Pe dro Navarro e i corsari del Tirreno MATERIALI DI APPROFONDIMENTO

MERCENARI E COMPAGNIE DI VENTURA

ra la fine del duecento e i primi del trecento, nascono le prime (masnade) mercenarie, non sono più i liberi cittadini dei comuni, che in armi fanno quadrato attorno al car- roccio, ma non sono ancora i professionisti della guerra, che vedremo in seguito. Sono cavalieri senza terra, esuli, vagabondi, contadini, servi o schiavi fuggiaschi, disposti ad uccidere per campare. Molti appartengono a quelle truppe mercenarie, calate in Italia al seguito dei vari re e imperatori, la loro terra d’origine è la Germania e il Brabante, perciò molti sono chiamati (brabanzoni) ovvero l’Aragona e la Castiglia. Il loro abbigliamento è va- riegato, un breve saio, un berretto di cuoio, lo zaino sulle spalle con il cibo, al fianco una spada tcorta e acuta, e una lancia. Non conoscono la disciplina, non avevano uno stipendio e vivevano di rapine e di saccheggi. Scorrazzavano per la penisola, a volte si prestavano al soldo di qualche capitano del popolo, che li chiamava a combattere per questo o per quel comune.

Occorrerebbe una disciplina, Pisa ci prova stendendo un codice di comportamento, ma per questi masnadieri la legge scritta è inutile, vivono alla giornata, non vogliono imposizioni dra- stiche, un rapido ingaggio, e al termine liberi come il vento. Alcuni mercenari venuti in Italia al seguito di Giovanni di Boemia nel 1333, si raccolgono in gruppo nel piacentino alla Badia della Colomba, sotto il nome di Cavalieri della Colomba, vivono di rapina, Perugia li chiama vuole liberarsi dal giogo d’Arezzo. Firenze offre loro un nuovo ingaggio, sono i nuovi mercenari, ma mancano di un capo, di uno stendardo, e non hanno ancora la coscienza professionale. I capi- tani stranieri: le cose cambiano quando in Italia arrivano veri e propri capi carismatici, come il duca Werner von Urslinger (chiamato Guarnieri) o il conte , arrivano nel 1339 per unirsi con le loro brigate, a tutta quella massa di quasi anonimi venturieri tedeschi, che spadroneggiavano in Italia da un ventennio.

Si deve a la prima compagnia di ventura, per la prima volta le masnade sono inquadrate in una compagnia (La compagnia di S. Giorgio), fu un’esperienza sfortunata, travolta e distrutta da un altro italiano, Ettore da Panigo (vedi i Visconti). Werner combatte al soldo d’altri signori, in Lombardia e in Toscana, finchà decise di proseguire l’idea di Lodrisio, fondando una sua compagnia, così nacque la “Grande Compagnia” del temutissimo “duca Guarnieri”, come fu chiamato in Italia l’Urslinger, così Konrad von Landau divenne il “conte Lando”, Konrad Wolf “Corrado Lupo”, Montreal d’Albarno “Frà Moriale”, Hanneken von Bau- mgarten “Anichino Bongarden”.

La “Grande Compagnia”, forte di tremila barbute costituite ognuna da un cavaliere e da un sergente, anche lui a cavallo, ebbe subito un gran lavoro in Toscana e nell’Umbria lasciando alle sue spalle una scia di sangue e di morte. Saccheggiò per due anni i territori della penisola, finche pur di toglierselo di torno, i signori dell’Italia settentrionale nel 1343, gli versarono una

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grossa somma di denaro, come titolo di liquidazione e lui si ritirò nel Friuli. Riprese la ventura nel 1347, al seguito del re d’Ungheria Luigi I, deciso ad eliminare Giovanna regina di Napoli, che aveva ucciso il fratello Andrea. In seguito la “Grande Compagnia” combatte in Romagna contro il legato pontificio, quindi contro Pepoli signore di Bologna, si sciolse quando il suo capo si ritirò nella natia Svezia nel 1351, dove morì tre anni dopo.

La “Grande Compagnia” non finì con lui, si ricompose, e continuò le imprese agli ordini di Frà Moriale, che la guidò ora contro il legato pontificio cardinale Albornoz, incaricato dalla chiesa di Roma di ricostruire il potere temporale. Gli scontri spaziarono dalla Romagna alla Campagna, che per tre anni subirono saccheggi e distruzioni. Con lui la compagnia di ventura ebbe un’ulteriore organizzazione, dal punto di vista amministrativo, ordinò un “camerlengo” che riceveva e pagava, nominò consiglieri e segretari, con cui amministrava la compagnia. Alla sua morte, avvenuta a Roma nel 1354, il conte Lando si aggregò al comando della “Grande Compagnia”, morì nel 1362 abbandonato dai suoi stessi venturieri ungari, che si rifiutarono di combattere contro altri colleghi: quelli della “Compagnia Bianca” d’ e di Giovanni Acuto. Fu la fine della “Grande Compagnia”, lo Sterz instaurò nuovi sistemi di combattimento, con diversi gruppi di truppe, secondo schemi che sarebbero stati perfezionati da Giovanni Acu- to. Lo Sterz fini decapitato dai Perugini nel 1366.

