nella culla il neonato parlamento. Qualche tempo prima Luigi Settembrini aveva protestato perché si spostavano minerali e libri dall’edificio del Museo per fare posto alle aule delle nuove Camere, ma l’architetto che dirigeva i lavori, presago dell’avvenire, aveva risposto sollevando le spalle: «È provvisorio, non dura molto». Le settimane che avevano preceduto le prime libere elezioni erano state indimenticabili ma caotiche: «I ministri erano oppressi dalle petulanti e superbe domande di uomini che parevano ubriachi e volevano essere uditi per forza, pretendevano tutto per forza e credevano la libertà un banchetto a cui ciascuno dovesse sedere e farsi una scorpacciata» (così Settembrini nelle sue Ricordanze). Dopo la sanguinosa repressione avvenuta a Napoli, la Calabria si ribellò. Miraglia accorse nella sua terra e fu scelto per dirigere “L’Italiano delle Calabrie”, giornale del

6 Comitato di salute pubblica di Cosenza nato per difendere la Costituzione. La testata, il cui ultimo numero uscì il 30 giugno 1848, riportava gli atti del governo e, in una parte non ufficiale, articoli e proclami. La reazione borbonica uccise la libertà di stampa e costrinse Miraglia a cercare riparo a Roma sotto le ali della repubblica. Nella Città Eterna tra i patrioti calabresi c’era anche , futuro ministro dell’Interno. Le attitudini letterarie resero Miraglia compilatore del giornale ufficiale capitolino e collaboratore del periodico “Il Positivo”. Egli era, però, anche uomo di spada e combatté agli ordini di Garibaldi a Velletri contro le truppe napoletane che attaccavano la repubblica in alleanza con francesi, spagnoli e austriaci. La vittoria garibaldina fu tale da indurre un epigrammista a comporre, riferendosi al re Borbone, il famoso: “Venne, vide, fuggì”. Miraglia a Roma conobbe e sposò, nel febbraio 1849, Anna Merolli. Dall’unione nacquero un maschio e due femmine. La capitolazione della Repubblica Romana significò l’inizio di un esilio durato più di dieci anni, prima in Turchia poi in Piemonte. Il fervore politico e la malinconia sono evidenti in queste parole di Miraglia: «Ramingo di terra in terra finché non spunti il sole dei giorni profetizzati, io conto le ore penose dell’esilio, raccontando all’Italia i suoi fortissimi fatti. Le mie forze sono impari al gran subietto; il mio ingegno è debolissimo; ma il mio cuore, che anela di morire sopra gli spalti delle tue mura, questo cuore, o Eterna Roma, è degno di te.» A Torino il nostro patriota-poeta frequentava la compagnia di letterati più o meno illustri di lui come Giovanni Prati, Giuseppe Revere, Alessandro D’Ancona e guadagnava (poco) da vivere scrivendo. Una volta affermò che lo faceva anche «per popolare la tetra solitudine dell’esilio». Nel 1855 fu nominato Segretario del Comitato centrale della emigrazione italiana e nel 1859 Applicato nell’Intendenza generale di Torino. I meriti patriottici e non quelli poetici gli avevano infine fatto ottenere un impiego pubblico (carmina non dant panem!). Entrò nelle simpatie di Cavour tanto da essere inviato a Napoli nell’estate 1860 per preparare il terreno per l’annessione. Vi rimase nel periodo della Dittatura di Garibaldi e delle varie Luogotenenze. Fu, tra l’altro, nominato direttore del “Giornale officiale” di Napoli e amministratore della Stamperia nazionale. Ormai pareva predestinato a incarichi di tal genere. Nel febbraio 1862, quando era Ufficiale capo di ripartimento nel Dicastero napoletano dell’interno e polizia, fu comandato a Torino come Direttore Capo extra ordinem della divisione VI che s’occupava di teatri, scuole di ballo, conservazione dei monumenti antichi, materie affini ai suoi interessi. Il destino, però, spesso si diverte a far fare agli

7 uomini quello che non vorrebbero e l’anno dopo arrivò la promozione a Direttore Capo della divisione II che aveva competenze prevalentemente in materia contabile. Non era l’uomo giusto al posto giusto e alla fine del 1863 passò a dirigere la divisione III che s’occupava (indovina il lettore?) della Gazzetta Ufficiale nonché del Calendario generale del Regno, della biblioteca, degli indennizzi ai danneggiati politici. Dal 1866 al 1868 fu direttore della divisione II presso il Segretariato generale, poi della divisione VI competente per teatri, feste governative e ufficio per la stampa. L’ultimo incarico ministeriale di Miraglia fu la dirigenza della divisione V - Servizi generali che curava anche l’amministrazione degli Archivi di Stato. L’organizzazione interna del Ministero dell’Interno nel primo periodo unitario fu soggetta a continui rivolgimenti e riforme. Carlo De Cesare parlò di «rimescolio continuo, incessante distruzione e creazione di ordinamenti». Restò abbastanza costante e ridotto il numero degli impiegati con i quali collaboravano volontari senza retribuzione. Chi oggi frequenta le sparpagliate sedi ministeriali romane fa fatica a immaginare che, nel 1872, l’organico di tutti gli uffici centrali del Ministero dell’Interno comprendeva solo 222 persone. L’anno dopo il numero era addirittura diminuito a 204! Il dicastero giustamente considerato “motore dello Stato” s’occupava di sicurezza e enti locali ma anche di carceri, assistenza e beneficenza, sanità, archivi di Stato, teatri e spettacoli, etc. Tante competenze e pochi uomini ma Giolitti, profondo conoscitore della macchina burocratica, alcuni decenni dopo dichiarò in Parlamento: «Ogni volta che c’è un ritardo nei lavori di un ufficio aggiungere degli impiegati significa favorire l’ozio, perché allora nessuno lavorerà più quando saprà che, se non lavora lui, il Governo manderà un altro a fare il lavoro suo. Io credo che se gli impiegati dello Stato lavorassero come lavorano quelli che sono addetti alle industrie private, il personale degli impiegati dello Stato sarebbe di una esuberanza straordinaria» (17 marzo 1904). Naturalmente, dopo un secolo è cambiato tutto. Leggiamo come Miraglia descriveva nel 1863 il Ministero dell’Interno, con un bel volo pindarico: «Un magistrato vigilatore e, ne’ limiti della legge, preventivo ed esecutivo, per tutto ciò che riguarda la sicurezza interna; un magistrato di cassazione e revisione amministrativa per ciò che riguarda le aziende comunali e provinciali; e infine un magistrato centrale d’informazione e d’istruzione e per tutti gli altri affari dai quali può dipendere la prosperità del popolo». La polemica politica descrisse il nostro poeta-burocrate come legatissimo a Silvio Spaventa, il patriota napoletano divenuto onnipotente Segretario generale negli anni

8 1862-1864. E Miraglia dovette smentire pubblicamente di avere accumulato in quel periodo un’ingente fortuna economica. Ritorno ora, non a caso, a parlare di archivi. A quei tempi in molti stati europei la conservazione dei documenti pubblici era affidata ai ministeri che curavano precipuamente interessi politico-amministrativi. In Italia dal 1861 al 1870 operò presso il Ministero dell’Interno una Direzione generale degli Archivi, le competenze passarono poi alla divisione V. Gli archivi della Toscana, delle province napoletane e del continuavano, però, a dipendere del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel marzo 1874, allorché il ministro dell’Interno Cantelli era ad interim anche ministro della Pubblica Istruzione un decreto attribuì la competenza su tutti gli archivi del Regno al dicastero dell’Interno. Fu quasi un colpo di mano, criticato da più parti. Curiosamente, qualcosa di simile è avvenuto un secolo dopo col famoso decreto-legge Spadolini che istituì il ministero dei Beni Culturali. Chi di spada ferisce… Quando nel gennaio 1872 divenne operativo l’Archivio di Stato di Roma, Miraglia che era a capo della divisione V del Ministero dell’Interno, sembrò la persona più adatta a dirigere la neonata istituzione culturale, con stipendio annuo di 6.000 lire (mantenendo cioè la retribuzione che percepiva). Fu poi nominato anche Sovrintendente agli archivi romani conservando gli incarichi sino al giugno 1877. A seguito di una riorganizzazione delle carriere, la sua nuova qualifica professionale fu quella di Capo archivista. Scrisse persino dei versi sugli archivi eppure, al declino della vita, lamentò di avere speso i più cari anni in mezzo a carte polverose. Per motivi di famiglia aspirava a trasferirsi a Firenze, come responsabile della Biblioteca nazionale o Provveditore agli Studi. In tal senso il ministro dell’Interno Nicotera, corregionario e vecchio commilitone, lo raccomandò a collega della Pubblica Istruzione. E invece capitò a Miraglia qualcosa di ancor più lusinghiero: la nomina a prefetto di 3ª classe con stipendio di 9.000 lire e destinazione dal 1° luglio 1877. Nella città toscana visse una durissima esperienza. Il cuoco Giovanni Passannante aveva attentato alla vita di Umberto I a Napoli nel novembre 1878 e, in tutt’Italia, si erano svolte manifestazioni popolari di omaggio alla monarchia. Anche a Pisa ne fu programmata una per il 20 novembre, ricorrenza del genetliaco della regina Margherita. Molti cittadini si radunarono in piazza dei Cavalieri e recatisi in corteo sotto la Prefettura acclamarono la famiglia reale tra lo sventolio di bandiere. Miraglia s’affacciò pronunziando alate parole e nessun prefetto avrebbe saputo fare meglio di lui, quando «una fortissima detonazione gettò lo spavento nella moltitudine. Era un’altra bomba all’Orsini […] ma per l’imperizia di chi la preparò non ferì che due sole persone e non gravemente. Nel corteo si trovavano

9 alcune centinaia di studenti, uno dei quali chiamato Romani, visto lo scellerato che scagliò la bomba, gli corse addosso e afferratolo e tenutolo fermo, non senza gran lotta, lo consegnò alle Guardie di pubblica sicurezza e che lo arrestarono e dopo di lui altri complici, tutti ascritti alla setta dell’Internazionale». L’accusato, tale Pietro Orsolini, fu condannato a 19 anni di lavori forzati. A Firenze, un attentato posto in essere con analoghe modalità provocò dei morti. In un drammatico dibattito parlamentare il ministro dell’Interno fece un’appassionata difesa del suo operato e della scelta del reprimere, non prevenire (cioè consentire associazioni e manifestazioni, intervendo solo in caso di violazione della legge). Quanto agli attentati terroristici affermò: «Il getto di bombe che può essere fatto da una mano qualsiasi, la quale facilmente nascondesi, come volete prevenirlo anche usando la massima previdenza?». La Camera tolse, però, la fiducia al governo Cairoli che dovette dimettersi. Nell’agosto 1881 Miraglia lasciò l’amata Toscana per andare a Bari. Come riporta Nico Randeraad nel suo pregevole studio Autorità in cerca di autonomia, fece lì quello che il governo voleva dai prefetti e, nella relazione del secondo semestre 1882, riferì compiaciuto: «Nelle ultime elezioni politiche si è conseguita vittoria completa. Alla quale, se da una parte ha contribuito lo spirito liberale delle classi intelligenti e la buona volontà degli elettori, dall’altro ho procurato, per quanto dipendeva da me, di preparare il buon successo collo scioglimento di importanti municipi, segnatamente Bari, Adria». Biagio Miraglia, collocato a disposizione nel novembre 1883, morì a Firenze il 1° aprile 1885 a 63 anni, dopo una vita che definire movimentata è riduttivo. Collaborò ai periodici: “Nuova Antologia”, “Il Calabrese”, “Il Pitagora”, “Omnibus Letterario”, “Politecnico”. Scrisse: Il brigante. Novella calabrese (1844) – I martiri di Cosenza (1848) - Storia della rivoluzione romana (1850) – La morte di un esule nella giornata del 30 aprile in Roma (1850) - Cinque novelle calabresi, precedute da un discorso intorno alle condizioni attuali della letteratura italiana (1856) che meritò anche una traduzione in francese – Il Piemonte e la rivoluzione italiana (1857) – L’eco della Magna Grecia: poesie (1858) - Canti dell’esilio e scene intime (1860) – De’ tirreni-pelasgi e di un imperio italiano antichissimo: cenno storico (1862) - Studii sull’ordinamento dell’amministrazione civile e sull’indole della rivoluzione Italiana (1863) – Introduzione alla scienza della storia (1866) – A Firenze. Sonetti (1876) - Dalla Montagna: sonetti e canti (1886). Gaspare Finali parlò di lui come di “robusto novelliere calabrese”. Per Angelo De Gubernatis egli “scrisse versi di squisita fattura, spesso originali, molto superiori alla fama ch’è loro rimasta”. Tommaseo criticò la verbosità, rammentando che chi condensa le idee

10 aggiunge all’effetto potenza. Per Guido Mazzoni, Miraglia “se non riuscì a eseguire bene, predicò accortamente”. A questo poeta-prefetto hanno dedicato una strada le città di Catanzaro e Cosenza.

BIBLIOGRAFIA

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11 12 Carmelo Agnetta prefetto garibaldino

da Camicia Rossa, febbraio-aprile 2004

13 Carmelo Agnetta fu garibaldino arditissimo ma anche prefetto attaccabrighe.

Egli guidò la cosiddetta “retroguardia dei Mille”, arrivata a Marsala il 1° giugno 1860 ed entrata il 6 a Palermo con un carico prezioso di armi e munizioni. Ricevette il famoso schiaffo da Bixio e, nell’inevitabile duello atteso più d’un anno, rese invalida la mano che l’aveva colpito. Voglio però qui ricordare anche la carriera di Agnetta come alto funzionario dello Stato. Apparteneva a famiglia siciliana, nato nel 1823 a Caserta dove il genitore, ufficiale di carriera, si trovava di guarnigione. Compì gli studi a Palermo dopo essere rimasto orfano del padre. L’educazione sua e dei fratelli fu curata dallo zio Antonio Agnetta, la madre si risposò ed ebbe altra prole. Carmelo Agnetta come tanti coetanei partecipò con passione alle vicende politiche del suo tempo, prima ai moti di Messina del 1° settembre 1847, poi alle vicende rivoluzionarie siciliane del 1848 rivestendo incarichi militari e civili nel governo provvisorio. Fu comandante del distretto di Corleone e segretario della delegazione inviata in missione a Londra e Parigi. Nella capitale inglese, allorché sorse una vertenza legale col governo borbonico per l’acquisto di navi, Agnetta diede prova del suo carattere che è eufemistico definire “vivace”: aggredì e fu sul punto d’uccidere tale De Angelis che rappresentava la controparte. Quando nel 1849 le sorti della Sicilia volsero al peggio, Agnetta partì per l’esilio, diretto prima a Malta, poi a Parigi e Londra dove frequentò . Quella vita raminga lo portò in Egitto e nuovamente a Parigi. Un decreto del governo napoletano gli vietò di tornare in patria. Scoppiata la seconda guerra d’indipendenza, corse ad arruolarsi nell’esercito toscano. L’anno dopo, nella notte dal 25 al 26 maggio 1860 s’imbarcò a Genova su un vecchio rimorchiatore che portava il nome “Utile”, insieme con una sessantina di compagni e un carico di più di mille fucili e 100.000 cartucce per Garibaldi. Il livornese Francesco Lavarello comandava il trabiccolo. La maggior parte dei volontari era formata da siciliani e genovesi ma c’erano giovani di tutte le regioni e anche due ungheresi e un polacco. Il varesino Giulio Adamoli, che faceva parte del gruppo, in un bel libro di ricordi (Da San Martino a Mentana) descrisse Agnetta “siciliano bruno, vivace, intelligente” che portava sempre il fez, evidente souvenir del soggiorno egiziano. La spedizione, grazie anche alla tenacia e decisione di Agnetta, riuscì a sbarcare a Marsala senza danni. Certamente, il rimorchiatore “Utile” non avrebbe potuto sostenere uno scontro navale.

14 Garibaldi, appena avvisato, mandò questo messaggio ad Agnetta: «Caro Comandante, vi felicito dell’arrivo vostro e dei vostri bravi compagni. Marciate con sollecitudine verso Palermo seguendo le strade Salemi, Calatafimi, Alcamo, Partinico, Monreale. Spero di stringervi presto la mano.». Giuseppe Bandi, che ad Alcamo s’aggregò alla compagnia, ricordò con queste parole il passaggio per Partinico: «La città che, dopo le batoste toccate ai regi a Calatafimi, aveva dato loro il resto del carlino mentre passavano per tornarsene, era tutte in arme. Nell’entrare la strada asserragliata aveva per sentinelle due frati cappuccini, con un gran berretto rosso in capo, colla tonaca rimboccata intorno alla vita e colla sciabola al fianco e il moschetto sulla spalla». L’episodio dello schiaffo dato da Bixio a Palermo è rievocato così da Adamoli che ne fu testimone: «Ci si condusse nella chiesa di san Giuseppe dei Teatini, sui Quattro Canti, aperta la volta da una bomba, e già occupata dai garibaldini. Schierati nella navata sinistra, attendevamo già la visita di Garibaldi, impazienti di vederlo e di udirlo: l’Agnetta era già pronto a presentargli il suo piccolo drappello, quando entrarono due ufficiali in giubba di tela. Quegli che aveva l’aria di maggior grado, venne difilato a noi, e domandò – Chi comanda qui? L’Agnetta si fece innanzi, e l’altro, senza aspettar risposta – Vada coi suoi uomini ad accompagnare ai funerali la salma del colonnello Tuköry. L’Agnetta, ritto sul guard’a voi, chiede: - Ma scusi, chi è lei? - Io sono Bixio, grida e gli lascia cadere in viso un manrovescio… Ne nasce un parapiglia infernale. L’Agnetta mette mano alla sciabola e i nostri si vogliono scagliar sul Bixio per vendicare il loro comandante. Giuseppe Dezza, il compagno di Bixio, ed altri ci si buttano di mezzo per trattenere i contendenti. A gran fatica le cose si acquietano. L’Agnetta voleva aver subito, e con ragione, una soddisfazione per le armi. Ma Garibaldi, a più buon diritto, proibì il duello: i tempi non permettevano a lui di dare a un Bixio il lusso di giocarsi la vita». Un giurì d’onore rimandò la soluzione della vertenza alla fine della campagna militare. Agnetta, che intanto aveva raggiunto il grado di maggiore, lasciò l’esercito nel febbraio 1861 non volendo battersi con un suo superiore di grado. Finalmente, il 17 novembre successivo, avvenne il duello a Brissago luogo di confine tra Italia e Svizzera. I contendenti furono posti dai padrini a distanza di trenta passi, armati di pistola, con facoltà di avanzare e sparare a volontà. Al primo colpo Agnetta attinse Bixio alla mano. La ferita era seria, provocò molte sofferenze e fece perdere la piena funzionalità dell’arto. Si attribuisce a Bixio la frase: «Sono punito nella mano che ha peccato» e, come riferisce Gualtiero Castellini, «tenne poi sempre l’Agnetta in conto di amico, come uomo che faceva parte per dir così, della tribù dei violenti buoni cui egli apparteneva». E lo aiutò a essere assunto nell’amministrazione dell’Interno.

15 «Agnetta portò negli uffici che ebbe, di consigliere di prefettura e di sottoprefetto, le sue abitudini di violenza, una volontà indocile e intransigente, l’abitudine di farsi ragione con le sue mani.». Così scrisse Matteo Mazziotti e, infatti, i ventisette anni di carriera furono per Agnetta un susseguirsi di episodi movimentati. L’incarico iniziale fu di Consigliere di prefettura a Palermo. Nel 1864 era in servizio a Rocca San Casciano allorché dal carcere militare di Forlì evasero 16 soldati: Agnetta ne catturò buona parte guidando personalmente la colonna mobile. Successivamente, come padrino di un collega d’ufficio recò una sfida a duello che, vietato dalla legge, si svolse nel territorio di San Marino. Per questa condotta, riprovevole per un pubblico funzionario, Agnetta subì un severo richiamo dal ministero e il trasferimento a Cesena. Lì, da sottoprefetto, affrontò nel foyer del teatro un “guappo” locale e con maniere brusche lo trascinò fuori minacciandolo di più duro trattamento. In breve tempo fu traslocato prima a Ravenna poi a Borgotaro. In un’altra occasione, affrontò in strada dei manifestanti scalmanati, arrestò il capo e lo consegnò ai carabinieri. Allo scoppio della terza guerra d’indipendenza chiese di potersi arruolare ma non gli fu concesso. Inviato in Campania, come sottoprefetto di Vallo s’impegnò personalmente nella lotta al brigantaggio e, armato di fucile, organizzò e diresse personalmente le perlustrazioni a caccia dei latitanti. Lo stesso fece poi a Isernia. Nel 1870 dopo il 20 settembre svolse una missione presso la Luogotenenza del re a Roma. L’anno dopo, quando era Sottoprefetto a Termini Imerese, fu retrocesso nella carriera e trasferito a causa di un arresto arbitrario che aveva ordinato. Nelle note personali è scritto: «Poca pratica amministrativa, ma molta energia, indole pronta, svegliata, carattere leale, coraggioso ma troppo impetuoso, facile ad avere contrasti». Dopo essere stato nelle prefetture di Bergamo e Caserta, ottenne nel giugno 1877 l’agognata nomina a prefetto, allorché Ministro dell’Interno era Giovanni Nicotera e Segretario generale Pietro Lacava (due ex-garibaldini come lui). Fu destinato alla provincia di Massa e Carrara dove, tanto per cambiare, si scontrò col Presidente del Tribunale e molti altri. Si mostrò sempre assertore intransigente dell’autorità dello Stato contro gli oppositori “rossi” e “neri”, cioè della sinistra estrema e della destra clericale. Tra i lavoratori del marmo era forte la presenza di anarchici e internazionalisti. Un giorno Agnetta fece chiamare nel suo ufficio un personaggio che pare avesse proferito minacce nei suoi riguardi e gli disse con aria di sfida: «Qui siamo soli, petto a petto, ho mandato altrove tutto il personale», ma non s’arrivò alla scazzottata per rinunzia dell’altro contendente.

16 Il prefetto accusò poi un tal Biglioli di oltraggio e aggressione ma il Tribunale assolse l’accusato ed espresse invece critiche al funzionario. Alla Camera l’on. Cavallotti accusò Agnetta d’avere compiuto lui un vero e proprio agguato ma Depretis, Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, rispose così: «Si può credere bensì che il commendatore Agnetta non sia uomo interamente calmo, interamente senza difetti; ma accusarlo di un agguato! Non è della sua indole; molti degli onorevoli deputati lo conoscono e saranno in ciò d’accordo con me. Le parole che l’on. Cavallotti ha pronunziate, lo creda pure, sono troppo gravi, trattandosi di un funzionario che è un patriota e ha reso distinti servigi al paese» (seduta del 16 maggio 1883). L’on. Bonghi affermò: «Se nell’amministrazione pubblica vi fossero molti tipi come l’Agnetta, sarebbe un affare serio; ma se non ve ne fosse alcuno sarebbe un vero danno». Il prefetto più volte aveva manifestato il desiderio di cambiare sede ma s’ammalò e morì a Massa il 4 aprile 1889, assistito dalla moglie Emilia Sauvet. Molti rimpiansero la generosità che lo portava a elargire denaro anche al di là delle sue possibilità, tanto da dovere poi egli stesso chiedere prestiti. Questo aspetto caratteriale è bene espresso da un famoso aneddoto. Il re Vittorio Emanuele gli aveva regalato un prezioso orologio e, tempo dopo, incontrando Agnetta gli chiese: «Come va l’orologio?». Si sentì rispondere: «Benissimo ma ha un difetto. Vi sono incise le cifre reali e non posso impegnarlo»”.

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18 Temistocle Solera non solo questore

da Polizia moderna, aprile 1997

19 Nel 1848 venne istituita nel regno di Sardegna un’Amministrazione di sicurezza pubblica alle dipendenze del ministro segretario di Stato per l’Interno. Nelle città più importanti i servizi erano diretti da un questore, scelto tra i magistrati a migliore garanzia delle recenti libertà statutarie. Dopo l’Unità il ruolo organico della polizia italiana naturalmente s’accrebbe, così da comprendere dieci questori – con stipendio di 5.000 lire annue – nelle città con almeno 60.000 abitanti. Le esigenze contingenti resero le assunzioni affrettate e sommarie. Nel 1865 tra gli ufficiali di P.S. solo il 37% aveva alle spalle esperienza nelle polizie degli stati pre-unitari, in maggioranza in Piemonte; consistente la percentuale dei funzionari toscani e lombardi mantenuti in servizio; bassissima quella dei meridionali. Un esempio eloquente di poliziotto “improvvisato” è Temistocle Solera. Nato a Ferrara nel 1815 in una famiglia di patrioti (il padre Antonio fu compagno di pena di Silvio Pellico allo Spielberg), Temistocle fuggì giovanetto dal collegio viennese dove studiava per munificenza dell’imperatore d’Austria. Dedicatosi all’attività letteraria, pubblicò raccolte di versi e un romanzo ma acquistò notorietà come librettista di melodrammi. Compose egli stesso musica, senza molta fortuna. Scrisse per Giuseppe Verdi i libretti delle opere “Oberto conte di San Bonifacio”, “Nabucco”, “I lombardi alla prima crociata”, “Giovanna d’Arco”, “Attila”. Il rapporto col maestro di Busseto si interruppe per la refrattarietà di Solera al lavoro costante e ordinato. Recatosi in Spagna come direttore d’orchestra insieme con la moglie, la cantante Teresa Rossini, s’affermò presto come impresario. A Madrid lavorò al Teatro Reale, conobbe e divenne consigliere segreto della regina Isabella. I biografi riferiscono di un legame anche d’amore. Rientrato in Italia, scrisse ancora libretti d’opera per musicisti diversi da Verdi e fu direttore del Conservatorio di Milano. Nel 1859, quando maturarono importanti avvenimenti politici, sfruttò le sue conoscenze per diventare corriere segreto di Napoleone III e Cavour. Smanioso sempre di nuove avventure, Solera decise di cambiare vita, ottenne un posto nella Pubblica Sicurezza e venne inviato come delegato in . Era il periodo del grande brigantaggio e quel poeta-musicista-impresario acquistò nuova fama per avere sgominato la banda Serravalle. Le cronache narrano che il capobrigante attendeva contatti con ufficiali legittimisti spagnoli, inviati dai Borboni per fomentare la rivolta in armi. Solera, utilizzando la conoscenza della lingua spagnola, si presentò audacemente nel rifugio della banda spacciandosi per straniero, sfruttò la sorpresa e, in un corpo a corpo, uccise Serravalle. A quel punto decapitò il brigante e ne fece portare in giro la testa infilata nella canna di un

20 fucile. Per il suo valore fu promosso questore ma qualche studioso parla apertamente di racconto “romanzato”, messo in giro ad arte dallo stesso Solera. A cavallo dei quarant’anni il Nostro diresse le questure di Palermo, Firenze, Bologna, Venezia. Nel capoluogo siciliano una sera riuscì a placare la folla che tumultuava, ricorrendo a un lirico discorso che commosse i presenti. In Firenze capitale Vittorio Emanuele II amava discorrere col questore Solera di avventure e musica. A Bologna riuscì a sgominare una pericolosa associazione di malfattori. Nel 1867 compì delicate missioni come “agente segreto” per incarico del capo del governo Rattazzi e si recò in incognito nella Roma papalina per valutare le possibilità di un’insurrezione. Scrisse nel rapporto: «Non mi son dato tregua un solo momento, visitando ed investigando uomini e cose, non risparmiando né officine, né taverne, né postriboli, dove più che in ogni altro luogo la gioventù espande l’anima e perde facilmente ogni prudenza». E riferendosi alle violenze tentate da estremisti contro Rattazzi, così scriveva all’uomo politico da vero librettista di melodrammi: «Per giungere a Lei dovranno passare sul mio corpo». Lo spirito d’avventura lo portò ad arruolare un corpo di polizia europea al servizio delle autorità egiziane. Di fronte, però, alle proteste delle potenze straniere, quella strana legione fu costretta a rientrare in Italia, con una buonuscita di 800 lire pro-capite. Lasciati gli abiti del questore e dell’agente segreto, Solera si dedicò al commercio come antiquario ma con scarsa fortuna, tanto da rovinarsi economicamente. Dopo una parentesi parigina, tornò in Italia spostandosi di città in città. Finì per stabilirsi a Milano, vivendo ormai dimenticato. Morì, quasi in miseria, nell’aprile 1878 a 63 anni.

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22 23 Giacinto Scelsi

da Camicia Rossa, gennaio/marzo 2006

23 Siciliano di Collesano, era nato il 30 luglio 1825 in una famiglia di artigiani e piccoli proprietari. Laureatosi in Giurisprudenza all’Università di Palermo, partecipò alla rivoluzione del 1848 e fondò “La forbice” giornale satirico e di costume, rimasto in vita sino alla restaurazione borbonica dell’anno successivo. Con la libertà di stampa i giornali siciliani erano rapidamente cresciuti di numero e se ne pubblicavano ben 123, naturalmente di diversa autorevolezza, alcuni durati poche settimane, altri un giorno soltanto. A Scelsi è attribuita la trovata di soprannominare Ferdinando II “re bomba”, dopo il bombardamento di Messina del settembre 1848. Quando la minaccia militare da Napoli si fece più assillante, fu incaricato di reclutare soldati nella zona delle Madonie e lungo la costa settentrionale della Sicilia. Costretto all’esilio dopo la sconfitta delle forze indipendentiste, s’imbarcò con Francesco Crispi ed altri per Marsiglia. Dalla Francia passò poi nel Regno di Sardegna, a Genova e infine a Torino dove si guadagnò da vivere scrivendo e insegnando discipline economiche presso l’Istituto di Commercio. Pubblicò una traduzione dal latino del classico Iuris criminalis elementa di Giovanni Carmignani, un’opera dal titolo La pace e la guerra: scene fantastiche scritte pel Teatro Nazionale di Torino, la Storia della Riforma in Italia. Collaborò all’opera miscellanea Pantheon dei martiri della libertà italiana e partecipò alla fondazione del quotidiano “Il Diritto” affiancando , Cesare Correnti, Lorenzo Valerio. A Torino frequentava altri esuli siciliani e democratici progressisti ma, a partire dal 1858, sul periodico “Unione” espresse posizioni vicine alla soluzione nazionale propugnata da Cavour. Fu accolto volentieri nel salotto di Giuditta Sidoli, la donna amata da Mazzini che, dopo tanto peregrinare, era alfine approdata ai lidi sicuri del Piemonte. Donna di vasta cultura, parlava un purissimo italiano (lo stesso Cavour si esprimeva con difficoltà nella lingua di Dante e parlava assai meglio il francese). Sebbene non più giovane e non straordinariamente bella, emanava un notevole fascino e i visitatori erano come incantati al cospetto di quella figura femminile sempre vestita di nero. Quando le venne chiesto il motivo di quel lutto perenne, Giuditta Sidoli rispose che lo portava per Roma e Venezia non ancora congiunte all’Italia. Ella riceveva in un salottino severo con accanto le figlie, tutte occupate nei lavori di ricamo. Giuditta Bellerio era nata a Milano in una famiglia nobile. A sedici anni aveva sposato Giovanni Sidoli di Montecchio, da cui aveva avuto quattro bambini: Maria, Elvira, Corinna, Achille. Il marito era un patriota perseguitato per motivi politici e costretto all’esilio. La moglie ne seguì il destino, visse lontano dalla patria e patì il carcere perché sospettata di cospirazione mazziniana. La lontananza dai figli, affidati a parenti o chiusi in collegio, fu particolarmente dolorosa (persino gli sporadici e brevi incontri erano

24 autorizzati e vigilati dalla polizia). Corinna fu la figlia che le rimase vicino più a lungo. L’esule siciliano Giacinto Scelsi cominciò a corteggiarla e nel 1862 Corinna acconsentì a sposarlo sebbene ella avesse un’età (40 anni) da zitella per quei tempi e, oltretutto, fosse più anziana di tre anni. Anche dopo il matrimonio Corinna Sidoli si tratteneva volentieri a Torino con la madre mentre il marito, secondo la regola vissuta dai funzionari del tempo, era costretto a girare l’Italia. Ma bisogna ora fare un passo indietro. Nel maggio 1860, avuta notizia dello sbarco di Garibaldi a Marsala, Scelsi fu incaricato di recarsi in incognito a Messina per fomentare la rivolta contro il governo napoletano. L’obiettivo finale non era però, come nel 1848, uno stato indipendente, ma l’unione della Sicilia al Piemonte sotto il regno di Vittorio Emanuele. Per sfuggire ai controlli della polizia borbonica, l’esule Scelsi ricorse ad un espediente: con la complicità di un ufficiale inglese, John William Dunne, intrepido combattente per la libertà dei popoli, si fece registrare come domestico sul passaporto del cittadino inglese e, per rendere più verosimile la trovata, si tagliò la barba e si vestì con abbigliamento consono al ruolo di servitore. L’arrivo in nave a Messina avvenne senza inconvenienti. I due viaggiatori presero contatto col console inglese e con quello sardo, ma quando la polizia borbonica cominciò a manifestare un interesse preoccupante, dovettero organizzare la fuga su una barca di contrabbandieri al calar della notte, come nei migliori romanzi d’avventura. Raccontò anni dopo Scelsi: «All’alba eravamo fuori dello stretto e, verso le 4 pomeridiane, sbarcammo a S. Stefano dove, riconosciuto dai maggiorenti del paese, ebbi accoglienze festosissime e cordiali. Di là, seguiti da una ventina di bravi giovani, ci recammo la sera stessa a Mistretta, capoluogo di circondario; ed anche là la popolazione si mostrò amica e plaudente. La bandiera della libertà da noi inalberata operava miracoli! Da Mistretta a Reitano, a Cefalù, a Termini Imerese, a Bagheria, a Palermo la nostra marcia fu può dirsi trionfale; il nostro piccolo esercito cammin facendo s’ingrossava come valanga». Scelsi arringava gli accorsi presentandosi come emissario garibaldino e, approfittando della compagnia dell’inglese, dichiarava che la potente nazione straniera era vicina ai siciliani nella loro lotta. Scelsi e Dunne arrivarono infine a Palermo e si unirono alle schiere di Garibaldi. Scelsi fu incaricato di assumere incarichi di governo a Cefalù, mentre l’inglese, seguendo le sua indole, prese parte alla campagna militare alla testa di un battaglione composto da connazionali e picciotti, rimase ferito a Milazzo e sul fiume Volturno meritando la riconoscenza e l’elogio di Garibaldi. Quando Scelsi era a Cefalù solo da pochi giorni, vennero a galla grossi problemi a causa dell’introduzione della leva militare, dalla quale i siciliani sino ad allora erano stati

25 esentati. Scelsi scrisse a Crispi: «La legge sulla leva è venuta d’un colpo, il paese non vi era preparato e perciò ha prodotto una dolorosa impressione. Si crede troppo il numero di due uomini per ogni cento abitanti; si desidera la facoltà di dare il cambio; si vorrebbero esclusi gli unigeniti». Crispi nel rispondere che alcune richieste erano accoglibili aggiungeva: «Il paese non può volere la sua morte. Ora opporsi al solo mezzo di avere un esercito, che dovrà difendere le nostre libertà, è lo stesso che voler la morte. Il popolo deve appoggiarsi sopra se stesso, deve difendere colle sue stesse mani le sue istituzioni». Dopo Cefalù, Scelsi fu inviato a Noto nell’agosto 1860, a Girgenti nel marzo 1861. Entrò stabilmente nei ruoli dell’amministrazione dell’Interno dal vertice, cioè direttamente col grado di prefetto, sebbene fosse assai giovane ed avesse una limitata esperienza amministrativa. A Girgenti (l’odierna Agrigento) entrò in contrasto con il Municipio con echi sfavorevoli sulla stampa e dimostrazioni popolari ostili. Nel giugno 1862 fu trasferito ad Ascoli Piceno dove subì richiami per avere avviato un’indagine conoscitiva sui dipendenti di altre amministrazioni e per la evasione di un pericoloso detenuto (ricordo che allora le carceri dipendevano dal ministero dell’Interno). La sua carriera si svolse nell’arco di oltre un trentennio in molte provincie del Regno, al nord, al centro, al sud. Per alcune regioni, le amministrazioni centrali avevano elementi di conoscenza incompleti e persino approssimativi. Come scrisse Scelsi, «il bisogno primo che sente il funzionario cui è commesso l’arduo ufficio di reggere una provincia è conoscere le condizioni dell’istruzione, delle forze di lavoro, della produzione, del catasto, delle forze sociali». Perciò egli promosse, in sette delle provincie dove prestò servizio, importanti studi statistici, raccogliendo e pubblicando in pochi mesi una messe di informazioni riferite ai campi più diversi. A distanza di oltre un secolo, quelle statistiche hanno ancora oggi contenuti di interesse per gli studiosi di storia economica e di sociologia. Il Ministero dell’Agricoltura, a cui facevano capo le competenze in materia di statistica, riconobbe i suoi meriti conferendogli una medaglia d’argento. Dopo essere stato a Sondrio, a Foggia, a Como, Scelsi nel 1868, con suo rammarico, fu destinato a Reggio Emilia. Lì ebbe ad urtarsi col Comandante del Presidio per ragioni di etichetta e, soprattutto, dovette affrontare la rivolta contro la tassa sul macinato. In Emilia furono molti i morti tra i contadini esasperati che gridavano “Viva il Papa”, “Viva l’Austria”, “Viva la repubblica”. Il governo Menabrea, gravemente preoccupato per lo svilupparsi degli eventi, affidò al gen. Raffaele Cadorna il compito ingrato della repressione delle proteste, atteso che le forze ordinarie di polizia erano esigue e la Guardia Nazionale quasi ovunque si lasciò disarmare senza opporre resistenza o si schierò addirittura dalla parte delle folle in tumulto. Cadorna, che aveva vissuto l’esperienza della

26 rivolta palermitana del settembre 1866, fu investito della facoltà di adottare tutti i provvedimenti ritenuti necessari e portò a termine il suo compito in poche settimane ma a caro prezzo. I morti in tutt’Italia furono oltre 250, la maggior parte in Val Padana. In provincia di Reggio Emilia furono avviati 32 processi collettivi con 520 imputati. Anche a Messina il prefetto Scelsi passò dei guai per contrasti con alcuni deputati locali e accuse di debolezza nell’affrontare i problemi della sicurezza pubblica. Dopo Ferrara, Mantova, Pesaro, andò a Livorno dove visse un altro momento difficile, per ironia della sorte a causa della morte dell’amato Garibaldi. La città labronica da sempre era agitata da garibaldini e mazziniani e si verificarono disordini durante le commemorazioni del generale. Il governo imputò al prefetto di non avere mostrato adeguata energia, cosicché lo mise a disposizione lasciandolo senza incarichi per oltre un anno. Successivamente una lunga e penosa malattia, che aveva intaccato la sua salute mentale, tenne Scelsi lontano dagli uffici per quasi un biennio e fu solo l’ascesa al governo dell’ex- garibaldino Francesco Crispi a consentirgli di rientrare in carriera nel maggio 1887, ottenendo anche l’ambita nomina a senatore che era il coronamento dell’onorata vita di un patriota. Quando era prefetto di Bologna, Scelsi fu collocato a riposo per decisione di Rudinì, succeduto e ostile a Crispi. Riammesso in servizio ancora per aiuto di Crispi ed assegnato nel febbraio 1895 alla prefettura di Firenze, allorché subentrò nuovamente Rudinì arrivò la fine della carriera, il 1° aprile 1896 all’età di 71 anni. Il senatore Scelsi partecipò con assiduità ai lavori della Camera Alta, avendo stabilito a Roma il suo domicilio. Aveva delle proprietà nella zona di Paliano e proprio sulle sue terre lavorarono come mezzadri i Goretti e i Serenelli. La tragedia che ebbe per vittima la futura santa Maria Goretti e per carnefice Alessandro Serenelli si compì però dopo che i nuclei familiari s’erano trasferiti altrove, pare a causa di contrasti col vecchio proprietario. Molti anni prima, nel 1867, Corinna Sidoli era morta quando Scelsi era prefetto a Foggia. La poveretta spirò tra le braccia della madre Giuditta accorsa da Torino in Capitanata, dopo una malattia contro la quale nulla poterono le arti mediche del tempo. Dal matrimonio tra Corinna e Giacinto era nata una bambina che la nonna materna condusse con sé e allevò, ma dopo pochi anni anche Giuditta Sidoli passò a miglior vita. Giacinto Scelsi si risposò con una giovane donna di Milano, Gina Guicciardi. Scelsi, scrivendo nel 1881 a John William Dunne, l’antico compagno dell’avventura garibaldina, affermò di avere contribuito con un sassolino alla grande opera dell’unità italiana e nutrendo quel legittimo orgoglio si spense a Roma il 6 maggio 1902.

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28 Vittorio Zoppi prefetto a Salerno

da Bollettino storico di Salerno e Principato Citra, 1999

29 L’8 maggio 1861 il ministro dell’Interno Minghetti scrisse a Vittorio Zoppi, allora Vice Governatore a Brescia, questa lettera “confidenziale”: «Il Ministro sottoscritto nell’intendimento di organizzare la Pubblica Amministrazione nella parte meridionale del Regno, ha determinato di affidare alla S.V. il governo di una di quelle Provincie, epperciò ne la rendo avvertito onde disponga ogni cosa per esser pronta al primo avviso che le verrà dato. Confida lo scrivente che Ella non mancherà di corrispondere col fatto alla fiducia che il Governo ha posto in Lei, non senza avvertirla che questa comunicazione debba essere ancora un segreto, epperciò non è conveniente di farne parola con alcuno. P.S. Aggiungerò che spero di poterla collocare a Salerno1.» Due mesi dopo, a firma di Guido Borromeo, Segretario generale del ministero dell’Interno,2 arrivò la comunicazione della nomina a Governatore della Provincia di Principato Citeriore, dal 16 luglio 1861. Ripercorro brevemente le tappe della carriera di Vittorio Zoppi. Nato a Cassine nel 1819, secondo di dieci figli, apparteneva ad una delle più antiche famiglie del contado di Alessandria. Una sorella, Clementina, sposò Raffaele Cadorna allora maggiore del Genio Lombardo. Un fratello, Ottavio, fu Elemosiniere di re Carlo Alberto. Un altro fratello, Enrico, raggiunse nell’esercito il grado di tenente generale. Laureato in diritto civile ed ecclesiastico, il futuro Governatore di Salerno entrò nel 1841 come volontario non retribuito nell’Amministrazione Provinciale dell’Interno. Immesso in carriera tre anni dopo, prestò servizio a Mortara, Annecy, Novara, Alessandria. Nel settembre 1848 venne promosso Intendente di 2ª classe e destinato ad Alghero, da lì passò a Bonneville poi a Mondovì. Nel 1858 era Capo divisione al ministero, l’anno dopo Intendente generale a Bergamo, appena liberata dagli austriaci. Poi fu Vice Governatore a Pavia, a Milano con Massimo d’Azeglio, a Brescia. Dal 1861 fu Governatore e poi Prefetto a Salerno, Messina, Brescia, Novara; infine, a Torino sino all’aprile 1876, quando lasciò il servizio all’avvento della Sinistra. Aveva ricevuto il laticlavio nel novembre 1871. Morì in tarda età nel 1907, dopo avere ricoperto in Alessandria importanti cariche amministrative. Del primo periodo salernitano è questa lettera al padre Giovanni Antonio, datata 8 settembre 1861:

1 Salvo diversa indicazione, i documenti riprodotti fanno parte dell’archivio privato degli eredi Zoppi, che ringrazio per la squisita cortesia con la quale li hanno messi a mia disposizione. 2 D’URSO D., I Segretari generali del Ministero dell’Interno, Alessandria 1997, pp. 27-31.

30 «Tra il Consiglio Prov.le e la venuta del Ministro dei lavori pubblici3 in Salerno fui all’opera tutta la scorsa settimana. Ed anche Maria4 fu per tre giorni fuori dello stato suo normale avendo dovuto fare gli onori di casa al Ministro colla sua moglie e seguito. Da ciò ella deve riputare il nostro silenzio[…] Qui le cose nostre vanno un tantino meglio e se si volesse il miglioramento potrebbe progredire più rapidamente; ma colle confusioni e l’anarchia negli ordini non si può sperare gran fatto. Ora vedremo Ricasoli cosa saprà fare. Dicesi che sopprimerà la luogotenenza, e se mette in atto quest’idea, Iddio ne lo rimunererà ed il paese lo benedirà. La luogotenenza fu, è e sarà sempre la causa di tutti i mali5. I briganti vanno scomparendo ed io credo che in settembre ne saremo quasi liberi interamente. Allorquando qui venne il Ministro dei lavori pubblici, ho ben pensato a maman6. S’immagini che fui prevenuto del suo arrivo per le quattro, alle due e mezzo pomeridiane. Pensando che fosse solo col suo segretario ho fatto preparare da pranzo per sei solamente, la fretta non permettendomi di fare inviti. Vado ad attenderlo alla strada ferrata nel mentre che mi si dice il Ministro arriverebbe in vettura veggo il vagone pieno di gente. Erano vari ingegneri, la moglie del Ministro7, il Consigliere di Stato Correnti mio amico con sua moglie; in tutto una ventina di persone. Indi a poco giunse il Ministro e c’incamminammo tutti verso la mia casa. Come sfamare tanta gente! Quando Dio volle, otto degli arrivati ripartirono subito, rimasero 12, ed a questi 12 ho dovuto dare da pranzo. Non mai ebbi ad apprezzare il valore di un buon cuoco come questa volta. Alle 7, ora fissata dal Ministro andammo a pranzo, ed eccellente fu il servizio. Il domani il Ministro partì, ed io con Maria accompagnai la sua signora sino a Castellammare contornando il promontorio di Amalfi sopra un vapore dello Stato[…] Maria sta benissimo ed è sempre la buona ragazza dei primi giorni; Potevo prendere maggior dote,

3 Il toscano Ubaldino Peruzzi, ministro nel governo Ricasoli, compì tra settembre e ottobre 1861 un lungo viaggio nelle provincie meridionali. Presso Eboli il suo servitore venne svaligiato di tutti gli effetti appartenenti all’uomo politico. 4 Vittorio Zoppi, all’età di 42 anni, aveva sposato a Firenze il 23 luglio 1861 la sedicenne Maria Roissard de Bellet, di famiglia nizzarda (il padre Leonardo fu Comandante generale dei Carabinieri nonché Senatore). 5 La Luogotenenza Generale delle Provincie Napoletane venne soppressa con decreto reale del 9 ottobre 1861. 6 Matilde Calcamuggi de’ Ferrufini, madre di Vittorio Zoppi, era figlia di Ottaviano ultimo conte di Cascinagrossa e di Onorata Baronis dei conti di Donnaz. Aveva sposato Giovanni Antonio Zoppi nel 1816. 7 Ubaldino Peruzzi aveva sposato nel 1850 Emilia Toscanelli (1820-1900), che tenne in Firenze capitale un famoso salotto letterario, in competizione con quello di madame Rattazzi.

31 ma non certo una migliore e più cara persona. Procuro di mantenerla in quella verginità di idee in cui l’ho trovata e credo di fare il suo bene. Io non credo che una donna faccia cattive figure in società ignorando la depravazione sociale. Tutti l’ammirano pel suo candore. Il Ministro e sua moglie come anche il comm.re Correnti ne furono entusiasmati, per le sue buone maniere, pel suo spirito, e la sua ingenuità.» Nell’archivio Zoppi vi sono le minute di relazioni inviate al governo di Torino nel corso del 1862. Una di aprile conteneva amare considerazioni: «Vorrebbe la popolazione che si adottassero misure eccezionali, massime verso quelli più noti per le loro opinioni in favore del passato governo, e che maggiormente parteciparono agli atti suoi, ma se queste aspirazioni non possono realizzarsi, valgono almeno a provare l’attaccamento di questi abitanti all’attuale ordine di cose. Avvezzi all’arbitrio, vittime dell’arbitrio, le molte volte essi stessi, vorrebbero ora che gli abusi di potere che ebbero a soffrire s’impiegassero contro quelli che o parteciparono ad essi o vi applaudirono. L’idea della legalità non è ancora siffattamente radicata in essi, da dimostrar loro che l’arbitrio è sempre arbitrio[…] Vi furono alcuni tentativi di mene murattiane, la reazione cercò anche di promuovere diserzioni nell’esercito e di assoldare briganti, ma queste mene e questi tentativi non solo non trovarono simpatie nella popolazione, ma invece una assoluta avversione. Non è però che non vi siano lagni, e che certi miglioramenti aspettati si sollecitino con quella vivacità che è naturale in chi dopo aver lungamente sofferto vorrebbe tutto a un tratto che le aspirazioni sue si traducessero in fatti, con la rapidità del desiderio stesso; ma nel tempo stesso che si insiste si comprende pure che a molte cose, malgrado la migliore volontà del Governo, non è possibile provvedere immediatamente nelle attuali circostanze. Sarebbe però ottima politica come già osservai altra volta che a costo anche di gravi sacrifizi s’imprendessero considerevoli lavori per opere buone e comode comunicazioni e per sviluppare la istruzione popolare. Le popolazioni vivendo di confronti è d’uopo che ne possano fare di spesso e che la conseguenza di essi riesca sempre a vantaggio del presente ed a scapito del passato. Le arti dei nemici e le promesse che si fanno dal Principe spodestato per commuovere questi paesi sono molte; l’unico modo di combatterle è di opporre i fatti alle promesse. La certezza di veder in breve S.M. onorare di sua presenza questa provincia, fece ottima impressione, e si spera che vorrà degnarci di visitare almeno i maggiori centri di popolazione8. […] È d’uopo che l’autorità faccia convinte le popolazioni che adempie

8 Nel maggio 1862 Vittorio Emanuele II compì un viaggio nel Meridione, accompagnato dal Presidente del Consiglio Rattazzi. Visitò anche Vietri, Salerno, Battipaglia, Eboli e la tenuta di Persano. Avendogli chiesto il Sindaco di Salerno: «Sire, andremo a Roma?», rispose:

32 strettamente all’obbligo suo di vigilare e che questa vigilanza è bastevole ad assicurare al paese la sicurezza e la tranquillità cui aspira e che è uno dei suoi più sentiti bisogni. Ed è appunto a radicare questa convinzione, a inculcare questi principi di legalità ed a condurre le popolazioni a confidare nelle proprie forze che pongo ogni mio studio. Alcune nomine come era a prevedersi furono anche criticate e persino i dispensati trovarono i loro difensori. Questo non poteva né doveva far sorpresa, e sarebbe stato anzi sorprendente se non vi fosse stato qualche malcontento. Ciò che è certo però gli è che l’ordinamento attuale massime per la giustizia penale riscuote la simpatia del paese il quale vede nella istituzione dei giurati non tanto una garanzia per gli imputati, quanto un mezzo di maggiore repressione dei reati. Non manca certo chi dubita della buona riuscita di questa istituzione, diffidando della indipendenza dei giurati, ma le buone prove fatte altrove ispirano piena fiducia alla maggioranza, non troppo soddisfatta delle corti criminali per l’estrema loro indulgenza. La statistica dei delitti pure mostrasi sempre con qualche miglioramento nella sicurezza pubblica, e se fosse possibile di ottenere leggi più severe per liberarci dalla camorra le cose rientrerebbero subito nel loro stato normale.» Un altro rapporto, datato 16 giugno 1862, affrontava più diffusamente la questione dei partiti “estremi” e la piaga del brigantaggio, naturalmente nell’ottica di un funzionario governativo, di origine e cultura piemontese, che si sforzava di analizzare e capire una parte d’Italia tanto diversa e lontana dalla sua. «Un malumore innegabile si svegliò in questa quindicina nelle popolazioni della Provincia. Causa primaria ne fu la legge sulla tassa del registro e bollo, mal interpretata, poco conosciuta, e portata a notizia delle popolazioni con mille esagerazioni dai mestatori di ogni partito. Conviene però dire che il maggior malcontento si rivela nelle classi più agiate, le quali vorrebbero avere tutti i vantaggi di un governo di progresso e della civilizzazione, ma non sono per nulla disposti ad accettare i carichi. E ciò che più sorprende egli è che mentre si grida contro la legge sulle tasse e contro ogni possibile aumento d’imposte, si chiedono da tutte le parti con maggior insistenza impieghi, pensioni e sovvenzioni per opere pubbliche al Governo. Anche qui come altrove i due partiti estremi si sono dati la mano, ed entrambi d’accordo stanno a capo di questa opposizione e cercano di suscitare malumori accreditando le più assurde voci. Contro costoro si sta agendo per accertare i fatti e denunziarli ai tribunali ma non si sa poi comprendere come l’autorità giudiziaria, sotto gli occhi della quale nelle stesse aule del Tribunale avvennero rumori tali da ledere la dignità del luogo e del magistrato, non siasi

«Sì, ci andremo. Se voi desiderate di andarvi, io ci debbo andare perché ne ho dato giuramento!».

33 fatta immediatamente a provvedere contro questi perturbatori, siasi invece preferito di richiedere a quest’ufficio di far sorvegliare le sale dagli agenti della P.S. onde mantenere l’ordine. Dopo d’allora nulla più avvenne, ma intanto non si è provveduto e le cause non si fanno per l’opposizione degli Avvocati.[…] Vi sono taluni è vero che al loro desiderio del bene accoppiano in buona fede una impazienza irragionevole, ma anche qui troviamo la mano dei partiti i quali nulla lasciano di intentato per sovvertire lo spirito pubblico. Ed in questi ultimi tempi l’azione dei partiti si è fatta abbastanza insistente, ma l’attitudine dimostrata dal Governo pare ora abbia calmato gli animi. Né si trascura per certo di illuminare le popolazioni e far loro comprendere come debbano diffidare di certi falsi amici i quali cercano di sfruttare la loro buona fede non per l’interesse loro, ma per secondi fini che non sono certo consoni agli interessi delle popolazioni. Si tentò l’organizzazione in vari punti di circoli popolari, ma fortunatamente l’idea era capitanata da uomini conosciuti ovunque per le loro tristizie sicché nulla o quasi nulla si poté ottenere. Il risvegliarsi del brigantaggio sovra taluni punti della Provincia (Penisola d’Amalfi) ha sparso un tantino di timore che però fu acquietato, sapendo quali disposizioni fossero state prese d’accordo fra l’autorità civile e la militare per distruggerlo. Se invece di aver a che fare con popolazioni timide e che non osano muoversi e che si ricusano assolutamente di coadiuvare la truppa, avessimo la fortuna di trovare maggior coraggio, la piaga del brigantaggio sarebbe da lunga pezza sanata. Si è voluto far credere che a rinforzare la piccola comitiva che infestava quei monti fossero giunti dal di fuori sbarcando a Positano alcuni malviventi, ma ciò ho motivo di credere che sia una favola. I rinforzi vennero dai comuni di Agerola, Lettere e Gragnano, alquanti da Minori e da S. Egidio, gente tutta tristissima e il cui mestiere fu sempre il ladroneccio. Nessuna località fu mai così guardata, a tutti gli sbocchi verso i monti vi sono truppe che fanno un ottimo servizio, quindi uno sbarco era impossibile. Le disposizioni prese lasciano però credere che anche di questa banda si farà pronta giustizia. In vari punti della Provincia si manifestarono alcune piccole bande composte di cinque o sei persone tutte del paese cui vennero ad aggiungersi alcuni disertori. Una di queste fu distrutta, altre in parte prese, e si sta attivamente lavorando per distruggerle completamente. Ma lo scopo non sarà raggiunto, se non si possono completare le Stazioni dei Carabinieri. Dovunque questa benemerita arma esiste, non vi sono bande, e quelle che si formarono vennero tosto disfatte. Sarebbe bene che il Ministero come già ne feci richiesta vedesse modo di sollecitare l’invio di nuovi carabinieri. Qui mancano ancora 26 stazioni, e questa mancanza che raggiunge quasi la metà delle stazioni che devono qui esistere, produce gravi inconvenienti. L’arma dei carabinieri ha un gran prestigio presso le popolazioni: la

34 temono e la rispettano, e questo è un gran vantaggio. Tutto porta a credere che i raccolti saranno abbondanti, e questa abbondanza tranquillizza assai tutti. Ciò è una vera fortuna nei tempi che corrono massime per questi paesi. I lavori agricoli e le numerose opere pubbliche prov.li e governative non che le comunali, assicurano la pubblica esistenza e quindi la quiete pubblica. L’aumento dei salari che va verificandosi su tutti i punti a causa della grande ricerca di operai fa ottima impressione sulle basse popolazioni, prima malissimamente retribuite. Ma la vera piaga del paese sta nella camorra, per la quale le leggi attuali sono impotenti. Senza leggi e disposizioni eccezionali questa schifosa piaga non si toglierà di certo. La stampa napoletana pure concorda su questa quistione ed in ciò credo di poter dire che rappresenta l’opinione pubblica. Qualunque mezzo che abbia per iscopo di liberare il paese da questa scellerata associazione sarà non ne dubito accolto. La deportazione è sulla bocca e nei desideri di tutti9.» Anche se il brigantaggio non assunse mai nel Salernitano le dimensioni di quello lucano o della Capitanata dove folte bande a cavallo scorrazzavano per le campagne, la presenza di numerose comitive stazionanti soprattutto nelle zone più impervie e, dunque, più sicure10, fa apparire un po’ troppo ottimistico il resoconto di Zoppi il quale, oltretutto, non mancò pure lui di farsi tentare dalla soluzione delle “maniere forti”. In una lettera del 30 aprile 1862 indirizzata al generale La Marmora, a cui facevano capo tutte le forze militari per la repressione del brigantaggio, il prefetto espresse il parere che «coi mezzi

9 Il domicilio coatto comune venne formalmente introdotto nell’agosto 1863 dalla legge Pica per la repressione del brigantaggio. Poteva essere disposto nei confronti di oziosi, vagabondi, sospetti manutengoli e camorristi, su parere di una giunta composta da prefetto, presidente del tribunale, procuratore del re e due consiglieri provinciali. Questa misura di prevenzione fece poi il suo ingresso nella legislazione ordinaria con la legge di pubblica sicurezza del 1865. Il domicilio coatto politico venne istituito come misura temporanea, anche in previsione della guerra contro l’Austria, dalla legge 17 maggio 1866, n. 2907. L’art. 3 dava facoltà al governo di assegnare al domicilio coatto «persone per cui ci sia fondato motivo di giudicare che si adoprino per restituire l’antico stato di cose, o per nuocere in qualunque modo all’unità d’Italia e alle sue libere istituzioni». In ogni capoluogo di provincia operò una giunta consultiva composta da prefetto, due magistrati e due consiglieri provinciali scelti dai primi tre membri. Sulla base del parere espresso, soggetto a revisione da parte di una giunta centrale, il ministro dell’Interno disponeva l’assegnazione al domicilio coatto. 10 D’URSO D., Storia di un brigante. Gaetano Manzo di Acerno, Giffoni Valle Piana 1979. Subito dopo la promulgazione della legge Pica, con decreto reale del 20 agosto 1863 vennero designate le provincie infestate dal brigantaggio: erano undici e ben quattro in Campania, tra cui Principato Citeriore.

35 legali non si otterrà mai nulla; vi è troppa corruzione nelle masse, vi è troppa fiacchezza nei tribunali e troppa paura»11. Dalle carte d’archivio emergono molte situazioni particolari. In una missiva del gennaio 1862, diretta ad un “Onorevole Signore” non meglio identificato, Zoppi scriveva: «Il prete Salzano fu arrestato in San Lorenzo comune di Corbara non già per essere stato veduto in abito di campagna attendere ai lavori di un suo podere, ma perché ebbe a riconoscersi che si trovava in relazione col capo brigante Varone con cui ebbe frequenti colloqui ed al quale consegnò non dispregievole somma stando alle relazioni dei briganti stessi contemporaneamente arrestati. Il Salzano non era in un podere suo ma in casa di tal Ferraioli sospetto egli pure. Ho interrogato io stesso il Salzano quando venne condotto in Salerno, e senza voler prevenire il giudizio che saranno per pronunciare i tribunali, io posso assicurare V.S. che dal suo contegno che dalle sue risposte ho dovuto formarmi una idea ben contraria alla sua innocenza, come si vuol asserire. Non dubito che abbia potuto rendere qualche servizio alla polizia ma porto opinione che svelasse il poco per nascondere il molto. Comunque sia, io ho già ordinato all’Ufficio di Sicurezza pubblica di metterlo a disposizione della autorità giudiziaria e converrà quindi attendere che emani la sentenza.» Sono qui necessarie alcune osservazioni a chiarimento. La legge piemontese del 13 novembre 1859, n. 3720 affidava l’amministrazione di pubblica sicurezza al ministro dell’Interno e, gerarchicamente subordinati, ai Governatori, agli Intendenti, ai Questori. La coeva legge comunale e provinciale tra le attribuzioni del Governatore (divenuto Prefetto nel 1861 per volontà di Ricasoli) indicava: «Sopraintende alla pubblica sicurezza, ha diritto di disporre della forza pubblica e di richiedere la forza armata». Analoghe formulazioni vennero inserite nelle leggi di unificazione del 1865. Su queste basi giuridiche i prefetti sospendevano i giornali, scioglievano associazioni, vietavano riunioni, ordinavano perquisizioni e arresti. All’epoca, la consuetudine attribuiva ai prefetti anche la potestà di “empara”, di triste memoria borbonica: in sostanza, per motivi di sicurezza, le persone prosciolte dall’autorità giudiziaria potevano essere trattenute in carcere a disposizione della polizia, senza accuse specifiche. La fonte di questi poteri prefettizi era la consuetudine, che - nelle sue Lezioni - definiva «l’osservanza continua per un lungo periodo di tempo di certe norme di amministrazione da parte della pubblica autorità nelle sue facoltà discrezionali. Da questa osservanza deriva una consuetudine, e l’amministrazione è ad essa tenuta»12. In Parlamento venne discussa più volte la questione della fonte giuridica dei provvedimenti prefettizi, di fatto limitativi delle

11 Cit. in ROSSI L., Una provincia meridionale nell’età liberale, Salerno 1986, p. 46. 12 SALANDRA A., Lezioni di diritto amministrativo, Roma 1910, p. 183.

36 libertà statutarie. I ministri dell’Interno, non potendo richiamare alcuna espressa disposizione di legge, invocavano il “criterio dell’ordine pubblico”, cioè, dinanzi al pericolo astratto o concreto di turbative di qualsiasi genere, il prefetto, responsabile della sicurezza pubblica nella provincia, aveva potestà di adottare tutti i provvedimenti ritenuti necessari. Secondo i costituzionalisti del tempo e la stessa Corte di Cassazione, non una legge scritta ma la suprema legge della salute della patria, ossia la necessità di governo giustificava tutto ciò. Questa situazione rimase invariata per parecchi decenni. È altresì opportuno precisare che, a livello periferico, l’amministrazione della pubblica sicurezza era organizzata in uffici provinciali e circondariali, parte integrante delle prefetture e sottoprefetture. Nei capoluoghi più importanti all’ufficio provinciale di p.s. era preposto un questore, in ogni mandamento aveva sede una delegazione di p.s. (divenne allora mitica la figura del delegato), mentre nei comuni formalmente tutto faceva capo al sindaco, il quale era di nomina governativa ed ufficiale di governo13. Il ceto benestante aveva di che temere per lo stato della sicurezza pubblica e ne è eloquente testimonianza questa missiva indirizzata a Zoppi il 27 giugno 1862 da un tale Francesco Reale di Ravello, a dir poco allarmato: «È con molto dispiacere che mi vedo nella necessità di tediarla di nuovo con una mia lettera. Come Ella deve ben sapere mercoledì giunse l’ordine al distaccamento di Guardia Mobile di rientrare a Salerno, ma forse Ella non sa che quel distaccamento non venne rimpiazzato da altra forza. Per quella sera il Maggiore degli Ungheresi14 Reifeld mi diede una guardia a casa mia, e ieri sulle mie istanze mi fece il favore di far venire a Ravello il distaccamento di Scala di 21 uomini, i quali ora sono al monastero di S. Antonio. Il Maggiore mi scrive che forse gli Ungheresi non saranno lasciati alla costiera che pochi altri giorni, di modo che non ci sarebbe nessuna forza in questi contorni, mi scrive in inglese dicendomi «che avrebbe molto piacere di tenere a Ravello un distaccamento in permanenza e che preferisce di tenere i suoi soldati in servizio anziché tenerli a Nocera, ma che dovea indirizzarmi a Lei acciocché desse gli ordini necessari». Spero che Ella mi farà di nuovo il favore (se sia possibile) di dare quest’ordine e che possiamo aver i mezzi di restare qua in pace almeno sino alla fine di settembre. Benché pare che non ci sia più la banda di Pilone in queste montagne, da notizie certe so che ci sia sempre l’antica banda alquanto ingrossata. Se Ella si trovasse costretto di negarmi la protezione che chiedo, La

13 D’URSO D., I direttori generali della pubblica sicurezza, Alessandria 1994. 14 La Legione Ungherese, costituita da esuli, venne impiegata nella sanguinosa repressione del brigantaggio meridionale (VIGEVANO A., La Legione Ungherese in Italia, Roma 1924).

