CXXII 2015

SIENA ACCADEMIA SENESE DEGLI INTRONATI 2015 Direttore responsabile: Duccio Balestracci Comitato di redazione: Alessandro Angelini, Mario De Gregorio, Enzo Mecacci, Stefano Moscadelli, Roberta Mucciarelli Segretaria di redazione: Barbara Gelli

Comitato scientifico: Presidente: Giuliano Catoni Membri: Mario Ascheri, Monica Butzek, Paolo Cammarosano, Giovanni Cherubini, Gianfranco Fioravanti, Filippo Liotta, Giovanni Minnucci, Paolo Nardi, Leopoldo Nuti, Marco Pierini, Giuliano Pinto, Colleen Reardon, Roberto Rocchigiani, Bernardina Sani, Thomas Szabò

Collaborano con la redazione: Saverio Battente, Marta Fabbrini, Roberto Farinelli, Benedetta Landi, Domenico Pace, Irene Sbrilli, Lola Teale

Collaboratori informatici: Giacomo Gandolfi, Luca Rabazzi

La corrispondenza per la redazione e l’amministrazione va indirizzata all’Accademia Se- nese degli Intronati, Palazzo Patrizi-Piccolomini, Via di Citttà 75, 53100 . E-mail: [email protected] I collaboratori ricevono una copia in formato pdf dei loro contributi.

I contributi scientifici pervenuti alla rivista sono sottoposti alla lettura e al giudizio di referees di fiducia del Comitato di Redazione.

Gli abstracts degli articoli, in italiano e in inglese, sono disponibili sul sito dell’Accade- mia (http://www.accademiaintronati.it/anteprima.html e http://www. accademiaintronati.it/preview.html) INDICE

SAGGI

Roberto Farinelli, Le vicende di un castello minerario della signoria di un lignaggio comitale all’egemonia delle città comunali. Il caso di Rocchette Pannocchieschi (Massa Marittima, GR) ...... pag. 11

Laerte Mulinacci, La Lupa e il Biscione. Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena all’epoca di Gian Galeazzo Visconti...... » 46

Fabio Sottili, La cappella della grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore nel carteggio di Alessandro Sansedoni...... » 100

Alessandro Orlandini, Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra...... » 121

NOTE E DOCUMENTI

Magdi A. M. Nassar, La produzione medievale di tessere e monete nel cenobio cistercense di San Galgano. Dalle ipotesi storiche alle analisi documentali, per la definizione di una nuova proposta interpretativa ...... » 143

Magdalena Maria Kubas, Litania come strategia retorica nelle Laudi del Bianco da Siena...... » 155 Roberta Mucciarelli, Documenti Piccolomini in USA ...... » 170

Johnny L. Bertolio, Su alcune poesie inedite di ed a Virginia Martini Salvi ... » 173

INCONTRI E DIBATTITI

Alessandro Angelini, Giovanni Previtali, storico dell’arte militante...... » 187

A PROPOSITO DI

Duccio Balestracci, Modernità e antico. Il controverso rapporto di Siena con gli stilemi della contemporaneità ...... » 201

Marco Pierini, Contemporaneità: cronologia o sentimento del tempo? ...... » 204 6 Indice

Fabio Mazzieri, Anello mancante ...... » 208

L’OFFICINA DEL BULLETTINO Marco Valenti, Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione...... » 215

LAVORI IN CORSO Andra Ciacci, Barbara Gelli, Matteo Milletti, Alessandro Pozzebon, Andrea Zifferero, Il progetto Farfalla: contributo della ricerca storica per la valorizzazione dell’agricoltura di qualità ...... » 245

NOTIZIARIO BIBLIOGRAFICO Alessandro Dani, Gli statuti dei Comuni della Repubblica di Siena (secoli XIII-XV). Profilo di una cultura comunitaria (Enzo Mecacci) ...... » 267 Giancarlo Schizzerotto, Sberleffi di campanile. Per una storia culturale dello scherno come elemento dell’identità nazionale dal Medioevo ai giorni nostri (Barbara Gelli)...... » 271 Kateřina Čadkovà, Caterina da Siena e le sue guide spirituali. Storia di una santità (Maura Martellucci)...... » 273 Petra Pertici, Siena quattrocentesca. Gli anni del Pellegrinaio nell’ospe- dale di Santa Maria della Scala (Paolo Nardi) ...... » 277 Petra Pertici, La trama della storia. Potere, prestigio e pietà a Siena nel Pel- legrinaio del Santa Maria della Scala (Laura Vigni) ...... » 280

Anna Gargallo, Racconto di viaggio. 1837-1838 (Marco Pierini) ...... » 284

Jane Tylus, Siena. City of Secrets (Mauro Mussolin) ...... » 286 Felicia Rotundo, (a cura di) Per Aldo Cairola. Scritti e testimonianze, (Giuliano Catoni) ...... » 289

Ranieri Carli, Siena. Un amore lungo una vita (Giuliano Catoni)...... » 291

David Allegranti, Siena brucia (Roberto Barzanti) ...... » 294

Segnalazioni M. Calleri, F. Mambrini (a cura di), Codice Diplomatico Aretino - I. Le carte della Canonica di Arezzo (649-998) (Roberto Farinelli) ...... » 301 Anabel Thomas, Sant’Angelo in Colle a guardia dei confini di Siena in età medievale (Enzo Mecacci) ...... » 302 7 Indice

Contrada della Lupa, («I Gemelli», Quaderni della Contrada della Lupa, 10) (Enzo Mecacci) ...... » 303 Erminio Jacona, Siena 1669-1784. Sulle tracce de’ fratelli della compagnia di San Bernardino alla Madonna del Prato (Enzo Mecacci) ...... » 305 Andrea Conti, (a cura di), La chiesa e la confraternita della Madonna del Ponte allo Spino (Enzo Mecacci) ...... » 307 Contrada del Leocorno – Contrada della Tartuca, 1815 -2015. Secondo cen- tenario dell’alleanza (Enzo Mecacci) ...... » 309

Paolo Goretti, Giovanotti in trincea (Giuliano Catoni)...... » 311

NOTIZIE DALL’ACCADEMIA Attività accademica...... » 315 Consiglio direttivo: Soci onorari, ordinari e corrispondenti...... » 319

NECROLOGI

Duccio Balestracci, Piero Torriti (1924-2015)...... » 323 Pubblicazioni dell’Accademia Senese degli Intronati...... » 326 Pubblicazioni dell’Amministrazione Provinciale di Siena...... » 333

SAGGI

LE VICENDE DI UN CASTELLO MINERARIO DALLA SIGNORIA DI UN LIGNAGGIO COMITALE ALL’EGEMONIA DELLE CITTÀ COMUNALI. IL CASO DI ROCCHETTE PANNOCCHIESCHI (MASSA MARITTIMA, GR)*

1. Le vicende patrimoniali Le origini Il castello di Rocchette Pannocchieschi è situato entro un’area collinare particolarmente ricca di risorse minerarie, il cui sfruttamento, attestato dall’età protostorica, costituì l’elemento chiave delle vicende socio-economiche locali durante il Medioevo. Il castello è posto su uno dei rilievi di un promontorio roccioso, la cui sommità prende il nome di Poggio Trifonte. Proprio a questo toponimo può riferirsi un negozio del gennaio 826, vale a dire la concessione livellaria di una casa, “posita in loco Paganico”, da parte del chierico Alperto del fu Ilprando, rettore della chiesa di S. Regolo in Vualdo, a un certo Sim- prando del fu Sasso de Trifonte1. A tal proposito è significativo il confronto con una menzione documentaria di circa venti anni posteriore, attraverso la quale furono concessi in livello beni pertinenti alla stessa chiesa di S. Regolo situati poco lontano dai precedenti, “in loco Germaniano”, a favore di un tal “Celso presbyter, abitatore in loco qui dicitur Tricase”2. Ne emerge, infatti, che durante la prima età carolingia la chiesa di S. Regolo, divenuta espressione della Chiesa

• Abbreviazioni utilizzate: ASSi = Archivio di Stato di Siena. Biccherna I-XVII = Libri dell’entrata e dell’uscita del comune di Siena detti del Camarlingo e dei Quattro Provveditori della Biccherna. Libri I-XVII, a cura della Direzione del R. Archivio di Stato di Siena, Siena, 1914-1942. 1 Memorie e Documenti per servire all’Istoria del Ducato di Lucca, a c. di D. Barsocchini, t. V p. 2, Lucca, Accademia lucchese di scienze, lettere e arti, 1837 (ed. ananst. Bologna, Forni, 1971), n. 478: 826 gennaio 7. Cfr., da ultimo, R. Farinelli, I castelli della Toscana delle città “deboli”. Di- namiche insediative e potere rurale nella Toscana meridionale (secoli VII-XIV), Firenze, All’Insegna del Giglio, 2007, Repertorio, n. 23.9. 2 Memorie e Documenti, cit., t. V p. 2, n. 646: 847 maggio 21.

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 12 Roberto Farinelli lucchese in Maremma, rinunciava alla gestione diretta dei possedimenti più lontani, dando luogo ad una serie di rapporti clientelari con esponenti della pic- cola aristocrazia di villaggio3. Nella lunga durata, infatti, le località di Paganico e Germaniano, presso le quali insistevano i beni oggetto dei livelli altomedie- vali, confluirono nel distretto castellano di Rocchette Pannocchieschi, contra- riamente al caput curtis di S. Regolo, ricompreso nel territorio del castello di Monterotondo verso la metà del XII secolo4. L’uso del patrionimico Trifonte, attestato nella ricordata concessione li- vellaria del gennaio 826, sembra denunciare la presenza di un nucleo socio-in- sediativo nell’area dove successivamente sarebbe sorto il castello di Rocchette. Quest’ultimo, quindi, potrebbe rappresentare la fortificazione di un villaggio di ambito curtense, circostanza non insolita per quanto riguarda l’area volterrana5. L’indagine archeologica condotta sul sito di Rocchette Pannocchieschi, in effetti, ha messo in luce fasi di vita antecedenti la sua definizione castrense, datate a fine VIII/IX secolo e testimoniate dai resti di capanne e da tracce di strutture d’uso, che, nonostante le difficoltà di lettura e interpretazione, possono essere verosimilmente ricondotte sia ad attività di raccolta di prodotti agricoli che a lavorazioni metallurgiche tecnologicamente rudimentali6.

3 R. Farinelli, 2007, I castelli della Toscana, cit., pp. 76-85; S. M. Collavini, Spazi politici e irraggiamento sociale delle élites laiche intermedie (Italia centrale, secoli VIII-X), in Les élites et leurs espaces: mobilité, rayonnement, domination (du VIe au XIe siècle), a c. di Ph. Depreux, F. Bougard, R. Le Jan, Turnhout, Brepols, 2007 (Collection “Haut Moyen Âge”, 5), pp. 319-340; S. M. Collavini, Da società rurale periferica a parte dello spazio politico lucchese: S. Regolo in Gualdo tra VIII e IX secolo, in “Un filo rosso”. Studi antichi e nuove ricerche sulle orme di Gabriella Rossetti in occasione dei suoi settanta anni, a c. di G. Garzella, E. Salvatori, Pisa, ETS, 2007 (Piccola biblioteca Gisem, 23), pp. 231-247. 4 Cfr. Memorie e Documenti, cit., t. V p. 2, nn. 365, 477, 478, 646 e R. Farinelli, 2007, I castelli della Toscana, cit., p. 59. L’apparteneza della “contrata vocata Germagnano” e della “contrata vocata Paganicho” al districus del castello di Rocchette è documentata nel 1343 (ASSi, Capitoli 45, c. 175v). 5 A. Augenti, Un territorio in movimento. La diocesi di Volterra nei secoli X-XII, in I castelli. Storia e archeologia del potere nella Toscana medievale, a c. di R. Francovich, M. Ginatempo, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2000, pp. 111-140. Sulle possibili trasformazioni insediative del sito a questa altezza cronologica cfr. la sintesi in E. Boldrini - F. Grassi, Alle radici dei castelli. Indizi di economia curtense nei reperti ceramici della Toscana meridionale, in III Congresso Nazionale di Archeologia Me- dievale, a c. di R. Fiorillo, P. Peduto, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2003, pp. 66-71. Sulle differenze toponomastiche che caratterizzano i castelli minerari rispetto a possibili strutture inseditive antecedenti, come modalità per accertarne il distacco cfr. R. Farinelli, 2007, I castelli della Toscana, cit., p. 123. 6 Cfr. A. Alberti - E. Boldrini - C. Cicali - L. Dallai - D. De Luca - R. Farinelli, Nuove acquisizioni sul castello di Rocchette Pannocchieschi e sul territorio limitrofo, in Atti del I Congres- Il caso di Rocchette Pannocchieschi 13

Il castello di Rocchette Una profonda trasformazione insediativa si verificò nel corso del X se- colo con l’impianto di una prima cinta difensiva in pietra e la costruzione di edifici dello stesso materiale e in tecnica mista, ma solo nel pieno XI secolo il castello assunse una conformazione urbanistica, caratterizzata da un’area som- mitale a connotazione signorile, ben distinta dal resto dell’abitato fortificato. È lecito ritenere che l’interesse per un insediamento come questo, posto in una zona marginale dal punto di vista dell’economia agraria, ma circondato da giacimenti di rame e piombo argentifero, risiedesse proprio nella possibi- lità di impadronirsi tali risorse e sfruttarle - prerogative che, di diritto, erano appannaggio del potere pubblico - secondo modalità che sono state riscontrate anche in altri castelli definibili minerari. Le indagine archeologiche che negli ultimi anni si sono dirette allo studio di centri castrensi posti nei comprensori minerari toscani hanno mostrato come questi luoghi non fossero semplici poli insediativi, ma anche strumenti concreti di organizzazione produttiva ed econo- mica legati alle attività estrattive, che vennero gestite secondo procedure di tipo verticistico da parte delle aristocrazie rurali che, scegliendo di collocare sia gli impianti metallurgici sia le dimore dei lavoratori in corrispondenza dei centri castellani, riuscivano ad esercitare un pieno e diretto controllo sulla produzione metallica7. Ritornando alla documentazione d’archivio, dobbiamo rilevare che la so di Archeologia Medievale (Pisa, 29-31 Maggio 1997), a c. di S. Gelichi, Firenze, All’Insegna del Giglio, 1997, pp. 80-85; E. Boldrini - F. Grassi, Alle radici dei castelli cit.; G. Bianchi - E. Boldrini - D. De Luca, 1994, Indagine archeologica a Rocchette Pannocchieschi (GR). Rapporto preliminare, “Archeologia Medievale”, XXI, pp. 251-268; M. Belli - D. De Luca - F. Grassi, Dal villaggio alla formazione del castello: il caso di Rocchette Pannocchieschi, in III Congresso Nazionale di Archeo- logia Medievale, a c. di R. Fiorillo, P. Peduto, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2003, pp. 286-292 e, da ultimo, L’insediamento medievale nelle Colline Metallifere (Toscana, Italia). Il sito minerario di Rocchette Pannocchieschi dall’VIII al XIV secolo, a c. di F. Grassi, (BAR International Series 2532), Archaeopress, Oxford, 2013. 7 R. Farinelli, I castelli della Toscana, cit., pp. 123-124. Sulla tematica si rimanda a R. Fran- covich - Ch. J. Wickham, Uno scavo archeologico ed il problema dello sviluppo della signoria territo- riale: Rocca San Silvestro e i rapporti di produzione minerari, “Archeologia Medievale”, XXI, 1994, pp. 7-30; R. Farinelli - R. Francovich, Potere e attività minerarie nella Toscana altomedievale, in La storia dell’alto Medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia, atti del convegno interna- zionale tenutosi a Siena 2-6 dicembre 1992, École Française de Rome - Università degli Studi di Siena, a c. di R. Francovich, G. Noyè, Firenze, All’Insegna del Giglio, 1994, pp. 443-465. 14 Roberto Farinelli forbice cronologica racchiusa dalla attestazione isolata di inizi IX secolo fino a quelle della seconda metà del XII è colmabile esclusivamente attraverso le risultanze delle indagini archeologiche condotte sul sito8. Risale al 1179, infat- ti, il primo riferimento documentario riconducibile espressamente al centro di Rocchette, poiché nell’aprile di quell’anno, una bolla pontificia confermava al vescovo di Volterra i diritti sulla “capella de Rocca”9. All’epoca, questa cappel- la castrense, identificabile con ogni probabilità con la chiesa dedicata a s. An- drea e inserita nella diocesi volterrana, doveva svolgere un ruolo di riferimento religioso per la popolazione circostante, entrando in competizione con l’antica “plebs de Porturi” che, sebbene posizionata a pochi chilometri di distanza, do- veva risultare compresa nella diocesi di Massa Marittima10. La menzione nei primi anni del Trecento di un “dominus plebanus dicti castri de Roccha”, tra i testimoni che presenziarono a un atto formale concernente Rocchette Pannoc- chieschi, può indicare l’avvenuta promozione a chiesa battesimale della chiesa castrense di S. Andrea, oppure il segnale dello stringersi di rapporti più intensi tra il castello e l’antica “plebs de Porturi”11. Ancora agli inizi del Duecento, il presule volterrano reclamava diritti sulla ecclesia de Rocchecta, oltre che su quote di Rocchecta et tota iurisdictio castri, mentre altri documenti attestano che i domini loci si trasmisero i diritti vantati sulla cappella, tramite una parti- colare “investitio de […] rogiis ecclesie dicti castri”, in seguito al trasferimento dei diritti signorili su Rocchette, allorquando furono esplicitamente compresi i diritti di “iuris patronatus ecclesiarum”12.

È lecito ipotizzare che la trasformazione dell’abitato in castello sia avve- nuta per impulso di esponenti dei conti Pannocchieschi, vale a dire di una delle

8 R. Farinelli - R. Francovich, 1994, Potere e attività minerarie cit., p. 462; R. Farinelli, I castelli della Toscana, cit., pp. 123-124; L’insediamento medievale cit., pp. 202-205. 9 Acta pontificum romanorum inedita a c. di J. v. Pflugk-Harttung, 3 voll., Tübingen-Stuttgart, F. Fues & Kostenbader, 1881-1886 (rist. Graz, Akademische Druck, 1958), III, n. 286 pp. 271-272: 23 aprile 1179. 10 Alla fine del Duecento il castello viene descritto come inserito entro la diocesi di Volterra e nel populus sancti Andree (ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1297 settembre 22). Per la menzione di una “Pieve a Portorii” detta anche “Plebs Porterii” cfr. ASSi, Diplomatico Riformagioni, 1323 settembre 17. 11 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1303 giugno 6; R. Farinelli, I castelli della To- scana, cit., scheda n. 23.9. 12 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 15 famiglie comitali toscane che più di altre ha concretizzato in termini di dominio castrense uno spiccato interesse verso aree a vocazione mineraria, con il concorso di un’autorità ecclesiastica quale il vescovo di Volterra, nella cui diocesi l’inse- diamento era inserito; d’altra parte, proprio durante la prima metà del XII secolo, la sede episcopale volterrana risulta strettamente collegata ai Pannocchieschi, da cui furono espressi in quel periodo alcuni energici titolari della diocesi13. Nel XIII secolo è documentata una consistente presenza patrimoniale della stessa famiglia signorile a sud di Volterra, segnatamente nelle Colline Metallifere, nella porzione del Grossetano circostante Massa Marittima. Sin dai primi decenni del Duecento sono attestati legami tra Rocchette ed esponenti del gruppo parentale pannocchiesco e, nel corso del secolo, diversi esponenti della casata esercitarono prerogrative patrimoniali e signorili sul castello, trasmet- tendo all’insediamento anche la propria denominazione familiare14. Dal canto proprio, il vescovo di Volterra nella prima metà del Duecento rivendicava diritti sulla quarta parte di Rocchette, oltre alla completa giurisdizione sul castello, e da ciò faceva derivare anche prerogative sulla locale ecclesia, identificabile - con ogni probabilità - con la cappella castellana di S. Andrea, la cui ubicazione non è stata individuata con certezza nel corso delle indagini stratigrafiche15. In ogni caso, già all’inizio del XIII secolo si registrano i primi segnali di crisi del potere sul castello da parte dei lignaggi rurali in cui si stava articolando

13 Sulle vicende medievali dei conti Pannocchieschi e in particolare del ramo dinastico dei “conti d’Elci” si rimanda a A. Cirier, Noblesse du contado et seigneurie au XIVe siècle: les comtes d’Elci et les communautés rurales, “Reti Medievali Rivista”, VII (2006-2), consultato on line, all’in- dirizzo: http://www.rm.unina.it/rivista/dwnl/Cirier.pdf, in attesa dell’edizione della tesi dottorale (A. Cirier, De l’Empire à la Commune: essor et mutation d ‘une nouvelle noblesse. Étude sur le lignage des comtes d’Elci, de la maison Pannochieschi (Toscane, XIIe-XIVe siecle), these de doctorat de troi- sieme cycle soutenue le 28 juin 2004, sous la direction de Martin Aurell, Université de Poitiers). Per l’interesse verso i distretti minerari mostrato dai Pannocchieschi e il loro ruolo in relazione al centro di Rocchette cfr. R. Farinelli - R. Francovich, 1994, Potere e attività minerarie cit., pp. 443-465 e, da ultimo, la sintesi in Guida alla Maremma medievale. Itinerari di archeologia nella provincia di Gros- seto, a cura di R. Farinelli, R. Francovich, III ed., Siena, Nuova Immagine, 2013, pp. 38-39. 14 Per una sintetica ricostruzione delle vicende storiche due-trecentesche del castello cfr. P. Cammarosano - V. Passeri, I castelli del senese. Strutture fortificate del’area senese-grossetana, Siena, Nuova Immagine, 2006, n. 34.6 e, da ultimo, R. Farinelli, I castelli della Toscana, cit., Repertorio, scheda n. 23.9. 15 S. Mori, Pievi della diocesi volterrana antica dalle origini alla visita Apostolica 1576, “Ras- segna Volterrana”, 1987-88, pp. 163-188; 1991, pp. 3-123; 1992, pp. 3-107, in particolare 1992, pp. 171-172. 16 Roberto Farinelli la casata, che si tradussero in due particolari forme di interazione con il mondo cittadino: da un lato si registrano flussi migratori di abitanti del castello alla volta di Massa Marittima e, dall’altro, il coinvolgimento nel dominio castrense di facoltosi soggetti cittadini (senesi e massetani). Già dal 1209 si hanno indizi dell’inurbamento a Massa Marittima di abitanti del castello di Rocchette e negli anni Sessanta risultano trasferiti in città alcuni personaggi originari del castello, esplicitamente descritti come esperti nelle attività minerarie16; nel 1232, poi, al- cuni esponenti di un lignaggio pannocchiesco radicati nel castello di Rocchette, vale a dire Ranuccio del fu Guglielmo “comes de Rocchetta”, unitamente al figlio Guglielmo, decisero di acquisire la cittadinanza massetana, nel tentativo di arginare questa ondata di spopolamento che stava insidiando il centro, come altri castelli della famiglia, a favore della non lontana città di Massa. Nell’atto si affermava, infatti, che “hec omnia fecerunt dicti Ranuccius et Gullielmus, quia dicta potestas predictae comunitatis et universitatis promisit eis nullo tem- pore de cetero recipere suos homines in cives”17. Le indagini di scavo, effettivamente, suggeriscono una crisi del centro castellano nel pieno Duecento, cui seguì - nel primo Trecento - una ripresa connessa al progressivo passaggio nelle mani del comune cittadino dei diritti signorili su Rocchette, ivi comprese le prerogative sulle miniere locali e su quelle del limitrofo territorio del castello di Cugnano18. Scorrendo le clausole dell’accordo del 1232 si può evincere, seppur in modo indiretto, che nel distretto di Rocchette si svolgevano attività estrattive e metallurgiche, dal momento che i due aristocratici si erano impegnati a corri-

16 Ci riferiamo alle attestazioni relative a “Deotisalvi de la Rocca” (ASSi, Diplomatico Rifor- magioni (Massa), 1209 settembre 27, edito in G. Volpe, Per la storia delle giurisdizioni vescovili, della costituzione comunale e dei rapporti fra Stato e Chiesa nelle città medievali: Massa Marittima, in “Studi storici di Amedeo Crivellucci”, XIX (1910), pp. 261-327; XXI (1913), II, pp. 266-272); “Bo- chettus de Rochetta” (ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1220 gennaio 14 edito in G. Volpe, Per la storia cit., n. IV, pp. 276-282). In una carta lacera e non numerata contenuta entro un registro di deliberazioni del comune di Massa relativo agli anni Sessanta del Duecento compare il nome di “Jacominus de Rocha” tra i “montis magistri” operanti nel territorio di influenza della città mineraria (ASSi, Capitoli 10). 17 ASSi, Diplomatico città di Massa, 1232 ottobre 7 (copia); ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1232 ottobre 7 (originale); Cfr. Anche R. Farinelli, S. Pietro all’Orto in Cittanuova. Assetto urbanistico, simbologia del potere ed organizzazione ecclesiastica in una fondazione urbana del primo Duecento, con prefazione di R. Francovich, Massa Marittima, s.e., 1997, p. 54. 18 L’insediamento medievale cit., pp. 205-211. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 17 spondere, ogni anno, una libbra di argento non monetato, verosimilmente pro- veniente direttamente dai locali giacimenti minerari19. Il castello di Rocchette rappresentava un centro importante per questo lignaggio della casata pannoc- chiesca, come indica il fatto che nell’atto del 1232 Ranuccio è definito “comes de Rocchecta”: tale denominazione testimonia il processo che condusse alla suddivisione del patrimonio comitale tra i diversi rami familiari, ciascuno fa- cente capo ad uno o più castelli della casata. Gli anni Sessanta del Duecento rappresentarono per i Pannocchieschi un momento di difficoltà nell’esercizio delle prerogative politiche sul cen- tro; infatti, nonostante i tentativi portati avanti per cercare di frenare la crisi produttiva che stava colpendo il sistema di gestione signorile delle attività minerarie e metallurgiche, persero anche il controllo militare di Rocchette20. Dopo la vittoria di Montaperti (1260), il comune di Siena entrò in possesso del limitrofo castello di Cugnano e occupò militarmente quello di Rocchet- te, il quale ritornò in mano ai Pannocchieschi solo dopo l’affermazione del- lo schieramento guelfo in Siena e nell’intera Toscana meridionale21. Infatti, negli accordi del maggio 1267, stipulati fra i rappresentanti del comune di Siena e il procuratore di Parte Guelfa per il ritorno in Siena dei fuoriusciti anti-imperiali, venne inclusa la condizione che “restituatur Pannocchiensibus Rocchetta eorum, quam comune Senense tenet”22. Effettivamente, nel 1282 Rocchette sembra essere nuovamente trasformata in un caposaldo dei Pan- nocchieschi, che in quel frangente lo utilizzarono per perpetrare le scorrerie contro la città di Massa, retta da un governo che in quegli anni oscillava tra

19 È stato rilevato, in effetti, come in Toscana indicazioni documentarie sulle attività estrattive abbiano fatto la loro comparsa tardivamente rispetto alla nascita dei castelli minerari e all’affermazione signorile su di essi. Su questa tematica cfr. R. Francovich - Ch. J. Wickham, Uno scavo archeologico cit. e R. Farinelli, I castelli della Toscana, cit., pp. 124-127. 20 Cfr. R. Farinelli, 2007, I castelli della Toscana, cit., p. 123. 21 Cfr. R. Farinelli, Il castello di Cugnano alla luce della documentazione scritta, in Archeolo- gia di un castello minerario: il sito di Cugnano (Monterotondo M.mo, Gr), a c. di M. Belli, R. Franco- vich, F. Grassi, J.A. Quirós Castillo, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2005, pp. 9-16, in particolare p. 12 e, per le tappe istituzionalmente più significative, ASSi,Capitoli 2, cc. 719r-v: 1261 settembre 22; Il Caleffo Vecchio, cit., III, n. 844, pp.1009-1011: 1263 novembre 22; Il Caleffo Vecchio, cit., III, n. 846: 1263 dicembre 22. Una immissione nel possesso di Cugnano e delle sue miniere a favore del comune di Siena è datata 9 luglio1266 (ASSi, Capitoli 2, c. 719v). 22 U. G. Mondolfo, Il Populus a Siena nella vita della città e nel governo del comune fino alla riforma antimagnatizia del 1277, Genova, Formíggini 1911, n. IV, pp. 71-82: 1267 maggio 13. 18 Roberto Farinelli la solidarietà con lo schieramento guelfo facente capo a Siena e Firenze, e quello ghibellino sostenuto da Pisa23. A questo clima conflittuale possiamo ricondurre pure la redazione, il 22 agosto del 1286, di una copia degli accordi del 1232, effettuta - con ogni for- malità opportuna - nel palazzo comunale di Massa Marittima per iniziativa di “dominus Bandus domini Ciampoli”, podestà senese della città maremmana24.

Dall’egemonia signorile pannocchiesca al dominio del comune di Massa Ma- ritima (1297-1311) Allo scorcio del Duecento risalgono i primi atti dispositivi consistenti in transazioni di diritti signorili su Rocchette, che ci sono pervenuti tramite l’archivio diplomatico del comune di Massa, ove confluirono come munimina comprovanti i titoli giuridici vantati dall’istituzione cittadina sul castello. In tale documentazione si colgono i segni di un processo avviato negli ultimi de- cenni del Duecento, quando si produsse la concentrazione dei diritti vantati da diversi esponenti del ramo “da Travale” della domus Pannocchiesca, nonché dal monastero di S. Pietro a Monteverdi, nelle mani di un singolo lignaggio dei medesimi Pannocchieschi “da Travale”, quello originato da Ranieri Ce- tere figlio del conte Ranuccio. A tale azione patrimoniale avrebbero ben pre- sto reagito altri Pannocchieschi riconducibili al ramo “da Pietra”; tali soggetti, strettamente legati allo schieramento guelfo toscano, optarono invece per il tra- sferimento della propria quota di dominio nelle mani di magnati massetani di parte guelfa e, infine, dello stesso comune di Massa Marittima, ottenendone in cambio generose contropartite monetarie.

Al settembre del 1297 risale il primo atto di vendita finalizzato a concentrare i diritti signorili nelle mani di Gaddo del fu Ranieri Cetere “de domo Pannocchie- sca”, il quale rilevò, per 400 lire senesi, da Bindino e Marco, detto Ciorto, “fratres germani, filii quondam domini Bonifatii de Travale, de domo Pannocchiensium” la quota indivisa di loro pertinenza, non meglio quantificata, del castello e di Roc- chette, ubicato in diocesi di Volterra, entro il populus di S. Andrea25. La porzione

23 Sui conflitti tra i Pannocchieschi e il comune di Massa nel 1282 cfr. ASSi, Ms. B 27, n. 101. 24 Cfr. ASSi, Diplomatico Città di Massa, 1232 ottobre 7 [L 5]. Sulla potesteria di “dominus Bandus domini Ciampoli Albizi de Senis” nel 1285 cfr. R. Farinelli, S. Pietro all’Orto, cit., p. 73. 25 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1297 settembre 22. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 19 di signoria acquisita in tale occasione da Gaddo può essere stimata in 1/12 del totale, come emerge dall’esame della documentazione successiva. Un anno dopo, e precisamente il 14 dicembre 1298, all’indomani dell’in- carico conferito dal pontefice al vescovo di Massa Marittima per provvedere alla tutela del monastero di S. Pietro a Monteverdi26, l’abate di questa istituzio- ne religiosa rurale, con il consenso dei suoi monaci e, in particolare, con quello di “donnus Guillelmus, monacus dicti monasteri”, cedette in locazione un nono pro indiviso del castello agli esponenti dei soli lignaggi originati dai defunti Bonifacio e Ranieri Cetere, tutti appartenenti al ramo “da Travale” della casata pannocchiesca, in cambio di un censo annuo fissato in un cero del peso di dieci libbre27. Un documento di qualche anno successivo conferma che questa nona parte di signoria del castello era confluita all’interno del patrimonio monastico proprio ad opera del menzionato monaco Guglielmo (“occasione hereditatis olim domini Guilielmi, monachi dicti monasterii”), vale a dire tramite un sog- getto riconducibile a un altro esponente della casata pannocchiesca28; si trattò, presumibilmente, del medesimo Guglielmo, figlio di Ranuccio “comes de Roc- checta”, che nel 1232 aveva assistito alla sottomissione del castello al comune di Massa e il cui ingresso nella vicina abbazia di Monteverdi ben si contestua- lizza nel quadro dei tradizionali rapporti della sua casata con il monastero29. L’enfiteusi del 14 dicembre 1298, aldilà della forma contrattuale verosimil- mente utilizzata per superare il divieto canonico di alienazione delle res eccle- siae, determinò un’ulteriore concentrazione di diritti su Rocchette nelle mani di esponenti della domus Pannocchiesca appartenenti al ramo “da Travale”, penalizzando le altre diramazioni della casata che in quella fase condividevano il dominio sul castello (vale a dire i “da Pietra”, i “da Perolla” e i “da Castiglion Bernardi”), menzionati negli anni seguenti tra i signori di Rocchette30.

26 Regestum Volaterranum, a c. di F. Schneider, Roma, Loescher, 1907, nn. 980, 981, 982, 983. 27 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1298 dicembre 14. 28 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1303 giugno 6. 29 Per alcuni cenni ai conflitti duecenteschi tra il monastero e i Pannocchieschi cfr. R. Belca- ri - G. Bianchi - R. Farinelli, Il monastero di S.Pietro a Monteverdi. Indagini storico-archeologiche preliminari sui siti di Badivecchia e Poggio della Badia (secc. VIII-XIII), in Monasteri e castelli tra X e XII secolo, a c. di R. Francovich, S. Gelichi, Atti del Convegno tenuto a Vicopisano (PI) il 17-18 novembre 2000, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2003, pp. 93-111. 30 Cfr. infra nel testo e ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [cas. 1153]. 20 Roberto Farinelli

A distanza di soli due giorni da questa locazione, il 16 dicembre 1298 Nello del fu Inghiramo, dei Pannocchieschi “da Pietra”, vendette al cittadino massetano Torscio, detto Malatascha, del fu Alderigo di Torscello le quote da lui possedute “totius castri sive arcis”31. La documentazione successiva testimonia che l’entità di questa “pars domini Nelli” posta “in castro de Roc- ca”, poi pervenuta nelle mani del comune di Massa, consisteva in 1/12 del totale32. Tuttavia, il processo di concentrazione di diritti signorili su Rocchette da parte della famiglia di Ranieri Cetere da Travale non si arrestò con l’in- gresso di un magnate massetano tra i condomini del castello e il giorno 11 novembre 1301 vennero perfezionate due nuove acquisizioni, che consoli- darono la posizione patrimoniale di questo lignaggio sull’insediamento. Con un primo atto, il medesimo Gaddo di Ranieri Cetere, dei Pannocchieschi “da Travale”, agendo questa volta anche in nome del fratello Bonifacio - un chie- rico pochi anni dopo menzionato come “plebanus plebis de Gerfalcho” 33-, ottenne in permuta da “Panochia quondam Guilielmi de Travali”, metà dei di- ritti su Rocchette Pannocchieschi, sui suoi abitanti, nonché quote di signoria e delle prerogative minerarie sul distretto castellano, fatta eccezione soltanto per alcuni immobili che rimasero nella piena disponibilità dello stesso Panoc- chia34. Lo stesso giorno, con un secondo atto, i medesimi Gaddo e Bonifacio del fu Ranieri Cetere acquistarono per 533 lire di denari senesi da “Bindinus quondam domini Bonifatii de Travali” i diritti patrimoniali vantati da que- st’ultimo sul castello di Rocchette, ivi compresa la diciottesima parte della iurisdictio et signoria castri e del “palatium et cassarum dicti castri” (forse la quota concessa loro in enfiteusi dall’abate di Monteverdi e proveniente dal

31 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1298 dicembre 16. Cfr. anche A. Lisini, Notizie delle miniere della Maremma Toscana e leggi per l’estrazione dei metalli nel medioevo, “Bullettino Senese di Storia Patria”, VI, 1935, pp. 185-256, in particolare p. 249. 32 La valutazione dei beni acquisiti da Nello nella misura di 1/12 proviene dalla successiva alienazione al comune di Massa Marittima (ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 9), nonché da una pergamena in cui si descrivono le quote acquisite dal comune massetano (“Iste sunt partes quos comune Masse emit in castro de Rocca”) conservata in ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [cas. 1153]. 33 Per la menzione di Bonifacio di Ranieri come pievano di Gerfalco cfr. ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 11. 34 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 21 patrimonio del monaco Guglielmo), oltre alla terza parte dei diritti sui titolari di quattro ben precisi mansi castrensi35. All’indomani di questa ulteriore e consistente operazione di concentra- zione patrimoniale nelle mani del lignaggio di Ranieri Cetere “da Travale” e precisamente il 16 novembre 1301, giorno successivo all’immissione nel pos- sesso dei beni nelle mani di Gaddo di Ranieri, Mangiante del fu Inghiramo “da Pietra” vendette direttamente al comune di Massa Marittima il proprio dodi- cesimo del castello e del distretto di Rocchette, oltre ai diritti su uno specifico manso castrense, svincolando il ramo “da Pietra” della casata pannocchiesca dal confronto con gli altri condomini per il dominio signorile su Rocchette e istituendo un precedente esiziale, pur in qualche modo anticipato dalla scelta effettuata tre anni prima da suo fratello Nello36. Per il comune di Massa l’acquisizione di una quota del castello non rap- presentava un evento inusitato, visto che sin dalla metà del Duecento l’istitu- zione cittadina aveva avviato una politica di acquisizione di quote di castelli collocati nel settore al confine con la diocesi di Volterra, nelle colline a nord-est della città: Monterotondo, Campetroso, Tricase, Casale Longo/Calzalunga37. Tuttavia, per la prima volta in questa occasione, il comune cittadino riuscì ad

35 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre. E. Fiumi, L’utilizzazione dei lago- ni boraciferi della Toscana nell’industria medievale, Firenze, Casa editrice del dott. Carlo Cya, 1943, pp. 70-71 nota 168. 36 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 16; cfr. anche ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [cas. 1153], E. Repetti, Dizionario geografico, -fi sico, storico della Toscana, 1833-1846, Firenze, s.e., III, p. 147 e A. Lisini, Notizie delle miniere, cit., p. 249. A distanza di un paio di decenni, un parente di Mangiante, Cione di Nardo da Civitella, figlio e erede di sua nipote Nella, rivendicava la proprietà di un vasto appezzamento incolto situato ai margini meridionali del distretto castellano, senza vantare, tuttavia, quote di diritti signorili sul castello (cfr. ASSi, Diplomatico Riformagioni, 1323 settembre 17). 37 Per il castello di Monterotondo cfr. M. Mordini, I consilia di Benincasa d’Arezzo, Guido da Suzzara e Francesco d’Accursio sul castrum seu castellare Montisrotundi, «Studi Senesi», CXXIV (III serie, LXI), fasc. 2, (2012), pp. 226-292; per gli altri centri cfr. R. Farinelli, 2007, I castelli della Toscana, cit., Repertorio, nn. 27.08; 23.12; 49.03. Sulle vicende duecentesche della città rimandiamo a L. Petrocchi, Massa Marittima, arte e storia, Firenze, Venturi, 1900; G. Volpe, Per la storia delle giu- risdizioni vescovili, della Costituzione comunale e dei rapporti fra Stato e Chiesa nelle città medievali: Massa Marittima, in “Studi storici di Amedeo Crivellucci”, XIX (1910), pp. 261-327; XXI (1913), pp. 67-236; M. Paperini, La signoria del vescovo di Massa in Maremma. Insediamenti e risorse, in Studi di storia degli insediamenti in onore di Gabriella Garzella, a cura di E. Salvatori, Pacini, Pisa 2014, pp. 199-215 e M. Paperini, Per una “nuova” storia di Massa di Maremma e del suo contado nel Medioevo in Città e Territorio. Conoscenza, tutela e valorizzazione dei paesaggi culturali, a cura di G. Galeotti, M. Paperini, Debatte Livorno 2013, pp. 40-49. 22 Roberto Farinelli accrescere significativamente la propria giurisdizione sui vicini distretti mine- rari cupro- e piombo-argentiferi, considerando anche il fatto che, con l’acquisi- zione di Rocchette, intese affermare prerogative anche sulle argentiere del ca- stello di Cugnano38. Infatti, per la prima volta nella serie documentaria relativa a Rocchette, proprio nella cessione effettuata da Mangiante del fu Inghiramo al comune cittadino viene nominata una “ratio sive ius quod habet in argenteria de Cugnano”, della quale non si era fatto cenno nelle precedenti transazioni patrimoniali e che invece compare nei successivi atti di vendita a favore del comune cittadino39. Non meraviglia, in ogni caso, che l’ingresso diretto del comune di Massa tra coloro che condividevano la signoria sul centro rappresentò un vero e pro- prio shock per gli altri soggetti presenti patrimonialmente nella zona e determi- nò una sorta di spartiacque nelle successive vicende di Rocchette. L’acquisto sconvolse gli assetti di potere locali, tanto che già l’anno seguente persino i primi promotori del processo di concentrazione dei diritti signorili su Rocchet- te, vale a dire Bonifacio e Gaddo del fu Ranieri Cetere, dei Pannocchieschi “de Travali”, si rassegnarono a cedere al comune di Massa le quote che sino ad allora avevano accumulato con affanno e costanza. Infatti, il 16 maggio 1302 i due fratelli furono in grado di trasferire, unitamente ad alcuni beni di loro esclusiva proprietà, ben 17/36 di signoria sul castello40. Pochi giorni dopo il medesimo Gaddo, unitamente a Marco, detto Ciorto, del fu Bonifacio “de Tra- vale de domo Pannocchiensium”, trasmise al comune di Massa un ulteriore do- dicesimo di Rocchette41. È opportuno ricordare che questi stessi esponenti dei

38 Per contro, le successive acquisizioni di diritti su castelli da parte del comune di Massa deter- minarono ulteriori incrementi del suo territorio minerario, nei casi dei castra di Caldana, Pietra (a.1307 ca.), Perolla (a. 1307), Gerfalco (a. 1317), Montepozzali, Gavorrano (a. 1320), Colonna (a.1323), Ravi (a.1331). Cfr. R. Farinelli, 2007, I castelli della Toscana, cit., Repertorio, nn. 18.06, 23.18, 18.11, 29.03, 23.19, 18.01, 10.05, 18.12. 39 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 16; cfr. anche ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV (cas. 1153). 40 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 maggio 16 [L5]. Negli atti mediante i quali il comune di Massa acquisì le quote, in verità, non si distinse tra quelle spettanti ad uno solo dei fratelli e quelle comuni. Inoltre, nella già menzionata pergamena trecentesca in cui si riepilogava l’assetto patrimoniale dei diversi rami della casata si tralasciò la quota di 1/18 del castello trasmessa al comune cittadino nel maggio 1302 congiuntamente ai 5/12 dello stesso (cfr. ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [cas. 1153]. 41 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 maggio 21. Si trattò, forse, del medesimo dodicesimo ceduto a Gaddo nel 1297 da Bindino e Marco. A oltre dieci anni di distanza, nel 1315, la Il caso di Rocchette Pannocchieschi 23

Pannocchieschi “da Travale” nel dicembre del 1298 erano divenuti locatari di un nono del castello, ottenuto in enfiteusi per 29 anni da Guido, abate di S. Pie- tro a Monteverdi, ottenendo l’esplicito consenso del monaco Guglielmo, che in precedenza aveva devoluto all’abbazia tali diritti. Nel giugno 1303, tuttavia, lo stesso abate Guido, agendo ancora per conto del monastero di S. Pietro, riprese il diretto possesso della quota concessa in affitto, a causa del mancato rispetto, da parte degli esponenti dei lignaggi pannocchieschi “da Travale” coinvolti, delle clausole della ricordata locazione stipulata cinque anni prima42.

La presenza patrimoniale “neo-signorile” a Rocchette Per definire in modo più completo il panorama dei soggetti che vantarono diritti su Rocchette alle soglie del suo inserimento nella compagine territoriale assoggettata al comune di Massa Marittima, è opportuno sottolineare la presen- za di esponenti aristocratici di matrice cittadina accanto a quella di tradizionali soggetti signorili laici ed ecclesiastici (il vescovo di Volterra, l’abate di Monte- verdi ed esponenti dei diversi rami della casata pannocchiesca). Si trattava, ad esempio, di membri del gruppo dirigente senese che istau- rarono legami matrimoniali con i Pannocchieschi del ramo di Travale, ma, come si è accennato, un ruolo rilevante venne svolto anche da un esponen- te di una famiglia magnatizia di Massa Marittima collocata sin dall’inizio del Duecento ai vertici dell’istituzione comunale maremmana e legata allo schie- ramento guelfo: il già menzionato Torscio, del fu Alderigo di Torscello, detto “Malatascha de Torcellis de Massa”. Le presenze magnatizie senesi a Rocchette, pur nella precocità delle atte- stazioni, ben si inquadrano per cronologia, modalità e caratteri nel fenomeno di penetrazione patrimoniale in castelli anche piuttosto distanti da Siena da parte di famiglie la cui fortuna si era formata in città, a suo tempo evidenziato da Andrea Giorgi43.

vedova di Ciorto, Chelina, chiese e ottenne dal consiglio generale del comune di Massa il riconosci- mento del debito di 500 lire dovute per l’acquisto dell’ultima quota del castello rimasta nelle mani degli eredi degli antichi signori (ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1314 febbraio 15). 42 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1303 giugno 6. 43 A. Giorgi, Il conflitto magnati/popolani nella campagne: il caso senese, in Magna- ti e popolani nell’Italia comunale, Atti del quindicesimo convegno di studio tenutosi a Pisto- ia nei giorni 15-18 maggio 1995, Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte, 1997, pp. 24 Roberto Farinelli

Già nel 1232 dominus Ildibrandinus Malpollione Senensis, in qualità di cognatus di “Ranuccius comes de Rocchecta quondam Gullielmi comitis Pano- chiensium” aveva partecipato attivamente, assieme al figlio del conte di Roc- chette, Guglielmo, alla sottomissione del centro castrense al comune di Massa Marittima44. Ildebrandino Malpollione è ampiamente attestato nella documen- tazione di quegli anni prodotta dal comune di Siena, poiché apparteneva al gruppo dirigente cittadino: fu ambasciatore a Volterra, Pisa e Arezzo nel 1226 e nel 1229, prestò servizio come dominus militum dei reparti comunali del ter- ziere di Camollia nel 1230 e fu ancora ambasciatore l’anno successivo; infine, partecipò a sedute del consiglio generale, come emerge dai verbali redatti tra il 1237 e il 123945. Non è chiaro se Ildebrandino avesse acquisito quote di signoria sul ca- stello, né se alla sua figura sono connesse le ulteriori presenze senesi, attestate alla fine del secolo XIII. Infatti, per il periodo successivo agli anni Trenta del Duecento, non si hanno nuove menzioni di magnati senesi collegate a Rocchet- te, una mancanza di informazioni peraltro riconducibile anche alla sostanziale assenza di documentazione relativa ai detentori di diritti signorili sul castello sino alla fine del secolo. In ogni caso, è opportuno sottolineare che durante gli anni Sessanta del Duecento si registra, oltre alla diretta occupazione senese del limitrofo castello di Cugnano, sulle cui risorse minerarie vantavano diritti pure

137-211; R. Mucciarelli, Potere economico e potere politico a Siena tra XIII e XIV secolo: per- corsi di affermazione familiare, in Poteri economici e poteri politici. Secoli XIII-XVIII, Atti del- la XXX settimana di Studi dell’Istituto Internazionale di Storia economica Francesco Datini, (Pra- to 27 aprile - 1 maggio 1998), a c. di S. Cavaciocchi, Firenze, Le Monnier, 1999, pp. 569-590 e, riguardo il territorio massetano, si veda R. Mucciarelli, La forza del credito. Banchieri senesi a Massa Marittima, secoli XIII-XIV, in La costruzione del domino cittadino sulle campagne. Italia cen- tro-settentrionale, secoli XII-XIV, Atti del Convegno (Pontignano, 29 maggio - 1 giugno 2004), a c. di R. Mucciarelli, G. Piccinni, G. Pinto, Siena, Protagon Editori Toscani, 2009, pp. 637-650. 44 Cfr. la nota 17. 45 Biccherna I, pp. 28-29; Biccherna II, pp. 146, 147, 157, 195, 211; Biccherna III, pp. 27, 47, 77, 129, 172, 335, 365, 367, 377-378; Biccherna IV, pp. 52, 167; Il Caleffo Vecchio, cit., II, pp. 454, 456, 458, 489. Il personaggio omonimo coinvolto nelle vicende di Rocchette non può essere identifica- to con Ildebrandino di Malpollione, degli Ardengheschi del ramo di Fornoli, attestato nei primi anni del XIII secolo ma già defunto nel 1232 (cfr. P. Angelucci, L’Ardenghesca tra potere signorile e dominio senese (secoli XI-XIV), Perugia-Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2000, p. 57), al quale va riferita anche la testimonianza del marzo 1208, quando ricevette dal comune di Siena un rimborso di 100 lire per i danni infertigli dall’esercito senese nell’impresa di Orgiale (cfr. ASSi, Diplomatico Riformagioni, 1207 Marzo 2, [cas. 30]). Il caso di Rocchette Pannocchieschi 25 i signori di Rocchette, anche la partecipazione allo sfruttamento minerario da parte di cittadini massetani, nonché, presumibilmente, le prime fasi della pene- trazione patrimoniale dei Tolomei di Siena nell’area46. Alcune testimonianze dell’avvenuta acquisizione di quote di proprietà del castello di Rocchette da parte di esponenti di casate senesi emergono dai negozi giuridici, attraverso i quali dalla fine del Duecento si realizzò il riassetto dei di- ritti patrimoniali e signorili sul centro. Nel novembre 1301, infatti, Pannocchia del fu Guglielmo da Travale garantì che “Galleta quondam Jacobi Vespe, de Forteguerris de Senis”, avrebbe consentito a una cessione di beni in Rocchette a favore di altri esponenti della domus Pannochiesca. Il ruolo del Forteguerri emerge con maggior chiarezza nell’aprile successivo, quando lo stesso “Galleta quondam Iacopi, de Forteguerris de Senis,” vendette per la somma di 700 lire di denari senesi 1/12 del castello al citato Pannocchia di Guglielmo, autore dell’alienazione precedente, il quale, a sua volta, il medesimo giorno dell’ac- quisto e con il consenso dello stesso Galleta e di “Minus quondam Arrigi de Incontris de Senis”, lo alienò a un rappresentante del comune di Massa47. Allo stato attuale delle ricerche, risulta piuttosto arduo inquadrare ade- guatamente l’operato di “Malatascha olim Aldrigi Torscelli de Massa”, magnate che assunse un ruolo chiave nelle complesse vicende patrimoniali che condus- sero il castello di Rocchette Pannocchieschi sotto il controllo del comune ma- remmano48. Il facoltoso cittadino apparteneva a una famiglia che aveva svolto

46 Farinelli 2005, pp. 12-13. Si rilevi anche che Nella, figlia di Gaddo da Travale, vale a dire uno dei principali soggetti signorili che aveva tentato di concentrare nelle proprie mani quote del castello di Rocchette, andò in sposa a Francesco del fu Sozzo Tolomei (cfr. A. Giorgi, Il conflitto ma- gnati/popolani cit., p. 170). 47 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 5 (293). L’atto è interpretato come la retrocessione di una precedente vendita effettuata dal medesimo Pannocchia in A. Giorgi, Il conflitto magnati/popolani cit., p. 169. ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 5 (295) E. Repet- ti, Dizionario cit., III, p. 147; ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 5 (292). 48 La storiografia concernente Massa Marittima nel Medioevo è fortemente debitrice degli studi condotti durante i primi anni del XX secolo, quando Gioacchino Volpe ricostruì, in una prospettiva eminentemente storico-giuridica, l’evoluzione istituzionale del comune massetano nei suoi rappor- ti con il Vescovo, titolare dei diritti signorili sulla città (G. Volpe, Per la storia delle giurisdizioni vescovili della Costituzione comunale e dei rapporti fra Stato e Chiesa nelle città medievali: Massa Marittima, in “Studi storici di Amedeo Crivellucci”, XIX (1910), pp. 261-327; XXI (1913), pp. 67- 236, parzialmente riedito con il titolo Vescovi e Comune di Massa Marittima, in G. Volpe, Toscana Medievale. Massa Marittima Volterra Sarzana, Firenze 1964, pp. 5-139). Cfr. anche Petrocchi L., Massa Marittima, arte e storia, Firenze, 1900. Nuove luci sulla storia sociale della città maremmana 26 Roberto Farinelli sin dalle origini un’attività considerevole per il comune di Massa Marittima; il capostipite noto, Torscellus del fu Alderigo de Massa, era un personaggio emi- nente in città che fu coinvolto nelle vicende comunali sin dal 120949, mentre suo figlio, Bonincontro, rivestì anche la carica di tesoriere del comune50. Nel 1275 Bonaventura di Torscello, zio paterno di Malatasca, in qualità di ambasciatore della parte guelfa in Massa, sollecitò l’intervento senese per una pacificazione tra le fazioni cittadine51 e, pochi mesi dopo, nell’aprile del 1276, lo stesso Ma- latascha - assieme al fratello, “dominus Prepositus Aldrigi Torscelli”, e a un’ot- tantina di fuoriusciti guelfi della città - sottoscriveva una pace con il governo comunale di Massa52. Nell’aprile 1298 sono documentati rapporti finanziari di Malatasca con i gestori di un’importante compagnia impegnata nello sfrutta- mento delle miniere e degli opifici metallurgici ubicati nel distretto massetano53 e alla fine di quell’anno il medesimo magnate fu in grado di sborsare mille lire di denari senesi per l’acquisto da Nello di Inghiramo Pannocchieschi di un do- dicesimo del castello di Rocchette54. Qualche tempo dopo, il 9 settembre 1306, “Malatascha olim Aldrigi Torscelli de Massa”, in cambio di 940 lire, cedette al comune cittadino la quota del castello acquistata otto anni prima, vendendo durante i secoli XIII e XIV scaturiranno dalla imminente pubblicazione della tesi di dottorato discus- sa da Marco Paperini, dal titolo Massa di Maremma. Dalla signoria vescovile all’affermazione del comune (secoli XI-XIII), tutor Prof. Sandro Carocci, XXV ciclo, su cui, comunque, cfr. M. Paperini, Esperienze signorili nella Toscana meridionale: i casi di Massa Marittima e Grosseto, in Le signorie cittadine in Toscana. Esperienze di potere e forme di governo personale (secoli XIII-XV), a cura di A. Zorzi, Roma, Viella 2013, pp. 273-288. 49 ASSi, Diplomatico Riformagioni 1209 settembre 27 edito in G. Volpe, Per la storia cit., n. II, pp. 266-272; ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1225 agosto 4. 50 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1227 marzo 29 edito in G. Volpe, Per la storia cit., n. XVII, pp. 323-327. 51 Il Caleffo Vecchio, cit., III, n. 883, pp. 1072-1075: 1275 agosto 10. 52 I sottoscrittori si qualificarono con queste parole: “exitii civitatis Massane, qui sumus maior pars dictorum exitiorum et partis guelfe de Massa”. Tale pacificazione venne sottoscritta alla presenza anche di “dominus Bonefazius de Travale”, i cui figli venti anni dopo avrebbero iniziato la serie di ces- sioni partimoniali che avrebbe condotto il comune di Massa all’acquisizione del castello di Rocchette (Il Caleffo Vecchio, cit., III, n. 887, pp. 1084-1086: 1276 aprile 13). 53 R. Farinelli, Appendice documentaria: Il registro contabile di una compagnia mineraria massetana (1296-1299 ca.), in Archeologia di un castello minerario: il sito di Cugnano (Monterotondo M. mo, Gr), a c. di M. Belli, R. Francovich, F. Grassi, J. A. Quirós Castillo, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2005, pp. 89-113, pp. 101-102. 54 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1298 dicembre 16. Cfr. anche A. Lisini, Notizie delle miniere, cit., p. 249. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 27 contestualmente i diritti vantati “in podere quod vocatur La Monaldescha, po- situm in districtu dicti castri”, per il prezzo di ulteriori 325 lire55. Non ci è dato conoscere in quale misura la differenza, pari a 265 lire, tra il prezzo di acquisto e quello di vendita per i diritti su Rocchette sia da ricondurre al successo di una speculazione finanziaria connessa al ruolo politico svolto da Malatasca, oppure se costituisca il riconoscimento dell’investimento economico effettuato dal medesimo per allestire entro il territorio del castello un nuovo strumento ge- stionale, identificabile con ilpodere denominato “el Podio dela Monaldescha”, del quale non si trova esplicita menzione nella vendita effettuata da Nello di Inghiramo Pannocchieschi nel 1298. Non trascorse molto tempo, tuttavia, prima che il medesimo Malatasca riprendesse a rilevare quote di proprietà del castello di Rocchette da altri esponenti della casata pannocchiesca, anch’essi aderenti allo schieramento guelfo. Infatti, nel già gennaio 1307 Malatasca acquistò da Bernardino e Ni- coluccio di Fuccio da Perolla 3/18 del castello di Rocchette, ivi compresi an- che i diritti sui locali impianti idraulici, per il prezzo di sole 600 lire, impadro- nendosi in tal modo di una porzione dei diritti signorili di entità formalmente doppia rispetto a quella da lui ceduta al comune cittadino il mese precedente in cambio di un importo estremamente superiore56. Il nome di “Malatascha de Torcellis de Massa” compare nuovamente nel 1312 in relazione alle vicende del castello di Rocchette, poiché il 31 gennaio di quell’anno Malatasca indi- rizzò una lettera a Cortonese da Cortona, ufficiale dell’Arte della Mercanzia di Firenze “super represallis deputatus”, qualificandosi - unitamente a “Ne- rius de Tudinis” - “vicarius et rector in offitio Capitanatus Populi” della città di Massa e sostenendo le ragioni del comune maremmano in relazione a una ruberia di bestiame perpretrata ai danni di un cittadino fiorentino dagli abitan- ti di Rocchette Pannocchieschi e dal “Castellanus in dicto castro pro comuni civitatis [Masse]”57. Da alcuni verbali coevi del consiglio generale di Massa risulta anche che Malatascha Aldrigi, assieme a Bindus Ranerii, Averardus Michaelis e “quidam alii cives Massani” avevano rivestito un ruolo chiave

55 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 9. In un documento redatto il gior- no successivo in ambito pannocchiesco questo complesso patrimoniale venne definito “podere quod vocatur el Podio dela Monaldescha” cfr. ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 10. 56 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1307 gennaio 24. 57 ASSi, Concistoro 2136, ins. 2: 1311 gennaio 24. 28 Roberto Farinelli alla fine del Duecento, per favorire la cessione al comune maremmano di quote del castello di Rocchette da parte di Marco di Bonifazio, detto Ciorto, del ramo pannocchiesco dei “de Travale”58. Il diretto dominio massetano sul castello e il nuovo impulso alle lavorazioni metallurgiche Nell’autunno del 1306 il comune di Massa riuscì ad accaparrarsi ulterio- ri porzioni di signoria su Rocchette Pannocchieschi acquisendo, per la prima volta, anche formali prerogative sullo sfruttamente delle miniere argentifere del limitrofo castello di Cugnano. Infatti, nel settembre di quell’anno il comune ac- quistò per 1265 lire da “Malatascha olim Aldrigi Torscelli” la quota di signoria di un dodicesimo del castello e un podere “positum in districtu dicti castri”59. Occorre precisare che nella vendita del dicembre 1298 a favore di Malatasca non si era precisato che i diritti signorili vantati da Nello di Inghiramo Pannoc- chieschi su Rocchette avessero compreso anche alcune prerogative su Cugnano e sulla relativa argenteria; pertanto, l’11 settembre 1306 lo stesso “Nellus quo- ndam Inghirami de Petra, domus Pannocchiensium”, dietro esplicita richiesta del comune di Massa Marittima e a seguito di un formale atto di procura nella persona del proprio genero, Bindino di Neri da Sticciano, trasmise direttamente al comune cittadino ogni sorta di diritto connesso al dominio sulla dodicesima parte del castello di Rocchette, nonché ciò che avesse potuto rivendicare “in castro, curte, iurisdictione et argenteria de Cungnano”60.

Il sensibile avvicinamento politico tra i governi comunali di Massa e di Siena, tradottosi nella sottoscrizione di nuovi accordi formalizzati nell’autunno del 1307, si accompagnò a un ulteriore peggioramento delle relazioni tra il co- mune maremmano e i Pannocchieschi, ivi compresi anche gli esponenti di quei

58 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1314 febbraio 15. 59 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 9. Cfr. ASSi, Diplomatico Rifor- magioni (Massa), 1306 settembre 10. 60 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 10. Si predispose la trasmissione al comune di Massa Marittima di “omnia iura et actiones reales et personales utiles et directas tacitas et espressas et mistas pingnoris et ypothece et omnes alias que et quas habet predictus dominus Nellus et habere videtur et usque sibi competunt et competere possunt pro dicta duodecima parte dicti castri Rocchette in castro, curte, iurisdictione et argenteria de Cungnano” (cfr. ASSi, Diplomatico Riforma- gioni (Massa), 1306 settembre 9). Il caso di Rocchette Pannocchieschi 29 lignaggi tradizionalmente legati allo schieramento guelfo, come i “da Pietra” e i “da Perolla”, che precedentemente non erano entrati in conflitto con i governi guelfi dei comuni senese e massetano. Infatti, una petizione, presentata nel con- siglio generale del comune di Massa il 27 settembre 1308, testimonia che una serie di atti ostili si erano verificati anche pochi giorni prima, senza che avesse sortito effetto duraturo una tregua sottoscritta tra le parti nell’agosto preceden- te. Tra questi scontri armati verificatisi verso la fine dell’estate, uno riguardò direttamente il castello di Rocchette - ormai saldamente inserito nel distretto di Massa e presidiato dalle milizie massetane - e si tradusse in una scorreria perpretrata da uomini di Travale e di Gerfalco, i quali, “armata manu venerunt in territorium Rocchette”, trattenendovisi “per plures dies” e provocando danni e devastazioni alle colture locali (“incidendo vineas et arbores hominum de Rocchetta”)61. Dal canto proprio, in tale occasione, Nello di Inghiramo Pan- nocchieschi chiese la restituzione della quota del castello di Rocchette che un tempo gli era appartenuta, poiché dichiarò che il prezzo pattuito non gli era stato effettivamente corrisposto62.

Se gli uomini di Travale e di Gerfalco, vale a dire le masnade reclutate in castelli soggetti alla signoria di lignaggi pannocchieschi, erano giunte alle porte di Rocchette devastando vigneti e alberi da frutto, parimenti problema- tica doveva essere divenuta la coltivazione delle risorse minerarie locali63. In ogni caso, già l’estate seguente il comune di Massa si assicurò il controllo sui vasti appezzamenti boschivi al fine di ricavarne il combustibile necessario al loro trattamento metallurgico. Nell’agosto 1309, appunto, un rappresentante di Bernardino del fu Ranieri, “de Castiglione, de domo Panochiensium”, ricevette sei lire dal “tesoriere del comune e del popolo della città di Massa” a riconosci- mento dei diritti sullo sfruttamento “de pasturis, paschuis, boscatico et carbo- nibus castri Rocche”, in relazione alla quota degli stessi spettante al medesimo

61 ASSi, Capitoli 17, cc. 5v-8v. 62 “Item quod remictatur dictus Nellus in possessione sue partis castri de Rocchettis quam partem vendidit comuni de Massa et pretium sibi promissum et non solutum vel quod eidem pretium persolvatur” (ASSi, Capitoli 17, cc. 5v-8v). 63 “Quidam homines de Travale et de Gerfalcho armata manu venerunt in territorum Rocchette Masse districtus, post firmationem dicte tregue, per plures dies et ibidem dampnum et vasta intulerunt incidendo vineas et arbores hominum de Rocchetta”. ( ASSi, Capitoli 17). 30 Roberto Farinelli

Bernardino, che il menzionato resoconto redatto, probabilmente proprio in que- sti mesi per conto del comune, commisurava in 1/1264. Riconoscendo un compenso monetario al lignaggio pannocchiesco che traeva il proprio nome da Castiglion Bernardi, il comune di Massa regolò le questioni pendenti che intralciavano i disegni di controllo su Rocchette e il con- seguente sfruttamento delle sue risorse minerarie. In tale contesto si inquadra la realizzazione, ben evidenziata tramite le indagini archeologiche, di un vero e proprio quartiere industriale esterno alle mura, dotato di magazzini e impianti di diverso genere e funzionale alla metallurgia estrattiva65. Del resto, l’egemo- nia ormai fattivamente esercitata sul castello di Rocchette dal comune cittadino si rifletteva anche nel mutamento della sua denominazione, poiché una confi- nazione di quegli anni, relativa al territorio di Prata, menzionò il “districtus Rocche olim Panochiesium et nunc comunis civitatis Masse”66.

Al lasso temporale compreso tra il 1307 e il 1311, durante il quale si stava concretizzando il disegno comunale volto a favorire il popolamento del centro fortificato e l’allestimento al suo esterno di opifici metallurgici, possiamo ascri- vere anche la redazione di un testo, a più riprese menzionato in precedenza, che rendeva conto delle diverse quote di dominio signorile su Rocchette67. Nella sua stesura originaria, lo scritto costituiva l’elenco delle “partes quas comune Masse emit in castro de Rocca”, corredato di alcune indicazioni fondamentali, quali l’identità del precedente titolare della quota di diritti signorili, la sua entità in termini frazionari e, infine, la quantificazione del correlativo esborso da parte dell’erario comunale68. Il testo in questione elenca le acquisizioni già effettuate dal comune citta- dino nella forma seguente:

64 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1309 agosto 20. Per il resoconto comunale cfr. ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [cas. 1153]. 65 L’insediamento medievale cit., pp. 195-197, 208. 66 Il Caleffo Vecchio, cit., IV, n. 1062 pp. 1668-1671: 1309 dic 29 - 1310 gen 3. 67 Cfr. R. Farinelli, 2007, I castelli della Toscana, cit., Repertorio, scheda n. 23.9. 68 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [casella 1153]. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 31

pars Mangiantis : dodicesimum constitit lib. 940 - 1a pars Pannochie : dodicesimum constitit lib. 700 - 2a pars Gaddi69: tertia parte et dodicesimum et constitit lib. 5326 s.13 - 3a dieceottesimum pars Ciorte deciotesimum constitit lib. 626 s. 13 et d.4 - 4° pars domini Nelli : dodicesimum constitit lib. 940 - 5a

A queste prime cinque quote di dominio castrense (partes), individuate attraverso una numerazione progressiva, uno scriptor diverso aggiunse l’indi- cazione di tre ulteriori partes, che furono contrassegnate soltanto dall’indica- zione dei detentori e della loro entità in termini frazionari, mentre non venne espressa alcuna stima monetaria riguardo il loro valore.

pars domus Castilionis Bernardi XIIam pars domus de Perulla XIIam pars filiorum Nerii de Travali XVIIIam

In questo caso, presumibilmente, si trattava delle quote di proprietà che al momento della prima stesura della scrittura non erano ancora confluite entro il patrimonio comunale, e delle quali il redattore aveva raccolto notizia in qualche modo. Effettivamente, affidandosi a tale schema ricostruttivo, la somma tra le cinque partes già acquisite dal comune (costituenti i 13/18 dell’intero dominio su Rocchette) e delle tre non ancora inserite nel patrimonio comunale (com- plessivamente 5/18 del castello) rappresenterebbe un intero; tuttavia, a partire dagli atti notarili provenienti dall’antico archivio diplomatico del comune di Massa, la somma delle quote di signoria acquisite sino a quel momento avrebbe dovuto essere nettamente superiore, sfiorandone la totalità (137/144)70. In ogni caso, è opportuno rilevare che le successive acquisizioni di diritti su Rocchette da parte del comune cittadino non si realizzarono in coerenza con il quadro delineato nella seconda parte di questo prospetto trecentesco.

69 Nel ms.: “tertia parte et” segue con richiamo. 70 Ad esempio, nel prospetto trecentesco si afferma che la quota di signoria pervenuta al comu- ne cittadino come pars Gaddi sarebbe pari a 1/3 + 1/12, mentre nell’atto si trasmisse all’istituzione cittadina anche un ulteriore diciottesimo di signoria su Rocchette (ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 maggio 16 [L5]). 32 Roberto Farinelli

Per gli amministratori comunali questa peculiare pergamena assolse una funzione riepilogativa della situazione patrimoniale concernente la signoria sul castello; la redazione dell’elenco ha come terminus post quem il settembre 1306, data dell’ultimo acquisto registrato da parte del comune massetano, e come terminus ante quem il luglio del 1311, vale a dire la data della prima aquisizione di una quota non contemplata nel prospetto71. Come si è accennato, il processo di concentrazione patrimoniale nelle mani del comune di Massa proseguì, nel luglio del 1311, con l’acquisto della nona parte del castello dall’abate di Monteverdi, “donnus Paulus quondam Ri- stori de Florentia”72. Tramite questa cessione, per il prezzo di 2000 lire di denari senesi il comune acquistò esplicitamente anche le risorse minerarie del territo- rio castellano (“argentifodine, aurifodine, ramifodine, cretifodine, latentes seu patentes et non patentes”), nonché i diritti monastici “in castro de Gelfalco, in castro de Travali et in castro de Gavorrano”. Infine, per completare l’acquisizione dei diritti su Rocchette, il comune di Massa comprò, nell’agosto del 1313, dal già menzionato “Bernardinus olim Fuccii de Pannochiensibus de Perulla” - che agì anche per conto del fratello minore Nicholuccio - un ulteriore sedicesimo dei diritti sul castello in cambio di 450 lire73, cui si aggiunse nell’agosto del 1314 un diciottesimo del castello di Rocchette - ivi compresa la corrispondente quota dell’argenteria castri Cu- gnani - trasmesso all’istituzione cittadina da “Nellus, vocitatur Tectoria, filius olim Nerii domini Bonifaçii de Travali de domo Pannochiensium” per il prezzo di 425 lire 74. La semplice sommatoria delle quote di signoria su Rocchette progressi- vamente rilevate dal comune di Massa evidenza manifeste incongruenze, dal

71 A nostro giudizio, non costituisce una indicazione significativa come terminus ante quem il passaggio nel gennaio 1307 di una quota della signoria castrense su Rocchette da due esponenti dei Pannocchieschi “da Perolla” al sopra mentovato Malatasca, dal momento che il medesimo elenco riepilogativo individua la quota acquisita da quest’ultimo nel 1298 da Nello di Inghiramo Pannoc- chieschi ancora come “pars domini Nelli”, riportando persino la cifra di 980 lire che sborsò il magnate massetano, anziché quella superiore, devoluta dal comune cittadino a Malatasca al momento dell’ac- quisto diretto. 72 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1311 luglio 21. 73 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1313 agosto 13. A maggior garanzia, nell’atto venne menzionato lo stesso “Malatascha quonam Aldrigi de Torscellis de Massa”. 74 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1314 agosto 23; ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1314 agosto 24. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 33 momento che ne risultano acquisite 161 su un totale di 144. Tale aporia in primo luogo denuncia le difficoltà incontrate dalle istituzioni comunali nell’ac- certare la validità dei titoli giuridici ceduti dai soggetti alienanti, che - eviden- temente - rivendicavano quote di signoria e diritti di altro genere sul castello di Rocchette ben superiori a quelle riconosciute dagli altri condomini. Per altro verso, nelle acquisizioni i rappresentanti del comune agirono cautelativamente riconoscendo di volta in volta le rivendicazioni di ciascun alienante, premu- randosi di ottenere negli atti notarili di acquisto titoli giuridici che definivano quote di signoria quanto possibile estese e concentrando semmai i propri sfor- zi sulla limitazione dell’effettivo esborso monetario, oltre che sulla dilazione esasperata dei tempi di pagamento. Come si è ricordato, già attorno al 1310 il comune aveva formalmente acquistato pressoché la totalità dei diritti signorili nominali su Rocchette (137/144, cfr. tabella I, nn. I-VII), mentre dalla menzio- nata scrittura riepilogativa trecentesca emerge che rimanevano nelle mani dei Pannocchieschi ancora i 5/18 del castello75.

Tabella I. Acquisti comunali di quote di signoria su Rocchette Quota acquisita N° Riferimento archivistico dal comune di Massa I 1/12 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 16 II 17/36 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 maggio 16 [L5] III 1/12 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 maggio 21. IV 1/12 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 5 V 1/12 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 9 VI 1/16 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1313 agosto 13 VII 1/12 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 9. VIII 1/9 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1311 luglio 21. ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1314 agosto 23; IX 1/18 ASS, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1314 agosto 24. I-IX 161/144 [Totale delle quote acquistate dal comune di Massa]

L’ultima memoria documentaria concernente un esborso da parte del co- mune di Massa per acquisire la piena signoria su Rocchette proviene da una co-

75 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [casella 1153]. 34 Roberto Farinelli pia pergamenacea di alcune delibere del consiglio generale cittadino tenutesi tra il febbraio e il marzo del 1315, allorquando fu ampiamente discusso riguardo al debito di cinquecento lire nei confronti della vedova di Marco da Travale, relativo al “pretium certe partis Rocchecte, quam comune Masse emit”76. In ogni caso, al- tri eredi dei Pannocchieschi continuarono a rivendicare prerogative patrimoniali sui terreni ubicati entro la sua curia e, a distanza di un decennio potevano giocare sull’ambiguità tra la cessione al comune dei diritti signorili e la alienazione di ap- pezzamenti ricadenti entro la giurisdizione del castello. Infatti, nel 1323 Cione di Nardo da Civitella, in qualità di figlio ed erede di “domina Nella, condam domini Paganelli de Pannocchieschis domini Mangiantis”, ottenne la formale immissio- ne nel possesso di un appezzamento incolto, posto in curia della Rocchetta, loco dicto a la Pieve a Portorii” ed esteso sino al confine con i territori dei castelli di Gerfalco, di Prata e della stessa città di Massa77.

2. La fisionomia urbanistica e le dimensioni del castello Dall’articolata serie documentaria prima presa in esame si traggono an- che alcune informazioni riguardo la fisionomia urbanistica del castello e le sue dimensioni demiche, da interpretare alla luce dei risultati delle indagini arche- ologiche compiute. Gli atti notarili alludono a una realtà urbanistica tripartita, ricorrendo all’uso, anche contestuale, dei termini castrum (definito pure arx), cassarum e burgus (il “burgus ipsius castri de Rocha”). Correlativamente, l’articolazione topografica riconosciuta attraverso le indagini di scavo evidenzia un assetto speculare: un insediamento fortificato, nella cui cinta si apriva un’unica porta di accesso, posta sul lato sud-occidentale, al cui interno - sull’area sommitale della rupe racchiusa da una recinzione autonoma - si trovava un settore destina- to a residenza signorile e contrassegnato da architetture più qualificate; infine, fuori delle mura castellane, erano presenti tre agglomerati che comprendevano gli impianti manifatturieri (fig. 1)78. Questi ultimi sono stati interpretati come frutto delle iniziative del comune di Massa, cui si deve l’allestimento di una nuova area produttiva in prossimità di due delle quattro doline circostanti l’abi-

76 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1314 febbraio 15. 77 ASSi, Diplomatico Riformagioni, 1323 settembre 17. 78 L’insediamento medievale cit., in particolare pp. 205, 208. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 35 tato, tramite la costruzione di grandi ambienti utilizzati per lo stoccaggio e la trasformazione del minerale79.

Più specificamente, dalla fine Duecento la documentazione mostra che il tessuto urbanistico del castrum consisteva in strutture residenziali definite domus, in casalini, vale a dire lotti edificabili eventualmente occupati da ruderi di edifici, e in terrati, probabilmente costruzioni in edilizia povera, a testimo- niare nel complesso che lo spazio incastellato non era urbanizzato al punto di raggiungere densità abitative paragonabili a quelle urbane80. In mancanza di fonti di inquadramento demografico, non è possibile azzardare una stima attendibile della popolazione presente a Rocchette, che, a giudicare dall’estensione della superficie interna alla cinta muraria, doveva essere piuttosto contenuta. L’area racchiusa dalle mura, infatti, non raggiun- geva i 2.500 mq81, occupando una superficie inferiore alla metà rispetto a quella del vicino castello di Cugnano, per il quale si è stimata una popola- zione di circa 200 abitanti nel primo quarto del Duecento82. Inoltre, come nella generalità dei territori maremmani a vocazione mineraria, per i secoli XII-XIV non emergono indizi archeologici o documentari di un apprezzabile insediamento sparso. Infatti, non costituisce una testimonianza in tal senso la vendita del 1301 di metà pro indiviso “totius poderis quod fuit Gherardi de Fosinis quondam domini Guidi”, le cui pertinenze erano ubicate “ubicunque sit vel esset in dicto castro et eius territorio et districtu”, poiché la porzione residenziale di questo complesso gestionale (podere) era con ogni probabilità collocata all’interno del castello83. Prendendo in considerazione anche la presenza di edifici esterni alle

79 Sulle trasformazioni urbanistiche del centro durante l’egemonia massetana, anche in rela- zione all’attività minerarira cfr. M. Belli, F. Grassi, Castello di Rocchette Pannocchieschi (Massa Marittima, GR), in Archeologia dei paesaggi medievali. Relazione progetto (2000-2004), s.e., a c. di R. Francovich, M. Valenti, Siena, 2005, pp. 120-127, in particolare pp. 126-127. Riguardo la datazione archeologica al XIII secolo del “borgo di nuova costruzione all’esterno delle mura” cfr. L’insediamento medievale cit., p. 76. 80 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1298 dicembre 16. Cfr. anche A. Lisini, Notizie delle miniere, cit., p. 249. ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11. 81 L’insediamento medievale cit., in particolare pp. 202, 205. 82 L’insediamento medievale cit., in particolare p. 208. 83 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 16; cfr. anche ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [cas. 1153]. 36 Roberto Farinelli mura, sulla base delle indagini archeologiche la superficie urbanizzata com- plessiva dell’abitato di Rocchette è stata valutata in 5800 mq84: questo dato ci induce a ipotizzare la presenza di una popolazione massima compresa tra le 100 e le 150 unità, elemento che consente di includere Rocchette tra i castelli bassomedievali meno popolosi della regione85. Altre testimonianze documentarie concorrono a confermare l’ipotesi di un modesto peso demico del castello desunto dalla valutazione delle sue dimensioni. Ad esempio, nel 1301 la cessione dei diritti vantati da Pannocchia del fu Gugliel- mo riguardò il “podere et tenimentum” che era appartenuto a Nieri Capciadoris, nonché i diritti sui villani Guido de Fabris e Tollo, entrambi concessionari di poderi et tenimenta e pertanto impegnati a corrispondere “servitia realia et per- sonalia”86. I tre poderi complessivi, identificabili come mansi castrensi inclusi nel patrimonio di Pannocchia, corrispondevano approssimativamente a un do- dicesimo di tutti i poderi presenti a Rocchette, poiché la quota di diritti signorili vantati all’epoca da Pannocchia sul castello consisteva appunto in un dodicesimo. Da tali dati, pertanto, si potrebbe inferire che alla fine del XIII secolo in Roc- chette avessero la propria residenza approssimativamente 36 famiglie contadine. Numeri simili, benché ancor più circoscritti, emergono dalla valutazione di un documento coevo relativo a un’analoga cessione da parte di “Bindinus quondam domini Bonifatii de Travali”, il quale contestualmente all’alienazione di 1/18 dei diritti signorili su Rocchette, trasmise anche un terzo delle prerogrative sui villani Neruccio, Pucciarello e su “Checta quondam Martini, olim de Travali”, oltre a quelli sul podere che un tempo possedeva Rosso del fu Giunta87. Sotto il profilo topografico, dalla lettura dei documenti d’archivio emerge che al castrum era pertinente una cappella intitolata a s. Andrea - i cui resti non

84 L’insediamento medievale cit., p. 202. 85 Per alcuni termini di riferimento si rimanda a R. Farinelli, F. Olivelli, La rank size rule e il popolamento medievale nella Toscana meridionale, in Geografie del popolamento. Casi di studio, me- todi, teorie, a c. di G. Macchi Janica, Siena, Edizioni dell’università, 2009, pp. 167-178; R. Farinelli, M. Ginatempo, I centri minori della Toscana senese e grossetana in I centri minori della Toscana nel Medioevo, atti del Convegno internazionale di studi (Figline Valdarno, 23-24 ottobre 2009), a c. di P. Pirillo, G. Pinto, Firenze, Leo S. Olschki Editore, pp. 137-197. 86 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11. 87 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11. L’atto lascia intendere che 1/6 delle prerogative sul castello, di cui un terzo era nella disponibilità di Bindino di Bonifazio, corrispon- dessero al controllo su quattro mansi castellani, alludendo alla residenza nel castello di 24 famiglie contadine in tutto. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 37 sono stati individuati durante gli scavi - e che all’interno del cassero, dotato di un suo accesso specifico, trovava spazio unpalatium 88: infatti, un atto di immissione nel possesso si realizzò mediante la “investitio de ianuis castri, et cassari dicte terre, et de ianuis palatii dicti cassari”89. Se identifichiamo questo palatium con le strutture denominate dagli archeologi “edificio A”90, possiamo anche riferire al medesimo una sua menzione nei termini di domus, contenuta nell’atto mediante il quale i Pannocchieschi da Travale, Gaddo e Bonifacio - dopo aver acquisito, ap- punto, alcune quote del palatium - alienarono al comune cittadino “unam eorum propriam domum, positam in cassero dicti castri, iuxta portam, cui a primo via a secundo est porta dicti cassari”91. La lettura del complesso documentario, co- munque, induce a ritenere che anche altre strutture incluse entro la cinta di questo cassarum avessero potuto costituire altrettante potenziali residenze per esponenti dei diversi lignaggi che esercitavano la signoria su Rocchette Pannocchieschi. Un indizio in tal senso proviene dalla permuta, mediante la quale nel novembre 1301 Bonifacio e Gaddo, in cambio di diritti sul castello di Gavorrano, ottennero da “Panochia quondam Guilielmi de Travali” metà dei diritti sugli immobili e sugli abitanti di Rocchette, ma “excepto suo casalino, sive casulari, quod habet in cas- saro”, nel quale sono forse da riconoscere i ruderi della residenza avita, all’epoca dismessa e destinata per il futuro ad abitazione contadina92.

3. La signoria sul castello e le risorse Le miniere Al termine di questo rapido excursus documentario, possiamo dedicare uno sguardo di sintesi alle clausole contrattuali relative ai diritti di sfruttamento minerario.

88 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1298 dicembre 16. Cfr. anche A. Lisini, Notizie delle miniere, cit., p. 249 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11. ASSi, Diplo- matico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 11 (294). 89 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11. 90 L’insediamento medievale cit., pp. 71-72. 91 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 maggio 16 [L5]; ASSi, Diplomatico Rifor- magioni (Massa), 1302 maggio 21. 92 Dalla permuta venne escluso anche un appezzamento destinato a colture vitivinicole: “ et excepto et exceptato vignali suo quod habet in Mortario, que casalinum et vignale in presenti per- 38 Roberto Farinelli

Non meraviglia, anzitutto, che a tali questioni sia stata dedicata un’atten- zione minore nelle transazioni patrimoniali intrafamiliari, rispetto agli atti di alienazione a favore del comune di Massa. In ogni caso, sono stati distinti con attenzione le miniere esistenti e produttive, rispetto ai teorici diritti di sfrutta- mento sulle ricchezze del sottosuolo presenti, ma non ancora venute alla luce e/o non ancora dotate delle infrastrutture necessarie per il loro sfruttamento93. Si può notare che inizialmente le transazioni menzionano esplicitamente minie- re di argento (argentifodine) e rame (ramarie o heridifodine), con la frequente aggiunta di riferimenti a metalla di qualsiasi altro genere94. Con il trascorrere degli anni, poi, si registra un progressivo incremento nell’elenco delle sostanze soggette a coltivazione mineraria, che di per sé non testimonia la scoperta di nuovi filoni, quanto piuttosto attesta una maggiore articolazione del formulario notarile a cautela di future pretese dell’acquirente. Inoltre, suscitano un certo interesse i casi in cui i redattori degli atti ricorrono all’uso di una terminolo- gia più specificamente mineraria, attenta al tipo di minerale estratto, più che all’enumerazione dei generi di metallo che se ne potevano ricavare. Così, ad esempio, nel 1302 al fianco delle argentifodine e alle miniere “cuiscumque metalli vel vene”, si nominano - per la prima volta a Rocchette - le fodine di coffarum (dalla parola germanica Kupfer), lemma utilizzato nella norma- tiva del comune di Massa per designare il rame greggio, sottoposto o meno all’arrostimento95, nonché le escavazioni di oro, di zolfo, le alumifodine e le aluminifodine96. L’uso di questi ultimi due termini costituisce una attestazione piuttosto risalente dell’interesse manifestato nei confronti dei solfati semplici

mutatione et cambio nullatenus comprehendatur sive intelligantur” (ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11). 93 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 9; ASSi, Diplomatico Riformagio- ni (Massa), 1302 aprile 5 (n. 293) e ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 5 (n. 295). 94 Transazione di diritti “cum argenteriis, ramariis et omnibus metallis” (ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1297 settembre 22); cessione di diritti su “minera cuiscunque metalli” (ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1298 dicembre 16. Cfr. anche A. Lisini, Notizie delle miniere, cit., p. 249; ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11. 95 M. Casella, Lessico, in Ordinamenta super arte fossarum rameriae et argenteriae civitatis Massae, pubblicazione a cura della Regia Deputazione di Storia Patria per la Toscana, con introdu- zione di N. Rodolico, Firenze, F. Le Monnier, 1938, pp. 101-104, consultabile on line in http://www. archeogr.unisi.it/codice/index.php 96 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 11 (294); ASSi, Diplomatico Riforma- gioni (Massa), 1302 maggio 16 [L5]. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 39 e doppi, destinati a molteplici impieghi, principalmente nelle manifatture tes- sile e conciaria. È noto che nelle fonti medievali toscane era frequente l’uso di designare con il nome alumen numerose sostanze con proprietà simili, ma caratterizzate da una diversa composizione chimica97; nella documentazione relativa Rocchette la distinzione terminologica tra alumifodine e aluminifodine è riferibile alla ricerca di questi sali di zolfo, altrimenti denominati alumen e vetriolum, verso i quali si era risvegliato in quegli anni un forte interesse da parte del comune di Massa, anche in relazione alle potenzialità produttive delle antiche discariche delle minere di solfuri misti98.

Per altro verso, l’esame delle clausole aggiunge elementi di interesse a proposito della mancata sovrapposizione tra prerogative signorili e diritti di sfruttamento minerario. Se nell’atto di vendita effettuato nel 1298 da Nello di Inghiramo a Tor- scio di Alderigo non si quantificò la quota di proprietà dei diritti signorili su Rocchette, né tantomeno si precisò se essa comprendesse anche diritti sulla miniera del vicino castello di Cugnano99, questo assetto risulta, invece, chiara- mente da un negozio dell’11 settembre 1306, mediante il quale, dietro richiesta

97 Sulla questione si vedano E. Fiumi, L’utilizzazione dei lagoni, cit., pp. 109-129; G. Occhini, M. Picon, Alun et couperose de la région de Viterbe, in L’alun de Méditerranée, a c. di Ph. Borgard, J.-P. Brun, M. Picon, Napoli-Aix-en-Provence, M. D’Auria Editore, 2005, pp. 119-124; M. Picon, Des aluns naturels aux aluns artificiels et aux aluns de synthèse: matières premières, gisements et procédés, in L’alun de Méditerranée, cit., pp. 13-38; M. Picon, La préparation de l’alun à partir de l’alunite aux époques antiques et médiévales, in Arts du feu et productions artisanales. XXe rencontres internatio- nales d’archéologie et d’histoire d’Antibes, a c. di P. Pétrequin, P. Fluzin, J. Thiriot, P. Benoît, Antibes, Éditions APDCA, 2000, pp. 519-530. Per alcuni aggiornamenti relativi al territorio di Massa Marittima si vedano i contributi editi in L’exploitation de l’alun en Maremme (XVe-XVIe siècles) “Mélanges de l’école française de Rome: moyen-âge”, 121-1. 98 Sostiene tale interpretazione il dettato di una norma coeva inserita nello statuto del comune di Massa concernente le risorse minerarie presenti nel comprensorio di Monterondo - prossimo a quello di Rocchette -, che tra le sostanze su cui il comune cittadino rivendicava una privativa menziona “alu- men et sulfur, vitriolum et argenteria” (Ordinamenta super arte, cit., distinzione V, rubrica XLVI, p. 100; sullo statuto massetano cfr. da ultimo R. Farinelli, G. Santinucci Introduzione agli atti in I codici minerari nell’Europa preindustriale: archeologia e storia, a c. di R. Farinelli, G. Santinucci (Bibliote- ca del Dipartimento di archeologia e storia delle arti – sezione archeologica Università di Siena; 19), Sesto Fiorentino (Fi), All’Insegna del Giglio, 2014, pp. 11-13). 99 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1298 dicembre 16. Cfr. anche A. Lisini, Notizie delle miniere, cit., p. 249 40 Roberto Farinelli del comune di Massa Marittima, dominus Nellus quondam Inghirami de Petra domus Pannocchiensium cedette formalmente al comune cittadino “omnia iura et actiones reales et personales utiles et directas tacitas et espressas et mistas pingnoris et ypothece et omnes alias que et quas habet predictus dominus Nel- lus et habere videtur et usque sibi competunt et competere possunt pro dicta duodecima parte dicti castri Rocchette in castro curte iurisdictione et argenteria de Cungnano”, integrando in tal modo la cessione del dicembre del 1298100. Abbiamo in altra sede segnalato la singolare circostanza, per cui i de- tentori di diritti signorili su Rocchette esercitavano anche prerogrative sullo sfruttamento minerario di giacimenti situati nel territorio del limitrofo castello di Cugnano, senza rivendicare quote di dominatus loci su di esso101. La testi- monianza più risalente di questo assetto patrimoniale è contenuta nella vendita effettuata al comune cittadino dal fratello di Nello da Pietra, Mangiante del fu Inghiramo, che nel 1301 cedette un dodicesimo di Rocchette, comprendendo nella vendita anche la “ratio sive ius quod habet in argenteria de Cugnano” e descrivendola come il complesso di diritti vantati “quacumque causa vel iure, de iure vel de facto, in suprascripta argenteria de Cugnano”102. In modo del tutto analogo, l’anno successivo il magnate senese “Galleta quondam Iacopi de Forteguerris” cedette a Pannocchia del fu Guglielmo “de Travali, de domo Pannocchiensium”, che a sua volta lo avrebbe trasmesso al comune di Massa Marittima, un dodicesimo della signoria sul castello di Rocchette, unitamente alla porzione pertinente “ad dictam duodecimam partem totius argenterie, ra- merie et cuiscunque alterius metalli, que est et in antea apparebit in dicto ca- stro Cungnani et eius territorio et districtus”103. Espressioni equivalenti vennero utilizzate in una coeva cessione al medesimo comune di consistenti quote di signoria su Rocchette, in associazione “cum parte, sive partibus, argenterie et ramerie et alterius cuiuscumque metalli, pertinenti ad dictam partem in monte, iurisdicione et districu Cungnani et in ipso castro Cungnani”104.

100 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1306 settembre 9. 101 R. Farinelli, Il castello di Cugnano, cit., p. 15. 102 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 16; cfr. anche ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), prima metà del secolo XIV [cas. 1153]. 103 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 aprile 5 (n. 293) e ASSi, Diplomatico Rifor- magioni (Massa), 1302 aprile 5 (n. 295). 104 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1302 maggio 16 [L5]. Cfr. anche ASSi, Diploma- tico Riformagioni (Massa), 1302 maggio 21. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 41

In altri casi, del resto, la documentazione relativa a Rocchette testimonia la mancata coincidenza tra l’entità delle porzioni di proprietà del castello e le quote di diritti sullo sfruttamento minerario; infatti, nel novembre 1301 Bonifa- cio e Gaddo acquistarono da “Panochia quondam Guilielmi de Travali” alcune prerogative su Rocchette Pannocchieschi, tra cui “de duodecim partibus unam partem totius iuridicionis et signorie dicti castri et arcis et de vigintiquactuor partibus unam partem totius argenterie sive ramerie dicti castri et arcis”105. Questa dissimmetria può essere interpretata come il risultato di assetti patrimoniali di diversa natura, che hanno tratto origine sia dall’articolazione dei poteri signorili sui centri castrensi, sia dall’entità dell’impegno nello sfrut- tamento economico delle risorse minerarie profuso dai soggetti coinvolti, che non sempre risultano coincidenti con i primi. Del resto, tale peculiare stato di cose, in base al quale i diritti minerari non coincidono con quelli esercitati dai domini castri, non appare isolato, ma trova confronti con il caso delle miniere menzionate nelle spartizioni patri- moniali effettuate nell’ultimo quarto del Duecento tra i due rami della fami- glia Aldobrandeschi, vale a dire i conti di Sovana e i conti di Santa Fiora; in questo caso la dissimetria tra il dominatus loci e l’esercizio di prerogrative sullo sfruttamento minerario è stata ricondotta alla connotazione fiscale di queste ultime106.

