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«Certo dovremmo ancora per molto tempo confrontarci con la criminalità organizzata di stampo mafioso, per lungo tempo, non per l’eternità. Perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio e una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine». Da Cose di Cosa Nostra di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani, 1991.

La storia di Carmela Iuculano Sposata con Pino Rizzo, un boss mafioso legato ai Corleonesi di Bernardo Provenzano, oggi Carmela Iuculano, 33 anni, è una pentita di mafia: per un atto d’amore verso i suoi figli, ha accusato suo marito di essere un capomafia, un assassino e un estorsore. Grazie al suo pentimento ha dato allo Stato importanti informazioni sulla mafia siciliana e soprattutto ha permesso un futuro diverso ai suoi figli.

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La famiglia di Carmela Iuculano non apparteneva alla mafia: suo padre ha costruito un’impresa dal niente, con sacrifici e debiti. In una sua testimonianza (13 marzo 2006, Tribunale di ) Carmela ha raccontato che il padre è sempre stato particolarmente geloso, non le permetteva, infatti, di uscire con le sue coetanee e soprattutto con i ragazzi, nemmeno in occasione delle feste di paese; era il tipico “padre padrone” che la escludeva dalle scelte famigliari, alle quali doveva invece obbedire pedissequamente, e che soprattutto le imponeva di incarnare la figura della “brava ragazza siciliana”.

Per uscire dal suo contesto famigliare, all’età di 16 anni, Carmela inizia a frequentare Pino Rizzo: in lui vedeva la forza, i soldi e il potere sufficienti per sfidare suo padre. Dopo alcuni mesi decide di andare via di casa; oggi ricorda: «Me ne sono andata facendo finta che andavo dalla mia nonna e invece sono andata via con mio marito…da lì hanno sospettato qualcosa e mi cercavano, e mentre mio padre mi cercava è stato fermato dall’altro zio di mio marito, Rizzo Angelo, con una lupara, un fucile, e in mezzo alla strada lo fermò dicendogli che lui si doveva stare fermo, che ormai io appartenevo a suo nipote e che non doveva cercarmi più».

Carmela quindi sposa Pino Rizzo, nipote di Rosolino Rizzo, capomafia di Cerda, condannato all’ergastolo per duplice omicidio di due fratelli imprenditori, uccisi e quindi sciolti nell’acido perché rifiutavano di pagare una tangente. I Rizzo sono amici e complici di mafia del braccio destro di Bernardo Provenzano, Nino Giuffrè, condannato a 20 anni di carcere per la strage di Capaci, oggi “”.

Per Carmela la vita coniugale non è facile: «Alzava le mani e quando piangevo ricordo che mi diceva che lo faceva non perché era cattivo, ma perché doveva farmi capire come funzionavano le cosa là dentro…poi quando è nata mia figlia grande, avevo 18 anni, pensavo che sarebbe cambiato con la nascita della bambina…». Ma Pino Rizzo non cambia e ben presto Carmela si rende conto di quali siano i veri “affari” di suo marito: «Una volta vedevo delle armi, una volta dei biglietti, una volta troppa gente che lo veniva a cercare, gente strana; poi iniziano a girare dei soldi, e finché io avevo ancora le bambine così piccole non chiedevo, obbedivo e basta. Quando sentivo le notizie di cronaca non riuscivo a collegarle a mio marito, alla famiglia di mio marito, non riuscivo nemmeno a immaginare che lui potesse uccidere una persona».

Ma per Carmela la vita in questo modo è insostenibile: soffre di anoressia, prende farmaci per dormire, beve, tenta il suicidio, e poiché non può separarsi dal marito - in quanto per i mafiosi il divorzio non è concepibile - con il tempo decide di collaborare con lui per sentirsi rispettata e soprattutto accettata: «Inizia ad

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avere più fiducia in me…i soldi mi diceva da dove venivano, di chi erano e a chi dovevano andare…[…] I soldi, la vita bella, stavo bene…per me era un orgoglio…».

Pino Rizzo intanto inizia la sua ascesa all’interno di Cosa Nostra: Nino Giuffrè lo prende sotto la sua protezione. L’obiettivo di Rizzo è quello di conoscere e diventare il braccio destro di Bernardo Provenzano, ma questo rimane solo un sogno, infatti, il 24 luglio del 2002, viene arrestato con l’accusa di associazione mafiosa ed estorsione. Ma come tutti i boss mafiosi continua a “lavorare” anche dal carcere: “detta” il suo volere attraverso la trasmissione di bigliettini, portati e consegnati dai cosiddetti “postini”, tra cui la stessa moglie Carmela.

Carmela decide di cambiare vita Il 3 maggio 2004 Carmela viene arrestata. Il 10 maggio è di nuovo libera: le vengono concessi gli arresti domiciliari. Ma quando torna a casa trova una situazione inaspettata: le figlie le manifestano il loro forte disagio: «Mi dissero: “Mamma questa è vita secondo te?” E allora gli ho detto: “Cosa volete da me? Cosa volete che io faccia?” Ero disperata, non riuscivo più nemmeno a controllare le mie figlie. E loro mi hanno detto: “Perché non dici la verità? Collabora!”».

