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1

RAPSODIE D'UN POEMA ALBANESE RACCOLTE

NELLE COLONIE DEL NAPOLETANO

TRADOTTE DA GIROLAMO DE RADA

R PF.lt rt'RA DI Ll'l K IH

NICCOLÒ Ji;V) DF/CORONEI

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FIRENZE IIPOIiRAFIA IH FEDERICO RENCINI

Via

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Clii volge lo sguardo verso l’ oriente, e con la mente

vuole correr dietro allo svolgimento ed alla attività della

specie umana, al suo intelletto presentasi il fatto, che in quel suolo feracissimo e lussureggiante di vegetazione, sursero

i primi uomini e la prima civiltà. E se per entro alla storia

e alle tradizioni fino a noi pervenute studiar si voglia, ve-

desi come di là i popoli si sparsero per la terra, e segui-

rono nel loro movimento il cammino del sole dall’est all'ovest: osservasi che vi furono grandi città e popoli commercianti,

ricchi e potenti, ora distrutti ; e continuando nella succes- sione dei tempi, scorgesi il popolo greco, a noi geografica- mente più vicino, libero, indipendente toccar l’apice nelle politiche e civili discipline, poi, a poco a poco, scadere infino a che miseramente soggiacque alla scimitarra turca: e la civiltà di quel popolo trasfondersi nel romano, il quale pria libero nell’ interno e vittorioso dominatore di genti straniere, poi la sua grandezza e le sue libertà perdere per invasione di barbari. Perlochè i popoli abbrutiti e schiavi addivenuti, libertà, e beni morali e materiali per- derono. Nel corso di questi avvenimenti anche nel levante, e

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propria mente in Galilea, sorge un nuovo Sole più grande

e polente, che, superiore ai terreni bisogni, infonde nel-

l’ animo dell’ uomo principii e sentimenti che lo ritornino

alla sua dignità, alla sua libertà, all’amore del simile; e

gli apre una novella via, certa e sicura di un migliore avvenire.

Questa vivida Gamma si eclissa c sparisce dall’ oriente

per venire in occidente. Qui i frutti della novella tra-

sformazione sociale vengon colti primamente dalla nostra

Italia, comecché, nel suo luogo primitivo, l’ albero inselva-

tichisse. Qui in occidente riposò, allignò, abbarbicossi, e

crebbe, e distese i suoi rami, che s’ inchinano e si rivol-

gono verso l’ oriente quasi desiderasse colà restituire quello che già prima ne ricevette.

Or sono quattro secoli circa c fra i monti dell' Alba- nia un popolo piccolo di numero ma generoso e Gero, animato dal novello concetto, fece sforzi inauditi per acqui- stare libertà, ed indipendenza. Ma, come se ancora non

ne fosse giunto il tempo, e che dovesse a poco a poco

la luce correre da occidente ad oriente senza lasciar vuoti

intermedii, l’ orda islamitica domò la poca gente, di cui

però non vinse la virtù dell’ animo, la quale dopo secoli ancor perdura incontaminata dall’alito pestifero, ed ha

fede di raggiungere il desideralo giorno, in cui vedrà

sgombro il suo suolo dal barbaro oppressore. L’ epoca di

tanta gloria ci viene dalla storia segnala col nome di Giorgio Castriota Scandcrbegh.

Egli è pertanto un fatto storico molto osservabile che il popolo albanese, dopo che 1’ uomo fu sottratto dalla schia-

>*-> vitù morale e ridonato alla sua dignità da Cristo, fosse

stato il primo, il quale animato da quella idea sublime

presenti la lisonomia di un popolo, che solleva lo sten- dardo della libertà e della indipendenza dallo straniero.

1/ Italia, I’ Elvezia, la Spagna con guelfi c ghibellini,

Digitized by Googte con la cacciata del tedesco rappresentato in tìesler, col soggiogamento dei Mori non hanno la medesima impronta.

Là tra i monti dell’ Albania quel pojwlo tutto con- corde aveva unico concetto, unico scopo cioè di sottrarsi alla dominazione straniera, e di esser libero nella fede, nelle opere e nelle aspirazioni. Nè poteva essere altrimenti. Noi non vogliamo inda- gare sulla origine pelasga degli Albanesi, e da ciò dedurre la preminenza su gli altri popoli in determinate cose e fra le altre nell’ essere più corrivi alle libertà. Ma dallo stalo presente esaminandolo argomentiamo di ciò che do- veva essere nei tempi di Alessandro, Pirro e Scander- begh. Di che fa testimonianza il vedere com’csso, quando il turco invase le sue contrade, emigrò in massa abbando- nando e suolo natio e beni, piuttosto che sotto la schiavitù.

Or bene, o che guardiate i discendenti di detto po- polo in quelli che rimasero a malincuore nella loro terra natia, od in questi che vennero a vivere fra gente più ci- vile, li vedrete conservare per secoli tutti i vizi e tutte le virtù di un popolo primitivo. Fra diverse genti man- tennero e costumi, ed abitudini, e vestimento : indole fer-

rea e coraggiosa : quella stessa lingua dell’ Oracolo di

Dodona, (1) e che più si accosta alla prima origine, sol- tanto parlata, senza dizionario, senza grammatica, senza scrittura c tuttavia ancora immota, salvo piccioli ed in- sensibili cangiamenti. Non altrimenti è avvenuto di quelli che restarono nelle

terre uatie. Fremono quivi e si agitano per iscuotere l’ ab-

bonito giogo. Qui, mentre si adoprano per la libertà ed indipendenza della patria adottiva, sentono ribollirsi il sangue, pensando ai fratelli che ancora gemono sotto la

(1) Dodona poi Bouditza posto in Tess.iglij ni piedi del monte Olimpo pres so ut lago di Giannina.

Digitized by Google oppressione, «1 anelano al giorno in cui possono quelli ajutare per iscuoterla.

Davvero che sembra l' Onnipotente nel cammino della umanità questo elemento di forza di popolo primitivo e vergine avesse voluto conservare per rinvigorire e spin- gere allo acquisto dei loro dritti di uomo quegli spirili più civili, che adescali dalle arti della tirannia, e dalle delizie di una vita di piaceri mal procurati, dimenticano la loro dignità, la libertà, l’ indipendenza.

Gli Albanesi, popolo semitico disperso nel 1900 a. C. al-

l’ epoca degli Hyckshos, che andò in Grecia, in Italia , ed in altri luoghi del Mediterraneo, nel XV secolo dell’era volgare fuggendo dall’Albania vennero in gran numero nella Italia Meridionale. Qui ebbero ricovero e privilegi dai sovrani di quel tempo, ma furono divisi per luoghi e paesi diversi. Presero stanza principalmente in Cala- bria Cilra come terra prossima al loco natio, forse nella speranza di potere un tempo con maggior facilità alla pa- tria loro ritornare. E qui il fuoco della libertà alimentossi da padre a figlio, con tramandare i Canti Nazionali. Ora fra questi canti nazionali degli albanesi, ci è accaduto di scor- gervi un poema, che narra di un popolo i tempi passati,

le sventure sofferte , e le speranze che nutre. E sebbene

(juesto poema disteso in canti nazionali potesse dirsi, ora che vede la luce per le stampe, un poco esatto lavoro di un popolo primitivo, pure vedesi condotto con arte tutta nuova, che nello insieme costituisce, pel concetto e

la struttura, una specialità nella repubblica delle lettere,

non difforme dall’ indole medesima degli albanesi, cioè dalla natura di un popolo che tutto ripone nelle sue forze com- plessive.

Nel poema infatti si mette in veduta una gente guer-

riera, e sventurata, che ha la coscienza del proprio risorgimento. Ma come costituire un poema parlandosi di

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un popolo senza la unità di azione e senza la figura di un personaggio principale? Eppure questa grave difficoltà

viene sciolta in un modo semplicissimo, dividendosi il la-

voro in tre parti, che sono, stato primitivo, guerra , sven-

tura e speranza. Nella prima parte, con diversi canti, si

espongono la condizione degli albanesi come si trova-

vano nello stato libero, i loro costumi, l’ animo indipen- dente. E qui è a notare che quel popolo non vien consi- deralo sotto quei tre aspetti per una semplice descrizione,

che sarebbe riuscito freddo e nojoso, ma vi si leggono

canti nei quali, mentre la poesia si sostiene nella sua

elevatezza, si mettono in iscena usi, ed individui infatti

certamente avvenuti, e di che noi, per la lontananza dei tempi, non conserviamo altra notizia, e che non sapremmo storicamente determinare.

Nel secondo stadio del poema si eccita più o meno

l’odio ed il disprezzo verso il turco invasore, s’indica lo stato della guerra, si parla di vittorie. Qui è appena

adombrato un principale personaggio istorico in tre fasi diverse, nella vittoria, negli sponsali, nella morte. Colui che diede nome all’ epoca, colui che riempì delle sue ge-

1’ sta Europa, che sempre vinse l’ infedele, colui insomma cui si deve il precipuo vanto della resistenza degli al-

banesi, e che per sè stesso può formare l’ eroe di un gran poema questi è Scanderbegh. :

L’ individuo però passa, e la nazione rimane, il poeta per non far assorbire i fasti, e le traversie della nazione dall’ individuo, l’ accenna, l’ indica, lo descrive, ma nello stesso tempo non lo costituisce come l’eroe principale, unico oggetto suo essendo il popolo.

E perchè si sono scelti precisamente i tre tempi delle vittorie, degli sponsali, della morte di Scanderbegh? Appun- to per non Scostarsi da quel concetto che è il principal punto avuto di mira, cioè la nazione. Difatti Je vittorie in-

Digitized by Google — 10 — dicano quel tempo in cui la libertà si sostiene, e si acqui-

sta a prezzo di sangue dei cittadini ; gli sponsali indicano il desiderio concorde di perdurare in essa raccolti intorno

ad un centro comune nei discendenti di Scanderbegh ; la morte, la speranza perduta, la libertà spenta, e per sif- fatto modo discorrendosi dell’ individuo non vengono meno la espressione, nè Io svolgimento nazionale. La terza parte sembra una bellissima e sentita elegia,

come quella che contiene i lamenti, i desideri e le aspirazioni

riguardanti la terra natia, e la fede di riacquistare la

patria , c l'indipendenza.

La varietà di canti, il poco lepme dei medesimi,

onde sembra che ciascuno stesse da sè, nei quali nes-

suna individualità occupa il primo luogo , cosa che

per altro avrebbe offuscato il concetto primitivo ch’era

quello di parlare di un popolo, vi dimostra in tutta la

sua nudità l’ indole albanese, oggi non dissimile dal pas-

sato, non serva, ma fiera, indipendente anche fra gli stessi

concittadini. Il poema dunque che si presenta al pubblico

olire una novità tutta sua, la fantasia, la varietà, l’ unità, la dolorosa commovente istoria di un popolo piccolo ma glorioso, rozzo ma tenace nei propositi, forte sostenitore delle sue libertà, sopraffatto dal numero non dal valore, pieno della speranza di non lontano e certamente migliore avvenire.

Questa dunque è la tela del poema albanese, che in- sieme col mio concittadino Girolamo de Rada intendiamo

dare alla luce : ed abbiamo entrambi credulo di far cosa

grata c ai nostri concittadini albanesi, pubblicando una

loro gloria, e alla letteratura generale, pubblicando un ignoto lavoro di una gente notevole specialmente pei suoi senti-

menti e le sue sventure.

Digitized by Googte — 1 < —

La lingua albanese è tradizionale: la qualità di popolo

dispersa ha esteso i suoi effetti fin anco sul linguaggio. Noi non abbiamo alcuna memoria antica delta scrittura degli albanesi, nè sembra che questa avesse potuto cor-

rere tutte le fasi delle altre scritture, cioè figurativa pura,

figurativa simbolica e mista di segni fonetici, ojeroglifica e da ultimo fonetica. Imperocché nessuno documento o

storico o grafico è giunto fino a noi. La civiltà non pro- gredita fra questo popolo ci conferma in tale supposto.

Nè qui noi dobbiamo esaminare se il linguaggio fosse rive-

lato, e quindi più perfetto secondo che è più prossimo alla sua fonte. Gli albanesi come lutti gli altri popoli riconoscono

la loro origine dalle tre schiatte che tengono a loro capi Sem, Cam, e Giafet.

Nella tavola di Baldassarre, come dicono le sacre carte,

furono lette le tre parole mane, techel, fare, le quali sono

parole allranesi, che oggi ancora esprimono ciò che allora

fu interpctralo, ma i caratteri di quelle tre voci erano Cal- deo-ebraici.

Gli albanesi, semiti, come tutti gli scrittori asseriscono, immigrati in Grecia, or dominatori or soggetti della razza

giapelica, non perdettero del tutto la loro egemonia , e

tennero saldo ed intiero la forma c l'aspetto nativo della lingua.

I greci, di cui la scrittura ha origine dall’alfabeto semitico e propriamente dal Caldeo-ebraico, nel linguag-

gio letterario trasfusero la lisonomia eclettica loro propria

per la quale alla civiltà pervennero in tutte le cose. Non

così avvenne per gli albanesi.

< Onde il più delle volle in fra me stesso sono andato considerando, come mai fosse avvenuto, e durasse ancora

questo fenomeno singolarissimo, che offre la sola gente al-

banese, la quale non può ad altre assimilarsi. Dispersa

verso il 1000 a. G. C. si vede correre |>ei lidi del Me-

\ V \

Digitized by Google diterraneo, in gran parte stabilirsi nell’Albania, e poi

continuare la sua emigrazione in altri luoghi ; per 4000

e più anni durare nella sua lingua senza mai ridurla fo-

netica, ma semplicemente parlata, non ostante che fra po- poli civilissimi convivesse, come furono gli antichi greci

e gl’ italiani nelle belle lettere, ed in ógni altra manife- stazione intellettuale avanzatissimi.

Questo fatto invero è degno di richiamare 1’ attenzione

dei dotti, che di tali cose si occupano. Imperocché a me

sembra che il linguaggio albanese non fosse meno antico

del sanscritlo, e che non possa annoverarsi fra i dialetti

della classe illirica. E ritornando al proposito dirò, che con l’alfabeto

greco non puossi in tutto esprimere la pronunzia albanese

senza l’aggiunta di segni speciali.

Ed in vero gli albanesi ritengono ancora tutte le in- flessioni e suoni delle lingue primitive, che non hanno seguito il progresso dei tempi. In essa trovate le aspira- zioni tenui ed aspre, guasi il ain degli ebrei, se forse non hanno tutte le quattro aspirazioni di questi, tre son certe ritenendosi l’o come la più dolce aspirata in tutte

le lingue ; evvi il d dolce, ed il d forte ; lo z semplice

1’ e quello come l’ ebraico tZade ; e muta simile alla fran-

il al gli cese ; th simile e greco, o Ih inglese ; il chi, , glio, che suonano come chiesa, gli (articolo), loglio, in prolungato italiano, o x«i e Kupte in greco ; il suono delle vocali quasi note musicali ; l’ accento infine delle pa- role, e via discorrendo.

I greci al presente usano le lettere del loro alfabeto per la scrittura albanese, non essendo questo che uno dei modi adoprato nello scopo di assorbire questa gente, e togliere la più piccola ombra di divisione fra loro, ma impertanto debbono aggiungere altri segni alle loro lettere per indicare il suono, che vi si deve dare, e con tutto

Digitized by Googlé — 13 — questo non si raggiunge lo scopo. Citerò in compruova l’ esempio di birit figlio, il greco scrive mptr, ed ognuno sa che il « greco non corrisponde al suono del b latino o p greco; che se vi si nota il punto sopra, ciò che nell’ alfabeto greco non esiste, tanto vale porre qualunque altra tutta nuova. L’ albanese dunque non ha alfabeto a sè per quanto da noi si sappia, o che si fosse usato in antiche scritture ed atti pubblici.

Fra noi italo-greci il libro più antico, che io mi sap- pia, è quello che conservo, cioè, un dizionario albanese- latino stampato in Roma nel 1635. Evvi pure del secolo passato un’ ordinanza militare, sebbene mancante di pagine, stampata in albanese-italiano pel reggimento reai Mace- done, che serviva nell’antico reame di Napoli, non che il Variboba, anche dello scorso secolo, il quale pubblicò alcune poesie sacre. Le quali opere sono in caratteri latini, meno alcune lettere o segni aggiunti secondo il giudizio, e la volontà arbitraria dello scrittore, come si è fatto da lutti coloro che nel secolo nostro hanno pubblicato un qualche scritto albanese. 11 Signor Girolamo de Rada versatissimo nella lingua nostra, e principale, anzi direi unico, raccoglitore di questi canti popolari, si sta di proposito occupando per ridurre l’ alfabeto albanese fra i limiti dei principii filologici uni- versalmente accettati.

Italia. — S. Denteino Catone 18*5.

NICCOLÒ JENO DE’ CORONEI.

3

Digitized by Google Digitized by Google GLI EDITORI

Questo vecchio quadro e schietto del nostro vivere se non avesse che un’ importanza poetica non oggi avrem noi a scovrirlo al lume; perchè lo esporremmo alla di- sattenzione. Ma esso ha ornai una troppa opportunità poli- tica, che non permette, poiché ne abbiam disepolte quasi tutte le parti, il tardare a mostrarlo. Nissuna cosa può rilevare oggi l’Albania alla fede e alla virtù de’ nostri maggiori, quanto questo poema coevo a Scanderbegh, e che contiene le storie de' cavalieri Albanesi potenti mar- tiri di Cristo e della libertà. Quando gli uomini eh’ ebbero lottato per generosi affetti, sien caduti sotto l’ avversa pie- na, e la terra ne resta priva ed esausta: allora alcun compagno delle loro aspirazioni sorge ordinariamente a rattenere, direi, dalle ruine le imagini di quelli e la idea; affidandole al canto od alla storia. E così esse divenute esemplari alle venturo generazioni, cresconle e rilevano ad eguali fatti: intantochè alla gente, di cui sono, inse- gnano sì li propri nemici, sì gli esteri impedimenti ed interni che resero vani i grandi moti antichi. Forse è legge del mondo spirituale, quella che alle grandi epoche prati- che fa succedere, collegando, i monumenti immortali del pensiero restitutore di vita. Un nostro defunto compatriota che raccolse dalla bocca del popolo parte de’ canti di questo poema, Angelo Basili, diceva « venire essi ad empiere il tempo che da Dante

« e Petrarca scorre insino all’ Ariosto. » Ma un giudizio sicuro non può farsi di questo poema, inanti che intero e

Digitized by Google — ir» — schietto sia con sue frasi e con suo ordinamento restituito al primo essere. Gli onorevoli nostri connazionali, che fecero di raunarli , furono sì animati dal solo pensiero di ritrovarne la lezione più antica e genuina : ma oltre alle lievi mutazioni si facili in opere eloquenti affidate al canto e alla memoria, se n’è forse seguita ogni traccia che può rimanere in ciascuna colonia d’ Italia ed in Alba- nia? o non vi è stato oblio di versi, di squarci, anzi di canti interi, con mescervisi per l’ opposto di rapsodie po- polari difficilmente mai separabili? E poi nel raccoglitore la tentazione d’aggiungere un qualche verso, d’ empierne qualche lacuna fu vinta sempre? Noi pure, se non am- mettemmo nissuna lezione che con persuasa coscienza, nel dare un ordine a’ sparsi avanzi del canto, giovati poco dalla divinazione artistica, seguimmo semplicemente la suc- cessione che a noi parve degli eventi che ’n esso conlen- gonsi: e così crediamo avergliene dato uno prossimano a quello che gli fu proprio. Ma non dubitiamo che in altre edizioni a venire, al- cuni canti riappariranno meglio puliti, di altri si rinver-

ranno le parti mozze, od alcuni or ignoti si conosceranno: e più integro, forse più vicino alfordinamento natio, ap- parirà in sua vera eccelenza questo monumento nobilis- simo del medio evo orientale.

ALFABETO ALBANESE

a, e, i, o, (come, in flyy dorme myy più), ù muta Vocali u y, , (come in lavam dèrSiitin riversarono). Consonanti. Labiali, tenue b, forte p, aspirate f, v. Gutturali tenui g, x, j. forti c, aspirata x, molle k

Liquide tenui l, m, n, r, molle Ih (come in Sélhpyr. volpe).

Dentali, tenue d, forte fa, molli %, 9, aspirata 6.

Sibilanti, tenue s. dolci sh ( come in shpon perfora in sheon passa ), sg simile al j francese ( come gerasgd presepe). Aspirata h.

Digitized byTJòogle LIBRO I.

Canto I.

Biéta clicce t shùrffuris, Comperai delle chiavi sorde.

E nd’ nattù t’ érrùty£ Ed in notte oscura

Cappa dèren Schlavunit. Apersi la porta dello Sclavone. (1) Illra 8eel ndù camaryt Entrai dentro e dentro nella camera,

Me dritten e hynnies ; Al lume della luna,

Vòftt e vashùzyn mb’shtrat’ E rapii la fanciulla in letto

Gicaran me Ihtgnùzyu ; Nuda in camicia : Mosgnerii e nynchy m’paa E nissun uomo mi vide

Mosse £ògca pizzuveerft Fuor che la mèrola dal giallo becco. — Mori zògca pizzùveerS; — 0 augella dal becco giallo,

Miir ti mos e calii£òsh: Fa’ ben per te se noi palesi :

Se u edii cu byn folheen Ch’ io ’l so dove edifichi il nido

t’ Vette e my e shcalmògn ; E andrò a guastartelo ;

U c dii cu ti culossyn lo lo so dove tu covi

Vette e my t’e pyrsù lògn. E andatoci passcrovvi il fuoco.

Canto 11.

Ngcryitin gnu shatoree Alzarono un padiglione

Duart e Fatie t’ haar& Le mani di Bianca Fata.

Fiettat iin mundafsh tù gool Le tendine erano di seta dilicata Me t’rùgkiyynt ilet e nattes Con argentei gli astri della notte ; ;

E axuta cy i frlnej mbrynta E l’aura lene che spiravavi dentro

(4) Questo canto non ha segno di generali idee, quali raccbiudonsi nelle poesie dello del popolo ; dacché contiene un fatto reale precisato dalle circostanze

Sclavone, della stagione e dell' ora mattinale quando il merlo é desto. Ponem- mo questa scena innanzi a quelle ove l'autore ebbe conosciuta la figlia di Pie- gli amori suoi vaghi in Lei, e per sempre. tro Slitrori ; perché acquctaronsi poi

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Ish maal e lhimontii : Era amore ed ozio molle; Attie vasha lhoddùnej Ivi la vergine danzava, E buttò me gn’biir gotti. Mansuefatta, con un figlio di Signore

Sishit mech e fisnej trimi Da’ lumi onde afflssavala il garzone

Drittòsòi Rifulse l’ aira ; aere ;

Ty késhurt eh’ i prùari vasha Del sorriso che gli volse la giovane

Lhulhògòi cumbula Fiorì il pruno E tyrjórtur kielgós, Effigiato pel cielo del padiglione,

Ngcraagh e i shtuu lhùlhet ebàrSa. E a lor su gli omeri piovve bianchi [fiori.

CJanto JUL1.

Lhuan’gnò vash me gn’mool, Giocava una fanciulla con una mela, Shtiij pyrpièlh e priir ndó gkii. Gittavala in alto e coglieala nel seno.

Canto IV.

Mélhet é Pietyr Shtròrit I.e montagne di Pietro Shtrori Ncarconshin aky me boor Caricavansi sì di neve Sà me shii e mifegeul tù ndyndur. Sì di pioggia e nebbia folta.

Miègcula stissi folheen, La nebbia edificò il nido,

F. folhea chu stisnej E’1 nido ch’edificava àri; E pixur me driga Era intessuto di festuche d’ oro ; Veet chy ndygni e byri Le uova che vi pose e vi fece

Iin fluròme t’ èrta : Erano bolle d’ oro : Zogkut prà, ch’nztìri véshit, Gli uccelli poi che sgusciarono dalle

[ uova Dùaltin me lhafshe t’aart, Eruppero con le creste aurate E me cràghògit té rògkiyynt. E con vanni d’ argento. Cilr chòntuan atta gogko’, Quando cantarono quegli augelli, Era cy sheonnej ndyr fiettat L’ aura che passava per le fronde Kynlròi e gkiégko’nej. Si tenne ed ascoltava. Ty chiintùar nkielshit Canto da’ cieli Nkielshit e cheku t’yndom; Da’ cieli e troppo delizioso; Sà pryghej e mirr’ vesh’ Sì che cessava con riposo e dievvi E bilha e Misistratit La figlia di Misistrati [ascolto Nd’att’cù rriij e piéxonej Là dove era tessendo Ty shtrùame me cater fàke. Un tappeto a quattro facce. Zógna tech e para fake La patrizia nella prima faccia

My kinlissi goon e sai Effigiava il signor suo

i lato Me t’gkià shatter mb’ aan ; Con tutti paggi a un ; Prana tech e dita fake Poi nella seconda faccia My kintissi vetheen M’ effigiò sè medesima

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d’ intorno le Me arròtula criattet ; Con damigelle ; Ajo tech e tretta falte Ella nella terza faccia

My kintissi dìelin Effigiò il sole

tiij Coi tanti raggi suoi Me aku rympa£it e ; ; Po tech e catària fake Ma nella quarta faccia My kintissi alt’ gheen M’ effigiò quella luna

E barSfen si vasha e sai, Candida quale la vergine figlia sua, J' e rrieStir (si yy penindèsh). E circondata (com’è principessa) llhù£ish chù ncà goor Da stelle, quante ogni città

Shégh te mbrymia e sai. (1) Mira sorgere alla sera sua.

E i rréfli me miégculyn E cinse le figure con la nebbia

Ncà gappùjin gieOet £ogkùt Donde aprivan fuor l’ ale gli augelli dalle Chy ajo nzòri vèshit, Ch’ essa edusse uova ; E cà e Béla ashtù chóntòjin, E che da’ profondi di quella così [cantavano

Shpiil e me garee i mbiojin. E le stanze a Lei di gioia empivano.

(Janto V.

Cu blu? cu blu nerynza? Ove nacque ove nacque l’arancio?

Biu nd’ £aalt détit : Nacque sulla sponda del mare :

Mosgnerii c i chish cuidès E nissun uomo ne aveva pensiero Mosse e bilha e £ottit maft Fuor che la figlia del gran signore. Vinnej pyr menattie Veniavi di mattina M’e tagkisónej c potisónej Lo nutricava ed innaffiavalo

Prà vyghej e i chóntorinej : Poi ponevasi a cantargli :

— Rritmu ti nerónza Imme Crescimi tu, arancio mio, Shpiju Ihart e lhart gnùghère T’ estolli in cielo in cielo presto,

Shtij deegch durruSiare Spandi tuoi rami folti fronzuti

E bym’ xè£yn tu ndyndur E fammi l' ombra densa Pyr bulhaar e bulhórésha. » Per cavalieri e dame. # Sà e vógchylh ish nerynza Quello che era piccolo arancio

1’ Chekù t' maSe byri yeen ; Troppo grande fece ombra : 1 Tech vuu triesen £otti maò A cui pose sua mensa il gran Signore

Cùr martòi t’ bllhò£yn. Allorquando maritò sua figlia Ishin poltra e £ógna Eranvi signori e signore Mbl palhàzt e Sopra tappeti di seta mundàfsha. ; llrljin rot acòlhò£it, Stavano attorno i paggi Po me shapùchen mbò door; Ma co’ cappelli in roano

E i bfjin kiOàravet, E sonavansi le cetre,

(4) lo non so che altro cavaliere o poeta descrivesse mai con genio idolatra della lieltà il blasone della sua dama, come l'alto stato e lo stemma della figlia di Pietro Shtrori sono configurati in questo magnifico Canto. Ang. fiatiii

Dìgitized by Google , ,

— 20 —

Ture ngcryyn e ture piir. Mangiando elli e bevendo. ma^èren mbrfc£ Ncà ?ot ; Ogni cavaliere la spada al fianco, Ncà £oogn te cragu sai Ogni dama con a sè allato

Gny t’ bilhù£yn copilhe, Una figlia giovinetta,

mb’ door dialky t’ buccur E ’n braccio un parvolo E ; grazioso ; Ncà vash gny unaa£ E ciascuna giovinetta avea un anello, Ncà diaalh gny neryynz, Ciascun parvolo teneva un'arancia, Nd' airit détit. D’ incontra all’ aure del mare.

Canto VX.

[Pare che la figura antecedente dell' Arancio comprendesse in un

allegoria e Carnata , e la casa di Lei (forse legata al Gran signore di

Costantinopoli ) e alcuna letizia delCAlbania sperante libertà da questi legami e che il figlio di Fughe che palese, in quelle feste, C amor ; fa suo per la Bella, tacita prima come lui, sia l' ignoto cantore di queste storie.]

Mbre i biri Fughies Or ve il figlio di Fughe Ture vattur ruugh’ mbó ruugh Discorrendo di vico in vico Me chùsuulh stvel, Con la berretta fin sovra gli occhi, Shtylòi nerynzien Slanciò l’arancio;

E m’ i raa s’ buccurys E colse percotendo alla bella Ndy door e ndùr lórù£it, In mano e alle braccia Tech mù rriij e teriorissyn Là ove stava ricamando E cumbist’ kélhkevet Appoggiata alle vetriere Kélhkevet tù pégerit. Alle vetriere del verone. U tramax vasha e sbariffar; Trabalzò la vergine imbiancando;

Ma a pùrgkiégk’ e j’ yma : Ma rispose sua madre :

— Ravt dóra, i Ihùmi trim, — Ti caggia la mano, baldo garzone;

Cy nT i ree btlhós imme Che hai percossa la figlia mia Ndy door e ndyr Idròbi: Alla mano e alle braccia.

ti £ùgna m’ yym — Non maledirgli signora madre; — Mos e nym ; As paa, e nynch ftessi ». Non vide, e non ci ha colpa ».

E atto vréti mby t’ késhur. E lui afllssò sorridendo.

Canto Vii-

Lhàrt te ciucca c gnii rà^i Aerea su la vetta d’ un monte

Ish gnu shésh me gny aarr : Era una pianura con un noce : Attie briS'in £àra£it Ivi solazzavansi le streghe Zàra£it me Dréke£it; Le streghe con le Drèkes ; Byin e Ihich po myy se miir. E facean male più assai che bene. NdòSi e vatte nd’ atl’ cozz’ Venne che ascese a quel fastigio

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Vasha c pà-dime. La vergine ignara. Zara£it e ròStin Le streghe la circondarono E róStin c robàitin, Circondamela rattenendo, diti’ dii vieti Nyynt o ; Nove giorni e due anni ; l'rà mbù shpii gnihèrie u gkiett. Poi a casa in un punto ritrovossi. Gnu trim pas e pas gnu £ogchc Un giovine dietro e dietro a un uc-

( cello Hòlhki gnéra nd’ atto shésth, Trasse insino a quella pianura Tech Dreke^it mhù rré8 Ove le Drekes in cerchio

J’ u byyn ej e mbàitin Fccerglisi e ’l rattennero Nyynt diti’ e dii viett’; Nove giorni e due anni; Prà nd’ shpìi gnii-hérie u gkiett’. Poi in casa ad una volta ritrovossi. Cùr tù dici ndù kish u paan Quando, la domenica, in chiesa [essi vidersi

Prà ra’u gnoogh’ si t’kyyn bashc Ben si conobbero per come stati in-

M’u gnoogh e u Ihuttùtin. (4) Conobbersi e si disiarono. [sicmc

Atti ctu e trimi t’ i fjittu E là e quà poi il giovino a poterle Prà t’i fjitt’e ty m’e chésh: A parlarle e ad averla; [parlare Gnéra cy u pyrpòktin vettym Fino a che incontraronsi soli U purpòkùtin ndai gn' lhuum. Inconlraronsi vicin d’ un rivo.

Trinai e £uu e my e pù8i Il giovine la prese e baciolla E pù6i ndù bù£iet Baciolla in bocca E ndyr dii fàke£it. E nelle, due gote ; Vasha gkit eS'ùrme, La vergine tutta vergognosa

Nd’ ui vyrvitti fakien Nell’acqua immerse il volto

il E lhàiti tù pùOurit; E lavò bacio ;

Po m’ncùki ùi8it. Ma ne arrossi l’ onda. Cùrna ncà gòra apòshtag Quando dalla città sottostante

Dùaltin graa tù Ihàjin shkyntct, Usciron donne a lavarvi i panni:

Mbeer t’ i sbàrSÙjin, nciikùshin Invece d’ imbiancare arrossavano camicie, che poneanvi Lhtgnyt chy attié Ihàjin ; Le a lavare ;

Còpshtet cy potissùshin I giardini, che vi s’ annaffiavano, Byjin flettaci tù còke; Facevan sue foglie purpuree; Zógkùt po cù pttin ui Ma gli uccelli che bevvero del-

Bìiartin fyrshùltm$yn. Perderono il canto. l’acqua [

(4) Lasciando che al lettore sia avviso si della verità, con che in questi primi otto canti son riflessi 1’ andamento e ’l mistero dcU'amorc, si dell’idea del castello Atalanta, che vi potè essere attinta: credo utile notare, come Dre- kejjit, nella tradizione albanese, sieno delle donno soprannaturali che vengono fuori la notte ed alle sponde de'flumi del mago d’ Ariosto lavano lor lunghe poppe, pcrcolendole a' massi. Queste, il cui nome è appellativo di esseri sini- stri, ben qui messi d'incontro alle streghe, sono con poco fondamento dal mio amico sig. Dorsa tradotte nelle Fate, Dive benigne (V. i suoi studi elim : della lingua Albana]. S

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Canto Vili.

Gki6 suvàlha i noiiari mb’aan Tutti l’ onda rispinse fuora

Trimmat cy lhùajin mbù not’ I giovani che sollazzavansi nuotando

Pyr ndù mést détit Per mezzo il mare Ndy gn’ ditt vérie In un giorno d' estate ; ;

Trimin e s’ buccurys II garzone della bella,

Atty mh'aan nynchy e nzuar Lui alla sponda il flutto non ispinse.

GkiO Oirtin me gn’gcoolh Tutti gridarono d' una voce :

« Shen Morii mbittie ». « Santa vergine annegalo ». Tech po e gkiégk ebuccura Ove però la bella udillo, U ngcré chék e baarfr e baarS Levossi tutta pallida pallida

Tùre IhiSur schemantiilh. Legandosi il velo.

ErO jasht e u shtuu nd’ ui Venne fuora e gittossi nell’ acqua

Ja e rruu trlmit sai. Raggiunse il forte giovin suo.