L’allevamento transumante Alcune testimonianze risalenti ai primi anni del Trecento mostrano come il comune cittadino si adoperasse nell’impresa di ripopolare Rocchette, im- primendo al piccolo centro profonde trasformazioni a causa dello sviluppo di quartieri extramurari e della costruzione di nuovi edifici interni alle mura107. Una vicenda specifica, occasionata dal sequestro di bestiame effettuato dagli abitanti di Rocchette ai danni del cittadino fiorentino Lapuccio di Sassino, ha

105 ASSi, Diplomatico Riformagioni (Massa), 1301 novembre 11 (cfr. anche Porte 1833, p. 45). In questo caso, la cessione di 1/24 anziché di 1/12 fu legata alla volontà delle parti, secondo cui Pannocchia alienò 1/12 dei diritti signorili ma soltanto una metà pro indiviso di altri diritti vantati su Rocchette, ivi compresi quelli sulle minere cuiuscumque metalli. 106 S. M. Collavini, “Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus”: gli Aldobrandeschi da conti a “principi territoriali” (secoli IX-XIII), Pisa, ETS, 1998, pp. 538-541. 107 L’insediamento medievale cit. 42 Roberto Farinelli determinato la produzione di diversi atti giudiziari, che ci consentono di apri- re qualche spiraglio su alcuni aspetti socio-economici della comunità locale all’indomani dell’acquisto del castello da parte del comune maremmano. Nella documentazione trasmessaci dal comune di Massa Marittima e oggi confluita nel fondo Capitoli dell’Archivio di Stato di Siena è conservata, infatti, copia di una memoria non datata ma collocabile attorno al 1312. Tale atto venne depositato dinanzi a “Raynerius condam ser Iacobi notarii de Travali” - che agiva in qualità di “notarius et assessor comunis Travalis” - dal menzionato Lapuccius Sassini, che si professava cittadino di Firenze, come il proprio padre e i propri antecessores108. La memoria in questione era diretta contro il comu- ne di Massa, rappresentato in giudizio dal notaio Tura, e attraverso di essa si avanzavano alcune accuse relative a una razzia di bestiame che sarebbe stata perpetrata nel settembre precedente, ai danni dello stesso Lapuccio. Secondo il testo di parte, Lapuccio di Sassino stava percorrendo la curia castri Rochette e conduceva, “per stratam publicam et consuetam”, quasi duecento “inter por- cos et troias”, quando una decina di abitanti di Rocchette, guidati dal cittadino massetano “Guccius Curbafuore […], castellanus in dicto castro Rochette pro comuni civitatis prefate”, assieme ad altri complici, avrebbe razziato la mandria di Lapuccio, conducendo 194 suini nel castrum de Rochetta. Il locus “ubi dicta robaria […] facta fuit”, compreso nella curia del castello di Rocchette, era per pubblica fama ritenuto “in comitatu et infra comitatum sive districtum civitatis Massane” e pertanto il derubato chiamò in causa le autorità comunali masse- tane per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Secondo la dichiarazione di Lapuccio, il valore venale della mandria superava i duecento fiorini d’oro, men- tre la razzia aveva determinato ulteriori danni quantificabili in oltre cento lire. Alla fine del febbraio seguente, il comune di Firenze aveva già inviato alcune lettere a quello di Massa per ottenere la restituzione del maltolto e il risarci- mento delle perdite patite da Lapuccio, che a sua volta aveva nominato proprio procuratore tale Vannuccio di Venturuccio per richiedere al comune massetano il risarcimento. Il 27 febbraio il notaio Ranieri da Travale, su richiesta di dominus Cor- tonese, “offitialis Universitatis Mercatorum civitatis Florentie”, invitò i rappre- sentanti del comune massetano a comparire nella curia di Travale per assistere

108 ASSi, Capitoli 11, ins. 5. Il caso di Rocchette Pannocchieschi 43 alle deposizioni giurate dei testi prodotti da Lapuccio “contra dictum comune Masse”. Il giorno successivo, Lapuccio, costituitosi dinanzi a Ranieri, nella curia del comune di Travale, produsse le testimonianze di uomini originari di Monticiano (Meucius de Cardini, Mucinus Landucii, Sozzus Iannini, Baldellus Iacobini), (Manninus, Finuccius), Volterra (Bartalinus, Loctus), Travale (Cerrectus, Fazinus), Siena (Nerius Bachi), Cappiano (Chele), e, infi- ne, di Ragnopoli/Ragginopoli(?) (Finuccio). Ai testimoni prodotti da Lapuccio, l’assessor Ranieri aveva inviato una citazione attraverso il nunzio comunale e costoro in effetti comparvero dinanzi a lui e al medesimo Lapuccio, mentre il rappresentante del comune di Massa, pur citato a norma di legge, non si presen- tò dinanzi al tribunale. L’escussione dei testi portò alla luce molte informazioni che presentano un qualche interesse generale riguardo l’assetto socio-economico del compren- sorio di Rocchette durante primi anni della dominazione massetana. Manninus da Montalcinello raccontò che stava percorrendo assieme ai propri soci la stra- ta tra Rocchette e Gerfalco, quando giunto “in loco qui vocatur Le Pruneta vel Prunicio” sentì Lapuccio urlare „acore homo“ e vide degli uomini armati deru- barlo dei porci per condurli entro il castello di Rocchette. La sua dichiarazione giurata riguardò anche le identità di tre autori della razzia, vale a dire Chele, Binarello e Corso “de Ombrenna”, che furono riconosciuti come abitanti del castello massetano, in quanto per anni erano stati visti “cum eorum familiis sta- re et habitare in dicto castro Rochette et respondere et obedire castellano dicti castri pro comuni Masse tamquam castellani dicti castri”, benché, come emerge anche da altre testimonianze, i tre fossero originari della località di Brenna, posta nella curia del castello di Fosini. Gli altri testimoni prestarono testimo- nianze del tutto analoghe, aggiungendo qualche precisazione, come - ad esem- pio - quella del senese Nerius Bachi, che puntualizzò di non aver visto portare la mandria dentro al castello, dal momento che fu semplicemente condotta “ad ianuam dicti castri” per venire custodita, verosimilmente, in un recinto esterno alle mura. Informazioni di questo genere non sono isolate nel corso del secolo XIV, come conferma una testimonianza risalente all’anno 1378 a proposito della pre- senza di settanta vacche “ne’ tereno dela Rocha, contado di Massa”, apparte- nenti a Nieri di Cino da Gefalcho109. Ne risulta, dunque, il carattere pastorale

109 ASSi, Capitoli 11, ins. 31. 44 Roberto Farinelli dell’economia locale110, che si accentuò a partire dalla metà del secolo, a causa sia della crisi demografica seguita alla Peste Nera sia della contrazione della produzione metallurgica111. Intorno agli anni Settanta del Trecento, del resto, a giudicare dai risultati delle indagini di scavo, l’abitato godeva ancora di una certa prosperità, mentre il suo definitivo spopolamento si verificò nel corso del primo Quattrocento112.

Roberto Farinelli

110 Notizie sulla vendita dei paschi di Rocchette durante i primi decenni del Trecento si traggono anche da ASSi, Capitoli 11, ins. 32. 111 Sulla crisi delle produzioni minerarie verificatisi nel territorio senese durante il secondo Tre- cento, sino ad una parziale ripresa nel pieno quattrocento si vedano A. Lisini, Notizie delle miniere, cit., Balestracci D., 1984, Alcune considerazioni su miniere e minatori nella società Toscana del Tardo Medioevo, in Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, a c. di I. Tognarini, Firenze, Polistampa, pp. 19-35; Piccinni G., 1999, Le miniere del senese alla fine del medioevo. Contributo alla messa a punto della cronologia dell’abbandono e della ripresa delle attività estrattive, in La Toscane et les Toscans autour de la Renaissance. Cadres de vie, société, croyances, Mélanges offerts à Charles-M. de La Roncière, Aix-en Provence, Publ. de l’Univ. de Provence, pp. 239-254; D. Boisseuil, Regeste de concessions minières de la République de Sienne à la Renaissance), in Honos alit artes Studi per il settantesimo compleanno di Mario Ascheri, a c. di P. Maffei e G. M. Varanini, Firenze, FUP (Firenze University Press), 2014, II, pp. 161-170. 112 L’insediamento medievale cit., pp. 80-84, 88-89. Una visita pastorale del 1443 descrive la chiesa di S. Andrea di Rocca come ubicata “in loco deserto et dishabitato et totaliter destructa”, precisando che il suo eventuale patrimonio era all’epoca occupato da comune di Massa, che “pasqua eiusdem vendit inter alia dicti comunis pasqua” (S. Mori, Pievi della diocesi volterrana antica dalle origini alla visita Apostolica 1576, “Rassegna Volterrana”, LXIII-LXIV (1987-88), pp. 163-188; LX- VII (1991), pp. 3-123; LXVIII (1992), pp. 3-107, in particolare 1991, nn. 14. 3, 14. 8). Il caso di Rocchette Pannocchieschi 45

Fig. 1. Il castello di Rocchette all’inizio del Trecento – Ricostruzione grafica Studio In- klink tratto da Guida alla Maremma medievale. Itinerari di archeologia nella provincia di Grosseto, a c. di R. Farinelli, R. Francovich, nuova edizione riveduta e aggiornata, Siena, Nuova Immagine, 2013. LA LUPA E IL BISCIONE CONSIDERAZIONI SULLA DOMINAZIONE VISCONTEA SU SIENA ALL’EPOCA DI GIAN GALEAZZO VISCONTI

Siena ed il suo contesto nella seconda metà del Trecento La conquista di Siena da parte di Gian Galeazzo Visconti non avvenne attraverso i tempi fulminei dell’azione militare, bensì fu il frutto di un lento ma costante accrescimento dell’ingerenza del Conte di Virtù nella vita politica ed economica senese. Al fine di comprendere le motivazioni di questa scelta da parte dei senesi è necessario partire dal contesto storico in cui avvenne il ridimensionamento delle ambizioni comunali. Le radici degli eventi accaduti nel periodo storico, oggetto di esame, risalgono alla fine del ‘300. I fattori che influenzano gli accadimenti sono strettamente connessi al pe- riodo immediatamente precedente: le frequenti epidemie di peste, le carestie, la contrazione demografica sono solo alcune delle cause della crisi profonda che attraversano il continente europeo e il territorio italiano1. Vi sono vari livelli da analizzare e molteplici forze che minano la stabilità dello stato senese: indubbiamente la presenza di elementi di destabilizzazione interna, ancor più delle ingerenze esterne, producono rilevanti conseguenze e influenzano pesantemente le scelte dei governanti di Siena. L’agenda politica è dettata dalle crisi e da una quantità di problemi così grande da sembrare insormontabile: è in questo clima di incertezza e stanchez- za che Siena rinuncia alla propria libertas. Le scelte dei senesi sono dettate dalle necessità incombenti che a più riprese assumono i tratti dell’emergenza vera e propria. Possiamo collocare l’atto di annessione dello stato senese del 1399 come il punto di arrivo di un percorso di “aggregazione” iniziato almeno un quindi- cennio prima, ovvero all’epoca delle leghe militari volte a contrastare le scor- ribande delle compagnie di ventura. Da questa “testa di ponte” diplomatica

1 G. Cherubini, La Crisi del Trecento. Bilanci e prospettive di una ricerca, “Studi Storici”, anno 15, No. 3, 1974, pp.660-664.

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 47 il Visconti riuscì a insinuarsi nella vita politica delle città finendo quindi per rendere molti comuni complici del suo grande progetto di edificazione statale. Siena non è certo la sola ad intraprendere un percorso simile: Pisa, Perugia, Lucca per citarne alcune geograficamente contigue, città diverse ma- acco munate nelle afflizioni, nei mali che caratterizzano la seconda metà del XIV secolo. Non vi sono solo le epidemie, che appaiono come indubbiamente il fenomeno più vistoso della crisi, ma vi sono altri fenomeni più sfuggevoli ad un primo sguardo. La crisi del ‘300 è a tutti gli effetti crisi di sistema, la crisi di quel mondo duecentesco in espansione e di cui i comuni italiani costituiscono il risultato più avanzato nell’intero panorama europeo. Gli stessi comuni che animano la vita politica e militare italiana e le cui lotte e fazioni hanno caratterizzato tutto il XIII secolo, adesso, in molti casi, decidono spontaneamente di confluire all’in- terno di un dominio più ampio: scelgono di diventare una città tra altre città tutte pari nella subalternità ad un signore dominante. Che ne è di tutta la retorica propagandistica comunale? Che ne è di tutto l’orgoglio municipalistico? La risposta è da ricercare nei mutamenti del tempo, cambiamenti che col- piscono tutti indiscriminatamente ma che provocano risposte differenti date le condizioni politiche diversificate in cui veniva a trovarsi l’Italia2. Mentre per alcuni comuni la crisi costituisce la fine della fase espansiva, per altri si tramuta in trampolino di lancio. Può apparire banale, ma la crisi trac- ciò un solco ben preciso delineando nuovi equilibri, nuove economie: alcune città italiane emersero quali entità regionali altre furono declassate a città di secondo piano come Siena. Firenze, Milano e Venezia sono gli esempi migliori di queste evoluzioni, perché nel corso del XIV secolo gettano le basi per la costruzione dei rispettivi stati regionali superando quindi il frazionamento territoriale3. In realtà, i milanesi, sono i primi a realizzare il proprio stato-regionale, il conferimento del titolo ducale non fece che ufficializzare una situazione già in essere. È questa, forse, la causa in definitiva, della politica - chiamiamola così - “muscolare” condotta dai milanesi.

2 M. Ginatempo, Dietro un’eclissi: considerazioni su alcune città minori dell’Italia centrale, in Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo, Atti del XIII Convegno Internazionale di Studi, (Pistoia, 10-13 Maggio 1991), Pistoia, 1993, p.39-41. 3 Per un panorama politico italiano durante gli anni in questione: R. Romano, L’Europa tra due crisi, Torino, Einaudi, 1980. 48 Laerte Mulinacci

Milano si trova alla testa di un dominio dai connotati regionali, un domi- nio che racchiude tra i suoi confini un territorio in piena espansione economica nonostante la crisi generale. La disinvoltura con cui i Visconti intraprendono molti conflitti non esclude tuttavia il ricorso all’arte della diplomazia, anzi sia Bernabò sia Gian Galeazzo si dimostreranno ben più pragmatici quando stabi- liscono le proprie relazioni con Venezia. Venezia è una realtà italiana imprescindibile, non può essere rimossa ed il suo assoggettamento è pura utopia, la città lagunare ha già da tempo iniziato l’avanzata verso l’entroterra veneto, ma, nonostante i contrasti tra la Serenis- sima e i Visconti sul controllo di Padova e Verona, possiamo affermare che le due potenze si accordarono per la non belligeranza e una spartizione delle rispettive aree d’influenza. La politica del compromesso appare evidente anche quando, nonostante entrambe le città venete siano in mano ai milanesi, questi ultimi rinunciano a Padova che tornerà nell’orbita veneziana al contrario di Verona che resterà ai Visconti. È verso Sud, verso la Toscana e l’Emilia, entrambe ancora frazionate in tanti potentati locali, che si concentrano le attenzioni dei milanesi. La Toscana inoltre ricopre un ruolo strategico fondamentale, è proprio qui che si erge la quarta delle grandi potenze italiane: Firenze, forse l’unica delle quattro grandi che può essere assoggettata. Nonostante le pestilenze e il fallimento di alcuni suoi grandi banchieri l’impetuosa crescita economica fiorentina di metà Trecento permette alla città di intraprendere una politica espansionistica e di sostenerne le numerose guer- re4. È proprio in questo periodo che la signoria fiorentina stabilisce e consolida

4 Della ricca bibliografia inerente l’espansione economica e territoriale fiorentina nella seconda metà del XIV secolo segnalo: R.Barducci, Politica e speculazione finanziaria a Firenze dopo la crisi del primo Trecento (1343-1358), “Archivio Storico Italiano”, 137, 1979, pp.177-219; G. Brucker, Florentine Politics and Society 1343-1378, Princeton, Princeton University Press, 1962; E. Fiumi, Fio- ritura e decadenza dell’economia fiorentina, “Archivio Storico Italiano”, n.115, 1957 e n. 116, 1958 , pp.443 - 510; P. Jones, Economica e società nell’Italia medievale, Torino, Einaudi, 1980; F. Fran- ceschi, Oltre il tumulto:i lavoratori fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Firenze, Olschki, 1993; H. Hoshino, L’arte della lana in Firenze nel Basso Medioevo. Il commercio e il mercato dei panni fiorentini nei secoli XIII-XV, Firenze, Olschki, 1980; F. Melis, Industria e commercio nella Toscana medievale, Bagno a Ripoli, Le Monnier, 1989; J. Najemy, Storia di Firenze: 1200-1575, Tori- no, Einaudi, 2014; G. Petralia, Lo sviluppo dell’economia toscana medievale, in E. Fasano Guarini, G. Petralia, P. Pezzino (a cura di) Storia della Toscana. Dalle origini al Settecento, Roma-Bari, Later- za, 2004 pp. 116-132, I; Y. Renouard, Storia di Firenze, Parigi, Sandron, 1970. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 49 il suo primato regionale. Tuttavia, durante la seconda metà secolo, l’ascesa fio- rentina è rallentata dall’antagonismo5 con la Milano viscontea6, in particolare durante il governo di Gian Galeazzo7. Siamo quindi di fronte alla conflittuali- tà di due espansionismi convergenti? Certamente sì, ma i milanesi coltivano ambizioni sovra-regionali e costituiscono di fatto la più irruenta delle grandi potenze italiane, mentre i fiorentini sono ancora impegnati nell’imporsi sulle rivali di sempre: Pisa e Siena. I pisani ormai temono inequivocabilmente per la loro indipendenza8, mentre i senesi assistono impotenti a un’interminabile serie di incursioni9 e all’erosione della propria autorità nel contado: entrambe scivolano nell’or- bita lombarda nel disperato tentativo di arginare Firenze10. Infine vi è

5 Sulla rivalità tra Firenze e Milano si veda: G. Collino, Politica Fiorentino-Bolognese dall’av- vento del principato del Conte di Virtù alle sue prime guerre di conquista, in Estratto dalle Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino, Vol.II, Torino, Clausen Editore, 1904, pp.368-380; F. Landogna, La politica dei Visconti in Toscana, “Bollettino della Società Pavese di Storia Patria”, vol. XXVIII, fasc. 3, 1928, pp. 150-184. 6 Sull’espansionismo lombardo nel Trecento: G. Chittolini, L. Antonelli, (a cura di) Storia della Lombardia. Dalle origini al Seicento, Roma-Bari, Laterza, 2001; G. Giulini, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e campagna di Milano ne’ secoli bassi, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1973,V; L. Frati, La guerra di Giangaleazzo Visconti contro Mantova nel 1397, “Archivio Storico Lombardo”, XIV (1887) pp.241-277; D. Pizzagalli, Bernabò Visconti, Milano, Ru- sconi, 1994; G. Seregni, Un disegno federale di Bernabò Visconti, “Archivio Storico Lombardo”, Serie 4,Vol. 16, Fascicolo 31, 1911 pp. 172-184. 7 Sulla vita, la carriera politica e la storia di Milano durante il suo regno: D.M. Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti. Duke of Milan (1351-1402), A Study in the Political Career of an Italian Despot, Cambridge, Cambridge University Press, 2011. 8 Per la storia di Pisa e l’avvento della signoria viscontea: O. Banti, Iacopo d’Appiano: eco- nomia, società e politica del Comune di Pisa al suo tramonto (1392-1399), Pisa,Il Telegrafo, 1971; G. Benvenuti, Storia della Repubblica di Pisa, Pisa, Giardini, 1982; F. Landogna, Le relazioni tra Bernabò Visconti e Pisa nella seconda metà del secolo XIV, “Archivio Storico Lombardo”, V, 1923, pp. 136-143; G. Scaramella, Nuove ricerche sulla dominazione viscontea in Pisa, “Bollettino della Società pavese di storia patria”, XIV, 1914, pp. 13-24; P. Silva, Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa e le sue relazioni col resto della Toscana e coi Visconti, Pisa, Nistri, 1911; M. Tangheroni, Pisa e il Mediterraneo: uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici, Milano, Skira, 2003; sempre dello stesso autore: Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel Trecento, Pisa, Edizioni Plus,2002; C. Violante, Economia, società e istituzioni a Pisa nel Medioevo, Bari, Dedalo Libri, 1980. 9 Sugli eserciti di professione in Toscana e gli eserciti fiorentini:W. Caferro, Mercenary Com- panies and the Decline of Siena, Baltimora Maryland, John Hopkins University Press, 1998; D.P. Waley, The army of the Florentine Republic from the Twelfth to the Fourteenth Century, in N. Ru- binstein (a cura di) Florentine Studies, Politics, and Society in Reinessance Forence, Evaston Illinois, Northwestern University Press, 1968 pp.72-80. 10 Violante, Economia, società, istituzioni cit., pp.159-199. 50 Laerte Mulinacci

Lucca11, la cui alleanza coi milanesi è riconducibile solo a un prudente e ter- giversante pragmatismo. Quello che il Visconti riuscì ad allestire era un vero e proprio protostato, un “regno d’Italia” in nuce, una breve ma significativa espe- rienza politica dell’Italia tardo-medievale la cui dissoluzione è da ricondursi solo all’inaspettata morte del Conte di Virtù. I comuni di fine Trecento sono sottoposti ad una crescente militarizza- zione i cui costi destabilizzano le finanze pubbliche, la soluzione più ovvia è quella di rivolgersi a nuovi interlocutori che possano garantire nuove entrate anche a costo di depauperare l’autonomia e l’indipendenza del comune stes- so. A rendere più caotico il quadro complessivo vi è l’attività degli eserciti di professione, i quali sono destinati ad avere un ruolo attivo nelle trasformazioni delle società comunali in primis per gli enormi costi: ingaggi, riscatti e danni collaterali ma anche per la loro conclamata inaffidabilità e l’elevato personali- smo dei suoi condottieri. Le guerre e la crisi contribuiscono inoltre ad acuire la deriva in senso signorile dei governi comunali, una tendenza questa che inizia a divenire evidente negli ultimi decenni del Trecento. La vita politica comunale12 ne risulta quindi stravolta e completamente condizionata dal grande scontro tra il Conte di Virtù ed i suoi oppositori. Uno scontro non solo materiale ma anche ideologico e propagandistico13. Le scelte dei senesi finirono per ridurre la città ad un soggetto politico controllato da Milano, una condotta quindi che può apparirci scellerata è che appare giustificabile solo al netto della gravità dei tempi. Un atteggiamento molto realpolitik per così dire e che mi riporta alla mente la frase tradizio- nalmente attribuita al patrizio bizantino Luca Notaras, il quale vedendo come l’Impero fosse ormai ridotto al solo scoglio di Costantinopoli in mezzo al mare

11 Per la storia di Lucca: AA.VV., Repubblica, principato e ducato di Lucca, Milano, Ricci, 1995; G. Donati, Lucca al tempo di Paolo Guinigi, Lucca, 2008; F. Giovannini, Storia dello Stato di Lucca, Lucca, Pacini Fazzi, 2003; R. Manselli, La Repubblica di Lucca, Torino, UTET, 1986; P. Men- cacci, La mancata Signoria di Francesco Guinigi: Lucca nella seconda metà del XIV secolo, Lucca, San Marco, 2005. 12 S. Collodo, Governanti e governati. Aspetti dell’esperienza politica nelle città dell’Italia centro-settentrionale, in Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo, Atti del XIII Convegno Internazionale di Studi, (Pistoia, 10-13 Maggio 1991), Pistoia, 1993 pp. 82-90. 13 Si vedano: H. Baron, The crysis of the Early Italian Renaissance Civic humanism and Repu- blican Liberty in an Age of Classicism and Tyranny, Princeton, Princeton University Press, 1966; M. Hörnqvist, The Two Myths of Civic Humanism, in Renaissance Civic Humanism, Cambridge, Cambri- dge University Press, 2000 pp.105-142 ; A. Lanza, Gli intellettuali fiorentini nelle guerre con i Visconti (1390-1440), Anzio, De Rubeis, 1991. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 51 turco14, andava dicendo che “meglio il turbante della tiara latina” che preferisco intendere come un tentativo pragmatico di limitare i danni accettando l’inevi- tabile decorso degli eventi piuttosto che come un’affermazione sciovinista e rancorosa verso i Veneziani e l’Impero Latino. È plausibile pensare che i senesi e tutti gli altri comuni abbiano ragionato nel medesimo modo? Meglio la Biscia del Giglio? La risposta, quasi certamen- te è sì. Resisi conto dell’inevitabilità della perdita dell’indipendenza, essi scel- sero la strada della grandeur milanese, la prospettiva di divenire città di un più vasto regno era senza dubbio più allettante dell’essere sottomessi a Firenze. Indubbiamente il progetto nazionale, avrebbe garantito alle varie città di restare comunque centri territoriali; vi sono prove che già Bernabò avesse de- lineato una struttura federale da dare al Regno d’Italia, nonostante l’uso della forza, i Visconti tessero una ragnatela diplomatica formidabile. Siena era un obiettivo strategico per i milanesi ed il suo assoggettamento richiedeva una certa dose di pazienza e soprattutto l’intervento di una pluralità di fattori che portassero una città traballante alla resa definitiva. La molteplicità dei fattori, le relative interazioni createsi e il loro sommarsi, sono in definitiva le cause della scelta auto-lesionista della rinuncia all’indipen- denza, è questa in definitiva la possibile risposta al quesito: Siena è stata sottopo- sta a un vero e proprio bradisismo lungo un cinquantennio che, investendo ogni settore della vita statale, ne ha provocato il declino e conseguente resa finale, una capitolazione che agli occhi dei senesi dovette sembrare un escamotage decoroso. Quali sono nell’esattezza questi fattori? Sono interni o esterni? In realtà essi sono numerosi ed eterogenei: economici, demografici15, mi- litari, politici. Sostanzialmente appaiono interconnessi tra loro, proprio come molti elementi della crisi generale. Abbiamo appena avuto modo di constatare come l’Italia sia sconvolta da una lunga serie di conflitti che ci aiuta a comprendere come mai i mercenari stranieri acquisiscano un ruolo preponderante nelle guerre italiane, ma perché i mercenari sono così importanti nella storia di Siena?

14 Lo stesso Braudel la descrisse come “Una città isolata, un cuore, rimasto miracolosamente vivo, di un corpo enorme da lungo tempo cadavere”, F. Braudel, L’Italia fuori d’Italia. Due secoli e tre italie, in AA.VV., Storia d’Italia. Dalla Caduta dell’Impero Romano al secolo XVIII, a cura di R.Romano e C.Vivanti, Torino, Einaudi, 1972, vol. II, p. 2103. 15 Per la demografia del territorio senese: M. Ginatempo, Crisi di un territorio. Il popolamento della Toscana senese alla fine del Medioevo, Firenze, Olschki, , 1988. 52 Laerte Mulinacci

Le compagnie di ventura costituiscono una possibile chiave di lettura di tutti gli eventi senesi della seconda metà del ‘30016. È difficile trovare un settore della vita pubblica cittadina che non sia influenzato dalle attività dei mercenari. Non solo la sfera militare ma anche quella economica. Basti pensare che i senesi nel loro Palazzo Pubblico dedicano a questo tema ben due affreschi: uno è il Guido Riccio da Fogliano, che guidò l’esercito senese all’assedio di Monte Massi (1328) e immortalato nell’opera di Simone Martini (1330 circa), l’altro è la “battaglia della Val di Chiana” di Lippo Vanni (dipinto nel 1373) in cui si celebra la vittoria dell’esercito senese sulla Compagnia del Cappello nel 136317. È questa un’altra sintesi del ruolo ambivalente ma primario, esercitato dai mercenari nel Trecento. In definitiva possiamo sostenere che i mercenari, per Siena, abbiano rappresentato una delle principali cause della decadenza dello stato senese: le 37 incursioni nell’arco di mezzo secolo testimoniano che la città era particolarmente esposta a tali attacchi18.

Quante pestilenze19? Quante carestie? Quante incursioni? Un elenco lun- ghissimo con decine di voci per ciascun punto interrogativo, ognuna di queste voci rappresenta un colpo d’ariete alla solidità dell’ edificio statale20. A tal ri- guardo trovo molto esplicativa un’affermazione di Marc Bloch:

“Quando mai il fattore fisico agisce su quello sociale, senza che la sua azione sia preparata, aiutata e permessa da altri fattori, essi sì prodotti dall’uomo? Però, nell’insieme delle cause, quella, senza dubbio, può es- sere annoverata tra le più efficaci”.21

16 Una risorsa preziosa e feconda di notizie riguardanti questi anni sono le cronache, in partico- lare: Donato Di Neri e Neri Di Donato, Cronaca senese di D. di N. e di suo figlio N., a cura di A. Lisini e F. Iacometti, in Rerum Italicarum Scriptores, t. XV, parte VI, Bologna, 1931-1939. 17 M. Civai, Il palazzo Pubblico e il museo civico di Siena, Siena, Editore Betti, 1999. 18 W. Caferro, Mercenary Companies cit., p. 26. 19 Della vasta bibliografia inerente le epidemie segnalo:G.M. Varanini, La peste del 1347-50 e i governi dell’Italia centro-settentrionale: un bilancio, in La peste nera: dati di una realtà ed elementi di un’interpretazione, Atti del XXX convegno storico internazionale, Todi, 1993 pp.285-317., : L. Del Panta, Le Epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), Torino, Loescher, 1980. 20 M. Ascheri, Siena in the Fourteenth Century: State, Territory and Culture,in The “other” : essays in the history of Lucca, Pisa and Siena during the thireent, fourteenth, and fifteenth centuries, Kalamazoo, Western Michigan University, 1994, pp. 158-163. 21 M. Bloch, Apologia della storia, Torino, Einaudi, 1969, p.40. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 53

Viene quindi da rivalutare completamente la solidità di tali apparati in virtù di tutti i colpi che sono stati in grado di reggere, è in questo momento che, credo, sia percepibile la grande forza delle istituzioni comunali italiane e di come, nonostante tutto, in qualche modo siano riuscite a destreggiarsi tra difficoltà insormontabili. La relativa facilità con cui il Conte di Virtù riuscì a imbrigliare le città, non deve costituire un atto di accusa nei confronti dei soggetti che vi aderirono, ma anzi costituisce una conferma degli effetti della congiuntura negativa trecentesca. Questa è la vera novità del secolo: il disastro da evento straordinario, cui segue una ripresa, diviene invece consuetudine, non permettendo in nessun modo la risalita per riprendere fiato. La condizione di perenne emergenza co- stringeva le amministrazioni ad affrontare i problemi del presente senza piani- ficazione di lungo periodo, logorando il tessuto socio-produttivo e paralizzando la vita politica. Come poteva un governo attuare provvedimenti politici se doveva con- tinuamente far fronte a quelle vere e proprie emorragie finanziarie provocate dalle scorribande dei mercenari? Come si poteva mettere mano al tracollo pro- duttivo, senza avere la capacità di stanziare risorse o peggio ancora nel rischio persistente di veder vanificati gli investimenti a causa della guerra? È un vortice impressionante, le crisi, divengono talmente frequenti da indurre le magistra- ture senesi a credere di essere ormai nell’epoca del - disastro ordinario - è questa la chiave di volta di tutta la faccenda, iniziava a farsi strada una genuina e sincera voglia di serenità. È possibile confinare con esattezza le cause all’interno di classificazioni quali motivi economici, politici o militari? La realtà delle cose è molto più fluida, restia ad essere confinata in compartimenti stagni ed ogni problematica presenta continui rimandi ad altre andando a costituire uno scenario composito, dove in definitiva nulla è disconnesso dall’altro.

Una potenza in espansione: la Lombardia dei Visconti Le strategie approntate da Bernabò Visconti nel suo disegno espansio- nistico saranno portate a compimento da Gian Galeazzo che si mosse quindi in continuità secondo quelli che erano piani di lungo corso: i milanesi già da diverso tempo miravano ad estendere la propria influenza sul nord della Tosca- na, in particolare essi intrapresero un percorso di avvicinamento a Pisa le cui difficoltà si facevano sempre più evidenti. Possiamo, infatti, scorgere la longa 54 Laerte Mulinacci manus viscontea dietro tutte le vicende politiche pisane fin dal 1355 anno in cui i milanesi sostengono la fazione dei Raspanti ed il suo principale esponente: Giovanni dell’Agnello. Quando nel 1370 quest’ultimo viene spodestato, si reca a Milano dove sigla un accordo con Bernabò che si impegna a fornire le truppe necessarie a dell’Agnello per rimpossessarsi della città. Sono proprio le ingerenze milanesi su Pisa che pongono Firenze in rotta di collisione22 con i Visconti, ulteriore conferma di come gli assetti geopoliti- ci fossero sostanzialmente identici tra le epoche di Bernabò e Gian Galeazzo; potremmo sostenere che il Conte di Virtù ha proseguito le azioni dello zio, perseguendo gli stessi obiettivi ma avvalendosi di mezzi diversi: Bernabò è marcatamente propenso all’intervento diretto, energico e quindi ad una politica di potenza dichiarata, Gian Galeazzo, al contrario, è più propenso alla diploma- zia ed a una politica espansionistica improntata all’assorbimento progressivo dei territori sotto la propria influenza. I domini viscontei saranno, insomma, un conglomerato facente capo, pezzo per pezzo, a vari esponenti della famiglia. Si tratta quindi di una co-reggenza, nel momento in cui Gian Galeazzo usurpa lo zio si pone a capo di tutti i domini familiari23. Nonostante il colpo di mano, il conte di Virtù dimostrerà una maggiore avvedutezza in campo militare: egli si mosse sempre con una certa cautela, affrontando un avversario alla volta e stan- do attento a non provocare la formazione di più ampie coalizioni che avrebbero potuto muoversi contro di lui24. A favore della politica dei Visconti in Toscana vi è poi la questione squi- sitamente locale recentemente aggravata dall’ascesa di Firenze. Se come visto in precedenza Pisa è già nell’orbita viscontea, da decenni Siena si è mantenuta sostanzialmente estranea alle politiche di Bernabò. Possiamo infatti affermare che è solo dopo la morte di Bernabò che i contatti tra Siena e Milano si fan- no più frequenti, e la spiegazione di ciò è proprio da ricercarsi nei successi della politica fiorentina che con l’acquisto di Arezzo divengono una minaccia incombente sulla Val di Chiana senese. Inoltre è in questi anni che a Siena si assiste ad un vero e proprio precipitare degli eventi. L’instabilità politica, gli insuccessi militari, le razzie delle compagnie di ventura e un autentico dramma finanziario, fanno maturare nei senesi un senso di assoluta impotenza di fronte alle difficoltà.

22 Landogna, Le relazioni tra Bernabò Visconti e Pisa cit., pp. 154-158. 23 Pizzagalli, Bernabò Visconti cit., pp. 22-54. 24 Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti cit., pp. 298-299. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 55

A questa debolezza si aggiunge l’impatto psicologico provocato dai suc- cessi di Gian Galeazzo i quali lo rendono indubbiamente l’uomo politico più potente del suo tempo; dopo la Guerra di Mantova (1396-1398) il suo sogno di forgiare il Regno d’Italia è davvero molto vicino. Anche se gli atti di annes- sione di Pisa, Perugia e Siena avvengono nel biennio successivo, la decisione aleggiava nell’aria ormai da diversi anni, una transizione che avvenne pacifica- mente e senza particolari rimostranze25. Queste città, probabilmente, erano consce della possibilità di questo epi- logo e, fin dal momento in cui si alleano col Conte di Virtù, doveva essere questa una prospettiva meno inaccettabile rispetto al divenire parte del dominio fiorentino (o Pontificio nel caso di Perugia)26. Quando nel 1385 dopo lunghe e travagliate trattative viene finalmente siglata la lega di mutua difesa dalle compagnie mercenarie, infatti, Milano svol- ge un ruolo egemonico e possiamo a maggior ragione ritenere tale strumento diplomatico come la dimostrazione cristallina di chi parteggiasse apertamente con il Visconti. Le vicende politiche (prime fra tutte lo Scisma e la calata in Italia di Carlo di Durazzo) pongono in risalto come il gioco delle alleanze potesse agilmente allargare i conflitti e di quanto in definitiva, gli stati italiani fossero vulnerabili alle sollecitazioni esterne, Bernabò si trovò ad operare in un contesto quanto mai delicato soprattutto perché, nonostante appoggiasse Genova nella Guerra di Chioggia, non voleva alienarsi del tutto la possibilità di un’alleanza con Ve- nezia27. Anche questo rappresenta un altro fattore di continuità tra Bernabò e Gian Galeazzo, la città lagunare (ed i suoi domini in terraferma) non rappresentavano un obiettivo di conquista: sul fronte orientale, i milanesi puntavano ad impa- dronirsi di Padova e Verona ma la Serenissima era sostanzialmente una realtà loro pari, un boccone troppo grosso, per così dire. Una guerra tra Milano e Venezia avrebbe, infatti, prefigurato un conflitto di lungo termine che avrebbe logorato i due stati, senza che, presumibilmente, nessuno riuscisse a prevalere sull’altro, i Visconti (entrambi quelli che prendiamo in analisi) preferirono di gran lunga concentrare le proprie forze con l’obiettivo di impossessarsi di quel- le realtà secondarie a cui ho già accennato, quei territori ridimensionati e posti

25 Frati, La guerra di Giangaleazzo Visconti cit., pp.241-277. 26 D.m. Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti cit., pp.299. 27 Pizzagalli, Bernabò Visconti cit., pp. 44-54. 56 Laerte Mulinacci in secondo piano dagli sconvolgimenti della crisi. Possiamo quindi leggere le politiche espansionistiche di Firenze, Venezia e Milano, ma a suo modo anche del Papato, nell’ottica di una riorganizzazione territoriale. L’arrivo degli eserciti stranieri in Italia era da sempre preceduto dalla paura di saccheggi e razzie, proprio su questa paura voleva far leva Bernabò Visconti per spingere le città italiane ad unirsi in una lega volta alla mutua difesa, non solo contro le compagnie mercenarie ma anche verso gli “estranei venturieri”28. La prima città ad essere insidiata fu dunque Lucca, la più debole tra le libere città toscane, debolezza che divenne anche prassi diplomatica utilizzata con lo scopo di sottrarsi ai conflitti che potessero mettere a repentaglio l’indi- pendenza della città. Lucca in realtà dovette informare Bernabò di aver già si- glato un accordo con Firenze, Perugia, Siena e Perugia, città che condividevano con lei l’intento di combattere i venturieri. Fin qui tutto appare abbastanza lineare, non fosse che la lega quinquen- nale stipulata dalle città toscane non permetteva di siglare altri trattati senza l’assenso delle controparti, per cui Lucca doveva necessariamente informare Firenze delle sue ambascerie con Bernabò Visconti. Firenze dal canto suo, era ancora più incastrata di Milano, da una parte sosteneva l’impresa del principe ungherese mentre dall’altra parteggiava per Clemente VII e quindi con gli angioini, dulcis in fundo nella Guerra di Chioggia propendeva per i Veneziani. Tanti legacci che imbrigliavano tutti gli stati ita- liani, tanti accordi ufficiali che sembrano evanescenti soprattutto se confrontati con l’atteggiamento smaliziato e tornacontista degli stessi firmatari. Tuttavia, nonostante questi ostacoli, per così dire, burocratici, Bernabò non abbandona il disegno di una federazione italiana, anzi cessata la minaccia della Compagnia degli Ungari egli propone la stipula di una lega ancora più audace di quella preventivata nel 1380. Questa volta egli propone una lega di città italiane da contrapporre ai condottieri ma riservandosi la leadership militare, così facendo però si sarebbe riconosciuta a Milano la superiorità rispetto agli altri stati italiani; le trattative si protraggono per diverso tempo, tuttavia Bernabò è un uomo dalla personalità particolare e a volte imprevedibile, e ovviamente i fiorentini non possono ac- cettare di far parte di una lega in cui le parti contraenti sono sottoposte all’egida lombarda, per cui inviano i loro ambasciatori per dichiararsi cordialmente pro-

28 Seregni, Un disegno federale cit., pp. 163. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 57 pensi alla stipula di una lega di città italiane, ma in cui Milano risulti alla pari delle altre città. Bernabò non solo rinuncia alla clausola di divenire “protettore d’Italia”, ma con le sue parole colpisce così tanto gli oratori fiorentini che tornano in Toscana parlando del vivo patriottismo italico e delle intenzioni magnanime di Bernabò contro ogni nemico straniero. Tuttavia l’infatuazione fiorentina per i Visconti ebbe vita breve, anzi brevissima. Non si giunse mai al termine delle trattative, che interrottesi nel 1382 riprenderanno nel 1385, e che, questa volta, Gian Galeazzo porterà avanti sulla base di quanto intrapreso dallo zio, riuscendo a formalizzare la lega nel 9 di ottobre dello stesso anno. Salta subito agli occhi come le parti in causa fossero le medesime che avevano intavolato le trattative con Bernabò: in conclusione l’avvicendamento nella signoria lombarda non aveva alterato lo scacchiere po- litico e tutto proseguiva, ora, all’insegna della continuità. L’atto finale, ovvero la firma del trattato, avverrà a Pisa (non a caso la città toscana più schiettamente in orbita viscontea) e vedrà coinvolti, oltre a quest’ultima e Milano, Lucca, Pe- rugia, Siena, Urbino, Forlì, gli Estensi, i Gonzaga e i Malatesta. Manca Firenze che così sancisce definitivamente la propria contrapposizione ad ogni tentativo milanese di interessarsi degli affari toscani29. I Visconti sognavano un regno indipendente, al contrario Firenze non po- teva che ambire alla formazione di un dominio regionale; partecipando alla formazione di questo stato italiano, pisani e senesi, avrebbero si rinunciato alla loro indipendenza ma in maniera volontaria; sarebbero stati parte di un qualco- sa di nuovo e più grande, una prospettiva meno avvilente dell’asservimento alla rivale di sempre. È la percezione dell’imminenza di questo assoggettamento a influenzare pesantemente le scelte di politica estera delle città toscane, ed è altrettanto significativo che sia proprio Pisa, la città che vive la situazione più precaria, a concedersi più rapidamente al signore straniero. Tuttavia colgo una differenza fondamentale tra il caso pisano ed il caso senese, perché per Pisa l’assoggettamento a Firenze avverrà quasi contempo- raneamente allo sfaldamento del dominio visconteo, il che ci induce a ricon- siderare la politica prudente e tergiversante di Pietro Gambacorta30. Siena al contrario, una volta recuperata la propria sovranità (dopo la morte di Gian Ga-

29 Seregni, Un disegno federale, pp. 165-182. 30 Riguardo le vicende di Pisa e del governo di Pietro Gambacorta, Silva, Il governo di Pietro Gambacorta cit. 58 Laerte Mulinacci leazzo), riuscirà a ristabilire la propria indipendenza e a difenderla per un seco- lo e mezzo, tra l’altro vivendo durante il ‘500 una certa ripresa sia demografica sia economica. Pisa nella seconda metà del XIV secolo è una città esaurita, la sua parabola è già marcatamente discendente e le pestilenze rappresentano solo il colpo di grazia, la città non controlla che un contado ristretto di aree limitrofe e, quel che è peggio, ormai è del tutto privata di ogni ambizione marinaresca e mercantile. Infine nel 1365, con un decreto imperiale, Lucca viene affrancata dal ventennale dominio pisano, togliendo così, a quest’ultima il più importante dei suoi possedimenti. Per quanto riguarda Lucca le circostanze sono diverse: la città occupa una posizione geograficamente particolare nello scenario toscano, inoltre non è mai riuscita a conquistarsi una posizione preminente da porla sul piano del trinomio Pisa, Firenze e Siena. Essa conobbe il suo momento di maggiore splendore sot- to la guida di Castruccio Castracani, il quale riuscì ad ingrandire i possedimenti della repubblica scacciando i pisani dalla Versilia, mentre lungo la direttiva della val d’Arno giunse a porre Pistoia sotto la sua signoria31. Tuttavia dopo la morte di Castruccio, i lucchesi perdono quanto acqui- sito vedendo il proprio territorio ridursi a poco più che la città stessa e alcu- ne piazzeforti in Garfagnana; essi abbandonano, così, ogni velleità di dominio territoriale e cercano di non farsi coinvolgere in eventi bellici che potrebbero costare l’indipendenza alla città. Aderiranno, sì, alle leghe con i milanesi, ma possiamo riconoscere in tale decisione un comportamento di maggiore cautela, una partecipazione - anche nel loro caso - di comodo volta a mettersi al riparo dall’aggressività fiorentina.

Oltre al potenziale bellico, infatti, Firenze con la sua preponderanza pro- duttiva si espande anche tramite i rapporti commerciali, Siena risulta economi- camente legata a Firenze e questi vincoli si fanno sempre più stretti di pari passo con il declino senese e la fine di ogni tentativo di autosufficienza produttiva32. Milano al contrario non aveva eccellenze di tale spessore, ma poteva con-

31 G. Tori, Coluccio Salutati, Chancellor of the Republic of Lucca, in Blomquist Th. W. e Mazzaoui M.F. (a cura di), The “other” Tuscany: essays in the history of Lucca, Pisa and Siena during the thireent, fourteenth, and fifteenth centuries, Kalamazoo, Western Michigan University, 1994, pp. 111-113. 32 F. Cardini, M. Cassandro, G. Cherubini, G. Pinto, M. Tangheroni, Banchieri e mercanti di Siena, Roma, De Luca, 1987, pp.10-19. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 59 tare su un maggiore bacino produttivo e su domini più ampi. Tuttavia i Visconti si adoperarono per incentivare in particolar modo l’industria delle armi. La Lombardia era un’area dove confluivano i metalli e dove la manodopera era abbondante, ben si prestava a una tale produzione, inoltre il mercato delle armi garantiva di lucrare sui conflitti e ammortizzare i costi della guerra. I milanesi sostanzialmente tramite le guerre riescono a mettere in moto un circuito che riporta parte del denaro al punto di partenza, le spese belliche fluiscono attraverso la filiera produttiva generando indotto e in definitiva garan- tiscono di rendere il sistema-guerra efficiente in termini finanziari33. Anche i fiorentini riescono a volgere a loro favore la persistenza dei con- flitti, non potendo contare sugli armaioli, escogitano un sistema a loro più con- geniale, un circuito bancario e creditizio. Come già sottolineato, insomma, si può concludere che la seconda metà del XIV secolo sia un periodo di conflittualità permanente da cui Siena ed al- tre realtà emergono devastate, mentre, al contrario, Milano e Firenze che sono impegnate in prima linea in tutti i conflitti d’Italia ne escono rafforzate. E n - trambe le città, infatti, hanno i mezzi, per rendere sostenibile la guerra perma- nente, e potremmo quindi leggere gli avvenimenti di questo cinquantennio di conflitti attraverso una prospettiva diversa: una guerra di logoramento. Una guerra lenta, dove in sostanza trionfa chi ha alle spalle un più solido impianto statale ed economico, dove la battaglia campale non è che un episodio di minor conto. I fiorentini dal 1390 al 1402, ovvero gli anni ruggenti del Conte di Virtù, spendono ben 5 milioni di fiorini in spese militari in poco più di un decennio, una cifra a dir poco incredibile anche per una città prospera quale era Firenze34. Inoltre sono i primi a istituire la condotta d’aspetto35; con questo termine ci riferiamo alla paga ridotta che il comune di Firenze garantisce ai suoi merce- nari anche quando non sono impegnati in contratti col comune. Così facendo si evitano le classiche ritorsioni delle compagnie di ventura ai danni del territorio contribuendo alla formazione di rapporti di lunga durata: il caso dell’Acuto36 è

33 Chittolini, Antonelli, Storia della Lombardia, cit., pp.7-1. 34 A. Molho, Tre città stato e i loro debiti pubblici: quesiti e ipotesi sulla storia di Firenze, Genova e Venezia, in “Italia 1350-1450: tra crisi trasformazione, sviluppo”, Atti del XIII convegno internazionale di studi di Pistoia, Pistoia, 1993, pp. 185-210. 35 Waley, The Army of florentine republic cit., pp. 78-8. 36 Sulla figura di John Hawkwood e la sua carriera: D. Balestracci, Le armi i cavalli l’oro: Giovanni Acuto e i condottieri nell’Italia del Trecento, Roma-Bari, Laterza, 2003. 60 Laerte Mulinacci esemplare. La particolare predilezione dell’Acuto per le devastazioni da effet- tuare nel territorio di Siena contribuisce ad aggravare una situazione contingen- te assai gravosa: la città non riesce a riprendersi da una crisi che non accenna a diminuire, anzi nell’ultimo decennio del Trecento le diviene impossibile anche fronteggiare le problematiche quotidiane. Non è quindi un mistero che l’Acuto e le compagnie mercenarie abbiano svolto un ruolo preponderante nello spin- gere i senesi tra le spire della biscia. I mercenari danneggiano la Repubblica di Siena non solo materialmente ma anche psicologicamente, la paura e le umiliazioni fomentano le tensioni interne, per la loro capacità di incutere terrore, e che questo possa essere un ef- ficace strumento di manipolazione politica, è un dato di fatto sottolineato dalla constatazione che i fiorentini si muovano con disinvoltura nel mondo del mer- cenariato37. È chiaro, insomma, che Firenze utilizza i mercenari per debilitare Siena ed il suo territorio, in una guerra sporca dove i fiorentini possono celarsi dichiarandosi estranei agli attacchi, ma in realtà essendo legati, in un modo o in un altro, alle incursioni. Quali sono i danni reali causati dalle compagnie di ventura? Com’è pos- sibile che potessero affliggere uno stato pur piccolo che fosse? È vero che le città potevano contare su milizie cittadine anche numerose in termini numerici, e saremmo, quindi, indotti a credere che potessero sovra- stare le compagnie mercenarie, ma in guerra i numeri non sono tutto, anzi ad essere più precisi è necessario analizzare bene questi numeri. I mercenari erano professionisti; nella vita facevano solo una cosa: com- battere mentre le milizie comunali erano costituite da cittadini che nell’arco della vita si trovavano a dover impugnare le armi solo episodicamente; gli stes- si veterani non avevano un decimo dell’esperienza maturata da un mercenario. Siamo quindi di fronte ad una disparità bellica fondamentale; inoltre le città non potevano mobilitare la cittadinanza ad ogni piè sospinto per fronteg- giare le incursioni, perché i mercenari erano molti, con numerose compagnie, più o meno grandi, che andavano dalle dimensioni di poco più che una banda a veri e propri eserciti privati. Al contrario i cittadini erano sempre in numero definito. È chiaro quindi che anche in termini quantitativi i mercenari, intesi come collettività plurali di liberi professionisti della guerra, superassero gli eserciti regolari Infine abbiamo la diversa libertà di azione delle due compagini qui

37 Waley, The army of the florentine republic cit. , pp. 80-85. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 61 confrontate, i cittadini possedevano case, lavoro e famiglia, i mercenari aveva- no solo bottini da accumulare e risultano quindi del tutto svincolati dai ritmi di vita a cui invece è sottoposto un cittadino. Per il soldato di ventura la guerra può durare anche anni, anzi più è dura, maggiore la possibilità di arricchirsi; egli viveva una guerra perpetua anche quando non era impegnato in qualche conflitto, aggrediva le campagne come un brigante qualunque. Per assurdo potremmo dire che il mercenario era mul- titasking, si adattava ad ogni circostanza ed era affrancato dalle catene della vita civile. Di conseguenza si poteva sconfiggere una compagnia presa singo- larmente ma non il fenomeno in sé. Il danno causato dal dilagare dei mercenari è duplice, diretto e indiretto: con diretto mi riferisco al denaro estorto alla città e i sostanza drenato ai cit- tadini, mentre con indiretto mi riferisco al disastro economico che consegue all’esposizione del tessuto socio-produttivo a un simile flagello. Per prima cosa, vorrei sottolineare la questione più ovvia, ovvero che le città per liberarsi dei mercenari devono pagare conti salatissimi. Caferro ci enumera i fiorini sborsati da Siena per togliersi dai piedi le compagnie mercenarie nella seconda metà del XIV secolo e ci fa capire che in 45 anni le casse senesi vengono dissanguate da questa costante emorragia che porta a sborsare una cifra astronomica: 239.974 fiorini, una media di 5332 fiorini all’anno. Se poi andiamo a vedere nelle tasche di chi finiscono ci accorgiamo che i 26.000 e rotti fiorini estorti dalla Grande Compagnia sono ben poca cosa se confrontati con i 98.500 dell’Acuto (anche se tale cifra va ridimensionata per gli attacchi sferrati in cooperazione con altri condottieri). I fiorentini hanno risorse economiche non equivalenti a quelle senesi, la gestione del fenomeno mercenario rende evidente questa differenza, di fronte alla medesima problematica i senesi cercano di tamponare le perdite, riducendo le spese e alzando le tasse, i fiorentini al contrario mettono in atto una vera po- litica di consolidamento ed espansione del debito pubblico. Nel 1338 il debito pubblico fiorentino si aggira, infatti, intorno al mezzo milione di fiorini, per poi lievitare oltre i 2 milioni nel 1380 e raggiungere l’apice di 3 milioni durante le guerre contro Gian Galeazzo Visconti a metà dell’ultimo decennio del XIV secolo. I fiorentini inoltre dimostrano la propria lungimiranza anche con la fonda- zione del Banco di San Giorgio (1363), ente a cui viene dato non a caso il nome del Santo protettore dei soldati, e che è specificatamente rivolto proprio a quanti 62 Laerte Mulinacci militano al soldo della repubblica fiorentina. Il Banco di San Giorgio, anticipa somme per le spese quotidiane dei mercenari, ne custodisce le paghe e opera intermediazione finanziaria tra il comune e le sue soldatesche. In breve tempo il Banco ammassa quantità enormi di denaro e si impone come un istituto cre- ditizio di alto profilo, la sua affidabilità e reputazione contribuiscono a fare di Firenze un datore di lavoro assai gradito da tutti i mercenari italiani. I proventi dei mercenari erano sottoposti ad un’elevata tassazione sia a Siena che a Firenze ma in quest’ultima il volume d’affari legato alla guerra era enorme al contrario, quello senese, era davvero poca cosa. È chiaro che i fiorentini hanno innescato un circolo virtuoso attraverso cui Firenze riesce a convivere col fenomeno mercenario senza esserne travolta, in qualche maniera è incanalando la forza distruttiva delle armate a beneficio della città. In particolare, i mercenari si accaniscono contro Siena: il Comune di Fi- renze infatti, userà il proprio ascendente economico sulle compagnie di ventura per agevolare loro il transito verso i territori senesi, e basta vedere la regolarità con cui l’Acuto tormenta Siena, per comprendere come fosse possibile che il denaro estorto ai senesi finisse, per vie traverse, nei forzieri fiorentini. Questo sistema imponeva allo stato fiorentino comunque una perenne espansione per far fronte al crescente debito pubblico. Possiamo definirla una vera e propria bolla speculativa sulla guerra? A quanto pare sì. I fiorentini spen- dono molto ma guadagnano anche molto, possiamo sostenere, come si è detto, addirittura che Firenze sia riuscita a sfruttare a proprio favore il flagello delle compagnie di ventura. Nel 1384 Enguerrand di Coucy, un condottiero francese sceso in Italia per contribuire alla guerra contro Carlo di Durazzo, si impadronisce di Arezzo che poi rivende ai fiorentini per la cifra esigua di 40.000 fiorini. La cosa provoca non poche apprensioni a Siena, dato che la cifra di cui si parla è davvero pic- cola se confrontata alle spese affrontate dal comune a causa dei raid mercenari. L’argomento che ho qui cercato di riassumere, ovvero il ruolo svolto delle com- pagnie di ventura nell’involuzione dello stato senese, appare forse come il più trasversale in assoluto tra quelli a cui mi sono addentrato. Abbiamo infatti visto come sostanzialmente la loro azione si riverberi in tutti gli aspetti della politica cittadina: dalla politica fiscale, ai rapporti civili ed ovviamente al settore milita- re le cui spese lievitano costantemente condizionando la vita economica. L’impatto delle compagnie mercenarie è strettamente connesso alla poli- tica fiscale ed amministrativa, in quanto i provvedimenti in tali sfere si mostra- La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 63 no dettati dalla necessità di far fronte alle varie scorribande delle compagnie. Il primo a ipotizzare che la presenza delle compagnie mercenarie è la conseguen- za dell’involuzione dello stato senese è stato David Hicks nel 196538. Tuttavia è solo grazie al prezioso lavoro di Bowsky che dal 1970 si inizia a far luce sulla situazione della finanza pubblica e della politica fiscale di Siena39. L’incapacità della Repubblica senese di pianificare ogni azione politica azzera anche le possibilità di contrastare l’aggressività fiorentina, al contrario, ben organizzata e programmata40 ed è questa la ragione, come si è già accen- nato, per cui i senesi, consapevoli di non riuscire ad aver ragione di un nemico ormai al di sopra delle proprie possibilità, non possono far altro che avvicinarsi sempre più al maggiore nemico di Firenze: Gian Galeazzo Visconti. L’espansionismo milanese, nei tratti, è simile a quello fiorentino e corre su due binari: economico e militare, ma i lombardi si distinguono per attuare una politica di potenza di un livello ancora superiore. I Visconti hanno a dispo- sizione più uomini, più terre, più ricchezze, più mercenari, e contro i milanesi i fiorentini sono costretti sulla difensiva. È in questo contesto che i senesi entrano nell’orbita del Conte di Virtù, un’orbita da cui non hanno la forza di uscire e che anno dopo anno renderà Sie- na sempre più dipendente da Milano. I senesi si rivolgeranno al Visconti per far fronte alle compagnie mercenarie, al dissesto delle proprie finanze ed anche per frenare l’erosione dei propri domini attuata da Firenze: siamo di fronte quindi ad un asservimento economico e politico41. Tuttavia è interessante notare che, quando alla morte di Gian Galeaz- zo Visconti Siena ritorna indipendente, il recupero della sovranità è animato dall’entusiasmo simile a chi si libera di un’occupazione straniera. Il tono sommesso rintracciabile dai documenti degli ultimi anni del ‘300, scompare improvvisamente, lasciando spazio al ritorno dell’orgoglio comunale che sembrava tramontato, e la cacciata delle truppe milanesi da Massa Maritti- ma ne è un chiaro esempio.

38 D. Hicks, The Sienese State in the Renaissance, in H. Carter (a cura di), From the Renais- sance to the Counter-Reformation: essays in Honor of Garrett Mattingly, New York, Random House, 1965. 39 W.M. Bowsky, The finance of the Commune of Siena 1287-1355, Oxford, Clarendon Press, 1970. 40 V. Franchetti Pardo, Le città nella storia d’Italia: Arezzo, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp.55-67. 41 S. Favale, Siena nel quadro della politica viscontea, in “Bullettino Senese di Storia Patria”, n. 43, Siena, XLIII1936, pp. 315-382. 64 Laerte Mulinacci

L’atteggiamento politico del periodo immediatamente successivo al disgregamento del grande sogno visconteo, è implicitamente improntato alla cancellazione di quanto accaduto; le insegne della Biscia vengono rimosse, tuttavia a questo non si accompagna, (come si sarebbe indotti a credere), al rancore nei confronti dei milanesi, anzi i rapporti resteranno cordiali come da tradizione42.

Siena sotto l’influenza del Visconti (1385-1402) La lega formulata nel 1385 è un costrutto quanto mai fragile ed aleatorio, nonostante l’intento di creare un fronte comune contro le soldatesche straniere esso si rileva essere un tentativo di mediazione diplomatica tra varie parti con- trapposte. Nonostante l’apparente pacificazione, sia Milano che Firenze lavorano alacremente per allargare le proprie schiere, in particolare i milanesi riportano successi considerevoli diplomatici in Romagna nel corso del 1386. I principi romagnoli sono formalmente soggetti politici del Patrimonio di Pietro tuttavia sono determinati a resistere all’azione restauratrice del potere papale. Il conte di Virtù quindi, con tale iniziativa, non solo stroncava sul nascere le ambizioni fiorentini in Romagna, ma riusciva anche ad isolare ulteriormente Bologna43. Nel 1387 la Toscana è nuovamente sull’orlo della guerra, la situazione a Montepulciano si fa di nuovo incandescente e l’arrivo di Bernardone della Salle con un seguito dei bretoni non fa che esasperare gli animi dei senesi. Il condottiero, infatti, era stato più volte al servizio dei fiorentini in passa- to, enonostante la sua incursione avvenga a titolo di impresa personale è plausi- bile che in definitiva i senesi vi intravedessero la regia fiorentina. Nella città poliziana vi erano due schieramenti in lotta, uno filo-fioren- tino e uno filo-senese entrambi capeggiati da esponenti delle nobile famiglia dei Del Pecora; i senesi incapaci di imporre la propria autorità delegarono la questione a Cione Salimbeni. I fiorentini a loro volta inviarono aiuti ai loro alleati in Montepulciano suscitando nuovamente le ire dei senesi i quali durante un’ambasceria a Firenze rinfacciarono alla signoria l’aver violato il

42 Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Viscont cit., p. 243. 43 Collino, Politica Fiorentino-Bolognese cit., pp.378-380. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 65 trattato del 1385, in cui si prevedeva appunto la neutralità di Firenze riguardo le questioni poliziane44. In realtà i senesi non avevano i mezzi bellici per competere coi fiorentini e Firenze a sua volta temeva di fornire un casus belli al Conte di Virtù, per cui si cercò una soluzione diplomatica alla crisi in corso. Nel marzo del 1387, infatti, si susseguono le ambascerie senesi e fio- rentine che culminano con la stipula di un accordo il 29 ottobre dove si rin- novava il dominio senese su Montepulciano per altri cinquanta anni. In veste di ambasciatori troviamo i Salimbeni45 per il Comune di Siena, Giovanni Del Pecora per il Comune di Montepulciano, sottoposti all’arbitrato della signoria fiorentina.46 Veniva ristabilita la libertà di transito di uomini e merci, oltre ad un’amni- stia per gli esiliati ed alla restituzione dei beni confiscati agli stessi. Vi è una clausola tuttavia che fa ben capire quale spirito animasse l’arbitrato, Montepul- ciano infatti si impegnava per cinquanta anni ad essere vincolata ad un’alleanza offensiva e difensiva con Siena fuorché nel caso in cui si combattesse contro Firenze. Le buone intenzioni sono solo sulla carta quindi e già durante i mesi estivi che precedono la firma del lodo Firenze contribuisce ulteriormente allo smem- bramento dello stato senese sottraendole Cortona. L’indignazione senese non fa che inasprirsi, contribuendo a spingere Sie- na sempre più speditamente verso Milano. L’anno si conclude positivamente per il Conte di Virtù che riesce ad impadronirsi rapidamente di Verona,47 i se- nesi inviano un’altra ambasciata per congratularsi per la vittoria ma non v’è dubbio che abbiano colto l’occasione per parlare anche dei torti subiti. I rapporti tra Siena e la Lombardia divengono più vigorosi col passare dei mesi48, al ritorno da una delle numerose ambascerie a Milano l’oratore senese Battista Piccolomini venne accompagnato dal tesoriere dei Visconti, Giovanni della Porta, il quale aveva l’ordine di assoldare il maggior numero di mercenari

44 O. Malavolti, Dell’Historia di Siena, Sala Bolognese, Forni, 1982, II. 45 Sul ruolo di primaria importanza svolto dalla famiglia Salimbeni: A. Carniani, I Salimbeni quasi una signoria, Siena, Protagon, 1995. 46 A. Lisini, Inventario Generale del Regio Archivio di Stato in Siena, Siena, Lazzeri, 1899, p. 150. 47 Archivio di Stato di Siena (d’ora in avanti ASS) Concistoro, Deliberazioni CCXXIX / 139, c. 62b. 48 Malavolti, Dell’Historia di Siena cit., p. 159. 66 Laerte Mulinacci da porre al servizio di Siena49. In particolare è ingaggiato per la difesa di Siena il capitano Giovanni d’Azzo degli Ubaldini50. Osservando queste manovre da un punto di vista più generale e non fo- calizzato sulla realtà locale toscana, ci accorgiamo di come il 1388 sia sostan- zialmente un anno statico. Le campagne militari contro Verona e Padova erano state brevi ma dispendiose, ed ai costi per esse si sommava l’ingente dote che Gian Galeazzo conferì alla figlia Valentina che andò in sposa al fratello del Re di Francia. Le somme sborsate dal Visconti per rinfoltire le schiere senesi sono quin- di da leggersi come investimenti di natura più diplomatica che militare, un atto con cui si faceva sentire ai senesi la vicinanza dell’alleato milanese; tuttavia per ora non vi è l’intenzione di intraprendere una guerra aperta contro Firenze. Nondimeno la presenza ufficiale di truppe sotto l’egida di Siena, ma al soldo dei milanesi, è chiaramente il primo passo verso il protettorato vero e proprio. In realtà, già in questo periodo il Visconti lavora, in gran segreto, con gli ambasciatori senesi presso Pavia per regolare la dedizione di Siena51. La città sull’Arno anima un intenso lavorio diplomatico, volto innanzi- tutto a impedire l’avvicinamento tra Siena e Milano, e al contempo cerca di scardinare i buoni rapporti che il Conte di Virtù ha intrecciato con le signorie romagnole, ma questo continuo via vai non fa che indispettire gli alleati bolo- gnesi che non vedono di buon occhio le attività fiorentine nell’area52. A cavallo tra 1388 e 1389 è nuovamente Montepulciano che mette a re- pentaglio la quiete apparente: a Siena si apprende di nuove manovre di Gio- vanni Del Pecora per portare la città poliziana sotto la signoria fiorentina. Nella fattispecie egli stava cercando, con grande astuzia, di far risultare il terri- torio di Montepulciano tra i beni del popolo fiorentino, ponendo le basi per una transizione dello stesso sotto la giurisdizione della signoria del giglio53. A Siena la notizia provoca una nuova ondata di rabbia a cui segue l’in- vio da parte viscontea del comandante Paolo Savelli. Egli parte con trecento lance, partenza coincidente con l’invio a Siena anche dei procuratori lombardi

49 Favale, Siena nel quadro della politica viscontea cit.,pp. 154 50 ASS, Concistoro, Deliberazioni CCXXXI / 141, c. 6b. 51 ASS, Famiglie Forestiere, Visconti 329; ASS, Concistoro, Deliberazioni. CCXXXVIII / 147, c.11b e c. 14b. 52 Collino, Politica Fiorentino-Bolognese cit. 53 Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti cit., pp.100-103. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 67

Guglielmo Bevilacqua e Andreasio Cavalcabò54 incaricati di stipulare una lega ufficiale tra Siena e Milano. L’arrivo di questo contingente segna l’avvio della stesura dei capitoli del trattato, procedura che impegnerà meno di due mesi. Il 22 settembre del 1389, presso Pisa si decide che Gian Galeazzo debba tenere al servizio di Siena settecento lance stipendiate per l’intera durata delle ostilità contro Firenze. I senesi d’altro canto si impegnano a stipendiare ulte- riori trecento lance e duecento balestrieri, potendo annoverare, in questo modo, una forza consistente di mille lance e duecento balestrieri. Vengono cacciati tutti i fiorentini e i bolognesi dal dominio senese e visconteo, pena la confisca dei beni e la morte. Inoltre è stabilito che tale accordo è estendibile a qualsiasi città o terra che voglia aderire alla guerra contro Firenze a patto che riconosca la sovranità senese su tutte le terre, città e castelli conquistati. Questa clausola può sembrare in contraddizione con quanto ho più volte sostenuto, in altre parole la totale subalternità di Siena verso il Visconti, ma in realtà il fatto che i senesi non potessero trattare autonomamente con Firenze la dice lunga. I milanesi, infatti, riservano per sé la prerogativa diplomatica di sta- bilire tregua e pace, i senesi quindi si trovano coinvolti in un conflitto dove non hanno voce in capitolo riguardo la strategia da adottare. Siena è del Visconti e poco importa al signore lombardo se i senesi conquistano quella rocca o quella città, alla fine dei conti è tutto in mano sua. Intanto i fiorentini si cautelano richiamando in patria l’Acuto, che in quel periodo si trova a Napoli, il quale unisce le forze a quelle di Antonio della Scala e di Carlo Visconti (il figlio di Bernabò ostile a Gian Galeazzo) andando quindi a comporre una forza di 5000 uomini. Il 1389 è caratterizzato anche dall’azione ambivalente di Pietro Gamba- corta, il signore di Pisa, che vuole a tutti i costi evitare una nuova guerra che metterebbe a repentaglio la sua signoria55. Il tentativo di mediazione ha succes- so e il pericolo di una guerra aperta è scongiurato, perché il 9 ottobre, presso Pisa, viene firmato un nuovo trattato. Le trattative diplomatiche sono complesse e contraddittorie ma possiamo sostenere che la chiave di volta è ancora Monte- pulciano, i fiorentini non l’avrebbero restituita ai senesi senza ricevere garanzie per la propria incolumità. La lunga lista dei firmatari del trattato testimonia quanto questa vertenza abbia coinvolto i maggiori soggetti politici italiani. La firma avvenne nel palazzo del Gambacorti stesso, che viene detto amico e

54 ASS, Capitoli, Caleffo Rosso, c. 26b. 55 Silva, Il governo di Pietro Gambacorta cit. 68 Laerte Mulinacci mediatore di tutti i confederati ed il documento viene ratificato da ben tredici notai imperiali.56 Emerge anche qui la volontà di unire le forze contro il nemico comune, le soldatesche straniere ma in realtà non è che un espediente propagandistico e di facciata dato che gli obiettivi sono ben altri. Nessuno dei contraenti poteva dichiarare guerra a un membro della coalizione pena l’intervento di tutti gli altri confederati. Il conte di Virtù s’impegnava a non intervenire nelle faccende toscane purché le città toscane garantissero di non intromettersi nelle questioni lombar- de. Nel testo tra le altre cose è trattato minuziosamente il numero delle truppe che ogni confederato si impegna a mantenere a proprie spese, ovviamente il contingente è commisurato alle reali possibilità delle città: “illustris Comes Vir- tutum habeat et teneat lanceas trecentas, magnificum comune Florentie habeat et teneat lanceas centum octuaginta, magnificum comune Bononie habeat et te- neat lanceas centum viginti, magnificum comune Perusii lanceas quinquaginta, illustris marchio Estensis lanceas septuaginta, magnificum comune Senarum lanceas sexagintaquinque, magnificus dominus Mantue lanceas triginta,- ma gnifici domini de Malatestis lanceas triginta vel earum loco centum famulos, quorum quinquaginta sint boni balistarii, magnificum comune Lucanum lan- ceas vintiquinque, magnificus comes Montisfeletri lanceas vigintiquinque seu loco earum famulos sexaginta, quorum triginta sint boni balistari, magnifici domini de Forlivio lanceas quindecim, magnificum comune Pisarum lanceas sexagintaquinque57” Questo elenco può essere letto come una cartina tornasole del potenziale bellico delle realtà politiche italiane; realisticamente ne emerge appunto Mi- lano con 300 lance, ma trovo curioso che la somma delle armate di Firenze e Bologna risulti in egual modo essere di 300 lance. Tutti gli altri alleati messi insieme superano di poco le forze di questi due blocchi presi singolarmente, valutando invece i contingenti della Toscana nemica di Firenze, vediamo come Pisa, Lucca e Siena possano disporre col- lettivamente 155 lance, e che quindi anche tutte e tre insieme siano comunque in inferiorità numerica rispetto ai fiorentini. Solo con le 50 lance di Perugia, la Toscana filo-viscontea può competere da sola con Firenze, tali numeri a mio parere sono interessanti e richiederebbero un’indagine più specifica; il mio pa-

56 ASS, Caleffo Rosso, c. 32 57 ASS, Caleffo Rosso, c. 32 e seguenti. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 69 rere è che in realtà il trattato serva anche a stabilire il numero legittimo uomini armati di ogni stato. Nonostante il pretesto dell’alleanza, questo documento risulta essere il tentativo di conciliazione tra due blocchi incompatibili e destinati a scontrarsi. Questo nuovo e più ampio trattato toglie in qualche modo l’esclusività ai senesi, che giustamente avrebbero voluto approfittare risolutamente dal van- taggio acquisito. In direzione contraria continuano a lavorare i pisani che in un’ambasciata presso Pavia cercano di far revocare il divieto di circolazione ai cittadini fiorentini e bolognesi. Gian Galeazzo scelse di mantenere le truppe che presidiavano Siena ed il suo territorio, con un atteggiamento guardingo di chi sa bene che lo scontro con Firenze è solo rimandato. In una lettera inviata da Pavia ai senesi, il Visconti, oltre a trascrivere gli accordi stipulati con Firenze, parla infatti di “insidie”58. A fine febbraio del 1390 Guglielmo Bevilacqua arriva a Pisa, dove si reca per sondare le reali intenzioni del Gambacorta. Il signore di Pisa infatti cerca con ogni mezzo di evitare lo scoppio della guerra con Firenze e neanche le pres- sioni degli inviati lombardi riescono a smuoverlo59. Tuttavia la sua titubanza sarà messa ben presto a dura prova dato che si troverà costretto ad accantonare il suo tentativo di mediazione con i fiorentini. Montepulciano aveva accettato di ritornare sotto l’egida senese, su consi- glio del Gambacorta, e di accantonare ogni proposito di ribellione; la situazione era pronta a precipitare, del resto i poliziani già più volte avevano rischiato di essere la scintilla di un conflitto che aspettava solo di divampare. Già nei primi mesi del 1390 si hanno infatti notizie di boicottaggi e piccoli episodi di ostilità verso le milizie e il podestà senese nella città della Val di Chiana: quella che si andava prospettando era l’ennesima rivolta della città pronta alla defezione verso il dominio fiorentino. I senesi e i loro alleati milanesi ne furono informati. Andreasio Cavalcabò e Paolo Savelli si trattennero, così, a Siena, dove furono raggiunti, nell’aprile del 1390, da Giovanni d’Azzo degli Ubaldini e le sue mille lance. È proprio tra marzo e aprile che Gian Galeazzo lavora affinché anche Perugia si mobiliti e collabori strettamente con Siena60 al fine di predisporre l’offensiva contro Firenze.

58 ASS, Capitoli, 102, c. 89b. 59 Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti cit.. pp. 254-255. 60 ASS, Concistoro, Deliberazioni. CXIV / 153, c. 37a. 70 Laerte Mulinacci

Formalmente Gian Galeazzo si prepara a scendere in guerra accusando i fiorentini di aver violato gli accordi in quanto questi ultimi si stanno adoperan- do contro di lui e contro i suoi alleati. Effettivamente Firenze non se ne stava con le mani in mano e lavorava febbrilmente per cercare nuovi alleati contro lo strapotere milanese (spaziando dalla Francia, a Venezia alla Germania come vedremo in seguito) ma in questo frangente riscontriamo che è proprio il Conte di Virtù a forzare la mano verso il conflitto aperto.

“Arciguelforum insolens arrogantia quibus stantibus Italia numquam pos- set quiescere reprimatur61”

Questa frase è estratta da una lettera di Gian Galeazzo dell’aprile 1390, al nunzio apostolico a Bologna e testimonia anche il tentativo di dare alla guerra una connotazione propagandistica, nonostante l’evidente anacronismo di cui lo stesso termine guelfo è vittima. Il tono minaccioso non tarda a palesarsi in atti concreti:

“quod ponantur arma domini Comitis Virtutum super arma Comunis Se- narum in vescillo dicti Comunis portando in exercitu contra Florentinos in quantum placeat magnifico domino Johanni de Ubaldinis capitaneo ge- nerali Illustrissimi principis domini Comitis Virtutum”62

Alla riconquista di Lucignano e di alcuni castelli della Val d’Ambra, seguì l’assedio vittorioso di San Giusto in Chianti dove il capitano Giovanni d’Azzo degli Ubaldini portò sotto le mura due bombarde provocando l’immediata resa del fortilizio63. Tuttavia questi successi iniziali avranno breve vita, a metà giu- gno Francesco da Carrara, che cacciato da Padova si era rifugiato in Friuli, si impossessa nuovamente della città veneta. La minaccia più grave per il Visconti pareva tuttavia giungere dall’estero: i fiorentini cercavano di coinvolgere la Francia allettandola con una possibile spartizione dello stato visconteo, ma i transalpini, che non nutrivano particolare simpatie per i fiorentini, non entrarono nel conflitto (ad eccezione dell’impresa del Conte di Armagnac vista precedentemente).

61 ASS, Concistoro, Carteggio, 1827, c. 14. 62 ASS, Concistoro, Deliberazioni. CXLVI / 155, c. 10a. 63 Questo episodio meriterebbe una maggiore trattazione dato che probabilmente si tratta del primo caso di utilizzo di un’arma da fuoco in Toscana e ritengo possa essere messo in relazione con la fiorente e tecnologicamente avanzata industria bellica lombarda. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 71

Il teatro delle operazioni dalla Toscana si spostava quasi esclusivamente in Lombardia, la guerra offensiva progettata dal Visconti si era tramutata in un conflitto difensivo contro le forze congiunte dei da Carrara e dell’Acuto che andavano a minacciarlo proprio nel cuore dei suoi possedimenti. Questo spostamento delle operazioni belliche porta inevitabilmente Sie- na a condurre la propria guerra locale con le sole proprie forze, nell’estate del 1390 le autorità cittadine iniziano già ad interrogarsi sulla necessità di con- cludere una pace onorevole prima che i fiorentini possano riorganizzarsi. Le famiglie dei Malavolti e dei Tolomei sono tra le principali sostenitrici di questa proposta; non solo: esse sostengono che la guerra serve ad indebolire Siena al fine di preordinare l’annessione vera e propria da parte dei milanesi. È cosa ben risaputa che queste due grandi casate si siano sempre distinte per il loro filo-fiorentinismo ma è altresì plausibile, data la persistenza di alcu- ne circostanze sospette, che vi fosse anche del vero. Siena è forse ugualmente vittima di questo conflitto? Il rancore e il revanscismo verso i fiorentini stanno offuscando le capacità di giudizio dei senesi? È probabile, come vedremo in seguito, se già i contemporanei ponevano seri dubbi sulla natura della tanto celebrata amicizia del Visconti64. I toni perentori con cui il Conte di Virtù infiamma l’orgoglio della città ferita, sembrano confermare ulteriormente che le magistrature senesi sono in realtà abbagliate dalla prospettiva di chiudere i conti con Firenze. Nel novem- bre del 1390, ad esempio, in un’epistola inviata da Pavia a Siena in cui si rag- guagliano gli alleati sull’andamento della guerra, si può leggere che le ostilità proseguiranno: “pro finali exterminio Arciguelforum Florentie”65. In realtà oltre a dover fare i conti con le epidemie, Siena, i questo momen- to, è allo sbando finanziario, ed è proprio nel giugno del 1390 che il Visconti inizia ad inviare alla città sua alleata ingenti somme di denaro, a cui segue nel 1391 un’altra donazione di ben 24.000 fiorini. L’indipendenza di Siena e la propria sovranità sono ai minimi termini, l’edificio statale si regge in piedi grazie alle forniture milanesi e la sua autono- mia in politica estera è inesistente. Nel marzo del 1391 Andreasio Cavalcabò si trova a Siena con il preciso intento di formalizzare l’annessione di Siena ai domini viscontei66.

64 Favale, Siena nel quadro della politica Viscontea cit.. pp. 242 65 ASS, Concistoro, Carteggio, 1828, c. 7. 66 “Andreasius de Cavalcabobus senator ipsius civitatis et commissarius domini Comitis Vir- tutum Mediolani etc. que visset submissionem comunis Senarum dicto domino Mediolani, providetur 72 Laerte Mulinacci

La risposta delle magistrature senesi non tarda ad arrivare, dato che già il 13 marzo formula la cessione della città nelle mani del Conte di Virtù:

“cosi hora con viva voce diciamo et confermiamo a esso messer Andre- asso in vice et come quello che rappresenta esso signore prefato cioè che siamo contenti et de singulare gratia dimandiamo et suplichiamo la si- gnoria sua che per sua benignità degni e voglia prendere et accettare el dominio e governo dela citta de Siena suo contado e distretto et de noi suoi devoti figliuoli et servidori et regerci et governarci come parrà a la exce- lentia sua convenirsi, e divendendo ai modi si dica e si affermi noi essere aparechiati darli donarli la cità de Siena suo contado et distreto con mero et misto inperio et in lui trasferire liberamente la signoria et governo siché possa liberamente fare et disponere in tutto come dela citta di Melano o di Pavia o di qualunque altra più sottoposta a lui”67

Nonostante si cerchi di mantenere segrete le trattative per la sottomis- sione della città, la notizia diventa di pubblico dominio quando i Malavolti e i Tolomei cercano di aizzare la folla per difendere la libertà della patria. Tale tentativo risulta vano grazie all’intervento fulmineo dei Salimbeni e delle mili- zie al soldo milanese che uccidono una ventina degli insorti, a cui si aggiunge Niccolò Malavolti condannato e decapitato. Il voto finale avviene il 15 marzo del 1391 in Consiglio Generale, dove si registrano 430 favorevoli e 7 contrari; tuttavia appare significativo che no- nostante l’importanza di questo provvedimento esso risulta pienamente attuato solo nel 1399 con la “translatio dominii”. Per circa otto anni quindi, la città fluttua nel limbo di una libertà apparente, anche se in realtà sono i funzionari viscontei a tenere in tutto e per tutto le redini della politica cittadina. È lecito supporre che il tentativo di rivolta appena sventato sia servito per addolcire il cammino verso la perdita della libertà comunale; di fronte alla possibilità dei tumulti, dagli esiti imprevedibili, si è scelto di mantenere questo stato fantoccio ancora per qualche anno68. In qualche modo, dunque, la situa- zione non è ancora matura e la città è tuttora troppo legata alla propria libertà, anche se del tutto retorica, per cui è meglio non alimentare inutili tensioni e malcontento. ut materia suprascripta remittatur in dominos Priores et Officiales Balie.”, ASS, Concistoro, Delibera- zioni. CLI / 160, c. 4b 67 ASS, Concistoro, Deliberazioni CLI / 160, c. 5a. 68 Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti cit.. pp. 315-318. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 73

Nel giugno del 1391, in ogni modo, il Comune delibera un ulteriore ina- sprimento delle imposte anche se non basta a lenire il disavanzo economico, e la città continua a sopravvivere solo grazie alla munificenza di Milano69. Sem- pre nello stesso periodo si delibera la piena libertà di circolazione della moneta milanese nei territori senesi, a ulteriore riprova dell’assorbimento lento ma co- stante di Siena ad opera del Visconti. L’anno termina con il tentativo delle truppe di Iacopo Dal Verme di forza- re il blocco fiorentino e di mettere fine al conflitto facendo capitolare Firenze. Il fallimento di questo tentativo esaurisce definitivamente anche le ultime energie disponibili ai lombardi: entrambi i belligeranti sono stremati e rischiano il disa- stro economico se non si giunge in tempi rapidi a una tregua. Giangaleazzo che aveva sperato di conquistare Bologna in poche settima- ne è costretto a desistere: i fiorentini hanno giocato saggiamente questa partita, riuscendo a sfiancare un avversario numericamente superiore. La debolezza dello stato visconteo, in questo momento, lo rende anche vulnerabile al riemergere dei particolarismi che rischiano di travolgere la signo- ria del Conte di Virtù. Il 20 gennaio del 1392, grazie alla intercessione del doge di Genova e di Papa Bonifacio IX il conflitto termina. Le condizioni tutto sommato sono piuttosto equilibrate, il Conte di Virtù deve riconoscere il ritorno dei da Carrara a Padova e rinunciare ad ogni pretesa sulla città veneta; tuttavia può tenersi Belluno, Feltre e Bassano.70 In Toscana invece tutte le conquiste devono ritornare ai loro legittimi pro- prietari, Montepulciano viene riconosciuta parte del dominio fiorentino mentre Lucignano torna sotto Siena. Ne consegue, inoltre, un riconoscimento del si- stema dei protettorati viscontei, con Pisa, Lucca e Siena ormai definitivamente adombrati dall’ingombrante figura del Visconti. Tuttavia appare assai curiosa la clausola con cui si specifica che il Conte di Virtù debba astenersi per sette anni dall’intromettersi nella politica senese. Che i fiorentini sperassero di emancipare Siena dallo schieramento milanese? Può darsi. È altrettanto significativo però che questa clausola fosse pre- sente ad hoc per il solo caso senese, poiché non sono menzionate Perugia, Pisa e Lucca. Ancora una volta quindi Siena si configura come un caso particolare in questa vicenda. I fiorentini davano già per scontata l’irrimediabilità della sotto-

69 ASS, Concistoro, Deliberazioni. CLII / 161, c. 9a, 39b e 44a. 70 E. Pastorello, Nuove ricerche sulla storia di Padova e dei principi da Carrara al tempo di Giangaleazzo Visconti, Padova, Gallina, 1908. 74 Laerte Mulinacci missione delle altre città mentre nutrivano qualche speranza di rivitalizzare Sie- na? Può essere, ma quello che risulta più rilevante è scoprire che il 10 giugno del 1393 il Concistoro delibera che: “quod fiat commissio in operarium Camere Comunis Senarum quod faciat extimare laborem trium bisciarum pictarum ex parte Comuni Senarum71”. A cui si aggiunge un’altra delibera del 7 settembre:

“quod Cristofanus magistri Bindoccii et Meus Pieri pictores pro ipsorum labore et manufactura...pro pictura armorum domini Comitis Virtutum que pinserunt ad ianuam Camolliensem habeant vigiuti florenos auri72”.

Le insegne della Biscia vengono dipinte dovunque, sulle porte cittadi- ne, sul Palazzo Comunale, ennesima testimonianza, se fosse ancora necessaria, della totale inattendibilità dei trattati diplomatici che non possono arginare si- tuazioni ormai in essere. Lucca come già sostenuto in precedenza è sicuramente la meno impor- tante delle tre città toscane filo-viscontee, la sua politica collima perfettamente con le direttive milanesi, mentre più interessanti sono invece le vicende di Pisa e Perugia. Approfittando della pace, i fiorentini riprendono la loro opera diplomatica per disinnescare la portata della minaccia viscontea e sperano di sottrarre Pisa alla sfera d’influenza lombarda. Pietro Gambacorta dopotutto è sempre stato filo-fiorentino, è un convinto fautore della coesistenza pacifica tra le due città toscane. Più che pacifismo sarebbe, tuttavia, giusto definirlo pragmatismo, poi- ché le guerre contro Firenze sono state disastrose per Pisa e la città ora rischia di cadere in mano nemica definitivamente. Nell’estate del 1392 vi è un altro episodio degno di nota: Francesco Gon- zaga signore di Mantova si fa promotore di una nuova lega con il pretesto uffi- ciale, per l’ennesima volta, di una muta difesa dalle compagnie mercenarie. In realtà la Lega di Bologna è un mero tentativo di riassettare il fronte anti-vi- sconteo e vi aderiscono oltre a Mantova, Firenze, gli Este, i da Carrara, i signori di Imola, Faenza, Forlì e la stessa Bologna. Notiamo quindi fin da subito come questa lega segni il passaggio dalla parte opposta, di quelli che sono stati alleati anche del Visconti; cosa ancora più grave, tra i firmatari della lega vi è anche Pietro Gambacorta73.

71 ASS, Concistoro, Deliberazioni. CLXIV / 173, c. 17a. 72 ASS, Concistoro, Deliberazioni. CLXVI / 175, c. 6a. 73 Landogna, La politica dei Visconti in Toscana cit., pp. 174-176. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 75

Fiutato il pericolo di una defezione pisana, che avrebbe comportato la rot- tura dell’isolamento fiorentino, i milanesi, tramite Iacopo d’Appiano (fedelissi- mo alla causa del Visconti) ordirono un colpo di stato74. Nell’ottobre del 1392, così, Pietro Gambacorta e due dei suoi figli erano giustiziati, mentre il consiglio cittadino eleggeva l’Appiano cancelliere della Repubblica Pisana. Anche nel caso pisano, l’antifiorentinismo giocò un ruolo fondamentale: fu facile giustificare l’eliminazione del Gambacorta agitando lo spauracchio di un piano volto alla vendita della città ai fiorentini75. Da questo momento in poi Pisa cessa di esistere quale entità politica, Iacopo d’Appiano è un funzionario visconteo che governa la città svuotando completamente di significato politico le istituzioni repubblicane. La vicenda di Perugia è più particolare: Biordo de’ Michelotti, un capita- no di ventura italiano già al servizio del Visconti in più di un’occasione, si im- padronisce della città (ottobre 1392). Egli era nativo proprio di Perugia e sfrut- tando le divisioni cittadine riuscì ad imporsi come suo signore. Ufficialmente il suo obiettivo era quello di riportare la città sotto l’autorità papale, ma in realtà rimaneva il dubbio legittimo che operasse sotto traccia per il Visconti76. L’altra questione che occupa l’amministrazione senese in questi anni è re- lativa a una controversia con il conte Bertoldo Orsini per il possesso del castello di Scerpena, che dà luogo ad un’ampia documentazione e che termina solo nel settembre 1395 grazie all’arbitrato di Gian Galeazzo77. Tuttavia il fatto di maggior rilievo dell’anno 1395 è costituito, senza om- bra di dubbio, dalla nomina ducale del signore di Milano. L’esito non del tutto favorevole del conflitto concluso nel 1392 non impedisce, infatti, al Conte di Virtù di rafforzare ulteriormente la propria posizione. I rapporti con la Francia perseverano nella consueta cordialità, tuttavia è da segnalare come i fiorentini non abbandonino mai il proposito di convincere i francesi ad intervenire contro il tiranno lombardo. Nello stesso tempo i milanesi iniziarono ad operare per smembrare la lega di Bologna, alla morte del marchese di Ferrara, Alberto d’Este, seguita

74 Scaramella, Nuove ricerche cit.), pp. 3-29. 75 Scaramella, La dominazione viscontea in Pisa cit., pp. 423-482. 76 H. Goldbrunner, I rapporti tra Perugia e Milano alla fine del Trecento, in “Storia e arte in Umbria nell’età comunale”, Atti del VI Convegno di studi umbri, Gubbio 1968, Perugia 1971, pp. 641-694. 77 Tutta l’evoluzione della vicenda è ben rappresentata dai documenti rinvenuti da Giuseppe Riva e che testimoniano come questa vicenda si sia protratta per diversi anni. 76 Laerte Mulinacci da una faida familiare riguardo la legittima successione tra Niccolò ed Azzo. Quest’ultimo non avendo ottenuto l’appoggio della Serenissima, si gettò tra le braccia del Visconti. Tuttavia presso Portomaggiore, Azzo, veniva sconfitto e fatto prigioniero. È in questo momento che Gian Galeazzo decide di riaccostarsi ai da Car- rara, signoria di Padova, tramite un doppio accordo matrimoniale. Con questa abile mossa il signore lombardo disinnesca così il pericolo di un’ ulteriore dila- tazione della lega anti-viscontea. La signoria dei da Carrara, difatti, non è importante per il suo apporto militare ma lo è per la sua centralità strategica e diplomatica: togliendo Padova allo schieramento viene a mancare il trait d’union tra gli Este, i Gonzaga e il resto dei confederati. Inoltre tramonta definitivamente il sogno di coinvolgere Venezia. Non solo: Azzo d’Este era stato sostenuto da Giovanni da Barbiano, fratello del celebre Alberico, il quale è legato al dominio bolognese. Così, al trionfo di Niccolò consegue un drastico raffreddamento delle relazioni tra Fer- rara e Bologna. Nello scacchiere politico quindi la lega bolognese adesso si era contratta intorno all’asse originario Firenze-Bologna a cui si aggiungevano le tentennan- ti signorie di Ferrara e Mantova, avvezze tra l’altro a cambiare bandiera. Il resto della confederazione era composto da qualche piccolo principato romagnolo: è chiaro quindi ancora una volta che il principale ostacolo alle am- bizioni del Visconti era costituito dal sodalizio fiorentino-bolognese. Sodalizio, peraltro, messo più volte a repentaglio dai dissapori derivanti dalle mire fio- rentine in Romagna (l’acquisto di Castrocaro in tal senso è significativo) e che contribuiscono a tracciare il profilo di un’alleanza quanto mai labile. Va, inoltre, sottolineato che, in questi frangenti, con il pragmatismo po- litico che da sempre contraddistinse il Conte di Virtù, quest’ultimo riuscì a mantenersi equidistante nelle questioni scismatiche instaurando buoni rapporti sia con la sede romana che con la sede avignonese. Ultimo e più importante risultato della sua intraprendenza diplomatica fu il conseguimento del titolo di Duca ottenuto dall’imperatore Venceslao dietro il pagamento di circa 100.000 fiorini d’oro. In realtà, per Gian Galeazzo il titolo di Duca di Milano non comportava l’acquisizione di un nuovo possedimento, ma tuttavia - e la cosa è di capitale importanza - legittimava le sue conquiste ed il suo dominio. La nomina in questo modo andava a cristallizzare una situazione in es- La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 77 sere, la creazione del ducato anticipava la strutturazione di un organismo più ampio e solido, in sintesi un duca non era un re ma era comunque sempre più di un conte. I senesi partecipano con giubilo al trionfo del loro signore provvedendo a fare solenni feste e cerimonie

“occasione ducalis dignitatis per summum Cesarem concesse nuper...do- mino nostro Comiti Virtutum Mediolani”78.

