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Le tesi Portaparole

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00178 Roma Via Tropea, 35 Tel 06 90286666 www.portaparole.it [email protected]

isbn 978-88-97539-32-2

1a edizione gennaio 2014

Stampa Ebod / Milano

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Maurizio Basili

La Letteratura Svizzera dal 1945 ai giorni nostri

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Ringrazio la Professoressa Elisabetta Sibilio per aver sempre seguito e incoraggiato la mia ricerca, per i consigli e le osservazioni indispensabili alla stesura del presente lavoro.

Ringrazio Anna Fattori per la gratificante stima accordatami e per il costante sostegno intellettuale e morale senza il quale non sarei mai riuscito a portare a termine questo mio lavoro.

Ringrazio Rosella Tinaburri, Micaela Latini e gli altri studiosi per tutti i consigli su aspetti particolari della ricerca.

Ringrazio infine tutti coloro che, pur non avendo a che fare direttamente con il libro, hanno attraversato la vita dell’autore infondendo coraggio.

4  INDICE

CAPITOLO PRIMO SULL’ESISTENZA DI UNA LETTERATURA SVIZZERA 11 1.1 Contro una letteratura svizzera 13 1.2 Per una letteratura svizzera 23 1.3 Sull’esistenza di un “canone elvetico” 35 1.4 Quattro lingue, una nazione 45 1.4.1 Caratteristiche dello Schweizerdeutsch 46 1.4.2 Il francese parlato in Svizzera 50 1.4.3 L’italiano del e dei Grigioni 55 1.4.4 Il romancio: lingua o dialetto? 59 1.4.5 La traduzione all’interno della Svizzera 61 - La traduzione in Romandia 62 - La traduzione nella Svizzera tedesca 67 - Traduzione e Svizzera italiana 69 - Iniziative a favore della traduzione 71

CAPITOLO SECONDO IL RAPPORTO TRA PATRIA E INTELLETTUALI 77 2.1 Gli intellettuali e la madrepatria 79 2.2 La ristrettezza elvetica e le sue conseguenze 83 2.3 Personaggi in fuga: 2.3.1 L’interiorità 102 2.3.2 L’altrove 111 2.4 Scrittori all’estero: 2.4.1 Il viaggio a Roma 120 2.4.2 Parigi e gli intellettuali svizzeri 129 2.4.3 La Berlino degli elvetici 137 2.5 Letteratura di viaggio. Tre casi esemplari 145

5  CAPITOLO TERZO L’INTERESSE PER LE VICENDE STORICHE 167 3.1 L’interesse per la storia 169 3.2 Tra storia e mito: Guglielmo Tell 191 3.3 Il secondo conflitto mondiale dalla prospettiva elvetica 212 3.4 Islam e Svizzera 252

CAPITOLO QUARTO IL LEGAME CON LA TRADIZIONE 261 Forma: 4.1 Il legame con la tradizione letteraria: il romanzo di formazione 263 4.2 Memorie d’infanzia 279 4.3 Tre esempi di riscritture: Ifigenia, Orfeo, Giuditta 292 4.4 Romanzo poliziesco e critica sociale 299 4.4.1 Glauser e le regole del genere poliziesco 299 4.4.2 I gialli di Friedrich Dürrenmatt 309 4.4.3 Il romanzo poliziesco di Andrea Fazioli e Michel Bory 326 Temi: 4.5 La natura come motore della creazione artistica 332 4.5.1 La montagna 342 4.5.2 La passeggiata 354 4.6 Critica alla società moderna e al progresso 365 4.7 Le tragicommedie dell’assurdo di Frisch e Dürrenmatt 381

SCHEDE BIO-BIBLIOGRAFICHE 389

BIBLIOGRAFIA 463

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CAPITOLO PRIMO

SULL’ESISTENZA DI UNA LETTERATURA SVIZZERA

CAPITOLO PRIMO

SULL’ESISTENZA DI UNA “LETTERATURA SVIZZERA”

Dal punto di vista geografico ed economico la formazione di uno stato svizzero e la creazione di una coscienza nazionale sono difficilmente spiegabili e, agli occhi di uno storico attento e forse eccessivamente meticoloso, potrebbero addirittura sembrare improponibili: l’assenza di un confine naturale fatto di monti o acque fa cadere subito l’idea di un’unità dovuta a esigenze naturali; le montagne, per di più, sono al centro del Paese e le Alpi occupano gran parte del territorio, per cui logica deduzione sarebbe che la Svizzera è un paese improduttivo. Ci indurrebbe a tale pensiero anche l’assenza di materie prime, ma si sa bene che la Confederazione ha raggiunto da anni un ottimo livello economico, limitando il più possibile gli acquisti dall’estero e, non a caso, nell’immaginario collettivo, è tutt’altro che una nazione povera e poco efficiente. Agli occhi dello stesso storico diligente e razionale, degna di una qualche preoccupazione potrebbe anche essere la gran varietà di etnie, lingue e dialetti: ma in un territorio di 41.285 Kmq convivono tranquillamente — per quanto possibile — quasi 7.600.000 persone: circa il 64% di queste è di madrelingua tedesca, il 21% ha il francese come idioma principale, il 6% è di lingua italiana, una minoranza, lo 0,5% della popolazione, ha come prima lingua il romancio — un idioma neolatino appartenente al sottogruppo delle lingue retoromanze che, come tale, ha grandi affinità col ladino e col friulano parlati in Italia — e il 9% circa rimanente è rappresentato dai numerosi stranieri che hanno portato sul suolo elvetico i loro idiomi come, ad esempio, i serbo-croati, che costituiscono il maggior gruppo linguistico straniero.1 Anche la situazione religiosa elvetica si presenta variegata: il 41% degli svizzeri aderisce al cattolicesimo, il 42% alla Chiesa protestante, circa il 12% si professa ateo, in aumento la popolazione islamica. Già considerando gli elementi

 1 I dati sono relativi al censimento del 2000.

11  linguistici e religiosi, appare evidente che l’unità della Svizzera è stato qualcosa di fortemente voluto.2 Ma lo storico generalmente non tiene presente questo fattore, non considera che le vicende della Confederazione, che risultano tra le più ignorate, hanno spesso proposto modelli per le potenze europee: del piccolo stato dell’Europa centrale si sottolinea di solito il suo spirito di neutralità — ma se ne parla abitualmente come di un’opportunistica scelta politico-economica —, i miti, quello di Guglielmo Tell in particolare, e poi una serie di luoghi comuni come la leggendaria e rassicurante riservatezza delle banche — minata, per la verità, negli ultimi tempi dall’invadenza statunitense e francese —, il finissimo cioccolato con costanti tentativi di imitazione e contraffazione da parte delle industrie di tutto il mondo su cui vigila la Chocosuisse — l’organizzazione dell’industria svizzera del cioccolato che nel 1999 vinse una causa intentata contro l’azienda inglese Cadburys, rea di aver messo in commercio un prodotto con il nome di Swiss Chalet e utilizzato una foto del Cervino sull’involucro —, gli orologi — con la garanzia Swiss made, marchio che allude non soltanto al paese di origine ma veicola anche la grande reputazione degli oggetti in questione —, la conseguente puntualità, il coltellino svizzero che nasconde nel manico innumerevoli lame e attrezzi vari, i colori della natura elvetica — dal bianco dei ghiacciai al verde dei prati fino all’azzurro dei laghi e dei fiumi —, le imponenti montagne e, infine, Heidi, la fanciulla che tutti i bambini del mondo conoscono come la protagonista di una serie a cartoni animati frutto del lavoro dei giapponesi Hayao Miyazaki e Isao Takata, e che per gli elvetici è invece, soprattutto, la protagonista di alcuni romanzi della scrittrice di Hirzel, comune del cantone zurighese, JOHANNA SPYRI. Ma la Svizzera non è solo questo insieme di luoghi comuni.

 2 Per un approfondimento sulla storia della Svizzera e le sue caratteristiche culturali e sociali si veda: AA.VV., Nuova storia della Svizzera e degli Svizzeri, , Casagrande, 1983; MARIO AGLIATI e GUIDO CALGARI, Storia della Svizzera, , Fondazione Ticino Nostro, 1969; EMILIO R. PAPA, Storia della Svizzera, Milano, Bompiani, 1993; JEAN ROHR, La Suisse contemporaine, Paris, Armand Colin, 1972.

12  1.1 CONTRO UNA LETTERATURA SVIZZERA

Nonostante le premesse evidenziate nel paragrafo introduttivo, dati di fatto accessibili a tutti, c’è sempre stato, e vi è tuttora, chi sostiene fermamente che la Svizzera — e, di conseguenza, qualsivoglia forma artistico-culturale elvetica, letteratura compresa — non esiste. Il più accanito nichilista in materia appare essere l’intellettuale vodese

CHARLES-FERDINAND RAMUZ. Lo scrittore ne fa una questione soprattutto linguistica: non si può slegare, secondo il suo parere, il concetto di “letteratura nazionale” da quello di “idioma nazionale”, l’arte si deve esprimere nella stessa lingua che trasmette i valori dell’identità patriottica e deve essere manifestazione di una propria appartenenza mentale e culturale; alla Svizzera manca la base per essere considerata una nazione, è uno stato privo, vale a dire, di una lingua comune con la quale esprimere una memoria collettiva. È il concetto romantico, e al contempo utopistico, di “una lingua, una nazione” quello portato avanti dallo scrittore originario di Losanna, una nozione che ha contribuito molto, durante l’Ottocento, allo sviluppo degli Stati-nazione in Europa. Lecito chiedersi cosa sarebbe quindi la Svizzera per Ramuz. Une province qui n’en est pas une (1938) è il titolo di una sua opera che riassume bene l’essenza del suo pensiero: il territorio elvetico — non tanto da un punto di vista politico- amministrativo bensì « par la langue et la race »1 — non è altro che un insieme di province; nella concezione di Ramuz, i cantoni Vaud, Vallese, Neuchâtel e Giura vengono valutati dipartimenti della Francia alla stregua dei vicini Doubs, Giura francese e Alta Savoia, i cantoni germanofoni vanno ad arricchire la Germania, e il Ticino, più quella parte dei Grigioni dove si parla italiano, sono da considerare province del Belpaese. Per Ramuz invece la Francia è « mon pays, bien que ce ne soit pas ma patrie. J’appartiens au pays français, je n’appartiens pas à la nation française »2. Ma negli scritti di Ramuz non c’è la sofferenza tipica dell’apolita, quel desiderio ardente di appartenenza a una cerchia locale frammisto al terrore di  1 CHARLES-FERDINAND RAMUZ, Lettre en réponse à la question: que pensez-vous de la France?, in ID., Une province qui n’en est pas une, , Rencontre, 1952, p. 68. 2 Ivi, p. 69.

13  esserne escluso che si può riscontrare in altri intellettuali — come per esempio, limitandosi agli emigrati illustri sul territorio francese nel Novecento, Kundera, Ionesco e Todorov — che vivono l’instabile condizione dell’entre-deux. Per il vodese l’unica dedizione possibile per uno scrittore è quella verso la lingua, è l’idioma a certificare l’appartenenza alla cerchia degli intellettuali; non c’è il tormento del senza patria in Ramuz perché per lui sembra esistere un’unica grande ‘famiglia’ sotto l’egida della lingua francese: L’usage commune du français crée aussitôt un lien naturel entre tous ceux qui parlent le français. Or nous parlons le français de plein droit, j’entends avec les droits égaux à ceux de toute autre province de France. […] Le français est notre langue maternelle. […] Nous n’en avons pas d’autre, nous ne l’avons pas apprise, elle ne nous a pas été enseignée, nous l’avons pompée, si je puis dire, avec la vie dans le sang maternel.3

Il legame inscindibile tra letteratura e lingua nazionale è sostenuto anche da altri prodotti dell’intellighenzia elvetica come , il quale sostiene l’impossibilità di parlare di una letteratura romanda — e in uno spettro più ampio, quindi, di una letteratura svizzera — poiché una produzione letteraria si definisce a partire dalla lingua nella quale è scritta; non essendoci un idioma romando, non può esserci neanche una letteratura romanda e svizzera e ne consegue che questi termini, spesso utilizzati dalla critica, non hanno, in verità, alcun significato.4

Sulla stessa linea interpretativa si colloca EDMOND GILLIARD che rimarca come al nome della nazione “Francia” risponde quello di una lingua “francese”, mentre per i vari “Svizzera”, “Romandia”, “Vaud” non si trova un corrispondente diverso da quel “francese” di cui sopra; ne deriva che è illecito parlare di letteratura romanda o svizzera e che il cantone Vaud non è altro che parte della 5 Francia. Naturale interrogarsi, dopo cotante dichiarate affiliazioni alla nazione che ha dato i natali a scrittori del calibro di Hugo, Balzac e Flaubert, sul rapporto tra i nichilisti e gli altri intellettuali originari di città come Losanna, Neuchâtel e Ginevra, tanto per citare i capoluoghi dei cantoni francofoni, e Berna, la capitale  3 CHARLES-FERDINAND RAMUZ, Une province qui n’en est pas une, in ID., Une province, cit., pp. 20-21. 4 Cfr. DAVID BEVAN, Écrivains d’aujourd’hui, Lausanne, 24 Heures, 1986, p. 133. 5 Cfr. EDMOND GILLIARD, Du pouvoir des Vaudois in ID., Œuvres Complètes, Genève, Éditions des Trois Collines, 1965, p. 13.

14  della Confederazione Elvetica, che non condividono le loro idee. La cerchia dotta è, come forse non mai, unanime nel contrassegnare i dissidenti come traȋtres à la Patrie. Ma poco importa a Ramuz di essere considerato un cattivo cittadino svizzero che tradisce la sua Patria dalle colonne di giornali stranieri, rinnegando, per molti meschinamente, le sue origini6, e rincara la dose sostenendo che Parigi è la sua capitale e quella di tutti gli svizzeri romandi: « Car Paris est quand même tout d’abord notre capitale, à nous autres Suisse-romands. […] J’entends avancer seulement que Paris est la capitale d’une langue, et qu’il est notre capitale parce que cette langue est notre langue »7. Parigi quindi non deve essere capitale soltanto di una parte della grande nazione — quella porzione che i confini geografici collocano nell’Europa occidentale — ma dell’intero universo francofono: il ruolo della ville lumière è di riunire e consacrare le menti eccelse che operano con lo strumento della lingua francese8; Ramuz vuole pensare che anche la sua piccola provincia possa fornire un apporto notevole alla sua Patria e che lui possa dare un contributo rilevante attraverso la sua arte, caratterizzata, come notato dalla critica, da soggetti impiantati in mondi contadini dal sapore arcaico, voglia di raggiungere l’universale mediante la narrazione del particolare, una lingua eloquente e giudicata, per l’epoca in cui è vissuto, estremamente innovativa. La professione di fede alla patria francese di Ramuz — così come quella verso il mondo tedesco di un altro svizzero illustre, FRIEDRICH DÜRRENMATT, che afferma: « Ich fühle mich der deutschsprachigen Kultur zugehörig, nicht irgendeiner schweizerischen »9 — sembra a dir poco una scelta opportunistica, la decisione di uno scrittore, il quale teme che riconoscere di appartenere a una minoranza priva di una grande tradizione culturale alle spalle, di far parte di qualcosa di ‘piccolo’, equivarrebbe a dichiarare ‘piccola’ anche la sua arte, a sminuire pure il valore artistico delle sue opere. Ma un’autodichiarazione di

 6 Cfr. CHARLES-FERDINAND RAMUZ, Remarques. Politique?, in ID., Une province, cit., p. 59. 7 Ivi, p. 19. 8 Cfr. CHARLES-FERDINAND RAMUZ, Une province qui n’en est pas une, in ID., Une province, cit., p. 35. 9 FRIEDRICH DÜRRENMATT, “Deutsche, Schweizer und die andern: ‘Das Welttheater spielt verrückt’”, in ID., Über die Grenzen, Zürich, pendo-profile, 1990, p. 45.

15  affiliazione non basta a sancire un’appartenenza, non equivale a un certificato per validare il proprio prodotto letterario. In ogni modo, a leggere attentamente le opere di Ramuz viene da pensare che lo scrittore abbia scelto una patria per certi versi sbagliata, che sia eccessivamente limitativo anche sentirsi francese solo perché il francese è la propria lingua madre. Infatti, se proprio ci ritenessimo convinti dallo scrittore vodese dell’inesistenza della Svizzera, leggendo le righe delle sue principali opere, constateremmo, senza dubbio, peculiarità quali l’identificazione tra mondo reale e idillio, il Phantasieren come attività fondamentale dello spirito, la natura come entità affine all’uomo, la Sehnsucht e la Wanderung alla ricerca della Verità, e proveremmo inevitabilmente la sensazione di trovarci di fronte a un fedele discepolo del Romanticismo tedesco. Effettivamente molteplici sono gli echi romantici nelle opere di Ramuz: sulla scia di Novalis e Schlegel, ad esempio, il vodese sembra considerare l’arte come un’espressione ingegnosa del rapporto armonico tra l’uomo e la natura e la forma d’arte più elevata è quella che si genera con le parole perché con esse tutto si può descrivere. L’autore elvetico sembra condividere molto anche con Ludwig Tieck, altro rappresentante del Romanticismo tedesco: in particolare il concetto di colpa — e tutto ciò che da essa deriva come rimorso, paura, la confessione come tentativo di alleggerire il proprio animo e la punizione — sono elementi che si possono riscontrare tanto nella novella Der blonde Eckbert (1797) quanto in Derborence (1934), piuttosto che nelle prose brevi contenute in Salutation paysanne et autres morceaux (1921) dello scrittore di Losanna. Sono innegabili le affinità linguistiche e artistiche tra Ramuz e il mondo francese, ma sono da considerare anche quelle estetiche con la cultura tedesca, in virtù delle quali sembra limitativo, come detto, rinchiudere lo scrittore nella cerchia degli autori francesi; la Patria vera e ideale del losannese ci appare proprio la Svizzera da lui rinnegata, in quanto solo nel territorio elvetico, forse, è possibile che si incontrino e convivano armoniosamente, e possano dare importanti risultati artistici grazie a qualche mente eccelsa, realtà così diverse come quella francofona e quella germanofona. Alla luce di questo, appare possibile affermare che anche l’autoaffiliazione (opportunistica) alla Francia sembra restrittiva per l’arte dello

16  scrittore, non risultando un buon ‘certificato di garanzia’ per l’insieme inestricabile delle qualità delle sue opere. Ramuz si rifiuta, comunque, di considerare che l’identità culturale è qualcosa che può andare al di là di un mero legame inscindibile tra lingua e nazione, che non è un elemento statico, determinato una volta per tutte, bensì è una componente dinamica che risponde anche a diverse influenze estetiche ed espressive; l’autore francofono ha, dunque, un’idea d’identità basata sulla differenza dialettica che esclude, ovviamente, la possibilità di considerare l’appartenenza culturale un qualcosa di ibrido, anche se esempi di ibridismo culturale, come sottolinea Peter Burke, si trovano ovunque e in qualsiasi epoca: « it is surely true […] that every culture is hybrid and that the process of hybridization takes place all the time. All the same, some cultures are surely hybrid than others »10; l’incontro con altre culture o con elementi culturali dello stesso paese, come accade nel caso della Svizzera, porta a un adattamento, a un graduale mutamento con lo scopo di incorporarne pezzi in una struttura tradizionale.11 Che si tratti di una scelta opportunistica nel caso di Ramuz, così come di altri nichilisti elvetici, di eleggere a propria Patria un Paese diverso da quello natio, è confermato da un dissidente dei tempi moderni, : « Il loro disagio dipende in fondo dalla loro ambizione »12 dichiara riguardo agli intellettuali che negano l’esistenza di valori comuni elvetici, tralasciando per alcuni istanti quanto affermato nello stesso scritto — così come in altri saggi sulla Svizzera — in cui anch’egli candidamente confessa il suo senso di disagio e fastidio, avvertito tutte le volte in cui viene presentato come “poeta ticinese” o “poeta svizzero”, in quanto dietro questa etichetta non riesce a vedere semplicemente una indicazione geografica ma percepisce anche un’interpretazione critica, un (pre)giudizio storico-letterario che conferisce a quella letteratura dei tratti particolari; inadeguato appare l’atteggiamento di

 10 PETER BURKE, Cultural Hybridity, Cambridge, Polity Press, 2009, p. 66. 11 Cfr. Ivi, p. 93. 12 FABIO PUSTERLA, Le ragioni di un disagio: dubbi metodologici sulla « Letteratura della Svizzera Italiana », in ANTONIO STÄUBLE e ANGELO STELLA, Lingua e Letteratura italiana in Svizzera, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1989, p. 55.

17  Pusterla agli occhi di Renato Martinoni, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di San Gallo: Evidentemente l’etichetta calza un po’ stretta e può anche irritare (e difatti irrita) qualche nostro autore, specie di poesia, specie dell’ultimo dopoguerra, i cui modelli e intendimenti sono tutto fuorché regionalistici: ma « ticinese », qui, non vuol certo essere un fiore da portare o da non portare all’occhiello, una dichiarazione giurata di parentele locali: è una connotazione politico- geografica (e, inutile negarlo, parzialmente almeno culturale), che di fatto esiste e che nulla vuol togliere, o toglie, alla qualità, e nulla aggiunge alla mancanza del prodotto letterario.13

Ma Fabio Pusterla poco viene toccato da queste parole in quanto vi vede celate semplici motivazioni di carattere sentimentale, ideale e retorico che nulla hanno a che vedere con le considerazioni critico-poetiche che potrebbero riguardarlo e interessarlo; per il poeta di Mendrisio, lo specifico letterario risiede altrove, in uno spazio senza confini che, in quanto tale, non si può pretendere di rinchiudere nella gabbia svizzera. La Patria di uno scrittore è una terra segreta, quasi inaccessibile perché lontana nel tempo e nello spazio, è un paese che non può corrispondere a una zona con dei confini geografici e amministrativi reali ma che c’è anche se non si vede facilmente, una dimensione che qualcuno poco avvezzo ai giudizi di ordine estetico, e più a quelli di carattere nazionalista, è restio a riconoscere e preferirebbe ignorare.14 Dice Pusterla: Io credo di parlare, nelle cose che tento di scrivere, dal cuore di uno spaesamento; posso utilizzare nomi, luoghi, materiali che prendo dalla realtà quotidiana in cui vivo, lavoro, agisco. […] Eppure, tutto ciò non mi sembra saldarsi nell’immagine di un Paese, ma semmai suggerire lo sfaldamento di quella stessa immagine, l’impossibilità di esistenza del concetto di Paese.15

Non si può accettare l’esito provincialistico che caratterizza la cultura proveniente dal suolo elvetico, l’immobilismo della tradizione di quella zona che è la fonte principale del disagio del poeta di lingua italiana. Non ci si può illudere certamente, afferma Pusterla, che sia possibile capire una produzione letteraria osservandola solo circoscritta nel suo spazio, senza considerarne i collegamenti possibili con la realtà globale in cui si vive; è impensabile, in virtù di questo,  13 Cfr. CLAUDIA PATOCCHI (a cura di), Questioni di metodo: letteratura regionale e dialettologia, in « Bloc Notes », (14) 1986, pp. 35-77, qui a p. 44. 14 Cfr. FABIO PUSTERLA, Il paese dello scrittore, riflessioni presenti sul sito http://www.sbt.ti.ch/BCB/home/manifestazioni/popup/scrittore/Pusterla.pdf, p. 4 (Ultima visita: 20 febbraio 2011). 15 Ivi, p. 5.

18  anche la realizzazione di una storia della letteratura svizzera, poiché presenterebbe molteplici falle, troppi sarebbero gli argomenti che non potrebbero essere affrontati perché non caratteristici della realtà elvetica: « Vorrei che un suo capitolo [della storia letteraria elvetica] fosse dedicato, per fare un esempio balordo, al Futurismo, che nella Svizzera italiana non è, credo, esistito, e di cui il capitolo in questione si dovrebbe spiegare l’assenza ».16 È forte la provocazione di Pusterla e non è così semplice la replica per chi si prefigge l’obiettivo di far luce sulla letteratura elvetica: non vi è ombra di dubbio che, in un lavoro di questo genere, un capitolo sul Futurismo in Svizzera non potrebbe mai trovar posto perché — il ticinese afferma il vero — non vi è stato mai qualcosa di simile al movimento futurista nel piccolo territorio; si provi a partire, però, dalla premessa che non tutti i movimenti culturali hanno un carattere universale e la corrente tirata in ballo da Pusterla è, nella sua essenza, un qualcosa di tipicamente italiano, che ha, tutt’al più, influenzato le attività artistiche di intellettuali di altri paesi o la creazione di altri movimenti ad esso ispirati come, per esempio, Surrealismo, Vorticismo e Costruttivismo. Il Futurismo non avrebbe potuto attecchire in Svizzera, inoltre, perché gli artisti a cui il territorio elvetico ha dato i natali potrebbero essere etichettati — usando proprio un termine coniato dai fautori di questo movimento — come “passatisti”, per il loro forte legame con il passato e un malcelato pregiudizio nei confronti delle innovazioni; gli artisti svizzeri appaiono conservatori ideologici con un ostinato, e a volte apparentemente immotivato, attaccamento alle idee, agli usi e ai comportamenti del passato e, per questo, nella cultura elvetica sembra accadere tutto con grande ritardo. Non senza nascondere un intento provocatorio, si potrebbe affermare che il luogo comune della puntualità svizzera non vale per le attività artistiche: tutto, nelle forme d’arte elvetiche, sembra avvenire con almeno cinquant’anni di ritardo rispetto agli altri paesi. Due esempi su tutti che si avrà il modo di approfondire nei capitoli successivi: il romanzo di formazione — che in Europa vive il suo periodo di massima fioritura nell’Ottocento per poi scemare nel secolo successivo — si  16 FABIO PUSTERLA, Le ragioni di un disagio: dubbi metodologici sulla « Letteratura della Svizzera Italiana », in ANTONIO STÄUBLE e ANGELO STELLA, Lingua e Letteratura italiana in Svizzera, cit., p. 60.

19  afferma in Svizzera — è vero — nel 1855 con Der grüne Heinrich di GOTTFRIED

KELLER, ma vive una nuova epoca d’oro proprio nel Novecento grazie ad autori, in particolare di lingua italiana e francese, come ANNE-LISE GROBÉTY e FELICE

FILIPPINI; il senso di colpa per l’atteggiamento tenuto durante la Seconda Guerra Mondiale, che in Germania si è fatto sentire immediatamente dopo la fine del conflitto, in Svizzera è un sentimento molto più recente, affrontato da scrittori contemporanei come THOMAS HÜRLIMANN e , e che viene accentuato dalla fine dei lavori, nel 2001, della “Commissione Indipendente d’Esperti Svizzera-Seconda Guerra Mondiale” che ha riconosciuto i misfatti elvetici. In merito al Futurismo tirato in ballo da Pusterla, probabilmente, non ci sembrano ancora maturi, quindi, i tempi per la realizzazione di un simile movimento in Svizzera; Filippo Tommaso Marinetti nella Lettera aperta al futurista Mac Delmarle del 1914 scriveva: « L’Italia, più di qualunque altro paese, aveva un bisogno urgente di Futurismo, perché moriva di passatismo ».17 La Letteratura Svizzera — e a tale affermazione non deve essere necessariamente conferita una connotazione negativa — vive di questo passatismo, si è ritagliata il compito di salvaguardare la realtà del passato; non è ancora tempo di futuristi in Svizzera e dello stesso Pusterla, non a caso, si apprezza, più di qualsiasi altro aspetto, lo stampo classicheggiante così lontano dalla poesia, sperimentata dai futuristi, tutta movimento e libertà che nega la sintassi, modifica le parole e le dispone sulla pagina per suggerire l’immagine che descrive. Si può convenire invece senza dubbio con Fabio Pusterla quando afferma, come accennato in precedenza, che non si deve più incorrere nel rischio di interpretare una letteratura come un evento isolato, privo di collegamenti con le realtà circostanti, così come quando asserisce che ha l’impressione che « da qualche tempo la tradizionale nozione di “letteratura nazionale” dia un po’ ovunque segni di affanno, e sia sottoposta ad una erosione ».18 Una piccola nazione è anche una realtà la cui esistenza può essere rimessa in discussione in qualsiasi momento — come spiega Antoine Robitaille a colloquio  17 FILIPPO TOMMASO MARINETTI, Lettera aperta al futurista Mac Delmarle, in « Lacerba », anno I, n. 16, Firenze, 15 agosto 1913. 18 FABIO PUSTERLA, Paese scrittore, cit., p. 2.

20  con Alain Finkielkraut parafrasando quanto sostenuto da Kundera in Un occidente sequestrato, ovvero la tragedia dell’Europa centrale —, che si deve contrapporre alle grandi nazioni come, ad esempio, l’organico si oppone al meccanico e il calore affettivo della Gemeinschaft alla razionale e anonima Gesellschaft. Le piccole nazioni sentono, quindi, l’esigenza di etichettare un prodotto locale, secondo quel narcisismo delle piccole differenze di freudiana memoria, come proprio ed esclusivo perché sentono più forte il rischio di scomparire: « le piccole nazioni, in altri termini, sono esseri senza ragion d’essere. Non hanno posto nel treno della storia, e qualora vogliano ugualmente salire, gli aventi diritto, quelli che hanno il biglietto perforato, chiamano scandalizzati il controllore perché li faccia scendere immediatamente ».19 In virtù di queste difficoltà condivisibili e palesi si può anche affermare che la Letteratura Svizzera non esiste ma, allo stesso tempo, è necessario aggiungere che allora non esiste alcuna letteratura nazionale, il tutto a favore del concetto di letteratura europea, o universale, tanto caro a studiosi come Franco Moretti, secondo il quale « lo spazio europeo va insomma concepito come una sorta di arcipelago: un insieme di spazi (nazionali) ognuno dei quali produce una (e una sola) mutazione formale »20, una forma d’arte che sappia contenere in sé passato, presente e futuro come auspicava già Goethe nel West-östlicher Divan (1819) e qualche anno dopo Eckermann nei Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens (1836-1848): Aber freilich wenn wir Deutschen nicht aus dem engen Kreise unserer eigenen Umgebung hinausblicken. […] Ich sehe mich daher gern bei fremden Nationen um und rate jedem, es auch seinerseits zu tun. National- Literatur will jetzt nicht viel sagen, die Epoche der Welt-Literatur ist an der Zeit und jeder muß jetzt dazu wirken, diese Epoche zu beschleunigen. Aber auch bei solcher Schätzung des Ausländischen dürfen wir nicht bei etwas Besonderem haften bleiben und dieses für musterhaft ansehen wollen. Wir müssen nicht denken, das Chinesische wäre es, oder das Serbische, oder Calderon, oder die Nibelungen; sondern im Bedürfnis von etwas Musterhaftem müssen wir immer zu den alten Griechen zurückgehen, in deren Werken stets der schöne Mensch dargestellt ist. Alles übrige müssen

 19 ALAIN FINKIELKRAUT, L’ingratitudine. Conversazione sul nostro tempo con Antoine Robitaille, Milano, Excelsior 1881, 2007, p. 15. 20 FRANCO MORETTI, La letteratura europea, in AA.VV., Storia d’Europa, I. L’Europa oggi, Torino, Einaudi, 1993, p. 11.

21  wir nur historisch betrachten und das Gute, so weit es gehen will, uns historisch daraus aneignen.21

Si può anche, quindi, negare il concetto di Letteratura Svizzera se si decide, però, di considerarla un fattore della somma delle produzioni nazionali che formano la letteratura universale; è necessario venir fuori dalle inquietudini regionali, ampliare gli orizzonti: « chi non ha veduto che una sola letteratura » diceva Mazzini « non conosce che una pagina del libro ».22 La scommessa più intrigante che dovrebbe cercare di vincere la letteratura svizzera è quella di riuscire a trovare un onesto equilibrio tra l’aspirazione europeista-universalista e la tendenza di chi punta a salvaguardare le proprie peculiarità nazionali; si dovrebbe coltivare e custodire la propria specificità, le aspirazioni individualiste e, al contempo, fare del legame con gli altri paesi e gli altri popoli un’esperienza costruttiva basata su quella che Mazzini chiamava « la fratellanza universale ».23 Non si deve, quindi, vedere nel concetto di letteratura europea l’annullamento della rivalità tra gli autori di diversi paesi e tra le varie letterature ma, più semplicemente, un tentativo di oltrepassare i preconcetti nazionalistici, “l’intollerante malignità” e “la mediocrità inoperosa” per utilizzare le parole di Giuseppe Mazzini24. Tutti i popoli, indifferentemente, dovrebbero dare il loro contributo alla creazione di una letteratura comune, senza principi gerarchici che separino in letterature maggiori e minori.25 Su tale criterio della letteratura europea, sulla dimensione universale oggi di grande attualità, si proverà a basare la nostra analisi della realtà elvetica: ci si proporrà di affrontare un comparatismo globale, di stimolare una comparazione che si fonda su un confronto di valori, idee e forme letterarie senza, però, perdere, né vanificare, le prerogative specifiche della Svizzera.

 21 JOHANN PETER ECKERMANN e JOHANN WOLFGANG VON GOETHE, Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens 1823-1832, Leipzig, Brockhaus, 1844, p. 211. 22 GIUSEPPE MAZZINI, D’una letteratura europea, in FRANCA SINOPOLI, Il mito della letteratura europea, Roma, Meltemi editore, 1999, p. 123. 23 Ivi, p. 193. 24 Cfr. ivi, p. 120. 25 Già Goethe, a tal proposito, come si sa, ammetteva l’esistenza, ad esempio, della letteratura serba e di quella boema e le metteva sullo stesso piano di letterature più rinomate.

22  1.2 PER UNA LETTERATURA SVIZZERA

La Svizzera esiste dal 1291, anno in cui i rappresentanti di Uri, Svitto e Untervaldo si riunirono sul prato del Grütli per suggellare un’alleanza che avrebbe dato vita alla Confederazione elvetica: IN NOMINE DOMINI AMEN. Honestati consulitur et utilitati publice providetur, dum pacta quietis et pacis statu debito solidantur. Noverint igitur universi, quod homines vallis Uranie universitasque vallis de Switz ac communitas hominum Intramontanorum Vallis Inferioris maliciam temporis attendentes, ut se et sua magis defendere valeant et in statu debito melius conservare, fide bona promiserunt invicem sibi assistere auxilio, consilio quolibet ac favore, personis et rebus, infra valles et extra, toto posse, toto nisu contra omnes ac singulos, qui eis vel alicui de ipsis aliquam intulerint violenciam, molestiam aut iniuriam in personis et rebus malum quodlibet machinando, ac in omnem eventum quelibet universitas promisit alteri accurrere, cum necesse fuerit, ad succurrendum et in expensis propriis, prout opus fuerit, contra impetus malignorum resistere, iniurias vindicare, prestito super hiis corporaliter iuramento absque dolo servandis antiquam confederationis formam iuramento vallatam presentibus innovando, ita tamen, quod quilibet homo iuxta sui nominis conditionem domino suo convenienter subesse teneatur et servire. […] Si vero dissensio suborta fuerit inter aliquos conspiratos, prudenciores de conspiratis accedere debent ad sopiendam discordiam inter partes, prout ipsis videbitur expedire, et que pars illam respueret ordinationem, alii contrarii deberent fore conspirati.[…] Suprascriptis statutis pro communi utilitate salubriter ordinatis concedente domino in perpetuum duraturis. In cuius facti evidentiam presens instrumentum ad peticionem predictorum confectum sigillorum prefatarum trium universitatum et vallium est munimine roboratum. Actum anno domini MCCLXXXX primo incipiente mense Augusto.1

Questo documento — che contiene i princìpi essenziali su cui si è sempre basata la Confederazione Elvetica quali libertà, autodeterminazione e responsabilità individuale — si può ritenere che sancisca l’inizio della Letteratura Svizzera, pur essendo consapevoli, però, che per scovare i primi segnali di quella che Francillon chiama « estetica della differenziazione »2 rispetto alle grandi culture confinanti, bisogna aspettare i primi decenni del Settecento: a quegli anni risale il trattatello del bernese Beat von Muralt, Lettres sur les Français et les Anglais (1725) — in cui un concetto di semplicità dei costumi elvetici viene  1 Per il testo integrale del giuramento si veda il sito http://www.lexilogos.com/declaration/suisse_foedus_pactum.htm (Ultima visita: 13 luglio 2013). 2 PIERRE OLIVIER WALZER (a cura di), Dizionario delle letterature svizzere, Locarno, Arnaldo Dadò Editore, 1991, p. 135.

23  contrapposto al gusto per l’ostentazione tipicamente francese — e i tentativi letterari del ginevrino JEAN-JACQUES ROUSSEAU, il primo grande autore svizzero che presenta molte delle caratteristiche che vengono indicate dai manuali come tipiche della letteratura del suo paese: l’amore per la natura, il gusto per la riflessione e il rapporto di amore e odio con la piccola Patria. La letteratura svizzera esiste, quindi, dalla fine del XIII secolo, anche se si inizia a far notare più chiaramente, evidenziando caratteristiche proprie, non prima del Settecento e trova un suo agguerrito difensore in soltanto agli inizi del XX secolo; lo scrittore originario del cantone di Neuchâtel si scaglia impetuosamente contro il rappresentante massimo dei nichilisti, Charles- Ferdinand Ramuz, definendolo, senza troppi giri di parole, « séparatiste »3 e ritenendo che il suo comportamento da artista incompreso, straniero in Patria, quell’atteggiarsi a genio dall’individualismo esasperato, perennemente alla ricerca di stabilità, ne abbia addirittura favorito il successo. È fuor di dubbio, anche per Denis de Rougemont, che la Svizzera non ha una capitale culturale, un centro unico e autorevole che sappia attirare le attenzioni e le ambizioni degli intellettuali del paese, ma bisogna pur riconoscere che, nel corso dei secoli, diverse città elvetiche si sono alternate con il ruolo di centro culturale di prestigio: non si può non considerare l’importanza della cosiddetta “Scuola Svizzera” di Zurigo, iniziata da JOHANN JAKOB BODMER e 4 JOHANN JAKOB BREITINGER — grazie alla quale autori tedeschi del calibro di Herder e Goethe giungeranno a conoscere e apprezzare Omero, Dante e Milton — , senza omettere però la contemporanea rilevanza della città di Ginevra, scenario delle battaglie ideologiche di Rousseau e Voltaire. Da non dimenticare, inoltre, alla svolta del XIX secolo, la cittadina sul lago di Ginevra, Coppet, in particolar modo il castello di Necker, come centro culturale di determinante influenza, se lì, grazie a Schlegel, Sismondi e Constant, sono passate le grandi correnti del Romanticismo e del liberalismo economico e politico.  3 DENIS DE ROUGEMONT, La Suisse ou l’histoire d’un peuple heureux, Lausanne, L’Age d’Homme, 1989, p. 200. 4 JOHANN JAKOB BODMER (1698-1783) e JOHANN JAKOB BREITINGER (1701-1776) sono tra i più importanti intellettuali di origine svizzera di tutti i tempi. Insieme fondarono nel 1720 la “Società dei pittori” e nel 1721 la rivista Die Discourse der Mahlern.

24  Il duopolio culturale Ginevra-Zurigo si ripropone poi all’inizio del Novecento quando, nella città di lingua francese, Ferdinand de Saussure fonda la linguistica generale e l’Istituto Rousseau getta le basi della moderna pedagogia, mentre nel capoluogo germanofono si registra una rinascita della “scuola svizzera”, grazie ai romanzieri e poeti GOTTFRIED KELLER e CONRAD FERDINAND

MEYER, Einstein mette a punto la teoria della relatività ristretta e Jung opera una rivoluzione fondamentale nel campo della psicologia e della scienza delle religioni. La cultura in Svizzera non è centralizzata ma « se passe dans une série de cercles qui se recoupent, ayant leur centre un peu partout dans le pays ou hors de lui »5; eppure quando ci si trova a parlare della intellighenzia elvetica non si sottolinea mai questa particolarità, bensì una delle prime cose che si sente rimarcare è una certa mediocrità, l’impressione che il piccolo stato dell’Europa centrale sia un paese che non produca grandi menti o che queste restino, in un certo qual modo, misteriose anche agli occhi di europei esperti, amanti di letteratura e arte, con una buona cultura generale. Non è facile, effettivamente, trovare casi di scrittori o pittori elvetici che vengano stimati anche al di là dei confini nazionali. Se si analizza attentamente la realtà svizzera, però, si nota che l’intellettuale sembra costruirsi la sua fama a piccoli passi, assume importanza gradualmente: deve diventare per prima cosa una personalità di spicco a livello locale, un artista apprezzato dalla popolazione di una vallata, che si spinge poi a cercare consensi in città e, se riesce nel suo intento, con fatica si porta alla ricerca dell’approvazione della gente dell’intero cantone e dell’area linguistica corrispondente, quasi mai dell’intero paese e, in rarissimi casi, procede alla conquista del consenso universale. Questo non autorizza, però, a ritenere lo scrittore svizzero-tedesco il cugino provinciale di quello di Berlino o di , o quello francofono di meno valore al cospetto di un autore parigino, nonché uno svizzero-italiano una cattiva imitazione di uno scrittore del Belpaese; certamente va tenuto presente che gli scrittori svizzero-tedeschi si esprimono utilizzando una lingua, lo Schriftdeutsch, che è diversa dal dialetto con cui si esprimono nel quotidiano, ma che

 5 DENIS DE ROUGEMONT, op. cit., p. 201.

25  l’intellettuale considera, comunque, una parlata affidabile in quanto è la sua da sempre, è quella dei suoi avi, quella di cui è padrone tanto quanto è padrone di se stesso ma che equivarrebbe a una autolimitazione qualora la si scegliesse per un romanzo: davvero troppo ristretta sarebbe la cerchia dei possibili lettori. Il caso dello svizzero-romando è diverso: Il écrit lui aussi dans une langue convenue, la langue de la littérature française, qui se distingue depuis des siècles de celle de l’usage quotidien; mais il n’a pas, dans cet usage, la robuste franchise de son voisin. Il ne parle pas un dialect bien coloré et plein de rythmes expressifs, il parle plutôt mal un français très courant. Il n’y a pas lieu de déplorer ses helvétismes ou celtismes par fois savoureux, ni ses fautes […], ni son accent […] mais sa « conscience malheureuse » du langage, qui l’empêche de finir ses phrases, et qui explique sans le justifier le style des ses journaux et de leurs titres.6

In Svizzera, spiega Denis de Rougemont, l’affermazione di uno scrittore a livello nazionale o europeo è complicata anche da una sorta di regime di egualitarismo culturale che è in vigore nel piccolo stato allo scopo di cercare di mantenere un’uguaglianza tra gli intellettuali del Paese e che si contrappone nettamente al desiderio di sopraffazione e dominio, che affonda le sue radici nell’istinto al potere, tipico delle altre culture europee; in più, per lo sviluppo di un’arte, sono necessari un ambiente adatto, una scuola, un pubblico attento, la magnanimità di un mecenate o di una ‘corte’, un pizzico di snobismo: « C’est tout cela qu’interdisent moralement nos principes, et physiquement nos petits compartiments. Que fera dans ces conditions l’homme de talent ou d’ambition? Il a trois possibilités: essayer de se rendre invisible, — tenter de se rendre utile —, ou courir loin de la Suisse son aventure ».7 Quelle citate da Rougemont sono effettivamente le tre opportunità che si presentano agli intellettuali elvetici: la prima soluzione non può che far pensare a

ROBERT WALSER, colui che afferma di voler diventare « eine reizende, kugelrunde Null »8, apparentemente uno sconfitto dalla vita, ma in realtà un uomo mite che ha combattuto una lotta titanica per riuscire a non farsi fagocitare dagli ingranaggi infernali dell’esistenza, un isolato, cultore della riservatezza, pronto a cogliere, a piccole dosi, solo il meglio dalle persone incontrate. Walser non viene però  6 Ivi, p. 216. 7 Ivi, p. 181. 8 ROBERT WALSER, Jakob von Gunten, in ID., Das Gesamtwerk, Band VI, Genf, Kossodo 1966- 1975, p. 8.

26  menzionato da Denis de Rougemont nella categoria degli ‘aspiranti invisibili’ — scelta probabilmente dettata dal fatto che all’epoca a cui risale La Suisse ou l’histoire d’un peuple heureux, l’autore di Biel non godeva di grandi attenzioni da parte di pubblico e critica ed era pressoché caduto nel dimenticatoio — dove invece trovano posto JEREMIAS GOTTHELF, narratore moralista che fa suoi e divulga i princìpi di una spiritualità e dignità del vissuto agreste, HENRI-FRÉDÉRIC 9 AMIEL, che si definisce « un uovo senza germe, una noce vuota » , e JACOB

BURCKHARDT, il quale trova la sua dimensione ideale nelle campagne, valli e foreste sepolte dalla neve della Svizzera. Nella seconda categoria, quella degli intellettuali che tentano di rendersi utili, Denis de Rougemont non inserisce scrittori per far posto ad altre personalità di spicco del mondo elvetico quali medici chirurghi e riformatori politici, mentre nell’ultimo ordine pensa di far rientrare Rousseau, considerando i suoi soggiorni parigini e veneziani, oltre a Ramuz che, sostiene l’autore di L’amour et l’Occident (1939), si è creato la sua fama all’estero ed è tornato in Patria al pari di un bene importato dai grandi paesi vicini o dall’America; a tali autori, dalla nostra prospettiva moderna, possiamo aggiungere scrittori quali ,

ANNEMARIE SCHWARZENBACH ed ELLA MAILLART, instancabili viaggiatori che trovano nelle loro peregrinazioni lo spunto indispensabile per le opere a cui danno vita. Sembra difficile credere che il mondo svizzero presenti davvero una realtà così chiusa. Si chiede Denis de Rougemont: « quelle est donc, pour nous autres Suisses, l’unité de base, d’origine et de but, à laquelle nous nous référons implicitement dans toutes nos œuvres, le fond commun sur lequel se détache notre individualité, et dont elle tire ses nourritures élémentaires? ».10 Il confronto con l’Europa appare la soluzione per sopperire alla mancanza di una cultura nazionale unitaria; la dottrina del vecchio continente — frutto di tutti gli europei che hanno meditato e poi foggiato i loro pensieri da tremila anni a questa parte e privata delle frontiere degli stati-nazione — è la sola identità

 9 Cfr. la voce dedicata a Henri-Frédéric Amiel sul dizionario letterario Bompiani degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature. 10 DENIS DE ROUGEMONT, op. cit., p. 186.