37 prego pure di dirmelo francamente, acciocché possa andare col mio comodo di cercare casa altrove, perché non sarei sicuro a Ravello per 24 ore dopo la partenza dei soldati.» Circa poi i problemi dell’amministrazione della giustizia, è da rilevare che « la fase del trasferimento dei poteri a Napoli era stata notevolmente complessa, passando prima per la dittatura garibaldina e poi per le varie luogotenenze che, con politica oscillante, si erano talvolta avvicinate agli elementi democratici, talaltra avevano, al contrario, cercato l’appoggio degli ambienti più legati alla vecchia dinastia borbonica. Ciò naturalmente aveva complicato, e non poco il processo di riordinamento del personale giudiziario»15. Nell’archivio Zoppi è conservata questa relazione “riservatissima” del Sotto Prefetto di Sala16: «Qualunque siane cagione, è indubitato che finora questo Tribunale correzionale è affatto inerte. Tranne le istruzioni penali, nulla si fa in disimpegno della giustizia. Versatomi a perpetrarne le cagioni, molte cose si adducono, tra cui mancanza di registri, di impiegati, di locale. Non mi accingo ad approfondire su tali assertive, […] ma su l’assenza del Presidente da qui da circa un mese, e la discordanza sull’applicazione della nuova procedura tra i meridionali e settentrionali. Magistrati fanno veder chiaramente mal disposizione all’attuazione di così importante bisogno, cioè l’amministrazione della giustizia. Intanto questa inerzia mena censura e malcontento fra i buoni, ed insidie tra mestatori retrivi; a prescindere del danno dei privati negli interessi e nella libertà, e del pubblico erario, che per le prescrittibili azioni penali andrà a soccombere con l’anticipazione delle spese occorse. E di queste azioni penali sono informato esserne già pendenti un circa cinquanta. A svegliare la necessaria inerzia in una istituzione novella, come questa, ed a spingere un concorde modo di applicare la procedura, io credo che, oltre alle opportune provvidenze che potrà pensare V.S.I., sia indispensabile qui un Procuratore Regio delle antiche provincie.» Insieme a tante preoccupazioni Zoppi ebbe, però, anche belle soddisfazioni. Il Consiglio Comunale di Pellezzano deliberò il 28 aprile 1862 di conferirgli la cittadinanza onoraria, quale riconoscimento a «uno dei più solerti ed energici funzionari del tempo»,

15 I magistrati italiani dall’Unità al fascismo, a cura di Pietro Saraceno, Roma 1988, p. 47. L’ordinamento giudiziario risalente alla legge 13 novembre 1859, n. 3781 entrò in vigore nelle provincie napoletane il 1° maggio 1862 ed il trasferimento dei primi magistrati settentrionali ad Sud avvenne solo in quei mesi. Se è vero che gli ambienti politici e giudiziari meridionali erano poco ben disposti verso i nuovi arrivati, è anche vero che i magistrati “subalpini” accettavano di mala voglia il trasferimento. 16 Nella provincia di Salerno le Sotto-Prefetture avevano sede a Campagna, Sala, Vallo. Dal punto di vista della pianta organica degli uffici, la Prefettura di Salerno era considerata molto importante, al livello di Firenze, Genova, Palermo.

38 che faceva di tutto «per dar lustro e splendore alla Provincia di suo Governo». Un po’ più difficili erano i rapporti con l’amministrazione comunale di Salerno, tanto che il 2 luglio il Segretario generale del ministero dell’Interno Vincenzo Capriolo17, fedelissimo del Presidente del Consiglio Rattazzi, scrisse al prefetto: «Quantunque la condotta del Sindaco di Salerno sia per ogni riguardo riprovevole e non senza ragione possa ritenersi fomentata o quanto meno appoggiata dal Consiglio Comunale; tuttavia prima di promuovere la destituzione del primo e lo scioglimento del secondo, importa assicurarsi con modi accorti e sicuri se il signor Enrico Moscati sarebbe disposto ad accettare la carica, e in caso di rifiuto, se lo scioglimento sarebbe male accolto in paese o a temersi che colle nuove elezioni ritornino i medesimi Consiglieri. Nel qual caso lo sfregio sarebbe del Governo e la sua autorità ne patirebbe. E a prevenire questo pericolo che vogliono essere dirette le indagini del Sig. Prefetto il quale potrebbe per intanto limitarsi a sospendere il Sindaco, salvo a destituirlo o sciogliere il Consiglio secondo le convenienze che risulterebbero dai dati che si fossero raccolti.» Ubaldino Peruzzi, non più ministro, scrisse a Zoppi il 18 luglio su una questione molto delicata: «Mia moglie ebbe per incarico della sua signora suocera dalla mia cugina Moggi la grata notizia del felice parto della gentile sua signora consorte; ed io sono lieto di congratularmi con loro ben cordialmente per questo felice avvenimento18. In quest’occasione mi permetto altresì di indirizzarmi alla di Lei cortesia per un affare che, da quanto mi disse il detto suo suocero, interesserebbe Lei non meno che il mio cognato Finocchietti19 marito di una sorella di mia moglie. Ella avrà già inteso probabilmente che io intendo parlare del cambio della Prefettura di Salerno e di Pavia fra Lei ed il detto mio cognato; cambio che i giornali avevano già annunziato, e che ora al Ministero dell’Interno dicono sospeso per adesso a motivo di alcuni fatti che sarebbero accaduti costà. Il di Lei sig. suocero mi assicura che un tal cambiamento sarebbe da Lei molto desiderato; laonde io credo farle cosa gradita assicurandola che anche al mio cognato sarebbe graditissimo per motivi del clima che sarebbe più propizio a Salerno che a Pavia per la salute assai debole della di lui famiglia. Perciò qualora Ella avesse mezzi da adoperare per conseguire dal Ministero dell’Interno questo cambio, si adopererebbe probabilmente con maggiore

17 D’URSO D., I Segretari generali cit., pp. 33-37. 18 Il 9 giugno 1862 era nata la primogenita Matilde. Seguirono Giovanni Antonio, Clementina, Angelica, Ottavio ed Enrico. 19 Il conte Francesco Finocchietti di Pisa (1815-1899), dopo essere stato prefetto di Siena, dal novembre 1861 ricopriva la sede di Pavia. Il 21 agosto 1862 venne collocato a riposo, a domanda, per motivi di salute.

39 energia quando sapesse, come per questa mia l’assicuro, di incontrare un pieno concorso per l’altra parte a ciò interessata.» E arrivarono le calde giornate dell’agosto 1862, con tutta l’Italia in subbuglio, pro o contro Garibaldi deciso ad andare a Roma. Rattazzi aveva scelto un garibaldino, Giuseppe Guerzoni, come suo segretario particolare e Garibaldi, interrogato per quale ragione appoggiasse il politico alessandrino, rispose: «L’appoggio perché con lui si può sempre tentare qualcosa». Rattazzi, disse Francesco Crispi, desiderava essere un cospiratore, ma non ne aveva né l’audacia né il coraggio. Il 3 agosto 1862 Vittorio Emanuele II aveva in un proclama invitato al rispetto dell’autorità dello Stato, minacciando per i ribelli i rigori della legge. Tre giorni prima, il gen. La Marmora aveva chiesto la proclamazione dello stato d’assedio nelle provincie meridionali20. Accadde allora un fatto inquietante: alcuni reparti della Legione Ungherese lasciarono i luoghi dove erano stanziati per concentrarsi a Nocera. «Non è chiaro se questi movimenti rispondessero a piani insurrezionali, oppure fossero soltanto la manifestazione spontanea di un profondo malcontento serpeggiante tra gli esuli ungheresi, adibiti alla ingrata opera della repressione del brigantaggio e circondati dall’ostilità delle popolazioni meridionali, malcontento che poté essere indirizzato da agitatori democratici verso un appoggio – comunque prematuro – all’impresa garibaldina. Sta il fatto che, bloccati e disarmati senza che opponessero resistenza, gli ungheresi vennero imbarcati a Salerno il 13 agosto, dietro ordine di La Marmora, e trasportati in Piemonte; di essi, circa 150 riuscirono a darsi alla macchia al momento della partenza, con lo scopo di raggiungere Garibaldi21.» La Marmora poche settimane prima, scrivendo al ministro della Guerra Agostino Petitti Bagliani di Roreto, aveva criticato il prefetto Zoppi per essersi opposto all’occupazione di un convento da parte delle truppe22. Ora lo incitò a far arrestare i capi delle agitazioni pro-Garibaldi. In effetti, proprio a Salerno avvennero episodi gravi, con minacce a mano armata verso i rappresentanti del governo. Zoppi così telegrafò a Rattazzi

20 In Italia, dal 1861 al 1922 lo stato d’assedio fu dichiarato dieci volte. Inizialmente, la proclamazione fu presentata quasi come esercizio di un potere ordinario dell’esecutivo. Successivamente, si cercò un fondamento negli articoli 243 e 246 del codice penale militare relativo allo stato di guerra. I commissari straordinari emanavano bandi e potevano istituire tribunali militari, che sentenziavano senza appello (VIOLANTE L., La repressione del dissenso politico nell’Italia liberale, in «Rivista di storia contemporanea», 1976, pp. 481-524). 21 MOLFESE F., Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1974, p. 162. 22 Cfr. Le carte di Alfonso Ferrero della Marmora, a cura di Maurizio Cassetti, Torino 1979, p. 141.

40 il 9 agosto alle ore 1 pom. Il messaggio era drammatico, al di là della ovvia intenzione di rassicurare Torino e dare la migliore immagine di sé: «La tranquillità è ristabilita e si compone processo. Mi sono riso delle minacce di morte fattemi fare stamane per obbligarmi alla partenza. Resto ad ogni costo al posto, ugual cosa mi consigliano i Consiglieri di Prefettura23. Il Delegato della provincia questa notte costretto colle armi alla partenza24. Richiamato. Ufficiali della Guardia Nazionale promessa efficace cooperazione25.» Rattazzi di rimando: «Mantenga il divieto d’ogni dimostrazione e non si lasci sgomentare, usando di tutti i mezzi che la legge concede». Sappiamo come finì il tentativo garibaldino. Le vicende professionali di Zoppi si incrociarono allora con quelle del collega di Messina Antonio Mathieu. Il 28 agosto 1862 il Presidente del Consiglio chiese un rapporto al generale Cialdini, inviato in Sicilia con poteri straordinari. Mathieu aveva ordinato la scarcerazione di alcuni arrestati, pare su pressione della folla, compromettendo così «la dignità e la forza del Governo». Il generale confermò i fatti e concluse: «Parmi indispensabile di cambiare il Prefetto»26. L’11 settembre 1862 Vittorio Zoppi andò a sostituire il collega di Messina, concludendo l’esperienza salernitana durata quattordici mesi.

23 Erano Giuseppe Goria e Gennaro Nola. 24 Il funzionario di polizia era probabilmente Gennaro Passaretti. 25 LUZIO A., Aspromonte e Mentana, Firenze 1935, p. 193. 26 Ivi, pp. 269-70 e 275.

41 42 L’omicidio Escoffier fu un delitto politico? No, peggio!

da Amministrazione civile, giugno 2005

43 Ravenna, 19 marzo 1870. La mattina in città trascorse tranquilla sino a quando, intorno a mezzogiorno, Federico Fabbri capo di gabinetto della prefettura corse in strada a cercare un medico, ma l’opera del dottor Fusconi si rivelò inutile: il prefetto-generale Carlo Escoffier, raggiunto da colpi d’arma da fuoco al suo tavolo da lavoro, spirò all’età di 44 anni tra le braccia dei soccorritori. La drammatica notizia percorse in un lampo Ravenna. La moglie del prefetto la ricevette in chiesa mentre assisteva alla messa nella ricorrenza di San Giuseppe. Si temette che la povera donna uscisse di senno per il dolore. I solenni funerali del prefetto si svolsero a spese del governo, con grande concorso di cittadini. Era stato un delitto politico? No, ma quanto avvenuto forse era ancora peggio: Escoffier era stato ucciso dall’ispettore Cattaneo, il più alto funzionario di polizia in servizio in città. Innanzitutto, è necessario precisare che i questori, “preferibilmente” laureati in legge, all’epoca erano presenti soltanto nei capoluoghi di provincia con almeno 60.000 abitanti. Nella scala gerarchica dopo i questori (in numero di 10) c’erano gli ispettori (86), i delegati (884), gli applicati (720). Gli uffici di pubblica sicurezza, in base alla legge di unificazione amministrativa del 20 marzo 1865, non avevano autonomia organizzativa ma erano incardinati nelle prefetture e sottoprefetture. Dunque, a Ravenna l’ispettore Cattaneo dirigeva l’ufficio provinciale di pubblica sicurezza alle dirette dipendenze del prefetto. Nei primi anni dopo l’Unità solo una minoranza dei funzionari di polizia aveva alle spalle una specifica esperienza professionale e le nuove leve, frettolosamente assunte dopo l’epurazione compiuta nei ranghi delle vecchie polizie, lasciavano spesso a desiderare, poiché nelle assunzioni si volle privilegiare chi aveva acquisito meriti patriottici nel periodo risorgimentale. Un esempio significativo è quello di Temistocle Solera che, prima di fare il poliziotto, era stato impresario teatrale, romanziere, musicista e librettista di Giuseppe Verdi (a lui si devono i versi del “Nabucco”). La carriera in polizia fu a lungo mal considerata e mal pagata. Per il politologo Gaetano Mosca «la causa principale di questa incapacità generale degli agenti di polizia sta principalmente nelle ripugnanza che hanno i buoni elementi ad entrare in questa carriera». La condizione di evidente difficoltà dell’istituzione ne fece uno dei rami più criticati dell’amministrazione statale durante il periodo liberale. Le critiche venivano dall’esterno ma era forte anche il disagio all’interno. Nel “Manuale del funzionario di sicurezza pubblica” si legge: «Vi si comunica un telegramma conciso ed imperativo col quale vi si comanda di raggiungere la nuova residenza, entro tanti giorni, e voi mai saprete il vero

44 motivo del vostro trasferimento». E proprio a causa di un trasferimento indesiderato l’ispettore Cattaneo aveva ucciso il prefetto Escoffier. Dal punto di vista dell’ordine e sicurezza pubblica la provincia di Ravenna era una delle più “calde” d’Italia, soprattutto per la forte presenza di repubblicani e garibaldini. La Romagna aveva dato grattacapi già alle autorità papaline, perché vi operavano gruppi di cospiratori o sette che non rifuggivano dall’uso della violenza. Sottolineò il prefetto Nasalli Rocca nelle sue memorie: «Fino a che vi fu un governo pontificio da combattere e l’unità italiana da raggiungere, tutto l’operato più o meno encomiabile ed anche biasimevole delle uccisioni, delle vendette e violenze diverse, passò coperto dal gran tricolore», ma poiché le sette osteggiavano qualsiasi autorità costituita, esse non si sciolsero dopo la fine del potere pontificio ma continuarono a operare anche sotto il nuovo governo. Cosicché, scrisse ancora Nasalli Rocca, «essere destinato in Romagna significava per un funzionario dello Stato vivere in quotidiano rischio della vita». Il cav. Fossati, sottoprefetto di Imola, girava armato e andava dicendo che «per farlo andare all’altro mondo bisognava essere disposto ad andarvi insieme con lui». Anni prima, nel marzo 1864, il collega Murgia era stato ucciso proditoriamente mentre passeggiava con un magistrato. Per quell’omicidio furono arrestati una ventina di appartenenti alla setta imolese detta “Squadraccia”. A Ravenna dall’agosto 1863 al giugno 1865 fu prefetto l’alessandrino Giuseppe Cornero (per la sua biografia mi permetto di rinviare al mio libro Storie di prefetti del 1991). In una lettera di Cornero a , suo amico e all’epoca ministro dell’Interno, leggiamo: «Qui in tutti i paesi i mazziniani e i garibaldini cospirano e sono organizzati. La popolazione intera poi non farebbe una denuncia o una rivelazione per tutto l’oro del mondo. Qui non v’è altro che stare attenti, coll’armi al braccio, non tanto per prevenire (cosa difficilissima) ma per intimorire o per reprimere quando un moto scoppia. A ogni modo sta certo che io non mi sgomento né dormo e che faccio e farò quanto starà in me, e cogli elementi che ho, per secondare le vostre intenzioni». Non era casuale in quella missiva il riferimento alle risorse umane disponibili, tenuto conto che Cornero chiedeva di mandare carabinieri e di allontanare un funzionario di prefettura che dava scandalo vivendo more uxorio con la “serva”. Nel 1865 era stata costituita a Ravenna una Società di mutuo soccorso che degenerò nella famigerata “setta degli accoltellatori”, resasi colpevole in pochi anni di una lunga serie di delitti. Si attentò senza un chiaro movente alla vita di personaggi locali, che ebbero la buona sorte di sopravvivere all’aggressione, come il direttore di banca Monghini, il presidente della Camera di commercio Ghezzo, il medico Fusconi che ho

45 citato all’inizio. La setta voleva diffondere il terrore e, disse qualcuno, «eliminare gli affamatori del popolo». La scia di sangue si allungò con l’omicidio di presunti delatori e traditori della organizzazione criminale. Riuscì l’attentato al Procuratore del re Cesare Cappa, di famiglia canavesana, che stava indagando su quei misfatti (alla fine se ne contarono oltre cento con una decina di morti). Quando il magistrato fu assassinato (1° giugno 1868) era prefetto di Ravenna Benedetto Maramotti, che non solo ricevette lui stesso minacce di morte ma dovette subire le critiche dell’opinione pubblica e della stampa e vide sconfessato il suo operato col rilascio dei sospettati che aveva fatto arrestare. Il clima omertoso che si viveva a Ravenna fece dire a , illustre politico e prefetto: «Non si denunzia, sarebbe un eroismo, è impossibile. Corre maggior pericolo di vita chi depone che non il reo». In un acceso dibattito alla Camera qualche deputato invocò leggi eccezionali, Crispi invece affermò che invocare leggi speciali era confessione di incapacità, perché bastavano le leggi vigenti e funzionari intelligenti. Quando si leggono le cronache parlamentari si corre sempre il rischio di confondere passato e presente. La situazione dell’ordine e sicurezza pubblica a Ravenna indusse il governo del generale Menabrea a sacrificare il prefetto (come avveniva spesso in casi simili) e Maramotti fu trasferito a Perugia, dove trovò invece un clima tanto favorevole da rimanervi per 21 anni ininterrottamente. A quel punto da Firenze, allora capitale, si volle dare un segnale forte e nel settembre 1868 la provincia di Ravenna fu affidata nelle mani del generale Carlo Escoffier che vi andò per esercitarvi poteri civili e militari. L’alto ufficiale aveva alle spalle una brillante carriera. Era nato nel 1826 a Nizza Marittima quando la città faceva parte del regno di Sardegna, sottotenente nel 1846, partecipò a tutte le guerre d’indipendenza e alla spedizione in Crimea. Meritò la croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia e la medaglia d’argento al valor militare. Colonnello nel 1861, direttore della Scuola d’applicazione di Stato Maggiore, a soli 40 anni maggiore generale, incaricato del comando della brigata Forlì. Già altre volte un militare aveva occupato un posto di prefetto ed era recente l’esempio del generale La Marmora a Napoli. Certamente, la scelta rimaneva anomala e Raimondo Maccia polemizzando sui generali-prefetti affermò con forza che così «venne recata villania all’intero corpo dell’amministrazione provinciale, equivalendo ciò al proclamare che niun prefetto dell’ordine civile vi abbia capace di amministrare perbene una frazione di paese, teatro di fatti deplorabilissimi. Da banda i generali-prefetti. Soldati e generali al loro posto. E gli uomini politici, gli avvocati e i magistrati al loro».

46 Ho detto che il movente del delitto commesso dall’ispettore Cattaneo era un trasferimento non desiderato. Certamente esso aveva carattere punitivo ma per che cosa? Inadeguatezza ai compiti affidati, scarso spirito collaborativo, relazioni private poco commendevoli? Qualcuno affermò che il prefetto-generale s’era mostrato eccessivamente severo verso i dipendenti tanto da provocare risentimenti e odi. Si vociferò persino che la notte dopo l’omicidio in casa di un delegato di polizia si ballò per festeggiare l’avvenimento! Nessuno era stato testimone diretto del delitto. Cattaneo riferì che quando il prefetto gli comunicò l’ordine ministeriale di trasferimento egli rispose che non sarebbe partito. Il generale replicò che l’avrebbe allontanato con la forza e allora l’ispettore diede del “buffone” al prefetto. Escoffier indignato mostrò di volerlo schiaffeggiare e Cattaneo a quel punto estrasse la pistola e sparò. Esatta o meno questa versione dei fatti, l’assassino, consapevole della enormità della propria colpa, uscito dal palazzo della prefettura si recò direttamente al carcere per costituirsi. Al processo fu difeso dall’avv. Tommaso Villa, destinato a un’importante carriera anche politica. La condanna fu a venti anni di carcere e Cattaneo morì in prigione. In questa triste storia forse è il particolare che segna la differenza tra ieri e oggi. Il governo presieduto da Lanza, che era anche ministro dell’Interno, decise di mandare al posto di Escoffier un altro generale, Carlo Felice Nicolis di Robilant, per dimostrare evidentemente la sua risolutezza. Anche il nuovo prescelto era certamente un uomo di qualità, tanto da diventare in seguito ambasciatore a Vienna e ministro degli Esteri. Poi, dopo qualche mese, si tornò alla normalità con la nomina di Andrea Calenda di Tavani, originario di Nocera Inferiore, prefetto di carriera entrato in amministrazione sotto il governo borbonico. È curioso che Lanza abbia scelto proprio Calenda di Tavani. In un libro di ricordi quest’ultimo narrò un episodio avvenuto anni prima a Torino: il funzionario, già prefetto, aveva scambiato un bacio - a suo dire innocente - con una “totina” venditrice di giornali all’ingresso del ministero. «Alzando lo sguardo vidi Lanza a capo della scala che si accingeva a discendere. La giovinetta si divincolò e fuggì, io restai lì intontito, come un seminarista colto dal vescovo sul colpo, a guardare il ministro che serio, impettito come se niente avesse visto, scendeva le scale. Passandomi di lato chinò profondamente il capo al mio saluto, e vidi errare sulle labbra un sogghigno che vorrei qui dire indefinibile, ma in verità era proprio canzonatorio “Come, sotto gli occhi del ministro?”. Io a capo basso ascesi le scale mormorando: Oh, bel concetto si formerà egli dei napoletani e di me già governatore di provincia!»

47 Il funzionario che prese il posto di Cattaneo fu ucciso dalla setta, ma finalmente nel 1871 le indagini condotte dal nuovo dirigente della polizia Serafini portarono a sgominare la banda criminale degli accoltellatori, con molti arresti e undici condanne al carcere a vita.

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48 Rodolfo D’Afflitto

da Notiziario Anfaci, anno III n. 3, novembre 1991

49 Quando Rodolfo D’Afflitto morì, un contemporaneo disse che si era «logorato in misere lotte municipali». Questo è sicuramente vero ma è solo una parte della verità. Era nato nel 1809 ad Ariano di Puglia, oggi Ariano Irpino, da Pantaleone dei marchesi di Montefalcone e da Luisa D’Evoli dei duchi di Castropignano. A venticinque anni, completati gli studi giuridici, entrò nella Consulta di Stato come relatore. Fu poi Sottointendente a Cefalù e Bovino. Quando, dopo il 1848, si scatenò la reazione borbonica contro i liberali, anche D’Afflitto che pure non era un rivoluzionario ne patì le conseguenze, ebbe troncata la carriera e dovette risiedere a Foggia in una sorta di soggiorno obbligato. Tornato a Napoli, cominciò a frequentare il Comitato dell’Ordine nel quale l’alta borghesia e il patriziato liberale sostenevano le posizioni di Cavour, temendo l’estremismo mazziniano e garibaldino. Nell’ottobre 1859, in un sussulto della repressione borbonica, D’Afflitto fu arrestato ma presto rilasciato. Costituitosi a Napoli il governo costituzionale di Antonio Spinelli, fu nominato Consultore di Stato e chiamato nella commissione che doveva elaborare la nuova legge elettorale. Nell’epilogo del regno di Francesco II avvennero fatti incredibili. Il prefetto di polizia Liborio Romano smantellò il vecchio apparato e affidò ai capi della camorra il compito di mantenere l’ordine. Quasi alla luce del sole emissari piemontesi sbarcavano armi e munizioni in quello che, almeno sulla carta, era ancora uno stato indipendente e sovrano. In una caserma, ufficiali discussero con D’Afflitto e altri su un eventuale pronunciamento militare. Tutti temevano tutti. Ha scritto Raffaele De Cesare: «I reazionari temevano i liberali; i liberali i reazionari; gli unitari cavouriani temevano i garibaldini e i mazziniani; questi, come quelli; i militari temevano i borghesi, e questi i militari; e il governo temeva tutti, senza essere temuto da alcuno». Quando Garibaldi arrivò a Napoli, in treno e senza scorta, nominò un ministero nel quale D’Afflitto fu incaricato dei Lavori pubblici. Poi, col Luogotenente Farini passò agli Interni, mentre Napoli viveva il traumatico passaggio da capitale a capoluogo di provincia. D’Afflitto fu tra gli esponenti politici meridionali più legati e fedeli alla politica di Cavour. Nel gennaio 1861 fu eletto deputato di Bovino ma rinunziò in quanto nominato senatore per la 21ª categoria, quella di chi pagava da almeno tre anni più di 3.000 lire di imposte dirette. Da poco più di un centinaio, quanti erano nel 1848, i senatori erano aumentati a 270. Si erano anche laicizzati poiché i vescovi-senatori, in segno di protesta per l’attacco portato allo Stato pontificio, non partecipavano più ai lavori. Erano entrati nel consesso i lombardi tra cui Alessandro Manzoni, gli emiliani, i toscani, i marchigiani, gli umbri, i meridionali. Presidente era stato eletto il siciliano . Negli anni successivi D’Afflitto fu più volte vicepresidente del Senato.

50 Nell’aprile 1861 il governo lo nominò prefetto di Napoli ma già alla fine di luglio egli si dimise, a causa di contrasti col generale Cialdini, Luogotenente del re. In quei mesi avvennero i primi scioperi e manifestazioni di matrice operaia. Spesso le invettive contro le autorità e la forza pubblica si mescolavano alle invocazioni a Garibaldi. Il 7 luglio 1861 la polizia arrestò ottanta scioperanti e li spedì a Ponza tacciandoli di camorristi, ma dopo qualche settimana essi furono rilasciati per intervento della magistratura. Nel novembre 1861 D’Afflitto andò prefetto a Genova (intanto aveva sposato una vedova, Giulia Pandola). Nel capoluogo ligure rimase poco più di un anno sino al gennaio 1863. Visse da vicino la crisi di Aspromonte poiché Genova era punto di ritrovo per i volontari garibaldini. Il 9 agosto 1862 egli preannunziò telegraficamente al ministro Rattazzi una manifestazione pro-Garibaldi e da Torino ricevette queste istruzioni: «In questi momenti non si può tollerare alcuna dimostrazione: la impedisca valendosi della legge anche prima che si renda minacciosa». La truppa disperse la folla in piazza Carlo Felice, dopo le rituali intimazioni. Qualche giorno dopo fu disposto lo scioglimento delle associazioni “Emancipatrice”, “Unitaria” e “Consociazione Operai”. Il prefetto ordinò anche attenta sorveglianza nella zona di Sestri Ponente dove era stato segnalato Mazzini. Negli ultimi giorni di agosto, quando la crisi raggiunse il suo acme, Rattazzi impartì ordini perentori a D’Afflitto: «Mi vo tosto a concertare col Ministro della Guerra per l’immediato invio di maggior forza. Non esiti ad ordinare l’arresto di tutti i provocatori, non esclusi i deputati.» Lasciata Genova, dal gennaio 1863 all’ottobre 1864 D’Afflitto fu per la seconda volta prefetto di Napoli. Le provincie meridionali uscivano dallo stato d’assedio, durato da agosto a novembre 1862. In quei mesi le autorità civili erano state di fatto esautorate e il generale La Marmora aveva concentrato in sé un potere enorme, essendo insieme comandante militare e prefetto di Napoli. Con non poca fatica il ministro Peruzzi e Spaventa Segretario generale del ministero dell’Interno riuscirono, con la nomina di D’Afflitto, a ottenere la separazione dei poteri civili da quelli militari. Si comprendono le ragioni del contrasto considerando anche la forte personalità e l’origine regionale dei protagonisti. Spaventa aveva allontanato dal ministero, col consenso del toscano Peruzzi, molti funzionari piemontesi che definiva “camorra subalpina”, sostituendoli con elementi meridionali o di altre regioni. La Marmora privatamente scriveva: «È incredibile il lavoro che fa la truppa e quel canaglia di Spaventa cerca ogni mezzo per rubarci il merito e denigrare me». D’Afflitto scrivendo a Spaventa si vantava che la “camorra militare” era isolata. Ha scritto lo storico Molfese «I prefetti delle provincie meridionali, con il D’Afflitto alla testa, rivendicavano maggiori se non addirittura esclusive responsabilità

51 nella persecuzione del “piccolo brigantaggio” nella quale, effettivamente, prevaleva l’azione poliziesca e amministrativa. La Marmora, per parte sua, non tollerava ingerenze.» Si può immaginare cosa poté accadere a Napoli e nel Mezzogiorno perché i poteri, praticamente illimitati, concessi nella lotta al brigantaggio furono talvolta usati contro avversari politici e personali. Tutti arrestavano tutti. In quel gioco al massacro finirono in carcere, tra gli altri, 34 sindaci, 61 magistrati e 80 ufficiali della guardia nazionale. Anche chi veniva prosciolto nei processi rimaneva a disposizione dell’autorità politica e poteva subire provvedimenti amministrativi. Presto furono migliaia le persone al domicilio coatto nelle isole per decisione di commissioni provinciali presiedute dai prefetti. A Napoli furono colpiti anche giornalisti «perché colla stampa tenevano agitato il paese e quindi indirettamente cooperavano al brigantaggio». Il governo considerò la possibilità di deportare gli indesiderabili in Oceania e fu approntata una nave destinata a portarsi nei mari dell’Australia per studiarvi l’impianto di una colonia penale. D’Afflitto per suo conto s’interessò del progetto per rapire l’ex-re Francesco II e infiltrare nello Stato pontificio bande di filo-italiani da contrapporre a quelle filo- borboniche (una sorta di controguerriglia). E non stupisca ciò, tenuto conto che agenti pagati dal governo italiano avevano gettato bombe nei ritrovi degli esuli napoletani a Roma. D’Afflitto oltre che di briganti, borbonici, murattiani, mazziniani, aveva da combattere anche i garibaldini. Scrisse nel dicembre 1863 al ministro Peruzzi, a proposito dell’ennesima candidatura elettorale di Garibaldi, vera ossessione per i prefetti del tempo: «Intendo al pari di lei che quanto più invincibile è la difficoltà di escludere Garibaldi dalla rielezione, altrettanto più splendido sarebbe il riuscirvi. Io non confido ma neppure dispero e credo superfluo di assicurarla che non perdonerò a cuore e a fatiche per raggiungere l’intento. Le liste elettorali politiche del collegio di Garibaldi non sono state per anco esaminate. Sono pienamente d’accordo per rettificare quelle liste come conviene. Per la elezione manovrerò come meglio potrò.» In un’altra occasione affermò: «Il nostro partito non ha un’organizzazione propria, come tutti i partiti governativi i quali riconoscono che la loro organizzazione risiede nel governo stesso.» Nel settore degli scioperi, il biennio 1863-64 fu agitato per i lavoratori del telegrafo, del lotto, delle ferrovie, persino delle carrozze di piazza. Nell’agosto 1863 i bersaglieri repressero nel sangue una protesta operaia a Pietrarsa, con nove morti e decine di feriti. In settembre, lo sciopero dei lavoratori addetti alla costruzione del gasometro si risolse pacificamente per l’intelligente opera di mediazione svolta da un delegato di pubblica sicurezza. In ottobre, l’autorità di polizia reagì alla protesta dei raffinatori di pelli sciogliendo la società operaia ed arrestando una ventina di aderenti.

52 L’indispensabile epurazione nelle file inquinate della pubblica sicurezza fu condotta dal questore Nicola Amore, poi deputato, direttore della pubblica sicurezza, sindaco di Napoli, senatore oltre che famoso avvocato. Più di 400 tra funzionari e agenti, sospettati di collusione con la camorra o camorristi essi stessi, furono mandati al domicilio coatto a Fenestrelle. Quando nel settembre 1864 il generale La Marmora divenne Presidente del Consiglio, arrivò la sua vendetta con la rimozione di D’Afflitto dalla Prefettura di Napoli. In seguito saltò anche la nomina per la sede di Torino. Entrato nel Consiglio Comunale partenopeo, D’Afflitto fu eletto assessore ma non riuscì a ottenere dal governo la nomina a sindaco. Da luglio a dicembre 1866 fu Commissario del re a Treviso, una delle provincie annesse a seguito della 3ª guerra d’indipendenza. Nell’ottobre 1869 D’Afflitto per la terza volta, caso più unico che raro, fu destinato alla prefettura di Napoli. Vi rimase sino alla morte in un crescendo di contrasti e lotte che minarono irrimediabilmente la sua salute. All’epoca il controllo sulle deliberazioni comunali competeva alla Deputazione Provinciale, che era un organo elettivo ma presieduto dal prefetto. D’Afflitto spesso si trovò messo in minoranza dai suoi irriducibili avversari soprattutto “nicoterini”, quelli cioè che facevano capo a Giovanni Nicotera. Il suffragio amministrativo era più esteso di quello politico poiché era più basso il censo richiesto e se a ciò si aggiunge l’alto numero dei consiglieri comunali assegnati, si comprende bene quanto fosse complicato anche per D’Afflitto influire con efficacia sulla formazione del consenso e delle maggioranze. Più in generale, una delle ragioni dell’insoddisfacente funzionamento delle amministrazioni locali era nel difetto della legge che, come scrisse Cesare Bardesono di Rigras all’epoca prefetto di Bologna, «dà la stessa organizzazione e attribuisce gli stessi pesi alle grandi città come Napoli e Torino e agl’infimi villaggi delle Alpi e dell’Appennino». Da ciò la spinta a studiare leggi speciali meglio confacenti alle realtà particolari e proprio Napoli può essere portata ad esempio di questo assunto. Giovanni Lanza, Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, sapeva bene quanto fosse arduo il compito affidato al prefetto di Napoli e lo incoraggiò con queste parole: «Napoli e la sua provincia ha più di ogni altra parte del regno bisogno di tutte le cure del Governo per ricostituire e rafforzare il partito nazionale monarchico costituzionale attirando al suo grembo tutti gli uomini francamente liberali ed amici dell’ordine, onde potere con successo combattere i partiti estremi ed extra legali. Mi rimetto interamente nella sua accortezza e prudenza». Già qualche mese dopo D’Afflitto, lamentando che il governo non gli dimostrava “intera fiducia ed appoggio ampio e sincero” chiese di poter

53 lasciare l’incarico. Non fu accontentato né allora né dopo, forse perché mancavano alternative. Molti erano i motivi di turbamento della realtà napoletana. Con grande scandalo il conte Giuseppe Ricciardi organizzò nel 1869 un anticoncilio durante lo svolgimento di quello vaticano. «Presero parte frammassoni, miscredenti, repubblicani, emigrati romani e teste sconclusionate in politica e in religione. L’Anticoncilio, presieduto dallo stesso conte, finì alla seconda seduta, essendo stato proibito dall’autorità politica, la quale notò come dal campo filosofico si era subito scivolati in quello delle questioni socialistiche e politiche e si erano fatti voti per la distruzione del presente ordine di cose». Questo il racconto di Raffaele De Cesare. Nella penisola sorrentina e nella zona vesuviana persistevano strascichi di brigantaggio. A Boscotrecase nel giugno 1870 fu assassinato un vicebrigadiere dei Carabinieri. Più tardi il famigerato capobanda Pilone, al secolo Antonio Cozzolino, fu ucciso da una guardia di pubblica sicurezza nei pressi dell’orto botanico di Napoli e le giocate al lotto portarono tre milioni di vincite. Nei confronti del movimento internazionalista D’Afflitto non usò mezze misure, ricorrendo anche ad infiltrati e agenti provocatori. Alla fine la sezione napoletana fu sciolta. Quanto ai repubblicani, vennero duramente represse le manifestazioni studentesche del maggio 1870, ma in agosto fu mancato il gran colpo dell’arresto del latitante Mazzini. Questi, diretto a Palermo, s’era imbarcato a Napoli sotto falso nome e con passaporto inglese. I funzionari di pubblica sicurezza incaricati «non avendolo ben riconosciuto esitarono e lo lasciarono partire». Rimase il sospetto che a Napoli avessero volutamente mancato di bloccare Mazzini, che poi fu arrestato senza difficoltà a Palermo e da lì tradotto nella fortezza di Gaeta. Nei primi cinque mesi del 1870 gli arrestati per reati comuni furono, nell’intera provincia, oltre duemila; da ciò l’accusa che nel mucchio finissero anche oppositori politici. Scrissero a Lanza che «a Napoli il prefetto ed il questore arrestano con deplorabile leggerezza, per non dir peggio, le persone che credono ostili al partito governativo». Il questore era Vincenzo Colmayer, proveniente dalla magistratura, il quale fu anche inquisito ma assolto per presunti abusi commessi a danno di giornalisti. Passò questore a Livorno, sottoprefetto a Pallanza, Viterbo e Sciacca, prefetto a Belluno, Lecce, Catanzaro, Catania, Venezia, Palermo, Bari, Roma. Rimanevano insoddisfacenti le condizioni delle forze di polizia. Rilevò anni dopo il sottoprefetto Pacini, reggente la questura: «Taluni uffici mandano risposte vaghe, indeterminate, nonché inconcludenti, quando non sono addirittura in contraddizione con

54 le risultanze degli atti. I verbali ed anche i rapporti speciali di alcuni uffizi sembrano trascritti da un modulo. Nessuna impronta viva, nessuna immagine parlante vi si riscontra che tragga al vero la fisionomia speciale che ogni fatto ha per se stesso, a causa della diversità infinità delle circostanze che l’accompagnano. E poi si lamenta che l’autorità giudiziaria non seconda! E poi si dice che non vuole ammonire!». Tornando ai problemi più strettamente politici, nell’imminenza delle elezioni comunali (Sindaco uscente era Guglielmo Capitelli) la stampa di opposizione accusò il marchese D’Afflitto di non aver pagato una certa tassa di successione e, a sua volta, il prefetto cercò di favorire l’acquisto da parte di persone amiche del giornale “La Patria”, poi di fare incriminare i responsabili dell’ostile “Roma”. L’opposizione vinse non solo le elezioni amministrative ma anche quelle politiche del novembre 1870: su 11 collegi napoletani unico candidato governativo eletto fu Ferdinando Pandola, cognato di D’Afflitto. Quest’ultimo, rispondendo alle accuse di indebite interferenze e pressioni, scrisse che «nelle elezioni non ho cercato di aiutare la parte governativa che negli stretti limiti compatiti dalla legge e dal mio carattere di gentiluomo». A suo dire, il Consiglio Provinciale era «opificio di reclami ed inchieste. Par proprio che la mia persona più che ogni altra stimoli i nervi ai signori della Sinistra e debbo confessare che ciò mi lusinga che io compia abbastanza bene il mio dovere di contrastare loro il terreno il più che si possa». Nel febbraio 1871 il prefetto chiese a Lanza lo scioglimento del Consiglio Comunale di Napoli ma ebbe come risposta: «Mi riserbo prendere risoluzioni. Gravità provvedimenti consigliano maggiori precauzioni». Si oppose, inutilmente, alla concessione di un importante prestito del Banco di Napoli al Comune e, non sentendosi sufficientemente sostenuto dal governo, ripresentò le dimissioni. Tra l’altro, continuava a lamentare l’inadeguatezza del fondo di rappresentanza: «Devo rifondere parecchie migliaia di lire dalla mia particolare saccoccia». Il reiterare le dimissioni era un espediente per vedersi confermata la fiducia? Non sappiamo. Certo è che Lanza gli chiedeva sempre di rimanere. D’Afflitto aveva pochi amici anche nel partito governativo. La Marmora (Luogotenente del re a Roma dopo l’annessione del 1870) quando Lanza propose il marchese come prefetto della capitale bocciò subito la candidatura: «Io credo che non faccia bene a Napoli, prove ne sono le elezioni riuscite pessime perché lui se ne volle mischiare; qui credo che farebbe peggio». Paolo Onorato Vigliani ministro di Grazia e Giustizia definì D’Afflitto «soggetto di carattere molto spregevole per la sua insigne falsità». Un esponente del partito liberale scrisse a Lanza: «È necessario che il marchese D’Afflitto lasci subito la Prefettura di Napoli, altrimenti qui andranno a succedere guai». Anche le

55 elezioni comunali parziali del luglio 1871 furono vinte dalla Sinistra che conquistò tutti i 26 seggi in palio. L’ultima occasione di contrasto politico fu davvero curiosa. La sera del 22 maggio 1872 al teatro San Carlo il sindaco Nolli ordinò la sospensione di uno spettacolo in seguito alle proteste del pubblico. L’impresario s’oppose e nel battibecco insultò il sindaco. Questi ordinò di arrestarlo agli agenti di pubblica sicurezza presenti i quali, consultatisi col questore, si rifiutarono. Il giorno dopo il Consiglio Comunale deplorò la “condotta inqualificabile dell’autorità di P.S.”. Nolli chiese al prefetto, inutilmente, di adottare provvedimenti. Il ministro Lanza riconobbe in torto sia l’autorità di polizia che il sindaco e dette a D’Afflitto parere favorevole all’annullamento della deliberazione del Consiglio. Il sindaco si dimise per protesta e, alla fine della storia, il Consiglio Comunale di Napoli fu sciolto. Proprio quando D’Afflitto aveva raggiunto lo scopo che da tempo si prefiggeva venne la fine. Già il 30 maggio era sofferente tanto da non potere scrivere. Rinnovò la richiesta di lasciare quella “diabolica prefettura”, amareggiato anche per l’accusa di avere tentato un accordo elettorale con i clericali. Il 14 luglio Lanza gli comunicò che acconsentiva a sostituirlo ma gli chiese di rimanere al suo posto ancora qualche giorno. Il 26 luglio 1872 il marchese Rodolfo D’Afflitto morì di un colpo apoplettico a 63 anni. La sera prima era giunto in prefettura il decreto reale di accettazione delle dimissioni.

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56 Dizionario del Risorgimento nazionale, vol. 2°, Milano 1930 Enciclopedia biografia e bibliografica italiana. Ministri deputati e senatori dal 1848 al 1922, vol. 1°, Milano 1940 MISSORI M., Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del regno d’Italia, Roma 1989 PERLA L., Contributo alla storia del Senato del Regno, in “Rassegna storica del Risorgimento”, 1962 n. 3 Raccolta di scritti pubblicati in memoria di Rodolfo D’Afflitto, Napoli 1872 RAGIONIERI E., Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Roma 1979 ROMANO P. (Paolo Alatri), Silvio Spaventa, Bari 1942 SARTI T., Il Parlamento subalpino e nazionale, Terni 1890 SCIROCCO A., Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, Milano 1963 SEPE S., Amministrazione e storia, Rimini 1995

57 58 Rapporti istituzionali tra prefetti e sottoprefetti nell’Italia liberale

da Rassegna storica del Risorgimento, ottobre/dicembre 2002

59 La legge Rattazzi del 23 ottobre 1859, n. 3702 aveva diviso il regno di Sardegna in Provincie, Circondari, Mandamenti e Comuni, abbandonando la vecchia ripartizione in Divisioni amministrative. La legge di unificazione del 20 marzo 1865, n. 2248 - allegato A, proposta dal Ministro dell’interno Lanza, delineò in maniera nuova lo status dei Circondari che furono ridotti a semplici circoscrizioni amministrative senza personalità giuridica, dunque entità di mero decentramento burocratico. L’art. 7 dell’allegato A stabiliva: In ogni Circondario vi è un Sottoprefetto che compie, sotto la direzione del Prefetto, le incombenze che gli sono commesse dalle leggi, eseguisce gli ordini del Prefetto, e provvede nei casi di urgenza riferendone immediatamente al medesimo. I sottoprefetti, nominati con decreto reale tra i funzionari dell’Amministrazione provinciale del Ministero dell’interno, appartenevano al ruolo dei Consiglieri di prefettura. Nel Circondario il cui capoluogo era al tempo stesso capoluogo della Provincia non vi era sottoprefetto, stante la presenza nella sede del prefetto. Lo stesso dicasi per le Provincie non suddivise in Circondari. In Veneto ed a Mantova, dopo il 1866, rimasero a lungo in funzione i Distretti, con a capo un Commissario distrettuale. Le attribuzioni del sottoprefetto consistevano essenzialmente in compiti di istruttoria ed esecuzione ma non mancavano competenze proprie, quali la presidenza delle operazioni di leva,1 la vigilanza sull’andamento dei Comuni e dei corpi morali, la responsabilità delle carceri2, la tutela dell’igiene e della sanità pubblica,3 altre minori in materia di occupazioni d’urgenza ed aste pubbliche. Il prefetto poteva delegare al sottoprefetto altri compiti, quando non era necessario l’intervento di un organo collegiale deliberativo o consultivo, poiché presso le sottoprefetture non ve ne erano. I sostenitori dell’aureo principio Si governa da lontano, ma si amministra da vicino sottolineavano l’utilità di decentrare (o, come si usava dire allora, “discentrare”) l’attività amministrativa, avvicinando così maggiormente il potere di governo alla periferia. La migliore conoscenza di uomini e cose, la maggiore facilità di acquisire informazioni sul

1 Significativa la testimonianza di Amedeo Nasalli Rocca sull’esperienza vissuta a Dorgali in Sardegna (da Memorie di un prefetto, a cura di Carlo Trionfi, Roma 1946, citato in “Instrumenta”, gennaio/aprile 1999, pp. 366-377). 2 Con R.D. 31 dicembre 1922, n. 1718 l’amministrazione delle carceri fu trasferita al ministero di Grazia e Giustizia che a sua volta, nel 1932, passò all’Interno gli affari di culto. 3 Solo nel 1945 fu istituito un Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità pubblica alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

60 posto agevolava l’azione dell’esecutivo, limitava gli errori, consentiva una più precisa valutazione degli interessi e dei bisogni delle comunità locali. La funzione di organo di collegamento era, però, considerata insufficiente da molti osservatori. Inoltre, secondo i detrattori, le sottoprefetture gravavano troppo sulle finanze dello Stato e, nel compiere le funzioni istruttorie finivano per ritardare il disbrigo degli affari, costringevano insomma le pratiche ad una fermata in più. Era persino dannoso, sostenevano, conservare uffici che potevano essere in disarmonia con l’organo sovraordinato, causando intralci e confusione. Discorso a parte si faceva per i servizi di polizia. Secondo le parole di Gaetano Mosca: «Il prefetto risponde anche dell’ordine pubblico, ha quindi sotto i suoi poteri la polizia».4 Nei capoluoghi di provincia operava - presso la prefettura - un Ufficio provinciale di pubblica sicurezza, nei capoluoghi di circondario - presso la sottoprefettura - un Ufficio circondariale. Antonio Salandra nelle sue Lezioni di diritto amministrativo affermava che i sottoprefetti erano «più che altro organi di pubblica sicurezza: non potendo informarsi delle varie condizioni di una provincia con vasto territorio, si è cercato di rimediare istituendo questo ufficio; però la necessità che la Prefettura sia coadiuvata nelle funzioni di pubblica sicurezza da un altro organo non giustifica l’esistenza della Sottoprefettura: basterebbe tenere a capo di ogni circondario un funzionario di pubblica sicurezza, magari di alto grado».5 I compiti assegnati dalla legge a prefetti e sottoprefetti in materia di pubblica sicurezza generavano discussioni e critiche. «Nessuno negherà al prefetto l’alta cultura giuridica, il senno politico e la funzione direttiva ed ispettiva; ma via, che possa e debba anche essere competente nella peculiarità degli appiattamenti, per esempio, e in tutte quelle operazioni che della polizia formano il lato pratico e tecnico, è permesso dubitarne – a meno che non provenga dal mestiere – ed infatti i migliori prefetti furono appunto quelli che fecero anche carriera di pubblica sicurezza. Quello che abbiamo detto dei prefetti va, e con maggiore fondamento attribuito ai sottoprefetti, i più dei quali, già segretari, appena promossi consiglieri, si trovano investiti della direzione della polizia in un circondario e, in piena buona fede, credono di poterla sapere più lunga di un delegato che ha fatto il mestiere per parecchi lustri»6.

4 MOSCA G., Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, Studi storici e sociali, Torino 1884 (ristampato in Scritti politici, Torino 1982, p. 410). 5 SALANDRA A., Lezioni di diritto amministrativo, Roma 1910, p. 529. 6 ALONGI G., L’organizzazione della polizia in Italia, in “Nuova Antologia”, 16 maggio 1897, p. 262.

61 L’importanza dei sottoprefetti veniva esaltata al tempo delle elezioni. Sono note le testimonianze di Luigi Zini7 e Gaetano Salvemini8, meno quella di Salvatore Barzilai che alla Camera accusò il sottoprefetto Marchesiello di Frosinone di avere offerto al magistrato Gui 20.000 lire affinché ritirasse la sua candidatura per favorire l’elezione di Pinelli, Capo gabinetto di Crispi.9 Ma accadeva di tutto: «Si è visto nei piccoli paesi far dipendere la scelta del sindaco e la repressione di abusi nell’amministrazione comunale da manovre elettorali; si è visto, ancor peggio, mercanteggiare per simili motivi sulle punizioni colle quali la legge punisce i facinorosi, e farsi, alle volte, sostegno di ribaldi quell’autorità che non dovrebbe esistere che per il loro spavento e per la punizione dei loro misfatti».10 Francesco De Sanctis nel gennaio 1864 scrisse che «I sottoprefetti sono come le unghie del corpo amministrativo, l’ultima e più trascurata parte: et de minimis non curat praetor».11 Invece, Depretis sostenne (1882) che «finché non sia mutato tutto il sistema delle circoscrizioni del regno, il sottoprefetto sarà un organo efficace dell’amministrazione provinciale». Per Crispi (1888) «fino a che i Comuni non avranno capito quello che sia autonomia ed indipendenza propria e non abbiano l’istinto di questa indipendenza, è impossibile che si sopprimano codeste autorità locali». La pubblicistica coeva è ricca di interventi sul tema.12 Prevalevano le opinioni negative sulle sottoprefetture: “ruota per lo meno superflua”, “passacarte”, “inutile organismo”, “prevaricatore negli affari dei Comuni”. E come non pensare, a sostegno dell’abolizione, «all’economia notevole di spesa che conseguirebbero lo Stato e le Provincie? ».

7 ZINI L., Dei criteri e dei modi di governo nel Regno d’Italia, Bologna 1876 e Dei criteri e dei modi di governo della Sinistra nel Regno d’Italia, Bologna 1880. 8 SALVEMINI G., Il ministro della malavita e altri scritti sull’Italia giolittiana, Milano 1962. 9 BARZILAI S., Vita parlamentare, (discorso del 26 novembre 1895), Roma 1912, pp. 214- 215. 10 MOSCA G., Teorica dei governi cit., p. 415. 11 L’articolo fu pubblicato sul giornale dell’Associazione Unitaria Costituzionale (v. MARENGHI E. M., Sottoprefetti e governo locale intermedio in uno scritto di Francesco De Sanctis, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1979, pp. 568-579). 12 La soppressione delle sottoprefetture. Riflessioni di un sottoprefetto, Biella, 1866; BALLADORE C., Prefetture e Sottoprefetture. Considerazioni di un ex Sottoprefetto, Belluno, 1889; L’Illustrazione Italiana, 28 maggio 1876, p. 486. Anche la stampa locale intervenne nel dibattito: v. l’articolo Le Sottoprefetture, pubblicato sul periodico alessandrino “Fra Tranquillo” del 20 novembre 1904.

62 La dottrina moderna non ha mancato, invece, di sottolineare che prefetti e sottoprefetti furono spesso tutori del pubblico interesse leso da gruppi di potere locali, difensori dei valori unitari contro le spinte municipalistiche, apportatori di idee liberali in comunità chiuse ed arretrate.13 L’odio-amore verso le sottoprefetture lo visse anche il governo fascista che dapprima, col R.D. 30 dicembre 1923, n. 2839, tese a potenziarne le attribuzioni poi, prevalendo decisamente la politica di accentramento autoritario, dispose l’abolizione di 94 circondari di minore importanza (R.D. 21 ottobre 1926, n. 1890) e, subito dopo, di tutte indistintamente le sottoprefetture (R.D.L. 2 gennaio 1927, n. 1).14 Dopo questa premessa, vengo a narrare, sulla base di documenti inediti, una vicenda accaduta nel 1881. Innanzitutto, qualche notizia sui protagonisti: il prefetto Veglio di Castelletto ed i sottoprefetti Ferrari e Puozzo. Il primo era nato a Cherasco nel 1829. Avviatosi ad una brillante carriera nell’Amministrazione dell’interno, nell’ottobre 1860 seguì al Sud il re Vittorio Emanuele ed il ministro Farini. Negli anni successivi fu stretto collaboratore di Peruzzi e Spaventa.15 A 34 anni16 fu nominato prefetto della provincia di Basilicata, all’epoca del grande brigantaggio e dopo la clamorosa vicenda della mancata costituzione del capobanda Crocco che costò il posto al prefetto Bruni Grimaldi.17 Rimase

13 CASSESE S., Il prefetto nella storia amministrativa, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1983 n. 4; AIMO P., Stato e autonomie locali: il ruolo dei prefetti, in “Passato e Presente”, 1987 n. 14-15. Per la bibliografia v. FREZZINI L. , Prefetto e Sottoprefetto, in “Digesto italiano”, vol. XIX, Torino 1909; più recenti GUSTAPANE E., Le fonti per la storiografia dei prefetti, “Annale ISAP”, n. 1/1993; “Confronti”, luglio-ottobre 1995 n. 4-5, pp. 34-38; Il Ministero dell’Interno e i Prefetti, Quaderni della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma 1998; LUCCHETTI P. A., Tra politica e amministrazione: l’istituto prefettizio in Italia dall’Unità all’attuazione dell’ordinamento regionale, in “Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza”, 1° giugno 1999 n. 11. 14 Cfr. PONTA P. G., Circondario e Sottoprefettura: storia, funzioni e prospettive, Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, a. a. 1989-90. 15 Cfr. DE CESARE R., La fine di un Regno, II, ed. Roma 1975, p. 374; ROMANO P., Silvio Spaventa, Bari, 1942, p. 112. 16 Altri personaggi divennero prefetti in età ancor più giovane di Veglio: Rudinì a 27 anni, Cesare Bardesono a 28, Andrea Calenda di Tavani a 30. Nel Novecento fu la volta di Marcello Vaccari a 29 anni, Agostino Podestà a 31, Giovanni Battista Marziali a 32. 17 D’URSO D., 1863: la lotta al brigantaggio in Basilicata, in “Nuova Antologia” aprile- giugno 2000, n. 2214, pp. 258-268. Comandante delle truppe incaricate della repressione era il generale Paolo Franzini Tibaldeo, che aveva sposato Luisa Veglio cugina del prefetto.

63 a Potenza quattro anni, dimostrando attivismo in molti campi, anche se non mancarono le critiche: «Manda ordini sopra ordini ai sindaci che trovandoli il più delle volte inattuabili non ne fanno caso e così i cittadini si abituano a non dare retta al governo».18 Ebbe il merito di ottenere da Torino lo stanziamento di forti somme per opere stradali. Successive sedi di servizio di Veglio furono Bari, Parma e Brescia. Dall’aprile 1876 era prefetto di Alessandria e si distinse in occasione della disastrosa alluvione del maggio 1879, meritando la medaglia d'argento al valor civile.19 Agì con prudenza ed accortezza in occasione del viaggio di Garibaldi al paese di Francesca Armosino20. Si fece anche benemerito promotore della raccolta dei beni storici costituenti il primo nucleo del museo di Alessandria. Bernardo Carlo Ferrari (1837-1928), originario di Sanremo, al tempo della Luogotenenza delle provincie napoletane fu collaboratore di Nigra, Ponza di San Martino e Cantelli. Prestò servizio come Consigliere di prefettura a Cosenza, Ancona, Ascoli Piceno, Aquila, Girgenti, Bergamo e . Dopo essere stato sottoprefetto ad Ariano di Puglia, dal settembre 1878 ricopriva analogo incarico a Casale Monferrato. Allorché l’anno dopo il Ministero dell’interno dispose il suo trasferimento a Lecco, Ferrari obiettò che ciò «equivaleva a cambiare un Circondario di 150 mila abitanti con uno di 120, una città con un paese. Nessuno avrebbe ammesso che Lecco equivaleva alla antica sede dei duchi del Monferrato e d’una Corte d’Appello. Il disdecoro era manifesto».21 Ferrari riuscì ad evitare il trasferimento ed a Lecco andò solo temporaneamente in missione. Il prefetto Veglio lo giudicava «troppo ambizioso, poco prudente e sincero, troppo legato alle persone che potevano aiutarlo nella carriera». In più occasioni criticò il suo operato sino ad invitarlo a «leggere più attentamente le carte dirette alla Prefettura prima di farne la trasmissione». Ed ogni volta Ferrari accettava di malagrazia i rilievi: «Noi siamo sempre Sottoprefetti, e i Prefetti sono sempre al disopra di noi, che vuol dire nostri superiori (…) Tutti sanno che io sono studioso di leggi e di regolamenti, tanto che un prefetto poeta, il comm. Bosi, ebbe a definirmi, non di lai, ma… trovator d’articoli maestro». Angelo Puozzo era sottoprefetto di Tortona dal maggio 1880. Nato cinquant’anni prima a San Siro, nel Padovano, aveva sin lì percorso una carriera non esaltante.

18 Lettera di Francesco Spinola a Giuseppe Massari, citata in GRECO L., Piemontisi briganti e maccaroni, Napoli 1975, p. 236. 19 Archivio di Stato di Alessandria, fondo Ascal, serie IV, b. 3719, deliberazione Giunta Municipale di Alessandria del 4 aprile 1880. 20 D’ URSO D., Un viaggio al paese di Francesca, in “Camicia Rossa”, febbraio-aprile 1998. 21 Archivio di Stato di Alessandria, fondo Gabinetto Prefettura, bb. 7 e 18.

64 Nell’amministrazione del Lombardo Veneto era stato addetto al Commissariato distrettuale di Padova, poi alla Delegazione provinciale di Treviso. Aveva successivamente prestato servizio a Lendinara e Conselice, ancora negli anni del governo austriaco. Passato nei ruoli del regno d’Italia, aveva iniziato la trafila dei trasferimenti, da Teramo a Revere, da Avellino a Cento, da Casalmaggiore a Tortona. Ed ora i fatti. Le relazioni dell’Italia con la Francia si erano guastate nella primavera del 1881 quando la Tunisia era divenuta di fatto un protettorato francese. Le deluse ambizioni nostrane su quel territorio provocarono uno stato di altissima tensione. Quando, in giugno, a Marsiglia si arrivò ad atti di violenza a danno di italiani, l’orgoglio nazionale ferito provocò accese dimostrazioni in molte città. Il governo Depretis, temendo complicazioni internazionali, emanò ordini severi perché non fosse turbato l’ordine pubblico. «Il Ministero ha già invitato i signori Prefetti a studiare modo di metter fine senza altro alle pericolose dimostrazioni che da qualche tempo agitano il paese, le istruzioni date furono categoriche e certo i signori Prefetti le hanno notificate ai loro dipendenti ispirandosi agli interessi del Governo e alla gravità della situazione. La maggior parte dei capi di Provincia hanno corrisposto alle viste del Ministero procedendo con fermezza e senza esitazione informando la loro condotta alla stretta osservanza delle leggi senza inutili rigori e rispettando la convenienza dei modi che gli agenti della forza pubblica non devono mai scordare. In diverse località tuttavia avvennero inconvenienti perché gli ordini del Ministero non vennero eseguiti, perché invece di sciogliere le dimostrazioni al momento stesso che si venivano formando aspettarono che si facessero numerose, che scorressero le città, intervenendo sol quando l’ordine pubblico e la pace cittadina era turbata. Il Ministero intende fermamente che si faccia cessare questa agitazione in qualunque punto della Provincia, che la S.V. adoperi a tale scopo tutta la sua influenza e quella dei Sindaci ove convenga che si rischiari e si illumini l’opinione pubblica a mezzo della stampa o come sarà più opportuno, che appena si abbia indizio di dimostrazione l’autorità intervenga, faccia le intimazioni legali di sciogliere a secondo articolo 29 della legge di P.S., che si segnalino tutti i funzionari di qualunque grado siano e tutti gli agenti che in qualunque modo si scostassero dall’adempimento del loro dovere per le necessarie misure di repressione.»22 Il 23 giugno 1881 si svolse a Casale Monferrato una manifestazione per i fatti di Marsiglia. Riferì il sottoprefetto Ferrari:

22 Salva diversa indicazione i documenti riprodotti sono in Archivio di Stato di Alessandria, fondo Gabinetto Prefettura, b. 64.

65 «La dimostrazione patriottica fu qui altrettanto imponente quanto ordinata e dignitosa. Verso le ore 9, dopo la suonata d’introduzione di questo concerto musicale nella maggior piazza, fu chiesta la Marcia Reale ed accolta con battimani, viva frenetici, sventolare di fazzoletti e di cappelli. Ripetuta quindi la marcia ed alternata con altri inni patriottici, la folla che era andata ognor più crescendo, mosse al Municipio e di lì a questa Sottoprefettura dove, fatta issare la bandiera a richiesta generale, non avendo stimato conveniente non assecondare un tale innocente desiderio, rivolsi le seguenti parole state calorosamente applaudite.» La breve orazione di Ferrari inneggiò al re ad alla dinastia, invitò alla calma e ad avere fiducia nel governo. La manifestazione popolare si sciolse pacificamente dopo un’ulteriore sosta dinanzi al Municipio «senza che per un momento solo e per quanto vi fosse amalgama di persone d’ogni classe e condizione, si trascendesse a grida o parole incomposte o compromettenti». Così Ferrari concludeva il rapporto al prefetto Veglio: «Se pure fra le migliaia di voci plaudenti al Re e all’Italia un qualche grido di diversa specie fosse stato emesso, questo andò perduto e non inteso. In sostanza può dirsi che, più che una dimostrazione, fu una vera festa alla quale questa popolazione, seria per natura, prese parte con slancio siccome quella che ne esprimeva i veri sentimenti, e che per conseguenza offriva la migliore delle garanzie contro intemperanze di qualsiasi genere. È soverchio aggiungere che ad ogni modo erano state prese le occorrenti misure, tenendo ad ogni buon fine consegnata anche una compagnia di truppa, e che tanto io, come gli ufficiali di p. s. e gli agenti della forza pubblica fummo in ogni punto per esser pronti a quei provvedimenti ed azione che fossero del caso.» Il prefetto rispose: «Sebbene io abbia rilevato con piacere come la dimostrazione ch’ebbe luogo in codesta città non sia stata seguita da disordini, pure avrei desiderato che la S.V. si fosse adoperato per evitarla, giuste le istruzioni impartite con mia nota del 21 andante. Avendo poi la S. V ., con lodevole precauzione, ritenuto conveniente che fosse consegnata una compagnia di truppa, avrebbe dovuto darmene avviso con telegramma, come si deve sempre praticare in simili emergenze». Veglio doverosamente informò il Ministro dell’interno precisando che «in nessun’altra città della provincia vennero fatte simili dimostrazioni per protestare contro i fatti di Marsiglia; ed io ritengo che mercé le date disposizioni non se ne tenterà alcun’altra. Ad ogni modo, in conformità delle istruzioni impartite dall’E.V. con ripetuti telegrammi, ho tutto disposto perché all’evenienza non abbiano a accadere disordini».

