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Tommaso Grossi Marco Visconti Storia del Trecento cavata dalle cronache di quel tempo e raccontata da Tommaso Grossi www.liberliber.it Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno di: E-text Editoria, Web design, Multimedia http://www.e-text.it/ QUESTO E-BOOK: TITOLO: Marco Visconti AUTORE: Grossi, Tommaso TRADUTTORE: CURATORE: NOTE: DIRITTI D'AUTORE: no LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/ TRATTO DA: "Marco Visconti : Storia del Trecento cavata dalle cronache di quel tempo e raccontata da Tommaso Grossi" di Tommaso Grossi; introduzione e note storiche di U. Martinelli; Antonio Vallardi editore; Milano, 1958 CODICE ISBN: informazione non disponibile 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 1 ottobre 2002 2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 26 maggio 2004 INDICE DI AFFIDABILITA': 2 0: il file è in attesa di revisione 1: prima edizione 2: affidabilità media (edizione normale) 3: affidabilità ottima ALLA 1a EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Roberto Rossi, [email protected] ALLA 2a EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Claudio Paganelli, [email protected] REVISIONE 1a EDIZIONE: Claudio Paganelli, [email protected] REVISIONE 2a EDIZIONE: Claudio Paganelli, [email protected] PUBBLICATO DA: Claudio Paganelli, [email protected] Alberto Barberi, [email protected] Informazioni sul "progetto Manuzio" Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. Ulteriori informazioni sono disponibili sul sito Internet: http://www.liberliber.it/ Aiuta anche tu il "progetto Manuzio" Se questo "libro elettronico" è stato di tuo gradimento, o se condividi le finalità del "progetto Manuzio", invia una donazione a Liber Liber. Il tuo sostegno ci aiuterà a far crescere ulteriormente la nostra biblioteca. Qui le istruzioni: http://www.liberliber.it/sostieni/ 2 Marco Visconti Storia del Trecento cavata dalle cronache di quel tempo e raccontata da Tommaso Grossi Ad Alessandro Manzoni colla riverenza d'un discepolo coll'amore di un fratello candidamente offre l'autore CAPITOLO I Limonta è una terricciuola presso che ascosa fra i castagni al guardo di chi, spiccatosi dalla punta di Bellagio, per navigar verso Lecco, la cerca a mezza costa, in faccia a Lierna. Cominciando dall'ottavo secolo, fino agli ultimi tempi che fur tolti i feudi in Lombardia, essa fu sempre soggetta al monastero di S. Ambrogio di Milano; e l'Abate fra gli altri titoli avea quello di conte di Limonta. Sul confine tra il dominio dei monaci e il territorio di Bellagio, segnato ancora al dì d'oggi con una pietra, sorgeva nel 1329 un vecchio castello che fu poi rovinato verso il terminar di quel secolo, e del quale non si conserva più nessun avanzo. Questo castello, al tempo da noi indicato, era posseduto da un conte Oldrado del Balzo, i cui antenati doveano, a quel che pare, essere stati anticamente signori di Bellagio che allora si reggeva a comune. Il conte Oldrado, quantunque avesse molti possedimenti in varie parti di Lombardia, passava ivi la maggior parte dell'anno in compagnia della moglie e di una sola figlia, innamorate entrambe, al par di lui, di quel bel cielo, di quel bel lago, di quel clima molle, lieto e delizioso. Ricca, illustre, potente di parentadi e di attenenze, la famiglia del Balzo era sempre stata la protettrice naturale degli abitanti dei paesi vicini alla sua dimora; e tutti per una lunga tradizione di padre in figlio avevano imparato a riverirne e ad amarne il nome. Successore di un sì bel retaggio, il conte Oldrado non avea però saputo mantenerselo, ed era scaduto assai nel concetto degli antichi clienti della sua casa: non ch'egli fosse cattivo; era una bella e buona pasta d'uomo; ma essendogli capitato di vivere in tempi difficili, in circostanze forti e malagevoli, non trovava nella sua natura floscia, timida, e non altro che vanitosa, il vigore necessario per far il bene che avrebbe pur voluto. Intorno a quel tempo era calato in Italia Lodovico detto il Bavaro, e, deposto di proprio capo, il sovrano pontefice Giovanni XXII residente ad Avignone, dal quale era stato scomunicato, erasi arrogato di far crear papa in sua vece in Roma un Pietro da Corvara dell'ordine dei Minori, che prese il nome di Niccolò V, empiendo per tal modo tutta cristianità di scandalo e di scisma. Milano, che gemeva già da molti anni sotto l'interdetto stato fulminato per odio dei Visconti, potenti ed accaniti favoreggiatori di parte ghibellina, si dichiarò tosto per l'antipapa; ed avendo questi ribenedetto lo Stato, la città capitale, le altre città minori e i borghi più considerabili riapersero le chiese, e il poco clero rimasto fra noi, riprese le funzioni ecclesiastiche e l'amministrazione dei sacramenti, come a tempi ordinari. Ma nelle campagne, sul lago di Como principalmente, il popolo, meno infuriato negli odi di