2 Prefazione

"L’uomo che non è mai stato in Italia, è sempre cosciente di un’inferiorità." Samuel Johnson

Perché possiamo parlare dell’Italia come Opera Unica? Certo è che in essa sono concentrati la maggior parte dei beni artistici esistenti sul pianeta Terra, questo senza tener conto delle enormi ricchezze che ci rappresentano in alcuni tra i musei più importanti del mondo come il Louvre a Parigi, l’Heritage a San Pietroburgo o la National Gallery a Londra, visto e considerato che, insieme all’Egitto e alla Grecia, siamo tra i paesi più depauperati da un punto di vista patrimoniale, oltre che, da sempre, l’Arte Italiana fa scuola a studenti e artisti provenienti da ogni dove, talvolta diventati celeberrimi come Balthus, Picas- so e Turner, e che hanno affrontato i viaggi più avventurosi per studiare i no- stri capolavori i quali hanno influenzato visibilmente le loro opere. La famosa "Sindrome di Stendhal" prende nome proprio dalla reazione emo- tiva ansiogena che colse il famoso scrittore Francese e che egli racconta nel suo libro "Roma, Napoli e Firenze" descrivendola come una sintomatologia paralizzante dovuta all’improvvisa bellezza di un monumento e che lo colse uscendo dalla chiesa di Santa Croce, nel capoluogo toscano. Nel solo territorio Italiano contiamo cinquantacinque siti UNESCO a cui va aggiunto il Vaticano e senza tener conto che luoghi come Ercolano e Pompei sono considerati un unico sito. Trattasi di un numero pari a quello che può vantare la Cina, ma l’estensione dell’Italia, come si sa, è ben più ridotta. In sostanza, ovunque ci si trovi, nel nostro bel paese, si rischia di essere colpiti dalla stessa Sindrome che colse Stendhal. Le opere d’arte italiane coprono un arco temporale che si estende dalla Preistoria ai giorni nostri; si tratta dunque di una terra antica e che, trovandosi al centro del Mediterraneo, ha visto il passaggio di numerose culture che hanno contribuito ad arricchire il nostro già florido territorio. Un crocevia ideale per scambi e commercio in un co- stante alternarsi di momenti di dominazione e momenti di sottomissione ma anche di prospera inclusione. Questi riconoscimenti, di per sé, sarebbero già sufficienti per farci capire

3 come l’Italia sia davvero un’opera unica composta da infiniti cuori dalle in- numerevoli sensibilità tramandateci dai più remoti e ancestrali ceppi, mol- ti dei quali ancora sconosciuti. La sua impareggiabile ricchezza non è solo preistorica e storico-artistica ma anche linguistico- letteraria, antropologica, paesaggistica, musicale, cinematografica, enogastronomica estremamente variegata e tipicizzata da una regione all’altra, da una città all’altra e, non di rado, da un quartiere all’altro. Trattasi di una terra dal clima mite e il terreno fertile, cuore pulsante del Mediterraneo, pertanto, determinante per gli ap- prodi e gli stanziamenti, considerato che offre e ha sempre offerto una qualità della vita auspicabile che l’ha resa così appetibile dalle tantissime genti che l’hanno popolata. Le differenze locali, infatti sono, fondamentalmente, lega- te al passaggio delle diverse culture che con la loro presenza nei vari territori hanno contaminato le caratteristiche già presenti improntandole con le loro peculiarità. L’amalgamarsi di queste culture sono state, al contempo, veicola- te dagli stessi popoli influenzando a propria volta tutto il mondo. Per una maggiore comprensione dell’ importanza di queste contaminazioni, si è deciso di dare a questo testo una taglio che offra una visione, non tanto cronologica o tematica degli eventi andando, semplicemente, per modalità espressive di tipo artistico, quanto dando spazio ai movimenti territoriali, gli stanziamenti, le invasioni dei vari popoli che, muovendosi per zone, han- no creato quelli che, oggi, possono definirsi dei percorsi mirati e servano ad esporre meglio e in maniera insolita, quelle che sono le discrepanze e le simi- litudini tra luoghi, non sempre fisicamente vicini ma condizionati dall’unicità di questi passaggi, creando però una sintesi culturale del tutto dissimile, di volta in volta. In pratica, per esempio, i Longobardi stanziandosi nell’attuale Lombardia si sono fusi diversamente rispetto a quelli che hanno abitato il be- neventano. Dunque, l’opera tratterà una serie di viaggi per tappe antropizzate che fun- gano anche da guida per chi vuole approcciarsi al nostro territorio sceglien- do itinerari organici che aiutino a comprendere la moltitudine di nature ed energie che animano l’Italia ma anche ciò che ancora sta esprimendo artisti- camente nelle tendenze del XXI secolo che, pur impregnato di europeismo e globalizzazione, non rinuncia alle sue avanguardie mantenendo un radica- mento sottile ma riconoscibile come "Italiano" soprattutto valorizzandone il folclore. Avremo modo di vedere come lo svariato mescolarsi dei popoli si rifletta in

4 tantissimi settori della cultura, e non parliamo solo delle arti in senso lato: pittura, scultura, danza, canto, musica, cinema, teatro, le sette arti in cui ab- biamo dato il meglio del meglio, come ci è riconosciuto in tutto il mondo ma parliamo anche di tradizioni popolari, enogastronomiche, gli arricchimenti lessicali che arrivano dai vari dialetti, la letteratura, la poesia. Auspichiamo che quest’opera possa aiutarci ad apprezzare, rispettare e, so- prattutto, contribuire a valorizzare tale patrimonio sensibilizzando il cittadino e le istituzione ad avere cura di tutta la Grazia da cui siamo circondati affinché questi primati non vadano mai perduti, dimenticati, deteriorati. Sarebbe un insulto al genio di chi ha ideato tante maestosità nei multiformi settori cita- ti, ma anche a coloro che hanno investito una vita per costruire una chiesa e forse quella vita spesso l’hanno anche persa per quella stessa chiesa che oggi tutti c’invidiano, un insulto alla lungimiranza di chi ha investito sulla bellezza. Abbiamo un debito importante con chi ci ha lasciato questi tesori e con chi, ancora, ci rende famosi nel mondo col proprio talento, da Leonardo a Miche- langelo, da Bramante a Renzo Piano, da Giuseppe Verdi a Ludovico Einaudi, da Federico Fellini a Matteo Garrone, da Eduardo De Filippo a Dario Fo, da Dante a Caproni, da Manzoni a Camilleri, da Mario del Monaco ad , dalle opere volute dai Papi e dai Mecenati, così verso chi ha inven- tato la pizza, gli spaghetti o la bagna cauda e pure il prosecco o il lambrusco. Non dimentichiamo nessuno di loro, perché solo imparando a difendere le nostre radici e continuando ad accrescere, attraverso nuove contaminazioni e, con atteggiamenti sempre più inclusivi, il nostro patrimonio, nonché con la generosità di chi vuole mettere a disposizione dell’Umanità tanto splendo- re, che renderemo anche il nostro futuro, e quello delle generazioni a venire, un’opera unica come la terra che abbiamo la fortuna di calpestare e i suoi in- canti di cui godiamo con tutti i sensi.

"Provo un incanto, in questo paese di cui non mi posso rendere conto: è come l’amore anche se non sono innamorato di nessuno". Sthendal

5 Da un’idea di Ciro Mariano e Salvatore Petrone Testi di Valentina Neri Art director: Michele De Martino Coordinamento editoriale: Pasquale Sposito Coordinato di produzione: Maria Mariano, Anna Picardi Stampato in Italia nel 2020 Memoria Storica s.r.l. - Milano

6 Italia Preistorica, Protostorica e Nuragica - Dal Paleolitico all’Età del Ferro

"Studia il passato se vuoi prevedere il futuro." Confucio

Con l’espressione Italia preistorica e protostorica si indica quella parte della Storia d’Italia che parte dal Paleo- litico fino ad arrivare all’Età del Ferro, periodo nel quale iniziano ad apparire i primi documenti scritti. Infatti, a fare la differenza tra Storia e Preistoria è propria la comparsa della scrittura che, nel mondo conosciuto, inizia in Mesopotamia, nel 3000 A.C. La Preistoria, di per sé, è costellata da dubbi, e fino alle rivoluzioni scientifiche del Settecento le deduzione si limitavano alla ricostruzione di miti, leggende e narrazioni religiose. Con gli studi di Darwin assistiamo alla nascita dell’Antropologia. Oggi le ricostruzioni avvengono attraverso la data- zione dei reperti fossili e le tipologie di antropizzazione che emergono dai vari territori e che comunque non sono in grado di dipanare gli infiniti quesiti che la Preistoria pone. Alla luce di siffatte necessarie premesse da- remo conto degli insediamenti italiani, periodo per periodo e relativamente alla loro collocazione geografica.

Il Paleolitico

Le prime colonizzazioni umane italiane le troviamo testimoniate ad Apricena, nel sito di Pirro Nord (1.300.000 anni fa), a Monte poggiolo (850.000 anni fa), ad Isernia (600.000 anni fa). Queste tracce appartengono, forse dell’Homo antecessor proveniente dalla Spagna nel periodo tra un 1.200.000 - 800.000 anni fa. L’Homo heidelbergensis, pare sia, invece, vissuto fra i 600.000 e 100.000 anni fa, a Visogliano e Venosa come di- mostrerebbero la calotta cranica dell’uomo di Ceprano, databile tra i 300.000 e 500.000 anni fa e le Ciam- pate del diavolo risalenti a più di 350.000 anni fa. La presenza dell’Uomo di Neanderthal è dimostrata da ritrovamenti paleoantropologici databili da circa 250.000 - 200.000 anni fa. Sono circa una ventina i siti che hanno restituito testimonianze dei Neanderthal, alcuni di questi si trovano tra le grotte del Circeo, ma anche il Buco del piombo comasco, la grotta di Fumane nel veronese, la grotta San Bernardino vicentina e l’eccezionale scoperta dell’Uomo di Altamura, uno scheletro praticamente completo intrappolato nel calcare della grotta. L’Homo sapiens Italiano è databile nel Paleolitico superiore, tra i 40.000 e i 10.000 anni fa. Degli esemplari di Aurignaziano sono stati scoperti nella grotta di Fumane e risalgono a circa 34.000 anni fa. Seguono le culture dette Gravettiana ed Epigravettiana, le cui tracce sono state rinvenute in tutta la penisola e nelle isole maggiori. Anche in Sardegna le prime frequentazioni dell’Homo sapiens risalgono al Paleolitico Superiore con la Grotta Corbeddu e al Mesolitico con la Grotta di Su Coloru. I rinvenimenti mesolitici della Sardegna settentrionale sono ascrivibili all’ Epigravettiano indifferenziato, importato da popolazioni giunte sull’Isola dall’Italia continentale a bordo di rudimentali imbarcazioni. Il più antico scheletro umano completo rinvenuto in Sardegna risale al periodo di transizione tra il Mesolitico e il Neolitico e risale a 8500 anni fa. Ribattezzato Amsicora, venne ritrovato nel 2011 a Su Pistoccu, nella marina di Arbus, a pochi metri dalla bat- tigia della Costa Verde, nel sud-ovest dell’Isola.

7 Il Neolitico

Il Neolitico Italiano giunse dal mare con la diffusione della ceramica impressa, decorata con impressioni a crudo ottenute con la conchiglia del genere Cardium, da cui anche l’appellativo di ceramica cardiale, su tutte le coste del Mediterraneo occidentale, con una presenza maggiore in Sicilia. L’isola di venne colonizzata all’inizio del V millennio a.C. da genti provenienti dalla Sicilia per lo sfruttamento dei suoi giacimenti di os- sidiana. In Italia centrale la presenza dell’Appennino determinò la formazione di aree culturali differenziate sul versante tirrenico e su quello adriatico, con diverse facies culturali che si susseguirono l’una all’altra, con parziali sovrapposizioni. In Sardegna, lo sfruttamento dei giacimenti di ossidiana del Monte Arci, portò al precoce sviluppo delle culture neolitiche, introdotte con la cultura della ceramica impressa proveniente pro- babilmente dall’Italia centrale tirrenica agli inizi del VI millennio a.C.. Nell’ Italia settentrionale la variante della cultura della ceramica impressa si affermò sulla costa della Liguria nella prima metà del VI millennio a.C.. All’inizio del V millennio a.C., il precedente mosaico culturale venne sostituito dall’unitaria Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata, diffusa dalla Liguria al Veneto. Alla fine del millennio l’area venne progressivamente influen- zata dalla Cultura di Chassey, in Italia anche detta Cultura di Lagozza, originaria della Francia che finì con il sostituire la cultura precedente. Al volgere del Neolitico, si diffonde, in alcune parti d’Italia così come in gran parte dell’Europa occidentale e settentrionale, il fenomeno del Megalitismo, caratterizzato dalla costruzione di monumenti tratti da enormi blocchi di pietra, che si protrarrà, in alcuni casi, sino all’età del bronzo e oltre. Fra le zone più interessate sono da citare la Sardegna, regione italiana con il più alto numero di monumenti megalitici, ed ancora la Puglia, la Sicilia, il Lazio, la Valle d’Aosta, il Piemonte e la Liguria. Le costruzioni caratteristiche erano i dolmen, i menhir e i cromlech. Inoltre, in Sardegna, in provincia di Sassari, si trova il singolare altare megalitico di Monte d’Accoddi, databile al Neolitico finale, prima Età del Rame. Sempre col- locabile in epoca tardo neolitica è l’Ipogeismo, caratterizzato dalle costruzioni sotterranee, che insisterà fino all’Età del Bronzo. In Sardegna sono presenti le cosiddette Domus de janas, ossia "case delle fate", strutture funerarie collettive scavate nella roccia databili, le più antiche, al periodo in cui nell’isola si sviluppò la Cultura di San Ciriaco (Neolitico recente 3400-3200 a.C.). Con la Cultura di Ozieri, nel Neolitico finale 3200/2800 a.C., si diffusero in tutta la Sardegna, ad eccezione della Gallura dove si prediligeva l’uso di seppellire i defunti nei circoli megalitici come quelli di Li Muri, presso Arzachena. Altre strutture funerarie ipogeiche appaiono nell’Italia meridionale, così come a Malta.

L’Italia Protostorica

La fase protostorica comprende l’’età dei metalli ossia il periodo che va dal Calcolitico (o Età del Rame), che inizia circa dall’8.000 anni a.C., passando per l’Età del Bronzo, circa 3.500 anni a.C., fino all’Età del Ferro, circa dal 1.200 a.C.. Durante questo lasso di tempo nel territorio italiano si svilupparono numerose culture, anche di origine esogena, tra le quali la Cultura di Remedello nella Pianura Padana, del Rinaldone in Toscana e nel Lazio, e del Gaudo in . Il ritrovamento forse più famoso di questo periodo è quello importantissi- mo della Mummia del Similaun, un reperto antropologico scoperto sulle Alpi Venoste nel 1991. La datazione al radiocarbonio gli attribuisce un’età di circa 5.000 anni. Questo lo pone nell’Età del Rame, tra il Neolitico e l’Età del Bronzo. Sul finire del Calcolitico, agli albori dell’età del bronzo, appare in alcune zone d’Italia (Pianu- ra Padana, Toscana e alto Lazio, Sardegna e Sicilia) la Cultura del Vaso Campaniforme proveniente da diverse parti dell’Europa, in particolare dall’area franco-iberica e dal centro Europa. Nella tarda Età del Bronzo appa-

8 iono nuove forme culturali di ispirazione centroeuropea (Cultura dei Campi di Urne) come le culture di Cane- grate e Golasecca e la Cultura Protovillanoviana. In Sicilia sono da segnalare le culture di Castelluccio (antica Età del Bronzo) e di Thapsos (media Età del Bronzo) entrambe originatesi nella parte sud-orientale dell’isola. In queste culture, in particolare nella fase di Castelluccio, sono evidenti gli influssi provenienti dall’Egeo dove fioriva la civiltà elladica. Di respiro occidentale (iberico-sardo) è la Cultura del Vaso Campaniforme nota in diversi siti della costa occidentale dell’isola, occupata precedentemente dalla Cultura della Conca d’Oro. Nella tarda Età del Bronzo, la Sicilia nord-orientale mostra i segni di una osmosi culturale con le popolazioni della penisola che portano alla comparsa dell’aspetto protovillanoviano (), connesso, forse, all’arrivo dei Si- culi. Le vicine isole Eolie vedranno il fiorire nell’Età del Bronzo delle culture di Capo Graziano e del Milazzese e successivamente dell’Ausonio.

La Cultura Nuragica Nata e sviluppatasi in Sardegna e diffusasi anche nella Corsica meridionale, la civiltà nuragica abbraccia un periodo di tempo che va dalla prima Età del Bronzo (dal 1.700 a.C.) al II secolo d.C., ormai in piena epoca romana. Deve il suo nome alle caratteristiche torri nuragiche che costituiscono le sue vestigia più eloquenti e fu il frutto dell’evoluzione di una preesistente Cultura Megalitica, costruttrice di dolmen, menhir e domus de janas. Le torri nuragiche sono unanimemente considerate come i monumenti megalitici più grandi e meglio conser- vati d’Europa. Sulla loro effettiva funzione si discute da almeno cinque secoli e tanti restano ancora gli interro- gativi da chiarire: c’è chi li ha visti come tombe monumentali e chi come case di giganti, chi fortezze, forni per la fusione di metalli, prigioni e chi templi di culto del sole. Popolo di guerrieri e di navigatori, i sardi commerciavano con gli altri popoli mediterranei. In tantissimi com- plessi nuragici sono stati, infatti, rinvenuti oggetti di particolare pregio come perle di ambra baltica, bronzetti raffiguranti probabilmente scimmie e animali africani, una grande quantità di lingotti di rame a pelle di bue, armi e oggetti di foggia orientale, ceramiche micenee. Tali elementi evidenziano un carattere di questa cultura non chiuso in sé stesso ma caratterizzato da forti scambi culturali e commerciali con gli altri popoli del tempo. Recenti studi evidenziano una forte probabilità che tra i Popoli del Mare che attaccarono l’Egitto di Ramses III, gli Shardana fossero i Sardi. In tal senso sono stati condotti studi in Israele dall’archeologo Adam Zertal dell’Università di Haifa: gli scavi di El-Ahwat hanno rivelato alcuni parallelismi con la Sardegna Nuragica. Il sito israeliano sembra, a detta dello studioso, essere stato costruito da persone che hanno avuto connessioni con, o comunque conosciuto, la Cultura Nuragica. La civiltà dei sardi ha prodotto non solo i caratteristici complessi nuragici, ma anche innumerevoli strutture architettoniche come ad esempio: gli enigmatici templi chiamati pozzi sacri, come quello di Santa Cristina che è il più famoso e ricorda una Ziggurat; si presume fossero dedicati al culto delle acque in relazione ai cicli lunari ed astronomici; altri curiosi rinvenimenti sono le Tombe dei Giganti, i templi a Megaron, alcune strutture di carattere giuridico e sportivo e delle particola- ri statuine in bronzo, estremamente raffinate per il tempo. Queste ultime sono state rinvenute anche nella pe- nisola, in alcune importanti tombe villanoviane-etrusche, in posizione di grande rilevanza, facendo denotare forti legami e forse dinastici tra la civiltà nuragica e quella etrusca. Inoltre, non va dimenticata la scoperta, negli anni Settanta, di più di 30 statue in arenaria chiamate i Giganti di Monte Prama, recentemente restaurate e risalenti all’VIII secolo a.C. circa, anche se la datazione precisa è ancora incerta (secondo alcune proposte precederebbero la statuaria greca di alcuni secoli), che rappresentano il simbolo indiscusso della grandezza e splendore di questa civiltà, la quale mostra avanzate capacità in diversi campi, arte compresa. Se tale datazione

9 risultasse esatta, ossia, se i Giganti di Monte Prama risultassero antecedenti alla statuaria greca, la Storia dell’Arte andrebbe riscritta poiché nessuna delle civiltà coeve produceva monumenti di simile dimensioni. In seguito, la Civiltà Nuragica, ha convissuto con altre civiltà estranee giunte sull’isola, come quella fenicia, quella punica e quella romana, senza mai però essere assorbita completamente da queste. Ciò evidenzia il fatto che la radice nuragica doveva avere un’identità molto forte e ben tramandata.

Altre culture significative La Cultura di Polada, formatasi nei pressi di Brescia, fu un orizzonte culturale esteso dalla Lombardia orien- tale e il Veneto fino all’Emilia e la Romagna, formatosi nella prima metà del II millennio a.C. forse per il sopraggiungere di nuove genti dalle regioni transalpine della Svizzera e della Germania meridionale.

Un’altra importante cultura del nord Italia, prima dell’arrivo dei Celti, fu quella conosciuta come Terramare che rappresenta la colonizzazione, da parte delle popolazioni poladiane o di una nuova popolazione proveniente dall’area ungherese, dai territori a sud del Po. Si sviluppò nell’Età del Bronzo medio e recente, tra il XVII e il XIII secolo a. C.. La sua denominazione deriva dal termine terramarna, marniere della pianura emiliana utilizzate nel XIX secolo come bacini di approvvigionamento di terreno fertile, formatesi proprio sul deposito archeologico degli insediamenti protostorici in ambiente semiumido. Gli insediamenti scoperti su molta par- te della Pianura Padana tra Lombardia, Veneto occidentale e Emilia (specialmente lungo il corso del Pana- ro, tra Modena e Bologna), sono costituiti da villaggi di legno strutturale su palafitte fabbricate secondo uno schema ben definito. Erano di forma quadrangolare, costruite sulla terraferma, in spazi circondati da argine/ terrapieno e fossato, generalmente in vicinanza di un corso d’acqua, con strade intersecantesi ad angolo retto, secondo un progetto non casuale che denota il carattere di un insediamento fortificato. Le Terramare dell’Emilia sono l’espressione dell’attività commerciale nell’Età del Bronzo. Insediamenti lungo una via che attraversava le Alpi nella Val Camonica e giungeva alle sponde del Po; fungevano da depositi e punti di parten- za delle merci costituite da ambra dal Mar Baltico, e stagno dai monti Erzgebirge, con direzione lungo il Po fino alla foce e all’Adriatico, verso il Mar Mediterraneo orientale, il Mare Egeo, Creta, Asia Minore, Siria ed Egitto.

La Civiltà Appenninica era una cultura della media Età del Bronzo (1600-1200 a.C. circa), divisa in tre fasi cronologiche principali: Proto-Appenninica, Appenninica e Sub-Appenninica, che si estendeva principalmen- te in tutto l’arco appenninico abbracciando quindi gran parte dell’Italia centrale e meridionale con avamposti nelle Eolie e nelle aree costiere della Sicilia nord-orientale. La sua economia era caratterizzata principalmente dalla pastorizia legata a pratiche di transumanza.

La Cultura dei Castellieri si sviluppò in Istria nell’Età del Bronzo medio per espandersi successivamente in Friuli, cjastelir in friulano, Venezia Giulia, Dalmazia e zone limitrofe. Durò oltre un millennio ed ebbe termine solo con la conquista romana. Prende il nome dai borghi fortificati definiti per l’appunto Castellieri. A dare vita alla cultura dei castellieri fu un gruppo etnico di incerta origine ma probabilmente pre-indoeuropeo e sicuramente proveniente dal mare.

La Cultura Protovillanoviana, databile alla fase finale dell’Età del Bronzo (1150-1000 a.C. circa), rappresen- ta la prima irruzione di popolazioni italiche nella penisola italiana. Non è ancora chiaro se la comparsa di questa civiltà sia da attribuire a nuovi gruppi giunti da oltralpe (valle danubiana) o sia piuttosto da derivare dalle Ter- ramare padane che scompaiono improvvisamente intorno al 1200 a.C.. A partire dal 900 a.C., questa cultura, che si mantenne generalmente omogenea in tutto il territorio, subisce un processo di regionalizzazione che

10 favorisce la nascita di tante facies locali tra le quali la civiltà atestina, laziale e quella villanoviana. La Cultura di Canegrate si sviluppa a partire dall’Età del Bronzo media, ossia, nel XIII secolo a.C. fino ad arri- vare all’Età del Ferro, nella Pianura Padana in Lombardia occidentale, in Piemonte orientale e in Canton Tici- no e prende il nome dalla località di Canegrate dove nel XX secolo furono fatti dei ritrovamenti (circa cinquanta tombe con ceramiche e oggetti metallici). È tra i siti più ricchi dell’Italia settentrionale. Fu portato alla luce nel 1926, presso il rione Santa Colomba, e scavato sistematicamente tra il marzo 1953 e l’autunno 1956. Probabilmente era una popolazione di guerrieri proveniente dall’Europa centrale, scesa nella fertile Pianu- ra Padana attraverso i valichi alpini svizzeri e si pensa ad una continuità linguistica del canegratese anche durante l’Età del Ferro.

L’Età del Ferro L’Età del Ferro è contraddistinta da numerosi aspetti culturali che saranno alla base delle realtà etniche note in età storica: Latini, Veneti, Leponzi, Piceni, Etruschi ecc. … La Cultura di Golasecca si sviluppò a partire dall’Età del Bronzo finale, nella Pianura Padana e prende il nome dalla località di Golasecca, presso il Ticino dove, agli inizi del XIX secolo, l’abate Giovanni Battista Giani effettuò, nell’area del Monsorino, i primi ritrovamenti (circa cinquanta tombe con ceramiche e oggetti metallici). Nel territorio della Cultura di Golasecca sono state effettuate scoperte che hanno modificato sen- sibilmente la conoscenza della Protostoria europea. Vi sono state ritrovate, ad esempio, le più antiche iscri- zioni in lingua celtica. Golasecca fiorì particolarmente per le favorevoli circostanze geografiche. Qui il Ticino sbocca dal Lago Maggiore e questo agevolò lo sviluppo del commercio di sale; gli abitanti di Golasecca face- vano da tramite tra Etruschi e la Cultura di Hallstatt (Austria). Le mediazioni commerciali si allargarono poi fino ad includere il mondo greco: olio e vino, oggetti di bronzo, ceramica attica, incenso e corallo, e il mondo transalpino (stagno e ambra proveniente dal Baltico). All’interno del territorio golasecchiano, oggi compreso in due regioni italiane (Lombardia e Piemonte) e la Svizzera si osservano alcune zone che presentano una maggiore concentrazione di ritrovamenti. Esse coincidono, in maniera significativa, con i territori occupati da quei gruppi tribali i cui nomi sono riportati dagli storici e geografi latini e greci: Insubri che diventerà Mediolanum (Milano); Leponti, nel Canton Ticino, con Bellinzona e il Sopra Ceneri; nell’Ossola; Orobi, nell’area di Como e Bergamo; Levi e Marici, nella Lomellina (Pavia/Ticinum). Essa è nota principalmente per le usanze funebri; benché negli ultimi anni siano aumentati gli scavi nelle aree di abitato. Le aree funerarie erano distinte da quelle insediative e spesso erano collocate lungo le vie di comunicazione, talora in prossimi- tà di torbiere e aree paludose non destinate ad usi agricoli. Le sepolture più importanti erano probabilmente collocate in posizioni più elevate e potevano essere circondate da circoli o allineamenti di pietra, definiti, in maniera impropria, Cromlech, per le somiglianze con le omonime strutture megalitiche. Talora più sepolture si succedettero all’interno della stessa struttura, probabilmente in ragione di vincoli familiari. Una tomba, a Pombia, ha restituito i resti della più antica birra con luppolo del mondo. I Camuni erano un antico popolo di origine incerta. Secondo Plinio il vecchio erano euganei attestato in Val Camonica nell’Età del Ferro, anche se gruppi umani dediti principalmente alla caccia, alla pastorizia e all’agricoltura erano presenti nell’area già nel Neolitico. Il grandissimo interesse storico di questa civiltà è dovuto alle numerosissime incisioni rupestri rinvenute, oltre duecentomila fa, che fanno della Val Camonica uno dei più importanti siti di arte rupestre del mondo. Esse

11 coprono un periodo che va dall’Epipaleolitico al Medioevo. Uno tra i petroglifi più famosi è la cosiddetta rosa camuna, che è stato adottato come simbolo ufficiale della Regione Lombardia. La Civiltà Atestina si sviluppò in Veneto nella prima metà del I millennio a.C. ed ebbe come maggiore centro la città di Este. Da questa cultura traggono origine i Veneti. Il nome deriva dalla località di Villanova (frazione di Castenaso) nei pressi di Bologna, dove fra il 1853 ed il 1856 Giovanni Gozzadini (1810–1887) ritrovò i resti di una necropoli con urne cinerarie.

Succedette durante l’Età del Ferro la Cultura Protovillanoviana nel territorio della Toscana e dell’alto Lazio, dell’Emilia (in particolare il bolognese), della Romagna (in particolare Verrucchio), a Fermo nelle Marche e alcune aree della Campania. Della precedente civiltà conserva vari aspetti tra cui la tradizione della cremazione del defunto. È considerata la fase più antica della civiltà etrusca, infatti, i centri villanoviani saranno conosciuti in seguito come città etrusche. Diffusa nel Lazio centro-meridionale a sud del Tevere, a partire dalla media Età del Bronzo, viene considerata l’origine all’ethnos latino. La pratica funeraria prevedeva la cremazione del defunto, le ceneri venivano deposte in urne a forma di capanna.

La Cultura di Terni, facies protostorica, fu diffusa nel territorio dell’Umbria sud-orientale tra la tarda età del bronzo e la prima età del ferro (X sec. a.C - VII sec. a.C.). È associata alla etnogenesi dei Protoumbri. La civil- tà picena interessò nell’Età del Ferro tutto il territorio delle attuali Marche e dell’Abruzzo settentrionale. Le testimonianze lasciate da questa civiltà sono molto ricche e fortemente caratterizzate, specie nella scultura, anche monumentale, nell’arte figurativa, considerato che presenta una notevole fantasia nelle figure ed una tendenza all’astrattismo, nell’originalità delle forme della ceramica, nell’abbondante uso dell’ambra, nella grande varietà di armi, nei vistosi corredi femminili. La lingua, nella maggior parte delle iscrizioni, è italica ed è detta Sudpiceno; in quattro iscrizioni è attestata invece l’enigmatica Lingua di Novilara. Il rito funerario (come nella più meridionale Fossakultur) prevedeva l’inumazione del defunto, in numerosi casi accompagnato da un ricco corredo.

Fossakultur, era estesa a gran parte dell’Italia meridionale tirrenica e parte di quella centrale nella prima metà del I millennio a.C., deve il suo nome alle sepolture ad inumazione (in particolare nel sud). Appartengono alla Fossakultur le necropoli di Ischia, Cuma, della valle del Sarno, Locri, e di Torre Galli.

Un aspetto interessante dell’Età del Ferro originatosi in Puglia ad opera dagli Iapigi, popolazione di origine balcanica, sono le ceramiche decorate in stile geometrico. Siamo in Italia, nel Mediterraneo, questa è la ricchezza del paesaggio antropizzato che vi abbiamo voluto de- scrivere prima ancora che la Storia trovi il suo alfabeto: "Che cosa e il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà̀, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre, insomma, un crocevia antichissimo. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presen- za araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa immergersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso tempo stupirsi di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultu- ra e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare. (…) Non si è mai rinchiuso nella propria storia, ma ne ha rapidamente superato i confini: a Ovest verso l’oceano Atlantico; a est attraverso il Vicino Oriente, che lo affascinerà per secoli e secoli; a Mezzogiorno verso le sue plaghe desertiche, ben oltre la linea dei compatti palmeti; a nord, verso le interminabili steppe eurasiatiche che lambiscono il Mar Nero; ancora a nord verso l’Europa delle foreste, lenta a svegliarsi, ben oltre il limite tradizionale, quasi sacrosanto, dell’olivo" Fernand Braudel

12 La Magna Grecia

"Dei Greci, i meridionali hanno preso il loro carattere di mitomani. E inventano favole sulla loro vita che in realtà è disadorna. A chi come me si occupa di dirne i mali e i bisogni, si fa l’accusa di rivelare le piaghe e le miserie, mentre il paesaggio, dicono, è così bello". Corrado Alvaro E nonostante le argomentazioni sulla mitomania dei meridionali di Alvaro, per Tito Livio, Gabriele Guy de Mauppassant e tanti altri, Siracusa, è la più bella delle città greche poiché appartenuta alla Magna Grecia ossia una "Grecia Grande", termine che comparve per la prima volta in un passo di Timeo di Tauromenio, Storico greco vissuto in Sicilia nel IV-III secolo a.C., ma che rimase piuttosto inusuale per le fonti antiche che di regola chiamavano italiaoti i Greci d’Italia e sicelioti quelli di Sicilia. La colonizzazione greca condusse alla fondazione di circa 150 nuove poleis sparse in tutto il Mediterraneo, un terzo delle quali in Italia meridionale e in Sicilia. Dai resti di ceramiche e altri materiali si è dedotto che i Greci frequentarono le coste italiane già in età mi- cenea (sec. XVI-XI a.C.). Le prime colonie greche furono Pitecusa (odierna Ischia) e Cuma, in Campania, fondate tra il 775 e il 760 a.C. dagli abitanti di Calcide e di Eretria, le due più importanti poleis dell’Eubea. A Calcide si devono, negli anni seguenti, le fondazioni di Zankle (chiamata poi ), di Reggio, di Nas- so, Leontini e nella Sicilia orientale. I Corinti fondarono Selinunte e, appunto, Siracusa (773 a.C.); quest’ultima destinata a diventare qualche secolo dopo la più fiorente città del mondo greco; Cretesi e Rodii diedero vita a (688 a.C.), nella Sicilia meridionale, la quale fondò a sua volta, nel 580 a.C., Agrigento: oggi famosa per aver dato i natali a Luigi Pirandello e per la sua Casa Museo, meta di un cospicuo "turismo" letterario. Il sito, inoltre, si affaccia sulla magnificente "Valle dei Templi" che, con Segesta e , è tra i luoghi più suggestivi ereditati dalla Magna Grecia. Gli Achei dell’Acaia fondarono Sibari, Metaponto e Cro- tone, mentre Taranto fu l’unica colonia fondata da immigrati spartani. Oltre alle colonie insediate nell’Italia meridionale e in Sicilia, i Greci fondarono nuove poleis intorno al Bosforo e al mar Nero, sulle coste france- si, spagnole, africane e sulle coste settentrionali dell’Egeo. Protagonisti principali del movimento coloniale furono i Calcidesi d’Eubea e i Corinzi. Queste colonie veniva- no finanziate in luoghi di facile attracco, ben difendibili e ricchi d’acqua. Era la stessa poleis, il nome che i greci usavano per chiamare le loro città, che metteva a disposizione le navi, i tecnici e tutti i mezzi necessari. Mentre i luoghi di nuova fondazione originavano a loro volta nuovi insediamenti, le popolazioni indigene venivano cacciate o ridotte a forza-lavoro dipendente. A guidarla era, solitamente un aristocratico. Prima però doveva chiedere all’Oracolo di Delfi l’approvazione all’impresa. Ottenutala, raccoglieva circa duecento maschi, stipati in due-tre navi, prendeva il fuoco sacro della città di origine e partiva. Questa figura si chiamavaEcista . Sbarcati nel luogo prescelto, l’Ecista provvedeva a distribuire in parti uguali la terra ai coloni e a fondare i santuari. Così facendo diveniva il vero fondatore della nuova poleis, che dopo la sua morte gli tributava gli onori dovuti agli eroi. Quelle che noi chiamiamo "colonie" i Greci le chiamavano apoikíai, termine composto da apó, "lonta- no", e óikos, "casa": le colonie erano dunque poleis "lontane da casa", che intrattenevano stretti rapporti con la madrepatria, soprattutto di carattere commerciale, e forti legami culturali: la comunanza del dialetto, il rap- porto privilegiato con alcune divinità greche, la memoria di un passato comune. Ma per il resto l’apoikía era, in tutto e per tutto, una comunità indipendente, che poteva, a sua volta, fondare colonie. Molto è stato prodotto come sintesi dell’incontro artistico tra culture ma anche di fortemente riconoscibi- le e identificabile. La ricca produzione in bronzo: vasi di probabile origine tarantina, specchi locresi, lo

13 Zeus scoperto a Ugento; sono invece probabilmente di provenienza greca le due statue bronzee del 5° sec. a.C. rinvenute al largo di Riace, tra Locri e Punta Stilo e che oggi si trovano nel museo Archeologico di Reggio Calabria, diventate leggendarie per la loro ammaliante bellezza e perfezione estetica. Accanto alle officine dei bronzisti, a Taranto, fiorirono anche quelle degli orefici e degli argentieri. La ceramica produsse forme al- quanto autonome da quelle della madrepatria, cui succedettero prodotti della ceramica apula, lucana, pestana e campana, come risposta di notevole originalità dell’ambiente indigeno. Per la pittura, offrono importanti ele- menti di giudizio quelle funerarie di Paestum. Nei luoghi in cui si stanziarono, i Greci trovarono popolazioni diverse per stirpe e lingua (Ausoni, Opici, Enotri, Iapigi, Itali ecc.). La più antica colonia, secondo la tradizione, sarebbe stata Metaponto (773), seguita (verso il 770) dalla fon- dazione di Pithecusa (Ischia) e, a distanza di qualche decennio, di Cuma. Dunque, gli Italioti elaborarono una grande civiltà con sue peculiarità per la lontananza dai centri della Cultura Ellenica e per gli influssi indigeni: tracce di tradizioni autoctone sono state individuate in taluni aspetti dei culti, delle istituzioni, della filoso- fia, dell’arte. Caratteristico della Magna Grecia fu anche il movimento politico-religioso che sviluppò da un lato le codificazioni di Zaleuco e di Caronda e dall’altro l’Orfismo e altre credenze misteriosofiche popolari: reazione a questi movimenti fu il Pitagorismo, dottrina filosofica e politica di carattere aristocratico. Notevo- le la fama conseguita nella speculazione filosofica dalla Scuola Eleatica di Velia. La ricerca storico-artistica sull’arte della Magna Grecia si è focalizzata sullo studio dei modi e delle ragioni di certa diversificazione dai modelli greci. Questa originalità è verificabile sia nell’architettura, nella quale è prevalente l’influsso dell’or- dine dorico, ma s’intravedono elementi di voluta irregolarità come il santuario alla foce del Sele, Paestum, e spicca il grande uso di terrecotte decorative, sia nella scultura. Un problema preliminare, per quanto riguarda la definizione dei caratteri della scultura magnogreca in marmo, è quello della distinzione tra prodotti locali e oggetti d’importazione. Forse i prodotti in serie giunsero già lavorati dalla Grecia propria, dalle cui isole proviene la materia prima, il marmo, mentre per prodotti non in serie e di grandi pretese artistiche è possibile postulare una elaborazione magnogreca. Una fiorente produzione locale è da riconoscere nell’ambito della scultura in calcare: metope del santuario alla foce del Sele e la produzione di Taranto, e in terracotta nelle zone di Metaponto, Taranto, Locri, Caulonia, Medma. La colonizzazione greca ebbe termine sul finire del VII secolo a.C. – inizio VI secolo a.C., quando le contemporanee pressioni dei Persiani a Oriente, degli Etru- schi in Italia e dei Cartaginesi in Sicilia impedirono un’ulteriore espansione delle città greche. Ma benché le argomentazioni sulla mitomania trasmessa dai greci ai meridionali, sostenuta dallo scrittore Corrado Alvaro, bisogna ammetterlo, ha il suo perché, il paesaggio, legato al greco passaggio, è davvero bello, e, capisco che stare immersi nella bellezza possa far perdere, talvolta, di vista, il senso della realtà facilitando il rifugiarsi nel sogno, nella favola, nella poesia, nel mito. "La vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione fuggevole, l’esperimento pericoloso." Diceva Ippocrate. Ma in questo caso, direi, l’esperimento è splendidamente riuscito.

14 Insediamenti Fenicio-Punici "Quando un’opera d’arte sembra in anticipo sul suo tempo, è vero invece che il tempo è in ritardo rispetto all’opera". Jean Cocteau

Da questa citazione si può partire per sottolineare la spinta innovativa che questi popoli trasmisero là dove andarono ad insediarsi lasciando delle forme d’arte ancora oggi molto in voga e che si prestano a interessanti e moderne rivisitazioni. I primi stanziamenti fenici in Italia furono sulle coste della Sardegna e nella Sicilia occidentale, risalenti all’VIII secolo a.C., posteriori all’espansione fenicia del Mediterraneo occidentale con fondazione di alcune grandi città come Utica e Cartagine. Nacquero Mozia (da cui più tardi Lilibeo), , Solunto in Sicilia e Sul- ci, Nora, Tharros, Bithia, Kalaris in Sardegna. In Sicilia lo stanziamento fenicio non incontrò grandi reazioni da parte degli autoctoni. Nel Monte Erice, uno dei posti più incantevoli dell’isola, per esempio, un tempio fu dedicato ad Astarte, dea-madre dell’area cana- nea, che veniva frequentata dai Fenici e dagli Elimi. In Sardegna, per la resistenza opposta dai sardo - nuragici, non riuscirono a controllare ampi territori lontani dalle loro città. Il ruolo colonizzatore dei Fenici è stato ridimensionato dalle scoperte archeologiche di fine XX secolo che evidenziano come questi levantini frequentassero approdi già abitati dagli autoctoni con i quali avevano un pacifico rapporto di scambi commerciali. Il notevole flusso di merci favorì l’ampliarsi di questi approdi con miglioramento delle strutture portuali e un’edilizia mutuata dai Fenici i quali, tramite matrimoni misti, si integrarono con gli autoctoni apportando nuove conoscenze e nuovi stili di vita. A metà del VI secolo a.C., con la spedizione del semileggendario Malco, ebbe inizio il tentativo cartaginese di conquista della Sicilia. Cartagine, a tre secoli dalla fondazione, era diventata potenza egemone dell’Africa settentrionale fermando in Libia la colonizzazione greca vincendo Cirene. In Sicilia invece, la colonizzazione greca, aveva relegato la presenza punica nell’estrema punta occidentale dell’isola. I Cartaginesi, tentarono di conquistare l’intera Sicilia, cacciando da essa i Greci. Ciò avrebbe consentito il totale controllo dei due passaggi dal Mediterraneo Orientale a quello Occidentale. Le guerre greco-puniche (550 a.C.-275 a.C.) non portarono a risultati conclusivi, allargando a fasi alterne la sfera di influenza cartaginese o greca in Sicilia senza che uno dei due popoli riuscisse a prevalere nettamente sull’altro. Questo scontro si concluse con lo scoppio della prima guerra punica che tolse ai Cartaginesi le aree siciliane e pose una pesante ipoteca su Siracusa, uni- co regno siceliota importante. In Sardegna invece i Cartaginesi conquistarono la parte meridionale dell’isola, pur incontrando difficoltà sem- pre a causa della resistenza opposta dalle popolazioni autoctone. Nel corso del tempo i Cartaginesi chiusero le coste dell’isola in un vero e proprio cerchio di fortezze e colonie. Questa conquista permise il controllo della produzione mineraria e agricola in relazione alle necessità puniche e non solo autoctone. L’agricoltura sarda si basava principalmente sulla produzione di grano tanto che già nel 480 a.C., Amilcare, impegnato nella battaglia di Imera, fece venire dalla Sardegna i rifornimenti di grano per le sue truppe, che si trovavano in Sicilia. Lo pseudo-aristotelico De mirabilibus auscultationibus riporta che Cartagine proibiva la coltivazione di piante da frutto per incentivare la monocultura del grano. Anche l’artigianato sardo subì profonde influenze puniche. Cartagine entrò anche nella Storia d’Italia peninsulare alleandosi con gli Etruschi per combattere i

15 pirati greci di Alalia, in Corsica. Le Lamine di Pyrgi testimoniano quanto fosse sentito l’influsso cartaginese sulle coste toscane e laziali. Nel 509 a.C., infine, la neonata Repubblica Romana e i cartaginesi siglarono il primo dei Trattati Roma-Cartagine, che segnò l’inizio di relazioni diplomatiche stabiliti fra le due città. Suc- cessivamente vennero conclusi altri trattati, in cui vennero concesse ulteriori licenze all’Urbe fino alla caduta definitiva di Cartagine. In Sardegna le contaminazione artistiche fenicio- puniche sono numerose a partire, per esempio, dai gioielli. Le produzioni orafe fenicie rappresentano infatti uno dei vertici qualitativi raggiunti nell’intero bacino del Mediterraneo. Gli orafi fenici praticavano con particolare maestria le tecniche della filigrana e della granula- zione che ancora sono fonte di orgoglio per l’ammirazione che suscitano, queste abilità così identitarie e al contempo raffinate, nell’artigianato sardo. Numerosi orefici continuano ad utilizzare in chiave moderna le vec- chie tecniche per gioielli sempre più originali e richiesti. I corredi funerari sono un’altra importante eredità purtroppo depauperata. Gennaro Pesce, un noto archeologo, nel 1966 stimò in circa cinque miliardi di lire il valore dei reperti trafugati dal sito di Tharros a partire dal 1851, anno in cui un titolato inglese, Lord Vernon, operò una serie di scavi presso il Capo San Marco indagando una ventina di ipogei punici. Egli riportò alla luce numerose oreficerie, scarabei, bronzi e prezioso vasellame. Le stele puniche sono, invece, reperti pertinenti a quegli specifici spazi sacri rispondenti al nome ditofet , i luoghi destinati alla sepoltura dei bambini nati morti o morti nei primissimi anni di vita. Ma forse il patrimonio più importante è costituito dalle necropoli. Il nome Tu- vixeddu, una delle necropoli fenicio-puniche, più importanti del Mediterraneo e che significa "colle dei picco- li fori", prende nome dal termine sardo tuvu per "cavità", dovuto proprio alla presenza delle numerose tombe a pozzo scavate nella roccia calcarea. Tra il VI ed il III secolo a.C. i Cartaginesi scelsero il colle per seppellirvi i loro morti: tali sepolture erano raggiungibili attraverso un pozzo scavato interamente nella roccia calcarea e profondo dai due metri e mezzo sino a undici metri. All’interno del pozzo una piccola apertura introduceva alla camera funeraria. Le camere funerarie erano decorate, e spesso dotate di ricchi corredi. Di particolare interesse, tra le tombe puniche, la Tomba dell’Ureo e la Tomba del Combattente, decorate con palme e masche- re tuttora ben conservate. La tomba dell’Ureo, è un raro esempio di ipogeo punico dipinto decorato con l’arte dell’ocra rossa, palmette, maschere e il cobra sacro della religione egizia, noto come serpente Ureo. Per quanto riguarda la Sicilia i legami più stretti con la tradizione orientale possono essere individuati nel rilievo statuario e in pietra. Mozia è un osservatorio privilegiato: una frammentaria statua maschile in arenaria, trovata nella laguna, riproduce nei suoi abiti e nei suoi canoni un’iconografia di origine egizia diffusa nel mondo fenicio; oppure il motivo dei due felini che attaccano un toro, anch’esso di ispirazione orientale, rappresentato in un gruppo scolpito di grandi dimensioni. Queste due opere sono datate al VI sec a.C. Allo stesso modo, tra le mille e più stele e tofet, i modelli e le rappresentazioni legate alla tradizione orientale come il personaggio maschile che avanza di profilo, con un lungo cappotto e una tiara, in cui il personaggio femminile è visto in pie- di, con capelli egiziani, abito lungo svasato e mani sul seno; le cornici di queste figure e i motivi simbolici come le bestie, spesso riproducono l’architettura di piccoli templi egizi. Ma troviamo anche a Mozia, una splendida statua in marmo, questa volta di fattura greca, risalente ai primi decenni del V secolo a.C., che rappresenta un personaggio maschile, in piedi, drappeggiato, la cui interpretazione iconografica è controversa e che si può considerare come il simbolo dell’incontro tra la civiltà greca e punica. Da Solunto, arriva una statua della divinità femminile vestita con un lungo abito, seduta su un trono fiancheggiato da sfinge, i cui prototipi sono indiscutibilmente orientali: è anche verso est che ritroviamo i due sarcofagi antropoidi di Pizzo Cannita, anche se le figure femminili scolpite sulla loro copertura indicano un’influenza dei modelli greci di stile tardo severo. Nel periodo ellenistico, il rilievo in pietra è attestato dalle stele di Lilibeo e Selinunte: i primi, che ricordano ti-

16 pologicamente l’ambiente cartaginese, riproducono lo schema figurativo dell’offerente davanti a un incensiere posto tra il simbolo di Tanit e il caduceo; dall’altra parte, le stele Gemelli dei santuari Malphoros di Selinunte sembrano essere state ispirate dalla cultura punica per la realizzazione informale delle teste e la rappresen- tazione schematica dei volti. Una produzione punica tipica anche in Sicilia è quella di maschere e protomi in terracotta realizzati in uno stampo e ritoccati con lo scalpello, e quelli di statuette lavorate sul tornio. Da Mozia arriva una maschera maschile apotropaica con la fronte e l’argilla striata, gli occhi lavorati a traforo e la bocca segnata da una smorfia satanica: è stato trovato nel tofet, con un gruppo di protomi femminili egizizzanti e numerose statuette cilindriche lavorate sul tornio, con dettagli anatomici applicati a rilievo, e che spesso por- tano una piccola lampada sulla testa. In una tomba particolarmente ricca della necropoli arcaica è stata trovata una statuetta femminile nuda con le mani sul petto con dettagli dipinti in rosso e nero, che riproducono una dea della fertilità. Una statuetta di questo tipo è stata trovata anche in una tomba della necropoli di Palermo. La produzione in terracotta comprende stampe e piccoli altari con scatole, recipienti a parallelepipedo la cui faccia anteriore è decorata con motivi stampati di ispirazione orientale che rappresentano scene di lotta tra animali. Il dominio religioso è quello in cui si è meglio espressa la persistenza degli elementi culturali stret- tamente punici: ciò è illustrato da due piccole arulae timiatheria (piccoli altari usati come bruciatori di pro- fumo) in terracotta, cilindri di Solunto che, sebbene tipologicamente e cronologicamente risalgono all’epoca romana, non applicano il caduceo e il segno di Tanit. Gli arredi funerari più ricchi includono ancora gioielli, amuleti, vetri policromi, uova di struzzo dipinte, che sono tipi ampiamente distribuiti in tutto il mondo punico. I gioielli, principalmente in argento, sono decorati, anch’essi come in Sardegna, con filigrane o granulazioni. Gli amuleti in osso o pasta silicea smaltata riproducono iconografie o motivi di ispirazione egiziana. I vetri po- licromi appartengono alla tipologia dei piccoli porta balsamo, che riproducono forme greche o a piccolissimi pendenti a forma di maschera umana spesso dotati di un certo taglio di capelli e una barba curva. Infine, le uova di struzzo dipinte, deposte nelle tombe come simboli di rinascita, possono essere lavorate sotto forma di una tazza o sotto forma di piccole maschere con grandi occhi per scongiurare le influenze maligne. Da questo confronto tra l’esperienza fenicio-punica in Sicilia e quella avvenuta in Sardegna si possono evince- re come l’amalgamarsi delle culture abbia risposto, talvolta, in affinità ma più spesso in sostanziali differenze legate al substrato culturale nelle quali queste realtà si sono insediate. Questo anche a dimostrazione del fatto che essere più o meno accoglienti o più o meno respingenti, intendo come popolo, non serva comunque ad arrestare il processo di fusione tra le varie esperienze artistico-culturali di mondi che si affiancano.

"Le radici delle Cultura sono amare, ma i frutti sono dolci". Aristotele

Percorsi Etruschi "In verità è impressionante constatare che per due volte, nel VII Secolo a. C. e nel xv d.C., pressoché la stessa regione dell’Italia centrale, l’Etruria antica e la Toscana moderna, sia stato il focolaio determinante della Ci- viltà Italiana". Jacques Heurgon Gli Etruschi compaiono nell’VIII secolo a.C., proprio nel periodo in cui si determina la Magna Grecia, occupando una parte dell’Italia centrale denominata Etruria che comprende la Toscana, parte dell’Umbria occidentale fino al fiume Tevere, il Lazio settentrionale fino a Roma e i territori liguri a sud del fiume Magra.

17 Le loro origini restano, a tutt’oggi un mistero, Secondo lo storico greco Erodoto (V scolo a.C.), essi erano giunti in Italia dalla Lidia (una regione dell’Asia Minore) prima della guerra di Troia, in conseguenza di una grave carestia e guidati dal principe, Tirreno (Thyrrenos o Tyrsenos). Da qui il nome Tirreni (Tyrsenoi) con cui li chiamavano i Greci, nonché quello del mare prospiciente le coste della Toscana, centro della loro civil- tà. Dionigi di Alicarnasso (I secolo a.C.) sosteneva, invece, sulla base di osservazioni di carattere linguistico ed etnologico, che l’origine fosse autoctona. Tito Livio li collega a popolazioni scese nella penisola da oltre le Alpi. A tutt’oggi non ci sono ancora certezze. L’Etrusco come lingua, non appartiene alla famiglia delle indoeuropee e la sua origine è particolarmente misteriosa; scomparve dopo la conquista romana dell’Etruria. Esistono soltanto circa 6000 testi molto brevi (epigrafi su tombe, iscrizioni su manufatti e monumenti) che rendono difficile un’analisi approfondita del linguaggio. Il loro alfabeto arriva certo dalla Magna Grecia ma non conosciamo il significato delle parole. I secoli VII e VI a.C. sono quelli della maggior espansione degli Etruschi. Essi, grazie alle loro progredite capacità tecniche, si imposero sulle meno evolute popolazioni italiche con le quali entrarono in contatto (tra gli altri i Piceni, i Dauni, i Campani, i Lucani). Arrivarono a controllare un’ampia zona della penisola, dalla Pianura Padana e dalle coste adriatiche della Romagna fino alla Campania. Anche il Lazio, punto nodale per assicurare il colle- gamento fra i domini del centro-Nord e la Campania, cadde sotto l’influenza etrusca. Roma stessa per un certo periodo fu sotto il controllo di sovrani Etruschi, infatti vi regnò la dinastia dei Tarquini che venne cacciata nel 509 a.C., quando fu proclamata la Repubblica. In un primo tempo Etruschi e Greci stabilirono rapporti pacifici. In seguito, con la penetrazione greca nella costa salernitana e nel retroterra dell’etrusca Capua, si scatenò la rivalità commerciale e politica. Con il V secolo a.C. iniziò il declino della potenza etrusca. A nord i Celti li cacciarono dalla Pianura Padana. A sud le città greche li respinsero con una guerra culminata in una battaglia navale presso Cuma, nel 474 a. C.. Cinquant’anni dopo, nel 423 a.C., gli Etruschi persero la ricca città di Capua, in Campania, occupata dalla popolazione appenninica dei Sanniti. Intanto cresceva la potenza romana che, liberatasi dall’egemonia degli Etruschi, tra il IV e il III secolo a.C., riuscì, a poco a poco, ad occupare tutto il loro territorio. Essi fondarono molte città spesso rivali e in conflitto tra loro, tanto che alcune ne sottomisero altre giunsero a costituire delle leghe, ma non realizzarono mai un’unità politica. La lega più importante era la Dodecapo- li, unione di dodici città. Essa comprendeva i principali centri dell’Etruria marittima (Cerveteri, Veio, Tar- quinia, Vulci, Vetulonia, Roselle, Populonia) e dell’Etruria centro-settentrionale (Volsinii, Chiusi, Perugia, Arezzo, Volterra). Più che politica, la funzione di queste federazioni era religiosa. La Dodecapoli si riconosce- va, per esempio. Nel grande santuario della dea Voltumna, a Volsinii, dove periodicamente si svolgevano feste e giochi comuni. Le città erano difese da imponenti mura. Erano solide e all’avanguardia: opere fognarie, acquedotti, strade perpendicolari ben livellate, drenate e per- fettamente levigate. Il loro accesso avveniva attraverso porte monumentali con copertura ad arco. In un sito più elevato si ergeva l’Acropoli, dove si innalzavano i templi. Come ricorda lo storico latino Varrone (I secolo a.C.), la fondazione delle città etrusche iniziava tracciando il sulcus primigenius, un solco effettuato nel terreno con una coppia di buoi bianchi che trainavano un aratro lungo il futuro perimetro delle mura. Originariamente il potere giudiziario e militare era concentrato nelle mani di sovrani chiamati Lucumòni, eletti a vita e assistiti da un consiglio degli anziani. Il consiglio degli anziani era formato da esponenti dell’aristocrazia. Tra il VI e il V secolo a.C. l’autorità monarchica si indebolì progressivamente lasciando il posto a una repub-

18 blica di tipo oligarchico. Il potere risiedeva nelle mani di un senato e di un collegio di magistrati eletti annual- mente e chiamati zilhat e maru. I maru erano dotati di funzioni religiose e politiche. Al vertice della società etrusca c’erano le grandi famiglie aristocratiche. Queste erano proprietarie di terreni coltivati a latifondo e di miniere. Seguivano i ceti popolari e i servi. Entrambi erano esclusi da qualsiasi partecipazione al potere politico. Lavoravano nell’agricoltura, nell’estrazione dei metalli, nel commercio e nell’artigianato. Gli schiavi, veri e propri, erano molto numerosi e i servi semiliberi. Questi potevano possedere greggi e terre. I lautni godevano di un rapporto privilegiato con una famiglia aristocratica. Questa affidava loro incarichi di partico- lare importanza e responsabilità. Molti venivano seppelliti nelle tombe della famiglia che li proteggeva. Tra i lautni vi erano forse anche degli schiavi liberati, simili ai liberti romani. Particolarmente degna di rilievo era la posizione della donna nella società etrusca dove non esisteva una separazione netta fra i sessi, né nella vita di tutti i giorni né nelle occasioni pubbliche. Tale separazione era invece rigida nella cultura greca e ancor di più in quella romana arcaica. L’Etruria propriamente detta (fra la Toscana e il Lazio) era una regione da suo- li pianeggianti o collinari molto fertili. Gli Etruschi li resero ancora più produttivi con efficaci tecniche idrau- liche di drenaggio e di irrigazione. Vi coltivavano cereali, vite e olivo. Erano anche dotati di alberi d’alto fusto che fornivano legname pregiato utilizzato nell’edilizia civile e nella cantieristica navale. Il territorio abbondava anche di giacimenti minerari: rame, argento, piombo, allume e soprattutto ferro: particolarmente abbondante nell’isola d’Elba. I Greci chiamavano l’isola "la Fumosa" per il fumo che si levava senza interruzioni dai grandi stabilimenti che gli Etruschi vi avevano impiantato. Essi non si limitavano a esportare e a commerciare metalli grezzi, ma oggetti lavorati e di pregio: gioielli, armi, vasellame di lusso, suppellettili, ceramiche, corredi e urne funerarie. In particolare nel settore della ceramica, a partire dal VII secolo a.C., si distinsero nella produzione e nella esportazione di buccheri: brocche realizzate con ceramica lucida e nera, con impressi rilievi a stampa. Nella religione etrusca l’influsso della civiltà greca è particolarmente evidente. Dal mondo greco derivano infatti le principali divinità: Traesse Tinia, il signore della folgore, corrispondente allo Zeus greco; Uni, sua sposa, corrispondente alla Era greca e alla romana Giu- none; Minerva, che anche presso i Romani manterrà lo stesso nome. Credevano nella vita dopo la morte. La immaginavano simile a quella terrena, allietata da musiche, danze e balletti. In origine cremavano i defunti e deponevano le ceneri in urne chiamate canopi. In seguito adottarono la sepoltura e tumularono i cadaveri negli ipogei. Potevano essere grandi o piccoli, semplici o sontuosi, a se- conda del rango della famiglia. Le tombe erano finemente affrescate con motivi religiosi o naturalistici. Acco- glievano oltre all’urna o al sarcofago del defunto anche il corredo funerario e una serie di suppellettili. Abili nell’arte divinatoria, la capacità cioè di prevedere il futuro o di interpretare la volontà degli dei. Tutt’oggi alcune persone praticano ancora un neo-paganesimo d’ispirazione etrusca. Alcuni sacerdoti erano specializ- zati nell’osservazione del volo degli uccelli, gli àuguri. Altri che interpretavano il significato dei fulmini. Altri ancora, gli aruspici, capaci di leggere le viscere degli animali sacrificati, in particolare il fegato. L’aruspicina, ovvero la disciplina degli aruspici, è illustrata da uno straordinario reperto noto con il nome di Fegato di Pia- cenza. A differenza dei Greci non avevano a disposizione un materiale pregiato come il marmo e si accontentarono della pietra calcarea e dell’argilla, dalla quale si ottiene la terracotta ma impararono a modellare figure sempre meno schematiche e rigide. Tuttavia le loro sculture sono prive dell’attenzione per l’anatomia e l’armonia tipica dell’arte greca classica. Il loro interesse si concentrò sui dettagli decorativi, sui gesti e sui volti, che do- vevano comunicare forza, vitalità ed espressività. A differenza della Grecia, l’Etruria ci ha lasciato numerose

19 testimonianze della sua pittura originale, soprattutto sulle pareti delle tombe: cerimonie religiose, scene di caccia, danze, spettacoli, giochi e banchetti. Si desiderava infatti che il defunto ritrovasse i momenti e gli aspet- ti più piacevoli della sua vita terreni. Inizialmente gli affreschi erano molto semplici. Poi, a partire dalla metà del IV secolo a.C. divennero più ricchi. Venne usato il chiaroscuro e si dedicò attenzione alle linee e ai colori. Col tempo i temi delle pitture mutarono. Si dipingevano demoni infernali, viaggi nell’aldilà. Essi mostravano un mondo più cupo, quasi ossessionato dalla morte. Sono molti i designer che hanno guardato all’Arte Etrusca: le linee primordiali e l’oggettistica, le forme semplici, la capacità di sintesi, il tutto unito a quel senso dell’ele- ganza che contraddistinse gran parte della loro produzione.

"Le forme schiette, essenziali della plastica etrusca", ha scritto l’archeologo Marcello Barbanera, "si adatta- vano alle esigenze di rigore e di reazione ai volumi classici comuni alle principali correnti artistiche dell’inizio del Novecento come il Cubismo, l’Espressionismo, il Fauvismo, il Futurismo". E di lì in avanti diversi di coloro che, nell’arte come nel design, andavano alla ricerca di rigore e reazione ai volumi classici, non poterono non guardare agli oggetti prodotti dagli Etruschi. Tra gli artisti italiani novecenteschi più noti, che si sono ispirati all’arte etrusca, troviamo i pittori Massimo Campigli, Mario Schifano e gli scultori Arturo Martino, Marino Marini e Alberto Giacometti.

Roma Caput Mundi "Tu non potresti vedere nulla maggior di Roma!" diceva Orazio nel I Sec. A. C; "Si trovano a Roma vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo tali, che superano l’una e l’altro, la nostra immaginazione." Goethe

In tempi odierni, Carlo Azelio Ciampi, recentemente dichiarava: "Essere nati e vivere in Italia è un dono: a Roma, è un privilegio". Questo c’introduce nell’immortale bellezza di Roma dove coesistono un’enormità di culture, e le sue tracce hanno influenzato il mondo. Il nucleo antico della città è costituito dagli storici sette colli: Palatino, Aventino, Campidoglio, Quirinale, Viminale, Esquilino e Celio. Il centro storico comprende anche i colli Gianicolo, Pincio e Vaticano, oltre ai rilievi artificiali di Monte Testaccio e Monte Giordano. La città, oltre che dal Tevere, è attraversata anche dall’Aniene, suo affluente a nord dell’odierno territorio urbano. Sull’origine del nome Roma sono state formulate diverse ipotesi; la più diffusa è che il nome potrebbe derivare da Roma, figlia di Italo (o di Telefo figlio di Ercole), sposa di Enea o di suo figlio Ascanio. Ma è piacevole anche pensare che si tratti di Amor, cioè la parola Roma se letta da destra verso sinistra come secondo l’interpreta- zione dello scrittore bizantino Giovanni Lido, vissuto tra il V e il VI secolo. Fondata secondo la tradizione da Romolo, nel 21 aprile 753 a.C., dopo aver ucciso il fratello Remo col quale era stato cresciuto e allattato da una Lupa diventata simbolo della Roma Capitolina, fu retta per un periodo di 244 anni da un sistema monarchico, con sovrani inizialmente di origine latina e sabina, e successivamente etrusca. La tradizione tramanda sette re: lo stesso Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Espulso dalla città l’ultimo re etrusco e instaurata una repubblica oligarchica nel 509 a.C., per Roma ebbe inizio un periodo contraddistinto dalle lotte interne tra patrizi e plebei e da continue guerre contro le popola- zioni italiche: Etruschi, Capenati, Falisci, Latini, Volsci, Equi. Divenuta padrona del Lazio, condusse diverse guerre (contro Galli, Osco-Sanniti e la colonia greca di Taranto, alleatasi con Pirro, re dell’Epiro) che le per- misero la conquista della penisola italica, dalla zona centrale fino alla Magna Grecia. Il III ed il II secolo a.C.

20 furono caratterizzati dalla conquista romana del Mediterraneo e dell’Oriente, dovuta alle tre guerre puniche (264-146 a.C.) combattute contro la città di Cartagine e alle tre guerre macedoniche (212-168 a.C.) contro la Macedonia. Così vennero istituite le prime province romane: la Sicilia, la Sardegna e Corsica, la Spagna, la Macedonia, la Grecia (Acaia), l’Africa. In questo modo Roma divenne presto un impero. Nella seconda metà del II secolo e nel I secolo a.C. si registrarono numerose rivolte, congiure, guerre civili e dittature: sono i se- coli di Tiberio e Caio Gracco, di Giugurta, di Quinto Lutazio Catullo, di Gaio Mario, di Lucio Cornelio Silla, di Marco Emilio Lepido, di Spartaco, di Gneo Pompeo, di Marco Licinio Crasso, di Lucio Sergio Catilina, di Marco Tullio Cicerone, di Gaio Giulio Cesare e di Ottaviano, che, dopo essere stato membro del secondo triu- mvirato insieme con Marco Antonio e Lepido, nel 27 a.C. divenne princeps civitatis e gli fu conferito il titolo di Augusto. Istituito de facto l’Impero, che conobbe la sua massima espansione nel II secolo, sotto l’imperatore Traiano, Roma si confermò Caput Mundi, cioè capitale del mondo, espressione che le era stata attribuita già nel perio- do repubblicano. Il territorio dell’impero, infatti, spaziava dall’Oceano Atlantico al Golfo Persico, dalla parte centro-meridionale della Britannia all’Egitto. I primi secoli dell’impero, in cui governarono, oltre ad Ottaviano Augusto, gli imperatori delle dinastie Giulio-Claudia, Flavia (a cui si deve la costruzione dell’omonimo anfite- atro, noto come Colosseo) e gli Antonini, furono caratterizzati anche dalla diffusione della religione cristiana, predicata in Giudea da Gesù Cristo nella prima metà del I secolo, sotto Tiberio, e divulgata dai suoi apostoli in gran parte dell’impero. Nel III secolo, al termine della dinastia dei Severi, iniziò la crisi del principato, cui seguì un periodo di anarchia militare. Quando salì al potere Diocleziano (284), la situazione di Roma era gra- ve: i barbari premevano dai confini già da decenni, le province erano governate da uomini corrotti. Per gestire meglio l’impero, Diocleziano lo divise in due parti: egli divenne Augusto della parte orientale, con residenza a Nicomedia, e nominò Valerio Massimiano Augusto della parte occidentale, spostando la residenza imperiale a Mediolanum, l’attuale Milano. L’impero venne suddiviso ulteriormente con la creazione della tetrarchia: i due Augusti, infatti, dovevano nominare due Cesari, a cui affidavano parte del territorio e che sarebbero diventati, successivamente, i nuovi imperatori. Una svolta decisiva si ebbe con Costantino, che, in seguito a numerose lotte interne, centralizzò nuovamente il potere e, con l’editto di Milano del 313, dette libertà di culto ai cristiani, impegnandosi egli stesso per dare sta- bilità alla nuova religione. Fece costruire diverse basiliche, consegnò il potere civile su Roma a Papa Silvestro I e fondò nella parte orientale dell’impero la nuova capitale, Costantinopoli. Il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’impero grazie ad un editto emanato nel 380 da Teodosio, che fu l’ultimo imperatore di un impero unificato: alla sua morte, infatti, i suoi figli, Arcadio ed Onorio, si divisero l’impero. La capitale dell’Impero romano d’Occidente divenne Ravenna. Roma, che non ricopriva più un ruolo centrale nell’amministrazio- ne dell’impero, venne saccheggiata dai Visigoti comandati da Alarico (410); impreziosita nuovamente dalla costruzione di edifici sacri da parte dei papi (con la collaborazione degli imperatori), la città subì un nuovo saccheggio nel 455, da parte di Genserico, re dei Vandali. La ricostruzione di Roma venne curata dai papi Leone I (defensor Urbis per avere convinto Attila, nel 452, a non attaccare Roma) e dal suo successore Ilario, ma nel 472 la città fu saccheggiata per la terza volta in pochi decenni ad opera di Ricimero e Anicio Olibrio. La deposizione di Romolo Augusto del 22 agosto 476 decretò la fine dell’Impero romano d’Occidente e, per gli storici, l’inizio del Medioevo. Roma è oggi considerata una fra le più importanti città d’arte del mondo; nel suo territorio vi sono opere testi- monianza di tutte le civiltà che l’hanno abitata nelle varie epoche, dalle opere romane a quelle medievali, rina-

21 scimentali, barocche, romantiche e contemporanee: per questo risulta essere la città che possiede più monu- menti al mondo. L’arte romana fu fortemente influenzata da due correnti culturali differenti: la cultura italica (in particolar modo etrusca) e la cultura greca ellenistica; i Romani, tuttavia, non davano molta importanza al mondo dell’arte, considerata causa di corruzione del mos maiorum. A Roma, fin dai primi secoli, si affermò la ritrattistica, legata al culto degli antenati. La conquista dei popoli stranieri fece confluire nella città capitolina immense ricchezze derivanti dalla spoliazione dei templi e delle città nemiche: la definitiva conquista dei terri- tori ellenici, inoltre, la mise a diretto contatto con i tesori dell’arte greca. L’architettura romana basava i propri schemi costruttivi sul principio dell’arco e della volta; la cupola fu la vera e propria invenzione romana, insieme con la fitta rete stradale che collegava Roma con le altre città dell’impero. La pittura romana, probabilmente simile a quella ellenistica, viene convenzionalmente suddivisa in quattro stili, detti pompeiani; a Roma si sono conservati alcuni esempi in varie dimore patrizie, ad esempio nella villa di Livia e presso la Casa della Farne- sina. L’arte romana può essere divisa in due filoni: arte aulica (o patrizia) e arte plebea, da cui derivò l’Arte Paleocristiana e gran parte dell’Arte Medievale. Proprio il cristianesimo modificò l’aspetto della città, che si arricchì di catacombe, di basiliche (costruite sull’esempio di quelle civili), di chiese con decorazioni musive. Nel corso della sua plurisecolare storia, Roma è stata sede di centinaia di teatri (il più antico in muratura era il teatro di Pompeo e si possono menzionare tra gli altri il teatro di Marcello e quello di Ostia) ed altri edifici ludici, come i circhi (il più celebre dei quali è il Circo Massimo, capace di ospitare circa 250 000 spettatori) nonché gli anfiteatri (tra cui è degno di nota il Colosseo, divenuto simbolo della città e dell’anfiteatro stesso). Gli acquedotti furono costruiti in età antica: la loro lunghezza complessiva arrivò a misurare circa 350 km. Ca- ratterizzano il centro cittadino anche alcuni archi trionfali antichi (arco di Tito, arco di Settimio Severo, arco di Costantino) e i resti di diverse terme, uno dei principali luoghi di ritrovo durante l’antichità (tra cui le terme di Caracalla, le terme di Diocleziano e le terme di Tito). Il Tevere e l’Aniene, i fiumi che attraversano la città, sono scavalcati da più di una trentina di ponti: nell’area ur- bana, 28 attraversano il Tevere (tra cui gli antichi ponte Milvio, ponte Sant’Angelo, ponte Sisto e ponte Fabri- cio), mentre 5 sono stati costruiti per l’attraversamento dell’Aniene, tra cui il ponte Nomentano. La principale cerchia muraria della città, fatta costruire dall’imperatore Aureliano, è ancora in gran parte esistente e delimita il suo centro storico; in origine lunga circa 19 km con 18 porte, la maggior parte delle quali si apriva su una via consolare: tra le più imponenti ancora oggi, le attuali porta Maggiore, porta San Sebastiano e porta San Paolo. Roma è l’unica capitale europea ad avere conservato quasi interamente il circuito delle sue mura. Tra i castelli rimangono invece Castel Sant’Angelo, costruito dai papi a controllo della città sulla riva destra del Tevere, il Castrum Caetani sull’Appia antica, la Rocca di Ostia a Ostia Antica, il Castello della Cecchignola, il Castello della Magliana, il Castello di Isola Farnese, il Castello di Corcolle, il Casal de’ Pazzi, il Castello di Lunghezza, il Castello di Porcareccia, il Castello di Torrenova. Roma è anche la città che conserva il maggior numero di obelischi: molti risalgono all’età imperiale, quando gli obelischi venivano trasportati direttamente dall’Egitto; altri furono realizzati dai romani, che usarono lo stesso granito degli Egizi. Fin dall’antichità, strade, piazze ed edifici di Roma sono ornati da statue di vario genere (equestri, statue in piedi, statue sedute, busti). Anticamente ad esse era attribuito quasi un potere mistico, in grado di proteggere il popolo romano e rappresentare il consesso degli dei. Particolari e caratteristiche sono le sei statue parlanti (tra cui Pasquino e la statua del Babuino), attraverso le quali il popolo, in modo satirico e pungente, esprimeva il proprio malumore nei confronti di chi deteneva il potere in città. Nel quartiere Europa, si trova il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, che raccoglie materiale tra-

22 dizionale e folcloristico-popolare proveniente da tutta Italia. Si ricordano solo alcune tra le più caratteristiche come il Natale di Roma, il 21 aprile, la data in cui, secondo la tradizione, Romolo avrebbe fondato la città (753 a.C.) e che viene festeggiato con rappresentazioni in costume, eventi culturali e manifestazioni ludiche, e la Festa de Noantri che si svolge a Trastevere. Si festeggia il primo sabato dopo il 16 luglio in occasione della ricorrenza della Madonna del Carmelo. L’idioma utilizzato comunemente dalla popolazione, oltre alla lingua ufficiale italiana, è il romanesco, che, come la maggior parte dei dialetti italiani, non ha alcuna ufficialità. Formatosi in età medievale, originariamen- te era affine ai dialetti meridionali, per poi subire l’influenza culturale del fiorentino durante il Rinascimento, che lo rese più simile alla parlata toscana. Il romanesco, come tutte le lingue, si è poi evoluto negli anni (Giu- seppe Gioachino Belli, nella prima metà dell’Ottocento, usa forme linguistiche che non vengono utilizzate da Trilussa all’inizio del Novecento), e dall’inizio del XX secolo si è diffuso anche in altre zone del Lazio, in conseguenza della crescita demografica. Pur non dimenticando i più antichi scrittori e filosofi come Virgilio, Fedro, Seneca e Cicerone che, naturalmente, scrivevano in latino.

Altre tipicità che risalgono alle origini riguardano la cucina romana già descritta nel Satyricon di Petronio "Arbitro e nelle ricette di Apicio" e che si basa su carni battute, legumi, ortaggi, pesci e vino. La cucina roma- nesca, a partire dal Medioevo, si divise in cucina pontificia, consumata alla corte dei Papi, e cucina popolare, maturata sino ai nostri giorni. Quest’ultima si basa su ingredienti semplici ma saporiti, sull’uso di erbe aroma- tiche, di avanzi e frattaglie, di strutto, olio e battuto a base di lardo, guanciale, ventresca e grasso di prosciutto. Tra i piatti tipici, vi sono l’abbacchio al forno, la coda alla vaccinara, la coratella, i rigatoni con la pajata, i sal- timbocca, la trippa di bue, i carciofi alla romana, l’amatriciana, la carbonara, la cacio e pepe, il pangiallo e piatti della cucina ebraico-romanesca tra cui i carciofi alla giudia e i calzonicchi. Famoso ed esemplare in tutto il mondo è il Diritto Romano, riferimento giuridico ancora oggi studiato in tutto il mondo.

"Gli Italiani sono famosi nel mondo per due cose: il Diritto Romano, e il diritto d’infischiarsene". Stellario Panarello

Cenni storici sul Medioevo e le Diverse Impronte Artistiche Il Medioevo è il periodo che, iniziando mentre l’Impero romano si dissolve, fondendo la cultura latina con quella dei popoli che hanno gradatamente invaso l’impero, con il cristianesimo come collante, dà vita a quella che chiamiamo oggi Europa, con le sue nazioni, le lingue che ancora parliamo e le istituzioni che, sia pure at- traverso cambiamenti e rivoluzioni, sono ancora le nostre. Umberto Eco Convenzionalmente si ritiene che il Medioevo sia durato circa mille anni, grosso modo dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C. (la parte orientale sopravvivrà fino al 1453) quando viene deposto l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo, alla scoperta dell’America nel 1492. All’interno di questa lunga fase storica si procede ad una ulteriore periodizzazione tra Alto Medioevo compreso grosso modo tra il V e il X secolo, e Basso (o Tardo) Medioevo compreso grosso modo tra l’XI e il XV secolo. Nell’opinione comune il sostantivo "Medioevo" e l’aggettivo "medievale" hanno un significato decisamente negativo. Il Medioevo sarebbe stato un’epoca di barbarie, di arretramento culturale, di analfabetismo, ostile alla all’intelligenza creativa, dove le masse erano prede della superstizione e dell’angoscia esistenziale, terrorizzate dal diavolo

23 e dall’inferno. Tuttavia, senza negare il fatto che il Medioevo sia stato l’epoca in cui è andato in gran parte smarrito l’imponente patrimonio culturale dell’Antichità e senza negare che per molti aspetti le condizioni materiali dell’esistenza peggiorarono notevolmente rispetto a quelle passate, gli storici oggi sottolineano che il Medioevo non è stata un’epoca statica, piatta, uniforme. Al contrario, numerosissime trasformazioni hanno investito, in quest’epoca, l’economia, il popolamento, la vita materiale, ma anche la religione, il pensiero, l’arte, le istituzioni e la politica. Già nella prima metà del V secolo si formano, sugli ex territori imperiali, i seguenti regni: il Regno dei Visigoti nella penisola iberica; il Regno dei Vandali in Africa settentrionale; il Regno degli Ostrogoti in Italia; i regni Anglo-Sassoni in Gran Bretagna; il Regno dei Franchi in Gran Bretagna. Tra i nuovi regni che si formano in Europa occidentale, quello dei Longobardi occupa gran parte dell’Italia tra il VI e l’VIII secolo. Le tradizioni longobarde sono lontane dalla civiltà giuridica e amministrativa dei Romani. Tuttavia con il passare dei decenni, l’abbandono della religione ariana in favore di quella cattolica e la promulgazione dell’Editto di Rotary (643), il primo codice scritto di leggi longobarde, contribuiscono all’integrazione dei Longobardi e alla formazione di una nuova civiltà, che dura fino alla sconfitta subita da parte dei Franchi nel 774. Anche i Franchi sono un popolo di origine germanica, proveniente dalla regione del Reno. Grazie al re Carlo Magno, incoronato imperatore da papa Leone III nell’anno 800, nel cuore dell’Europa medievale rinasce l’idea di un impero universale, il Sacro Romano Impero, che comprende i territori della Francia, della Germania, dell’Italia. L’ambizioso progetto di far rivivere l’Impero di Roma nel quadro di una nuova Europa cristiana ma svanisce però con la morte di Carlo Magno. Dalla divisione dell’Impero tra i suoi successori nasceranno infatti tre entità politiche distinte.

Intanto con Carlo Magno nasce il Feudalesimo, una forma di organizzazione del potere e della società: un siste- ma politico, economico e sociale basato sul meccanismo del vassallaggio. Consuetudine già affermata in Fran- cia per assicurarsi il controllo dei territori conquistati e per tenere a bada l’irrequieta nobiltà franca. Nel siste- ma feudale, per vassallaggio s’intende il rapporto di dipendenza che intercorrente tra il signore e i suoi vassalli. In cambio di un feudo o beneficio, solitamente un possedimento terriero, il vassallo assicurava al signore il suo sostegno militare. Al giuramento del vassallo faceva seguito l’investitura: il signore gli consegnava un simbolo del feudo da lui concesso, per esempio uno scettro, un’insegna, un bastone, una zolla erbosa, un guanto, un anello ed esso entrava così in possesso di un feudo come usufruttuario; la proprietà era conservata da colui che faceva la concessione. Il vincolo così consacrato non poteva essere violato: sul vassallo che fosse venuto meno agli obblighi assunti si riversava la riprovazione collettiva e lo si bollava con il marchio disonorevole di fellone. Ugualmente riprovevole era un signore che non rispettava gli impegni presi nei confronti del vassallo. Il vassallaggio era una struttura piramidale. Sotto il vassallo con incarichi sempre più umili vi erano i valvassori e i valvassini. La diffusione del sistema feudale determinò la nascita di una nuova organizzazione politica e so- ciale, che giunse a maturazione intorno all’anno Mille e si diffuse e radicò capillarmente. Tra il IX e il X secolo l’Europa deve affrontare un’ulteriore crisi, causata dalla dissoluzione del Sacro Romano Impero dovuto alle incursioni Normanne, da Nord, di Saraceni, da Sud, e di Magiari (o Ungari), da Est. Nelle città del X secolo, poco per volta, vengono rialzate le mura, mentre nelle campagne si infittiscono i castelli a difesa delle popolazioni rurali. L’Impero, divenuto ora romano-germanico, si rafforza con gli Ottoni (secc. X e XI), con la casa di Franconia (secc. XI-XII) e con quella di Svevia (secc. XII-XIII). Al tempo degli Svevi, l’Impero entra in urto con i Comuni Italiani, che reclamano la propria autonomia nor-

24 mativa e finanziaria. Federico I Barbarossa, sconfitto, è costretto a legittimarli (1183). Le città europee prendono nuovo slancio; i Normanni da pirati diventano commercianti e navigano dall’Islanda alla Russia di Kiev, a Costantinopoli; nel Mediterraneo le navi delle città marittime intensificano gli scambi commerciali; la circolazione monetaria si riavvia e si ha la ripresa della coniazione della moneta aurea. Dalla Spagna giungono a Parigi i testi, già tradotti in arabo, di Aristotele. L’introduzione di questo filosofo in Occidente (soprattutto per merito di Tommaso d’Aquino) è determinante per le sorti della cultura, non solo specificatamente filosofica; il razionalismo greco ritorna in Occidente. In campo artistico dalle forme del romanico si passa lentamente al gotico. Nelle città le strade vengono pavi- mentate, le case si elevano a altezze maggiori e anche in Italia compaiono i camini. Il contatto con il mondo orientale, anche grazie alle crociate, favorisce la diffusione non solo dei prodotti preziosi, ma anche dei numeri arabi. Non mancano coloro che vedono nel loro uso un peccato, trattandosi di segni usati da popoli non cri- stiani, ma questi prevalgono ugualmente e favoriscono lo sviluppo della matematica. I secoli XIV e XV vedono ulteriori radicali mutamenti: ai Comuni si sostituiscono le Signorie, che, troppo divise e deboli, non hanno alcuna influenza sulle questioni politiche europee. In campo militare le truppe mercenarie sostituiscono le cittadine e quella del soldato diventa una professione. Le città riprendono la loro espansione urbanistica; la popolazione aumenta grazie al migliorato benessere economico e nonostante le frequenti e terribili pestilenze. Alcune corti, come quella degli Estensi a Ferrara, degli Sforza a Milano, dei Medici a Firenze e quella ponti- ficia a Roma, diventano centri di cultura e di lusso. Il XV secolo vede sorgere inoltre una nuova attività, che segna una rivoluzione assai importante: la stampa a caratteri mobili. Si ha così una diffusione della cultura, mai avuta prima sia per la lentezza della trascrizione manoscritta dei testi, sia per l’altissimo costo. La diffusione della stampa e la conoscenza dei classici (pagani e cristiani) permettono la nascita della filologia in Occidente. Si aggiunga che da Costantinopoli, caduta in mano agli Ottomani nel 1453, affluiscono in Occidente uomini di cultura che portano con sé nuovi manoscritti e diffondono la conoscenza del Greco. In questo contesto poli- tico e culturale termina la Guerra dei cent’anni, che ha contrapposto nel XIV e XV secolo Francia e Inghilterra e che ha definito la loro individualità di Stati nazionali. In Spagna cade a Granata l’ultima resistenza dei Mori (1492) e si conclude così la Reconquista. Contemporaneamente a quest’ultimo evento Cristoforo Colombo scopre l’America partendo sulla presunta via delle Indie. Le conseguenze di questo fatto sono enormi perché si sposta poco per volta l’asse degli interessi europei e mutano i tradizionali rapporti di forza tra le grandi po- tenze.

L’Arte dei Goti e dei Bizantini Gli Ostrogoti erano la branca orientale dei Goti. Nel 461 Teodorico Amalo, figlio di Teodomiro della dina- stia degli Amali, venne mandato a Costantinopoli come ostaggio, dove ricevette un’educazione romana ma una volta tornato in Italia riuscì ad uccidere il Re Odoacre e massacrò tutti i suoi soldati. A questo punto Teodorico divenne il padrone dell’Italia e spostò la capitale a Ravenna. Dopo la sua morte del 30 agosto 526, Giustiniano, regnante dell’Impero Romano d’Oriente, fresco della vittoria sui Vandali era già pronto a reclamare l’Italia. A causa della breve storia del regno, l’arte dei due popoli, Italiani e Goti, non subì mai una fusione. Sotto il patrocinio di Teodorico, comunque, vennero svolti numerosi restauri di edifici dell’antica Roma. A Ravenna vennero costruite nuove chiese ed edifici monumentali, molti dei quali sono tuttora in piedi. La Ba- silica di Sant’Apollinare Nuovo, il suo battistero, e la Cappella Arcivescovile seguono uno stile architettonico

25 Tardo Romanico, mentre il Mausoleo di Teodorico mostra elementi puramente gotici, tipo il mancato uso di mattoni a cui vennero preferiti blocchi di calcare istriano e il tetto in monoblocco di pietra da 300 ton- nellate. Buona parte dei lavori di Letteratura sono in Lingua Latina. Cassiodoro, provenendo da un conte- sto diverso, ed egli stesso incaricato di compiti importanti nelle istituzioni (console e magister officiorum), rappresenta la classe dirigente romana. Come molti altri con le stesse origini, servì lealmente Teodorico e i suoi eredi, come descritto nelle sue opere del tempo. Il suo Chronica e altri panegirici scritti per i re Goti del tempo, vennero redatti sotto la protezione dei Signori Goti stessi. La sua posizione privilegiata gli permise di compilare il Variae Epistolae, un epistolario di comunicazioni di Stato, che ci permette un’ottima conoscen- za della diplomazia gotica del tempo. Boezio è un’altra importante figura. Ben educato e proveniente da una famiglia aristocratica, scrisse di matematica, musica e filosofia. Il suo lavoro più famoso, il De consolatione philosophiae, venne redatto mentre si trovava imprigionato con l’accusa di tradimento. L’Arte Bizantina, inve- ce, si è sviluppata nell’arco di un millennio, tra il V ed il XV secolo, prima nell’ambito dell’Impero romano, poi di quello bizantino, che ne raccolse l’eredità e di cui Costantinopoli fu capitale. Le caratteristiche più evidenti dei canoni dell’arte bizantina sono la religiosità, l’anti-plasticità e l’anti- naturalismo. Un’astrazione soprannaturale intesa come appiattimento e stilizzazione delle figure. Infatti il gusto principale dell’Arte Bizantina è stato quello di descrivere le aspirazioni dell’uomo verso il divino. L’arte bizantina ha comunque avuto espressioni stilistiche molto diverse fra di loro nei suoi oltre mille anni di vita, ma nell’Impero d’ Oriente l’Arte rimase quasi invariata e potrebbe essere divisa in un primo periodo paleobi- zantino, dalla fondazione di Costantinopoli al VI secolo, nel quale inizialmente assorbe la produzione artistica di Roma, Alessandria d’Egitto, Efeso e Antiochia, ossia il linguaggio artistico dell’antichità, per elaborarlo e trasformarlo in un genere adatto soprattutto al suo mondo spirituale ma anche a quello imperiale e a cui segue un secondo periodo denominato "prima età d’oro" (VI secolo), nel quale l’espressione artistica raggiunge alti livelli di qualità e produce capolavori. La terza fase è rappresentata da un periodo di involuzione che parte dal VII secolo e prosegue durante l’intera lotta iconoclastica (726-843); segue il periodo della cosiddetta Ri- nascenza macedone (IX-XI secolo), nel quale si recuperano modi espressivi dell’arte ellenistica oltre ad una certa vivacità e floridezza complessiva che si protrae e si innalza ulteriormente nel seguente periodo comne- no (XII secolo), con un’arte di tipo linearistico, di notevole fioritura artistica da imporsi, per la sua eleganza e raffinatezza, su tutta l’arte europea dando vita ad una "seconda età dell’oro" che arriva fino alla caduta di Costantinopoli sotto i Latini (1204). Con la ripresa bizantina della capitale (1261) si ha l’ultimo periodo di fioritura con l’Arte Paleologa (detta anche Rinascenza Paleologa, per il nuovo recupero dell’Arte Ellenistica), fino alla definitiva caduta della capitale sotto Maometto II nel 1453. L’Arte Bizantina, con la sua ieraticità e il suo carattere a-spaziale, si richiama evidentemente al misticismo del cristianesimo nell’Impero Bizantino (Origene) ed è "coerente con il pensiero del tempo, in gran parte caratterizzato dal neoplatonismo: la tecnica musiva è propriamente il processo del riscatto dalla condizione di opacità a quella, spirituale, della traspa- renza, della luce, dello spazio". Dopo la fondazione della nuova capitale da parte di Costantino I (306-337) nel 330, iniziò un complesso programma di costruzione incentrato a legare indissolubilmente la nuova città monumentale con il nome del suo fondatore. L’unico monumento superstite dell’epoca di Costantino è l’Ippodromo, monumentale arena per i giochi che aveva anche la funzione di permettere l’Epifania dell’Imperatore, che si mostrava nella sua tribuna circondato dagli attributi del suo potere e veniva acclamato dal popolo in una visione che doveva sembrare divina. Con Te- odosio II (408-450) vi fu un considerevole ampliamento della città, testimoniato da un vigoroso sviluppo urbano che indusse l’Imperatore a far costruire una nuova cinta muraria che da lui prese il nome. Ma fu solo in epoca giustinianea (VI secolo) che Costantinopoli acquisì quelle caratteristiche monumentali che ne fecero la più splendida città allora conosciuta, soppiantando definitivamente in ricchezza e popolazione i più ricchi e

26 antichi centri urbani del Mediterraneo orientale (Alessandria, Antiochia) e la stessa Roma, la cui popolazione si era ridotta, a seguito delle invasioni barbariche e delle guerre gotiche a poche decine di migliaia di . Durante il regno di Giustiniano furono infatti edificati alcuni dei monumenti più famosi di Costantinopoli, come la magnifica Hagia Sophia, chiesa della Santa Sapienza, ricostruita in seguito a un incendio nelle forme monumentali date dalla maestosa cupola che irradia di una luce quasi ultraterrena il vastissimo spazio dell’au- la a base centrale della basilica. Altre opere dell’epoca di Giustiniano sono la Santa Irene, la chiesa dei Santi Sergio e Bacco, la ricostruzione della chiesa dei Santi Apostoli. La capitale si affermò presto come centro di irradiazione artistica in tutti i campi, grazie al convergere di artisti provenienti da tutto l’impero, che poi ripor- tavano nelle province le novità apprese. A causa delle distruzioni di opere per eventi bellici e naturali nei ter- ritori dell’Impero e in particolare nella stessa Costantinopoli, alcuni dei migliori documenti di Arte Bizantina si trovano in altre aree toccate dall’influenza della Seconda Roma quali l’Italia, la Grecia, i Balcani e, forse in minor misura, in Russia ed Ucraina. A Ravenna si sono conservati i migliori mosaici risalenti all’epoca di Giustiniano I (527-565), grazie al pro- gramma celebrativo iniziato dal vescovo Massimiano a partire dal 560 circa. Specialmente nella Basilica di San Vitale, a base ottagonale con sorprendenti analogie con la chiesa dei Santi Sergio e Bacco a Costantino- poli, tanto da aver fatto pensare alla mano dello stesso architetto, ha un interno sontuosamente decorato, con marmi policromi, stucchi, capitelli e pulvini scolpiti, ma soprattutto da celeberrimi mosaici, dove è celebrata l’epifania di Giustiniano e dell’Imperatrice Teodora, ciascuno accompagnato dai personaggi della corte, tutto lo sfarzo che richiedeva il loro status politico e religioso. L’Arte Bizantina si staccò dalla precedente Arte Paleocristiana per la maggiore monumentalità delle figure, che penalizzò però la resa dei volumi e dello spazio: i corpi sono assolutamente bidimensionali e stereotipati, e solo nei volti regali si nota uno sforzo verso il realismo, nonostante l’idealizzato ruolo semidivino sottolineato dalle aureole. Non esiste prospettiva spaziale, tanto che i vari personaggi sono su un unico piano, immersi nel fondo oro che dà loro una consistenza ultraterrena. Dello stesso periodo è anche la serie di Martiri e Vergi- ni nella chiesa di Sant’Apollinare Nuovo, dove sono ormai ben chiari gli elementi dell’Arte Bizantina: la ripe- titività dei gesti, la preziosità degli abiti, la mancanza di volume (con il conseguente appiattimento o bidimen- sionalità delle figure), l’assoluta frontalità, l’isocefalia, la fissità degli sguardi e la ieraticità delle espressioni; la quasi monocromia degli sfondi (in abbacinante oro), l’impiego degli elementi vegetali a scopo puramente riem- pitivo e ornamentale, la mancanza di un piano d’appoggio per le figure che, pertanto, appaiono sospese come fluttuanti nello spazio. Chiusero la stagione dell’Arte Ravennate i mosaici di Sant’Apollinare in Classe, dove la rappresentazione è ormai dominata dal simbolismo più puro, ormai staccato completamente da qualsiasi esi- genza naturalistica di stampo classico. Infatti lo spazio cristiano ha innanzitutto una dimensione trascendente, intrisa di luce, perciò l’arte figurativa mirava a suggerire la realtà immateriale, derivante dal superamento dei limiti fisici della tangibile tridimensionalità, nella costante aspirazione alla dimensione puramente pirituale.s Durante l’epoca di Teodorico, dal 493 al 526, Roma visse un periodo di pace, governata dal cancelliere Cas- siodoro, mentre il Re risiedeva a Ravenna. I monumenti cittadini subivano un inesorabile e irrimediabile de- grado, tanto da alimentare un mito nostalgico dell’antica Roma (Teodorico stesso si fece mandare colonne e marmi dei palazzi imperiali). Di rilievo fu l’iniziativa di Papa Felice IV (526-530), che decise di rompere la stasi facendo edificare una chiesa nel centro del foro romano, la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, tramite il riutilizzo di parti di edifici preesistenti quali la sala delle udienze e la biblioteca del Tempio della Pace e il ve- stibolo di Massenzio. Si trattava di una rottura della stasi edilizia nel Foro durata più di due secoli e sanciva la continuità tra tradizione classica e cristianesimo in un luogo altamente simbolico. Il grande mosaico del catino absidale rappresenta Cristo tra i Santi Cosma e Damiano e, rispetto al mosaico di Santa Pudenziana (fine del IV,

27 inizio del V secolo), mostra il passaggio ad una rappresentazione più irreale, simbolica e soprannaturale, con il Cristo nell’atto di scendere da una cortina di nuvole infocate disposte in scorcio, che forma un rigido schema triangolare, come se stesse dirigendosi verso l’osservatore. La scena rappresentata è quella della Parusia, cioè la seconda venuta di Cristo profetizzata nell’Apocalisse di Giovanni. È un tema che molta influenza ebbe nella successiva decorazione musiva delle chiese romane specie durante la cosiddetta rinascenza carolingia dove il tema della parusia (e in generale la profezia apocalittica) fu ampiamente ripreso: si veda in particolare il ciclo musivo di Santa Prassede. In ogni caso il mosaico di Cosma e Damiano, coerentemente al fatto che a Roma la tradizione classica offriva ancora modelli su cui confrontarsi, mostra un senso plastico ed una caratterizzazio- ne delle figure più sviluppati dei coevi mosaici bizantini. In questo senso è da notare anche il fatto che sono rappresentate pure le ombre proiettate dalle figure, particolare che scompare nei mosaici romani posteriori, mentre lo sfondo è blu cobalto non in oro. Dopo la conquista di Roma durante le guerre gotiche (552), la città toccò il minimo storico di abitanti (30.000), entrando nel periodo più buio della sua storia. Inizialmente i Bizantini si preoccuparono di restaurare le opere pubbliche di necessità immediata, quali mura, acquedotti, e ponti legati alle vie consolari. La cristianizzazione del centro proseguì con l’apertura di chiese in edifici pubblici o la riconversione di templi come il Pantheon, consacrato nel 609, o il Tempio della Fortuna Virile, divenuto, tra l’872 e l’882, chiesa di Santa Maria in Gradellis. Dall’aula di rappresentanza dei palazzi imperiali venne ricavata la chiesa di Santa Maria Antiqua, coperta da una frana nell’847 e riscoperta solo nel Novecento, con importante tracce di un ciclo di affreschi databile con notevole precisione (grazie ad iscrizione ed altre fonti) a quattro interventi diversi: il primo è quello della Madonna col bambino tra angeli nella nicchia centrale, dipinta subito dopo la conquista bizantina, quasi a sottolineare il cambio di destinazione del palazzo, che presenta la marcata frontalità "iconica" tipicamente bizantina. Il secondo è quello dell’Annunciazione, ad opera di un artista più raffinato e più attento agli effetti della luce, che risale al 565-578, quando l’aula venne destinata a cappella palatina. Il terzo risale al 650 circa, con le tracce, sulla parete palinsesto, dei Santi Basilio e Giovanni e altri frammenti). Il quarto coincide con il pontificato del papa greco Giovanni VII (705-707), ed è rappresentato dall’immagine di San Gregorio Na- zianzeno nell’abside ed altre scene nel presbiterio, con uno stile così vicino all’Arte Bizantina da aver fatto pensare ad artisti provenienti da Costantinopoli. Se sino alla fine del V secolo l’Arte Romana, soprattutto Paleocristiana, seguì uno sviluppo autonomo, costituendo semmai essa stessa un modello, per molti artisti bizantini, a partire dal VI secolo, a seguito della liberazione giustinianea della città dal giogo gotico e ancor più nei due secoli successivi, convivranno nella Città eterna sia influssi strettamente romano-orientali, sia stimoli verso il classicismo. Se il mosaico del catino absidale di Sant’Agnese fuori le mura (625-638) presenta tre figure isolate, altamente simboliche e immateriali, circondate da un abbagliante fondo oro, gli affreschi della Cappella di Teodoto, un alto funzionario, compiuti presso Santa Maria Antiqua mostrano influenze dalla Siria e dalla Palestina, con un uso semplice del colore e del disegno, ma altamente efficace. Nello stesso arco di tempo si colloca la de- corazione della cappella di San Venanzio, databile alla metà del settimo secolo, presso il Battistero Laterano. La cappella mostra richiami alla decorazione della Basilica di San Vitale a Ravenna, specie nella disposizione paratattica del corteo di santi, affine alla celeberrima rappresentazione della corte di Giustiniano. Altro elemento bizantino è la rappresentazione nel catino della Vergine orante del tipo iconografico della Aghiosoritissa. Ci restano di quel periodo anche una serie di icone sparse in varie chiese: una Madonna al Pan- theon datata 609, o la Madonna Theotokòs di Santa Maria in Trastevere (datazione incerta tra il VI e l’VIII secolo) con una rigida frontalità e colori smaglianti messi in relazione con il primo strato di affreschi di Santa Maria Antiqua.

28 Il mosaico ricoprì un’importanza fondamentale all’interno dell’arte bizantina, come l’aveva avuta nel mondo romano-imperiale di espressione latina, poiché l’utilizzo di tessere vitree policrome risultò essere uno strumento ideale per soddisfare le esigenze espressive di carattere visivo con contenuti artistici. Senza nulla togliere ai centri musivi storici, come Roma, Ravenna, Tessalonica, Napoli, e Milano, indubbiamente a Co- stantinopoli, dal VI secolo, il mosaico fu considerato un’arte di eccellenza e, pertanto assunse particolari carat- teristiche. Mirabile testimonianza della magnificenza dell’arte musiva bizantina del VI secolo si osserva nella Basilica di San Vitale a Ravenna. Uno degli elementi preminenti del mosaico bizantino fu la lirica della luce, at- traverso la quale gli artisti proiettarono le loro immagini fantasiose in una dimensione astratta e ultrasensibile, ancorandosi ad una realtà trascendente. Mentre lo spazio tese a dilatarsi, le figure umane o spirituali invece si convertirono in immagini immateriali, povere di plasticità e dinamismo bensì ricche di colori. Se nei primi secoli di sviluppo le finalità narrative furono preminenti, dopo il IX secolo invece le figurazioni rappresentarono concetti religiosi e dogmatici, correlati alla redenzione. La distribuzione tipica dei mosaici nei luoghi di culto consistette nella raffigurazione di Cristo Pantocratore attorniato dagli angeli nella cupola, qui vista come luogo celestiale, mentre agli Evangelisti spettò un posto nei pennacchi, la Madonna nell’abside, in questo caso rappresentativo della mediazione fra la sfera celeste e quella terrena, infine nelle navate vennero elencati gli avvenimenti evangelici fondamentali. In realtà il mosaico, arte imperiale per eccellenza, fu sostanzialmente una costante dell’arte bizantina e le molte testimonianze che ce ne restano ci dimostrano come questa tecnica decorativa (sia pure in modo non lineare) si dipanò lungo i secoli. In questo senso vanno senz’altro citati i cicli musivi veneziani e siciliani (avviati nel XII secolo) unanimemente attribuiti (almeno per le fasi iniziali) a maestranze direttamente chiamate da Costantinopoli. Di pregevole qualità sono anche le miniature dei manoscritti. Quelle più antiche rivelano tendenze orientaleggianti ed elleniche, mentre le più recenti evidenziano una tendenza cattedratica legata agli scriptoria di Costantinopoli. Tra i manoscritti miniati di particolare importanza vi è il Codex Purpureus Rossanensis, un prezioso evangelario del VI secolo, custodi- to a Rossano in Calabria. Una testimonianza molto interessante di scultura lapidea bizantina osservabile in Italia si trova a Pisa. Qui infatti una taglia bizantina, si ipotizza direttamente proveniente da Costantinopoli, istoriò, agli inizi XIII se- colo, il portale maggiore del battistero. Tutto ciò non significa però che le arti plastiche, come la scultura, nel loro complesso fossero scarsamente coltivate. Se la scultura ebbe un ruolo minore, quanto meno rispetto ad altri campi, risultati altissimi, invece, vennero raggiunti nelle arti suntuarie, cioè nella lavorazione di materiali preziosi: metalli, avorio, pietre e cristalli. Le lavorazioni in metallo come reliquiari, arredi sacri inoltre impli- cavano il frequente utilizzo di decorazioni in smalto, altra tecnica in cui l’arte bizantina raggiunse livelli quali- tativi eccelsi. Celeberrime poi sono molte opere in avorio, come il cosiddetto Avorio Barberini, tra i più noti avori bizantini. Fu proprio nella lavorazione dell’avorio che la scultura bizantina raggiunse le sue vette. Tra le più alte lavorazioni bizantine in avorio che abbiamo in Italia si annovera la cattedra vescovile di Massimiano, a Ravenna, risalente al VI secolo.