— Se trime i llnlmi trim — Ma giovine, venturoso giovine, Zilhi gkiuu m' t’ u pyrgkiuu ? Qual de’ginocchi emroiti vacillato?

Zilhi cragh my t’ u pyrtrùal ? Qual braccio mi ti è prostrato? — Né cràgu raua m’ u lhò£, — Nè a me'l braccio è venuto manco,

gkiùri il Nè my u purgkiuu ; Nè ginocchio mi si è piegato, Po désha tu shighia Ma volsi io vedere Vehmeen è shocchòvet. L’ interna anima de’ compagni. Ilolhki eSieel vasha te shùra Trasse serena la vergine al lido Me pyrdórìe £oon e sai. Tenendosi per mano al signor suo;

Canto IX.

Indicar dovea questo canto alcun nell del- / mutamento animo !' amata o sospetti affliggenti del poeta legandosi a’ seguono.] , ; fatti che

Durò £ymer e durò. SotTri, o cuore, e soffri Sà duròi màlhi me boor. Quanto ha sofferto la montagna con neve. . , [

Canto X.

Vinn’gnù trim £à!it lhùmit Veniva un garzone per la sponda Vinnej tue pianepsuriO. Vagando e cacciando; [del fiume dissegli M’ u pyrgkiégk gnu ndalanishe : Proruppe e una rondine; Nda: Ndó pianeps nddmos ti trim, fio : Per uccellar che tu faccia o giovine [ hai cd un altro; ESb chyt muaj e gnater ; Anche questo mese Prò dòra tùmbighiet Poi la mano divcrratti torpida

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— 23 —

Gkiùri ty Iheoossiet. Il ginocchio ti languirà.

Tri: E ncà e dii ti, e mièra £ogche, Giov: E donde il sai tu, povero [uccello.

Fattili e gneriut ndù Stee ? il fato dell’ uomo in terra ? Nda: Fiulurógn u nkielshit, Ro: Volo io pe’ cieli E shógh dréposht e laargh. E vedo giù e ben lungi.

Tri: E cti pee tù fattit’ imm ? Gio: E che hai veduto del [destino mio?

Nda : Pee gn’ malh tù 0eel tù Ihart, Ro : Vidi un monte profondo, [altissimo, Mosgnerii e mund e shcashònnej; E nissun uomo potea valicarlo

Ndalandishia vettym e shconnej : La rondine sola il passava:

Kenni Turch e shchélhi e shcoi, Il cane Turco, che l’ebbe pesto e [scorso,

Shchèlhi e shcoi e byri shésh. Pestolo e scorso il fece un . Nd’ alt’ shésh tù gàpurin In quel piano or aperto

My u bii còkeja piéshch. Germogliò il seme di pesca.

Vette vièn piaccu i £éshch Va e viene il vecchio gramo Ni me aar e bulhùrii Or con oro e nobil compagnia

Vette vien ncà Venetia Va e viene di Venezia ; Shuum e indighùgnyn gkùrii, E molti favoriscono parenti

Gnéra pièshchen ai tù mbieeS Fino a che la pesca ei si colga E t’i pryghiet mbù *ee ». E vi si posi all’ombra. »

Canto XI.

[ Il fallo qui esposto è palese stare in un tempo anteriore alla comparsa di Scanderbegh\ quando T Albania uvea presidi Turchi. Forse gli dierono causa gli spiriti di essa già sollevati: talché può riguardarsi quale un preludio del rivolgimento che sopravvenne.]

Byri chùshiil Alìbeccu Fece disegno Alibech,

Po me bulhùriin e tij Già uditi i nobili del suo Consiglio,

Ty vei t’ i bynnej SUun Di venire per far vergogna Gnf bulhàri t’Arbrèsh. Ad un bugliare Albanese. Cunetta e Milo shinit La cognata di Milo Shini Po ajó ish gnù noitèsh, Ma ella era piena d’ogni avviso,

GkiO fìàlhyt e i chish ndùr vésh; Ogni detto veniale all’orecchio ; Natten as kùlonnej gkiuum La notte non pigliava sonno Lbart e posht ndyr càmarat. Su e giù per le camere. Gny diti’ prà gkiymy tù làrga Un giorno poi tuoni lontani Gkiegki e buccura pyr-mbrynta, Udì la bella da dentro, Gappi pégerit e rùgkiyuta Aperse le finestre argentee,

RòSi e vrap tcch i cunatli. E corse precipite al cognato:

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— 24 -

— Milo shin cunatti imm’, — Milo Shini cognato mio, Gkiint e maad? noi viene; neve na vién ; Gente numerosa a Gkiégkie quélli cò hinclògnon Odi cavalli che nitriscono Petticògn cò troculgoyn, Ferrate zampe scalpitare Max^re cò trinlòlgnyn. E spade che tintinniscono. Baan se yy £otti Alibcch Dissero che sia il Signore Alibeeh,

C’er6 tij mo ty t' vras, Che venne te per uccidere Mua prà tò my rròmpégnyn. » Me poscia seco prendere.

Mi: E bàrSu cunatta imme Mi : Bianca cognata mia,

Mirr’ ti cliccety ndò door, Mettiti le chiavi nella mano Calaru catòkevet Cala ne’ bassi dalla casa, Zé véry trivilheshit, Attignimi vino dalle botti, Prà mbìlu ndò camaryt. » Poi chiuditi in tua stanza. Muar ai cuppenò me veer Prese ei la coppa piena di vino

t' la fa pianti, E maxèren mby claar ; E spada che

Càlhùar te mùrgiari Poich’ebbe montato il palafreno. Dùal pyrpara te Alì-beccu. Uscì d’incontro ad Alibegh.

Milo: Miir se ai vién cushy do vién. Milo : Ben viene chicchesia che [a noi venga

— Ty vién £otti Alibèch. — Vienli il Signose Alibeeh; Mil: Miir vién, £otti Milo: Ben vieni Signore Alibeeh; Aiibéch ;

Hùam c £ymren cy t’ siel : E dimmi l’animo che ti conduce:

Do ti cùpenò me veer Vuoi tu la tazza del vino

0 do shpattyn mby t’ cjaar? 0 vuoi la spada che fa pianti. — As dua cuppenò me veer (I) — Non voglio la tazza con vino

Myncu shpalten mby t’ cjaar : Manco la spada traente guai: Dua, e marr u tyt cunatt'. » Voglio c prenderommi la tua cognata. Trimi gkiò i$ùrmi6 L’ eroe tutto arrossito Piu cuppeny me veer Bevve la tazza con vino; Xolhk prana shpattien Trasse, indi la spada

i ferìgli ’l : E Ihavossi £ymren ; E cuore

M’ i raa po 5b shòchòvet Percosse anche ne’ compagni di lui Mby t’vraar e zòniiari. Uccidendo e piagando.

Te tréxu i vettòmi, Nella piazza fatta deserta Gùr u prùar mbt Alibéccun, Quando tornò sopra Alibeeh,

c m’ preu criet, Prese c gli tagliò il capo, Mòri i

E vuu ndò inaalh tò shpatties : Confìccollo in punta della spada. Folhi gcjùga e Alibeccut Parlò la lingua di Alibeeh

Po attfei e hòlhmiiar. Di là sopra, afflitta:

— Ty rùagn te fatti imm’ — Riguardi nel fato mio,

(1) A commento di questi duo versi, noto le seguenti parole di Maltebrun

(Geografia L'niv. !.. CXIX ) « I consigli rustici delle cette o fare nelle monta- gne dell'alta c Media Albania deliberano con le armi in una mano c la coppa nell’altra ». Vis Possa.

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Cush tu cheet mby £ilhii Chi invido agogna

Gerùan e shoccut tiij Alla donna del compagno suo. .

Canto XII.

Lhussi vasha t' yyn £oon, Supplicò la donzella il nostro Dio

Ty bljin trii picca shii Che facesse cominciar a piovere,

Trimi t' inos i vei ndù gucrret. Sicché l'amante non le gisse alla [guerra.

Tri: Ndó Ihussyn, ndó mos ti vash Giov: Sia che preghi, sia che no tu donna, [ Prà cù gkiyy my sy m' mbaan Poiché nulla più mi rattienc, Mos sot, nessyri 6 Se non oggi domani U ndù guccrr vettie. Alla guerra io me n’ andrò.

Va : Po ndó <5fcet cu ti tu vósth Don: Ma, nel paese ove tu ten’ vada>

Triesen cush my t’ e shtròn Su la mensa chi ti spiegherò Me stiavucche tilaganni Tovaglie di Fiandra, Si ishie mbùsùaritì? Siccome n’ eri accostumato ?

Tri : Nd’at’ Sfee cu vette vet’ Gio: In quella terra, ove andrò io, Triesa mua mù shtronniet La mensa a me verrà parata Por ashtùS e myy miir. Di quel modo e pur meglio.

Va : Se m’ mirrié me vetheen Don: Se avessi a menarmi teco,

Shtrattin vet t’ e shcrilìa, Il letto io stessa ti spiumaccerei

Triesen t’ e gappia La mensa ti apparecchierei, Ndy £acoont e vcttjùes. Al modo a cui se’ uso.

Tri: Nd at’ 9p,e cù vette veti’ Gio : In quella terra ove andrò io,

Shtratti po m’ shcrifiet Il letto verrammi spiumacciato,

Si ncà ti, e myy miir. Come da te e pur meglio.

Pia: Aghiera me nymen t’ imme Don: Allora, con la maledizion mia

Vash ti, £ot, e u martòsh. Vanne, Signore, e pur t’ accasa. Ciòsh nusse tù vògchùlhyn, T’avvenga in moglie di poca età, Vièghùrryn magkistùrlhyn, E ’n suocera dotta nell’ arte maga

Cy t’ magkiépst càlhin Che l’ incanti ’l cavallo,

Por, si caalh, fife vetheen. Siccome il cavallo, anche la persona.

Bieerr e ndèrieu ndyr shoct, E, perduto l’onore tra i compagni,

M’ u pyrjérsh ti drék e prap Mi ritorni tu dritto in dietro E pà-metta ndù calund; E di nuovo in patria; Mua po m’ciosh martùariO Ma me ritrovi tu maritata Me gnù biir diàlhù mbu door; Con un figlio maschio ’n braccio;

E tù Ihossùeha £ymren E ti sciolga io il cuore

Si m’ piasse t’ immlen. Come hai spezzato il mio.

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Olinto XIII.

[ Si può credere che la figlia di Pietro Shlrori venisse ad essere impalmala a qualche ricco ma vecchio signore Veneziano (\. can. X. lib. 1. e can. X. lib. II.) e che ciò inasprisse i rapporti de' due amanti. Quindi le gelosie ed i divagamenti del cavaliere qui delineati con tratti s\ brevi e potenti; e a' quali sovvienti spontanea la scena di Àlandricardo e Doralice].

Chéshia u vyyn postien Aveva messo io le poste Posticn me nyynt shoch. Lo poste con nove compagni. Cùr vaita menattiet Quando andai la mattina

Postien u nynch e ciova. La posta non ritrovai : Po gnotta e vignimi® Ma eccoli e vengono VignóniO me nyynt pélha Venivano con nove cavalle Nyynt pélha e nyynt sélha, Nove cavalle e nove selle,

E t’ Slettùten gnu vash. E decima una giovane donna. US'ies prà ncà vijim, Pel sentiero poi onde venivamo, U pùrndài atty copilbe Io allato di quella vergine

Ture 8yyn e i tértur Ihottùt, Parlandole e asciugandole il pianto, Tech e ngcushtia na u pyrpòku Nella stretta in noi scontrossi Curtia e Arminoit. (I) La corte di Arminò.

Cur : Cu i vòòtit chyto pélha Cor: Dove avete rubato queste giumente [ Chyto pélha e chyto sélha? Queste giumente e queste selle?

— Por già na ’s i vòStim — Ma noi già non le rubammo Chyto pélha e chyto sélha, Queste giumente e queste selle; Se ctó m’jaan paalh, Ché esse mi son dote

e t’ cunettùve Dote da’ Paalh Im ; miei cognati ; Chyjo vash ysht imme googn. Questa fanciulla è la mia Signora, Cur: Ezzùni prà me t’iin-goon ». Cor: Itene or pur con Dio ». Canto XIV.

Gkymoi gkùmoi màlhi, Tuonò, tuonò la montagna, My gkómòi nyynt heer Tuonò nove volte

i te gittò nevi E m’ shtuu nyynt boor ; E mi nove ;

Prona u dùlhiir ditta. Poi rasserenossi il di. Shchéptin e akù dieia E rifulsero altrettanti soli

Ihùstin liquefecero la neve : E m’ e bdrien ; E

(4) li nome di Arminò ritorna nel canto XVIII del lib. II. Da questa parte del poema parmi che traspiri l’agitazione di aspettate novità e ’nsieme il co- minciamento d' alcuna guerra, probabilmente di quella in cui i Turchi, per la defezione di Scanderbegb, furono rotti dagli Ungheresi. Tradut.

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E sbulhùan vasilhicoon E discopersero il basilico

Myntùr£yn me majoraan. La menta con l’ amaranto. Dual vasha me nyynt criatte Uscì la giovane con nuove zitelle

Ty tùgamijin zaffaraan E coglievano il zafferano

Myndùrjyn me majoraan ; La menta con la maggiorana,

- Byjin tuffa e nztrin mb’uuS . Ne facean mazzetti e ponevanli su

la via. [

Attèi shcòjin ushtùrtoort. Di là cran passando i militi:

Shcoi i pari ushtùrtùar Passò il primo soldato

Tuf Ihiilhe nynch muar ; De’ mazzetti di fiori non prese,

Shcói i diti ùshtdrtùar Passò il secondo soldato

Tuf Ihùlhe nynch niùar : Mazzetto di fiori non prese :

Shcòi prà £otte i calhoor, Passò quindi un duce a cavallo,

SdròS'i calhin e i shchélhi. Svoltò il cavallo e pestelli. Ajo foormaffe vash Quell’ altera vergine

Aghier £uu e m’ i vuu nyym. Allora diessi a maledirgli.

Va: Se shchelhe Ihùlhet e mia Ver: Perchè pestasti i fiori miei.

Zot u érrush ndù trìmnii, Signore, che tu t’ oscuri infra i giovani [

càlhi Ti crepi il Piastù gcràsgdevet ; cavallo ne’ presepi ; Art palina ndy cuventùt E morte tocchi ’n mezzo al con- versare [ Vai£ys chù sgkióòfe veti’, Pur la donna che t’ahi scelta, E m’ e ngcryshin zop botiti. E te la sollevino un pezzo di terra.

Tri : Si m’nyme mua ti, £oogn, Gio. Come a me maledetto hai

[ tu, signora, Lhém u ty t’nymign tiij. Lasciami, ch’io te pur maledica.

Shpéit ty martòft itt’ at’ Presto or già ti mariti tuo padre Jo largu nè affirid Non molto da lungi, né da vicino, Po pyrtèi détin. Ma di là dal mare.

Si rùvón ncalossùsh me baarr, Come vi pervenga, che tu t’ incinga E m’u sdorgkùsh ndyr di diàlhe. E mi partorisca due bei maschi.

Cùr t’ vish e mby t’paar E quando tu rivenga dapprima Ndy shpii te £ògna jott’ yym In casa alla signora tua madre,

U ngcréft monostrof i chek Levisi un nembo orrendo détit del Por ndù mest ; Ma nel mezzo mare ; Sà ghltit suvalha mbaalh Tanto ch'entri l’onda da su le panche E m’ tù keell pyrpara dieppin E portisi inanzi, a te rapita la cuna Oieppin e diàlhit paar, La cuna del primo nato,

E t’e mbittùt sfshit. E la ti anneghi sotto agli occhi.

Cùr t’ sdrépesh prà te £àli Quando calata sarai indi sul lido Dalht ùlhchej e màlhevet Sbuchi una lupa da’monti

My t’ u sùlht e t’ £yft me £yymb Mi ti si avventi, ed azanni

Ndyr dùar tu ditin : Fra tue mani ’l secondogenito :

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E t’ihyshin po t’ varfyr E ti abbandonino orba Gnli hérie, si m' byre mua. Ad un’ ora, quale hai reso tu me.

(Janio XV.

Chytiéttei chutié pyrléi, Di là dal colle di là oltre, Te lhugàtfi me amà^ù Nel campo della battaglia

Dùchej gny camniia i £ii : Pareva un fumo negro :

Po ai neh' ish camnùa i gii Ma non quello era fumo negro,

i rii il Se my ish trimé ; Perchè m’ era giovin novello

i rii i lhavossur Il di fresca Trirac e ; giovine età ferito ;

Gkiaccu my i avulonnej 11 sangue fumavagli

GcAIha my i Ihigkóronnej 11 labbro suo parlava

Lhigkùròn me shóchu£it; Parlava con li compagni : — Se ju shòchù£it e mii — Già voi compagni miei

Cdr t’ venni te m’ yma imme Quando andrete alla madre mia

vòrtét i Ty ju tnos 6oi ; La verità non le dite,

Se ndò gkiyntet ndai £iarmit Che s’ ella trovisi accanto al fuoco

Bie mbrynda e digkiet. Cadravvi dentro e si bruccrà. Ma ju, shochó£it emii, Ma voi, compagni miei,

Cùr t’ venni lech imme £oogn Quando anderete alla mia signora

vòrtét ly i verità le dite Ty po Sonni ; La me ;

Tó maar crygher e t’ crighet, Chè pigli T pettine e si lisci ’l crine Ulhur e mbò pasikiir E seduta allo specchio

Trii pólyymb chdshét tu byygn ; Tre palmi di treccia si componga, Prò tó buOtonniet ndò deer, Quindi sè mostri alla porta, Ty ngcryygn siilt tech atto ree E levi gli occhi verso quelle nubi Porsi pt'lha pà-free. Come la giumenta disfrenata.

Diverti eh' Egli nell' so- [ Amore offese abbandonare per semplici spetti II. Lib. II battaglia lascian- ( V. C. ) i amata, fecelo cadere in , dogli ’l cruccioso pensiero eh! Ella ne godrà. ]

Canto XVI.

f Che f autore fosse rimasto ferito sul campo, è detto nel canto superiore : da' tre canti che seguono e dal IV del libro H si può so- spettare di sua prigionia fra i cristiani, ove melanconico ricorda la madre e la storia di Garentina che delinea come un avvertimento al- f amala, voluta sposare in Italia. ]

Ish gn’ yym e vétme£, Era una madre vedova, Chish gnu biir tù vétmin Aveva un figlio solo E m’ e Ihaan’e m’ e pastronnej E me’l lavava ed adornava

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E ndù scólyt e dyrgconnej. Ed in iscuola lo mandava.

il insegnavagli Ausculta pó c’e mbùsonnej, Ma maestro che , Ai sà e rrigh po rabì gkórtùar, Di continuo percotendolo e rimbrot- tando [ Filhakii prà m’ e diirgcòi. In una prigione alfine mandrillo. Filhakia ish c laargb La carcere era lontana del Ndy ^àlit détit: Su la sponda mare ; Mos-gnerii c shconnej attéi E nissun uomo passava quinci, Mosse gny lojee £egkù: Ma soltanto uno stormo d’ uccelli Tri: Cy lojee jinni ju £ogkù? Gio. Che stormo d’uccelli siete voi? — .lemmi gny lojee zogku: — Siamo uno stormo d’ uccelli. Tri: Mos jinni ju tfeut yyn ? Gio. Che siate mai della terra nostra? — T attlj 8éu na nynch jemmi, — Di quella terra noi non siamo, Po assi Séuchemmi l’shcommi. Ma per quella terra abbiam da passare. [

Tri: Dua t’ ju jap gnu foolh cart. Gio. Voglio darvi un foglio di carta. ’ — lemmi £ogkù e ’ s unt’ ekélmi — Siamo uccelli e non possiam portarla. [

Tri: T’c UiiS'ign ndyr pènduti t. Gio. Legherottelo a’ vanni ;

Cùr t’ venni te déra imme, Quando giugnerete alla porta mia

Attie ysht gny ubi ; Là sta un ulivo,

Npryju mbaalh attiij uliri : Posati su quell’ ulivo :

Tund e shcund ti pendu£it, V’ agita e dibatti l’ ali,

Se t’ bie folha cart. Che di te caderà il foglio di carta; Délh m’ yma menattiet Uscirà mia madre la mattina Pyr s’cuntrélha chyta réXe, A riguardare verso questi monti,

E m’ shégh folhen cart. E vedravvi il foglio di carta.

Merr e ekccl mby Sittuur : Prende e ’l reca al savio : — Cióva chyt foolh cart. — — Ho trovatoquesto foglio di carta — — Chyjò carta e t’ itt’ biri — Questa è la lettera di tuo figlio ;

E Sol : Se it’ biir vién. E dice : Che tuo figlio verrà.

« Cùr déti t’ bynnet gnu vrésht « Quando il mare diventi una vigna

« it’ vién « Allora figlio verrà Aghiera biir ; tuo ; « Cùr lhissi t’sieel Arra « Quando la quercia porti noci

« Aghier it’ biir vicn ». « Allora tuo figlio verrà. » xvn.

Isti gn’ yym shumù e miir Era una madre molto nobile,.

Cbshi nyynt bilh guSiaar, Aveva nove figli leggiadri,

E tu’ Siettùten gnu ,vash E decima una fanciulla

Cy ja e 6òjin Garantiin : Chiamata Garentina : Zillien tu chéshin ncù cusbkii La qual per avere in matrimonio Véin c viin ndu 5éet tire Ivano c reddrvano alla terra di essa

i

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Bilh £ottùrash e bulhaar Figliuoli di signori e bugliari. di paese lontano; Prana ér6 gnu trim i laargh. Poi venne un giovine

e i fratelli E j’ yraa me ty vùlé£yrt La madre tatti*: Ricusavano, perch’era assai da lungi. Nyncrh dóin se'ish chék ; Vettym doi e pramatisnej Solo voleva e ne trattava

1 vùlàu Costantini. Il fratello Costantino. Cor: Bynne, m’yym, chòty cushkii. Cos. Fa, madre mia, questi sponsali. Tym: Costantin e btri im, Ma: Costantino, figlio mio, tue, C’ yy pramatia jotte Che pratiche son queste Akó laargh ti ty m’ e shtiesh ? Tanto lontano sospingerla ? Se nd’ e dàsha u pyr garee Ché se io la voglia per alcuna festa. Pyr garee prana neh’ e cam. Alla mia festa poi non me l’abbia, Ndy e dàsha u pyr hólhm E se la bramerò nel lutto, U pyr hélhm nynchy e cam. Io nel lutto non averolla. io, e mene- Cos. Vette u m’yym e my l’e siel ». Cos. Andrò mamma , E martùan Carentinen. E maritarono Garentina. [rottela, greve Er6 gnu vii chékò i ryynd Venne poi un anno troppo

Cy i cùarti assai £oogn Che mietè a quella matrona

Nyynt bilht tc gny Ihugàtf; 1 nove figli in un campo di guerra; Ajo u vésh e ndyr tò £éga Ed ella vestissi di gramaglie li my erri shpi£it. Ed oscurò sue sale. Cùr prà c shtùnia pyr shpiirt Quando poi il sabato de’ Morti J’u dih ty Chórshtévct, Raggiornò a' Cristiani, Dòli e vatte ajò mbù kish Venne fuora ed andò Ella alla [chiesa t’bilhvet sepolture de’suoi figli: Tech iin varrei e ; Ov’ erano le E pyrsipùr e ncà varri E di sopra ogni sepoltura, Ncà varri e t’bilóhvet sai Ogni sepoltura de’ figli suoi, llyri e célhtin gny kirii Fece allumare una candela nenia E m’ claiti gny valhtìm ; E pianse una ; Po Te varri Costantinit Ma su la tomba di Costantino

Di kirigne e di vaitimme : Due cerei e due pianti. — Costantin, o biri im’, — Costantino, o figliuol mio, Cu ysht bessu cy m’ Sfee Dov’ è or tua fede che mi desti, Se m’silie Garantinen Che m’ avresti tu menata Garentina

Garantinen t’ yt móter ? Garentina tua sorella ?

llessa jotte nyn dice. » ! La fede tua sotterra » ! Si u ngeris e u mbiil kisha, Come imbruni e fu chiusa la chiesa [ Gnó te dritta c kirignùvet Ecco, al chiarore delle candele, alzò Costantino dal sepolcro. U ngeré Costantini varrit. . Si Gcùri cy pushtronnej varrin La pietra che coperchiava il sepolcro

My u byy gnu caalh i brillìi Si fece un cavallo brioso

Me tù £ce£ paraviOOe ; Con negra gualdrappa;

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Vòculà cù mbànej gcùrin L’ anello che mantenea la pietra

My a byy gnu freen i rógkiyynt. Divcnnegli un freno d' argento.

I hippi e ncau shpéit. Montollo egli e caminò di fretta.

Arruu pas dihtur Arrivò dopo alzato il sole

Tech shpii e s' mòtóres. Alla magione della sorella. Cibi ndó shésht pira pùlassit Trovò nel piano avanti al palazzo

Ty bilht e s’ motórys I figli della sorella

Cy briSin pas ndalanishet : Che giocavano appressoalle rondini : Cos. Cu vattc £ógna jott’ yym? Cos. Ov’ è andata la signora vo- stra madre? — Costantin e gotti Ihaalh — Costantino nobile zio, Ysht te valia pyr ndó goor. » E nella ridda per la città ».

Valte ai drèi tu paren vàie : Egli andò verso la prima ridda : — Vasha ty buccura jinni, (Giovani donne voi belle siete, ( — avete Porsa xee pyr mua ’s chinai ! ) Ma beltà per me non !)

U kias e i pieti : Si avvicinò e domandone : Cos. Agchógiìash e bàr#a vash — Salve candida giovanetta ; ; Ysht me juu Garentina,, È con voi Garentina

Garentina irame motyr? (<) Garentina mia sorella ? — Ncà pyrpara se m’e ciòn — Va innanzi che la troverai. Me gipunin lampaSbri Col giubbone di lampore E me zoogh ty vólhùst. E la zòga di velluto. ArS’ur tech e dita vàie Venuto alla seconda ridda

U affórùa tu pienej. Si appressò per domandare :

Gar. Costanti!) e immy vólaa ! Gar. Costantino mio fratello ! sciogliti Cos. Garanliin , lhóshòu , se Cos. Garentina per an-

[ vemmi ; [ darceno ; Che t’vlsh me mua ndó shpii. Dèi venire con me in casa.

: vólau Gar Po 8ùam, im ; Gar. Ma dimmi fratei mio ; Se ndó cam t’ vign ndyr hélhme Che se deggio venirmene a lutti,

Vette véshem ndyr t’ géga : Vado a mettermi gli abiti negri : Ndy na vemmi ndy xaree Se noi andiamo in gioie

U tó marr stolhiit e mira. Ch’ io prenda i vestiti da gala.

Cos. Utfissu si t’ guu héra. » Cos. Inviati come l’ora ti ha

[presa ».

E vuu vi68e càlhit. Posela in groppa al cavallo.

Vejin Ù5ie tó gkiat’. Venivano per una via lunga :

• E u pyrgkiégkó te Garantina Poi ruppe il silenzio Garentina : — Costantin immy vólaa — Costantino mio fratello Gny shynchó tó chek’ u shogh Un segno funesto io vedo Craaght ynd tó gkiérit Le spalle tue larghe

Jaan tó mugulóamis. Son tutto muffate :

(4) Forse nel luogo di sortila mia, ora il casato di lor famiglia.

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Cos. Garentiin mòtyra Imme Cos. Garentina sorella mia,

Camnòi duflekevet Il fumo degli schioppi Cràgbùty mù mugulòi. Le spalle annebbiommi. — Costantin pà viilàu ini’ — Ma Costantino fratei mio,

làter shynch tù cheli u sliogli Un altro segno funesto io vedo :

Lhnsht ynd tù durruò'iaar I capelli tuoi a ciocche Ysht tù piugurossuriO Sono in polvere consunti. Cos Garentiin mòtyra imme Coi. Garentina sorella mia

My t’bygnyn si£it llludonsi i tuoi occhi

Cà bugòi i ùS'ùvet. Per la polvere della strada. — Costantin, vùlitu im’, — Costantino fratei mio,

Pse dritlà et’ mii vùle£ùre Perchè i fulgidi miei fratelli

Nè tù biiht e £ottit Ihaalh F, i Pigli del nobile zio As dùchen na daalh pyrpara ? Non vedonsi venirci incontro? Cos. Garantiin, mòtyra imme, Cos. Garentina suora mia, iaan pyrtèi, 6omse ndò rròlhet; Saran di là oltre, forse al disco; S’erStim sonte e nchy na prissin. Perchè siam giunti questa sera e non ci aspettavano. [ — Po signaal lùchek u shogh; (I) — Ma un segnale funesto, io vedo Finestrat c shpiis aan Le finestre della casa nostra

Ty mbulitura mbù baar ! Serrate e con erba !

Cos. Ja e mbulltin nyùtes dètit Cos. Le han chiuse all’ alito di borea [ ;

Si ctei vryyn dimori. Perchè di qua imperversa il verno.

Eer# e shcùan ncà kisha. (2) Giunsero e passarono innanzi la

[Chiesa :

Cos. Lhem tù hiign ndò kish tù Cos. Lascia eh’ io entri in chie- trughem. orare. [ [ sa ad

(1) La scena di crescente terrore e solitudine, unita all’eccellenza dram- lealtà vita han matica ed alla fede c cristiana ; e poi il profondo sentimento della fatto che questa canzona (della quale conosco tre belle poetiche traduzioni, di Raffaele Lopez di Luigi Petrassi e di Angelo Basili) sia tenuta da molti quale reina delle altre. G qual poesia invero più> felice dell' idea del giovino Costantino, cho richiamato dalle sedi de' morti per una fatale missione, entra in città a cavallo e v'incontra i vispi figli di sua sorella che giocano inse- guendo lo rondini, c quinci approssimandosi a cori di damo dice tra sè : Gio-

ii vani donne voi belle siete, ma per me beltà non avete » ? Evvi nella rac- colta di Faurici una rifazione di questa leggenda in lingua ellona ; ed alcun chedi simile dovette essere stato fatto in illirico o slavo e donde probabilmente desunse Biirgcr la sua Elleonora. Questa percorse tutta l’ Europa e pur quanto è minore della chiara vita e nuda dell’ originalo albanese ! Trai.

(!) Qui v’ era una variante degna che si conservi. Cos. Ni cu calare motora imme, Cos. Ora che smonti sorella mia, N’daghcmi e pùvemi; Ci separiamo, e baciamci; Nd alt’ jetl tu shiglicmi. In qucH'altro inondo a rivederci.

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Veltym aio shcàlvet Iharl Soletta ella per le scale in su

Ilippi tech e j’ yma. Sali alta madre. Gar. Gap déren m’ yma imme ». Gar. Apri la porta mamma, — Cush m’jce alti te dòra ? — Chi mi sei tu costi alla porta? Gar. Zogna m’yym jam Garen- Gar. Signora madre, sono Ga- lina. rentina. [ [ — Mba tuttie bùshtra vòdèche — Vattene via, insaziabile morte,

Cy m mòre nyynt bilht, Che mi rapisti i nove figli, E me £aan e s’ìmme biilh E con la voce della mia figlia Ertfe anni mò maarr mua. Venuta ora sei a prender me.

Gar. Oh ! gàpme ti, £ògna Gar. Ah! aprimi signora madre,

: [ m’ yym Vet jam u Garentina. lo non sono che Garentina.

— Cush t’ sùal po, btlha imme? — Ma chi ti ha qui menata figlia [mia ? Gar. Mua mù sùali Costantini Gar. Hammici condutta Costan- Costantini vùlaa. Costantino fratello. tino immy mio [ — Costantini e ni cu yy ? — Costantino ora dov’ è ? Gar. Ghiri mbò kish e trùghiet. » Gar. Entrato è in chiesa ed ora »

J’ yma sgcar5 amenti deren. La madre spalancò la porta.

— Costantini immò vùdik ! » — Costantino mio 6 morto ! »

E mba j’ yma tech e btlha E la madre abbracciando la figlia

Mba e btlha tech j’ yma, E la figlia stringendosi alla madre,

Vòdiin j’yma ej e btlha. Spirarono la madre e la figlia. canto xvm

Già Scanderbegh i ritornato nella sua reggia. Il poeta accenna nota, alle feste cittadine , intanto che dal lato consono agli affetti suoi, quel rilassamento di costumi che accompagna i mutamenti di stato. Mi gli fugge pure come il paese fosse preoccupato di vaghi presentimenti; ma li simboleggia con (rancheisa e beltà inimitabile nel Canto XX.

— Vemmi mòtòryg mbò crua? — Andianne, sorella, alla fontana.

— Prim ti moter, se anni vign. — Aspettami tu suora chè verrò.

Vuzzen t' e mbaago u mb’door Il barile sostcrrotti io in braccio,

Tèlhin t’e bygn u curoor. (1) » Il funicello avvolgerotti io .a corona. Nd al’ crua cy atto vaan In quella fonte ov’esse andavano,

Ish gnò ferr dusheu l’ gnoom Era un rovo di frondi verdi,

Nd’ at ferr gnò lhaiflii. Dentro in quel rovo un’ avellano,

(4) Le donne albanesi caricano il loro fardello su lo spalle, legandolo con un ftinicello che, incrociandosi, il cinge a corona, c passa per gli omeri sul petto, ove si annoda — V. Dona.

Digitized by Google — Gnèra cy pyrmbionnet vuzza, — Fino a che dell’ acqua s’empia il Atti posht nd’att IhaiOii Là giù a quell' avellano barile [ Ngkitlu motyr e byn dii. Monta suora e cogline due.

— Si u kettùtin gkiO laccai ! — Come restan silenti tutte le

piagge ! [ Gòra gki8 rriòO mb’ aan La città tutta è accorsa a quel lato

Cà vién ùshtùr e Schyndyrbeccut. Donde viene l’ esercito di Scan-

[ derbegh.

Vasha ndyncj chymbù^yn. La vergine allungava il piede,

Trinai ndyiti dòrien Il garzone stese la mano

E m’i £uu chymbù£yn; E le afferrò il piede; Vasha Sa gnù£ùlh tù maS La vergine diè un grido acuto. E gkiegk j’ atti ndy cuventùt Udillo suo padre nell’ assemblea,

I vùlàu ndù ’rrolhict, Il fratello al disco,

Ej’ yma ndù vàliet La madre nella ridda gioja Tù garees tù Schyndyrbeccut; Della di Scandcrbegh ;

GkiO Oaan me gnù gcoolh: , E tutti senza distraersi dissero d’una [mente: Nd’ yy gkiarper cy e £uu Se è serpente che la morse Caan lhùpusha fusha£it, Hanno erbe salutifere le campagne, Nd’yy door cy e ncau Se è mano che l’abbia toccata Ajo e de pyr vctheen. Essa vuole averla per sè.