66 Come una doccia fredda arrivò da Roma questa nota riservata: «Prego la S.V. di far sentire al Sottoprefetto di Casale che questo Ministero deve disapprovare che le autorità politiche si prestino ad innalzare la bandiera nazionale sulla domanda dei dimostranti, costituendo ciò un atto di adesione che assolutamente non deve ripetersi». Ferrari, prima ancora di venire a conoscenza della disapprovazione ministeriale, aveva preso l’iniziativa di rispondere a Veglio con una nota stizzita, nella quale rivendicava autonomia decisionale: «Non posso tacerle come mi abbia recato dispiacere il contesto della di Lei nota, particolarmente nella parte in cui accenna che per quanto l’avvenuta dimostrazione non fosse seguita da disordini, pure le sarebbe stato desiderabile mi fossi adoperato ad evitarla giusta la di Lei precedente lettera del 21 and. Anzitutto mi permetto osservare che detta nota del 21 non mi pervenne che la mattina del giorno 23 stesso, nella cui sera accadde la dimostrazione, e che mancava quindi il tempo sufficiente per trovare e affiatarmi colle persone sulle quali potessi contare, tanto più che del progetto di tale dimostrazione non si ebbe il menomo sentore nei giorni precedenti, ed io poi, tenendomi sull’avviso, ero stato assicurato che qui difficilmente avrebbero trovata eco le dimostrazioni d’altre città. Tuttavia ricevuta la nota sudd. del 21, e corsa qualche voce della dimostrazione in parola soltanto nelle prime ore pomeridiane del 23, feci quelle pratiche che eran possibili e che la circostanza richiedeva perché non avvenisse, e fra l’altro nella supposizione che se ne prendesse occasione dal concerto musicale della sera sulla piazza Carlo Alberto, presi parola col Municipio onde vedesse se fosse il caso di sospendere il concerto. Mi fu osservato, e forse non senza fondamento, che il sospendere un trattenimento allora pressoché unico pei Casalesi, e consacrato da lunga consuetudine, avrebbe forse riuscito ad un effetto contrario, e che se la dimostrazione doveva farsi, quel divieto insolito non avrebbe forse fatto che darvi proporzioni più gravi. Allo stato delle cose non mi parve conveniente assumere la responsabilità di un tale divieto. D’altra parte la di Lei nota del 21 alludeva a dimostrazioni aventi carattere ostile alla Francia ed ai Francesi; e qui, dove non esiste console francese, né verun suddito di quella nazione, e neppure una iscrizione in quella lingua, non era possibile che una pura manifestazione d’affetto al Re e alla patria nostra, come infatti fu. Anzi in questo argomento, siccome tutte le istruzioni anche successive per lettera o telegramma, persistono ad indicare l’obbligo d’impedire e di sciogliere le dimostrazioni di carattere antifrancese, così mi è indispensabile conoscere qual contegno io debba tenere quando al Politeama testé apertosi, od in occasione di concerti musicali o simili si insista a chiedere la Marcia Reale, e la gente si limiti unicamente ad ovazioni al Re e all’Italia; al che opponendosi l’autorità potrebbero

67 derivarne più seri imbarazzi. Quanto all’ultima parte della contraddistinta nota riflettente la consegna della truppa, conosco bensì la disposizione che obbliga riferirne quando si tratta di chiedere un distaccamento per servizio di p.s., ma ignoro affatto che tale obbligo sussista quando per semplice misura di precauzione si richieda, o meglio di concordi col comando militare la consegna di parte della truppa di presidio, nel riflesso che può occorrere alla autorità di p.s. di recarsi al comando stesso, senza preventivo avviso, per richiedere sul momento un contingente di truppa per ordine pubblico. Le sarò pertanto grato se volesse comunicarmi una copia di tale disposizione, affine di prenderne norma pei casi avvenire.» Il prefetto prima replicò a mezzo telegrafo («Si attenga a quanto è detto nei miei telegrammi. Le ripeto l’istruzione di avvertire la Prefettura quando Ella richieda truppa consegnata»), poi con lettera («Le osservazioni da me fattele sulla dimostrazione vennero esplicitamente confermate dal Ministero dell’Interno»). Veglio non mancò poi di informare Roma: «Non appena ricevuto dal S. Prefetto di Casale il rapporto della dimostrazione colà seguita per i fatti di Marsiglia, gli rivolsi la nota qui unita con la quale manifestai la convenienza ch’egli si fosse maggiormente adoperato per evitarla. Anziché acquetarsi alle mie buone ragioni, il sig. S. Prefetto volle insistere per giustificare il suo operato, dirigendomi la nota che pur mi pregio di rassegnare in copia all’E.V. perché possa formarsi un giusto concetto del contegno di tale funzionario nei rapporti con quest’ufficio, su di che ebbi replicatamente a chiamare l’attenzione dell’E.V.»23 Veglio morì l’anno dopo.24 Ferrari non solo non venne censurato ma ottenne la nomina a Consigliere delegato, tappa di avvicinamento alla promozione a Prefetto che arrivò nel 1891 e lo portò prima a Pesaro, poi a Bari, Perugia, Ascoli Piceno, Chieti, Bologna e, infine, Venezia. Vediamo ora cosa accadde a Tortona. Il 29 giugno 1881 una manifestazione popolare fu contrastata con decisione dalla forza pubblica, provocando reazioni negative nella municipalità e nella stampa locale. Scrisse il Sindaco al prefetto: «Pochissimi presero parte alla dimostrazione e tutti erano giovanissimi mancanti d’istruzione ed inesperti né sapevano che cosa volessero. Naturalmente ai pochi gridatori

23 A questo punto seguivano le parole, poi cancellate, senza che i provvedimenti da me invocati siano stati accolti”. 24 Emilio Veglio di Castelletto fu commemorato in Consiglio provinciale dal senatore Saracco che parlò di lui come di un “gentiluomo compitissimo” e ne esaltò la “schiettezza del carattere” e la “prudenza politica”; v. anche “L’Illustrazione Italiana”, 26 marzo 1882, p. 233.

68 si aggiunsero dei curiosi, ciò che dava maggior apparenza alla dimostrazione. In questa città poi non vi è neppur uno di nazionalità francese, dimodoché quand’anche in alcuni vi fosse l’idea di fare una dimostrazione antifrancese (ciò che non vi è nemmeno luogo a credere) nessun conflitto poteva sorgere. L’Autorità politica usò tutta l’energia per sciogliere l’assembramento, impiegando la poca forza pubblica qui stanziata. Fu questa misura di precauzione che il sott. è ben lontano dal censurare. Ma è generale opinione nel paese che la riunione si sarebbe disciolta pacificamente e senza disordine anche non fosse comparsa la forza pubblica.» Sul numero del 3 luglio 1881 “L’Asino - giornale bestiale che esce dalla stalla quando vuole e come vuole”, fece una cronaca a tinte forti. Descrisse così quanto era avvenuto dopo l’esposizione del tricolore al balcone del Circolo del Commercio: «Si prese allora la bandiera, si portò sulla piazza del Duomo. Alla vista del glorioso vessillo tutta la popolazione le si fece d’attorno e tutti, fra gli “Evviva l’Italia” chiesero che si suonasse la marcia Reale. E venne suonata fra il delirio della popolazione plaudente. Com’era naturale non bastava che si suonasse una volta sola la marcia reale, per cui venne tosto chiamata la replica; allora il nostro bravo e troppo zelante ill. sig. S. Prefetto ordinò tosto che si tenessero in pronto i soldati e che si cessasse dal suonare; ma i Tortonesi sono abbastanza calmi e prudenti da non aver bisogno che le truppe vengano a mettere ordine. Invece a complicare le cose giunse la prefata autorità politica col delegato di P.S. e due carabinieri, che non solo ordinarono che si ritirasse la bandiera e che si sciogliesse l’assembramento, ma tentarono perfino di strapparla dalle mani dei dimostranti, atto inconsulto e che a nulla è riuscito. Visto che non si poteva più ottenere la replica della marcia reale, avendola il sotto-prefetto proibita, la folla fra gli “evviva” si recò sotto il balcone della sotto-prefettura e chiese ripetutamente che venisse esposta la bandiera. Il sotto-prefetto, contrariamente a quanto han fatto tutti gli altri sotto-prefetti che si trovarono nella stessa condizione, non volle dare questa soddisfazione al popolo, e questa fu la causa che irritò il popolo stesso, il quale fischiò il sotto-prefetto. Allora i dimostranti si diressero verso porta Serravalle ma qual fu la sorpresa vedendosi sbarrata la strada all’angolo della piazza da un cordone di truppa? Facile sarebbe stato ai dimostranti il rompere il cordone suddetto, ma sono troppo prudenti i Tortonesi per trascendere a simili atti per cui nel mentre venivano dalle truppe respinti gridavano viva l’esercito, viva il Re (…) Giunta la dimostrazione ad un certo punto della via Emilia si sciolse pacificamente

69 mediante la parola influente dei due egregi patrioti generale Ferrari25 ed avvocato Romagnoli 26. Come si vede, il sottoprefetto Puozzo aveva tenuto a Tortona una condotta ben diversa dal collega Ferrari a Casale Monferrato. Nonostante ciò, ricevette questo telegramma dal Prefetto: «Dia immediatamente sue giustificazioni perché a fronte esplicite mie istruzioni non abbia prevenuto dimostrazione ieri sera e proponga provvedimenti contro chiunque abbia mancato proprio dovere». Non sappiamo se e a quale cireneo venne addossata la croce ma queste vicende meritano una considerazione finale. Lo svolgersi dei fatti e la condotta delle “autorità politiche” locali portava acqua al mulino di chi voleva l’abolizione delle sottoprefetture. La responsabilità dell’ordine pubblico era troppo importante e troppo sentita dai prefetti perché lasciassero fare ad altri. Gli avvenimenti perturbatori, insieme con gli “incidenti” elettorali erano la causa più frequente di richiami e rimozioni dei funzionari. In questa ottica i sottoprefetti perdevano ogni autonomia decisionale. Altro che essere valorizzata la loro azione dalla migliore conoscenza che avevano delle persone e dell’ambiente! Svuotati del potere di iniziativa, mantenevano solo la responsabilità, parafulmini del superiore di turno. Curioso poi il destino professionale di Ferrari che, quando era prefetto di Venezia, fu costretto alle dimissioni da Giolitti perché, in occasione dello sciopero generale del settembre 1904, esitò ad usare la forza pubblica nelle strade.27

25 Il generale Antonio Ferrari (1816-1886) - originario di Tortona - aveva combattuto valorosamente nelle guerre d’indipendenza meritando la medaglia d’oro. 26 Michele Romagnoli nato in Alessandria nel 1826, in gioventù era stato deportato nell’America del Nord in quanto mazziniano. Nel 1859 combatté nei Cacciatori delle Alpi e l’anno dopo fu in Sicilia con i garibaldini. Nel 1866 venne eletto deputato di Tortona. Poi, per un ventennio, ricoprì la carica di Consigliere provinciale. Morì nel 1910.

27 ORSOLINI E., Bernardo Carlo Ferrari, in Dizionario biografico degli italiani, 46, Roma 1996, pp. 526-528. Questo personaggio non è da confondere con Carlo Ferrari (1837- 1910) che fu anch’egli prefetto.

70 Ottavio Lovera di Maria e l’organizzazione della Pubblica Sicurezza

da Rassegna storica del Risorgimento, luglio/settembre 2002

71 Il padre Federico Costanzo discendeva da un’antichissima famiglia di Cuneo, partecipò alle campagne del 1815 e 1821, raggiunse il grado di generale, comandò i Carabinieri Reali dal 1849 al 1867 e fu Senatore del Regno d’Italia. La madre, Ottavia Renaud de Falicon, apparteneva all’aristocrazia nizzarda. Dal loro matrimonio nacquero Ottavio, che compì una brillante carriera amministrativa e Giuseppe, che si avviò alla carriera militare e raggiunse il grado di Vice ammiraglio1. Ottavio Lovera di Maria venne alla luce a Torino il 2 luglio 1833. Studiò presso i Gesuiti nel collegio del Carmine e, dopo la laurea in legge, il 1° agosto 1853 entrò nella carriera superiore amministrativa. Probabilmente, la scelta fu influenzata dal fatto che il nonno materno era stato un alto funzionario ricoprendo l’incarico di Intendente generale. Dopo essere stato a Bonneville in Savoia, nel 1855 fu nominato volontario effettivo a Saluzzo e lo stesso anno passò di ruolo. Svolse poi l’incarico di Sostituto procuratore regio ad Alessandria e nel 1859 prestò servizio con Farini presso i governi provvisori dell’Emilia. Il Gabinetto particolare del Governatore era costituito da un gruppo di validi giovani, che ricoprirono in seguito cariche importanti, politiche (, Gaspare Finali) o amministrative (Cesare Bardesono2, Luigi Sormani Moretti, Agostino Soragni, tutti futuri prefetti). Nel 1860 Lovera di Maria fu nominato Consigliere di governo a Cuneo, da dove partì per una importante missione al seguito del re e dell’esercito entrati negli stati pontifici.3 Anche allora, chi era prescelto per “missioni speciali” diventava inevitabilmente oggetto di critiche e Francesco Guglianetti, Segretario generale del Ministero dell’Interno, si sentì in dovere di segnalare al ministro Farini che «tali chiamate non sempre sono dettate dall’interesse del servizio pubblico, ma piuttosto

1 Giuseppe Lovera di Maria, ufficiale della marina sarda, ebbe un ruolo di rilievo al tempo della spedizione garibaldina nel Meridione. Sulla famiglia v. LOVERA DI CASTIGLIONE C., Indagini storiche e cronologiche sulla famiglia Lovera di Maria, Cuneo 1914; SPRETI V., Enciclopedia storico nobiliare italiana, vol. IV, Milano 1931, ad vocem; ZUCCHI M., Famiglie nobili e notabili del Piemonte, vol. II, Torino 1955, ad vocem. 2 D’URSO D., Prefetti di altri tempi, Alessandria 1990. 3 Fra i borghesi, cavalcavano al seguito di Vittorio Emanuele il ministro Farini con uno strano berretto militare ed Emilio Visconti Venosta incaricato di redigere i proclami. Seguivano in carrozza due Consiglieri di governo, Ottavio Lovera di Maria ed Emilio Veglio di Castelletto. Un altro personaggio faceva parte del gruppo: Rosa Vercellana.

72 da simpatie ed interessi particolari», col rischio anche «di guastare ciò che v’ha di buono ed ordinato in un luogo, per rimediare a disordini altrove lamentati».4 Dopo la riforma ricasoliana dell’ottobre 1861, Lovera di Maria fu nominato Sottoprefetto del circondario di Novi. Ricoprì in seguito le funzioni di Caposezione al ministero e, nel 1864, di Capo di gabinetto del prefetto di Napoli, Paolo Onorato Vigliani. Nel 1866 venne nuovamente assegnato all’Amministrazione provinciale (allora vi era distinzione tra i ruoli centrali e quelli periferici) come Sottoprefetto di Salò, dove meritò il ringraziamento di Garibaldi per gli aiuti prestati ai volontari durante la guerra di quell’anno. Il 29 dicembre 1866 contrasse matrimonio con Clementina Cusani dei marchesi di Sagliano e San Giuliano: aveva 33 anni, la moglie 19. Dall’unione nacquero cinque figli: Federico, Paola ed Enrico morirono in tenera età, Lydia sposò il conte Paolo Gazzelli ed Amelia il nobile Ottavio Rolandi Ricci. Dopo essere stato per sei anni Sottoprefetto a Lodi, nell’ottobre 1873 a quarant’anni Lovera di Maria fu nominato Prefetto e destinato a Belluno, dove rimase sino al dicembre 1875 quando andò a Catania. Nell’ottobre 1877 nuovo trasferimento, questa volta a Verona, ma già nel luglio successivo il governo lo spostò ad Ancona. Lì rimase tre anni sino a quando, avendo rifiutato la sede di Cagliari, fu collocato a disposizione. Richiamato in servizio, nell'agosto del 1882 fu mandato a Livorno, all’epoca città “calda” e pericolosa per la carriera prefettizia. V’era infatti una forte ed agitata presenza di garibaldini e repubblicani specie tra i ceti popolari e non pochi rischi personali correvano coloro che professavano idee diverse. Le manifestazioni anticlericali avevano toccato punte di vera criminalità con il lancio di una bomba in cattedrale durante la messa pontificale del nuovo vescovo e in città si pubblicava un giornale, L’Ateo, che aveva per motto “Dio è il male”. Era stato fischiato e insultato anche Nicotera, cui evidentemente i livornesi rimproveravano il tradimento dei vecchi ideali. Persino le rappresentazioni teatrali erano occasione di disordini e, dopo i fatti di Marsiglia, nel luglio 1881 vi fu un assalto alla sede del consolato francese. Si arrivò infine al delitto: un giornalista, Giovanni Gino Ferenzona, autore di articoli apologetici della monarchia e critici verso Garibaldi, fu assassinato in una

4 CRENNA M., Come fare la patria degli italiani? Dal carteggio 1848-1872 di Francesco Guglianetti, in “Bollettino storico per la provincia di Novara”, 1997 n. 2, p. 566

73 via del centro, dopo che la polizia, impotente a proteggerlo, gli aveva consigliato di allontanarsi dalla città5. L’opera a Livorno del nuovo prefetto ottenne dei buoni risultati e la situazione temporaneamente migliorò. Pur mantenendo la titolarità di quella sede, Lovera di Maria nel dicembre 1883 fu chiamato in missione al Ministero dell’interno. Il Segretario generale Lovito si era dimesso dopo lo scandaloso episodio del duello con Nicotera e il direttore dei servizi di pubblica sicurezza Bolis aveva dovuto lasciare l’incarico per motivi di salute. Lovera di Maria sostituì entrambi i dimissionari.6 La scelta di un “prefettizio” per i vertici della pubblica sicurezza non era nuova, ma sin d’allora e fino ai giorni nostri fatti simili sono sempre stati oggetto di critiche e discussioni anche vivaci. Le due tesi in contrasto sono note: è più adatto a ricoprire il ruolo chi abbia tatto politico e visione generale delle questioni ovvero un tecnico puro uscito dai ranghi della polizia?7. Nel 1897 Giuseppe Alongi, valente funzionario che avrebbe raggiunto il grado di questore, affermava senza mezzi termini che nella Direzione generale della P. S. lavoravano persone egregie ma incompetenti, che provenivano ed erano destinate ad altri incarichi nella logica della carriera, cosicché all’incompetenza si accompagnava anche l’incostanza. «È vero che talvolta tre o quattro funzionari superiori di pubblica sicurezza furono comandati alla Direzione generale, ma è pur vero che quasi sempre comandati è sinonimo di tollerati»8. Certamente colpisce che Lovera di Maria, per tutto il tempo che guidò la P.S., mantenne la titolarità della sede prefettizia di Livorno, come a sottolineare il carattere di precarietà e provvisorietà dell’incarico ministeriale. Altro problema irrisolto (allora non meno di oggi) era quello del coordinamento delle forze di polizia. Dal punto di vista normativo, tutto appariva definito: il servizio di pubblica sicurezza dipendeva dal Ministero dell’interno e, subordinatamente, dai prefetti e dai sottoprefetti ed era eseguito, sotto la loro direzione, dagli ufficiali e dagli agenti di pubblica sicurezza. Cosa invece avveniva nella pratica? «L’azione del centro è sentita più o meno intensamente dalle sole prefetture, perché le unità inferiori sfuggono agli impulsi

5 Qualche anno dopo a Livorno fu ucciso anche l’ex garibaldino Giuseppe Bandi, pugnalato a morte dall’anarchico Lucchesi (v. MASINI P. C., Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati, Milano 1981, pp. 52-54). 6 Nel luglio 1884 fu nominato il nuovo Segretario generale titolare, il siciliano Giovanni Battista Morana. 7 CORSO G., L’ordine pubblico, Bologna 1979, p. 47. 8 ALONGI G., L’organizzazione della polizia in Italia, in “Nuova Antologia”, 16 maggio 1897, p. 253.

74 direttivi, i carabinieri obbediscono ad un loro ordinamento autonomo ed inflessibile e le polizie municipali … a nessuno».9 Scrisse Gaetano Mosca: «Non si deve dimenticare che una delle tante cause della inefficacia della nostra polizia consiste nel dualismo che vi è tra la polizia propriamente detta e l’arma dei reali Carabinieri, che per molti riguardi giustifica l’appellativo di benemerita, che le si vuole affibbiare, ma che veramente crediamo poi disadatta a fare una vera e propria polizia».10 Qui è necessario aprire una parentesi, per una breve ricostruzione delle vicende ordinamentali dei servizi di pubblica sicurezza presso il Ministero dell’interno. La Direzione generale della pubblica sicurezza fu istituita, in via definitiva, solo il 3 luglio 1887 con il R.D. n. 4707, per volontà di Francesco Crispi. Sino ad allora l’organizzazione degli uffici centrali era stata caratterizzata da continui rivolgimenti. Nel marzo 1861, alla nascita del Regno d’Italia, presso il Ministero dell’interno a Torino c’era un’unica divisione, ma già nell’ottobre successivo11 Ricasoli volle costituire una direzione generale, con due divisioni, affidandola ad Edoardo Fontana. Cambiato il governo, la direzione generale venne soppressa nel gennaio 186312 e le due divisioni furono poste alle dipendenze del Segretario generale Silvio Spaventa. Nell’ottobre 1864 nuovo governo e altro mutamento: ripristinata la Direzione generale della sicurezza pubblica con le solite due divisioni e il Segretario generale f.f. di direttore generale.13 Un’ennesima riforma intervenne nel luglio 1866: istituita una Direzione superiore della sicurezza pubblica,14 affidata prima a Nicola Amore,15 poi a Giuseppe De Ferrari. Si era pensato così di risolvere il latente conflitto tra Segretario generale e Direttori generali, riducendo questi ultimi a “Superiori”. Differenza non solo nominalistica: declassando i Direttori generali si rendeva vana la loro pretesa di stare alla pari del Segretario generale. Per lenire la loro pena, però, l’appannaggio economico fu confermato.

9 ALONGI G., L’organizzazione della polizia cit., p. 252. 10 MOSCA G., Sulla teorica dei governi e del governo parlamentare. Studi storici e sociali, Torino 1884 (ed. Torino 1982, a cura di Giorgio Sola, p. 419). Cfr. anche PACIFICI V., L’ordinamento dei carabinieri in una relazione inedita del loro primo comandante generale (1887), in “Clio”, 1992 n. 3, pp. 454-460; HUGHES S. C., Poliziotti, Carabinieri e “Policemens”: il “bobby” inglese nella polizia italiana, in “Le carte e la storia” 1996 n. 2, pp. 22-31. 11 R.D. 9 ottobre 1861, n. 255. 12 R.D. 4 gennaio 1863, n. 1194 13 R.D. 30 ottobre 1864, n. 1980. 14 R.D. 17 luglio 1866, n. 3071. 15 Sulla polizia di quegli anni v. LIMONCELLI M., Nicola Amore. Notizie della sua vita e della sua arte, Roma 1914.

75 Anche questa novità durò poco e la Direzione superiore scomparve nell’aprile 186816. Gli affari della pubblica sicurezza, come nel 1861, tornarono ad essere trattati da un’unica divisione, affidata prima al magistrato Francesco Gloria e, successivamente, a Giuseppe Sensales17, Onofrio Galletti18, Ferdinando Ramognini, Giuseppe Rossi19, Luigi Berti, ancora Ferdinando Ramognini, Giovanni Bolis.20

16 R.D. 23 aprile 1868, n. 4551. 17 Su Giuseppe Sensales, Ferdinando Ramognini e Luigi Berti v. D. D’URSO, I direttori generali della pubblica sicurezza, Alessandria 1994. 18 Onofrio Galletti, nato a Bologna nel 1827, fu ufficiale nei Carabinieri della Repubblica Romana. Laureato in legge, emigrò nel regno di Sardegna dove esercitò l’avvocatura. Nel 1861 entrò in magistratura, rimanendo in servizio per dodici anni. Era Sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma quando, nel dicembre 1873, fu chiamato a dirigere la divisione di p.s. presso il Ministero dell’Interno. Lasciò l’incarico nell’aprile 1876 allorché fu nominato prefetto di Cremona. Da lì passò successivamente a Massa e Carrara, Benevento Arezzo, Chieti, Macerata e Salerno. Nel 1882 fu nominato Consigliere di Stato. Si candidò alla Camera in un collegio di Cagliari ma non venne eletto. Morì a Roma nel 1889. 19 Giuseppe Rossi era nato a Marsico Nuovo (Potenza) nel 1825, laureato in legge a ventuno anni, avvocato. Nel 1860 entrò in servizio come Consigliere di governo, poi fu Sottoprefetto in diverse sedi del Meridione. Alla fine del 1873 fu chiamato al ministero dell’Interno per dirigere la divisione della Sanità pubblica, allora incardinata presso il Segretariato generale. Un anno dopo fu nominato Prefetto e destinato, in successione, ad Agrigento, Catanzaro e Rovigo, ma non occupò quest’ultima sede perché chiamato in missione a Palazzo Braschi nell’ottobre 1876, per ricoprire l’incarico di Capo della divisione di p.s. Morì nel settembre 1877. 20 Giovanni Bolis era nato nel Bergamasco nel 1831 da modesta famiglia. Compiuti gli studi legali, entrò giovanissimo in magistratura e ricoprì incarichi in Lombardia e Veneto, ancora facenti parte dell’impero asburgico. Nel 1859 entrò nei ruoli della P.S. del Regno sardo. Prestò servizio a Lovere, Cremona, Torino. Nel 1862 fu mandato a reggere la questura di Palermo, all’età di 31 anni. Pare che il suo operato destasse del malcontento, tanto che nel giugno 1863 si organizzò una dimostrazione contro di lui, vituperato come “austriaco” e accusato di presunti abusi. Trasferito da Palermo, sino al 1865 fu impegnato contro il brigantaggio in Campania e Basilicata, poi andò come questore a Bologna, Livorno e, dal 1872, a Roma. Promosso prefetto e destinato a Belluno non raggiunse mai la sede, mantenendo l’incarico alla questura di Roma. Nel novembre 1879 fu chiamato a dirigere la divisione di P.S. e - dopo la riforma del 1880 - la direzione di tutti i servizi di pubblica sicurezza. Sebbene nominato successivamente prefetto di Cremona (aprile 1881) e di Como (settembre 1882) non si allontanò mai dal ministero. Già come questore s’era convinto dell’assunto che, per avere la pubblica opinione a favore, bisognava avere la stampa amica e così aprì a Palazzo Braschi una sala stampa e fece in modo che divenissero istituzionali i rapporti tra i giornalisti e gli uffici di polizia. Le cronache riferiscono che l’attività di Bolis era febbrile e spossante A seguito di gravi problemi di salute dovette

76 Per curiosità del lettore, ricordo che nel 1872 l’organico di tutti gli uffici centrali del Ministero dell’interno comprendeva, complessivamente, solo 222 dipendenti, ripartiti in impiegati di I, II e III categoria.21 L’anno dopo erano diminuiti a 204,22 nel 1876 salirono a 245,23 l’anno dopo scesero a 223.24 Nel settembre 1880 altro cambiamento nell’organizzazione ministeriale: gli affari di polizia furono ripartiti tra un ufficio politico (novità assoluta) e due divisioni, dipendenti da un prefetto-direttore. Ricoprirono quell’incarico, in successione, Giovanni Bolis sino al 30 dicembre 1883, Ottavio Lovera di Maria sino al 1° novembre 1885, Bartolomeo Casalis sino al 16 aprile 188725. Nel novembre 1878 Giovanni Passannante aveva attentato alla vita di Umberto I. Da ciò derivò un complessivo riesame degli apparati di sicurezza e l’esigenza di creare un organismo specializzato, che fu l’Ufficio politico - affidato a Francesco Leonardi26 - che si lasciare il servizio attivo e morì a Bergamo nel novembre 1884. Scrisse saggi, redasse il Regolamento delle Guardie di Pubblica Sicurezza della città di Bologna e, nel 1871, un noto libro intitolato La polizia in Italia e in altri stati d’Europa e le classi pericolose della società, in cui espresse bene il suo pensiero: «Il termometro più sicuro per giudicare del buon governo di uno Stato è il grado di sicurezza pubblica e privata che vi godono i cittadini. Se la polizia non funziona regolarmente, anche gli altri servizi ben presto languiscono. Non può aversi buona giustizia se non havvi buona polizia; il commercio è malsicuro; la fiducia scompare e la prosperità nazionale necessariamente declina». 21 R.D. 4 gennaio 1872, n. 650. 22 R.D. 4 dicembre 1873, n. 1744. 23 R.D. 31 dicembre 1876, p. 3617. 24 R.D. 25 giugno 1877, n. 3925. 25 Su Bartolomeo Casalis v. il capitolo a lui dedicato in questo volume. 26 Francesco Leonardi era nato in Trentino nel 1840. Si laureò in legge a Bologna nel 1864 ed esercitò l’avvocatura prima di entrare nell’amministrazione come volontario presso la questura di Bologna. Nel 1870 entrò in ruolo e dopo vari incarichi, tra cui una missione straordinaria a Vienna nel 1873, fu promosso sottosegretario di II classe. Anche se appartenente ai ruolo dell’Amministrazione provinciale, la sua carriera si svolse quasi sempre al ministero, negli uffici che trattavano gli affari di polizia. Dal 1880, per dieci anni, diresse il famoso “Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria”, fondato da Carlo Astengo, vero vademecum per gli operatori di polizia. Dopo essere stato a lungo a capo dell’Ufficio politico, nel 1893 fu messo a dirigere la divisione della polizia giudiziaria e amministrativa e cinque anni dopo fu nominato direttore generale, al tempo del governo Pelloux. Si fece apprezzare per intuito, diligenza e modestia ma anche per una formidabile memoria, qualità questa che fu anche del più famoso Arturo Bocchini a lungo Capo della polizia con Mussolini. Nel 1903 Leonardi fu nominato Consigliere di Stato e nel 1911 Senatore. Si meritò la piena fiducia di Giolitti e tenne l’incarico di direttore generale per tredici anni, sino alla morte avvenuta il 24 febbraio 1911.

77 occupava di affari riservati, prevenzione e repressione dei reati politici, controllo delle associazioni e della stampa, sorveglianza delle persone sospette e degli stranieri, tutela dell’ordine pubblico.27 Delle due divisioni ministeriali quella di polizia giudiziaria e amministrativa era affidata a Edoardo Mazzucchelli, quella del personale a Michelangelo Tancredi28, al quale subentrò poi Felice Visconti29. Col regio decreto del 3 luglio 1887 n. 4707, come ho già ricordato, Crispi ricostituì (e dopo di allora non vi furono più ripensamenti) la Direzione generale della pubblica sicurezza. Egli fece del Ministero dell’interno il punto di forza dell’apparato statale e se in passato aveva avversato la nascita delle direzioni generali perché preoccupato dall’aumento della burocrazia e dei costi, ora si era convinto della necessità di ricorrere a quella struttura, per rendere più efficaci le funzioni governative di direzione e controllo. Il primo a ricoprire il nuovo incarico di Direttore generale fu Luigi Berti, che anni prima aveva diretto l’unica divisione allora esistente. Da questo excursus si rileva che non è facile dire chi sia stato davvero il primo Capo della polizia in senso stretto, anche se appare abbastanza corretto fare riferimento a Luigi Berti in relazione all’incarico ricevuto nel 1887, perché solo da allora la Direzione generale della P.S. ebbe effettivamente continuità. Nei due anni che Lovera di Maria fu prefetto-direttore dei servizi di polizia, dal 31 dicembre 1883 al 1° novembre 1885, si avvicendarono tre governi con Agostino Depretis

27 Su un aspetto particolare ma importante v. TOSATTI G., L’anagrafe dei sovversivi italiani: origini e storia del casellario politico centrale, in “Le carte e la storia”, 1997 n. 2, pp. 133-150. 28 Michelangelo Tancredi, nato a Napoli nel 1822, compì studi letterari, di filosofia e di architettura, insegnò letteratura, fu paroliere di canzoni e anche segretario del consolato di Spagna. Fu tra le principali “penne” del foglio teatrale e umoristico “Verità e Bugie” e condirettore del periodico “Serate di famiglia”. Nel 1857 ideò una beffa leggendaria, facendo affiggere alle cantonate di Napoli un decreto sovrano, apocrifo, che ripristinava le libertà costituzionali. Fu assunto nel 1860 per meriti patriottici, poi da Napoli chiamato in servizio a Torino. Immesso nella pianta organica, raggiunse il grado di Capo divisione nel 1881, in seguito ricoprì incarichi di Ispettore generale e Consigliere delegato. Collocato a riposo nel 1890, morì nel 1914. Nel 1877 aveva pubblicato la raccolta di poesie Vierze stampate e no stampate, nel 1899 alcune novelle sotto il titolo Baci. 29 Felice Visconti, nato a Palermo nel 1841, aveva studiato lingue, filosofia, scienze naturali. Anche lui entrò in servizio nel fatale 1860, presso la Segreteria di Stato della sicurezza pubblica siciliana. Immesso nei ruoli dell’Amministrazione provinciale, lavorò a Caltagirone prima di essere chiamato al Ministero dell’interno nel 1870, raggiungendo nel 1885 il grado di Capo divisione. Nel 1890 fu nominato Prefetto di Siena dove morì nel marzo 1893.

78 presidente del Consiglio e ministro dell’interno,30 mentre Segretario generale era il già ricordato Morana31. Avvenimenti rilevanti del periodo in cui Lovera di Maria fu ai vertici della pubblica sicurezza furono il movimento contadino de La boje32 e una nuova terribile epidemia di colera. Le grandi agitazioni agrarie verificatesi tra il 1884 e il 1885 nel Polesine e poi nel Mantovano nascevano da gravi problemi economici. «L’elemento che porta uno scombussolamento è dato dalla invasione di grano americano sul mercato italiano, dal 1880, favorito dalla politica relativamente liberistica del governo in campo agricolo; in seguito si lamenta il crollo del prezzo del riso per l’apertura del canale di Suez. I proprietari resistono in tutti i modi contro una diminuzione degli affitti e tutti i conduttori di fondi cercano con intransigenza di non concedere alcun aumento salariale ai lavoratori dei campi».33 Le agitazioni, nate in modo spontaneo, furono in seguito organizzate e dirette da esponenti socialisti e repubblicani. Si distinsero la Società di mutuo soccorso guidata dal radicale Sartori e l’Associazione generale dei contadini italiani diretta dal garibaldino Siliprandi e dall’operaio Barbiani. Il movimento fu soffocato nel marzo 1885

30 Nel 1897, durante una discussione parlamentare Cavallotti raccontò: «Eravamo al tempo del Depretis, verso il 1883 o 1884, il tempo del trasformismo: Un giorno mi arriva un telegramma del generale Canzio il quale mi denunzia, con termini vibratissimi, il fatto che l’amico Gattorno, ora deputato (…) avendo richiamato al dovere un funzionario di pubblica sicurezza, fu brutalmente, per rappresaglia, portato in guardina, e là denudato e, sempre per rappresaglia, dall’arrestante e dai compagni suoi percosso nel modo più brutale. Io mi recai (e fu l’unica volta che salii le scale di via Nazionale) a portare il telegramma dell’amico generale Canzio al presidente del Consiglio. L’onorevole Depretis, flemmatico, lisciandosi la barba, dopo averlo letto mi presentò un telegramma della questura di Genova la quale, antivedendo l’accusa, protestava che niente era vero delle percosse denunziate. E il vecchio ministro, mi par di vederlo come oggi, dopo avermi fatto leggere il telegramma mi disse queste precise parole che posso ripetere, poiché l’avello ricopre la sua memoria, senza tema di essere indiscreto: - Sentite, Cavallotti, io vi parlo qui come Depretis e non come ministro. E come Depretis, poiché vi so avversario ma vi so gentiluomo, vi dico che credo al telegramma di Canzio più che alla denunzia della questura. Però vi domando una cosa sola: che cosa volete fare? Volete fare un’interpellanza o volete rimettervi a me? Se fate un’interpellanza, io devo proteggere il principio di autorità: se volete rimettervi a me, vi do parola che i colpevoli saranno puniti» (citato in FELISATTI M., Un delitto della polizia?, Milano 1975, pp. 87-88). 31 D’URSO D., I Segretari generali del Ministero dell’interno, Alessandria 1997, ad vocem. 32 L’espressione completa “La boje, la boje e de boto la va fora”, cioè “Bolle, bolle e di colpo trabocca” nacque nelle campagne del Polesine e si diffuse nelle provincie contermini. 33 SALVADORI R., La boje!, Milano 1962, pp. 8-9.

79 con l’arresto di 168 scioperanti, dei quali 22 deferiti all’autorità giudiziaria per attentato alla sicurezza dello Stato ma l’anno dopo gli imputati furono assolti dalla Corte d’Assise di Venezia. La sentenza ebbe ampia risonanza, poiché implicitamente riconosceva i diritti di associazione e di sciopero.34 L’epidemia di colera ebbe gravi riflessi sull’ordine pubblico. In Sicilia le agitazioni popolari miravano ad ottenere misure di quarantena per chi arrivava dal Napoletano. I siciliani, per paura del contagio, volevano che la loro isola restasse tale, sfruttando al meglio la sua posizione geografica. Oltretutto le condizioni economiche e la scarsa industrializzazione non facevano temere gravi riflessi negativi a causa del temporaneo isolamento. Per considerazioni soprattutto politiche, il Ministero dell’interno (allora si occupava anche della sanità), acconsentì a imporre le quarantene. Quando, però, l’epidemia dilagò anche in Sicilia, fu la volta dei napoletani a chiedere analoga misura cautelativa. Come fu ammesso in una relazione ufficiale, quando ogni sforzo persuasivo falliva e non rimaneva come alternativa che l’uso della forza, il ministero accedeva alle richieste delle popolazioni per evitare rivolte e conflitti di piazza. Ovunque si costituivano comitati spontanei di salute pubblica e posti di blocco con cittadini armati controllavano gli accessi ai centri abitati. Le comunità locali imponevano limitazioni alla circolazione anche delle merci e della posta. Il ministero ordinava la cessazione degli abusi man mano che ne veniva a conoscenza e minacciava severe misure. Atti di violenza furono compiuti contro treni e navi e non mancarono aggressioni contro agenti della forza pubblica. Il governo inviò truppe per ristabilire l’ordine ma le autorizzò a usare le armi solo se attaccate. La gravissima emergenza, che fu insieme sanitaria e di ordine pubblico, si protrasse a fasi alterne dal 1884 al 1887, causando circa trentamila morti.35

34 NEPPI MODONA G., Sciopero, potere politico e magistratura 1870-1922, Bari 1979. 35 SORCINELLI P., Nuove epidemie e antiche paure. Uomini e colera nell’Ottocento, Milano 1986. Cfr. l’articolo, firmato “un ex-funzionario di sanità”, La politica sanitaria nelle epidemie coleriche del 1884-85, in “Nuova Antologia” 16 dicembre 1885. All’epoca la materia della sanità pubblica e dei sifilocomi era trattata, insieme con le opere pie, nell’ambito del Segretariato generale. Con il DM 31 luglio 1887 Crispi attribuì alla Direzione della sanità pubblica le competenze relative alle professioni sanitarie, alle vaccinazioni, agli stabilimenti ospedalieri e termali, alle misure contro le epidemie, all’edilizia sanitaria, alla polizia mortuaria, al risanamento dei terreni malarici, alla protezione del lavoro delle donne e dei fanciulli, agli asili notturni, alla sanità marittima e di confine, etc. Non fu casuale la scelta di chiamare semplicemente “Direzione” e non “Direzione generale” quell’ufficio ministeriale. Secondo la volontà di Crispi, esso doveva essere un organismo non burocratico ma spiccatamente tecnico, tanto che si riprometteva

80 Naturalmente, anche fatti meno gravi impegnavano le forze di polizia. Nel febbraio 1884 la polizia sequestrò per la terza volta il foglio anarchico “La questione sociale” e arrestò il redattore Pilade Cecchi, condannato poi a quattro anni di carcere. A Torino, in dicembre, dopo il divieto di un comizio operaio, avvennero tumulti di piazza, con il danneggiamento di vetture tranviarie e l’accoltellamento di un carabiniere. Clamorosi i disordini studenteschi torinesi del marzo 1885: la polizia impedì una commemorazione di Mazzini arrestando alcuni dimostranti; il mattino dopo fu disselciato il cortile dell’Ateneo e si accesero scontri durissimi tra gli universitari e la forza pubblica; alla Camera Depretis difese l’operato del prefetto Casalis e, nonostante le proteste generali, fece approvare un regolamento che vietava agli studenti di associarsi, anche fuori dell’università.36 Nel campo ordinamentale il biennio di direzione di Lovera di Maria fu caratterizzato dall’approvazione del nuovo ordinamento del personale di P.S. (novembre 1884) e del nuovo ruolo organico (marzo 1885). I funzionari erano distinti in due categorie. La prima comprendeva questori, ispettori e vice ispettori, la seconda i delegati. La gerarchia era determinata dal grado, nello stesso grado dalla classe, a parità di grado e di classe dall’anzianità. Come in passato, fu ammesso il passaggio dall’Amministrazione di pubblica sicurezza all’Amministrazione provinciale e viceversa, quando gli interessi del servizio lo richiedessero e gli impiegati avessero titoli e requisiti necessari. Per i concorsi di accesso alla prima categoria occorreva la laurea in giurisprudenza, per la seconda categoria la licenza di liceo o di istituto tecnico. Chi otteneva l’idoneità agli esami era nominato Alunno, seguiva un tirocinio di sei mesi (senza essere retribuito) al termine del quale, se valutato positivamente, sosteneva un ulteriore esame scritto. Ottenuta la definitiva idoneità, gli Alunni erano nominati ai posti retribuiti. La promozione a questore era decisa, a discrezione del ministro, fra gli ispettori di prima classe. I questori erano 13, divisi in due classi in relazione all’importanza delle sedi: Bologna, Catania, Firenze, Genova, Livorno, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia, Verona. La retribuzione annuale arrivava a £ 7.000.

di affidarne la responsabilità ad un "valoroso igienista". Il prof. Luigi Pagliani fu il primo direttore. Nato a Genola (Cuneo) nel 1847, si era laureato in medicina e specializzato in igiene. Insegnava all’Università di Torino ed era autore di numerose pubblicazioni. 36 Per la cronaca del tempo v. VIGO P., Annali d’Italia. Storia degli ultimi trent’anni del secolo XIX, vol. IV (1883-1886), Milano 1910; COMANDINI A.- MONTI A., L’Italia nei cento anni del secolo XIX, vol. V (1871-1900), Milano 1942; Diario d’Italia 1815-1994, Novara 1994.

81 Gli ispettori, divisi in due classi, erano complessivamente 150 e ricevevano sino a £ 5.000 all’anno. I vice ispettori, divisi in tre classi, erano 190 e ricevevano sino a £ 3.000. I delegati, divisi in quattro classi, erano 1.300 e ricevevano sino a £ 3.000. In proporzione, era piuttosto ridotta la consistenza delle guardie di pubblica sicurezza, la cui presenza si concentrava nelle città sedi di questura (530 a Roma, 700 a Napoli, 294 a Palermo, 252 a Torino, 170 a Firenze e Bologna, 160 a Venezia, ecc.). Piccoli contingenti erano presenti nelle altre città capoluogo di provincia o sede dei più importanti mandamenti e negli uffici di confine. Era, dunque, molto più accentuata di oggi la differenza tra Polizia e Carabinieri per quanto riguarda la presenza sul territorio.37 I Carabinieri erano nati nel 1814 con un organico di 803 unità, la Pubblica Sicurezza nel 1852 con 300 uomini. Nel 1861 la forza numerica era aumentata- rispettivamente- a 18.461 (di cui 503 ufficiali) e a 4.892 (compresi i funzionari civili). Le esigenze di bilancio non consentirono a lungo di adeguare gli organici. In particolare - nell’arco di un

37 Il quadro d’insieme è sufficientemente delineato da RENATO G., Gli ordinamenti della Pubblica Sicurezza, in “Amministrazione civile”, aprile-agosto 1961, numero speciale Cento anni di amministrazione pubblica, pp. 331-370. Più recenti CANOSA R., La polizia in Italia dal 1945 ad oggi, Bologna 1976, cap. “L’Italia postunitaria”; BRAVO A., voce Polizia, in Storia d’Italia, vol. II, Firenze 1978; L’amministrazione centrale dall’Unità alla Repubblica. Le strutture e i dirigenti, a cura di Guido Melis, Il Ministero dell’interno, a cura di Giovanna Tosatti, Bologna 1992; TOSATTI G., La repressione del dissenso politico tra l’età liberale e il fascismo. L’organizzazione della polizia, in “Studi Storici” 1997 n. 1, pp. 217-255. Nel ventennio dal 1885 al 1905, anche sulla scia delle riforme crispine, furono pubblicati numerosi contributi di politici o operatori su quella che era chiamata “la questione della pubblica sicurezza in Italia”. Ricordo ALONGI G., Polizia e delinquenza in Italia, Roma 1887; articolo firmato “Un ex Ministro dell’interno” La polizia in Italia e la sua unificazione, in “Nuova Antologia”, 16 febbraio 1890; GUASTALLA F., Osservazioni e proposte sul servizio e sull’amministrazione di P.S. in Italia, Torino 1893; CODRONCHI ARGELI G, Sul riordinamento della pubblica sicurezza in Italia, in “Nuova Antologia” 16 settembre 1895; MARIUS, La pubblica sicurezza in Italia, Milano 1896; ALONGI G., L’organizzazione della polizia cit.; ROSSI V., Polizia empirica e polizia scientifica, L’Aquila 1898; SENSALES G., L’anagrafe di polizia, in “Nuova Antologia” 16 maggio 1901; ALONGI G., Progetto di legge e regolamento della Pubblica Sicurezza, Roma 1901; AMATORI T., Studio critico sull’ordinamento della polizia italiana, Como 1902; TRINGALI S., Dizionario politico e di pubblica sicurezza, Milano 1903; RAVASIO G. La Forza pubblica e i suoi agenti, Milano 1904; SCIACCA G., Organici e servizi di polizia, in “Nuova Antologia”, 16 gennaio 1905; OTTOLENGHI S., La nuova cartella biografica dei pregiudicati, in “Atti della Società romana di antropologia”, 1905, vol. XI. Di tutt’altro genere ma ricca di interessanti annotazioni la parte dedicata alla pubblica sicurezza nel libro di GIARELLI F., Vent’anni di giornalismo, Codogno 1896, pp. 246-251.

82 quindicennio - le guardie di p. s. addirittura diminuirono da 4.45138 a 4.00739, i funzionari delle diverse qualifiche da 1.70040 a 1.59441. Crispi ottenne dal Parlamento un incremento delle spese e il Corpo delle guardie di Pubblica Sicurezza nel 1887 arrivò a 5.000 uomini. Nel 1890 nacquero le Guardie di città ma per vedere aumentate le forze in campo si dovette attendere più di un decennio: nel 1901 c’erano 47 ufficiali e 7.555 guardie,42 nel 1906, rispettivamente, 70 e 10.855.43 Se si faceva poi un confronto con i paesi più sviluppati, la situazione italiana appariva francamente precaria: «In Francia ed in Inghilterra, ove la popolazione checché se ne dica, ha più largo senso morale e coadiuva lo Stato nella lotta contro il delitto, la proporzione del personale di polizia in rapporto alla popolazione è del quattro per mille».44 Mancava poi in Italia una figura intermedia tra il funzionario e la guardia, l’impiegato d’ordine «da adibirsi ai lavori di scritturazione ed alla tenuta degli archivi e dei registri (…) e non avverrebbe quello che avviene oggi, cioè che i funzionari adibiti ai servizi burocratici si credono lesi nella carriera e, quando non possono altrimenti sottrarvisi, disordinano gli archivi ed i registri e, col servizio, danneggiano se stessi».45 Dopo il 1860 erano stati assunti nella pubblica amministrazione ed anche in polizia molti patrioti e benemeriti della “causa nazionale”. Come ha scritto Amedeo Nasalli Rocca, in quello che è forse il più bel libro di ricordi scritto da un prefetto,46 “la disciplina dell’ammissione agli impieghi era, negli esordi dello Stato italiano, alquanto confusa: c’erano una infinità di patrioti benemeriti della “causa”, di “vittime” di cessati governi, più o meno autentici, da ricompensare, da sistemare, da contentare; alcuni veramente degni di rispetto e di considerazione, altri no, ma sostenuti da più o meno confessabili protezioni settarie; alcuni uomini di valore, altri inetti ed ignorantissimi. Tutti i ministeri erano pieni di patrioti; specialmente quello degli interni, negli uffici di polizia, delle

38 R.D. 21 novembre 1865, n. 2652. 39 R.D. 25 dicembre 1880, n. 5824. 40 R.D. 24 agosto 1865, n. 2487. 41 R.D. 30 dicembre 1881, n. 576. 42 Legge 30 giugno 1901, n. 269. 43 Legge 8 luglio 1906, n. 318. Cfr. FIORENTINO F., Ordine pubblico nell’Italia giolittiana, Roma 1978, pp. 23-41 44 CODRONCHI ARGELI G., Sul riordinamento cit., p. 217. 45 ALONGI G., L’organizzazione della polizia cit., p. 257. Il problema fu poi risolto negli anni di Giolitti (v. R.D. 31 agosto 1907, n. 690). 46 NASALLI ROCCA A., Memorie di un prefetto, Roma 1946. Interessante HUGHES S. C., La continuità del personale di polizia negli anni dell’unificazione nazionale italiana, in “Clio” 1990 n. 2, pp. 337-364.

83 carceri e delle prefetture, e quello della Pubblica Istruzione che aveva fornito cattedre a tutti i preti e frati stonacati.” Nel 1872 Lanza, scrivendo al prefetto di Palermo generale Medici aveva usato parole dure parlando del personale di polizia: «Comprendo bene che questo compito sarebbe molto agevolato dall’opera di buoni ufficiali ed agenti di P.S. La difficoltà sta di trovarli, essendo assai difficile di reclutarli, sia per la natura odiosa dell’ufficio, sia per difetto di buoni elementi in quella classe di persone dove provengono».47 Molti anni dopo il problema del reclutamento era ancora irrisolto e si continuava ad affidare le funzioni di polizia a “persone di corto intelletto e di scarsa cultura giuridica”48. Scrisse Gaetano Mosca: «Si può dire senza tema di errare che il valore medio di tutti gli agenti polizieschi, dal grado più basso al più alto, dalla guardia al questore, è sempre inferiore alla posizione che occupano. La causa principale di questa incapacità generale degli agenti di polizia sta principalmente nella ripugnanza che hanno i buoni elementi ad entrare in questa carriera. Pure mal si appone chi crede che questa ripugnanza, che è tradizionale, sia invincibile, ché anzi, come tante altre abitudini potrebbe esser tolta, se cessassero le cause che l’hanno fatta nascere. Prima di tutto bisognerebbe smettere assolutamente il vezzo, che in Italia in parte si conserva ancora, di accogliere nelle file della polizia dei cattivi soggetti e opporre così la canaglia organizzata e in divisa alla canaglia disorganizzata e in borghese. Ancora di un mascalzone, che dovrebbe essere ammonito, si fa alle volte un questurino; uno sfaccendato vizioso che ha qualche tintura d’istruzione può, se trova un protettore influente, diventare un delegato di pubblica sicurezza».49 Dunque, i problemi era tanti e gravi. Oltretutto, come ho già sottolineato, Lovera di Maria lavorò a Roma in missione ma senza dubbio l’incarico ministeriale favorì la sua nomina a Senatore arrivata nel novembre 1884. Egli partecipò abbastanza assiduamente ai lavori della Camera Alta. Il 1° novembre 1885, cessando dalle funzioni di direttore dei servizi di pubblica sicurezza, fu trasferito dalla prefettura di Livorno a quella di Torino, scambiando sede e funzioni con Bartolomeo Casalis, destinato a Roma alla Pubblica Sicurezza.

47 Le carte di Giovanni Lanza, a cura , vol. 8°, Torino 1939, p. 357. 48 ALONGI G., L’organizzazione della polizia cit., p. 256. Giolitti anni dopo affermò alla Camera che non vi era «altra classe di funzionari pubblici superiore al complesso del personale della Pubblica Sicurezza per correttezza, per buona volontà e per intelligenza». 49 MOSCA G., Sulla teorica dei governi cit. pp. 417-418.

84 Lovera di Maria mantenne per quasi sei anni l’incarico di prefetto nell’ex capitale50, sino al marzo 1891 quando si ritirò a vita privata, a 58 anni, «essendo sorte forte divergenze di idee tra lui ed il ministero, preferendo assai alla carriera il conservare quell’integrità di carattere che lo fece sempre e molto apprezzare»51. Pubblicò studi su questioni amministrative nella Rivista dei Comuni Italiani. Il sovrano con motu proprio del 22 dicembre 1895 gli concesse il titolo comitale. Morì a Torino il 5 febbraio 1900.52

50 ROMANELLI R., Il comando impossibile, Bologna 1988, p. 233. 51 LOVERA DI CASTIGLIONE C., Indagini storiche, cit., p. 31. All’epoca ministro dell’Interno era Giovanni Nicotera. 52 Notizie sparse su Ottavio Lovera di Maria sono in: Calendario del Regno d’Italia, 1862, parte VI, p. 141; “L’Illustrazione Italiana”, 2° semestre 1884, p. 400; STOPITI G., Ottavio Lovera di Maria senatore del Regno, Roma 1884; Annuario biografico universale 1884-1885 ( a cura di Attilio Brunialti), p. 375; DE GUBERNATIS A., Piccolo dizionario dei contemporanei italiani, Roma 1895, ad vocem; SARTI T, Il parlamento italiano nel cinquantenario dello Statuto, Roma 1898, ad vocem; DE CESARE R., La fine di un Regno, Città di Castello 1909 (nuova ed. 1975 p. 374); Enciclopedia biografica e bibliografica italiana. Ministri deputati senatori ( a cura di Alberto Malatesta), serie XLIII, vol. II, Milano 1941, p. 114; Gli archivi dei governi provvisori e straordinari 1859-1861, vol. II Romagne, provincie dell’Emilia, Roma 1961, p. 174; GUSTAPANE E. I prefetti dell’unificazione amministrativa nelle biografie dell’archivio di Francesco Crispi, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1984 n. 4, p. 1068; RANDERAAD N., Gli alti funzionari del Ministero dell’interno durante il periodo 1870-1899, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1989 n. 1, p. 253.

85 86 Achille Basile

87 La famiglia Basile era iscritta nell’elenco ufficiale della nobiltà e al ramo messinese di S. Angelo di Brolo appartennero illustri prelati e uomini di legge.1 Achille Basile nacque il 28 ottobre 1832. Partecipò giovanissimo alla rivoluzione siciliana del 1848 ed ebbe inizialmente simpatie repubblicane «mostrandosi fra i liberali più risoluti alle opere, ai cimenti, allo sbaraglio»2. Prima del 1860 visse a Palermo dando lezioni private di letteratura e filosofia e traducendo romanzi francesi.3 Un contemporaneo scrisse che «dei piccoli delitti di gioventù riferentisi a galanteria, nessun biografo serio deve occuparsi».4 Basile non godeva in gioventù di uno status sociale particolarmente elevato, tanto che fu definito «uomo che dal nulla sa crearsi una posizione alta, rispettabile e temuta».5 Ancora negli anni del governo borbonico si dedicò al giornalismo collaborando ai fogli “L’interprete” e la “Favilla” con Giuseppe Sensales ed altri.6 Erano più che altro esercitazioni letterarie poiché la cronaca e a maggior ragione i commenti politici erano banditi dai giornali siciliani dell’epoca. Dopo lo sbarco dei Mille entrò nelle file garibaldine e combatté a Milazzo.7 Abbandonati gli ideali repubblicani aderì senz’altro alle forze che sostenevano la soluzione unitaria sotto Casa Savoia. All’inizio del 1861 fu ammesso nella pubblica amministrazione come Intendente di Nicosia, con uno stipendio annuo di 4.000 lire. Basile si laureò in legge e non ancora trentenne ricoprì l’incarico di questore di Palermo rischiando anche la vita durante un tumultuoso sciopero di vetturini. Per la sua opera ricevette le lodi dei generali Pettinengo e Della Rovere. Dopo essere stato Sottoprefetto a Castelnuovo di Garfagnana, Gerace, Sciacca, Castroreale e Noto, nel settembre 1866 era in servizio a Palermo come

1 Enciclopedia storico-nobiliare italiana, ad vocem, vol. 1°, Milano 1929, pp. 301-302. 2 Dizionario del Risorgimento Nazionale, ad vocem, vol. II, Milano 1930, p. 197. 3 Rimase sempre in Basile la passione per le belle lettere e da prefetto nei discorsi fece spesso sfoggio di cultura. Tra l’altro, pubblicò i profili biografici di eminenti scrittori siciliani. 4 DE GREGORIO P, Appendice all’opera “Parlamento subalpino e nazionale” di Telesforo Sarti, Terni 1893, p. 993. 5 Ibidem. 6 Giuseppe Sensales, entrato nell’amministrazione dell’Interno, compì una brillante carriera, tanto da ricoprire il ruolo di Direttore generale della P.S. dall’ottobre 1893 all’aprile 1896. Era il primo meridionale a raggiungere i vertici della polizia. Alla morte lasciò in beneficenza un patrimonio di 1.200.000 lire del tempo (v. D’URSO D., I Direttori generali della pubblica sicurezza, Alessandria 1994, pp. 45-59). 7 DE CESARE R., La fine di un Regno, vol. II, Roma 1975, p. 297.

88 Consigliere delegato (l’odierno Viceprefetto vicario), quando esplose la rivolta che costò tanti lutti. La sommossa colse di sorpresa le autorità a cominciare dal prefetto Torelli che, da buon lombardo, aveva ordinato di distruggere le lettere anonime senza neanche leggerle, «sistema pazzesco in un paese come la Sicilia dove, essendo le lettere anonime un’istituzione, ignorarle significava tagliarsi una fonte preziosa d’informazioni, e sia pure di informazioni da controllare di volta in volta»8. Torelli in aprile aveva sostituito Filippo Antonio Gualterio9 mentre la questura era affidata a Felice Pinna, arrivato un anno prima da Bologna con fama di uomo energico e abile. L’ottimismo del questore «si manifestò improvviso proprio nei mesi immediatamente precedenti l’effettivo scoppio della rivolta e contrastava con la precedente tendenza a credere a tutte le voci, a prendere per buoni tutti gli allarmi, ad arrestare tutti i sospetti, anche a rischio di esporsi al discredito che poteva derivargli dalle successive sentenze assolutorie dell’autorità giudiziaria»10. Il “sette e mezzo” (le giornate della sommossa) di Palermo non ebbe connotazioni precise e si imputò indifferentemente a filo-borbonici, clericali, mazziniani.11 Forse c’era tutto questo ma soprattutto un profondo malessere per le condizioni dell’isola in quei primi anni dopo l’Unità, con uno stato centrale ossessionato dal timore della disgregazione.12 I rivoltosi palermitani nel settembre 1866 occuparono la città con esclusione delle carceri e di pochi altri edifici pubblici. Le autorità si asserragliarono nel Palazzo reale guidate dal prefetto Torelli e dal sindaco marchese di Rudinì la cui casa fu saccheggiata. La situazione parve a tal punto disperata che i comandanti militari, generali Carderina e Righini, che intanto avevano indossato abiti borghesi, espressero l’avviso che un’ulteriore resistenza non fosse possibile.13 A salvare la situazione arrivò via mare una spedizione

8 ALATRI P., Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra, Torino 1954, p. 121. 9 NADA N.- PACIFICI V.- UGOLINI R., Filippo Antonio Gualterio, Perugia 1999, pp. 102- 107; GALLO CARRABBA A., Storia di Prefetti: il primo decennio unitario a Palermo, in “Instrumenta” n. 13, gennaio – aprile 2001, pp. 361-377. 10 ALATRI P., Lotte politiche, cit., p. 122. 11 I moti di Palermo del 1866. Verbali della Commissione parlamentare di inchiesta, Roma 1981. 12 Rimase famosa la campagna condotta contro renitenti e disertori dal generale Govone il quale assediò paesi, tagliò rifornimenti idrici, fece arrestare familiari e parenti dei ricercati. A Gangi un ufficiale, non avendo trovato un renitente, arrestò la moglie che abortì mentre due figlioletti, troppo piccoli per seguire la madre, furono abbandonati nella casa chiusa a chiave. Ancora più scandaloso e quasi incredibile quanto capitato al sordomuto Antonio Cappello che, arrestato come renitente, fu torturato perché non rispondeva alle domande! 13 Molti particolari si leggono nel volume di MONTI A., Il conte Luigi Torelli, Milano 1931. Luigi Torelli a Palermo dava udienza settimanale nello stesso giorno e nella stessa saletta già

89 guidata dal generale Raffaele Cadorna. Ha scritto Alfredo Oriani: «Perirono nella mischia quasi cento soldati e trecento furono feriti, degli altri non si volle fare il conto perché sarebbe stato troppo difficile e vergognoso».14 Cadorna assunse la carica di Regio commissario per la città e provincia di Palermo. Fu proclamato lo stato d’assedio ed entrarono in funzione i tribunali militari.15 L’arrivo di Cadorna rese superflua la presenza di Torelli che lasciò Palermo lasciando le consegne a Basile che esercitò in prefettura le poche funzioni che Cadorna non volle riservare a sé. Quando un anno dopo furono distribuite le ricompense, Torelli e Rudinì ebbero la medaglia d’oro, Basile ed altri ventisette la medaglia d’argento. A soli 34 anni arrivò per Achille Basile la promozione a prefetto di terza classe con destinazione Girgenti (l’odierna Agrigento). Lì si distinse come «persecutore del malandrinaggio, non arrestandosi alle persone sedenti in alto»,16 ma l’autorità giudiziaria lamentò un’invadenza da parte sua e, anche per le lagnanze di notabili locali, nel giugno 1870 fu trasferito a Siracusa. Alcuni mesi dopo egli s’espresse così, dopo un colloquio con Lanza, Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno: «V.E. avrà potuto rilevare come io ero dominato da una viva emozione. Io temevo di non essere accetto e, d’altra parte, avevo paura di recarle fastidio con la lunga narrazione de’ dolorosi motivi, che mi fecero segno ad accuse immeritate. È sottotali impressioni ch’io dovevo parlare e son dolente di non averlo fatto con quella calma e con quell’ordinato sviluppo che la gravità dell’argomento avrebbe richiesto[...] Non potrei darmi pace, sino a quando Ella potesse credermi menomamente in colpa. Questo solo dubbio mi farebbe parer nulla il dimettermi anche immediatamente. Non è soltanto col Ministro ch’io voglio giustificarmi, mi preme anzi di più convincere V.E. personalmente della irreprensibilità della mia condotta. Orbene, io sento in me che iersera non sono stato buono a difendermi come andava fatto. In preda ad una invincibile trepidazione, contati come dovevano essere i miei minuti, con lo schianto di un’anima dilaniata dalle turpi insinuazioni della calunnia, io non trovavo più la parola adatta a rendere i miei concetti, e mi sfuggiva anche di mente di adibita a quell’uso dal vicerè, solennemente seduto – come i suoi predecessori d’Ancien Régime – sul tronetto dorato. Egli avrebbe voluto abolire quell’usanza, ma “unanimi quelli del luogo mi dissero che pessimo sarebbe stato l’effetto, che avessi pazienza e sopportassi, perché sopprimerla così d’un colpo era pericoloso» (RANDERAAD N., Autorità in cerca di autonomia, Roma 1997, p. 55). 14 ORIANI A., La lotta politica in Italia, vol. III, Firenze 1921, p. 214. 15 RIALL L., Legge marziale a Palermo: protesta popolare e rivolta nel 1866, in “Meridiana” n. 24, settembre 1995, pp. 65-94. 16 DE GREGORIO P., Appendice, cit., p. 993.

90 richiamare l’attenzione della E.V. sugli altri attacchi ai quali, conniventi alcuni funzionari dell’ordine giudiziario, sono stato pur fatto segno, attacchi promossimi in nome di un Antinoro e di un Macaluso, e che poterono trovare eco perfino nella Camera, vero è che ne fu interprete l’onorevole Morelli Salvatore!17 Tacqui pure di recenti interpellanze rivoltemi dal Presidente della Corte di Assise di Palermo, che appunto a me chiede notizie su addebiti reciprocamente fattisi da magistrati di Girgenti, e non mi perito a dire che non ho risposto né risponderò mai a tali interpellanze, avendo pur troppo imparato a mie spese cosa costi in certi casi il parlar chiaro [...] Non abituato a trattare da vicino con eminenti uomini di Stato, uscito appena qualche volta dal romitaggio della vita di provincia, geloso in grado superlativo del mio onore e della mia reputazione di onesto funzionario, al cospetto della E.V. a cui credevo di presentarmi quasi in aria di colpevole, la emozione l’ha vinta sulla ordinaria tranquillità dell’animo mio.»18 Nel 1867 un’epidemia di colera colpì molte parti d’Italia compresa la Sicilia. Edmondo De Amicis, allora ufficiale dell’esercito, raccontò quegli avvenimenti con accenti toccanti parlando della superstizione, della paura e della miseria delle plebi: «Per colmo di sventura si propagava ogni dì di più e metteva radici profonde nel popolo l’antica superstizione che il colera fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo, che il volgo di gran parte dei paesi del mezzogiorno, per uso contratto sotto l’oppressione del governo cessato, tiene in conto d’un nemico continuamente e nascostamente inteso a fargli danno per necessità di sua conservazione […] Gli ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di aborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi trasportare negli ospedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal volgo che le medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Occultavano i cadaveri per non esser posti in isolamento, o perché ripugnavano dal vederli seppelliti nei campisanti, invece che nelle chiese, come è uso di molti di quei paesi; o per la stolta opinione che sovente gli attaccati dal colera paiano, ma non siano morti davvero, e rinvengano dopo qualche tempo. Si poneva ogni cura a eludere le ricerche delle Autorità […] Intere famiglie, accusate di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni ai piedi degli altri

17 Questo parlamentare meridionale è ricordato come antesignano dei diritti delle donne e fautore del divorzio. Le sue idee fortemente innovatrici provocarono roventi polemiche soprattutto negli ambienti clericali (v. “Il Pensiero Mazziniano”, 1970 n. 6).