I fiorentini sono a dir poco intimoriti e non resta loro che tentare la strada della contrattazione in attesa che i tempi siano propizi per riprendere il conflitto contro la potenza lombarda. Anche in questo caso gli ambasciatori della città toscana danno prova della loro eccezionale preparazione e del loro acume diplomatico: si recano a Pavia chiedendo al Duca di Milano la fine dell’incertezza nei rapporti tra le due potenze, in tal modo intendendo mettere a scelta i milanesi tra dichiarare esplicitamente guerra a Firenze o accettare un nuovo concordato che mitigasse le tensioni. Questa manovra, d’indiscussa audacia, mostra tuttavia la consapevolezza da parte fiorentina di quanto l’avversario non fosse ancora preparato a riprende- re una guerra su vasta scala. Il Visconti, per parte sua, era altrettanto consape- vole dei propri mezzi; non voleva scatenare una guerra ma al tempo stesso era riluttante ad accettare le proposte fiorentine troppo vincolanti e lesive dei propri interessi. Alla fine la firma della nuova lega slitta al 16 maggio del 1396.79 Nonostante il crisma dell’ufficialità, questa nuova lega, che ripresentava in sostanza i termini già siglati in precedenza, ebbe una vita quanto mai effime- ra. Le tensioni lungo la frontiera fiorentino-senese non venivano meno, anzi, assistiamo alle consuete scaramucce e scorribande di compagnie più o meno legittimamente al soldo delle due città, con continue conquiste di castelli e re- stituzione degli stessi. Ancora una volta, i mercenari, sono al centro della narrazione: nel 1394 Pisa e Siena congiuntamente, assoldarono Cecchino Broglia e Brandolino da

78 ASS, Consiglio Generale, Deliberazioni, CCII / 197, c. 148a. Può sembrare strano che non vi sia traccia, nella cronaca del Malavolti, della stipula di questa nuova lega considerato che era un accorto osservatore delle vicende politiche italiane e senesi. 79 ASS, Capitoli, 106. 78 Laerte Mulinacci

Forlì ufficialmente per difesa reciproca dei rispettivi territori. In realtà, le forze al servizio dei due condottieri furono impiegate prima per una spedizione puni- tiva contro i lucchesi che avevano defezionato verso Firenze e poi per mettere a ferro e fuoco il contado fiorentino. Quando i senesi non furono in grado di pagare la loro quota, intervenne direttamente Gian Galeazzo con un’altra donazione di oltre 4.000 fiorini. Tut- tavia, Firenze risponde orchestrando una nuova incursione di Bernardone della Salla, dei Bretoni e poi corrompendo Cecchino Broglia che insieme alla com- pagnia di Lodovico Cantelli si dedica al saccheggio del contado senese. Nulla di nuovo sotto il sole quindi ma un elemento appare assai inte- ressante: durante le trattative per ingaggiare questo nuovo contingente militare i fiorentini si rivolgono anche a Biordo de’ Michelotti, l’improvvisato signore di Perugia già visto nelle pagine precedenti. Il Michelotti tuttavia nicchia dati i suoi legami pluriennali con il Conte di Virtù; nondimeno egli nella primavera del 1394 (come anche 1393 e 1392) compie incursioni sul territorio senese. Biordo de’ Michelotti è rinomato per la sua imprevedibilità, questo è un dato di fatto, tuttavia può apparire sospetto che un condottiero così legato al Visconti aggredisca deliberatamente quello che de facto è un possedimento mi- lanese. Che dietro i mercenari vi fosse la regia stessa del Visconti? Potrebbe essere un espediente per sopprimere ogni residuo di resistenza senese? Non vi sono prove certe ma è legittimo sostenere l’esistenza di elementi indiziari che contribuiscono a fare del Visconti uno degli artefici sospettati della congiuntura disastrosa vissuta da Siena. Lo stesso Malavolti, del resto, accusa il Visconti di manipolare le co- scienze dei senesi con il duplice scopo di creare un diversivo per i fiorentini e demolire quel che restava della Repubblica di Siena80. Alfonso Professione (1898) sostiene che il Visconti con una mano aizzava il Michelotti contro Siena e dall’altra forniva ai senesi il denaro per liberarsi della presenza del condottie- ro; a questo si sommavano le reprimende ufficiali inviate dal Visconti verso il capitano “ribelle” e la predisposizione, al confine con l’isterismo, a scorgere i fiorentini dietro ogni mercenario che attraversasse il dominio senese81. Anche Bueno de Mesquita, autore di una poderosa e autorevole biografia sul signore lombardo, non nasconde un certo scetticismo riguardo all’operato

80 Malavolti, Dell’Historia di Sien cit., pp. 163. 81 A. Professione, Siena e le compagnie di ventura nella seconda metà del secolo XIV, Civita- nova Marche, Natalucci, 1898. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 79 del Visconti: egli infatti sostiene che Gian Galeazzo agisce sempre per mostrar- si quale “araldo della pace” e che le leghe non sono che un simulacro della sua diplomazia.82 Tornando ai senesi, abbiamo visto come il Malavolti non perdesse occa- sione per manifestare la propria insofferenza verso il Visconti e il partito filo- visconteo nella sua città. È di tutt’altro avviso invece Paolo di Tommaso Mon- tauri il quale celebra il Conte di Virtù quale protettore e salvatore della città83. Tuttavia l’araldo della pace non era stato in grado di porre fine alle scor- ribande delle soldatesche di ventura che termineranno definitivamente solo nell’estate del 1399, quindi solo pochi mesi prima che Gian Galeazzo aggiunga tra i suoi titoli quello di signore di Siena. Facciamo un passo indietro e torniamo alla situazione nel 1396. I fiorenti- ni riportano alcuni successi considerevoli, espugnano il castello della Selva nei pressi di Colle Val d’Elsa, i senesi come da consuetudine si appellano al loro signore che invia in loco Alberico da Barbiano. Il condottiero dopo aver recuperato il fortilizio per i senesi si addentra nel territorio fiorentino fino ad accamparsi alla Certosa; è chiaro quindi che si tratta di una risposta psicologica dato che questo è un punto nevralgico in prossimità della città sull’Arno, proprio come il castello della Selva lo era stato per Siena84. Nel 1397, nonostante la mancanza di una dichiarazione formale, siamo nuovamente di fronte ad una guerra aperta; i milanesi intendono sfruttare l’ele- mento sorpresa concentrando tutte le proprie forze in due offensive distinte, la prima di esse doveva servire ad impegnare i fiorentini in Toscana estrometten- doli dallo scenario settentrionale, mentre la seconda avrebbe avuto l’obiettivo della conquista di Mantova. La città dei Gonzaga infatti era una vera e propria spina nel fianco, non solo per la sua ostilità verso il signore di Milano, ma so- pratutto perché Mantova era incastonata proprio nel cuore dei domini viscontei. Mentre la manovra di alleggerimento operata in Toscana riesce ed impe- disce ai fiorentini di sostenere concretamente il resto dei suoi alleati, la presa di Mantova si rileva un fallimento. È questa un’altra delle frustranti sconfitte per il signore di Milano, perché il suo fedele capitano, Iacopo Dal Verme, non riesce a vincere in tempi rapidi la resistenza della città sul Mincio.

82 Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti cit., pp. 100-103. 83 A. Lisini, Cronaca senese conosciuta con il nome di Paolo di Tommaso Montauri, in Cro- nache senesi, Zanichelli,Bologna, 1931. 84 Favale, Siena nel quadro della politica Viscontea cit., pp. 152-160. 80 Laerte Mulinacci

Questo rallentamento garantisce ai nemici del Visconti di ammassare e concentrare le proprie forze che il 28 agosto 1397 affrontano in campo aperto l’esercito milanese sconfiggendolo (battaglia di Governolo). Ancora una volta sfumava la possibilità di una guerra rapida e risolutiva; in Toscana, per parte sua, le cose non vanno poi tanto meglio dato che i fioren- tini riescono a impadronirsi di Monticchiello85. Una guerra di lunga durata e ricca di vicissitudini sconfortanti per i mi- lanesi era quanto di peggiore potesse capitare al Conte di Virtù; ogni giorno si correva il rischio che irrompesse sulla scena politica un nuovo nemico della signoria lombarda, imbaldanzito dalle sconfitte militari del signore milanese. È questo proprio il caso di Venezia che contribuisce (flebilmente) alla battaglia di Governolo e che sembra in procinto di abbandonare la politica di non belli- geranza verso i milanesi. Ancora più preoccupanti sono le notizie che giungono dalla Francia dove l’idillio tra la corte francese e quella milanese pare tramontare a causa di alcune incomprensioni riguardanti il possesso di Genova. Il 1° giugno 1397 possiamo vedere come già da Siena partissero gli am- basciatori per avviare le trattative di pace verso “civitatem Imole [...] pro trac- tatu pacis.”86 . Tuttavia non è sicuro cosa andassero a fare a Imola gli oratori senesi, dato che le trattative vere e proprie si tennero presso Venezia a partire da ottobre87, è quindi legittimo supporre che durante l’estate ad Imola si siano svolti degli incon- tri preliminari tra i membri del fronte a sostegno del Visconti. Gli stessi ambascia- tori senesi, messer Cino di Vanni di Cino, Giovanni di Cristofano e Giovanni di Bandino, prenderanno parte a tutto l’iter diplomatico, fino a giungere alla firma conclusiva del trattato avvenuta presso Pavia l’11 maggio del 139888. Ancora una volta troviamo le medesime parti in causa cui si aggiunge sostanzialmente Venezia; così come avvenuto in passato, per tutti i contraenti si pone il comune obiettivo di porre un freno all’attività dei mercenari, ma in sostanza l’unico provvedimento concreto è la restituzione dei possedimenti mantovani occupati dai milanesi ai legittimi proprietari89.

85 Il Comune di Siena nominerà appositamente una Balìa che si doveva occupare del recupero di questo borgo. ASS, Concistoro, Deliberazioni. CLXXXVII / 196, c. 25b. 86 ASS, Concistoro, Deliberazioni. CCLXXXVIII / 197, c. 22b. 87 ASS, Concistoro, Carteggio, 1840, c. 92. 88 ASS, Concistoro, Carteggio, 1841, c. 103. 89 Landogna, La politica dei Visconti in Toscana cit., pp. 182-184. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 81

Nonostante questa battuta d’arresto, il signore di Milano riprende a turba- re la politica italiana immediatamente e nel modo a lui più congeniale ovvero la diplomazia; la sua attività è volta ad isolare il più irriducibile dei suoi avversari italiani: ancora una volta, Firenze. Nel corso del 1398 assistiamo ad un riaccostamento ai mantovani e agli estensi oltre ad una politica distensiva nei confronti dei veneziani ed al tentati- vo di ricucire i rapporti con i Malatesta. È nell’arco delle trattative per la pace di Pavia che compaiono tra le sche- de senesi del fondo Riva (vedi Appendice) i primi documenti cifrati. La chiave di codificazione era di norma distrutta dopo la lettura del messaggio, comunque possiamo constatare che dalla metà del 1398 questi iniziano a moltiplicarsi, ed è mia opinione che tali documenti contengano proprio le trattative e gli accordi volti alla sottomissione palese di Siena. Intanto nel settembre del 1398 muore il signore di Pisa e funzionario vi- sconteo Iacopo d’Appiano, suo figlio Gherardo che gli succede palesa da subito la propria incapacità ed inettitudine, nel gennaio del 1399 le truppe milanesi sono già in città per impedire eventuali colpi di coda dei pisani. Gian Galeazzo rompe ogni indugio ed acquista la città per la somma cospicua di 200.000 fiori- ni sopprimendo anche gli ultimi residui delle istituzioni comunali.90 Il 1399 è anche l’anno in cui scade il trattato di alleanza decennale siglato nel 1389 tra Siena e Milano: al posto di offrire il rinnovo del trattato, i milanesi procedono secondo la stessa modalità adottata con Pisa all’inizio dell’anno. Il 6 settembre 1399 il Consiglio Generale, nell’anno in cui teoricamente Siena do- veva recuperare la piena libertà d’azione politica, vede invece le magistrature senesi rinnovare e ampliare i poteri del Visconti sulla città.91 Fino ad ora i funzionari viscontei presenti a Siena, ufficialmente, svol- gevano solo un’attività di supervisione e intermediazione sulle vicende poli- tiche e soprattutto militari, adesso ne veniva pienamente legittimato il ruolo all’interno dell’attività consiliare senese; in particolare, il Luogotenente doveva partecipare a tutti i consigli cittadini e, altresì, aveva diritto ad essere l’ultimo a parlare. Inoltre, doveva astenersi dall’interferire negli affari di politica interna e

90 Questo avvenimento è registrato nei documenti senesi. “considerans et attendens sinceram dilutionem et fidei puritatem quam erga ipsum habeveruntet habent spectabiles filii sui carissimi Antia- ni et generaliter omnes cives pisanii in trasferendo in ipsum ejusque filios et descendetes sapientes et libere signoriam et liberum dominium civitatis Pisarum”, ASS, Capitoli, num. 102, c. 55 bis a. 91 ASS, Consiglio Generale, Deliberazioni, CIV / 199, c. 34a e 35 82 Laerte Mulinacci in altre questioni, ma di piccolo conto. Il Luogotenente inoltre aveva l’obbligo di ascoltare tutti i cittadini senza tuttavia intromettersi nelle questioni civili e penali dato che egli non aveva voce in capitolo riguardo l’amministrazione della giustizia. Questo protocollo, analogo a quello adottato a Pisa, in realtà mostrava come i milanesi facessero delle concessioni essenzialmente formali che in real- tà finivano per sottolineare la loro reale presa sulla città. Da questo momento in poi le assemblee cittadine sono private di ogni potere decisionale e divengono essenzialmente strumenti di politica territoriale, marcando quindi una subalternità effettiva e una degradazione da stato indi- pendente a distretto di un più ampio dominio. Infatti, le assemblee cittadine non erano valide se non in presenza del Luogotenente, inoltre la nomina del Senatore e del Podestà erano ad appannaggio del Duca di Milano, il Comune di Siena poteva solamente proporre una rosa di nomi. Infine, si stabiliva che tutte le entrate del comune erano a disposizione del Visconti. Da parte sua Gian Galeazzo si impegnava a non cedere nessuno dei pos- sedimenti di Siena e a non potesse trasferire la signoria della città a parti terze. Insomma, si poteva conseguire il ripristino dell’indipendenza solo nel caso di una rinuncia volontaria da parte dei Visconti92. La perdita definitiva della libertà venne anche celebrata con solenni fe- steggiamenti ed un’amnistia generale:

“che quegli miseri carcerati che sono nella prigione del comune sieno inde liberati et relaxati ad laude et reverentia di dio et della gloriosa ver- gine Maria madre sua et per amore et contemplatione della festa letitia et grande gaudio che fare si debbe per lo magnifico commune et popolo dela città di Siena per la translatione del domino che hora si fa dessa citta suo contado et distrecto nello Illustrissimo et excellentissimo principe et Signore Signor duce di Milano93”

La decisione era frutto di una proposta del Vescovo di Novara, che insie- me a Corrado di Aichilberg e Guido da Modigliana si trovavano a Siena in veste di ambasciatori lombardi; è tuttavia importante sottolineare che il processo isti- tuzionale avvenne sotto lo sguardo vigile e attento del capitano Paolo Savelli e soprattutto di Iacopo Dal Verme.

92 Favale, Siena nel quadro della politica viscontea cit., pp. 175. 93 ASS, Consiglio Generale, Deliberazioni, CIV / 199, c. 44b. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 83

La presenza di questi due condottieri dimostra, come per Pisa, che i mi- lanesi non avevano intenzione di correre nessun tipo di rischio e che sarebbero stati pronti all’uso della forza nel caso qualcosa fosse andato storto. Tuttavia il processo di annessione, nonostante la rapidità delle delibere senesi, non può dirsi concluso fino al termine del 1399; sono, infatti, necessari alcuni piccoli aggiustamenti di cui si fanno carico gli ambasciatori senesi a Pavia. Ecco che, in questa occasione, rispuntano alcuni documenti cifrati: sap- piamo comunque che gli oratori senesi riescono ad ottenere l’importantissimo risultato che Siena non sia formalmente asservita ma che si distingua da Pisa e da gli altri domini tramite l’appellativo di figliolicon cui Gian Galeazzo avreb- be chiamato i senesi, poiché

“…al tuto voleva che questo nome del servo si tacesse e levasse via e so- lamente i Senesi si dicessero figliuoli suoi”.94

La cosa la dice lunga sul potere di persuasione e la libertà d’azione dei senesi stretti in questa morsa. L’11 dicembre del 1399 si giunge quindi alla definitiva traslazione del dominio senese in quello milanese tramite

“Capitula pactorum circa novam formam regiminis instaurandam in civi- tate Senarum promissionem per dominum Johannem Galeaz Vicecomitem ducem Mediolani etc. dominis Nicolao de Salembenis militi, Cino Vannide Galeaziis militi, Johanni Francisci de Belantibus legum doctori, Bartholo- meo Balsii legum doctori, magistro Dominico Johannis artium et medicine doctori, Angelo Latinucii de Ruosis, Francischo Bartholomei de Petruciis et Andree Augustini Bancherio procuratoribus suprascripte civitatis Sena- rum que sponte et libenter transtulit se et Comitatum in dominium prefati ducis ejusque filios et succedentes in Ducatu Mediolani. Et condictiones principales sunt quod regimen civitatis remaneat ut de presenti; quod de- bita Comunis more solito solvantur; quod dominus Dux Mediolani teneat in civitate locumten entem suum et etiam unum offitialem qui una cum Proveditoribus de Bicherna vigilet provideat super intratis et expensis Co- munis; quod Castellani de Grosseto, Talamone, Montalcino, Lucignano, Valdichiane, Casole et Arcidosso nominentur per dominum Mediolani et

94 ASS, Concistoro, Carteggio, 1846, c. 13. 84 Laerte Mulinacci

alii per dominos Gubernatores civitatis Senarum; quod intrate Comunis sint suprascripti domini Ducis, exceptis expensis pro Gubernatoribus alii- sque officialibus et Studio Generali, que omni anno ascendunt ad summam undecim millium quatuor centum nonaginta sex florenorum auri; quod do- minus Dux debeat deffendere et jurare Comune Senarum nec possit quo- ndam terram alienare; quod domini Officiales ejusdem ducis non possint se intromittere in quibuscumque rebus spectantibus ad Hospitales Sancte Marie de la Schala et Misericordie sed agant quemadmodum semper ge- runt; quod beneficia ecclesiastica dentur civibus senensibus95”

La citazione riassume sinteticamente i patti tra Siena e Milano: la città toscana resta il centro giurisdizionale del suo territorio pur demandando le que- stioni politiche di maggior conto ai milanesi nella figura del Luogotenente, vera e tangibile propagazione del Conte di Virtù in città. È quindi evidente che i milanesi abbiano modificato la loro strategia, dall’imposizione di un dominio indiretto a una forma di possesso vero e pro- prio, probabilmente ciò è dovuto al fatto che i tempi ormai erano maturi per procedere in tal senso. Firenze, decisamente allarmata, è fortemente determinata a tentare di sal- vare almeno Perugia dallo stesso destino; nel marzo del 1398 infatti termina il breve momento di gloria di Biordo de’ Michelotti ucciso da una congiura. I fiorentini non hanno intenzione di attirarsi le ire del Papa mettendo le mani su una città de jure parte dei suoi domini. Alle titubanze fiorentine si contrappose ancora una volta la risolutezza dei milanesi che inviarono in città il capitano Ottobuono Terzi con una guarnigione, giungendo alla ratifica della cessione della città al Visconti già nel gennaio del 140096. In questi mesi i milanesi risolvono definitivamente anche la questione lucchese, perché nel febbraio del 1400 muore, assassinato in circostanze mi- steriose, Lazzaro Guinigi signore della città. Appoggiato dalle truppe viscontee presenti a Pisa, sale al potere Paolo Guinigi giovane cugino del defunto si- gnore il quale rapidamente proclama decaduto il consiglio cittadino imponen- dosi come signore assoluto della città. In realtà Paolo Guinigi non si allineò completamente al Visconti ma sostanzialmente rinnovò con maggior fermezza la tradizionale neutralità lucchese, neutralità che sottraeva a Firenze l’unico

95 ASS, Capitoli, 102, c. 47a. 96 Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti cit., pp. 250-253 La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 85 interlocutore che le era rimasto in Toscana, segnando di conseguenza un punto a favore per il Visconti97. È innegabile che Siena sollevata completamente dagli oneri della politica estera e dell’amministrazione militare potesse finalmente dedicarsi al riassetto del proprio tessuto economico e sociale. Molti sono i provvedimenti correlati a questo periodo e si assiste ad una ripresa dei commerci e si ristrutturano e ripristinano le infrastrutture: ponti e strade. La Zecca è riordinata e in generale assistiamo ad una maggiore attenzione verso gli aspetti di politica locale. Tuttavia se l’annessione ai domini milanesi aveva alleggerito il fardello delle istituzioni cittadine in ambito politico, non poteva certo evitare lo scoppio di una pestilenza che interruppe l’attività di riorganizzazione. L’anno 1400 è un anno cardine per la parabola politica di Gian Galeazzo Visconti: il 20 agosto viene deposto l’imperatore Venceslao accusato di aver favorito il signore di Milano a discapito dell’Impero stesso, ed è in questo clima che è eletto Roberto Conte palatino del Reno e Duca di Baviera, il quale viene incoronato 6 gennaio del 1401 a Colonia. I fiorentini fiutarono immediatamente le intenzioni del nuovo eletto, ov- vero arrestare l’ascesa politica del Visconti che ormai era davvero vicino a re- cidere ogni parvenza di controllo imperiale sull’Italia. L’imperatore neoeletto approntò subito un esercito e si mise in marcia verso la penisola, i senesi dal canto loro avvertirono il pericolo portato dall’esercito dell’imperatore che in caso di vittoria non avrebbe tardato a travolgere tutti gli alleati dei milanesi. Fu nominata, pertanto, una Balìa speciale, la quale pochi giorni dopo deli- berava una fornitura di 100 lance per contribuire alla difesa della Toscana, finan- ziando l’impresa con una modesta tassazione che fruttasse 6000 fiorini98. In questo modo Siena dimostrava di essere in grado di sostenere sforzi al pari di Pisa e Perugia e di mettersi in luce come alleata di alto rango nella gerarchia della confederazione viscontea. Le lance in questione, insieme a quelle perugine e pisane non vennero mai realmente impiegate dato che Gian Galeazzo Visconti decise di affrontare in campo aperto l’esercito imperiale. Deve essere stata una decisione alquanto difficile dato che, come abbiamo avuto modo di vedere, la sorte delle battaglie campali raramente aveva favorito il signore di Milano.

97 Landogna, La politica dei Visconti in Toscana cit., pp. 182-185. 98 ASS, Consiglio Generale, Deliberazioni, CV / 200, c. 46b. 86 Laerte Mulinacci

Nel frattempo oltre ai fiorentini, che promisero anche una ricompensa di 200.000 fiorini se l’imperatore avesse sconfitto i milanesi, anche Este, Gonzaga e da Carrara inviarono rinforzi al signore straniero. Il 21 ottobre del 1401 è l’imperatore a rompere gli indugi, assalta Brescia che era difesa da Facino Cane ed Ottobuono Terzi, ma, dopo che la guarnigio- ne cittadina lo ha facilmente respinto, l’esercito visconteo prende l’iniziativa uscendo dalla cinta muraria e respinge i tedeschi fino a Trento99. Padovani, ferraresi e mantovani non osano proseguire con le ostilità, Gian Galeazzo in questo momento è davvero padrone assoluto della scena italiana, i suoi nemici sono stati incapaci, ancora una volta, di ridimensionarlo ed adesso si apprestano a capitolare. Bologna vive da un paio di anni in un clima di grande tensione politica dove si susseguono continui tentativi di colpi di mano, la signoria dei Bentivo- glio appare sempre più traballante ed anche qui si assiste al solito copione delle incursioni mercenarie. Approfittando del momento favorevole e del generale scoramento dei suoi avversari conseguente alla vittoria di Brescia, i milanesi si mettono in marcia convergendo verso Bologna. Il 26 di giugno del 1402 presso Casalecchio di Reno l’esercito visconteo, comandato da Facino Cane e Pandol- fo Malatesta e rinforzato da un contingente mantovano (che aveva prontamente ricambiato sponda), ingaggia battaglia con l’esercito fiorentino-bolognese100 guidato dal Bentivoglio stesso e dal capitano mercenario Bernardone della Sal- le (vero erede dell’Acuto e già visto in plurime occasioni alla testa dei Bretoni). I lombardi travolgono il nemico uccidendo in battaglia lo stesso si- gnore di Bologna Giovanni Bentivoglio ed entrano in città dove proclamano Pandolfo Malatesta governatore101. Il giorno dopo la battaglia, la notizia è già di dominio pubblico a Siena102 e il 6 di luglio il Consiglio Generale delibera solenni festeggiamenti per la gran- de vittoria103 deliberando

“super festo celebrando propter victoriam habitam per dominum no- strum ducem contra hostiles gentes lige104”

99 ASS, Consiglio Generale, Deliberazioni, CV / 200, c. 44a e c. 48a. 100 ASS, Concistoro, Copialettere, 1770, f. 11b. 101 Bueno De Mesquita, Giangaleazzo Visconti cit., pp. 276-278. 102 ASS, Concistoro, Copialettere, 1770, f. 17a e f. 16a. 103 ASS, Consiglio Generale, Deliberazioni, CV / 200, c. 99a. 104 ASS, Concistoro, Deliberazioni. CXIIX / 227, c. 5b. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 87

Come ho scritto in precedenza, se cade Bologna cade Firenze e, per evi- tarlo, il Visconti si mette all’opera per la definitiva capitolazione del suo ultimo e più irriducibile avversario. Perché l’esercito visconteo non assalta immedia- tamente Firenze? Gian Galeazzo era una personalità piuttosto cauta nonostante l’elevato numero di conflitti che dovette affrontare nel corso del proprio regno, soprat- tutto anche a cagione delle scottanti sconfitte, a onta di ogni pronostico, che aveva visto durante la sua vita. Una marcia verso Firenze rischia di essere un’azione precipitosa e eccessivamente aggressiva, così egli, durante l’estate del 1402, cerca di fomentare un rovesciamento di regime a Firenze che gli ga- rantisca l’apertura delle porte della città. Ormai possiamo immaginare che la capitolazione della città sull’Arno sia imminente, circondata da ogni lato e privata di ogni alleato, ma la storia è imprevedibile e il 3 settembre del 1402 Gian Galeazzo muore inaspettatamente di peste. I fiorentini evidentemente erano riusciti a resistere abbastanza a lungo. A Siena è proclamato il lutto cittadino e mentre si provvede a celebrare il signore defunto si augurano anche le migliori fortune al suo erede105, tuttavia alla morte del Conte di Virtù assisteremo ad una rapida disgregazione del suo dominio, soprattutto per quanto riguarda le sue appendici extra-lombarde che recupere- ranno la propria indipendenza. Il sogno del Regno d’Italia tramontava definitivamente. Firenze riprende la propria marcia verso la grandezza: senza l’ingombrante presenza milanese ormai è padrona assoluta della scena toscana106.

Conclusioni La morte di Gian Galeazzo Visconti lasciava un vuoto di potere difficil- mente colmabile; la sua figura autorevole ed autoritaria aveva dato coesione e slancio ai domini della sua famiglia proiettando la propria ombra ben oltre i confini regionali.

105 ASS, Consiglio Generale, Deliberazioni, CV / 200, c. 117b; ASS, Concistoro, Deliberazioni. CXIX / 228, c. 16b. 106 “Allora tutte le città, che formavano il dominio dello Stato visconteo, a poco a poco si stac- cano da esso e si orientano verso nuove costellazioni politiche. Pisa è venduta ai fiorentini, i quali in tal modo hanno di nuovo libera la via del mare; Siena riacquista la libertà; le città ponteficie tornano al Papa: così l’Italia centrale va in breve tutta perduta per i Visconti, e Firenze torna di nuovo regina della toscana.” Landogna, La politica dei Visconti in Toscana cit., p. 195. 88 Laerte Mulinacci

Uno degli elementi chiave del successo del Conte di Virtù è sicuramente l’essere riuscito a superare il sistema di co-reggenza che caratterizzava il cor- pus dei domini familiari. Gian Galeazzo riesce nell’intento di accentrare nelle proprie mani la totalità del potere, alla sua morte invece i domini vengono nuo- vamente spartiti tra i suoi figli: Giovanni Maria e Filippo Maria. Inizialmente fu Giovanni ad avere il titolo ducale ma i suoi dieci anni di regno, contraddistinti dall’incapacità e dal suo carattere cruento, si conclusero drammaticamente con la sua morte dovuta ad una congiura. Nel 1412 Filippo Maria diventa duca di Milano: egli è plenipotenziario dato che è l’ultimo espo- nente del casato, il suo lungo regno perdurerà fino all’anno della sua morte, il 1447 anno zero del dominio sforzesco.107 Quale bilancio possiamo stilare del governo di Gian Galeazzo? Senza dubbio egli fu la figura più influente del suo tempo, e possiamo anche sostenere che accaparrò titoli e poteri in misura tale che un signore italia- no non riuscirà più ad eguagliare per moltissimo tempo. Probabilmente il suo tentativo di costruire un’ Italia viscontea è il più riuscito tra gli innumerevoli di cui si discuteva e si vaneggiava all’epoca, eppure alla sua morte, imprevista, non sopravviveva quasi nulla della sua grandeur. Non sopravvive nulla è certamente un’espressione drastica ma valida se la commisuriamo alla grandiosità della sua ambizione, Filippo Maria infatti eredita dal padre un coacervo di possedimenti così disomogeneo da renderne impossibile la gestione organica. L’ultimo dei Visconti è ritratto come un bril- lante politico e la razionalizzazione dell’amministrazione e la contrazione dello stato entro i confini lombardi sono prove della sua abilità e non, al contrario, di una sua incapacità nell’attenersi alla linea dettata dal padre. Troppe guerre e per troppo tempo avevano colpito duramente anche una regione ricca e produttiva qual era la Lombardia tardo-trecentesca, le casse erano provate e la situazione debitoria era fuori controllo: Filippo Maria eredita uno stato in difficoltà. Fin da subito egli comprende che bisogna recidere quelle appendici il cui mantenimento è impraticabile ed inoltre bisogna allentare la pressione delle potenze avversarie ansiose di dare l’ultima spallata al dominio lombardo. In molti casi Filippo riesce a far coincidere le cose, Bologna e Siena ritornano in- dipendenti, Pisa è venduta ai fiorentini e non si muove un dito per impedire che

107 Landogna, La politica dei Visconti in Toscana cit., pp.190-192. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 89

Perugia torni sotto l’egida pontificia. L’eredità del Conte di Virtù non è comun- que solo debiti e guerre, il titolo ducale ormai è ad appannaggio dei signori di Milano e con esso la legittima rivendicazione della Lombardia tutta. Del resto, l’epoca di Gian Galeazzo è anche l’epoca dell’espansione economica e delle riforme in ambito amministrativo, tutti elementi che garantiranno alla sua terra la prosperità anche dopo la sua dipartita. Muore un grande ma la grandezza della Lombardia e di Milano non scom- pare con lui: certo, assistiamo a un ridimensionamento del ruolo geopolitico di questa regione nel panorama italiano ma non ad una sua eclissi. Cessato il pericolo visconteo, che aveva monopolizzato le attenzioni per oltre un ventennio, i potentati regionali sono liberi di riprendere la propria mar- cia come stati locali dell’Italia rinascimentale e moderna. Al momento del decesso del signore milanese, il suo entourage cerca di tamponare la propagazione della notizia della morte, che, avvenuta nella notte tra il 2 e il 3 di settembre, viene resa di dominio pubblico solo il giorno 8, per predisporre l’insediamento di Giovanni Maria. I senesi spendono più di 400 fiorini per contribuire alla magnificenza delle esequie, ma ciò che per noi ricopre maggiore interesse è sapere che il neo duca, appena tredicenne era attorniato dai molti capitani di ventura presenti in loco. Gian Galeazzo era circondato da molti validissimi uomini d’arme che ricoprivano un ruolo importantissimo presso la sua corte e adesso questi si stavano contendendo la fiducia del loro nuovo signore. A spuntarla sarà Facino Cane che diverrà il vero punto di riferimento nel governo del giovane e inadeguato Giovanni Maria. I fiorentini, nello stesso tempo, appro- fittano dell’empasse lombarda e appoggiano le truppe papali dirette verso Pe- rugia, mentre parallelamente riprendono le incursioni delle truppe mercenarie nel pisano e nel senese. Nell’impellente necessità di riorganizzare le forze, la guarnigione mila- nese in Siena è richiamata in Lombardia, lasciando in Toscana solo Giorgio del Carretto quale luogotenente. Nondimeno quando i fiorentini divengono più mi- nacciosi, nel corso della prima metà del 1403, i senesi, come da prassi durante il regno del Conte di Virtù, si appellano al nuovo duca affinché intervenga, ma Milano non ha né i mezzi né l’intenzione di intraprendere nuove ostilità. Quando anche Pandolfo Malatesta lascia Siena perché richiamato al Nord, la città è sostanzialmente priva di difese e di nuovo alle prese con le difficoltà economiche. La partenza delle truppe milanesi con il loro capitano equivaleva 90 Laerte Mulinacci alla latitanza stessa del potere visconteo, Giorgio del Carretto privo di armati non poteva mantenere a lungo l’influenza sulla città. Il 12 dicembre del 1403 una congiura cittadina, ispirata dal Monte dei Dodici, i Salimbeni e i Malavolti, cercava di allontanare definitivamente ogni residuo del potere straniero. È interessante notare che sia i Dodicini sia i Salimbeni sono tra le parti in causa che più hanno favorito l’affermazione del Conte di Virtù nello stato senese e che adesso, cambiato il vento, sono i primi a cercare la sommossa, mo- strando così il fianco ad una lettura in chiave prettamente opportunistica della loro attività politica. Nonostante la sommossa venisse repressa, da Milano con- tinuavano a provenire solamente belle parole di felicitazioni per la repressione dei rivoltosi ma nessun aiuto concreto. È questo il momento in cui le magistrature senesi riacquistano consape- volezza politica ed iniziano a muoversi indipendentemente per siglare la pace con Firenze. A fine marzo del 1404 gli ambasciatori senesi giungevano a Firenze, comunicando immediatamente che la signoria fiorentina era ben propensa a sbrigare i negoziati il più rapidamente possibile. Firenze era esausta al pari di Milano, non poteva imbarcarsi in imprese mirabolanti, concludere la pace con Siena equivaleva ad isolare completamente Pisa. Le clausole della pace vertono molto più su questioni strategiche e politiche che su possessi territoriali, Siena avrebbe cacciato il Luogotenente lombardo rompendo l’alleanza con Milano e al tempo stesso non avrebbe dato aiuti né a Perugia né a Pisa. Montepulciano restava ai fiorentini mentre Lucignano ai senesi, chiuden- do così anche le tensioni nella Val di Chiana. Il 2 aprile Giorgio del Carretto viene scortato fino al confine ed il 6 dello stesso mese viene proclamata la firma del trattato di pace scatenando un genuino tripudio cittadino: la città era emersa da questa burrasca meglio di come ci si aspettava108. L’amministrazione senese si concentrerà in questi primi anni del ritorno alla piena autonomia nel riassestamento interno, non solo in ambito urbano, ma anche nella gestione delle comunità sottoposte, cercando di ricucire quei rapporti messi a dura prova durante i decenni precedenti109.

108 T. Terzani, Siena dalla morte di Gian Galeazzo Visconti alla morte di Ladislao d’Angiò Durazzo, in “Bullettino Senese di Storia Patria”, vol. XIX, 1960, pp. 3-84. 109 ASS, Diplomatico, Riformagioni, Città di Massa; dallo “Spoglio dell’Archivio di Massa fatto di ordine di S.A.R. Pietro Leopoldo Arciduca di Austria Gran Duca di Toscana etc., Anno 1780”; num. CMXXXIII; perchè la pergamena risulto mancante. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 91

Seguendo una linea intrapresa già durante gli anni precedenti, si opera per il ripristino delle infrastrutture e la cura del territorio; inoltre è riaperto lo Studio chiuso durante gli anni della guerra. Siena emerge da questa complessa vicenda profondamente segnata; come già ribadito la città non recupererà mai lo slancio e l’importanza duecentesca, ma durante il XV secolo riuscirà, co- munque, nella sua missione di ritorno alla normalità. Siena aveva superato un’altra dura prova, delle non poche delle quali è costellata la sua storia, e a tale proposito trovo calzante, a mo’ di conclusione, quanto scriveva, molti decenni fa, Ernesto Sestan:

“Ora, questo è particolarmente mirabile nella storia dei Senesi: la loro sfi- da continua contro condizioni della natura e della storia che congiuravano a lor danno. È quasi un paradosso che questo volto incantevole della città, che desta la stupìta ammirazione universale, sia, sostanzialmente, il volto che la città assunse non nel periodo dell’ascesa, ma nella fase dell’arresto, del ristagno, anche dell’incipiente declino politico ed economico; si espri- me una volontà, in certo senso, proterva contro il destino maligno, una volontà di conservare a dispetto di tutto, alla città un tono di alta civiltà urbana. Insomma: una ben singolare, strana, cara città110”

110 E. Sestan, Italia Medievale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1968, p. 152. 92 Laerte Mulinacci

Appendice LE SCHEDE SENESI DEL FONDO RIVA

La storia del patrimonio archivistico visconteo è segnata senza dubbio dagli av- venimenti dell’agosto 1447 ovvero, l’anno della morte di Filippo Maria Visconti. La morte dell’ultimo figlio di Gian Galeazzo segnava infatti la conclusione del loro do- minio su Milano e la Lombardia, come spesso accadeva durante i cambi di regime si verificarono dei tumulti popolari. La folla prese d’assalto il castello di Porta Giovia dove si trovava anche la can- celleria distruggendo gran parte della documentazione esistete. Quello che sopravvisse alle distruzioni venne trasferito all’archivio ducale da Francesco Sforza, formando il primo nucleo del carteggio oggi conosciuto col nome di Visconteo-Sforzesco111. Nel 1897 la Società Storica Lombarda, approfittando di una generosa donazione del suo socio, il prof. Elia Lattes, intraprese la progettazione di un Regesto Diplomatico Visconteo (detto anche Repertorio Diplomatico Visconteo)112. L’obiettivo era quindi quello di sopperire alle lacune documentarie, soprattutto per quanto riguarda l’amministrazione viscontea, andando a stilare una regestazione della documentazione esistente. Tuttavia l’obiettivo era più ambizioso, al fine di contri- buire alla completezza della ricerca si estese la ricerca ad altri archivi cercando appunto di realizzare un censimento archivistico vero e proprio. Furono necessari quasi due anni affinché le linee guida per la stesura dell’elabo- rato fossero approntate ed il passaggio alla fase operativa vera e propria avvenne solo due anni dopo nel 1899. Il lavoro si presentava alquanto arduo e fu nominata una commissione ad hoc incaricata di supervisionare i lavori dell’opera, a capo di tale commissione vi era il Prof. Francesco Novati. La commissione doveva affrontare problemi spinosi e assai rilevanti derivanti dalla vastità dell’argomento in oggetto, non solo cronologicamente ma anche geogra- ficamente. Le attività della famiglia Visconti spaziavano attraverso un’area ampissima travalicando anche i confini italiani mentre dal punto di vista cronologico si eradi fronte ad una parentesi plurisecolare. La commissione convenne, durante la fase preliminare, di confinare la ricerca entro l’arco cronologico 1288-1402. La prima data coincide con la nomina vicariale di Matteo Visconti mentre la seconda è relativa alla morte di Giangaleazzo Visconti.

111 Informazioni riguardanti la storia ed il contenuto del Carteggio Visconteo-Sforzesco sono reperibili a http://www.archiviodistatomilano.beniculturali.it/index.php?it/179/c. 112 Per la storia e le informazioni inerenti l’attività della Società Storica Lombarda, www.so- cietastoricalombarda.it. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 93

La nomina di Matteo Visconti costituisce il momento in cui la famiglia del Bi- scione si afferma quale signoria egemone di Milano instaurando un potere che avrà termine solo nel 1447 con la morte di Filippo Maria Visconti e l’avvento degli Sforza. Perché quindi far terminare il Regesto con la morte di Giangaleazzo? Molto semplicemente la commissione individuò enormi difficoltà nella gestione e nella ricerca dei 50 anni che separavano la morte del Conte di Virtù da quella del figlio. Inoltre la stessa commissione individuava, nella morte del Conte di Virtù, la fine dello splendore del casato visconteo relegando il regno di Filippo Maria al suo burra- scoso declino e che si concluderà con l’estinzione della dinastia. Le problematiche metodologiche furono risolte esaminando le più importanti e recenti pubblicazioni dell’epoca, in particolare i regesta imperii e i regesta pontificum romanorum113. L’opera fu redatta in lingua latina, la commissione ritenne maggiormente van- taggioso l’uso di questa lingua sia per una ragione stilistica che pratica: il latino avrebbe garantito una maggiore continuità e organicità all’elaborato, inoltre assicurava la mag- giore fruibilità del testo nei paesi fuori dall’Italia. Il lavoro di regestazione avvenne tramite la trascrizione e la sintesi di documenti originali. Definiti i cardini metodologici, la commissione concluse la propria relazione e richiese, attraverso una circolare inviata agli archivi e biblioteche, di notificare l’even- tuale presenza di documentazione viscontea e di farne un estimo anche sommario.114 Le risposte a questa circolare evidenziarono l’esistenza di fondi estremamente ricchi e promettenti per cui sarebbe stato prioritario effettuare un’ indagine in loco a cura di un incaricato della Società Storica Lombarda.Per assolvere a tale compito vennero selezionati due dei più promettenti studenti della Regia Accademia Scienti- fico-Letteraria: Giuseppe Riva e Giovanni Seregni. Riva, in particolare, fu incaricato di esplorare i Regi Archivi di Stato di Pisa, Siena, Firenze e gli Archivi Comunali di Arezzo e Pistoia. Nell’anno 1900115 Riva pubblica la sua relazione riguardo agli archivi in questione, ed emerge che per quanto riguarda gli archivi pisano, senese e fiorentino

113 F. Novati, Relazione sui lavori intrapresi per il Regesto Diplomatico Visconteo, “Archivio Storico Lombardo” XIII, fasc. 25, 1900, pp.208-220. 114 Nello specifico, gli archivi e biblioteche italiane contattate furono quelle di Città venute a contatto con la dinastia Viscontea: Alessandria, Assisi, Asti, Bergamo, Belluno, Bobbio, Bologna, Brescia, Casale Monferrato, Città di Castello, Como, Crema, Cremona, Feltre, Firenze, Grosseto, Lodi, Lucca, Mantova, Massa, Modena, Napoli, Novara, Parma, Pavia, Piacenza, Pisa, Reggio Emilia, Roma, Siena, Torino, Tortona, Venezia, Vercelli, Verona. 115 G. Riva, I documenti viscontei dal 1279 al 1402 nei Regi Archivi di Stato in Pisa, Siena e Firenze e negli Archivi Comunali di Arezzo e di Pistoia, “Archivio Storico Lombardo”, XVIII, 1900, pp. 230-265. 94 Laerte Mulinacci si è potuto avvalere dell’opera di storici e studiosi che lo hanno preceduto, mentre per Arezzo e Pistoia non poteva servirsi di nessuno strumento di corredo. In particolare lo spoglio dell’archivio di Pisa, Arezzo e Pistoia avvenne rapida- mente a causa della depauperazione dei fondi in oggetto, mentre quelli di Firenze e Sie- na, nonostante le copiose indagini già effettuate, erano talmente ricchi da richiedere più tempo del previsto. È lo stesso Riva a mettere in guardia il lettore sull’impossibilità di realizzare uno spoglio davvero esaustivo e delle difficoltà incontrate nello stabilire un netto confine di separazione tra materiale strettamente visconteo e quello di argomento meno specifico. Il 21 agosto del 1900 dopo aver soggiornato a Pisa, Giuseppe Riva giunse a Siena dove avviò il suo lavoro in quell’archivio grazie al sostegno del professor Alessandro Lisini, autore tra l’altro di una vasta opera di ricerca sul Regio Archivio di Stato di Siena, il quale coadiuvò il Riva nella sua opera di ricerca e spoglio. Nella sua relazione Riva ripercorre il proprio lavoro suddividendolo in quattro parti: Archivio Diplomatico Capitoli Consiglio Generale Concistoro

Egli realizza un breve excursus delle relazioni intercorse tra Siena e la signoria lombarda, attraverso alcuni estratti dei documenti più importanti. I primi contatti risalgono al 1351, quando Giovanni Visconti, allora arcivescovo e massima autorità milanese, invia a Siena una reprimenda riguardo il sostegno pro- messo dai senesi ai fiorentini. Nel 1355 Siena invia un contingente di uomini armati a Milano su richiesta di Galeazzo II, i quali dovevano servire a rendere “ancora più paurosa all’imperatore Carlo IV la ospitalità, circondata di tanti apparati bellicosi, offertagli dai fratelli Vi- sconti116”. Nel 1362 i senesi manifestano apprensione per la discesa in Toscana delle truppe di Bernabò Visconti, il contingente in realtà andò a dare man forte ai senesi che com- battevano le compagnie di ventura; nonostante quest’episodio positivo i senesi non nutrirono mai una particolare fiducia nei confronti del signore lombardo. Nel 1375 quando la Repubblica di Siena e Firenze si legano alla signoria lombar- da, ancora una volta accomunati dal pretesto del comune nemico dei mercenari stranie- ri, è palpabile la circospezione con cui i senesi si accostano a Bernabò117. Nondimeno in questi anni, appare per la prima volta, nella documentazione sene-

116 G. Riva, I documenti viscontei cit. 117 Giulini, Memorie spettanti alla storia cit. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 95 se, anche il nome di Gian Galeazzo (nonostante rimanga una figura secondaria rispetto a Bernabò). Nel 1360 il Comune di Siena si congratula calorosamente per le nozze con- tratte dal Conte di Virtù con Isabella, tuttavia è solo con l’ascesa politica di Gian Ga- leazzo che i contatti diplomatici tra senesi e milanesi si fanno decisamente più intensi. La parte più cospicua e rilevante del carteggio è proprio quella relativa agli anni del governo di Gian Galeazzo; oltre alla stipula delle leghe e tutto il complesso corol- lario di ambasciate e diplomazia, vi ricopre particolare importanza la documentazione inerente la soggezione di Siena. È altrettanto degno di nota il carattere deliberativo delle carte analizzate, perché, oltre ad un gran numero di nomine, vi troviamo i resoconti delle magistrature cittadine e l’epistolario dei funzionari milanesi presenti a Siena. Anche se ufficialmente l’indagine archivistica si interrompe nel 1402, Giuseppe Riva annovera tra i documenti regestati anche una carta proveniente dalle Riformagio- ni del 1404 relativa alla cacciata dell’ultima guarnigione milanese dai possedimenti senesi. L’opera di ricerca del Repertorio Diplomatico Visconteo terminò nel 1906, la Società Storica Lombarda intraprese subito i lavori per la pubblicazione riordinando e selezionando l’enorme mole di documentazione rinvenuta. Fu così che vide la luce il Repertorio Diplomatico Visconteo stampato nel 1911 a cui seguì anche il Supplemento del 1937. Recandomi alla Biblioteca Nazionale di Firenze ho avuto modo di consultare entrambe le opere. A dispetto della dicitura che recita documenti dal 1288 al 1402, la serie documentaria non va oltre il 1385-1386 – aspetto che rende la consultazione dei volumi pressoché inutile per chi volesse approfondire le vicende inerenti il dominio del Conte di Virtù. Ho contattato quindi la Società Storica Lombarda per avere delucidazioni in me- rito e soprattutto per sapere se vi fossero state pubblicazioni successive che avessero colmato le lacune dei primi volumi. Ad onor del vero, tale quesito ha creato non pochi grattacapi alla stessa Società Storica che solo dopo un’attenta analisi mi ha risposto che poiché le schede redatte da Giuseppe Riva sono disponibili solo nel formato manoscritto originale, non è possibile risalire a una documentazione datata oltre il 1386. È stato quindi necessario recarsi a Milano per la consultazione al fine di esami- nare le suddette schede e ho così constatato che nonostante le effettive lacune il fondo Riva è assai copioso e articolato in 41 buste. Durante la mia prima visita nel capoluogo lombardo, gli operatori della suddetta Società Storica mi hanno procurato una busta proveniente dall’archivio personale di Riva che recava il cartello “Regio Archivio di Stato in Siena 1900”. Tuttavia al suo interno sono conservati solamente appunti, qualche nota e molti scarabocchi prodotti evidentemente durante l’opera di trascrizione. Ad ogni modo, grazie alla solerzia e 96 Laerte Mulinacci intuito degli operatori della Società Storica Lombarda, è stato possibile individuare la corretta collocazione del materiale da me cercato. ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­Le schede preparatorie di Giuseppe Riva, anche se mai pubblicate, sono confluite nella più vasta sezione dell’archivio inerente la raccolta preliminare alla stesura del Repertorio Diplomatico Visconteo. La raccolta di tutte le schede preparatorie che costituiscono il censimento di tutta la documentazione viscontea rinvenuta in Italia occupa oltre 100 scatole ed ognuna di queste accoglie in media 400 schede. Tale raccolta è stata messa insieme ordinando cronologicamente le suddette schede senza quindi rispettarne la provenienza geografica; ne consegue quindi che in una stessa scatola rinveniamo le schede di una stesso periodo ma provenienti da diversi archivi oggetto d’indagine. Fortunatamente le scatole da visionare si limitano a 18 unità corrispondenti, una per ogni anno, al periodo 1385-1402, ciò nonostante il numero di schede da visionare si aggirava nell’ordine delle 18.000-20.000. Alla fine dell’opera di spoglio delle schede mi è stato possibile rintracciare ben 522 schede senesi corrispondenti ad altrettanti documenti viscontei. Da tali documenti tuttavia non sono scaturite informazioni particolarmente inno- vative rispetto a quanto già noto, nondimeno vi si riscontrano alcune questioni interes- santi che meriterebbero un approfondimento. In particolare vi è la questione irrisolta dei documenti in cifra118 che, come so- stenuto in precedenza, lascia qualche interrogativo dal momento che tali documenti compaiano proprio quando l’annessione di Siena è imminente. Non sembrano esserci grandi dubbi, quindi, sul fatto che la crittazione fosse utilizzata per mantenere nel più stretto riserbo quella che, nonostante l’influenza del Conte di Virtù sulla città, risultava una trattativa scomoda e delicata. Per motivi di tempo e per scongiurare il rischio di un’eccessiva divagazione ho dovuto sorvolare sul contenuto di alcune serie documentarie interessanti e rappresen- tative dell’immagine di Siena durante questi anni, durante i quali la città è pienamente coinvolta nel gioco diplomatico visconteo e integrata nelle meccaniche del vasto do- minio di Gian Galeazzo. È interessante scoprire un documento inerente la “reformatione studi patavini”: l’Università senese infatti è interpellata al fine di contribuire alla riforma dell’Uni- versità di Padova ed è lecito supporre che ciò avvenga perché le due realtà si trovano entrambe sotto lo stesso dominio119. Altrettanto interessante è la diatriba tra il Comune di Siena e il Conte Bertoldo Orsini circa il Castello di Scerpena che occupa un intero triennio e che testimonia come

118 ASS, Concistoro, Carteggio, 1841, c. 77, c. 79, c.86, c. 103 e c. 107. 119 ASS, Concistoro, Deliberazioni CXXXI / 141, c. 10b. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 97 nelle schede realizzate da Riva confluiscano documenti di varia natura e non stretta- mente diplomatico-militari120. Le schede redatte sono basate sullo stesso formato, ovvero un cartoncino suddi- viso in varie parti atte ad alloggiare le informazioni riportate: Numero della scheda Data Luogo di stesura Testo del documento Collocazione Nome del notaio Il testo del documento è redatto interamente in latino, tuttavia le parti letteralmen- te trascritte sono poste tra virgolette. La numerazione delle schede risulta incongrua, dato che spesso si rileva una ripetizione degli stessi numeri, dovuta probabilmente alla fase di riordino di tutto il materiale preparatorio del Repertorio Diplomatico Visconteo.

Giuseppe Riva e la Società Storica Lombarda non sono comunque stati gli unici ad occuparsi della documentazione viscontea a Siena. Sarah Favale, in un testo pubbli- cato nel “Bullettino Senese di Storia Patria”, cita proprio il lavoro svolto da Riva. La stessa Favale sottolinea le difficoltà dell’impresa data l’ampiezza e la sfuggevolezza della documentazione in esame, e al termine del suo articolo pubblica la versione in- tegrale di cinque documenti già presenti in forma ridotta nelle schede di Riva. Questa selezione, che va a costituire una documentazione essenziale è volta ad esporre i testi più significativi nella vicenda storica senese durante gli anni della dominazione viscon- tea. Questi sono:121

La prima lega tra Siena e il Visconti in funzione anti-fiorentina del 1389 (Caleffo Rosso, c.27) La lega del 1389 volta al contrasto delle compagnie di ventura (Caleffo Rosso, c. 32) L’insediamento di Andreasio Cavalcabò quale nuovo Senatore di Siena (Consi- glio Generale, Deliberazioni, 196, c. 154) (assente nel Fondo Riva) Le onoranze ad una delegazione milanese (Consiglio Generale, Deliberazioni, 199, c.27) La “translatio dominii” del 1399 (Consiglio Generale, Deliberazioni, 199, c.47)

120 ASS, Concistoro, Carteggio, 1834, c. 37, c.30, c. 85; ASS, Concistoro, Carteggio, 1836, c.16; ASS, Consiglio Generale, Deliberazioni, CCII / 197, c. 144a; ASS, Capitoli, Caleffo Rosso, c. 76a e Capitoli, 105. 121 Tra parentesi è indicato il documento corrispondente nelle schede senesi di Riva, al contrario il numero romano è volto a numerare i documenti viscontei già editi e separati dagli altri. 98 Laerte Mulinacci

Il documento III non trova corrispondenza all’interno delle schede senesi del Fondo Riva, tuttavia è possibile constatare una ridondanza nel carteggio dato che l’in- sediamento di Andreasio Cavalcabò avvenuto nel 13 di marzo del 1389 è riportato anche nelle Deliberazioni del Concistoro122. Il fatto che Riva abbia saltato una carta del Consiglio Generale credo sia spiega- bile verosimilmente con il poco tempo a disposizione e la mole di materiale visionato. Il documento IV invece testimonia l’arrivo a Siena di una delegazione diplomatica milanese tra cui vi troviamo il Conte Corrado di Aichilberg e Francesco Crivello. Questa deputazione in realtà si reca in Toscana col preciso intento di predispor- re entro l’anno l’annessione di Siena lasciata in sospeso nel 1389. Dopo Pisa, infatti, anche Siena doveva rinunciare alla propria indipendenza, in realtà già da anni ridotta a poco o nulla. Anche Bueno de Mesquita al termine del suo volume sulla vita e la carriera di Gian Galeazzo Visconti pubblica una selezione di documenti provenienti dall’Archivio di Stato di Siena. Al contrario della Favale però egli non sembra aver attinto dal lavoro di Riva ma piuttosto ha svolto una ricerca del tutto indipendente. La sua appendice documentaria consta di sedici documenti provenienti da vari fondi:

Archivio di Stato di Firenze: 5 documenti Archivio di Stato di Milano: 3 documenti Archivio di Stato di Siena: 7 documenti Bibliothèque nationale, Paris: 1 documento

La ricchezza dell’Archivio di Stato di Siena, per quanto concerne l’epoca viscon- tea, è quindi pienamente confermata anche nel lavoro di Bueno de Mesquita. Andando a visionare quali sono i documenti da lui pubblicati ci accorgiamo che essi sono:

Un’ambasciata senese al Conte di Virtù Concistoro, Deliberazioni, CXXXIV / 143, c. 26 Una lettera di alcuni mercanti senesi che si trovano a Venezia Concistoro, Carteggio, 1821, c. 19 assente nel Fondo Riva Una lettera di Gian Galeazzo diretta a Siena (Concistoro, Carteggio, 1828, c. 7) Dispaccio di ambasciatori senesi in Lombardia (Concistoro, Carteggio, 1832, c.4) (assente nel Fondo Riva) Dispaccio di ambasciatori senesi in Lombardia (Concistoro, Carteggio, 1833, c.13) (assente nel Fondo Riva)

122 ASS, Concistoro, Deliberazioni. CLI / 160, c. 4b e c.5a. La Lupa e il Biscione Considerazioni sulla dominazione viscontea su Siena 99

Dispaccio di ambasciatori senesi in Lombardia (Concistoro, Carteggio, 1833, c. 106) (assente nel Fondo Riva) Dispaccio di ambasciatori senesi in Lombardia (Concistoro, Carteggio, 1833, c.43)

Su un totale di sette documenti pubblicati da Bueno de Mesquita solamente quat- tro trovano corrispondenza tra le schede senesi compilate da Riva, è mio parere che in definitiva tali discrepanze non siano da annoverare quali errori di distrazione ma che siano dovute alla natura stessa della documentazione presa in analisi. È sostanzialmente complesso distinguere ciò che è pienamente “visconteo” da ciò che non lo è, ad esempio il documento VII è esplicativo in tal senso. Trattasi di una lettera di alcuni mercanti senesi a Venezia che comunicano al proprio governo degli ultimi rivolgimenti politici in quella terra, in particolare le novità riguardanti Padova e Verona. Non v’è dubbio che Verona e Padova siano due protagoniste indiscusse delle macchinazioni del Visconti ma all’interno di questo documento non si cita direttamente la persona del Conte di Virtù. Possiamo però affermare che questa carta può essere considerata una manifestazione indiretta dell’attività del Visconti. Il complesso delle carte prodotte dall’interazione tra Siena e la signoria lombarda è quindi vasto e complesso, anche perché, col passare degli anni e accrescendosi l’in- fluenza milanese, viene a crearsi una sovrapposizione che rende difficilmente scindibile l’ambito puramente senese da quello visconteo.

Laerte Mulinacci LA CAPPELLA DELLA GROTTA DI SAN BERNARDO TOLOMEI A MONTE OLIVETO MAGGIORE NEL CARTEGGIO DI ALESSANDRO SANSEDONI

Diverse cappelle, e piccoli oratori sparsi ne contorni, e in fin ne dirupi si osservano, ma, senza paragone, sopra tutte l’altre, quella dedicata al beato Bernardo Tolomei, fatta ultimamente, col disegno del celebre Antonio Galli Bibiena, fabbricata dalla generosa pietà del generale Scarsella, che terminò il di lui generalato nel 1764 con ornamenti di stucchi messi a oro, con statua, e altare di finissimi mar- mi, e con pitture del cavaliere Apollonio Nasini, che supera ogn’altra de tempi passati, e che potrebbe vedersi con ammirazione ancora nelle cospicue città1.

Il verde di Monte Oliveto Maggiore accoglie una tebaide che trova la sua esaltazione tardo-barocca nella cappella costruita sulla grotta dove il beato Bernardo Tolomei, fondatore degli olivetani, si era ritirato a condurre una vita eremitica2. A quell’ordine nel Settecento appartenne anche un nobile senese, Alessan- dro di Ottavio Sansedoni (1712-1775), che nel 1744 prese l’abito della congre- gazione di Monte Oliveto col nome di Don Galgano. Di lui ci rimane un ampio carteggio3: al suo interno troviamo anche lettere riguardanti la realizzazione di questa cappella, principalmente da lui scritte fra il 1763 ed il 1764 e indirizzate al fratello Giovanni, che in quegli anni era il maggior referente artistico della sua famiglia, sia a causa delle importanti cariche granducali che lo occuparono per un quindicennio a Firenze mettendolo in contatto con le maestranze più qualificate in Toscana, sia per una sua vocazione al mecenatismo che lo vide

1 G. A. Pecci, Lo Stato di Siena antico, e moderno, trascrizione e annotazioni a c. di M. De Gregorio, D. Mazzini, vol. II, parte III - IV, Siena, Accademia degli Intronati di Siena, 2010, p. 198. 2 G. Perini, Lettera sopra l’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore, Firenze, Cambiagi, 1788, pp. 76-79; I. Minucci - E. Carli, L’abbazia di Monteoliveto, Milano, Monte dei Paschi di Siena, 1961, pp. 40-41. 3 Il carteggio è contenuto all’interno dell’Archivio Sansedoni, che si conserva presso l’Archivio del Monte dei Paschi di Siena (si indicherà AMPS, Sansedoni).

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 101 protagonista in ambito senese4. Attraverso questi documenti emergono notizie sconosciute, e si specificano le fasi e gli artefici che hanno contribuito alla rea- lizzazione della Cappella della Grotta di Monte Oliveto. A volere l’edificio fu il bolognese Cesare Alessandro Scarselli (1709- 1795) a cui spettò la dignità generalizia dell’ordine fra il 1761 ed il 1764. Lo fece costruire in segno di ringraziamento per la guarigione ottenuta, dopo la sua invocazione al beato Tolomei alla vigilia di una gravissima operazione chirur- gica che avrebbe dovuto subire: tale miracolo fu poi fra quelli che porteranno alla canonizzazione del fondatore degli olivetani. Insieme all’erezione della cappella, fece forgiare sei candelieri d’argento per la chiesa di Monte Oliveto, e, in una stanza adiacente a questa, fece realizzare un “coretto con finestrella e bancate per la visita del Sacramento” 5. Finora per la paternità architettonica della cappella gli storici hanno er- roneamente proposto il nome di Francesco Galli Bibiena, e sono rimasti molto incerti sull’esecutore, che viene chiamato in modo vago come il senese “De Rossi”6. Il progetto della cappella invece fu predisposto dal nipote del suddet- to, l’architetto, scenografo e pittore bolognese Antonio Galli Bibiena7 (1697-

4 I suoi impegni legati a committenze artistiche sono stati in parte analizzati nei seguenti testi: P. Petrioli, Interludio fiorentino a Siena: le vicende decorative, in Palazzo Sansedoni, a c. di F. Gabbri- elli, Siena, Protagon, 2004, pp. 281-332; F. Sottili, “Per ridurre alla moderna”: architetti, ingegneri e capimastri nel Settecento, in Palazzo Sansedoni cit., pp. 229-280; F. Sottili, Intorno alle “Burle” del Pievano Arlotto, “Paragone/Arte”, LXII (2011), 97, pp. 54-62; F. Sottili, Non soltanto Arlecchini. Novità sulle tele teatrali di Ferretti e Gambacciani per Giovanni Sansedoni, “Paragone/Arte”, LXII (2011), 98-99, pp. 70-83; F. Sottili, La tribuna di Santa Maria in Provenzano dei rettori Sansedoni: Soresina, Francini, Posi, Bibiena e Ferretti, “Bullettino Senese di Storia Patria”, CXXI (2014), pp. 157-173; F. Sottili, “Il convito degli Dei, e delle Deesse”. La villa di Basciano “nobilissimo ritiro” della famiglia Sansedoni di prossima pubblicazione. 5 Su di lui cfr. M. Scarpini, I monaci benedettini di Monte Oliveto, Alessandria, Ed. “L’Ulivo”, 1952, pp. 363-365. 6 Ivi, p. 364; I. Minucci - E. Carli, L’abbazia di Monteoliveto cit., p. 41; E. Carli, L’abbazia di Monteoliveto, Milano, Electa, 1962, p. 15; G. Brizzi, Iconografia dei santi Bernardo Tolomei e Francesca Romana: (secoli XV-XX), Cesena, Badia di Santa Maria del Monte, 2009, p. 12. Francesco Bibiena non poteva essere il progettista, anche perché era già morto da tempo quando venne realizzata la cappella di Monte Oliveto. 7 Su di lui si veda E. Garbero Zorzi, La vicenda toscana della ‘nuova forma’ dei teatri di Anto- nio Galli Bibiena, in I Galli Bibiena: una dinastia di architetti e scenografi, atti del convegno (Bibbie- na, 26-27 Maggio 1995), a c. di D. Lenzi, Bibbiena, s. e., 1997, pp. 83-98; A. Rosati, Aspetti del teatro d’opera a Siena dal 1668 al 1799, “Bullettino Senese di Storia Patria”, CXVII (2010), pp. 426-429. 102 Fabio Sottili

1774), secondo quanto riporta il Pecci in Lo Stato di Siena antico, e moderno8: il testo è stato scritto dallo storico senese dal 1758 al 1767, ed è pertanto la testi- monianza più vicina agli anni di realizzazione del manufatto, e più attendibile per individuare con certezza gli artisti che lo portarono a compimento. La scelta dell’abate olivetano caduta su Antonio Bibiena si giustificherebbe perché fra il 1752 ed il 1753 era stato il progettista e lo scenografo del nuovo Teatro degli Intronati di Siena, dove risedette svariati mesi, permettendo di ricevere ulteriori commissioni in area senese, quale quella di interventi nella chiesa di Sant’Ago- stino, dei decori parietali di palazzo Bartali, e dell’affrescatura (purtroppo irre- alizzata) delle volte di Santa Maria in Provenzano9, nonché la costruzione del Teatro dei Varii a Colle Val d’Elsa. Il capomaestro che si occupò dei lavori è ragionevolmente da individuare nel senese Benedetto Rossi, capo muratore di fiducia dei gesuiti, che trovia- mo attivo a Siena per i Sansedoni fra il 1757 e il 1759 nell’ultimazione della facciata di palazzo Sansedoni su Piazza del Campo, e nella ricostruzione del Teatro degli Intronati sia prima che dopo l’incendio del 1751, negli anni in cui a svolgere le mansioni di archintronato era Rutilio, fratello di Alessandro San- sedoni10: è proprio in questo cantiere che iniziò la collaborazione fra il Rossi ed il Bibiena. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei ha un volume com- patto a pianta quadrata dallo sviluppo decisamente verticalistico, con volta a sesto ribassato con unghie in corrispondenza delle finestre, e pareti interne de- corate da stucchi e affreschi. L’esterno si presenta con una muratura di mattoni a facciavista (figg. 1-2), seguendo la tradizione senese che caratterizza anche il resto del complesso monastico di Monte Oliveto. Gli angoli convessi e la scelta di creare un doppio registro di lesene in facciata, propone uno stilema di derivazione guariniana che si ritrova nelle torri campanarie della chiesa di

8 G. A. Pecci, Lo Stato di Siena antico, e moderno cit., p. 198. 9 Sicuramente in Sant’Agostino dipinse l’altare del Crocifisso, ma realizzò anche altro ancora da ben individuare nell’area del transetto (cfr. F. Rotundo, La chiesa di Sant’Agostino a Siena: guida storico-artistica, Arcidosso, Effigi, 2014, pp. 27, 28, 31). Per le ulteriori opere si rimanda aF. Sottili, La tribuna di Santa Maria in Provenzano dei rettori Sansedoni: Soresina, Francini, Posi, Bibiena e Ferretti, “Bullettino Senese di Storia Patria”, CXXI (2014), pp. 157-173. 10 F. Sottili, “Per ridurre alla moderna”: architetti, ingegneri e capimastri nel Settecento cit., p. 267; L. Galli, Dal palazzo della Campana al Teatro degli Intronati (1560-1798), in Storia e restauri del Teatro dei Rinnovati di Siena. Dal consiglio della Campana al salone delle commedie, a c. di L. Vigni, E. Vio, Ospedaletto (Pi), Pacini, 2010, pp. 168, 175, 179. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 103

Sant’Antonio Abate di villa Pasquali a Sabbioneta (vicino Mantova), per la cui realizzazione Antonio Bibiena fornì il disegno, e che fu costruita a partire dal 176511. Come in una scenografia, la griglia architettonica definisce solo il lato d’ingresso della cappella, con una facciata nobilmente compartimentata ma sobria: il primo ordine di lesene, di stile tuscanico, è sollevato da un basso podio, e sostiene una trabeazione abbastanza articolata sulla quale poggia un fronte templare tetrastilo con timpano triangolare fortemente chiaroscurato, concluso da una balaustra ritmata da vasi, e culminante nello stemma de- gli olivetani composto da tre monti (i fondatori) sormontati da una croce. Il portale ha un timpano curvilineo, mentre le finestre sono architravate e con orecchioni angolari: sia l’interno della centina del portale, che i capitelli delle lesene del secondo ordine, sono arricchiti da uno schematico motivo a doppia voluta che termina con una goccia. Dal fianco sinistro dell’edificio sporge il cilindro della piccola sagrestia e il volume della scala che conduce al livello superiore della cappella: dalla sagrestia parte infatti una scaletta interna che permette di salire fino al livello della balaustra interna al tempietto, che “lo rende più vago”12. In continuità con l’esterno, l’interno è elegantemente spartito da un ordi- ne di lesene binate ioniche che dinamicamente avvolge l’aula, e che, in conco- mitanza con l’altare, si apre in un grande arco sostenuto da colonne libere ad esaltare la grotta del beato (fig. 3). I raccordi concavi, tipici di un’architettura di stampo romano e neoborrominiano, in area toscana avevano avuto una cer- ta fortuna alla fine del Seicento dopo che Ciro Ferri aveva proposto un coro con angoli smussati nella tribuna di S. Maria Maddalena de’ Pazzi a Firenze, stilema visibile successivamente in molti progetti di Giovan Battista Foggini, Antonio Maria Ferri, e Lorenzo Merlini, per poi mostrarsi in territorio senese, nei primi decenni del Settecento, con Iacomo Franchini e Pietro Cremoni. L’inizio della costruzione della Cappella della Grotta di San Bernardo To- lomei avvenne nel 1759, infatti nel Giugno del 1760 Alessandro scrisse al fra- tello Rutilio, tesoriere della Metropolitana e archintronato, perché gli venissero

11 G. Scazza, Una creazione di Antonio Bibiena, la chiesa parrocchiale di Villa Pasquali, in Chiese e conventi del contado mantovano, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 107-123; G. Radella - U. Maffezzoli, La chiesa parrocchiale di Villa Pasquali tra arte e storia, Sabbioneta, s. e., 1991; R. Mar- chini, Villa Pasquali: una chiesa, una terra, una storia, Mantova, Editoriale Sometti, 2003. 12 G. Bianchi, Guida all’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore sul senese, Siena, Tipografia dell’Ancora, 1844, p. 33. 104 Fabio Sottili spedite a Monte Oliveto le “lavagne” che erano state tolte dal tetto di palazzo Sansedoni, per essere utilizzate in questo nuovo edificio13. I disegni della cappella realizzati dal Bibiena, composti dal prospetto esterno e dalla pianta, erano tenuti in grande considerazione, tanto che Giovan- ni Sansedoni nell’estate del 1763 chiese ad Alessandro che gli venissero spediti a Siena, perché in quel momento il nobile senese voleva prendere ispirazione da quelli per ricostruire la cappella della sua villa a Basciano14: quella esistente infatti era un edificio isolato a pianta centrale posto sul prato davanti alla villa, e manifestava cedimenti strutturali. Alessandro esaudì il desiderio del fratello, con l’impegno che gli venissero rimandati quanto prima per restituirli all’abate generale, al quale “li sono cari”. Se la sovrapposizione dei due ordini architet- tonici aveva una sua ragione a Monte Oliveto (con il ripetersi dell’ordine anche all’interno), dove il retrostante terreno scosceso favoriva la creazione di una struttura che si sviluppasse in altezza, secondo Alessandro tale scelta appariva inadatta per Basciano perché imponeva una struttura troppo alta rispetto alla villa, e troppo ingombrante sul prato pianeggiante, con una mole eccessivamen- te pesante per un terreno “incostante”. Le lettere Sansedoni accertano che i di- segni del Bibiena non erano i definitivi, ma che ne era stato approntato un altro dopo le variazioni attuate soprattutto “in faccia alla porta”: quest’ultimo però non riuscivano a trovarlo forse perché qualcuno degli stuccatori che vi aveva lavorato, lo aveva portato via. Per la creazione della nuova cappella a Basciano, Alessandro suggeriva quindi a Giovanni di esaminare le forme della Cappella del Voto progettata dal Bernini per la cattedrale senese, considerate più belle e maestose, e segno di quanto ancora la lezione del barocco romano seicentesco in ambito architettonico fosse ritenuta esemplare. L’interno della Cappella di San Bernardo Tolomei, rigidamente simme- trico, di fronte all’ingresso vede posto l’altare, sollevato da due gradini, dietro il quale si apre la grotta, mentre trasversalmente, al centro delle due pareti, sono presenti due porte: quella di sinistra conduce alla sagrestia, mentre l’altra

13 AMPS, Sansedoni, 93, Lettera di Alessandro Sansedoni a Rutilio Sansedoni, da Monte Oli- veto Maggiore a Siena, 30 Giugno 1760, senza numerazione (si abbrevia s. n.). 14 Ivi, Lettere di Alessandro Sansedoni a Giovanni Sansedoni, da Monte Oliveto Maggiore a Siena, 24 Luglio 1763, 13 e 16 Agosto 1763, s. n. La cappella di Basciano allora esistente venne demo- lita, ma in questa fase dei lavori non ne venne ricostruita un’altra. Sulla villa di Basciano si rimanda a F. Sottili, “Il convito degli Dei, e delle Deesse”. La villa di Basciano “nobilissimo ritiro” della famiglia Sansedoni di prossima pubblicazione. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 105

è finta. Una partizione architettonica di stile ionico nobilita il tempio con lese- ne binate ai fianchi delle porte, e colonne ad incorniciare l’altare (fig. 4). Nei raccordi smussati dei quattro angoli sono state ricavate quattro nicchie per ac- cogliere le sculture dei tre fondatori dell’ordine (Bernardo Tolomei, Ambrogio Piccolomini e Patrizio Patrizi) e S. Francesca Romana. Tutti questi elementi architettonici furono plasmati in stucco dorato dai fratelli Cremoni, esponenti di una famiglia di stuccatori molto attivi in area senese, secondo quanto riporta il Bianchi15: anche se l’affermazione del testo ottocentesco è priva di qualsiasi indicazione documentaria, sembra un’ipotesi tuttavia percorribile per lo stile degli elementi plastici, e giustificabile storicamente, in quanto Bernardino Cre- moni, suo fratello Paolo, ed i loro cugini avevano decorato un decennio prima il nuovo Teatro degli Intronati su progetto di Antonio Galli Bibiena, mentre contemporaneamente lavoravano per la villa a Basciano di Giovanni Sansedo- ni, e realizzavano i due tavoli della collegiata di Santa Maria in Provenzano su volontà del padre di questi, Ottavio Sansedoni16. All’interno dell’arco che sovrasta l’altare, sopra la grotta, l’abate Scarsel- li nel 1763 volle porvi una grande tela con San Bernardo Tolomei in adorazione del Crocifisso (fig. 5), dipinta dal romano Stefano Pozzi (1699-1768), pittore dall’impostazione classicista marattesca fra i più prolifici e richiesti dell’ultima fase dell’epoca tardo-barocca a Roma, che con questo dipinto concluse il rap- porto decennale che aveva stabilito con gli olivetani. L’opera raffigura il santo col volto emaciato, in ginocchio, mentre, presso un altare, prega devotamente con il crocifisso fra le mani, ed è circondato da angeli: quest’immagine venne subito diffusa grazie ad un’incisione di Francesco Pozzi, figlio del pittore, su disegno di Pietro Angeletti17. Nella volta invece, oltre una quadratura prospettica traforata tutta gioca- ta sull’andamento concavo-convesso di sapore fortemente teatrale, e in cui la lezione bibienesca risulta evidente, il cavalier Apollonio Nasini (1692-1768),

15 G. Bianchi, Guida all’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore sul senese cit., p. 32. 16 Si veda L. Galli, Dal palazzo della Campana al teatro degli Intronati cit., pp. 176-180; F. Sottili, La tribuna di Santa Maria in Provenzano dei rettori Sansedoni cit.; F. Sottili, “Il convito degli Dei, e delle Deesse”. La villa di Basciano “nobilissimo ritiro” della famiglia Sansedoni di prossima pubblicazione. 17 Su quest’opera si veda la scheda di Stefano Susinno in I pittori bergamaschi dal XIII al XIX secolo, vol. 5, IV. Il Settecento, a c. di R. Bossaglia, Bergamo, s. e., 1996, pp. 127-128, mentre l’imma- gine della stampa, conservata a Milano presso le Civiche Raccolte delle Stampe A. Bertarelli (121/11), è stata riprodotta in ivi, p. 219. 106 Fabio Sottili erede di una delle più note famiglie di pittori senesi, realizzò ad affresco San Bernardo Tolomei con l’aiuto degli angeli scaccia i demoni (fig. 6), una mo- vimentata composizione, oggi purtroppo pesantemente e goffamente ridipinta, in cui schiere angeliche combattono furiosamente contro figure demoniache in aiuto di Bernardo in preghiera fuori dalla sua grotta. Anche la cupoletta della piccola sagrestia presenta affreschi da attribuirsi al Nasini, con decori vegetali, cartocci e conchiglie, e illusionisticamente aperta al centro da un oculo attraverso il quale entra una radiosa colomba dello Spirito Santo attorniata da teste di cherubini. Il dialogo fra i due fratelli Sansedoni, che nelle lettere si concedono un tono critico nei confronti della creatività di artisti senesi come Giuseppe Maz- zuoli o Apollonio Nasini18, si concentrò negli aspetti pratici del commercio e del riuso di idee e materiali residui da precedenti lavori, per poter partecipare all’arredo marmoreo della cappella olivetana. Dalla fine del Seicento la famiglia Sansedoni si era occupata di rivestire riccamente con marmi policromi la cap- pella del Beato Ambrogio, suo avo in odore di santità, e le sale ad essa collegate all’interno del loro palazzo di Piazza del Campo, nonché creare la pavimentazio- ne del presbiterio della Collegiata di Provenzano19, tanto da avere, non soltanto esperienza in materia e conoscenza diretta degli scalpellini più esperti, ma anche pietre avanzate da poter riutilizzare. L’abate voleva far “incrostare” di marmi il pavimento e le pareti della grotta, ornandola poi con una statua di marmo raf- figurante lo stesso Bernardo “fatta dal migliore scalpello che potrà procacciar- si”. Alessandro Sansedoni chiese pertanto al fratello cavaliere che gli venissero spedite le piccole lastre di diaspro di Sicilia, di rosso di Francia e di marmo di Carrara, avanzate dalla creazione del pavimento e porte della cappella e anticap- pella del Beato Ambrogio Sansedoni nella dimora senese di famiglia concretiz- zatasi negli anni 1730-33, e forse scartate poi in occasione del rifacimento della

18 L’abate generale avrebbe inizialmente voluto far scolpire al Mazzuoli la statua di Bernardo Tolomei per la grotta, ma non era rimasto soddisfatto dalle quattro che questi, insieme a Giuseppe Silini, aveva plasmato in stucco per la navata e il transetto della chiesa di S. Agostino a Siena in occa- sione del recente intervento vanvitelliano (AMPS, Sansedoni, 93, Lettera di Alessandro Sansedoni a Giovanni Sansedoni, da Monte Oliveto Maggiore a Siena, 3 Maggio 1763, s. n.). Il progetto per il ri- vestimento marmoreo della grotta ideato dal Nasini venne paragonato invece al vestito di Traccagnino, personaggio della commedia dell’arte, noto per il gusto caricato e ridicolo (ivi, Lettera di Alessandro Sansedoni a Giovanni Sansedoni, da Monte Oliveto Maggiore a Siena, 1 Maggio 1763, s. n.). 19 Cfr. F. Sottili, “Per ridurre alla moderna”: architetti, ingegneri e capimastri nel Settecento cit.; F. Sottili, La tribuna di Santa Maria in Provenzano dei rettori Sansedoni cit. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 107 pavimentazione della tribuna di Provenzano, promossa e attuata fra il 1753 ed il 1755 durante il rettorato di Ottavio Sansedoni, padre di Alessandro e Giovan- ni, e del quale proprio quest’ultimo si occupò in prima persona, fornendo idee e cercando maestranze qualificate. Per l’impiallacciatura della grotta di Monte Oliveto sarebbero state necessarie 12 braccia quadrate di marmo di Carrara e 16 braccia quadrate di diaspro, ma da Siena i Sansedoni alla fine di Aprile del 1763 inviarono al monastero soltanto dodici “mandorle” di diaspro di Sicilia, e poche lastre di marmo rosso di Francia, che non furono utili per il rivestimento mar- moreo, perché, essendo una quantità ridotta, non potevano far parte di nessuna specchiatura, ma eventualmente essere inseriti in un altare o un ciborio: forse sono gli stessi marmi che costituiscono oggi le gambe della mensa20. Non contento dei progetti già approntati, l’abate Scarselli in quel mese fece realizzare dal Nasini un disegno per “lo spartimento dei marmi” che non venne apprezzato da Alessandro Sansedoni paragonandolo all’abito di Tracca- gnino, uno dei più ridicoli personaggi della commedia dell’arte: questo con- sisteva in un arco sostenuto da due lesene in breccia di Montepulciano come imboccatura alla grotta, con un interno scandito sulle pareti da quattro grandi specchiature in broccatello di Siena (il marmo preferito dall’abate) incorniciate da fasce di un altro marmo senese “color di pesco”, mentre “le Pilastrate al di dentro, e la cornice sarà uniforme all’imboccatura”. La volta e il fondo della grotta doveva caratterizzarsi per l’uso di pietre rustiche o di massi di marmi senesi lucidati, e il pavimento con lastre di breccia di Montepulciano e marmo bianco di Siena. Anche se non proprio uguale, è quantomeno simile all’assetto che il Perini descriveva nel 1788 come un grotta “artificiale con lavoro parte piano, parte a bozze tutte di buoni marmi diversi, ma specialmente bigi e neri, con una distribuzione molto bene ideata”, e nella quale si notava “che in certo marmo nero con venature gialle, detto Portovenere, l’umido che dal terreno superiore vi scende ha sciolte, e consumate le vene gialle, lasciandovi una rifio- ritura di sale”21. Nel 1844 la grotta veniva ancora descritta come “incrostata a grottesco di marmo nero di Portovenere, tranne le parti laterali che sono coperte di gialletto di Siena”22. Il Carli scriveva nel 1961 che le pareti della cappella erano state rivestite di marmi policromi nel 195823: l’affermazione sembra però

20 AMPS, Sansedoni, 93, Lettere di Alessandro Sansedoni a Giovanni Sansedoni, da Monte Oliveto Maggiore a Siena, 10, 15 e 24 Aprile 1763, 3 Maggio 1763, s. n. 21 G. Perini, Lettera sopra l’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore cit., pp. 77-78. 22 G. Bianchi, Guida all’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore sul senese cit., p. 32. 23 E. Carli, L’abbazia di Monteoliveto cit., p. 15. 108 Fabio Sottili riguardare il rivestimento del vano principale con lesene in giallo di Siena, im- postate su uno zoccolo di marmo nero, e non trattare quello della grotta, che ora appare interamente ornata con marmo grigio lavorato e in bozze. Nel Maggio 1763 all’ornato della cappella olivetana vi stava già lavoran- do, oltre al Nasini, anche uno scalpellino, e almeno tre stuccatori (si pensa della famiglia dei Cremoni). Nello stesso momento, secondo Alessandro, la statua per la grotta con San Bernardo Tolomei in meditazione la stava scolpendo il più bravo statuario di Roma. Questa notizia non trova però conferma, poiché sap- piamo che verrà eseguita dal genovese Pasquale Bocciardo (1719-1790) fra il 1763 ed il 1764, quando il detto artista aveva ottenuto un importante riconosci- mento pubblico con l’assegnazione della cattedra di scultura presso la neonata Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova. Per quest’opera l’abate olivetano avrebbe voluto incaricare il senese Giuseppe Mazzuoli, uno degli ultimi espo- nenti di una stirpe di scultori che aveva presso le mosse dalla bottega di Bernini, ma le due statue in stucco che aveva recentemente plasmato per la chiesa di Sant’Agostino non gli erano piaciute24. Il Bocciardo, con un candido marmo di Carrara, raffigurò il beato Tolo- mei seduto sopra un sasso e inchinato da una parte in atto di orazione presso un teschio, con la testa appoggiata sulla mano sinistra e la destra che tiene un crocifisso (ora non più presente), figura “assai devota ed espressiva, di buon disegno e con belle pieghe”25, mentre un angioletto mostra il pastorale e la mitra (fig. 7), attributi che ricompaiono anche nell’affresco del Nasini nella sommità dell’arco presbiteriale, insieme a due ramoscelli d’ulivo, perché facenti parte dell’emblema dell’abate mitrato olivetano. Secondo gli storici però si tratte- rebbe di una copia del 1846 in terracotta dipinta, dopo che la statua originale, durante le soppressioni napoleoniche, era stata condotta nell’anticappella del palazzo Bianchi di Siena26. Con questa scultura ci fu una evidente volontà di creare un parallelo fra il santo fondatore della congregazione benedettina degli olivetani e lo stesso San Benedetto, infatti di entrambi si esaltò l’aspetto eremitico e meditativo con la creazione di un’ambientazione barocca attorno alle grotte che avevano scelto

24 Su queste si veda F. Rotundo, La chiesa di Sant’Agostino a Siena: guida storico-artistica cit., p. 77. 25 G. Perini, Lettera sopra l’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore cit., p. 78. 26 Cfr. G. Brizzi, Iconografia dei santi Bernardo Tolomei e Francesca Romana cit., p. 30. Nel 1819 gli olivetani tentarono di riacquistarla, ma inutilmente, ed oggi se ne ignora la collocazione. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 109 come loro dimora. Il modello da cui si trasse ispirazione per questa fu il Sacro Speco dell’eremo di S. Benedetto a Subiaco, cuore dell’intero complesso mo- nastico, perché fu la grotta in cui San Benedetto visse per tre anni in preghiera, isolato da tutti, cibandosi di ciò che alcuni pastori della zona gli facevano avere in un cestino calato dall’alto dello strapiombo attraverso una corda. Proprio in questo anfratto della parete rocciosa, Antonio Raggi, uno dei più acclamati discepoli di Bernini, nel 1657 con un forte gusto teatrale, e in pieno spirito controriformato, inserì la statua di San Benedetto in preghiera con le braccia al petto, una croce e il simbolico cestino di vimini a ricordare il cibo che i pastori portavano al santo: questi tre elementi, tutti di un candido marmo di Carrara, e lontani fra loro, creavano una vera visione celestiale in un contesto natura- le molto aspro, coinvolgendo emotivamente il fedele che vi entrava. Anche a Monte Oliveto Maggiore la composizione si impernia tutta nel contrasto fra la bianchissima statua di San Bernardo Tolomei in orazione e la grotta rivestita con bozze a simulare una dura ed elegante naturalità, ma rispetto a Subiaco qui si gioca simbolicamente sull’apparizione del santo in preghiera dietro l’altare, visibile chiaramente durante le celebrazioni liturgiche. Nel Marzo 1764 arrivò a Monte Oliveto la statua scolpita a Genova dal Bocciardo ed ebbe un immediato consenso, mentre da Firenze ne erano arrivate due che Alessandro Sansedoni definì “molto brutte, ma molto”, augurandosi che non venissero messe in loco, e altre due dovevano essere inviate da Bo- logna27. Si pensa che ci si stesse riferendo alle quattro sculture in stucco da inserire nelle nicchie dell’aula e che vennero eseguite da Filippo Scandellari (1717-1801), bolognese, lavoro che il Perini definisce “assai buono”28. Nelle nicchie ai lati dell’altare sono state poste infatti le figure di Patrizio Patrizi e di S. Francesca Romana (figg. 8-10), e in quelle vicine alla porta d’ingresso Bernardo Tolomei e Ambrogio Piccolomini, che dalla loro gestualità sembrano entrare in dialogo l’una con l’altra, a corollario della statua nella grotta, e sono accompagnate da figure di putti che recano attributi sacri, come il libro, la croce e la mitra. In quello stesso anno lo Scandellari lavorò all’apparato scultoreo di Santa Maria della Visitazione al ponte delle Lame a Bologna, consistente in sculture a grandezza naturale in stucco, considerate l’apice della sua produzio-

27 AMPS, Sansedoni, 101, Lettera di Alessandro Sansedoni a Giovanni Sansedoni, da Monte Oliveto Maggiore a Siena, 12 Marzo 1764, s. n. 28 G. Perini, Lettera sopra l’Archicenobio di Monte Oliveto Maggiore cit., p. 78. 110 Fabio Sottili ne artistica, e con cui è utile operare un confronto: il modo di panneggiare della figura di Santa Francesca Romana conservata a Monte Oliveto è molto affine a quello del San Filippo della suddetta chiesa bolognese, così come il putto che porta gli attributi di Patrizio Patrizi della cappella di Bernardo Tolomei, nelle forme morbide e nella posa riecheggia quelle dell’angioletto posto ai piedi della statua di San Matteo posto in una delle nicchie dello stesso tempio felsineo29. Fino all’inizio del Novecento inoltre sopra il banco della piccola sagrestia si conservava un Crocifisso, opera di fra Daniele Lonati, milanese, discepolo di Stefano Pozzi. Alla fine di Luglio del 1763 al monastero di Monte Oliveto soggiornò l’abate olivetano bolognese Cesareo Giuseppe Pozzi (1718-1782), erudito e ma- tematico insigne alla Sapienza di Roma, stimato da Benedetto XIV e da vari prin- cipi europei, che arrivava da Roma e che doveva successivamente recarsi nella capitale granducale: questi era stato incaricato di individuare quadri per ampliare ed arricchire la già cospicua collezione del re di Polonia con opere di scuola fiorentina. Alessandro Sansedoni chiese quindi al fratello Giovanni, che era con- siderato un buon conoscitore d’arte, di aiutare il Pozzi nella sua ricerca a Firenze, magari indirizzandolo anche a procacciare dipinti realizzati da maestri senesi30. Nel decennio successivo a Monte Oliveto Maggiore i monaci decisero di trasformare, magnificandola, la chiesa principale del monastero: fra il 1771 ed il 1778 l’architetto camerte Antonio Antinori, già al servizio di papa Pio VI, intervenne all’interno della chiesa della Natività di Maria, coprendo l’aula con volte, aprendovi grandi finestre, e inserendovi la slanciata cupola, nascosta all’esterno da un tiburio poligonale con lanterna. Una lettera del Luglio 1771 ci informa di un pagamento inerente tali lavori effettuato all’Antinori dal conte Giuseppe Della Gherardesca, commendatore, per mezzo di Francesco Sansedo- ni, fratello di Alessandro e cavaliere di Malta31.