CANTO XIX.

— Vash ndyr sii di si t’gnogh — Fanciulla negli occhi ti cono- [sco non so come

So ti do l’bréflsh me mua. (1) Chi vuoi tu prendere diletto meco Menàt mby t’dihturit Domani ’n su l’alba;

Mirr ti teelh e tòpùryn Piglia tu il funicello e l' accetta, dèlh tù Byn si cùr pyr gola Fa mostra d’ uscirne per frasche ;

Se u marr’ shcupettien Ch’ io prenderò il moschetto. sicùr vette gkiavògn. vista Bygn Farò andare a caccia ; Dàlhmi te dr!£a murrii£. Converremo al lazzaruolo montano. Vasha mby t’xaraxurit La vergine in su l’aurora

Mòri teelh e tòpùryn Pigliò il funicello e l'accetta E dòli pùrroit Ihart E riusci su pel vallone. Gni-hèrie me trimin. Ad una volta col giovine. Attie bro$tin shuum e pach, Ivi solazzaronsi poco e assai

Brodtin gkiO dittien Solazzaronsi tutto il di. Prana ndai mbrymies Poi verso a sera.

(4) Forse è questo un canto popolare, eguale nello stile inferiore, nella crea- zione potente, alle rapsodie di questo poema. Trad:

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Vai£a u ngcre c mirar malhin La donna Icvossi e prese il monte abbrostite dal E m’bysri carflùlhat: E fecesi le frasche fuoco: [ campagna Trimi muari fùsha£it Il giovine scorse nella E m’ vràu arcere£yn. Ed uccise la beccaccina Cùr u mbio$ mbrymanet Quando si fu ritirata a notte disse turbata la ma- Yashen e gchyrgàu j’yma : Alla donzella dre: [ indugio — C'yy chùjò biir, mònessa jotte ? — Che è questo, figlia, tuo? [

il rovo il piede Vat. My £uu ferri chymbicn. Doni. AiTerrorami

il fuoco quel rovo — Diégct £iarri at ferrò ! — Bruciar possa mia: Vat. Diégct tiij m’yma imme: Doni. Bruci te madre tuo Si dòshe ti piaccun t’ynd Come volesti tu al vecchiarello novello. Dua u trùmin e rii. lo voglio bene al giovin

Canto XX.

Bfe shii e ble boor, Piove nevicando, tu Ihaaj la Giovanotta usci per lavare; Dual po vashù£a ; Pur Ciaiti kiatùra me chyymb, Ruppe lastre di ghiaccio co’ piedi.

1 ngkittej bòra ndyr dùar Attaccavasele la neve alle mani

l’ : Tue u xéS'ur aires : Fioccando giù per aere Er6 prà gny voree edre^ur Venne poi una tramontana verti- ginosa [

il velo tenue : E i nissi sképin e gool. E tirando le rapi

Attù-lhashi valle ja e mùar. 11 nonno andò a pigliarglielo : — Priru, biir, priru mbù shpii, — Torna, figlia, tornati ’n casa;

Gki6 jetta se gnoo u vrvy. Che tutto il mondo ecco é rabbujato.

Dìgitized by Google DigitizecJ by Google LJ BRO II

CJanto 1*

Vieti inarsi mìni se vién (I, Viene Marzo, bene a noi venga,

Vici» i butt' e i 0ilrtitì Vien mite e pur asprello, shtunur shii Ture me diel; Gittando pioggia con sole ;

Fusha^it i lhulhù£òn Le campagne empielc di fiori,

i Màlhe£it mugulòn, Le montagne copralo di nebbia : Dritta e scolèlhùvet Luce degli scolari Cy grammaticossùgnyn, Cbe upprendon lettere Monoshtìreshit tù vryryt. Ne’ monasteri foschi. Mori £dgna ndalauishe O nobile rondine Cy m Ihuan mbl at £ocaur, Che mi danzi su quella trave, Ndy chee ndógn'luijm pyr mua Se hai qualche imbasciata per me,

ftùame c £ymrcn mó sherif. Dimmela e ’l cor mi allevia.

ti : Stia: O jaihimo nò trini ! (2) Itoti Ahi a te giovine!

(4) Pare questo canto un’eco dell’ antica canto della rondine popolarissimo in Grecia anche a’ tempi Dostri. Eccone un brano. — « La ron- fi dine viene dal bianco mare : si posò ed ha cantato — Marzo, Marzo mio a buono, dopo Febbraio mesto, sebbene tu nevichi, sebbene diluvii, pure di

« primavera bai fragranza » (V. Cantò storia universale) Fin : Dorso. (t) Ailhi Jalhimonò sono le voci del lamento albanese su quanto è irrepa- rabilmente perduto. Ora m’ inganno, o sentonsi in esse gli avanzi de' due

compianti dell' antichità mitica : .falerno ! Ahi Lino ! Ne' tardi tempi di Grecia Lino e Jalimo tenuti erano, come Adone, per uomini cari agli Dei e pur vinti

dal fato; su i quali I’ umanità veniva d' anno in anno a compiangersi. Il lu- gubre Lino si cantava nella vendemmia, c Jalcmo celcbravasi dopo le inessi.

Or Lhymi in albanese vuol dire a/a e lini) palmento, lo trovai che i miti pre- cipui del culto ellenico-latino hanno di se una spiegazione propria nella lingua

albanese (V. Antichità della ilastone albanese eie. puh. in Napoli 4864); e quo- sti due nomi, due altri lumi accesi di quella lingua, rischiarano da una altra quel mondo remoto. Quanto ò verosimile elio, reciso le messi e ri- banda , dotte nell'aja, la mente di quelle generazioni scadute si volgesse spontanea con rimpianto a quella verde speranza o poscia aurea ricchezza della terra

che spegnevasi neH’ aja (le lhymi) '! E cosi una indeclinabile tristezza, che pur rinnovasi in ciascun autunno, doveva accompagnare la raccolta c sparizione delle uve nel palmento (le linài): Omero, che n'era testimonio, tra le figure dello scudo d’ Achille pone, « Fanciulle e giovanetti teneri portavano sul capo la dolco uva. Di questi nel mezzo un garzone sonava gratamente uua e

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Laiimi, cù voi siel, Le notizie, eh’ io reco, Liete son qui nel difuori I gai-peni cliùlòi jasltt; ; l’aru di'ti se u shcrii. Che il mare è per tutto sciolto e spianalo. [

Canto 11.

Fyrshòluan dii £ògche Cantato hanno due uccelli pyrchótei, di là oltre e di («ny pùrtèi gny Uno uno quà ;

Fòlhi e gnèra jatóres : E parlò I’ uno all’ altro : — Ti as pce po cy u pee. — Tu non vedesti quel eh’ io ho veduto; [ Pee gn’Turch u me gnu vash Vidi un turco io con una donzella C’e keel vi88e mùrgiarit; Che portavaia in groppa del cavallo; Turcu e vei ture chùntùar Il Turco andavasene cantando Vasha e vei ture valhtùar. La giovane era tratta piangendo.

Chyntimi co bynnej Turcu: 11 canto che mettea il Turco:

— Lhùmi u Ihùmi u Turch ! — Beato me, beato me Turco ! la llyra prefitti ty bdgciit; Feci preda ricca ; Cam me mua vashen e baarS Ilo meco la fanciulla bianca

canora cetra, cantandovi sopra con flobil voce il soave Linò ». I pianti dun- que Jalemo e Lino equivalevano in origine ad « ahi il sepolcro della vita ».

Kd è notevole come la nazione, nella cui lingua è serbato il senso di quelle parole, le mantiene ancora quali espressioni del suo lamento abiliti I Jalhimo nò! Ciò va forse poco inteso nel tempo attuale, poco ricordevole della divinità. Ma forse un di sarà pur meno intesa la incuria attuale, del come siamo e mondo divino che ci sostenta e se caglia a da chi alzati in questo ,

i Chi ne ci pose il saper noi Lui e faro suoi Uni ; od apparirà pur disensala oltremodo l’ ira de' tanti, contro a chi, dimesse le cure transitorie, sien ritirati nel disegno di conoscere contemplando ed adorare quel Dio. Sembrerebbe a prima vista che la quiete mondiale in ordinamenti che appaiono eterni, fosse quella che ai pensieri, increduli di tuli' altro che non è la sensibile nostra dimora. Ma tale quiete era già nel primo evo, quando a' pianti Jalemo e Lino pur accompagnavasi il culto de’ mani, lo lustrazioni con l'acqua e T sacro sale, c la propiziazione espistrice pel sacriUzio di vite umane o di altre compagne dell’ uomo, quelle cioè di agnelli e di giovenchi senza macchia. Nella quale afflitta idolatria si ridette il sentimento profondo di Dio e della natura, che qual fascia di luce legava l’ umanità c leneala volta al Princìpio di là dalla vita, quasi ad una felice comunione di cui essa avea nel linguaggio il segno regalee nulla sapeva come ne fosse distaccata, farmi invece che la fatua iudiflercnza odierna sia da una fonte più vicina. Dacché fu detto e anche sen- tito tra gli uomini, esser essi tìgli di Dio nati in una parte del suo universo,

alla prima fede, che mantenne i molti in purità e perfezione, segui la facile confidenza riposata su la bontà del Padre : e questa abusala confidenza cri- stiana il mal Genio dell' umanità volse dopo in ricercata dimenticanza. Già è

questa una storia continua nella vita degli uomini. Il jra

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Ty buccuren t’Arbresh ». bella Albanese ».

Valhtimmi chò bynnej vasha : Il pianto che facea la vergine : — Miéra ù mièra u vash! — Miserarne! misera me giovine, Cy m’ree ndù doort kennit, Che son venuta in mano del cane, E diu cu jam e kéltur E che so io dove sarò portata,

Tech s’yy kisha e t'iio £olti ! » Dove non ò la chiesa del nostro Dio !

1’ li pyrgkiégk jàtura £ògche : Rispose altra augella. U ndygna mbt gny pòlàs; lo ristetti su d’un palagio; Gkiégkia e gn’yym cù hòlhmónej E udii una madre che affliggeva Ty buccur vashen e sai. La leggiadra figliuola sua. — Fatti my t’raa te déra — La fortuna t’è venuta alla (torta

« I bùgcàt ncà ò'òu giiaj « Ricca dal paese straniero a Sù bier. « te la calpesti e la perdi. Vet’ j e shchèlhyn e E da pur — Pocca, £ògna m'yma imme, — Dunque nobile madre mia, « Ncà gòra ak e Ihuflùar « Dalla città tanto or combattuta « Ty ndàghem pyr rùgkiynt e aar « Che mi divida per argento ed oro « Vet si e vapyta ncamatte »? « Io, quasi povera di brame carca?

Tilre Ihigkùrùiar vasha Infra il disputare, la fanciulla Jip za punte me Punteggiava un ricamo lagrimando; Ncà punt gnu shèrtiim, Ogni punto d’ago un sospiro, Ncà 8ùmpe£ gnu pich Ihott’. Ogni bottone una stilla di pianto.

Canto 111.

[ La tradizione patria ha sempre nel cavaliere vincitore, ili questo canto, raffigurato Scanderhegh ed alcuna sua grande vittoria, rhe sollevava ogni fiducia ileit Albania. ]

Vuu ncusht trimi fanmiir Fece scommessa l’eroe ben av- venturato, [ Vuu ncusht me kénnin Turch, Fece scommessa col cane Turco,

Ty rròjiSIn qùelht basheh A far correre ior cavalli a prova :

Turcu vuu Turchèshù^yn, Il Turco scommise la Turca,

Trìrai vuu tu buccuryn. Il giovine scommise la bella.

Porsi e buccura m’e zuu Si tosto che la bella il seppe

Mbiòi sf£it me Ihot; Empieronlesi gli occhi di pianto:

Mùar elicceli ndó door Pigliò le chiavi in mano,

Vùar panare^yn ndù loor Sospese il paniere al braccio Piot piot me gaflii, Pieno colmo di grato cibo, E u sdrépurù ndyr vaSOe E calata nelle stalle

Drek rriòtf te mùrgiari. Diritto andò al palafreno.

Zo: Mori ti mùrgiari iin Signora : 0 tu, corsiero nostro, Nessyr ndy lhugaò" tu mù$ Domani in campo vasto

Ndcor mua ti ty m' bysh Che onore a me tu faccia,

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N'tleer mua e £ottit imm’ ; Onoro a me ed al signor mio : Ndyr slndùke£it e mii Nelle arche mie Se u cam brc£e tù rùgkiyynl Perchè io m’ ho zone argentee

t’i ti Nyn-barehe è my bygn; E cinghie le faro ;

Cam u zoogh ty’vùlhusta (1) Ilo io zoghe di velluto

l*aravi6de e my t’bygn. E gualdrappe le mi li farò.

Mori ti, murgiari iin. O tu, corsiero nostro, Nessyr ndy lliugiiò' t'ma? Dimani in campo grande

Ndeer mua ti ty m’bysh Onore a me che tu faccia,

Ndeer mua e £otlit im': Onore a me ed al signor mio : Ndyr sùndukc£it e mii Nelle arche mie Cam se anach l'ària Che io in’ ho collane d’ oro

(ikiO e murgia my t’i bygn ». E tutte freni le ti farò. »

Ilinchùlissi mùrgiari. Nitrì il cavallo.

Si m’u dii menattia Subito che raggiornò il mattino Vaan ndy Ihugà# tù gkieer Andarono in un campo largo

E rriooò' quelht bashch: E spronarono i cavalli insieme :

Càlhe i kennit Turch Il cavallo del cane Turco

Shtat kint raddo 6iou; (2) Settecento pertiche percorse ;

Càlhe i trimit t'Arbrésh Il cavallo dell’eroe Albanese Nyynt kint raddo 8ièu, Novecento pertiche ei corse,

E i gcavgnèu fottìi tiij E guadagnò al signor suo Ndòryn e Turchcshù£yn. L’ onore e la bella.

Rrij e buccura mbù dcer (3) Stava la bella alla porta

(I) La zoga è una sopratunica a mille pieghe, che le donne Albanesi ve- stono quando si recano in Chiesa, e nelle visite per nozze e lutti. Le ve- dove la portano in tutto il tempo della vedovanza. È un abito di grave dignità proprio delle maritate. Borsa.

;S) Radile è ’l nome d’ una misura che fra noi più non si conosco o intende.

(3) Vi mando una celeste rapsodia albanese, udita cantare da quattro don- zelle che coglievan castagne nel nostro monte. Ob amico; da questi canti ap- parirà che la nostra è una nazione nobile, di gentil pensiero e gravi sentimenti, e troppo diversi da quc' crudeli c selvaggi in che ci ha mutati agli occhi del- l'Europa una erronea opinione. Lo strazio del nostro carattere, non ha esempio fuor che in quello Tatto alla nastra lingua da pur benevoli e da altri. Ci sia di pruova la canzona riportala nello note del Cliilde-Harolde, della quale vo’ se- gnarvi i primi versi.

Lesione di Byron Rettifica

Naciarùra popuso Ni cy arrùra, mbullj bùceri ;

Naciarùra na civin . Ni cy arrùra ni cù vign

Ila pe uderini li hin .... Hapc dérony iù hiign Or che son giunto, chiudi la bocca ; Or elio son giunto, ora che vengo Apri la porta eh’ io entri I)a una lettera di Luigi Petrassi.

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il

E m' rilanci dielin. E guardava il sole.

Prà cù dieli perùndòi, Poiché il sole fu tramontato.

Muari ajo d rii puri n Pigliossi ella la falce E u calaar ndù perivòlht, E discese dentro nel giardino. E m’ cùarti trentafilhe E mietemmi rose. Trentafilhe e roSostannc, Rose e garofani,

Pyr shtraan e fottìi sai. Per il talamo del signor suo. Vuu pyr creu trentalilhet Pose all'origliere le rose.

Vuu ndù mest roSbstanet: Pose nel mezzo i garofani :

Prona u vuu e piexùnej Poi si mise e intrecciava

Dii curoor pyr criet e shtrett; Due corone pel capo del letto (I); Po gnotta e hinclissi Ma ecco nitri,

Hindi murgiari ndù deer. Nitri il palafreno alla porta. U patàx £ògna e paa; Levossi di fretta la signora c vide; Porsi u sdrep shcàlvet Ed eccola a scendere per le scale Me cuppy pioto me vecr Con una coppa piena di vino E me cuflen elhp mbù loor. E col cofano d’ orzo sul braccio. Guppen ja e ndyiti tù £ottit. La coppa porsela al signor suo.

/tigna: Po na rrùat murgiari ! Sign : Ma a noi viva il palafreno ! — Gnó figlia e mira immc, — Ecco signora buona mia, T’c sóla Turchòshó£yn Rotti portata la Turca,

Ty t’ tundign dialhùùin Che li dondoli ’l parvolo

Cùr m’e vyy ndù ninulhyt. Quando tei poni nella cuna.

Canto IV

Cùr u jésh i vògchùlhift Quando io ero picciolo,

Jesh il gn’irrùbaar i click: Ero un monello assai tristo; My dyrgcoin tù grammatossia Mandavunmi ’n iscuola, E u véja rròlheshit Ed io andava alle vie del disco. — Pus e pas mójc — Appresso appresso a me « E a pas móje, vash, « Vieni appresso a me, fanciulla, « Crógnevet, virògncvct, « Per le fonti, per le verzure,

« Tech jaan ^eol myy t’ftògta: « Dove sien I’ ombre più fresche ; « My 3U heern e scólùvet « Dato hammi 1’ ora della scuola

« £ùgna m'yym, e brègmi. » a La mia signora madre c sollaz- zeremci » [ Zògna m’yym si my pastronnej La signora madre, siccome ri-

f pulivami

(1) È costume degli Albanesi che lo corone nuziali, come gli sposi sien giunti ’n casa, tolte di capo, si appendano sopra al talamo, ove restano inaino alla morte dell’ uno de’ coniugi. È 1 allusione a siffatto legame che fa il profondo patetico di questo tratto — il frati.

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My gchyrghit e my porsi nncj; Mi rimproverava ed ammoniva Vet po mosse e helhmòja Ma io sempre la disconsolava. Vaila e me gn’ £ot mby rroogcli E misimi con un signore a precio

li i shùrbèva mol’e moon E gli servii anni ed anni Pyr gn’kyngkie£y tù baarò'. Per un’ agnella bianca.

Lihppa u prà kyngken e baarò', Dimandaigli io poi I’ agnella bian-

[ca, .

Zolti e raua nynchy m’e ò'a E ’l padrone non diemmela ; ; My gkùrtòi effè pyr£uu, Mi rimbrottò c sin discacciommi,

Pas cù bòra mott’è moon. Poich’ ebbi perduto il tempo mio. Prà vaila ndù (llhakii. Quindi incorsi ’n prigione.

Attie yndùrra trii heer Quivi sognai tre volte Se mbflia gnù deegch ffàfyn, Me piantare un ramo d’ alloro, E aio shliij dégchy ndyr kiel E quello spiccar suoi rami dentro [nel cielo Xeen gappur mbaalh mòjo; L’ ombra distendendo sopra me ; E Tocca tech ajo xee E parevami, come se in quell’ombra Mbjiffej o m’vyghej ndai Si accogliesse, c mi si ponesse a!

Effe kyngke^a e baarff. Pur l’ agnellina bianca. [ lato

Ocuito V.

II giovine liberato, ritorna in patria. / già Prima cui ùicontri per via la anche dalTultro lato, è sua amata ; felice perchè , com' è nar- rato nel Can. VI, interviene subito alta fortuna vittoriosa della sua patria ].

Viisha rnaarr ti gòla£it La vergine, raccolte le line

Ty gùlat tl bàrffu£it, Le sue fine biancherie, Valle vett po me criattet Andò ella stessa con le fanti Ndy Ihùmy t’ihànej. ÀI fiume per lavarle. Ture Ihaar e ture claar, Esse lavando, cd ella piangendo

Ture shltur siit me skepin: E tergendosi le lacrime col velo: E gnò lhart, pyrroit Ihart, Ed ecco su per la valle, suso

Vinnej trimi càlhùar, Veniva il giovane a cavallo

Ciòi e Ihùlheny cù Ihaan’. E trovò il suo fiore che lavava.

Tri: Ym se gny pich ili vash: ilio: Dammi un po’ d’acqua gio- v inetta: [ — Jipni chótiij £otti tù gùaj — Date a questo signore forestiere Ncà langelhetó mbù xee, Dalle idrie riposte all’ombra.

Tri. Maidc ! vash se neh’ jam i Gio: In mia fè, signora, io non [gùaj son forestiere, [

Vet se ako sà i laurgh stvet Sol che, quanto lontano dagli occhi

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Etfe ncà £ymra i viùar ». Anche dal cuore vi fui remolo.

Vashys i byri rutulùp Alla vergine diede un balzo

Zhymra nd’ atta ti foolh Il cuore a quel parlare:

E Osi e i shchept’in siit Affissollo, e folgoraronle gli occhi Drittie cù sossi shiit. D'un sereno che cessò la pioggia.

Tri : Lhùmi u lhùmi u trim Gio: Felice me, felice me giovine! Sol cy prirem e po mb’ uuS' Oggi che ritorno, e a mezza strada Etfe u pee me Gkiélyn! Ancora, rividimi con la Vita my ; lin got e m’ è dyrgcòi. » E Iddio mandommela incontro. »

Canto VI.

Shchòpti dieli ncà bòryt, Rifulse il sole dalle nevi

E m’ i raa gnu rrymb ndù baalt E percosse un raggio nella fronte Ty blrit Fùghies, Al figlio di Fughe, Tech stolhisnej Ra5“a-Vaan. Là dove era abbigliando Radavane T’arSur cà tu Ihuflùarit Venuto dalla pugna,

Stolhisnej e i vyi curoor: Abbigliavate e l’incoronava.

Trimat è Rindinys (I) I giovani di Rindine Lhuajin ndù rrolhiet Giocavano al disco Pyr gareen e RaSa-Vànit; Per allegrezza di Radavane; Vashat é Rindinys Le donzelle di Rindine Chyzzijin ndy vàliet Carolavano nella ridda Pyr gareen e RaòWanit; Per allegrezza di Radavane; Pùlhat e Rindinys Le galline di Rindine Caccarissùjin e byin vee Schiamazzavano e facean uova

Pyr gareen e Raffa-Vanit. (2) Per allegrezza di Radavane.

Canto VII.

Ililhk tu vùdis gnu biir £otli Traeva P anima un figlio di Si- gnore,

llilhk tù vùdis, e’ s’ unt vùdis Traeva l’anima e non potea morire

Pyr maal e ’s buccurys. Per lo desio della bella.

Cuturissi prà e j’yma Si risolvè poi la madre, RròSi e tech e bùccura: Recossi in fretta alla bella: Bùshtyr e biilh e bùshtùrys Indefessa figlia di madre industre,

Im biir vùdes pyr liij; Mio figlio è in sul morire per te

(4) In alcune carte geografiche trovasi segnala questa città nel Cantono di

Agrafa su i munti a settentrione di Carpenisii al gr. 39 di lat; e circa IO di long : V. tlorsa

(IJ Sebbene questi tre ultimi versi sieno in tutte le raccolte che potei ve- derli. io inchino a riputarli un'aggiunta popolare. Tiad.

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K ti rrii c my kìntissyn E tu stai ricamandomi Gcrichòlhiign nùsseve Colli di camicie per ispose,

Pietro ilha priflòrash ». E stole di preti. » C’e buccura gkiegki ushtù Come la bella udì quel parlare

Lhòrèu ty kintissurit Smesse il ricamo

Mùar zarèkeny mbò door Prese il canestro in mano E u calaar ndò perivòlht. E discese nel giardino.

Chyputti dègchen uliri Colse il ramo d’ ulivo Me t’gkiS ulign tò £é£ Con tutte sue ulive nere, Porsi chish siit vàsha, Siccome avea gli occhi essa vergine

E vuu ndy zarèkiet E deposelo nel canestro :

Chyputti dégihen fida Colse il ramo di cotogno Me t’gkiO ftògne tò baartf Con tutte sue mele cotogne candide

Porsi chish gkiin vasha Come aveva il seno essa vergine E vuu ndy zarèkiet: E deposelo nel canestro:

Chyputti dègchen moni Colse il ramo di melo

Me t’gki® mool t’ymbòlha, (1) Con tutte sue mele dolci

Porsi chish gcòlhen vasha, Siccome aveva il labbro essa vergine, E vuu ndy zarèkiet: E deposelo nel canestro: PrA u ngkitl’ndò camaryt. Poi sali nella sua stanza

Vuu Ihiign tilollandi, Misesi camicia di tela d' Olanda, Vii zoogh xrisonèmi, Misesi una zoga tessuta in oro,

Vuu brésftin e rùghiyynt Si cinse la zona d'argento Me chòpiizt e mundàshta Con le scarpe di seta, E doli c valle drék E usci e andò difilato Ndy pòlast tò dàshurit. Nel palazzo dell'amato. Gkiètti priftòra e jatrògn Trovovvi preti e medici Priftòra tech e psàrjin Preti che ungcvanlo dell’ olio sunto, Graa tò m’ e valhtòini©: Donne atteggiate a piangerlo: — Se ju priftòra e bulhaar, — 0 voi preti e bugliari, £a8 ju bymni ni laargh; Alquanto fatemi or largo, Ty shogh tò sòmùrmin ». Per vedere io l'infermo ».

Trimit si i raa ndyr vèsh Ai giovine come sonògli alle

• [orecchie Ajo £aa gnu trintòlii, Quella voce, una musica Ndyr vèsh e nd’ £ymret, Alle orecchie, e nel core.

Mbiattu gappi st£it ... (2) Incontanente aperse gli occhi . . .

Dègchen mool u nynch e dua Il ramosce! di melo io non voglio,

Vettym dèja tij pyr gcrua. Solo vorrei te per mia donna.

l<) £ notevole la identità dell'albanese ynibulh (dolce) con l'attica Ibla. Il mele ybleo dell' Inietto non torrebbe questo appellativo l’ymb'Mh da’ l'clasgi d'Atene per la eccellente dolcezza ? Il Trtul.

(*) Il linaio di questo canto, guasto in diverse guise, credemmo dover sop-

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C.'anto Vili.

questa una fantasia sens' altra realtà che f amor [ È magnifica , grande non soddisfatto e invano soccorso dalla sola fanciulla. E l'apo- teosi di Lei che pur nel suo silenzio, noi affisiamo sciolta da tutto il mondo e a lui conglutinata d’immortale affetto ].

Ctlr Ihève Ihevè ti vash Quando nascesti nascesti tu, don- U ndù deert yndejesh; io alla porta tua ero; [zolla, Lhuttia c parcalhcssia, Faceva voti c pregava,

Parcalhessia t’iin-£oon Pregava il nostro Dio Ty Ihèghùshe gnu sii-£cc£. Che nascessi fanciulla d’occhi neri

Sii-£ee£ vai£a m’ u Uh’-. Con gli occhi neri la fanciulla mi

[ nacque. Cùr u rrit e u hyy copilhe Quando crebbe d’etè e divenne nubile. ( Proxenit u m’i dyrgcova; Ambasciatore io le mandai;

Vai£a e dèsh, po nynch dèsh E la giovane volle, ma non volle Ajo bùshtora e j’yma. Quella avara sua madre.

Tri: Vash ti mos u hélhmò Gio: Fanciulla, tu non ti accorare.

Se t’è ndrishign u tut’yym. » Chè muterò io l’animodi tua madre. »

Bieita gnu paar calhike (1) Comperai un pajo di armillc E s’j’ymes ja e dyrgcova E alla madre sua mandaile

Proxenittin e m’i prora. E ’l prosseneta tornar le feci. J’yma dèsh po aghier ’s dèsh La madre volle, ma allor non volle

priiucrc: sicuri che quello il quale era proprio c degno di esso, già si Iroverii Riporteremo invoco un canto Calabrese nato di certo da questi invenzione.

Nascivi piccirillu innamuratu.

Amai ’na donna o nun la poti avirc. lo di la pena ni cascai maiatu, illa lu seppe e mi venne a vidirc Allu sinu por taumi due granati

Cd allu picttu due pomi gentili : — Rinfriscati rinfriscati maiatu, Che po' na donna non si po’morire: — lo nuu vuogliu né mila nè granati,

Sulu alle braccia tua vogliu morire ».

(I) Calhike sarchile ro una specie di scarpe, galanti, con zoccolo ben allo usate dalle orientali c proprie delle Signore. Ebbero il nome forse dalle cali- gac de' Romani, o dalle kaXukes che in Omero (Il XVIII, 401) hanno il signi- ficato generico di ornamenti muliebri. V. l)orsa. 6

Digitized by Google — 40 — padre, sempre burbero: I j’atti mosse i vryryt: Suo acedrarti — Vash ti mos u hclhmò, — Fanciulla, tu non Vet’ tù ndrishign Se t’yt alt’ » Farotti io mutato anco tuo padre ». Gny tcrékc ty vylhiist Un manto di velluto Bièta e ja e dyrgcòva t’et’, Comperai c al padre suo mandailo, tornai: Proxenittin e m’i pròra. E ’l prosseneta me gli ailor non volle .latti dòi po aghier as dòsh Il padre voleva; ma fratello can ferocissimo. I vùlau kény mizzuar. Suo accòrarti — Vash ti mos u hélhmò — Fanciulla, tu non T’c ndrishign Se t’yt vòlaa. » Io muterotti anco tuo fratello ». Bièta gnu bre$ tù rùgkiyynt Comperai un cinto d’argento Me maxèrc damashehinne Con una spada di Damasco, Ty vùlàut e ja e dyrgcòva, E al fratei suo mandaili, Proxenittin c m’i pròra. E ’l prosseneta tornar vi feci. Mbrc£ulòi ai marron; Cinsesi Egli la spada Ty mòtoren as cutuntòi. E la sorella non fece contenta. Gny tù’diely£ menùt Una domenica mattina M’u utfissa o vaila vet. Mi avviai andai io stesso. M’e ciòva ndù camaryt Me la trovai dentro nella camera Cy m’ creghùnej chùshcen Che peltinavasi la chioma; Grèghùnej c piexùncj Pettinavasi ed intrecciava Chyshettin gnu vilostaar, La chioma in forma di tralcio; E pièxnej me filhe aar Intrccciavala con fili d’oro T’arò'ur ncà Anòpulhi, Venuti di Napoli

E mbì shiir c vyi paalh : E su la nuca avvolgeascla a palla.

i biij ndù gkii: La goccia di lagrima cadeale in seno Pipca Ihot ; Po atto nch’iin picca lhotlù, Ma quelle non erano stille di pianto, Se ish £iArmi tù dashurit. Chò era il fuoco dell’amato.

E tùfalha e i ndyita dòren. La salutai c porgile la destra. Vi08c cAlhit my e vùra In groppa al cavallo la mi posi E u shtùra shéshcvet. E gettaimi per gli aperti campi.

Diial pyrpara i vulùu Usci davantc il fratello Me t’cater t’ùnchùlhit Con li quattro suoi zii Me tù shtùt cushùrignt. Co’sette cugini. — Mba ti daalh mùrgiarin — Allenta tu il corso del cavallo, SA fi tàxign pAlhù£yn, Siche io prometta la dote, PAlhen chysai biilh £otti. La dote a questa figliuola di signore.

Tri: PAlhen chy dóshu li mòra; — La dote che volli io mi presi; Cam se vàshicn si bòra: Dacché hommi la vergine come neve Siit e sai trii miilh Sucàt Gli occhi suoi tre mille ducali, Vetulat gn ’etur akùvef, Le gote un altrotanto, Vrttùjùa prà gkiO gnu jetf. — L’interno suo csscro poi un mon- do intero. — [ Tech ùrc£ e Ihiimit Al ponte del fiume

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lì rroStin mbù ly Ihuvossur. Lo circondarono ferendolo Ai Ihuftùi me tre no càtcr Ei pugnò con tre e quattro, PrA raa ncà surropuii Poi cadde di cavallo Me pasti tù buccuryn: Con seco appresso la bella:

Attiè i pushtrùan gcuur Ivi coprironli di pietre. Cùr u buttòsua véra Quando mitigossi la primavera

Trimi u bit gnu kipari£; Il garzone nacque un cipresso; Vasha u bii gnò #rii e baartf La vergine nacque una vite bianca E u pyrcràgh te kiparissi. E tennesi con le braccia al cipresso. Sua) rrush Stia e baar#; Portò sue uve la vite bianca;

Shcójin ty sùmùrmit Passavano i malati Gàjin c shdrònshin. Ne mangiavano e sanavano.

Shcójin ty Ihavóssurit, Passavano i feriti, Byjin fietta kipari£i, Coglievan delle fronde del cipresso Ja e vyjin Ihavomùvet Apponevate alle ferite,

Mbiattu e i Ior dùlhtrshin. (1 ) E subito facevansi monde.

Conto IX.

Superati [ gli ostacoli, pur quaiulo apparivano forse avanti più grossi e invincibili, noi veniamo adesso ad assistere alla scena semplice e lieta degli sponsali de'due giovani ].

Byri chùshiil £ògna Lhcen, Fece risolvimento Donna Ellena, Po vetto me tre bulhaar Consigliatasi con tre bugliari, Ty martòjin Sriin e baarò' Di maritare la vite bianca

jippin kipari£in. il Ty m’ i E darle in sostegno cipresso.

— Ripari^ i x^shmi — Cipresso d’alto decoro

Cy pctùch my t'caa jott’yym ? Che possessi ti destina tua madre? Tri: Malhin my taxi me cafsha, Gio: Promisemi la montagna con greggi, [ My taxi fushat me èra, Mi promise le campagne con messi, Me àra e£é me lhùlhe, Con messi e pur con fiori,

i viali ove riddino i cori, E£c Stomyt pyr canghiélhe ; (2) Anche

raccolta v’er.i la variante, forse egualmente bella. (4 ) Nella di Dorsa seguente Cùr sheòin crusbk’ me nusse Quando passavano paraninfi con isposa Ciàjin dégea kiparigi Frangevano rami del cipresso

E m'byjin fiammurin: E ne faceano il flammeo: Cùr shcójin crusbk'me tfynter, Quando passavan paraninfi con uno

f Sposo Chyputtùjln c9 £rii o baar? Stralciavano della vite bianca E m’byjin dii curoort. E ne faceano lo due corone.