91 senza aver tempo di scolparsi o di supplicare; e si ardevano le case e si disperdevano le rovine […] Nelle città cessata ogni frequenza di popolo, deserto ogni luogo di ritrovo pubblico, spento in ogni parte lo strepito allegro della vita operaia, le strade quasi deserte, le porte e le finestre in lunghissimi tratti sbarrate, l’aria impregnata del puzzo nauseabondo delle materie disinfettanti di cui le strade erano sparse. Il generale terrore veniva accresciuto dal ricordo delle grandi sventure patite negli anni andati; se ne predicevano, come sempre accade, delle peggiori; in ciascuna provincia si esageravano favolosamente le stragi delle altre; in campagna si narravano orrori della moria delle città, in città altrettanto della campagna.» 19 Basile «combattette gli antichi, terribili pregiudizi di quelle popolazioni».20 Quando era a Siracusa subì un richiamo per una lettera indirizzata al Ministero di Agricoltura e Commercio «giudicata poco conveniente nella forma e poco dignitosa nella sostanza».21 Quando si conobbe la notizia del suo trasferimento, rappresentanze di enti locali e associazioni chiesero inutilmente che rimanesse. In Sicilia la vita dei funzionari governativi e, in particolare, dei prefetti non era facile, come denunziò Leopoldo Franchetti nel saggio Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: «Tutti coloro cui l’applicazione della legge toglie un guadagno illecito, un mezzo d’influenza, o scema per poco la reputazione d’onnipotenza e d’infallibilità, e con loro tutti i loro parenti, amici o aderenti, principiano un coro di lamenti e di recriminazioni; s’ordisce una congiura di accuse, al bisogno di calunnie, senza posa. Si cerca l’aiuto di persone influenti a Roma, si reclama l’alleanza del deputato del collegio, quando si sia contribuito alla sua elezione; s’invoca la protezione del senatore più vicino. Il funzionario vede nascere, crescere ed ingigantire intorno a sé la bufera. A meno che sia dotato di una energia sovrumana, cerca istintivamente un sostegno. Se vi ha in paese un partito opposto alle persone che hanno avuti lesi i loro interessi, l’appoggio è bell’e trovato: non occorre cercarlo, si presenta da sé. E sarebbe chieder troppo ad un impiegato il volere che, assalito con tanto accanimento, mal sicuro dell’appoggio dei suoi superiori, egli non si abbandoni nelle braccia che si porgono con tanta cordialità, e non accetti l’alleanza offertagli. Da quel momento in poi, per un processo naturale dell’animo umano, qualunque pensiero,

18 Le carte di Giovanni Lanza, a cura di Cesare Maria De Vecchi, vol. 7°, Torino 1939, pp. 58-60. 19 DE AMICIS E., L’Esercito Italiano durante il colera del 1867, in Pagine militari, Roma 1988, pp. 95-98. 20 AMATO D., Cenni biografici degli illustri uomini politici, Napoli 1891, p. 436. 21 GUSTAPANE E., I prefetti dell’unificazione amministrativa nelle biografie dell’archivio di Francesco Crispi, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1984 n. 4, p. 1065.

92 per quanto fosse prima dominante nella mente di quel funzionario, ne sparisce a poco a poco per dar luogo alla cura immediata della sua difesa: ed il successo di questa dipende dall’aiuto dei nuovi alleati. Poco a poco è trascinato a fare tutte quelle concessioni che devono assicurargli questo aiuto, e di concessione in concessione, arriva a tollerare, a favorire, a vantaggio di quelle, le stesse illegalità, per impedire le quali egli ha sollevato contro di sé la tempesta. Da allora in poi egli diventa l’istrumento del partito o della camarilla, che l’ha preso a proteggere. Questa lo porta attorno come un trofeo della sua potenza, ne fa un’arme per i suoi soprusi, e se prima aveva da combattere aspramente ogni giorno per guadagnare e conservare una preponderanza mal sicura, adesso trionfa addirittura e s’impone senza contrasto per mezzo di lui.»22 Dal luglio 1871 nuova sede di servizio di Basile fu Ravenna, provincia notoriamente “calda” per la forte presenza di internazionalisti e repubblicani. Solo l’anno prima era stato ucciso il prefetto-generale Carlo Escoffier, anche se nel drammatico fatto mancarono connotazioni politiche.23 A Ravenna maturò un forte contrasto tra Basile e il questore Serafini tanto da indurre il primo a chiedere d’essere trasferito. Il prefetto di Bologna, Cesare Bardesono, l’8 giugno 1872 scrisse riservatamente a Lanza: «La notorietà del disaccordo fra (Basile) e il questore Serafini e la posizione fatta a quest’ultimo col suo ritorno a Ravenna hanno esautorato interamente il Prefetto e offrono in quella Provincia un singolare spettacolo di debolezza governativa[...] Credo che uno dei due debba ritirarsi da Ravenna prima che il Governo sia nella necessità di misurare le sue forze col partito sovversivo. Il Prefetto Basile divide questa mia convinzione e riconobbe meco lealmente che nell’intento suo e del Governo il partito migliore era la sua propria traslocazione perché col prestigio di cui gode oggi il Questore Serafini a Ravenna, se il Governo lo richiamasse desterebbe una riprovazione generale e farebbe al Prefetto una posizione intollerabile [...] Basile veniva a dirmi che egli non aveva alcun mezzo di far prevalere le sue idee e la sua autorità.»24 Lanza nel luglio 1872 mandò Basile a Salerno, da dove aveva allontanato il prefetto Belli travolto dalle polemiche per il sequestro del possidente Mancusi da parte della banda di Gaetano Manzo, già famoso per analoghi ricatti a danno di cittadini inglesi e svizzeri. La caccia alla banda continuò accanitamente per mesi ma senza risultati. In un manifesto del 30 dicembre 1872 Basile promise un premio di 10.000 lire per la cattura del capo: la

22 FRANCHETTI L.- SONNINO S., Inchiesta in Sicilia, Firenze 1974, pp. 50-51. 23 D’URSO D., L’omicidio Escoffier fu un delitto politico? No, peggio!, in “Amministrazione civile”, giugno 2005, pp. 46-48. 24 Le carte di Giovanni Lanza, cit., vol. 8°, Torino 1939, pp. 176-177.

93 somma sarebbe stata consegnata personalmente «nella sede di quest’ufficio di Prefettura nel termine di 24 ore a decorrere dal momento in cui il relativo servizio sarà stato reso»”. A quel periodo risale una strana lettera indirizzata a Lanza dal ministro di Grazia e Giustizia: «Latore di questa è il Procuratore regio di Salerno. Sentirete da lui cose gravissime e che in verità sembrano incredibili». La banda Manzo sembrava inafferrabile ma quando passò dalla provincia di Salerno a quella di Avellino con lo scopo di sequestrare il deputato Grella cadde in una trappola mortale predisposta dal prefetto Casalis e fu distrutta.25 Basile ebbe a Salerno forti contrasti col sindaco Matteo Luciani e le sue interferenze nelle elezioni furono pesanti.26 Nel marzo 1874 passò alla sede di Arezzo dove rimase sino al marzo 1876, poi andò per pochi mesi a Reggio Calabria, successivamente a Parma dove morì la moglie baronessa Adelaide Rivas di Messina, madre di numerosa prole. Trasferito a Catania vi rimase sino al febbraio 1880. Dalle note riservate risulta che il Ministero gli addebitò leggerezza nei rapporti col questore. In quattordici anni Basile aveva cambiato ben sette sedi. A Milano, dove arrivò da Catania, rimase invece due lustri sino al 1890 e «l’opera sua fu accetta ad amici ed avversari, locché significa molto»27. Leggiamo ancora le note riservate: «È abile e capace, anche se non sempre ottiene risultati positivi nelle operazioni di polizia ed in quelle elettorali. I tratti salienti del carattere sono l’ambizione e una certa dose di presunzione, che lo rendono poco amato dai suoi sottoposti, perché egli ritiene di far tutto da sé. Non sa far nulla senza chiasso, e le cose le più semplici e le più naturali sono da lui gonfiate in modo da prendere delle proporzioni esagerate e teatrali. È accorto ed abbastanza destro da tenersi in piedi bene e mantenersi in una certa reputazione dinanzi al pubblico, di cui ama gli applausi.»28 Il giornalista Francesco Giarelli scrisse: «Riveggo la barba fulvo-dorata di Achille Basile che entrato con affettuoso entusiasmo nella vita militante di Milano, segnava ogni altra settimana di carriera con una nuova opera di beneficenza a pro di questo o di quell’istituto di carità o di istruzione popolare; e, amico dell’arte, dopo una faticosa giornata di lavoro

25 D’URSO D., Il brigantaggio ad Acerno. Protagonisti e vicende, Salerno 2001, pp. 10-18. 26 LUCIANI M., I casi municipali di Salerno, Napoli 1874; SERIO M., Matteo Luciani, in “Rassegna storica salernitana”, gennaio-marzo 1938; MOSCATI A., Matteo Luciani, Salerno 1945; CESTARO A., Rapporti tra autorità civili e autorità ecclesiastiche a Salerno dal 1860 al 1872, in “Rassegna di politica e di storia”, (IX) dicembre 1963, pp. 13-14; ROSSI L., Una provincia meridionale nell’età liberale, Salerno 1987, p. 131. 27 DE GREGORIO P., Appendice, cit., p. 994. 28 GUSTAPANE E., I prefetti dell’unificazione, cit., p. 1065.

94 aridamente burocratico, finiva la serata nel suo palchetto al teatro Manzoni, dove irresistibilmente lo traeva il fascino della buona commedia.»29 Per un altro contemporaneo: «Basile è ancora giovine, ha simpatico aspetto, i suoi capelli sono rossi, i suoi occhi brillano ed hanno, nel tempo stesso, qualche cosa di vellutato ed una dolcezza inesprimibile. La sua anima è tutta intera nei suoi occhi.»30 Tutti concordano sull’imponenza della figura e sull’eleganza dell’abbigliamento definita “diplomatica”. Gli anni di Basile a Milano furono segnati da pochi scioglimenti di consigli comunali e rari annullamenti di elezioni. Ciò da un lato indica che l’amministrazione locale era condotta in modo regolare, dall’altro che a Milano il prefetto si serviva piuttosto degli interventi non ufficiali per tenere sotto controllo il quadro politico.31 Nel capoluogo i gruppi moderati facevano capo al banchiere Giulio Belinzaghi sindaco dal 1868 al 1884 ed erano chiusi «entro schemi austeri e dottrinari di intransigentismo conservatore»32. Dopo Belinzaghi emerse la figura di Gaetano Negri “sindaco di ferro” dal 1885 al 1889. Le elezioni politiche svoltesi in quel decennio non ebbero sempre l’esito auspicato da Basile. Da un lato c’era quella destra conservatrice fortemente ostile a Depretis e Crispi, dall’altro forze radicali e democratiche in crescita di consensi. Basile fu “mortificato e impaurito” per i risultati del 1882 e temette la rimozione.33 Quattro anni dopo Milano mandò in Parlamento ben quattro deputati radicali (Cavallotti, Mussi, Maffi e Marcora) e solo nelle campagne continuarono a prevalere i candidati cosiddetti costituzionali. Nel 1890 furono eletti Cavallotti e Mussi, un moderato anticrispino (Colombo) e solo due sostenitori del governo, Ponti e Beltrami. In una lettera indirizzata a Crispi da “Urbanino” Rattazzi il 5.10.1889 si legge che l’opera di Basile contro le forze anti-governative era «in gran parte paralizzata dall’inerzia del procuratore generale alla Corte d’Appello comm. Celli, il quale, esagerando forse anche per naturale inerzia le istruzioni del suo ministro di procedere con molta circospezione e ponderatezza nelle cause che hanno titolo o carattere politico, lascia che queste dormano, frustrando così l’azione dell’autorità politica».34

29 GIARELLI F., Vent’anni di giornalismo, Codogno 1896, p. 425. 30 GALATI D., Gli uomini del mio tempo, Bologna 1882, p. 365. 31 Uno studio di Anna Rita Ostinelli sull’attività della prefettura di Milano nel decennio di Basile è nel volume miscellaneo Le riforme crispine, Archivio ISAP n. s. 6, Milano 1990. 32 CASTRONOVO V., La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Bari 1976, p. 116. 33 CAROCCI G., Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino 1956, p. 291; v. anche BARTOLI D., L’Italia burocratica, Milano 1965, p. 68. 34 FONZI F., Crispi e lo «Stato di Milano», Milano 1965, p. 11.

95 Invece, le convenienze politiche del momento avevano spinto Crispi, nel gennaio 1888, a telegrafare così a Basile: «Vedete di salvare Cavallotti da una sentenza che tocchi la sua reputazione». Il prefetto riferì al Presidente del Consiglio l’esito parzialmente positivo del suo interessamento presso i magistrati: «Di più non è stato possibile ottenere».35 La campagna contro Crispi del foglio progressista “Il Secolo” divenne violentissima36 e le dure critiche dell’opposizione alla politica governativa colpirono anche i rappresentanti locali del potere centrale.37 Nel luglio 1881 la Confederazione operaia lombarda tenne a Milano il suo primo congresso. Inutilmente Depretis «spinto dagli affaristi interessati ma preoccupato soprattutto di creare in tal modo un diversivo al movimento operaio locale, faceva pressioni in favore della rapida riuscita delle trattative per dare inizio al rinnovamento edilizio di Milano».38 Nel settembre 1885 fu celebrato il 25° anniversario dell’Associazione generale degli operai e il prefetto diede la sua adesione: era «la parte della classe lavoratrice che ancora viveva nell’ambito degli interessi dei moderati».39 Lo stesso anno il Partito Operaio Italiano tenne il primo congresso nazionale. Secondo il prefetto, quel partito era «diretto ad organizzare, arte per arte, le falangi del proletariato, ed affratellarle in nome di un comune diritto, il diritto all’assistenza in nome di un comune metodo di lotta, la resistenza al capitale».40 Il foglio di propaganda “Fascio Operaio” subì ripetuti sequestri e nel giugno 1886 il P.O.I. fu sciolto. «Un bel giorno, o piuttosto una brutta notte, lanciatogli contro l’interdetto, la sede del partito a Milano, insieme a parecchie sezioni in provincia, furono perquisite, i capi arrestati e gettati in carcere, e le chiavi delle sedi portate via dalla polizia».41 Al processo «gli imputati e i loro difensori propugnarono apertamente le teorie socialiste e il procuratore del re Municchi42 ne chiese la condanna quando provocano all’azione. Il 31 gennaio 1887 uscì il verdetto dei giurati che ammise per tutti la provocazione agli scioperi e per uno anche la provocazione

35 Idem, p. 181. 36 BARILE L., Il Secolo, Torino 1980, p. 183. 37 FONZI F., cit., p. 176. 38 CAROCCI G., cit,, p. 492. 39 Storia di Milano, vol. XV, Roma 1962, p. 232. 40 Idem, p. 505. 41 MERLINO F. S., L’Italia qual è, Milano 1974, p. 218. 42 Carlo Municchi, lasciata la magistratura, fu prefetto di importanti provincie tra cui Milano.

96 alla guerra civile […] Il risultato importante del processo è che il Partito operaio è sciolto definitivamente. I giudici popolari hanno confermato il decreto della Prefettura.»43 fondò la Lega socialista milanese e nel 1888 un gruppo di scrittori legati alla Scapigliatura pubblicò il libro Il ventre di Milano. Fisiologia della capitale morale, spietata analisi delle condizioni di vita delle classi più povere. Nel 1889 Basile autorizzò la manifestazione per la pace e la fratellanza fra i popoli ma il 1° maggio 1890 il tentativo operaio di celebrare la festa dei lavoratori fu represso. Scrissero i giornali: «La distribuzione delle truppe era stata fatta con criteri strategici, per cui in pochissimi minuti la forza poteva accorrere in qualunque punto della città venisse dato l’allarme. I soldati e agenti dell’ordine occupavano tutti quegli edifici comunali e governativi che per la loro ubicazione erano stati riconosciuti come opportuni centri di sorveglianza.» Pare che per le strade di Milano quel giorno ci fossero soprattutto passanti e curiosi, pochi gli operai manifestanti consapevoli. Gli scrosci di pioggia indusse molta gente a ripararsi in Galleria e quando fu dato l’ordine di sgomberare avvennero scene quasi comiche, secondo i cronisti: «Chi veniva sbattuto fuori da una parte rientrava sghignazzando dall’altra, in una sorta di rimpiattino grottesco; fino a che alla buon’ora la Galleria non fu vuota, ma tutti i curiosi, al colmo del divertimento, si erano addensati sotto i portici. Alla fine gli ispettori di P.S., preso atto dell’inutilità dei loro sforzi, oltre che della comica figura a cui furono costretti, conclusero che, non essendovi più operai tra la folla, la loro missione poteva dirsi felicemente conclusa e ritirarono le truppe. Bilancio finale della sceneggiata: cinquanta arresti.»44 Basile «combatté fieramente la pellagra,45 compì reclamate ed utili inchieste igienico- sociali sulle condizioni dei contadini, con generose proprie elargizioni, con la sua influenza e magnanimità istituì forni economici, diede sussidi ad opere intellettuali e persino stabilì in proprio nome dei premi in parecchie scuole popolari e professionali».46 Per quanto riguarda la cronaca nera, fra il 1881 e il 1883 il quartiere meneghino di Porta Genova fu turbato dalle gesta di una banda che fu chiamata Seconda compagnia della

43 “L’Illustrazione Italiana”, 6 febbraio 1887, p. 117. 44 “La Martinella di Milano”, maggio 1985, 9. Sui fatti del 1° maggio 1890 v. anche BARILE L., cit., pp. 183-184; “L’Illustrazione Italiana”, 4 maggio 1890, p. 307 e 11 maggio 1890, p. 323; Il 1° maggio nel Parlamento italiano, in Il Parlamento italiano, vol. 6° (1888-1901), Milano 1989, pp. 108-110. 45 Le condizioni sanitarie della provincia di Milano: atti della commissione di inchiesta nominata dal prefetto di Milano comm. Achille Basile per le indagini sulla pellagra, Milano 1885. 46 AMATO D., cit., p. 435

97 teppa.47 «La Milano degli anni 1880-1890 somiglia di notte alla Parigi di Zola e di Lautrec: strade strette e buie, osterie sotto il livello del marciapiede, selciati a grosse pietre su cui risuonano i tacchi delle ronde, ubriachi vagolanti e, sotto la luce azzurrina dei fanali a gas, bravacci vestiti come gigolo, coi pantaloni attillati, di velluto a coste, il berretto a visiera e una fascia in vita che cela il maresciall, il coltello ricurvo. È il costume del fort, cioè del duro, e spesso del magnaccia».48 La prostituzione era diffusa. La legge voluta da Crispi nel 1888 «eliminava il controllo ad personam sulle meretrici e concedeva alla polizia esclusivamente il diritto di vigilare sulle case di tolleranza per impedire che vi avvenissero dei disordini; aboliva gli uffici sanitari ed i sifilocomi, sostituendo gli uni e gli altri rispettivamente con dispensari celtici aperti a tutta la popolazione e con speciali sezioni dermosifilopatiche da istituire negli ospedali civili; vietava ai tenutari dei postriboli di impiegare nei propri esercizi ragazze aventi meno di 21 anni».49 La polizia milanese del tempo è stata magnificamente descritta da Francesco Giarelli.50 C’era il questore Micaelis, più letterato che poliziotto, che si compiaceva non tanto dei successi professionali ma dei suoi studi su Orazio. Amour era invece «funzionario chiuso, rigido, severo che vedeva forse troppo nero dappertutto». Santagostino era mite di carattere e sempre con forme di gentiluomo, proveniva dalla magistratura e Basile che lo conosceva lo volle con sé a Milano. L’ispettore Barosi vedeva i giornalisti come il fumo negli occhi «ond’è che quei signori costretti a ricorrere a lui lo facevano coll’entusiasmo di chi deve ingoiare un’oncia di ricino». Il più originale era però il maggiore delle guardie Domenico Cappa, imparentato con Rosa Vercellana, il quale a Torino era stato addetto alla sicurezza del conte di Cavour e in libri di memorie non mancò di riferire sulla vita privatissima dello statista. Vestiva raramente la divisa preferendo «calzoni neri, stiffelius a lunghe falde, cravatta nera al collo, alto cappello a cilindro in testa, grossa canna fra le mani: figura pacificamente tranquilla di magistrato in ritiro». Vestito in quel modo Cappa interveniva in tutte le emergenze e i pericoli. Il suo coraggio era leggendario e così la sua religiosità: prima di ogni azione non mancava di pregare nella chiesa di S. Fedele o davanti

47 L’Illustrazione Italiana, 2 dicembre 1883, p. 360; DE CRISTOFARO A., Una pagina storica di cronaca nera milanese: il processo alla seconda Compagnia della Teppa, in “Storia in Lombardia”, 1992, n. 1. 48 CASTELLANETA C., Storia del costume: malavita a Milano nell’800, in “Storia Illustrata”, novembre 1959, p. 128. 49 DE CRISTOFARO A., Il problema della prostituzione nella Milano postunitaria, in “Storia in Lombardia”, 1992 n. 2, p. 34. 50 Vent’anni di giornalismo, cit., pp. 246-252.

98 una cappelletta della Vergine. L’uso ancora diffuso del dialetto faceva della questura di Milano una piccola babele con prevalenza degli idiomi lombardi, piemontesi e liguri. Achille Basile a 51 anni sposò in seconde nozze Carlotta Bossi vedova dell’architetto Mengoni, progettista della Galleria morto cadendo da un ponteggio. Col nuovo matrimonio Basile «s’imparentò con patrizie e stimate famiglie della Provincia lombarda».51 poeta d’occasione scrisse un’ode per le nozze celebrate nel novembre 1883.52 “L’Illustrazione Italiana” del 17 agosto 1890 commentò così la partenza del prefetto Basile per Napoli: «Dopo dieci anni ci eravamo avvezzati a crederlo inamovibile. Bell’uomo, ben piantato, pieno di garbo, magniloquente alle sue ore. Aveva belle parole e sorrisi per tutti: s’occupò poco di politica, salvo nei momenti topici; nell’amministrazione lasciò fare, comprendendo che questa è la sola città d’Italia che ama e sa governarsi da sé. Si appassionò per alcune cose utili: le cucine economiche, la cura dei pellagrosi. Coltivò così l’amicizia di tutti ed ora che sta per lasciarci non ha che i complimenti di tutti e gode il rammarico generale. È con vivo dispiacere ch’egli lascia Milano ed è con vivo dispiacere che i milanesi lo vedono partire». Secondo un cronista un po’ untuoso «la bella notizia della sua meritata nomina ha riempito di gioia i cuori dei napoletani, che avranno in lui un intelligente, operosissimo, zelante funzionario che ha lasciato un bel nome e un grato ricordo di sé nella provincia lombarda.»53 Basile di lì a poco ottenne il laticlavio. La nomina a senatore era tra le massime aspirazioni di un prefetto di sede importante, anche se non portava benefici economici. Durante il soggiorno partenopeo Basile ebbe una particolarissima incombenza: tenere d'occhio l’erede al trono Vittorio Emanuele nelle sue avventure d’alcova con ballerine e frequentatrici «di certi salotti e salottini che di rispettabile avevano solo la

51 AMATO D., cit., p. 435. 52 Figli di secondo letto furono Carlo Emanuele, Ferdinando,Umberto,Valentina. Il primogenito, nato a Milano nel 1885, laureato in legge, fu volontario di guerra decorato di due medaglie di bronzo al valor militare, Sindaco e Podestà di Stresa per molti anni, componente del direttorio del P.N.F., deputato, durante la R.S.I. Capo della provincia di Genova e per questo imputato in clamorosi processi nel secondo dopoguerra, morto nel 1972. Il secondogenito Ferdinando, nato a Milano nel 1887, laureato in legge, fu decorato di medaglia d’argento al valor militare. Umberto nato a Stresa nel 1888, ufficiale dei Lancieri di Novara, decorato di due medaglie d’argento al valor militare, morì nel primo conflitto mondiale. 53 AMATO D., cit., p. 436.

99 facciata.»54 Pare che le relazioni riservate del prefetto mettessero di buon umore i reali genitori. Basile non ebbe a Napoli vita facile e per altri motivi:«Napoli era un terreno pericoloso al quale lo si chiamava; gli scogli erano pur troppo forti e duri assai, e non diciamo che vi avesse dato di capo; ma forse dovette capitolare. I partiti di Napoli con Nicotera al potere55 ingagliardiscono sempre maggiormente e diventano indomabili”.56 Dopo neanche due anni fu trasferito a Venezia, sede prestigiosa ma non quanto le precedenti. Morì nella città lagunare il 20 febbraio 1893 a 61 anni57. “L’Illustrazione Italiana” lo ricordò come un prefetto simpatico e popolare: «Il sen. Basile, pur non scontento del soggiorno materiale di Venezia, venne qui a malincuore. Dopo aver retto Prefetture dell’importanza di Milano e Napoli, il trasloco a Venezia non poteva non sembrargli una diminuzione d’autorità, un procedere a rovescio nella carriera. Uomo di fegato, di battaglia, funzionario specialmente politico, il Basile qui si trovò fuori di posto. Il Pasolini58 soleva dire, la Prefettura di Venezia equivale all’anticamera del riposo, della quiescenza. In mancanza di meglio, e perché carico di famiglia senz’essere ricco, il comm. Basile accettò, lo scorso luglio, la destinazione fra le lagune, ma a patto di rimanervi solo in via transitoria; ambiva ritornare a Milano, e pare anche avesse avuto degli affidamenti in tutta confidenza. Fatto sta che la nomina del Winspeare59 in luogo del Codronchi60 lo accorò fuor di misura. Tre giorni addietro ebbe un grande travaso di bile e oggi (20 febbraio) morì, senza che una malattia fisica si determinasse con tanta violenza da uccidere un uomo ancora rigoglioso com’egli era.»61

54 MONTANELLI I. – CERVI M., L’Italia del Novecento, Milano 1999, p. 10. 55 Il focoso Nicotera, dopo essere stato ministro dell’Interno con Depretis negli anni 1876- 1877, lo fu anche con Rudinì nel 1891-1892. 56 DE GREGORIO P., Appendice, cit., p. 994. 57 Poche notizie biografiche su Achille Basile si trovano in Enciclopedia biografica e bibliografica italiana. Ministri deputati, senatori dal 1848 al 1922, a cura di Alberto Malatesta, vol. 1°, Milano 1940, p. 85; Il Risorgimento italiano. Gli uomini politici, a cura di Pietro Fedele, vol. 1°, Milano 1941, p. 113; Dizionario dei siciliani illustri, Palermo 1939 p. 59; RANDERAAD N., Autorità in cerca di autonomia, cit., p. 290; La prefettura di Roma, a cura di Marco De Nicolò, Bologna 1998, pp. 44-45. 58 Giuseppe Pasolini (1815-1876) fu importante uomo politico, prefetto di Milano, Torino, Venezia, presidente del Senato. 59 Su Antonio Winspeare, prefetto di Milano dal febbraio 1893 al maggio 1898, v. RIZZO M. M., Per una storia dei ceti dirigenti tra Otto e Novecento, Lecce 2000. 60 Giovanni Codronchi Argeli era stato prefetto di Milano, succedendo a Basile, dall’agosto 1890 al febbraio 1893. 61 “L’Illustrazione Italiana”, 26 febbraio 1893, p. 146.

100 101 Una curiosa polemica contro Carlo Astengo

da Amministrazione civile, ottobre/novembre 2003

101 Carlo Astengo è figura molto nota dell’Amministrazione Civile e non a caso la Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno ha voluto dedicargli un’aula.1 La Direzione generale dell’Amministrazione Civile tra fine Ottocento e inizio Novecento era il cuore del Ministero dell’Interno. S’incardinava su tre divisioni: I (Personale), II (Amministrazione dei Comuni e delle province), III (Beneficenza pubblica). Il vertice della Direzione generale fu occupato negli anni da personaggi del calibro di Pietro Bertarelli, Carlo Schanzer, Alberto Pironti, Giuseppe Giovenco. I dati biografici di Carlo Astengo sono noti. Nacque a Savona nel 1837, figlio dell’illustre avvocato senatore Giacomo che collaborò alla codificazione del 1865, in particolare per le leggi civili.2 Carlo Astengo non conseguì lauree ma si limitò a seguire un corso di filosofia. Dopo un’esperienza fatta nella nativa Savona come “volontario” non retribuito, negli anni 1857-1859 lavorò come Segretario comunale. Nel 1860 entrò nell’amministrazione statale con qualifica di semplice Applicato e da allora prestò servizio quasi esclusivamente in uffici ministeriali. Cominciò a bruciare le tappe di una carriera che lo portò a essere Ispettore centrale nel 1876, Capo divisione del personale nel 1880, Ispettore generale, Regio delegato straordinario nei comuni di Genova,3 Bari,4 Venezia,5 prefetto di Siracusa (1884), di Caserta (1885), Consigliere di Stato (1886),6 Direttore generale dell’Amministrazione Civile (1896), Senatore del regno (1896). Morì a Roma nel 1917.7 La sua fama rimane legata a una serie di manuali che divennero preziosi e affidabili strumenti di lavoro per intere generazioni di funzionari: Manuale degli amministratori comunali e provinciali (in collaborazione con Emilio Bedendo e Cesare Salvarezza); Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria (con l’avv. Luigi Gatti); Giornale dei Notai (con Vincenzo Conti); Guida amministrativa ossia commentario alla legge comunale e provinciale (con Giovanni Battista Bisio e ); Dizionario amministrativo (con Emilio Bedendo e Carlo Chiaro).

1 Sulla storia dei prefetti, Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, 1994. 2 Su Giacomo Astengo v. Dizionario biografico degli italiani, vol. 4, Roma 1962. 3 Atti della Società Ligure di Storia Patria, XVII (1977). 4 Relazione del R. Delegato Straordinario comm. Carlo Astengo al Consiglio Comunale di Bari letta nella seduta d’insediamento dell’11 ottobre 1882, Bari 1882. 5 RANDERAAD N., Autorità in cerca di autonomia. I prefetti nell’Italia liberale, Roma, 1997. 6 ZOLI C., Cenni biografici dei componenti la magistratura del Consiglio di Stato (1831-1931), in Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, vol. 3°, Roma 1932. 7 Dizionario biografico dei liguri, Genova 1992, ad vocem; Studi per la storia dell’amministrazione pubblica italiana, Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno, Roma 1998.

102 Importanti i commenti di Astengo alla nuova legge di pubblica sicurezza del 1889 (in collaborazione con Giorgio Sandri), alle disposizioni sulle opere pie (con Gaspare Bolla), ai dazi ed imposte comunali (con ).8 Come ha scritto Guido Melis, le opere di Astengo sono «essenzialmente caratterizzate da intenti di divulgazione giuridica, nell’ambito di un progetto culturale di forte taglio pedagogico, soprattutto rivolte all’orientamento dei quadri burocratici intermedi e periferici dello stato e delle amministrazioni locali».9 Una rivista scrisse nel 1896: «Tutti i segretari comunali d’Italia conoscono il suo manuale indispensabile per sostenere gli esami in quell’ufficio». Per i suoi innumerevoli lavori Astengo (“pubblicista assai prolifico” secondo l’espressione di Raffaele Romanelli10) ebbe molti collaboratori e questo mi dà lo spunto per ricordare una polemica di cui a suo tempo fu bersaglio. Detto in parole povere: la sua fama scientifica era del tutto meritata? Naturalmente, se Astengo si fosse servito di famuli non avrebbe inventato nulla. Da che mondo è mondo c’è chi sfrutta il lavoro altrui. Quanti docenti universitari utilizzano a loro vantaggio il lavoro dei laureandi? Quanti che hanno un nome lo “prestano” per la copertina di un libro di semi-sconosciuti che troverebbero altrimenti chiuse le porte editoriali? Ma torniamo a Carlo Astengo. Una pubblicazione del 1898 gli attribuiva un’inesistente laurea in legge e, giustamente, una “mente acuta e chiara”. Lavoratore instancabile «non ha potuto sempre evitare antipatie e rancori scatenatiglisi contro per opera dei colpiti o censurati nelle sue ispezioni, ma la sua rigida integrità nessuno l’ha mai potuta attaccare o sospettare. Tentò di diventar deputato, ma soccombette nella prova e allora tornò più che mai a consacrarsi con zelo ed assiduità agli affari amministrativi e s’accinse a scrivere e compilare trattati che gli studiosi hanno giudicati utilissimi».11 Veniamo ora ai giudizi meno encomiastici. Pietro De Gregorio tracciò questo ritratto di Carlo Astengo: «È entrato negli uffici pubblici per la porta piccola, come applicato di pubblica sicurezza. Dotato di una volontà ferrea ha supplito con questa alla mancanza di istruzione. Per lunghissimi anni non si è mosso dal Ministero dove si è dedicato alla compilazione dei suoi Manuali, giovandosi della collaborazione dei giovani colleghi che meglio ravvisava adatti, monopolizzando l’ingente mole di materiali di ufficio che aveva

8 Un elenco delle sue pubblicazioni si trova nel saggio di Nico Randeraad, Gli alti funzionari del Ministero dell’Interno durante il periodo 1870-1899, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, n. 1/1989. 9 MELIS G., La burocrazia e le riviste: per una storia della cultura dell’amministrazione, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, n. 16/1997. 10 ROMANELLI R., Sulle carte interminate, Bologna 1989. 11 SARTI T., Il Parlamento italiano nel cinquantenario dello Statuto, Roma 1898.

103 sottomano, così da ricavarne utile grandissimo, tanto da permettersi il lusso della pariglia, fortuna ignota per la maggioranza dei funzionari anche più altolocati. Nella giberna dell’applicatuzzo di 4ª classe era il bastone da maresciallo. L’opera come pubblico funzionario è stata sempre rumorosa per la sua non invidiata qualità di inquisitore e manipolatore di inchieste. Come prefetto ha lasciato qua e là strascichi non dimenticati ancora, specie in provincia di Caserta. Un biografo lo dice nepotista e non ci sembra che il giudizio sia avventato».12 Come si vede, si sono osservazioni poco commendevoli ma molto di più e peggio scrisse di Astengo il professor Pietro Sbarbaro. Sbarbaro era un docente universitario di economia politica, di grande cultura ma un po’ mattoide, che condusse una serie di battaglie alla Don Chisciotte contro l’establishment del tempo. Se la prese e le prese da Depretis e da vari ministri a cominciare da quello dell’istruzione Guido Baccelli che lo destituì dall’impiego. Fondò, diresse e scrisse tutto da solo un foglio, le “Forche Caudine” che negli anni 1884 e 1885 incontrò uno straordinario successo di pubblico, arrivando a 150.000 copie di tiratura.13 Su quel giornale attaccò e insultò con un linguaggio coloritissimo politici come Pasquale Stanislao Mancini e Agostino Magliani e anche mogli, figlie e generi. Vituperò professori, prefetti, sindaci, ecc. «La critica al sistema depretisiano – quantunque muovesse inizialmente da istanze di sinistra democratica – sfociava presto in un’opposizione indiscriminata che, investendo uomini e istituzioni, doveva confluire più immediatamente su un terreno di esasperato moralismo piccolo-borghese e di individualismo grossolano e retrivo».14 Presto arrivarono le querele e le denunzie, i mandati di cattura, i sequestri del giornale. Sfuggito inizialmente all’arresto, Sbarbaro continuò a scrivere dalla latitanza mentre la polizia gli dava la caccia e pedinava tipografi e strilloni. Finito in gattabuia a seguito di una delazione, Sbarbaro fu condannato a parecchi anni di carcere. Eletto deputato visse ancora una parentesi di notorietà per morire poi dimenticato e in miseria nel 1893. Nelle “Forche Caudine” del 6 luglio 1884 questo professore grafomane pubblicò l’articolo Il prefetto di Siracusa, che riporto di seguito nelle parti essenziali. «Dopo la nomina di un Giuseppe Saredo a Consigliere di Stato, l’Italia di Agostino Delli Preti15 doveva inghiottirsi anche quella di un Carlo Astengo a Prefetto della città di Archimede! Il rispetto che il Governo del Re, divenuto ormai una Agenzia di affari, professa per i grandi Corpi dello Stato è pari a quello che dimostra per i più gloriosi

12 DE GREGORIO P., Appendice all’opera “Parlamento subalpino e nazionale”, Terni 1893. 13 MAJOLO MOLINARI O., La stampa periodica romana dell’Ottocento, Roma 1963, ad vocem. 14 CASTRONOVO V., La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Bari 1976.

104 Municipi e per le Provincie più illustri del Regno. Il Prefetto nuovo di Siracusa non ha né meno uno straccio di laurea d’avvocato. Non conosce né meno i primi elementi del diritto. Non ha mai posto piede in una Università. Compilò Manuali e Guide col soccorso e col concorso di studiosi e di dotti. Non seppe mai fare né meno la Prefazione leggibile di un suo lavoro di compilazione. E fuori delle materie amministrative empiricamente saggiate in tanti anni di carriera, è un vero e proprio analfabeta civile. Con tutto ciò si è trovato un Ministero moralmente capace di farne un Prefetto, che vuol dire la personificazione dell’ente governo in cospetto della terra più gloriosa, per antica civiltà, di tutto il mezzogiorno d’Italia! Mi si dirà che cotestui ha pratica di amministrazione e molta esperienza di negozi, che era il Regio Commissario in permanenza per tutti Municipi in disordine e la scopa perpetua di abusi nelle Opere pie. Sarebbe un provare ciò che è in discussione con un argomento assai discutibile. Perché la frequenza degli atti di fiducia per parte del Governo del Re nel mio concittadino dimostra meglio la decadenza morale del governo che il merito straordinario di Carlo Astengo. L’idea di trovare stoffa di un Prefetto nel comm. Astengo non poteva sbocciare che nell’anima di un Saredo16, che la comunicò al Depretis, ricettacolo degno di tutte le idee che hanno per uffizio di abbassare il livello morale della nazione e scalzare nel sentimento pubblico il rispetto dell’Autorità. Siamo in piena vulgocrazia! Nel prefetto di Siracusa tutto è basso e oscuro e volgare: la faccia, la cultura, il carattere e perfino la maniera di esprimersi. Non conobbi mai burocratico più sguarnito di idealità, più ignorante di ogni geniale dottrina, di ogni elevata ispirazione più mendico. Ha l’aria, il colore e l’occhio di un carnefice libidinoso. E basta parlargli una mezz’ora per sentire il lezzo di una ignorantezza, come dicono i Marchigiani, quasi fenomenale. Lo conosco da circa 40 anni. Siamo nati nell’istesso paese,17 battezzati nella stessa parrocchia di San Pietro: sua moglie fu tenuta a battesimo da mio padre; figuratevi se lo conosco! Io ne avrei fatto, al più, un direttore di ergastolo o un Ispettore Centrale delle prigioni,18 perché ha solerzia, operosità somma e preclara diligenza nell’eseguire puntualmente ordini scesi dall’alto. E chiunque l’abbia conosciuto un po’ bene, penserà come me, ma nessuno avrà la mia franchezza nell’esprimere l’indignazione di quella nomina. L’Astengo è la servilità scriniocratica verso il Potere fatta Prefetto! Suo cognato,

15 È volutamente storpiato il nome di Agostino Depretis, Presidente del Consiglio. 16 Giuseppe Saredo (1832-1902), altro savonese, fu Presidente del Consiglio di Stato. 17 Ricordo che anche Pietro Sbarbaro era di Savona. 18 All’epoca l’amministrazione delle carceri dipendeva dal Ministero dell’Interno.

105 il compianto cav. Carlo Salvarezza, che fu Segretario del Vigliani19 a Napoli e lasciò un vuoto indelebile nelle nostre scriniocratiche sfere, non ne parlava mai che con parole di ribrezzo gentile. Quello era il modello del gentiluomo amministrante! Il comm. Astengo, mezzo idiota nel fatto della storia civile, in mezzo alle memorie, ai monumenti, alle ombre di quella Siracusa, ove ogni sasso sveglia l’immagine di una civiltà tramontata, mi reca l’impressione di un giumento gallonato in mezzo ad una pinacoteca. È onesto? Certo, che io mi sappia, non ha mai fabbricato cambiali false, né rubato il portamonete a nessun deputato. È un uomo sulla cui bandiera sta scritto: salire. Egli, come il Saredo, ha fatto quattrini colle Guide, coi Manuali. Carlo Astengo, Prefetto integro e splendida incarnazione dell’ignobile ideale che il Depretis viene colorendo sotto gli auspizi profanati del Re. I Siciliani guardino in faccia il mio concittadino e si preparino a vederlo un giorno Consigliere di Stato come un V. Errante20 e un G. Lafarina 21! Tutto è possibile in Italia! 22». Su Pietro Sbarbaro (definito dalla regina Margherita chenapan) lascio il giudizio ad Alessandro Guiccioli che fu prefetto di Firenze, Roma e Torino: «Certo è un pazzo, ma il 60% di ciò che dice è vero, l’altro 40% esagerato, ma non falso».23 Resta la curiosità per quella polemica tanto astiosa contro la nomina prefettizia di Carlo Astengo.

19 Paolo Onorato Vigliani, più volte ministro, fu prefetto di Napoli negli anni 1864-1865. 20 Vincenzo Errante (1813-1891), uomo politico e scrittore. 21 Giuseppe Lafarina (1815-1863), patriota siciliano e deputato. 22 In effetti, la previsione di Sbarbaro s’avverò due anni dopo. 23 Su Pietro Sbarbaro furono espressi giudizi più sereni dopo la morte (v. “L’Illustrazione Italiana” del 10 dicembre 1893; CROCE B., La letteratura della nuova Italia, vol. 3°, Bari 1967, ad vocem).

106 Angelo Pesce

da Rassegna storica salernitana, n. 39 giugno 2003

107 Angelo Pesce era originario di Laurino (Salerno) dove nacque il 31 dicembre 1864. Il padre Gherardo, imparentato con Agostino Magliani famoso o famigerato ministro delle Finanze al tempo di Depretis, era un possidente di sentimenti liberali che fu a lungo Sindaco del paese. Compì a Napoli gli studi di diritto laureandosi a 22 anni con una tesi sulla condizione della donna nell’antico diritto indiano.1 I suoi interessi culturali andavano oltre le pandette, conseguì anche un diploma per la lingua araba e quella indostana presso l’eccellente Istituto Orientale nonché l’abilitazione all’insegnamento della letteratura italiana nei licei e negli istituti tecnici.2 Nel settembre 1887 entrò per concorso nella prestigiosa Amministrazione dell’Interno continuando a coltivare per alcuni anni l’amore per il giornalismo e le lettere. Teodoro Rovito nel 1922 lo definì “egregio e colto scrittore” ricordando la sua collaborazione alla “Gazzetta Letteraria”, al “Fanfulla della Domenica”, a “Scena Illustrata”3 e la direzione di “Cronaca Partenopea”. Angelo Pesce pubblicò: La Protesta del popolo delle Due Sicilie di Luigi Settembrini (Napoli 1884); Heroides. Tipi femminili in India e in Grecia (Torino 1890); Medea e Fedra; Per la festa degli alberi; Pro infantia. Diede alle stampe anche un burocratico “Codice elettorale politico ed amministrativo” (Napoli 1896). Gli assillanti impegni di lavoro lo allontanarono poi dalla letteratura. Le prime sedi di servizio furono Napoli e Crotone,4 nel 1896 fu collaboratore di Codronchi-Argeli commissario civile in Sicilia.5 Contrasse matrimonio con Teresa Salimbeni di nobile famiglia laziale e si trasferì a Roma. Per qualche tempo svolse prevalentemente incarichi ispettivi e di regio commissario nei Comuni. Quando una commissione presieduta dal senatore Giuseppe Saredo, presidente del Consiglio di Stato, fu incaricata di un’inchiesta sull’amministrazione locale di Napoli, Angelo Pesce ne fu nominato Segretario. La relazione finale denunziò intrecci scandalosi tra politica e affari, diffuso malcostume nella gestione della cosa pubblica, infiltrazioni della camorra negli appalti. Come ricordò lo stesso Pesce: «L’inchiesta Saredo

1 PADULO G., Un prefetto conservatore (1909-1925), in “Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici”, VI, 1979/1980, p. 306. 2 BIAGI G., Chi è?, Roma,1908, p. 198. 3 ROVITO T., Letterati e giornalisti italiani contemporanei, Napoli 1922, p. 308. 4 CIFELLI A., I prefetti del Regno nel ventennio fascista, Roma 1999, p. 214. 5 D’URSO D., Storie di prefetti, Alessandria 1991, cap. dedicato a Codronchi-Argeli.

108 fu un colpo d’ariete contro quella muraglia di corrotti corruttori e procaccianti, e se non valse ad atterrarla vi aprì una breccia formidabile».6 Il delicato incarico svolto a Napoli valse a Pesce un’onorificenza dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Successivamente fu regio commissario al comune di Bari, componente della commissione mista per la revisione del confine italo-svizzero, consulente presso il comando militare durante i soccorsi per il terremoto di Messina e Reggio Calabria del dicembre 1908 meritando anche una medaglia d’oro. Nel febbraio 1909 arrivò la promozione a prefetto di Reggio Calabria. Visitò in lungo e in largo la provincia, anche a dorso di mulo, lasciando di sé un ottimo ricordo. «In provincia di Reggio Calabria, dove le vie di comunicazione erano cattive e molti comuni erano difficilmente raggiungibili, le ispezioni sembravano un sine qua non per una regolare amministrazione. Per la popolazione rurale, che era abituata ad agire esclusivamente attraverso canali personali, la presenza del prefetto era essenziale per l’accettazione dell’autorità dello Stato».7 Trasferito a Porto Maurizio (che poi costituì con Oneglia l’odierna Imperia) vi rimase dall’agosto 1912 all’aprile 1915 per poi andare a Bari alla vigilia della prima guerra mondiale. Lì si distinse per un’alacre attività nel campo dell’assistenza alle famiglie dei richiamati, alle vedove e agli orfani, nella propaganda dei prestiti per la vittoria, nell’organizzazione degli approvvigionamenti alimentari promuovendo l’istituzione della “tessera”.8 Volle che nei comuni agissero i “Vigili della resistenza interna” incaricati della propaganda patriottica e anti-disfattista. Nel marzo 1919 il ministro Orlando, al quale sollecitava da tempo il passaggio «ad una delle massime prefetture», lo destinò a Milano. Il tormentato dopoguerra conobbe nel capoluogo lombardo alcune delle sue pagine più drammatiche: le spinte massimaliste in seno ai socialisti spiazzarono le tendenze più conciliative lasciando la piazza in mano agli estremisti. La fondazione dei Fasci di combattimento portò ad una radicalizzazione della lotta politica e scontri, attentati, assalti sanguinosi riempirono la cronaca quotidiana della “capitale morale”.

6 PADULO G., cit., p. 308. Sull’inchiesta v. Regia Commissione d’inchiesta per Napoli, Roma 1901; Il saccheggio di Napoli, in “Rivista popolare”, a. VII (1901), p. 382; RUSSO G., Napoli e l’inchiesta Saredo, in “Archivio storico per le province napoletane”, LXXXIX (1971). 7 RANDERAAD N., Autorità in cerca di autonomia. I prefetti nell’Italia liberale, Roma 1997, p. 159. 8 Un accenno a Pesce quand’era a Bari è in DENTONI M. C., Le carte prefettizie: una fonte per lo studio della storia sociale contemporanea, in “Le carte e la storia”, 1999 n. 2, p. 197.

109 Filippo Turati (ricordo che era figlio di un prefetto) scrisse da Roma all’amica Anna Kuliscioff il 4 marzo 1919: «Ho visto qui e salutato il nuovo prefetto di Milano: dicono sia un brav’uomo (me lo disse un giolittiano di Bari, quindi sarebbe un brav’uomo nel senso giolittiano)».9 Angelo Pesce arrivò a Milano l’11 marzo 1919 e salutò le autorità con queste parole: «Assumo la rappresentanza del Governo del Re nella patriottica provincia di Milano – emporio di bellezza, d’arti e d’industrie – che rievoca la primavera delle libertà comunali insieme con i fastigi del genio italico e m’inspira riverenza ed ammirazione. In questi sentimenti attingerò lena e fervore per potere compiere degnamente i doveri del mio ufficio, resi più gravi dai complessi problemi che i recenti gloriosi eventi ed i nuovi orizzonti economico-sociali additano ai pubblici poteri».10 Nel capoluogo lombardo il 13 aprile 1919 l’intervento della polizia durante un comizio socialista provocò un morto e alcuni feriti. In occasione dello sciopero generale di protesta del giorno 15, dopo un comizio all’Arena una parte della folla si diresse in centro dove fu attaccata da alcune centinaia di arditi, futuristi, studenti del Politecnico e fascisti. Nella battaglia di strada morirono tre persone e nel successivo assalto alla sede milanese dell’Avanti! rimase ucciso un soldato e i locali furono devastati.11 La “scioperomania” conobbe aspetti paradossali e parossistici a cominciare dalla protesta nelle fabbriche contro l’ora legale. Qualcuno affermò che gli scioperi erano “la ginnastica della rivoluzione”: i ferrovieri si rifiutavano di trasportare soldati e carabinieri, gli agenti penitenziari minacciarono di liberare i detenuti se non fossero state accolte le loro richieste economiche. Nel luglio 1919 scoppiò anche a Milano la protesta per il caro- viveri. «La polizia aveva raccolto forze sufficienti per controllare l’uragano e operò 2.200 arresti tra i bassifondi cittadini».12 Durante la campagna elettorale di novembre il fascio milanese armò squadre d’azione con la paga di 30 lire al giorno. La lista capitanata da Mussolini, nella quale si candidarono anche il maestro Toscanini e il poeta Martinetti fu sconfitta. A Milano un estremista lanciò un ordigno contro un corteo di socialisti che festeggiavano la vittoria, in Galleria si scontrarono gruppi contrapposti e la polizia intervenne sparando. Dopo che nella sede del comitato elettorale fascista furono sequestrate bombe a mano e rivoltelle la questura arrestò Mussolini e altri dirigenti ma il governo non sostenne l’azione delle autorità locali. Commentò il “Corriere della Sera”:

9 TURATI F. – KULISCIOFF A., Carteggio, vol. V, Dopoguerra e fascismo, Torino 1953, p. 31. 10 Corriere della Sera, 11 marzo 1919, p. 3. 11 SALVEMINI G. Le origini del fascismo in Italia, Milano 1975, p. 181.

110 «Quando Mussolini era in auge non si osava toccarlo: oggi lo si arresta perché pare meno forte. Non possiamo approvare una politica simile ispirata non dal rispetto della legge ma dall’opportunismo».13 Il 1° dicembre 1919 all’apertura della Camera avvennero incidenti dentro e fuori Montecitorio. A Milano, durante l’ennesimo sciopero generale di protesta, i socialisti pretesero che fosse ritirata dal Municipio la bandiera tricolore, ufficiali in divisa furono aggrediti per le strade e due colonnelli si difesero sparando. Per due giorni la polizia faticò a controllare la situazione e in certi momenti fu impotente ad arginare la violenza della piazza. Per il prefetto Pesce l’anno 1920 fu ancora più drammatico. A Milano s’aprì con lancio di bombe contro una caserma e uno stillicidio di bastonature ed aggressioni. Chi portava un distintivo di partito rischiava una revolverata, deputati socialisti vennero alle mani con alcuni ufficiali, un conflitto in piazza Missori provocò due morti e sei feriti. In febbraio Pesce decretò l’istituzione di un corpo di volontari dell’ordine che dovevano collaborare con le forze di polizia nella prevenzione e repressione dei reati. Era un’iniziativa piuttosto audace e forse anche imprevidente che suscitò una valanga di polemiche tanto che il prefetto finì per ritirare il provvedimento. Furono vivaci soprattutto le reazioni dei socialisti che ventilarono si volesse istituire una sorta di “guardia bianca”.14 Il 14 marzo 1920 si festeggiava la nascita di Vittorio Emanuele II ma l’amministrazione socialista di Milano, guidata dal sindaco Caldara, non espose la bandiera nazionale a Palazzo Marino e gruppi di nazionalisti protestarono compiendo atti di violenza. Pesce intervenne decisamente e infine il tricolore comparve al balcone del Municipio. Il Sindaco si dimise per protestare, come scrisse il quotidiano socialista “Avanti!”, contro la «violenta sopraffazione del prefetto». Caldara scrisse all’Assessore anziano: «Io dichiaro lealmente che ho accettato l’invito del prefetto solo perché non ho voluto assumermi la responsabilità di eventuali conflitti. Chi ha vissuto e sofferto il ’98 ha sempre questa sensibilità – che può essere una debolezza – in fondo alla sua psiche. Se l’imposizione prefettizia fosse venuta per tutt’altro oggetto che non involgesse pericoli di conflitti, avrei resistito a qualunque costo, né in alcun modo avrebbe influito la mia condizione di ufficiale del Governo. Sento quindi che nel caso concreto io posso aver mancato al dovere

12 SALVEMINI G., cit., p. 221. 13 Per la ricostruzione della vicenda v. DE FELICE R., Mussolini il rivoluzionario, Torino 1965, pp. 573-577. 14 PADULO G., cit., p. 302.

111 rigoroso della resistenza comunale contro i poteri dello Stato, e rassegno a te, quale Assessore anziano, le mie dimissioni da sindaco».15 Anna Kuliscioff scrisse a Turati: «In fondo Caldara non seppe resistere alle imposizioni del prefetto, perché temeva di provocare conflitti sanguinosi, onde preferì la prevalenza del sentimento alla logica dei principî […] Non vi possono essere che due soluzioni: o si destituisce il prefetto, ciò che è molto dubbio, e Caldara ritorna al suo posto; oppure, se non sarà fatta questa riparazione, si dimette tutta la Giunta».16 Lo stesso giorno (15 marzo) Turati confidò all’amica che Nitti, Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, aveva deciso di trasferire il prefetto Pesce sostituendolo con Enrico Flores suo capo di Gabinetto. Ciò infatti avvenne. Scrisse il “Corriere della Sera” il 7 aprile 1920 sotto il titolo Concessioni deplorevoli: «Salutiamo con simpatia il funzionario che è colpito, sebbene gli si sia voluto fare l’onore – per mitigare la portata e il significato del trasloco – di trasferirlo ad altra importantissima sede. Egli ha cercato di compiere il suo dovere. Non vogliamo difendere ogni suo atto, ogni suo gesto: ma diciamo che è pessima politica amministrativa questa di considerare i prefetti come capri espiatori di qualsiasi incidente che turbi la tranquillità del ministro dell’interno. Una volta i prefetti a Milano si reggevano per qualche anno, ora solo per qualche mese. Di questo passo dove si andrà a finire? E quale persona rispettabile per intelligenza e dignità vorrà in Italia avventurarsi nella carriera delle prefetture?». Pesce fu destinato a Palermo ma vi rimase pochi mesi sino all’agosto 1920 (allora, si disse, i prefetti si cambiavano come le cravatte) e dovette amaramente constatare che l’isola non aveva fatto molti progressi dall’epoca del suo precedente incarico più di venti anni prima. Giolitti succeduto a Nitti lo destinò a Napoli nella fase in cui il fascismo conquistava terreno anche nel Mezzogiorno. Scontri di piazza avvennero nel gennaio 1921 a Castellammare con otto morti e decine di feriti, il mese dopo a Torre Annunziata. Gli studenti universitari protestarono contro il caro-libri in maniera assai vivace sino all’assalto e all’incendio delle librerie tanto che dovette intervenire la cavalleria in piazza della Borsa. Il 1° maggio 1921 altro sangue scorse in piazza Mercato e tuttavia Pesce annotò anni dopo nelle sue Memorie: «Quanta diversità con le agitazioni e gli scioperi milanesi! Gli operai napoletani erano più buoni, più docili, più arrendevoli […] s’inginocchiavano quando passava il Santissimo e si levavano il cappello innanzi al generale o all’ammiraglio».17

15 “Corriere della Sera”, 16 marzo 1920, p. 3. 16 TURATI F. – KULISCIOFF A., cit., pp. 284-285. 17 PADULO G., cit., p. 313.

112 Prima della grande adunata fascista dell’ottobre 1922 s’infittirono nel Napoletano gli atti di violenza delle squadre fasciste mentre l’autorità dello Stato appariva ogni giorno indebolita. La manifestazione del 24 ottobre si svolse con meno morti del temuto, grazie anche alle eccezionali misure di sicurezza predisposte: tutte le sedi dei partiti erano presidiate dalla forza pubblica e così le abitazioni degli onorevoli Nitti e Labriola. Quasi tutto bene, senonché Mussolini in piazza Plebiscito aveva gridato alla folla: «Se il governo non sarà dato ai fascisti, il fascismo lo prenderà con la forza».18 Il prefetto Pesce non aveva particolare simpatia per il duce19 e tutti ricordavano gli arresti del novembre 1919 a Milano. Fu allontanato da Napoli pare per intervento del ras locale Aurelio Padovani dopo i fatti del 2 novembre 1922: «Una banda armata di cosiddetti “cavalieri del re”, facinorosi della peggiore specie, elettrizzati dalle circostanze, irrompe sparando al Vasto, devasta il circolo dei ferrovieri e poi quello socialista ai Vergini, penetra nel duomo e cerca di forzare il tesoro di S. Gennaro, mette a sacco i locali della Camera del Lavoro, scende finalmente per via Roma rapinando i negozi e soltanto a piazza Carità, dopo ore di devastazione, è affrontata e dispersa dalla guardia regia. Il prefetto Pesce, già condannato per il suo zelo giolittiano, trova in questa giornata la sua rovina».20 La nuova destinazione (Pavia) nuoceva certamente alla carriera e all’aspirazione di Pesce al laticlavio. Gli scrisse il collega Zoccoletti: «Altri al tuo posto si sarebbe lasciato andare a proteste più o meno clamorose ed opportune e magari a qualche bel gesto». Seguirono altri trasferimenti: a Venezia nel novembre 1923 e dal 1° gennaio 1925 a Roma. «Ancora una volta la scelta di un uomo dell’amministrazione in un momento di crisi profonda e per una sede di indubbio prestigio e di grande complessità quale era dal lato istituzionale, allora, ancora Roma prima della creazione del Governatorato, se da un lato conferma l’ambiguità dell’operazione della cosiddetta fascistizzazione dei prefetti più volte evocata dalla storiografia, dall’altro induce a riflettere su uno dei caratteri distintivi

18 REPACI A., La marcia su Roma, Milano 1972, p. 795, telegramma di Pesce al Presidente del Consiglio alle ore 19.15 del 24.10.1922. Per gli avvenimenti successivi v. CHIURCO G. A., Concentramento delle forze fasciste in Campania, in Storia della rivoluzione fascista, vol. 2°, ed. Milano 1973, pp. 282-284. 19 VENÈ G. F., La lunga notte del 28 ottobre 1922, Milano 1972, p. 28. 20 COLAPIETRA R., Napoli tra dopoguerra e fascismo, Milano 1962, p. 211.

113 del corpo prefettizio, e cioè sulla capacità di adesione di gran parte di esso a realtà politico-istituzionali radicalmente difformi».21 Dopo poche settimane, al ritorno da un incontro col ministro dell’Interno, Pesce ebbe un mortale malessere e morì il 7 febbraio 1925. Lo storico Raffaele Colapietra lo ha giudicato “eccellente funzionario”22. Scrisse un giornale commemorandolo: «Era il decano di prefetti. Di pronto ingegno e di tatto non comune, affinato nella lunga carriera».23 Il ministro dell’Interno Federzoni ai funerali parlò di lui come di “perfetto servitore dello Stato”.

21 GIANNETTO M., I prefetti di Roma negli anni 1919-1929, in La Prefettura di Roma, Bologna 1998, p. 593. Sulle vicende di un collega e conterraneo di Pesce v. D’URSO D., Alberto Pironti, in “Rassegna storica salernitana”, n. 37, giugno 2002. 22 COLAPIETRA R., cit., p. 122. 23 “L’Illustrazione Italiana”, 15 febbraio 1925, p. 133.

114 Alberto Pironti

da Amministrazione Pubblica, n. 25 maggio/giugno 2002

115 «La piccola e media borghesia meridionale laureata in giurisprudenza (spesso proprio nel grande ateneo napoletano, che fu la vera fucina di questa nuova leva burocratica), imboccava ormai la carriera degli uffici di Stato come l’unico obiettivo professionale (a parte, naturalmente, l’avvocatura) che le fosse consentito raggiungere.»1 Alberto Pironti era nato a Valle della Lucania (Salerno) il 24 novembre 1867. Nel capoluogo provinciale frequentò il prestigioso liceo Tasso con l’annesso Convitto Nazionale avendo tra gli insegnanti i gemelli canonici Francesco e Alfonso Linguiti letterati di fama. Gli alunni interni vestivano una divisa scura con berretto a visiera e avevano istitutori chiamati Prefetti (il destino di Pironti era segnato!). Quando, a titolo di esperimento, alcuni convitti furono “militarizzati” agli istitutori borghesi subentrarono ufficiali dell’esercito e i giovani furono divisi per compagnie e plotoni e armati di fucile. Oltre alle materie di studio ordinarie erano impartite lezioni di scherma, ballo, disegno, canto corale ma «trattandosi di corsi i cui risultati non avevano nessun peso sulle promozioni da classe a classe, erano seguiti dagli alunni, come si suol dire …alla diavola».2 Dopo la laurea Alberto Pironti entrò nell’Amministrazione dell’Interno come Alunno di prima categoria risultando fra i primi nel concorso del 1889. Prestò servizio a Palermo, Velletri e Catanzaro prima di essere assegnato a Palazzo Braschi sede del ministero. Lì percorse tutti i gradi della carriera: addetto alla segreteria della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel 1901, Capo sezione l’anno dopo, Segretario capo del Consiglio superiore di assistenza e beneficenza nel 1905, a quarant’anni Direttore generale dell’Amministrazione Civile. Era giunto al vertice del più importante ufficio ministeriale, che trattava gli affari dei comuni e delle province, il servizio elettorale, le opere pie, la beneficenza pubblica, la finanza locale, gli archivi di Stato. Non c’è bisogno di ricordare cosa significasse il controllo degli enti locali nell’epoca giolittiana tanto esecrata da Gaetano Salvemini a causa delle ingerenze e prepotenze governative.3

1 MELIS G., Storia dell’amministrazione italiana 1861-1993, Bologna 1996, p. 185. Nei ministeri non mancò, sin dall’inizio, neanche la tendenza alla formazione di veri e propri clans regionali, spesso in collegamento con parlamentari di uguale estrazione. 2 MOSCATI A., Salerno e salernitani dell’ultimo Ottocento, Salerno 1996, pp. 113-114. 3 «Naturalmente i prefetti sono buoni o cattivi e fanno bene o male secondo i governi da cui dipendono. Un ministro dell’interno onesto ha risultati diversi nell’opera dei prefetti che non un ministro senza scrupoli. Vi furono ministri che richiedevano ai prefetti che si occupassero di elezioni e di intrighi» (discorso di del 6 giugno 1947 all’Assemblea Costituente).

116 Giolitti «tecnico dell’amministrazione, trovò nel Ministero dell’Interno lo strumento ideale, quale lo avevano creato e voluto i suoi predecessori, con la differenza che essi non avevano avuto la sua diretta e personale esperienza del meccanismo della burocrazia statale».4 Uno studioso ha parlato del giolittismo come «progetto burocratico di governo»5 e gli alti funzionari erano contenti di avere un capo come Giolitti che conosceva le leggi, i metodi e i problemi degli uffici e dava ordini con piena consapevolezza. «È vero che senza le sue grandi doti politiche la sua conoscenza dell’amministrazione sarebbe rimasta in gran parte sterile; ma viceversa senza la padronanza che aveva delle procedure e dei meccanismi burocratici, la sua politica non avrebbe potuto scendere così profondamente nella pratica».6 I Direttori generali acquistarono rinnovato prestigio anche perché il ministro riteneva utile stringere con i più diretti collaboratori solidi rapporti personali.7 In quegli anni crebbe il numero dei servizi resi dall’amministrazione pubblica e le sue dimensioni raggiunsero proporzioni prima sconosciute: il sistema amministrativo si accollava il peso della nuova domanda sociale.8 Cominciò anche la sindacalizzazione dei pubblici dipendenti e, quanto allo stato giuridico, i governi «non volevano scontentare gli impiegati con l’introduzione di norme troppo severe ed, allo stesso tempo, temevano i freni che all’azione del Governo sarebbero derivati dalla approvazione di norme poste a tutela dei dipendenti».9 La legge organica del 1908 affermò il principio del merito sia per l’accesso tramite concorso che per le promozioni.