Fabio Sottili

29 V. Balboni, L’opera di Filippo Scandellari scultore nella “vaga” architettura della Madon- na del Ponte, “Il carrobbio”, 34 (2008), pp. 149-158. 30 AMPS, Sansedoni, 93, Lettera di Alessandro Sansedoni a Giovanni Sansedoni, da Monte Oliveto Maggiore a Siena, 26 Luglio 1763, s. n. 31 AMPS, Sansedoni, 102, Lettera del commendatore Della Gherardesca a Francesco Sansedo- ni, da Firenze a Siena, 6 Luglio 1771, s. n. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 111

Fig. 1. Antonio Galli Bibiena, Esterno della Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore. 112 Fabio Sottili

Fig. 2. Antonio Galli Bibiena, Esterno della Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 113

Fig. 3. Interno della Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore. 114 Fabio Sottili

Fig. 4. Fratelli Cremoni, Stuccature del prospetto laterale sinistro, 1764. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 115

Fig. 5. Stefano Pozzi, San Bernardo Tolomei in adorazione del Crocifisso, 1763. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. 116 Fabio Sottili

Fig. 6. Apollonio Nasini, San Bernardo Tolomei con l’aiuto degli angeli scaccia i demoni, 1763. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Volta della Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 117

Fig. 7. Pasquale Bocciardo (copia da), San Bernardo Tolomei in meditazione, 1846. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. 118 Fabio Sottili

Fig. 8. Fratelli Cremoni, Stuccature dell’arco presbiteriale, 1764. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. La Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei a Monte Oliveto Maggiore 119

Fig. 9. Filippo Scandellari, Santa Francesca Romana, 1764. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. 120 Fabio Sottili

Fig. 10. Filippo Scandellari, Beato Patrizio Patrizi, 1764. Asciano (Si), Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Cappella della Grotta di San Bernardo Tolomei. CUSONA, UNA COMUNITÀ MEZZADRILE DEL SENESE NELLA GRANDE GUERRA

Aveva qualche motivo di sollievo il conte Paolo Guicciardini quando finì la Grande Guerra. Il primo era di tornare alla sua illustre dimora fiorentina, agli affetti familiari, agli affari, sano nel corpo e forte nello spirito perché consape- vole di aver compiuto il proprio dovere, per di più in un conflitto terribile e vit- torioso. A trentacinque anni, aveva vestito la divisa fra i primi, abbandonando incombenze private e incarichi pubblici, come quello di sindaco di Montopoli in Valdarno, nel pisano, – lì, come in altre località, i Guicciardini possedevano terre ed un palazzo – ed era andato a servire in armi la patria, con il grado di tenente. La Giunta Municipale di Montopoli aveva approvato un ordine del giorno che così recitava. “Veduta la lettera del 19 maggio 1915 colla quale il Sindaco dietro il fatto di essere stato richiamato alle armi, manifesta l’impos- sibilità in cui trovasi di accudire agli affari dell’amministrazione comunale di Montopoli e chiede perciò un congedo per tutto il tempo che dovrà restare sotto le armi; considerato come niente vieta che il conte Paolo Guicciardini inter- rompa i suoi legami di capo dell’amministrazione durante il tempo che resta a prestare l’opera propizia per il conseguimento del patriottico fine di ricuperare i naturali confini d’Italia, delibera di porgere vivi ringraziamenti al Beneme- rito, solerte e coscienzioso Sindaco, dichiarando fino da ora giustificate per impedimento legittimo le sue assenze dalle sedute della Giunta” 1. In sua vece, concludeva l’ordine del giorno, i poteri sarebbero passati, a norma di legge, all’assessore anziano. Partito per il fronte con questo viatico istituzionale, il sottotenente di ca- valleria2 Paolo Guicciardini era stato impegnato sull’Isonzo e in altri luoghi, sia di combattimento che di retrovia, svolgendo con dedizione i compiti affidatigli e guadagnandosi i gradi di capitano.

1 Archivio Storico del Comune di Montopoli in Val d’Arno, Delibere di Giunta, n. 5B, p.230, 24 maggio 1915. 2 Archivio di Stato di Firenze, Distretto Militare di Firenze, Fogli Matricolari, Guicciardini Paolo, matricola 13679.

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 122 Alessandro Orlandini

L’altro motivo di sollievo atteneva invece alla sfera dell’economia. Lo stesso anno della partenza per la guerra era morto suo padre, Francesco, la- sciandogli in eredità due delle otto aziende agrarie della famiglia e l’incom- benza di soprintendere alla loro gestione, cosa davvero difficile da conciliare con gli obblighi e i pericoli della vita militare. Ma, grazie ad una struttura am- ministrativa dei possedimenti terrieri solidamente centralizzata – che proprio Francesco aveva costruito –, dalla quale passava il controllo di ogni spesa e di qualunque scelta colturale, tecnica e di mercato, era riuscito, tramite un fitto carteggio e avvalendosi dell’opera di un agente agrario che dallo scrittoio nel palazzo di Firenze guidava gli altri, a far arrivare idee, suggerimenti, disposi- zioni, e dunque ad esercitare le funzioni di un proprietario presente ed attivo, nonostante la lontananza e i pensieri derivanti da una condizione di straordina- ria precarietà. D’altra parte quell’impegno era connaturato al suo animo perché, come avrebbe scritto un paio di decenni dopo, parlando di se stesso in terza persona, “non è possibile che si possa amare la terra più di lui [ ], con lo stesso slancio che si ama una donna”3. I numeri della contabilità – per anticipare fin da subito le conclusioni di questo studio – avevano man mano smentito le pesanti quanto ovvie preoccupa- zioni intorno ad una possibile crisi di produttività e di utili, addensatesi e cresciu- te ma mano che le speranze di uno scontro armato possente, ma di breve durata, avevano lasciato posto alla cupa realtà di un conflitto lungo e logorante di cui era difficile intravedere la fine. Documentano questo andamento inaspettato i libri dei conti della più importante delle fattorie, quella di Cusona, ubicata in Val d’Elsa, fra i comuni di San Gimignano e di Poggibonsi, in provincia di Siena. Cusona era il fiore all’occhiello, il nerbo delle proprietà terriere dei Guic- ciardini. L’aveva resa tale il conte Francesco profondendovi, per un lungo arco di tempo fra fine Ottocento e i primi anni del Novecento, grande attenzione e risorse non esigue, almeno in relazione all’usanza di tanti altri proprietari suoi pari, inclini ad un assenteismo più o meno accentuato. Posizionata nel colle-piano dell’Elsa, fertile e non difficile da dissodare e da mettere a coltura rispetto ad altre zone del territorio senese come il Chianti o le Crete, Cusona si estendeva su 1.012,71 ettari, 343,86 dei quali in pianura e 670,83 in collina. I seminativi arborati e nudi coprivano 689,20 ettari, i suoli destinati alle pasture

3 P. Guicciardini, Cusona, Firenze, Rinascimento del Libro, 1939, p. 430. Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 123 e ai boschi, comprese le zone per la crescita degli alberi da ripa, assommavano a 309,40 ettari. Il resto, 14,11 ettari, era costituito da aree dove sorgevano fab- bricati, resedi, aie, o si snodavano strade e viottole4. Dei terreni messi a coltura – sistemati, nel piano, in regolari campi a pro- de delimitati da alberate o da filari, nel colle, laddove la giacitura diveniva più scoscesa, in terrazze orientate secondo il sistema a giropoggio – la gran parte, pari a 658,72 ettari, era ripartita in 39 poderi, dotati di casolare, di stalle per il bestiame bovino, suino ed ovino, di annessi per gli animali di bassa corte, di concimaia. La loro estensione media di 16 ettari e 90 acri, tipica dell’appodera- mento nelle zone di buona produttività – in quelle più difficili della provincia di Siena esistevano poderoni che potevano arrivare a cinquanta ettari ed oltre – as- sicurava il lavoro e la vita ad altrettante famiglie coloniche, per un totale di 581 persone che nel loro insieme, legate come erano alla stessa proprietà e da essa organizzate e dirette, costituivano uno dei più cospicui agglomerati produttivi agricoli della Val d’Elsa senese. La parte restante del suolo coltivato – non tutta di qualità marginale – era condotta, per 13,46 ettari, da sette camporaioli – mez- zadri senza casolare – e, per altri 17,33 ettari, con operai salariati5. Senza abbandonare la coltura promiscua, vitale nella mezzadria – in sua mancanza le famiglie coloniche non avrebbero avuto di che sostenersi e l’intero sistema sarebbe crollato – Francesco aveva introdotto numerose novità tecni- che in tutti settori della produzione, di cui diamo un sommario elenco: l’ado- zione sempre più estesa delle foraggere in rotazioni quadriennali, con trifoglio in pianura e quinquennali con lupinella ed altre essenze prative in collina; la diffusione di campi sperimentali per testare i concimi artificiali e diffonder- ne l’impiego; l’incremento della viticoltura con l’imposizione di trattamenti di solfatura e ramatura contro la peronospera e soprattutto con la creazione di un vivaio di piante madre di vite americana da innestare per combattere la fillossera; la sperimentazione di colture industriali come quella della barbabie- tola da zucchero – dismessa però nel volgere di una decina d’anni – o quella più duratura del tabacco6. Grazie all’intensificazione dell’impiego, senza alcun

4 Archivio Guicciardini (d’ora in poi AG), f. CLXXXVI, ins. 5, Perizia estimativa della fattoria di Cusona, 7 aprile 1917. 5 Id. 6 Cfr. P. Guicciardini, Cusona, cit., pp. 408-410, e S. Gasparo, Francesco Guicciardini e la fattoria di Cusona, in Contadini e proprietari nella Toscana moderna, Vol. 2, Firenze, Olschki, 1981. 124 Alessandro Orlandini costo aggiuntivo per la proprietà, del lavoro mezzadrile – al mezzadro spettava l’onere di assumere mano d’opera salariata nel caso che le braccia dei com- ponenti della famiglia non bastassero a svolgere tutti i nuovi compiti indicati dal padrone e per suo conto dall’agente agrario – la fattoria di Cusona, per quanto avesse alcune concimaie ed alcune stalle troppo strette, per quanto non fosse riuscita – pur con l’aumento dei foraggi – a compiere il salto verso una zootecnia industriale7 e per quanto mancasse di un numero adeguato di aratri in ferro – anche perché proficuamente compensati dalla vanga, faticosissima, ma tanto più utile nella coltura promiscua, dove seminativi ed essenze arboree si integravano nel medesimo spazio, rendendo spesso problematico il dissoda- mento con strumenti più efficaci per rapidità e per risparmio di fatica muscolare umana, ma meno precisi –, aveva tuttavia raggiunto, alla vigilia della guerra, risultati produttivi di rilievo, primeggiando in particolare nel rendimento del grano, cioè del prodotto in genere assunto per misurare l’indice di sviluppo di un’azienda agricola. Un primato attestato dai 19,60 quintali per ettaro ottenuti nel quinquennio 1911-1915, superiori di ben dieci punti ai 9,8 della media della Toscana del 1909-19138. In conclusione Cusona era una delle grandi fattorie to- scane in cui la mezzadria era stata portata ai più alti livelli delle sue potenzialità produttive, grazie all’innovazione tecnica, ma ancor più alla capacità padronale di direzione, indirizzata a sfruttare al massimo livello il lavoro contadino, da sempre elemento magico9 di quel metodo di conduzione e chiave di volta a sostegno della sua plurisecolare durata. D’altra parte anche la mano d’opera traeva vantaggio da questa condi- zione di alta produttività, come dimostra il fatto che l’indebitamento colonico, piaga altrove notevolmente diffusa, era molto limitato. Insomma i mezzadri di Cusona, nella loro maggioranza, vivevano da benestanti – ovviamente pe- sando questo aggettivo in relazione alle condizioni generali di altri lavoratori rurali – in quanto che non mancavano né di un tetto, né del cibo necessario alla sopravvivenza, e in vari casi, con la quota dei prodotti di loro spettanza che ec- cedeva l’autoconsumo, potevano addirittura accumulare piccoli crediti presso lo scrittoio della fattoria. La guerra arrivò come una lunga tempesta, non solo ad agitare e a scon-

7 AG, f. CLXXXVI, ins. 5, Perizia estimativa della fattoria di Cusona, cit. 8 Cfr. S. Gasparo, Francesco Guicciardini e la fattoria di Cusona, cit., pp. 326-327. 9 Ibid. p. 336. Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 125 volgere consolidate abitudini di lavoro e di relazione sociale, scandite sul rit- mo del ciclo naturale e delle mansioni ad esso connesse, ma ancora di più ad incrinare l’indispensabile equilibrio fra l’estensione dei poderi da una parte, la forza lavoro disponibile dall’altra, profilando la concreta minaccia di un regres- so produttivo sia per mancanza di braccia, sia anche per il venir meno di com- petenze importanti – la gestione della stalla ad esempio, o la movimentazione delle macchine durante la trebbiatura, o la cura del tabacco prima e dopo il raccolto – ed accrescendo il senso di incertezza e di precarietà in quel comparto produttivo integrato che era la famiglia colonica – dove ciascuno, dal bambino all’anziano, aveva le sue mansioni – con conseguente contraccolpo sull’anda- mento complessivo dell’azienda. Già nel 1911-1912 un conflitto armato dell’Italia in luoghi lontani aveva fatto sentire i suoi effetti, richiamando contro l’impero turco alcuni coscritti anche dalle terre di Cusona – in ricordo dei quali uno dei poderi della fattoria era stato rinominato Libia –, ma si era trattato di un numero contenuto. Contro gli imperi centrali, invece, la leva fu di massa. I richiamati fra i contadini e i la- voranti ammontarono a 53 – quasi il 10% della popolazione complessiva della comunità –, la maggior parte mandati in zone di combattimento, gli altri impe- gnati in retrovia10. Morirono in 17, dei quali 7 per ferite riportate in battaglia, gli altri per malattia negli ospedali di varie località d’Italia, o in casa dove erano stati trasportati una volta riconosciuti come ormai del tutto inabili a qualunque servizio nell’esercito11. Non tutte le famiglie coloniche dettero il medesimo tri- buto alla mobilitazione generale. Alcune infatti lo evitarono in virtù del fatto che i maschi che ne facevano parte non erano più, o non erano ancora, in età di leva. Altre – i Bacciottini del podere Marignani e i Ciari del Belvedere – vi- dero la partenza di uno solo dei loro componenti, altre di due – ad esempio gli Antichi di Tre Querce, i Pecciarini di Torri, i Martinucci di 1 –, altre ancora di tre – sempre in via esemplificativa, i Maestrini di Colombaia –, fino a salire a quattro – i Galgani del Mulino – e addirittura a cinque, come i Cambi di Terrarossa. Ma al di là del numero dei morti e della loro appartenenza familiare, in linea generale appare evidente che una quota consistente della mano d’opera più robusta ed attiva, e quindi in grado di dare il massimo nella coltivazione

10 AG, f. CLXXX, 1899-1918, Miscellanea, Contadini sotto le armi. 11 Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici per le province di Siena e Grosseto, Monumenti e lapidi, San Gimignano (SI), Chiesa di S. Biagio a Cusona, Località Fornace- Cusona. 126 Alessandro Orlandini dei campi, scomparve per tutto il periodo bellico, salvo qualche breve parentesi per licenze ottenute nei periodi dell’anno agrario di più intensa attività, o per definitivi, ma spesso tardivi, esoneri agricoli. Quali furono gli effetti di un tale sconquasso – per comprenderne meglio la portata pensiamo al fatto che per mantenere l’equilibrio fra la dimensione del podere e il numero delle braccia, le famiglie, e per loro conto talvolta il padro- ne, regolamentavano la tempistica dei matrimoni e del conseguente flusso delle femmine in entrata e in uscita – più che le preoccupate annotazioni del fattore Ettore Tamburini nelle sue relazioni a Paolo Guicciardini, lo lascia intendere una lettera inviata al conte dal bersagliere Cesare Maestrini. Si può presumere che i mezzadri di Cusona richiamati alle armi abbiano scritto molto di frequente a casa, obbedendo anch’essi a quel bisogno di co- municazione epistolare che coinvolse un intero esercito in tutti i suoi gradi e in ogni sua componente sociale, compresa quella contadina per quanto poco o nulla alfabetizzata, come difesa psicologica sia dal pensiero, sempre presente, di una bomba, di una pallottola, di un colpo di baionetta, di un gas venefico, di un morbo in grado di mettere termine alla vita all’istante o dopo sofferenze più o meno lunghe – si potrebbe dire un’infinita serie di lettere di potenzia- li condannati a morte –, sia per riempire il vuoto terribile delle attese fra un combattimento e l’altro12. Nulla è tuttavia rimasto di quei probabili biglietti, di quelle cartoline postali, di quelle lettere, e se qualcosa esiste ancora sarebbe difficile trovarlo nei cassetti di qualche ormai lontano discendente. È rimasta invece, nell’archivio Guicciardini, la corrispondenza inviata al conte13. Si tratta di pochi scritti perché la distanza sociale consentiva soltanto frequentazioni epistolari rarissime, se non uniche in una vita intera, e tutte appartenenti allo stesso genere, quello della richiesta di aiuto e del ringraziamento per un benefi- cio ricevuto. Non per caso la maggior parte sono di inizio 1917, dopo che Paolo aveva compiuto il gesto di inviare a tutti i suoi lavoratori coscritti gli auguri di Natale e un dono in denaro.

“Onorami farlo consapevole – scriveva Attilio Dainelli – che ieri, con in- finito ritardo ho ricevuto il suo a me tanto gradito vaglia dell’importare di

12 Cfr A. Gibelli, La Guerra Grande, Bari, Laterza, 2014, pp. 14-23. 13 AG, f. CLXXX, 1899-1918, Miscellanea, Contadini sotto le armi. A questa collocazione appartengono tutte le citazioni successive, fino alla prossima nota. Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 127

lire 5. Non ho parole sufficienti di ringraziare il suo buon cuore che tanta cura e affezione a verso i suoi sottoposti”.

Ferdinando Bruni, ricoverato a Spello, nel ringraziare si scusava di non aver risposto prima indicando la causa nel suo recente trasferimento da un no- socomio militare all’altro. E per rendere più forti le scuse faceva seguire notizie sulle sue cattive condizioni di salute che rivelavano uno stato di sofferenza psicologica, oltre che fisica.

“La mia malattia è brutta è una bronchite di fusa e febbre gastrica […] etro- vando così asai lontano dalla mia famiglia son molto dispiacente avendo la salute non cipenserei nepure da amalato a dovere stare da un ospedale all’altro potrà considerare come sista. Ecerto il fronte eppeggio ma fra avere perso la vita opure lasalute sarebbe meglio un patimento solo”.

Cesare, uno dei tre soldati delle famiglie Capezzuoli – gli altri due, Ales- sandro e Giuseppe, morirono, uno in battaglia, l’altro per malattia – aggiungeva al ringraziamento una sorta di rapido resoconto sulla sua situazione e sulle sue paure e speranze.

“Inquanto al mio stato, per il presente mi contento, perché ciò salute e sono in un posto quasi al sicuro; [ ] però domani parto per la trincea, spe- riamo il Signore mi dia tanta forza e fortuna, di poter vincere il nemico e restare inleso dal suo piombo. Il mio coraggio è forte ma però la mia stabi- lità non è a paragone dei miei compagni Bersaglieri, essendo incomodato per causa di varicocele, e punta d’ergna, nonostante metto tutta la Buona volontà e vo avanti, ma mi dispiace tanto di trovarmi così offeso perché a faticare soffro, ma pazzienza. Mia famiglia stanno tutti bene; e lostesso auguro anche a lei e sua famiglia; Speriamo il Signore che faccia tornare presto sani e salvi ognuno alla sua casa famiglia”.

Massimo Bacciottini, infine, nell’inviare il suo indirizzo in zona di guer- ra, informava amareggiato che a lui non era giunto né l’augurio di buon Natale né tanto meno il vaglia. Per questo motivo spiegava, scusandosi dell’ardire,

“ho creduto bene avvisarla che se Ella mi avesse inviato cio io non ho ricevuto nulla forse sarà un disguido postale ho non gli avevo dato il mio nome come soldato al fronte”.

Altre lettere, spedite nel corso del 1917, chiedevano raccomandazioni per 128 Alessandro Orlandini una licenza, come nel caso di Giovanni Boschini, dislocato a S. Giuliano Ba- gni, vicino a Pisa, e in procinto di essere rimandato al fronte. A spingerlo non era soltanto il naturale desiderio di starsene, ancora per un periodo, lontano dal pericolo della prima linea e addirittura in seno alla famiglia, bensì anche un’esi- genza economica che reputava improcrastinabile.

“Non abbiamo raggiunto quello che io desideravo tornare qualche giorno a casa per interessi di famiglia essendo io capoccia. Come lei sa che la mia famiglia è stata sfortunata di essere tutti militari e di stare mia madre ammalata e mio fratello militare da molto tempo. Linteressi della mia fa- miglia sono andati molto male”.

Ed arriviamo così alla lettera di Maestrini, ricordata all’inizio di questa breve rassegna. Vale la pena di soffermarsi un attimo sulla firma. Anteposta al cognome e al nome, si legge la parola “servo”. Potrebbe essere una contra- zione della formula di cortesia “servo vostro”, e tuttavia quell’aggettivo così in rilievo, se messo in relazione con la formula “per volontà del loro signore” che il conte fece imprimere sulla lapide nella chiesa di S. Biagio a ricordo dei nomi dei suoi contadini morti per causa della guerra, induce a pensare ad una condizione mentale di sudditanza profonda oltre che sincera, residuo di antichi rapporti feudali ancora ben vivi nel secondo decennio del ’900. Rapporti che, guardando non a Cusona, bensì più in generale al mondo mezzadrile senese e toscano, le prime lotte coloniche di inizio secolo avevano appena cominciato a scalfire, altre lotte, quelle del 1919-1920, avrebbero corroso temporaneamen- te, soffocate quasi subito dalla restaurazione contrattuale fascista, e soltanto la grande effervescenza sindacale e politica del secondo dopoguerra avrebbe frantumato, contribuendo peraltro a disgregare la mezzadria. La lettera è ben composta e non è da escludere che il Maestrini si sia fatto aiutare da qualche commilitone, più di lui aduso alla scrittura. Inizia infatti con un prologo destinato ad ingraziarsi la benevolenza del lettore.

“Ill.mo Signor Padrone, gli chiedo prima di tutto scusa per l’ardire che mi prende di indirizzarle la presente, ma i momenti difficili e dolorosi che attraversiamo rendono audaci anche coloro cui il dovuto rispetto non permetterebbe di importunare”.

Segue la descrizione di una critica situazione familiare. Il padre ha più di Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 129 sessanta anni e soffre di cuore, la madre è inabile a qualsiasi fatica, un fratello è morto al fronte ed un altro, il minore, è anch’egli sotto le armi [morirà nel 1918]. Ci sono due spose giovani, la sua e la vedova del fratello, che “fanno del loro meglio per tirare avanti il lavoro dei campi”. Per di più il padre, “sconvolto dalla morte del figlio non ha tenuto un contegno che si addice ad un pari suo” durante un diverbio con il fattore. Di qui la preghiera di un impegno del conte per farlo tornare a casa, non con un esonero agricolo che purtroppo non può ottenere a causa della giovane età, ma almeno con una licenza lunga, avendo avuto una licenza di soli quindici giorni dopo la morte del fratello. La richiesta non manca di ammantarsi anche di un’aura patriottica e dunque di una finalità più alta del tornaconto familiare. Una sua presenza nel podere servirebbe infatti “ad incoraggiare quelle povere donne a perseverare nel lavoro dei campi che ci deve fornire la materia prima al conseguimento della vittoria delle nostre armi [ ] e a rimettere quest’uomo [il padre, per il quale, chiamandolo ‘povero vec- chio’, chiede perdono] sulla via che deve appunto seguire un buon sottoposto”. Poiché in questa situazione, il Maestrini non era da solo – a dicembre 1917, ancora quattro famiglie, fra quelle ormai mancanti da tempo di braccia valide, non avevano ottenuto l’esonero di un loro richiamato e la famiglia Ver- diani del podere Moccolello era addirittura “rimasta con tre donne sole” – non sembra una forzatura interpretativa leggere nelle sue parole due pericoli che rischiavano di minare l’azienda di Cusona. Il primo era il decadimento della quantità e della qualità del lavoro dei terreni che poteva provocare lo stato di indigenza dei mezzadri, ma esercitare anche un riflesso negativo sull’andamento complessivo della fattoria, essendo la produzione divisa a metà fra parte colonica e parte padronale. Il secondo era rappresentato dall’insorgere di tensioni fra la mano d’opera e la direzione aziendale, tensioni per la verità sempre esistite e per certi aspetti connaturate al rapporto contrattuale, ma che rischiavano, in una situazione eccezionale, di portare al moltiplicarsi di gesti di ribellione verbale, incongrui in un quadro re- lazionale fatto di atavica, rispettosa sudditanza colonica, e dunque forieri di ben più pericolose, future lacerazioni di tipo collettivo. Non per caso, nel luglio del 1917, quando le opere agricole maggiormente fervevano, Ettore Tamburini, da competente ed accorto agente della fattoria, al padrone che chiedeva informa- zioni sullo stato d’animo dei mezzadri e dei salariati, mandava rassicurazioni senza però celare la verità dello stato delle cose. 130 Alessandro Orlandini

“Stia pure contento che per i nostri contadini saprò tenere le redini così bene in mano da non creare né disgusti a loro né dispiaceri a lei. Solo che ripeto che quest’irritazione è troppo giustificata se consideriamo le loro condizioni di fa- miglia”.

Paolo Guicciardini, da parte sua, aveva già pensato a cosa fare. Prose- guendo sulla via del paternalismo illuminato che era stata di Francesco – ad- dirittura simpatizzante del socialismo, lo avrebbe definito in una pagina della sua storia di Cusona14, quando però il socialismo era ancora un semplice ideale di progresso umanitario e non una perniciosa ideologia rivoluzionaria – aveva deciso di dare alcuni aiuti economici che potessero portare un qualche confor- to, in particolare per premiare l’impegno lavorativo delle donne che si stava rivelando in tutta la sua utilità, a smentire la tradizionale, inveterata sottostima rispetto al lavoro maschile.

“Per l’assenza degli uomini validi, chiamati alle armi, – scriveva al Tamburini – quest’anno le donne hanno dovuto lavorare maggiormente per fronteggiare alla meglio le varie faccende poderali. A titolo di ricompensa di questo mag- giore lavoro fatto nel 1916 e a titolo, altresì, di incoraggiamento per l’avvenire, a ciascuna donna valida darai personalmente la somma di 5 lire. Ad esse dirai che unisco i miei voti ai loro nell’augurare ardentemente una prossima fine della guerra, che permetta il ritorno dei loro cari alle proprie case e la ripresa della vita normale e tranquilla”15.

Di questa elargizione, per un totale di 600 lire, che andava a sommarsi ai vaglia di 5 lire inviati ai maschi coscritti e ad altre liberalità, si trova riscon- tro nei libri dei conti della fattoria, alla voce “abbuoni”, meglio specificata, dal 1917, in “abbuoni e compensi ai coloni per spese derivanti dalla guerra”, sotto le quali si leggono 3.478 lire al 31 maggio del 1916 – l’annata agraria si chiudeva a questa data –, che salgono, sempre allo stesso giorno dello stesso mese, a 6.798 nel 1917, a 9.024 nel 1918 e a 18.447 nel 1919, così come dalla seguente tabella16.

14 P. Guicciardini, Cusona, cit., p. 406. 15 AG, f. CLXXX, 1899-1918, Miscellanea, Contadini sotto le armi. 16 AG, f. Saldi, 1910-1916 e 1917-1925. Nel 1915, probabilmente a causa del trambusto per l’entrata dell’Italia in guerra, i saldi, invece che al 31 maggio, vennero spostati al 1° settembre. Di conseguenza i conti del 1916 si riferiscono a soli 9 mesi. Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 131

31-05- 1917 31-05- 1918 31-05-1919 premi alle donne per aver sostituito gli uomini 600 660 760 abbuono di opere occorse in sostituzione dei 5.598 8.364 richiamati per perdite subite nella requisizione del 5.660 bestiame abbuono della metà delle opere pagate dalla 7.171 fattoria abbuono per opere pagate in sostituzione dei 1.666 richiamati per incoraggiamento 3.190 al comitato per le famiglie dei richiamati di 210 Poggibonsi

Soffermandosi ancora brevemente su questa sezione della contabilità aziendale, ad integrazione dei dati della tabella non si può fare a meno di notare che, mentre costanti rimasero le erogazioni in beneficienza generica – da un minimo di 1.500 lire nel 1916 ad un massimo di 2.169 nel 1917 –, scomparvero, dal 1918, gli importi peraltro modesti – lire 524 dal 24 maggio al 1° settembre 1915, lire 270 dal 2 settembre 1915 al 31 maggio 1916, lire 210 al 31 maggio 1917 – per i sussidi ai comuni o ai comitati comunali di solidarietà per i richia- mati, come se fosse stato deciso di assorbire all’interno del microcosmo della fattoria tutte le risorse a questo scopo destinabili. D’altra parte il conte, senza mai venire meno allo spirito patriottico e al ri- spetto dei doveri di solidarietà e degli oneri economici che ne derivavano, cercò di fare in modo che non danneggiassero oltre misura gli interessi dell’azienda, mettendo in campo, anche con decisione, le proprie ragioni ogni volta che lo ritenne necessario. Già nell’autunno del 1915 invitò il fattore a vigilare affinché le requisizioni di paglia, fieno ed altri prodotti, effettuate nei poderi secondo la legislazione di guerra, non eccedessero la quota ritenuta indispensabile alla sopravvivenza di persone ed animali – 25 kg di grano e granturco al mese per persona –, nel qual caso avrebbe dovuto opporsi. Lo invitò anche a dire ai con- tadini di fare denuncia, “bene e sincera”, su quanto grano e granturco eccedente il 5 quintali fosse in loro possesso, ma al tempo stesso gli ordinò di distribuire “subito, immediatamente, a ciascun colono il grano che gli occorre per il vitto, 132 Alessandro Orlandini fino al nuovo raccolto”. Contestò i prezzi con i quali veniva remunerato il grano requisito, salvo arrendersi di fronte alla risposta dettagliata della Commissione provinciale per le requisizioni. Protestò per il sequestro, ad opera dei carabinie- ri, di sei paia di buoi per effettuare alcuni trasporti nei comuni di S. Gimignano e di Poggibonsi, pretendendone la restituzione ed ottenendo il riconoscimento di un indennizzo dal Comando dell’8° Corpo d’Armata territoriale di Firenze. Ed quando si delineò il problema dell’accoglienza dei profughi, in seguito alla rotta di Caporetto, assunse un atteggiamento improntato alla cautela. La lette- ra che ricevette in proposito dal sindaco di S. Gimignano, tanto garbata nella forma, quanto esplicita nel contenuto, soprattutto nella sua parte finale in cui si faceva chiaro riferimento a possibili requisizioni di immobili, aprì una que- stione spinosa.

“Conoscerà senza dubbio – gli aveva scritto il sindaco – lo stato lacrimevole in cui si trovano le famiglie dei numerosissimi profughi proveniente dalle gloriose terre Venete ora calpestate dal nemico e del bisogno assoluto, improcrastinabile di trovar loro alloggio per non abbandonarle ai rigori dell’inverno. Sapendo che la S.V. in questo comune ha un’abitazione libera, anche a nome del Prefetto, le chiedo se è disposto ad offrirla gratuitamente [ ]. Le sarei pur grato se potesse offrire provvisoriamente anche letti e qualche oggetto di cucina [ ]. Qualora l’of- ferta non fosse gratuita come molti han fatto con slancio patriottico, la prego di indicarmi il prezzo di affitto che richiederebbe. Spero che la S. V. comprendendo il dovere verso i nostri fratelli vorrà generosamente rispondere a questo appello in modo che non si possa dire che in questo comune l’autorità prefettizia sia do- vuta ricorrere in alcun caso ad atti coercitivi”17.

Il Guicciardini rispose dando precise istruzioni al fattore. Possibiliste, anche se dubitative, all’inizio – “So che molte fattorie [ ] hanno preso delle famiglie di profughi [ ] per beneficenza e per utilizzarle nei lavori di campagna. Se credi utile anche te di prendere qualche famiglia, ti lascio libertà di farlo [ ]. Considero però che le famiglie dei profughi sono genericamente povere di braccia né voglio che tu abbia ad aumentare il molto lavoro che tu hai e le tue preoccupazioni con l’assistenza ai profughi” –, più drastiche successivamente, quando autorizzò il Tamburini a proporre al sindaco un contributo di 500 lire per trovare dislocazioni diverse da Cusona. Precisandogli che, se il sindaco avesse insistito sulla sua richiesta e se addirittura si fosse verificata una requi-

17 AG, f. CLXXX, 1899-1918, Miscellanea, Contadini sotto le armi. Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 133 sizione, “al comune non darai le 500 lire e nemmeno un centesimo, e […] al sostentamento dei profughi non dovrai per niente incaricartene”18. Oltre all’incomodo di mettersi “in casa” degli estranei e di creare una “schiavitù”, pesavano sul suo modo di guardare al problema le considerazioni sulla scarsa utilità di quelle persone a fini produttivi, proprio come per i prigionie- ri dell’esercito austroungarico – peraltro pochissime unità sui terreni della fatto- ria – che scarso apporto davano nel meccanismo specializzato e collaudato della conduzione a coltura promiscua, determinando oltretutto non pochi problemi di sorveglianza. Molto meglio era concentrarsi sulle richieste di licenze e di esoneri per i propri mezzadri, anche polemizzando per quella che gli sembrava una dispa- rità sfavorevole nelle quote concesse al comune di S. Gimignano rispetto ad altre località di altre province toscane. O impegnarsi ad ottenere i premi stanziati dal Consorzio agrario di Firenze per le famiglie coloniche – ne indicò sette, i Mar- tinucci di Ulignano 1, i Ceccherini di Piano, i Cencetti di Rovezzano, i Galgani del Molino, i Coli di Scala, i Costantini di Remignoli 2, i Sostegni di Libia, gli Antichi di Tre Querci – che, nell’anno 1916, avevano “eseguito i lavori agrari in modo lodevole in assenza degli uomini richiamati alle armi”. Sulla produttività, in effetti, l’attenzione di Paolo fu sempre alta, in un costante confronto tecnico con il fattore. Quando, sul finire del 1917, il Tambu- rini gli comunicò, per quell’annata agraria, l’avvenuta concimazione chimica dei terreni, ma gli pose la domanda – che in verità era un suggerimento – se intendesse aumentare la quantità di nitrato, specificandone il costo, gli rispose di procedere perché, scrisse, “pensa che rimorso avremmo se il raccolto avesse scompensazioni per quel poco di nitrato”. In altre occasioni – relative in par- ticolare al vino – fece l’opposto, invitando a ridurre all’essenziale le richieste allo scrittoio di Firenze di solfo e solfato di rame poiché il ritorno in termini raccolto gli pareva incerto se non addirittura aleatorio. In altre ancora tornò, invece, a chiedere il massimo sforzo perché intravide ampi margini di profitto, come nel caso del bestiame.

“Con il prosieguo della guerra – stabiliva in una disposizione dell’agosto del 1916 – il bestiame continuerà ad aumentare di prezzo, quando poi saremo alla pace, dovrà aumentare ancora di più [ ]. Ogni nostra cura perciò deve essere rivolta [ ] ad aumentare ad ogni costo e con ogni mezzo il capitale bestiame che abbiamo [ ]. È

18 Id., come per le citazioni successive fino a nuova nota. 134 Alessandro Orlandini

dunque mio assoluto intendimento che il capitale bestiame venga in nessun modo e per nessun motivo ridotto; se non lo si farà ingrassare, in un momento come questo basta mantenerlo in vita; ad ingrassarlo provvederemo in avvenire”.

Occorreva pertanto, in primo luogo, opporsi alle requisizioni – “Le Com- missioni non possono requisire il foraggio e la paglia che sono necessarie al mantenimento del bestiame del fondo. In un’annata di siccità come questa è facile dimostrare che il foraggio e la paglia della fattoria è tutta necessaria” –, in secondo luogo bisognava porre riparo alla carenza di foraggi, determinata dalla scarsità di piogge, sia facendo ricorso ai succedanei, dai tutoli di grantur- co disseccati in forno ai residui della battitura del seme di trifoglio, dalla pula di grano senza resta ai pampani delle viti, sia addirittura procedendo ad una parziale modifica delle rotazioni quadriennali e triennali, anche se ciò avesse comportato la perdita di “qualche staiata di grano”. Per valutare se e in che misura l’insieme di queste indicazioni generali e di queste accortezze tecniche e gestionali produssero dei risultati in termini produttivi e di utili, occorre far riferimento ad alcuni elementi esogeni quali l’andamento dei prezzi agricoli e ancor più l’andamento climatico, più possen- te di qualunque evento umano, fosse anche un conflitto di portata mondiale. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, senza addentrarsi in una troppo complessa esposizione di cifre, pensiamo che, a dare un quadro del rapporto di causa effetto fra il fattore meteorologico e i quantitativi dei principali prodotti agricoli, sia sufficiente l’aggettivazione impiegata dalla Camera di Commercio di Siena in riferimento ai comuni di S. Gimignano e di Poggibonsi19.

1915 1916 1917 1918 grano abbondante buono scarso buono granturco scarso molto scarso molto scarso molto scarso fieno buono buono scarso buono paglia abbondante buono molto buono buono biada scarso scarso scarso scarso vino scarso molto scarso abbondante buono olio scarso scarso abbondante abbondante

19 Archivio della Camera di Commercio di Siena, elaborazione da “Bullettino della Camera di Commercio e dell’Industria della Provincia di Siena”. Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 135

Se ne ricava che, ci si passi il giochetto di parole, il tempo in tempo di guerra non fu dei peggiori. Per quanto riguarda il grano, l’anno più difficile ap- pare il 1917 – molta paglia e poco chicco era segno evidente di un decremento delle rese –, ma le produzioni di olio e di vino, addirittura abbondanti, agirono da compensazione. D’altra parte bisogna anche considerare che, sempre in ri- ferimento al grano e ai cereali, nel 1917 si raccolse il frutto delle preparazioni dei terreni e delle semine dell’autunno 1916 e della primavera successiva, e proprio quei sedici mesi erano stati i più critici per l’organizzazione del lavoro campestre.

“I danni che l’agricoltura ebbe a risentire dalla guerra nell’anno 1915, – si legge nel Bullettino della Camera di Commercio di Siena – aumentarono sensibilmente durante il 1916. Le prime chiamate alle armi avvenute nel 1915 parvero arrecare, e li arrecarono di fatto, danni sensibili alle nostre campagne, ma effettivamente lo sgomento fu assai maggiore del danno; quando invece nel 1916 l’Italia nostra ebbe bisogno non solo del braccio dei giovani coscritti ma anche di quello delle classi più anziane e via via i richiami si andarono moltiplicando tanto che nessun braccio valido si ritenne più sicuro di restare alle faticose opere dei campi, allora apparvero davvero le preoccupazioni e i danni si fecero sensibilissimi”20.

I quantitativi di prodotti raccolti annualmente a Cusona, così come atte- stati dalle cifre di parte padronale annotate nei libri dei conti, rispecchiano il medesimo andamento21.

1915 1916 1917 1918 grano staia 7.594 11.691 7.127 11.046 granturco 2.280 1.773 974 2.188 staia fieni kg 1.915 3.794 446 4.684 vino barili 9.815 864 4.971 2.445 olio kg 623 1.037 1.979 1.007

A ciò è opportuno aggiungere, considerando anche la consistente quantità di forza lavoro che assorbiva, la produzione di tabacco, e cioè kg. 16.416 nel

20 Archivio della Camera di Commercio di Siena, “Bullettino della Camera di Commercio e dell’Industria della Provincia di Siena”, Relazione annuale 1916, p. 79. 21 AG, f. Saldi, 1910-1916 e 1917-1925. 136 Alessandro Orlandini

1915 e rispettivamente kg. 10.959, 9.263, 10.208 in ognuno dei tre anni suc- cessivi. La conclusione che si può trarre è che siamo di fronte ad un sostanziale mantenimento dei quantitativi di produzione, con qualche punta così positiva da indurre il Guicciardini ad esprimere la propria soddisfazione e ad elogiare il fattore, come per il raccolto del grano del 1916.

“Ora che ho tutti i dati della raccolta del grano di cotesta fattoria, e ho gli elementi per giudicare posso dichiararmi veramente soddisfatto e contento del resultato ottenuto, in parte certamente dovuto alla favorevole stagione ma molto anche dovuto a te per i lavori ordinati e disposti in tempo, per il seme rinnovato con giusto criterio, per la buona e costante sorveglianza fatta, Me ne compiaccio”22.

Ma il segreto vero, che poi segreto non è affatto, di questo andamento stava ancora una volta nella componente lavoro e nella capacità delle famiglie mezzadrili di attingere a tutte le proprie risorse fisiche e competenze tecniche, non solo delle donne, come abbiamo già visto, ma anche degli anziani e dei ragazzi, costretti dalle circostanze ad assumersi incombenze e fatiche che, in tempi normali, non sarebbero state di loro spettanza, o almeno non in quella en- tità. Ne dava conto, con parole più alate delle nostre, il Bullettino della Camera di Commercio, laddove si legge di “ammirabile adattamento delle nostre donne e dei fanciulli”, di “raddoppiata energia nelle forze tuttora valide dei nostri vec- chi” e ovviamente di amor di patria23. La conferma si trova nelle risicatissime spese della fattoria per le strutture e per le attrezzature a scopo di miglioria dei fondi e di innovazione tecnica, che ben scarso apporto dettero al mantenimento e all’innalzamento della pro- duzione. Un dato questo ampiamente diffuso nell’agricoltura toscana durante la guerra, che sta ad indicare una sorta di arroccamento sull’esistente da parte dei proprietari, con esborsi di danaro quasi esclusivamente finalizzati a non far mancare l’essenziale in termini di semente, concimi, anticrittogamici – almeno nelle situazioni migliori come quella di Cusona –, ma anche con la sospensione di ogni investimento proiettato nel medio o lungo periodo.

22 AG, f. CLXXX, 1899-1918, Miscellanea, Contadini sotto le armi. 23 Archivio della Camera di Commercio di Siena, “Bullettino della Camera di Commercio e dell’Industria della Provincia di Siena”, Relazione annuale 1916, p. 79. Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 137

Venendo ai prezzi, se da una parte Cusona, come tutte le altre aziende agricole, fu penalizzata dalla crescita di quelli dei prodotti industriali indispen- sabili al ciclo colturale, dall’altra trasse beneficio dalla contemporanea crescita di quelli del grano e del bestiame, del legname e dell’olio, del vino e delle bia- de, che si verificarono nonostante il regime di calmieri e di requisizioni imposto dall’autorità governativa. Basta pensare che il grano, che nel 1914 si vendeva sulla piazza di Siena a 27,70 lire a quintale, nel 1915 salì a 40,54 e nel 1917 – prezzo stabilito dal governo – a 43,13. Analogamente, tenendo sempre come punti di riferimento il 1914 e il 1917, il granturco passò da 19,90 lire a 31,45 e il vino di collina da 25,70 a 69,81, per poi schizzare, nel 1918, a 94,0724. La combinazione dei vari elementi del quadro che abbiamo tracciato ci permette una più facile lettura dei conti e dei saldi della fattoria. Nel quadrien- nio compreso fra il 31 maggio 1915 e il 31 maggio 1919 le entrate ammon- tarono a lire 1.477.841 e le spese a lire 489.98, con una rendita netta di lire 987.860 ed una destinazione alla cassa padronale di lire 683.996, interamente versate su conti correnti bancari25. L’andamento di spese ed entrate anno per anno, iniziando dal 31 maggio 1916, cioè al termine del primo anno agrario di guerra, è indicato nella seguente tabella, da leggere rammentando l’importante avvertenza26 che i conteggi del primo anno comprendono soltanto nove mesi, invece di dodici.

31-5-1916 31-5-1917 31-5-1918 31-5-1919 entrate 148.123 213.812 512.812 603.094 spese 81.026 96.212 132.483 180.260 rendita netta 67.097 117.600 380.329 422.834 a cassa 75.739 105.882 152.375 350.000 padronale

Le voci che maggiormente incisero sulle uscite – non considerando le “spese di amministrazione” e le “imposizioni” – furono, in ordine di entità,

24 Ibid., dati desunti da “Bullettino della Camera di Commercio e dell’Industria della Provincia di Siena”, anno 1914, pp. 26-27; anno 1915, pp. 36-37; anno 1917, pp. 24.25; anno 1918, p. 31. Si precisa che sul “Bullettino” non esiste, per il periodo 1914-1919, l’intera sequenza raffrontabile delle voci e delle cifre. 25 Le cifre, per semplicità di trascrizione, sono state arrotondate togliendo i decimali. 26 Cfr. nota 15. 138 Alessandro Orlandini quelle rubricate sotto le dizioni “coltura dei poderi” (semi, concimi, rame, zol- fo), “manipolazione ed esito dei prodotti”, “coltura di terre e vigne a nostra mano” (cioè con salariati), “mantenimento dei fabbricati”, “mantenimento dei terreni”, per un importo totale, nel quadriennio, di 298.984 lire. Modesta risul- tò, nel medesimo arco di tempo, la spesa per “riparo di fiumi, fossi e strade” (7.985 lire), ancora più bassa quella per “mantenimento di istrumenti agrari” (2.779 lire), quasi insignificante quella per “nuovi immobili agrari” (1.128 lire). Alle entrate contribuirono, sempre in ordine di entità – determinata, an- cor più che per il capitolo spese, dalle differenti dinamiche dei prezzi dei vari prodotti – le vendite del vino, del bestiame, dei cereali, dell’olio. Per il bestia- me, in particolare, si nota una tendenza a conservare una sostanziale stabilità numerica, ricercando e trovando economie positive fra acquisti-nascite da una parte e vendite dall’altra, come risulta dall’utile che ammontò, nel periodo 31 maggio 1916-1919, a 366.667 lire, mentre i capi si mantennero fra le 650 e le 700 unità27. Ultima annotazione, i saldi che fecero registrare i guadagni più elevati furono quelli al 31 maggio 1918 e al 31 maggio 1919, come se, superato l’im- patto della prima lunga fase di guerra, il meccanismo produttivo e commerciale della fattoria avesse trovato un suo nuovo, proficuo equilibrio. Altrettanto si può dire sia dei trasferimenti alla cassa padronale, sia dei capitali di corredo dell’azienda che passarono da lire 303.791 del 1° settembre 1915 a lire 607.595 del 31 maggio 1919. L’inflazione, di cui bisogna tenere conto per avere una più adeguata perce- zione del valore reale degli introiti e dei guadagni di parte padronale, ai quali ci siamo fin qui riferiti, non arrivò tuttavia a livelli tali, almeno fino al 1919-1920, da inficiarne la portata. Peraltro colpì limitatamente anche i mezzadri, per i qua- li l’arretratezza di un’economia familiare basata sull’autoconsumo, e dunque soltanto eccezionalmente rivolta al mercato per soddisfare i bisogni primari, si rivelò un vantaggio rispetto alle popolazioni dei centri urbani che per sfamarsi – prezzi sulla piazza di Siena – dovettero subire aumenti del costo del pane da lire 0,34-0,38 kg prima della guerra a lire 0,40-0,55 nel 1917, della carne suina da lire 2,20 kg a 5-7, delle uova da lire 0,12-0,20 la coppia a 0,25-0,8028. Questi

27 AG, f. Saldi, 1910-1916 e 1917-1925. I numeri si riferiscono ad ogni specie di animali allevati nei poderi, di cui circa un terzo era costituito da bestiame vaccino. 28 Archivio della Camera di Commercio di Siena, “Bullettino della Camera di Commercio e dell’Industria della Provincia di Siena”, Cusona, una comunità mezzadrile del senese nella grande guerra 139 prodotti di prima necessità, almeno nella quantità essenziale ad evitare la fame, i mezzadri li avevano come frutto del loro lavoro e in virtù del contratto che lo regolava. Ne conseguì che, alla fine della guerra, una sola famiglia contadina di Cusona risultò in debito verso l’azienda29, rispetto a sette nel 1915. A favorire questa condizione colonica, tutt’altro che disprezzabile nel contesto della mezzadria senese e toscana, contribuì anche il conte Paolo Guic- ciardini con gli abbuoni e con gli incentivi di cui abbiamo già detto, soprattutto con quelli piuttosto consistenti al 31 maggio del 1919. Nel 1900, per celebrare il secolo che nasceva, il conte Francesco aveva condonato il debito colonico ed aveva corrisposto un premio ai mezzadri creditori.

“Egli aveva inteso in tal modo, con un atto di liberalità premiare i migliori suoi coloni, aveva inteso incoraggiare tutti, i buoni e i cattivi, dando modo a chi avesse voluto intraprendere una vita nuova, aveva inteso, special- mente e soprattutto venire incontro agli umili, perché il nuovo secolo por- tasse loro, in simbolo, l’augurio di una vita moralmente e materialmente migliore, in un clima di maggiore giustizia”30.

Paolo Guicciardini provò a seguire, anche in questo caso, le orme paterne, non dimenticando di riconoscere, con un premio, il lavoro eccezionale svolto dalle famiglie contadine di Cusona fra le difficoltà, i sacrifici, le assenze, i lutti provocati dal lungo conflitto, e implicitamente augurando loro, ma anche a se stesso e più in generale al ceto a cui apparteneva, un’epoca di pace, soprattutto di pace sociale dal momento che il cannone ai nuovi confini d’Italia finalmente taceva. Se quest’auspicio alla concordia si realizzò forse nelle sue terre – in che misura e perché sarebbe tema di un altro studio –, fuori di esse attinse un esito ben diverso, fra le lotte sindacali del biennio rosso e il montare dello squadri- smo fascista.

Alessandro Orlandini

29 AG, f. Saldi, 1910-1916 e 1917-1925. 30 P. Guicciardini, Cusona, cit., p. 407.

NOTE E E DOCUMENTI

LA PRODUZIONE MEDIEVALE DI TESSERE E MONETE NEL CENOBIO CISTERCENSE DI SAN GALGANO Dalle ipotesi storiche, alle analisi documentali, per la definizione di una nuova proposta interpretativa

L’abbazia di S.Galgano Persa nelle valli toscane, l’abbazia di S. Galgano è uno dei più affasci- nanti monasteri della regione, esempio assoluto del gotico toscano, nonché la prima sede della regola cistercense nella regione. Fondato nel 1201 per volere del vescovado volterrano, il convento sorge vicino alla cappelletta che i monaci eressero in luogo dell’eremo in cui si ritirò il Santo Galgano Guidotti, nella quale si custodisce tutt’oggi la spada nella roccia: il leggendario gladio che sembra ancora indetraibile1, inserito dal santo nella pietra a formare una croce, in segno di abbandono della violenza e della vita da soldato per l’ amore verso il prossimo e la devozione a Dio. Già nell’ XII secolo, l’abbazia godeva di grande importanza, i poteri ot- tenuti grazie ai privilegi degli imperatori, alle donazioni, alle esenzioni delle decime volute da Innocenzo III e alle immunità, crearono per il cenobio una situazione particolarmente prospera, che lo elevò ad un ruolo di vassallaggio sull’intera valle del Merse.

La moneta a S.Galgano Il II volume del Dizionario geografico fisico storico della Toscana di Re- petti2, è il primo tra i testi moderni a citare una moneta coniata all’interno del monastero; nell’opera, oltre alle altre attività dei monaci (produzione di vasel- lame, carta, pelli ) si riporta la raffinazione e fusione dei metalli di miniera allo scopo di ottenere moneta minuta; egli scrive: « ...Il claustro spartito in vari edifizi era fornito di tutte le officine bisognevoli ad una isolata popolazione, fra

1 In realtà, la spada è stata fissata con piombo fuso e calce all’interno della roccia nel secolo scorso, pare, infatti, che prima dei predetti interventi, essa potesse essere estratta con facilità a causa delle continue “prove di forza” dei tanti pellegrini e visitatori che erano riusciti, alla fine, ad estrarla. 2 E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana II, Firenze, ed. Repetti, 1835.

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 144 Magdi A.M. Nassar le quali s’indicano tuttora al curioso che ivi capita le fucine per fondere i me- talli delle vicine miniere di Montieri, e ridurli in piccola moneta, per privilegio probabilmente accordato dai vescovi di Volterra, cui solo era concesso il regio diritto della zecca...»3; le affermazioni del Repetti devono sicuramente trovare diversi riscontri rispetto al poco noto manoscritto di P. Isidoro Ugurgieri, di cui con tutta probabilità egli non era a conoscenza, il quale, nel XVII secolo, scriveva: « e vogliono che per privilegio di Federigo imperatore, e di Arrigo suo figliuolo vi si battessero anco i quattrini minuti per uso delle limosine, ed alle volte se ne trovano di metallo, che da un lato hanno la spada e dall’altro San Galgano »4; Canestrelli riporta che le affermazioni dell’Ugurgieri già era- no state contraddette dall’erudito Uberto Benvoglienti, il quale riteneva ancora quella della moneta solo una credenza popolare. La difficoltà nel confermare o smentire le assersioni di cui si è appena riferito verte principalmente sulla dispersione dell’archivio monacale, e dun- que sulla quasi totale assenza di fonti scritte, salvo che per un cartulario, oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze e proveniente dall’oramai sop- presso monastero di Cestello, composto di 71 fogli pergamenacei rilegati, con- tenente la copia autenticata da due notai senesi di una serie di privilegi relativi al monastero galganese ed alla regola cistercense. Va effettivamente detto che tra questi atti, nessuno descrive, come del resto era prevedibile, la concessione del diritto di zecca e, seppure non sia pos- sibile definire la completezza della serie dei documenti a noi noti, ci rimane comunque difficile credere che un privilegio di tale importanza non fosse stato inserito nella raccolta sopradescritta. La situazione delle rovine del monastero e dei rimaneggiamenti, d’altra parte, non aiuta nell’individuazione di un eventuale locale adibito alle opera- zioni metallurgiche necessarie alla preparazione delle monete, come afferma Lisini, «...nè oggi alcuno sarebbe in grado di riconoscere fra quelle macerie, officine da fondere metalli per ridurli in piccola moneta...» 5

3 Cfr. E. Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana II, Firenze, ed. Repetti, 1835, § San Galgano. 4 Biblioteca comunale di Siena, Ms. Fasti sacri senesi, scritto da I. Ugurgieri, § Beati Cistercensi; qui consultato nello stralcio citato in A. Canestrelli, L’abbazia di San Galgano: monografia storico-artistica,Firenze, Fratelli Alinari Editori, 1896, 5 A. Lisini, Alcune osservazioni intorno alle Tessere Mercantili, “Periodico di Numismatica e Sfragistica per la Storia d’Italia” VI (1874), p. 295. La produzione medievale di tessere e monete nel cenobio cistercense di San Galgano 145

Anche il periodo di questa presunta coniazione rimane dubbio: Lisini, pur non sostenendo la tesi della presenza di un’officina monetaria, che egli ritiene una fantasia dettata dalla tradizione6, individua come momento storico, quello dei primi anni del XIII secolo, quando, durante il breve episcopato di Pagano Pannocchieschi in Volterra, tutti i possedimenti della curia, tra cui le miniere di Montieri, vennero occupati dalle associazioni religiose e dai comuni limitrofi alla diocesi7; in realtà gli scritti, che comunque si basano su riferimenti orali, non avedo citato gli autori di questi alcuna fonte, non paiono coincidere con l’idea cronologica dello storico aretino, citando queste fonti la coniazione di quattrini, i quali appaiono solo nel 1351 a Siena e nel 1350 a Pisa, e comunque di un’iconografia descritta troppo complessa per il secolo. La prima notizia che tratta dei tondelli coniati dai monaci cistercensi ci viene da Sigismondo Tizio, autore del saggio Storia di Siena, tutt’oggi con- servato sottoforma di manoscritto nella biblioteca della città; egli scrive «... vogliano che per privilegio di federigo imperatore e di Arrigo suo figliuolo vi si battessero anco i quattrini minuti per uso delle limosine, ed alle volte se ne trovano di metallo, che da un lato hanno la spada e dell’altra S. Galgano, ed è da sapere ancora, che il Monastero tanto ne’ sigilli, come ne’ Merchi e nell’Ar- mi usava sempre una spada sopra tre monti, come pure oggidì va seguendo »8. Le testimonianze di Isidoro Ugurgieri-Azzolini e Sigismondo Tizio in- ducono ad una riflessione sulla correttezza dei termini utilizzati, infatti Tizio, morto nel 520 circa, indica che il monastero usava nei marchi il simbolo della spada nel trimonte come seguitava a fare nel suo tempo; le marche, dunque, erano ancora battute all’epoca del Tizio, e sono distinte nel testo dai quattrini; non c’è quindi una possibile confusione del termine quattrino, o di un suo uso improprio: Tizio conosceva la differenza tra quattrino e marca. In più, questo cronista, al contrario di Ugurgieri, si dimostra sempre affidabilissimo e puntu- ale nelle sue cronache; egli, infatti, non si limitava a trascrivere fatti traman- dati dalla tradizione popolare, al contrario ebbe a disposizione le biblioteche

6 A. Lisini. La zecca e le monete di Volterra, Casole e Berignone. “Rivista Italiana di Numismatica e scienze affini”, X (1909), p. 24 dell’estratto d’epoca. 7 vedasi Lisini. La zecca e le monete di Volterra, Casole e Berignone. “Rivista Italiana di Numismatica e scienze affini”, X (1909). 8 Dal Ms.Storia di Siena, di Sigismondo Tizio, conservato presso l’ Archivio Storico di Siena e redatto agli inizi del 1500, citato in G. Gigli, Diario Senese, Siena, A. Forni, 1854 ed in seguito riportato in A. Lisini, Alcune osservazioni intorno alle Tessere Mercantili, “Periodico di Numismatica e Sfragistica per la Storia d’Italia” VI (1874). 146 Magdi A.M. Nassar maggiori e gli archivi di Siena, anche a fronte degli importanti incarichi da lui ricoperti. La questione della moneta pare rimanere irrisolta, anche alla luce del fat- to che non si conoscono, oggi, esemplari attribuibili alla zecca o anche solo illustrazioni, se non per i deboli riferimenti del Gigli, tratti dal manoscritto di Sigismondo Tizio, che ci parla di un pezzo battuto su ambo i lati, avente su di un lato una mano che tiene un pastorale, simbolo dell’ordine cistercense, e sull’altro il volto del Santo Galgano nimbato.

Le tessere del monastero Le tessere medievali, dette anche quarteruoli, gettoni e chiamate Salu- chelle a Siena, sono oggetti monetiformi, la cui finalità è ancora oggetto di una annosa ed irrisolta discussione. Questi manufatti appaiono già nei primissimi anni del XIII sec. in Francia con il nome di jetons9, e sono largamente documentati in tutta Europa fino al XVIII sec.; in Italia, invece, decaddero già nel XV sec. . Se ne conoscono in Piombo, Rame e Mistura, tranne rarissimi casi di gettoni in argento10. I gettoni erano battuti o ottenuti per fusione, presentavano tipi diversi a seconda della provenienza, erano solitamente anepigrafi. In luogo della leggenda presentano, generalmente, un numero variabile di bisanti o rosette, i rilievi si presentavano poco pronunciati perché l’operatore potesse impilarli con facilità e, solitamen- te, presentavano un diametro variabile tra i 20 ed i 28 mm: dimensioni ottimali da maneggiare. Le tessere basso-medievali, talvolta dette mercantili, presentano spesso gli stemmi di alcune importanti compagnie Trecentesche o Quattrocentesche, ma possono portare impressi anche simboli cittadini, oppure di dileggio e di- vertimento, o anche riconducibili ad ordini religiosi; queste tessere dovettero effettivamente assumere i più svariati utilizzi: dal pagamento delle gabelle, al gioco d’azzardo, per finire al conteggio delle cifre sugli abachi dei mercanti e dei cambiavalute. Proprio per queste incertezze ancora generalizzate, la questione galga-

9 vedasi F. P. Bernard, Thecasting-counter and the counting board, Oxford, s.e., 1916. 10 Vedi, ad esempio, gli esemplari rarissimi cat. 217-218 della coll.ne Tordi, contenuta nel catalogo di Marco Tagliaferri, in Catalogo regionale dei beni culturali dell’Umbria: Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto, a c. di L. Travaini, Città di Castello, Electa editori umbri associati, 2007. La produzione medievale di tessere e monete nel cenobio cistercense di San Galgano 147 nese non si presenta molto più chiara di quella numismatica; di queste tessere, infatti, si trovano riferiti diversi esemplari con caratteristiche diverse. L’utilizzo delle tessere medievali a San Galgano è comprovato, oltre che da alcuni scritti di eruditi moderni, anche da attestazioni archeologiche: Cucini e Paolucci, ad esempio, riportano il ritrovamento di una tessera nell’immediata prossimità dell’abbazzia, in occasione di alcuni saggi stratigrafici11 . Nel 1874, Lisini pubblica l’immagine di una tessera mercantile attribu- ibile senza troppi dubbli al cenobio, la quale si dimostra molto simile alla de- scrizione del quattrino descritto dal Gigli, presentando su di un lato il pastorale retto in una mano, simbolo del potere abaziale, e dall’altro la spada infissa nel trimonte, indubbia effigie dell’abbazia, in luogo del busto santo; tale ogget- to apparteneva, al tempo, al Marchese Bonaventura Chigi Zodadari di Siena, noto Mecenate, nonché collezionista, di fine Ottocento. Lisini, dunque, ipotizza che similmente a quello da lui visionato, anche l’esemplare descritto dal Gigli potesse rivelarsi una tessera, motivando la diversità delle raffigurazioni con una procedura di battitura senza conio, che in realtà non trova alcun riscontro documen- tale o tecnico a parere di questo autore, in virtù del quale, egli sostiene che mediante degli stampigli, le singole figure fossero Fig. 1 - La tessera rinvenuta nel terreno adia- impresse singolarmente, senza l’uso di un cente al monastero di S. Galgano, riportata in conio, a formare la figura finale, dunque, Cucini-Paolucci 1985. mediante la sovrapposizione di uno stem- ma, una spada, i globetti etc. : «sembra che per stampare una tessera, non oc- coresse fare un conio apposito; ma ado- prassero certi punzonetti, dei quali alcuni servivano per fare le rose e i globetti, altri i circoli e gli orli ed altri infine lo stemma o il segno a seconda di ciò che in quelle Fig. 2 - La tessera proveniente dalle colline del volevasi riprodurre»12. marchese Bonaventura Chigi-Zondadari.

11 C. Cucini - G. Paolucci, Topografia archeologica e saggi stratigrafici presso l’abbazia di S. Galgano (Siena). “Archeologia medievale”, XII (1985), p. 468, n.2. 12 Cfr. A. Lisini, Alcune osservazioni intorno alle Tessere Mercantili, “Periodico di Numismatica e Sfragistica per la Storia d’Italia” VI (1874), pp. 286-287. 148 Magdi A.M. Nassar

Nel tempo di oltre un secolo che ci separa dagli studi del Lisini, sono state rese note diverse tessere che rappresentano lo stesso simbolo del pastorale sorretto da una mano, chiaramente riconducibili all’abbazia, per analogia con quella proposta dal Lisini, che tuttavia, variano nella figura dell’altro lato, ne proponiamo due di seguito, assieme a quella già citata:

1. Tessera Medievale D/ Braccio tenente un pastorale entro cerchio liscato circondato da 15 bisanti. R/ Spada inserita in un trimonte, secante il cerchio liscato, circondata da 12 bisanti prov.| Coll.ne March. Bonaventura Chigi-Zondadari. bibliografia| LISINI 1874

2. Tessera Medievale D/ Braccio tenente un pastorale entro cerchio liscato circondato da 19 bisanti. R/ Galletto o Cappone entro cerchio liscato, circondato da 15 bisanti. prov| Museo Horne, Firenze. bibliografia| BANTI 2000, n.1164.

3. Tessera Medievale D/ Braccio tenente un pastorale entro cerchio liscato circondato da 16 bisanti. R/ Figura umana, andante, reggente un bastone mentre accarezza un animale a quattro zampe., circondata ad intervalli da 8 bisanti. prov| ignota bibliografia| PITON 1892, n.153, pag.90. nota| Un’esemplare identico è censito in BERNOCCHI 1996.

La presenza di diverse tessere con una faccia in comune e l’altra variabile, indicano evidentemente una differenziazione sulla base dell’utilizzo, soprattutto in relazione al fatto che alcune delle rappresentazioni che appaiono nei rovesci, sono utilizzate sulle tessere anche all’interno di altri contesti: è il La produzione medievale di tessere e monete nel cenobio cistercense di San Galgano 149 caso, della raffigurazione del gallo, oppure della tipologia gergalmente nota come “Androclo ed il leone”, ovvero quella con la figura umana, che noi ritroviamo impressa su altri tondelli che presentano al dritto leoni alati che fanno di conto, P fiorate, stemmi mercantili, o altri segni ancora. Questa particolare caratteristica, ci comunica il costume di imprimere su di una faccia il simbolo dell’emittente, e sull’altro l’immagine relativa all’utilizzo della tessera, oltre a descrivere come alcuni segni fossero convenzionalmente adottati in ambiti diversi in relazione al ruolo che la tessera avrebbe dovuto svolgere.

La funzione delle tessere Si dimostra, se non altro, complicato definire con certezza il ruolo di questi tondelli metallici a S.Galgano: sul loro utilizzo nel cenobio sono nate, nel tempo, diverse tesi; Lisini, ad esempio, ipotizzò che fossero coniati con il proposito di facilitare i conti sull’abaco13: la calcolatrice dell’epoca, che funzionava similmente ad un pallottoliere, spostando dei piccoli oggetti su di una tabella disegnata od incisa su un tavolo, come del resto è testimoniato dalle memorie di diversi cambiatori, e matematici, come l’abate Fibonacci, nonchè dalle rappresentazioni che troviamo su alcune di queste stesse tessere, dove talvolta è rappresentato un leone alato che utilizza, appunto, un abaco; questo

13 Cfr. A. Lisini, Alcune osservazioni intorno alle Tessere Mercantili, “Periodico di Numismatica e Sfragistica per la Storia d’Italia” VI (1874), 150 Magdi A.M. Nassar sistema, del resto, si trovava già in uso presso la Grecia e la Roma antica, con l’utilizzo di pezzi di coccio e piattelli in osso14. Il sistema dell’abaco era sicuramente conosciuto ed utilizzato a San Galgano, del resto i monaci dell’abazia erano molto pratici ed avvezzi al calcolo, tanto che molti dei camarlenghi della Biccherna di Siena furono monaci cistercensi provenienti dal Cenobio; non è certo, tuttavia, che fossero utilizzati dei quarteruoli, che concretamente si dimostravano oggetti di pura ostentazione, che potevano essere più semplicemente sostituiti da sassolini, legumi o altri piccoli oggetti, e che erano più spesso adottati da apparati pubblici, come appunto la Biccherna, o grandi compagnie private. Un’altra funzione, sicuramente compatibile con un contesto simile, può essere quella proposta dal Gigli, il quale ipotizza: «… penso bene che altro non siano che marchi fatti per uso delle limosine; che i monaci di continuo praticavano fare...15»: anche in altre congregazioni religiose o anche le confraternite, infatti, si utilizzavano i gettoni anche per scopi assistenziali: gli statuti dell’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena, ad esempio, determinavano la possibilità, per i pellegrini, di usufruire di alcune tessere con i simboli della balzana e della scala sormontata dalla croce, per ricevere cibo e ricoveri presso le Grancie, ovvero fattorie di proprietà della congregazione dedite alla produzione per il sostentamento degli assistiti16. In altre occasioni, queste tessere erano prodotte anche come prova di un avvenuto pagamento, è il caso delle fiere, dove i mercanti, pagati i diritti di esposizione, ricevevano, appunto, una saluchella: il Du Cange riporta un passo, in cui si legge: «in nundinis dabantur merelli in signum soluti pretii pro mercibus expositis17».

14 Vedasi Bert Van Beek. Jetons: Their Use and History. Chicago, s.e., 1986. 15 Cfr. G. Gigli, Diario Senese, Siena, A. Forni, 1854. 16 Vedasi P. Torriti, Il Pellegrinaio nello spedale di Santa Maria della Scala a Siena. Genova, 1987, p.17. 17 Cfr. Du Cange La produzione medievale di tessere e monete nel cenobio cistercense di San Galgano 151

È probabile che nel convento fossero utilizzati anche per stipendiare i lavoratori che vi prestavano servizio, dando loro la facoltà, all’occorrenza, di scambiare quei gettoni con beni prodotti dal cenobio, come granaglie, alimenti, o legname. Risulta, invece, meno probabile l’ipotesi ancora del Gigli, che le identifica come «...marchi per porre ne’ loro panni come in quei tempi si usava fare...»18, i marchi, infatti, riportavano raffigurazioni su di un solo lato, l’altro, invece, presentava un anelletto o un foro, affinché fosse possibile applicarlo con una cucitura sul prodotto da marcare; tali pezzi, infatti, che secondo la suddivisione operata da Peruzzi19, apparterrebbero all’ ordine delle tessere conciarie, venivano utilizzati come sigillo di garanzia: cuciti sulle pelli e ne indicavano la provenienza con scopo era bilaterale, permettendo ai produttori di guadagnare popolarità e al consumatore la possibilità di rivendicare un eventuale imperfezione del prodotto.

Sull’utilizzo monetale delle tessere L’utilizzo monetale delle tessere medievali, è supposto da diversi autori dell’ultimo decennio dello scorso secolo20, nonostante non esistano, ad oggi, ritrovamenti ufficiali significativi di nuclei monetali misti a tessere chesi propongano come evidenze esemplari, salvo il caso degno di nota relativo al ritrovamento nella grotta del santuario di S.Michele Arcangelo sul Gargano, in cui, assieme alle monete devolute al Santo, è stata rinvenuta una tessera; la significatività del ritrovamento risiede nella finalità del gesto di donare una tessera: questo fa pensare che il manufatto avesse assunto un certo valore concreto, visto che un pellegrino aveva deciso di donarlo e che, come dice Saccocci: «... ai santi si offrono monete, non gettoni privi di valore...»21. È da ritenersi invece poco significativo, a tal proposito, il ripostiglio di Patrasso,

18 Cfr. G. Gigli, Diario Senese, Siena, A. Forni, 1854. 19 vedasi S. L. Peruzzi. Storia del commercio e dei banchieri di Firenze in tutto il mondo conosciuto dal 1200 al 1345, Firenze, ed Galilciana, 1868. 20 Vedasi, tra gli altri, F. M. Vanni - A. Saccocci. Tessere Mercantili dei secc. XIIIXIV dagli scavi della missione americana a Corinto, “Rivista Italiana di Numismatica e scienze affini”, C (1999). 21 vedasi F. M. Vanni - A. Saccocci. Tessere Mercantili dei secc. XIIIXIV dagli scavi della missione americana a Corinto, “Rivista Italiana di Numismatica e scienze affini”, C (1999). 152 Magdi A.M. Nassar composto da 4 tessere ed un follis bizantino, nel quale è il follis che deve essere interpretato come l’oggetto impropriamente utilizzato, e non viceversa22 . L’utilizzo di oggetti come monete non è pratica rara; del resto si tratta dello stesso caso che ha riguardato la nostra società negli anni Ottanta del secolo scorso, quando, in assenza di monete di piccolo taglio, poteva capitare di vedersi restituire il resto ad un piccolo acquisto in gettoni telefonici, o in altre forme di valori commerciali anzichè in moneta legale. L’utilizzo di forme alternative di pagamento si rende necessario quando si presenta una carenza di credito; tale evento induce i soggetti ad accettare un “buono” che da accesso alla riscossione di un bene di cui, abitualmente, lo spenditore fa uso. É del tutto possibile che in un’economia rurale e isolata, come quella del monastero, gli operai del convento accettassero, in luogo delle monete a corso legale, delle tessere che dessero diritto alla riscossione di beni effettivi prodotti dal cenobio, come frumento, ortaggi, latte o altri generi di consumo. Del resto, la determinata corrispondenza di valore tra le tessere e la moneta reale era una proporzione esistente, e si desume, ad esempio, in alcuni stralci riportati da Lisini nel suo articolo sulle tessere mercantili, nel quale trascrive alcune voci tratte dai documenti della Biccherna di Siena23, dove si legge:

- 1315. «Item j lib., xv sol. A Vanni Jacomi orafo per venti soldi di quarteruoli per lo comune di Siena» (Biccherna, libro di entrata e uscita, Volume 89, c. 3)

- 25 Settembre 1327. «Anco a Giovanni piczicaiuolo per cinque soldi di quarteruoli» (Biccherna, libro di entrata e uscita, Volume 115, c. 23)

- 1345. «Item Jacomo Boctonario pro xiv sol. Quarterolorum pro Biccherna et pro duabus piasidibus» (Biccherna, libro di entrata e uscita, Volume 117, c. 77)

22 vedasi Catalogo regionale dei beni culturali dell’Umbria: Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto, a c. di L. Travaini, Città di Castello, Electa editori umbri associati, 2007. 23 Le voci trascritte sono riprese da A. Lisini, Alcune osservazioni intorno alle Tessere Mercantili, “Periodico di Numismatica e Sfragistica per la Storia d’Italia” VI (1874), e verificate da quest’autore nell’Archivio di Siena. La produzione medievale di tessere e monete nel cenobio cistercense di San Galgano 153

Come spesso accade, le cronache e i documenti, per quanto possano essere rimaneggiati e deviati dalla fantasia di qualche campanilista o dalla cattiva tramandazione orale, nascondono sovente un fondo di verità; in questo caso è del tutto probabile che le tessere mercantili fossero utilizzate per scopi economici, all’interno di piccole transazioni locali.

Conclusioni Il caso di San Galgano si presenta, in conclusione, come un esempio di studio per quanto riguarda l’exonumia religiosa medievale, con le sue tessere che presentano varianti al rovescio in relazione alla funzione a cui sono deputate. Per quanto riguarda la cooniazione monetale, invece, pare che effettivamente, i documenti prodotti in età moderna dagli eruditi siano fondati su imprecisioni determinate, forse, da una cattiva tramandazione orale, che trovano probabilmente fondamento nella coniazione delle tessere e nella loro funzione para-monetale che, probabilmente, assunsero nel corso dei secoli XIV ed XV.

Magdi A. M. Nassar 154 Magdi A.M. Nassar

Bibliografia

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Il Bianco da Siena Nato ad Anciolina e vissuto «tra la metà del XIV secolo e l’inizio del successivo»1, trascorse la sua giovinezza a Siena, dove lavorò come lanaiolo: nella seconda metà del Trecento la città fu un centro ricco di fermento arti- stico e religioso. Dal 1367 fu ammesso alla comunità dei poverelli di Cristo, fondata da Giovanni Colombini verso il 1360, e successivamente divenuta la Congregazione dei Gesuati. La spiritualità dell’ordine, che nella preghiera era legato agli ideali francescani di lode del creato, influenzò in maniera significa- tiva gli interessi artistici del Bianco, tra cui quello per il misticismo. Proprio in questo campo è nota una grande affinità con la poetica di Jacopone da Todi, di cui il Bianco è considerato l’epigono più importante: egli era forse il seguace più dotato della poetica inaugurata dal Tudertino. Ma per la formazione della poetica del Bianco si nominano anche altri modelli, come inni extra-liturgici, salmi latini, o letture di teologi e teorici del misticismo. Nel corso del presente articolo vedremo che il Bianco si ispirò spesso alla preghiera latina ricreandone in volgare il repertorio e le tecniche di composizione. Vale la pena di ricordare che il Bianco lasciò definitivamente Siena verso il 1370. Successivamente egli soggiornò in altre città della Toscana e morì a Venezia, forse nel 14122. Durante il suo peregrinare non trascurò mai di ampliare la propria cultura teologica3. Se, come ipotizza la Ageno, a Venezia scrisse molte delle sue laude, si può legitti-

1 Per le notizie biografiche cfr.S. Serventi, Premessa, Il B. da Siena, Laudi, a c. di S. Serventi, Roma, Antonianum, 2013, pp. 5-9; S. Serventi, Saggio di edizione di tre laudi del Bianco da Siena (I), “Studi e problemi di critica testuale”, 81 (2010), p. 47. Franca Ageno ipotizza l’anno di nascita del Bianco tra il 1345 e il 1350, cfr. F. Ageno, Il Bianco da Siena: notizie e testi inediti, Città di Castello, Soc. anonima ed. Dante Alighieri, 1939; la Ageno ha curato anche la voce “Bianco da Siena” nel Di- zionario Biografico Treccani. La fonte più importante delle notizie biografiche sono gli scritti del poeta quattrocentesco Feo Belcari. 2 È la data ipotizzata dalla Ageno. 3 Bianco lesse un volgarizzamento della Mystica theologia di S. Bonaventura. Cfr. F. Ageno, Il Bianco da Siena, cit., p. XX.

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 156 Magdalena Maria Kubas mamente supporre che nel vagare tra le comunità religiose della Penisola egli fosse venuto a contatto con la vitalità della cultura laudistica dell’epoca4.

La litania Analizzeremo il legame tra la poetica del Bianco da Siena e le modali- tà, tematiche e retoriche, della litania5. Prima di procedere sembra opportuno delineare brevemente la storia di questa forma di preghiera. Essa è tipica del cattolicesimo occidentale, anche se affonda le radici nell’Inno Acatisto alla Madre di Dio della chiesa bizantina medievale, il cui testo fu tradotto in latino a Venezia prima del IX secolo6 da un vescovo orientale, Cristoforo I7. La tra- duzione dell’inno diede impulso alla nascita di una preghiera di lode: fin dal XII secolo8 vi sono notizie di litanie mariane in latino, mentre quelle in volgare sono pervenute nei codici datati agli ultimi decenni del Trecento9. I testi delle prime litanie, dette veneziane o aquileiesi, presentano una varietà di forme che differisce sensibilmente dalla versione di Loreto, entrata successivamente nel

4 La Ageno spiega la congettura con il fatto che alcuni dei manoscritti più importanti contenti le laude del Bianco, il Rossiano 651 e il Marciano Italiano IX . 182, provengano dal Veneto. L’edi- zione curata dalla Serventi prende in considerazione un altro codice autorevole, il Palatino 205 della Biblioteca di Parma. 5 Il presente saggio nasce da uno studio realizzato nell’ambito del progetto “Litanic Verse in the Culture of European Regions”, svolto presso l’Università di Varsavia (Polonia) e finanziato dal Centro Nazionale delle Ricerche polacco. N° di rif. per i fondi di ricerca: DEC-2012/07/E/HS2/00665. 6 Cfr. Introduzione, in: Testi mariani del primo millennio, III, a c. di G. Gharib, E.M. Toniolo et al., Roma, Città Nuova, 1990, p. 33. 7 Per le notizie e il testo cfr. G. G. Meersseman, Der Hymnos akathistos im Abendland, Fribur- go, Universitätsverlag, 1958; G. G. Meersseman, Hymnos Akathistos, Friburgo, The University Press, 1958; C. Del Grande, L’inno acatisto in onore della Madre di Dio, Firenze, Fussi, 1948; W. Sadowski, Litania i poezja, Varsavia, WUW, 2011. Le osservazioni legate al verso litanico sono riferibili all’ul- timo titolo. 8 Cfr. G. G. Meersseman, Der Hymnos, cit.; A. Persic, Le litanie mariane ‘aquileiesi’ secondo le recensioni manoscritte friulane a confronto con la tradizione comune, “Teothokos” XII (2004), pp. 367-388. 9 A. Persic, Le litanie mariane, cit., p. 369. Inoltre, tra gli opuscoli di nozze conservati nella biblioteca di Giosué Carducci abbiamo trovato una stampa privata di una litania mariana in volgare che Giovanni Giannini, un allievo di Alessandro D’Ancona, sostiene di aver trovato e trascritto da un codice liturgico originario di Volterra, cfr. G. Giannini, Litanie volgari del scolo XIV, Lucca, Tipografia Giusti, 1893. Litania come strategia retorica nelle Laudi del Bianco da Siena 157 canone della Chiesa di Roma10. Inoltre, a partire dal VII secolo si evolve un secondo tipo di litania, quella dei santi, il cui passaggio in Occidente è stret- tamente legato con il mondo anglo-sassone11. Questo tipo di pratica litanica si propagò successivamente attraverso la Francia12. La litania come genere discorsivo si compone di frasi di saluto ricorren- ti (il termine greco χαῖρε, “gioisci”, nelle traduzioni latine dell’Inno Acatisto e, più in generale nei contesti di preghiera, è reso con l’ave), intrecciate con enumerazioni di attributi della Vergine, o nomi di santi: questo ultimo tratto è definito come polionimia. Vi è anche un elemento di lode e supplica, che deriva dalla formula del kyrie, nota a tutte le litanie canoniche e alla liturgia cristiana più in generale13. In un’ottica stilistica e formale la poetica del Bianco riprende molte caratteristiche importanti di questa forma di preghiera. Partendo da un campionario delle tematiche, analizzeremo le strategie retoriche del Bianco ri- conducibili all’influsso della litania. I tratti del genere litania si intersecano con varie forme poetiche indi- viduabili nel laudario del Bianco. In alcuni casi prevale l’apporto litanico, e parleremo di litanie d’autore, in altri la litania si amalgama maggiormente ai testi modificandoli leggermente. Una serie di esempi dimostra come il Bianco avesse dimestichezza con forme e pratiche litaniche. Infine parleremo dei modi più originali di declinare la stilistica della litania. Tra le laude prese in conside- razione nella seconda parte vi sono alcuni dei testi monumentali del Bianco e, insieme, quelli che più abbondano di ripetizioni. Sebbene questa caratteristica venga spesso considerata negativa nel ragionare sulla poesia del povero gesua- to, a nostro parere egli basò il proprio progetto poetico sulla frequentazione intensa di alcune figure retoriche. Franca Ageno diede un giudizio severo dei tratti che ci interessano nell’opera del Bianco:

10 La litania è approvata come preghiera ufficiale da papa Sisto V nel 1587. Le litanie lauretane sono «proclamate come le uniche lecite da papa Clemente VIII nel 1608». Cfr. A. Persic, Le litanie mariane, cit., p. 367. 11 Canterbury fu il primo centro di codificazione del testo nell’Occidente cristiano. 12 Cfr. W. Sadowski, Litania, cit., pp. 43-47. Tra i serventesi del Bianco vi è un testo (il CXVI) in cui l’autore elabora le modalità della litania ai santi, cfr. B. da Siena, Serventesi inediti, a c. di E. Arioli, Pisa, ETS, 2012, pp. 78-98, vv. 297-340. 13 La genesi e i tratti del genere litanico sono descritti in W. Sadowski, Litania, cit., pp. 29- 61. Per gli equivalenti dell’elemento kyriale l’autore utilizza un’espressione tipica del cristianesimo orientale e ortodosso, ectenia, che comprende una componente forte di dialogo responsoriale tra il sacerdote e i fedeli. 158 Magdalena Maria Kubas

Il Bianco è incapace di dare alle proprie composizioni quella struttura sal- damente organica che, senza essere di per sé una dote artistica, è tuttavia segno di una mente artistica completa e requisito di un’opera artistica ve- ramente riuscita. Di questa incapacità è traccia nella sua stessa tecnica di scrittore: il periodo è del tipo più semplice (soggetto, verbo, complemen- to); le proposizioni sono di solito coordinate asindeticamente [...]; rare le subordinate, che sono quasi esclusivamente relative. In tale periodare, si rivela la semplicità psicologica dello scrittore e, insieme, la sua incapacità costruttiva [...]. La prolissità e le ripetizioni e amplificazioni, che costi- tuiscono uno dei difetti peggiori delle laudi del Bianco, sono il risultato e insieme il segno delle stesse tendenze14.

Alcuni punti su cui la studiosa insistette tanto forse potrebbero essere ridi- mensionati nell’ottica litanica permettendo di apprezzare maggiormente, all’in- terno della poetica del Bianco, il ruolo della ripetizione come scelta poetica.

Litanie poetiche In primis vorremmo citare alcune laude in cui i caratteri della litania pre- valgono in maniera univoca. Si tratta quindi di incroci dei modi litanici con alcuni generi testuali che si sono evoluti nei primi secoli della poesia in volgare. Il caso più eclatante è una variazione sul tema dell’Ave Maria che costituisce lo scheletro (latino, misto al volgare) dell’attacco delle strofe della lauda XLIX15. L’ottava di apertura (vv. 1-8) si costituisce sul modello della litanicità mariana, in cui al saluto segue un elenco di attributi:

Ave Marïa, di gratia fontana, ave reina etterna rilucente, ave, la qual sè a Dio prossimana, ave, di carità fiume corrente. Ave, sperança di ciascun che t’ama, ave, conforto di tutta la gente, ave, degli angioli dilectatrice, ave, di Iese nobile radice.

14 F. Ageno, Il Bianco da Siena, cit., p. XLIII. 15 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 650-653. Litania come strategia retorica nelle Laudi del Bianco da Siena 159

La breve litania è dunque compressa nella forma dell’ottava rima16 e nel suo schema rimico. La preghiera in questione è priva di rima, la litanicità del Bianco rispetta invece i modelli previsti dalle forme poetiche adottate nelle sin- gole laude. La preghiera mariana per eccellenza17 è modificata secondo l’ordine saluto-circonlocuzione che fa eco alla traduzione latina dell’Inno Acatisto18. Il destinatario della preghiera è nominato nel primo verso. Successivamente il nome sacro è sostituito dalle numerose perifrasi19, mentre il collegamento logico per asindeto corrisponde al concatenarsi delle invocazioni della litania. Nell’opera del Bianco vi sono litanie poetiche più lunghe, come quella inserita nella lauda XCI20, dedicata a Caterina d’Alessandria (vv. 1-15): tra le possibili contaminazioni occorre parlare della litania a un singolo santo21. Il destinatario, che l’io nomina nei vv. 1-3, è presentato nel modo seguente:

O per amore accesa Serafina, o Cherubina per vera scïentia, o come Trona netta Caterina.

Come premesso nella prima parte, siamo autorizzati a supporre che il Bianco avesse una certa familiarità con il fenomeno dei laudari anonimi22 e con la pratica di includere litanie vere e proprie nei manoscritti confezionati per le confraternite dei laudesi23. Inoltre, la lauda XCI alla litania abbina lo schema metrico e rimico della terza rima. Le possibilità che offre questa scelta sono

16 Nel laudario del Bianco vi sono altri esempi di frammenti litanici inseriti all’interno di laude più cospicue, cfr. ad esempio la lauda XXXVII (vv. 235-254; 265-274), in cui vi è l’invocazione basata su perifrasi originali, che sfrutta la polionimia litanica. Il B. da Siena, Laudi, pp. 584-594. 17 L’Ave Maria fu incluso tra le preghiere dei fedeli intorno al 1210 e subito si diffuse enorme- mente. Cfr. J. A. Jungmann, Breve storia della preghiera cristiana, Brescia, Editrice Queriniana, 1991, pp. 100-101. 18 Ecco alcuni versi del modello: «Ave, angelorum multirumigerulum miraculum»; «Ave, spes bonorum eternorum» (vv. 35, 160), cfr. G. G. Meersseman, Der Hymnos, cit., pp. 106, 118. 19 Cfr. W. Sadowski, Litania, cit., p. 40. 20 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 911-913. 21 Non ogni lauda del Bianco dedicata a un santo si presenta come litania, cfr. la lauda XCII dedicata a Sant’Orsola: Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 914-915. 22 Per la Ageno la scrittura del Bianco è fortemente legata al senese nonostante la «veste lin- guistica fiorentina», cfr. F. Ageno, Il Bianco, cit., p. 18. Si può pensare che il gesuato conoscesse perlomeno la poesia nel proprio volgare. 23 Cfr. ad esempio di G. Aranci, Il laudario fiorentino del Trecento, Montespertoli, Aleph Edi- zioni, 2002. Nella sezione finale del laudario vi sono alcune litanie ai santi. 160 Magdalena Maria Kubas sfruttate ad esempio ponendo in posizione rimata il nome del destinatario della preghiera, che in questo modo risulta spostato rispetto alla collocazione tipica del genere litanico. Tra i numerosi casi interessanti vi è la lauda CVIII24, che aiuterà a illu- strare il passaggio tra la litania d’autore e la strategia litanica come meccanismo retorico. La prima parte del testo (vv. 1-42) forma una litania originale allo Spi- rito Santo. La luce, l’istanza della supplica, rappresenta un’antonomasia della Terza Persona: la stanza d’apertura ne focalizza gli attributi principali, mentre nella parte successiva le invocazioni sono accompagnate anche da parti di rac- conto25. Alla struttura dei segmenti mobili è legata la frequenza dell’anafora, che rappresenta la parte fissa: le frasi a carattere narrativo, che possono occu- pare fino a tre versi, sono legate sotto un’unica apostrofe alla Luce. I moduli costruiti sugli attributi sono più brevi: a un verso può corrispondere un’invoca- zione singola o perfino doppia, in cui il termine “Luce” è reiterato quindi più volte. Tuttavia, nella lauda CVIII i tratti litanici sono sfruttati anche fuori da questa prima parte. La memoria fonica è coltivata attraverso il ricorso all’ana- fora che inizia per “l”, come nei vv. 85-145 in cui l’avverbio “lassù” è proposto in ogni verso o a distanza di due-tre versi. Adottando la suddivisione secondo il termine dell’anafora, osserviamo che nella terza parte del testo (vv. 161-226) ri- torna l’invocazione alla luce o all’elemento lucente. L’anafora ritorna perlopiù all’inizio delle terzine e la sua presenza diminuisce soltanto nei versi finali (vv. 227-260). Ecco un campione delle parti analizzate (vv. 1-3; 85-87; 167-169):

Luce divina, luce splendïente, o luce etterna, lucido splendore, luce ch’alumina ogni cosa lucente; [...] Lasù giamai non vi si sente doglia, lasù si è ogni perfetta pace, lasù si è ripieno ogni suo voglia. [...] Lucente vita, verità e via, tant’è lucente il tuo chiaro splendore, ch’a la tua luce creata è tenebria.

24 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 1023-1034. 25 Esistono parti o varianti di litanie di tipo narrativo, cfr. W. Sadowski, Litania, cit., p. 74-84. Litania come strategia retorica nelle Laudi del Bianco da Siena 161

Nella litania poetica del Bianco si nota la carenza della formula ripetuta del tipo ora pro nobis e una scomparsa del carattere responsoriale, che costitui- sce uno dei tratti principali della litania. Questo fatto può essere spiegato con le esigenze dei generi poetici che la litania incontra nella poesia del Bianco: sia dell’ottava dall’origine popolare, sia della terzina che ebbe una grande diffusio- ne a partire dal Trecento26. Ciò può essere connesso anche allo stile personale: la Serventi sostiene che il Bianco è l’inventore della preghiera poetica interiore e personale. Si può tuttavia ipotizzare anche un fattore metrico: la versificazio- ne del genere litanico non è soggetta alle leggi della versificazione sillabica, perciò una delle funzioni della formula ricorrente è sottolineare la pausa tra la fine di un verso e l’inizio di quello successivo. È quindi probabile che nel si- stema metrico trecentesco, che aveva raggiunto la sua stabilità, l’orecchio degli ascoltatori fosse abituato a delimitare la lunghezza dei versi. Da questo punto di vista sarebbe stato superfluo aggiungere quello che il sistema stesso offriva all’autore e all’utente del testo.

La ripetizione come strategia testuale: una classificazione La ripetizione litanica in quanto strategia retorica può essere classificata dal punto di vista del destinatario del messaggio poetico, dei mezzi retorici impiegati e della frequenza della ripetizione stessa. Si nota anche che le parti costruite seguendo la suddetta strategia all’interno delle laude del Bianco pos- sono essere collocate in posizione centrale o finale (vedi la lauda LXXXIV27) e, più raramente, in apertura del testo. Per quanto riguarda i destinatari delle ripetizioni troviamo: A. il cielo e i destinatari astratti. Ciò implica un atteggiamento di supplica; B. destinatari terreni, cui si ricorre nelle laude a carattere di avvertimento; C. destinatari impersonali. Le figure retoriche più frequentate sono: 1. le anafore (di solito contenenti un verbo all’imperativo che si rivela un

26 Cfr. F. Bausi - M. Martelli, La metrica italiana: teoria e storia, Firenze, Le lettere, 1996. 27 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 869-871, vv. 40-46. Nella lauda LXXXIV troviamo una litania finale, che non viene annunciata in nessun modo nel testo. Essa è costruita sulle seguenti perifrasi cristologiche: «O verità etterna, / o carità infinita, / o vertù sempiterna, / o sença mai finita, / tosto sia la partita, sel ti piace, / o vivo Dio verace, / a riposarmi in te riposatore!». 162 Magdalena Maria Kubas imperativo di preghiera28; ci si rivolge ai destinatari A e B). Vediamo due strofi della lauda IX29 (vv. 70-73; 135-139):

[la verità] grida di testa: venit’al dolçore! Venit’al gaudio del dilecto sposo, venit’a Cristo nel quale è riposo, venit’amanti col cuor disïoso [...] Guidami tu, factor mio glorïoso, per amor del tuo figliuol dilectoso. Guidami tu, Iesù dilecto sposo, guidami tu, amor consolatore.

Il termine dell’anafora che viene ripetuto può variare, soprattutto a di- stanza, nella seconda strofe citata è seguito dall’apposizione che esprime una circonlocuzione cristologica. Questo tipo retorico può includere le descrizioni delle gerarchie celesti. Ne è un esempio la lauda LX30, in cui l’enumeratio è af- fiancata dall’anafora “vedrai”. Nello stesso testo l’ordine litanico può risultare invertito con il ricorso al segmento ripetuto in posizione di epistrofe. Ecco un frammento in cui la concentrazione degli elementi iterativi è particolarmente intensa (vv. 332-336):

Vedrai ‘l gran propheta Samuele, vedrai David che tanto fu robusto, vedrai l’amico di Dio Daniele, vedrai il grande propheta Isaia e quel che nacque, sancto Geremia.