(3) Aroniyt ho spiegato viali dall'ellenico Spoyog, essendo questa parola caduta dalla lingua delle Colonie, insieme con la felicità. Trini

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Caler quelli e t’urmalossur, E quattro cavalli bardati,

Catyr shatter cAlhùar. Quattro paggi che li calvalchino.

— 6ùaj ti, ò'rii e 5Yii£ e baar£, — Dimmi tu, vite, tenera vite bianca, Cy stolhii tu jep jott’yyra ? Che corredo t’ha promesso tua madre ? [ Var. Stolhiit chy m’ taxi m’yma Ver: Il corredo che promisemi [mamma, Nyynl’zoogh e nyynt Ihiign, Nove zòglie, e nove lintee camice, Nyynt chò£a ty vòlhusta Nove chcse di velluto Ty turjòrmòs me aar, Ricamate in oro. Nyynt skepe£y tù gool. » Nove veli sottili. »

Ctonio X.

Nella ventura di questo canto, il poeta s'abbandona al suo felice [ umore dopo vinte le difficoltà e sposata l'amante; la gratin di questa invenzione nè scrinata dalt Ariosto, ove riduce Angelica col è perfetta ,

romito in uno scoglio ].

M’u uS'istitn nyynt trima, Si posero in cammino nove gio- M’u nistin ncà $óu Lhùtii Avviaronsi dalla terra latina [vani, Ty m’ciòjin nyynt vasha Per trovarsi nove vergini, Nyynt vasha l’Abyresha. Nove vergini albanesi.

USes j’ u pyrpòkò placcu Per via scontrolli il vecchio: — Vign effé piach ù me juu. — Verrò anch’io vecchio con voi. — Jce piach e s’unt vlsh. — Se’ vecchio e non puoi venire. — Tech venni ju càlhùar — Ove farete voi strada cavalcando Mùrgiari mù sicl me juu; 11 destriero me porterà con voi; Se t'shpighcmi mbu chyymb, Ove andrete a’ piedi My bynni gn’ ffocanike A me farete un bastoncello, 1 rike. via, Mb’uufi , te gn’trop Per da un cespo d’erica.

My i byyn gnu S“ocanike Gli fecero un randello, USfcs ndy gn’trop rike. Per via, da un cespo d’erica. Nd atto goor tech vaan In quella città ove andarono, Mùarn c shtuun shcùrcti£yn Presero a gittar le sorti Mbii vàshat e sgkiòtfura; Su le vergini scelte; E my c bArfi'a myy e gnòmo E la più bianca la più delicata

Ajo placcut i taccòi. Ella al veglio toccò. Shpèit ncà gny u ndaitin; Presto, ognun per sè, si separa- rono; [

Veccò e ncaan piaccu e vasha E spartiti incessero il vecchio e la fanciulla, [ Gneer cy arruun n

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Placcu Ihutti gny pich ui: il vecchio desiderò una goccia di — Pryghemi chùtù mbó xec »• — Posiamci qui all’ombra. » [acqua.

Piaccut i kùlói gkiuum Al vecchio sopravvenne il sonno Vàshies ndù pryghùrit. Alla vergine in grembo. Vasha c’ish shùmy e ùrt La giovane ch’era molto scaltra

Nzòri skeep e créut sai Levossi ’l velo del capo suo

i gli E mbuliti stgit ; E bendogli occhi;

Sgkiò'i brè£in cà messi Si sciolse il cinto da’lìanchi

E m’i lhid'i dùar£it E me gli legò le mani,

Duargit e chymbù^it. Le mani e i piedi.

Cùr m’u addunaar placcu, Quando si fu risentito il vecchio,

Vasha chish, captùar maalh La vergine aveva superato il monte

At nialh e jatùrin. Quel monte e l’altro. — 0 cush sheon chótiij màlhi — 0 chi passa per questo monte SgkiSòmni, se chùtù vùdés »! Scioglietemi, ch’io qui morrommi » E Ihipissi £ogche e égchyr N’ebbe pietà l’augella selvatica,

E i zimpissi schemantiilh E beccògli il fazzoletto E m’i gappi s!£it; E apersegli gli occhi;

M’ i zimbissi bre£0in Beccògli ’l cinto E m’i sgkitfi duar£it E gli sciolse le mani,

Dùarto e chymbù£it: Le mani e i piedi. Zhogc: Hélhmùtùari lhaalh piaccu, Uccel: Afflitto zio vecchio,

Ez mblhitfu le Séu itt’ Va’, ritirati nella terra tua; Se psora e trimavet -Chè la ventura de’giovani As mund jeet psora e piaccut. » Non può essere ventura de’ vecchi. »

Miechòrys po co sheulhi piaccu Allor della barba che strappossi il

Shar&uloi Só0i, Biancheggiò il suolo; [vecchio.

Lhottùt chù shprishònej piaccu Delle lagrime che spargeva il vecchio

Kr9 kiin pòrrùaBi. Ingrossò il torrente.

Canto XI.

[ Già i due giovani vanno a confessarsi. E sempre più ogni linea

rileva la beltà disiata della vergine, e ’l vero animo del giovine ; che sono poi un chiaro simbolo della vita albanese, semplice, aristocrati- ca. Anche lo sfondo di questo quadro è grande e appariscente come non mai]:

Dùul dieli cà malhet Levossi ’l sole dalle montagne E m’mbiòi di pólesse: E m’ empi due palagi:

I shchépti £dgnys Lheeu Folgorò addosso alla signora Ellena Tech sóbìlhys, mbl Orònit Là ove alla figlia assisa sul trono Me zoogh gki8 Ihùlhe Ari. Con zoga tutta a fiori d’oro,

Ish e i picxùnej chùsheen, Era intrecciando i capelli,

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Mbt shtrit ja e vyi paàlh; Su la nuca glieli accoglieva in palla;

My posht prana i shchépti Più giù poscia lampeggiò Tech ndai pasikìren Là dove vicina dello specchio £hógna Agat shtùara Donna Agata in piedi

Slolhisnej tu biir e sai Abbigliava il (ìgliuol suo Me vùlhùs e yrisoném. Con velluto e drappo in oro. Se chiin vèin tu schemalissùshin Chè doveano andare a confessarsi Schemalissùshin e cuncòin A confessarsi e comunicarsi Te kisha e TòSrit. Nella Chiesa di Teòdoro.

Ntlfii miesdittùs vasha Presso al mezzodì la vergine

Vallo raa mb’gkiuugn te prifti: Andò e cadde ’n ginocchi avanti [al prete.

I 6a: £ot, u cam maal Dissegli: Padre, io ho desiderio Gnii trimi cù m’rrii ndu gkii; D’un giovine che mi sta in seno; Ma shocchet rat» ftèstin, Ma le compagne colparonmi

Shocchet eSe prindùt c raii Le compagne e pur li miei genitori, E cam chyt palavii ». E m’ho nell’ anima questa macchia. »

Prifti i 6a: Flèssa e lhee: Il prete le disse: La colpa 6 lieve: Vet tu jap pyr penitcnzic Solo t'impongo in penitenza

Mos-gnerìu t’ japsh uòNenzie, mai a nissuno tu dia udienza, i Che

Mos guerra t’ i bysh hiir A nissuno vuogli esser gradita

Mosse attiij chù dèshe rniir ». Fuorcheacolui a cui volesti bene ». U ngcré vasha me uratten. Levossi la fanciulla conia benedizione

ErO cy trimi tu cunconnej. Venne l’ora che ’l giovine si co-

[ municassc. Por si kisha m’ e porsèxi Ma come la Chiesa videlo appressare Attèi largu m’e rasbissi: Lungi da sè rispinselo:

— Priru prap, ti amartolò, — Torna in dietro tu peccatore, Priru e pas tu byna miir Torna e, dopo opere buone,

Ea ti méje e my cuncò. Vieni tu a me e mi ti comunica ».

Chiaiti trimi: i baarè", Pianse il giovine bianco in volto,

Vatte e ciòi priftin. Andò a ritrovare il prete. Pri: C’ yy flessa jotte biir, ? Pre: Qual’ è la colpa tua, figlio ? — Vaila crushch u me gn’ nusse: — Andai io, come alfine, con una [sposa: Uffies e ncàha vèjim Su la strada per dove andavamo Na £uu gny rtìpiir shù. Ci sorprese un nembo di pioggia, Gki6 u shprishtin e u rrùpaar E tutti si sparsero per ripararsc Cush mbù raool e cush mbù daarS Chi sotto a un melo chi sotto a

[ un pero, Cush mbù cumbuly£ tu baarò', Chi ad un susino di frutta albcsccnti:

U i £tu as patta cu. Io misero non m'ebbi dove.

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Ree ndù deert còline, Diedi contro alla porta d’una Cap-

lhiò'a legaivi il destriero pella, E m’ mùrgiarin E [ Te praccu pyr nyn dùlliuuò'. Alla soglia sotto al diluviar della

[ Piogge Po me petlicógnt e paar Ma con le ferrate zampe d’inanti

Ai i shcrèt e i rròmaxyra Quel tristo e furente Ciaiti dòrrìis màrmuri, Ruppe la vassola di marmo,

Ncà firàxi ndy gn’ varr’ Donde il giorno, s’immise in una

[ tomba Ditta, e sgkiòi vàshcn e baarò'. E scosse una vergine pallida.

Vash: Trini i drittym e i buccur, Verg: Garzone luminoso c bello, Si m’ shcunde vòdèchicn, Siccome m’hai discussa la morte, Ulhu c puÒOymti gn’ heer, Chinati e baciami una volta

E m’ nzieer éren e màgchym E toglimi ’l tanfo

Eren e Séut £ii ». Il tanfo della terra nera ».

— Trim i drittym e i buccur — Garzone luminoso e bello

Si ra’ pùOe tò pàrù^yn Come baciata m’hai una prima volta Pu96ym eSè tò dityn ». Baciami di nuovo ancora ». Trii heer u my e pù0a, Tre volte la mi baciai,

Trii heer vettòmees i ftessa; Tre volte la fede mia macchiai; l’rà mà ree cò shcòi kielit Poi ogni nube che passò pel cielo My u vuu si xgc mbò £ymer ». Mi si pose come ombra sul cuore. »

Prifti kct’ ndygni za heer; Il prete tacito rifletté un po’ d’ora;

Prà i 0a : Diir, xarree por moon Poi disse: Figlio obblialo in eterno,

E iin £ot Sé t’ c xarroogn » ! E Iddio, ch’esse pure lo dimentichi! »

Canto XII.

Intanto che la felicità era per coronare i due amanti due fatti [ , preoccuparono VAlbania: 4° Le pratiche d'allearsi con qualcuno degli stati cristiani simboleggiate leggiadramente e sconsigliate dalf autore in questo Canto. 2° V eccidio del Duca di Dagnio che dava occasione sì all'avidità di Venesia presulumle Scalari, sì a divisioni funeste fra Albanesi. ]

Shuum vasha tò mira iin Nobili molto eran esse, Gny chùshiil gki9y m’chiin Un disegno tutte si avevano Ty stissòjin gnu monoshtiir D’edificare un monislero Mbi varrin e £otlit Crisht: Su l’avello di Cristo Dio: Shùrò9il cù ty m’ mirrin L’arena ch’elle prendessero Ndy proit détit, Dal lido del mare, UiOit cò ty m’ mirrin E l’acqua elle attignessero Cà gkiri ròvct, Dal seno delle nubi, Rect cò IhAgnyn vitto pyr vit Lo nubi che lavano, d’anno in anno.

Digitized by Google Porsi jetlcn eò'e moon. Come il mondo, anche il tempo. C’ e fyrnixan su stissuri Poiché finirono d’edificarlo Vaan e guun gnu vale mbrynla: Preso per mano cantarono a coro lù dentro; [ Shcooj gnu biir £otti attèi. Passava un figlio di signore per là:

— 1 x<5shymi biir £otti, — Leggiadro figlio di Signore, Ea £óu te cliyjo vale. Vien t’apprendi a questa ridda. — Dee t’£yghòsha u te ajò vale; — Vorrei dar io la mano in co- lesta ridda; [ Po ndai chy t’£yghem u ? Ma vicino di chi mi ponerei io? Dee tò £yghsha ndai tu barS'en Vorrei io prendermi alla mano del- la bianca [ Ndai tu bàrS'ien si bòra: Alla mano della bianca come neve: Po cu trymbem akù chek ? Ma perchè temo io s\ forte ? Se yy boor e lhossiet, Perchè è neve e si disfacc, Tech e Ihee ’s cionniet. Là ove ebbila lasciata, non si ri- prova.

Va. I xésbyroi biir £otti, Don. Leggiadro figlio di signore, Ea £éu te chyjo vale. Vien t’apprendi a questa ridda.

— Dee t’ £yghùsha nd’ at’ vale ! — Vorrei dar la mano in cotesta

ridda ! [ Po ndai chy t’ gyghem u ? Ma vicino di chi mi ponerei io?

Ndai l' cukien si shégca. Vicin della vermiglia come melo-

[ granato. Ma cù trymbem akù chek ? Ma perchè temo io si forte ? Yy shecgch e shcòkiet. Perch’è melogranato e si sgranerà — Ma dee t’gyghòsha nd’ al’ vale; — Ma vorrei pur dar la mano in

[ quella ridda; So mùndia t’ vyghùsha Dacché potrei mettermi

Ndai t’ gnómien brunette. A fianco della morbida brunetta. Po effe trymbem chekù chekò E pure ancor temo troppo troppo Mos mù nziign camarcn Che non m’imbruni la camera,

Camarcn e £ymren . . . La camera ed il core . . .

Canto .Vili.

Porsitti £dgna Voii£ Consigliò la signora Voisa

Ty buccur diàlhin e sai; Il bello fìgliuol suo:

M’ e porsittùncj e i trùghej: Lo consigliava e supplicavaio: — Se ti, duch e btri im’, — Or tu, duca e figlio mio. Ti me Leshin Ducagkin Con Alessio Ducagini l.huré gkiO promani, Rompi ogni conversare. Ducagkini tradituur Ducagini traditore

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Ty gcremissyn tiij biir. Precipiteratti, o tìglio. Ti tue vattur e tue artfur Tu andando e venendo shpii Alla donzella che gli sta in casa, Te vasha cy i rrii ndò ;

Ai tù hélhk gkiarper i £ii. Ei t’attrae, serpente nero.

Triini placches nynch i gkiégki. Il garzone alla vegliarda non porse orecchio. [ Raan bóryt, e m’ e ftoi Caddero le nevi, e lui invitò fìucagkini ty gkiavojin Ducagini per cacciare

Derrat ndyr ishcat c Drinit. I cinghiali nelle selve dei Drino. Zottf Duch hfri te fùsha II franco Duca entrò nella macchia 8ecl me gn’ shoch tù vettym: Affondaodovisi con un amico solo; Tech mizzoor, e^é tù guai, Ove spietati sgherri forestieri E rrotftin e my e vraan. Lo circondarono e me l’uccisero. Ducagkini £ymer-gcuur Ducagini, cuor di pietra,

Trimil my i prèu criet, Al garzone recise il capo, Ej e vyyn te màlha e shpattes E confittolo nella punta della spada,

litri Daga càlhùar, Entrò in Dagnio a cavallo,

J’ c bu8tonnej ùMshit. E mostravaio per le strade. Bumbùlissi Biirm e chèke Rimbombò un urlo funesto Te palassi £ùgnes varfcr. Dal palagio della signora orba. Dilh cà pègeret Duchèsha Usciva de'balconi la Duchessa

Ty shigh Duchea e t’e gnighù; Per vedere il ducac per riconoscerlo ;

E £ùlhes cy i byri £ymùra E dall’ urlo che dielle il cuore

M’ i cuinbùan shpiit e Iharta. Rimbombaronlc le sale alte;

Gcrùshteshit cy my i 9a crèut Delle pugna Ch’Ella diessi al capo

U pyrpòkùlin pegerit Si percossero i battenti U pyrpookù mbf vetheen. Si percossero l’uno contro dell'altro.

Canto XIV.

quattro albanesi, [ I canti che seguono restano rituali alle nozze che conservano tuttora le upparenze d' una festa pubblica. Alla sera del giovedì precedente la domenica delle nozze, la casa dello sposo

empirsi di cittadini e cittadine; e due cori di donne, astanti alla fan-

ciulla che vnjHista il lievito della torta nuziale (pellai intonano un canto di cui non potemmo avere che quattro versi. Porse eh' esso accennava al recondito senso di essa torta confezionata di farina, uova e zucchero, offrente alla superficie in bassorilievo alberi serpi e quadrupedi col sole e la luna alla somma parte-, e potè esser venuto con T intero rito dal mondo pagano, lid antichissimo reputiamo nel

fondo il seguente carme nuziale, che ci sta avanti come un super stile monumento de' cori onde, nella f>elasga Atene, Tespi desumeva t idea del dramma. Ha perchè lai carmi s’allogano costantemente 1

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nella vita reale degli Albanesi, potemmo considerarli qual parte inte-

grante anco della bella storia svolta tra il figlio di Donna Agata e la

figlia di Pietro Shtrori, e qui disporli. ]

Se ti vàshii£a gatfiàre Or tu vergine di grazie ornata, Sà gaSiare aky dùlhiir. Quanto di grazie ornata tanto schietta. [ Cy in’ gkièshyn atta bruum, La quale impasti quel lievito.

Gkièshe fort e ngcùre shuum. Spianalo forte e induralo d’ assai

CARME NUZIALE

La sposa si fa sedere su ’l seggio e si principia a lavarle la lesta

con vino . . . Intanto delle dotine divise in due cori intonano una

consona atta ad intenerire la sposa : poiché le insegnano i doveri coniugali, e le ricordano l’abbandono eh' ella dee fare della sua ca- sa della famiglia e de' suoi parenti.

C. Marini Rito nuziale presso gli Albanesi.

primo cono ni donne

Ulhu nusse e Ihìimia nusse, (I) T’assidi, o sposa, avventurata [sposa,

Er8 héra cu vette nusse E giunta I’ ora che vassene sposa,

Lievito, dell' del Convito nuziale trovatisi (4 ) A’ tre carmi del Imeneo e ap- propriate tre melpdie del genio di quelle de’ versi albanesi endecasillabi, m*

che si scostano da’ motivi dell’ ottonario eh’ è il metro de’ canti di questo poema. Nella poesia albanese antica hannovi pe' versi d’ undici sillabe e per gli ottonari duo ritmi diversi; ma in entrambi la misura sillabica si combina d' un modo natio con la forza degli accenti. La narrazione epica, lo slancio della passione anco, furono espressi in versi di otto sillabe con qualche graziosi itifallici (p. e. jj'Sej shlu rfshit, cadeva la pioggia dalle nubi), i quali constanti di piedi variatamente connessi, danno, in un periodo numeroso di versi, una libera e larga armonia conveniente agli alti soggetti e gravi. Sia d’esempio il metro de’ sette ultimi versi del canto XIII di questo libro.

— ’ ’ — u — uo u —’ — ' — uo V— 0 — ov — o ’ O’J — — ' 000 — oó ’ 0 — — — O ' 00 ’ ov

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Vette nusae chyjo £oogn Va sposa questa signora Ndy cràgul tù gntj £otti; Al lato d’ un signore; Ty sbàr^et gnu shpl e ree. Ad allumarsi una casa novella.

SECONDO CORO DI DONNE

Ju po sboccile e gkitonne. Voi, quindi, compagne e vicine, treccia, Crighùni miir chùshetlùOin , Pettinate bene sua

A tali ottonari in generale si accompagna un casto sillabico, le cui note si reiterano in ogni verso, dando sembiante «l’un giro di walser. E di motivi pur variatissimi ed o concitati o lieti o fermi o baldi, ha quasi sempre con

I’ azione della poesia non altra attinenza, che quella di mettere i’ ascoltante in un sentimento analogo al soggetto di essa, si ebe ne rimanga commosso

Gii simili monotone melodie eccitano gl' improvvisatori.

Il ritmo degli endecasillabi, costantemente appropriati a' canti d'amore o di tristezza, riflette queste ombre dell’animo con pienezza maggiore; e le arie che trovansi a loro adattate, con lor note lunghe e profonde, ti traspor- tano in un mondo lontano, infinito, e t' inebbriano di melanconia : alle quali arie si avvicinano quelle de’ canti nuziali. Che gli endecasillabi sinno essen- zialmente lirici la ragione è da ciò, che in essi, oltre alle rime assonanti, v'A un ritorno monotono d' accenti e misure simili. Ne diamo uo esempio- Frinì « u — u — u — u ajùra binni shtra; e (chytu mhrvnta — — — —uo fatti) jelta, u — uu — o — u 'u — u Na mbàitur mos u gaptù — — Tu fluturoogn e Ihùmia chó patta ! u — u — u ’ uuu — u Spirate venti, riversatevi piogge; e (qua dentro

Tenendoci chiusi, me e lei il Fato) non aprasi il mondo,

A volarne fuori la felicitò eh' io m' ebbi ! Per la misura de' versi albanesi, è fondamentale la legge armonica che abbraccia tutta la lingua e da me accennata ne' miei principi d' Eilelic (pub. in Napoli 1863). Noto per esempio che la muta, seguente in generale i tanti nomi e aggettivi che pajono finire in consonante, convertesi al plurale nella mezza vocale o, come Ihuum fiume Ihùm-ura; e del pari ne’ verbi il suf- fisso, o sìllaba, a finale (vocale o muta che sia) non si perde coniugando, ma si cam- bia nella stessa ti, o nella sua corrispondente intera, y: Come diegeh brucio, Ihagch-ùpt bagno, diegeh-umi bruciamo, diégch-yn’bruciano, Ihagch-u mi ba- gniamo etc; cosi dògk-ia bruciai, dugk-utim bruciammo.

Or qui mi sia dato esprimere il voto che nelle Colonie nostre si faccia raccolta delle tante elegie e degli epigrammi endecasillabi, fiori peregrini che darieno l' imagine schietta dell' intero pensare nazionale.

Ma nulla forse, in questo genere, sarebbe comparabile sii' opera insigne di conoscere e fermare, prima che sperdansi, gli avanzi del canto albanese lo non so se gli echi della musica Frigia, o Dorica, o Lidia risuonino in quello ancora: Potrebbe pur venire che le sue note, intromesse nella musica odierna

vi effettuassero novità allettatrici. Certo è, il canto essere con la lingua la espressione natia delle aspirazioni d’ un popolo, e quelle che con più co- stanza duran seco nelle strade della vita; ed aver insieme ambedue naturai potere di ristaurarlo e tornarlo a giorni antichi stati migliori. Sicchù, e per

I' arte in generale, e per noi come nazione, è di grande momento ia salvezza degli avanzi della musica pelasg.i che fra noi ancor dura. Il Trad

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Pixùnia butt'e bynni panili, Intessetela morbidamente e an- nodate la a palla [ ,

Mos i chòputtùni ndò gn’fiil; Che non le torciate un capello : T’ e varessign chyjo heer. A fastidirla quest’ ora.

Segue quindi la maestra di cerimonie ad ornarla d' ima berretta di velluto o di seta ricamata, che le cuopre le trecce annodate e eh’ un distintivo dello stato conjugale. Questa berretta con vocabolo al- banese vien chiamata ehésa. Ces. Marini.

PRIMO CORO DI DONNE

Mbl Oroon e perùndiis Sul tuo trono di principessa Ni buecur chùshéttùlhùar Or vagamente intrecciata le chiome Me ché£ ty lampàrme, Con chesa fulgida, Me fóren e £ottit ynd, Con l’orgoglio del signor tuo. 0 jréa e vàshavet, O decoro delle vergini, Ngréu se mónove shuum. Levati, ché ti se’ trattenuta assai.

SECONDO CORO DI DONNE

As mùnòi ndògnerii, Non ha già tardato altri,

Se mùnòi £ògna e j’ yma Ma indugiò la Signora sua madre

Ty m’ i biénej zóghien; A comperarle la zoga;

Mos i fiuturonnej shpeit. Sicché non le volasse di cosa ratto:

Ni cù donni t’ e anangeasni Or chè volete affrettarla Tech e prasmia chyjo heer ? In questa ultima ora?

Monu shchéptyn dieli. K appena alzato il sole.

TERZO CORO DI DONNE DA PARTE DELLA SPOSA

Prà m’ i mbiòffur cu do vent. Poi io, come ne li colsi qua e là,

Byra lhùlhet tuffa tuffa, Fpcì li fiori a mazzetti a mazzetti,

Gki8 gkùrtvct ja i dùrgeòva. (tj A tutti i congiunti ne li mandai.

la vestirla < una Passa infine maestra di cerimonie a Iella zoga , sopravveste /Ielle spose, ed ornarla della vantiera ricamata, termi- nando con covrirla d'nn velo attaccato alla chesa, servendo di fer- maglio una spilla rf oro sormontata dalla colomba. — Ces. Marini

(t) Accenna all' attendere che si riunissero tutti i parenti invitali, giusta il costume, dalla sposa per l'invio di mazzetti di fiori. Il Trrnl.

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PRIMO CORO DI DONNE

O nusse, vashy dólhiir, O sposa, fanciulla si semplice, Cui jee mòla e pà-mbieelh, A chi tu sei melo non da altri piantato, [ Shtunur rrygnet pà bott? (I) Gittate tue radici 9enza terreno ?

TERZO CORO DI DONNE PER LA SPOSA

Yygh currài ndógn’ my polissi; SI me nessuno ha mai innaffiato; Vet’se %èa mù lhulhó£oi, Da per se l’avvenenza m’è fiorita;

Vetty dieli m’buccuròi. Esso il sole hammi abbellita.

Intanto viene lo sposo circondato da numerosa schiera d uomini

e donne, accompagnato da due paraninfi ; ma giunto al limitare della casa della sposa, trova la porta chiusa ed è obbligato ad arrestarsi. C. Marini.

CORO D' UOMINI (da fuori)

Ndalandishc zerchù-baarS' O rondine dal bianco collo, Cappe shpèit e m’ubuOtò, Apri senza ritardi e mostramiti,

Se m’ t’ erò jari ndó deer: Che ti è venuto il tuo Dio alla porta

CORO DI DONNE (da dentro)

Retti shochó, se ysht e £yyn; Tacete, compagni, eh’ ella è im-

pedita : [

Chémmi shkyntc£it ndó fiign, Abbiamo i panni nel bucato.

te i pani nel forno: Chémmi buchó£it Tùrri ; Abbiamo

Sà t’ i nzièrmi, e prana vién. Chè ne li caviamo, e poi verrò.

CORO D’ UOMINI (da fuori)

Ma, ti £ott’ e S'ynttirrfi, Ma tu, Signore e sposo. Mos my ezz ni trymburiò; Non mi andare or timido; Se nchó vette ty lhuftòsh, Che non vai a combattere.

(t) Niccolò Tommaseo, che ama e protegge ove che sieno T opere patriot- tiche e mo ajutar volle a che questo poema dell’ Albania venisse in luce quanto chiaro e mondo per me si potesse, mi richiama a dilucidare il senso di que-

sti versi. Ma forse io non ne intendo che la parola esteriore . pure dirò pa- rermi che quel melo sia un simbolo di verginale purezza, intatta all' azione ed agli influssi che torbidi ci si agitano d' attorno nella vita. Il Trad

Digitized by Google . , .

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Po mó vette ty rrumpésh Ma vai per rapirti Atto crie-móló£yn, La vergine dal volto come mela. Atto mes-purtéchó £vn. E di fianchi raccolti e delicata.

CORO DI DONNE (che cantano a un tempo)

Porsi t’ er8 hera e nissyn, Dacché ti è venuta l’ ora, e avviati [ ;

Pash ti Sii tutti xee, mùtyra imme, tu a decorosa, suora mia ,

Porsi dieli cur délh, Si come il sole quando esce

Porsi vera kélhkevet, Si come il vino nelle tazze,

Porsi petta ndyr mbósaalt. Si come la petta su la mensa.

Gnotta jashti ty mbulighet, Ecco il di fuori ti si chiude

Jashti e gkiO jetta e guaj. Il difuori e tutto il mondo estraneo. Si pòiumbe e kielvel, Come colomba de’ cieli,

Me malin e shoccut’ynd Con l’ amore dei compagno tuo

Ti e lhùme nyyn shiin . . Tu felice sotto alla pioggia . .

Ad un colpo di fucile che si spara ad un dato segno de’ cantori la porta sforzata si spalanca, e con lo sposo i due paraninfi entrando i primi, con finta violenza prendon per mano la sposa, che trovan co- , verta del velo, sul trono, in mezzo alle sue cantatrici e congiunte. C. Marini.

CORO DI DONNE

Mirr ni pocca malóra. imme Prendi ora dunque, sorella mia,

Mirr’ falhiim ti ncà shocchet, Prendi commiato dalle compagne, Nei shocchet e gkitònet: Dalle compagne e vicine:

Mirr’ uratten e s’ alt’ yym Prenditi la benedizione di tua madre,

Ty s’ att’ yym e ty t' it’ elt'. Di tua madre e di tuo padre.

CORO DI DONNE DA PARTE DELLA SPOSA.

Cy t’ byra u m’ yma imme Che ti feci, io, madre mia. E m’ nzier ti gktrit ynd E mi scacci del seno tuo,

Gktrit ynd e vatórys’ alte ? Del seno tuo e, del tuo focolare ?

CORO DI DONNE PE’ GENITORI

Pacco urattien ti, biir, Abbili la benedizione tu figlia,

Si tó t’ iin-£otti eS'e l’ vnen. Come da Dio, pur da noi.

Lhè £acòne£it chó chee Smetti i costumi che hai

ti che troverai. E mó mirr atta chó ción ; E mi prendi quelli

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li Cy

Ymral aan ndyr luu bilh, I numi nostri ne' tuoi figli,

Ti pyrOyyn u ndéròshin. Ripetuti, s’ illustrino.

Mentre la sposa accompagnata da' paraninfi . alla testa del cor- teggio esce e si avvia verso la chiesa, lo sposo, accompagnato da un altra brigata di parenti della consorte, la segue in piccola distarla e sempre a vista. Ces. Marini.

CORO DEGLI UOMINI

Chytie Iharl chùtié pyr malli’ Là sopra là su la montagna

Attic ish gnu shésh i rnaò' Là era un piano spazioso Tech culottùjin 8elv£at; Ove pascolavano le pernici; M’ u Ihùshua te gny petrit Slanciossi ivi un’ aquila,

Myy t’ x^shmen c sgkiòf i La più bella si elesse M' e ngcryiti pyr kieli. Lcvossela pe’ cieli.

CORO DI DONNE

Se petritt* e stra-petritt O aquila, sovrana delle aquile, My Ihùshò Oely^y^yn Lassami la pernice; ; Gnotla chekù, si errùmpève, Ecco ella troppo, poiché la tieni,

Lhottyshit bunaar gkiiu. Delle lagrime inonda il seno.

CORO DEGLI UOMINI

Ai s’ e Ihùshòn myy nè Ihargcòn Ei non la libera nè la rilassa Se m’e dò pyr veltheen. Perciocché bramala per sè.

Entrano nella Chiesa e si fa silemio. Indi riescono i conjugi cinti di serto e tenendosi per mano; e i Cori a’ due lati ripigliano :

CORO DI DONNE

Gappu malh e bynnu uuò' Apriti, monte, e fa in te strada Ty m’ sheoogn chùjò 8elyy£ Onde passi questa pernice Chi petrit’ e cràghù-rùgkiyynt... E cotest’ aquila dall’alt d’ argento...

Byn tù bieor e as caa cu t’ bieer, Fa per posarsi e non ha dove posi.

CORO DEGLI UOMINI

Rie ndù deert su vièghùrrys. Cade alla porta della suocera.

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1 COKI UNITI

Se ti £oogn e shcegch-e-pièeur, 0 tu Signora c melagrana matura,

Dllhi mb’ uu£ tdre fe mbu^epsur, Esci in via a scontrarli, di seta sotto lor Shtrói mundàsh pyr nyn-chyymb ; Stendi drappi a’ piedi, [ Bree£ e àrl shtiermi ndyr zèrche. La zona tua aurea lor gitta a’ colli.

Canto XV.

[ Il seguente canto rituale al Convito delle nozie, e con melodia a sé propria e speciale, forse rimonta esso pure alle origini deir an- tecedente, col quale ha delle imagini (Cuna stessa famiglia. J

— Cush e byri triesyn ? — Chi ha fatta la mensa?

— E byri bucca e vera — Fecela il pane e ’l vino Hrushi tù cùk e marva£iu, D' uva rubiconda e di malvasia,

E mish dashi e dérri t’ egchyr. E carne di arietee di cinghiale selvaggio. [ — Triesa e gntj perendi — I,a mensa d' un principe Cy uiSssyn tù bllhó£yn. Che manda sposa la figlia sua. Bù£ùsùmbulat e rógkiynta, Le bottiglie d’ argento, Gcreppat é Artis, Le forchette d’ oro, E atto zóghó-càlho’flyra E le vestite di zoghc cilestri £ógna ty martùara Signore maritate Me vy®8ù margaritare, Con agli orecchi vezzi di perle E volii-shchólhkìeme E le guancie lucenti Te ditta haree-dólhiir. Al di lieto sereno. Vién 8ely£a màlheshit Viene la pernice da’ monti, Vién me cràghyl piono boor, Viene con l’ali carche di neve;

Tund’ e shcundyn cràghù£it Dimena e scuote i vanni E m’ mbion kelhke£it E m'empie lo tazze, Pyrpara nussen e barffen Davanti alla sposa bianca in volto llce-fmturùame. (1) E con pensieri fluttuanti.

Canto XVI.

Levati di tavola « convitati e quasi tutte le cittadine spiegan la [ , vaia in cui stanno pur gli sposi, e girando per Labitalo cantano In rapsodia di Costantino l' adolescente; La quale, comecché sia rimasta rituale ,

(t) K notevole che in questo canto e nel carme nuziale, abbondano i voca- boli composti di più parole, rarissimi nelle altre poesie popolari. Any. Basile.

Digitized by Google — c>\ a noi par che si allochi con le altre del poema, si per epico svolgi-

narrazione s) per la e nettezza de' mento della semplicità caratteri ; e ci proposito. cade a ]

Costantini vògchòIhiO Costantino 1’ adolescente Trii dittò #ynlòrriò Tre dì fu sposo,

Atto shcùar trii dttò, Passati essi i tre dì,

Me nussen tò ree t’ ree Con la sposa nuova nuova Iér8 carta e £otli ma# Vennegli lettera del Gran Signore

Ai t’ voi nd’ùshtòryl. Ch’ ei si recasse nell’ esercito. Costantini aghìera Costantino allora

Vatte te camar e t’ ett’ Andò alla camera del padre,

jattit Di suo e di Ty e s’ymes ; padre sua madre ; pu90ur dòrien, E, baciata loro la E, m’ i mano,

l lhippi urattien. Lor chiese la benedizione.