29 L’Arte Longobarda Per Arte Longobarda si intende l’intera produzione artistica cui si diede corso in Italia durante il periodo e nel territori della dominazione longobarda (568-774), con residuale permanenza nell’Italia meridionale fino al X-XI secolo in quella che veniva chiamata Langobardia Minor, indipendentemente dall’origine etnica dei vari artefici, tra l’altro spesso impossibile da definire. Al loro ingresso in Italia, il popolo germanico orienta- le dei Longobardi, portò con sé la propria tradizione artistica autoctona, anche se già influenzata da elementi bizantini durante il lungo soggiorno del popolo in Pannonia nel VI secolo; tale matrice rimase a lungo visibi- le nell’Arte Longobarda soprattutto nei suoi aspetti formali e ornamentali: simbolismo, horror vacui, decori fitomorfi o zoomorfi. In seguito al radicarsi dello stanziamento in Italia, ebbe inizio un vasto processo di fu- sione tra l’elemento germanico e quello romanico (latino-bizantino), che diede vita a una società sempre più indistinta (quella che, da lì a breve, sarebbe emersa come sic et simpliciter "italiana"). Già prima della loro discesa nel nostro paese la principale espressione artistica dei Longobardi era legata all’o- reficeria, che fondeva le tradizioni germaniche con le influenze tardo-romane. Parliamo di armi, gioielli e or- namenti rinvenuti nelle necropoli longobarde; particolarmente diffuse erano le fibule e le crocette in lamina d’oro lavorata a sbalzo, che presero il posto delle monete bratteate di ascendenza germanica già ampiamente utilizzate come amuleti. Le crocette, secondo una tipologia di origine bizantina, erano usate come applicazioni sull’abbigliamento. Gli esemplari presentano figure di animali stilizzati ma riconoscibili, mentre in seguito fu- rono decorate con intricati elementi vegetali, all’interno dei quali comparivano talvolta figurine zoomorfe. Ri- entrano in una produzione strettamente legata alla corte le croci gemmate, come la Croce di Agilulfo conservata al Museo e Tesoro del Duomo di Monza (inizio del VII secolo), con pietre dure di varie dimensioni incastonate a freddo in maniera simmetrica lungo i bracci.

Un simile esempio di produzione aulica è la copertura dell’Evangeliario di Teodolinda, dove sulle placche d’oro sono sbalzate due croci decorate con gemme e pietre colorate: 603, secondo la tradizione. Era in uso anche una tecnica di incastonatura a caldo, per la quale si usavano pietre e paste vitree fuse e versate in una fitta rete di alveoli. Altri capolavori, di datazione più discussa, sono la Chioccia con i pulcini e la Corona Ferrea. Gli studi sulla scultura longobarda soffrono della decontestualizzazione dei reperti che giunge in alcuni casi alla perdita delle notizie circa la loro funzione e destinazione originaria; sono pochi i corredi decorativi giunti a noi ancora in situ, come quelli di San Salvatore a Brescia e del Tempietto longobardo a Cividale. Come tutti i popoli germanici, i Longobardi non possedevano un’arte monumentale e una delle conseguenze più evidenti della loro dominazione sul territorio italiano fu, dunque, l’abbandono della scultura a tutto tondo in favore di una produzione che si limitava alla decorazione architettonica e all’arredo liturgico. La figura umana in forme monumentali riapparve nell’VIII secolo a Cividale nella decorazione a stucco di un Tempietto in cui la processione delle sante in controfacciata reinventa il tema processionale di ascendenza bizantina senza annullare il rilievo plastico delle figure. Il repertorio formale dei Longobardi era costituito dall’accostamento di elementi zoomorfi fortemente stilizzati e di elementi geometrici; le botteghe artigiane autoctone, già attive per una committenza ostrogota, trasposero questi stilemi, tipici dell’oreficeria alveolata, in ambito scultoreo dando luogo a una produzione che doveva essere originariamente completata da stucchi colorati e da inserti in diversi materiali policromi. Accanto a queste, tra il 600 e il 650, vennero prodotte ope- re legate alla cultura Teodolindea, in cui si riprendevano motivi della tradizione iconografica paleocristiana, seppur espressi attraverso una diversa linearità astrattizzante e in cui l’ornamentazione ritornava a essere im- piegata con la consapevolezza del limite tra questa e il campo.

30 Il recupero dei modelli classici ebbe un notevole impulso verso la metà dell’VIII secolo con la produzione au- lica legata alla corte del re Liutprando che diede avvio a una nuova fase detta Rinascenza Liutprandea durante la quale gli artisti che lavoravano per la corte si orientarono con padronanza di mezzi tecnici verso modelli romani e bizantini. Rientrano in questo ambito i plutei provenienti dall’oratorio di San Michele alla Pusterla, i plutei di Teodote, nel Museo Civico Malaspina di Pavia e il fonte battesimale del patriarca Callisto a Cividale. Nei plutei di Teodote, entro elaborate cornici con tralci ed elementi vegetali, sono raffigurati due pavoni che si abbeverano a una fonte sormontata dalla croce e due draghi marini davanti all’albero della vita; il rilievo bidimensionale, ma profondamente staccato dal campo, produce un effetto calligrafico e la stilizzazione delle forme aumenta la valenza simbolica della figurazione. La stessa elaborazione e stilizzazione del repertorio na- turalistico mediterraneo si trova nella Lastra di Sigwald inserita nella base del Battistero di Callisto che oggi si trova nel Museo Cristiano di Cividale: un ottagono con archetti a tutto sesto, colonne corinzie su di una balaustra con frammenti di plutei marmorei. Le lastre scolpite del battistero, molto simili negli esiti formali all’altare del duca Rachis, forse addirittura dello stesso autore, rappresentano figure simboliche legate al sa- cramento del Battesimo: pavoni e grifoni alla fonte, leoni ed agnelli, simboli cristologici e degli Evangelisti, ecc.. Anche sulle arcate si trovano iscrizioni e motivi decorativi vegetali, zoomorfi e geometrici; la valenza sim- bolica di questi rilievi trova nello stile astraente longobardo una maggiore coerenza rispetto ad altri tentativi di recupero della figura umana. È il caso dell’Altare del Duca Rachis, creato per il battistero di Cividale e ora nel Museo Cristiano: composto da un unico blocco di pietra d’Istria è scolpito con scene della storia di Cristo sulle quattro facce laterali. Le figure fortemente bidimensionali presentano un netto distacco della parte scolpita rispetto allo sfondo, come un disegno a rilievo. Questo effetto, assieme alla marcata stilizzazione delle figure e al senso calligrafico, rendono l’altare simile ad un monumentale cofanetto eburneo. In epoca liutprandea la persistenza della linea di produzione stilisticamente derivata dall’oreficeria è testimo- niata da alcune opere tra le quali la Lastra con pavone di San Salvatore a Brescia, della seconda metà dell’VIII secolo, ora al locale Museo di Santa Giulia, per il tralcio vegetale e la cornice inferiore a intreccio, e la Lastra tombale di san Cumiano, presso l’abbazia di San Colombano a Bobbio, con un’iscrizione centrale racchiusa da una doppia cornice a motivi geometrici (serie di croci) e fitomorfi (tralci di vite). Durante l’VIII secolo la pro- duzione plastica nei territori dei ducati sembra distaccarsi da quella aulica della corte manifestando un’autono- mia culturale confermata anche in ambito politico. Ne è un esempio, interessante anche per quanto riguarda il rapporto tra committente e artefice in epoca altomedievale, il Paliotto del Duca Ilderico, databile al periodo in cui Ilderico fu Duca di Spoleto (739-742) e attribuito allo scultore Orso dall’iscrizione Ursus magester fecit, artista legato alle botteghe del luogo, in evidente contrasto con la coeva produzione pavese. In area campana si trovano sia produzioni locali sia importazioni da Costantinopoli. Dopo il 774 e tra l’VIII e il IX secolo, la committenza longobarda dei territori meridionali sembra escludere per un certo periodo ogni riferimento alla produzione bizantina, per un ripiegamento verso tradizioni più proprie, di matrice ora- fa, dalle quali sembrano derivare i capitelli a incavo geometrizzante; se ne trovano a Sant’Angelo in Formis e nel chiostro di Santa Sofia a Benevento, sinché, con la riconquista bizantina dell’Italia meridionale a partire dall’876, la presenza bizantina si fece stilisticamente predominante. L’avvicendarsi delle popolazioni domi- nanti, la diffusione delle conoscenze attraverso i canali dei monasteri e degli scriptoria e attraverso la mobilità degli stessi artefici, il sovrapporsi o approssimarsi delle culture, latina, greco-bizantina e germanica, vanifi- cano in molti casi la possibilità di ricostruire e distinguere linguaggi e stili. Al nord, la perdita di molte testi- monianze monumentali, relative ai soli due secoli di dominazione, rende difficile il riconoscimento di un’arte figurativa unitaria patrocinata dai Longobardi; al sud, la persistenza per quattro secoli dei ducati e principati

31 longobardi e l’autonomia del principato beneventano hanno permesso di distinguere una più compatta cul- tura figurativa beneventana che si identifica con la cultura della Langobardia Minor e che si intreccia con la cultura carolingia a san Vincenzo al Volturno e con quella di Montecassino. Coevi all’edificio e alla decora- zione plastica sono gli affreschi del Tempietto longobardo di Cividale, così come è di piena età longobarda il ciclo, gravemente danneggiato, rinvenuto nella torre del Monastero di Torba presso Castelseprio, una torre tardoantica riutilizzata nell’VIII secolo come cappella. I lacerti pittorici che si conservano nella chiesa di San Salvatore di Spoleto (seconda metà dell’VIII secolo) e gli affreschi, collegati alla decorazione scultorea, del tempietto del Clitunno, appartengono ad uno stesso ambito culturale, cui appartengono anche le maestranze operanti a Roma tra VII e VIII secolo. Benevento resta un centro di cultura longobarda sino alla conquista normanna; le due absidiole affrescate della chiesa di Santa So- fia sono tra le testimonianze più antiche della pittura legata alla dominazione longobarda e risalgono ad Arechi II, principe di Benevento dal 774. Fondato da nobili longobardi di Benevento nel 703, il monastero di San Vincenzo al Volturno sfuggì presto al controllo del potere longobardo allineandosi alla politica carolingia e divenendo un importante centro di diffusione culturale; la più antica testimonianza pittorica del monastero è costituita da un ciclo di profeti, estremamente frammentario, dipinto per l’abate franco Giosuè, predecessore di Epifanio, che decorava un ambiente nei pressi del refettorio. Gli affreschi più noti di San Vincenzo sono del tempo dell’abate Epifanio (797-817) e ricoprono interamente le pareti e le volte della cripta appartenuta a un edificio chiesastico perduto. Il programma, di grande spessore intellettuale, deriva, benché variamente interpretato, dai testi di Ambrogio Autperto, un intellettuale franco, abate del monastero nel 777-778, nei quali viene dato particolare risalto alla figura della Vergine. Gli affreschi, ricchi di drammaticità e privi di inquadramento architettonico mostrano, benché legati alla cultura carolingia, uno stile vicino alla scuola di miniatura beneventana, per i colori luminosi, ricchi di lumeggiature, e per il disegno sciolto. È stato sottolineato come assai forte sia in questi affreschi an- che la componente settentrionale, con particolare riferimento alle pitture del monastero di San Giovanni in Val Müstair e a quelle di Torba, evidenziatasi in una stessa e caratteristica maniera di disegnare i finti marmi. Altre testimonianze pittoriche in parte collegabili alla scuola beneventana in Campania, Molise e Puglia, databili tra la fine dell’VIII e il IX secolo, si trovano nella grotta di San Biagio a Castellammare di Stabia, nella chiesa dei Santi Rufo e Carponio a Capua, nella Grotta di San Michele a Olevano sul Tusciano e nelle chiese di Santa Ma- ria de Lama, Sant’Andrea della Lama e San Pietro a Corte a Salerno, nel tempietto di Seppannibale a Brindisi e nel Santuario di San Michele Arcangelo sul Gargano (fondato nel VI secolo). In epoca longobarda alcuni collocano anche gli affreschi della Chiesa di Santa Maria Foris Portas di Castelse- prio, anche se la loro datazione è molto dibattuta ed oggi sembra propendere per un artista bizantino. Anche dal punto di vista dei contenuti simbolici il ciclo esprimerebbe una visione della religione perfettamente con- gruente con l’ultima fase del regno longobardo: eliminata, almeno nominalmente, la concezione di Cristo aria- na, dove viene ribadita, nelle scene dipinte, la consustanzialità delle due nature, umana e divina, del Figlio di Dio. La miniatura longobarda conobbe, soprattutto all’interno dei monasteri, un particolare sviluppo, tanto che è definita Scuola longobarda (o "franco-longobarda") una peculiare tradizione decorativistica. Questa espressione artistica raggiunse la più alta espressione nei codici redatti nei monasteri dalla seconda metà dell’VIII secolo.

32 La Rinascenza Carolingia L’arte carolingia nacque ad Aquisgrana, alla corte di Carlo Magno, incoronato imperatore da papa Leone III nell’800; si sviluppò in Italia nei secoli IX e X. Il periodo di regno di Carlo Magno, sostenuto dalla Chiesa, fu un’epoca di pace che permise un grande risveglio culturale ispirato all’arte classica e dell’arte bizantina. I modelli dell’arte classica e bizantina, sia in architettura sia nelle arti figurative, si contrapposero alleculture barbariche e a quella islamica. Dopo molti decenni di rappresentazione astratta e stilizzata, venne restituito un ruolo preminente alla figura umana. Questo processo fu così ampio da chiamarsi Renovatio Carolingia, la Rinascenza Carolingia, con cui Carlo Magno raccolse alla sua corte i maggiori intellettuali e promosse in tutto l’impero la diffusione delle scuole. Uno dei campi in cui eccelse l’Arte Carolingia fu la miniatura. Quest’arte si esercitava nei monasteri dove alcuni monaci, gli amanuensi, in ambienti appositi, chiamati scriptoria, copiavano su pergamena testi sacri e anche profani, altrimenti destinati a essere dimenticati. Le pagine venivano miniate, cioè dipinte (il termine deriva da minium che era un colore rosso vivace), in modo accurato e raffinato. La produzione di questa forma d’arte giunse ad articolarsi in vere e proprie scuole (Tours, Treviri, San Gallo). Un posto centrale è occupato dall’oreficeria, con l’impiego di oro e pietre di valore. Capolavoro dell’oreficeria carolingia è l’altare minato d’oro e d’argento di Vuolvinio (835 circa), in Sant’Ambrogio a Milano. Secondo Guy de Mauppassant: "I grandi artisti sono quelli che impongono all’u- manità la loro particolare illusione." Questo è ciò che è accaduto nel Medioevo.

Comuni, Signorie, Repubbliche Marinare e Stati generali "Nella vita e nella Storia, ci sono casi in cui non è lecito avere paura". Oriana Fallaci L’età comunale indica un periodo storico del Medioevo che ebbe origine in Italia centro-settentrionale, attor- no alla fine dell’XI secolo. I primi Comuni richiedevano autonomia professionale, politica e amministrativa. Nella penisola italiana le città erano sottoposte all’autorità suprema dell’imperatore: questo è il punto di par- tenza per comprendere la dinamica storica che accompagnò lo sviluppo del Comune in Italia e le lotte che esso dovette sostenere per affermarsi. L’incremento demografico dell’anno Mille portò alla formazione di nuovi centri urbani e alla rinascita di quelli esistenti. Così, la città tornava a essere, come nell’antichità, il centro propulsore della società civile. All’interno delle mura vennero a convivere uomini di estrazione sociale molto diversa: contadini inurbati in seguito all’eccedenza di manodopera nei campi, feudatari minori che cercavano di sottrarsi ai vincoli verso i grandi feudatari trasferendosi in città, oltre che notai, giudici, medici, piccoli ar- tigiani e mercanti. Questi costituivano per eccellenza la classe dei "borghesi", vale a dire di coloro che, non essendo nobili, trae- vano la propria prosperità dall’esercizio di arti o mestieri, avendo nella città il loro ambiente naturale. Quindi, con la rinascita delle città nell’XI secolo e la ripresa delle attività artigianali, i nuovi ceti urbani si riunirono per liberarsi dai vincoli feudali e dall’autorità imperiale, creando una nuova realtà politica: il Comune. Fu inevitabile che molte città cominciassero a svilupparsi come organismi autonomi, ponendo sotto il proprio controllo le campagne circostanti: questi nuovi organismi politici prendono il nome di Comuni, per l’appunto, e consistono in vere e proprie Città-Stato, con leggi e magistrature indipendenti dalla soggezione ai grandi feudatari. In teoria, peraltro, le città non potevano essere del tutto autonome, poiché erano soggette a organi- smi più vasti: o appartenevano ai grandi feudatari o erano sotto il diretto controllo del re o dell’imperatore. Ma in pratica in alcune zone dell’Europa, come nelle Fiandre o nel nord-Italia, il potere dell’Impero era debole e,

33 proprio in queste zone, l’istituzione comunale poté svilupparsi. Il Comune espresse quindi l’emancipazione dalla soggezione feudale, dando luogo a una profonda trasformazione sociale, caratterizzata dal rifiorire delle attività commerciali e dall’emergere della borghesia. In realtà il tentativo di ricondurre a un’unica ragione sto- rica la nascita del Comune non ha fornito buoni esiti: un fenomeno complesso, esteso diacronicamente e sin- cronicamente non può essere originato rigidamente da un unico evento o da una medesima causa. Fra le teorie sull’origine del Comune, tutte possono essere utilizzate per descrivere fattori incidenti sull’insor- genza del fenomeno: l’opposizione al sistema feudale: la presenza di un vescovo, eletto dal popolo e dunque fornito della legittimazione sia spirituale sia politica necessaria per legittimare un governo cittadino; l’insor- gere e l’affermarsi di fenomeni associativi, le "coniurationes" fra gruppi di cittadini; il progressivo complicarsi del sistema delle relazioni sociali e commerciali frutto della ripresa economica e demografica che comporta la necessità di una nuova normazione e di un controllo più efficace del territorio. Nelle città si associano i valvassori, i proprietari e i concessionari di terreni, i giudici e i notai, e istituiscono il Comune come associazione giurata e privata detta coniuratio, un’associazione volontaria sorta tra membri di classi sociali diverse in difesa di determinate prerogative e interessi. I membri della coniuratio collaborano con il Vescovo, dal quale ottengono protezione contro le possibili offensive della grande feudalità dalla quale si erano liberati. Tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII, il Comune aumenta la propria potenza e si sostitu- isce all’autorità costituita, trasformandosi in istituzione pubblica governata da consoli, coadiuvati da un con- siglio maggiore per la trattazione degli affari ordinari e da un consiglio minore per la discussione dei problemi riservati. In principio i Comuni, guidati dai consoli, si ponevano come delle magistrature provvisorie nate per risolvere problemi di un dato momento, formate proprio da "uomini buoni" di cui tutti si fidavano. I consoli prestavano giuramento di fedeltà davanti alla cittadinanza elencando i propri obblighi che, insieme a consuetudini scritte e leggi approvate dal Comune, formarono le prime forme di Statuti cittadini. Durante il loro operato redigevano il Breve, una sorta di elenco-archivio in cui erano riportate tutte le opere pubbliche intraprese ma non termi- nate. Tutti i cittadini che godevano di diritti urbani si riunivano nel "Parlamento", che era l’organo fonda- mentale nella vita di un Comune. Per facilitarne la gestione, spesso quest’organo fu ridotto a una minoranza di individui, incominciando l’ascesa di quei gruppi che sarebbero divenuti dirigenti. Per poter partecipare al potere comune bisognava essere: maggiorenni, maschi, pagare una tassa di ammissione, possedere una casa. Ne erano invece esclusi le donne, i poveri, i servi, gli ebrei, i musulmani non convertiti e i meteci. In Italia l’ascesa dei Comuni fu ostacolata dal centralismo normanno nell’Italia meridionale, mentre essi rag- giunsero un eccezionale sviluppo a nord, espandendosi dalle città alle campagne. Questa crescita fu incorag- giata soprattutto dalle nobiltà locali per la possibilità tangibile di sganciarsi dal potere e dal controllo imperia- le. Alla fase consolare seguì poi una fase detta podestarile: il Podestà era funzionario di mestiere con compiti di amministrazione del territorio comunale. Essi erano veri e propri professionisti, con compiti ben definiti e stipendiati dal Comune, la cui preparazione veniva acquisita con lo studio del Diritto nelle nascenti Università. Furono soprattutto le grandi famiglie di nobili a studiare e a specializzarsi per divenire Podestà in modo da ac- quisire maggiore potere nel quadro del territorio comunale. Durante l’Età Comunale nacquero anche le Cor- porazioni delle Arti e Mestieri, associazioni di mercanti e artigiani riuniti secondo il mestiere che praticavano. Già prima della formazione dei Comuni nelle città italiane si erano costituite delle associazioni spontanee di cittadini che si occupavano della difesa della città. Ogni tratto delle mura era assegnato agli abitanti dell’area vicina, che si alternavano a fare la guardia. In alcune città queste associazioni prendevano il nome longobar-

34 do di guaite, in altre prendevano il nome delle porte che difendevano. In età comunale queste associazioni territoriali presero altri nomi: vicinie, cappelle, popoli (a Firenze). Ciò significava anche la diminuzione dei compiti militari e invece l’espansione di altre attività, dal Mutuo Soccorso, all’Ordine Pubblico, alla preven- zione degli incendi, all’organizzazione delle feste. In linea generale, il Comune si fondò su princìpi opposti a quelli del feudalesimo. Mentre il mondo feudale (che era di origine germanica) fu agricolo e militare, e quindi verticale poiché fondato su una rigida gerarchia, il mondo comunale, che raccoglieva l’eredità della città-Stato antica, fu cittadino e mercantile, e quindi orizzontale poiché prevedeva la partecipazione al governo di tutti i cittadini, o quanto meno di una buona parte di essi, su un piano di sostanziale parità. Di riflesso, in ambito di organizzazione militare, l’arma tipica del feudalesimo fu la cavalleria, costituita da quei pochi contro molti che formavano una casta militare formidabile e ben addestrata di professionisti e signori della guerra; i Comuni, invece, mettevano in campo eserciti cittadini, il cui nucleo era costituito dalla piccola nobiltà e dalla fanteria, quest’ultima formata da cittadini che prendevano occasionalmente le armi per la difesa necessaria del Comune, e quindi non sempre addestrati. Con il passare del tempo, i grandi feudatari trovarono opportuno convivere con la società borghese che si era formata dentro le mura cittadine. Generalmente, dove esisteva una forte aristocrazia militare, il Comune risul- tò meno vitale e il feudalesimo mantenne intatto il suo peso. Lo sviluppo del mondo comunale fu un processo lungo. I Comuni incominciarono a sorgere in varie parti d’Europa tra la metà del secolo XI e l’inizio del XII, in modo disomogeneo a seconda delle condizioni locali. Questo grande fenomeno, che costituì un fatto nuovo nella Storia Medievale, fu dunque, per molti aspetti, tipicamente Italiano. Anzi l’emergere della vita comunale contribuì a plasmare in modo durevole, con effetti che perdurano sino ai giorni nostri, la geografia politica e culturale dell’Italia. Una delle ragioni della divaricazione storica e culturale tra nord e sud d’Italia va fatta risa- lire proprio all’epoca comunale. Le regioni settentrionali, si andarono popolando di queste piccole patrie, cia- scuna gelosa della sua indipendenza e in perenne rivalità con i Comuni vicini, mentre nel Meridione, il potente regno dei normanni e le forze feudali soffocarono sul nascere le autonomie locali. Precise ragioni storiche spiegano perché in Italia il Comune si sviluppò prima che altrove. Benché il feuda- lesimo fosse diffuso anche nella Penisola italiana esistevano antiche radici urbane, risalenti all’epoca roma- na, mentre, d’altra parte, l’aristocrazia militare ricopriva un ruolo assai meno importante rispetto ad altre re- gioni d’Europa (Francia e Germania in particolare). Inoltre l’Imperatore Tedesco, che in teoria deteneva i diritti sovrani sulla penisola italiana, era lontano e poteva esercitare il controllo effettivo del territorio solo in maniera molto relativa, cosa che, di fatto, facilitò lo sviluppo delle Autonomie Locali. Per la gestione cittadina i capifamiglia delle famiglie più potenti cominciarono a riunirsi in assemblea per poi dare vita ad associazioni che intervennero in modo sistematico e continuativo negli affari della città fino ad assumerne il governo. Anche i ricchi mercanti e artigiani raggiunsero i vertici del potere comunale. Ciò avvenne nel corso del XII secolo, quando i ceti economicamente emergenti pretesero una più ampia partecipazione politica. Il mutamento fu, non di rado, contrassegnato da aspri conflitti sociali: i nobili erano restii a cedere il potere nel- le mani dei nuovi ricchi, ma il processo era inevitabile, perché la ricchezza e il potere di un Comune passavano necessariamente per le mani di mercanti e artigiani, che accumulavano ricchezze con la loro intraprendenza e i cui interessi, ovviamente, non coincidevano con quelli della nobiltà, formata da proprietari terrieri. La lotta fra nobiltà e borghesia commerciale costituì una delle dinamiche storiche più importanti nella turbolenta vita co- munale. In seguito a questi contrasti, la figura politica del Podestà si sostituì o si affiancò a quella del Consiglio dei Consoli, che governò i Comuni medievali a partire dalla fine del XII secolo. Tale carica, contrariamente a

35 quella di Console, poteva essere ricoperta da una persona non appartenente alla città che andava a governare, per questo era detto anche Podestà Forestiero, in modo da evitare coinvolgimenti personali nelle controversie cittadine e garantire l’imparzialità nell’applicazione delle leggi. Il podestà era eletto dalla maggiore assemblea del Comune (il Consiglio generale) e durava in carica, di solito, sei mesi o un anno. Doveva giurare fedeltà agli Statuti Comunali, dai quali era vincolato, e alla fine del mandato il suo operato era soggetto al controllo da parte di un collegio di sindaci. Il Podestà era, dunque, un magistrato generalmente al di sopra delle parti, una specie di mediatore, a cui era affidato il Potere Esecutivo, di Polizia e Giudiziario, divenendo di fatto il più importante strumento di applicazione e di controllo delle Leggi, anche amministrative. Il Podestà non aveva, invece, Poteri Legislativi, né il comando delle Milizie Comunali, che era affidato al Capitano del Popolo. Con il passare degli anni, la carica di Podestà divenne un vero e proprio mestiere esercitato da professionisti, che cambiavano spesso sede di lavoro e ricevevano un regolare stipendio. Questo continuo scambio di persone e di esperienze contribuì a fare in modo che le leggi e la loro applicazione tendessero a diventare omogenee in città anche distanti tra loro, ma nelle quali avevano governato gli stessi podestà. Fra il XIII e il XIV secolo si affermò la figura del mercante-banchiere, detentore del capitale mobile, che con il suo dinamismo ruppe le vecchie barriere del feudalesimo. Egli era padrone di ingenti capitali, che poteva asso- ciare a quelli di altri mercanti. Teneva i diari giornalieri (quaderni di ricordanze) e fece sorgere scuole profes- sionali per i giovani. Incominciarono a essere utilizzati gli assegni. Contemporaneamente nacque la lettera di cambio o cambiale, valida per il trasferimento di grossi capitali, che però non poteva essere girata. L’uso della girata fu introdotto tra i secoli XVI e XVII. Nacquero anche le prime Compagnie Commerciali e le prime As- sicurazioni. Si affermò il Diritto Commerciale e con esso furono istituiti i Tribunali Mercantili che avevano il compito di giudicare rapidamente le vertenze legate all’attività commerciale. Sorsero anche la commenda, la partita doppia e le prime società per azioni. Il mercante e il ricco banchiere tesero poi a investire il capitale nell’acquisto di terre, a cui era anche legato l’acquisto di titoli nobiliari: si trattò di una nuova nobiltà, animata da un nuovo spirito affaristico. Se i Comuni poterono nascere e consolidarsi nell’Italia settentrionale, ciò dipese anche dalla debolezza dell’Im- pero, in preda alla lotta per le investiture contro il Papato, e ai contrasti che divisero i grandi feudatari tedeschi, ai quali spettava l’elezione dell’imperatore. L’Impero era conteso fra due duchi di Svevia, o Hohenstaufen, detti ghi- bellini dal loro castello di Waiblingen, e i Duchi di Baviera, detti guelfi dal loro capostipite Welf . L’eclissi dell’Im- pero fu solo temporanea: infatti, solamente nel 1152, con l’ascesa al trono di Federico Barbarossa l’Impero trovò nuovamente alla sua guida una personalità fortissima. Federico poté contare sull’appoggio della grande feudalità tedesca, unita a lui da una serie di matrimoni dinastici. Egli quindi fu eletto senza contrasti re di Germania, a cui per tradizione spettava il trono imperiale. Ma un imperatore dell’Impero Germanico non si sentiva in pieno pos- sesso dei suoi diritti sinché non avesse stabilito la propria autorità sull’Italia. Così una buona parte della politica di Federico Barbarossa interessò l’Italia, dove nel frattempo i Comuni si erano sviluppati, approfittando della crisi dell’Impero e conseguendo una grande autonomia. Nessuno, peral- tro, in Italia pensava di mettere in dubbio l’autorità suprema dell’Imperatore. Tuttavia, di fatto, molte preroga- tive del Sovrano erano passate ai Comuni, come i diritti di imporre tributi, coniare monete, promulgare leggi, nominare magistrati, guidare l’esercito. Fu perciò inevitabile un conflitto tra Impero e Comuni, il cui esito avrebbe indirizzato e condizionato la storia italiana nei secoli successivi. Il Barbarossa non tardò a scendere in Italia: già nel 1154, due anni dopo la sua elezione, si presentò come il sovrano legittimo venuto a restaurare pace e giustizia. Il papato guardò dapprima con favore alla discesa del

36 Barbarossa, dal quale si aspettava un aiuto contro i cittadini romani che, per impulso del monaco Arnaldo da Brescia, avevano proclamato l’autonomia del Comune di Roma. Era un fatto nuovo, che rischiava di scalzare dalle fondamenta il potere politico che il Papato aveva conquistato in Italia: Arnaldo, infatti, predicava il ritorno della Chiesa alla purezza e alla povertà delle origini e condannava i possessi mondani e, con essi, il potere tem- porale del Papa. Il Barbarossa non tradì le aspettative pontificie: giunto a Roma, catturò Arnaldo da Brescia, che fu mandato al rogo come eretico, e ristabilì l’autorità del papa. Come compenso, ricevette dal papa l’inco- ronazione imperiale. Ma l’alleanza tra Papato e Impero era solo provvisoria, dato che i motivi storici di contesa tra le due massime istituzioni dell’Europa medievale restavano comunque fortissimi. Ben presto i rapporti si guastarono di nuovo, poiché il papa, nel 1156, venne a patti con i Normanni che occupavano l’Italia Meridio- nale, vedendo in loro un contrappeso politico e un alleato contro lo strapotere del Barbarossa. Il Barbarossa dovette ridiscendere in Italia nel 1158. Il Sud Italia, nelle mani del potentissimo regno dei Normanni, era un nemico troppo impegnativo per lui: decise pertanto di reprimere con le armi l’autonomia dei Comuni del Nord Italia, in particolare Milano che era la città più importante della regione. Le pretese di Federico Barbarossa tro- varono un’ostinata opposizione nel nuovo pontefice, papa Alessandro III, che non poteva accettare la restau- razione di un potere imperiale così invadente. Fu inevitabile che Papato e Comuni stringessero un’alleanza, in nome del comune interesse contro l’Imperatore. Tra Papa e Imperatore ebbe inizio una lotta senza esclusione di colpi, che dapprima sembrò volgere a favore del Barbarossa. Alessandro III fu costretto all’esilio, mentre le città che non si piegavano al volere dell’Imperatore dovettero subire pesantissime conseguenze. Milano venne bloccata dall’esercito imperiale e nel 1163 dovette arrendersi dopo un lungo assedio. La città fu saccheggiata, le mura abbattute e i cittadini vennero deportati in borghi distanti. Federico Barbarossa, poteva mietere vittorie con le armi, ma non poteva arrestare il grande processo storico e politico costituito dall’espansione dei Comuni. Una volta tornato in Germania, infatti, gli avversari in Italia si stavano moltiplicando e trovarono il modo di organizzarsi. Nel 1163 i Comuni del nord Italia costituirono la Lega veronese, che nel 1167 si unì con la Lega di Lombardia, divenendo la Lega Lombarda: numerose città venete e lombarde s’impegnavano a garantirsi reciproco aiuto militare e a ricostruire Milano, tornata a essere centro della resistenza contro il Barbarossa. Federico Barbarossa, nelle due Diete di Roncaglia del 1154 e 1158, aveva spogliato i Comuni di tutte le re- galie (diritti), che essi avevano usurpato all’Autorità Imperiale: imporre tributi, battere moneta, eleggere ma- gistrati. Dopo alterne vicende il Barbarossa venne duramente sconfitto nella battaglia di Legnano (1176) dai Comuni italiani e nel 1183, con la Pace di Costanza, riconobbe ufficialmente le prerogative dei Comuni con- cedendo alcuni diritti in ambito amministrativo, politico e giudiziario, regalie comprese; rinunciava inoltre alla nomina dei Podestà, riconoscendo i Consoli nominati dai cittadini, i quali, tuttavia, dovevano fare giuramento di fedeltà all’Imperatore e ricevere da lui l’investitura. I Comuni, inoltre, si impegnavano in cambio a pagare un indennizzo una tantum di 15.000 lire e un tributo annuo di 2.000, a corrispondere all’imperatore il fodro (ossia il foraggio per i cavalli, o un’imposta sostitutiva) quando questi fosse sceso in Italia, e a riconoscere la prerogativa imperiale di giudicare in appello questioni di una certa rilevanza. La Pace di Costanza sancì la formale ubbidienza dei Comuni all’Imperatore a fronte del riconoscimento delle autonomie comunali da parte del Sovrano. L’Istituzione Comunale entrò in crisi tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. All’origine della crisi si collocano i contrasti sociali interni, che finirono col logorare pro- gressivamente la tenuta delle antiche magistrature comunali. Le grandi famiglie aristocratiche, si disputavano il primato in un clima molto vicino a quello delle lotte feudali; la nobiltà inurbata aveva dovuto sostenere le

37 rivendicazioni della borghesia delle Arti, sempre più potente e intenzionata ad assumere il controllo della vita politica; infine i ceti meno abbienti manifestavano la propria inquietudine: esclusi dai grandi profitti economici e tenuti ai margini di quella che restava sostanzialmente una repubblica oligarchica, spingevano per migliorare la propria condizione.

Le Signorie Il passaggio dal Comune alla Signoria fu favorito dalla forte conflittualità interna che risultò ingovernabile nell’ambito dell’organizzazione civile e politica del Comune. Non si trattò più solo di contrapposizioni tra partiti, clan e gruppi familiari, ma di lotta di classe che oppose le arti minori e il popolo minuto alle arti mag- giori e al popolo grasso. Poteva accadere così che la fazione vincitrice attribuisse il potere a un’unica perso- na, perché lo gestisse da sola, oppure che i cittadini di più elevata condizione economica e sociale, i magnati, dopo avere sconfitto la parte popolare, lo offrissero a un loro esponente, come successe a Milano con Matteo Visconti, capostipite della signoria dei Visconti. Così un solo Signore, da cui derivò la parola Signoria, che concentrava in sé tutta l’autorità amministrando il potere attraverso una burocrazia che rispondeva unica- mente a lui. Ciò comportava, di fatto, una distruzione delle libertà comunali, ma questo era un prezzo che i cittadini paga- vano volentieri in cambio della pace interna. Poi alcuni signori ottennero un titolo nobiliare dal Papa o dall’Im- peratore e allora si fecero chiamare Principe o Duca e il Principato o Ducato era di loro dominio. Comunque il potere signorile era nella sostanza autonomo e quasi assoluto. Il Signore si circondava di consiglieri, di perso- ne a lui fedeli e da lui scelte, e di funzionari devoti, obbedienti alla sua volontà; decideva la politica interna ed estera, controllava la vita economica e culturale, amministrava la giustizia.

Attorno al signore si creò una corte, di cui facevano parte non solo il personale amministrativo, ma anche in- tellettuali e artisti. Amava infatti proteggere la cultura e le arti, per ricavarne prestigio e il consenso interno. È questo il fenomeno del mecenatismo, così chiamato da Mecenate, il collaboratore di Augusto che proteggeva i letterati e dirigeva la politica culturale dell’Impero Romano. Grazie al mecenatismo le Signorie divennero splendidi centri di cultura, in cui si coltivavano la letteratura, la filosofia, le scienze, le arti. I signori investivano enormi somme per costruire palazzi e ville, per ornarli con affreschi e statue, o per far decorare cappelle a loro intitolate nelle chiese. A partire dal XIII secolo le Signorie si diffusero in tutta l’Italia centro-settentrionale, ma nessuna riuscì a creare entità territoriali stabili e di grandi dimensioni.

Gli Stati Generali Nel Trecento in Italia decaddero definitivamente i Comuni e si affermarono le Signorie. Conquistato il pote- re, i Signori cercarono di ampliare il territorio della propria città, scendendo in guerra contro le città vicine. Alcuni riuscirono a fondare veri e propri Stati regionali. I cinque grandi Stati regionali protagonisti della vita italiana a partire dalla fine del Trecento e per tutto il Quattrocento furono: il Ducato di Milano, la Repubblica di Firenze, la Repubblica di Venezia, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli.

Il Ducato di Milano: Gian Galeazzo Visconti prese il potere a Milano nel 1385; sotto di lui la potenza viscon- tea raggiunse il culmine, controllando importanti città del Veneto, della Toscana e dell’Umbria. Dopo la sua morte il potere dei Visconti si ridusse a Milano e alla Lombardia.

La Repubblica di Firenze: a partire dalla seconda metà del Trecento, la Repubblica di Firenze conquistò varie

38 città toscane, ma anche questa espansione non si concretizzò in un assetto stabile e in una struttura centraliz- zata. Nel 1434 Cosimo dei Medici si impadronì del potere, grazie alla sua immensa ricchezza e all’appoggio del popolo e di alcune potenti famiglie. Non vi furono modifiche istituzionali, nonostante il suo potere fosse assai simile a una Signoria.

La Repubblica di Venezia: nel corso del Trecento Venezia proseguì l’espansione marittima verso Oriente in cui era impegnata da secoli. Dopo una battuta di arresto, dovuta a due guerre contro i Genovesi, l’espansione riprese nel Quattrocento, ma ora verso la terraferma, a causa della nascita dell’Impero ottomano che chiudeva le vie dell’Oriente.

Lo Stato della Chiesa: nel centro, in assenza del papa residente ad Avignone, fu il cardinale Albornoz a riorga- nizzare lo Stato della Chiesa, trasformandolo di fatto, fra il 1350 e il 1370, in uno Stato regionale compren- dente Romagna, Marche, Umbria e Lazio. Tornati a Roma, dopo la Cattività avignonese, i pontefici avviarono un’opera di consolidamento del loro Stato.

Il Regno di Napoli: era lo Stato più vasto della penisola, ma vi restavano saldamente radicate le strutture feuda- li. Il potere della Corona era fortemente indebolito da quello dei Baroni, e questa situazione si accentuò con la lunga crisi dinastica che ebbe inizio alla morte di Roberto d’Angiò (1343) e che terminò un secolo dopo con l’insediamento di Alfonso V di Aragona, il quale pose fine temporaneamente alla frattura tra Regno di Napoli e di Sicilia. Alfonso V avviò un’opera di ammodernamento dello Stato e si impose come uno dei protagonisti della scena politica italiana di quegli anni, facendo della sua corte napoletana uno dei principali centri del Rina- scimento. Alla sua morte il Regno di Napoli tornò a separarsi da quello di Sicilia passando nelle mani del figlio naturale Ferrante, che proseguì l’opera riformatrice del padre. In conclusione, in Italia l’equilibrio politico poggiava sulle alleanze o sui conflitti dei cinque Stati maggiori: quelli di Milano, Venezia, Firenze, del Regno di Napoli e dello Stato della Chiesa. Ciascuno di essi era in gra- do, alleandosi con altri, di impedire agli altri quattro di acquistare una egemonia sull’intera penisola. La conse- guenza fu che nessuno di essi fu capace di unificare l’Italia in un unico Stato, sull’esempio francese o inglese. In Italia, come in Germania, si crearono invece le condizioni per una divisione che durerà per cinque secoli.

Le Repubbliche Marinare L’espressione Repubbliche Marinare, nata nell’Ottocento, si riferisce ad alcune città portuali italiane che, a partire dal Medioevo godettero, grazie alle proprie attività marittime, di autonomia politica e di prosperità economica. La definizione è in genere riferita a quattro città italiane, i cui stemmi sono riportati dal1947 nelle bandiere della Marina Militare e della Marina Mercantile: Amalfi, Genova, Pisa e Venezia; tuttavia, oltre alle quattro più note, furono repubbliche marinare anche Ancona, Gaeta e Noli, alle quali si può aggiungere, in Dalmazia, Ragusa. Durante lo scorrere dei secoli, le repubbliche marinare, sia le più note, sia quelle meno note, ma non sempre meno importanti, vissero altalenanti fortune, che misero in luce ora l’una, ora l’altra città. Nel IX e nel X se- colo, il fenomeno delle Repubbliche Marinare ebbe inizio con Amalfi e Gaeta, che presto raggiunsero il loro periodo di massimo splendore. Intanto Venezia iniziò la sua ascesa graduale, mentre le altre città vivevano ancora la lunga gestazione che le avrebbe portate all’autonomia e a dar seguito alla loro vocazione marinara. Dopo l’XI secolo, Amalfi e Gaeta declinarono rapidamente, mentre Genova e Venezia furono le repubbliche

39 più potenti, seguite da Pisa, che visse il suo momento più florido nel XIII secolo, e da Ancona e Ragusa, alleate per resistere alla potenza veneziana. Dopo il XIV secolo, mentre Pisa declinava sino a perdere la sua libertà, Venezia e Genova continuarono a do- minare la navigazione, seguite da Ragusa ed Ancona, che vissero nel XV secolo il loro momento aureo. Nel XVI secolo, con la perdita di autonomia di Ancona, rimasero solo le repubbliche di Venezia, Genova e Ragusa, che vissero ancora momenti di grande splendore sino a metà del Seicento, seguito da più di un secolo di lenta e dorata decadenza che si concluse con l’invasione napoleonica.

"Le brutalità del progresso si chiamano rivoluzioni. Quando sono finite si riconosce questo: che il genere uma- no è stato maltrattato ma ha camminato". Victor Hugo

Chiese Monasteri e Luoghi Sacri "La chiesa è grande proprio perché ognuno ci sta dentro a modo proprio". Leonardo Sciascia L’architettura paleocristiana nasce, ufficialmente, con l’Editto di Milano pubblicato nel 313 d.C. incui dall’imperatore Costantino concede la Libertà di Culto ai Cristiani. In tal modo essi iniziano ad erigere edifici pubblici per la celebrazione delle loro liturgie. Fino ad allora, il Cristianesimo, era considerato una religione non consentita e, prima ancora, perseguitata. Perciò, le riunioni dei fedeli praticanti si dovevano tenere in case private che venivano chiamate Domus Ecclesie. Le uniche architetture cristiane anteriori al IV secolo, a parte i rari scavi che hanno riportato alla luce domus Ecclesie, sovente però coperte da chiese successive, sono le strutture ipogee. Successivamente queste costruzioni saranno dette catacombe le quali nascono come tombe pagane e giudaiche. All’origine delle catacombe vi era l’esigenza di inumare i defunti in accordo con la dottrina della risurrezione predicata da Gesù. I Cristiani preferivano non cremare i corpi dei loro congiunti. Li affidavano alla terra, col- locandoli normalmente all’interno di sepolture sotterranee. A Roma già nel III secolo, prima della fine della clandestinità, esistevano sette zone diaconali ciascuna con la propria zona catacombale al di fuori della mura. Le catacombe venivano indicate facendo uso dei nomi dei proprietari del terreno, come è, per esempio, il caso delle catacombe di Priscilla, o di martiri ivi sepolti. I tracciati irregolari seguivano la struttura geologica del terreno scavato, molto spesso nel tufo, con più piani sovrapposti. Gli ambulacri, le lunghe gallerie di larghezza media sugli 80/90 cm ed altezza vicina ai 250 cm, erano chiamate cripte e talvolta vi si aprivano camere sepol- crali più vaste dette cubicula che avevano spesso una pianta a forma poligonale e vi erano sepolti personaggi più facoltosi o più venerati; spesso vi si trovano tombe ad arcosolio, cioè urne chiuse sormontate da una nicchia coperta da un arco. I sepolcri sovrapposti si chiamavano loci o loculi e la fila verticale di loculi su una parete veniva chiamata pila. Con la liberalizzazione del culto in epoca costantiniana si pose il problema di quale forma dare agli edifici della nuova religione. La Messa, definitivamente codificata proprio nel IV secolo, richiedeva degli edifici monumen- tali, che vennero costruiti usando come modello la basilica romana, cioè un edificio non legato alla religione e polifunzionale di tipo amministrativo- burocratico, strutturato in modo semplice. La basilica cristiana, infatti, aveva la planimetria rettangolare e la suddivisione in tre navate, spostando però l’accesso su un lato corto, a

40 differenza di quella romana che lo aveva spesso sul lato più lungo, e mantenendo l’abside solo sul lato opposto. Tale rotazione creava uno spazio inedito, fortemente direzionato e prospettico, che indirizzava a dirigersi e rivolgersi verso l’abside, solitamente orientata, dove veniva posizionato l’altare, ripreso dalle are pagane, che divenne il centro focale dell’architettura. L’oriente era il luogo dove si trovava il Paradiso e dove si trovava anche Cristo, che tornando sulla terra sarebbe provenuto da tale direzione. Il vescovo doveva stare al centro, affiancato dai sacerdoti, e i diaconi aver cura di disporre in zone separate i laici, divisi tra uomini e donne; nel mezzo, in un luogo rialzato, doveva stare il lettore dei testi sacri. La basilica paleocristiana presentava anche elementi nuovi come il transetto che comunque iniziò ad essere adottato solo in un secondo momento e nei primi secoli fu piuttosto raro, anche se presente nella primitiva basilica di San Pietro in Vaticano, quale navata trasversale disposta davanti al presbiterio, che dà alla basilica la forma planimetrica di una croce per il suo va- lore simbolico. La prima basilica cristiana fu probabilmente San Giovanni in Laterano, costruita su un terreno donato da Co- stantino stesso dopo l’Editto di Milano, con una struttura a cinque navate divise da quattro file di colonne. Circa cinque anni più tardi fu iniziata quella di San Pietro in Vaticano. Uno degli elementi tipici delle prime basiliche era la presenza di un atrium, esterno alla basilica, o di un quadriportico o nartece: essi erano usati dai catecumeni, cioè i non battezzati, che potevano assistere solo alla prima parte della messa, durante la quale si leggevano i testi sacri, per poi dover uscire. Non esistendo il sacramento della Confessione, il Battesimo veniva infatti normalmente dato solo agli adulti, e spesso in un’età avanzata che lavasse tutti i peccati fino ad allora commessi. La navata centrale era più alta di quelle laterali ed era in genere coperta da un soffitto ligneo a capriate, talvolta coperte da cassettoni, come nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. Le navate laterali avevano soffitti più bassi, per questo la facciata aveva in genere un profilo a capanna con lati spioventi, detti salienti. La copiosa illuminazione era garantita dalle finestre che si aprivano nella parte superiore della navata centrale, proprio nella porzione che svettava sulle navate laterali, detta cleristorio, o sulle navate laterali stesse. I colonnati che dividevano le navate erano più spesso achitravati come nella Basilica di Santa Maria Maggiore, piuttosto che composti da sequenze di archi. Tra le basiliche più importanti del IV secolo vi sono quelle pro- mosse dall’imperatore stesso o dalla sua famiglia, come le quattro basiliche patriarcali di Roma, e quelle più tarde di Milano e di Ravenna. La basilica paleocristiana, fondata da S. Ambrogio come martyrium nel 386, fu rimaneggiata durante i secc. VIII-IX. Tra la fine del IX e la prima metà dell’XI secolo essa divenne cantiere di nuove esperienze architettoniche di importanza determinante per la definizione dello stile dell’Arte Lombar- da, grazie alla costruzione del complesso delle absidi e del presbiterio, al tipico sistema strutturale centrato sul rapporto tra pilastro a fascio, alternato e volta a crociera costolonata e alla singolare decorazione resa dall’al- ternanza di archetti e lesene. Le scuole architettoniche Romanico Lombarde e Romanico- Pisane, dette Romaniche proprio perché prende- vano a modello la pianta a basilica tipica degli edifici di Roma, costituirono le prime tipologie vere e proprie di chiese, caratterizzate dall’essenzialità della pietra e luce fioca proveniente dalle feritoie e dai rosoni. Gli esempi più eccelsi di Romanico-Lombardo sono il Duomo di Parma: iniziato nel 1046, il duomo venne ricostruito (in pietra) dopo il terremoto del 1117. All’esterno, nella facciata (articolata su tre piani) e nella zona dell’abside si ripete il tipico motivo emiliano (presente anche nel duomo di Modena) delle logge transitabili. All’interno fu posta la scultura marmorea della Deposizione della Croce (1178) di Benedetto Antelami (1150-1230), che realizzò anche il progetto architettonico e l’apparato scultoreo del battistero a pianta ottagonale. Quest’ulti- mo, iniziato nel 1196, si caratterizza esternamente per la presenza di arcate sormontate da quattro piani di corridoi percorribili. Il Duomo di Modena fu, invece, costruito tra il 1099 e il 1120, sul luogo sorto su una

41 precedente basilica consacrata a S. Geminiano, dall’architetto lombardo, forse comasco, Lanfranco, che inter- pretò originalmente forme lombarde, facciata a capanna, pianta a tre navate, logge ad archetti, con uno spicca- to senso plastico e con un rigoroso criterio di unitarietà nella concezione architettonica. Il principale artefice dell’apparato scultoreo del cantiere del duomo fu Wiligelmo, attivo tra la fine del sec. XI e l’inizio del XII, al quale si devono i rilievi del portale mediano, detto Porta Maggiore, quelli della facciata recanti le quattro grandi lastre con le Storie della Genesi e la decorazione con Figure e Profeti nell’intradosso del portale della facciata, con relativa lunetta. Altrettanto famoso è il Romanico Pisano che raggiunge il massimo splendore proprio nel complesso situato in piazza dei Miracoli a Pisa, che comprende duomo, campanile, battistero e camposanto: la cattedrale fu iniziata nel 1063 dall’architetto Buscheto e completata, fra il 1150-60, dall’architetto Rainaldo, autore dell’imponente ed elegante facciata a quattro ordini di loggette. Caratteristiche salienti dell’edificio, che presenta una pianta a croce latina a cinque navate, sono la cupola a pianta ovale del sec. XII, le superfici esterne sono scandite orizzontalmente da fasce marmoree bianche e nere, di derivazione orientale, che diven- nero una prerogativa dell’architettura romanica toscana. Il maestoso edificio circolare del battistero, iniziato nel 1153 dall’architetto Diotisalvi ma completato nel corso del Trecento, è caratterizzato esternamente da una serie di arcate cieche sovrastate da un loggiato aperto. Il campanile, o Torre Pendente, inclinato a causa del cedimento del terreno, venne iniziato nel 1174 su progetto dell’architetto Bonanno Pisano e terminato nel corso del Trecento. Il corpo cilindrico, svolto in otto ordini sovrapposti, è scandito da una serie di arcate aperte praticabili. Il Romanico Pisano trovò larga diffusione tra i secc. XII-XIII anche in altre città toscane. Altri gioielli romanici che non possono essere ignorati sono: S. Miniato al Monte e il Battistero di S. Giovanni a Firenze caratterizzati dal gusto geometrizzante nel paramento di marmi bianchi e verdi e dall’evidente deri- vazione paleocristiana e classica. Un caso a sé stante è la basilica di San Marco a Venezia XI secolo che dopo la prima edificazione dell’828 subì un incendio nel 976; creata sul modello della chiesa dei SS. Apostoli di Costantinopoli (ora distrutta), quin- di con derivazione bizantina nella scelta della pianta a croce greca e delle cinque cupole poggianti su grandi arconi a botte. Ciascun braccio della croce è diviso in tre navate da colonnati che sostenevano i matronei. Il presbiterio, rialzato per la presenza della cripta, è sormontato dall’altare, ornato da un ricco ciborio sorretto da colonne istoriate, forse risalenti al sec. XIII. Le cupole, la parte alta delle pareti, i sottarchi delle navate sono interamente ricoperti di mosaici, in gran parte dei secc. XII-XIII, con rifacimenti posteriori, che costituiscono una significativa sintesi dell’iconografia bizantina. Esternamente la basilica è preceduta da un atrio che cir- conda tutta la parte occidentale. La facciata, compiuta nel periodo gotico, sec. XV, è spartita orizzontalmente da una terrazza con balconata; nella parte inferiori sono cinque profonde arcate in fondo alle quali si aprono altrettanti portali, con notevoli rilievi scultorei di gusto bizantino; sulla terrazza sono collocati i celebri quat- tro cavalli in rame dorato portati da Costantinopoli, ritenuti opera ellenistica del sec. III a.C.. Anche i fianchi della basilica sono ornati da preziosi rilievi e sculture, tra cui sul lato meridionale il gruppo in porfido dei Te- trarchi del sec. IV. L’atrio, diviso in campate da archi acuti, è sormontato da cupolette rivestite da splendenti mosaici di gusto veneto-bizantino del 1220-50 e riporta Storie dell’Antico Testamento. Esistono numerose chiese romaniche con influssi bizantini anche nel Meridione, isole comprese, come per esempio La Basilica di S. Nicola di Bari: importante edificio costruito a partire dal 1087 e consacrato nel 1197 ove vi sono confluiti influssi bizantini, per la presenza all’interno della basilica dell’iconostasi che separa il presbiterio dalle navate, influssi del Romanico Lombardo, nella facciata divisa a salienti e coronata dalla serie di archetti a tutto sesto, e interpretazioni romaniche proprie, come il matroneo e la realizzazione di due torri che chiudono ai lati la facciata dando alla chiesa l’aspetto di una fortezza. Le influenze bizantine incidono

42 anche nel palermitano Duomo di Monreale fondato da Guglielmo II tra 1174 e il 1189 che si presenta con la caratteristica facciata ornata con motivi di archi intrecciati nella zona superiore, fiancheggiata da due alte torri campanarie. L’interno a pianta basilicale a tre navate è decorato dai cicli di mosaici Storie dell’Antico e Nuovo Testamento realizzati da artisti locali nei secoli XII-XIII, operanti secondo, appunto, modelli bizantini. Di im- pronta araba è invece l’annesso chiostro del monastero benedettino del sec. XII.

Il Gotico in Italia, definito temperato, ha caratteristiche che lo distinguono notevolmente da quello del luo- go d’origine dell’architettura gotica, cioè la Francia, e dagli altri paesi europei in cui questo linguaggio si è diffuso (cioè l’Inghilterra, la Germania e la Spagna). In particolare non viene recepita l’innovazione tecnica e l’arditezza strutturale delle cattedrali francesi, preferendo mantenere la tradizione costruttiva consolidata nei secoli precedenti, e anche dal punto di vista estetico e formale non trova un grande sviluppo lo slancio verticale quasi estatico dell’architettura d’oltralpe. Se da un lato quindi c’era stata un’applicazione precoce di elementi gotici in epoca romanica, quali i rosoni e le volte a costoloni nel nord-Italia e gli archi a sesto acuto di retaggio arabo in Italia meridionale, dall’altro la tradizione romanica, influenzata dai modelli bizantini, paleocristiani e classici, resistette al principio dell’annullamento delle pareti. Ciò fu dovuto probabilmente anche a questioni puramente pratiche: il clima italiano avrebbe prodotto negli edifici coperti di vetrate un effetto luminescente nei mesi estivi, per cui la soluzione preferita fu quella di mantenere strutture in massiccia muratura, più fre- sche, sulle quali si stendevano preziose decorazioni ad affresco. Si ebbe quindi in Italia un compromesso tra Romanico e Gotico, senza eccessivi slanci in altezza e riduzioni scheletriche delle masse murarie. Una possibile periodizzazione dell’architettura gotica italiana contempla una fase iniziale nel XII secolo con lo sviluppo dell’architettura cistercense, una fase successiva dal 1228 al 1290 di primo gotico in cui rientra la Ba- silica di San Francesco d’Assisi dell’architetto Elia da Cortona, iniziata nel 1228 e completata nel 1253, anno in cui avvenne anche la sua consacrazione. Rispetto ai tempi di costruzione della maggior parte delle chiese, av- venne in tempo record. Ciò nonostante, i suoi interni sono assolutamente meravigliosi, tra i quali spicca il tran- setto della chiesa inferiore, con l’altare eretto sopra la tomba di San Francesco. Sempre nella basilica inferiore vi sono le preziosissime decorazioni di Giotto; le realizzazioni effettuate dal 1290 al 1385 sono considerate gotico maturo ed, infine, l’ultima fase dal 1385 fino al XVI secolo, si chiude con l’inizio e la prosecuzione di cantieri tardo gotici come il Duomo di Milano e della Basilica di San Petronio a Bologna. Per quanto riguarda il Duomo di Milano, questo edificio rappresenta una eccezione nel panorama artistico italiano per la presenza documentata di architetti dell’Europa centrale, che impostano un progetto affine a quello del Duomo di Colonia. L’edificio, il cui disegno sarà fonte di discussioni e conflitti fra architetti italiani e tedeschi e francesi, verrà terminato solo nel XIX secolo in pieno clima di revival neogotico e storicista, inte- grando ecletticamente fra loro le diverse scuole di pensiero architettonico e le stratificazioni artistiche dovute al protrarsi del cantiere e alle straordinarie dimensioni dell’edificio. La Basilica di San Petronio a Bologna rappresenta, ugualmente un’eccezione, in quanto venne costruita per volontà dell’Autorità Pubblica e non dalla Chiesa, per rappresentare le conquiste civiche della città: l’Università, il Libero Comune, il Liber Para- disus, con cui venne proclamata l’abolizione della schiavitù e la partecipazione alle Crociate. Sempre nel XIV secolo con l’arrivo degli Aragonesi in Sicilia, viene importato in Italia lo stile Gotico Catalano, molto presente anche in Sardegna come nella chiesa di Sant’Eulalia a Cagliari; un esempio di Gotico Aragone- se siciliano tra i più pregevoli è il Duomo dell’Assunta a Erice. Nel Quattrocento proseguono i cantieri iniziati nei secoli precedenti. Viene realizzata la cupola della cattedrale gotica di Santa Maria del Fiore di Firenze da parte di Filippo Brunelleschi, considerata una delle opere più significative del nuovo linguaggio del Rinasci-

43 mento, sebbene vada letta quale straordinario frutto tardomedievale della più solida cultura progettuale e tec- nica di tradizione. L’architettura del primo Rinascimento, creazione perfettamente italiana, si sviluppò agli inizi del Quattrocento a Firenze. Le costruzioni sacre si sviluppano prettamente secondo lo schema basilicale di derivazione romanica e gotica, lasciando poche applicazioni allo schema centrale, ed applicando e rinnovan- do l’ordine classico. Grazie al genio di Brunelleschi e dell’Alberti si realizzò un’arte quanto mai originale che ebbe il suo centro maggiore, come su detto, proprio a Firenze. Con la scoperta della prospettiva lineare, attri- buita proprio al Brunelleschi, fu possibile rappresentare la spazialità degli edifici secondo un logicità matema- tica dovuta ai ritmi compositi codificati nella proporzione e che restituì allo spazio interno un senso dell’unità e della misura che segnò la conclusione del periodo Gotico. La basilica di San Pietro, che si trova a Roma, oltre ad essere la seconda più grande chiesa al mondo è anche tra le più belle. Di sicuro, è la più importante, poiché rappresenta la edificio principale della Santa Sede e quindi è il luogo di culto e di celebrazione della Chiesa Cattolica. Ciò che maggiormente colpisce sono la sua grande cupola progettata da Michelangelo nel 1506 e la sua piazza, progettata dal Bernini oltre un secolo dopo. La cattedrale di San Pietro in Vaticano a Roma è la massima espressione del Barocco Romano. Il suo co- lonnato è l’esplicazione del messaggio universale della Chiesa, cioè quello di ricevere i fedeli a braccia aperte per confermarli nella fede, come il suo monumentale Baldacchino, che è un vero e proprio capolavoro d’Arte Barocca. Entrambi sono stati realizzati dal Bernini, come anticipato nel 1626, ed esprimono appieno il senso di quest’arte che voleva produrre estasi e meraviglia in chi li ammirava. Il Baldacchino si trova vicino all’altare maggiore, in corrispondenza della sottostante tomba di San Pietro: è un’opera monumentale alta 28 metri e rappresenta una sintesi perfetta tra architettura e scultura. L’Architettura Barocca, in Italia, è ricca di stupendi esemplari che si esprimono attraverso la monumentalità delle forme: tutto deve destare meraviglia e sorpresa; questo si evidenzia, soprattutto, nei campanili sempre molto elaborati e decorati. In questo articolo sono state costruite alcune delle più belle cattedrali barocche del nostro Paese come la cattedrale di Santa Maria Assunta a ; espressione, unica e inconfondibile, di questo stile dove l’amore per i contrasti si univa a una mescolanza audace degli elementi. Il Duomo di Lecce esplica in pieno il pensiero barocco, dominando la piazza in cui si trova con il suo meraviglioso campanile che, alto 70 metri sul piano della città e 120 metri sul livello del mare, è uno tra i più alti d’Europa. La facciata principale è nascosta ed è piuttosto lineare, in completo contrasto con quella che ci appare, in tutto il suo splendore, appena si arriva nella piazza e che costituisce la facciata laterale, molto più scenografica, con meravigliosi capitelli ed enormi statue dei santi. L’imponente balaustra, che si staglia sul davanti, è ricca di decori tipici di quest’arte. Essa è stata concepita per dare una visione di grande maestosità a tutti quei visitatori che sarebbero entrati nella piazza. Per la sua possente bellezza, la facciata laterale è diventata quella principale. Tutto il Duomo è stato costruito con la particolare pietra leccese, che varia di colore a seconda del variare della luce dando un effetto molto suggestivo. Anche l’interno è molto imponente con il soffitto ligneo, moltissime opere d’arte e gli altari che arricchiscono le cappelle delle navate di grande importanza e di enorme bellezza con le colonne tortili ricche di decori. Un altro gioiello di quest’arte così particolare è il Duomo di Siracusa, che sicuramente è una delle cattedrali barocche più belle, mai realizzate. Ha una storia lunga 2500 anni. Infatti, sorge sulla parte elevata dell’isola di Ortigia, edificato sulle antiche fondamenta di un tempio in stile dorico dedicato alla Dea Atena nel V sec. a.C.. Bellissima è la sua facciata, massima espressione del barocco siracusano, ma anche il suo interno, a tre navate, desta meraviglia con le finestre bizantine, il presbiterio in stile barocco, il soffitto della navata centrale a trabeazione lignea e la terza cappella dedicata al Santissimo Sacramento.

44 Tra le cattedrali barocche italiane più belle non si può non includere l’arcibasilica papale di San Giovanni in Laterano a Roma, una delle più maestose cattedrali barocche e la più antica d’Occidente, che sorge vicino al monte Celio. Guardando la sua facciata settecentesca, realizzata da Alessandro Galilei, ci si chiede che cosa ci sia dentro. Infatti, la facciata è il preludio magnifico di quanto realizzato al suo interno dal Borromini. La chiesa possiede 5 navate con colonnati marmorei, un ricchissimo soffitto a cassettoni ed è sempre stata considerata un’enorme scrigno di opere d’arte di inestimabile valore artistico. Arrivando a Venezia, chiunque, verrà catturato dal fascino mozzafiato di un’altra cattedrale barocca che, con la sua cupola, domina la laguna da più di trecento anni, è la Basilica di Santa Maria della Salute. Questo gioiello ar- chitettonico fu realizzato nel Seicento, per ringraziare la Vergine per la protezione contro la peste del XVII. La basilica ha una meravigliosa forma ottagonale, si affaccia sul Canal Grande ed è caratterizzata da una gradinata che dà accesso alla chiesa e sembra emergere dall’acqua. Santa Maria della Salute, massima espressione del Barocco Veneziano, è a pianta centrale e ottagonale con l’esterno arricchito da una forma particolare così piena di ornamenti che si fa fatica a distinguerne la struttura architettonica, tante sono le statue i decori e le volute dei capitelli che affollano la sua facciata. La ricchezza di particolari dell’esterno arriva fino alla sommità della cupola, dove la grande statua della Vergine è attorniata da otto obelischi che ne esaltano la grandezza. Ancora oggi, ogni 21 novembre si festeggia la Festa della Madonna della Salute, in cui i veneziani attraversano un ponte, una volta fatto di barche e oggi galleggiante fissato a pali, che da San Marco arriva alla Basilica. Il Neoclassicismo guarda ad Alessandro Antonelli nella progettazione degli involucri esterni della basilica di San Gaudenzio a Novara. Ma facciamo un salto temporale e arriviamo ai giorni nostri. Tra le migliori opere degli ultimi anni spicca la chiesa di Dio Padre Misericordioso, inaugurata nel 2003 firmata dall’architetto statunitense Richard Meier. Nota anche come chiesa del Giubileo o Dives in misericordia, sorge nel quartiere Tor Tre Teste. Tre vele, che hanno l’ardire di voler portare verso un mondo nuovo, sovrastano una struttura rigorosamente bianca. Il cemento impiegato, brevettato e realizzato da Italcementi, grazie ad un effetto di fotocatalisi è autopulente: è il cosiddetto cemento mangiasmog. L’architetto Renzo Piano è autore della ma- estosa chiesa di San Pio da Pietrelcina. L’opera è stata fortemente voluta dai frati Minori Cappuccini di padre Pio per ospitare le reliquie del santo e dare nuova linfa al suo culto. Si gioca su uno scomposto che domina il rigore minuzioso delle abitazioni tutto intorno, posate come mattoncini ordinatamente una accanto all’altra. Dio uno e trino è scritto nella facciata di tre osate arcate portanti, giunte in un unico arco parabolico nella parte absidale. Il progetto della chiesa di San Francesco di Sales è di Lucrezio Carbonara, Paolo Dattero e Alfredo Re, la struttura è stata conclusa nel 2005. I due elementi impattanti sono l’ampia copertura protesa in avanti e il portale d’ingresso, in tre cornici in marmo bianco, l’una dentro l’altra, che arretrano rimpicciolendosi verso la vetrata d’entrata. La copertura di tegole di rame si protende in punta sopra l’ingresso. Molti luoghi sacri sono stati recuperati e riportati all’antico splendore e oggi ospitano ritiri spirituali o sempli- cemente permettono di fuggire dal caos cittadino e ritrovare pace e serenità. Meritano di essere conosciuti e visitati. Uno fra tutti, l’abbazia di san Galgano in Toscana a Chiusdino, a circa 35 chilometri da Siena. Un luo- go ricco di fascino per la leggenda che è nata tra le sue mura, oggi sconsacrate e parzialmente diroccate: sotto la teca di una piccola cappella di forma circolare della chiesa gotica dell’eremo, è conservata una spada che ap- parteneva a Galgano, un cavaliere che nel 1170 decise di convertirsi e di lasciare la sua spada per sempre con- ficcata nella roccia dell’abbazia. Costruita alla fine del XIII secolo, il sito di san Galgano prese il nome dal santo che si ritirò nel vicino eremo sul colle di Montesiepi; oggi, dell’antica abbazia restano solo le mura perimetrali che si stagliano nella bellissima e suggestiva campagna senese mentre vicino ad essa, salendo all’eremo, è pos-

45 sibile vedere la leggendaria spada nella roccia, appartenuta al cavaliere. Oltre al patrimonio storico- artistico e spirituale che arricchiscono il nostro paese ci sono tutte le tradizioni e i sincretismi di origine pagana che oggi sono stati trasferiti nelle sagre folcloristiche di Sante e Santi, martiri e patroni di luoghi e mestieri mentre la preghiera, i pellegrinaggi, gli ex-voto, mentre auspichiamo ai miracoli di Padre Pio e attendiamo il liquefarsi del sangue di San Gennaro, queste preesistenze non hanno mai cancellato il sottobosco di ritualità arcaiche che si tramandano, oralmente, da millenni. E le chiese e i luoghi sacri, non sono solo un connubio d’influenze artistiche ma i diversi modi che l’uomo ha trovato per costruire la casa del suo Dio. "Guardiamo alle religio- ni come alle mille foglie di un albero, ci sembrano tutte differenti, ma tutte riconducono a uno stesso tronco". Mahatma Gandhi

Umanesimo e Rinascimento "In Italia per trecento anni sotto i Borgia ci sono stati guerra, terrore, criminalità, spargimenti di sangue. Ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento. In Svizzera vivevano in amore fraterno, avevano 500 anni di pace e di democrazia. E cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù". Orson Welles

L’Umanesimo I risultati più significativi e duraturi l’Italia li ottenne, non sul terreno economico e politico, ma su uelloq culturale, con la nascita dell’Umanesimo e delle arti rinascimentali. L’insorgere dei rapporti capitalistici por- tò infatti alla formazione della scienza sperimentale, alla riscoperta e allo studio dei documenti della cultura antica in funzione antiscolastica e antimedievale, alla fioritura dell’Arte e allo sviluppo di una concezione immanente del mondo che spezzava l’egemonia intellettuale della Chiesa. Si ebbero anche la formazione di letterature nelle nuove lingue vive dell’epoca e la comparsa del Teatro professionale. Sul piano delle Scien- ze Sperimentali si ebbero grandi progressi nelle costruzioni navali e nella scienza della navigazione grazie all’impiego della bussola e delle carte geografiche, giusto per fare qualche esempio. Si sviluppò anchela Me- dicina, la Botanica, la Matematica, l’Astronomia e tanto altro. La borghesia aveva bisogno dello sviluppo delle scienze basate sull’esperienza, indispensabili alla produzione, allo smercio dei prodotti, all’aumento della produttività del lavoro. Questa nuova concezione del mondo si espresse nel Rinascimento Italiano soprattutto nelle opere dei poeti, dei pittori, degli scultori e degli architetti, che erano al servizio dei ricchi cittadini, dei signori feudali di larghe vedute e del papato. Per nuova concezione del mondo s’intende quella dei ricchi abitanti di città, trasformatisi col tempo in borghesi. Con la parola humanista s’indicava nel XVI sec. il carattere terreno, pratico, immanen- te della nuova Scienza e della nuova Letteratura, in antitesi alla Teologia e alla Filosofia Scolastica. Il tratto più caratteristico dell’Umanesimo era l’individualismo, nel senso che si considerava la soddisfazione delle esigen- ze dell’individuo un fine in sé. Spesso infatti si giustificava l’idea secondo cui il successo rende leciti i mezzi con cui lo si consegue. Da questo punto di vista le personalità che più si dovevano stimare queste logiche, era- no quelle emergenti per ricchezza, cultura e potere. L’Umanesimo del Rinascimento è strettamente collegato con gli studia humanitatis, schema che si distingue nettamente dalle Arti Liberali del Medioevo e dalle Belle Arti del tempo moderno e che comprendeva la Grammatica, la Retorica, la Poesia, la Storia, la Filosofia Morale, lo studio della Lingua e Letteratura Classica, Greca, Latina e Volgare, e la Filologia ed escludevano le altre

46 discipline che facevano pure parte dello studio e dell’insegnamento universitario nel Rinascimento come nel tardo Medioevo, cioè la Logica, la Filosofia Naturale, la Metafisica, la Teologia, la Giurisprudenza, la Medicina e le Matematiche. Quindi l’Umanesimo non costituisce l’insieme del sapere o del pensiero del Rinascimento, ma soltanto un settore parziale e ben definito. Bisogna notare anzitutto i temi di cui gli umanisti si occupano nei loro trattati. Sono in parte gli stessi temi che si trovano nella letteratura filosofica antica e medievale, e specialmente quella popolare: il sommo bene, la virtù e il piacere; il fato, la fortuna e il libero arbitrio; la di- gnità dell’uomo e la sua miseria; la nobiltà e la ricchezza e i loro rapporti con la virtù. Gli umanisti parlano del rapporto tra intelletto e volontà e favoriscono, spesso, la volontà. L’arte del Rinascimento si sviluppò a Firenze a partire dai primi anni del Quattrocento, e da qui si diffuse nel resto d’Italia e poi in Europa, fino ai primi decenni del XVI secolo, periodo in cui ebbe luogo il Rinascimento maturo con le esperienze di Leonardo da Vinci, Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio, che lo Storico dell’Arte, Gombrich, definisce, nei sui libri, il più grande pittore della storia dell’umanità. In questo periodo si ebbe a Firenze un rinsaldato legame con le origini romane della città, originatosi già nel XIV secolo con le opere di Francesco Petrarca e Coluccio Salutati, che produsse un atteggiamento consapevole di ripresa dei modi dell’Età Classica Greca e Romana. Questa rinascita, non nuova nel mondo medievale, ebbe però, a dif- ferenza dei casi precedenti, una diffusione ed una continuità straordinariamente ampia, oltre al fatto che, per la prima volta, venne formulato il concetto di frattura tra mondo moderno e antichità dovuta all’interruzione rappresentata dai secoli bui, chiamati poi Età di Mezzo o Medioevo. Questa nuova concezione si diffuse con entusiasmo, ma, basandosi sulle forze dei singoli individui; non era priva di lati duri e angoscianti, sconosciuti nel rassicurante sistema medievale. Alle certezze del mondo tolemaico, si sostituirono le incertezze dell’igno- to, alla fede nella Provvidenza si avvicendò la più volubile Fortuna e la responsabilità dell’autodeterminazione comportava l’angoscia del dubbio, dell’errore, del fallimento. Questo rovescio della medaglia, più sofferto e spaventoso, si ripresentò ogni volta che il fragile equilibrio economico, sociale e politico veniva meno, togliendo il sostegno agli ideali. Gli artisti erano pure partecipi di questi valori, anche se non avevano un’istruzione che poteva competere con quella dei letterati; nonostante ciò, grazie anche alle opportune collaborazioni e alle grandi capacità tecniche apprese sul campo, le loro opere suscitavano un vasto interesse a tutti livelli, annullando le differenze elitarie poiché più facilmente fruibili ri- spetto alla Letteratura, rigorosamente ancora redatta in Latino. La cattedrale finisce di essere il centro mistico delle città e di delimitare la zona del sacrum dallo spazio profano: di fronte ad essa si ergono i palazzi delle Si- gnorie, dei Prìncipi, delle Corporazioni, dei nuovi ricchi, e dentro i palazzi i pittori e gli artisti narrano le gesta gloriose della famiglia, celebrano la gioia del vivere, rievocano la mitologia del paganesimo interpretandola anche in chiave contemporanea. La visione del mondo è antropocentrica, non più teocentrica come nel Medioevo. Anche nel campo delle arti figurative le innovazioni rinascimentali affondavano le radici nel XIV secolo: ad esempio, le ricerche intui- tive sullo spazio di Giotto, di Ambrogio Lorenzetti o dei miniatori francesi, vennero approfondite e porta- te a risultati di estremo rigore, fino ad arrivare a produrre risultati rivoluzionari. Furono almeno tre gli ele- menti essenziali del nuovo stile: formulazione delle regole della prospettiva lineare centrica, che organizza lo spazio unitariamente; attenzione all’uomo come individuo, sia nella fisionomia sia nell’anatomia che nella rappresentazione delle emozioni, ripudio degli elementi decorativi e ritorno all’essenzialità. Per parlare di un’opera pienamente rinascimentale non basta la presenza di uno solo di questi elementi, poiché il Rinascimento fu innanzitutto un nuovo modo di pensare e raffigurare il mondo nella sua interezza. In alcune

47 opere di Paolo Uccello, come il San Giorgio e il drago (1456), lo spazio è composto secondo le regole della prospettiva; tuttavia, i personaggi non sono disposti in profondità, ma semplicemente accostati e privi di om- bre, come l’eterea principessa; diversamente, nella Crocefissione di San Pietro di Masaccio, tutti gli elementi sono commisurati alla prospettiva, che determina le dimensioni di ciascuno. Un altro confronto, relativo all’at- tenzione all’uomo come individuo, si può effettuare tra la Madonna in trono col Bambino e angeli musicanti del 1405-1410 circa, di Gentile da Fabriano e la Sant’Anna Metterza (1426) sempre di Masaccio. Nel primo caso il volume è creato sovrapponendo gli strati di colore che creano ombre e luci in maniera del tutto conven- zionale, le parti chiare sono sempre le stesse: la canna del naso, la fronte, il mento, qualunque sia la posizione della testa nel dipinto, come anche i lineamenti e le espressioni mentre, nel caso di Masaccio, la figura del volto nasce dalla conoscenza della reale struttura ossea, con un disporsi delle ombre studiato e consapevole che, nel caso del Bambino, coprono gran parte del viso. L’occhio, che ha imparato a conoscere gli spazi umani e cosmici e le loro leggi discoprendone la struttura prospettica, concepisce il paesaggio come scenario di azioni umane, e, anche quando lo conserva come sfondo di una raffigurazione sacra, lo vagheggia con lo stesso amore e la stessa devozione. Le vicende delle stagioni, i lavori quotidiani, le arti liberali, che prima rientravano nella cornice delle cattedrali, in cui trovavano il loro luogo naturale, ora si affermano in piena autonomia per dichiarare la dignità del lavoro dell’uomo; inoltre pit- tori e scultori che studiano anatomicamente il corpo umano vedono in esso ordine e bellezza. L’artista medievale era responsabile solo dell’esecuzione dell’opera poiché gli erano dati i contenuti e i temi dell’immagine da una autorità superiore o da una tradizione consacrata, invece nel Rinascimento l’artista deve trovarli e definirli, determinando così, autonomamente, l’orientamento ideologico e culturale del proprio la- voro. La cultura umanistica, poi, pone il fine dell’Arte come valore. Questa società avente al vertice il borghese che ha conquistato la Signoria, è interessata a conoscere oggettivamente: la Natura, luogo della vita e sorgente della materia del lavoro umano, la Storia, che dà conto dei moventi e delle conseguenze delle azioni umane, l’Uomo come soggetto del conoscere e dell’agire. Gli iniziatori di questo movimento in età umanistico-rinascimentale sono gli architetti Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti, lo scultore Donatello e Masaccio, il pittore. Ciascun artista del Rinascimento dosò secondo una propria misura personale gli elementi base del nuovo stile, ispirandosi, in misura diversa, alla natura e all’antico. Il fattore più importante del Quattrocento fiorentino, e italiano in generale, assurto quasi a simbolo della stagione, è il problema prospettico. La prospettiva è uno dei sistemi per rappresentare su una superficie uno spazio tridimensionale e la posizione reciproca degli oggetti in esso contenuti. Ai primi del secolo, Filippo Brunelleschi, mise a punto un metodo matematico-geometrico e misurabile per comporre lo spazio illusorio secondo la prospettiva lineare centrica, partendo dalle nozioni dell’ottica medie- vale e immaginando un nuovo concetto di spazio: infinito, continuo, preesistente alle figure che lo occupano. La teoria nacque da due esperimenti pratici con tavolette disegnate, oggi perdute ma ricostruibili grazie alle descrizioni di Leon Battista Alberti. Una raffigurava il Battistero di Firenze visto dal portale centrale di Santa Maria del Fiore ed aveva un cielo ricoperto da carta argentata, in modo che riflettesse la vera luce atmosferica. Questa tavoletta andava guardata attraverso uno specchio, mettendo un occhio su un foro sul retro della tavoletta stessa. Lo specchio, che aveva la stessa forma della tavoletta, doveva essere posto in maniera da contenerla tutta: se era più piccolo andava messo più lontano. Da qui si potevano calcolare le distanze con l’edificio vero tramite un sistema di proporzioni di triangoli simili e i successivi rimpicciolimenti degli oggetti all’allontanarsi dallo spettatore.

48 Con questo sistema si faceva, forzatamente, coincidere il punto di vista col centro della composizione, otte- nendo un’intelaiatura prospettica atta a creare una rappresentazione dove lo spazio si componeva illusionisti- camente come quello reale. Il sistema si basava sul fatto che le rette parallele sembravano convergere verso un unico punto all’orizzonte, il punto di fuga: fissando il punto di vista e la distanza si poteva stabilire in maniera matematica e razionale, tramite schemi grafici di rapida applicazione, la riduzione delle distanze e delle di- mensioni. La facilità di applicazione, che non richiedeva conoscenze geometriche di particolare raffinatezza, fu uno dei fattori chiave del successo del metodo, che venne adottato dalle botteghe con una certa elasticità e con modi, talvolta, personali. La prospettiva lineare centrica è solo uno dei modi con cui rappresentare la realtà, ma il suo carattere era par- ticolarmente consono con la mentalità dell’uomo del Rinascimento, poiché dava origine a un ordine razionale dello spazio, secondo criteri stabiliti dagli artisti stessi. Se da un lato la presenza di regole matematiche rende- va la prospettiva una materia oggettiva, dall’altro le scelte che determinavano queste regole erano di carattere perfettamente soggettivo, come la posizione del punto di fuga, la distanza dallo spettatore, l’altezza dell’oriz- zonte. In definitiva la prospettiva rinascimentale non è nient’altro che una convenzione rappresentativa, che oggi è ormai così radicata da apparire naturale, anche se alcuni movimenti del XIX secolo, come il cubismo, hanno dimostrato come essa sia soltanto un’illusione. L’architettura rinascimentale si sviluppò a Firenze dove, durante il periodo Romanico, si era mantenuta una certa continuità con le forme chiare e regolari dell’architettura classica. Il punto di svolta, che segna il passaggio dall’architettura gotica e quella rinascimentale, coincide con la realizzazione della cupola del Duomo di Firen- ze, eseguita da Filippo Brunelleschi tra il 1420 ed il 1436. Tuttavia, la prima opera pienamente rinascimentale è lo Spedale degli Innocenti, costruito dal medesimo Brunelleschi a partire dal 1419. A questo fecero seguito le basiliche di San Lorenzo e Santo Spirito, la Sagrestia Vecchia e la Cappella de’ Pazzi, opere nelle quali lo stile brunelleschiano diede origine a decorazioni in pietra serena applicate su impianti derivati dall’unione di forme geometriche elementari come il quadrato e il cerchio. L’arte del Brunelleschi fu d’ispirazione per diversi architetti del secolo, come Michelozzo, Filarete, Giuliano da Maiano e Giuliano da Sangallo; in particolare, quest’ultimo, fissò i principi dell’arte fortificatoria detta fortificazione alla moderna, della quale è considerato il fondatore insieme col fratello Antonio da Sangallo il Vecchio e Francesco di Giorgio Martini. Alcuni anni dopo l’esordio di Brunelleschi si registra l’attività di Leon Battista Alberti, che a Firenze eseguì il Palazzo Rucellai e la facciata di Santa Maria Novella. L’Alberti, profondamente influenzato dall’architettura romana, lavorò anche a Rimini, nel Tempio Malatestiano, e a Mantova per San Sebastiano e Sant’Andrea. Un suo al- lievo, Bernardo Rossellino, si occupò del riassetto della cittadina di Pienza, una delle prime trasformazioni architettoniche ed urbanistiche della storia del Rinascimento. Il pieno Rinascimento invece fu essenzialmente Romano, grazie all’opera di Bramante, Raffaello Sanzio e Mi- chelangelo Buonarroti. Al primo si deve soprattutto il progetto per la ricostruzione della basilica di San Pietro in Vaticano sopra la preesistente chiesa paleocristiana, con la costruzione della Cupola ad opera di Michelan- gelo, e l’impianto a croce greca derivato dagli studi di Leonardo da Vinci sugli edifici a pianta centrale, ma che, a sua volta, condizionò Antonio da Sangallo il Vecchio nella concezione della chiesa di San Biagio a Monte- pulciano. Raffaello fu attivo nella costruzione di alcuni palazzi e nel progetto di Villa Madama. Michelangelo, inoltre, realizzò la piazza del Campidoglio e ultimò il Palazzo Farnese avviato da Antonio da Sangallo il Giova- ne. Il suo modo di scolpire il marmo è straordinario, come egli diceva per via di levare; si procurava un blocco delle proporzione che gli serviva e con cui realizzava le sue opere indimenticabili come il David, La Pietà, il

49 Mosè, senza dimenticare le numerose sculture del suo non finitoche davano proprio l’impressione che l’uomo lottasse per uscire dal marmo in cui era imprigionato. Il Rinascimento del XVI secolo è chiuso da alcune opere di Andrea Palladio, che influenzarono notevolmente l’architettura europea coniando i terminiPalladianesimo e Neopalladianesimo: tra queste si ricordano la Basilica Palladiana, il Palazzo Chiericati, la Villa Capra a Vi- cenza, che fu tra le prime costruzioni profane dell’era moderna ad avere come facciata il fronte di un tempio classico. Il Rinascimento nelle arti figurative nacque come una variante minoritaria nella Firenze degli anni Dieci-Venti, diffondendosi poi con più decisione e con forme più ibride nei decenni successivi. Tramite lo spostamento degli artisti locali, si diffuse gradualmente nelle altre corti italiane, prima in maniera sporadica, occasionale e generalmente con un seguito limitato; poi, a partire dalla metà del secolo, con un impatto più prorompente, soprattutto da quando altri centri, fecondati dal soggiorno di eminenti personalità, iniziarono ad essere a loro volta luoghi di irradiazione culturale. Tra questi nuovi fulcri di irradiazione della prima ora spiccarono, per intensità, originalità di contributi e raggio di influenza, Padova e Urbino. Tra le caratteristiche più affascinanti del Rinascimento nel Quattrocento ci fu sicuramente la ricchezza di varianti e declinazioni che contraddistin- sero la produzione artistica delle principali personalità e delle varie zone geografiche. A partire dagli strumenti messi in campo dai rinnovatori fiorentini come la prospettiva e lo studio dell’antico, si arrivò a numerose arti- colazioni formali ed espressive, grazie all’apporto fondamentale di quei mediatori, che stemperarono le novità più rigorose in un linguaggio legato alle tradizioni locali e al gusto della committenza. Ad esempio si potevano innestare regole rinascimentali su una griglia gotica, oppure porre l’accento su una sola delle componenti del linguaggio rinascimentale in senso stretto. Un esempio di flessibilità è dato dall’uso della prospettiva, che da strumento per conoscere e indagare il reale, divenne talvolta un modo per costruire favolose invenzioni di fantasia. All’inizio del Cinquecento alcuni straordinari maestri seppero raccogliere le inquietudini della nuova epoca trasfigurandole in opere di grande respiro monumentale e altissimi valori formali: Leonardo da Vinci, Miche- langelo, Raffaello e il duetto veneziano composto da e Tiziano Vecellio; tutti di bravura universali, rinnovarono la maniera di rappresentare la figura umana, il movimento e il sentimento a un livello tale da se- gnare un punto di non-ritorno che divenne il modello imprescindibile di riferimento per tutta l’arte europea, spiazzando la maggior parte dei vecchi maestri allora attivi. Chi non seppe rinnovarsi fu allontanato dai grandi centri, accontentandosi forzatamente di un’attività nei meno esigenti centri di provincia. Eventi tragici come il Sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi nel 1527 portano alla dispersione degli artisti, garantendo però una nuova fioritura periferica. Di lì a poco un nuovo stile, nato dà un’interpretazione estrema della Maniera Moderna, conquistò l’Italia e l’Europa: il Manierismo. Un tipo di pittura che attingeva a piene mani dal Rina- scimento sperimentando impianti compositivi e coloristici alquanto espressionistici per quel tempo e di cui gli esponenti principali furono i pittori Pontormo e Rosso Fiorentino. Nel tempo la pittura di maniera rischiò di diventare un ricalco inutile dei temi del Rinascimento. Ancora oggi il termine di maniera fa riferimento a qualcosa di già visto e poco originale.

50 Il Rinascimento Abbiamo voluto questa distinzione tra Umanesimo e Rinascimento per chiarire due fatti: il Rinascimento è una conseguenza della cultura dell’Umanesimo; il Rinascimento esclusivamente relativo alla Storia dell’Arte ha dei passaggi fondamentali che hanno bisogno di essere narrati in maniera a sé stante, anche se i protagoni- sti non cambiano. Firenze, sin dall’epoca romanica, restò legata a forme di classicismo, che impedirono l’attecchire di un gusto pienamente Gotico, come spopolava invece nella vicina Siena. All’inizio del XV secolo si possono immaginare due strade che si prospettavano agli artisti desiderosi di innovare: quella del gusto Gotico Internazionale, con ancora marcati influssi bizantini, e quella del recupero più rigoroso della Classicità di cui già il Maestro Cima- bue e il suo allievo che sarà considerato il padre dell’Arte Moderna, sperimentando la prospettiva a spina di pesce, meglio noto come Giotto ed entrambi di Firenze. Queste due tendenze, ossia, Gotico e Classico, si notano convivere già nel cantiere della Porta della Man- dorla (dal 1391), ma fu soprattutto con il concorso indetto nel 1401 per scegliere l’artista a cui affidare la realizzazione della Porta Nord del Battistero, che i due indirizzi si fecero più chiari, nelle formelle di prova re- alizzate da Lorenzo Ghiberti, ancora legato al Gotico, e Filippo Brunelleschi, decisamente Classico, che vinse il concorso segnando così la data di nascita del Rinascimento Fiorentino che, comunque, non fu apprezzato in maniera unanime e per tutti gli anni Venti ebbero ancora largo successo artisti legati alla vecchia scuola come Lorenzo Monaco e Gentile da Fabriano. I primi seguaci di Masaccio, la cosiddetta seconda generazione, furono Filippo Lippi, Beato Angelico, Domenico Veneziano, Paolo Uccello e Andrea del Castagno, che presto presero strade individuali nel campo artistico. Essi prepararono il terreno alla ricezione della successiva onda- ta di influenza fiorentina degli anni ’50. Più successo, ebbero Donatello a Padova, che influenzò soprattutto, per assurdo, la scuola pittorica locale, e Piero della Francesca, allievo di Domenico Veneziano, a Urbino.

Teorico del Rinascimento fu Leon Battista Alberti, i cui famosissimi trattati De pictura (1436), De re aedifica- toria (1452) e De Statua (1464) furono fondamentali per la sistemazione e la diffusione delle idee rinascimen- tali. A lui risalgono modelli come quello dell’armonizzazione di copia e varietas, intesi come la profusione e la diversità dei soggetti. Negli anni centrali del secolo si registrò una fase più intellettualistica delle precedenti conquiste. A Firenze, dopo il ritorno di Cosimo de’ Medici in città nel 1434, si instaurò di fatto una Signo- ria. Se da una parte le commissioni pubbliche si ispiravano alla sobrietà e all’utilità, come il palazzo Medici e il convento di San Marco di Michelozzo, per le opere di destinazione privata si andava affermando un gusto intellettualistico nutrito da ideali neoplatonici: ne è un esempio il David di Donatello. Le arti figurative per- devano la loro iniziale carica ideale e rivoluzionaria per tingersi di nostalgie letterarie e interessi archeologici, cioè di rievocazione dell’antico, intellettualistica e fine e sé stessa. Interpreti della misura tra idealizzazione, naturalismo e virtuosismo furono nella scultura Benedetto da Maiano e nella pittura Domenico Ghirlandaio. Per gli artisti della cosiddetta terza generazione la prospettiva era ormai un dato acquisito e le ricerche si muo- vevano verso altri stimoli, quali i problemi dinamici delle masse di figure o la tensione delle linee di contorno. Le figure plastiche e isolate, in un equilibrio perfetto con lo spazio misurabile e immobile, lasciavano ormai estensione a giochi continui di forme in movimento, con maggiore intensità espressiva. Il rapporto di Lorenzo il Magnifico con le arti fu diverso da quello del nonno Cosimo, che aveva privilegiato la realizzazione di opere pubbliche. Da un lato per il Magnifico l’arte ebbe un altrettanta importante funzione pubblica, ma rivolta piut- tosto agli Stati Esteri, quale ambasciatrice del prestigio culturale di Firenze, presentata come una novella Ate- ne; dall’altro lato Lorenzo, con il suo colto e raffinato mecenatismo, impostò un gusto per oggetti ricchi di

51 significati filosofici, stabilendo spesso un confronto, intenso e quotidiano, con gli artisti della sua cerchia, visti quali sommi creatori di bellezza. Ciò determinò un linguaggio prezioso, estremamente sofisticato ed erudito, in cui i significati allegorici, mitologici, filosofici eletterari venivano legati in maniera complessa, pienamente leggibile solo dall’élite che ne possedeva le chiavi interpretative, tanto che alcuni significati delle opere più emblematiche oggi ci sfuggono. L’Arte si distaccò dalla vita reale, pubblica e civile, focalizzandosi su ideali di evasione dall’esistenza quotidiana. Le inquietanti fratture aperte nella società dalla predicazione di Girolamo Savonarola portarono, nel 1493, alla cacciata dei Medici ed all’instaurazione di una Repubblica Teocratica. La condanna al rogo del frate non fece che acuire i contrasti interni e la crisi delle coscienze, come si rileva anche nei tormenti della produzione tarda di Sandro Botticelli o nelle opere di Filippino Lippi e Piero di Cosimo. Ma in quel periodo nuovi artisti si andarono guadagnando la ribalta delle scene, tra cui Leonardo da Vinci, che usava più delicati trapassi chia- roscurali come il suo celebre sfumato noto come Leonardesco, così come la prospettiva aurea, e legami più complessi e sciolti tra le figure, arrivando anche a rinnovare iconografie ormai consolidate riflettendo sulla reale portata degli eventi descritti, come nel caso dell’Adorazione dei Magi. Un altro giovane Michelangelo Buonarroti, studiò approfonditamente i fondatori dell’Arte Toscana, ossia: Giotto e Masaccio e la statuaria antica, cercando di rievocarla come materia viva, non come fonte di repertorio. Già nelle sue prime prove appare straordinaria la sua capacità di trattare il marmo per raggiungere effetti ora di frenetico movimento nella Battaglia dei centauri, ora di morbido illusionismo come nel suo Bacco. Sot- to Pier Soderini, gonfaloniere a vita, la decorazione di Palazzo Vecchio divenne un cantiere di inesauribile di sintesi creativa, con Leonardo, tornato appositamente da Milano, Michelangelo, Fra Bartolomeo e altri. Nel frattempo un giovane Raffaello guadagna stima nella committenza locale e va a Firenze per ammirare l’opera di Michelangelo e di Leonarda che gli ispirò una perfezione pittorica senza precedenti. Sono gli anni di capolavori assoluti, quali la Gioconda di Leonardo, il David di Michelangelo e la Madonna del cardellino di Raffaello, che attraggono in città numerosi artisti desiderosi di aggiornarsi. Velocemente però i nuovi maestri lasciarono Firenze, chiamati da ambiziosi governanti che in essi vedevano la chiave per celebrare il proprio trionfo poli- tico tramite l’arte: Leonardo tornò a Milano e poi andò in Francia, Michelangelo e Raffaello vennero assoldati da Giulio II a Roma. Il ritorno dei Medici, nel 1512, fu sostanzialmente indolore. I nuovi artisti non potevano sfuggire dal confronto con le opere lasciate in città dai sommi maestri della generazione, precedente, traendo- ne spunto e magari tentando una sintesi tra gli stili dei tre più grandi geni artistici del momento. Col rientro dei papi dalla cattività avignonese si rese subito evidente come a Roma, abbandonata per decenni al suo destino e priva di un moderno complesso monumentale degno ad accogliere il pontefice, fosse necessario un programma di sviluppo artistico e architettonico in grado di ricollegarsi al passato imperiale della città e dare splendore, anche da un punto di vista politico, al soglio di Pietro. Un tale ambizioso programma fu avviato da Martino V e proseguito con Eugenio IV e Niccolò V. Gli artisti affluivano quasi sempre dalle migliori fucine forestiere, soprattutto Firenze: Donatello, Masolino, Angelico, Filarete, Alberti. L’incomparabile retaggio antico della città forniva, di per sé, un motivo di attrazione per gli artisti, che spesso vi si recavano per accre- scere la propria formazione, come fece anche Brunelleschi. Gradualmente la città, da passiva fonte di ispira- zione con le sue rovine, divenne un luogo di incontro, fusione ed esperienze artistiche diverse, che posero le premesse per un linguaggio figurativo che aspirava all’Universalità. Una svolta qualitativa si ebbe sotto Sisto IV, che promosse l’edificazione di una cappella palatina degna di ri- valeggiare con quella avignonese. L’enorme Cappella Sistina venne decorata da un gruppo di artisti fiorentini

52 inviati appositamente da Lorenzo il Magnifico, che crearono un ciclo che per vastità, ricchezza e ambizione non aveva precedenti. In queste opere si nota un certo gusto per la decorazione sfarzosa, con un ampio ricor- so all’oro, che ebbe il suo trionfo nei successivi pontificati di Innocenzo VIII e Alessandro VI, dominati dalla figura di Pinturicchio. Il Cinquecento si aprì con la prima di una serie di forti personalità al papato, Giulio II. Perfettamente conscio del legame tra arte e politica, volle al lavoro i migliori artisti attivi in Italia, che solo in lui potevano trovare quella commistione di grandiose risorse finanziarie e smisurata ambizione in grado di far partorire opere di estremo prestigio. Arrivarono così artisti come Michelangelo e Bramante da Firenze, Raffaello da Urbino e Leonardo da Vinci spesso in competizione l’uno con l’altro, crearono capolavori universali quali la volta della Cappella Si- stina, gli affreschi delle Stanze Vaticane, la ricostruzione della basilica di San Pietro, come già detto, e la tomba di Giulio II nella chiesa di San Pietro in Vincoli dove spicca il monumentale Mosè di Michelangelo. I successori di Giulio II continuarono la sua opera, avvalendosi ancora di Raffaello, di Michelangelo e di altri artisti, tra cui il veneziano Sebastiano del Piombo o il senese Baldassarre Peruzzi. Gradualmente l’arte si evolse verso una più raffinata rievocazione dell’antico, combinata da elementi mitologici e letterari, e verso una complessità sempre più marcata e monumentale, suggellata dagli ultimi lavori del Sanzio, come la Stanza dell’Incendio di Borgo e La scuola di Atene. I suoi allievi proseguirono la sua opera oltre la sua prematura morte. Tra i raffaelleschi un ruolo di primo piano lo assume l’artista Giulio Romano. L’epoca di Clemente VII fu più che mai splendida, con la presenza in città di inquieti maestri come Cellini, Rosso Fiorentino, Parmigianino. Il disastroso Sacco di Roma (1527), a cui abbiamo già accennato, mise drammaticamente fine a queste speri- mentazioni, facendo fuggire gli artisti e dimostrando la vulnerabilità di un’istituzione considerata fino ad allora intoccabile come il papato. Sotto Paolo III le inquietudini e le incertezze nate dalla situazione contemporanea ebbero una straordinaria trasfigurazione nel Giudizio Universale di Michelangelo, affrescato negli ultimi anni della sua vita, nella Cappella Sistina, di cui già aveva dipinto la volta, pur avendo sempre detto di non sentirsi un pittore, e nel quale prevale un senso di smarrimento, di caos, di instabilità e d’angosciosa incertezza, come davanti a una catastrofe immane e soverchiante, che provoca disagio ancora oggi e tanto più dovette provocar- lo agli occhi scioccati dei contemporanei. Nel frattempo a Venezia si registravano lenti passi verso le novità rinascimentali, come con l’adozione della prospettiva da parte di Jacopo Bellini. Suo figlio Giovanni, dopo essere stato influenzato da Mantegna, suo cognato, avviò quella rivoluzione del colore che divenne poi l’ele- mento più riconoscibile della scuola veneziana. Ispirato dal passaggio di in Laguna, il quale attraverso i suoi contatti con i pittori fiamminghi introdusse in Italia l’uso della pittura ad olio, che rese possibili esiti pittorici impensabili con il precedente uso della tempera a base di uovo come medium miscelato alle varie terre colorate ma con esiti più piatti e pastosi mentre l’olio, sempre mischiato alle terre, consentiva sfumati e chiaroscuri, nonché numerosi ripensamenti che contribuivano a rendere il lavoro dei pittori più age- vole e il risultato più raffinato. Pertanto Leonardo poté realizzare una luce dorata che creasse quell’impalpabile senso dell’atmosfera, dell’aria che circola, procedendo dalle figure al paesaggio dello sfondo, ora trattato con sublime finezza grazie all’adozione della prospettiva aerea di cui parlavamo. All’ombra di Bellini lavorarono suo fratello Gentile e Vittore Carpaccio, protagonisti della prima stagione dei teleri cioè le grandi decorazioni pittoriche su tela delle sedi delle confraternite locali. In architettura e scultura si avvalevano soprattutto dell’i- niziativa portata avanti dai grandi cantieri della Basilica di San Marco e del Palazzo Ducale, con artisti soprat- tutto lombardi. Fu solo nel secolo successivo, con Jacopo Sansovino, che la Venezia si dotò di un nuovo volto rinascimentale, creando un progetto urbanistico all’avanguardia per quei tempi nella riqualificazione di piazza San Marco.