4 GUÊZE R., Lineamenti storici del Ministero degli interni, in “Amministrazione Civile” - numero speciale dedicato a Cento anni di amministrazione pubblica in Italia - 1961, p. 203. 5 FARNETI P., Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica, Torino, 1971, pp. 187-189; MOLA A. A., . Grandezza e decadenza dello Stato liberale, Cuneo 1978; Governo e amministrazione nell’età giolittiana, in Istituzioni e metodi politici dell’età giolittiana, Torino 1979. 6 BARTOLI D., L’Italia burocratica, Milano 1965, p. 92. 7 MELIS G., La cultura e il mondo degli impiegati, in Storia della società italiana dall’Unità a oggi. L’amministrazione centrale, Torino 1984, p. 362. 8 TARADEL A., Gli organici delle amministrazioni centrali dal 1904 al 1914, in “Quaderni storici”, n. 18/1971, pp. 885-942; CASSESE S., Giolittismo e burocrazia nella “cultura delle riviste”, in Storia d’Italia. Annali 4. Intellettuali e potere, Torino 1981, p. 477; ROTELLI E. Costituzione e amministrazione dell’Italia unita, Bologna 1981, pp. 98-100. 9 GUSTAPANE E. L’introduzione nell’ordinamento amministrativo italiano del principio del merito per l’accesso agli impieghi pubblici: il caso del Ministero dell’interno, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, n. 2/1987, pp. 465-466.

117 L’età giolittiana vide esaurirsi il fenomeno di osmosi tra politica e amministrazione e alla politica ebbero meno accesso gli alti funzionari ma essi, anche se non apparivano o apparivano poco alla ribalta, non furono meno potenti rispetto al passato. Scrisse Gaetano Salvemini: «I grossi burocrati hanno accentrato nelle loro mani i poteri dello Stato e in compenso di miserabili favori personali i deputati di tutti i partiti, compresi i partiti che vogliono farsi credere rivoluzionari, hanno rinunciato di fatto a un serio controllo sull’opera dei burocrati».10 Pironti si segnalò «per competenza ed abilità amministrativa meritandosi la piena fiducia di Giolitti».11 Ricoprì la carica di Direttore generale dell’Amministrazione Civile per 17 anni e pur avendo conseguito nel 1914 la nomina a prefetto di 2ª classe e due anni dopo a prefetto di 1ª fu mantenuto a disposizione presso il ministero. Per quattro volte ebbe assegnata una sede (a Caserta, Messina, Catania, Sassari) ma ai singoli provvedimenti non venne mai dato corso. Tra i suoi più stretti collaboratori di quegli anni ricordo i funzionari a capo delle due divisioni della Direzione generale. La divisione II (Amministrazione dei comuni e delle province e archivi di Stato) fu diretta da Riccardo Zoccoletti, Carlo Vittorio Luzzatto, Carlo Olivieri, Camillo De Fabritiis, Enrico Flores, Sante Franzé, Leonida Ragnisco, Giovanni Battista Bianchetti, quasi tutti destinati a brillante carriera prefettizia; la III (Beneficenza pubblica) da Lorenzo Ambrosino, Orazio Giuffrida, Michele Bertone, Pietro Carpani, Costantino Cellario, Enrico Cavalieri, Osvaldo Nobile.12 La mancata concessione di reale autonomia agli enti locali fu compensata nel periodo giolittiano dagli interventi straordinari soprattutto nel Mezzogiorno e l’ufficio diretto con tanta autorevolezza e prestigio da Pironti ebbe il compito di applicare la legislazione speciale: legge per Napoli nel 1904, per la Basilicata ugualmente nel 1904, provvedimenti per la Sardegna nel 1907, per la Calabria nel 1908.13 Alla Direzione generale dell’Amministrazione Civile furono affidati importanti compiti per la ricostruzione delle zone devastate da disastrosi terremoti nonché la municipalizzazione dei pubblici servizi. In conseguenza della guerra mondiale si aggiunsero importanti competenze collegate alla

10 SALVEMINI G., L’elefantiasi burocratica, ora in Il ministro della malavita e altri scritti sull’Italia giolittiana, Milano 1962, p. 319. 11 GUÊZE R., Lineamenti storici, cit., p. 204. 12 Il Ministero dell’Interno, a cura di Giovanna Tosatti, in L’amministrazione centrale dall’Unità alla Repubblica. Le strutture e i dirigenti, Bologna 1992. 13 RUFFILLI R. La questione regionale dall’unificazione alla dittatura (1862-1942), Milano 1971; CASSESE S. – MELIS G., Lo sviluppo dell’amministrazione italiana (1880-1920), in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, n. 2/1990.

118 realtà delle terre “liberate e redente” e all’assistenza di profughi, orfani e invalidi di guerra. In tutto questo Pironti dimostrò di essere “fine giurista e suggeritore intelligente”,14 “dotato di grande cultura classica, profondo conoscitore delle discipline amministrative, lavoratore indefesso, oratore facile e scrittore chiaro ed elegante”.15 Diresse la redazione del commento teorico-pratico alla legge 17 luglio 1890, n. 6972 sulle opere pie elaborando personalmente il primo dei quattro volumi dell’opera: Le riforme nell’amministrazione e le mutazioni nel fine delle istituzioni pubbliche di beneficenza (Roma, 1906). Le relazioni ministeriali sui servizi di beneficenza presentate annualmente al Parlamento costituivano vere e proprie monografie dottrinali e pratiche. In materia di assistenza s’assisteva al passaggio epocale dall’antico sistema caritativo a quello moderno di solidarietà sociale. L’obiettivo era di dare alla beneficenza una direzione statale comprimendo altresì le spese improduttive delle opere pie. Gli uffici dipendenti da Pironti eseguirono importanti indagini statistiche sull’infanzia abbandonata, sugli inabili al lavoro, sugli ospedali. Fu modificata la struttura dei servizi nelle Prefetture e avviato un più attento controllo sulla contabilità degli enti assistenziali.16 Pironti fu coautore di importanti testi giuridici: Codice elettorale italiano. Elettorato politico, Torino 1913; Le operazioni elettorali secondo la nuova legge con note e istruzioni, Torino 1919; Codice dell’assistenza e della beneficenza pubblica, Firenze 1925. Collaborò alla stesura della legge sullo stato giuridico degli impiegati civili (1908), del regolamento della legge comunale e provinciale (1911) e del testo unico del 1915. Di grande rilievo furono le riforme elettorali di quegli anni. Nel 1912 fu approvato il “quasi” suffragio universale maschile, riconoscendo il diritto di voto a tutti i gli uomini aventi almeno 30 anni d’età e, a certe condizioni, anche a quelli dai 21 ai 30 anni. Per votare l’elettore doveva esibire un apposito certificato ed essere identificato; la scheda elettorale che restava “libera” andava chiusa in una “busta di Stato” per garantire la segretezza del voto; l’ufficio di sezione era precostituito mentre prima lo sceglievano direttamente gli elettori (causa questa non ultima di errori e brogli). Dopo la prima guerra mondiale con il governo Nitti il sistema uninominale maggioritario fu sostituito dal sistema proporzionale a scrutinio di lista e per la prima volta fu stampata la scheda con i contrassegni. Tutte quelle novelle legislative furono elaborate dagli uffici di Pironti.

14 MELIS G., Uomini e culture, in Studi per la storia dell’amministrazione pubblica italiana, Roma 1998, p. 92. 15 “Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia”, 1937, p. 49.

119 Nel 1913, quando fu edito il nuovo codice elettorale, il Sottosegretario Alfredo Falcioni scrisse così al Direttore generale Pironti: «Io che ho seguito, passo passo, l’assiduo lavoro di preparazione, di coordinamento e di esplicazione della legge elettorale politica, che Ella, coadiuvata dagli ottimi funzionari del Ministero, fra i quali il valoroso cav. Spano,17 ha condotto felicemente a termine sotto la sapiente direttiva del Presidente del Consiglio, mi compiaccio cordialmente dell’importante pubblicazione. Me ne compiaccio sovratutto perché ho avvertito subito il valore dell’opera, che costituirà indubbiamente una preziosa – direi quasi autentica – illustrazione della grande legge, elargita dal Governo e dalle Assemblee Legislative al popolo italiano.» Nel settembre 1919 Pironti fu chiamato a far parte della Commissione centrale per la riforma dei servizi pubblici, istituita presso il Ministero del Tesoro per coordinare e dirigere l’attività delle commissioni speciali create nei singoli ministeri per studiare ipotesi di riduzione del personale e semplificazione dei servizi. Nel primo dopoguerra le riforme burocratiche furono gestite dal Ministero del Tesoro in quanto finalizzate al taglio delle spese, nel momento in cui il bilancio statale era gravato da un enorme debito. Le parole d’ordine erano: «sopprimere, ridurre, semplificare tutti gli organi e gli uffici superflui».18 Nelle relazioni del tempo troviamo ricorrenti le parole decentramento e semplificazione (già allora!). Alle commissioni fu concesso inizialmente un termine di tre mesi, ripetutamente prorogato ma non risulta che qualcuna di esse abbia concluso i suoi lavori.19 La crisi dello Stato liberale e l’avvento del fascismo furono vissuti dalla burocrazia senza eccessivi traumi perché essa era «una forza nelle cui mani davvero si trovavano alcune fra le chiavi più preziose della cosa pubblica».20 Mussolini non provocò immediati scossoni e la fascistizzazione procedette con estrema lentezza e non senza evidenti battute d’arresto; si può parlare di “sostanziale immunità” dell’alta burocrazia che anzi il in più occasioni blandì con apprezzamenti pubblici e attestazioni di stima. «Nel complesso, comunque, la fascistizzazione della burocrazia statale avvenne non tanto in virtù dell’immissione nei suoi ranghi di elementi schiettamente fascisti

16 SEPE S., Per una storia dell’attività dell’amministrazione statale nel settore dell’assistenza, in Istituzioni e borghesie locali nell’Italia liberale, Milano, 1986 p. 139. 17 Giuseppe Spano (Catanzaro 1876 – Roma 1953) fu nominato prefetto nel 1920. 18 Circolare del 21 luglio 1919 del Presidente del Consiglio Nitti. 19 MOZZARELLI C. – NESPOR S., Il personale e le strutture amministrative, in Storia della società italiana, cit., p. 255. 20 CARACCIOLO A, Crescita e potere della burocrazia dopo l’unificazione, in L’amministrazione pubblica in Italia, Bologna 1974, p. 62.

120 provenienti dalle schiere dirigenti del partito e dello squadrismo, quanto mediante la graduale e tutt’altro che entusiastica adesione al regime di quanti già vi appartenevano.»21 Mussolini non sbagliava a fare affidamento nella burocrazia: essa con il suo tradizionalismo e la sua concezione dello Stato come entità al di sopra dei partiti costituiva per il governo la migliore garanzia di una fedele attuazione delle sue direttive.22 «Da politico puro qual era sempre rimasto, il capo del fascismo aveva scarsa conoscenza di amministrazione, di leggi, di tecnica economica e burocratica, e perciò consentiva a chi se ne intendeva di agire con una libertà di movimento che a Giolitti, per esempio, sarebbe sembrata eccessiva [...] Il burocrate, che gustava la pienezza del potere nelle questioni di ogni giorno, si trovava impotente al momento delle grandi decisioni, quando non poteva esercitare con efficacia nemmeno il suo legittimo compito di consigliere imparziale del governo».23 Alberto Pironti mantenne a lungo l’incarico con governi e ministri di assai diversa estrazione grazie, evidentemente, alla sua riconosciuta “professionalità”. Egli s’era mostrato «capace di risolvere, grazie ad una perfetta padronanza del diritto e delle sue tecniche, i problemi nuovi di uno Stato in espansione alle prese con la realtà dell’economico e del sociale».24 Alla fine del 1923 quando i grands-commis si recarono al Viminale per i rituali auguri di Capodanno al Presidente del Consiglio Mussolini, spettò a Pironti parlare a nome di tutti: «Ricordo che quando Ella ci ricevette per la prima volta al Palazzo del Viminale, appena assunto il potere, ci disse che esigeva da noi una dedizione assoluta ai supremi interessi della Patria e ripeté: “Dedizione assoluta”. Dopo poco più di un anno da quella data memorabile il nostro più ambito premio è l’autorevole riconoscimento di non essere stati impari alla grande opera di rinnovamento intrapresa dal Governo Nazionale.» Il 13 novembre 1924 Pironti fu nominato Presidente di Sezione del Consiglio di Stato.25 Al tempo dell’ultimo governo Facta era entrato a far parte del Senato del Regno (16 ottobre 1922). Lasciava così il suo incarico al Ministero dell’Interno.

21 AQUARONE A, L’organizzazione dello stato totalitario, Torino, 1965 p. 74. 22 DE FELICE R. Mussolini il duce. Lo stato totalitario, Torino 1981, pp. 61-62. 23 BARTOLI D., L’Italia burocratica, cit., pp. 115-116. 24 MELIS G., Storia dell’amministrazione, cit., p. 188. «Una buona burocrazia può essere un importantissimo coefficiente di progresso sociale, come una cattiva burocrazia può essere causa di gravi perturbamenti e di danni sociali ed economici» (SCHANZER C., Il problema della burocrazia, in “Nuova Antologia”, 1916, n. 1056, p. 202). 25 ZOLI C., Cenni biografici dei componenti la magistratura del Consiglio di Stato (1831-1931), in Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, vol. 3°, Roma 1932, p. 149.

121 Nel Consiglio di Stato prevaleva una generazione di giudici di vecchia formazione: «Noi abbiamo alti burocrati che hanno 70 e anche 75 anni d’età e 50 di servizio. Ora, quando si ha una canizie così veneranda, accompagnata molto spesso da molti così venerabili ricordi, non si può gioiosamente cantare Giovinezza».26 Negli anni del fascismo, poiché la funzione legislativa era in sostanza delegata al potere esecutivo, fu esaltata la competenza del Consiglio di Stato come massimo organo di consulenza del governo.27 La nomina di Pironti a Senatore fu disposta a norma dell’articolo 33 dello Statuto per l’appartenenza alla 17ª categoria, quella degli Intendenti generali (poi denominati Prefetti) dopo sette anni di servizio.28 Il Senato regio «non era una compagine di aristocratici (secondo il modello inglese), né un organo elettivo (secondo il modello contemporaneo). Piuttosto, esso raccoglieva personalità eminenti, che in larga parte provenivano dalle categorie più forti nell’ambito della organizzazione statuale: i “notabili della nazione”».29 Gli alti burocrati rappresentavano un elemento di continuità e anche se numericamente non maggioritari in Senato (erano circa un terzo del totale) ebbero sempre una notevole influenza, anche perché parecchi senatori-funzionari svolgevano attività legislativa mentre si trovavano ai vertici delle rispettive carriere e il laticlavio rappresentò l’agognato coronamento di una vita dedita ai pubblici uffici. I senatori-funzionari assicuravano una forte presenza nel “piccolo Senato” formato dai più attivi e presenti che avevano un ruolo determinante rispetto alla generalità dei senatori che formavano il “grande Senato” e intervenivano solo nelle occasioni solenni.30 L’attività del senatore Pironti è testimoniata dalle numerose relazioni parlamentari sulle attribuzioni dei prefetti, sul servizio ispettivo, sulla riforma delle leggi sanitarie, sullo stato giuridico dei segretari comunali. Di lui scrisse un contemporaneo: «Funzionario di larga dottrina, rappresenta nel Senato quella sana burocrazia che forma la salda intelaiatura della poderosa macchina statale; quella burocrazia che compie opera molte volte oscura, ma fattiva e restauratrice, quando sia spronata da un senso profondamente radicato del proprio dovere e della propria responsabilità».31

26 Intervento alla Camera dell’on. Aldo Lusignoli nella seduta del 14 giugno 1929. 27 MELIS G., Il Consiglio di Stato, in Storia d’Italia. Annali 14. Legge diritto giustizia, Torino 1998. 28 Ministri deputati, senatori dal 1848 al 1922, a cura di Alberto Malatesta, in Enciclopedia biografica e bibliografica italiana, vol. 3°, Roma 1941, p. 11. 29 MENICONI A., I burocrati nel Senato regio, in “Le carte e la storia”, n. 2/1998, p. 71. 30 ANTONETTI N., Gli invalidi della costituzione. Il Senato del Regno 1848-1924, Bari 1992; PEZZANA A., Gli uomini del Re. Il Senato durante e dopo il fascismo, Foggia 2001. 31 SAVINO E., La nazione operante, Novara 1934, p. 317.

122 Pironti fu anche per breve tempo delegato effettivo presso la Società delle Nazioni, collaborò alla riforma della giustizia amministrativa, partecipò in maniera determinante all’elaborazione dei testi normativi in materia di protezione e assistenza della maternità e infanzia. Nel 1928 fu nominato presidente della commissione incaricata di elaborare la riforma della finanza locale e Mussolini, passato un anno, dichiarò: «I tributi locali sono studiati da una commissione la quale, come tutte le commissioni di questo mondo, procede molto lentamente. A un certo momento penserò a svegliarla.»32 La relazione conclusiva presentata di lì a poco fu tradotta in un disegno di legge approvato dalle Camere e la commissione Pironti redasse il testo unico entrato in vigore il 1° gennaio 1932.33 Un’altra commissione da lui presieduta predispose il testo unico della legge comunale e provinciale 3 marzo 1934, n. 383 durato sino all’anno 2000. Alberto Pironti morì a Roma il 4 dicembre 1936 dopo breve malattia. Il Presidente del Senato Federzoni, che era stato Ministro dell’Interno, lo commemorò parlando di lui come di funzionario di somma capacità, vero maestro di più generazioni del personale dell’amministrazione civile. «Portò in quest’aula il concorso della sua grande dottrina giuridica e della incomparabile pratica conoscenza, che egli possedeva, di ogni congegno del nostro sistema burocratico». Alle parole di Federzoni si associò Thaon di Revel, Ministro delle Finanze.34 La Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno ha dedicato a Pironti un’aula. 35

32 “Rivista Amministrativa”, 1930, p. 14. 33 PORRO A., Il fascismo di fronte a un problema istituzionale dello Stato liberale europeo: le autonomie locali, in Il fascismo e le autonomie locali, Bologna 1973, pp. 118-119. 34 Atti Parlamentari, legislatura XXIX, seduta del 15 dicembre 1936, p. 2325. 35 Sulla storia dei Prefetti, Quaderni SSAI, prima serie, Roma 1994, p. 29; Pagine di storia del Ministero dell’Interno, Quaderni SSAI, seconda serie, Roma 1998, p. 291; CIFELLI A., I Prefetti del Regno nel ventennio fascista, Quaderni SSAI, seconda serie, Roma 1999, pp. 220- 221.

123 124 Giovanni Gasti

da Storia in network, n. 113 giugno 2006

125 «Buon piemontese ligio al dovere». Così un contemporaneo definì Giovanni Gasti (ROSSI, Mussolini com’era). Era nato il 30 gennaio 1869 nel paese di Castellazzo Bormida a due passi da Alessandria, battezzato anche con i nomi di Giuseppe e Aurelio, figlio del cav. Giuseppe Gaspare (capitano dei Reali Carabinieri, medaglia d’argento al V.M., giudice conciliatore e sindaco del Comune) e di Clara Pettoleti. Intrapresi studi regolari e laureatosi in giurisprudenza, a 25 anni sposò la concittadina Maria Melania Grillo che, si legge sulla pietra tombale, «adorò il marito e ne fu ricambiata, fu felice e rese felice». Giovanni Gasti apparteneva alla generazione post-risorgimentale e non poteva dunque vantare meriti patriottici, come molti di quelli che dopo l’Unità erano stati assunti senza selezione, ma possedeva un titolo di studio universitario (si pensi che il famoso prefetto Mori ricevette la laurea honoris causa l’anno della nomina a senatore, poco prima del collocamento a riposo). Nel ministero dell'Interno nell’Ottocento c’era una forte presenza di settentrionali e, per capire le ragioni della scelta di Gasti di entrare in polizia, possiamo riferirci all’ambiente ma anche ad una personale disposizione. «I poliziotti nascono tali come i poeti» è stato scritto. Alla fine del secolo XIX tra i funzionari di Pubblica Sicurezza il grado iniziale era allora quello di Delegato, figura nata con la legge Rattazzi del 1859, si passava poi a Vice- commissario, Commissario, Vice-questore, Questore, Ispettore generale. Entrato in ruolo nel 1893, cinque anni dopo Gasti era Vice-commissario a Roma, dopo altri otto anni arrivò la promozione a Commissario. La sua grande chance fu la polizia scientifica. Il francese Bertillon aveva elaborato un sistema di misurazione antropometrica applicato dopo il 1882 e basato su undici misurazioni del corpo umano. I primi studi sulle impronte digitali erano precedenti ma compiuti da un punto di vista unicamente anatomico. Herschell, responsabile della polizia del Bengala, applicando un’usanza orientale di firmare con l’impronta del pollice, riuscì a dimostrare l’unicità e invariabilità delle impronte nello stesso individuo. L’idea fu ripresa dall’inglese Francis Galton (cugino di Charles Darwin) e in Argentina da Juan Vucetich. Giovanni Gasti s’appassionò ai nuovi metodi di ricerca investigativa, tanto da divenire assai presto una vera autorità nel settore. Elaborò e da lui prese il nome una classifica delle impronte digitali – identificazione decadattiloscopica - adottata anche da polizie estere, compresa quella di Chicago. Il metodo venne presentato al Congresso internazionale di antropologia criminale del 1906, consacrando la fama di Gasti «straordinaria figura di funzionario, ricercatore e studioso, universalmente ammirato, in Italia e all’estero, per le non comuni doti umane e per la vasta e profonda cultura giuridica e scientifica» (BUZZANCA, La Scuola superiore di polizia). Furono

126 organizzati corsi regolari presso la Scuola di polizia scientifica di Roma, nata nel 1902 e diretta per molti anni dal medico antropologo Salvatore Ottolenghi. Presso le principali questure furono costituiti gabinetti di polizia scientifica. Incoraggiarono e assecondarono tutto ciò il ministro dell’Interno Giolitti e Francesco Leonardi, direttore generale della P.S. dal 1898 al 1911. Giovanni Gasti venne nominato direttore del Servizio identificazione, meritato riconoscimento per chi aveva saputo cogliere, meglio di altri, l’importanza delle nuove metodiche. Certamente fu istruttivo per lui un periodo trascorso all’estero per studiare l’organizzazione della polizia nei paesi più evoluti. Insieme con Gasti, si misero allora in luce anche Adriano Zaiotti, Umberto Ellero, Emilio Saracini, Edoardo Di Domenico. La polizia scientifica italiana conquistò allora un posto di assoluto rilievo internazionale. Nel 1915 arrivò per Gasti la promozione a Vice-questore ed anche la Grande Guerra, che gli offrì un’altra straordinaria opportunità. Dal settembre 1916, dopo un segreto periodo di preparazione, cominciò ad operare una struttura civile di controspionaggio, alle dirette dipendenze del direttore generale della P.S. Giacomo Vigliani. Nell’ottobre 1917 un decreto ufficializzò l’esistenza dell’Ufficio Centrale di Investigazione, la cui direzione venne affidata al funzionario nativo di Castellazzo Bormida. La struttura, snella ma solida, era articolata in quattro sezioni, che si occupavano di anagrafe e vigilanza sugli stranieri, informazioni politiche, repressione dello spionaggio commesso da civili, indagini su reati previsti dalla legislazione eccezionale di guerra. Essenziale era poi la «revisione postale, telegrafica e telefonica» che non ha bisogno di spiegazioni. L’ufficio si avvaleva di un’estesa rete di fiduciari in Italia ed all’estero, a cominciare dalla neutrale Svizzera. Si comprende bene quali possibilità ma anche rischi attendessero Gasti, quale direttore di un servizio segreto. Il ministro Orlando gli diede di fatto carta bianca. Il funzionario «consacratosi alla ragion di Stato sguinzagliò le sue spie in ogni campo: politica, religione, cultura, affari e, perfino, abitudini sessuali» (PALOSCIA, I segreti del Viminale). L’attenzione maggiore la rivolse ai socialisti, ai repubblicani ed alla Santa Sede. I suoi agenti scoprirono che un prelato, Rodolfo Gerlach, appartenente all’ entourage del Papa, svolgeva attività spionistica. Venne processato e condannato all’ergastolo ma in contumacia. Altre investigazioni riguardarono un grosso movimento di denaro tra Germania, Svizzera e Vaticano. Il sospetto era che si volesse alimentare in Italia una campagna disfattista. Qualcosa di più concreto fu scoperto sull’ex-deputato Filippo Cavallini ed il faccendiere francese Bolo Pascià: il primo aveva tenuto contatti con agenti tedeschi allo scopo di fondare un quotidiano, il secondo aveva cercato di vendere al

127 governo italiano carbone e bovini americani servendosi delle referenze del senatore Annaratone, prefetto a riposo. Questi affari non andarono in porto e misero nei guai i due personaggi che finirono sotto processo (AUGIAS, Giornali e spie). Sul versante politico vennero arrestati il segretario ed il vice-segretario del partito socialista, Costantino Lazzari e Nicola Bombacci, accusati di disfattismo ed attività sovversiva. Finì in carcere anche il direttore dell’ Avanti! Giacinto Menotti Serrati, sotto accusa per la rivolta popolare scoppiata a Torino nell’agosto 1917 (SPRIANO, Torino operaia nella grande guerra). Gasti dovette sostenere la concorrenza, oltre che dei servizi segreti militari, anche di una struttura civile extra ordinem: il ministro del Tesoro Nitti aveva infatti «organizzato presso di sé un gabinetto nero per indagini e denunzie contro i sabotatori della guerra» (CRESPI, Alla difesa dell’Italia in guerra e a Versailles). In Italia, nel campo dei servizi segreti, c’è sempre stata concorrenza e un po’ di confusione… A Gasti venne affidata anche la direzione del “Bollettino delle ricerche”, pubblicato dal 1913 con cadenza settimanale. «Uno dei migliori e più intelligenti funzionari di P.S. di questo periodo» (giudizio dello storico De Felice) raggiunse - cinquantenne - i vertici della carriera lui che, secondo Corrado Augias era un “poliziotto inusuale”. Nel drammatico dopoguerra, Gasti venne inviato a Milano per reggere la questura, dopo l’esonero del questore Eula «vecchio ed abilissimo funzionario». Compilò allora un rapporto, storicamente importante, su , che il 23 marzo 1919 aveva fondato i Fasci di Combattimento. Gli anni trascorsi nella capitale lombarda dal 1919 al 1922 furono i più agitati della carriera di Gasti, contrassegnati da straordinarie tensioni di piazza, sanguinosi attentati con bombe, violenze politiche quotidiane, vera guerra civile. Eula era stato esonerato dopo i tragici avvenimenti dell’aprile 1919.1 Gasti alla fine di agosto 1919 fu nominato “de iure” questore di Milano ma, come ho detto, reggeva quell’ufficio sin da aprile. Aveva a disposizione per il mantenimento dell’ordine pubblico forze abbastanza numerose ma comunque insufficienti. I Carabinieri in tutta Italia erano ridotti a 28.000 anche a causa delle perdite in guerra e l’utilizzazione dei reparti dell’esercito era frenata dal timore che fraternizzassero con i dimostranti, come in effetti qui e là avvenne. Un documento riservato del 25 aprile 1920 diretto ai prefetti dal capo della polizia Vincenzo Quaranta affermava: «Si ha motivo di ritenere che in qualche reparto di truppa sia stata accolta idea di privare fucili delle pallottole quando vengano chiamati in servizio ordine pubblico. Nelle località dove si trovino tali reparti la sicurezza

1 v. in questo volume il capitolo dedicato ad Angelo Pesce.

128 della innocuità delle armi diffusa nelle masse le renderebbe audaci e distruggerebbe possibilità resistenza. Pregasi pertanto disporre d’accordo con la autorità militare vigilanza e verifiche di sorpresa nel momento più opportuno». Pochi mesi dopo, in un altro telegramma riservato il sottosegretario Corradini scriveva: «Condizioni generali presenti e ragioni disciplina impongono che concorso truppa in servizio pubblica sicurezza sia richiesto soltanto in via eccezionale e quando necessità assolutamente ne sia evidente per motivi gravi e forze di polizia siano riconosciute insufficienti. In ogni caso dovrà evitarsi sempre richiesta invio piccoli distaccamenti e impiego militari isolati». Nitti, succeduto ad Orlando come Presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, di fronte al deterioramento della situazione ritenne necessario adottare provvedimenti urgenti di riorganizzazione della polizia e li attuò in pochi mesi, valendosi della professionalità dei prefetti Quaranta e Flores. Nacque un corpo di agenti di investigazione addetti alla polizia criminale e un corpo militare, la “Regia guardia per la pubblica sicurezza”, destinata ad operare nei centri urbani con un organico che arrivò a 40.000 uomini.2 Mai la polizia italiana era stata tanto numerosa (D’URSO, Polizia italiana, in Storia in network n. 103/maggio 2005). A Milano, Gasti ebbe a disposizione per le esigenze di ordine pubblico oltre 2.800 guardie e due battaglioni mobili di carabinieri con circa 1.500 uomini. L’importanza assunta dalla Regia guardia per la repressione dei disordini di piazza fece concentrare su di essa l’ostilità delle masse, che la vedevano esclusivamente come strumento della classe dominante. «Diamo dell’odio alle Guardie regie in cambio del piombo che ci danno” divenne una frase tristemente famosa. E Gramsci parlò di “corpo armato mercenario creato dallo Stato borghese». Nel “biennio rosso” (1919/1920) si scavò un solco incolmabile tra le forze socialiste e quelle anti-socialiste, tra le quali divenne dominante la componente fascista. In sintesi, ricordo i fatti più gravi che in quegli anni turbarono l’ordine pubblico a Milano. L’estate milanese del 1919 fu turbata da una serie di attentati, tutti o quasi dovuti all’iniziativa del giovane anarchico Bruno Filippi. Dapprima egli fece scoppiare una bomba in piazza Fontana negli uffici della Corte d’Assise, poche settimane dopo lanciò una fiala di vetriolo sull’industriale Breda e, deluso per il risultato, la sera stessa piazzò un ordigno contro la villa dell’uomo. Un’altra bomba, fortunatamente inesplosa, fu rinvenuta alla stazione centrale di Milano, seguì un attentato al palazzo del marchese e senatore Ponti. Gli obiettivi principali di Filippi erano i ricconi milanesi e, in particolare, secondo le sue stesse parole, i “pescecani” che se la spassavano nei locali alla moda. Il 7 settembre

2 DONATI L., La Guardia regia, in “Storia contemporanea”, n. 3/1977, pp. 441-487.

129 1919 Filippi progettò un attentato in Galleria. Il pianterreno era occupato dal caffè- ristorante Biffi mentre al piano nobile c’era il Club dei Nobili. Lo scoppio del potente ordigno trasportato da Filippi avvenne prematuramente sul pianerottolo dell’ammezzato e dilaniò l’anarchico. Tra la montagna di detriti si rinvenne solo un piede di Filippi e il riconoscimento avvenne grazie alla scarpa (www.anarcotico.net). Durante la campagna elettorale del novembre 1919 (per la prima volta si votava alla Camera col sistema proporzionale e fu eclatante il successo di socialisti e popolari) a Lodi, per rappresaglia contro i massimalisti che avevano interrotto un comizio, i fascisti spararono in un teatro uccidendo tre persone e ferendone otto. I risultati delle urne furono però deludenti per Mussolini. La questura, dopo che nella sede del comitato elettorale fascista furono sequestrate bombe a mano, pugnali e rivoltelle, arrestò Mussolini, Marinetti e altri dirigenti. Gasti non ebbe il sostegno del governo e il futuro Duce e gli altri tornarono in libertà (DE FELICE, Mussolini il rivoluzionario). Dopo i gravi fatti avvenuti a Roma il 1° dicembre 1919 all’apertura della Camera, le centrali sindacali proclamarono uno sciopero generale di protesta. A Milano durante gravissimi tumulti di piazza rimasero uccisi tre operai e il carabiniere Cordola. Per tutto il 1920 la violenza politica imperversò. In giugno barricate e saccheggi di negozi con cinque morti e nella città quasi in stato d’assedio la questura impiegò le autoblindo per sedare i disordini. Durante uno dei più selvaggi episodi di violenza fu letteralmente linciato un vice-brigadiere dei Carabinieri che aveva rifiutato di cedere le armi. Gettata una bomba contro il ristorante Cova, un altro ordine scagliato da un’auto in corsa uccise un capitano dell’esercito. Un ufficiale in pieno centro fece del tiro a segno contro una bandiera rossa esposta a una finestra. In settembre occupazione delle fabbriche e morte di un operaio dilaniato da una bomba all’interno dello stabilimento Breda. Sotto l’aspetto morale la polizia mostrava sempre più simpatia per i fascisti, contro i comuni nemici sovversivi, sino ad arrivare all’aperta connivenza. Gaetano Salvemini ha parlato di “antibolscevismo” delle forze dell’ordine «costrette a correre da ogni parte per far cessare i disordini, insultate dai giornali e nei comizi rivoluzionari, esposte in continuazione al pericolo di essere ferite e uccise, esasperate per il frequente uso delle armi, al quale erano realmente costrette contro le folle in tumulto». Il questore Gasti, giudicato dal più stretto collaboratore di Nitti «tra i migliori funzionari dell’amministrazione di pubblica sicurezza» (FLORES, Eredità di guerra) ebbe il merito di salvare la propria dignità e il decoro delle forze ai suoi ordini, tenendo una condotta che, proprio per essere stata criticata dalle opposte fazioni, era evidentemente di sostanziale imparzialità. “Il Popolo d’Italia” parlò di «zelo sfacciatamente partigiano del

130 signor Gasti al quale così male è affidata la sicurezza dei cittadini milanesi». Il segretario dell’associazione arditi accusava: «Perseguitare e disarmare gli arditi e lasciare che i sovversivi apprestino le armi per i loro truci scopi, per un questore è una colpa gravissima, signor Gasti nonché grande ufficiale. Socialisti poliziotti ne abbiamo conosciuti già e sono stati messi a posto». Ancora nel maggio 1922 il quotidiano fascista arrivò a definire Gasti “costituzionale codino con una chiara tendenza al riformismo socialista”, funzionario dal temperamento “esclusivamente giuridico”, attento solo alla obiettività formale ed alla legalità esteriore”. Il fascista Marinelli, con tono scandalizzato, scrisse: «Gasti ritiene che il fascio non rappresenti alcun valore». Cosicché il questore di Milano era vilipeso dai fascisti che non dimenticavano l’arresto di Mussolini nel 1919 ma era anche attaccato dai socialisti che gli rimproveravano mancanza di fermezza nel contrastare lo squadrismo. E se era odiato da anarchici e comunisti che si ritenevano particolarmente perseguitati, veniva biasimato dai benpensanti per non sapere difendere Milano dalla violenza degli estremisti. Fatto sta che Gasti rimase al suo posto, mentre cambiavano ministri (Orlando, Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta, Taddei) e prefetti (Pesce, Flores, Lusignoli). Evidentemente qualche merito doveva pure averlo. La sera del 23 marzo 1921 il teatro Diana di Milano fu devastato da un attentato: 21 morti e oltre 200 feriti, molti dei quali con gravissime mutilazioni. Era la disperata protesta degli anarchici per la detenzione del loro leader Malatesta ma anche il tentativo di uccidere Gasti che alloggiava nello stesso corpo di fabbrica del teatro. Come scrisse Giuseppe Mariani nelle sue memorie, era stata presa in considerazione un’azione da kamikaze: uno degli anarchici doveva recarsi nell’ufficio del questore con un pacco esplosivo. Quel piano non fu attuato e la scelta del Diana fu determinata dalla volontà di colpire anche eventuali ospiti occasionali nell’abitazione del questore. Dopo il terribile attentato, la città conobbe la reazione dei fascisti e Gasti intervenne su Mussolini “per indurlo a esercitare azione moderatrice” (DE FELICE, Mussolini il fascista). Evidentemente, le autorità di polizia a quel punto non erano più in grado di imporre ai violenti il rispetto della legge. Le indagini sulla strage, coordinate personalmente da Gasti, portarono a risultati concreti: gli autori materiali, rei confessi, furono arrestati e condannati. Nel maggio 1921 si svolsero nuove elezioni politiche in un clima di crescente violenza. Durante disordini di piazza una guardia regia ventenne fu disarmata e uccisa. “Il Popolo d’Italia” pubblicò l’ordine agli squadristi di perseguitare in ogni modo gli avversari. «In questo clima per un momento anche il questore Gasti perdette il controllo dei nervi,

131 rischiando una ripetizione della farsa post-elettorale del ‘19». Fece nuovamente arrestare importanti dirigenti fascisti ma anche quella volta il governo non lo sostenne. Nel fatale 1922 i fascisti assunsero sempre più il controllo della situazione. In agosto durante il cosiddetto “sciopero legalitario” indetto dall’Alleanza del lavoro squadre armate affluirono a Milano dalla Lomellina e da Cremona. La forza pubblica aveva avuto l’ordine di usare le armi solo per rispondere al fuoco e quando i fascisti diedero l’assalto a palazzo Marino, sede del Comune, le guardie schierate a difesa furono facilmente travolte senza spargimento di sangue. Quella facile vittoria esaltò gli squadristi che si diressero con pessime intenzioni alla sede del quotidiano socialista. Superata la debole resistenza degli agenti di guardia, affrontarono i difensori del giornale che si erano barricati difesi da un reticolato. I morti nell’assalto furono quattro. Gasti, per evitare il peggio, contattò i capi fascisti per ottenere il rimpatrio delle squadre affluite da fuori Milano. Riferendosi ai fascisti scrisse che «la loro fiducia e baldanza è anche nutrita dal convincimento che le truppe e le forze statali per simpatia verso di essi e delle loro idealità non condurranno mai un’azione a fondo e risolutiva per mezzo delle armi». La soluzione era solo nella forza e la partita per lo Stato appariva ormai perduta, nonostante le buone intenzioni del ministro dell’Interno Paolino Taddei. I giorni della marcia su Roma furono vissuti a Milano in un’atmosfera particolare, non solo perché la città era la culla del movimento fascista e il luogo da dove Mussolini manovrò ma anche perché a Milano i fascisti non riuscirono affatto a impadronirsi dei punti nevralgici, diversamente da quanto avvenne altrove. Gasti aveva predisposto un formidabile apparato di sicurezza e all’inizio giungevano da Roma notizie di un governo deciso finalmente a fare sul serio, anche ricorrendo allo stato d’assedio. Mentre il quotidiano comunista “L’Ordine Nuovo” parlava di eccezionali misure di sicurezza e non segnalava nelle prime ore nessun incidente di rilievo, “Il Popolo d’Italia” ricorse al dileggio nei confronti di Gasti: «La Questura adottò le misure più rivelatrici di fifa. Per un raggio di trecento metri intorno a S. Fedele furono bloccate le vie e le piazze. Fifa del comm. Gasti il quale ha posto a difesa della sua propria pelle una ventina di mitragliatrici, centinaia di uomini scaglionati su una zona di più di un chilometro quadrato tutto attorno la sua residenza». Quando gruppi armati di fascisti si presentarono ancora una volta dinanzi alla sede del quotidiano socialista, furono accolti dal fuoco delle guardie regie e lasciarono sul terreno morti e feriti. Tutto ciò dimostrava che gli squadristi erano invincibili solo quando li si lasciava vincere. In quelle ore drammatiche poco mancò che Mussolini finisse ammazzato da uno dei suoi troppo nervoso, a cui sfuggì un colpo di fucile. Un battaglione di guardie regie con autoblindo fu

132 sul punto di dare l’assalto alla sede del quotidiano fascista: forse sarebbe stata la fine della rivoluzione. Poi da Roma arrivò la notizia che il Re non aveva firmato il decreto sullo stato d’assedio e i rivoltosi da annientare divennero a un tratto i nuovi governanti ai quali obbedire. Mussolini, nuovo capo del Governo e ministro dell’Interno, nel primo Consiglio dei Ministri propose la nomina a prefetto di due questori: Wenzel di Cremona e Gasti. Riconoscimento di quanto da essi fatto o non fatto nei confronti del fascismo? In Castellazzo Bormida, l’iscrizione sulla tomba definisce Gasti “Prefetto del Regno, primo dell’era fascista”. In verità, «non si è potuto mai chiarire se i sentimenti di Gasti fossero o no favorevoli al fascismo. Esiste un suo rapporto nel quale ne parla bene; però, al tempo della marcia su Roma, fu l’unica autorità, a Milano, che si batté per la resistenza alla ribellione fascista» (FUCCI, Le polizie di Mussolini). Dopo aver fatto parte della commissione d’inchiesta inviata a Torino per indagare sui gravissimi fatti del dicembre 1922 con il massacro di numerosi antifascisti (CARCANO, Strage a Torino), il neo-prefetto nel febbraio 1923 fu destinato a Palermo. In un rapporto riservato Gasti affermò che «elementi della mafia cercarono di infiltrarsi nelle sezioni fasciste sia anche per poter esercitare qualche influenza sulle direttive del movimento, in specie nei centri rurali ed in ogni caso per essere preventivamente e tempestivamente informati dei propositi del partito e del Governo in rapporto alla mafia». Poi, nell’arco di due anni, traslocò a Novara, Ferrara, Trieste. Durante il periodo novarese si attirò le ire di Mussolini per avere consentito che il dissidente fascista Cesare Forni tenesse un comizio antigovernativo. Anche nel capoluogo giuliano diede prove di moderazione in una situazione di tensione e insicurezza, tanto che la stampa della minoranza slovena non mancò di rilevare che «per la prima volta in questa regione un rappresentante dello stato assume una posizione giusta, corretta e logica verso la nostra gente». Nel dicembre 1926 arrivò prematuramente per Gasti il collocamento a disposizione, l’anno successivo a riposo a soli 58 anni. Il telegramma a firma del Sottosegretario Suardo recava la data del 1° settembre 1927: «Con decreto in corso V. S. è stata collocata a riposo per ragioni di servizio a decorrere dal giorno 16 settembre. D’ordine di S. E. Capo Governo Ministro dell’Interno La ringrazio dei lunghi e buoni servizi resi all’Amministrazione e che hanno reso la S. V. benemerita del paese». Gasti si rifugiò negli affetti familiari e curò l’edificazione della tomba di famiglia. Detto lui stesso le epigrafi, esemplari della retorica del tempo. Su quella della madre è scritto curiosamente: “Devota al marito, sviscerata al figlio”. La morte lo raggiunse nel 1939, all’età di 70 anni.

133 BIBLIOGRAFIA

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134 135 Francesco Crispo Moncada capo della polizia

da Archivio storico siciliano, 2001 fasc. 1

135 Francesco Crispo Moncada fu capo della polizia dal giugno 1924 al settembre 1926 (il Direttore generale della P.S. era diventato Intendente generale di polizia col r.d. 11 novembre 1923, n. 2395 e poi Capo della polizia col r.d. 20 dicembre 1923, n. 2908). Dopo il delitto Matteotti, Mussolini – con abile mossa – lasciò al nazionalista la guida del Ministero dell’Interno e sacrificò alcuni stretti collaboratori: vennero “dimissionati” Aldo Finzi sottosegretario all’Interno,1 il generale Emilio De Bono capo della polizia,2 Cesare Rossi capo ufficio stampa,3 Cesare Bertini questore di Roma. Per rimpiazzare De Bono – militare ma anche “Quadrumviro della Rivoluzione” – si pensò ad un personaggio non politico e cioè ad un alto funzionario della carriera

1 Aldo Finzi, nato 1891 e laureato in giurisprudenza, fu valoroso combattente nella Grande Guerra e partecipò con D’Annunzio al celebre volo su Vienna. Eletto deputato nel 1921, fu tra i protagonisti alla Camera dell’aggressione all’onorevole comunista Misiano che era stato disertore. Nell’agosto 1922, insieme con Cesare Rossi, guidò l’occupazione di palazzo Marino a Milano defenestrando gli amministratori socialisti. Di famiglia ebrea, si convertì al cattolicesimo per potere sposare la nipote del cardinale Vannutelli. Dopo la marcia su Roma, Finzi scelse una posizione moderata, invisa ai fascisti più intransigenti. Come sottosegretario usò largamente fondi segreti per sovvenzionare la stampa “amica”. Dopo il delitto Matteotti, sebbene si dicesse fiero di essersi sacrificato per fedeltà a Mussolini, scrisse un memoriale che lasciava intendere scabrose verità. Emarginato anche per accuse di affarismo, visse a lungo nell’ombra e finì per essere espulso dal Partito a causa delle sue critiche alle leggi razziali. Arrestato dai tedeschi dopo l’8 settembre, fu ucciso il 24 marzo 1944 nella rappresaglia delle Fosse Ardeatine. 2 Emilio De Bono, il più anziano dei quadrumviri della marcia su Roma, era nato a Cassano d’Adda nel 1866. Militare di carriera, aveva partecipato alle campagne d’Africa di fine Ottocento ed alla prima guerra mondiale. Scrisse le parole della canzone “Montegrappa tu sei la mia patria”. Dopo il delitto Matteotti subì un procedimento d’accusa innanzi al Senato costituito in Alta Corte ma ne uscì indenne. Successivamente, ricoprì le cariche di governatore della e ministro delle Colonie. Il 25 luglio 1943 votò a favore dell’o.d.g. Grandi e per questo fu processato a Verona, condannato a morte e fucilato nel gennaio 1944. 3 Cesare Rossi, nato a Pescia nel 1887, redattore del “Popolo d’Italia”, fu all’inizio uno degli esponenti più autorevoli dell’entourage di Mussolini alla Presidenza del Consiglio. Nel giugno 1924, ritenendo di essere stato ingiustamente “scaricato”, scrisse un memoriale in cui accusò Mussolini di avere ispirato tutte le più gravi azioni squadristiche contro gli avversari politici. Lasciò l’Italia nel timore di rappresaglie, rifugiandosi in Francia. Attirato con un tranello a Campione d’Italia, fu arrestato e condannato a 30 anni di carcere dal Tribunale speciale. Nel dopoguerra scrisse interessanti libri di memorie. È morto a Roma nel 1967.

136 prefettizia, “un tecnico di polizia e di reggimento interno”, che desse il senso della normalizzazione. Crispo Moncada era nato a Palermo nel 1867 da Pietro Crispo magistrato e da Elena Moncada appartenente ad una famiglia di alto lignaggio. Entrato nel 1891 nell’amministrazione dell’Interno, percorse una brillante carriera a Palermo, Roma, Ferrara, Messina, Ancona. Durante la prima guerra mondiale lavorò presso il Comando Supremo, nel 1919 venne assegnato al Commissariato generale civile per la Venezia Giulia con sede a Trieste, collaborando con Augusto Ciuffelli e Antonio Mosconi. Nell’aprile 1920, allorché ministro dell’Interno era Nitti, Crispo Moncada fu promosso prefetto ma, tranne una brevissima parentesi a Treviso nell’estate 1921, rimase a Trieste sino al giugno 1924 in quanto, dopo la soppressione del Commissariato generale civile, fu nominato prefetto per la Venezia Giulia, poi della provincia di Trieste. Erano anni non facili per le emergenze di ordine pubblico. Le tensioni etniche tra italiani e slavi in Venezia Giulia erano rese drammatiche dalle azioni di nazionalisti e fascisti. Il 13 luglio 1920 essi diedero assalto al “Narodni dom”, sede triestina delle organizzazioni slave. Lo scontro si svolse a colpi di fucile e bombe a mano e provocò due morti e numerosi feriti. L’edificio fu dato alle fiamme con gravissimi danni materiali. Sempre a Trieste, nel febbraio 1921, dopo l’uccisione di un carabiniere, squadre fasciste attaccarono la sede del giornale “Il Lavoratore” e si lottò persino sui tetti, con un bilancio di numerosi feriti e la devastazione dell’edificio. I fatti di violenza politica si moltiplicarono: il dirigente cattolico Zustovich fu ucciso da una bomba, un sacerdote aggredito mentre predicava in sloveno. Nei giorni della marcia su Roma, anche a Trieste fu occupato il Palazzo del governo senza che fosse opposta valida resistenza da parte delle forze dell’ordine, né peraltro fecero di più i militari quando le autorità civili trasmisero ad esse tutti i poteri. I capi fascisti Giunta e Giuriati avevano partecipato ad un banchetto in onore di Mosconi che stava per lasciare l’incarico di Commissario generale civile e, con faccia tosta, brindarono alla salute del moribondo governo Facta! Allorché Giunta, alla testa dei suoi, si presentò in prefettura, pare che Crispo Moncada “con le lacrime agli occhi” si limitasse ad esortarlo a pensare soprattutto all’Italia. Il comandante militare generale Sanna minacciò: «Ora vi faccio fucilare tutti» e Giunta rispose: «Faccia pure, Eccellenza, ma non le basterà un plotone di esecuzione». E l’esercito rimase a guardare.4

4 Quando nel 1926 fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, il generale Carlo Sanna ne fu il primo Presidente.

137 Una pubblicazione degli anni Trenta scrisse che Crispo Moncada a Trieste «aveva esplicato i mandati a lui affidati con prontezza e fede patriottica, agevolando il sorgere e l’affermarsi delle prime idee fasciste. Un impulso notevole diede a tutte le più sane istituzioni locali ed aiutò a promuovere importanti opere pubbliche»5. La nomina a Capo della polizia nel giugno 1924 pare sorprendesse lo stesso prescelto. Di lui si parlò come di “un gentiluomo di vecchio stampo, dal tratto assai signorile” e di “funzionario all’antica”, fedele monarchico e vicino alle posizioni del nuovo ministro Federzoni. L’obiettivo di entrambi era di emarginare l’estremismo squadrista, limitare l’influenza dei “ras” locali, accrescere l’autorità dei prefetti in periferia. Federzoni ha scritto in un libro di memorie: «I prefetti che erano stati difesi molte volte da me contro le sconsigliate ingerenze del Partito diedero prova quasi tutti di esemplare fedeltà e scrupoloso senso del dovere. Funzionari ed agenti erano pubblicamente lodati come “fascisti” o vituperati come “antifascisti” a seconda del loro atteggiamento ligio piuttosto al Partito che al Ministero o viceversa». Mussolini, per evidenti ragioni tattiche, sostenne in quel momento le posizioni di Federzoni e il prefetto finì per essere consacrato come “la più alta autorità dello Stato nella provincia”. Anche il Capo della Polizia ribadì in più occasioni che lo Stato non poteva delegare ad altri le sue prerogative in materia di ordine pubblico ed invitò i prefetti ad intervenire efficacemente in tal senso presso i dirigenti locali dei fasci. Ma non furono evitati fatti sanguinosi. Il 5 settembre 1924 Piero Gobetti fu vittima di una bastonatura in una strada di Torino.6 Una settimana dopo fu assassinato a Roma un deputato fascista moderato, Armando Casalini. Don Luigi Sturzo ebbe l’abitazione devastata e l’ultimo giorno dell’anno, a Firenze, gli squadristi assalirono la sede di un giornale, due logge massoniche e studi di professionisti. Nel luglio 1925 toccò a subire una violenta aggressione.7 Il mese successivo Gaetano Salvemini, sfuggendo alla sorveglianza della

5 SAVINO E., La nazione operante, Milano 1937 6 Dopo quel fatto Gobetti accusò disturbi cardiaci che lo portarono a morte a Parigi nel febbraio 1926. Da poche settimane aveva lasciato l’Italia. 7 Amendola che già nel dicembre 1923 era stato aggredito a Roma, il 20 luglio 1925 si trovava a Montecatini per una cura termale. Lì fu assediato in albergo e minacciato di morte. Quando fu chiesto un rinforzo di agenti, la questura di Lucca fece sapere che li avrebbe potuti inviare solo il giorno dopo. Il fascista Carlo Scorza – che nel 1943 fu l’ultimo segretario del P.N.F. – convinse il deputato a partire in auto per Pistoia con al seguito un camion di carabinieri (dirà poi Amendola al figlio Giorgio che “la vergogna era durata abbastanza e nell’albergo vi erano molte signore e stranieri ed egli non poteva accettare di essere motivo involontario di tanto fastidio”). Fuori Montecatini l’automobile, guidata da un fedele di Scorza che aveva fatto salire sul mezzo due compari come “scorta”,

138 polizia, riuscì a espatriare in Francia.8 A Firenze, in ottobre, dopo l’uccisione del fascista Luporini, bande armate scorrazzarono per la città e assalirono abitazioni di antifascisti, uccidendo a freddo l’ex-deputato socialista Pilati e l’avvocato Consolo.9 In dicembre, il funerale della compagna di Turati, Anna Kuliscioff, fu disturbato da provocatori.10 Anche fu minacciato e più volte aggredito; dopo la bastonatura del 1° maggio 1926 gli venne mosso il rimprovero di essere uscito con la cravatta rossa e quando un commissario di polizia denunziò il responsabile di un’ulteriore aggressione, arrivò per il funzionario il trasferimento in Sardegna. Durante la gestione di Crispo Moncada mutò l’orientamento di ridurre gli organici e semplificare i servizi di polizia. Il 31 dicembre 1922, al tempo di De Bono,con un drastico e repentino provvedimento era stata abolita la Regia guardia per la pubblica sicurezza. Venne sciolto anche il Corpo degli agenti d’investigazione che contava 6.000 effettivi. L’Arma dei Carabinieri rimase così, temporaneamente, l’unica forza di polizia italiana, con un organico di 75.000 uomini. Conati di ribellione di guardie regie avvennero a Torino, Napoli, Genova e altrove. Passarono più di due anni ed il governo avvertì l’esigenza di avere a disposizione uno strumento di polizia più malleabile dei Carabinieri (dei quali disturbava sia la dipendenza dal ministero della Guerra sia la incondizionata fedeltà alla Corona) e nacque così, col r.d. 2 aprile 1925, il Corpo degli agenti di Pubblica Sicurezza, alle strette dipendenze del Ministero dell’Interno, proprio come la disciolta Regia guardia. Vi distaccò facilmente il lento mezzo militare e imboccò una strada secondaria, che era ostruita in un punto determinato. Sbucarono dal buio uomini armati che picchiarono selvaggiamente il deputato. Amendola, ferito gravemente, morì l’anno dopo in Francia. 8 Salvemini ricorda che, prima che decidesse di tentare l’espatrio, aveva quasi amichevolmente “convissuto” con gli agenti che lo sorvegliavano: «A Roma feci lo stesso contratto con i due nuovi angeli custodi: io mi impegnavo a non squagliarmi, e loro si godessero la vita. Quando partii da Roma per Santa Margherita Ligure due nuovi angeli custodi mi presero in consegna. Anche con questi feci amicizia, ai soliti patti». 9 Era stata compilata una lista di dieci persone da sopprimere, ma il caso volle che otto di esse fossero irreperibili. Mentre Firenze era piena di turisti, fra cui un ministro inglese ed il sindaco di Parigi, gli squadristi percorsero le vie del centro facendo chiudere i locali pubblici e picchiando anche cittadini stranieri. Lo scandalo fu enorme. Prefetto e questore furono sostituiti ed un’inchiesta affidata a li accusò di essere rimasti passivi per timore degli esponenti fascisti locali. Una cinquantina di squadristi, parecchi con precedenti penali, furono espulsi dal partito. 10 Il 1925 fu anche, però, un Anno Santo, che si svolse senza inconvenienti sotto l’aspetto dell’ordine pubblico. I pellegrini arrivati a Roma furono circa 600.000.

139 confluirono i servizi di investigazione e di indagine tecnica già facenti parte dell’Arma dei Carabinieri. Si consentì, per straordinarie esigenze di servizio, che fossero conferite le funzioni di Questore a persone estranee all’amministrazione di pubblica sicurezza e affidati a chiunque incarichi speciali per indagini riservate, secondo valutazioni discrezionali del Direttore generale della P.S. che fissava anche il compenso. Nel luglio 1924 furono emanate nuove disposizioni sulla stampa che attribuivano ai prefetti ampia facoltà di sequestro dei giornali e dopo il noto discorso mussoliniano del 3 gennaio 1925 la polizia operò un giro di vite nei confronti delle opposizioni soprattutto di sinistra: furono chiusi circoli, sciolte organizzazioni, sequestrati giornali. Dal 3 al 16 gennaio L’Unità fu sequestrata undici volte. Il 26 febbraio 1925 fu arrestato anche Palmiro Togliatti, accusato di organizzazione sovversiva “per far sorgere in armi gli abitanti del regno contro i poteri dello Stato”.11 Una legge molto restrittiva disciplinò la vita delle associazioni, un’altra previde la dispensa dal servizio per gli impiegati dello Stato che si ponessero “in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo”. Fu stabilita per i fuorusciti la perdita della cittadinanza e persino la confisca dei beni. Con circolare del 4 agosto 1925 venne chiesto ai prefetti, per un migliore controllo della vita sociale, di organizzare un servizio di informatori fiduciari, accuratamente selezionati, per seguire “gli atteggiamenti e i propositi dei partiti sovversivi”. Nello stesso tempo si pensò al potenziamento del Servizio speciale riservato per il controllo delle comunicazioni telefoniche. Al Viminale le apparecchiature di intercettazione furono provvisoriamente sistemate in locali al primo piano, fuori dalla vista di estranei. Diresse in quegli anni il servizio il Vice questore Michele Di Guglielmo, poi il pari grado Salvatore Introna.12 Erano controllati ex Presidenti del Consiglio, alti prelati vaticani, generali ed ammiragli, giornalisti, avvocati, letterati. Erano ascoltate e stenografate anche le telefonate di Mussolini. Mussolini riconobbe che la provata fede fascista non bastava a creare “un occhio magico che tenga sotto controllo tutti gli italiani”. La sorveglianza della polizia era rapportata

11 Togliatti rimase detenuto a Regina Coeli sino al 29 luglio 1925 e fece da scrivano per i detenuti comuni. Uscì grazie ad un’amnistia per i venticinque anni di regno di Vittorio Emanuele III ma prima dovette sottoporsi all’operazione dello “specchietto”: essere mostrato agli agenti della polizia politica affinché potessero fissare bene in mente i suoi connotati. 12 Salvatore Introna, nato a Bari nel 1878, dopo l’ampliamento del servizio di intercettazioni voluto da Arturo Bocchini fu promosso questore e poi prefetto. Nel 1933 fu destinato alla prefettura di Gorizia e due anni dopo a quella di Pesaro e Urbino.

140 all’importanza del soggetto e, come precisò Crispo Moncada in una circolare, si poteva andare dalla semplice segnalazione di spostamenti e rapporti di lavoro, alla stretta sorveglianza di ogni attività anche dei familiari, fino ad arrivare al piantonamento fisso. Antonio Gramsci, quando fu processato dal Tribunale speciale, dichiarò: «Non ho svolto attività clandestina di sorta perché, ove avessi voluto, questo mi sarebbe stato impossibile. Già da anni ho sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia». Crispo Moncada preferiva servirsi di persone che, durante la Grande Guerra, avevano fatto parte dei numerosi servizi di polizia militare e controspionaggio. Ai migliori spettava poi di sorvegliare i dirigenti fascisti meno affidabili. Il Capo della polizia avviò la riorganizzazione della Direzione generale della Pubblica Sicurezza ed ebbe come vice Elfrido Ramaccini, “un pepatissimo toscano dallo spirito mordace”, che ottenne successivamente la nomina a prefetto. Già negli anni della guerra aveva operato un servizio speciale di investigazione, affidato a Giovanni Gasti.13 Crispo Moncada in qualche modo lo riesumò servendosi dell’Ispettore generale Battioni, tecnico di vasta esperienza.14 In quegli anni, la Divisione affari generali e riservati del Ministero dell’Interno, affidata prima a Filippo Ravenna e poi a Giuseppe Marzano, era organizzata in tre sezioni: I Ufficio riservato speciale per il movimento sovversivo, la stampa sovversiva, le associazioni sovversive – II Ordine pubblico, stampa non sovversiva, associazioni in genere, viaggi dei sovrani ed alti personaggi, revisione cinematografica – III Stranieri, cittadinanza, affari vari. Il Casellario politico centrale intensificò la sua attività: nel 1925 furono aperti 2.600 nuovi fascicoli, l’anno dopo 3.600. Non venivano controllati soltanto i politici, ma anche gli stranieri, gli allogeni, i parroci. Si cominciò ad operare anche all’estero, appoggiandosi alle ambasciate e ai consolati. Il commissario Signori agiva a Berna, Sabbatini a Parigi, Spetia a Nizza, Caradossi a Marsiglia. Un funzionario, Francesco Lapolla, inviato a Parigi sotto falsa identità per infiltrarsi negli ambienti dei fuorusciti, fu scoperto dalla polizia francese e riuscì a cavarsela solo grazie ad un intervento diretto di Crispo Moncada sul capo della polizia parigina. C’era poi la Divisione personale di pubblica sicurezza diretta da Riccardo Motta e poi da Simone Cacciola.

13 Su Gasti v. in questo volume il capitolo a lui dedicato. 14 Arturo Bocchini organizzò in seguito gli “Ispettorati speciali”, divenuti OVRA con scoop giornalistico dovuto a Mussolini stesso.

141 La Divisione polizia operava con tre sezioni: I Polizia giudiziaria – II Polizia di frontiera ferroviaria e falsi valori – III Polizia amministrativa e sociale. Fu costituito anche un Ufficio centrale per la repressione della tratta delle donne e dei fanciulli. Diressero in quegli anni la divisione Celso Tassoni e Luigi Miranda. La Divisione gestione contratti e forniture era diretta da Mario Rizzo.15 Come ben si comprende, la Divisione affari generali e riservati era di gran lunga la più importante e lo divenne sempre di più. Le spese per la sicurezza pubblica che sino al 1926 si erano mantenute stabili, nei successivi quattro anni passarono da 134 milioni a più di un miliardo di lire del tempo. Più che rapine ed omicidi alla Direzione generale della P.S. destavano allarme e preoccupazione le offese al duce, le emigrazioni clandestine o una qualsiasi attività antifascista. In questi casi, arrivavano gratifiche e promozioni per i funzionari diligenti ovvero punizioni e trasferimenti per gli indolenti. Ma la polizia evitò sempre la fascistizzazione, come dimostrarono poi gli avvenimenti del luglio 1943. Nonostante le attente misure adottate per la sicurezza di Mussolini, tre tentativi di ucciderlo furono attuati in meno di un anno.16 Il 4 novembre 1925 fu arrestato l’ex-deputato socialista Tito Zaniboni, tradito da un infiltrato prima che potesse mettere in atto il piano di sparare con un fucile a Mussolini, da una finestra dell’albergo Dragoni prospiciente palazzo Chigi allora sede del Ministero degli Esteri. Mussolini doveva quel giorno assistere alla sfilata degli ex-combattenti, nell’anniversario della Vittoria. Zaniboni arrivò in albergo sotto falso nome nella sua divisa di ufficiale degli alpini pluridecorato. Quando la polizia intervenne trovò in un armadio un fucile munito di cannocchiale. Partecipe del piano, soprattutto sotto l’aspetto del finanziamento, era stato il generale Luigi Capello, uno dei migliori comandanti nella Grande Guerra ed esponente della Massoneria di Palazzo Giustiniani. Il Ministero

15 Quando Bocchini, successore di Crispo Moncada, rivide l’organizzazione dei servizi di polizia nel gennaio 1927, volle costituire la Segreteria del Capo della polizia (curava in particolare la corrispondenza particolare, l’apertura e lo smistamento del corriere) e la Divisione polizia politica (si occupava di polizia segreta, servizio fiduciario, investigazione politica, spese di pubblica sicurezza e confidenziali). 16 Col tempo, fu sempre più rafforzato il servizio protettivo. Ha scritto Paolo Monelli: «Anche quando Mussolini credeva di trovarsi in mezzo al popolo o fra contadini o sportivi, una buona parte di quei frenetici ammiratori erano poliziotti travestiti, secondo il bisogno, da minatori o da mietitori o da villani, e magari da ammalati negli ospedali». Quegli agenti formavano la squadra “presidenziale”.