27  culturale, ordinata e compiuta, con la quale si deve mettere in diretta relazione la Svizzera. Anche in questo caso il confronto con l’Europa è la soluzione. Con ironia e poca convinzione si schiera a favore dell’esistenza di una

Letteratura Svizzera, della « littérature suisse à laquelle j’appartiens sans aucun 11 doute par la couleur rouge de mon passeport suisse » , JEAN MARC LOVAY. L’unica cosa che hanno in comune gli elvetici sembra essere il passaporto rosso con la croce bianca: certamente a Lovay viene da pensarlo quando nota che la maggior parte degli scrittori svizzeri pubblica in Francia e in Germania, pur avendo a disposizione in patria numerose case editrici a diffusione non solo nazionale. « Plus un écrivain cite son pays dans son œuvre, et moins il est patriotique »12 e, di conseguenza, più uno scrittore pubblica in patria, meno è patriottico; questa è la giustificazione poco persuasiva di Lovay. Si può essere d’accordo, invece, con lo scrittore di Sion, quando sostiene che è la confusione del clima culturale elvetico a fornire ispirazione agli autori svizzeri e, se è vero che esistono associazioni di scrittori elvetici, si deve pur riconoscere « une volonté, quelque part, de rester ensemble attentifs à la propre désagrégation de tout ce qui, socialement ou politiquement, ou philosophiquement etc. avait contribué à la création de ce même syndicat ».13 Negli anni più recenti, sempre più frequentemente, si fa sentire anche la voce degli intellettuali che dichiarano con fierezza un senso di appartenenza nazionale, sostengono che si possa parlare di una cultura nazionale svizzera uniforme e intravedono un fil rouge tra presente e passato, una comunanza di tematiche e di intenti, un sostrato comune. A capo di questo gruppo di

“nazionalisti”, che si pone in antitesi con quello dei “nichilisti”, si colloca ANNE-

LISE GROBÉTY che, dopo i suoi primi tentativi letterari, desiderosa, per insaziabile fame di conoscenza, di scoprire le opere degli autori romandi del passato, nota una certa parentela tra il contenuto dei suoi scritti e quello di chi l’aveva preceduta. L’autrice di Zéro positif (1975) ignorava tutto di coloro che avevano impugnato la penna in territorio elvetico prima di lei e non conosceva

 11 JEAN MARC LOVAY, Conférence de Stockholm, in ID., Conférences aux antipodes, Genève, Zoé, 1987, p. 11. 12 Ivi, pp. 19-20. 13 Ivi, p. 21.

28  approfonditamente, per esempio, Ramuz; eppure le riflessioni a cui si era abbandonata su ogni aspetto del luogo in cui era nata e abitava, così tanto somigliavano a quelle del suo noto predecessore. È il luogo stesso, deduce allora la Grobéty, che ha tessuto la tela della scrittura, ha abbandonato i suoi fili viscosi e non è stato difficile per lei restarne intrappolata. La scrittrice, inoltre, comprende meglio, grazie al confronto con le personalità di spicco della Romandia del passato, la strada da seguire nelle sue opere future: si prefigge di scavare nel terreno ostico dell’interiorità, avanzare passo dopo passo nella morale degli uomini, muovendosi come una talpa nel faticoso sotterraneo dei loro dolori quotidiani, della loro solitudine, del loro pessimismo. L’obiettivo deve essere quello di reagire, mediante la letteratura, all’apparente perfezione di questo regno dell’ordine che è la Svizzera; ci si può opporre solo presentando quello che veramente si nasconde dietro l’ostentazione: ossia la miseria intima, personale. Bisogna scavare nell’interiorità con la ferma convinzione, però, di possedere un’identità comune.14 Una valida testimonianza dell’esistenza della letteratura svizzera ci sembra, inoltre, offerta dalla presenza di numerose storie letterarie, antologie e dizionari di autori elvetici che si presentano come modelli per il nostro lavoro. Particolarmente convinto dell’essenza svizzera è Roger Francillon, professore emerito di Letteratura Francese e autore della prefazione della raccolta di testi — arricchita da brevi commenti, cenni biografici sugli autori trattati e spunti critici — Voci e accordi, edita nel 2003 da Armando Dadò Editore e realizzata per mano di Domenico Bonini e Rudolf Schürch. Nella sua introduzione, Francillon sostiene che convergenze e divergenze, accordi e dissonanze, che poi si risolvono in un’armonia tutta elvetica, sono la prova dell’esistenza di un’identità svizzera, di uno « spirito che ha impregnato la natura e il pensiero di tutti i cittadini, a dispetto delle notevoli differenze culturali che separano svizzero-tedeschi, romandi, italofoni o romanci. […] L’identità svizzera

 14 ANNE-LISE GROBÉTY ha espresso questi concetti in un’intervista rilasciata allo scrittore algerino Rachid Mimouni, durante la trasmissione della Radio Suisse Romande “Écrire le pays”, andata in onda il 26 aprile 1992.

29  esiste con i suoi pregi o i suoi difetti, e anche negandola non si fa che confermarla ».15 L’opera però più nota, e forse più importante, tra le storie letterarie elvetiche è Le quattro letterature della Svizzera, realizzata nel 1958 — poi aggiornata dieci anni dopo — da Guido Calgari, ex professore ordinario di Letteratura Italiana al Politecnico di Zurigo, a cui idealmente si ricollega il nostro lavoro partendo da quella generazione di scrittori del secondo dopoguerra in cui l’elvetista aveva ravvisato grandi qualità e in cui riponeva forti speranze per l’affermazione di una letteratura nazionale. La ricerca dell’intellettuale originario di Biasca, però, parte da molto lontano: si presenta come la storia delle quattro letterature (tedesca, francese, italiana e romancia) che si sono sviluppate sul territorio elvetico e prende in considerazione un arco di tempo che va dal Medioevo agli anni Sessanta del XX secolo. Ampio spazio viene dato alla Svizzera italiana e alla retoromancia; ciò può essere spiegato con il fatto che Calgari era un rappresentante della minoranza ticinese e, come tale, tendente appunto a conferire grande valore ai gruppi minoritari. Il libro si apre con la parte sulla Svizzera alemannica; i primi capitoli sono dedicati alla storia elvetica, in particolar modo ai processi che hanno portato alla formazione di una confederazione di stati e alla nascita di una coscienza nazionale. Parallelamente il lettore viene anche reso edotto sulle prime forme di letteratura sviluppatesi sul territorio, come, ad esempio, le poesie d’amore, i romanzi e i racconti cavallereschi del periodo medioevale. Dal terzo capitolo del lavoro di Calgari viene dato risalto ai periodi della Riforma e Controriforma e dell’Illuminismo in cui la Svizzera assume, politicamente, un ruolo da protagonista assoluta. È nel capitolo dedicato al realismo ottocentesco che incontriamo l’analisi dei primi grandi autori della scena elvetica: JEREMIAS GOTTHELF e GOTTFRIED

KELLER. Sarebbe stata forse da citare, accanto a questi nomi, JOHANNA SPYRI. Per quanto concerne Gotthelf, Calgari scrive: « non si può comprendere Gotthelf fuori  15 ROGER FRANCILLON, Prefazione a DOMENICO BONINI e RUDOLF SCHÜRCH, Voci e accordi. Cento autori svizzeri dell’Ottocento e del Novecento, Locarno, Armando Dadò Editore, 2003, p. VI.

30  dalla politica di Berna e del paesaggio dell’Emmental ».16 L’Emmental è, infatti, il mondo di Gotthelf; è là che ambienta i suoi romanzi e dalle vallate che si somigliano tutte, dalle colline e pianure prative non si allontana mai. I villaggi di questa zona sembrano l’espressione dell’onestà degli abitanti; ma sembra improbabile che siano realmente sempre pure le coscienze di questi cittadini e siano sempre pulite le loro anime. Da questo dubbio partono gli scritti di Gotthelf e il suo intento principale appare quello di strappare la maschera all’ipocrisia e spazzar via le apparenze cadendo, però, talvolta, in un eccesso di moralismo. Un paragrafo il Calgari lo dedica poi alla lingua dello scrittore originario di Berna: si mette in risalto « l’indisciplina sintattica e l’apporto incessante di locuzioni dialettali ».17 Per quel che concerne Keller, si fa notare come si sia allontanato dalla sua Zurigo soltanto per tentare una carriera diversa da quella di scrittore: poco più che adolescente va a Monaco illudendosi di poter fare il pittore; non ha fortuna, è sopraffatto dai debiti, deve tornare a Zurigo e, quasi per ripiego, si mette a scrivere. Si trasferisce poi a Berlino, dove s’illude di potersi esprimere mediante il teatro, ma va incontro a un altro insuccesso. Si accontenta quindi di tornare a Zurigo e alla letteratura. Calgari, dopo aver dato spazio ad altri due importanti autori dell’Ottocento come CONRAD FERDINAND MEYER e CARL SPITTELER, passa in rassegna, nel nono capitolo, i primi cinquant’anni del Novecento: si comincia con una breve disquisizione a carattere politico in cui si sottolinea come la Svizzera, all’inizio della prima guerra mondiale, viva una grave crisi politica interna — dovuta al fatto che la parte tedesca del paese parteggia per la Germania, contrapponendosi così al versante latino della Confederazione — per poi passare, in due paragrafi, a mettere a confronto e . Il primo è nato in Svizzera, a Basilea, ma a trent’anni si trasferisce a Berlino ove scrive la maggior parte delle sue opere ed è considerato dalla Germania nazista uno dei suoi maggiori letterati. Calgari sottolinea come, effettivamente, l’anima ribelle e ambiziosa di Schaffner sia poco elvetica e come lo scrittore abbia « per patria il  16 GUIDO CALGARI, Le quattro letterature della Svizzera, Firenze-Milano, Sansoni/Accademia, 1968, p. 113. 17 Ivi, p. 122.

31  mondo tedesco dalle Alpi al Baltico, per tempo l’età attuale della tecnica, dei velivoli, delle masse operaie ».18 L’ex-professore del Politecnico di Zurigo evidenzia, nelle pagine seguenti, come, invece, Hermann Hesse, nato nel Württemberg ma vissuto a Montagnola, vicino Lugano, si possa considerare svizzero. Si può dedurre, quindi, che, anche per Calgari, il senso di appartenenza alla realtà della Confederazione va al di là del luogo di residenza e del passaporto svizzero che Hesse, ad esempio, aveva ottenuto per naturalizzazione; il ticinese nella sua storia della letteratura elvetica evidenzia che per Hesse « la Svizzera fu il “paese dell’anima”, l’isola che egli aveva cercato per parlare al mondo ».19 L’autore dedica poi qualche pagina all’evoluzione del romanzo dopo

Gotthelf e Keller, elogiando autori come ROBERT WALSER — maestro della prosa breve molto apprezzato da Hesse — e MEINRAD INGLIN, di cui si evidenziano due atteggiamenti opposti: da una parte l’esaltazione della Svizzera « quale potenza mitica »20, l’esortazione, dunque, a ritrovare slancio vitale nelle leggende antiche e, dall’altra parte, il tormento dell’Europa, la mancanza di radici. Si accenna, successivamente, a HUGO MARTI e ad autori oggi considerati minori. Le scrittrici, trattate separatamente, trovano spazio in un paragrafo di appena quattro pagine: tra quelle citate, avrebbero meritato forse più attenzione MARIA WASER e REGINA

ULLMANN che, tra l’altro, nella sua vita ebbe un assiduo carteggio con . Calgari si sofferma poi sui lirici e, in particolar modo, pone l’accento sulle poesie realizzate nei vari dialetti svizzero-tedeschi, affermando che i componimenti dialettali nel paese hanno molti estimatori e compaiono un po’ ovunque, negli inni e nei canti musicati, così come nei testi scolastici. Il professore del Politecnico di Zurigo sostiene che « non si va molto lontani dal vero affermando che ogni scrittore svizzero, romanziere o uomo di teatro, lirico o moralista, ha licenziato almeno una volta nella vita un mannello di liriche in dialetto ».21

 18 Ivi, p. 165. 19 Ivi, p. 167. 20 Ivi, p. 174. 21 Ivi, p. 187.

32  Per il teatro viene dato ampio risalto a e FRIEDRICH

DÜRRENMATT, che, va tuttavia sottolineato, hanno scritto anche opere in prosa di notevole valore: Dürrenmatt si è cimentato, tra l’altro, come si vedrà nel quarto capitolo, anche con complesse storie poliziesche. Per le opere teatrali di questo grande autore del mondo germanofono, Calgari nota influssi di Pirandello, Irving Shaw, Thornton N. Wilder. Riguardo a Frisch si pone l’accento sul tema, presente in molte opere, come ad esempio Andorra (1961), del rapporto di amore e odio con la Patria. Trova poco spazio, nell’analisi del ticinese, la saggistica; lo scrittore si giustifica sottolineando nell’incipit del paragrafo dedicato ai moralisti e ai saggisti che « in un paese aperto alle grandi correnti delle idee, gli svizzeri assumono di fronte ad esse un atteggiamento che è spesso di prudente diffidenza ».22 Dalla prospettiva odierna si potrebbe sottolineare che anche se, come evidenzia PETER VON MATT, vincitore nel 2003 del premio europeo per la saggistica “Charles Veillon”, in Svizzera si pensa ancora che la letteratura sia composta solo da poesie, romanzi e opere teatrali e che la tradizione saggistica non è consolidata come in altri paesi23, l’importanza dei saggi degli autori di lingua tedesca come FRIEDRICH DÜRRENMATT, PETER BICHSEL e THOMAS

HÜRLIMANN è fondamentale, ad esempio, per la comprensione del rapporto tra Patria e intellettuali, come si vedrà successivamente, e per ripercorrere la storia letteraria elvetica. Da non dimenticare neanche l’apporto alla saggistica svizzera dell’autore romancio ISO CAMARTIN, che ha dedicato una ventina di opere alle minoranze linguistiche e, soprattutto, di quello di lingua francese che, in numerosi lavori, si è occupato della creazione poetica nella poesia contemporanea e di autori del panorama letterario universale come, ad esempio, Virgilio, Baudelaire, Rousseau, Tasso e Diderot. Tornando alla narrativa, nella generazione degli anni Sessanta, quella del periodo a cui risale Le quattro letterature della Svizzera, Calgari nota grandi

 22 Ivi, p. 202. 23 Si veda l’intervista a Peter von Matt sul sito: http://www.swissinfo.ch/ita/speciali/grandi_storie/Peter_von_Matt (Ultima visita: 12 febbraio 2011).

33  qualità in , PETER BICHSEL, considerato dalla critica dei giorni nostri degno erede di Robert Walser, ed , definita « probabilmente la più notevole voce, nel campo della lirica, che si alzi dal gruppo dei giovani d’oggi »24, giudizio pienamente condiviso dalla critica di inizio millennio. Minore, rispetto a quello della Svizzera tedesca, è lo spazio dedicato alla letteratura romanda: dopo un’introduzione sulla storia dei cantoni francofoni e sull’epoca della Riforma e Controriforma, trova spazio un paragrafo sul « 25 genevois du bas » JEAN JACQUES ROUSSEAU, in cui si approfondisce il problema centrale del rapporto tra uomo e natura. Segue il capitolo sull’Ottocento in cui trovano spazio RODOLPHE TÖPFFER — « l’incarnazione felice di una certa Ginevra, quella della Ville-Basse e dei suoi “chansonnier” del Caveau, quella della piccola borghesia artigiana pronta alla satira contro l’altezzosità ingrugnata 26 della Haute-Ville e dei pedanti » —, EUGÈNE RAMBERT — presentato anzitutto come un moralista —, i lirici romandi, il più importante dei quali è JUSTE 27 OLIVIER, « la cui opera costituiva la prima schietta poesia patriottica ». Nei capitoli successivi l’autore riserva ampio e meritato spazio agli intellettuali da noi precedentemente menzionati in questi paragrafi — come Charles-Ferdinand Ramuz, Gilliard, Mercanton e Landry — e agli scrittori del Novecento di cui — Calgari ne era convinto — si sarebbe continuato a sentir parlare, quali per la poesia, GUY DE POURTALÈS per la prosa,

RENÉ MORAX per il teatro. Se è vero che sono le parole a rendere reali le cose, a materializzarle, non si può che convenire sul fatto che così tante parole spese, tante cose dette sulla situazione letteraria elvetica — le opinioni dei “nichilisti”, quelle dei “nazionalisti”, le storie letterarie —, rendano la Letteratura Svizzera qualcosa di reale e vivo, la cui conoscenza vale la pena approfondire.

 24 GUIDO CALGARI, op. cit., p. 194. 25 Ivi, p. 385. 26 Ivi, p. 395. 27 Ivi, p. 399.

34  1 1.3 SULL’ESISTENZA DI UN “CANONE ELVETICO”

È di non facile definizione il concetto di “canone letterario”; ancora più complicato provare ad applicarlo a qualcosa che — è emerso già nei nostri primi paragrafi — appare astratto, immateriale e presupposto come la “Letteratura Svizzera”. Nozione molto antica quella di “canone” — a parlare per primo di Kanón in modo ampio e articolato è stato, con tutta probabilità, nel V secolo a.C. lo scultore greco Policleto —, attualmente implica almeno due accezioni molto diverse fra loro, che convivono nell’utilizzo comune e talvolta s’intrecciano e si confondono: nella prima il canone è strettamente connesso alle opere letterarie e alla loro influenza; è, in questo senso, un insieme di norme derivate da un’opera, o da un gruppo di opere tra loro affini, che avvia una tradizione e che, in quanto tale, ispira l’elaborazione di tutta una serie di altre opere. Nella seconda accezione entra in gioco il punto di vista dei lettori e del pubblico; fondamentale diventa, quindi, l’aspetto della ricezione e il concetto di “canone” si traduce con l’elenco dei libri di cui si raccomanda la lettura nelle istituzioni scolastiche di una determinata comunità. La concezione di “canone” si presenta dunque, in questo senso, come qualcosa di instabile, poiché tale elencazione di testi varia di comunità in comunità e, con il passare dei secoli, quelli che oggi riteniamo essere dei classici fondamentali potranno cadere nel dimenticatoio per un periodo indefinito di tempo e anche rischiare di essere trascurati per sempre. Le due accezioni, comunque, spesso finiscono per sovrapporsi: la differenza fondamentale è che la prima si basa su un’analisi diacronica, su sviluppo, continuità e rottura della tradizione vista come una successione di opere con caratteristiche comuni, mentre la seconda ha una base sincronica, si fonda sul gusto e sul valore all’interno di una determinata comunità in un momento storico preciso e giustifica i concetti di “canone nazionale”, “canone universale” e “canone occidentale”.

 1 Per un approfondimento sulla tematica del “canone letterario” si veda: HAROLD BLOOM, The Western Canon: the books and the school of the ages, New York, Harcourt Brace, 1994; FAUSTO CURI, Canone e anticanone. Viatico per una ricognizione, in « Intersezioni », XVII, dicembre 1997, pp. 495-511; MASSIMO ONOFRI, Il canone letterario, Bari, Laterza, 2001.

35  L’analisi più autorevole del significato di “canone” è, senza dubbio, quella compiuta dal critico nordamericano Harold Bloom — a cui si deve anche la distinzione tra “universale” e “occidentale” — in The Western Canon: the books and the school of the ages (1995): « The Canon, as word religious in its origins, has become a choice among texts struggling with one another for survival, whether you interpret the choice as being made by dominant social groups, institutions of education, traditions of criticism ».2 Bloom conferisce al canone un significato strettamente estetico, lontano da possibili coinvolgimenti ideologici o politici, legato esclusivamente ai giudizi e alle interpretazioni delle istituzioni e fissa nell’arte di William Shakespeare e Dante il centro del canone perché « they excel all other Western writers in cognitive acuity, linguistic energy, and power of invention ».3 Differente è il pensiero offerto da altre scuole critiche, riassumibile nelle idee del post-strutturalismo francese e dei cultural studies angloamericani secondo cui il canone, stabilito da gruppi sociali egemonici, non può non sottrarsi all’influenza ideologica e politica di questi. Un ultimo tentativo di costituire un canone come insieme di testi, di topoi letterari, comune a tutte le culture europee, è stato compiuto da Curtius in Letteratura europea e Medio Evo latino4, in cui si asserisce che il canone è una selezione — prevede scelta e scarto quindi — e costituisce una tradizione seguendo un punto di vista presente. Si potrebbe ora tentare di definire un canone svizzero — certi del fatto che « ogni comunità non può non chiedersi quale significato abbiano per lei una determinata opera e una determinata tradizione di opere »5 —, creare quindi una lista, seguendo il modello di Bloom, di autori elvetici rilevanti « for both their sublimity and their representative nature »6, qualora non si conferisse importanza a una rilevante precisazione di Fausto Curi contenuta in Canone e anticanone.

 2 HAROLD BLOOM, The Western Canon: the books and the school of the ages, New York, Harcourt Brace, 1994, p. 20. 3 Ivi, p. 46. 4 Cfr. ERNST ROBERT CURTIUS, Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze, La Nuova Italia, 1992. 5 ROMANO LUPERINI, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica materialistica, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 37. 6 HAROLD BLOOM, op. cit., p. 2.

36  Viatico per una ricognizione: « giova aggiungere che il codice, ossia il canone, si costituisce quando una civiltà letteraria, arrivata a un certo punto del suo sviluppo, sente il bisogno […] non solo di una “autocomprensione”, ma anche di rendere certa e permanente questa “autocomprensione” mediante l’elaborazione di alcune inflessibili regole ».7 È difficile dire che la comunità elvetica sia giunta a questa autocomprensione; si sono compiuti forse i primi passi verso un confronto serrato con il proprio passato che potrebbe portare a definire una identità comune, ma il cammino appare ancora irto di ostacoli. Queste concezioni di canone ci appaiono quindi, allo stato attuale delle cose, poco adattabili alla realtà svizzera; si deve pur considerare, però, che in ogni spazio geografico esiste inevitabilmente un legame, seppur discontinuo, tra passato e presente, una relazione tra ciò che è stato e l’ora: non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora (Jetzt) in una costellazione […] Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora (Jetzt) è dialettica: non è un decorso, ma un’immagine discontinua, a salti.8

L’immagine discontinua, a salti, ben si confà alla letteratura elvetica; seguendo le indicazioni di Benjamin si potrebbe tentare di individuare testi che, come stelle, costituiscono i dati oggettivi di una costellazione — anche se questa scelta sarebbe ugualmente soggetta a critiche poiché « dal momento che a nessuno si riconosce l’autorità di fissare un canone […] ormai tutti tendiamo a nasconderci dietro le nostre personali costellazioni »9 — pur tenendo ben presente che le linee di raccordo tra queste stelle — le linee che formano appunto il disegno della costellazione — sono sempre decretate da un interprete, in base a premesse che proveremo a dichiarare e chiarire. Si possono distinguere sette stelle a comporre il ‘Grande Carro’ della Letteratura Svizzera del Novecento; queste sono rintracciabili nelle personalità di

ROBERT WALSER, , BLAISE CENDRARS, ,

 7 FAUSTO CURI, op. cit., p. 47. 8 WALTER BENJAMIN, Parigi, capitale del XIX secolo. I passages di Parigi, Einaudi, Torino, 1986, p. 598. 9 ALFONSO BERARDINELLI, Alla ricerca di un canone novecentesco, in NICOLA MEROLA (curatore), Il canone letterario del Novecento italiano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, p. 95.

37  PHILIPPE JACCOTTET e FRIEDRICH DÜRRENMATT, spesso associato nelle storie letterarie elvetiche, come fosse un unicum, alla figura di MAX FRISCH. Robert Walser si distingue nella letteratura della prima metà del XX secolo per la stretta connessione tra pratica artistica e natura che si può evincere da una riflessione tratta da Geschwister Tanner: Wenn man jetzt an eine stille Landschaft denkt, da draussen liege sie, die Wälder und Hügel und die weiten Wieser, und man sitzt hier in einem glitzernden Theater. Wie sonderbar. Vielleicht ist aber alles Natur. Nicht nur das Grosse und Stille da draussen, sondern auch das Bewegliche und Kleine, was die Menschen erschaffen. Ein Theater ist auch Natur […] Mag die Kultur so fein werden wie sie will, sie bleibt doch Natur, denn sie ist doch nur die langsame Erfindung durch Zeiten, und zwar von Wesen, die an der Natur immer hängen werden. Wenn Sie ein Bild malen, Kaspar, so wird es Natur, denn Sie malen mit ihren Sinnen und Fingern und diese haben sie doch von der Natur bekommen.10

Il movimento, espresso attraverso il motivo ricorrente della passeggiata11, e lo stretto rapporto con la natura, almeno nel primo Walser, non sono da interpretare come sintomo di rassegnazione o considerati prima conseguenza della mancanza di attività lavorativa — particolare che ritroviamo spesso nella biografia dell’autore di Biel — bensì vanno letti come veri e propri motori della creazione artistica. Particolarmente originale appare anche lo stile di Robert Walser, a tratti infantile, volutamente ingenuo, poco organico e legato all’oralità. La stella luminosa dell’autore di Der Gehülfe arriva ad irradiare molti scrittori delle generazioni ultime e la critica riscontra, in particolare, affinità tra

ROBERT WALSER e lo scrittore di PETER BICHSEL, soprattutto per quel che concerne la prosa breve: il suo esordio letterario, Eigentlich möchte Frau Blum den Milchmann kennenlernen. 21 Geschichten (1964), contiene storie narrate con uno stile apparentemente semplicissimo in cui l’unica cosa che veramente avrebbe un minimo di rilievo — l’incontro tra la signora Blum e il lattaio — non avviene; le prose brevi di Bichsel narrano vicende di vita fallita, ostacolata, di personaggi incapaci di evadere dall’idillio meschino offerto dalla Svizzera. Eppure questi testi intrisi di melanconia non sono poi così ingenui come

 10 ROBERT WALSER, Geschwister Tanner, in ID., Das Gesamtwerk in 12 Bänden, vol. IV, Zürich- Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1978, p. 48. 11 Sul motivo della passeggiata nell’opera di Robert Walser si veda il mio contributo “Il motivo della passeggiata nell’opera di Robert Walser”, in « Homo Sapiens », Nuova Serie anno I numero I, Roma, Teseo editore, 2008.

38  sembrano: lo dimostra la seconda opera dell’autore, Die Jahreszeiten (1967), che affronta abilmente l’impossibilità di rappresentare la realtà nella sua interezza attraverso la lingua. Lo scetticismo sui mezzi espressivi dell’uomo è evidente anche nel libro che assicura a Bichsel rinomanza nel mondo germanofono, Die Kindergeschichten (1969), in cui trova spazio la storia di un uomo deluso dalla vita che, in una sorta di azione compensatoria, comincia a cambiare i nomi delle cose, fino a non venire più compreso da nessuno. Quel che interessa all’autore di Solothurn sembra essere non tanto la realtà in sé e per sé ma il modo in cui l’uomo si rapporta con essa. In una prospettiva di letteratura europea, andrebbe forse evidenziato che l’influsso di Robert Walser si è fatto sentire in tutto l’universo letterario germanico: non si possono ignorare, ad esempio, tracce dell’autore di Biel nelle descrizioni minuziose e dettagliate di , nello stile semplice di Peter Handke e nel sarcasmo del premio Nobel del 2004 Elfriede Jelinek. Altra stella che illumina il firmamento della Letteratura Svizzera è

FRANCESCO CHIESA, autore spesso, superficialmente, accostato a Manzoni; si attribuiscono — frequentemente con accezione negativa — alle sue opere incentrate su ricordi d’infanzia, culto dell’anima semplice e della propria regione, idillio della natura, un certo conformismo linguistico e conservatorismo. Il suo lavoro più noto, Tempo di marzo (1925), fortunata proposta di lettura per gli studenti di molte scuole medie inferiori negli anni Sessanta, è la storia, a tratti patetica, di un ragazzo nell’età adolescenziale. L’influenza di Chiesa è evidente soprattutto negli scrittori svizzero-italiani della sua generazione e delle successive: ad esempio le vicende narrate dal locarnese ANGELO NESSI sembrano ricalcare quelle del protagonista di Tempo di marzo, mentre GIUSEPPE ZOPPI presenta lo stesso senso idillico della natura di molte opere di Chiesa.

Di lingua italiana è anche uno dei maggiori poeti elvetici: . Allievo del Contini a Friburgo, il ticinese esordisce con Né bianco né viola nel 1944, continuando a offrire, fino a oggi, testi poetici di raffinata fattura, appartenenti al filone post-ermetico, estremamente musicali e caratterizzati da un’ironica ambiguità. Ma Giorgio Orelli è anche narratore, traduttore (tra gli altri

39  di Goethe e Mallarmé) ed è — proprio come un poeta da lui molto amato, Giovanni Pascoli — uno studioso di grandi autori del passato tra cui Dante, Petrarca e Montale.

L’impronta di Orelli è presente nella poetica di AMLETO PEDROLI — che oscilla fra il tono elegiaco per la pura civiltà contadina del passato e il simbolismo per il tema della frontiera —, REMO FASANI — autore anche di studi sulla metrica, su Dante, I promessi sposi del Manzoni e saggi sul contesto politico-culturale elvetico e la situazione scolastica della Svizzera plurilingue e federalistica —, il realismo e la moralità di ALBERTO NESSI, lo sfaldarsi delle certezze e l’ansiosa attesa della poesia di FABIO PUSTERLA. Quest’ultimo risente evidentemente, inoltre, dell’influsso di un’altra stella della costellazione elvetica di cui è traduttore dal francese: quella di PHILIPPE JACCOTTET, il quale compone versi che si presentano spesso come veloci annotazioni diaristiche, caratterizzate dal tema del “passaggio” dall’inverno alla primavera, dalla notte al giorno, dalle zone d’ombra a quelle luminose, tutti momenti di trasformazione emblematici della precarietà della condizione umana. Altro leitmotiv delle opere di Jaccottet, così come di gran parte degli autori elvetici di qualsiasi lingua, è il forte legame con la natura, qui da non intendere come evasione dal caos cittadino, come elemento che dona riposo dalle fatiche quotidiane, bensì come luogo dove si manifesta la sorpresa per qualcosa che si riscopre sempre bello ed è motore essenziale per la poesia.12

Altro autore di versi, fondamentale per la letteratura elvetica, è BLAISE

CENDRARS, all’anagrafe Frédéric Sauser, benché abbia scelto la nazionalità francese dopo aver perso il braccio destro al servizio della Francia come narra nell’opera La Main coupée del 1946. Si può ritenere che il suo Pâques à New York (1912) contribuisca al pari, ad esempio, della raccolta Alcools (1913) di Apollinaire, all’affermazione del moderno componimento in versi in lingua francese: una poesia continua, violenta, che esprime tutta la disperazione dell’uomo evoluto al cospetto della ricerca di una felicità perduta o mai avuta. Diventato critico d’arte e appassionato di cinema, negli anni Venti Cendrars dà alle stampe romanzi in cui, celato dall’apparenza della finzione, rivela molto di se  12 Cfr. GIOVANNI GASPARINI, Un folle volo. Note ed esercizi di critica empatica, Milano, Mimesis Edizioni, 2002, pp. 70-82.

40  stesso: L’Or del 1925 ripercorre, ad esempio, le avventure californiane di Johann August Sutter, rivelando — con una narrazione al presente che drammatizza il destino eccezionale di questo avventuriero — la passione di Cendrars per una vita sentita come un’eterna fuga, mentre le opere degli anni Quaranta — L’Homme foudroyé (1945), La main coupée (1946), Bourlinguer (1948) e Le Lotissement du Ciel (1949) — sono vere e proprie autobiografie che trasformano il suo vissuto in mito letterario. Profonda è l’influenza di Cendrars su tutta la poesia moderna in lingua francese.

Il teatro svizzero emerge, invece, grazie a MAX FRISCH e FRIEDRICH

DÜRRENMATT, apprezzati, comunque, anche come autori di romanzi, racconti e saggi critici: il primo è influenzato soprattutto da Ibsen e Brecht, ha modo di conoscere il drammaturgo tedesco, dichiara di averne subìto il fascino, pur non condividendone in pieno la sua opera, e ne riprende la forma della parabola, con la quale non pretende di cambiare il mondo poiché ritiene che qualsiasi mondo è artificioso e artificiale; la realtà non è altro che finzione, la nostra identità si compone di tanti ruoli e impersonare un ruolo è la nostra realtà. Per Frisch il teatro è Kunstraum e non si può pretendere l’effetto pedagogico; Frisch parla di Lust am Spiel. In molti suoi drammi la trama sembra poter sempre ricominciare; egli mette in discussione la realtà, soprattutto attraverso il linguaggio, giocando con le parole, ma si oppone al teatro dell’assurdo: il teatro non può cambiare il mondo ma il nostro rapporto con esso. I personaggi di Frisch soffrono di alienazione politico-sociale, ma anche affettivo-erotica: hanno modo di coltivare la propria identità sul modello offerto da Mrs Dalloway di Virginia Woolf, vale a dire, costruendo la propria interiorità partendo dall’osservazione del mondo. Il palcoscenico per Frisch è gioco, non è vita; è Spielraum. Il teatro non vuole imitare la realtà — di vero sul palco c’è solo il gioco —, non si vuole offrire l’illusione del vero ma deve essere rappresentata una realtà che si può cambiare solo ed esclusivamente nello Spielraum. Il teatro non è Abbild — e cioè copia del reale — ma è Gegenbild. Gli esordi letterari dello scrittore zurighese risalgono agli anni Trenta con Jürg Reinhard (1934): la scrittura qui è tutta concentrata sull’indagine della crisi interiore dei protagonisti; nel 1946 esce la sua prima opera teatrale Nun singen sie

41  wieder (1945) che, come Als der Krieg zu Ende war (1949), affronta il tema della colpa e della responsabilità per gli orrori della guerra. È evidente, come si diceva, che Frisch si accorge che con il teatro si può interpretare la realtà sociale e, così facendo, sperare di mutare il modo in cui lo spettatore si rapporta con la realtà stessa. Questo è l’intento che lo scrittore persegue con le sue due pièces di maggior successo: Biedermann und die Brandstifter (1958) e Andorra (1961). La prima è l’opera più importante per la comprensione di Frisch e dimostra come, dietro il bisogno di ordine e tranquillità, ci sia una latente voglia di autodistruzione; gli incendiari che terrorizzano la città, e che il signor Biedermann accoglie nella sua casa, sono — come dirà lo stesso Frisch — i demoni nati dalla sua angoscia e da cui è segretamente affascinato. Biedermann finirà per farsi complice di questi terroristi senza ideologia, offrendo loro i fiammiferi con i quali appiccheranno un incendio che dalla sua casa si estenderà a tutta la città. Andorra è, invece, una parabola tragica sulle conseguenze dell’antisemitismo, messa in scena esemplare dell’intolleranza e delle brutture umane in uno Stato apparentemente virtuoso e in cui tutto funziona a perfezione, proprio come la Svizzera. Il tema dell’identità è al centro del romanzo Stiller (1954); Mr. White, cittadino americano, viene fermato al confine svizzero, riconosciuto come lo scultore Stiller, che era ricercato dalla polizia, e incarcerato. I destini di un uomo apparentemente insignificante e di un artista di fama, forse coinvolto in una storia di spionaggio internazionale, si incrociano. E poco a poco, nel buio delle quattro mura di un carcere, qualcosa di Stiller, instancabile ricercatore di novità e di verità, s’impossessa prepotentemente di Mr. White fino a costruire un’identità e una storia. Stiller è costretto da una sentenza del tribunale ad accettare una identità che non sente sua. Emblematico è l’incipit dell’opera poiché ne riassume l’essenza: « Ich bin nicht Stiller ».13 A differenza di Stiller, il protagonista di Homo Faber (1957), l’ingegnere Walter Faber, rappresentante dell’era della tecnica, fa della certezza di poter programmare la propria vita il fondamento della sua personalità. Nel 1964 esce

 13 MAX FRISCH, Stiller, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1954, p. 9.

42  Mein Name sei Gantenbein; anche qui Frisch approfondisce la tematica dell’alienazione dell’uomo moderno. È del 1971 Wilhelm Tell für die Schule, rivisitazione del mito elvetico. Frisch capovolge la prospettiva: il suo protagonista non è infatti Tell, ma il balivo Gessler e, suscitando ancora più scompiglio nei lettori, non lo presenta come tiranno, ma come grassoccio amministratore imperiale che soffre al contatto con i contadini delle poco ospitali valli alpine. Frisch coinvolge poi il suo stolto Tell in una serie di equivoci. Curioso è l’arricchimento critico che accompagna il testo: le pagine sono per buona parte occupate dalle note, trasformando, in parte, il testo in un trattato storico. Il lettore può dunque seguire la vicenda romanzata, ma può apprendere anche molte nozioni sul periodo storico e sulla Svizzera del tempo. Negli ultimi anni nella narrativa di Frisch prevale invece, con le opere Montauk (1975) e Der Mensch erscheint im Holozän (1979), l’impronta autobiografica. Insieme al connazionale Max Frisch, Friedrich Dürrenmatt è stato artefice del rinnovamento del teatro di lingua tedesca, esaminando, in chiave grottesca, i problemi della società contemporanea e rendendo nota la mediocrità nascosta dalla facciata perbenista della società elvetica. Anche della produzione in prosa di Dürrenmatt è sempre stata evidenziata una pungente satira e uno spirito critico nei confronti della società: oltre ai numerosi racconti, fra cui meritano di essere citati Die Panne, eine noch mögliche Geschichte (1956), Der Tod der Pythia (1976), Minotaurus (1985), sono di grande rilevanza i romanzi Der Richter und sein Henker (1950), Der Verdacht (1951), Das Versprechen (1957), nei quali, attraverso l’utilizzo di efficaci trame investigative, intende dimostrare una tesi ben precisa: il caso domina i destini umani. Altro tema centrale nelle opere dell’autore di Konolfingen è il concetto di giustizia: per Dürrenmatt la complessa macchina della legalità, con i suoi meccanismi di osservazione e di giudizio, è incapace di trovare il senso più autentico della verità umana. Alla morte di Friedrich Dürrenmatt, avvenuta nel 1990, e di Max Frisch, un anno dopo, la cultura svizzera si è messa alla ricerca di personalità che fossero in

43  grado di raccogliere la loro eredità artistica. Tra autocandidature, come quella di

ADOLF MUSCHG, autore di diverse opere teatrali che hanno ottenuto però scarsi riscontri critici e di pubblico, e autori attesi a una conferma, come CHRISTOPH

MARTHALER, che ha già varcato con successo i confini elvetici con Murx ihn! Murx ihn! Murx den Europäer! (1993), gli scrittori che più si avvicinano alla stella-guida dei due grandissimi della scena svizzera sono URS WIDMER e 14 THOMAS HÜRLIMANN. In particolar modo quest’ultimo, per la sua arte poliedrica, la sua capacità di cimentarsi contemporaneamente con il teatro, la narrativa e la saggistica, sembra rispondere meglio di chiunque altro ai requisiti richiesti dalla critica per il prestigioso, quanto gravoso, ruolo di successore di Frisch e Dürrenmatt.15 L’influsso degli autori-stella della costellazione elvetica, così come le nuove tendenze della Letteratura Svizzera, saranno al centro della nostra disamina nei capitoli successivi.

 14 Per una visione d’insieme sulla situazione del teatro svizzero dopo la morte di Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch si veda il saggio di ERIKA ACHERMANN, Il teatro nella Svizzera di lingua tedesca dopo Dürrenmatt e Frisch, ovvero: la scoperta della storia e della lentezza, in LIA SECCI e HERMANN DOROWIN (curatori), Il teatro contemporaneo di lingua tedesca in Italia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, pp. 245-253. 15 Su Thomas Hürlimann si veda la mia monografia Thomas Hürlimann drammaturgo, narratore e saggista, Roma, Aracne Editrice, 2007.

44 

1 1.4 QUATTRO LINGUE, UNA NAZIONE

Il plurilinguismo — come si è potuto intuire da quanto già affermato nei primi paragrafi del presente lavoro — è uno degli argomenti che divide maggiormente gli intellettuali elvetici: per quelli che abbiamo definito nichilisti, uomini arcaici di stampo romantico, vale il concetto utopistico di “una lingua, una nazione” e, quindi, su questo assunto si basa la loro certezza dell’inesistenza di una qualsivoglia forma culturale elvetica. Per i difensori della causa svizzera, invece, il plurilinguismo è proprio uno dei punti di forza del piccolo stato, poiché rappresenta la volontà di ferro del popolo elvetico di rimanere unito, di costituire una nazione a tutti gli effetti, indipendentemente dalla comune appartenenza etnica, linguistica e religiosa. L’orgoglio di costituire un caso unico in Europa — nonché un percorso storico comune, la condivisione dei miti nazionali e dei fondamenti istituzionali come federalismo, democrazia diretta e neutralità — è alla base del senso di appartenenza al Paese. Il tedesco, il francese e l’italiano parlati in Svizzera presentano delle differenze sostanziali rispetto agli idiomi della Germania, della Francia e dell’Italia e sulle caratteristiche proprie delle parlate elvetiche si ritiene necessario soffermarsi nei paragrafi successivi.

 1 Per un approfondimento sulle lingue parlate in Svizzera si veda: GEORGES LÜDI e IWAR WERLEN, Paesaggio linguistico in Svizzera, Neuchâtel, UST, 2005.

45  1.4.1 CARATTERISTICHE DELLO SCHWEIZERDEUTSCH

La lingua che si parla nella Svizzera germanofona nella vita di tutti i giorni è piuttosto diversa dal tedesco standard, il cosiddetto Hochdeutsch, che viene parlato in Germania. Gli abitanti dei cantoni germanici della Confederazione si esprimono con una forma particolare di tedesco, detto Schweizerdeutsch o Schwyzertüütsch1, che a sua volta si scompone in una moltitudine di dialetti locali che sono tanto differenti tra loro al punto da permettere di riconoscere la provenienza di chi parla, ma tuttavia non così dissimili da risultare incomprensibili agli altri svizzero-tedeschi. Si può affermare, senza temere di cadere in errore, che lo Hochdeutsch è fondamentale solo come lingua scritta e non a caso viene, infatti, denominato Schriftdeutsch: nei cantoni tedeschi lo si deve apprendere a scuola, le lezioni si svolgono nel tedesco standard a partire dalla scuola dell’obbligo ed è per di più la lingua usata dai media. Tuttavia anche il tedesco standard contiene varianti regionali, in particolare nel vocabolario: agli svizzeri di lingua tedesca può spesso accadere che, anche quando parlano in Hochdeutsch, alcune delle parole che utilizzano non vengano comprese dai tedeschi o dagli austriaci. Chi non vive a contatto con la realtà svizzera, chi ha studiato solo lo Hochdeutsch, fatica non poco a capire lo Schwyzerdütsch, in quanto non presenta divergenze soltanto nell’accento, bensì anche nelle forme grammaticali e nel vocabolario. Questo risulta essere un problema anche all’interno della Svizzera: gli abitanti dei cantoni a maggioranza francese o italiana apprendono a scuola il tedesco standard per poi non essere comunque in grado di comunicare con i loro connazionali non conoscendo lo Schweizerdeutsch. Attraverso l’opera teatrale Der Franzos im Ybrig (1996) — che lo scrittore

THOMAS HÜRLIMANN ha realizzato sia in tedesco standard che nella forma dialettale elvetica — si può provare ora ad analizzare alcune delle caratteristiche dello Schwyzertüütsch, in particolare di quello che si rintraccia intorno alla zona di Zug, città che ha dato i natali all’intellettuale che è ritenuto dalla critica il  1 Lo Schweizerdeutsch, anche detto Schwyzerdütsch o Schwyzertüütsch, è un termine collettivo per designare i dialetti parlati quotidianamente in Svizzera dalla popolazione di lingua tedesca. Il termine “svizzero tedesco” è utilizzato in opposizione al tedesco standard (Hochdeutsch).