53 Il nuovo secolo si era aperto col soggiorno di Leonardo da Vinci e di Albrecht Dürer, apportatori di novità che colpirono molto l’ambiente artistico veneziano. Da Leonardo, Giorgione sviluppò un modo di colorire che non delimita puntualmente i contorni tra figure e sfondo, prediligendo il risalto dei campi di colore e un’intonazione pacata e malinconica per le sue opere. Si tratta della rivoluzione del tonalismo, alla quale aderì anche il giovane Tiziano, salvo poi distaccarsene favorendo immagini più immediate e dinamiche, con colori più netti, dai risvolti quasi espressionistici. Anche il giovane Sebastiano del Piombo si avvalse dell’esempio di Giorgione, dando un taglio più moderno alle sue opere, come la Pala di San Giovanni Crisostomo dall’impianto asimmetrico. Un altro giovane promettente fu Lorenzo Lotto, che si ispirò soprattutto a Dürer nell’uso più spregiudicato del colore e della composizione. La partenza di Sebastiano e del Lotto lasciò a Tiziano una sorta di monopolio nelle commissioni artistiche veneziane, soddisfacendo pienamente i committenti con opere ca- paci di gareggiare, a distanza, con le migliori realizzazioni del Rinascimento romano, quali l’Assunta per la ba- silica dei Frari. Quest’opera, col suo stile grandioso e monumentale, fatto di gesti eloquenti di un uso del co- lore che trasmette un’energia senza precedenti, lasciò, in un primo momento, tutta la città stupefatta, aprendo poi le porte all’artista alle più prestigiosi commissioni europee, fu infatti il ritrattista di fiducia dell’Imperatore Carlo V. Per decenni nessuno fu in grado di gareggiare con Tiziano sulla scena veneziana, mentre nell’en- troterra si svilupparono alcune scuole che avrebbero, in seguito, condotto a nuovi importanti sviluppi, come le scuole bergamasca e bresciana, che fusero elementi veneti col tradizionale realismo quotidiano lombardo, da cui sarebbe nato il genio rivoluzionario di Caravaggio. Nella seconda metà del secolo i migliori artisti svilupparono spunti tizianeschi amplificando una tecnica ruvida e dalla pennellata espressiva come fece Tintoretto. Quando si parla del Rinascimento nelle Marche è inevita- bile pensare alla città di Urbino e al suo Ducato, culla di un fenomeno artistico che produsse capolavori asso- luti nella pittura e nell’architettura e luogo di nascita di due tra i massimi interpreti dell’arte italiana: Raffael- lo e Bramante. Ciò non deve però far scordare altri centri ed altri artisti che diedero un importante contributo al Rinascimento italiano. Si pensi ad esempio ai pittori veneti Carlo e Vittore Crivelli, Lorenzo Lotto, Claudio Ridolfi, che trovarono nelle Marche una nuova patria, dove esprimere al meglio la loro visione del mondo; si pensi anche al santuario di Loreto, il cui lungo cantiere attrasse per decenni scultori, architetti e pittori qua- li Bramante, Andrea Sansovino, Melozzo da Forlì e Luca Signorelli. Inoltre, si deve ricordare che la Cittadella di Ancona e le rocche del Montefeltro sono tra le più importanti opere di architettura militare del Rinascimento, dovute rispettivamente ad Antonio da Sangallo il giovane e a Francesco di Giorgio Martini. Ad Ancona operò il grande architetto e scultore dalmata Giorgio di Matteo, meglio noto come Giorgio da Sebenico, che vi realizzò il Palazzo Benincasa e le facciate della Loggia dei Mercanti, della chiesa di San Francesco alle Scale e della chie- sa di Sant’Agostino, ricche di sue sculture. La meritata fama del Ducato di Urbino non deve infine far scordare che anche i duchi di Camerino promossero le arti; la città ospitò, in questo periodo, un’importante scuola di pittura del Quattrocento. Le Marche, nello stesso secolo, fecero parte di un fenomeno artistico diffuso lungo tutta la costa adriatica, tra Dalmazia, Venezia e Marche, detto Rinascimento Adriatico. In esso la riscoperta dell’Arte Classica, soprat- tutto filtrata attraverso la scultura, è accompagnata da una certa continuità formale con l’Arte Gotica. Espo- nenti principali ne furono Giorgio da Sebenico, scultore, architetto ed urbanista, Nicola di Maestro e Antonio d’Ancona, pittore. All’interno del Rinascimento Adriatico si può comprendere anche la figura di Carlo Cri- velli. Per ciò che riguarda la pittura, questa corrente prende le mosse dal rinascimento padovano. Alla corte di Federico da Montefeltro, a Urbino, si sviluppò una prima alternativa al Rinascimento fiorentino, legata so- prattutto allo studio della Matematica e della Geometria. La presenza in città di Leon Battista Alberti, Luciano

54 Laurana, Francesco di Giorgio Martini, Piero della Francesca e Luca Pacioli, coinvolti nello straordinario pro- getto del Palazzo Ducale, sviluppò una predilezione per le forme nitide e di impeccabile perfezione formale, che furono un importante esempio per numerose altre scuole. Qui Federico chiamò anche artisti stranieri come Pedro Berruguete e Giusto di Gand, e fece sviluppare l’arte della tarsia indipendentemente dalla pittura, legandola alla rappresentazione virtuosistica di nature morte a trompe d’oeil e paesaggi prospettici. Raffaello nella sua città natale apprese l’amore per la purezza pierfrancescana e per le finezze ottiche del mae- stro delle Città ideali. Tra gli artisti locali, fiorirono anche Fra Carnevale, Bartolomeo della Gatta e Giovanni Santi, padre di Raffaello. Alla scuola degli architetti di palazzo si formò Donato Bramante, capace di sorpren- dere Milano e Roma con le sue geniali intuizioni. Alla corte del figlio di Federico, Guidobaldo, lavorò Raffael- lo. Nel Cinquecento i Della Rovere continuarono la tradizione dei Montefeltro e la loro produzione, rinomata in Italia, è celebrata come una delle più feconde da Baldassarre Castiglione e per la quale lavorò anche Tiziano. Francesco Maria I Della Rovere preferì Pesaro a Urbino e vi fece ristrutturare il Palazzo Ducale e costruire la villa Imperiale, usando artisti come Girolamo Genga, Dosso e Battista Dossi, Raffaellino del Colle, Fran- cesco Menzocchi e Agnolo Bronzino. Da ricordare inoltre è la straordinaria fioritura della maiolica tra Urbi- no, Pesaro e Casteldurante. Con la chiamata di Leon Battista Alberti e di Andrea Mantegna alla corte di Ludovico Gonzaga, Mantova cambiò volto. L’Alberti applicò ad alcuni edifici sacri il linguaggio romano imperiale, come nella chiesa di San Seba- stiano e nella basilica di Sant’Andrea. Contemporaneamente con la decorazione della Camera Picta nel Castel- lo di San Giorgio, Andrea Mantegna diresse i suoi studi verso una prospettiva dagli esiti illusionistici. Al tempo di Isabella d’Este, la corte mantovana era una delle più raffinate in Italia. Mantegna ricreava i fasti dell’impero romano, i Trionfi di Cesare, e la marchesa collezionava opere di Leonardo da Vinci, Michelangelo, Perugi- no, Tiziano, Lorenzo Costa e Correggio. L’amore per le arti venne pienamente trasmesso al figlio Federico, che nel 1524 impresse una svolta moderna all’arte di corte con l’arrivo di Giulio Romano, allievo di Raffaello, che creò il Palazzo Te affrescandovi la celebre Sala dei Giganti. Milano, invece, fu interessata dalla cultura rinascimentale solo dall’epoca di Francesco Sforza, in cui l’arrivo di Filarete e la costruzione e decorazione della cappella Portinari portò le novità fiorentine aggiornate alla cultura locale, amante dello sfarzo e della decorazione. Numerose furono le imprese avviate in quegli anni, dal Duomo di Milano alla Certosa di Pavia, il Duomo di Pavia, dalla piazza di Vigevano al castello di Pavia. Fu, però, soprattutto con la generazione successiva che con la presenza di Bramante e Leonardo da Vinci impresse alla corte di Ludovico il Moro una decisa svolta in senso rinascimentale. Il primo ricostruì, tra l’altro, la chiesa di Santa Maria presso San Satiro,1479-1482 circa, dove emergeva già il problema dello spazio centralizzato. L’armonia dell’insieme era messa a rischio dall’insufficiente ampiezza del capo croce che, nell’impossibilità di estenderlo, venne allungato illusionisticamente, costruendo una finta fuga prospettica in stucco in uno spazio profondo meno di un metro, con tanto di volta cassettonata illusoria. Leonardo invece, dopo aver faticato a entrare nei favori del duca, fu a lungo impegnato nella realizzazione di un colosso equestre, che non vide mai la luce. Nel 1494 Ludovico il Moro gli assegnò la decorazione di una delle pareti minori del refettorio di Santa Maria delle Grazie, dove realizzò l’Ultima Cena, entro il 1498. L’artista indagò il significato più profondo dell’episodio evangelico, studiando le reazioni e i moti dell’animo all’annuncio di Cristo del tradimento da parte di uno degli apostoli, con le emozioni che si diffondono violentemente tra essi, da un capo all’altro della scena, travolgendo il tradizionale allineamento simmetrico delle figure e raggruppandole a tre a tre, con Cristo isolato al centro, emerge una solitudine sia fisica che psicologica, grazie anche all’incorniciatura della scatola

55 prospettica. Spazio reale e spazio dipinto appaiono infatti legati illusionisticamente, grazie anche all’uso di una luce analoga a quella reale della stanza, coinvolgendo straordinariamente lo spettatore, con un procedi- mento analogo a quanto sperimentava in quegli anni Bramante in architettura. La tumultuosa scena politica, con la cacciata degli Sforza e la dominazione prima francese e poi spagnola, non scoraggiò gli artisti, che anzi, tornarono a più riprese a Milano, compreso Leonardo. Il Cinquecento fu dominato in pittura dalla scuola dei leonardeschi, da cui si distaccarono alcune personalità come Gaudenzio Ferrari e i bresciani Romanino, Moretto e Savoldo, seguiti qualche decennio dopo da Giovan Battista Moroni. La seconda metà del secolo fu dominata dalla figura di Carlo Borromeo, che promosse un’e- loquente arte controriformata, trovando come interprete principale Pellegrino Tibaldi. Il più vitale centro emiliano del Quattrocento fu Ferrara, dove alla corte degli Estensi si incontravano le più disparate personalità artistiche, da Pisanello a Leon Battista Alberti, da Jacopo Bellini a Piero della Francesca, dal giovane Andrea Mantegna a stranieri di prim’ordine come Rogier van der Weyden e Jean Fouquet. Fu durante l’epoca di Borso d’Este, al potere dal 1450 al 1471, che i molteplici fermenti artistici della corte si trasformarono in uno stile peculiare, soprattutto in pittura, caratterizzato dalla tensione lineare, dall’esaspera- zione espressiva, dalla preziosità estrema unita con una forte espressività. Il nascere della scuola ferrarese si coglie nelle decorazioni dello Studiolo di Belfiore e si sviluppò negli affreschi del Salone dei Mesi nel Palazzo Schifanoia, dove emersero le figure di Cosmè Tura e, in un secondo momento, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti. I ferraresi ebbero un’influenza fondamentale anche nel- la vicina Bologna, dove vennero ammirati dagli artisti locali come Niccolò dell’Arca, che proprio all’esempio di essi deve l’esplosione di un violento sentimento che emerse nel celebre Compianto sul Cristo morto. A Bo- logna aveva già lasciato il suo capolavoro Jacopo della Quercia, la Porta Magna della basilica di San Petronio, opera che fu recepita veramente solo da Michelangelo, che qui si trovò esule decenni dopo. Lo scultore fioren- tino fu solo il primo tra numerosi artisti che di passaggio in città vi lasciarono i propri capolavori, ma per avere una valida scuola bolognese si dovette aspettare il Cinquecento, quando attorno agli affreschi dell’oratorio di Santa Cecilia si svilupparono nuovi talenti tra cui spiccava Amico Aspertini, autore di una personale rivisita- zione di Raffaello con un’estrosa vena espressiva, ai limiti del grottesco. Anche nel Cinquecento, Ferrara si confermò come centro esigente e all’avanguardia in campo artistico. Al- fonso d’Este fu un fecondo committente di Raffaello e di Tiziano, mentre tra gli artisti locali fece emergere il Garofalo e soprattutto Dosso Dossi. L’altro centro emiliano che beneficiò di un’importante scuola fu Parma. Dopo un sonnacchioso Quattrocento, il nuovo secolo fu un crescendo di novità e grandi maestri, con Filippo Mazzola, il Correggio e Parmigianino. La Romagna invece ebbe un lampo sulla scena artistica con la signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesta a Rimini. Egli chiamò a lavorare in città Leon Battista Alberti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca, che crearono opere marcatamente celebrative del committente, alla cui mor- te nessuno raccolse, però, l’eredità. Gli altri centri di una certa importanza furono Forlì, dove l’esempio di Piero e degli urbinati fu stimolo fecondo per Melozzo e le sue visioni da sott’in su, le prime in Italia, nonché per Marco Palmezzano; e Cesena ove con la corte dei Malatesta, e nel particolare di Malatesta Novello, fu eretta la Biblioteca Malatestiana ad opera dell’architetto Matteo Nuti e dello scultore Agostino di Duccio, e successi- vamente di Cesare Borgia, che portò in città Leonardo Da Vinci. L’Umbria, frammentata in più entità politiche, ebbe diversi tempi di adesione al gusto rinascimentale da cen- tro a centro. In ogni caso si registrò spesso una prima fase di assorbimento passivo, generante solo in un

56 secondo momento una partecipazione attiva alle novità. Tra i primi e più significativi esempi ci fu la Peru- gia dei Baglioni, dove lavorarono numerosi artisti fiorentini, senesi e urbinati. Poco prima della metà del se- colo si registrano già alcuni pittori maturi e attivi in regione, capaci di filtrare alcuni elementi innovativi nel proprio stile: Giovanni Boccati, Bartolomeo Caporali e Benedetto Bonfigli. A Piero della Francesca si rifaceva la prima opera inequivocabilmente rinascimentale, le otto tavolette delle Storie di san Bernardino, in cui lavorò il giovane Pietro Perugino, artista formatosi nella bottega del Verrocchio, maestro di Leonardo, a Firenze e interessato alle ultime novità dalle Fiandre, in particolare l’opera di Hans Memling. Fu lui il primo a sviluppare quello stile dolce e soave che ebbe una notevole fortuna negli ultimi decenni del Quattrocento. I suoi dipinti religiosi, con la loro indefinita caratterizzazione di personaggi e luoghi, intonati a un tono lirico e contemplati- vo, con una morbida luce soffusa, un chiaroscuro che evidenzia la rotondità delle forme, colori ricchi, assenza di drammaticità nelle azioni, paesaggi idilliaci e teatrali architetture di sfondo. Attivissimo a Firenze e a Peru- gia, dove teneva bottega contemporaneamente, fu tra i protagonisti a Roma della prima fase della decorazione della Cappella Sistina. A Orvieto la decorazione del Duomo raggiunse un culmine con l’arrivo di Luca Signo- relli, che creò un celebre ciclo di affreschi nella Cappella di San Brizio con le Storie dell’umanità alla fine dei tempi, un tema millenaristico particolarmente appropriato all’incipiente scadere del secolo. Ai centri umbri è legata anche la prima attività di Raffaello Sanzio, menzionato per la prima volta come maestro nel 1500 (a circa diciassette anni), per una pala d’altare destinata a Città di Castello. Nella stessa città dipinse altre tavole tra cui lo Sposalizio della Vergine, in cui traspare evidente il riferimento al Perugino, da cui fu formato. Sempre a Città di Castello hanno lavorato Luca Signorelli, Vasari, Rosso Fiorentino, Della Robbia e altri ancora. Per ovvie ragioni, la Toscana al di fuori di Firenze, fu interessata da continui scambi col capoluogo, con gli arti- sti locali che andavano a formarsi nei centri principali e i committenti di provincia che si rivolgevano alle botte- ghe fiorentine per le loro opere. Fu così che a Pescia e a Pistoia si registrarono le prime architetture di matrice brunelleschiana fuori da Firenze; a Prato lavorò per un decennio Filippo Lippi compiendo una fondamentale svolta artistica, mentre Sansepolcro venne ravvivata dalla presenza di Piero della Francesca, attivo anche a Fi- renze. Un caso a parte fu Siena, erede di una stagione artistica di altissimo livello durante il Medioevo che annoverò pittori come Duccio di Buoninsegna, Simone Martini e i fratelli Lorenzetti. Visitata precocemente da Dona- tello, già ai primi del Quattrocento, Jacopo della Quercia vi sviluppò un’originale sintesi artistica che non può più essere definita gotica, pur non rientrando nelle tradizionali caratteristiche del Rinascimento fiorentino. In pittura il confine fra Gotico e Rinascimento scivolò sempre su una sottile linea, senza una frattura netta come a Firenze. Maestri come Giovanni di Paolo, il Sassetta, il Maestro dell’Osservanza si mossero sicuramente nell’ambito Gotico, ma i loro risultati, con le figure eleganti e sintetiche, la luce chiarissima, la tavolozza tenue, furono sicuramente d’esempio per maestri rinascimentali come Beato Angelico e Piero della Francesca. Altri svilupparono una precoce adesione all’impostazione prospettica già negli anni Trenta/Quaranta del Quattro- cento, come i frescanti del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala, tra cui il polivalente Lorenzo Vecchietta. Molti artisti senesi trovarono altrove la propria fortuna, come Agostino di Duccio, Francesco di Giorgio o Bal- dassarre Peruzzi. Nel Cinquecento Siena conobbe un notevole sviluppo sotto la signoria di Pandolfo Petrucci. Il principale cantiere artistico era ancora il Duomo, dove lavorarono anche Michelangelo nel 1501, e Pintu- ricchio nel 1502 che affrescò la Libreria Piccolomini usando, in parte, disegni del giovane Raffaello. Impor- tanti sviluppi si ebbero con l’arrivo in città del pittore piemontese Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, che portò uno stile aggiornato alle novità leonardesche che aveva visto a Milano, ma fu soprattutto Domenico Beccafumi che creò uno stile sperimentale basato sugli effetti di luce, di colore e di espressività. Nel 1553,

57 la città venne sanguinosamente espugnata da Cosimo I de’ Medici, perdendo la sua secolare indipendenza e, praticamente, anche il suo ruolo di capitale artistica.

"Saper ascoltare significa, possedere, oltre al proprio, il cervello degli altri". Leonardo da Vinci

L’Arte Barocca e la Controriforma "L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è." Paul Klee Il ’600 fu il secolo della Controriforma cattolica; in tutta Europa si combatterono numerose guerre in nome della fede, sconvolgendo i precedenti rapporti di potere. Tutto questo si tradusse nell’arte che si distaccò dal Manierismo della fine del cinquecento per assumere caratteri nuovi. Il termine Barocco viene applicato all’arte del Seicento già a partire dal XVIII secolo assumendo un significato dispregiativo atto ad indicare un’arte esagerata e bizzarra; soltanto in tempi moderni è stato degnamente rivalutato. L’arte di questo periodo, nata come risposta al Protestantesimo, assunse un ruolo di grande importanza per la diffusione al popolo delle idee controriformiste, che fanno riferimento alla riforma Protestante ad opera di Martin Lutero; venne, dunque, usata come mezzo per ricondurre la gente alla dottrina cattolica. L’Arte Barocca aveva il compito di toccare direttamente l’animo e i sentimenti della gente e per far questo era ne- cessario che essa assumesse forme grandiose e monumentali. Il gusto Barocco si diffuse però non solo nei paesi cattolici, ma le sue caratteristiche si ritrovano anche nei paesi protestanti. Caratterizzano lo stile Barocco la ricerca del movimento, dell’energia, accentuando l’ef- fetto drammatico delle opere attraverso i forti contrasti di luce e ombra sia delle sculture che delle pitture. Anche in architettura è evidente la ricerca del movimento attraverso superfici curve e ricche di elementi decorativi. Estremamente varia e complessa ci appare la pittura dell’Età Barocca; la chiesa controriformata divenne la principale committente per le opere di pittura. Puntando sulla forza persuasiva del bello, trovò nell’arte il modo giusto per ricondurre il mondo cristiano alla fede poiché era in grado di influenzare le emozioni. I palazzi e soprattutto le chiese furono decorati da immensi e grandiosi affreschi, che si avvicinano alla realtà grazie alla rappresentazione assolutamente naturale dei personaggi. Questo conferisce alle scene sacre rappresentate un carattere di credibilità che avvicinava i fedeli. Grande importanza fu data alla decorazione dei soffitti; i pittori barocchi, grazie alla maestria nell’uso della prospettiva gli artisti riuscivano ad ampliare gli spazi architettonici creando spazi irreali che univano il cielo e la terra, per esempio il soffitto della chiesa di Sant’Ignazio a Roma dipinto da Andrea del Pozzo nel quale figure reali ondeggiano nell’aria, in sospensione tra cielo e terra creando un effetto trompe d’oeil. Due erano le correnti artistiche che si andavano sviluppando nel Seicento: quella naturalistica legata ad un utilizzo completamente nuovo del chiaroscuro con Caravaggio, tanto innovativa da andare a definirsi come Rivoluzione Caravaggesca e influenzando una serie di pittori italiani ed europei chiamati, appunto, cara- vaggeschi, in cui, tra i più celebri, troviamo Goya; e quella classicista proposta dalla scuola dei Carracci. Ca- ravaggio introdusse nei suoi dipinti la realtà di tutti i giorni; anche quando dipingeva soggetti religiosi, egli cercava la verità rappresentando le figure di Cristo, della Madonna, degli apostoli, utilizzando come modello

58 persone comuni, come quelle che si potevano incontrare a quel tempo per le strade, facendole emergere da una luce particolare. Fu esiliato da Roma per aver commesso un omicidio e si rifugiò a Napoli, in Sicilia e a Malta per poi morire misteriosamente a Napoli, mentre cercava di rientrare a Roma avendo saputo di aver ottenuto la Grazia dal Papa. Ovunque egli si sia recato ha lasciato opere indimenticabili e la sua pittura si è sempre più arricchita dalle esperienze di viaggio e nutrita dalla continua ossessione per la morte, conside- rato che era un fuggiasco e rischiava la pena capitale. Questa pittura naturalista si diffuse ben presto in Italia nei primi Venti anni del Seicento; tra i più importanti rappresentanti ricordiamo pittori come Orazio Genti- leschi e la figlia Artemisia, Bartolomeo Manfredi e Battistello Caracciolo, oltre a numerosi stranieri che ope- ravano in Italia, fra cui il pittore francese Valentin de Boulogne e lo spagnolo Jusepe de Ribera. La scuola che si sviluppò intorno ai Carracci invece cerca di tornare ai principi di chiarezza, monumentalità ed equilibrio tipici del Rinascimento. Dei tre Carracci, Ludovico, Agostino e Annibale, fu quest’ultimo ad avere maggiore successo grazie al suo stile classicheggiante che venne adottato da artisti come Guido Reni e Domenichino. La scultura barocca arricchiva l’interno e l’esterno di edifici e chiese e venivano usati numerosi tipi di mate- riale accostati in maniera diversa per ottenere effetti policromi: marmi di diversi tipi, stucchi dorati, bronzi, e grandi specchiere. Il più importante scultore di questo periodo fu Gian Lorenzo Bernini, abile nel lavorare il marmo conferendogli effetti di tensione drammatica e grande teatralità ottenuti attraverso i contrasti di chia- roscuro e l’illusione coloristica. A fianco a lui non possiamo non citare il Giambologna, in realtà fiammingo ma italiano d’adozione e allievo di Michelangelo, attivo particolarmente a Firenze. L’architettura barocca si esprime mediante la monumentalità delle forme. Molte città in questo periodo as- sumono una diversa fisionomia: si creano nuovi assi viari abbattendo i vecchi quartieri medievali. I palazzi, le piazze vengono costruiti con un forte intento scenografico, mirando a destare nello spettatore stupore e am- mirazione. Gli edifici dei nobili sono articolati in più corpi intorno ad un giardino adorno di giochi d’acqua, statue, viali e cascate che miravano con la loro spettacolarità ad autocelebrare la classe dominante. Per quanto riguarda le chiese, si prediligono la pianta centrale o a navata unica e coperture con grandiose cupole. La facciata ricoperta di sculture ha una funzione fortemente scenografica. Fra i maggiori architetti del periodo barocco vi fu Carlo Maderno che edificò il prolungamento della navata di San Pietro e completò la facciata che era stata cominciata da Donato Bramante. Altro architetto di rilievo fu Borromini, tra le sue realizzazioni, splendido esempio del barocco italiano, ricordiamo la facciata di San Carlo alle Quattro Fon- tane a Roma, con il suo andamento concavo e convesso ripreso all’interno della chiesa. A Venezia era attivo Baldassarre Longhena che realizza la chiesa di Santa Maria della Salute, a Torino Gua- rino Guarini realizzò la Cappella della Santa Sindone. Il Barocco nel Settecento sconfinerà nell’eccessivo decorativismo del Rococò.

"Il tocco supremo dell’artista è sapere quando fermarsi". Arthur Conan Doyle

59 Dal Regno di Napoli e Regno di Sicilia al Regno delle due Sicilie "Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato". George Orwell

Regno di Napoli (in latino Regnum Neapolitanum, in spagnolo Reino de Nápoles) è il nome con cui è cono- sciuto nella storiografia moderna l’antico Stato esistito dal XIV al XIX secolo ed esteso a tutto il meridione continentale italiano. Il suo nome ufficiale era Regnum Siciliae citra Pharum, vale a dire Regno di Sicilia al di qua del Faro (in riferimento al Faro di Messina) e si contrapponeva al contemporaneo Regnum Siciliae ultra Pharum (Regno di Sicilia al di là del Faro), che si estendeva sull’intera isola di Sicilia. Utilizzato dagli storici fu anche il nome Regno di Puglia, che trova la sua origine in Età Normanna, allorquando il territorio era parte integrante del Regno Normanno di Sicilia. Lo Stato fu istituito nel 1130, con il conferimento a Ruggero II d’Altavilla del titolo di Rex Siciliae dall’antipapa Anacleto II, titolo confermato nel 1139 da papa Innocenzo II ed insisteva su tutti i territori del Mezzogiorno e della Sicilia, attestandosi come il più ampio degli antichi Stati italiani. Alla stipula della Pace di Caltabellotta (1302) seguì la formale divisione del regno in due: Re- gnum Siciliae citra Pharum (Regno di Napoli) e Regnum Siciliae ultra Pharum (Regno di Trinacria e noto nella storiografia moderna come Regno di Sicilia). Pertanto questo trattato può essere considerato l’atto di fondazione convenzionale dell’entità politica oggi nota come Regno di Napoli. Il regno, come Stato sovrano, vide una grande fioritura intellettuale, economica e civile sia sotto le varie dinastie angioine (1282-1442), sia con la riconquista aragonese di Alfonso I (1442- 1458), sia sotto il governo di un ramo cadetto della casa d’Aragona (1458-1501); allora la capitale, Napo- li, era celebre per lo splendore della sua corte e il mecenatismo dei sovrani. Nel 1504 la Spagna unita sconfisse la Francia, e il regno di Napoli fu da allora unito dinasticamente alla monarchia spagnola, insieme a quello di Sicilia, fino al 1707, ed entrambi furono governati come due vicereami distinti ma con la dicitura ultra et citra Pharum e con la conseguente distinzione storiografica e territoriale tra Regno di Napoli e Regno di Sicilia. Benché i due regni, nuovamente riuniti, ottennero l’indipendenza con Carlo di Borbone già nel 1734, l’unificazione giuridica definitiva di entrambi i regni si ebbe solo nel dicembre 1816, con la fondazione dello Stato Sovrano del Regno delle Due Sicilie. Il territorio del Regno di Napoli inizialmente corrispondeva alla somma di quelli delle attuali regioni d’A- bruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e in seguito Sicilia e comprendeva anche alcune aree dell’odierno Lazio meridionale ed orientale appartenenti fino al 1927 alla Campania, ovvero all’antica Provincia di Terra di Lavoro, come il Circondario di Gaeta e Circondario di Sora, ed all’Abruzzo, con il Circondario di Cittaducale e Cicolano. L’isola di Sicilia era sotto il governo degli Svevi. Alla fine del XII secolo, a seguito della sconfitta di Federico Barbarossa, lo Stato Pontificio aveva avviato con papa Innocenzo III una politica di espansionismo del potere temporale; papa Innocenzo IV, in linea col suo predecessore, rivendicò i diritti feudali dello Stato della Chie- sa sul Regno di Sicilia, poiché i titoli regali sullo Stato erano stati assegnati da Ruggero II e da Papa Innocenzo II. Quando però Enrico VI, figlio del Barbarossa, sposò Costanza d’Altavilla, ultima erede del Regno di Sicilia, il territorio del regno passò sotto la corona sveva, diventando un centro strategico della politica imperiale de- gli Hohenstaufen in Italia, in particolare con Federico II. Il sovrano svevo, nella duplice posizione di Imperato- re del Sacro Romano Impero Germanico e Re di Sicilia, fu uno dei protagonisti della Storia Medievale europea: si preoccupò principalmente del Regno di Sicilia, delegando ai principi germanici parte dei suoi poteri nei territori d’oltralpe. Principale ambizione del Sovrano fu quella di creare uno Stato coeso ed efficiente: nobiltà

60 feudale e città dovevano rispondere unicamente al Re, in uno Stato fortemente centralizzato retto da un capil- lare apparato burocratico e amministrativo, che trovò nelle Costituzione di Melfi la sua massima espressione. Durante il regno di Federico II, le nuove vie commerciali in direzione della Toscana, della Provenza e in definitiva dell’Europa, risultavano sempre più vantaggiose e proficue rispetto a quelle del Mediterraneo me- ridionale dove, spesso, i traffici erano ostacolati dall’ingerenza dei Saraceni e l’incostanza dei diversi Regni Islamici. Federico II fondò a Napoli lo Studium, ovvero la più antica Università Statale d’Europa, destinata a formare le menti della classe dirigente del Regno. Alla morte di Federico (1250), il figlio Manfredi assunse la reggenza del Regno. Un diffuso scontento e la resistenza del ceto baronale e cittadino al nuovo sovrano sfociò infine in una violenta sollevazione contro le imposizioni provenienti dalla corte regia. In questo i rivoltosi trovarono il sostegno di papa Innocenzo IV, desideroso di estendere la sua autorità nel Mezzogiorno. Tanto i feudatari quanto la classe tipicamente urbana, composta da burocrati, notai e funzionari, desideravano più in- dipendenza e maggiore respiro dal centralismo monarchico; pertanto Manfredi tentò una mediazione. Il nuovo sovrano affrontò i conflitti con una decisa politica di decentramento amministrativo che tendeva ad integrare nella gestione del territorio, oltre che i ceti baronali, anche le città. Pur senza cedere alle richieste d’autono- mia provenienti dall’ambiente urbano, il nuovo sovrano valorizzò molto più del padre la funzione delle città come poli amministrativi, favorendo anche l’inurbamento dei baroni; ciò fece emergere, accanto alla più an- tica nobiltà baronale, un nuovo ceto burocratico urbano, che in vista di una promozione sociale, investì parte dei guadagni nell’acquisto di estesi patrimoni terrieri. Tali mutamenti della composizione del ceto dirigente urbano indussero anche nuove relazioni tra le città e la corona, preannunciando le profonde trasformazioni della successiva Età Angioina. Manfredi continuò, inoltre, a legittimare le politiche ghibelline, controllando direttamente l’Apostolica Legazia di Sicilia, corpo politico-giuridico in cui l’amministrazione delle diocesi e del patrimonio ecclesiastico era direttamente gestita dal sovrano, ereditaria e senza la mediazione papale. In questi anni papa Innocenzo IV sostenne una serie di rivolte in Campania e Puglia che portarono all’intervento diretto dell’imperatore Corrado IV, fratellastro maggiore di Manfredi, il quale infine riportò il Regno sotto la giurisdizione imperiale. Succedette a Corrado IV il figlio Corradino di Svevia e, finché quest’ultimo fu ancora minorenne, il governo della Sicilia e della Apostolica Legazia fu presa da Manfredi: egli, più volte scomunicato per contrasti con il papato, arrivò a autoproclamarsi Re di Sicilia. Morto Innocenzo IV, il nuovo papa, di origine francese, Urbano IV, rivendicando diritti feudali sull’isola e temendo una possibile futura, diretta annessione del Regno di Sicilia al Sacro Romano Impero Germani- co, chiamò in Italia Carlo d’Angiò, conte di Angiò, Maine e Provenza, e fratello del re di Francia, Luigi IX: nel 1266 il vescovo di Roma lo nominò Rex Siciliae. Il nuovo sovrano dalla Francia partì allora alla conquista del regno, sconfiggendo prima Manfredi nella battaglia di Benevento, e poi Corradino di Svevia a Tagliacozzo, il 23 agosto 1268. Gli Hohenstaufen, la cui linea maschile si era estinta con Corradino, furono eliminati dalla scena politica italiana mentre gli Angioini si assicurarono la corona del Regno di Sicilia. La sconfitta di Corra- dino, tuttavia, fu la premessa di importanti sviluppi, perché le città siciliane, che avevano accolto benevolmente Carlo d’Angiò dopo la battaglia di Benevento, erano nuovamente passate a sostenere la parte ghibellina. La svolta anti-angioina sull’isola, motivata dall’eccessiva pressione fiscale del nuovo governo, non ebbe conse- guenze politiche immediate, ma fu il primo passo verso la successiva guerra del vespro. Oltre che capitale, Na- poli divenne così il centro, di gran lunga, più importante della nuova entità statale, nell’ambito della cui storia la fase angioina si protrasse dal 1266 al 1442. Morto Carlo I nel 1285, gli succedette il figlio Carlo II, ma costui poté prendere possesso del regno solo

61 nel 1288, allorché gli Aragonesi, che lo avevano fatto prigioniero, lo liberarono in seguito alla stipulazione del Trattato di Camporeale. Proseguite fino al 1302, le ostilità tra regno napoletano e Aragonesi per il pos- sesso della Sicilia si chiusero con la costituzione in Sicilia di un regno di Trinacria in mano agli Aragonesi. Nel corso di queste vicende gli interessi degli Aragonesi furono più o meno apertamente difesi dai pontefi- ci Martino IV, Onorio IV, Niccolò IV e Bonifacio VIII e ciò ebbe come conseguenza nel periodo successivo; un allineamento del regno napoletano sulle posizioni papali. Simili orientamenti trovarono la loro più ampia concretizzazione nel lungo regno di Roberto d’Angiò (1309-43), che si oppose, non solo nell’Italia meridionale, agli interessi imperiali e, nel nome della più assoluta fedeltà al soglio pontificio, ma favorì ovunque le correnti più intransigenti del guelfismo. Morto Roberto, la corona passò alla nipote Giovanna I (1343-81), sotto il cui regno esplose il conflitto per la successione tra i seguaci di Carlo III di Durazzo e quelli di Luigi, Duca d’Angiò. Proseguita dai figli dei contendenti, questa lotta portò al trono Ladislao di Durazzo (1386-1414), che si rifece alla politica di Roberto D’Angiò. Al regno di Giovanna II (1414-35), ultima sovrana del ramo Angiò-Durazzo, seguì, dopo un nuovo periodo di lotte, quello di Alfonso V d’Aragona (1442-58), che assunse per la prima volta il titolo di Re delle Due Sicilie e con cui ebbe inizio una successiva fase, quella aragonese appunto, della storia del regno. Nonostante le sue ambizioni di conquista nell’Italia settentrionale, Alfonso operò per rilanciare economica- mente e culturalmente il regno dissanguato dalle precedenti guerre e fece gravitare su Napoli il resto dei suoi domini: Sicilia, Sardegna, Aragona e Baleari. Le complesse vicende politiche della penisola attrassero, però, nel regno di Napoli il sovrano francese Carlo VIII, che, terminata nel febbraio 1495 la conquista dello Stato meridionale, fu costretto a risalire la penisola lasciando Napoli a un successore di Alfonso, Ferdinando II. Occupato nel 1500 da Francesi e Spagnoli, il regno fu nuovamente oggetto di contese tra le due potenze che non riuscirono a trovare un accordo, situazione di cui si giovò la Spagna, che fu in grado di estendere il proprio potere all’intero territorio. A caratterizzare la fase spagnola (1504-1707) contribuirono fattori politicamente ed economicamente negativi quali la sclerotizzazione di classi parassitarie legate all’occupante, ma pronte a tributare ad altri i propri favori pur di mantenere inalterato il proprio potere. A scuotere l’immobilismo politico e la cristallizzazione degli squilibri sociali di questo periodo non valsero le celebri insurrezioni di Napoli, come la rivolta di Masaniello del 1647 e quella di Messina del 1674. Tra il 1707 e il 1734 il regno fu dominato dagli Asburgo d’Austria, che videro nel 1713 rafforzato il proprio potere in seguito alla stipulazione del Trattato di Utrecht, che, ponendo fine alla guerra di successione spagnola, rafforzò l’influenza austriaca in Italia. Nel 1735 re Carlo III di Borbone ebbe, in seguito alla stipulazione del Trattato di Vienna, che pose, fine alla guerra di successione polacca, il diritto, per sé e per i propri suc- cessori, di esercitare il potere della dinastia borbonica sul regno napoletano. Il periodo che va dal 1734 al 1860 costituisce dunque, con le eccezioni della Repubblica Napoletana e del periodo dell’influenza francese, la fase borbonica del regno. Caratterizzato all’inizio da spinte progressiste, questo periodo vide in seguito stemperarsi progressivamente le tensioni al rinnovamento, parallelamente al delinearsi di un’amministrazione sorda a qualsiasi istanza popolare e, per contro, disponibile a far di tutto per perpetuare quell’immobilismo politico, economico e sociale, che già al tempo del dominio spagnolo tanto aveva nuociuto alla causa dello sviluppo dello Stato. Nel 1759 Carlo III di Borbone ebbe il Regno di Spagna e questa eventualità, prevista dal Trattato di Aqui- sgrana del 1748, avrebbe dovuto, in base a quegli accordi, provocare l’ascesa al trono di Napoli di suo fratello Filippo. Carlo eluse però le clausole accettate undici anni prima e riuscì a lasciare al figlio Ferdinando la corona

62 dell’Italia meridionale. Salito al trono come Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia, questi proseguì la politica moderatamente illuministica avviata dal suo predecessore su suggerimento del proprio consigliere Bernar- do Tanucci, che l’aveva seguito da Parma a Napoli. Particolarmente nei confronti dei privilegi ecclesiastici Tanucci, che rafforzò ulteriormente la propria influenza sulle decisioni della corona sotto il regno di Ferdi- nando, agì con decisione espellendo per esempio i Gesuiti e requisendone i beni. La politica filospagnola caldeggiata da Tanucci irritò gli Asburgo che aspiravano a estendere ulteriormente l’influenza politica di Vienna sulla penisola. Maria Carolina d’Austria riuscì a ottenere nel 1776 l’allontanamento dello scomodo ministro e l’allineamento di Napoli su posizioni filoasburgiche. Conseguenza di ciò fu la fine del riformismo in politica interna e l’aperta conversione della corona a quei criteri immobilistici e conservatori che, come s’è detto, caratterizzarono, in una visione d’insieme, il dominio borbonico sull’Italia meridionale. All’effimera parentesi della Repubblica Napoletana (1799) seguì quella dell’influenza francese, che si arti- colò in una fase di semplice condizionamento politico napoleonico (1800-06), nel regno di Giuseppe Bo- naparte (1806-08), e in quello di Gioacchino Murat (1808-15). Rientrato a Napoli nel 1815, Ferdinando riebbe il proprio potere parallelamente al definitivo declino delle fortune napoleoniche e, l’anno seguente, unificò anche formalmente Sicilia e Regno di Napoli dando vita al Regno delle Due Sicilie (1816-60), alla testa del quale si pose assumendo la denominazione di Ferdinando I. Turbata dai moti popolari del 1820-21, l’ultima parte del regno di Ferdinando fu caratterizzata dall’adozione di drastiche misure repressive sulle quali, oltre che sull’appoggio austriaco, la dinastia borbonica poneva ormai tutte le proprie speranze di mantenersi al vertice dello Stato. Morto Ferdinando nel 1825, gli succedette il figlio Francesco I (1825-30), che nel 1828 represse con estremo vigore i moti del Cilento. Ferdinando II (1830-59) governò secondo criteri impopolari che alienarono ulteriormente alla dinastia borbonica le simpatie della popolazione, rafforzando così i presupposti per il crollo che, sotto il suo successore Francesco II (1860), travolse, con la dinastia al potere, la stessa istituzione statale dell’Italia meridionale.

Influenze Artistiche Arabo-Normanne e Sveve nell’Italia Meridionale I due regni sono caratterizzate da diverse tendenze artistiche dovute proprio alle differenti dominazioni che si sono accavallate e susseguite. L’architettura arabo-normanna è lo stile del costruire proprio dell’epoca nor- manna, che si diffuse principalmente in Sicilia e nell’Italia meridionale nel XII secolo. L’aggettivo arabo, in- vece, deriva dalla forte influenza degli architetti arabi, mentre quello normanno dalla cultura e stirpe reale dominante. L’apice dello stile si conosce specialmente ad un secolo quasi dalla conquista della Sicilia da parte dei Normanni, avvenuta nel 1071, quando i nuovi reali cercarono di creare un proprio stile architettonico che racchiudesse le varie culture presenti sull’isola. Il nuovo stile racchiudeva tre diversi stili; lo stile Romani- co, lo stile Bizantino e quello Arabo. L’architettura arabo-normanna, pertanto, è una definizione impropria, poiché gli arabi, nomadi per origine e vocazione, non furono mai portatori di una propria architettura, ma assimilarono la cultura mediorientale e neoellenica dei paesi islamizzati durante la loro avanzata, elaborando varie sintesi architettoniche, in cui si avvicendarono e che culminarono con originali tipologie in Egitto, Ma- ghreb e nella penisola iberica. Durante il dominio normanno, in Sicilia e nell’Italia meridionale nei secoli XI e XII queste tipologie furono sincretizzate con l’Arte Bizantina, Romanica e Normanna dando luogo ad una fioritura di edifici, capolavori della scuola architettonica siculo-normanna. I primi edifici che seguono tipologie bizantine e siro-elleniche,

63 vengono eretti a partire dalla fine dell’XI secolo. Si nota l’influenza bizantina nella scelta della pianta centrata quadrata, nel cui interno è inserita una croce greca sormontata da una cupola centrale con volte a botte nei bracci della croce. Altri elementi distintivi dell’influenza bizantina anche nelle costruzioni romaniche, sono rappresentate dai mosaici che ricoprono gli interni degli edifici. Alcuni significativi dei primi esempi del gene- re si possono trovare nelle cosiddette cube risalenti a questo periodo, come la cappella palatina di o l’eclettico esempio della cuba di Santa Domenica. La probabile presenza di architetti islamici, richia- mati alla corte normanna di Sicilia, introduce diversi stilemi arabi nella nuova nascente architettura in partico- lare palaziale. Tra gli elementi distintivi troviamo gli archi a sesto acuto ogivale, una delle tecniche costruttive già presenti nel Maghreb, le cupolette con decorazioni a stalattiti muqarnas, ed alveoli dipinti, capitelli fa- timidi e cornici epigrafiche coronate da merlature artisticamente traforate. In Sicilia, gli archi a sesto acuto sono ogivali e non acquistano mai la particolare forma a ferro di cavallo presente nel resto dei paesi islamizzati. Dell’architettura romanica troviamo la pianta basilicale a croce latina (tre navate e transetto triabsidato), con prospetto serrato da massicce torri campanarie. Decorazioni geometriche e zoofitomorfe di derivazione nor- manna.

Il più antico esempio della architettura definita in modo improprio, arabo-normanna, si ha a Salerno, impor- tante Principato Longobardo e tra i primi territori ad essere conquistato dai Normanni di Roberto il Guiscar- do che ivi fece erigere il duomo e la sua residenza, il Castel Terracena. I principali esempi di questa architet- tura si trovano, tuttavia, in Sicilia: Mazara del Vallo, cattedrale del Santissimo Salvatore consacrata nel 1093 e di cui rimangono solo transetto ed abside che già anticipano il gusto normanno più tardo e, a Catania ,con la cattedrale di Sant’Agata conclusa nel 1091 ed inaugurata tre anni più tardi, primo esempio tri-absidato. In quest’ultima, sebbene si presenti massiccia e fortificata, sono già in chiaro gli elementi architettonici tipici dei grandi cantieri ecclesiastici del secolo successivo: la progressione di archi normanni (altissime lesene a rilievo sulla parete culminate da archi a sesto acuto) ricoprente il corpo absidale; il profondo catino absidale; le colonne poste su due ordini. Un altro esempio quasi coevo è la cattedrale di Messina, inaugurata nel 1097, cui però rimane una anastilosi dovuta ai numerosi rifacimenti a seguito di catastrofici terremoti. In questo tempio, tuttavia, si possono riconoscere, quali elementi originali, il profondo catino absidale e il doppio ordine delle colonne. Tuttavia è in Sicilia occidentale che esiste la maggiore concentrazione dei grandi edifici di questo stile unico e particolare: nella provincia di Palermo ed in particolare Monreale e Cefalù come anche a Mazara del Vallo. Il periodo svevo deve il suo massimo splendore all’Imperatore Federico II che, fiero delle sue costruzioni or- dinò di mostrarle, dopo la sfolgorante vittoria sulla Lega Lombarda, a Cortenuova nel 1237, ai prigionieri no- bili detenuti i Puglia, al fine di sedurre gli sconfitti con tali meraviglie. E ostentò loro la sua perla più preziosa, l’opera che più di ogni altra assurge a simbolo del suo genio creativo e della sua enigmatica personalità: Castel del Monte. Ha scritto Carl Arnold Willemsen: "In nessun altro luogo meglio che nell’aria densa di mistero di queste sale si può sentire il respiro del suo ingegno universale, maestro della sintesi, qualcosa della grandez- za e della singolarità, ma anche qualcosa dell’imperscrutabile e dell’enigmatico della sua personalità, che un cronista a lui contemporaneo ha definito con le parole stranamente suggestive Stupor mundi et immutator mirabilis.

64 L’Arte Rinascimentale e il Barocco a Napoli e in Sicilia Nella prima metà del XV secolo, a Napoli e nel resto del Regno, l’Arte Rinascimentale, nell’accezione lega- ta alle influenze toscane, si ritrova, in alcuni esempi illustrissimi, come il monumento funebre del cardinale Rainaldo Brancaccio costruito tra il 1426 e il 1428 in Sant’Angelo a Nilo, opera di Donatello e Michelozzo, oppure nella cappella Caracciolo del Sole, in san Giovanni a Carbonara, nella quale hanno lavorato Andrea Ciccione, Leonardo da Besozzo e tra i locali il Perinetto. Dominarono la scena artistica essenzialmente le in- fluenze franco-fiamminghe, legate a rotte politiche e, in parte, commerciali. I numerosi artisti stranieri fecero della città un punto di scambio e di contaminazione artistica, nell’ambito della cosiddetta Congiuntura Nord- Sud, cioè quella commistione di modi mediterranei e fiamminghi che interessò un’ampia parte del bacino del Mediterraneo occidentale, comprese le regioni non costiere di transito, e che ebbe proprio in Napoli il suo epi- centro. Questa felice situazione si manifestò già dal regno di Renato d’Angiò (1438-1442), che portò in città il suo gusto dagli ampi orizzonti culturali, culminato nell’attività di Barthélemy d’Eyck. Il mutamento politico, con l’insediarsi di Alfonso V d’Aragona (dal 1444), amplificò la rete di scambi culturali nel Mediterraneo coin- volgendo i territori partenopei nel giro dei confronti strettissimi con gli altri territori della Corona Aragonese e chiamando in città artisti catalani e spagnoli, tra cui spiccò la presenza del caposcuola valenciano Jaume Baço, in città a più riprese dal 1442 al 1446. In quegli stessi anni furono presenti anche il maestro francese Jean Fouquet e il veronese Pisanello. Il principale artista locale della prima metà del secolo fu Colantonio, nelle cui opere si manifesta la capacità di assorbire e assimilare i diversi linguaggi già presenti: se un’opera come il San Girolamo nello studio del 1444 circa, che mostra riferimenti alla pittura fiamminga nella realistica natura morta di libri e altri oggetti e nella Consegna della regola francescana, di poco posteriore; si registrano già le diverse influenze catalane, come dimostrano il pavimento inerpicato in verticale, le fisionomie espressive e le pieghe rigide e geometriche delle vesti. Le prime commissioni architettoniche vennero affidate ad artisti spagnoli, ancora lontani dalle problematiche rinnovate del Rinascimento, ma legati a svariati indirizzi. L’eterogeneità della committenza reale è evidente nella ricostruzione di Castel Nuovo, dove, dal 1451 lavorarono maestranze iberiche guidate da Guillén Sa- grera, incaricate di creare una residenza adeguata al sovrano e un fortilizio in grado di resistere alle artiglierie. Nel 1453, quando il potere reale poteva definirsi ormai solido, Alfonso decise di dotare il castello di un ingresso monumentale, ispirato agli archi di trionfo romani. Sul primo attico si trova un fregio con l’ingresso trionfale di Alfonso V a Napoli, ispirato ai cortei trionfali romani, mentre sul secondo si trovano quattro nicchie con statue. Questa struttura testimonia un uso liberissimo del modello classico, subordinato alle esigenze celebrative. Sul finire del secolo, grazie all’alleanza politica con Lorenzo il Magnifico, si ebbe un ingresso diretto di opere e maestranze fiorentine, che comportarono una più omogenea adozione dello stile rinascimentale. Importante cantiere dell’epoca fu la chiesa di Sant’Anna dei Lombardi, dove lavorarono Antonio Rossellino e Benedetto da Maiano, realizzandovi tre cappelle: Piccolomini, Toledo e Mastroianni-Terranova. Soprattutto la Cappel- la Piccolomini, dove venne sepolta Maria d’Aragona, era interessante per la riproposizione delle forme della fiorentina cappella del cardinale del Portogallo, aggiornate però a un gusto più sfarzoso, per assecondare le esigenze della committenza Giuliano da Maiano, fratello di Benedetto, che lavorò alla difesa muraria della città con le annesse porte, come Porta Capuana e Porta Nolana a lui è attribuito il disegno di Palazzo Como, ma so- prattutto spiccò la progettazione della residenza reale della Villa di Poggioreale, avviata tra il 1487 e il 1490 e terminata da Francesco di Giorgio, che si può ritenere il punto di arrivo della progressiva conversione rinasci- mentale della capitale aragonese.

65 Nel 1495 Carlo VIII di Francia invase il regno e occupò Napoli temporaneamente. Alla sua partenza prese con sé, direttamente dal cantiere della villa di Poggioreale, fra’ Giocondo ed il giardiniere Pacello da Mercogliano, che alla corte di Francia portarono la nuova concezione del giardino che andava maturando in Italia, oltre ad altri artigiani ed artisti che lavoravano a Napoli, tra cui lo scultore Guido Mazzoni, che contribuirono alla dif- fusione della cultura classicista italiana e allo sviluppo del Rinascimento francese. Il resto del regno aragonese manifestò invece una propensione molto tradizionalista e arretrata sulle arti, per via anche della struttura sociale, legata ancora al feudalesimo, e per la mancanza di dialettica con la corte della capitale. Il cortile del Castello di Fondi, ad esempio, ristrutturato nel 1436, risente ancora di moduli goti e spagnoleggianti, che lo fanno assomigliare a un patio. In Sicilia, dopo la fioritura sotto gli Angioini, bisognò aspettare la fine del XV secolo per trovare un’interpretazione locale del Rinascimento, legata soprattutto all’ar- chitettura a Palermo per opera di Matteo Carnelivari autore della chiesa di Santa Maria della Catena. Anche in scultura l’arco di Castel Nuovo fu un episodio fondamentale. Vi lavorò un gruppo eterogeneo di scultori che fu all’origine della disorganicità dell’insieme. A un primo team di artisti legati ai modi catalano-borgognoni ne successe uno più composito, in cui spiccavano le personalità di Domenico Gaggini e Francesco Laurana, che dopo il termine dei lavori restarono a lungo nel regno. Gaggini fu il capostipite di un’autentica dinastia, attiva soprattutto in Sicilia, dove fuse spunti locali con la ricchezza decorativa di matrice lombarda; Laurana invece si specializzò in forme più sintetiche, soprattutto nei ritratti di suggestiva e levigata bellezza che furo- no la sua specialità più apprezzata. Ad esempio nel Ritratto di Eleonora d’Aragona del 1468, il volto ha una forma stereometrica, che trasfigura i dati fisiognomici. Come punti chiave, a Napoli, del Rinascimento locale, si ricordano le due opere: Madonna in trono col Bambino di Laurana, una per la chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, eseguita durante il primo soggiorno napoletano dell’artista, e l’altra, scolpita durante il secondo sog- giorno in città, per la cappella Palatina. Del Gaggini, invece, vi sono due Tabernacoli con la Madonna e il Bambino sempre per la cappella Palatina, ed una scultura dello stesso soggetto per la basilica della Santissima Annunziata Maggiore; anche in pittura l’avvicinamento ai modi rinascimentali è graduale e si percepisce ap- pieno nel più grande maestro dell’Italia meridionale del XV secolo, Antonello da Messina, che si formò anche a Napoli, presso Colantonio.

Le sue prime opere, come il Salvator mundi, mostrano un’adesione ai modi fiandro-borgognoni, soprattutto riguardo all’iconografia, alla tecnica esecutiva e ai tipi fisici dei personaggi, mentre sono tipicamente italiani l’impostazione monumentale delle figure e le valenze spaziali. Gradualmente Antonello si avvicinò alle ricer- che spaziali e luminose di Piero della Francesca, nonché alle ricerche dei pittori fiamminghi, quali Jan van Eyck e il contemporaneo Petrus Christus. Dai fiamminghi importò in Italia la tipologia dei ritratti di tre quarti, anziché di profilo, accentuando al tempo stesso le componenti psicologiche e umane degli effigiati. Tra le ultime opere prodotte nei confini del Regno Aragonese c’è anche l’Annunciata di Palermo, dove si riscontra una straordinaria sintesi tra geometria e naturalismo, con un uso dolcissimo della luce. In seguito Antonello, grazie ai suoi viaggi, diffuse le sue conquiste nella penisola, soprattutto a Venezia, dove il confronto con Gio- vanni Bellini fu all’origine di un rinnovamento nella pittura di soggetti sacri. Nella laguna l’esempio di sintesi formale e di legante luminoso fu compreso e sviluppato mentre a Napoli e in Sicilia ci fu un seguito della sua opera con il figlio Jacobello e gli artisti locali. Il primo quarto del Cinquecento vide architetti con varie formazioni culturali impegnati a rinnovare il volto della capitale. Novello da San Lucano, che fu discepolo di Angelo Aniello Fiore, si recò a Roma per poter studiare meglio le architetture antiche e per poter meglio proporzionare le sue opere, creando, al suo ritorno,

66 la facciata dell’allora Palazzo Sanseverino, poi chiesa del Gesù Nuovo, dove usò per la prima volta il bugna- to a punta di diamante in piperno. Gabriele d’Agnolo concepì, con Palazzo Gravina, la realizzazione di un palazzo nobiliare secondo i dettami del classicismo romano; suoi sono anche Palazzo Carafa di Nocera e la riedificazione in modi rinascimentali della chiesa di Santa Maria Egiziaca all’Olmo. Giovanni Francesco Mor- mando progettò e ricostruì vari edifici cittadini, ispirandosi all’architettura classica e a Leon Battista Alberti. Mentre crescevano le realizzazioni rinascimentali in città, continuavano ad arrivare architetti di formazione estranea a quella locale come nel caso nella cappella Caracciolo di Vico in San Giovanni a Carbonara, di un architetto della scuola di Bramante. La Cappella del Succorpo nel Duomo potrebbe essere stata disegnata, secondo alcune fonti, dallo stesso Bra- mante o dal lombardo Tommaso Malvito. Nel secondo decennio del secolo arrivò in città anche il settignane- se Romolo Balsimelli, che fu incaricato della realizzazione della chiesa di Santa Caterina a Formiello, dove ven- ne usata una pianta innovativa: una croce inscritta in un quadrilatero, per mantenere dimensioni contenute. Dalla vicina Nola arrivò Giovanni Merliano, già studioso a Roma della scultura e dell’architettura classica. Egli, come architetto, progettò due palazzi in stile romano ma con forti influssi meridionali. Nel secondo quarto del Cinquecento, Ferdinando Manlio si mise in mostra con la realizzazione della basilica della Santissima Annun- ziata Maggiore e, con Giovanni Benincasa, realizzò la trasformazione da castello a tribunale di Castel Capua- no. Dei due architetti è anche il piano urbanistico di Via Toledo e dei Quartieri Spagnoli, su commissione del viceré Pedro de Toledo, che permise l’espansione della città verso la collina del Vomero. Intanto, dopo la Controriforma, si realizzano edifici sacri ad aula unica e senza transetti sporgenti, prendendo come modello la chiesa di Santa Caterina. Dopo il 1550 l’architettura puramente rinascimentale cadde in secondo piano con l’avvento del Manierismo. Proseguirono comunque i cantieri degli edifici del centro antico iniziati nel cinquantennio precedente, come la chiesa del Gesù delle Monache, dalla facciata che ricorda un arco trion- fale. In questo periodo nell’edilizia civile si sviluppò l’uso di decorazioni marmoree bianche in contrasto col piperno. Verso la fine del secolo, l’architettura si arricchì di influssi classici portati dagli architetti Domenico Fontana, Giovanni Antonio Dosio e Gian Battista Cavagni. L’ultima opera rinascimentale può dirsi il rimaneg- giamento su progetto di Giovanni Cola di Franco della chiesa di Santa Maria la Nova. La Sicilia partecipò alla cultura umanistica rinascimentale con un gran fervore di studi del Greco, del Latino, dell’Arabo e dell’Ebraico e con una intensa ricerca di codici antichi. Intellettuali siciliani come Antonio Becca- delli detto il Panormita, Lucio Marineo Siculo, Giovanni Aurispa, Antonio Cassarino, Pietro Ranzano, opera- rono e furono conosciuti anche fuori della Sicilia, ma non incisero profondamente sulla cultura isolana e sulla produzione artistica. A Messina fu attivo a lungo Costantino Lascaris e, per breve tempo, anche Pietro Bembo, a riprova della particolare vivacità culturale della città. L’inizio del XV secolo è caratterizzato in Sicilia dall’in- fluenza franco-provenzale e pisano-senesi sulla cultura artistica figurativa, che trovano la massima espressione nell’affresco del Trionfo della Morte, capolavoro tardo Gotico. Gli artisti maggiori del periodo sono Gaspare da Pesaro e il figlio Guglielmo Pesaro. In architettura l’intensa attività edilizia è caratterizzata dall’adesione a forme tardogotiche con l’impronta iberica (soprattutto nel Val di Noto), e la persistenza di decorazioni e sche- mi planimetrici che si ripetono dall’epoca normanna. Palermo e Messina, tra le principali città, attraversavano nel XV secolo una fase di crescita demografica ed economica grazie alla presenza del porto e di numerose co- munità di mercanti pisani, veneziani, lombardi, genovesi. Anche la struttura sociale cittadina si rinnovava con una classe di funzionari e commercianti che si affiancava alla nobiltà costruendo palazzi e cappelle gentilizie e richiedendo raffinati manufatti di grande pregio.

67 Tali premesse, grazie anche all’arrivo di numerosi artisti dalla penisola, e all’influenza dell’ambiente artistico napoletano del periodo di Alfonso II, consentirono il rinnovamento del linguaggio artistico in Sicilia. La scul- tura rinascimentale giunse in Sicilia per opera di Francesco Laurana che vi operò per alcuni anni a partire dal 1466. Aprì una bottega a Palermo influenzando molti artisti. Il luogo che meglio rappresenta questo momento cruciale per l’arte siciliana è la chiesa di San Francesco d’Assisi. Domenico Gaggini, dette vita ad una bottega di scultori che caratterizzò a lungo la scultura siciliana. Importò sull’isola i vari influssi culturali che avevano caratterizzato la sua formazione e perfino l’uso del marmo di Carrara. La sua prima attività nell’isola è legata alla chiesa di San Francesco, o meglio all’Altare di San Giorgio e il drago, dove era attivo anche il Laurana e che rappresenta, quindi, un luogo chiave per l’introduzione del gusto rinascimentale nell’isola. I marmorari di Palermo, molti dei quali carraresi, si costituirono in corporazione nel 1487. Toscani e lombardi portarono in città e nelle aree circostanti fino alla Calabria, il ricco repertorio delle decorazioni architettoniche classiciste. Tuttavia per tutto il XV secolo, nonostante alcune interpretazioni oggi superate, l’architettura continuò a se- guire la tradizione tardogotica nonostante la presenza di episodi decorativi rinascimentali. Tuttavia occorre rilevare come le distruzioni degli eventi sismici abbiano alterato la possibilità di indagare com- piutamente tale periodo. Il rinnovamento del linguaggio quindi non coinvolse subito l’intero organismo edi- lizio. Il principale architetto siciliano del Quattrocento fu infatti Matteo Carnilivari che utilizzò un linguaggio personale con ancora elementi gotici e catalani, come nella Chiesa di Santa Maria della Catena a Palermo. Il suo prestigio di costruttore fu uno degli ostacoli all’affermazione del linguaggio rinascimentale, al di fuori del repertorio decorativo dei marmorari. Oltre alle poche tracce lasciate da Laurana, si può ricercare, alla fine del XV secolo, il linguaggio rinascimentale solo in episodi minori come la cappella Ventimiglia nella chiesa di San Francesco a Castelbuono. Il progressivo assorbimento di elementi del classicismo rinascimentale in architet- tura procedette lentamente e si concretizzò soprattutto in modo episodico come nella sacrestia del duomo di Siracusa o in piccole costruzioni come le cappelle a pianta centrale addossate all’edificio di culto. Tra queste si ricordano la cappella Naselli in San Francesco a Comiso, la cappella dei Confrati in Santa Maria di Betlem a Modica, la cappella della Dormitio Virginis in Santa Maria delle Scale a Ragusa. La cappella dei Marinai nel- la chiesa dell’Annunziata a Trapani è, invece, opera di Gabriele di Battista.

Nel 1517 arrivò a Palermo il dipinto di Raffaello Andata al Calvario, poi denominato lo Spasimo di Sicilia, che influenzò molti artisti, sia pittori che scultori. Quasi contemporaneamente, dal 1519 fu attivo in città Vin- cenzo da Pavia. In tal modo fu introdotta Maniera moderna, pur in un ambiente ancora abbastanza legato a modi quattrocenteschi. Già nella prima fase del secolo arrivarono in Sicilia diversi artisti provenienti da Napoli come Mario di Laurito. Il flusso degli artisti non fu a senso unico e i pittori siciliani furono attivi anche fuori dall’isola: Giacomo Santoro a Roma e Spoleto, Tommaso Laureti a Roma e Bologna. Altri pittori manieristi provenienti dalla penisola furono attivi a Palermo, come Orazio Alfani. Tra gli artisti siciliani della prima metà del secolo troviamo Vincenzo degli Azani. Nei primi due decenni del XVI secolo soggiornò due volte a Messi- na Cesare da Sesto portandovi uno stile tra Raffello e Leonardo che influenzerà l’ambiente artistico della città e in particolare , artista molto conosciuto alla sua epoca ma di cui restano poche opere e scarse notizie. Nel 1529, dopo il Sacco di Roma, si stabilisce a Messina, dove resterà fino alla morte, Polidoro da Caravaggio, che introduce in Sicilia i modi figurativi romani raffaelleschi, adattando però la propria pittura, a contatto con la religiosità devozionale tipica dell’isola, accentuando il patetismo dei personaggi. Polidoro collaborò agli allestimenti effimeri predisposti per l’ingresso di Carlo V a Messina nel 1535, avvenimento che non mancò di rappresentare un momento di profonda innovazione della cultura figurativa. L’allievo più impor- tante di Polidoro fu Deodato Guinaccia, attivo a lungo a Messina.

68 Una folta schiera di manieristi siciliani andranno ad operare anche a Napoli, simmetricamente ai manieristi napoletani attivi in Sicilia. Tra gli artisti siciliani si ricorda Stefano Giordano. Giovanni Angelo Montorsoli, al- lievo di Michelangelo, dopo un lungo vagare si stabilì a Messina dal 1547 al 1557, lasciando numerosi seguaci come Giuseppe Bottone, e opere importanti come la Fontana di Orione e la Fontana del Nettuno. Martino Montanini, a Messina dal 1547 al 1561, collaboratore del Montorsoli e suo successore come capomastro del duomo, dove scolpì statue, oggi perdute. Andrea Calamech, allievo di Bartolomeo Ammannati, si stabilì in città nel 1563 e fu a capo di un’importante bottega che comprendeva il figlio Francesco, il nipote Lorenzo Calamech e il genero Rinaldo Bonanno. Altri scultori manieristi, soprattutto toscani, presenti in Sicilia per pe- riodi più o meno lunghi furono Michelangelo Naccherino e Camillo Camilliani. Oltre che la scultura marmorea continua anche la tradizione della scultura in stucco e di quella in legno che darà gli esiti più sorprendenti nel XVII secolo. Quale che sia stata l’adesione della Sicilia alle forme rinascimentali, nei tempi più o meno in ritardo e nei modi più o meno condizionati dalle tradizioni preesistenti, nella seconda metà del secolo l’isola si trova perfetta- mente aggiornata al panorama artistico della penisola e in particolare di Roma, recependone tutta la com- plessità fatta di tardo manierismo, classicismo, temi della Controriforma e tanto altro. In tale epoca le novità continuano ad essere portate da artisti e architetti immigrati in Sicilia dai principali centri artistici italiani. Dopo questo periodo, tale fenomeno si ferma e i principali artisti attivi in Sicilia nel XVII secolo sono nativi dell’isola, formatisi spesso a Roma. Giovanni Angelo Montorsoli e soprattutto Andrea Calamech furono uti- lizzati dalle autorità cittadine nel ruolo non solo di scultori ma anche di architetti introducendo così a Messina il Classicismo Manierista, in opere oggi scomparse come il Palazzo Reale e l’Ospedale Maggiore di Calamech. Il Barocco napoletano è una forma artistica e architettonica sviluppatasi tra il XVII secolo e la prima metà del XVIII secolo ed è riconoscibile per le sue sgargianti decorazioni marmoree e di stucchi che caratterizzano le strutture portanti degli edifici. In particolare, il Barocco napoletano fiorisce verso la metà del Seicento con l’opera di alcuni architetti locali molto qualificati e termina a metà del secolo successivo con l’avvento di architetti di stampo neoclassico. Nel Settecento il Barocco raggiunse l’apice con le architetture ricollegabili al Rococò e al Barocco austriaco, dando origine ad una combinazione dalla quale scaturirono edifici di grande valore artistico. Questo stile, che si sviluppò in Campania e nel sud del Lazio (dove fu costruita l’Abbazia di Montecassino che rappresenta un esempio di architettura barocca napoletana al di fuori di Napoli) fu portato all’attenzione della critica internazionale solo nel XX secolo, grazie al volume Architettura barocca e rococò a Napoli di Anthony Blunt. L’architettura barocca si sviluppa a Roma nei primi anni del Seicento, sotto l’influenza del lascito cul- turale di Michelangelo Buonarroti e con l’opera di Carlo Maderno ed altri. Le esigenze dettate dalla Contro- riforma portarono alla creazione di uno stile teso ad esaltare la centralità della Chiesa cattolica, ma atto anche ad esprimere le frivolezze della vita mondana e della nuova filosofia scientifica copernicana e galileiana protesa verso una nuova frontiera delle conoscenze, e alludendo alla vita come ad un sogno, stimolati anche dalle opere di William Shakespeare e Pedro Calderón de la Barca nonché dalla filosofia di Cartesio. I caratteri del Barocco romano oltrepassarono presto i confini della Città Eterna. A Napoli, i temi barocchi, uniti a quelli del Manierismo toscano, influenzarono soprattutto il primo trentennio del XVII secolo con l’avvento di architetti estranei alla formazione locale, tra i quali occorre ricordare Giovanni Antonio Dosio, il ferrarese Bartolomeo Picchiatti ed il lucano Francesco Grimaldi. Riconducibili a Dosio sono alcune opere come la chiesa dei Girolamini e il chiostro della Certosa di San Martino, che costituiscono una

69 reinterpretazione in chiave tardo manierista del Rinascimento toscano. Picchiatti invece appare legato al gusto del primo Barocco romano, mentre Francesco Grimaldi faceva parte della cerchia degli architetti religiosi in- sieme ad altri del periodo, come il domenicano Giuseppe Nuvolo ed il gesuita Giuseppe Valeriano. Il Grimaldi, dopo aver compiuto varie esperienze a Roma, ebbe l’incarico di progettare la Basilica di Santa Maria degli An- geli a Pizzofalcone e la Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli, dove la decorazione barocca fu applicata su impianti ancora classicheggianti. Tuttavia, la personalità di spicco del secolo è Cosimo Fanzago. Lombardo di nascita, si trasferì nel secondo decennio del Seicento a Napoli, dove progettò molte opere scultoree e architet- toniche, tra cui edifici sacri, civili e decorazioni interne di chiese in marmi policromi ed in marmi commessi. Il Settecento vide attivi artisti come Antonio Canevari, Domenico Antonio Vaccaro, Ferdinando Sanfelice, Ni- cola Tagliacozzi Canale e tanti altri, che mutarono in modo irrefrenabile il volto della città. Gli architetti avevano l’incarico di rimaneggiare i palazzi esistenti e di progettare le opere su lotti di terreno non particolarmente estesi all’interno delle mura urbane. Le opere dovevano rispettare alcuni caratteri imposti durante l’edificazione, tanto che, nelle costruzioni della Napoli barocca, è possibile individuare una serie di caratteristiche standard, soprattutto per quanto concerne gli edifici religiosi: le facciate delle chiese hanno quasi sempre un andamento rettilineo e spesso non rispettano l’orientamento delle navate; le facciate non si presentano particolarmen- te slanciate, al fine di raccordarsi ai prospetti degli edifici adiacenti. Le lesene presenti servono per dare discontinuità e ritmo alle masse murarie e talvolta sono accompagnate da nicchie. Alcune chiese posseggono prospetti più complessi, detti a doppia facciata; si prediligono gli schemi riconducibili ad una pianta centra- le iscritta in un quadrilatero in modo da non occupare spazio per l’edificazione di altri fabbricati. Tuttavia, non di rado, le piante sono a croce latina ed in minor quantità a croce greca ed ellittiche. A partire dal Settecento si registra la presenza di forme più libere e inusuali come nella chiesa di Santa Maria della Concezione a Mon- tecalvario, dove la croce greca è inscritta in un ottagono in modo da formare un ambulacro che collega le varie cappelle con l’entrata e l’abside; a causa dei dislivelli morfologici del suolo le chiese vengono costruite su ban- chine artificiali, precedute da rampe di gradini; i palazzi sono costruiti attorno ad un cortile sul fondo del quale si sviluppa una scala aperta a doppia rampa; per ottenere i chiaroscuri si utilizzavano marmi, piperno e talvolta il tufo; i portali dei palazzi sono realizzati in marmo e in piperno. Con la prima fase del Barocco napoletano prese avvio nel XVI secolo, con i piani di urbanizzazione voluti fortemente da Don Pedro di Toledo, che fu il primo a curarsi di un’espansione accurata dell’urbe. Dalla seconda metà del secolo fino al Settecento furono innalzati i Quartieri Spagnoli ed i borghi esterni alle mura della capitale del regno (come quelli dei Vergini e di Sant’Antonio Abate), mentre altri nuclei urbani si sviluppano alle pendici del Vomero come aggregati della città. La fase si suddivide in due fondamentali periodi che vanno rispettivamente dal 1582 al 1613 e dal 1613 al 1626. Il primo può essere considerato una fase di premessa, caratterizzato ancora da edifici d’impronta ma- nierista e romana. L’artista più importante a cavallo dei due secoli fu lo svizzero Domenico Fontana, autore del Palazzo Reale e del Complesso di Gesù e Maria, che morì a Napoli nel 1607. Nel secondo periodo, le maestranze e gli architetti partenopei acquisirono maggiore autonomia dal punto di vista progettuale. Inoltre, da prendere in considerazione, è l’avvento degli ordini monastici, che fecero erige- re, dentro e fuori le mura, diversi complessi religiosi. La Controriforma ebbe notevole influenza sulla città, tanto che le autorità dovettero garantire un terreno edificabile per ogni ordine più importante: tra le prime strutture realizzate si ricordano il Complesso di Gesù e Maria, la chiesa del Gesù Nuovo e la Basilica di Santa Maria della Sanità. Successivamente, gli ordini monastici, innalzarono ulteriori complessi, come per la Cer- tosa di San Martino, la Basilica di San Paolo Maggiore e la chiesa dei Girolamini, i cui cantieri si protrassero per lungo tempo, con l’intervento di numerosi architetti. Infatti, la realizzazione ex novo degli ambienti della

70 Certosa di San Martino richiese oltre cento anni; il primo intervento fu quello di Giovanni Antonio Dosio ed è datato tra il 1589 e il 1609, mentre gli ultimi interventi del progetto di rinnovo risalgono alla metà del XVIII secolo, con Nicola Tagliacozzi Canale. Il cantiere della Basilica di San Paolo Maggiore, affidata ai teatini, vide il susseguirsi di Gian Battista Cavagni e Giovan Giacomo Di Conforto, ma l’intero edificio fu rinnovato tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento. Infine, la chiesa dei Girolamini venne progettata alla fine del XVI secolo da Giovanni Antonio Dosio e successivamente proseguita da Dionisio Nencioni di Bartolomeo, che ultimò la struttura ad eccezione della cupola, che invece fu portata a termine da Dionisio Lazzari a metà del secolo successivo. Gli ordini monastici non furono estranei al panorama di cambiamento culturale del periodo, ma si interessarono anche alle realizzazioni architettoniche dei loro conventi. Pertanto, da qui inizia una lunga lista di architetti che entrarono in un ordine religioso e che svolsero la propria attività in seno ad esso o per altri ordini: i progettisti di riferimento sono il gesuita Giuseppe Valeriano, il domenicano Giuseppe Nuvolo, il teatino Francesco Grimaldi, il barnabita Giovanni Ambrogio Mazenta, Agatio Stoia, che presentò un pro- getto alla chiesa di San Francesco Saverio, per cui si può dedurre che sia stato anch’esso gesuita, ed infine il padre Giovanni Vincenzo Casali. Alcune note a margine meritano gli edifici civili, che vennero progettati con sequenze di arcate slanciate, molto evidenti nei cortili dei palazzi nobiliari, rivestite di piperno in modo da ottenere un forte contrasto di luci e ombre. La seconda fase del Barocco napoletano inizia con l’avvento di Cosimo Fanzago nel cantiere della Cer- tosa di San Martino. La Certosa divenne un laboratorio di architettura e scultura per Fanzago e per tanti altri artisti dell’epoca. Nella sua longeva carriera, il Fanzago fu scultore e architetto e realizzò pregevolissime opere in città. Peraltro, le sue notevoli capacità di architetto lo portarono ad occuparsi di innumerevoli fabbriche. La sua attività ebbe un notevole incremento negli anni Trenta del XVII secolo, quando gli venne commissionata la Guglia di San Gennaro e il restauro della chiesa del Gesù Nuovo, con decorazioni in commesso. Fu un artista molto ricercato anche dai nobili, che gli affidarono la progettazione o il restauro delle proprie residenze: tra queste si possono citare il Palazzo Carafa di Maddaloni, il Palazzo Donn’Anna e il Palazzo Firrao. Alla luce di ciò, il Fanzago può essere considerato il vero capostipite del Barocco napoletano. Inoltre, la sua architettura, era complementare alla scultura: ad esempio, nella Guglia di San Gennaro non vi è una netta distinzione tra elementi architettonici e scultorei; la colonna, cinta da alcune volute, è accostata ai medaglioni e ai festoni di frutta. Anche gli altari divengono una macchina scenografica che ingloba scultura e architettura. L’altare è progettato non solo per le celebrazioni liturgiche, ma serve anche per dividere la zona pubblica, che termina nel presbiterio, con quella riservata al coro dell’ordine; l’accesso tra i due ambienti avviene tramite portelle marmoree poste ai lati dell’altare che si tramuta in un arredo sacro. L’attività del Fanzago oltrepassò i confini di Napoli, estendendosi nel Casertano, ad Avellino, nel basso Lazio e a Roma, in Calabria, nella Cattedrale di Palermo, e in Spagna. Dal punto di vista urbanistico, all’epoca il suolo destinato alle edificazioni si era bruscamente ridotto a causa del sorgere di numerose fabbriche religiose. Gli architetti avevano difficoltà nel progettare nell’area delle vec- chie mura urbane e quindi cominciarono ad edificare palazzi nobiliari verso la collina di Pizzofalcone e verso la Riviera di Chiaja. Per gli ordini monastici invece si rimaneggiavano le chiese già esistenti, con le profusioni di marmi policromi e marmi commessi e, talvolta, si abbattevano per ricostruirle con piante più complesse. Verso gli anni Novanta del XVII secolo si susseguirono, in un breve lasso di tempo, due terremoti che danneggiarono molti edifici dell’urbe. Il terremoto del 1688, che precedette quello del 1693, causò diversi crolli, tra cui l’antico prospetto della basilica di San Paolo Maggiore che, pochi anni prima, era stato ammo-

71 dernato secondo gli stilemi barocchi su disegno di Dionisio Lazzari. Grazie all’intervento della nobiltà, i danni furono riparati in breve tempo: un caso esemplare è la ricostruzione, voluta fortemente dal conte Marzio Cara- fa, del paese di Cerreto Sannita a seguito del disastroso terremoto del 5 giugno 1688. Durante le riparazioni post-sismiche furono attivi architetti di transizione fra i due secoli; il primo fu il pittore e architetto Francesco Solimena, che progettò il Palazzo Solimena come propria abitazione, la facciata della chiesa di San Nicola alla Carità, conclusa da Salvatore Gandolfo, e varie opere minori, come il campanile della Cattedrale di San Prisco a Nocera Inferiore e il nuovo portale della chiesa di San Giuseppe dei Vecchi. Altri due esponenti di transizione furono Arcangelo Guglielmelli e Giovan Battista Nauclerio. Il primo, collaboratore del citato Lazzari, restaurò il Complesso di Santa Maria delle Periclitanti e la chiesa di Santa Maria Donnalbina; la sua attività si registra nell’Abbazia di Montecassino per la realizzazione della na- vata della chiesa e fu attivo anche nel cantiere del Duomo di Salerno, dove innalzò la navata ispirandosi a quella della stessa abbazia benedettina. Invece, il Nauclerio era l’allievo dell’architetto Francesco Antonio Pic- chiatti ed operò per alcuni ordini monastici. Completò la chiesa di Santa Maria delle Grazie sulla piazzetta Mondragone, iniziata da Arcangelo Guglielmelli poco prima della propria morte, nel cui interno è conservato un altare in marmo disegnato da Ferdinando Sanfelice; nel frattempo ideò numerosi edifici sacri e civili tra cui una cappella nel Duomo di Avellino e la Villa Faggella. Agli inizi del XVIII secolo, Napoli vide un’incontrollata espansione urbanistica a causa dell’incremento demografico. I massimi esponenti furono Domenico Antonio Vaccaro e il citato Ferdinando Sanfelice; nei due viene riscontrato uno stile tra quello di Cosimo Fanzago e di Fisher Von Erlach. Inoltre, nel Settecento, in città giunsero architetti di estrazione romana per lavorare per conto del Re, come Giovanni Antonio Medrano e Antonio Canevari; ai due si deve la Reggia di Capodimon- te. Altri architetti sono Nicola Tagliacozzi Canale, che lavorò principalmente alla Certosa di San Martino e realizzò i palazzi Mastelloni e Trabucco. Infine, occorre ricordare Giuseppe Astarita, che fu attivo fino alla seconda metà del secolo tra Napoli e la Pu- glia; fu un importante sperimentatore di piante come quella mistilinea di Sant’Anna a Capuana, che raggiunse la conformazione definitiva nel 1751.Verso la metà del Settecento i nuovi esponenti del classicismo barocco come Ferdinando Fuga e Luigi Vanvitelli, indirizzarono l’architettura verso nuove forme di decoro e com- postezza, tipiche della Scuola Romana. Vanvitelli, attorno alla propria figura, ebbe numerosi collaboratori e allievi che riuscirono, intorno agli anni Cinquanta a stravolgere la moda barocca, orientando i gusti verso il classicismo dell’Arcadia I Quartieri Spagnoli, voluti fortemente dal viceré per l’acquartieramento di soldati spagnoli in città, sorgono in un’area compresa tra via Tarsia e via Chiaia longitudinalmente e tra via Toledo e l’attuale corso Vittorio Emanuele; la superficie coperta è di circa 800.000 metri quadrati. Analogie alla con- formazione del quartiere sono riscontrabili peraltro anche nelle zone delle Mortelle e di Cariati, dove un’edi- lizia più compatta, articolata attorno ad una maglia stradale più rarefatta e non ortogonale, è costituita da un insieme di palazzi tardo cinquecenteschi. L’espansione dei Quartieri Spagnoli procedette comunque in più fasi, distribuite in un lasso di tempo che va dalla carta di Lafréry a quella del Duca di Noja. In origine, nel primo ventennio del XVII secolo, la zona era for- mata da case e comprensori di case trasformati nei palazzi di lusso della nobiltà; tuttavia, sostanziali trasforma- zioni avvennero intorno al 1630 per protrarsi fino al XIX secolo. Nella vicina via Toledo non appare nessuna affluenza degli ordini monastici tranne qualche chiesa; invece, addentrandoci nei quartieri si possono scorgere numerose fabbriche religiose che talvolta costituirono un ostacolo allo sviluppo urbanistico a causa del loro notevole ingombro dell’insula quadrangolare. Presenti sono le arciconfraternite volute dai nobili. Esse sorsero

72 principalmente intorno alla metà del XVI secolo per poi svilupparsi nel secolo successivo con le rendite annue; un esempio è la chiesa dell’Immacolata Concezione e Purificazione di Maria de’ nobili in Montecalvario, che, a partire dal 1620, divenne il centro di una manifestazione artistica con la realizzazione di un carro alla quale partecipavano artisti importanti del panorama Barocco della città, come Lorenzo e Domenico Antonio Vacca- ro.

Costantinopoli è la zona intra moenia compresa tra la Porta di Costantinopoli e piazza Bellini, includendo an- che l’area di Port’Alba. La zona ospitava, sin dall’epoca aragonese, alcuni palazzi nobiliari, come il Palazzo Ca- striota Scanderbeg, e notevoli complessi conventuali, come la chiesa di Santa Maria della Sapienza e la chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, la cui apertura è datata intorno agli anni Trenta del Cinquecento, che furono oggetto di ulteriori espansioni o restauri nel secolo successivo. Tuttavia, una prima sistemazione urbanistica si ebbe intorno al Seicento per volontà dei viceré Pedro Álvarez de Toledo e Pedro Fernández de Castro. In particolare, sotto quest’ultimo, che fu viceré dal 1610 al 1616, via Costantinopoli assunse importanza grazie alla presenza esterna alle mura dei Regi Studi, realizzati da Giulio Cesare Fontana nel 1622; la nuova strada venne quindi unita alla preesistente via Toledo tramite il largo Mercatello, l’attuale Piazza Dante.

In generale, i palazzi che sorsero lungo la via, derivarono da case palazziate; i proprietari acquistarono case o lotti limitrofi, trasformando l’isolato così formatosi in vasti palazzi residenziali; ad esempio, nel XVII secolo sono testimoniate all’archivio storico della città alcune ricevute di pagamento riguardanti terreni acquistati che appartenevano al Complesso di San Gaudioso. In ogni caso, l’intervento urbanistico dovette tener conto del dislivello morfologico dell’area, che risulta evidente nella configurazione del Palazzo Conca, inglobato succes- sivamente nella fabbrica del Complesso di Sant’Antonio delle Monache a Port’Alba. Contemporaneamente fu eseguito il rinnovo della chiesa di Santa Maria della Sapienza, i cui lavori durarono ben quarantacinque anni (1625-1670); al primo intervento di Giovan Giacomo Di Conforto fece seguito, dapprima quello di Cosimo Fanzago a cui è attribuita la creazione della facciata a loggiato nella quale lavoravano Dionisio e il padre Jacopo Lazzari per le decorazioni in marmo, e infine quello dell’ingegnere Orazio Gisolfo, per il completamento della cupola. Questa serie di borghi extraurbani sorti in epoca medievale tra la Porta San Gennaro e la Porta Santa Maria di Costantinopoli, costituisce un importante punto di riferimento dell’architettura barocca napoletana per i successivi aggregamenti creati tra la fine del XVI e il XVII secolo. In quest’epoca di rinnovo architet- tonico e sociale sorsero le prime importanti fabbriche extra moenia: oltre alla chiesa di San Gennaro Extra Moenia, ricordata sin dall’epoca paleocristiana, il primo intervento fu quello inerente alla Basilica di Santa Maria della Sanità, voluta dai domenicani e costruita tra il 1602 e il 1613 su progetto di Giuseppe Nuvolo. Contemporaneamente, furono eretti ulteriori complessi con canoni della Controriforma, come la chiesa di Santa Maria della Verità, conosciuta anche come Sant’Agostino degli Scalzi, e la vicina chiesa di Santa Teresa degli Scalzi, entrambe situate nel comprensorio di Fonseca-Materdei ed erette da Giovan Giacomo Di Confor- to su commissione dei Carmelitani Scalzi. Al 1606 risale la fondazione del conservatorio dei Santi Bernardo e Margherita a Fonseca con annessa chiesa, progettata anni dopo da Pietro De Marino. Più antica è la fondazione della chiesa di Santa Maria di Materdei (1585), che però fu rinnovata nel XVIII secolo da Nicola Tagliacozzi Canale. L’edilizia civile può essere distinta in due parti: la zona di Materdei, dove persistono ancora edifici risalenti al XVI secolo, malgrado le sopraelevazioni, e innesti settecenteschi (come in Palazzo di Majo, opera di Ferdi- nando Sanfelice) e altri di notevole spicco e qualità architettonica; il blocco Vergini, Stella e Sanità, che presen- ta ancora qualche palazzo di campagna del Quattrocento ma dove l’architettura civile è quasi tutta omogenea

73 e risalente al XVIII secolo; i palazzi di spicco sono il Palazzo Sanfelice, Palazzo Lariano Sanfelice e il Palazzo dello Spagnolo, tutti progettati dal citato Ferdinando Sanfelice. Entrambi i quartieri sono posti sul lato della collina del Vomero, agli estremi dei Quartieri spagnoli. Pontecorvo è definito come il quartiere conventuale poiché qui, nel XVII secolo, sorsero numerose insule conventuali. Anticamente la zona, dove vi era un’elevatissima concentrazione di prostitute, era destinata alla plebe che smerciava ogni cosa. Pontecorvo acquistò importanza solo grazie all’espansione collinare del XVI secolo voluta da Pedro Álvarez de Toledo, quando, in un primo momento, i nobili acquistarono i suoli dal com- plesso dei Santi Severino e Sossio, che aveva in proprietà i terreni della collina. Questa ondata residenziale venne progressivamente sostituita da quella conventuale; la venuta degli ordini causò la trasformazione dei palazzi Caracciolo, Spinelli, Pontecorvo e de Ruggiero in conventi, portando alla formazione di una vera e propria via sacra, sulla falsariga di via Costantinopoli, dove invece vi erano numerosi palazzi civili. Cospicua è la presenza di edifici civili, alcuni dei quali furono trasformati in chiese e conventi, come la chiesa di Santa Maria della Solitaria con annesso convento, la Nunziatella, rimaneggiata da Ferdinando Sanfelice, la seicen- tesca basilica di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone del teatino Francesco Grimaldi e, infine, la chiesa di Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone con il convento. In particolare, Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone venne fondata prima dei tumulti di Masaniello e occupò l’area della proprietà dei Toledo. Fu progettata da Cosimo Fanzago precedentemente al suo soggiorno ro- mano; infatti, prendendo spunto dal progetto della chiesa partenopea partecipò al concorso per la chiesa di Sant’Agnese in Agone influenzando Carlo Rainaldi. Ciononostante il progetto del Fanzago per Santa Ma- ria Egiziaca fu continuato da Francesco Antonio Picchiatti, Antonio Galluccio e Arcangelo Guglielmelli che mutarono buona parte del disegno originario. Oltre la Porta di Chiaia, i borghi di pescatori situati tra il Monte Echia e Posillipo si stavano trasformando, grazie agli interventi rinascimentali e barocchi, in luoghi di svago della nobiltà per la presenza di ville e casini; il primo che si può ricordare è Palazzo Caravita di Sirignano, fondato nel XVI secolo. Alla trasformazione dei borghi marinari in luoghi urbani non furono estranei i religiosi e le fondazioni di laici, che contribuirono alla costruzione di chiese: Santa Maria della Vittoria, Santa Maria in Portico, San Giuseppe a Chiaia, chiesa dell’Ascensione e Santa Teresa, la cui progettazione venne affidata ad architetti importanti come Cosimo Fanzago, Arcangelo Guglielmelli, Tommaso Carrere e Nicola Longo. Inoltre, nel Settecento, per volontà di un mercante pisano sorse il Complesso di San Francesco degli Scarioni il cui disegno venne affidato a Giovan Battista Nauclerio. L’edilizia civile si sviluppò prevalentemente lungo costa, come nel caso del Palazzo Ravaschieri di Satriano che venne ampliato nel XVIII secolo da Ferdinando Sanfelice. Altri palazzi degni di nota sono: Palazzo Ischi- tella, Palazzo Ruffo della Scaletta già Palazzo Carafa di Belvedere e Palazzo Guevara di Bovino. Un nucleo più interno di edifici sorse nell’odierno Rione Amedeo, attorno alla chiesa di Santa Teresa a Chiaia; tra questi si ricordano il Palazzo Carafa di Roccella e il Palazzo d’Avalos del Vasto, entrambi restaurati nel XVIII secolo da Luca Vecchione e da Mario Gioffredo che caratterizzò Palazzo d’Avalos con una decorazione neoclassi- ca assai distante dalle forme barocche. Invece, ai margini della collina di Posillipo venne realizzato Palazzo Donn’Anna, voluto da Anna Carafa, consorte del viceré Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Tor- res: venne commissionato a Cosimo Fanzago, ma l’opera non fu portata a termine per la morte di Donn’An- na Carafa e rimase incompleto. Le chiese seicentesche, di solito, sono costituite da piante a croce latina, o ad aula centrale senza transetto; una tipologia architettonica adatta solo ad edifici che non avevano sufficiente

74 spazio a disposizione, come nel caso della chiesa del Purgatorio ad Arco, oppure a croce greca. Le decorazioni architettonico-scultoree sono prevalentemente in marmo; la loro progettazione fu affidata non soltanto ad architetti, ma anche a marmorai: le decorazioni del XVII secolo sono in taglio marmoreo, mar- mo commesso e marmo policromo. Le chiese settecentesche presentano un’impostazione planimetrica più libera. Per esempio, nella chiesa di Santa Maria della Concezione a Montecalvario venne adottata una pianta a matrice ottagonale, con una croce greca espressa negli assi ingresso-abside e transetto-transetto; l’ottagono allungato fa da raccordo agli assi, ma, nel contempo, crea altri spazi destinati a cappelle e al deambulatorio di collegamento. La parte centrale dell’edificio, destinata al raccoglimento dei fedeli, è divisa dalle cappelle e dal deambulatorio grazie ad una serie di pilastri che sorreggono un complesso sistema di volte, mentre, a copertura della parte centrale è posta una cupola che irradia di luce l’edificio. Altre piante fantasiose trovarono applicazione nella cappella del Real Albergo dei Poveri e nella chiesa di Santa Maria del Ben Morire. In parti- colare, la prima avrebbe dovuto essere caratterizzata da una pianta stellare ideata da Ferdinando Fuga, ma non fu mai completata e oggi è riconoscibile soltanto attraverso i segni delle fondazioni. Uno dei primi palazzi ad essere costruito nel XVII secolo fu il Palazzo Reale. Il modello di questo palazzo è tipicamente romano; ad esempio le scale risultano ancora celate all’interno della struttura e non assumono un aspetto scenografico. Infatti anche altri palazzi eretti nel primo Seicento mostrano scale disposte lateralmen- te o su un estremo della facciata, come il palazzo Carafa della Spina, discostandosi dalla tipologia della scala aperta in voga nel secolo successivo. Durante il XVII secolo il palazzo si articola spesso su due piani nobili; il primo serviva come piano privato del padrone, per gli incontri ed altro, mentre il secondo fungeva da abita- zione per l’intera famiglia. Esternamente il palazzo mostra lo sfarzo della casata, espresso attraverso l’applica- zione di numerose decorazioni come colonne alveolate, lesene e sculture. Peraltro, nel Seicento, molti palazzi già esistenti subirono modifiche e rimaneggiamenti che determinarono una vera e propria stratificazione architettonica, che talvolta causava persino appesantimenti strutturali assai nocivi sulle murature esistenti; è il caso ad esempio del palazzo Filippo d’Angiò che, a causa delle superfetazioni barocche, ancora oggi mostra elementi in acciaio a sostegno dei blocchi in piperno dei pilastri del loggiato. Verso la fine del Seicento, la tipologia residenziale cambiò impostazione: le strutture, ed in particolare le scale, vennero orientate verso l’ingresso. Tra gli altri architetti del XVIII secolo occorre citare Nicola Tagliacozzi Canale. Attivo dal 1720 fino alla data della sua morte, il suo più importante progetto civile è il Palazzo Tra- bucco, dove le sgargianti decorazioni si fondono col nascente Rococò dando vita un pregevole esempio di architettura settecentesca; notevole è inoltre la scala aperta nel cortile. Le altre architetture settecentesche di Napoli sono espresse in palazzi nobiliari, oggi poco noti al grande pubblico, ma che nascondono i vari passaggi di stile che caratterizzarono l’epoca barocca; malgrado ciò, alcuni di questi palazzi furono danneggiati nei restauri avvenuti dopo la Seconda Guerra Mondiale, come nel caso del palazzo al n. 169 di via Tribunali. Nel corso della seconda metà secolo arrivarono in Sicilia artisti dai diversi modi stilistici tra cui, lo spagno- lo Juan de Matta, attivo nella prima metà del secolo, il fiammingo Simone de Wobreck, attivo in Sicilia dal 1557 al 1587, il romano Orazio Borgianni nell’ultimo decennio, prima di trasferirsi in Spagna. Intorno al 1730 il Barocco siciliano cominciò gradualmente a distanziarsi dallo stile Barocco definitosi a Roma e guadagnò una individualità anche più forte per due ragioni: in questo periodo la corsa a ricostruire stava cominciando a scemare e la costruzione stava divenendo più tranquilla e meditata; un nuovo manipolo di architetti siciliani veniva alla ribalta.

75 Questa generazione aveva assistito alla ricostruzione nel Barocco e studiato le stampe e i libri di architettura che giungevano con sempre maggiore frequenza dal continente. Diversamente dai predecessori, i vecchi stu- denti degli architetti di Roma, essi erano capaci di formulare stili fortemente individuali in autonomia. Questi architetti inclusero Andrea Palma, Rosario Gagliardi e Tommaso Napoli. Pur tenendo in considerazione il Barocco di Napoli e Roma, essi adattarono i loro progetti ai bisogni e alle tradizioni locali. Il loro uso di risorse e sfruttamento dei siti era spesso follemente creativo. Napoli, e quindi Vaccarini, avevano promosso l’uso di scale esterne, che era adesso condotto ad un nuovo : chiese in cima alle colline venivano raggiunte trami- te meravigliose scalinate che evocavano il mentore di Vaccarini, Francesco De Sanctis, e le scalinate di Piazza di Spagna a Roma. Le facciate delle chiese spesso vennero a rassomigliare a torte nuziali piuttosto che luoghi di culto man mano che gli architetti guadagnavano sicurezza, competenza e statura artistica. Gli interni chiesa- stici, che fino a questa data erano stati leggermente prosaici, cominciarono, specialmente a Palermo, ad essere decorati con un tumulto di marmi intarsiati e un’ampia varietà di colori. Anthony Blunt ha descritto questa decorazione come affascinante o repellente, ma comunque il singolo spettatore possa reagire, questo stile è una manifestazione caratteristica di esuberanza siciliana, e va classificato tra le più importanti e originali creazioni di arte Barocca sull’isola. Questo è fondamentale nel Barocco Siciliano; fu idealmente intonato alla personalità locale, e questa fu la ragione per cui si evolse in modo tanto spettacolare. In Sicilia, lo sviluppo del nuovo Barocco, è più evidente a Noto, Modica, Ragusa e Catania. Le vie della città sono intervallate da scenografiche piazze ed imponenti scalinate che raccordano terrazze e dislivelli. La unitaria ricostruzione produsse un tessuto urbano coerente e ricco di episodi architettonici. Venne utilizzata la tenera pietra locale, di colore tra il dorato e il rosato, ricca- mente intagliata. La ricostruzione avvenne unitariamente sotto la guida del duca di Camastra, che rappresentava, a Noto, il vi- ceré spagnolo. A differenza di quanto accade di solito nelle costruzioni barocche delle province del Sud Italia, come soprattutto a Lecce e, in Sicilia, a Catania, gli architetti che lavoravano a Noto non puntano tutto sui motivi ornamentali, i quali restano sempre ben controllati, senza squilibri rispetto alle architetture nelle quali sono inseriti. Inoltre, gli architetti attivi a Noto, Rosario Gagliardi, Vincenzo Sinatra e Paolo Labisi, si im- pegnarono anche nella realizzazione di architetture elaborate, con l’impiego di facciate concave, come nella chiesa del Carmine o in quella di San Carlo Borromeo al Corso, convesse, come la chiesa di San Domenico, e addirittura curvilinee, come nella torre campanaria del seminario. Il Barocco di Noto pervade l’intera città: gli elementi barocchi non sono isolati all’interno di un contesto urbano caratterizzato da diversi stili, ma sono collegati tra di loro in modo da realizzare quella che è stata definita laperfetta città barocca. A tal proposito Ugo Ojetti sostenne: "Noto ai primi del Settecento è una delle nostre città sorte d’un colpo, pel fatto sembra d’una volontà sola, immagine precisa del gusto d’un’epoca. A visitarla, palazzi, chiese, conventi, teatro pare un monu- mento unico, tutto costruito nello stesso tufo , nello stesso barocco, come dice bene il Fichera, fiammeggian- te, con una grandiosità senza pause e una regalità senza avarizia". Dell’impegno degli architetti netini per la creazione di grandi scenografie, in un’ottica barocca pienamente consapevole e non provinciale, si accorse pure un maestro dell’immagine come Michelangelo Antonioni, il quale in una scena de L’Avventura, girata a Noto, fa dire al protagonista, interpretato da , intento ad ammirare la città dalla terrazza del campanile della chiesa di San Carlo al Corso: "Ma guarda che fantasia, che movimento. Si preoccupavano degli effetti scenografici. Che libertà straordinaria!". Ragusa fu gravemente danneggiata nel 1693. L’abitato è diviso in due parti: Ragusa Ibla, ricostruzione della

76 città vecchia sul suo colle, e Ragusa Superiore che invece fu edificata ex novo dopo il terremoto su un altopiano adiacente. Successivamente Ragusa Superiore si espanse su un ulteriore altopiano, separato dal primo dalla vallata Santa Domenica e ad esso collegato tramite tre ponti costruiti in epoche diverse. Ragusa Ibla, la città in- feriore, vanta un insieme impressionante di manufatti barocchi, che includono la chiesa di San Giorgio di Ro- sario Gagliardi, progettata nel 1738. Nel progetto di questa chiesa, Gagliardi sfrutta la difficile topografia del sito collinare. La chiesa torreggia in modo impressionante su una imponente scalinata di circa 250 gradini, una caratteristica Barocca frequentemente adottata in Sicilia a causa della morfologia dell’isola. La torre sem- bra esplodere dalla facciata, accentuata da colonne e pilastri rastremati contro le pareti curve. Al di sopra delle aperture di porte e finestre, i timpani si svolgono e curvano con un senso di libertà e di movimento che sareb- be stato impensabile ai precedenti architetti ispirati al Bernini e al Borromini. La cupola neoclassica non fu aggiunta prima del 1820. In un vicolo, che connette Ragusa Ibla con Ragusa Superiore, si trova la Chiesa di Santa Maria delle Scale. Questa chiesa è interessante, nonostante gravemente danneggiata dal terremoto. Solo metà della chiesa fu ricostruita nello stile Barocco, mentre la metà sopravvissuta fu mantenuta nell’originale veste Normanna (con elementi Gotici), a dimostrazione di un tassello dell’evoluzione del Barocco siciliano, a contrasto con il Barocco di altre parti d’Europa, definito dalla classica Roma. Palazzo Zacco è uno dei più notevoli edifici barocchi della città, dotato di colonne corinzie che sostengono balconate di elaborato ferro battuto mentre emergono maschere grottesche volte a burlarsi, colpire o divertire i passanti. Il palazzo fu costruito, nella seconda metà del XVIII secolo, dal barone Melfi di Sant’Antonio. Fu in seguito acquistato dalla famiglia Zacco, da cui il nome. L’edificio ha due facciate sulla strada, ciascuna con sei ampie balconate che portano lo stemma della famiglia Melfi, una cornice di foglie d’acanto contro cui si appog- gia un puttino. I balconi, una caratteristica del palazzo, notevoli per le mensole aggettanti che li sostengono, che vanno da putti a musicisti a maschere grottesche. Il punto focale della principale facciata sono i tre balconi centrali divisi da colonne con capitelli corinzi. Qui i balconi sono sorretti da immagini di musicisti con facce grottesche. La cattedrale di San Giovanni Battista a Ragusa Superiore fu costruita tra il 1718 e il 1778. La sua facciata principale è puro Barocco, contenente fini sculture e bassorilievi. La cattedrale ha un elevato campanile siciliano nello stesso stile. Ragusa Superiore, la parte più danneggiata della città, fu ripianificata intorno alla cattedrale, in seguito al 1693; il disegno dei palazzi qui è tipico di questa città: essi sono lunghi e di solo due piani, con una soglia centrale appena sottolineata da un balcone e da un arco che conduce al giardino interno. Questo stile, molto Portoghese, probabilmente disegnato per minimizzare i danni in futuri terremoti, è molto diverso da quello dei palazzi di Ragusa Ibla, che sono in vero stile siciliano. Insolitamente il Barocco indugiò qui fino al primo XIX secolo. L’ultimo palazzo costruito era in forma Barocca ma con colonne di ordine dorico romano e balconi neoclassici. La seconda città della Sicilia, Catania, fu gravemente danneggiata e le strutture più imponenti che rimase- ro in piedi furono il medievale Castello Ursino e tre navate della cattedrale. Il nuovo piano prevedeva infatti strade più larghe e l’inserimento di ampie piazze che consentissero eventuali aree antisismiche. Così essa fu riprogettata e ricostruita. Il nuovo impianto separò la città in due principali quartieri distinti dalle attuali vie Vittorio Emanuele II a sud e Santa Maddalena a est. La ricostruzione fu supervisionata dal Vescovo di Catania e dall’unico architetto sopravvissuto della città, Alonzo di Benedetto. Costui diresse una squadra di architetti chiamati da Messina, che presto aprirono i cantieri, concentrandosi prima su Piazza del Duomo. I tre palazzi collocati sono: il Palazzo Vescovile e il Seminario dei Chierici a sud, il Palazzo degli Elefanti a nord, che sosti-

77 tuisce l’antica Loggia medioevale, e ad ovest il Palazzo Pardo San Martino. Nel 1730 arrivò a Catania Giovanni Battista Vaccarini, principale architetto siciliano della sua generazione, portando un personale amalgama delle idee del Bernini e del Borromini. Egli introdusse nell’architettura dell’isola uno stile pieno di dettagli, caratterizzato dal movimento di linee curve, concave e convesse. Come architetto della città immediatamente impresse sui nuovi lavori lo stile del Barocco romano. Notevoli lavori di questo periodo furono l’ampliamento di Palazzo Biscari e la Chiesa di Sant’Agata. Per questo edificio.