parte, si mantenne fedele al vero pontefice, e rifiutando di aprir le chiese, considerava come scismatici e scomunicati i sacerdoti che vi venivano spediti dalla capitale. V'eran poi, come è facile a supporsi, nelle città e nei borghi di quelli che la pensavano come i contadini, e v'erano degli abitanti di piccole terre che partecipavano alle opinioni di quelli delle grosse borgate, il che potete pensare quanto 3 dovesse render dolce e riposato il viver civile in quei poveri tempi. Dappertutto profanazioni, violenze, risse e sangue. Frate Aicardo, arcivescovo di Milano, l'abate di Sant'Ambrogio, la maggior parte degli abati dei più ricchi ed insigni monasteri, fuggiti già da un pezzo; la più eletta porzione del clero sì regolare, che secolare, errante, mendica per le terre d'Italia e di Francia; la mensa arcivescovile, le abbazie, i benefici ecclesiastici di minor conto, occupati e tenuti violentemente da' signori laici, o da sacerdoti scismatici amici dell'imperatore. In tanta perturbazione, in tanto viluppo di cose, Giovanni Visconte, parente dei principi, che era stato nominato abate di S. Ambrogio, in luogo del vero abate Astolfo da Lampugnano, avea mandato a Limonta procuratore del monastero un furfante, mettitor di dadi malvagi, stato già condannato in Milano come falsario, il quale per vendetta della fedeltà che quei poveri montanari serbavano al loro legittimo signore, li veniva succiando, pelando, scorticando senza pietà, faceva loro mille angherie, mille soprusi, li trattava come roba di rubello. I Limontini si rivolgevano al conte Oldrado perchè s'adoperasse presso l'abate, intercedesse dai signori, facesse valer le loro ragioni; ma gli era come a pestar l'acqua nel mortaio; il conte avea tanti rispetti, tante paure, non voleva commettersi con alcuno, non voleva arrischiare di andar in disgrazia dei Visconti, e compiangendo in cuor suo quei miseri malmenati, gli avrebbe lasciati sparare prima di risolversi a levare un dito per aiutarli. Il Pelagrua (tal era il nome del procuratore del monastero) fatto pertanto sempre più animoso e bizzarro, alla fine ne pensò una per disertar del tutto in una volta que' suoi governati, una bricconata temeraria che glieli desse in balìa anima e corpo, come suol dirsi, senza aver a piatire con essi ad ogni piè sospinto. Andò a cavar fuori certe antiche scritture della donazione fatta da Lotario Augusto di quella terra ai monaci di S. Ambrogio, colle quali scritture pretese di far dichiarare i Limontini non già vassalli, com'erano, ma servi del monastero, e citolli a quest'effetto a Bellano per essere giudicati. Bellano era allora Corte arcivescovile ( corte chiamavasi una tenuta dove il signore del feudo avesse casa e chiesa, e più propriamente dove si amministrasse giustizia), e ai messi dell'arcivescovo sarebbe toccata appunto la decisione di una lite di quella natura. Ma essendo l'arcivescovo fuggito dalla diocesi, molti beni della mensa sulla riviera di Lecco e nella Valsassina, e fra questi appunto la corte di Bellano, erano stati occupati da un Cressone Crivello, signore potente e favoreggiatore dei Visconti; perciò non già ai messi arcivescovili, ma a quel del Crivello veniva a devolversi la causa dei Limontini. Ora, questo nuovo signore era troppo palesemente amico del falso abate di S. Ambrogio, troppo interessato a favorire le usurpazioni ch'egli medesimo non cessava di esercitare su i nuovi suoi vassalli, perchè s'avesse ad aspettare da lui altro che male per quei di Limonta. Non domandate se essi ne levarono le strida, se si tornarono a raccomandare al conte del Balzo; tutto fiato buttato via: il conte, quantunque pregato e supplicato da Ermelinda, così avea nome sua moglie, e dalla figlia Bice ch'era il cuor suo, non ebbe mai il coraggio di pigliar le difese degli oppressi, i quali dovettero lasciarsi trascinare avanti a quel tribunale incompetente e iniquo, aspettando un giudizio che avvisavano pur troppo non poter esser altro che un assassinamento. Volgeva verso la sera il giorno in cui s'era trattata la causa, e il falconiere del conte stava su 'n rivellino del castello guardando giù il lago fin dove poteva giunger l'occhio se si vedesse spuntare qualcuna delle barche che doveano tornare da Bellano. Finalmente scoperse in lontananza una vela color marrone, la vide crescere, farsi vicina, vide approdare la barchetta che la portava, e si mosse sollecitamente per darne avviso al padrone. Stava questi in una ricca sala, seduto su 'n seggiolone a bracciuoli, colla spalliera che terminava in punta, e ai piedi di lui su d'un basso predellino si vedeva un leggiadro paggetto vispo, gaio come un amore. Condannato dal suo uffizio a starsene zitto e quieto a quel posto, il ragazzo baloccavasi di soppiatto con un grosso levriere, il quale, dimenando la coda, aguzzando gli orecchi, dando di tratto in tratto qualche salterello, qualche lancio, rispondeva a' suoi inviti.