46  degno erede di MAX FRISCH e FRIEDRICH DÜRRENMATT, almeno per quanto concerne il teatro.2 Si può prendere come esempio un monologo di Sargtöneli, il macabro e grottesco necroforo che ci introduce nella città di Ybrig: So. Und ich muess üüch no säge, dass mier inere andere, inere alte, inere lang vergangne Zyt sind. Anno Domini 1789, also vor guet und gärn zweehundert Jahr, händs in Paris de König und Königin — kkt! Ihri Häupter sind i Chörb inetroolet, de Bürger het d Macht übernoh, vil Bluet isch gflosse, und es heisst, de eint und de ander heg i sym revolutionäre Ruusch es Stuck Pariser Brot i d Häls vo de Köpfte tunkt und mit Gnuss verspyse. Es paar Jahr drufabe isch de Napoleon cho. Er het Ornig gmacht. D Sansculotte het er wider a Härd befohle und d Jakobiner i Reih und Glied. Aber i sym Innerschte isch de Napoleon Revolutionär blibe, syni Soldate hend nid andersch gfühlt, und so het de Huufe, gennant La Grande Armée, die französisch Revolution vo Paris i di ganz Wält usetreit. Zwüschet de ägyptische Pyramide und de Moskauer Zwibeletürm isch kein Stei meh uf em andere blibe, d Schüüre hend brännt, d Meitli brüelet, und eines Tages, Anno 1798 isch es gsi, het de Napoleon au di alti eroberet.3

La versione in Hochdeutsch, realizzata da Hürlimann nel 1996, come commedia musicale con le note di Hardy Hepp, suona così: So. Jetzt muss ich euch noch sagen, dass wir in einer andern, in einer alten, in einer lang vergangenen Zeit sind. Anno Domini 1789, also vor gut und gern zweihundert Jahren, haben sie in Paris die Königin und den König — kkt! Ihre Häupter kullerten in die Körbe, der Bürger hat die Macht übernommen, viel Blut ist geflossen, und es heisst, der eine oder andere habe in seinem revolutionären Rausch ein Stück Pariser Brot in die Hälse der Geköpften getunkt und mit Genuss verspiesen. Ein paar Jahre später kam Napoleon. Er machte Ordnung. Befahl die Sansculotten an den Herd zurück und die Jakobiner ins Karree, links schwenkt marsch. In seinem Innersten aber blieb Napoleon Revolutionär, seine Soldaten fühlten nicht anders, und so trug ein wilder Haufen, genannt La Grande Armée, die Französische Revolution von Paris in die Welt hinaus. Zwischen den ägyptischen Pyramiden und den Moskauer Zwiebeltürmen blieb kein Stein auf dem andern, die Ställe brannten, die Mädchen weinten, und eines Tages, Anno 1798, war Napoleon unterwegs in unsere Berge.4

Le differenze più evidenti sono quelle di carattere fonologico: si possono notare dei monottonghi lunghi laddove in Hochdeutsch si hanno dei dittonghi, come ad esempio üüch anziché euch, zweehundert invece di zweihundert, Ruusch

 2 Per un approfondimento delle caratteristiche dello Schweizerdeutsch si veda: FELICITY RASH, Die deutsche Sprache in der Schweiz. Mehrsprachigkeit, Diglossie und Veränderung, , Peter Lang, 1998. 3 THOMAS HÜRLIMANN, De Franzos im Ybrig, in ID., Das Lied der Heimat. Alle Stücke, Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1998 p. 264. 4 THOMAS HÜRLIMANN, Der Franzos im Ybrig, in ID., Das Lied, cit., p.317.

47  per Rausch e Huufe per Haufen, e dittonghi laddove in Hochdeutsch compaiono monottonghi: muess per muss, mier anziché mir, guet invece di gut, Bluet al posto di Blut e così via. Si noti inoltre come molti monosillabi vengono abbreviati: è il caso di Zeit che nello Schweizerdeutsch di Hürlimann diventa Zyt, Schweiz è Schwyz, il possessivo seine diventa syni e si può osservare, oltre alla riduzione del dittongo, anche una terminazione in -i che si trova generalmente nella variante Schwyzerdütsch di parole come Liebe (Liebi) e nette Leute (netti Lüüt). Molto diffuso è anche il fenomeno della sincope come in vergangne Zyt anziché vergangene Zeit, gmacht invece di gemacht, Gnuss variante di Genuss, che generalmente in Schweizerdeutsch si rileva nei prefissi non accentati be- e ge-, per esempio in parole come bschlosse, gsee, Gsellschaft. Si può inoltre riscontrare talvolta un nesso consonantico ch- laddove in Hochdeutsch compare una velare dura k: così in Hürlimann abbiamo Chörb invece di Körbe per “ceste” e cho anziché kam come preterito del verbo kommen. Dal punto di vista morfologico il dato più evidente è che il nominativo e l’accusativo degli articoli determinativi e indeterminativi sono identici:

HOCHDEUTSCH (articolo determinativo) MASCHILE FEMMINILE NEUTRO PLURALE NOMINATIVO der die das die ACCUSATIVO den die das die

HOCHDEUTSCH (articolo indeterminativo) MASCHILE FEMMINILE NEUTRO NOMINATIVO ein eine ein ACCUSATIVO einen eine ein

SCHWEIZERDEUTSCH (articolo determinativo) MASCHILE FEMMINILE NEUTRO PLURALE NOMINATIVO de d s d ACCUSATIVO de d s d

48  SCHWEIZERDEUTSCH (articolo indeterminativo) MASCHILE FEMMINILE NEUTRO NOMINATIVO en e es ACCUSATIVO en e es

Hürlimann stupisce ancora di più i suoi lettori e spettatori quando in Das Einsiedler Welttheater, la rivisitazione dell’opera di Calderón de la Barca El gran teatro del mundo scritta in tedesco standard, fa parlare in Schwyzerdütsch un protagonista, die Welt/El Mundo, un buffone femmineo che entra in scena, procedendo con la lentezza che si addice a quei personaggi che portano sul palcoscenico la suspense e che sono annunciatori di una ‘svolta’ di fondamentale importanza ai fini della trama, semplicemente per esclamare: « Guete n Abig mitenand ».5 Molti critici si sono espressi negativamente, attraverso gli organi di stampa tedeschi, sulla decisione di Hürlimann di portare il dialetto in un’opera del genere, la rivisitazione di un capolavoro immortale della letteratura. La scelta è stata dai più ritenuta incomprensibile in quanto lo scrittore svizzero doveva raggiungere un pubblico vasto e composto non soltanto da cittadini elvetici. « Warum denn Schweizerdeutsch? » si chiede il giornalista Gerhard Stadelmeier dalle colonne del quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung sostenendo che questo dialetto viene percepito « auf Ausländer wie eine Halskrankheit, auf Schweizer aber wie eine Heimatoffenbarung ».6 Ma il teatro di Hürlimann è il teatro di Einsiedeln e appartiene al mondo svizzero, è un puntino nel microcosmo elvetico che rivendica la sua identità. Lo Schweizerdeutsch di Hürlimann — così come di altri autori dei cantoni tedeschi — è, dunque, semplicemente un segno di appartenenza, sembra essere l’equivalente di una parola d’ordine e lo scrittore se ne serve per poter selezionare, all’interno del vasto pubblico internazionale — del gran teatro del mondo per l’appunto — il destinatario del proprio messaggio di salvaguardia delle peculiarità della realtà elvetica.  5 THOMAS HÜRLIMANN, Das Einsiedler Welttheater. Nach Calderón de la Barca, Zürich, Ammann, 2000, p. 10. 6 GERHARD STADELMEIER, “Mach mal eine Gottespause. Hürlimanns Einsiedler Welttheater dortselbst uraufgeführt”, in Frankfurter Allgemeinen Zeitung, 26 giugno 2000.

49  1 1.4.2 IL FRANCESE PARLATO IN SVIZZERA

Le caratteristiche peculiari del francese parlato in Svizzera, riflettono elementi che erano presenti in quello parlato in Francia decenni fa, vale a dire tratti arcaici che non si sono evoluti. Il francese regionale utilizzato nella Confederazione, quindi, è la sintesi tra le peculiarità del dialetto regionale, le norme del francese standard, gli arcaismi di quest’ultimo e i prestiti dalla lingua germanica che riscontriamo in particolar modo a livello lessicale. In fonetica un aspetto molto rilevante che merita di essere sottolineato per quel che concerne lo svizzero-francese è la distinzione, ancora presente, tra i suoni vocalici medio bassi e medio alti in sillaba finale accentata. Questo distinguo, che nel francese moderno si è perso, è una conferma della conservazione di quei tratti arcaici a cui si faceva prima riferimento. Tra le vocali posteriori troviamo il mantenimento dell’opposizione tra la o chiusa medio alta e la o aperta medio bassa che dà vita a numerose coppie minime tra le quali: maux (mali) e mot (parola) peau (pelle) e pot (vaso) seau (secchio) e sot (sciocco)

Tra le vocali anteriori troviamo la distinzione tra la e chiusa medio alta e la e aperta medio bassa. L’opposizione, che sta completamente scomparendo in Francia, vale anche in questo caso solo in sillaba aperta, poiché in sillaba chiusa si ha sempre la variante medio bassa. Nelle regioni della Svizzera francese si

 1 Per un approfondimento sul francese parlato in Svizzera si veda: ANTOINE GÉRALD e BERNARD CERQUIGLINI, Le français en Suisse romande, in ANTOINE GÉRALD e ROBERT MARTIN, Histoire de la langue française, Paris, CNRS, 1985; MICHEL BURGER, La tradition linguistique vernaculaire en Suisse Romande: les patois, in ALBERT VALDMAN, Le français hors de France, Paris, Champion, 1979; PIERRE KNECHT, Le française en Suisse romande: aspects linguistiques et sociolinguistique, in ALBERT VALDMAN, Le français hors de France, cit.; PIERRE KNECHT, La Suisse romande: aspects d’un paysage francophone conservateur, in DIDIER DE ROBILLARD, MICHEL BENIAMINO e CLAUDINE BAVOUX, Le français dans l’espace francophone. Description linguistique et sociolinguistique de la francophonie, 2, Paris, Champion, 1996; PASCAL SINGY, L’image du français en Suisse romande, Paris, L’Harmattan, 1996; GIUSI MANNINO, Il francese in Svizzera: tesi di laurea in Lingue e Letterature moderne per il web (francese), Università degli Studi di Palermo, a.a. 2004-2005.

50  mantiene, ad esempio, nettamente la distinzione tra il condizionale e l’indicativo futuro: (je) voudrais (condizionale) (je) voudrai (futuro)

Nel campo della morfologia, lo svizzero francese non dispone di una grande varietà di suffissi derivativi. Una terminazione che occupa un posto rilevante nella morfologia dello svizzero francese è —ée. Questo suffisso produce dei sostantivi deverbali che descrivono l’azione sotto l’aspetto quantitativo: éreintée (grande fatica) Esempio: Porter ces caisses, quelle éreintée! éreintée (grande quantità) Esempio: Ils en ont ramassé une de ces éreintées! craquée (grande quantità) Esempio: Il a fait une craquée de fautes! gonflée (grande quantità di cibo o bevande) Esempio: Il est ivre!Il a bu une gonflée!

La maggior parte dei verbi usati per la produzione di questi sostantivi, sono dei verbi che indicano dei movimenti bruschi (come craquer). Altri significati che produce il suffisso —ée sono caduta o choc violento, rumore, percosse, ebbrezza e spesso la stessa parola, utilizzata nei vari contesti comunicativi, assume significati diversi: lugée (caduta, insuccesso) Esempio: Il a fait une lugée! sonnée (rumore, percossa, ebbrezza) Esempio: Le verre est tombé! Il a fait une sonnée!

Per quel che riguarda la sintassi, va evidenziato l’utilizzo nella lingua parlata del pronome dimostrativo neutro ça. I pronomi dimostrativi sostituiscono un gruppo nominale sottinteso e concordano in genere e numero con esso. Alcuni esempi:

Tout cela est incroyable. Tutto ciò è incredibile. Voilà ce qui me préoccupe. Ecco ciò che mi preoccupa. Dis-moi ce que tu veux. Dimmi ciò che vuoi.

Il pronome ça è la forma abbreviata di cela e si usa in un linguaggio più familiare:

51  Ne fais pas ça! Non fare ciò! Je vais m’occuper de ça. Mi occuperò di ciò.

Nella Suisse Romande accade che, non solo al posto di cela, ma anche al posto di ceci, ce qui e ce que troviamo il pronome ça. Inoltre si riscontra un uso generico del pronome in frasi colloquiali come nell’espressione on ça bosse per dire « si lavora, si studia ». Ecco un elenco di frasi classificate in base al modo del verbo utilizzato e alla presenza di pronomi: Pronome + ça + verbo al presente: Je ça garde Pronome + avoir + ça + participio passato: J’ai ça rangé un petit moment Je t’ai tout ça expliqué avant Avoir + ça + faire: J’ai personne vu ça faire Imperativo + pronome +ça: Mets ça là-bas

Un altro aspetto ricorrente nella sintassi è la costruzione aider à qqn, frequente nelle forme di francese arcaico, conservato nella lingua parlata in Svizzera. La testimonianza che questa costruzione era impiegata qualche secolo fa in Francia è fornita da Pierre Corneille nella sua opera Nicomede (1650): « Et je ne vois que vous qui le puisse arrêter, / pour aider à mon frère à vous persécuter »2 [i corsivi sono nostri]. L’uso di questa costruzione è imputabile, inoltre, a una interferenza tra lo svizzero-francese e lo svizzero-tedesco che utilizza il verbo helfen con il caso dativo. Un altro aspetto sintattico da sottolineare è l’uso in Svizzera del futuro perifrastico. La lingua francese, come peraltro l’italiano e molte altre lingue di origine romanza, aggiunge, per la formazione del futuro, delle desinenze alla radice del verbo di cui si vuole formare il tempo e prevede, inoltre, la creazione di un futuro perifrastico formato con il verbo aller — coniugato secondo la persona — e l’infinito del verbo: Jean partira pour la Corse Jean partirà per la Corsica  2 PIERRE CORNEILLE, Nicomede, in ID., Tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani con l’originale a fronte, Venezia, 1732, p. 120.

52  Jean va partir pour la Corse Jean sta per partire per la Corsica

In Svizzera la forma perifrastica è molto utilizzata nella lingua orale dove ha quasi rimpiazzato il futuro semplice. Ecco alcuni esempi: Ce soir je vais sortir. Questa sera uscirò. À quelle heure le train va partir? A che ora partirà il treno? On va faire quoi ce soir? Che cosa faremo stasera?

Molto utilizzato è anche per la costruzione perifrastica del futuro, al posto di aller, il verbo vouloir. Ad esempio: Fais attention! Tu veux tomber! Stai attento!Cadrai! Il veux faire chaud les prochains jours. Nei prossimi giorni farà caldo.

Ma è il vocabolario l’aspetto più importante del francese regionale in Svizzera. Possiamo distinguere i tipi di regionalismi in base alla classificazione che il linguista ticinese Alessio Petralli fa per i termini italiani: - regionalismo assoluto: sia il significato sia il significante della parola sono sconosciuti nel francese standard. - regionalismo lessicale: il significato è conosciuto in francese standard mentre è il significante ad assumere forme tipiche regionali. - regionalismo semantico: il significante esiste nello standard ma con un altro significato. Il regionalismo semantico si distingue, inoltre, in regionalismo semantico debole, nel quale il significato è relativamente più vicino all’uso standard, e in regionalismo semantico forte, nel quale il legame tra i due significati è meno chiaro, a meno che la parola non si trovi in un contesto esplicito.3 Due esempi di regionalismi assoluti sono i termini caquelon, utilizzato per indicare il recipiente utilizzato per la fonduta, e channe, un tipo di caraffa. Né il significato, né il significante esistono, dunque, nello standard francese.

 3 ALESSIO PETRALLI, L’italiano in un cantone. Le parole dell’italiano regionale in prospettiva sociolinguistica, Milano, Franco Angeli Edizioni, 1990, p. 36.

53  Il significato dei regionalismi lessicali, invece, esiste in francese standard, mentre è il significante a non essere riconosciuto: ad esempio panosse è conosciuta in Francia come serpillière (scopa), e catelle come carreau (piastrella). Nei regionalismi semantici è il significante a esistere nello standard francese: cornet in Francia è un cono o un cornetto acustico, mentre in Svizzera è un sacchetto in plastica (sachet); lavette nella patria di Proust e Flaubert è uno strofinaccio per i piatti, mentre in Svizzera è la spugna (éponge); coussin, che nello standard francese è utilizzato per parlare di cuscinetti tecnologici o medici, nella regione svizzera è utilizzato per parlare del cuscino (oreiller in Francia). Il significato di lutrin in Francia è lo stesso che in Svizzera (leggio) ma nello standard francese viene utilizzato maggiormente pupitre, mentre lutrin è molto più usato nella Svizzera francese. Un discorso a parte va dedicato al lessico regionale che prende vita dalle istituzioni tipiche della Svizzera e dalla politica, come canton, termine con cui si indica lo stato membro della Confederazione elvetica, bourgeoisie, diritto di cittadinanza, syndic e président per maire (sindaco), bisse per “canal d’irrigation”, acte d’origine, il documento che attesta il comune di origine, casco, svizzero per assurance, fraction per groupe parlamentaire, sautier, termine con cui si indica il segretario del parlamento di Ginevra. Una parte del lessico regionale deriva anche da prestiti dalla lingua tedesca: poutser sta per nettoyer, witz è una histoire drôle, catze è un termine per chat.

54  1 1.4.3 L’ITALIANO DEL TICINO E DEI GRIGIONI

Nella Svizzera italiana coesistono diversi sistemi linguistici: troviamo il dialetto lombardo, in particolar modo nelle regioni rurali sopra e sottocenerine, l’italiano ticinese nelle sue varietà regionali e popolari, la koiné regionale e la lingua italiana standard. Oltre alle varietà del dialetto lombardo e dell’italiano sono parlate in Ticino alcune lingue straniere, in particolare il tedesco, nelle due varietà Schwyzerdütsch e Hochdeutsch, idiomi parlati nelle zone turistiche del luganese e del locarnese, dove troviamo anche il francese. Per quel che concerne gli aspetti fonologici dell’italiano parlato in Svizzera, si deve tenere in gran considerazione l’opposizione fonematica /e : ε/ e /o : ɔ/ nelle coppie minime della pronuncia standard; per la e i casi di realizzazione diversi rispetto a quelli dello standard sono molto frequenti e in generale la situazione è pressoché identica a quella analizzata da Poggi Salani nel 1976 per l’italiano milanese2: si riscontra, quindi, la pronuncia chiusa della e quando è finale di sillaba ma non di parola (ad esempio in collega, telefono, era, erano, serio) e quando si trova in sillaba implicata seguita da nasale più consonante (si pensi alle parole venti, vento, solamente, licenza, tempo, sempre, accendere); la pronuncia è aperta in finale di parola (come in tε, mε, sε, trε). Per il resto si ha in sillaba implicata una pronuncia prevalentemente aperta: frεddo, orεcchio, spεsso, mεttere, stεsso, quεsto, capεllo ecc. Per [o], come nell’italiano milanese, i casi di pronuncia differente rispetto allo standard sono ridotti; si ha [o] per [ɔ] nei suffissi [-olfo] e [-ozzi] e [ɔ] per [o] nel suffisso [-ɔio].  1 Per un approfondimento sulla lingua italiana in Svizzera si veda: SANDRO BIANCONI, Lingua matrigna, , Il Mulino, 1980; SANDRO BIANCONI, Lingue di frontiera, Bellinzona, Casagrande, 2001; OTTAVIO LURATI, Dialetto e italiano regionale nella Svizzera italiana, Lugano, Banca Solari & Blum, 1976; ELENA MARIA PANDOLFI, Misurare la regionalità. Uno studio quantitativo sui regionalismi e forestierismi nell’italiano parlato nel Canton Ticino, Bellinzona, Osservatorio linguistico della Svizzera italiana, 2006; ALESSIO PETRALLI, L’italiano in un cantone. Le parole dell’italiano regionale ticinese in prospettiva sociolinguistica, Milano, Franco Angeli, 1990; SERGIO SAVIOLA e ETTORE VIOLA, Lo Svizzionario. Splendori e miserie della lingua italiana in Svizzera, Bellinzona, Edizioni Linguanostra, 2002. 2 Cfr. TERESA POGGI SALANI, Note sull’italiano di Milano e in particolare sulla e tonica, in RAFFAELE SIMONE (curatore), Studi di Fonetica e Fonologia. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma, Bulzoni, 1976, p. 250.

55  I fenomeni morfosintattici più rilevanti dell’italiano attestato in Svizzera sono: - uso dell’articolo determinativo + possessivo + nome di parentela (ad esempio: il mio nonno). - uso polivalente del che (che bravo che sei stato, lo conosco da quando che avevo dieci anni). - semplificazione della negazione a un solo elemento (in piazza c’era nessuno, era mai stato in città). - trapasso di pronomi da persona a persona (al nonno non ci veniva in mente). - sovrabbondanza preposizionale (hai sentito anche tu a sparare?). - uso di avverbi in funzione rafforzativa (scritto su, giù lì). - Non più + infinito invece di non + infinito + più (per non più dover tornare), forma che è un calco dal francese. - concordanze logiche (ci vuole 5000 franchi). - uso inverso dell’ausiliare (mi avrebbe piaciuto venire con voi). Dal punto di vista del lessico molti sono i fenomeni interessanti che meriterebbero di essere menzionati e che sono suddivisibili fondamentalmente in tre categorie: - ticinesismo assoluto: segno per il quale non esiste un corrispondente nell’italiano d’Italia né a livello di significante né di significato (per esempio “corso di ripetizione”, nel senso di “richiamo periodico al servizio militare”). - ticinesismo semantico: nell’italiano d’Italia esiste il significante ma con significato diverso. Si può distinguere tra ticinesismi semantici omonimici (come “brutto”, termine con cui si indica il “peso lordo”, e “vignetta”, vale a dire “contrassegno che permette di circolare sulle autostrade”) e polisemici (ad esempio “ripresa” con il significato di ritiro della vecchia automobile al momento dell’acquisto di una nuova o “patrizio” per designare i membri delle corporazioni locali di diritto pubblico). - ticinesismo lessicale: in Italia esiste il significato ma non il significante, come in “trattanda” (“punto all’ordine del giorno”), ramina (“rete di confine o rete metallica in genere”), buon tedesco (“tedesco standard”).

56  Numerosi sono i ticinesismi o gli elvetismi e grazie a L’italiano in un cantone (1990) di Alessio Petralli e Dialetto e italiano regionale nella Svizzera italiana (1976) di Ottavio Lurati è possibile creare un piccolo dizionario dei termini, delle espressioni e dei modi di dire utilizzati comunemente in Ticino o nei Grigioni ma di difficile comprensione per un interlocutore del Belpaese:

Abitazione a pigione moderata Dal francese “habitation à loyer modéré”. Abitazione economica, casa popolare, eventualmente abitazione ad affitto basso, modico. A contare dal A decorrere, a partire dal A innaffiatoio A pioggia (per sussidi ecc.) Allarme alla bomba Allarme per una bomba All’intenzione di All’attenzione di Allocazione Indennità, sussidio, assegno familiare Andare come una lettera alla posta Filar liscio, senza intoppi Annuario telefonico Elenco telefonico Attinente di Originario di Attinenza Origine Autopostale Corriera, autobus Avantutto Innanzitutto Bagaglio accompagnato Bagaglio a mano Bagatelizzare Minimizzare Barema Tariffario Birra spinata Birra alla spina Bocciare la classe Venir bocciati Bonalmente Amichevolmente Bonetto Berretto militare Bucalettere Buca delle lettere Buralista postale Gestore di un ufficio postale Callaneve Spazzaneve Cantina Mensa aziendale Carta gommata Scotch Casa comunale Municipio Chinarsi su Occuparsi di Cifra d’affari Volume d’affari Cifrare Quantificare Classatore Raccoglitore Colloquio Convegno Comanda Ordinazione, ordine Completazione Completamento Condecorare Allietare Conferenza delle note Scrutini (linguaggio scolastico) Confittura Marmellata Corrispondenza Coincidenza (treni) Corteggio Corteo, sfilata Crescere in giudicato Passare in giudicato Debilità Debolezza Deliberare un lavoro Appaltare Deponia Discarica Diaporama Audiovisivo

57  Emissione Programma radio o tv Entrare in linea di conto Esser preso in considerazione Fuoco Nucleo familiare, domestico Gommaschiuma Gommapiuma Gomme della neve Gomme da neve Grippe Influenza Impresario Imprenditore edile Incarto Incartamento Inceneritoio Inceneritore In civile In borghese Iniziativisti Promotori Isolazione Isolamento Lanciamento (film) Lancio Libretto Pagella Lisciva Detersivo Monitore Insegnante di sport, animatore, istruttore Municipale Assessore Musica del futuro Castelli in aria Nota Voto Paletta Gamma Penna a biglia Biro Perron Binario Per rapporto a In confronto a Personale uniformato Personale in uniforme Preliminari (sport) Esercizi di riscaldamento Profilarsi Mettersi in mostra Promuovimento Promozione Quai Lungolago Residenza governativa Sede del governo Riattazione Ristrutturazione Ricezione Reception Riservazione Prenotazione Rolladen Tapparella Sedime Terreno Servisol Self service Sezione (militare) Plotone Stato d’urgenza Stato d’emergenza Tippare Digitare sulla tastiera Trattanda Ordine del giorno Vallerano Valligiano Zurigano Zurighese

L’italiano parlato in Svizzera si configura, dunque, come un “italiano statale”, ossia la lingua di un altro paese che designa una realtà in parte differente da quella italiana e, pur sviluppandosi a stretto contatto con la lingua parlata nel Belpaese, presenta anche tratti propri. Questa caratterizzazione è rilevante, inoltre, per lo statuto internazionale della lingua italiana in generale, che si presenta così non solo come l’idioma di una sola nazione ma come una lingua policentrica con statuto ufficiale in più nazioni.

58  1.4.4 IL ROMANCIO: LINGUA O DIALETTO?

Il romancio, lingua appartenente al sottogruppo delle retoromanze, è un idioma neolatino parlato esclusivamente nel territorio elvetico dei Grigioni da circa 35000 persone, che presenta numerose affinità con il ladino e con il dialetto friulano. A causa della disomogeneità della zona del più orientale dei ventisei cantoni svizzeri, si sono sviluppate cinque forme diverse di romancio — Sursilvan, Sutsilvan, Surmiran, Putér, Vallader —, ognuna delle quali ha dato vita anche a una propria lingua scritta. Nel corso degli anni si è provato più volte a realizzare una lingua scritta standard ma i romanci si sono sempre opposti, vedendo in questi tentativi una minaccia per l’indipendenza e la sopravvivenza dei loro idiomi locali. Nel 1982 è stato comunque creato il Rumantsch Grischun, una lingua artificiale, frutto del compromesso tra le parlate delle varie valli grigionesi e nel 2003 il parlamento cantonale della regione ha stabilito che il materiale didattico in lingua romancia, che fino a quel momento era stato pubblicato nei cinque idiomi tradizionali, dovesse essere diffuso gradualmente soltanto in Rumantsch Grischun. Secondo i criteri linguistici, in ogni caso, il romancio è considerato ufficialmente una lingua — e non un dialetto — già a partire dalla metà del XIX secolo; se si va al di là delle norme su cui si basa la disciplina che studia il linguaggio umano, si deve pur ricordare, però, che il romancio copre soltanto una parte molto ristretta del territorio elvetico, non ha, nella realtà dei fatti, una ortografia e una pronuncia standard e presenta caratteristiche, dunque, che fanno pensare più a un dialetto — come lo Schwyzerdütsch — che a una lingua. Nella nostra ricerca si è scelto di non trattare la produzione in Rumantsch Grischun, così come quella nel dialetto svizzero-tedesco, in quanto si reputa che tale idioma non abbia ancora assunto il valore o la dimensione di lingua letteraria — come sostiene anche Clau Solèr, sociologo, docente dell’Università di Ginevra, uno dei massimi esperti della cultura retoromancia1 — e che tra gli scrittori

 1 Si veda il sito internet http://www.swissinfo.ch

59  romanci forse soltanto Flurin Spescha ha firmato una produzione letteraria autentica in Rumantsch Grischun. Altri autori — tra i più noti Rut Plouda e Leo Tuor — hanno preferito esprimersi in una variante locale del romancio per rappresentare un’identificazione ancora più forte con la cultura di origine. Va considerato, inoltre, che coloro i quali conoscono la lingua romancia non sono certo numerosi ed è, quindi, la traduzione a giocare un ruolo fondamentale per un’eventuale affermazione degli autori romanci al di fuori dei confini cantonali.

60  1 1.4.5 LA TRADUZIONE ALL’INTERNO DELLA SVIZZERA

Numerosi in tutto il mondo sono stati gli studi nell’ambito della teoria della traduzione ma poche le ricerche relative alla situazione della Svizzera, alla trasposizione in altre lingue di opere elvetiche all’interno di questo paese che vive una realtà unica al mondo con i suoi quattro idiomi ufficiali. Per colmare questa lacuna il Centre de traduction littéraire dell’Università di Losanna ha commissionato alla ricercatrice Alena Vacek proprio uno studio relativo alla ricezione nel Novecento degli autori elvetici nelle varie aree linguistiche del paese, concentrandosi in particolare su quella romanda e germanofona, le due zone che danno vita a un numero maggiore di scambi. Una prima parte degli studi della Vacek, relativa al periodo che va dall’inizio del secolo alla fine della seconda guerra mondiale, è stata pubblicata nel numero 24 dei Cahiers du Centre de traduction littéraire; le ricerche relative al restante periodo risultano in corso d’opera. Si può, comunque, tentare di ricostruire la situazione inerente alle traduzioni all’interno del piccolo paese dell’Europa centrale nel Novecento per mezzo dello studio già edito della Vacek e a scambi di opinione e preziose informazioni ottenute dai contatti con la medesima ricercatrice e studiosi ed esperti del settore quali Orazio Dotta dell’associazione culturale elvetica Bibliomedia, il poeta e traduttore Vanni Bianconi, direttore artistico di Babel, Festival di letteratura e traduzione che si svolge nel mese di settembre a Bellinzona, Guido Pedrojetta, consigliere agli studi presso la Facoltà di Letteratura e Filologia Italiana dell’Università di Friburgo e Donata Berra dell’Università di Berna, poetessa, membro della Commissione editoriale della Collana CH che promuove ogni anno la pubblicazione di traduzioni di autori svizzeri con lo scopo di farli conoscere nelle varie regioni linguistiche e la cui attività si illustrerà più avanti.

 1 Sulla traduzione all’interno della Svizzera si veda: MARION GRAF (curatrice), L’écrivain et son traducteur en Suisse et en Europe, Genève, Éditions Zoé, 1998.

61  - La traduzione in Romandia Si può constatare che fino al 1920 gli scambi culturali all’interno del territorio elvetico sono davvero occasionali; il primo passo importante, la prima attestazione di un certo livello dell’interesse a creare, attraverso la traduzione, una cultura definibile come “nazionale”, è rappresentato dall’apparizione della collezione Conteurs suisses, riservata ad autori contemporanei che sviluppano tematiche tipicamente elvetiche. Sempre intorno agli anni Venti, CARL ALBERT

LOOSLI traduce da sé i suoi pamphlets politici con l’intento di evitare quello che lui intravede come il rischio di creare un fossato tra la Svizzera francese e quella tedesca. A seguito del suo celebre discorso Unser Schweizer Standpunkt, la Svizzera romanda scopre, e riconsidera come nazionale, l’opera di CARL SPITTELER: « Car, en définitive, l’œuvre de Spitteler est une œuvre suisse et humaine, humaine parce que suisse, c’est-à-dire parce que très profondément enracinée dans une terre et puisant sa sève dans un esprit ».2 Questa notorietà fondata su discorsi di natura politica, patriottica, quasi nazionalista nel senso più estremo del termine, avrà come conseguenza principale non solo quella di far notare il poeta svizzero anche in Francia ma di dar vita a un recupero e una valorizzazione di tutte le sue opere in prosa. La vivacità editoriale degli anni Venti ha, quindi, una forte componente politico-ideologica e riflette il dibattito che ha avuto inizio nella prima metà del

XX secolo e che ha visto come principale animatore lo scrittore GONZAGUE DE

REYNOLD, il quale ha consacrato alla storia letteraria della Svizzera del XVIII secolo una monumentale tesi di dottorato nel 1904 e le sue opere successive, come Contes et Légendes de la Suisse héroïque (1913), Cités et pays suisses (1914- 1920), La Suisse une et diverse (1923) e La démocratie et la Suisse : essai d’une philosophie de notre histoire nationale (1934). In queste opere il friburghese va alla ricerca di quel che chiama esprit suisse; caratteristiche alla base di questo spirito elvetico sono l’amore per le Alpi, uno sguardo rivolto con ammirazione al periodo della Riforma e il Federalismo svizzero.

 2 , « Le génie épique de Spitteler », in CARL SPITTELER, Gustave, Genève, Georg, 1920, p. XXI.

62  L’elvetismo di Gonzague de Reynold viene difeso e portato avanti da un gruppo di intellettuali al quale appartengono i più importanti critici letterari dell’epoca; il dibattito suscita grande interesse in tutto il territorio nazionale ed esige quindi di essere trasposto anche nelle altre lingue ufficiali del paese: Certains livres suisses revêtirent un caractère spécial qui les éloigne de la littérature française ou allemande parce qu’ils sont l’expression et le résultat de notre climat, de notre nature et de nos institutions politiques particulières. Cette littérature suisse ne renoncera pas pour cela à rester ou à devenir une littérature vraiment humaine. Bien au contraire, nos grands poètes, en faisant une œuvre suisse, auront toujours écrit en même temps une œuvre humaine. En les lisant, le confrère allemand ou français se dira: “Je n’aurais pas pu écrire cela, mais je le comprends et je le goûte”.3

Quindi l’incremento del numero delle traduzioni nel periodo precedente e immediatamente successivo alla Prima Guerra Mondiale risulta dal dibattito che punta a rintracciare l’essenza di una letteratura nazionale che risponde a impulsi d’ordine politico, al di là delle differenze linguistiche. Un secondo picco si registra negli anni Quaranta per argomentazioni simili; l’ideologia dominante, questa volta si chiama Geistige Landesverteidigung e si basa su misure per rafforzare i valori culturali elvetici con lo scopo di creare una coesione generale, un’unità di intenti, in grado di superare qualsiasi ostilità all’interno del paese. Dopo il 1945 la crisi mondiale coinvolge il settore dell’editoria anche in Svizzera. A peggiorare la situazione elvetica vi è la messa in discussione dei princìpi, elvetismo e difesa spirituale, che avevano favorito, fino a quel momento, la circolazione delle opere nel paese. Si ha così, come conseguenza, che nel periodo che va dal 1946 al 1956 non sono certo numerosi gli scambi culturali all’interno del paese. La Svizzera romanda accoglie in quella fase non più di una decina di opere di autori germanofoni, senza prediligere un particolare genere letterario: si va dal poema epico di SPITTELER alla poesia concreta di Gomringer passando per la letteratura per l’infanzia di René Gardi. Va senza dubbio considerato per questo periodo storico che la letteratura svizzera di lingua tedesca risente della forte volontà di rinnovamento che proviene dalla cultura della Germania e dal programma della cosiddetta Kahlschlagliteratur  3 EDOUARD PLATZHOFF-LEJEUNE, « La littérature des deux Suisse », in La Semaine Littéraire, (12) 1904, p. 186.

63  formulato dal Gruppo 47, e da Wolfgang Weyrauch in particolare, quindi della necessità di ripartire da zero, di conferire nuovo valore alla lingua che i gerarchi nazisti avevano utilizzato per compiere le loro ingiustizie nei confronti dell’umanità. È da tenere in considerazione, inoltre, che nell’immediato dopoguerra la letteratura anglofona esercita un’influenza sempre più crescente sul piano internazionale e che anche la Svizzera di lingua francese non si sottrae al fascino del mondo anglofono, preferendolo al clima di incertezza che proviene dalla letteratura tedesca e dalla cultura della parte germanofona elvetica. Nel decennio successivo, dal 1956 al 1965 quindi, il numero di lavori tradotti aumenta considerevolmente grazie alla scoperta e al successo delle opere, a metà degli anni Cinquanta, di FRIEDRICH DÜRRENMATT e, all’inizio degli anni

Sessanta, di MAX FRISCH. Il periodo che va dal 1966 al 1970 è la fase di massima espansione mai registrata dal secondo dopoguerra nell’ambito della traduzione di autori germanofoni in Romandia, sempre, comunque, grazie ai due massimi esponenti della letteratura elvetica del secondo dopoguerra, Frisch e Dürrenmatt. L’impatto della ricezione dei due grandi autori resta pressoché elevato dal 1961 al 1990, favorendo anche la traduzione in francese degli autori della nuova generazione di lingua tedesca loro epigoni. Gli anni Settanta sono, oltre a ciò, estremamente importanti per la realtà editoriale romanda poiché, nel giro di dodici anni, si registra la creazione di cinque case editrici di una certa importanza che danno non poco spazio alla letteratura in traduzione: notevole lo sforzo di Éditions de L’Aire e di L’Age d’Homme e soprattutto, in questi ultimi anni, il dinamismo di Éditions Zoé che dal 1986 pubblica più della metà delle opere elvetiche volte in francese in

Romandia. In più, nel 1974, viene creata la collana CH, di cui BERTIL GALLAND è uno dei promotori e di cui tratteremo più avanti. Va notato che negli ultimi anni diversi titoli elvetici passano direttamente per case editrici francesi: ad esempio ROBERT WALSER e FRIEDRICH GLAUSER sono presenti in edizione Gallimard e alcuni autori svizzeri di letteratura per l’infanzia, come EVELINE HASLER, HANNA JOHANSEN e JÖRG STEINER sono apparsi nei cataloghi di diverse case editrici parigine. Si è assistito, inoltre, alla

64  consacrazione dell’opera di PAUL NIZON, al successo di HUGO LOETSCHER, alla ricezione postuma di ANNEMARIE SCHWARZENBACH e agli apprezzamenti per le opere di URS WIDMER e MILENA MOSER. Come sottolinea la Vacek4, comunque, le case editrici francesi cominciano a svolgere un ruolo importante per la diffusione della letteratura svizzera in traduzione non prima della metà degli anni Cinquanta.

Negli ultimi decenni, se certi scrittori come PETER BICHSEL e JÖRG STEINER sono pubblicati direttamente da case editrici francesi, la Svizzera romanda volge in lingua francese le opere di autori ritenuti più marginali come KURT MARTI,

HERBERT MEIER e WERNER SCHMIDLI, espressioni di una realtà più regionale che poco si adatta a un pubblico internazionale ma che può aiutare molto la letteratura elvetica a rafforzare l’idea di un’identità nazionale. Nel corso degli ultimi quindici anni si deve anche registrare, per alcuni autori, una ripartizione franco-svizzera delle traduzioni a seconda dei generi letterari, una spartizione determinata da logiche di mercato, prospettive di vendita che non servono ad altro se non a sottolineare la diversa realtà economica delle case editrici dei due paesi e che segue le stesse regole della ripartizione della pubblicazione delle opere di , in base alle quali i romanzi sono stati pubblicati da Grasset e gli scritti autobiografici e le poesie da Bernard

Campiche; per citare qualche esempio: la letteratura per l’infanzia di HANNA

JOHANSEN e di EVELINE HASLER viene pubblicata in Francia, mentre i loro romanzi in Svizzera, Gallimard dà alle stampe la prosa di THOMAS HÜRLIMANN e le elvetiche Éditions d’en bas si prendono carico delle sue pièces teatrali. Se la moltiplicazione del numero di traduzioni in Svizzera negli ultimi anni può essere interpretata come conseguenza della nascita di nuove realtà editoriali romande, della voglia di affrancarsi dalle letterature dei paesi limitrofi e dell’esigenza di definire una letteratura come nazionale, degli sforzi dei promotori della collana CH, l’aumento della ricezione degli autori svizzero-tedeschi in Francia sembra rispondere a fattori particolari che andrebbero studiati caso per caso: si può affermare, a titolo di esempio, che la prosa di PAUL NIZON ha grande  4 ALENA VACEK, Réception d’auteurs suisses alémaniques en français. Une approche historique de la traduction littéraire en Suisse pour la période 1900-1945, Lausanne, Cahiers du Centre Traduction Littéraire, 1994, p. 25.

65  successo perché ritenuta molto simile a quella degli autori francesi contemporanei, al punto che può capitare di vedere l’autore di Berna etichettato come scrittore francese, e che l’apprezzamento del pubblico francofono nei confronti di MILENA MOSER è anche frutto dell’enorme battage pubblicitario realizzato. Importante per gli scambi culturali all’interno del piccolo paese dell’Europa centrale è anche il ruolo delle riviste letterarie; nella Svizzera romanda due principali periodici, la Bibliothèque Universelle e la Semaine Littéraire, si distinguono dal resto della stampa specializzata, che si compone per lo più di articoli critici e recensioni, per la dedizione alla traduzione. Le due riviste, nate sul finire del XIX secolo, cessano la loro attività negli anni Trenta per motivi finanziari e in seguito al disinteresse dei loro abbonati in un’epoca in cui le case editrici si affermano come unico mezzo di diffusione delle opere letterarie, specie se in traduzione. Accanto a questi due periodici di stampo culturale, nel corso degli anni compare un numero consistente di riviste che si diversificano dalla Bibliothèque Universelle e dalla Semaine Littéraire per contenuto e pubblico. Questi periodici fanno parte della grande massa di riviste dette familiari, a vocazione edificante, che sono destinate alle classi medie e, in particolare, alle donne. La rivista Lectures du Foyer, presente dal 1912 al 1974, merita una menzione particolare per la pubblicazione in contemporanea di due romanzi feuilletons, in cui trova spazio, di tanto in tanto, anche la letteratura della Svizzera tedesca. Avvicinandosi ai giorni nostri le numerose riviste letterarie stanno a testimoniare il vigore sempre presente della vita culturale della Svizzera romanda: apprezzabili, in particolar modo, la più che centenaria Revue de Belles-Lettres, Écriture, che ha iniziato la sua attività nel 1964, e la più recente Passe-Muraille, in attività dal 1991. Da menzionare ancora, per l’importanza ricoperta nel periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale la rivista Rencontre (1950-1953) che ha svolto un ruolo fondamentale nel veicolare le riflessioni sull’identità culturale della Svizzera francese e nella mediazione della letteratura germanofona, pubblicando, tra l’altro, vari articoli sull’opera di Friedrich Dürrenmatt. A differenza delle prime riviste citate, queste ultime restano orientate

66  principalmente al dibattito critico piuttosto che alla trasmissione di testi in traduzione. L’attività delle riviste testimonia l’importante ruolo di mediazione da loro svolto, in particolare nella prima metà del Novecento: grazie ai periodici, che si sono assunti il rischio di trasporli in francese prima delle case editrici, effettivamente sono stati posti all’attenzione dei lettori numerosi nuovi autori. In questo senso si può affermare che le riviste contribuiscono in modo consistente alla promozione dei titoli tradotti, poiché un’apparizione sotto forma di romanzo- feuilleton assicura una valida ‘anticipazione’ e può garantire un successo di vendita al libro in seguito realizzato.