Vaccarini, chiaramente, attinse anche all’ Architettura Civile di Guarino Guarini. È il suo frequente rifarsi a disegni affermati che rende l’architettura di questo periodo, pur opulenta, dotata di una qualità disciplinata, quasi imbrigliata. Lo stile di Vaccarini era destinato a dominare Catania per decenni. Vaccarini sfruttò anche la locale pietra lavica come elemento decorativo piuttosto che come un generico elemento costruttivo, utiliz- zandola in alternanza ritmica con altri materiali, e spettacolarmente per il suo obelisco posto sul dorso dell’E- lefante, simbolo di Catania, per una fontana nello stile di Bernini di fronte al nuovo Palazzo di Città. La facciata principale di Vaccarini per la cattedrale di Catania, dedicata a Sant’Agata, mostra forti influenze spagnole an- che a questo stadio tardo del Barocco siciliano. Alla metà del XVIII secolo, quando il Barocco siciliano era or- mai ben definito rispetto ai caratteri generali del Barocco del continente, gli edifici costruiti esibivano almeno alcune delle seguenti caratteristiche specifiche: la presenza di mascheroni e putti, spesso a supporto di balconi o a decorazione delle varie parti orizzontali delle trabeazioni di un edificio; questi volti furiosi o ghignanti sono vestigia del Manierismo; le balconate, spesso sono accompagnate da complicate balaustre in ferro battuto. Inferriate panciute si trovano anche a guardia di finestre. In generale la presenza di elementi in ferro battuto caratterizza, soprattutto nella Sicilia orientale dopo il sisma, l’architettura del XVIII secolo; l’uso diffuso di scale esterne in ville e palazzi extraurbani che spesso erano progettati con un portale nella facciata principale, accessibile alle carrozze, che conduce ad un cortile interno, da dove doppie scale portano fino al piano nobile, costituendo l’ingresso principale alla casa antistante le sale di ricevimento del primo piano, e le simmetriche fughe di gradini frequentemente cambiano direzione anche quattro volte. Anche le chiese, a causa della topo- grafia del siti, spesso erano munite di scalinate scenografiche, ispirate a modelli romani. Un esempio partico- lare è la scalinata antistante San Giorgio a Modica che procede per un dislivello di decine di metri con gradini molto ripidi fiancheggiati da giardini pensili. Sia le chiese che i palazzi spesso esibiscono facciate dalla geome- tria complessa, concave o convesse. Tale caratteristica coinvolge a volte anche ville o palazzi che esibiscono scale esterne ricavate nei recessi creati dalle curve. Il campanile generalmente non era posizionato a fianco della chiesa in un’autonoma torre campanaria, ma posto in facciata, spesso al centro, a sovrastare il timpano, con una o più campane, ciascuna chiaramente in vista sotto il proprio arco. In una chiesa con molte campane la facciata principale diviene particolarmente alta, di forma piramidale e riccamente modellata, come la Chiesa della Collegiata a Catania. Si tratta di uno dei più duraturi e caratteristici aspetti dell’architettura del Barocco Siciliano Interni chiesastici con profusione di marmi intarsiati a pavimentazione e rivestimento delle pareti. Le colonne sono solitamente isolate e staccate dalla facciata, a supporto di architravi spezzati. Negli interni sono spesso dorate o decorate ma sostengono invece archi molto semplici. Il bugnato è parecchio diffuso e spesso variamente decorato. Già in Sebastiano Serlio troviamo il bugnato con conci decorati, ma alla fine del XVI secolo, gli architetti siciliani ornavano i blocchi addirittura con sculture di foglie, squame, perfino con dolci e soprattutto con conchiglie che diventarono il simbolo ornamentale prevalenti dello stile barocco siciliano. A volte il bugnato veniva usato per pilastri anziché pareti, lasciate lisce, con effetti decorativi e chiaroscurali Per apprezzare il Barocco Siciliano occorre identificare uno o più di queste caratteristiche, poi valutare la com-

78 posizione nel suo complesso e allora, se l’edificio è posteriore alla fine del secondo decennio del XVIII secolo, determinare se l’architettura possiede una fluidità nelle proprie curve, nelle proprie volute e nelle decorazioni che ne producono l’indefinibile sensazione tipica di joie de vivre. Gli esterni delle chiese siciliane erano stati decorati in stili elaborati dal primo quarto del XVII secolo, con profusione di sculture, stucchi, affreschi e marmi. Man mano che le chiese del dopo-terremoto venivano completate negli tra il 1720 e il 1730, gli in- terni cominciarono a riflettere di pari passo le decorazioni esterne, diventando più lievi e meno intensi, con profusione di ornamenti scultorei degli elementi portanti, cornicioni e frontoni, spesso nella forma di putti, elementi floreali e faunistici. Marmi intarsiati su pareti e pavimentazioni con motivi complessi sono una delle più definite caratteristiche dello stile. Questi motivi con tondi di porfido sono spesso derivati da disegni ri- scontrabili nelle cattedrali Normanne d’Europa, mostrando ancora tali origini dell’architettura siciliana. L’al- tare maggiore è solitamente il pièce de resistance, il pezzo forte. Consiste, in molti esempi, in un monoblocco di marmo policromo, decorato con volute dorate e ghirlande e, frequentemente, incastonato con altre pietre come lapislazzuli e agata. I gradini che conducono alla pedana dell’altare sono caratteristicamente curvi, tra concavi e convessi e, in molti casi, decorati con marmi policromi intarsiati. Uno degli esempi più belli è Santa Zita a Palermo. La costruzione delle chiese della Sicilia sarebbe stata finanziata non solo dai singoli ordini re- ligiosi, ma dalle famiglie aristocratiche. Contrariamente ad una diffusa convinzione, la maggioranza della nobiltà siciliana non scelse di avere le proprie spoglie mortali esibite in eterno nelle Catacombe dei Cappuccini di Palermo, ma furono abbastanza conven- zionalmente tumulate sotto le loro cappelle di famiglia. È stato detto, però, che il funerale di un aristocratico siciliano era uno dei grandi momenti della sua vita. I funerali divennero impressionanti esibizioni di fasto. Le lapidi che coprivano le tombe oggi forniscono un barometro accurato dello sviluppo del Barocco e delle tecni- che di intarsio anno per anno. Per esempio, quelle della prima metà del XVII secolo sono di semplice marmo bianco decorato con i simboli araldici e riportanti nome, data e così via. Dal 1650 circa, piccole quantità di intarsio in marmo colorato iniziarono ad apparire, formando motivi simbolici. Il fenomeno si può seguire nella sua crescita finché, alla fine del secolo, lo stemma e la calligrafia sono costituiti interamente da intarsi in marmo colorato, incorniciati da bordi a motivi decorativi. Ben dopo che il Barocco iniziasse a cadere in disgrazia negli anni Ottanta del 1700, la decorazione barocca era ancora considerata più adeguata al rituale Cattolico del nuovo neoclassicismo di basi pagane. La Chiesa di San Benedetto a Catania è un bell’esempio di interni in stile Barocco siciliano, decorata tra il 1726 e il 1762, il periodo in cui tale stile era al vertice del suo fascino e unicità. I soffitti furono affrescati da . La parte più spettacolare della decorazione della chiesa è il coro delle monache, datato in- torno al 1750, che fu progettato in tal modo che le voci delle sorelle potessero essere udite durante le funzioni religiose ma che le suore stesse fossero comunque ben separate e nascoste dal mondo. Il design degli interni, sia di chiese che di palazzi, era il lavoro a stucco. Questo è un componente importante della filosofia Barocca, in quanto combina senza soluzione di continuità architettura, scultura e pittura in tre dimensioni. La sua com- binazione in soffitti e pareti a trompe d’oeil nella pittura illusionistica Barocca confonde arte e realtà. Mentre nelle chiese, lo stucco poteva rappresentare angeli e putti collegati da ghirlande di fiori, in una casa privata, il cibo o gli strumenti musicali preferiti dei proprietari. Come del resto per tutti gli stili architettonici a lungo andare la gente si stancò del Barocco. In alcune parti d’Europa esso si tramutò nel Rococò, ma non in Sicilia. Non più controllata dall’Austria, la Sicilia, dal 1735 fu ufficialmente denominata Regno di Sicilia, era gover- nata dal Re di Napoli, Ferdinando IV. A seguito di ciò Palermo fu in assiduo contatto con la capitale maggio- re, Napoli, dove aveva luogo una crescente conversione ai più classici stili architettonici. In combinazione con

79 ciò, molti dei nobili siciliani più acculturati svilupparono la moda di una infatuazione per le cose francesi, dalla filosofia alle arti, moda e architettura. Molti di loro visitarono Parigi rincorrendo tali interessi e tornarono con le ultime stampe architettoniche e gli ultimi trattati teoretici. L’architetto francese Léon Dufourny fu in Sicilia tra il 1787 e il 1794 per studiare e analizzare gli antichi templi Greci sull’isola. Così i siciliani riscoprirono il loro antico passato, che con i suoi idiomi classici era adesso al vertice della moda. Il cambiamento dei gusti non avvenne da un giorno all’altro. Il Barocco rimase popolare sull’isola, ma ora i balconi siciliani, stravaganti come non mai, sarebbero stati rim- piazzati da severe colonne classiche. Dufourny iniziò a progettare a Palermo e il suo Tempio, all’Ingresso (1798) del Giardino Botanico fu il primo edificio in Sicilia in uno stile basato sull’ordine dorico greco. Si tratta di architettura neoclassica pura, come definita in Inghilterra dal 1760, ed era un segno delle novità a venire. Era grande amico e collega architetto di Dufourny, Giuseppe Marvuglia che doveva presiedere al graduale declino del Barocco siciliano. Nel 1784 progettò il Palazzo Riso-Belmonte a Palermo, il più bell’esempio di questo periodo di transizione architettonica, che combinava sia motivi Barocchi che Palladiani, costruito attorno ad un cortile porticato che creava le masse barocche di luce e ombra. La facciata principale, ospitante enormi pilastri, aveva anche elementi barocchi, ma il profilo era lineare. I pilastri erano privi di decorazione, semplici, d’ordine ionico e sorreggevano una trabeazione disadorna. Al di sopra delle finestre si trovavano lineari frontoni classici. Un’altra ragione per il graduale declino dello sviluppo del Barocco e delle costruzioni in genere fu che il denaro stava terminando. Durante il XVII secolo l’aristocrazia viveva principalmente delle proprietà terriere, curandole e migliorandole, e come risultato il loro reddito era prevalentemente speso là. Durante il XVIII secolo la nobiltà migrò gradualmente verso le città, in particolare Palermo, per godere dei piaceri sociali della corte del Viceré e Catania. Gli intendenti lasciati a governare le proprietà, nel tempo divennero sempre meno efficienti, o corrotti, spes- so entrambi. Come conseguenza i ricavi dell’aristocrazia precipitarono. L’aristocrazia ricorse al credito uti- lizzando le proprietà come garanzie ipotecarie, finché il valore delle proprietà abbandonate scese al di sotto dell’importo dei prestiti che garantivano. In più la Sicilia diventava ormai politicamente instabile quanto l’a- ristocrazia lo era economicamente. Controllata da Napoli dal fiacco Ferdinando VI e dalla sua moglie esu- berante, la Sicilia aveva intrapreso la via del declino ben prima che le battaglie contro la Francia napoleonica nel 1798 e 1806 costringessero due volte il Re a fuggire da Napoli in Sicilia. I Francesi furono tenuti alla larga dalla Sicilia solo in forza di una spedizione di 17.000 soldati britannici, e in effetti la Sicilia era ormai controllata de facto dal Regno Unito. A quel punto il Re Ferdinando impose le prime nuove tasse, alienandosi di colpo l’intera aristocrazia. La tassa fu revocata nel 1812 dai britannici, che a quel punto imposero una forma di governo di stampo britannico sull’isola. Una innovazione legale di particolare gravità per l’aristocrazia fu che i creditori, che in precedenza potevano solo pretendere un pagamento di interessi su un prestito, adesso potevano requisire la proprietà a garanzia. La proprietà cominciò a passare di mano e ad essere suddivisa alle aste, e di conseguenza la borghesia possidente iniziò a fiorire. Le rivolte contro i Borboni nel 1821 e nel 1848 divisero la nobiltà, e facevano presagire le fortune del liberalismo. Questi fattori, abbinati all’agitazione sociale e politica del seguente Risorgimento nel XIX secolo, significarono la condanna dell’aristocrazia siciliana. Inoltre per aver trascurato e abbandonato i principi del noblesse oblige, un elemento essenziale del sistema feudale, la campagna finì presto in mano a briganti e banditi, e le ville di campagna, un tempo sontuose, decaddero. La mania di edificare della classe do- minante terminava definitivamente.

80 Comunque l’influenza britannica in Sicilia era destinata a fornire al Barocco siciliano un’ultima vampata di vitalità. Giuseppe Marvuglia, riconoscendo che la nuova moda britannica prendeva sempre più piede, svilup- pò lo stile che aveva prima cautamente adottato a Palazzo Riso-Belmonte nel 1784, combinando alcuni dei più lineari e solidi elementi del Barocco con motivi palladiani e non con progetti palladiani organici. Il tardo Barocco siciliano somigliava al Barocco popolare nel Regno Unito all’inizio del XVII secolo, reso popolare da Sir John Vanbrugh con un edificio come Blenheim Palace. Un esempio di ciò è la palermitana Chiesa di San Francesco di Sales del Marvuglia, quasi inglese nella sua interpretazione del Barocco. Comunque, questo fu un ultimo bagliore e il Neoclassico presto predominò del tutto. Pochi aristocratici potevano permettersi di costruire, e il nuovo stile era principalmente utilizzato in edifici pubblici e civili come l’Orto Botanico di Paler- mo. Gli architetti siciliani, compreso Andrea Giganti, un tempo un architetto Barocco capace, cominciarono a progettare nello stile Neoclassico nella versione alla moda adottata dalla Francia. La Villa Galletti di Giganti a Bagheria è chiaramente ispirata al lavoro di Ange-Jacques Gabriel. Come per i primi giorni del Barocco si- ciliano, i primi edifici della nuova era neoclassica furono spesso copie o ibridi dei due stili. Palazzo Ducezio a Noto fu iniziato nel 1746, e il pianterreno con portici che creano un gioco di luce e ombra è puro Barocco. Comunque, quando pochi anni dopo il piano superiore fu aggiunto, l’influenza francese neoclassica si fece pronunciata, sottolineata dall’arcata centrale. Così il Barocco siciliano veniva gradualmente e lentamente sop- piantato dal neoclassicismo francese. La maggioranza dei palazzi barocchi fu di proprietà privata fino a tutto il XIX secolo, perché la vecchia ari- stocrazia perveniva tramite l’istituzione del matrimonio ai fondi della borghesia o si indebitava fino alla li- quidazione. Ci furono poche famiglie a fare eccezione, le quali conservano tuttora i palazzi aviti. Grazie alla continua devozione religiosa della popolazione siciliana molte delle chiese del Barocco siciliano sono ancora oggi destinate all’antica funzione per la quale furono progettate. In ogni caso la colpa della decadenza e dello stato rovinoso di preservazione di così tanti palazzi non può ricadere solo su proprietari riottosi ad accettare il cambiamento, ma anche all’agenda politica dei successivi governi. Alcune delle più belle ville e palazzi, incluso il palazzo palermitano del Principe di Lampedusa, sono tuttora in rovina sin dai bombardamenti statunitensi del 1943. Ben pochi sono stati i tentativi per ripristinarli o metterli in salvo. Quelli che sopravvissero ai raid aerei in buono stato sono spesso suddivisi in uffici o appartamenti, e gli interni sono stati smantellati, divisi, venduti. I membri rimanenti dell’aristocrazia siciliana che tuttora abitano i palazzi di famiglia si sono trattenuti da lusinghe turistiche come riempire i propri giardini con animali esotici. I restanti Principi, Marchesi e Conti di Sicilia hanno preferito vivere in un dorato isolamento, circondati spesso da un misto di bellezza e decadenza. Questo non per disprezzo delle masse o indifferenza al loro retroterra, più per una forma di barricamento. Per anni sono stati assoggettati a tasse dotate di connotazioni punitive; è solo oggi che i siciliani stanno prenden- do atto della possibilità che, se non agiscono in fretta, potrebbe essere troppo tardi per salvare questa parte dell’eredità culturale siciliana.

"In Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio". Enrico Prezzolini

81 Napoleone in Italia (1796-1815) "Gli uomini di genio sono destinati a bruciare per illuminare il loro secolo". Napoleone Bonaparte Lo scoppio della Rivoluzione francese aveva trovato in Italia numerosi sostenitori, specialmente tra i ceti borghesi, che avevano aderito con entusiasmo alle idee rivoluzionarie. Negli anni successivi, però, la campagna antireligiosa e il Terrore, avevano provocato un diffuso sentimento antifrancese nel popolo. In questo quadro si inserisce la discesa di Napoleone Bonaparte in Italia. Nel 1796 Napoleone batté i Piemontesi e gli Austriaci e conquistò la Lombardia in una guerra-lampo, costituendo prima la Repubblica Giacobina di Alba, e poi entrando a Milano, a Massa ed a Carrara e stipulando dei trattati con i duchi di Parma e Modena. Nel novembre del 1796, Napoleone proclamò la Repubblica Transpadana (Lombardia), e l’anno successivo anche la Repubblica Cispadana (Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia), e adottò il tricolore come bandiera. Successivamente, con una serie di campagne vincenti, estese il suo dominio anche su Mantova e sul territorio di Venezia, che divenne la Repubblica Veneta e nel 1797, fondò la Repubblica Cisalpina, che assorbì anche la Repubblica Cispadana. Nonostante la Pace di Campoformio del 13 giugno 1797 lo avesse costretto a cedere il Veneto all’Austria, nell’inverno successivo le truppe napoleoniche riuscirono ad entrare a Roma e, proclamando la Repubblica Romana, costrinsero il papa a rifugiarsi in Toscana. Infine, nel gennaio del 1799 le truppe francesi entrarono anche a Napoli e proclamarono la Repubblica Partenopea. La controffensiva austriaca si fece sentire prontamente. I Francesi furono costretti a ritirarsi da alcuni presidi in Lombardia, e Ferdinando IV di Borbone inviò le sue truppe alla riconquista di Napoli. A quest’esercito della Santa Sede si unirono anche alcuni fuorilegge, tipo Fra Diavolo, ed i contadini, mentre gli Inglesi appoggiavano la spedizione con la loro flotta. La Repubblica Partenopea capitolò a giugno dello stesso anno, e ad agosto, in seguito alla battaglia di Novi, crollò la dominazione francese. Negli anni successivi, però, Napoleone, dopo aver vinto altre battaglie decisive, si impegnò a dare un nuovo assetto territoriale all’Italia. Nel mese di giugno del 1800, venne proclamata la seconda Repubblica Cisalpina, ed in seguito anche la Repubblica di Genova, il Piemonte e il ducato di Parma passarono alla Francia. Nel dicembre del 1801 un’assemblea di notabili deliberò la nascita della Repubblica Italiana, con capitale Milano e presidente Napoleone. Ma Napoleone non si fermò; quattro anni dopo assunse il titolo di Re d’Italia ed il 26 maggio del 1805 venne incoronato con la corona ferrea. Il territorio a lui sottomesso continuava ad allargarsi, annettendo anche il Regno Veneto, la Dalmazia, la Repubblica Ligure ed infine la Toscana. Nel 1806 Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, fu nominato Re di Napoli, e l’anno successivo vennero conquistate anche le Marche, il Lazio e l’Umbria. Restano fuori dal dominio solo la Sicilia, sotto i Borboni, e la Sardegna, territorio dei Savoia. Il dominio napoleonico non era però destinato a durare a lungo. Dieci anni dopo, la controffensiva austriaca toglieva Milano e ai Francesi e causava il crollo del Regno nel 1815, lasciando l’Italia depredata di un’enorme quantità di opere d’arte, anche se molto fu fatto per i cimiteri grazie al moderno Editto di Saint Claude.

I Cimiteri Monumentali Italiani dopo l’Editto Di Saint Claude

Luoghi di sepoltura e memoria, i cimiteri monumentali fanno parte di quelle opere che gli uomini innalzano a Dio e con i quali celebrano la vita terrena dei propri cari. Per la stretta connessione che hanno con la morte, sono spesso considerati posti cupi e lugubri ma, al pari delle chiese, racchiudono al loro interno esemplari

82 forme d’arte legate al ricordo e alla nostalgia che meritano di essere scoperte. Come parchi placidi e silenziosi, i cimiteri hanno sempre esercitato un fascino particolare. Poeti e letterati per primi li privilegiavano quali luoghi di contemplazione in cui cercare, e trovare, l’ispirazione. Tra i preromantici inglesi si distinsero gli appartenenti alla cosiddetta "scuola cimiteriale". Negli scritti di Gray, MacPherson e Parnell, i cimiteri sono il pretesto da cui partono riflessioni sulla vita, la morte, il sonno, il vanificarsi di tutte le cose e la caducità dell’essere umano. In Italia questi temi e questa stessa sensibilità sono condivise da autori come Monti, Pindemonte e soprattutto Foscolo. Il carme Dei sepolcri, composto dopo l’Editto di Saint Claude emanato, appunto in epoca napoleonica che regolamentò le pratiche sepolcrali anche in Italia soprattutto per scopi igienico- sanitari, celebra la funzione dei cimiteri. Insieme alla sofferenza della perdita, alla nostalgia e al conforto che offrono, permettono di tenere sempre vivi gli insegnamenti di chi è scomparso e riaccendono passioni ed emozioni nell’animo umano.

Cimitero Monumentale del Verano (Roma) Situato sulla via Tiburtina, accanto alla Basilica di San Lorenzo fuori le mura, il Cimitero del Verano sorge ufficialmente in seguito al già citato editto Napoleonico di Saint Claude. Da sempre luogo di sepoltura, al suo interno è possibile trovare anche le catacombe di Santa Ciriaca. Progettato dall’architetto Virginio Vespignani, conserva un enorme patrimonio di opere d’arte e gruppi scultorei, a partire dalle quattro maestose statue che rendono imponente il suo ingresso: la Meditazione, la Speranza, la Carità, il Silenzio. Vi sono sepolti Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Trilussa e tra i tanti.

Certosa di Bologna Anche la Certosa di Bologna ha alle spalle una lunghissima storia. Nata come necropoli etrusca, vi sorse in seguito un monastero certosino chiuso nel 1796. Venne fondato nel 1801, conservando alcune delle strutture originarie come la chiesa di san Girolamo, nel cui interno si può ammirare la vita di Gesù Cristo dipinta dai principali pittori bolognesi del XVII secolo. Sale, portici, sculture e architettura abbracciano ogni genere artistico, dal Neoclassicismo al Liberty, dal Verismo al Romanticismo, con qualche esempio di Arte Moderna. Le vicende artistiche, storiche e intellettuali di Bologna si riflettono in questo vasto complesso, che nella sua magnificenza, nelle sue logge e negli edifici vuole replicare quila " città dei vivi". Meta privilegiata degli artisti che si trovavano di passaggio a Bologna nell’800 come Charles Dickens, Sigmund Freud. Ospita oggi le spoglie di Giorgio Morandi, , Giosuè Carducci.

Cimitero Monumentale Staglieno (Genova) Considerato uno dei cimiteri monumentali più belli ed importanti d’Europa, lo Staglieno si estende sul fianco di una collina da cui spiccano monumenti e cappelle in stile Gotico, Liberty, Neo-Egizio e Mesopotamico. A metà tra un cimitero architettonico Neoclassico, tipico dell’area mediterranea, e una galleria di monumenti naturalistici più in voga nel nord Europa. Di grande rilievo sono la statua alta nove metri dedicata alla Fede di Santo Varni, emblema della grandiosità del cimitero, la Cappella Raggio il piccolo Duomo di Milano di Luigi Rovelli e l’Angelo di Monteverde dello scultore Giulio Monteverde. Vi sono sepolti Fabrizio de André, Fernanda Pivano e Federico Sirigu.

Cimitero Monumentale Milano Inaugurato nel 1866, il Cimitero Monumentale di Milano si presenta sin dall’inizio come un vero e proprio mo- numento dedicato alla celebrazione della milanesità. Tutto, nelle sculture, nelle pitture e nell’architettura

83 stessa, ripercorre le vicende di Milano, soprattutto quelle della sua storia artistica. In linea con il gusto este- tico dell’epoca, sono tanti gli stili che si fondono l’uno all’altro: il Gotico si unisce al Romanico Lombardo e Pisano, arricchito da inserti bizantineggianti. Si possono ammirare, poi, ricche colonne, obelischi e templi greci, opere realizzate in buona parte da illustri artisti italiani, che lo hanno reso un museo a cielo aperto. Riposano qui Alessandro Manzoni, , Enzo Jannaci, Dario Fo e v di cui si ricorda questa intramon- tabile poesie che come tema ha, proprio, la morte. "Ognuno sta solo/nel cuore della Terra/trafitto da un raggio di Sole. Ed è subito sera."

Cimitero Monumentale Torino Nel corso dei secoli il Cimitero Monumentale di Torino ha cambiato più volte nome e aspetto, adattando la città stessa alle sue esigenze. Nel 1931 il corso della Dora Riparia, per esempio, che prima lo circondava, fu deviato per ridurre le infiltrazioni d’acqua. Sono tantissimi i monumenti di rilievo al suo interno come la Tomba del Grande Torino ricordo alla squadra di calcio perita nella tragedia di Superga, e il Mausoleo Tamagno dedicato al grande tenore Francesco Tamagno. Ma a renderlo un vero e proprio gioiello architettonico sono le sue arcate e i suoi 12 km di porticato. Tra i grandi che qui riposano troviamo Silvio Pellico, Fred Buscaglione e Rita Levi-Montalcini.

Lo Stile Impero Trattasi di una corrente del Neoclassicismo che interessò l’architettura, l’arredamento, le arti decorative e le arti visive del XIX secolo. Si sviluppò durante l’Età Napoleonica, al fine di celebrare nell’architettura, lo Stile Impero che si affermò tra il 1805 ed il 1814, ma rimase in auge anche nei decenni successivi. Dal punto di vista formale fu influenzato fortemente dalle costruzioni della Roma imperiale ed in parte, dopo la campagna d’Egitto, anche dalle architetture egiziane; i principali architetti che affermarono le nuove tendenze furono Charles Percier e Pierre-François-Léonard Fontaine, nominati da Napoleone Architectes des Palais du Premier et Deuxième Consuls. I due collaborarono ad esempio nella costruzione dell’Arco di Trionfo del Carrousel a Parigi tra il 1806 e il 1808, voluto dallo stesso Napoleone per commemorare le sue vittorie militari e realizzato su modello degli archi di Settimio Severo e di Costantino a Roma; un altro arco di trionfo, di forme ancora più imponenti, fu innalzato al termine degli Champs-Élysées ad opera dell’architetto Jean Chalgrin. Sempre nella capitale francese, Napoleone ordinò la costruzione del Tempio della Gloria, successivamente trasformato nella chiesa della Madeleine, un maestoso edificio nel quale vennero riprese le forme della Maison Carrée di Nîmes, ma che alcuni storici hanno giudicato come una parafrasi senza vita di un antico tempio romano. Sul fronte opposto alla facciata della Madeleine, oltre la Senna, nel 1808 fu aggiunto un grande, quanto superficialmente formale, portico al preesistente Palazzo Bourbon. L’impronta napoleonica portò anche alla trasformazione, tra il 1806 ed il 1810, di Place Vendôme, al centro della quale fu eretta una colonna in bronzo ad imitazione della Colonna Traiana di Roma: sulla cima fu collocata la statua, distrutta nel 1814, dello stesso imperatore francese nelle sembianze di Cesare. In Italia, negli anni dell’ascesa di Bonaparte, si registra ad esempio la costruzione dell’Arco della Pace a Milano, di Luigi Cagnola del 1807, il progetto di Giovanni Antonio Antolini per il Foro Bonaparte, la realizzazione della piazza del Plebiscito a Napoli, iniziata sotto Gioacchino Murat, ed infine la sistemazione di piazza del Popolo a Roma, avviata da Giuseppe Valadier. Successivamente, lo Stile Impero caratterizzò gli anni postunitari del Regno

84 d’Italia. L’ascesa al potere di Napoleone Bonaparte (1804-1814; 1815) si diffuse in gran misura nell’Europa. Così come per l’architettura, che riprende le sembianze del tempio romano, anche nell’arredamento prevalgono i temi derivati dal passato. Al gusto dell’equilibrio e delle proporzioni si aggiunsero decorazioni con motivi greci, romani, egiziani ed inoltre colonne, fregi, pilastri. Nella pittura, i principali artisti furono Jacques- Louis David e Jean Auguste Dominique Ingres. David, fin dal suo primo incontro con Napoleone, divenne un suo grande ammiratore e nel 1797, su commissione, iniziò a preparare degli studi per un suo ritratto. Le opere di David celebrarono i momenti più importanti della carriera politica di Bonaparte: Napoleone al passo del Gran San Bernardo (1800), L’incoronazione di Napoleone e Giuseppina (1805-1807) e Napoleone nel suo studio (1812) rivelano toni fortemente propagandistici esaltando Napoleone come un eroe della patria, soggetto poi ripreso dalla corrente culturale in contrapposizione, ossia il Romanticismo, tanto che, dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815, David fu costretto a rifugiarsi in Svizzera e in seguito a Bruxelles. Ingres ebbe anche lui un ruolo fondamentale nell’arte di quegli anni: rispolverò l’arte del ritratto, che, dalla seconda metà del Settecento, divenne di dominio pubblico: tutti i nobili e i cittadini facoltosi infatti, se non possedevano un loro ritratto, venivano considerati retrogradi, un po’ come ai tempi di Luigi XVI. Tra le sue opere più celebri di quel periodo troviamo Napoleone sul trono imperiale e L’apoteosi di Omero. Nella scultura è importante ricordare il nome di Antonio Canova, ritrattista ufficiale del Bonaparte: suo è il Monumento a Napoleone I, collocato a Milano presso la Pinacoteca di Brera e realizzato tra il 1807 ed il 1808. Canova ritrasse pure Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, seminuda, semisdraiata su un triclinio romano, con una mela in mano, nell’allegoria di Venere vincitrice.

Rococò e Neoclassicismo Il rococò è uno stile artistico ornamentale sviluppatosi sempre in Francia nella prima metà del Settecento quale evoluzione del tardo Barocco. Il termine deriva dal francese rocaille, un tipo di decorazione eseguita con pietre, rocce e conchiglie, utilizzate come abbellimento di padiglioni da giardino e grotte. Esso si distingue per la grande eleganza e la sfarzosità delle forme, caratterizzate da ondulazioni ramificate in riccioli e lievi arabeschi floreali, presenti soprattutto nelle decorazioni, nell’arredamento, nella moda e nella produzione di oggetti. Si pone in netto contrasto con la pesantezza e i colori più forti adottati dal precedente periodo Barocco. Lo stile tende a riprodurre il sentimento tipico della vita aristocratica libera da preoccupazioni o del romanzo leggero più apprezzato di quelli sulle battaglie eroiche o le figure religiose. In Italia lo stile tardo Barocco di Francesco Borromini e Guarino Guarini si è evoluto nel Rococò a Torino, Venezia, Napoli ed in Sicilia, mentre in Toscana e a Roma, l’arte rimase ancora fortemente legata al Barocco. Anche in Italia il Rococò, sull’esempio francese, creò un notevole rinnovamento nel settore delle decorazioni d’interni e nella pittura. Questo avvenne soprattutto nelle regioni del nord: Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, mentre, nell’Italia centrale, forse per l’influenza della Chiesa, lo stile non si sviluppò in maniera sensibile. Fa eccezione la cittadina marchigiana di Jesi che risentì di un certo influsso austriaco grazie alle imprese eroiche della famiglia dei marchesi Pianetti al servizio degli Asburgo nell’Assedio di Vienna contro i Turchi. Altro discorso ancora va fatto per la Sicilia; qui si sviluppò una evoluzione del barocco ma di gusto più spagnoleggiante e molto simile al plateresco.

85 I massimi interpreti del Rococò nell’architettura sono , che lavorò molto a Torino, come architetto di Casa Savoia, Luigi Vanvitelli, che lavorò per i Borboni di Napoli. Tra le più importanti realizzazioni di Filippo Juvarra si ricordano: la Palazzina di caccia a Stupinigi, la Reggia di Venaria Reale, la basilica di Superga e il Palazzo Madama a Torino. Nel campo della pittura i maggiori interpreti del Rococò si possono considerare gli artisti che operano a Venezia; tra di essi le figure più importanti si possono considerare : Giambattista Tiepolo, Canaletto, Francesco Guardi . Altri artisti importanti anche se scoperti successivamente sono Giovanni Battista Piazzetta e Sebastiano Ricci. Nel settore della scultura, per la verità assai povero in questo periodo, si distingue Giacomo Serpotta che, soprattutto a Palermo, realizzò opere per diverse chiese della città fra le quali si possono citare gli Oratori di Santa Cita, di San Lorenzo e del Rosario a San Domenico e la Chiesa di San Francesco d’Assisi. Anche alcuni scultori che realizzarono fontane a Roma e nella Reggia di Caserta possono essere considerati ispirati allo stile Rococò. A fine secolo, il Rococò fu, a sua volta, rimpiazzato dallo stile Neoclassico. Tendenza culturale sviluppatasi in Europa tra il XVIII e il XIX secolo. Nato come reazione al tardo Barocco e al Rococò e ispiratosi all’Arte Antica, in particolar modo quella greco-romana, fu variamente caratterizzato, ma ben riconoscibile nelle varie arti, nella letteratura, in campo teatrale, musicale e nell’architettura. La sua teorizzazione prese vita a Roma con gli scritti dell’archeologo e storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann e del pittore e Storico dell’Arte Anton Raphael Mengs. La costituzione di tale modello si ebbe soprattutto grazie alla scoperta, per volere del re di Napoli, Carlo III di Borbone, delle antiche città di Ercolano e Pompei e all’affermazione dell’Archeologia come scienza. Nell’architettura e nelle arti visive, il primo movimento in cui si individua un’aspirazione neoclassica è quello dello stile Neo-attico che fu distinto dall’Archeologo e Storico dell’Arte Friedrich Hauser; nel 1889 nella sua pubblicazione La scultura Neoattica, Hauser conia questo termine per identificare una reazione contro le stravaganze barocche dell’Arte Ellenistica. Un’importanza sempre maggiore, in questi anni, viene assunta dal problema urbanistico, in relazione alla crescita delle città. Anche l’architettura degli edifici di Napoli rifletté ampiamente l’influenza esercitata dalle scoperte archeologiche. L’esempio più conosciuto a tal proposito è la basilica di San Francesco di Paola, considerata la più importante di chiesa neoclassica italiana. Anche le antiche pitture greche erano perdute, ma l’immaginazione dei neoclassicisti settecenteschi la riportò in vita sia attraverso l’esempio della generazione di Raffaello ispiratasi alle grotte affrescate nella Domus Aurea di Nerone, sia con la riscoperta di Nicolas Poussin e dei contemporanei scavi di Pompei. Il Neoclassicismo si diffuse in Francia grazie alla generazione di artisti che si recavano in Italia per studiare dal vero i reperti antichi, oltre alla pubblicazione di importanti scritti come la Storia dell’arte antica di Johann Joachim Winckelmann. Il Neoclassicismo ebbe un marcato significato politico. Le memorie romane, il consolato, i simboli gloriosi delle aquile imperiali sui labari delle legioni, il titolo di Re di Roma attribuito da Napoleone al figlio, gli archi di trionfo innalzati in onore di Bonaparte, rappresentarono agli occhi della borghesia francese, ormai padrona dell’Europa, e lanciata in un’inarrestabile politica imperialistica, il segno della potenza e della gloria raggiunta dopo secoli di sottomissione. Tutto il repertorio mitologico classico fu ripreso da letterati ed artisti; i primi fecero rivivere personaggi ed episodi della vita contemporanea in chiave mitologica, mentre i secondi dipingevano e scolpivano Napoleone nelle vesti di Giove olimpico o di un celebre ed invitto eroe della

86 Grecia classica. Avvicinare l’arte alla natura, per l’artista neoclassico, non significa riprodurre la realtà in modo naturalistico, ma estrarne l’essenza, l’atteggiamento psicologico e mentale tipico dell’artista dell’Età Classica, dunque, si privilegiava l’imitazione dell’arte alla sterile copia. Nelle vedute romane di Piranesi si nota, maggiormente, lo spirito della Roma antica. I tesori scoperti ad Ercolano mostrarono che anche i più classici interni romani o le stanze romane di William Kent erano basati sulla struttura architettonica esterna del tempio e della basilica. Questo lo si può notare dalle dorature negli specchi dei frontoni delle finestre. Per quanto riguarda gli interni, il Neoclassicismo scoprì il gusto per l’autentico arredamento classico, sulla scia delle scoperte effettuate a Pompei ed Ercolano, scavi iniziati verso la fine del decennio del 1740 ma la cui eco aveva raggiunto il grande pubblico solo nei decenni successivi, grazie anche alla pubblicazione dei primi lussuosi volumi della monumentale opera Le Antichità di Ercolano del Bayard. Le illustrazioni mostravano come anche gli interni più classicheggianti di epoca Barocca, o come tra le più Romane stanze realizzate da William Kent fossero basate sullo stile architettonico degli esterni di basiliche e templi, il che si traduceva in cornici delle finestre munite di frontone, specchi dalle cornici dorate e caminetti sormontati da simil-frontali come quelli dei templi, tutte cose che ora sembrano eccessivamente pompose e piuttosto assurde. Il nuovo stile cercò di ricreare invece un vocabolario architettonico autenticamente Romano, servendosi di motivi decorativi più piatti e meno pesanti, come fregi scolpiti a bassorilievo o dipinti in monocromia come dei piccoli quadretti, che rappresentavano medaglioni, vasi, busti, bucrani o altri motivi appesi a nastri o rami d’alloro, con snelli arabeschi come sfondo, realizzati in rosso pompeiano o altre tinte pastello, oppure con colori che imitavano quello delle pietre naturali. Questa moda, in Francia, chiamata goût Grèc, fu inizialmente appannaggio dei cittadini di Parigi, ma non fu accettata a corte; solo quando il paffuto giovane Re salì al trono nel 1774 permise a sua moglie Maria Antonietta, seguace delle mode, di introdurre lo stile Luigi XVI nei palazzi reali, ma soprattutto nel suo Petit Trianon. A partire dal 1800 l’apprezzamento per i modelli architettonici greci, diffusi per mezzo di stampe e incisioni, diede un nuovo impulso al movimento Neoclassico, chiamato Revival Greco. Il Neoclassicismo continuò ad essere uno dei principali movimenti artistici per tutto il XIX secolo ed oltre, in costante contrapposizione con il Romanticismo e il movimento Neogotico, anche se a partire dalla fine del XIX secolo è stato spesso considerato uno stile antimoderno o addirittura reazionario da importanti circoli di critici d’arte. Dalla metà del XIX secolo in avanti diverse città europee, in particolare San Pietroburgo e Monaco, furono sostanzialmente trasformate in veri musei dell’architettura neoclassica. Nell’architettura statunitense, il Neoclassicismo fu una delle espressioni del movimento dell’American Renaissance che si espresse nel 1890-1917 circa; la sua ultima manifestazione si ebbe nell’Architettura Beaux-Arts, i cui ultimi grandi progetti pubblici furono il Lincoln Memorial, molto criticato all’epoca della costruzione, la National Gallery of Art di Washington e il Roosevelt Memorial presso l’American Museum of Natural History di New York. Con queste opere, lo stile si era già avviato verso il declino e il progetto di città monumentale ideato per Nuova Delhi da Sir Edwin Lutyens rappresentò il glorioso viale del tramonto del Neoclassicismo: ben presto la Seconda Guerra Mondiale distrusse tutte le illusioni. Nel frattempo, architetti modernisti moderati come Auguste Perret in Francia, mantennero i ritmi e le proporzioni dell’architettura colonnare persino nella costruzione di edifici industriali. Lì dove un colonnato sarebbe stato additato come reazionario, una serie di pannelli scanalati simili a pilastri sotto ad una fascia ornamentale ripetitiva apparivano come progressisti. Pablo Picasso fece alcuni esperimenti con motivi classicheggianti negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra

87 Mondiale e lo stile Art déco, che ebbe il suo picco con l’Exposition des Arts Décoratifs di Parigi nel 1925; spesso CI si ispirò a motivi neoclassici senza però mostrarlo in maniera evidente. Vari ne sono gli esempi: i severi e robusti cassettoni di Émile-Jacques Ruhlmann o di Sue et Mare, i vestiti alla moda drappeggiati a ricordare le linee greche, la danza artistica di Isadora Duncan, gli uffici postali e i tribunali statunitensi costruiti in stile Streamline Moderno, non più tardi degli anni Cinquanta. Temi di tipo Neoclassico si possono trovare anche nella Smith Tower di Seattle. In Francia, il Neoclassicismo è tipico del teatro di Jean Racine, con i suoi versi bilanciati, limitatezza nelle emozioni, rifinimento nell’espressione, senza eccessi, la sua consistenza artistica, così che il tono tragico non era compensato da momenti di realismo o humor, come avviene in Shakespeare, e la sua aderenza formale alle unità classiche riprese dalla Poetica di Aristotele. In Italia i più importanti esponenti della letteratura Neoclassica furono Ludovico Savioli, Giuseppe Parini, Vincenzo Monti, Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo. Nel 1786, lo scrittore tedesco Goethe finì il suo periodo di Sturm und Drang con il suo Viaggio in Italia, le cui esperienze sono raccolte nel volume omonimo del 1817. In seguito, egli, come il suo collega Friedrich Schiller, emulò i temi e la sensibilità della tragedia greca in opere come Ifigenia in Tauride, le Elegie romane, e il Faust. Tuttavia per quanto riguarda Goethe, e tutto il movimento dello Sturm und Drang, è necessario precisare che le caratteristiche principali e fondanti come la sregolatezza, il genio, la furia compositiva e l’apparente mancanza di freni, sono propri del Romanticismo europeo. Temi neoclassici dominano, invece, nelle opere del poeta tedesco Hölderlin. Grazie all’opera di Winckelmann si affermò questo gusto per l’antichità vista come modello di armonia di proporzioni e perfezione in cui, nei suoi scritti, definì l’Arte Greca come sublime esempio di "nobile semplicità e quieta grandezza". Il modello Neoclassico passò dalle arti figurative alla letteratura dove il gusto classicheggiante aveva imperato nella prima metà del secolo, basti pensare all’Accademia dell’Arcadia. Il poeta francese André Chénier scrisse che sopra pensieri nuovi facciamo versi antichi. Viene affermato così il valore assoluto della Bellezza come supremo ideale dell’esistenza, e identificata nell’armonia mista alla grazia, espressa attraverso la serenità che nasce dal superamento delle passioni, l’equilibrio dei sentimenti, il rapporto preciso delle proporzioni. La patria ideale diventò la Grecia Classica, sede di un comune patrimonio spirituale, terra sognata dove giungere per evadere da una realtà che spesso appariva deludente. L’amore per le libere istituzioni repubblicane romane fu spesso richiamato alla memoria da pensatori e uomini politici avversi alle monarchie assolute. Il Neoclassicismo romano ebbe un carattere giacobino ed esaltò in Francia come in Italia il senso della libertà. Vi è stato, nel XX, secolo un intero movimento artistico denominato Neoclassicismo. Esso includeva almeno la Musica, la Filosofia e la Letteratura e si è sviluppato fra la fine della Prima Guerra Mondiale e la fine della seconda. Vi è stato anche in questo periodo un Neoclassicimo semplificato in architettura, che si è opposto al Razionalismo. In Italia ciò è stato espresso dalle architetture di Marcello Piacentini. "L’unica via per diventare grandi e, se possibile insuperabili, è l’imitazione degli antichi." Questo è ciò che sosteneva Johann Winckelmann.

88 Il Regno di Sardegna La Sardegna, persa tra Europa e Africa, appartiene a nessun luogo. Appartiene a nessun luogo, non essendo mai appartenuta a nessun luogo. Alla Spagna e agli Arabi e ai Fenici, più di tutto. Ma come se non avesse mai veramente avuto un destino. Nessun fato. Lasciata fuori dal tempo e dalla storia. David Herbert Lawrence

In latino Regnum Sardiniae, Regnum Sardiniae et Corsicae fino al 1479, fu istituito nel 1297 o 1299, a seconda delle diverse fonti, da papa Bonifacio VIII in ottemperanza al Trattato di Anagni del 24 giugno 1295, sull’isola della Sardegna. Gli Aragonesi ricomposero, sotto la sovranità iberica, i territori dei Giudicati autoctoni governati da Judex, Giudici con valenza di Re: Tharros (poi detta Arborea, nell’oristanese), Torres (poi detta Gallura, nel sassarese), Ardara (poi detta Logudoro, nel nuorese) e Santa Igia, (oggi Santa Gilla, dove si trova uno dei due stagni della città, famoso per la presenza de Sa Genti Arrubia, ossia i fenicotteri rosa); in aggiunta al territorio furono annessi i possedimenti Pisani e Genovesi, dunque l’intera Cagliari. Del periodo dei Giudicati ricordiamo la Giudicessa Eleonora d’Arborea, anche a prova del fatto che in Sardegna le donne potevano governare tranquillamente, e la Carta de Logu da essa emanata, che divenne il riferimento giuridico più importante dell’isola. In quell’epoca, dopo aver fatto parte dell’Impero Romano di cui restano numerose tracce a Cagliari, come l’anfiteatro, la casa di Tigellio e l’Ipogeo denominato Grotta della vipera, si avvicendarono diverse dominazioni bizantineggianti tra cui Vandali, Arabi, Africani, come lo stesso Sant’Agostino da Ippona. Le tre chiese Paleocristiane più importanti sono San Saturnino a Cagliari, voluta dal Re Vandalo Trasamondo che diffuse il Cristianesimo in Sardegna, a croce greca sormontata da un’imponente cupola; san Giovanni a Sinis presso Cabras e sant’Antioco, nel paese omonimo. La Sardegna è inoltra ricca di chiese costruite in stile Romanico Pisano di cui la più importante è la basica della Santissima Trinità in Saccargia situata nel sassarese. Al plurisecolare periodo Aragonese e Spagnolo, e pure Catalano, si devono pregiate opere d’arte come la chiesa di Sant’Eulalia e numerose cappelle private appartenenti alle famiglie nobili come la cappella Sanjust; il luogo sacro più famoso è il Santuario di Bonaria situato su una collina, denominata all’epoca Barcelloneta e al di fuori delle mura della città, dove Alfonso, l’Aragonese, che commissionò il Santuario, si era arroccato in attesa di sconfiggere i Pisani ed espugnare il Castello. A questo periodo si devono anche le pale d’altare dei Fratelli Cavaro e del Maestro di Castelsardo entrambi di origine catalane ed iberiche; alle dominazioni spagnoleggianti dobbiamo anche manifestazioni di folclore di grande pregio come i riti della Settimana Santa, resi ancor più noti dai simulaci lignei utilizzati per le Stazioni tipiche della Passione e realizzati dallo scultore Antonio Lonis, lo stesso che realizzò la statua di Sant’Efisio martire che dal Seicento circa, dopo la scomparsa di una pestilenza di cui gli fu attribuito il miracolo, viene ogni anno portato in processione con al seguito, rappresentati di tutti i paesi della Sardegna vestiti con i loro abiti tipici. Le più importanti manifestazione artistiche civili, lasciate nel Castello dai Pisani sono, invece, le Torri di San Pancrazio e la Torre dell’Elefante, così chiamata perché ha come ornamento un elefantino d’avorio dello sculture Guantino Cavallino mentre, le torri, sono state progettate dall’architetto pisano Giovanni Capula. I Genovesi sono stati particolarmente presenti nella zona di Sant’Antioco e Carloforte come dimostra la matrice del loro dialetto e le loro abitudini culinarie; per le stesse ragioni si è certi di una massiccia presenza catalana ad Alghero. Nel 1718, dopo la cessione del plurisecolare periodo aragonese- spagnolo poi austriaco, nacque l’unione dinastica con gli Stati di terraferma e il Piemonte; spesso ci si riferì ai suoi sovrani, ai suoi abitanti e alle forze armate come sardo-piemontesi, piemontesi o semplicemente sabaudi. L’attivismo sabaudo nel corso del Risorgimento e il mantenimento delle riforme liberali introdotte nel 1848 fece sì che il Regno diventasse gradualmente il punto di riferimento di coloro che aspiravano all’unificazione della penisola italiana; nel 1861, il parlamento riunito a Torino proclamò la trasformazione dello Stato, appunto, in Regno

89 d’Italia. L’arte legata a questo periodo, si rivolge spesso alla costruzione di chiese di gusto barocchetto piemontese, privo dunque dello sfarzo di cui il Barocco è portatore, come la chiesa di Sant’Efisio e il Palazzo di città, l’ex- municipio recentemente ristrutturato. La chiesa più prestigiosa, puramente barocca e dai mami sfarzosi, costruita dai Gesuiti, è la chiesa di San Michele Arcangelo a Cagliari, rimasta intatta anche durante i bombardamenti poiché adiacente all’ospedale militare omonimo e in cui spiccano, nella sacrestia i dipinti del piemontese Altomonte. Nella prima metà dell’Ottocento, anche in Sardegna si afferma in campo artistico una sensibilità di stretta osservanza neoclassica che si manifesta, oltre che nelle richieste della committenza, attraverso i riferimenti simbolici, culturali e ideologici che le opere intendono comunicare. In campo plastico emergono le personalità di scultori che reinterpretano i modelli romani e canoviani. Giovanni Marghinotti, il più grande artista dell’epoca, affresca il palazzo che fu vice regio in epoca spagnola, ma che divenne Palazzo Regio con la venuta dei Savoia a Cagliari nonché la basilica di Bonaria. L’opera più importante di Giovanni Marghinotti è il ritratto di Carlo Felice munifico protettore delle Belle Arti in Sardegna. Ideata e abbozzata nel 1829, è firmata e datata 1830. L’architetto Gaetano Cima progetta invece il Cimitero Monumentale di Bonaria in cui spiccano le sculture romantico- veriste del marmista piemontese Giuseppe Sartorio che aprirà bottega e formerà gli scultori sardi all’arte cimiteriale. Al Cima si devono anche la smilitarizzazione della città che entra così nella modernità e l’originale Ospedale Civile San Giovanni di Dio, a pianta ottagonale. I monumenti pubblici sono rari e sorgono a fatica, ostacolati innanzitutto dalle carenze finanziarie dei Comuni, ma anche dal duro scontro delle idee sulla stessa forma dello Stato unitario, che vede contrapposti monarchici e repubblicani, cattolici e massoni. I committenti principali appartengono alla nuova borghesia che afferma la propria grandezza attraverso palazzi e monumenti funebri. Trattasi, particolarmente, di commercianti provenienti da diverse parti d’Italia. La qualità della vita in Sardegna è sempre ambita, nonostante la sua presunta "povertà" è un luogo in cui ci si può sentire ricchi e sono ancora in tanti a sceglierla come spazio perfetto per trascorrervi l’esistenza. "La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattro mila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso. Questa frase è di Fabrizio De André, il più grande cantautore italiano, che fece della Sardegna la sua seconda casa. Nella Letteratura Verista, si vide attribuire il Premio Nobel la scrittrice nuorese Grazia Deledda per il romanzo Canne al vento. A tutt’oggi, l’unica donna italiana ad aver ricevuto il prestigioso riconoscimento nell’ambito della scrittura.

Gli Asburgo in Italia "(A proposito della bandiera Austriaca) Il giallo e il nero. Colori esecrabili per un Italo Cor". Giovanni Berchet Col Trattato di Utrecht, la Spagna perdette i suoi possedimenti in Italia. Il ducato di Milano, il Regno di Napoli e quello di Sardegna finirono alla casa degli Asburgo mentre il Regno di Sicilia venne assegnato al duca Vittorio Amedeo II, grazie a ciò, Casa Savoia, prese il titolo di casata reale, con questo trattato iniziò la dominazione austriaca in Italia, che si protrasse fino al 1866. La situazione tra gli stati europei non era stabilizzata: Filippo V, che era riuscito a mantenere il trono spagnolo, ambiva a ricostruire la Grande Spagna, e, deciso a recuperare i territori perduti in Italia, riaccampò le pretese spagnole su Sardegna e Sicilia; conseguentemente il suo primo ministro, il Cardinal Alberoni, adottò una politica aggressiva verso gli altri paesi cofirmatari del trattato. In aggiunta a ciò Filippo V sostenne il desiderio

90 della sua consorte, Elisabetta Farnese, di ottenere ducati in Italia per i propri figli. La Spagna nel 1717-1718 prese quindi l’iniziativa occupando prima la Sardegna, in mano agli Asburgo, poi la Sicilia da poco divenuta sabauda. Come reazione l’Austria compose una quadruplice alleanza nel 1717, con Francia, Inghilterra e Paesi Bassi, che l’anno seguente conseguì una schiacciante vittoria a Capo Passero sulla flotta spagnola. La guerra si concluse con il trattato dell’Aia del 1720, che decretò lo scambio del possesso sulle isole italiane tra Asburgo e Savoia: i primi presero la Sicilia, allora più ricca rispetto all’isola sarda, e il titolo regio di Vittorio Amedeo II cambiò da Re di Sicilia a Re di Sardegna; titolo che i Savoia porteranno fino all’unificazione del Regno d’Italia. Il controllo delle dinastie straniere aumentò negli stati italiani: Elisabetta Farnese regina di Spagna, ottenne per suo figlio, il futuro Carlo III re di Spagna, i diritti dinastici dei Farnese e dei Medici, dinastie italiane in estinzione nella linea maschile, ottenendo dalle potenze europee il Ducato di Parma e Piacenza, di cui Carlo divenne duca nel 1731, e il Granducato di Toscana come principe ereditario. La Spagna negli anni successivi uscì dal suo isolamento e con la Guerra di Successione Polacca, iniziata nel 1733 e terminata 1738, riuscì a riportare sotto il suo controllo Napoli e la Sicilia. La Francia era alleata con la Spagna, anch’essa governata dai Borbone col vecchio accordo che aveva già visto uniti i rispettivi troni nel corso della precedente guerra di successione spagnola; a essi si aggiunsero i Savoia. La guerra, combattutasi prevalentemente nel sud Italia, vide la sconfitta dell’Austria, che, avendo necessità di farsi riconoscere la Prammatica Sanzione del 1713 da parte delle altre case regnanti d’Europa, tra cui i Borbone di Francia e Spagna con i quali l’Austria era in guerra, più che controbattere, subiva la guerra con la Francia. Nel 1734 con la battaglia di Bitonto, l’Austria perse i regni di Napoli e di Sicilia ove si insediarono i Borbone di Spagna: Carlo al comando delle armate spagnole li conquistò, sottraendoli alla dominazione austriaca e l’anno seguente fu incoronato re delle Due Sicilie a Palermo, nel 1738 fu riconosciuto come tale dai trattati di pace, in cambio della sua rinuncia agli stati farnesiani e medicei in favore degli Asburgo e dei Lorena. Il preliminare di pace per il riassetto dell’Italia sottoscritto tra Francia e Austria il 3 ottobre 1735, poi confermato dalla successiva Pace di Parigi nel 1739, previde l’assegnazione del Granducato di Toscana a Francesco III Stefano di Lorena, una volta scomparso Gian Gastone de’ Medici, l’ultimo rappresentante della dinastia de’ Medici, per compensare l’assegnazione della Lorena a Leszczyński. La validità della Prammatica Sanzione fu riconosciuta e Maria Teresa poté finalmente governare l’Austria senza opposizione delle altre monarchie, le veniva restituito il Ducato di Parma e Piacenza, mantenendo inoltre il porto franco di Livorno, ma cedeva a Carlo di Borbone lo Stato dei Presidi, il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia. I Savoia acquisirono le Langhe e i territori orientali del milanese venendo autorizzati, inoltre, a costruire piazzeforti nei territori appena conquistati. Tali accordi avrebbero dovuto costituire per gli Stati italiani una sistemazione definitiva e stabile nel quadro della politica di equilibrio tra tutte le maggiori potenze europee della prima metà del XVIII secolo, ma l’assetto geopolitico dell’Italia sarebbe stato nuovamente turbato nello spazio di qualche anno. Nell’ottobre 1740, morì improvvisamente, privo di figli maschi, Carlo VI d’Asburgo e salì al trono d’Austria la figlia primogenita Maria Teresa, di soli 23 anni, sposa di Francesco Stefano di Lorena. Questa ascesa provocò l’insorgere di numerosi dissensi tra le case regnanti europee che sfociarono nella cosiddetta Guerra di Successione Austriaca che si combatté anche in Italia. Nel suo corso la città di Genova venne occupata per un breve periodo dagli austriaci, nel 1746, e il malcontento dei Genovesi nei confronti degli nuovi occupanti generò una rivolta, iniziata col gesto patriottico di un ragazzino, Balilla, che lanciò un sasso contro un soldato

91 austriaco. I Genovesi riuscirono alla fine a cacciare gli Austriaci. Con il Trattato di Aquisgrana del 1748, che decretò la fine del conflitto, l’Italia subì un riassetto che rimase sostanzialmente stabile per lungo tempo, se comparato ai precedenti secoli di lotte e guerre quasi continue nel territorio italiano. L’Austria aveva ripreso il possesso del milanese e ristabilito la propria influenza sul Ducato di Modena in quanto il duca Francesco III d’Este, che aveva combattuto contro l’Austria nell’esercito spagnolo, nel 1753 combinò il matrimonio di sua nipote Maria Beatrice Ricciarda con l’Arciduca Ferdinando d’Asburgo- Lorena, terzogenito di Maria Teresa d’Austria, in cambio della garanzia imperiale sulla sopravvivenza del ducato. Il Regno di Sardegna si era espanso verso la valle padana e si era riappropriato di Nizza e della Savoia. La Spagna era stata tacitata mediante la cessione del Ducato di Parma e Piacenza a Felipe di Borbone, mentre il fratello di questi rimaneva nel pieno possesso dei regni di Napoli e della Sicilia, non rimessi in discussione dal trattato, fino al 1759, quando, alla morte del fratellastro Ferdinando VI, fu chiamato a succedergli sul trono di Spagna, passando a suo figlio Ferdinando I di Borbone i troni napoletani e siciliani. Gli unici stati italiani indipendenti e non sottoposti a controllo straniero rimasero il regno di Sardegna sabaudo, costituito dagli Stati di Terraferma e dall’isola di Sardegna, la Repubblica di Genova e la Repubblica di Venezia; queste ultime due erano in declino economico e conservavano, sia pur con modifiche avvenute nel tempo, un tipo di governo oligarchico repubblicano originario del periodo dei comuni medioevali. Inoltre vi era lo Stato Pontificio, sempre governato dal Papa, la cui nomina, tuttavia, al tempo poteva essere soggetta a veti da parte dei maggiori sovrani europei, e con un peso politico ormai ridotto rispetto al passato. Nel 1768, con il Trattato di Versailles la Repubblica di Genova cedette la Corsica alla Francia come garanzia per i debiti contratti , pari a circa due milioni di lire genovesi, verso il re di Francia Luigi XV, che aveva inviato proprie truppe sull’isola a sostegno di Genova per controllare la popolazione corsa in rivolta, la quale proseguì anche dopo il passaggio dell’isola alla Francia. Questo periodo di stabilità si concluderà sul finire del secolo a causa del coinvolgimento dell’Italia negli eventi legati alla Rivoluzione Francese e all’Età Napoleonica. Con la Restaurazione ritornarono sui loro troni gran parte dei sovrani precedenti al periodo napoleonico. Il Regno di Sardegna che durante l’invasione napoleonica era rientrato nei confini insulari, riottenne tutti gli Stati di terraferma e in più si ingrandì con l’annessione della Repubblica di Genova, mentre Lombardia, Veneto, Istria e Dalmazia andarono all’Austria. Si ricostituirono i ducati di Parma e Modena, lo Stato della Chiesa, mentre il Regno di Napoli tornò ai Borbone.

Cultura e Arte italiana in Austria Nel Friuli Venezia Giulia l’Arte Austro - Ungarica ha espresso il meglio, rivitalizzando luoghi incantevoli come l’ordinato borgo teresiano, in cui spiccano palazzi che sono capolavori architettonici, espressione dello stile Neoclassico, Liberty o Eclettico. Ma Trieste è anche la città dei castelli, quello di San Giusto, luogo d’origine della città, quello di Miramare, primo nido d’amore di Massimiliano d’Asburgo e Carlotta del Belgio. Gorizia, crocevia di culture diverse, quasi fuori dal tempo, accoglie ancora oggi i visitatori tra viali alberati e ville signorili. L’impostazione delle vie, le chiese dalle caratteristiche cupole a cipolla ricordano costantemente la sua matrice mitteleuropea. Passeggiando lungo i viali principali, corso Verdi e corso Italia, si percepisce un’atmosfera da fine Ottocento che porta a definire Gorizia la Nizza austriaca. Centri romani, di cui rimangono numerosi reperti di forte rilevanza archeologica di carattere provinciale, furono Vindobona a Vienna, Juvavum a Salisburgo e il porto

92 militare sul celebre fiume Danubio di Lauriacum a Lorch. Un interessante documento del basso impero già cristianizzato è offerto dagli scavi di Teurnia presso Spittal del sec. V d. C., con le fortificazioni che utilizzano frammenti dei precedenti edifici romani e due basiliche paleocristiane, di cui una con mosaico pavimentale del tipo di Aquileia. Nell’alto Medioevo inizia il predominio religioso e culturale del vescovado di Salisburgo, da cui dipendono i primi grandi conventi, come Kremsmünster sul Danubio: a esso il duca Tassilone di Baviera donò, nel 788, un calice in rame dorato intarsiato e niellato, di stile misto tra bizantino e barbarico, che è la più bella opera d’arte preromanica. Il Romanico si affermò nei secoli XI-XII: le chiese di Gurk in Carinzia, di Klosterneuburg presso Vienna e il duomo di Salisburgo fondato nel 1181 e bruciato nel 1598, che rivelano influssi del Romanico Lombardo. Si presenta però già il Westwerk, grande atrio anteriore a più piani, serrato fra torri, tipicamente germanico. Tra il sec. XI e XII Salisburgo diventa un centro dell’arte della miniatura, vicina a quella di Ratisbona per gli accenti bizantineggianti: tipiche le enormi Bibbie con scene sacre e strisce e riquadri sullo stesso foglio, precorrenti le Biblia pauperum del Trecento. Tra romaniche e gotiche sono le pitture della cappella del Vescovo nel duomo di Gurk (1220-60), derivanti iconograficamente dai mosaici di S. Marco a Venezia. A quest’epoca si va già affermando il Gotico, mentre Vienna va lentamente sostituendosi a Salisburgo come centro culturale dominante. Già nel 1181 il grande maestro limosino Nicolas de Verdun aveva creato il suo capolavoro, gli smalti con scene dei Testamenti sull’altare di Klosterneuburg, di un nervoso gioco lineare nello spazio già Protogotico. Se nella prima metà del sec. XIII la facciata di S. Stefano a Vienna è ancora romanica, nella seconda metà del secolo nasce il tipico sistema architettonico del Gotico Austriaco, diffusosi poi in Boemia e nelle terre alpine; la Hallenkirche con navate di eguale altezza separate da radi, altissimi pilastri polistili determinanti campate quadrate, reggenti complicate volte, in genere a ombrello. Ne nasce uno spazio ampio e chiaro, scandito, quasi classico, in equilibrio con il verticalismo degli altissimi sostegni e volte. Primo esempio ne è il coro di Heiligenkreuz del 1295, poi il coro del 1304-49 e le navate, costruite a partire dal 1359, di S. Stefano, culminando nel coro di Zwettl, di Meister Johann dal 1343. Anche nella scultura si compie il trapasso dal Romanico (tra lombardo e bizantineggiante) del Riesentor, il portale principale di S. Stefano della fine del sec. XIII, al Gotico schietto, di influsso francese e renano, delle dolci Madonne trecentesche, tra le quali la celebre Madonna dei facchini del 1325 in S. Stefano. Degli stessi anni sono le primissime tavole dipinte tedesche, le quattro Storie di Gesù e Maria sul retro dell’altare di Klosterneuburg, con chiari influssi senesi, punto di partenza per la scuola gotica boema. Nel Trecento, infatti, il centro culturale e artistico si sposta in Boemia. Nel primo Quattrocento l’arte austriaca si inserisce nel fitto intreccio europeo del Gotico Internazionale, attraverso scambi con l’Italia settentrionale, con gli artisti, Stefano da Zevi e Andrea Bembo; più tardi con il realismo svevo di H. Multscher. Anche il capolavoro dell’architettura Tardo-Gotica, il coro della chiesa dei Francescani a Salisburgo (1408-52) è di un bavarese, Hans Stetheimer. Tipico prodotto dell’arte quattrocentesca, soprattutto nel Tirolo, sono gli enormi altari gotici lignei, con statue dipinte e pitture su tavola, i cui maggiori rappresentanti furono H. von Judenburg, H. Multscher (altare di Vipiteno, 1456-59) e M. Pacher, il quale trasmette elementi del Rinascimento dell’Italia settentrionale come gli altari di Sankt Wolfgang presso Salisburgo, 1471-81, di Novacella, ora nell’Alte Pinakothek di Monaco. Nel primo Cinquecento, la corte dell’imperatore Massimiliano I diviene un centro rinascimentale che fonde elementi italiani e tedeschi: a Innsbruck ne sono esempio la loggetta del Goldenes Dachl, di Jorg Kolderer; il mausoleo nella chiesa di corte, con le statue bronzee degli antenati dell’imperatore.

93 Geograficamente ubicata in Austria, anche se coinvolse artisti di varia provenienza, è la cosiddetta Scuola del Danubio di Altdorfer, W. Huber, caratterizzata dal vivissimo senso della natura, mentre, indipendente si dimostra l’opera di R. Frueauf il Giovane con le tavole di Klosterneuburg. Comincia col primo Cinquecento l’assoluto predominio di generazioni di architetti italiani d’origine lombardo-ticinese: le famiglie degli Aglio e dei Carlone, attive fino al Settecento, che lavorano soprattutto in Stiria e Carinzia Villach, Graz, Klagenfurt, Spittal, ma presenti anche ai primi lavori del palazzo reale di Vienna, la Hofburg. Nel primo Seicento si ha una rinascita artistica di Salisburgo, sotto i vescovi Wolf Dietrich e Mark Sittich von Hohenems (Residenz, Neubau, Rathaus, castelli di Mirabell e Hellbrunn), culminante nella ricostruzione del duomo, negli anni 1614-28, in modi affini alla romana chiesa del Gesù di Vignola. L’architettura civile di Vienna ricalca il Barocco praghese nel Leopoldinische Trakt della Hofburg e nel palazzo Starehmberg, mentre quella sacra, specie nella chiesa di Maria Annunciata dei Serviti del 1651-70, a pianta ovale longitudinale, è legata al Barocco romano. Da questi modelli si elaborerà il grande Barocco settecentesco a opera di J. B. Fischer von Erlach, J. L. von Hildebrandt e J. Prandtauer. Fischer percorrerà tutta la strada dal borrominismo delle opere salisburghesi COME LE chiese della Trinità e del Collegio, al classicismo della chiesa di S. Carlo Borromeo a Vienna, mentre colossale e berniniano era il suo primo progetto per il nuovo palazzo imperiale di Schönbrunn, poi ridotto alle attuali dimensioni e forme, più affini a Versailles. Capolavori ormai Rococò sono i palazzi e il parco del Belvedere di Eugenio di Savoia, di Hildebrandt, e la fastosissima abbazia di Melk sul Danubio, di Prandtauer. Massimo scultore è G. R. Donner, autore della neo manieristica Donnerbrunnen (fontana dei fiumi) a Vienna. Per la pittura dominano i frescanti di educazione romana nel Seicento e poi veneziana nel Settecento, con M. Altomonte, J. M. Rottmayr, P. Troger, affiancati da italiani come padre Pozzo, A. Lanzani, C. Carlone, G. A. Pellegrini, G. Guglielmi. Il maggiore di tutti, dal fantastico cromatismo e luminismo, è F. A. Maulbertsch. L’Ottocento austriaco, più che dagli stili europei, come il Neoclassicismo della Burgtor e il Neogotico del Rathaus e della Votivskirche, è tipicamente rappresentato dalla piccola arte borghese dello stile Biedermeier, con le pitture narrative di M. von Schwind e il delicato naturalismo di G. F. Waldmüller. Riteniamo opportuno citare la seguente poesia di Giuseppe Giusti che ben spiega come gli austriaci erano percepiti dai Lombardi; la poesia è esemplare per la capacità del poeta di cogliere anche le difficoltà dello straniero, lontano dalla sua terra, e sgradito negli spazi occupati.

Sant’Ambrogio di Giuseppe Giusti

Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco per que’ pochi scherzucci di dozzina, e mi gabella per antitedesco perché metto le birbe alla berlina, o senta il caso avvenuto di fresco a me che, girellando una mattina, càpito in Sant’Ambrogio di Milano, in quello vecchio, là, fuori di mano.

M’era compagno il figlio giovinetto d’un di que’ capi un po’ pericolosi,

94 di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto ove si tratta di Promossi Sposi… Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto? Ah, intendo; il suo cervel, Dio lo riposi, in tutt’altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato.

Entro, e ti trovo un pieno di soldati, di que’ soldati settentrionali, come sarebbe Boemi e Croati, messi qui nella vigna a far da pali: difatto se ne stavano impalati, come sogliono in faccia a’ generali, co’ baffi di capecchio e con que’ musi, davanti a Dio, diritti come fusi.

Mi tenni indietro, ché piovuto in mezzo di quella maramaglia, io non lo nego d’aver provato un senso di ribrezzo, che lei non prova in grazia dell’impiego. Sentiva un’afa, un alito di lezzo: scusi, Eccellenza, mi parean di sego, in quella bella casa del Signore, fin le candele dell’altar maggiore.

Ma in quella che s’appresta il sacerdote a consacrar la mistica vivanda, di sùbita dolcezza mi percuote su, di verso l’altare, un suon di banda. Dalle trombe di guerra uscian le note come di voce che si raccomanda, d’una gente che gema in duri stenti e de’ perduti beni si rammenti.

Era un coro del Verdi; il coro a Dio là de’ Lombardi miseri assetati; quello: "0 Signore, dal tetto natio", che tanti petti ha scossi e inebriati. Qui cominciai a non esser più io e, come se que’ cosi doventati fossero gente della nostra gente, entrai nel branco involontariamente.

Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello, poi nostro, e poi suonato come va;

95 e coll’arte di mezzo, e col cervello dato all’arte, l’ubbie si buttan là. Ma cessato che fu, dentro, bel bello, io ritornava a star come la sa; quand’eccoti, per farmi un altro tiro, da quelle bocche che parean di ghiro un cantico tedesco, lento lento per l’aër sacro a Dio mosse le penne. Era preghiera, e mi parea lamento, d’un suono grave, flebile, solenne, tal che sempre nell’anima lo sento: e mi stupisco che in quelle cotenne, in que’ fantocci esotici di legno, potesse l’armonia fino a quel segno.

Sentia nell’inno la dolcezza amara de’ canti uditi da fanciullo; il core che da voce domestica gl’impara, ce li ripete i giorni del dolore: un pensier mesto della madre cara, un desiderio di pace e di amore, uno sgomento di lontano esilio, che mi faceva andare in visibilio.

E quando tacque, mi lasciò pensoso di pensieri più forti e più soavi. "Costor", dicea tra me, "re pauroso degi’italici moti e degli slavi, strappa a’ lor tetti, e qua senza riposo schiavi gli spinge per tenerci schiavi; gli spinge di Croazia e dli Boemme, come mandre a svernar nelle maremme.

A dura vita, a dura disciplina, muti, derisi, solitari stanno, strumenti ciechi d’occhiuta rapina, che lor non tocca e che forse non sanno; e quest’odio, che mai non avvicina il popolo lombardo all’alemanno, giova a chi regna dividendo e teme popoli avversi affratellati insieme.

Povera gente! lontana da’ suoi, in un paese, qui, che le vuol male,

96 chi sa che in fondo all’anima po’ poi, non mandi a quel paese il principale! Gioco che l’hanno in tasca come noi". Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale, colla su’ brava mazza di nocciolo, duro e piantato lì come un piolo.

Il Risorgimento e l’Unità d’Italia Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio. Giacomo Leopardi

Con il termine Risorgimento si intende, in storiografia, il lungo processo politico, culturale e militare che ha portato alla formazione, nella penisola italiana, di uno Stato-Nazione unitario. La parola, usata per la prima in un diverso contesto dal gesuita Saverio Bettinelli nel 1775, fu in seguito ripresa, con un riferimento più diretto al processo politico in corso, da Vittorio Alfieri, diventando sinonimo di liberazione dalle potenze straniere e unificazione politica della penisola italiana. Questo percorso, che occupa gran parte della storia d’Italia del XIX secolo, non sarebbe comprensibile senza tener presente il panorama non solo politico ma anche culturale e filosofico del periodo, in primis la diffusione dell’idea di nazione, sviluppatasi durante la Rivoluzione francese e diffusa in Italia proprio dalle truppe transalpine, discese nella penisola, a varie riprese, a partire dal 1796. Le truppe guidate dal giovane generale Bonaparte avevano infatti creato la prima Repubblica Cisalpina (comprendente però solo il centro-nord dell’Italia geografica), divenuta poi Repubblica Italiana nel 1802 e Regno d’Italia nel 1805. La parola patriota designa tutti coloro che, a vario titolo e con progetti diversi, si sono battuti per la causa italiana. L’obiettivo principale che aveva animato i patrioti, cioè l’unificazione del paese in un unico Stato, si è raggiunto il 17 marzo 1861 quando, dopo l’annessione dell’Italia centrale e del Regno delle Due Sicilie, il Regno di Sardegna diventa Regno d’Italia e dà vita ad una nuova stagione della storia nazionale. Questo non deve tuttavia indurre a considerare il Risorgimento in maniera teleologica, cioè come un percorso lineare il cui esito fosse, a priori, prevedibile nei modi e nelle forme in cui poi si è realizzato. L’unità nazionale era stata infatti l’obiettivo di varie forze politiche che avevano diverse concezioni e progetti differenti. Democratici, repubblicani, liberali, radicali e cattolici si erano affrontati, all’interno del fronte patriottico, per imporre il proprio modello di Stato nazione ed il risultato aveva inevitabilmente finito per determinare tra loro vincitori e sconfitti. È importante sottolineare come la dominazione straniera non sia la sola cosa che i patrioti combattono: la lotta strettamente nazionale è costantemente affiancata da quella costituzionale, nel più ampio quadro dell’abbattimento dell’ancien régime. Dopo aver sconfitto Napoleone nella battaglia di Lipsia nell’ottobre 1813, le potenze della Sesta Coalizione avevano convocato un congresso internazionale nel novembre dell’anno successivo per ridisegnare la carta politica d’Europa dopo lo sconvolgimento venticinquennale della Rivoluzione Francese e dell’Età Napoleonica. Il principio cardine che plasma la linea politica delle potenze vincitrici è quello della Restaurazione: si tratta cioè di riportare l’Europa indietro di venticinque anni, come se la Rivoluzione francese non fosse mai avvenuta. Riportare semplicemente i confini degli Stati a prima del 1789, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente a cancellare una rivoluzione che aveva sconvolto il continente e, soprattutto, non avrebbe potuto impedire che una cosa del genere accadesse di nuovo. Per questo il principe austriaco Klemens von Metternich, destinato a diventare uno dei principali ideologi dell’Europa post-congressuale, fa sì che l’opera di restaurazione proceda secondo due principi

97 complementari: quello di legittimità e quello di equilibrio. Il primo principio sancisce la legittimità del potere dinastico, dunque di origine divina, in antitesi alla sovranità popolare creata dalla Rivoluzione, e prevede il ritorno sui troni del continente dei monarchi che erano stati spodestati dai repubblicani o che vittoriosamente avevano combattuto contro di essi. Per evitare l’insorgere di nuovi conflitti, tuttavia, si decide di bilanciare la legittimità con l’equilibrio, facendo in modo che le grandi potenze finiscano per equivalersi militarmente e territorialmente. Questo causa la soppressione di molti Stati: ad esempio, l’antica Repubblica di Venezia, scomparsa col trattato di Campoformio nel 1797, vede i propri territori assegnati all’Impero d’Austria. In tutto il continente la necessità di bilanciare tra loro le grandi potenze fa sì che non si tenga in alcun conto la volontà delle popolazioni che risiedono nei territori interessati, cancellando il principio di nazionalità e scambiando territori come fossero merci. In realtà, nonostante la comune volontà di combattere i principi rivoluzionari, le quattro grandi potenze vincitrici sono significativamente diverse tra loro e propugnano misure di diversa intensità. Lo zar di Russia Alessandro I, rappresentato a Vienna dal principe di Nesselrode, propone la creazione della Santa Alleanza, destinata a coinvolgere l’Austria, la Prussia e la stessa Russia, massime rappresentanti rispettivamente del cattolicesimo, del protestantesimo e del cristianesimo ortodosso, per impegnarle a governare i loro popoli paternamente nell’eterna religione di Dio Salvatore, e soprattutto per coordinare le proprie forze militari in caso di nuove sollevazioni. All’alleanza aderiscono in seguito anche i re di Francia, Sardegna, Svezia e Paesi Bassi. Rifiutano invece di partecipare il Papa, a causa del peso delle potenze protestanti ed ortodosse, il sultano Ottomano, escluso ovviamente dalla natura cristiana dell’accordo, ed il re d’Inghilterra, che non avrebbe potuto sottoporre al Parlamento l’approvazione di un simile trattato. Pur essendo l’Austria una delle tre grandi protagoniste della Santa Alleanza, Metternich non vede particolarmente di buon occhio il sodalizio sospettando, non senza ragione, che esso fosse una manovra del gabinetto di San Pietroburgo per acquisire in Europa un peso maggiore ai danni di Vienna e di Londra. Per questo promuove la Quadruplice Alleanza, un secondo trattato, dai toni meno marcatamente religiosi, che consenta la partecipazione anche della monarchia britannica, in quel frangente utilissima all’Austria per bilanciare le eccessive pretese russe. Per quanto riguarda specificamente la penisola, il Congresso di Vienna determina un profondo cambiamento della sua geografia politica italiana e, in generale, sancisce il dominio della casa d’Asburgo, in forma diretta o indiretta, su gran parte dei suoi territori. Quelli della Serenissima sono uniti a quelli dell’ex Ducato di Milano per formare il Regno Lombardo-Veneto, parte integrante dell’Impero d’Austria. Come Venezia, anche la Repubblica di Genova perde definitivamente la propria indipendenza e viene annessa al Regno di Sardegna, governato da casa Savoia: benché si tratti di uno dei pochi Stati della penisola effettivamente indipendenti da potenze straniere, la dinastia restaurata dimostra subito una volontà ferocemente reazionaria e il netto rifiuto di far sopravvivere le istituzioni, ancorché più moderne ed efficienti, create durante l’occupazione francese. Nell’Italia centro-settentrionale sono ricostituiti il Ducato di Modena, quello di Parma e Piacenza e quello di Lucca, del Granducato di Toscana, che aveva acquisito anche i territori dell’ex enclave borbonica dello Stato dei Presidi. Tutte le dinastie sui troni di queste entità sono, in qualche modo, legate alla casa d’Asburgo e subiscono pesantemente l’influsso del governo di Vienna. Nell’Italia centrale è restaurato lo Stato della Chiesa, naturalmente governato dal pontefice Pio VII e, nel meridione, viene creato il Regno delle Due Sicilie, nato dalla fusione del Regno di Napoli con quello di Sicilia e affidato a Ferdinando di Borbone che diventa Ferdinando I. Sebbene il legame tra questa casa regnante e gli Asburgo sia meno diretto, le Due Sicilie dopo il Congresso di Vienna si trovano nella situazione di sostanziale protettorato dell’Austria per quanto riguarda la terra; le truppe austriache arrivate a Napoli dopo la caduta di Murat lasciano il Regno solo nel 1817, e del protettorato della Gran Bretagna per quanto riguarda i porti. Anche per quanto

98 riguarda l’Italia, il Congresso di Vienna non tiene conto delle aspirazioni delle popolazioni. La situazione è tuttavia profondamente cambiata rispetto a prima della Rivoluzione, poiché gli anni rivoluzionari e la modernizzazione delle strutture statali portata dai regni napoleonici hanno creato, soprattutto nei ceti borghesi, l’aspirazione ad una partecipazione diretta alla vita dello Stato ed all’indipendenza nazionale. L’equilibrio sancito dalle grandi potenze a Vienna è quindi immediatamente messo in discussione dai patrioti italiani in nome di una doppia lotta per l’Indipendenza e per la Costituzione. La diffusione della cultura romantica, così come le oggettive contraddizioni insite nell’ordine voluto da Metternich, fa sì che la penisola italiana non sia l’unica zona del continente protagonista di spinte anche violente sulla via del cambiamento: in Europa, durante la prima metà dell’Ottocento, si assiste a moti aventi carattere costituzionale o nazionale in Spagna, Portogallo, Francia, Germania, Grecia, Polonia e Ungheria: se a Vienna si era sperato di gettare delle solide basi per un ordine europeo duraturo, gli anni successivi dimostrano inequivocabilmente il fallimento di questo tentativo. L’adozione di una Costituzione è al centro dell’attività dei patrioti, tanto italiani quanto europei; i primi moti del Risorgimento in Spagna, Regno delle Due Sicilie e Regno di Sardegna nel 1820/1821 e in Francia, con la rivoluzione del luglio 1830, si sviluppano proprio intorno a questo tema. L’aspirazione a uno Stato costituzionale è quindi un punto unificatore dei vari progetti politici che animano il variegato mondo del patriottismo risorgimentale, il che significa che lo scacchiere politico ha una prima, fondamentale, divisione: quella tra i partigiani dell’Assolutismo, forma di Stato tipica dell’ancien régime, che prevede un potere indiviso e nelle mani del sovrano, e i patrioti nazionali, fautori dell’adozione di una Costituzione e, dunque, della divisione dei poteri. Le carte costituzionali, a parte alcuni esempi medievali come la Magna Charta Libertatum inglese del 1215, avevano assunto il ruolo di protagoniste della vita politica occidentale a partire dalla stagione rivoluzionaria degli ultimi anni del XVIII secolo. Adottata dapprima negli Stati Uniti d’America e poi, con vari cambiamenti anche molto significativi, nella Francia rivoluzionaria, una Costituzione è una legge fondamentale che prima di tutto sancisce i rapporti tra popolo e sovranità, ossia tra governati e governanti, o meglio, chi ha titolo per governare. Mentre nelle moderne costituzioni democratiche la sovranità appartiene interamente al popolo, in quelle ottocentesche essa è generalmente divisa tra esso e il sovrano: questo tuttavia significa che, a differenza dei secoli precedenti, il popolo ha diritto di partecipare alla gestione del potere. Non tutte le costituzioni, poi, sono storicamente frutto di una rivoluzione: a volte esse sono concesse dal sovrano che, viste le condizioni politiche del regno, sceglie, più o meno spontaneamente, di condividere il potere con alcuni rappresentanti dei propri sudditi: si parla in questo caso di Costituzione octroyée o ottriata, ossia ottenuta per concessione del re. È questo il caso, per esempio, dello Statuto Albertino, adottato dal Regno di Sardegna nel 1848, passato poi al Regno d’Italia e restato in vigore, anche se solo formalmente, visto lo snaturamento provocato dalla dittatura fascista, fino al 1946. La lotta per la Costituzione significa quindi lotta non solo per una generica legge fondamentale gerarchicamente superiore a tutte le altre nell’ordinamento, ma anche per il diritto di partecipare alla gestione dello Stato. Proprio per il suo ruolo nel sistema legislativo, la Costituzione è considerata superiore perfino alla volontà regia, poiché a questo punto la casa reale non si identifica più con lo Stato ma diviene uno dei suoi vari organi. I diritti dei cittadini enunciati nella carta, non solo quelli politici, ma anche quelli personali e sociali, non possono dunque essere revocati nemmeno dietro un esplicito ordine del sovrano. Nelle costituzioni ottocentesche il potere legislativo, ovvero il potere di fare le leggi attraverso un Parlamento appositamente eletto, è riservato al popolo, mentre il sovrano riserva a se stesso il potere esecutivo, cioè promulgare e far applicare le leggi stesse, e il potere giudiziario, cioè nominare i giudici e concedere la grazia. Il secondo grande obiettivo di tutto il mondo patriottico è l’unificazione della penisola italiana e la creazione di uno Stato-nazione. Da questo punto di vista l’Italia

99 arriva tardi rispetto a molti altri paesi del continente che avevano vissuto questo processo con la formazione di monarchie unitarie nel corso del Medioevo e dell’Età Moderna. I maggiori ostacoli in tal senso sono rappresentati, naturalmente, dalla presenza dell’Austria, ben decisa a mantenere la propria egemonia sulla penisola, e dai diversi monarchi degli Stati preunitari, comprensibilmente restii a cedere il loro potere in favore del nuovo Stato italiano. Il raggiungimento di tale obiettivo è stato principalmente possibile grazie all’impegno militare di casa Savoia, che nel 1848 prende decisamente la testa del movimento nazionale e che unifica il centro-nord del paese nel corso delle tre guerre d’indipendenza e favorisce l’Impresa dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi, che vale alla monarchia piemontese anche i territori del Regno delle Due Sicilie. Dal punto di vista della continuità istituzionale, dunque, il Regno d’Italia non è che un ampliamento del Regno di Sardegna. Lungi dall’essere omogeneo, il mondo dei patrioti si divide in varie correnti: ciascuna di esse elabora una diversa idea di Costituzione e, conseguentemente, un diverso progetto di Stato unitario. La prima e più importante differenza tra le possibili costituzioni è il diverso concetto di popolo e dunque di suffragio. Non solo nessuna delle costituzioni ottocentesche prevede il suffragio universale, escludendo radicalmente le donne dalla cittadinanza, ma la maggior parte di esse pone limitazioni, anche molto restrittive, di censo e di capacità. I democratici sono favorevoli a una base elettorale più ampia possibile, e spesso anche a misure economiche di redistribuzione. Per essi la creazione della nuova Italia avrebbe significato non solo la nascita di un nuovo Stato ma anche l’occasione per sperimentare un nuovo sistema politico fondato sulla partecipazione di tutti. Benché questo sistema non sia in linea di principio incompatibile con la monarchia, i democratici hanno tutti simpatie repubblicane: è il caso di Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe Garibaldi e Carlo Pisacane. Restii a collaborare con i governi degli Stati preunitari, alcuni dei democratici saranno protagonisti di numerose sommosse ed esperimenti rivoluzionari destinati tuttavia ad avere vita effimera e breve durata. A essi si oppongono, per metodo e finalità, i liberali moderati. Questi, convinti che l’obiettivo dell’unità nazionale debba essere perseguito gradualmente e tramite le riforme, sono invece favorevoli a partecipare alle iniziative dei governi e ben presto identificano in casa Savoia il centro della loro azione politica. Lo Stato che aspirano a creare si configura come una monarchia costituzionale, al cui governo i proprietari terrieri e la nascente borghesia industriale devono dare un contributo rilevante. In materia economica sono decisamente liberisti e, pur desiderando un rinnovamento che avrebbe reso più efficienti l’industria e l’agricoltura sul modello dei paesi europei più avanzati, non vogliono assolutamente mettere in discussione il modello sociale che ne è alla base né tantomeno il diritto di proprietà. A questo schieramento appartengono Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Massimo D’Azeglio e Camillo Benso conte di Cavour. Un altro fattore di divisione tra i patrioti riguarda il diverso grado di autonomia locale che essi immaginano per l’Italia futura: chi si ispira al modello classico di Stato moderno creato dalla Rivoluzione francese si definisce centralista mentre chi, rilevando le profonde differenze sociali e culturali tra le varie zone del paese rimaste divise per secoli, preferisce un’ampia libertà delle autorità locali rispetto al governo centrale si definisce federalista. Il massimo esponente di questa seconda corrente è certamente il piemontese Vincenzo Gioberti, che auspica per la penisola un futuro federale che addirittura non prevede il decadimento dei diversi sovrani messi sul trono dal Congresso di Vienna quanto piuttosto un loro accordo per un’unione federativa che avrebbe avuto come guida il pontefice. Proprio per il ruolo assegnato alla Chiesa e al Papa nei loro progetti politici, intellettuali come lo stesso Gioberti, Antonio Rosmini, Gino Capponi e Alessandro Manzoni sono detti "neoguelfi". Il fatto che il processo risorgimentale culmini con la creazione di uno Stato nazionale italiano non deve indurre a considerare il fenomeno in maniera finalistica, cioè come se l’unità d’Italia fosse nella natura delle cose e come se, soprattutto, esistesse da sempre un popolo italiano unito nel desiderio di

100 essere un unico Stato. Gli abitanti della penisola, infatti, sono ben lungi dall’essere tutti compattamente a favore della causa risorgimentale e, mentre le plebi rurali di tutti gli Stati preunitari rimangono quasi completamente indifferenti al fenomeno, molti abitanti della penisola si battono per il mantenimento delle monarchie tradizionali. Il solo fatto che gran parte degli Italiani sia profondamente legato alla fede cattolica aiuta a capire come l’atteggiamento della Chiesa, largamente sfavorevole a un’Italia costituzionale e liberale, allontani dalla causa unitaria larghissime fette della popolazione. Se quindi la storiografia tradizionale ha costantemente posto l’accento sull’italianità dei patrioti e di coloro che hanno dato la vita per l’unità, è altrettanto vero che un settore considerevole della popolazione si è battuto contro il Risorgimento che, per questa ragione, può essere considerato come una sorta di guerra civile tra coloro che aspirano ad un paese moderno e costituzionale e coloro che restano ancorati ai governi ed alla fede cementati da secoli di tradizione. In risposta alle formazioni rivoluzionarie, nascono vere e proprie società segrete reazionarie, come i calderaie i concistoriali; inoltre, intellettuali e teorici della politica come il napoletano Antonio Capece Minutolo principe di Canosa e il piemontese conte Clemente Solaro della Margarita scrivono in difesa della monarchia assoluta, contro ogni progetto di istruzione delle popolazioni ed in favore delle forme tradizionali e più conservatrici di religiosità. Benché, poi, l’Austria sia identificata come il principale avversario dei patrioti, non bisogna concepire il Risorgimento soltanto come un confronto tra italiani e austriaci. Sono italiani anche i napoletani, romani, piemontesi, modenesi, veneti… anche coloro che formano le polizie, le forze di repressione e il cospicuo esercito di delatori che denunciano i patrioti ed i loro progetti. La storiografia ha proposto numerose suddivisioni cronologiche per delimitare, sotto vari punti di vista, il Risorgimento. Le date d’inizio e fine proposte con maggior frequenza sono il 1815 e il 1860, considerando il processo come una messa in discussione dell’assetto determinato a Vienna fino al raggiungimento del principale obiettivo, uno Stato- nazione unitario, con la nascita del Regno d’Italia. La storiografia più recente, tuttavia, considera tardiva la data del 1815 preferendo inglobare nel processo al 1796, data della prima discesa dell’esercito napoleonico e, con esso, dell’idea nazionale al di qua delle Alpi. Per quanto poi riguarda la data finale, invece, si è spesso sottolineato come la proclamazione del Regno d’Italia non completi, in realtà, l’unità nazionale, poiché delle parti rilevanti della penisola sono ancora sotto dominazione straniera come il Veneto, il Trentino e il Friuli, o sotto il dominio di un potere assolutista, nel caso di Roma. Ognuna di queste suddivisioni presenta vantaggi e punti critici e potrebbe essere giustificata adottando un particolare punto di vista. Occorre tuttavia tener presente che, come ogni suddivisione cronologica, essa è essenzialmente convenzionale, e ogni significativo mutamento storico richiede tempi lunghi durante i quali elementi di novità convivono con quelli più tradizionali. È in ogni caso certo che il conseguimento di uno Stato unitario non risolve i problemi di convivenza tra popoli e ceti che si affacciano in quel momento alla modernità. Il 17 marzo 1861, come esprime bene una frase spesso attribuita al D’Azeglio ma probabilmente mai effettivamente pronunciata, "l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani". Cento anni dopo, , memore di questa frase osserverà: "Fare gl’Italiani doveva rivelarsi impresa molto più difficile che fare l’Italia. Tant’è vero che vi siamo ancora impegnati." Ma forse aveva ragione Leopardi, in sostanza la nostra vera ricchezza consiste nella ricchezza della nostra disunita diversità. La pittura con soggetti risorgimentali ricopre tutto l’arco della produzione artistica del secolo XIX iniziando con i pittori della scuola del Nazionalismo Romantico arrivando fino ai Macchiaioli.

101 L’Arte e la Cultura Risorgimentale e Post - Unitaria Fra i pittori romantici il maggiore è Francesco Hayez, autore de Il bacio e La meditazione sulla storia d’Italia densi di simbologie patriottiche. Altri pittori romantici sono Tommaso Minardi, Andrea Appiani il Giovane e Giuseppe Bertini. Notevole importanza hanno Anton Sminck van Pitloo, Giacinto Gigante e Filippo Palizzi, legati alla Scuola di Posillipo. Tipico del Risorgimento è il fenomeno dei pittori soldati che partecipano personalmente alle battaglie risorgimentali che poi rielaboreranno nei quadri. È il caso di Gerolamo e il fratello Domenico Induno. Altri artisti sono: Eleuterio Pagliano, Federico Faruffini, Michele Cammarano, il garibaldino Gioacchino Toma, Giacomo Favretto, Guglielmo Ciardi, Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Sebastiano De Albertis, Carlo Bossoli e Cesare Bartolena. Fra i Macchiaioli bisogna ricordare Giovanni Fattori, Silvestro Lega e Telemaco Signorini. Fra i divisionisti Giovanni Segantini e Giuseppe Pellizza da Volpedo, autore del Quarto Stato, allievo di Hayez, che, con quest’opera, apre il secolo XX spostando il tema sulle tematiche sociali dello Stato Unitario. Il monumento più rappresentativo dell’Unità d’Italia è il Vittoriano, da non confondersi con il Vittoriale, altrimenti detto Altare della Patria, è il simbolo dell’Unità d’Italia. Vittoriano: denominazione del monumento a Vittorio Emanuele II eretto a Roma, a fianco al Campidoglio (1885-1911) su disegno di G. Sacconi per celebrare l’Unità d’Italia. È costituito da una larga scalinata, che conduce al primo ripiano, dov’è situato l’Altare della Patria con la tomba del Milite Ignoto, la Statua di Roma al di sopra della tomba e i due altorilievi ai lati con i Cortei del lavoro e dell’Amor Patrio sono di A. Zanelli; sovrasta, al centro, la grande statua equestre, di bronzo dorato, di Vittorio Emanuele II, opera di E. Chiaradia; un ampio porticato, anch’esso ornato di statue e rilievi, corona il complesso, che, nonostante alcuni pregevoli particolari e una certa eleganza decorativa di influenza Liberty, pur riassunta in una morfologia sostanzialmente legata al gusto di fine secolo, risulta discordante, per il colore bianco del marmo botticino impiegato nella costruzione e per le sue proporzioni, con gli edifici e monumenti circostanti e con la struttura urbana dell’area in cui è stato inserito con violenza. Per far luogo al monumento furono infatti abbattuti le torri di Paolo IV, il chiostro dell’Aracoeli, numerose case del Medioevo e del Rinascimento e fu spostato e ricostruito il palazzetto Venezia. Vi ha sede l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, con il Museo centrale del Risorgimento e il relativo archivio storico. Il periodo post-unitario vedrà sorgere una quantità di sculture e busti a tutto tondo celebrativi dei grandi protagonisti dell’Italia Politica Culturale, da Mazzini a Manzoni, da Garibaldi a Giuseppe Verdi e tali nomi influenzeranno pesantemente anche la toponomastica di vie e piazze. La diffusione dell’Italiano letterario come lingua parlata è un fenomeno relativamente recente. Nella sua Storia linguistica dell’Italia unita (1963) Tullio De Mauro ha stimato che al momento dell’unificazione solo il 2,5% degli abitanti d’Italia potesse essere definito italofono. In mancanza di rilevazioni dirette, le stime di De Mauro si fondano solo su evidenze indirette e quindi molto dibattute. Secondo la stima di Arrigo Castellani, invece, nel 1861 la percentuale di persone in grado di parlare in italiano era di almeno il 10% di cui la gran parte era rappresentata dai toscani, considerati italofoni per diritto di nascita; gli italofoni per cultura erano quelli che avevano appreso la lingua grazie allo studio scolastico. A costoro andavano tuttavia aggiunti anche gli abitanti di Roma e degli altri centri dell’Italia mediana in cui si parlavano varietà linguistiche vicine al toscano. Il dibattito risorgimentale sull’esigenza di adottare una lingua comune per l’Italia, che proprio nell’Ottocento stava nascendo come nazione, aveva visto il coinvolgimento di varie personalità come Carlo Cattaneo, Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo, Francesco De Sanctis. Si deve in particolare al Manzoni l’aver elevato il fiorentino a modello

102 nazionale linguistico, con la pubblicazione nel 1842 de I promessi sposi, che sarebbe diventato il testo di riferimento della nuova prosa italiana. La sua decisione di donare una lingua comune alla nuova patria, da lui riassunta nel celebre proposito di sciacquare i panni in Arno, fu il principale contributo di Manzoni alla causa del Risorgimento. Fra le sue proposte in seno al dibattito sull’unificazione politica e sociale dell’Italia, egli sosteneva inoltre che il vocabolario fosse lo strumento più idoneo per rendere accessibile a tutti il fiorentino a livello nazionale. Con l’unificazione politica l’Italiano si diffonde anche come lingua parlata. Nel Novecento i mezzi di comunicazione di massa contribuirono con forza a questa diffusione. All’inizio del terzo millennio le indagini ISTAT mostrano che la maggior parte della popolazione italiana è in grado di esprimersi in italiano ad un buon livello. Per descrivere le caratteristiche dell’italiano parlato contemporaneo, leggermente diverso rispetto alla lingua tradizionale delle grammatiche, si fa oggi spesso riferimento alla categoria di Italiano neo-standard. È infatti importante considerare che l’Italiano è una lingua grammaticalmente instabile, ancora non del tutto assestata: importanti sollecitazioni dei parlanti prefigurano una rilevante alterazione in ambiti di primaria importanza e ciò a dispetto del fatto che, finora, l’italiano ha mostrato di appartenere ad un preciso tipo linguistico, caratterizzato, in rapporto alla Lingua Latina, da una forte conservatività. Questi fenomeni di ristrutturazione d’impianto sono forse dovuti al fatto che l’italiano è stato a lungo una lingua esclusivamente scritta: non solo si registra l’affiorare di aspetti caratteristici dei suoi dialetti, ma si avverte anche un movimento di semplificazione: le aree toccate da questa linee evolutive non sembrano essere quelle più conservative ma quelle a maggior grado di complessità, come se, una volta realizzata la sua natura di lingua parlata a livello massivo, i parlanti abbiano opposto una resistenza alle forme più intricate e percepite come innecessarie. Giovanni Nencioni scrive che questa crisi di stabilità della lingua italiana va attribuita alla "rapida e impetuosa estensione della lingua nazionale a milioni di cittadini di scarsa cultura e di permanente soggezione al sostrato dialettale". Se verso la fine del XX secolo il linguista e dialettologo Tullio Telmon poteva affermare che l’italiano era privo di una varietà standard, agli inizi del XXI secolo tale affermazione, pur rimanendo vera, va riconsiderata. In sintesi: sussiste ancora uno scarto sensibile tra un registro formale (per lo più nella lingua scritta) e un registro informale (per lo più nella lingua parlata); la standardizzazione è piuttosto manifesta sui piani dell’ortografia, della morfologia e, appena meno, della sintassi; lessico, fonologia e intonazione risentono ancora di variazioni diatopiche; è in opera una semplificazioneparadigmatica , in modo che di fronte a tutte le possibilità offerte dal sistema, gli utenti tendono ad utilizzarne solo una parte; la norma tende ad accogliere una serie di fenomeni che prima erano rigettati. Va comunque sottolineato che l’utente medio tende ad interpretare il rapporto tra norma e uso in termini piuttosto netti, come se a separarli stesse una demarcazione indiscutibile e univoca. Questa sensibilità ha determinato il successo commerciale di molte operazioni editoriali tese ad offrire all’utente un soccorso emergenziale rispetto ai dubbi grammaticali. Nell’ottica di un Italia la Rinascita, queste tipicità linguistiche locali vanno salvaguardate, studiate e considerate un valore aggiunto.

103 Quadro Storico Essenziale della Storia del Novecento e Oltre "Le brutalità del progresso si chiamano rivoluzioni. Quando sono finite, si riconosce questo: che il genere umano è stato maltrattato, ma ha camminato". Victor Hugo

"Gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre." Le parole di Winston Churchill costituiscono, probabilmente il succo delle partite perse che l’Italia ha subito in questo secolo. Ma oltre questa raffinata e sarcastica, nonché veritiera, osservazione che ci illumina sul fatto che ad essere un’opera unica sono soprattutto gli italiani, ai fini di una maggiore comprensione delle istanze storiche che hanno sensibilmente influenzato l’Arte nel Novecento, abbiamo ritenuto opportuno inserire i fatti più significativi di quello che Eric J. Hobsbawm, nel suo saggio monumentale, definisce il "Secolo Breve", e che si apre il 28 giugno 1914, data in cui l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria muore vittima di un attentato a Sarajevo da parte di un giovane anarchico serbo a cui fa seguito un ultimatum da parte della Serbia che porta allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il conflitto che si concluderà nel 1918 lasciando dietro sé 10.000.000 di morti. Nel 1919, fonda i Fasci italiani di combattimento, futuro partito del regime fascista. L’11 febbraio 1929 vengono firmati i Patti Lateranensi tra la Santa Sede (rappresentata dal cardinale Pietro Gasparri) e il Regno d’Italia (rappresentato da Benito Mussolini) sotto il pontificato di Pio XII; con gli accordi di mutuo riconoscimento viene istituito lo Stato della Città del Vaticano. Nel 1929, negli USA, l’inflazione fa crollare della borsa. Le ripercussioni hanno carattere internazionale ma negli anni Trenta, il presidente Franklin D. Roosevelt risolleva gli Stati Uniti dalla grande depressione con il New Deal, un programma economico che rimetterà in sesto le finanze americane. Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler diventa cancelliere della Germania e il 17 luglio 1936 ha inizio la Guerra civile spagnola, che vede la vittoria dei Nazionalisti e l’ascesa al potere di Francisco Franco nel 1939, la quale darà avvio alla dittatura franchista. Scoppiano la Guerra d’Etiopia e Guerra d’Eritrea ed inizia così il colonialismo italiano in Africa. Enrico Fermi e i ragazzi di via Panisperna compiono i primi studi sull’energia nucleare che porteranno al primo reattore nucleare e al successivo Progetto Manhattan. Nel 1939 scoppia la Seconda Guerra Mondiale con lo scopo di creare una razza perfetta e di sterminare gli Ebrei. La Germania, duramente provata dalle sanzioni conseguenti alla sconfitta del primo conflitto mondiale, vede in Hitler l’uomo che può realizzare gli ideali imperialistici dei tedeschi. Il 28 ottobre 1940 in Grecia è il Giorno del No, ovvero il rifiuto all’ingresso delle truppe italiane in territorio greco. Il 7 dicembre del 1941 i Giapponesi attaccano Pearl Harbor, la flotta militare statunitense: quest’episodio, segna l’entrata in guerra degli U.S.A. nella Seconda Guerra Mondiale. Il 19 aprile 1943 inizia la rivolta del ghetto di Varsavia, da parte della popolazione ebraica reclusa, contro le autorità tedesche. Il 10 luglio 1943 degli Alleati sbarcano in Sicilia, questo porterà il 25 luglio alla destituzione di Mussolini grazie soprattutto alla Resistenza operata dagli eroi Partigiani. Il 28 luglio Mussolini e la sua amante Claretta Petacci vengono uccisi dai Partigiani. Il 6 giugno 1944 avviene lo Sbarco in Normandia (o D-Day) da parte degli Alleati Americani. Il 27 gennaio 1945 è il Giorno della liberazione da parte delle truppe dell’Armata Rossa del Campo di concentramento di Auschwitz, commemorato oggi col nome Giorno della memoria. Il 25 aprile 1945 è, invece, il Giorno della Liberazione d’Italia dall’occupazione nazista e dal governo fascista. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania nazista si arrende dopo essere stata rasa al suolo, Hitler

104 si suicida e il presidente degli Stati Uniti, Truman, decide di lanciare le bombe su Hiroshima e Nagasaki, segnando la vittoria americana e russa e la spartizione dell’Europa in due blocchi attraverso la costruzione del Muro di Berlino. La separazione in blocchi sarà denominata da Churchill "la Cortina di Ferro". I gerarchi nazisti sopravvissuti verranno processati a Norimberga. Il 24 ottobre 1945 viene istituita l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), sulle ceneri della vecchia Società delle Nazioni. Il 16 novembre 1945 nasce a Londra l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO). Il 29 novembre 1945 viene fondata la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia con Josip Broz Tito. Il 27 dicembre 1945 nasce il Fondo monetario internazionale (FMI). Il 2 giugno 1946 in seguito al Referendum istituzionale del 1946, l’Italia diventa una Repubblica. Viene anche sancito il diritto di voto alle donne che voteranno per la prima volta il 12 giugno 1946, data in cui l’Italia è proclamata Repubblica con emanazione della Costituzione nel 1948. Il 1º gennaio 1948 segna l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, l’Inno Nazionale è di Goffredo Mameli. Prendono avvio nel Vicino Oriente i conflitti arabo- israeliani con la conseguente e mai conclusa Questione Palestinese. Inizia la ricostruzione post-bellica in molti paesi nel secondo dopoguerra. Le politiche del Piano Marshall sembrano essere la soluzione per risanare l’Europa. Il 7 aprile 1948 viene istituita a Ginevra l’Organizzazione Mondiale della Sanità (o OMS o WHO). Il 10 dicembre 1948 viene firmata a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il 1º ottobre 1949 viene proclamata la Repubblica Popolare Cinese con Mao Tze Tung. Nello stesso viene istituita e si riunisce per la prima volta la Knesset, il parlamento di Israele, monocamerale; nasce, anche, l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) che coinvolge i paesi del cosiddetto blocco occidentale. Col Patto di Varsavia i paesi del blocco sovietico, nel 1955, si contrappongono al blocco occidentale, NATO o Patto Atlantico del 1949. I restanti Stati confluiscono negli stati non allineati. Inizia così la Guerra Fredda. Il 25 marzo 1957 viene firmato, a Roma, il Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea (la CEE) o Trattati di Roma. Il 1º gennaio 1959 il rivoluzionario Fidel Castro, grazie a Che Guevara, prende il potere a Cuba. Il 28 maggio 1961 nasce a Londra Amnesty International, per la promozione della difesa dei Diritti Umani. L’11 settembre 1961 nasce in Svizzera il World Wide Fund For Nature o World Wildlife Fund (WWF), la più grande organizzazione mondiale per la conservazione della natura. Nel 1961 viene istituito, con sede a Roma, il Programma alimentare mondiale (World Food Programme), agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza alimentare. Nel 1962-1965, sotto la guida di papa Giovanni XXIII prima, e di papa Paolo VI poi, si svolge il Concilio Vaticano II; la Chiesa cattolica verso i tempi moderni. Il 25 maggio 1963 viene fondata l’Organizzazione dell’Unità Africana: oggi questo giorno viene commemorato con la Giornata dell’Africa. Il 22 novembre 1963 viene assassinato John Fitzgerald Kennedy, lo seguiranno Martin Luter King, Malcom x e Robert Kennedy, verosimilmente assassinati per le loro idee antirazziali. Tra 1967 e il 1974 s’impone la Dittatura dei colonnelli in Grecia mentre Nicolae Ceaușescu ascende in Romania. Il 5 gennaio 1968, con la Primavera di Praga, si apre il periodo di liberalizzazione politica contro la dominazione dell’Unione Sovietica e il Movimento del Sessantotto coinvolge tutto il mondo. Il 12 dicembre 1969 a Milano avviene la strage di Piazza Fontana a cui seguirà l’ambiguo suicidio di Giuseppe Pinelli che si butta da un balcone di una caserma dei carabinieri della città meneghina. In quegli anni si avvia la terza rivoluzione industriale dopo la ricostruzione post bellica e con essa boom economico su modello neoliberista; in Italia registra l’esplosione demografica mondiale e si avvia del processo di globalizzazione. Il mondo si suddivide in mondo occidentale o primo mondo, secondo mondo e terzo mondo. Si diffondono sempre più nella cultura di massa la cultura musicale nei suoi molteplici generi, quella teatrale e cinematografica, lo sport di massa e il turismo. Nel 1973 scoppia la Guerra del Kippur e, in Cile, con un Colpo di Stato va al potere il Colonello Augusto Pinochet uccidendo

105 Salvador Allende. Il 17 novembre 1973 in Grecia gli studenti si rivoltano contro la Dittatura dei Colonnelli. Il 25 aprile 1974 in Portogallo avviene la Rivoluzione dei Garofani, contro il regime autoritario fondato da Antonio Salazar. In Italia scoppiano gli Anni di Piombo e il Caso Moro che sarà ucciso dopo essere stato sequestrato e prigioniero delle Brigate Rosse; seguiranno i maxi processi per mafia, ndrangheta, Sacra Corona Unita, Anonima Sequestri e stragi tra gli anni Ottanta e Novanta. Il 29 luglio 1976: in Italia viene nominata la prima donna Ministro della Repubblica: Tina Anselmi, Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale. Il Golpe argentino dello stesso anno segna l’instaurazione della dittatura militare. Il cardinale polacco Karol Wojtyła diviene, nel 1978, il primo papa non italiano dopo cinque secoli. Il presidente degli Stati Uniti, Niki Carter apre gli accordi di Camp David e firma il Trattato di pace israelo-egiziano del 1979 nell’ambito dei conflitti arabo- israeliani. L’11 febbraio 1979 è la Vittoria della Rivoluzione Iraniana: l’Ayatollah Ruhollah Khomeini prende il potere in Iran. IL 20 giugno 1979 in Italia, la prima donna a ricoprire una delle cinque più alte cariche dello Stato è Nilde Iotti, Presidente della Camera dei Deputati. Sarà anche l’anno dell’attentato a Giovanni Paolo II da parte del terrorista turco Mehmet Ali Ağca. Grazie a Tim Berners-Lee e Robert Cailliau iniziano i protocolli del Web: si diffondono Internet e dei telefoni cellulari. In Unione Sovietica, il premier Michail Gorbačëv dà vita alla Perestrojka, contribuisce crollo del comunismo, e alla caduta del muro di Berlino segnando la fine della Guerra Fredda, avviando una politica di disarmo nucleare col presidente americano Ronald Reagan nonché la successiva dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il 4 giugno 1989 in Cina è il Giorno della Protesta di piazza Tienanmen, a Pechino, soppressa con diversi morti. Il 23 agosto 1989 è il Giorno della Catena Baltica: evento di protesta sulle condizioni politiche ed economiche delle tre Repubbliche baltiche (Estonia, Lituania, Lettonia), durante il periodo sovietico. Il 17 novembre 1989 nella Repubblica Ceca è il Giorno della Rivoluzione di Velluto, contro il regime comunista cecoslovacco. Il 12 giugno 1990 avviene la dichiarazione di sovranità dello Stato di Russia. Si dichiara indipendente la Slovenia, nasce il Gruppo di Visegrád, alleanza di quattro paesi (Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria), con lo scopo di rafforzare la loro cooperazione. Saddam Hussein invade il Kuwait e scoppia la Guerra del Golfo nel 1991. Il 26 febbraio dello stesso anno il Kuwait viene liberato dall’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein. Negli anni 1991-1995 a seguito delle Guerre dei Balcani si dissolve la Jugoslavia comunista di Tito. Il 7 febbraio 1992 viene firmato, nei Paesi Bassi, il Trattato di Maastricht (o Trattato dell’Unione Europea), che fissa regole politiche, economiche e sociali per l’adesione dei vari stati all’ Unione. Il 27 aprile 1994 Nelson Mandela vince le prime elezioni generali democratiche in Sudafrica, dopo la fine dell’Apartheid: giorno celebrato oggi nella Festa della libertà. Il 15 maggio 1994: nasce a Milano l’associazione umanitaria Emergency, fondata da Gino Strada. Scoppia la Rivoluzione boliviana del 1998 in Venezuela ed inizia l’ascesa di Hugo Chávez. Il 1º gennaio 1999 nasce ufficialmente l’Euro, la nuova moneta europea. Lo stesso anno segna l’ascesa al potere di Vladimir Putin in Russia. Alle soglie del XXI secolo crescono le preoccupazioni e timori per la sovrappopolazione, la fame nel mondo, i cambiamenti climatici, il problema energetico globale e il millennium bug. Ma alle porte dell’Occidente si abbatte lo spettro del terrorismo con l’attentato e conseguente crollo delle Torri Gemelle Americane ad opera di Osama Bin Laden, l’11 settembre 2001, e dei movimenti estremisti Islamici. Sarà solo il primo di una serie di sanguinosi attentati che colpiranno l’Europa senza pietà. S’inizia a pagare a caro prezzo le guerre, le depauperazioni, il sostegno allo Stato d’Israele e la Questione Palestinese, l’impoverimento dei popoli islamici, dovute a dinamiche politiche che miravano solo ad appropriarsi con poco

106 delle loro sostanze e a ad arricchire i fabbricanti d’armi. E anche l’era dei Social, della virtualità, del cyber crime. Le relazioni sociali sono sempre più affidate alle chat e le notizie, false o vere, fanno il giro del mondo in pochi minuti. I cambiamenti climatici e dell’ecosistema sono sempre più un’emergenza. Vanno a segno le parole di Carlo Rubbia: "Siamo su un treno che va a trecento chilometri all’ora, non sappiamo dove ci sta portando e, soprattutto, ci siamo accorti che non c’è il macchinista." Ed è il caso di non dimenticare nemmeno le profetiche parole dell’attore Peter Ustinov: "La guerra è il terrorismo dei ricchi e il terrorismo è la guerra dei poveri." Oggi, nel secolo XXI, viviamo la cronaca di una continua strage annunciata.