Prà ciòi tò dàshuryn, Quindi trovò 1’ amata,

Colhkò, e i #.i una£ien : Trasse del dito e diedele !' anello:

1 Co*. Ymt imraen se, £ògna imme Cosi. Rendimi ’l mio or, mia Donna; ;

Mua m’ 0irri £òttiit ma# Me chiamalo ha il Gran Signore, E cam vette nd’ùshtòryt E deggio andar nell’esercito Ty Ihuftògn pyr nyynt vieti'. A combattere per nove anni:

Nd’ atto shcuar nyynt viett’ Se, passati i nove anni Nyynt viett’ e nyynt dittò, Nove anni e nove giorni,

U mos t’ u pyrjèrsha, lo a te non rieda, Vash, tò my martonniesh. Giovane rimaritati. Fare nynch fòlhi vasha. Niente parlò la giovane donna.

Mbetti e m’ i ndygni ndò shpiit, Stette e dimorògli nella casa,

Gneer cò shcuan nyynt viettòt Finché passarono i nove anni, Nyynt viett e nyynt dittò. Nove anni e nove giorni.

Prà placca i vièghòrri Poscia il vegliardo di lei suocero (Se mosse trlma bulhaar (Dacché di continuo nobili garzoni Dyrgcòin e my e dòjin) Mandavano a chiederla)

Btlha imme, i 6a, martòu ». Figlia mia, dissele, li marita ». As fòlhi vasha e baar#: Nulla parlò la giovane bianca:

E m’i byyn cushkii ga#iare. E le fecero sponsali nobili e lieti. Te pòlassi £ottit ma# Nel palazzo del Gran Signore, Pyr menaltie Costantinit In su l'alba, a Costantino Po m’i vatte gn’ yndòrry£ Andò un sogno Chekò shuum e trymbury^ Assai troppo pauroso,

Cy m’ i trymbu gkiumin. Che gl’ impaurò il sonno. Sgkiùat é cufltur, Svegliato e ripensandovi Golhk’ c #à gnò shéròtiim Trasse e mandò dal petto un sospiro,

Sà m’ e gkiegkò {fotte i ma# Tale che udillo il Gran Signore Mbulltur spyrviéreshit Chiuso dentro nel padiglione, *

Digitized by Google Cà nolii c nattics, All’ umidità della notte ; E si u ngcré menattiet E come si alzò la mattina

Byri e i raan daùlhevet. Fece sonare i tamburi. Mbio# bulhaar eSè sogii Raccolse ufficiali e guardie

E m’i vuu ndù rròlhiet: E dispose! i a ruote. — Se ju ushtùrtoort e rati — Or voi, guerrieri miei, Ty vùrtettien mù Sonni, La verità mi dite, Cush mù shérùtòi some? Chi ha sospirato questa notte?

Gkift o gkieen es'u pùrgkièen; Tutti l’ udirono e non risposero ; U pyrgkiègkù po CosUintmi: Rispose poi Costantino:

— Shérytòva u i mièlhi. — Ho sospirato io misero. Zot. Costantin fidili imm’, Imp. Costantino, mio fedele,

C’ yy shérùttma jotte ? Donde ebbe cagione il tuo sospiro ? — Shérùttma imme laargh, — Il mio sospiro per lontane cose è , Se martonnet ìmme £oogn. Chè vassi a maritare la mia donna. Zot. Costantin, e btri unni’, Imp. Costantino, e (ìgliuoi mio,

Po ez’ gcràsgdevet e inii, Ma vanne a’ miei presepi,

Sgki

Ty shpetty si kifti, Veloce come il nibbio, Ty ngcàsh ndy catùnd mbó heer ». Si che tu giunga a tua città in tempo». Vrap rriòS'i Costantini, Precipite discese Costantino, Sgkiò£i caalh gcràsgdevet Scelse un corsiero da’ presepi

Ty shpetty si kifti; Veloce come il nibbio;

[ hippi e raa mbù shpoor. Montògli su, e ’l punse degli sproni. Pach u pryy dittcn e natten Poco si posò nè di nè notte,

Gneer cù raa ndù ù’eet tiij, Fino a che toccò al suo paese,

Ndy t’ u dihturit e dieta. In sul raggiornare la domenica.

E m' pyrpoki t’ aan e lhàsht. Iviscontrossi nel padre suo ve- gliardo.

Cos. Cu vette ti tat Ihòshi ? Co*. Ove vai tu, padre venerando ?

— Vette cu sherettìa imme — Vocimene dove l’ infortunio mio My kcel ty geramissiem. Mi mena a diruparmi. Se patta gnù biir tù x^shym, Perchè m’ebbi un figlio leggiadro, M’è martòva u shuutn tù rii L’ ammogliai io molto giovine Me vashen chù dèsh vetlù. Con la vergine che si volle egli stesso. ditt po ndygni 5ynter giorni stette Trii ; Tre però sposo;

1 Prà erS carta e £ottit maù Poi venne la lettera del Gran Signore

Cy e dèshi tech amaxi. Che ’I volle nella guerra.

Btri im' i piol' helhm Il figlio mio pien d’ afflizione

Aghier vashùs i pròri unà’^en : Allora alla sposa rese l’anello: « U cam vette nd’ ùshtùryt « lo deggio andare nella milizia « Ty lhuftògn pyr nyynl viettù; « A combattere per nove aoni, « Nd’ atto shcùar nyynt viettù « Se, passali essi nove anni « Nyynt viettù e nyynt diti’, « Nove anni e nove giorni,

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« U mos u pyrjèrsha, « Io a te non rieda,

a Mba ti unà£en c marioli ; « Tienti tu l'anello e ti marita;

o Se veti’ jam po nyyn ffee. » « Percbi' io sarò già sotterra ».

Anni sot vasha martonnet Or oggi la giovane si marita,

K dufTekety có shcréghen E i moschetti che spannisi Woon ’dechen e blrit im, Annunzian la morte del figlio mio E u vette gcramissiem. Ed io vo a gittarmi da una rupe.

Cos. Priru prap ti, tàt Ihosh. Cos. Torna tu indietro, padre vene- rando, [

Se il biir vieny gnómènd. Perchè tuo figlio verrà or ora.

— My rrùash i buccùri diaaih — tu, bel garzone Cy m’ See laijra tó miir Che data m' hai nuova buona, Se Costantini im’ vien gnómcnd. Costantino mio venirsene or ora.

Trìmi ncau e i raa mb’ shpoor, Il Giovine trascorse c toccò de- [gli sproni,

Mos t’ e ciooj tó vyyn curoor. Non forse trovasselagià inghirlandata. Te héra e mèshvet All’ ora delle messe

Rryvoi te catundi tiij, Pervenne alla città sua, Drekd ndy deert kishies; Dritto alla porta della chiesa; Cùr rróvonnej nussia Quando già arrivava la sposa E ffyntórri e gòra ndai: E lo sposo, e la città d’intorno; E kiantòi Gammurin. E piantò la sua bandiera. Coi. Se ju crushk’ e ju bulhaar Cos. Che voi affini e voi bugliari Duamni effe mua nun (l) Vogliate pur me a paraninfo Te ndéra e chósai nusse. Negli onori di cotesta sposa.

— Miir se na vien ti Irim i guaj — Ben vieni tu a noi giovin straniero, [

Trìm i gùaj i x^-shmi. » Giovine straniero bello e gentile ».

U gap kisha e httin. Si aperse la chiesa ed entrarono.

Attie érfi postai bòra Quivi venne poi I’ ora

Ai t’ i ndórròn una£yt. Ch’ e’ scambiasse agli sposi gli anelli. [

Por ndórròi e i Iha te gkishti Ma scambiò, e lasciò nel dito

Nusses unà£en e tiij. Alla sposa l’ anello suo proprio. gdgnes si m’ i vaan siit, Alla signora come là corsero gli occhi. [ E gnògur, mbl ju ffifis; Riconosciutolo, fuggiron li pensieri; Lhottót e my ju ruculistin E le lagrime rigaronle giù Sùnibula sùmbula fakes còke, A rivi a rivi per le gote rosee,

Pichó pichó gkirit baarff. A goccia a goccia su ’l seno bianco. Costantini cy m’ e paa: Costantino che la vide: — Se ju priftóra e bulhaar — Che voi preti e bugliari

(t) AVtn'J, come famul, è nome che significa i parrains dello sposo.

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Mbàni dualli allò curoor Ratteniate il cambio di quelle co- rone. [ Coslantiin curoor e paar Costantino la prima corona Lhi#i me aty vash pyr moon; Legò con questa giovine in eterno;

Costantini u ndyr tó gkiaal. Costantino sono io tra i viventi.

Canto XVII.

— Mori vash, e bar#a vash, — Ma, giovane, bianca giovane,

Si m’ u ndiete somenàt? Come sentita ti sei questa mattina ? — Gkietla u m’yym e gkietta — Ho trovato madre, ho trovato

t’ atto [padre [ Gkietta vólè£yr rrushistaar, Ho trovalo fratelli virili, Gkietta u motóra Ihevduàra; Ho trovato sorelle di nobili forme;

E vet cam trìmin e rii: 10 poi ho il forte garzone:

DÌUen my rrittyn me sii, 11 giorno ei m’educa con gli sguardi Natten my shtórngcòn ndó gkii. La notte mi stringe al suo seno. — Ju ruat' iin £olt’ ndójettót, — Vi custodisca Iddio nel mondo,

Ju #yt dittò t’ bar5“a e viettó. Diavi giorni candidi ed anni.

Canto 2

Ora si i privata e procede svolgendosi sempre [ chiusa i astone ; più cospicuo il dramma nazionale. Dirai : È scorsa la bella età. e la morte. soprarriva la vecchiaia con infine ]

Bumbólissi noov e chòke, Fu come tuono una nuova funesta,

Vinn’ se turcu £olli ma#, Che sopravveniva il turco gran si- Vino’ me shtatókint gcalhee; Veniva con settecento galere; [gnore. Ncà gcalhee silo dikint Ed ogni galera portava ducento Trìma turkó tó sgkiè#uris. Giovani Turchi scelti.

C’ erO pefiotti ndy pólàst, Come giunse l’esploratore alla reg- già, [ Pe#èpsi gki0 atta tri ma Fece avvisati tutti que’ cavalieri, Atta trima e atto vasha, Que’cavalieri e quelle giovani dame, mosgny E gklcun póshtòi; E nissuno ad alcuna parte fuggissi ; Por gnó vash peróndèsh Ma una giovane principessa

Vuu zilhoon ndó pryghórit Si pose il peplo nel grembiule

E m’ u shtuu ndy addunaar, E gittommisi per li campi,

Brympèu shchymbun e baar#. Traendo verso il masso bianco.

Aan altèj po mbi pórrùan Da quel lato, ma sopra il vallone. Shcooj orleje Arminoit. Passava la schiera d’Arminò. Dizza ndygn gnó càlhoor Alquanto ristette un cavaliero,

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E prosèxi e u sdrep. Affigurolla, e misesi per la china.

— Nchinni shoch se ju arryygn : — Scorrete compagni che orgiu- gnerovvi. [ Dii có pee e nynch pee Non so che ho visto o intrav visto. Pee tu bar&'n gny shùrbès, Ho visto una cosa bianca, Tu baarS si gnu zop rdghiynt; Bianca come un pezzo d’ argento; Nd’ ajo ysht zop rdghiynt Se essa è un pezzo d’ argento Pjés Se juve u my ju bygn. Parte anche a voi io ne farò. Neh’ ish po ajo zop rdghiynt Ma quella non era una massa d’ ar- gento, [ Se ish £ógna e abyrèsh. Chè era la signora Albanese.

Trimi u sulh e m’ e rùmpfeu Il giovine slanciossi ed alTerrolla Pyr prialhdsin e chdsheen; Per lo braccio e per la treccia.

Vasha u shtrùa e my j’ u trùa : La donna si stese per terra e sup- plicollo: [ — Zot Ihùrèm dizzàO chdsheen, — Signore, lasciarne alquanto la [treccia,

Si chdsheen priàlhsin. (4) E con la treccia il braccio

Se t’ e 8om e ty ra’e gkiégkiesh. Dacché ti dico, e che tu m’ oda, Se, te pdlassi Jottit maS Che nel palazzo del Gran Signore, Bashch me £ottdriin tyi Insiem con le Signorie vostre, Patta tre vdlò^dris, lo m’ebbi cresciuti tre fratelli;

i . Prà catyrti im’ vdlaa, Poi il quarto mio fratello

Skandyrbeccu buurr i chék È Skanderbegh uom terribile, Cy ndd vapt véries Che nel caldo della state

Shculhi lhts e byri yce, Svelse querce e fecene orezzi ;

E me shpettien ndy door E quando abbia la spada in mano S' e taraxdgnyn ushtdrtoor ». Non impauranlo guerrieri ».

Aghier trimi piòt garee Allora il giovine in gran letizia E mòri pyr dórie, Pigliolla per mano, E m’ e kéli ndy cuventdt, E menommela nel Consiglio Cu m’ e prissin Arminòi Ove lui aspettavano Arrainò, Arminòi me Amurattin. Arminò con Amurat. — Se ti Sotti Amuràt — Or, mio Signore Amurat, Byn si dò ty e pdlhkèn; Fa’ come vuoi e ti piace ;

Gnotta vash u chy t’ siel Ecco giovane donna eh’ io ti meno; E motdra e Schyndyrbeccut, La sorella di Skanderbegh, Chy ciòva tu scheguryn Cui trovai nascosa Ndy pdrrùa tu vettdmin. » In convalle solitaria ».

Zolli raaS po dish t’ e shigh Allora il sultano volle vederla, Dish t’ é shigh eSfe t’ e gkiègkunej Volle vederla e anco udirla

(t) Prialhùs è una parola antica, della quale non mi venne fatto di conoscere

1 significato.' il braccio, eh' io posi è cosi un riempimento di lacuna.

Il Trad.

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- tifi -

Amu. Giacca vsht chiijò copilhe Amu. Daccliè 6 questa giovane E mòtóra c cui my ke biir, Sorella di chi a me fu in luogo

[di figlio,

Mbiòi cuppen me xaròm, Empite la coppa di gioje,

ti M bràgia ndó pryghórit ; Versagliela tu nel grembo

T' i shtirbcegn por p;illiò£yn. Chè le serva di dote.

Canto XIX.

Tech ciucca c gniij ràxi, In su la cima d’ un colle, Nyn xeen e gniij Ihissi All’ ombra d’ una quercia Prapt dèrgkej Deddi Scura, Giacente languiva Deddi Scura, Velt’ e as mund’ ftóghónej Solo non potea rinfrescare

Ziarmin e Ihavòmóvet. Il fuoco delle ferite.

Shcùan shoct piono foor. Passarono i compagni pieni d’ aile-

[ ro animo — Via Deddi Scuur, vemmi. — Su Deddi Scura, andiamne. Ded. Ezzóni, shoch, ju mi) shóndét’, Ded. Andate, compagni, voi con

[ salute, U me juu as vign myy. Io con voi non verrò piò. Po ju trùghem, atti posht Soltanto vi prego che laggiuso

raccogliate il cavallo. Ty m’ mirróni mùrgiarin ; Mi

Mos eSé ai t’ posovissign. Che non pur esso muoja.

E tn'ja e kòlni t’im btri : Ma menatelo a mio figlio :

Se rrittet e, ngkièshur shpatten, E divenuto adulto e cinta la spada,

Ilippyn ai càlhin t’ im’; Monterà egli il cavallo mio, Tech lhuITa se m’ e kélyn Che nella battaglia lo porterà

Prèi mizzoort c’ i vraan t’aan; Contra i nemici che gli uccisero

il padre [ ;

Ty m’ friign $ymryn. Si chè in essi ei sazi ’l cuor suo.

Canto XX.

Gajin buch si di vùlè^yr -» Stavano a mensa quasi due fratelli

Skandyrbeccu e Milo Shini, (f) Skanderbegh e Milo-Shini,

i

(4) Milo Shini è nella opiniono popolare il secondo eroe nazionale dopo - Skanderbegh. Veramente egli è l’ ideale del cavaliere Albanese: d animo sem- plice, invitto, e su cui 1' onore lutto può è immotamente costante alia Fede

in Dio c negli Onesti della sua patria. 11 poeta pare ebo non abbia cho imitato dalla realtà, o che abbia solo creato una situazione divina per met-

tere in rilievo il giovine eroe ; che, alzato di tavola e. dopo vinto uu Esercito intero, resta ferito dal fratello inscio c pugnante di conserva co' Turchi, e che ha pur teni-

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Ndyr talhùryl c rógkiyynl Ne’ piatti d' argento, Me gcréppat e àrtis Con le forchette d’ oro, Gajin Ibépura e capògn; Mangiavan lepri c capponi;

Véra chy shtljin ndyr kèlhket Il vino che mescevano ne’ bicchieri Marva£è£e nyynt viettòsh. Malvasia di nove anni. Po gnò e gkiógkùtin bumbulima Quand’ecco udirono fragori, Bumbulima c gkiyym pùrtèi Fragori e tuoni di là oltre,

Pyrtèi e mb! ré^et Di là oltre, e per sopra i colli.

U pyrgkiegkù le Skanderbeccu : Disse allora Skanderbegh : — Milo Shin, vólàu imm’, — Milo Shini, fratei mio,

Dilh e sitigli co gkiyym jaan: Esci e vedi che tuoni sono :

Se nd’ yy kieli cy gkómòn Che se è il cielo che tuona

Ty puniresti drek’ e prap: Torna tu dritto in dietro : Nd' atto jaan gkiyym Turkish Se invece è tonare di Turchi

Ti l’ dàlhsh tu my Oórrèsh. » Che ti ritragga e me chiami. »

Trinai me shattert e tnj Il giovine con gli scudieri suoi Mbialtu hippi càlhuar, Incontanente montò a cavallo, K dòli pyrlei e paa. E usci di là oltre e vide, Paa se neh’ iin gkiyym kielsh, Vide non essere tuoni di cieli. l’o iin Turkit preiveshtaur Ma ch’era l’avanguardia de’ Turchi

Me vantilhe l’ gappura. Con bandiere spiegate.

Trimit my i nditi turp Al garzone parve disdoro

Ty pyrjìrej t' i flùrrit Ritornar chiamando

Skundyrbeccut ty m’ i ndighyn. Skanderbegh che gli ajutasse.

E pieti trimniin e tiij : E domandò alla gioventù sua :

— Se tij trimnta imme — 0 tu giovin mio essere,

Sà £ymóra my t’ byn ? Per quanti il cuore ti fa ? — Nyynt £yrara md byn — Nove cuori a me battono Ty Ihuftògn pyr nyynt kint ». Da combattere per novecento ».

Dèsh tò pienej ma^ercii : Volle dimandare anche la spada: — Shpat damashehina imme — 0 lama damaschina mia,

Tiij sà £ymra my t’ byn ? A te per quant’ il cuor fa ? — Nyynt mua £ymra mó byn — Nove a me cuori battono Ty Ihuftògn me nyynt kint ». Da combattere con novecento ».

Pieti prà càlhin e tiij : Domandò poi il cavallo suo:

— Porsa tiij murgiari ìm’ — Ma a te cavallo mio

Sà aio £ymra my t’ byn ? Per quanto fa il cuore?

— Nyynt £ymóra m’ byn — Per nove il cuore mi fa, Ty Ihuftògn pyr nyynt kint ». Da combattere per novecento ».

perato il dolore di sua morte, dalla gloria, dalla contentezza del ricondurre in casa il fratello e dal Paradiso ebe P aspetta.

Nel lih. Ili chiude la nostra storia ultimo grande, Pietro Shini; ma di que-

sta famiglia di semidei tace Barlezio. Il Tiail.

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Shtuu siit aghier ndu'r kiel, Volse il guardo allor ne’ cieli,

Lhussi : Ndighym iin £otù, ! Pregò : « Soccorrimi, nostro Dio ! « Ty trughem S'c shen Palhi ». « Mi raccomando anche a te San

•». [ Paolo Byri crik e m’ u shtùlùa Si segnò della croce, e slanciossi Si petritti ndyr lumburtfa. Come sparviero fra colombi marini.

Za tu vruar za ty lhavossur Quali uccisi, quali feriti,

Ndyn shpat’ gkiOy i shcoi Sotto la spada tutti li passò,

Gkifl nd' altti trual i shtròi. Tutti in quel campo li stese.

Gny i verbyr ncà gkiaccu i tiij Un solo accecato dal proprio sangue, Sà ngcrègu gnó jàtulyj Potè incoccare una saetta

E i ciaiti gnu shpatuly£. E gl’ infranse una spalla.

1' Po si trimi i valle siper: Ma eroe come ricorse a Ini sopra:

— Buam ma cush jee ti trim ? — Ma dimmi chi sei tu, giovine ?

— Jam i Àrbrèsh u Gkin Barffèlha, — Sono Albanese, io Gino Bardhella. — Gkin Barffeelh, vòlau im,’ — Gino Bardhella, fratei mio,

t' Mba tuttié mos u vras ; Ritraimiti davanti ch’io non t' uccida ;

Se jam gkiaccu i dèiturid Perchè son del sangue inebbriato, Ty gkiaccul tu kennit Turch » Del sangue del cane Turco. » E rrtimpèu prà miir pyr dòrie Preselo indi amorevole per rnanu, E kéli te Skandyrbeccu. Il condusse a Skanderbegh.

— Zot, mos u mùriij memua; — Signore, non t’ adirare meco

pròra, gki6 t’ ivràva. io tutti li ti Nd’ u s’ u u Se non tornai , ho spenti. Se ndù mos mù chee bes Chè se non me credi, Dilh cuntrèlha OccriSys. Esci di incontro a Ocrida. Ym eò'è falhiim, se u byy Dammi anche licenza; eh’ è fatta

Ghéra e t’ pryiturit ». L’ ora del riposarsi ».

Hitur dieli, erfi’ùtin mbu shpii : Tramontato il sole, vennero a [casa.

Mil: Agchó£ùashu £ògna m’ vym, Milo : Salve, signora madre mia,

Gkin BarS'elhyn t’ yt b!ir, Gino Bardhella tuo figlio,

Gkin Bartfèlhyn l’ im vólaa Gino Bardhella, il fratei mio,

T’ e sòia : ni mua uratten Eccolo a le : or a me la benedizione.

Gratten e t’ iin £otti La benedizione di Dio

Ym’ e ty gki9 yngkulhvet ». Dammi e di tutti gli angeli ».

Digitized by Google LIBRO III.

Canto 1.

l)a questi primi vanti spira un alito di felicità, eh' era, nel- [ t' Albania, conseguita alla pace vittoriosa. Sembra che la nascita d' un

figlio fosse venuta anco a coronare il contento de' protagonisti delle storie antecedenti. ]

Friin gn’ajyr gnyajdriO Soffia un vento; un venterello

Friin i goo! i dréS'urifl, Spira tenue, vorticoso, Lheefl mó gappyn dérien Lievemente apremi la porta

E m’ tùndyn diàlhflin, E mi dondola il parvolo,

Tech viret ndu ninulhyt ; Ove pende nella cuna;

My e tundóni0 (<) e m’ e sgkiòn. Me ’l dondola e me ’l riscote. — Kettu kettu blri ìm’ — Taci taci, figliuol mio, Se a lha valia, e vieti jott'yym Che sciolta è la ridda e verrà tua [madre, Vièti me gkìshtdt piot unàga Verrà con le dita coverte d’anelli,

Pioti Ihùlhe zerchu’Oin, Ornata di fiori il collo, Ty jep sis e ty kólon. Daratti la mammella e t'addormerà.

Cranio 11.

Lhigktiròjin dii copilhe Discorrevano duegiovani donne. Di copilhe e gkitonne Giovani e vicine Pachóshi ty martùame. Di poco maritale.

601 e rèa e £ògnùs Agat : Diceva la nuora di Donna Agata .

— Cam u anach t’ aria — Io ho collane d’oro. Curalha e margaritare Di coralli e di perle, Cam vòlhusse e mundàshùra Ho velluti e sete

(4) Il vezzeggiativo nella lingua albanese investe anco i verbi nelle terzo persone plurali, e ne' participi e negli infiniti, significando quel modo tene- rezza d’ affetto in chi lo pronunzia. 9

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Ndyi sùndùke e camaràvel, Nelle ; casse ; e nelle stanze,

Cam criatte cy m' gkiégkùgnyn; Ho ancelle che m’ ubbidiscono :

Gki0 se m’ i tfa £otti Im. Tutte le quali mi ha donalo il si- [gnor mio.

— Vett’ u pò jam my e Ihuum : — io però sono più beata:

Cam pyr skép kielin me ilhi£, Ho per velo il cielo con stelle,

Cbé£a imme dieli, La chesa mia è il sole;

Cam pyr zoogh détin, Ho per zoga il mare,

Oronni jetta e gkieer; trono la terra E E emmi grande ; Tech ndò rrii sgkiùat ndófiyy ». Ove a mio grado e veglio e dormo ».

U prùar mby l’ kèshur £ògna: Riprese sorridendo la signora :

— Po sà e fanym jam vetló — Ma quanto felice sono io !

Cam te dieppe diaalh e paar, Ho nella cuna il figlio primogenito, Cy cdr késhyn cùr claan Che, quando ride, quando piange,

£ymren mua m’ e ndaan. Il cuore a me conquide. — ’Ae u cam vashe£ le dieppi, — Anch’io ho una fìgliolina in cuna,

Cy ’m friin si yngkùliO, La quale mi respira come un angioletto, [

Caa tù ruami0 c’yy garee ; Ha un guardare eh’ è allegrezza;

Ndy gàlhel tù meerr maul, Se si distrae, ti rapisce gli alletti,

E cy t’ jeet e byyn copilhe ? K che sarà, divenuta adulta?

— Merr £ymren e btritim’: » — Rapirà il cuore del fìglìuol mio: » U pyrgkiégk’ £6gna norce. Replicò la signora pensosa.

Canto.Ill.

Vasha cy chish bieerr’ tù £oon La giovanetta che perduto ave-

va il signore, [ Tv £oon e jarin e sai, 11 signore e forte suo, Myy es’e gkiégkùnej mbùshpii, E non più udivalo in casa, Po m’ e dii] ndù fìlhakii Ma sapevalo in carcere Te dùart e Turkùvet, In mano de’ Turchi, Ndy gaSiit tù gkiOve, Mentre che’n felicità erari tutti, Raa chek’e mùndur màlit. Cadde di sè, troppo vinta dall’amore. Shégura lhórèu shpiin, Di nascosto abbandonò la casa, Ciàti hórien mby bré£ Ruppe la neve insino alla cintura,

Shàculin gnèra mbù gkiuu, Il ghiaccio insino al ginocchio,

Prapa e Ihyyn malhet e sai. E, dietro a sè lasciati i monti suoi.

Ciòi jarin ndu fìlhakii, Trovò il suo Marte in carcere; Atty nzòri e hlri vetlù. Lui ne trasse, e vi entrò ella.

Pràna u vuu e my i trùghej Poscia si mise a raccomandarglisi

— Se li £ot mizòri ìm, — Ma tu, signore mio crudo,

Mos mù byn tù bànem ; Non far me qui inerbare Se m’ bàriet zóga Chè mi s’ inerberà pur la zoga,

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Tech e cara tu villanie Là dove la mi tengo in serbo PrériO e kèpurià. Tagliala e cucita.

Po ti £ot mizzori ira Or pensaci, signor mio crudo.

Mos mù byn tó bàrieni ! Non far me inerbare ! Se uni bàriet chùshelti Chè mi s' inerberà la chioma. Si e a cam tu pièxurifl, Nel modo che hom mela intrecciata, M’ e piéxur me fiihe àri Che me la intrecciarono con fili d’oro Te pillassi £ottit t’att’ » Nel palagio del nobil mio padre ».

Canto IV.

Decifrando 1' oscuro simbolo di questa poesia, nella fredda Con- I tessa ci è partito avvisare i seniori d Albania che sconsigliavano da

incursioni in Turchia, a cui Skanderbegh , aombrato nel Conte, pur si risolvete per stimoli contrari ]

Parastén Contesila Coont Si presentò la Contessa al Conte:

— Se ti Coni e btri im' — Or tu, Conte e figlio mio,

li gkiavò, Tutti j monti perlustra pure, cac- Gki6 malhet m’ i dando, [ Maalh e clyshetfrys mos ghiavò, Al monte del dragone non andare a caccia, [

Se dèlh clysheò'ra e my l'gaa, Ch’escirà il dragone e mi ti mangerà.

My l’ gaa e ni’ ty pyrpiin. ». Mi ti mangerà e trangugierà. »

Trimi s’ymes nynch i gkiègk Il giovine alla madre non porse orecchio [ ;

Por i gkiègki s‘ buuccurys: Ma porse orecchio alla bella :

— Mos gnu malli li trini gkiavò, — Per nissun monte, o giovine, non cacciare [ ;

Maalh e ciyshèfi'rys ché t’ gkiavòsh. Nel monte del drago dei menar la « caccia. [ Po si htri ai te malhi Ma come entrò egli nella montagna,

Dual ClyshèJra ty m’ e gai. Usci il Dragone a divorarlo.

I trymbur diàlhi ju trua: Il garzone cominciò pregando: — Se clyshè^yr e straclyshòS'yr, (t) — O Drago, re de’ dragoni, Lhem vette te m’ yma ìmme Lasciami andare alla madre mia

T’ i lhippign urattien. A dimandargli la benedizione.

— Ym ti bessen prana ezzó ». — Dammi tu la fede, poi vanne ».

Rio£ tech e jyma: Corse alla madre :

— Se ti m' yym e m’ yma imme, — Or via madre, madre mia.

gli gli diinoo forni j (4 } Si noti che, apponendo la sillaba atra al nome, Albanesi superlativa. Stra-clyshèdyr quasi primo della specie, così nel canto nuziali stra- petrlt Sovrana delle aquile.

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Ym uratten e vùdèches ». Dammi la benedizione in morte ».

J’ yma i ò'a uraltien. La madre diegli la benedizione. Cidi eSè tu buccuryn: Ritrovò anche la bella:

— Ty fàlhign u £ogna imme; — Or addio, mia donna : Se vette e ngch’ shighemi myy. Che vado, e non ci vedremo più.

— Dua t’ vìgn u me tiij ». — Voglio venire anch’ io con te ». Hippi ajo gnu caalh tu baarò', Montò ella un cavallo bianco, Ai hippi gnu caalh tù £ii, Egli cavalcò un corsier negro, E vaan te màlhi clysheSrys. E andarono al monte del dragone.

Sa Clysheè'ra m’ porséxi Tosto che ’l Drago ebbeli affl- i gurati [ da lungi,

Zuu mé u xarèpsuriO; Cominciò tra sè a rallegrarsi :

— Lhùmia u Ihùmia Clysh65yr ! — Felice me ! felice Drago ! Chfeshia gny e byra dì. Aveva uno e fecine due,

— Miera ti miera Clyshèfryr — Misero te, afflitto drago, Chèshie gny e as chee mos gny: N’ avevi uno e or hai nissuno ; Folhi vasha u byyn' affer; Disse la giovane faltaglisi presso,

Ej e ngcrtti e lhitfi ventit. E I’ agghiacciò e avvinse al loco.

— Cy gkùrii mù jee ti vash ? — Di chè schiatta se' tu, giovane ? — Jam e bllha e hynnies — Sono Figlia alla luna,

Cam pyr attù dielin : Ho per padre il sole :

Vet klelvet, Io la folgore cieli jam picca e sono de' ;

Ncéha mù bie màlhevet Onde casco su i monti,

Màlhevet e fùshavet, Su i monti e nelle campagne, Mbl foorn e tù lhigchies. Su l’orgoglio della malizia. — Vai£ mbl vàsha^it e tféut, — Donna superiore alle donne terrene, [ Ezzù ti miir e me shùndettù, Vanne beata, e con salute

Trashigchee trimin t’ ynd ». Goditi il giovine tuo ».

Canto V.

Mbiòi'i Crooj Skanderbeccu Raccolse in Croja Skanderbegh

Bulhùriin e pcshpùchùrat, I patrizi e i Vescovi,

Ai t’ mirrù me tà vulhii Per prender con essi consiglio Ndy cù goor tù cionnej nusse. Di qual città avesse a scegliersi moglie. [ 4. Bulh. Mirre, £ottù Napulitane 1° Cons. Prendila, Signore, Na- [politana.

2. Bulh. Porsa ohék nd’ atty Ana- 9° Cons. Ma troppo, in quella Na- Ty gndma ndù lhimontii pulh, Molli, nell’ ozio poli, [ [ Dighen vàsha£it e ngcrissen, Si levano le fanciulle, e trovale la sera [ ;

E bùshtièri shplvet ona F. ’l faticare delle case nostre

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1 varessyn ó'e i vryyn. Le annoja e uggisce. 3 Bulh. Jaan te Pulha my e affer. 3° Cons. Ve ne sono nella Puglia a noi più vicina. [ 4. Bulh. Bulhùrèsha gasare 4° Cons. Signore graziose e nobili

Caan Bari e Taranti : Hanno Bari e Taranto : Po tu £acònura tógaptes, Ma avvezze alla largura, Ty shéshi mosse me lhùlhe, In campagne sempre floride,

I ncushtonnet £ymra Lor si angustierà il cuore

Te rréOi i màlhevet aan. Nel cerchio delle montagne nostre. Dyrgcommi Sicilie, Mandiamo in Sicilia,

Caa se btlha attiè Perendi. Perchè ha ivi di sue figliuole il re. 2. Bulh. Cà vappa e axóte détit 2° Cons. Dal caldo e dall’alito E arSur ndyr timpa e boor Venuta fra rupi e nevi, [del mare, Zoogn vash bier shóndeen. Una signora giovane perderà la salute. Skan. Por dii u chó cam tù marni. Skan. Ma so io chi debba prendermi:

Vashen e dua t’ Arbrésh La giovane la voglio Albanese Gclùghie e £acòneshi. Di lingua e di costumi. Andai, £ottra, ndy e donni, Però signori, se lo credete. Te pelassi Arianitit, Nel palagio d’ Arianite, Cattar, dyrgcòmmi, te fòglia In Cattaro, manderemo alla signora Doniichù Marimba. > Donica Marina. »

('unto -VI.

Zottin anancassónej vasha. Al marito dava fretta la giovane .

1 — Anancassu £otti imm — Fa’ presto, signor mio ; ;

Gkitì se shcuan shòchu’£it, Perchè tutti passarono i compagni,

PrapaniO e my t’ lhaan. E dietro a sè lasciaronti ».