- La traduzione nella Svizzera tedesca Dall’inizio del XX secolo fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale il numero di traduzioni di autori romandi in tedesco è piuttosto stabile: in media non più di una decina di opere ogni lustro, considerando anche l’affievolirsi dell’interesse per gli autori nati nella metà del secolo precedente come PHILIPPE

MONNIER ed EDOUARD ROD. Nel periodo che va dal 1916 al 1920 si registra un leggero incremento dovuto alla traduzione di opere, testimonianze e saggi, legate alle preoccupazioni per la guerra e la situazione politico-economica mondiale. Negli anni Venti, inoltre, va notato un rinnovato interesse per la letteratura romanda che passa per le traduzioni delle opere di CHARLES-FERDINAND RAMUZ e, negli anni successivi, di

GUY DE POURTALÈS e GONZAGUE DE REYNOLD. La traduzione di libri della Svizzera francese conosce il suo apice, per quanto concerne la prima metà del secolo, nel 1945 con almeno ventitré opere pubblicate nel giro di dieci anni: a farla da padrone ancora il successo delle opere di Ramuz, rafforzato dall’interesse nascente per quello che è considerato il suo erede, , e le opere a carattere saggistico di GONZAGUE DE

REYNOLD e DENIS DE ROUGEMONT. Questi anni, tra l’altro, registrano l’accoglienza favorevole ai nuovi romanzieri romandi come CHARLES-FRANÇOIS

LANDRY, il cui romanzo Baragne (1939) è stato tradotto due volte nel giro di due

67  anni, nel 1941 in Svizzera da Rudolf Jakob Humm e nel 1943 in Germania da Paul Fohr, e Monique St.-Hélier. In più va segnalato nel periodo della Seconda Guerra Mondiale la traduzione di un numero consistente di guide turistiche o scritti di autori affermati volti a celebrare gli aspetti più caratteristici delle varie regioni del loro paese natale. Il numero di traduzioni si stabilizza negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale: l’opera di CHARLES-FERDINAND RAMUZ è stata già quasi integralmente trasposta in tedesco e la sua morte lascia un vuoto che colui che era stato inizialmente designato come suo erede, MAURICE ZERMATTEN, non altrettanto prolifico né recepito positivamente dalla critica e dal pubblico germanofono, non riesce a colmare. Alla fine degli anni Cinquanta più della metà dei libri dell’autore vallesano risulta comunque tradotta in tedesco. Un nuovo incremento di traduzioni letterarie si ha intorno al 1965 con la proposta in tedesco di otto titoli di BLAISE CENDRARS commissionati, però, in Germania da Rauch Verlag. Segue una brusca diminuzione dovuta in parte all’ultimazione dell’impresa del volgere in tedesco l’opera dell’autore de L’Or (1925) e causata anche dal momentaneo silenzio di numerosi scrittori tra quelli che hanno contribuito all’incremento registrato nel periodo precedente, basti fare i nomi di DENIS DE ROUGEMONT, JEAN STAROBINSKI e YVETTE Z’GRAGGEN. La fine degli anni Sessanta registra un’importante ripresa con la pubblicazione delle opere di ROBERT PINGET. Incremento notevole nel decennio seguente (1971-1980) con la complicità della pubblicazione, negli anni 1972- 1976, delle opere complete di Ramuz presso Huber, in occasione del venticinquesimo anniversario dalla morte dell’intellettuale, e della traduzione di cinque titoli di Blaise Cendrars che non erano mai stati volti in tedesco, apparsi da Arche Verlag tra il 1976 e il 1980. Negli ultimi due decenni del XX secolo, a testimoniare ancora una volta l’esigenza di creare una letteratura nazionale, di formare attraverso la traduzione delle opere una coscienza elvetica, davvero ricca e diversificata l’offerta di autori romandi per il pubblico germanofono: negli anni Ottanta debutta ALBERT COHEN in Germania, e la Svizzera tedesca accoglie e traduce CHARLES-

68  FERDINAND RAMUZ addirittura in Schweizerdeutsch; nel decennio seguente viene accolto dal pubblico di lingua tedesca JEAN STAROBINSKI e viene finalmente apprezzata l’opera di , grazie alle edizioni Limmat. Il picco degli anni Novanta è giustificato, anche in questo caso, dagli sforzi sostenuti dalla Collana CH. Un dato che non si può trascurare per la diffusione della letteratura romanda tra il pubblico germanofono è che circa il 30% della produzione della Svizzera francese del Novecento in traduzione è pubblicato in Germania, con un andamento, però, irregolare; il pubblico di lingua tedesca ha nutrito particolare interesse per le opere di CHARLES-FRANÇOIS LANDRY, per la letteratura di viaggio di ELLA MAILLART e le opere di GUY DE POURTALÈS, che ha conquistato il pubblico con le sue biografie di grandi musicisti: il suo lavoro forse più noto, La pêche miraculeuse (1937), è apparsa in tedesco già nel 1938 ma in una versione censurata. Niente di lontanamente paragonabile alla Semaine Littéraire o alla Bibliothèque Universelle si può registrare sul versante germanofono sul piano dei periodici. In piccola parte un lavoro di mediazione culturale, con traduzione di opere romande, paragonabile quindi a quello compiuto dalle riviste della Svizzera francese, è stato svolto da quotidiani come Bund o la Neue Zürcher Zeitung; in particolare le traduzioni sono volte a intensificare il concetto di letteratura nazionale e quindi grande interesse è stato registrato per GONZAGUE DE REYNOLD,

RAMUZ e ZERMATTEN, autori nazionalisti per eccellenza.

- Traduzione e Svizzera italiana Forse troppo regionale la realtà descritta nella gran parte dei romanzi degli autori svizzeri di lingua italiana per poter suscitare interesse e spingere alla traduzione negli altri cantoni o addirittura al di fuori dei confini elvetici. Risultano così volti nelle altre lingue ufficiali elvetiche, indifferentemente da case editrici nazionali o estere, soltanto gli autori che possiamo ritenere di primissimo piano: troviamo l’opera di FRANCESCO CHIESA e GIUSEPPE ZOPPI tradotta in piccola parte in tedesco e ancor meno in francese, qualche verso delle poesie di REMO FASANI,

69  dei cugini ORELLI e di PLINIO MARTINI, alcune opere in prosa di FELICE FILIPPINI,

PIERO BIANCONI e GIOVANNI BONALUMI. Avvicinandoci ai giorni nostri, maggiore interesse si registra anche per gli autori di lingua italiana con le poesie di FABIO PUSTERLA tradotte sia a Losanna che a Zurigo e la prosa di ALICE CERESA, con il romanzo Bambine che ottiene un buon riscontro di pubblico anche in francese e tedesco. Ma quando si parla di Svizzera italiana in rapporto alla traduzione, più che pensare ai lavori degli scrittori ticinesi o grigionesi volte nelle altre lingue nazionali elvetiche, va riconosciuto il loro fondamentale lavoro di traduttori di opere della letteratura classica o in lingua tedesca o in francese, pubblicate da case editrici italiane o svizzere. FELICE MENGHINI di Poschiavo, autore di prose brevi e poesie, ha tradotto, ad esempio, scrittori della Grecia antica, come Saffo, e autori tedeschi quali Rilke, per citare un esempio su tutti, REMO FASANI, nato a Mesocco nel 1922 e autore di poesie, invece, ad esempio, ha tradotto dal tedesco testi di gran difficoltà, da Goethe a Nietzsche, passando per Hölderlin e Lenau. Dai Grigioni di Menghini e Fasani, se si volge lo sguardo al Ticino, ammirevole, per la poesia, il lavoro di GIORGIO ORELLI: versioni dal latino — ha tradotto, tra gli altri, Lucrezio —, dal tedesco, con alcune opere di Goethe, dal francese, lingua di Mallarmé, accompagnate da raffinati saggi sul tema della traduzione. Per la nuova generazione non si può non citare FABIO PUSTERLA, voce italiana di PHILIPPE JACCOTTET.

Per la traduzione di opere in prosa, fondamentale il lavoro di PIERO

BIANCONI — che ha volto soprattutto autori di lingua francese, in particolare per la Biblioteca Universale Rizzoli e che, nella prefazione alla sua traduzione di Bubu de Montparnasse di Charles-Louis Philippe, si lascia andare a osservazioni molto interessanti sulle difficoltà di natura lessicale incontrate nel passaggio da un certo tipo di francese popolare a un certo tipo di italiano colloquiale — e

GIUSEPPE ZOPPI, che ha saputo dimostrare il lato migliore delle sue capacità prosastiche nelle traduzioni delle opere di CHARLES-FERDINAD RAMUZ, per le quali ha dovuto limitare il tono eccessivamente enfatico che invece si può ritrovare nei suoi romanzi.

70  Con le sue traduzioni FELICE FILIPPINI, pittore e romanziere, autore de Il signore dei poveri morti (1943), da responsabile dei programmi della Radio Svizzera Italiana, volge in italiano numerosi radiodrammi o adattamenti radiofonici di opere teatrali di Beaumarchais, Bradbury e Dürrenmatt.

ENRICO FILIPPINI, non legato da gradi di parentela a Felice, invece, ha declinato la sua attività di traduttore alle diverse esigenze professionali: il suo interesse per la filosofia lo ha portato a volgere in italiano Husserl, la sua attività editoriale a concentrarsi, ad esempio, su Grass, Uwe Johnson e Max Frisch. Per le loro trasposizioni, soprattutto dal tedesco, vanno citati altri scrittori- traduttori apparsi sulla scena negli ultimi decenni: ALICE CERESA, ad esempio, ha trasposto l’opera di GEROLD SPÄTH, DONATA BERRA il Mozart di Hildesheimer e

ANNA RUCHAT che ha tradotto in italiano Thomas Bernhard. Non soltanto traduzioni dal tedesco e dal francese per gli autori elvetici: vanno almeno menzionati l’importante lavoro di TARCISIO POMA dal latino, di

Luisa Orelli dall’arabo e l’originale contributo di Remo Beretta e GIOVANNI

ORELLI che traslano testi letterari antichi e moderni, per lo più poetici, di autori come Orazio, S. Ambrogio, Guido Cavalcanti, François Villon, Dylan Thomas, Leopardi, Gogol, William Blake, Samuel Beckett ed Emily Dickinson, in due dialetti ticinesi.

- Iniziative a favore della traduzione Dagli anni Settanta a oggi la maggiore iniziativa creata in Svizzera con lo scopo di promuovere lo scambio letterario interculturale tra le quattro regioni linguistiche è la collana CH, fondazione con sede a Solothurn, progetto della Fondazione CH per la collaborazione confederale. La proposta beneficia del sostegno finanziario dei ventisei cantoni, della fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia e della Fondazione Oertli, e prevede diverse manifestazioni, letture pubbliche ed esposizioni anche di grande prestigio. Principale obiettivo della collana CH è, comunque, quello di sostenere la pubblicazione di traduzioni di opere di scrittori e scrittrici della Svizzera. Collana CH vede la luce nel 1974 per promuovere proprio lo scambio culturale tra le quattro comunità linguistiche della Svizzera; il progetto ha

71  l’opportunità di prendere il via grazie all’importante sostegno economico della Fondazione Walter e Ambrosina Oertli. Per merito delle sovvenzioni dei 26 cantoni e dell’associazione culturale Pro Helvetia ogni anno appaiono tra le sei e le otto traduzioni di opere letterarie contemporanee; collana CH concepisce la sua attività come un incitamento per gli editori e un sostegno ai loro sforzi al fine di far conoscere la ricchezza della letteratura di una determinata area linguistica nelle altre zone della Svizzera, con la speranza, non tanto celata, di poter varcare i confini nazionali. Grazie alla collaborazione tra la Commissione per la pubblicazione e le case editrici, la collana CH può contare ad oggi più di duecento titoli nel suo catalogo. La suddetta Commissione, che ha lo scopo di individuare le opere ‘degne’ di venir tradotte e di cui, nel 2010, hanno fatto parte il presidente Roman Bucheli, Donata Berra, Ivan Farron, Giulia Fretta, Anne-Lise Delacrétaz, Chasper Pult e Daniel Rothenbühler, nonché, con il ruolo di supervisori, Angelika Salvisberg e Isabelle Rüf della Pro Helvetia e Charlotte Hug della Fondazione Oertli, raggruppa specialisti, di tutte le lingue nazionali, nell’ambito della letteratura; essa è composta, dunque, da due rappresentanti per ciascuna delle regioni linguistiche italofone, francofone e germanofone e da un rappresentante per l’area romancia. Una volta all’anno la commissione stila un elenco di opere che meriterebbero, per inconfutabile valore artistico, di venire tradotte, ma che si prevede non verranno traslate in un’altra lingua nazionale senza aiuti finanziari; le case editrici, quindi, attingono da questo elenco e vengono affiancate da uno dei membri della commissione per il controllo della regolarità di tutte le fasi che vanno dalla traduzione alla pubblicazione e ottengono delle sovvenzioni per le spese di stampa e diffusione; i costi di traduzione sono invece, generalmente, a carico di Pro Helvetia. La fondazione di diritto pubblico finanziata dalla Confederazione Pro Helvetia si concentra sul lavoro dei traduttori promuovendo, inoltre, l’iniziativa Moving words, con l’intento di conferire maggiore visibilità alla letteratura svizzera in traduzione; i programmi di Pro Helvetia nell’ambito di questa iniziativa vengono rinnovati ogni tre anni e sono volti a incrementare sia la quantità che la qualità della traduzione letteraria per la Svizzera: oltre a puntare su

72  un aumento numerico di volumi della letteratura elvetica in traduzione, l’Associazione finanzia iniziative mirate al perfezionamento dei traduttori attivi in campo letterario. Uno degli eventi più importanti che organizza la Fondazione CH per la collaborazione confederale, con il sostegno di Pro Helvetia, il Centre de Traduction Littéraire dell’Università di Losanna e la Casa dei traduttori Looren, è la manifestazione letteraria, che si realizza ogni due anni, 4+1 translatar tradurre übersetzen traduire che ha come tema portante proprio la traduzione letteraria tra le quattro lingue nazionali della Svizzera e una lingua ospite. Manifestazione simile si realizza nella Svizzera italiana ed è Babel Festival, un evento dalla formula molto semplice che si svolge ogni anno a Bellinzona: ad ogni edizione vengono invitati scrittori, artisti, musicisti e traduttori di un paese ospite; per la sezione “la parola oltre i confini”, Babel invita gli autori più significativi del paese ospite, ma anche autori che non scrivono nella loro lingua madre, intellettuali che vivono sospesi tra più culture, a spiegare la loro opera interagendo con un interlocutore particolare, il loro traduttore italiano, colui che, quindi, ha accompagnato passo per passo l’opera da una lingua all’altra. L’idioma di arrivo è sempre l’italiano; il dialogo tra scrittori, traduttori e pubblico è accompagnato dalla lettura dei testi, presentati in lingua originale e nella loro traduzione in italiano. Nella sezione “oltre i confini della parola” vengono analizzati i programmi di traduzione tra diversi linguaggi artistici, con una mostra d’arte contemporanea, un concerto e una rassegna cinematografica che sviluppano le tematiche del festival. A completare la manifestazione “il settore ricerca”, con i workshops di traduzione letteraria e per il cinema, “il settore scuola”, che invita gli studenti delle scuole cantonali ad avvicinarsi al mondo della traduzione, la presentazione della “Collana Babel” delle Edizioni Casagrande. Nel 2006 la lingua ospite è stata l’ungherese in quanto ricorrevano i cinquant’anni dai “Fatti di Ungheria”, evento drammatico che ha portato diverse persone ad emigrare e, quindi, a esprimersi in una lingua diversa da quella originaria, nel 2007 ospiti le lingue dei Balcani occidentali (serbo, croato,

73  albanese e sloveno), idiomi di popoli per troppo tempo appartenuti a un’unica nazione, nel 2008 a farla da padrone c’era l’inglese americano, nel 2009 il russo, nel settembre del 2010 ospite del festival è stato il Messico, nel 2011 le letterature della Palestina e nel 2012 la Polonia. Nel 1989 ha visto la luce, per iniziativa del Professor Walter Lenschen, con lo scopo di offrire un luogo dove discutere tanto di problemi teorici quanto di questioni pratiche inerenti la traduzione, il Centre de Traduction Littéraire dell’Università di Losanna. La città e il polo universitario pensano al sostentamento dell’istituzione che è stata creata con i fondi versati dalla Pro Helvetia. Le attività di questo centro di traduzione sono di varia natura: oltre a seminari, conferenze e progetti di ricerca come quello sulla traduzione all’interno della Svizzera di Alena Vacek di cui si è parlato in precedenza, l’istituto organizza letture pubbliche di testi di tutte le lingue, spesso in occasione dell’apparizione di una versione in lingua francese: nel 1999 la nuova direttrice del Centre de Traduction Littéraire, Irene Weber Henking, docente di traduttologia all’Università di Losanna, ha avviato queste letture-confronto, offrendo al pubblico l’opportunità di conoscere scrittori di ogni parte del mondo. L’istituzione provvede, inoltre, a dare alle stampe tutta una serie di brochures, testi letterari tradotti e saggi legati alle tematiche traduttologiche senza, tuttavia, mettersi al servizio di case editrici o mostrare l’intenzione di sostituirsi a esse. Offre soggiorni di lavoro di diverse settimane e opportunità di confronto a traduttori e traduttrici letterarie di tutto il mondo il Collegio dei traduttori Looren di Wernetshausen, inaugurato nel settembre del 2005; prima istituzione al mondo di questo genere, il centro vuole essere innanzitutto un luogo di lavoro e un’opportunità di concentrazione assoluta per i traduttori e, in secondo luogo, con l’organizzazione di letture pubbliche e convegni, un luogo di formazione e una possibilità di raggiungere un pubblico più ampio. Espressione degli scambi culturali che stanno caratterizzando la Svizzera in questi ultimi anni è la rivista letteraria Viceversa Letteratura, pubblicata una volta l’anno in italiano, francese e tedesco, nata nel 2007 sulle ceneri della francofona Feuxcroisés. Ognuno dei tre volumi di Viceversa Letteratura ha l’obiettivo di presentare ai lettori quegli scrittori che la differenza tra le lingue preclude loro o

74  allontana. I reportages dedicati agli autori sono, pertanto, tradotti e pubblicati nella versione cartacea, ma esiste anche una edizione online, con qualche integrazione. La sequela di dati forniti in questi paragrafi dimostra un costante incremento, nel XX secolo, di traduzioni e di iniziative a favore della trasposizione in altre lingue all’interno della Svizzera; questo dato di fatto può sembrare, però, un paradosso — uno dei tanti elvetici — se si considera che i massimi sforzi da parte delle istituzioni confederali per volgere nelle varie lingue nazionali le opere principali della produzione del Paese, si stanno compiendo proprio in un’era in cui nella critica letteraria si vanno affermando sempre più concetti quali “letteratura europea” o “letteratura universale”, un’epoca, quindi, di cosmopolitismo umanistico in cui il lavoro del critico sembra esclusivamente quello di rintracciare un elemento univoco in un insieme di discordanze e di creare una fusione di varie realtà letterarie in un unicuum. Il teorizzare sulla letteratura universale conduce a facili sentenze sulle virtù e le debolezze delle culture; si dibatte e si giudica spesso su chi debba occupare i posti d’onore nel dominio universale del gusto letterario e la Svizzera non può certo aspirare a quelle posizioni; per emergere, dunque, la letteratura elvetica non deve tanto cercare di rintracciare, come spesso ha fatto erroneamente in passato, inesistenti affinità artistico-linguistiche o appartenenze a determinate tradizioni e scuole letterarie — poiché per queste risultano più rilevanti i legami con le relative aree linguistiche germanofone, francofone e italofone — ma, bensì, analogie rapportabili alla convivenza in uno spazio vitale comune, alla lunga tradizione democratica, alla coesistenza in una realtà plurilingue, alla percezione piuttosto simile di quel che arriva dall’esterno, alle radici politiche e ad una mentalità analoga nonostante le differenze linguistiche. L’atteggiamento elvetico è paradossale, quindi, solo in apparenza: le iniziative per incrementare la conoscenza delle opere degli autori svizzeri, la volontà — più forte che mai negli ultimi anni — di consolidare il concetto di letteratura nazionale sono le uniche forme possibili, a ben riflettere, per emergere, per fare in modo che gli intellettuali svizzeri non siano semplici puntini persi nell’universo letterario europeo o internazionale.

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CAPITOLO SECONDO IL RAPPORTO TRA PATRIA E INTELLETTUALI



CAPITOLO SECONDO

IL RAPPORTO TRA PATRIA E INTELLETTUALI

2.1 GLI INTELLETTUALI E LA MADREPATRIA

Il patriottismo elvetico affonda le sue radici nel Settecento come reazione dei Cantoni cattolici all’Illuminismo; le idee di libertà ed eguaglianza sociale e, in particolar modo, l’esigenza di uno stato laico, che sono alla base del movimento rivoluzionario sviluppatosi in Francia, si oppongono al modello del ‘buon cattolico’ imposto dalla Chiesa. La risposta degli intellettuali, in un’istanza che si potrebbe definire politico-culturale, persuasi che la ragione e l’amore verso la vecchia patria avrebbero eliminato ogni dissapore, ogni divergenza possibile tra i cittadini del piccolo stato, consiste nella volontà di rinnovare la vita e la cultura degli svizzeri rafforzando il loro senso patriottico. Questo ‘elvetismo’, tale intenzione di salvaguardare le virtù svizzere, è il primo stimolo, nel 1760, per la creazione della Helvetische Gesellschaft, una sorta di accademia riservata a cittadini illustri, fondata da ISAAK ISELIN, il quale invita a Basilea, in occasione del terzo centenario dell’università locale, alcuni letterati, tra cui SALOMON GESSNER — che con i suoi idilli era diventato famoso in tutta Europa dove, del resto, il genere, che lo svizzero riprende dalla tradizione classica, in particolare da Teocrito, trova già terreno fertile — e SALOMON

HIRZEL, allo scopo di illustrare il suo progetto: si prevedono incontri periodici, nel corso dei quali le personalità più illuminate e sensibili della Svizzera possono discutere liberamente i problemi della nazione, proporre azioni per sensibilizzare il popolo ai dibattiti politici, avviare una riforma della società nazionale e stimolare il culto della storia. Il proposito ha diversi riscontri positivi, è condiviso da Gessner e Hirzel e quindi sposato, nel frattempo, anche da JOHANN HEINRICH

SCHINZ, giovane e brillante magistrato zurighese. Il progetto della creazione di una Helvetische Gesellschaft viene affinato attraverso uno scambio di missive fra Iselin, Hirzel e un magistrato lucernese,

79  JOSEPH ANTON FELIX VON BALTHASAR, amante della storia e scrittore politico, figlio di URS VON BALTHASAR, illustre autore di opere patriottiche. Si giunge così, il 3 maggio 1761, all’assemblea conclusiva che ha luogo nel piccolo centro termale di Schinznach, cittadina sull’Aare a nord di Lenzburg, cantone di Argovia, luogo eletto a sede degli incontri dell’associazione. A Schinznach, Iselin arriva in compagnia del medico bernese, studioso poliedrico, JOHANN GEORG ZIMMERMANN ed è, in seguito, raggiunto dal Capitano

Keller, patrizio bernese, e dai giovani baroni VON BEROLDINGEN, originari del cantone di Uri, figli del responsabile dell’amministrazione dell’Abbazia di San Gallo, mentre, a causa di difficoltà meteorologiche, restano impossibilitate a raggiungere la sede dello storico incontro altre personalità desiderose di prendervi parte, come Joseph Anton Felix von Balthasar, colui, cioè, che ha proposto il nome Helvetische Gesellschaft per l’associazione. La società riesce, nel corso degli anni, ad attirare tutte le più grandi personalità dell’intellighenzia svizzera, come, per esempio, il pedagogo JOHANN HEINRICH PESTALOZZI, entrato nella Società Elvetica nel 1774, e promuove attività, come la composizione di canti popolari, volte all’esaltazione delle gesta patriottiche degli eroi nazionali. Nel corso delle riunioni, i principali colloqui avvengono intorno a opere incentrate sulla realtà elvetica — JOHANN KASPAR LAVATER, ad esempio, presenta la sua raccolta di canti svizzeri — o di storia politica come il lavoro dell’illustre studioso sciaffusano JOHANNES VON MÜLLER, Geschichte der Schweizerischen Eidgenossenschaft (1824-1853) da cui desume le informazioni necessarie per il suo Wilhelm Tell (1804). Iselin non perde occasione, inoltre, per esprimere i princìpi fondamentali del suo patriottismo e il suo ideale spirito di fratellanza che non conosce confini. Nel 1848, con l’emanazione della Costituzione Elvetica e la trasformazione del piccolo stato dell’Europa centrale da “Confederazione di Stati” a “Stato Federale”, la Helvetische Gesellschaft, ritenendo di aver raggiunto con il federalismo il principale obiettivo che si era prefissata al momento della sua creazione, cessa la propria attività.1  1 Per un approfondimento in merito alla Helvetische Gesellschaft non si può prescindere dal volume di MARCO PONCIONI e GENEVIÈVE BERNARD, La Svizzera e la Seconda Guerra Mondiale, Berna, NSE-F. Nyffenegger, 1991; ulteriori testi utili sono: HANS NABHOLZ, Die Helvetische

80  Ma nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, considerando le divergenze di opinione tra gli svizzeri romandi, filofrancesi, e quelli germanofoni, filotedeschi, che minacciano la pace all’interno dei confini elvetici, viene creata, sulla scia dell’associazione voluta da Iselin, la Neue Helvetische Gesellschaft — tutt’oggi ancora attiva e rafforzata dalla fusione, avvenuta nel 2007, con i patriottici di Rencontres Suisses-Treffpunkt Schweiz — con lo scopo di favorire il dialogo tra le diverse componenti della popolazione elvetica e di stimolare la cittadinanza alla discussione delle problematiche interne alla Svizzera, contribuendo a fornire valide soluzioni.2 Con l’avvento del Nazionalsocialismo in Germania e del Fascismo in Italia, si sente ancora più forte in Svizzera la necessità di operare sforzi difensivi non solo in campo militare, ma anche nella sfera economica e in quella culturale. A partire dal 1933 uomini politici, intellettuali e giornalisti chiedono a gran voce misure per rafforzare i valori culturali del piccolo stato con l’obiettivo di creare una coesione generale in grado di superare qualsiasi ostilità interna. La cosiddetta Geistige Landesverteidigung trova, nel dicembre del 1938, una formulazione ufficiale del governo, redatta dal consigliere federale PHILIPP ETTER, nella quale si invita ad accantonare razzismo, nazionalismo sciovinista e dittatura, a favore dell’esaltazione dei valori spirituali elvetici primordiali: il pluralismo culturale, il federalismo, il rispetto per la dignità e la libertà di ogni essere umano. Salvaguardare tali valori deve essere il compito principale di ogni buon cittadino svizzero.3

 Gesellschaft 1761-1848, Zürich, Atlantis Verlag, 1961; ULRICH IM HOF e FRANÇOIS DE CAPITANI, Die Helvetische Gesellschaft: Spätaufklärung und Vorrevolution in der Schweiz, Frauenfeld, Huber, 1983. 2 Maggiori informazioni sullo statuto e sulle attività della Neue Helvetische Gesellschaft sono reperibili sul sito http://www.dialoguesuisse.ch/joomla/ (Ultima visita: 12 febbraio 2011). 3 Per un approfondimento sulla Geistige Landesverteidigung si veda: PHILIPP ETTER, Geistige Landesverteidigung, Immensee, Vortrag, 1937; « Messaggio del Consiglio fed. all’Assemblea fed. concernente i mezzi per conservare e far conoscere il patrimonio spirituale della Conf. (del 9 dicembre 1938)», in FF, XXI, vol. 1, 1938, pp. 785-833; GIUSEPPE LEPORI, « La difesa spirituale del paese, nei suoi presuppositi e nei suoi metodi», in Civitas, 7, 1952, pp. 364-373; OSKAR FELIX FRITSCHI, Geistige Landesverteidigung während des Zweiten Weltkrieges, Dietikon-Zürich, Stocker-Schmid, 1972; ANDRÉ LASSERRE, La Suisse des années sombres, Lausanne, Payot, 1989; IGOR PERRIG, Geistige Landesverteidigung im Kalten Krieg, Brig, Selbstverlag, 1993; THEO MÄUSLI, Jazz und Geistige Landesverteidigung, Zürich, Chronos, 1995; JOSEF MOOSER, « Die “Geistige Landesverteidigung” in den 1930er Jahren», in RSS, (47) 1997, pp. 685-708; MATTIA PIATTINI, La Radio della Svizzera italiana al tempo della “difesa spirituale” (1937-1945),

81  Negli anni Sessanta la Geistige Landesverteidigung viene aspramente criticata poiché vista come mero strumento di indottrinamento ideologico e disciplinamento sociale; gli intellettuali della nuova generazione valutano il sentimento nazionalista come « falsch und verantwortungslos »4 e vi contrappongono « ein kritische Patriotismus »5, un sentimento che si profila e si sostanzia nell’autentica rivolta contro la böse Schweiz, la cattiva Svizzera, il paese dei miti degenerati in riti e usati in maniera strumentale: « il mito dello splendido isolamento e dell’isola felice non esiste più. Ci si inganna, o per meglio dire ci si autoinganna, se si continua più o meno consapevolmente a coltivarlo ».6 Gli intellettuali elvetici non percepiscono più la Svizzera come luogo ameno, fonte d’ispirazione artistica, bensì come un posto che non ha nulla da offrire, una prigione.

 Bellinzona, Coscienza Svizzera, 2000; ROLF LÖFFLER, « ”Zivilverteidigung” — die Entstehungsgeschichte des “roten Büchleins”», in RSS, (54) 2004, pp. 173-187. 4 PETER VON MATT, Die tintenblauen Eidgenossen. Über die literarische und politische Schweiz, München-Wien, Carl Hanser Verlag, 2001, p. 11. 5 Ivi, p. 10. 6 MATTIA MANTOVANI, I confederati dell’inchiostro e la fine dei miti, in PETER VON MATT, La Svizzera degli scrittori, Locarno, Armando Dadò Editore, 2008, p. 10.

82  1 2.2 LA RISTRETTEZZA ELVETICA E LE SUE CONSEGUENZE

La Svizzera ci è sempre stata presentata da grandi intellettuali, italiani e tedeschi per la maggior parte, rifugiatisi nella Confederazione, come un’oasi di libertà dove poter esprimere le proprie concezioni senza il timore di incorrere in censure che in Patria sarebbero state invece inevitabili. Così Thomas Mann ha trovato, prima che negli Stati Uniti, in Svizzera, a partire dal 1934, il coraggio di schierarsi apertamente contro il Nazismo, Robert Musil si è rifugiato in territorio elvetico nel 1938 dopo che l’Austria era stata annessa alla Germania e considerando il pericolo che la moglie ebrea avrebbe corso rimanendo sul suolo nazista e, tra gli italiani, si possono citare l’editore Luigi Einaudi — che ha lasciato tra l’altro una testimonianza dell’ospitalità elvetica in una lettera tuttora conservata alla Zentralbibliothek di Zurigo in cui afferma: « Nella certezza che l’accoglienza che mi sarà riservata, così come agli altri rifugiati italiani dell’ora presente, sarà la stessa di quella che è stata riservata a tutti gli italiani di buona fede […] vi ringrazio di tutto quello che è stato già fatto per me e per i miei compatrioti rifugiati »2 — e che dice: « in Svizzera sono diventato uno scrittore, ma, quello che più vale, sono diventato un uomo ».3 Anche nelle opere letterarie di autori non appartenenti alla realtà della Confederazione, il territorio elvetico è spesso visto come spazio dove vivere in libertà. Patrick Modiano, ad esempio, porta fino in Svizzera la costante speranza di dimenticare che caratterizza gran parte dei personaggi delle sue opere. In Livret de famille (1981) il protagonista, desideroso di liberarsi « d’une mémoire empoisonnée »4 si rifugia proprio nel piccolo paese dell’Europa centrale, un territorio « qui n’avait pas connu les tourments ni les souffrances du siècle ».5 In Svizzera, l’eroe di Modiano ritrova apparentemente, in un primo momento, la serenità: « J’étais heureux. Je n’avais plus de mémoire. Mon amnésie  1 Questo paragrafo è un approfondimento del mio saggio dal titolo “La Svizzera, una prigione?” Reazioni letterarie e pittoriche alla ristrettezza elvetica, apparso sul numero 1 della rivista online dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura Between. 2 Si veda il sito http://www.rose.uzh.ch/studium/faecher/ital/jubilaeum/introduzione/italiani.html (Ultima visita: 14 luglio 2013). 3 IGNAZIO SILONE e LAMBERTO MERCURI, Memoriale dal carcere svizzero, Cosenza, Lerici, 1979, p. 10. 4 PATRICK MODIANO, Livret de famille, Paris, Gallimard, 1981, p. 116. 5 Ibidem.

83  s’épaississait de jour en jour comme une peau qui se durcit. Plus de passé. Plus d’avenir. Le temps s’arrêterait et tout finirait par se confondre dans la brume bleue du lac Léman. J’avais atteint cet état que j’appelais ‘la Suisse du cœur’ ».6 La sensazione di beatitudine ha però breve durata; il protagonista sente una voce alla radio e crede di riconoscervi il tono di un certo Robert Gerbauld, il commissario della polizia della question juive che, nel marzo del 1942, vide fugacemente quando, durante una retata, fece arrestare e deportare suo padre: « de nouveau, le passé me submergeait ».7 Il tempo, però, in Svizzera si ferma e tutto cancella; i dolori del passato, il male dell’anima, a poco a poco si affievoliscono fino a scomparire quasi del tutto8: « la mémoire elle-même est rongée par un acide et il ne reste plus de tous les cris de souffrance et de tous les visages horrifiés du passé que des appels de plus en plus sourds, et des contours vagues. Suisse du cœur ».9 La costante necessità di rievocare il passato per esorcizzarlo conduce in Svizzera anche il tedesco Bernhard Schlink per il romanzo Die Heimkehr (2006): il protagonista, Peter, all’età di otto anni trascorre, come d’abitudine, le vacanze estive nella Confederazione dai nonni paterni, correttori di bozze di romanzi dozzinali, in una villa sulle rive di un lago. Il paesaggio elvetico, lo si dice sin dall’incipit, assicura una sensazione di libertà e indipendenza: « Ich genoß die Bahnfahrten: das Vorüberziehen der Landschaften und Orte, die Geborgenheit des Abteils, die Selbstständigkeit ».10 Avere radici elvetiche per il piccolo protagonista è addirittura motivo di orgoglio: « Ich war stolz, ein halber Schweizer zu sein ».11 Attraverso i ricordi degli avi conosce suo padre, morto in guerra prima che lui nascesse. Tra i fogli delle bozze che passano nelle mani degli anziani parenti, sul cui retro Peter ha il permesso di disegnare, il piccolo protagonista legge la storia di un soldato tedesco che dalla Siberia torna in patria in cerca della moglie. La donna però si è rifatta una vita, ha un nuovo uomo accanto, dal quale ha avuto un figlio. Al manoscritto in casa dei nonni manca la  6 Ivi, p. 117. 7 Ibidem. 8 Sulla relazione tra le opere di Modiano e la Svizzera si veda: FRANCK SALAÜN, “La Suisse du cœur”, in JULES BEDNER, Patrick Modiano, Amsterdam-Atlanta, Editions Rodopi B.V., 1993, pp. 15-42; ANNELISE SCHULTE NORDHOLT, Perec, Modiano, Raczymow: la génération d’après et la mémoire de la shoah, Amsterdam-New York, Editions Rodopi B.V., 2008, pp. 187-212. 9 Ivi, p. 144. 10 BERNHARD SCHLINK, Die Heimkehr, Zürich, Diogenes, 2006, p. 5. 11 Ivi, p. 6.

84  parte finale; il destino dei tre personaggi resta in sospeso e rintracciarlo diventa un’ossessione per Peter. Perfino Patricia Highsmith, scrittrice americana vissuta in Ticino negli ultimi quindici anni della sua esistenza, autrice di storie truculente con tragici epiloghi, in un racconto breve ambientato in Svizzera, scritto per il quotidiano Le Monde, A long way from hell, si allontana dalle abituali tematiche forti e regala al protagonista, il contadino ticinese Luigi, un inatteso happy ending. Il Ticino rurale affascina la scrittrice texana; il paesaggio elvetico appare, anche agli occhi della Highsmith, troppo puro per sporcarlo di sangue. La Svizzera, quindi, come oasi di libertà per rifugiati e letterati stranieri. È lecito domandarsi se anche gli intellettuali nati nella Confederazione Elvetica abbiano lo stesso punto di vista. Già a partire dai titoli di alcune opere a carattere saggistico, in particolare di autori di lingua tedesca, incentrate sul rapporto tra

Patria e intellettuali — Unbehagen im Kleinstaat (1963) di KARL SCHMID, Diskurs in der Enge (1970) di PAUL NIZON, Die Schweiz: ein Gefängnis (1990) di

FRIEDRICH DÜRRENMATT — si capisce che lo spazio elvetico non viene concepito propriamente come idilliaco. Particolarmente aspra la disamina della situazione svizzera realizzata da Friedrich Dürrenmatt nel novembre del 1990, in occasione della visita in territorio elvetico, per il conferimento del premio Gottlieb Duttweiler, di Václav Havel, il grande scrittore, drammaturgo e uomo politico, ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo presidente della Repubblica Ceca. Nella sua dissertazione l’autore di opere di grande successo come Der Richter und sein Henker e Die Physiker paragona la Svizzera a una prigione, ben diversa da quella in cui Havel è stato per diversi anni rinchiuso, un carcere nel quale gli stessi elvetici si sono volontariamente rifugiati perché soltanto lì si sentono al riparo dalle aggressioni.12 Dürrenmatt afferma: « Die Schweizer fühlen sich frei, freier als alle andern Menschen, frei als Gefangene im Gefängnis ihrer Neutralität ».13 È la neutralità quindi il problema; proprio quella equanimità tutta svizzera, sinonimo di libertà, in virtù della quale Mann, Musil e Silone hanno potuto portare avanti le loro  12 Cfr. FRIEDRICH DÜRRENMATT, Kants Hoffnung. Zwei politische Reden, Zürich, Diogenes, 1991, p. 15. 13 Ibidem.

85  battaglie ideologiche. La neutralità è motivo di discussione, di sofferenza, ha una connotazione ambivalente: rende liberi perché sicuri di non essere aggrediti e coinvolti nei conflitti del resto del mondo ma, allo stesso tempo, rende prigionieri perché limita la libertà di agire, la possibilità di scendere in campo attivamente. Il problema di questa prigione è dimostrare che essa deve essere vissuta come un baluardo della libertà.14 Continua Dürrenmatt: Von außen ist doch gesehen ein Gefängnis ein Gefängnis und seine Insassen Gefangene, und wer gefangen ist, ist nicht frei: Als frei gelten für die Außenwelt nur die Wärter, denn wären diese nicht frei, wären sie ja Gefangene. Um diesen Widerspruch zu lösen, führten die Gefangenen die allgemeine Wärterpflicht ein: Jeder Gefangene beweist, indem er sein eigener Wärter ist, seine Freiheit.15

Quasi vent’anni dopo l’illuminante analisi di Dürrenmatt, la situazione della Confederazione non appare molto diversa; gli svizzeri continuano a essere contemporaneamente carcerieri, carcerati e guardie penitenziarie della dorata prigione dell’ipocrisia: basti pensare, per meglio comprendere la situazione, a quanto avvenuto nel gennaio del 2010 attorno alla pubblicazione del romanzo postumo di JACQUES CHESSEX Le dernier crâne de M. de Sade. L’opera, provocatoria e volutamente scandalosa, narra gli ultimi mesi di vita — dal maggio al dicembre del 1814 — che Donatien-Alphonse François de Sade, all’epoca settantaquattrenne, trascorre nel manicomio di Charenton, dove è ricoverato già da undici anni. Seppur obeso e gravemente malato, il marchese de Sade fino all’ultimo istante di vita non riesce a placare la sua « frénésie anale »16 e non vede spegnersi le sue perversioni sessuali che riesce a realizzare con l’aiuto di Madeleine Leclerc, una ragazzina di quindici anni che « a fait sa première visite au marquis à l’âge de douze ans ».17 Come in altre opere di Chessex, quali ad esempio La confession du pasteur Burg (1967) o Une vie nouvelle (2010), l’ossessione per il sesso e il pensiero angosciante della morte si incrociano con la materia religiosa (« J’écris des romans parce qu’il y a Dieu le Père. Ou son absence »18 afferma il narratore romando):  14 Cfr. ivi, pp. 15-16. 15 Ibidem. 16 JACQUES CHESSEX, Le dernier crâne de M. de Sade, Paris, Grasset, 2009, p. 57. 17 Ivi, p. 38. 18 JACQUES CHESSEX, Le romancier et son personnage, in ID., De l’encre et du papier, Lausanne, La Bibliothèque des arts, 2001, p. 94.

86  L’association constante du sacré et du sexe féminin (considéré dans notre culture comme le profane par excellence quand il n’est pas tenu pour la source de tout mal) peut choquer de nombreux lecteurs. La culture occidentale n’arrive pas à tenir l’amour physique pour une source d’élévation spirituelle, union qui est, en revanche, au cœur de la plupart des religions orientales. Mais Jacques Chessex se réfère à la tradition chrétienne aussi bien dans son langage que dans ses métaphores, et il prend intentionnellement un certain nombre de ses symboles au pied de la lettre. Il illustre dans la plus grande partie de son œuvre la fusion entre l’amour physique et le sentiment religieux.19

Anche Sade descritto da Chessex finisce per turbare i lettori a causa della stessa associazione costante — qui ancora più provocatoria che in altre opere — tra sesso e religione di cui parla Anne Marie Jaton: il marchese fa dei piaceri estremi del sesso il suo unico credo, non ha fede in Dio, non vuole croci piantate sulla sua tomba con la stessa convinzione con cui si oppone all’idea che il suo corpo possa venir dissezionato una volta esalato l’ultimo respiro, e non perde occasione di pronunziare espressioni blasfeme, non ravvedendosi neanche negli attimi finali della sua esistenza: « Il criait “crèvedieu”. Et “mort à Dieu” ».20 Per la Svizzera perbenista è davvero troppo; si ritiene ci siano gli estremi per brandire l’articolo 197 comma 3 del codice penale elvetico che vieta la circolazione di materiale che verte « su atti sessuali con fanciulli, animali, escrementi umani o atti violenti »21 e permettere la vendita dell’ultimo romanzo di uno dei più grandi scrittori della letteratura romanda solo ed esclusivamente sigillato con del cellophane e con l’avvertenza reservé aux adultes sulla copertina. Ma ci si deve forse chiedere se sia giusto censurare quello che, malgrado esplicite narrazioni a sfondo sessuale ed espressioni poco ortodosse, potrebbe pur sempre essere per gli studenti romandi un modello di prosa bella e diretta arricchita da descrizioni scrupolose, soprattutto se si considera che in internet sono a disposizione di tutti i cittadini immagini che lasciano molto meno spazio alla fantasia rispetto alle parole di Chessex. E poi si può far fatica a comprendere il motivo per cui si debba applicare questa misura di restrizione soltanto per Le dernier crâne de M. de Sade mentre le opere dello stesso ‘Divin Marchese’,

 19 ANNE MARIE JATON, Jacques Chessex. La lumière de l’obscur, Genève, Éditions Zoé, 2001, p. 124. 20 JACQUES CHESSEX, Le dernier crâne de M. de Sade, cit., p. 95. 21 L’intero articolo del codice penale elvetico è consultabile sul sito internet http://www.admin.ch/ch/i/rs/311_0/a197.html (Ultima visita: 14 luglio 2013).

87  intrise di erotismo, vengono vendute liberamente; sarebbe quindi lecito interrogarsi sul perché, in passato, lo stesso provvedimento precauzionale non sia stato adottato, limitandoci alle opere di Chessex stesso, per L’Ogre, premio Goncourt 1973, e Le vampire de Ropraz (2007), lavori intrisi di violenza, morte e pericolosa superstizione, piuttosto che per Confession du pasteur Burg (1967) e Carabas (1971) che mostrano la sua ossessione per il sesso. L’unica certezza è che tanta spregiudicatezza contenuta in Le dernier crâne de M. de Sade al cospetto del rinnovato perbenismo elvetico non fa altro che creare un gran bailamme e dar manforte al battage pubblicitario. Il dubbio che questo perbenismo svizzero non sia altro che mera ipocrisia è ancora una volta molto forte e nella Confederazione tutti sembrano riconoscerlo, qualche giornalista e intellettuale di spicco di tanto in tanto osa mormorarlo ma si preferisce non minare l’ordine e la stabilità: la prigione, in questo modo, è salva. Lo svizzero, ancora una volta, ha quindi la facoltà di essere contemporaneamente, proprio come afferma Dürrenmatt, libero, prigioniero e carceriere e la prigione non ha bisogno di muri perché sono i prigionieri a vigilare su se stessi. Cionostante non tutto il mondo intellettuale elvetico appare essere d’accordo con la posizione espressa dallo scrittore di Konolfingen: THOMAS HÜRLIMANN, ad esempio, nel suo saggio Neutralien contenuto nella raccolta Das Holztheater. Geschichten und Gedanken am Rand (1997), pur non assumendo una posizione precisa e univoca riguardo al discorso di Dürrenmatt, sembra non sposare pienamente la metafora sulla situazione elvetica: « Zum einen, denke ich, hat Dürrenmatt recht, zum andern nicht ».22 L’autore originario di Zug approfondisce il suo pensiero affermando che quando si trova a Berlino, quindi al di fuori dei confini elvetici, non avverte la neutralità del suo Paese come una prigione, bensì come un’opportunità per sentirsi libero. È al rientro in Svizzera che Hürlimann ha la sensazione di trovarsi prigioniero in quella che agli occhi dei cittadini di tutto il mondo può sembrare un’oasi di libertà: « Hier […] erfahre ich das gutschweizerische Abwägen nicht mehr als Qualität, nein, da erscheint mir das

 22 THOMAS HÜRLIMANN, Neutralien, in ID., Das Holztheater. Geschichten und Gedanken am Rand. Zürich, Ammann, 1997, p. 46.

88  Vermeiden von Standpunkten, das Verwischen von Gegensätzen als eine perfekt funktionierende Demokratie-Maschine ».23 Nello stesso scritto Hürlimann arriva ad affermare che « kaum ein Politiker hat eine Meinung — noch schlimmer: die meisten haben nicht einmal keine! ».24 La Svizzera è prigioniera della sua macchina burocratica, i politici non devono pensare a nulla, tutto viene regolato dalle leggi che esistono e che servono a mandare avanti il paese; la burocrazia elvetica è un meccanismo ben oliato, è come gli ingranaggi perfetti di un orologio, uno di quelli che il paese produce e di cui va fiero. E si pensi però che il piccolo stato dell’Europa centrale è diventato ormai un’attrazione mondiale al punto che fa gola a molti diventare prigionieri di questa realtà elvetica e a volte vi si riesce se si possiedono i mezzi finanziari o le conoscenze per farlo; Dürrenmatt asserisce: « So dass von außen solche ins Gefängnis gelassen werden müssen, die, bloss um Geld zu verdienen, das Gefängnis renovieren, restaurieren, umbauen und in Gang halten, auf die wiederum jene Gefangenen, die zwar auch Geld verdienen, aber frei sind, wie auf Gefangene hinunterblicken, die nicht frei sind ».25 Dürrenmatt si mostra successivamente critico anche nei confronti dei festeggiamenti che negli anni Novanta lo stato elvetico si appresta a realizzare per i settecento anni della Confederazione; l’autore di Das Versprechen etichetta così l’evento: « Die Gefängnisverwaltung sich anschickt, die angebliche Gefängnisgründung vor siebenhundert Jahren zu feiern, wenn auch damals das Gefängnis kein Gefängnis war, sondern ein gefürchtetes Raubnest ».26 Ma non è chiaro cosa abbiano da festeggiare gli svizzeri, se la prigionia o la libertà. Non si riesce a comprendere se la Svizzera assomigli più a una prigione o a un’oasi di libertà. Il tentativo di risposta di Dürrenmatt è assai criptico: Feiern wir das Gefängnis, fühlen sich die Gefangenen gefangen, und feiern wir die Freiheit, so wird das Gefängnis überflüssig. Weil wir aber nicht ohne Gefängnis zu leben wagen, werden wir wieder einmal unsere Unabhängigkeit feiern, denn im unabhängigen Gefängnis unserer Neutralität ist es von außen für niemand auszumachen, ob wir gefangen oder frei sind.27

 23 Ivi, p. 47. 24 Ibidem. 25 FRIEDRICH DÜRRENMATT, op. cit., p. 17. 26 Ivi, pp. 18-19. 27 Ivi, p. 19.

89  Dürrenmatt presenta quindi la Svizzera come uno stato artificiale, pratico e funzionale ma un po’ noioso: So ist denn das Gefängnis in Verruf geraten. Es zweifelt an sich selber. Die Gefängnisverwaltung, die alles gesetzlich zu regeln versucht, behauptet, das Gefängnis befinde sich in keiner Krise, die Gefangenen seien frei, insofern sie echte gefängnisverwaltungstreue Gefangene seien, während viele Gefangene der Meinung sind, das Gefängnis befinde sich in keiner Krise, weil die Gefangenen nicht frei seien, sondern Gefangene.28

Paradossalmente il problema più grande della Svizzera secondo Dürrenmatt è la condizione di pace a cui porta lo stato di neutralità: « Der Friede droht gefährlicher zu werden als der Krieg. Ein grausamer, aber kein zynischer Satz […] Nicht der Krieg, der Friede ist der Vater aller Dinge, der Krieg entsteht aus dem nicht bewältigten Frieden. Der Friede ist das Problem, das wir zu lösen haben ».29 Dürrenmatt, artista a tutto tondo, anche nelle sue opere pittoriche fa emergere il senso di ristrettezza, se è vero, come afferma, che « meine Zeichnungen sind nicht Nebenarbeiten zu meinen literarischen Werken, sondern die gezeichneten und gemalten Schlachtfelder, auf denen sich meine schriftstellerischen Kämpfe, Abenteuer, Experimente und Niederlagen abspielen ».30 Emblematico è il caso del Minotaurus: piuttosto noto è il racconto del 1985 dello scrittore di Konolfingen, caratterizzato da monologhi dal sapore kafkiano, ma pressoché sconosciuto è il dipinto realizzato nel 1962 (figura 1). Dürrenmatt si sente, come il Minotauro disonorato che ha creato, rinchiuso in un labirinto — la Svizzera dove tutto sembra sempre uguale proprio come le mura di un labirinto — a pagare una colpa non sua: la disgrazia per lui è quella di essere nato in Svizzera così come il Minotauro sconta l’ardente desiderio della madre di volersi accoppiare con un toro inviato da Poseidone al Re di Creta Minosse. Il Minotauro rappresenta, inoltre, la parte istintiva e irrazionale della mente umana, quel lato impulsivo e illogico che poco si confà all’essere svizzero e che invece ha spesso dominato in Dürrenmatt, scandalizzando i connazionali benpensanti; la sua arte è stata, dunque, profanata allo stesso modo in cui è stato disonorato il Minotauro  28 Ivi, p. 18. 29 Ivi, pp. 20-21. 30 FRIEDRICH DÜRRENMATT citato secondo PETER RUSTERHOLZ, Paradox und Karikatur als Grundformen der Darstellung, in EUGENIO SPEDICATO, Friedrich Dürrenmatt e l’esperienza della paradossalità, Pisa, ETS, 2004, p. 139.