Dal Futurismo al Ventennio Fascista "Abbiate fiducia nel Progresso, perché ha sempre ragione, anche quando a torto perché è il movimento, la vita, la lotta, la speranza". Filippo Tommaso Marinetti Il Futurismo è stato un movimento artistico, culturale e musicale italiano dell’inizio del XX secolo, nonché la prima avanguardia europea. Ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in altri paesi dell’Europa, in particolare in Russia e Francia, negli Stati Uniti d’America e in Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione, dalla pittura alla scultura, alla letteratura, dalla poesia al teatro), la musica, l’architettura, la danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione ufficiale del movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti. Il Futurismo nascendo all’inizio del Novecento, in un periodo di notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell’arte e della cultura era stimolato da numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte tecnologiche e di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare completamente la percezione delle distanze e del tempo, avvicinando fra loro i continenti. Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo vento, che portava una nuova realtà: la velocità. I futuristi intendevano idealmente bruciare i musei e le biblioteche in modo da non avere più rapporti con il passato e concentrarsi così sul dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luce artificiale, si avvertiva questa nuova sensazione di futuro e velocità, sia nel tempo impiegato per produrre o arrivare ad una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione. Questo movimento nacque inizialmente in Italia e successivamente si diffuse in tutta Europa. Gino Severini racconta che quando venne in contatto con Marinetti per decidere se aderire o meno al Futurismo parlò anche con Amedeo Modigliani, che egli avrebbe voluto nel gruppo, ma il pittore declinò l’offerta.

Il Manifesto Futurista del 1909, venne pubblicato inizialmente in vari giornali italiani e, definitivamente, sul quotidiano francese Le Figaro. Filippo Tommaso Marinetti espose i principi-base del movimento. Poco tempo dopo a Milano nel febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei pittori futuristi e nell’aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della pittura futurista. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie, bollate con l’etichetta di "passatismo", tra cui figura anche il Parsifal di Wagner, che a partire dal 1914 cominciò a essere rappresentato nei teatri d’Europa. Si esaltavano inoltre il dinamismo,

107 la velocità, l’industria, il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva definita come sola igiene del mondo. La prima importante esposizione futurista si tenne a Parigi presso la galleria Bernheim-Jeune dal 5 al 24 febbraio 1912. All’inaugurazione della mostra erano presenti Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. L’accoglienza iniziale fu fredda, ma nelle settimane successive il movimento suscitò un certo interesse divenendo presto oggetto di attenzioni internazionali tanto da favorire la riproposizione della mostra anche in altre città europee come Berlino. La riconciliazione con i futuristi avvenne in seguito, grazie alla mediazione dell’amico . Nel 1913 infatti, Soffici e Papini uscendo dalla rivista La Voce decisero di fondare Lacerba appoggiando così il movimento futurista. Alla morte di Umberto Boccioni nel 1916, Carrà e Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la sede del movimento da Milano a Roma, con la conseguente nascita del secondo Futurismo. Il secondo Futurismo fu diviso in due fasi; la prima andava dal 1918, due anni dopo la morte di Umberto Boccioni, al 1928 e fu caratterizzata da un forte legame con la cultura post-cubista e costruttivista, la seconda invece, dal 1929 al 1939, fu molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente, che si concluse attraverso il cosiddetto terzo Futurismo, portando anche all’epilogo del Futurismo stesso, fecero parte molti pittori fra cui Fillia (Luigi Colombo), Enrico Prampolini, Nicolay Diulgheroff ma anche Mario Sironi, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Carlo Vittorio Testi e la moglie Fides Stagni. Se la prima fase del Futurismo fu caratterizzata da un’ideologia guerrafondaia e fanatica, in pieno contrasto con altre avanguardie, ma spesso anche anarchica, la seconda stagione ebbe un effettivo legame con il regime fascista, nel senso che abbracciò gli stilemi della comunicazione governativa dell’epoca e si valse di speciali favori. I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel panorama culturale italiano dell’epoca, comunque, costituirono quella parte del Futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all’anarchismo e al bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi ritenuti principali fu fagocitato dal fascismo. Anche se la gerarchia fascista riservò ai futuristi coevi una sottovalutazione talvolta sprezzante, l’osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del Futurismo furono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che, alcuni di questi, non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze dall’ideologia fascista. Carlo Carrà, ad esempio, abbracciò la metafisica che ebbe inizio come movimento tra il 1911 e il 1915, ad opera di Giorgio de Chirico, del fratello Alberto Savinio, di Filippo de Pisis e lo stesso Carrà. Giorgio Morandi fu un altro importante pittore metafisico. Le idee teoriche e le opere dei pittori metafisici influenzarono i surrealisti.

Nel 1910 a Milano i giovani artisti d’Italia avevano pubblicato i manifesti sulla pittura futurista. Boccioni si occupò principalmente del dinamismo plastico e sintetico e del superamento del cubismo, mentre Balla passò dallo studio delle vibrazioni luminose, ossia il Divisionismo, alla rappresentazione sintetica del moto. Nel 1912 Boccioni, Carrà e Russolo esposero a Milano le prime opere futuriste alla Mostra d’arte libera nella fabbrica Ricordi. Il Futurismo diede il meglio di sé nelle espressioni artistiche legate alla pittura, al mosaico e alla scultura, mentre le opere letterarie e teatrali, ma anche architettoniche, non ebbero la stessa immediata capacità espressiva. Le radici del fermento che portò alla declinazione del Futurismo nell’arte si possono riconoscere, artisticamente parlando, già nella Scapigliatura, corrente tipicamente milanese e borghese della seconda metà dell’Ottocento, laddove il Futurismo distoglie con disprezzo l’attenzione dalla raffinata borghesia per concentrarsi sulla rivoluzione industriale e sulle fabbriche. Dal punto di vista stilistico il Futurismo, in particolare quello boccioniano, si basa sui concetti

108 del divisionismo che però riesce ad adattare per esprimere al meglio gli amati concetti di velocità e di simultaneità: è grazie ad artisti come Giovanni Segantini e Pellizza da Volpedo che, pochi anni dopo, il futurista Umberto Boccioni poté realizzare dipinti come La città che sale. Dal punto di vista concettuale, il Futurismo non ignora i principi cubisti di scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di essi sulla tela. Cubista è senz’altro la tecnica che prevede di suddividere la superficie pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa prospettiva spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione esclusivamente spaziale, nel senso che il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone ogni aspetto, il Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione temporale, il movimento. Altrettanto interessanti sono i rapporti stilistici tra il Futurismo boccioniano e il Cubismo Orfico di Robert Delaunay. Non mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche. Equiparare, infine, la ricerca futurista dell’attimo con quella impressionista, come è stato fatto in passato, è ormai considerato profondamente errato. Se è vero infatti che gli impressionisti fecero dell’attimalità il nucleo della loro ricerca, loro scopo era fermare sulla tela un istante luminoso, unico e irripetibile; la ricerca futurista si muoveva in senso quasi opposto mirando a rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale. Come conseguenza dell’estetica della velocità; nelle opere futuriste a prevalere è l’elemento dinamico: il movimento coinvolge, infatti, l’oggetto e lo spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni, degli aeroplani, detto Aeropittura, delle masse multicolori e polifoniche e delle azioni quotidiane (del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona, della bimba che corre sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e pennellate che mettano in evidenza le spinte propulsive delle forme. La costruzione può essere composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche da pennellate lineari, intense e fluide se il moto è più armonioso. Tra gli epigoni più interessanti del Futurismo, vi è l’avanguardia russa del Raggismo e del Costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei due manifesti sulla pittura dei primi mesi del 1912. Due tra i principali esponenti del movimento pittorico, Umberto Boccioni e Giacomo Balla, furono presenti anche nella scultura. La pittura di Boccioni è stata definitasimbolica : il dipinto La città che sale del 1910, per esempio, è una chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle scene di cantiere edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa crescita dalla potenza del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si scompone per piani. Se Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico. Ancora legato a principi cubisti, non è raro che realizzi sequenze fotogrammetriche di una scena, per rendere il movimento, piuttosto che affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è il caso del posato Bambina che corre al balcone (1912). L’artista futurista più attivo nel campo della scultura è Umberto Boccioni, la cui ricerca pittorica corre sempre parallela a quella plastica.

Nel 1912, lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto tecnico della scultura futurista. Punto di arrivo di questa ricerca può essere considerato Forme uniche della continuità nello spazio, del 1913: l’immagine, applicando le dichiarazioni poetiche di Boccioni stesso, è tutt’uno con lo spazio circostante, dilatandosi, contraendosi, frammentandosi e accogliendolo in sé stessa. Anche in L’Antigrazioso o La madre, immediatamente precedenti, sono presenti parametri scultorei simili a Forme uniche nella continuità dello spazio, ma con ancora non risolti alcuni problemi di plasticità derivanti da influssi naturalistici. La tecnica del mosaico, basata sull’utilizzo di tessere ceramiche e vitree, si è prestata molto bene ad esprimere i modi ed il dinamismo intesi dall’arte futurista. Enrico Prampolini e Fillia eseguono l’importante mosaico

109 dedicato al tema delle Comunicazioni all’interno della torre del Palazzo delle Poste di La Spezia (1933). Alcuni anni più tardi Gino Severini esegue altri mosaici per le Poste di Alessandria. La tradizione musiva di Ravenna continua con mosaici futuristi di autori vari (Palazzo del Mutilato, fine anni Quaranta). Nel 1912 Antonio Sant’Elia, che divenne l’architetto più rappresentativo del movimento, era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato al movimento del cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milano era attivo Giuseppe Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande influenza sulla formazione del Sant’Elia, infatti, per esempio, molti elementi dinamici del futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di Varese. All’inizio del 1914 Sant’Elia pubblicò il Manifesto dell’Architettura futurista, dove esponeva i principi di questa corrente. Al centro dell’attenzione c’è la città, vista come simbolo della dinamicità e della modernità. Tutti i progetti creati da Sant’Elia si riferiscono a città del futuro: in contrapposizione all’architettura tradizionale, vista come inadeguata, le città idealizzate dagli architetti futuristi hanno come caratteristica fondamentale il movimento, i trasporti e le grandi strutture. I futuristi, infatti, compresero immediatamente il ruolo centrale che i trasporti avrebbero assunto successivamente nella vita delle città. Nei progetti di questo periodo si cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L’utopia futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte, un continuo cantiere in costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è impregnata di dinamicità. Anche l’utilizzo di linee ellittiche e oblique simboleggia questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei progetti futuristi, privi di una simmetria classicamente intesa. Le teorie futuriste sull’architettura erano principalmente ideologiche ed erano espressione di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a metodi formali e tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni dell’architettura e della città che saranno proprie del Movimento Moderno. A causa della guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant’Elia il movimento futurista in Italia perse il suo slancio. Dopo il 1919 l’originaria proposta futurista dei primi tempi fu raccolta dai costruttivisti russi. Il movimento Razionalista italiano cercherà di proporre gli scenari della Città Nuova delle utopie futuriste ma il regime fascista smorzerà questi tentativi privilegiando un monumentalismo legato alla tradizione classicista. Lo stesso avvenne in Unione Sovietica con il sopravvento del regime totalitario. Tra i grandi esponenti dell’architettura è da ricordare Mario Chiattone, che visse con Sant’Elia a Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando straordinarie visioni di città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e abbandonare la militanza. E infine Virgilio Marchi, che operò anche come scenografo. Al secondo Futurismo appartengono le architetture di Angiolo Mazzoni, autore di notevoli edifici postali e ferroviari, ancora oggi validamente in funzione in diverse città italiane. Per le sue possibilità espressive, anche la ceramica interessa il movimento futurista. In particolare i ceramisti dell’ISIA espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Il 7 settembre 1938 sulla Gazzetta del Popolo, a firma Filippo Tommaso Marinetti e di Tullio d’Albisola, viene pubblicato il Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica. Fin dal 1925 il centro propulsore della ceramica futurista italiana fu Albissola Marina. In campo musicale gli unici rappresentanti di rilievo furono Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo, pittore, musicista e scrittore, autore del saggio L’arte dei rumori pubblicato nel 1916, considerata da alcuni autori uno dei testi più importanti e influenti nell’estetica musicale del XX secolo. A Russolo si deve l’invenzione dell’Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in pratica la sua teoria del Rumorismo, ovvero una musica nella quale ai suoni dovevano essere sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni acustici che permettevano di controllare la dinamica e il volume.

110 Nel 1912, sulla rivista fiorentinaLacerba , comparve il Manifesto tecnico della letteratura futurista. Nel 1914 è il volume Zang Tumb Tumb miglior esempio delle futuriste Parole in libertà. I poeti futuristi si riuniranno attorno alla rivista Poesia fondata da Marinetti qualche anno prima. Nei componimenti si trova generalmente l’esaltazione del futuro e delle sensazioni forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più noti, oltre al Marinetti, sono Aldo Palazzeschi, autore della poesia La fontana malata e della celeberrima La passeggiata, e Paolo Buzzi almeno per parte della sua produzione. Anche aderì, in gioventù, al Futurismo (ricordiamo la sua poesia Sera d’estate.

Ritorno all’ordine

L’espressione rappel à l’ordre venne coniata da Cocteau alla fine della prima guerra mondiale per indicare la nuova tendenza dell’arte europea, che abbandonava gli astrattismi, i cubismi e i vortici futuristi per ritornare ad una pittura (e scultura) di tipo figurativo. Un ritorno alla figurazione che tuttavia si opponeva al Realismo ottocentesco esercitando uno stretto controllo su ogni elemento del quadro; colore, luce e forme vengono sottoposte al filtro raziocinante dell’artista, che non concede più spazio alla frammentazione visiva dell’opera: la figura, la composizione intera deve essere colta per intero al primo sguardo, in modo da offrire una lettura piana e chiara dell’immagine pittorica. A questo scopo è utile confrontare Il ritratto di Olga di Picasso del 1923 con quello di Gertrude Stein del 1905-1906, realizzato immediatamente prima dell’esplosione cubista. Nel ritratto della Stein è prevalente l’interesse per la scansione dei piani che articolano la figura, è ancora riconoscibile l’ambiente nel quale la Stein è ritratta, in un’opera che, nonostante subisca l’influenza primitivista e porti in se le prime sperimentazioni cubiste, rende l’idea di una contestualizzazione storica. Nel ritratto di Olga del ’23 si ha un ritorno alla forma perfetta, conchiusa, rappresentata in maniera tradizionale ma la purezza del modellato e del colore rende la figura come sospesa in un limbo temporale e spaziale, in un’atmosfera al contempo magica e inquietante. In questo contesto europeo nasce in Italia il gruppo del Novecento, un gruppo di sette pittori riuniti dalla critica d’arte e dal gallerista Lino Pesaro. Intorno al gruppo del Novecento, diventato nel 1926, il , per lungo tempo la critica d’arte ha creato un vuoto letterario consapevole, e spesso scritti volutamente accusatori. La motivazione principale di questo singolare caso di reticenza risiede in una lettura storica del fenomeno errata, che identificava nell’arte del gruppo un forte legame con la dittatura mussoliniana, arrivando a proporsi come arte ufficiale del regime fascista. Ripercorriamone dunque brevemente la tappe. Una prima si ha nel 1920: quattro pittori, , , Gianfranco Russolo e Mario Sironi pubblicano il manifesto contro tutti i ritorni in pittura che si oppone all’estetica promulgata dalla rivista Valori Plastici di Mauro Broglio: i quattro auspicano l’inizio di una pittura che si ispiri alla visione forte e sintetica degli artisti del Quattrocento, in particolare Masaccio e Piero della Francesca, senza tuttavia crearne delle banali copie, cercando di reinterpretare la levigatezza della forma quattrocentesca alla luce delle conquiste della pittura moderna. Nel 1922, Margherita Sarfatti convoca sette pittori, Anselmo Bucci, Drudeville, Sironi, Funi, , Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, nella galleria di Lino Pesaro per proporre loro la costituzione di un gruppo di artisti milanesi. Siamo in un periodo in cui Milano vuole riproporsi come centro dell’avanguardia artistica italiana, propulsore di tendenze innovatrici così come lo era stato ai tempi della nascita del Futurismo. Margherita Sarfatti mirava a imporsi come corifea dell’ambiente artistico milanese, pertanto aveva scelto i sette

111 pittori non tanto in base a delle caratteristiche artistiche comuni, quanto riferendosi all’alta qualità delle loro produzioni. La fisionomia del gruppo appariva in questo modo enormemente sfaccettata per la compresenza di stili e poetiche diverse. Al primo incontro ne seguono altri, durante i quali Bucci conia il nome di gruppo del Novecento. La coincidenza della fondazione del gruppo novecentista con la marcia su Roma, probabilmente lo stesso mese, come ipotizza Rossana Bossaglia, la prima Storica dell’Arte che ha ripercorso le tappe del gruppo, sebbene non renda il loro lavoro fascista, indica tuttavia la volontà della Sarfatti di sfruttare il ritorno di immagine che poteva essere offerto da un eventuale appoggio di Mussolini. IL 26 marzo 1923: il gruppo organizza la prima mostra in una sala della galleria Pesaro; Mussolini in persona interviene all’inaugurazione della mostra, pronunciando un breve discorso sull’arte contemporanea italiana, ma non associando all’arte novecentista una protezione politica. L’evento viene osannato dalla Sarfatti sulle pagine del giornale Il popolo d’Italia, che pubblica il discorso del futuro Duce. Durante la Biennale di Venezia de 1924, il gruppo, mai coeso per evidenti differenze stilistiche e politiche, espone per l’ultima volta unito, già privo però delle opere di Oppi, che ottiene una sala personale e lascia il gruppo. Alla fine della manifestazione veneziana anche Dudreville e Malerba rassegneranno le loro dimissioni. Durante la Biennale del ’24 si registra una generale tendenza verso un naturalismo non descrittivo e non impressionistico, che fa tesoro dell’esperienza metafisica. Nell’ambito della maturazione di un indirizzo artistico largamente condiviso, che tuttavia non poteva ancora essere definito un nuovo stile, la Sarfatti riunisce un nuovo gruppo, chiamando Arturo Tosi e Adolfo Wildt ad unirsi ai tre pittori rimasti del gruppo novecentista: Funi, Marussig, Sironi. Sempre nel 1926 si apre la prima mostra del Novecento Italiano, alla quale però vengono invitati anche i pittori della comunità tosco-emiliana e i veneti. La mostra, come scrive la Sarfatti, "intende convocare per disinteressate finalità di lavoro e di bellezza i migliori artisti delle nuove generazioni". Emerge dalla selezione sarfattiana una concezione contraddittoria dell’arte, elitaria e raffinata ma al contempo bisognosa della legittimazione della grandi masse. Un riconoscimento del popolo che venne confermato dalle parole di Mussolini, che per la prima volta si sbilanciò, invitando i giovani artisti a compiere un atto di fede nei confronti della patria. Un esempio chiaro dell’indirizzo artistico caldeggiato dalla Sarfatti e da Mussolini è l’opera Solitudine di Mario Sironi, ora conservata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Se finora gli eventi sembrano assecondare la visione del Novecento Italiano come un più largo e politicizzato sistema delle belle arti italiane, di cui la Sarfatti è l’indiscutibile direttrice, gli avvenimenti storici che accadono dal 1926 in poi ne minano i presupposti, facendone emergere le contraddizioni e i punti deboli. Si consolidano i sindacati fascisti delle belle arti, che stimolavano la concorrenza interna acuendo i contrasti e stimolando la nascita di gruppi regionali: il più importante di essi era composto da artisti toscani e trovava nel critico militante Farinacci, che influenzerà il giornale di critica fascista, la sua guida ufficiale per opporsi con forza al Novecento Italiano e imporsi come l’unico gruppo in grado di produrre un’arte fascista ufficialmente riconosciuta dal regime. Mentre all’estero il Novecento Italiano trovava una gran seguito e godeva di una discreta fortuna critica, testimoniata dal gran numero di mostre che si assecondarono tra il 1926 e il 1929 in Germania, Francia e Austria, in Italia, il movimento sarfattiano trovava sempre più ostacoli e sempre meno appoggi. Il timore maggiore degli avversari del Novecento era che il gruppo potesse monopolizzare la direzione delle mostre e degli eventi culturali, escludendo di fatto tutti gli artisti la cui produzione non poteva essere ricondotta in nessun modo alla teorizzazione estetica espressa dalla Sarfatti. Proprio in questo emergevano le contraddizioni: il Novecento Italiano aspirava a voler raccogliere tutta la produzione artistica del paese, secondo i canoni del purismo e del Realismo Magico sviluppatosi nel primo dopoguerra ma, al

112 tempo stesso, appoggiava la diversità delle poetiche proprio per potersi caratterizzare come un movimento ma senza esprimere una tendenza. Dunque in Italia si cerca di ridurre il Novecento ad una delle tante scuole artistiche al punto che, nella Biennale di Venezia del 1928, i novecentisti non ebbero a disposizione nemmeno una sala in cui esporre mentre all’estero si tendeva sempre più a riconoscere nelle produzioni novecentiste la maggiore tendenza dell’arte contemporanea italiana. Sul finire degli anni Venti anche l’indirizzo estetico sensibile al Realismo Magico perde il suo slancio iniziale. Tra gli artisti rimasti fedeli al gruppo sono Arturo Tosi, che aveva sempre goduto della stima della Sarfatti e che inizia proprio sullo scorgere degli anni Trenta a recuperare una pittura di tipo neoimpressionista, e Mario Sironi. Quest’ultimo, compagno di avventura della Sarfatti dal 1922, elabora parallelamente a Tosi uno stile allineato alla retorica littoria del regime mussoliniano. Nel 1932 teorizza il ritorno alla pittura murale e la sintesi delle arti, per testimoniare l’epoca del ritorno a miti grandiosi, fino a pubblicare sulle pagine de La Colonna il Manifesto della pittura murale in cui vengono enunciati i princìpi per un’arte fascista, sociale, collettiva, educatrice, ispirata ai modelli classici e alle figure arcaiche, in grado di accostare miti antichi e moderni tramite il filtro della monumentalità Si tratta, tuttavia, di un percorso personale, che non venne adottato dagli artisti del Novecento Italiano per il semplice motivo che tale movimento si era di fatto disgregato, complice l’eclissi dell’astro sarfattiano e l’azione di Giuseppe Bottai, l’allora ministro delle Belle Arti e della Cultura Fascista, che cercava di dare spazio anche agli artisti più giovani e intraprendenti. Il Novecento Italiano dunque, pur avendo cercato l’appoggio politico di Mussolini, di fatto non fu mai promotore di un’arte di regime, se non nella sola personalità di Sironi negli anni Trenta, ma nacque in un più generale contesto artistico che venne poi impoverito ed estremizzato dalle teorizzazioni fasciste.

Il secondo Novecento Italiano e le Correnti Artistiche Contemporanee "Il mondo non è stato creato una volta ma tutte le volte che è sopravvenuto un’artista speciale". Marcel Proust A differenza della prima metà del Novecento, che come tutti noi sappiamo è stata caratterizzata soprattutto da tremendi sconvolgimenti dovuti alle due grandi guerre mondiali, che hanno portato distruzione e lutti in quasi tutto il mondo, la seconda metà del XX secolo si caratterizza per un grande progresso tecnologico. Infatti l’uomo in questo periodo inizia a spostarsi, viaggiare, comunicare con altri uomini distanti anche molti migliaia di chilometri. Nei paesi più ricchi, si registra una vasta diffusione del benessere economico (il Boom degli anni 50/60), e si inizia ad uscire da quella che era considerata una vera piaga sociale, l’ignoranza; infatti le scuole cambiano e si riformano e la gente per un ritrovato orgoglio personale, inizia a frequentarle in massa, comprese quelle serali, fino a portate l’istruzione quasi a tutti. L’esistenza dell’uomo appare sempre più finalizzata quasi solo alla produzione e al consumo, aiutati molto da un utilizzo insistente della pubblicità, che diventa molto presto un elemento fondamentale nelle economie dei vari Paesi. Per quanto riguarda l’arte della seconda metà del Novecento, possiamo dire che recupera aspetti extrapittorici (collage, ready made) presenti nel primo Novecento, in particolare tra i Cubisti, Dadaisti e Surrealisti. Rispetto al passato, l’arte di questo periodo, si è internazionalizzata. Grazie ai mass-media, le esperienze artistiche non hanno più confini, e quindi possiamo dire che l’arte diventa patrimonio di tutti, mettendosi a disposizione di chiunque nel mondo abbia questa passione, sia come artista che come semplice appassionato o studioso. Ma allo stesso tempo, il fatto che non vi sono più confini tra l’arte e l’intera umanità, crea il rischio di essere trasformata in prodotto soggetto alle regole del mercato, e quindi il valore di un opera non sarà più

113 solo culturale, ma anche economico. Mentre molti artisti continuano a sviluppare le ricerche avviate nella prima metà del Novecento, dai vari movimenti che sono nati, il secondo Novecento si caratterizza soprattutto dagli artisti che rifiutano le regole della pittura accademica. Questi artisti, non vogliono avere imposizioni su come realizzare un opera d’ arte, l’ispirazione e le tecniche, devono essere libere, e soprattutto si inizierà ad usare dei materiali non tradizionali, per poter sperimentare liberamente. Con queste premesse, si avrà nell’ immediato dopoguerra lo sviluppo dell’Arte Informale, che esprime la sua critica al mondo contemporaneo abolendo le forme tradizionali e immediatamente riconoscibili. Negli anni Sessanta gli artisti riflettono sulle caratteristiche della società di massa e del consumismo, che ormai regna nei paesi più ricchi. La Pop Art si caratterizza per la grande attenzione riposta sugli oggetti e le immagini quotidiane, mentre la Op Art studia i fenomeni ottici e come i nostri occhi percepiscono i colori, lo spazio ed il movimento. Negli anni Settanta gli artisti si oppongono alla mercificazione dell’Arte, e incominciano a privilegiare l’idea all’ oggetto artistico vero e proprio, nasce così l’Arte Concettuale. Sotto l’opera Three color sentence di Joseph Kosuth del 1965. Sperimentando nuovi strumenti di comunicazione, gli artisti intervengono sui loro e con i loro corpi (Body Art) o sull’ ambiente (Land Art), oppure trasformano l’esperienza artistica in una specie di spettacolo teatrale (Performance e Happening) come Maurizio Cattelan. Negli anni Ottanta e Novanta vi è un ritorno alla pittura figurativa tradizionale. Gli artisti utilizzano di frequente un linguaggio Neoespressionista (Transavanguardia) come per esempio Mimmo Paladino. Quello che segue è l’elenco dei movimenti artistici in cui l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale sia contribuendo coi propri influssi alla loro nascita sia prendendone parte con le loro opere. Si è evitato di indicare quei movimenti tipici italiani del Primo Novecento già citati nel precedente capitolo. Si segnala solo la data d’inizio in quanto oggi è impossibile determinare la fine di un movimento.

ESPRESSIONISMO - 1905 - Movimento culturale europeo che si sviluppa soprattutto in Germania. Nel 1905 a Dresda i pittori Ernest Ludwig Kirchner ed Emil Nolde crearono un primo movimento denominato Die Brucke, che significa Il ponte. Il movimento espressionista deve essere visto come un movimento esteso, è stato definito europeo, in quanto si avvicinano anche altri artisti: , Renato Guttuso, Bruno Cassinari, Ennio Morlotti, , , Giuseppe Santomaso, Fiorenzo Tomea, Italo Valenti, Emilio Vedova Lorenzo Viani, Giacomo Manzù.

CUBISMO - 1906/1907 - Movimento pittorico dove si nega la presenza dei classici uno o due punti di fuga che regolano la prospettiva. Questo viene sostituito da una molteplicità dei punti di fuga. Il primo quadro cubista viene indicato nell’opera Les demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso (1881 - 1973). Il concetto di rappresentare gli oggetti e le figure come se venissero osservati da due o più punti di vista non è nuovo. E’ presente in tutte le forme artistiche primitive ed è tipico delle pitture egizie (secondo e terzo millennio a.C.). L’italiano che si è avvicinato maggiormente è Gino Severini.

ASTRATTISMO - 1910 - Movimento pittorico caratterizzato dalla negazione completa e totale delle regole della pittura e del disegno. I quadri astratti sono privi del carattere rappresentativo proprio della pittura. Non esprimono nulla e non rappresentano nulla. Nelle prime espressioni abbiamo macchie di colore, in certe forme di astrattismo non ci sono nemmeno quelle. Qualcuno vuole vedere nell’astrattismo una reazione ai movimenti pittorici precedenti. Il primo quadro astratto (un acquerello) è del 1910 ed è stato dipinto da Vasiliji Kandinskij (1866 - 1944).

114 FAUVISMO o MOVIMENTO FAUVES - 1910 - Movimento artistico sorto in Francia. La parola fauves significa belve, questo per indicare la violenza nel segno e nel colore presente nelle loro opere. E’ noto che la realtà è costituita da sfumature e passaggi di tono graduali. Per esempio un corpo umano passa gradualmente dalla parte in luce alla parte in ombra. Sappiamo che non esistono linee di contorno. I fauves non ammettono alcuna graduazione, nei loro quadri inseriscono tratti scuri per definire un’immagine. La figura più importante è stata Henri Matisse. Guttuso si può considerare ispirato dal fauvismo

COSTRUTTIVISMO - 1913 - Movimento sorto in Russia che si prefiggeva di contrastare l’arte fine a se stessa e sostituirla con un’arte che avesse una importanza sociale. Il Costruttivismo si prefiggeva anche l’utilizzo dei nuovi materiali che le ricerche industriali proponevano. Esponenti importanti sono stati il pittore e scultore Vladimir Tatlin, Naum Gabo e Aleksandr Rodcenko. D’ispirazione boccioniana e futurista.

DADAISMO o MOVIMENTO DADA - 1915/1918 - Movimento che sorge in Svizzera durante la prima guerra mondiale. La parola dada è un termine inventato. Il motivo dominante di questo movimento è stupire. Lo stupore fine a se stesso ha un certo interesse la prima volta che lo si realizza, dopo cade nel banale e sfuma via via nel nulla. Tra i presupposti di questo nuovo movimento c’è stato il rompere col passato, con tutto ciò che era la pittura accademica per dare inizio ad una nuova arte. Una nuova arte inesistente che mai si è realizzata. Chi scrive è perfettamente convinto che nessuno tra i promotori del movimento avesse una minima idea su dove avrebbe voluto arrivare. Tra i Dada si annoverano Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Hans Richter, Max Ernst e Marcel Duchamp. Tra gli italiani e d’obbligo citare Manzoni e Munari.

ASTRATTISMO GEOMETRICO - 1917 - Movimento artistico sorto in Olanda col nome di Neoplasticismo che ha avuto in Piet Mondrian, il suo massimo esponente. In Italia si diffonde col nome di Astrattismo Geometrico. Tra gli italiani ricordiamo Mario Radice, Anastasio Soldati, Manlio Rho. Questi pittori vedono nel rettangolo la forma ideale, utilizzano i colori primari in quanto tali, rivalutano la linea e il colore.

ARTE CINETICA - 1920 - Forma espressiva che vuole ottenere un effetto di movimento nelle opere. Il movimento può essere fisico, oppure virtuale oppure vengono ricercate delle autentiche illusioni ottiche. Sorge nella terza decade del ventesimo secolo; dopo un periodo di scarso fermento, queste ricerche riprenderanno negli anni 1950/1960. Da questa tendenza derivò l’Arte programmata con cui si intende un’opera realizzata in base a un programma di calcolo che consenta la variazione formale e cromatica delle sequenze figurali, secondo un certo ordine temporale, tra ripetizione, variazione, accadimenti casuali e combinazione dei pattern visivi. La prima fondativa mostra di Arte programmata (definizione inventata da Bruno Munari) si tenne nel 1962 al negozio della Olivetti a Milano. Fu presentata in catalogo da Umberto Eco.

SURREALISMO - 1924 - Questo movimento può essere considerato come una evoluzione del movimento Dada. Il surrealismo sorge in Francia quando venne pubblicato il "Manifeste Surréaliste" nel 1924. Il principale teorico del movimento è stato il poeta André Breton. L’idea era quella di esprimere con la pittura o con la letteratura quanto veniva suggerito dai sogni. Le affermazioni nel campo della psicanalisi di Sigmund Freud furono molto importanti nell’ispirare i pittori surrealisti. I principali esponenti sono stati Joan Mirò, Salvador Dalì, René Magritte, Man Ray, Max Ernst, Marcel Duchamp e tanti altri. IL Marchese De Sade è, curiosamente, uno dei precursori. Vale la pena di ricordare l’incisore italiano Alberto Martini.

BODY ART - Il corpo umano vivente diventa oggetto di questa tendenza. Tra i primi che la proposero troviamo il californiano Bruce Nauman e l’americano di origini italiane Vito Acconci.

115 NEOREALISMO -1945- Si sviluppa dopo la seconda guerra mondiale. E’ da ritenersi un movimento italiano; tra i maggiori esponenti ricordiamo Renato Guttuso (1912-1987) e Armando Pizzinato. Si inseriscono in questa corrente anche pittori che considero astrattisti puri: Ennio Morlotti, Emilio Vedova e Renato Birolli.

NEOASTRATTISMO - 1946 - E’ il ritorno all’astrattismo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Gli Italiani più noti del movimento sono Lucio Fontana, Manlio Rho, Mario Radice e tanti altri innumerevoli.

SPAZIALISMO-1946- fondato da Lucio Fontana in Argentina in gemellaggio con la Galleria Il Cavallino di Venezia. A sua volta questa importantissima galleria aveva stretto un forte legame con la Galleria Apollinaire di Milano che era la galleria di Fontana. L’arte si riferisce all’atteggiamento dell’artista nel cercare nuove dimensioni spaziali.

REALISMO ASTRATTO - 1949 - I due termini sono in antitesi. Il pittore Gastone Biggi si propone di contestare la contrapposizione tra pittura realista e astrattismo. Non è possibile parlare di movimento in quanto il Biggi resta il solo promotore e il sostenitore di questa teoria. Nel 2005 pubblicherà il manifesto del Realismo Astratto.

OPTICAL ART - 1950 circa - Espressione artistica che mira a sollecitare la retina così da creare un’idea di movimento virtuale. Trattasi di una variante dell’arte cinetica. I capiscuola in Italia furono Gianni Colombo che si dedicò allo studio delle illusioni della prospettiva, Alberto Biasi che esplorò la possibilità di creare immagini cangianti ed illusorie e Getulio Alviani che ideò le superfici a testura vibratile sfruttando i riflessi dell’alluminio molato. La mostra di riferimento dell’arte ottica fu "The Responsive Eye" tenutasi nel 1965 al MoMa di New York.

INFORMALE - 1950 - Tendenza pittorica derivata dall’Astrattismo. Il termine Informale è usato per le prime volte dal critico francese Tapié nel 1950. Il principio fondamentale del movimento è la negazione del disegno e della forma. In questi quadri esiste solo il colore. I principali esponenti dell’informale italiano furono Emilio Vedova, Afro Basaldella, Piero Dorazio, Giulio Turcato, Toti Scialoja, Emilio Scanavino, Tancredi Parmeggiani, Achille Perilli, Alfredo Chighine, Mattia Moreni Rino Destino e Gastone Novelli. Eppure, secondo anche Vittorio Sgarbi, si possono rintracciare albori d’Informale nella Maddalena penitente di Donatello, nell’infinito michelangiolesco o in certi dipinti di Turner.

ACTION PAINTING - 1952 - Variante della pittura informale dove la pittura è totalmente istintiva. Si usano colori non solo ad olio ma anche vernici, pennelli di grandi dimensioni, spesso tele sono di grandi dimensioni. Si inseriscono in questa corrente Jackson Pollock, Willem de Kooning, Franz Kline e Marc Rotcko. Caratteristica di questa tendenza pittorica è la gestualità.

POP ART - 1958/1959 - Movimento che nasce in Inghilterra alla fine degli anni ’50 e si sviluppa nel mondo anglosassone. Questi artisti vogliono evidenziare la vita del tempo, in particolare la civiltà consumistica che si stava sviluppando. I maggiori esponenti sono Andy Warhol e Roy Liechenstein. La Pop Art, come tutti i movimenti del XX secolo, ha avuto momenti di enfatizzazione e momenti di decadenza. Nel passaggio di millennio si è definito un nuovo movimentoNew Pop dove si è cercato di riprendere le idee della Pop Art. Fra i tanti in Italia ci limitiamo a citare Mimmo Rotella, Enrico Bay, Mario Schifano e Michelangelo Pistoletto.

ARTE CONCETTUALE-1965- Si definisce arte concettuale qualunque espressione artistica in cui i concetti e le idee espresse siano più importanti del risultato estetico e percettivo dell’opera stessa. Il movimento artistico che porta questo nome si è sviluppato dagli Stati Uniti d’America a partire dalla seconda metà degli Anni Sessanta e si è diffuso in quasi tutto il mondo, Italia compresa,. Manzoni, Merz, Paolini, Lai sono i nostri

116 maggiori rappresentanti italiani.

MINIMAL ART - 1965 - Espressioni artistiche che cercano di ridurre al minimo la realtà. Si deve eliminare tutto ciò che non è essenziale. Il termine è stato coniato dal filosofo inglese Richard Wollheim. Tra gli italiani spiccano Piero Manzoni, Francesco Lo Savio, Sergio Lombardo, Giulio Paolini, Giorgio Griffa, Gianni Piacentino, Giovanni Callisto ed Enrico Castellani definito da Donald Judd, in un articolo del 1966, come il padre del minimalismo.

ARTE POVERA - 1967 - Movimento artistico italiano che ha preso il nome da una esposizione omonima dei pittori Boetti, Fabro, Paolini, Kounellis, Prini e Pascali che si tenne a Genova nel settembre del 1967. Il curatore della mostra è stato il critico Germano Celant. Gli aderenti a questo movimento contestano l’arte tradizionale ed utilizzano solo materiali "poveri" come stracci, terra, segatura, legno, scarti industriali, ecc. Con questo movimento si ricorre all’uso dell’installazione, cioè l’opera diventa una performance, visibile solo in quel contesto. Celant cerca di spiegare così le intenzioni di coloro che aderirono all’arte povera: "nel ridurre ai minimi termini, nell’impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi." Ricordiamo Paolini, Pistoletto, Prini e Merz.

LAND ART -1967 e il 1968- è una forma d’arte contemporanea sorta negli Stati Uniti d’America caratterizzata dall’intervento diretto dell’artista sul territorio naturale, specie negli spazi incontaminati come deserti, laghi salati, praterie, ecc. Le opere hanno spesso carattere effimero. Nasce da un atteggiamento rigorosamente anti-formale in antitesi con il figurativismo della Pop Art e con le fredde geometrie della Minimal Art. Uno dei massimi esponenti e Christo. In Italia abbiamo Croce Taravella, Alberto Burri e Maria Lai.

IPERREALISMO - 1970 - Movimento artistico sorto negli Stati Uniti che si prefigge di riprodurre fedelmente la realtà. Il modello è una fotografia. Occorre valutare bene ogni singolo quadro iperrealista perché alcuni sono solo apparentemente dipinti.

STREET ART - 1975 / 1980 – Andando per semplificazioni spesso si pone l’obiettivo di imbrattare i muri delle case ma in qualche caso ci sono effetti strabilianti come ad esempio i murales che caratterizzano il paese di Orgosolo in Sardegna, le opere di Banksy famose in tutto il mondo, e le balene del giovane Federico Carta.

METROPOLISMO e TRANSAVANGUARDIA- 1987 - Corrente pittorica e culturale italiana che si creò attorno ad un manifesto scritto da Romano Petrucci. Il manifesto del Metropolismo si ispira a scritti e discorsi del critico Achille Bonito Oliva che negli anni ’70/’80 aveva stimolato l’uso delle tecniche pittoriche tradizionali e l’importanza del contenuto di un’opera d’arte figurativa. Nel 1987 aderiscono al movimento appena sorto il giovane pittore catanese Antonio Sciacca e il toscano Nico Paladini. Al movimento aderiranno anche l’uruguaiano Carlos Grippo e il disegnatore turco Timur Kerim Incedayi. Il ritorno alla figuratività venne considerato un requisito importante tra gli aderenti al gruppo quali Mimmo Paladino. Altri argomenti di ricerca per questi pittori sono stati il consumismo e la vita sociale degli ultimi anni del XX° secolo.

NAIF - Corrente caratterizzata da espressioni pittoriche infantili e/o primitive. I pittori naif non hanno frequentato scuole di pittura, sono pertanto degli autodidatti che dipingono. Non conosco le regole della pittura e agiscono con la semplicità propria dei bambini o degli uomini primitivi che eseguirono graffiti sulle rocce. Non ha una data di nascita ma l’autore più conosciuto di questa corrente è Antonio Ligabue (1899 - 1965).

117 Il Teatro Italiano "Quando in un teatro il loggione è vuoto è segno che la città non ha cervello." Bruno Barilli L’Italia come opera unica non poteva tralasciare un così importante patrimonio, oggi più che mai, svilito. È sempre difficile trovare un’origine precisa di un fenomeno come l’arte drammatica. Se intendiamo per Italia tutta la penisola attuale, comprese le isole, dobbiamo sposare la tesi che l’origine del Teatro italiano arrivano dalla Magna Grecia. I coloni greci siciliani, ma anche campani e pugliesi, portarono dalla madre patria anche l’arte teatrale. I teatri di Siracusa, Segesta, quello di Tindari e il più famoso Teatro greco di Taormina, lo dimostrano ampiamente. Non conosciamo i programmi di questi teatri, anche se ci sono rimasti frammenti di opere drammaturgiche originali, non è difficile intuire che non mancassero i classici, le tragedie dei tre grandi giganti Eschilo, Sofocle ed Euripide e le commedie di Aristofane. Il Teatro romano risentì in maniera massiccia dal teatro che arrivava dal sud dell’Italia. Altri autori drammatici nativi della Magna Grecia, oltre al siracusano Formide che abbiamo citato, sono: Acheo di Siracusa, Apollodoro di Gela, Filemone di Siracusa e il di lui figlio Filemone il giovane. Dalla Calabria, precisamente dalla colonia di Turi, provengono il commediografo Alessi e Eraclide. Mentre Rintone, pur se siciliano di Siracusa, lavorò quasi essenzialmente per la colonia di Taranto. Anche le popolazioni italiche come gli Etruschi sappiamo che avevano già sviluppato forme di letteratura teatrale. La leggenda, riportata anche da Tito Livio, parla di una pestilenza che aveva colpito Roma, ai primordi, e la richiesta di istrioni etruschi. Lo storico romano rifiuta così la filiazione dal teatro greco prima dei contatti con la Magna Grecia e le sue tradizioni teatrali. Purtroppo non sono rimaste testimonianze architettoniche e artistiche del Teatro etrusco. Una fonte molto tarda, come lo storico Varrone, cita il nome di un certo Volnio che scriveva tragedie in Lingua Etrusca. Anche i Sanniti avevano delle forme rappresentative originali che, come vedremo, avranno molta influenza sulla drammaturgia romana con le commedie Atellane; abbiamo anche alcune testimonianze architettoniche come il Teatro di Pietrabbondante in Molise e quello di Nocera Inferiore sopra il quale i Romani costruirono il proprio. La costruzione dei teatri sanniti di Pietrabbondante e Nocera ci fanno capire la filiazione architettonica dal Teatro greco. Con la conquista della Magna Grecia i Romani vennero in contatto con la Cultura Greca, quindi anche con il Teatro. Probabilmente già in precedenza, dopo le guerre con i Sanniti, i Romani avevano già conosciuto l’arte rappresentativa, ma anche le rappresentazioni sannite, a loro volta, erano influenzate da quelle greche. L’apice dell’espressione del Teatro romano fu raggiunto, per la commedia da Livio Andronico nativo della Magna Grecia; probabilmente fu Taranto il legame fra il Teatro greco e quello latino. Autore meno famoso, ma sempre ponte di collegamento tra i greci e delle colonie italiane e i latini fu il campano Nevio, vissuto al tempo delle guerre puniche. Nevio tentò di creare un teatro politicizzato, sullo stile ateniese di Aristofane, ma gli strali del poeta colpivano troppo spesso gens famose come quella degli Scipioni. Per questo motivo il drammaturgo fu esiliato ad Utica dove morì povero. Al contrario Quinto Ennio, anche lui della Magna Grecia, usò il teatro per incensare le famiglie nobili romane. I maggiori epigoni della commedia latina, ancora legata alla commedia greca, furono Plauto e Terenzio che romanizzarono i testi delle commedie greche. Plauto è considerato un poeta più popolare, così come Cecilio Stazio, mentre Terenzio viene considerato più un purista così come Afranio considerato il Menandro latino. In ambito tragico Seneca fu il maggiore fra i latini, ma il filosofo non raggiunse mai le vette degli esempi greci. Mentre un tragico d’impronta latina fu Ennio, le cui opere furono molto apprezzate dal patriziato.

118 Molti furono i passaggi che portarono dalla primitiva commedia latina ai grandi commediografi citati sopra. Il Teatro romano era simile a quello greco, sia dal punto di vista architettonico che dall’abbigliamento degli attori. Questi usavano maschere e coturni come quelli greci. Anche i teatri romani avevano una cavea e una scenografia fissa tripartita. Molte scenografie sono rimaste a testimonianza di questa tipologia, sia nelle colonie come a Leptis Magna, oggi in Libia, che l’ha quasi integra. In Italia è più rara da trovare in condizioni simili. A Roma, probabilmente, la commedia fu più gradita della tragedia, data anche l’originalità dei testi che si svincolava dalla tradizione greca con temi più vicini alla realtà quotidiana. La vera espressione popolare del Teatro romano può essere individuato nella rappresentazioni dette Atellane. Queste erano delle commedie satiriche d’impronta Osco-sannita recitate nel dialetto locale, e poi diffuse anche nel resto dell’Impero, nella stessa Roma in primis. Con l’affermazione del Cristianesimo, il teatro cambiò aspetto. L’iconoclastia che la nuova religione si portava dall’oriente, fece sparire, o quasi, i testi della cultura classica compresi quelli teatrali. Ma ancora, soprattutto in aree periferiche del decaduto impero, il teatro continuava ad esistere ed era molto frequentato.

Nelle sue Confessioni di Agostino d’Ippona, scritto nel V secolo, egli racconta di essere stato, in gioventù, un assiduo frequentatore dei teatri della sua regione natìa, cioè i dintorni di Cartagine. L’arrivo delle invasioni barbariche cancellò ogni forma rappresentativa greco-romana. L’arte teatrale non sparì definitivamente, perché sin d’all’inizio, con le tragedie greche, il teatro era parte della vita religiosa del popolo. Come la rappresentazione, per i pagani, derivava dalle feste in onore di Bacco, dai riti cristiani nacque la Sacra rappresentazione e da questa una vera e propria arte teatrale chiamata dei Misteri. Il popolo dell’Italia medievale era per gran parte costituito da analfabeti. Il Cristianesimo cercò di diffondere il verbo anche attraverso rappresentazioni durante le feste religiose. Una delle più importanti era la Settimana Santa, durante la quale i cittadini dei villaggi e le città s’improvvisavano attori per impersonare i personaggi del Vangelo. La sacra rappresentazione è rimasta, per secoli, un momento importante nella vita sociale. Ma non sparirono del tutto nemmeno gli spettacoli d’impronta profana, il più antico fra quelli pervenutici, e il più interessante è il Quaerulus, scritto in tardo latino. Questa commedia è stata considerata per secoli, come un’opera di Plauto. In realtà l’autore è un anonimo del IV secolo. Contemporaneamente i menestrelli diffondevano storie passando da un villaggio all’altro. Esisteva tutta una serie di poeti, provenienti soprattutto dalla Provenza e Linguadoca, che avevano importato storie nuove, legate alla cavalleria. Le storie dei Paladini, quella del Ciclo Bretone dei cavalieri di re Artù erano fra i loro testi più diffusi. Queste storie erano molto apprezzate nelle corti e presso i feudatari, tanto da diventare una cultura alternativa a quella ecclesiastica. Poi esistevano anche spettacoli gestiti dai giovani studenti, sempre d’impronta profana e le feste carnevalesche dove venivano anche messe in scena metaforiche Battaglie tra vizi e virtù. Infine i testi dialogici s’imposero anche nella cultura del tempo; si pensi alla Scuola Siciliana. Cielo d’Alcamo scrisse dialoghi detti Contrasti che molto erano influenzati da una scrittura di tipo teatrale. L’Umanesimo all’inizio del XV secolo riesumò gli antichi testi che si sovrapposero ai cortei sacri e quelli carnevaleschi, non sostituendoli mai completamente. L’Umanesimo fu un periodo di svolta anche per il Teatro italiano. Il recupero degli antichi testi, sia commedie e tragedie, che testi riferentisi all’arte del Teatro come la Poetica di Aristotele, dettero una svolta anche all’arte rappresentativa, che mise di nuovo in scena i personaggi plautini e gli eroi delle tragedie di Seneca, ma costruendo anche dei testi nuovi e in Lingua Volgare. Il Teatro umanista si avvalse, nel ’400, anche di grandi intellettuali, prestati provvisoriamente al teatro, come gli umanisti Agnolo Poliziano e Donato Giannotti.

119 Nel periodo Rinascimentale, l’Italia raggiunse nuovamente il vertice dell’arte teatrale in Europa. Mentre negli altri paesi le rappresentazioni sacre erano ancora il fenomeno drammatico più usato, in Italia nacquero importanti autori di commedie come Niccolò Machiavelli, Bernardo Dovizi da Bibbiena e molti altri legati più o meno alle varie corti italiane fra i quali non si possono non citare Ludovico Ariosto, che scrisse, o meglio tradusse e adattò ai suoi tempi, commedie di provenienza latina, Ruzante, che introdusse il dialetto nel Teatro veneto, Pietro Aretino che lavorò presso varie corti, quella romana, quella dei Gonzaga a Mantova e quella di Venezia e infine Giordano Bruno che filosofeggiò anche nel suo testo Candelaio prima del rogo di Campo dei Fiori. Questa novità, chiamata poi Commedia erudita si svincolò dai testi classici, creando una nuova drammaturgia più vicina alla società del tempo. Diversamente, le tragedie, nel periodo rinascimentale, non ebbero lo sviluppo delle commedie. Pochi furono i tragediografi quattro-cinquecenteschi in Italia. La tragedia s’ispirava ai modelli greci, ma in particolare quelli di stampo senechiano. Fra questi vanno citati Sperone Speroni, Gian Giorgio Trissino e Torquato Tasso. Lo stesso Tasso si rivolse però, con la sua Aminta ad un genere nuovo: quello della Commedia pastorale. Ma il più importante autore italiano di questo genere fu Giovanni Battista Guarini che compose la pastorale più famosa e rappresentata del Teatro italiano: Il pastor fido. Un aspetto non secondario del teatro umanista fu quello architettonico e scenografico. In un primo tempo furono riutilizzati i vecchi teatri romani, in seguito grandi architetti si dedicarono alla costruzione degli spazi scenici e delle scenografie per i nuovi testi. Fra questi vanno citati Sebastiano Serlio, Andrea Palladio, Giovanni Maria Falconetto e Vincenzo Scamozzi. Altri artisti rinascimentali furono prestati al teatro come Andrea Mantegna e Filippo Brunelleschi. Alla fine del rinascimento il teatro ebbe una svolta, soprattutto nelle corti. I testi divennero sempre meno importanti e le scenografie, manieriste come quelle di Bernardo Buontalenti, invece crearono effetti sorprendenti e nuovi. Tutto questo portò al Teatro Barocco. Da non sottovalutare è la nascita, alla fine del XVI secolo, del melodramma. Un grande librettista come Ottavio Rinuccini scrisse i libretti per le opere più importanti di questo periodo. Aprendo di fatto la stagione del teatro musicale o recitar cantando come si diceva in un primo tempo tra i musicisti e librettisti della Camerata de’ Bardi, la prima istituzione che inventò, di fatto, il melodramma. I libretti di Rinuccini furono usati dal primo autore di melodrammi, Claudio Monteverdi che traghettò il genere nel Teatro Barocco e che fece la sua comparsa all’inizio del XVII secolo. Nasceva per filiazione dalla tragedia del Rinascimento. I testi drammatici cominciarono a perdere il primato nei teatri cortigiani dove gli si preferiva l’effetto scenico e rappresentazioni come il balletto, appena giunto dalla Francia. In questo periodo l’Italia aveva perso il primato teatrale, nonostante i fasti delle rappresentazioni cortigiane. Dalla Francia venivano le tragedie di Jean Racine e Pierre Corneille, dalla Spagna le commedie degli autori del Siglo de Oro. Gli autori italiani presero spunto dai nuovi testi adattandoli alla nostra lingua e cambiando i nomi e i luoghi. Fra questi si annoverano il raciniano Federico Della Valle e il traduttore Giacinto Andrea Cicognini. Contemporaneamente nacque la Commedia dell’Arte e i personaggi della stessa furono diffusi in tutta Europa. La contingenza della nascita dei teatri pubblici a pagamento, prima a Venezia e a Genova (Teatro del Falcone) e poi in tutto il resto d’Italia, imposero questo tipo di teatro, che nasceva dagli attori di strada, i buffoni e i saltimbanchi che si esibivano nelle fiere di paese. Questi, riunitosi in compagnie comiche, perseguirono una nuova drammaturgia popolare che proveniva dagli antichi Contrasti comici diffusi sin dal primo Medioevo. In seguito le compagnie organizzate furono chiamate presso le corti principesche italiane. Una delle caratteristiche della Commedia dell’arte, al confronto con quella erudita del secolo precedente, fu la presenza

120 di attori professionisti e l’introduzione delle attrici, in precedenza impersonate da attori maschi. Nacquero nuove commedie adattate alla recitazione a braccio, ovvero improvvisata, dei comici: il Canovaccio, ovvero un’indicazione di massima della trama. Il tema dell’improvvisazione è stato a lungo oggetto di dispute, anche recenti. In realtà vi sono molti testi dei comici dell’arte pubblicate sotto forma di canovaccio e altrettanti repertori comici legati a ciascuna maschera. La Commedia dell’Arte fu, in un primo tempo, un fenomeno esclusivamente italiano. Il recupero delle maschere aveva probabilmente come ispirazione il Teatro romano, anche se è una delle tante ipotesi. Certi personaggi di stampo plautino hanno non poco influenzato quelli della Commedia dell’Arte. Il parallelo più evidente è quello del Capitan Spavento e il Miles gloriosus di Plauto. Al di là di ciò, la commedia dei professionisti fu un fenomeno originale, che poi si diffuse in tutta Europa col nome di Commedia italiana. Fra le compagnie comiche più rappresentative citiamo la Compagnia dei Gelosi, la più famosa in assoluto. Anche altri attori si distinsero per la loro recitazione e i loro lazzi, fra i quali Tristano Martinelli, uno dei primi arlecchini della storia del teatro. Silvio Fiorillo fu invece quello che impose, anche nei teatri dell’Italia del nord, il personaggio di Pulcinella e molti altri attori legati alle varie maschere. L’unica forma nuova di teatro che poteva competere con la Commedia dell’Arte era il melodramma, altrettanto diffuso in Europa, ed altrettanto apprezzato dagli stranieri. La diffusione di questi due generi, ma in particolare il melodramma, imposero l’italiano come la lingua principale del Teatro, tanto che ancora nel ’700, musicisti stranieri continuavano ad usare librettisti italiani. Il sodalizio Wolfgang Amadeus Mozart e Lorenzo da Ponte è forse l’esempio più noto di questa preponderanza dei libretti in italiano in tutte le corti europee. Questo secolo è stato un periodo difficile per il Teatro Italiano. Diffusasi in tutta Europa, la Commedia dell’Arte, subì un evidente declino in quanto si evidenziò il calo di drammaturgia ed una poca attenzione ai testi che essa offriva, rispetto alle altre opere provenienti dal resto d’Europa. Così, in questi anni bui, mentre la Commedia dell’Arte rimase comunque un’importante scuola durata più di cento anni, la tragedia, fece sentire ancor di più la sua mancanza, anche perché, importanti autori del periodo rinascimentale, non riuscirono ad offrire un ampio ventaglio di opere potendo così costruire le basi per una scuola futura. Un importante ruolo rispetto all’Europa, l’Italia lo ottenne solo grazie alla Commedia del Goldoni ed al melodramma del Metastasio. Ma qualche decennio prima della svolta riformatrice di Goldoni, già alcuni autori avevano fatto il tentativo di traghettare la Commedia dell’Arte verso una drammaturgia più legata alla realtà, usando come modello Molière. Fra questi i più importanti sono Giovan Battista Fagiuoli, Iacopo Angelo Nelli e Girolamo Gigli definiti pregoldoniani e precursori della commedia riformata, anche se il personaggio di Don Pilone del Gigli è così simile al Il Tartufo di Molière da rischiarne il plagio. Goldoni non irruppe nella scena del Teatro come un rivoluzionario bensì come un riformatore. In un primo tempo assecondò il gusto del pubblico, ancora legato alle vecchie maschere. Nelle sue prime commedie è costante la presenza di Pantalone, Brighella e con un grande Arlecchino, forse l’ultimo di grosso calibro in Italia, come Antonio Sacco che recitava con la maschera di Truffaldino.

Per questa compagnia Goldoni scrisse importanti commedie come Il servitore di due padroni e La putta onorata. Nel 1750 l’avvocato veneto scrisse il testo-manifesto della sua riforma della commedia: Il teatro comico. In questa commedia si mettono a confronto l’antica Commedia dell’Arte, e la sua Commedia riformata. Carlo Goldoni usò nuove compagnie dalle quali sparirono le maschere, ormai troppo inverosimili in un teatro realista, così come sparirono i loro frizzi e lazzi, spesso estranei al soggetto. Nelle sue commedie riformate la trama ritorna ad essere il punto centrale della commedia e i personaggi più realistici. Su questa linea proseguì Francesco Albergati Capacelli, grande amico di Goldoni e suo primo seguace.

121 Il goldonismo fu fieramente contrastato da Pietro Chiari, che preferiva commedie più romanzesche e ancora di stampo Barocco. In seguito s’accodò, nella critica alla riforma goldoniana, anche Carlo Gozzi che ostacolò la riforma, dedicandosi alla riesumazione dell’antica Commedia dell’Arte seicentesca ormai moribonda, ma ancora vitale nella sua variante accademica: la Commedia ridicolosa che, fino alla fine del secolo continuò ad usare le maschere e i personaggi di quella dell’arte. La tragedia, in Italia, non ebbe lo sviluppo che aveva avuto, sin dal secolo precedente, nelle altre nazioni europee. L’Italia, in questo caso, pativa il successo della Commedia dell’arte. La strada della tragedia di stampo illuminista fu percorsa da Antonio Conti, con discreto successo. Rivolta al Teatro francese è l’opera di Pier Jacopo Martello che adattò alla lingua italiana il verso alessandrino dei francesi, che si chiamò verso martelliano. Ma il teorico maggiore che perseguì la strada di una tragedia italiana di stampo greco-aristotelico fu Gian Vincenzo Gravina. Le sue tragedie non ebbero però il successo sperato perché considerate poco adatte alla rappresentazione. Mentre il suo pupillo, Pietro Metastasio, adattò gli insegnamenti di Gravina applicandoli ai testi del melodramma. Altri librettisti come Apostolo Zeno e Ranieri de’ Calzabigi lo seguirono su questa strada. Il maggior tragediografo del primo Settecento, fu Scipione Maffei che riuscì a comporre finalmente una tragedia italiana degna di questo nome: la Merope. Nella seconda metà del secolo dominò la figura di Vittorio Alfieri, il più grande tragediografo italiano di tutti i tempi. Le sue tragedie hanno una forza drammatica mai espressa in precedenza e supera gli stessi modelli rinascimentali. Durante l’Ottocento, nacque il Dramma romantico. Ci furono importanti autori promotori del genere, come Alessandro Manzoni e Silvio Pellico. Nella seconda metà del secolo, la tragedia romantica cedette il posto al Teatro verista, che vide fra i massimi esponenti Giovanni Verga ed Emilio Praga, ambedue provenienti dal movimento artistico degli scapigliati milanesi. Il Dramma romantico fu preceduto da un periodo vicino al Neoclassicismo, rappresentato dall’opera drammatica di Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte rivolte alla tragedia greca. Lo stesso Vittorio Alfieri, che cavalca i due secoli, può essere definito, insieme a Vincenzo Monti, precursore e simbolo della tragedia neoclassica. La lezione goldoniana si sviluppò nel corso di questo secolo. Si deve però scontrare con l’invasione di certi esiti francesi del Teatro dell’arte, già francesizzato sin dal secolo precedente, come la Comédie larmoyante che aprirono allo sviluppo del vero e proprio Dramma borghese italiano. Tra gli eredi ottocenteschi della commedia goldoniana dobbiamo citare, fra gli altri, Giacinto Gallina, Giovanni Gherardo De Rossi e Francesco Augusto Bon. Un’evoluzione simile al dramma teatrale avviene nel campo del teatro per musica. Il Melodramma romantico sostituisce, all’inizio di questo secolo, l’Opera buffa di stampo napoletano e poi veneziano. Nasceva un’opera vicina ai grandi temi medievaleggianti del periodo risorgimentale. Vari sono i librettisti che affiancano i musicisti costruendo dei nuovi tipi di narrazione epica per musica. Da Felice Romani, librettista del primo Ottocento per le opere di Bellini, fino ad Arrigo Boito e Francesco Maria Piave, che con i libretti per Giuseppe Verdi aprirono il periodo risorgimentale del Teatro musicale italiano. Boito fu anche uno dei pochi che mise insieme il talento drammaturgico con quello musicale. La sua opera, Mefistofele, con musica e libretto dell’autore, rappresenta forse un unicum nel panorama del melodramma italiano. Rimase, comunque, anche in questo secolo l’eredità, ormai pluricentenaria, della Commedia dell’arte nel teatro dialettale che continuò a mettere in scena le maschere e scavalcò tranquillamente il ’700 continuando la messinscena delle sue commedie. Fra i più importanti autori di questo genere popolare ci furono Luigi Del Buono, che a Firenze, continuò anche nell’Ottocento a portare il personaggio di Stenterello. Altro autore Ottocentesco di teatro dialettale fu il Pulcinella di Antonio Petito. Semianalfabeta Petito era colui che aveva

122 preso in mano il monopolio del teatro napoletano. I suoi canovacci erano stati modernizzati e Pulcinella era diventato anche un simbolo politico. Avversario dell’Assolutismo di fine ’700, il pulcinella dell’800 si presentò fino alla metà del secolo filoborbonico. D’altronde, il personaggio napoletano, aveva avuto il suo massimo splendore proprio sotto il regno dei Borboni. In un’Italia piemontese, il ruolo centrale di Napoli finì e la sua maschera rimase in ombra, ormai limitata a pochi teatri pulcinelleschi come il Teatro San Carlino. Durante il XX secolo nascono importanti autori drammaturghi che pongono le basi per il Teatro italiano moderno. Su tutti spicca il genio di Luigi Pirandello, considerato padre del teatro moderno. Con l’autore siciliano, nacque il Dramma psicologico, caratterizzato essenzialmente dall’aspetto introspettivo. Un altro esponente del teatro drammaturgico del novecento fu Eduardo De Filippo. Egli, figlio di un importante commediografo del tempo, Eduardo Scarpetta, riuscì a ripristinare il dialetto all’interno dell’opera teatrale, eliminando la diffusa concezione dei tempi addietro che definivano l’opera dialettale come opera di secondo livello. Con Eduardo, nacque il Teatro popolare restano indimenticabili opere come Natale in casa Cupiello e Filomena Marturano che fu tradotta in inglese dall’attore Lawrence Oliver. .Esiste un aneddoto secondo cui quando veniva chiesto a Eduardo De Filippo chi fosse il più grande attore del mondo egli rispondeva, appunto, Lawrence Oliver, e quando la stessa domanda veniva fatta a costui la risposta era Eduardo De Filippo. All’inizio del secolo si fecero sentire forti le influenze delle Avanguardie storiche: Futurismo, Dadaismo e Surrealismo. Soprattutto il Futurismo cercò di cambiare l’idea di Teatro moderno adattandola alle nuove idee. Filippo Tommaso Marinetti s’interessò di scrivere i vari Manifesti futuristi sulla sua nuova idea di Teatro. Insieme a Bruno Corra e Francesco Cangiullo creò quello che fu chiamato Teatro sintetico. In seguito i futuristi costituirono una compagnia, diretta da Rodolfo De Angelis, che fu chiamata Teatro della sorpresa. La presenza di uno scenografo come Enrico Prampolini spostò l’attenzione più sulle scenografie modernissime che sulla recitazione, spesso deludente. Un altro personaggio che frequentò il teatro in questo periodo, senza notevole successo, al confronto di altre produzioni letteraria e poetica, fu Gabriele D’Annunzio. Di lui sono rimaste delle tragedie d’ambito classico, vicine al gusto Liberty caratteristico di tutta la produzione del poeta-guerriero. Nel contempo nacque, e fu un fenomeno tutto italiano o quasi, il Teatro grottesco. Fra gli altri frequentatori di questo genere si possono annoverare Massimo Bontempelli, Luigi Antonelli, Enrico Cavacchioli, Luigi Chiarelli, Rosso di San Secondo e lo stesso Pirandello nelle sue prime commedie. Nel periodo del Fascismo, il Teatro fu tenuto in grande considerazione. Nonostante questo, durante il regime non fu un mezzo di propaganda politica, compito demandato al cinema, lo spettacolo popolare per eccellenza. Giovanni Gentile stilò un manifesto d’appoggio al regime degli intellettuali italiani. Tra i firmatari alcune figure importanti del teatro del periodo: Luigi Pirandello, Salvatore di Giacomo, Filippo Tommaso Marinetti e Gabriele D’Annunzio. Nel 1925 il filosofo Benedetto Croce contrappose il suo Manifesto degli intellettuali antifascisti, sottoscritto, fra gli altri, dai drammaturghi Roberto Bracco e Sem Benelli. Durante questo periodo furono importanti i due registi della famiglia Bragaglia: Carlo Ludovico e Anton Giulio che si affiancarono alle produzioni più sperimentali del periodo e in seguito passarono al cinema. Il secondo dopoguerra fu caratterizzato dal Teatro di rivista. Questo era già presente in precedenza con grandi attori-autori come Ettore Petrolini. Dalla rivista s’imposero attori come Erminio Macario e Totò. Poi furono importanti anche le grandi compagnie come quella di Dario Niccodemi e attori del livello di Eleonora Duse, Ruggero Ruggeri, Memo Benassi e Sergio Tofano. Altrettanto importante fu l’apporto dei grandi registi, nel Teatro italiano del dopoguerra come Giorgio Strehler, e Luca Ronconi. Un esperimento interessante fu quello di Dario Fo, che fu molto

123 influenzato dal Teatro epico e politico di Bertolt Brecht, ma contemporaneamente restituì al Teatro italiano la centralità dell’attore puro in termini ruzanteschi con la sua opera Mistero buffo che con il grammelot ci consegnava il Teatro dei Buffoni e Cantastorie del Medioevo. Più legato allo sperimentalismo è stato il teatro di Carmelo Bene. Anche l’attore-drammaturgo pugliese cercò di riportare al centro dell’attenzione la recitazione, rimaneggiando i testi del passato, da Shakespeare a Alfred De Musset, ma anche Manzoni e Majakovskij. Merita inoltre di essere ricordata l’esperienza del drammaturgo lombardo Giovanni Testori, per l’ampiezza del suo impegno. Fu scrittore, regista, impresario, la multiformità dei generi praticati, condussero la sua ricerca ad un forte sperimentalismo linguistico: egli lavorò lungamente con l’attore Franco Branciaroli ed insieme hanno influenzato il teatro milanese del dopoguerra. Lo sperimentalismo di fine secolo ci porta verso nuove frontiere dell’arte teatrale, consegnata in Italia a nuove compagnie come i Magazzini Criminali, i Krypton e Socìetas Raffaello Sanzio, ma anche compagnie frequentatrici di un teatro più classico come la compagnia del Teatro dell’Elfo di Gabriele Salvatores. Il Teatro italiano di fine secolo si è avvalso anche dell’opera dell’autore-attore Paolo Poli. Fra i grandi attori di parola del ’900 sono da ricordare Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi, Enrico Maria Salerno. Di recente si sono affermati, in campo teatrale, dei monologhisti importanti come Marco Paolini e Ascanio Celestini, autori di un teatro di narrazione basato su un approfondito lavoro di ricerca. Si va affermando, da qualche tempo, nel meridione d’Italia, il teatro canzone di ricerca popolare, che sperimenta l’unione tra la recitazione e la canzone cantata e recitata; il prototipo è del gruppo di musica etnica Mattanza ma la cantante attrice Marinella Roda’ lo sta portando al successo nei teatri del sud e del centro Italia con la compagnia teatrale Carma; il tema portante è il brigantaggio postunitario, analizzato con una nuova ottica che vede il popolo meridionale non liberato dai Borboni, come è scritto nei libri di storia ufficiali, ma oppresso, derubato e conquistato dai Piemontesi in funzione di una fittizia ed a loro conveniente Unità d’Italia.

"Il mio scopo non è insegnarvi a recitare, il mio scopo è aiutarvi a creare un uomo vivo da voi stessi." Era l’insegnamento di Konstantin Stanislavskij. E forse il suo scopo è lo stesso che ha dato origine a questa straordinaria forma d’arte.

Storia della Letteratura Italiana Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro. Umberto Eco

La storia della letteratura italiana ha inizio nel XII secolo, quando nelle diverse regioni della penisola italiana si iniziò a scrivere in Italiano con finalità letterarie. Il Ritmo Laurenziano è la prima testimonianza di una letteratura in lingua italiana. Gli storici della letteratura individuano l’inizio di questa tradizione letteraria in lingua italiana nella prima metà del XIII secolo con la scuola siciliana di Federico II di Svevia, Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, anche se il primo documento letterario di cui sia noto l’autore è considerato il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi. In Sicilia, a partire dal terzo decennio del XIII secolo, sotto il patrocinio di Federico II, si era venuto a formare un ambiente di intensa attività culturale. Queste condizioni crearono i presupposti per il primo tentativo organizzato di una produzione poetica in volgare che va sotto il nome di scuola siciliana, così definita da Dante nel suo De vulgari Eloquentia. Tale

124 produzione uscì poi dai confini isolani per giungere ai comuni toscani e a Bologna dove i componimenti presero ad essere tradotti; la diffusione del messaggio poetico divenne per molto tempo il dovere di una sempre più nota autorità comunale. Quando la Sicilia passò il testimone ai poeti toscani, coloro che scrivevano d’amore vi si associarono; seppure in maniera fresca e nuova, i contenuti filosofici e retorici furono assimilati nelle prime grandi università, prima di tutto quella di Bologna. I primi poeti italiani provenivano dunque da un alto livello sociale e furono soprattutto notai e dottori in Legge che arricchirono il nuovo volgare dell’eleganza del periodare latino conosciuto molto bene attraverso lo studio di grandi poeti che si espressero in quella lingua come Ovidio, Virgilio, Lucano. Ciò che infatti ci permette di parlare di una letteratura italiana è la lingua, e la consapevolezza nella popolazione italiana di parlare una lingua, che pur nata verso il X secolo si emancipa completamente dalla promiscuità col Latino solo nel XIII secolo. I vari regni romano-germanici, nel V secolo, generarono la nascita di un pluralismo linguistico in cui il latino locale si mischiò con le lingue germaniche, dando origine al Latino Volgare. I primi scritti in Volgare sono di carattere religioso; in essi si obbligano gli ecclesiastici a rivolgersi ai fedeli, nel corso delle prediche, nella loro stessa lingua come viene stabilito da Carlo Magno nell’813 durante il Concilio di Tours. Per quanto riguarda l’Italia, Alberto Asor Rosa, riferisce che, nel 1189, il patriarca di Aquileia si era recato presso la chiesa delle Carceri di Padova per tenere un sermone in Latino e che esso venne prontamente tradotto ai fedeli presenti in lingua Volgare. Il Volgare Italiano tende gradualmente ad unificare il territorio linguistico ed a soppiantare la lingua latina ormai non più in grado di assolvere quel compito. La letteratura italiana scritta si afferma in ritardo rispetto ad altre letterature europee perché la lingua di cultura per eccellenza fu a lungo il solo Latino, lingua della Chiesa, dei tribunali e delle corti, ma anche delle scuole e delle università. A questo fattore si aggiunge anche l’uso della lingua d’oc e della lingua d’oïl, nelle corti italiane del centro-nord, che produsse, tra i tanti rimaneggiamenti e imitazioni pedestri, anche alcune opere letterarie di un certo pregio, dal Tresor di Brunetto Latini al Milione che Marco Polo ai canti d’amore di Sordello da Goito. Questo almeno fino al momento in cui il Canzoniere siciliano si diffuse in Toscana, principalmente ad opera di Guittone d’Arezzo. Per trovare, in Italia, testi a carattere propriamente letterario in un volgare solido bisogna risalire intorno alla metà del XII secolo con il Ritmo Laurenziano, presumibilmente del, al 1150-1157, ritrovato in un codice della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, che consiste nella cantilena di un giullare toscano, o al Ritmo di sant’Alessio trovato nelle Marche nel XIII secolo o al Ritmo Cassinese. Il periodo storico che va dal 1224, data presumibile della composizione del Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi, al 1321, anno in cui morì Dante si contraddistingue per i numerosi mutamenti in campo sociale e politico e per la viva attività intellettuale e religiosa. Tra la fine del XIII secolo e i primi anni del successivo nasce il Dolce Stil Novo, un movimento poetico che, accentuando la tematica amorosa della lirica cortese, la conduce ad una maturazione molto raffinata. Nato a Bologna e in seguito fiorito a Firenze, esso diventa presto sinonimo di alta cultura filosofica. I poeti delDolce Stil Novo fanno dell’amore il momento centrale della vita dello spirito e possiedono un linguaggio più ricco e articolato di quello dei poeti delle scuole precedenti. L’iniziatore di questa scuola fu il bolognese Guido Guinizelli e tra gli altri poeti, soprattutto toscani, si ricordano i grandi come Guido Cavalcanti, Dante stesso, Cino da Pistoia e i minori come Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi. Guido Cavalcanti, nato a Firenze da una delle famiglie guelfe di parte bianca venne descritto, dai suoi contemporanei, come cavaliere disdegnoso e solitario, tutto volto alla meditazione filosofica e quasi certamente seguace dell’averroismo. Fu amico di Dante Alighieri, che a lui dedicò la Vita Nova, e partecipò attivamente alla vita politica fiorentina sostenendo i Cerchi contro i Donati. Mandato in esilio a Sarzana il 24 giugno 1300 ritornò l’anno stesso in patria dove la morte lo colse alla fine di agosto del medesimo anno. La canzone più famosa di Cavalcanti fu la

125 teorica Donna mi prega perch’io voglio dire, nella quale il poeta tratta dell’amore dandone un’interpretazione di carattere averroista, come sostiene Mario Sansone; l’amore è per il Cavalcanti un "processo dell’intelligenza che dalla veduta forma della donna estrae l’idea della bellezza, già posseduta in potenza, e se ne compenetra e non è, come per il Guinizelli, beatificante ma estremamente terreno che dà più dolori che gioie. Accanto ai tre stilnovisti maggiori, Guinizzelli, Cavalcanti e Dante, vi furono altri quattro poeti appartenenti alla corrente del Dolce stil novo. Lapo Gianni, autore di diciassette componimenti poetici giunti fino a noi, viene ricordato nel famoso sonetto di Dante Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io: da questa si presume che Dante sia un amico intimo di Lapo, insieme a Cavalcanti. L’ultimo stilnovista fu Cino da Pistoia, celebrato dalla critica come mediatore fra lo stile di Dante e quello di Petrarca, maestro dello stesso Petrarca, nella musicalità della poesia e nell’efficacia dell’uso del volgare. Accanto alla lirica cortese un posto di rilievo va assegnato alla poesia comico-realistica: chiaramente antitetica alla contemporanea spiritualità stilnovista, la corrente comico- realistica è giocosa e realista, coltiva il gusto dell’invettiva, della ribellione e della comicità che vanno a sostituire quello della bellezza ideale. Essa si diffonde in Umbria e in Toscana ed ebbe il suo centro a Siena. I due poeti più significativi della poesia comico-realistica furono Cecco Angiolieri e Folgóre da San Gimignano. Tra le opere storiche si è soliti tenere in considerazione Il Milione di Marco Polo che narra i suoi racconti di viaggio fatti in Estremo Oriente dal 1271 al 1295. La trasformazione culturale, sociale e politica del Trecento si fa complessa; nella letteratura italiana, un momento di passaggio tra l’Età Medievale e l’Umanesimo è costituito da Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Tutta la letteratura del secolo XIII viene sintetizzata nelle sue linee fondamentali da Dante Alighieri che, come scrive Giulio Ferroni, crea allo stesso tempo modelli determinanti per tutta la Letteratura Italiana. La sua formazione culturale e la sua prima esperienza di poeta stilnovista si svolgono nell’ultimo scorcio del secolo XIII, ma la maggior parte delle sue opere (compresa la Commedia) vengono scritte nel primo ventennio del secolo XIV. Dante nacque a Firenze, nel maggio del 1265, da una famiglia guelfa di modeste condizioni sociali anche se appartenente alla piccola nobiltà. Imparò l’arte retorica da Brunetto Latini e l’arte del rimare da autodidatta; la poesia rimarrà sempre il centro della sua vita. Di lui si ricordano inoltre Convivio, La Vita Nuova, l’opera intitolata già citata, De vulgari eloquentia, composta negli stessi anni del Convivio, rimasto incompiuto come lo stesso Convivio, in cui si discute delle lingue europee e in modo particolare di quelle romanze e viene fatta una classificazione in quattordici gruppi dei dialetti di tutta la penisola. Sotto il nome di Epistole sono raccolte tredici lettere scritte in latino da Dante a personaggi illustri del suo tempo nelle quali tratta i temi importanti della vita pubblica. Le Egloghe sono due componimenti in latino scritti a Ravenna tra il 1319 ed il 1320 in risposta a Giovanni del Virgilio, un professore dell’università bolognese, che gli aveva indirizzato un carme nel quale lo invitava a non perdersi con la lingua volgare e a scrivere qualcosa nella lingua dotta per poter ottenere l’alloro per la poesia. Dante ammette di desiderare il riconoscimento poetico ma afferma che desidera conquistarlo con il poema in volgare che sta scrivendo. Intesa a ragion di critica l’opera della piena maturità del Boccaccio il Decamerone, composta tra il 1348 e il 1353, una serie di cento novelle che, inserite in un’originale cornice narrativa, rimangono unite dallo stesso stato d’animo che "è l’amore della vita nella pienezza del suo essere e svolgersi, guardata col cuore sgombro da ogni preoccupazione morale e religiosa, e con una esultanza cordiale per il suo bel fiorire: la vita che è gioco e vicenda della fortuna, vicenda or lieta e ilare ora drammatica e persino tragica". Figura rilevante del primo Cinquecento, è Niccolò Machiavelli. Egli fu cortigiano di Lorenzo il Magnifico, la famiglia medicea al potere in Firenze. La figura di Machiavelli è soprattutto collegata al suo lavoro filologico e fu uno dei massimi rappresentanti dello studio umanistico, ma anche al suo pensiero politico, traendo spunto dallo studio per le grandi opere storiografiche dell’antichità. La versatilità culturale

126 machiavellica riguardo alla politica è presente sia nelle sue opere saggistiche, che in quelle poetiche e teatrali, come La mandragola. L’opera maggiore di Machiavelli è Il principe, trattato di politica in cui, citando le maggiori opere antiche sulla demagogia e il governo, dimostra il miglior metodo governativo alle generazioni future. Nell’opera si fanno anche riferimenti politici ad avvenimenti vicini all’epoca dell’autore, come le lotte di Ludovico il Moro con Cesare Borgia. Machiavelli illustra i vari mezzi di governo, come la Tirannia, la Monarchia, l’Oclocrachia, e infine la Repubblica. Successivamente, dopo vari esempi, passa a descrivere la figura ideale del principe, ossia di colui che è in grado di tenere in equilibrio tutte le forme di potere, e tutti i suoi sudditi al governo. I maggiori temi trattati nell’opera sono la fortuna, e la virtù, caratteristiche inseparabili tra loro, perché ognuna ha bisogno dell’altra al governo: la prima offre le occasioni di potere, la seconda ha il metodo per carpirle e manovrarle nel miglior modo possibile. Infine c’è il terzo elemento: il carisma stesso del principe, che deve fungere da strumento regolatore di esse, non essendo troppo feroce, né troppo mansueto con il popolo. Con tale opera, nacque il termine machiavellico, che delinea una persona completamente legata alla conquista dei propri interessi mediante l’acuto uso della ragione e della mente. Ludovico Ariosto è il maggior esponente della letteratura cortigiana nel Rinascimento, assieme a Torquato Tasso. Cortigiano del casato ferrarese, egli godette di notevole fama, fino a ritirarsi, al termine della vita, in una modesta villa. Egli rappresenta colui che ha garantito la ripresa letteraria del vecchio genere del romanzo cavalleresco, scrivendo un poema in chiave eroicomica in cui viene mostrata la società di Carlo Magno nel massimo dei suoi eccessi, intendendo criticare i costumi smodati del suo tempo, dove, sebbene ci siano i cavalieri e i codici d’onore, qualsiasi azione e pensiero è portata all’estremo, fino alla totale distruzione. Un profondo mutamento delle funzioni dell’italiano volgare avvenne dalla fine del Cinquecento. A causa del rallentamento degli scambi economici tra le varie città d’Italia ricominciarono a prender piede i dialetti locali, mentre l’Italiano venne relegato a funzione di linguaggio di corte. Lo spirito della controriforma del Concilio di Trento fece venir meno gli stimoli culturali innovatori che avevano animato i cenacoli letterari. La fondazione dell’Accademia della Crusca nello stesso periodo cristallizzò questa situazione nei secoli successivi, facendo della lingua italiana una lingua artificiale. In questo quadro nascono le opere letterarie di Torquato Tasso; il suo poema, la Gerusalemme liberata, si può considerare sotto l’aspetto letterario frutto del Manierismo, anche se permangono molti elementi ancora rinascimentali, Torquato Tasso risulta essere il secondo maggior esponente del Rinascimento, a servizio della Corte Estense. Egli, a differenza di Ariosto, risente maggiormente della censura attuata dalla Controriforma. La sua vita tormentata ne è un esempio, ma lo è ancora di più il suo poema. Le tematiche affrontate da Tasso nelle sue opere riguardano la fusione tra l’antico e il moderno, attraverso la visione cristianizzante della Chiesa sovrana. Il tema centrale è epico-religioso. Tasso cercherà di intrecciarlo con temi più leggeri, senza però sminuire l’intento serio ed educativo dell’opera. Francesco Guicciardini, con le Storie fiorentine e i Ricordi politici e civili contribuisce alla nascita della storiografia moderna. L’opera più importante però è senz’altro la Storia d’Italia, redatta fra il 1537 e il 1540, che racconta i fatti dalla morte di Lorenzo il Magnifico, nel 1492, a quella di Clemente VII, nel 1534. Tra il Cinquecento e il Seicento operano anche molti autori fondamentali per lo studio filosofico e scientifico. Esempio di ciò son Giordano Bruno, Tommaso Campanella e, soprattutto, Galileo Galilei. Di lui ci resta in particolare il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, uno dei primi esempi di italiano scientificamente divulgativo. Sia il Galilei che Bruno incontreranno ben presto le ostilità della Chiesa controriformista, che punirà severamente le loro scoperte astronomiche, accusate di essere eretiche poiché contro le rivelazioni delle Sacre Scritture. Bruno verrà arso vivo mentre Galilei sarà costretto ad abiurare le sue scoperte, pronunciando comunque la famosa frase "Eppur si muove." Nello stesso periodo nascono numerose Accademie, come quella

127 della Crusca, dei Lincei o del Cimento. Il gusto Barocco, col suo rifiuto del linguaggio ordinario e il suo gusto per l’artificioso e lo stravagante, trovò un campo di applicazione privilegiato nella Lirica. Un posto di rilievo è occupato dall’opera di Giambattista Marino, tanto celebre da essere chiamato come poeta di corte in Italia e a Parigi. Il suo testo maggiore, l’Adone, di proporzioni enormi (quasi tre volte la Divina Commedia), è un poema antinarrativo, che si sviluppa per digressioni attraverso una rete di analogie che evocano la realtà sottoponendola, transitoriamente, alla curiosità di tutti i sensi. Nell’ambito della prosa, il Seicento può vantare un’importante produzione storiografica che si ispirava alla linea politico-diplomatica della Storia d’Italia di Francesco Guicciardini. L’opera più importante del secolo è probabilmente l’Istoria del concilio tridentino del frate veneziano Paolo Sarpi, edita a Londra nel 1619 (in Italia solo nel 1689-90) che venne subito inserita nell’indice dei libri proibiti per la battaglia condotta dall’autore contro il sistema ecclesiastico in nome del valore autonomo delle strutture statali. Dante, aprì la strada alla scuola di Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo e Vincenzo Monti. Patriottismo e classicismo sono i due principi che hanno ispirato la letteratura di Vittorio Alfieri. Adorava l’idea della tragedia greca e romana e della libertà popolare in armi contro la tirannia. Ugo Foscolo rappresenta il preromanticismo italiano. Trovandosi in un periodo difficile per l’Italia, il poeta si alleò con Napoleone Bonaparte, vedendo in lui l’eroe che avrebbe salvato il Paese dalla distruzione e dall’ignoranza politica e culturale. Dopo la delusione, avendo visto i progetti di Napoleone andati in fumo con l’emanazione dell’editto sui Cimiteri, Foscolo andò come esule in Inghilterra, e vi morì. Scrisse per i lettori inglesi alcuni saggi sul Petrarca e sui testi di Boccaccio e di Dante. Nei sonetti, come In morte del fratello Giovanni o A Zacinto, Foscolo racchiude tutta la nostalgia per la patria lontana e per non poter visitare il sepolcro del fratello defunto. Emerge comunque un lato di Foscolo che si potrebbe definire pre-romantico, come l’attenzione per la natura e per le emozioni che essa suscita, elementi che saranno ripresi soprattutto da Leopardi. Ispirato da I dolori del giovane Werther di Goethe, Foscolo ne le Ultime lettere di Jacopo Ortis converte la vicenda nel gusto patriottico italiano. Il protagonista è un giovane lombardo che spera nel cambiamento del Paese con la venuta di Bonaparte. Nel frattempo si innamora di una ragazza, però promessa ad un pomposo e grezzo proprietario terriero, Odoardo. Con il fallimento delle sue illusioni, dacché Napoleone tratta l’Italia come una provincia (dopo la vittoria ad Arcole), e dopo lo sposalizio della sua amata con Odoardo, Jacopo si uccide. Il romanzo è scritto in forma epistolare, riprendendo lo schema goethiano. Nel romanzo egli raccoglie tutti i tipici sentimenti che saranno presenti nel Romanticismo, come lo sturm und drang, lo slancio emotivo, la violenza patriottica, e l’amore per la natura e il passato classico. Il Romanticismo nel primo ’800, è rappresentato maggiormente da Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi, e successivamente, nel filone patriottico, da Ippolito Nievo, Massimo d’Azeglio, Carlo Pisacane e Vincenzo Gioberti: è caratterizzato dal patriottismo e dalla conciliazione della cultura classica greco-romana, studiata dalle classi nobili, con quella emergente della borghesia della quotidianità; è riassunto da Manzoni ne I promessi sposi, in cui affronta i principali problemi della corrente di pensiero riguardanti la descrizione di personaggi protagonisti non nobili, come Renzo e Lucia, la descrizione di un periodo storico del passato, le cui sorti sono ricollegabili all’Ottocento, come la Lombardia seicentesca in cui gli influssi spagnoli, rappresentati da don Rodrigo, influenzavano l’economia e la cultura locale, fatto riconducibile alla presenza austriaca nel nord Italia ottocentesco, e specialmente il contenuto religioso, molto forte nel romanticismo, che Manzoni decide di rendere il vero protagonista che regge il filo del destino dei personaggi del romanzo. Tuttavia la religione abbracciata da Manzoni non è quella classica della Chiesa cattolica, ma il giansenismo. Leopardi invece si oppose al classico romanticismo, ispirandosi a Plinio il Vecchio e a Rousseau, elaborò un personale pensiero filosofico, riguardo alla condizione infelice dell’uomo. Il Verismo-Naturalismo (1878-1888) è caratterizzato in Italia durante l’epoca del

128 positivismo e della rivoluzione industriale milanese-torinese, nonché in ambito culturale dalle teorie sulla specie di Charles Darwin, dal materialismo, e dai romanzi di Gustave Flaubert. I massimi rappresentanti furono Giovanni Verga e Luigi Capuana, il quale però, a differenza di Verga, si occupò principalmente di gestire il movimento lombardo della Scapigliatura, che si opponeva ai sistemi classici di letteratura, incluso il romanticismo. Verga, dopo vari periodi altalenanti di sperimentalismo romantico, scrisse l’opera Storia di una capinera, che segna già il passaggio dal Romanticismo al Verismo, ma ciò avverrà definitivamente con il romanzo de I Malavoglia (1881). Il secondo romanzo del ciclo dei vinti, che incarna il Verismo verghiano, sarà Mastro-don Gesualdo (1888), assieme alla raccolta novellistica di Vita dei campi. Il Verismo verghiano riguarda la Sicilia postunitaria, rappresentata secondo lo schema della "forma inerente al soggetto", ossia la narrazione che è composta, per stile e linguaggio, in base al livello sociale dei personaggi descritti. Il fulcro centrale è il pessimismo dilagante sulla condizione umana delle caste, per niente cancellate con l’unificazione italiana nel 1861, dove i rapporti sociali sono scanditi da regole e fratellanza a parole, ma a fatti vi è un tentativo quasi animalesco di sopraffazione per il possesso del denaro e della fortuna. Il Decadentismo è rappresentato da Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio, sulla scia del tentativo di Giosuè Carducci di ripristinare lo schema classico della poesia italiana, fondando i suoi principi di stampo greco-romano, con l’ode barbara. Pascoli, con richiami alla poesia latina, come ad esempio il titolo Myricae della sua raccolta poetica più famosa, ispirata ad un verso virgiliano, trattò temi di natura bucolica campestre, benché costellata da un clima di morte e inquietudine, influenzato negativamente dai ricordi della morte del padre e della madre. L’equilibrio perfetto per Pascoli è il nido, unica fonte di sicurezza e protezione contro la malignità degli estranei, che il poeta contestualizza in scenari naturali negativi, benché passeggeri, come fenomeni atmosferici del lampo, del tuono, del temporale, rappresentando poi animali del gruppo ornitologico, in cui egli si riconosce, o riconosce suo padre, come nella poesia X Agosto. D’Annunzio elaborò un decadentismo personale, sia in campo poetico, con le Laudi (1903), che con i romanzi della triade della Rosa: Il piacere, L’innocente, Il trionfo della morte. I protagonisti dei romanzi sono degli alter-ego del poeta, tutti giovani nobili che cercano la via del piacere con il mezzo dell’estetismo, e più tardi della potenza del superuomo nietzschiano, in un clima di reclusione con la propria amante/fèmme fatale, contro l’ignoranza della borghesia e della plebe. L’unica fonte di vita per D’Annunzio è la parola, e il tentativo di valorizzarla fino al possibile con la scelta di vocaboli aulici e sonanti, che trasmettano forti sensazioni visive e uditive, specialmente per quanto concerne la poesia del libro Alcyone. Così è anche, nel romanzo più famoso Il piacere. Nel 1816, la scrittrice Madame de Stael in un articolo Sull’utilità delle traduzioni, che apparve sul giornale milanese Biblioteca italiana, rimproverava ai letterati italiani di tradurre solo opere della classicità, e consigliava invece di diffondere scrittori stranieri contemporanei, che avrebbero risvegliato la lingua. Mai come in nessun’altra letteratura, il romanticismo italiano è sostenuto dal concetto di identità nazionale. La parola d’ordine è conciliare il classico retaggio del passato con le nuove spinte di volontà indipendentiste. Esempio di ciò, è il giornale Il Conciliatore, sorto nel 1818 e chiuso solo l’anno dopo dalla censura austriaca. La redazione del giornale era composta da intellettuali di spicco come Silvio Pellico, Giovanni Berchet, Pietro Maroncelli, che saranno imprigionati per molti anni per i loro comportamenti rivoluzionari. Molta letteratura in prosa del Romanticismo è soprattutto letteratura politica. Autori molto noti sono Giuseppe Mazzini, patriota, fondatore della Giovane Italia e autore di numerosi saggi a favore dell’indipendenza italiana; e ancora Massimo d’Azeglio, Vincenzo Gioberti, Luigi Settembrini (Ricordanze della mia vita), Carlo Cattaneo (Notizie naturali e civili sulla Lombardia), Carlo Pisacane, Cesare Cantù (Storia Universale), Gino Capponi (Storia della repubblica di Firenze), Vincenzo Cuoco e Silvio Pellico (Le mie prigioni).Il Romanticismo patriottico italiano, è espresso anche nel romanzo

129 storico Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un soldato che partecipò alle battaglie dei Mille di Giuseppe Garibaldi, e che morì prematuramente affogato. Il tema patriottico è presente e sorretto da un senso religioso del dovere che si esprime nel sacrificio della giovinezza e della vita. L’amore è inteso come trasporto dei sensi e passione sublime nel contempo. Manzoni (1785-1873) è considerato il padre del romanzo italiano, nonché della lingua, assieme a Dante Alighieri. Egli, vissuto a Milano, risente di varie correnti letterarie: dal Giansenismo al Romanticismo e agli ideali della Rivoluzione Francese, fino alla conversione al Cristianesimo. Nelle sue opere giovanili è presente anche il pensiero Illuminista, essendo nipote di Cesare Beccaria. La fama di Manzoni è dovuta al patriottismo, e alla creazione ufficiale della Lingua Italiana, nonché del Romanzo Storico. Le uniche tragedie manzoniane sono Il conte di Carmagnola e l’Adelchi. Quanto al fatto di trovare un nuovo genere per il romanzo, egli lesse l’ Ivanhoe di Walter Scott, e decise di comporre un’opera ambientata nel passato, ma che fosse d’esempio per la generazione attuale, inserendo episodi non assai dissimili a quelli della situazione storica del suo tempo. Leopardi, nato nel 1798 e morto nel 1837 è considerato il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del Romanticismo letterario. Inizialmente sostenitore del Classicismo, ispirato alle opere dell’antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialiste, derivate principalmente dall’Illuminismo, si formarono invece sulla lettura di filosofi come il barone d’Holbach, Pietro Verri e Condillac. Nasce così il pessimismo cosmico, dove Leopardi è alla continua ricerca della felicità, e potrà trovarla soltanto se l’uomo rifiuterà il progresso del secolo attuale, falso portatore di allegria e buoni propositi, e si unirà ai suoi fratelli contro la natura, soffrendo fino alla morte naturale, raggiungendo la felicità. L’opera più importante di Leopardi, nel contesto poetico, sono i Canti, che si uniscono agli Idilli. Sono una grande raccolta di poesie, che abbracciano le tre fasi del pessimismo leopardiano. La prima fase è composta da inni e odi che trattano temi eroici, come All’Italia, Ad un vincitore nel gioco del pallone. La seconda fase è dominata dai canti composti a Recanati, quelli più importanti tra i quali L’ infinito, Il passero solitario, Il sabato del villaggio e A Silvia. In questa fase si delinea il pessimismo cosmico: il rapporto morboso e conflittuale del poeta con la Natura matrigna, e delle sventure nel campo amoroso. Lo Zibaldone è un enorme diario personale, nel quale Leopardi annota dal 1817 tutti i suoi pensieri e riflessioni riguardo al suo sistema filosofico. La letteratura dialettale italiana fu un filone parallelo al romanticismo ottocentesco, rappresentata dal lombardo Carlo Porta e dal romano Giuseppe Gioachino Belli. Quest’ultimo fu il più influente, con i suoi Sonetti romaneschi (oltre 2000), raccolti in una pubblicazione nella seconda metà dell’800. I sonetti rispecchiano vari argomenti, suddivisi in due filoni: il trattare argomenti di vita quotidiana, descrivendo dei veri e propri bozzetti della Roma papalina, con ironici e sprezzanti commenti critici sull’incapacità popolare di redimersi dal potere, benché protesti e soffra, accettando così questo sistema come il vero emblema di Roma, immutabile nei secoli; il trattare argomenti politici e religiosi, con critiche feroci verso la politica, i vari imperatori e il pontefice stesso. LaScapigliatura Lombarda fu un movimento artistico e letterario sviluppatosi nell’Italia settentrionale a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento; ebbe il suo epicentro a Milano e si andò poi affermando in tutta la penisola. Il termine, è la libera traduzione del termine francese bohème (vita da zingari), che si riferiva alla vita disordinata e anticonformista degli artisti parigini descritta nel romanzo di Henri Murger Scènes de la vie de bohème (1847- 1849). Gli scapigliati erano animati da uno spirito di ribellione nei confronti della cultura tradizionale e il buonsenso borghese. Uno dei primi obiettivi della loro battaglia fu il moderatismo della cultura ufficiale