2. Apostrofe ripetuta, la cui funzione apparente è invocare, ma si tratta di un tentativo di definire il destinatario A. La lauda XX31 rappresenta bene questo

28 Nella preghiera l’imperativo è da interpretare semanticamente non come un ordine, ma come un atto di supplica. Il ricorso e l’efficacia dell’imperativo di preghiera a nostro parere è relativo al ten- tativo di stabilire una linea di comunicazione tra le dimensioni terrena e celeste. 29 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 266-274. 30 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 704-740. 31 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 383-391. Litania come strategia retorica nelle Laudi del Bianco da Siena 163 tipo, che si manifesta spesso secondo il modello proposto nella seconda strofe del testo riportato in seguito (vv. 85-87; 105-107):

O profondo abisso, O semiptern’alteçça, O lungo e largo sopr’ogni misura! [...] Tu sè principi’e meçço, Tu sè ‘l verace fine, Tu sè senza principio etternalmente.

3. Anafora costruita secondo lo schema: preposizione + verbo (frasi fi- nali o causali). Il destinatario è del tipo A, B e C. In un frammento della lauda XVII32 (vv. 86-90), nel v. 88 vi è una piccola variazione della sintassi: ciò non contraddice le leggi formali della litania in cui il maggiore peso è attribuito all’attacco e alla pausa delimitante la fine del verso.

E per resucitarti egli è risucitato: per sperança darti in ciel se n’è andato e per innamorarti lo Spirito à mandato

Nel laudario del Bianco soltanto questo tipo di costruzione può presen- tare un destinatario impersonale. Solitamente ciò implica un testo a carattere narrativo. Per completare la tipologia diremo che a volte in una singola lauda del Bianco troviamo più di un destinatario. Ne è un esempio la lauda CXVI33, in cui prima viene costruita una linea di comunicazione tra il cielo e la terra, in seguito invece l’io lirico si rivolge al destinatario B, un suo pari, iscritto nella dimensione terrena. Nelle laude indirizzate alla propria anima il tipo B si identi- fica addirittura con l’io presente nel testo. Attraverso la costruzione del dialogo interiore rafforzato dal ricorso alle strategie litaniche il Bianco introduce un tipo inedito della preghiera poetica.

32 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 331-368 33 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 1085-1098. 164 Magdalena Maria Kubas

La litania e il misticismo poetico: laude XVII e XCIX Per illustrare la nostra tesi e compiere un ulteriore passo nell’analisi del- le strategie litaniche nella scrittura del Bianco abbiamo scelto un testo mo- numentale, la lauda XVII34, che presenta uno sfondo teologico complesso: si tratta di un dialogo mistico35 in quattro parti, i cui partecipanti (anime) sono sposate all’Amore (Cristo). Le Anime, parlando in prima persona, ricorrono alla ripetizione litanica con modalità diverse che permettono di personalizzare il loro discorso. Mentre la prima Anima (vv. 1-71) invoca l’amato, la seconda (vv. 72-99) narra agli interlocutori (e al pubblico) il sacrificio di Cristo. Egli è il soggetto implicito del discorso, come accade spesso nei testi poetici in cui i caratteri della litania si uniscono alla scrittura mistica. Inoltre, le ripetizioni si basano sulla triplicazione (tre le linee di apertura con la stessa preposizione, tre le definizioni dell’Amore in una strofa, ecc.). Ecco un frammento del testo (vv. 78-83):

Per donarti la vita per sé elesse morte, per farti ribandita nella superna corte e con lui t’à unita, per amor saggio e forte

La monotonia non sembra regnare in questo frammento in cui, dal punto di vista sintattico, il “per” anaforico esprime contemporaneamente scopo, causa e condizione. È interessante notare che questo frammento unisce due parti di- stinte del poema: più in generale è una delle funzioni che nella poesia del Bian- co possono svolgere i segmenti litanici inseriti in testi più cospicui. Il carattere di passaggio di questa strofe è inoltre sottolineato dal fatto che i monosillabi, scandendo l’apertura dei versi, spingono gli accenti verso la quarta sillaba e la fine delle unità metriche. A partire dal v. 204 inizia un lungo discorso della quarta Anima. Vi si possono distinguere diversi tipi di ripetizione litanica, mentre la cifra stilistica

34 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 331-368. 35 La scrittura mistica del Bianco accoglie gli elementi litanici con grande intensità. Non è indif- ferente l’eredità iacoponica, ma un discorso su questa relazione richiederebbe uno spazio molto ampio. Litania come strategia retorica nelle Laudi del Bianco da Siena 165 di questa parte è l’invocazione con l’esclamazione (“o”) nell’apertura di versi. Vediamo i vv. 212-215:

O infinito diluvio, o mar non terminato, o non cessante pluvio, immenso traboccato!

Il destinatario è l’Amore reso con le perifrasi cristologiche ispirate agli scritti di Dionigi Areopagita36. Questa parte della lauda è inoltre ricca di rife- rimenti alla poesia mistica di Jacopone da Todi (li troviamo nei vv. 240-241 e in altri luoghi del poema, ad esempio nei vv. 744-760). I segmenti costruiti sull’esclamazione implicano il ricorso a un’enumeratio di carattere polionimi- co (cfr. vv. 212-214, 226-235, 310-315, 327-330, 366-370). Tra le parti del testo che presentano eterogeneità riguardanti l’argomento o lo stile i frammenti lita- nici fungono da trait d’union. Un ruolo non indifferente è giocato dalla memo- ria fonica che si crea nel ripetere le anafore concentrate nelle strofe litaniche. Il climax litanico al temine delle suddette strofe non scompare mai del tutto, le ripetizioni si diradano. Le ritroviamo, con un’intensità minore, nelle parti successive del testo. Inoltre, questi elementi possono anche essere introdotti gradualmente, prima ancora del climax litanico. Ad esempio, l’esclamazione introdotta nei vv. 338, 352, 380, 408, 415, 422, 471, a partire dal v. 429 fa parte dell’apostrofe elencata a mo’ di litania (del secondo tipo), che si alterna con le invocazioni appartenenti alla parte mistica. Successivamente è proposta un’anafora nuova (vv. 446-449):

tu sempre ti mantieni: tu sempre sè durabile, tu ogni ben contieni, tu sença fine ti puo’ glorïare.37

Quest’ultima è ampiamente distribuita nella lauda. La sua presenza au-

36 Cfr. S. Serventi, commento al testo della lauda, Il B. da Siena, Laudi, cit., p. 331. 37 Un’imitatio iacoponica fa sì che Bianco sfrutti il pleonasmo e la tautologia per definire l’Amore. Cfr. ad esempio la lauda 89. J. da Todi, Laude, a c. di M. Leonardi, Firenze, Olschki, 2010, pp. 196-199. 166 Magdalena Maria Kubas menta (vv. 429, 431, 433, 436, 438, 442, 444), poi raggiunge la concentrazione litanica (1 linea = 1 anafora; vv. 446-450), e infine diminuisce (vv. 457, 462, 464-467, 469 -470, 475). Ancora una volta il passaggio a un altro tema e la comparsa di un nuovo destinatario (C), sono segnalati attraverso il ricorso a un elenco litanico (del terzo tipo). La stessa strategia si osserva nei versi 525, 541, 569, 571, 573, 575 (ecc., fino al v. 600): a quell’altezza apre una parte dedicata alla descrizione del paradiso. La formula ripetitiva è composta dalla congiun- zione “dove”, seguita da sostantivo astratto38. Ecco un momento di concentra- zione dell’anafora (v. 569-575):

Dove la libertade non è mai subgetta, dove la nobiltade non può esser dispetta, dove la caritade si è sopraperfecta, dove l’amor non può intepidare.

L’esclamazione litanica torna in maniera concentrata nei vv. 646-655 e anche a partire dalla linea 743: è interessante notare che questo fatto non è sem- pre segnalato graficamente attraverso uno spazio vuoto tra le stanze. La lauda XVII è un esempio emblematico della costruzione di una po- etica di ripetizione ed enumerazione il cui principio, derivato dal genere lita- nia, costituisce un quadro di riferimento per l’impianto semantico. I momenti importanti all’interno del testo vengono messi in rilievo attraverso un’anafora ricorrente, la cui frequenza aumenta man mano che ci avviciniamo al nucleo litanico della lauda. Se il testo non termina a quel punto, vi è un movimento inverso, in cui diminuisce gradualmente la presenza dell’anafora. Per la lauda XCIX39 riportiamo soltanto la disposizione delle parti lita- niche:

amor Gesù, di te gusterò io, (v. 7) amor Gesù, tutto mi ti daraggio. (v. 18) amor Gesù, fammi nel cuore sentire; (v. 34)

38 Il cielo è il soggetto implicito del discorso in tutta la parte litanica. 39 Il B. da Siena, Laudi, pp. 957-960. Litania come strategia retorica nelle Laudi del Bianco da Siena 167

amor Gesù, ad amarti m’aiuta, (v. 37) Amor Gesù, amor desideroso, (v. 47) Amor Gesù, amor Gesù perfetto, (v. 57) amor Gesù, amar te sempre stretto, (v. 59) Amor, fammi venire nel tu’ amor[e] (vv. 61-62) per tuo amore, di me tutto spogliare. Amor Gesù, siane tu serbatore. (vv. 70-72) amor, per tu’ amore, i’ t’adimando: amor, amando fammi consumare. amor, morrò, amor, desiderando (vv. 75-86) d’esser con tec’, amor, diletto mio. Amor Gesù, vedrò mai ‘l quando Tu adempi[rai] ‘l desiderio mio? Amor Gesù, a tte mi racomando, amor, a te, dolce aiutorio mio. amor Gesu, amor desideroso, (vv. 83-86; 93-95) amor Gesu, amor amor amore, amor Gesu, amor mio dilettoso, amor Gesu, d’amor ardimi il cuore. Amor, amor, amor, ardente amore, Amor, amor, amor, amor, […] di dDio, amor, d’amor, amor, ardimi il cuore ...

Nella parte finale l’invocazione di origine iacoponica è raddoppiata e tri- plicata: si potrebbe pensare che l’intensità della ripetizione nel Bianco suppli- sca in qualche modo alla creatività lessicale del predecessore. Noi vorremmo azzardare un’altra spiegazione: esaurita la capacità definitoria, per richiamare a sé l’amato all’io non resta che la ripetizione - litanica, perché seguita da un’ap- posizione o una supplica - del nome, per tentare di esprimere l’esprimibile. Nella lauda in questione la frase “Amor Gesù” produce una memoria fonica che prepara l’ascoltatore all’enfasi della parte finale. Sebbene la frase “Amor Gesù” (con le varianti fonetiche) venga connotata oggi con la poesia del Tudertino, negli ultimi decenni del Trecento essa apparteneva alla memoria collettiva40.

40 Vi è un’oscillazione tra le varianti “Amor Iesù” / “Amor Gesù”. Soltanto per citare qualche esempio, l’espressione appare in Jacopone, nel Bianco, negli anonimi di Urbino, in Ugo Panziera, nel laudario giustnianeo. Cfr. J. da Todi, Laude, cit.; R. Bettarini, Jacopone e il Laudario Urbinate, 168 Magdalena Maria Kubas

L’espressione presenta uno schema ritmico fisso, solitamente viene adottata come invocazione e posta in posizione anaforica. Nella lauda XCIX, dopo aver esaurito gli epiteti (dal v. 97 in poi), l’io può soltanto scandire il ritmo (giambi- co, nell’effetto che si crea) della parola “Amor”.

Il climax litanico La strategia litanica elaborata dal Bianco si realizza di solito in tre fasi: a. accumulazione delle ripetizioni, b. climax litanico, c. disseminazione delle le ripetizioni. Nei suoi 231 versi la lauda CIX separa le sezioni tematiche ricorrendo allo schema qui proposto. La parte di lode, che elenca gli effetti dell’amore mistico attraverso le metafore legate alla combustione (vv. 1-50), è seguita da un avvertimento e una confessione dei peccati (vv. 51-92). Segue una lunga invocazione dell’anima, la quale dopo aver perso l’amato desidera la morte (vv. 93-146). L’abbraccio mistico porrebbe fine alle sofferenze dell’Anima (vv. 147-182), tuttavia l’agognata unione non si realizza perché il soggetto terreno si trova nella freddezza del peccato descritto attraverso una sequenza di antitesi. La densa invocazione litanica delle ultime strofe esprime la disperazione dell’io lirico. In certi testi, ad esempio nella lauda LXIV41, l’attuazione è parziale: il climax inizia senza preavviso e la litanicità non è introdotta in nessun modo. L’amore mistico declinato alla maniera litanica si manifesta anche con modalità meno esplicite: nella lauda CXVI42, una lunga epistola poetica indirizzata a una congregazione femminile, l’anafora “Esso” (ossia l’amore)43 apre le stanze del serventese caudato dal v. 229 al v. 276. Tale soluzione influenza il ritmo della ripetizione con un accento forte sulla quarta sillaba adoperato nella prevalenza dei versi in questione44.

Firenze, Sansoni, 1969; U. Panziera, Le laudi, a c. di V. Di Benedetto, Roma, Edizioni Paoline, 1956; Laudario giustinianeo, a c. di F. Luisi, Venezia, Fondazione Levi, 1983. 41 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 778-781. 42 Il B. da Siena, Laudi, cit., pp. 1084-1098. 43 Probabilmente secondo la connotazione latina di ipse, “proprio lui” 44 Arioli sostiene che esiste uno studio sistematico della versificazione del Bianco (cfr.E . Ario- li, Introduzione, in B. da Siena, Serventesi, cit., p. 45). Serventi nell’edizione del laudario del Bianco Litania come strategia retorica nelle Laudi del Bianco da Siena 169

Conclusioni I tratti litanici sono presenti nella poesia del Bianco sia in maniera diretta, sia come un’ispirazione per la costruzione delle impalcature testuali delle laude monumentali. Un lettore moderno nota che la litanicità è visivamente ricono- scibile nei volumi a stampa: trattandosi di poesia scritta per essere recitata que- sto fenomeno doveva corrispondere a una forte marca acustica. L’elaborazione della strategia litanica è correlata alla presenza delle ana- fore che spesso riproducono uno schema ritmico connotato in qualche modo al misticismo poetico, come ad esempio l’accento frequente sulla quarta sillaba. Ciò rimanda al modello mistico ereditato da Jacopone, ma si iscrive anche nel sistema endecasillabico. In alcune delle laude mistiche più estese del Bianco l’elaborazione della strategia litanico-retorica è supportata dalle figure del po- liptoto e della geminatio. Il Bianco sembra il maggiore epigono di Jacopone45, ma nella sua poetica vi è una parte autonoma e personale. Nell’ambito della poesia del Trecento la sua sperimentazione – basata sui solidi moduli retorico-ritmici che costitui- scono parti organiche dei testi, e mai frammenti isolati – può rappresentare un fenomeno stilisticamente interessante: la strategia litanica è un forte fattore di unificazione dei testi. Vi è inoltre un lavoro originale sui generi poetici cui va sommata una ricca cultura di preghiera in un momento in cui la liturgia era latina, ma i fedeli da tempo pregavano nei loro volgari.

Magdalena Maria Kubas

dà qualche indicazione sulle convenzioni metriche adottate nei singoli testi. La studiosa segnala tut- tavia il problema della poca esattezza dei manoscritti e delle difficoltà nella ricostruzione di molti dei versi del Bianco. 45 E. Arioli, Introduzione, B. da Siena, Serventesi, cit., p. 7. DOCUMENTI PICCOLOMINI IN USA

La University of Pennsylvania è in possesso di una raccolta di 115 docu- menti riguardanti i Piccolomini digitalizzati e consultabili on line all’indirizzo http://dla.library.upenn.edu/dla/medren/index.html1. Si tratta di un consistente nucleo documentario che copre il periodo XII-XVII secolo e più precisamente gli anni 1197- 1594: di questi un solo atto risale al XII secolo (quello appunto datato, con qualche incertezza, 1197), 8 sono riferibili al XIII secolo, 18 al XIV, i restanti si collocano fra XV (43) e XVI secolo (46). Il termine cronologico fis- sato dai curatori dell’edizione digitale al XVII secolo si motiva per la presenza di una serie di tre piccole note, di mano seicentesca, che compaiono incollate sul verso del foglio contenente, sul recto, una lista di prigionieri del XV seco- lo2. Per gran parte si tratta dunque di materiale quattro e cinquecentesco in cui spiccano documenti inerenti il ramo Todeschini-Piccolomini: Andrea, Antonio, Giacomo e Francesco (poi Pio III), figli della sorella di Pio II Laudomia sposata a Nanni Todeschini che il papa aggregò alla famiglia, e la loro discendenza. Su questo materiale si appuntò fin dagli anni Sessanta del Novecento l’interesse degli americani che frequentavano la biblioteca3.

1 La raccolta, che ci è segnalata da Fabio Pontiggia, ha la seguente collocazione: Philadelphia, University of Pennsylvania, Rare Book & Manuscript Library, Ms. Coll. 742. Oltre a questo nucleo va segnalata la presenza di un documento sotto la segnatura Misc Mss (Large) Box 2 Folder 4, che riguarda Neri di Gabriello Piccolomni (2 aprile 1377): on line: http://hdl.library.upenn.edu/1017/d/ medren/1580401. Le pergamene datate XIII-XV secolo (60), sono descritte e regestate anche nel data- base di manoscritti medievali e rinascimentali Digital Scriptorium, University of California, Berkeley . http://vm133.lib.berkeley.edu:8080/xtf22/search?rmode=digscript&smode=basic&text=coll+742& docsPerPage=30 2 “Four documents pasted onto 1 bifolium. The ca. 1460 document, probably from Naples, is a list of prisoners of battle, probably in the war between Ferdinand I, King of Naples, and Jean d’Anjou, duc de Calabre et de Lorraine, and includes the Duke d’Andria and the counts of Celano, Arpino, and Meleto. Antonio Piccolomini, duke of Amalfi, was made count of Celano in 1463. The other three documents are 17th-century notes. One has numbered entries from 1407 to 1598, perhaps referring to years, and mentions several members of the Piccolomini family and several counts. Another seems to be a single entry beginning with the number 1340 and mentions Jacomo di Meo. The third is a small piece of paper with a few names on it :Piccolomini Family Papers, folder 37 (http://hdl.library.upenn. edu/1017/d/medren/4773925) 3 Così per es. nel 1960 Avery Andrews pubblicava sul “The Library Chronicle”, una nota su un documento imperiale del 26 ottobre 1432 riferendosi alla recente acquisizione da parte della Bibliote-

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 Documenti Piccolomini in USA 171

Di ogni pergamena è dato un breve regesto (talvolta non privo di impre- cisioni); una indicizzazione (language, century, date, genre, subject, geograph, author, related names, page material) ne agevola la consultazione e l’interro- gazione: l’ampio ventaglio di soggetti (individui, famiglie, istituzioni) che vi compaiono rivela l’indubbio interesse di queste carte non solo per la storia della famiglia (o delle famiglie) ma per quella di Siena e del suo territorio. La tipologia degli atti è molto varia (arbitrati, esecuzioni testamentarie, gestioni pupillari, questioni patrimoniali, immunità, privilegi, atti della cancel- leria pontificia e imperiale ecc.) e restituisce l’orizzonte vasto degli interessi e delle articolate relazioni sociali e politiche dei Piccolomini che l’elezione al so- glio pontificio di Pio II, nel 1458, proiettò di nuovo, dopo il successo bancario e mercantile duecentesco, in una dimensione internazionale; un’ascesa favorita senza dubbio anche dalla tessitura di importanti alleanze matrimoniali volute da papa Pio che, dopo le nozze di Antonio con la figlia di Ferdinando d’Aragona e di Giacomo con Cristofora Colonna, portarono Andrea a sposare una nobildon- na romana della famiglia Farnese4. Il manoscritto che riunisce i Piccolomini Family Papers (folders 1-95 e 105-125) fa parte della importante collezione di manoscritti posseduta dalla Biblioteca dell’Università di Pennsylvania: nel 1965, quando ne fu pubblicato il Catalogo da Norman Zacour e Rudolf Hirsch, essa contava 1150 pezzi prove- nienti dall’Europa che andavano dall’ XI al XIX secolo (e più precisamente dal regno dell’imperatore Ottone III di Germania fino all’ottavo anno della rivolu- zione francese); circa la metà della collezione risultava redatta fra Medioevo e Rinascimento5. Un considerevole numero di pezzi era arrivato nel 1923-24 grazie alla donazione effettuata dalla famiglia della biblioteca del medievista Henry Charles Lea, nato e vissuto a Philadelphia (1825-1909)6. E’ appunto sot- to la segnatura “Lea 71” che i due curatori dell’inventario descrivono il nucleo

ca del dossier Piccolomini proveniente dall’archivio familiare: “The Library has acquired recently a collection of documents from the archives of the Piccolomini family of Siena concerning events from the thirteenth century to the beginning of the seventeenth”. A. Andrews, From the Piccolomini Papers, “The library crhonicle”, XXVI (1960) pp. 16-29 . l’articolo è consultabile on line: http://www.archive. org/stream/librarychronicle26univ/librarychronicle26univ_djvu.txt. 4 Mi permetto di rinviare a R. Mucciarelli, Piccolomini a Siena. XIII-XIV secolo. Ritratti possibili, Pisa, Pacini 2005, in particolare, per le vicende tardo quattrocentesche, pp. 481 e sgg. e alla bibliografia ivi contenuta. 5 N. P. Zacour, R. Hirsch, Catalogue of Manuscripts in the Libraries of the University of Penn- sylvania to 1800, Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 1965. 6 La Henry C. Lea Library Manuscripts descritta ibidem, pp. 146 – 230 e comprende oltre 400 pezzi (“Lea 1-402”) 172 Roberta Mucciarelli denominato Piccolomini papers: “collection of 64 letters and other documents addressed to or relating to members of the Piccolomini family from the XIIth. troughth XVIth. century”7. Le indagini relative all’identificazione degli antichi proprietari dei documenti portarono Zacour e Hirsch a riconoscere in due col- lezionisti e bibliofili inglesi, Frederick Norton, conte di Guilford (1766-1827) e sir Thomas Phillips (1792-1872) “who was undoubtedly one of the most gregarious and successful collectors”8 i più antichi proprietari dei documen- ti piccolominei. Difficile dire quando e in quali circostanze questo materiale documentario sia arrivato sul mercato antiquario e se anch’esso fosse parte di quelle numerose carte che secondo Francesco Piccolomini Naldi Bandini furo- no trafugate tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento da un erudito a cui era stato dato il permesso di consultare l’archivio familiare, disperdendosi poi in vari rivoli9. Certo è che l’edizione digitale di questi documenti consente di arricchire ed aggiungere un altro tassello all’archivio della consorteria, il cui Diplomatico, custodito all’Archivio di Stato di Siena, appare davvero di scarsa rilevanza: 80 pergamene per larga parte riferibili all’età moderna (1355- 1800)10.

Roberta Mucciarelli

7 Ibidem, p. 164 8 Ibidem, p. VI (Introduction). 9 F. Piccolomini Naldi Bandini, Carte mercantili dei Piccolomini del secolo XIII, in “Miscel- lanea Storica Senese”, V, 1898, p. 65 nota. Parte di questo materiale trafugato, non è chiaro per quali vie, tornò di nuovo a Siena, alcune pergamene acquistate dall’antiquario Bigazzi, altre pervenute nelle mani della famiglia Bichi (vd. omonimi fondi in Archivio di Stato di Siena). Un’altra parte di queste pergamene fu acquistata tra il 1828 e il 1847 dall’allora Soprintendenza dell’Archivio Diplomatico di Firenze ed oggi costituiscono l’attuale serie del Diplomatico Reale Acquisto Ricci. Nella stessa circostanza, alcune carte avrebbero preso la via di Berlino: si tratterebbe delle pergamene presenti nei fondi diplomatici di “San Leonardo al Lago”, “San Salvatore di Lecceto” e “Santa Maria del Carmine”, depositate presso la StaatsBibliothek Preussischer Kulturbesitz. Per una breve analisi della documen- tazione ‘dispersa’ riguardante i Piccolomini rinvio a R. Mucciarelli, I Piccolomini di Siena. Nobili e gentiluomini in una città comunale alla fine del Medioevo, tesi di dottorato, Università di Perugia, (IX ciclo), pp. XV sgg. 10 Sull’archivio consortile si veda Archivio della Consorteria Piccolomini, in “Notizie de- gli Archivi di Stato”, anno II (1942), pagg. 102-105. All’indirizzo http://www.storia.unisi.it/index. php?id=529 è pubblicato l’I Indice delle pergamene provenienti da fondi diversi relative alla famiglia Piccolomini di Siena (1206-1400) da me curato. Le 599 pergamene indicizzate (1206-1400) fanno parte di 21 fondi diplomatici il cui nucleo maggioritario è custodito presso l’Archivio di Stato di Siena. SU ALCUNE POESIE INEDITE DI ED A VIRGINIA MARTINI SALVI

In una recente monografia, Konrad Eisenbichler ha raccolto l’intera produzione della senese Virginia Martini Casolani (nata intorno al 1520 e morta a Roma in un anno imprecisato dopo il 1571), moglie di Matteo Salvi: il volume raccoglie tutte le poesie ad oggi reperibili tanto in forma manoscritta quanto in edizioni antiche e moderne.1 Le ricerche in corso a cura di chi scrive intorno a Lattanzio Benucci (1521-1598) hanno portato in luce alcuni nuovi testi finora inediti di cui si intende dare qui conto. La figura e l’opera del Benucci, letterato e giureconsulto di origini senesi, comincia solo ora a svelarsi in tutte le sue sfaccettature: citato nelle raccolte erudite e sempre presente nei saggi su Tullia d’Aragona che l’ebbe ospite a Firenze e lo rese interlocutore del suo dialogo Della infinità di amore (1547), Lattanzio ha ricevuto attenzione anche dal punto di vista biografico.2 In passato, della sua sterminata produzione poetica sono state isolate una serie di sonetti legati a Tullia3 e una corona di dieci sonetti caudati sotto il titolo collettivo della Civetta, una rovente discesa nell’agone letterario a margine della disputa Caro- Castelvetro, che lo vide schierarsi dalla parte del commendatore marchigiano.4 Fondamentali per la ricostruzione testuale delle sue numerosissime liriche risultano tre manoscritti: il codice Magliabechiano VII 779 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (d’ora in avanti siglato F) e i due manoscritti gemelli Chig. I.VIII.295 (V1) e 296 (V2) della Biblioteca Apostolica Vaticana. Il codice fiorentino, come è stato accertato da un confronto con lettere ufficiali

1 L’opera poetica di Virginia Martini Salvi (Siena, c. 1510-Roma, post 1571), Siena, Accademia senese degli Intronati (Monografie di storia e letteratura senese, XVII), 2012. 2 Cfr. G. Ballistreri, Benucci (Benuccio, Benutio), Lattanzio, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 8, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1966, pp. 653-55 e M. A. Garullo, Notizie sulla vita e sull’opera di Lattanzio Benucci ‘giureconsulto sanese’, “Scaffale aperto” V (2014), pp. 9-48. 3 G. Ballistreri, Una corrispondenza poetica di Tullia d’Aragona, “Il Mamiani” III (1968), pp. 28-40. 4 S. Jacomuzzi, Nota in margine alla polemica Caro-Castelvetro: i sonetti de “la civetta” di Lattanzio Benucci, “Lettere italiane” XXVIII, fasc. 2 (1976), pp. 197-204.

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 174 Johnny L. Bertolio scritte dall’autore e come recita la carta d’apertura, risulta sostanzialmente autografo e raccoglie, divisa in due libri, la raccolta di Rime. I due chigiani, invece, furono allestiti sotto il pontificato (1655-1667) del senese Alessandro VII Chigi, che, erudito a sua volta, fece mettere insieme per la sua biblioteca l’opera omnia di Lattanzio.5 F dovette in effetti essere parte del lavoro di ricerca, come dimostra il fatto che fu trascritto integralmente in V2; nella prima parte, l’autografo presenta alcune lacune che è possibile sanare parzialmente (è il caso della citata Civetta) in virtù della trascrizione fatta dall’allestitore di V2. Il primo libro delle Rime in F contiene una serie di testi di argomento prevalentemente burlesco, polemico e satirico secondo varie possibilità metriche: capitoli berneschi in terza rima (la forma qui prevalente), sonetti, sonetti caudati, sonettesse, canzoni, rispetti. Tra questi, per quanto purtroppo vittima di uno dei tagli operati sul codice forse già in epoca vicina all’autore,6 emerge un capitolo dedicato A la Magnifica Madonna Verginia Martini(numerato «27» dall’autore), che doveva occupare originariamente lo spazio compreso tra la c. 118v e la c. 121v; oggi ne sopravvive un brandello, costituito dalla prima terzina (c. 118v) e da una sezione dell’ultima parte (c. 121r). L’allestitore di V2 considerò questi pochi versi troppo danneggiati e vaganti per meritare di essere inclusi nella raccolta secentesca, dove infatti non si trovano trascritti. L’esiguità del frammento non permette di trarre elementi contestuali di grande rilievo ma il riferimento iniziale all’«esilio» dell’autore e alla sua lontananza si riferiscono senz’altro a un’assenza da Siena, dove invece è possibile che si trovasse la sua interlocutrice. I capitoli di Lattanzio si collocano in generale al tempo della sua giovinezza e quello alla Salvi non farà eccezione; considerando i fatti biografici del Benucci, sappiamo che dopo il febbraio del 1546 la sua famiglia (del Monte dei Nove)

5 Come emerge dal relativo epistolario, i due punti di riferimento per l’allestimento di quelli che sono ora i due manoscritti chigiani furono, a Firenze, Lorenzo Magalotti (1637-1712) e, a Roma, l’amico Ottavio Falconieri (1636-1675). Il lavoro di ricerca e trascrizione, risalente al 1665, si inseriva in un rapporto che, sotto il pontificato di Alessandro VII, si era intensificato facendo del Falconieri «il principale e prezioso intermediario con il mondo culturale ed ecclesiastico romano» per il Magalotti (E. Casali, “Messer Ottavio amatissimo…”: a proposito del carteggio di Lorenzo Magalotti con Ottavio Falconieri (1660-1674), “Studi secenteschi” XXXI (1990), pp. 87-111: 101). 6 Per questo motivo è stata impiegata la numerazione originaria, di mano dell’autore, in modo da evidenziare la caduta delle carte. Non è chiaro a chi e soprattutto a cosa siano dovute queste mutilazioni a cui forse non furono estranee, visti i temi politicamente e religiosamente scottanti, anche ragioni di convenienza in vista di una pubblicazione a stampa che comunque sarebbe stata già preceduta dalla divulgazione manoscritta dei testi. Su alcune poesie inedite di ed a Virginia Martini Salvi 175 fu costretta a trasferirsi da Siena a Colle di Val d’Elsa, in concomitanza con l’operato filo-novesco, e perciò fortemente avversato dagli altri Monti, di Juan de Luna7 e che inoltre Lattanzio fu scelto come ambasciatore presso Cosimo de’ Medici, che lo ospitò a Firenze. Da qui il Benucci avrebbe poi raggiunto la madre, Girolama Campani, poetessa a sua volta, a Roma, dove la donna si era nel frattempo trasferita: a Roma il Benucci entrò in contatto con famiglie e uomini di curia e si legò ad Antonio Trivulzio, del quale, nominato prima nunzio in Francia (1550-1551), quindi nunzio a Venezia (1556-1557) e cardinale, infine legato a latere in Francia (1557-1559), seguì i vari trasferimenti. A Roma si sarebbe ritirata, a partire almeno dal 1556, anche Virginia8 e qui i due avranno avuto ulteriori occasioni di incontro. L’esilio a cui Lattanzio allude nel capitolo potrebbe essere quello, letterale, di Colle, con la lunga appendice fiorentina, o quello, metaforico, delle sue varie missioni estere lontano da Siena al seguito del suo patrono Trivulzio. Nonostante l’esiguità dei versi, troviamo adoperato anche in questo brandello di capitolo quel linguaggio familiare tipico del genere, basato in particolare sull’impiego di idiotismi marcatamente toscani, come l’espressione «aver messo il becco in mollo», per cui viene in soccorso la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca: «Mettere il becco in molle, si dice di chi comincia a cicalare, e non sa che restar si sia» (p. 116).

Scorrendo il primo dei due manoscritti chigiani (V1), diviso in quattro parti dal compilatore secentesco, si osserva una micro-sezione dedicata a Virginia: è inclusa nella quarta parte del codice, quella meno tematicamente omogenea e aperta a vari scambi con importanti personalità del tempo (non solamente senesi), e occupa le cc. 325r-328r. Vi sono raccolte tre coppie di sonetti del Benucci alla nobildonna senese come pure sonetti della Salvi a Lattanzio: la proposta O donna, esempio a noi d’alta bontade, di Lattanzio, con la risposta di Virginia, Quella rara, infinita, alma bontade (c. 325r-v); la proposta Se la luce immortal ch’ogn’hor m’accende, di Virginia, con la risposta di Lattanzio Quella beltà ch’in voi, donna, risplende (c. 326r-v); Dal vostro almo splendor pres’io la luce, di Virginia, con la risposta di Lattanzio Deh qual fero destin hor mi riduce (c. 327r-v), seguite dal sonetto, isolato, di Lattanzio L’alma, cui già sì dolcemente Amore (c. 328r). Di questi testi soltanto la penultima coppia (Dal

7 Cfr. G. Minnucci-L. Košuta, Lo Studio di Siena nei secoli XIV-XVI: documenti e notizie biografiche, Milano, Giuffrè, 1989, p. 530. 8 Cfr. K. Eisenbichler, L’opera poetica di Virginia Martini Salvi cit., p. 45. 176 Johnny L. Bertolio vostro almo splendor pres’io la luce e Deh qual fero destin hor mi riduce) ha già conosciuto l’onore della stampa, prima nelle Rime diverse d’alcune nobilissime, et virtuosissime donne, curate da Lodovico Domenichi,9 quindi nelle Rime di cinquanta illustri poetesse di Antonio Bulifon,10 infine nella recente edizione di Eisenbichler.11 Rispetto a quest’ultima il manoscritto presenta soltanto due varianti sostanziali: la prima quartina del sonetto di Virginia riporta «fosco» invece che «cieco [intelletto]» al v. 2 e declina gli attributi del latinismo «duce» al v. 4 al maschile, «suo sicuro»; nella risposta di Lattanzio, invece, l’unico elemento distintivo è il pronome «ei» al v. 5 subito prima di «non produce». Per queste ragioni, nella appendice testuale qui acclusa sono state edite soltanto le prime due coppie di sonetti. In linea con le poesie della Salvi, Lattanzio ne celebra non solo le abilità letterarie ma anche il coinvolgimento politico nella città di Siena: «ecco per voi che l’inimiche spade / lasciano a forza homai l’orgoglio fero / et a la pace volto il bel pensiero / ogni torto desio dal cor ne cade»; l’allusione va inquadrata nell’ambito dell’occupazione francese di Siena, fortemente caldeggiata dalla Salvi, del 1552 ma si inserisce in un intrico in cui si trovò invischiato Lattanzio stesso e che viene evocato in altri testi del codice chigiano: il Benucci proveniva da una famiglia novesca filoimperiale12 ed era amico di Cosimo ma contemporaneamente vicino al Trivulzio, di simpatie francesi, e proprio per questo, di ritorno a Siena dalla Francia tra il 1551 e il ’52, quando il Monte dei Nove vi era stato reintegrato, fu fatto imprigionare «per francese»13 da don Diego Hurtado de Mendoza e poi posto agli arresti domiciliari.

9 Lucca, Vincenzo Busdrago, 1559, p. 193. 10 Napoli, Antonio Bulifon, 1695, p. 181. 11 K. Eisenbichler, L’opera poetica di Virginia Martini Salvi cit., pp. 157-158. 12 In una tavola della Gabella del 1542, lo stemma dei Benucci (Mariano, padre di Lattanzio, era notaio) è inserito in una celebre pittura che rappresenta allegoricamente la Repubblica senese alla deriva (una nave distrutta) e lo Stato giusto guidato dai commissari imperiali (una nave dal corso tranquillo), in particolare Niccolò Perrenot de Granvelle e Francesco Sfondrato, i cui cognomi sono richiamati, rispettivamente, dalla vela e dall’albero della imbarcazione integra: cfr. A. Sozzini, Il successo delle rivoluzioni della città di Siena d’imperiale franzese e di franzese imperiale [1587], “Archivio storico italiano” II (1842), pp. 1-434: 23-24 e Le Biccherne: tavole dipinte delle magistrature senesi (secoli XIII-XVIII), a c. di L. Borgia et al., Roma, Ministero per i Beni culturali e ambientali-Ufficio centrale per i beni archivistici, 1984, pp. 238-239. 13 Così dirà lui stesso nel corso degli interrogatori nell’ambito del processo a Pietro Carnesecchi nel 1560 (M. Firpo-D. Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, vol. 1, Città del Vaticano, Archivio segreto vaticano, 1998, p. 249). Su alcune poesie inedite di ed a Virginia Martini Salvi 177

Celebrare Virginia Martini Salvi implicava dunque un avvicinamento a quella fazione politica senese che, con un entusiasmo destinato ad esaurirsi, vedeva nel re di Francia Enrico II un liberatore, per quanto i fratelli Salvi, cognati di Virginia, seppero destreggiarsi, prima della condanna definitiva, tra varie trame e congiure, oscillando tra questa e quella parte. Come abbiamo già ricordato, la stessa Virginia, dopo la fine dell’indipendenza senese, fu esiliata ma già in precedenza, negli anni Quaranta, era stata allontanata da Siena in una tenuta di proprietà del padre, a Casole d’Elsa,14 nello stesso paese in cui anche i Benucci avevano possedimenti. Il primo scambio poetico con Lattanzio risalirà quindi a un’epoca precedente, quando Virginia si trovava a Siena e i Salvi non erano ancora usciti di scena, mentre non è chiaro se anche il suo interlocutore si trovasse all’epoca in città visto che la poetessa si chiede: «Deh fia già mai ch’io veggia i vostri petti / colmi di gioia entr’a la patria amata / per starvi lieti poi mille e mill’anni?». Uno scambio galante è invece il dittico con la proposta di Virginia Se la luce immortal ch’ogn’hor m’accende e la risposta di Lattanzio Quella beltà ch’in voi, donna, risplende, intarsiate entrambe, e specialmente il sonetto del Benucci, di tessere petrarchesche: la nobildonna senese si dice pronta ad afferrare il cuore del poeta se solo non fosse volta da Amore «nell’oggetto ch’io bramo senza speme»; da parte sua Lattanzio comprende il suo sfogo e si proclama «intento al dolce honore», tipico senhal impiegato da Lattanzio per indicare la sua Laura, ovvero la senese Onorata Tancredi.15 L’ultimo sonetto della serie, isolato, rende omaggio all’amato di Virginia, passato in poche ore all’altro mondo: i versi «L’alma cui già sì dolcemente Amore / strinse per voi nel suo più forte laccio, / lasciando il caduco a Morte in braccio, / si gode in Cielo il puro, eterno ardore» si riferiscono quasi sicuramente alla morte di Matteo Salvi, avvenuta in data ignota durante l’esilio romano della donna.16 Nel sonetto di Virginia Quanto fu senza par la gioia mia,17 la poetessa, nelle vesti di una Clori bucolica, piange la morte di un non identificato Alceo, che potrebbe essere frutto di un sodalizio letterario più che sentimentale, mentre la lirica del Benucci, con

14 K. Eisenbichler, L’opera poetica di Virginia Martini Salvi cit., p. 29. 15 Su cui si veda ora K. Eisenbichler, The Sword and the Pen: Women, Politics, and Poetry in Sixteenth-Century Siena, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 2012, pp. 224-232. 16 K. Eisenbichler, L’opera poetica di Virginia Martini Salvi cit., p. 49. 17 ivi, p. 133. 178 Johnny L. Bertolio quel riferimento ad Amore e alla unione delle due anime, sembra implicare piuttosto il legame ufficiale e storico con il marito. I nomi di Lattanzio e di Virginia si incrociano poeticamente anche fuori dalle loro rispettive raccolte. Entrambi furono infatti in relazione letteraria se non personale con un altro fedelissimo di Enrico II, Leone Orsini, nel cui canzoniere si trovano quattro sonetti indirizzati a Virginia18 oltre che cinque a Lattanzio, mentre V1 include altri scambi tra i due poeti (cc. 329r-332r e 350r-353r). Anche il nome di Bembo viene esplicitamente fatto tanto nella produzione di Virginia, che con il letterato ebbe uno scambio poetico niente meno che in forma di canzone,19 quanto in quella di Lattanzio, che alla morte 20 del cardinale (1547) dedica un sonetto (V1, c. 276v). Si aggiungano poi due personalità del mondo ecclesiastico di cui Lattanzio fu stretto collaboratore, i cardinali Trivulzio e Alfonso Carafa, a cui Virginia dedicò, rispettivamente, uno e due sonetti, forse per intercessione dello stesso Benucci.21 Una menzione a parte merita la partecipazione sia della Salvi sia del Benucci a una tenzone poetica originata dalla visita ad Arquà da parte di Alessandro Piccolomini, presso la tomba del Petrarca (1540). In quella occasione, il Piccolomini, membro dell’accademia patavina degli Infiammati, compose il sonetto Giunto Alessandro a la famosa tomba, che riprende quello petrarchesco, di omonimo incipit, che immortala la sosta di Alessandro Magno sulla tomba di Achille. Alla “chiamata alle penne”, che da Padova raggiunge presto Siena, risposero sia la Salvi, con il sonetto Perché veder non poss’io la gran tomba,22 sia il Benucci, con il sonetto Mostrati altera più d’ogn’altra, o tomba (F, c. 226v), oltre a vari poeti e poetesse, incluso il succitato Orsini.23 Da questa pur rapida rassegna, emerge, tra Lattanzio e Virginia, un sodalizio poetico fondato anzitutto sulla comune estrazione senese, sulla medesima esperienza dell’esilio, su un ambiente sociale e culturale per molti aspetti condiviso, su un’ispirazione poetica che si colora delle stesse angosce

18 ivi, pp. 195-198 (la raccolta poetica di Leone Orsini è stata oggetto della tesi di PhD di A. M. Grossi, Leone Orsini e il manoscritto “Italien 1535” della Bibliothèque Nationale de France, Department of Italian Studies, University of Toronto, 2013). 19 ivi, pp. 80-85. 20 È possibile che all’evento alludano anche due sonetti della Salvi: ivi, pp. 128-129. 21 ivi, pp. 123-125. 22 ivi, p. 73. 23 L’intera vicenda è ora ricostruita da K. Eisenbichler, The Sword and the Pen cit., pp. 15-57. Su alcune poesie inedite di ed a Virginia Martini Salvi 179 politiche per le vicende cittadine. Al di là delle convenzioni letterarie e dei topoi petrarcheschi a cui era inevitabile attenersi in quegli anni, si sente trasparire una vicinanza affettiva confermata dal fatto che il nome della Salvi compare non semplicemente tra gli scambi poetici di Lattanzio ma anche nella prima parte del codice fiorentino, i cui componimenti sono indirizzati a patroni e patrone particolarmente illustri, a famigliari e coetanei o – ed è il caso, più unico che raro, della Salvi – a personalità in vista che assommavano in sé entrambe le categorie.

Johnny L. Bertolio 180 Johnny L. Bertolio

Appendice testuale

1. Capitolo di Lattanzio Benucci (F, cc. 118v, 121r; mutilo)

A la Magnifica Madonna Verginia Martini

Poi ch’io son qui da me stesso lontano, s’io non m’aiuto con la penna almeno, l’esilio mio sarà più duro e strano. […]24 […]25 a tutti quei pensier che chiude il cuore. Bastarammi haver messo il becco in mollo per questa volta e contra la mia voglia nel principio del pasto esser satollo. Forse ch’un dì quel ben di che mi spoglia hor la mia sorte e me ne tien lontano vedrò, senza temer ch’altri mel toglia. Intanto fo l’offizio di mia mano con voi da servitor pieno di fede, se ben il frutto d’esso andarà vano. […]

24 Qui il codice risulta mutilo delle due carte successive (119r-120v). 25 Compare qui un brandello della c. 121, sul cui verso inizia il capitolo seguente (A le sorelle). Su alcune poesie inedite di ed a Virginia Martini Salvi 181

2. Proposta di Lattanzio Benucci e risposta di Virginia Martini Salvi (V1, c. 325r-v)

A Madonna Verginia Martini

O donna, esempio a noi d’alta bontade, ch’i caldi preghi e quello stile altero volgete, sol per far palese il vero, a chi tornar ne puote in libertade: ecco per voi che l’inimiche spade lasciano a forza homai l’orgoglio fero et a la pace volto il bel pensiero ogni torto desio dal cor ne cade.

O come dentro a i generosi petti l’obligo che vi dee la patria amata scolpito si vedrà mille e mill’anni!

O come sopra i più degni soggetti, non temendo del tempo i gravi danni, sarà di voi la fama a volo alzata!

De la medesima in risposta

Quella rara, infinita, alma bontade che non puote vedere animo altero oda la prece mia mossa dal vero e rischiari l’oscura libertade; levi la forza a l’inimiche spade, né più possin oprar quell’ardir fero che de i miglior turbato ha il bel pensiero ond’anco estremo duol nel cor mi cade.

Deh fia già mai ch’io veggia i vostri petti colmi di gioia entr’a la patria amata per starvi lieti poi mille e mill’anni?

Questi fien del mio stil dolci soggetti, spirto gentil, ché spenti i vostri danni assai vedrò mia fama a volo alzata. 182 Johnny L. Bertolio

3. Proposta di Virginia Martini Salvi e risposta di Lattanzio Benucci (V1, c. 326r-v)

De la medesima

Se la luce immortal ch’ogn’hor m’accende di più caldo desio non fusse tale ch’indarno l’arco e ’l suo dorato strale oprasse in me quei che se stesso offende,

il vostro cor che glorioso attende a farsi qui senza null’altro eguale prenderei pur fuor del destin fatale, se ben più del presente hor mira e intende. Ma perché tutta mi tien volta Amore nell’oggetto ch’io bramo senza speme, pascendomi del vago, almo splendore,

voi lascio in libertade; io nell’estreme pene mi vivo e meco piange il core, il cor che sa come s’abbruci e treme.

A la medesima in risposta

Quella beltà ch’in voi, donna, risplende, ornamento al divino e all’immortale, m’abbaglia sì che d’altro hoggi non cale al pensier che per voi tant’alto ascende.

Ma poi ch’indarno lacci e reti tende al vostro invitto cor l’arcier c’ha l’ale, comprendo ogni desio caduco e frale che nell’oggetto vostro ogn’hor si stende.

Vivrommi dunque intento al dolce honore, se ben l’alma tal hor s’afflige e teme lungi a quel fuoco ond’ella sente ardore.

Voi del nodo ch’ancor vi stringe e preme cinta, terrete in così vago errore il piacer al martir congiunto insieme. Su alcune poesie inedite di ed a Virginia Martini Salvi 183

4. Sonetto di Lattanzio Benucci (V1, c. 328r)

A la medesima

L’alma cui già sì dolcemente Amore strinse per voi nel suo più forte laccio, lasciando hora il caduco a Morte in braccio si gode in Cielo il puro, eterno ardore.

Quindi a voi, per quetar l’aspro dolore che vi stempra ad ogn’hor qual sole il ghiaccio, lieta si mostra che ’l gravoso impaccio habbia deposto in corto volger d’hore.

Rasserenate dunque homai la fronte, la fronte e seco ancor la parte interna, malgrado di fortuna acerba e rea, e le virtudi e le fattezze conte il vostro stile, ond’ei chiaro si scerna, renda celebri a noi qual pria solea.

INCONTRI E DIBATTITI

GIOVANNI PREVITALI, STORICO DELL’ARTE MILITANTE*

Arturo Galansino, Giovanni Previtali, storico dell’arte militante, in ‘Prospet- tiva’, 149-152, gennaio-ottobre 2013, pp. 3-363.

Il volume monografico dedicato alla figura di Giovanni Previtali, scritto e curato da Arturo Galansino, nasce all’interno della rivista che l’illustre storico dell’arte fondò nel 1975 – ‘Prospettiva’ - e comprende infatti un’intera annata della stessa. Credo che non potesse esserci sede più degna per dare alla luce questo volume e c’è da essere grati per questo progetto alla redazione del pe- riodico nel suo insieme, ma soprattutto a Fiorella Sricchia che la dirige, a Ales- sandro Bagnoli che ha confezionato il libro con passione sul piano editoriale, a Evelina Borea che ha messo a disposizione tanto materiale utile per la buona riuscita della pubblicazione. E’ anche con una certa emozione che, dopo aver assaggiato alcune parti, ho letto nel suo insieme il libro di Arturo Galansino, che nasce dall’impegnati- vo lavoro della sua tesi di dottorato discussa presso l’Università di Torino, dove è stato seguito come tutor nel suo impegno da una figura più volte evocata nel libro come Gianni Romano. Una certa emozione dovuta non solo al fatto che si tratta di uno studio monografico dedicato al professore e maestro con il quale mi laureai nel lontano 1982 proprio presso l’Università di Siena, verso il quale ho sempre nutrito ammirazione e affetto fino agli ultimi giorni della sua vita troppo breve (Previtali era nato nel marzo del 1934 ed è morto nel febbraio del 1988); ma anche al fatto che considero questo volume, per molti aspetti, una sorta di liber veritatis. Ma procediamo con ordine. Più che di una biografia si tratta di un approfondito profilo intellettuale di Giovanni Previtali che privilegia, in base anche alle fonti disponibili, alcune parti – direi le più importanti però - dell’attività dello studioso: dagli anni della formazione fiorentina alle esperienze all’estero e ai contatti con alcuni gran- di storici dell’arte del suo tempo (Roberto Longhi, Ernst Gombrich, Anthony

* Il testo costituisce la presentazione al libro di Arturo Galansino - Giovanni Previtali, storico dell’arte militante, in ‘Prospettiva’, 149-152, gennaio-ottobre 2013, pp. 3-363 – letta nell’Aula Magna Storica dell’Università di Siena il 2 ottobre 2015.

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 188 Alessandro Angelini

Blunt, ed altri), fino all’impegno editoriale che contraddistinse per tutta la vita Previtali, dagli anni di ‘Paragone’ a quelli di ‘Prospettiva’, dalla Fortuna dei Primitivi alla curatela della Storia dell’arte italiana Einaudi. Possiamo dire che altre parti della sua biografia intellettuale restano più in ombra, affrontate più di scorcio, come gli anni della maturità e soprattutto dell’insegnamento, tra Messina, Siena e Napoli. Questo non per un difetto nel lavoro di Galansino, ma semplicemente perché non hanno lasciato traccia così significativa sulle carte e l’autore è troppo giovane per aver vissuto direttamente, da testimone oculare, quegli stessi fatti. Ma grande merito della posizione di Galansino è proprio quella di non essere stato testimone ma storico a posteriori appunto, libero emotivamente quindi di leggere e interpretare questi eventi narrati - con tanta eleganza e leggerezza di scrittura - con il dovuto distacco critico. Inoltre, l’apparato fotografico assai bello di questo volume, messo a disposizione per lo più da Evelina Borea e curato impeccabilmente e con devozione di allievo da Alessandro Bagnoli (certamente l’allievo che maggiormente ha collaborato con Previtali), in qualche modo bilancia la parte della maturità perché è molto concentrato sugli anni della didattica svolta soprattutto a Siena. La parte che io ho trovato per molti aspetti più appassionante del volume è quella dedicata agli anni giovanili, quelli della formazione, che per lo studioso sono stati abbastanza complessi e che vengono documentati in modo straordina- rio dal carteggio continuo che Previtali tenne, da Roma per lo più o da Parigi, con l’amico e compagno di studi fiorentino Fernando Tempesti. Questi, dal momento della decisione maturata da Previtali di abbandonare l’inviso Ateneo romano della Sapienza, dove insegnava l’altrettanto poco stimato Lionello Venturi, per trasferirsi all’Università di Firenze e seguire i corsi di Roberto Longhi, diviene l’interlocutore privilegiato delle sue confessioni adolescenziali, dei suoi sfoghi e delle sue considerazioni, talvolta anche molto approfondite sugli argomenti più vari. Se Giovanni appare subito un giovane dal carattere deciso, dalle propensio- ni molto presto spiccatissime, perfino con le idee molto chiare sul metodo che intende seguire nello studio (da qui la conseguenza diretta del trasferimento), Fernando appare nelle lettere più umbratile e dotato di una sensibilità letteraria finissima che talvolta pare renderlo dubbioso perfino sulle decisioni da prendere sul piano pratico. Inoltre mentre Giovanni entra subito in perfetta sintonia con l’amato maestro per seguire il quale si era spostato verso Firenze, e sembra in qualche modo far sua la fermezza del temperamento volitivo di quello, Fernando resta come contrariato dagli umori avversi di Anna Banti e di altri letterati con Giovanni Previtali, storico dell’arte militante 189 i quali entra in contatto, fino a maturare l’idea di non laurearsi più. Eppure pro- prio questa differenza di carattere porta ad un vero, forte sodalizio intellettuale e epistolare tra i due giovani, accomunati da forti passioni culturali, dalle nuove letture – dal Gattopardo al Dottor Zivago- dai commenti sul comportamento dei ‘capi’, Longhi e Banti in particolare, ma poi di tutta una galleria di figure più o meno note di letterati e storici dell’arte. Nonostante la sua perfetta sintonia con Longhi, che lo apprezza decisamente, Previtali si mostra subito assai lontano dai longhiani ortodossi, diciamo meglio dai molti imitatori del grande maestro (soprattutto nella scrittura), a partire dalla scelta dell’argomento della sua tesi di laurea. Si tratta di quello che sarà il primo nucleo della Fortuna dei primitivi, il primo, forse più importante libro di Previtali. Non siamo di fronte quindi ad un tradizionale lavoro monografico su un artista, come forse ci saremmo potuti aspettare nella vocazione della scuola longhiana, ma ad uno studio di critica, diciamo meglio di letteratura artistica per capire la genesi e lo sviluppo di un fenomeno storico che riguarda il destino dei così detti ‘primitivi’ e la loro rice- zione, dal Vasari all’intero Settecento. La linea di recupero dei ‘primitivi’ non è quella rappresentata dalla tradizione romantica, sentimentale e devota, che era stata privilegiata fino ad allora, ma al contrario - e qui sta l’originalità dello stu- dio - quella razionalista e illuminista del grande Settecento italiano ed europeo. Una linea interpretativa che trova la sua base, secondo Previtali, nella più felice tradizione municipale della prima età moderna, destinata a sboccare poi appun- to nel secolo dei Lumi. L’interesse dello studioso per quel secolo si pensi alla piccola ma felicissima monografia suLiotard apparsa nella collana I Maestri del colore – riflette in realtà un tratto caratteristico della personalità di Previtali, il suo modo di procedere sempre logico e concreto, allergico alle astrazioni e all’e- motività dell’approccio critico. Emerge subito in Giovanni una curiosità critica, per i metodi della storia dell’arte, che in fondo era rimasta fino a quel momento assai meno esplicita negli interessi di Longhi e dei suoi migliori allievi. Previtali si profila subito quindi come un longhiano anomalo, direi, e proprio per questo forse il più apprezzato dal maestro, che intelligentemente ne comprende l’estro e l’originalità rispetto ad altri, forse rispetto anche a se stesso. Così cresce il peso di Giovanni all’interno della redazione di ‘Paragone’ - la rivista fondata da Lon- ghi nel 1950 e da lui diretta fino alla morte nel 1970 - con la nascita della rubrica sui critici, con l’interesse spiccatissimo per le fonti della letteratura artistica, che trovano da allora spazio nella rivista. Crescono naturalmente anche le ostilità che una personalità così forte inevitabilmente crea attorno a sé, le gelosie, le in- 190 Alessandro Angelini vidie che poi scaturiranno dopo molti anni nel congedo di Previtali dalla rivista dopo la scomparsa del maestro. Previtali giovane s’inserisce perfettamente anche nel modo di intendere la divulgazione storico artistica del Longhi maturo e collabora intensamente, ad esempio, alla collana I Maestri del colore, che la casa editrice Fratelli Fabbri sta portando avanti come edizioni di massa con l’avallo longhiano. Ma da queste esperienze accanto al maestro nascono gli esperimenti autonomi, che trovano la forma più compiuta e matura nei due volumi dell’Enciclopedia Feltrinelli Fischer del 1971, nati dall’intento di rendere chiari ad un più vasto pubblico concetti critici complessi, come Linguaggio della critica d’arte, Naturalismo e Realismo, Sociologia dell’arte, con voci affidate ad un gruppo di giovani sto- rici dell’arte con i quali Previtali tornerà a collaborare anche più avanti come Bruno Toscano, Gianni Romano, Luciano Bellosi, Alessandro Conti e altri. Tra le varie voci, la più bella di tutte a mio parere resta Attribuzione - l’atto critico più alto e specifico dello storico dell’arte - che il curatore dei volumi volle riservare a se stesso e che mostra tutto il coraggio dell’uomo controcorrente. Nel momento nel quale in fondo la critica d’arte militante (e Previtali ne faceva certo parte, come recita il titolo del nostro libro) era in buona parte spostata su temi come la storia sociale, marxismo e arte, iconografia e iconologia ecc., con voci che pure entrano a far parte dei due volumi, Giovanni si concentra invece sul concetto allora forse meno ‘popolare’, ma quello su cui si basava il nocciolo vero della lezione longhiana nel senso più filologico: attribuzione, esame dello stile, della qualità dell’opera d’arte. Davvero pochi allora avrebbero scommes- so sul destino di questi concetti apparentemente tradizionali, che Previtali sa- peva rileggere in una chiave tutta moderna e attuale, al di là dei luoghi comuni della critica che allora si sentiva all’avanguardia; in modo da consegnarci fino ad oggi quei concetti, per noi sempre attuali, ormai riscattati da un processo di vera e propria delegittimazione avvenuto in gran parte nel corso degli anni 1970 e 1980. A questa parte più metodologica e teorica diciamo, Previtali unì la produzione storico artistica in senso proprio, con la grande monografia dedicata a Giotto e la sua bottega edita da Fabbri, nella quale faceva rivivere in concre- to, nel corpo vivo della materia, quelle idee che aveva definito negli altri scritti di cui sopra. Così la monografia suGiotto del 1967 appare in realtà la concreta materializzazione dell’anti-monografia perché la figura del grande maestro tre- centesco viene studiata non certo nel suo aureo, geniale, isolamento ma al con- trario, in mezzo agli altri maestri e in particolare in mezzo ai suoi collaboratori Giovanni Previtali, storico dell’arte militante 191 di bottega; perché è proprio la ‘bottega’ la vera protagonista del libro, più che Giotto stesso. La bottega come fabbrica di tavole, come luogo di produzione artistica, o artigianale diciamo pure, tardomedievale, giammai come atelier in cui l’artista individuo elabora i suoi capolavori avvolti in un’aura romantica e per questo antistorica appunto. Lo studio su Giotto, come sempre, provocò una grande ammirazione tra gli studiosi, ma anche molte critiche e gelosie; e per questo basti leggere le lettere di Federico Zeri scritte all’editore contro l’autore del libro, che qui Galansino rende note: veleni e malevolenze che avrebbero ottenuto il loro effetto più tardi al tempo della Storia dell’arte Einaudi. Come ben illustra Galansino, Previtali longhiano anomalo lo fu anche perché fin dagli anni 1960 predilesse lo studio della scultura, un campo da sem- pre negletto dal maestro; e tra gli scultori dedicò un primo articolo importantis- simo apparso su ‘Paragone’ proprio a Donatello, un artista per il quale Longhi nutrì una vera e propria curiosa – per certi versi colpevole - idiosincrasia. Ma al di là degli artisti esaminati e degli argomenti trattati (questa è davvero la questione minore) Previtali aveva assimilato un metodo dal maestro e di quello fu indubbiamente paladino, come ad esempio l’interesse per le aree periferi- che e minori della storia dell’arte, come l’Umbria, in contrapposizione magari alle grandi capitali dell’arte, Firenze e Venezia in primis. E non tanto l’Umbria alla destra del Tevere, quella delle eleganze gotiche di matrice senese, bensì l’Umbria alla sinistra del Tevere, quella profonda e verace, continentale e un po’ zotica che trova espressione in artisti come il ‘Maestro espressionista di Santa Chiara’ o il ‘Maestro della Madonna Gualino’; i grandi anonimi con il loro genio sfuggente e perfino un po’ scostante appunto. Da questi studi su una scultura gotica singolare e mai entrata nella storiografia tradizionale, nasce poi la ricerca esemplare su Marco Romano apparsa su ‘Bollettino d’arte’ nel 1983, uno scultore pellegrino e fuori contesto che lascia i suoi capolavori a Casole d’Elsa, a Venezia, a Cremona senza un apparente logica e la cui unica possibilità di rintracciarlo qua a là è l’occhio del conoscitore, che poi si fa ga- rante di un più solido contesto storico di riferimento. L’occhio del conoscitore appunto, strumento di analisi razionale di un linguaggio che non è assimilabile a nessun altro: non alla lingua scritta, non a quella musicale, che è solo fatto di figurazioni dei segni di una grammatica, altra da quella che ha dominato la cul- tura occidentale, per lo più egemonizzata dalla parola scritta, dal primato della parola. Questo è il punto più delicato dell’impegno di Previtali, ereditato certo da Longhi ma portato avanti di gran lunga in prima persona; qui sta il suo inte- 192 Alessandro Angelini resse, ad esempio, per gli studi antropologici che si datano agli anni 1970 e nei quali Previtali individua un sistema analogo a quello dei nessi stilistici, delle serie formali che offrono la materia alla storiografia artistica. Questa curiosità per la linguistica, per l’antropologia sono sempre riportate però ai parametri del suo metodo; egli cerca analogie e confronti con i metodi di altre discipline (per quella straordinaria curiosità intellettuale che sempre lo caratterizza), ma è consapevole della specificità del nostro metodo dal quale non deflette mai, rispetto al ‘pentitismo’ di molti colleghi che si avvertì soprattutto dopo la morte di Longhi e che è ben segnalato da Galansino. Questo ‘pentitismo’ dal metodo di Longhi fece scaturire attorno al 1970 una profonda crisi della nostra discipli- na con una serie di ‘ideologie’, come si espresse Previtali in un testo riportato da Galansino, che andavano verso l’astrazione, che veleggiavano verso infini- te ipotesi di lavoro, verso discussioni metodologiche sulle magnifiche sorti e progressive dell’interdisciplinarietà, come se la storia dell’arte dovesse trovare risposte nella politica, nell’economia, nell’antropologia, e non in se stessa. Pre- vitali combatté con decisione certe sterili astrazioni teoriche, per una visione che fu sempre concreta e pragmatica basata sui risultati del lavoro dello storico e non sulle ipotesi scaturite nelle infinite tavole rotonde del tempo. “Un senso di smarrimento, una crisi d’identità profonda cui si è reagito con la disperata ri- cerca di alternative metodologiche, quasi che dalla psicologia, dalla linguistica, dalla semiologia, dall’antropologia o da che altro si voglia si dovesse trovare la soluzione a quei problemi che la storia dell’arte sembrava impotente ad affron- tare”, secondo la lucida diagnosi dello storico dell’arte. Previtali fu spesso criticato dai suoi avversari ma anche da alcuni amici perché militante, come recita il titolo del libro, troppo di parte. In realtà, se si pensa alla militanza di politica, la sua fu una posizione molto aperta e spesso controcorrente, anche all’interno della sinistra stessa; si ricordino le polemiche con Giulio Carlo Argan, ben rappresentate nel carteggio, che alla metà degli anni 1970 era divenuto un punto di riferimento, quasi un uomo simbolo anche per la politica di sinistra, come sindaco di Roma. Proprio in quel momento, Pre- vitali non si tirò indietro a polemizzare con l’illustre studioso, le cui posizioni critiche di storico dell’arte aveva spesso osteggiato, così come del resto quelle del suo maestro Lionello Venturi. E, sempre per restare alla politica, si pensi anche alla risposta difensiva delle posizioni assunte dalla direzione del Partito Comunista, scritta da Giancarlo Pajetta e qui resa nota da Galansino, ad una lettera di protesta inviata direttamente da Previtali su come si era mosso troppo lentamente il partito sui fatti di Praga del 1968. Giovanni Previtali, storico dell’arte militante 193

Talvolta invece Previtali venne considerato troppo parziale nella difesa della impostazione metodologica longhiana in modo pregiudiziale. Ma forse nessuno degli allievi di Longhi fu più di lui aperto al dibattito storiografico, assunse posizioni più individuali e originali nell’accogliere stimoli da studiosi di ben altra estrazione (si pensi al rapporto con Ernst Gombrich, qui così ben tratteggiato) e nel dialogare con altre discipline e metodi (strutturalismo, sto- ria sociale e altro). Certo, il modo con il quale affrontò questi temi fu sempre molto netto e chiaro, diretto ed esplicito, a viso aperto e questo contrastava spesso con certo mondo politico e accademico, che almeno in Italia spesso si muoveva, e si muove da sempre, piuttosto in modo felpato e indiretto, con manovre, colpi di mano nell’ombra. L’esempio che mi pare più clamoroso e anche assai esplicito del modo con il quale Previtali agì e di come agirono i suoi interlocutori, fu direi quello all’interno della redazione di ‘Paragone’, dopo la morte di Longhi nel 1970, che emerge così bene per la prima volta nel libro. Previtali per un intero decennio e più aveva avuto un ruolo notevolmente influente nella redazione della rivista, per la grande curiosità intellettuale che caratterizzava i suoi contributi, per le sue recensioni critiche talvolta graffianti, le sue note di letteratura artistica che avevano aperto una via nuova di ricerca all’interno della rivista. Rendendosi conto che le posizioni assunte da lui dopo la morte del maestro sarebbero rimaste minoritarie appunto, perché non più difese dall’autorità e dalla condivisone del fondatore della rivista, chiese di far entrare nella redazione alcuni giovani storici dell’arte che potevano rinnovare in modo critico la linea editoriale (Gianni Romano, Fiorella Sricchia, Bruno Toscano, Mina Bacci). E qui trovò l’ostacolo insormontabile rappresentato dal- la posizione della direttrice nonché vedova del fondatore, Anna Banti, e della maggior parte del gruppo dei primi allievi bolognesi di Longhi, in particolare almeno da ciò che ricaviamo dal carteggio, di Francesco Arcangeli, con le sue posizioni che a Previtali dovevano apparire un po’ tentennanti e incerte. La battaglia a viso aperto che avrebbe voluto intavolare Previtali all’interno della redazione, in modo democratico e magari a colpi di maggioranza, forse con una buona dose di quel volitivo ottimismo che a mio parere caratterizzò sempre la pars costruens dell’attività critica dello studioso, rimase inespressa. La dire- zione della rivista preferì agire con la critica delle posizioni più scomode, col gioco al rinvio e di logoramento, fino all’inevitabile uscita dello stesso studioso dalla redazione di una rivista alla quale tanto aveva contribuito. E – sia detto tra parentesi - magari con il definitivo ingresso di alcuni di quei nuovi membri 194 Alessandro Angelini da lui stesso proposti e che al momento della sua uscita forzata non sentirono la necessità di seguirlo in questa battaglia, che per allora era andata certamente perduta. Veramente da questo carteggio diretto e indiretto – una sorta di liber veritatis a posteriori come dicevo – emergono, come sempre avviene in questi casi, i profili dei vari protagonisti, le timidezze e il coraggio di certe prese di po- sizione, le confessioni e i silenzi, le contraddizioni e le posizioni nette e lineari assunte di volta in volta da ognuno. In questo senso, non c’è dubbio che le po- sizioni di Previtali appaiono sempre le più limpide, dinamiche e vitali, le meno conformiste, spesso taglienti, le più generose intellettualmente a fare credito ai giovani talenti, le più nette nel criticare certo conformismo anche accademico che percepiva attorno a sé. Ogni male non vien per nuocere. L’uscita di Previtali da ‘Paragone’ lo avrebbe indotto negli anni successivi a mettere in campo forze nuove, idee portanti per creare qualcosa di nuovo e di maggiormente in linea con le sue convinzioni più profonde. Così nel 1975 uscì il primo numero delle rivista da lui stesso fondata assieme a all’archeologo Mario Cristofani, anche lui allora docente dell’Università di Siena, ‘Prospettiva’, che segnava il nuovo corso e ri- lanciava in una nuova testata il cui programma era già nel titolo, con la sua idea di razionalità e storia, di filologia e passione scientifica e soprattutto con quel riferimento a due personalità come Longhi e Ranuccio Bianchi Bandinelli (una figura che Previtali dovette molto ammirare anche sotto il profilo politico, per la sua precoce adesione al ‘partito nuovo’ di Togliatti, ma anche per un disincanto che lo colse negli anni della maturità per quello stesso partito comunista). A capo della nuova redazione dove confluirono almeno in parte gli amici - tra gli storici dell’arte Fiorella Sricchia, Evelina Borea, Luciano Bellosi - che erano rimasti come lui scottati dall’esperienza di ‘Paragone’, Previtali poté creare davvero qualcosa di nuovo e senza quei compromessi che avrebbe dovuto inve- ce accettare, se per caso fosse rimasto nella vecchia redazione, ormai svuotata dalla presenza longhiana. Un altro nodo che emerge molto bene dal libro e dal carteggio è quello relativo alla Storia dell’arte Einaudi, un grande progetto editoriale al quale si cominciò a pensare da parte dell’editore nel 1972, con l’affidamento a Previtali della curatela dell’intera opera. Questo progetto seguiva di poco quello relati- vo alla Storia d’Italia Einaudi, una serie di volumi sostenuta dall’editore con grosso sforzo finanziario negli anni precedenti. In realtà il primo volume della serie Storia dell’arte italiana vide la luce solo nel 1979, nonostante che il cu- Giovanni Previtali, storico dell’arte militante 195 ratore avesse presentato fin da subito un programma molto organico e puntuale in tutte le sue parti. Il ritardo ebbe inizio innanzi tutto per le molte osservazioni critiche, che per lo più proprio alcuni collaboratori scelti da Previtali, solleva- rono tacciando il progetto di un certo tradizionalismo, quasi di una mancanza di coraggio da parte del curatore nel non affrontare con la dovuta enfasi i temi che parevano allora di maggiore attualità storiografica, come la politica del patri- monio, la relazione centro-periferia, il territorio, le correnti dell’arte contempo- ranea, la cultura materiale, lo strutturalismo e le arti figurative e altre tendenze che andavano allora per la maggiore nel dibattito culturale. Le critiche furono così numerose, che in certi casi vennero a concretizzarsi in veri e propri progetti alternativi presentati all’editore, in alternativa a quello di Previtali. Questi vide nelle proposte che gli si paravano davanti “una discussione di progetti alter- nativi sempre più lontani, nelle loro confuse ambizioni antropologiche, da ciò in cui credo e che mi sento di fare”. Il realtà a posteriori il primo progetto di Previtali, a mio parere, appare molto più organico e chiaro, almeno sulla carta, di quanto non riuscisse quello effettivo del 1979, quando una serie di compro- messi successivi appunto a quelle prese di posizioni, che pure l’editore stesso avrebbe definito ‘utopistiche’, portarono a diversi cambiamenti nella linea edi- toriale della serie di volumi, che nel carteggio seguiamo con molta precisione nelle varie versioni. Previtali, tra l’altro, avrebbe dato spazio nella sua prima idea ad una serie di immagini con opere d’arte commentate criticamente da parte dei vari collaboratori, così da seguire in concreto lo svolgersi dell’ arte italiana (ma alcuni disputavano perfino se ci fosse mai stata un’arte italiana con caratteri specifici) e da far capire al lettore, non sempre specialista in materia, linguaggio, caratteri della critica d’arte e della storiografia. Questo esperimento che avrebbe avuto il vantaggio, a mio parere, di accostare in modo concreto e piano, secondo gli intendimenti del curatore, il grande pubblico alla scrittura degli addetti ai lavori, fu rimosso; e al posto di questo furono inseriti saggi pro- blematici su temi considerati di maggiore attualità, che finirono inevitabilmente per restare almeno un po’ astratti o tutti all’interno di una cerchia ristrettissima di addetti ai lavori. Così Previtali, che con quell’operazione editoriale, nei suoi primi intendimenti, avrebbe voluto ricucire nel mondo delle arti figurative “la vecchia separatezza tra specialisti da un lato e pubblico dall’altro”, fu costretto a ripiegare su un’operazione culturale che, come ha ricordato Giovanni Agosti, non ebbe successo neppure al livello degli studenti universitari, pagando pegno così alla dimensione estremamente elitaria che segnava certa cultura di sinistra 196 Alessandro Angelini in quel momento in Italia. E questo nonostante la qualità assai elevata della maggior parte dei saggi, che pure furono pubblicati nella serie dei volumi a partire dal 1979. Vediamo oggi con una certa soddisfazione che il progetto ini- ziale di Previtali è stato almeno in parte recuperato dalla nuova serie della Pic- cola storia dell’arte Einaudi, con le tavole correlate da brevi schede che hanno l’ambizione di entrare nel vivo, per così dire nella carne viva delle opere d’arte. Forse se quel primo progetto fosse stato accolto e in qualche modo avesse ‘fatto scuola’, può darsi che le sorti della storia dell’arte in Italia, con le sue dirette conseguenze anche a livello politico e amministrativo sul patrimonio artistico, avrebbero avuto esiti assai più positivi di quelli attuali. Il giovane lettore di questo libro oggi può forse meravigliarsi di certe apparenti di Previtali ad esempio nei confronti dell’arte contempora- nea, soprattutto verso ogni forma di astrattismo, con le dovute eccezioni (Ennio Morlotti ad esempio) che discendevano da Longhi. La sua passione per il rea- lismo nel Novecento anche nel dopoguerra non derivava tanto da motivazioni politiche, come si è detto, quanto da un’adesione incondizionata alla ‘pittura della realtà’ anche dei secoli passati sulla quale si era formato, dal fatto che nel giudicare partiva dalla figurazione concreta e non da astrazioni di significato, dal fatto di essere allergico ad ogni forma di filosofia dell’arte e di tutto quello che di celebrale l’astrattismo e poi il concettualismo avevano recato con loro nella storia dell’arte. Dalla frequentazione longhiana traeva origine anche l’al- lergia per la pittura dell’Ottocento italiano, perfino per la corrente del realismo macchiaiolo; non si parli dell’Ottocento accademico e storico. Erano tutte bat- taglie che per gli uomini della generazione di Longhi avevano avuto un signifi- cato; forse meno per quella di Previtali. Sul piano ideologico il giovane lettore di oggi in questo carteggio sentirà qualche atteggiamento che potrà apparirgli molto distante, come un singolare anticlericalismo che potrà forse farlo sorride- re e che può apparire frutto di un radicalismo laico oggi quasi anacronistico. Ma è sempre bene storicizzare ogni affermazione e ricordare quale fastoso e colos- sale monumento all’immobilismo, sotto il profilo della cultura e del costume, era la Chiesa di papa Pacelli e del cardinale Ottaviani nei tardi anni Cinquanta, quando il giovane Previtali faceva appunto il mangiapreti. E del resto in quegli anni egli aderiva al Partito radicale, come ben documenta il libro. Una parte importante del volume, come dicevo prima, è quella relati- va all’apparato fotografico e una buona sezione di questo è dedicata agli anni senesi di Previtali un po’ meno approfonditi nel testo. Queste belle fotografie Giovanni Previtali, storico dell’arte militante 197 illustrano visivamente, come in ogni libro di storia dell’arte che si rispetti – e questo lo è a tutti gli effetti – l’attività infaticabile di Previtali organizzatore di mostre, come ad esempio quella di taglio didattico dedicata a Jacopo della Quercia nell’arte del suo tempo del 1975; e più tardi quella su Il Gotico a Sie- na (1982), con versione avignonese dell’anno successivo. E non stiamo qui a ricordare quelle alle quali partecipò anche se non da curatore, o che comunque contribuì ad ispirare. In una delle foto più indicative vediamo Previtali che si sbraccia per far capire al suo pubblico, studenti, autorità ma anche comuni cittadini la natura di quelle sculture, i loro aspetti, la dimensione materiale (ve- diamo come sembri toccare una Madonna in marmo) secondo un procedimento didattico che fu sempre insito nel suo approccio alla materia. Le mostre di Pre- vitali erano mosse da scopi didattici e civili, mai da scopi di promozione anti- quariale; esse intendevano dimostrare, nel concreto rapporto tra le opere, una tesi di fondo che il curatore si era proposto. Ecco perché erano sempre mostre che, anche se non costituite da molti pezzi – e forse proprio per questo –, in base all’intelligenza della scelta spiegavano una porzione di storia dell’arte. Ma tutto questo fa venire in mente il modo di insegnare che lo studioso esercitava anche in aula durante le lezioni che tenne a Siena per molti anni. Era un modo molto chiaro e piano, quasi didascalico di affrontare i problemi della storia dell’arte, anche più complessi, che compare nel nostro libro e che resta una delle istanze fondamentali di Previtali. Non mi scorderò mai infatti il docente che apparve alla prima lezione introduttiva rivolta a noi studenti del primo anno, nel lontano 1977. Era la lezione che accostava le matricole alla materia che avevamo scelto di studiare e evidentemente Previtali che allora dirigeva l’istituto, teneva a far comprendere la natura della disciplina, i suoi confini, i suoi spazi. Mi apparve subito di una chiarezza esemplare nella spiegazione, come di chi fosse nato per fare quel mestiere e che da tempo aveva riflettuto anche sugli aspetti metodo- logici e teorici della materia di studio, in modo tale da trattarli per noi studenti con grande semplicità senza sfuggire però alla complessità delle questioni. Egli disegnò alla lavagna con il gesso due bicchieri d’identica forma e solo in uno dei due tracciò sul bordo un elemento decorativo, una sorta di smerigliatura. Ecco, disse, lo storico dell’arte non si occupa del primo bicchiere, quello privo di decorazioni, ma solo del secondo che unisce alla pura funzionalità della testi- monianza materiale, un elemento in più che risponde ad un’insopprimibile esi- genza estetica, radicata nell’uomo. La sua lezione si basava su un simile modo di procedere semplice e didatticamente efficace. Solo più tardi compresi che 198 Alessandro Angelini l’esempio del bicchiere faceva implicito riferimento alla discussione, assai ac- cesa allora tra storia dell’arte e cultura materiale, storici dell’arte e archeologi. Per questi ultimi infatti ogni testimonianza della società antica, anche il rozzo bicchiere senza decorazione alcuna, appariva degna di essere studiata senza al- cuna gerarchia di sorta. Per gli storici dell’arte, e Previtali difendeva come sem- pre con determinazione la propria identità disciplinare, le uniche testimonianze degne di studio sono quelle di valore estetico. Ai più grandi e consapevoli, ormai giunti al lavoro di tesi, insegnava a approfondire gli argomenti sotto ogni profilo ma, una volta raggiunti determinati risultati, ad aver il coraggio delle proprie idee a non farsi prendere dai timori o dalle eccessive prudenze, così diffusi nell’ambiente accademico talvolta anche ai livelli più alti e rendere note le scoperte, sorridendo della prudenza delle mezze misure, dell’atteggiamento tremebondo di chi non era ben solido nel suo metodo di lavoro. In conclusione come si ricava benissimo dalla lettura di questo libro, il suo era un insegnamen- to di metodo e di carattere, che rifletteva la sua intransigente moralità, la sua severità e onestà intellettuale ma anche il coraggio delle proprie idee che aveva sempre difeso con determinazione ed energia. Questo libro di Galansino è un saggio eccellente. Solo una frase, ma non di poco conto, mi lascia molto perplesso nella sua Premessa, quando l’autore afferma che oggi a distanza di tanti anni dalla morte di Previtali “s’impone una riflessione sulla sua figura, soprattutto dopo che molte delle sue battaglie sono andate definitivamente perse”. A distanza di tempo la figura militante di Previ- tali mi pare invece tutt’altro che sconfitta dalla storia. Il suo insegnamento resta ben vivo e non manca di suscitare nuovo interesse nelle nuove generazioni, altrimenti un volume così accattivante nella lettura oltreché così importante non lo avrebbe scritto un giovane storico dell’arte come è Galansino appunto. Di quanti che osteggiarono allora certe battaglie culturali di Previtali e che apparentemente ne uscirono vincitori, qualcuno potrebbe scrivete un profilo intellettuale altrettanto ricco, stimolante e di tanto spessore? Di quanti di coloro che accumularono ottimi introiti sul mercato antiquariale e fortuna nella gran- de editoria per mostre internazionali, potremmo tracciare un ritratto altrettanto denso? Non vorrei apparire troppo idealista e ottimista, ma credo sinceramente che altre siano le vittorie nella vita e nella storia e in questo senso Previtali non fu certo uno sconfitto.

Alessandro Angelini A PROPOSITO DI

MODERNITÀ E ANTICO Il controverso rapporto di Siena con gli stilemi della contemporaneità

Non è un mistero che Siena ha sempre avuto un rapporto controverso con la modernità. E’ come se si fosse autoconvinta dello stigma al quale genera- zioni di viaggiatori, scrittori, pittori, bozzettisti o, comunque, amanti del luogo comune l’hanno voluta inchiodare. Siena è una città che si riconosce pressoché esclusivamente in una cifra “medievale”: che sia di Medioevo autentico o che sia di Medioevo reinventato. La sua stessa manifestazione corale che la carat- terizza nel mondo - il Palio - è stata, alla fine dell’Ottocento, “medievalizzata”, ad onta del fatto che il palio (che si faceva in tutta Italia) risale davvero al Me- dioevo, ma quello di Siena, il Palio delle Contrade, con il Medioevo non c’entra in nessun modo. Forse è per questo (o anche per questo) che Siena ha sempre avuto diffi- coltà a rapportarsi con il moderno: le stesse architetture delle parti nuove della città, per fare un esempio che riteniamo calzante, raramente hanno dimostrato il coraggio di cercare di rapportarsi su un piano alto con stilemi coraggio- samente innovativi e consapevoli delle elaborazioni estetiche della migliore architettura contemporanea mondiale. Ci provò Giancarlo De Carlo, per dire, e non fu compreso. Non vogliamo certo dire che necessariamente si dovesse accettare acriticamente il suo stile, ma De Carlo cercava di muovere le stagnan- ti acque dell’estetica urbana e quello sul quale l’architetto e urbanista andò a impattare fu, sostanzialmente, il rifiuto da parte della communis opinio ad ac- cettare soluzioni che rompessero il consolidato, mimetico rapporto con il mat- tone faccia-a-vista, unica cifra sentita come accettabilmente interlocutoria con le architetture del centro storico. Lo comprese, invece, bene Enzo Zacchiroli, la cui realizzazione del complesso della Banca d’Italia fu subito accolta da tutti (e giustamente, sia ben chiaro, perché è una realizzazione eccellente e di alto livello) in quanto sentita come contigua agli stilemi di una città pretesa (o immaginata) come “medievale” (nonostante sia solo in parte rispondente alle forme di quell’epoca). Nessuno dimentica, del resto, che quando,ormai tanti decenni fa, si pro- cedette al (rimasto abortito a metà) restauro del quartiere del Bruco, ci fu una

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 202 Duccio Balestracci chiassosa levata di scudi da parte di quanti non volevano sentir parlare di into- naci dipinti, preferendo il mattoncino rosso spellato, senza se e senza ma. Il tut- to surrogato dall’idea di una città “medievale” (come se la città non avesse con- tinuato a respirare e trasformarsi anche nei secoli successivi) caratterizzata da sole facciate di mattoni non intonacati (cosa, peraltro, clamorosamente falsa). Nella maggior parte dei casi, quindi, il moderno, almeno in architettura, si è, non di rado, svilito in realizzazioni architettoniche di bassissimo profilo estetico, dove, spesso, non emerge un’idea che sia una, un’elaborazione che sia una, una proposta che sia una. E infatti, come sosteneva (ma a mezza voce) Ber- nardo Secchi, Siena ha un bellissimo centro storico, ma delle mediocrissime, sciatte periferie (e anche qualcosa di quel che è stato inserito nel centro storico stesso...lasciamo perdere per non rivangare polemiche!) che non differiscono in nulla da quelle di qualsiasi altra anonima città. Gli esempi in contrario sono veramente pochi e su non pochi di essi si è scagliata l’intemerata di quanti vi hanno visto e vi vedono una profanazione dell’immagine urbana consolidata di questa città, immaginata ancora come raccolta fra rosse mura di mattone e teneramente adagiata sulle mani dei Santi. Un’ analoga scontrosa incomprensione la città l’ha sempre avuta nei con- fronti del moderno nella pittura e nelle arti plastiche. La disseminazione di scul- ture moderne (non tutte di eccellente valore, per dirla sinceramente) in occasio- ne di una manifestazione alla fine del 2015 ha ricevuto qualche apprezzamento, molte più critiche e non pochi lazzi. Del resto, tutti ricordano la mortificante sorte della “Pera” di Craig, sballottata e sbeffeggiata e finita semisepolta dalla vegetazione e ricoperta di scarabocchi a vernice spray, attualmente dimenticata in un cantuccio degli Orti del Tolomei. Un’ incomprensione che discende, o meglio, risale per li rami e che acco- muna i cittadini alle istituzioni cittadine: una riprova? Eccola: l’eutanasia con la quale si è lasciato morire - fra l’indifferenza della città e l’insipienza delle istituzioni - l’esperimento di arte contemporanea de “Le Papesse”, prima rele- gato nell’ex obitorio di Vallepiatta e poi definitivamente chiuso. Nella stessa indifferenza, per inciso, in cui fu lasciato andar via da Siena l’ILAUD di De Carlo, fucina di proposte di urbanistica e architettura. Anche nel caso de “Le Papesse”, ovviamente, non necessariamente per tutto quel che proponevano “Le Papesse” c’era da spellarsi le mani dagli applausi, ma almeno era una punta avanzata della modernità ed un focolaio di proposte e suggestioni. Il paradosso, poi, è clamoroso. Potremmo anche provare a capire il rifiuto Modernità e antico 203 della contemporaneità se i Senesi affollassero, da mane a sera, i templi della classicità presenti nella nostra città; se trovassimo file di concittadini in coda allo sportello del museo civico o a quello della Pinacoteca. Al primo, magari, le code si vedono anche, ma dire che di Senesi non ce ne sono (o proprio pochi) non è gusto della provocazione. Così come non lo è constatare che di file non se ne vedono granché (e in questo caso né di Senesi né di persone di altra prove- nienza) nemmeno davanti alla biglietteria della Pinacoteca, un museo fra i più importanti d’Italia e fra i meno frequentati, perché fuori degli inclusive tour, perché non sufficientemente pubblicizzato, perché malamente servito di strut- ture adeguate sul piano della comunicazione (quelle che riescono a riempire, all’estero, musei messi in piedi con quattro reperti, ma talmente ben valorizzati da riuscire a costruirci intorno percorsi scientifici e divulgativi di alto livello). Quindi, la riottosità nei confronti della modernità non è nemmeno una consa- pevole scelta di campo di linguaggi estetici condivisi perché conosciuti e com- presi: è pigro omaggio ad un’idea di estetica consolidata, consolatoria, sognata ed evocativa di culture ed epoche altrettanto idealizzate, e che non costringe a riflettere, a rapportarsi con le forme del moderno, magari non condividendole, ma comunque entrandoci in colloquio. E’ a questo tema che vogliamo dedicare la rubrica “A proposito di”, per la quale abbiamo chiesto due contributi: uno di Marco Pierini, direttore di musei e attualmente direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria, che è stato anima- tore e anima de “Le Papesse” di Siena. L’altro è di Fabio Mazzieri, pittore, ma anche, per tantissimi anni, preside di quello che una volta si chiamava “Istituto d’Arte” di Siena, che ha affiancato la sua ricerca estetica personale con l’inse- gnamento ai giovani e il difficile mestiere di farli navigare con raziocinio fra gli stilemi della classicità e le forme del contemporaneo. Siamo consapevoli che affideremo questo problema a chissà quante altre generazioni future, ma vorremmo provare, come rivista che da oltre un secolo propone riflessioni sulla cultura di questa città, a riaprire (per l’ennesima volta) questo frustrante terreno di riflessione, gramscianamente convinti della (ancora una volta) ineluttabilità della dialettica fra pessimismo della ragione e ottimi- smo della volontà.

Duccio Balestracci CONTEMPORANEITÀ: CRONOLOGIA O SENTIMENTO DEL TEMPO?