142 dell’Interno ordinò severissime misure nei confronti delle logge17 e durante le perquisizioni fu rinvenuto dalla polizia il registro generale di tutti gli affiliati. Il questore Adolfo Perilli si affrettò a recarlo a Crispo Moncada, il quale ritenne suo dovere consegnarlo al ministro Federzoni. Da allora del registro non si seppe più nulla e ci fu chi sostenne che qualcuno se ne servisse a scopi ricattatori. Il 7 aprile 1926 Violet Gibson, una matura signorina appartenente ad una aristocratica e ricca famiglia irlandese, sorella di lord Ashbourne e figlia di un cancelliere, ferì al naso con una pistolettata il Capo del governo che usciva dal Campidoglio.18 Fu senz’altro il più grave e il più imprevedibile degli attentati. La donna aveva dato da giovane segni di squilibrio mentale dopo la morte del promesso sposo. Nei giorni dell’attentato a Mussolini alloggiava a Roma presso una comunità di suore e aveva inutilmente chiesto in Vaticano un’udienza privata col Papa. Pare che quel 7 aprile fosse uscita armata con l’intenzione di attentare alla vita del Pontefice e solo per curiosità si fosse avvicinata al Campidoglio. Sparò due colpi da distanza ravvicinata contro Mussolini che, avendo appena lasciato i partecipanti ad un congresso internazionale di chirurgia, ebbe la fortuna di essere assistito al meglio. Gli agenti, guidati dal questore Benedetto Bodini responsabile della sicurezza personale di Mussolini, sottrassero a fatica l’attentatrice alla violenza della folla. Violet Gibson, dichiarata non sana di mente, fu rimandata al paese di origine e l’opinione pubblica inglese rimase molto soddisfatta della benevolenza delle autorità italiane.19 Ancora a Roma, l’11 settembre 1926 l’anarchico carrarese ventiseienne Gino Lucetti, già noto alla polizia ed emigrato in Francia per motivi politici, lanciò una bomba a frammentazione contro l’automobile di Mussolini che transitava a Porta Pia. L’ordigno rimbalzò sulla carrozzeria ed esplose a distanza ferendo otto passanti. Lucetti per più giorni s’era appostato lungo il percorso che la Lancia presidenziale compiva da villa Torlonia a palazzo Chigi dove Mussolini aveva il suo ufficio. L’attentatore lanciò anche una seconda bomba, che non esplose, contro chi lo inseguiva ma non usò la pistola che

17 Il processo, svoltosi nel 1927, si concluse con la condanna a 30 anni di carcere dei due imputati principali. Tito Zaniboni rimase in carcere e al confino sino al 1943. L’anno dopo fu nominato Alto Commissario per l’epurazione. Finita la guerra tornò alla vita politica, tra i socialdemocratici. È morto nel 1960. Il generale Capello, dopo essere stato scarcerato per motivi di salute, morì nel 1941. 18 Una legge del dicembre 1925 aveva sostituito il titolo di “Presidente del Consiglio” con quello di “Capo del Governo” attribuendo al medesimo una serie di importanti prerogative. 19 Il fratello dell’attentatrice s’era affrettato a spedire questo telegramma a Mussolini: «La famiglia di Violet Gibson è addolorata dell’incidente ed esprime i sensi della propria simpatia».

143 aveva con sé. La polizia, che cercò invano le prove di un complotto, arrestò la madre, il fratello e la sorella di Lucetti, vecchi amici carraresi e anche chi aveva alloggiato con lui in albergo.20

Dopo questa serie di attentati la posizione di Federzoni e di Crispo Moncada divenne insostenibile. Mussolini si riprese il ministero dell’Interno e come nuovo Capo della polizia arrivò il prefetto di Genova Arturo Bocchini, uomo pratico ed astuto, “tecnico” per eccellenza, apprezzato anche da Augusto Turati, all’epoca segretario del P.N.F., per l’opera prestata alla prefettura di Brescia.21 Crispo Moncada, che nel 1925 aveva ricevuto la nomina a Consigliere di Stato, uscì bruscamente di scena. Ottenne nel 1928 il laticlavio ma negli anni successivi, secondo rapporti riservati di polizia (anche lui non era esente da controlli), manifestò un atteggiamento critico verso la guerra d’Etiopia e l’operato delle autorità in Venezia Giulia. In Senato non fu assiduo e si estraniò sempre di più dalla vita pubblica. Morì a Roma nel luglio 1952, a 85 anni.

20 Lucetti fu condannato dal Tribunale speciale a 30 anni di reclusione. Liberato dalle truppe alleate nel 1943, morì di lì a poco vittima di un bombardamento. 21 D’URSO D., Il prefetto nell’emergenza della sicurezza e dell’ordine pubblico, Alessandria 1989, cap. “Il Viceduce”. A chi gli aveva chiesto se fosse fascista, Bocchini rispose: «Sono fascista fin dalle fasce»”.

144 Cesare Mori il prefetto di ferro

da Notiziario Anfaci, anno II n. 4, ottobre 1990

145 Cesare Mori è ricordato come il “Prefetto di ferro” per la lotta condotta alla mafia in Sicilia, ma la sua biografia presenta molti altri aspetti interessanti. Abbandonato alla nascita all’orfanotrofio di Pavia, a sette anni fu riconosciuto come figlio dall’ing. Felice Mori. Ufficiale di carriera, abbandonò l’esercito perché i rigidi regolamenti del tempo sulla cosiddetta “dote militare” impedivano il suo matrimonio con la giovane che amava. Entrò allora nell’amministrazione della pubblica sicurezza e prima della Grande Guerra fu in servizio nella calda Romagna e in Sicilia. Andò questore a Torino dopo i disordini dell’agosto 1917. A Roma nel 1920 fu rimosso e incriminato dopo i fatti del 24 maggio, con morti per le strade ed arresti indiscriminati di giuliani e dalmati. Nel febbraio 1921 fu inviato come prefetto a Bologna. Mori, “uno dei prefetti più preparati di cui disponesse l’amministrazione” così telegrafava nell’aprile 1921, riguardo la repressione delle violenze fasciste: «Effettivamente anche qui in confronto violenze fasciste forza pubblica non corrisponde sempre e interamente a mie precise direttive ed a mie ripetute raccomandazioni e richiami verbali e scritti. Ieri locale questore mi riferiva che concordemente funzionari PS dichiarano sentirsi isolati e non secondati da forza pubblica quando trattasi agire contro fascisti». Nel novembre 1921 il governo Bonomi dispose che i servizi di pubblica sicurezza di undici province fossero posti alle dipendenze di Mori, che si trovò così a disporre di quasi 12.000 tra carabinieri e guardie regie. Presto la politica di fermezza adottata da Mori generò uno stato di tensione – che andò sempre più aggravandosi – con i fascisti locali. Negli ultimi giorni del maggio 1922 si concentrarono a Bologna migliaia di squadristi per chiedere la destituzione dell’inviso prefetto. Scrisse il “Corriere della Sera”: «Si vuol far paura al governo, perché obbedisca. Ora, il governo non può obbedire. Finché decine di migliaia di fascisti sono accampati in Bologna con atteggiamento di minaccioso antagonismo ai poteri dello Stato, il governo non può prendere deliberazione che quella di ristabilire l’ordine e di ricondurre la calma negli animi». Cosa avvenne? «Il governo credette di rimediare vietando dovunque cortei e comizi, mandò a Bologna il direttore generale della pubblica sicurezza, fece sbarrare le vie di accesso alla città e finì per affidare i poteri all’autorità militare. Il generale comandante il Corpo d’Armata credette bene parlamentare con Italo Balbo, comandante dei fascisti, e prese con lui accordi per una tregua d’armi fra le forze avversarie. Il giorno dopo i fascisti, avuta assicurazione che il prefetto sarebbe stato allontanato, cominciarono a smobilitare». Un’inchiesta ministeriale accertò che «la Prefettura manca della possibilità di esercitare la sua funzione politica che

146 ne è l’essenza, poiché il Fascio e tutti i simpatizzanti con esso, quindi la maggior parte della cittadinanza, ha tagliati i ponti con la Prefettura, la quale in questi momenti si trova nella impossibilità di adempiere alle istruzioni governative». Alla fine, il 26 agosto 1922 il governo Facta decise il trasferimento del prefetto Mori a Bari. «I fascisti pugliesi accolsero il funzionario con malumore e dichiararono il loro sprezzo verso un simile regalo, promettendo di sbarazzarsene presto». Il 22 novembre 1922 il governo Mussolini, da poco insediato, collocò Mori a disposizione, poi le innegabili qualità dell’uomo ne imposero il richiamo per affrontare il problema della mafia in Sicilia. Nel giugno 1924 Cesare Mori fu destinato come prefetto a Trapani, l’anno successivo a Palermo con «facoltà di emettere ordinanze di polizia eseguibili senza ulteriori formalità in tutte le province della Sicilia». Divenne presto famoso, in Italia e all’estero, anche grazie alla stampa. «Percorse la campagna siciliana non solo per arrestare i banditi ma anche per farsi conoscere dai proprietari e dai contadini, nelle loro terre e nelle loro case, convincerli della forza difensiva che è in loro e che li pone in grado di reagire immediatamente contro i soprusi di chi tentasse di opprimerli, credendoli deboli o pavidi». Mori s’impegnò in una campagna che definì “educatrice e sociale”. Incitò i siciliani ad usare le armi contro i malviventi: «Reagire alla malvivenza direttamente con ogni mezzo, comprese le armi; considerare la reazione alla malvivenza in atto e al delitto in corso contro la vita e gli averi dei cittadini, non solo come un diritto ma soprattutto come un dovere in quanto la vita del cittadino è votata alla Patria e la proprietà è elemento della ricchezza nazionale che tutti dobbiamo garantire». Poiché molti proprietari erano costretti a dare i propri fondi a gabella a esponenti della mafia, Mori con una sua ordinanza stabilì che questi contratti potevano essere rescissi dalla parte che si considerava danneggiata. «Il Tribunale di Palermo, chiamato a giudicare la validità del decreto prefettizio, lo dichiara illegittimo, ma la Corte d’Appello non tarda a definirlo del tutto regolare. Ai proprietari terrieri spalanca prospettive a lungo sognate. In breve tempo, centinaia di contratti sono rescissi. Per ottenere l’annullamento dell’atto basta rivolgersi alla commissione presieduta dal prefetto e dimostrare che il contratto in questione è stato sottoscritto sotto l’imposizione mafiosa». Mori giunse al punto di indicare quali dovessero essere i libri per le letture in classe e dettò lui stesso un buon numero di temi per i componimenti di italiano da assegnare agli alunni. Bandì un concorso per un libro che servisse a sfatare le leggende della mafia, ma nessuna delle trecento opere pervenute fu premiata.

147 Nel dicembre 1925, alla testa di 800 uomini a cavallo, il “Prefettissimo” pose l’assedio a Ganci roccaforte dei banditi delle Madonie. Dopo dieci giorni di isolamento assoluto il paese fu rastrellato casa per casa. Una squadra speciale sondò muri e pavimenti per individuare nascondigli. Morì ordinò il sequestro dei beni appartenenti ai banditi e i vitelli più grassi vennero macellati e la carne distribuita gratuitamente. Fece sapere al capobanda Ferrarello, il “re delle Madonie”, che era pronto ad affrontarlo da solo e col fucile: «Stasera alle sei l’aspetterò nel fondo Sant’Andrea. Se è un uomo verrà». Indusse il questore Crimi a sfidare, inutilmente, un altro bandito. Alla fine ogni resistenza fu stroncata. A Mori è attribuita la frase: «Se i siciliani hanno paura dei mafiosi, li convincerò che io sono il mafioso più forte di tutti». Nei paesi liberati dalla delinquenza venivano organizzati festeggiamenti in onore del prefetto. «Mori arriva su un cavallo bianco, saluta romanamente, sorride paterno alle donnette che mormorano “Iddu è! Iddu è! (È lui! È lui!) facendosi il segno della croce; poi pronuncia vibranti discorsi, secondo lo stile dell’epoca, non dimenticando mai di ricordare l’operosa assistenza del duce». Quando l’Università di Palermo gli offrì la laurea in legge honoris causa Mori chiese e ottenne da Mussolini il permesso di accettarla ma allorché possidenti siciliani manifestarono l’intenzione di donare un villino, il Capo del Governo telegrafò: «Accettare il dono sarebbe inopportuno». La somma che era stata raccolta per quello scopo fu devoluta alle opere di beneficenza in favore dei figli dei carcerati. Nel 1928 arrivò per il prefetto Mori la nomina a senatore, l’anno dopo il collocamento a riposo, come per altri prefetti con 35 anni di servizio. «Il licenziamento in tronco dal servizio gli arriva dunque come un fulmine a ciel sereno. A Bari, nel novembre 1922, per lo meno aveva buone ragioni per aspettarselo. Ora, invece, tutto è accaduto a sua insaputa, proprio quando lui è più che mai convinto di essere potente e inattaccabile. A parte le belle parole, Mori è licenziato per una precisa volontà politica. L’uomo ormai è scomodo, imprevedibile e pericoloso. Se non è stato liquidato prima è perché il governo si è trovato con le mani legate. Mori è diventato troppo forte e troppo famoso per essere disinvoltamente messo da parte senza correre il rischio di sollevare uno scandalo di portata internazionale. D’altra parte, questa sua popolarità, indubbiamente alimentata anche dalla sua sorgente megalomania (in tutte le scuole siciliane il prefetto ha fatto appendere il suo ritratto accanto a quello del re e del duce), non può non dare fastidio a Mussolini. Ma ciò che più conta è che Mori ha esaurito il suo compito da molto tempo. Ossia da quando, riempite le galere di malviventi di poco conto, ha procurato al regime una comoda facciata di perbenismo e di rispettabilità di cui a Roma si avvertiva l’urgente bisogno. A quel

148 punto, per proseguire senza intoppi la sua carriera, avrebbe dovuto smettere o, comunque, mostrarsi più accomodante, Invece è andato avanti a testa bassa com’è suo stile, colpendo senza pietà galantuomini e gerarchi».

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149 150 Adalberto Mariano l’eroe del Polo Nord che diventò prefetto

da Amministrazione civile, novembre/dicembre 2004

151 Nell’aprile 1928 partì da Milano - diretto al Polo Nord - il dirigibile Italia comandato da Umberto Nobile il quale voleva ripetere l’impresa già compiuta con Amundsen e il Norge. Dopo un non facile viaggio di trasferimento, il 6 maggio l’aerostato s’ancorò alla Baia del Re nell’arcipelago delle Svalbard. Lì arrivò anche la nave appoggio Città di Milano. Dopo due voli di ricognizione, il 23 maggio l’Italia iniziò la trasvolata decisiva verso il Polo. A bordo erano in 16: Nobile, gli scienziati Pontremoli, Malmgren e Behounek, il giornalista Lago, i tecnici Trojani, Cecioni, Arduino, Pomella, Caratti, Ciocca, Alessandrini, il radiotelegrafista Biagi, gli ufficiali di marina Mariano, Zappi e Viglieri. Il generale Nobile al momento di scegliere ufficiali dirigibilisti non ricevette molta collaborazione dall’Aeronautica e si rivolse perciò alla Marina che gli segnalò alcuni volontari. Tra di essi il solo che avesse il brevetto di dirigibilista era Filippo Zappi meno anziano, però, di Adalberto Mariano. Raccontò Nobile: «Non potevo mettere questi alla sua dipendenza. Per evitare difficoltà, decisi di non avere formalmente un comandante in seconda, e nominai Mariano primo ufficiale di bordo». Secondo un altro membro della spedizione, Felice Trojani, «Mariano appariva molle, liscio, sorridente, cortese, di una costante, melliflua cortesia che a me sembrava troppa. Era di casa nella famiglia del duca d’Aosta. Credo che fosse costume della R. Marina appaiare ai reali rampolli che entravano nell’Accademia uno dei migliori allievi, e così Mariano era stato addetto alla persona del duca di Spoleto, non so esattamente in qualità di che: se di paggio, d’amico, d’aiutante, o d’ufficiale d’ordinanza». L’Italia raggiunse il Polo Nord venti minuti dopo la mezzanotte del 24 maggio 1928 ma le condizioni meteorologiche non consentirono di ancorare il dirigibile al pack per effettuare lo sbarco. Furono lasciate cadere una bandiera italiana e la croce donata dal papa Pio XI e due ore dopo iniziò il viaggio di ritorno. Alle ore 10.33 del 25 maggio la tragedia: l’aeronave divenne incontrollabile e precipitò. Il risucchio portò via quel che restava del dirigibile insieme con sei occupanti: Pontremoli, Lago, Arduino, Caratti, Ciocca, Alessandrini, dei quali non si seppe più nulla. Sulla desolata distesa di ghiaccio si ritrovarono Nobile, Cecioni, Mariano, Zappi, Viglieri, Malmgren, Behounek, Trojani, Biagi, i primi due feriti piuttosto seriamente. Nello schianto era rimasto ucciso Pomella. Furono recuperati un po’ di viveri e la radio che Biagi riuscì a rimettere in sesto cominciando a trasmettere richieste di soccorso. Sotto una tenda rossa nove uomini iniziarono un’attesa angosciosa. La comparsa di un orso, ucciso dallo svedese Malmgren a colpi di pistola, risollevò un po’ il morale perché assicurò una riserva di carne. Giudicando comunque disperata la

152 situazione, gli ufficiali di marina Mariano e Zappi proposero di mettersi in marcia per raggiungere la terra ferma: il lastrone dove i superstiti si trovavano era spinto alla deriva e dalla radio non giungevano segnali dai soccorritori. La presenza dei feriti impediva, però, che si muovessero tutti: il 30 maggio 1928 partirono solo Mariano, Zappi e Malmgren ma le speranze di salvezza erano poche per tutti. Uno di quelli che rimanevano affermò sconsolato: «La nostra è un’agonia statica, la vostra sarà un’agonia dinamica». Invece, il 3 giugno il debole segnale radio proveniente dal pack fu raccolto da un radioamatore russo. Governi e privati si mobilitarono in Italia, Norvegia, Russia, Svezia, in una stupenda gara di generosità. Finalmente, il 20 giugno un aereo arrivato dall’Italia e pilotato da Umberto Maddalena avvistò la Tenda Rossa e lanciò i primi rifornimenti. Poi, l’aviatore svedese Lundborg con un’ardita manovra riuscì ad atterrare sulla distesa di ghiaccio e portò in salvo Nobile e la cagnolina Titina: era il 24 giugno. Tra i valorosi impegnatisi nelle ricerche dei naufraghi dell’Italia c’era anche Amundsen che scomparve col suo aereo nella distesa artica. Risolutivo fu l’intervento del rompighiaccio russo Krassin: il 12 luglio rintracciò Mariano e Zappi, ancora vivi dopo 44 giorni. La stessa nave salvò i superstiti della Tenda Rossa. Il racconto dei sopravvissuti fece presto il giro del mondo. Il terzetto che aveva tentato inutilmente di raggiungere la terra ferma soffrì una serie di terribili vicissitudini. Malmgren, che pure era il più esperto del gruppo, cominciò presto a smaniare. Mariano mal sopportò le fatiche della marcia nell’Artide e fu colto da un’oftalmia da neve che lo rese temporaneamente cieco. Dopo parecchi giorni di inutile girovagare tra i ghiacci Malmgren, stremato e disperato, si rifiutò di proseguire chiedendo ai compagni che lo lasciassero morire. Il distacco fu terribile e tragica sorte pareva dover toccare più tardi anche a Mariano che ormai delirava per una febbre violenta e, sentendo prossima la fine, autorizzò Zappi a disporre del suo cadavere per tentare, almeno lui, di sopravvivere. Ciò fece nascere la diceria che un’orrenda pratica di cannibalismo fosse avvenuta col corpo di Malmgren mai ritrovato. Quando arrivarono i soccorritori russi, Mariano era in imminente pericolo di vita. Lo scienziato Samoilovic ricordò che l’ufficiale italiano portava sul petto un lembo di stoffa blu con l’iscrizione Ubi nec aquila e, non riuscendo a parlare, «stringeva con la mano sinistra la mia gamba, quasi a volermi esprimere almeno in quel modo la sua gratitudine». A Mariano fu necessario amputare un piede ormai in necrosi. Risoltasi anche la temporanea cecità, egli riuscì a superare la fase critica e venne trasportato in un ospedale di Stoccolma, dove ricevette la commovente visita della madre di Malmgren. Mariano

153 volle dare a un figlio, morto poi a soli 29 anni, il nome di Finn in ricordo dello sfortunato compagno Finn Malmgren. Dopo che i sopravvissuti furono rientrati in Italia, le polemiche che la stampa di tutto il mondo alimentò su alcuni aspetti della spedizione indussero il governo italiano a promuovere un’inchiesta, che censurò la condotta di Nobile e assolse quella di Mariano e Zappi definita “degna di lode”. Forse, ebbe qualche influenza il ricordato, stretto legame di Mariano con Casa Aosta. L’ufficiale ricevette per l’amputazione del piede un indennizzo di 75.000 lire ma l’invalidità non gli permise di continuare il servizio attivo in Marina. Il 22 giugno 1969 Umberto Nobile e Adalberto Mariano, ormai anziani, convennero nel Parco del popolo a Tromso, nella Norvegia settentrionale, per l’inaugurazione del monumento ai caduti della spedizione dell’Italia e ai generosi soccorritori sacrificatisi. Il monumento consiste in due ali, una rivolta al nord, l’altra al sud. L’epigrafe è del poeta Alfonso Gatto: “Scritti su questa pietra i nomi di quelli che perirono nel naufragio dell’Italia sono vicini ai nomi dei loro soccorritori, nel ricordare un’impresa che fu gloria degli uomini, oggi testimonianza e memoria della loro comune civiltà”. Perché in questa sede ho ricordato lo sfortunato viaggio dell’Italia al Polo Nord? Perché Adalberto Mariano, dopo quella drammatica avventura, fu nominato prefetto. Era nato a Rivarolo Canavese in provincia di Torino il 6 giugno 1898, figlio del generale Giuseppe. Diplomatosi all’Accademia Navale di Livorno, al tempo dell’avventura polare rivestiva il grado di capitano di corvetta. Il ministro della Marina ammiraglio Sirianni, dopo la conclusione dell’inchiesta amministrativa voluta dal governo, propose che Mariano e Zappi ottenessero un riconoscimento: il secondo fu ammesso nella carriera diplomatica dove raggiunse il grado di Ambasciatore morendo in servizio nel 1961, Mariano nel febbraio 1931 entrò nella carriera prefettizia partendo dal vertice. Dopo un breve incarico con funzioni ispettive (febbraio-agosto 1931), fu destinato come prefetto a Cuneo dove rimase sino al luglio 1935. Tra gli eventi significativi di quel periodo vi fu la visita di Mussolini, in coincidenza con le grandi manovre militari svoltesi nel cuneese. «Notabili, clero e popolazione gli riservarono un’accoglienza affollata, entusiastica, insolitamente chiassosa». Anche nella Provincia Granda era attentissima la vigilanza nei confronti degli antifascisti: furono deferiti al Tribunale Speciale comunisti che avevano svolto attività organizzativa e di propaganda e venne colpito anche un nucleo di “Giustizia e Libertà” (fece scalpore l’arresto di Giannotto Perelli ragioniere capo della R. Prefettura).

154 Dopo Cuneo, furono assegnate a Mariano sedi “marittime”, a cominciare da La Spezia (luglio 1935 - agosto 1939). Il Tribunale Speciale processò parecchi militanti comunisti specialmente di Arcola e Sarzana, con condanne sino a 12 anni di carcere per ricostituzione e appartenenza al PCI. In un altro processo le condanne furono ancora più dure. Successive sedi di servizio furono Taranto (agosto 1939 - giugno 1941) e Palermo (giugno 1941 - giugno 1943). Dopo lo scoppio della guerra l’attività delle prefetture si concentrò su controlli, verifiche, ispezioni: tutto era funzionale alla tenuta del fronte interno che conta almeno se non di più di quello di battaglia. Ad esempio, le Commissioni provinciali di censura dipendevano dai prefetti ed erano presiedute da funzionari dell’Amministrazione dell’Interno. I componenti civili erano scelti «tra i cittadini italiani in possesso di ottimi requisiti morali e politici ed iscritti al P.N.F.». I censori non potevano essere originari, residenti o avere interessi preminenti nella provincia dove operavano ed erano tenuti all’assoluto segreto (per questo era fatto divieto di impiegare donne?). C’era anche il cosiddetto “servizio statistica” curato dalle questure, che intercettavano la corrispondenza diretta a nominativi già segnalati ovvero prelevata col sistema della “pesca” prima che le lettere giungessero alle Commissioni provinciali di censura. Queste ultime apponevano sulle buste il timbro “verificato per censura”, le questure naturalmente no. Durante la guerra, le città sedi di installazioni militari soffrirono molti bombardamenti aerei. A Taranto fu organizzato un efficiente sistema di soccorso e protezione civile. Lì operava il 40° Corpo provinciale dei Vigili del fuoco (motto Igni fortiores) con sede in Porta Napoli nella città vecchia, ma c’erano distaccamenti e presidi anche in provincia, ad esempio a Manduria perché, oltre alla base navale, bisognava proteggere aeroporti, accasermamenti, importanti industrie. Fu potenziata la difesa antincendio dell’area portuale di Taranto con mezzi terrestri e nautici e costituito un nucleo sommozzatori. La prefettura coordinava anche l’attività dell’U.N.P.A. (Unione nazionale protezione antiaerea). A Palermo, soprattutto a partire dalla fine del 1942, l’aviazione alleata effettuò devastanti incursioni per danneggiare le linee di rifornimento dell’Asse per il Nord-Africa. Il 7 gennaio 1943 nell’attacco più grave dall’inizio della guerra, morirono almeno 139 palermitani. Oltre duecento furono le vittime del bombardamento del 15 febbraio e altri morti soffrì la città il 20, 22, 28 febbraio, il 2, 9, 12, 22 marzo, il 4, 5, 7, 15, 16, 17, 18 aprile. Il 9 maggio bombardarono Palermo oltre 200 aerei, 50 dei quali rimasero colpiti in

155 una drammatica battaglia con i caccia della difesa. Ancora centinaia i morti sotto le bombe nel giugno 1943: devastati l’ospedale, l’università, centinaia di abitazioni: tra gli edifici distrutti, il palazzo Lampedusa appartenente al principe Giuseppe Tomasi divenuto poi famoso come autore de Il Gattopardo. Mariano, lasciato l’incarico di prefetto di Palermo e dopo un periodo a disposizione, nel febbraio 1944 fu richiamato in servizio nella Marina Militare come 1° Aiutante di campo di Aimone, già duca di Spoleto divenuto duca d’Aosta dopo la morte in prigionia del fratello Amedeo. Aimone ricopriva un importante comando nel Regno del Sud ma, a causa di un’improvvida intervista rilasciata a una giornalista inglese, fu bruscamente esonerato. A sua volta, Mariano fu deferito alla Commissione per l’epurazione ma prosciolto da ogni addebito nel dicembre 1944. Di fatto rimase a disposizione sino al collocamento a riposo nell’ottobre 1949. Oltre che Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, era Commendatore dell’Ordine Mauriziano, Cavaliere dell’Ordine della Corona Belga, Ufficiale dell’Ordine del Nilo Egiziano, nonché insignito del Merito Militare Spagnolo e dell’Onorificenza del II Ordine del Chukvo del Governo Mancese. Nel dopoguerra assunse la presidenza di una compagnia commerciale e dell’Unione Monarchica Italiana. Umberto di Savoia dall’esilio di Cascais volle conferirgli nel 1961 il titolo di conte. Adalberto Mariano è morto a Roma nel 1972.

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156 Prefetti italiani caduti sul campo di battaglia

da Amministrazione civile, gennaio 2006

157 L’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria da poche settimane quando, all’inizio di luglio del 1915, un uomo di 59 anni arrivò sul fronte dell’Isonzo, inquadrato nel 73° Reggimento fanteria della Brigata Lombardia. Era un combattente volontario. Raccontò un commilitone: «I modi distinti, l’aspetto signorile, lo sguardo autoritario di questa nuova recluta che arrivava tra noi grondante di sudore, curvo, sotto il peso dello zaino affardellato, chiaramente dimostravano che, sotto la divisa del semplice soldato, si celava qualche distinta persona, desiderosa di compiere in prima linea un sacro dovere». Gli ufficiali del reparto ammisero alla loro mensa quel signore maturo e lo trattarono con ogni riguardo. Il 7 luglio 1915 la 1ª Compagnia del 73° Reggimento si diresse in prima linea alle pendici del monte Peuma presso Gorizia. Cinque giorni dopo quel soldato dall’aspetto signorile morì in combattimento: si chiamava Luigi Guicciardi ed era un prefetto a riposo. Tre anni dopo il figlio Giulio, diciottenne, ottenne di militare nella stessa Compagnia del padre, rimase gravemente ferito in battaglia ma sopravvisse. Il 24 maggio 1927 si svolse a Pavia una solenne cerimonia presenti l’on. sottosegretario al ministero dell’Interno e l’on. Tommaso Bisi sottosegretario al ministero dell’Economia Nazionale. In Piazza d’Italia convenne una grande folla in un tripudio di bandiere. Sul palco al posto d’onore c’erano Giuseppina Carbonara vedova di Luigi Guicciardi e i figli Diego tenente di vascello, Giulio decorato di medaglia d’argento al valor militare, Maria, Guiscardo studente di ingegneria. Quel giorno fu scoperta una lapide con l’effigie del caduto, opera dello scultore pavese Alfonso Marabelli. Questa l’epigrafe: Quando la giovinezza d’Italia impose dignità coscienza audacia per glorie antiche e nuove della stirpe LUIGI GUICCIARDI patrizio valtellinese rimosso nel 1913 da prefetto di Pavia per averne condivisa la passione redentrice fu con essa soldato e artefice della vittoria donando alla patria la nobile vita sul Peuma il 12 luglio 1915. Il Consiglio Provinciale qui ne ricorda e onora in perpetuo il nome la fede il sacrificio.

158 Il sottosegretario Suardo nell’orazione ufficiale non fece risparmio di retorica e, con evidente strumentalizzazione, volle chiamare Luigi Guicciardi “Prefetto Fascista”, precursore del funzionario nuovo «non stracco annotatore di pratiche, apatico e passivo, servo di tutti i padroni o legato a qualche congrega, sebbene forza viva ed operante che sente l’alta importanza e la nobiltà del proprio ufficio, che offre col suo lavoro il meglio di sé non alle persone ma all’Idea». Suardo colse l’occasione per elogiare i funzionari statali «famiglia numerosa e disciplinata che troppe volte è considerata al di sotto del suo valore e del suo rendimento e che nel quotidiano contatto, che dura da tre anni oramai, io ho imparato ad apprezzare, ad amare». A questo punto è necessario dare qualche notizia biografica di Luigi Guicciardi. Era nato a Sondrio da nobile famiglia nell’aprile 1856. Avviatosi alla carriera superiore amministrativa, come si chiamava allora la carriera prefettizia, prestò servizio in molte sedi. A Mantova ed Alessandria andò come Consigliere delegato (l’odierno Viceprefetto vicario) finché, nel novembre 1907, fu promosso prefetto con destinazione Ferrara. Vi rimase sino al gennaio 1910. Dopo un “incidente di percorso” che gli costò un’aspettativa durata più d’un anno, nel maggio 1911 rientrò in servizio a Rovigo e da lì passò a Pavia nel gennaio 1912. Luigi Guicciardi aveva studiato proprio a Pavia ed anche per questo dimostrava particolare simpatia per i frequentatori di quell’Università. Così è stato ricostruito l’episodio che provocò la rimozione del prefetto nella primavera del 1913, con Giolitti ministro dell’Interno: «Lo studente triestino Mario Sterle era stato arrestato sotto l’accusa di propaganda sovversiva per aver distribuito degli scritti mazziniani che ricordavano il vecchio rapporto fra gli italiani e gli austriaci, non proprio lusinghiero […] A Pavia gli studenti universitari scesero in Strada Nuova formando un corteo rumoroso e disordinato. Passarono di fronte alla Prefettura (allora in Piazza d’Italia) e in segno di disprezzo per la posizione governativa e come bravata rovesciarono la bandiera italiana dirigendosi poi verso il monumento di Garibaldi per invitarlo a riprendere la lotta. Il comizio che lì vi si tenne fu ancora più eccitato e violento contro le autorità, il Governo e l’Austria e raggiunse il suo colmo quando apparvero una effigie di Francesco Giuseppe ed una bandiera d’Austria che fra applausi e gazzarra generale furono dati alle fiamme. La polizia intervenne, vi furono alcuni fermi, tafferugli, lotte, cortei. Una commissione studentesca si recò subito dal prefetto Guicciardi per chiedere il rilascio dei fermati. Il prefetto cercò di convincerli della necessità del suo agire poiché, anche se comprensivo delle aspirazioni dei giovani, non poteva dimenticare di essere un prefetto, cioè rappresentante di un governo che in

159 quel momento era amico dell’Austria in quanto legato dal patto della Triplice Alleanza. – Vi sono leggi da rispettare anche se il loro linguaggio è duro e voi studenti ricordate, disse con voce pacata per mitigare la durezza della osservazione che prima aveva dovuto fare, che il giorno in cui vi sarà la guerra all’Austria, io sarò il primo a partire!». L’Austria presentò una nota diplomatica di protesta e Giolitti decise di sacrificare alla “ragion di Stato” il prefetto, collocato in aspettativa e poi a riposo. Quando Guicciardi partì da Pavia, una delegazione di studenti andò a salutarlo. Egli si accomiatò commosso con le parole: «Avete fatto bene». Innocenzo Cappa, politico di formazione repubblicana, rievocò nelle Confessioni di un parlatore la lontana vicenda di una sua elezione nel collegio di Pavia, invano ostacolata da Guicciardi che obbediva a direttive governative. Nel ricordo di Cappa, pur nella consapevolezza degli antichi contrasti, la figura del prefetto caduto in guerra è trasfigurata: «Egli aveva voluto dimostrare silenziosamente che meritava di essere collocato in riposo, ma che sceglieva il riposo tra i caduti per la Patria».

Anche nella seconda guerra mondiale alcuni prefetti caddero sul campo. Uno di essi fu Vezio Orazi nato a Roma il 1° novembre 1904 e morto a 38 anni. Iscritto al partito fascista dall’aprile 1922, fu tra gli organizzatori delle formazioni giovanili della capitale. Rimase ferito in azioni di piazza e partecipò alla marcia su Roma. Laureato in Giurisprudenza e fiduciario nazionale dell’Associazione degli assistenti universitari, nel 1927 si occupò dello svolgimento del primo Congresso universitario e dei Giochi universitari internazionali dello sport. Gli venne poi affidata la direzione dell’Ufficio esteri e la vice-segreteria nazionale dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti). Console della MVSN, nel novembre 1933 fu nominato Segretario federale dell’Urbe. Partecipò volontario alla guerra d’Etiopia come tenente dei bersaglieri, il 9 maggio 1936 fondò il fascio di Addis Abeba e diresse poi un giornale nella capitale dell’impero. Rientrato in Italia, nel novembre 1936, a 32 anni, fu nominato prefetto di 2ª classe e destinato a Cuneo. Lo storico Alberto Aquarone, rievocando questi ingressi di esponenti politici nell’amministrazione pubblica, ha scritto: «L’anno in cui si ebbero le maggiori immissioni fu il ’28 tanto che, per designare i nuovi elementi fascisti entrati nell’amministrazione dello Stato, fu coniato, nel linguaggio corrente, persino un termine ad hoc: i “ventottisti” […] Detto questo va altresì detto che l’immissione non diede nel complesso risultati soddisfacenti (molti dei nuovi elementi fascisti si dimostrarono infatti inadatti o scarsamente preparati alle nuove mansioni)». Ha scritto Guido Melis: «I prefetti-chiave

160 del ventennio, cioè quelli nominati nelle situazioni più rilevanti e di prestigio, continuarono ad essere essenzialmente uomini dell’amministrazione». Secondo Renzo De Felice, «Mussolini non aveva mai pensato a una fascistizzazione effettiva, totale, coattiva e su tempi brevi, della burocrazia. Il “vero” fascismo non era, salvo casi quantitativamente non significativi, in grado di esprimere una burocrazia all’altezza delle necessità e della preparazione tecnica di quella che avrebbe dovuto sostituire. Di qui la sua scelta di puntare sul tempo e cioè sul progressivo (e non traumatico) apporto delle nuove generazioni fasciste». Vezio Orazi apparteneva, dunque, al gruppo dei fascisti-prefetti, meno numeroso dei prefetti-fascisti. Nel maggio 1937 passò alla prefettura di Gorizia, dove rimase sino al marzo 1939 quando fu nominato Direttore generale per la Cinematografia presso il ministero della Cultura popolare. Fu anche presidente dell’Ente Nazionale Industria Cinematografica. Erano anni di espansione del cinema: a Venezia, assoluta novità, si svolgeva una mostra internazionale, a Roma era stata inaugurata Cinecittà. Quegli incarichi in campo cinematografico erano prestigiosi ma poco confacenti al carattere di Vezio Orazi e si può dire che quello fu per lui un periodo di “parcheggio”. Scoppiata il secondo conflitto mondiale, il prefetto Orazi partecipò come volontario alla guerra di Grecia, poi rimase a disposizione del Ministero dell’Interno con funzioni ispettive. Nell’ottobre 1941 fu destinato alla prefettura di Zara, sostituendo Manlio Binna. Ricordo che, a seguito della prima guerra mondiale e del trattato di Rapallo, nel gennaio 1923 era stata istituita la nuova provincia di Zara e, nel 1941, i territori dalmati occupati dall’Italia dopo la sconfitta della Jugoslavia costituirono il Governatorato della Dalmazia che comprendeva, in aggiunta a Zara, le province di Spalato e Cattaro. Vezio Orazi morì tragicamente il 26 maggio 1942. Scrisse “Il Legionario” del 1° giugno successivo, nello stile retorico del tempo: «Presente ovunque con la parola e con l’esempio, tempestivo e preciso nelle decisioni, animatore e potenziatore instancabile di tutte le energie, la vigorosa figura del prefetto Orazi era diventata familiare a tutte le genti, anche dei più modesti villaggi sia delle isole che del retroterra zaratino. Nessuna necessità del popolo lavoratore come degli agricoltori e degli artigiani che costituiscono il nerbo demografico ed economico della provincia, era ignota al Prefetto, sollecito a provvedervi con fascistico senso di responsabilità e con l’innato amore verso il popolo a cui andava non metaforicamente ma con la persona e l’animo proteso al bene e all’elevazione spirituale e materiale delle popolazioni».

161 Questa prosa, sebbene ampollosa, rende abbastanza l’idea della dinamicità e della “voglia di fare” dell’uomo, più d’azione che burocrate. Nel primo anniversario della morte di Orazi un quotidiano pubblicò questo ricordo: «Per la sua esuberanza giovanile, per il suo entusiasmo, per il suo spirito di sacrificio era veramente un uomo degno dei tempi nostri: era soprattutto un combattente. Sapeva di essere stato preso particolarmente di mira dalle bande di ribelli. Tuttavia continuava imperterrito nella sua attività senza alcuna preoccupazione per il pericolo che correva. Noncurante della propria incolumità, il prefetto Orazi si era unito alle Camicie Nere zaratine e ai soldati nelle azioni repressive, partecipando ai combattimenti con quell’entusiasmo e con quella decisione che costituivano la prerogativa della sua giovinezza rivoluzionaria. Egli era un prefetto. Ma questa sua mansione non la poteva concepire disunita dall’orgoglio di sentirsi un soldato. Mai durante la sua brillante carriera politica Vezio Orazi ebbe a manifestare palesemente la sua soddisfazione per gli alti incarichi affidatigli e per i posti importanti ricoperti ma quando, mentre era prefetto a Cuneo, gli venne comunicata la promozione a capitano dei bersaglieri, il suo sguardo si illuminò di viva luce». E veniamo ai fatti del maggio 1942. Già il giorno 13 Orazi si era unito ad un reparto militare che eseguiva un rastrellamento e aveva partecipato ad uno scontro a fuoco con i partigiani che si rafforzavano sempre più nelle zone interne e montagnose. Il mattino del 26 maggio il prefetto, senza rivelare neanche alla moglie Renata dove fosse diretto, partì da Zara sull’auto di servizio guidata dal brig. di P.S. Pietro Bardelloni, in compagnia del segretario dr. Franco Dell’Arte, del comandante dei Carabinieri capitano Umberto Bonassisi e del comandante della tenenza di Chistagne tenente Giannetto Rogani. Un colonnello dell’esercito che incontrò Orazi quel mattino consigliò inutilmente di non proseguire, poiché le zone interne della provincia non erano sicure e dispose che un reparto autocarrato accompagnasse per un tratto la vettura del prefetto. Orazi, alla fine della mattinata, decise di rientrare a Zara lungo la strada Zegar-Obrovazzo. Due automezzi militari al comando del tenente Giacinto Trupiano, anch’essi diretti al capoluogo, si incolonnarono dietro l’automobile ma, poco dopo la partenza, il mezzo del prefetto distanziò i due autocarri a causa di un’imprevista sosta degli stessi. In località “Pozzo nero” la strada, larga poco più di quattro metri, correva in mezzo a due alti muri a secco che limitavano il bosco. L’automobile fu attaccata dai partigiani con bombe a mano e fucili mitragliatori. L’autista Bardelloni rimase ucciso immediatamente. La vettura si bloccò e Orazi, Bonassisi, Rogani e Dell’Arte scesero tentando di rispondere al fuoco. Furono tutti colpiti più o meno gravemente e fu attaccato anche uno dei due autocarri militari nel frattempo sopraggiunto. L’azione partigiana durò pochi minuti e gli assalitori

162 si dispersero nei boschi senza subire perdite. Il prefetto spirò sul posto dopo una breve agonia. Rimasero uccisi anche il capitano Bonassisi, il tenente Trupiano e tre soldati. Il sopraggiungere di rinforzi italiani impedì che fossero compiuti atti di sevizie e mutilazioni su feriti e cadaveri, come avveniva sovente in quella guerra spietata. Egidio Ortona, che nel secondo dopoguerra arrivò ai vertici della carriera diplomatica, nel 1942 era giovane collaboratore del Governatore Bastianini. Annotò nel suo diario: «26 maggio. Ho portato io la notizia al Governatore. Mai avrei immaginato tanto accoramento e tanto dolore in Bastianini per questa morte. La città è turbata. Abbiamo visitato nella notte lunare le salme allineate all’ospedale militare e composte nella morte. Spettacolo tragico e indimenticabile. 28 maggio. Oggi i funerali di Orazi. Imponenti, commoventi, una città intera per le strade, il popolo piangente. Zara ha ritrovato la sua atmosfera di olocausto». Nella cattedrale zaratina officiò l’arcivescovo Munzani. Dopo una tumulazione provvisoria, la salma di Vezio Orazi fu trasportata in Italia su una nave da guerra. A Roma fu a commemorare il prefetto caduto.

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163 164 Dante Almansi

da Amministrazione civile, giugno 2006

165 Domenica 26 settembre 1943 Gennaro Cappa, dirigente del Servizio Razza della Questura di Roma, informò Dante Almansi presidente dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane e Ugo Foà presidente della Comunità Israelitica di Roma che il magg. Herbert Kappler li attendeva per importanti comunicazioni. Era un invito assai poco gradito. Dopo l’8 settembre gli ebrei romani non erano stati oggetto di misure persecutorie, ma quell’incontro non prometteva nulla di buono. Dopo alcuni convenevoli l’ufficiale tedesco chiese brutalmente di consegnare 50 chilogrammi di oro, entro 36 ore, altrimenti 200 ebrei romani sarebbero stati deportati. Almansi e Foà protestarono inutilmente e si sentirono rispondere: «Tutti coloro nelle cui vene scorre una goccia di sangue ebraico sono per me uguali. Sono tutti nemici». Le autorità italiane (Ministero dell’Interno e Questura) fecero sapere che non avevano alcuna possibilità di interferire in quella decisione dei tedeschi. Non restava agli ebrei che mobilitarsi per raccogliere l’oro. Anche non ebrei contribuirono generosamente e la stessa Santa Sede fece sapere in via riservata che avrebbe fornito l’oro eventualmente mancante. Prima che scadesse il termine fissato da Kappler ne era stata messa insieme una quantità largamente superiore alle necessità, tanto che la parte superflua fu destinata nel dopoguerra a finanziare la nascita dello Stato di Israele. Il 28 settembre Almansi e Foà si recarono con una scorta della polizia italiana in via Tasso, dove Kappler aveva i suoi uffici in un palazzo di civili abitazioni che presto divenne triste luogo di detenzione e tortura, oggi museo. Il cap. Schutz, incaricato dal superiore, dopo una surreale discussione sul numero delle pesate effettuate in sua presenza, alla fine prese in consegna il prezioso carico ma non rilasciò ricevuta, nonostante la chiedessero, un po’ ingenuamente, i due esponenti ebrei. Il pericolo di persecuzioni sembrava per il momento scongiurato e comunque si sperava di avere guadagnato un po’ di tempo, ma già il giorno successivo militari tedeschi perquisirono minuziosamente i locali della Comunità Israelitica asportando denaro e documenti. Successivamente furono portati via una grande quantità di libri preziosi, caricati su due vagoni ferroviari con destinazione Monaco di Baviera. Almansi cercò inutilmente di evitare il sequestro di quel ricco patrimonio di fede e di cultura rivolgendosi al Ministero dell’Interno e a quello della Educazione Nazionale, che erano però impotenti di fronte alle prepotenze tedesche. Ma il peggio doveva ancora accadere. Tra gli ebrei romani non c’era unanimità di vedute. Il rabbino capo Zolli (di origine polacca e protagonista poi di una straordinaria conversione al cattolicesimo) appariva maggiormente preoccupato, mentre Almansi e Foà, prima di quegli ultimi avvenimenti,

166 s’erano mostrati più fiduciosi. Certamente anche la presenza del Vaticano sembrava indirettamente garantire un minimo di protezione da violenze generalizzate. Sabato 16 ottobre 1943 si compì invece la crudele razzia e deportazione di oltre mille ebrei romani, quasi tutti morti nei campi di sterminio. Almansi con alcuni familiari scampò fortunosamente alla cattura ricevendo ricovero presso amici non ebrei. Riuscì nei mesi successivi a mantenere contatti con altri esponenti dell’ebraismo, impegnati nel soccorso ai correligionari in difficoltà. Ricordò Almansi: «A tarda sera, in punti diversi della città venivano tenute riunioni che in seguito si svolsero nelle case dove mi ero rifugiato e nascosto». A quell’opera umanitaria di soccorso diedero sostegno il Vaticano e molti cattolici, la Croce Rossa Internazionale e i partiti facenti capo al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Dopo la liberazione di Roma (giugno 1944), s’aprì una stagione di accuse e rivendicazioni, che coinvolse i superstiti di quella tragedia. Almansi, accusato di essersi compromesso col fascismo, fu costretto dal governo militare alleato a lasciare il suo incarico, sostituito da Giuseppe Nathan. Morì dopo avere sempre rivendicato orgogliosamente la giustezza del suo operato. Da dove nascevano le accuse a lui rivolte? Dalla sua carriera come funzionario del ministero dell’Interno e prefetto. Dante Almansi era nato a Parma il 15 settembre 1877 da Abramo e Gemma Formiggini in una famiglia di piccoli proprietari terrieri, ebrei rispettosi della tradizione ma non rigidamente ortodossi. Dopo la laurea in legge si impiegò presto in Prefettura, per aiutare finanziariamente la famiglia venutasi a trovare in difficoltà economiche. Lavorò a Mantova, Parma, Livorno, Carrara (come Regio commissario), Ariano Irpino, Terni. A 32 anni era Capo Sezione al Ministero dell’Interno presso la Direzione generale della P.S. poi, con la qualifica di viceprefetto, diresse la Divisione Gabinetto e l’Ufficio Affari generali e riservati, collaborando strettamente con i governi liberali del tempo (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta). Come ha scritto Arnaldo Momigliano in Pagine ebraiche: «Ciò che forse è più tipico degli ebrei italiani è che durante il XX secolo essi sono arrivati ad avere un ruolo molto importante nell'amministrazione statale come funzionari, giudici, e soprattutto soldati.» All’avvento del fascismo il gen. De Bono, scelto da Mussolini come Capo della polizia, mantenne Almansi negli incarichi che ricopriva. Nel febbraio 1923 arrivò per il funzionario, a 46 anni, la nomina a prefetto con destinazione Caltanissetta. Iscrittosi al partito fascista, nel febbraio 1924 Almansi tornò al ministero come coadiutore e, all’occorrenza, supplente del Direttore generale della P.S., nonché reggente dell’Ufficio Affari generali e riservati. Mantenne tali incarichi da febbraio a ottobre del 1924, prima

167 col gen. De Bono, poi con Crispo Moncada. Successivamente andò come prefetto ad Avellino, nel febbraio 1926 a Reggio Emilia, nell’ottobre 1926 a Macerata. Nel dicembre 1927 fu nominato Regio commissario al Comune di Napoli. Furono due anni di intenso lavoro: migliorata l’esazione delle tasse, adeguati i servizi pubblici di trasporto e della nettezza urbana, incrementata la costruzione di case popolari con chiusura di centinaia di “bassi”. Il Regio commissario tentò anche di moralizzare il servizio delle pompe funebri per reprimere le speculazioni che – allora – vigevano nel settore. Eppure Almansi fu ricordato e quasi sbeffeggiato dai napoletani per l’ordinanza con la quale pretendeva di imporre ai pedoni di camminare tutti a sinistra, a senso unico, per dare ordine alla circolazione stradale ed evitare gli ingorghi(!). Accadde qualcosa di analogo nella guerra alle mosche, tipica di quei tempi: vinsero le mosche. Almansi, prefetto di 1ª classe dall’agosto 1928, dovette lasciare il prestigioso e gravoso incarico nella capitale del Mezzogiorno perché, essendo state annunciate le nozze del principe ereditario Umberto, si volle che fosse un esponente della nobiltà meridionale (Giovanni De Riseis duca di Bovino) a rappresentare la municipalità napoletana nelle cerimonie ufficiali. Il figlio Renato ha scritto: «Avrebbe potuto ottenere facilmente una prefettura importante come Roma o Milano, preferì invece un posto tranquillo, lontano dalla politica e dalla vita pubblica». Nel marzo 1930 arrivò la nomina a Consigliere della Corte dei Conti. In quella veste Almansi fu Capo gabinetto del ministro delle Finanze, , anche lui ebreo, assai introdotto nel mondo economico-finanziario anche internazionale (pare che Mussolini abbia detto che un ebreo era quello che ci voleva alle finanze). L’esperienza di Almansi con Jung durò dal luglio 1932 al gennaio 1935. La parola d’ordine del Duce era stata: “Difesa della lira ad ogni costo”. Cosicché il disavanzo dello Stato fu limitato ricorrendo, more solito, sia ad inasprimenti fiscali riguardanti tassa sugli scambi, imposta di bollo, tassa di successione, tassa sul celibato, sia a tagli delle spese anche militari. L’Italia e il mondo intero risentivano ancora gli effetti della grande crisi del 1929. Si procedette ad abbassare il costo del denaro e a convertire il debito consolidato. Nel gennaio 1933 fu costituito l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) che segnò l’inizio di una politica di più deciso intervento dello Stato nella vita economica. Dante Almansi fu insignito delle onorificenze di Grand’Ufficiale della Corona d’Italia e Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Nel 1938 arrivarono le leggi razziali ed ebbe termine la carriera di Almansi, a 61 anni. Ottenne però, per i suoi meriti, la cosiddetta “discriminazione”. Era data facoltà al ministro dell'Interno, su istanza degli interessati, di dichiarare non applicabili le

168 disposizioni antisemite ad alcune categorie speciali (art. 14 del R.D.L. n. 1728 del 1938), compreso chi aveva acquisito "eccezionali benemerenze". Si esprimeva in proposito un’apposita commissione presieduta dal Sottosegretario di Stato per l'Interno e composta dal Capo di Stato maggiore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.) e da un rappresentante del Partito Nazionale Fascista. Nel 1939 si produsse una grave crisi nell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, poiché alcuni membri erano accusati di mantenere troppo cordiali rapporti con esponenti del regime fascista, pur dopo l’emanazione delle leggi razziali. In sostanza quei rapporti, se consentivano di far conoscere riservatamente ai governanti le opinioni degli ebrei, ottenendo talvolta qualche mitigamento delle disposizioni, non consentivano peraltro all’Unione di assumere atteggiamenti più fermi e trasparenti. Dalla crisi interna derivarono le dimissioni del presidente dell’Unione Federico Jarach e di altri esponenti di primo piano. Come ha scritto lo storico De Felice, la parte più sana della vecchia classe dirigente ebraica cercò un collegamento con esponenti antifascisti sino ad allora emarginati nell’ebraismo italiano. «Deciso il “colpo di Stato” occorreva però trovare l’uomo che potesse assumere la presidenza dell’Unione senza destare diffidenze negli ambienti governativi e fascisti in genere e avesse, anzi, la loro fiducia. Dopo una serie di frenetiche ricerche e trattative l’uomo fu alfine trovato nella persona dell’ex prefetto e ex consigliere della Corte dei Conti Dante Almansi. Un anziano signore, piccolo di statura e quasi insignificante, che sino a quel momento mai aveva avuto a che fare con la vita amministrativa e morale dell’ebraismo italiano, e alla cui fermezza e sagacia quello stesso ebraismo dovette se dalla fine del 1939 sino alla liberazione di Roma l’Unione tornò ad essere il suo motore, gli ebrei italiani tutti ebbero una rappresentanza fiera, dignitosa e fattiva e migliaia di ebrei stranieri poterono essere concretamente aiutati a vivere in Italia e a emigrare all’estero”.» Un indubbio successo per Almansi fu, dopo la soppressione del Comitato assistenza ebrei in Italia, di potere costituire la Delegazione assistenza emigranti ebrei (DELASEM), che compì per alcuni anni opera assai meritoria. Ne prese la direzione il vice di Almansi, l’avv. Lelio Vittorio Valobra che operava a Genova, dove risiedeva un folto gruppo di profughi stranieri e dal cui porto si effettuavano prevalentemente le partenze per l’estero. Notevole fu anche l’impegno nel campo dell’istruzione dei giovani, per sopperire almeno in parte alle conseguenze dell’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole pubbliche. Con la chiamata da Livorno del rabbino Elio Toaff fu possibile ripristinare l’insegnamento, sebbene saltuario, nel collegio di Roma. Un grande benefattore dell’Unione delle

169 Comunità Israelitiche Italiane fu Giuseppe Muggia, imparentato con Almansi, che donò denaro e titoli per quasi mezzo milione di lire del tempo. «Le manifestazioni di “patriottismo” e di fascismo furono ridotte al minimo indispensabile», tanto che i fascisti più intransigenti scrissero che l’Unione era diventato un covo di avversari del regime. Almansi fu accusato di essere un “falso fascista”, un “paravento” venuto su con i voti della “combriccola sionista”, che spandeva ovunque parole mielate e si valeva “bluffisticamente del suo passato di funzionario”. È assai probabile che egli cercasse di avvalersi, a fin di bene, delle conoscenze che aveva negli apparati statali. Almansi scrisse anni dopo, in una relazione ad memoriam: «Mi venne offerta la presidenza in considerazione, così devo ritenere, più che dei modesti miei meriti personali, per il fatto che, avendo occupato importanti cariche nell’Amministrazione statale, potevo offrire la possibilità di un utile intervento a favore dei miei correligionari, e perché essendo sempre vissuto al di fuori delle contese nel campo ebraico, davo la garanzia di una rigida imparzialità. Ritenni essere mio preciso dovere di accettare l’invito e fu così che il 13 novembre 1939 assunsi la carica di Presidente dell’Unione. Ma fino dalla prima seduta avvertivo che, nella situazione creatasi, ben poco di costruttivo sarebbe stato possibile compiere, mentre la sola cosa che si doveva tentare era quella di salvare il salvabile». Almansi abitava a Roma con la moglie Ada Torre e la figlia Elena, mentre il figlio Renato medico chirurgo, invalido della guerra d’Etiopia, era emigrato in America. Un sincero antifascista ebreo come Raffaele Cantoni, alla morte di Almansi scrisse che la sua condotta «fu così ammirevole, che tutti risentimmo come offesa e come ingiustizia il fatto che gli alleati liberatori non lo lasciarono al suo posto dopo l’occupazione di Roma». Pesò su di lui innanzitutto il pregiudizio per essere stato il vice del gen. De Bono nella Direzione generale della P.S., oltretutto nei mesi della crisi Matteotti. L’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane volle intestare alla memoria di Dante Almansi, morto a Roma il 4 gennaio 1949, un’ambulanza donata allo Stato di Israele, cosicché il suo ricordò si perpetuò oltremare tra gli ebrei di origine italiana e tra quelli che, avendo vissuto in Italia negli anni della guerra, ebbero occasione di conoscerlo o di sentirne parlare.

170 BIBLIOGRAFIA

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171 172 Enzo Giacchero

Sunto della tesi del Master in Cittadinanza europea e amministrazioni pubbliche

173 Enzo Giacchero era nato a Torino il 25 febbraio 1912, in una famiglia di salde tradizioni cattoliche originaria dell’Astigiano. Il nonno Vincenzo era farmacista, il padre Silvio ingegnere e professore del Politecnico di Torino. Il genitore fu anche consigliere comunale di Asti e consigliere provinciale di Alessandria. La madre si chiamava Elvira Amerio.1 Gli anni degli studi furono fondamentali per Giacchero che frequentò a Torino, insieme col fratello Remo, il prestigioso liceo classico d’Azeglio. Lì ebbe tra gli insegnanti il letterato Augusto Monti2 e molti anni dopo ricordò pubblicamente: «Ciascuno di noi pensa, e sovente io ho pensato, a quale influenza i professori del ginnasio e del liceo hanno esercitato nella nostra formazione.»3 Furono allievi di Monti anche Giulio Einaudi, Vittorio Foa, Valdo Fusi, Massimo Mila, Gian Carlo Pajetta, Cesare Pavese, Tullio Pinelli, Salvatore Luria, Renato Gualino. I giovani del d’Azeglio frequentavano privatamente la casa del docente, ma amavano ritrovarsi fuori dalla scuola anche in allegra brigata. Davide Lajolo ha scritto che «in casa Bobbio, Giacchero cantava, accompagnandosi al pianoforte, le canzonette allora in voga».4 Il gruppo costituì poi la «confraternita» degli ex-allievi e all’Università cooptò altri amici. Era una «élite» sociale e intellettuale destinata a diventare futura classe dirigente. Vicende tragiche e immense, come la persecuzione antiebraica e la guerra, disgregarono la compagnia: alcuni del gruppo morirono combattendo, altri furono costretti a emigrare, l’adesione a questo o quel partito rese gli ex-compagni talvolta avversari politici. Restò indelebile il segno di quella formazione culturale e umana avvenuta nelle aule torinesi. Giacchero si iscrisse al Politecnico e nel 1934 si laureò in Ingegneria civile. Il prof. Gustavo Colonnetti5 lo volle suo assistente alla cattedra di Scienza delle costruzioni.

1 Devo queste ed altre notizie familiari alla cortesia della vedova di Enzo Giacchero, sig.ra Maria Teresa Ferrari. 2 Augusto Monti (1881-1966), volontario nella Grande Guerra, nel 1934 fu arrestato con altri aderenti a «Giustizia e Libertà» e condannato dal Tribunale Speciale a 5 anni e 1 mese di carcere per attività antifascista. Nel secondo dopoguerra partecipò al movimento federalista da posizioni vicine al Partito d’Azione. Nella sua visione politica l’Unione Sovietica e gli altri paesi del blocco comunista non dovevano rimanere esclusi dal processo di integrazione europea. Ciò lo pose in contrasto con altri federalisti italiani. 3 GIACCHERO E., La Comunità e l’unificazione europea, in La Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Origini, scopi, risultati, presenza italiana, Roma 1955, p. 90. 4 LAJOLO D., Il “vizio assurdo”. Storia di Cesare Pavese, Milano 1964, p. 98. 5 Gustavo Colonnetti (1886 – 1968) fu scienziato di prestigio internazionale ed esponente politico cattolico. Iscritto al Partito Popolare di don Sturzo sin dalla fondazione, fu eletto

174 Giacchero lavorò al laboratorio prove materiali, diede alle stampe alcune pubblicazioni,6 collaborò all’Enciclopedia di Ingegneria edita da Bompiani. C’erano tutti i presupposti perché Giacchero compisse una brillante carriera di docente universitario ma lo scoppio della seconda guerra mondiale sconvolse ogni progetto e indirizzò in maniera diversa la sua vita. Prima il servizio in Albania e Jugoslavia nel Genio ferrovieri, poi nel 1942 il conseguimento del brevetto di paracadutismo.7 La divisione «Folgore» nel giugno 1942 fu trasferita in Puglia, per completare l’addestramento in vista del progettato attacco all’isola di Malta. Nella seconda quindicina di luglio l’unità ricevette, invece, l’ordine di trasferirsi in Africa Settentrionale. Giacchero era inquadrato come ufficiale comandante di compagnia nel 185° reggimento. Poche settimane dopo l’arrivo nella zona di El Alamein egli fu ferito in combattimento, tanto gravemente da dovere subire l’amputazione di una gamba. Egli ricordò sempre con gratitudine ed orgoglio quanto avevano fatto i suoi paracadutisti: vedendolo a terra sanguinante, alcuni di essi, mettendo a gravissimo rischio la loro vita sotto il fuoco nemico, lo avevano coraggiosamente portato in salvo al di qua delle linee italiane. Giacchero fu decorato sul campo con medaglia d’argento al valor militare. In un ospedale da campo si trovò insieme con un prigioniero inglese cui erano stati amputati i piedi. I due mutilati istintivamente cercarono di confortarsi a vicenda. «Quel giorno in cui ebbi una grande disgrazia, ringraziai il cielo che mi aveva dato questa grande luce di verità di comprendere che quell’uomo, che poche ore prima credevo un nemico,

consigliere nazionale e membro della direzione del partito nell’ambito del quale sostenne posizioni moderate. Insegnante del Politecnico di Torino dal 1920 e Rettore tentò una gestione liberale della riforma Gentile ma gli attacchi a lui rivolti dagli ambienti fascisti lo indussero a dimettersi dalla carica. Presidente della Giunta diocesana dell’Azione cattolica, accademico pontificio, dopo l’8 settembre 1943 riparò in Svizzera. Rientrato nell’Italia liberata, dal 1944 al 1956 fu presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Fece parte della Consulta Nazionale e poi dell’Assemblea Costituente in rappresentanza della Democrazia Cristiana. 6 GIACCHERO E., Conferme sperimentali della teoria di Colonnetti su l’equilibrio elasto-plastico, Roma 1939; Id. Su la possibilità di un razionale impiego delle leghe leggere nella nuova tecnica del cemento armato, Roma 1942. 7 Negli anni Giacchero conservò la passione per la specialità e nel dopoguerra fondò insieme con altri la Fipcs (Federazione Italiana Paracadutismo Civile Sportivo) e ne fu anche presidente. Non era un’associazione d’arma e aveva per scopo principale di avviare il paracadutismo civile verso un indirizzo prevalentemente sportivo. La Fipcs ebbe, però, vita breve.

175 ora lo ritrovavo fratello per sempre». Da allora Giacchero si convinse che gli europei, «nati e cresciuti nello spirito cristiano», potevano unirsi e vivere stabilmente in pace.»8 Rimpatriato e congedato, dopo l’8 settembre scelse di partecipare alla Resistenza militando nelle formazioni autonome piemontesi. Trent’anni dopo egli affermò che lo aveva fatto «per fedeltà a un giuramento e per opporsi alle prevaricazioni d’uno straniero che s’accampava come occupante».9 Nel 1955, decimo anniversario della Liberazione, il giornale della Dc, in un articolo scritto da Silvio Geuna, citò Giacchero tra «i primissimi artefici ed organizzatori delle schiere di nostri giovani».10 Quella che divenne la 6ª divisione autonoma alpina Asti, operante sulla riva sinistra del fiume Tanaro, era comandata dal tenente colonnello Giovanni Battista Toselli (nome di battaglia «Otello») e aveva come vice comandanti Francesco Bellero (nome di battaglia «Gris») capitano di complemento dell’artiglieria alpina e Giacchero (nome di battaglia «Yanez»). La divisione fu attiva nelle zone di San Damiano, Govone e nel Roero con una forza di circa 430 uomini ripartiti in tre brigate. Sino all’aprile 1945 contò 29 morti e 187 feriti.11 La principale base partigiana era a Cisterna d’Asti. Lì nel castello avevano sede il comando militare e il comando politico e si provvedeva all’organizzazione amministrativa delle zone liberate. Un giorno vi arrivò in bicicletta, da Asti, il dottor Gilberto Barbero (nome di battaglia «Benedetto»), del partito liberale, presidente del Cln provinciale. Per evitare d’essere riconosciuto s’era fasciata la testa come se fosse seriamente ferito. A Cisterna d’Asti ritrovò Giacchero che aveva conosciuto all’ospedale milanese di Baggio dove erano stati entrambi ricoverati, reduci dall’Africa settentrionale. La figlia del comandante «Otello» fu testimone diretta di quegli avvenimenti: «Yanez, ufficiale della Folgore, aveva perduto una gamba in combattimento, e l’arto artificiale gli serve ora, quale scrigno prezioso, per i documenti della lotta partigiana. Precedenti scambi di idee sul comportamento decisamente avverso alla Repubblica Sociale Italiana, avevano consolidato amicizia e collaborazione. Yanez gira in bicicletta attraverso la grande zona e Benedetto, ancora in servizio, si eclissa, nessuno lo cerca, vive indisturbato in Asti, dove riesce persino a divenire medico curante del Prefetto. Così colloca in Prefettura due ufficiali di Marina sbandati che gli servono da informatori. L’amicizia Barbero-Giacchero darà alla nostra Divisione l’opportunità di entrare per prima in Asti, quasi all’alba del 25

8 Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, 4 dicembre 1948, pp. 5109-5110. 9 I motivi di una scelta, in «Democrazia Nazionale», n. 1, 17 aprile 1977, p. 6. 10 «Il Popolo», 24 aprile 1955.