130 italiana. Si scagliarono sia contro il Romanticismo italiano, che giudicavano languido ed esteriore, sia contro il provincialismo della cultura risorgimentale. La Scapigliatura, che non fu mai una scuola o un movimento organizzato con una poetica comune precisamente codificata in manifesti e scritti teorici, ebbe il merito di far emergere per la prima volta in Italia il conflitto tra artista e società, tipico del Romanticismo europeo: il processo di modernizzazione post-unitario aveva spinto gli intellettuali italiani, soprattutto quelli di stampo umanista, ai margini della società, e fu così che tra gli scapigliati si diffuse un sentimento di ribellione e di disprezzo radicale nei confronti delle norme morali e delle convinzioni correnti che ebbe però la conseguenza di creare il mito della vita dissoluta ed irregolare, il cosiddetto maledettismo. Negli scapigliati si forma una sorta di coscienza dualistica una lirica di Arrigo Boito si intitola appunto Dualismo che sottolinea lo stridente contrasto tra l’ideale che si vorrebbe raggiungere e il vero, la cruda realtà, descritta in modo oggettivo e anatomico. Si sviluppa così un movimento che richiama innanzitutto i romantici tedeschi di E. T. A. Hoffmann, Jean Paul, Heinrich Heine, e i francesi, in special modo Charles Baudelaire. Il termine Scapigliatura venne utilizzato per la prima volta da Cletto Arrighi (pseudonimo di Carlo Righetti) nel romanzo La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862). Il Verismo (o realismo) è un movimento letterario che si diffonde in Italia nell’ultimo trentennio dell’Ottocento dietro la spinta di un analogo movimento francese, il Naturalismo. Carattere fondamentale del Naturalismo è il ritorno alla natura che si esprime attraverso la composizione di opere letterarie che hanno come argomento la realtà umana e sociale, anche quella più umile, penosa e sgradevole, rappresentata con rigore scientifico, in modo cioè del tutto oggettivo, distaccato. I veristi italiani riprendono i principi del Naturalismo francese calandoli però in una situazione storica diversa. In Italia, infatti, l’industrializzazione che ha investito l’Europa in particolare l’Inghilterra e la Francia, è solo agli inizi, per lo più, la raggiunta unità politica ha aggravato problemi già esistenti, come il profondo divario tra regione e regione e la netta separazione tra il Nord e il Sud. Nasce, infatti, proprio in questi anni la cosiddetta questione meridionale, che per molti aspetti è ancor oggi irrisolta. Il Verismo acquista così un carattere giornalistico, nel senso che gli scrittori analizzano e descrivono nelle loro opere le proprie realtà regionali in tutta la loro crudezza e drammaticità, con toni a volte decisamente pessimistici. I caratteri fondamentali del Verismo si possono così sintetizzare: rappresentazione di una precisa realtà umana e sociale in modo obiettivo, quasi fotografico; l’opera letteraria viene ad assumere quindi l’aspetto di un documento oggettivo; narrazione impersonale dei fatti, senza interventi, giudizi, considerazioni personali, partecipazione emotiva, da parte dell’autore che rimane così completamente estraneo alla vicenda; utilizzo di un linguaggio semplice e diretto che, dovendo riflettere il modo di esprimersi della gente umile, comprende anche espressioni tipiche delle parlate regionali. I maggiori rappresentanti del Verismo italiano sono Giovanni Verga, Federico de Roberto, Luigi Capuana, Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Grazia Deledda, Renato Fucini e Edmondo De Amicis. Giovanni Verga rappresenta il grande ritorno della Sicilia nel campo della Letteratura Italiana. Egli attraversa due periodi: il Romanticismo e il Verismo. Con il romanzo I Malavoglia, e la novella Rosso Malpelo, Verga compie il balzo al Verismo. Lo stile di Verga si basa in parte su quello di Flaubert e Zola, soltanto che compie il processo della regressione, in quanto deve essere creata una forma inerente al soggetto. Autori fondamentali di questo periodo sono Antonio Fogazzaro con Piccolo mondo antico, Grazia Deledda con Canne al vento (Premio Nobel per la letteratura nel 1926) e Matilde Serao, la prima donna italiana a fondare e dirigere un giornale (Il Mattino). Emilio Salgari, vissuto a Verona e Torino, è il più noto romanziere italiano di avventura. Autore di romanzi celeberrimi come Le tigri di Mompracem, e tanti altri del ciclo indo- malese o la saga del Corsaro Nero, Salgari fu giudicato negativamente dai critici a lui contemporanei; mentre fu riscoperto in seguito e oggi occupa un posto di primo piano nella letteratura per ragazzi. Con il sistema di

131 scolarizzazione del primo Novecento, nacquero anche opere divulgative e precettistiche, nell’intento di educare i bambini e le giovani generazioni attraverso storie fantastiche e di vita reale. Lo scrittore e umorista toscano Carlo Collodi è il padre di Pinocchio. Edmondo De Amicis è noto invece per il suo romanzo Cuore, ambientato nella città di Torino, dove in una scuola elementare, si intrecciano le storie di un gruppo di scolari, amici tra loro. Ciascuna storia che il protagonista narra nel suo diario (cosa che il maestro vuole affinché i bambini imparino a scrivere e a relazionarsi con la società), è il simbolo di un valore della moderna società che De Amicis vorrebbe sia instaurato nella coscienza dei lettori. Il tema maggiore delle opere di Giosuè Carducci è l’Italia: il poeta, infatti, spesso si lamenta dell’Italia della seconda metà dell’Ottocento, dicendo che si è scordata dei valori della vecchia Italia e di quelli del Risorgimento. Altro argomento importante nella poetica di Carducci sono i ricordi e le memorie dell’infanzia. La lingua che egli usa nella sua poesia è rigida, colta e legata alla tradizione latina, ma non per questo poco familiare ed incomprensibile: spesso trasmette sensazioni tramite le suggestive immagine che riesce ad evocare. Purtroppo il pensiero carducciano, che nel suo tempo risultava essere un passo indietro della letteratura verso il passato, incontrarono l’ostilità del pubblico, e anche della critica. Infatti la corrente letteraria in voga di quel tempo era appunto il Verismo, e successivamente Carducci venne rivalutato con il Decadentismo, sebbene per poco tempo. All’inizio del secolo esplodono a livello europeo le cosiddette avanguardie, movimenti artistici che intendono rompere definitivamente i ponti con le forme più tradizionali della letteratura. Il Futurismo, la prima e più consapevole avanguardia letteraria in Italia. Benedetto Croce giudicò molto severamente quasi tutti gli scrittori contemporanei, influenzando così un largo numeri di critici accademici. La critica letteraria italiana del primo Novecento fu incapace di comprendere molti grandi autori, che ebbero riconoscimenti tardivi o addirittura postumi: due casi emblematici sono quelli di Italo Svevo e di Federigo Tozzi, autori scoperti da colleghi stranieri come James Joyce nel caso di Svevo o addirittura decenni dopo la loro morte come nel caso di Tozzi. Nel 1908 fu fondata, da Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, La Voce, rivista di cultura e politica. Continuò le pubblicazioni fino al 1916. Fu una delle più importanti riviste culturali italiane del Novecento. Con l’interventismo emergono autori come Scipio Slataper e Filippo Corridoni. In questo primo Novecento occupano la scena della narrativa Gabriele D’Annunzio e Antonio Fogazzaro. Ma la critica tende oggi a individuare i testi più significativi fra quelli di Luigi Pirandello, che, pur partendo da premesse tardo-veriste, si propone come sperimentatore ed è addirittura precorritore di alcune soluzioni metanarrative con Il fu Mattia Pascal, in cui si colgono nel testo le componenti della poetica pirandelliana più tipica: l’antipositivismo e l’antirazionalismo, non ben apprezzate da Croce. Luigi Pirandello, siciliano, è stato il creatore della corrente letteraria, definita comeumorismo . Egli, oltre al campo del romanzo con Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila, è noto soprattutto nel campo teatrale, tra le quali opere spicca Sei personaggi in cerca d’autore. Molto note sono anche le sue Novelle per un anno, anch’esse narrate con uno stile fra il Verismo e l’Umorismo. Ciò ha contribuito alla creazione del termine pirandelliano, che significa la classificazione di personaggi curiosi, strani, o di situazioni tragicomiche e bizzarre che accadono in maniera del tutto involontaria. Il romanzo Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904, inscena l’insieme delle situazioni dalle quali nasce il termine umorismo e pirandelliano. Il concetto dell’umorismo era già stato definito dall’autore in un suo saggio, in cui descriveva una donna buffa e vecchia, che cerca di apparire giovane, ma che risulta da un primo momento oggetto di riso, e successivamente di compassione. Svevo fu sottoposto ad interpretazioni equivoche per le sue opere, essendo stato uno dei precursori della psicoanalisi di Freud nel campo letterario. Il suo maggiore romanzo è La coscienza di Zeno che rappresenta l’inetto per eccellenza, il quale trascorre la vita in uno stato di perenne irresponsabilità, unicamente impegnato ad analizzare la sua malattia e a studiarne i sintomi. Ma La coscienza di Zeno non è

132 soltanto la storia di una malattia ma, soprattutto, la storia del rifiuto della guarigione: nel rievocare le vicende della sua vita, spesso grottesche e paradossali, il protagonista comprende che il rapporto salute-malattia è ambivalente. Crepuscolari fu l’aggettivo con cui il critico Giuseppe Antonio Borgese definì un gruppo di poeti che operarono all’incirca nel primo ventennio del XX secolo e che interpretarono in modo particolare la sensibilità e i temi del Decadentismo italiano. Il crepuscolo è il momento della giornata che segue il tramonto, è l’ora in cui si diffonde una luce tenue e morente: i poeti crepuscolari derivano il loro nome dal gusto per la penombra e dall’amore per gli aspetti più grigi, meno appariscenti e meno solari dell’esistenza. Fra i crepuscolari il poeta che ha acquistato maggior fama è Guido Gozzano, accanto a lui si ricorda Sergio Corazzini e, per quanto riguarda le prime opere, Corrado Govoni e . Nei primi anni del Novecento, opposta a quella dei crepuscolari fu la voce dei futuristi. Mentre i primi si ripiegavano su se stessi e, con linguaggio prosastico e dimesso invocavano un ritorno ai buoni sentimenti del passato, i secondi reagivano alla caduta di ideali della loro epoca proponendo una fiducia fermissima nel futuro e spronando i letterati a comporre opere nuove, ispirate all’ottimismo e ad una gioia di vivere aggressiva e prepotente. Si auspica inoltre la nascita di una letteratura rivoluzionaria, liberata da tutte le regole, anche quelle della grammatica, dell’ortografia e della punteggiatura. Fra i poeti che partecipano all’esperienza futurista, oltre che a Marinetti, si ricordano Aldo Palazzeschi, Francesco Cangiullo, Luciano Folgore, Ardengo Soffici e Corrado Govoni. La letteratura italiana nel Novecento è fortemente influenzata, più ancora che in altri secoli, da fattori storico-politici e socio-culturali. Sul primo versante, per esempio, non si può sottovalutare che, durante il ventennio fascista, (1922-1943), la libera circolazione delle idee è stata impedita o fortemente limitata, e che perciò il dibattito letterario è stato fortemente condizionato, per tornare in primo piano alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Sul versante socio-culturale mantenne grande influenza il filosofo e critico Benedetto Croce, tra i pochissimi intellettuali a rimanere indipendente dal fascismo, a differenza del suo collega Giovanni Gentile, che ne fu invece uno dei fautori. Tuttavia si deve sottolineare che, anche sotto il regime fascista, rimase vivace l’interesse per il confronto letterario, grazie soprattutto alle riviste fiorentine, come Solaria, alla quale collaboravano autori quali Eugenio Montale o e le riviste letterarie di Mino Maccari e Leo Longanesi. Insieme alla consacrazione di Luigi Pirandello, Premio Nobel per la letteratura nel 1934. La vita di , triestino, fu, invece fuori dalle prigioni dei vati movimenti, ma assai tormentata. Egli rappresenta l’anti-novecentismo, in cui rifiuta i canoni della nuova poesia, del futurismo e del crepuscolarismo, tornando ad una poesia classica, è sua una frase estremamente efficace per capire la differenza tra i due più importanti capisaldi della scrittura: "La letteratura sta alla poesia come la menzogna alla verità". Il suo modello sarà Francesco Petrarca, e i temi si svolgeranno attorno alla sua vita personale. Il Canzoniere, pubblicato inizialmente nel 1919, è stata ripubblicato altre volte, e notevolmente ampliato, venendo diviso in tre sezioni; e risulta essere un ampio percorso di vita del poeta, così come la Vita di un uomo di Ungaretti. Saba, nell’opera, si propone di raccontare il processo di ricerca di un semplice uomo, ossia il poeta stesso, verso la purificazione totale. Infatti egli, nella raccolta, racconta dall’infanzia all’anzianità quasi tutta la sua vita in versi. Il tema principale è quello dell’infanzia del poeta, travagliata dal trauma della separazione a tre anni del fanciullo dalla balia che lo aveva accudito. La poesia ermetica fu così chiamata nel 1936 dal critico Francesco Flora che con tale aggettivo volle definire un tipo di poesia caratterizzata da un linguaggio difficile, a volte ambiguo e misterioso. Il termine, infatti, è derivato dal nome del dio greco Hèrmes, il Mercurio dei Romani, personaggio dai risvolti enigmatici. I poeti ermetici con i loro versi non raccontano, non descrivono, non spiegano ma fissano sulla pagina dei frammenti di verità a cui sono pervenuti attraverso la rivelazione poetica e non con l’aiuto del ragionamento. I loro testi sono estremamente concentrati e

133 racchiudono molti significati in poche parole e tutte le parole hanno un’intensa carica allusiva, analogica, simbolica che vuole liberarsi dalle espressioni retoriche, dalla ricchezza lessicale fine a sé stessa, dai momenti troppo autobiografici o descrittivi e dal sentimentalismo. Gli ermetici vogliono creare della poesia pura che possa essere espressa con termini essenziali. Concorrono a questa essenzialità anche la sintassi semplificata che spesso viene privata dei nessi logici, con spazi bianchi e lunghe e frequenti pause che rappresentano momenti di concentrazione, di silenzio, di attesa. I poeti ermetici si sentono lontani dalla realtà sociale e politica del loro tempo. L’esperienza della prima guerra mondiale, e quella del ventennio fascista, li ha condannati ad una grande solitudine morale e l’impossibilità di farsi interpreti della realtà storico-politica li isola confinandoli in una ricerca riservata a pochi e priva di impegno sul piano politico. Possono considerarsi precursori dell’Ermetismo i poeti Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Dino Campana, Arturo Onofri. I poeti sicuramente più rappresentativi della corrente sono Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1959. Fra gli altri poeti: , Vittorio Sereni. All’inizio del XX secolo si colloca, unica e folgorante, l’esperienza artistica del poeta Dino Campana ch,e nel 1914, pubblica i Canti Orfici. La poesia di Salvatore Quasimodo ed Eugenio Montale si può collegare all’Ermetismo, ma dopo gli esordi si evolve poi in linee poetiche originali ed innovative. La poesia di Umberto Saba, come già detto, è del tutto lontana dalla sensibilità ermetica per il tono discorsivo dei suoi versi e per il linguaggio semplice e prosastico. Ugualmente lontana dall’Ermetismo è la poesia di Vincenzo Cardarelli o quella di Idilio Dell’Era che, prendendo a modello la poesia di Leopardi, aspirano a perpetuare la tradizione classica. Contemporaneamente emersero scritti nel campo delle scienze sociali con autori come Gaetano Salvemini che pose l’accento su quella che poi sarebbe stata chiamata questione meridionale e con i suoi Quaderni. La questione meridionale, intesa come difficoltà del Mezzogiorno dopo il raggiungimento dell’unità nazionale, entrò nel dibattito storiografico con Giustino Fortunato e proseguita da Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Francesco Saverio Nitti. Fu affiancata dal punto di vista socio-culturale da scrittori diversi tra loro, quali Ignazio Silone, Giovanni Verga, e . I Quaderni dal carcere furono composti da Gramsci dal 1929 e fino al 1935, durante la sua prigionia nelle carceri fasciste e pubblicati solo tra il 1948 e il 1951, secondo un ordine tematico, ottenendo un grande impatto nel mondo della politica, della cultura, della filosofia e delle altre scienze sociali dell’Italia del dopoguerra. I temi trattati di maggior rilevanza possono essere così riassunti: l’egemonia di classe, nella sua accezione più vasta; il ruolo degli intellettuali, che devono contribuire a creare le condizioni perché tale egemonia passi al proletariato; considerazioni sulla filosofia crociana, considerata condivisibile per l’impianto storicistico, ma da ribaltare nella priorità della sfera ideale su quella materiale; l’analisi dell’esperienza risorgimentale, considerata una rivoluzione mancata; la questione meridionale, come necessità di creare una coscienza di classe rivoluzionaria per le masse di contadini del sud; considerazioni sulla critica letteraria ed artistica. Nella seconda metà del secolo una caratteristica è la notevole divaricazione tra il destino della poesia e quello della narrativa: mentre la prima è senz’altro dotata di una propria tradizione, la seconda appare continuamente rinnovata. La riacquisizione della libertà di stampa dopo la fine del Fascismo, favorì la nascita di un’editoria vivace e libera. Vicenda esemplare fu quella della casa editrice Einaudi, fondata da Giulio Einaudi, figlio del grande economista e presidente della repubblica Luigi Einaudi. Questa casa editrice coinvolse filosofi, storici e letterati più importanti dell’epoca. Sintomo di una nuova rinascita culturale dopo la bufera della guerra è la creazione di molte riviste come Il Politecnico di Elio Vittorini o Humanitas, La nuova Europa, Belfagor e Il Menabò. Oltre alla discussione sui temi letterari molti di questi periodici presentano le prime traduzioni di opere straniere, soprattutto americane, che erano proibite durante il fascismo. Fanno la loro comparsa i prestigiosi premi

134 letterari come lo Strega, il Campiello, il Bancarella, che stimolano sempre più la letteratura italiana odierna. Dopo la Seconda Guerra Mondiale molti poeti, in un rinnovato clima politico, riaffermano il valore sociale della poesia e criticano il disimpegno dell’Ermetismo. In questi anni, di fronte a un’ampia fioritura della narrativa, la poesia si trovò spiazzata. Bisogna tuttavia notare che in questo stesso periodo si ha un progressivo spostamento degli interessi del grande pubblico verso il cinema italiano, e, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, si riscontra una prima polarizzazione tra produzione di largo consumo e cultura d’élite. Nel secondo dopoguerra, è Eugenio Montale a diventare il modello più seguito dai giovani autori. Poeti del secondo Novecento sono Giorgio Caproni, e Andrea Zanzotto, quest’ultimo forse il più innovativo dal punto di vista tematico e stilistico. Il primo momento della poesia di Montale rappresenta l’affermazione del motivo lirico. Montale, in Ossi di seppia (1925) edito da Piero Gobetti, afferma l’impossibilità di dare una risposta all’esistenza: in una delle liriche introduttive, Non chiederci la parola, egli afferma che è possibile dire solo "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", sottolineando la negatività della condizione esistenziale. Gli ossi di seppia sono una metafora che serve a descrivere l’uomo, che con l’età adulta viene allontanato dalla felicità della giovinezza e abbandonato, al dolore, sulla terra come un inutile osso di seppia. In questo periodo si sviluppa in Italia il Neorealismo. Questa nuova tendenza intendeva descrivere l’enormità degli eventi appena accaduti soprattutto durante la seconda guerra mondiale. In questi anni si assunse, in generale, un atteggiamento di condanna verso la letteratura italiana precedente, rea di aver collaborato con il fascismo, con l’eccezione dei realisti degli anni trenta. Principale interprete di questa condanna fu Elio Vittorini, attraverso la rivista Il Politecnico, nella quale inoltre ribadiva la libertà e l’indipendenza dell’artista dalla politica. Durante il periodo neorealista e soprattutto negli anni seguenti, la narrativa sperimenta forme e temi nuovi, in una grande varietà di produzione in cui è difficile distinguere dei filoni. Tra gli scrittori più noti: Carlo Cassola, , , Carlo Emilio Gadda, Emilio Lussu, Mario Rigoni Stern, , Dino Buzzati, Carlo Levi, , , Cesare Pavese, Ignazio Silone, Ennio Flaiano, , , e i siciliani Vitaliano Brancati, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Elio Vittorini, Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. E ancora , Natalia Ginzburg, Giovanni Arpino, Umberto Eco, Beppe Fenoglio, , , Giovanni Testori, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Francesco Jovine, Antonio Delfini, Giovannino Guareschi, , Luciano Bianciardi, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Vittorio Sereni, Giorgio Orelli, , Lucio Mastronardi, Antonio Pizzuto, Dacia Maraini, Tommaso Landolfi, Vincenzo Consolo, Andrea Camilleri, Eugenio Corti. In quegli anni la scelta dei dialetti risulta soprattutto difensiva o per opposizione contro la massificazione e poi la globalizzazione, come nel caso di Pier Paolo Pasolini. L’intersezione dei dialetti diventa, nel secondo Novecento, da un lato molto più affine al plurilinguismo colto, e basato magari sul rapporto anche con lingue morte, dall’altro, come in Andrea Camilleri, il dialetto è intimamente integrato nel linguaggio in italiano e utilizzato nel discorso diretto e nelle citazioni di proverbi e modi di dire. Moravia ha esplorato nelle sue opere i temi della sessualità moderna, dell’alienazione sociale e dell’esistenzialismo. Nel romanzo Gli indifferenti, la storia, ambientata in una Roma provinciale, ruota attorno ad una tipica famiglia borghese L’opera di Moravia è legata al realismo ed egli indaga le patologie delle classi sociali, specialmente dell’alta e della media borghesia. Lo stile della sua prosa è spoglio e disadorno, le parole volutamente povere e comuni per concentrarsi sulla costruzione del periodo con una sintassi elaborata. Ogni proposizione della sua prosa corrisponde a singole osservazioni psicologiche che s’incastrano in un montaggio perfetto fino ad affermare uno stato d’animo particolare. Il suo è uno stile esclusivamente da narratore che non si compiace di effetti lirici ma si affida esclusivamente allo

135 svolgersi del periodo. Nelle opere più tarde la sua prosa diventa sempre più scarna legata ad una struttura dialogica che rende più evidente il monologo interiore come è tipico della grande narrativa del Novecento. I rapporti tra l’individuo e la società, tra l’es e il super-io vengono analizzati attraverso il tema del sesso secondo una tematica freudiana e marxista che segue le ideologie della trasgressione sia nella sfera politica, sia in quella privata. Elsa Morante è considerata da alcuni critici tra le più importanti autrici italiane di romanzi del secondo dopoguerra, ha scritto Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo, La storia e Aracoeli. Il romanzo L’isola di Arturo è ambientato intorno al 1938. Arturo Gerace è nato sull’isola di Procida e vive lì tutta l’infanzia e l’adolescenza. L’isola racchiude tutto il suo mondo, e tutti gli altri posti esistono per lui solo nella dimensione della leggenda. Ambientato invece nella Roma della seconda Guerra Mondiale e dell’immediato dopoguerra è La storia. Come romanzo corale è un pretesto per narrare un affresco sugli eventi bellici visti in soggettiva con gli occhi dei protagonisti e della popolazione ferita alle prese con problemi vecchi e nuovi dovuti ai tragici avvenimenti di quegli anni. Pier Paolo Pasolini è considerato uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo, dotato di un’eccezionale versatilità culturale. Il libro Ragazzi di vita racconta le vicende, nel corso di qualche anno, di alcuni ragazzi appartenenti al sottoproletariato romano. Anche il periodo storico, d’altronde, non è privo di significato nel contesto del libro: la storia, infatti, si svolge nell’immediato dopoguerra, quando la miseria era più tiranna che mai. In questo ambiente è facile comprendere come mai i ragazzi protagonisti del libro siano allo sbando più totale: le famiglie non costituiscono punti di riferimento, né sanno trasmettere valori e spesso sono costituite da padri ubriaconi e violenti, madri sottomesse e fratelli molte volte avanzi di galera; le scuole, presenti come edifici, ma non in funzione, sono destinate ad accogliere sfrattati e sfollati. Italo Calvino, intellettuale di grande impegno politico, civile e culturale, è stato uno dei narratori italiani più importanti del Secondo Novecento. Ha seguito molte delle principali tendenze letterarie a lui coeve, dal Neorealismo al Postmoderno, ma tenendo sempre una certa distanza da esse e svolgendo un proprio personale e coerente percorso di ricerca. Di qui l’impressione contraddittoria che offrono la sua opera e la sua personalità: da un lato una grande varietà di atteggiamenti che riflette il vario succedersi delle poetiche e degli indirizzi culturali nel quarantennio fra il 1945 e il 1985; dall’altro, invece, una sostanziale unità determinata da un atteggiamento ispirato a un razionalismo più metodologico che ideologico, dal gusto dell’ironia, dall’interesse per le scienze e per i tentativi di spiegazione del mondo, nonché, sul piano stilistico, da una scrittura sempre cristallina e a volte, si direbbe, classica. L’opera maggiore di Calvino, nel suo periodo fantastico di poetica, è la trilogia de I nostri antenati, nel quale, in maniera allegorica e simbolica, lo scrittore narra particolari vicende del passato. La Generazione degli anni trenta, autori nati negli anni ’30, pur essendo caratterizzata da esperienze eterogenee, hanno fatto sì che oggi essi vengano considerati appartenenti ad una generazione matura. Si possono citare Dacia Maraini, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Alberto Bevilacqua, e tra i poeti Giancarlo Majorino, Giovanni Raboni e Alda Merini. Dopo gli anni ’60 la poesia sembra volgersi a uno sperimentalismo linguistico più complesso. Tra i poeti più significativi di questa tendenza vanno ricordati Franco Fortini e Andrea Zanzotto. In questa generale tendenza al rinnovamento va iscritta anche la neo-avanguardia del Gruppo 63 costituitosi a Palermo nell’ottobre di quell’anno. Tra gli esponenti più significativi del gruppo (peraltro estremamente eterogeneo per intenzioni e interessi) troviamo Umberto Eco, Nanni Balestrini, Alberto Arbasino, e i poeti ed Edoardo Sanguineti. Fra gli anni ’70 e gli anni ’80, la letteratura italiana assiste a vari sviluppi sperimentali. Il siciliano Stefano D’Arrigo pubblica Horcynus Orca (1975), romanzo visionario e labirintico. Altri due siciliani, Vincenzo Consolo e Gesualdo Bufalino, giocano con la forma-romanzo. Consolo affronta tematiche civili, ma utilizza forme narrative ben distanti da certe forme di letteratura sociale; al contrario, i

136 suoi romanzi possiedono una struttura complessa ed una prosa vertiginosa, spesso ermetica. Bufalino, che esordisce a sessant’anni con Diceria dell’untore, utilizza uno stile elegantissimo che conducono il lettore verso sponde esistenzialistiche. Nel 1984 esce Seminario sulla gioventù, romanzo d’esordio di Aldo Busi, uno dei più prolifici scrittori italiani contemporanei. Nei romanzi di Busi, le tematiche civili si intersecano con la questione della lingua italiana, della sua evoluzione e del suo pericoloso impoverimento. A continuare una certa linea Gaddiana di rinnovo della lingua italiana, anche attraverso la riscoperta di certi arcaismi, è Michele Mari, autore di grande inventiva e, a oggi, considerato come uno dei massimi scrittori italiani. Gli anni ’90 vedono l’affermarsi del fenomeno letterario dai critici definito "Cannibali", di genere pulp, con Aldo Nove, Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa. Un discorso a parte merita Isabella Santacroce: esordita all’interno della letteratura cannibale, la Santacroce ha in seguito abbracciato uno stile più lirico e surrealista. Una recente proposta letteraria, il New Italian Epic di Wu Ming, si muove verso l’individuazione di una linea attuale, tutta italiana e tutta letteraria, di indagine della storia e di lavoro sullo stile. Sulla stessa linea, infine, la raccolta di racconti pubblicati dalla Minimum Fax, a cura di Giorgio Vasta, Anteprima Nazionale (2009), con scritti di Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Giancarlo De Cataldo, Valerio Evangelisti, Giorgio Falco, Giuseppe Genna, Tommaso Pincio, Wu Ming 1, che raccontano come sarà il nostro paese tra vent’anni. Dalla fine degli anni ’90 fino ad oggi i massimi scrittori italiani conosciuti nel mondo sono stati Umberto Eco, Margaret Mazzantini, Oriana Fallaci, Indro Montanelli, Claudio Magris, Gianrico Carofiglio, , Luciano De Crescenzo e . Parallelo a questo fenomeno di conservazione culturale dell’identità occidentale italiana, negli anni 2000 si è sviluppato il fenomeno editoriale del best seller, ossia un particolare romanzo di immediata fama collettiva, spesso di bassa qualità, focalizzato soltanto al puro fine del tornaconto economico della casa editrice e dell’autore stesso. Questo è il caso dei grandi fenomeni come Federico Moccia e Fabio Volo, scrittori dedicati al primo al pubblico adolescenziale, con la stesura di romanzi rosa su storielle d’amore di ragazzi, ognuno dei quali con lo stile misto a neologismi del target tipico giovanile; mentre il secondo scrittore intento a narrare storie di quarantenni/cinquantenni in crisi di mezza età, alle prese con la propria vita e il proprio lavoro, nell’intenzione di trovare una svolta alla loro esistenza grazie ad un amore improvviso e passionale. In ambito dell’inchiesta la Fallaci ebbe un ruolo importante negli anni ’60, durante le battaglie sull’emancipazione della donna, e sulle grandi inchieste e interviste a personaggi storici, come Giulio Andreotti, Federico Fellini, Henry Kissinger e l’ayatollah Ruhollah Khomeyni. A causa delle sue posizione decisamente anti-islamiche, fu spesso accusata di razzismo e omofobia. Le due opere più famose sono il romanzo Insciallah (1990), in cui racconta in tre parti le vicende dell’esercito italiano, intervenuto nel Libano, in seguito agli attentati di Beirut nel 1983, avente come sfondo storico la guerra civile libanese del 1982. La seconda opera è l’inchiesta La rabbia e l’orgoglio (2001), pubblicato in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle; l’opera ha la caratteristica di un’orazione, più che altro un appello disperato alle potenze occidentali, un ammonimento a cessare di commerciare con il Medio-Oriente e a dare una risposta chiara e precisa agli attacchi del terrorismo, per la salvaguardia dell’identità civile occidentale. Saviano è diventato noto nel mondo letterario grazie alla pubblicazione, nel 2006, del romanzo Gomorra, che ha ottenuto immediato successo per la descrizione tecnico-realistica del fenomeno della camorra e della criminalità organizzata nel nuovo millennio nelle zone meridionali di Napoli-Casal di Principe. Facendo uso del principio di riscoperta della cultura classico-medievale del mondo antico greco- romano, e del Medioevo cistercense, i massimi rappresentanti nel XXI secolo sono Eco e Manfredi. Manfredi è noto nel mondo per la riscoperta del modello antico classico-greco, cambiato e rivisitato come sfondo principale riguardo al periodo storico in cui ambientare le proprie vicende. Un esempio felice è Lo scudo di

137 Talos (1988), che narra, durante il periodo della seconda guerra persiana (480 a. C). Si vuole, anche con questo capitolo, evidenziare l’importanza della Letteratura Italiana, come concentrato delle varie esperienze linguistiche che, a partire dal Latino sino all’attuale Lingua Italiana, si sono sovrapposte nel corso della storia, e come la narrativa e la poesia siano lo specchio della società e dell’umanità non solo di chi scrive ma anche di chi leggendo, riconosce e ritrova l’universalità della sua dimensione sociale ed esistenziale, ed essendo anche la Letteratura un’Arte concludiamo con una citazione di colui che, come abbiamo detto, è considerato il padre della lingua Italiana Volgare.

"Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista.". San Francesco d’Assisi

Storia del Cinema Italiano A differenza di tutte le altre forme d’arte, il cinema è in grado di cogliere e rendere il passaggio del tempo, per fermarlo, quasi a possederlo in infinito. Direi che il film è la scultura del tempo. Andrej Tarkovskij I primi fotogrammi impressi su pellicola e prodotti in Italia sono documentari della durata di pochi minuti dedicati a regnanti, imperatori, papi e a scorci di alcune città. Il primo operatore di rilevanza storica è Vittorio Calcina, autore di cortometraggi sia in forma documentaria che a soggetto. Il successo di questi quadri in movimento è immediato. Il cinematografo affascina per la sua capacità di mostrare con inedita precisione re- altà geografiche lontane e, viceversa, di immortalare momenti quotidiani senza storia. Vengono ripresi eventi sportivi, avvenimenti locali, intensi traffici stradali, l’arrivo di un treno, visite di personaggi famosi, ma anche disastri e calamità naturali. Nonostante le iniziali diffidenze, nell’arco di soli due anni il cinema scala le gerar- chie della società incuriosendo le classi più abbienti. Nei primi anni del XX secolo si sviluppa in tutta Italia il fenomeno dei cinema, ambulanti che provvedono all’alfabetizzazione del mezzo visivo. Tale innovativa forma di spettacolo si esaurisce, in breve, ossia una quan- tità di attrazioni ottiche (lanterne magiche, cineografi, stereoscopi, panorami, diorami...) che avevano alimen- tato l’immaginazione europea e favorito la circolazione di un comune mercato delle immagini. Il nascente cinema italiano, dunque, resta comunque ancora legato ai tradizionali spettacoli della Commedia dell’Arte o a quelli propri del folclore circense. In breve centinaia di case di produzione sorgono in tutto il paese. Contem- poraneamente si organizza nei centri urbani una rete sempre più capillare di sale cinematografiche, il Cinema Lumière di Pisa inizia le proiezioni già nel 1899, il Cinema Sivori di Genova addirittura dal 1896. Questa trasformazione porterà alla produzione dei film a soggetto, che per gran parte del periodo muto affianche- ranno il documentario fino a sostituirlo quasi completamente all’inizio della Prima Guerra Mondiale. Decine di personaggi incontrati sui libri di testo fanno il loro ingresso sul grande schermo: il conte di Montecristo, Giordano Bruno, Giuditta e Oloferne, e altri ancora. Nel 1905 la Cines inaugura il genere del film storico, che negli anni Dieci darà larga fortuna a molti cineasti italiani.

Questa contingenza porterà alla nascita di uno dei primi film a soggetto recante il titolo La presa di Roma (1905), della durata di dieci minuti e realizzato da Filoteo Alberini. Nei tre anni che precedono la Prima Guer- ra Mondiale, mentre la produzione si consolida, vengono esportati in tutto il mitologici, comici e

138 drammatici. Nasce il fenomeno del divismo che per alcuni anni conoscerà un successo inarrestabile. Con la fine del decennio, Roma si impone definitivamente come principale centro produttivo; tale resterà, nonostante le crisi che periodicamente scuoteranno l’industria, fino ai nostri giorni. I kolossal presentati nei primi anni del Novecento mostrano tutte le ambizioni dell’Italia giolittiana che celebra sul grande schermo avvenimenti dell’antichità, con aspirazioni proprie di una potenza internazionale. Il primo regista a sfruttare pienamente questo enorme apparato spettacolare è Enrico Guazzoni, già pittore e scenografo di fama. Nel suo Quo vadis? (1913) i personaggi e lo spazio scenico creano rapporti finora inediti, esaltando la dialettica tra individuo e massa che sarà al centro dei futuri film storici. La storia rimane sullo sfondo, mentre in primo piano si agitano drammi personali derivanti dal melodramma. Il successo internazio- nale del film segna la maturazione del genere e permette a Guazzoni di realizzare film sempre più spettacolari come Cajus Julius Caesar (1913) e Marcantonio e Cleopatra (1913). Giovanni Pastrone è il regista più interes- sato alla ricerca di soluzioni scenografiche inedite. Già in La caduta di Troia (1911) sperimenta originali co- struzioni prospettiche, ma è con il titanico Cabiria (1914) che la sua filmografia e l’intero genere raggiungono l’apice. Concepito come un autentico film-evento, anche grazie alla collaborazione di Gabriele D’Annunzio, la pellicola colpisce il pubblico per la sua ambizione, supportata da finanziamenti e costi produttivi senza pre- cedenti. Le innovazioni tecniche, tra cui l’uso dei carrelli e del primo piano, la complessità della trama, l’uso espressivo del trucco, dell’illuminazione e l’opulenza scenografica contribuiscono alla sua fama di oggetto d’arte capace di superare i limiti del mezzo cinematografico. Negli anni a venire, pellicole come Intolerance (1916) di David W. Griffith o Metropolis (1927) di Fritz Lang saranno debitrici del film di Pastrone. Il filone dei kolossal storici si interrompe all’inizio degli anni Venti. Tra il 1913 e il 1920 si assiste all’ascesa, allo sviluppo e al declino del fenomeno del divismo cinematografico, nato con l’uscita di Ma l’amor mio non muore (1913), di Mario Caserini. Il film ha un successo di pubblico enorme e codifica l’impostazione e l’estetica del divismo femminile. La recitazione di Lyda Borelli esercita una grandissima influenza per tutto il decennio e contribuisce a rinnovare l’immaginario romantico con influenze melodrammatiche, decadenti e simboliste. Francesca Bertini è, dopo Lyda Borelli, la seconda grande diva del cinema italiano. Nel giro di pochi anni si affermano Eleonora Duse e tante altre che arrivano a modificare il costume nazionale, imponendo canoni di bellezza, modelli di comportamento come oggetti del desiderio. Nonostante la diversità delle interpreti e dei film, il modello femminile che emerge dal cinema, di questo pe- riodo, è sostanzialmente riconducibile al modello melodrammatico, anche se contaminato dal decadentismo dannunziano e dalle teorie di Lombroso. Soltanto negli anni Venti, con la crisi produttiva e il tramonto delle dive, sarà possibile l’emergere di una figura femminile più realistica, priva dell’aura divina e più accessibile allo spettatore. Le comiche mute non sono mai diventate un genere di rilievo. Il tratto rilevante di questa produzione, è la capacità di assimilare varie forme di spettacolo popolare, dal teatro di piazza al vaudeville. Costruiti attorno a esili trame con spunti umoristici e catastrofici, questi brevi film fungono da semplice accompagnamento a pellicole più ambiziose. Il comico di maggior successo in Italia è André Deed, più noto come Cretinetti, protagonista di innumerevoli corti per la Itala Film. È significativo che i protagonisti delle comiche italiane non si pongano mai in aperto contrasto con la società né incarnino desideri di rivalsa sociale (come accade per esempio con Charlie Chaplin), ma cerchino piuttosto di integrarsi in un mondo fortemente desiderato; l’avanguardia futurista ha effetti sul cinema del periodo e soprattutto ne è influenzata. Con il suo interesse per la rapidità e la violenza espressiva, il Futurismo trova nel cinema un’arte giovane, meno compromessa con

139 la retorica passatista e soprattutto aperta ai futuri sviluppi tecnologici. Nel Manifesto della cinematografia futurista (1916) Filippo Tommaso Marinetti, Bruno Corra, Emilio Setti- melli, Arnaldo Ginna e Giacomo Balla descrivono il cinema come l’arte capace di sintetizzare tutte le tendenze sperimentali dell’epoca. Così facendo, rivendicano l’uso di drammi di oggetti, sinfonie di linee e colori e giochi delle proporzioni per superare i limiti del naturalismo ottocentesco. Il cinema che auspicano è antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero. Al di là della dichiarazione d’intenti, il futurismo non riuscirà a far proprio il nuovo mezzo di espressione, né sarà in grado di lasciare un segno duraturo nella sua evoluzione. L’influenza opera piuttosto in senso contrario: sarà il cinema a condizionare la produzione artistica del movimento, con il montaggio dei materiali più disparati, i primi piani e i dettagli, il taglio eccen- trico delle immagini, l’uso di didascalie, stacchi e dissolvenze. I film riconducibili al movimento sono soltanto due. La prima, Vita futurista (1916), di Arnaldo Ginna, ironico e intenzionalmente provocatorio, ricorre a numerosi effetti speciali: parti colorate a mano, viraggi, inquadrature eccentriche, montaggio anti-naturali- stico per stimolare le reazioni emotive dello spettatore. La seconda, Thaïs (1917), di Anton Giulio Bragaglia, nasce sulla base del trattato estetico Fotodinamismo futurista (1911), redatto dello stesso autore. La pellicola, costruita attorno a una vicenda melodrammatica e decadente, rivela in realtà molteplici influenze artistiche diverse dal futurismo marinettiano; le scenografie secessioniste, l’arredamento liberty, e i momenti astratti e surreali contribuiscono a creare un forte sincretismo formale. Con la fine della Grande Guerra il cinema italiano attraversa un periodo di crisi dovuto a molti fattori: disor- ganizzazione produttiva, aumento dei costi, arretratezza tecnologica, perdita dei mercati esteri e incapacità di far fronte alla concorrenza internazionale, in particolare quella hollywoodiana. Letteratura e Teatro sono ancora le fonti narrative privilegiate. Resistono i feuilleton, perlopiù ripresi da testi classici o popolari e diretti da specialisti come Roberto Roberti ed i kolossal religiosi di Giulio Antamoro. Sulla scorta dell’ultima gene- razione di dive, si diffonde un cinema sentimentale al femminile, incentrato su figure ai margini della società che, invece di lottare per emanciparsi, come accade nel contemporaneo cinema hollywoodiano, attraversano un autentico calvario allo scopo di preservare la propria virtù. La protesta e la ribellione da parte delle prota- goniste femminili sono fuori discussione. È un cinema fortemente conservatore, legato a regole sociali scon- volte dalla guerra e in via di dissoluzione in tutta Europa. Un caso esemplare è quello di La storia di una donna (1920), di Eugenio Perego, che usa una costruzione narrativa originale per proporre con toni melodrammatici una morale ottocentesca. Un filone particolare è quello di ambientazione verista, grazie all’opera della prima regista donna del cinema italiano, Elvira Notari, che dirige numerosi film influenzati dal teatro popolare e tratti da famose sceneggiate, canzoni napoletane, romanzi d’appendice oppure ispirati a fatti di cronaca. Altra pellicola di ambientazione verista è Sperduti nel buio (1914), del regista siciliano Nino Martoglio, conside- rata da certa critica come un primo esempio di cinema neorealista. In realtà la produzione italiana di questo periodo è marginale e il mercato è dominato dai film hollywoodiani. L’unico produttore capace di adeguarsi alla situazione è Stefano Pittaluga, destinato a esercitare un controllo quasi assoluto sui film italiani fino agli anni Trenta, anni in cui il mercato cinematografico mondiale attraversa un vero e proprio sconvolgimento provocato dall’avvento del sonoro. Lo scetticismo iniziale nei confronti del nuovo mezzo coinvolge produttori e cineasti di molti paesi, restii fin da subito a cimentarsi con la relativa ideazione. Tale invenzione stravolge le regole della grammatica cinematografica e viene vista come una minaccia per la distribuzione internazionale, potenzialmente soggetta (tramite il doppiaggio) a qualsiasi tipo di manipolazione. Il sonoro arriva in Italia nel 1930, tre anni dopo l’uscita de Il cantante di jazz (1927), e porta immediatamente a un dibattito sulla validità del cinema parlato e i suoi rapporti con il teatro. Il primo film sonoro italiano èLa canzone dell’amore (1930),

140 di Gennaro Righelli, che risulta essere un grande successo di pubblico. Simile al film di Righelli èGli uomini, che mascalzoni... (1932), di Mario Camerini, che ha il merito di far debuttare sugli schermi Vittorio De Sica. Il regime fascista si preoccupa fin da subito di rilanciare una cinematografia in declino. Nel 1924 viene fondata l’Unione Cinematografica Educativa Luce, una società di produzione e distribuzione a controllo statale. Nello stesso periodo viene istituito il Ministero della Cultura Popolare che, attraverso considerevoli contributi a fondo perduto (regolati dalla legge 918 del 1931), finanzia direttamente l’industria dello spettacolo. Nonostante l’aumento degli investimenti derivato da questa politica dirigista, l’arretratezza tecnologica e culturale condanna alla marginalità l’ultimo periodo del cinema muto. Da questo momento in poi, fino allo scoppio della guerra, produzione e mercato saranno stabilmente pilotati dalle autorità governative. Nel 1935 viene istituito il Centro Sperimentale di Cinematografia, destinato a imporsi come il principale luogo di for- mazione professionale del cinema italiano. Nello stesso anno gli stabilimenti della Cines vengono distrutti da un incendio. Sulle ceneri del vecchio sito industriale sorge, nel 1937, Cinecittà, uno dei complessi produttivi più grandi d’Europa, inaugurato in aperta sfida agli studios di Hollywood. Nel 1940 gli stabilimenti vengono statalizzati e ben presto diventano il cuore pulsante dell’industria cinematografica, portando metà della pro- duzione a girare nei suoi teatri di posa. Da quel momento Roma diventa la capitale indiscussa del cinema ita- liano, con Cinecittà e il Centro Sperimentale destinati a esercitare per circa mezzo secolo un dominio incon- trastato nella formazione delle competenze e nella produzione. Fino alla fine del 1938, il regime fascista non impedirà l’importazione di film stranieri ma con il rafforzamento finanziario e il sempre maggiore ruolo dello Stato nella produzione vengono adottate misure protezionistiche, volte a limitare le importazioni. Mettendo a punto una politica dittatoriale votata al monopolio dei mezzi di informazione, la legge Alfieri del 6 giugno 1938 blocca la circolazione di film stranieri, dando impulso alla produzione nazionale. Fino al momento della sua caduta, il regime imporrà un cinema strutturato in generi codificati: commedia farsesca e sentimentale, melodramma, feuilleton in costume, gialli polizieschi, quasi tutti d’ambientazione straniera, film musicali, tratti dalle più famose opere liriche, lungometraggi d’avventura, film a tema bellico e pellicole epico-storiche. Il cinema del periodo fascista non sarà il veicolo privilegiato della propaganda ma contribuirà a formare l’idea di società che il fascismo vuole imporre. A questo intento celebrativo contribuisce una nuova generazione di attori: Vittorio De Sica incarna una virilità comune e per questo capace di catturare le attenzioni del pubblico. Durante gli anni Trenta e Quaranta, allo stesso modo, interpreti come Gino Cervi, Amedeo Nazzari, Fosco Giachetti, Massimo Girotti, Raf Vallone continueranno a incarnare la virilità italiana, divisa tra orgoglio na- zionale e avvicinamenti progressivi alla realtà; così come, Rossano Brazzi e Massimo Serato, Dal lato femmi- nile Alida Valli, Clara Calamai, Doris Duranti, Elsa Merlini, portano sul grande schermo una bellezza più comune, distante dal fascino stilizzato delle dive del muto. Sulla stessa lunghezza d’onda faranno il loro debut- to Valentina Cortese, Marina Berti e una giovane Anna Magnani, che a partire dal dopoguerra diventerà una delle interpreti più significative di tutto il cinema italiano. Un discorso a parte meritano alcuni attori prove- nienti dal varietà e capaci di portare al cinema fortunate maschere comiche: è il caso di Ettore Petrolini, Totò, Gilberto Govi, i fratelli Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Nino Taranto, Renato Rascel ed Erminio Macario. Le rappresentazioni cinematografiche dello squadrismo e delle prime azioni fasciste sono rare. La maggior parte dei film a celebrazione dell’impero sono in prevalenza documentari, volti a mascherare la guerra come una lotta della civiltà contro la barbarie. Con la partecipazione dell’Italia alla Seconda Guerra Mondiale, il regime fascista rafforza ulteriormente il controllo sulla produzione e richiede un impegno più deciso nella propaganda. Oltre agli ormai canonici documentari, cortometraggi e cinegiornali, aumentano anche i film a soggetto in elogio delle imprese belliche italiane.

141 Tra i registi che danno il loro contributo alla propaganda bellica c’è anche , autore di una trilogia composta da La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) e L’uomo dalla croce (1943). Anticipan- do per certi versi le sue opere della maturità, il regista adotta uno stile dimesso e immediato, che non contrasta l’efficacia della propaganda ma neppure esalta la retorica bellica dominante: è lo stesso approccio anti-spetta- colare a cui resterà fedele per tutta la vita.

La stagione dei interessa un periodo di tempo relativamente breve, dalla seconda metà degli anni Trenta alla caduta del fascismo. Il riferimento ai telefoni di colore bianco, all’epoca un segno di benes- sere sociale, indica fin da subito i caratteri di questo cinema che portano al rifiuto di qualunque problematica sociale, ponendo al centro della scena esili commedie sentimentali che conoscono un effimero successo. Una denominazione alternativa del genere è il cinema déco, per sottolineare i frequenti riferimenti alle tendenze e al costume dell’epoca. Le relative produzioni, infatti, traboccano di case di lusso, macchine di grido, vestiti ed arredamenti alla moda, degno contorno delle innocue e spensierate vicende comico-sentimentali di Amedeo Nazzari, Vittorio De Sica, Alida Valli ed Assia Noris. Il cosmopolitismo superficiale del genere è spiegabile anche per le necessità produttive: molti film sono adattamenti di commedie mitteleuropee di inizio secolo, che tentano di mascherare la frivolezza del contenuto con la brillantezza dello stile. Inoltre, il cinema déco si rivelerà ben presto il banco di prova di numerosi sceneggiatori destinati a imporsi nei decenni successivi (tra i quali Cesare Zavattini e Sergio Amidei), e soprattutto di numerosi scenografi come Guido Fiorini, Gino Carlo Sensani e Antonio Valente, i quali, in virtù delle riuscite invenzioni grafiche, porteranno tali produzioni a divenire una specie di summa dell’estetica piccolo-borghese del tempo. Tra gli autori, Mario Camerini è il maggior regista del genere. Interessato alla figura dell’italiano tipico e popolare, tanto da anticipare alcuni elementi della futura commedia all’italiana. Il suo interprete maggiore, Vittorio De Sica, ne continuerà la le- zione in Maddalena... zero in condotta (1940) e Teresa Venerdì (1941), valorizzando soprattutto la direzione degli attori e la cura per le ambientazioni.

Il , invece, è una tendenza cinematografica relativa ad alcuni film realizzati in Italia nella prima metà degli anni Quaranta e dotati di una complessità espressiva che li isola dal contesto generale. L’esponente più noto di questa tendenza è Mario Soldati, scrittore e regista di lungo corso destinato a imporsi con pellicole di ascendenza letteraria e solido impianto formale. I suoi film mettono al centro della storia personaggi dotati di una forza drammatica e psicologica estranea sia al cinema dei telefoni bianchi sia ai film propagandistici, e rinvenibili in opere come Dora Nelson (1939), Piccolo mondo antico (1941), Malombra (1942). I conflitti inte- riori dei personaggi e la ricchezza scenografica sono ricorrenti anche nei primi film di Alberto LattuadaGia ( - como l’idealista, 1943) e Renato Castellani (Un colpo di pistola, 1942), dominati da un senso di disfacimento morale e culturale che sembra anticipare la fine della guerra. Altro importante esempio di film calligrafico è la versione cinematografica de I promessi sposi (1941), di Mario Camerini (molto fedele nella messa in scena al capolavoro del Manzoni), che grazie agli introiti percepiti diviene il lungometraggio più seguito a cavallo tra gli anni 1941 e 1942. La caratteristica saliente in questo corpus eterogeneo di film risiede nella volontà di competere con le produzioni europee affermando l’autonomia del cinema nei confronti delle altre arti. Il risultato è un cinema formalmente complesso, capace di rievocare numerose tendenze culturali e di armoniz- zarle in una forma artistica compiuta. I riferimenti letterari principali sono quelli della narrativa ottocente- sca, in prevalenza italiana (da Antonio Fogazzaro a Emilio De Marchi), russa e francese. Ai film collaborano letterati come Corrado Alvaro, Ennio Flaiano, Emilio Cecchi, e documentaristi come Francesco Pasinetti. Sul versante visivo, il calligrafismo si rifà ai macchiaioli toscani, ai preraffaeliti e ai simbolisti. Le pellicole di questo breve periodo non hanno vocazione realista o di impegno sociale. L’interesse principale resta la cura

142 formale e la ricchezza di riferimenti culturali racchiusi in un cinema capace di valorizzare la professionalità di ogni componente produttiva. La critica del tempo bolla questi film come velleitari e superficiali coniando appositamente l’espressione calligrafismo; in seguito, a partire dagli anni Sessanta, questo giudizio riduttivo è stato corretto. Per la brevità della sua storia, la fragilità delle strutture produttive e la debolezza dei film, il cinema della Repubblica di Salò è un campo scarsamente considerato dalla storiografia. Questa "non storia" inizia all’in- domani dell’armistizio dell’8 settembre, quando Luigi Freddi stabilisce il nuovo centro della cinematografia fascista a Venezia allo scopo di riprendere la produzione. Ferdinando Mezzasoma, nominato Ministro della Cultura Popolare, tenta di creare una piccola Cinecittà veneziana con i registi, gli sceneggiatori, le maestran- ze e gli attori che hanno risposto all’appello di trasferirsi al nord. Ma il cinema della Repubblica Sociale è da subito condannato a lottare contro la scarsità di mezzi concessi dalle autorità, ormai prive di interesse per quella che Mussolini stesso aveva definitol’arma più forte. Molti artisti di punta fuggono all’estero, altri si ren- dono irreperibili in attesa di tempi migliori. Le risorse del Ministero vengono usate principalmente per ripor- tare in vita il Cinegiornale Luce. I lungometraggi a soggetto, una quarantina in totale, molti dei quali andati perduti, sono improntati all’evasione dalla realtà circostante: commedie, film storici e feuilleton sentimentali. Ben pochi rientrano nell’ormai morente filone propagandistico. Negli ultimi anni del conflitto l’Italia conosce tragedie e distruzioni immani. Uno dei sistemi produttivi più avanzati d’Europa si è dissolto e la produzione è praticamente ferma. In questo scenario desolante si manifesta una volontà di rinascita, che nel 1944 porta alla fondazione dell’ANICA, erede diretta della FNFIS di epoca fascista, che raccoglie gli interessi di produttori, distributori ed esercenti. All’indomani del 25 aprile, nel 1945 vengono prodotti 28 film, che salgono a 62 l’anno successivo e a 104 all’inizio degli anni Cinquanta. Alla fine del decennio si arriverà a 167. In questo campo si sviluppa il Neorealismo, una stagione artistica e culturale che riguarda tutte le forme d’arte, ma che trova nel cinema i suoi risultati più compiuti. Il Neorealismo nasce dal libero incontro di alcune individualità all’interno di un clima storico comune, rappresentato dal trauma della guerra e la relativa lotta di liberazione. Per tali motivi il cinema neorealista non può essere considerato né una corrente né un movimen- to, dato che i registi di spicco (Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti e Giuseppe De Santis) manterranno sempre una personalità autonoma e originale. I tratti comuni del nuovo realismo, inseparabili dal contesto storico, sono identificabili piuttosto nel senso etico di fratellanza nato dall’antifascismo, nella centralità di personaggi comuni e nell’intreccio tra vicende private e storia pubblica, tutti elementi che spin- gono all’uso preferenziale, ma non esclusivo, di attori non professionisti e di ambientazioni reali. Si evolve in tal modo un cinema di stampo realista che assurge a simbolo di riscatto del popolo italiano, di quella società povera ma vitale che il cinema d’epoca fascista aveva completamente rimosso. Il momento di svolta avviene con Roma città aperta (1945), di Roberto Rossellini, rievocazione della lotta antifascista a Roma negli ultimi mesi della guerra civile in cui le diverse anime della resistenza romana (comunista, liberale e cattolica) collaborano nel rispetto reciproco. Ciò che colpisce a livello scenografico è il pieno utilizzo di luoghi all’aperto dove, oltre agli attori, a essere protagonista è l’architettura stessa della città eterna. Quello che più interessa al regista sono le strade, le chiese, i tetti, le case popolari, quegli spazi vitali che l’uomo è chiamato a difendere. Il film ottiene grande successo internazionale (anche in virtù delle prove di Aldo Fabrizi e Anna Magnani) e consacra Rossellini a portavoce del Neorealismo. La visione ecumenica ritorna nel successivo, Paisà (1946), affresco bellico sull’avanzata degli alleati dalla Sicilia alla valle del Po, che rispetto al precedente sacrifica la psicologia individuale alla necessità dell’itinerario storico e geografico. Girato con mezzi di fortuna a ridosso dei fatti, il film suddivide gli avvenimenti narrati in sei episodi differenti, a tratti filmati con criteri e finalità propri del

143 documentario. Sul versante opposto, la parabola di Vittorio De Sica è inseparabile da quella del suo sceneg- giatore Cesare Zavattini, che in più di un’occasione ha rappresentato la coscienza teorica del Neorealismo. Insieme realizzano nel 1943 I bambini ci guardano, che mostra una forte attenzione alla realtà contempora- nea; attenzione ripresa e ampliata nei successivi La porta del cielo (1944) girato a Roma nei mesi a cavallo della Liberazione e Sciuscià (1946), che conoscerà in breve tempo una grande affermazione internazionale. A differenza di Rossellini, De Sica carica il film di intensità emotiva e cerca il coinvolgimento dello spettatore raccontando la difficile sopravvivenza di due ragazzini inevitabilmente sconfitti dalla società. Con Ladri di biciclette (1948) il dramma individuale, inserito in una più ampia problematica sociale, si carica di un pathos abilmente gestito dal regista, capace di impiegare al massimo grado le interpretazioni di attori non professio- nisti. Miracolo a Milano (1951) entra nel territorio della favola sotto forma di apologo fantastico e incentra le proprie tematiche sul bisogno della solidarietà, portando allo scoperto una tendenza latente nella poetica di Zavattini. Tale rivendicazione del potere dell’immaginazione verrà accolta con grande scetticismo da parte della critica e non troverà più seguito. Infine, l’idea zavattiniana di mettere in scena una puntigliosa descri- zione della vita quotidiana raggiunge il suo climax più alto con la pellicola Umberto D. (1952). La storia di un individuo qualunque alle prese con il dramma di vivere procede per accumulazione di dettagli che la regia porta fino al culmine della forza espressiva. Tra i registi di questo periodo, Luchino Visconti è il più complesso, solo in parte riconducibile ai moduli del Neorealismo. Il suo esordio apre la strada alla riscoperta della realtà con Ossessione (1943), autentico film-spartiacque che mostra già l’ascendenza letteraria del suo cinema, l’interesse per il melodramma e l’am- bientazione rurale. Piegando i motivi del noir americano ai moduli del realismo, in particolar modo francese; questo tragico dramma psicologico risulta del tutto anomalo nel contesto del cinema fascista e sarà un punto di riferimento obbligato per molti cineasti successivi. Dopo la partecipazione al film collettivo Giorni di glo- ria (1945) e un’importante attività teatrale, Visconti raggiunge uno degli apici della sua filmografia con La terra trema (1948). Interpretato da attori non professionisti e parlato in dialetto, il film è la summa di tutte le influenze artistiche e culturali del regista. Figura unica di intellettuale aristocratico e comunista, il cineasta milanese guarda alla storia di una comunità di pescatori attraverso la lettura esplicitamente marxista della lot- ta di classe. Da un punto di vista estetico, il complesso apparato figurativo rende funzionale al dramma ogni elemento della messa in scena, con sequenze costruite secondo precisi rapporti plastici, cromatici, sonori e musicali. L’opera è un insuccesso di pubblico e Visconti ripiega su progetti meno ambiziosi. Il successivo Bel- lissima (1951) torna alla contemporaneità con una descrizione minuziosa del mondo del cinema e del fascino esercitato sui popolani, ma non rinuncia alla costruzione narrativa romanzesca né alla complessità figurativa. Interessato a estendere i confini del Neorealismo è senz’altro Giuseppe De Santis. Nell’arco di una dozzina di film, De Santis cercherà di adattare i moduli neorealisti al cinema popolare contemporaneo, nonché il reali- smo socialista sovietico allo spettacolo hollywoodiano. L’ambizione è meglio espressa in Riso amaro (1949), grande successo internazionale, che coniuga aspirazione sociale e cultura popolare. In Non c’è pace tra gli ulivi (1950) vengono riassunti tutti i temi a lui più cari: la centralità del personaggio femminile, l’ambienta- zione agricola e la precisa descrizione sociale. Fino alla metà degli anni Cinquanta molti film riprenderanno, in forme più o meno consapevoli, temi e ambientazioni del neorealismo.

Nell’immediato dopoguerra Mario Bonnard ne La città dolente (1949) racconta l’esodo istriano avvalendosi di sequenze documentarie. , influenzato dal noir americano, coniuga realismo e necessità spettacolare con Il bandito (1946) e Senza pietà (1948); seguono l’ambizioso e personale Il mulino del Po

144 (1949) e Il cappotto (1952), entrambi di origine letteraria. Il giovane Pietro Germi guarda ai moduli del cine- ma statunitense con Il testimone (1945) e Gioventù perduta (1947). Conferma la solidità della sua regia. Anche Mario Soldati mette la vocazione letteraria al servizio del realismo con Le miserie del signor Travet (1946), così come Francesco De Robertis nel potente e visivo Fantasmi del mare (1948). A metà del decennio la tendenza neorealista può dirsi esaurita. Tra le cause vanno citate la crescita produttiva, con la contemporanea afferma- zione di generi più codificati, il raffreddamento ideologico imposto dal governo in cambio del sostegno all’in- dustria, l’evolversi dei registi maggiori e la difficoltà di rappresentare una società in continuo cambiamento. A segnare la chiusura di questa esperienza provvedono i film di Roberto Rossellini dei primi anni Cinquanta, l’esaurimento della vena realista di Vittorio De Sica (con l’insuccesso produttivo e critico di Stazione Termini, 1953) e soprattutto il dibattito suscitato da Senso (1954) di Luchino Visconti, che supera il realismo contem- poraneo nella direzione dell’affresco storico risorgimentale, riletto attraverso Gramsci, e dell’interesse per la complessità psicologica. Una certa attenzione sociale, ormai ridotta a puro sfondo per commedie, sopravvivrà fino alla fine degli anni Cinquanta in un filone bollato dalla critica come neorealismo rosa, le cui pellicole, edulcorate e blandamente ottimiste, condurranno il pubblico fuori dalle macerie del Dopoguerra. Uno dei primi cineasti a seguire questa direzione è il ligure Renato Castellani, che contribuisce a portare in auge la commedia realista con Sotto il sole di Roma (1948) ed È primavera (1949), entrambe girate in ester- ni e con attori non professionisti, e soprattutto con il successo di pubblico e critica di Due soldi di speranza (1952). Nella seguente pellicola (Grand Prix du Festival a Cannes), l’occhio del regista diviene testimone di un sud rurale e bucolico, assorbito dalle più elementari preoccupazioni pratiche e sentimentali. Il suo stile, abile nel coniugare commedia popolare e motivi realisti, arriverà a influenzare registi come Luigi Comencini e Dino Risi nelle produzioni di grido Pane, amore e fantasia (1953) e Poveri ma belli (1956); opere, ambe- due, in perfetta sintonia con l’evoluzione del costume italico. Il grande afflusso al botteghino avuto dalle due pellicole rimarrà pressoché invariato nei sequel Pane, amore e gelosia (1954), Pane, amore e ... (1955) e Belle ma povere (1957), egualmente diretti da Luigi Comencini e Dino Risi. Da annotare è la popolare pellicola Guardie e ladri (1951), diretta a quattro mani da Steno e Monicelli che si avvale delle caratterizzazioni a tutto tondo di Totò ed Aldo Fabrizi. Di altrettanto valore sono: Prima comunione (1950), di , Anselmo ha fretta (1950), di Gianni Franciolini, La famiglia Passaguai (1951), di Aldo Fabrizi, Il sole negli occhi (1953), di Antonio Pietrangeli e Un eroe dei nostri tempi (1955), del regista Mario Monicelli. Altri felici bozzetti dell’Italia preboom sono: Signori, in carrozza! (1951), di Luigi Zampa, Guardia, guardia scelta, bri- gadiere e maresciallo (1956), di Mauro Bolognini e La nonna Sabella (1957), di Dino Risi, tutti impreziositi dall’ilare teatralità di Peppino De Filippo. A metà degli anni Cinquanta Vittorio De Sica abbandona i soggetti drammatici per realizzare il vitale e anti-folcloristico L’oro di Napoli (1954) a cui segue la pochade di costume La spiaggia (1954), diretta da Alberto Lattuada. Sullo stesso registro si inseriscono alcune prove del comme- diografo Eduardo de Filippo come Napoli milionaria (1950), Filumena Marturano (1951) e Napoletani a Mi- lano (1953), dove intenti realisti e connotazioni tragicomiche si interscambiano continuamente. Degli stessi anni è la produzione italo-francese Don Camillo (1952), di Julien Duvivier, rifacimento del romanzo Mondo piccolo (Don Camillo) di Giovanni Guareschi, che stempera con leggerezza le due facce politiche dell’Italia di allora, per giungere a un messaggio di piena ricomposizione nazionale. La pellicola guadagna, fin da subito, un grande consenso, favorita dalla peculiare vis comica di Fernandel e Gino Cervi. Ancora da ricordare è la farsa agrodolce Policarpo, ufficiale di scrittura (1959), diretta da Mario Soldati e sorretta dalla comicità lunare e misurata di Renato Rascel. La realizzazione è ispirata ai disegni di inizio Novecento dell’umorista Gandolin e ottiene al dodicesimo Festival di Cannes il premio per la miglior commedia.

145 Inoltre, inserita nel ventaglio della serie a episodi, si espande, alla fine del decennio, la moda dei film balneari, girati allo scopo di pubblicizzare alcune delle più importanti mete turistiche italiane. Tra i risultati migliori del genere - che vanta un ingente partecipazione di volti noti del cinema e del teatro, si evidenziano: Vacanze a Ischia (1957), di Mario Camerini, Avventura a Capri (1958), di Giuseppe Lipartiti e Tipi da spiaggia (1959), di Mario Mattoli. La somma di tali contesti cinematografici aprirà la strada a una nuova schiera di attrici, che in breve incarnerà un rinnovato divismo femminile. Fra le tante si ricordano: Silvana Mangano, Gina Lollo- brigida, Silvana Pampanini, Giovanna Ralli, Marisa Allasio, Milly Vitale, Anna Maria Pierangeli, Lucia Bosè, Eleonora Rossi Drago, Gianna Maria Canale, Elsa Martinelli, Marisa Pavan, Rossana Podestà ed Anna Maria Ferrero. A seguire: Claudia Cardinale, Virna Lisi, Lisa Gastoni, Rosanna Schiaffino, Lea Massari, Antonella Lualdi, Ilaria Occhini, Sandra Milo e naturalmente . Nello stesso tempo, fuori dal circuito divistico, troveranno inizio le carriere di interpreti di qualità come Luisa Della Noce, Carla Gravina, , Lea Padovani e Giulietta Masina. Gli anni Cinquanta saranno, in- fine, il terreno fertile su cui germoglierà un’assoluta fucina di interpreti quali Enrico Maria Salerno, Romolo Valli, Gabriele Ferzetti e in particolar modo Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi e Gian Maria Volonté che grazie alla loro versatilità, diverranno, a cavallo di tre ge- nerazioni, gli attori più rappresentativi dell’intero cinema italiano. A partire dalla metà degli anni Cinquanta il cinema italiano si svincola dal Neorealismo affrontando argomen- ti prettamente esistenziali, filmati con stili e punti di vista differenti, spesso più introspettivi che descrittivi. Si assiste così a una nuova fioritura di cineasti che contribuisce in maniera fondamentale allo sviluppo della settima arte. Michelangelo Antonioni è il primo ad imporsi, divenendo un autore di riferimento per tutto il cinema contemporaneo. Tale carica di novità è ravvisabile fin dal principio. Infatti, la prima opera del regista, Cronaca di un amore (1950), segna un’indelebile frattura con il mondo del neorealismo e la conseguente na- scita di una moderna cinematografia. Antonioni indaga con sguardo critico il mondo della borghesia italiana, rimasto fuori dall’obiettivo cinematografico del dopoguerra. Così facendo, vedono la luce opere di ricerca psicologica come I vinti (1952), La signora senza camelie (1953) e Le amiche (1955), libero adattamento del racconto Tra donne sole di Cesare Pavese. Nel 1957 mette in scena l’inconsueto dramma proletario Il grido, con cui ottiene il plauso della critica. Negli anni tra il 1960 e il 1962, dirige la trilogia dell’incomunicabilità, composta dai filmL’avvent ura, La notte e L’eclisse. In tali pellicole, che vedono come protagonista una giovane , Antonioni affronta in maniera diretta i moderni temi dell’incomunicabilità, dell’alienazione e del disagio esistenziale, dove i rapporti interpersonali sono volutamente descritti in modo oscuro e sfuggente. Federico Fellini è l’autore che più di ogni altro ha racchiuso ogni aspetto del reale e del surreale in una dimen- sione poetica e favolistica. Nel 1950 esordisce al cinema con Alberto Lattuada nel film Luci del varietà, affet- tuoso e sincero tributo al declinante mondo della rivista. Con I vitelloni (1953), La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957) si impone come uno dei massimi punti di riferimento del cinema italiano e internazionale. Il suo stile altamente immaginifico viene esaltato dal felice sodalizio con gli sceneggiatori Ennio Flaiano e Tul- lio Pinelli e, in particolar modo, con il compositore . Alcune scene dei suoi film più noti assurgeran- no a simboli di un’intera epoca, come la famosa sequenza di Anita Ekberg che, ne La dolce vita (1960), entra nella Fontana di Trevi divenendo, da allora, un’icona del grande cinema. L’opera è un programmatico affresco di una Roma frivola e decadente, assolutamente priva di qualsiasi certezza morale. Ne consegue un composito viaggio nel sonno della ragione dove i disvalori della società borghese emergono in maniera autentica e visce- rale. Nel corso degli anni Sessanta l’artista romagnolo inizia un periodo di sperimentazione col monumentale,

146 onirico e visionario 8½ (1963). Il film è un’autobiografia immaginaria dello stesso regista che, con apparente svagatezza, tocca temi centrali come l’arte, la persistenza della memoria e la morte. Dopo un omaggio alla ca- pitale nel film Roma (1972), il seguente Amarcord (1973) descrive con nostalgia e complicità i propri luoghi d’infanzia e la spontanea vitalità dell’età adolescenziale. Terminata l’esperienza neorealista, Luchino Visconti continuerà a regalare al cinema italiano altre prestigiose creazioni. Nel 1960 esce nelle sale Rocco e i suoi fra- telli, che mette a confronto una storia di miseria meridionale con la civiltà industriale del Nord, raccontando l’afflusso migratorio delle popolazioni del Sud con lucida introspezione psicologica. Nel 1963 giunge sugli schermi Il Gattopardo, fedele illustrazione del passaggio della Sicilia dei Borboni a quella dei Sabaudi, non tradendo lo spirito scettico e amaro dell’omonimo romanzo. La sua vasta produzione continua con le opere La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971), Ludwig (1973), Gruppo di famiglia in un interno (1974) e L’innocente (1976). Anche Roberto Rossellini abbandona la stagione neorealista per realizzare il dramma psicologico Viaggio in Italia (1953), che anticipa i temi sull’incomunicabilità della coppia delineati dal cinema di Antonioni. Stroncato quasi ovunque, verrà unicamente elogiato dalla critica francese, divenendo un punto di riferimento per i futuri registi della Nouvelle vague. All’inizio degli anni Sessanta Vittorio De Sica porterà al successo planetario l’interprete Sophia Loren nel drammatico La ciociara (1960) e in egual misura nella commedia a episodi Ieri, oggi, domani (1963), dove l’attrice recita al fianco di Marcello Mastroianni. La pelli- cola varrà al regista un nuovo Oscar nella sezione miglior film straniero. La sequenza più famosa del film resta il négligé con cui la Loren si mostra nell’ultimo episodio, lasciando il segno nell’intero immaginario colletti- vo. Con il drammatico ed elegante Il giardino dei Finzi-Contini (1970), l’artista si aggiudicherà nuovamente l’Oscar per il Miglior film straniero. Da sottolineare la peculiare carriera del palermitano Vittorio De Seta che negli anni Cinquanta realizza vari documentari ambientati prevalentemente in terra siciliana e sarda. Queste opere descrivono con potente espressività gli usi e costumi del proletariato meridionale e, allo stesso tempo, mettono a nudo le dure condi- zioni di vita dei pescatori siciliani, dei minatori di zolfo nisseni e dei pastori della Barbagia. Nel 1955, il regista si aggiudica la Palma d’oro a Cannes per il miglior documentario grazie al film Isola di fuoco. Anni più tardi, dirige il film a soggetto Banditi a Orgosolo (1961). L’opera, stilisticamente asciutta, è un resoconto a sfondo realista della vita e delle abitudini di un vero pastore sardo. In un tempo coevo si afferma il regista Carlo Lizzani. Contribuisce all’affermazione del neorealismo nelle vesti di critico e sceneggiatore, imponendosi in seguito come autore di un cinema politicamente impegnato, teso ad affrontare momenti scottanti della storia italiana, dal fascismo alla cronaca più recente. La sua filmo- grafia comprende con Cronache di poveri amanti (1954), resoconto della Firenze degli anni Venti tratto dal romanzo di Vasco Pratolini , Il gobbo (1960), vivido ritratto di un bandito della periferia romana , Il processo di Verona (1963) e La vita agra (1964). Altro protagonista del cinema d’autore è Pier Paolo Pasolini. Attento osservatore della trasformazione della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni Settanta, ha suscitato forti polemiche per la radicalità e vivacità del suo pensiero; vivacità che ha saputo mettere in evidenza anche in campo cinema- tografico e da subito riscontrabile nel suo film d’esordio Accattone (1961). Le medesime ambientazioni le si ritrova in Mamma Roma (1962), dove il regista nobilita i suoi personaggi suburbani con richiami alla pit- tura rinascimentale del Mantegna. Nel Vangelo secondo Matteo (1964), l’artista racconta la vita del Cristo rinunciando agli orpelli dell’iconografia tradizionale, avvalendosi di una forma registica che alterna camera a mano a immagini proprie della pittura quattrocentesca. In Uccellacci e uccellini il suo cinema vira sull’apologo

147 fantastico descrivendo le varie trasformazioni del proletariato. Tra le sue varie pellicole troviamo Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969), Medea (1969) e le trasposizioni cinematografiche della trilogia della vita: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974). In Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), dietro la cornice storica del fascismo, l’autore sonda i meandri più remoti dell’essere umano. Tali pellicole hanno proposto chiavi di lettura differenti scatenando sovente lunghi dibat- titi, talvolta con strascichi giudiziari ed episodi di censura. Un altro regista di rilievo è Valerio Zurlini: i suoi film, da Estate violenta (1959) a La ragazza con la valigia (1961), da Cronaca familiare (1962) a Il deserto dei Tartari (1976), alternano suggestive rievocazioni letterarie ad analisi psicologiche raffinate e complesse, con risultati visivi alquanto notevoli. Molto raffinato sul piano formale è anche il cinema di Mauro Bolognini. Tra i film più significativi: Giovani mariti (1958), La giornata balorda (1960), Il bell’Antonio (1960), La viaccia (1961), Agostino (1962) e Metello (1970). Ermanno Olmi esordisce con il film Il tempo si è fermato (1958), emozionante parabola sui rapporti tra uomo e natura che fa subito emergere le sue peculiari doti artistiche. La notorietà arriverà tre anni dopo con Il posto (1961), un ritratto dolce-amaro della Milano del boom economico. Gli anni Settanta consacrano Olmi a livello internazionale con l’uscita nelle sale de L’albero degli zocco- li (1978), commosso e partecipe omaggio a un mondo contadino in via d’estinzione, premiato, nello stesso anno, con la Palma d’oro al Festival di Cannes. Dopo una lunga malattia, Olmi ritorna alle cronache col sur- reale Lunga vita alla signora! (1987) e l’intenso La leggenda del santo bevitore (1988). Nel 2001 il regista realizza quello che molti critici considerano il suo miglior lavoro: Il mestiere delle armi, dedicato al mito di Giovanni dalle Bande Nere. Marco Ferreri si cimenta nella regia verso la fine degli anni Cinquanta presentando un cinema grottesco e pro- vocatorio, con tratti e accenti parzialmente bunueliani. Il suo umorismo nero e sferzante è già rintracciabile nelle opere El pisito (1958) e La carrozzella (1960), filmate e ambientate in terra spagnola. Anni dopo dirige l’attore Ugo Tognazzi nei film Una storia moderna: l’ape regina (1963) e La donna scimmia (1964), dove ha modo di farsi conoscere dalla critica italiana. Nel 1969 raggiunge la piena maturità artistica con Dillinger è morto, stralunato e attualissimo apologo sull’alienazione della vita moderna. Dopo il percorso kafkiano e surreale de L’udienza (1971) ottiene la massima popolarità internazionale con il sorprendente e discusso La grande abbuffata (1973). Successivamente, rilegge il rapporto tra i sessi nel nichilista L’ultima donna (1976) e nel visionario Ciao maschio (1978). Si distinguono negli anni a venire Storie di ordinaria follia (1981) e Storia di Piera (1983), costruito sulla vita romanzata dell’attrice Piera Degli Esposti. Sempre negli anni Sessanta si impone all’attenzione di pubblico e critica l’opera del giovane Marco Bellocchio che tramite pellicole apertamente in contrasto con la società e i valori borghesi anticipa il fermento genera- zionale del sessantotto. La sua pellicola d’esordio I pugni in tasca (1965), a causa dei suoi contenuti altamente drammatici, scuote l’opinione pubblica aprendo la strada a una prolifica serie di film tra i quali si ricordano: La Cina è vicina (1967), Nel nome del padre (1972), Sbatti il mostro in prima pagina (1973), Marcia trionfale (1976) e il documentario Matti da slegare, Nessuno o tutti (1975), diretto con Silvano Agosti, uno dei primi esempi di cinema militante a difesa del metodo psichiatrico di Franco Basaglia, teso al reinserimento sociale del malato.

Bernardo Bertolucci si avvicina al cinema grazie a Pier Paolo Pasolini di cui sarà assistente sul set di Accattone. Ben presto si stacca dal mondo pasoliniano per inseguire una personale idea di cinema, basata sullo studio antropologico dell’individuo e del suo relazionarsi ai mutamenti sociali che la storia impone. Nei primi anni Settanta realizza in rapida successione tre capisaldi del suo cinema: Il conformista (1970), tratto dal romanzo

148 di Moravia, il metafisicoLa strategia del ragno (1970) e il film scandaloUltimo tango a Parigi (1972), con Mar- lon Brando e Maria Schneider. Quest’ultimo, a causa dei suoi contenuti altamente erotici viene condannato al rogo dalla Cassazione nel gennaio del 1976, per poi essere riabilitato dalla stessa nel febbraio del 1987. Con- solida la fama internazionale con il kolossal Novecento (1976), potente affresco sulle lotte di classe contadine dagli albori del Novecento fino alla Seconda Guerra Mondiale. Dopo aver diretto un efficace Ugo Tognazzi nel filmLa tragedia di un uomo ridicolo (1981), nel 1987 gira il ciclopico e suggestivo L’ultimo imperatore, che si aggiudicherà ben nove Premi Oscar, tra cui quelli per miglior film e regia. I fratelli Paolo e Vittorio Taviani, appassionati fin da giovanissimi al cinema, conoscono un primo discreto successo con Un uomo da bruciare (1962) e I sovversivi (1967), che vede come primo interprete il cantauto- re Lucio Dalla, a cui seguono Sotto il segno dello scorpione (1969) e il film sulla restaurazione Allonsanfàn (1974). Il seguente Padre padrone (1977), tratto dal romanzo di Gavino Ledda, racconta la lotta di un pastore sardo contro le regole feroci del proprio universo patriarcale. Il film riscuote critiche favorevoli aggiudican- dosi nello stesso anno la Palma d’oro al Festival di Cannes. Ne Il prato (1979) si recuperano echi neorealisti, mentre La notte di San Lorenzo (1982) racconta, con uno stile vicino al realismo magico, la deliberata fuga di un gruppo di abitanti della Toscana, nella notte in cui tedeschi e fascisti compiono una sanguinosa rappre- saglia nel Duomo della città. Come allievo di Visconti si mette in luce il regista fiorentino Franco Zeffirelli, autore, per molti decenni, di una feconda produzione teatrale. Tra le sue opere cinematografiche più note vi sono le trasposizioni shakespeariane de La bisbetica domata (1967) e Romeo e Giulietta (1968). Nello stesso tempo si afferma Liliana Cavani, che conosce notorietà con le opere Francesco d’Assisi (1966) e Il portiere di notte (1974). Tra i vari film del periodo, un significativo esempio di cinema sperimentale è rappresentato dal film di Alberto Grifi Anna, diretto assieme all’attore Massimo Sarchielli e presentato nei maggiori festival europei nel 1975. Il lungometraggio è un’inedita esperienza di cinema-diretto, che riprende, in undici ore di girato (ridotte poi a quattro), l’aberrante quotidianità di una giovane tossicodipendente incinta e senza dimora. I due autori, privi di soggetto e sceneggiatura, abbandonano la telecamera a una sorta di flusso di co- scienza in tempo reale, facendo irrompere sullo schermo una tranche de vie libera da compromessi narrativi e mediazioni estetiche. Verso la fine degli anni Cinquanta si sviluppa il genere della commedia all’italiana; una definizione che fa riferimento al titolo di un film di Pietro Germi: Divorzio all’italiana (1961), con Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli. Il termine, più che indicare un vero genere, riguarda una particolare stagione cinematografica, segnata da un nuovo modo di intendere gli elementi costitutivi della commedia. Tali elementi si pongono in contrasto con la commedia leggera e disimpegnata del Neorealismo rosa, assai in voga per tutti gli anni Cinquanta. Tenen- do a mente la lezione del neorealismo, la nuova commedia all’italiana pone le proprie attenzioni sulla realtà prodotta dal boom economico, affrontando questioni drammatiche con toni umoristici e graffianti. Pertanto, accanto alle situazioni comiche e agli intrecci tipici della farsa tradizionale, vediamo emergere una pungente satira di costume, che evidenzia con tagliente ironia le contraddizioni della società industriale. Inoltre, non del tutto infrequenti risultano le commedie nelle quali l’ambientazione scenica è traslata in diversi contesti storici, spesso con finalità critiche nei confronti dell’attualità sociale. A partire dalla fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta, l’Italia vive numerose fasi che muteranno in maniera radicale la mentalità e il costu- me degli Italiani. La congiuntura economica, le agitazioni studentesche e la ricerca di nuove emancipazioni nel mondo del lavoro e della famiglia, diverranno il luogo ideale entro il quale proiettare i personaggi della commedia, pronti a far rivivere sulla scena i mutamenti della società civile. A tale stagione cinematografica si ricollegano i nomi dei principali attori italiani del tempo: da Alberto Sordi a Vittorio Gassman, da Ugo

149 Tognazzi a Nino Manfredi, da Monica Vitti a Claudia Cardinale, senza dimenticare Sophia Loren, Silvana Mangano, Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, oltre ai già citati Mastroianni e Sandrelli. Altri interpreti riferibili a tale stagione sono: Tiberio Murgia, Leopoldo Trieste, Renato Salvatori, Franco Fabrizi, Vittorio Caprioli, Gigi Proietti, Michele Placido e occasionalmente attrici come Lea Massari, Ornella Muti e Ottavia Piccolo. Hanno preso parte ad alcune commedie anche attori prevalentemente drammatici come Enrico Ma- ria Salerno, Romolo Valli, Gabriele Ferzetti, Paolo Stoppa e Gian Maria Volonté. Generalmente si ritiene sia stato il regista Mario Monicelli, capostipite e fra i massimi esponenti (con Dino Risi, Luigi Comencini, Pietro Germi e Ettore Scola) della commedia italica, a inaugurare questa nuova fase con il lungometraggio I soliti ignoti (1958), scritto assieme a Suso Cecchi D’Amico e alla coppia di sceneggiatori Agenore Incrocci e Furio Scarpelli. L’opera coniuga spunti grotteschi a sequenze proprie del dramma sottoproletario, filmando con minuzia di dettagli una Roma periferica e degradata, ancora estranea ai processi economici del boom. Il film si rivela un successo anche oltre confine, tanto da venir candidato all’Oscar come miglior film straniero. Nel 1959 esce nelle sale La grande guerra, con Alberto Sordi e Vittorio Gassman. Il lungometraggio, prendendo spunto da un racconto di Maupassant, contamina la tragedia storica con i moduli della commedia dissacrando un tema come gli inutili massacri della prima guerra mondiale, fino allora tabù per tutto il cinema nazionale. Dopo il malinconico I compagni (1963), nel 1966 il cineasta dirige il picaresco e folcloristico L’armata Brancaleone. La pellicola è un capolavoro di fantasia e avventure farsesche che si dispiegano lungo un Medioevo sbrigliato e carnevalesco, in chiara polemica con l’opposta visione dell’età mezzana proposta dal cinema hollywoodia- no. Tempo dopo, in piena contestazione, porta sugli schermi La ragazza con la pistola (1968), intuendo le brillanti qualità comiche dell’attrice Monica Vitti. Tra i suoi film successivi si riportano: Vogliamo i colonnelli (1973), Romanzo popolare (1974), l’esilarante Amici miei (1975) e Un borghese piccolo piccolo (1977); opera quest’ultima che risente esplicitamente del clima repressivo degli anni di piombo e consegna all’attore Alberto Sordi uno dei suoi personaggi più neri e sofferti. Gli anni Sessanta sono il periodo del boom economico e di riflesso il cinema risente dei cambiamenti che modificano la società italiana. Uno dei primi artisti a documentare tali cambiamenti è il cineasta milanese Dino Risi. Nel suo lungometrag- gio più conosciuto, Il sorpasso (1962), il regista mescola, con acuta sensibilità, comicità e serietà del soggetto, virando, in maniera inconsueta, in un finale drammatico e raggelante. L’istrionismo di Vittorio Gassman e la colonna sonora, con brani di Edoardo Vianello e Domenico Modugno, fotografano perfettamente il quadro dell’epoca, facendo raggiungere al genere della commedia una piena maturità autoriale. Sempre per la regia di Dino Risi vanno menzionati il cult movie I mostri (1963) e Una vita difficile (1961), che porta sulle scene un intenso Alberto Sordi. Il film è un imponente documento artistico sull’Italia del dopoguerra e sulla nascente democrazia, in un perfetto equilibrio tra la farsa e il dramma, tra ambizioni sociologiche e disillusione politica. Altre opere da segnalare sono: Il vedovo (1959), Il mattatore (1960), Il giovedì (1964), L’ombrellone (1965), Straziami ma di baci saziami (1968), In nome del popolo italiano (1971) e la pellicola Profumo di donna (1974), pienamente sorretta dalla verve attoriale di Vittorio Gassman. Va messo in evidenza come spesso gli elementi costitutivi della commedia siano stati intrecciati ad arte con generi differenti, dando vita a pellicole decisa- mente inclassificabili. Nell’inaugurare tale tecnica, il cineasta Luigi Comencini è stato senza dubbio uno de- gli autori di maggior rilievo. Dopo aver raggiunto la popolarità negli anni Cinquanta con alcune commedie rosa (tra tutte la conosciuta Pane, amore e fantasia, 1953), nel 1960 regala al cinema italiano l’opera bellica Tutti a casa. Il lungometraggio, costantemente in bilico tra humour e dramma, ricostruisce i giorni seguenti l’armistizio di Cassibile, contribuendo a spezzare il muro di silenzio calato sulla Resistenza, argomento fino

150 allora ignorato da gran parte del cinema nazionale. Tra le sue opere migliori si ricordano: A cavallo della tigre (1961), La ragazza di Bube (1963), Lo scopone scientifico (1972), lo sceneggiato Le avventure di Pinocchio (1972), Il gatto (1978) e L’ingorgo (1979), in cui si fondono generi e stili differenti. Altra figura di primo piano per lo sviluppo e l’imposizione della commedia all’italiana è il regista Pietro Ger- mi. Dopo essersi cimentato in opere a evidente contenuto civile, in qualche modo riconducibili entro i canoni del neorealismo, nell’ultima fase della sua carriera ha diretto pellicole inseribili entro il raggio della commedia dove accanto agli abituali toni umoristici sopravvivono componenti di critica sui costumi della media borghe- sia. Il già citato Divorzio all’italiana apre a Germi le porte del successo che si concretizzerà con Sedotta e abbandonata (1964) e con il limpido e caustico Signore & signori (1965). Il film (satira sull’ipocrisia borghese di una cittadina dell’alto Veneto), vince la Palma d’oro al Festival di Cannes ex aequo con Un uomo, una donna (1966), di Claude Lelouch. L’ultimo protagonista della grande stagione della commedia è il regista romano Ettore Scola. Per tutti gli anni Cinquanta veste i panni dello sceneggiatore, per poi esordire alla regia nel 1964 con il filmSe permettete parliamo di donne. Nel 1974 dà alla luce il suo film più noto,C’eravamo tanto amati, che ripercorre trent’anni di storia italiana attraverso le vicende di tre amici: l’avvocato Gianni Perego (Vittorio Gassman), il portantino Antonio (Nino Manfredi) e l’intellettuale Nicola (Stefano Satta Flores). Altre importanti pellicole sono: Brutti, sporchi e cattivi (1976), trainata da Nino Manfredi, e Una giornata particolare (1977), dove Sophia Loren e Marcello Mastroianni si producono in una delle loro interpretazioni più alte e struggenti. Nel 1980 il regista tira le somme della commedia all’italiana nel pamphlet generazionale de La terrazza, che descrive con grande efficacia l’amaro bilancio esistenziale di un gruppo di intellettuali di sinistra. La pellicola, secondo gran parte della critica, è una delle ultime opere ancora ascrivibile alla tradizione alta della commedia. Un posto a parte occupa Antonio Pietrangeli, che in quasi tutti i suoi film si è occupato di psicologia femminile, delineando con spiccata sensibilità ritratti di donne infelici e tormentate tipo Io la conoscevo bene (1965), considerato il suo capolavoro. Altre opere significative sono i sempre attuali Il vigile (1960) e Il medico della mutua (1968), di Luigi Zampa, Crimen (1961), di Mario Camerini, Leoni al sole (1961), di Vittorio Caprioli, Il diavolo (1963), di Gian Luigi Polidoro, nonché alcune commedie di Vittorio De Sica, come Il boom (1963) e Matrimonio all’italiana (1964). Tra gli anni Sessanta e Settanta conosce notorietà il cinema di Luciano Salce, autore di molteplici commedie dal sicuro incasso al botteghino. Oltre al ciclo comico dei film basati sulle avventure del ragionier Fantozzi, si ricordano Il federale (1961), La voglia matta (1962), Le ore dell’amore (1963) e L’anatra all’arancia (1975), tutti arricchiti dall’estro recitativo di Ugo Tognazzi. Da non dimenticare il film di Franco Brusati, Pane e cioccolata (1973), che rivisita con mordace intelligenza le varie problematiche dell’immigra- zione italiana, in questo aiutato dall’incisiva interpretazione di Nino Manfredi. Sempre in questo ambito, si menziona il lavoro svolto dalla regista Lina Wertmüller, che assieme alla rodata coppia di attori Giancarlo Giannini e Mariangela Melato ha dato vita, nella prima metà degli anni Settanta, a pellicole di successo tra le quali si evidenziano: Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia - Ovvero "Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza..." (1973) e Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974). Due anni più tardi, con Pasqualino Settebellezze (1976) ottiene quattro nomination agli Oscar, risultando la prima donna in assoluto a ricevere una candidatura come miglior regista. Di rilievo è il prodotto artistico di Sergio Citti, che sulla falsariga di certo cinema pasoliniano dirige comme- die bizzarre e surreali, raggiungendo risultati convincenti in più di una pellicola tra le quali si menzionano:

151 Ostia (1970), Casotto (1977) e Il minestrone (1981). Vi è infine da ricordare che, nell’arco di oltre un venten- nio, sono stati numerosissimi i registi che hanno partecipato e contribuito allo sviluppo della commedia. Tra questi meritano di essere citati Nanny Loy per il filmLe quattro giornate di Napoli (1962), Steno, nella riuscita pochade Febbre da cavallo (1976) e Sergio Corbucci. Si riporta ancora: Pasquale Festa Campanile, che nella sua esigua ma significativa produzione ha delineato commedie ambientate nella Roma papalina e risorgimen- tale che hanno visto spesso come attore protagonista Nino Manfredi. Il luogo ideale dove il genere comico trova ampia affermazione è senz’altro il teatro dove, tra gli anni Trenta e Quaranta, si sviluppano numerose scuole di avanspettacolo che vedono tra le proprie file attori comici di prim’ordine come Carlo Dapporto, Gilberto Govi, Ettore Petrolini, Erminio Macario, Nino Taranto, Renato Rascel, Walter Chiari, Carlo Campanini e Antonio De Curtis, in arte Totò. Proprio a quest’ultimo si deve il merito di aver spostato e integrato tale prodotto artistico dal palcoscenico alla celluloide. Ideatore di un’au- tentica maschera nel solco della tradizione della Commedia dell’Arte, Totò ha spaziato dal teatro (con oltre 50 titoli) al cinema (con 97 pellicole) e alla televisione (con 9 telefilm e vari passaggi pubblicitari). I suoi film -ri scuotono ancora oggi molto successo, e talune sue battute sono diventate perifrasi entrate nel linguaggio co- mune. Tra i suoi innumerevoli lungometraggi si evidenziano: Fifa e arena (1948), I pompieri di Viggiù (1949), Totò cerca casa (1949), L’imperatore di Capri (1949), Totò le Mokò (1949), Un turco napoletano (1953), Mi- seria e nobiltà (1954), Signori si nasce (1960) e Totò a colori (1952), primo film italiano in Ferrania-color, dove il comico sfoggia prestazioni mimiche tra le più alte. Non sono da trascurare i fruttiferi sodalizi con Aldo Fabrizi e con il grande attore di teatro Peppino De Filippo, con il quale ha ideato numerose pellicole di sicura presa sul pubblico. A tal proposito si menzionano: La banda degli onesti (1956), Arrangiatevi! (1959), Totò, Peppino e ... la dolce vita (1961) e la celebre Totò, Peppino e la malafemmina (1956), per la regia di Camillo Mastrocinque. Tra le altre spalle dell’artista si segnalano Carlo Croccolo, Mario Castellani e attrici di notevole valore come Tina Pica, Franca Valeri, Ave Ninchi, Isa Barzizza, Pupella Maggio e Marisa Merlini. Oltre ad aver rappresentato per più di un ventennio l’attore comico per antonomasia, Totò si è cimentato in altre pellicole rientranti più esplicitamente nel filone della commedia all’italiana, finanche nel cinema d’autore, in particolar modo negli anni Sessanta. Analogo discorso avviene nei successivi anni Settanta con l’emergere di una nuova personalità comica facen- te capo all’autore, attore e scrittore Paolo Villaggio. Dopo aver debuttato nel programma televisivo Quelli della domenica presentando personaggi dalla mimica grottesca ed inedita, fa esordire sul grande schermo la celebre maschera di Fantozzi, creata dallo stesso artista alla fine degli anni Sessanta e pubblicata con no- tevole richiamo nell’omonimo libro, uscito per la Rizzoli nel 1971. Il capostipite Fantozzi (1975), diretto da Luciano Salce e campione di incassi nella stagione 1974 / 1975, ha dato vita a una saga di ampio e duraturo successo che si è protratta, con altre nove pellicole, fino alla fine degli anni Novanta. Accanto all’artista hanno poi recitato svariati attori divenuti fin da subito molto popolari tra i quali si ricordano: Milena Vukotic, Anna Mazzamauro, Liù Bosisio, Plinio Fernando e soprattutto Gigi Reder, il quale ha composto con Villaggio un fortunato sodalizio riscontrabile in oltre quattordici pellicole. Villaggio ha effettuato incursioni nella comme- dia, così come nel cinema d’autore continuando in parallelo la principale attività di attore comico e scrittore satirico. Se si esclude l’Oscar a Roberto Benigni, il quale è sia interprete che regista, entrambi gli artisti sono gli unici attori comici in Italia ad aver vantato riconoscimenti di grande prestigio internazionale. Totò ha infat- ti ricevuto due menzioni speciali al Festival di Cannes, per le prove nei filmGuardie e ladri (1951) e Uccellacci e uccellini (1966); a Villaggio sono andati rispettivamente il Leone d’oro alla carriera (1992) e il Pardo d’onore al Festival di Locarno (2000). Inoltre, va evidenziato il grande consenso popolare avuto negli anni Cinquanta

152 da Alberto Sordi, che prima di intraprendere la strada di attore a tutto tondo ha mostrato indiscusse doti comi- che nei rispettivi filmUn giorno in pretura (1953) e Un americano a Roma (1954), entrambi diretti da Steno. Non è da tralasciare la popolarità del duo comico composto da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che per tutti gli anni Sessanta ha inanellato una serie di lungometraggi a stampo parodistico (i più diretti da Giorgio Simo- nelli), proponendo situazioni e gag derivanti dall’avanspettacolo e dal teatro di strada. Si segnalano, ancora, le numerose partecipazioni della coppia a molti film autoriali, mettendo la propria arte al servizio di registi quali Pier Paolo Pasolini, Vittorio De Sica e i Fratelli Taviani. Lo stesso Ingrassia lavorerà singolarmente per cineasti come Elio Petri e Federico Fellini. Una ritrovata linfa nel contesto di tale forma artistica viene alla luce all’inizio degli anni Ottanta con la comparsa di una nuova generazione di attori e registi che avrebbe, seppur con tematiche sociali differenti, continuato il percorso già tracciato dalla commedia all’italiana. Attori comici quali Roberto Benigni, Carlo Verdone, Massimo Troisi, e Maurizio Nichetti, hanno proposto in maniera coeva un nuovo modo di fare comicità, passando con disinvoltura dallo sketch televisivo al cinema, presentando pellicole quasi sempre dirette e interpretate da se medesimi. Il cinema d’autore degli anni Ses- santa continua il proprio percorso analizzando temi e problematiche distinte. Dalle vene surreali ed esistenziali di Fellini e Antonioni si emancipa una nuova visione autoriale che vede nel cinema un mezzo ideale per denunciare corruzioni e malaffare, sia del sistema politico che del mondo in- dustriale. Nasce così la struttura del film inchiesta che partendo dall’analisi neorealista dei fatti, aggiunge a essi un conciso giudizio critico, con il manifesto intento di scuotere le coscienze dell’opinione pubblica. Vero precursore di questo modo di intendere il mestiere del regista è l’artista napoletano . Nel 1962 inaugura la vita del malavitoso siciliano Salvatore Giuliano. L’anno successivo dirige Rod Steiger nel film Le mani sulla città (1963), nel quale denuncia con coraggio le collusioni esistenti tra i diversi organi dello Stato e lo sfruttamento edilizio a Napoli. La pellicola viene premiata con il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Questi film sono generalmente considerati i capostipiti del cinema a carattere politico, che vedrà spesso la recitazione duttile e mimetica di Gian Maria Volonté. Uno dei punti di arrivo del cammino artistico di Francesco Rosi è Il caso Mattei (1972), un rigoroso documento in cui il regista cerca di far luce sulla misteriosa scomparsa di Enrico Mattei, manager del più importante gruppo statale italiano: l’Eni. La pellicola vince la Palma d’oro al festival di Cannes e diviene (assieme al serrato Cadaveri eccellenti, 1976) un vero modello per analoghi film di denuncia prodotti sia in Italia che all’estero. I movimenti studenteschi, operai ed extra-parlamentari della fine degli anni Sessanta e quelli del decennio seguente influenzeranno molte arti, in particolar modo il cinema, che ricalca sulle orme di Rosi un percorso socialmente e politicamente impegnato. In questo contesto nuovi registi continuano e potenziano l’opera del cineasta napoletano; tra questi il più attivo è l’autore romano Elio Petri, che utilizza il discorso politico in un’ottica di superamento e completamento del cinema neorealista. Nel 1967 avvia un solidale progetto con l’attore e alter ego Gian Maria Volonté, sviluppando produzioni dal chiaro monito civile come: A ciascuno il suo (1967), tratto da un romanzo di Leonardo Sciascia, La classe operaia va in paradiso (1971), corrosiva denuncia sulla vita in fabbrica (vincitrice della Palma d’oro a Cannes) e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). Quest’ultimo (accompagnato dall’incisiva colonna sonora di ) è un asciutto psicoanalitico incentrato sulle aberrazioni del potere, analizzate in chiave sulfurea e patologica. La pellicola ottiene un vasto consenso, aggiudicandosi l’anno seguente l’Oscar al miglior film straniero. Nel 1976 Petri porta al cinema un altro componimento di Sciascia,Todo modo, che rac- conta il cupo decadimento di una classe dirigente, rifugiatasi in un albergo-eremo, al finto scopo di praticare esercizi spirituali. Argomenti affini al cinema d’impegno civile si ritrovano nell’opera di Damiano Damiani, che con Il giorno della civetta (1968), conosce un notevole successo. Altri lungometraggi da citare sono: Con-

153 fessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), L’istruttoria è chiusa: dimentichi (1971), Perché si uccide un magistrato (1974) e Io ho paura (1977). Si menzionano, inoltre, Pasquale Squitieri per il filmIl prefetto di ferro (1977) e Giuliano Montaldo, che dopo alcune esperienze come attore mette in scena alcune pellicole di carattere storico e politico come Gott mit uns (1970), Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1973). Di estrema importanza risulta il duro e realistico Detenuto in attesa di giudizio (1971), di Nanni Loy, con protagonista un toccante Alberto Sordi. Il film del regista sardo è una sorta di incubo kafkiano, perfettamente calato nella realtà sociale del tempo. La pellicola ha suscitato ampio scalpore, in quanto, per la prima volta, un’opera cinematografica denunciava la drammatica arretratezza del sistema giudiziario e carcerario italiano. Anni prima, lo stesso Sordi viene diretto da Alberto Lattuada nel filmMafioso (1960), uno dei primi gangster movie italiani, dove lo sguardo glaciale del regista ri- trae uno spaccato della malavita siciliana freddo e amorale, privo di qualsiasi finale consolatorio. Anche se non strettamente legato alla realtà italiana si può ricordare La battaglia di Algeri (1966), dell’autore toscano Gillo Pontecorvo. L’opera è una vibrante ricostruzione degli eventi militari che portarono l’Algeria all’indipenden- za dal Colonialismo francese, rievocata con un rigore e uno stile prossimi a molti cinegiornali dell’epoca. Acclamato da critica e pubblico, il film (Leone d’oro a Venezia), è divenuto nel tempo una delle opere italiane più conosciute nel mondo. Nel 1969 Marlon Brando è il protagonista di un nuovo film sempre diretto da Pon- tecorvo: Queimada, che descrive le sopraffazioni dell’Imperialismo e la rivolta dei popoli oppressi in un paese del Sud America. Nel suo ultimo lungometraggio, l’artista pisano affronta il tema del terrorismo basco duran- te il franchismo in Ogro (1979), raccontando la vicenda dell’attentato all’ammiraglio e presidente del governo Luis Carrero Blanco, avvenuto nel 1973. Un altro regista legato al cinema politico e d’impegno sociale è il ferrarese Florestano Vancini, che in molte realizzazioni ha coniugato la robustezza della ricostruzione storica con il resoconto di crisi sentimentali e soggettive. Tra le sue opere migliori si ricordano: La lunga notte del ’43 (1960), La banda Casaroli (1962), Le stagioni del nostro amore (1966) e Il delitto Matteotti (1973). Accanto al cinema neorealista ed esistenziale degli autori, della commedia all’italiana e del cinema di denuncia sociale, a partire dal secondo dopoguerra, si sviluppa un cinema italiano più popolare che se da una parte viene snob- bato e osteggiato dalla critica, dall’altra viene accolto con entusiasmo da gran parte del pubblico, nazionale e internazionale. Dopo aver toccato il proprio culmine negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, il cinema di genere entra in declino. I generi cinematografici prodotti in Italia sono stati molteplici. Qui di seguito è rappresentata una sommaria lista dei vari generi cinematografici che hanno incontrato, in periodi diversi, maggior successo. Fra la metà degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta si sviluppa il filone dei melodrammi popo- lari, detti comunemente strappalacrime, in seguito indicati anche con il termine neorealismo d’appendice. Rispetto ai drammi sentimentali del periodo fascista, i melodrammi girati nel secondo dopoguerra sono ca- ratterizzati da ambientazioni più realistiche, abitate da una piccola borghesia all’alba del boom economico. Le trame sono costruite attorno a giovani coppie unite dall’amore ma divise dai ceti sociali di appartenenza, con particolare insistenza sulle sofferenze, gli inganni, le vessazioni, i ricatti e le rinunce che i personaggi, soprat- tutto femminili, sono costretti a subire. I melodrammi sono poco apprezzati dalla critica, che li considera alla stregua di fotoromanzi cinematografici, ma il successo di pubblico è notevole. Il regista principale del genere è Raffaello Matarazzo, attivo già dai tempi del fascismo e prolifico autore di una serie di film sentimentali di successo, molti dei quali interpretati dalla coppia composta da Amedeo Nazzari ed Yvonne Sanson. Tra i suoi film più conosciuti vi sono Catene (1949) e Tormento (1950), che risulteranno rispettivamente il primo ed il secondo maggior incasso in Italia nella stagione cinematografica 1949/50. Degno di considerazione è il film