Chiunque si volga a considerare la storia di Siena con la mente sgombra di pregiudizi, non avrà difficoltà ad accorgersi che i periodi di maggiore splendore coincidono inequivocabilmente con quelli nei quali la città ha saputo vivere da protagonista le sfide della contemporaneità. E malgrado l’autolesionistica vul- gata – la cui origine, ahinoi, è tutta locale – che associa le fortune senesi al solo Medioevo, la città è stata per secoli, pur con fasi alterne, una presenza quasi mai secondaria nel panorama culturale italiano. La perdita di passo rispetto all’o- rologio della contemporaneità ha probabilmente origine nell’artificiale costru- zione di un’identità cittadina che, dagli anni che precedono l’Unità fino a quelli della prima guerra e oltre, ha ribadito il peso del glorioso passato ‘medievale’, esemplandovi il volto delle architetture, l’immagine della festa, la persistenza o la riscrittura di miti e credenze che talvolta hanno solo labili riflessi nella veridicità della storia. Atteggiamento di chiusura, di carattere difensivo, che ha condotto a un presunto distacco dal sentimento dei tempi, in favore di un’im- possibile adesione spirituale a un’età dell’oro, inconsapevolmente ridisegnata a uso e consumo del senese moderno. Perché la contemporaneità è una condi- zione che può intendersi dal mero punto di vista della cronologia – secondo il quale tutto ciò che accade nel presente è ipso facto contemporaneo – oppure da quello della compartecipazione e della coerenza con i prodotti più autentici, materiali o immateriali, del pensiero e della cultura dei nostri giorni. Il legitti- mo orgoglio civico, originato dalla consapevolezza della forza e della solidità delle radici della città, si è talvolta come inaridito, trovando ragion d’essere proprio nel ripiegamento in sé stesso, nel suo essere radice e non frutto. Non si ritiene, magari peccando di hybris, che l’arte tout court sia nel nostro DNA, ma al contrario che sia congenito in noi il gusto per un certo tipo di arte saldamen- te incanalata entro forme, stili, convenzioni che appartengono, o si reputano appartenere, alla tradizione. Lo prova ampiamente l’accoglienza riservata ai drappelloni dipinti, di norma (ma le eccezioni, per fortuna, non sono mancate) tanto più acclamati tanto meno possono dirsi, nell’accezione non meramente cronologica, contemporanei. Mentalità conservatrice che, mentre crede di er-

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 Contemporaneità: cronologia o sentimento del tempo? 205 gersi a baluardo protettivo della città, cozza proprio contro la sua storia più vera, rinnega la lungimiranza con la quale Siena, in altre epoche, ha riconosciu- to e celebrato fin da subito i figli illustri e i loro raggiungimenti. Questa ten- denza, maggioritaria e rumorosa, benché tutt’altro che esclusiva, pone un freno automatico ai linguaggi più innovativi, senza neppure concedere un occhio di riguardo qualora questi provengano da risorse interne al contesto cittadino. Le sfide della contemporaneità spesso appaiono a Siena lotte contro la contempo- raneità. Né il passaggio del tempo aiuta una, seppur tardiva, migliore ricezione: quante volte la sala di Palazzo Chigi Saracini e i teatri sono rimasti deserti in occasione di programmi che prevedevano musica del Novecento! E lo stesso vale per la prosa, la danza, la letteratura. A questa chiusura ‘per troppo amore’, Siena ha saputo spesso reagire con an- ticorpi propri, contrastandola con energia e preveggente lucidità, sapendo so- prattutto riconoscere l’urgenza di compiere scelte di grande modernità, sebbene talvolta in apparenza conservatrici. Penso alla resistenza contro la sciagurata idea di costruire edilizia residenziale nelle valli entro le mura (follia nata vec- chia e non certo ispirata a una visione davvero moderna di città), alla chiusura del traffico nel centro storico, alla cablatura, alla fondazione di un centro d’arte contemporanea. Ciascuna di queste iniziative ha generato in corso d’opera di- battiti, anche molto accesi, ma retrospettivamente è stata poi valutata per quello che era davvero: un passo avanti di Siena in direzione della contemporaneità. Bisognerà parimenti accogliere come un suggerimento ancora attualissimo il monito di Enzo Carli, che volle intitolare Siena sarà tanto più moderna quanto più saprà mantenersi antica un’intervista sul piano regolatore Piccinato appar- sa su “La Balzana” nel 1962. Spesso, infatti, si è confuso lo slancio innovatore indiscriminato con una progettazione del futuro accorta e consapevole che pog- gi le proprie fondamenta sull’unicità del tessuto storico e urbano di Siena. Il rispetto e la tutela di quest’eccezionalità non indicano, dunque, una sorta d’im- mobilismo, bensì i presupposti per una sana, ‘naturale’, integrazione del nuovo all’interno di un contesto così fortemente caratterizzato e pressoché intangibile come quello di Siena. Il problema dell’arte contemporanea è, da questo punto di vista, esemplare, soprattutto per quanto riguarda le dinamiche di convivenza - tanto temporanea, quanto stabile - con l’esistente. Gli artisti, se sono davvero tali, non hanno biso- gno del confronto, della bella ‘scenografia’, né il loro lavoro aggiunge alcunché (talvolta, anzi, sottrae) alla lettura del contesto storico che lo accoglie. Esistono, 206 Marco Pierini naturalmente, casi di interventi site specific perfettamente risolti, ma sono ec- cezioni a una regola abbastanza assodata. Carattere e peso assai diversi avrebbe invece, com’è ovvio, la presenza dell’arte contemporanea nelle periferie. Di recente si è invece scelto di nuovo, e in maniera massiccia, di invadere strade e piazze del centro storico con sculture, presentando l’iniziativa come un ritorno della città alla frequentazione dei linguaggi più aggiornati. Difficile poter con- dividere, però, questa ottimistica visione e non soltanto per la qualità modesta delle opere stesse e il profilo non di primo piano degli artisti. È evidente infatti l’estemporaneità della rassegna, priva di un progetto, di un disegno, di un obiet- tivo. Né si possono citare esempi più felici nel recente passato, tranne forse l’u- nico davvero osteggiato da una parte della comunità senese: quello della scul- tura di Tony Cragg, che da Goccia divenne Pera. Le recenti installazioni del collettivo Cracking Art, dello scultore Xu Hongfei, per non parlare dello stolido ‘sorriso’ di Clet Abraham sul Palazzo pubblico fanno invece tornare in mente una celebre frase di Mario Botta: “tanta arte contemporanea è per una fruizione disattenta e superficiale in sintonia con i tempi attuali dove gli slogan, le mode, le trovatine che ammiccano al visitatore prevalgono rispetto al confronto con la più scomoda realtà di ciò che nel tempo gli uomini ci hanno lasciato di artisti- co”. La deriva facile e un po’ grossolana della proposta ammannita in occasione di “Siena Capitale Italiana della Cultura 2015” non ha lasciato certo il segno, né tra i cittadini, né tra i turisti – immaginiamo, anzi, che molti siano rimasti infastiditi dai disturbi visivi introdotti per le vie e sui monumenti – e tantomeno si è rivelata d’aiuto per i non pochi che, dall’interno, stanno battendo la difficile strada della creatività contemporanea. La risoluzione di porre fine all’esperien- za del Palazzo delle Papesse, assunta con scarsa lungimiranza dal Comune di Siena a fine 2007 e attuata nella tarda primavera dell’anno successivo, è stata infatti – tra molte altre cose – anche all’origine di un luogo comune assoluta- mente da sfatare, quello cioè di un inaridimento della vitalità e della presenza dell’arte contemporanea in città. Proprio di recente, al contrario – e magari grazie, almeno in parte, a quanto il Centro Arte Contemporanea ha lasciato d’eredità immateriale – il tessuto culturale senese si è rigenerato e ha visto la conferma e il consolidamento di alcune figure di artista che hanno saputo autorevolmente imporsi nel panorama nazionale. Gli spazi privati, siano essi a carattere commerciale o associativo, hanno pian piano sopperito, quasi naturalmente, al venir meno dell’azione del pubblico e la loro recente moltiplicazione rappresenta uno dei segnali di come Contemporaneità: cronologia o sentimento del tempo? 207

– nel massimo momento di crisi della sua storia recente – Siena possa ancora trovare in sé le forze per reagire al declino. Queste energie positive, agite (anche in altri campi, come la musica e il teatro, ad esempio) dalla generazione dei trenta/quarantenni, sono la linfa di cui Siena deve tornare a nutrirsi, perché il riscatto della città non può, e non deve, passare – come molti purtroppo sembrano credere – dall’imbalsamazione del glorioso passato (e l’ulteriore crescita del flusso turistico) o da una superficiale adesione ai linguaggi facili e scontati di una presunta ricerca contemporanea. A meno di non voler supinamente accettare per Siena la dimensione passiva di ‘città d’arte’, di ‘meta turistica’, rispetto alla prospettica e vitale condizione di ‘città di cultura’ che storicamente le è propria.

Marco Pierini ANELLO MANCANTE

Riceviamo dalla Kean University di Union - New Jersey- un ringrazia- mento e una relazione dettagliata della visita che un gruppo di studenti ame- ricani e cinesi ha effettuato nella città di Siena nel mese di Ottobre 2045, in occasione delle celebrazioni organizzate per il 30°anniversario dell’Anno Europeo della Cultura.

“Gent. mo Direttore, I nostri studenti sono stati vostri ospiti a Siena nel mese di Ottobre 2045, nel Campus di Piazza Amendola, dove, insieme all’ottima sistemazione in ca- mere singole, dotate di ogni genere di confort, hanno anche potuto conoscere ed apprezzare la cucina senese che, è noto, è un vanto per tutta la Toscana. Gli studenti, americani e cinesi, hanno anche potuto usufruire degli impianti spor- tivi, dal campo da golf alla splendida piscina, realizzata da giovani architetti che si sono consociati a Siena, in collaborazione con la città di Dubai, dopo gli EXPO di Milano e di Dubai. Durante le due settimane di soggiorno, gli studenti hanno frequentato corsi sulla cultura italiana all’interno dei Poli Artistici che caratterizzano la città. Il primo per eccellenza è, senza dubbio, il Palazzo dei Congressi, costru- ito all’interno della Fortezza Medicea, in un equilibrato contrasto tra l’antico e il contemporaneo; questo è stato realizzato grazie alla Fondazione Alvar AAlto che, a distanza di decenni, ha voluto realizzare il vecchio progetto del 1964 del grande architetto finlandese, arricchendolo di nuovi contributi, sia finanziari, della Banca MPS, che architettonici, con la partecipazione della Facoltà di Architettura di Firenze che è divenuta polo unico con Siena, grazie anche ai recenti trasporti su rotaie sospese che hanno ridotto la distanza tra le due città a circa 30 minuti. All’interno del Palazzo dei Congressi della Fortezza Medicea -P.C.FM-, oltre alla grande sala, che ospita circa 3000 persone, con la volta che cambia colore e immagini grazie ad un sistema di sofisticate proiezioni, gli studenti hanno ammirato molte collezioni di scultura del XX° e XXI° sec, da Plinio

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 Anello mancante 209

Tammaro ad altri maestri. Citiamo soltanto Xu Hong Fei, che, nel 2015, espo- se figure femminili in resina in vari luoghi strategici della città e che, succes- sivamente, furono tradotte in bronzo. Oltre alle sculture, il P.C.FM conserva, nell’ archivio, con proiezioni no-stop, la documentazione relativa a tutti gli in- terventi e le performance che furono effettuate, in quel mese, nelle piazze e nel- le strade. Ne citiamo alcune: da Clet Abraham –artista di strada-, alla Cracking Art, dal gruppo degli Estrosi, fino ai concerti e alle attività teatrali dei Topi Dalmati, dalla mostra di Pippo Lionni alla Casa dell’Ambiente, al Convegno “Architettura e poesia” nella Galleria Open Viale Toselli, fino agli eventi della Galleria “Fuori Campo” e alla iniziative culturali curate da Michelina Eremita, alle celebrazioni per Italo Calvino e, per finire, alla Mostra di Fotografia Inter- nazionale “Beyond the lens”, realizzata dallo Studio Venturi, che vide esposte in cinque luoghi della città foto di autori di rilevanza mondiale e che ha molto interessato gli studenti. Dal camminamento della Fortezza Medicea gli studenti hanno potuto ammirare lo sky line della città e del territorio circostante. A nord, in contrasto con le dolci colline, svettano, simbolo della ricerca medica e dell’assistenza sanitaria, le trasparenti pareti dell’Hospital “Le Scotte”, realizzato dallo Studio Renzo Piano. E sempre lo Studio Piano ha contribuito, in modo determinante, alla nascita della Nuova Accademia Chigiana –NAC –(famosa da sempre, da noi statunitensi ), che conserva, oltre ai preziosi strumenti musicali, un interessan- te percorso espositivo sul rapporto tra musica e pittura: da Wassilij Kandinsky a Arnold Schoenberg, fino alle recentissime composizioni rielaborate da musi- cisti indiani e cinesi. Il secondo Polo Artistico eccellente si è rivelato il Centro delle Arti, nel Nuovo Complesso del Santa Maria della Scala -NC.SMS. Qui gli studenti han- no preso parte ad un interessante ciclo di lezioni di storia dell’arte senese che si sono avvalse di un itinerario che, dal sotterraneo Museo Etrusco, si snodava attraverso la sala del Gotico, per poi concludersi con la pittura ad affresco del grande Quattrocento. E, sempre qui, fondamentali sono stati i confronti tra le sculture di Henry Moore, Arturo Martini e l’ allestimento di Anish Kapoor che mettevano in evidenza affinità, contrasti e relazioni dell’arte antica con quella moderna e contemporanea. Al piano superiore gli studenti hanno visitato la raccolta completa del Purismo dell’Accademia Senese, fondata nel lontano 1816; particolarmente 210 Fabio Mazzieri suggestivo l’allestimento in quanto le opere si intrecciavano con proiezioni del repertorio della lirica e del cinema che, si è ispirato fortemente proprio a quella pittura dell’800. Con la visita alle sale della Nuova Pinacoteca, gli studenti hanno potuto verificare e confrontare le tecniche pittoriche, studiate precedentemente e appo- sitamente nelle splendide aule del Nuovo Liceo Artistico, con le auree tavole del gotico senese. Qui ogni sala evidenzia le singole opere che, ben illuminate dall’alto, segnano le Botteghe senesi dei grandi maestri, da Duccio di Buo- ninsegna a Francesco di Giorgio Martini, fino al grande Domenico Beccafumi. Poi è stata la volta del Museo per Bambini, diventato Centro Internazio- nale dell’ONU per l’educazione internazionale dell’infanzia. In ogni sala un video trasmette notizie e avvenimenti che risalgono al 2015, quando, con una determinatezza collegiale, le forze culturali, unite, si confrontarono e stabiliro- no di portare avanti un progetto che, fortunatamente si è evoluto, e ha lanciato Siena, Centro delle Arti, a livello internazionale. Sempre all’interno del Centro delle Arti gli studenti hanno visitato il Cen- tro per il restauro, dedicato a Cesare Brandi. Un gran numero di professionisti, provenienti da tutto il mondo e specializzati all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, si sono definitivamente stabiliti qui, per affrontare, studiare, confronta- re continuamente le problematiche di conservazione, manutenzione e restau- ro, secondo la Carta del Restauro di Cesare Brandi e le disposizioni sul tema dettate da Alessandro Conti. Contemporaneamente i nostri studenti hanno seguito i Corsi di Lingua e Cultura storica Internazionale presso il Centro Universitario Unificato dove i numerosissimi seminari attraggono migliaia di giovani da tutto il mondo. Nei locali dell’ex Ospedale psichiatrico San Niccolò – sede della Raccolta Enrico Crispolti - sono conservate, schedate e rese visibili, migliaia di opere del XX° sec, donate, nel corso degli anni, dagli artisti che, allora, erano stati ospiti dell’ Università. Abbiamo visitato anche la più grande biblioteca dell’area Europea, B.B.B., dopo che le raccolte Giuliano Briganti e Gabriele Borghini sono state unificate nella Biblioteca Comunale, con sede storica in via della Sapienza; anche qui il Direttore ha guidato gli studenti in un percorso bibliografico che va dal 1400 ad oggi, con particolare attenzione alla collezione storica. Ma riteniamo che, in termini artistici e di valore antropologico, il Museo del Palio sia stata la cosa che ha maggiormente interessato i nostri studenti. E’ Anello mancante 211 allestito in maniera assolutamente nuova e di scenografica attrazione per il grande pubblico dei turisti che, in modo programmatico, si recano a Siena per vedere il Palio, non solo per i quattro giorni della festa, ma per tutto l’anno e poter capire e ammirare tutto ciò che ruota attorno ad esso. Le monture e i di- segni di progettazione sono stati esposti nei sotterranei che si sviluppano sotto il Palazzo Comunale, in perfette condizioni di controllo continuo della umidità e delle polveri sottili. Ogni Palio è documentato con video, ma, principalmente, sono tutti accompagnati da una accuratissima collezione di bozzetti e quadri che sono stati donati dai pittori dei vari drappelloni. Con questa raccolta il Mu- seo del Palio è, di fatto, la più grande collezione di arte del XX° e XXI° secolo. Le opere principali sono quelle del Futurismo, quando, con una intuizione stra- ordinaria, si affidò a Corrado Forlin il Drappellone. Ma, in contrasto e affinità, emergono, in tutte le loro problematiche, i drappelloni di Pablo Picasso e di George Braque, che era stato invitato direttamente dal Direttore Artistico della Accademia Musicale Chigiana. Nella Biblioteca Comunale degli Intronati abbiamo avuto la fortuna di incontrare una mostra dove sono esposti oltre trecento opere su carta -disegni e incisioni- dedicate al tema del “Cavallo” e gli studenti hanno anche preso parte anche ad un convegno sull’equilibrio che stabilisce rapporti tra l’uomo e il cavallo e tutto il mondo animale. Sembra anche che si siano trovate nuo- ve e interessanti soluzioni per un corretto sfruttamento dei beni della terra, comprese anche un nuove ipotesi per un giusto nutrimento della popolazione mondiale. Di grande interesse, in particolar modo per gli studenti cinesi, che sono ormai all’avanguardia sui principi del corretto sfruttamento del territorio, sono state le visite alle Valli Verdi, ove si sono attuati tutti i criteri delle nuove coltivazioni e le Contrade e i loro contradaioli sono i principali protagonisti e artefici di esempi per la conservazione delle specie vegetali autoctone più rare e della corretta fruibilità del verde pubblico. Ogni valle è oggi segnata da sculture di grande importanza, come fu la prima, sistemata nel lontano 1998, comunemente detta dai cittadini “la Pera” di Tony Cragg; altre valli sono arricchite da sculture di Jeff Koons e Damien Hirst che hanno donato le loro opere alla città e molto suggestivo è stato il percorso che i nostri studenti hanno fatto nel verde presente all’interno della antica cerchia muraria cittadina. Molti artisti che erano presenti agli eventi dell’ottobre 2015 hanno suc- cessivamente ricevuto importanti premi internazionali. Solo per citarne uno: 212 Fabio Mazzieri

Abraham Clet è stato premiato con il massimo delle onorificenze: il Premio dell’Imperatrice del Giappone e della Korea Unita. E, per finire, dobbiamo ricordare che gli studenti, appena arrivati in città, hanno assistito alle proiezioni del “Terra di Siena Film Festival”, un festival del cinema, ideato da Maria Pia Corbelli , che si svolge ormai da oltre mezzo secolo e che, dato il grande successo riscosso sin dall’inizio, ha stabilito, nel corso degli anni, un legame stretto con Venezia e con Mosca e tutta la migliore cinematografia mondiale; si svolge nel mese di Ottobre, ogni due anni, nel Multisala Internazionale realizzato nel 2018 dallo Studio Augusto Mazzini. I nostri studenti che hanno partecipato a tutti i seminari, Universitari e degli Enti Culturali, hanno riportato un enorme risultato in termini di arricchi- mento culturale personale che lascerà, per sempre, un segno indelebile nella loro preparazione. Un grazie particolare a tutti, artisti e abitanti di Siena, che iniziarono nel 2015 una serie di iniziative culturali che destarono interesse, severe critiche, ma anche un sottile nero sorriso. Grazie all’invito di Michael Tetkowski, nipote di Neil Tetkowski, che, bambino, aveva abitato a Siena dal 1959 al 1965 e che aveva impegnato tutto il suo interesse a legare i nostri poli culturali e artistici, un congruo numero di studenti senesi e africani saranno ospitati prossimamente nelle nostre università americane dello stato di New York e del New Jersey. Ci scusiamo per qualche errore di traduzione, ma, come diceva il grande scrittore italiano Italo Calvino: “ I traduttori sono spesso traditori” I nostri più sentiti ringraziamenti, gli studenti e lo staff della Kean Uni- versity International”.

New York, 25 ottobre 2045

Fabio Mazzieri L’OFFICINA DEL BULLETTINO

ARCHEODROMO DI POGGIBONSI: TRA ARCHEOLOGIA PUBBLICA E VALORIZZAZIONE

Premessa Poggibonsi, in provincia di Siena, è stato oggetto di lunghe indagini ar- cheologiche, durate quasi quindici anni. Ha rappresentato uno dei cantieri di svolta nel dibattito sulle campagne altomedievali e nella lettura dei contesti caratterizzati da grande frequenza di stratigrafie in negativo: buche di palo, spoliazioni, tagli ecc. (Valenti 1996; Valenti 2004; Francovich-Valenti 2007). Dopo una serie di analisi preliminari nella Fortezza di Poggio Imperiale, complesso progettato da Giuliano da Sangallo per Lorenzo dei Medici, mai completato e quindi da sempre ad uso agricolo, l’intervento stratigrafico rivelò una lunghissima sequenza archeologica; oltre otto secoli, con la successione di una serie di realtà insediative a partire dalla metà del V secolo, mutate ed evolu- te nella diacronia sino ad arrivare al grande centro di “Poggio Bonizio”, l’antica Poggibonsi (1155-1277) e alla breve ricostruzione nel 1313 opera dell’impe- ratore Arrigo VII. Tra esse, di estremo rilievo e interesse, nonchè ormai ben noto a livello scientifico europeo, è il contesto di IX-X secolo; si ipotizza un possibile carat- tere curtense con una nuova ridefinizione urbanistica dell’abitato intorno ad una grande capanna tipo longhouse, il cui spazio circostante fu organizzato con annessi, strutture di servizio e magazzini per la raccolta di derrate; gli ani- mali erano custoditi all’interno del centro e le attività artigianali svolte sotto il diretto controllo del proprietario. La presenza di una figura eminente pare testimoniata anche da reperti che ne rivelano l’identità, cioè una lancia, punte di freccia, elementi della bardatura di un cavallo, i resti stessi dell’animale: doveva trattarsi di un miles. L’abitato era quindi legato ad una famiglia dominante in grado di eserci- tare il controllo dei mezzi di produzione, di intercettare e razionalizzare prelie- vi sulle derrate agricole, accumulare scorte ed esigere probabilmente opere e prestazioni dai propri contadini. Appartiene alla categoria di quei centri dove il controllo signorile è molto evidente sia nelle caratteristiche dell’insediamento,

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 216 Marco Valenti che ad esso viene conformato e reso funzionale, sia nelle restituzioni materiali, con la possibilità di distinguere lo spazio del potere economico dagli spazi oc- cupati dalla massa dei poderi. In questo senso si vedano anche altri casi senesi tra i quali Montarrenti in comune di Sovicille e soprattutto Miranduolo nel comune di (Valenti 2015a).

Il progetto L’idea di costruire un museo open air, restituendo materialmente le strut- ture di periodo carolingio, cioè i depositi archeologici più stimolanti, era già insita nel masterplan del progetto di parco redatto alla metà degli anni ‘90 del secolo scorso e poi parzialmente realizzato. Il parco di Poggio Imperiale a Poggibonsi è stata infatti una delle avven- ture da me percorse, insieme a Riccardo Francovich, con alterne fortune. Brevemente, in un perfetto coordinamento con l’Amministrazione locale, a seguito anche del quinquennale progetto Paesaggi Medievali con la Fondazio- ne Monte dei Paschi di Siena, nel 2003 si inaugurò il parco. Fu dotato di labora- tori informatici di prim’ordine e di un centro di documentazione; valorizzammo l’area archeologica e fu sede per anni di iniziative pubbliche, convegnistiche, master, didattica con e per le scuole (Francovich-Valenti 2005). L’operazione, pur con un buon inizio, in coincidenza dei primi segni della crisi economica, andò progressivamente peggiorando, riducendosi nelle prospettive e quasi nau- fragando. A metà del 2014, dopo l’elezione di una nuova giunta dagli obiettivi chia- ri e cosciente sul valore del patrimonio, il ripristino e il rilancio del parco sono ripartiti come meglio non potevamo sperare, avviandosi e concludendosi varie iniziative in alcuni casi già impostate nelle passate amministrazioni; cito per esempio l’appariscente e straordinario recupero dell’intera cinta muraria della fortezza che racchiude quasi 12 ettari di terreno (inaugurato il 6 giugno 2015) e, appunto, la costruzione dell’Archeodromo incentrato sulle strutture di IX-X secolo. Tutto è nato dall’incontro e dalla convergenza di idee fra tre enti. Finan- ziato su una piccola quota di fondi Arcus, è stato un progetto voluto dall’Am- ministrazione Comunale, dall’allora direttore della Fondazione Musei Senesi Luigi Maria Di Corato (ora alla Fondazione Musei Bresciani), dall’Università di Siena con il progetto scientifico di chi scrive, realizzato poi da Arké Archeo- Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 217 logia Sperimentale ed Archeotipo srl (ambedue società uscite dall’università di Siena). Si propone come il primo museo open air italiano sull’alto medioevo ed è stato inaugurato durante una tre giorni tra il 17 e il 19 ottobre del 2014. Posto all’interno dell’area archeologica, in spazi già indagati o privi di de- posito archeologico, rappresenta senza dubbio la parte più innovativa del Parco. Basa la sua proposta sul reenactment e sulla living history, conosciuti in Italia anche come “ricostruzione storica”. Costituisce uno dei modi per divulgare la conoscenza della storia nato in ambiente anglosassone e che, diffusosi rapida- mente in quasi tutto il mondo, rende estremamente fruibile al grande pubblico il risultato delle indagini condotte da professionisti della ricerca. Indica dunque un’attività che prevede rievocazione, ricostruzione e archeologia sperimentale. Basandosi su ricerche storiche, archeologiche ed iconografiche, i reenac- tors sono in grado di riprodurre abiti, attrezzature ed ambienti di una determina- ta epoca; il loro compito è quello di agire, indossando abiti storici ed utilizzan- do esclusivamente repliche di oggetti antichi, come se si trovassero nell’epoca evocata, regalando al pubblico una full immersion nel passato. Per queste ca- ratteristiche, l’Archeodromo rappresenta un interessante polo di visita aperto a tutte le fasce di utenza. Gli operatori, gli stessi archeologi che hanno seguito lo scavo e poi la ricostruzione del complesso, in abito storico, danno vita alla piccola comunità di contadini ed artigiani; intorno alla grande casa padronale, svolgono le loro mansioni secondo gli ordini del dominus. Su questo punto tornerò più avanti. Quanto sinora realizzato è solo la prima parte di un progetto, già approva- to nella sua interezza, che in realtà prevede la ricostruzione di tutte le strutture indagate archeologicamente e pertinenti al villaggio. L’entità dei fondi inizial- mente disponibili, infatti, ci ha fatto decidere di realizzare solo un lotto del vil- laggio rimandando ad una seconda fase il suo completamento. Con il Comune, siamo comunque già all’opera per la ricerca di nuovi fondi e la speranza di poter finire la ricostruzione nello spazio massimo di due anni, edificando 17 strutture, ripartite in 6 capanne abitative, 1 magazzino elevato su pali, 1 ma- gazzino rettangolare, 1 edificio destinato a macelleria, 1 opificio di fabbro, 2 recinti, 1 corte agricola con letamaio, pali sparsi, tettoie ecc, 1 orto, 1 probabile pollaio, 2 pagliai. In questo primo step, abbiamo quindi optato per l’edificio principale, la longhouse (suddivisa in una zona domestica, un magazzino ed una zona ad uso misto) e l’area a essa circostante, dedicata ad alcuni annessi e attività artigianali 218 Marco Valenti delle quali si sono riconosciute le tracce nelle stratigrafie, oppure indiziate da specifici reperti; sono state volutamente concentrate su uno spazio determinato per dare unità e continuità al contesto, mentre la forgia del fabbro è posizio- nata nel suo corretto rapporto con l’abitazione principale. Inoltre, nel mese di giugno 2015, abbiamo costruito un forno da pane in terra; forno non rinvenuto nello scavo e dichiaratamente preso da analoghi esemplari riconosciuti in am- bito franco da vari scavi. Il primo significativo lotto ricostruttivo ha impegnato circa 3 mesi a parti- re dal 30 giugno 2014, anticipati da un lungo lavoro a tavolino nel quale archeo- logi e progettisti si sono confrontati, documentazione alla mano, sulla correttez- za delle ipotesi già proposte nelle pubblicazioni; soprattutto con attenzione alla taglia e all’altezza dei pali in base alle caratteristiche dimensionali, la forma e la profondità delle buche, nonché alla loro disposizione in pianta. Ci siamo attenuti rigorosamente ai dati e alle ipotesi di scavo.

La ricostruzione della capanna principale: “carta di identità” La longhouse era una capanna, con forma a barca e parti terminali stonda- te, un lato seminterrato, dotata di focolare d’angolo di grande pezzatura, estesa 16 x 8 m: larghezza al centro 8,40 m, larghezza lato nord ovest 6,70 m, larghez- za lato sud est 6,20 m coprendo quindi circa 130 mq complessivi. Aveva schele- tro di pali incluso in elevati in terra pressata ed intonacata, divisa in due navate ed in quattro ambienti con diversa destinazione. Si riconoscono così l’area di vita caratterizzata dalle tracce di una serie di attività quotidiane; gli spazi per riposare sotto forma di una una lettiera a terra di grandi dimensioni sormonta- ta da un soppalco in legno; una zona di ripostiglio-disimpegno e, affiancato, un magazzino chiuso dall’interno tramite porta. Le due navate presentavano l’allineamento centrale in parte disassato, implicando un’inclinazione legger- mente differente delle falde della copertura, come verificato anche durante le operazioni ricostruttive; non si tratta di errori progettuali commessi in antico ma di una chiara scelta; non è infatti casuale che la navata più larga, oltre 1 m superiore all’altra, presenti indizi e stratificazioni relative alle principali attività domestiche: il grande focolare nell’angolo sud ovest, attività di macinatura, telaio verticale su pali, ambiente destinato a magazzino interno. La capanna, infine, dotata all’esterno di un recinto, di una fossa per rifiuti e di un’orto, ave- va due ingressi, il principale al centro e quello secondario in coincidenza del magazzino. Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 219

Dal punto di vista pratico il gruppo di lavoro contava stabilmente di 6 persone alle quali si sono aggiunti alcuni volontari nel corso del tempo, arri- vando talvolta a 8-9 unità operative. Il materiale edilizio ha visto l’impiego di 6 pali portanti centrali di altezza pari a 6 m e una profondità di interramento poco superiore al metro; 28 i pali perimetrali con altezza di 2,5 m, interrati alla profondità di 60 cm. Tali scelte hanno permesso di tenere la struttura all’altezza di 5,5 m, considerando anche il trave di colmo, coerentemente con i calcoli ef- fettuati nel briefing preliminare. Le travi in legno di castagno avevano un peso complessivo di 8 tonnellate; quest’albero, non attestato nello scavo, fornisce però maggiori garanzie di resistenza al deterioramento. Inoltre si sono utilizzati 250 kg di paglia per impastare gli elevati e le infrastrutture, 1.500 fascine di cannucce per il tetto (privilegiate perché hanno miglior tenuta della paglia) con lunghezza media di 1,90 m, diametro di circa 30 cm, peso medio intorno ai 3 kg per un totale di circa 4.500 kg; sono servite 280 carriole di terra per l’ammontare di 33.600 kg e impiegati 2.800 litri di acqua. Cassaforme (per realizzare gli elevati in pisé tramite un impasto di acqua, argilla e paglia), puntoni e chiodature in legno sono stati prodotti in proprio; allo stesso modo quei chiodi da carpenteria, peraltro presenti nei depositi archeolo- gici, costruendo una forgia temporanea servita anche per i cardini, le cerniere delle porte, per ganci e supporti di illuminazione. Pur non avendo prove arche- ologiche, in base ai confronti disponibili e allo scopo di tutelare maggiormente la copertura nel punto più critico, è stato realizzato il colmo del tetto in terra pressata e intonacata con larghezza pari a circa 40 cm e spessore di 15/20 cm. Le corde, di canapa e fibra vegetale, impiegate in grandissima quantità per rinforzare il più possibile la struttura, in particolare soppalco e tetto, arriva- no a circa 3 km di lunghezza; la scelta è caduta sull’acquisto presso rivenditori specializzati poiché la loro fabbricazione, che avevamo iniziato a sperimentare, risultava totalmente impraticabile per terminare il progetto nei tempi richiesti dalla committenza e dai progettisti..... saremmo ancora ad intrecciare..... In generale, abbiamo utilizzato attrezzi in legno da noi costruiti; soprat- tutto grandi aghi per cucire e legare le fascine del tetto, pestelli e mazzuoli per pressare l’impasto delle pareti, raschiatoi e spatole adatti a lisciare le intonaca- ture. Quando necessario non si è evitato l’impiego di attrezzature moderne, do- vendo far collimare gli aspetti di sperimentazione con gli obiettivi progettuali e soprattutto, ancora, le scadenze. 220 Marco Valenti

A proposito degli accorgimenti interni la decisione, anche in questo caso, ha privilegiato l’attenersi rigorosamente alle indicazioni di scavo. Nel caso del grande focolare in terra (dimensioni: 50 cm in altezza, 1,90 m in lunghezza e 1,30 m in larghezza), costruito con la stessa tecnica degli elevati cioè pressando una miscela di acqua, terra e paglia all’interno di una cassaforma lignea, si è comunque ipotizzato deliberatamente la presenza di un cordolo in argilla di 7/8 cm a delimitare i lati esterni del piano di cottura. Anche il telaio verticale, sulla cui presenza e collocazione lo scavo non lasciava dubbi, è stato realizzato durante le normali giornate lavorative, mentre la macinella da grano acquistata e posizionata dove rinvenuta. Nell’ambiente destinato a magazzino abbiamo cercato di ricomporre la situazione documentata, con silos di circa 50/60 cm di diametro per la conser- vazione delle granaglie, la realizzazione di una suppellettile ipotizzata come una sorta di mobile a scaffalature, scavando nel terreno il battente della porta interna. Le sue pareti di chiusura hanno raggiunto l’altezza di circa 1,90 m; coerentemente ai dati di scavo, la tecnica utilizzata corrisponde all’incanniccia- tura, legando cioè mazzi di cannucce all’intelaiatura di pali e rivestendoli con un impasto di argilla, paglia ed acqua; mentre per la chiusura dello spazio tra le pareti e il tetto si è scelto di usare un intreccio di rami di orniello (fraxinus ornus, recuperato dalle macchie boschive circostanti) posizionato orizzontal- mente a coprire 1,80 m di altezza, incastrato su paletti disposti verticalmente e tra loro distanziati circa 35 cm. Il posizionamento di panchetti e tavoli da noi realizzati, dedotti dalla pre- senza di molte piccole buche di palo sui battuti talvolta anche inclinate, ha cercato di ripercorrere più da vicino possibile le ipotesi archeologiche. All’esterno, lungo il lato est a poca distanza dalla porta principale, abbia- mo scavato una buca per rifiuti di circa 70/80 cm di diametro, mentre lungo il lato sud a 5/6 metri dalla struttura si è messo in opera un focolare in fossa di 1 x 1,5 m la cui presenza era attestata. Nel corso dei mesi di lavoro, inoltre, era abituale rifare alcune legature allentatesi, stuccare molte crepe formate sui muri durante l’asciugatura, rego- larizzare la parte interna delle cannucce del tetto, effettuare pulizie continue all’interno della capanna, raschiare i pali orizzontali perimetrali dalle chiazze di intonaco e dalla terra seccatasi. Per quanto riguarda lo sfogo dei fumi non siamo ricorsi all’espediente della “tegola fumaria” da aprire tramite palo; la fumigazione infatti fuoriesce dalle fascine della copertura; inoltre ha aiutato Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 221 la circolazione d’aria la decisione, per avere più fonti di luce, di lasciare aperti gli spazi stretti tra il punto finale dello spiovente del tetto e gli elevati della capanna. Riguardo le strutture artigianali, tranne la forgia del fabbro realizzata secondo la pianta di scavo e gli indizi costitutivi individuati, si è optato di co- struire delle tettoie sotto le quali vengono svolte le operazioni di sperimentazio- ne inerenti le attività lavorative. Per le norme di sicurezza sul cantiere la prescrizione imponeva di im- piegare ponteggi, imbracature, caschi protettivi, scarpe anti infortunistiche e guanti da lavoro. Le norme antisismiche, visto che l’edificio viene frequentato da un cospicuo numero di persone, hanno richiesto per le grandi buche centrali il posizionamento di plinti di cemento di circa 60 cm, contenenti ognuno un tubo in vpc per l’alloggio del palo.

Le fonti di ispirazione L’archeodromo da un peso preminente alla materialità delle forme edili- zie e della storia, ispirandosi in modo diretto a una tradizione museale tipica dell’Europa centro-settentrionale. In realtà, anche a livello europeo gli esempi di villaggi altomedievali filologicamente ricostruiti non sono moltissimi, pur di fronte a realizzazioni complesse, suggestive e di chiaro impatto sul pubblico. In generale, le ricostruzioni hanno grande diffusione e riguardano tutte le epoche. Exarc, la rete europea dei musei a cielo aperto (archeologia speri- mentale, tecnologia antica e interpretazione; http://exarc.net) ne da un quadro generale di grande completezza, mostrando una “geografia” di oltre 275 esempi in 30 paesi. Fra i diversi casi, a noi più vicini, che si potrebbero citare ricordo alme- no l’esperienza eccezionale di Guedelon (http://www.guedelon.fr/), iniziata nel 1996; si tratta di un progetto pilota tutt’ora in corso che prevede la ricostruzione di un intero castello del XIII secolo. Viene riprodotto nel minimo dettaglio tutto il ciclo costruttivo dell’epoca, dal rifornimento e trasporto delle materie prime fino alla realizzazione finita dei manufatti architettonici. La ricostruzione del castello in muratura è stata affiancata da una più modesta ricostruzione di una fortificazione in legno cronologicamente precedente; l’esperienza complessiva e la sua portata didattica e sperimentale sono talmente di qualità da costituire un sicuro punto di riferimento. Anche nel mondo anglosassone esistono esempi di parco archeologico 222 Marco Valenti che hanno fatto scuola, soprattutto in virtù delle ricostruzioni in scala 1:1 di strutture rinvenute durante gli scavi. In particolare, come vero e proprio pre- cursore del genere, possiamo indicare lo Jorvik Center (http://www.jorvik- viking-centre.co.uk/), fondato nel 1984 e dedicato alla città di York in epoca vichinga. Rispetto all’approccio filologico (con finalità essenzialmente legate all’archeologia sperimentale e alla conoscenza delle architetture) riscontrato a Guedelon, lo Jorvik Center è caratterizzato da un’impronta più ludico-didattica; una sorta di grande parco dei divertimenti a tema, ma con una solida base scien- tifica. Vi sono state ricreate varie ambientazioni mirate a rievocare l’atmosfera dell’epoca, illustrare i mestieri e descrivere la vita quotidiana di una città fra il IX e la prima metà dell’XI secolo. A metà strada fra i due approcci fin qui descritti si colloca la ricostruzione del villaggio di West Stow (http://www.stedmundsbury.gov.uk/sebc/play/west- stow-asv.cfm), un sito fondamentale per la conoscenza del periodo anglo-sas- sone. In questo caso il parco archeologico, nato addirittura nel 1976, coniuga le esigenze dei visitatori con quelle degli archeologi. Seguendo un percorso gui- dato dai principi dell’archeologia sperimentale (compreso l’abbandono, la di- struzione e il successivo scavo delle evidenze conservatesi nel sottosuolo) sono state ricostruite numerose capanne, soprattutto strutture funzionali semiscavate e le cosiddette Anglo-Saxon halls, abitazioni a livello del suolo; gli edifici sono interamente visitabili e “vivibili” dal pubblico attraverso l’allestimento di per- corsi didattici e/o dimostrativi incentrati sulle attività quotidiane che venivano svolte all’interno di questi ambienti. In ambito germanico, infine, domina la tradizione del Freilichtmuseum, quasi sempre di carattere locale, spesso legato a iniziative di living history con- dotte soprattutto con un occhio antropologico-culturale; la maggior parte di questi musei open-air è incentrata sull’epoca pienamente medievale e/o mo- derna, ma esistono anche casi di villaggi altomedievali ricostruiti (ad es. http:// www.afm-oerlinghausen.de/ e http://www.fruehmittelalterdorf.at/). In tutti i siti fin qui ricordati, una selezione forzatamente limitata ma significativa, l’edilizia assume un ruolo centrale nel concept espositivo, fungendo da perno attorno al quale ruota tutto il percorso di visita e la conoscenza che si intende veicolare. Nel progetto Archeodromo ci ispiriamo molto da vicino all’esperienza svolta su un sito straordinario per qualità e quantità di ricostruzioni: il Musée des Temps Barbares - Marle (Aisne – Francia). Dedicato al periodo merovingio il museo è associato a un parco archeologico così articolato: Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 223

- la fattoria merovingia, ricostruita in base allo scavo di Goudelancour- t-lès-Pierrepont; - il villaggio franco ricostruito in base agli scavi Juvincourt-e-Damary; - il giardino archeologico, dove sono coltivate diverse piante utilizzate per il consumo quotidiano, ma anche per la medicina e per l’ abbigliamento di periodo merovingio; - l’area dei recinti per gli animali; - la necropoli merovingia ricostruita dagli scavi di Goudelancour- t-lès-Pierrepont - un’area spettacoli all’aperto molto estesa. Quindi è ben chiaro come in questo contesto, dotato di un comitato scientifico presieduto da Patrick Perin (Directeur du Musée d’Archéologie Nationale de Saint Germain en Laye e Professeur associé d’Archéologie mé- diévale à l’Université de Paris 1/Panthéon-Sorbonne) si sia svolta e si svolge ancora archeologia sperimentale di grande qualità, reenactment di ottimo li- vello, si dedicano giornate al pubblico che può partecipare alla vita del peri- odo merovingio e si permette ai visitatori di inserirsi nelle campagne di scavi con gli archeologi.

Le attività svolte L’Archeodromo, perseguendo tale strada, è già in grado di catalizzare l’attenzione dei visitatori e fungere da filo conduttore per la narrazione del sito altomedievale nel suo insieme. Vuole rappresentare una soluzione espositiva di forte impatto che consente ai visitatori di entrare fisicamente negli spazi di vita propri del periodo in oggetto e toccarne con mano le forme, le dimensioni e le caratteristiche sino alle atmosfere ai suoni-rumori, agli odori, ai rapporti sociali e gerarchici in atto. La casa del signore, per esempio, rende chiaro il concetto di ricchezza nell’alto medioevo rurale, con dimensioni più ampie dello spazio abitato, mag- giore articolazione, aree di conserva inserite al suo interno e all’esterno, mag- giori risorse alimentari. Inoltre dentro e fuori la struttura gli archeologi in abito storico compiono lavori e “vivono” momenti del quotidiano effettuando attività di living history, come abbiamo già detto in precedenza. Un utente che visita l’archeodromo trova dunque archeologi-rievocatori intenti a dissodare la terra con repliche di aratri e strumenti agricoli ricostruiti 224 Marco Valenti attraverso lo studio di reperti archeologici e le iconografie dell’epoca di rife- rimento, vede un fabbro, sporco di fuliggine, azionare un mantice a mano per insufflare aria nella forgia e martellare una barra di ferro fino a realizzare una lama di coltello del tutto simile a quelle ritrovate negli strati altomedievali del- lo scavo; vede guerrieri intenti ad addestrarsi nell’uso di spade, lance e scudi realizzati dai rievocatori stessi; vede donne intorno al focolare che preparano focacce utilizzando dei testi o cucinando zuppe in olle come succedeva, negli stessi luoghi, più di mille anni fa e tanto altro. Non solo; il visitatore, può “di- sturbare” i ricostruttori per chiedere loro informazioni sulle attività svolte o addirittura provare lui stesso a usare gli strumenti e ripeterne i gesti. Il nostro obiettivo è infatti esattamente questo; non ricostruire tout cour ma fare dell’esperienza Archeodromo un luogo dove si ha contatto con la con- cretezza della storia, vivendola, sperimentandosi, divertendosi, imparando. E’ un’operazione di Archeologia Pubblica, quindi aperta a tutti, in cui catalizzia- mo l’attenzione dei visitatori riprendendo al contempo molti dei concetti pre- senti nella sede espositiva principale presso il Cassero della Fortezza. L’impresa risulta piuttosto complessa e, come insegnano chiaramente gli esempi europei ricordati, va articolata calibrando le tipologie di attività e di azioni. Per tali motivi gli archeologi interpretano anche dei ruoli narrativi se- guendo le tecniche dello storytelling. Ci proponiamo infatti come nuova realtà museale, dedicata sia all’archeologia sperimentale sia allo storytelling-living history, l’unica in Italia sull’alto medioevo, in cui i ricostruttori si impegnano nel ridare vita ad un contesto di scavo; vuole essere una forma di fruizione e di immersione nella materialità da parte del grande pubblico, costituendo un mez- zo per educare all’archeologia e a ciò che sa ricostruire e raccontare. Lo storytelling è quindi l’elemento fondamentale da collegare alla rico- struzione per completarne il potenziale espositivo; un mezzo per ritrarre eventi reali o fittizi attraverso parole, immagini, suoni, gestualità; una forma di co- municazione efficace, coinvolgendo contenuti, emozioni, intenzionalità e con- testi. Narrare storie è il miglior modo per trasferire conoscenza ed esperienza. Exarc, per esempio, come segnalato costituisce il punto di riferimento assoluto per approfondire e declinare il tema degli open air museum in relazione alle diverse cronologie, pone molta attenzione alle tematiche dello storytelling e del più moderno reenactment, dove rappresentazione-narrazione e archeolo- gia sperimentale si fondono alla perfezione (sezione del sito dedicata proprio allo storytelling come mezzo di valorizzazione: http://exarc.net/manuals/1- story-telling-introduction e pagine a seguire). Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 225

Le nostre operazioni di storytelling, all’Archeodromo di Poggibonsi, rac- contano uno scenario credibile ma probabilmente mai avvenuto, dandoci modo di parlare delle storie ricostruibili per questa area geografica e dell’alto medio evo a tutto tondo. Eventi di per sè immaginari, ambientati in una location atte- stata archeologicamente, che fa fare al pubblico presente un’esperienza cono- scitiva all’interno di un unico racconto; propone sia la realtà del contesto in cui operiamo (dati provenienti dallo scavo), sia la vita ed i rapporti gerarchici in essere (informazioni elaborate), sia grandi fatti di sfondo (l’histoire evenemen- tielle...) sia vicende locali. Tutto ciò operando anche nell’archeologia sperimentale e mettendo “in scena” il lavoro quotidiano, quindi con una serie ulteriori di informazioni e attenzione alla didattica per tutti. Ad oggi, per esempio, sperimentiamo l’intera sequenza legata alla metallurgia del ferro sino alla forgiatura di oggetti, la fale- gnameria, la tintoria e la tessitura sino alla filatura, la lavorazione del cuoio, la cottura nei testi ed altre tecniche di cucina, la produzione di candele, la produ- zione di vaghi di collana in pasta vitrea, la conoscenza delle erbe; stiamo inoltre cercando di ricostruire un orto sperimentale. Attività in corso di svolgimento mentre avvengono gli atti narrativi o le storie che rappresentiamo ed attraverso le quali si fabbricano strumenti da usare e abiti che poi indossiamo. Un esempio pratico di uno degli eventi tenuti, un funerale, fa forse me- glio capire cosa realizziamo e su quali basi. Gli aspetti inerenti usi funebri, le “interferenze” tra ritualità cristiana e quella ancora in atto di origine pagana e tradizionale, lo svolgimento, si sono basati sulla letteratura esistente ed in particolare cito le pagine di Philippe Aries in Storia della morte in Occidente, BUR, Biblioteca Univ. Rizzoli nella collana La Scala. Saggi, Milano 1998 e di Linda Cavadini, La morte nel medioevo. Tra dottrina e folklore, http://www. storiamedievale.net/pre-testi/Ottobre02.html. I personaggi interpretati, invece, hanno basato il loro agire ed i loro racconti, nonché i dialoghi, sulla base della stratificazione sociale compresa dallo scavo e sulle informazioni concernenti patologie, alimentazione o segni delle attività svolte che l’analisi paleopato- logica degli scheletri indagati negli anni ci ha fornito. Ecco quindi come lo storytelling non riproduce nella rievocazione un fatto realmente accaduto, bensì una storia ipotetica e mai avvenuta ma fondata su dati certi. Per la sceneggiatura completa di questo caso si legga http://us4.cam- paign-archive2.com/?u=fbf3f8744ad1ad49087e673b0&id=660f89770 e mentre altre sceneggiature sono facilmente reperibili partendo dal medesimo indirizzo. 226 Marco Valenti

Ciò che proponiamo è anche una nuova dimensione del rievocatore-rico- struttore e narratore molto vicina a quelle europee. Una figura che, se seguita nelle linee che abbiamo tracciato, potrà facilmente partecipare a politiche di valorizzazione del patrimonio. Le felici esperienze tipo Marle, West Stow ecc., ci insegnano come progettare operazioni che richiamano pubblico senza scade- re, per esempio, nella solita rievocazione medievale tanto di moda nelle sagre paesane di tutta Italia. Il problema che si verifica in Italia per questo genere di imprese corri- sponde infatti al basso livello di ricostruzione-rievocazione che spesso si nota e talvolta dalla presunzione ostentata. E’ una caratteristica di tanta living hi- story, oggi applicata praticamente a tutte le epoche storiche, dalla preistoria alla seconda guerra mondiale. Costituisce quindi un gap, una trasmissione di falsa o scarsa conoscenza, perché la ricostruzione storica, naturale conseguenza dell’archeologia sperimentale e dell’archeologia ricostruttiva, costituisce sulla carta un potente strumento per raggiungere non solo gli appassionati, ma anche tutte quelle persone che normalmente non si avvicinerebbero ad un museo. Come ho scritto recentemente in un articolo per la testata L’Unità (in cui si è dibattuto a tutto tondo sul revival del medio evo in atto in Italia, nel bene e nel male) i rievocatori sono fondamentali per dare l’immagine di un medio evo vivente; ma è necessaria una loro crescita, affinché ricostruzione e rievo- cazione diventino davvero mezzi per potenziare la conoscenza e l’amore per il patrimonio del grande pubblico, trovando in musei o aree archeologiche la possibilità di imparare anche divertendosi; toccando con mano e inserendosi nella narrazione di storie. Questo tipo di impostazione è ormai un concetto assodato in ambito an- glosassone, tedesco-scandinavo e in parte francese; importanti istituti storici e musei hanno infatti mostrato la via da percorrere; si avvalgono di gruppi stabili di ottimi ricostruttori che lavorano a stretto contatto con ricercatori, e sempre più spesso le due figure coincidono. Ricostruttori-rievocatori, di gran valore, fanno seria ricerca e rappresentano un potente strumento didattico e attrattivo; narrano il passato con abiti, accessori, attività lavorative, combattimenti, gesti e rituali. Costituiscono di fatto l’evoluzione del rievocatore-ricostruttore, come anche noi proponiamo a Poggibonsi, che chiude così il cerchio collaborando nel campo della valorizzazione dei beni archeologici o del patrimonio dei sa- peri acquisiti; in rapporto e in interscambio con chi fa della ricerca il proprio mestiere e atto a garantire la qualità di quanto ricostruito. Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 227

Il mondo rievocativo medievale italiano pecca invece di presunzione; nella sua certezza inossidabile di sapere “come era”, spesso non ha un confron- to con il mondo accademico o museale: non basta mettersi un’armatura e ma- novrare una spada per dire “io rievoco”. Un’evoluzione che il rievocatore-rico- struttore dovrà tendere invece ad avere se vuole sdoganarsi partecipando anche a politiche di valorizzazione dei beni culturali come da un po’ di tempo inizia a chiedere a gran voce; dopo tutto il suo obiettivo è sempre stato mostrare “come era” il medio evo e ciò richiede vera preparazione e conoscenza, duro lavoro. C’è da dire che alcune realtà stanno cambiando anche da noi, soprattutto nella nuova frontiera della rievocazione medievale, quella cioè dell’alto medioevo, in crescita vertiginosa (siamo ormai pieni di gruppi di Longobardi) ma con la spada di Damocle della dozzinalità sempre sospesa. Nuove figure cercano di essere prima di tutto ricostruttori in rapporto sinergico con le istituzioni (per esempio l’eccellente associazione La Fara di Cividale del Friuli in rapporto sinergico costante con il Museo Nazionale cividalese); sono pochi, per ora, ma almeno si è iniziato. Alla fin fine, esperienze come quelle dell’Archeodromo di Poggibonsi sono rese vive proprio da nuove figure di operatori che cercano di essere prima di tutto seri ricostruttori; di formazione universitaria specialistica o universitari essi stessi, soddisfano la voglia di capire delle persone. Si inse- riscono in nuovi scenari di cultura e didattica partecipativa, resi tangibili dal tentativo di fornire e condividere la materialità della storia e le storie che le si legano. Soddisfano la voglia di capire delle persone, tendenzialmente ritrose a sostare di fronte a pannelli esplicativi di musei, non di rado scritti da spe- cialisti per specialisti. La nostra scelta è stata sinora vincente; aldilà del grande successo di pubblico e dei media, il riconoscimento ufficiale arrivato di recente premia gli sforzi e la strada intrapresa. Infatti l’Archeodromo ha ricevuto il 10 settembre a Lecce il premio Riccardo Francovich 2015, conferito dalla Sami (Società degli Archeologi Medievisti Italiani) quale miglior museo o parco archeologico italiano che rappresenta la migliore sintesi fra rigore dei contenuti scientifici ed efficacia nella comunicazione degli stessi verso il pubblico dei non specialisti. L’avventura è dunque in pieno corso; vedremo dove ci porterà e con quali esiti. 228 Marco Valenti

Addenda: i media e l’Archeodromo L’Archeodromo è attivo in proprio nella comunicazione via web. Ha un sito di alto livello (http://www.archeodromopoggibonsi.it) e un profilo facebook affiancato da Twitter che aggiornano continuamente su iniziative, novità, ulteriori ricostruzioni, eventi, rassegna stampa (https://www.facebook.com/archeopb). Ha anche un suo canale video su YouTube (Parco Archeologico di Poggibonsi – ht- tps://www.youtube.com/channel/UCn1JvzfRFlyo6aitzvOZXSA). La scelta di essere trasparenti e in tempo reale (scelta che effettuiamo anche sui nostri scavi: la “live excavation”: si veda Valenti 2012) è stata avviata il 23 giugno 2014 in concomitanza con l’inizio del cantiere di costruzione della longhouse carolingia e delle strutture artigianali. Occasione in cui è stata attiva- ta la pagina Facebook avente come titolo “Archeodromo live”. Lo scopo è stato, e lo è ancora, rendere pubbliche e di immediata fruizio- ne tutte le attività svolte, mostrando soluzioni, successi ed insuccessi. Traspa- renza di un progetto in cui “il re è nudo”. Per far fronte ad una diversificazio- ne puntuale delle informazioni messe in rete, la strategia comunicativa è stata schematizzata in sezioni tematiche raggruppate in temi specifici ed evidenzia- ti nei singoli post con titoli significativi: “verso l’archeodromo”, “i giorni di lavoro”, post di “metodo”, ecc. Questa distinzione tipologica dei post risulta efficace proprio nel percorrere la strada della divulgazione basata sull’offerta informativa disposta su diversi livelli di apprendimento ed approfondimento delle tematiche proposte. I post più frequenti nella fase di reallizzazione ma anche in quella di nuove strutture o restauri, fanno riferimento alla sezione tematica de “i giorni di lavoro” che hanno costituito l’aggiornamento in diretta delle fasi costruttive. News sono state pubblicate con l’intento di dimostrare le tecniche di edificazio- ne della longhouse, e in questo caso la curiosità dei followers è stata espressa attraverso domande in relazione alle modalità costruttive di alcuni elementi strutturali e visualizzate attraverso le molte foto pubblicate. Per esempio, di- verse domande sono state poste rispetto alla scelta della tipologia di pavimen- tazione o la composizione dell’impasto per la realizzazione dei muri in terra o ancora sulla tipologia di fibra usata per legare gli elementi strutturali in legno. La visione del progredire del cantiere, seppur virtuale, ha avuto quindi il pre- gio di aver innescato un processo di curiosità soddisfatto direttamente dagli archeologi presenti sul cantiere che “in diretta” sono riusciti a dar spiegazioni Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 229 sull’operato e sulle scelte costruttive intraprese. Al riguardo un’ottima analisi sul caso specifico è stata svolta da Luciano Pugliese negli atti dell’ultimo con- gresso nazionale Sami (Società degli Archeologi Medievisti Italiani); atti in cui è stata presentata anche una prima nota sull’Archeodromo (rispettivamente Pugliese 2015 e Valenti 2015b). L’Archeodromo di Poggibonsi ha avuto sin da subito un successo imme- diato di pubblico e scuole nonchè, sin dalla sua inaugurazione, l’attenzione dei media nazionali e locali; trasmissioni Rai come BellItalia, Tg1, Tg3, trasmis- sioni di La7 come DiMartedì, Superquark sono venute a Poggibonsi a racconta- re l’Archeodromo, così come molte testate web e blog. Si segnala poi la recente venuta della Radio nazionale tedesca Bayerischer rundfunk che ha passato oltre 2 ore all’archeodromo ad intervistare i suoi abitanti. Concludo proponendo alcuni link a video pertinenti l’Archeodromo, onde completare il quadro illustrato. Le immagini in movimento sono forse la miglior spiegazione.

Servizio su Rai1 “Superquark” http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d50e- dc98-a154-4d56-af64-e0442827d23f.html#p=0 Servizio su La7, “diMarted’” https://www.youtube.com/watch?v=LUeap4lbybw Servizio su Rai3 bellItalia https://www.youtube.com/watch?v=5Yrxld6voy0 Trailer Archeodromo https://www.youtube.com/watch?v=NThpTqNqvOI Riprese zenitali dell’Archeodromo durante momenti ricostruttivi https://www.youtube.com/watch?v=zpZHBUVbHc4&feature=youtu.be L’Archeodromo in 1 minuto https://www.youtube.com/watch?v=Aptsr-o-gBo Esempi di storytelling svolti all’Archeodromo https://www.youtube.com/watch?v=MvJ2-jvH_PU https://www.youtube.com/watch?v=vCTewAJgPbY https://www.youtube.com/watch?v=3fjbwp3Lg6w 230 Marco Valenti

Al momento di arrivo delle bozze di questo articolo, l’Archeodromo vede la costruzione del cosi detto “secondo lotto”, composto da una nuova capanna abitativa (C1) di forma ellittica con abside semicircolare lungo il lato sud, dimensioni di 4,80 x 4,00 m. ed un’altezza di 4,60 m., fondazione di travi dor- mienti in canaletta (larghezza 25 cm, profondità 25 cm) e tetto tipo “Sparren- dach”. La capanna è circondata da una staccionata e ha un focolare esterno; ad essa si aggiunge un probabile pollaio (SB 12c) di pianta circolare con diametro di 2,3 metri. Inoltre, tramite un progetto che vede collaborare il Comune di Poggibon- si e Archetiopo srl con la Provincia di Siena (che detiene un vivaio banca del Genoma) e l’Associazione La Ginestra, verranno trapiantati 15 olivi, 3 susini, 3 meli, 3 peri, 1 melograno. L’operazione intende non solo migliorare l’aspetto del contesto e “chiude- re” alcuni varchi ma anche curare la produzione della frutta che consumeremo. Otterremo come risultati: maggiori opportunità di storytelling inscenando le operazioni di cura e di raccolta dei frutti; effettuare archeologia sperimentale ricostruendo presumibilmente nel corso di questa primavera-estate un torcula- rium di tipo tardo antico (ancora impiegati nell’alto medio evo), derivato dal torcular pliniano II, associato a un trapetum di tipo africano (simile a quello rinvenuto a Volubilis in Marocco con cronologia di II secolo d.C.) per la spre- mitura delle olive. La struttura non è attestata nello scavo del villaggio di IX-X secolo e sarà ricostruita solo per finalità sperimentali da svolgersi poi, oltre alla ricostruzio- ne, in quattro operazioni principali: la raccolta dei frutti dall’albero; la molitura delle olive; la premitura; la raffinazione. Attività queste che ci daranno maggiori occasioni narrative e permette- ranno di attuare oltre alla sperimentazione delle attività didattiche per le scuole inedite nel panorama delle offerte. Si tratta anche di un ulteriore passo sia nel coinvolgimento dell’associa- zionismo locale all’interno del parco sia per continuare nella politica intrapresa di valorizzazione del patrimonio per una corretta e sostenibile politica dei beni culturali.

Marco Valenti Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 231

Bibliografia

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Valenti M. 2015b, Progetto Archeodromo di Poggibonsi (SI), Materialità della storia e storytellig, in Arthur P.-Imperiale M. L. (a cura di), Atti del VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Lecce, 9-12 settembre 2015) – Volume 1, Lecce, pp. 103-107 232 Marco Valenti

Fig.01 – Tavola ricostruttiva delle strutture indagate per il IX-X secolo. Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 233

Fig.02 – Pianta progettuale della ricostruzione della longhouse. 234 Marco Valenti

Fig.03-06 – Momenti di lavoro ricostruttivo. Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 235 236 Marco Valenti

Fig.07 – Vista zenitale del cantiere ricostruttivo.

Fig.08-015 – Momenti di storytelling Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 237 238 Marco Valenti Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 239 240 Marco Valenti

Fig.16 - Vista generale cantiere del così detto “Secondo Lotto”. Archeodromo di Poggibonsi: tra archeologia pubblica e valorizzazione 241

Fig.17 - Vista capanna e pollaio foto del 5 dicembre 2015.

Fig.18 - Progetto di piantumazione arborea.

LAVORI IN CORSO

IL PROGETTO FARFALLA: IL CONTRIBUTO DELLA RICERCA STORICA PER LA VALORIZZAZIONE DELL’AGRICOLTURA DI QUALITÀ

1. Il Progetto Farfalla: la storicità come valore aggiunto (A.C.) Il prodotto tipico è messaggero di saperi materiali e immateriali distintivi di un territorio specifico e legati a un tempo storico: entrambi gli aspetti incon- trano sempre più il gusto dei consumatori e possono orientare le politiche di prodotto e le strategie di comunicazione delle aziende, diventando così fattori di successo imprenditoriale1. Oggi, tuttavia, appare insufficiente la capacità di valorizzare il legame unico e irriproducibile col territorio di origine del prodot- to tipico. Il Progetto Farfalla (Identificazione, valorizzazione e conservazione di specie varietali, della filiera e delle tecniche di coltivazione agricola nella Toscana centro-meridionale), il cui campo di azione è previsto nelle Province di Siena e Grosseto, nasce da esperienze realizzate in Toscana dalle Università e Centri di ricerca con Enti e Associazioni, su aree e prodotti specifici con l’in- tento di legare in modo più stretto produzioni agricole e storia del paesaggio. In particolare l’Universita di Siena, in un rapporto interdisciplinare fra diversi Dipartimenti dello stesso ateneo e con l’Universita di Milano, si e caratterizzata per un’intensa attivita di ricerca avviata nel 2004 sulle origini della viticoltura e olivicoltura in Toscana, cercando di collegare la produzione con la storia e gli antichi paesaggi agrari di eta etrusca, romana e medievale. In questi anni sono state sviluppate varie iniziative volte a identificare, riconoscere e caratterizzare, attraverso l’osservazione del DNA, forme di vegetazione (viti, olivi) rapporta- bili ad antiche colture e coltivazioni sopravvissute in orti o poderi di interesse non solo storico, ma anche qualitativo2.

1 M. Cerquetti-M. Montella, Paesaggio e patrimonio culturale come fattori di vantaggio competitivo per le imprese di prodotti tipici delle Marche, in XXIV Convegno annuale di Sinergie Il territorio come giacimento di vitalità per l’impresa 18-19 ottobre 2012, Università del Salento, Refer- red Electronic Conference Proceeding, pp. 549-562. 2 A. Ciacci – A. Zifferero, Archeologia della produzione e dei sapori: nuove proposte di ri- cerca, “Bullettino Senese di Storia Patria”, CXV (2008), pp. 591-603; Eleiva, Oleum, Olio. Le origini

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 246 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero

La metodologia messa punto è confluita nel Progetto Farfalla, un proget- to pilota per l’identificazione, la conservazione e la valorizzazione di specie fruttifere, con attenzione a quelle varietà (viti e olivi in particolare) a rischio di scomparsa, mettendone in luce la dipendenza culturale dal territorio di ori- gine. L’approccio scientifico innovativo si basa su una rete di connessione tra discipline di norma distanti nella prassi e negli obiettivi, quali l’archeologia, la botanica, l’agronomia, la chimica, la biologia, l’economia, le scienze poli- tiche e l’ingegneria dell’informazione. Il riconoscimento dell’eredità culturale e dell’identità storica è finalizzato alla creazione di strumenti appropriati di valorizzazione, da associare al sistema vigente di certificazioni ed è basato su una metodologia articolata sui seguenti punti: 1. mappatura di produzioni agricole locali e relazioni con il paesaggio, il territorio e la sua storia, con particolare riferimento all’olivo, alla vite e allo zafferano; 2. creazione di una banca dati del germoplasma di specie vegetali in terri- tori a forte caratterizzazione storico-archeologica e con produzioni agricole di grande antichità; 3. analisi e riproduzione di tecniche tradizionali di coltivazione e trasfor- mazione dei prodotti agricoli; 4. strumenti e metodi per la valorizzazione turistica del territorio attraver- so la partecipazione del sistema locale; 5. sviluppo di soluzioni ICT (Information and Communications Techno- logy) per la comunicazione e la promozione delle produzioni. La valorizzazione del prodotto tipico così intesa si traduce in una risorsa ad alto valore aggiunto per lo sviluppo e la crescita del contesto circostante e dei flussi turistici, oltre che in un vantaggio competitivo per accrescere le com- petenze e dar vita a nuovi modelli di governance partecipata. I consumatori, in particolare, hanno sempre di più accresciuto la perce- zione della tutela della propria salute e della conservazione dell’ambiente: ri- dell’olivicoltura in Toscana: nuovi percorsi di ricerca tra archeologia, botanica e biologia molecola- re, a c. di G. Barbieri - A. Ciacci - A. Zifferero, San Quirico d’Orcia, Editrice DonChisciotte, 2010; Senarum Vinea. Il paesaggio urbano di Siena. Forme di recupero e valorizzazione dei vitigni storici, a c. di A. Ciacci-M. Giannace, Siena, Nuova Immagine Editrice, 2012; Archeologia della vite e del vino in Toscana e nel Lazio. Dalle tecniche dell’indagine archeologica alle prospettive della biologia molecolare, a c. di A. Ciacci-P. Rendini-A. Zifferero, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2012. Il Progetto Farfalla 247 cercano prodotti di qualità, legati all’eticità della filiera produttiva e alla tutela del suolo e si organizzano in gruppi di acquisto. Tali comportamenti riguardano beni e servizi e le scelte critiche, oltre ai consumi alimentari, interessano anche i trasporti. Il riconoscimento delle esternalità positive della produzione e del consumo dei prodotti a valenza storico-culturale e i loro benefici economici, seppure non valorizzati dal mercato, compongono proprio quel valore aggiun- to in grado di stimolare uno sviluppo locale sostenibile nel suo profilo socio- ambientale. Il progetto, oltre ad essere applicato alla valorizzazione di alcuni prodotti tipici e “storici”, vuole anche proporre l’organizzazione di un modello generale “replicabile” in altri contesti o ad altre tipologie di prodotti.

2. Nuove prospettive per l’analisi storico-archeologica (Figure 1, 2) (A.C.) Trattare il paesaggio in termini storico-archeologici significa ricostruire e raccontare la storia di chi (persone, animali o vegetali), ha abitato un luogo e ha utilizzato e percorso lo spazio geografico. Significa ricostruire le dinamiche e le interrelazioni che hanno generato lo spostamento di comunità, di specie ani- mali e vegetali, talvolta per migliaia di chilometri fino ad adattarsi per bisogno, necessità, casualità a luoghi ed ambienti specifici. In passato le dinamiche delle attività agricole hanno agito con gradualità e localmente, spesso integrandosi con preesistenti sistemazioni del paesaggio che ha mantenuto così per lunghi periodi un assetto equilibrato e ordinato3. Negli ultimi decenni i paesaggi rurali europei e italiani hanno subito profonde trasformazioni, verificatesi in scala maggiorata in termini di intensità, velocità e scala dei cambiamenti. In Italia, paese forse più fortunato sotto questo aspet- to, i paesaggi “tradizionali” sono sopravvissuti fino agli anni Cinquanta e Ses-

3 M. Antrop, Why landscapes of the past are important for the future, “Landscape and Urban Planning” 70 (2005), pp. 21-34; Z. Ludwiczak, Studio dell’evoluzione dei segni del paesaggio rurale tradizionale: una propo- sta di metodo parametrico ed applicazione alla scala dell’azienda agricola, Dissertation thesis, Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Dottorato di ricerca in Ingegneria agraria, 24 Ciclo, 2012, pp. 5-22, DOI 10.6092/unibo/amsdottorato/4463, http://amsdottorato.unibo.it/4463/; M. Agnoletti - G. Cargnello - L. Gardin - A. Santoro - P. Bazzoffi - L. Sansone - L. Peza - N. Belfiore, Traditional landscape and rural development; comparative study in tree terraced areas in northern, central and southern to evaluate the efficacy of GAEC standard 4.4. of cross com- pliance, “Italian Journal of Agronomy”, vol. 6 (s1), 2011, pp. 121-139, http://www.studiogardin.it/ pdf/2011_traditional%20landscape_IJA.pdf 248 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero

Figura 1. L’area di applicazione del Progetto Farfalla nella Toscana centro-meridionale. santa seguiti in maniera assai repentina dall’avanzamento dell’urbanizzazione, dai fenomeni di meccanizzazione agricola e di abbandono colturale. Gli studi hanno messo in evidenza non certamente una vera e propria persistenza dei paesaggi tradizionali ma piuttosto la sopravvivenza di sue forme relittuali. La lettura di fenomeni di lungo periodo nei centri urbani come nei territori rurali e l’avvio di progetti di ricerca di ampio respiro geografico, se da una parte hanno consentito all’archeologia del paesaggio e della produzione di affinare la capa- cità di leggere le vicende e le trasformazioni dei paesaggi agrari preindustriali, dall’altra hanno prodotto l’esigenza di individuare strumenti di analisi più sofi- sticati per riuscire a interpretare i fenomeni di residualità. L’indagine dei siti archeologici ha bisogno di essere arricchita con lo stu- dio delle risorse offerte dal contesto ambientale; diventa quindi irrinunciabile il contatto e la collaborazione con le discipline scientifiche che studiano il suolo e le specie vegetali (geologia, pedologia, botanica, paleobotanica, agronomia, archeozoologia). Il Progetto Farfalla 249

Come pure appare indispensabile il ricorso alla cartografia storica e at- tuale per identificare le caratteristiche del paesaggio, distinguerne i processi di trasformazione nel passato o ancora in atto e, attraverso sistemi GIS, produrre analisi spaziali e output cartografici in grado di fornire una lettura diacronica dei cambiamenti avvenuti o in essere. Una ricerca con alto grado di permeabilità disciplinare amplia la pos- sibilità di recuperare porzioni inaspettate di paesaggio archeologico vivente, sotto forma di specie vegetali con genotipi antichi ancora presenti all’interno di specifiche unità paesaggistiche: può portare da un lato a forme di protezione da inserire nei Piani Paesaggistici Territoriali, dall’altro può arricchire in modo inedito il quadro delle tipicità alimentari dell’Italia centrale, con il recupero di specie vegetali considerate reliquia o perdute, per avviare nuove (e veritie- re sotto il profilo storico) forme di tipicità, sostenute da strumenti appropriati di valorizzazione associati al sistema vigente di certificazioni. La metodologia del Progetto Farfalla, particolarmente flessibile, è in corso di applicazione per individuare la profondità storica di olivo, vite e produzioni “minori”, come lo zafferano, nel territorio senese, nella Val d’Orcia e nella Maremma. Nell’evoluzione storica del paesaggio l’insorgere di repentine trasforma- zioni provoca una serie di criticità tra cui la perdita di identità, la banalizzazio- ne e l’omologazione del paesaggio stesso4. Un contributo notevole al recupero identitario sotto il profilo dell’approc- cio storico-quantitativo, che supera lo studio tradizionale di cambiamenti di uso del suolo, è quello proposto da Agnoletti e sperimentato in vari contesti per determinare i costituenti l’identità culturale di un determinato paesaggio, attraverso il quale tanto il sistema paesaggio quanto il singolo manufatto rurale o elemento vegetale assumono valore identitario5. Allo stesso modo proprio il Progetto Farfalla sta sperimentando un approc- cio che potremmo definire “sociale” dell’archeologia, in cui il recupero di rela- zioni tra sito archeologico e ambiente vegetale rende possibile il tracciamento nel tempo di produzioni “tipiche” ancora presenti nel territorio e il recupero di aspetti identitari trasferibili al contesto sociale e produttivo di riferimento. Attingendo a studi di marketing e sociologia dei consumi appare rilevante il contributo dei beni immateriali, oltreché materiali e del territorio, alla crescita

4 Z. Ludwiczak, Studio dell’evoluzione cit., p. 11 con bibliografia. 5 M. Agnoletti et alii, Traditional landscape cit., p. 139. 250 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero delle imprese. Gli aspetti peculiari, inimitabili e rari se organizzati e trasferiti alla produzione sono portatori di valore economico e vantaggio competitivo dei prodotti: il cultural heritage può diventare un fattore produttivo6. I luoghi campione compresi nel Progetto Farfalla sono fortemente carat- terizzati sotto il profilo storico-archeologico, artistico e paesaggistico: un patri- monio culturale distintivo, identitario e simbolico da veicolare con opportune strategie nel “paniere di attributi” che qualifica i prodotti tipici del territorio e conferisce loro un alto valore aggiunto7. Alcune aziende della Val d’Orcia che collaborano al progetto insistono su contesti archeologici di rilevante interesse (Tenuta Sesta, Tenuta Caparzo) o sono prospicienti ad aree distintive dal punto di vista architettonico e storico-ar- tistico (Tenuta Fanti prossima all’Abbazia di Sant’Antimo) mentre altre hanno intrapreso pionieristicamente colture che, come lo zafferano (CrocusBrandi), inaspettatamente sono risultate poi attestate e ben inserite in specifici percorsi commerciali fin dal medioevo8. A questo “capitale” culturale si associa il possesso o il recupero di colture (olivi secolari, antichi vitigni, zafferano) che entrano direttamente nei processi produttivi e sono in grado di alimentare nei consumatori la percezione del valo- re di “eredità culturale” che caratterizza il contesto di produzione9. Ampliando lo sguardo al contesto produttivo nazionale tali aspetti riman- gono poco espressi sotto il profilo del marketing aziendale e spesso, se lo sono, risultano privi di appigli scientifici o verità storica. Eppure, stando a recenti statistiche incentrate in particolare sulla creazione di valore nelle imprese vitivinicole italiane, i valori più alti nelle strategie impren- ditoriali di sviluppo sostenibile sono quelli collegati alla sensibilità sociale (gusto legato al territorio, difesa del paesaggio, rispetto per le generazioni future)10. Il Progetto Farfalla, con le sue discipline storico-archeologiche, unita- mente a quelle botaniche e genetiche, è certamente in grado di riconoscere la qualità “storica” e “archeologica” dei prodotti e dei contesti di produzione e

6 Cerquetti-Montella, Paesaggio e patrimonio culturale cit., p. 552. 7 Ibidem. 8 Vd. contributo di Barbara Gelli, pp. 36-37. 9 Cerquetti-Montella, Paesaggio e patrimonio culturale cit., p. 552, note 3-4. 10 L. Zanni, T. Pucci, Business Models and Sustainability: an analysis of value creation in Italian wineries, a c. di Forum per la Sostenibilità del Vino, First Report of Sustainable Winegrowing. Towards Expo Milano 2015, s.l., 2014, pp. 62-90, in particolare pp. 74-75, fig.11. Il Progetto Farfalla 251 quindi l’eredità culturale che è possibile trasferire al mondo della produzione e della trasformazione alimentare attraverso il percorso metodologico integrato previsto dal Progetto stesso (Fig.2). Questo processo amplia anche il panorama di disseminazione di buone pratiche in agricoltura: in tal senso si muovono le produzioni in fase di sperimentazione di vini simili a quelli etruschi e medie- vali, partendo dalla vite selvatica o da antichi vitigni riscoperti dalla ricerca archeologica. Il Progetto appena av- viato attinge infatti ad esperienze in corso o già promosse nei Progetti Eleiva, Senarum Vinea ed ArcheoVi- no e si sta occupando da vicino anche dell’analisi di unità paesaggistiche dove è ancora possibile riscontrare la sopravvivenza di tecniche agricole tradizionali, accanto all’identificazio- ne e alla catalogazione delle specie vegetali minacciate dall’estinzione o ritenute già estinte. Le zone interes- sate sono infatti territori che hanno preservato un certo livello di integri- tà del paesaggio storico: esempi sono Figura 2. Il diagramma operativo delle attività previste costituiti da Siena con una trama ru- dal Progetto Farfalla. rale suburbana che si insinua ancora all’interno delle mura e la Val d’Orcia. Le prime ricognizioni storico-archeologiche e botaniche compiute con- giuntamente nel settembre 2015 nell’ambito del Progetto Farfalla nel cuore del territorio del Brunello (Montosoli, Montalcino) stanno, ad esempio, confer- mando questo assunto. Studi recenti incentrati sul paesaggio rurale di Montal- cino tra il 1832 e il 2007 hanno messo in evidenza la scomparsa delle colture a promiscuo e del pascolo, l’incremento boschivo, l’aumento della superficie vignata e meccanizzata, la forte riduzione delle superfici terrazzate.11 Duran- te i primi sopralluoghi, tuttavia, in un territorio dominato dall’espansione del-

11 R. Armellini, Le trasformazioni del paesaggio rurale di Montalcino tra Ottocento e attualità, “Bollettino Associazione Italiana di Cartografia” 144-145-146 (2012), pp. 33-50. 252 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero la coltura della vite e dalla crescente meccanizzazione, sono stati campionati esemplari di vite silvestre (Vitis vinifera sylvestris)12 non esito di portainnesti o coltivazioni prossimali, e spazi in abbandono, dove però insistono ancora relitti di terreno a promiscuo con viti maritate ad olivi e alberi da frutto, ancora risa- lenti con probabilità agli anni Cinquanta. Questi primi riscontri della persistenza di unità paesaggistiche tradiziona- li insieme alla ricerca dei sistemi di popolamento di età etrusca e romana, pro- seguendo con il Medioevo e l’età moderna, sono di stimolo alla comprensione nel dettaglio dell’evoluzione del paesaggio agrario, dei sistemi di coltivazione e di contenimento del dissesto idrogeologico (terrazzamenti, lunette, acquidoc- ci), talvolta ancora ben visibili con l’archeologia di superficie soprattutto nei suoli di natura argillosa. Su queste basi sono state recentemente avviate forme di conservazione di viti selvatiche di alto interesse storico-genetico nella Valle dell’Albegna in Maremma e di vitigni autoctoni in via di estinzione nell’area di Siena, entrambi comprensori ad alto potenziale archeologico e storico. Scelta dei siti da campionare, scelta dei criteri di campionamento delle varietà vegeta- li, attività di campionamento e prelievo di materiale vegetale compiute in team da archeologi, botanici, agronomi e genetisti precedono le fasi di analisi geneti- ca e botanica destinata a individuare quelle accezioni che saranno poi clonate e reimpiantate in campi di conservazione. Il reimpianto terrà conto poi delle tec- niche tradizionali (alberata etrusca, testucchio, palo morto), proprie della storia dell’agricoltura più antica in Toscana. Attualmente nella regione sono presenti tre campi di conservazione nati sulla base di tale metodologia: due di vitigni au- toctoni storici a Siena (curati nell’Orto de’ Pecci dalla Cooperativa La Proposta e nell’Azienda Agricola La Selva dall’Istituto Tecnico Agrario Bettino Ricasoli di Siena, che ne è proprietario) e una di viti clonate da vite selvatica presso il sito etrusco di Ghiaccio Forte a Scansano (GR). Queste “banche della memoria e della biodiversità13” rappresentano una fonte di informazioni e di varietà per

12 Ringrazio Riccardo Gucci, Claudio D’Onofrio e Letizia Tozzini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa per le informazioni fornite dopo le rico- gnizioni preliminari compiute insieme al gruppo di studenti e archeologi dell’Università di Siena nel corso del 2015 in Val d’Orcia. 13 Nelle more di pubblicazione del presente lavoro, il Senato della Repubblica Italiana ha ap- provato il disegno di legge sulla biodiversità agraria e alimentare ritrasmettendolo alla Camera per l’approvazione definitiva. Il provvedimento istituisce l’Anagrafe, la Rete, il Portale nazionale e il Co- mitato permanente, che costituiscono il sistema nazionale di tutela e di valorizzazione dell’agricoltura sostenibile: http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/45113.htm. Il Progetto Farfalla 253 chiunque voglia conoscere un patrimonio storico unico; in particolare questo vale per quegli operatori del settore agricolo che siano interessati allo sviluppo di attività produttive, certamente di nicchia, a basso impatto ambientale e volte alla realizzazione di prodotti a filiera corta di elevata qualità e decisamente “marcati” sotto il profilo dell’identità territoriale.

3. Il Progetto ArcheoVino a Scansano (GR): dalla vite silvestre alla ricostruzio- ne del vigneto etrusco (A.Z.) ArcheoVino è stato sviluppato tra il 2006 ed il 2008 sulla scia del primo ed innovativo Progetto VINUM: anche ArcheoVino era diretto ad osservare i fenotipi ed i genotipi della vite selvatica (Vitis vinifera sp. sylvestris) in pros- simità di siti archeologici del periodo etrusco e romano, partendo dal postu- lato che le popolazioni di vite selvatica oggi diffuse in Maremma potessero avere affinità con le piante coltivate in età antica e che si fossero rinaturaliz- zate (quindi rinselvatichite) con il tempo, entrando a far parte della vegetazio- ne spontanea dell’area. La ricerca sviluppata da ArcheoVino, consistente nel censimento delle popolazioni di vite a contatto con il sito etrusco di Ghiaccio Forte (Scansano), abitato tra il VI ed il IV secolo a.C., nell’analisi dei fenotipi e del germoplasma di quelle piante ritenute più interessanti, è stata sostenuta da ARSIA Toscana; il Progetto prevedeva una fase di valorizzazione dei risultati attraverso un Parco della Vitivinicoltura Antica, all’interno del quale il vigneto sperimentale finanziato dal Comune di Scansano e realizzato nel 2015 all’in- terno dell’Azienda Agricola Ghiaccio Forte costituisce un primo ed importante tassello. La creazione di un vigneto sperimentale con la ricostruzione dell’albe- rata etrusca (due viti maritate ad acero campestre con funzione di tutore) e del vigneto romano (una pianta abbarbicata ad un palo di castagno), appare oggi la forma migliore per conservare e valorizzare le viti ritenute più interessanti

Un altro tassello di un lungo percorso le cui tappe vanno dalla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 che ha sancito nel paesaggio un patrimonio condiviso, con personalità giuridica, predispo- nendo strumenti di riconoscimento e tutela, al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 (con modifiche e integrazioni nel 2006 e 2008) in cui Beni Culturali e Beni Paesaggistici confluiscono nel “patrimonio culturale” e si applicano le definizioni di tutela e valorizzazione, alla redazione nel 2011 del primo Catalogo Nazionale dei Paesaggi Rurali Storici, in cui vengono evidenziati il ruolo del paesaggio rurale come componente essenziale dell’identità culturale del nostro Paese, storicamente a matrice contadina, fino all’Istituzione nel 2012 dell’Osservatorio Nazionale del Paesaggio Storico e del relativo Registro da parte del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. 254 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero sotto il profilo genetico; tra di esse si segnalano due esemplari con tratti gene- tici simili ai vitigni Sangiovese e Canaiolo nero, campionate in prossimità di siti produttivi di età etrusca e romana identificati tra le valli del Albegna e del Fosso Sanguinaio. Queste viti, oggi mantenute ed allevate ex situ dall’agrono- mo che ha partecipato al lavoro sul campo e progettato il vigneto sperimentale, dott. Valerio Zorzi, sono quelle che hanno consentito, tra l’altro, di formulare (e per ora accreditare) l’ipotesi che la media e bassa Valle dell’Albegna, già nota alla letteratura archeologica per l’intensa produzione vitivinicola di età etrusca e romana, diretta a soddisfare la domanda del vino in area celtica, possa aver rappresentato un’area strategica nella Penisola italiana nel processo della cosid- detta “domesticazione secondaria”, cioè nei fenomeni legati alla domesticazione e alla propagazione delle piante selvatiche attraverso più sofisticate tecniche di coltivazione (selezione delle piante con frutti più saporiti e zuccherini, tecni- che specializzate di potatura e anche ibridazione con vitigni già diffusi in area mediterranea attraverso innesti). Soltanto al termine della sperimentazione sarà possibile pensare all’eventuale messa a coltura delle piante che dimostrino una resa maggiore dal punto di vista della qualità e quantità del frutto, finalizzata alla creazione di un vino simile a quello etrusco/romano, prodotto con tecniche di coltivazione antica e soprattutto con l’impiego di piante di antichità certificata.

4. L’archeologia del paesaggio per la tutela del suolo toscano (A.Z.) La dimensione storica nell’analisi del paesaggio e delle sue trasformazio- ni è oggetto di approfondimento di varie discipline: oltre alla storia, alla geo- grafia e all’archeologia dei paesaggi, da sempre promotrici di linee di ricerca utili ad approfondirne la natura e i caratteri, anche la pianificazione paesistica, responsabile della redazione di delicati strumenti di gestione delle campagne quali i Piani Paesaggistici Territoriali, sembra aver recepito l’importanza di un approccio meno deterministico e soprattutto indirizzato all’identificazione del- le peculiarità scaturite da approcci diversi tra le comunità e l’ambiente, alla base dei tratti specifici che il paesaggio esprime in ogni contesto geografico del Paese. In questa prospettiva assume un rilievo particolare uno strumento importante di indagine quale l’archeologia per approfondire l’approccio all’uso agricolo del suolo: se infatti gli scavi hanno messo in luce le principali forme di coltivazione adoperate per le colture intensive, quali la vite, l’olivo e gli alberi da frutto, con particolare riferimento ai periodi romano e medievale, resta anco- Il Progetto Farfalla 255 ra molto da fare per capire l’eredità storica delle tecniche di coltivazione nelle regioni italiane, in rapporto ai caratteri geomorfologici e pedologici del suolo. La sopravvivenza delle forme di coltivazione tradizionali, infatti, ispirate ad un trattamento manuale e diretto della terra e dei suoi prodotti, è oggi presente sul suolo italiano in forme ormai residuali, per essere stata sostituita, a partire dal secondo dopoguerra, dallo sviluppo massiccio dell’agricoltura meccanizzata. Quel patrimonio straordinario di conoscenze e di esperienza, tramandato da- gli agricoltori di generazione in generazione si è poi praticamente estinto con l’abbandono delle campagne, conseguente il processo di industrializzazione e di immigrazione diretta da Sud verso Nord, in parallelo con il dissolvimento del latifondo, all’origine della conduzione mezzadrile delle campagne, indotto dalle riforme agrarie del dopoguerra. La meccanizzazione ha quindi omologato un processo di lavorazione del suolo nel quale le differenze storiche e cultu- rali, alla base della diversità e biodiversità dei paesaggi italiani, sono perdute per sempre o restano in forma di brandelli ancora riconoscibili da un occhio esperto. Se gli studiosi hanno portato di recente all’attenzione delle istituzioni la persistenza dei “paesaggi rurali di interesse storico” (i cosiddetti PRIS), il contributo che l’archeologia può fornire per la definizione storica del paesaggio agrario è senza dubbio elevato: i Progetti Eleiva, ArcheoVino e Senarum Vinea hanno infatti riscoperto forme di coltivazione storica bene inserite nell’ambien- te circostante e soprattutto rispettose della geomorfologia e pedologia dei suoli: valga per tutte il riconoscimento dei terrazzi predisposti per alloggiare le piante di olivo associati a edifici romani di età imperiale, identificati nella fascia -pe demontana dei Monti della Tolfa, nell’entroterra di Civitavecchia (RM), una zona caratterizzata da una elevata instabilità del suolo e sottoposta a consi- stenti fenomeni erosivi. Ricostruire la forma storica del paesaggio agrario è un passo importante per capire e stabilire l’origine degli episodi di erosione del suolo e per sensibilizzare chi coltiva oggi il suolo agricolo alla conduzione di buone pratiche, che spesso hanno un retroterra storico di notevole antichità14. Le aree interessate dal Progetto Farfalla offrono contesti di estremo interesse per capire l’evoluzione delle tecniche agrarie all’interno di uno spazio geogra- fico, la cui natura presenta oggi elementi di notevole criticità, come nell’area della Val d’Orcia, contigua alle Crete Senesi, caratterizzata da una notevole

14 M. Milletti- A. Zifferero, Archeologia e dissesto idro-geologico: un progetto pilota per la conservazione del paesaggio senese, “Bullettino Senese di Storia Patria” CXXI (2014), pp. 285-292. 256 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero instabilità dei suoli. L’esplorazione archeologica di questo settore, considerato cruciale nell’espansione del centro etrusco di Chiusi verso occidente, lungo le valli dell’Orcia, dell’Asso e dell’Ombrone, ha fornito una documentazione rilevante sulla presenza dei cosiddetti “siti aperti”, cioè spargimenti di materia- le edilizio e ceramico ben visibili in superficie dopo le arature, in condizioni geomorfologiche prive di difese naturali e artificiali: si tratta cioè delle fattorie del periodo etrusco, dedite alla produzione agricola e ben riconoscibili dall’età arcaica all’età ellenistica (cioè tra l’inizio del VI ed il III-II secolo a.C.). Una simile configurazione produttiva pertiene anche alle ville romane di età repub- blicana ed imperiale, che hanno sostituito i siti aperti etruschi con il procede- re della conquista della regione etrusca. Tale densità abitativa nelle campagne della Toscana centro-meridionale, particolarmente visibile in età ellenistica, è probabilmente all’origine della formazione del paesaggio agricolo delle Crete, ancora percepibile in alcuni settori della Val d’Orcia, e che soltanto negli ultimi decenni ha subito vistose trasformazioni indotte dalla viticoltura intensiva nella zona di produzione del Brunello. L’archeologia del paesaggio può avere perciò un ruolo decisivo nell’identificazione delle azioni storiche di protezione delle aree rurali, oltre che nella messa in luce di antiche varietà coltivate, oggi visibili in forma del tutto residuale, al fine di reindirizzare e di perseguire le politiche di tutela del suolo agricolo.

5. Il Progetto Farfalla a Montalcino: le aree d’interesse (Figura 3) (M.M.) Il territorio dell’attuale Comune di Montalcino si configura come un di- stretto geografico ben definito, delimitato ad ovest e parzialmente a nord dal fiume Ombrone, a sud dall’Orcia e ad est dal torrente Asso. La varietà degli habitat naturali e delle stratificazioni paesaggistiche, la ricchezza del suo pa- trimonio archeologico, le caratteristiche uniche di alcuni prodotti locali e di tradizione che connotano l’area come un bacino enogastronomico di assoluto rilievo, lo rendono un campo d’indagine ideale per perseguire le finalità del Progetto Farfalla. La recente redazione della Carta Archeologica del territorio comunale, ri- sultato di più di un decennio di ricerche sul campo dell’équipe di Stefano Cam- pana dell’Università degli Studi di Siena15, che segue pubblicazioni a carattere

15 S. Campana, Carta Archeologica della Provincia di Siena. XII. Montalcino, Siena, Nuova Immagine Editrice, 2013. Il Progetto Farfalla 257

Figura 3. Aree d’interesse dalla Carta Archeologica del Comune di Montalcino selezionate per il Progetto Farfalla (scala 1:75.000). 258 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero locale16 e si associa alla nuova edizione di alcuni contesti come l’importante sito d’altura di Poggio Civitella17, ha consentito di selezionare agevolmente tre aree d’interesse, tra quelle già riconosciute come ad altissimo potenziale archeologico, che saranno così oggetto d’indagine e di approfondimento d’a- nalisi nell’ambito del Progetto. Il primo campione topografico selezionato è incentrato sull’attuale col- lina di Montosoli18, immediatamente a nord dell’altura di Montalcino, tra le aree più rinomate per la produzione di Brunello e per questo oggi coltivata essenzialmente a vigneto, tuttavia ancora attorniata da ampie zone boschive. La terrazza sommitale, posta a circa 300 m slm, e i versanti meridionale e orientale hanno restituito tracce di un’intensa frequentazione tra l’età arcaica e quella ellenistica, con evidenti concentrazioni di materiale edilizio e di grandi conteni- tori da stoccaggio. Pur non essendo ancora state individuate strutture emergenti in situ, è dunque ragionevole ipotizzare che il modesto rilievo fosse sede di un complesso abitativo e produttivo, parte di una più ampia e fitta trama di nuclei analoghi che dovevano contrassegnare nel periodo etrusco il paesaggio rurale di un territorio a lungo conteso tra le città di Volterra e di Chiusi19. La seconda zona prescelta corrisponde alla località La Sesta, nel qua- drante sud-orientale del Comune di Montalcino, dove numerosi ritrovamenti segnalano un’importante villa di età tardo repubblicana ed imperiale, con re- lativi impianti produttivi20, in un’area dove sorgerà successivamente la pieve di Santa Maria in Sexta, oggi perduta, punto di riferimento dei confini tra le diocesi di Arezzo e Chiusi. Come mostrano le foto aeree, inoltre, l’uso del suo- lo intorno alla fattoria omonima è rimasto relativamente invariato rispetto al secolo scorso, con le colture che spesso rispettano precedenti parcellizzazioni, con numerosi oliveti, inoltre, che conservano piante secolari. Le ampie zone

16 I. Caprioli, Montalcino, diecimila anni di vita alla luce dei ritrovamenti archeologici, Colle di Val D’Elsa, Associazione di Ricerche e Studi Italici di Montalcino, 1994; M. Pistoi, Guida archeo- logica della Val d’Orcia, San Quirico d’Orcia, Editrice DonChisciotte, 1997, pp. 72-119. 17 L. Cappuccini, Poggio Civitella (Montalcino, SI). Un insediamento etrusco ai confini del territorio chiusino, Sesto Fiorentino, All’Insegna del Giglio, 2014 con bibliografia. 18 In particolare, Campana, Carta Archeologica della Provincia di Siena cit., n. 105/121III, p. 131; n. 108, 109, 111-114/121III, pp. 132-135; n. 166/121III, pp. 154-155. 19 V. Acconcia, Paesaggi etruschi in terra di Siena. L’agro tra Volterra e Chiusi dall’età del Ferro all’età romana, BAR IS 2422, Oxford, Archaeopress, 2012, pp. 303-309. 20 S. Campana, Carta Archeologica della Provincia di Siena. XII. Montalcino, cit., nn. 101- 102/129IV, pp. 208-212 e n. 115/129IV, pp. 218-219. Il Progetto Farfalla 259 boschive che ricoprono i versanti della colline settentrionali, infine, dove sono segnalati ritrovamenti di età ellenistica, rappresentano un ambiente idoneo alla potenziale conservazione di antiche cultivars. L’ultima area ha come fulcro d’interesse l’abbazia di S. Antimo che sorge nella piana del torrente Starcia e nel cui esteso patrimonio rientrava un’ampia porzione del territorio montalcinese21. I resti di antichi terrazzamenti percepibili sulle pendici delle colline prospicienti il complesso religioso e gli olivi secolari situati nei terreni circostanti, richiamano le forme di coltivazione promosse dalla comunità monastica e forniscono interessanti spunti per la ricerca in oggetto. Le tre aree selezionate, dunque, consentiranno di verificare, su un’ampia base diacronica che va dal periodo etrusco al Medioevo, le metodologie d’inda- gine promosse dal Progetto.