Per Carmela è una scelta molto difficile: deve denunciare suo marito e quindi dividere la sua famiglia. Ma le figlie la convincono e quindi decide di scrivere una lettera di denuncia ai magistrati. Inizia così la fase dei suoi interrogatori, fondamentali per capire la geografia mafiosa siciliana e per constatare quanto sia collaudato il sistema di comunicazione tramite i cosiddetti “postini”. Il 12 dicembre 2006 il Consiglio comunale di Cerda viene sciolto per infiltrazioni mafiose, e sempre sulle indicazioni di Carmela, il Pubblico Ministero, Michele Prestipino, recupera un importante filmato – da una telecamera nascosta nel parlatorio del carcere Pagliarelli di Palermo - che mostra chiaramente come i boss riescano a comunicare con l’esterno. [vedi video 5]

13 marzo 2006, Carmela al Tribunale di Palermo Dalla testimonianza di Carmela: «Mi sono ritrovata con tre figli da sola, perché i miei genitori non mi hanno sostenuta e mio marito non mi ha seguita. I miei figli devono vedere cosa è il bene e cosa il male, io l’ho imparato quando ho iniziato a collaborare, a 31 anni, e non è giusto che i miei figli crescano come sono stata cresciuta io. A me la forza oggi me l’ha data la fede, ma soprattutto i miei figli, perché sono dei bambini più maturi dell’età che hanno e ogni volta che sono scoraggiata mi dicono: “Mamma ma che stai facendo? Alzati mamma, non ti preoccupare, mamma…” L’unica mia forza sono loro, per me sono bambini speciali…[…] Mi manca la mia terra, il mare, il sole, ma mi piace questa nuova Carmela: mi sento pulita, libera, sono una persona normale come tutti, non sono più impigliata in quella ragnatela che è la mafia che ti stringe fino a non farti più respirare. La mafia non finirà mai, fino a quando la gente, i commercianti, gli imprenditori e i politici continuano ad abbassare la testa e ad aver paura di dire no e di denunciare...allora sì che la mafia non finirà mai».

La Iuculano in aula ha fatto appello più volte al marito, dicendo: «Io sono qui. Io credo nei miracoli e credo nel miracolo che lui finalmente possa trovare il coraggio, perché il coraggio è questo e non quello di andare avanti, ammazzando le persone e facendo le angherie agli altri. Il coraggio è di seguirmi e scegliere la sua vera famiglia che sono sua moglie e i suoi figli».

Pino Rizzo non si è ancora pentito: è stato condannato all’ergastolo per omicidio di mafia. Carmela invece, oggi, è una donna nuova.

Donne di mafia pentite per vendetta Dalle parole di Giovanni Falcone, nel libro Cose di Cosa Nostra: «Le donne che in passato hanno raramente avuto una parte decisiva nella vita dei mafiosi, hanno assunto un ruolo determinante: sono decise e sicure di sé, sono entrate in rotta di collisione con il mondo chiuso, oscuro, tragico e ripiegato su se stesso di Cosa Nostra».

Serafina Battaglia Palermo, 30 gennaio 1962: Serafina Battaglia, è la prima donna di mafia che spezza il muro dell’omertà per vendicare l’assassinio del figlio Salvatore. In tribunale rivela tutto quello che sa, indica i nomi degli assassini, dei mandanti e degli esecutori. Da quel momento diventa testimone implacabile per moltissimi processi.

Le parole di Serafina prese da “La vedova della lupara”, Tv7 - 1964: «Ho avuto coraggio…ma io senz’altro tutto quello che so dico, sempre, anche di notte, se mi chiama la polizia io dirò tutto, perché non ho paura di nessuno. Che penso della mafia? Che fa schifo…questo penso della mafia, che fa schifo».

Vita Rugnetta e Michela Buscemi Maxiprocesso alla mafia, Palermo 10 febbraio 1986: per la prima volta in Sicilia due donne, Vita Rugnetta e Michela Buscemi si costituiscono parte civile e denunciano gli assassini dei propri figli e fratelli.

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Piero Grasso, Capo Direzione Nazionale Antimafia, ricorda di quel processo: «Ci ha dato un panorama, uno spaccato di tutta quanta la società; la tipologia sia del crimine sia della società siciliana, e quindi anche delle donne. Ci sono figure di donne che hanno fatto piangere, che hanno emozionato, come la Rugnetta…ricordo che portò in aula la foto del figlio morto e che si è lanciata contro coloro che lo hanno fatto scomparire…o la Buscemi che ha dovuto ritrattare le dichiarazioni perché così costretta…». Questo infatti confessa la Buscemi nel 1992 in “Viaggio nel sud” di Sergio Zavoli: «Quando iniziò il Processo d’Appello, dopo qualche mese, ho ricevuto, la sera tardi, una minaccia, una voce terribile che mi diceva che mi dovevo ritirare dal maxiprocesso, sennò succedeva qualcosa alla mia famiglia; disse: “Signora, meglio per lei che prima di Pasqua si ritiri”».