154 Anna (1951), prima produzione italiana a toccare il miliardo di lire d’incasso, del poliedrico Alberto Lattua- da; un appassionato racconto femminile, recitato con sensuale abilità da Silvana Mangano. Inoltre, affrontano il melodramma popolare anche Mario Soldati, con le pellicole La provinciale (1953) e La donna del fiume (1955), interpretate rispettivamente da Gina Lollobrigida e Sophia Loren, e persino Totò con Yvonne la Nuit (1949) di Giuseppe Amato, tra i suoi rari film a carattere drammatico. Nel decennio successivo il melodramma tenterà di aggiornarsi ai gusti del pubblico. I film di questo periodo hanno come argomento storie di minori con genitori distaccati o in procinto di separarsi, destinati a morire per una disgrazia o una malattia. Tra gli attori del tempo, l’interprete più famoso è Renato Cestiè, protagonista di titoli di successo come L’ultima neve di primavera e L’albero dalle foglie rosa. Capostipiti di questo revival sono Incompreso (1966), di Luigi Comencini e Anonimo veneziano (1970), di Enrico Maria Salerno, speculare per temi e propositi alla pellicola americana Love Story (1970). A partire dagli anni Novanta, in seguito alla crisi del cinema di genere italiano, il filone sentimentale è scom- parso quasi del tutto dal grande schermo (tra le poche eccezioni si può citare Va’ dove ti porta il cuore di Cri- stina Comencini del 1996), trovando al contempo però grande spazio in televisione attraverso molte fiction, anche se in seguito, negli anni 2000, lo stesso ha conosciuto un’effimera rinascita anche al cinema, grazie a diversi film sentimentali, rivolti perlopiù ad un pubblico giovanile, alcuni dei quali tratti dai romanzi di Fede- rico Moccia Tre metri sopra il cielo e Ho voglia di te. Dalla fine degli anni Cinquanta e fino a tutti gli anni Settanta, si sviluppa con notevole fortuna il sottofilone dei cosiddetti musicarelli, che prevedono l’ingaggio e la partecipazione di numerosi cantanti di musica legge- ra, con l’unico intento di trasformare gli artisti in autentiche star del grande schermo. L’operazione si rivela un successo, consolidando la fama di molte voci italiane, soprattutto di Gianni Morandi e Rita Pavone, che più di tutti incarnavano l’allegria e la spensieratezza del mondo degli adolescenti. Nel corso degli anni Sessanta queste produzioni crescono a dismisura, con la peculiarità di fondersi frequen- temente con altri generi o sottogeneri, come quello dell’orrore e dello spionaggio. Un chiaro esempio è il fanta-horror Terrore nello spazio (1965), del cineasta Mario Bava, che mescola con creatività atmosfere proprie dell’horror e della fantascienza. Negli anni Novanta si distingue Nirvana (1997), di Gabriele Salvatores, una pellicola ispirata al che costituisce la produzione cinematografica di fantascienza italiana più co- stosa di sempre e quella di maggiore successo commerciale. Salvatores torna a testare il genere nel 2014 con il film drammatico-fantascientifico Il ragazzo invisibile. Nel 2016 ottiene risalto la pellicola Lo chiamavano Jeeg Robot, dell’esordiente Gabriele Mainetti. Sergio Leone è unanimemente considerato il precursore del cinema all’italiana. Figlio del cineasta Roberto Roberti, intraprende la professione come aiuto regista in varie produzioni hollywoodiane, debut- tando alla regia con il peplum Il colosso di Rodi (1961). Tre anni più tardi, sulle orme dei grandi maestri americani, si dedica al genere western lanciando nelle sale il film Per un pugno di dollari (1964), seguito da Per qualche dollaro in più (1965) e da Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Queste produzioni, tutte interpre- tate dall’attore americano Clint Eastwood, vengono comunemente denominate la trilogia del dollaro. La forza innovativa di tali pellicole risiede nel rifiuto del western americano tradizionale, non più incentrato su trame sentimentali, sul mito della frontiera o sulle guerre con gli indiani ma su eroi cinici e disincantati, avvolti in un mondo dove conta solo la violenza e la sopraffazione. Tutto ciò è rafforzato da uno stile registico irreale e iperbolico, perfettamente coadiuvato dalle colonne sonore di Ennio Morricone. È l’inizio di un nuovo modo di concepire il genere, tutto giocato sulla forza dei primi piani che svelano la crudele ieraticità degli attori e con-

155 quistano il pubblico con la forza di un pugno nello stomaco. La qualità filmica della trilogia raggiunge il suo vertice con Il buono, il brutto, il cattivo: una sorta di aggiornamento de La grande guerra di Mario Monicelli e raccontato mescolando toni picareschi a momenti di grande lirismo. A questo trittico seguiranno il kolossal epico C’era una volta il West (1968), girato in parte nella Monument Valley, e Giù la testa (1971), che risente esplicitamente del clima della contestazione. Sergio Leone, snobbato all’epoca da buona parte della critica, viene oggi celebrato come uno dei registi italiani più noti e acclamati nel mondo. Il successo mondiale dei film di Leone apre la strada a una moltitudine d’imitazionimade in (circa cinquecento pellicole spalmate in quindici anni), alcune delle quali hanno riscontrato un notevole seguito sia nazionale che estero. È il caso del lungometraggio Django (1966), diretto da Sergio Corbucci, il primo western italiano vietato ai minori di diciotto anni che ha conosciuto una larga fortuna oltre oceano, lanciando il divo e primo attore Franco Nero. Il film ha dato vita a una miriade di imitazioni e un solo sequel originale:Django 2 - Il grande ritorno (1987), per la regia di Ted Archer. Tra i volti italici più noti del western all’italiana, oltre a Franco Nero, si menzionano: Giuliano Gemma, Fabio Testi e Gian Maria Volonté. Al filone degli spaghetti-western si ricollegano le movimentate commedie scritte e dirette dal regista Enzo Barboni, firmatosi sempre con lo pseudonimo di E.B. Clucher, e con protagonisti gli attori Bud Spencer e Terence Hill, nomi d’arte degli italiani Carlo Pedersoli e Mario Girotti. I due film più im- portanti del duo, che coniugano con simpatia risate e scene d’azione, sono Lo chiamavano Trinità... (1970) e il seguito ...continuavano a chiamarlo Trinità (1972), quest’ultimo è risultato campione d’incassi nella stagione cinematografica 1971/1972. Entrambi gli attori, su proposta del regista Ermanno Olmi, vengono insigniti, nel 2010, del David di Donatello alla carriera. Grande rilevanza assumono le categorie del thriller e dell’horror, che proprio in Italia hanno avuto, a partire dagli anni Sessanta, un notevole successo, protrattosi felicemente per almeno tre decenni. I registi italiani che si sono cimentati in queste produzioni sono stati fonte d’ispirazione per un’intera schiera di cineasti interna- zionali tra i quali si ricordano: Brian De Palma, Tim Burton e . I due autori di maggior rilie- vo sono stati Mario Bava e Dario Argento. Il primo, direttore della fotografia passato alla regia, ha attuato un deciso presupposto per creare un vero horror di qualità, rivelandosi, al tempo stesso, un notevole narratore di immagini, colto e raffinato. Basilare per lo sviluppo del genere è il suo film d’esordio La maschera del demo- nio (1960), la cui trama prende spunto dal racconto Il Vij di Nikolaj Vasil’evič Gogol’, che tratteggia la figura del vampiro in maniera inconsueta e originale, in aperta opposizione a quella dell’iconografia tradizionale. La ricercata fotografia, gli innovati effetti speciali e il fascino misterioso dell’attrice Barbara Steele contribui- scono a creare un soggetto gotico molto personale, venendo più volte elogiato dalla critica inglese e francese. Dario Argento, ideale continuatore di certe atmosfere baviane, ha avuto il merito di trainare l’horror italiano verso il grande pubblico, riscontrando successo per tutti gli anni Settanta e Ottanta. La poesia macabra di Argento è resa tale da una sapiente miscela che varia dal thriller all’horror di natura fantastica, con lungo- metraggi che sono tuttora presi a modello sia dal punto di vista estetico che da quello narrativo. Pur avendo attinto da pellicole come La ragazza che sapeva troppo (1963) e Sei donne per l’assassino (1964) di Mario Bava, Argento, nelle sue opere migliori, ha saputo emanciparsi dal suo maestro grazie a un uso incalzante del montaggio in combinazione a colonne sonore rimaste negli annali. Fondamentale la collaborazione con il gruppo musicale dei Goblin. Opere come L’uccello dalle piume di cristallo (1970) e Profondo rosso (1975), hanno imposto figure e maniere (killer con impermeabile nero, soggettive dell’assassino, telefonate misterio- se…) ampiamente riprese da tutto il thriller italiano e internazionale. Tra i vari titoli della sua filmografia si

156 ricordano: Il gatto a nove code (1971), 4 mosche di velluto grigio (1971), Suspiria (1977), Inferno (1980), Tene- bre (1982), Phenomena (1985) ed Opera (1987). Non passa inosservato il regista bolognese Pupi Avati che si mette in evidenza con le pellicole La casa dalle finestre che ridono (1976). Nel decennio successivo si mette in mostra Lamberto Bava (figlio di Mario), presentando numerosi lungometraggi che virano decisamente verso l’horror e lo splatter. Tra i molti si riportano: La casa con la scala nel buio (1983), il dittico Dèmoni (1985) e Dèmoni 2... L’incubo ritorna (1986), Morirai a mezzanotte (1986) e il remake de La maschera del demonio (1989). Analogamente si mette in evidenza Michele Soavi, autore di numerosi film prodotti dal cineasta Dario Argento. Tra le sue opere più note vi sono: Deliria (1987), La chiesa (1989), La setta (1991) e Dellamorte Del- lamore (1994). Lo stesso Federico Fellini si è concesso un’intrigante divagazione horror nel segmento Toby Dammit, facente parte del film a episodi Tre passi nel delirio (1967), seguito, un anno dopo, da Elio Petri con l’opera Un tranquillo posto di campagna (1968). Suscita interesse internazionale il genere cannibalistico (o cannibal movie), avviato da con Il paese del sesso selvaggio (1972). L’idea di ambientare storie horror/avventurose in scenari esotici e solari si rivela vincente, soprattutto sotto il profilo commerciale, tanto da far sviluppare negli anni successivi un vero e proprio filone. Negli stessi anni, si ritaglia una qualche atten- zione il sottofilone nazi-erotico, anche conosciuto come nazisploitation, impostato sul binomio vittime-carce- rieri che ha avuto nei film La svastica nel ventre (1977), di Mario Caiano, La bestia in calore (1977), di Luigi Batzella e Le lunghe notti della Gestapo (1977), di Fabio De Agostini, un certo quanto effimero risalto. Tali compiacimenti nel mostrare efferatezze di ogni tipo hanno avuto un diretto antecedente nel semidocumen- tario (1961), diretto da Gualtiero Jacopetti, e Franco Prosperi, che in virtù delle curiose sequenze e delle violenze rappresentate ha riscosso un successo addirittura internazionale. La critica individua nei film Svegliati e uccidi (1966) e Banditi a Milano (1968), entrambi per la regia di Carlo Lizzani, i diretti antesignani del relativo filone. Il primo film narra le vicende del bandito Luciano Lutring, mentre la seconda opera prende spunto dalle imprese criminali operate in Lombardia dall’allora banda Cavallero. Uno dei principali artefici della fortuna del poliziesco italiano è senz’altro Fernando Di Leo, che in più occasioni, con film come Milano calibro 9 (1972), La mala ordina (1972) ed Il boss (1973), ha saputo creare un cinema di genere maturo ed efficace. Autore di alcuni dei più interessanti italiani, è stato oggetto negli anni Duemila di un’autentica riscoperta critica, venendo tutt’oggi considerato un maestro del cinema di azione. Tra gli attori hanno avuto fortuna interpreti come Enrico Maria Salerno, Franco Nero, Gastone Moschin, Ma- rio Adorf, Maurizio Merli, Tomas Milian, Luc Merenda, Antonio Sabàto, Ray Lovelock, Fabio Testi e Franco Gasparri. Opere come La polizia ringrazia (1972), La polizia incrimina, la legge assolve (1973), Il cittadino si ribella (1974), Milano odia: la polizia non può sparare (1974), Un uomo, una città (1974), Roma violenta (1975), sono state di recente oggetto di rivalutazione da parte della critica, anche grazie al regista Quentin Tarantino che, in varie interviste, ha pubblicamente elogiato l’artigianato di lusso di tali pellicole. Così come nello spaghetti-western, anche in questo genere si è sviluppato un sottofilone comico, in particolar modo nella serie di film girati da Bruno Corbucci che hanno visto protagonista il colorito commissario Nico Giraldi, interpretato da Tomas Milian, che in precedenza aveva preso parte a molti di carattere drammatico. Nel medesimo sottofilone rientra la saga del poliziotto napoletano Piedone, che vede la pubbli- cazione di quattro lungometraggi, tutti diretti da Steno e interpretati dall’attore Bud Spencer. Il successo del poliziesco all’italiana è stato, comunque, tanto intenso quanto breve, coprendo un arco temporale di appena quindici anni, per poi scomparire del tutto a metà degli anni Ottanta. Il filoneLe spie vengono dal semifreddo (1966), del regista Mario Bava s’ispira a 007. La realizzazione della pellicola ha coinvolto una coproduzione Italia-USA, in cui recita la coppia comica Franco e Ciccio assieme all’attore statunitense Vincent Price. Non

157 mancano le parodie aventi come protagonista l’agente James Tont interpretate da , e la sim- patica caricatura del superagente Flit impersonato dal comico televisivo Raimondo Vianello. o in gergo Macaroni Combat o Spaghetti Combat è la dicitura americana che indica specifici film bellici sviluppa- tisi in Italia per tutti gli anni Settanta e Ottanta. All’interno del cinema erotico italiano un caso a parte rappresenta l’attività del regista veneziano Tinto Brass. Già assistente di maestri quali Roberto Rossellini e Joris Ivens, intraprende la carriera di regista con il lun- gometraggio In capo al mondo (1963) a cui segue l’anarcoide Chi lavora è perduto (1963). Durante gli anni Settanta dirige alcune eccentriche produzioni come Salon Kitty (1976) e Io, Caligola (1979), ottenendo un grande successo con La chiave (1983), dramma erotico con Stefania Sandrelli in vesti insolite e provocan- ti. Negli anni successivi la produzione di Brass vira decisamente verso il cinema erotico, lanciando di volta in volta un numero cospicuo di attrici emergenti. Tra i suoi film di maggior successo si ricordano: Miranda (1985), Capriccio (1987), Paprika (1991) e Così fan tutte (1992). Tra le numerose pellicole softcore, che tra gli anni Settanta e Ottanta hanno invaso il mercato italiano, ottiene attenzione il lungometraggio La seduzione (1973), di Fernando Di Leo, e in maniera maggiore il filmMalizia (1973), di Salvatore Samperi, vero e proprio trampolino di lancio per l’attrice Laura Antonelli. Nel corso della sua carriera l’interprete istriana ha parte- cipato a numerosi film dal sapore erotico e disimpegnato, non disdegnando cast e produzioni più autorevoli. Tra i suoi titoli si enumerano: Il merlo maschio (1971), di Pasquale Festa Campanile, Sessomatto (1973), del regista Dino Risi, Divina creatura (1975), di Giuseppe Patroni Griffi eL’innocente (1976), di Luchino Viscon- ti, dove recita al fianco dell’attore Giancarlo Giannini. Oltre Laura Antonelli, si sono prestate a diversi ruoli erotici,uniti a parti più impegnate, attrici come Stefania Casini, Agostina Belli, Dalila Di Lazzaro e Monica Guerritore. Sempre negli anni Settanta, sull’onda del clamore suscitato da Il Decameron (1971), di Pier Paolo Pasolini, si espande il sottogenere decamerotico, raffigurante storie di vita medievale, dove le oculate scene di sesso perseguivano intenti e propositi assai più rozzi e commerciali. Negli anni Settanta l’allentarsi dei confini della censura e la ricerca del successo commerciale mediante investimenti di modesta entità, permettono lo sviluppo, accanto alla più autoriale commedia, della commedia sexy all’italiana. Trame, sceneggiature e dialo- ghi, generalmente con poche pretese narrative, fanno da pretesto per sviluppare pellicole a sfondo più o meno erotico e dal puro disimpegno. A questo genere di film hanno legato la propria notorietà attori come Lando Buzzanca, Lino Banfi, Gianfranco D’Angelo, Renzo Montagnani, Carlo Giuffré, Aldo Maccione, Pippo Fran- co, , Mario Carotenuto ed Enzo Cannavale e attrici come , Gloria Guida, Nadia Cassini, Barbara Bouchet, Carmen Villani, Anna Maria Rizzoli, Michela Miti, Carmen Russo e Lilli Carati. Tra gli autori, i registi che più di tutti si sono distinti nel dirigere tali pellicole sono stati Mariano Laurenti, Nando Cicero e Michele Massimo Tarantini. La crisi colpisce soprattutto il cinema italiano di genere, il quale, in virtù dell’affermazione della televisione commerciale, viene privato della stragrande maggioranza del suo pubblico. Di conseguenza le sale si trovano a essere monopolizzate dalle più abbienti pellicole hollywoodiane, che prendono stabilmente il sopravvento. Molte sale chiudono, e altre per sopravvivere si trasformano in cinema a luci rosse. In tale situazione di crisi, restano fenomeni del tutto isolati due exploit produttivi e commerciali come Il nome della rosa (1986), impo- nente produzione tratta dall’omonimo romanzo di Umberto Eco, co-prodotta con Francia e Germania e girata in lingua inglese, e quello di un cineasta affermato come Bernardo Bertolucci che, con il kolossal L’ultimo imperatore (1987), anch’esso frutto di una co-produzione con Cina e Regno Unito, ritrova una vasta risonanza internazionale; le due opere risulteranno i film di maggiore incasso in Italia, rispettivamente nelle stagioni 1986-87 e 1987-88. Un caso unico è l’ultimo film di Sergio Leone, C’era una volta in America (1984), in-

158 teramente supportato da capitali di provenienza hollywoodiana. Il cinema d’autore tende dunque a isolarsi, con una serie di film che difficilmente si inseriscono in uno sviluppo comune. L’unico a centrare nuovamente successi di natura commerciale sarà Mario Monicelli, grazie al virtuosistico Il marchese del Grillo (1981) e al corale Speriamo che sia femmina (1986); al contempo Ettore Scola raggiungerà risultati interessanti nella produzione musicale Ballando ballando (1983) e nella saga minimalista La famiglia (1987). Per ciò che riguarda gli autori emergenti, il debutto più eclatante è quello di Nanni Moretti, che nel 1976 gira in super 8, Io sono un autarchico, libera commedia sulla sinistra del dopo-sessantotto, sulla piccola borghesia romana e sulle mode del ceto medio giovanile. Il film è un grande successo di pubblico fa di Moretti il massimo esponente del cinema giovane, in aperto contrasto con l’industria dominante. La sua cifra stilistica si conso- lida con Ecce bombo (1978) e Sogni d’oro (1981), a metà tra commedia satirica e sguardo critico sulla società dell’epoca. I film successivi ricorrono a una struttura narrativa più solida per mettere in scena le incertezze di personaggi incapaci di adattarsi alla società che li circonda: è il caso del giallo esistenziale Bianca (1984) e del dramma- tico La messa è finita (1985), che colgono perfettamente il punto di rottura degli anni Ottanta, aprendo a un cinema volutamente essenziale e analitico. Il decennio di Moretti si chiude con uno dei suoi film più complessi e apprezzati, Palombella rossa (1989), riflessione critica sulla difficile trasformazione della sinistra italiana alla vigilia dello scioglimento PC. L’altro importante esordio del decennio è quello di Gianni Amelio, che dopo anni di cortometraggi e documentari per la Rai gira Colpire al cuore (1983), uno dei rari approfondimenti sul terrorismo, seguito da I ragazzi di via Panisperna (1988). Nei film che seguono, Amelio sviluppa tematiche legate alla realtà sociale con dolorosa partecipazione e sensibilità artistica. Con Il ladro di bambini (1992), attraverso lo sguardo muto e dolente dei suoi piccoli protagonisti, descrive lo squallore morale dell’Italia anni Novanta, senza chiudersi in facili nichilismi, né aprirsi a sogni illusori. Nel seguente Lamerica (1994), descri- ve la situazione politica dell’Albania post-comunista filmando il tutto con il proprio stile asciutto e oggettivo. Quattro anni dopo, Così ridevano (1998), probabilmente il suo lavoro di più difficile comprensione per il pubblico, vince il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia. Al nome di Moretti viene affiancato quello dei nuovi comici, registi e attori di stili differenti ma tutti indicati come promesse di rinnovamento della mori- bonda commedia all’italiana. Il primo artista a mettersi in evidenza è Roberto Benigni che, grazie alla sua irruenza satirica, propria del ver- nacolo toscano, porta al cinema una figura comica di impronta popolare, subito rinvenibile nel filmBerlinguer ti voglio bene (1977). In seguito, diverrà autore dei propri film spostandosi dal registro surreale diTu mi turbi (1983) e Il piccolo diavolo (1988), alla commedia degli equivoci di Johnny Stecchino (1991) e Il mostro (1994), fino a progetti più impegnativi e di successo internazionale (La vita è bella, 1997). Proveniente dal teatro mi- mico e dal cinema di animazione, Maurizio Nichetti aggiorna il registro delle comiche mute e della slapstick comedy in Ratataplan (1979) e Ho fatto splash (1980), parodizza i generi cinematografici in Ladri di sapo- nette (1989) e fonde riprese dal vivo e cartoni animati in Volere volare (1991). Su un versante più tradizionale, Carlo Verdone propone in Un sacco bello (1980) e Bianco rosso e Verdone (1981) una comicità strutturata in sketch autonomi e retta da un’inedita abilità nel creare personaggi tipicizzati. Conferma il consenso acquisito nei successivi Borotalco (1982) e Acqua e sapone (1983). Dal punto di vista narrativo risultano più complessi il film corale Compagni di scuola (1988), Maledetto il giorno che ti ho incontrato (1992) e Perdiamoci di vista (1994), nei quali affiora una vena malinconica fino ad allora latente.

Esponente di punta della compagnia teatrale La Smorfia (fondata con Lello Arena ed Enzo Decaro), Massimo

159 Troisi rinnova la comicità napoletana con Ricomincio da tre (1981) e Scusate il ritardo (1983) per poi contami- narla con il sentimentalismo e la riflessione storica nel film Le vie del Signore sono finite (1987). La consacra- zione arriva nel 1989 dove l’attore campano si aggiudica il premio come miglior interprete al Festival del cine- ma di Venezia (ex aequo con Marcello Mastroianni) per il filmChe ora è? (1989), diretto da Ettore Scola. Dopo aver recitato in pellicole altrui (per lo più di Maurizio Ponzi), anche Francesco Nuti esordisce alla regia con Casablanca, Casablanca (1985), presentando film di successo comeTutta colpa del paradiso (1985), Caruso Pascoski di padre polacco (1988) e Willy Signori e vengo da lontano (1989). Durante gli anni Duemila la sua vena creativa sembra esaurirsi, anche in virtù di seri problemi di salute. Nel 1984 arriva nelle sale Non ci resta che piangere, interpretato e diretto da Troisi e Benigni, le cui gag, citazioni e sequenze paradossali, l’hanno reso, nel tempo, uno dei film più celebri della nuova comicità. Molti comici tenuti a battesimo dalla televisione ottengono richiamo: Renato Pozzetto ed , Adriano Celentano, Lino Banfi, Massimo Boldi, Christian De Sica, Jerry Calà e Diego Abatantuono, che in avanti si sposterà su un registro più impegnato grazie alle collaborazioni con Gabriele Salvatores e Pupi Avati. I registi di riferimento sono Castellano e Pi- polo, Enrico Oldoini e in particolar modo Carlo Vanzina, che in un solo anno lancerà produzioni di cassetta come Sapore di mare (1983), rivisitazione nostalgica dell’immaginario degli anni Sessanta, e la farsa collettiva Vacanze di Natale (1983), prodromica al futuro sviluppo dei cine panettoni. Nel corso degli anni Ottanta le modalità e i contesti produttivi cambiano radicalmente. In tutta Italia prendono vita e si diffondono numerosi poli creativi, diversi per ambizioni e risultati, che condividono la lontananza dal centro produttivo di Roma e dai registi del cinema consolidato.

Nasce una figura inedita nel cinema italiano, il filmmaker, che cura personalmente tutto l’iter procedurale di un film, dalla scrittura alla fotografia, dalla regia al montaggio, spesso realizzato in video con capitali esigui. L’emergere di questa figura, frutto di una scolarizzazione di massa che ha aumentato le possibilità di accesso alle professioni intellettuali e artistiche, troverà degli interlocutori sensibili sul versante critico, soprattutto grazie alle pagine culturali del Manifesto e di Rinascita. Milano è il centro principale di questa tendenza gra- zie alle numerose cooperative e al supporto della provincia.

A Milano è attivo anche Gabriele Salvatores, che porta al cinema la sua esperienza teatrale in Sogno di una notte d’estate (1983) e Kamikazen - Ultima notte a Milano (1987). Altri registi debuttano in sordina ma sono destinati a lasciare segni più duraturi negli anni successivi. Marco Tullio Giordana dirige nel 1979 Maledetti vi amerò, che insieme al seguente La caduta degli angeli ribelli (1981) indaga il mondo dell’estrema sinistra nel periodo del riflusso. Tornerà al cinema solo occasionalmente, dedicandosi a film di impianto sociale con Appuntamento a Liverpool (1988) e soprattutto Pasolini, un delitto italiano (1996). Marco Risi con Solda- ti - 365 all’alba (1987) e con i drammi carcerari come Mery per sempre (1989) e Ragazzi fuori (1990) da testimonianza della rinascita di un filone realista. In tale situazione di ristagno emergono nuove personalità cinematografiche che raggiungono in breve tempo fama e notorietà. Sia pur in una situazione stagnante si afferma il regista siciliano Giuseppe Tornatore che nel 1986 porta sul grande schermo la pellicola Il camorrista, realizzando, due anni dopo, Nuovo cinema Paradiso (1988), dolce- amaro amarcord raccontato attraverso il punto di vista di una sala di provincia. La pellicola riscuote visibilità in tutto il mondo, vincendo il gran premio della giuria al Festival di Cannes e in seguito, nel 1990, l’Oscar al miglior film straniero. Dopo una serie di film qualiL’uomo delle stelle (1995), La leggenda del pianista sull’o- ceano (1998) e La sconosciuta (2006), nel 2009 gira il filmBaarìa , la cui trama racconta una parte di vita vis- suta nella sua città d’origine. Altro regista a imporsi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta

160 è senz’altro Gabriele Salvatores. Nel 1989 si fa notare per l’opera Marrakech Express, cui segue, nel 1990, Turné. Il terzo lungometraggio, dal titolo Mediterraneo (1991), conclude la cosiddetta trilogia della fuga, che verrà idealmente proseguita con il successivo Puerto Escondido (1992). Dedicando il filma tutti quelli che fug- gono il regista napoletano tesse un elogio della ribellione usando gli anni Quaranta come metafora dei sogni e delle speranze post-sessantottine. L’opera gli vale il Premio Oscar come miglior film straniero. Nel 2003 dirige Io non ho paura, il cui soggetto è tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. Opere non meno importanti uscite nella prima metà degli anni Novanta sono certamente l’ultima fatica di Fellini La voce della Luna (1990), Jona che visse nella balena (1993), che mette in luce le qualità artistiche del cineasta Roberto Faenza, Piccolo Buddha (1993) di Bernardo Bertolucci, Al di là delle nuvole (1995) di Michelangelo Antonioni e Wim Wenders e L’amore molesto (1995) dell’artista napoletano Mario Martone. Sempre in questo periodo si sviluppa un piccolo filone cinematografico di derivazione neorealista, contami- nato da tematiche civili aderenti all’attualità.

A tale filone appartengono film comeUltrà (1991), incentrato sulla violenza delle tifoserie calcistiche, La scor- ta (1993) ispirato alle contemporanee stragi mafiose siciliane eVite strozzate (1996), tutti diretti dal cineasta Ricky Tognazzi. Da citare in questo senso sono anche: Il muro di gomma (1991), di Marco Risi, Teste rasate (1993) di Claudio Fragasso, violento ritratto dell’ambiente skinhead e neonazista, Il giudice ragazzino (1993) di Alessandro Di Robilant e Poliziotti (1995), diretto dall’attore e regista Giulio Base. Altra pellicola ascrivibi- le al genere e influenzata dai convergenti avvenimenti di Cosa nostra è Giovanni Falcone (1993) di Giuseppe Ferrara, opera che ripercorre gli ultimi giorni di vita dei magistrati siciliani Giovanni Falcone e Paolo Borsel- lino. Lontano da mode e correnti si sviluppa il cinema di Pasquale Pozzessere, che nel film d’esordioVerso sud (1992) esplora senza retorica lo sfacelo urbano e ambientale dell’Italia anni Novanta, con inquadrature che rimandano direttamente al cinema di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini.

Tra i lavori a venire vi sono Padre e figlio (1994) e il lungometraggio di impegno civile Testimone a rischio (1997). Tra gli esordienti del periodo vi è Mimmo Calopresti che dirige Nanni Moretti ne La seconda volta (1995) e conferma le proprie qualità con il successivo La parola amore esiste (1998). Nella prima metà degli anni Novanta ricevono consensi il comico toscano Alessandro Benvenuti, con Benvenuti in casa Gori (1990), Massimo Troisi, con Pensavo fosse amore... invece era un calesse (1991), Lina Wertmüller, con Io speriamo che me la cavo (1992) e l’artista romano Carlo Verdone, che torna a sperimentare l’ambito comico nel fortunato film a episodi Viaggi di nozze (1995). Infine, riscuote grande seguito l’attore e regista fiorentino Leonardo Pieraccioni, specialmente con commedie giovanili come I laureati (1995), Il ciclone (1996) e Fuochi d’artifi- cio (1997). Nel frattempo, Nanni Moretti innalza il proprio percorso d’autore con il sincero e autobiografico Caro diario (1993), seguito da Aprile (1998), dove l’artista documenta se stesso di fronte all’evolversi della situazione politica italiana. Nel 1994 fa il suo esordio cinematografico il regista livornese Paolo Virzì, subito salutato dalla critica come una vera rivelazione. Tra i suoi primi lungometraggi si evidenziano: La bella vita (1994), Ferie d’agosto (1995) e il cult Ovosodo (1997). Si afferma agli inizi del decennio il cinema di Daniele Luchetti, costantemente diviso fra la classica commedia e una matura attenzione all’impegno civile. Fra le sue opere più significative si ricordano:Il portaborse (1991), La scuola (1995) e in tempi più recenti Mio fratello è figlio unico (2006) e La nostra vita (2010). Proprio in seno alla commedia, tra la metà degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, si è affacciata una nuova schiera di attori che ha alternato abilmente ruoli impegnati ad altri più leggeri, fra i tanti si menzionano: Ser- gio Castellitto, Silvio Orlando, Sergio Rubini, Fabrizio Bentivoglio, Alessandro Haber, Ennio Fantastichini,

161 Claudio Amendola e Carlo Delle Piane (già attivo come caratterista da oltre tre decenni). Sul versante fem- minile emergono: Margherita Buy, Valeria Golino, Laura Morante, Anna Bonaiuto, Valeria Bruni Tedeschi, Francesca Neri, Lina Sastri, Isabella Ferrari, e Monica Bellucci. Nel settembre del 1994 esce nelle sale Il postino, diretto da Michael Radford e interpretato dall’attore Massimo Troisi. Il film, tratto dal romanzo Ardiente paciencia del cileno Antonio Skármeta, rappresenta il testamento artistico dell’attore par- tenopeo che centra l’obbiettivo di rinverdire la tradizione alta della commedia all’italiana in chiave interna- zionale e anti-hollywoodiana. L’opera riceve grandi consensi sia in Italia che all’estero e ottiene 5 candidature agli Oscar 1996. Troisi, morto dodici ore dopo la fine delle riprese per un arresto cardiaco, verrà insignito dal Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani di un apposito Nastro d’argento speciale. Gli ultimi anni del decennio vedono il trionfo internazionale di Roberto Benigni con l’acclamato La vita è bella (1997). L’attore-regista, già premiato dal pubblico coi precedenti Johnny Stecchino (1991) e Il mostro (1994), porta sullo schermo una commedia sull’Italia fascista, accentuandone la drammaturgia con lo spostamento dell’a- zione all’interno dei lager nazisti. Inizialmente il progetto prevede una stesura a esclusivo impianto comico; in seguito lo script viene ad assumere volutamente le vesti di una commedia a sfondo drammatico. La pellicola (Oscar al miglior film straniero nel 1999) ottiene un vasto clamore in tutto il mondo, portando il comico to- scano a ricevere, nello stesso anno, l’Oscar al miglior attore protagonista. A tutt’oggi è l’unico interprete maschile italiano ad aver ottenuto un simile riconoscimento. Con l’arrivo del nuovo millennio l’industria cinematografica ritrova parzialmente stabilità. Oltre al successo ottenuto da Nan- ni Moretti al Festival di Cannes per La stanza del figlio (2001), va ricordato il consenso critico di La meglio gioventù (2003), di Marco Tullio Giordana. Ritrova nuova linfa creativa l’opera di Marco Bellocchio che torna alla ribalta con due acclamati lungometraggi: L’ora di religione (2002) e Buongiorno, notte (2003), nonché il cinema di Pupi Avati (Il cuore altrove, 2003; Il papà di Giovanna, 2007). Tuttavia, il lascito più importante del cinema italiano del nuovo millennio arriva dai registi Paolo Sorrentino e Matteo Garrone. Paolo Sorrentino realizza il suo primo grande e indiscusso successo in quanto, nel 2008, esce nelle sale cinematografiche Il divo, liberamente ispirato alla biografia dell’onorevole Giulio Andreotti, che vede protagonista l’interprete Toni Servillo. L’opera, accolta positivamente dalla critica, si aggiudica il Premio della giuria al Festival di Cannes. Il regista (anche sceneggiatore), nel ricostruire la vita dello statista intreccia pubblico e privato, alternando scene ipotetiche ad altre basate sui fatti con uno stile spesso frenetico. Garrone dopo alcuni lungometraggi e vari documentari conosce il successo critico con il film L’imbalsama- tore (2002) che combina, in maniera rigorosa, gli elementi tipici del noir dentro una narrazione in bilico tra realismo e astrazione pittorica. Nel 2008 il regista romano arriva sulla croisette con il film Gomorra, tratto dall’ omonimo libro denuncia di Roberto Saviano e conquista il Grand Prix Speciale della Giuria. La pellicola lascia volutamente da parte le componenti più cronachistiche riguardanti la malavita organizzata per incen- trarsi su cinque storie personali che hanno tutte il compito di svelare il sottile rapporto esistente tra mondo legale e illegale. Pur stilisticamente differenti, sia Il divo che Gomorra si accomunano nel tentativo di tornare a raccontare, attraverso il cinema, aspetti critici della società italiana. L’ottimo riscontro al botteghino delle due pellicole segna un deciso rilancio del cinema italiano d’autore, capace nello stesso tempo di raggiungere un ampio richiamo di pubblico. In egual misura raggiungono il crisma dell’autorialità i lungometraggi di Paolo Virzì che fotografano con lucidità e pungente ironia le varie facce dell’Italia attuale. Film come Caterina va in città (2003), Tutta la vita davanti (2008) e La prima cosa bella (2010), lo impongono come uno degli eredi naturali della commedia

162 all’italiana. Da ricordare il regista italo-turco Ferzan Özpetek che ottiene seguito dirigendo film imperniati sulle difficoltà di coppia, l’elaborazione del lutto e la condizione omosessuale, tutte tematiche rintracciabili in lavori come Il bagno turco (1997), Le fate ignoranti (2000), La finestra di fronte (2003), Cuore sacro (2005) e Saturno contro (2007). Negli anni Duemila si afferma una nuova generazione di interpreti, tra i quali Claudio Santamaria, Stefano Accorsi, Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino, Elio Germano e Riccardo Scamarcio.

Tutti gli attori sopracitati recitano insieme nel film di successoRomanzo criminale (2005), diretto da Michele Placido, basato sull’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e incentrato sulle sanguinarie vicende della Banda della Magliana, da cui è stata tratta una serie televisiva. In questi anni, oltre a Michele Placido, passano alla regia attori di fama come Sergio Rubini e Sergio Castellitto che conosce un buon riscontro di pubblico e critica con il film Non ti muovere (2004). Nella sfera del cinema comico, insieme alle commedie del regista Carlo Verdone, ottengono grande affermazione quelle del trio Aldo, Giovanni & Giacomo, autori e interpre- ti di film come Tre uomini e una gamba (1997), Così è la vita (1998), Chiedimi se sono felice (2000) e Tu la conosci Claudia? (2004), tutti diretti dal regista Massimo Venier. Il nuovo millennio porta con sé una nuova ondata di registi, che aggiorna e rilegge il cinema d’autore italiano, ponendosi spesso e volentieri in una sorta di zona franca, tra tradizione e modernità. Di rilevante importanza anche i film di Roberto Andò e soprattutto di Gabriele Muccino che ha ottenuto un interessante successo anche a Hollywood.

Musica, Danza e Canzone Il genio italiano ha usato nel modo di gran lunga più libero e fine ciò che ha preso a prestito e ci ha messo den- tro molto di più di quello che ne ha ricavato, essendo il genio più ricco, che più poteva donare. Friedrich Nietzsche La musica italiana è stata tenuta in grande considerazione nella storia e molti suoi brani sono considerati di alta arte. Più che altri elementi della cultura italiana, la musica è generalmente eclettica, ma unica rispetto alla musica di altre nazioni. Nessun movimento protezionista parrocchiale ha mai tentato di mantenere la musica italiana pura e libera dall’influenza straniera, se non per breve tempo sotto il regime fascista degli anni ’20 e ’30 del Novecento. Di conseguenza, la musica italiana ha mantenuto elementi di molti popoli che hanno dominato o influenzato il paese, tra cui francese, tedesco e spagnolo. Anche i contributi storici alla musica del paese sono una parte importante dell’orgoglio nazionale. La storia relativamente recente dell’Italia comprende lo sviluppo di una tradizione operistica che si è diffusa in tutto il mondo; prima dello sviluppo dell’identità italiana o di uno stato italiano unificato, la nostra penisola ha contribuito a importanti innovazio- ni nella musica, compreso lo sviluppo della notazione musicale e del canto gregoriano. L’Italia ha un forte senso di identità nazionale attraverso una cultura peculiare. Le questioni culturali, politi- che e sociali sono spesso espresse anche questo multiforme linguaggio. La fedeltà alla musica è integralmente intessuta nell’identità sociale degli italiani, ma nessuno stile è stato considerato un tipico stile nazionale. La maggior parte della musica folk è localizzata e unica per una piccola regione o città. La produzione musica- le dell’Italia rimane caratterizzata da grande diversità e indipendenza creativa con una ricca varietà di tipi di espressione. L’immigrazione dal Nord Africa, dall’Asia e da altri paesi europei ha portato a un’ulteriore diversificazione della nostra musica. Quella tradizionale esisteva solo in piccole sacche, specialmente come parte di campagne dedicate a conservare le identità musicali locali. Musica e politica si intrecciano da secoli. Proprio come molte opere d’arte del Rinascimento italiano, furono commissionate dai reali e dalla Chiesa

163 Cattolica Romana; molta musica fu composta sulla base di tali commissioni, musica di corte di sottofondo, musica per le incoronazioni, per la nascita di un erede reale, marce reali e altre occasioni. I compositori che si allontanavano correvano certi rischi. Tra i più noti di questi casi fu il compositore napoletano Domenico Cimarosa che compose l’inno repubblicano per la Repubblica napoletana del 1799 di breve durata. Quando cadde la Repubblica, fu processato per tradimento insieme ad altri rivoluzionari. Cimarosa non fu giustiziato dalla Monarchia restaurata, ma fu esiliato. Anche la musica ha avuto un ruolo nell’unificazione della penisola. Durante questo periodo alcuni capi politici tentarono di usarla per forgiare un’identità culturale unificante. Un esempio è il coro Va, pensiero dall’opera di Giuseppe Verdi Nabucco. L’opera parla dell’antica Babilonia, ma il coro contiene la frase O mia Patria, apparentemente sulla lotta degli israeliti, ma anche un riferimento sottilmente velato al destino di un’Italia non ancora unita; l’intero coro divenne l’inno non ufficiale del Risor- gimento, la spinta a unificare l’Italia nel XIX secolo. Verdi ebbe problemi con la censura prima dell’unifica- zione dell’Italia. La sua opera Un ballo in maschera era originariamente intitolata Gustavo III e fu presentata all’opera di San Carlo a Napoli, la capitale del Regno delle Due Sicilie, alla fine degli anni ’50. I censori napo- letani si opposero alla trama realistica sull’assassinio di Gustavo III, re di Svezia, nel 1790. Anche dopo che la trama fu cambiata, i censori napoletani la rifiutarono; nell’era fascista degli anni ’20 e ’30, si verificarono la censura governativa e l’interferenza con la musica, sebbene non su base sistematica. Esempi di spicco com- prendono il noto manifesto anti-modernista del 1932 e la messa al bando dell’opera La favola del figlio cambia- to di Gian Francesco Malipiero da parte di Mussolini, dopo un’esecuzione nel 1934. I mezzi di comunicazione musicali spesso criticavano la musica che veniva percepita come politicamente radicale o insufficientemente italiana. Persino il direttore d’orchestra Arturo Toscanini, un dichiarato oppositore del fascismo, ottenne lo stesso trattamento neutro e distante senza menzionare affatto la sua posizione anti-regime. Forse l’episodio di musica più conosciuto che si scontra con la politica coinvolge proprio Toscanini. Era stato costretto a lasciare la direzione musicale alla Scala di Milano nel 1929 perché rifiutò di iniziare ogni rappresentazione con la canzone fascista, Giovinezza. Per questo insulto al regime fu attaccato e picchiato per strada fuori dall’opera di Bologna dopo un’esibizione nel 1931. Durante l’era fascista, la pressione politica ostacolò lo sviluppo della musica classica, sebbene la censura non fosse così sistematica come nella Germania nazista. Una serie di leggi razziali fu approvata nel 1938, negando così ai compositori e ai musicisti ebrei l’appartenenza ad associazioni professionali e artistiche. Sebbene in quel periodo non ci fosse stata una massiccia fuga di ebrei italiani dall’I- talia, anche alcuni nemici non ebrei del regime emigrarono: Toscanini, per esempio. Più recentemente, nella seconda metà del XX secolo, in particolare negli anni ’70 e oltre, la musica è stata ulteriormente irretita dalla politica italiana. Una rinascita delle radici ha stimolato l’interesse per le tradizioni popolari, guidate da scrittori, collezionisti e artisti tradizionali. La destra politica in Italia ha visto questo radicarsi del revival con disprezzo, come prodotto delle classi svantaggiate. La scena revivalista divenne così associata all’opposizione e iniziò ad essere un veicolo per protestare contro il capitalismo del libero merca- to. Allo stesso modo, la scena della musica classica d’avanguardia fu associata e promossa dal Partito Comuni- sta Italiano fin dagli anni ’70, un cambiamento che può essere fatto risalire alle rivolte e alle proteste studente- sche del 1968. La musica classica italiana resistette allo Juggernaut armonico tedesco, ossia, le dense armonie di Richard Wagner, Gustav Mahler e Richard Strauss. La nuova musica abbandonò gran parte delle scuole storiche di armonia e melodia sviluppate a livello nazionale in favore della musica sperimentale, dell’atonalità, del minimalismo e della musica elettronica, le quali impiegano caratteristiche che sono diventate comuni alla musica europea in generale e non all’Italia in particolare. Questi cambiamenti hanno anche reso la musica classica meno accessibile a molte persone.

164 L’opera ebbe origine in Italia alla fine del XVI secolo durante il periodo della Camerata fiorentina. Attra- verso i secoli che seguirono, le tradizioni operistiche, si svilupparono a Napoli e Venezia; fiorirono le opere di Claudio Monteverdi, Alessandro Scarlatti e, più tardi, di Gioachino Rossini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti; è rimasta la forma musicale più strettamente legata alla musica e all’identità italiana che mantenne una tradizione musicale operistica romantica negli inizi del XX secolo, esemplificata dai compositori della cosiddetta Giovane Scuola, la cui musica era ancorata nel secolo precedente, tra cui Arrigo Boito, Ruggero Leoncavallo, Pietro Mascagni e Francesco Cilea. Giacomo Puccini, che era un compositore verista, ed è sta- to descritto da Encyclopedia Britannica online come l’uomo che "virtualmente ha portato alla fine, la storia dell’opera italiana". Dopo la Prima Guerra Mondiale, tuttavia, l’opera decadde rispetto alle altezze popolari del XIX e primo XX secolo. Le cause comprendevano il generale allontanamento culturale dal Romantici- smo e l’ascesa del cinema. Il successo dell’opera nella musica italiana tende ad oscurare l’importante area della musica strumentale che storicamente include la vasta gamma strumentale sacra, i concerti strumentali e le musiche orchestrali nel- le opere di Andrea Gabrieli, Giovanni Gabrieli, Girolamo Frescobaldi, Arcangelo Corelli, Tomaso Albino- ni, Antonio Vivaldi, Domenico Scarlatti, Luigi Boccherini, Muzio Clementi, Luigi Cherubini, Giovanni Bat- tista Viotti e Niccolò Paganini. I compositori d’opera occasionalmente lavoravano in altre forme, per esempio il Quartetto in mi minore di Giuseppe Verdi. Anche Donizetti, il cui nome è identificato con l’inizio dell’opera lirica italiana, scrisse 18 quartetti d’archi. All’inizio del Novecento, la musica strumentale, dopo un periodo di crisi durato quasi un secolo, cominciò a crescere di importanza, un processo che iniziò intorno al 1904 con la Seconda Sinfonia di Giuseppe Martucci, un’opera che Malipiero definì "il punto di partenza della rinascita della musica italiana non operistica". Diversi primi compositori di quest’epoca, come Leone Sinigaglia, usa- rono le tradizioni popolari autoctone. L’inizio del XX secolo è segnato anche dalla presenza di un gruppo di compositori chiamato la generazione dell’Ottanta (generazione del 1880), tra cui Franco Alfano, Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Il- debrando Pizzetti e Ottorino Respighi. Questi compositori, seguendo la strada intrapresa per primo dal già citato Martucci, di solito si concentravano sulla scrittura di opere strumentali, e non sull’opera. I membri di questa generazione furono le figure dominanti nella musica italiana dopo la morte di Puccini nel 1924. Nuove organizzazioni sorsero per promuovere la musica italiana, come il Festival di Venezia della musica contem- poranea e il Maggio Musicale Fiorentino. La fondazione di Guido Gatti del periodico Il Pianoforte e poi La rassegna musicale contribuirono anche a promuovere una visione più ampia della musica rispetto al clima politico e sociale consentito. È importante citare, per quanto riguarda il Novecento, la figura di Mario Castel- nuovo-Tedesco, pianista e compositore ricordato come uno dei più importanti autori per chitarra classica del XX secolo. La maggior parte degli italiani, tuttavia, preferiva pezzi più tradizionali e normali consolidati e solo una piccola parte del pubblico cercava nuovi stili di musica classica sperimentale. Florida è anche la scuola di strumentisti e direttori d’orchestra, che ha annoverato, ed annovera, alcuni tra i più importanti esecutori del Novecento; vanno ricordati, tra gli altri, Arturo Benedetti Michelangeli, il Quartetto italiano, I Musici, Salva- tore Accardo, Maurizio Pollini, Uto Ughi, Aldo Ciccolini, Severino Gazzelloni, Arturo Toscanini, Mario Bru- nello, Ferruccio Busoni, Bruno Canino, Claudio Abbado, Carlo Maria Giulini, Oscar Ghiglia e Riccardo Muti. I contributi italiani al balletto sono meno conosciuti e apprezzati rispetto ad altri settori della musica classica. L’Italia, in particolare Milano, era un centro del balletto di corte già nel XV secolo, influenzato dagli intrat- tenimenti comuni nelle celebrazioni reali e nei matrimoni aristocratici. I primi coreografi e compositori del

165 balletto includono Fabritio Caroso e Cesare Negri. Lo stile del balletto noto come gli spettacoli all’italiana, esportati in Francia dall’Italia, presero piede e il primo balletto eseguito in Francia (1581), Ballet Comique de la Reine, fu coreografato da un italiano, Baltazarini di Belgioioso, meglio conosciuto dalla versione francese del suo nome, Balthasar de Beaujoyeulx. Il primo balletto era accompagnato da una considerevole strumenta- zione, con il suonare di corni, tromboni, tamburi, dulcimer, cornamuse. Sebbene la musica non sia sopravvis- suta, si ipotizza che i ballerini, loro stessi, possano aver suonato gli strumenti sul palco. Poi, sulla scia della Ri- voluzione Francese, l’Italia divenne di nuovo un centro di danza, in gran parte grazie agli sforzi di Salvatore Viganò, un coreografo che collaborò con alcuni dei più importanti compositori dell’epoca. Divenne maestro di danza alla Scala nel 1812. L’esempio più noto di balletto italiano del XIX secolo è probabilmente l’Excelsior, con musiche di Romualdo Marenco e coreografie di Luigi Manzotti. Fu composto nel 1881 ed è un grande tributo al progresso scientifico e industriale del XIX secolo. Viene ancora eseguito ed è stato messo in scena nel 2002. Attualmente, i maggiori teatri d’opera italiani mantengono le compagnie di balletto. Esistono per fornire danze di scena e cerimoniali in molte opere, come Aida o La traviata. Queste compagnie di danza di solito mantengono una stagione di balletto separata ed eseguono il repertorio standard del balletto classico, di cui poco è italiano. L’equivalente italiano del Balletto Bol’šoj russo e compagnie simili, che esistono solo per esibirsi nel balletto, indipendente da un teatro d’opera, è il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala. Nel 1979 una moderna compagnia di danza, Aterballetto, fu fondata a Reggio Emilia da Vittorio Biagi. La musica sperimentale è un campo ampio e vagamente definito che comprende musiche create dall’abbandono dei concetti classici tradizionali di melodia e armonia e utilizzando la nuova tecnologia dell’elettronica per creare suoni fino ad ora impossibili. In Italia, uno dei primi a dedicare la sua attenzione alla musica sperimentale è stato Ferruccio Busoni, la cui pubblicazione del 1907, Abbozzo di una Nuova Estetica della Musica, discu- teva l’uso di nuovi suoni elettrici ed altri nella musica del futuro. Allo stesso modo Luigi Russolo, il pittore e compositore futurista italiano, scrisse delle possibilità della nuova musica nei suoi manifesti del 1913 L’arte dei rumori e La musica futurista. Inventò e costruì anche strumenti come gli intonarumori, principalmente percussioni, che furono usati in un precursore dello stile noto come musique concrète. Uno degli eventi più in- fluenti nella musica del primo Novecento fu il ritorno di Alfredo Casella dalla Francia nel 1915; Casella fondò la Società Italiana di Musica Moderna, che promosse diversi compositori con stili disparati, che andavano dallo sperimentale al tradizionale. Nell’Italia moderna un’importante organizzazione che promuove la ricerca nell’avanguardia e nella musica elettronica è la CEMAT, la Federazione dei centri di musica elettroacustica italiana. La CEMAT promuove le attività del progetto Sonora, lanciato congiuntamente dal Dipartimento per le Arti dello Spettacolo, dal Mini- stero per gli Affari Culturali e dalla Direzione per le Relazioni Culturali del Ministero degli Affari Esteri con l’obiettivo di promuovere e diffondere la musica contemporanea italiana all’estero. La musica classica italiana si sviluppò gradualmente più sperimentale e progressista verso la metà del XX secolo, mentre i gusti popolari avevano la tendenza ad attenersi a compositori e composizioni consolidate del passato. Il programma 2004- 2005 al Teatro San Carlo di Napoli è tipico dell’Italia Moderna: delle otto opere rappresentate, la più recente era di Puccini. Ogni regione e comunità possiede una tradizione musicale unica che riflette la storia, la lingua e la composi- zione etnica di quel particolare luogo. Queste tradizioni riflettono la posizione geografica dell’Italia nell’Eu- ropa meridionale e nel centro del Mediterraneo; le influenze celtiche, romane e slave, come la geografia grezza e il dominio storico delle piccole città, si sono tutte combinate per consentire a diversi stili musicali di coesi-

166 stere in una stretta prossimità. Gli stili folcloristici italiani sono molto diversi e stratificati pertanto includono canzoni monofoniche, polifoniche e responsoriali, musica corale, strumentale e vocale e altri stili. Il canto corale e le forme polifoniche delle canzoni si trovano principalmente nell’Italia settentrionale, mentre a sud di Napoli il canto solista è più comune ed i gruppi di solito usano il canto all’unisono in due o tre parti trascinate da un singolo esecutore. Il canto ballata settentrionale è sillabico, con un ritmo rigoroso e testi comprensi- bili, mentre gli stili del sud usano un tempo di rubato e uno stile vocale commosso e agitato. I musicisti folk usano il dialetto della propria tradizione regionale; questo rifiuto della lingua italiana standard nella canzone popolare è quasi universale. La musica folk è a volte divisa in diverse sfere di influenza geografica, un sistema di classificazione di tre regioni, meridionale, centrale e settentrionale, proposto da Alan Lomax nel 1956 è spesso ripetuto. Inoltre Curt Sachs proponeva l’esistenza di due tipi di musica popolare piuttosto distinti in Europa: continentale e mediterraneo e altri hanno collocato la zona di transizione dalla prima a quest’ultima all’incirca nell’Italia centro-settentrionale, approssimativamente tra Pesaro e La Spezia. Le parti centrali, settentrionali e meridionali della penisola condividono determinate caratteristiche musicali e sono distinte dalla musica della Sardegna. Nelle valli piemontesi e in alcune comunità liguri dell’Italia nord-occidentale, la musica conserva la forte influenza dell’antica Occitania. I testi dei trovatori occitanici sono alcuni dei più antichi esempi conservati di canzoni in volgare e gruppi moderni come Gai Saber e Lou Dalfin conservano e rendono contemporanea la musica occitana. La loro cultura conserva le caratteristiche dell’antica influenza celtica, attraverso l’uso di flauti a sei o sette fori ( fiffaro) o delle cornamuse (piva). La musica del Friuli-Venezia Giulia, nel nordest dell’Italia, condivide molto di più con l’Austria e la Slovenia, comprese le varianti del val- zer e della polka. Gran parte del nord Italia condivide con aree dell’Europa un interesse per il canto delle bal- late chiamato canto epico lirico, e il canto corale. Anche le ballate, solitamente pensate come un veicolo per una voce solista, possono essere cantate in cori. Nella provincia di Trento i cori popolari sono la forma più comune di produzione musicale. Differenze musicali evidenti nel tipo meridionale includono un maggiore uso del can- to a intervallo parziale e una maggiore varietà di strumenti popolari. Le influenze celtiche e slave del gruppo e le opere corali a voci aperte del nord cedono a una forte monodia araba, greca e nordafricana influenzata dal sud. In alcune parti della Puglia (Grecia salentina, per esempio) il dialetto Griko è comunemente usato nella canzone. La città pugliese di Taranto è la patria della , una danza ritmata largamente eseguita nel sud Italia. La musica pugliese in generale, e la musica salentina in particolare, è stata ben studiata e documen- tata dagli etnomusicologi e da Aramirè. La musica della Sardegna è meglio conosciuta per il canto polifonico dei tenores. Il loro suoni richiamano le radici del canto gregoriano, ed è simile ma distintivo al trallalero ligure. Gli strumenti tipici includono le launeddas, una triplice pipa sarda utilizzata in modo sofisticato e comples- so. Efisio Melis era un noto suonatore di launeddas degli anni ’30. Le canzoni popolari italiane includono bal- late, canzoni liriche, ninne nanne e canzoni per bambini, canzoni di stagione basate su festività come il Na- tale, canzoni legate ai fatti della vita che celebrano matrimoni, battesimi e altri eventi importanti, canzoni di ballo, richiami del bestiame e canzoni professionali, legate a professioni come pescatori, pastori e soldati. Le ballate canti epico-lirici e le canzoni liriche canti lirico-monostrofici sono due importanti categorie. Le ballate sono più comuni nell’Italia settentrionale, mentre le canzoni liriche prevalgono più a sud e sono una catego- ria diversa che consiste in ninne nanne, serenate e canti di lavoro, spesso improvvisate anche se basate su un repertorio tradizionale. Altre memorie della canzone popolare italiana sono meno comuni delle ballate e delle canzoni liriche. I cantanti professionisti di sesso femminile eseguono nenie in uno stile simile a quelli di altre parti d’Europa. Lo Jodel esiste nell’Italia settentrionale, sebbene sia più comunemente associato alle musiche popolari di altre nazioni alpine. Il Carnevale italiano è associato a diversi tipi di canzoni, in particolare il

167 Carnevale di Bagolino a Brescia. Cori e ottoni fanno parte della festa di metà quaresima, mentre la tradizione della canzone di supplica si estende attraverso molte feste durante tutto l’anno. La strumentazione è parte integrante di tutti gli aspetti della musica popolare italiana. Esistono diversi stru- menti che conservano le forme più antiche anche se i modelli più recenti si sono diffusi altrove in Europa. Molti strumenti italiani sono legati a certi rituali o occasioni, come la zampogna o cornamusa, che in genere si ascolta solo a Natale. Gli strumenti folk italiani possono essere suddivisi in categorie di corde, fiati e per- cussioni. Gli strumenti comuni comprendono la fisarmonica diatonica, una fisarmonica più strettamente as- sociata al saltarello; la fisarmonica diatonica è la più comune nell’Italia centrale, mentre le fisarmoniche cro- matiche prevalgono nel nord. Molti comuni ospitano bande di ottoni, che si esibiscono con gruppi di revival delle radici; questi gruppi sono basati sul clarinetto, la fisarmonica, il violino e piccoli tamburi, decorati con campane. Gli strumenti a fiato italiani comprendono in particolare una varietà di flauti folk. Tra questi ci sono tubi, flauti globulari e trasversali, nonché varie varianti del flauto di pan. I doppi flauti sono più comuni in Campania, Calabria e Sicilia. Una brocca di ceramica chiamata quartara viene anche usata come strumento a fiato, soffiando attraverso un’apertura nel collo stretto della bottiglia; si trova nella Sicilia orientale e in Campania. Le cornamuse singole (ciaramella) e doppie (piffero) vengono comunemente suonate in gruppi di due o tre. Sono note molte cornamuse popolari, tra cui la zampogna dell’Italia centrale; numerosi strumenti a percussione fanno parte della musica popolare italiana, tra cui blocchi di legno, campane, nacchere, tamburi. Diverse regioni hanno la loro forma distinta di sonagli, tra cui la raganella e le conocchie calabresi, un bastone da pastore con sonagli permanenti e col significato rituale della fertilità. Il sonaglio napoletano è il triccabal- lacca, fatto di diverse bacchette in una cornice di legno. I tamburini e il tamburello, come vari tipi di tamburi, come il putipù, tamburo a frizione, pur sembrando molto simile al tamburello occidentale contemporaneo, è in realtà suonato con una tecnica molto più articolata e sofisticata, influenzata dal modo di suonare mediorienta- le, dandole una vasta gamma di suoni. Lo scacciapensieri è uno strumento peculiare, che si trova solo nel sud Italia e in Sicilia. Gli strumenti a corda variano ampiamente in base alla località, senza alcun rappresentante di rilievo nazionale. Viggiano è sede di una tradizione di arpa, che ha una base storica in Abruzzo, Lazio e Ca- labria. La Calabria, da sola, ha 30 strumenti musicali tradizionali, alcuni dei quali hanno caratteristiche fortemente arcaiche e sono in gran parte estinti altrove in Italia. È la patria della chitarra a quattro o cinque corde chiamata e un violino a tre corde chiamato lira, che si trova anche in forme simili nella musica di Creta e dell’Europa sud-orientale. Un violino ad una corda, chiamato torototela, è comune nel nord- est del paese. L’area, in gran parte di lingua tedesca, del Trentino-Alto Adige è nota per la cetra e la ghiron- da ma si trova anche in Emilia, Piemonte e Lombardia. Tradizioni esistenti, radicate e diffuse confermano la produzione di strumenti effimeri e giocattolo fatti di corteccia, canna, foglie, fibre e steli, come emerge, ad esempio, dalla ricerca di Fabio Lombardi. La danza è parte integrante delle tradizioni popolari in Italia. Alcune danze sono antiche e, fino a un certo punto, esistono tutt’ora. Ci sono danze magico-rituali di propiziazione e danze del raccolto, tra cui le danze di raccolta del mare delle comunità di pescatori in Calabria e le danze della vendemmia in Toscana. Tra le danze famose troviamo la tarantella meridionale e fa parte di un rituale popolare destinato a curare il veleno causato dai morsi della tarantola. Le famose danze toscane recitano ritualmente la caccia alla lepre, o mostrano lame in danze con armi che simulano o richiamano le mosse del combattimento, o usano le armi come strumenti sti- lizzati della danza stessa. Ad esempio, in alcuni villaggi nel nord Italia, le spade sono sostituite da mezzi cerchi di legno ricamati con il verde, simili alle cosiddette danze della ghirlanda nell’Europa settentrionale. Ci sono anche danze di amore e di corteggiamento, come la danza duru-duru in Sardegna o la pizzica in Puglia. Molte

168 di queste danze sono attività di gruppo, il gruppo si organizza in file o cerchi; alcune, le danze di amore e di corteggiamento, coinvolgono le coppie, sia una singola che più coppie. La tammuriata, eseguita al suono del tamburello, è un ballo di coppia eseguito nel sud Italia e accompagnato da una canzone lirica chiamata stram- botto. Altre danze per coppie sono indicate collettivamente come saltarello. Vi sono, tuttavia, anche danze soliste; la più tipica di queste sono le danze di bandiera di varie regioni d’Italia, in cui il danzatore passa una bandiera o una bandierina del paese attorno al collo, attraverso le gambe, dietro la schiena, spesso lanciandola in alto in aria e catturandola. Queste danze possono anche essere eseguite in gruppi di ballerini solisti che agiscono all’unisono o coordinando la bandiera che passa tra i ballerini.

La Canzone napoletana è una tradizione distinta che divenne parte della musica popolare nel XIX secolo ed è stata un’immagine iconica della musica italiana all’estero entro la fine del XX secolo. L’Italia ha anche molti noti festival musicali internazionali ogni anno, tra i quali il a Spoleto, il Festival Puc- cini e il Festival Wagner di Ravello. Alcuni festival offrono locali ai compositori più giovani di musica classica producendo e mettendo in scena le opere vincenti nelle competizioni. Il vincitore, ad esempio, del Concorso Internazionale Orpheus per la New Opera e la musica da camera, oltre a vincere un considerevole premio in denaro, può vedere il suo lavoro musicale presentato al Festival di Spoleto. L’Italia è anche una destinazione comune per le orchestre conosciute dall’estero; in quasi ogni momento durante la stagione più impegnata, al- meno un’orchestra importante di altre parti dell’Europa o del Nord America sta tenendo un concerto in Italia. Inoltre la musica pubblica può essere ascoltata in dozzine di concerti pop e rock durante tutto l’anno. L’opera all’aria aperta può anche essere ascoltata, ad esempio, nell’antico anfiteatro romano, l’Arena di Verona. Anche le bande militari sono popolari in Italia. A livello nazionale una delle più note è la Banda Musicale del- la Guardia di Finanza (Dogana italiana/Polizia di frontiera); si esibisce molte volte all’anno. La musica nei rituali religiosi, in particolare in quelli cattolici, si manifesta in vari modi. Le band parrocchiali, per esempio, sono abbastanza comuni in tutta Italia. Possono essere piccole con quattro o cinque membri o arrivare fino a 20 o 30. Si esibiscono comunemente in feste religiose caratteristiche di una particolare città, di solito in onore del santo patrono della città. I capolavori orchestrali / corali storici eseguiti in chiesa da professionisti sono ben noti; questi comprendono opere come lo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi e il Requiem di Ver- di. Il Concilio Vaticano II, dal 1962 al 1965, rivoluzionò la musica nella Chiesa Cattolica Romana, portando ad un aumento del numero dei cori amatoriali che si esibiscono regolarmente per i vari servizi religiosi; il Concilio ha anche incoraggiato il canto congregazionale degli inni e, negli ultimi 40 anni, è stato composto un vasto repertorio di nuovi inni. La storia della canzone italiana viene comunemente fatta iniziare dagli storici intorno alla metà del XIX se- colo, con la pubblicazione di Santa Lucia di Teodoro Cottrau ed Enrico Cossovich: pur trattandosi di una traduzione di una barcarola originariamente scritta in napoletano, questo brano appare come il primo ten- tativo in assoluto di armonizzare, sia dal punto di vista della melodia, sia dal punto di vista del testo, la tradi- zione musicale colta con quella di matrice popolare. A differenza di altri paesi, come la Francia, dove le radici del vaudeville derivarono dalla chanson del Cinquecento, o la Germania, con il suo particolare connubio fra musica e poesia, il lied, in Italia per molti anni si è mantenuta una netta separazione fra le composizioni deri- vanti dalla cosiddetta musica colta come le romanze da salotto o le operette e le canzoni popolari in dialetto. In particolare, le tradizioni musicali locali hanno avuto molta difficoltà a superare il proprio confine territoriale, con le significative eccezioni della canzone napoletana e, in forma molto minore, di quella romana e milanese. La separazione fra i due stili iniziò ad attenuarsi solo a cavallo fra XIX e XX secolo (anche con l’influenza

169 del café-concert francese) e poté dirsi superata solo con la fine della Prima Guerra Mondiale. La ricerca sto- rica sulla musica popolare ha individuato più tipologie di canzonette e tradizioni lungo la penisola italiana, che possono essere suddivise in due grandi gruppi: la tradizione gallo-italica dell’Italia settentrionale, che ha forti influenze francesi e che è perlopiù basata sul canto sillabico e su narrazioni cantate di singole vicende di carattere vario tragico, amoroso, magico, e la tradizione dell’Italia centrale e meridionale, più legata al canto melismatico, con composizioni di natura lirica, descrittiva, che lascia largo spazio alla soggettività dell’inter- pretazione, sebbene i temi e le parole varino di regione in regione. La più antica canzone locale di cui si ha traccia è La donna lombarda, una composizione che lo storico Costantino Nigra fa risalire al V secolo e la cui genesi viene attribuita alla storia di Rosmunda, regina dei Longobardi che uccise suo marito Alboino per vendetta e per aiutare il suo amante Elmichi a usurpare, senza successo, il trono.

Le prime tracce della tradizione centro-meridionale invece risalgono al XII-XIII secolo con La ienti de Sion, un’elegia giudeo-italiana che veniva solitamente intonata durante il digiuno di Tisha b’Av di probabile origine marchigiana, e Turiddu, chi si’ beddu, chi si’ duci, un’ottava siciliana molto probabilmente opera di un cantastorie e raccolta per la prima volta a Partinico. Riguardo alle singole tradizioni, nel nord Italia si va dal trallalero corale e di compagnia in Liguria ai canti narrativi delle zone di confine occitane e valdostane, dalle canzoncine legate a un personaggio o a un evento locale di Piemonte e Lombardia alle villotte del Trive- neto ai canti popolari emiliani, legati alla tradizione della pianura Padana. L’Italia centrale è l’area dello stornello, che viene declinato in più forme in Toscana, dove viene chiamato ri- spetto, in Umbria e in Abruzzo, dove prende il nome di canzune o di canzune suspette, qualora assuma la forma di dispetto verso qualcuno, ma anche dei canti in ottava rima toscani, del canto corale il bei, tipico della zona del Monte Amiata e molto simile al trallalero ligure, e del vatocco polivocale delle Marche, dell’Umbria e dell’Abruzzo. Scendendo verso l’Italia meridionale, si va dal saltarello ballato tipico del basso Lazio, che si trasforma in ta- rantella in Campania e Puglia e in pizzica nel , ai canti contadini lucano-calabresi, per finire ai canti dei carrettieri siciliani e alla varietà sonora della Sardegna, dai tenores barbaricini alla tasgia della Gallura, ai muttos, muttettos e battorina. Una delle prime testimonianze di canto popolare napoletano è il Canto delle lavandaie del Vomero, una prima forma di villanella, o canto agreste, risalente all’incirca al XIII secolo. Il genere rappresentò un esempio di musica polifonica italiana, su cui si esercitarono vari compositori illustri come Orlando di Lasso, Claudio Monteverdi e Giulio Caccini e fu in seguito riadattato a un modo di cantare più popolare, assorbendo alcuni aspetti formali e stilistici dell’opera buffa del XVIII secolo e acquisendo l’accompagnamento di strumenti a fiato e a percussione. Altro grande filone della tradizione musicale me- ridionale è la tarantella, la cui nascita viene fatta risalire alla metà del XVII secolo in Puglia e che ebbe la sua definitiva consacrazione lungo il XVIII secolo proprio a Napoli. È il XIX secolo, tuttavia, a segnare lo sviluppo della canzone napoletana come la conosciamo oggi, anche grazie al lavoro di recupero delle vecchie melodie (come Michelemmà, Cicerenella, ’O guarracino) svolto da Guglielmo Cottrau nella prima metà del secolo. Il definitivo passaggio alla forma moderna avvenne fra il 1835 e il 1839 con Te voglio bene assaje, scritta da Raffaele Sacco e la cui musica viene attribuita a Gaetano Donizetti: il successo del brano fu tale da far registrare la vendita di oltre 180.000 spartiti e da diventare una vera e propria ossessione, riportata da tutti i cronisti dell’epoca. Fu inoltre proprio grazie a questo brano che nacque la tradizione di presentare alla Festa di Piedigrotta le nuove canzoni dell’anno, in quella che poi con gli anni diventerà una vera e propria competi- zione musicale e che, dopo una breve sospensione, dal 1861 al 1876, permetterà la consacrazione di successi

170 come Funiculì funiculà, ’E spingule francese e ’O sole mio, ma anche dei loro autori più famosi come Francesco Paolo Tosti, Salvatore Di Giacomo, Mario Pasquale Costa, Salvatore Gambardella, Libero Bovio, Roberto Mu- rolo, Giovanni Capurro ed Eduardo Di Capua.

Le prime tracce della canzone romana si hanno intorno al XIII secolo con un brano dal titolo Sonetto, anche conosciuto come Bella quanno te fece mamma tua, che diventerà poi proprio il nome dato dal popolo alla tra- dizione musicale romanesca. Il tipo di melodia che accompagna questa tradizione lungo i secoli, si è mante- nuta senza cambiamenti essenziali e si può affermare che è l’unica che rappresenti incorrotta l’espressione del popolo romano, secondo il compositore Alessandro Parisotti. Il 1890 è convenzionalmente ritenuto l’anno di nascita della canzone romana moderna, con la creazione di Feste di maggio, scritta da Giggi Zanazzo, conside- rato il padre della canzone romana moderna, e musicata da Antonio Cosattini, e resa pubblica in occasione del primo concorso di bellezza per giovani romane, istituito per celebrare i vent’anni dalla Breccia di Porta Pia. Il successo del brano destò interesse nell’ambiente artistico romano, al punto che nel 1891 gli editori Pietro Cri- stiano ed Edoardo Perino bandirono i primi due concorsi di canzoni romanesche. La tradizione del concorso si stabilì presto, legandosi alla Festa di San Giovanni, molto sentita dai Romani, e proseguì senza interruzioni fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. L’evoluzione della canzone italiana proseguì su vari percorsi lungo il XIX secolo, sia nelle sue forme più alte e ricercate, sia nelle sue forme più popolari e dialettali. Per esempio, la diffusione e il trionfo dell’opera fra tutti i ceti sociali portò le arie più famose, quasi tutte scritte in italiano, sulla bocca di tutti, tanto da essere canticchiate come veri e propri brani musicali. Da questa moda derivò lo sviluppo della romanza, una forma operistica che poteva essere eseguita anche da una voce sola e che vide in compositori come Francesco Paolo Tosti, Ruggero Leoncavallo, Salvatore Gambardella, Luigi Denza e Michele Costa alcuni dei migliori esempi di produzione italiana. Il successo di alcune di queste opere fu anche aiutato dalla nascita delle tecniche di registrazione, innanzitutto su cilindro di cera e poi su dischi di ceralacca, che permisero la nascita di un vero e proprio mercato discografico, di cui Enrico Caruso fu una delle prime star. Contemporaneamente, l’esempio francese dei caffè-concerto o cafés chantants andava diffondendosi nei principali centri della penisola italiana come Napoli, Roma, Trieste, Torino e Milano: se al settentrione l’influsso francese e austriaco era più forte, al sud, i locali musicali permisero una migliore diffu- sione della canzone di tradizione più popolare e in particolare della canzone napoletana. Al contrario di quanto avveniva oltreconfine, dove si manteneva un certo equilibrio fra intrattenimento e gusto, in Italia gli spettacoli vennero quasi da subito incentrati su un’immagine peccaminosa della bellezza femminile, sul doppio senso e la provocazione. È anche in questo contesto che, a Napoli nel 1875, nacque ’A cammesella, una riedizione di un’antica filastrocca popolare napoletana che racconta la pudicizia e le resisten- ze di una moglie alla prima notte di nozze, e che, a suo modo, fu anche il primo precursore dello spogliarello, mentre a Roma qualche anno più tardi Maria Borsa inventò e Maria Campi perfezionò la mossa, esasperazione dell’oscenità dei gesti popolari. Allo sviluppo e diffusione della canzone italiana contribuirono anche i tu- multuosi avvenimenti politici dell’Ottocento, dai moti risorgimentali alle più tarde rivendicazioni socialiste e anarchiche da un lato e nazionaliste dall’altro. Anche qua si confermò il dualismo esistente fra un registro alto, fatto di testi ricercati, con continui riferimenti letterari e forme retoriche un po’ melodrammatiche, e un registro popolare, più immediato e chiaro, spesso con riferimenti alle fidanzate e alle mogli lasciate a casa. Al contrario di quanto si potrebbe immaginare, sia i canti patriottici e nazionalisti, sia quelli socialisti facevano perlopiù uso del registro alto. Maggiore successo, infatti, ebbero altri testi più semplici, come per esempio Ga- ribaldi fu ferito o La bella Gigogin durante il Risorgimento, oppure Bandiera rossa verso la fine del XIX seco- lo. Gli anni fra la Presa di Roma e la prima decade del XX secolo furono segnati da due grandi eventi, che a loro

171 volta lasciarono la loro traccia nelle canzoni popolari: l’esodo di milioni di italiani verso l’estero,in particolare dal Triveneto verso il continente americano, raccontato da Trenta giorni di nave a vapore e Mamma mia, dam- mi cento lire (che in America voglio andar), con testi che esprimevano tutto il dolore della condizione dell’e- migrante, e le guerre coloniali che generarono un filone di canzonette che magnificavano lo sforzo militare o ricordavano i soldati caduti: Canto dei soldati italiani in Africa, La partenza per l’Africa, Ai caduti di Saati e Dogali. Furono però soprattutto le canzoni dedicate alla Guerra di Libia, di cui la più famosa resta A Tripoli, a diventare il tema più gettonato dei café chantant italiani. Lo scoppio della Prima guerra mondiale confermò ancora una volta il dualismo fra canzone alta e canzone popolare: laddove le canzoni patriottiche, come La canzone del Piave, presentavano testi accesi pieni di espressioni letterarie ricercate, la vita di trincea e il dolore della lontananza da casa dei soldati venivano invece raccontate con testi dialettali o con forti inflessioni regio- naliste, come ’O surdato ’nnammurato o Regazzine, vi prego ascoltare. Col proseguire del conflitto, tuttavia, si assistette all’adozione dell’italiano popolare come lingua ufficiale per le canzoni, sebbene talvolta ancora viziato da espressioni gergali o regionalistiche: è il caso dei canti alpini Quel mazzolin di fiori, che pur non avendo niente a che fare con la guerra, fu il più cantato dai soldati italiani, e La tradotta che parte da Torino poi modificata in La tradotta che parte da Novara o delle canzoni di aperta protesta contro lo sforzo bellico e i comandi militari, come O Gorizia, tu sei maledetta. Negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra iniziò ad affermarsi la passione per il ballo e per i ta- barin, ma è solo dopo la fine dello sforzo bellico e il ritorno alla pace che queste mode esplosero in tutta la loro forza: nonostante i tentativi di richiamo della Chiesa cattolica rispetto il male e il pericolo di certi divertimenti quali sono i balli e soprattutto quelli che oltrepassano i limiti della più elementare onestà e verecondia in teatri e in luoghi pubblici e privati. Lì si affermavano nuove sonorità come il tango, il charleston, il foxtrot, la rumba, il ragtime e il jazz (anche grazie alla presenza delle truppe statunitensi alleate), mentre nelle zone rurali si diffondeva il liscio romagnolo di Carlo Brighi (e, più in là, di Secondo Casadei). Mentre sui palchi dei tabarin appaiono i primi veri cantanti italiani come il dimesso e crepuscolare Armando Gill (Come pioveva), la vamp più vamp delle scene italiane Anna Fougez, il beffardo gentiluomo in frac, cilindro e voce baritonale Gino Franzi e la sua antitesi piccolo-borghese della canzone-feuilletton dei fratelli Gabrè e Miscel, la canzone na- poletana si trasformava in e registrava un nuovo periodo di splendore (Reginella, ’O paese d’ ’o sole, Core furastiero, ’E dduje paravise) che durerà, insieme a quello della canzone romana (L’eco der core, Bar- carolo romano), fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. L’avvento del fascismo coincise all’incirca con la nascita della radio in Italia. A partire dalla prima trasmissione ufficiale dell’Unione radiofonica italia- na (poi Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) del 6 ottobre 1924, il nuovo mezzo di comunicazione divenne ben presto uno dei principali metodi di trasmissione di musica leggera nel Paese, anche perché la sua diffusione fu sostenuta dal regime. Tuttavia, il fascismo spesso impose la sua censura sulla programmazione, dal divieto di utilizzo di nomi o termini stranieri, sostituiti da traduzioni che raggiungevano talvolta livelli di comicità involontaria degne del miglior avanspettacolo, come Luigi Braccioforte o Beniamino Buonuomo, a quello di mandare in onda determinati brani musicali lesivi dell’ordine nazionale e della dignità delle autorità civili, politiche e religiose. La musica costituiva larga parte della programmazione radiofonica, dal momento che il regime aveva pienamente compreso la sua importanza nel veicolare messaggi di massa: ad andare in onda erano, oltre agli inni e alle canzoni di regime, Giovinezza, Inno degli studenti, Canto delle donne fasciste, anche canzoni leggere di impianto più tradizionale, con temi molto vicini al sentire del popolo, Mille lire al mese, I milioni della lotteria, o che propagandavano sottilmente le politiche fasciste per l’incremento demo- grafico Signorine, sposatevi, C’è una casetta piccola, ma del tutto simili musicalmente alle vere canzoni di

172 evasione perché come afferma Bob Marley "La musica può rendere liberi". Il cinema sonoro venne battezzato in Italia da La canzone dell’amore nel 1930 di Gennaro Righelli: la canzone al centro della storia d’amore fra i due giovani protagonisti, Solo per te Lucia, segnò anche il primo esempio di inclusione di brani musicali all’interno di un lungometraggio nel nostro Paese. Da qui, nasceranno due grossi filoni cinematografici che si svilupperanno lungo gli anni Trenta e Quaranta: quello tradizionale, spes- so interpretato da cantanti lirici che diventano attori, e quello moderno, dove sono gli stessi divi del cinema a cimentarsi con la musica. In particolare, riguardo al secondo filone, vale la pena segnalare l’interpretazione canora di Vittorio De Sica in Gli uomini, che mascalzoni... del 1932, che sancì tanto il suo successo quanto quello del brano da lui intonato, Parlami d’amore Mariù. Gli anni Trenta segnarono anche la nascita delle grandi orchestre, in particolare quella dell’EIAR (1933), e l’arrivo dello swing in radio e nei locali da ballo, accendendo così per la prima volta in Italia lo scontro fra la tradizionale canzone italiana e quella moderna o sincopata: Carlo Buti fu il principale interprete del filone che magnificava i tempi lenti della campagna rispetto a quelli frenetici della città (Reginella campagnola, Se vuoi goder la vita); il filone swing fu rappresentato da Natalino Otto (Mamma... voglio anch’io la fidanza- ta, Ho un sassolino nella scarpa), Alberto Rabagliati (Mattinata fiorentina, Ba ba baciami piccina), Luciana Dolliver (Bambina innamorata, Sono tre parole, Un’ora sola ti vorrei) e dal Trio Lescano (Arriva Tazio, Ma- ramao perché sei morto?, Ma le gambe, Pippo non lo sa), così come dagli autori Alfredo Bracchi e Giovanni D’A nzi (Non dimenticar le mie parole, No, l’amore no) e Vittorio Mascheroni (Bombolo, Fiorin fiorello). Lo scontro si fece sentire anche sul lato delle grandi orchestre, soprattutto con il dualismo fra gli ottoni sincopati di Pippo Barzizza e le melodie classiche di Cinico Angelini. Sebbene facilmente considerabili fragili e ingenue o dei semplici tentativi di evasione dalla realtà, le canzoni leggere testimoniarono come la canzone politica non prevalse mai su quella sentimentale e ludica e come fosse il regime fascista a essere schiavo dei gusti del pubblico e incapace di influenzare più di tanto la creatività degli autori o anche solo il loro stile di esecuzio- ne. Addirittura, in alcuni casi proprio queste canzoni fragili e ingenue vennero usate contro gli esponenti del regime: per esempio, Bombolo si riteneva fosse stata in realtà dedicata a Guido Buffarini Guidi, il ritornello di Maramao perché sei morto? fu utilizzato per decorare un monumento a Costanzo Ciano eretto a Livorno poco dopo la sua morte, mentre in Pippo non lo sa si intese vedere un riferimento ad Achille Starace. Verso la fine degli anni Trenta, si aggiunsero gli ultimi fuochi pre-bellici della canzone dialettale napoletana (Signo- rinella, Napule ca se ne va), romana (Quanto sei bella Roma, Chitarra romana) e milanese (La Balilla, Porta Romana), ma soprattutto le canzonette dedicate alla Guerra d’Etiopia e alla politica coloniale fascista, fra cui la più nota è sicuramente Faccetta nera (che fu più volte modificata su indicazione del Ministero della Cultura Popolare, perché troppo fraternizzante con gli abissini nella sua prima versione). Nel 1938 e 1939, inoltre, si tennero due Gare nazionali per gli artisti della canzone che registrarono un successo dirompente (oltre 2.500 partecipanti il primo anno e quasi 3.000 il secondo) e che permisero ai 14 vincitori di ciascuna edizione di po- tersi esibire con l’Orchestra Cetra di Pippo Barzizza sul programma radiofonico nazionale. L’entrata in guerra dell’Italia portò a un inasprimento dei divieti e delle limitazioni riguardo musica, balli e teatri di rivista, in particolare con il bando degli autori ebrei, a causa delle leggi razziali fasciste, e il divieto totale di trasmettere jazz o altra musica statunitense, ma non interruppe la produzione musicale tout court. Anzi, proprio nei pri- mi anni di guerra vennero pubblicati due dei più grandi successi degli anni Quaranta: Mamma, interpretata da Beniamino Gigli nell’omonimo film del 1941, e Voglio vivere così, cantata da Ferruccio Tagliavini nel film dello stesso nome di Mario Mattoli del 1942. Nel 1940, nacque anche il Quartetto Cetra, la cui popolarità esplose definitivamente (dopo qualche cambio di formazione) nel 1947.

173 Con la caduta del fascismo, la radice popolare della Resistenza italiana si palesò immediatamente con l’adozione del canto, cioè di una forma di comunicazione tradizionale propria delle classi socialmente subalterne, ma soprattutto con la fortissima relazione fra i canti partigiani e quelli della tradizione italiana, da quelli locali (Bella ciao, La daré d’ cola montagna, Il fiore di Teresina) a quelli di origine risorgimentale e della Grande guerra (Sul ponte di Perati), da quelli delle organizzazioni operaie e rivoluzionarie italiane e straniere (Fischia il vento) a quelli derivati dalle canzoni in voga e alle parodie vere e proprie in chiave antifascista dei canti fa- scisti (Badoglieide). Si devono anche alla fine della guerra, l’invasione del jazz e del boogie-woogie, ma anche della rumba e della samba arrivati con l’occupazione alleata della Penisola, l’influsso della musica francese di Yves Montand, Édith Piaf e Juliette Gréco e, soprattutto, la scarsità di risorse,fra cui la lacca per produrre i dischi, a imporre un deciso stop alla produzione musicale italiana.

Nonostante il successo di In cerca di te, sintesi della condizione umana nella quale vivevano molti italiani di allora, la canzone italiana perse improvvisamente slancio e si ritirò all’interno dei confini regionali: fra i principali successi di questi anni si ricordano Dove sta Zazà? di Cutolo e Cioffi, Tammurriata nera di E. A. Mario e Nicolardi, Munasterio ’e Santa Chiara di Galdieri e Barberis e Vecchia Roma di Ruccione e Martelli; quest’ultima contribuirà a far conoscere la potente voce che dominerà la musica italiana degli anni Cinquan- ta: Claudio Villa. Sebbene già a partire dal 1947 fossero nati i primi concorsi per la selezione di voci nuove, creati soprattutto per far ripartire un mercato discografico ancora azzoppato dalle disgrazie belliche, il 29 gennaio 1951 segnò l’inizio dei moderni festival di musica: è il giorno del primo Festival della canzone ita- liana, trasmesso in diretta via radio dal Salone delle feste del Casinò di Sanremo e presentato dallo storico conduttore radiofonico Nunzio Filogamo, con tre soli interpreti in gara: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano, che si alternavano nell’esibizione di venti canzoni inedite. Il Festival lanciò l’astro della Pizzi, che dopo aver vinto con Grazie dei fiori, trionfò l’anno successivo con Vola colomba, serenata popolareggiante, assicurandosi anche il secondo e terzo posto rispettivamente con Papaveri e papere e Una donna prega. Sanremo fu inoltre uno degli ispiratori del Gran premio Eurovisione della canzone europea, la cui prima edi- zione andò in onda da Lugano nel 1956. Ancora una volta, si riproponeva al Festival lo scontro fra la retorica della canzone tradizionale italiana che non esce di un millimetro dal solco Dio-Patria-Famiglia (Vecchio scar- pone, Sorrentinella, Berta filava, Il passerotto) e brani più giovani e scanzonati, come Canzone da due soldi , interpretata da Katyna Ranieri e che fu il primo vero successo discografico degli anni Cinquanta, con circa 120.000 copie vendute in pochi mesi, o la già citata Papaveri e papere, che oggi è nota come una sottile presa in giro dei notabili della Democrazia Cristiana. Nel 1952, nacque anche il Festival della canzone napoletana, vinto nella sua prima edizione da Franco Ric- ci e Nilla Pizzi, che però non raggiunse mai il livello di notorietà di Sanremo e fu anzi spesso funestato da polemiche e scandali. L’immagine della canzone napoletana fu comunque nuovamente rilanciata da inter- preti molto differenti fra loro: da un lato, il capostipite dei cantanti confidenziali Roberto Murolo (Anema e core, Luna caprese, ’Na voce, ’na chitarra e ’o ppoco ’e luna), che condivise il ruolo di depositario della tra- dizione napoletana con Sergio Bruni (Vieneme ’n zuonno, Marechiaro); dall’altro il dissacratore Renato Ca- rosone con la sua band, originariamente composta da lui, dal batterista Gegè Di Giacomo e dal chitarrista olandese Peter Van Wood e che poi si trasformò negli anni in un sestetto. La band di Carosone si impose grazie alla collaborazione con Nisa nel 1956 con Tu vuò fà l’americano e poi successivamente con Torero, ’O sarracino, Caravan petrol e svariate riletture alla Carosone di brani altrui, come Chella llà di Aurelio Fierro, che a sua volta inaugurò l’innovativo filone della canzone smargiassa, umoristica e leggera. Interprete a caval-

174 lo fra canzone italiana e napoletana fu invece il già citato Claudio Villa, la cui carriera decollò intorno al 1952: il reuccio della canzone italiana vinse tutto quello che c’era da vincere fra cui quattro Festival di Sanremo, un Festival di Napoli e tre dischi d’oro; fu acclamato sui palcoscenici di tutto il mondo e si mantenne portavoce della canzone melodica italiana anche quando iniziò il suo declino. Villa fu anche oggetto di innumerevoli polemiche per il suo comportamento a tratti tracotante, al punto da subire ben due processi mediatici sulla stampa ottenendo, nel secondo, una difesa accorata da parte di Pier Paolo Pasolini. Gli anni Cinquanta segna- rono anche l’affermazione della commedia musicale, nata dal teatro di rivista e che contribuì a un’ulteriore sprovincializzazione di testi e musiche della canzone italiana. I principali esponenti di questo periodo furono gli autori Pietro Garinei e Sandro Giovannini (che diverranno noti semplicemente come Garinei e Giovanni- ni) e i compositori Gorni Kramer (già molto attivo nei decenni passati nel filone degli innovatori) e Arman- do Trovajoli, che lanciarono nuovi attori e interpreti come Delia Scala, Isa Barzizza, Gianni Agus, Tina De Mola, Elena Giusti, Carlo Dapporto e Renato Rascel; quest’ultimo in particolare interprete di tantissimi brani di successo, fra cui Arrivederci Roma, composta da Rascel stesso con Garinei e Giovannini. Contemporaneamente alla riscoperta del teatro, tornava la passione del pubblico per i locali serali i night club, che lanciarono la carriera di nuovi interpreti che si ispiravano ai grandi esempi di Oltreoceano: oltre al già citato Carosone, è il caso di Peppino di Capri, a cavallo fra rivisitazione moderna della tradizione partenopea e una chiave rock piuttosto consistente troviamo St. Tropez Twist, Nun è peccato; di Fred Buscaglione, che attraverso il suo personaggio da duro con il cuore tenero prendendo in giro un certo tipo di filoamericani- smo e soprattutto il machismo dell’epoca, rivalutando pienamente lo swing come forma musicale (Che bam- bola!, Teresa non sparare, Eri piccola così); degli intrattenitori a metà fra jazz e confidenzialità come Nicola Arigliano, Bruno Martino e . Anche la neonata televisione (1954) contribuì, al pari dell’arrivo dei dischi in vinile a 45 giri e a 33 giri e dei jukebox, a rivoluzionare l’ambito musicale: nel 1955 il Festival di Sanremo fu trasmesso in diretta radio-televisiva e nel 1957 andò in onda la prima vera trasmissione musicale della storia italiana, Il Musichiere, la cui sigla del programma, Domenica è sempre domenica, fu composta da Garinei e Giovannini e musicata da Kramer. Il successo di questo primo esperimento diede il via a una lunga serie di nuove trasmissioni a tema musicale, come Studio Uno e Canzonissima. A differenza del ventennio fa- scista e nonostante gli sforzi degli innovatori, a dominare gli anni Cinquanta fu la melodia: la gente ha bisogno di tranquillità e rassicurazioni, il pubblico è stanco della retorica fascista ma anche dello scontro fra ideologie, dunque la canzone non solo si adegua, ma ha un ruolo molto rilevante per smuovere una realtà che sembra aggrappata solo al desiderio di dimenticare la guerra e avviare la ricostruzione. D’altronde, fino a quel momen- to la canzone è di Stato: la governano la radiofonia pubblica e la sua controllata discografica, la Cetra, esatta- mente come avveniva durante il fascismo, ed erano ancora pochi gli esempi di successo al di fuori di questo perimetro, come le etichette Fonit, che pubblicava ancora il jazz di Natalino Otto, ma fu costretta alla fusione con la Cetra nel 1958, e Compagnia Generale del Disco fondata da Teddy Reno e che aveva scritturato un altro jazzista irregolare come Lelio Luttazzi. Anche il Festival di Sanremo, a suo modo, ne risentì: la canzone melodica e sentimentale diventa una sorta di cliché della manifestazione e finisce con l’espellere o emarginare, almeno fino al 1958, brani e motivi vagamente anticonformisti. Fu solo con la fine del decennio che si intravidero i primi segni di un cambiamento epocale: il 18 maggio 1957 si tenne a Milano il primo Festival italiano del rock and roll, che fece conoscere per la prima volta il re degli ignoranti, Adriano Celentano, e che vide la presenza sul palco dei rockers e degli urlatori : , Little Tony, Betty Curtis, Tony Dallara, Clem Sacco e Ghigo Agosti; nel 1958 Domenico Modugno vinse in coppia con Johnny Dorelli il Festival di Sanremo con quello che diventò il suo più grande successo, Nel blu dipinto di

175 blu (22 milioni di dischi venduti in tutto il mondo); Tony Dallara lanciò Come prima (poi divenuta la canzone simbolo degli urlatori) e nacque la Dischi Ricordi, il cui primo 45 giri fu Ciao ti dirò di Giorgio Gaber e che sarebbe diventata, assieme alla RCA Italiana, una delle case discografiche dominanti nei decenni successi- vi; infine, nel 1959, a Lascia o raddoppia? si impose lo stile aggressivo di Mina, che inanellò da subito una serie di successi con Nessuno, Tintarella di luna e Una zebra a pois. Con l’arrivo sulla scena degli urlatori e dei ribelli, il fenomeno cinematografico dei musicarelli, i film nati da (o per sostenere) un singolo di successo, si trasformò profondamente: si passò dalla versione melodica (come i film di Claudio Villa e Luciano Tajoli o anche Carosello napoletano, trasposizione cinematografica dell’omonima rivista teatrale) alla celebrazione della rivoluzione musicale degli arrabbiati, testimoniata dal trittico I ragazzi del juke-box, Urlatori alla sbar- ra e I Teddy boys della canzone, dove pure non vengono lesinate punzecchiature alla Rai, alla Democrazia Cristiana e al mondo discografico, così come riferimenti espliciti a una sessualità più libera e decisamente più promiscua.

Mentre a teatro, il successo delle commedie musicali proseguì con i trionfi di Rugantino (sempre di Garinei e Giovannini, con musiche di Trovajoli e con interpreti del calibro di Aldo Fabrizi, Nino Manfredi, Toni Ucci, Bice Valori e Lea Massari, poi sostituita da Ornella Vanoni), Rinaldo in campo (con Domenico Modu- gno protagonista e autore delle musiche) e Aggiungi un posto a tavola (con Johnny Dorelli); i musicarelli rag- giunsero il loro picco con la prolifica produzione di Ettore Maria Fizzarotti: realizzati nel giro di pochissime settimane, con un budget ridottissimo e con delle trame estremamente semplici, degli incassi anche superiori al miliardo di lire, sfruttando la notorietà degli interpreti (Gianni Morandi, Bobby Solo, , Gi- gliola Cinquetti, Al Bano e Romina Power, Rocky Roberts) e delle loro canzoni (che spesso venivano utilizzate anche come titolo per il film). Verso la metà del decennio, la nuova contrapposizione diventò quella fra l’infornata di giovanissimi cantanti, energetici come Gianni Morandi e Rita Pavone o più melodici come Gigliola Cinquetti, Al Bano, Orietta Ber- ti e Massimo Ranieri, e l’ondata del beat inglese, rappresentata dalle ragazze del Piper Club di Roma come Caterina Caselli e e dai grandi complessi dell’epoca (Equipe 84, Nomadi, The Rokes, I Camale- onti, I Corvi, I Giganti, Dik Dik, Alunni del Sole). Accanto agli urlatori, però, si moltiplicarono le correnti musicali: si andava dalla sperimentazione di nuovi formati e la ricerca del realismo delle Cantacronache e del suo successore. Il Nuovo Canzoniere Italiano, al filone della canzone intellettuale (con gli esperimenti di Pier Paolo Paso- lini, Giorgio Strehler, Paolo Poli, Laura Betti, Mario Soldati, Ennio Flaiano, Alberto Moravia, Alberto Ar- basino), dalla scuola genovese dei cantautori anticonformisti ed esistenzialisti come Umberto Bindi, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Luigi Tenco e Fabrizio De André a cui appartiene anche l’istriano Sergio Endrigo a quel- la milanese, più ironica e surrealista ma non meno malinconica, di Dario Fo, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, I Gufi, Nanni Svampa e Cochi e Renato, dal poeta maledetto Piero Ciampi alle grandi interpreti femminili come Ornella Vanoni, Milva e Iva Zanicchi e ai cantanti da spiaggia come Edoardo Vianello, Gianni Mec- cia, Nico Fidenco. Infine, nel 1966 si affermarono i Pooh (originariamente composti da Roby Facchinet- ti, Dodi Battaglia, Stefano D’Orazio e Riccardo Fogli, poi sostituito da Red Canzian) con il loro primo grande successo, Piccola Katy, mentre due anni dopo al Cantagiro esordì un altro gruppo di successo, i Ricchi e Po- veri, con L’ultimo amore. Coerentemente con la scena musicale, anche le trasmissioni radio-televisive e le com- petizioni musicali cambiarono profondamente: nel 1962 venne infatti lanciato il Cantagiro, una gara a tappe in giro per l’Italia dove i vari cantanti si affrontavano in scontri diretti davanti a vere e proprie giurie popolari,

176 e nacque il Festival di Castrocaro, trampolino di lancio per decenni per molti nomi di rilievo; due anni dopo, fu la volta di Un disco per l’estate (che lanciò una serie di rappresentanti di una canzone votata al consumo più diretto e immediato come Mino Reitano, Los Marcellos Ferial, Jimmy Fontana e del infine fra il 1965 e il 1966 nacquero le trasmissioni di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni Bandiera gialla e Per voi giovani. L’estrema varietà di sonorità del decennio contribuì al periodo d’oro del Festival di Sanremo, fatto di ospiti stranieri celebri e milioni di dischi venduti (tanto relativamente alle compilation delle singole edizioni, quanto alle vendite dei successi dei cantanti). A prevalere sul palco fu quasi sempre l’impianto melodico rispetto a quello arrabbiato o rockettaro: basti pensare alle due vittorie di Gigliola Cinquetti al Festival del 1964 con Non ho l’età (con la quale trionfò anche al Gran Premio Eurovisione della Canzone dello stesso anno) e del 1966 con Dio, come ti amo, cantata in coppia con Domenico Modugno, inframezzate dalla vittoria di Bobby Solo al Festival del 1965 con Se piangi, se ridi. Dal lato del mercato discografico, invece, Il ragaz- zo della via Gluck di Adriano Celentano e Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli venderanno molte più copie delle canzoni vincitrici. Il 1967 segnò un anno molto particolare per la musica italiana: nasceva il sodalizio artistico fra Lucio Battisti e Mogol, sancito dal successo di 29 settembre, originariamente cantata dall’Equipe 84; gli intenti rivoluzionari dei giovani conquistarono il palcoscenico di Sanremo 1967, sebbene in una versione estremamente edulcorata (Gianni Pettenati con La rivoluzione annunciava un nuovo futuro in cui nemmeno un cannone / però tuonerà, mentre I Giganti con Proposta suggerivano Mettete dei fiori nei vostri cannoni); lo stesso festival fu poi scosso dall’improvviso suicidio di Luigi Tenco, la cui canzone Ciao amore, ciao (cantata in coppia con Dalida e che raccontava il disagio di un Paese che, nonostante il miracolo economico, aveva ancora sacche paurose di povertà e di indigenza) non riuscì a entrare in finale; infine, Fran- cesco Guccini e i Nomadi vennero svillaneggiati dal pubblico di un concerto di protesta contro la guerra del Vietnam, pur presentando uno dei loro più grandi successi, Dio è morto, perché ormai considerati integra- ti nel sistema. Era la fine della rivoluzione beat e dell’euforia del boom: con la strage di piazza Fontana e la morte di Giuseppe Pinelli (ricordata con La ballata del Pinelli e la Ballata per un ferroviere), la ricerca della spensieratezza adolescenziale a tutti i costi che dominarono la scena musicale del decennio lasciò il campo a un periodo rock molto più torbido e notturno che esprime le ansie di una generazione che non smette di in- terrogare e di interrogarsi. Gli anni Settanta segnarono il passaggio a forme di esibizione più sperimentali, diverse dal semplice disco o dall’esibizione sul palcoscenico. È un decennio innanzitutto segnato dagli effetti della contestazione giovanile, del movimento del ’68 e dell’Autunno caldo, così come dagli estremismi di si- nistra e di destra degli anni di piombo: i cantanti più vicini alle istanze dei movimenti studenteschi e operai come Ivan Della Mea, Michele Straniero, Gualtiero Bertelli, Pino Masi, Giovanna Marini, Paolo Pietrange- li, Sergio Liberovici, molti dei quali provenienti o ancora parte de Il Nuovo Canzoniere Italiano, alimentavano la protesta contro il sistema, mentre nei Campi Hobbit nasceva il filone della musica alternativa di destra, che attingeva da un lato ai temi della mitologia norrena e celtica e dall’altro al revisionismo storiografico di stampo neofascista, rappresentato da Leo Valeriano, Massimo Morsello definito il De Gregori nero, gli Amici del Vento e la Compagnia dell’Anello. L’estremizzazione dei toni portò molti dei cantautori a essere dura- mente contestati: gli appartenenti alla scuola genovese, solo pochi anni prima salutati come gli alfieri di una canzone diversa, nobile e rivoluzionaria, erano adesso visti come timidi e borghesi chansonniers che ululavano alla luna e si spiavano i battiti del cuore, mentre in generale esibirsi dal vivo era diventato un po’ come lanciarsi spericolatamente in battaglia a causa del clima piuttosto rigido imposto dai gruppi extraparlamentari. Il picco degli scontri si raggiunse fra il 1975, quando i due concerti a Roma e Milano di Lou Reed vennero interrotti al grido di La musica si prende e non si paga, e il 2 aprile 1976, quando Francesco De Gregori, in occasione di

177 un concerto al PalaLido di Milano, fu circondato da contestatori di sinistra che lo accusavano di guadagnare ingaggi troppo alti e di non devolverli alla causa dei lavoratori. Gli unici cantautori a salvarsi dai fischi del pubblico furono il genovese Fabrizio De André e il reatino Lucio Battisti, rispettivamente il poeta e il musicista, differenti in tutto, dallo stile musicale (inizialmente semplice e poi man mano sempre più sperimentale e sontuoso quello di De André; estremamente barocco con chitarre, fiati, clavicembali e violini per poi diventare minimalista con gli anni quello di Battisti) alla traiettoria pub- blica (Battisti smise di tenere concerti nel 1970, De André iniziò a farli nel 1975). Discorso a parte va fatto per Francesco Guccini, dalla poeticità più diretta e sanguigna che non si considerò mai un vero e proprio cantautore politico, ma che pure fu fortemente influenzato dalla canzone politica e dal Cantacronache come testimoniò la sua canzone-manifesto La locomotiva o Primavera di Praga, dedicata agli avvenimenti della capitale cecoslovacca del 1968. Fu solo a metà del decennio che i cantautori si smarcarono dalla politicizzazione, talvolta esprimendo dure critiche proprio nei confronti delle esperienze del socialismo reale: Giorgio Gaber, che all’inizio del decennio smise i panni del cantante leggero e si lanciò nell’esperimento del teatro canzone assieme all’amico Sandro Luporini con Il signor G, già a metà degli anni Settanta prese duramente di mira il movimento tra fischi e con- testazioni anche violente con gli spettacoli Libertà obbligatoria e Polli d’allevamento (specialmente con Quan- do è moda è moda); nel 1976 Roberto Vecchioni scrisse Vaudeville (ultimo mondo cannibale), dove fa esplicito riferimento all’incidente subito da De Gregori al PalaLido utilizzando un sinistrese sessantottino fortemente caricaturale; Guccini stesso scrisse nel 1974 delle rabbie antiche non rimane che una frase o qualche gesto (Canzone delle osterie di fuori porta) e poi nel 1978 che a vent’anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a quell’età (Eskimo); più in generale fu il risveglio da un sogno che era diventato un incubo per tanti artisti che, spesso in perfetta buona fede avevano flirtato con la politica e i movimenti, rimanendone fatalmen- te imprigionati. Esisteva però anche un’altra scena di cantautorato, stavolta non politico, composta da nomi molto differenti fra loro: Lucio Dalla, che dopo oltre un decennio di fiaschi, finalmente raggiunse il successo con 4/3/1943 e Piazza Grande e che si cimentò verso la fine del decennio in un tour di enorme successo con De Gregori; l’eccentrico pianista dal sapore jazz , con le sue canzoni di una provincia soporifera eppure mai banale; il polistrumentista Ivano Fossati, che passò dall’essere leader del gruppo hippy-misticheg- giante, i Delirium, all’esperienza solista; il musicista totale siciliano Franco Battiato, con i suoi testi pieni di metafore e rimandi. Questi quattro artisti condividono, tuttavia, alcuni tratti comuni, come l’essere nati artisticamente come mu- sicisti, l’essersi approcciati alla scrittura solo più tardi (Dalla, Conte e Fossati), la passione per il viaggio e l’e- sotismo (Conte, Battiato e Fossati), ma soprattutto la capacità di individuare e aiutare nuovi artisti a emergere (Dalla fu il talent scout di Ron, Luca Carboni e Samuele Bersani, Battiato scoprì Alice e Giuni Russo, Fossati fu autore di innumerevoli canzoni per Patty Pravo, , Loredana Bertè, , Fiorella Mannoia. Il decennio vide anche un certo sviluppo della scena italiana del rock progressivo: le due principali forma- zioni, destinate a spaccare il pubblico in opposte tifoserie, come da tradizione ciclistica, furono la Premiata Forneria Marconi e il Banco del Mutuo Soccorso, dietro cui emersero i sinfonici New Trolls, i barocchi Le Orme e I Califfi,gli autoriali Formula 3, i sofisticati Area e Stormy Six, il mix fra elettronica e melodia dei Ma- tia Bazar e, verso la fine del decennio, il punk rock dei Gaznevada e il rock demenziale degli Skiantos. A ca- vallo fra rock progressivo e cantautorato si posero poi Eugenio Finardi, con la sua Musica ribelle, il turnista di lusso Ivan Graziani (Agnese dolce Agnese), e Gianna Nannini con il suo album d’esordio omonimo, dove

178 si parlava apertamente di aborto e masturbazione, e successivamente con il singolo America. A Roma, nel frattempo, si sviluppò una nuova scena musicale intorno al Folkstudio del produttore Giancarlo Cesaroni e ai Giovani del Folkstudio: Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Ernesto Bassignano e Giorgio Lo Ca- scio , a cui poi successivamente si aggiunsero Mimmo Locasciulli e Rino Gaetano. Venditti e De Gregori produssero insieme un album, Theorius Campus, prima di intraprendere ciascuno la sua strada: il primo, con le sue canzoni dedicate a Roma, contribuì alla rinascita della canzone romana in cui si inserì anche un giova- ne Franco Califano; il secondo ottenne il successo con Rimmel, che lo lanciò nel firmamento del cantautorato italiano. La RCA inaugurò invece un nuovo filone romantico con Claudio Baglioni (che fra il 1972 e il 1975 pubblicò vari successi come Questo piccolo grande amore, Amore bello, E tu... e Sabato pomeriggio), Riccardo Cocciante, Gianni Togni e il più trasgressivo Renato Zero. Fra gli autori e gli interpreti "anomali" del decen- nio rientrano Roberto Vecchioni, professore di latino e greco che conquistò la fama con Luci a e L’uo- mo che si gioca il cielo a dadi (presentata al Festival di Sanremo 1973) e che raggiunse il successo disco- grafico definitivo con l’album Samarcanda, le sorelle Mia Martini e Loredana Bertè (la prima inizialmente lanciatissima dai successi di Piccolo uomo e Minuetto, la seconda esplosa verso la fine del decennio con E la luna bussò) e Nada, che dopo aver vinto il Festival di Sanremo 1971, stupì tutti incidendo il disco Ho deciso che esisto anch’io (composto da dieci canzoni di Piero Ciampi) e poi diventò anche attrice teatrale (Il diario di Anna Frank di Giulio Bosetti e L’opera dello sghignazzo di Dario Fo). Anche la scena più propriamente dialettale dimostrò una certa dinamicità con il "menestrello folk" , la Nuova Compagnia di Canto Popolare, il Canzoniere del Lazio, la testaccina Gabriella Ferri, il bolognese Dino Sarti, il liscio di Raoul Casadei e la sarda Maria Carta. Fu Napoli, tuttavia, a confermarsi terreno privilegiato per la nascita di nuovi sound con il jazz di James Senese, il rhythm & blues e il funk di , la batteria di Tullio De Piscopo, la fusione fra blues e canzone napoletana di , quella fra folk, jazz e rock di Teresa De Sio, il rock anticonformista di , il rock progressivo degli Osanna e dei Napoli Centrale, ma anche del recupero della sceneggiata napoletana con Pino Mauro, Ma- rio Trevi e soprattutto Mario Merola. Il 1980 si aprì con la crisi della disco music e dei cantautori, che portò con sé un breve ma sentito crollo del mercato discografico, in parte superato con la riscoperta dei festival (in primis quello di Sanremo) come mezzo di divulgazione discografica e in parte con l’arrivo del walkman e dei nuovi supporti portatili (la musicassetta prima e il compact disc poi). Dal punto di vista musicale, si registrò innanzitutto il ritorno di due vecchie glorie come Gino Paoli (Una lunga storia d’amore, Quattro amici) e Gian- ni Morandi (redivivo dopo la crisi del decennio precedente con Canzoni stonate) e una sorta di trasformazione del cantautorato, inaugurata da Finardi nel decennio precedente, verso una chiave più rock, con testi più grezzi e spontanei e il rifiuto di parlare dell’amore in termini romantici o sdolcinati. Si inseriscono in questa corrente interpreti come Gianna Nannini (che confermò il suo successo con i singoli Fotoromanza e Bello e im- possibile, in cui mescolava krautrock, elettronica e romanza), (che raggiunse la notorietà con Vita spericolata, presentata al Festival di Sanremo 1983) e (che si affermò definitivamente con l’album Oro, incenso e birra). A questo si affiancò il filone pop punk di Donatella Rettore (Splendido splendente, Kobra e Donatella), di Ivan Cattaneo (Polisex), di Alberto Camerini (Rock ’n’ roll robot, Tanz bambolina), dei Decibel di Enrico Ruggeri (Contessa), dei Kaos Rock di Gianni Mucciaccia e della Kandeg- gina Gang di Jo Squillo e quello della new wave italiana, da cui emersero i Litfiba, i Gang e i CCCP - Fedeli alla linea. Gli anni Ottanta segnarono anche la transizione verso la musica pop, innanzitutto con il successo di (che vinse fra le nuove proposte di Sanremo 1984 con Terra promessa e poi vinse il Festival di Sanremo 1986 con Adesso tu) e Fiorella Mannoia, il ritorno di Mia Martini con Almeno tu nell’universo, la

179 carriera da solista di Enrico Ruggeri e una lunga serie di interpreti più leggeri (molti dei quali scoperti ver- so la fine del decennio precedente) come Amedeo Minghi, Mietta, Paola Turci, Toto Cutugno, Pupo, Anna Oxa, Alice, Marcella Bella, Mango, Fausto Leali, Eduardo De Crescenzo, Marco Ferradini, Fabio Conca- to, Viola Valentino, Luca Barbarossa, Mariella Nava.