90  nell’immagine: i connazionali guardano Dürrenmatt dall’alto delle mura del labirinto e si prendono gioco di lui.

91 

Figura 1 Friedrich Dürrenmatt “Il Minotauro disonorato” (1962)

Che la figura della mitologia greca rappresenti la parte ‘mostruosa’, o semplicemente sconosciuta — anche a se stessi — di ogni essere umano, e che è un elemento che ben si può riferire alla realtà elvetica, appare essere confermato dai versi della poesia Le Minotaure intérieur (2000) di SYLVIANE DUPUIS: L’homme incliné sur son abîme que sait-il que sait-il du péril qui grandit dans la cage de ses os

au milieu de sa peur: pulsation d’un secret qui parle.30

L’artista è in gabbia, vede frenata la propria ambizione di conoscere il mondo che si può far finta di non dichiarare e di non ascoltare ma non si riesce, tuttavia, a nascondere; è « un secret qui parle ». Tornando a Dürrenmatt, potrebbe esserci un’altra connessione che rende il minotauro una figura tanto cara all’artista elvetico. Il personaggio per metà uomo e per metà toro compare anche nella Divina Commedia, nel XII canto dell’Inferno: è il guardiano del girone dei violenti contro il prossimo, che sbarra la strada a Dante e Virgilio. Questo particolare può essere un altro collegamento con la realtà elvetica: la Svizzera, del resto, con la sua neutralità, si pone in parte proprio nella posizione di giudice e guardiano dei violenti che agiscono al di là dei confini nazionali; allo stesso modo giudica ma non agisce. Il legame con la madrepatria è opprimente ma l’intellettuale stesso sembra non riuscire a recidere il filo che lo unisce a essa: « Il y a entre mon pays et moi des liens obscurs que les années ne parviennent ni à rompre ni à éclairer »31 scrive

ALEXANDRE VOISARD, poeta che si fa depositario delle tradizioni elvetiche e, in particolare, di quelle di una realtà ancora più circoscritta nel Giura, Ajoie, il lembo di terra confinante con il territorio francese che talvolta lo scrittore nomina e che sembra volersi celare « derrière la lune ».32

 30 SYLVIANE DUPUIS, Le Minotaure intérieur (2000), in ID., Géométrie de l’illimité, Genève, La Dogana, 2000, p. 48. 31 ALEXANDRE VOISARD, Petite marche de nuit, in ID., Liberté à l’aube, nuova edizione, Vevey, Bertil Galland, 1978, p. 75. 32 ID., Liberté à l’aube, cit., pp. 63-72.

93  I versi di Voisard, in virtù di questo rapporto di dipendenza — anche dal punto di vista artistico, se consideriamo che i territori elvetici sembrano l’unica fonte di ispirazione per il poeta francofono —, appaiono come eccessivamente regionalisti e la relazione tra l’intellettuale e il paese, per quanto appassionata e passionale, più che frutto di vivo interesse, viene percepita dal lettore come qualcosa di problematico. Voisard nota: « si je savais pourquoi le Jura m’est nécessaire, peut-être pourrais-je écrire ailleurs »33; con questa osservazione sottolinea semplicemente la realtà, il fatto che non ha mai potuto scrivere altrove ma avrebbe potuto o voluto farlo se solo si fosse sentito libero, se solo la Svizzera, ogni tanto, avesse aperto le porte di quella prigione invisibile. L’essenza dell’opera di Voisard è da rintracciare, dunque, nel rapporto con il suo paese, nella dinamica di tale relazione, nella sua ricchezza e complessità, che l’autore prova di tanto in tanto a camuffare manifestando la voglia di vagabondare, errare di terra in terra. Sempre evidente nei versi del romando è, però, il desiderio e l’impazienza di possedere il suo territorio e di appartenere alla sua Svizzera rurale; quella di Voisard appare una fede esistenziale, linguistica e letteraria verso il territorio natio, un rapporto che è ispirazione, simbolo astratto di un desiderio, di una nostalgia ma anche di un’angoscia. Fuori dalla Svizzera il poeta elvetico è poco o nulla, è come il gigante Alcione, immortale soltanto nella terra che gli ha dato i natali e che quando la lascia muore; questo è il messaggio di PIERRE-LOUIS MATTHEY veicolato con Alcyonée à Pallène (1941). Nei suoi versi, ventisei strofe di alessandrini, il poeta, che parte « de la poésie pour regarder d’en haut le monde et pour le traduire »34, mostra la realtà dell’intellettuale elvetico che, come Alcione appunto, è esasperato dall’eternità — che in questo caso può offrire la Svizzera alla sua poesia — ed è desideroso di oltrepassare i confini. L’arte resta, comunque, l’unica risposta possibile a questo isolamento almeno secondo Alberto Giacometti (figure 2 e 3) che sostiene:

 33 ID., “L’exil et la plume”, in [vwa], (2) 1983, p. 10. 34 JEAN-CHARLES POTTERAT, “En lettres de feu intérieur…”, Études de Lettres, (2) 1972, pp. 27- 49.

94 

Figura 2 Alberto Giacometti “Jean Genet” (1955)

Figura 3 Alberto Giacometti “Ritratto di Yanaihara” (1958)

95  Io faccio pittura e scultura per mordere nella realtà, per difendermi, per nutrire me stesso, per diventare più grosso; diventare più grosso per difendermi meglio, per meglio attaccare, […] per essere il più libero possibile; il più libero possibile per tentare — con i mezzi che oggi mi sono propri — di vederci meglio, di capire meglio ciò che ho intorno, […] per combattere la mia guerra, per il piacere? per la gioia? della guerra, per il piacere di vincere e per quello di perdere.35

Il termine “noia” è essenziale per l’arte di Giacometti: il pittore di Borgonovo di Stampa ha conosciuto il filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre che vede rappresentato nelle figure del pittore e scultore elvetico — che « enfatizzano un senso esistenziale di immobilismo ed isolamento »36 — il senso di angoscia che caratterizza l’uomo moderno. La noia dipinta nel volto dei personaggi delle figure di Giacometti, così appena tratteggiate, è molto vicina alla nausea di cui parla Sartre: è una repulsione dettata dall’inferno quotidiano e che non è insita nelle anime dei personaggi abbozzati con la matita ma che è ovunque, « je la ressens là-bas sur le mur, sur les bretelles, partout autour de moi. Elle ne fait qu’un avec le café, c’est moi qui suis en elle »37 per esprimere il concetto con le parole di Antoine Roquentin, l’io narrante del capolavoro sartriano. La noia (figura 4) è anche un’opera dell’artista, nata a Berlino ma di adozione svizzera, Meret Oppenheim, spia di uno stato di malessere interiore portato dalla monotonia della vita elvetica: la dimensione della noia è rappresentata con linee aguzze e rarefatte, non compatte e inconcludenti, tra le quali prendono vita uccelli meccanici e un cane scheletrico; tutto intorno è il vuoto, il nulla esistenziale che avvolge, il non saper che fare di sé e della propria arte.

 35 Si veda il sito http://en.asia.it/cgi-bin/adon.cgi?act=doc&doc=371&sid=92 (Ultima visita: 14 luglio 2013). 36 DAVID TOWRY PIPER, Dizionario illustrato dell’arte e degli artisti, Roma, Gremese, 2000, p. 177. 37 JEAN-PAUL SARTRE, La nausée, Paris, Gallimard, 1972, p. 34.

96  La ricerca di un altrove è al centro di un altro disegno della Oppenheim, Allora viviamo più in là (figura 5), in cui una figura nera porta in braccio una donna interamente vestita di bianco giù dalle scale di un tempio; si potrebbe azzardare che la donna in nero è l’artista che cerca di portare più in là, al di fuori dei confini elvetici, la propria arte. Ma uno dei soggetti che ritorna più spesso nella produzione artistica di Meret Oppenheim è Genoveffa, la regina di Brabante che, secondo la leggenda, viene accusata ingiustamente di adulterio e condannata a morte. La Genoveffa della Oppenheim (figura 6, anno 1939) è una donna costretta all’inattività, alla quale viene preclusa l’opportunità di comunicare e di pretendere giustizia. Alcuni anni dopo questa figura è stata riproposta e presentata con una forza espressiva ancora maggiore: ritroviamo, infatti, il personaggio in un disegno del 1942 (immagine 7), un bozzetto per una scultura che l’artista realizzerà soltanto nel 1971; Meret trasforma la sua Genoveffa in una sagoma di legno con due manici di scopa spezzati al posto delle braccia, significativa personificazione della sua impotenza, della sua incapacità di reagire. Tornando alla letteratura, sono prigioni, come quelle di cui parla Dürrenmatt, anche le case dei cittadini elvetici stando a quanto riporta un altro scrittore svizzero contemporaneo, PETER BICHSEL, considerato l’erede di Robert Walser, in Der Virus Reichtum (1969): « Sie haben sich abends eingeschlossen ins eigene Gefängnis ».38 Bichsel fa riferimento a una sua personale esperienza: « Ich war mal bei einem Reichen zu Besuch und sollte dort übernachten. Bevor man schlafen ging, wurde ich mit der Sicherheits- und Überwachungsanlage vertraut gemacht: Ab jetzt die Fenster nicht mehr berühren. Im Garten eine Flutlichtanlage, die bei Alarm grell aufleuchtet ».39 Le abitazioni degli svizzeri sono viste qui come celle di una grande prigione. Dal punto di vista politico la Svizzera sembra esser già stata costretta a cercare nuovi orizzonti come si mostra in Himmelsöhi, hilf! Über die Schweiz und andere Nester (2002) in cui Hürlimann analizza un punto cruciale della recente storia svizzera: la crisi della Swissair. Lo scrittore fa notare come, fino a quei  38 PETER BICHSEL, Der Virus Reichtum, in ID., Des Schweizers Schweiz, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1997, p. 62. 39 Ivi, pp. 61-62.

giorni dell’autunno del 2001, la Svizzera si mostrava ‘doppia’: « Ja, bis in diese unseligen Herbsttage hinein, da das weiße Kreuz im roten Feld vom Himmel fiel, bewohnten wir Schweizer nicht eine, sondern zwei Schweizen. Wir führten ein perfektes Doppelleben ».40 Gli svizzeri, secondo lo scrittore, hanno vissuto fino a quel momento in due realtà completamente diverse: la grande dimensione, quella degli affari, il mondo economico internazionale in cui lo stato elvetico ricopre una certa importanza (« Unsere Uhren, Psychopharmaka, Schokoladen eroberten den Weltmarkt »41), l’altra è la ristretta realtà svizzera, la piccola dimensione, quella della politica interna. Hürlimann afferma, quindi, che non è un caso che proprio a Zurigo sia stata scoperta la schizofrenia: « Ein Staat, zwei Räume […] Und weil wir, ähnlich wie die Schizophrenen, beide Figuren nicht etwa hälftig, sondern total waren, sah es danach aus, als würden wir mit unserem Doppelleben doppelt so erfolgreich sein wie die Eindimensionalen der andern Staaten ».42 Il mondo più ricco, la realtà economica, si modifica sempre più velocemente influenzando anche i ritmi della realtà più piccola, quella interna elvetica; la Svizzera inizia così a perdere la Standsicherheit.43 Hürlimann porta l’esempio della sua città natale Zug che in poco tempo passa da semplice cittadina a piazza finanziaria, un luogo esemplare, quindi, dove si scontrano le due realtà, i due tempi: « Ein Städtchen. Zwei Räume. Zwei Zeiten, und da die eine immer langsamer, die andere immer schneller wurde, entwickelten sie mit- und gegeneinander eine explosive Kraft — da tickte, im wahrsten Sinn des Wortes, eine Zeit-Bombe ».44 Questa bomba temporale, lo scontro tra i mondi che collimano nel piccolo territorio elvetico, ha poi favorito il crollo delle azioni della Swissair. Questa situazione porta la Svizzera a vivere una crisi d’identità da cui si può uscire, suggerisce Hürlimann, soltanto provando a recuperare i vecchi valori. È evidente che quanto emerge dalle parole di parte del mondo intellettuale elvetico sin qui riportate sia la manifestazione di una profonda crisi d’identità, il desiderio di voler sfuggire alla ristrettezza di cui ha parlato nel 1973 Paul Nizon

 40 THOMAS HÜRLIMANN, Himmelsöhi, hilf! Über die Schweiz und andere Nester, Zürich, Ammann, 2002, p. 10. 41 Ivi, p. 12. 42 Ibidem. 43 Cfr. THOMAS HÜRLIMANN, Himmelsöhi, cit., p. 15. 44 Ivi, p. 14.

98  nel suo saggio Diskurs in der Enge, dove si sottintende una mancanza di libertà anche nella letteratura elvetica: nel quotidiano svizzero manca la vita, il vissuto, l’esperienza, il mondo: « Die Enge, empfunden als Absenz von “Welt”…? ».45 Uno scrittore elvetico non trova ‘materiale di vita’ per le sue opere appena esce di casa come invece, ad esempio, può capitare a un artista americano. L’autore svizzero potrebbe descrivere la quotidianità ma rischierebbe di diventare scontato, insignificante o, più semplicemente, noioso. La ristrettezza risulta così il presupposto principale per l’artista elvetico e provoca la fuga: « Zu den Grundbedingungen des Schweizer Künstlers gehört die “Enge” und was sie bewirkt: die Flucht »46 scrive Nizon.

Una soluzione per ovviare a questa schweizer Enge l’ha trovata CHRISTIAN

KRACHT: se è vero che la Svizzera non offre grandi spunti artistici, tanto vale riscrivere la storia. Lo scrittore del cantone di Berna fa proprio questo in Ich werde hier sein im Sonnenschein und im Schatten (2008), titolo che richiama le parole della ballata irlandese Danny Boy, e immagina cosa sarebbe potuto accadere se Lenin nel 1917 non avesse lasciato la Confederazione per tornare in patria e dar luogo alla rivoluzione russa. Nel libro l’evento sociopolitico che ha influenzato la storia mondiale del XX secolo si svolge in Svizzera, nazione trasformata per l’occasione nella Repubblica Socialista Elvetica, uno stato comunista e imperialista impegnato nella colonizzazione dell’Africa e in perenne guerra con altri regimi totalitari, in particolare con una federazione di fascisti britannici e tedeschi. Il romanzo di Kracht ha fatto molto parlare negli ambienti culturali germanofoni e la critica si è divisa tra giudizi lusinghieri — « Christian Kracht bricht mit den Erzählmoden der Literatur und schreibt den wohl besten Roman dieses Herbstes »47 ha scritto David Hugendick su Die Zeit — e recensioni meno benevole come quelle di Eva Behrendt che ha definito, dalle colonne della Frankfurter Rundschau, l’opera « einfach schwachsinnig »48 e di Wiebke

 45 PAUL NIZON, Diskurs in der Enge, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1990, p. 168. 46 Ivi, p. 167. 47 DAVID HUGENDICK, “Verloren an diesem Ort”, Die Zeit, http://www.zeit.de/online/2008/39/christian-kracht (Ultima visita: 14 luglio 2013). 48 EVA BEHRENDT, “Oh Heimat, oh Schutz vor dir”, Frankfurter Rundschau, http://www.fr- online.de/in_und_ausland/kultur_und_medien/feuilleton (Ultima visita: 12 febbraio 2011).

99  Porombka che, nelle pagine del quotidiano Die Tageszeitung, parla di « drogenvernebelte Kulisse ».49 Qualora non si volesse ricorrere, alla maniera di Kracht, all’ucronia, l’unico mezzo per ovviare a questo ‘disagio nel piccolo stato’ — come potrebbe essere definita la situazione elvetica prendendo in prestito il titolo del saggio del 1963 di Karl Schmid (addirittura antecedente quindi a quello di Nizon) — sarebbe l’evasione dal contesto svizzero; la nuova realtà della letteratura del piccolo stato dell’Europa centrale, che potrebbe essere definita come “prospettiva dell’altrove”, e che è caratterizzata da tale fuga, viene anticipata anche dal critico letterario Pia Reinacher: « Die patriotische Hymne verklingt, das Kampflied gegen die helvetische Enge ist nur noch vor fern zu hören ».50 La Reinacher con queste parole intende sottolineare che non si profila più all’orizzonte un timbro politico o una letteratura militante, bensì la messa in gioco della concezione di sé e del mondo; si ha la sensazione che il singolo quasi non possa più respirare, che non abbia più spazio a sufficienza per evolversi e realizzarsi. Ci vuole una nuova apertura, sono necessari nuovi orizzonti per evitare il rischio che intravede Hürlimann: « Diese Schweiz droht ein Land ohne Eigenschaften zu werden, “ein Gefängnis ihrer Neutralität” ».51

 49 WIEBKE POROMBKA, “Eidgenosse Lenin”, Die Tageszeitung, http://www.taz.de/1/archiv/print- archiv (Ultima visita: 12 febbraio 2011). 50 PIA REINACHER, Je Suisse, München-Wien, Nagel & Kimche, 2003, p. 7. 51 THOMAS HÜRLIMANN, Neutralien, in ID., Holztheater, cit., p. 47.

100  Figura 5 Meret Hoppenheim “Allora viviamo più in là” (1933)

Figura 4 Meret Hoppenheim “La noia” (1936-1937)

Figura 6 Meret Hoppenheim “Genoveffa” (1939) Figura 7 Meret Oppenheim “Genoveffa. Bozzetto per scultura” (1942)

101  2.3 PERSONAGGI IN FUGA

2.3.1 L’INTERIORITA’

Le condizioni di sradicamento, di alienazione, di perdita della propria identità si sono spesso manifestate, nella Letteratura Svizzera della seconda metà del XX secolo, presentando la chiusura dell’io al mondo, il prevalere dello scavo interiore, la ricerca di uno spazio criptico dove rifugiarsi. Affine a questo indirizzo è la prosa scarna, aderente al minimo poetico che la quotidianità può offrire, che non tollera le grandi architetture narrative ma è caratterizzata da frasi semplici e misurate, di PIERO BIANCONI che con Albero genealogico (1969), partendo da lettere di emigranti, realizza un’epopea familiare in cui ricostruisce la vita dei suoi antenati e va alla ricerca dell’io più profondo: Non appartengo più al mondo dei miei antenati, né ancora a quello di mio figlio, sono isolato tra un passato ormai estraneo e un presente che per me è futuro: così che non c’è più posto per il presente, per il mio presente, mi sento solo, isolato, in bilico tra due modi di vita che pure sono attigui nel tempo e si direbbero infinitamente remoti, separati da millenni: l’inane sudore solitario sulla terra grama, e la prepotenza dell’energia ricavata dall’inerzia dell’acqua. Mi domando a che mondo appartengo, allora, di che mondo faccio parte, senza più legami con il passato e senza ponti gettati verso l’avvenire.1

Nel suo smarrimento il protagonista si trova a fare i conti con il proprio passato che appare torbido (« sono qui che cerco qualche segno remoto, qualche indizio che mi spieghi il peso tremendo dell’eredità »2), a guardare al futuro con sospetto (« si aggiunga il fondo più fondo del mio carattere, fatto di scetticismo, di una certa inerzia, forse di indifferenza; e l’incapacità mia a prendermi sul serio, a farmi valere »3) e a non vivere adeguatamente il presente; la sua momentanea confusione è la chiave che apre le porte di una dimensione atemporale e aspaziale, quella della lettura: « mi ubriacavo (è la parola) con sterminate letture, disordinate, qualche volta assurde, mi portavo sempre in tasca qualche volumetto della Sonzogno o della Bibliothèque universelle. […] Nei libri affondavo come in

 1 PIERO BIANCONI, Albero genealogico, Locarno, Armando Dadò Editore, 2009, pp. 46-47. 2 Ivi, p. 56. 3 Ivi, p. 213.

102  un lago d’oblio, — era insomma un alibi davanti alla vita ».4 L’arte sarebbe dunque una via di fuga, una forma di tragico conforto, vicina all’idea leopardiana de « l’infinita vanità del tutto »5: « insomma cercavo di stordirmi, di dimenticare la mia dolorosa posizione, nutrivo il mio istintivo pessimismo leggendo instancabilmente Leopardi ».6 Bianconi qui intende la letteratura, alla maniera di Marcel Proust, come una forma di isolamento e nella solitudine « il fallait tâcher d’interpréter les sensations »7, le nostre emozioni e quelle altrui con le quali, generalmente, giudichiamo gli eventi della vita. Ma tale isolamento può apparire forse anche un modo di sottrarsi alla vita. Lo stesso Proust a tal proposito aveva notato che « ces après-midi-là étaient plus remplis d’événements dramatiques que ne l’est souvent toute une vie. C’était les événements qui survenaient dans le livre que je lisais ».8 L’autore di Minusio in Albero genealogico sembra voler sottolineare che la letteratura può sostituire la vita o, quanto meno, può riuscire a rimpiazzare i momenti d’inedia della piatta realtà elvetica, trasformandoli in ore di pura distrazione: la letteratura è più vita della vita stessa. Al periodo di declino, alla fuga verso l’interiorità e all’annullamento dell’individualità, generalmente, segue una fase di ripresa e di rinnovamento, un percorso in cui si ridisegna il proprio io per fronteggiare la resa: questo accade alla protagonista di La femme séparée (1982) di , Anne, giovane insegnante che ha rinunciato al suo lavoro quando si è sposata, che lascia il marito e, con lui, le strutture convenzionali, protettive ma al contempo opprimenti, della società borghese elvetica. Dal momento della separazione, per diciannove mesi che si possono definire di deuil, Anne prende atto del suo stato (« Je suis une femme seule »9), deve fare i conti con l’angoscia che si affaccia ogni sera (« l’angoisse vient à cinq heures, en cette fin d’après-midi, le soir pas encore engagé: une sorte d’inquiétante vacuité »10) e che sembra accentuata dall’ordine e dalla monotonia della Svizzera (« ce pays si calme. L’ordre. Non pas douloureux  4 Ivi, pp. 208-209. 5 GIACOMO LEOPARDI, A se stesso (1835), in ID., Canti e pensieri, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2005, p. 153. 6 PIERO BIANCONI, op. cit., p. 211. 7 MARCEL PROUST, À la Recherche du temps perdu. Le Temps retrouvé, t. IV, Paris, Gallimard, 1989, p. 457. 8 MARCEL PROUST, Recherche, t. I, cit., p. 81. 9 MONIQUE LAEDERACH, La femme séparée, Lausanne, Editions L’Age d’Homme, 1993, p. 14. 10 Ivi, p. 36.

103  ni même très pesant. Simplement l’ordre. Et elle aussi, Anne, l’a bu avec le lait maternel […] Née dans l’ordre, mariée dans l’ordre »11). Partendo dal tentativo di sovvertire l’ordine elvetico (« elle a rompu l’ordre. Minablement. Elle est là: désordre »12), Anne prova a creare la sua nuova identità — o a risalire al suo vero Essere sempre messo a sopire — attraverso riflessioni, particolari non sempre facili da accettare — come l’ammissione delle sue reali inclinazioni sessuali — e il confronto con la defunta nonna, venduta a sei anni per fare la domestica, con cui Anne sente, ripercorrendone la biografia, di avere molti punti in comune. Malgrado la pesante solitudine di quei diciannove mesi e i silenzi che sembrano non voler mai finire (« Et l’immobilité silencieuse de la chambre, une immobilité, un silence qui vont durer — jusqu’à quand? »13), la protagonista riuscirà a gettare le basi per una vita nuova. Similitudini con le vicende della Laederach presentano i racconti della raccolta Sans Alcool (1961) di : una visione pessimista dei rapporti di coppia, accompagnata dalla chiusura elvetica al mondo, porta i protagonisti di queste storie a vivere la solitudine peggiore, frutto di emarginazione sociale. Il viaggio nell’interiorità dell’autrice vodese passa attraverso personaggi vedovi, poveri, malati e abbandonati dalla comunità che vedono, a volte, il suicidio come sola via di uscita. La morte volontaria sembra l’unica soluzione possibile per porre fine alle sofferenze anche per il poeta FRANCIS GIAUQUE, che si toglie la vita all’età di trentuno anni, quando aveva già dato alle stampe due piccole raccolte di poesie. Il resto della sua produzione in versi, insieme a lettere e prose brevi, emerge a poco a poco grazie al suo amico di sempre Hughes Richard e a George Haldas, suo confidente negli ultimi anni di vita, prefatore di Terre de dénuement (1968), dove si trova riunito l’essenziale dell’opera postuma. Intorno ai vent’anni inizia a farsi sentire nel poeta vodese, più forte di ogni altro sentimento, il male di vivere, a cui consegue abuso di alcool e droghe; effetto naturale, dal punto di vista artistico, è che tematica principale della sua opera risulti l’incomunicabilità tra il suo universo interiore e il mondo esterno, lo  11 Ivi, p. 46. 12 Ibidem. 13 Ivi, p. 452.

104  sprofondamento in un « étau du silence »14 in cui l’unica via possibile e desiderabile appare, per l’appunto, la morte. Le immagini offerte dai suoi versi traducono questo calvario nella chiusura in un mondo, quello interiore, duro e muto, impenetrabile, dove tutto si fa di un’oscurità glaciale: Pars fais-toi ombre et silence dans l’envahissement de la nuit.15

Giauque è sospeso tra il dolore e la consapevolezza di essere stato scelto dalla Poesia, che gli offre l’opportunità di congiungersi idealmente con le personalità che rappresentano i suoi modelli letterari: « Avec moi, c’est l’absolu ou rien, comme disait Artaud ».16 Grande amante dei poeti maledetti, il vodese si sente affine anche a Crevel, Essénine e Nerval. Il confronto con Artaud, ammirato più di chiunque altro17, permette anche di notare delle differenze sostanziali tra Giauque e i suoi modelli francesi, che rimarcano, dunque, la sua originalità e la capacità di sapersi distinguere, di non limitarsi al ruolo di puro imitatore dei grandi; ai toni aggressivi e a tratti blasfemi del maestro, ad esempio, si contrappone la negatività assoluta e la rassegnazione di un giovane affascinato dalla morte (« la nuit elle-même / s’est fermée / à l’apaisement / si violente / est la douleur / qu’on voudrait s’éblouir /au soleil de la mort »18) e alla creatività prolifica di Artaud si oppone l’essenzialità di Giuaque, che equivale a un rifiuto, alla preghiera di non ricevere dalla vita neanche più il dono del poetare: Se taire se figer s’emmurer se momifier dans les silences des dunes.19

Il male interiore oscuro viene, quindi, mostrato al lettore con una sola frase proferita parola per parola, versi molto brevi, essenziali:

 14 FRANCIS GIAUQUE, Anne, in ID., Terre de dénuement, Lausanne, L’Aire, 1980, p. 82. 15 Questi versi fanno parte degli inediti di Giauque pubblicati sul sito http://www.culturactif.ch/inedits/giauque.htm. 16 FRANCIS GIAUQUE, C’est devenu ça ma vie. Lettres à Hughes Richard, Les-Ponts-de-Martel, Hughes Richard, 1987, p. 56. 17 Cfr. RENÉ PONS, Une malédiction annoncée, in ID., Courant d’ombres, cahier consacré à Francis Giauque, (2) 1995, pp. 44-55. 18 Versi inediti sul sito http://www.culturactif.ch/inedits/giauque.htm. 19 FRANCIS GIAUQUE, Terre de dénuement, cit., p. 75.

105 

ne passera pas se retiendra aux rampes de la nuit le temps d’un cri.20

Non hanno la forza di ricominciare a vivere neanche i protagonisti dei racconti della raccolta La paura del cielo (1994) di : la vita appare scandita da ritmi monotoni, ogni impulso ucciso dalla routine, nessuno osa ribellarsi, domina la rassegnazione, ogni persona continua a vivere come fosse già morta: nelle opere dell’autrice nata a Zurigo « ognuno, con il suo mondo interiore, consuma il giorno »21 afferma Rossella Lovascio. Fleur Jaeggy nei suoi lavori: non offre storie rassicuranti, ma esempi emblematici di vite percorse dalla tragedia. Gli attacchi sono senza preamboli, duri e perentori; non indugiano sulla descrizione dei personaggi, sul loro passato o sulla loro biografia, ma forniscono subito al lettore alcuni elementi psicologici, stati d’animo, inquietudini, malesseri esistenziali.22

La scrittrice, quindi, mostra l’instabile equilibrio, l’essere perennemente in bilico, la condizione, insomma, che prevale nell’uomo contemporaneo e che viene palesata nel percorso dell’individuo che appare sospeso al bivio tra ciò che è stato della sua esistenza e quello che lo attende; è questa condizione, l’esperienza dell’incertezza e della frammentarietà, che Fleur Jaeggy contrappone al nulla. La solitudine è qualcosa di endemico nella produzione di questa scrittrice; non esiste personaggio che non ne sia intriso. Solitudine fisica o solitudine dell’anima: nessuna creatura nata dalla penna di questa autrice sembra riuscire a sottrarsi all’isolamento, dimensione naturale del mondo della svizzera di lingua italiana. I dialoghi dei protagonisti in realtà sono quasi sempre monologhi interiori; dialoghi veri e propri sono rari, di breve durata e poveri di contenuto, quasi sempre futili. La parola è sola e vive, si potrebbe dire, della propria eco. Anche Fleur Jaeggy, attraverso l’inquietudine, nei suoi libri cancella l’immagine stereotipata della Svizzera per restituire al paese la sua cifra, la sua natura che non differisce poi molto da quella del resto del mondo. Si tratta, come

 20 Ivi, p. 58. 21 ROSSELLA LOVASCIO, Le storie inquiete di Fleur Jaeggy, Bari, Progedit, 2007, p. 95. 22 RAFFAELLA CASTAGNOLA, Fleur Jaeggy, Roma, Cadmo, 2006, p. 101.

106  notato da Raffaella Castagnola23, non tanto di muovere una critica circoscritta alla realtà elvetica, quanto di utilizzare il mondo svizzero come modello di una umanità che nelle azioni, nelle vicissitudini, nelle afflizioni e perfino nelle inquietudini esistenziali, è più simile di quanto si possa ipotizzare al resto del mondo. Ciò non esclude, però, che ogni paese veicoli un insieme di tradizioni e di superstizioni che forniscono caratteristiche uniche all’inquietudine: e quindi ecco che nelle opere della Jaeggy gli elementi atmosferici ricorrenti, che fanno da sottofondo alle vicende, — il föhn, la neve, il ghiaccio —, i costumi tipici — come la Tracht —, le tradizioni popolari e le feste — ad esempio quella di Sächsilüüte, di cui si parla in Proleterka (2001), nella quale viene bruciato il pupazzo di neve Böögg per dare l’arrivederci all’inverno e salutare l’arrivo della primavera —, tutto ciò, insomma, che è tipicamente elvetico viene rielaborato in nuove forme, illuminato da una luce diversa, sinistra e incerta: il sole improvvisamente diventa sbagliato, come viene detto in I beati anni del castigo, le stalattiti piangono, le città assumono il colore della cenere, le campagne ammirate e immortalate dai turisti si macchiano del sangue di brutali omicidi, le case nascondono un’anima nera, appesantita da secoli di rimpianti e rinunce. Non si riconosce l’immagine stereotipata della Confederazione nelle opere di Fleur Jaeggy, poiché la scrittrice nata a Zurigo parla della vera Svizzera, quella che molti non conoscono perché celata dalla benevola approvazione dei visitatori che l’hanno attraversata nel corso dei secoli, ai quali il piccolo paese dell’Europa centrale non ha avuto il coraggio di mostrarsi nella sua interezza, preferendo rinchiudere la propria metà oscura nella solitudine e nel silenzio della quiete domestica. Ansietà e isolamento sono alla base anche dei romanzi Das Blütenstaubzimmer (1997) e Der Ruf des Muschelhorns (2000) della giovane scrittrice di Basilea ZOË JENNY. Il romanzo d’esordio del 1997 è la storia di Jo e di sua madre; abbandonata da bambina, la giovane protagonista ritrova da adolescente la genitrice in preda alla disperazione dopo la morte del secondo marito — per suicidio o per incidente non è chiaro —, rinchiusa in una stanza

 23 Cfr. Ivi, p. 45.

107  ricoperta dal polline dei fiori. Lucy — la donna che anche la figlia chiama sempre e solo per nome — è assente con la mente anche se presente fisicamente, incarna il vuoto interiore, una separazione non solo dal mondo ma anche da se stessa, l’impossibilità di dare un senso e un fine alle cose che la circondano. Jo guarda la madre sempre a distanza, con gran diffidenza: « eine dunkle Ahnung steigt in mir hoch, und plötzlich drängt es mich, sie zu fragen […] ob sie denn wirklich ganz sicher sei, dass ich aus ihr herausgekommen bin. Denn das scheint mir in diesem Moment vollkommen unmöglich ».24 Anche Lucy è intenzionata a mantenere lontana la figlia, quasi timorosa di poterla contagiare con il suo male di vivere, senza sapere che la giovane ha già scelto la solitudine come miglior compagna delle sue giornate: si aggira per le strade della città all’ora di pranzo, quando le possibilità di contatti sociali sono ridotte al minimo (« außer ein paar ausgemergelten Katzen, die sich fauchend um die herumliegenden Abfälle streiten, sind die Gassen um die Mittagszeit 25 leergefegt » ) e passa ore sdraiata su un letto (« von meinem Bett aus sehe ich den Himmel, der unverändert blau ist. Von Zeit zu Zeit durchkreuzen Vögel das blaue Rechteck »26) senza sognare nulla (« ein traumlose Schlaf »27). E nel finale dell’opera arriva la neve a soffocare ogni tipo di emozione della protagonista, a reprimere gli impulsi negativi e ad anestetizzare quelli positivi: Solcher, der [der Schnee] nicht haften bleibt und eine dicke weiche Schicht bildet, sondern schmilzt, und dass ich deshalb immer auf die nächste Flocke warte, auf den sekundenschnellen Augenblick, in dem sie auftritt und noch nicht geschmolzen ist. Und gemeinsam mit ihnen hier warten werde, auf die weiße Schicht über den Boden. Auf die Decke aus Schnee.28

Non resta che aspettare che la vita, coperta da un manto di neve, perda definitivamente la sua intensità e il suo senso. Storia di abbandono anche quella di Eliza, la protagonista di Der Ruf des Muschelhorns, il secondo romanzo di Zoë Jenny; una mattina la giovane lascia la città insieme alla madre, viene portata a casa della nonna, Augusta, che vive lontana dalla civiltà, in campagna, e lì viene lasciata per sempre. Eliza, grazie alla  24 ZOË JENNY, Das Blütenstaubzimmer, Frankfurt am Main, Frankfurter Verlagsanstalt, 1997, p. 52. 25 Ivi, p. 19. 26 Ivi, p. 28. 27 Ivi, p. 80. 28 Ivi, p. 139.

108  nonna, entra in relazione con gli aspetti positivi della solitudine, quelli che portano a conoscere a fondo se stessi e a godere delle piccole cose che ci circondano: « Eliza glaubte, dass alle Dinge bewohnt seien von etwas Lebendigem. Steine, ein Erdklumpen, ja selbst die Luft schien ihr ein Wesen zu sein, das mit anderen in Verbindung stand, und sie dachte daran, wenn sie alleine auf einem Felsen am Fluss lag oder auf der Wiese, das Gesicht im Gras ».29 Augusta però muore all’improvviso ed Eliza, di nuovo abbandonata dal destino, viene portata in un orfanotrofio dove non si separa mai da una grande conchiglia, unico oggetto che le resta della defunta nonna, e si chiude in un ostinato mutismo: « Nach Augustas Tod sprach Eliza kaum, und wenn sie den Mund öffnete, stotterte sie nur unverständliche Sätze ».30 Quello di Eliza è un tacere per scelta (« vielleicht hat sie einfach nur begriffen, dass es keine Sinn hat »31) e i contatti umani vengono sostituiti dal legame con la natura, a cui Augusta l’aveva avvicinata: « In Elizas Vorstellung war der Seegrund eine Hautschicht. Sie bohrte ihre Finger hinein, um sich darin festzuklammern, legte ihren Kopf in ein Algenbüschel und wartete ».32 La giovane viene poi adottata dai Rosenberg, una famiglia benestante, dove conosce una solitudine negativa, il vuoto e l’indifferenza, e insieme a George, il figlio della coppia, cerca una via di fuga dall’ipocrisia borghese. Con sé Eliza porta sempre la conchiglia della nonna, il ricordo dell’unica persona che l’ha realmente amata e l’unico mezzo con il quale far parlare la sua anima sensibile: « Eliza hatte schon seit Tagen kein Wort mehr gesprochen. Sie war alleine in der Wohnung. […] Eliza war vollständig mit Schweigen ausgekleidet. Wenn zu viel Stille in ihr war, nahm sie das Muschelhorn, öffnete das Fenster und rief in alle Himmelsrichtungen. Ihr Atem strömte durch das weiße Gehäuse, die Verlängerung ihrer Stimme ».33 I solitari svizzeri ci mostrano una via di fuga ma senza mai farci la morale: è in questo che risiede la loro forza; i protagonisti dei loro scritti, che hanno scelto di percorrere la via della solitudine — che poi non è mai troppo lontana, è dietro  29 ZOË JENNY, Der Ruf des Muschelhorns, Frankfurt am Main, btb, 2002, pp. 20-21. 30 Ivi, p. 47. 31 Ivi, p. 60. 32 Ivi, p. 99. 33 Ivi, pp. 126-127.

109  l’angolo per i personaggi di Zoë Jenny, si nasconde nei libri per l’io narrante di Albero genealogico, è dentro di noi, nei nostri sogni e nei nostri rovelli psicologici — stanno per guarire dal male di vivere e poco conta che la guarigione consista nella scomparsa definitiva o nella morte; quel che importa è che essi riescano finalmente a fare i conti con la realtà e a presentarla agli occhi dei lettori. La fuga nell’interiorità, come ci viene mostrata dagli autori elvetici qui menzionati, allude con evidenza all’interruzione dei contatti sociali che l’esistenza moderna a volte sembra imporci. Quelle che vengono descritte sono esperienze che disperatamente, ma anche con grande arguzia, tendono verso la leggerezza assoluta del vivere, verso il distacco dell’esistenza da tutti i legami possibili con ciò che sta al di fuori. I solitari elvetici si fanno ammirare perché vivono candidamente a prescindere dalle apparenze e dai dettami sociali e, così facendo, riescono a mostrarci i limiti della morale comune e a parlarci con naturalezza del vivere ipocrita della società moderna, non soltanto quella elvetica. Gli scrittori svizzeri sembrano sostenere che solo attraverso gli occhi di un essere solitario che si è fermato ad osservare il mondo circostante — che non ha deciso di fare a meno degli altri, ma fa a meno del suo bisogno degli altri — noi possiamo vedere e ascoltare quello che siamo diventati.

110  2.3.2 L’ALTROVE

Una soluzione proposta dagli autori appartenenti alla Letteratura Svizzera per far sì che le loro storie non risultino costituite — come potrebbe apparire inevitabile — unicamente da descrizioni paesaggistiche, vite di pastori e perdigiorno, instancabili passeggiatori che trovano linfa vitale esclusivamente grazie al contatto con la natura, consiste nell’ambientare le loro vicende in uno spazio diverso da quello elvetico: « Das Fluchtmotiv zieht sich durch die schweizerische Literatur wie eine ansteckende Krankheit. Die Verhaltensweisen der Flüchtenden sind sehr verschieden ».1 Il fenomeno appare più marcato tra gli scrittori di lingua tedesca e in quelli italofoni, poiché molti artisti della Romandia — come vedremo nel paragrafo dedicato agli intellettuali elvetici a Parigi — trovano nella capitale francese il loro “altrove”, riescono ad affrancarsi dalla madrepatria e a diffondere la propria arte a livello universale, arrivando a toccare tematiche che non possono essere etichettate come esclusivamente elvetiche. A far da apripista alla ricerca di un mondo altro c’è, però, proprio uno scrittore di lingua francese, DENIS DE ROUGEMONT, con Journal d’un Intellectuel en chômage (1937), oltre allo zurighese MAX FRISCH con Homo Faber. Ein Bericht (1957), romanzo trasposto cinematograficamente nel 1991 dal regista Volker Schlöndorff. Lo scrittore svizzero di lingua francese ricorre all’inflazionato motivo dell’isola — soventemente correlato al tema della crisi d’identità e di valori — per esemplificare la separazione dall’entità elvetica e, al contempo, il rapporto di amore e odio con il suo Paese: « voici l’ȋle: une plage basse, quelques pins, deux ou trois baraques ».2 L’insularità si presenta come la soluzione ideale per riflettere sulla realtà della madrepatria (« une occasion de solitude désirée en secret dès longtemps »3) ma può far scaturire anche il bisogno di avvicinarsi al diverso, se è vero che uno degli obiettivi di questo periodo di isolamento dell’intellettuale disoccupato elvetico è di verificare se « les contacts inévitables et quotidiens entre

 1 PAUL NIZON, Diskurs in der Enge, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1970, p. 174. 2 DENIS DE ROUGEMONT, Journal d’un intellectuel en chômage, Paris-Genève, Editions Slatkine, 1995, p. 7. 3 Ivi, p. 9.