Michela Buscemi revoca quindi la sua costituzione di parte civile nel Maxiprocesso contro la mafia il 16 marzo dell’‘89.

Rita Atria Rita Atria è una ragazza siciliana di Partanna (Tp) che a soli 17 anni, nonostante appartenga a una famiglia mafiosa, diventa testimone di giustizia, seguendo l'esempio di sua cognata Piera Aiello. È quando suo padre e suo fratello vengono uccisi per una guerra di mafia che Rita inizia a collaborare con il giudice Paolo Borsellino: per lei diventa un secondo padre e soprattutto un punto di riferimento fondamentale per la sua scelta di sfidare la mafia del suo paese.

È stata una delle prime donne a essere sottoposte a un programma di protezione.

Quando il 19 luglio del ‘92, nella strage di via d'Amelio, a Palermo, Paolo Borsellino viene ucciso, Rita perde la fiducia nella vita e, a una settimana esatta dalla morte del Giudice, il 26 luglio del ‘92, si suicida lanciandosi nel vuoto dal settimo piano della casa in cui viveva.

Queste le parole tratte dal suo diario: «Ora che è morto Borsellino nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io ho solamente paura che lo stato mafioso vincerà. E quei poveri scemi, che combattono contro i mulini a vento, saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi dopo aver sconfitto la mafia dentro di te puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi, ed il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta».

La sua lapide è stata più volte oltraggiata, probabilmente perché la sua scelta di collaborare con la giustizia era stata vissuta come un affronto imperdonabile dai suoi famigliari e dall’ambiente in cui era cresciuta.

Donne di mafia, garanti dell’omertà Teresa Principato, Sostituto Procuratore Direzione Nazionale Antimafia: «Le donne sono state sempre le custodi, coloro a cui è stata affidata la conservazione a la trasmissione dei valori mafiosi. Ecco perché si sono rivelate nel tempo sicuramente più conservatrici dei loro uomini…».

Nel Maxiprocesso di Palermo dell’’86, sono molte le donne mafiose che proteggono i loro uomini con l’omertà; questo breve dialogo tra un Magistrato e una testimone ne è l’esempio: “Ha qualcosa da dire sulla morte di suo figlio?” “Perché, mio figlio è morto? È vivo per me!”.

Piero Grasso: «Altre donne, le donne dei Buffa, hanno inscenato una rappresentazione per convincere il proprio marito a non collaborare con la giustizia: hanno cominciato a gridare nei confronti dei magistrati dicendo che avevano costretto con la violenza il proprio congiunto a fare delle dichiarazioni. In questo modo hanno reso pubblico il tentativo di collaborazione e così l’hanno fatto fallire».

Ninetta Bagarella La più famosa delle donne dei boss è Antonietta (Ninetta) Bagarella, la maestrina di , sorella di , uno dei killer più spietati del clan dei Corleonesi. Nel ’74 sposa clandestinamente Totò Riina, capo di Cosa Nostra. È la prima donna per cui viene proposto (ma non comminato) il “soggiorno obbligato” per reati collegati alla mafia. Ninetta vive in latitanza con il marito per 25 anni, ha quattro figli ai quali fa scuola lei stessa: per i mafiosi è una madre e moglie esemplare.

Quando il marito viene arrestato, nel ‘93, porta i figli a Corleone. Dopo l'arresto del figlio Gianni, nel ‘96, scrive una lettera al quotidiano la Repubblica, denunciando un'ingiusta persecuzione nei confronti della sua famiglia. Nel ‘97 il figlio è stato condannato a quattro anni e mezzo di reclusione per associazione mafiosa.

Giusy Vitale Giusy Vitale, detta anche “Lady mafia”, è la prima donna a cui la Procura di Palermo contesta il delitto di associazione mafiosa. Madre di due bambini, sorella di Vito e Leonardo Vitale, uomini

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d’onore legati all’ala stragista dei Corleonesi di Totò Riina, si occupa di affari e omicidi, soprattutto dopo l'arresto dei suoi due fratelli. Condannata nel ’98 per omicidio di mafia, Giusy passa alla storia come il primo pentito donna, un “boss in gonnella” che comandava i “picciotti” e ordinava delitti.

Depositaria di numerosi segreti, le sue dichiarazioni rivelano anche episodi “surreali”, come quello secondo il quale nel ‘92 Bernardo Provenzano sarebbe andato a una riunione dei capi clan vestito da vescovo. Parla anche dei misteri che ruotano intorno alla mancata perquisizione della villa del boss di Cosa Nostra, Totò Riina, arrestato il 15 gennaio del ‘93. Ai Pubblici Ministeri, Maurizio De Lucia e Francesco Del Bene, Giusy ha dichiarato di aver deciso di pentirsi “per amore dei figli”. Probabilmente, però, a far maturare in lei la decisione sono stati anche i colpi inferti dalla Procura alla sua famiglia, decimata dalla condanne giudiziarie.

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