Akù cu u anancàs trimi Tanto diessi fretta il giovine

Sà xarròi shapóchen Che dimenticò il cappello,

Shapóchen e lavutó£yn. Il cappello e ’l liuto.

Cùr po duali nyn catuund Quando poi usci sotto al paese,

Attie shoct j' u addunartin. Quivi i compagni videro che man- cavangli. [ — Se ju shochó£it e mii — Or voi, compagni miei, Nchinni daalh se ju arryygn ». Non correte, che vi raggiungerò ».

E u prùari drek’ e prap. E tornò difilato sopra i suoi passi.

Ngkitti shcàlójit e shpiis. Montò le scale della casa :

— Gap déren, e buccura ». — Apri la porta, mia bella ». ajo Nd’ e gkiegki as u pvrgkiegk’ ; Se colei P udì, non rispose ;

i M’ Oirri su diti Chiamòmmela di nuovo :

Nd’ajo e gkiegkó nynch u pyrgkiégk Se ella udillo, non però gli rispose M’i dirri tó trettien. Chiamolla per la terza volta Nd’ajo e gkiegki as u pyrgkiégk'. S’ ella udillo, non rispose.

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S lillti e i raa déries Spinse e percosse alla porta E m’ e shtuu pyrmbrynta praccut. E gittolla riversa dentro del limitare.

My cioi vashen e tiij Ma trovò dentro la donna sua

Cy briS ove gnii trina tù gùa] ; Che si godeva con un giovine [estraneo

Shkittì shpatten cà utili, Trasse la spada dal fodero,

Shpòi gnèrin e jatùren Forolli I' uno e I' altra Ty mblgtur e pà-foolh. Intorpiditi e muti.

Prà ngcryiti e mbultti déren Poi rialzò e chiuse la porta

E holhki trìmin e vashen.. E trascinò il garzone e la donna

I preu chyymbt i prfeu duart, Lor tagliò i piedi, lor tagliò le mani,

Zoppa e Qelha my i byri. In pezzi e bocconi li fece.

Sà m’ i mbiò9i ndyr di 6as, Si che raccolseli ’n due sacchi,

I ncarcòi prà te gnii mushch Caricolli su d’ una mula

i li al E m’ rraxu ndy mulii; E portò mulino ;

Tech i shtuu tù biùghùshin. Dove gittòvveli a macinare.

Curna te tyrmoiha i paa Quando nella tramoggia li vide Mby dritty tù hennies, ÀI lume della luna,

U lav e chtintooj ndyr réjre : Impazzi, e cantava per li colli . — Se muliri im gaihtan, — 0 mulino mio tanto lesto

Sieel ti mielit tu créshchym Porta la farina cruscosa

Porsa ish trimi i axym, Com’ era il garzone acre,

Sieel ti mielit tù baar# Porta tu la farina bianca Sà vett’ish vasha e gnoom. Qual essa era la giovane morbida

Otnto vii. »

Iccu vasha e mùar maalh Fuggi la giovine donna e prese ’l

f monte

VettùmiO me vettheen Soletta con I’ esser suo, Ture claar e ture u shkeerr. Piangendo e stracciandosi legote.

' si m' pùshtòi. Il cane Turco, com’ ella sfuggigli, Kenni Turch, i si mise Ai passaje my i byri ; Ei su la posta te ;

Malh pyr malh m’ epyr£uu Di monte in monte perseguilla :

Teeh i trotti malh ja e rruu: Alla terza montagna la raggiunse. E rrùmpeu pyr chóshetti; L’afferrò per te treccie, E hèlhkiur mbo trual pyrmist E, tiratala su ’l suolo boccone, M’ e Ihì^t te bishli càlhit: Legolla alla coda del cavallo:

I hippi j’ e ncau mbu sbpoor. Lo cavalcò e toccò dello sprone. ©Irmùshit cù jip vasha Delle strida che mandava la convalli. donna, Gkymòjin pórrégne£il: Risonavano te [ Cùr tech prissin cazzamitten Quando là dove attendeano il cervo Cosi Mortatti e Ndree Turièlha Costa Mortati e Andrea Turièlha, Jagn Frashmi e Nich Petti! Janne Frascini e Nicolò Petta,

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Gkiégkùtin e porséxliu, Udirono e affigurarono. Turcun m' e porseex se viij Il Turco affigurarono, che veniva Drekù atténa càlhuar Diritto a quella volta a cavallo,

Me t’ zarrissur t’ Abùréshen. Con trascinata appresso I’ Albanese. GkiO gnerii m' u byy pyrpara: D’essi ognuno corse avanti:

i il Shcrégu pari, e ncby ja e £uu; Sparò primo, e noi colpì ;

i Shcrégu diti, akùvét ; Sparò il secondo, ed altrettanto;

Shcrégu i tretti e nd’ di t' anancàst Sparò il terzo, e nella fretta

Ajo dóra m’ e gchógnèu : La mano non lo secondò. Aghìena kennin Turch Allora al cane Turco

Me mùrgiarin ty Ihùshuar Col suo corsiero dirotto, ,

: U shtuu e rnbùò'i Nich Petta ; Gittossi incontro Niccolò Petta Ja e shcrégu ndù £ymryt. E gli sparò nel cuore.

Raa me faketù mbù trùal : Cadde quegli con la faccia per

[ terra ;

Ai valle rrùmpèu càlhin Il prode andò ed afferrò il cavallo

’l Te frenyt, e mbaiti ; Ne’ freni e rattenne ; Po si rìiati vashien Ma come guardò la giovane donna.

Gnògu t’ shoken ndy vùdèche Conobbe sua moglie in morte.

Canto vili.

Lhuan dialhi mbù dériet Giuocava il parvolo alla porla Me gnu campanièlh lù nigkiyynt, Con un campanello d’argento,

Mbt shéshin c Lhopsattet, Sopra al piano de’ Lopes ;

Largu e m’ i punonnej j’atti, E lontano falicavagli ’l padre

Myy ty i bùgcattùnej faan : Per più arricchirgli la fortuna .

Shcùan po armikù aitèi Ma passarono i nemici di là,

Armiky tù t’ ett’ diàlhit. I nemici del padre del fanciullo.

Am. Chii biir gkiarpùri Ne : Questo figlio di serpente,

Sà i buccur, farmùcoor. ». Quanto bello, velenoso ».

M’ e rrùmpien e my e shtuun Me ’l presero e gittaronlo Ndy gn’ pus e shcùan e vaan. Dentro un pozzo, e passati andarono

Diàlhi aposhla mbl ùjyt II parvolo giuso nell' acqua

Ture raar e luche u truar: Entro cadendo raccomandavasi : — Shen Morii e Carmanit — Santa Maria del Carmine,

Mos mù byn iti mbiltiem Non mi far annegare, Ne myncu tu Ihègchiem ; Nè pur che mi bagni ; Se yy te mèsha gogna m’ yym ». Essendo or alla messa, mamma »

Shen Móna my e gkiégki. La madre di Dio l’ esaudì. l.hoi Ihoi Ihissaròi Nuotando e sopra sè ritto

Mbàitur mbl uiftit, Sostenendosi su l’ acqua,

E gkiégki j’ yma cti sheoj ; Venne ad udirlo la madre che passa fé ndù mest bulhùresha Di mezzo ad altre matrone fva;

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I gkiégki tu trùamit : Ne udì il pregare tenero:

RriòS mbl pussin e 6eel. E accorse su ’l pozzo profondo. — M'irnie. Ihaalh, ashtù m’ rrùash — Trammelo, zio, se tu mi viva, Se t’jap cù do ty dùash ». Ch’ io donerotti lutto che vuogli. ».

U ndyy mbl pussin e fleel. Si porse sul pozzo profondo :

Gneer c’ e xoolhk, e i raa mbódoor Finché il ritrassero, e caddele in braccio [

Diàlhi; o zércun i shtymeòi. Il parvolo ; e ai collo le si strinse. e pii9i fakes La bocca me le baciò, poi su le Bù£en m’ i , [gote

- Lhotten po m‘ i ruculissur. La lagrima, piovendole e rigar» do. (

G'anto IX.

Vuu spvrvièrel Skandyrbeccu Spiegò le teude Skanderbegh

Ndyyn xee shùmy l’ gkiéra. Sotto l’ ombre di roveri spaziose.

Ulhyt rrijin ushturtoort Seduti erano i guerrieri Ndai Ihdmi ty culùam Vicino d’ una riviera limpida, Tuche ngryyn e tue piir, Mangiando e beendo, Curna paan gnu prnxenit Quando videro un araldo Cy vinnej Turktshit. Che veniva di Turchia. Pro. Tiij, perendi t’Arbréshvet, — A te, principe degli Albanesi,

My dyrgcdi £otti maff: Mandommi il Signore Grande: Cu tu jipni IhufFò bashch ? Dove concorrete in battaglia? Skan. Kzz’ e Oùaji ty m’ viign. Skan:, Va’, e digli che a me venga. Possi u prùar proxenitti, Come ritornò T araldo, Maumetti chuzèu mbti chyymb. Maometto saltò in piedi.

Byri e raan daùlhevet Fece sonare i tamburi

1 E m’ niblhòS acòlhu£it. E raunò i suoi ufficiali.

— Se ju, acólhùgit e mii, — Or, i miei ministri,

Zilhit £imra m’ i ®ott A chi di voi il cor dice Ty m’siel Skanderbeccun Che recherammi Skanderbegh

0 t’ gkiaal o ty vùdècur » ? 0 vivo o morto? » Gki8 e gkieegk'e su pyrgkieen. Tutti udironlo e non risposero. U pyrgkiégkù prà Balabani, Fu risposto poi da Balabani,

1 Arbrèshi rinegai. L’ Albanese rinnegato :

— E c’ yy Sdrtilha imme ? — E qual sarà il mio regalo ? ;¥ou. Nyynt kint miilh Sucàt Mao. Novecento mila ducati E góryt e Arbùrit. E le provincic dell’ Albania. — Pryym e chee, vraar o t Ihiffur. — Questa sera lo avrai o morto

[ o captivo. My u shtuun ndy amaxu. Precipitai onsi nella pugna.

Po te messi iWies Poi a mezzo la via

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Ncàha vìnnej Skanderbeccu, Donde veniva Skanderbegh,

Délh e m' i bynnet pyrpara Esce e gli si fa davanti Ai kenni rinegàt. Quel cane rinnegato. Skan. Nanni, tenni rinegàt, Sk. Ora, cane rinnegato, 0 m’ e siel o t'e siel ». 0 porterai il mio capo, o porterò [il tuo.

kéli Vibrògli Ja c Skandyrbeceu Skanderbegh ;

E in’ i raa frea ndó door Ma gli cadde la redine di mano ; ;

Ja e keli rinegatti Lanciò contra lui il rinnegato.

’1 E i lhavossi cràghùtìin E piagògli braccio,

Cràghóflin e càlhin. Il braccio e ’l cavallo.

Kaa inh'J chyymb Skandyrbeceu, Saltò in piedi Skanderbegh ;

Aaan ként muscumynt Dièro i cani Musulmani tìiirm tu mafi'e pyr garee, Un grido altissimo di gioja,

E m’ i raan ncraagh rabó rréO. E gli piombarono attorno in cerchio.

1’ Ncryiti siit trirai ndyr kiel : Alzò gli occhi eroe al cielo :

— « Anni ndighym J^otti Crisht — « Ora soccorrimi. Cristo Dio, Cy mó nzòre cy pyrsóvógchólhi Che mi sottraesti, fanciullo da ,

Gà door e armikóvet’ ynd » ! Di mano de’ nemici tuoi ! »

Kiassi e craghyt ndy gn’ lhis : E fe’riparo, alle spalle, d’una quercia; Mos-gny e nynchy guzzòi, E nissuno ebbe ardimento

T’ i vin’ ndyyn rnaxórien. Venirgli sotto alla spada. Po gnotta e vignóniO Ma ecco che vengono. Vignyn dii miilh trimraa, Vengono duemila prodi, GkiO trima tu sgkiè$uris Tutti giovani scelti

Te màlhel e Arbórit : Ne’ monti d’ Albania : My ja e silin Ducagkini, Glieli conduceano Ducagino, Ducagkini e Livella. Ducagino e Civetta. Shtttin, sbarristin, Irruppero, sbaragliarono, Shciian mbl tu shchélhurit. Passarono sui calpestati.

Cile m’ paa Skandyrbeceu Quando li vide Skanderbegh, i

Byri bu£en mby t’kfeshur: Fece la bocca a riso :

— Mbré ti, Sotti Ducagkin, — Ma tu, Signor Ducagino, Sà md rùaj crùghó^it, Solo guardami le spalle, io questo Ty lhuftògn u chyt ken ; Si che combatta cane ; Ty shoog shpatten si e lho£ign, Chè veda come la spada io ruolo, Fiamurin ndó dii e dréff. » Se la bandiera so volteggiare. » Byri crik’ e u Ihóshùa, Fecesi la croce, e slanciossi, Tue rrómpier e ncuSIrtur, Afferrando c perseguendo,

Si iar > ndyr calameet Come il fuoco nelle stoppie ; S m ; Gnecr co mbiòi uu5 e gerafóma Sinch’ empiuto ebbe strade e fossat 1 Me crèra e ty vtidòcur. Con teste e cadaveri. Gny tó vett’ Suu e m’ c lhà Un solo prese e lasciò, io

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Aliti kenin rinnegat Quel cane rinnegalo

Laijmin tu kélnej : Che la notizia portasse :

Veshin e dià6t my i pròu, L’ orecchio destro gli mozzò,

Se t’ i mbànej shynchitòin. Per serbarne il segno.

Po Maumetla cùr e paa : Maomello però quando il vide: — Balaban crie-lhavossur, — Balaban dal capo piagato, Cu valle vanltma jotte Ov’ è quel vanto tuo Se m’ silie Skandyrbeccun Che avresti mi recato Skandcrbegh O ly gkiaal o ty vtidccur? 0 vivo o morto?

— Se li £ottù, £otte i matf, — Ma tu, Signore, Gran Signore, Gkicgkó pach jo gkiegkti shuutn: Odine poche, non udirne molte;

Nch’y cràgu có allij i ndighyn Non è il braccio suo che lui ajuta.

Po ysht dóra e t’ iin £otti. Ma è la mano di nostro Signore.

— E nanoi imi kias ti criet — Ed or m’ avvicina tu il capo,

Cy caa bést e rinegarta, Che serba le fedi rinnegate ;

U t’nzier oréxet imm. » Ch’ io m’ appaghi i gusti miei. » E’ rrtimpien e vuun ndyr cippo Pigliaronlo e costrinsero ne’ ceppi,

E i preen crieOit. E troncarongli ’l capo.

Canto X.

— Vash, ndti dòtti dùghemi, — Fanciulla, se vuoi che ci amiamo,

Farracòs ti t’ytt’ vtilaa. Avvelena tu tuo fratello. — Si cam u t'e farmùeossign ? — Come avrò io ad avvelenarlo ?

— T’e Qom u si chee t’e bysh. — Dirotti io come ’l debba fare.

Nesser pyr s’ dìxturi Domani al far del giorno Dilh ndti gn’ uut? ncrikùlhyg; Esci in alcun quadrivio;

Prit’ se sheòn gkiarpyr i £ii Attendi che passerà l’aspide nero,

Farmócoor, i pà-jatri: Venenoso d’ irremediabil morso :

Préi criet e bishttiSin Gli mozza il capo e la coda, pietre E ra’ i shtip ndyr di gcuur, E me li pesta fra due ; vino Vyri ndy cupo me veer; Ponili ’n una coppa con ; T’ ytt’ vtilaa mbrymanet Tuo fratello, la sera,

Pritt’, e jipia t’ e pio. Aspetta, e dagliene a bere. Vasha my epacurissi. La vergine ubbidigli.

PriUi ty vtilaan mbti deer Aspettò il fratello alla porta, Cy róvonnej ncà amaxi. Che rivenia dalla pugna.

— Miir se vien, vòlàu im ! — Ben venuto, fratei mio ! Mirr’, £a pi kelhky me veer, Prendi, te’, bevi un bicchier di vino. Si erSe dyrsituriO Come arrivi sudato,

Dyrsttur chóputturiO ». Sudato e affranto ! »

Tre culùke ai byri Tre sorsi ei bevve,

Trii fiaalh 6a e jo myy : Tre pai ole disse, e non più :

« Bennia cush i caa bés « Maledetto chi si affida

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« Motùravet ttS pà martuar ! » « Alle sorelle non maritale ! »

F. m’ raa i ketràrtur. E mi cadde agghiacciato. Vasha ture u stolhissur, La donzella ad abbigliarsi,

i hólhkiuriO ’l fratello Trini tue ; E ad agonizzare ; pruar ajo cràghyt, Poi voltògli le spalle Prà m’ i

Urió5 tech i dàshuri : Corse lesta all’ amato : — Trim u ray t’gkiègkia fiàlhen — Garzone, io miti udii la parola. — Mba tuttié, bushtra mizzòre, — Vanne di qua, fattrice d’ opre crudeli; [ T’yt vùlaa ndù farmócosse Tuo fratello se avvelenato hai,

Lhip mua co ty ra’ bysh. » Pensa or a me che avrai tu a fare ». Si chlsh arffur bartfactike Com’ era venuta listata di bianco [e rosso, Vasha u ntbiòffi 0eel e £ee£ La vergine si ritrasse assai dentro, livida [ E me zòghen zaarr'e zaarr’. E con la zoga trascinata trascinata.

C'unto XI.

Aio £oogn o rèa e Gkicchùs (I) Quella Signora, la nuora di Ghica,

U a(Ttirùa te pasiklra : Si appressò allo specchio :

4 Saniori, ( ) Mio

Jersera ricevei i duo canti popolari che mi rimetteste — Shcooj gnu trim cà gnu ruugh, e Ajo £oogn e rèa e Gkicchùs, il quale ultimo è per la mia raccolta oggi un prezioso rogalo: oggi che una Agli» de’ Ghica Albanesi, nata ne’ Principati Rumeni, Dora d’ Istria (Principessa Coltzof Massalsky) attrae a sè gli sguardi simpatici della culla Europa. Ilannola chiamata la Staci del Nord, la pareggiano a Corinna. Da quei ch'io lessi degli scritti suoi (come- chè la prima figura romantica ch'cbbemi, a quattordici anni, scossa intera l’anima, sia stata Corinna) in Ellena Ghica parmi distintiva singolare una ragione virile, ond’ osce dalla naturalezza del suo sesso dominato sempre dall’ uomo,

e libera tiensi alla dottrina, come già al suo Dio S. Teresa ; con la quale ha una somiglianza nel dolce spirito sereno e nella pratica osservazione inesau-

sta. Anzi, per l'accordo si pieno delle perfezioni, che in lei dicono, e beltà del corpo con le doti straordinarie dell’ ingegno, a me rimembra una donna, Albanese essa pure, che, nata in Egitto, a sè avvinse Cesare e poi Antonio. Differen- ziandosi da Cleopatra io ciò che quella reina, orba di ferie nell’ immortalità

dell' il I’ suo quasi un abba- anima , converse suo genio ad educare esser

fini il regno gliante flore transitorio ; che primo indi ccdè al turbine, onde

de' suoi maggiori : e questa principessa invece, non disciolta dal Cristo, eroica

e vereconda può essere che sia l’ aurora del giorno della propria schiatta. I Ghica, suoi nobili avi, tratti dall' Albania ed elevati a principi de’ Rumeni nel 4658, co) governo di circa due secoli formarono gli animi o la fortuna de' Principati

alla capacità dell’ ottenere lo stato presente, e forse uno maggioro ; al modo

che i de’ Coeprili. loro compatriotti, restituivano verso quel tempo le sorti ca- denti dell’ impero Ottomano. E la Porta avvierebbe verso un felice sciogli-

mento la questiono orientale, sè, a rislaurare e da lei pur non disgiungere al

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Atti litri mòmó£a Quivi entrò la nutrice

Dittó-shcùrtur e m' i folhi : Di giorni brevi, e le parlò : — Somenàt mbi diémenàt — Stamane da jeri mattina

Céra vash m’ u t’ un dórrtia; La faccia giovane mi t’6 cambiata,

Diémenàt ti ncùkie, Jeri mattina imporporavi, Somenàt u sbartfulóve Questa mane se’ imbiancata Si ncà éOe e ngryitur. Come da febbri alzata.

Yndórre Turcun e u trymbe? Hai sognato il Turco e n’ avesti paura. [

— As pee Turcun nè j’ u trymba, — Non vidi ’l Turco, e non n’ eb- [bi paura;

Zymra po ’s mó rrii mbó vent, Ma il cuor non istammi ’n petto, Si gny ditt’ jo po gnu jaav Dacché un dì solo, non che una settimana, [

prode Albania, eonfìdassela ad Albanesi, come cotesta famiglia di tradizioni

leali, che, costantemente fedele alla Turchia, tanto pur amò il paese commes- sole, che uno de' suoi Dinasti, Gregorio IV Gbica, sostenne il dispetto del sul-

tano invilito o fin morire, più tosto che abbandonare all’ Austria la Bucovina, diminuendosene la Rumcnia. Nè ora i patrioti Albanesi vedono più felice modo

cho questo di porre il loro paese in istabilità contenta. Perchè la Rivoluzione, consigliata dagli estranei, ed intesa a statuirlo separato, oltre al ponerlo disco- perto contra la Turchia o gli alleati suoi, è ora conosciuto che giovandosi in

universo di nulla lenenti i quali vi si inframmischiano con l'intento di campar po- scia a spese altrui, sé medesima sfrutta turpemente. Questa misura benigna

Unirebbe insieme il pericolo, in eh' è la Turchia, di vedersi dimani o diman l'altro volte contro a sé quelle spade dal cui valore ha sostegno; e cho poche già per Botzari, Miaouli, Zavella, Tombasi, Macry, Goura, Niceta, le tolsero la

Grecia. Ma venga pure com’ i lassù prescritto ; dalle grandi imagini di tali concittadini nostri vuoisi prender animo a non abbandonare il posto che Id- dio ci ebbe commesso insieme, nella riedificazione della patria dispersa. In quanto al rosto, tenete, pregovi, la pace che vi porta ciascun giorno.

Negli anni che ci avanzano, dopo i tanti cho avevano ad esser migliori e già corsero, non è degno che poniamo altro amore. Hannovi anche por voi due ragioni a trovar pace negli attuali turbamenti. La prima, che sinora quasi una mano da fuori ha mantenuto, pur fra tanti schiamazzatori avversi, co-

leste vostre fondazioni, che, pieno pur di mondo come sono, hanno tuttavia i segni della libertà che l'uomo usò per cercar Dio, si forte eum attre- ctel. La seconda, che voi, col fuggire il secolo, vi siete sciolto da quelli suoi che pajon beni, e che or minaccia togliervi. Lo offese poi che vanno a Cri- sto, più noi raggiungono, come sulla Croce; e al nuovo volgo che ’l circui- sce ingiuriando, rimane l’ interno nulla mal satisfatto. Nè soli già siete in

travaglio ; ma T intera Italia è cusl. Il Principato suo versa esso pure in di- stretta. Mentre la rivoluzione gli ha annesso, insiem con le provincie, span- dendoli per le milizie, i tanti ufficiali preparati nelle sette ed officianti per

allo ’l divorin conto di queste ; ed attaccò stalo innumerevoli parasiti che per via. E voglia Iddio eh' Esso, sostenuto dal paese, che ne ha tutto il male, in- tenda il tempo. Di ciò teniam la fede. ... G. de Rada.

3 Aprile 486!i.

i

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Zottin as m’^ Ihyyn ndò shpii Il marito non mi lasciano ’n casa. Frappa attlj mosse rròvòn Dopo lui, di continuo arriva

I dyrgcùar cò m’ i òòrrét. Messaggio che lo chiama. Cùr u nis a! somennt Quando avviossiEgli questa mattina

Zymra sumbula mò byri, Il cuore un balzo mi fece,

Hèlhme^a mò hélhòmói Il singhiozzo gittommi ’n tristezza, E gn’pres mò sbarSulòi. E un attender non so che m’ ha [impallidita. »

Cùr ashtù mò Dittò vasha In quel che si parlava la donna

I raa pefiblti te déra. Sopravvennele il corriere alla porta:

Rròtfi vrap ty gàpnej : ratta se m’ i Corse per aprirgli : — C’yy laìjrai chy m’siel? — Qual è la novella che mi rechi ?

— Laijmy tò £ii tò siel, — Novella nera ti reco,

Se Rottiti mò ty e vraan ». Che il marito te lo hanno ucciso ».

Canto XII.

I érd gny Ihòpùsh trìmit Venne una lettera al giovin forte, Ty ja e rrynej Skanderbeccut Che raggiungesse Skanderbegh Te amaxi ndy Turkii. Nella guerra in Turchia.

Ai £uu e porsitti l’ ymen. E cominciò ammonendo la madre:

— Mbaim ti miir tò buccuryn. — Tienimi tu in contento la bella. — Ez’ sculbtartur blri im’ — Va pur tranquillo, figlio mio,

Jam u pyr tò buccuryn. Sono io per la bella. »

Trimi sà capòtòi maalh Il giovine com’ ebbe varcato il Ajo muar gchòrshyr£it, Colei pigliò le forbici, [ monte, Vashies m’ prèu chòshettin, Alla nuora tagliò le i trecce, E m’ e véshi burrùrìsht E vestilla d’ abiti maschdi

Me zarìghety ndyr chyymb : Con li sandali a’ piedi :

Se t’ i biir tò bar^unit Per isperderle il candore

C' i doi cakò miir i blri, Che in lei tanto amava suo figlio, E dòrgcòi tò riianej Ihoppòt Mandolla a guardar vacche Ax*tna£ me pelhacàn. In campagna con villani.

E m’ i byri prevò£ii, E fecele ingiunzione, Mos shcòjin nyynt viet' Se non passassero nove anni,

Mos l’ i prlrejy mbò shpii. Che non tornasse in casa. Shcùar pes-^ièt jaav, Passate cinquanta settimane.

I byri dì muaj fiSVnz Fece due mesi di tregua

Skanderbeccu shocchòvet; Skanderbegh a’ commilitoni ; E cà amàxi piot foor E dalla pugna, fero e superbo,

Ndy déret i raa i blri. Alla porta giunse a colei il figlio.

— Gap déren £ógna m’ yym. — Apri la porta, Signora mia madre.

— Cush jee ti blri im ? — Chi se’ tu ? fìgliuol mio ?

— Pocca c’ itt’ biir jam ! » — Ma se ’l tuo figlio io sono ! »

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Cappi déren j’ yma. Aperse la porta la fcadre. — Cu m’ vatte imme £oogn ? — Ove m’ è andata la mia Signora ?

— Sà ti biir capótove maalh — Appena avesti tu, figlio, var-

cato il monte,

Zógna jotte my vódik. (1) Tua moglie mi mori. Pocca cù shcòi te gny Lhótii Dacché passò di qui un Italiano

E ajo pas i byri pcend. Ed ella dietro a lui spiegò le penne. Ture òynur chyto fìaalh In dire ella queste parole,

Vasha i raa ndó dériet La giovane le bussò alla porta.

— Gap déren £égna m’ yytn. — Apri la porta, mamma.

— Cush jee ti bulhiirésh ? — Chi sei tu, Signorina? — Miir u bulhórésh jam, — Ben io gentildonna sono;

Vet’£ot có nynch cara ». Sol che ’l mio gentil marito non ho. »

li pyrgkiégk' i blri mbrynta. Rispose il figlio da dentro : — Dùara pocca mua pyr £ot’. — Vuogli adunque me per marito. — Pocca co gógna jotte jam. — Dacché la donna tua io sono. — M’ yym, cush ysht chii copìlh ». — Madre, chi è questo giovanetto ? »

Vasha my ju shtuu te zcrcu : La fanciulla buttòglisial collo.

— Pocca có gogna jotte jam’! — Ma se tua donna io sono !

Sà ti, trìm, capótòve maalh Appena tu, o prode, varcasti ’l monte, M’ yma mùar gchórshyró^it Mamma prese le forbici E mó prèu chóshettóein E mi tagliò la treccia, E m’ véshi burrórìsht E vestimmi da garzone Me zarighety lhótìsht, Con sandali alla latina,

t’ Ihopt le E módórgcòi, rùaja ; E mandommi a guardar vacche; Pra m’ byri prevó£ii Poi mi fece ingiunzione

Ty mos kiassusha ndó shpii: Che non m’appressassi alla casa :

Sà me bilh tó peihacanve Sicché con figli di villani

Mosse fiyta atliij trdli ». Di continuo corcaimi su quelle

zolle » I [ — Pocca as jee ti mymaìmme, — Dunque non sei a me madre, tu

Cy Sunove £ognen t’ imme » ! Che degradasti la donna mia ! »

U ndyy e m’ i raa só j’y’mes, Si spiuse e percosse la madre, J’e zarrissi nd’ atto jasht. E, trascinata, cacciolla sulla strada.

Atti cush shcòin Oòshin : Quinci chi passavano, diceanle : « Ti si byre kève byyn ». « Tu come facesti, fosti fatta ».

(4) In questo canto la figura della suocera ha i lineamenti dell' antica Gli— tennestra. A me pare sempre che queste poesie tutte siano d' una sola mano,

e che forse componevano un poema : e la storia della suocera e alcune altre

quasi estranee, anziché portar dissonanza, segnerebbero i confini d' un vasto quadro dell’ intera vita albanese. Un' epopea sì ampia ba, per quanto lo con-

cede l’ unità dell’ azione drammatica, un riscontro nelle opere storiche di

Shakespeare, che dal re Giovanni ad Enrico Vili rappresentano l’ Inghilterra. Ang. Basile.

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CJtuito XIII.

In questa simbolica rapsodia il poeta, [ forse scoraggiato da' fu- nesti aspetti della guerra , presenlisce alata finale terribile risolvi- mento, che adombra nel fato tristo della vita universale. ]

Shcooj gnu Inni cà gnu ruugh Passava un giovinetto per un

[ viottolo Me frushyrù£en ndù door. Col frustino alla mano.

J’ pyrpokù te gny copilhe Si imbattè in una vergine u ; ; Ngcryiti ai frurshyrù£yn Alzò quegli ’1 frustino

E m’ i ncau chùshettùOin. E le mi toccò la treccia.

Ndòffi j’yma drittùsòres : Si trovò la madre di lei alla

Gnestra : [

— Trim cù ncave t’ imme biilh — Garzone, che hai toccata mia Gglia

’1 Mos neh’ e dlje zèje nanni: Se no sapevi, imparalo ora : Gny copilh cù nchét gnu vash Un garzone che tocca una donzella, Caa t’e maarr ai pyr gcrua ». Deve prendersela egli per moglie.

— Taxym pàlhen ej e raarr » — Promettimi ladote, e la prenderò. »

Pàlhen my i tósi j’yma La dote, premisele sua ; madre ; Pyr zilhoon drlttien, Per peplo la luce,

RreeG (4) e kielit pyr brè£, L’ arco baleno per cinto,

Spìngulat chy i vuu te che£a Le spille che le appuntò nella chesa,

Ilhig maarr nkìelshit. Stelle rapite a’ cieli. E m’ u ndróki e m’ e postròi E 1’ acconciò, ed ornatala. Prana trimit ja e dùrgcòi. Quindi al garzone inviolla.

Trimi e mùar pyr dórie 11 giovine la pigliò per mano,

E m’ u vuu e m’ e porsinnej : E la cominciò ad avvertire: — Shìghym shpiin, e buccura: — Vedimi la casa, bella mia: Caa trekint dritlùsore Ha trecento Gnestre, Me gn’atyf aky lumbarS’a, Con altrettanti palombi marini:

Ndyr dùart ynde e gkì8 i vyy. Nelle mani tue tutti li pongo.

Ncà t’ shtuun ti m' i tagkls Ad ogni sabato tu li nutrica,

i tagkìs polis, Li nutrica ed abbevera; M’ e m’ i

Ncà tu dielh m’ i nyraùrò : Ad ogni domenica me li numera.

Se akù mù bièryn sà t’ lhipsen ». Sarà un perder tu me, ognun che manchi ». [ Vasha e gkiégki me turbina. La giovane udillo con turbamento:

Vei e viij Gnestrashit, Andava e venia dalle Gnestre.

(t) Gli Albanesi dicon re6 l’ arcobaleno ed ogni cerchio. Pare che a reO si riattacchi 1’ ellenico nome iride dell'arco baleno e delia Dee che visi raffi- gurava.

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Cùr j’ er5i e d'tela Quando venne la domenica,

Zuu Gii t’ i nymrooj, Cominciò numerandoli,

Myy e mira je mancooj. E ’l più bello non v’ era.

— Cy t’ i Som u £ottit ìm’ — Che dirò io al signor mio Cùr tó viign sonteniO ? Quando ritornerà questa sera ? «

ErO po mbrymia e gotti sai Ma venne la sera, e ’l signor suo Kynch u duch e nynch u mbiòS. Non parve nò si ritrasse in casa. Vasha clàiti e sherótoi, La giovane pianse e sospirò, As lha po mé e prittur. Ma non cessò d’ aspettarlo. Zogkót tagkissi e potissi Agli uccelli diè cibo e bere,

Gny pyr gny tu shtuun mbryma; All’uno appo F altro il sabato a sera; Mori e dìela cùr u digh, Ma la domenica quando raggiornò, E lumbarSut ny mòrbi E le colombe ella ebbe numerato,

Paa se jàtóra mancooj. Vide che l’ altra mancava. Jaav pas jà vie Di settimana in settimana, Gk'iO iiuturùan e vaan Tutte volarono e andaron via

Pas tu goon e sai pyr moon. Appresso al signor di lei per sempre. Ajo e nd’ atto saal tu vetta Ed ella, in quelle sale abbandonata Ditte pas dittie u Ihos Di giorno in giorno si strusse E m’ u shua si gny kirii. E si estinse come una candela.

Canto XIV.

Menattet curna u nissó La mattina quando avviossi

Skanderbuccu chek’ i sbeet Skanderbegh troppo pallido,

Chek’ i sbeet e i sùmùrym, Troppo pallido e maialo, E lhuftói Ihuffen e prassym, E combattè la battaglia ultima,

J’ u pyrpokó vùdechia Scontròglisi la Morte,

Proxenit i psóres geeg: Nunzio della fortuna nera: — Prtru Skanderbech prap. — Torna, Skanderbegh, indietro.