111  un “intellectuel” de ma sorte et les habitants du pays, se révèlent bons, mauvais, ou simplement indifférents, (je veux dire féconds, irritants, ou sterile) pour mes voisins aussi bien que pour moi ».4

Per quanto concerne il romanzo di MAX FRISCH, evidente sin dall’incipit l’intenzione dell’autore zurighese di distaccarsi completamente dalla realtà elvetica: « Wir starteten in La Guardia, New York ».5 Il protagonista Walter Faber vola dagli Stati Uniti in America Centrale, conosce casualmente Herbert Hencke, il fratello del suo vecchio amico Joachim, marito di Hanna, il grande amore della vita di Walter. Joachim è sparito nel nulla da diverso tempo, forse si trova in America Latina, Herbert è nel Nuovo Continente proprio per cercarlo e Walter si offre di aiutarlo; dopo diverse peripezie nella giungla dell’America Centrale, il disperso viene ritrovato morto impiccato. I destini di Herbert e Walter a questo punto si separano: il primo resta in America Latina, il secondo se ne torna a New York, dove incontra la sua ex- amante, Ivy — “edera” in inglese, nome che molto rivela sulle caratteristiche del personaggio — che non desidera altro che sposare Walter, il quale, in tutta risposta, fugge verso l’Europa in nave. Durante il suo viaggio conosce una certa Elisabeth, una ragazza molto bella e assai più giovane di lui, che gli ricorda il suo grande amore Hanna e con cui inizia un’intensa relazione. Insieme girano per Parigi, per la Francia del Sud, viaggiano attraverso l’Italia e la Grecia. Il narratore, nel frattempo, rivela ai lettori che Sabeth — come viene chiamata la ragazza per gran parte del romanzo — è la figlia di Walter Faber. L’amore incestuoso termina in tragedia: mentre i due innamorati si trovano in spiaggia, in Grecia, Sabeth viene morsa da un serpente, cade a terra, si ferisce gravemente alla testa e muore, poco dopo, in un ospedale di Atene; soltanto lì Walter incontra Hanna e viene a sapere che Sabeth era sua figlia. L’eroe di Frisch torna a New York, poi in Guatemala da Herbert e, in seguito, ad Atene, dove scopre di avere un tumore allo stomaco e finisce — con tutta probabilità ma non con certezza, considerando che il resoconto termina nel momento in cui i medici

 4 Ivi, p. 16. 5 MAX FRISCH, Homo Faber. Ein Bericht, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1998, p. 7.

112  vanno a prelevare Walter dalla sua stanza per condurlo in sala operatoria (« 08.05 Uhr. Sie kommen »6) — nell’ospedale di Atene. Il messaggio di Max Frisch che sembra celarsi dietro questa elaborata trama, che non ha nulla da invidiare agli intrecci delle più moderne soap operas, è che tali avvenimenti possono svolgersi ovunque, tranne che in Svizzera; non a caso la tappa zurighese del lungo viaggio in Europa di Walter e Sabeth non è di rilevante importanza ai fini della trama. Con Frisch inizia, quindi, a farsi largo nella letteratura elvetica del Novecento quell’infinita necessità dell’artista di raggiungere la libertà, di svincolarsi dalle costrizioni psicologiche, dai condizionamenti sociali dell’ipocrita e benpensante popolazione elvetica e per raggiungere tale autonomia, seguendo quanto teorizzato da Henri Laborit nel suo Éloge de la fuite (1976): non rimane che la fuga. Ci sono diversi modi di fuggire. Alcuni si servono di droghe dette “psicogene”. Altri della psicosi. Altri del suicidio. Altri della navigazione solitaria. Forse c’è un altro modo ancora: fuggire in un mondo che non è di questo mondo, il mondo dell’immaginazione. Qui il rischio di essere inseguiti è minimo.7

Ricorre alla fantasia anche PETER WEBER per il suo romanzo Der Wettermacher (1993): l’opera è ambientata in una Svizzera che ha un sapore fiabesco (« Dies ist die Geschichte der wundersamen Landschaft Toggenburg »8), un paese le cui origini sono ignote e affidate alla leggenda (« so erzählt die Sage »9): « Jenes Meer, so steht geschrieben, soll die Landschaft Toggenburg als ein Kindlein in ihrem Bauche getragen haben, in jenem Meer sollen die eigenwilligsten Fische geschwommen sein, mit Hörnern wie von gräßlichen Stierenviechern, mit Augen so groß wie der Mond ».10 La Svizzera di Weber non ha una precisa collocazione geografica, può trovarsi ovunque, forse è in Africa (« Zürich, meine Liebe, liegt in der Sahara »11), forse « in Amerika »12, « liegt zentral »13, o addirittura è « Mondland ».14 Al cospetto di cotanta indefinitezza un  6 Ivi, p. 151. 7 HENRI LABORIT, Elogio della fuga, Milano, Oscar Mondadori, 1997, p. 14. 8 PETER WEBER, Der Wettermacher, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1993, p.7. 9 Ivi, p. 15. 10 Ivi, p. 14. 11 Ivi, p. 19. 12 Ivi, p. 30. 13 Ivi, p. 113. 14 Ivi, p. 142.

113  essere umano può semplicemente das Wetter machen che non corrisponde ad altro, come emerge dalla lettura del romanzo, se non a die Sprache machen, l’attività dello scrivere. Così afferma Peter Weber nel 1996: « Euch allen, meine Lieben, sage ich, dass der Wettermacher Wetter macht, indem er übers Wetter redet, dass der Wettermacher Wetter macht, um verschiedene Dinge ins rechte und entsprechende Licht zu rücken, und dass ihm das Wetter Worte wechselt. Das Wetter wechselt Worte »15. Lo scrittore dimostra chiaramente, quindi, come egli stesso può creare o rielaborare la lingua, giocando con frasi dal significato ambiguo, iterazioni, proverbi e detti locali. La fuga di Peter Weber avviene attraverso la fantasia e l’elaborazione linguistica, unici mezzi possibili per l’autore di Wattwil per evadere dalla Svizzera: ein Land, das war roh und dunkel […], in dem herrschte keine Klarheit […], ohne Konturen […], in dem herrschte von einem Ende bis ans andere ein unsägliches Geflunker […], ein Land, das war Stille, nichts als Stille […], das flüsterte Geheimes […] das war im Mondschein gesichtslos […] das war Niemandsland […] das ging unaufhörlich verloren […] das hatte keine Geschichte […] das hatte keine Zunge und keine Namen […] so klein, daß es in jeden Kopf paßte […] das war überall und deshalb nirgends […] Land, dem wurde eines Tages mitgeteilt: Du bist […] ein Land, das wurde Landschaft16.

Nel mondo dell’immaginazione si rifugia anche la giovane protagonista di

Warum das Kind in der Polenta kocht (1999) di AGLAJA VETERANYI, scrittrice di origine rumena arrivata in Svizzera per sfuggire alla dittatura di Ceaucescu. L’io narrante del romanzo più noto della Veteranyi invita il lettore ad accompagnarla attraverso le tappe del circo presso il quale si esibisce con i genitori e la sorella e a seguirla tra le sue numerose paure e i suoi desideri — che la madre precipiti nel vuoto durante una esibizione, o che il padre rivolga le sue particolari attenzioni a lei e non solo alla sorella più grande, piuttosto che il sogno di raggiungere una stabilità, di avere un giorno un tetto sotto il quale rifugiarsi ogni sera come tutte le persone che incontra nel suo vagabondare — che esorcizza facendosi raccontare la favola del bambino che cuoce nella polenta, con la quale riesce a rimpiazzare una delle sue angosce con un’altra ancor più terrificante.

 15 Ivi, p. 40. 16 Ivi, pp. 142-143.

114  Nel romanzo della Veteranyi appare evidente sin dalle prime pagine un senso di spaesamento, la mancanza di punti di riferimento, la sensazione di trovarsi sempre e ovunque stranieri: « Hier ist jedes Land im Ausland. Der Zirkus ist immer im Ausland. Aber im Wohnwagen ist das Zuhause. Ich öffne die Tür vom Wohnwagen so wenig wie möglich, damit das Zuhause nicht verdampft ».17 All’itinerante roulotte viene attribuita, quindi, dalla scrittrice originaria della Romania quella funzione che il linguista e semiologo russo Jurij Michajlovič Lotman attribuisce alla casa18 — ossia conferire sicurezza a chi vi abita, offrirvi un rifugio — tenendo ben presente che lo spazio abitativo « deve contenere il suo sancta sanctorum, mondo interiore del mondo interiore (“cuore del cuore” secondo Shakespeare) »19 e mettendo in risalto il focolare e la soglia, quella porta da aprire il meno possibile, barriera per non far accedere le forze impure: Ich bin es gewohnt, mich überall so einzurichten, dass ich mich wohlfühle. Dazu muss ich nur mein blaues Tuch auf einen Stuhl legen. Das ist das Meer. Neben dem Bett habe ich immer das Meer. Ich muss nur aus dem Bett steigen, und schon kann ich schwimmen. In meinem Meer muss man nicht schwimmen können, um zu schwimmen.20

La sensazione di spaesamento che il lettore può riscontrare leggendo l’opera della Veteranyi è ancora più forte rispetto a quella che si prova leggendo altri autori svizzeri; ci si trova al cospetto di una doppia emarginazione: la piccola protagonista di Warum das Kind in der Polenta kocht non si sente a casa in Svizzera (« Hier ist aber auch das Ausland […] WIE VIELE AUSLANDE GIBT ES? »21) — dove mettono paura i paesaggi ordinati e sempre uguali (« ich wollte mir den Weg merken, um zurückkehren zu können. Aber je mehr ich mich anstrengte, desto ähnlicher wurde alles, als hätte jemand die Landschaft aufgeräumt »22), le montagne imponenti (« hier muss man sehr dick werden, sonst wird man von den Bergen zerdrückt »23) e il freddo pungente (« und man muss

 17 AGLAJA VETERANYI, Warum das Kind in der Polenta kocht, Stuttgart, DVA, 2000, p. 10. 18 Cfr. JURIJ M. LOTMAN, L’architettura nel contesto della cultura, in ID., Il girotondo delle Muse. Saggi sulla semiotica delle arti della rappresentazione, Bergamo, Moretti&Vitali, 1998, pp. 38- 50. 19 Ivi, p. 49. 20 AGLAJA VETERANYI, op. cit., p. 18. 21 Ivi, p. 91. 22 Ivi, p. 81. 23 Ivi, p. 84.

115  viele Häute haben, um sich zu wärmen »24) — ma non associa il concetto di Patria neanche alla Romania, paese dal quale i suoi genitori si sono allontanati per via del “Dittatore” — che la Veteranyi non osa mai chiamare per nome —, dove non possono rientrare perché « in Rumänien wurden meine Eltern nach unserer Flucht zum Tode verurteilt »25 e dal quale arrivano soltanto notizie terribili (« seit unserer Flucht wird Onkel Petru im Gefängnis gefoltert. Und Onkel Nicu wurde vor seiner Wohnungstür erschlagen »26). Le sensazioni scaturite da quest’opera della scrittrice che ha trovato rifugio in Svizzera nel 1977 ricordano molto da vicino quelle che si possono rintracciare nei testi del Premio Nobel per la Letteratura del 2009 Herta Müller27, che ha lasciato la Romania per la Germania nel 1987, in particolare in Reisende auf einem Bein (1989), ritratto della perdita della libertà e dell’identità per la generazione di Ceaucescu. Irene, la protagonista del romanzo della Müller, proprio come l’io narrante di Warum das Kind in der Polenta kocht, ha abbandonato la madrepatria, — das andere Land —28 come viene chiamata nel romanzo senza mai essere nominata, dove si facevano ogni giorno più pressanti i controlli e le trame del regime con accuse e sospetti, ma non riesce a sentirsi a casa in nessuna parte del mondo (« wo trägst du es, dein Vaterland, wenn es plötzlich gegen deinen Willen da ist? »29), essendo accompagnata costantemente dalla sensazione di abitare un non luogo, un « kaltes Land kalte Herzen ».30 Una fuga a tappe — che passa prima per una Venezia che « appare e scompare »31 e poi fa rotta verso Zara — è anche quella della svizzero-italiana

FLEUR JAEGGY proposta nel romanzo Proleterka (2001): su una nave chiamata, per l’appunto, Proleterka, parola slava che significa ‘proletaria’, ma che ospita esclusivamente persone ricche e facoltose, si trova una ragazzina di sedici anni  24 Ibidem. 25 Ivi, p. 52. 26 Ivi, p. 53. 27 HERTA MÜLLER (Niţchidorf, 17 agosto 1953) è una scrittrice tedesca, nata in Romania e vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 2009 con la seguente motivazione: “Con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa ha rappresentato il mondo dei diseredati”. È nota per aver scritto alcuni libri sulle condizioni di vita in Romania durante la dittatura di Nicolae Ceaucescu. 28 Cfr. HERTA MÜLLER, Reisende auf einem Bein, Frankfurt am Main, Fischer, 2010, p. 83. 29 Ivi, p. 132. 30 Ivi, p. 97. 31 FLEUR JAEGGY, Proleterka, Milano, Adelphi, 2001, p. 15.

116  che, durante il viaggio, conosce suo padre — che ci viene presentato dalla giovane protagonista come Johannes e non verrà chiamato mai diversamente — e viene iniziata al sesso da due ufficiali di bordo a cui offre il proprio corpo per non concedersi troppo all’esistenza, per fare esperienza sessuale con la speranza che non ci sia più nulla da provare nella vita, per sconfiggere i « momenti morti, di stasi »32 presenti sulla nave proprio come in Patria dove, c’è da stupirsi, « erano parecchi anni che nessuno della famiglia aveva tentato il suicidio con successo ».33 Ricerca d’identità e morte sono spesso connesse nelle opere degli autori svizzeri, basti pensare all’incipit del romanzo di PETER STAMM Agnes (1998): « Agnes ist tot. Eine Geschichte hat sie getötet. Nichts ist mir von ihr geblieben als diese Geschichte. Sie beginnt an jenem Tag vor neun Monaten, als wir uns in der Chicago Public Library zum erstenmal trafen ».34 La trama di quest’opera è estremamente banale e lineare: uno svizzero, che sta lavorando da tempo a un libro sui vagoni ferroviari americani, e una statunitense, laureata in fisica, specializzata sui gruppi di simmetrie dei reticoli cristallini, si incontrano, si innamorano, danno vita a una relazione, ma le cose precipitano quando lei chiede a lui, di professione scrittore, di mettere su carta la loro storia, immaginando i possibili futuri sviluppi. Il gioco sfugge di mano, il peso del futuro immaginato dallo svizzero schiaccia Agnes, la morte è la soluzione per fare in modo che quanto scritto resti soltanto un racconto e non possa divenire realtà. Verso il finale dell’opera si lascia intuire per Agnes una morte nella neve, motivo ricorrente nella letteratura svizzera degli ultimi anni — sulla scia del mito Walser — che aveva narrato la morte di un poeta nella neve in Geschwister Tanner (« Sebastian mochte hier, durch große, nicht mehr zu ertragende Müdigkeit, hingesunken sein. Allzu kräftig war er nie gewesen. […] Wenn man ihn ansah, empfand man, daß er dem Leben und seinen kalten Anforderungen nicht gewachsen war »35) e che fu trovato morto nella neve il giorno di Natale del 1956 — seguito poi da FRIEDRICH DÜRRENMATT in

 32 Ivi, p. 82. 33 Ivi, p. 68. 34 PETER STAMM, Agnes, Zürich-Hamburg, Arche, 1998, p. 9. 35 ROBERT WALSER, Geschwister Tanner, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1997, p. 117.

117  Mondfinsternis (1981), MARGRIT SCHRIBER in Schneefessel (1998), PAUL NIZON in Stolz (1975), GERHARD MEIER in Ballade vom Schneien (1985) e E.Y.MEYER in In Trubschachen (1973), solo per citare alcuni esempi. Peter Stamm, attraverso il gelo invernale, sottolinea le distanze tra i protagonisti e la loro alienazione dalla realtà; i due personaggi principali appaiono interiormente vuoti e non trovano il modo di riempire questa inconsistenza, vivono nel mondo ma non riescono a costruire rapporti umani. Tutto questo raggiunge il suo culmine verso il finale dell’opera e Stamm, metaforicamente, sceglie per Agnes la morte nel freddo della neve. Soprattutto in virtù di tale conclusione, viene da chiedersi se davvero per una serie di avvenimenti così semplice e lineare fosse necessaria una fuga dalla realtà elvetica e una conseguente ambientazione esotica. Una storia d’amore in cui i due protagonisti non riescono a parlarsi ma capiscono, con lo svolgersi degli eventi, che c’è una differenza abissale tra l’immagine che si ha della persona di cui ci si è infatuati e quello che poi è realmente, forse si sarebbe potuta anche ambientare in Svizzera. Non ci sarebbe stata grande differenza, ai fini della trama, a far incontrare i due protagonisti nella Zentralbibliothek di Zurigo, o in qualsivoglia altra biblioteca del suolo elvetico, anziché alla Chicago Public Library. Poco originale, comunque, la trama dell’opera di maggior successo di Stamm che sembra avere molti punti di contatto con quella del romanzo Soft

Goulag (1977) del collega di lingua francese YVES VELAN: anche in questo caso il protagonista è un giovane che si trova in America per redigere una tesi di laurea. L’eroe di Velan è un aspirante scienziato che sta sviluppando un saggio sul diritto alla nascita e racconta ai lettori la giornata ‘eccezionale’ nella vita di due personaggi, Ev e Ad, una coppia senza storia degli Stati Uniti del futuro — paese designato come L’Union — dove regna l’incomunicabilità, l’assenza di cultura e dove si vive, considerando che le giornate trascorrono tutte allo stesso modo, una sorta di presente perpetuo. Lo studente ci racconta, quindi, un fatto degno di nota, l’unico forse, nella vita dei due americani: grazie a un’estrazione a sorte, Ev e Ad si guadagnano il diritto di procreare, un privilegio riconosciuto, nell’epoca del controllo demografico obbligatorio, a pochi fortunati che, però, se vorranno, potranno, già l’indomani, cedere ad altri.

118  È vero — ed è chiaro dagli esempi letterari qui riportati — che il mito dello splendido isolamento e dell’isola felice legato alla Svizzera non esiste più36, ma si ha anche la netta impressione che il motivo della fuga nella letteratura del piccolo stato dell’Europa centrale si sia trasformato, come afferma Mantovani, « in una moda o addirittura in un cliché. […] Non è più necessario, insomma, che i “confederati dell’inchiostro” si confrontino in linea di principio con la “cattiva Svizzera”, perché anche questa immagine potrebbe diventare a sua volta un cliché e perdere quindi valore ».37 Sembra intuire il rischio di cadere nel cliché della fuga dalla scomoda realtà elvetica AMÉLIE PLUME in Marie-Mélina s’en va (1988): la protagonista decide di partire, non sa nemmeno perché, ma in una uggiosa giornata invernale desidera lasciare tutto e andarsene. È necessario scegliere la meta di questo viaggio: Marie- Mélina apre il Grande Atlante e comincia a fantasticare; potrebbe andare a Tolone o Marrakech, ad esempio, ma poi non trova un vero, valido motivo per partire. Si avvicina alla finestra, guarda il paesaggio nevoso, la monotonia del quotidiano, rivisita il passato talvolta crudele e si abbandona ai pensieri, riapre le ferite dell’infanzia e dell’adolescenza mai realmente rimarginate e si confronta, tra sensi di colpa e qualche rimpianto, con personaggi e situazioni del passato: i nonni, la madre, il padre, un Natale in famiglia, una festa in campagna, un incontro d’amore, la malattia di sua madre, il secondo matrimonio del padre. Non si può essere liberi — dimostra la Plume — se prima non si sono affrontati i propri fantasmi; per essere felici non è necessario fare le valigie, non è indispensabile andare alla ricerca di un “altrove”, se prima non si è ascoltata fino in fondo la propria anima.

 36 Cfr MATTIA MANTOVANI I confederati dell’inchiostro e la fine dei miti, in PETER VON MATT, Svizzera scrittori, Locarno, Armando Dadò Editore, 2008, p. 10. 37 Ivi, pp. 9-10.

119  2.4 SCRITTORI ALL’ESTERO

2.4.1 IL VIAGGIO A ROMA

La città di Roma da sempre esercita un fascino infinito al punto che potrebbe portare chi la visita a non trovare le parole adatte per descrivere l’emozione dell’immergersi nella storia millenaria dell’umanità, al centro del respiro del tempo; già nel 1739 il Cavaliere de Brosses al signore de Neuilly scrive: « La matière est un peu trop ample. J’aimerais mieux, je crois, vous faire quatre fois la description de tout le reste de l’Italie, qu’une seule fois celle de Rome. Elle est belle cette Rome, et si belle que, ma foi, tout le reste me parait peu de chose en comparaison […] Après tout, que pourrais-je vous dire sur cette matière qui ne fût un rabâchage perpétuel? Cette ville a été tant vue, tant décrite »1. Lo scetticismo, seppur frammisto a cauto entusiasmo, del Cavaliere de Brosses non ha ovviamente impedito ad altri, nei secoli successivi, di rispondere al richiamo e alla tentazione di mettere per iscritto le sensazioni suscitate dalla città eterna: ognuno la esplora, la scopre e riscopre, la ama e la odia a modo proprio. Anche gli intellettuali svizzeri del secondo Novecento, di passaggio o trasferitesi in pianta stabile nella capitale italiana, non sono riusciti a fare a meno di descrivere le loro giornate romane; a rendere speciale il rapporto tra gli elvetici e la città eterna è, inoltre, la presenza dell’Istituto Svizzero, fondazione privata creata dalla Confederazione Elvetica nel 1947 con il compito di promuovere lo scambio scientifico e artistico tra la Svizzera e l’Italia, la cui sede si trova nella centralissima Villa Maraini, in via Ludovisi, a due passi da Via Veneto. Dal 1947 l’Istituto Svizzero offre a giovani artisti o ricercatori universitari elvetici, l’opportunità di portare avanti le loro ricerche in Italia, grazie a circa dodici borse di studio ogni anno e la possibilità di alloggiare per dodici mesi nelle camere al quinto piano, o nei due appartamenti della dépendance se si è con famiglia al seguito, di Villa Maraini.  1 CHARLES DE BROSSES, Le président de Brosses en Italie. Lettres familières écrites d’Italie en 1739 et 1740 par Charles de Brosses, Paris, Didier et C. Libraires-Éditeurs, 1858, pp.1-2.

Tra i più illustri ospiti dell’Istituto Svizzero va annoverato PAUL NIZON, a Roma nel biennio 1959-1960; lo scrittore di Berna afferma in Conquistarsi la vita, un libro-intervista del 1990, che, appena giunto nella capitale, ha avuto la sensazione di cominciare una nuova vita, si è fatto trascinare dagli eventi, si è lasciato andare per un anno intero ed è emersa una parte della sua personalità fino a quel momento a lui ignota, è nato il Nizon scrittore.2 Per questo motivo lo svizzero arriva a considerare Roma la sua vera città natale, la metropoli che ha partorito l’artista. L’esperienza romana dello scrittore viene narrata nel romanzo Canto (1963), « un libro in prima persona, un libro romano, un libro della creazione. Certo, è una parola grossa: ma per me è un libro della creazione, un libro della creazione del mondo e della ricerca di me stesso ».3 Nella Roma di Canto tutto appare di pietra: « Mich interessiert der Stein, aus dem Gras wächst, während… Der Stein, in dessen Schatten ich vor der Sonne kusche, der Stein, an den ich meinen Körper lehne, dem ich im Körper mich anvertraue, wenn ich nachts vorbeikomme und aus Säulen auf Säulen und Platz schaue ».4 È la pietra in Nizon a richiamare l’essere primitivo, a riportare l’uomo a uno stato primigenio; innalzare pietre è un elemento umano atavico, mettere massi uno sopra l’altro equivale a costruire qualcosa di solido, un avvenire di certezze, un destino nuovo, per Nizon un futuro da scrittore. Roma suscita nel bernese immagini, figure e forme che non ripetono quanto già vissuto in passato, disconosce l’urgenza vitale di quelli che sono stati, fino a quel momento, i bisogni essenziali e sprigiona l’immaginazione, la forza creativa come puro riflesso del reale, lontano da un vissuto, pur ricco di soddisfazioni, già effettivamente accaduto e porta a una sorta di stato di beatitudine. La rappresentazione dei fatti, dal soggiorno romano, sarà per Nizon qualcosa di molto lontano dalla mera rappresentazione di una condizione effettivamente accaduta e precedente; quello che Nizon era prima della sua esperienza nella capitale viene quasi annullato per far posto al Nizon-scrittore: « Keine Meinung, kein Programm, kein Engagement, keine Geschichte, keine Fabel, keinen Faden. Nur diese Schreibpassion in den Fingern. Schreiben, Worte formen, reihen, zeilen,  2 Cfr. PAUL NIZON, Conquistarsi la vita, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1990, p. 15. 3 Ivi, p. 16. 4 PAUL NIZON, Canto, , Suhrkamp, 1993, p. 17.

121  diese Art von Schreibfanatismus ist mein Krüchstock, ohne den ich glatt vertaumeln würde ».5 Mettere simbolicamente pietra su pietra risponde, inoltre, in Nizon, alla necessità di innalzarsi a Dio mediante lo slancio della preghiera, al fine di trovare le risposte più autentiche e definitive alle domande che si pone: « Vater an der Wand, aufgenommen auf kleiner Schanze vor mehr als einem halben Leben, als du noch gar nicht mein Vater warst ».6 Il misticismo nizoniano sembra collocarsi addirittura nel solco della tradizione di Sant’Agostino, trovando la sua più matura espressione nell’indicazione della via ascensiva che conduce a Dio e che lo scrittore percorre per gradi: il primo livello dell’opera romana dello svizzero consiste nella presa di coscienza dell’ordine e della bellezza delle cose, soprattutto di quelle più semplici (« der Regen gefiel mir »7), prima di abbandonarsi al giudizio dell’anima (« keine Meinung, kein Programm, kein Engagement, keine Geschichte, keine Fabel, keinen Faden »8), contemplare Dio, prima riflesso nelle sue creazioni (« es steht der Mond am Himmel, und der Himmel ist blau »9), e poi come essere (« Vater, du nur Schauer, nur Schweiger du »10). L’anima allora procede oltre, abbandona qualunque operazione intellettuale e traspone in Dio tutto l’affetto: si tratta della fase di estasi che annulla ogni potere umano e fa risplendere a pieno la luce divina, che si riflette sulle pietre bianche romane (« die Sonne immer vielbündelig auf den Steinen und wir am Boden des Steinbruchs, wo nur wenig Schatten bleibt »11). Trascorso l’anno romano da Stipendiat presso l’Istituto Svizzero, Nizon torna in patria e diviene il critico d’arte di punta della Neue Zürcher Zeitung ma sarà invitato più volte nella capitale italiana dall’ospitale amico MAX FRISCH, a Roma dal 1960 al 1965. In una lettera del 28 luglio 1961 lo scrittore di Zurigo si rivolge così al connazionale:

 5 Ivi, p. 22. 6 Ivi, p. 83. 7 Ivi, p. 21. 8 Ivi, p. 22. 9 Ivi, p. 24. 10 Ivi, p. 83. 11 Ivi, p. 27.

122  Se fosse solo, a Roma potrebbe pernottare da noi, incluso mangiare e bere: non è contro il matrimonio, e prego Sua moglie di non pensare male di me; è solo che il nostro letto per gli ospiti è a una piazza. A meno che Lei non si riveli essere un cavaliere che dorme per terra (tappeto) o in terrazza (formiche). Che Roma è bella lo sa. […] Sarebbe un grande piacere poter vedere Lei e Sua moglie prima del 5/8. […] Ho detto una bugia: qui, nella mia stanza da lavoro c’è anche un divano. Venga, dunque!12

Nizon declina quell’invito e numerose altre proposte di soggiorni romani che Frisch gli fa pervenire; lo si intuisce dalla missiva dell’autore di Homo Faber del 18 giugno 1963 con l’esortazione: « E venga a Roma! Marianne è delusa che i Nizon rimandano e Le manda i suoi saluti »13.

MAX FRISCH giunge a Roma per seguire il suo grande amore, la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann, con la quale va a vivere prima in un lussuoso appartamento a due piani con due terrazze e splendido panorama nell’elegante centro storico capitolino, poi in un appartamento più piccolo a Via Margutta, al civico 52/B, fa lunghe e piacevoli passeggiate a piedi per zone storiche della città, si concede gite fuori porta su una Fiat Cabriolet bianca e grazie alla scrittrice austriaca entra in contatto con artisti, critici e giornalisti che amano rendere omaggio a quello che è già un autore molto affermato con sei libri di grande successo all’attivo, tra cui Stiller e Homo Faber, e otto pièces teatrali (tra le quali figura Biedermann und die Brandstifter), rappresentate in tutti i teatri del mondo. Frisch ama profondamente Roma, la vive con grande entusiasmo come si evince dalle lettere che ha indirizzato dalla capitale ad amici e parenti, invitandoli a raggiungerli; all’anziana madre, il 28 aprile del 1961, scrive con grande affetto e prodigo di premure: Proprio oggi abbiamo trovato un appartamento e, siccome vedo che ne hai voglia e coraggio, mettiamoci subito all’opera per fare programmi […] Sarai stupefatta! Due bellissime terrazze, vista sopra un parco e su Roma, sulla lontana cattedrale di San Pietro. […] La posizione è meravigliosa, tranquillo e per niente caldo, perché siamo in alto e vicino c’è tanto verde. La casa ha un ascensore che porta direttamente nell’appartamento, dunque nessuna preoccupazione. […] Ti aspetta una graziosa stanza degli ospiti […] Andremo anche al mare, che non vedi da tanto tempo. Non ti affaticherai.14

 12 MAX FRISCH, Ich lebe in Rom, der herrlichsten Stadt der Welt / Vivo a Roma, la città la più bella del mondo: gli anni a Roma 1960-1965, a cura di Dieter Bachmann und Walter Obschlager, ed. bilingue, Istituto svizzero di Roma, 2002, p. 42. 13 Ivi, p. 82. 14 Ivi, p. 37.

123  L’idillio d’amore con la Bachmann, però, nel 1963 termina e Frisch si ritrova, per di più, al centro dei pettegolezzi dei salotti della “Roma bene”; stizzito, si sfoga in una missiva all’amico Aerni dell’ottobre del 1963: Il resto sono chiacchiere da salotto senza misura, Grass e Johnson ed altri si atteggiano a suoi consiglieri e giudici sul mio conto senza sapere le cose, un mito basato su pure menzogne, che a volte mi rendono difficile tacere; ogni cane, quando passa, ci piscia sopra: tutto è pubblico, poco chiaro, una giungla di mezze verità, e anche se cerco di starne lontano, mi raggiunge. […] Tutto questo non è divertente.15

A poco a poco non trova più così divertente neanche la vita romana — nonostante la nuova storia d’amore con la giovanissima Marianne Oeller, menzionata nella lettera a Nizon in precedenza citata e che sposerà nel 1968 —, tutto diviene pura noiosa routine, l’esistenza comincia a essere troppo monotona e ripetitiva (« troppe volte, troppo per lo stesso luogo, sono stato seduto davanti alla macchina da scrivere, sono stato in piedi in cucina, sono andato al cinema, sono ritornato a casa… e mi sento stupido, e sento Roma troppo logorata per questi eremitaggi »16) e nel 1965 lascia la capitale, forse anche eccessivamente ricca di ricordi legati al suo grande amore mai dimenticato, e torna in Svizzera. Ma se Frisch, almeno per un periodo, adora vivere nella città eterna e Nizon, come abbiamo visto in precedenza, definisce Roma la sua vera città natale poiché lì nasce la sua vena scrittoria, vanno anche registrati i giudizi poco lusinghieri sulla capitale italiana dello svizzero di lingua francese GEORGES BORGEAUD: « Il était impossible d’y flâner et de porter le nez en l’air, sans risquer aussitôt d’être écrabouillé par ces confortables machines que l’on nomme automobiles? »17. Il caos della metropoli, l’eccessivo traffico, i rumori assordanti delle strade principali e gli odori intensi non permettono allo scrittore vodese, abituato a fermarsi a riflettere nei vicoli stretti delle cittadine svizzere o belghe nelle quali ha sempre abitato, di poter vivere e osservare la città con tranquillità, meravigliandosi dello splendore di ogni angolo offerto dalla sua vista: « comment

 15 Ivi, p. 86. 16 Ivi, p. 90. 17 GEORGES BORGEAUD, Rome, objet de mon sentiment, in ID., Italiques, Lausanne, L’Age d’Homme, 1969, p. 92.

124  faire alors? Interdire à la circulation le noyau ancien de nos villes d’art (l’expérience a été tentée récemment à Rome même, mais elle n’a pas réussi) ».18 Il traffico detta il ritmo della città e non si può far altro che attenersi a quella scansione temporale; è impossibile vietare la circolazione ai mezzi privati all’interno della città eterna e di conseguenza, però, è pura utopia, secondo Borgeaud, per un pedone, fermarsi a riflettere e osservare la realtà: Tout cela pour dire que je me plains un peu de ce que Rome est devenue — Paris aussi et le monde entier. Il n’y a plus de silence nulle part, plus de place où converser, de venelle où embrasser sa petite fiancée, sans que débouche de là où on ne l’attendait pas, une voiture, un scooter, un moteur à explosions dont l’avertisseur est aussi mal élevé qu’une trompette sonnant au creux de l’oreille, l’odeur… mais n’en parlons pas […] À Rome, les trottoirs sont rares, les zones de sécurité peu nombreuses. Parfois, derrière une statue, un abri, mais un véhicule à deux roues l’occupe. Sous un porche alors? À ce moment une voiture sort de la cour intérieure.19

Roma di notte, però, ha un’altra atmosfera, una magia particolare che permette a Borgeaud di recepire la reale bellezza della città; poche persone in giro per la strada, meno traffico e la capitale assume tutt’altro aspetto e significato: Je dus à la bonté d’une Romaine, Valeria, mes plus durables impressions de Rome, la nuit. Au volant d’une Alfa-Roméo, elle m’emporta à tous les horizons de la cité. Le peu d’animation des rues me laissa croire que je visitais une ville idéale, jamais profanée, ni salie, ni défigurée, pontificale et impériale, comme il se doit, catholique et païenne, c’est tout un, incarnant vraiment l’éternité de sa renommée.20

Non particolarmente entusiasta della sua esperienza romana è anche un emergente autore di lingua francese, Michel Antoine Chappuis, che fa il suo esordio sulla scena letteraria proprio con un romanzo ambientato a Roma, Caprices romains (2009). L’opera che, nelle intenzioni dell’autore doveva essere la storia di un regista cinematografico e sceneggiatore in piena crisi creativa che giunge a Roma, un tempo capitale del cinema europeo, patria degli amati Fellini, Rossellini e De Sica, per ritrovare slancio inventivo, finisce per essere una banale elencazione dei luoghi comuni sulla città eterna. Si passa dalla furbizia dei tassisti che allungano il tragitto per arrivare a destinazione allo scopo di veder salire il tassametro (« du reste, pour prolonger la course, il lui suffisait d’oublier ici ou là

 18 Ivi, p. 93. 19 Ivi, p. 94. 20 Ivi, p. 96.

125  un passage à sens unique, et moi je n’y voyais que du feu. […] Et puis il y avait le plaisir de le voir tenir sa place dans le trafic »21) alla proverbiale eccessiva confidenza e, per certi versi, maleducazione dei romani (« pour ces questions de distance et de courtoisie il me faudrait rapidement réviser les repères que j’avais acquis dans les salles de cours et la lecture des grands auteurs »22), fino a giungere all’esagerato baccano della capitale (« de mon lit j’écoutais longuement la rumeur qui montait de la rue, le passage des vespe et des camionnettes de livraison […], le glissement métallique des saracinesche, ces grands rideaux de fer que les commerçants levaient les uns après les autres plus ou moins vigoureusement, les éclats de conversations et les exclamations »23).

DANTE ANDREA FRANZETTI, madre svizzera e padre italiano, autore di lingua tedesca, dal 1994 vive tra Roma e Zurigo, prima come corrispondente in Italia del Tagesanzeiger e successivamente come scrittore, e gode della sua posizione priviliegiata per osservare la situazione politica italiana; in Die Sardinennacht. Dreißig Fernsehschnitte aus dem Zeitalter Berlusconi (1996) si analizza il rapporto tra politica e media, in particolare gli intrecci tra Silvio Berlusconi e il mondo della televisione, la relazione tra Berluslandia e gli Homini [sic] berlusconici, riprendendo le definizioni del libro di Franzetti.24 Lo scrittore parte da un dato di fatto (« das italienische Fernsehen ist nicht einfach eine Kopie des amerikanischen Modells. Es ist eine Weiterentwicklung mit unverwechselbaren Eigenheiten »25) per sottolineare ironicamente come le dichiarazioni apparentemente futili rilasciate dai politici ai media possano essere motivo di fratture insanabili all’interno delle coalizioni di partiti (« Bossi gab in der Folge bekannt, in Berlusconis Villa esse man miserabel, und genaugenommen sei Berlusconis Privatjet nichts anderes als eine Tube Zahnpasta »26) e per evidenziare come i passaggi televisivi assicurino ad artisti e intellettuali — a sempre più artisti e a sempre meno intellettuali per la verità — un seggio al Parlamento:  21 MICHEL ANTOINE CHAPPUIS, Caprices romains, Vevey, Éditions de L’Aire, 2009, pp. 18-19. 22 Ivi, p. 25. 23 Ivi, p. 27. 24 Cfr. DANTE ANDREA FRANZETTI, Die Sardinennacht. Dreißig Fernsehschnitte aus dem Zeitalter Berlusconi, Baden-Baden/Zürich, Elster Verlag, 1996, p. 39. 25 Ivi, p. 12. 26 Ivi, p. 18.

126  Auch anderswo ist das Prinzip bekannt, wonach sich einer zuerst seine Nische im Fernsehen erobert und dann zum Romanautor, zum Maler oder zum Politiker wird. In Italien scheint das bereits der übliche Werdegang von Intellektuellen und Künstlern geworden zu sein — ein Werdegang, zu dessen Nebenwirkungen der garantierte Sitz im nationalen Parlament gehört.27

Emblema di questa tipologia di Homini [sic] berlusconici parlamentari televisivi è Vittorio Sgarbi: « Sgarbi ist das Extrembeispiel eines Typus, von dem sich der Fernsehdiskurs generell nährt. Er ist ein Holologe, ein Bauchredner über Gott und die Welt, ein Spezialist für alles und nichts — das, was man in Italien einen tuttologo nennt. Mit anderen Worten: ein Narr ».28 Italia e Svizzera appaiono — è evidente dagli esempi fin qui riportati — due paesi che si osservano e si studiano con grande curiosità anche se non sempre finiscono per comprendersi. Gli scambi culturali e scientifici fra la Svizzera e il Belpaese — è un dato di fatto — sono di grande rilevanza per la Confederazione. L’Ambasciata elvetica a Roma, così come, del resto, i Consolati Generali e Onorari sparsi sul territorio italiano, promuovono e sostengono iniziative volte a favorire la conoscenza della cultura svizzera e l’incontro e lo scambio culturale tra i due Paesi. Nel 2006 è stato lanciato il progetto Mushrooming, attraverso il quale l’Ambasciata e i Consolati provano a dare visibilità alle varie sfaccettature della cultura svizzera, in particolare attraverso eventi e manifestazioni da realizzare a livello locale e per permettere di conoscere, anche ai cittadini che risiedono lontano dai principali centri culturali nostrani, le tradizioni, il folclore e le usanze della patria di Frisch e Dürrenmatt. L’Istituto Svizzero di Roma, con il quale collaborano sia l’Ambasciata che le altre rappresentanze elvetiche in Italia, propone ogni anno un programma culturale, artistico e scientifico con l’intento di far conoscere artisti e scienziati svizzeri. L’Ambasciata, inoltre, redige ogni mese una newsletter in cui presenta l’agenda degli eventi di carattere culturale, economico, politico e scientifico legati alla Svizzera che hanno luogo in tutta Italia.

 27 Ivi, pp. 22-23. 28 Ivi, p. 28.

127 

Figura 1 Una delle abitazioni di Frisch a Roma: Via Margutta 52/B oggi

Figura 2 Via Margutta oggi

Figura 3 L’attico di Via Giulia oggi

128  1 2.4.2 PARIGI E GLI INTELLETTUALI SVIZZERI

« Als Artist hat man keine Heimat in Europa ausser in Paris »2 scrive Friedrich Nietzsche in Ecce Homo nel 1888; questo assunto non può, ovviamente, non valere anche per gli autori elvetici, al punto che la capitale francese sembra giocare un ruolo fondamentale per la cultura svizzera. Tuttavia, fino all’inizio del XIX secolo, non sono molti i casi di scrittori elvetici che trovano ospitalità nella Ville Lumière, anche se si possono ricordare personalità di spicco del mondo elvetico di passaggio a Parigi come JEAN-

JACQUES ROUSSEAU. Tra i primi intellettuali del piccolo stato dell’Europa centrale a subire il fascino della capitale francese va annoverato uno dei più importanti autori di lingua tedesca di tutte le epoche: ROBERT WALSER; lo scrittore di Biel, pur non avendo mai messo piede a Parigi, riesce a intuirne lo splendore: « wie muß dieses Paris schön sein, so mit Licht, Hübschigkeit gefüllt, daß es einem wohl schier schwindelt ».3 Walser è affascinato dell’eleganza della città francese che può dedurre dai racconti di chi l’ha visitata, poiché, come narra in quello che è uno dei suoi primi microgrammi — i testi scritti a matita con una grafia piccolissima negli anni tra il 1924 e il 1933 —, nella sua città natale è presente un “hotel Paris” di un’eleganza sopraffina che non può che richiamarsi e ispirarsi a quella della capitale francese: « Hotel de Paris hieß in meiner Geburtsstadt ein angesehenes Gasthaus, wo es recht sehr vornehm zuging ».4 Parigi non può, quindi, che essere di uno splendore superiore. La bellezza della città francese, lo scrittore di Biel può inoltre intuirla dai quadri di Nicolas Lancret e Jean-Antoine Watteau: « aus Gemälden von Lancret und Watteau kenne ich die französische Wirklichkeit ziemlich, freilich ist das schon etwas lang her ».5

 1 Un importante compendio sugli intellettuali svizzeri a Parigi è la seguente antologia: DANIEL JEANNET, Le Paris des Suisses, Paris, Éditions de la Différence, 1995. 2 FRIEDRICH NIETZSCHE, Ecce Homo, in ID., Werke in drei Bänden, München/Wien, Hanser Verlag 1954, Vol. II, pp. 108-109. 3 ROBERT WALSER, Aus dem Bleistiftgebiet: Mikrogramme aus den Jahren 1924-25, Vol. 1, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2000, p. 103. 4 Ibidem. 5 ROBERT WALSER, op. cit., p. 104.

Figura 1 Nicolas Lancret “La Terra”

Figura 2 Jean-Antoine Watteau “Les Champs Elysées”

130  Dalla fine del XIX secolo diventa una vera e propria necessità passare per la capitale francese — conquistarsi un “altrove” — per quelli che desiderano assicurarsi più ampie possibilità di successo di pubblico e critica: Victor

Cherbuliez, EDOUARD ROD e Louis Dumur vi si stabiliscono in pianta stabile e il loro esempio è seguito, negli anni successivi, da autori francofoni come BLAISE

CENDRARS, CHARLES-FERDINAND RAMUZ, DENIS DE ROUGEMONT, GEORGES

BORGEAUD e germanofoni quali PAUL NIZON e NIKLAUS MEIENBERG. A testimoniare la massiccia presenza elvetica nella Ville Lumière è necessario, inoltre, ricordare che negli anni Cinquanta e Sessanta due delle principali riviste francesi, Preuves ed Esprit, sono dirette rispettivamente da FRANÇOIS BONDY e

ALBERT BÉGUIN, scrittori svizzeri residenti a Parigi. Numerosi quindi, come già si evince dal breve elenco fornito poco sopra, gli autori della scena letteraria elvetica che si sono formati e hanno conosciuto i primi successi entrando in contatto con la realtà parigina. Scrittore definibile per certi versi più parigino che svizzero, che una leggenda vuole addirittura nato in una stanza d’albergo della capitale francese anziché sulle alpi svizzere, a La Chaux-de-Fonds, è BLAISE CENDRARS. A Parigi ha concepito quello che è universalmente riconosciuto il suo maggior successo: Les Pâques à New York. È il 1912, nello studio del pittore Delaunay si ritrovano alcuni dei maggiori intellettuali dell’epoca, il giovane ed eccentrico viaggiatore è sollecitato a recitare i propri versi, tra i presenti Apollinaire ascolta in silenzio, con gli occhi chiusi, quasi catturato dalla bellezza di quelle poesie che suonano come un soave canto. L’anno dopo il poeta francese pubblicherà Alcools, salutato dalla critica come esordio della poesia d’avanguardia, ma il debito nei confronti di Cendrars appare elevato. Si è per tutta la vita diviso tra la terra francese e la madrepatria anche

CHARLES-FERDINAND RAMUZ; quella per Parigi è stata una vera e propria folgorazione: « J’étais venu à Paris pour six mois; j’y suis resté, avec quelques absences, plus de douze ans. J’étais venu à Paris pour préparer une thèse, je n’en ai jamais écrit une ligne ».6 Parigi offrirà a Ramuz l’occasione di frequentare numerosi scrittori e artisti, svizzeri e francesi: per qualche tempo dividerà un  6 CHARLES-FERDINAND RAMUZ, Paris, notes d’un Vaudois, Tours, Éditions Les Amis de Ramuz, 2000, p. 55.