Un discorso particolare merita la piazza bolognese, piuttosto attiva in questo decennio: il tour Banana Repu- blic, legato all’album omonimo di Dalla e De Gregori, lanciò la carriera di Ron con Una città per cantare, de- gli Stadio con Chiedi chi erano i Beatles e di Luca Carboni (che iniziò come autore proprio per Ron e gli Stadio, mettendosi poi in proprio nel 1984 con ...intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film), all’Osteria delle Dame muovevano i loro primi passi i cantanti folk d’autore Pierangelo Bertoli e Claudio Lolli, mentre si facevano notare anche il romantico, bolognese d’adozione, Biagio Antonacci e il giovane cantautore Samuele Bersani. Ci fu anche un ritorno del genere balneare (sebbene macchiato da una venatura "catastrofista"), gui- dato dai Righeira con Vamos a la playa e dal Gruppo Italiano con Tropicana, un timido affacciarsi della sce- na rap italiana con e il suo primo album Jovanotti for Presidente, l’evoluzione della scena dance con i 49ers e i Black Box. La fine del XX secolo testimoniò l’adeguamento della musica italiana agli standard pop internazionali, da un lato determinando la sprovincializzazione della nostra realtà musicale ma dall’altro pro- vocando una progressiva cancellazione delle caratteristiche stilistiche della nostra canzone, con effetti anche sulla canzone d’autore che sempre di più si va allineando alle forme del pop fino a rendere difficile distinguere i due terreni: prova ne sono i successi di Attenti al lupo di Lucio Dalla, Benvenuti in paradiso di Antonello Venditti e di Viva la mamma di , così come più in generale la classifica dei singoli più vendu- ti della prima metà degli anni Novanta. A dominare questo scenario sono interpreti come Riccardo Coccian- te, Amedeo Minghi e Mietta, Francesca Alotta e , Marco Masini, Paolo Vallesi, Luca Carbo- ni, Biagio Antonacci, Francesco Baccini e i Ladri di Biciclette, ma anche i pupilli dell’ex-disc jockey e poi produttore Claudio Cecchetto, ossia Jovanotti e gli 883. In particolare il gruppo di Max Pezzali che si concen- trò perlopiù nel mondo giovanile. A distinguersi in questo periodo furono tuttavia le voci femminili, su tut- te , che si impose da subito con il singolo di debutto (con la quale vinse la Sezione giovani del Festival di Sanremo 1993) e Strani amori (terza a Sanremo 1994) per poi ottenere un enorme successo in tutto il mondo (soprattutto in America Latina), e Giorgia, che si affermò con i singoli di successo E poi, Come saprei (vincitrice del Festival di Sanremo 1995) e Strano il mio destino per poi proseguì la sua car- riera con numerosissime collaborazioni (Pino Daniele, Luciano Pavarotti, Lionel Richie, Herbie Hancock) e una virata negli anni Duemila su sonorità più black. Altre interpreti di successo degli anni Novanta furo- no , Marina Rei, Ivana Spagna, Tosca (che condivise con Ron la vittoria a Sanremo 1996), le in- terpreti più autoriali Cristina Donà e Ginevra Di Marco, ma soprattutto Elisa, che iniziò la sua carriera can- tando in inglese in Pipes & Flowers per poi adottare per la prima volta l’italiano con Luce (tramonti a nord est), con la quale trionfò al Festival di Sanremo 2001. A partire dalla metà degli anni Novanta, si riaffacciò una nuova generazione di cantautori con Massimo Di Cataldo, Alex Britti, Niccolò Fabi, Max Gazzè, Carmen Con- soli, Vinicio Capossela, Samuele Bersani e Daniele Silvestri, a cui si aggiunse la Piccola Orchestra Avion Tra- vel, premio della critica a Sanremo 1998 con Dormi e sogna e vincitori a Sanremo 2000 con Sentimento. Altri artisti degni di nota furono Alex Baroni (che si fece conoscere con i due successi sanremesi Cambiare e Sei tu o lei (Quello che voglio)), Andrea Bocelli che raggiunse la definitiva consacrazione con il brano Con te partirò. In ambito rock, Luciano Ligabue si affermò definitivamente con Buon compleanno Elvis, mentre ai gruppi di maggiore successo, oltre ai Litfiba e al Consorzio Suonatori Indipendenti (nato dalle ceneri dei CCCP), si ag- giunsero anche gli Afterhours, i e i Marlene Kuntz. La sperimentazione sulla scena rock fu notevo-

180 le, andando dagli alternative Negrita, Timoria e Üstmamò al punk dei Prozac, dagli autoriali La Crus, Têtes de Bois, , Marta sui Tubi e Tiromancino al folk rock di Modena City Ramblers, Banda Bassotti, Ban- dabardò e Mau Mau. Il decennio vide anche la nascita di una vera scena rap, innanzitutto con Batti il tuo tem- po dei romani Onda Rossa Posse e poi con Frankie hi-nrg mc, gli Articolo 31, i Sottotono, i 99 Posse, gli Al- mamegretta, Neffa con Aspettando il sole e Er Piotta, così come di una scena ska e reggae con Bisca, Sud Sound System, 24 Grana, Pitura Freska e Africa Unite. Anche la scena dance fu molto attiva, in particolare con Ro- bert Miles e Alexia, che si fece conoscere con vari progetti internazionali per poi inaugurare una carriera so- lista. In ultimo, continuò la popolarità della musica demenziale con Francesco Salvi, Giorgio Faletti, David Riondino, Marco Carena, Dario Vergassola, ma soprattutto con il gruppo che le ha fatto raggiungere il gran- de successo (e il palco di Sanremo): . Il cambio di secolo porta con sé varie innovazioni in ambito discografico e non: dal punto di vista musicale, dopo il folk e il rap, è il turno dellariscoperta dell’elet- tronica, del jazz e della classica; dal punto di vista della nascita di nuovi artisti, invece, prevalgono il Festival di Sanremo (e la sua sezione giovani) prima e i talent show (come Amici di Maria De Filippi e X Factor) poi sul filtro delle case discografiche, sintomo di una nuova stagione che celebra il trionfo dell’interprete sull’autore e dove gli interpreti, ancora una volta non le canzoni, emergono come in una lotteria dove chi azzecca il bigliet- to giusto sbanca e conquista il successo. Lungo tutti gli anni Duemila, Sanremo funge da trampolino di lancio per interpreti come Dolcenera (fra i vincitori di Destinazione Sanremo nel 2002), Povia (vincitore dell’edizione 2006), Francesco Renga (ex-Timoria, vincitore dell’edizione 2005), Giò Di Tonno e Lola Ponce (vincitori dell’edizione 2008), Arisa (vincitrice di SanremoLab 2008, della sezione Proposte di Sanremo 2009 e del Fe- stival di Sanremo 2014), Paolo Meneguzzi, Irene Fornaciari e Sonohra (vincitori della sezione Giovani di San- remo 2008). Già con il Festival di Sanremo 2009, con la vittoria di Marco Carta (vincitore della settima edi- zione di Amici nel 2008), si nota una saldatura fra i nuovi palcoscenici della canzone virtuale e la madre di tutti i palchi della canzone italiana, confermata dalla vittoria a Sanremo 2010 di Valerio Scanu finalista dell’ot- tava edizione di Amici nel 2009, ma anche dalla partecipazione di cantanti prodotti dai talent come Kari- ma (finalista della sesta edizione di Amici nel 2007), Giusy Ferreri (finalista della prima edizione di X Fac- tor nel 2008), Noemi (partecipante alla seconda edizione di X Factor nel 2009), (vincitore della terza edizione di X Factor nel 2010 e del Festival di Sanremo 2013), Emma Marrone (vincitrice della nona edizione di Amici nel 2010 e del Festival di Sanremo 2012), Francesca Michielin (vincitrice della quinta edi- zione di X Factor nel 2012 e seconda al Festival di Sanremo 2016) e così via. Il filone del cantautorato mantie- ne comunque una propria vitalità, come testimoniano Sergio Cammariere (che raggiunge il successo con l’album Dalla pace del mare lontano e il brano Tutto quello che un uomo, col quale raggiunge il terzo posto a Sanremo 2003), l’anticonformista e sensibile Tricarico (diventato famoso con Io sono Francesco e poi vincitore del Premio della critica a Sanremo 2008 con Vita tranquilla), il paroliere Pacifico (noto anche per Le mie parole, di cui poi Samuele Bersani farà una cover, e le sue collaborazioni nel cinema e con Adriano Celen- tano ), Simone Cristicchi e il suo rilancio del teatro canzone (vincitore di Sanremo 2007 con Ti regalerò una rosa), Fabrizio Moro (vincitore della sezione Giovani del Festival di Sanremo 2007 con Pensa) e l’origina- le L’Aura (diventata famosa con i singoli Irraggiungibile e Basta!). Passando al pop melodico, su tutti si segnalano , che si fa conoscere con il singolo Xdono e poi raggiunge il successo in Italia e nel mondo con gli album 111 e Nessuno è solo, mettendo a segno anche al- cune collaborazioni di prestigio con Robbie Williams, Mina, Franco Battiato, Ivano Fossati, Laura Pausini, e Anna Tatangelo, che vince la sezione Giovani del Festival di Sanremo 2002 con Doppiamente fragili e poi la categoria Donne dell’edizione 2006 con Essere una donna. A metà fra dance e melodia si pone Alexia, che

181 abbandona l’inglese per l’italiano e mette a segno due ottimi risultati a Sanremo, arrivando seconda all’edi- zione 2002 con Dimmi come... e poi vincendo l’edizione successiva con la ballata soul Per dire di no. Verso la fine degli anni Duemila, si fanno conoscere poi altre due interpreti femminili: la raffinata ed elegante (che arriva al successo con Come foglie, presentata nella sezione Giovani di Sanremo 2009) e la can- tante soul Nina Zilli (premio della critica nella sezione Nuove proposte per L’uomo che amava le donne). Sul fronte dei gruppi si segnalano il beat revival de Le Vibrazioni, gli scanzonati Velvet, gli eclettici Quintorigo, i melodici-letterari Baustelle, i salentini e i gruppi più rivolti ai teenager Finley e Zero Assoluto. La scena rap invece vede la consacrazione del provocatore surreale Caparezza (già attivo negli anni Duemila come Mikimix) con Verità supposte e il politicamente scorretto Fabri Fibra. In ultimo, si assiste alla riscoperta della scena jazz, con i pianisti Stefano Bollani e Danilo Rea, il sassofonista Stefano Di Battista, le interpreti Ni- cky Nicolai, Chiara Civello e Amalia Gré e il cantante soul Mario Biondi e l’inedito territorio sonoro a metà fra classica e pop elettronico di Ludovico Einaudi e Giovanni Allevi. "La musica è la lingua dello spirito. La sua segreta corrente vibra tra il cuore di colui che canta e l’anima di colui che ascolta." sostiene giustamente Kahlil Gibran. Ma c’è anche un altro aspetto che vale per ciascuno di noi, ben esposto nelle parole di Pierluigi Cavarra: "Ascolti una musica, passano i giorni, passano gli anni, risenti quella musica e tutto ritorna, tutto ri- vivi: le immagini, i profumi, lo stato d’animo vissuto in quei 3 minuti di vita passata. Tutto è stato magicamente registrato nel profondo della tua anima… come una chiave riapre una vecchia porta, riaccedi, tramite dolci o amare note, in un mondo tuo al momento dimenticato…"

Breve Storia della Televisione Italiana Fra 30 anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione. Ennio Flaiano

Questo oggetto misterioso entra dentro le case degli italiani a partire dai primi anni ’50, che san- ciscono una graduale e sistematica rinascita economica dopo la recessione del secondo conflitto mondiale. E ci entra come ospite, dal momento che di fatto nasce in Scozia nel 1926, anno in cui lo studioso John Logie Baird s’inventa un particolare sistema di scansione meccanica, chiama- to disco di Nipkow, che permette la riproduzione dell’immagine: in buona sostanza, l’antenato del tubo catodico. Le primissime prove tecniche di trasmissione italiana risalgono al 1933, quando il ricevitore romano di Monte Mario comincia a diffondere il segnale esteso al piccolo, periferico raggio urbano. Ma in principio fu la radio (invenzione di Guglielmo Marconi). È questa voliera di voci e suoni, lo strumento d’intrattenimento e di informazione dominante che precede il succes- so televisivo. Dall’ottobre del 1924, quando la conduttrice dell’URI – poi EIAR – Maria Luisa Boncompagni inaugura il servizio di trasmissione regolare fino all’istituzione dei tre programmi radiofonici Rai (già EIAR) del 1951, l’ascolto italiano si raccoglie intorno a questi apparecchi a suo tempo rivoluzionari. Dai bollettini giornalistici alla musica leggera, dal dramma teatrale alle rubriche letterarie: la radio scandisce a tempo il ritmo della quotidianità di oltre sette milioni di abbonati. Certo, la TV è un’altra cosa. La TV è la vita che scavalca uno schermo di vetro, è il volto della voce dei varietà radiofonici, il taglio di capelli e il colore degli occhi del cantante preferito di cui non si conoscono che le doti musicali, magari anche gracchiate dai capricci della frequenza. Così, dalla prima trasmissione nazionale del 3 gennaio 1954, il panorama mediatico si sarebbe avviato dritto verso un cambiamento inesorabile e non ancora concluso e definito: movimento,

182 immagine. È la Rai che nel 1952 acquisisce i diritti esclusivi di trasmissione circolare radiotele- visiva su scala nazionale, instaurando un regime monopolista che dopo un’iniziale fase di decollo avrebbe assistito alla sua frantumazione sulla metà degli anni ’70. È della Rai, dunque, il merito di plasmare le basi di rinnovati stereotipi culturali, che spaziano da Studio Uno al Rischiatutto, dal fascino accattivante di Mina all’esilarante genio di Mike Bongiorno. Ma sarebbe comunque un errore guardare alla televisione italiana degli esordi come sola pedagogia. La programmazione è già abbastanza variegata e comprende un’informazione fortemente eclettica (da Tg7 alla Domenica sportiva), intrattenimento e musica (dal Lascia o Raddoppia? al Festival Bar), sceneggiati, telefilm e teatro (da Il Giornalino di Gian Burrasca a Belfagor, fino a L’Osteria della posta di Goldoni). È il preludio a quella dinamicità che sarebbe entrata nel vivo tra gli anni Settanta e Ottanta: a livello isti- tuzionale, con la riforma Rai del 14 aprile 1975 che sancisce la caduta del monopolio e la rapida ascesa della TV privata; e a livello strutturale, con la nascita del flusso continuo del palinsesto che inaugura quella che Umberto Eco ha battezzato neotelevisione, con lo spettacolo messo al centro e tutta la programmazione che gli ruota attorno. Il tutto, dal 1977, finalmente e sistematicamente trasmesso con immagini a colori. Orfano però del fenomeno Carosello, il programma pubblicitario cui, spiegava il giornalista Giulio Nascimbeni, in un suo famoso articolo commemorativo sul Cor- riere della Sera, l’ipocrisia democristiana della Rai sbarra la strada per la sindrome da persecu- zione comunista che considera dannoso. Gli anni Ottanta e Novanta si consumano nel nome del trionfo di Mediaset (nata Fininvest), l’impero televisivo che Silvio Berlusconi fonda dopo aver pre- levato Rete 4 e Italia 1 e dopo il successo di Canale 5, rispettivamente agli imprenditori Mondado- ri e Rusconi. La riforma Mammì a cavallo tra un decennio e l’altro riconosce un regime di duopolio televisivo ed estende l’obbligo di trasmissione informativo-giornalistica a tutte le reti nazionali. Tra il ’91 e il ’92 nascono Tg 4, Tg 5 e Studio Aperto: è l’era del telegiornale che punta dritta ad un nuovo millennio, tutto all’insegna del reality–show e dell’informazione ibridata all’intratteni- mento (l’infotainment) in un quadro digitale che dice addio al tubo catodico. Siamo figli di tutto questo. Figli di un passato a cui apparteniamo prima ancora che sia esso ad appartenerci. Figli di Calimero, Topo Gigio e delle bande orizzontali che ci davano la buonanotte. È sempre bello essere progressisti, ma è sempre sbagliato guardare avanti senza pensare a ciò che si lascia dietro, perché il "dove vai?" implica sempre il "da dove vieni?". Abituiamoci, ma senza dimenticare. Pensiamo a tutto e pensiamo anche a questo. Magari seduti comodi, col telecomando in mano e un bel pro- gramma in onda in prima serata mentre si condensano i consigli per gli acquisti in soli dieci minuti di trasmissione senza che ci si renda conto l’influenza che la televisione sul consumismo e sugli usi e costumi della nostra società e che tanto preoccupavano Pasolini. "La televisione è un medium di massa, e come tale non può che mercificarci e alienarci." Dunque ci si allerta che la televisione, attraverso i suoi messaggi, può educare, diseducare, omologarci, distinguerci, metterci tutti d’accordo come l’uno contro l’altro; forse poco è cambiato dal mondo di un tempo, se non la diffusione e la conoscenza di fatti altrimenti difficilmente accessibili. Basti pensare all’effetto emulativo creato da programmi come "Gomorra" per capire quali responsabilità porta con sé questo strumento passato dal tubo catodico al digitale terrestre. "I tempi non sono diventati più violenti. Sono solo diventati più televisti." Bisogna riconoscere che il discusso Marilyn Manson, autore di questa frase, parla con effettiva cognizione di causa.

183 La Moda Italiana L’ele ganza, non è farsi notare, ma farsi ricordare. Giorgio Armani

Il made in Italy in fatto di moda è considerato una delle più importanti del mondo, insieme a quelle di Fran- cia, Stati Uniti d’America, Gran Bretagna e Giappone. I centri principali della moda italiana sono Mila- no, Roma, Firenze, incluse tra le 30 capitali mondiali della moda e, in minor misura, Napoli e Venezia. Dal 2009 Milano viene considerata la capitale della moda, superando anche città come New York, Pari- gi, Roma e Londra. La maggior parte delle grandi firme della moda italiana, ad esempio, Valentino, Versa- ce, Gucci, Prada, Armani, Etro, BottegaVeneta, Ermenegildo Zegna, Trussardi, Moschino, Basile e Dolce & Gabbana (per citarne alcune) hanno sede a Milano. Sono presenti in città anche numerose boutique di case di moda internazionali, come Abercrombie & Fitch, Louis Vuitton, H&M e Ralph Lauren. Due volte all’anno, a Milano si tiene la settimana della moda, come accade anche a New York, Londra, Parigi, Tokyo e Los Angeles. L’area dove la moda milanese è maggiormente presente è il cosiddetto quadrilatero della moda, racchiuso tra le vie Monte Napoleone, Manzoni, della Spiga e corso Venezia. Altri importanti canali dello shopping sono la galleria Vittorio Emanuele II, piazza Duomo, via Dante e corso Buenos Aires. Le sfilate di moda possono considerarsi vere e proprie opere d’arte, pertanto uniche. Anche Roma è considerata una capitale della moda. "Mi considero un artista, con l’unica differenza che le mie creazioni si indossano, non si appendono ad un muro." Sostiene Roberto Cavalli avvallando le tesi che stiamo sostenendo. Importanti case di moda di lusso, e gioielli, come Bulgari, Fendi, Gattinoni, Renato Balestra, Laura Biagiotti, Sandro Ferrone e Brioni hanno sede o sono state fondate a Roma. Marchi internazionali,Chanel, Dior, Prada, Dolce&Gabbana, Gucci, Max- Mara, Tod’s, Ferragamo, Armani e Versacehanno boutique di lusso a Roma, soprattutto lungo la celebre via dei Condotti e via Frattina. Oltre a Milano e Roma, anche Firenze si distingue nel mondo della moda. La città di Firenze è casa di alcuni delle più grandi firme dell’alta moda, come Roberto Cavalli, Gucci, Salvatore Ferragamo, Ermanno Scervino, Patrizia Pepe, Enrico Coveri e molte altre ancora. Inoltre a Firenze si tiene ogni anno Pitti Immagine, uno tra gli eventi di moda più prestigiosi ed importanti del panorama della moda internazionale. Tra i maggiori brand specializzati principalmente nell’abbigliamento donna (e accessori) tro- viamo Agnona (disegnata da Simon Holloway), Luisa Beccaria, Laura Biagiotti, Blumarine (creata da Anna Molinari), Chiara Boni La Petite Robe, Alberta Ferretti, Elisabetta Franchi, Giamba (creata dall’omonimo stilista Giambattista Valli), Krizia (fondata da Mariuccia Mandelli, ora sotto la direzione artistica di Zhu Chongyun), Max Mara (con la direzione artistica di Laura Lusuardi), Miu Miu (fondata e disegnata da Miuc- cia Prada), Philosophy (diretta da Lorenzo Serafini), Emilio Pucci (disegnata da Massimo Giorgetti fondatore del brand MSGM) e Simonetta Ravizza. Tra le case di moda che si occupano di abbigliamento e accessori uomo, invece, troviamo Brioni (attualmente disegnata da Justin O’Shea), Canali, Caruso, Corneliani, Lar- dini, MP Massimo Piombo, Stefano Ricci, Ermenegildo Zegna (diretto da Alessandro Sartori) e Pal Zileri. Tra i nuovi brands e i giovani designers troviamo Sara Battaglia, Angelos Bratis, Aquilano. Rimondi (prima direttori creativi di Gianfranco Ferré e Fay), Au jour le jour, Cristiano Burani, Paula Cademartori, Gabriele Colangelo, County of (di Marcelo Burlon), Marco De Vincenzo, Stella Jean, Damir Doma, Leitmotiv, Atos Lombardini, Angelo Marani, Andrea Incontri (a capo della direzione creativa di Tod’s), MSGM, N°21 (di Alessandro Dell’Acqua), Christian Pellizzari, Andrea Pompilio, Fausto Puglisi (a capo delle direzione cre- ativa anche di Ungaro), San Andres Milano, Francesco Scognamiglio e Alberto Zambelli. Tra le altre case di moda focalizzate nella produzione di accessori in pelle, in particolare scarpe, troviamo Aquazzura, Baldinini, Ballin, Bontoni, Bruno Bordese, Roberto Botticelli, René Caovilla, Casadei, Alberto Guardiani, Gianmarco

184 Lorenzi, Loriblu, Bruno Magli, Vic Matié, Moreschi, Alberto Moretti, Cesare Paciotti, Pollini, Fratelli Ros- setti, Gianvito Rossi, Sergio Rossi, Santoni, A. Testoni, Giuseppe Zanotti Design, mentre tra i produttori di borse, valigie e piccola pelletteria troviamo Bertoni, Borbonese, Braccialini, Coccinelle, Cromia, Fedon, Fur- la, Gherardini, Mandarina Duck, Piquadro, Serapian, The Bridge, Valextra, Zagliani e Zanellato. Tra alcuni dei marchi più famosi al mondo per la gioielleria e gli accessori troviamo Damiani. E ancora come non citare firme come Vhernier, Pomellato, Morellato, Officine Panerai e Bulgari, Luxottica (proprietaria, tra altri brand dell’occhialeria di lusso, di Ray-Ban e Persol), Marcolin, De Rigo, Safilo. La moda italiana è nota anche grazie a diverse importanti riviste periodiche, tra le quali ricordiamo Vogue Italia, Vanity Fair, Elle, Glamour, Gra- zia, Amica, Flair e Gioia.

"L’eleganza è quella capacità del comportamento che trasforma la massima qualità dell’essere in apparire." Jean-Paul Sartre

La cucina Italiana Patrimonio dell’Umanità La cucina italiana è diventata famosa grazie agli emigranti, quindi grazie ai nostri avi che sono dovuti emi- grare a causa di guerre, carestie o per la mancanza di lavoro. C’era chi andava in America, in Australia portandosi dietro i prodotti e le tradizioni della propria terra: l’olio, i pomodorini, il formaggio e i salumi: la famosa "valigia di cartone". Questa è stata la vera fortuna della cucina italiana.

Carlo Cracco

Mangiare, è incorporare un territorio. Jean Brunhes

Da queste frasi si può capire perché la scelta di parlare di cucina Italiana come opera unica e frutto delle con- taminazioni tanto ben espresse da Cracco e perfettamente sintetizzate da Brugnhes. La cucina italiana, infat- ti, si è sviluppata attraverso secoli di cambiamenti politici e sociali, con radici che risalgono al IV secolo a.C., è stata influenzata dalla cucina dell’antica Grecia, dell’antica Roma, bizantina, ebraica e araba. Importanti mu- tamenti si ebbero con la scoperta del Nuovo Mondo e l’introduzione di nuovi ingredienti come patate, pomo- dori, peperoni e il mais, ora fondamentali nella cucina ma introdotti in grandi quantità solo nel XVIII secolo. La cucina italiana è conosciuta soprattutto per la propria vasta diversità a livello regionale, la sua abbondanza nel gusto e nei condimenti e un classico esempio di dieta mediterranea, riconosciuta come patrimonio imma- teriale dell’umanità dall’UNESCO nel 2010, ed è ritenuta la più famosa gastronomia al mondo, con grande influenza a livello internazionale. La caratteristica principale della cucina italiana è la sua semplicità, con molti piatti composti da 4 fino a 8 ingredienti. I cuochi Italiani fanno affidamento sulla qualità degli ingredienti piuttosto che sulla complessità di preparazione. I piatti e le ricette tradizionali, nel corso dei secoli, sono stati spesso creati dalle nonne più che dagli chef, ed è per questo che molte ricette italiane sono adatte alla cucina casalinga e quotidiana. Molti piatti che una volta erano conosciuti solo nelle regioni di provenienza col tem- po si sono diffusi in tutto il paese. Il formaggio (alimento di cui l’Italia può vantare la più grande diversità di tipologie esistenti) e il vino (del quale l’Italia è il maggior produttore mondiale) costituiscono una parte importante della cucina italiana, con molte varietà autoctone e una tutela legale specifica, la Denominazio- ne di origine controllata (DOC). Anche il caffè, specialmente l’espresso e quello napoletano, è una bevanda importante e tipica della cucina italiana. Molti prodotti della cucina nostrana sono riconosciuti come Prodotti

185 DOP, IGP, STD, IG e PAT. Nato in Italia e di grande importanza internazionale è anche il movimento culturale e gastronomico Slow Food, convertitosi in ente atto alla tutela delle specificità culinarie, il quale salvaguarda svariati prodotti regionali della cucina italiana, sotto il sello dei Presidi Slow Food. Il pane, cibo contadino per antonomasia, è da sempre, come del resto anche per altri paesi europei e soprattutto mediterranei, un alimento fondamentale, e ne esistono svariate tipologie regionali. La pizza in particolare è il cibo italiano più consumato al mondo. Inoltre, l’arte dei pizzaiuoli napoletani è stata riconosciuta come patrimonio immate- riale dell’umanità dall’Unesco nel 2017. Il caffè, stituito nel 1720 a Venezia, è quello che viene considerato il caffe più antico del mondo: si tratta del Caffè Florian, un tempo chiamato Alla Venezia Trionfante. In ambito gastronomico ricordiamo la figura di San Francesco Caracciolo: vissuto tra il XVI e il XVII secolo, viene spes- so considerato il patrono dei cuochi d’Italia. La cucina esprime sensualità ed erotismo: "Non conosco nulla che vellichi così voluttuosamente lo stomaco e la testa quanto i vapori di quei piatti saporiti che vanno ad accarez- zare la mente preparandola alla lussuria." disse il Marchese De Sade, ma anche patriottismo secondo l’ironico giornalista Beppe Severgnini che afferma "Novanta italiani su cento, rivela un sondaggio inglese, preferiscono la cucina nazionale a tutte le altre: nessun stomaco, in Europa, è altrettanto patriottico.". Ma soprattutto la frase "Hai mangiato?" secondo l’attrice Laura Morante, "è la più grande dichiarazione d’amore."

Il cibo italiano: i piatti tipici di ogni regione. Tortellini - Emilia Romagna I tortellini sono una pasta ripiena con prosciutto, funghi o carne e sono perfetti con il brodo o il ragù. Ma sapete perché hanno questa forma? C’è una leggenda molto curiosa: nel 1200 arriva in una locanda una donna giovane e molto bella. Il proprietario della locanda accompagna la donna nella sua camera e, profondamente attratto dalla sua bellezza, rimane a spiarla dalla serratura della porta. A colpirlo particolarmente sarà l’ombelico della donna. Così al momento di preparare la cena, l’uomo ricorda quella meravigliosa immagine e tira la sfoglia proprio in modo da ricreare quell’ombelico! Decide poi di riempire la sfoglia di carne.

Carbonara – Lazio Uova e guanciale sono gli ingredienti per eccellenza, assieme a formaggio pecorino e pepe. Diffidate dalle imitazioni! Niente panna, niente cipolla, niente aglio e niente burro, mi raccomando!

Pizza - Campania Anche se la pizza considerata originaria della tradizione culinaria italiana (e soprattutto napoletana) nel mondo anche Egizi, Greci e Romani cucinavano focacce schiacciate molto simili!

La pizza ha quindi una storia davvero lunga, molto complessa e incerta, tuttavia le prime attestazioni della parola risalgono al 997 nei pressi di Gaeta. In antichità nel bacino Mediterraneo la pizza era un piatto molto povero fatto con strutto, formaggio e basilico (a volte con scarti di pesce) diffuso in tutte le regioni. La pizza così come la conosciamo noi arrivò nel 1889 quando il cuoco napoletano Raffaele Esposito creò la pizza Mar- gherita (tricolore) in onore della Regina Margherita di Savoia: pomodoro, mozzarella e basilico per onorare la Regina e l’Italia! Fino al 1830 circa la pizza era venduta esclusivamente in bancarelle ambulanti e da venditori di strada fuori dai forni, poi arrivarono le pizzerie! L’antica pizzeria Port’Alba a Napoli è considerata la più antica pizzeria italiana ancora oggi esistente.

Orecchiette e rape - Puglia Si tratta di un piatto che associa bontà, semplicità e leggerezza: le rape, un tipo di verdura, vengono abbinate con una pasta fatta a mano che ricorda un po’ delle piccole orecchie, da qui il

186 nome "orecchiette". Nel 1500, quella di preparare le "recchjtedd" era considerata una dote matrimoniale per le ragazze.

Arancini – Sicilia In Sicilia non potete impazzano gli arancini: palle di riso con ragù, piselli e formaggio che vengono impanate e poi fritte! Ma a proposito di questo piatto c’è una disputa antichissima: arancino o aran- cina? Maschile o femminile? La risposta dipende dalla città e dalla forma: nella zona di Palermo si chiamano arancine (quindi femminile) e hanno la forma di una palla, che ricorda un’arancia. Nella zona di Catania, però, cosi come anche nei dizionari di italiano, si chiamano arancini (quindi maschile) e hanno più la forma di una goccia.

Arrosticini – Abruzzo Gli arrosticini abruzzesi sono un secondo a base di carne di pecora! La carne viene tagliata in piccoli pezzi e poi cotta arrosto, per questo si chiamano "arrosticini". E la tradizione vuole che questo piatto sia stato inventato negli anni ’30 del 1900. Due pastori avevano una pecora vecchia, dunque la sua carne era un po’ dura e difficile da mangiare; per questo hanno deciso di tagliarla in piccoli pezzi, affinché fosse più facile da mangiare.

Trofie con pesto alla genovese – Liguria La Liguria, e Genova in particolare, è molto famosa per la prepara- zione di pesto, una salsina realizzata con basilico, pinoli, olio e aglio. Questo è da provare con le trofie, una pa- sta fresca tipica di queste zone che è arrotolata e per questo ricorda un po’ un cavatappi. Alcuni considerano le trofie la versione "povera" degli gnocchi, perché fatte solo con acqua e farina.

Polenta concia - Valle d’Aosta Questo piatto nasce dall’unione di due prodotti tipici di quelle zone: polen- ta e fontina! La polenta, unita alla fontina (un tipo di formaggio), diventa perfetta per scaldarsi nelle lunghe e frette notti alpine.

Risi e bisi – Veneto A metà tra un risotto e una minestra, era un piatto tradizionale della Serenissima Repub- blica di Venezia, che veniva preparato e offerto al Doge in occasione della festa di San Marco, il 25 aprile. Gli ingredienti principali? Come dice il nome stesso, "risi", cioè riso, e "bisi", cioè piselli.

Canederli - Trentino – Alto Adige I canederli sono tra i piatti più presenti nei menù dei ristoranti trentini, però prendono il nome dal tedesco, dalla Baviera in particolare, dove si chiamano Knödel. Sono delle piccole palline fatte con pane impastato con ingredienti diversi da zona a zona, ma di solito speck, formaggio, latte e erba cipollina.

Bagna cauda – Piemonte Si tratta di un condimento fatto di aglio, olio e acciughe che accompagna verdure sia cotte che crude. Questo piatto tradizionale del Piemonte risale al Medioevo, quando nei periodi di freddo e carestia, i contadini preparavano questo piatto povero per trovare un po’ di sollievo dalla fame e dal freddo.

Pane frattau -Sardegna In questo piatto molto particolare le fette croccanti del pane Carasau (pane tipico sardo) sono alternate con strati di sugo di pomodoro e formaggio pecorino. Alla fine si mette un uovo cotto in brodo di pecora…

Lagane e ceci – Basilicata Si tratta di una ricetta antica, tramandata di generazione in generazione. Le laga- ne sono un tipo di pasta fresca come delle tagliatelle ma molto più larghe, di circa 2 3 cm. Unite ai ceci e alla passata di pomodoro, sono perfette soprattutto per una fredda serata invernale.

Frico - Friuli Venezia Giulia Il frico è una specie di frittata a base di formaggio, patate e burro. Era il piatto tipico di boscaioli e contadini, i quali lo portavano con sé quando andavano a lavorare nei campi. Ancora una volta un piatto povero e centrato sul risparmio! La ricchezza della cucina italiana sta proprio nella semplicità

187 dei piatti.

Filei alla ’nduja – Calabria Questa tipica pasta calabrese è unita alla ’nduja, che è un salame molto particolare perché si può spalmare! Attenzione però: è molto piccante! Risotto alla milanese – Lombardia Questo piatto ha un caratteristico colore dorato, dato dallo zafferano, che dà un po’ l’idea di ricchezza. La ricetta risale al ’500, quando l’assistente di un pittore, che amava parti- colarmente il colore dello zafferano, al matrimonio della figlia del suo capo si mise d’accordo con il cuoco per aggiungere dello zafferano al risotto con burro che sarebbe stato servito al banchetto. Ebbe subito un grande successo.

Olive ascolane – Marche Esse sono ripiene di carne e poi fritte. Questo piatto risale all’Ottocento, quando i cuochi delle famiglie nobili hanno inventato questo ripieno per consumare le notevoli quantità di carne che avevano a loro disposizione.

Panzanella -Toscana La panzanella è un piatto estivo che non ha bisogno di cottura e che anche Boccac- cio menzionava come "pan lavato". Infatti si tratta di pane raffermo 2 ammorbidito con acqua a cui si aggiungono i gusti e i colori di cipolla rossa, basilico, olio d’oliva e aceto!

Salsiccia Di Norcia - Umbria Visto il territorio tipico dell’Umbria, ricco di montagne, gli abitanti si sono sempre dedicati molto alla pastorizia, e poi hanno sviluppato tecniche per conservare la carne. Da qui è nata la famosissima e super deliziosa salsiccia!

Composta Molisana Un piatto da provare assolutamente in questa regione è la composta molisana. Ancora una volta, un piatto fresco, colorato ed estivo! È fondamentalmente una specie di insalata, con pomodori, peperoni, cetrioli, capperi e uova sode. Essa si completa con i tipici taralli molisani chiamati "vescottera".

Il vino in Italia L’introduzione del vino nel nostro paese si deve a due popoli principalmente, i Fenici e i Gre- ci, anche se probabilmente si possono rintracciare alcune piccole e rare produzioni locali. Comunque questi furono i due popoli che fecero del vino uno dei più importanti prodotti e commerci della nostra Penisola. I Fe- nici dapprima importandolo soltanto e per la maggior parte in Sardegna e Sicilia, i Greci invece introducendo nuove varietà, addomesticandole e realizzando le prime vere sperimentazioni, anche se rustiche ed arcaiche, sulle uve. I Greci risulteranno quindi fondamentali nella storia vinicola italiana, in particolare quella meridio- nale che vede molte delle uve oggi vinificate essere state introdotte proprio nell’epoca della colonizzazione ellenica datata attorno al VII secolo a.C. Probabilmente il primo porto d’approdo che coinvolse il traffico di vino e di uve con questo popolo fu in Calabria, e successivamente in Campania ed in Sicilia, anche se le due prime regioni si contendono questo "primato". I Greci cominciarono non solo a sviluppare la viticoltura e la vinificazione nei loro territori, ma contribuirono anche alla sua diffusione nelle altre aree, piantando in questo modo i semi i cui frutti saranno poi raccolti dai Romani e diffusi in tutta Europa per un prodotto che diventerà da subito e per tutti i secoli avvenire uno dei principali per tutti i popoli europei. Nel VII secolo la coltivazione e il consumo del vino erano già diffusi in Etruria e subito dopo raggiunsero l’Italia del nord, all’epoca abitata da popolazioni celtiche. Furono poi i Romani a creare quel grande ed importante movimento che farà del vino un’istituzione in tutta Europa. Ma già da prima, grazie all’enorme diffusione di buon vino concentrata nella nostra penisola, l’Italia veniva chiamata Enotria tellus, ovvero terra del vino. Alcuni storici fanno risalire l’ini- zio della viticoltura in Italia attorno al I millennio a.C., durante i primi viaggi dei Greci. Il vino dell’antichità, sia presso i Greci che i romani veniva allungato con acqua, perché si ritiene fosse molto forte in alcool a causa delle vendemmie tardive dell’epoca, obbligate in un certo senso perché le vinificazioni erano poco affinate. In

188 questo rito vi era la figura del magister bibendi o rex convivii, ovvero un commensale scelto dagli altri di volta in volta che stabiliva sia la proporzione tra acqua e vino (generalmente con il 65% della prima) che il numero di brindisi. In tutto l’Impero il vino si beveva non solo nelle case dei facoltosi, ma, grande novità per l’epoca, anche tra le classi medie e povere. Vi erano vini da tutti i prezzi e tutte le qualità, spesso venduti e consumati nelle tabernae, locali dove si mescolavano vari vini per le mescite. Caratteristica di questi locali erano dei ban- coni in muratura, dove vi erano inserite anche delle anfore in cui vi erano vini diversi, con dei piccoli fuochi per scaldare dell’acqua nella stagione invernale. E poi naturalmente tavoli e sedie. Vi erano anche taverne più aristocratiche, con belle decorazioni. Vi era anche del cibo, che per le taverne di basso rango era molto economico, come il vino. Oltre alla mescola con l’acqua, il vino veniva addizionato con miele e spezie, general- mente servito in questo modo quando di bassa qualità. Nell’impero il vino migliore proveniva dal sud, ed era il Falerno, oppure il vino prodotto alle pendici dell’Etna o quello dei Castelli Romani. Alla caduta dell’Impero, le invasioni ad opera dei barbari, crearono un forte declino della viticoltura che divenne nel basso Medioevo una prerogativa esclusiva dei monasteri, che conservarono le tecniche vitivinicole apprese durante l’antichità e poi anche migliorate, tanto che nel Rinascimento, con l’esplosione dei traffici commerciali marittimi e l’a- pertura di nuove rotte, il mondo del vino era pronto per ritornare ai fasti dell’impero. Nuovo centro mondiale del consumo era l’Inghilterra, protagonista della maggior parte delle importazioni. In Italia così si cominciò a perdere i primati mantenuti fin dall’antica Roma, in quanto vennero preferite regioni più vicine al paese anglosassone. L’Italia comunque fu interessata enologicamente per le importazioni di Marsala in Inghilterra e vino calabro in Francia, mentre altre regioni si dedicavano più che altro al commercio locale. La Spagna inve- ce promosse la viticoltura in Sardegna, attitudine poi ripresa dal regno dei Savoia, mentre le grandi signorie riuscirono a mantenere dei primati italiani. Dalla seconda metà dell’Ottocento in poi la viticoltura e il vino ripresero sempre più importanza, ma il secolo decisivo fu in Novecento, quando a partire dalla seconda metà quando si iniziarono ad istituire le prime denominazioni di origine controllata che nel corso di 50 anni hanno riportato il nostro paese a primati mondiali al pari della Francia, la grande protagonista degli ultimi quattro secoli. Sono state migliorate notevolmente, grazie ai vincoli legali dei disciplinari di produzione, le tecniche di coltivazione e produzione, e oggi si hanno dei risultati straordinari.

Ormai è risaputa la mole di sprechi nell’alimentazione. Appagare in nostro palato in modo così spinto potreb- be portarci all’epilogo di una saggia profezia:

"Solo dopo che l’ultimo albero sarà abbattuto, solo dopo che l’ultimo lago sarà inquinato, solo dopo che l’ulti- mo pesce sarà pescato, Voi vi accorgerete che il denaro non può essere mangiato." Toro Seduto, capo della tribù dei Sioux

189 Il Folclore Una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente. Igor Stravinsky

Il Folclore d’Italia riguarda numerose leggende e racconti popolari diffusi sui territori. Su di esso, infatti, si sono succeduti nel tempo diversi popoli, ognuno dei quali ha lasciato le proprie tracce nell’immaginario po- polare. Alcuni racconti provengono anche dalla cristianizzazione, specie quelli riguardanti i demòni, che sono a volte riconosciuti dalla demologia cristiana. La maggior parte di questi miti arriva da culti pagani di origini svariate, trasformati in eventi devozionali in quanto frutto di sincretismi religiosi legati, appunto, all’avvento del Cristianesimo il quale, rendendosi conto di non poter privare le genti delle proprie tradizioni, sono state trasformate in feste o culti religiosi. La Befana, ad esempio, è una vecchietta spesso sorridente con una borsa o un sacco pieno di ogni squisitezze e regali per i bambini meritevoli, ma anche di carbone per i bambini che non sono "stati buoni" durante l’anno. Per ricevere i suoi regali è necessario scriverle ed appendere una calza alla finestra o sotto il camino. Ha vesti logore e viaggia a cavallo di una scopa. È molto diffusa, conosciuta in tutta Italia. Verrebbe nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, ossia nella notte dell’Epifania che, per la chiesa, si tratta del giorno in cui i Re Magi, guidati da una cometa, si recarono a visitare il neonato Gesù. Lo stesso Natale, festeggiato il 25 dicembre, corrispondeva nel calendario Romano alla festa del Dio Sole. In alcuni piccoli comuni la figura della Befana si alterna ad altri esseri soprannaturali che portano doni o carbone. Ma nell’am- bito del Cristianesimo troviamo Santa Lucia in Sicilia, il 13 maggio, e San Nicola a Bari alternativi al recente fenomeno di Babbo Natale che nasce da un’idea pubblicitaria dell’azienda Coca- Cola e che ha rimpiazzato la figura di Gesù Bambino anche nella nostra cultura sempre più laica. Il carnevale, ad esempio, ha sostituito i Baccanali che si festeggiavano a Roma in onore del Dio Bacco e che oggi precede la Quaresima che si avvia col mercoledì delle ceneri e che segue la pentolaccia. A Venezia la tradizione vuole che l’apertura ufficiale del carnevale sia affidata al "volo d’angelo": una ragazza prescelta e vestita da angelo sorvola migliaia di persone dal campanile di San Marco lanciando coriandoli e dando il via alla settimana di celebrazione e festeggiamenti. Con il tempo, la dimensione spettacolare del carnevale ha preso il sopravvento sul valore simbolico della festa, che doveva rappresentare l’ultimo tripudio di gioia e sfrenatezza prima del periodo di penitenza quaresimale. Iniziò quindi un grosso commercio di maschere e la nascita di scuole per la loro realizzazione: la più tradizionale del carnevale antico ma che si trova anche in quello moderno è la Baùta: utilizzata da uomini e donne, è una particolare maschera bianca sotto un tricorno nero e completata da un mantello. Il suo utilizzo non era solo limitato al tempo del carnevale ma si utilizzava anche in altre feste ed incontri in cui si voleva mantenere l’anonimato. Il carnevale veneziano moderno è un evento conosciuto in tutto il mondo che ogni anno porta migliaia di turisti a Venezia per ammirare le masche- re e partecipare alle moltissime feste a tema che vengono organizzate negli storici palazzi della città. Oggi, i giorni più importanti sono il giovedì e il martedì grasso, anche se è durante il fine settimana che si raccoglie la maggiore affluenza di visitatori. I Mamuthones sono, assieme agli Issohadores, maschere tipiche del carne- vale di Mamoiada in Sardegna. Le due figure si distinguono per i vestiti e per il modo di muoversi all’interno della processione: i Mamuthones procedono affaticati e in silenzio mentre gli Issohadores vestono in modo colorato e danno movimento alla processione. L’origine dei Mamuthones resta ancora oggi controversa. Se- condo uno studio di Marcello Madau, archeologo dell’accademia di Belle arti di Sassari, mancano fonti scritte che testimonino la presenza dei Mamuthones in tempi lontani. Il Wagner non ne parla e nel 1928 il Touring

190 Club descrive solo il fuoco di Sant’Antonio. Secondo lo stesso studio, comunque, testimonianze orali attestano che i Mamuthones sfilavano già nel XIX secolo. Alcuni sostengono invece che il rito risalga all’età nuragica, come gesto di venerazione per gli animali, per proteggersi dagli spiriti del male o per propiziare il raccolto. Fra le ipotesi avanzate sull’origine della rappresentazione vi sono anche una celebrazione della vittoria dei pastori di Barbagia sugli invasori saraceni fatti prigionieri e condotti in corteo, oppure un rito totemico di assoggettamento del bue, o anche una processione rituale fatta dai nuragici in onore di qualche nume agricolo e pastorale. Alcuni studiosi sostengono un legame con riti dionisiaci, altri negano questo collegamento, e la includono invece fra i riti che segnano il passaggio delle stagioni. La maschera facciale del mamuthone (visera) è nera e di legno, bianca quella dell’issohadore. Mascheramenti simili si ritrovano in altre parti dell’Europa, dal mar Egeo alla penisola Iberica, dalle Alpi ai Balcani e fino alla Scandinavia, particolarmente in zone di montagna o pedemontane, e sono attestati già nel Basso Medioevo, e questo fa presumere il loro radicamento in epoche e contesti precristiani. Fra questi, si veda ad esempio: il Krampus, diffuso nelle zone di lingua tede- sca, i Geisselklepfer, tradizione della Svizzera, i Silvesterklaus, sempre diffusi in Svizzera. Molto forte e sentito è il culto dei morti. Ripopolano le vie del paese, fanno visita ai vivi, si presentano in casa durante la notte. Tante sono le credenze legate al ritorno dei defunti nel mondo terreno. Nelle più diverse cul- ture spesso i morti si riaffacciano alla realtà quotidiana per nutrirsi o per assistere alla messa, per dissetarsi o per andare in pellegrinaggio. Si tratta di credenze legate, innanzitutto, all’idea che la vita e la morte sono co- munque, sempre, inevitabilmente legate. Ma non solo: rappresentano anche il modo, per i vivi, per continuare a mantenere forti legami con i propri defunti e per sentirli più vicini. Una leggenda particolarmente diffusa è quella che narra che, durante le ore notturne, i morti si radunano in chiesa per sentire la loro messa, la cosid- detta "messa dei morti". E se qualcuno entra in chiesa mentre si celebra questa funzione, corre il pericolo del contagio di morte. In Abruzzo, si ricorda questo dettagliato racconto, segnalato soprattutto nelle zone rurali attorno a Pescara: una fornaia, alzatasi di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare davanti ad una chiesa, che vide illuminata, pensò che si stesse celebrando la messa e vi entrò. La chiesa era illuminata e piena di gente. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si avvicinò dicendo: "Comare, qui non stai bene, va’ via. Siamo tutti morti e questa è la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti morti". La comare ringraziò e andò via subito, ma per lo spavento perse la voce. In Sicilia si crede che a celebrare la messa dei morti siano condannate le anime dei preti che ingannarono i fedeli, non celebran- do, per avidità di guadagno, le messe per cui avevano ricevuto le elemosine. Queste anime, dunque, devono celebrare anno per anno una messa fino a quando non avranno soddisfatto il loro obbligo. Le messe sono in- vece ascoltate da quei morti che, per pigrizia o negligenza, non parteciparono alle messe in vita: i siciliani le chiamano appunto "misse scurdate". Mentre a Catania si racconta di morti che passeggiano in processione per le strade recitando il rosario; a Salemi, in provincia di Trapani, si dice che la messa dei morti sia celebrata tra le ore di mezzogiorno ed il vespro: quando suonano le campane, chi, tratto in inganno, entra in chiesa e vede il volto cadaverico di un prete, deve fuggire immediatamente facendosi il segno della croce. Altrimenti non sopravvivrà. In Friuli, invece, si ritiene che i morti vadano in pellegrinaggio nei santuari e nelle chiese lontane dai centri abitati, sempre di notte: i racconti parlano di defunti che escono dai cimiteri vestiti di bianco e con scarpe di seta, avvolti nel lenzuolo funebre. Chi dovesse entrare durante una di queste visite, morirebbe al canto del gallo. In molte località è segnalato il tema del ritorno dei morti nei giorni successivi al decesso: una idea forte soprattutto nell’Italia meridionale. In Molise, nel comune di Venosa, in provincia di Potenza, ad esempio, dopo che il cadavere è stato portato al cimitero, i parenti abbandonano la casa per un giorno ed una notte per permettere al morto di tornare a rifocillarsi. A Modica, in Sicilia, si crede che per i tre giorni succes-

191 sivi alla sepoltura, il morto rientri a casa per sfamarsi con pane e per dissetarsi con acqua: per questo i parenti gli lasciano, di notte, la porta di ingresso socchiusa e puntellata con una sedia, sulla quale viene posato pane fresco in abbondanza. In diversi comuni intorno all’Etna, poi, si riferisce che i defunti, dopo aver girovagato per i sentieri più spopolati, diventano formiche per poter entrare, attraverso le fessure, nelle case dei loro con- giunti a nutrirsi. In Sardegna, in alcuni centri vicino a Sassari, i morti fanno ritorno nelle case soprattutto nella notte del primo agosto: i familiari, lasciando apparecchiata la tavola per il pasto notturno dei loro defun- ti, devono però evitare di mettere le posate, soprattutto forchette e coltelli, perché potrebbero diventare una arma molto pericolosa nelle mani dei morti. Più diffusa in tutta Italia è invece la credenza che i morti tornino nella notte tra il primo ed il due novembre. In alcune aree del Veneto si tramanda che, più che per mangiare e bere, i morti tornino per riposare: nelle campagne intorno a Vicenza, la mattina del due novembre le donne si alzano più presto del solito e si allontanano dalla casa dopo aver rifatto i letti per bene, perché le povere anime del purgatorio possano trovarvi riposo per l’intera giornata. In Piemonte, nelle zone della Val d’Ossola, il due novembre, dopo il vespro, le famiglie si recano al gran completo in visita al cimitero, abbandonando discreta- mente le case, perché le anime dei trapassati possano rifocillarsi a loro agio: durante questo banchetto, i mor- ti parlano fra loro, predicendo l’avvenire dei propri congiunti. La sera di Ognissanti, ossia alla vigilia del gior- no dei morti, sempre in Piemonte, è vivo il costume di radunarsi a recitare il rosario tra parenti e a cenare con le castagne. Finita la cena, la tavola non viene sparecchiata: rimane imbandita col resto avanzato. Verranno i trapassati a cibarsene. In occasione della festa dei morti in Veneto si distribuiscono le fave, mentre in Piemon- te si offrono ai poveri o gli avanzi della cena o una scodella di legumi fatti cuocere in memoria dei trapassati. In Abruzzo, dove tra i pescatori, la notte tra l’uno e il due novembre, non si può andare a pesca, perché le reti pescherebbero, al posto dei pesci, solo teschi di morti, viene di solito offerto il due novembre ai poveri del paese un piatto a base di ceci: nello stesso momento, i defunti si aggirano per le strade in cui sono vissuti, al- lontanando le malvagità: una credenza che si ritrova soprattutto nelle campagne intorno a Chieti. La comme- morazione dei defunti ha anche un proprio cibo, un dolce fatto di marzapane, detto di solito "ossa dei morti" per la sua forma. Tipicamente siciliano è diffuso però anche in Calabria, nel padovano e nel cremonese. È il dolce che a Palermo i bambini buoni trovano la mattina del due novembre insieme ad altri regali. Mentre ai cattivi saranno riservati aglio, carbone e scarpe rotte. La leggenda racconta infatti che nella notte tra il primo e il due novembre i morti lasciano la loro dimora per scendere in città a rubare ai più ricchi pasticceri, ai mer- canti, ai sarti, dolci, giocattoli, vestiti e tutto quanto hanno intenzione di donare ai loro parenti fanciulli che sono stati buoni nell’anno e li hanno pregati. Una tradizione che si è coltivata nel tempo per indurre la familia- rità con la morte e con il mondo degli antenati. In tutta la Liguria il 2 novembre, la tradizionale giornata dedi- cata ai morti, è sempre stata celebrata in diverse forme, da piccole consuetudini a veri e propri riti di accoglien- za basati sulla credenza che i morti "tornassero" in quella data, a visitare i luoghi, le cose e le persone della loro vita terrena. In quel periodo, per 12 giorni, fino a San Martino (11 novembre), i defunti erano oggetto di ceri- monie e tradizioni non meno complesse dell’attuale Halloween (dall’inglese arcaico "All Hallows’ Day" "Not- te di tutti gli spiriti sacri", cioè la vigilia di Ognissanti). Tendenza comune era, nel tempo dei morti, quella di riordinare la casa e le camere e di alzarsi presto, per lasciare il letto ai morti stanchi del lungo viaggio. Allo stesso modo si lasciava cibo e vivande in tavola. Nell’Imperiese si lasciava aperto il cassone dei fichi; a Isolabo- na, in Val Nervia si aprivano la porta e le finestre dell’abitazione. A Monterosso si accendevano lumi perché i morti trovassero più facilmente la strada di casa mentre in Lunigiana, quella notte, si andava a pregare al cimi- tero e si bussava sulle tombe per svegliarli. In Liguria la vigilia del 2 novembre era rituale consumare casta- gne: nel corso della Veglia serale dei morti, i parrocchiani andavano in chiesa ornati di collane di "ballotti",

192 castagne bollite infilate in fili di ginestra, che venivano mangiate durante la funzione. Il pranzo del giorno dei morti aveva un menu particolare: si mangiavano soprattutto fave, pianta che, con il loro unico fiore scuro, ri- cordava quella giornata triste. In tavola si portava anche lo Stoccafisso con bacilli: piccoli e scuri, sono una via di mezzo tra le fave e i ceci. Dopo lo stokke si consumavano i "balletti", castagne bollite in acqua con rametti di finocchio selvatico. Altra pietanza poteva essere lo zemin di ceci. Le nonne preparavano come regalo ai nipoti, una "resta", cioè una collana fatta con filo o spago composta di castagne bollite alternate alle mele Carle, oggi molto rare, il tutto assieme all’"Officieu" una sottile candela multicolore e multiforme che piaceva molto ai bambini e doveva ardere nel corso delle orazioni serali e della recita del Rosario con la famiglia riuni- ta davanti alle immagini dei propri cari defunti. I morti, secondo la tradizione, tornano alle loro case con una lugubre processione, uscendo dal cimitero in lunga fila a due a due, vestiti di cappa e cappuccio nero come dei battuti. Dalla vigilia del 2 novembre, per il periodo delle "12" notti, come da Natale all’Epifania, potevano verificarsi le "apparizioni" dei defunti. Al Picco Spaccato, località sopra Albisola, secondo la tradizione, si radunavano i morti anzitempo, cioè le anime degli uccisi, degli annegati e dei morti bambini, che si muoveva- no in processione, con cappe nere e ceri, salmodiando lugubremente. Ma il rito più impressionante era la "chiamata", ancora in uso fino ai primi anni 2000 nella zona di Albenga, e in valle Arroscia, con cui, nelle confraternite si ricordavano i fratelli scomparsi, che, negli anni, potevano essere moltissimi, dopo una proces- sione alla luce delle torce nel cuore della notte. A Genova si aprivano le catacombe e i sotterranei delle chiese, in cui gli scheletri avvisavano i visitatori del nostro comune destino. In Lunigiana si narra della Menada, una sorta di danza macabra che accadeva nei pressi di Rocchetta Vara, in cui misteriose donne danzavano in cer- chio con fiaccole nella notte. Altra usanza tipica del 2 novembre erano le "cantegore", la raccolta di offerte in natura effettuata durante canti in memoria dei morti, spesso praticata dai bambini. Così accadeva a Diano Marina, Monterosso, Pietra Ligure. A Loano i bambini uscivano di casa a mezzogiorno e andavano di porta in porta con un recipiente a chiedere una cucchiaiata di "zemin p’è annime di Morti", a suffragio dei defunti. A Bolano, la vigilia del 2 novembre, al termine dei vespri, i ragazzi andavano per le strade gridando a porte e fi- nestre "Ar ben di morti, Chi non dà, gent tutti porki" per ricevere noci, fichi secchi, caramelle o soldi, mentre a Genova le osterie potevano offrire gratuitamente "stokke e bacilli", stoccafisso e fave lessate; a Dolceacqua e Molini di Triora, nel sagrato della chiesa, si faceva un pentolone di minestra di riso e fagioli o ceci, offerti ai poveri e a tutti coloro che in quel giorno passavano per il paese. Anche da noi si usava tagliare zucche, svuo- tarle e porvi candele all’interno, usanza praticata a Rezzo e in valle Arroscia, mentre per festeggiare la chiu- sura dei dodici giorni, in molte località si organizzava un banchetto con motteggi e lazzi di tipo carnevalesco. A Monterosso questa usanza sarebbe ancora viva e un comitato di cittadini prepara le burle e gli scherzi per chi torna in paese, reo di averlo abbandonato e tradito. Da alcuni anni è arrivata anche da noi l’usanza di festeg- giare la notte di halloween, festa laica in uso negli Stati Uniti ma di antica origine celtica; si festeggia la notte di Ognissanti, quindi tra il 31 ottobre e il primo novembre. Data in cui si crede che il mondo dei morti e quel- lo dei vivi si assottiglino tanto da poter comunicare. Consiste nel travestimento in personaggi macabri che sfilano per le strade mentre i bambini bussano alle porte delle case, anch’essi tavestiti in maniera orrorifica, per chiedere il famoso "Dolcetto o scherzetto". Ricca di altrettante tradizioni è la Settimana Santa. Ai riti previsti dalla liturgia si accompagnano quelli che nel corso dei secoli la pietà del popolo cristiano ha adottato per rievocare i momenti più significativi della pas- sione umana di Cristo, vero uomo e vero Dio. Per la sincerità di tali espressioni religiose la Chiesa cattolica approva e consente lo svolgimento di queste celebrazioni, in quanto contribuiscono a rinsaldare e tramandare la fede cristiana. In tutto il mondo cattolico, la tradizione popolare della Settimana Santa consta di numerosi

193 canti, poemi, raffigurazioni e rievocazioni sceniche della Passione di Gesù, che spesso affondano le loro ra- dici fin dai primi secoli del cristianesimo. La letteratura italiana è ricca di opere ispirate ai Vangeli, scritte in prosa e soprattutto in poesia, di autori sia noti sia anonimi, che trattano la Passione di Cristo, dal suo ingresso trionfale a Gerusalemme, alla morte in croce, alla sepoltura e alla resurrezione dai morti (vedi ad esempio il celebre Stabat Mater o anche alcune Laudi di Jacopone da Todi, risalenti al XIII secolo). Le vicende umane e divine di Cristo, rievocate nella Settimana santa, hanno ispirato l’opera non solo di numerosi scrittori e poeti, di ogni parte del mondo, ma anche di musicisti, pittori, scultori, architetti, artisti in genere. In Italia numerose e spesso suggestive sono le rappresentazioni della Settimana Santa diffuse soprattutto nel Mez- zogiorno, grazie ai notevoli influssi spagnoli; in esse si mescolano gli elementi più strettamente religiosi a componenti in varia misura folcloristiche. Fra le più particolari e belle in Italia sono quelle che si svolgono ad esempio in Umbria ad Assisi e Gubbio, in Abruzzo a Chieti, antichissima, a Ortona con la caratteristica processione dei Talami, e a Sulmona, in Campania a Sorrento, con la sua doppia processione, Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, o, nelle Puglie, a Ruvo in provincia di Bari, e con le processioni del Venerdì e Sabato Santo; a Taranto, con i confratelli detti Perdoni, che si svolgono a partire dal Giovedì Santo pomeriggio sino al Sabato Santo mattina; quella di Gallipoli, con la bellissima processione dei misteri e della tomba di Cristo morto (detta "Urnia") il venerdì Santo e quella successiva, all’alba del Sabato Santo, di Maria Ss.ma Desolata ai piedi della Croce; quella di Polistena, con ben 11 riti, tra cui 4 in un solo giorno; quella di Molfetta con la processione dell’Addolorata il venerdì di Passione, dei Misteri il venerdì santo e della Pietà il sabato santo; quella di Bitonto con la processione dell’Addolorata il venerdì di Passione, e le processioni dei Misteri e di gala, rispettivamente all’alba e la sera del venerdì santo; A Grumo Appula, nel barese, i riti della Settimana Santa si aprono il Venerdì di Passione con la processione della Madonna Addolorata, portata a spalla dai macellai della cittadina; al termine della manifestazione, un gruppo di 20 uomini, tutti contadini, intonano il canto in dia- letto grumese dedicato alla Madonna che narra tutta la vicenda della Passione tra Gesù e la Madre. Il Venerdì Santo invece al tramonto avviene la processione dei Misteri, processione composta da 12 statue in cartapesta, realizzate tra la il 1700 e gli inizi del 1900 da artisti leccesi. All’uscita dalla chiesa dei misteri avviene la pre- sentazione spirituale di ogni singola statua. Il momento più emozionante è l’arrivo dell’immagine dell’Addo- lorata, dove il parroco dopo una breve riflessione, mette nelle mani della Vergine il Crocifisso e il coro intona un inno dedicato per l’occasione. Tante, invece, sono le figure mitologiche che sopravvivono nell’immaginario popolare. I mommotti o mob- botti nella tradizione sarda rappresentano una figura immaginaria utilizzata per spaurire i bambini. Talvolta vengono associati all’uomo nero oppure ad un orco cattivo ed il loro compito è quello di rapirli che non si comportano bene. I benandanti erano legati ad un culto pagano-sciamanico contadino basato sulla fertilità della terra diffuso in Friuli intorno al XVI-XVII secolo. Si trattava di piccole congreghe che si adoperavano per la protezione dei villaggi e del raccolto dei campi dall’intervento malefico delle streghe. Lo strego è un personaggio della tradizione popolare della Garfagnana. A differenza di streghe e stregoni classici, dediti a vari esercizi di stregoneria e volti esclusivamente a procurare il male alle persone, lo strego sembra avere un atteg- giamento più ambiguo in quanto di norma si disinteressa degli altri esseri umani preferendo riunirsi in gruppi per svolgere cerimonie non bene identificate. L’orcolat è un mostruoso essere che la tradizione popolare indica come causa dei terremoti in Friuli; è una figura ricorrente soprattutto nei racconti della tradizione popolare. Il maskinganna, letteralmente "maestro degli inganni", era un personaggio leggendario del folclore sardo che si divertiva a prendersi gioco delle persone che dormivano facendole risvegliare terrorizzate. La Pettenedda è una creatura mitica che appartiene alla tradizione sarda e che vivrebbe nei pozzi. Probabilmente la leggenda

194 è stata inventata dalle madri per spaventare i bambini e tenerli lontani dai pozzi. Il Giufà è un personaggio letterario della tradizione orale popolare della Sicilia e giudaico-spagnola. Il Marranghino è un personaggio immaginario del folklore lucano. Il suo mito condivide ha tratti comuni con quello del Monachicchio, ed è diffuso particolarmente nella provincia di Matera. Sa Mama ’e su Sole (la Mamma del Sole), è una creatura fantastica della tradizione sarda utilizzata per spaventare i bambini che non volevano andare a dormire nei pomeriggi estivi, quando il sole era troppo forte. L’uomo nero o babau (più raramente babao, barabao o bobo) è nel folclore italiano e di altre regioni europee, un mostro immaginario dalle caratteristiche non ben definite che viene tradizionalmente invocato per spaventare i bambini. Per quanto riguarda le streghe troviamo le co- gas o bruxas, nelle tradizioni sarde, sono streghe con l’aspetto di una vecchia, aventi la capacità di assumere qualsiasi forma e dimensione, sia animali sia vegetali o anche di persone; per questo sono pericolose. Le jana- re, nella credenza popolare beneventana, soprattutto in quella contadina, sono le streghe di Benevento di cui si raccontano le terribili malefatte. Le majare, sono le streghe (megere) della cultura popolare della Sicilia. La Pantàsema è un’antica figura femminile legata ai riti agricoli della cultura pagana dell’Italia centrale, par- ticolarmente presente nei territori laziale e abruzzese. Le streghe della Valcamonica sono state perseguitate tra il XVI e l’XVII secolo nella nota valle bresciana. La Borda è una sorta di strega che appare, bendata e orribile, sia nelle ore buie che nelle giornate nebbiose e uccide chiunque abbia la sventura di incontrarla. È una personificazione della paura legata alle zone paludose, agli stagni e ai canali, invocata dagli adulti per spaventare i bambini e tenerli lontani da questi luoghi pericolosi. La Masca è una figura di rilievo nel folclore e nella credenza popolare piemontese, che le attribuisce facoltà sovrannaturali tramandate da madre in figlia o da nonna in nipote. La Bàsura, strega del folclore ligure la cui tradizione è diffusa soprattutto nel Ponente, è cattiva. È, secondo la leggenda, la strega vivrebbe nelle grotte di Toirano (altrimenti dette proprio Grotte della Strega); la leggenda si sviluppò quando, dopo il ritrovamento delle grotte, tutti i labirinti erano chiusi, ed il vento faceva strani rumori. Si dice che non voglia che qualcuno entri nelle sue grotte. La Giubiana è una strega, spesso magra, con le gambe molto lunghe e le calze rosse. Vive nei boschi e grazie alle sue lunghe gambe, non mette mai piede a terra, ma si sposta di albero in albero. Così osserva tutti quelli che entrano nel bosco e li fa spaventare, soprattutto i bambini. A proposito di streghe non si può non citare il borgo di Triora in provincia d’ Imperia, fortificato e al centro di intensi traffici commerciali tra il Piemonte, la costa e la vicinissima Francia. Il comune conobbe una terribile carestia e, come capro espiatorio, alcune donne del villaggio vennero accusate di stregoneria e d’infanticidio. Nell’ottobre del 1587 il Parlamento locale, durante una seduta, chiese alle autorità civili e religiose di interve- nire contro le presunte streghe; arrivarono così il vicario dell’Inquisitore di Genova e il vicario dell’inquisitore di Albenga, il sacerdote Girolamo del Pozzo, che sosteneva fermamente la presenza del maligno. Durante la celebrazione della messa, al momento della predica, il sacerdote chiese ai parrocchiani di denunciare le streghe. Vennero così arrestate venti donne che, a causa delle denunce estorte con torture, divennero presto trenta. Tra di loro tredici donne, quattro ragazze e un fanciullo si dichiararono rei confessi. Alcune case pri- vate furono trasformate in carceri, la più famosa delle quali fu casa del Meggio, oggi nominata Ca’ de baggiure (Casa delle streghe). In pochissimo tempo avvennero le prime morti: Isotta Stella, una sessantenne di nobile famiglia, morì per le torture subite, un’altra donna invece si gettò dalla finestra. A seguito di queste tragedie e del clima di terrore che si era venuto a creare, al processo intervenne anche il Consiglio degli Anziani, che il 13 gennaio 1588 chiese agli Inquisitori di procedere con maggior cautela; vi erano tra le trenta donne infatti alcune persone nobili e influenti nella comunità. Dopo alcune indagini si convenne che la morte di Isotta Stella fu determinata dalle torture subite, ma il fatto della donna gettatasi dalla finestra fu spiegato come atto

195 del maligno. Questa persecuzione si estese anche ai paesi vicini come Castel Vittorio e Sanremo, ove ebbero inizio altre caccie alle streghe. Soltanto, il 23 aprile del 1589 il tragico processo alle streghe venne terminato. Tra i luoghi frequentati dalle "bagiue" ovvero le streghe, famoso è Lagodégnu, fuori delle mura, memorabile ritrovo di streghe: "una remota e orrida località" dove si trova un piccolo lago formato dalla cascata del rio Grugnarolo che s’immette nel torrente Argentina. Secondo la leggenda tali caratteristiche sono state date alle acque dalle streghe. La fontana di Campomavùe è un bellissimo manufatto costituito da un arco di pietra e da una vasca e si trova fuori dall’abitazione. La più importante è la Cabotina. Si trova oltre le mura ed era la zona più povera di Triora. In tale luogo si sarebbero svolti i convegni notturni delle streghe, le quali avrebbero giocato a palla con bambini in fasce, palleggiandoseli da un albero all’altro fra quei radi alberi di noce. Attual- mente è uno dei luoghi più famosi di Triora. È probabile che qui vivessero donne sole, prostitute, contadine le quali furono tra le prime a essere coinvolte nel processo. Oggi l’economia di questo paese ruota intorno alla leggenda della presenza di queste streghe. A fianco a tante streghe troviamo anche qualche fata, come le Janas che vivevano in Sardegna nelle cosiddet- te domus de janas, che in realtà erano tombe scavate nella roccia. Secondo altre leggende vivevano in cima ai nuraghi e passavano il tempo a tessere con un telaio d’oro. Poi ci sono le le Anguane o Agana o Longana, una ninfa acquatica appartenente alla mitologia alpina, diffusa anche in Umbria, e di cui si parla anche nella zona delle Cascate delle Marmore, nelle quali vivrebbe e/o si rinfrescherebbe quotidianamente. Si parla di questa fata anche in Abruzzo, in Toscana (nella zona dell’Appennino Tosco-Emiliano),in Veneto e in Emi- lia-Romagna. Come ninfa acquatica vive solo in acque dolci, come laghi, fiumi, torrenti, cascate o ruscelli. La Bella ’mbriana, nella credenza popolare del popolo napoletano, è lo spirito della casa. Altrettanto ricca e la tradizione dei folletti. Il buffardello, folletto presente nella tradizione popolare della provincia di Lucca ed in particolar modo della Garfagnana ma anche della Lunigiana in provincia di Massa-Carrara. Lo gnefro è un folletto della cultura popolare della città di Terni e della Valnerina. Il muddittu è un folletto della cultura popolare della Sicilia. Il mazzamurello o mazzamaurello è una creatura fantastica della tradizione folklorico- fiabesca delle Marche e dell’Abruzzo. In particolare, esso appartiene alle tradizioni rurali degli attuali territori delle province di Fermo, Macerata e Ascoli Piceno. Il lauru, lauro o laurieddu è una creatura maligna dell’immaginario folcloristico del Salento, della Valle d’Itria e della Murgia, è un folletto che, come molti, ama fare dispetti. Nelle culture popolari è temuto, ma non rispettato. Il lenghelo, detto anche lenghero, lenghelu o familiarmente lengheletto, è un folletto o spiritello presente nella tradizione popolare dei Castelli Romani, affondando le sue radici anche in alcune credenze greche o egizie. Il linchetto è un folletto presente nella tradizione popolare della provincia di Lucca, in particolar modo nella piana di Lucca, ma anche in Garfagna- na e nei colli del Lucchese. Il mazapégul fa parte di una piccola famigliola di folletti della notte, composta da diverse tribù quali i mazapedar, i mazapegul, i mazapigur e i calcarel, diffuse un po’ in tutta la Romagna. Il mazaròl è un folletto tipico del folclore del Bellunese e del Primiero e di alcune zone della provincia di Trevi- so. Il monachicchio generalmente viene considerato come uno spirito di un bambino morto prima di ricevere il battesimo. Il munaciello è uno spiritello che, secondo la leggenda napoletana, pare abbia le fattezze fisiche di un ragazzino deforme abbigliato con un saio e fibbie argentate sulle scarpe. Lo scazzamurrieddhru, noto anche come Ssazzamurrill o scazzamauriello, è un dispettoso folletto del folclore del Sud Italia. Lo squasc è un essere mitologico del folclore della Lombardia orientale. Il tummà è un folletto dal naso gigante del folclore pu- gliese. Le credenze sui fantasmi non sono da meno. I Confinati oppure le anime confinate sono delle figure mitiche diffuse nelle tradizioni popolari della Lombardia nord-orientale, soprattutto nelle Valli Bergamasche, Val Camonica e Valtellina. La Pandafeche, detta anche il Pandaff, è una manifestazione onirica, comunemente

196 diffusa nell’immaginario della cultura abruzzese. Azzurrina, secondo la leggenda, sarebbe stata la figlia di un certo Ugolinuccio di Montebello, signore di Montebello, nella metà del Trecento. Stando al racconto popolare sarebbe misteriosamente scomparsa nel suo castello mentre giocava con una palla. La Leggenda di Bianca di Collalto narra di una giovane ancella che sarebbe stata murata viva a causa della gelosia della sua padrona. Il suo fantasma si manifesterebbe ai componenti della famiglia Collalto per annunciare gioie o sciagure. La Guria, è uno spirito della tradizione popolare di Barletta che abita le case, spesso definito il vero padrone di esse. Ha una forma umanoide e la sua faccia ricorda vagamente una figura umana. Per quanto riguarda i demoni troviamo Aamon, demonio nominato spesso nella demologia cristiana, e che, forse, prende nome dopo la cristianizzazione, in quanto Amon è anche il nome di un dio egizio. Il Krampus è un uomo-caprone scatenato e molto inquietante che si aggira per le strade alla ricerca dei bambini "cattivi". L’Incubo era uno spirito raffigurato con in testa un berretto conico, che talvolta perdeva mentre folleggiava. Colui che trovava uno di questi spiriti acquistava il potere di scoprire tesori nascosti. Il Succubo o Succuba era uno spirito di aspetto femminile che seduceva gli uomini. Di origine popolana si pensa ispirato vagamente alla dea Ve- nere che tentava spesso di sedurre uomini. È uno spirito femminile di cui si pensava ne esistesse un solo esemplare. È sopravvissuta anche nel Medioevo, nel quale pare adescasse principalmente vescovi per ottenere una relazione sottoposta alla sola volontà di ogni Succuba. Poi ci sono mitologici esseri animaleschi. Il Thyrus è un drago leggendario che infestava le paludi di Terni nel 1200. Gli abitanti morivano soffocati dall’alito pestifero che sprigionava il mostro. Allora un giovane animoso della nobile famiglia, di origine germanica che armatosi, andò incontro alla bestia nascosta tra la vegetazione palustre, e, scovatala, dopo un’aspra lotta la uccise, liberando da morte i poveri cittadini ternani. In ricordo di tale avvenimento si dice che Terni abbia voluto porre la chimera verde nel suo blasone. Il grifone, in antichità era un simbolo del potere divino e un guardiano della divinità. È stato usato nella cristianità medioevale come simbolo di Gesù Cristo, il quale era sia umano che divino. Il Caradrio anche Caladrio o Calandro è un uccello bianco che, secondo la leggenda, viveva nei giardini reali. Tarantasio è un drago leggendario che terrorizzava gli abitanti del lago Gerundo nella zona di Lodi. Si riteneva che divorasse i bambini, che fracassasse le barche ed il suo fiato pestilenziale ammorbava l’aria e causava una strana malattia denominata febbre gialla. Il cato- blepa è un animale fantastico, descritto da Plinio il Vecchio e da Claudio Eliano. Nell’antica zoologia greca e romana era una specie di serpente, di rettile o quadrupede africano, raffigurato col capo pesante sempre abbassato verso terra. L’Erchitu è una figura ricorrente nelle antiche leggende barbaricine, secondo le quali un uomo che ha commesso una grave colpa, per sortilegio, si può trasformare nelle notti di Luna piena, in un bue bianco con due grosse corna d’acciaio, che vaga per le strade del paese, scortato da una masnada di diavoli. Il foglionco è una creatura immaginaria del folklore di alcune zone dell’Italia centrale, in particolare della Garfagnana e di altre parti della provincia di Lucca. È una creatura ematofaga, talvolta descritta come capace di volare. La Marroca è un animale mitico che secondo la credenza contadina vive essenzialmente nelle zone umide della campagna della Valdichiana, senese, aretina, e umbra. Il Badalischio, si racconta che questo mostro sia nato nella Gorga Nera, un piccolo laghetto in prossimità della fonte del Borbotto (parco nazionale delle foreste casentinesi). Secondo la leggenda sarebbe dotato di un veleno mortale. È rappresentato molto simile al Basilisco. Il Badalisc, detto anche Badalisk o Badelisc è una figura mitologica della valle Camonica. Secondo la tradizione è un essere mitologico che vive nei boschi, che ogni anno viene catturato nel periodo dell’Epifania dai giovani e portato in paese. Il Serpente Regolo o Regulus è un animale fantastico della tradizione Toscana, umbra, abruzzese e sabina. Si tratterebbe di un grosso serpente dalla testa "grande come quella di un bambino", che vive per le macchie, i campi e gli orridi dei monti. L’Eale o Yale, anche detto Cen-

197 ticore, è un animale leggendario che appartiene alla mitologia europea. Viene descritto come una capra o un’antilope, una creatura a quattro zampe e con corna che può ruotare completamente. Il Basilisco, secon- do la Naturalis historia di Plinio il Vecchio, sarebbe un piccolo serpente, lungo meno di venti centimetri e nonostante questo sarebbe la creatura più mortale in assoluto: si riteneva infatti che il solo guardarlo potesse uccidere il malcapitato, se veniva guardato attraverso un riflesso, invece si rimaneva pietrificati. Lo si riteneva molto attratto dal latte. Ha radici di origine romana. La Biddrina è un animale mitico che secondo la leggenda vive nelle zone umide della campagna della provincia di Caltanissetta. Il Fauno è una figura della mitologia romana, una divinità della natura, in particolare della campagna e dei boschi, molto primordiale in quanto (con diversi nomi) esisteva già in antiche civiltà pre-romane. La Gata Carogna: nel folclore della Lombardia, più precisamente delle province di Bergamo e Cremona, la Gata Carogna è un mostruoso animale che infe- sterebbe i vicoli bui delle città. Il Gigàt è, nelle tradizioni folcloristiche lombarde, un felino di proporzioni enormi. Il Lupo Mannaro o Licantropo, questa figura compare ancora in epoca romana antica. Ne parla Gaio Petronio Arbitro nel frammento LXII del Satyricon ed è la prima novella in cui appare questa creatura. È ormai conosciuta in tutto il mondo ma di origine romana. Secondo alcuni studiosi fu il frutto della conoscenza della licantropia clinica, una patologia che, in casi veramente gravi, porta ad uccidere per mangiare e vivere nei boschi. Lo Scultone, nelle credenze popolari sarde, era una creatura simile ad un drago che uccideva uo- mini e animali presso Baunei nel nuorese. Il Bisso Galeto è una creatura leggendaria delle valli veronesi. Ha corpo e testa di gallo, con una grande cresta rossa, ali piene di spine e coda di serpente. La sua dimensione normale è piuttosto ridotta, rendendolo simile ad un piccolo serpente, ma il Bisso Galeto può aumentare e diminuire la lunghezza del proprio corpo a sua volontà. La Strige era un uccello notturno di cattivo auspicio che si nutriva di sangue e carne umana come oggi addebitato al vampiro. È di origine romana. Il Tatzelwurm è una creatura leggendaria dell’arco alpino, descritta come un lucertolone con quattro o due sole zampe corte e la coda tozza. L’Uomo selvatico o Uomo selvatico di Sacco è un essere umano leggendario presente in molte tradizioni popolari italiane, soprattutto alpine e appenniniche, dove assume nomi diversi a seconda della lingua locale. Tra gli oggetti magici si annoverano lo Scrixoxiu, nelle tradizioni sarde, uno scrigno apparte- nente ad uno spirito di un familiare defunto. Il Libro del comando è il nome con cui venivano indicati i testi di magia nera contenenti la descrizione dei metodi per conoscere e distinguere gli spiriti benigni e maligni, così come le formule magiche per invocarne l’intervento, al fine di ottenerne l’aiuto per mezzo di responsi e rivelazioni, la cui circolazione veniva combattuta dalle autorità. Il Libro del Cinquecento o Libru do cincucen- tu è un leggendario libro che sarebbe custodito a . La leggenda narra che si trattava di un libro di magia che conteneva delle formule che consentivano di superare tutti i problemi. Numerose leggende fanno parte del nostro patrimonio culturale. La Leggenda di Colapesce è una leggenda siciliana con molte varianti, le cui prime attestazioni risalgono al XIV secolo. La Scrofa semilanuta è un animale mitologico, il simbolo della città di Milano prima dell’età comunale. I Giorni della merla sono, secondo la tradizione, gli ultimi tre giorni di gennaio. Sempre secondo la tradizione sarebbero i tre giorni più freddi dell’anno. I Giorni della vecchia o Giorni imprestati sono, secondo la tradizione, gli ultimi tre giorni di marzo, nei quali solitamente si parla di un ritorno del freddo; sono considerati i giorni più freddi della primavera. L’Uovo di Colombo è un aneddoto popolare diffuso come modo di dire in diverse lingue per designare una soluzione insospettatamente semplice a un problema apparentemente impossibile. Silvio Brabone è un leggendario soldato romano che uccise il gigante Druon Antigon ad Anversa. La Donna del gioco o Signora del gioco è una figura mitica, citata spesso nei processi durante la Caccia alle streghe. Il Mausoleo di Porsenna è un edificio leggendario che fu descritto da Marco Terenzio Varrone. Sarebbe stato costruito per raccogliere

198 il corpo dell’anch’esso leggendario lucumone Porsenna, sovrano della città di Chiusi. Dina e Clarenza, sono due personaggi femminili leggendari legate allo storico assedio di Messina da parte di Carlo I d’Angiò durante il Vespro siciliano. Eliodoro di Catania è un personaggio semi-leggendario accusato dai suoi contemporanei di essere un negromante. Pietro Bailardo o Pietro Baialardo è un personaggio leggendario e, talvolta, una maschera popolare italiana di brigante e capitano di ventura. Maria Puteolana è una figura semileggendaria della storia di Pozzuoli. Pacciûgo e Pacciûga sono due figure ricordate in due statue alle quali è legata una delle più antiche leggende a sfondo religioso di Genova. La Leggenda di San Pietro al Monte o Leggenda del cinghiale bianco di Civate vuole spiegare la fondazione della chiesa omonima come un atto di devozione del Re longobardo Desiderio. Gammazita è una giovane ragazza, protagonista di una leggenda catanese legata alle vicende casato degli Angioini di Sicilia. Il suo nome è stato dato anche a un sito del centro storico della città siciliana, una cavità naturale chiamata appunto Pozzo di Gammazita. San Giorgio e il drago, è una leggenda conosciuta in tutta Italia, ma originaria della Romagna, quando, nel lontano Medioevo questo cavaliere liberò la nostra regione da un terribile dragone. La Bestia di Cusago ricorda una serie di episodi di aggressioni da parte di una belva, inizialmente creduta una iena fuggita da un circo ma successivamente rivelatasi un lupo, verso la fine del XVIII secolo. Storie e leggende della Lunigiana, racconti di fantasmi, di personaggi fanta- stici fatti di misteri e di segreti, sono particolarmente affascinanti e trovano in Lunigiana un vasto numero di leggende che sono state tramandate di generazione in generazione. Miti e leggende della Sicilia, nel corso dei secoli hanno influenzato la cultura e le tradizioni dell’isola mediterranea. Molti di essi provengono da diverse culture che hanno dominato la Sicilia da millenni. La documentazione che più di ogni altra ha dato l’avvio allo studio delle tradizioni popolari e dunque al fol- clore inteso come scienza è stata l’inchiesta napoleonica del 1809-1811, svolta nel Regno d’Italia sui dia- letti e i costumi delle popolazioni locali. L’inchiesta fu posta in essere principalmente per individuare ed estirpare pregiudizi e superstizioni ancora esistenti nelle campagne italiche. Gli atti dell’inchiesta e le relative illustrazioni allegate sono custoditi nel castello Sforzesco di Milano. Una successiva inchiesta post-napole- onica, curata da don Francesco Lunelli (1835-1856), riguardò il territorio del Trentino e il Dipartimento dell’Alto Adige (con particolare attenzione ai proverbi riguardanti le donne del Trentino), rimasti esclusi dall’indagine napoleonica perché erano territori all’epoca non ancora aggregati al Regno d’Italia. La prima opera di rilievo, che anticipa di quasi cinquant’anni il metodo della demologia scientifica italiana con una pre- cisa classificazione del materiale, è il trattato sulla regione Romagna del forlivese Michele Placucci. Egli, avva- lendosi di diversi documenti, soprattutto di quelli raccolti all’epoca dell’inchiesta napoleonica (come quanto redatto da Basilio Amati, cancelliere del censo a Mercato Saraceno), a cui aggiunse anche altro materiale (ad esempio, dalla Pratica agraria dell’abate Battarra), pubblica, a Forlì nel 1818 (Tipografia Barbiani), l’opera intitolata "Usi e pregiudizi" de’ contadini della Romagna. In Placucci ad esempio, si racconta che i contadini romagnoli usavano mangiare fave nell’anniversario dei morti (cioè il 2 novembre), perché comunemente si riteneva che questa pianta avesse il potere di rafforzare la memoria, così che nessuno dimenticasse i propri defunti. Altra tradizione arcaica riportata dal Placucci è quella di confezionare il ripieno dei cappelletti privo di carne. A quel lavoro, altri faranno seguire numerose pubblicazioni dedicate ad altre regioni italiane. L’intel- lettuale che ha dato poi origine allo studio sistematico, su base scientifica, del folclore italiano, è il medico pa- lermitano Giuseppe Pitrè (1841-1916) che, dopo aver dato alle stampe la "Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane", ha realizzato un’opera editoriale insuperabile (per ricchezza di informazioni), la "Bibliografia delle tradizioni popolari italiane" nel 1894 e la "Rivista Archivio per lo studio delle tradizioni popolari" pubblicata ininterrottamente dal 1880 al 1906. Per primo Pitrè ottenne nel 1911, a Palermo, una cattedra universitaria

199 per lo studio delle Tradizioni Popolari, sotto il nome di demopsicologia, poi riattivata da Giuseppe Cocchia- ra solo negli anni ’30 col nome di Storia delle Tradizioni Popolari. Durante il fascismo questo tipo di studi fu utilizzato dalla propaganda di regime inizialmente per rafforzare il mito romantico e medioevaleggiante del Popolo legato alla propria terra e alla tradizione, poi per creare "il popolo" a livello nazionale, cercando di unificare con l’azione dell’istituto del dopolavoro le tradizioni locali. Si potrebbe parlare in tal caso più propriamente di "folclorismo". Dopo la seconda guerra mondiale, grande impatto ebbe la pubblicazione del- le "Note sul folclore", contenute nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. In particolare, condurrà le più celebri ricerche folcloriche italiane, Morte e pianto rituale, Sud e magia, La terra del rimorso, scegliendo come oggetto classi sociali considerate fuori dalla storia, i contadini del sud Italia, con il dichiarato obiettivo di utilizzare le tradizioni popolari, definite come folclore progressivo, come elemento fondante di una futura coscienza di classe. Questa corrente di studi rimarrà dominante in Italia fino agli anni Ottanta del Novecento (con Alberto Mario Cirese, che dagli anni Sessanta impose come nome per gli studi di folclore all’italiana il termine demologia), mettendo in discussione l’oggetto di studio, criticando la reifi- cazione delle tradizioni e ponendo l’accento sui processi di costruzione sociale e sull’uso che i soggetti fanno di esse. Notevoli furono pure gli studi e le ricerche di storia del folclore e delle tradizioni popolari svolti sia di Giuseppe Cocchiara, dagli anni ’30 agli anni ’60, che di Carmelina Naselli. Ogni anno in Europa si svolge l’Europeade del Folclore. Le ultime città italiane che hanno ospitato questa ma- nifestazione sono nel 2003, Nuoro in Sardegna, città ben nota in tutta Italia per l’attaccamento alle tradizioni e il mantenimento di queste ultime (canto a tenore, balli tradizionali, launeddas, organetto, canti a chitarra) e nel 2010 Bolzano che comprende gruppi di diversa lingua e cultura. Ininterrottamente dal 1970, nel periodo che precede il Ferragosto, ad Alatri si svolge il Festival Internazionale del Folclore, mentre per il periodo di fine estate è stata successivamente istituita una manifestazione internazionale folcloristica anche per i bambi- ni. Danze, canti, abiti colorati; cortei storici, tornei medioevali, grandi macchine portate a spalla. In una sola parola, folclore. Sono tantissime le feste popolari che animano ogni anno i Comuni d’Italia. Un fenomeno che non conosce declino, praticamente un unicum nel panorama europeo. Il patrimonio folcloristico italiano è una delle maggiori ricchezze del nostro Paese, un manifesto vivo del nostro senso di appartenenza alla comunità. Le feste scandiscono le varie fasi dell’anno, accompagnano l’alternarsi delle stagioni, risvegliano la voglia di stare insieme, di parteggiare per il proprio quartiere durante un palio o una giostra. Anche il più piccolo dei borghi ha almeno un evento da aspettare tutto l’anno: si va dalle celebrazioni di santi alle rievocazioni di antichi riti, passando per le manifestazioni che ricordano eventi storici, come la fine di una guerra o di una carestia. Il folclore unisce tutto il territorio. È infatti affascinante notare come, nell’infinita varietà di usi e tradizioni, ci siano tratti comuni che ricorrono in luoghi lontanissimi tra loro: a gennaio, in varie regioni d’I- talia, il nuovo anno si apre alla luce dei falò, simbolo di rinascita e purificazione. In Puglia, a Castellana Grotte, centinaia di fuochi vengono accesi nelle strade durante la "Notte delle Fanove", in ricordo della guarigione da un’epidemia di peste. I falò, in Abruzzo, sono protagonisti nel giorno della festa di Sant’Antonio: ardono per ore, per rievocare la notte in cui il Santo liberò la città di Fara dall’invasione francese del 1799, incendiando decine di querce e costringendo così i soldati alla fuga. Più a nord, il falò di Sant’Antonio rivive a Milano, nel Parco delle Cave e nel Boscoincittà, accompagnato da canti, balli popolari e degustazioni di vin brulé. Febbraio è il mese della candelora, marzo quello delle "torciate". Dopo i riti della settimana santa, si celebra il trionfo della primavera: è il tempo del Calendimaggio che apre la strada alle grandi manifestazioni estive. Tra giugno e settembre, lungo tutta la Penisola, si susseguono sagre, cortei storici, processioni religiose e tornei in costume. Per il Corpus Domini si rinnova il folclore delle Infiorate: le vie di Spello, in Umbria, quelle

200 di Genzano, nel Lazio, quelle di Noto, in Sicilia, si trasformano in tele su cui dipingere quadri da colorare con i fiori. Ad agosto, gli appassionati di navi e di rievocazioni, non possono perdere la Regata delle Antiche Repubbliche Marinare, in cui i galeoni di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia si sfidano in una gara che si svolge a rotazione in una delle quattro città. Sul finire dell’estate, si riscopre il sapore dei rituali contadini: in Tren- tino si festeggia la desmontegada, il ritorno a valle dei pastori e del bestiame dopo i mesi passati nelle malghe dell’alpeggio estivo. Le mucche sfilano per i paesini, adornate di fiori, al ritmo dei rumorosi campanacci che portano al collo. Sarebbe impossibile elencare, in così poco spazio, le feste e le tradizioni del folclore italiano. Una manifestazione particolarmente famosa è il Palio di Siena: una competizione fra le Contrade locali nella forma di una giostra equestre di origine medievale. La "carriera", come viene tradizionalmente chiamata la corsa, si svolge normalmente due volte l’anno: il 2 luglio si corre il Palio in onore della Madonna di Proven- zano festa della Visitazione nella forma straordinaria, e il 16 agosto quello in onore della Madonna Assunta. In occasione di avvenimenti eccezionali, di ricorrenze cittadine o nazionali ritenute rilevanti e pertinenti (ad esempio: il centenario dell’Unità d’Italia), la comunità senese può decidere di effettuare un "Palio straor- dinario". Esiste dal 1622. Negli ultimi anni, fortunatamente, si sta iniziando a parlare di come proteggere quest’enorme ricchezza. La Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, ratificata dalla Conferenza Gene- rale dell’Unesco nel 2003, ha dato un buono spunto per aprire un dibattito sul tema a livello nazionale. Sono state avviate, innanzitutto, le pratiche per inserire alcune delle nostre tradizioni nella lista dei beni da tutelare: si è iniziato con l’Opera dei Pupi, le coloratissime marionette siciliane usate per rappresentare scene dell’Or- lando furioso o della Gerusalemme Liberata. Si è proseguito con il canto a tenore, millenaria tradizione pa- storale sarda, con quattro cantori disposti a cerchio che si esibiscono in vere acrobazie vocali. Raccontano il mondo sacro e il mondo profano, i riti, le feste, la musica e le canzoni. Raccontano i misteri della vita e della natura, le guerre, gli amori, le leggende, le storie di Dio e quelle degli uomini, il cibo, il raccolto, la nascita e la morte. Dal 2013, l’Unesco annovera tra i patrimoni dell’Umanità anche quattro processioni italiane. Si tratta della cosiddetta "rete delle Macchine dei Santi", che comprende la Faradda de li Candareri, la Macchina di Santa Rosa, la festa dei Gigli e la Varia di Palmi. La prima, attraversa il centro di Sassari il 14 agosto, alla vigilia della festa dell’Assunta. I candareri, giganteschi ceri lignei, vengono fatti "danzare" sulle spalle dei portatori, tra una folla di migliaia di persone. La "Macchina di Santa Rosa", una torre alta 30 metri illuminata da luci e fiaccole, è l’orgoglio della città di Viterbo: per trasportarla serve l’aiuto di centinaia di "Cavalieri di Santa Rosa", i facchini vestiti di bianco trascinano la macchina fino al santurario. I "Gigli", invece, sono costruzioni in legno decorate con cartapesta, che spesso superano i 25 metri: la domenica successiva al 22 giugno, "bal- lano" per le strade di Nola, in provincia di Napoli, grazie alla forza dei "cullatori". Ogni giglio è realizzato da un quartiere diverso e prende il nome di una delle antiche corporazioni dei mestieri che animavano la cittadina nel Medioevo. Si svolge in Calabria, infine, la Varia di Palmi, che ricorda la volta in cui i palmesi aiutarono i messinesi durante un’epidemia, ricevendo in dono, come segno di gratitudine, uno dei tre Sacri Capelli della Vergine. La Varia è un enorme carro trasportato da 200 ’mbuttaturi, che rappresenta l’Assunzione di Maria. Anche altre tradizioni, in futuro, potrebbero diventare patrimonio immateriale dell’Unesco; gli esperti, però, sperano che l’Italia possa andare al di là di questo singolo riconoscimento, e agire seriamente per tutelare il folclore di ogni regione, restituendogli la sua vera natura di "archeologia vivente".

"La tradizione non vuol dire che i vivi sono morti, vuol dire che i morti vivono." dice Harold Mac Millan; per questo è importante il perpetrarsi di queste tradizioni.

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205 Note su ll’Aut rice

Valentina Neri è nata a Cagliari nel 1973 e ha conseguito la Laurea breve in Beni Culturali con Tesi di Laurea di Museologia su "Maria Lai: Ulassai e la Stazione dell’Arte" nel 2007 e la Laurea Magistrale in Storia dell’Arte con Tesi sul Restauro "Il Cimitero Monumentale di Bonaria: restauro, valorizzazione e fruizione". Ha organiz- zato diverse mostre d’Arte a Cagliari con le Associazioni Mescolarte e Il Grimorio delle Arti di cui è presidente. Ha conseguito diversi Master in Sceneggiatura, Recitazione Cinematografica, Storia del Teatro, Storia della Moda e del Costume, Storia della Fotografia. Scrittrice, poetessa, saggista, sceneggiatrice, Storica dell’Arte, Cri- tica d’Arte, Letteratura e Cinematografia. Nel 2019 è stata insignita da una Laurea in Lettere Honoris Causa dall’Ordine dei Calieri di Malta in gemellaggio con l’Università americana "The Costantinien" per meriti lette- rari e culturali. Estratti delle sue opere sono state tradotte in sette lingue.

Testi monografici

Per Arkadia, nel 2013, ha pubblicato il romanzo d’esordio "Le donne di Balthus" presentato a Roma, per la prima volta da Maria Luisa Spaziani sempre a Roma da Filippo La Porta durante l’ultima retrospettiva di Balthus. Finalista al Premio Alziator 2014 con autori del calibro di Nicola Lecca e Marco Missiroli. Ha ricevuto inoltre due menzioni d’onore al Premio Città di Cattolica e al Premio Albero Andronico, entrambi patrocinati dalla Presidenza della Repubblica. Recentemente, il libro è stato lodato dalla famiglia del pittore Balthus che lo ritiene una delle opere che valorizza maggiormente la poetica dell’artista.

Nel 2013 scrive i testi critici del catalogo della mostra New Frontiers organizzata dal Man Ray, esprimendo le proprie valutazioni artistiche sui più noti fotografi sardi: Stefano Grassi, Donatello Tore, Jo Coda, Marco Cera- glia, Davide Nonnoi e Daniela Serra. Voli InVersi", Arkadia anno 2015, raccolta poetica con prefazione di Davide Rondoni e post-fazione di Maria Teresa Marcialis recensito da Dante Maffia nella rivista Estroverso. "Folliame", La Vita Felice, anno 2016 con prefazione del poeta Claudio Damiani, recensita e apprezzata dai migliori critici italiani, finalista al Premio Città di Sassari. "Zodiaco", plaquette, anno 2017 Progetto Cultura-collana "Le Gemme" diretta da Cinzia Marulli e prefata da Maria Grazia Calandrone, presentato a Cagliari da Umberto Piersanti. "Cagliari, filastrocche e poesie per grandi e piccini", edita nel 2019 da Arkadia Editore è la sua ultima raccol- ta poetica.

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BREVE STORIA DELLA TELEVISIONE ITALIANA 182

LA MODA ITALIANA 184

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L’edizione "Italia la Rinascita" è stata realizzata da Memoria Storica s.r.l. nel 2020. La tiratura è limitata a settecentocinquanta esemplari numerati da 1/750 a 750/750. La Legatura in pelle ecocompatibile con incisione in oro è stata realizzata presso la stamperia RussArt 1961.

Questo volume è l’esemplare numero

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Il volume "Italia la Rinascita" comprende un’opera originale dell’artista

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