— E cush jee ti, e ncàha vién? — E chi se’ tu, e donde vieni ? — Ymri im‘ ysht Vùdechia; — 11 nome mio è Morte. Gkiéla jotte u furnùa. La vita tua è Hnila.

ee ajtiri 81 ee — Ombra tu di vento qual — X j sei, Pà-gymyry ndù gkii, Senza cuore in petto, E m’ trymbyn gnèrùgit, E spaventi gli uomini,

Cà e dii se u cam vùdès ? Donde il sai eh’ io deggio morire ? — Diè u gap nkielshit — Jeri si aprì ne’ cieli

Livri ty vùdècurvet, 11 libro de’ morti, E mbìattu c geeg e ftòghyt E incontanente negra, fredda, Si gnu skép dlu cy u sdrép In forma di velo, una non so qual

[ cosa scese E raa mbaalh crèut’ ynd, E cadde sul capo tuo:

Pas e valle mbl tu tieer ». Poi andò sopra altri ».

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0a e un spav, yndcr c gkieles. Disse e disparve, sogno della vita.

Skan. Pocca ’s cam tù rrogn u Skan ; Dunque non ho da vivere ». io più? [ myy? [ E u vuu ture peusuar E si mise pensando

Mottùrat cù chiin tu vìjin. I tempi che dovrian venire. Paa tu btrin chek' diaalh Vide suo figlio troppo fanciullo

Chek’ diaalh e pà àttù ; Troppo fanciullo e senza padre; E ndù Ihip catuund e tiij. E ’n lutto la patria sua.

Gkì8 i pissùrùam mbù rròlhe Tutto ottenebralo, a sè d’ intorno

Mbjòtfi shochùt, e my i 8a Riunì i compagni, e loro disse: — Ushtur e-pà-mùndura imme, — Esercito invitto mio, Ndy gn’ dittò pyr gnù dìtt’ In un dì di questi o nell' altro

Turcu e merrù £een t’ yyn II Turco ci prenderà il paese nostro

E ju byn criettùt e tiij ! E faravvi servitori suoi!

Ducagkin po i miri imm', Ma, Ducagino mio buono,

Siélym chytu t’ im’ biir, Conducimi qui ’l figliuol mio,

Ty m' i Som cù cam t’ i Oom ». Per dirgli quel che ho a dirgli ».

My i sùaltin tu btrin Me gli menarono il figlio Lhesh-àri tù vàriturifl. Di crin d’oro, semplicetto. — Lhulhc e lhuriery£ — Fioretto abbandonato, Lhùlhe e chùsai £ymùres imme, Fiore di questo cor mio,

Mirr lù t’ yym e trii gcalhee Prendi tua madre e tre galere,

Myy t’ mlratù chù chce, Le migliori che hai, E ìch’ mbiattu ctèina. E fuggi tosto di qua. Se ndù Turcu my e zyft Chè se al Turco ne sia avviso

Tiij tù vrét, e prà tù t’ yym Te ucciderà, e poi tua madre Ai m’ e nissyn bashch me ty. Egli condurrà insiem con sè. Por si arryysh (o pàr se iccur) Ma come arriverai (e inanzi che Ndy £alit détit, Al lido del mare salpi) , [ Attie ysht gnù kiparis Colà è un cipresso

I x^shym e lhipù-maS-, Grato alla vista e d’alto lutto;

Attie Ihì£ ti càlhin t’ imm’. » A quel tu lega il cavallo mio ». Tuche gkiókiur chyto fiaalh In udendo questi detti, Zuun mby t'claar me lhach Cominciaron a pianger con singhiozzi, Mby rreO poltra e bulhaar. In cerchio, duci e bugliari.

Skan. Mbt càlhin, èrùvet détit Skan. Da sopra il cavallo a’ venti marini [ Gapùni fiammurin t’imm; Dispiegate la bandiera mia, E ndù mest fiammurit E ’n mezzo alla bandiera

Lhi£ e Ihee maxéren t’ imme. Lega e vi lascia la spada mia.

Cùr t' friign voréa e cheke Quando soffi la tramontana cruda

Mùrgiari mù hinclissyn, Il cavallo a me nitrirà, Fiammuri pyrgapiet La bandiera espanderassi

E maxòria trìntùlissyn E la spada tintinnerà H

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Cà i vryrti kiparis Dal funebre cipresso :

Turcu i gkiùgkyn c i trymbur, Il Turco udirallo, e spaventato, Tue culhtùar vódechien Uicordando la morte Cy (ìyy tc maxòria inane, Che dorme sul brando mio, As ju passyn ncàhu vaat ». Non v' inseguirà per dove andiate ».

Canto XV.

SòntcniO me dii oor nattó Questa sera a due ore di notte Gkiógkiesh gny ródimi tó gkiat; Udiva un gemito lungo; S’ ish rtichim, po Dalli Gulhòmi Non era gemere, ma Paolo Gulherni

I raar ndài càlhit, Caduto vicin del cavallo,

Lhavossur o friim-chóputtur, Ferito o rotto il respiro,

Cy m’ i trùghej shocchóvet : Che raceomandavasi a' compagni. — Se jù shoch e ju vólé£yr — Deh! compagni voi e fratelli, U ju trìigbem chék'ehókó lo mi vi raccomando assai assai Ty m’vyni ndyn £ce; Che mi poniate sotterra;

E tó bynni varrin t’ imm’ E che facciate a me la sepoltura

gkiattó : Akó t’gkicer sà tó Tanto larga che lunga ; Ty m’ nzyygn tó vyyn me tnua Si che vi capino, composti meco, Acùlhó£it mó raar ndài. Gli scudieri cadutimi allato.

l’rà ndyr chyymb tó varrit imm’ Quindi, a’ piedi del sepolcro mio Ty in’ vyni fiammurin Che mi poniate la bandiera,

Fiammurin e àrmógit. La bandiera c le armi.

l’rà t’ i shcrùani e t’ i 6oi Poi che scriviate e diciate,

Ty ja e Oonni mymós imme. Che ’1 diciate voi alla madre mia, Tech mó kepyn al’ chómlsh Là ove emmi cucendo la camicia (Ture m’ e bilnàrtur (Già irrorandomi quella camicia

Me lhottyty c slvet); Con le lagrime degli occhi) ; Se m’e teryn at’ chómlsh Chè asciuttcrammi ella la camicia Ndy £iarmit £ymrys. Nel fuoco del cuore.

Shcriiania céc só buccurys : Scrivetelo anche alla bella, Se, mos yy e marinarne, Che, se non è con altri maritata, Me gkiaccun e fùkevet Col sangue delle guance

Ngkicn skópin cy kinlissyn. Macchierà il velo che ricama. in E mó vette nd’ ató kish; E mi andrà quella Chiesa ; là E pyrjeerr po nd’ aitò kiazz , E conversa nella piazza,

E m' paar shoct’ e mii E vedutivi li compagni miei Cy ngcryghen tech ajo shcòn, Che leverannosi innanti a lei che passa, [ Ghiin mo tech c ngcrirla kish Entrerà dentro nella fredda chiesa, My Ihóshón e gny róchim E scoppierà in un gemito.

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(iny róchim c gny valhlìm Un gemito e un pianto funereo,

SA gkhiO kisha ty cumboogn ». Si che tutta la chiesa ne risoni.

«Tento JJCVI.

Raa anii cà messi détlt Arrivò nave dal mezzo del mare Raa ndy prolt Coronit. Arrivò al porto di Corone. Atto £Ógnat e Coronit Esse le signoro di Corone

Mosgnòra nynch u calaar : Non pur una là scesero ; Mosse ajo gógna Riin: Ma sol’ una quella signora Irene. — Agchù£iiashi, marinaar. — Salvete, marinai.

— Miir na vién ti, £ogna Riin. — Beno a noi vieni tu, signora Irene. — Cu ch'inni mundashùrat ? — Dove avete le seta? — Sdrepu, £oogn, ndyr camarat. — Scendi, Signora, nelle stanze.

Zogna sgkì£ stolhl^it La Signora scegliea li vestiti Ty cunatten mé martùar, La cognata per maritare, SgkìS' e my ja e vyi ndyr duar Sceglieva e poneale nelle mani criattevet, Shattervet, A' paggi, alle ancelle ;

E atta rry£òin aniin, E i marinari avviavano la nave Tue u reshtur Ihee8 e'daalh. Allontanandosi leggieri e lenti. Cuur ajò m’ u addunaar Quando Ella se ne avvide lin tuttié udii détti : Erano lungi dentro il mare.

Ir. Se ju kén ju marinaar Ir. Deh ! voi cani, voi marinari,

Mbaui daalh ant£yn ; Allentate per poco la nave,

SA t’ i triiagn dialhùOin Quant’ io raccomandi il figliuol mio Bùshtórys s’ imme cunàt; Alla infaticabilo mia cognata;

Gilr l’ e Ihitfign t‘ i valhtoogn : Quando l’avvolga nelle fasce che

t piangagli : « Biir, cu ty vattc jott’ yym ? « Figlio, dove ti ò andata tua madre ? e vatte ndy Turkii Prese se n’ andata in Muar ; e è Turchia ;

Mbeer e kiumshtit chy t’siil E ’n vece del latte che ti recava, Caa cush t’i £ilhéssógnyn Ha chi adugger le agogna

Ndércn o t’ buccurit L’onore e la beltà # Yygh, po fakct o s’att’yym a Si; ma le guance di tua madre

T’ i bygnyn Ihùlhc autori, Farannole fiori d' altare,

E prA gklrin e s’ alt’ yym E poi il seno di tua madre

Pasikiir tu shlghien — » Uno specchio ove si mirino — »

Ma im’ biir, gnu zop boor, Ma il figlio mio, un pezzo di neve,

Ysht i vògchùlh e do mbù door ! E picciolino e vuole in braccio ! Bymni marinaar tó shogh Fatemi marinai che riveda CA ndlna u shpiin t’immc ». 10 dall’antenna la casa mia ».

Mundi shcrettla e £ógnys Vinse l' infortunio della signora

Gkiin e marinùrvet. 11 petto de’ Marinari.

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Ajo e Ihyyn hippur tc ndlna Elia, lasciata salire all’ antenna, SA mbullti sl^it, Appena là chiusegli occhi, Raa ndù mesi detit. E cadde nel mezzo del mare. Suvaalhl cy e mbìttùtin, Le onde che la sommersero, E shtltin ndù £aalt Coronit. La spinsero alla spiaggia di Corone. EerS' tù vapxtat e Coronit Vennero le povere di Corone E m’ puOlin dòrien E baciaronle la mano i

C i ké crua gaiSlve Che a loro fu fonte di grazie ; ; ErSùtin gògnat e Coronit, Vennero le matrone di Corone, Kiaitin e tùfalhtin, Piansero e salutaronla;

I stistin sipcr gnu kish. (1) Le odificaron sull’avello una chiesa.

(I) V è di questo canto una parafrasi Calabrese, che vo’ riportare, parendomi oggetto di mollo varia oonsiderazione. Il Trai.

— 0 donna Candia, Sì nun ni vuc di chillu,

Si vui sita comprare, Tu lassalu schiattar ». D’ ogni culur ci sta. » D. Con. Managgia a tia e a suarta Donna Candia si calau, Che ha fattu a mia ’ngannar,

E lu Turcu l’ imbarcau. Va portacilu a suarta Lu maritu che arrivau, Che faccialu lattar ». No curriere ci mandau; Lu maritu suo bellissimu Lu cavallu suo bellissimu Tuttu piangendu sin’ andau. Ma di sanguo lìce sudari. D. Can. 0 Marinari, — 0 marinari, Lasciatimi di jire, Dunatimi Donna Candia, Quanto vau ’ncoppa P antinna Che vi do dinari a tumulu Per vidire lu miu maritu,

E scuti a centinari ». Quante miglia ci hau di farè.

Nun vulimu dinari a tumulu S’ inchinau ncoppa l’ antinna

Nè scuti a centinari; Mienzu mare si jettau: Vulimu a Donna Candia — Nun mi gode lu mio maritu

Che ha bellizzi singulari. E nemmenu li Turki cani. — O marinari, Ncapu di nove juorni Dunatimi a Donna Candia ; Lu mare la sbarcàu. Che ha nu ninillu picciulu Le mani sue bianchissime

Nun ha chi lu lattar ». Feu candelier di chiesa etc. — Dunali pane e simula Ed acqua di fontana;

i

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[Dal 1840 al 1847, per le vie di Napoli, un Canta-favole recitava

non so che a' monelli che I attorniavano , e battevasi la fronte *1 che gli si era mutata in livida. Rimpiango che allora non sapessi di Duca-

gino, nè mi fossi fatto ad udire: che forse et Narravo f infortunio

nostro che in Italia ebbe lunga eco, con le parole di questo Canto ].

Shcoi goó dilt’ miegculòre Passò un giorno nebbioso, Hiegculòre e héllimòre Nebbioso e mesto,

Focca kieli doi t' valhtój : Quasi ’l cielo volesse piangere. Prà tue u dlhtur me shii, Poi, raggiornando con pioggia, Ncà trégu gnu 8iirm u gkiégko Dalla piazza un ululo fu udito,

Cy hlri e shtuu lhippin Che entrò e gittò il lutto Ndyr gymrat e ndyr pùlesse. Ne’ cuori e ne’ palagi. Ish Lech Ducagkini, Era Lecca Ducagino,- Bàlyt pyrpik’ me gn’door, La fronte percotcva con una mano

Shkiir Ihèsht me jàturen: Stracciavasi i capelli con l’altra.

Due. Triximissu Arbitri ! — Scuotiti da fondo, Albania! Enni gógna e bulhaar, Venite matrone e bugliari, Enni tù vapxta e ushtùrtoor, Venite, poverelle e soldati,

Enni e elèni me xi^ii- Venite e piangete dirottamente; Sot tu varfùra kontruat, Oggi orfane siete rimase,

Pà prìndin cù ju porsinnej, Senza il Padre cho vi consigliava, Ju porsinn’ e ndìghùnej. Vi consigliava ed ajutava.

E myy xeen e vàshavet E più il decoro delle vergini Myy gareen e gkitonlvet E la letizia de’ vicinati As chinnì cush ty ju riiagn. ' Non avete chi vi custodisca.

Prlndi e gotti Arbùrit Il padre e signore dell’ Albania

Ai vùdìk cù somenàt; Egli è morto da questa mattina ;

Skanderbeccu s' ysht myy ». Skanderbegh non è più » ; Gkiégkùtin shpiit e u triximistin, Udiron le case e si scossero

< [da’ fondamenti,

Gkiégkùtin malhet e u ndaan ; Udirono i monti e si divisero ;

Campanaart c kishvet I campanili delle Chiese

Ihipin il lutto sopra sé; Zuun mbù vetthen ; Suonavano Po ndyr kielt e gapta hlnej E ne’ cieli aperti entrava

Skandyrbcccu i pè-faan. Skanderbegh d’ afflitta ventura.

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Canto XVIII.

— Chuntògny o sgklògn u£oon. — Canterò o sveglierò il signor mio.

Se m' o sgkiògn u cy m’ i Som ? Ch’ io deslerollo che gli dirò ?

t' dirgli i tristi casi nostri; Dee i 9osh u helhmet aan ; Vorrei

Nd’ i kùloi po Ihoe t’ fiyyr ». Ma se vinselo il sonno, cho dorma. » M) •

Canto XIX.

Ish gnu £ot’ shùmù i chék’ Era un duce assai Aero. ti prigione Ish me gny lhìfrurin ; Era con un ;

Mosgnerii e guzzòn’ t’ i fjìtt’ E nissuno osava parlargli: Po gnu vash bulhùrésh Ma una vergine patrizia

Cuturissi e m’ i fòlhi. Si fece animo e parlògli.

— Zot, ndò jee ti ak’ i chek’, — Signore, benché tu sii tanto Aero, Dò vymi gnu ncusht hasbch Vuoi che scommettiamo insieme Zilhi ty néve tu di Chi di noi due Myy t’pie kélhke me veer? Beva più bicchieri di vino ?

Ti vyy prò tu’ lhl£urin, Tu scommetterai il prigione,

E u vy shtraan e terjorissur 10 scommetterò il mio letto ricamato Me gchylhpègne ty mundàsht. Con serpenti di seta.

Zotti dèsh e kè cutient. Il duce consenti e fu contento.

Vasha porsitti criattet : La fanciulla ammoni le fanti:

— Cùr t’ i shtinni veer Turcut — Quando verserete il vinoal Turco Piot gli ju cuppen my ja e bynni ; Piena colma la coppa farete. Cùr mó shtinni veer mua Quando verserete vino a me Piot cuppen mos m’ e bynni, Piena la coppa non mi fate,

Picchen ui efrè m’ i shtinni ». E la stilla d’acqua pur versatemi. Prò ndù mest triesys, Poi a mezzo delle imbandigioni. Ajo e cuke e luche késhur, Ella arrossita e sorridendo,

Mby t’ raaarr kélhkin me veer, In prendersi il bicchiere con vino

1 shtuu mbaalh bóren e baarfr: Vi gittò dentro la neve bianca:

Zotti i maarr ncà ajò gareo 11 duce rapito da quella gioja, Tue piir e mbiùar cuppen A bore ed empier la tazza,

Daalh ndù flrónit u kicaar, Lentamente sul seggio inchinossi ,

Attic i kùlòi gkiuum. Quivi si chiuse nel sonno. Zògna vash tù Ihiffurm La nobile vergine, al prigione

(4) Era questo canto s) nella raccolta Siciliana, si in quella di Basili, donde ne aveva avuta copia nel 1’ ottimo mio amico Herman Kestner d’Han- nover : conteneva la ventura di un Albanese, sorpreso con la sua Signora da predoni musulmani nella campagna e che li disperdeva II Trad.

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(M —

Armatossi, e u nis me ty Diede l’ armi, e s’ avviò con lui

Drékù J^alit détit. Dritto al lido del mare.

ilippi annii Ivi rragur éres, Montò nave combattuta dal vento

Pyrlèi détin u pryy. Di là oltre il mare si posò. Ma cù raa te £aii guaj, Ma come scese alla spiaggia

[ straniera Ndygni si e stissury$ distette quasi li fabbricata, E pyrjeerr détit: Rivolta al mare:

— Mori o buccura Moree (1) — O bella Morea,

Cy t’ Ihee, myy sy t’ pee ! Come ti ho lasciata più non ti vidi ! Attio carri u £ognen m’ yym, Quivi ho io la signora mia madre,

Attie cam u f irn’ vólaa, Quivi ho io mio fratello.

Attie cam u £oou tat Ivi ho io il signore mio padre Ty mbulhùur nyn ffee. Coperto sotto terra. 0 e buccura Moree, 0 bella Morea,

' Cy t’ Ihee myy sy t’ pee Come ti ho lasciata più non ti vidi,

Canto xx.

Cà goor e Anàpulhit Dalla città di Napoli

Ilifc gkiégkùtim gnu triximii, Jori abbiamo udito un rovinio Si tù ràrie ndu deet tu Oeel. Come di caduta in mare profondo. Gkiyymt e burnbar&ivet De’ rintroni delle bombarde

My cumbòjin màlheto; Rimbombarono le montagne ;

Camnòi shcupèttavet Il fumo de’ moschetti

il Miègculòi détin ; Annebbiò mare ;

Trintùliimt Iti shpattùvet Al tintinnir de’ brandi

Btjin nettai Ihisvet: Cascavan le foglie delle querce Gnéra cy te rabrymia e vryryt Sino a quando, alla sera fosca, Ndy treght ty Anapulhit Nella piazza di Napoli Me crèra c ronze gkiaccu, Con capi mozzi e pozze di sangue,

(4) Questi versi pieni di tenerezza per la patria perduta, nel tempo passato allorché le memorie degli Albanesi emigrati in Italia erano più vive, soleano cantarsi nella primavera, stagione anniversaria della loro emigrazione, da sopra i monti del loro paese e col volto all'oriente. Cosi in Sicilia, gli Albanesi di Palazzo Adriano cantavanli sul loro monte detto Rose quelli di Mczzo- Delle ; juso sul monte sovrastante; quelli di Contessa e della Piana su i monti ri- spettivi S. Maria del Bosco o Pizzuta. In Calabria facean parte de’ Canti delle

Bussai/» o feste patrie antiche, celebrate ne’ giorni di Pasqua. Oggi il costume dura solo nel villaggio di Casal-nuovo in Basilicata. AH' oriente di questo paese si eleva una collina, donde ai vede il Mare Jonio. Ivi quindici giorni pri- ma del Carnevale quello donzelle, dopo celebrato 1' antico rito della fratellan- za. (motyrma) si riuniscono con delle bandiere, e, salutato 1' Oriente con la

Mitri c buccura Morcc, si danno a far logna, e, tornato io paese, compiono il rito con lauto banchetto. V. Borsa

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- 9S —

Ndygm me burgaam e folhi Stette con alto orgoglio e parlò

Zotti ma$ i kénvet Turkó: Il Soldano de’ cani Turchi.

Uau : 8ùam, ushtra (IS'ilia Imme, Mao : Dimmi esercito fedele mio,

Zilhit £ymùra i bya A chi il cuore faccia Ty ciaagn diert tu hecurtme Di rompere lo porte ferree

Ndy castifelht t’ Anàpulhit, Nel castello di Napoli,

E tu vyyr fìàmurin t’ im’ E di piantare il vessillo mio

Mbii castieelh e Anàpulhit ». Sopra il castello di Napoli ». GkiO e gkieegk cs’ii pyrgkieen. Tutti lo udirono e non risposero:

Prona u pùrgkiégk Viastari ; Poi rispose Vlastàri :

— Rruat Sotti i maSi iin; — Viva il signor grande nostro;

Mùa £ymra m’e 8ot A me l’ animo mi dice

Ty piirmissign e t’ shchòlhign Che prostrerò lo porte o pesterò

Te castièlbi Anàpulhit, Il Castello di Napoli, [sopra T’ Anàpulhit e tu Motfonit Di Napoli e di Modone,

E l’ Coronit fusha-miir ». K di Corone dalle belle campagne o.

Canto

Dùal e buccura ndù deer Uscì la bella alla porta Me zaréket piot cravèlhe Co’ canestri ricolmi di pane,

Me piceret piot me veer Con li fiaschi pieni di vino E gnu kelhk’ ndy pur duar, Ed una tazza nella mano, T’ jip tù piin tu varfùrit, Per dar bere agli orfanelli, i Ty varfùr e ushtùrtórvet. Orfani de’ combattenti

— Se ti, i vapóxti e i lhecossur, — Deh tu povero e ferito Cy m’ prlre cà amà^i, Che mi tomi dalla pugna

Mos m’ e pee ti £oon t’ im ? M’avessi ivi veduto il signor mio? — Zoogn u pee shuum ushtórtoor, — Signora io vidi molli guerrieri,

Zoltin t’ ynd po nynch e gnòga. 11 signor tuo però non conobbi.

— Ish gnu trlm shùmy i buccur, — Era un giovane assai bello,

1 buccur i Ihùlhmi, Bello o florido, Me mustach tu drètfurìO Co’ mustacchi arricciati, Me gn’caalh cù hinchólnej, Su d’un cavallo nitrente, Paravidden ty mundashym La gualdrappa di seta

Me rùgkiynt kintissuryn : In argento ricamata : Ish me fiammurin ndù door. Era con la bandiera nella mano

Ture Oyyn e buccura, In quel che parlava la bella

Gnù e porséxi mùrgiarin Ecco e raffigurò il corsiero

Me capistren pyr ndór chyymb Con li freni infra li piedi

E me sélhen pyr ndù barch E con la sella da sotto il ventre E me lìammur zàrr e zaarr. E con la bandiera trascinata per terra. [

Zo: Se ti i shcrél e irrùmaxym, Tign. Che tu tristo c furente

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Se* ti vién, Sotti imm’cu yy ? Che tu vieni, il signor mio dov’ ò

Calili Mori £ògna i m[ne £oogn, Cav. 0 Signora, mia Signora

Se u t’ò Oora ti helhmonne. Che io te ’l dico te n’ afflìggerai

Sheòi gnu diti’ e errùty£ Passò una giornata nuvolosa, E gnu nat e trymburyS, Ed una notte piena d’orrori, Cuur te messi diltùs jater Poscia nel mezzo del di seguente Dìert o Anàpulhit Le porte di Napoli My u gapùtin, e ndù kiuzz’ Si spalancarono e in su la piazza Attio u Sa gnu lhufT’ e chòke. Diessi una pugna atroce. Shculoom e surròpulhvet La spuma de’ cavalli

Imbiancò il suolo, SbarSulòi Sétìin ; Gkiaccut ty bulhàrvet Il sangue dc'bugliari

Corse a’ rivi le vie, Zuun kiin lavtnù^it ; per Loort é £ógnavet Le braccia delle signore Candalieer uSùshit. Candelabri su per le vie.

Zolli im’ tue vraar armik’ Il signor mio ad uccider nemici

Gnèra cy u byy nattù. Fino a che si fe’ notte. Nynch u Sa se prò kùntròi Non diessi cura dell’ esser poi ri- [maso, Me prapa tu mbulita dlert Con alle spalle chiuse le porte, Vet’ ndù mesi Ihuffles. Solo, nel mezzo della zuffa. Chimo bès, £ógna ìmme, Abbimi fede, signora mia,

Chymba mua as m’ u scandeps, Il piede a me non è inciampato,

Mua gkiùri as m’ pyrgkiuu il ginocchio non inchinossi; u ; A me

GkiO shéshet u m’ i shchèlha Tutti i piani io li percorsi

GkiO pùrrògnet i chùzèva. Tutti i burroni varcai di salto. Po te kiazz’ e Anàpulhit, Ma nella piazza di Napoli Te gnu gcoolh t’órtur, Dentro una cappella oscura, Mbaalh dùrràs màrmuri Sopra una tavola di marmo

Vura chymbyt e m’shcàva : Posi le zampe c sdrucciolai: M’u byy ngraagh ai kenni Turch Mi si fece addosso quel cane Turco E m’pròu cripùOit. E tagliommi la criniera.

Canto XXII.

Bùari Rina ty vùlaan Perdè Irene il fratello

Ty vùlaan e RaSa Vaan, 11 fratello Radavane. Trii dìtt’ e tre dì cercollo m’ e chyrcòi ; E per ; Trii dittù me dìelin Tre dì col sole Trii nattù me ghynnien. Tre notti a lume di luna. Pystai m’c ciòi tù vraar, Poi lo rinvenne spento,

Vraar e crìe-prèri9 Spento e reciso il capo Ndyjkiazzyt Anàpulhit. Nella piazza di Napoli.

I ndìghhùin tù vàrfùrit, Aiutaronla gli orfanelli;

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lo di ,P e vuu mbii mushchy l' £ce£, E pose su una mula nera E m’ u prùari drèk’ c prap. E tornò dritto in dietro. US ics, ndó gny pórrùa Per istrada appo un torrente U pryy e, sdrepur, e mbulhòi Riposò, e smontatolo, il coverse Me fiammur e vettótiij. Con la bandiera di lui stesso. Shcoi ortfcje Arminòit. Passò l’ orda di Arminò : — Ym gny pich ùi, Riin, — Dammi una stilla d’ acqua Irene, — Uit u ’s cam cu ty t’ e jap. — L’ acqua io non ho dove dartela. — Yramc ndy gcrusht’ ynd, o — Dammela nel concavo delie lue Riin, [mani, Irene. [ dita mie — Gcrùshti ìm’ i piot’ una$a — Le carche d’ anelli Picchyn ui nynchy m’o mbaan, La stilla d’acqua in sò non rat- tengono, [ quella stilla E at’ picchcn cy m’ mbaan E che pur vi s’arresti £ottit ìmmii. Ho da serbarla al signor mio. Cam to’ ja e ruagn u

Ir. tu cane M Se ti kén c traSituur (1) Or e traditore Ti mos foolh chóshtii me mua; Tu non parlar cosi con meco;

Se ndó sgkiòsha u t’ im’ vólaa, Chò, s’ io desto mio fratello, Zoppa c Oólha bi’ t’ju byygn. A pezzi e a brani vi farò fare. — Po tu kiòsha truar, Kiin, — Ma di grazia or via Irene, Pinchi) Sà t" sheòmmi chyt malh passiam questo monte Chyt malh e jùtórin. Questo monte e l' altro. Atta ìccur, £ùgna Riin Quelli fuggiti, la signora Irene Proruppe in Zuu yj^i' mbt l y vólaan. pianto sopra il fratello; — RaSa-Van vólau im’ — Radavane, fratei mio, Ndy nani tó trymbicn So ora di te paventano,

Chip cùr ìshic i gkiaal ! » Pensa quando eri vivo ! »

Canto XX 111.

appare aver uomini [ In questa rapsodia malinconiosa Albanesi fatto forte lo straniero contra la patria. E pajono dC altra età que- sto e gli altri canti che accennano la Morca, ov' è memoria che si fos- sero ritratte innumerabili famiglie Albanesi; c dalla quale poi, vinta

le armi di Carlo V, tante ricoverarono in Italia. Corone e ]

ltrympes mérùame Al raggio mesto Ty dielit mbrymies Del sole della sera,

MbjlS Ihùlhe vàshófa, Cogliea fiori la fanciulla,

MbjìS le shéshe i Coronit Coglieva nella campagna di Corone Monosaket c rèa. Le viole novelle.

(t) Sarebbe Armino alcun signore albanese disertalo dalle bandiere di Skandcrbegh?

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Mbjlò' Ihulhe o ehóntonnoj Cogliea fiori c cantava

Si vàin c fallii sai : Quasi la nenia del suo destino

Cùr gnolla i òr0 ngraagli Quando ecco avvonnclc sopra

Diu ncà kcnni Muscumynl ; Non so donde il cane Musulmano; J’ e £uu pyr chùshctluOi E la strinse per la treccia E m’e ktìli tech gnb potiti E me la trasse ad un Signore

Sà i buccur aku mizzoor. Quanto bello tanto fiero. Prà, mbrymanct me hecn, Poi, alla sera con luna, Gnoo e £ògche crkghu-£ee£ Vedi un’ augello negra Mosso silej ròtula Di continuo volitare attorno Shatorecs Alla ty altiij trìmi; tenda di quel duce ;

Ejulnej e clànej: (1) Gemeva e lamentavasi:

— Mièra ù, mitra u £ogche ; — Miserarne, misera me augello!

Puftyn i vùlùu tó mòtóren ! Bacia il frate! la suora » !

Sà u pórgkiegkù £otte i sbeet : Si chè a lei si volse il garzon pal-

lido : [ — Cy gkùrii m'jec ti, vash, Di che casato sei tu giovane,

Cy £ymren m’e mbiòve Ihot? Che ’l core m’ empiesti di lagrime? — Jam gkùrlje shuum tu lhart, — Sono di schiatta assai nobile, Ncà £ottrat e Mlrdittùvet. Da’ principi de’ Mlrditti.

Mbl anii te dòti iin Sopra nave, nel mar nostro,

(4) Il sig. Camarda nella sua dotta Grammutologia, a pag. 39!) — scrivo :

« Il do Rada suole apporre alla 3.‘ persona degl’ imperfetti la sillaba nei o ite],

« come clànej clàj .* si uniformi all’ per ; sebbene nella 4 persona italo-albano-

« se, come mbàja etc . . . Ma il ridurla all' uscita nej, può farla confondere

« nella pronunzia col passivo di molti verbi ». Or io, nel ritenere la termi- nazione nej, seguii semplicemente l’uso ilalo-albanesc e ’l genio della lingua. Hannovi nelle Colnnio Albanesi dell' Italia meridionale (state chiuso ad ogni esterna corruzione insino a noi) due dialotti, non nativi già essi d’Italia, ma portati d' Albania : Ne' verbi Amenti ’n gnu, uno di questi dialetti ha nej o l’altro ju; perciò puOignu (bacio) ove ha puOunej e dove puOùjo (baciava). Queste due forme, com’essi dialetti, sono anco difusc nello rapsodie di questo pooma coevo a Skanderbegh o monumento del puro albanese : cosi nel verso sopra segnato all’fjulònej e clànej non potrebbesi, senza perdita intera del metro, sostituire éjulój e claaj. In ambi i dialetti poi, ne' verbi d’altra desi- nenza, stato abbandonato il nej quasi pertutto è finale : quindi inbiel (semi- no) fa mbllùj (seminava), Oùrrés (grido) fa Ourrlttuj (gridava), o al raro s’ode mblluncj, Oùrrltlùnej. Se lo due formo non erano già de’ due imperfetti alterni

1 c cong. questo abbandono reputo una viziatura, fatta per consonare alla I.' e 3.* persona mbllia, mbilio etc. E in troppi casi questa forma monca con-

1 fondo la 3 * persona dell’ imperfetto con la 3 .* dell’ imperativo, corno in claaj shtiij e la piangi tu , e piangeva, spingi tu, spingeva. Invece che finale nej confonda, come teme il mio amico gl' imperfetti attivo c riflesso, non ò , possibile in nessun verbo: per osern. l’attivo ha lhancj (lavava) il rillesso hu

Ihaghej (lavavasi) Vati, ha puOùnej (baciava), il rif : ha puOcj (baciavasi) etc.

I Traditi.

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T’ im’ vùlaa, ndyr catcr vièt, Mio fratello di quattro anni Mùartin ndò vraan cussaar. Rapirono od uccisero corsari.

Ni fatti e£e vettmeen Ora il fato anco me stessa Ndyr vretàrc atto duar In quelle mani, esiziali E gki8 shpiis aan lhùrfeu! » A tutta nostra casa, abbandonò.

— Popo ! chek’ e maiìa nyym ? — Ahi! troppo dura maledizione!

Olimpie ti mòtùra ìmme, Olimpia, tu sorella mia,

Vet Vlastari itty vùlaa ». Io son Vlastàre tuo fratello ».

Canto XXIV.

Dopo le stragi degli eroi compiono la loro parte le [ , madri no-

stre desolate : ni fallirono alla dignità propria e al ctdto de’ mariti

e fratelli. Anco il poeta non poteva in altro specchio si vivo che la

loro tenerezza, riflettere la rovina e ’l misero abbandono della sua patria 1

fikìO e véshur ndyr tu £A£a Tutta vestita in gramaglie

Dèa! gnu vash cà gora ; Usci una vergine dalla città, Vatte maarr urattù£yn Andò a prender la benedizione, Uratten e déut tiro. La benedizione dalla terra natia. Pyrpòki mynin e £ii Imbattessi nel gelso negro

E chùputti deegch Iti fiettym; E spezzonne un ramoscel frondoso,

Pòki molen e chùputti Scontrò il melo e ne ruppe Dégchen me mòla tù harSa, Un ramolino con le mele bianche,

: nel Mbiotf Ihùlhe ndù prygluirit Colse fiori grembiule ; Prana u vuri tue claar Poi si mise a piangere

Prosopiin e déut tiro. L’ aspetto del paese suo :

— Oh! tù falha fféu iin, — Oh ! Addio terra nostra !