176 Aprile. Infatti l’informazione della ritirata nazi-fascista scatterà fulminea e già durante la notte del 24 il Cln farà stampare ed affiggere i manifesti esultanti della Liberazione.12 Nella primavera del 1945, in previsione della prossima liberazione di Asti, fu costituito un Comando Piazza col compito di coordinare le azioni militari delle varie formazioni: ne fecero parte come comandante il colonnello Giacinto Valerio (nome di battaglia «Cordero») e come commissario Giacchero. Il 12 aprile 1945 fu concordato con la missione militare inglese il piano operativo di occupazione di Asti, che si svolse senza scontri particolarmente sanguinosi, stante il ripiegamento delle forze avversarie. Nell’ambito del Comitato di Liberazione Nazionale già era stato definito l’accordo per l’assegnazione degli incarichi politico-amministrativi cosicché, mentre Asti era percorsa dalle prime formazioni partigiane, il Cln installatosi a Palazzo Ottolenghi, sede della Prefettura, fu subito in grado di nominare prefetto Enzo Giacchero, viceprefetti Guglielmo Borgoglio (Partito d’Azione) e Domenico Berruti (Pci), questore l’avv. Giacomo Pastorino (Partito d’Azione), vicequestore il dott. Vittorio Rainero, presidente della Provincia l’avv. Giovanni Torta (Psi), sindaco l’avv. Felice Platone (Pci), vicesindaco Severo Alocco (Psi).13 Nel Nord, i prefetti non vennero nominati dal Governo centrale, bensì proposti da uno dei partiti della Resistenza, accettati dal Cln provinciale e nominati dal Governatore militare alleato della provincia. I prefetti del Nord, quindi, non erano i rappresentanti del Governo di Roma, ma del Comitato di Liberazione Nazionale che li aveva proposti. Il Governo di Roma, di conseguenza, non aveva un controllo diretto sulle province del Nord, se non per il tramite dei governatori provinciali e regionali del Governo militare alleato.14 Come ha scritto Italo De Curtis, in quel momento sembrò crollare il mito della competenza poiché si contestava la necessità di possedere una solida esperienza

11 Notizie circostanziate sono in AMEDEO R., Storia partigiana della 6ª Divisione Autonoma Alpina “Asti-magg.Hope”, Torino 1982. 12 CORRADINI TOSELLI W., Ricordo della Resistenza nelle vallate del Cuneese e dell’Astigiano, in «Il Platano», marzo-aprile 1979, n. 2, p. 26. Presso i comandi partigiani più importanti operavano missioni militari alleate. Nel territorio astigiano fu paracadutato il magg. Hope, sudafricano, accompagnato dal cap. Roccia, italiano. Hope nella vita civile era professore di lettere e filosofia e a Cisterna d’Asti - straordinari casi della vita – riconobbe nel partigiano «Yanez» l’ufficiale italiano Giacchero incontrato in Nord Africa nel 1942. Dopo un comprensibile stupore, i due fraternamente si abbracciarono. 13 MAIOGLIO P. – GAMBA A., Il movimento partigiano nella provincia di Asti, Asti s.d. 14 FRIED R. C., Il prefetto in Italia, Milano 1967, p. 192.

177 amministrativa per gestire la cosa pubblica. Si pose allora in primo piano l’autogoverno come espressione autentica del sistema democratico.15 L’esigenza di «fare giustizia» fu uno dei problemi più drammatici del dopo- Liberazione. Anche ad Asti fu costituito subito un Tribunale militare straordinario di guerra. Lo presiedeva Francesco Bellero della 6ª divisione autonoma alpina “Asti – magg. Hope”; pubblico ministero era Giovanni Rocca della 9ª divisione d’assalto Garibaldi. In soli otto giorni pronunziò 57 sentenze, di cui 24 alla fucilazione in buona parte eseguite. Operò poi brevemente una Commissione di Giustizia di cui faceva parte un magistrato, poi fu costituita la Corte straordinaria di Assise, che, in base al D. Lvo. Lgt. 22 aprile 1945, n. 142, doveva giudicare i reati di collaborazionismo.16 In un documento della 10ª divisione Giustizia e Libertà si legge: «La costituzione del tribunale popolare trova non pochi intralci. Molte delle persone capaci di questa alta funzione si tirano indietro con la frase – “Capirete, io sono di Asti, ecc.”. Domani daremo una sistemazione alla cosa, a costo di contravvenire alle superiori disposizioni che prescrivono la presenza di rappresentanti del popolo. Vogliamo fare giustizia decisamente prima dell’arrivo degli amici alleati.»17 Non vi sono dati certi sulle vittime della «violenza insurrezionale» e della «violenza inerziale».18 Il ricercatore Mirco Dondi ha indicato, per la provincia di Asti, le cifre di 196 uccisi e 20 scomparsi per il periodo dalla fine della guerra all’ottobre 1946.19 Il 30 aprile 1945 giunsero in Asti le prime truppe alleate. Il giorno dopo si svolse un imponente corteo che confluì in piazza San Secondo dove parlarono il presidente del Cln Barbero, Giacchero, il sindaco Platone. I problemi che le nuove autorità amministrative dovettero affrontare non differivano molto da quelli vissuti da chi era stato appena

15 DE CURTIS I., Il prefetto nella Costituente e nella Costituzione, in «Civitas», a. XLIV, aprile-giugno 1993, p. 25. 16 La Corte straordinaria d’Assise di Asti, inventario a cura di Maurizio Cassetti, Santhià 2001. Notizie sui processi sono anche in GHIGLIA M., Resistenza e ricostruzione nell’Astigiano: problemi politici ed economici, tesi di laurea, Università di Torino, Facoltà di Magistero, a.a. 1977-78 e BERNARDI L. – NEPPI MODONA G.- TESTORI S., Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano 1984. 17 DE LUNA G. - CAMILLA P. - CAPPELLI D. - VITALI S. (a cura di), Le formazioni Giustizia e Libertà nella Resistenza. Documenti, Milano 1985, pp. 382-384. Quando la «resa dei conti» assunse forme più o meno legali, le fucilazioni avvenivano presso il poligono di tiro di Asti, alle prime luci del giorno, utilizzando come esecutori di giustizia i componenti del battaglione ausiliario di P.S. 18 DONDI M., La lunga liberazione, Roma 1999. 19 DONDI M., ivi, p. 97.

178 esautorato: approvvigionamento dei beni di prima necessità, assistenza degli sfollati, ripristino dei trasporti e degli altri servizi pubblici, repressione del mercato nero. Ad esempio, continuava ad essere sistematicamente eluso dai contadini l’obbligo di conferire il grano all’ammasso: 30.000 erano i quintali consegnati contro i 150.000 del fabbisogno provinciale. Ciò era coerente con le diffuse tradizioni antistataliste delle campagne e fu necessario costituire per la vigilanza una polizia economica. Delle istanze e degli interessi della popolazione delle campagne si fece portavoce il Partito dei Contadini che riscosse parecchi consensi, tanto da riuscire a portare in parlamento un suo rappresentante. Giacchero e altri esponenti della neonata Democrazia Cristiana promossero allora la costituzione della Federazione dei Coltivatori Diretti, compiendo un’azione politica lungimirante che tolse ossigeno al partito concorrente.20 I danni all’apparato industriale non erano stati particolarmente gravi ma la ripresa dell’attività produttiva faticava a causa della scarsezza di combustibile, materie prime, semilavorati, mezzi di trasporto. Durante il periodo in cui Giacchero occupò la carica di prefetto non ci furono situazioni di grave emergenza e, in una relazione inviata al Ministero dell’interno nel gennaio 1946, Giacchero giudicò Asti una delle province più sicure, tranquille e disciplinate sotto l’aspetto dell’ordine pubblico. Soprattutto nelle campagne l’influenza del clero era forte su una popolazione dalle chiare tendenze moderate e l’attaccamento alla monarchia fu dimostrato dai risultati del referendum del 2 giugno 1946.21 Dal punto di vista degli equilibri politici «in modo lento ma inesorabile l’alleanza antifascista si incrina, fino a spezzarsi definitivamente: la distanza tra i differenti modi di intendere e concepire la società così come la vita quotidiana, è tanto grande da apparire subito incolmabile, a prescindere da volontà mediatrici e dalla condivisione dell’esperienza partigiana.»22 Nel luglio 1945 Giacchero, parlando sul tema del nuovo ordine internazionale, affermò senza mezzi termini: «Noi democristiani abbiamo il massimo rispetto per le masse ma non facciamo, per carità, degli sforzi giganteschi per

20 MONTANARO P., Uomini e vicende del gruppo dirigente della Col diretti astigiana dal 1945 al 1951, in Dalla Liberazione alla Repubblica: i nuovi ceti dirigenti in Piemonte, Milano 1987, pp. 127-135. 21 FORNO M., L’egemonia dei moderati. Baracco, Armosino e la destra democristiana, in Asti contemporanea, n. 8/giugno 2002, p. 13. 22 RENOSIO M., Colline partigiane. Resistenza e comunità contadina nell’Astigiano, Milano 1994, p. 133.

179 portare le masse, come tali, a protagoniste della storia. Tutte le volte che le masse sono state protagoniste della storia la storia si è macchiata di sangue.»23 Nella primavera 1946 si svolsero le prime libere elezioni amministrative dopo più di venti anni. Il prefetto Giacchero all’inizio di febbraio riunì i rappresentanti dei partiti locali rivolgendo «un caldo invito ai presenti affinché vogliano insistere con seria propaganda sulla necessità che le prossime elezioni avvengano nei vari Comuni della Provincia con la più ampia libertà. Ciò affinché la rappresentanza locale del partito che risulterà vincente, sia davvero il frutto dell’espressione popolare nel senso più democratico della parola. Si chiarisca ancora agli elettori che, se il partito a cui essi daranno il voto non uscirà vincente, non sarà la Patria sconfitta ma solamente un gruppo più o meno numeroso di suoi cittadini, i quali dovranno continuare a collaborare con le migliori forze del loro partito con quello vincente nell’interesse primo e massimo della Patria.»24 Dopo pochi giorni, la decisione del governo De Gasperi di sostituire i prefetti della Liberazione con funzionari di carriera riguardò anche la sede di Asti, dove Giacchero dovette lasciare il posto a Gaspero Emilio Marconcini, di anni 58, proveniente dalla Prefettura di Torino, «funzionario di carriera non compromesso nel passato regime».25 L’esperienza di Giacchero come prefetto si concluse il 28 febbraio 1946. Esperienza intensa ma breve, come quelle del magistrato Carlo Galante Garrone ad Alessandria, del professore di diritto internazionale Alessandro Passerin d’Entrèves ad Aosta, del rag. Pier Luigi Passoni a Torino, dell’ing. Riccardo Lombardi a Milano. La richiesta di sostituire in blocco i prefetti politici era stata sostenuta innanzitutto dai liberali. La decisione divenne merce di scambio con le sinistre che miravano alla Costituente e alla Repubblica. , socialista, all’epoca ministro dell’Interno, ha scritto: «Rilanciare la funzione del prefetto mi sembrava estremamente importante. D’altra parte in quel momento, se volevo davvero riportare il paese nella normalità non potevo fare altrimenti.»26 La scelta di ricorrere a funzionari di carriera voleva dire «continuità dello Stato, normalità»,27 ma l’operazione, secondo alcuni, «va valutata anche in rapporto al poco di straordinario che i prefetti rimossi erano riusciti a fare».28 Secondo lo studioso Fried, «in molte aree del nord i prefetti del C.L.N. sembravano inadatti o non desiderosi

23 GIACCHERO E., Il nuovo ordine internazionale, Asti 1945. 24 «Gazzetta d’Asti», 8 febbraio 1946. 25 «Gazzetta d’Asti», 22 febbraio 1946. Marconcini rimase ad Asti sino all’ottobre 1949. 26 ROMITA G., Dalla monarchia alla repubblica, Milano 1966, p. 29 27 ROMITA G., ivi, p. 61. 28 PAVONE C., La continuità dello Stato, Torino 1974, p. 282.

180 di prendere energiche misure contro i disordini promossi dalle sinistre e dal terrorismo vero e proprio. I prefetti politici, si sosteneva, non potevano agire contro le forze responsabili della loro nomina.»29 Così un giornale astigiano salutò il prefetto Giacchero: «Lascia il suo posto che Asti liberata aveva a lui, combattente mutilato e partigiano, affidato. Dopo le svariate e – nere – successioni di prefetti a Palazzo Ottolenghi l’averne avuto uno che fosse dei nostri e soprattutto “nostro” è stato per tutti gli astigiani di grande consolazione. Non possiamo a sentore di tutta la popolazione che congratularci per il suo governo, per la sua bontà e soprattutto per l’elevato e signorile suo atteggiamento di imparzialità […] Yanez lo ebbimo, per volere di popolo, Prefetto saggio ed onesto. Ce lo tenemmo caro a cominciare dal 25 aprile 1945 questo Prefetto (il primo che capisse il nostro dialetto e i nostri bisogni) e credevamo non dovesse più andar via. Disposizioni superiori il 28.2.1946 ce l’hanno tolto, non dal cuore e non dal ricordo. Chi fa del bene non si può dimenticare.»30 Era naturale che un personaggio come Giacchero, così benvisto negli ambienti cattolici, fosse invitato a candidarsi per la Democrazia Cristiana nelle elezioni dell’Assemblea Costituente, fissate per il 2 giugno 1946, contemporaneamente al referendum istituzionale. La provincia di Asti diede la vittoria alla Monarchia sulla Repubblica con 73.548 voti contro 71.931, mentre nell’intero collegio Cuneo-Alessandria-Asti la Repubblica prevalse con 412.313 voti contro 380.770.31 I democristiani astigiani, per bocca di Giacchero,

29 FRIED R. C., Il prefetto in Italia, cit., pp. 193-194. De Gasperi, per ammorbidire i contrasti, propose che fosse concesso, ai prefetti-politici che lo avessero chiesto, di essere immessi in ruolo. La gran parte tornò alle proprie occupazioni e pochissimi accettarono. Scrisse Carlo Galante Garrone, con evidente sarcasmo: «Sì: anche il prefetto politico muore. Muoiono tutti insieme, i prefetti politici: allo stesso giorno, alla stessa ora. Non di morte improvvisa, ma dopo una lenta agonia, con tracollo finale. Una malattia collettiva, una vera epidemia. I primi sintomi a novembre 1945: l’attacco a fondo dei liberali, nel loro sapiente decalogo, ai prefetti politici, a questi usurpatori incompetenti e faziosi, che tanto fanno rimpiangere i competenti e imparziali funzionari dell’era fascista […] I parenti, i malati stessi non si fanno illusioni; consulti continui al Viminale: medico curante è divenuto Romita, socialista. Partito di sinistra: forse c’è ancora una speranza di salvezza? I prefetti della liberazione, i prefetti della resistenza, i prefetti del C.L.N. Che debba essere proprio un socialista a seppellirli?» (GALANTE GARRONE C., Vita, morte e miracoli di un prefetto politico, in «Il Ponte», ottobre 1946, pp. 873-874). 30 «Gazzetta d’Asti », 22 febbraio 1946 e 21 giugno 1946 31 Nell’ Italia settentrionale la scelta monarchica fu maggioritaria solo nelle provincie di Asti, Cuneo e Bergamo.

181 rivendicarono le loro ragioni: «I cristiani democratici, in maggioranza monarchici, della provincia di Asti hanno accettato i risultati del referendum con un rispetto che molto probabilmente non avremmo potuto constatare nei repubblicani se la soluzione nazionale fosse stata monarchica. E questo è per noi titolo d’onore e non di vergogna, perché dimostra che prima di essere uomini di parte siamo ostinatamente, tenacemente, disperatamente Italiani!»32 All’Assemblea Costituente gli eletti astigiani furono Enzo Giacchero (con 21.687 voti di preferenza)33 e Leopoldo Baracco per la Dc, Felice Platone per il Pci, Umberto Grilli per il Psiup, Alessandro Scotti per il Partito dei Contadini. Come ho già accennato, nella provincia di Asti era evidente il collateralismo tra Dc e Federazione dei Coltivatori Diretti, il che rendeva il partito cattolico fortemente antagonista al Partito dei Contadini. Tre su quattro candidati democristiani all’Assemblea Costituente appartenevano all’area dei coltivatori diretti e, non a caso, lo stesso Giacchero era stato tra gli artefici della nascita della locale federazione. Quella che è stata definita la scelta «ruralista» della Dc si rivelò vincente. L’affermazione elettorale della Democrazia Cristiana fu dovuta anche al ruolo svolto dalla Chiesa. Con la mediazione del clero il partito fornì al mondo contadino un apprezzato supporto in campo sindacale, cooperativistico, assistenziale e ne ebbe un ritorno in consensi elettorali. I piccoli proprietari preferivano fare riferimento alla Chiesa piuttosto che allo Stato. «L’intreccio operativo tra Azione cattolica, Chiesa, federazione Coltivatori diretti, associazioni di donne, di giovani e di singole professioni (privilegiati gli insegnanti e i medici), consente alla Dc di radicarsi con grande successo nella società contadina e in quella cittadina, con un complesso di relazioni interpersonali, alleanze sociali, interessi efficacemente rappresentati nei diversi livelli istituzionali.»34 Il periodico diocesano di Asti definì Giacchero «uno dei giovani più degni di rappresentare alla Costituente l’idea cristiana».35 Un altro scrisse: «Egli appartiene a famiglia astigiana di profonda e convinta fede e vita cristiana, ha dimostrato dovunque chiare doti di ingegno, di pratica abilità e di somma padronanza di se stesso.»36 Nell’Assemblea Costituente la Democrazia Cristiana era forte del 35,2% dei voti e 207 deputati, ma gli equilibri politici non le consentirono di sostenere la prospettiva di uno «Stato cristiano» ma solo di auspicare l’ispirazione cristiana dello Stato. De Gasperi

32 GIACCHERO E., Le strane domande, in «Il Popolo Astigiano», 22 giugno 1946. 33 I 556 deputati alla Costituente, Roma 1987, p. 383. 34 LAJOLO L., I ribelli di Santa Libera, Torino 1995, pp. 132-133. 35 «Il Cittadino», 19 giugno 1946.

182 affermò che i cattolici dovevano cercare una via di mezzo tra quelle che potevano essere le loro aspirazioni di principio e le possibilità concrete di azione. I valori che essi sostennero erano quelli della famiglia, della funzione sociale della proprietà, della collaborazione tra capitale e lavoro, della libertà di religione e d’insegnamento, dell’armonia nei rapporti tra Stato e Chiesa, del personalismo37, della socialità38, della sussidiarietà39. Giacchero nell’Assemblea Costituente era uno dei 105 deputati ex-partigiani (20 dei quali democristiani), ma fu l’unico Dc che votò contro l’articolo della Costituzione che non ammette la possibilità di rivedere la forma repubblicana dello Stato.40 L’impegno di Giacchero era diviso tra Roma e il Piemonte e quegli anni tumultuosi non lasciavano molto tempo al riposo e alle meditazioni. L’estate astigiana del 1946 fu caratterizzata dalla clamorosa ribellione di Santa Libera: gruppi di partigiani tornarono sui monti per protestare contro atti che giudicavano contrari allo spirito della Resistenza: l’amnistia ai fascisti, lo spazio politico concesso all’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, l’allontanamento di partigiani dai ranghi della polizia, etc. Si recarono a parlamentare con i ribelli di Santa Libera il sindaco di Asti avv. Platone e altri esponenti politici tra cui Giacchero, ma quest’ultimo non fu bene accolto in quanto considerato avversario politico. Il partito comunista, pur appoggiando in generale le richieste dei partigiani non incoraggiò apertamente la protesta. Fece opera di mediazione anche Davide Lajolo che era stato comandante partigiano nell’Astigiano. I «ribelli» appartenenti

36 «Gazzetta d’Asti», 21 giugno 1946. 37 Il personalismo come corrente di pensiero cattolico s’opponeva alle dottrine liberali e marxiste. Era portatore dell’idea di dignità della persona umana e della necessità della sua valorizzazione, delle libertà dell’uomo prima ancora di quelle del cittadino, della non riducibilità dell’uomo alla sola dimensione materiale, in polemica contro l’individualismo da un lato e il collettivismo dall’altro: la società come insieme di persone la cui dignità è anteriore alla società stessa. 38 La socialità è il riconoscimento che l’uomo tende naturalmente alla comunità, a stare in società e la persona è portata ad essere rivolta verso gli altri ed essere solidale. 39 La sussidiarietà è il principio per cui un soggetto più forte interviene solo se e quando il soggetto cui spetterebbe di decidere non lo fa o non lo può fare. La dottrina era stata enunciata da Pio XI nell’enciclica «Quadragesimo anno» del 1931. Naturalmente, toccava innanzitutto l’intervento dello Stato rispetto alle decisioni della famiglia e delle aggregazioni sociali e affermava il primato della persona e dei corpi intermedi. 40 Al termine di un’accesa discussione, sfociata quasi in rissa, s’era deciso di votare a scrutinio segreto. L’articolo fu approvato con 274 voti favorevoli e 77 contrari. Gli atti parlamentari riportano anche un intervento di Giacchero per sostenere il divieto per i militari di iscriversi a partiti politici.

183 alla polizia ausiliaria rientrarono nei ranghi dopo la promessa che non avrebbero patito sanzioni. L’allarme negli ambienti moderati fu grande anche perché la presenza in giro di tante armi confermava che, a suo tempo, non tutti i partigiani le avevano consegnate. Il vicepresidente del Consiglio Nenni accettò di ricevere una delegazione formata da rappresentanti dei partigiani di Santa Libera, dall’Anpi e dai partiti. La tensione si stemperò. L’esponente socialista così giustificò la sua decisione: «Io non credo che ci sia stata in questa occasione né umiliazione dell’autorità dello Stato né diminuzione del prestigio del governo. C’è stato un governo che è andato fraternamente incontro a coloro che stavano per commettere un grave errore e che ha impedito loro di compierlo non ricorrendo alla forza della legge, ma ricorrendo alla persuasione.» Gli esponenti delle formazioni partigiane autonome condannarono il movimento e i giornali ospitarono una durissima polemica tra Giacchero e Armando Valpreda che aveva capitanato i ribelli. In apertura dell’editoriale intitolato «Contro la democrazia?» (dove il punto interrogativo appare una concessione retorica), Giacchero sottolinea l’investitura popolare degli uomini di governo attraverso le libere elezioni democratiche e quindi afferma perentoriamente: «Ne nasce di conseguenza che chiunque si pone oggi contro l’autorità del governo, è fuori legge ed agisce contro la sovranità del popolo» e definisce i partigiani di Santa Libera ribelli senza alcuna giustificazione morale o politica. Nel momento in cui l’insurrezione si è risolta del tutto pacificamente, Giacchero lascia da parte le cautele dei giorni della trattativa ed esplicita la propria posizione più intransigente di quella della stessa Dc nazionale e di De Gasperi […] L’esponente democristiano si chiede se, seguendo questo esempio, il governo non corra il rischio di trovarsi in una situazione di totale illegalità, se vi fossero gruppi meglio armati e organizzati. Dai fatti di Santa Libera si può ipotizzare una debolezza del governo, che consenta un rivolgimento antidemocratico? […] Il fantasma che viene agitato, dunque, è quello di una rivoluzione capeggiata dal partito comunista.41 Naturalmente, dopo gli avvenimenti dell’estate 1946 si fecero ancora più ostili i rapporti tra i partiti della sinistra e Giacchero. Tale contrapposizione si riprodusse per tutti gli anni seguenti, in tutte le sedi e circostanze. Alle elezioni del 18 aprile 1948 la Democrazia Cristiana trionfò e nella circoscrizione Cuneo-Alessandria–Asti per la Dc risultarono eletti Giacchero con 39.395 preferenze e Armosino. I dibattiti interni al partito e quelli in Parlamento videro Giacchero decisamente schierato sulle posizioni degasperiane, di adesione prima al Piano Marshall e

41 LAJOLO L., I ribelli di Santa Libera, cit., p. 117.

184 poi al Patto Atlantico. La chiave per comprendere le posizioni di Giacchero è l'anticomunismo: la minaccia per l’Italia e la civiltà occidentale veniva da Est e dai sostenitori interni delle ideologie collettivistiche. Non vi potevano essere compromessi con chi sosteneva l’ateismo e l’Unione Sovietica. Le sue posizioni tra i democristiani non erano affatto minoritarie. Anche l’adesione di Giacchero al Movimento Federalista Europeo è legata, per i tempi, alle posizioni politiche che ho sopra descritto. Il Mfe per sua natura aveva avuto all’inizio carattere trasversale con dirigenti e iscritti appartenenti a due categorie: da un lato i federalisti «doc» senza legami o con legami meramente strumentali con i partiti, dall’altro esponenti politici e sindacali con doppio ruolo e impegno. Causa della rottura tra le diverse anime del Mfe, col sostanziale distacco della componente socialcomunista, fu la scelta consapevole per l’unificazione federale dei paesi democratici europei, l’accettazione del Piano Marshall, la convocazione di un’Assemblea Costituente Europea. All’allontanamento volontario da parte della componente di sinistra, fece riscontro una accresciuta presenza di aderenti all’area di centro, in particolare democristiani. La lettura dei dibattiti parlamentari ci mostra il deputato Giacchero combattivo e mordace, pronto alla battuta caustica e all’interruzione impertinente. Ricordo alcuni episodi. Durante l’infuocata discussione alla Camera per l’adesione al Patto Atlantico, il socialista Nenni affermò che gli oppositori al trattato avrebbero usato tutti i mezzi…, prontamente Giacchero ribatté «Quali?» e Nenni dovette precisare «quelli che la Costituzione pone a nostra disposizione».42 A proposito di un’affermazione del comunista Pajetta che i Comitati della pace, patrocinati dalla sinistra, avrebbero d’ora in poi avuto funzioni «esecutive», Giacchero esclamò tra le proteste degli avversari: «Forse allude alle esecuzioni che farebbero».43 E ancora, avendo Nenni affermato che ogni epoca ha le sue potenze demoniache, Giacchero lo interruppe: «Noi abbiamo !» provocando una generale risata.44 Anche Togliatti meritò l’attenzione del deputato di Asti: quando il capo comunista pose la domanda: «Come vanno a finire quei regimi nei quali la fiducia deve essere sempre palese?», Giacchero prontamente interloquì con la battuta «Ce lo dica lei che viene dalla Russia!».45

42 NENNI P., Discorsi parlamentari, Roma 1983, p. 144. 43 DE GASPERI A., Discorsi parlamentari, Roma 1973, vol. 2°, p. 893 (seduta dell’11 luglio 1950). 44 Ivi, p. 897 (seduta dell’11 luglio 1950). 45 ANDREOTTI G., Onorevole, stia zitto, Milano 1990, p. 66.

185 Il deputato astigiano meritò più volte i pubblici elogi di De Gasperi.46 Giacchero sostenne il Piano Marshall «inteso non solo come strumento di ricostruzione economica, bensì come piattaforma di lancio dell’unificazione europea»47. Fu l’ennesima occasione di polemica con la componente social-comunista decisamente contraria. Sandro Pertini affermò: «Gli organismi derivanti dal Piano Marshall non sono l’espressione spontanea della volontà e delle esigenze dei popoli europei, bensì sono stati artificiosamente creati con lo scopo politico di fare d’un gruppo di nazioni europee uno schieramento in funzione antisovietica, e con lo scopo economico di fare dell’Europa occidentale un campo di sfruttamento della finanza americana.»48 La scelta di aggregarsi fatta dalle democrazie europee occidentali fu bene accetta da Giacchero e altri perché significava rottura con i comunisti e la maggioranza dei socialisti che giudicavano l’unità europeo-occidentale causa di approfondimento della divisione dell’Europa e di aggravamento delle tensioni internazionali. Giacchero era convinto che la scelta di campo occidentale fosse obbligata e irreversibile, in un contesto caratterizzato dalla presa del potere dei comunisti nei paesi dell’Europa orientale, dal blocco di Berlino, dallo scoppio della guerra in Corea. Cosicché la lotta al comunismo diventava per un cattolico come Giacchero un dogma quasi religioso, tenuto anche conto della condanna pronunziata dal Santo Uffizio. Il 1949 fu l’anno dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, altra occasione di durissimo scontro tra governo e opposizione. La scelta atlantica fu presentata dai

46 DE GASPERI A., ivi, vol. 3°, p. 1124 (seduta del 10 ottobre 1951), p. 1201 (seduta del 7 febbraio 1952). Almeno in un’occasione, però, Giacchero si dissociò dalle posizioni del vertice del partito, allorché si discusse della riforma agraria. Insieme con una settantina di altri parlamentari, tra cui molti esponenti meridionali della destra Dc e il conterraneo Armosino, sottoscrisse un documento dal titolo «Problemi dell’ora e azione di governo», che qualificava il riformismo di governo come «assurdo slittamento su posizioni che snaturano la essenza stessa della democrazia cristiana». 47 PISTONE S. La lotta per l’unità europea, in Europeismo e federalismo in Piemonte tra le due guerre mondiali, la Resistenza e i Trattati di Roma, Firenze 1999, p. 59. 48 PERTINI S., Scritti e discorsi, vol. I 1926-1978, Roma, Presidenza del Consiglio, 1991, p. 214. «L’Erp (European Recovery Program) rappresentava un primo strumento concreto di attuazione della dottrina Truman che assicurava il sostegno degli Stati Uniti a tutti i paesi minacciati dall’interno o dall’esterno dal comunismo. Il sostegno alla rinascita economica dell’Europa doveva aiutare a risolvere i problemi sociali, togliendo argomenti alla propaganda comunista. Gli Stati Uniti non erano ancora pronti, nel 1947, ad un impegno militare a difesa dell’Europa occidentale, e per “contenere” l’URSS usavano l’arma economica.» (DE LEONARDIS M., Il Tricolore in Europa, in Capisaldi Tricolore, s.l. s.d. – www.istrid.difesa.it).

186 favorevoli come collegata a quella europeista, tanto che si è parlato di un «europeismo atlantista». Giacchero affermò che l’alleanza era «elemento di catalizzazione per l’Europa»,49 in altre parole uno strumento complementare per la costruzione di una comunità di popoli occidentali nella quale l’Italia era naturalmente inserita. L’adesione alla Nato poneva oltretutto l’Italia, uscita sconfitta dalla guerra, in una posizione di parità con le nazioni vincitrici e questo era un successo importante per il nostro governo il quale insistette, da allora in avanti, a indicare nell’europeismo e nell’atlantismo i cardini della politica estera italiana. Tra i cattolici e anche nel gruppo parlamentare democratico cristiano l’adesione al Patto Atlantico non fu del tutto condivisa e pacifica, anche se alla stretta finale del dibattito il dissenso fu limitato e scarsamente influente. Giacchero giudicava positivamente anche l’ombrello nucleare americano. Parlando all’Assemblea del Consiglio d’Europa di Strasburgo egli affermò: «All’organizzazione scientifica di una grande nazione extraeuropea noi esprimiamo la nostra gratitudine perché abbiamo sicurezza e pace e ci permette di essere una libera e democratica assemblea». L’azione politica di Giacchero si proiettava sempre più oltre i confini nazionali, verso l’Europa, cosicché la sua presenza sulla scena astigiana divenne meno attiva e, di fatto, egli si allontanò dalle contese locali. Nel novembre 1946 Giacchero ricevette, come gli altri deputati delle assemblee elettive dell’Europa Occidentale, una lettera circolare di Richard de Coudenhove- Kalergi50, il quale chiedeva a ciascuno di esprimersi a proposito della federazione europea. Il quesito era: «Siete in favore della costituzione di una federazione europea nell’ambito delle Nazioni Unite?». Furono alla fine ben 342 le risposte positive arrivate dall’Italia, corrispondenti al 64% dei componenti l’Assemblea Costituente, il che pose il nostro paese al primo posto in questa graduatoria di buoni sentimenti (in effetti, gli italiani

49 FORMIGONI G., La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna 1996, 324. 50 Straordinario personaggio di un mondo che non c’è più, Richard de Coudenhove-Kalergi crebbe in un clima cosmopolita. Figlio di un diplomatico austro-ungarico e di madre giapponese, nacque a Tokio nel 1894. Si laureò in filosofia a Vienna, nel 1919 adottò la cittadinanza ceca e nel 1939 quella francese. Durante la seconda guerra mondiale insegnò presso la New York University e si stabilì poi in Svizzera. Negli anni Venti aveva pubblicato il libro-manifesto intitolato Pan-Europa e lanciato un movimento di integrazione europea che contrastava le dominanti spinte nazionalistiche. Propose anche come inno europeo l’«Inno alla gioia» dalla IX sinfonia di Beethoven nonché la celebrazione annuale di una giornata dell’Europa.

187 hanno sempre manifestato opinioni generalmente favorevoli alle idee europeiste) e lo stesso Giacchero commentò «O siamo i più incoscienti o siamo i più entusiasti». Il deputato di Asti non si limitò però a dare a Coudenhove-Kalergi risposta affermativa al questionario ma chiese all’interlocutore cosa potesse fare per favorire la realizzazione dell’idea. L’altro lo invitò a costituire anche in Italia un Comitato parlamentare. Il 29 maggio 1947 nacque, su iniziativa di Giacchero, il Comitato Parlamentare Italiano per l’Unione Europea, con appartenenti a tutti i partiti eccetto il Pci. Alla presidenza del Comitato fu designato Giacchero che raccolse l’adesione di un centinaio di parlamentari democristiani, liberali, socialdemocratici, demolaburisti, azionisti, qualunquisti. A Gstaad, in Svizzera, si tenne una riunione di tutti comitati nazionali. Il gruppo italiano era guidato da Giacchero. Fu deciso di costituire l’Unione Parlamentare Europea, articolata in comitati nazionali indipendenti da qualsiasi organizzazione extraparlamentare. I presidenti dei comitati nazionali avrebbero formato il Consiglio esecutivo che avrebbe eletto un Segretario generale. Il primo a ricoprire questo incarico fu Coudenhove-Kalergi. Giacchero entrò a far parte del Consiglio esecutivo e della commissione incaricata di redigere una Carta europea. Nel discorso di saluto al congresso Giacchero rilevò compiaciuto che quella era una delle prime occasioni in cui l’Italia sconfitta sedeva con pari dignità in un’assise internazionale. Al rientro in Italia, Giacchero ritenne necessario precisare che il progettato Parlamento europeo non poteva che nascere dall’iniziativa di assemblee liberamente elette e quindi rimanevano esclusi quei paesi dove non erano assicurate garanzie democratiche, come gli stati dell’Europa orientale e la Spagna franchista. Al Comitato Parlamentare Italiano per l’Unione Europea pervennero via via nuove adesioni (complessivamente oltre duecento), in maggioranza di esponenti democristiani. Giacchero guidò la delegazione italiana al primo congresso dell’Upe, tenutosi a Gstaad dall’8 al 10 settembre 1947. Partirono con lui 33 deputati tra cui Gustavo Colonnetti (l’allievo aveva superato il maestro!), il qualunquista Giannini, il liberale Badini Confalonieri, il gen. Umberto Nobile eletto come indipendente nelle liste del Pci. Mancavano deputati socialisti e comunisti. Di fronte a rappresentanti di dodici paesi Giacchero tenne un alto discorso: «Noi Italiani abbiamo nel sangue il senso dell’Universale. Nell’Italia ebbero radice e dall’Italia trassero forza le due grandi attuazioni dell’unità europea, che sole si realizzarono nella storia di questo vecchio mondo: l’impero romano che di fatto fu una federazione di stati e il Cristianesimo, che ancora oggi è l’unico cemento spirituale dell’Europa.»

188 Al termine dei lavori fu approvata una risoluzione che auspicava la convocazione di un’assemblea costituente europea, premessa degli Stati Uniti d’Europa, eletta a suffragio diretto o dai parlamenti nazionali. Giacchero fu uno dei vicepresidenti dell’Upe. Si riaccese la polemica sulla vera o presunta connotazione anticomunista dell’Unione. Poiché non erano state invitati parlamentari dell’Europa orientale Giacchero ritenne opportuno ribadire che s’era trattato di auto-esclusioni da parte di paesi che per l’ideologia dominante erano ben lontani dagli ideali europeisti.51 Giacchero presentò in Assemblea Costituente un’interpellanza firmata da altri 32 parlamentari con la quale s’invitava il governo a dare attuazione ai voti formulati a Gstaad per la costituzione di una forma federale di unione europea. Nei giorni successivi, parlando al congresso nazionale della Dc a Napoli, chiese che tra gli obiettivi immediati della politica estera italiana vi fosse la realizzazione dell’Unione europea. Un’altra iniziativa assunta da Giacchero fu di proporre al ministero italiano delle Poste l’emissione di un francobollo sull’Unione europea, ma solo dieci anni dopo fu realizzata l’idea di un francobollo emesso in più paesi con lo stesso soggetto. Nel gennaio 1948 la Commissione trattati internazionali dell’Assemblea Costituente, ancora per iniziativa di Giacchero, discusse un ordine del giorno a favore della creazione degli Stati Uniti d’Europa, al quale aderì per il governo il ministro degli Esteri Sforza. Giacchero sostenne che l’intesa tra i parlamenti dei vari paesi aveva migliori prospettive rispetto alle tradizionali trattative diplomatiche e certamente pregio di maggiore democraticità perché i parlamenti erano espressione della volontà popolare. «Creiamo attraverso gli uomini parlamentari, e rappresentanti diretti dei popoli, le vie d’intese rapide e sicure fra i popoli d’Europa. Lavoriamo con fede su questa via. Non si tratta di utopia. Si tratta di volontà. Se questa volontà sarà in noi, sarà anche negli altri ed il frutto di questa volontà comune sarà la sicurezza, la pace, la prosperità dell’Europa e dell’Italia.» In occasione delle elezioni del 18 aprile 1948 il Movimento Federalista Europeo chiese a tutti i candidati di sottoscrivere un impegno per favorire la convocazione di una conferenza parlamentare internazionale che concordasse modi e procedure per la convocazione di un’Assemblea costituente degli Stati Uniti d’Europa. Ben 630 candidati, appartenenti a tutti gli schieramenti, risposero positivamente all’appello. Dopo le elezioni, Giacchero fu eletto vice-presidente del gruppo parlamentare Dc e segretario della Commissione esteri. Alla fine di luglio fu costituito il Gruppo Parlamentare Italiano per l’Unione Europea, composto da 104 senatori e 169 deputati. La sezione del Senato

51 GIACCHERO E., Sul convegno di Gstaad, in «Il Mondo europeo», 15 ottobre 1947

189 scelse per presidente , quella della Camera Giacchero. Era un periodo di grande fervore e grandi idee. All’Aja, su iniziativa dell’Uef (Unione Europea dei Federalisti)52 e di altri movimenti si riunì dal 7 al 10 maggio 1948 un «Congrès de l’Europe», dove quasi mille delegati (duecento dei quali parlamentari) appartenenti a 17 nazioni discussero sotto la presidenza di Winston Churchill. Lo statista inglese era allora il personaggio di punta dell’europeismo ufficiale. In Italia l’attenzione era ancora concentrata sui risultati delle elezioni del 18 aprile 1948, cosicché la delegazione italiana sebbene numerosa era composta prevalentemente da intellettuali, giornalisti, esponenti del mondo accademico, tra cui Spinelli, Giacchero, Leone Cattani, Adriano Olivetti, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti, Ignazio Silone, Ernesto Rossi, Aldo Garosci. Nella città olandese si contrapposero quelli che sollecitavano la convocazione di un’assemblea costituente e chi, in prima linea gli inglesi, s’opponeva. Prevalse una linea di compromesso e il congresso portò solo alla creazione del Consiglio d’Europa o meglio dell’«Assemblée consultative du Conseil de l’Europe», scelta dai parlamenti. Il «Joint International Committee» che aveva promosso il congresso dell’Aja, nell’ottobre 1948 assunse il nome di Movimento Europeo. In diversi paesi furono costituiti consigli nazionali. Il Consiglio Italiano del Movimento Europeo (Cime) era composto di deputati, senatori e personalità federaliste. Nel Comitato esecutivo entrarono Giacchero, Parri, Spinelli. Giacchero fu chiamato a far parte anche del Consiglio Internazionale del Movimento Europeo. Il Movimento Europeo associava partiti e sindacati europei alle organizzazioni federaliste ed europeiste, nel comune obiettivo della realizzazione dell’unità politica dell’Europa. Con grande lungimiranza, chiedeva la creazione di un’assemblea europea rappresentativa, di un Consiglio dei ministri europeo, di una Corte europea, la stesura di una Carta dei diritti umani, la libera circolazione di manodopera e capitali, l’eliminazione delle barriere doganali e commerciali, la creazione di un’unione monetaria europea. Alla fine del 1948 si tenne alla Camera italiana un importante dibattito sulla politica estera. Nenni presentò una mozione fortemente critica verso il governo, a cui si contrappose un documento di Giacchero di sostegno incondizionato a De Gasperi, che invitava il governo a dare applicazione all’art. 11 della Costituzione favorendo un’Europa federale, con il superamento del nazionalismo e la partecipazione dei paesi dell’Europa occidentale, in quanto retti da regimi democratici e fin da allora disponibili. Polemizzando con comunisti e socialisti Giacchero affermò: «Voi dite che state costruendo un mondo

52 L’«Union Européenne des Fédéralistes» nacque nel dicembre 1946.

190 nuovo e la neutralità che state proponendo sarebbe un mattone di quella costruzione; può darsi! Noi preferiamo questo mondo, però, dove una preferenza può essere ancora espressa e sostenuta: il mondo europeo, in cui non vi è né volontà, né possibilità di aggressione, ma serena e chiara consapevolezza della nostra responsabilità di aumentare la collaborazione con gli altri popoli democratici, di aumentare la possibilità di vita dei popoli europei, di difendere, in fondo, quel complesso di valori che il 18 aprile il popolo italiano ha inteso di difendere.»53 Molte aspettative tra gli esponenti del Movimento Europeo andarono presto deluse: il Consiglio d’Europa divenne di fatto solo un organo di collaborazione tra i governi. Di fronte alle rinnovate critiche della sinistra sull’esclusione di comunisti e socialisti dalla rappresentanza italiana, Giacchero rispose che non era possibile costruire la casa comune europea con chi avrebbe portato via i mattoni.54 Continuò la sua azione anche in seno alla Camera dei Deputati con discorsi, interpellanze, mozioni. «Noi dobbiamo superare la fase della diplomazia, perché la diplomazia, per abile che sia, per quanto sia fatta da uomini personalmente in buona fede, non può che essere il battistrada dei carri armati. È sempre stato così, perché soltanto la legge può riportare la pace e la giustizia fra i popoli e fra le nazioni, una legge che si crei con la rinuncia di una parte di sovranità delle singole nazioni, dei singoli paesi.»55 Nel 1950 l’Unione Europea dei Federalisti promosse una petizione popolare in favore di un patto di unione federale, facendo propria una proposta del Movimento Federalista Europeo. Per la prima volta l’Uef decideva di intraprendere un’azione comune in tutte le nazioni. Tra i membri italiani del comitato promotore internazionale c’erano Piero Calamandrei, Benedetto Croce, , , Carlo Levi, Maria Montessori, Alberto Moravia, Ferruccio Parri, Giuseppe Romita, Gaetano Salvemini, don Luigi Sturzo, Ignazio Silone, Elio Vittorini, Arturo Carlo Jemolo, Giacchero e altri. In Italia la campagna ebbe un notevole successo e la petizione fu sottoscritta da oltre 520.000 persone. La «mozione Giacchero» approvata a Montecitorio indicava quale primo obiettivo della politica estera italiana la creazione di vincoli federativi, con esercito, parlamento e governo comuni L’impegno di Giacchero nel parlamento italiano continuò tenace sino al 1952. I suoi interventi erano imperniati su alcuni concetti di fondo: un’autorità politica europea poteva nascere solo da una assemblea costituente europea, per impedire guerre future

53 Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, 30 novembre 1948, p. 4936. 54 Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, 12 luglio 1949, p. 10271. 55 Atti Parlamentari. Camera dei Deputati, 27 settembre 1948, p. 2511.

191 bisognava limitare la sovranità assoluta degli Stati, il pericolo per l’unità europea veniva da Est perché era interesse dell’Unione Sovietica tenere l’Europa divisa. Il 9 maggio 1950 il ministro degli Esteri francese lanciò la proposta di un patto tra Francia e Germania, aperto agli altri paesi, per mettere sotto una Alta Autorità la produzione del carbone e dell’acciaio, affermando che ciò avrebbe costituito il primo nucleo di una federazione europea indispensabile al mantenimento della pace. «L’idea ispiratrice era assolutamente elementare: eliminare i potenziali conflitti soprattutto tra Francia e Germania per il possesso e lo sfruttamento delle risorse concentrate nel territorio a cavallo tra i due paesi, creando una struttura sovranazionale.»56 L’Europa che cominciò a prendere forma con la nascita della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio non era la «terza forza» tra Usa e Urss invocata da molti, ma il modo specifico in cui alcuni paesi caratterizzarono la loro presenza all’interno dell’aggregazione occidentale e atlantica.57 Al Piano Schuman aderirono Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Secondo le parole di Giacchero, «non è stata la concordanza degli interessi siderurgici e carboniferi dei sei Paesi, non sono state certamente le industrie e gli industriali dei sei Paesi, che si sono messi attorno a un tavolo, un bel giorno, per dirsi – Oh, che bella festa. Facciamo la Comunità del Carbone e dell’Acciaio - Sono stati degli uomini politici responsabili, i quali si sono accorti che in un particolare momento storico bisognava fondere insieme quel poco che ci era rimasto per poterlo salvare.»58 Con una felice espressione si è parlato di «trapianto europeo» della classe dirigente italiana.59 La partecipazione del nostro paese fu percepita come un rinnovato successo diplomatico: ancora una volta la scelta europeista offriva all’Italia un ruolo tra le potenze occidentali, confermata dall’attribuzione nell’Assemblea Ceca di tanti seggi come alla Francia e alla Germania. Ogni iniziativa in Europa e in Italia vedeva Giacchero promotore o sostenitore eppure la sua figura è rimasta nella storiografia in penombra, anche con riguardo solo alle vicende della Democrazia Cristiana.

56 GUIZZI V.,Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea, Napoli 1995, p. 5. 57 RAPONE L.,Storia dell’integrazione europea, Roma, Carocci, 2002; La Comunità europea del carbone e dell’acciaio 1952-2002: gli esiti del trattato in Europa e in Italia, a cura di Ruggero Ranieri e Luciano Tosi, Padova 2004. 58 GIACCHERO E., La Comunità e l’unificazione europea, cit., p. 85. 59 PEDINI M., Rapporto sull’Europa, Milano 1979, p. 11.

192 Europeisti in un momento in cui l’attenzione del partito era monopolizzata da altri e più urgenti problemi, uomini come Enzo Giacchero, Celeste Bastianetto, Lodovico Montini60 o Lodovico Benvenuti61 non ebbero l’ascolto che avrebbero meritato e restarono spesso ai margini dei luoghi in cui si maturavano le decisioni più importanti di politica estera. Quando poi De Gasperi si decise ad intraprendere con coraggio la strada dell’integrazione europea, la sua personalità mise in ombra coloro che nel partito erano stati i precursori dell’europeismo.62 Il trattato Ceca entrò in vigore il 23 luglio 1952. La «piccola Europa» era nata e contava 160 milioni di abitanti. Quale rappresentante italiano nell’Alta Autorità della Ceca il ministro dell’Industria Togni avrebbe voluto nominare Oscar Sinigaglia che rappresentava gli interessi delle imprese siderurgiche italiane. Esse, tecnologicamente arretrate rispetto ai concorrenti stranieri, s’opponevano a un mercato non protetto e riuscirono a ottenere una parziale e temporanea protezione. Ugo La Malfa propendeva per nominare Taviani ma De Gasperi impose il nome di Giacchero come rappresentante dell’Italia. nel 2001 ricordò: «Avevamo ancora nella mente lo studio delle guerre proprio per il carbone e per l’acciaio, per l’Alsazia e la Lorena e la prima realizzazione di pace sorgeva su quelle tremende fonti di guerra. Il mio partito della Democrazia Cristiana designò un parlamentare piemontese, on. Enzo Giacchero, tornato dal fronte, gravemente mutilato: era la presenza delle dolorose stigmate del conflitto, che annunciavano il sorgere concreto dei segni della pace!»63 L’Alta Autorità, che ebbe come primo presidente il francese , deteneva le principali competenze della Ceca. Monnet scrisse così di Giacchero: «Discreto, ma per gusto e quasi per disprezzo dell’azione, l’italiano Enzo Giacchero dimostrava brillanti doti di analisi e di oratoria. Era stato gravemente ferito in guerra, il che non gli aveva impedito di combattere nella Resistenza. Tutta la sua capacità di entusiasmo era rivolta all’idea federalista. Considerava il resto con un sorriso disincantato.»64 Riguardo il ruolo svolto da Giacchero nell’Alta Autorità ricordo che, in una corrispondenza a me indirizzata, il dr. Mario Berri, Primo Presidente emerito della Corte Suprema di Cassazione, riferendo di avere avuto Giacchero come suo «superiore» a

60 Lodovico Montini (1896-1990) fratello del futuro papa Paolo VI. 61 Lodovico Benvenuti (1899-1966) combattente nella Resistenza lombarda, deputato alla Costituente. 62 CANAVERO A., Enzo Giacchero dall’Europeismo al federalismo, in Europeismo e federalismo in Piemonte, cit., p. 175. 63 www.anpi.it (XIII congresso nazionale dell’ANPI, 29-31 marzo 2001). 64 MONNET J., Cittadino d’Europa, Milano 1988, p.281

193 Lussemburgo, lo indicava «tra i costruttori originari dell’Europa comunitaria». Secondo lo studioso Alfredo Canavero, «nella sua nuova veste, Giacchero mostrò ancora una volta le sue doti. Provenendo da un europeismo innato, Giacchero si era accostato poco per volta al federalismo, dapprima grazie a Coudenhove-Kalergi, poi a Spinelli. Ne divenne uno dei maggiori fautori e propagandisti nelle diverse situazioni in cui si venne a trovare. Non fu certamente un teorico dell’europeismo, ma un grande e capace organizzatore, che dette un fondamentale contributo alla diffusione del federalismo europeo nel nostro paese.65 Nell’aprile 1954 Monnet e Giacchero si recarono negli Stati Uniti per negoziare un prestito di cento milioni di dollari. Per la prima volta gli Usa trattarono con un’organizzazione che rappresentava più nazioni: era un fatto nuovo e di assoluto rilievo. Oltreoceano le iniziative europeiste non erano malviste, nell’ottica di ancorare l’Europa occidentale a un sistema economicamente capitalistico, politicamente legato agli Usa e militarmente inquadrato nell’Alleanza Atlantica. Non a caso, quando il generale Eisenhower lasciò il comando Nato in Europa, l’unica sede di partito che visitò in Italia fu la sezione romana del Movimento Federalista Europeo accolto da Spinelli, Giacchero e altri. Documenti provenienti dagli archivi americani, recentemente venuti alla luce, hanno rivelato che l’interesse americano arrivò al punto di finanziare il Movimento Europeo. Sul viaggio di Monnet e Giacchero negli Usa del 1954 abbiamo l’interessante testimonianza del diplomatico Egidio Ortona, in servizio presso la nostra ambasciata di Washington: «Già allora Monnet poteva essere considerato come appartenente a buon diritto alla schiera dei grandi costruttori di storia. Anzi, per adoperare un’espressione da lui usata nelle sue memorie, parlando di se stesso e dell’eletto gruppo di collaboratori che avevano gettato le fondamenta delle organizzazioni europee, egli aveva “busculé l’histoire”. Giunse accompagnato dall’on. Giacchero, federalista accanito, ex deputato democristiano da lui molto stimato e che, come Monnet scrisse, aveva abbandonato la politica per un fenomeno di rigetto verso quel tipo di attività che egli considerava “umiliante, bassa e dominata dalla partitocrazia”.»66 A partire dal 1947 e sino alla fine degli anni Cinquanta Enzo Giacchero fu partecipe delle più significative iniziative promosse sui temi dell’integrazione europea e il suo nome compare ovunque in posizione di rilievo. Affiancò personaggi entrati giustamente nella

65 CANAVERO A., Enzo Giacchero dall’Europeismo al federalismo, cit., p. 193. 66 ORTONA E., Anni d’America. La diplomazia 1953-1961, Bologna 1986, p. 93. A proposito dell’eventualità di stabilire una rappresentanza permanente dell’Alta Autorità a

194 storia (De Gasperi, Monnet, Adenauer), eppure la sua figura è in gran parte ignorata o giudicata assolutamente minore. Dino Del Bo, a proposito della sua personale esperienza come presidente dell’Alta Autorità della Ceca, parlò di «ritiro in Europa», a voler intendere un distacco dalla realtà italiana, forse non molto gradito. Le stesse vicende di , , (per non dire di De Gasperi che ottenne la presidenza dell’Assemblea Ceca dopo essere stato messo da parte nel gioco politico italiano e persino nel suo stesso partito) lasciano quasi intendere che gli incarichi europei siano stati giudicati, almeno in Italia, un ripiego, un «contentino» in mancanza e in attesa di più lusinghieri riconoscimenti in patria. Se questo è vero, o in gran parte vero, i tanti anni trascorsi da Giacchero lontano dall’Italia lo esclusero inevitabilmente dal giro delle poltrone che contano. La circostanza (o scelta volontaria secondo la testimonianza di Monnet) d’essere rimasto fuori dai «giochi» italiani di partito e di governo, hanno reso Giacchero personaggio secondario delle cronache politiche e inutilmente si cercherebbe il suo nome – come il sottoscritto ha fatto - in testi anche autorevoli e documentati. Può darsi anche che la scelta fatta da Giacchero, nel prosieguo del suo percorso umano e intellettuale, di aderire a formazioni di destra abbia in qualche modo creato una specie di cordone sanitario intorno a lui, cosicché è riuscito increscioso o fastidioso ai più ricordarne la figura e l’opera. Non appare casuale, ad esempio, che i racconti della storia della resistenza in Piemonte facciano di lui cenni sommari e sfuggenti, non potendo peraltro ignorarne del tutto l’esistenza come vice-comandante di una divisione partigiana e prefetto della Liberazione. Il suo nome non compare negli studi che ricostruiscono, sin nei dettagli più minuti, la storia della Democrazia Cristiana, eppure egli ricoprì incarichi di rilievo a livello parlamentare. Enti e associazioni a cui mi sono rivolto per acquisire notizie utili per l’elaborazione della presente tesi, ricordano o hanno detto di ricordare assai poco di lui. Ho rievocato in precedenza le parole di Mario Berri, Jean Monnet e Oscar Luigi Scalfaro. Esse, sia pure significative e disinteressate, non rendono però piena giustizia a Enzo Giacchero. Giacchero rimase componente dell’Alta Autorità della Ceca sino al 1959. A Lussemburgo il 29 ottobre 1952 sposò Maria Teresa Ferrari, figlia di Francesco Luigi importante esponente del Partito Popolare.67 Dall’unione nacquero quattro figli.

Washington, Monnet affermò premonitore: «Fino a quando l’Europa non sarà un’entità politica, non si avrà statura sufficiente per imporsi agli americani». 67 Francesco Luigi Ferrari era nato a Modena nel 1889 in una famiglia di profonde convinzioni religiose. Avviatosi a una brillante carriera di avvocato, combatté

195 Sappiamo che, fuori dagli impegni pubblici, Giacchero coltivava molteplici interessi, in particolare la poesia e la musica. Compose liriche usando anche la lingua dialettale e improvvisò canzoni sulla tastiera dell’amato pianoforte domestico. Quando era ancora impegnato a Lussemburgo, Giacchero ricoprì dal 1955 al 1957 l’incarico di Presidente onorario e, dal 1957 al 1960, di Presidente effettivo dell’Unione Europea dei Federalisti e del Centro Internazionale di Formazione Europea (Cife).68 Quest’ultimo era nella sostanza una costola dell’Uef: avevano la medesima sede, lo stesso Segretario generale (l’italiano Guglielmo Usellini), persino un unico tesoriere. Col tempo il Cife divenne un’entità indipendente. Nacque come luogo di studio dei problemi dell’integrazione europea e di alta formazione dei futuri quadri dirigenti. A Torino nel 1959 Giacchero fu invitato a tenere la prolusione all’anno accademico dell’Università Popolare Don Orione e parlò sul tema «Il primo esperimento europeo». Negli anni Sessanta accettò la presidenza dell’Institut Européen des Hautes Études Internationales (Iehei). Era un’istituzione privata nata nel 1964 per iniziativa del Cife, della Municipalità di Nizza e della Commissione Europea. Il corpo docente e gli studenti provenivano da molti paesi. Giacchero, «tornato in Italia da Lussemburgo preferì, anche a seguito di divergenze sulla linea politica della DC, dedicarsi alla professione di ingegnere»69 e, di fatto, per un quindicennio non ricoprì cariche politiche ma non rimase certamente inattivo. Certamente, non vide con favore la ricerca di un’intesa con i socialisti, che poi sfociò nei governi di centro-sinistra. Nel maggio 1960 significativamente partecipò a Roma a un convegno organizzato del Centro Luigi Sturzo sul tema «La liberazione dal socialcomunismo». Presiedeva Luigi Gedda, presenti tra gli altri Oscar Luigi Scalfaro (all’epoca Sottosegretario al Ministero dell’interno nel governo Tambroni), , don Gianni Baget Bozzo, Giuseppe Pella, Roberto Lucifredi, Guglielmo Giannini nonché esponenti della destra missina, tra cui Pino Romualdi, Giulio Caradonna, Mario Tedeschi. valorosamente nella Grande Guerra. Assai attivo all’interno del Partito Popolare di don Sturzo, per le sue decise posizioni antifasciste fu vittima di ripetute aggressioni, emigrò infine con la famiglia in Francia dove continuò l’attività di giornalista. Morì prematuramente nel 1933. Il suo archivio privato è stato donato dalla famiglia all’Istituto Sturzo di Roma. 68 Già in precedenza s’era avvertita l’esigenza di dare vita a centri di cultura europea e tra i primi erano sorti il «Collège d’Europe» a Bruges e nel 1952 l’Istituto Universitario di Studi Europei di Torino.

196 Un impegno di tutt’altro genere fu per Giacchero quello legato alle celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia. Nel 1961 Torino organizzò grandiose manifestazioni cui parteciparono tutte le regioni d’Italia, ventuno nazioni e organismi internazionali. Il Comitato nazionale fece propria la sigla di “Italia 61” e s’insediò il 21 luglio 1960 sotto la presidenza di Giuseppe Pella e con Enzo Giacchero come Segretario generale. Sono interessanti queste annotazioni pubblicate nel «Notiziario Italia 61» dell’ottobre 1962: «Per evitare confusione di idee, cominciamo col definire che cos’è un Segretario generale. È colui il quale sa tutto (anche i segreti) di una grande azienda o di un personaggio importante, ne coordina i movimenti e ne esegue gli ordini. Il Segretario Generale di Italia 61 è tutta un’altra cosa. Non rientra nella definizione generale. Italia 61 nacque con un Comitato Centrale, organo collegiale di 40 membri, le cui decisioni dovevano passare alla Giunta Esecutiva per diventare… esecutive. Toccava poi al Segretario generale, coadiuvato dai suoi, l’attuarle. La complessità dei lavori da compiere, la loro urgenza, il poco tempo disponibile, hanno spesso invertito quest’ordine: e cioè il Segretario generale è stato costretto a prendere iniziative rischiose, in attesa di più alte delibere. Il che gli procurò qualche noia. - Se lei, on Giacchero, si trovasse di nuovo di fronte a una stessa impresa l’accetterebbe? - Se per amor di patria, sì. Come lavoro, no. L’amor di patria è un’altra delle belle cose all’antica. Per esso, l’on Giacchero ha perduto una gamba, lui che “amava molto lo sport, soprattutto la corsa veloce e il salto in lungo”.» Enzo Giacchero dopo l’impegnative esperienza di «Italia 61» fu Direttore generale della Società per l’autostrada Torino-Piacenza (Satap) dal 1963 al 1968. L’esigenza di un’autostrada tra Torino e Piacenza, attraverso le province di Asti, Alessandria e Pavia, cominciò a farsi sentire alla fine degli anni Cinquanta. Il 26 luglio 1960 venne perciò costituita la Satap per iniziativa delle province di Torino e Piacenza, del comune di Torino e di altri enti. Dopo che l’Anas ebbe rilasciata la necessaria concessione, il 30 gennaio 1964 iniziarono i lavori nel tratto Santena-Villanova d’Asti. Un primo tratto autostradale fu aperto nel dicembre 1968 e un anno dopo era operativo l’intero tracciato lungo 165 km, comprendente 35 ponti e viadotti, 153 sovrappassi. Giacchero, partecipando nel 1969 a una tavola rotonda, si espresse in questi termini sul problema autostrade: «Io personalmente sono sempre stato dell’avviso del nostro

69 CANAVERO A., Enzo Giacchero, in I deputati piemontesi all’Assemblea Costituente, Milano 1999, p. 209.

197 grande Presidente Einaudi che tutti i monopoli siano da eliminare, compresi quelli che esistono, sia pubblici che privati, ed a più forte ragione in campo autostradale. Più autostrade ci sono, meglio è per tutti, semprechè le autostrade non si costruiscano per ragioni clientelari o per sballati indirizzi politici, ma siano costruite seguendo criteri economici sani e necessità veramente sentite. Le autostrade dei nostri giorni non sono oggetto di lusso, ma sono semplicemente le strade del nostro tempo e quindi se ne devono fare tante quante sono necessarie per costituire la rete indispensabile al nostro tempo.70 Dal 1965 per undici anni Enzo Giacchero fu Presidente del consiglio di amministrazione dell’Ospedale «Santa Croce» di Moncalieri. Al nosocomio furono apportate significative migliorie, con ristrutturazioni e ampliamenti riguardanti diversi reparti. Dal 1971 al 1974 Giacchero ricoprì la carica di Presidente dell’Unione Industriale della provincia di Asti.71 Non possiamo considerare un impegno di tipo politico l’adesione di Giacchero all’Associazione ex-parlamentari della Repubblica, costituita nel 1968 per occuparsi degli interessi materiali e morali degli ex-deputati e ex-senatori e dei loro familiari. L’associazione promuoveva anche visite e incontri con consorelle estere e seminari su temi istituzionali. La partecipazione era assolutamente trasversale, aperta a tutte le forze politiche. Di ben diverso spessore fu l’avvicinamento di Giacchero agli ambienti della destra politica che lo portò ad essere presidente della Costituente di Destra voluta da Giorgio Almirante e dall’«establishment» del Msi – Destra Nazionale «per uscire dal vicolo cieco di un partito ormai rinchiuso in un ghetto politico».72 Il 22 novembre 1975, riunendosi a Roma per la prima volta, la Costituente di Destra radunò oltre mille persone, di ogni ceto e provenienza: docenti universitari, professionisti, operatori economici, alti ufficiali, esponenti della cultura. Ricordò poi Gianni Roberti: «Noi dirigenti di partito avemmo cura di tenerci in disparte, per rendere quanto più possibile innovativa la manifestazione».73 Insieme con personaggi come Mario Tedeschi direttore del settimanale

70 Anche questo scritto mi è stato segnalato dalla sig.ra Ferrari, preziosa custode delle memorie familiari. 71 L’Unione Industriale di Asti non è stata in grado di fornire alcun contributo utile. Di Giacchero è stato a suo tempo pubblicato solamente un breve profilo nel volume Industriali ad Asti (1935-1995). 72 ROBERTI G., L’opposizione di destra in Italia, Napoli 1988, p. 321. 73 Ivi, p. 322.