Tra le compagnie divenute in quel periodo più famose, fu quella di Giovanni Acuto, nato nel- la contea dell’Essex verso il 1320, aveva fatto le prime esperienze militari in Francia nella guerra dei cent’anni, arriva in Italia nel 1361 e si unisce alla “Compagnia Bianca” dello Stern, combatte in Piemonte al comando di 1200 lance, è tristemente ricordato per i massacri di Cesena e Faenza, si mise al servizio dei Visconti e poi di Firenze dove trascorse il resto della sua vira, mori nel 1394 ed ebbe funerali di stato; più tardi il re d’Inghilterra richiese le sue spoglie. Firenze non lo volle dimenticare, facendolo immortalare a cavallo da Paolo Uccello, in un famoso affresco sulle pareti della cattedrale.

Alcune compagnie capitanate da italiani nascono con alterne fortune in quel periodo, ricor- diamo la “” d’Astorre Manfredi, una seconda “Compagnia di S. Giorgio” d’Ambrogio Visconti, (vedi i Visconti) la “Compagnia del Cappelletto” di Niccolò da Montefel- tro, e la “Compagnia della Rosa” comandata da Giovanni da Buscareto, e Bartolomeo Gonzaga.

La compagnia che costituì una svolta, fu senza dubbio quella di “San Giorgio” fondata da Alberico da Barbiano dopo gli eccidi di Cesena, questa va ricordata come la prima compagnia di soli italiani, ebbe regole e statuti particolari, e ricevette la benedizione del pontefice.

Una nuova era iniziava per le compagnie di ventura. I condottieri signori. Con Alberico da Barbiano, i capitani di ventura italiani subentrarono a quelli stranieri, le nuove compagnie non sono costituite per caso, è il capitano che sceglie i suoi uomini e non viceversa, i primi arruolati sono gli amici, i parenti e i vecchi camerati.

Inizia un reclutamento mirato, selezionato, l’addestramento alle armi dipendono dal capi- tano, che arma gli uomini e li paga, trattando direttamente con i signori, che richiedono una

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prestazione mercenaria, stabilendo un preciso contratto, “la condotta”. E il capitano diviene: “”. La condotta è appunto il contratto che si stipula tra le due parti, il signore e il condottiero, specificava la durata, le condizioni dell’ingaggio, il numero degli uomini e delle armi, le prime condotte regolari di cui si ha notizia risalgono alla seconda metà del recento.T

Firenze fu tra le prime città stato, ad organizzarsi in tal senso, con la creazione di speciali magistrati chiamati “officiali di condotta”, che controllavano la disciplina, e l’armamento. Nu- merosissimi furono i contratti, molto diversificati tra loro, sia per il tempo della condotta, sia per gli uomini impegnati, eccetera. Possiamo però distinguere due tipi di condotta: 1) La condotta “a soldo disteso” quando il condottiero-capitano, era disposto a militare con un determinato numero di fanti e di cavalieri, agli ordini di un capitano generale, di una città, o di una signoria. 2) La condotta “a mezzo soldo” quando il condottiero-capitano, combatteva in posizione sus- sidiaria rispetto al capitano generale, e in luoghi da questi stabiliti, non percepiva paga piena, ma correva rischi inferiori. Il condottiero una volta firmato il contratto, e dopo aver ricevuto un acconto in denaro, doveva far “mostra” dei suoi uomini d’arme ai consegnatari che registravano, stimavano uomini e cavalli, rifiutando quelli non ritenuti idonei.

Gli uomini erano divisi in squadre comandate da un caposquadra, per ogni 10 uomini vi era un caporale, un superiore era addetto alla distribuzione degli alloggi, e delle schiere, un “camerlengo” amministrava le sostanze, un notaio presiedeva alle scritture, “gli ufficiali di condotta” avevano autorità sulle milizie. La durata del contratto era chiamata “ferma”, di solito era seguita da un periodo d’aspettativa, durante il quale il condottiero, rimaneva vincolato alla controparte, che aveva il diritto di prelazione per un altro contratto, di solito sei mesi, chiamata “aspetto”. Terminata la condotta, il condottiero era comunque libero di andare con chi voleva, pur vigendo la clausola che passando ad un nemico, non poteva combattere contro il preceden- te “datore di lavoro” per due anni.