6. La riscoperta di una coltura tipica: lo zafferano in Val d’Orcia (B.G.) Per tutto il periodo medievale e l’età moderna lo zafferano fu una spezia di altissimo pregio, capace di dare vita ad amplissimi guadagni22. Per compren- dere meglio il valore di questo prodotto basti considerare come nel 1241 San Gimignano rimarcò la propria fede ghibellina offrendo in dono a Federico II proprio dello zafferano23 oppure come nel 1257 il vescovo di Volterra, utilizzò questa pregevole spezia per corrompere i consiglieri della curia romana in oc- casione di una causa giudiziaria24. Lo zafferano rispondeva ad un’amplissima domanda anche perché pre- sentava un grande versatilità di impieghi. Veniva utilizzato per uso medico, culinario, tintoreo, cosmetico25 e la sua commercializzazione animava i mercati europei al pari di quelli asiatici e africani26. A differenza di tutte le altre spezie

21 S. Campana, Carta Archeologica della Provincia di Siena. XII. Montalcino, cit., n. 31/129IV, pp. 199-206. 22 A. Petrino, Lo zafferano nell’economia del medioevo, Catania 1952, pp. 31-32; A. J. Grieco, Lo zafferano dalla medicina alla gastronomia, in Lo zafferano di San Gimignano: storia, arte, gastro- nomia, a c. di O. Olivieri, Milano 2006, p. 130. 23 O. Olivieri, L’elettissimo zafferano di San Gimignano, in Lo zafferano di San Gimignano cit., p. 48. 24 Petrino, Lo zafferano nell’economia cit., p. 23 e nota 8. 25 Ivi, pp. 24-26; Olivieri, L’elettissimo zafferano cit., pp. 16-24; C. Seccaroni, L’impiego dello zafferano nelle tecniche artistiche, in Lo zafferano di San Gimignano cit., pp. 152-176; Grieco, Lo zafferano dalla medicina cit., pp. 114-143. 26 Olivieri, L’elettissimo zafferano cit., p. 44; Petrino, Lo zafferano nell’economia cit., p. 21. 260 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero il prodotto veniva coltivato in Occidente e da lì esportato negli altri continenti. Tra le varie tipologie, quello italiano era correntemente considerato il migliore assieme a quello spagnolo e l’Italia era la maggiore regione produttrice d’Eu- ropa27. Tra le zone d’elezione di questa coltura possiamo senz’altro annoverare la Lombardia, le Marche, l’Abruzzo ed anche la Toscana dove le principali col- tivazioni si trovavano nel Fiorentino, in Val d’Elsa e, all’interno del Senese28, prevalentemente in Val d’Orcia. Il progetto Farfalla cercherà di indagare le condizioni attraverso le qua- li ebbe luogo la coltivazione di questo prodotto in Val d’Orcia dal medioevo sino al XIX secolo. Esso studierà le modalità di impiego locali e sovralocali di questa spezia ed il suo ruolo all’interno delle politiche agrarie e commerciali promosse dalla Repubblica senese prima e dal Granducato poi. Sappiamo che fin dalle origini la qualità del prodotto era stimata molto buona29 e che una par- te di esso finiva sui mercati esteri30. Nel corso del lavoro si tenterà di definire le linee dei traffici attraverso i quali ebbe luogo la commercializzazione dello zafferano (marittimi o terrestri e all’interno di contesti economici e geografici di scala italiana ed internazionale), di comprendere se tali direttive siano state condivise o meno a livello ‘regionale’31 ed in quale modo ciò abbia influenza- to la domanda e la produzione locale. La coltivazione dello zafferano (giunta sino ai nostri giorni) assume dunque all’interno del territorio valdorciano un carattere di forte tipicità produttiva. Riscoprire e ripercorrere la storia di questa vocazione colturale ci permetterà di comprendere meglio il modo attraverso il quale essa contribuì, per sua parte, ad orientare (nel bene e/o nel male e a seconda delle varie epoche) alcuni aspetti economici, commerciali e culturali della storia della Val d’Orcia.

27 Ivi, pp. 41-43; F. Cardini, Una nota sullo zafferano, in Lo zafferano di San Gimignano cit., p. 106. 28 Petrino, Lo zafferano nell’economia cit., pp. 27, 61-62. 29 Nel ‘500 il botanico senese Pietro Andrea Mattioli faceva riferimento alla buona qualità dello zafferano locale, da lui definito ‘elettissimo’, P. A.M attioli, I Discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli, medico sanese, della materia medicinale nelli sei libri di Pedacio Discoride Anazarbeo, Venezia 1555, p. 50. 30 Tant’è che tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 lo zafferano senese venne annotato all’inter- no della pratica di mercatura di Saminiato de’ Ricci: A. Borlandi, Il manuale di mercatura di Sami- niato de’ Ricci, Genova 1963. 31 Per una disamina delle piazze commerciali già oggetto dei traffici fiorentini e valdelsani, Petrino, Lo zafferano nell’economia cit., pp. 20-21. Il Progetto Farfalla 261

7. L’Information and Communications Technology (ICT) per la valorizzazione dei luoghi (A. P.) L’utilizzo delle tecnologie mobili e dei sistemi Web 2.0 come i social network può consentire forme innovative di comunicazione e di trasmissione di conoscenze all’utente finale e agli operatori economici. La rapida diffusione di smartphone e tablet e lo sviluppo delle relative applicazioni sta cambiando in profondità il modo di comunicare e valorizzare il patrimonio socio-culturale e le attività economiche di un territorio. Esistono ormai migliaia di applicazioni per smartphone e tablet, con tipologie di servizi e relativa qualità che variano notevolmente a seconda dei prodotti. La crescente diffusione delle app è legata a vari fattori, quali il basso livello di competenze tecnologiche richiesto per la realizzazione delle versioni meno elaborate, la semplicità di utilizzo e il costo gratuito o ridotto per l’utente. Lo sviluppo di applicazioni/servizi evoluti richie- de ovviamente competenze tecniche specialistiche, essenziali per utilizzare in modo completo tutte le tecnologie presenti in smartphone e tablet, quali i ser- vizi di localizzazione e orientamento, i sistemi di riproduzione multimediale e le soluzioni di connettività a corto raggio come NFC (Near Field Communica- tion) e Bluetooth. Integrando quest’ultime con le tecnologie Web 2.0 è possibile sviluppare nuove forme di comunicazione e di partecipazione dell’utente: in particolare i terminali mobili consentono la costruzione di esperienze condivise e il racconto del territorio attraverso i concetti di realtà virtuale, storytelling e participatory sensing. Lo storytelling è una strategia comunicativa che, usando i principi della retorica e della narratologia, sviluppa racconti che avvicinano il pubblico al prodotto. Questa tecnica è oggi usata nel mondo dell’impresa come nella politica per promuovere e orientare valori, idee, iniziative, prodotti e consumi. Attraverso lo storytelling è possibile coinvolgere il visitatore in un racconto o in un percorso di visita, mettendolo al corrente della storia e della cultura di un luogo. Attraverso il concetto di participatory sensing, l’utente può partecipare direttamente all’immissione di dati e informazioni georeferenziate durante il viaggio, creando percorsi culturali tematici e individuali. Il Progetto Farfalla intende utilizzare queste tecnologie per creare nuove forme di conoscenza e di condivisione dei valori di un territorio, collegando la storia e il patrimonio culturale al paesaggio e alle produzioni locali. Utilizzando le funzionalità di storytelling è possibile impostare percorsi di visita che inte- grino ciò che è “visibile” con il racconto della memoria e delle storie dei luoghi, delle comunità e dei prodotti. Il Progetto intende dunque riservare una speciale 262 A. Ciacci - B. Gelli - M. Milletti - A. Pozzebon - A. Zifferero attenzione agli aspetti di trasmissione delle conoscenze e dei saperi, considerati strumenti importanti per favorire la creazione di percorsi turistici personalizzati e per valorizzare le produzioni enogastronomiche locali.

7. Gli attori del Progetto Il Progetto Farfalla (Identificazione, valorizzazione e conservazione di specie varietali, della filiera e delle tecniche di coltivazione agricola nella To- scana centro-meridionale) è stato finanziato nel 2014 dalla Regione Toscana nell’ambito di un’azione volta a promuovere azioni coordinate ed innovative nel settore della produzione agricola e vede protagonisti e promotori della ri- cerca i tre Atenei toscani. La durata prevista è di due anni.

Partner Università degli Studi di Siena

Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e Scienze Matematiche Giuliano Benelli Alessandro Pozzebon

Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali Duccio Balestracci Andrea Ciacci Andrea Zifferero

Barbara Gelli Matteo Milletti Angela Sardini

Componenti della squadra di ricerca sul campo: Valerj Del Segato, Marta De Pari, Eli- sa Papi (cartografia); Marta Rossi (paleobotanica); Nicola Longo (topografia).

Università degli Studi di Firenze Centro Interuniversitario di Ricerca sul Turismo Silvia Scaramuzzi

Università degli Studi di Pisa Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-Ambientali Riccardo Gucci Il Progetto Farfalla 263

Claudio D’Onofrio Letizia Tozzini Gaetano Di Pasquale

Partecipanti Accademia dei Georgofili Associazione Nazionale Città del Vino Azienda Agricola Castel di Pugna, Siena Azienda Agricola CrocusBrandi, San Quirico d’Orcia (SI) Azienda Agricola Fattoria di Maiano, Fiesole (FI) Belladonna sas, San Quirico d’Orcia (SI) Consorzio Chianti Colli Senesi Consorzio Volontario Fitosanitario e di Miglioramento Fondiario per la Provincia di Siena Fondazione Musei Senesi La Proposta Cooperativa Sociale Onlus, Siena Provincia di Siena Provincia di Grosseto Redevo Games srl, Sinalunga (SI) T4All, Siena

Collaborazioni Università degli Studi di Siena Dipartimento di Scienze della Vita Dipartimento di Scienze Politiche e Internazionali Dipartimento di Studi Aziendali e Giuridici Soprintendenza Archeologica della Toscana Comune di Castelnuovo Berardenga Museo del Paesaggio Comune di San Gimignano Comune di San Quirico d’Orcia Consorzio Agrario di Siena Associazione Land.is, Montalcino (SI) Borgo Scopeto e Caparzo srl, Montalcino (SI) Tenuta Fanti, Montalcino (SI) Tenuta Sesta, Montalcino (SI)

Andrea Ciacci, Barbara Gelli, Matteo Milletti, Alessandro Pozzebon, Andrea Zifferero

NOTIZIARIO BIBLIOGRAFICO

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015

Notiziario bibliografico 267

Alessandro Dani, Gli statuti dei Comuni della Repubblica di Siena (secoli XIII-XV). Profilo di una cultura comunitaria, «Documenti di Storia» 111, , Il Leccio, 2015, pp. 424.

Il volume recentemente pubblicato dei «Documenti di Storia» torna a trattare un argomento più volte affrontato all’interno della collana, quello degli statuti; questa volta, però, non si tratta dell’edizione di un testo statutario, ma di uno studio che offre un quadro d’insieme dal punto di vista storico – giuridico della normativa che regolava la vita dei Comuni dello Stato senese. Il fatto che vengano comparati statuti di epoche diverse non inficia la ricerca, in quanto essi contengono sempre una normativa di lunga durata, legata ad elementi di diritto civile ed a prassi istituzionali, la cui longevità è proprio messa in luce dal confronto di documenti distanti fra loro nel tempo. L’importanza dell’analisi della legislazione statutaria come riflessione generale sulle specificità delle varie località dello Stato è avvalorata dalla considerazione che Siena lasciava che ciascuna comunità all’interno della Repubblica si reggesse secondo una propria normativa, così venivano redatti statuti locali, che la Dominante si limitava a chiedere che venissero sottoposti alla sua formale approvazione (le altre imposizioni erano che accogliessero un ufficiale senese che amministrasse la giustizia e che per Santa Maria d’Agosto, festa nazionale di Siena e di tutto lo Stato, facessero atto di sot- tomissione con il pagamento del censo e l’offerta della cera alla Cattedrale). Per questo motivo ciascuno statuto rispecchia i rapporti economici, le consuetudini e la struttura sociale delle Terre dello Stato di cui sono espressione e, di conseguenza, l’analisi com- parativa dei testi statutari diviene lo studio delle differenze che intercorrono fra di loro, ma anche dei tratti legislativi che le accomunavano. Lo studio di Dani è di ampio respiro ed inizia con una parte introduttiva, Il conte- sto storico, nella quale il primo capitolo (Tradizione e innovazione nel territorio senese del tardo Medioevo) ripercorre le fasi della costruzione dello Stato senese, le diffe- renti vocazioni economiche delle sue varie zone, sulle quali Siena riuscì a costituire la sua ricchezza; l’excursus di Dani parte dall’epoca etrusca, per giungere al dominio longobardo, all’incastellamento alto medievale ed all’inizio di una documentazione, alle soglie del sec. XIII, che testimonia la formalizzazione di istituzioni nei comunelli rurali, che regolano anche i rapporti con i signori feudali, ed arriva infine a considerare la progressiva espansione dell’egemonia senese sul territorio e la sua organizzazione. Il secondo capitolo, invece, è di introduzione alla legislazione statutaria (Gli statuti nei loro aspetti generali): vi si traccia un quadro degli statuti che ci sono conservati, si studia la loro redazione e gli aspetti linguistici (progressivamente sono sempre di più quelli scritti in volgare, che, comunque, si trovano già ai primi del ‘200), le partizioni interne degli statuti, come quella in 5 distinzioni e poi sei nel periodo dei Nove, in quanto ne è inserita una specifica per questo governo, che è tipica di quelli di Siena. 268 Notiziario bibliografico

Trattandosi di una sintesi espositiva, che non affronta, oltre tutto, la legislazione della città, viene citata come esempio di questi ultimi la copia sicuramente più conosciuta, il volgarizzamento del 1310; in realtà la VI distinzione si incontra già in Statuti di Sie- na 16, che è del 1286 e, se mi si consente una piccola postilla, vorrei aggiungere che questo statuto è molto interessante, perché il governo dei Nove entra in carica soltanto l’anno successivo, ma già qui si inserisce la distinzione che li riguarda, dimostrando come tale riforma istituzionale fosse già stata prevista e pianificata: ci troviamo di fron- te ad un modo di agire che è tipico delle moderne democrazie, in cui i cambiamenti istituzionali sono frutto di riforme legislative approvate dagli organi competenti, prima di essere applicati (mentre nell’età medievale di norma i mutamenti di governo erano dovuti a rivolgimenti violenti, o comunque repentini), come si vede chiaramente dalla rubrica De electione dominorum Novem, all’interno della quale, a c. 254r, si stabilisce che l’offitium dominorum Novem debeat incipi in kalendis februarii proxime venturi […] Novemque electio fieri debeat circa extitum mensis Ianuarii in anno domini Mil- lesimo CCLXXXVI [stile senese = 1287] indictione XV, scilicet in prima electione de dictis Novem. Un’altra curiosità sta nel fatto che alla fine di quest’ultima distinzione facevano seguito una serie di capitoli, ripresi della I distinzione, relativi al sindaca- mento degli ufficiali, all’elezione delle signorie nelle Terre del contado, al pagamento dei dazi: evidentemente erano riunite qui, come in un prontuario, un insieme di norme che venivano consultate di frequente, per utilità degli ufficiali; tanta era l’importanza attribuita a questa parte che il notaio che opera la revisione di Statuti di Siena 5, la copia dell’anno successivo al n. 16, la definisce, anche se in realtà non lo è,VII distinctione. Un altro tema trattato in questo capitolo è quello dell’approvazione, come dicevo sopra, da parte di Siena degli statuti dei vari Comuni del territorio: vorrei aggiungere all’elenco degli statuti approvati anche quello di Torrita del 1369, del quale ci resta sol- tanto un bifolio (cc. 63 e 70) riusato come copertina per il registro 50 della Podesteria di Torrita (Torrita 30) 1573 maggio - 1573 ottobre del Fondo Giusdicenti dell’Archivio di Stato di Siena: a c. 70r si trova la ratifica del notaio del Maggior Sindaco, datata 26 marzo 1370. L’ultimo paragrafo di questo capitolo prende in esame la tipologia nor- mativa presente negli statuti, che è di due tipi diversi: le norme vere e proprie, quelle cioè relative alla convivenza all’interno della comunità, ed i provvedimenti riguardanti situazioni contingenti, come la costruzione di un ponte, di una fonte, la manutenzione delle strade. La seconda parte del libro, Contenuti tipici e caratterizzanti: lineamenti di una fisionomia giuridica, spinge l’analisi all’interno dei testi statutari, per studiarne le ca- ratteristiche specifiche relativamente ad alcune tematiche generali ed evidenziare i fon- damenti del diritto che vi sono alla base. Conviene ricordare che uno statuto medievale non è assimilabile ad una costituzione moderna, perché accanto a principi specifici di quest’ultime e che riguardano diritti e doveri dei cittadini e la struttura dello Stato, si Notiziario bibliografico 269 trova tutta una serie di norme che oggi appartengono ai Codici civile e penale ed anche ai Codici di procedura, per l’amministrazione della giustizia. Il primo aspetto preso in esame è quello dell’organizzazione politica del Comune (Capitolo III, Organizza- zione comunale e ‘sovranità popolare’), per il quale si riscontra puntualmente quanto si diceva all’inizio per l’ampia autonomia di autogoverno lasciata da Siena alle Terre dello Stato; emergono, infatti, dagli statuti forme istituzionali, anche se di fondo simili, diverse da località a località. Si tratta di una normativa finalizzata a definire il ruolo ed i poteri delle assemblee popolari – il Consiglio generale –, controllare l’operato degli ufficiali, regolamentare l’accesso alle cariche pubbliche ed in questo terreno è innega- bile l’importanza che ha avuto il pensiero di Bartolo da Sassoferrato. I paragrafi del capitolo affrontano le singole tematiche e mettono a confronto la normativa contenuta negli statuti delle varie comunità: si inizia con Il Consiglio generale come organo su- premo, quindi Dani passa a considerare quale importanza avessero nell’organizzazione comunale le suddivisioni interne (Terzieri e altre partizioni territoriali). Il sindacato degli ufficiali: il sindacamento degli ufficiali locali avveniva sempre all’interno della comunità, mentre quello del giusdicente senese, podestà, capitano o vicario che fosse, generalmente era previsto che si tenesse a Siena, salvo alcuni casi particolari nei quali veniva sindacato in loco; secondo il Dani questo avveniva in località che erano di con- fine e legate alla dominante da capitoli, nei confronti delle quali, evidentemente, Siena riteneva opportune concessioni straordinarie. La durata ed il rinnovo delle cariche e le modalità di accesso alla cittadinanza sono l’oggetto di confronto fra statuti nei due paragrafi seguenti; quindi il capitolo si conclude con l’esame delle varie normative riguardanti la difesa del bene comune. I due capitoli successivi (Il processo e il diritto civile e Il processo e il diritto penale) riguardano la giustizia e le procedure processuali; in questi risultano evidenti elementi di modernità basati sulle acquisizioni romanistiche, che superano gli usi di tipo barbarico, quali le ordalie, si afferma l’idea del tribunale pubblico e si stabiliscono le funzioni del giudice. I Comuni rivendicano il diritto esclusivo all’amministrazione della giustizia e si diffonde la perseguibilità d’ufficio dei reati, ma quelli ritenuti più gravi erano avocati a Siena e non potevano essere perseguiti localmente. Si pongono anche limiti all’uso della tortura; come prima avevamo indicato l’importanza di Bartolo da Sassoferrato, qui si fa riferimento al pensiero di Alberto Gandino. Sia nel caso del diritto civile, sia in quello del diritto penale vengono prese in esame le divergenze (o le similitudini) che si incontrano nei vari testi statutari; di particolare interesse è l’excur- sus che viene fatto sui principali reati e le relative pene. Un altro aspetto di grande interesse negli statuti è la parte relativa a La tutela dell’agricoltura e delle risorse naturali: un fragile equilibrio tra individuo e comunità (Capitolo VI) ed in primis ai danni dati, i danneggiamenti alle colture, di particolare rilievo in una società che era prevalentemente agricola, in quanto, come dice lo statuto 270 Notiziario bibliografico di Asciano del 1465 “durando l’uhomo fatigha a ghovernare le possessioni è ragione- vole cosa n’aspecti ricogliere et averne i fructi, è necessario provedere che siano dal- li ghuastatori e dagli animali inrationabili essi fructi riguardati”. Ugualmente vi sono norme a salvaguardia dei beni comunali, disposizioni che regolano gli usi civici e le concessioni dei terreni pubblici. Il VII ed ultimo capitolo (Frammenti di vita quotidia- na: un Medioevo a tinte forti e vivaci) indaga quegli aspetti della vita quotidiana che emergono, incidentalmente, in quanto presentano risvolti giuridici, nei testi statutari: si trovano notizie relative alle feste popolari (nel constituto in volgare c’è un capitolo del 17 giugno 1310 Di correre el palio ne la festa di Sancta Maria d’agosto – I, 586), ai giochi – leciti e proibiti –, ai festeggiamenti nuziali, ai funerali, alla regolamentazione della prostituzione. Alla fine l’autore trae alcune conclusioni, relative sopratutto al rapporto nella legislazione statutaria fra il diritto romano e le consuetudini locali, ma anche alle mo- tivazioni che hanno portato a questa ricchezza di testi normativi ed alla loro longevità; l’aspetto più importante del volume, comunque, non sta in questo, ma nel fatto che l’analisi effettuata dal Dani costituisce uno strumento indispensabile per ogni futu- ra ricerca sugli aspetti storico-politici e socio-economici delle varie località, perché è chiaro che la produzione legislativa rispecchia quelle che erano le diverse situazioni ed esigenze locali. Lo studio fatto dal Dani, oltre a dare uno sguardo complessivo della situazione giuridico–istituzionale del territorio, permette una doppia lettura della docu- mentazione; si può, infatti, mettere a confronto le diverse normative che regolavano di volta in volta una medesima problematica, ma è anche possibile ricostruire l’ossatura portante dei singoli testi statutari, venendo, così a conoscere le caratteristiche della vita e delle attività delle singole comunità; a questo proposito è molto importante la tabella, che Dani pone alla fine del testo, nella quale non si indicano soltanto i manoscritti che contengono gli statuti consultati, ma anche le loro edizioni critiche, quando siano state realizzate, facilitando in questo modo il lavoro di chi volesse approfondire lo studio delle varie località. Concludono il volume una serie di tavole riportanti grafici e statistiche, che dan- no una visione d’insieme della situazione degli statuti delle comunità del Senese, ed un puntuale indice dei nomi. A questo punto, per avere un quadro veramente completo della legislazione della Repubblica, occorrerebbe uno studio sulla normativa statutaria di Siena, lavoro tutt’altro che facile, visto non solo il grande numero di testi conservatisi, ma anche la loro lunghezza, che è andata progressivamente ampliandosi nel corso degli anni. Una ricerca questa, che non è neppure possibile effettuare limitandosi all’analisi dei rubri- cari, in quanto non di rado si hanno norme che progressivamente vengono modificate, anche in maniera sostanziale, ma che conservano sempre la medesima rubrica, come, al contrario, si incontrano a volte delle rubriche espresse in maniera differente, ma che Notiziario bibliografico 271 sono preposte ad un capitolo del tutto identico a quelli degli anni precedenti. Questa ricerca produrrebbe l’indubbio risultato di presentare in maniera puntuale l’evoluzione politico-istituzionale e sociale del Comune, in quanto il variare delle norme risponde all’esigenza di adeguarle ai nuovi bisogni, generati da cambiamenti avvenuti negli as- setti della città.

Enzo Mecacci

Giancarlo Schizzerotto, Sberleffi di campanile. Per una storia culturale dello scherno come elemento dell’identità nazionale dal Medioevo ai giorni nostri, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2015, pp. LXXIX, 638.

Bisogna dire, prima di tutto, che la pubblicazione di questo libro è motivo di soddisfazione, ma al tempo stesso anche di rimpianto, perché alcuni anni fa il professor Schizzerotto aveva sottoposto all’Accademia Senese degli Intronati la possibilità di inserirlo in una delle sue collane. Purtroppo la mole del lavoro, come si può intuire, e la grande quantità di immagini a corredo del testo (in origine in numero maggiore all’attuale) rendevano necessario un finanziamento superiore a quanto era nelle dispo- nibilità dell’Accademia; per tale motivo il suo Consiglio Direttivo, non ostante avesse espresso una valutazione ampiamente positiva dell’opera, per la serietà della ricerca, l’originalità dell’argomento (ed anche la sua curiosità – se mi si consente) e la comple- tezza dell’analisi, fu costretto, con profondo rincrescimento, a comunicare all’autore l’impossibilità di farsi carico dell’edizione. Così oggi il dispiacere di non aver potuto dare alle stampe un lavoro di tale portata e valore è mitigato dal vederlo finalmente approdato in libreria. La tematica affrontata da Schizzerotto potrebbe sembrare futile e di poco mo- mento, in realtà l’argomento è di estremo interesse ed indaga un “settore” della cultura nazionale, che definire popolare è oltremodo limitativo, cioè la caratteristica specifica del modo di rapportarsi all’avversario / nemico lungo tutto l’arco della nostra storia: quella di schernire l’altro per sminuirlo e trovare, in tal modo, una legittimazione nella propria “superiorità” alla sottomissione dell’altro; lo scherno come arma politica viene valutato un comportamento tanto diffuso e generalizzato da poter essere definito un elemento di identità nazionale. Si deve anche sottolineare come in nessuno studio re- lativo alla storia, alla cultura, od alle tradizioni nazionali dal Medioevo ai giorni nostri è mai stato preso in esame questo tipo di manifestazioni di pensiero, che anche oggi è tipico di un certo modo deteriore di confrontarsi con gli avversari politici (Berlusconi docet), o di rapportarsi alla tifoseria opposta negli stadi (mi viene in mente lo striscione esposto anni fa dai tifosi napoletani allo stadio di Verona con la scritta “Giulietta era 272 Notiziario bibliografico una zoccola”). Schizzerotto osserva che “la predisposizione allo scherno è un archetipo culturale […]. Ma ciò che distingue tale tratto all’interno del Medioevo italiano, e spe- cialmente toscano, è la sua istituzionalizzazione, nel senso che non si tratta quasi mai di gesti sporadici […], essi sono pur sempre espressione della volontà generale […], sotto il patrocinio della superiore autorità”; quindi non si tratta di azioni estemporanee com- piute da teste calde, ma di un modo di porsi di fronte al nemico, soprattutto dopo che è stato sconfitto, largamente diffuso e supportato, quando non promosso del tutto, dal potere politico. Di fondamentale importanza per una corretta comprensione dei termini dell’indagine è una chiarificazione che l’autore propone, come la precedente, nell’in- troduzione: “A scanso di eventuali malintesi, è il caso di precisare lo specifico campo semantico dello scherno, che non è assolutamente sovrapponibile a quello della mera ingiuria, dell’offesa […]. Infatti lo scherno esige un impiego costante, sistematico e intensivo dell’intelligenza, nei più vari registri (canzonatura, sarcasmo, ironia, parodia, satira, umorismo, ecc.)”. Se si avessero dubbi sulla “serietà” dell’argomento oggetto dell’analisi di Schizzerotto, a fugarli in maniera definitiva è il fatto che l’Università della Sorbona abbia organizzato, il 29 novembre 2003, una giornata di studi dal titolo Pratiques de la dérision au Moyen Âge, i cui atti sono stati pubblicati nel 2007 (La dérision au Moyen Âge. De la pratique sociale au rituel politique, a cura di Elisabeth Crouzet-Pavan e Jacques Verger, Paris, Presses de l’Univeristé Paris-Sorbonne), che di- mostra l’interesse della comunità scientifica per questa tematica di ricerca. All’interno della giornata vi è stata, fra le altre, la relazione di Jean Claude Maire Vigueur (Dérision et lutte politique: le cas de l’Italie communale), che affronta un tema decisamente pa- rallelo, anzi analogo, a quello del nostro autore. Tornando al volume, già la lunga introduzione, nella quale Schizzerotto spie- ga dettagliatamente l’origine e le fasi della sue ricerca, riportando anche esempi di scherno verso il nemico nell’Età classica, e ne espone i risultati, sarebbe di per sé un saggio esauriente e particolareggiato sull’argomento, supportato da un’adeguata docu- mentazione, ma l’autore non si è limitato a questo; infatti, vi fa seguire una premessa (Lo scherno come elemento costitutivo dell’identità nazionale italiana), nella quale, attraverso le citazioni di passi di storici e scrittori, ripercorre l’uso dello scherno nei vari periodi della storia italiana. Il libro potrebbe effettivamente finire qui; in realtà questo non è che un inizio, perché seguono 17 capitoli (più 2 appendici), nei quali si passano in rassegna sia casi particolari, sia le varie tipologie di scherno riscontratesi in Italia nel corso dei secoli; infatti, a partire dalle guerre tra i Comuni nel Medioevo, fino alle battaglie politiche durante e dopo il Ventennio fascista ed a quelle dei giorni nostri, la storia italiana è punteggiata da episodi di azioni compiute allo scopo di sminuire la dignità dell’avversario. Inoltre, se l’indice dei nomi è, come sempre, importante per ritrovare i personag- gi citati all’interno del testo, di enorme interesse è quello dei gesti di scherno, vituperio e rappresaglia, perché ci fornisce un panorama completo delle varie tipologie di presa Notiziario bibliografico 273 in giro messe in pratica e ci può consentire una lettura mirata del volume, alla ricerca del particolare tipo che può di volta in volta interessare, o incuriosire. In conclusione la ricerca di Schizzerotto ci propone una visione particolare e del tutto originale ed innovativa di un elemento costitutivo della nostra identità nazionale, come viene interpretato dall’autore, mettendo anche in luce un primato in questo campo della Toscana, come del resto è avvenuto per la costruzione della lingua nazionale. Non è, infine, da trascurare l’aspetto divertente del volume, costituito dalla lettura degli epi- sodi riportati ad esemplificazione delle varie forme si scherno perpetrate nei confronti del nemico. Enzo Mecacci

Kateřina Čadkovà, Caterina da Siena e le sue guide spirituali. Storia di una santità, Roma – Praha, Nakladatelství Historický ústav, 2014, pp. 302 (Biblioteca dell’I- stituto Storico Ceco di Roma).

La letteratura intorno alla figura di Santa Caterina da Siena è vastissima e sembra sempre più difficile trovare un aspetto della sua vita che non sia stato analizzato, scan- dagliato, criticato, esaltato. Un contributo elaborato con un taglio in parte originale lo propone Kateřina Čadková con il suo volume, edito nel 2014, “Caterina da Siena e le sue guide spirituali. Storia di una spiritualità”. La Santa senese diventa qui la co-prota- gonista di una storia, che è comunque quella della sua vita e del suo percorso di santità (fino alla canonizzazione), dove tuttavia gli attori principali sono (come ci annuncia programmaticamente il titolo) coloro che hanno formato e guidato il suo cammino nella religione come nella politica del tempo. L’excursus sulla biografia di Caterina nella prima parte del volume è velocissi- mo: si seguono le tappe per sommi capi, si definisce il 1374 come lo “spartiacque in senso sia materiale che simbolico”, nella vita della Santa che muore il 29 aprile 1380, “all’età di 33 anni, forse reali o forse simbolici”, scrive l’autrice. E il libro si concentrerà, in effetti, sugli ultimi sei anni che le restano da vivere. Anche il racconto della Siena di quegli anni, e l’inserimento della famiglia Be- nincasa nelle vicende politiche, economiche e commerciali cittadine, con le alterne fortune che conosciamo, viene trattata rapidamente, ma del resto la stessa autrice pre- cisa di aver riprodotto con “schizzi approssimativi l’ambiente sociale da cui proveniva Caterina”. Sono gli anni in cui Caterina entra a far parte dell’Ordine Domenicano, gli anni in cui si lega più a personaggi appartenenti alle famiglie importanti di Siena che ai vari governi che si susseguono, perché, e la frase salta subito agli occhi, “gli obbiettivi delle 274 Notiziario bibliografico attività di Caterina, coordinate dai suoi padri spirituali dell’ordine dei domenicani [mi- ravano] piuttosto oltre i confini della città di Siena, al mondo dell’alta politica”. Eccoli, dunque, i padri spirituali, che escono dalle pagine ancora prima che l’autrice abbia dato loro nomi e volti, hanno assegnato un ruolo di vitale importanza. Nello scorrere delle pagine, poi, viene trattato, ancora una volta in maniera sin- tetica, anche l’operato in vita della Benincasa per il periodo 1347-1380. Nell’analisi l’autrice sorvola, infatti, probabilmente per scelta, sui fatti e gesta noti a tutti, per porre l’attenzione solo sugli eventi che saranno funzionali alla seconda, e più importante, parte del libro. Negli ultimi decenni la storiografia ha messo in luce come le figure di sante medievali siano spesso icone femminili che, non agivano tanto (o non solo) autono- mamente, divenivano “socialmente espressive” in quanto indirizzate dalle loro guide spirituali maschili. Caterina non fa eccezione. In vita e dopo la morte. La Čadková compiendo un’analisi di tutti gli scritti di e su Caterina dimostra come questi siano volti a creare un “modello di vita pia” di cui la Benicasa diventa l’esempio da imitare, un esempio di santità vissuta (sempre, anche nelle sue pratiche estreme, tenuta nell’ambito rigoroso dell’ortodossia) necessario per rafforzare e propa- gandare tutte le idee politiche (anche di politica religiosa) che lei stessa impersonava. Dopo la morte la diffusione dei suoi scritti suoi (ma qui si apre un dibattito sul fatto che Caterina avesse dettato la maggior parte delle sue opere e sul fatto che la det- tatura possa comportare una qualche “manipolazione” o, piuttosto, interpretazione di colui che trascrive: basta talvolta utilizzare un termine al posto di un altro per cambiare il senso di un concetto), ma soprattutto quelli dei suoi agiografi è tutta volta a diffonde- re, ampliare, estremizzare la sua fama per spianarle la strada verso la canonizzazione. Si apre, diremmo oggi, una vera e propria “campagna pubblicitaria”, una strate- gia di “marketing” e di propaganda che “codifica” la figura di Caterina vissuta e morta in odore di santità, una santità che, nella volontà degli appartenenti alla sua “brigata”, delle guide spirituali, ma, soprattutto, dell’Ordine Domenicano, la curia romana deve riconoscere subito. E tutti si muovono in questa direzione, come dimostra l’autrice che analizza così le parole del suo primo confessore, Tommaso della Fonte, Raimondo da Capua, logica- mente, figura centrale nella vita della senese, Tommaso da Siena e tutti gli atti del Pro- cesso Castellano, istituito nel maggio del 1411, perché secondo alcuni rappresentanti dei ceti nobiliari Caterina “veniva onorata più di quanto fosse consentito nella chiesa alle persone non canonizzate”. Il processo, presieduto da Francesco Bembo, vescovo di Castello a Venezia, al quale venne presentata la petizione, nonostante avesse carat- tere “regionale” fu sentito come una profonda offesa dai seguaci della Benincasa che produssero una quantità notevole di testimonianze a favore del suo culto e, alla fine, il vescovo deliberò che si potesse promuovere liberamente in tutta la sua diocesi il culto Notiziario bibliografico 275 cateriniano. Si esaminano poi gli scritti di William Flete, eremita agostiniano che vi- veva presso l’eremo di Lecceto e che si pone, ad un certo punto, come protettore della fama di Caterina da coloro che “predicavano di lei”; di Balduccio Canigiani, di Neri Pagliaresi e altri ancora. E’ questa la parte più originale e più interessante del lavoro della studiosa: la narrazione di come si pianifica perfettamente la comunicazione della diffusione della fama e del culto della Santa senese. E si pianifica in modo da raggiungere ogni località (anche la più remota) ed ogni fascia della popolazione. Per fare qualche esempio non si traducono in volgare i testi in latino, ma si traducono in latino i testi in volgare perché anche i ceti più alti ed i gradini più importanti del clero ne apprezzino la profondità delle parole e dei messaggi. Si programmano predicazioni in ogni dove, predicazioni durante le quali si rac- conteranno le gesta ed i miracoli di Caterina. Poi ci sono le reliquie: Kateřina Čadková prende le mosse dalla escissione della testa dal corpo (Caterina muore a Roma e viene sepolta in Santa Maria Sopra Minerva) fatto del quale si fece promotore Raimondo da Capua, ma vera mossa politica dell’Ordine Domenicano che, riportando nella sua Sie- na, in San Domenico, proprio la testa della pia donna ne esalta l’importanza ed espone al popolo una reliquia (oggetto di culto preferito quando si parla di devozione popo- lare) tangibile da venerare e alla quale rivolgersi per ottenere grazie e miracoli. Ma le reliquie sono molteplici: Giovanni delle Celle, monaco di Vallombrosa, (prima scettico e poi sostenitore della Benincasa), ha una ciocca dei suoi capelli e dopo la morte la trasforma in reliquia da esporre ai propri fedeli. Anche se l’autrice non le cita, merita ricordare le altre parti del corpo della santa, conservate in differenti luoghi di culto: nella stessa basilica di San Domenico un dito di Caterina; il piede sinistro è conservato, non a caso, a Venezia (nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo), nel duomo di Siena si trovava una costola che, però, venne donata al santuario di Santa Caterina ad Astenet, in Belgio, mentre una scheggia di una scapola è nel santuario di Caterina a Siena, e an- cora, la mano sinistra, che con le stigmate è custodita nel monastero del Santo Rosario di Monte Mario a Roma. Un vero frastagliamento del corpo, operato in più fasi, che è finalizzato al moltiplicarsi del culto, e al suo consolidarsi anche in epoche successive alla canonizzazione. Dopo le reliquie ci sono le raffigurazioni nei quadri e nelle miniature. Anche le raffigurazioni sono dirette soprattutto ai ceti più bassi della popolazione, a coloro che non sapendo leggere devono dedurre dalle immagini la grandiosità, purezza e santità della donna. Si raffigura nell’atto di guarire, pregare, compiere e ricevere miracoli ed i committenti sono le famiglie importanti che facevano parte della sua brigata e che ora lavorano per la sua santità. Nell’ultima parte il volume l’autrice ripercorre tutte le fasi che, nel corso della vita, una santa deve attraversare e traccia il modo in cui le guide di Caterina e i suoi seguaci le evidenziano e propagandano una per una: Caterina Vergine, Mater dulcis, 276 Notiziario bibliografico

Caterina amorosa, Sponsa Christi, la Vedovanza di Caterina. Poi si esaminano gli ele- menti di santità che una candidata alla canonizzazione deve aver avuto, e il modo in cui, anche questi, sono stati esaltati: il suo ascetismo e la vita contemplativa, la sua anima caritatevole e la sue opere verso il prossimo, la vita come Terziaria, le esperienze mistiche, la sua attività propaganda religiosa e politica. Un lavoro lungo e ben architettato che porterà, finalmente, nel 1461, alla Cano- nizzazione di Caterina per mano del papa senese Pio II Piccolomini. La storia di Caterina da Siena, dunque, appare emblematica per capire come veniva creato un modello di santità nella società medievale e come veniva ancorato alla mentalità dell’epoca. E’ come se, conclude l’autrice, Caterina avesse vissuto una “seconda vita”, quel- la che ha portato alla codificazione della sua immagine di santa, quella che le hanno fatto vivere le sue guide spirituali, i suoi collaboratori, i suoi difensori dopo la morte. Un’ultima annotazione: questo libro di Kateřina Čadková, di origine Ceca, è la rielaborazione della sua tesi di dottorato discussa nel novembre del 2011. L’autrice scrive direttamente in italiano, in un buon italiano, che ha appreso nei suoi anni di stu- di anche senesi, ma le insidie della nostra lingua e della nostra grammatica, talvolta, traspaiono nella spigolosità di alcune frasi e nell’utilizzo di una terminologia che può, suo malgrado, curvare il concetto delle frasi in un senso (che poi si capisce bene dal contesto) diverso da quello che si vuole esprimere. Ma solo talvolta.

Maura Martellucci Notiziario bibliografico 277

Petra Pertici, Siena quattrocentesca. Gli anni del Pellegrinaio nell’ospedale di Santa Maria della Scala. Prefazione di Riccardo Fubini, con un saggio di Maria Anto- nietta Rovida, Siena, Protagon Editori, 2012, pp. XV, 398.

Si tratta di una visione complessiva della Siena quattrocentesca, con particolare riferimento alla prima metà del secolo ed al periodo durante il quale fu affrescato il Pel- legrinaio, opera che specialmente per merito di Domenico di Bartolo, come dimostra nel suo saggio Maria Antonietta Rovida, costituì una seria dimostrazione dell’impegno dei Senesi nel recepire il rinnovamento culturale che si andava imponendo nella vicina Firenze anche nel campo delle arti figurative. Tornando alla monografia della Pertici, occorre sottolineare che è stata resa pos- sibile dalla grande padronanza acquisita dall’A. circa gli eventi di quel tempo ed i loro protagonisti, le condizioni politico-istituzionali dello Stato senese e gli intensi rapporti intercorsi tra il medesimo e le principali potenze italiane del tempo. Una padronanza acquisita tramite la sicura conoscenza delle fonti archivistiche, soprattutto dell’Archi- vio di Stato di Siena, e della vasta bibliografia che si è venuta accumulando in materia dagli anni Settanta del secolo scorso, nonché di numerosi ed importanti manoscritti appartenenti a biblioteche italiane e straniere. La formazione prevalentemente letteraria dell’A., laureatasi in “Letteratura lati- na medievale e umanistica” sotto la guida di un maestro universalmente riconosciuto di questa disciplina come Riccardo Fubini, non le ha impedito di spaziare in altri campi di studio, soprattutto in quello della storia dell’arte, ai cultori della quale questo libro fornisce nuovi e preziosi dati di conoscenza e di valutazione. La sintesi scaturisce da molte informazioni e da continui riscontri, frutto di ricer- che compiute per un ampio arco di tempo, a partire dagli anni della laurea, e finalizzate a coniugare molteplici conoscenze interdisciplinari relative alla classe dirigente senese, alla sua composizione sociale e ideologica ed ai suoi comportamenti, nonché ad in- dividuare i personaggi-chiave della storia cittadina ed a definire il loro ruolo e quello delle rispettive famiglie e consorterie, i rapporti d’amicizia e le ragioni dell’adesione a determinate fazioni, spesso in collegamento con potenze esterne, che si esprimevano in determinati ambienti di corte oppure in personaggi d’alto profilo, tutti interessati ad influire sui giochi interni al reggimento della repubblica di Siena, quali Filippo Maria Visconti, Alfonso d’Aragona, Cosimo il Vecchio, i pontefici Martino V ed Eugenio IV e, non ultimi, gli Estensi di Ferrara, notoriamente legati da vincoli di sangue alla famiglia Tolomei. Il libro conferma l’importanza anche per la città toscana della “svolta” rappresen- tata nella storia del Papato dall’aprirsi dell’ “età dei concilii”, a partire da quello di Co- stanza, con il conseguente esaurirsi dello Scisma d’Occidente. E proprio il ruolo avuto da Siena nella successione degli eventi conciliari, con il trasferimento nella nostra città 278 Notiziario bibliografico dell’assise riunitasi a Pavia tra il 1423 e il 1424, costituì un importante fattore di mobi- litazione delle coscienze e di rivitalizzazione del clima culturale, al punto da suscitare la consapevolezza della necessità, ben sottolineata da San Bernardino, di ridare vigore allo Studio generale – di fondazione imperiale, ma da pochi anni dotato di altri privilegi da papa Gregorio XII – come centro di formazione di una classe dirigente addestrata a svolgere importanti funzioni diplomatiche. Ed ancora l’A. segnala i legami decisivi di Martino V con personaggi e famiglie senesi e la significativa presenza di Sigismondo con la sua corte a Siena nel tempo in cui il giovane Enea Silvio Piccolomini partiva al seguito del cardinale Capranica verso l’avventurosa e fondamentale esperienza del concilio di Basilea. In questo quadro risalta la figura di Antonio Petrucci, che proprio con il favore di Martino V diveniva il giovanissimo titolare di podesterie d’importanza nevralgica per lo stato della Chiesa, quali Bologna, Ancona e Perugia: sicuramente un avventuriero, ma anche un uomo colto, possessore di rari codici contenenti opere classiche ed in rapporti d’amicizia con i giovani umanisti che frequentavano lo Studio senese durante gli anni Venti - dal Panormita al Marrasio ed al Toscanella - favorendo l’attecchimento della nuova cultura tramite la collaborazione di esponenti della classe dirigente locale come Berto Ildobrandini,1 Andreoccio Petrucci e Barnaba di Nanni. Ma viene restituita visibilità anche a figure meno note, che si muovevano nello stesso ambiente e nel medesimo tempo, come, ad esempio, il frate domenicano Niccolò di Angelo da San Gimignano. Non meno importante è il lungo soggiorno senese di papa Eugenio IV e della curia pontificia nel 1443: un ex-vescovo di Siena – sebbene lo fosse stato per breve tempo e con ricordi poco piacevoli – che faceva ritorno nella sua diocesi consentendo alla città di ospitare un raduno di uomini di straordinaria esperienza e dottrina. Furono decenni, quelli che precedettero la metà del secolo, durante i quali Siena si trovò real- mente in posizione centrale sullo scacchiere delle potenze italiane, dove tutto ruotava intorno all’antagonismo con Firenze ed ai legami speciali con Milano e Napoli. Duran- te gli anni Trenta, in particolare, i Senesi potevano vantarsi di possedere uno “Studium florentissimum cum claritate doctissimorum hominum, cum numero et excellencia stu- dentum”, attratti dalla presenza di docenti autorevoli in tutte le discipline e lieti di porre la loro dimora “in hac urbe splendidissima Senarum”.2 Il libro della Pertici conferma che la città e le sue istituzioni facevano ancora parte, nella prima metà del Quattrocento, di un sistema di poteri soprannazionali, come

1 Sul quale si veda il recente contributo di J.L.Bertolio, Leonardo Aretino e Berto Senese: un’amicizia nel segno dell’Umanesimo, in “Lettere italiane”, LXIV (2012), pp. 70-83. 2 M. Bertram, Kanonisten und ihre Texte (1234 bis Mitte 14 Jh.). 18 Aufsätze und 14 Exkurse, Leiden-Boston 2013, p. 241. Per la precedente citazione si veda T. Daniels, Un processo penale e la presenza dei tedeschi a Siena nella prima metà del Quattrocento, in “Studi senesi”, CXXIII (2011), pp. 9-10. Notiziario bibliografico 279 diremmo oggi, che a quel tempo erano il papato e l’impero. I tentativi del Comune di Siena, condotti circa un secolo prima, di ritagliarsi uno spazio di maggiore autonomia in coincidenza con la “cattività avignonese” del papato e con la tragica impresa di Ludovico il Bavaro in Italia settentrionale – vicende devastanti per il prestigio dei due poteri universali – non avevano sortito esito positivo. Già con la discesa in Italia di Car- lo IV di Lussemburgo Siena si era dovuta riallineare, tant’è vero che i Signori Dodici nel 1357 avevano chiesto e ottenuto il vicariato dell’Impero e nello stesso tempo, sotto i pontificati di Innocenzo VI e Urbano V, si era fatta impellente l’esigenza di godere di protezioni autorevoli presso la Curia avignonese e si rendeva necessario esercitare sem- pre più frequentemente il potere giurisdizionale da parte dei giudici delegati dal papa nei confronti dei Senesi non solo in quanto fedeli, ma anche a motivo dei loro rapporti di appartenenza o conflittualità con le opere pie della loro città. È dunque particolar- mente significativo che venisse eseguito nel 1444 l’affresco della Madonna del Manto o della Misericordia nella Cappella delle reliquie dell’Ospedale di Santa Maria della Scala: vi furono raffigurati il papa e l’imperatore, seguiti dai destinatari diretti del loro potere giurisdizionale, vale a dire i chierici secolari e regolari da una parte e dall’altra il laicato. Ma il papa troneggiava in posizione più alta ed infatti anche in quegli anni si continuava a discutere tra i giuristi, nelle università come nei tribunali, della preminen- za del papato sull’impero, utilizzando argomenti che si fondavano sulla legislazione e la dottrina canonica.3 Del resto lo stesso ospedale di Santa Maria della Scala, pur assur- to da tempo al ruolo di grande azienda bancaria, per la sua natura originaria di istituzio- ne religiosa ed assistenziale non si svincolò definitivamente dal controllo dell’autorità ecclesiastica prima del 1477. L’altro “occhio della città” era, per dirla con San Bernar- dino, il Vescovado, non solo come centro di potere politico-sociale, ma anche per essere sede istituzionale dell’istruzione universitaria: colà, infatti, si sosteneva l’esame finale della carriera scolastica e si conseguiva la licentia ubique docendi, vale a dire l’autoriz- zazione ad insegnare in qualsiasi altro Studio generale. E quando lo Studio finanziato dal Comune non appariva in grado di funzionare in modo soddisfacente, come avvenne tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, il vicario episcopale, che di solito era un bravo giureconsulto, insegnava privatamente diritto canonico ai giovani chierici, rampolli di famiglie facoltose, avviati alla carriera ecclesiastica.

Paolo Nardi

3 Sull’argomento rinvio a P.Nardi, Il giureconsulto Lorenzo Ermanni da Perugia (…1399- 1414…) e la plenitudo potestatis del papa, in Honos alit artes. Studi per il settantesimo compleanno di Mario Ascheri. La formazione del diritto comune. Giuristi e diritti in Europa (secoli XII-XVIII), a cura di P.Maffei e G.M.Varanini, Firenze 2014, pp. 387-396. 280 Notiziario bibliografico

Petra Pertici, La trama della storia. Potere, prestigio e pietà a Siena nel Pellegrinaio del Santa Maria della Scala, Siena, Betti Editrice, 2015, pp.69.

Dopo il fondamentale Siena quattrocentesca (Protagon Editori, Siena, 2012), Petra Pertici conferma - con questa piccola, ma densissima, pubblicazione – quanto la sua profonda conoscenza del contesto politico e religioso in cui si collocano gli avveni- menti di cui Siena fu teatro alla metà del Quattrocento, sia essenziale per comprendere il profondo significato, ma anche lo scopo immediato, degli affreschi realizzati in quel periodo nella Sala del Pellegrinaio del Santa Maria della Scala. Con l’ausilio di questo agile volume è possibile accostarsi all’opera d’arte con maggiore consapevolezza, non limitarsi ad ammirare la bellezza delle pitture del Vec- chietta, Priamo della Quercia e Domenico di Bartolo, ma riuscire a “decifrare” ogni singola scena comprendendo il significato della foggia di un cappello, del colore di una veste, di un gesto o di un atteggiamento, riconoscere i personaggi storici inseriti con precisi scopi di comunicazione politica (prescindendo dalle poco affidabili didascalie, legendae, apposte al ciclo in epoca successiva e ritoccate). Molti studiosi si sono cimentati nell’analisi degli affreschi, ed i risultati più in- teressanti dei loro lavori sono acquisiti dall’Autrice, ma il suo approccio è particolar- mente originale perché ne offre una lettura organica e complessiva, cogliendo nell’illu- strazione delle pratiche di misericordia la chiave di comunicazione dell’autorevolezza politica e morale dell’Ospedale. I pittori e la committenza esplicitavano così la profonda adesione agli ammae- stramenti di San Bernardino, il religioso a capo dell’Osservanza francescana, massima autorità morale del tempo, stimatissimo diplomatico e riconosciuta gloria cittadina, le cui prediche richiamavano migliaia di fedeli. Questo rapporto è di più immediata comprensione per gli affreschi posti sul lato destro del Pellegrinaio, straordinariamente realistici, che descrivono il percorso di re- denzione attraverso le opere di misericordia (dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, accogliere i pellegrini, vestire gli ignudi, visitare i malati, seppellire i morti) praticate dall’Ospedale. La scena delle “elemosine” ne descrive alcune, anche se si segnala soprattutto per il punto di vista scelto dal pittore, che consente di vedere al di là delle aperture, il portone della Cattedrale e parte del palazzo vescovile appena rifatto per l’arrivo del Papa, nonché decorazioni scomparse nella parete interna. Nel “governo degli infermi” Domenico di Bartolo presenta una riconoscibile corsia ospedaliera, descritta nei più minuti dettagli secondo i criteri figurativi della scuola fiamminga, dove medici, cerusici e oblati assistono malati e feriti, trasportano un morto, un frate ascolta la confessione di un ricoverato prima che fosse curato: tutto secondo i precetti di San Bernardino, ripresi nello Statuto dell’Ospedale. Ma all’occhio dell’autrice non è sfuggito un minuto particolare che dà alla scena anche un valore po- Notiziario bibliografico 281 litico. Al centro del soffitto a travi in legno si nota, accanto alla Balzana e al Leone del Popolo lo stemma del precedente rettore, Carlo d’Agnolino, che ne aveva promosso il rifacimento. Non era comune che il rettore in carica (allora Giovanni di Francesco Buz- zichelli), acconsentisse a far rappresentare le insegne del suo predecessore anziché le proprie, ma in quel momento Carlo D’Agnolino era Vescovo e garante di Siena presso il Papa Eugenio IV e questo può essere stato un modo per rendergli omaggio. La scena chiamata “Il matrimonio dei gittatelli” descrive in realtà tutte le fasi dell’assistenza ai bambini abbandonati, che l’autrice legge come esaltazione dell’effi- cienza del Santa Maria della Scala in questa fondamentale opera di misericordia, nel momento in cui la sua succursale fiorentina per la cura dell’infanzia abbandonata, stava per subire la concorrenza dell’Ospedale degli Innocenti di cui si stava completando la costruzione. Fra le varie attività c’era anche quella educativa e, grazie alla consulta- zione di documenti d’archivio, l’autrice ipotizza l’identificazione del maestro che fa lezione, in Barnaba di Nanni Pannilini, che era allo stesso tempo impresario nel tessile (fornisce infatti il modesto tessuto degli abiti dei bambini, il “guarnello” indossato sia dalla scolara che dalla sposa) e titolare di una scuola di retorica, intimo di san Bernar- dino e autore della prima biografia del santo. La scena del matrimonio esemplifica in maniera quasi didascalia gli insegna- menti di San Bernardino: la sposa timida, con gli occhi bassi, la veste dimessa, che quasi si ritrae dalla mano dello sposo che le porge l’anello, è il modello della Madonna Pudicizia. E quel personaggio dal volto stravolto, trattenuto a forza dietro gli sposi, è il sodomita, colpevole di quel “maledetto vizio” che solo dal matrimonio può essere sconfitto. Infine una esplicita citazione bernardiniana (“tua moglie sarà vite feconda nelle parti segrete della casa”) spiega la figura femminile che coglie l’uva da una vite stranamente piantata sul tetto. Nell’ultimo affresco di questo lato, che presenta “il banchetto” cui dev’essere in- vitato il povero storpio come da insegnamento evangelico, l’autrice osserva la presenza della stessa figura maschile, elegantemente vestita in azzurro e oro, che compare in una scena dall’altra parte della sala. Chi era? I colori araldici sono quelli dei Petrucci, e il personaggio più famo- so all’epoca era Antonio di Checco Rosso Petrucci, potente condottiero, diplomatico, politico e letterato senese, che è al centro dell’affresco denominato “L’indulgenza del Papa”, nel cui contesto avrebbe un ruolo specifico, perché Antonio si adoperò in più modi perché Siena non si discostasse dall’orbita pontificia. E’ comunque una identifica- zione molto complessa, e la stessa autrice precisa che si tratta di una supposizione cui è molto difficile trovare conferma. Questo affresco è il più politico di tutto il ciclo, ed ogni personaggio va letto tenendo presente il concilio in corso, l’evoluzione della rivalità con Firenze e la ricon- ciliazione con Papa Eugenio IV che, dopo la revoca della scomunica a Siena grazie alla 282 Notiziario bibliografico mediazione di Carlo d’Agnolino e san Bernardino, vi soggiornò dal marzo al settembre 1443. E’ lui infatti il papa rappresentato e non Celestino III, come ormai accettato dagli storici. Ma la scoperta più interessante dell’autrice è l’identificazione dell’ex rettore dell’Ospedale e allora Vescovo, Carlo d’Agnolino, nel personaggio vestito di nero in ginocchio davanti al papa, riconoscibile dai lineamenti che si accordano con quelli sulla sua lastra tombale in duomo. L’autrice tenta l’identificazione dei soggetti si affollano sulla destra, raffigurati con fisionomie molto precise, ma avanza solo delle supposizioni così come sulla mi- steriosa giovane fanciulla bionda vestita di rosa (l’Aurora o Ifigenia?), che risulterebbe incongrua se non nel suo valore simbolico. Interessanti, per questo come per altri affreschi sullo stesso lato, le considerazio- ni sulle elaborate architetture che fanno da sfondo alle scene (quasi un anticipo della città ideale), i cui modelli paiono influenzati dalla pittura fiamminga, fiorentina, -lom barda innestate sulla grande tradizione locale, in virtù dei contatti nazionali e inter- nazionali intrattenuti dagli artisti senesi. Così ad esempio nella scena “L’accrescere delle muraglie”, dove l’edificio centrale richiama, secondo la studiosa Maria Antonietta Rovida, il castello di Pavia. In questo affresco inoltre l’autrice contesta la tradizionale interpretazione per cui il personaggio sul cavallo scalpitante sarebbe un vescovo. Il copricapo invece indica che si tratta di un condottiero, forse Niccolò da Tolentino, che i senesi volevano al loro servizio. E’ invece effimero il padiglione collocato nella piazza fra l’Ospedale e il Duo- mo che compare nell’affresco di Priamo della Quercia dedicato alla “Vestizione del rettore”. La cerimonia dipinta corrisponde in tutto e per tutto a quella, ricostruita da Lucia- no Banchi, per l’investitura di Carlo d’Agnolino Bartali a rettore dell’Ospedale, mentre riceve dal Beato Agostino Novello (ritenuto l’ispiratore degli statuti dell’Ospedale) la “veste buia”, cioè di colore sbiadito. Il personaggio, - finora pressoché sconosciuto – fu molto autorevole a Siena alla metà del Quattrocento e il Pellegrinaio gli rende omaggio in più modi: ne abbiamo visto lo stemma nella scena della corsia ospedaliera e lo abbiamo riconosciuto inginocchiato ai piedi del Papa. In effetti dopo aver ricoperto la carica di Rettore, nel 1427, venne nominato vescovo al posto di san Bernardino che aveva rifiutato. Concludiamo la rassegna con quello che in realtà è il primo affresco che si in- contra sul lato sinistro del Pellegrinaio, realizzato dal Vecchietta nell’autunno del 1441. Si tratta della “Storia di Sorore”, secondo la leggenda creata nel ‘500, il calzolaio che avrebbe fondato l’Ospedale dopo aver sognato la madre che gli indicava una scala su cui salivano bambini per essere accolti da una benevola Madonna. L’Autrice, osser- Notiziario bibliografico 283 vando come questo nome compaia per la prima volta proprio nell’atto di pagamento al Vecchietta, ne ipotizza la derivazione da sororius (Iuno Sororia era la dea dei bambini abbandonati), quindi come influsso del mondo classico, che si ritrova negli elementi della decorazione del grande arco all’antica sotto cui si svolge la scena. Interessante anche l’identificazione dei personaggi che stanno ai piedi della scala: senz’altro un canonico e un oblato che con la mano destra accenna agli occhi. Come interpretare questo gesto? Solo richiamando una predica di San Bernardino dove aveva affermato che l’Ospedale era uno degli occhi della città e l’altro la cattedrale, che erano collegate non solo spazialmente (divise dalla piazza “lunghetta”come il naso). Ed a completare i richiami politici e religiosi, le figure in primo piano, riccamente vestite, probabilmente diplomatici e personaggi vestiti all’orientale che ricordano come fosse in corso il con- cilio per l’unione fra la chiesa latina e quelle orientali, fra i quali l’imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo (riconoscibile dalla visiera di pelliccia rialzata): insomma un’opera in cui il messaggio etico (l’ospedale identificato dalla scala si affida alla Madonna, mentre canonici della cattedrale e oblati dell’ospedale raccol- gono elemosine per l’assistenza ai poveri) si accompagna a temi politici e culturali di attualità. In sostanza Petra Pertici invita a guardare agli affreschi del Pellegrinaio come una lezione di etica e storia, ne offre chiavi di lettura originali collegandoli alle elabora- zioni teoriche dei cenacoli umanistici e degli uomini della chiesa locale, collegate agli eventi del momento e spiegate con esempi comprensibili ai senesi di allora. Insomma un’operazione di fine propaganda per un’istituzione importante e potente.

Laura Vigni 284 Notiziario bibliografico

Anna Gargallo, Racconto di viaggio. 1837-1838, a cura di Dario Scarfì, introduzione di Gianni Puglisi, Siracusa, Lombardi Editori, 2014, pp. 294.

Il marchese siracusano Tommaso Gargallo (1760-1843), fine letterato – celebre in vita per la sua traduzione di Orazio e per il credo classicista ardentemente professato – intraprese dal 1837 al 1839 un lungo viaggio nell’Italia del nord e in Europa, accom- pagnato dai figli Francesco, Carmela, Isabella e Anna. Nell’occasione la famiglia ebbe modo di incontrare il granduca di Toscana Leopoldo II, il principe di Metternich, il re di Piemonte Carlo Alberto e addirittura Luigi Filippo di Francia, oltre a numerosissimi intellettuali, musicisti, letterati, eruditi, scienziati. Del viaggio si conserva presso la famiglia un dettagliato diario di Anna, un cui ampio estratto che copre il lasso dal 14 giugno 1837 al 25 marzo 1838 è stato trascritto, amorevolmente curato e annotato da Dario Scarfì per la pubblicazione. Donna colta, arguta, ironica, Anna Gargallo – lodata da Benedetto Croce nella Storia della storiografia italiana nel secolo XIX come “intelligente giovinetta siciliana” – trattiene memoria delle persone, delle città, delle opere d’arte, delle conversazioni; sempre franca e ferma nei suoi convincimenti, condensa nelle sue pagine ricordi, giu- dizi, impressioni di cronache pubbliche e avvenimenti privati, di letture e spettacoli, delle usanze e dei costumi, delle specialità gastronomiche (“la zampetta di Modena, tanto celebre fra i gastronomi, per me è una vera peste, non l’ho potuta punto digerire, sin il giorno dopo me la sentiva ostinatamente in gola, mille volte meglio la spalla di S. Secondo”). Dal 17 al 19 giugno la carovana dei Gargallo fece una breve sosta a Siena, riem- piendo le giornate con un’agenda fittissima di visite e d’incontri, tutti minuziosamente appuntati da Anna. La prima mattina fu dedicata alla Piazza del Campo, al Palazzo Pub- blico, al Duomo e alla chiesa di S. Domenico. Nelle memorie della viaggiatrice colpi- sce in prima battuta la rimozione quasi totale del Medioevo, con l’inevitabile eccezione delle principali architetture. Anche dentro il Palazzo Pubblico, non ha occhi che per le pitture moderne, in particolare per Beccafumi (che però, da Mecarino, diviene “Mon- cherino”) e Sodoma, che senza dubbio lascia un’impressione forte e indelebile su di lei. Di Ambrogio e Simone, invece, nemmeno un fugace cenno: al Buongoverno e alla Maestà viene preferita la decorazione della Cappella dei Nove. Parziale risarcimento offrirà l’autrice nei confronti del secolo XIII dichiarando “opera meravigliosa” il pul- pito di Nicola Pisano in duomo, dove compie una ricognizione completa delle sculture, lodando in particolare Donatello, Vecchietta e il Monumento a Bandino e Germanico Bandini, allora unanimemente ritenuto di Michelangelo. Largo spazio è dedicato alla Libreria Piccolomini, con gli affreschi del Pinturicchio che illustrano la vita di Enea Silvio Piccolomini ricordati uno a uno. Dopo aver visitato il Battistero, soffermandosi sulle formelle del fonte battesimale, i Gargallo di diressero a S. Domenico, dove l’E- stasi e soprattutto lo Svenimento di santa Caterina colpirono a tal punto Anna da farle scrivere: “Mai quadro mi ha fatto maggiore impressione di questo, lo Svenimento è inarrivabile. Mi piace più di qualunque altro quadro ch’io avessi veduto in Siena. La Notiziario bibliografico 285 testa, le due mani, l’intero abbandono della persona sono mirabili, pare che il pittore avesse idealizzato un modello che pur dovea avere innanzi agli occhi, tanto è sì viva- mente presa la natura”. La famiglia si recò a sentir messa la mattina successiva, domenica 19 giugno, a S. Francesco, dove Anna fu colpita da “i 4 grandissimi quadri de’ Novissimi” del Nasini e, naturalmente, dal Cristo alla Colonna e dalla Deposizione dalla Croce dell’amato Sodoma. Di lì si portarono a S. Agostino – raggiunta “con gran fatiga” per il caldo afoso della giornata – e al collegio Tolomei, visita quest’ultima noiosissima per Anna perché il venerando rettore dell’istituto “non ci fece grazia di una camera, d’un corridore, d’un ragazzo, d’un bimbo”. L’orzata presa al caffè, subito dopo, consentì di incontrare l’edi- tore Onorato Porri – padre del più celebre Giuseppe – e i professori Nascimbeni e Va- lenti che li accompagnarono all’Università, dove Giulio Piccolomini fece da Cicerone, mostrando con orgoglio il Gabinetto fisico nel quale Santi Linari aveva recentemente “avuto la fortuna di eccitare la scintilla elettrica sopra la torpedine”. All’Accademia di Belle Arti visitarono la Galleria assemblata dal Ciaccheri e proseguita dal De Angelis (oggi nucleo principale della Pinacoteca Nazionale), ulteriore occasione per ribadire la predilezione per Sodoma. Impietosa si rivela invece Anna nei confronti del direttore della scuola, il pittore classicista Francesco Nenci, “ottimo disegnatore, colorista pessi- mo” […] Egli fu amabilissimo per noi, ci mostrò i suoi quadri, i suoi cartoni, i suoi boz- zetti. Se dovessi e potessi aver qualcosa del suo studio preferirei i suoi cartoni. Si può bensì vivere e viver lieti anche senza quelli”. La giornata si conclude con un passaggio in Biblioteca e con una riflessione sui senesi che, forse non del tutto inconsciamente, riecheggia anche se con maggior benevolenza lo sferzante giudizio di Dante: “I sanesi sono per loro natura amabilissimi ed ospitali, ed a quel che pare un pochino troppo toc- chi dalla più bella parte, e più numerosa della creazione. Da lungi mi è caro ricordarmi di loro, ma da vicino il troppo, il soverchiante tripudio mi annojava di troppo. Fui con- tentissima liberarmi di tanta spontanea repentina benevolenza. Per altro mi è rimasta una grata piacevole impressione di Siena, e vi ritornerei con piacere”. Il pomeriggio della stessa domenica partirono da Siena e, dopo una terribile not- tata passata a Colle – “pessima locanda, pessima locandiera, pessimissimo letto – si diressero a Volterra. Marco Pierini 286 Notiziario bibliografico

Jane Tylus, Siena. City of Secrets, Chicago, University of Chicago Press, 20151

Siena. City of Secrets di Jane Tylus è un libro personale, erudito, autorevole da ascrivere al nobile genere odeporico, la letteratura di viaggio ormai così poco frequen- tata, in cui una voce narrante riflette su culture e costumi di paesi lontani, maben conosciuti, e tra le pagine emerge il desiderio di ispirare la visita, ragguagliando il lettore con consigli per il soggiorno. Il libro è anche un giornale di viaggio articolato e complesso, costruito anno dopo anno, stagione dopo stagione, dove i caldi estivi si succedono a umidi autunni e le nebbie invernali si diradano per far posto a fioriture primaverili. È un registro di bordo di fatti e notizie rilevanti, diario intimo di pensieri ed esperienze, documentario letterario di memorie trascorse, reportage giornalistico su cronache, fatti e persone del giorno. Ma anche una guida pratica che invita a scoprire la città con l’entusiasmo dell’esploratore in perlustrazione avventurosa, per esempio al sistema dei bottini,o piuttosto con l’indolenza del flâner che si aggira pigramente alla scoperta difonti ormai asciutte e di chiese costantemente chiuse. Anche il contado è meta di scampagnate per ritrovare stazioni termali, approfittando così per raccontare le visite di sante e di papi, e passeggiate per antichi borghi oggi abitati da poveri immigrati e ricchi stranieri. Obiettivo del libro è osservare la natura e il temperamento senese nel suo genius loci. Natura e temperamento direi principalmente umani: raccontare il carattere dei senesi certamente con gli occhi di un forestiero innamorato, ma con giudizio lucido esicuro, con tono intimo e confidenziale, consguardo mai giudicante o nostalgico. In questo senso mi piace pensare al sottotitolo City of Secrets come se la città – attraverso i suoi elementi costitutivi, cittadini, contrade, storia dei luoghi – entrasse in rapporto non tanto con i suoi segreti, nel senso di cose nascoste o inaccessibili, quanto piuttosto con quella di secretum, ovvero privato, riflessioni personali provenienti dal profondo della coscienza. Tuttavia l’autrice racconta in prima persona plurale usando il “noi” perché nel- viaggio non è sola. Vi è sempre presente la famiglia, i due figli Alex e Nathan e il marito William. La loro presenza fa da cassa di risonanza alle riflessioni che si strutturano in racconto, rendendo i pensieri mediati da esperienze diverse per età, genere e cultura, e filtrati attraverso una maturazione basata sul vivere in comune. Le pagine procedono in modo fluido e si rivolgono da autore a lettore. Si tratta di una conversazione ben attrez- zata around and about Siena, dove il discorso sulla città serve a inquadrare tematiche universali, trasformandola così in «a tiny but not inaccurate model of the world» (p. 181). Il libro si struttura anche come una guida affettiva per temi: terra e acqua, santi e pellegrini, denaro e contrade. Il discorso prende efficacemente avvio con l’imma- gine aristotelica degli elementi naturali in gioco, i quali in continua generazione e

1 Il presente testo è l’adattamento italiano di quanto letto alla presentazione del volume il 17 novembre 2015 a New York nella sede della Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University. Notiziario bibliografico 287 consunzione hanno plasmato questi luoghi quasi forgiando nel’aspetto in prospettiva alchemica: crete e colori, metalli e minerali, terremoti e vulcanismo e quindi bagni e terme, sorgenti e bottini, fino alla Fonte Gaia e all’inafferrabile Diana, una storia di scoperte e invenzioni, di fallimenti e opportunità perdute. Il carattere dei senesi è quin- di approfondito sui temi della santità locale, dai santi Caterina e Bernardino, ai beati Agostino Novello e Andrea Gallerani, Piero Pettinaio e Giovanni Colombini, insieme a molti altri, uniti tutti da una pervasiva visione politica e una onnipresente vocazione ospitaliera, base di ogni futuro partecipazionismo politico cittadino. Protagonisti sono ancora i pellegrini riversati a frotte all’interno delle mura a rendere celeberrime le fondazioni dello Spedale di Santa Maria della Scala e della Confraternita della Mise- ricordia, motori principali dell’associazionismo laico senese. I meccanismi sociali e la ricchezza finanziaria sono discussi nei capitoli dedicati alla grande festa del Palio con le sue contrade e la sua ritualità laica, e alla storia economica di Siena, già Wall Street dell’Europa medievale e oggi vittima del più grande tracollo finanziario italiano degli ultimi tempi (p. 99), pagine queste ultime nelle quali più serrato si fa il confronto fra passato e presente proprio alla luce della complessiva crisi gestionale cittadina dalla quale non è stata risparmiata neanche l’Università, anch’essa di antichissima fonda- zione. L’intero libro è attraversato da argomenti chiave giocati su confronti che metto- no continuamente in risalto affinità e differenze di natura geografica e storica. Siena è insistentemente osservata rispetto al suo mondo esterno, fuori le mura sin oltre i suoi confini storici – il contado, Firenze, Roma – e, ovviamente, in rapporto ai corrispon- denti miti di fondazione – gli effetti del Buongoverno in città e campagna, la battaglia di Montaperti contro Firenze, la lupa e il gemellaggio con Roma – a creare una serie articolata di immagini speculari, ciascuna riflesso dell’altra. Fanno da leitmotiv all’intero libro alcuni temi trasversali, vere e proprie chiavi d’accesso per interpretare passato e presente cittadino, alcuni davvero potenti e inusuali a descrivere la città in quanto organismo vivente nel lunghissimo periodo: temi relativi a personaggi sacri, come Tobiolo la cui storia attraversa tutte le pagine del libro e di cui l’autrice ha riscoperto dall’oblio una rappresentazione frammentaria tra due lunette del Pellegrinaio, o come Galgano, figura di pellegrino, banchiere, guaritore e santo e per- tanto summa della migliore senesità, o ancora immagini di opere d’arte utilizzate con valore metaforico come la commovente immagine della Sacra famiglia durante la Fuga in Egitto dipinta nella Cripta del Duomo o il Mappamondo perduto di Ambrogio Loren- zetti nella omonima sala del Palazzo Comunale, sulla cui immagine si chiude appunto la riflessione finale del libro. Allo stesso modo architetture esemplari e celebri vicende costruttive sono accuratamente scelte per contribuire alla qualificazione dello specifico spazio storico e politico, senza dimenticarne la megalomania edilizia e l’ossessione amministrativa di controllare il controllabile, di mantenere il vecchio senza rinunziare al nuovo e, al tempo stesso, quasi concedendo alla natura di congelare la forma urbana in una sorta di erratico archivio spaziale, come una testimonianza della difficoltà di costruire con orgoglio in terreni così accidentati (p. 21). 288 Notiziario bibliografico

Il libro presenta dunque l’immagine di ciò che Siena dava e può ancora dare oggi di se stessa e, insieme, mostrare una idea di città che si offrì e che si offre tuttora al mondo. Il centro cittadino per l’autrice non coincide con Piazza del Campo o con il Duomo, ma si sposta a Vallepiatta, e in particolare intorno al vicolo delle Carrozze, dove risiede nei suoi soggiorni in città e dove il tempo, almeno quello cronologico, sembra collassare, permettendo alla narrazione una coesistenza con il ricordo di prota- gonisti e fatti del passato. Una perfetta cerniera spazio-temporale, cosicché Francesco di Giorgio Martini o Pandolfo Petrucci sono portati a condividere gli stessi spazi di Andrea il giornalaio o di Alberto l’ortolano in un fluire continuo di fatti e osservazioni. Con questo dispositivo la città si articola come letto catalizzatore di eventi ecce- zionali dove le cose che accaddero continuano ad accadere con la stessa intensità vitale di sempre, offrendo l’occasione di ripetuti corti circuiti temporali capaci di creare un tour de force retorico condotto con grande bravura. Nella trattazione così oscillante tra passato e presente nulla è lasciato fuori e davvero tutto sembra tenersi. Siena emerge così come luogo intermedio – posto tra – nello spazio e nel tempo: tra etruschi e romani, tra urbano e naturale, tra nord e sud, tra materia e luce, tra sacro e profano, tra tempo della festa e tempo del lavoro. «Siena Cambia» è stato lo slogan della più recente campagna politica e l’aspi- razione della sinistra a far cambiare le cose in una città in cui da troppo tempo ormai nulla sembra più poter cambiare, a fronte della nostra continua trasformazione sociale e della inarrestabile globalizzazione. È questo il più deciso e toccante leitmotiv del libro, il quale dalle pagine iniziali si snoda lungo l’intero volume, lanciando una pro- vocatoria domanda finale nel capitolo conclusivo, e con cui mi piace concludere nella mia libera traduzione, auspicando prestissimo la traduzione integrale del libro per un pubblico più vasto di persone interessate all’argomento: «Siena sembra aver preso i contorni dell’immutabile e forse ciò che ci piace è proprio il suo non essere cambiata dall’ultima volta che ci siamo stati. Cosa ci attende però ora che le sue fondazioni più importanti sono state umiliate, adesso che lo slogan di un nuovo partito è diventato «Siena cambia»? Potrebbe questa eterna immutabilità essere un’illusione,una proiezio- ne del nostro stesso desiderio di stabilità da porre in qualche parte nel mondo, insieme con un altrettanto comprensibile desidero da parte dei senesi? A quale Mappamondo appartiene Siena?» (p. 209).

Mauro Mussolin Notiziario bibliografico 289

Per Aldo Cairola. Scritti e testimonianze, a c. di Felicia Rotundo, introd. di Stefano Cairola, Arcidosso, Ed. Effigi, 2015, pp.153.

In questo libro sono pubblicati gli interventi che il 18 settembre 2014 , nella Sala del Risorgimento del Palazzo Pubblico di Siena, un gruppo di amici, allievi e colleghi pronunciarono in ricordo di Aldo Cairola a trent’anni dalla sua scomparsa. Ho detto amici, allievi e colleghi (cioè Marco Ciatti, Bruno Santi, Anna Carli, Alberto Cornice, Mauro Civai, Maria Pia Lippi Mazzieri, Roberto Barzanti, don Car- lo Stancari, Carlo Fini, Curzio Bastianoni, Rosanna De Benedictis, Felicia Rotundo, Narcisa Fargnoli, Mauro Barni, Pier Giorgio Balocchi, Gian Piero Bonelli, Ambra Ca- bibbe, Ranieri Carli, Fabio Mazzieri, Augusto Mazzini, Ferrer Mauro Momicchioli, Cesare Olmastroni, Giuseppe Semboloni e Piero Torriti) , ma queste tre categorie si confondono quasi sempre nella sostanza dei vari enunciati, con espressioni di stima, di simpatia, di riconoscenza per una persona, che ha lasciato a Siena una traccia cultural- mente e umanamente significativa. Aveva sedici anni Aldo Cairola quando, nel febbraio 1944, l’ intensa passione civile lo portò a seguire il battaglione Barbarigo, come ricorda Roberto Vivarelli, il giovanissimo amico che partì con lui e che – divenuto l’autorevole storico contempora- neista, autore di importanti saggi su quel drammatico periodo – cita Aldo e il suo carat- tere passionale e impulsivo nel libro dal titolo programmatico La fine di una stagione. Ma una stagione nuova, senz’altro meno mistificante, si aprì per Aldo dopo la laurea in lettere e filosofia all’Università di Firenze nel 1952 con una tesi su Gérard de Nerval, il poeta che oscillava tra il pensiero magico dell’inconscio e la dura coscienza del reale. Supplente per un breve periodo alla cattedra di Storia dell’arte del Liceo “Pic- colomini” di Siena, fu – e lo dico per esperienza personale – un professore del tutto diverso da quelli cui eravamo abituati, non solo per la sua giovane età (pochi anni di differenza con noi alunni di seconda o di terza) – ma soprattutto per il suo metodo didattico, fuori dagli schemi usuali, con lezioni tenute nel pomeriggio, con visite nella Pinacoteca e a mostre d’arte, anche fuori Siena. Alcuni dei relatori ricordano questo ed anche colleghi nelle altre sedi d’insegnamento di Aldo, al Liceo “Pintor” di Cagliari o al “Cicognini” di Prato. Intanto, però, su consiglio di Enzo Carli, allora sovrintendente al monumenti e alle gallerie di Siena, Cairola s’impegnò in una ricerca su un pittore cinque – seicen- tesco, Sebastiano Folli, e pubblicò nel 1956 la prima monografia su questo artista. A proposito di artisti, sono tanti quelli che Aldo ebbe occasione di conoscere, anche fre- quentando la Villa Solaia dei Vivanti: il pittore Montagnani, lo scultore Vico Consorti, la poetessa Maria Luisa Spaziani, Renato Guttuso e un poeta – Mario Cabibbe – al quale scrisse la prefazione di una raccolta di versi dal titolo Per tenere il vento, edita a Roma nel 1968. Nominato direttore del Museo Civico senese nel 1956, mantenne questo incarico 290 Notiziario bibliografico

, non ostante gl’impegni didattici esterni, fino al 1981 e nei testi di vari relatori vengono messe in luce le vere e proprie conquiste che Cairola riuscì ad ottenere per la sua città in quel delicato ruolo: basterebbe solo pensare al recupero dei Magazzini del Sale, dove poi nel 1975 fu allestita la mostra di Jacopo della Quercia; e ancora è ricordato l’im- pegno di Aldo , in collaborazione col direttore dell’Archivio di Stato di Siena Ubaldo Morandi, per l’avvio della sistemazione dell’Archivio comunale, in particolare per la concentrazione dei documenti dell’Ufficio tecnico, decisivi per una storia urbanistica della città. Una città alla quale Cairola ha dedicato libri, saggi e articoli, che rimangono fonti imprescindibili in una bibliografia sul locale patrimonio artistico e culturale. Dai volumi sul Museo Civico, sul Palazzo Pubblico, sulla Zecca, sui tanti catalo- ghi di mostre, fino agli opuscoli sugli itinerari turistici, la produzione scientifica di Aldo Cairola è tutta tesa all’illustrazione e valorizzazione dei tesori d’arte, dell’artigianato e del paesaggio d’una terra, quella senese, alla quale - come testimoniano tutti gli autori di questo libro – egli fu legato da una vera e propria passione d’amore, possiamo presumere corrisposta se, nel 1980, Aldo ebbe il riconoscimento civico del “Mangia d’oro”. Forse la massima dimostrazione di quella passione d’amore si può riscontrare in un testo di Cairola uscito postumo nel 1981 a cura di Giulio Pepi; s’intitola Siena. Le Con- trade. Storia, feste , territorio, aggregazioni. E’ un libro frutto di una ricerca ventennale, dove, sulla base di un’accurata indagine bibliografica e documentaria, si vuole giungere a stabilire quale è l’essenza della Contrada. Scrive Cairola: “La Contrada, in quanto co- agulo di tradizioni, non è – per questo – tradizionalistica; l’equivoco nasce da una visione provinciale e campanilistica del complesso fenomeno. Nulla è più riduttivo dell’applica- zione del tradizionalismo a fenomeni evolutivi. Se le Contrade sono, come sono, asso- ciazioni di remote origini militari e religiose, che hanno saputo evolversi, sviluppando aspetti ludici e associativi, anticipando forme di cooperazione educativa, umanitaria e so- ciale, per loro il senso corretto del termine ‘tradizione’ va inteso come rapporto culturale con la storia. Ci sono stati periodi in cui il falso progressismo ha visto le Contrade come elementi frenanti per la crescita economica e lo sviluppo industriale della città, ma la realtà è sempre quella di uno spazio limitato, in cui il verde delle valli è considerato più importate della ciminiera, e la conservazione del patrimonio culturale prioritaria rispetto a massificazioni urbanistiche che sviliscono spazi pensati per l’uomo”. Il libro Siena. Le Contrade fu presentato il 20 giugno 1986 nella Sala del Palazzo Patrizi da Enzo Balocchi, da Roberto Barzanti e dal sottoscritto. Ricordo che – come oggi scorrendo questo volume, così amorevolmente curato da Felicia Rotundo e così opportunamente corredato da foto e frammenti di scritti di Cairola - ebbi anche allora la sensazione di una fervida humanitas di Aldo, fin dalla dedica nella prima pagina, che dice: “A Roberta e ai nostri figli Benedetta e Stefano, perché possano anche loro – che non hanno avuto la sorte di nascere a Siena – amare sempre più e meglio questa splendida città”. Giuliano Catoni Notiziario bibliografico 291

Ranieri Carli, Siena. Un amore lungo una vita, Siena, Betti, 2015, pp.186.

Questo libro è il frutto di un vagabondaggio sensitivo, in cui – dei cinque sensi che la natura ci ha dato – soprattutto due hanno stimolato l’Autore: l’udito e l’odora- to. Già nel paragrafo intitolato Campane si dà conto del disagio che provoca il loro implacabile suono ad ore fisse, “monito - scrive Carli – della temporaneità del nostro passaggio in questo mondo” (p.37). E Siena è piena di campane, insieme con le torri e i figli di gran dame. E’ vero, però, che ci sono anche i rintocchi di Sunto per il Palio e quelli della campanina dell’Oratorio di Contrada, che fanno parte del “quadro sonoro di una comunità”, dove – in un pomeriggio della calda estate del 1945 – il piccolo Ranieri Carli sente un cadenzato rumore nella strada dove abita: via Tommaso Pendola. Sono i tamburi della Contrada, la sua Contrada, la Tartuca, che finalmente, dopo il silenzio imposto dalla guerra, riprendono il loro brontolio ritmato e che , “seppure monocorde, a me - nota Carli – è sempre parso uno tra i più bei suoni che possano colpire le mie orecchie” (p.167). Sempre tornando ai tempi dell’infanzia e della giovinezza, ecco il ricordo di altri suoni dell’amata città: il grido del cenciaiolo, l’avviso della trombetta di ottone dello spazzino, che invitava i cittadini a mettere fuori dell’uscio il secchio della spazzatura; e poi i rumori delle botteghe di falegnami, fabbri e stagnini, nonché le voci dei ragazzi che giocavano e quelle delle donne alle fonti. Qui l’Autore, che si definisce “viaggiatore immaginario del ventunesimo secolo”, sembra rifarsi alle reminiscenze uditive di certi viaggiatori settecenteschi, come Giacomo Casanova ( che nel 1770 notò che a Siena si parlava una lingua “più delicata, più graziosa e più energica della fiorentina”) o come il De La Lande, secondo il quale “i Senesi avevano “ la pronuncia dolce ed armoniosa”. Suoni meno armoniosi giunsero però a Carli quando, abitando nella collina op- posta a quella dove sorgeva l’Ospedale Psichiatrico, udiva le urla dei ricoverati. Poi – scrive – “ vennero i tranquillanti e l’Ospedale non fu più, nei giorni di vento, quella tumultuosa uccelliera di creature terribili e terrorizzanti”. Creature ben diverse evocano ricordi di un’altra “uccelliera musicale” , definita incantevole nel paragrafo dal titolo Chigi, Chigiana e chigianisti. “Amante della musica sopra ogni altra cosa”, l’Autore descrive con grazia il conte Guido, gli allievi e le allieve dell’Accademia, alcuni dei quali furono suoi amici, e l’atmosfera di molte strade senesi piene di suoni provenienti dal palazzo di Via di Città e dalle camere dei ‘chigianisti’, che si esercitavano con i vari strumenti o con le loro voci. Voci meno raffinate, anzi veri e propri ‘berci’ come esplosioni di vitalità contra- daiola, sono ricordati nel libro quale componente non certo accessoria del Palio e delle Contrade; Carli ne scrive , essendo - come confessa - “impastato di tartuchinità”. Ma il vagabondaggio sensitivo continua, sfruttando il nostro senso più etereo, quello legato all’aria, che gli trasmette i suoi messaggi, esclusi da Kant dalla sfera dell’estetica e che Buffon definì il senso dell’animalità, cioè l’odorato. 292 Notiziario bibliografico

Già De Sade, quando nell’ottobre 1775 visitò Siena, scrisse che qui l’aria era pura e la campagna gradevole; ancor più analitico l’orientamento olfattivo del Poujou- lat, che nell’Ottocento annotava: “A Siena nell’aria che si respira c’è qualcosa di vivace e di leggero che conserva i capolavori della pittura e dà splendore alle donne”. Oggi, nel nostro sogno ecologico, prestiamo maggiore attenzione ai dati olfat- tivi e in una città come Siena, dove particolari condizioni socio-economiche hanno evitato l’inquinamento atmosferico, è ancora possibile cogliere i messaggi odorosi del clima e delle stagioni. Ma il naso esplora anche l’invisibile e l’inesprimibile, come ha fatto quello americano di Henry James, che scrisse: “Altri luoghi possono forse offrirvi un sonnolento odore d’antichità, ma pochi lo esalano da un’area così vasta. Ammassata all’interno delle sue mura, su una serie di colli stretti l’uno accanto all’altro, in ogni momento Siena vi mostra in che modo grandioso un tempo ha vissuto.” Ad una sfera più intima si rivolgono gli stimoli olfattivi di Ranieri Carli, che ricorda la brillantina acquistata in un appalto ( come si chiamavano i negozietti di cam- pagna, dove si trovava di tutto) e che aveva un profumo intensissimo e dolciastro, che si chiamava ‘Casa mia’ e che “poteva tranquillamente sconfiggere quello proveniente dalle concimaie” (p.34). Ma nelle sue passeggiate di diciottenne in Siena e nei dintorni ecco il ricordo dell’austero profumo dei cipressi, oppure quello del gelsomino fiorito, che ornava le pareti dell’ingresso della Fortezza, o ancora quello della casa dei nonni a Pisa, “compostamente borghese”, di fiori e libri. Altri effluvi, immaginati o reali, colpiscono l’Autore nelle piazze del Duomo e del Campo: nella prima – davanti all’Ospedale S.Maria della Scala – quello amaro dei medicinali e dell’etere; nella seconda quello di grasso e di copertoni del riparatore di biciclette, che insiene col negozio dell’uccellaio, dell’orologiaio e a quello del vendi- tore di granaglie, si trovava intorno al Campo cinquant’anni fa. Ecco poi il giovedì santo del 194... Ranieri con la sorella fa la visita ai sepol- cri. Nelle chiese domina l’odore dei ceri che si mischia a quello dell’incenso. Accanto ad una delle chiese visitate, quella del Carmine, l’Autore ricorda il convento dove è andato a far visita a un vecchio frate. Gli piacciono i conventi e gli piace l’odore che hanno: un misto di muffa e di pane raffermo. Farsi frate, allora – pensa il giovanissimo Ranieri – per godere di quegli effluvi ? Passa per l’appunto una giovinetta che gli piace tanto, anche lei impegnata nel giro ai sepolcri, e l’idea di farsi frate viene accantonata; anche perchè, alla fine del giro, c’ è da da comprare un corollo al forno del Casato e il profumo dell’anice che aromatizza il corollo fa pensare ad altro : alla strada di casa, con le sue luci, le voci e gli odori, che - scrive – “ci avvolgono in un lungo, tranquillizzante abbraccio materno”. E nella strada di casa, come in tante altre strade di rione, ecco un altro odore: un misto di vino e di tabacco di cattiva qualità, che proveniva dalle osterie, o meglio dai vinai. “Le ricordo bene quelle stamberghe dalla scarsa luce che pioveva da un soffitto grommoso, dove spesso ragnatele, macchie di umido e fumo avevano colorato tutto di Notiziario bibliografico 293 un indistinto colore bigio (…) Io, studentello, vi andavo talvolta assieme a qualche amico, più per snobistico capriccio che per bere un bicchiere di vino e con l’intimo, ansioso piacere di incontrarvi una gente bizzarra, velatamente pericolosa e dai costumi lontanissimi dai miei” (p.96). Il vino ci riporta in Contrada e all’ultimo dei nostri sensi: il gusto. Ranieri ragaz- zo viene trascinato da un amico dentro i locali della Società . Qui Nanni, l’amico, gli offre un bicchiere di vermouth e acqua di selz. “Cautamente – ricorda – metto le labbra alla bevanda che non conosco: mai ho assaggiato cosa più buona e profumata e quando usciamo, camminiamo con grande dignità. Ci sentiamo a pieno diritto passati nel mon- do degli adulti, i quali, siamo sicuri, bevono sempre vermouth e acqua di selz” (p. 178). Passano gli anni e l’Autore torna nei locali della Società di Contrada, dove ve- drà “certamente Nanni, che è ormai un pensionato incanutito e miope, ed io non sono - annota - molto più in forma di lui. Non ricorderà certamente quel vermouth col selz, che nella mia memoria è ancora la cosa più buona da bersi in estate. Caso mai andrò da solo a berlo, il vermouth, perchè il selz, come tante altre cose ,è scomparso, sostituito dall’acqua minerale, forse più sana ma certamente meno affascinante.” (p.180) Un brindisi ideale con la coppa di quella favolosa bevanda può concludere que- sta nota su un libro, il cui Autore ha magicamente evocato il genio della vecchia Siena, “questa rude cittadina piena di voluttà”, come la definì Maurice Barrés.

Giuliano Catoni 294 Notiziario bibliografico

David Allegranti, Siena brucia, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 161.