Tù falha se my t’ lhyy, Ti saluto; perchè io t’ abbandono,

E s’ cam ty t’ shògh u myy ! E non ho da vederti più mai ! Ne cam fièe u cu t’ vette, Nè ho io paese a cui men vada, Pò goor cu ty mùnògn Senza città ov’ io rimanga,

Pà gnu shpii te chy tù mbjìS'em ! Senza una casa ove mi ritiri !

Chyto dógea e chyto Ihìdhe Questi ramoscelli e questi fiori Véshchen si ty t’jeen laargh, Avvizziranno come saranti lontani,

Fare malin ’#c m’ nziccrr. Per nulla di te il desiderio a me tolto. l

Canto XXV.

Shkitto£a e baarff c boari' li cigno bianco bianco

Lhùrèu fyrshùllmù£yn Ha sciolto il canto

Ty shcrighcj dòti : Da appianarsene il mare

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Armonissi c £otti Ndree Ed alitati il Signor Andrea,

Armonissi trii gcalhec Alleali tre galere i'yr tu varfurit e Arbùrit. Per gli orfani d’Albania E paar e anlvet La prima nave

U ncarcùa piono vasha, Fu carca piena di fanciulle ;

, E diit e anlvet La seconda nave

U ncarcùa piono trìma;. Fu carca piena di giovinetti ; E trett’e anlvet La terza delle navi Ish ncarcùar buch e mundàsh. Era carica di pane e drapperie. Anni u nistin atto c vaan Ora sono avviate esse, e già vanno

Ncà Sespùri ndó S'eet Lhutii. (1) Verso l’ espero alla terra Latina.

(4} Forse nessuna gente, per serbar sua fedo e suo onore, si divclse tanta., quanta la nostra, dalla terra natia; e di nessuna fu con poesie egualmente ef-

ficaci rappresentata la partenza da' patrii Lari. Ma chi era il signore Andrea che allestì le navi? Da qual porto salpavano? Tutto ci è ignoto. Senonchè Guglielmo Tocci da Slrigàri, che in un recente libro pose in luce e ’1 suo af- fetto alla patria o molte recondite memorie nostre, (e che or prepara la tra- duzione o stampa del poeta Variboba) fecerai tenere un manoscritto trovato nelle carte di sua casa, e in cui è narrato 1’ afflitto nostro venire nell' Italia. È vergato di mano del nobile Agostino Tocci vissuto alla fine del secolo XVII. È bene che sia conosciuto nelle patrie nostre. « Dopo la morte di Skanderbegh, vi 6 detto, D. Giovanni figlio di lui fece

levata di tutte le donne, i figliuoli, i vecchi inabili alle armi, unendo navi e barche di negozio dalle città Albanesi di Vallona. Portico, Musachese, Durazzo,

Bojana, Dulcigno ed Antìvari. Via facendo verso il porto di questa, ov' erano unite le navi col convoglio di quattro galere veneziane, Egli con tutta la sua gente fece fatti d’ armi. « La causa dì tanti mali è stata la discordia avvenuta tra Chimara eh’ è parte dell’Albania, e Scodra: divise essendo queste provincia da un gran

nume detto Bojana ricco di pesci e di anguille, di cui si fa traffico. Vedendo

che l’ inondazione de' Turchi sotto la condotta del Granvisir Jousuf Bassà

soggiogava tutta I’ Albania, e doveva investire la porziono di là dal fiume, i Chimarioti dubitando delle loro case là vicine, uniti in parlamento e divisisi dagli Scodriotti, scrissero al suddetto Jousuf-Bassà che sì ritiravano quieti e

lasciavano lo armi so non desse molestia alla Chimara ; c fu accordato, o quo-

sti si ritirarono ne' paesi loro. Restò l' altra parte eh’ era della provincia di Scodra che non lasciò 1’ arme, ma per non star soggetta a' Turchi, deliberò la

partenza, con aver questi mantenuto con I' armi la loro parola. Le donne e i putti mandati furono da essi ad unirai ad altri uomini, che seguirono D. Gio-

vanni ed altri principi Albanesi. I Cavalieri Albanesi che comandavano alla

soldatesca si chiamavano: Cola Marc-Shini, Elia Mallisi , o Marco de Mathia.

Quest' ultimo era signore di 50 paesi nolla Mathia, i due altri erano primarj di Scodra. Nella milizia erano molte donne vestite militarmente e che accom-

pagnavano con l' armi io mano i loro mariti, e poi unitamente co'detti mi-

liti s’ imbarcarono.

<> Antivari, piazza marittima d’ Albania, ha vicinò un monte lungo ed al-

to ; a’ piedi di questo monte e vicino verso il maro, è la fortezza d' Antivari.

Fin qui giunsero i Turchi sotto la condotta di Jousuf Bassà perseguitando gli Albanesi, c qui assediandoli con D. Giovanni e colleghi non davano adito al-

Digitized by Google Cuur to stiùra o £Alit guaj Quando au l’ arena del lido straniero Ty shliiaren [iyrjeerr chótfcna, Starannosi fermati e volti di qua,

Graat c to’ gùajvet Le donne de’ forestieri

la gente venuta a soccorrerli. Intanto giunse agli Albanesi 1' avviso che le navi

raccolte c assoldato si riducovano nel porto di Pastrovich dentro il territorio della Dalmaiia, in poterò do’ Veneziani, o ch’era pronto in quel luogo rim- barco. Avuta la quale notizia, questi, armata mano, irruppero contea assediatiti

o dato fuoco al Castello, e passali in mezzo i Turchi facendo gran strago, camminarono verso Pastruicci. Tra Anlivari o questo porto, in paeso che par- lavano P illirico, scorre un fiume, che scende dalle rupi di Pcrasto del Mon- tcnero coperte di neve; questa fuga è stata ne' principi di primavera. Or

in questo luogo non avendo in pronto barche per passare il fiume rigonfio o d'altra parte dovendo risalire le montagne di Catterò o per la Croazia

c Schiavonia far lungo giro, non senza pericolo d’ incontrare il nemico, deli-

berarono d' avventurarsi a passare il (lume, e audacemente notando, non però senza perdita di molla gente Albanese, giunsero a Pastruicci dove uniti ai militi eh’ erano venuti innanzi, s'imbarcarono.

« Le donne, ì vecchi e i putti passarono i primi ’l mare, e poi raggiun- gendoli D. Giovanni con gli altri soldati approdarono tutti in Sicilia. E facen-

do il computo degli imbarcati e delle barche; si trovò molta genio man- cante e morta per strada d’ infermità e di mancanza di viveri, per la repentina partenza, e molte barcho dalla tempesta di mare disperse, delle quali non ebbero più notizia. E piangendo il loro misero stalo e consigliatosi D. Gio- vanni co’capi de' suoi, si diressero verso Palermo, dove allora bì trovava ro

Ferrante, al quale rappresentando il loro misero stato chiesero ajuto o che con-

cedesse sbarcare tutta la gente. Ma il re conosciuto chi erano, non volle ri-

ceverli nel suo regno ; dubitando del Turco, non venisse appresso a loro :

peraltro li soccorse di viveri. Ordinò dunque ebe prendessero il largo; so no,

no avria mandato a fondo le navi : e cosi comandò a tutta le sue terre, o

mandò gente che impedisse lo sbarco per tutto il suo regno.

• Disperatamente rivolsero il cammino verso i mari di Napoli c, fatto consiglio fra loro, con animo Intrepido alla Ano e da Albanesi risolsero sbar- care in Salerno c Indirizzarsi a Napoli e poi. a Roma. Lasciate indietro

le donne e genti inutili, il resto messosi in ordinanza con spiegata la ban-

diera dì Gerusalemme ed i colori della pace per non dar timori, si avan-

zava. Il Viceré facendo resistenza non voleva il loro Ingresso ; ma gli rispo- sero che non si opponesse perchè avean l’ordine di re Ferranto di risedere

ivi per qualche giorno. II Viceré volle vedere l’ordino o perchè non l’ave- vano persistette a impedirli e tanto cho obbligò gli Albanesi a usar la

forza ondo invece che Salerno sbarcarono dentro Napoli, od il popolo Na- ; a

politano li acclamava amici e difensori della fede, e li mise in possesso del Castel Nuovo rassettandoli in pochissimi giorni.

« D. Giovanni, lasciato ivi con la gente Cola Marc-Shini a governarli, c cho fosso riconosciuto corno la sua stessa persona, con altri capi o pochi sol- dati parti alla volta di Papa Santo, E giunto in Fondi riposò un giorno; e poi » prese il cammino di Roma ; od a' piodi del rapa con pianto proruppe. Esser « egli uno sventurato che per la Fede combattè dodici anni, o che prima di

« lui favo e ’l padre Scanderbegh c i fratelli di questo avvelenati da' Turchi

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Vecn ty ni’ i gnòghyn affer; Aneleranno per conoscerli da presso

E gnu maai i shòguriO Ed n alTetto secreto

l frighet ndu £ymryt, l.or si gonfierà nel cuore, E gnu lhott’ e buccury£ Ed una' lagrima bella

I pumbión st£it. Impregnerà i lor occhi.

« aveano speso la vita o la fortuna per difendere la Chiesa, e che ora egli

<• da essi nemici do'cristiani, disfatto dal mare profugo in caduto o perseguitalo , « terre altrui o senza trovaro compassione, anzi non ricevuto da re Ferrante « no' suoi stati, veniva a' piodi del Vicario di Cristo ad implorare soccorso. » Il

« Santo Padre gli rispose « Clio tornasse a Napoli fra i suoi c governasse il « suo popolo con amore e carità; che ora suo pensiero conciliare ogni cosa ». Cosi feco, che scrisse a re Ferrante al re di Spagna, o al re di Francia, cd all’ Imperatore, che accomodassero D. Giovanni come sovrano e dessero soc- corsi alla sua gente etc. Quegli con confidenza riprese il cammino e si resti- tuì in detto Castel Nuovo, dove fece fabbricare le quattro torri, ponendo ad ognuna l’ impresa del suo casato e la ricordanza d' averlo fabbricato in pietra; slantechè il Castel Nuovo era una fabbrica vecchia e bassa. Vi fece pur» una bellissima cappella in sua memoria, ove volle essere sepolto, o vi si vedo il suo monumento in marmo, cinto da un colonnato di pietra fina, e con cinquo lampone che sempre ardono. Sul muro è il ritratto dì lui, pittura greca con cortina innanzi di bellissima fattura. La chiavo di delta Cappella è tenuta dal Cappellano Greco di Napoli, ebe ha cura di detto luogo. Stetto nel Castel Nuovo in pace da circa 40 anni. Ma, per dissavventura, sorti dissapori fra i regi e i suoi, gli Albanesi popoli tulli senza mutare stato,

furono d’ accordo, però dispartiti con le loro famiglio in tutto il regno di Na-

poli o la Sicilia. Dopo ciò il ro di Spagna mandò soccorsi a re Ferrante e si fecero a perseguitare D. Giovanni e tutti gli Albanesi per scacciarli dal regno;

ed essi fattisi forti a non volor uscire, ridotti in Avellino chiamarono i suoi più vicini e fecero de' fatti d' urini ad Avellino o ad Ariano. Poi ritiratisi a

Trebisaccia a riunir l’altru gente delle Calabrie, vi ai fermarono alquanti giorni. Ma essendo sopraggiunto allo spalle re Ferrante verso Corigliano, trovato- si in mezzo a duo eserciti, D. Giovanni mandò trombetta di pace, domandando che la cosa fosse decisa dal papa o dalli altri re cristiani, e eh’ ei si starebbe

di quelli. E fu accordata tregua e 'I risultato dell' intervento alla sentenza la ; del Papa fu che dovesse re Ferrante e 'i ro di Spagna pagare le speso e dare il domicilio, avere ad accordarsi fra loro per l’ assegno do’ luoghi

ovo mantenersi ; a D. Giovanni donare S. Pietro in Galatina ed altri luoghi ed alla nazione sua grazio e privilegi di Franchigie e distribuzione di denari por sussidio, siccome quelli dolla Dogana di Ferro: dover però gli Albanesi andare distribuiti pel regno tutto di Napoli o di Sicilia (come attualmente sono) od

esservi incorporati, né fare essi città senza il consenso del re di Spagna. » I privilegi che furono pattuiti per la nazione Albanese entrata a far parte

del regno di Napoli sono li seguenti, già concessi da Alfonso a' Liparioti , c ripetuti nella Prammatica di Carlo V in favore degli Albaneai clic vennero

da Corone sotto il suo impero, otc

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Canto XX VJ.

Kyntrùur me shuum paci), Himasto con assai pochi

Messit Turket gotti Pietyr, In mezzo de’ Turchi ’l signor Pietro

Maxeren nchù nzori mbreg: Nò la spada si scinse dai fianco : Vett’ lhufloimcj me gn’ leegh Solo lottava contra una moltitudine

Si mb'J chyymb ®e càlhuar. Sì a piedi che a cavallo : E mosse vijin attèi E di continuo venivan di là Te potassi fottìi ma® Alla reggia del Gran Signore Ty clàra Turchèshave. Pianti di Turche.

U ngrè prana gotti ma® Si levò poi il Gran Signore

E shcrùati e dórgeòi ndyr goorl : E scrisse e. mandò nelle città : E, pyr gk)6 ®een, valhii E, per tutta la terra, banditori

Zuun e Oirtin sà u dii : Cominciaron gridando sul mattino :

— Mori gk'iO gnòrii t’e gkiógkint: — Che ogni persona I’ oda :

Zolli ma® taxyn e jèp 11 Gran Signore promette c donerà

Aiùt catùnde to’ bùgchèt, Dieci paesi ricchi

E t’ buccuren googn E la bella signora Ty shòken e Pietro Shinit, La moglie di Pietro Shini,

Cui t’ i sieel mo Pietro Shinin A chi gli rechi Pietro Shini 0 te gkiaal o ty vudòcur. 0 vivo o morto. ErO prà mbryme piot miègcul, Venne poi una sera piena di nebbia Cùr gnu shoch gnu cushòrii Quando un compagno, un cugino,

Dtu si e guu fottio Pietyr, Non so come prese il signor Pietro, E m’ja e ®a kénóvet Turkò. E consegnalo a’ cani Turchi. Atta si ndór duar e pattótin Essi come in mano lo ebbero

M’ i drò®tin mustòkegit, Gli torsero i mustacchi, Ncrik ndò shiir ja e lhi®tin, A croce glieli annodarono su la nuca, E kèltin te gotti ma®. Lo menarono al Gran Signore. Ai byri o vuun di Oronne Egli fece metter due seggi Gnfcrìn pyr gottin Pietyr, Uno pel signor Pietro, Te jàtóri u ù!h vet ù Nell’ altro sedè oi stesso Zuu e mé pietur: E cominciò domandandolo: — Se ti gotti Pietro Shin — Ma tu, signor Pietro Shini, T’ abonsinmen imi Oùaj ; La veritade dimmi, Nd’akó motto co my lhuftòve In tanto tempo che m’hai combattuto Sà m’ Ihavosse, o chce vraar ? Quanti mi feristi e avraimi uccisi ?

— Gnó té Oom t’ abonòsinmen : — Ecco ti dico la verità : Jaan gnu getl’ e càtyr vièt Sono ventiquattro anni Cy thuftòva ushteren tynde Che ho combattuto le lue legioni

Pyr ndéren e gkiaccul im’ : Per I’ onore del sangue mio :

E caan raar nyn shpatten t’ imme E saran caduti sotto la spada mia Dii tniilh e catyr kint. Due mila o quattrocento.

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— Aghicna u, gotti Piclyr, — Allora io. Don Pietro, Vetta gmi gel’ e catyr dit’ Soli ventiquattro di

Dùa ty t’ lhyy vieerr, Vuò lasciarti appeso, Mbl détin, cà gnu ntiin. Sopra mare, da un’antenna. — Byn si dò ti, gotti ma*, — Fa’come vuoi tu, grande signore,

I diim so nchù munde vet: Conscio che non vincesti da te.

Po jo mbl dòlio Ma uon sopra il mare. Ma te messi gòrys 'atte, Invece nel mezzo della città tua, Shabien my pùrjeerr te bregi. La spada tornatami al fianco. Te ninulb c àjùrit Perché cullata dal vento Se ajo e tundur trinlùlyn ; Mossa tintinnirà ; Tech Turchéshat e t'e gkiégkien Ed ove le Turche odanla

Shtùrngògnyn tu bìlht odo gkii, Stringeranno i ligli al seno,

i E O’jrressyn tu gòtlravet E chiameranno i mariti

T’ i mbùlighen ndyr camarat. » Chea lorosi chiudano nelle camere ».

Canto XJCVII.

Kaa Turcu, eu mu raa? Approdò il Turco; ove approdò egli? Ilaa me pes gcalhee tù shpetta Approdò con cinque galere spedite Tech iin vàshat e Arbrésha, Dove stavano le fanciulle Albanesi, Ishin e tùgarrùjin vrèshtat. Stavano sfrondando le vigne. Si nui raa ai my rrùmpèu Come sopravvenne, Ei rapi Ty bilhen e Markianòit La figliuola di Marchianò Me atto nussen c Candrévys, Con quella sposa di Candreva

E vashen e Garaddinit E la figlia di Garaddino, Dritta e slvety tù jatlit. Lume degli occhi del padre. Garaddini, murgeu buurr Garaddino, afflitto uomo. My u vésh mby chùlògkier, Vestissi da calògcro

Ezzi $cen c détin. Corse la terra e ’l mare. Ture vattur goor mbù goor, Andando di città in città, My ’rrovòi Salonik Arrivò in Saloniki

Tech mù bynnej gny marcai. In quel che vi si teneva una liera. Mbii kiazzen te palassi Su la piazza del suo palagio

Ish gnu Turch e rùan’ marcaan; Era un Turco e guardava il mercato; Cùr mù paa tù guajin Quando ebbe veduto lo straniero Ai tu’ shokes my i Oirri : Ei la moglie a sé chiamò: — Ea pa shigh ti gny chùlogker — Vien qua e mira un Calogero Gny chùlògker ty chùrshtec; cristiano Un Calogero ; Si culhtòn mosse atto See. Dacché ricordi sempre quella terra.

— Popo ! i vèshur ni chùlogker — Ahi ! vestito or da Calogero

Garaddini gotti tat. Garaddino il mio nobile padre !

— My i 6irr tu ngkittiet. — Chiamalo che salga. — Ilippu tat, te cbii pu'làs — Sali, padre mio, in questo palazzo. ta

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— 10S —

llippi shcaal mbt shcaal, Montò scale sopra scale. Shcòi pyr cantala ndyr saal. Passò per camere e gallerie. Cu mù ciòi tu bllhùgyn Ove trovò la figlia

Cy m’ i shtronnej triesyn. Che apparecchiavaglt iu mensa.

Gcrcppat iin t’àrtis, Le forchette erano d’ oro,

Bici iin arynz tu drìttyin, 1 coltelli erano d' acciajo fulgente Kólhket ty kintissuris Le tazze con disegni

Lhùlheshi o £ògkiesln. Di fiori e d’ uccelli.

Mbl lalhuryt e rùgkiyynt Sopra i piatti d' argento

Vuun Ihira e shapùctòre. (f) Posero ghiri e beccacce, K sùaltin tc trio.sa E portarono a tavola Buch nyynl sittashi. Pane dì nove frulloni.

Ebilh : Zot’ e £otti tata ini', Figlia, Signore, signor (ladre mio,

Ulhu c mù ti gkiyv Siedi e prendi alcun cibo gà ; ;

Si erS'e i Ihòò'uriO Come giunto se' stanco Tue cliyrcùar bilhyn e bieerr, Del cercare la figlia perduta, Chy mù gkette c nyncli gkette. Cui or trovata e non trovata hai.

Gar ’S dua tù gaa nò. dua t’ pii Car. Non vuo’mnngiure non vuo’bcre

Ndy ctù shpii u faregkiyy : In questa casa io niente :

Ndy ni’ dò miir ti, bilha imtnc, Se mi vuoi bene tu figlia mia. Utfissu tù vemùnià. Avviati, che ce ne andiamo. Ebilh. Zolli tal, ez’ me sLùndét Figlia. Signor padre va' con salute

Ndy chce truu po ty m’ vesti : Se hai mente d’ andartene : U ine Uj as mund vign lo con te non potrò venire

Cu atto ndricula chù chésli Là ove le comari eh’ io ni' avea

: Ty m’ò'ùnùgnyn e tù shàgnyn Mi svilaneggino ed ingiurino ; « Shi c shittiira pyr curatila « Ve’ la venduta per coralli

« E Ihyna ncà kenai Turch ». « La lasciala del cane Turco » E vet’ thyja ndultu d'een. Piuttosto abbandonerei del tutto la vita. [ Gar. Biir ti fialhvet gneriut Gar. Figlia, tu alle parole dell'uomo

Myy e lhidur, se t’ iin ^otti Più avvinta sei che a Dìo. ...

(4] Vi ha qui una indicazione della stagione in cui ebbe luogo questo fatto profondamente simbolico. Si le beccacce gl i ghiri (clic, finito di pascer la ghianda o vicini ad addormirsi, soli gratissimo cibo a' paesani di monte) si cacciano d’ inverno.

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l’unto XXVIII,

Vin' gmi trina £alit limimi Veniva un garzone lunghesso un j>ian^*j>«uriO Veniva uccellando rivo Vinnoj tue ; ; f Po cà ttmpa myv e alfyr Ma dolio rupe più vicina

ci : M' u pyrgkegk' te gnu druu£ ; Fecesi a parlargli una velia — Ndù pianèps ndò mos ti, trini. — E sia che vai uccellando tu gar- zone,

I Ihuum gagnuniis atte, Felice della giovinezza tua. Jce pyr nd’èshtura e ndyr shAllia. Sei pur fra ossa e precipizi. K9e sot e nessùri6 Anche oggi o domani

Wùghct ditta e ncà t' Rièri; Si nomina il di di ogni nato.

Prà mbuhgbet livóri, Poi si chiude il libro.

K mos gny e Giovassi ». E nessuno I» ha letto ».

Citnlu A XIX.

Dopi) che la patria •) deserta ed anche obliala, 'pia li pensieri il /Meta attui ne nella mina di tei ! Forse rumor patrio fa passionato il nostro giudizio, ma parci che guel suo chiaro intelletto, ehr vedem- mo leggere in tutto un minuto, divenga in questo terzo libro profetico, dove vede dimesse le credenze avite, le donne ne’ serragli c legate a vincitori, gli uomini sostener /' imperio che li oppresse, e sola la Croce, in Chiesa edificata colle ossa de morti, stare segno di resurrezione , e

di rimpatrio s) ai rinselvati come leoncini ne monti dintorno si agli

esulanti miseramente per terre lontane 1.

Ndv gnu ’Jaal tu’ veltómi't In una spiaggia solitami Ty veltyni c merùngeoor Solitaria e mesta,

My chóntooj gnu cologree : Cantavano una monaca ; Tue chùntùar gnvi crua Ihot' In cantando una fonte di lagrime

I xiSej vnlishit. Ce scorreva giù per le guance. • Shcùi gnu plach assai mariiu: Passi* un vecchio (>er quella marina.

Plac : So ti, siivi te Cologree Vecch. Ma tu, santa Calogero,

Si ’s chunton (t ndyr tu barrii, Perchè non canti tu in vesti lieto,

Po chùntòn li ndyr tu £e£a ? Ma canti in gramaglie ?

— Se ti, plach i gùajt pi teli, — 0 vecchio, straniero vecchio, Si tù chùntògn u ndyr tu birò'a Come canterei io in vesti bianche Me tù dime.it cy m’ rrù Con la coscenza di quel che stanimi Para slvet e ndù gku ? Avanti agli occhi e nel seno?

(•ora tedi cheslt tt Ibeer La eittà dov’ era in nata (>ki9 bulhurii e foor, Tutta nobiltà e sensi alteri, Rau gnl dittic tù £ee£. lUiinù in un giorno funesto.

Curniet è trimavet I cadaveri de' prodi

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— IOÌ —

MIjiu.ui gcroppat e gcrafòmyl, Krupicron le fosse e i fossati, Cròrat e copìlhvet Delle teste de’ giovanetti

U byyn gcuur uS'àshit ; Furono selciate le vie; Kfien vasha tu S'ùnura, Furonvi vergini disonorate Zorrobilh Ihavossuris. Fanciulli piagati.

Aghìcna tu pushtùamit, Allora i superstiti, Sheshit ty shchélhur e lhyyn Nel campo pesto e abbandonato Vaan e mbiotftin éshtórat, Andarono a raccórre le ossa Byyn e Ihùlhe e candalicer E ne fecero fiori e candelabri, Vocula tu vàrrevet Anelli delie sepolture

K cliccc tu diervet : E chiavi delle porte :

E pyrngcryitur clisheii t’ yyn E rialzata la chiesa nostra, Clishcn t’yyn tu diègcuryn La chiesa nostra bruciata,

Te ciueh’ c attiij malbi, In su la vetta di quel monte,

E ndrekùtim ashtù j'c gaptim, L’addobbammo di quelli e l’aprimmo ftaam meshùn e t’décurvet. Dicemmo la messa de’ morti. E vcttme tu gki0vo Sola di tutte

Ni u valhandissign atto io in cura quella ; Or ho ; E gappct gnu heer ndti vìttut. E s’apre una volta l’anno,

Cùr vìgnyn gkùrii e t’ catundit Allorché vengono congiunti e com-

[ patrioti

E i triighicn me bés E si raccomandano con fede

Zottit tu ngcryitur cà varri ». A Dio risorto dalla tomba »

Canto XXX.

Me za shoch dì cushùrìgnt Con taluni compagni, i due cugini Dùrgcòi nusse Pietyr Shinit Mandò la vedova di Pietro Shini,

E prittùtin mbó vaa kennin Ed aspettarono ai guado il cane

Tradituur e £ottit sai. Traditore del signor suo. Atta m’ e piirpòkutin Essi lo scontrarono

Ndó mesi shcrbùtoort e tiij, Nel mezzo de’ servi suoi

’s tu ’l trarre il E e Ihaan hilhk maxércn ; E no lasciarono brando; Po crìeOit, m’ i preen Ma tagliamogli T capo, Gnt pùrròi ja e ruculistin Ed in un burrone lo rotolarono Drék e mbrynta gny galhìge. Dritto dentro in una palude.

Prana murgca noitèsh Poi la sfortunata matrona

Muar tó blrin Siét vieccù, Prese il figlio suo di dieci anni,

I tfa caalh o9e xaròm, Difcgli cavallo c danari, .l'e dùrgcòi ndu monoshtiir E mandollo in un monistero Ty ò'iovasnej e tu zyi, Per leggere ed imparare, Te màlhet e Shclavunit. Nelle montagne degli Sclavoni.

Aascalhi ai my e paa Il maestro, come il vide.

Zuu mò e pieturiO : Cominciò domandandolo

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<05 —

— Biir c’erò'e grammaticossyn, — Figlio che venisti a studiare,

Wuam cy do u ty t’ mbùsògn? Dimmi che vuoi ch'io t’insegni? Se na Iheein te chii £ee Che noi nascemmo in questo mondo Bilhe tu ^ottit cy e stissi? Figliuoli a Dio che lo creò ? O sà gnéry£ keen ndyr goor O quanti uomini furono nelle città

Cy me t’byna i ndrìshtin? Che con l’ opre le trasmutarono ? Diai: U dèa cràghùvet fukii, Fan. Io vo’alle mie braccia vigore, Quélh tu mundign e càlhùgn Cavalli da domare e cavalcare

E maxéren ty e Ihùagn : E la spada da maneggiare; Chytie posht se gny armlch Perchè laggiù un nemico

Cy m’ vrau £ottin t’ al, Che m’ uccise il signor mio padre, Ndyr potesse e bulhùrii In palagi e fra baroni

Me ùshter c foor mti rrii. Con armati e superbia contra me sta »• Canto XXXI.

Gkiégkiesh gialmarii lù laargh Udii un suon di voci lontane, Ilinchùliim tu surròpulhve; Nitriti di corsieri; Mbtla c dérien pyr mbrynta E chiusi la porta di dentro, R m’ u vùra c rùaja ù£en, E posimi guardando in su la via Ncàha crushkù shcòjm me nusse. Di dove passavano paraninfi con una [sposa.

Cush i mbànej frenin nusses Quei che tenea le redini alla sposa

Ish ai trìmi cy m’ désh. Era egli il garzone che mi amò. My tufàlhi me schcmantiilh Salutommi col fazzoletto

Frenen e mbiattu lhùshòi. E 'I freno incontanente abbandonò.

HroJa vrap e i gappa déren. Accorsi presto e gli aprii la porta.

Léga ture shcùamiO Il cortèo a passar via,

U luche e pietur. Ed io a lui domandare. — Cu mù vùite cy mùnòve — Ove m’ andasti che indugiato hai Cy mùnòve cakù mot’? Hai indugiato tanto tempo?

— Hee u ndù doort Tùrkùvct : — Caddi in mano de’ Turchi ;

Zolli e mù vùri e shùrbeva E ’l padrone misemi a servigio Me Turchèshù£yn etiij. Della Turca sua bella. Cur cù ngcryghej mbù menai Quand’era che alzavasi la mattina

Ghèsh l’ i veshin tù bìlht Doveva io vestirle i figli Chèsh fi veshia e chesht’i mbàOia, Dovea vestirli e dovea calzarli,

Ziarmin chèsh l’ i célhia. Il fuoco aveva ad accenderle.

Prà cù*gki8 mbù ghiir i byja E poiché tutto a suo grado le faceva Gny C késhuri# mù priir Un sorriso mi volgeva

Ajo e hiin’ me £oon e sai : Ella ed entrava col signor suo; E u sdrepùsha to £ali Ed io discendeva al lido Ty detit aky ti gkieer, Del mare tanto vasto, Mosse me gnu vai mbù rréO. Sempre con un lamento d’intorno alla terra [

Digitized by Google — Iflfl —

Cìnér cj my j' u slililru mbrynla, Finche me gii gittai nel seno, () lù ni’shttnej ddut vyn O elio mi rigettasse al paese nostro, 0 se ty m' shùanoj pdnen. 0 che mi estinguesse la ponn. « Ree ndó £aal cu iin mbù^ee a Arrivai a un lido ove stavan-

si all’ [ ombra Trii vasha t’Arbùresha Tre giovani Albanesi

E in’ rùajin trii kyogkie : E custodivano tre agnelle : « Si ncàve po foò'onee « Come toccasti or, infelice,

1 Te copóshU i £ott;t maò'? Al giardino del gran Signore?

• — 0 ju kioslia trùariò! — Oh ! eh’ io vi sia raccomandato Wos mó calù$onni vasha. Non mi scoprite, o giovanotte,

Gnéra sa tu tóriem: Finch’ io m' asciughi :

Kz\ gnotta tu véshura ». — Va’ : eccoti de’ vestiti ». Slicuan crùshk me gnu dynter. Passarono paraninfi con uno sposo

Shocli p u vara i nusscs gurt], » K posimi a compagno della sposa [altrui. »

Canto XXXII.

I.higkùròt pliiccu me ma.ìlh Ragioni) il vecchio co’ monti :

— Se ju màlhe eflti t Uteri, — 0 voi monti lauto alti, St nch'J m’ pyrtòrlrùni mua Perchè non rinnovale me

Viltù pyr vitto si veltheen ? Anno per anno come le vostre fronde ? [

Prù Ingagi i miMhi piacli : Poi ripensò il misero vecchio :

— Ndy u jesh Irimc i rii, — Se io fossi giovine novello Dee tu hippia mùrgiarin Vorrei montar a cavallo,

Maxeren iti mhre£ulòju ; La spada legarmi alla cintura;

Shtuun e ngcràgh lavultien, E, gittatomi su l’ omero il liuto,

NI irria jéttenò pyrpiMh. Meltereimi per 1’ ampia terra. Ocavgnlgna stolhii e xaròm Acquisterei ricchi abili e danari. Pies e shocchùvet nch’i bygna ». E parte a' com|Kigninon ne farei ».

Prà togati i miMhi piach. Poi in sè rifletté il misero veglio :

— Mirr vésh ndti dò Iti kcshósh; — Presta orecchio se vuoi ridere ;

Shtieer li trasten mb’ armacòlli dittati la bisaccia ad armacollo. Viir cunculin mbù brè$, Appenditi la cucurbita al fianco,

Mirr cucuteny mini door, Pigliati la ferula in mano

F. m’jezz’déry mhu deer K mi va di porta in porta* Tue Ihippur burli e veer. » Dimandando pane c vino. »

Digitized by Google KHJIATA. COKHIGE

l’ag* 46. Alla. IZ z Il S4 ver. 8. sbastii sbésli 1» id. noi. v. 3 castello Atalanla castello del mago Atlante » Mi. noi. ver. 8. Numi del mago fiumi lavano Araste lavano » Ut. ver. S8. sbancar sbar^ur. )» Si « 4. miliari nziiari M iti » SO. Yelimeen Vctlmecn. » li. * SO. Sigillisi* Signore W ss. » S geruan geruan y> iti. « 16 vestii vésh » Si. " 3. nuove noi e » ìli. •• S9. adiri® a libri® » S8. e S7 siili siil » id. » 30. direni diresti » S9. » il Nprvju l'rvju » ni. » 40. Clishi «Giusti » id. » 43. nc'J miti w 30. » 4i. (ieftn Gctìri » » 34. i in) a 111 V n » 38 » 3. Cràgbbi) Grigliti!) > 33. » 1 . Veli j ni Vettym » 3i. » ii e de e dò » 35 » 1 ngeré ngeré » id. » i. li) sri b)n ’V n # id. » <5 1 ni in i n Umiiii Ég*4. » 37. not. v. 1 . XsXwfibvi'Tyfjt » 38. » 4ì. che a' pensieri olio fa i pensieri » Vi ver. 3. Pielro liba l’etmXdba N Mi. » 42. dégihen dègeben W id. » 37. ?a® za® *» 45 » 8. decrt v nde deert tende •* ìli » H. e u liyy e u b\) n 49 » 33. le le n 55. » 25. o sillaba, a Ulule o sillaba o Intiera finale n 64 » 9. .lei® corta e £otli 1 er® caria e fottìi n 69. * 8 Se a Ihu Se u Iha 0 83 » SI in' n nilreki c ni e in e ndréki c in e pastriM posimi

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