131  appartamento con CHARLES-ALBERT CINGRIA, incontrerà il pittore René Auberjonois che diventerà suo amico, ritroverà Henry Spiess e Adrien Bovy, e conoscerà i fratelli Tharaud e André Gide, ma la capitale francese gli offrirà soprattutto l’opportunità di frequentare il salotto di EDOUARD ROD, con l’aiuto del quale riuscirà a pubblicare il suo primo romanzo, Aline (1905), presso le edizioni Perrin; in precedenza l’autore vodese aveva pubblicato per case editrici ginevrine, non riuscendo a ottenere il successo auspicato anche al di là dei confini elvetici. Parigi è fondamentale per Ramuz per affermarsi e, tra l’altro, risiedere nella Ville Lumière gli dà l’opportunità di trovarsi nella capitale del vasto territorio di lingua francese di cui fa parte, secondo lui, facendo proprio il concetto di “una lingua, una nazione”, anche la Romandia: « elle n’est, plus tard, que le chef-lieu d’une province entre beaucoup d’autres provinces ».7 Nel 2005, inoltre, è stata pubblicata nella Pléiade, in due volumi, l’opera completa di Ramuz. Il soggiorno parigino è un’importante e piacevole parentesi anche per lo sviluppo della carriera di DENIS DE ROUGEMONT: l’autore originario del cantone di Neuchâtel, nel 1930, viene chiamato a dirigere la casa editrice protestante Je sers, collabora poi con numerosi periodici, tra cui la Nouvelle revue française, e introduce in Francia l’opera di Soren Kierkegaard e di Karl Barth. Lascia Parigi negli anni Quaranta, seguendo la volontà delle autorità elvetiche che, dopo un suo articolo sull’entrata delle truppe hitleriane nella capitale francese, desiderano inviarlo negli Stati Uniti e in America Latina per tenere delle conferenze su Europa e hitlerismo. Non soltanto scrittori, ma anche pittori e scultori elvetici hanno subìto il richiamo di quella che forse, a ragione, viene considerata da molti la capitale europea della cultura; esemplificativo il caso di Meret Oppenheim: l’avventura dell’artista nella Ville Lumière inizia nel maggio del 1932 quando, con una forza di volontà davvero sorprendente, considerando la giovane età, esprime al padre il desiderio di voler diventare un’artista e per esaudire questo suo sogno decide di trasferirsi proprio a Parigi, la leggendaria capitale dell’arte, dove — è convinta — sarebbe riuscita nel suo intento, valutata la vivacità dell’ambiente culturale parigino frequentato dagli intellettuali dell’avanguardia.  7 CHARLES-FERDINAND RAMUZ, Aime Pache. Peintre Vaudois in ID., Œuvres complètes, vol. V, Lausanne, Éditions Rencontre, 1967, p. 15.

132  Lo scontro con il padre diventa così inevitabile, l’uomo appare fortemente contrario alla scelta della figlia, poiché a suo avviso, nessuna donna è mai riuscita a fornire un contributo importante all’arte pittorica o scultorea e non potrà essere certo una ‘provinciale’ svizzera la prima a imporsi. È Jung, lo psicanalista austriaco, al quale Erich Oppenheim si rivolge, a convincerlo e a rassicurarlo che non c’è alcunché di cui preoccuparsi nella scelta della giovane e irrequieta figlia e che il suo unico dovere di padre è di non ostacolarne i desideri e le attitudini. La Oppenheim parte, dunque, alla volta di Parigi con l’amica Irène Zurkinden, per la quale nutre una profonda ammirazione e con cui condivide una manifesta voglia di vivere: « Irène […] era libera e conduceva un’esistenza indipendente dalle convenzioni sociali. Nutrivo molta ammirazione per lei. Era incredibile! ».8 La narrazione del loro arrivo nella capitale francese rende evidente l’entusiasmo con cui la Oppenheim ha deciso di vivere l’esperienza: « le due amiche dopo essersi prese una sbronza di Pernod durante il viaggio in treno si precipitarono senza essersi lavate nemmeno le mani al Café du Dôme »9, il celebre cafè letterario frequentato dagli artisti più importanti del periodo. Le due amiche sono solite passare molto del loro tempo nel locale, tra i tanto apprezzati café à la crème e conversazioni fra gli amici artisti. Meret è davvero molto affascinata da quel luogo che offre una gran varietà di personalità nonché una vivace atmosfera culturale. È proprio lì che compone le sue prime poesie — che sono caratterizzate da un linguaggio semplice ma al contempo estremamente diretto e immediato — attraverso le quali riesce a comunicare al lettore le sue sensazioni e i suoi stati d’animo. Uno tra i componimenti più intensi del periodo giovanile è quello che scrive nel 1933, intitolato Für dich — wieder dich (Per te — ancora te), nel quale traspone, conferendo grande musicalità ai suoi versi, il suo desiderio di essere libera e indipendente da qualsiasi tipo di legame: Für dich — wieder dich. Wirf alle Steine hinter dich, Und lass die Wände los. An dich — wieder dich, Für hundert Sänger über sich, Die Hufe reissen los.  8 IDA GIANELLI, Meret Oppenheim, Firenze, Alinari, 1983, p. 114. 9 BICE CURIGER, Meret Oppenheim. Tracce di una libertà sofferta, Lugano, Fidia Edizioni d’Arte, 1995, p. 15.

133  Ich weide meine Pilze aus, Ich bin der erste Gast im Haus, Und lass die Wände los.10

GEORGES BORGEAUD è, invece, stabilmente a Parigi dal 1946 e non lascerà più la Ville Lumière se non per svolgere brevi viaggi o per i soggiorni estivi a Gordes e nel Quercy. Nella capitale concepirà, quindi, i suoi principali successi come Le Préau (1952), insignito del Prix des Critiques, Le voyage à l’étranger (1974), che si è visto assegnare il Prix Renaudot nel 1974, e Le Soleil sur Aubiac (1986-87) vincitore del premio Médicis de l’essai, dell’Inforum di Jacques Chancel e del Jacques Chardonne. Per uno scrittore francofono sembra impossibile arrivare al successo senza passare per Parigi: non sorprende, quindi, che siano numerosi gli autori della Svizzera francese che, nonostante un pubblico romando fedele e tirature discrete, si sentono riconosciuti unicamente quando sulla copertina dei loro libri figurano le tanto desiderate sigle delle case editrici parigine, anche di quelle più piccole; può invece suscitare curiosità che perfino gli autori di lingua tedesca subiscano quello che Peter von Matt in Die tintenblauen Eidgenossen. Über die literarische und politische Schweiz definisce “fattore Parigi”11, sottolineando così l’influenza delle correnti francesi sugli autori dei cantoni germanofoni: è da Parigi, da Sartre, che è arrivato il concetto di littérature engagée e sempre dalla Ville Lumière è giunto l’indirizzo filosofico più rappresentativo del dopoguerra, l’esistenzialismo, che ha impregnato l’opera dell’autore della Nausée, di Camus e i film della Nouvelle Vague. La problematicità del senso della vita, affrontata attraverso le posizioni filosofiche dei francesi, ha assunto il valore di modello per i giovani artisti di lingua tedesca del secondo dopoguerra: del resto il pensiero esistenzialista ben si adatta a mettere in risalto e difendere la libertà del particolare, dell’individuo, contro le costrizioni imposte dalle grandi masse e dalle società dominanti. Uno degli autori di lingua tedesca che per incominciare una nuova esistenza, nel 1977, a quarantotto anni — dopo la fase romana — decide di trasferirsi a

Parigi, è PAUL NIZON: lì lo scrittore affronta i suoi problemi, si lascia trascinare  10 Il testo integrale della poesia è presente sul sito http://www.zeit.de/2003/05/Meret_Oppenheim_1913-1985_ (Ultima visita: 21 luglio 2013). 11 Cfr. PETER VON MATT, Die tintenblauen Eidgenossen. Über die literarische und politische Schweiz, München, Hanser, 2001, p. 54.

134  dalle emozioni e le mette per iscritto, un’impresa che sembra complicata e rischiosa e che solo nella capitale francese poteva essere tentata: Penso che Parigi fosse un mio antico sogno: per la sua bellezza, è forse la città più bella che esista, e per lo spirito dell’eros, che è anche importante; dall’emigrazione in questa città, in una situazione di profonda crisi, mi ripromettevo veramente una rinascita, un nuovo inizio. Volevo andarmene da tutto, lasciare tutto, e ricominciare. […] Io non posso scrivere con indifferenza, io posso scrivere solo per necessità, a partire da una forte emozione, che sia odio oppure amore, da un’erezione esistenziale, per così dire. Non posso ridurre lo scrivere a un esercizio di diligenza: e in Svizzera probabilmente non mi sarebbe rimasta altra possibilità che scrivere, appunto, come esercizio di diligenza, oppure non scrivere più del tutto. Tutto questo lo si può vedere come una situazione di crisi: una crisi che mi ha condotto a fare il grande salto, a venire a Parigi.12

E grazie a una delle principali case editrici parigine, Gallimard, anche uno dei maggiori esponenti della letteratura ticinese, GIOVANNI ORELLI, ha avuto l’opportunità di proporsi a un pubblico diverso da quello italofono: il 23 aprile 1998 Le Rêve de Walacek, traduzione del penultimo romanzo dell’autore di Bedretto, Il sogno di Walacek, apparso in italiano presso Einaudi nel 1991, è stato diffuso dal prestigioso editore parigino. L’intenzione di Gallimard di pubblicare quest’opera, nata da un’associazione di idee su Alphabet I di Paul Klee, ha destato sorpresa innanzitutto in Orelli stesso che candidamente ha dichiarato: Io a Parigi non conosco nessuno e Gallimard ha trattato tutto direttamente con Einaudi. Non so nemmeno in che collana uscirà: è da Torino che ho avuto la notizia dell’intenzione di Gallimard di tradurre “Il sogno di Walacek”, notizia che, inutile nasconderlo, mi ha fatto molto piacere. Per dirla con i pessimisti che amo molto, da Tacito a Guicciardini, a Leopardi, il primo giorno, il giorno dell’uscita di un libro, è sempre il più bello. Dopo le soddisfazioni sono sempre inferiori alle attese. Arriva la disillusione. Ma la possibilità di pubblicare un libro da un editore come Gallimard è comunque una di quelle che definirei “soddisfazioni morali”: a parte ciò ad un autore ticinese, abituato a pubblicare libri in perdita, rimane ben poco.13

Parigi è stato senza dubbio un gradino essenziale nella carriera di molti letterati elvetici, specie se di lingua francese, ma è opportuno forse sottolineare che gran parte degli autori della seconda metà del Novecento e, ancor di più, dei primi anni del XXI secolo, si sono prodigati con tenacia per conferire caratteristiche proprie alla letteratura della Svizzera francese e per mettere in

 12 PAUL NIZON, Conquistarsi la vita, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1990, pp. 26-27. 13 Si veda l’intervista sul sito internet http://www.culturactif.ch/ecrivains/orelliregione4.htm (Ultima visita: 21 luglio 2013).

135  risalto lo spirito romando, affrancandosi dalla ‘schiavitù’ intellettuale parigina:

JEAN-PIERRE MONNIER lo fa attraverso i romanzi e i saggi in cui dipinge un universo a tinte fosche dove i personaggi si interrogano sul proprio destino,

GEORGES BORGEAUD per mezzo del romanzo di stampo pedagogico con cui esprime un rapporto doloroso e al contempo irreale con il mondo, GEORGES

HALDAS con il tentativo di trasfigurare, nelle sue cronache e nelle memorie, il vissuto quotidiano per mezzo della poesia. La letteratura svizzera di espressione francofona agli inizi del XXI secolo pare, dunque, abbia definitivamente conquistato un suo statuto identitario indipendente nell’ambito delle letterature francofone e, anche se diversi autori pubblicano le loro opere con case editrici parigine e di sovente rifiutano di venir annoverati tra gli Svizzeri perché ritengono la considerazione un’etichetta estremamente limitativa per la loro arte, le istituzioni culturali elvetiche — Pro Helvetia, la Bibliographie des lettres romandes dal 1979, i dizionari e le storie della letteratura, il Centro di ricerca sulla letteratura romanda, fondato nel 1965, l’Archivio svizzero di letteratura, creato nel 1989 — li considerano come appartenenti a pieno titolo al patrimonio romando. L’intensa attività delle case editrici, la presenza di riviste come Écriture, pubblicata dal 1983 al 2001, o la Revue de Belles-Lettres, le numerose antologie e gli studi sugli autori elvetici di espressione francese sono altre testimonianze dell’esistenza e dell’importanza di uno spazio letterario, al di fuori dell’esagono francese, che brilla di luce propria.

136  1 2.4.3 LA BERLINO DEGLI ELVETICI

A due anni dal termine del secondo conflitto mondiale, nel novembre del 1947, liberatosi dagli obblighi civili imposti dal servizio militare e dai limiti psicologici dovuti alla ristrettezza elvetica, all’età di trentasei anni MAX FRISCH riesce finalmente a tornare in Germania; l’autore di Stiller, una volta immerso in un territorio in cui si parla esclusivamente la sua lingua madre, si sente come rinato e tutto quello che ha davanti gli pare una « köstliche Erweiterung der inneren Heimat »2; per giorni e giorni può aggirarsi per le strade di Berlino e constatare che « das Feld, das vorbeizieht, heißt immer noch Feld, nicht champ, nicht campo — wie schnurrig, daß mir Landschaften, die ich zum erstenmal sehe, vertrauter sind, obschon sie sich von unseren Landschaften gänzlich unterscheiden, vertrauter, nur weil sie eins sind mit meiner Sprache ».3 Altro pregio del trovarsi in tale condizione, ritiene Frisch, è quello di poter odiare « leichter, rascher, wilder als in der sprachfremden Welt ».4 Anche nel caso di Frisch, così come era stato in precedenza per Keller, a Berlino dal 1850 al 1855, e Walser, nella città-stato dal 1905 al 1913, la capitale tedesca aiuta uno scrittore ad assumere consapevolezza dei propri mezzi e a spianargli la strada verso il successo, se si considera che risalgono al periodo trascorso a Berlino Die Chinesische Mauer (1947), Als der Krieg zu Ende war (1949) e Tagebuch 1946 - 1949, opere tra i maggiori successi in assoluto di Frisch. Le esperienze e il vissuto offerti dalla città tedesca aiutano a una maggiore comprensione del proprio io e della condizione dell’uomo dell’epoca; la Germania del dopoguerra, e la città di Berlino in particolar modo, dona allo scrittore zurighese una vicinanza fisica alla lingua letteraria, ed è un ottimo mezzo per esprimersi artisticamente al meglio.

 1 Per un maggiore approfondimento si veda: BEATRICE VON MATT e MICHAEL WIRTH, >Abends um acht<. Schweizer Autorinnen und Autoren in Berlin, Zürich-Hamburg, Arche Verlag, 1998. 2 MAX FRISCH, Die Tagebücher 1946-1949, 1966-1971, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1983, p. 184. 3 Ivi, p. 183. 4 Ivi, p. 184.

137  Dalla porta di Brandeburgo, Frisch sente propagarsi « Stille wie in den Bergen »5, il giardino zoologico si estende come « baumlose Steppe »6 con statue prive di braccia, solidi basamenti ridotti in macerie e, inoltre, trova « ganze Quartiere ohne ein einziges Licht »7, osserva le aggressioni dovute alla disperazione della povertà post-bellica e dall’alto arrivano leggi non sempre condivisibili. Berlino è una montagna di macerie da cui l’umanità deve ripartire: Nicht abzuschätzen ist die Menge von Schutt […] Ein Hügelland von Backstein, darunter die Verschütteten, darüber die glimmenden Sterne; das Letzte was sich da rührt, sind die Ratten. Abends in die Iphigenie […] etwas Betörendes; mindestens für unsereinen: Theater als öffentliches Interesse […] worüber sollen sie denn sprechen?8

Non si possono spiegare, secondo Frisch, in maniera dettagliata, tutte le emozioni offerte dalla città tedesca, il teatro principale dove si sono svolti gli intrecci mondiali degli ultimi anni, ma si può tentare di annotarle sinteticamente: « Grunewald, Krumme Lanke, Schlachtensee, Wannsee. […] die Luft, die spröde Weite — jedenfalls fühle ich mich unbändig wohl »9; in quest’atmosfera sarebbe diventato, afferma Frisch, « ein durchaus fröhlicher und sprühender Kerl ».10 Va considerato, inoltre, a rendere particolare il rapporto tra Berlino e Frisch, che nella capitale riesce a incontrare molti più amici che in patria: frequenta abitualmente Brecht, Huchel e, in seguito, Johnson e Höllerer. La città distrutta, cumulo di macerie, diventa per Frisch un luogo di rigenerazione: lo scrittore, alle soglie degli anni Cinquanta, è giovane abbastanza per ricominciare o, forse, per cominciare il suo percorso artistico, se si considera, come già accennato, che le opere più importanti ancora non sono state scritte ma vengono concepite nel periodo berlinese; la costruzione dell’io artistico sembra andare di pari passo con la restaurazione della città. Oltre a ciò, nel 1968, Max Frisch prende un appartamento con Marianne Oellers vicino al muro di Berlino. Qui lo scrittore ha la sensazione di toccare con mano la storia del mondo e che non si possa parlare di altro se non della realtà, di quello che è stato in Germania e delle conseguenze che gli eventi svoltisi in quei  5 Ivi, p. 185. 6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 188. 10 Ibidem.

138  luoghi hanno portato e continueranno a determinare: « ein Tag mit Sonne und mit kaltem Wind, viel heller nordischer Himmel über Stacheldraht. Wenn man die Mauer sieht, so gibt es nichts dazu zu sagen; allerdings läßt sich bei ihrem Anblick auch nichts anderes reden ».11

Il primo viaggio in aereo verso Berlino di HUGO LOETSCHER, invece, sembra quello di un eroe o di una grande personalità politica, come egli stesso ironicamente ricorda in Tage in Prenzlauer Berg. Um die Blöcke ziehen (1994): In der Maschine vernahm ich: die Amerikaner würden uns eskortieren, so daß die Russen nichts unternehmen würden. Und ich erfuhr Genaueres: die Russen hatten an dem Tag eine Zivilmaschine angeschossen. Eine andere Version lautete: Das Flugzeug habe den Korridor verlassen und sei deswegen von russischen Flugzeugen gejagt worden — aber wie auch immer wir kämen dank den Amerikanern durch. Als wir in Tempelhof landeten, erwartete uns ein Komitee mit Blumensträußen […] Wir waren die Helden aus dem freien Westen, die ersten, die es wieder gewagt hatten. Zum erstenmal erlebte ich, wie wichtig es fürs Heldentum ist, nicht vollständig informiert zu sein.12

Sulla via per lo zoo, lo scrittore si ferma ad osservare: Da sah man zwischen den Häusern, die stehengeblieben waren, die Lücken, welche die Bomben gerissen hatten […] Aber überall Gestänge, welche dazu dienten, Leuchtschriften und Leuchtbilder zu tragen, die am Abend zuvor den Eindruck einer intakten Straßenschlucht vermittelt hatten […] Und in mir stieg der Verdacht auf, ob Berlin deswegen keine Polizeistunde kennt, weil es sich nicht sein könnte, was am Abend zuvor noch vorhanden war.13

Con queste parole Loetscher dà voce a un’angoscia post-bellica immediatamente percepibile, ma si apre anche a un’intrigante esperienza nella nuova Berlino del secondo dopoguerra che sembra concepire tutto in maniera radicalmente diversa rispetto ai tempi lontani; la capitale tedesca è ricca di contraddizioni: appare una città inevitabilmente immersa nel passato ma anche inarrestabilmente proiettata verso il futuro, vive all’insegna del sogno del miracolo americano ma, al contempo, non riesce a scrollarsi di dosso quel malessere del dopoguerra. Le inquietudini crescono negli anni Sessanta, dopo la costruzione del Muro. Le fughe dalla zona Est, sotto il controllo sovietico, e dalla Repubblica

 11 Ivi, p. 424. 12 HUGO LOETSCHER, « Tage in Prenzlauer Berg. Um die Blöcke ziehen », Neue Zürcher Zeitung, 25 giugno 1994, p. 77. 13 Ivi, p. 78.

139  Democratica Tedesca, le ribellioni agli strapoteri governativi non cessano nonostante il grande ostacolo lungo più di 155 km. Un numero superiore ai 650 morti e oltre 850 feriti tra coloro che tentano di oltrepassare la frontiera di cemento, a dispetto della sorveglianza dei Vopos e della Stasi, la polizia segreta della DDR: muoiono anche soldati dell’Est in scontri a fuoco con i fuggitivi, militari americani, agenti di polizia dell’Ovest. Il Muro, considerando queste premesse, non può che essere, anche in letteratura, metafora dell’orrore: così è nel libro di CHRISTOPH GEISER Das Gefängnis der Wünsche del 1992, intreccio di sesso, potere e violenza. L’autore svizzero vive dal 1984 tra Berlino e Berna, nella capitale tedesca porta a termine il suo romanzo su Caravaggio Das geheime Fieber del 1987 e la descrizione del primo periodo berlinese è alla base anche di Im Freigehege. Geiser nelle sue opere descrive la paura come lo stato d’animo predominante nei giorni trascorsi nella città divisa, dà voce al panico per i poliziotti nella Berlino Ovest, per gli asfissianti controlli a Berlino Est, per la sua condizione di omosessuale che lo fa sentire un perseguitato e « man entkommt nicht. Alle Mauern, alle Schranken, alle Grenzen habe ich ständig im Kopf […] Die ganze Stadt ist ein Zoo, eingezäunt ».14 Si può intuire che in Geiser, la ‘ristrettezza’, concetto che abbiamo ampiamente presentato nel capitolo precedente, non è attribuibile alla madrepatria elvetica, ma è una condizione interiore, uno stato mentale che porta a diffidare di ogni persona e ogni luogo; niente serve a creare un senso di familiarità, tutto appare ostile.

Nel 1963 l’allora ventottenne PETER BICHSEL prende parte ai Colloqui Letterari del corso di scrittura, che si tiene nella capitale tedesca, di Walter Höllerer; Berlino sembra ispirarlo profondamente e, un anno dopo, il successo bussa alla sua porta grazie a Eigentlich möchte Frau Blum den Milchmann kennenlernen e viene concepito il suo secondo libro, Die Jahreszeiten, un testo sul modello del nouveau roman. Come Nathalie Sarraute e Alain Robbe-Grillet, lo svizzero si chiede come la realtà possa essere rappresentata nella finzione: Bichsel non esibisce nel suo romanzo una figura centrale, un protagonista con il quale il pubblico possa facilmente identificarsi: ne scaturisce per il lettore una sensazione

 14 CHRISTOPH GEISER, « Im Freigehege », Neue Zürcher Zeitung, 22 settembre 1984, p. 70.

140  di disagio, un vuoto che si cerca di colmare con l’attenzione per i particolari, le cose, l’esistenza oggettiva. Va registrato, inoltre, un rifiuto della nozione di trama: l’azione è, infatti, insignificante, praticamente assente poiché rischia di distrarre il lettore. Il tempo non ha una scansione coerente: Bichsel nouveau romancier non bara, sovrappone gli attimi di finzione onirica con quelli di realtà, così come accade nella vita. L’autore non presenta alcuna idea precostituita e non cerca assolutamente d’imporsi al lettore: al contrario, lo educa per cercare di farne un critico letterario. Tornato in Svizzera, inoltre, sposta il luogo della rappresentazione che aveva pensato per il suo romanzo — l’appartamento berlinese — in una casa in affitto dalle parti di Solothurn. Ma il libro, in cui si vuole far coincidere l’esperienza narrata dall’autore con la teorie letterarie in voga all’epoca, non risulta, alla fine, un tentativo ben riuscito.

Totalmente diversi gli esordi di un altro scrittore di Solothurn, URS JAEGGI, classe 1931. Dal 1966 insegna Sociologia alla Freie Universität di Berlino; la città, scossa dalla ormai piena consapevolezza dei drammi consumatisi venti anni prima, lo affascina e, dopo una parentesi di pochi mesi a New York, decide di tornare nella capitale tedesca per stabilirvisi. Di Berlino Ovest apprezza la capacità di reagire con grande impeto, in maniera più libera e irritata rispetto alle altre città tedesche ed europee di ogni epoca. Una città inquieta sarebbe questa Berlino divisa, sottolinea ancora Jaeggi nel 1984, « immer nah am Wahnsinn ».15 La città, campo di battaglia degli eventi del Sessantotto, negli anni Settanta si trasforma, agli occhi dello svizzero, in un Eldorado: la rivoluzione è passata e la pace si propaga per le strade, nei vicoli e, ad esempio, nel verde ghetto di Zehlendorf, tanto amato da Jaeggi. Il contatto con la natura lo aiuta a curare i suoi periodi di depressione; nel’incessante camminare nei floridi parchi della capitale dà vita a lunghi monologhi contro le costrizioni che il matrimonio e altre istituzioni portano con sé. In Grundrisse, il romanzo di Jaeggi del 1979, l’atmosfera di letargo e narcisismo è così convincente, vicina e aderente alla realtà come di rado si trova in opere contemporanee elvetiche. L’eroe jaeggiano Albert Knie, che vive in un logoro e vecchio appartamento a Charlottenburg, rinviene nelle atmosfere

 15 URS JAEGGI, « Skizzen aus einer Stadt », Neue Zürcher Zeitung, 22 settembre 1984, p. 69.

141  berlinesi una quiete unica, « ein Augenblick von Abwesenhait, ein Ausklinken »16 che lo fanno sentire libero come in nessuna parte dell’universo; le teorie psicologiche e letterarie sembrano aver perso la loro forza, la poesia ha il potere di cambiar la vita.

La scrittrice GERTRUD LEUTENEGGER termina a Berlino — nel periodo che va dall’ottobre del 1973 all’estate del 1974 — la sua prima opera di successo, Vorabend (1975). All’epoca la locatrice della stanza nel quartiere di Dahlem dove vive, ascolta la radio tutto il giorno e così lei si ritrova a scrivere nei Cafés o nella sala di lettura del noto Rostlaube della Freie Universität. Racconti entusiastici di studenti zurighesi di ritorno da Berlino e relazioni altrettanto positive sugli interventi di Walter Benjamin, l’avevano spinta nella capitale tedesca. Il Berliner Chronik del filosofo e critico letterario tedesco, apparso già nel 1970 come proemio del Berliner Kindheit, ha appassionato la scrittrice svizzera e dato il suo contributo alla decisione di raggiungere la capitale tedesca. La Leutenegger a Berlino si concede così l’opportunità di ascoltare anche le lezioni di Walter Höllerer e ammirare Rudi Dutschke; è così stimolante la vita della Leutenegger nella capitale tedesca che mai l’avrebbe lasciata, ma dopo circa un anno di permanenza non sa più come procurarsi da vivere ed è costretta a rientrare in Svizzera. Tuttavia, come luogo di ambientazione dei suoi romanzi, Berlino continuerà a rappresentare lo scenario ideale: basti pensare al romanzo Ninive del 1977 dove la Leutenegger parla ancora, con un tono nostalgico, della città tedesca. Nella sicurezza della madrepatria elvetica risiede una sorta di luogo dell’anima in cui però non si riesce a dar voce alla propria arte: questo appare anche nell’alternarsi di tristezza e leggerezza nelle figure di MATTHIAS

ZSCHOKKE. Lo scrittore elvetico si trasferisce, quindi, alla ricerca di un giusto equilibrio, dal 1980, a Berlino. Nei suoi libri e film cerca stati intermedi tra l’ironia e la malinconia in cui fa muovere le sue figure che sono concepite seguendo una sorta di giocoso esistenzialismo. La Berlino di Zschokke non è il palcoscenico sul quale si svolgono gli eventi della storia mondiale, neanche dopo il 1989; non è la storia — come invece avviene in molte opere di altri autori scritte

 16 ID., Grundrisse, Köln, Luchterhand, 1981, p. 15.

142  in questo periodo e ambientate nella capitale tedesca — a far da sfondo alle vicende narrate: i cambiamenti interiori dei protagonisti passano attraverso le mutazioni nei colori delle strade, nell’abbigliamento delle persone, nei piccoli particolari; tutto, però, improvvisamente, anche a Berlino sembra diventare più soffocante e il vero momento che vale la pena trasporre in prosa, sotto forma di dialogo, nella scena di un film o di un’opera teatrale non è un’esperienza di vita o la grande storia mondiale, ma un istante, il mutamento di un attimo, il progredire lento di un’esistenza umana. Per Zschokke sembra che la riconciliazione con il mondo occidentale avrebbe comportato la normalizzazione della Germania, una perdita di ogni tratto peculiare di quella che era stata la sua identità; tale smarrimento, l’oscillazione tra l’affermazione della propria natura e la nuova realtà nazionale, ha reso necessario uno sforzo di ‘reinvenzione’, una ricostruzione della memoria, una ristrutturazione del paesaggio urbano di Berlino che ha come prima conseguenza la sofferenza per una mancanza di concretezza, la realtà dai contorni appena accennati. Nello scrittore di Berna tutto questo ha come conseguenza il bisogno di ritiro in località isolate e la necessità di un ritorno alle origini che costituiscono proprio gli ingredienti principali del libro Der dicke Dichter (1995). Similitudini sono riscontrabili con Ein großes bißchen Freiheit (1995) di

PETER BICHSEL, riflessioni risalenti al 1990. Subito dopo il suo arrivo nella capitale tedesca, il narratore vuole rendersi conto personalmente della « Veränderung West- ».17 La ricerca della nuova città, di cui aveva sentito parlare con molto entusiasmo dagli amici, è arrivata alla prova della percezione personale: « Ich saß in einer Kneipe, und am Nebentisch waren nun endlich vier Ostberliner, d. h. ich glaubte sie als solche erkennen zu können. Hätte ich nicht plötzlich ihre Sprache erkannt, ich würde sie jetzt hier beschreiben, aber es waren zu meiner Überraschung Amerikaner ».18 Il narratore non avrebbe notato da subito « daß in dieser Stadt fast Unvorstellbares geschieht, Wichtiges und Epochemachendes »19, ma nonostante il peso degi eventi di importanza mondiale,

 17 PETER BICHSEL, Ein großes bißchen Freiheit, in ID., Kolumnen, Kolumnen, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2005, p. 396. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 397.

143  l’essenza dello spirito della Berlino Ovest, osserva Bichsel, non aveva subìto grandi cambiamenti e lo scrittore nato a Lucerna arriva perfino ad affermare che non c’erano stati cambiamenti a Berlino Ovest.20 Con questa provocazione Bichsel vuole innanzitutto sottolineare che il mutamento è molto lungo e complesso, assai più complicato di quanto non si possa dedurre dalle parole delle persone che troppo facilmente sembrano entusiasmarsi e si limitano a valutare la città soltanto in base alle trasformazioni superficiali e, in secondo luogo, egli cerca di esorcizzare la nostalgia per la città che non c’è più, per « eine andere Stadt, die ich mal sehr liebte — vorbald dreißig Jahren —, sie erinnert mich an ein West-Berlin, das noch nicht reich war, noch nicht ganz eingenommen war vom westdeutschen Wirtschftswunder, das ein bißchen schmutzig war, ein bißchen improvisiert und ein großes Bißchen frei ».21 Lo scrittore si abbandona così ai ricordi di una Berlino Ovest che non c’è più. La città perduta — come sempre più spesso accade negli scrittori del Novecento che ambientano le loro storie nella capitale tedesca — domina sul presente.

 20 Cfr. ibidem. 21 Ivi, p. 398.

144  2.5 LETTERATURA DI VIAGGIO: TRE CASI ESEMPLARI

Parlare di letteratura di viaggio — nozione assai dibattuta dalla critica letteraria — in relazione alla Letteratura Svizzera, sulla cui esistenza, come si è detto nel primo capitolo del presente lavoro, c’è chi nutre forti dubbi, appare a dir poco complesso. Non si proverà in questa sede a fornire risposte in merito agli affannosi interrogativi su cosa si intenda per letteratura di viaggio o cosa si debba far rientrare nel suddetto genere letterario, ma si converrà che esiste una letteratura — fino a non molti anni fa ritenuta inferiore rispetto a generi ‘alti’ come il romanzo o il poema — per lo più autobiografica, che ha come caratteristica principale lo spostamento di un soggetto — o di più soggetti — e la narrazione di quel che avviene durante il viaggio, fino al ritorno tra le quattro mura domestiche: « la proposta è quella di scoprire spazi nuovi in un cosmo dove tutto sembra ormai precostituito e di presentare itinerari percorsi da molti e “rivisitati” da ognuno secondo diverse prospettive ed esperienze culturali ».1 Partire, viaggiare e tornare sono i tre momenti che caratterizzano le opere appartenenti a questo genere, anche se spesso è uno degli aspetti a prendere il sopravvento sugli altri; si oltrepassa il confine, ci si confronta con un ‘mondo altro’, ci si arricchisce interiormente e si torna per raccontare la propria esperienza: « la letteratura di viaggio è per sua natura abituata a valicare i confini. Anzi, è proprio questo il suo primo carattere: attraversare la frontiera per vedere cosa c’è oltre, confrontare l’interno con l’esterno, il qua e l’altrove, per raccontare il confronto, traducendo e interpretando l’incontro con l’altro »2; si parte sempre per ritornare, quindi, anche quando il viaggio ha portato alla scoperta di una società ideale e a riflettere sul vizio e la corruzione della propria, e anche in quei casi in cui la meta tanto agognata e poi raggiunta è la scoperta, o la riscoperta, del proprio io più profondo. In Svizzera il vagabondaggio alla ricerca della propria interiorità affonda le sue radici nel Settecento, epoca in cui JEAN-JACQUES ROUSSEAU compone la

 1 MARIA ENRICA D’AGOSTINI (curatrice), La letteratura di viaggio: storia e prospettive di un genere letterario, Milano, Guerini, 1987, p. 11. 2 DOMENICO NUCERA, I viaggi e la letteratura, in ARMANDO GNISCI (curatore), Introduzione alla letteratura comparata, Milano, Mondadori, 1999, p. 128.

145  prosa poetica Rêveries du promeneur solitaire (1782) in cui sembra dar vita a quell’uomo di kantiana memoria dal temperamento malinconico, severo giudice di se stesso e degli altri, e prosegue nei secoli successivi, per citare due esempi 3 illustri, con CHARLES-ALBERT CINGRIA, — « flâneur plutôt que grand voyageur » che, a piedi o con mezzi di trasporto tra i più disparati, attraversa l’Italia, il Maghreb e la Turchia e che ha come motto « bouger, errer, ne se fixer jamais »4

—, e BLAISE CENDRARS che con La prose du Transsibérien (1913), « poème du voyage »5 come lo definisce Anne-Marie Jaton, canta il piacere dello spostamento fisico, la modernità, ma al contempo auspica un ritorno ai bei tempi dell’infanzia, all’innocenza e alla spensieratezza di quella fase della vita. In seguito Cendrars scoprirà il Brasile — che sarà considerato dall’autore romando una seconda patria6 — e darà alle stampe Bourlinguer (1948) che, a dispetto del titolo, si presenta per lo più come un invito a compiere viaggi fittizi, a muoversi con entusiasmo da una lettura a un’altra, piuttosto che a realizzare veri e propri spostamenti fisici. Nella Letteratura Svizzera del Novecento il motivo del viaggio, oltre che come mezzo per conoscere se stessi e il mondo, si presenta come opportunità di fuga; ogni viaggio descritto dagli autori elvetici ha inizio con una partenza, un distacco che appare come una delle poche risposte possibili per sfuggire alla condizione di isolamento e di emarginazione a cui conduce quella che Paul Nizon ha etichettato come schweizer Enge. Si possono analizzare tre casi emblematici all’interno della letteratura della Confederazione: quelli di ANNEMARIE

SCHWARZENBACH, ELLA MAILLART e NICOLAS BOUVIER. È il 6 giugno 1939: è terminata da poco la guerra civile spagnola con la vittoria del generale Franco, Mussolini ha invaso l’Albania e Hitler si appresta a occupare la Polonia facendo scoppiare il secondo conflitto mondiale. In un quadro dalle tinte così fosche, in tale clima di forte incertezza generale, le scrittrici e fotografe elvetiche ANNEMARIE SCHWARZENBACH ed ELLA MAILLART,

 3 ANNE-MARIE JATON, La « claustrophobie alpine » et la littérature de voyage (Blaise Cendrars, Charles-Albert Cingria, Nicolas Bouvier), in “Cahiers de l’Association internationale des études françaises”, (LIII) 2001, pp. 143-157. 4 CHARLES-ALBERT CINGRIA, Pendeloques alpestres, Genève, Editions Zoé, 2001, p. 57. 5 ANNE-MARIE JATON, La « claustrophobie alpine », cit., p. 152. 6 Cfr. BLAISE CENDRARS, Trop c’est trop, Paris, Editions Denöel, 1957, p. 158.

146  conosciutesi nell’inverno del 1938 a Yverdon, dove la svizzero-tedesca stava seguendo una cura per disintossicarsi dalla morfina, decidono di salire su una grande Ford Cabriolet e compiere un viaggio in Oriente che le spingerà sino ai punti più remoti di India e Afghanistan. L’esperienza viene narrata da Ella Maillart in La voie cruelle, deux femmes, une Ford vers l’Afghanistan (1947), dove la compagna di viaggio è descritta con lo pseudonimo di Christina, e parzialmente da Annemarie Schwarzenbach in Das glückliche Tal (1940), rielaborazione di Tod in Persien, un suo scritto del 1935-1936. Diversi gli stili delle due autrici in queste opere poiché differenti sono state le motivazioni che le hanno spinte a compiere il viaggio; la francofona decide di realizzare questa spedizione esclusivamente perché vede l’amica-amante vicina all’autodistruzione, con la dipendenza da alcool e droghe che sta bruciando il suo talento (« impossible de dire si c’est parce que je vous aime ou parce que je vous déteste, lorsque je vois des dons comme les vôtres pareillement gaspillés. Je parle des dons: vous n’en êtes pas l’auteur; ils affirment une intelligence plus magnifique que votre actuelle folie. Ne comprenez-vous pas que vous les avez reçus à seule fin de les faire fructifier? »7), la Schwarzenbach per espiare le sue colpe, per infliggersi una penitenza, ma anche, al contempo, per tentare una cura, una purificazione se è vero, come afferma Eric J. Leed, che « la partenza spezza i legami tra il peccatore e il luogo e le occasioni del peccato ed è una maniera per lasciarsi i guai alle spalle »8, per provare, quindi, ad arrivare alle radici del suo male dell’anima che, restando nel mondo civilizzato, mai avrebbe potuto raggiungere. Nell’universo occidentale purtroppo: das Leben […] bietet ja andere Hilfsmittel, um unbequeme und gefährliche Stimmen verstummen zu lassen: ordentlicher Lebenswandel, Mahlzeiten, Pflichten, Familienleben und Todesfälle, Tageszeitung, Gerichtsverhandlung, geselliges Zusammensein alter Klassenkameraden, Ünglücksfälle und Verbrechen, Dichterehrung, Nationalgefühl und Bildung, Kirchenbesuch und « Wert des Landesfeinden » und ein Fußballspiel am Siebenten Tag; alles Anregung und Ablenkung, bis das Gewissen versenkt ist in der stillen Bucht und der ungestillte, ewig jugendliche Drang des Menschenherzens verebbt in schöner Bescheidenheit ».9

 7 ELLA MAILLART, La voie cruelle, Lausanne, Editions 24 heures, 1987, p. 36. 8 ERIC J. LEED, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 21. 9 ANNEMARIE SCHWARZENBACH, Das glückliche Tal, Bern, Huber Verlag, 1987, pp. 17-18.

147  In quel mondo civilizzato, secondo l’analisi della Maillart, nessuno era riuscito, fino a quel momento, ad arrestare il cammino dell’amica verso l’autodistruzione: J’avais érigé en principe que ceux et celles qui lui étaient venus en aide jusqu’alors, la chérissant trop, avaient été trop bouleversés par sa peine, trop disposés à la laisser agir à sa guise. Orgueilleusement, j’avais l’espoir de réussir où ils avaient échoué parce que je n’étais pas comme eux et que je n’aimais pas Christina de la même manière c’était peut-être la raison pour laquelle j’avais une certaine emprise sur elle.10

Per Kini, questo il soprannome della ginevrina, era necessario trattare l’amica in difficoltà « comme un homme, ne montrant aucune émotion ni tendre faiblesse dont elle pourrait se servir pour sa perte »11; tale vigore, la ricercata aridità di sentimenti si ritrovano anche nello stile di La voie cruelle: l’opera è un puro resoconto di viaggio, tutto è osservato con occhio da reporter e descritto in maniera estremamente sintetica, quasi come se dovesse rispondere alle esigenze di impaginazione dei giornali; viene detto l’essenziale — seguendo l’insegnamento di Ryszard Kapuściński secondo il quale « il viaggio a scopo di reportage esclude qualsiasi curiosità turistica, solida preparazione teorica, per esempio la conoscenza del terreno su cui ci si muove »12 — perché non si è quasi in grado di dire di più, la curiosità prevale su ogni altro impulso, si osserva quel che è intorno con distacco e si è spettatori di se stessi come degli altri: « il me serait donc impossible de jamais souffrir aussi intensément que Christina: je ne peux pas être prise au piège d’un spectacle auquel j’assiste. Il est évidemment possible qu’originellement Christina ait, dans un éclair, été fascinée par un rôle tourmenté à jouer pour la vie ».13 La donna tormentata di cui parla la Maillart si rinviene anche nell’io- narrante, afflitto dalle vicissitudini dell’esistenza, di Das glückliche Tal, opera che si presenta non solo come un mero resoconto di viaggio ma, come afferma la Schwarzenbach stessa in una lettera del 1935 a Klaus Mann, un diario impersonale14, un’autobiografia con qualche licenza poetica per giustificare, alla  10 ELLA MAILLART, La voie cruelle, cit., p. 31. 11 Ibidem. 12 RYSZARD KAPUŚCIŃSKI, Autoritratto di un reporter, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 13. 13 ELLA MAILLART, La voie cruelle, cit., pp. 77-78. 14 Cfr. CHARLES LINSMAYER, L’opera e la vita di Annemarie Schwarzenbach, in ANNEMARIE SCHWARZENBACH, La valle felice, Ferrara, Tufani Editrice, 1998, p. 142.

148  maniera di un altro grande viaggiatore come Bruce Chatwin, un nomadismo necessario per non morire di tedio, di noia quotidiana, di non conoscenza di se stessi e degli altri. In Persia, Annemarie, che rispetto all’amica viaggia spinta più dall’inquietudine che dalla curiosità, non trova la pace ma uno spazio che l’aiuta a riflettere sul mondo che si è lasciata alle spalle; uno dei biografi della Schwarzenbach, Areti Georgiadou, scrive: Vorderasien wird für sie zum ureigensten Ort der Auseinandersetzung mit sich und der Welt werden. Hier, wo die gemeinsame europäische Kulturgeschichte beginnt, wird sie ihre Abkehr von Europa zelebrieren. Annemarie Schwarzenbach wird nicht nur eine Reisende in Persien sein, nicht nur eine Besucherin, sondern eine Frau, die in den Weiten und den Wüsten dieses Landes das Schicksal ihres untergehenden Heimatkontinents reflektiert und betrauert. Die persischen Berge werden die bombastische Kulisse für ihren Weltschmerz, ihre Heimatlosigkeit und Entwurzelung sein.15

Tuttavia, se da un lato la Schwarzenbach vuole fuggire da un mondo occidentale globalizzato, in Oriente non trova un luogo edenico: è tutto già corrotto, vinto dal male, l’occidente colonialista ha ormai fatto irruzione, nulla appare agli occhi della scrittrice puro e incontaminato, per cui « was sich in mir sammelt, ist Schweigen »16, a riecheggiare incontrastato è « der aussichtslose Schrecken der Nachtstunden »17 e a vincere su tutto, come descritto nelle tre pagine che compongono il nono capitolo di Das glückliche Tal, è una solitudine che fa paura. Il viaggio come semplice fuga da un’esistenza troppo monotona e necessario per svolgere un’esperienza interiore fallisce in quanto la Schwarzenbach non è in grado di liberarsi dai suoi vizi occidentali che riesce facilmente a continuare a nutrire anche in Oriente, insieme alle sue illusioni, alle sue paure, e, si potrebbe dire, all’intero bagaglio della sua mente. « Perché ti stupisci che viaggiare non ti serve? Tu porti in giro te stesso: ti perseguitano i medesimi motivi che ti hanno fatto fuggire »18 scrive Seneca, ricordando Socrate, al poeta satirico Lucilio; il concetto è applicabile anche alla scrittrice zurighese: la condizione necessaria per rendere proficua l’esperienza  15 ARETI GEORGIADOU, « Das Leben zerfetzt sich mich in tausend Stücke » Annemarie Schwarzenbach. Eine Biographie. Frankfurt/New York, Campus Verlag, 1995, p. 125. 16 Ivi, p. 25. 17 Ivi, p. 33. 18 SENECA, Lettere a Lucilio, Santarcangelo di Romagna, Rusconi Libri, 2008, p. 60.