Secondo David Allegranti, giovane giornalista – nato nel 1984 a Firenze – che ha esordito nel “Corriere Fiorentino” (dorsale toscano del “Corriere della sera”) e si destreggia ora tra televisioni e testate di diffusione nazionale, le vicende che hanno sconvolto Siena nell’ultimo decennio sono leggibili come un’emblematica storia non solo toscana: “Siena – si legge in quarta di copertina – è il più grande romanzo politico italiano”. Per quanto enfatica e coniata anche a fini pubblicitari, l’interpretazione ha del vero e non ha mancato di suscitare sussulti critici e indispettiti risentimenti. Come? Una città che è stata di norma presentata come appartata e avvolta in una sua criptica atmosfera è diventata d’improvviso specchio dei caratteri nazionali al punto da essere additata come scena per eccellenza di vizi e virtù dell’Italia? A tal punto è sfumata l’eccezionalità severa e gotica di una città altezzosa, solcata dalle ombre di un glorioso passato più che afflitta dalle turbolenze contemporanee? Il fatto è che Siena ha avuto nel Monte dei Paschi il fulcro della sua economia, una delle fonti primarie della mentalità prevalente, e la crisi epocale della banca, trasformata nel 1995 in Società per Azioni da Istituto di credito di diritto pubblico, l’ha coinvolta in azzardi e disegni, in rapporti e logiche che si spiegano, certo, anche guardando ben al di là delle antiche mura, ma sono state concepite in una Siena immersa più di quanto si ammetta nel contesto italiano. Le trame di una globalizzazione finanziaria che ha corroso inveterate consuetudini hanno ridotto di molto i tratti di una specificità esaltata fino all’eccesso e hanno sbalzato Siena agli onori – si fa per dire – di cronache nazionali e internazionali. Si potrebbe addirittura sostenere che a Siena si sono manifestate contraddizioni e han preso corpo rischi originati dai rapporti sempre più difficili tra contesti locali-nazionali e spregiudicate strategie perseguite in chiave di competizione, appunto, globale. È presto per dire quanto dell’eredità di Siena si sia bruciato nell’incendio. È sicuro che una buona fetta del solido patrimonio accumulato con un’attività creditizia sviluppatasi per secoli è andato in fumo e la cosa ha innescato mutamenti irreversibili nella società: antropologici e non solo politici, psicologici e non solo di programmi economici. Allegranti tiene presente questo sfondo, ma punta il suo sguardo sulla città. Il suo giornalismo d’inchiesta ha bisogno di ritrarre cose e persone, ha il piglio narrativo di chi scolpisce a duri colpi, e predilige una scrittura rustica, non levigata, intinta di vezzi da “cannibale” – secondo una fortunata etichetta di scuola letteraria – , striata di lessico popolaresco fino al vernacolo, incurante di grossolanità e di ripetizioni. Siena era beata in un suo sogno di grandeur, fiera di schierare invidiate squadre in serie A, sia nel basket che nel calcio, ricca delle terza banca del Paese, forte di una Fondazione che distribuiva risorse in generosissime quantità. “A un certo punto – scrive l’aggressivo reporter forestiero che a Siena ha finito per affezionarsi come ad un incomparabile caso di studio –, il mercato ha bussato alla porte della città e ha chiesto conto di errori, strapotere e malagestione” (p. XIII). Non è il mercato a mettere in crisi ambizioni Notiziario bibliografico 295 smisurate e oscuri disegni. Un intero ceto dirigente ha affrontato le dimensioni inedite di mercati che non erano più quelli di una volta, garantiti da collaudate prassi e controlli rigorosi, facendo leva su logiche miopi e spartitorie. Ed ecco una crisi di proporzioni inimmaginabili. L’acquisizione di Antonveneta per una cifra esorbitante è stato solo l’atto clamoroso e per molti aspetti ahimè decisivo di un dramma sul quale non conviene qui tornare. Taluni hanno rimproverato Allegranti di aver troppo personalizzato le responsabilità politiche per non infierire su un partito, il Pd, e accettare furbescamente la scorciatoia del capro espiatorio. Così non è. Il panorama tracciato è ampio, le diatribe pubbliche non sono affatto trascurate, anche se l’autore non nasconde che, a suo parere, “bastano le storie degli ex campioni della Siena che brucia” (p. 155) per capire quanto è accaduto. Le macroscopiche responsabilità soggettive, ed anzitutto politiche – gli aspetti penali saranno chiariti nelle sedi preposte, c’è da sperare in modo convincente –, sono indagate e non sono imputate solo ad una parte, e tanto meno solo a chi aveva collocazioni di vertice: il presidente Giuseppe Mussari, il direttore generale Antonio Vigni scelto perché “succube del sindacato” (p. 49), il presidente della Fondazione Gabriello Mancini etc. Il quadro tira dentro una serie di voci che dipingono una situazione intricata, che sarebbe stato scorretto semplificare. La struttura del volume evidenzia un viaggio fatto di molti tratti – dieci capitoli –, ognuno dei quali necessario all’insieme. Correttamente Allegranti muove da una riflessione sulla controversa categoria della “senesità”, tradotta sbrigativamente da mobile “soglia psicologica” (p. 11) in rivendicazione ideologica di anacronistici privilegi, e si sofferma a lungo sul Palio e sulle Contrade. Quasi a ribadire che per entrare nell’universo Siena ancor prima che nel “sistema Siena” – di cui molto si è scritto senza chiarirne elementi distintivi e originali – occorre studiare schemi mentali e braudeliane “prigioni di lunga durata”, evitando di farsi abbagliare dall’effimero del contingente. Il Palio è un teatro nel quale si proiettano valori simbolici rilevanti di status e di potere, durevoli malgrado la modernizzazione “ippica” subita negli anni recenti ed il conseguente indebolimento di temi sanciti dalla tradizione. Il montaggio dei capitoli non segue una scansione cronologica, né si sviluppa con un ordine logico. È un accorgimento che si confà al dichiarato taglio narrativo e non saggistico. La pagina dolorosa della morte di David Rossi – almeno all’apparenza un tragico suicidio –, responsabile della comunicazione di Mps, “la vera vittima di un sistema marcio” (p. 41), è descritta con prudenza e commozione. Rimangono dubbi o misteri che chiedono chiarezza. Dal punto di vista strettamente politico in primo piano compaiono i “duellanti” Franco Ceccuzzi e Alberto Monaci, entrambi personalità eminenti del Pd, il primo segretario provinciale del partito, l’altro presidente del Consiglio regionale della Toscana e notabile di lungo corso. Il dissidio tra costoro chiarisce nel modo più convincente il fallimento della prospettiva tesa – nei proclami – a costruire una formazione che fondesse in unità culture e adesioni di diversa e spesso divergente 296 Notiziario bibliografico provenienza. Invece lo spezzone post-comunista è stato sempre autonomo e geloso di suoi riferimenti rispetto a quello post-democristiano: dando luogo ad una convivenza tutt’altro che armoniosa. Da notare che le liti tra le due fazioni, segnatamente sulle nomine da effettuare, non sono state – documenta l’autore – gli elementi esclusivi di un quadro dominato da ricorrenti polemiche e da manovre occulte. Il centrodestra toscano di Denis Verdini “ha partecipato alla lottizzazione dei posti nella Deputazione della Fondazione Mps” (p. 41) e non solo: non è stato affatto a guardare. L’incendio in Curia è un intermezzo grottesco, se non farsesco. Il titolo ne amplifica la consistenza e lo erige a gustosa quanto amara metonimia. La magistratura non è stata in grado di chiarire chi abbia attizzato il fuoco in Arcivescovado e perché siano stati mandati in fumo compromettenti file. La crisi di bilancio dell’Università aggravatasi con la scalata a rettore di Silvano Focardi (pp.106 e ss.) si aggiunge ad una rassegna che non lascia inesplorato alcun angolo del Palazzo, dei Palazzi. Lo sport agonistico è anch’esso travolto dal ciclone. L’informazione della carta stampata è subordinata ai discorsi dominanti e, anzi, corrobora un senso di boriosa autosufficienza, che è fattore non secondario del conformismo di un’opinione pubblica obnubilata dai successi e drogata dai primati. Certi animosi, e coraggiosi, pamphlet e gli irati blogger che “hanno una certa considerazione di sé” (p. 144), impermeabile a qualsiasi dialogo sono l’atra faccia di una stessa realtà. In uno dei blog più seguiti si è letto un consiglio da far venire i brividi: non comprate il libro di Allegranti, meglio “risparmiare i soldi e spenderli in aperitivi” (cfr. “Corriere Fiorentino”, 14 giugno 2015, p.4). Non si comprende come si sia potuto accusare l’autore di aver voluto “riscrivere una storia recente di Siena, ad uso proprio di coloro che sono stati parte del sistema e che ora reclamano una parola benevolente di assoluzione” (E.Neri, “Corriere Fiorentino”, 16 giugno 2015, p. 10). Le malefatte di un intero ceto dirigente sono indagate senza sconti e gli epigoni non sono messi sull’altare. Semmai – inevitabilmente, data la scelta di sceneggiatura – sono assenti, o quasi, quanti hanno intessuto o contribuito a ordire le trame rovinose dall’esterno, dal povero Emilio Botín da Santander, (deceduto il 9 settembre 2014) ai prelati dell’Istituito per le Opere di Religione, dai segretari romani dei partiti e loro affaccendati accoliti ai deputati che curavano, non neutrali, il loro collegio elettorale. Ma per far questo i tempi non sono maturi né disponibili tutti i documenti, né attendibili conclusioni processuali. La storia – historia, ricerca – vien dopo la cronaca ed è consigliabile non contrabbandare presuntuosamente l’una al posto dell’altra. Nel finale il giornalista accenna a qualche segno di ripresa anche se si guarda bene dallo schizzare un filmico lieto fine. La disamina si chiude con l’abbandono della presidenza di Mps da parte di Alessandro Profumo, verso il quale non vengono spese adeguate parole di consuntivo. Né si discute il drastico piano industriale preparato sotto dettatura europea. Ci si limita a rammentare che sulla scorta di imperative prescrizioni BCE la banca dovrà trovare un’“aggregazione” che ne accresca i livelli di Notiziario bibliografico 297 capitalizzazione e la metta al riparo da tempeste sempre in agguato nella meteorologia infausta di un’ingovernabile globalizzazione finanziaria. Con indignazione e esattezza il libro mette in scena un “disastro etico e politico”. Ha l’andamento di una cronaca sanguigna, irriguardosa, secondo una tradizione toscana che può vantare pezzi da antologia. E anche questo libro, asciutto e documentatissimo, non pettegolo e non viziato da gossip superfluo, è destinato ad entrare in bibliografia come un titolo essenziale per raccontare gli snodi diun “pasticciaccio brutto”, che ha lacerato e mutilato una comunità. Henry James non potrebbe più, da visitatore innamorato, mettere a confronto la civiltà americana con l’incorrotta autonomia di Siena, lamentandosi della “dipendenza da migliaia di cose tremende” che in Oltreoceano ha smentito la dichiarazione di indipendenza proclamata a Filadelfia nel 1776. Ora che si è dentro le stesse minacce, assediati dagli stessi rischi, dagli stessi nemici forse, senza confini ravvisabili e sovente senza nome.

Roberto Barzanti

SEGNALAZIONI

Segnalazioni 301

Marta Calleri, Francesca Mambrini (a cura di), Codice Diplomatico Aretino - I. Le carte della Canonica di Arezzo (649-998), (Paleographica. Collana di studi di storia della cultura scritta, 2), Spoleto 2014, pp. XXIV-186.

Il primo volume del Codice Diplomatico Aretino a cura di Marta Calleri e Fran- cesca Mambrini propone all’attenzione degli studiosi il testo di 51 atti databili ai secoli VII-X, che rappresentano la fonte primaria per la genesi del sistema pievano nella Pen- isola, costituendo nel contempo fonti basilari per l’indagine su Siena e sul suo territorio in età longobarda. Infatti, al suo interno sono compresi i testi più antichi relativi alla plurisecolare contesa tra il vescovo di Siena e quello di Arezzo riguardo la giurisdizione ecclesiastica sulle chiese rurali ubicate nella vasta porzione della diocesi aretina sot- toposta alle autorità civili senesi. Il lavoro inaugura la serie dedicata ai documenti medievali conservati nel fon- do archivistico Canonica di Arezzo dell’Archivio Capitolare di Arezzo, un progetto editoriale che complessivamente prevede la pubblicazione integrale del materiale più antico e, in regesto, di quello bassomedievale, sino alla fine del Trecento (per alcune informazioni sul progetto si rimanda a http://remedialab.it/index.php). Non mancano precedenti edizioni, anche di ottimo livello, proprio per la parte della documentazione relativa alla cosiddetta “contesa per le pievi”; tuttavia il Codice Diplomatico Aretino offre nuove e preziose opportunità di approfondimento e rifles- sione. Per la prima volta, infatti, l’uso di tecnologie innovative allo studio di questa documentazione, quali l’analisi multispettrale attraverso la strumentazione “Mondo Nuovo”, ha reso possibile la comprensione di brani altrimenti illeggibili perché le scrit- ture erano erose, sbiadite o coperte, comunque non intelligibili a occhio nudo o con il solo ausilio della lampada di Wood. In secondo luogo, vanno sottolineate le nuove opportunità esegetiche derivanti dalla corretta ricomposizione editoriale sulla base di fondi archivisticamente omogenei, invece che procedere come in passato, tramite edizioni miscellanee su base cronologica (Codice Diplomatico Longobardo) o tipologica (privilegi regi, bolle pontificie, placiti ect.), comprendendo anche documenti di enorme interesse giuntici in copia più tarda, a differenza di quanto realizzato nella pubblicazione delle Chartae Latinae Antiquio- res. Ad esempio, appoggiandosi all’indice analitico di luogo, che correda l’edizione a fianco di quelli dei nomi di persona e delle cose notevoli, è possibile verificare i dati presenti nei documenti altomedievali, che menzionano toponimi e agionimi poi scom- parsi, ma riconoscibili secondo il metodo regressivo, appoggiandosi alla continuità delle attestazioni dei medesimi nomi nei munimina di un dederminato fondo d’archivio. Più in generale, nell’edizione di Calleri e Mambrini, per ciascun testo documen- tario – giunto sino a noi o solo menzionato in altri documenti – vengono offerte indica- zioni puntuali sui caratteri del supporto e della tradizione, sui problemi di datazione e di

Bullettino Senese di Storia Patria, 122, 2015 302 Segnalazioni autenticità, unitamente agli opportuni rimandi a precedenti studi, in modo da consentire agevolmente una valutazione delle informazioni relative alla cronologia, all’autenticità e persino al contesto di redazione dei non pochi falsi, prodotti in occasione della celebre controversia. Roberto Farinelli

Anabel Thomas, Sant’Angelo in Colle a guardia dei confini di Siena in età medievale, «Documenti di Storia» 109, Siena, nuova immagine, 2015, pp. 127.

Questo volume dei «Documenti di Storia» è la traduzione italiana di Garriso- ning the Borderlands of Medieval Siena. Sant’Angelo in Colle: Frontier Castle under the Government of the Nine (1287-1355), Farnham, Ashgate, 2011; per questo motivo bisogna prima di tutto fare una premessa, perché al giorno d’oggi si ritiene superfluo proporre traduzioni italiane di testi in lingua inglese, in quanto quest’ultima è conside- rata ormai la koin¾ della comunità scientifica e si tende, quindi, a fare il percorso inver- so, quand’anche gli studiosi italiani non scrivano direttamente in inglese i loro saggi. Nel nostro caso, però, non si tratta di un’operazione “inutile”, perché la pubblicazione non è rivolta agli studiosi, o, almeno, non solo a loro, ma al grande pubblico di coloro che sono interessati alla conoscenza della storia del territorio e delle sue emergenze; ha, quindi, un intento divulgativo e vuole raggiungere anche coloro che non leggono correntemente l’Inglese, o che, comunque, vi incontrerebbero delle difficoltà tali da scoraggiarli. Mi si consenta, a questo punto, anche un’altra osservazione: proporre un testo divulgativo non vuol dire realizzare un libro banale o superficiale, ma rendere una ricerca, che ha alla base un lavoro scientifico serio ed approfondito, accessibile anche ad un pubblico di non addetti ai lavori, facilitandone la comprensione anche per chi non ha dimestichezza con un linguaggio strettamente tecnico. Detto ciò, si capisce come un volume di più di 400 pagine si “restringa” nella traduzione italiana a meno di 130: si è attuato un processo di semplificazione, elimi- nando tabelle ed appendici, riducendo al minimo indispensabile il testo delle note, sen- za naturalmente farne perdere l’importanza, in modo da rendere il tutto più snello ed agevole alla lettura, “trattenendo nell’edizione originale l’erudizione per i volenterosi lettori, importante per la Tavola delle possessioni senese del 1320 e i molti dettagli che ne ha ricavato in particolare per la topografia antica dell’area (viabilità compresa) ma anche sul mondo delle donne medievali: mogli, vedove, zitelle e figlie nelle loro varie- gate prospettive sono qui collocate nel micro-contesto di un castello (per tanto tempo di confine) della Repubblica di Siena, non senza attenzione a ogni altro dato della vita Segnalazioni 303 sociale, religiosa ed economica”, come annuncia programmaticamente Mario Ascheri nella sua introduzione all’edizione. Il volume è diviso in due capitoli: il primo, Siena medievale e il suo territorio meridionale, corrisponde all’Introduzione del volume inglese, mentre il secondo, Il borgo medievale e il suo territorio, sintetizza i capp. 2, 3, 7 e 8 dell’edizione originale. Il libro si conclude, analogamente all’altro, con la Postfazione, alla quale fa seguito la ricca Bibliografia ed un puntuale Indice dei nomi, che è diviso in due parti: i nomi di persona e quelli dei luoghi. Quindi come si può vedere fra l’una e l’altra edizione si perde in quantità, ma non in qualità dell’informazione, coerentemente con lo scopo di fornire al grande pubblico uno strumento divulgativo di conoscenza di questo castello della parte meridionale dello Stato senese. La Thomas con un enorme lavoro di ricerca tramite la documentazione conser- vataci, ci ha proposto uno studio puntuale ed approfondito su Sant’Angelo, che prende in esame le emergenze architettoniche, come le strutture difensive, le sedi del potere politico e le opere d’arte, la composizione sociale della popolazione, le sue attività pro- duttive e le trasformazioni avvenute dall’età medievale ai giorni nostri. In conclusione non si può non riconoscere che ci troviamo di fronte ad una ricer- ca condotta con serietà ed in maniera approfondita, che viene ora presentata ai lettori in maniera semplice e snella, in modo da essere alla portata di tutti coloro che non sono degli specialisti della materia, ma cultori della storia di Siena e del suo territorio.

Enzo Mecacci

Contrada della Lupa, («I Gemelli», Quaderni della Contrada della Lupa, 10), Siena, Contrada della Lupa, 2015, pp. 102.

Il 2015 è un anno in cui si ha la ricorrenza di due importanti, se pur tragici, avve- nimenti: sono 100 anni dall’entrata dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale e 70 dalla fine della Seconda. Debbo dire subito che, a mio parere, per la prima non sarebbe il caso di fare ce- lebrazioni, vista l’immane tragedia che è stata (e quelle che hanno poi generato i trattati di pace), quanto piuttosto di ricordare con deferente cordoglio quanti in quegli anni hanno perso la vita. Diverso è il discorso che deve essere fatto per l’anniversario della Liberazione dal nazi-fascismo e dall’occupazione tedesca, premessa per la nascita della nostra Repubblica, grazie, anche qui, al sacrificio di tanti militari e civili, protagonisti di un dramma che ha segnato tutto il territorio nazionale, divenuto campo di battaglia, con un fronte che lo ha attraversato nella sua totalità nel volgere di quasi due anni. Il Quaderno n. 10 della collana “I Gemelli” della Contrada della Lupa ci racconta 304 Segnalazioni un aspetto tutto senese di questo “ritorno alla normalità” di 70 anni fa: il primo Palio corso dopo l’interruzione bellica durata 5 anni. La collana, come ricorda l’Onorando Priore nella sua , è da sempre caratterizzata da una disomogeneità di argomenti trattati, ma che sono sempre legati dal fil rouge della storia e delle vicende della Contrada. Le- game vivo anche in questo caso, dato che fu proprio la Lupa a risultare vittoriosa nella carriera del 2 luglio 1945. Sarebbe, però, limitativo vedere la pubblicazione solo a livel- lo di ricordo di una vittoria sul campo, perché nelle pagine del “Gemello” rivive l’intera città, con le sue passioni, sopite per tutto il tragico periodo bellico, che riesplodono in un desiderio di normalità e di continuità. Tornano alla luce fatti e personaggi oggi dimenticati da molti e, sicuramente, ignorati del tutto dai più giovani, nella puntuale ricostruzione di tutta la fase preparatoria del Palio, comprese le difficoltà del Comune ed i rapporti con gli Alleati; particolare attenzione vien prestata, naturalmente, alla si- tuazione nella Lupa, dalla costituzione della dirigenza alla scelta del fantino. Tutta la narrazione è affiancata dalla riproduzione di documenti ed immagini d’epoca, che sono estremamente interessanti per far rivivere il clima d’allora. Purtroppo, però, è proprio questa documentazione di corredo al volume ad essere l’aspetto più debole, perché la mancanza di didascalie rende a volte difficile identificare le persone raffigurate nelle foto e la scelta di proporre la maggior parte delle immagini in un formato estremamente piccolo, unita alla bassa qualità delle riproduzioni stesse, dovuta, evidentemente, al precario stato di conservazione dei pezzi, rende spesso i documenti dei francobollini di difficile lettura. Questo nel complesso fa assumere al libro un aspetto piuttosto mode- sto, che ben rispecchia il momento storico a cui ci si riferisce, ma che non ne diminuisce l’importanza, né mortifica il rigore della ricerca che c’è alle spalle, che non si è limitata alla documentazione ed agli articoli dei giornali locali, ma ha arricchito e vivacizzato questo materiale con interviste a coloro che sono stati testimoni di quegli avvenimenti nella loro gioventù ed ancora li ricordano.

Enzo Mecacci Segnalazioni 305

Erminio Jacona, Siena 1669-1784. Sulle tracce de’ fratelli della compagnia di San Bernardino alla Madonna del Prato, «Documenti di Storia» 108, Siena, nuova immagine, 2014, pp. 231.

“La compagnia sembra non avere avuto grandi echi nella storia cittadina e, dai documenti in nostro possesso, pare conducesse un’esistenza grama legata alla vita quo- tidiana dei suoi confratelli, difficilmente collocabili nel contesto sociale del tempo. L’istituzione fu lambita dal potere, pochissime volte, risultando sempre soccom- bente, per il resto l’esistenza dei suoi confratelli trascorse nell’anonimato più assoluto impreziosito da quell’umile fede che li congregava due volte l’anno” . “Pagine che dimostrano, ancora una volta, quanto anche la microstoria risulti un fertile terreno di indagine per chi voglia pienamente intendere, nella sua complessità, la storia della città” . Basterebbero queste frasi, tratte dalle indicazioni date Al lettore da Jacona, le pri- me, e da Giovanni Minnucci nella sua Prefazione, l’ultima, per sintetizzare il contenuto e, soprattutto, la portata di questo libro. La storia di questa umile compagnia si svolge all’interno delle vicende cittadine e la storia di Siena si rispecchia anche in quella, pic- cola, della compagnia; conoscere l’una aiuta a comprendere l’altra e vice versa. Così in brevi capitoli Jacona ripercorre la vita di questa compagnia dal 1669 al 1784 attraverso la documentazione, piuttosto , conservata presso l’Archivio di Stato, ma non si limita a raccontarcela; infatti, nelle appendici poste a conclusione del testo i documenti vengono trascritti integralmente. A fianco di queste notizie si ripercorrono nel volume gli avvenimenti salienti della città in quegli stessi anni, attingendo ai sei volumi di Me- morie di Girolamo Macchi (1648-1734), vero e proprio “self made man”, che iniziò la sua vita in maniera particolarmente difficile, venendo abbandonato (gittatello) al Santa Maria della Scala e terminandola con l’importante incarico di Scrittore maggiore di quella istituzione. Le Memorie del Macchi sono di particolare importanza, perché, oltre alla storia dello Spedale (a volte fantasiosa), vi si raccontano episodi ed aneddoti della vita cittadina e, soprattutto, l’autore “illustra” i suoi volumi con i disegni degli edifici della città. Altra fonte di notizie a cui Jacona attinge è il Giornale sanese, nel quale Giovanni Antonio, prima, ed il figlio Pietro Pecci, poi, annotano, non senza osservazio- ni pungenti e critiche nemmeno troppo velate, gli accadimenti senesi dal 1715 al 1794. In questo modo il “ritratto” della compagnia diviene quello di Siena. Si ha quasi l’im- pressione di sfogliare una collezione di vecchie riviste, incompleta, ma non per questo meno interessante: si racconta del nuovo campanone per la Torre ed il ripristino della statua del Mangia, si ricorda la morte di Alessandro VII e del principe Mattias ed anche quella del Senesino, e l’incendio della chiesa dei padri cappuccini. Decisamente di maggiore interesse sono le annotazioni che riportano i prezzi di generi alimentari e l’andamento dei raccolti, o le spese per la stagione teatrale del 306 Segnalazioni

1691, stagione che presentò anche un fuori programma, certamente non piacevole per i protagonisti della vicenda, due sacerdoti che subirono un processo inquisitoriale per aver partecipato alla messa in scena di un dramma nel ghetto. Si rivive il lungo sciame sismico che durò dal settembre 1697 al marzo 1698. Ricorrenti sono le descrizioni dei carri e delle mascherate fatte per il carnevale dai Rozzi e della loro produzione teatrale; sempre per il teatro si ricordano le vicissitudini delle commedie Don Pilone e La Sorellina di don Pilone di Girolamo Gigli, senza trascurare la memoria di grandi balli, organizzati sia per il carnevale, sia per particolari circostanze, e di altri spetta- coli; inoltre si trovano descrizioni di Palii, ricordi di nevicate straordinarie in molti anni (soprattutto nei mesi di gennaio e febbraio, ma anche ad aprile, come nel 1773), dell’ondata di freddo eccezionale del 1755, di fatti di cronaca, di esecuzioni capitali, ma si annotano anche notizie politiche, che evidenziano pregi e difetti dei granduchi, che si sono susseguiti in questi anni, mentre passa quasi sotto silenzio il cambio di dinastia del 1737; è invece descritta puntualmente la prima visita a Siena di Francesco Stefano e Maria Teresa, così come vengono sottolineate le progressive riforme che i Lorena attuano con lo scopo di modernizzare e razionalizzare l’amministrazione statale, fino ad arrivare a quelle di Pietro Leopoldo, che sanciranno la fine dello Stato senese, con la sua divisione in due provincie; riforme che forse non sempre furono ben accolte, visto che l’autore osserva che nel 1778 “i teatri di Siena, per tutto l’anno, lavorano a pieno ritmo probabilmente perché si sente un bisogno incondizionato di svago per accettare tutte le continue riforme del governo”. Sono presenti anche le grandi soppressioni, la cui scure colpisce anche la nostra Compagnia. Se la bibliografia posta a conclusione del volume è, come l’autore stesso dice, minima, ricchissimi e puntuali sono invece i due indici dei nomi di persona e dei luoghi, che rendono il libro anche uno strumento di consultazione, utile per avviare approfon- dimenti su fatti e personaggi della Siena a cavallo fra la metà del ‘600 e la fine del ‘700.

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La chiesa e la confraternita della Madonna del Ponte allo Spino, a cura di Andrea Conti, Siena, nuova immagine, 2015, pp. 123.

Oggetto di questo volume sono la chiesa della Madonna del Ponte allo Spino, nel territorio del comune di Sovicille, a poca distanza dal capoluogo, alla confluenza dei percorsi di Caldana e di Ponte allo Spino, appunto, coll’attuale Strada provinciale n. 37, e la Confraternita che vi ha sede e ne è la proprietaria. Il volume, curato da Andrea Conti, che ha conseguito il Diploma di Magistero in Scienze Religiose e si occupa di storia della Chiesa e della santità e di storia degli ordini monastico - militari e cavallereschi, è una raccolta di saggi, prodotti dallo stesso Conti e da altri studiosi; in parte si tratta di conferenze tenute presso la sede della Confraternita stessa in occasione della festa titolare, in parte di testi appositamente composti per il libro, disposti in modo da passare dagli aspetti generali a quelli più particolari. Si riper- corrono prima la storia di questa istituzione e le vicende architettoniche della chiesa, quindi quelle storico-artistiche delle opere pittoriche, dei reliquiari, degli arredi sacri, dei paramenti liturgici. L’indagine storica sulla Confraternita, dal 1578, anno della sua fondazione, ad oggi, è l’oggetto del primo articolo, “A honor di Dio e della Gloriosa sempre Vergine Maria, e salute dell’anime nostre”: la compagnia del Ponte allo Spino dalla fondazione ai nostri giorni, scritto dal curatore, che segue passo passo la storia dell’Istituzione attraverso la documentazione d’archivio e le citazioni riscontrate in bi- bliografia antica e moderna, a partire dalDiario Sanese di Girolamo Gigli per giungere ai recenti studi di Maria Assunta Ceppari e Patrizia Turrini. Al termine è posto un albero genealogico della famiglia Chigi, che, avendo possedimenti in zona, quali le ville de Le Volte e di Cetinale, ha spesso influito nella vita della Confraternita. Il successivo studio è di Andrea Brogi, che ci riferisce in maniera particolareg- giata e con un ricco corredo iconografico le vicende architettoniche e costruttive della chiesa di Ponte alla Spino (La chiesa di Maria Santissima al Ponte allo Spino: vicende architettoniche e costruttive. Peccato che un brutto, quanto banale, refuso sia occorso proprio nel titolo del saggio) e riporta in fine una essenziale, ma interessante biblio- grafia. Segue lo studio di Michele Occhioni, I dipinti e le decorazioni degli altari, che ci offre una visita della chiesa, purtroppo in buona parte virtuale, in quanto l’edificio in tempi recenti è stato più volte oggetto di attenzione da parte dei ladri, che lo hanno privato delle pale d’altare e di molte altre opere d’arte. Occhioni ricostruisce, quindi, attraverso la documentazione esistente, quella ricchezza di apparati artistici che carat- terizzavano la chiesa di Ponte allo Spino in passato; a questo si deve anche il fatto che alcune delle immagini di corredo siano la riproduzione vecchie foto in bianco e nero conservate presso la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio di Siena, Grosseto, Arezzo. Tanto per avere un’idea dell’importanza delle opere che vi erano (ed in parte vi sono) conservate, incontriamo artisti del livello di Vincenzo e Francesco Rustici, Domenico 308 Segnalazioni

Manetti e Deifebo Burbarini. La ricchezza della chiesa della Confraternita non era co- stituita soltanto dai dipinti, ma anche da un notevole numero di preziose suppellettili: reliquiari, calici, pissidi, ostensori, navicelle, candelabri, per lo più dei secc. XVII e XVIII, costituiscono il suo importante corredo di arredi sacri, che viene analizzato nelle sue varie tipologie nel saggio di Niccolò Malacarne, I reliquiari e le suppellettili sacre, che è impreziosito da un gran numero di immagini e si conclude con la riproduzione della patente del 13 giugno 1642, conservata nella sagrestia della chiesa, nella quale il vicario dell’arcivescovo di Siena Ascanio Piccolomini, Annibale Melari, certifica l’au- tenticità delle reliquie. L’ultimo saggio, quello di Graziella Palei, Il corredo di paramenti sacri, analizza le vesti liturgiche conservate presso la chiesa di Ponte allo Spino, le descrive e ne stu- dia la bellezza dei motivi decorativi e la ricchezza delle stoffe con cui sono realizzati. Anche in questo caso la trattazione è accompagnata da una serie di immagini esempli- ficative e da una piccola bibliografia. Il libro si conclude con il capitolo La poesia preghiera di Idilio dell’Era: omag- gio alla Madonna del Ponte allo Spino, di Francesco Rossi. Si tratta di un omaggio doppio: alla chiesa con poesie dedicate alla Madonna, a cui essa è intitolata, ma anche al sacerdote – poeta, che ha vissuto molti anni, a pochi passi da Ponte allo Spino. Il volume, in conclusione, ripercorrendo la storia della Confraternita e della chie- sa della Madonna di Ponte allo Spino, ricostruisce uno spaccato di quattro secoli e mezzo di storia della devozione e di storia dell’arte e dell’artigianato; inoltre mette in luce come le vicende di una piccola confraternita si intreccino con quelle della comu- nità in cui si trova e più in generale con la storia senese e toscana, evidenziando come storia locale e storia universale, micro e macrostoria, si intreccino sempre, in una serie continua di rimandi reciproci.

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Contrada del Leocorno – Contrada della Tartuca, 1815 -2015. Secondo centenario dell’alleanza, testi di G. B. Barbarulli, G. Catoni, P. Leoncini, P. T. Lombardi, G. Mazzini, Siena, Contrada del Leocorno – Contrada della Tartuca, 2015, pp. 127.

Lo scorso anno la Contrada della Tartuca aveva pubblicato, congiuntamente con la Contrada Capitana dell’Onda, un volume che ricordava il Palio del 16 agosto 1713, che le due contrade avevano vinto a metà, quest’anno, invece, si parla dell’alleanza, ormai storica, fra Tartuca e Leocorno; fatti entrambi, evidentemente, di piccolo mo- mento nella storia cittadina, ma che servono da spunto per aprire il sipario su vicende più ampie della vita della città e, va da sé, delle due Contrade, delle quali si ripercorre un tratto più ampio di storia rispetto al semplice fatto che ha occasionato la pubblica- zione. Il volume è diviso in due parti: la prima ci parla dei loro rapporti di alleanza con le consorelle: inizia Giordano Bruno Barbarulli, che ci descrive Le aggregazioni della Tartuca. Il suo racconto esamina la documentazione che attesta, nel 1689, la decisione di allearsi, anzi aggregarsi, di Torre, Tartuca e Chiocciola; proprio un secolo dopo si ag- gregò loro anche la Selva e, di lì a poco, iniziarono ad incrinarsi i rapporti con la Chioc- ciola, che portarono alla definitiva rottura degli inizi dell’Ottocento, che ha generato la rivalità giunta ai nostri giorni. E’ indubbiamente interessante la ricostruzione storica delle vicende Chiocciola – Tartuca (che sono certamente sconosciute alla maggioranza dei senesi nella loro evoluzione), ma lo è ancora di più la testimonianza dei contrasti sorti fra Contrade a causa di azioni dei fantini, originate da loro discordie private – nihil sub sole novum. Paolo Lombardi ci parla, a sua volta, de Le aggregazioni del Leocorno, partendo dalle vicissitudini occorse alla Contrada per avere a disposizione un oratorio, prima di giungere al racconto vero e proprio delle aggregazioni: nel 1792 il Leocor- no deliberò di chiederla contemporaneamente ad Aquila, Pantera e Tartuca, ottenendo, però l’assenso soltanto dalla Pantera; l’anno successivo analoga richiesta venne rivolta alla Torre, che dette immediatamente una risposta positiva, mentre nel 1794 sarà la Civetta a chiedere, con successo, l’alleanza al Leocorno. Alla fine si giunge, nel 1815, a stringere quell’aggregazione con la Tartuca, che è all’origine della pubblicazione. Anche in questo saggio vi è una parte il cui interesse travalica la storia di queste due Contrade, perché ci viene a raccontare vicende legate all’esperienza di tutte le conso- relle: l’organizzazione della festa titolare, le spese per il Mattutino, la partecipazione delle Contrade aggregate, che non era sempre possibile per tutte, quando queste erano più di tre, cosa che oggi sarebbe inammissibile e che allora accese molti contrasti fra i fautori del concetto dell’alternanza, che ebbe poi la meglio, e quelli che sostenevano il principio dell’anzianità. La Seconda parte del volume inizia con un saggio, scritto a quattro mani da Barbarulli e Lombardi, dedicato all’alleanza fra Leocorno e Tartuca, che esordisce con il chiarire che l’aggregazione fra Contrade era finalizzata soprattutto alla reciproca par- tecipazione alla celebrazione del Mattutino ed all’aiuto vicendevole per l’allestimento della comparsa per il Palio e mette in luce il grande “dinamismo” nei rapporti di allean- za nell’ultimo ventennio del 1700, quando ebbe inizio la vicenda di quella fra Leocorno 310 Segnalazioni e Tartuca, che si concretizzò, appunto, nel 1815, ma in questa analisi non manca un colpo di scena: un documento che parla già di aggregazione fra Leocorno e Tartuca un secolo prima, nel 1714. Forse una precedente aggregazione finita male potrebbe essere all’origine del rifiuto inizialmente opposto dalla Tartuca alla richiesta del Leocorno. Naturalmente, vista anche la contemporaneità del fatto, non poteva mancare un’analisi del progressivo deterioramento dei rapporti fra Chiocciola e Tartuca. Il secondo capito- lo di questa parte, scritto da Giuliano Catoni, Contrade e Governo fra Sette e Ottocento, è tutto di natura politica e mette in luce i rapporti non sempre idilliaci fra le Contrade e i loro Capitani e le istituzioni, granducali o francesi che fossero, ma ecco che, fra le altre osservazioni e ricostruzioni di Catoni, se ne trova una che ci fa drizzare le orecchie: cosa dire del fatto che ai primi dell’Ottocento si cercasse di impedire gli accordi fra i fantini ed i partiti fra le Contrade? Nihil … e quel che segue. Anche la Terza parte è divisa in due capitoli, uno per Contrada; nel primo, La Tartuca dopo il 1820: la rivalità con la Chiocciola e il TONO, Giovanni Mazzini illustra in maniera particolareggiata le sorti alterne che hanno subito i rapporti fra Chiocciola e Tartuca fra ‘800 e ‘900, fino alla rottura definitiva ed a quella, più tarda, con la Torre. Ampio spazio è dedicato alla ricostruzione della nascita del TONO, il patto a quattro fra Tartuca, Oca, Nicchio e Onda, per il quale scarseggia la documentazione ufficiale, che ha svolto un ruolo di primaria importanza nelle vicende paliesche a cavallo fra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Il saggio si conclude con la rottura dell’alleanza con l’Oca, avvenuta nel 1975 e generata dal fatto che quest’ultima aveva concesso il proprio fantino, Aceto, alla Con- trada della Chiocciola, ripetendosi in questo modo quello che era già avvenuto tre anni prima fra Lupa ed Oca, quando Aceto venne fatto correre nell’Istrice. L’ultimo saggio è scritto a quattro mani da Paolo Leoncini e Paolo Lombardi e, logicamente, riguarda il Leocorno, Il Leocorno fra alleanze e rivalità; in realtà sono soprattutto queste ultime, originate da vari motivi, a caratterizzare il rapporto con le consorelle del Leocorno nel XX secolo, nel quale verranno a rompersi le sue alleanze con la Civetta, la Torre ed il Bruco e vi saranno momenti di tensione anche nei rapporti con la Tartuca. Alla fine della lettura di questo libro ci rendiamo conto che l’occasione che lo ha fatto nascere, celebrare il secondo centenario dell’alleanza fra Tartuca e Leocorno, in fin dei conti è soltanto uno degli aspetti che vengono esaminati, anzi, forse questo fini- sce per essere quello di minore importanza, rispetto allo sguardo d’insieme sulla vita delle Contrade fra ‘700 e ‘900 che ci viene fornito dai vari autori. Così non si tratta di una pubblicazione celebrativa riservata agli appartenenti alle due Contrade, ma riveste un interesse più generale, che cattura l’attenzione di tutta la città, perché mette in luce eventi poco conosciuti, se non del tutto ignorati delle vicende cittadine di questo perio- do storico e, quindi, entra a pieno titolo fra le storie del Palio.

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Paolo Goretti, Giovanotti in trincea, introd. di R. Barzanti, Siena, Betti, 2015, pp.127.

L’occasione del centenario della Prima Guerra Mondiale ha suscitato l’interes- se a recuperare tante testimonianze su quel drammatico conflitto; basti pensare che nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano solo in questo ultimo anno sono stati consegnati oltre quaranta testi sull’argomento. Anche questo di Paolo Goretti è un diario, ma dalle caratteristiche particolari: il protagonista è il giovanotto Cesare Goretti, nato nel 1894 e in trincea a vent’anni, ma chi lo ha scritto è il figlio di lui Paolo, un medico dotato di un felicissimo stile di scrit- tura, che gli ha permesso di costruire – sulla base di alcuni documenti e di testimonian- ze dirette del padre e di altri - un testo con le vicende vissute da Cesare dal 1915 al ’19. La successione delle scene, spesso complete di dialoghi, rendono la narrazione simile ad una sceneggiatura cinematografica e il film si potrebbe aprire con l’ondata di piena dell’Isonzo, che spazza via le tende dei soldati italiani e che costringe il ser- gente Cesare Goretti ad appendersi a un albero “come una scimmia” per salvarsi e a ringraziare la sua esperienza di ginnasta, acquistata nella palestra della ‘Mens Sana’. Dalle rive dell’Isonzo, una veloce carrellata ci porta su Gorizia, Gradisca, Monfalcone e, infine, Cesare, al comando di un plotone come allievo sottotenente, si trova in trin- cea sul Monte Lemerle, sotto Asiago. Qui, in un assalto alle linee nemiche, resta ferito al torace. Aiutato da un amico d’infanzia - il suo caporale Otello – viene ricoverato all’ospedale militare di Braganze, presso Bassano del Grappa. Dopo alcuni giorni, una bella crocerossina lo informa che la cassa dell’orologio da lui tenuto nel taschino ha deviato la pallottola, salvandola da sicura morte. A questo punto, in un flash beck, Cesare rivede il suoi cugini, che gli regala- no il grosso orologio Vostok quando fu ammesso al corso di ragioneria, aspettan- dolo all’uscita dell’Istituto Tecnico, al Palazzo Marsili in via di Città. Nella custodia dell’orologio, Cesare aveva messo la foto della sua famiglia . Dopo un mese di ospedale, dove aveva avuto la visita dell’amico Otello, parti- colarmente colpito dalla bella crocerossina, Cesare, promosso sottotenente per il suo “eroico comportamento”, viene dimesso e, proprio grazie a lei, ha la sua prima espe- rienza amorosa. A questo punto il regista ( o il produttore) potrebbe scegliere se il film sarà o no vietato ai minori. Dopo un breve periodo di convalescenza a Siena, nell’agosto 1916 cesare , decorato di croce al merito, si trova nella zona di Folgaria del Friuli al comando di un plotone. La scena qui si anima con due sergenti e un maresciallo “con un barba che sembra Mangiafuoco, la voce cavernosa e la faccia rubiconda poggiata come un capitello sopra un collo taurino”. Questo maresciallo informa Cesare che ci sono quattro veterani agli arresti per insubordinazione. La rigida disciplina del codice mi- litare, invocata da Cadorna, potrebbe portare tragiche conseguenze per quei quattro soldati, ma il tenente Goretti li fa liberare. Un altro episodio del genere capita poco 312 Segnalazioni dopo con altri veterani, che si nascondono in una grotta. “la guerra, purtroppo, non riconosce il diritto alla paura”. Il 24 ottobre 1917 gli Austriaci sfondano la difesa del VII° Corpo d’armata ita- liano e giungono a Caporetto. Cesare, con molti altri, è fatto prigioniero e portato nel Campo di Celle, presso Hannover. La squallida realtà del Campo è mitigata dall’incon- tro con altri tredici senesi, che, “secondo una scanzonata usanza” , si presentano con i loro soprannomi: ecco perciò il Selva, lo Scorbe, il Putta, il Maso e il Mensa, cioè Cesare, ginnasta mensanino. Altri tre compagni di sventura – soprannominati ‘i poeti’ – vivono in una delle squallide baracche del Campo: sono Carlo Emilio Gadda, Bonaventura Tecchi e Ugo Betti, futuri protagonisti della letteratura e del teatro italiano del Novecento. Nella sequenza delle immagini passa anche un altro protagonista del secolo : è il Nunzio apostolico Eugenio Pacelli, che visita il Campo il 23 settembre 1918. Poco più di un mese dopo, il 4 novembre, giunge la notizia dell’armistizio e c’è che goffamente intona la Marcia reale. Si può uscire dal Campo e giungere alla citta- dina di Celle. Qui, con una matura milchfrau, Cesare , dopo un bagno ristoratore, ha la sua seconda avventura amorosa. Il lunghissimo viaggio di ritorno a Siena si conclude nel settembre 1919. Le ultime scene, in veloce sequenza, presentano cesare all’esame di diploma, poi al matri- monio, quindi in divisa di maggiore del’esercito dopo la promozione ottenuta nel no- vembre 1941; infine al lavoro in banca, dove una voce fuori campo legge la scheda che lo riguarda e che lo segnala come “elemento capace e preparato, dotato di iniziativa”, ma che “non è iscritto al Partito fascista”. Questa seconda edizione del libro ( la prima – Vanzi Editrice – è del 2007) ha ottenuto la concessione del logo ufficiale del Centenario della Ia Guerra Mondiale da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Giuliano Catoni NOTIZIE DALL’ACCADEMIA

Attività Accademica 2015

L’attività del 2015 è iniziata il 29 gennaio con l’Inaugurazione 490° anno acca- demico (2014-15), tenutasi alle ore 18.00 nella Sala degli Intronati di Palazzo Patrizi con la prolusione di Marco Pierini, Sovranità celeste. La Maestà di Simone Martini in Palazzo Pubblico (1315-2015). Agli inizi di febbraio è uscito il Bullettino Senese di Storia Patria CXXI (2014), grazie al contributo offerto dal Rotary Club Siena Est ed alla pagina di pubblicità ac- quistata dalla ChiantiBanca. Il 2 febbraio, alle 18.00 presso l’auditorium della ChiantiBanca a Fontebecci, Duccio Balestracci ha tenuto la conferenza Storia di un luogo storia del mondo, in oc- casione della presentazione dell’annata 120 del Bullettino Senese di Storia Patria, che ha costituito l’introduzione al nuovo ciclo Siena si racconta. Il Novecento, frutto della collaborazione fra Accademia e Banca. Il 12 febbraio, alle 18.00 presso l’auditorium della ChiantiBanca, Giuliano Cato- ni ha iniziato il ciclo Siena si racconta, con la conversazione La Grande Guerra, nella quale evidenziava come il conflitto del 1914-18 provocò una lacerazione irreversibile nella politica europea: un trauma dal quale nacquero movimenti e contrasti che chiu- sero un secolo e ne aprirono un altro: lo stato d’animo dei senesi di fronte alla terribile esperienza. Il 5 marzo, alle 17.30 nella Sala degli Intronati di Palazzo Patrizi, Achille Miri- zio, insieme alle autrici, Sandra Gesualdi e Pamela Giorgi, hanno presentato il volume Barbiana e la sua scuola. Immagini dall’archivio di don Lorenzo Milani, Firenze, Aska, 2014. Il 10 marzo, alle ore 16.00 nel palazzo dell’Abbondanza a Massa Marittima, Marco Paperini (Assessore alla Cultura del Comune di Massa Marittima), Gianpie- ro Caglianone (Presidente del Centro Studi “Agapito Gabrielli” di Massa Marittima), Enzo Mecacci, Mario De Gregorio e Doriano Mazzini hanno presentato G. A. Pecci, Lo Stato di Siena antico, e moderno, vol. III, parte V - VI trascrizione e annotazioni a cura di Mario De Gregorio e Doriano Mazzini, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2014 (pubblicato con contributo MiBAC) Il 12 marzo, alle 18.00 presso l’auditorium della ChiantiBanca, Daniele Pasqui- nucci ha parlato de Il fascismo da movimento a regime. Linee di continuità e fratture nella classe dirigente senese tra il 1919 e il 1926, tra gattopardi e homines novi a Siena dallo Stato liberale al regime fascista. Il 16 aprile è stato Gianni Mazzoni a parlare, alle 18.00 presso l’auditorium del- la ChiantiBanca, di Cultura, arte, turismo: rifare il Medioevo. La mostra dell’Antica 316 Attività dell’Accademia

Arte senese del 1904 definisce un’immagine della città che si perpetuerà nel corso del secolo ed avrà grande eco nelle riviste d’arte e nella pubblicistica, influenzando anche lo sviluppo turistico. Il 13 maggio, alle ore 17.30 nella Sala degli Intronati in Palazzo Patrizi, Elisabet- ta Cioni, Massimo Ferretti e Stefano Riccioni hanno presentato il volume Siena e artisti senesi. Maestri orafi, a c. di M. Monica Donato, Roma, UniversItalia, 2013. Il 14 maggio, alle18.00 presso l’auditorium della ChiantiBanca, Achille Mirizio ha tenuto la conferenza La Chiesa e il movimento cattolico. I cattolici nel secolo breve: una presenza ramificata e complessa, tra fervido associazionismo e iniziale partecipa- zione politica Il 21 maggio, alle ore 17.30 nella Sala degli Intronati in Palazzo Patrizi, si è tenuto l’incontro su La crociata fra Medioevo e Rinascimento, a proposito del libro di Marco Pellegrini, La crociata nel Rinascimento. Mutazioni di un mito 1400-1600, Firenze, Ed. Le Lettere, 2014; sono intervenuti Paolo Nardi, Petra Pertici e l’Autore. Nel mese di giugno è uscito G. A. Pecci, Lo Stato di Siena antico, e moderno, vol. IV, parte VII, trascrizione e annotazioni a cura di Mario De Gregorio e Doriano Mazzini, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2015 (pubblicato con contributo MiBAC). Dopo la pausa estiva le attività sono iniziate con la conferenza di Giovanni Goz- zini Una provincia molto rossa. Come si forma e resiste nel tempo una provincia rossa: dalle lotte antifasciste in clandestinità all’organizzazione della Resistenza, tenuta il 24 settembre, alle ore 18.00 presso l’auditorium della ChiantiBanca, all’interno del ciclo Siena si racconta. Il Novecento. Il 15 ottobre, alle18.00 presso l’auditorium della ChiantiBanca, Carlo Nepi ha tenuto la conferenza Città e dintorni: lo sviluppo urbano. Caratteri e momenti della Siena contemporanea: tradizione e modernità. Il 27 ottobre, alle ore 17.30 nella Sala degli Intronati in Palazzo Patrizi, per ricor- dare il socio Antonio Cardini, si è tenuta la tavola rotonda Fra Liberalismo e “miracolo economico”. Gli studi e l’insegnamento di Antonio Cardini a Siena, alla quale hanno partecipato Laura Vigni, Mauro Moretti, Stefano Maggi, Saverio Battente e Fulvio Bruni. Il 3 novembre, alle ore 16.30 presso la Sala degli Intronati di Palazzo Patrizi, si è tenuta la prima delle conferenze che l’Accademia ha organizzato per ricordare il cente- nario della Prima Guerra Mondiale e che si terranno a scadenza annuale: Il primo anno della guerra ‘15/’18; ne hanno parlato Laura Vigni e Nicola Labanca. Il 5 novembre, alle18.00 presso l’auditorium della ChiantiBanca, Simonetta Mi- chelotti ha parlato di Contrade ed associazionismo. L’evoluzione dell’atipico associa- zionismo di Contrada nella seconda metà del ’900: il capitale sociale di una città. Il 16 novembre si è tenuta, alle ore 17.00 nella Sala degli Intronati di Palazzo Pa- trizi, l’Inaugurazione 491° anno accademico (2015-16) con la prolusione di Salvatore Settis, Diritto alla cultura e tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Attività dell’Accademia 317

19 novembre si è riunita alle ore 17.00 nel Saloncino dell’Accademia l’Assem- blea annuale dei Soci, nella quale sono stati eletti otto nuovi Soci ordinari nelle persone di Elisa Bruttini, Roberto Farinelli, Barbara Gelli, Marina Gennari, Gabriele Maccianti, Stefano Maggi, Doriano Mazzini e Annalisa Pezzo; sono stati eletti anche nuovi Soci corrispondenti: Stefano Carrai, Gianpiero Caglianone, Donatella Cherubini, Gero Do- lezalek, Marco Fucecchi, Antonella Ghignoli, Philippa Jackson, Maura Mordini, Mau- ro Mussolin, Marzia Pieri, Ingrid Rowland, Anabel Thomas, Jane Tylus. Il 27 novembre, alle ore 18.00 nel Saloncino dell’Accademia, Giuliano Catoni ha presentato il libro di Ranieri Carli Siena. Un amore lungo una vita, Siena, Betti, 2015. Il 10 dicembre, alle18.00 presso l’auditorium della ChiantiBanca, si è tenuta la conferenza Dalla Resistenza alla ricostruzione. Speranze e esperienze di rinnovamen- to, progetti e idee dopo la dura realtà della guerra, con la quale si è concluso il ciclo Siena si racconta. Il Novecento. L’11 dicembre, alle ore 17.30 nel Saloncino dell’Accademia, Enrico Alleva ha presentato il volume di Paola Roncarati e Rossella Marcucci Codici e Rose. L’erbario di Piero Calamandrei tra storia, fiori e paesaggio, Firenze, Olschki, 2015. Inoltre l’Accademia ha collaborato all’organizzazione della mostra bibliografica Brandano. Un romito senese del Cinquecento fra storia e leggenda, allestita presso il Palazzo Pretorio di , dal 5 al 20 dicembre.

ACCADEMIA SENESE DEGLI INTRONATI

CONSIGLIO DIRETTIVO

Roberto Barzanti, presidente; Mario De Gregorio, vice presidente; Laura Vigni, dir. della sez. di storia; Marilena Caciorgna, dir. della sez. di lettere; Marco Pierini, dir. della sez. d’arte; Mino Capperucci, amministratore; Enzo Mecacci, segretario.

SOCI ONORARI

Barni Mauro Giannelli Emilio Barsacchi Giovanni Grottanelli de’ Santi Giovanni Berlinguer Luigi Martini Remo Ferri Sara

SOCI ORDINARI

Angelini Alessandro Farinelli Roberto Mirizio Achille Ascheri Mario Fini Carlo Moscadelli Stefano Balestracci Duccio Gabbrielli Fabio Mucciarelli Roberta Bartalini Roberto Gelli Barbara Nardi Paolo Barzanti Roberto Gennari Marina Nepi Carlo Bastianoni Curzio Ginatempo Maria Orlandini Alessandro Bonelli Conenna Lucia Giorgi Andrea Pazzagli Carlo Bruttini Elisa Guiducci Anna Maria Pellegrini Ettore Buccianti Giovanni Leoncini Alessandro Pellegrini Michele Caciorgna Marilena Liotta Filippo Pertici Petra Capperucci Mino Luccarelli Mario Pezzo Annalisa Cassandro Michele Maccari Lorenzo Piccinni Gabriella Catoni Giuliano Maccianti Gabriele Pierini Marco Ceppari Maria Assunta Maffei Paola Rocchigiani Roberto Cioni Elisabetta Maggi Stefano Sani Bernardina Clemente Pietro Mazzini Augusto Santi Bruno Colao Floriana Mazzini Doriano Savelli Aurora Cornice Alberto Mazzoni Gianni Turrini Patrizia De Gregorio Mario Mecacci Enzo Vigni Laura Di Simplicio Oscar Minnucci Giovanni Zarrilli Carla

320 SOCI CORRISPONDENTI

Alberti Luciano (Firenze) Lenzini Moriondo Margherita (Arezzo) Avesani Rino (Roma) Linehan Peter (Cambridge) Loseries Wolfgang (Firenze) Barberi Squarotti Giorgio (Torino) Barsanti Danilo (Pisa) Maier Bruno (Trieste) Barzetti Marcella (Londra) Marchetti Valerio (Faenza) Beierwaltes Werner (Würzburg) Marchi Marco (Firenze) Belladonna Rita (Downsview, Canada) Marrara Danilo (Pisa) Bertram Martin (Roma) Marzi Sergio (Siena) Bramato Fulvio (Bari) Masi Pier Narciso (Siena) Brandmüller Walter (Augsburg) Middeldorf Kosegarten Antje (Göttingen) Bratto Olof (Göteborg) Mignon Maurice (Nizza) Busnelli Francesco (Livorno) Mordini Maura (Grosseto) Butzek Monika (Firenze) Moretti Italo (Firenze) Mussolin Mauro (Washington) Caglianone Gianpiero (Massa Marittima) örr Cammarosano Paolo (Trieste) N Knut W. (Tübingen) Nuti Leopoldo (Arezzo) Capresi Donatella (Siena) Caravale Mario (Roma) van Os, Hendrijk W. (Groningen) Cardini Franco (Firenze) Carrai Stefano (Firenze) Pieri Marzia (Firenze) into Ceccarelli Lemut M. Luisa (Pisa) P Giuliano (Firenze) olzer Cherubini Donatella (Firenze) P Joseph (Calgary) Prosperi Adriano (Pisa) Cherubini Giovanni (Firenze) Christiansen Keith (New York) Radicati Luigi (Pisa) Ciardi Roberto P. (Pisa) Reardon Colleen (Binghamton) Cole Bruce (Bloomington, Indiana) Refini Eugenio (Siena) Cortese Ennio (Roma) Riedl Peter Anselm (Londra) Romanini Angiola M. (Pisa) D’Accone Frank (Los Angeles) Rowland Ingrid (Roma) Denley Peter (Londra) Dolezalek Gero (Leipzig) Scalfati Silio P. P. (Pisa) Seidel Max (Heidelberg) Esch Arnold (Roma) Settis Salvatore (Pisa) Fatucchi Alberto (Arezzo) Smiraglia Pasquale (Roma) Feo Michele (Firenze) Spicciani Amleto (Pescia) Fioravanti Gianfranco (Pisa) Stein Peter G. (Cambridge) Fucecchi Marco (Siena) Szabò Thomas (Göttingen)

Gasparri Stefano (Venezia) Tempesti Folco (Roma) Ghignoli Antonella (Roma) Tessitore Fulvio (Napoli) homas Grignani Maria Antonietta (Pavia) T Anabel (London) Tomasi Franco (Padova) Hicks David (New York) Tylus Jane (New York) Hinske Norbert (Treviri) Vailati von Schoenburg Waldenburg Jackson Philippa (London) Grazia (Firenze) Isaacs Ann Katherine (Pisa) Verdera y Tuells Evelio (Bologna) Vigni Giorgio (Roma) Laclotte Michel (Parigi) Landi Sandro (Bordeaux) Whithe John (Londra) NECROLOGI

Piero Torriti (1924-2015)

Non si capisce appieno il lavoro di Torriti se si prescinde da una sua scelta – fondamentale – giovanile. Lui, nato a , il 1° maggio 1924, a nemmeno vent’an- ni, dall’ottobre 1943 fino al luglio 1944, entra nella Resistenza, come partigiano della formazione “Monte Amiata”. E’ una scelta di militanza che, trasposta dal piano etico- politico a quello dell’etica professionale accompagnerà tutta la vita di Torriti. Liberata la Toscana, ma non ancora terminata la guerra, finisce i suoi studi supe- riori diplomandosi, nel settembre del 1944, all’Istituto Magistrale di Pienza, ma, subito dopo, completa la sua costruzione di base (il vecchio corso magistrale prevedeva quat- tro anni, anziché i cinque dei licei) presentandosi come privatista all’esame di maturità classica presso il Liceo “Dante” di Firenze. In questa città di iscrive anche all’università, scegliendo un filone (quello storico- artistico) che, all’epoca, a Firenze rappresentava davvero una delle punte d’eccellenza nel panorama italiano e internazionale. Il nome del suo relatore in tesi (su “La scultura gotica in legno di scuola senese”), Mario Salmi, dice tutto. Da questo momento la vicenda di Piero Torriti assume una precisa curvatura: la sua professionalità non si dispiegherà nell’insegnamento, come di norma accadeva per chi si laureava in un settore umanistico, ma si indirizza, in modo, per così dire, anch’esso “militante” come lo era stata la sua decisione politica di ventenne, verso il mondo della conservazione delle opere d’arte. Torriti, così, ottiene il posto di Ispettore Storico dell’Arte presso la Soprintendenza di Genova, allora diretta da Pasquale Roton- di, fresco di nomina in questa sede che avrebbe tenuto fino al 1961, e che evoca oggi un milieu culturale e di impegno civile di robusto spessore. Nei confronti del giovane Tor- riti, il Soprintendente esercita chiaramente, si direbbe, un vero e proprio “magistero”, importante quanto quello del maestro con il quale il toscano si era laureato. Pasquale Rotondi (Arpino, 1909-Roma, 1991) aveva infatti compiuto un’impresa leggendaria (anche se di essa non si sarebbe divulgata la conoscenza che moltissimi anni dopo): aveva salvato circa diecimila opere d’arte dalla guerra e, di conseguenza, da possibili requisizioni e furti da parte degli occupanti tedeschi, concentrandole a Rocca di Sasso- corvaro, nel Montefeltro, e presso il palazzo dei principi di Carpegna. Rotondi aveva svolto a Urbino il compito di Soprintendente fino alla nomina genovese, e forse questa contiguità genovese-marchigiana non fu senza conseguenze per la carriera di Torriti che infatti, dopo gli anni di Genova viene chiamato proprio a Urbino, nel 1967, a ricoprire la carica di Soprintendente alle Gallerie ed Opere d’Arte delle Marche, che era stata di Rotondi. Qui il suo lavoro di tutela e valorizzazione si esplicita nella organizzazione proprio di una serie di mostre di opere d’arte restaurate. Nelle Marche resterà fino al 1973, anno in cui ottiene il trasferimento a Siena 324 Necrologi come Soprintendente per i Beni Artistici e Storici per le province di Siena e Grosseto, e anche qui il restauro, la valorizzazione delle opere e la “comunicazione” dell’opera d’arte al vasto pubblico rimangono punti fermi della sua professionalità e del suo im- pegno di intellettuale nella società. A Siena, le mostre sulle “Opere d’Arte Restaurate” si susseguiranno con cadenza biennale: nel 1979, nel 1981 e nel 1983, accompagnate, tutte, dai relativi cataloghi ricchi di schede dettagliate e di panoramiche di inquadra- mento preziose. Ma l’opera di Torriti non si esaurisce nella - pur intensa – attività di conserva- zione. La sua dimensione di studioso e ricercatore si esplicita in una serie corposa di saggi (apparsi in sedi editoriali nazionali e internazionali), monografie e cataloghi. Ci limitiamo ad elencare quelli che a nostro parere appaiono come i più significativi, ben consapevoli che una bibliografia completa e ragionata delle sue opere necessiterebbe di uno spazio e di un contesto ben diversi rispetto a quelli di un commosso ricordo. E così, ci piace sottolineare l’importanza di opere quali Il Palazzo Reale di Genova (1963); Giacomo Boselli e la ceramica savonese del suo tempo (1965); Disegni di Luca Cam- biaso (1966); La quadreria dell’Accademia Ligustica di Belle Arti a Genova (1966); La galleria del palazzo Durazzo Pallavicini a Genova (1967); Tesori di Strada Nuova, la via aurea dei genovesi (1970); Pietro Tacca da Carrara (1975); Pienza (1979). Ma in modo particolare vogliamo ricordare alcuni dei suoi più importanti lavori dedicati alla città dalla quale, per oltre quarant’anni, non si è più allontanato. Alla sua permanenza a Siena e all’amore per questa terra e la sua cultura sono dedicati i due monumentali volumi sulla Pinacoteca (La Pinacoteca Nazionale di Siena, 1977/78) insuperato catalogo di una delle più importanti (e ahinoi pochissimo frequentate) gal- lerie d’Italia e Il Pellegrinaio nell’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena (1987) che segna una tappa nella stagione di riscoperta dell’antico ospedale, in un’epoca di grande discussione intorno alla sorte del millenario edificio dopo il trasferimento delle attività sanitarie ad altro e più consono luogo, e che si data al tempo in cui gli storici ne ricostruivano la storia e gli archeologi ne analizzavano le testimonianze materiali. Una stagione di intensa discussione - anche aspra - ma che dimostrava di un reale interesse dell’intera città e, anzi, dell’intero mondo culturale italiano per questa straordinaria testimonianza architettonica e artistica. Su questo versante, purtroppo, Torriti ha dovuto vivere, negli ultimi anni della sua vita, il disarmante e sconsolato appassire di proposte “forti” sul destino del Santa Maria della Scala, lo sconcertante e inconcludente balbettio che accompagna, ormai da tempo, la vicenda di questa (sottovalutata nei fatti; a parole no, ma le parole stanno a zero) realtà storico-artistica senese. Vogliamo ricordare, inoltre, in questa panoramica di studi “senesi”, il poderoso volume, da lui curato, su Beccafumi (1998) e l’agile, chiaro dossier su Arte a Siena da Duccio a Jacopo della Quercia (1987). La città gli deve anche l’organizzazione e la direzione scientifica di alcune delle più significative mostre che si ebbero in città fra gli anni Ottanta e Novanta: solo per Necrologi 325 citare le manifestazioni più importanti, Il Gotico a Siena (1982); Simone Martini e “chompagni” (1985), Scultura dipinta. Maestri di legname e pittori a Siena 1250-1450 (1987), Domenico Beccafumi e il suo tempo (1990). Ma accanto a questi lavori, riteniamo che debba essere sottolineato come vero e proprio atto d’amore per questa città e la sua peculiarità culturale contradaiola la “guida”, se così vogliamo chiamarla, Tutta Siena, contrada per contrada (1988). Il volume (che della guida non ha certo la “tascabilità”, costituito com’è da poco meno di cinquecento pagine, e che invece assume l’aspetto di una riflessione a lungo elaborata e perfettamente resa sul piano comunicativo) già dal titolo enuncia programmaticamente l’approccio proposto per capire questa realtà: entrarci dentro attraverso le sue cellule di base topograficamente e storicamente stratificate nel sistema delle contrade. Ancora di ambito senese è, infine, uno dei suoi ultimi lavori, L’Arbore Genealo- gico dei Piccolomini. Una famiglia senese in Europa (2008). Il suo amore per Siena e l’averle dedicato gran parte della sua professionalità furono riconosciuti nel 1995, quando la città lo insignì del Mangia d’Argento. Membro di numerosi istituti culturali fra cui l’Accademia Ligustica di Genova, l’Accademia Raffaello di Urbino e l’Accademia Archeologica di Roma, accademico ordinario della nostra Accademia Senese degli Intronati che lo ebbe come attento e propositivo collaboratore, Torriti dedicò uno dei suoi scritti a una sorta di ricordo della sua terra di nascita. Così, nel 2009, collaborò con un suo scritto al catalogo, curato da Gianni Mazzoni, di una mostra tenuta quell’anno a Pienza su Romea Ravazzi, pittrice valdorciana vissuta fra il 1870 e il 1942 (Romea Ravazzi 1870-1942: zia Remy pittrice a Pienza tra Otto e Novecento), quasi un ritorno tardo (non sapremmo dire se un sero te amavi) ai suoi luoghi d’origine, ultimo significativo lavoro dell’ ormai ottantacin- quenne studioso. Piero Torriti è morto, novantunenne, il 20 febbraio 2015.

Duccio Balestracci 326 Pubblicazioni della Accademia Senese degli Intronati

PUBBLICAZIONI DELLA ACCADEMIA SENESE DEGLI INTRONATI

MONOGRAFIE D’ARTE SENESE

I. C. BRANDI, Rutilio Manetti. Esaurito. II. M.G. KRASCENINNICOWA, Il Beccafumi. Esaurito. III. G. SINIBALDI, I Lorenzetti. Esaurito. IV. P. BACCI, Francesco di Valdambrino emulo del Ghiberti e collaboratore di Jacopo della Quercia. Esaurito. V. P. BACCI, Dipinti inediti e sconosciuti di Pietro Lorenzetti, Bernardo Daddi e altri in Siena e nel contado. Esaurito. VI. P. B ACCI, Fonti e documenti per la storia dell’arte senese. Dipinti e sculture in Siena, nel suo contado e altrove. Esaurito. VII. S. SYMEONIDES, Taddeo di Bartolo (1965), 8°, pp. IX-271 con 97 tavole f.t., Euro 45,00. VIII. F. OHLY, La cattedrale come spazio dei tempi. II Duomo di Siena (1979), Euro 17,00. IX. S. Colucci, Vanitas e Apoteosi. Per un corpus degli apparati effimeri funerari a Siena Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2009, Euro 35,00. X. G. Ceriani Sebregondi, Architettura e committenza a Siena nel Cinquecento. L’attività di Baldassarre Peruzzi e la storia di Palazzo Francesconi, Siena, Accademia Senese degli Intronati – Firenze, ASKA, 2011, Euro 30,00.

MONOGRAFIE DI STORIA DELLA MUSICA

S.A. LUCIANI, La musica in Siena (1942), 8°, pp. 80, 4 tavv., Euro 11,50.

MONOGRAFIE DI STORIA E LETTERATURA SENESE

I. E. BATTAGLIA, Enea Silvio Piccolomini e Francesco Patrizi: due politici senesi del Quattrocento. Esaurito. II. A. LISINI - G.B. BANDINELLI, La pia dantesca. Esaurito. III. L. SBARAGLI, Claudio Tolomei: umanista senese del Cinquecento. Esaurito. IV. E. CERRETA, Alessandro Piccolomini: letterato e filosofo senese del Cinquecen- to (1960), 8°, pp. XIV-316 con 2 tavv. f.t., Euro 23,00. Pubblicazioni della Accademia Senese degli Intronati 327

V. R. CANTAGALLI, La guerra di Siena (1552-1559). I termini della questione senese nella lotta tra Francia ed Asburgo nel ‘500 e il suo risolversi nell’ambito del Principato mediceo. Esaurito. VI. A. PICCOLOMINI (1508-1579), L’Alessandro, edizione critica con introduzione e note di F. CERRETA (1966), 8°, pp. 305, Euro 23,00. VII. A. CHERUBINI, Il problema sociale e il mutuo soccorso nella stampa senese (1860-1893), due volumi (1969), 8°, pp. 486 e 151, Euro 34,00. VIII. S. PIERI, Toponomastica della Toscana meridionale e dell’arcipelago toscano, a cura di G. GAROSI, pref. di G. BONFANTE (1969), 8°, pp. XXIV-472, Euro 57,00. IX. G. BARGAGLI, Dialogo de’ giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare, a cura di P. D’INCALCI ERMINI. Introduzione di R. BRUSCAGLI (1982), 8°, pp. 259, Esaurito. X. Tra politica e cultura nel primo Quattrocento senese. Le epistole di Andreoccio Petrucci (1426-1443), a cura di P. PERTICI. Prefazione di R. FUBINI (1990), 8°, pp. 192, Euro 23,00. VXI. Viabilità e legislazione di uno Stato cittadino del Duecento. Lo Statuto dei Viarî di Siena, a cura di D. CIAMPOLI e T. SZABO, con trascrizioni di S. Epstein e M. Ginatempo; premessa di M. Ascheri (1992),8°, pp. IV-311, Euro 28,00. ..XII. L’ultimo Statuto della Repubblica di Siena (1545), a cura di M. ASCHERI (1993), 8°, pp. XXXVI-536, Euro 28,00. .XIII. G. CHIRONI, La mitra e il calamo. Il sistema documentario della Chiesa senese in età pretridentina (secoli XIV-XVI), Siena 2005, 8°, pp. 395, Euro 26,00. XIV. I Prigioni di Plauto tradotti da l’Intronati di Siena, a c. di N. NEWBIGIN, Siena 2006, 8°, pp. XXXVIII-118, Euro 20,00. .XV. Lorenzo Manenti, Giorgio Luti da Siena a Lucca. Il viaggio di un mito fra Rinascimento e Controriforma, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2008, Euro 22,00. XVI. Dagli Statuti dei Ghibellini al Constituto dei Nove con una riflessione sull’età contemporanea. Atti della giornata di studio dedicata al VII Centenario del Constituto in volgare del 1309-1310 (Siena, Archivio di Stato, 20 aprile 2009), a c. di Enzo Mecacci e Marco Pierini, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2009, Euro 15,00. XVII. K. Eisenbichler, L’opera poetica di Virginia Martini Salvi (Siena, c. 1510 – Roma, post 1571), Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2012, Euro 16,00.

328 Pubblicazioni della Accademia Senese degli Intronati

FONTI DI STORIA SENESE Libri dell’entrata e dell’uscita del Comune di Siena, detti della Biccherna, a cura della Direzione dell’Archivio di Stato di Siena. VoI. I-II, Esaurito. - Vol. III-XVII più indice dei voll. I-X, Euro 280,00; Volumi separati: ciascuno Euro 28,00. - Vol. XVIII (1257, 2° semestre), a cura di S. DE COLLI, Euro 23,00. - Vol. XIX (1258, 1° semestre), a cura di U. MORANDI, Euro 23,00. - Vol. XX (1258, 2° semestre), a cura di S. DE COLLI, Euro 23,00. - I Volumi XXI (1259, 1° semestre), a cura di S. FINESCHI e XXII (1259, 2° semestre), a cura di G. CATONI, sono editi nella collana «Pubblicazioni degli Archivi di Stato», Ministero dell’Interno, Roma. II Caleffo vecchio del Comune di Siena, a cura di G. CECCHINI (vol. IV con il contributo di M. ASCHERI, A. FORZINI, C. SANTINI). Il Caleffo vecchio contiene gli atti pubblici del Comune di Siena per il periodo che va dall’anno 912 al 1333 ed è un grosso codice in foglio pergamenaceo di 934 carte. È pubblicato in cinque volumi (Euro 350,00): vol. I (1932), Euro 85,00; vol. II (1934), Euro 85,00; vol. III (1940), a causa della scarsa disponibilità di copie i voll. II e III vengono ceduti solo a chi acquista l’opera completa; vol. IV (1984), Euro 85,00; vol. V (1991), Euro 85,00. Lo statuto dell’arte della mercanzia senese (1342-1343), a cura di Q. SENIGALLIA. Esaurito. Statuti del Comune di Montepescali (1472), a cura di I. IMBERCIADORI. Esaurito. Il Cartulario della Berardenga, a cura di E. CASANOVA. Esaurito. Breve degli Speziali (1356-1542), a cura di G. CECCHINI e G. PRUNAI (1942), 8°, pp. LIII- 128 con 2 tavole, Euro 23,00. Carte dell’Archivio di Stato di Siena. Abbazia di Montecelso (1071-1255), a cura di A. GHIGNOLI; presentazione di S.P.P. Scalfati (1992), 8°, pp. XXXVII-356, Euro 34,00. Carte dell’Archivio di Stato di Siena. Opera Metropolitana (1000-1200), a cura di A. GHIGNOLI; presentazione di S.P.P. Scalfati (1994), 8°, pp. XXXIX-309, Euro 34,00. GIUGURTA TOMMASI, Dell’Histoire di Siena. Deca seconda, Vol. I, libri I-III (1355-1444); Vol. II, libri IV-VII (1446-1496); Vol. III, libri VII-X (1512-1553). Introduzione, trascrizione e indice dei nomi a cura di MARIO DE GREGORIO, Siena, Accademia Senese degli Intronati 2002-2006. Euro 45,00 a volume. Vol. IV Indici, a cura di MARIO DE GREGORIO, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2007. Euro 25,00. Prezzo cumulativo dei quattro volumi Euro 120,00). Un ciclo di tradizione repubblicana nel Palazzo Pubblico di Siena. Le iscrizioni degli affreschi di Taddeo Di Bartolo (1413-1414), a cura di ROBERTO FUNARI, Siena 2002, 8°, pp. XXIV-99, con XVI tavv. col. f.t., Euro 25,00. Memorie della Compagnia di San Salvatore. Contrada dell’Onda, a cura di MARIO ASCHERI - ALBERTO CORNICE - EMILIO RICCIERI - ARMANDO SANTINI, Siena 2004, 8°, pp. XXIV-211, Euro 15,00. Pubblicazioni della Accademia Senese degli Intronati 329

P. P ETRIOLI, Gaetano Milanesi. Erudizione e storia dell’arte in Italia nell’Ottocento. Profilo e carteggio artistico,Siena 2004, 8°, pp. XIV + 203+ 1061, Euro 70,00. Le pergamene delle confraternite nell’Archivio di Stato di Siena (1241-1785), regesti a cura di Maria Assunta Ceppari Ridolfi, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2007, Euro 32,00. Il registro del notaio senese Ugolino di Giunta “Parisinus Latinus 4725” (1283-1287). Alle origini dell’Archivio della Casa della Misericordia di Siena, a cura di Viviana Persi, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2008, Euro 24,00. Il Diplomatico del Comune di Montieri nell’Archivio di Stato di Siena (1236-1578), a cura di Alessia Zombardo, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2008, Euro 15,00. Alla ricerca di Montaperti. Mito, fonti documentarie e storiografia. Atti del Convegno Siena, 30 novembre 2007, a cura di E. Pellegrini Siena, Accademia Senese degli Intronati - Accademia dei Rozzi - Betti Editrice, 2009, Euro 25,00. G. A. Pecci, Lo Stato di Siena antico, e moderno, vol. I, parte I e II, trascrizione e annotazioni a cura di Mario De Gregorio e Doriano Mazzini, con un’introduzione di Duccio Balestracci, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2009, Euro 45,00. G. A. Pecci, Lo Stato di Siena antico, e moderno, vol. II, parte III e IV, trascrizione e annotazioni a cura di Mario De Gregorio e Doriano Mazzini, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2010, Euro 45,00. G. A. Pecci, Lo Stato di Siena antico, e moderno, vol. III, parte V e VI, trascrizione e annotazioni a cura di Mario De Gregorio e Doriano Mazzini, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2014 (pubblicato con contributo MiBAC), Euro 45,00. G. A. Pecci, Lo Stato di Siena antico, e moderno, vol. IV, parte VII, trascrizione e annotazioni a cura di Mario De Gregorio e Doriano Mazzini, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2015 (pubblicato con contributo MiBAC), Euro 45,00.

CONFERENZE PRIMA SERIE - Vol. I (P. ROSSI, Le origini di Siena: Siena avanti il dominio romano; O. BACCI, Le prediche volgari di San Bernardino da Siena nel 1427; C. CALISSE, S. Caterina da Siena; D. BARDUZZI, Del governo dell’Ospedale di Siena dalle origini alla caduta della Repubblica), 1895, vol. in-16° di pp. 244, Euro 57,00. (È disponibile in estratto la conferenza di C. CALISSE, Euro 17,00). 330 Pubblicazioni della Accademia Senese degli Intronati

Vol. II (L. ZDEKAUER, La vita privata dei senesi nel Duegento; G. RONDONI, Leggende, novellieri e teatro dell’antica Siena; D. ZANICHELLI, Siena nel Principato Toscano; O. BACCI, I pensieri sull’arte e Ricordi autobiografici di Giovanni Duprè, 1896. Esaurito. (Disponibili in estratto le conferenze di Rondoni, Zanichelli e Bacci: Euro 17,00 ciascuna). Vol. III (P. ROSSI, Le origini di Siena: II. Siena colonia romana; L. ZDEKAUER, La vita pubblica dei Senesi nel Duegento), 1897. Esaurito. Vol. IV (C. PAOLI, Siena alle fiere di Sciampagna),1898 . Esaurito. NUOVA SERIE - Vol. I (P. ROSSI, L’arte senese nel Quattrocento; A. RICCI, Canzonieri senesi della seconda metà del Quattrocento; A. LISINI, Relazioni fra Cesare Borgia e la Repubblica Senese), 1900, Esaurito. Vol. II (E. ROCCHI, L’opera e i tempi di Francesco di Giorgio Martini; E. CASANOVA, La donna senese del Quattrocento nella vita privata), 1901, vol. in-8° di pp. 147. Esaurito. E. SESTAN, Siena avanti Montaperti. Esaurito. G. MARTINI, Siena da Montaperti alla caduta dei Nove (1260-1355). Esaurito.

FUORI COLLANA

A. LISINI, Indice di due antichi libri di imbreviature notarili (1912),8°, pp. XVIII-145, Esaurito. L. ZDEKAUER, Il mercante senese nel Dugento. Esaurito. Raccolta di voci e modi di dire in uso nella città di Siena e nei suoi dintorni, a c. di A. LOMBARDI, P. BACCI, E. IACOMETTI e G. MAZZONI (1944), 8°, pp, 64. Ristampa anastatica con introduzione di PIETRO TRIFONE, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2003, Euro 12,00. Mostra Cateriniana di documenti, manoscritti ed edizioni (sec. XIII-XVIII) nel palazzo pubblico del Comune di Siena. Agosto-ottobre 1947. Catalogo, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1962, 8°, pp. 110 con 2 tavole, Euro 23,00. Enea Silvio Piccolomini Papa Pio II. Atti del Convegno per il quinto centenario della morte e altri scritti raccolti da D. MAFFEI, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1968, 4°, pp, XII-455, 43 tavv. f.t., Euro 85,00. G. CATONI, Un treno per Siena. La Strada Ferrata Centrale Toscana dal 1844 al 1865 (1981), 8°, pp, 110,14 tavv; f.t.. Esaurito. O. REDON, Uomini e comunità del contado senese nel Duecento (1982, Amministrazione Provinciale di Siena), 8°, pp. 239, 4 tavv. f.t. + carta all., Esaurito. Pubblicazioni della Accademia Senese degli Intronati 331

Atti del Simposio Internazionale Cateriniano-Bernardiniano, Siena 17-20 aprile 1980, a c. di D. MAFFEI e P. NARDI, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1982, 4°, pp. VIII-994, 66 tavv. f.t., Euro 115,00. Miscellanea Rolando Bandinelli Papa Alessandro III. Studi raccolti da F. LIOTTA. Indici a c. di R. TOFANINI, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1986, 8°, pp. XX- 500, 7 tavv. f.t. a colori, Euro 40,00. C. BASTIANONI - G. CATONI, Impressum Senis. Storie di tipografi, incunaboli e librai, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1988, 16°, pp. 111, 12 tavv. f.t., Euro 17,00. I Tedeschi nella storia dell’Università di Siena. Testi di Denifle, Weigle, Rau, Luschin von Ebengreuth, von Müller, a c. di G. MINNUCCI, trad. di R. Marcucci, Siena, Accademia Senese degli Intronati - Ente Provinciale per il Turismo di Siena, 1988, 8°, pp. 165, Euro 17,00. A. MIDDELDORF KOSEGARTEN, Scultori senesi nel ‘Duomo vecchio’ . Studi per la scultura a Siena (1250-1330), Siena, Accademia Senese degli Intronati - Ente Provinciale per il Turismo di Siena, 1988, 8°, pp. 59, Euro 17,00. P. C AMMAROSANO, Tradizione documentaria e storia cittadina. Introduzione al «Caleffo vecchio del Comune di Siena», Siena, Accademia Senese degli Intronati - Comune di Siena, 1988, 4°, pp. 81, Euro 23,00. Ristampato nel vol. V del Caleffo Vecchio. W. K URZE, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana medievale. Studi diplomatici, archeologici, genealogici, giuridici e sociali (1989), 8°, pp. XXXV-441, Esaurito. L. BONELLI CONENNA, Il contado senese alla fine del XVII secolo. Poderi, rendite e proprietari (1990), 8°, pp. 463, Esaurito. M. DE GREGORIO, La Balìa al torchio. Stampatori e aziende tipografiche a Siena dopo la Repubblica, con una presentazione di L. PERINI (1990), 8°, pp. 232, Esaurito. I Santi patroni senesi, a cura di F.E. CONSOLINO. Testi di R. Argenziano, F. Bisogni, FE. Consolino, M. Forlin Patrucco, E. Giannarelli e F. Scorza Barcellona, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1991, 8°, pp. 121, Esaurito. Gli stessi testi sono pubblicati in «Bullettino senese di storia patria», XCVII (1990), pp. 9-121. W. H EYWOOD, Nostra Donna d’Agosto e il Palio di Siena, a cura di A. FALASSI, Siena, Accademia Senese degli Intronati - Protagon Editori Toscani, 1993, 16°, pp. 189. Euro 11,50. Tra Siena e il Vescovado: l’area della Selva. Beni culturali, ambientali e storici di un territorio, a c. di M. ASCHERI e V. DE DOMINICIS, con la collab. di G.P. PETRI (1997), 4°, pp. 947, Esaurito. Fausto Sozzini e la filosofia in Europa.Atti del Convegno Siena 25-27 novembre 2004, a c. di M. PRIOLO e E. SCRIBANO, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2006, 8°, pp. 411, Euro 23,00. 332 Pubblicazioni della Accademia Senese degli Intronati

A. Vignali, Alcune lettere amorose. Una dell’Arsiccio Intronato in proverbi, l’altre di M. Alessandro Cirloso Intronato con le risposte, e con alcuni sonetti, Siena, Accademia Senese degli Intronati - Betti editrice, 2007, Euro 10,00. Archivi Carriere Committenze. Contributi per la storia del patriziato senese in Età moderna, Atti del Convegno Siena, 8-9 giugno 2006, a cura di M. Raffaella de Gramatica, Enzo Mecacci, Carla Zarrilli, Siena, Accademia Senese degli Intronati, Euro 30,00. Conferenze su Pio II di Luca d’Ascia, Arnold Esch, Alessandro Scafi, Francesco Ricci, nel sesto centenario della nascita di Enea Silvio Piccolomini (1405-2005), a cura di Enzo Mecacci, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2007, Euro 10,00. C. Brandi, Il vecchio e il nuovo nella città antica, a cura di Roberto Barzanti, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2007, Euro 15,00. L’ultimo secolo della Repubblica di Siena. Politica e istituzioni, economia e società, a cura di Mario Ascheri e Fabrizio Nevola (Atti dei Convegni “Siena nel Rinasciamento: l’ultimo secolo della Repubblica”, Siena settembre 2003 e settembre 2004), Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2007, Euro 30,00. Alessandro Piccolomini, Discorso fatto in tempo di Repubblica per le veglianti discordie de’ suoi cittadini, a cura di Eugenio Refini e Franco Tomasi, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2008, Euro 15.00. L’ultimo secolo della Repubblica di Siena. Arti, cultura e società, a cura di Mario Ascheri, Gianni Mazzoni, Fabrizio Nevola (Atti dei Convegni “Siena nel Rianscimento: l’ultimo secolo della Repubblica”, Siena settembre 2003 e settembre 2004), Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2008, Euro 35.00. Bibliografia di Enzo Carli, a c. di Wolfgang Loseries e Marco Pierini, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 2010, Euro 15,00. Pubblicazioni dell’Amministrazione Provinciale di Siena 333

PUBBLICAZIONI DELL’ AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE DI SIENA - ASSESSORATO ISTRUZIONE E CULTURA

INVENTARI DEGLI ARCHIVI COMUNALI DELLA PROVINCIA DI SIENA Collana diretta da Paola Benigni, Giuliano Catoni e Carla Zarrilli

01. L’Archivio comunale di Asciano. Inventario della Sezione storica, a c. di P.G. MORELLI, S. MOSCADELLI e F. PAPPALARDO, coordinati da G. CATONI (1985). 02. L’Archivio comunale di Castellina in Chianti. Inventario della Sezione storica, a c. di P.G. MORELLI, S. MOSCADELLI e F. PAPPALARDO (1986),8°, pp. 178. 03. L’Archivio comunale di Abbadia San Salvatore. Inventario della Sezione storica, a c. di P.G. MORELLI, S. MOSCADELLI e C. SANTINI (1986), 8°, pp. 110. 04. L’Archivio comunale di Buonconvento. Inventario della Sezione storica, a c. di P.G. MORELLI, S. MOSCADELLI e C. SANTINI (1986),8°, pp. 172. 05. L’Archivio comunale di Radicondoli. Inventario della Sezione storica, a c. di M. CARNASCIALI (1987), 8°, pp. 82. 06. L’Archivio comunale di Rapolano. Inventario della Sezione storica, a c. di E. BRIZIO e C. SANTINI (1987), 8°, pp. 162. 07. L’Archivio comunale di Murlo. Inventario della Sezione storica, a c. di M. CARNASCIALI (1989), 8°, pp.163. 08. L’Archivio comunale di Torrita. Inventario della Sezione storica, a c. di C. ROSA e L. TROMBETTI (1989),8°, pp. 132. 09. L’Archivio comunale di Montalcino. Inventario della Sezione storica, a c. di P.G. MORELLI, S. MOSCADELLI e C. SANTINI (1989), 8°, voll. 2, pp. 307 + 2 tavv. f.t. e pp. 478+4 tavv. f.t. 10. L’Archivio comunale di Castelnuovo Berardenga. Inventario della Sezione stori- ca, a c. di M. FIRMATI e F. VALACCHI (1990), 8°, pp. 103. 11. L’archivio comunale di Trequanda. Inventario della Sezione storica, a C. di C. ROSA e L. TROMBETTI (1990), 8°, pp. 125. 12. L’archivio comunale di Gaiole in Chianti. Inventario della Sezione storica, a C. di P.M. BAGNOLI e D. GUERRINI (1990), 8°, pp. 86. 13. L’archivio comunale di Monteriggioni.Inventario della Sezione storica, a C. di E. BRIZIO e C. ZARRILLI (1991), 8°, pp. 127. 334 Pubblicazioni dell’Amministrazione Provinciale di Siena

14. L’archivio comunale di Pienza. Inventario della Sezione storica, a C. di P.M. BAGNOLI, D. GUERRINI e E. INSABATO (1991), 8°, pp, 194. 15. L’archivio comunale di Chianciano. Inventario della Sezione storica, a C. di E. VALACCHI (1991), 80, pp. 199. 16. L’archivio comunale di S.Quirico d’Orcia. Inventario della Sezione storica, a c.di G. CHIRONI e A. GIORGI (1992),8°, pp, 171. 17. L’archivio comunale di Sovicille. Inventario della Sezione storica, a c. di P.M. BAGNOLI, D. GUERRINI e C. ZARRILLI (1993), 8°, pp. 157. 18. L’archivio comunale di Cetona. Inventario della Sezione storica, a c. di E. BURRINI e M. PUTTI (1993), 8°, pp. 157. 19. L’archivio comunale di San Gimignano. Inventario della Sezione storica, vol. 1, a c. di G. CARAPELLI, L. ROSSI e L. SANDRI (1996), 8°, pp. 623. 20. L’archivio comunale di Sinalunga. Inventario della Sezione storica, vol. I, a c. di A. GIORGI e S. MOSCADELLI (1997), 8°, pp. 485. 21. L’archivio comunale di Siena. Inventario della Sezione storica, a c. di G. CATONI e S. MOSCADELLI (1998), 8°, pp. 642. 22. L’archivio comunale di Monteroni d’Arbia. Inventario della Sezione storica, a c. di M. BROGI (2000), 8°, pp. 153. 23. L’archivio comunale di Castiglion d’Orcia. Inventario della Sezione storica, a c. di G. CHIRONI e A. GIORGI (2000), 8°, pp. 293. 24. L’archivio comunale di Poggibonsi. Inventario della Sezione storica, vol. I, a.c. di M. BROGI (2003), 8°, pp. 332. 25. L’archivio comunale di Radda in Chianti. Inventario della Sezione storica, a c. di S. BARBETTI e A. MANCINI (2004), 8°, pp. 381.

LE ESPERIENZE DI CLIO Collana diretta da Giuliano Catoni 01. L’Archivio dell’Amministrazione Provinciale di Siena. Inventario della Sezione storica, a cura di L. NARDI e F. VALACCHI con la collaborazione di L. SENSINI (1994), 8°, pp. 415. 02. Statuto di Montisi del 1494, a cura di L. GATTI, introduzione di D. Ciampoli (1994), 8°, pp. 207. 03. Uno statuto per due Comuni. Lucignano d’Asso e San Giovanni d’Asso. 1492, a cura di F. RAFFAELLI, presentazione di D. Ciampoli (1996), 8°, pp. 127. Pubblicazioni dell’Amministrazione Provinciale di Siena 335

04. Lo statuto del 1504 del Comune di , a cura di A. GIORDANO, presentazione di D. Ciampoli Sensi (1997), 8°, pp. 109. 05. L’archivio diocesano di Pienza. Inventario a c. di G. CHIRONI (2000), 8°, pp. 604. 06. Lo statuto del Comune di Asciano del 1465, a c. D. CIAMPOLI con la collab. di L. PIANIGIANI (2000), 8°, pp. 151. 07. L’archivio del Consorzio di bonifica della Val d’Orcia. Inventarioa c. di F. VALACCHI con la collab. di C. FLORI, R. OLIVIERI e M. PAGANINI (2004), 8°, pp. 475. 08. L’archivio dell’Arciconfraternita di Misericordia di Siena. Inventario della Sezione storica, a c. di A. PEPI, con un’introduzione di M. ASCHERI (2004), 8°, pp. 259.

BULLETTINO SENESE DI STORIA PATRIA PERIODICO FONDATO NEL 1894 Ciascuna annata disponibile dal 1894 al 1943: Euro 57,00 Singoli fascicoli disponibili dal 1894 al 1943: Euro 23,00 ciascuno Le annate dal 1948 al 2014 (la 2003 è esaurita): Euro 45,00 ciascuna

N.B.: I volumi delle annate LXXVI-LXXXI (1969-74) e CVII (2000) contengono gli indici della rivista per autori e per soggetti, redatti da M. Capperucci (I-LXXV) e da L. Vigni (LXXXI-CVI).

Finito di stampare nel mese di aprile 2016 da Industria Grafica Pistolesi Editrice “Il Leccio” srl Via della Resistenza, 117 - loc. - 53035 Monteriggioni (Siena) www.leccio.it [email protected]