198 «Il Borghese», Armando Plebe, esponenti monarchici come Alfredo Covelli, presenziarono gli ex-deputati Dc Greggi e Giacchero. Giacchero e Greggi furono nominati rispettivamente presidente e segretario della formazione politica, che dichiarò di voler raggruppare «al di là dello spirito di parte e in nome della riconciliazione nazionale» italiani legati dal comune denominatore dell’anticomunismo e della volontà di reagire alla situazione di crisi generale, causata principalmente dal progressivo slittamento a sinistra della politica italiana. La Costituente di Destra era strutturata in circoli locali, collaterali al Msi – Dn, tanto che alle elezioni del 1976 ci fu la presentazione di liste comuni: il partito storico mise a disposizione le risorse anche economiche e la Costituente di Destra essenzialmente il suo nome. La nascita della «Costituente di Destra» non fu del tutto indolore, perché una frangia collocata alla sinistra del Msi dissentì con forza. Molto peggio avvenne, però, alla fine del 1976 quando il partito patì una pesante scissione, che portò alla nascita di «Democrazia Nazionale». Quest’ultimo è stato definito «un partito nuovo nato vecchio»74 e tuttavia con molte ambizioni. Sebbene annoverasse «tra i suoi protagonisti personaggi esperti di ogni gioco politico e di ogni manovra parlamentare, la sensazione che si ricava analizzando le prime reazioni dell’ambiente politico di fronte alla scissione e le titubanze degli scissionisti stessi è che un passo tanto delicato sia stato fatto senza costruire chiare solidarietà esterne, della destra che su precise garanzie politiche.»75 Fu Giacchero come presidente e legale rappresentante della Costituente di Destra a compiere gli atti formali che legittimarono la costituzione di gruppi parlamentari autonomi di Democrazia Nazionale alla Camera e al Senato, nonostante la strenua opposizione, anche in sede legale, del Msi – Dn. Peraltro non tutta la dirigenza della Costituente di Destra concordò: Giacchero e altri furono accusati di avere fatto un uso abnorme dei poteri statutari. Il simbolo scelto per Democrazia Nazionale fu il tricolore iscritto nelle dodici stelle dell’Europa unita. Piace pensare che Giacchero abbia contribuito a determinare quella scelta. Egli spiegò così la sua scelta di campo: «Ho avuto più volte l’occasione di lamentare l’assenza d’una forza politica che nella presente situazione italiana si assumesse il compito di indicare ai cittadini la via da seguire per evitare i due maggiori pericoli che incombono sul nostro Paese: la massificazione delle coscienze e la perdita della libertà. Questa componente la identificavo e la identifico in

74 BERTAZZOLI G., La destra effimera: la parabola di Democrazia Nazionale, in «Storia contemporanea», 1990, 721. 75 Ivi

199 una organizzazione di Destra democratica che, di là dall’uso nominalistico dell’etichetta, si richiami costantemente al presente ed ai compiti che nel presente pone una società organizzata intorno al consenso popolare, per guardare al futuro e, nel futuro, alla costruzione di un’Italia diversa da quella che vediamo: così ridotta dalle opposte demagogie della DC e della sinistra marxista […] Gli uomini che hanno costituito il partito della Destra democratica, non provengono tutti dalle medesime esperienze e non hanno alle spalle la stessa storia. Nel passato, hanno camminato lungo strade diverse, seguendo ispirazioni e influenze culturali dissimili, come è naturale che accada quando le circostanze impongono scelte individuali dettate soprattutto dalla consapevolezza ad essere comunque presenti, per affermare con la presenza una responsabilità morale e civile. Così, “Costituente di Destra – Democrazia Nazionale” vede affiancati ex-fascisti ed ex antifascisti, liberali d’estrazione crociana, cattolici intransigenti e cristiani soltanto perché battezzati, monarchici per fedeltà all’istituto o per maturata convinzione filosofica, gente che ha partecipato alla resistenza e gente che ha militato nella RSI. […] Chi scrive non dice queste cose da oggi. Chi scrive ha vissuto sulla propria pelle e nel profondo della propria coscienza il dramma della guerra, combattuta con lealtà e in ispirito di servizio da rendere alla patria; e il dramma ancora più lacerante della guerra civile, affrontata per fedeltà a un giuramento e per opporsi alle prevaricazioni d’uno straniero che s’accampava come occupante. Ma l’essere stato buon soldato in guerra, buon partigiano nella resistenza, era, per chi scrive, unicamente un modo, e sia pure un modo purtroppo traumatico di affermare il principio che ogni scelta è scelta di libertà soltanto se costa sacrificio interiore e se si pone come conquista morale. […] Come stupire che uomini come il sottoscritto abbiano sentito e sentano il dovere di mettere la propria esperienza e la propria buona fede al servizio d’una componente politica, la cui assenza ha disgraziatamente pesato in termini negativi sulla situazione italiana? Che il Paese abbia bisogno d’una Destra moderna, culturalmente aggiornata, sicuramente democratica ma altrettanto sicuramente non infeudata agli utopismi della massificazione, alla cui suggestione sacrificano ormai tutti i partiti, compreso il liberale, a me sembra indubbio […] Perciò, è necessario risvegliare gli animi e chiamare a raccolta tutte le energie. Perciò è nata «Costituente di Destra – Democrazia Nazionale». Un grande compito ci attende. Riusciremo a compierlo soltanto se sapremo parlare con umiltà e con chiarezza a tutti gli italiani che intendono continuare ad essere cittadini di un Paese libero, in un’Europa libera» («Democrazia Nazionale», n. 1 del 17 aprile 1977). Il nuovo partito voleva presentarsi come forza di riserva per una maggioranza alternativa al compromesso storico. Al di là dei numeri, Democrazia Nazionale riuscì ad

200 ottenere poco credito dagli altri partiti e nessun consenso significativo da parte degli elettori. Come ha scritto Piero Ignazi, poteva una «leadership certo prestigiosa per capacità politica e per antiche battaglie, ma lontana dalla piazza, più ascoltata in Parlamento dagli avversari che in sezione dalla base, candidarsi a gestire un partito che le è in larga parte ignoto ed ostile?».76 Secondo l’onorevole Gianni Roberti, «fu soprattutto in campo internazionale che potemmo avvertire un vero e proprio salto di qualità: per la prima volta ci fu possibile presentare negli organismi internazionali, ufficialmente e non più sotto il profilo di private amicizie o relazioni personali, un partito che rappresentava la destra politica italiana, ed affiancarlo autonomamente, come tale, alle altre analoghe formazioni politiche dei paesi occidentali.»77 Giacchero ricopriva la carica di presidente d’onore del partito e scrisse sul periodico «Democrazia Nazionale» molti articoli di commento politico, caratterizzati dal tradizionale anticomunismo e da «vis» polemica verso gli avversari con toni sarcastici sino al dileggio personale. Qualche suo giudizio esplicito: «calamità naturale, eccellente tribuno ma pessimo politico» (Pietro Nenni), «è tutt’altro che un’aquila» (Pierluigi Romita), «inesistente, utilizzato solamente quando la Dc deve dire domenicali sciocchezze» (Benigno Zaccagnini), «teorizzatore e realizzatore dell’infausto centrosinistra» (), «piccolo ducetto» (), «pazzarellone, se è vero quello che molti vanno dicendo, che l’Italia sta diventando un manicomio, la Repubblica non potrebbe avere un rappresentante più qualificato» (Ugo La Malfa).78 Il primo congresso nazionale di Democrazia Nazionale fu indetto per i giorni 20-22 aprile 1979 ma l’anticipato scioglimento delle Camere bloccò tale iniziativa e impose al raggruppamento di affrontare un difficilissima prova elettorale quando era ancora in fase di organizzazione embrionale. Nelle elezioni politiche anticipate e nelle prime elezioni dirette del Parlamento Europeo, Democrazia Nazionale ottenne risultati assai deludenti. Le regioni col miglior risultato furono la Sicilia (1,08%) e la Campania (0,99%). Giacchero si candidò ma fu travolto dal disastro generale: nel collegio senatoriale di Cuneo-Saluzzo ottenne 614 voti (0,6%), in quello di Asti 916 (0,7%), a Pinerolo 1505 (0,7%), a Torino 614 (0,6%).

76 IGNAZI P., Il polo escluso, Bologna 1989, p. 178 77 ROBERTI G., L’opposizione di destra in Italia, cit, p. 349. Ciò poté avvenire nel Parlamento Europeo, nel Consiglio d’Europa, nell’Unione Europea Occidentale, ma la battaglia decisiva Democrazia Nazionale la perse in Italia, nelle migliaia di piccoli e grandi comuni, dove invece era assolutamente carente la sua azione. 78 «Democrazia Nazionale», 22 gennaio 1978, 2 aprile 1978.

201 La scelta scissionistica del 1976 si era rivelata verticistica e perdente e la conseguenza del disastro elettorale del 1979 non poteva che essere la fine ingloriosa di Democrazia Nazionale. Nel momento della disfatta tutto sembrò dare ragione ai detrattori del movimento. L’ultimo segretario generale, Pietro Cerullo, arrivò a scrivere che Democrazia Nazionale aveva perso perché «affollata e soverchiata da vecchi tromboni».79 Esauritasi l’esperienza di Democrazia Nazionale, Giacchero si ritirò dall’agone politico. È morto il 26 marzo 2000.

79 BERTAZZOLI G., La destra effimera, cit, p. 725. Secondo l’on. Raffaele Delfino, che fu uno dei massimi esponenti del partito, l’obiettivo era di «fornire agli elettori moderati uno strumento politico nuovo, rispondendo alle esigenze di quanti non tolleravano l’intesa tra democristiani e comunisti, ma al tempo stesso volevano disporre di un soggetto politico interamente presente nella scena nazionale e capace di schierarsi, accettato liberamente dalle altre formazioni». Sull’esperienza di Democrazia Nazionale v. DELFINO R., Prima di Fini, intervista a cura di Marco Bertoncini, Foggia 2004.

202 Bartolomeo Casalis il prefetto “Niente paura!”

203 Bartolomeo Casalis fu ardente patriota e “prefetto di combattimento”. Nato in Piemonte a Carmagnola il 12 novembre 1825, fu allievo del Collegio delle Province di Torino ed ebbe per compagni Quintino Sella, Giovan Battista Bottero, Costantino Nigra, Domenico Carbone, Michele Lessona.1 All’Università «era assiduo alle lezioni di P. A. Paravia, e specialmente a quella riunione settimanale in cui i più eletti ingegni delle diverse facoltà leggevano prose e poesie ispirate a sentimenti italiani e all’odio contro la tirannide; frequentava i convegni che i più liberali tra gli studenti tenevano nelle case ora dell’uno ora dell’altro per leggere segretamente le opere del Mazzini, del Guerrazzi, del d’Azeglio, e nei caffè per vedere i giornali e discutere dell’avvenire della patria».2 Ancora studente partecipò alle ardenti manifestazioni del 1847-48 con le quali si invocarono in Piemonte riforme politiche e sociali. Si guadagnò fama di agitatore anche per una caratteristica somatica: «Era il più lungo degli studenti di tutta l’università. In qualunque folla, al di sopra del livello comune s’ergeva la sua testa rotonda, bruna, riccioluta, vivace, illuminata da due occhi neri come carbone, ornato il mento d’una barbetta crespa, piena di risoluzione e di forza».3 Allo scoppio della prima guerra d’indipendenza si arruolò nella compagnia dei bersaglieri studenti, insieme con Nigra e Carbone, quest’ultimo autore della notissima satira Re Tentenna. Dopo la sfortunata conclusione del conflitto, completò gli studi di giurisprudenza ed iniziò ad esercitare l’avvocatura, non trascurando l’attività di pubblicista sulla “Gazzetta del Popolo”, fondata nel giugno 1848 dall’amico Bottero4. Casalis sostenne le più significative battaglie del giornale, per la liberazione di Garibaldi arrestato a Chiavari, l’abolizione del foro ecclesiastico e l’erezione di un obelisco a ricordo della legge Siccardi dell’8 aprile 1850, la sottoscrizione di “Cento cannoni per Alessandria”. Nel 1858 fu eletto deputato di Caselle.5 L’anno successivo organizzò il comitato di soccorso dei volontari della seconda guerra d’indipendenza, poi ebbe incarico in Emilia di Consigliere di governo con . Nell’estate 1860 era in Sicilia, col pro- dittatore Depretis impegnato in un compito di straordinaria delicatezza e difficoltà e cioè

1 Bottero e Carbone erano studenti di medicina, Nigra e Casalis di legge (v. AMICUCCI E., G. B. Bottero giornalista del Risorgimento, Torino 1935; BORELLI P., Costantino Nigra, Cavallermaggiore 1992). 2 MANTELLINO G., La scuola primaria e secondaria in Piemonte e particolarmente in Carmagnola, Carmagnola 1909, p. 241. 3 BERSEZIO V., I miei tempi, Torino 1931, p. 150-151. 4 Allora i giornali erano destinati ad un pubblico colto e perciò ristretto. Con una tiratura di ventimila copie la “Gazzetta del Popolo” fu, per parecchi anni, il più diffuso quotidiano italiano oltre che di Torino dove, dopo l’Unità, il lettore poteva scegliere tra 23 quotidiani.

204 affrettare l’annessione dell’isola al Regno di Sardegna, secondo il progetto cavouriano.6 Nell’ottobre 1860 Casalis fu incaricato di precedere il re Vittorio Emanuele che alla testa dell’esercito si dirigeva al Sud, compiendo una solitaria e pericolosa escursione con destinazione Napoli. Preziose le informazioni raccolte sulle condizioni delle zone attraversate. Come gli altri piemontesi arrivati nel Mezzogiorno, ne ricevette un’impressione non favorevole: «In mezzo all’apatia generale credo che in niun paese si giuochi l’intrigo con maggiore finezza. In nessun paese più che in questo il bene e il male, il patriottismo e l’egoismo, la franchezza e l’ipocrisia trovano modo di abbarbicarsi alla stessa pianta, in guisa che riesce difficile distinguerli». Farini, Nigra ed Eugenio di Savoia-Carignano lo vollero come collaboratore durante il loro travagliato soggiorno napoletano. Le sue doti di coraggio risaltarono prima in provincia di Avellino contro elementi filo-borbonici, poi quale Commissario straordinario negli Abruzzi. Gli strapazzi di quei mesi lo fecero ammalare gravemente e fu sul punto di morire. Nel giugno 1861 fu nominato Intendente di Pontremoli ed entrò così nell’organico del Ministero dell’Interno. Fu poi a Cesena e, dal 1862 al 1867, Sottoprefetto ad Asti. Nel novembre 1867 fu incaricato di reggere in sede vacante la prefettura di Catania. Era ormai matura la promozione a prefetto ma avvenne un fatto che al momento la compromise. Casalis si lagnò vivamente col ministero di non essere stato avvertito tempestivamente dell’arrivo di un alto personaggio della famiglia reale. Da Firenze lo ammonirono ad essere «più misurato» nelle sue comunicazioni, ma lui ribatté chiedendo di essere sostituito da uno che «meritasse meglio la confidenza del Governo». Il ministro , irritato, decise il suo trasferimento alla Sottoprefettura di Treviglio ma Casalis rifiutò ritenendo di essere oggetto di «degradazione e biasimo». Nelle note personali si legge che «ottenne di essere rimosso ed indi dichiarato dimissionario». Per quasi due anni rimase senza incarichi. Per sua fortuna, aveva una rendita fondiaria di oltre 20.000 lire annue (lo stipendio di un prefetto di terza classe era di 9.000 lire). Se così non fosse stato avrebbe avuto seri problemi a mantenere la moglie Caterina Orsi ed i sette figli di cui quattro femmine.7

5 Ottenne 205 voti contro i 48 dell’avversario avv. Luigi Rubeo. 6 MACK SMITH D., Cavour e Garibaldi nel 1860, Torino 1958. 7 Caterina Orsi era nata nel 1843 e all’epoca del matrimonio aveva solo 16 anni. La figlia Gina sposò Giulio Douhet autore de Il dominio dell’aria, classico del pensiero militare moderno.

205 Alla fine del 1869 fu incaricato dal ministro Lanza di reggere la prefettura di Catanzaro. Qualche mese dopo arrivò, finalmente, la nomina a prefetto con la conferma in quella sede. Aveva quarantacinque anni, più di altri prefetti coevi. A Catanzaro, Casalis «fu subito sul piede di guerra contro la cattiva tenuta della contabilità della prefettura, contro la piaga del brigantaggio, contro la corruzione degli organi locali sottoposti al suo controllo, contro le supposte mene repubblicane». In effetti, nella primavera 1870 moti insurrezionali avvennero a Pavia e altrove. Nel Catanzarese un gruppo di rivoltosi si scontrò con la forza pubblica e solo dopo lo sbarco di truppe di rinforzo il moto venne represso.8 Risale a quell’epoca l’attribuzione a Casalis del titolo di “Prefetto Niente Paura” per avere pubblicato un manifesto che terminava con la frase: «Coraggio, dunque, e niente paura». Ciò diede origine al soprannome, dapprima usato in senso ironico dagli avversari poi divenuto elogiativo. Nell’estate di quello stesso anno scoppiò un grave contrasto tra il prefetto e il generale Sacchi, comandante la divisione territoriale di Catanzaro. In sostanza, mentre Casalis riteneva probabile un “movimento” garibaldino, il generale lo escludeva e non intendeva, di conseguenza, adottare misure straordinarie. In agosto avvenne un tempestoso colloquio, così narrato da Casalis in una lettera a Giovanni Lanza: «Il generale cominciò a perdere la pazienza ed a dirmi che nel mio ufficio avevo nulla di buono e che in quello di P.S. erano sciocchi che non mi fornivano giuste informazioni e che non conoscevo il paese. Risposi che non pretendevo l’infallibilità, ma il responsabile dell’ordine della provincia era il Prefetto e non accettavo i di lui apprezzamenti sul personale della Prefettura. Egli sempre più irritato mi disse che io potevo ben richiedere ma che lui avrebbe giudicato se fosse il caso il caso di aderire e che, quando l’avesse creduto, non avrebbe ottemperato alle mie richieste. A questo punto anch’io perdei la pazienza e gli dissi che chi rappresentava il Governo nella provincia, che io sapessi, era il Prefetto, che la sua responsabilità era grande e che io avevo il coraggio di assumerla interamente e in date circostanze avrei assunto quella di prendere misure anche contro i generali. Mi rispose che non mi avrebbe dato tempo». Casalis concludeva così: «Al Governo converrà di lasciare in questa provincia il gen. Sacchi o me, secondo il sistema politico che intende di mantenere in questi tempi». Alla fine il militare lasciò Catanzaro e il prefetto commentò

8 PAVONE C., Le bande insurrezionali della primavera del 1870, in “Movimento operaio”, 1956.

206 un po’ crudamente: «Sacchi è un generale che non si farà mai ammazzare per la monarchia».9 A Catanzaro sorsero attriti anche con i rappresentati del Comune e della Provincia. Casalis mirava a reprimere abusi ma difettava di modi concilianti. Il ministro dell’Interno in omaggio al principio di autorità lo sostenne nonostante l’opposizione vivacissima cui era fatto segno. All’inizio del 1872 venne il trasferimento ad Avellino e Casalis scrisse a Lanza: «Sono qua con tutta la famiglia, il che vuol dire senza altra preoccupazione maggiore del pubblico servizio. Non dimenticherò mai che Lei mi ha richiamato alla carriera, e che colla sua giustizia mi ha difeso contro gli intrighi di mezzo mondo».10 Presto anche ad Avellino iniziarono le ostilità con le autorità locali. Crudo il giudizio di Francesco De Sanctis sul piemontese Casalis: «Un gran brav’uomo quello, e che aveva le intenzioni giuste, ma ricordatevi quella sua fronte piccola e stretta e quegli occhi rigidi, come presi dal tetano, e ditemi se c’era lì dentro altro cervello che scarso di fosforo e a idee fisse, rigido come quegli occhi. La quale rigidità chiamano carattere, ed è monomania. E di là veniva quella sua volontà di granito, pari alla sua alpe. Quella testa alpina andò a cozzare contro la testa irpina, dura non meno, dura come quei macigni che incontri in certe strade dei nostri paesi e fanno gridare i piedi.»11 Casalis ottenne invece eclatanti successi nella tutela della sicurezza pubblica con la distruzione delle ultime bande brigantesche. Importante soprattutto l’uccisione di Gaetano Manzo, figura divenuta leggendaria.12 Eppure anche in quell’occasione fortunata Casalis ebbe modo di litigare col comandante militare gen. Pallavicini: «Voleva che io usassi le sue truppe e non i carabinieri; per me preferivo i carabinieri, perché volevo dimostrare al Governo ed a Pallavicini che facevo il servizio con mezzi ordinari di polizia». Leggiamo il rapporto ufficiale dei Carabinieri di Avellino datato 23 agosto 1873.13 «Il Sig. Commendatore Casalis nel giorno 19 fu avvisato che nella notte la banda Manzo avrebbe occupato la Casina Migliano in tenimento di Frigento, e perciò ne fece

9 Il carteggio tra Casalis e Lanza è pubblicato ne Le carte di Giovanni Lanza,a cura di Cesare Maria De Vecchi, vol. 5°, Torino 1937. 10 Le carte di Giovanni Lanza, cit., vol. 8°, Torino 1939. 11 BARRA F., Il “Re Michele” desanctisiano. Michele Capozzi e la vita politica irpina nell’età della Destra, in Miscellanea in onore di Ruggero Moscati, Napoli 1995, pp. 639-640. Un giudizio positivo sull’attività di Casalis in Irpinia è in ZIGARELLI G., Storia civile della città di Avellino, Napoli 1889. 12 D’URSO D., Il brigantaggio ad Acerno. Protagonisti e vicende, Salerno 2002. 13 Il rapporto fu da me pubblicato sulla rivista “Il Carabiniere” nel marzo 1979.

207 comunicazione al Sig. Pecchioli14 precisandogli l’ora delle 5 antimeridiane del 20 per quella dell’assalto. Ai punti designati di riunione trovossi egli con un nucleo di sessanta Carabinieri, n. 30 Soldati del 50° Fanteria comandati dal Tenente Benvenuti Sig. Melchiorre, e quindici Bersaglieri del Presidio di Montella comandati dal Sottotenente Berti sig. Bartolomeo ma l’assalto alla cennata Casina quantunque eseguito a puntino risultò senza frutto, perché i briganti che realmente eravisi recati nella notte, avvisati dal figlio del colono che nel susseguente giorno vi si sarebbe condotto il padrone, sloggiarono tosto portandosi altrove. Intanto il Sig. Prefetto a circa le ore 11 pom. del 19 muoveva da qui col Capitano Sig. Pistis, pochi Carabinieri e Guardie di P.S., e giungeva sul posto appena il Tenente Pecchioli compiva la sua operazione, rimanendo tutti addolorati dallo sconforto che il colpo era venuto fallito. L’intelligenza del prefetto, la sicurezza in lui della bene ordita rete risvegliò in tutti il nobile ardire, ed infatti dopo alquanti minuti ebbe delle nuove tracce e dopo qualche ora la certezza che il Manzi con tutta la banda trovavasi rinchiuso nel Casino Grella. Ripiegarono tutti su Frigento dove il Capitano Pistis preso egli il comando superiore divise le forze in tre colonne, cioè: quella del centro comandata da lui avendo a dipendenza il Tenente di fanteria, quella della sinistra dal Tenente Pecchioli e l’altra destra dal Sottotenente dei Bersaglieri. Questo avveniva alle ore 3 pom.; e messesi le colonne in marcia ciascuna per la sua direzione giungevano sul posto quasicché contemporaneamente le due colonne quella del capitano che presentavasi per la prima di fronte alla porta d’ingresso del Casino, e quella del Tenente Pecchioli su di un fianco; dopo circa un dieci minuti quella dei Bersaglieri forse per maggiore ostacoli incontrati nella marcia. I briganti all’apparire della Forza l’accolsero con una grandinata di palle che partivano dalle molte feritoie della Casina, ed appena il Capitano Pistis apparve alla testa di soli cinque suoi Carabinieri, e pel primo spiccossi all’attacco fu tosto ferito al terzo medio della coscia sinistra con una palla da fucile, che credesi esplosagli proprio dal capobanda, corrispondendone il calibro alla carabina dello stesso, e che quantunque siasi internata nella parte carnea, pure per ora è stata giudicata guaribile fra 40 giorni salvo conseguenze: e perciò messo fuori combattimento, e nello stesso mentre dal lato opposto a quello della porta d’ingresso ove eravi una finestra con cancello di ferro partiva un colpo che uccideva all’istante il carabiniere a piedi Caccia Carlo della Stazione di Vallata. Il Sig. Tenente Pecchioli visto il Capitano impossibilitato a reggersi in piedi assunse lui il comando delle forze e la direzione del servizio, e fatta saltare a via di fucilate la toppa della porta della Casina la dischiuse e quindi, dando l’esempio, insieme al Maresciallo d’alloggio a cavallo Gambinossi Dante comandante la Stazione di Avellino,

14 Ufficiale dei Reali Carabinieri.

208 Bianchi Giovanmaria Brigadiere a piedi comandante la Stazione di Vallata furono i primi ad affrontare quegli assassini che ne avvenne un combattimento corpo a corpo.» In una cronaca coeva è narrato qualche altro particolare: «I masnadieri chiesero arrendersi ma appena entrati i Carabinieri erano accolti da una scarica di revolvers, e poi attaccati coi pugnali: fortunatamente le cariche dei revolvers avevano la polvere guasta e non fecero danno ed i Carabinieri risposero colla baionetta così bene che dopo cinque minuti solo tre briganti non erano resi cadaveri. Sopraggiunto allora il Prefetto, ordinò che fosse cessata la strage ed i tre semivivi erano assicurati alla giustizia.»15 Dopo Avellino, Casalis fu prefetto di Macerata dal marzo 1874 all’aprile 1876. Lì si sentiva «confinato in una provincia di soli cinque collegi elettorali». Purtuttavia assicurava Lanza, non più al governo, che teneva un collegio a disposizione per lui.16 Quando nel marzo 1876 cadde la Destra storica, Cesare Correnti si rivolse così a Depretis, nuovo Presidente del Consiglio: «Per carità, non mandar Casalis ove ci sia importanza d’amministrazione e necessità di prudenza»17. E invece Casalis fu mandato a Genova a combattere la coalizione “clericale consortesca”. Nel capoluogo ligure il mondo cattolico faceva sentire la propria presenza,18 così gli internazionalisti ma erano soprattutto i repubblicani a destare preoccupazioni, vieppiù dopo la morte di Mazzini e la tumulazione della salma a Staglieno, meta di continui pellegrinaggi.19 Nel febbraio 1880 Casalis fu destinato a Torino e contemporaneamente arrivò per lui l’ambita nomina a Senatore. Al prefetto non riuscì di convincere il vecchio amico Bottero ad accettare anch’egli il seggio senatoriale offertogli da Depretis. Anni travagliati quelli torinesi di Casalis. Le agitazioni anticlericali sfociarono in una clamorosa contestazione al nuovo arcivescovo Alimonda cosicché Sindaco e Giunta dovettero rinunziare a riceverlo in forma ufficiale, per evitare gravi disordini. Si rafforzavano le organizzazioni operaie e quando, nel dicembre 1884, fu proibito un

15 CARUSO V., Cronache di brigantaggio nel Circondario di Ariano Irpino, in “Vicum”, II (1984), fasc. 2-3, p. 61. 16 Le carte di Giovanni Lanza, cit., vol. 9°, Torino 1940. 17 CAROCCI G., Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Torino 1956, p. 73. 18 La duchessa di Galliera offrì al Papa un milione di lire in ricordo del defunto consorte Raffaele De Ferrari. 19 Ad esempio, il 10 marzo 1879 durante una manifestazione commemorativa furono esibiti stendardi anticristiani compresa l’effige di Lucifero. Un vessillo portato dai repubblicani di Livorno sembrò alle autorità offensivo per le istituzioni ma l’intervento di polizia e carabinieri provocò una durissima reazione e solo una compagnia di fanteria riuscì infine a riportare l’ordine.

209 comizio ne derivarono tumulti, nonostante una delegazione fosse stata ricevuta dal prefetto: furono fracassati lampioni, danneggiate vetture tranviarie, accoltellato un carabiniere. Ancora più clamorosi i disordini universitari del marzo 1885, anche per le ripercussioni che ebbero in altre città. Gli studenti volevano tenere una commemorazione di Mazzini, ma Casalis vietò che fosse fatta di sera. La forza pubblica, intervenuta per impedire la riunione, arrestò alcuni dimostranti. Il mattino successivo si formò un corteo di protesta e, dopo un insoddisfacente incontro col prefetto, i disordini dilagarono. Gli studenti disselciarono il cortile dell’Ateneo per fornirsi di sassi. La forza pubblica li respinse da piazza Castello e sequestrò la bandiera universitaria. Seguirono scontri durissimi. L’università fu chiusa d’autorità. Il corpo accademico indirizzò una protesta al Governo. Dimostrazioni di solidarietà avvennero un po’ in tutt’Italia.20 Alla Camera Depretis difese l’operato del prefetto di Torino e, alla fine dell’anno, fu approvato un regolamento che vietava agli studenti di associarsi, anche fuori dell’università. Un altro avvenimento clamoroso che caratterizzò la permanenza di Casalis a Torino fu il contrasto con Clemente Corte prefetto di Firenze. Nell’ambito di un processo a un faccendiere di nome Strigelli, Casalis in sostanza accusò Corte di avere volutamente lasciato in libertà due lestofanti. La polemica fu durissima ed arrivò presto sui giornali. I due litiganti furono collocati a disposizione, ma una commissione d’inchiesta dette – tra le righe – piuttosto ragione a Casalis, che fu reintegrato nell’incarico.21 Casalis entrò in rotta di collisione con molte persone e col giornalista Roux si arrivò alle soglie del duello, occasione ghiotta per commenti sarcastici.22

20 LANARO S., Alle origini del movimento studentesco italiano, in Ideologie, VII (1969). 21 DEPRETIS A., Discorsi parlamentari, vol. 8°, Roma 1892, pp. 475-479. 22 «Un prefetto che sfida a duello. Il fatto annunziato così, semplicemente, senz’altro, è tale da muovere a riso e sdegno ad un tempo. Il rappresentante della legge che viola la legge, e provoca a violarla. S’è mai visto una cosa simile? È vero che ha mandato le sue dimissioni; ma non erano ancora accettate e non erano definitive. Un bel soggetto per un’operetta: il prefetto si alza la domenica, manda le guardie ad arrestare quelli che vogliono battersi, denunzia la Procuratore del re due che si sono battuti. Il lunedì, il prefetto vuol battersi lui; si cava l’abito gallonato, e dice: non sono più prefetto, e vado a violare tutta la sezione VII del Codice penale. Il martedì, poi, torna prefetto, e fa il processo a tutti, fuorché a se stesso. Il governo chiude gli occhi. E il pubblico fischia» (“L’Illustrazione italiana”, 2 settembre 1883, p. 147).

210 Nel novembre 1885 l’amico Depretis chiamò Casalis a Roma come direttore dei servizi di pubblica sicurezza, una sorta di capo della polizia o poco meno.23 Un avversario politico come Alessandro Guiccioli commentò: «Se Depretis e Casalis si mettono insieme, a fare le elezioni, è poco probabile che i galantuomini possano sperare qualche cosa. Bisognerà rassegnarsi a questo governo di canagliocrazia».24 Nel periodo in cui Casalis fu direttore dei servizi di pubblica sicurezza (sino all’aprile 1887) rimase severa la repressione degli scioperi, che proprio allora s’intensificavano.25 Dopo il collocamento a disposizione e poi in aspettativa – intanto era morto Depretis – Casalis lasciò definitivamente il servizio nel 1891 a 66 anni. Si dedicò all’enologia con passione e successo gestendo la tenuta di Monte Coriolano, a Potenza Picena in provincia di Macerata. Fu anche per parecchi anni Consigliere provinciale e Sindaco di Carmagnola. Quando morì il 13 maggio 1903 il periodico “L’Illustrazione Italiana” lo ricordò con queste parole: «Uomo di combattimento e di azione, Casalis ebbe qualche volta – come si suol dire – i difetti delle proprie qualità, ma nessuno potrà contestare all’uomo che ora si è spento la saldezza dei propositi e del carattere e lo schietto spirito di patriottismo che sempre lo animò e lo guidò». Per iniziativa della civica amministrazione e dei cittadini di Carmagnola, qualche anno dopo la morte fu inaugurata nel palazzo municipale una lapide con questa epigrafe: A Bartolomeo Casalis – che consacrata la vita alla causa d’Italia – combatté nella Legione Universitaria (1848) – forte della fiducia di Cavour dell’amicizia di Garibaldi – della stima di re Vittorio Emanuele II – coadiuvò l’epopea garibaldina – in Sicilia ed a Napoli – Amministratore Legislatore Prefetto – godé sempre la pubblica estimazione – non ebbe paure non conobbe pericoli.26

23 D’URSO D., Ottavio Lovera di Maria e l’organizzazione della pubblica sicurezza, in “Rassegna storica del Risorgimento”, luglio-settembre 2002. 24 GUICCIOLI A., Diario di un conservatore, Milano 1973, p. 131. 25 NEPPI MODONA G., Sciopero, potere politico e magistratura 1870-1922, Bari 1973. 26 Notizie biografiche su Bartolomeo Casalis sono in: LOCOROTONDO G., Casalis Bartolomeo, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 21°, Roma 1978; GUSTAPANE E., I prefetti dell’unificazione amministrativa nelle biografie dell’archivio di Francesco Crispi, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1984 n. 4, pp. 1066-1067; SARTI T., Il Parlamento italiano nel cinquantenario dello Statuto, Roma 1898; RANDERAAD N., Gli alti funzionari del Ministero dell’Interno durante il periodo 1870-1899, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 1989 n. 1, p. 246; FARINI D., Diario di fine secolo, Roma 1961-1962, ad vocem; D’URSO D., I prefetti e la Chiesa, Alessandria 1995, ad vocem; RAPONI N., Tra Stato e società. I prefetti della provincia di Macerata dall’Unità alla riforma Crispi (1860-1889), in Il prefetto nella storia e nelle istituzioni, Macerata 2003, pp. 110-111; MOLA A. A., Storia della massoneria italiana,

211 E così il “Prefetto Niente Paura” ebbe la sua consacrazione definitiva.

Milano 1994; Il Ministero dell’Interno, a cura di Giovanna Tosatti, in L’amministrazione centrale dall’Unità alla Repubblica, Bologna 1992, ad vocem.

212 Indice dei nomi

213 Abba Giuseppe Cesare, 17 Baccelli Guido, 104 Adamoli Giulio, 14-15, 17 Badini Confalonieri Vittorio, 188 Adenauer Konrad, 194 Baget Bozzo Gianni, 196 Agnetta Antonio, 14 Balbo Italo, 139, 146 Agnetta Carmelo, 14-17 Balladore Cesare, 62 Aimo Piero, 63 Bandi Giuseppe, 15, 17, 74 Aimone di Aosta, 152, 156 Baracco Leopoldo, 179, 182 Alatri Paolo, 57, 63, 89 Barbero Gilberto, 176, 178 Alessandrini Renato, 152 Barbiani Giuseppe, 79 Alimonda Gaetano, 209 Barbiera Raffaello, 21 Aliquò Lenzi Luigi, 11 Bardelloni Pietro, 162 Aliquò Taverriti Filippo, 11 Bardesono Cesare, 53, 63, 72, 93 Almansi Abramo, 167 Barile Laura, 96-97 Almansi Dante, 166-171 Baronis Onorata, 31 Almansi Elena, 170 Barosi, 98 Almansi Renato, 168, 170-171 Barra Francesco, 207 Almirante Giorgio, 198 Bartoli Domenico, 95, 117, 121 Alocco Severo, 177 Barzilai Salvatore, 62 Alongi Giuseppe, 61, 74-75, 82-84 Basile Achille, 88, 90, 92-95, 97-100 Amato Domenico, 92, 97, 99 Basile Carlo Emanuele, 99 Amatori Torello, 82 Basile Ferdinando, 99 Ambrosino Lorenzo, 118 Basile Umberto, 99 Amedeo di Aosta, 156 Basile Valentina, 99 Amedeo Renzo, 176 Bastianetto Celeste, 192 Amendola Giorgio, 138 Bastianini Giuseppe, 163 Amendola Giovanni, 138-139 Battioni, 141 Amerio Elvira, 174 Bedendo Emilio, 102 Amicucci Ermanno, 204 Beethoven Ludwig van, 187 Amore Nicola, 53, 75 Behounek Frantisek, 152 Amour, 98 Belinzaghi Giulio, 95 Amundsen Roald, 152-153 Bellerio Giuditta v. Sidoli Giuditta Andreotti Giulio, 185 Bellero Francesco, 176, 178 Annaratone Angelo, 128 Belli Giuseppe, 93 Antinoro, 91 Beltrami, 95 Antonetti Nicola, 56, 122 Benvenuti Lodovico, 192 Aquarone Alberto, 121, 160 Benvenuti Melchiorre, 208 Arduino Ettore, 152 Bernardi Luigi, 178 Armosino Francesca, 64 Berri Mario, 193, 195 Armosino Giuseppe, 179, 184-185 Berruti Domenico, 177 Ascarelli Attilio, 171 Bersezio Vittorio, 204 Astengo Carlo, 77, 102-106 Bertarelli Pietro, 102 Astengo Giacomo, 102 Bertazzoli Gianluca, 199, 202 Augias Corrado, 128 Berti Bartolomeo, 208 Azeglio (d’) Massimo, 30, 204 Berti Luigi, 76, 78

214 Bertillon Alphonse, 126 Cairoli Benedetto, 10 Bertini Cesare, 136 Calamandrei Piero, 191 Bertoncini Marco, 202 Calani Aristide, 56 Bertone Michele, 118 Calcamuggi Matilde, 31 Biagi Giuseppe, 152 Calcamuggi Ottaviano, 31 Biagi Guido, 108 Caldara Emilio, 111-112 Bianchetti Giovanni Battista, 118 Calenda di Tavani Andrea, 47, 63, 85 Bianchi Giovanmaria, 209 Camerani Silvio, 21 Biglioli, 17 Camilla Piero, 178 Binna Manlio, 161 Campagna Giuseppe, 6 Bisi Tommaso, 158 Canavero Alfredo, 193, 196 Bisio Giovanni Battista, 102 Canosa Romano, 82 Bixio Nino, 14-15, 17-18 Cantelli Girolamo, 9, 64 Bocchini Arturo, 77, 141-142, 144 Cantoni Raffaele, 170-171 Bodini Benedetto, 143 Canzio Stefano, 79 Bolis Giovanni, 74, 76-77 Capello Luigi, 142-143 Bolla Gaspare, 103 Capitelli Guglielmo, 55 Bolo Pascià, 127 Capone Alfredo, 56 Bolognesi Roberto, 28 Capozzi Michele, 207 Bombacci Nicola, 128 Cappa Cesare, 46 Bonacina Giorgio, 156 Cappa Domenico, 98 Bonassisi Umberto, 162-163 Cappa Gennaro, 166 Bonghi Ruggero, 17 Cappa Innocenzo, 160, 163 Bonomi Ivanoe, 131, 146, 167 Cappelli Danilo, 178 Borelli Pierfelice, 204 Cappello Antonio, 89 Borgoglio Guglielmo, 177 Capriolo Vincenzo, 39 Borromeo Guido, 30 Caracciolo Alberto, 120 Boselli Paolo, 102 Caradonna Giulio, 196 Bosi Carlo, 64 Caradossi, 141 Bossi Carlotta, 98 Caratti Attilio, 152 Bottai Giuseppe, 163 Carbonara Giuseppina, 158 Bottero Giovan Battista, 204, 209 Carbone Domenico, 204 Brancato Francesco, 18 Carcano Giancarlo, 133 Bravo Anna, 82 Carderina Giacomo, 89 Breda Giovanni, 129 Carlo Alberto, 30 Brunetta Gian Piero, 163 Carmignani Giovanni, 24 Bruni Grimaldi Nicola, 63 Carocci Giampiero, 95-96, 209 Brunialti Attilio, 85 Carpani Pietro, 118 Buzzanca Salvatore, 126 Caruso Vittorio, 209 Casalini Armando, 138 Caccia Carlo, 208 Casalis Bartolomeo, 77, 81, 84, 94, Cacciola Simone, 141 204-211 Cadorna Carlo, 205 Casalis Gina, 205 Cadorna Raffaele, 26, 30, 90 Casati Alessandro, 99

215 Cassese Sabino, 28, 63, 117-118 Corradini Camillo, 129 Cassetti Maurizio, 40, 178 Corradini Toselli Wally, 177 Castellaneta Carlo, 98 Correnti Cesare, 24, 31-32, 209 Castellini Gualtiero, 15, 17 Corte Clemente, 210 Castronovo Valerio, 96, 104 Corso Guido, 74 Cattanei Luigi, 17 Costa Cardol Mario, 21 Cattaneo Pio, 44-45, 47-48 Coudenhove-Kalergi Richard, 187-188, Cattani Leone, 190 193 Cavalieri Enrico, 118 Covelli Alfredo, 198 Cavallini Filippo, 127 Cozzolino Antonio, 37, 54 Cavallotti Felice, 17, 79, 95 Crenna Mario, 73 Cavour Camillo Benso, conte di, 7, 20, Crespi Silvio, 128 24, 50, 98, 205, 211 Crimi, 148 Cecchi Eugenio, 21 Crispi Francesco, 14, 18, 24, 26-28, 40, Cecchi Pilade, 81 46, 62, 75, 78, 80, 83, 92, 95-96, 98, Cecioni Natale, 152 211 Cellario Costantino, 118 Crispo Pietro, 137 Celli Gennaro, 95 Crispo Moncada Francesco, 136-139, Cerullo Pietro, 202 141-144, 168 Cervi Mario, 99 Crocco Carmine, 63 Cesari Piero, 149 Croce Benedetto, 106, 191 Cestaro Antonio, 94 Cross Wilbur, 156 Chiaro Carlo, 102 Crupi Isodiana, 11 Chiurco Giorgio Alberto, 113, 134 Cusani Clementina, 73 Churchill Winston, 189 Cialdini Enrico, 41, 51 D’Afflitto Rodolfo, 50-57 Cifelli Alberto, 108, 123, 149, 163, 171 D’Ancona Alessandro, 7 Cilibrizzi Saverio, 48 D’Annunzio Gabriele, 136 Ciocca Calisto, 152 Darwin Charles, 126 Ciuffelli Augusto, 137 De Amicis Edmondo, 91-92 Codronchi Argeli Giovanni, 82-83, 100, De Angelis, 14 108 De Antonellis Giacomo, 149, 171 Colapietra Raffaele, 113-114 De Bono Emilio, 136, 139, 167-168, Coletti Alessandro, 134 170 Colmayer Vincenzo, 54 De Cesare Carlo, 8 Colocci Adriano, 17 De Cesare Raffaele, 50, 54, 63, 85, 88 Colombo Giuseppe, 95 De Cristofaro Alberto, 97-98 Colonnetti Gustavo, 174-175, 188 De Curtis Italo, 177 Comandini Alfredo, 48, 81 De Fabritiis Camillo, 118 Consolo Gaetano, 139 De Felice Renzo, 111, 121, 128, 130- Conti Vincenzo, 102 131, 134, 149, 161, 169, 171 Coppino Michele, 9 De Ferrari Giuseppe, 75 Cordola Luigi, 130 De Ferrari Raffaele, 209 Cornero Giuseppe, 45

216 De Gasperi Alcide, 180, 182, 184-185, Fabbri Federico, 44 190, 192-194 Fabbricotti Carlo Bernardo, 22 De Giorgio Giovanni, 28 Facta Luigi, 113, 121, 131, 137, 147, De Gregorio Pietro, 88, 90, 94, 100, 167 103 Falcioni Alfredo, 120 De Gubernatis Angelo, 11, 85 Fanfani Amintore, 201 De Leonardis Massimo, 186 Farini Domenico, 211 De Luna Giovanni, 178 Farini Luigi Carlo, 50, 63, 72, 205 De Majo Silvio, 56 Farneti Paolo, 117 De Nicolò Marco, 100 Fedele Pietro, 100 De Riseis Giovanni, 168 Federzoni Luigi, 114, 123, 136, 138, De Sanctis Francesco, 6, 62, 207 143-144 De Vecchi Cesare Maria, 56, 84, 91, Felisatti Massimo, 79 207 Ferdinando II, 6, 18, 24 Del Bo Dino, 194 Ferenzona Giovanni Gino, 73 Del Cerro Emilio, 28 Ferraioli, 36 Delfino Raffaele, 202 Ferrarello Gaetano, 148 Dell’Arte Franco, 162 Ferrari Antonio, 70 Della Rovere Alessandro, 88 Ferrari Bernardo Carlo, 63-68, 64, 70 Dentoni Maria Concetta, 109 Ferrari Carlo, 70 Depretis Agostino, 17-18, 24, 62, 65, Ferrari Francesco Luigi, 195 78, 81, 95-96, 100, 104-106, 108, 205, Ferrari Maria Teresa, 174, 195, 198 209-211 Filippi Bruno, 129-130 Dezza Giuseppe, 15 Finali Gaspare, 11, 72 Di Domenico Edoardo, 127 Fini Gianfranco, 202 Di Guglielmo Michele, 140 Finocchietti Francesco, 40 Donati Lorenzo, 129 Finzi Aldo, 136 Dondi Mirco, 178 Fiorentino Fiorenza, 83 Doria Gino, 11 Flores Enrico, 112, 118, 129, 131, 149 Douhet Giulio, 205 Foà Ugo, 166 Duggan Christopher, 149 Foa Vittorio, 174 Dunne John William, 25, 27 Fontana Edoardo, 75 D’Urso Donato, 30, 36-37, 39, 63-64, Fonzi Fausto, 95-96 72, 76-77, 79, 88, 93-94, 108, 110, Formiggini Gemma, 167 114, 129, 144, 207, 211 Formigoni Guido, 186 Forni Cesare, 133 Einaudi Giulio, 174 Forno Mauro, 179 Einaudi Luigi, 197 Fossati, 45 Eisenhower Dwight, 194 Francesco II di Borbone, 50, 52 Ellero Umberto, 127 Francesco Giuseppe d’Austria, 159 Errante Vincenzo, 106 Franchetti Leopoldo, 93 Escoffier Carlo, 44-47, 93 Franzé Sante, 118 Eugenio di Savoia-Carignano, 205 Franzini Tibaldeo Paolo, 63 Eula, 128 Frezzini Luigi, 63

217 Fried Robert C., 177, 180 Gloria Francesco, 76 Fucci Franco, 133-134 Gobetti Piero, 138 Fusconi Sebastiano, 44-45 Gonella Guido, 191 Fusi Valdo, 174 Goretti Maria, 27 Goria Giuseppe, 41 Galante Garrone Carlo, 180-181 Govone Giuseppe, 89 Galati Domenico, 95 Gramsci Antonio, 129, 141 Galletti Onofrio, 76 Grandi Dino, 136 Gallo Carrabba Angelo, 89 Greco Ludovico, 64 Galluppi Pasquale, 6 Greggi Agostino, 198 Galton Francis, 126 Grella Edoardo, 94 Gamba Aldo, 177 Grilli Umberto, 182 Gambi Lucio, 28 Grillo Maria Melania, 126 Gambinossi Dante, 208 Griscelli Giacomo, 17 Garibaldi Giuseppe, 7, 15, 25, 27, 40, Gualino Renato, 174 50-52, 64, 73, 159, 204-205, 211 Gualterio Filippo Antonio, 89 Garosci Aldo, 190 Guastalla Ferruccio, 82 Gasti Giovanni, 126-134, 141 Guerrazzi Francesco Domenico, 204 Gasti Giuseppe Gaspare, 126 Guerzoni Giuseppe, 40 Gatti Luigi, 102 Guêze Raoul, 117-118 Gatto Alfonso, 154 Guglianetti Francesco, 72-73 Gattorno Federico, 79 Gui, 62 Gazzelli Paolo, 73 Guicciardi Diego, 158 Gedda Luigi, 196 Guicciardi Gina, 27 Gentile Giovanni, 175 Guicciardi Giulio, 158 Gerlach Rodolfo, 127 Guicciardi Guiscardo, 158 Geuna Silvio, 176 Guicciardi Luigi, 158-160 Ghezzo Emilio, 45 Guicciardi Maria, 158 Ghiglia Mariangela, 178 Guiccioli Alessandro, 106, 211 Giacchero Enzo, 174-199, 201 Guizzi Vincenzo, 192 Giacchero Remo, 174 Gustapane Enrico, 18, 63, 85, 92, 94, Giacchero Silvio, 174 117, 211 Giacchero Vincenzo, 174 Giannetto Marina, 114 Herschell William, 126 Giannini Guglielmo, 183, 188, 196 Hope Adrian, 177 Giarelli Francesco, 82, 95, 98 Hughes Steven C., 75, 83 Gibson Violet, 143 Giolitti Giovanni, 8, 70, 77, 83-84, 112, Ignazi Piero, 200 117-118, 121, 127, 131, 159-160, 167 Infranca Antonino, 149 Giovenco Giuseppe, 102 Introna Salvatore, 140 Giuffrida Orazio, 118 Inzaghi Virginio, 163 Giunta Francesco, 137 Isabella di Spagna, 20 Giuriati Domenico, 28 Giuriati Giovanni, 137 Jarach Federico, 169

218 Jemolo Arturo Carlo, 191 Lucchesi Oreste, 74 Jung Guido, 168 Lucchetti Pietro Alberto, 63 Lucetti Gino, 143-144 Kappler Herbert, 166 Luciani Matteo, 94 Kuliscioff Anna, 110, 112, 139 Lucifredi Roberto, 196 Lundborg Einard, 153 Labriola Arturo, 113 Luporini Giovanni, 139 Lacava Pietro, 16 Luria Salvatore, 174 Lafarina Giuseppe, 106 Lusignoli Aldo, 122 Lago Ugo, 152 Lusignoli Alfredo, 131 Lajolo Davide, 174, 183 Luzio Alessandro, 22, 41 Lajolo Laurana, 182, 184 Luzzatto Carlo Vittorio, 118 La Malfa Ugo, 191, 193, 201 La Marmora Alfonso, 35, 40, 46, 51-53, Macaluso, 91 55 Maccia Raimondo, 46, 48 Lanaro Silvio, 210 Mack Smith Denis, 205 Lanza Giovanni, 45, 47, 53-56, 60, 84, Maddalena Umberto, 153 90, 93, 206-207, 209 Maffi Antonio, 95 Lapolla Francesco, 141 Magliani Agostino, 104, 108 Lavarello Francesco, 14 Maioglio Primo, 177 Lazzari Costantino, 128 Majolo Molinari Olga, 11, 104 Leonardi Francesco, 77, 127 Malatesta Alberto, 85, 100, 122 Lessona Michele, 204 Malatesta Errico, 131 Levi Carlo, 191 Malfatti Franco Maria, 194 Librino Emanuele, 18 Malmgren Finn, 152-154 Limoncelli Mattia, 75 Malvestiti Piero, 194 Linguiti Alfonso, 116 Mancini Pasquale Stanislao, 104 Linguiti Francesco, 116 Mancusi Giuseppe, 93 Locorotondo Giuseppe, 211 Manfredi Marco, 18 Lodolini Elio, 11 Mantellino Giacomo, 204 Lombardi Riccardo, 180 Manzo Gaetano, 36, 93-94, 207-208 Lo Presti Giorgio, 163 Manzoni Alessandro, 50 Lovera di Castiglione Carlo, 72, 85 Marabelli Alfonso, 158 Lovera di Maria Amelia, 73 Maramotti Benedetto, 46 Lovera di Maria Enrico, 73 Marchesiello Carlo, 62 Lovera di Maria Federico, 73 Marconcini Gaspero Emilio, 180 Lovera di Maria Federico Costanzo, 72 Marcora Giuseppe, 95 Lovera di Maria Giuseppe, 72 Marenghi Enzo Maria, 62 Lovera di Maria Lydia, 73 Margherita di Savoia, 9, 106 Lovera di Maria Ottavio, 72-74, 77, 79, Mariani Giuseppe, 131, 134 81, 84-85, 211 Mariano Adalberto, 152-156 Lovera di Maria Paola, 73 Mariano Giuseppe, 154 Lovisolo Giacomo, 163 Marinelli Giovanni, 131 Lovito Francesco, 74 Marinetti Filippo Tommaso, 110, 130

219 Marini Gabriella, 28 Montessori Maria, 191 Marius, 82 Monti Antonio, 48, 81, 89 Marshall George, 184-186 Monti Augusto, 174 Martino Edoardo, 103 Montini Lodovico, 192 Marzano Giuseppe, 141 Morana Giovanni Battista, 74, 79 Marziali Giovanni Battista, 63 Moravia Alberto, 191 Masini Pier Carlo, 74 Morelli Emilia, 18 Massari Giuseppe, 64 Morelli Salvatore, 91 Mathieu Antonio, 41 Mori Cesare, 126, 146-149 Matteotti Giacomo, 136, 170-171 Mori Felice, 146 Mauro Domenico, 6, 11 Moro Aldo, 201 Mazzini Giuseppe, 6, 24, 28, 51, 54, 81, Mosca Gaetano, 44, 61-62, 75, 84 204, 209-210 Moscati Amedeo, 94, 116 Mazziotti Matteo, 16 Moscati Enrico, 39 Mazzoni Guido, 11 Moscati Ruggero, 207 Mazzucchelli Edoardo, 78 Mosconi Antonio, 137 Medici Giacomo, 84 Motta Riccardo, 141 Melis Guido, 28, 82, 103, 116-119, Mozzarelli Cesare, 120 121-122, 149, 160 Muggia Giuseppe, 170 Menabrea Luigi Federico, 26, 46, 48 Municchi Carlo, 96 Mengoni Giuseppe, 98 Munzani Pietro Doimo, 163 Meniconi Antonella, 122 Murgia Giambattista, 45 Merlino Francesco Saverio, 96 Mussi Giuseppe, 95 Merolli Anna, 7 Mussolini Benito, 77, 110, 113, 120- Micaelis, 98 121, 123, 128, 130-134, 136, 138, 141- Mila Massimo, 174 144, 147-149, 154, 161, 167-168 Minghetti Marco, 30 Mira Giovanni, 149 Nada Narciso, 89 Miraglia Biagio, 6-11 Napoleone III, 20 Miragoli Livia, 22 Nasalli Rocca Amedeo, 45, 60, 83 Miranda Luigi, 142 Nathan Giuseppe, 167 Misasi Nicola, 11 Negri Gaetano, 95 Misiano Francesco, 136 Nenni Pietro, 183, 185, 190, 201 Missori Mario, 18, 28, 48, 57, 134, 171 Neppi Modona Guido, 80, 178, 211 Moggi, 39 Nespor Stefano, 120 Mola Aldo Alessandro, 117, 156, 211 Nicolis di Robilant Carlo Felice, 47 Molfese Franco, 40, 51 Nicotera Giovanni, 7, 9, 16, 74, 100 Momigliano Arnaldo, 167 Nigra Costantino, 64, 204-205 Moncada Elena, 137 Nitti Francesco Saverio, 112-113, 116, Monelli Paolo, 142 119-120, 128-129, 131, 137, 167 Monghini Antonio, 45 Nobile Osvaldo, 118 Monnet Jean, 193-195 Nobile Umberto, 152-154, 156, 188 Montanaro Piero, 179 Nola Gennaro, 41 Montanelli Indro, 99 Nolli Rodrigo, 56

220 Olivetti Adriano, 190 Perelli Giannotto, 154 Olivieri Carlo, 118 Perilli Adolfo, 143 Orazi Renata, 162 Perla Luigi, 57 Orazi Vezio, 160-163 Pertini Sandro, 139, 186 Orazio Flacco Quinto, 98 Peruzzi Ubaldino, 31, 39, 51-52, 63 Oriani Alfredo, 90 Pesce Angelo, 108-114, 128, 131 Orlando Vittorio Emanuele, 109, 127, Pesce Gherardo, 108 129, 131 Petacco Arrigo, 149 Orsi Caterina, 205 Petitti Bagliani di Roreto Agostino, 40 Orsini Felice, 9 Pettinengo Ignazio, 88 Orsolini Elisabetta, 70 Pettoleti Clara, 126 Orsolini Pietro, 10 Pezzana Aldo, 122, 156 Ortona Egidio, 163, 194 Pezzino Paolo, 28 Ostinelli Anna Rita, 95 Pica Giuseppe, 35 Ottolenghi Salvatore, 82, 127 Pilati Gaetano, 139 Pilone v. Cozzolino Antonio Pacciardi Randolfo, 196 Pinelli Giuseppe, 62 Pacifici Vincenzo, 75, 89 Pinelli Tullio, 174 Pacini, 54 Pinna Felice, 89 Padovani Aurelio, 113 Pio XI, 152, 183 Padula Vincenzo, 6, 11 Pironti Alberto, 102, 114, 116, 118-123 Padulo Gerardo, 108-109, 111-112 Pistis Raimondo, 208 Pagliani Luigi, 81 Pistone Sergio, 186 Pajetta Gian Carlo, 174, 185 Platone Felice, 177-178, 182-183 Pallavicini di Priola Emilio, 207 Plebe Armando, 198 Paloscia Annibale, 127 Podestà Agostino, 63 Pandola Ferdinando, 55 Pomella Vincenzo, 152 Pandola Giulia, 51 Ponta Paolo Giuseppe, 63 Paolella Roberto, 163 Ponti Ettore, 95, 129 Paravia Pier Alessandro, 204 Pontremoli Aldo, 152 Parri Ferruccio, 189-191 Ponza di San Martino Gustavo, 64 Pasolini Giuseppe, 46, 48, 100 Porro Angelo, 123 Passannante Giovanni, 9, 77 Porto Salvatore, 149 Passaretti Gennaro, 41 Prati Giovanni, 7 Passerin d’Entrèves Alessandro, 180 Puozzo Angelo, 63-64, 70 Passoni Luigi, 180 Pastorino Giacomo, 177 Quaranta Vincenzo, 129 Pavese Cesare, 174 Quasimodo Salvatore, 190 Pavone Claudio, 180, 206 Pecchioli Virginio, 208 Ragionieri Ernesto, 57 Pedini Mario, 192 Ragnisco Leonida, 118 Pella Giuseppe, 194, 196 Rainero Vittorio, 177 Pellico Silvio, 20 Ramaccini Elfrido, 141 Pelloux Luigi, 77 Ramognini Ferdinando, 76

221 Randeraad Nico, 10-11, 85, 90, 100, Rossi Ernesto, 190 102-103, 109, 211 Rossi Giuseppe, 76 Ranieri Ruggero, 192 Rossi Luigi, 36, 94 Rapone Leonardo, 192 Rossi Virgilio, 82 Raponi Nicola, 211 Rossini Giuseppe, 171 Rattazzi Maria Letizia, 31 Rossini Teresa, 20 Rattazzi Urbano, 21, 33, 39-41, 51, 60, Rotelli Ettore, 117 126 Roux Luigi, 210 Rattazzi Urbano jr., 95 Rovito Teodoro, 108 Ravasio Giuseppe, 82 Rubeo Luigi, 204 Ravenna Filippo, 141 Rudinì Antonio Starabba, marchese di, Reale Francesco, 37 27, 63, 89, 100 Regli Francesco, 22 Ruffilli Roberto, 118 Reifeld, 37 Russo Giovanni, 109 Renato Giuseppe, 82 Riall Lucy, 90 Renaud de Falicon Ottavia, 72 Renosio Mario, 179 Sabbatini, 141 Repaci Antonino, 113 Sacchi Gaetano, 206-207 Revere Giuseppe, 7 Saija Marcello, 149 Ricasoli Bettino, 31, 36, 75 Salandra Antonio, 36, 61 Ricciardi Giuseppe, 54 Salimbeni Teresa, 108 Righini, 89 Salvadori Rinaldo, 79 Rivas Adelaide, 94 Salvarezza Carlo, 106 Rizzo Giovanni, 134 Salvarezza Cesare, 102 Rizzo Maria Marcella, 100 Salvatorelli Luigi, 149 Rizzo Mario, 142 Salvemini Gaetano, 62, 110, 118, 130, Roberti Gianni, 198, 201 134, 138-139, 191 Rocca Giovanni, 178 Salzano, 36 Roccia, 177 Samoilovic, 153, 156 Rogani Giannetto, 162 Sandri Giorgio, 103 Rogier Francesco Luigi, 48 Sanna Carlo, 137 Roissard de Bellet Leonardo, 31 Santagostino Antonio, 98 Roissard de Bellet Maria, 31 Saracco Giuseppe, 68 Rolandi Ricci Ottavio, 73 Saraceno Pietro, 38 Romagnoli Michele, 70 Saracini Emilio, 127 Romanelli Raffaele, 48, 85, 103 Saredo Giuseppe, 105-106, 108-109 Romani, 10 Sarti Telesforo, 28, 57, 85, 88, 103, Romano Liborio, 50 211 Romano Paolo v. Alatri Paolo Sartori Eugenio, 79 Romita Giuseppe, 180-181, 191 Sauvet Emilia, 17 Romita Pierluigi, 201 Savino Edoardo, 122, 138, 149 Romualdi Pino, 196 Sbarbaro Pietro, 104-106 Ronchi Filippo, 48 Scalfaro Oscar Luigi, 193, 195-196 Rossi Cesare, 126, 136 Scelsi Giacinto, 24-28

222 Schanzer Carlo, 102, 121 Spinola Francesco, 64 Schuman Robert, 191 Spreti Vittorio, 72 Schutz Kurt, 166 Spriano Paolo, 128 Sciacca Gaetano, 82 Sterle Mario, 159 Scirocco Alfonso, 57 Stopiti Giuseppe, 85 Scorza Carlo, 138 Strigelli Eugenio, 210 Scotti Alessandro, 182 Sturzo Luigi, 138, 174, 191, 195 Sella Quintino, 204 Suardo Giacomo, 133, 159 Sensales Giuseppe, 76, 82, 88 Sepe Stefano, 57, 119 Taddei Paolino, 131-132 Serafini Luigi, 48, 93 Tambroni Fernando, 196 Serenelli Alessandro, 27 Tancredi Michelangelo, 78 Serio Mario, 94 Taradel Alessandro, 117 Serrati Giacinto Menotti, 128 Tassoni Celso, 142 Serravalle Paolo, 20 Taviani Paolo Emilio, 193 Settembrini Luigi, 6, 108 Tedeschi Mario, 196, 198 Settimo Ruggero, 50 Tessitore Giovanni, 149 Sforza Carlo, 189 Testori Silvana, 178 Siccardi Giuseppe, 204 Thaon di Revel Paolo, 123 Sidoli Achille, 24 Toaff Elio, 169 Sidoli Corinna, 24-25, 27 Togliatti Palmiro, 140, 185 Sidoli Elvira, 24 Togni Giuseppe, 193 Sidoli Giovanni, 24 Tomasi di Lampedusa Giuseppe, 156 Sidoli Giuditta, 24, 27-28 Tommaseo Niccolò, 10 Sidoli Maria, 24 Torelli Luigi, 89-90 Signori, 141 Torre Ada, 170 Siliprandi Francesco, 79 Torta Giovanni, 177 Silone Ignazio, 190-191 Tosatti Giovanna, 78, 82, 118, 134, 212 Sinigaglia Oscar, 193 Toscanelli Peruzzi Emilia, 31 Sirianni Giuseppe, 154 Toscanini Arturo, 110 Sola Giorgio, 75 Toselli Giovanni Battista, 176 Solera Antonio, 20 Tosi Luciano, 192 Solera Temistocle, 20-22, 44 Toulouse-Lautrec Henry de, 97 Sonnino Sidney, 93 Tringali Sebastiano, 82 Soragni Agostino, 72 Trionfi Carlo, 60 Sorcinelli Paolo, 80 Trojani Felice, 152, 156 Sormani Moretti Luigi, 72 Truman Harry Spencer, 186 Spadolini Giovanni, 9 Trupiano Giacinto, 162-163 Spanò Aristide, 149 Tuköry Luigi, 15 Spano Giuseppe, 120 Turati Augusto, 144 Spaventa Silvio, 8, 51, 57, 63, 75 Turati Filippo, 97, 110, 112, 139 Spetia, 141 Spinelli Altiero, 190, 194 Ugolini Romano, 89 Spinelli Antonio, 50 Umberto I, 9, 77

223 Umberto II, 156, 168 Zoccoletti Riccardo, 113 Ungaretti Giuseppe, 190 Zola Émile, 97 Usellini Guglielmo, 196 Zoli Corrado, 102, 122 Zolli Israel, 166 Vaccari Marcello, 63 Zoppi Angelica, 40 Valerio Giacinto, 177 Zoppi Clementina, 30 Valerio Lorenzo, 24 Zoppi Clementina jr., 40 Valobra Lelio Vittorio, 169 Zoppi Enrico, 30 Valpreda Armando, 184 Zoppi Enrico jr. 40 Vannutelli Vincenzo, 136 Zoppi Giovanni Antonio, 31 Varone, 36 Zoppi Giovanni Antonio jr., 40 Veglio di Castelletto Emilio, 63-64, 66- Zoppi Matilde, 40 68, 72 Zoppi Ottavio, 30 Veglio Luisa, 63 Zoppi Ottavio jr., 40 Venè Gian Franco, 113 Zoppi Vittorio, 30-32, 35-41 Vercellana Rosa, 72, 98 Zucchi Mario, 72 Verdi Giuseppe, 20-21, 44 Zustovich, 137 Vigevano Attilio, 37 Vigliani Giacomo, 127 Vigliani Paolo Onorato, 55, 73, 106 Viglieri Alfredo, 152 Vigo Pietro, 81 Villa Tommaso, 47 Violante Luciano, 40 Visconti Felice, 78 Visconti Venosta Emilio, 72 Vitali Stefano, 178 Vittorini Elio, 191 Vittorio Emanuele II, 17, 21, 25, 33, 40, 63, 72, 111, 205, 211 Vittorio Emanuele III, 99, 140 Vucetich Juan, 126

Wenzel Umberto, 133 Winspeare Antonio, 100

Zaccagnini Benigno, 201 Zaiotti Adriano, 127 Zanardelli Giuseppe, 10 Zaniboni Tito, 142-143 Zappi Filippo, 152-154 Zavoli Sergio, 134 Zigarelli Giuseppe, 207 Zini Luigi, 62

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