Un particolare tipo di condotta, fu quella stipulata per i mercenari del mare, si chiamava “contratto d’assento” l’ingaggio di forze navali, e “assentisti” furono chiamati i capitani che lo sottoscrivevano. Genova cominciò ad impiegarli già dagli inizi del quattrocento, e lo stato della chiesa non fu da meno, mentre Venezia non volle mai ricorrere a questo tipo di condotta. Varie erano le forme di questo contratto, a volte il capitano era anche proprietario delle navi, a volte si limitava ad equipaggiare le navi, di proprietà della città-stato, il compenso era forfettario, con assunzione a proprio carico di danni e perdite, la sua fonte di guadagno era la terza parte di tutto il bottino, frutto d’arrembaggi e di saccheggi.

Quanto guadagnava un condottiero? Le cifre variano secondo il carisma del capitano, e delle forze impiegate, Micheletto Attendolo cugino di Muzio Sforza, ad esempio nel 1432 riceveva da Firenze, mille fiorini il mese, più altri novecento per la sua compagnia, Guglielmo di Monferra- to nel 1448 percepiva da Francesco Sforza 6.600 fiorini il mese, paga comprensiva per settecento lance e cinquecento fanti. Francesco Gonzaga nel 1505 riceveva da Firenze 33.000 scudi annui per una compagnia di duecentocinquanta soldati, mentre Francesco Maria della Rovere n’ebbe 100.000 annui dalla stessa città per soli duecento uomini.

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Cifre molto ragguardevoli, così tranne pochi casi, i condottieri furono sempre ricchi e anno- verati tra i clienti più ricercati dalle banche di Venezia e di Firenze. Da segnalare, la notevole crescita di questi uomini sul piano politico, nel quattrocento ha causa delle difficoltà finanziarie in cui si dibattevano i signori, pensarono di risolvere il pagamento delle condotte, assegnando ai condottieri una parte del territorio, una vera e propria “rifeudalizzazione” della penisola.

La decadenza inizia con le nuove invasioni straniere alla fine del Quattrocento, con Carlo VIII in poi cambia l’organizzazione militare, gli ultimi condottieri hanno sempre più un ruolo marginale. I sovrani stranieri non si appoggiavano soltanto alle compagnie di ventura, ma re- clutavano milizie tra i propri sudditi, è il primo nucleo di un’armata nazionale, mentre in Italia le innumerevoli signorie continuavano a valersi dei capitani di ventura.

Con l’invenzione della polvere da sparo, e l’introduzione delle artiglierie, si formano le ar- mate di Carlo VII, Luigi XII, Francesco I, Massimiliano I, e Carlo V, fino allora la forza dell’eser- cito erano nella sua cavalleria pesante, cavalieri e cavalli coperti di ferro, lenti nella manovra, ma irruenti nella carica. Altri componenti importanti erano i balestrieri, ma l’invenzione della polvere da sparo provoca una vera rivoluzione, tattica e organizzativa. Al centro della battaglia non si trova più l’individuo, il combattimento a corpo a corpo, ma l’azione, la manovra colletti- va, è la rivincita storica del soldato a piedi.

Arrivano le prime colubrine che sparano, sessanta colpi il giorno, e una gittata di due chilo- metri, il falconetto, da ottanta colpi il giorno, il falcone dal lancio più breve, ma che spara cento- venti colpi il giorno, l’archibugio, il moschetto, un fucile a miccia assai più pratica. Contro queste nuove armi, anche la corazza più robusta serve a ben poco, si rinuncia a proteggere il cavallo, conservando solamente il frontale per difendere la testa, quindi s’inizia ad alleggerire il cavaliere e si finisce lasciandogli l’elmo e la corazza, ma usati in fondo più per parate che in battaglia.

Non tutti gli stati italiani sono in grado d’affrontare le cospicue spese per il mantenimento dei nuovi eserciti, si pensi agli arsenali per la costruzione, e la manutenzione delle artiglierie, che sparavano pietre, mentre quelle straniere più maneggevoli, sparavano leggere e distruttive palle di ferro. I venturieri italiani, cedono il passo al mercenario straniero, le bande di Lanziche- necchi metteranno a ferro e a fuoco il territorio della penisola, è il definitivo tramonto dell’eserci- to di ventura. I condottieri italiani continueranno il loro mestiere, ma senza una loro compagnia alle spalle, diventeranno famosi come generali nei vari eserciti stranieri, come il Medeghino, Raimondo Montecuccoli, Ottavio Piccolomini, e altri. Precursore di questa nuova era, fu certa- mente Gian Giacomo Trivulzio.

Mario Veronesi*

* Mario Veronesi (1949) è uno studioso di storia della navigazione e di marinerie, autote di numerosi articoli e pubblicazioni. Collabora con riviste specializzate (Rivista Marittima edita dallo Stato Maggiore della Marina Militare, Marinai d’Italia dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia, Rivista Militare edita dallo Stato Maggiore dell’Esercito, Lega Navale periodico della Lega Navale Ita- liana), periodici (La Provincia Pavese, Il Ticino) e con l’UNITRE di Pavia. Nel 2011 è vincitore del premio giornalistico “Cronache di storia” sezione “Pagine web”, con l’articolo: “Dalla crisi delle città marinare agli imperi mercantili”.

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