149  indiana è quella di lasciarsi alle spalle il vissuto, il pesante fardello delle sue opinioni e di quelle altrui; la sua malattia è un disagio, un tormento che non ha contorni precisi e, proprio in virtù di questa indefinitezza, complicato da sconfiggere è un taedium vitae insito in lei, uno status da cui non riesce a liberarsi perché impossibile da affrontare direttamente; così ancora Seneca scriveva a Lucilio: Pensi che sia capitato solo a te e ti stupisci come di un fatto inaudito di non essere riuscito, pur avendo viaggiato a lungo e in tanti posti diversi, a liberarti dalla tristezza e dalla noia. Devi cambiare il tuo animo, non il cielo sotto cui vivi. Anche se attraversi il vasto mare; anche se, come dice il nostro Virgilio, scompaiono all’orizzonte terre e città, i tuoi vizi ti seguiranno dovunque andrai.19

È inutile provare a raggiungere la serenità ricercando lande esotiche e ignote, senza aver raggiunto un equilibrio interiore: « un viaggio, di per sé, che giovamento ha mai potuto dare? Non modera i piaceri, non frena le passioni, non reprime l’ira, non fiacca gli indomabili impulsi dell’amore; insomma, non libera l’anima da alcun male. Non rende assennati, non dissipa l’errore ».20 A Ella Maillart, ad esempio, effettivamente sembra non restare altro che riconoscere l’errore, il fallimento con Annemarie: talmente forte è stata l’intensità con cui ha provato ad aiutare l’amica, che lo sforzo compiuto l’ha ben presto sfiancata e le sue intenzioni si sono vanificate: « si la bonté avait été inhérente en moi, j’aurais aidé Christina d’une manière toute détachée et toute simple, ne pouvant pas faire autrement, comme le soleil réchauffe ou comme on tend la main à l’enfant qui tombe ».21 Non è semplice, in ogni modo, arrivare a comprendere cosa ci sia dietro tanta infelicità interiore della Schwarzenbach; un peso rilevante ha senza dubbio l’omosessualità riconosciuta, tollerata ma non pienamente accettata che ha raccontato esplicitamente nei suoi primi scritti, suscitando l’irritazione dei familiari e l’ipocrita indignazione dei critici che l’hanno portata a convincersi in Das glückliche Tal, per evitare la facile identificazione dei protagonisti con l’autore storico, a far descrivere l’amore per una donna da un narratore e un protagonista maschili. Il risultato non è dei migliori se è vero, come nota  19 Ivi, pp. 59-60. 20 Ivi, p. 320. 21 ELLA MAILLART, La voie cruelle, cit., p. 211.

150  Linsmayer22, che non basta, per rendere tutto credibile, dar vita a un personaggio maschile affidandogli una sensibilità spiccatamente femminile e trasformare un inconfondibile amore lesbico in un rapporto eterosessuale. L’insuccesso della metamorfosi si avverte, in particolar modo, nella descrizione del sentimento del protagonista del romanzo del 1940 per un’abitante della ‘valle felice’, Jalé: Als dann Jalé kam, wollte ich zuerst nicht glauben, dass es den einfachen und sanften Trost zwischen zwei Menschen geben könne. Und als man ihn uns wieder entriss, hätte ich auch diesen Kummer noch als gerecht empfunden, obwohl die strenge Gerechtigkeit des Ausser-Menschlichen uns bitter und unbegreiflich ist: aber man kann sich ja nicht auflehnen.23

L’attrazione omosessuale provata dalla Schwarzenbach ha uno spessore marcatamente narcisistico, nel senso che sembra basata sul tentativo illusorio ed effimero di compensare le proprie carenze affettive, le incertezze, la sensazione d’inadeguatezza che la accompagna in ogni istante di vita, sul desiderio di affermare se stessa, sentirsi più completa e colmare le carenze della propria identità provando quasi a impossessarsi delle qualità della persona dello stesso sesso. Nella Schwarzenbach il bisogno di relazioni si fa più acuto in presenza di forti delusioni, di solitudine e in ogni circostanza vissuta con una sensazione costante di debolezza interiore; ma anche la relazione omosessuale appare una falsa soluzione che, invece di guarire la ferita aperta, finisce per dar nuova linfa a quell’immagine di sé negativa e imperfetta: « ich sah dann ein, dass man sich in jenem Land auf kein Gefühl einlassen und auf keine Hoffnung verlassen dürfe, die den Ablauf der grossen Trostlosigkeit zu stören versucht »24 dichiara infine la zurighese. Per le attrazioni provate dalla Maillart non si può fare lo stesso discorso; Ella può sentirsi turbata dai suoi sentimenti (« Nous sommes émues. Ce cauchemar semble indiquer qu’il y a entre nous des correspondances plus profondes que nous pouvions le supposer »25) ma riesce a vivere in armonia facendo coincidere le regole fondamentali del vivere reale e la sua natura e, dunque, raccordando tutte le componenti della sua forte personalità:

 22 Cfr. CHARLES LINSMAYER, L’opera e la vita di Annemarie Schwarzenbach, in ANNEMARIE SCHWARZENBACH La valle felice, cit., p. 151. 23 ANNEMARIE SCHWARZENBACH, Tod in Persien, Basel, Lenos Verlag, 1995, p. 80. 24 Ivi, pp. 79-80. 25 ELLA MAILLART, La voie cruelle, cit., p. 38.

151  Pour ceux qui s’identifient complètement à leur corps, il serait déplorable qu’ils soient attirés par leur propre sexe. Certains lois physiologiques étant ignorées, la première conséquence serait une profonde frustration bientôt suivie sur le plan mental par un déséquilibre et une certaine morbidité. Mais pour ces êtres d’une qualité exceptionnelle, et qu’on rencontre rarement, qui s’identifient à leur faculté de penser, qui savent que la pensée seule existe, car sans pensée il n’y aurait ni corps ni monde objectif, la question a moins d’importance; l’être mental n’a pas de sexe, ou plutôt il comprend les deux sexes alternativement, ou simultanément. De temps à autre le corps peut alors s’insurger parce qu’il est oublié, mais puisqu’il est conditionné par la pensée dont il n’est qu’un outil momentané, il n’est pas en son pouvoir de déséquilibrer l’être pensant. Pour ces personnes extraordinaires, il n’est pas grave qu’elles ne suivent pas les lois de la nature.26

Il nucleo del malessere nell’anima della Schwarzenbach è probabilmente da ricercare nella sensazione di non sentirsi, riprendendo le espressioni della Maillart, una persona straordinaria e, di conseguenza, nel non riuscire ad accettare di aver oltrepassato — e di continuare ripetutamente a oltrepassare — quelle che vengono ritenute le leggi della natura; per la scrittrice e fotografa di Zurigo, strumenti per lenire il male di vivere sono i libri: Genau gesagt, sind es fünf Bücher: ein dicker Band « Cambridge Ancient History »; ein Büchlein mit rotem Dekkel, « Pottery of the Near East », vom British Museum herausgegeben; die Briefe Diotimas an Hölderlin; Marcel Brions « La Résurrection des Villes Mortes » und ein englischer Roman, den ich nicht gelesen habe. Die Auswahl dieser Bücher ist nicht zufällig, sie verändert sich nicht von Tag zu Tag und wird nicht bereichert. Es sind immer die gleichen vier Bände, in denen ich blättere, und der fünfte Band, den ich liegen lasse. Vielleicht habe ich einmal, ganz am Anfang, als ich meine Siebensachen für die Reise zusammenpackte, diese Bücher zufällig zur Hand genommen und ausgewählt. Ich hatte keinen Platz zu verschwenden und beschränkte mich daher auf fünf Bände. […] Aber jetzt sind die Bücher da, in meinem Zelt — ich denke, die Bibel in einem Bauernhaus nimmt einen ähnlichen Rang ein —, und jede Seite ist mir unersetzlich wie das Hemd, das ich trage, wie die Tabakspfeife in meiner Tasche. Gegenstände haben in dieser Einsamkeit eine neue Bedeutung. Ihr Dasein bestätigt mir das meine, ich vergewissere mich ihrer, um sicher zu sein, daß ich noch da bin, ein isoliertes Lebewesen, ein Mensch, und daß ich einen Namen trage, eine Herkunft habe, auf irgendeinem Weg bis hierher gelangt bin ».27

In questa sorta di ‘biblioterapia’ della scrittrice elvetica i libri forniscono risposte e certezze che non si trovano altrove e negli altri e, per di più, permettono, seppur per un breve lasso di tempo, di calarsi in un’altra realtà, fantasticare e vedere nella propria mente immagini che nulla hanno a che fare con  26 Ivi, pp. 144-145. 27 ANNEMARIE SCHWARZENBACH, Das glückliche Tal, cit., pp. 29-30.

152  la sua difficile quotidianità; ma se la Schwarzenbach ricorda soltanto cinque libri come compagni della sua traversata in Oriente, la Maillart in La voie cruelle sostiene: nous voyagions avec une rangée de livres fixés au-dessus de notre dossier. Le pauvres volumes étaient terriblement secoués, mais c’était une joie de pouvoir mettre la main sur l’ouvrage désiré au moment voulu. Cahotant l’un contre l’autre, il y avait là Marco Polo, Paul Pelliot, Evans-Wentz, Vivekananda, Maritain, Jung, une vie d’Alexandre le Grand, René Grousset, le Zend-Avesta.28

Oltre alla lettura, ulteriore mezzo per Annemarie Schwarzenbach per attenuare il suo malessere interiore è rappresentato dalla scrittura: « Schreiben war für Annemarie Schwarzenbach zunächst einmal eine Art Therapie: ein Mittel, um Seelenängste einzudämmen und zu meistern »29 sostiene Charles Linsmayer. L’autrice di Zurigo mette per iscritto i suoi pensieri, le gioie e i dolori come se si trattasse di un processo psicoterapeutico, ogni pagina è liberatoria, un mezzo per provare a sostenere tutti quegli avvenimenti che apparentemente le sembrano insopportabili, per dar voce a quell’ansia in lei troppo ingombrante, per estrinsecare paure e incertezze: « Manchmal frage ich mich, warum ich alle diese Erinnerungen aufschreibe. Würde ich sie fremden Menschen zu lesen geben wollen? Würde ich mich in ihre Hand geben wollen oder, wenn nicht ihnen, auch nur Nahstehenden, guten Freunden? Aber was gebe ich hier schon aus der Hand! ».30 Da offrire la Schwarzenbach ha pensieri riordinati, un animo calmo, le angosce placate che le permettono di esprimere al meglio le sue sensazioni e il mondo circostante: Ich frage mich also nicht so sehr, weshalb ich mich preisgebe, sondern viel eher, warum ich überhaupt schreibe. Denn es ist gewiss nicht leicht, es zu tun; es ist eine furchtbare und wahrscheinlich fruchtlose Anstrengung. Man muss sich erinnern, und wenn auch die Erinnerung mich und ebenso sicher meine Schicksalsgenossen keinen Augenblick freigibt, so brauchen wir doch wenigstens nichts davon zu wissen […] Starke Leute schütteln solche Versuchungen, die wie Krankheiten sich einschleichen, lachend gab. Kluge reisen rechtzeitig nach Hause. Aber viele sind schwach, und ich bin “der schwächsten einer”.31

 28 ELLA MAILLART, La voie cruelle, cit., p. 155. 29 CHARLES LINSMAYER, Annemarie Schwarzenbach. Ein Kapitel tragische Schweizer Literaturgeschichte, Bern, Huber Verlag, 2008, p. 60. 30 ANNEMARIE SCHWARZENBACH, Tod in Persien, cit., p. 73. 31 Ivi, pp. 73-74.

153  Annemarie da debole — e probabilmente da ‘saggia inconsapevole’ — anela al ritorno a casa; la nostalgia dei luoghi natii, dei volti di sempre a cui sente di infondere dispiaceri con le sue scelte di vita e i suoi innamoramenti difficoltosi, vissuti come ingiusti e contro natura, è sempre presente in lei come uno degli stati del dolore; la nostalgia è senz’altro malattia: « Oft sprechen wir über Persien, es lohnt sich gewiss, sich über seine vielen Herrlichkeiten und Merkwürdigkeiten zu unterhalten. Aber wenn jemand Heimweh hat, spricht er nicht darüber — und das ist doch nur die erste Stufe des Leidens ».32 Partita per lasciarsi alle spalle la propria realtà, quasi subito la Schwarzenbach prova nostalgia di casa e si abbandona a domande senza risposte sulla sua identità: « Ich: Gast, Fremder, Abenteurer, was noch? Neugierig, wissensdurstig, ungeduldig, unterwegs-allein ».33 La scrittrice utilizza aggettivi che offrono, in una sintesi estrema e raffinata, le caratteristiche della sua anima inquieta e se non esiste angolo del mondo dove i venti non hanno accesso e dove non si incrocino strade che, prima o poi, riportino a casa34, un viaggio non può, in alcun modo, volgersi in una esperienza positiva. Diversa la predisposizione d’animo di Ella Maillart che sostiene: « Je souhaiterais que le voyage pût se prolonger toute la vie; rien ne m’attire en Occident où je sais bien que je me sentirai seule parmi mes contemporaines, dont les préoccupations me sont devenues étrangères ».35 Ma Annemarie Schwarzenbach riconosce che ovunque possono essere rinvenute tracce di casa, se ne possono ritrovare di tanto in tanto gli odori, le ombre e i contorni, anche in mondi che sarebbero rimasti ignoti nella cronicità della consuetudine; dalla realtà, da quel che si è, non si può fuggire: « Gras ruft hundert Erinnerungen wach, warmes Heu ist eine Welt von Vertrautheiten. Zu Hause grenzten Wiesen an unseren Garten, im Sommer hörte man früh morgens die Mäher und stieß die Fensterläden auf. […] Und Alpwiesen, am Rigi, am Mythen, im Engadin! ».36 Nella rapida sovrapposizione tra il paesaggio dell’Engadina e l’attuale territorio dell’altopiano iranico si svela, agli occhi del lettore, anche l’affannosa  32 Ivi, pp. 74-75. 33 ANNEMARIE SCHWARZENBACH, Das glückliche Tal, cit., p. 60. 34 Ivi, p. 54. 35 ELLA MAILLART, La voie cruelle, cit., p. 77. 36 ANNEMARIE SCHWARZENBACH, Das glückliche Tal, cit., p. 54.

154  ricerca di una patria, altro motivo di sofferenza per la scrittrice di Zurigo; essere cittadina del mondo per la Schwarzenbach vuol dire, in un certo qual modo, non appartenere a nessun luogo, avere come uniche radici esclusivamente ricordi di case, vie, chiese, viali ombrosi: Aber ich muß noch vergessen, daß ich mich befreien wollte. Daß ich eure Kirchen verließ, eure Gerichtssäle, eure Spitäler. Daß ich mich auflehnte gegen eine irdische Gewalt, Buße tat vor einer himmlischen, und Rede und Antwort stand. Ich muß die Katheder und Kanzleien vergessen, und den Geruch der Apotheken, den Staub der Museen, die heilkräftige Luft der Sanatorien. Die Druckereien der Zeitungen, des Nachts hell erleuchtet, mit ihren rastlos stampfenden Maschinen. […] Ich muß die schattigen Alleen vergessen, die Pappeln Napoleons, die gepflegten Pfade der Nationalparks, die Kindheitswege. Und noch viel mehr.37

È motivo di disagio nella scrittrice appartenere a un territorio non particolarmente ampio e spazioso, dove le identità sembrano non avere alcun valore, un posto pieno di contraddizioni da appianare, sulla carta fondato sulla tolleranza ma nella realtà basato su un perbenismo intollerante, un paese dove si può decidere di deporre le armi dei conflitti internazionali e osservare le battaglie da spettatori (« Ihr wollt in Frieden leben, und die Schlachtfelder der neuen Kriege sind zu nah: sie grenzen schon an eure Gärten… »38), mentre appare impresa assai ardua vincere le lotte interiori: « Werden irgendwo Schlachten geschlagen? Auch ich bin ihnen entgangen, allen Gefahren glücklich entronnen, ich habe Arbeit gefunden, eine friedliche Existenz, das Glück wird sich einstellen. Ich werde es mir verdienen. Und werde heimatberechtigt sein ».39 Il continuo vagabondare rispecchia l’intima aspirazione della scrittrice a un’altra patria e il suo viaggio lungo e solitario improvvisamente assume le sembianze di una fuga, una tragica corsa inarrestabile verso la disperazione. Può sembrare una fuga anche quella tentata dalla compagna di viaggio di Annemarie Schwarzenbach, Ella Maillart, ma, anche in questo caso, lo stesso concetto applicato alla scrittrice francofona si offre al critico e al lettore con caratteristiche diverse: si tratta di una evasione dai confini fissati storicamente e geograficamente, è una fuga che si caratterizza come un dichiararsi e sentirsi cittadina del mondo: « Paris n’est rien, ni la France, ni l’Europe, ni les Blancs […]  37 ANNEMARIE SCHWARZENBACH, Das glückliche Tal, cit., pp. 84-85. 38 Ivi, p. 81. 39 Ivi, pp. 72-73.

155  une seule chose compte, envers et contre tous les particularismes, c’est l’engranage magnifique qui s’appelle le monde ».40 Non sentire di appartenere a nessuna etnia e a nessuna nazione (« Je n’appartiens à nulle part — à moins que ce soit à partout »41) ma credere in un unico popolo, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza, gli interessi del mondo al di sopra di quelli locali: « ce vol miraculeux me donna des haut-le-cœur, mais activa mes pensées: je n’étais plus uniquement Suissesse ou Européenne; je me sentais liée au monde dans son ensemble ».42 Lo scopo del peregrinare della Maillart nei luoghi più remoti della terra è quello di rintracciare uno stile di vita ancora puro e intatto, uno stato primordiale che possa rappresentare un’opposizione forte e decisa allo stile fatto di inquietudini dell’uomo occidentale: « Je veux entrer en contact plus direct ave les femmes indigènes, en ville et à la campagne. J’aimerais trouver un village où je puisse habiter et travailler aux champs avec les femmes ».43 Per la Maillart l’Asia è preistoria, è il ritorno a una concezione del viaggio come fuga nel tempo e nella memoria, un percorso appassionante e spirituale verso quella zona ideale e senza tempo che può essere, appunto, identificata come preistoria. Dunque il fascino dell’Asia di un passato remoto deriva anche da un altro aspetto: la sua collocazione in una zona atemporale che la rende immobile ed eterna. Tale concezione del viaggio attraverso il tempo, ricorda molto da vicino ciò che Moravia esprime in Lettere dal Sahara (1981): Io non viaggio nello spazio ma nel tempo o se preferisci nella storia. Per me, andare negli Stati Uniti, vuol dire fare un viaggio nel futuro; in certi paesi arabi, tornare indietro ad un passato medievale; visitare Londra o Parigi, tuffarmi nell’atmosfera della seconda metà dell’Ottocento; percorrere l’Unione Sovietica, rivisitare l’epoca liberty, tra la fine dello zarismo e l’inizio della rivoluzione. Ma finora non mi era mai accaduto di fare un viaggio fuori del tempo, cioè fuori dalla storia, in una dimensione — come dire? — astorica, religiosa. Il viaggio nel Sahara ha colmato, come si dice, questa lacuna.44

 40 ELLA MAILLART, Oasis interdites, Lausanne, Le livre du mois, 1971, p. 288. 41 EAD., La voie cruelle, cit., p. 216. 42 EAD., Croisières et caravanes, Paris, Éditions Payot & Rivages, 1993, p. 275. 43 EAD., Des monts Célestes aux sables Rouges, Paris, Éditions Payot & Rivages, 2001, pp. 242- 243. 44 , Lettere dal Sahara, Milano, Bompiani, 2000, p. 67.

156  La ricerca di un’epoca diversa dalla propria nella quale immergersi è una costante del peregrinare di Moravia, così come di quello della Maillart, ma ciò che affascina maggiormente questi autori non sono i luoghi ricchi di storia che si possono trovare in Europa o in Asia, bensì la costante ricerca — come sostiene De Pascale per lo scrittore romano, ma che può valere anche per la ginevrina — di « un luogo che non sia città, di una storia che non sia quella occidentale, di una vita che non abbia in sé i caratteri artificiali e meccanici della modernità ».45 Da questo punto di vista l’interesse per l’Asia, in particolare l’India, e l’atteggiamento di Ella Maillart verso la sua conoscenza e comprensione, ricordano uno dei temi più antichi della letteratura odeporica dell’Occidente: il mito degli Antipodi, secondo il quale dall’altra parte della terra esiste un popolo tanto diverso da quello dell’emisfero in cui si vive da costituirne l’esatto contrario. Tale mito, che si fa risalire alla dottrina pitagorica e che poi rimarrà modello della concezione del mondo medievale, rispecchia un atteggiamento costante e universale dell’uomo nella visione di un popolo che è al di fuori della propria cultura: il mondo sconosciuto viene visto e vissuto in quanto ‘opposto’, diverso da sé e viene poi descritto in rapporto al proprio mondo; sia in positivo che in negativo, l’Altro viene visto, descritto e giudicato attraverso un metro che ha come punto di riferimento la propria cultura, così che ci appare sempre filtrato, mediato. Nell’interesse verso l’India c’è la ricerca costante degli Antipodi, dell’altra metà di sé, la parte opposta ma complementare alla propria cultura, anche per lo scrittore svizzero di adozione HERMANN HESSE. Per l’autore di Siddharta (1922) l’India rappresenta una terra sempre agognata, sognata, nella quale rifugiarsi, lontano dal difficile rapporto con la moglie e dall’Europa che percepisce più debole, impoverita ed eccessivamente egoista. Nel settembre del 1911 Hesse salpa da Genova verso l’Asia, dove rimane tre mesi senza mai, però, vedere l’India: troppo forte la paura della delusione di cui ha già sentore in Malesia, a Singapore e negli altri posti del continente asiatico visitati. Per il premio Nobel per la Letteratura del 1946 rappresentano un vero incanto i paesaggi ameni ma la cultura

 45 GAIA DE PASCALE, Scrittori in viaggio, Torino, Bollati Bordigheri, 2001, pp. 111-112.

157  del luogo, la spiritualità tanto ammirata dalla lontana Europa, si rivela al di sotto delle attese: tutto agli occhi di Hesse appare già occidentalizzato e globalizzato. Anche secondo un altro grande intellettuale del Novecento, Tiziano Terzani, vissuto per trent’anni in Asia, la diversità tra Occidente e Oriente viene meno per via della globalizzazione che ha eliminato molte barriere ideologiche, mentre i confini, a ben vedere, risultano utili perché strutturano, generano scambio. Nelle sue peregrinazioni, Terzani scopre che « il mondo è un complicato mosaico di paesi, ciascuno con le sue frontiere da varcare »46 ma quando interviene la globalizzazione ad appiattire tutte le differenze e a soffocare con progresso e modernità, l’Oriente diviene « sempre più una brutta copia di casa nostra »47; quel che provoca grande dispiacere in Terzani è che l’occidentalizzazione dell’Asia « strangola la sua cultura, mentre la passione del nuovo materialismo spezza i legami tradizionali, distrugge i vecchi schemi di valori e toglie la fiducia in tutto ciò che non è riconducibile al denaro ».48 Si rivolge all’Oriente, dopo un’iniziazione lappone, anche l’altro grande viaggiatore elvetico NICOLAS BOUVIER. Proprio come Ella Maillart, lo scrittore di Grand-Lancy, consapevole dei limiti della società occidentale, va alla ricerca delle origini dell’uomo, di una condizione primigenia che diventi inevitabile premessa di una vita altra, di un luogo, dunque, dove si rinvengono le prime tracce scritte dell’umanità49. La tentazione orientale di Bouvier ha anche altre ragioni che si avvicinano maggiormente alle ricerche compiute nel continente asiatico da Tiziano Terzani, nella visione di un qualcosa di eterno, in cui vita e morte non sono un inizio e una fine, ma soltanto punti che si ripetono in un movimento circolare. Anne Marie Jaton, inoltre, nota che « le choix de sa destination implique entre les lignes — et parfois même explicitement — un refus serein de l’européocentrisme et du judéo- christianisme dominant dans notre culture »50: Bouvier non dimentica né rinnega le sue origini europee a cui resta inevitabilmente legato ma nel suo peregrinare va

 46 TIZIANO TERZANI, Un indovino mi disse, Milano, TEA, 2008, p. 313. 47 ID., Un altro giro di giostra, Milano, Longanesi, 2004, p. 249. 48 ID., Un indovino mi disse, cit., p. 68. 49 Cfr. ANNE MARIE JATON, Nicolas Bouvier. Paroles du monde, du secret et de l’ombre, Lausanne, Presses polytechniques et universitaires romandes, 2004, p. 27. 50 Ivi, p. 28.

158  alla ricerca della sensazione di non appartenere ad alcun luogo51 e sembra convinto che la necessità di vagabondaggio sia una risposta all’educazione eccessivamente bigotta e rigorosa che gli è stata impartita da bambino. L’invito, quindi, che fa Bouvier, prima di tutto a se stesso e poi ai lettori, è quello di smarrirsi, di allentare le radici che tengono ancorati alle abitudini, alla quotidianità, alle certezze ed è molto simile all’invito che fa Rudyard Kipling di assaporare ogni aspetto del paese che si va a visitare partendo dagli odori e gli aromi che lo rendono unico, anche se Anne Marie Jaton riscontra affinità con un altro intellettuale svizzero, CHARLES-ALBERT CINGRIA (« nomade impénitent, flâneur plutôt que grand voyageur, il parcourut, avec les moyens de transport les plus disparates, l’Italie, le Maghreb, la Turquie et surtout les petites routes de la Suisse elle-même »52) e l’autore stesso si sente più vicino a due storici viaggiatori elvetici come Paracelso, che lavorò in miniere tedesche e ungheresi e vagabondò per l’Italia, la Spagna, l’Inghilterra, la Svezia e addirittura in India e Cina, e Thomas Platter, autore di un diario, che sa più di resoconto, del suo viaggio in Inghilterra del 1599. Gli itinerari di Nicolas Bouvier, oltre che spostamenti fisici, comportano viaggi nell’interiorità: « le moi est un écran noir qu’il faut briser et que le voyage brisera »53; l’osservazione conferisce ai viaggi dello svizzero una connotazione freudiana, rimanda al tentativo di andare dritto verso l’inconscio di un essere umano, mirare a scoprire cos’è veramente un uomo, dimostrare che dietro le tre dimensioni Es, Super-Io e Ego c’è un individuo unico. Bouvier sembra, soprattutto in Le poisson-scorpion (1982), attraverso libere associazioni di idee, parole, fotogrammi e immagini, far tacere la sua parte conscia e addentrarsi nella sua mente, dritto fino all’inconscio. Anche l’opera forse più nota di Bouvier, L’usage du monde (1963), ascrivibile alla letteratura di viaggio, è il racconto di un cammino intrapreso negli anni Cinquanta dai Balcani fino alle zone più remote dell’Asia; il racconto si ferma alla visita dell’Afghanistan anche se, in realtà, il viaggio è continuato fino in Giappone e

 51 Cfr. ivi, p. 29. 52 EAD., La « claustrophobie Alpine» et la littérature de voyage (Charles-Albert Cingria, Blaise Cendrars, Nicolas Bouvier), in AA.VV., Cahiers de l’Association études francaises, cit., p. 149. 53 ANNE MARIE JATON, Nicolas Bouvier. Paroles du monde, cit., p. 31.

159  questa seconda parte dell’itinerario costituisce il nucleo di Le poisson-scorpion. Le esperienze di viaggio descritte nell’opera del 1963, Nicolas Bouvier le compie insieme a Thierry Vernet — illustratore dell’edizione originale de L’usage du monde — a bordo di una Fiat Topolino, automobile non particolarmente spaziosa, di modesta cilindrata, che diviene il vero e proprio « troisième personnage de l’odyssée: elle va faire sourire de sérieux imams barbus et conduire au fou rire les camionneurs afghans et iraniens qui donneront souvent en cas de panne des coups de mains décisifs pour la suite du voyage ».54 L’autovettura è la protagonista assoluta delle peripezie che non possono mancare in un récit de voyage: rallenta dopo il passaggio in Anatolia e fa pensare al peggio, riparte, fa tirare un sospiro di sollievo, ‘sbuffa’ e si arresta. I due viaggiatori sono costretti a tentare di riparare l’autovettura con l’aiuto della gente del luogo, inesperta ma di buona volontà, e di arnesi di fortuna; i due amici riescono a farla riavviare ma a Persepoli una nuova sosta forzata; un ulteriore guasto al motore che viene smontato, aggiustato e rimontato per permettere alla Topolino di ripartire come nuova e proseguire il viaggio. Ma improvvisamente, quando il peggio sembra passato, i freni non rispondono più e l’automobile di Bouvier e Vernet provoca un incidente da cui la macchina, vero e proprio terzo personaggio della storia, esce fortunatamente indenne. Se le difficoltà negli spostamenti fisici sono attribuite all’autovettura, le tappe del viaggio nell’interiorità sono completamente appannaggio del viaggiatore elvetico; soltanto nelle prime pagine « par modestie et pour ne pas insister dès les premières pages sur le je »55, compare una lettera di Thierry Vernet che invita l’amico a raggiungerlo a Belgrado: è il pretesto del Bouvier autore storico per aprire un varco nella sua interiorità, per dar voce alla sua coscienza di viaggiatore attento e sensibile alla realtà circostante: « la concentration sur le moi devient toujours plus marquée au fur et à mesure que le récit avance ».56

 54 Ivi, p. 41. 55 Ivi, p. 42. 56 Ibidem.

160 

Figura 1 Illustrazione di Vernet in “L’usage du monde”

Figura 2 Illustrazione di Vernet in “L’usage du monde”

161  A far da controcanto alla voce del narratore è il giovane pittore che, attraverso i suoi disegni, rende l’atmosfera ancora più malinconica; le illustrazioni di Vernet, con la loro asettica e spietata essenzialità, sono la raffigurazione viva del timore ancestrale, ritratto in modo quasi emblematico attraverso una rapida alternanza di un nero profondo, frenetico e senza gradazioni, e un bianco netto, intenso, quasi glaciale: le enormi chiazze scurissime quasi indecifrabili sono tagliate da gelidi squarci di luce. Il disegno appare grezzo, il tratto è impreciso: traballante, per nulla rasserenante, imprevedibile, povero. Questa assoluta semplificazione visiva procede di pari passo con quella narrativa: il testo è immediato, non lascia spazio a fraintendimenti, asciutto quanto il tratto. Se le immagini di Thierry Vernet rendono al lettore la percezione dello stato d’animo dei viandanti, a offrire una sensazione di disorientamento contribuisce anche la trascrizione delle conversazioni che i protagonisti intrattengono con la gente del luogo: « Imam, li vam navoštiti brk — dois-je cirer vos moustaches? — question à laquelle il convenait de répondre aussitôt: Za volju, Božyu nemojte puštam tu modu kikošima — à Dieu ne plaise! Je laisse cette mode aux damoiseaux ».57 Lo scrittore, è evidente, subisce il fascino delle parole straniere, dell’effetto di disorientamento provocato dall’inserimento nel testo di « mots opaques ».58 La lingua straniera ha il grande vantaggio di essere percepita da chi non è in grado di parlarla come pura sonorità (« la musique du persan est superbe »59) al punto che si può ritenere che il viaggio sia scandito dal continuo cambiamento di tonalità, che sono le lingue a segnare il passaggio da un paese all’altro, molto più che le diversità dei paesaggi incontrati: Mianeh est aussi la frontière de deux langues: en deça l’azéri ou l’on compte ainsi jusqu’à cinq: bir, iki, ütch, dört, bîch; au-delà le persan: yek, do, sé, tchar, penj. Il n’y a qu’à comparer ces séries pour comprendre avec quel plaisir l’oreille passe de la première à la seconde. L’azéri […] est une langue âpre, faite pour la burrasque et la neige, tandis que le persan, chaud, délié, civil, [est] une langue pour l’été.60

 57 NICOLAS BOUVIER, L’usage du monde, cit., p. 30. 58 ANNE MARIE JATON, Nicolas Bouvier. Paroles du monde, cit., p. 45. 59 NICOLAS BOUVIER, L’usage du monde, cit., p. 209. 60 Ivi, p. 193.

Come sostiene Anne Marie Jaton « Nicolas Bouvier éprouve une sorte de plaisir à vivre dans un univers où les langues de son viennent prendre la place des langues du sens ».61 Anche in Chronique japonaise (1975), Bouvier registra il fascino delle parole straniere; il primo termine in giapponese che si incontra nell’opera è Nihongi che significa, non a caso, cronache giapponesi. In merito alla lingua del Sol Levante, il protagonista del récit de voyage dello scrittore elvetico si reca sul luogo con una conoscenza dell’idioma sufficiente a comprendere e sostenere una semplice conversazione. Le espressioni riportate nell’opera sono piuttosto elementari e da manuale linguistico di base — Oyasumi nasaï (dormito bene) — o divertenti come le allusioni agli obake no eiga, il genere dei film di fantasmi che, si dice, almeno riescono a far gelare il sangue nelle torride giornate nipponiche. Nomi di luoghi, locuzioni e proverbi costellano il testo.62 Altri particolari che affascinano molto Bouvier sono il sistema di scrittura giapponese, con il suo migliaio di ideogrammi, i due alfabeti sillabici e la calligrafia a cui si arriva ad alti livelli di artisticità, e il calendario nipponico, secondo il quale il tempo è scandito in base all’anno di incoronazione degli imperatori: « L’Extrême-Orient ravit Bouvier parce qu’il possède un système symbolique totalement différent du nôtre, qui inverse la valeur de nos signes et proclame la prédominance de la gauche sur la droite, du blanc (signe de deuil) sur le noir, la valorisation du petit sur le grand, du vide sur le plein ».63 Bouvier in Japon (1967), altro récit de voyage basato sull’esperienza nipponica, cita anche le due principali religioni del Giappone, lo scintoismo e il buddismo, che arrivano dall’India e hanno attraversato la Corea e la Cina64; le due religioni riescono a convivere serenamente (« depuis quinze siècles qu’ils coexistent, jamais le Bouddha et le Shinto n’ont été en conflit ouvert »65) e, sottolinea Bouvier, questa convivenza ha spinto i missionari cristiani a portare in quella terra lontana anche la loro parola divina, convinti della possibilità di una serena coesistenza; questo serve da spunto allo scrittore per scagliarsi contro  61 ANNE MARIE JATON, Nicolas Bouvier. Paroles du monde, cit., p. 46. 62 Cfr. Ivi, p. 63. 63 Ivi, p. 55. 64 Cfr. Ivi, p. 61. 65 NICOLAS BOUVIER, Japon, Lausanne, Éditions Rencontre, 1967, p. 29.

163  l’atteggiamento catechizzante del cristianesimo: « c’est délicat d’apporter une morale nouvelle à des gens qui ont depuis si longtemps et si prudemment choisi celle qui leur convient ».66 Tuttavia lo scrittore riconosce il lavoro dei missionari gesuiti, su tutti il belga François-Xavier de Feller, e ammette che la presenza dei Padri in Asia è stata fondamentale per la nostra conoscenza dell’Oriente. Ai suoi occhi di agnostico interessato alla spiritualità (« Dieu pour moi c’est ce que j’appelle la dimension spirituelle »67), tutte le religioni si equivalgono, prova interesse per « la douceur malicieuse des petits temples japonais »68, così come ama l’atmosfera serena dei santuari shinto, « la compassion bouddhique pour la brièveté de cette existence »69, tutto quel che l’umano fa per provare a spiegare il mistero della vita. L’ultimo grande récit de voyage di Nicolas Bouvier, Le poisson-scorpion, si apre con l’arrivo del protagonista nell’isola di Ceylon il 6 marzo del 1955 ed è, quindi, come già precedentemente accennato, il prosieguo dell’avventura descritta in L’usage du monde; nell’opera si possono distinguere due tempi differenti: la cornice è immersa nel presente, che corrisponde agli anni 1974-1979, vale a dire a venti anni dopo l’esperienza su cui è incentrato il nucleo dell’opera, l’azione passata, collocata tra il marzo e il novembre del 1955. Ma le coordinate spazio- temporali, così precise all’inizio, diventano sempre più vaghe e il realismo delle prime pagine si trasforma man mano in inquietante fantasticheria.70 Il protagonista è un isolato che passa il tempo in solitudine a scrivere in una stanza d’albergo e a osservare un pesce-scorpione rinchiuso in una sfera di vetro e una moltitudine di insetti che sembrano star lì a rappresentare una a una le sue ossessioni: « l’arrivée sur l’île impose tout d’abord un arrêt du mouvement du voyageur qui passe de sa condition de nomade volontaire à celle de sédentaire. Ces arrêts du voyage permettent parfois au pérégrin de faire le point sur ses expériences en lui donnant le temps de méditer sur ce que son parcours lui a apporté ou retiré ».71

 66 Ivi, p. 55. 67 ID., Routes et déroutes. Entretiens avec Irène Lichtenstein-Fall, Genève, Editions Métropolis, 1992, p. 28. 68 Ivi, p. 99. 69 Ivi, p. 28. 70 Cfr. ANNE MARIE JATON, Nicolas Bouvier. Paroles du monde, cit., p. 76. 71 JEAN-XAVIER RIDON, Le poisson-scorpion. Nicolas Bouvier, Genève, Éditions Zoé, 2007, p. 28.

164  Questa parentesi sedentaria permette al viaggiatore di fare il punto sulle sue esperienze e di trasformare il resoconto in un viaggio nell’interiorità. A tal proposito, Bouvier dichiara che è giunto per lui il momento di « apprendre à faire chanter ses élytres »72 anche se, più che un canto, questa parentesi di stanzialità porta con sé l’esatto contrario, il silenzio assoluto: « dans la géographie comme dans la vie il peut arriver au rôdeur imprudent de tomber dans une zone de silence, dans un de ces calmes plats où les voiles qui pendent condamnent un équipage entier à la démence et au scorbut ».73 Campi semantici ricorrenti in Le poisson- scorpion sono la noia e l’immobilità: tornano continuamente parole come immobilité, sommeil, léthargie e torpeur. L’isola in Bouvier non appare, quindi, lo spazio dei sogni e delle utopie dove rifugiarsi in fuga dalle convenzioni, dal mondo familiare e quotidiano, bensì come un luogo di infermità ed esilio, spazio chiuso dal quale non è più possibile uscire, una sorta di prigione, metafora, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, tanto cara agli intellettuali elvetici. Lo scrittore di Grand-Lancy finisce per identificare l’isola con uno spazio claustrofobico, un luogo dalle sembianze quasi distopiche di una prigione. L’eroe di Le poisson-scorpion appare, quindi, un anti-Robinson Crusoe se è vero, come afferma Armando Gnisci, che il personaggio di Daniel Defoe « incarna perfettamente le aspirazioni e le strutture etico-religiose del suo mondo. Naufraga sull’isola vestito come un perfetto cittadino inglese, con i suoi strumenti, le sue armi […] e sull’isola sa ricostruire in piccolo e molto fedelmente le strutture religiose, etiche, sociali, economiche e perfino amministrative. […] L’isola diventa il suo dominio ».74 In un certo qual modo anche il personaggio di Bouvier cerca di ricreare sull’isola di Ceylon l’ambiente elvetico in cui è cresciuto e vissuto perché, afferma, « j’ai besoin de familiers pour équilibrer tout ce qui m’échappe encore ici »75; e in questo sembra consistere il suo grande errore: cercando di ricreare le strutture e i legami lasciati in Europa, il protagonista non riesce a ribellarsi a un fato infelice che lo condanna alla paralisi esistenziale; deve accettare

 72 NICOLAS BOUVIER, Le poisson-scorpion, Lausanne, Éditions 24 heures, 1990, p. 40. 73 Ivi, p. 31. 74 ARMANDO GNISCI, Letteratura comparata, Milano, Mondadori, 2002, p. 140. 75 NICOLAS BOUVIER, Le poisson-scorpion, cit., p. 28.

165  passivamente gli eventi e da questo suo soggiorno esotico non può che acquisire l’essenziale consapevolezza di ciò che lo limita. Trovarsi nella ‘prigione’ di Galle non è poi così diverso dal trovarsi nella ‘prigione’ elvetica: « M… est comme l’ombre de ma ville, le prix qu’elle paie pour sa veulerie, le dernier moyen dont elle dispose pour troubler ce sommeil qui ressemble à la mort ».76 Malgrado Bouvier riconosca sin dall’inizio questa similitudine, questa comune ristrettezza tra i due paesi, decide di restare sull’isola per sette lunghi mesi, provato dalla stanchezza di due anni di peregrinazioni, nonché dalle numerose malattie che evoca e di cui descrive minuziosamente i sintomi; è affetto da epatite (« moi j’étais bruni, salé comme une galette, un peu recroquevillé de jaunisse aussi »77), da febbre malarica di cui aveva già sofferto in passato (« la fièvre — vaccins de la veille ou retour de la maladie — et la danse des lucioles au-dessus de ma tête me donnaient le tournis »78) e altri sintomi frequenti come vomissement ed étourdissement che tornano a più riprese nel testo e di cui non riescono a venire a capo neanche i medici: « “You most certainly got God knows what nusty bug” m’a dit le docteur en me pompant cérémonieusement le main ».79 L’attenuazione dei malanni fisici e il tentativo di sconfiggere quell’apatia intellettuale che gli permette di dedicarsi soltanto alle attività minime di routine passano per la scrittura: « J’étais obligé de l’écrire pour me débarrasser de ce mal ».80 Scrivendo di sé, della propria condizione di disagio, esprimendo le proprie emozioni e ansie, Bouvier arriva a fare un’analisi della propria interiorità e del mondo circostante particolarmente intensa. Riuscire, attraverso la scrittura, a conoscersi profondamente non permette, pur tuttavia, allo scrittore elvetico di superare le tensioni che costituiscono le mura della prigione — che sia sul suolo elvetico o su quello asiatico poco conta — e di diradare le nebbie che impediscono di vedere le risorse offerte dalla vita: « dans une large mesure, j’y suis arrivé en écrivant le mot “fin” ».81

 76 Ivi, p. 83. 77 Ivi, p. 15. 78 Ivi, p. 22. 79 Ivi, p. 52. 80 Ivi, p. 147. 81 Ibidem.

166 

CAPITOLO TERZO

L’INTERESSE PER LE VICENDE STORICHE 

CAPITOLO TERZO

L’INTERESSE PER LE VICENDE STORICHE

3.1 L’INTERESSE PER LA STORIA

Scorrendo titoli e trame delle opere degli autori appartenenti alla letteratura elvetica, di qualsivoglia provenienza e qualsiasi idioma nazionale, una delle prime caratteristiche che emerge palesemente è un certo legame con gli eventi storici che hanno coinvolto, in maniera preponderante o anche soltanto in modo marginale, la Svizzera. Così la Seconda Guerra Mondiale fa da sfondo, ad esempio, alle opere di e BLAISE CENDRARS e l’attuale difficile integrazione dei seguaci della religione islamica viene denunciata negli scritti a carattere saggistico di TARIQ RAMADAN. Tale interesse per gli eventi storici nazionali appare innanzitutto la prima risposta possibile a chi mette in dubbio l’esistenza del piccolo stato dell’Europa centrale e qualsivoglia forma culturale ad esso associata: dimostrare che la storia si è fermata anche in quei 41.285 kmq che compongono l’attuale territorio elvetico, equivale a dimostrarne l’esistenza e l’importanza nel contesto mitteleuropeo. Anche mettere in dubbio la consistenza elvetica, comunque, lo ribadiamo ancora una volta, conferisce una parvenza di realtà alla Svizzera stessa: importante, in tale ottica, il contributo fornito dai lavori di ENRICO FILIPPINI, scrittore e giornalista, collaboratore de La Repubblica sin dagli esordi del quotidiano italiano risalenti al 1976, che ha sentito fin dall’adolescenza, forse, seppur confusamente, dall’infanzia, l’ordine tutto interiore della fuga dal paese giudicato “claustrofobico”, quindi “uggioso”, “tedioso”, causa l’irrevocabilità degli strati metanarrativi, che lo immobilizzava su posizioni esclusivistiche, ostili e perlomeno sospettose riguardo a tutto quanto avveniva oltre i confini.1

 1 GUGLIELMO VOLONTERIO, Il delitto di essere qui. Enrico Filippini e la Svizzera, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 17.

169  Questa schweizer Enge è avvertita da Filippini — ticinese e appartenente, quindi, a una realtà culturalmente ancor più limitata e limitante — forse in maniera più netta rispetto agli altri intellettuali elvetici presi in esame nei capitoli precedenti; la storia sembra essere, agli occhi del giornalista di Cevio, una realtà estranea alla Svizzera al punto che nel 1980 arriva a scrivere: Non che il Ticino o la Svizzera non siano nella storia, ma si vivono come se non lo fossero; tra l’esperienza vissuta e la sua possibile formulazione si frappone un velo immaginario […] assolutamente inamovibile. La letteratura si fa a favore o contro la storia, ma come si fa a farla a favore o contro una storia che non c’è — o mostra di non esserci?2

Una storia che sembrerà o mostrerà pure di non esserci ma che lui finirà per raccontare attraverso le interviste ai maggiori esponenti della cultura elvetica, nelle quali, interrogandosi e interrogando il suo interlocutore sulle questioni della realtà contemporanea, riuscirà a fornire anche al lettore strumenti validi per un’analisi della situazione. Quello di Filippini è un modo particolare di intervistare, come sottolinea Federico Pietranera nell’introduzione alla raccolta di articoli del ticinese, edita da Einaudi, La verità del gatto: A garanzia di unità, si offrono le movenze drammatiche, intendiamo di presentazione scenica, della scrittura, con la quale Filippini, in ogni suo pezzo, compone un quadro, nel senso vivente che quest’immagine assume nel teatro. Che si tratti di interviste a studiosi o scrittori o di loro ritratti sotto forma di recensione, o che il dialogo con gli autori sia dettato dal tema che essi pongono, ci troviamo sempre di fronte a un lavoro di rimando, a un’andata e ritorno del discorso, capace di fare di ogni articolo, testo, palcoscenico, atmosfera e personaggi di una rappresentazione.3

Che le sue interviste abbiano un’atmosfera ‘teatrale’ è confermato dallo stesso Filippini che sostiene « di non essersi mai accinto a una intervista senza una particolarissima emozione […] che si chiama trac. Il trac è quella speciale angoscia che si impadronisce di certi attori quando devono andare in scena ».4 Il ticinese nelle sue interviste appare protagonista e spettatore, intervistato e intervistatore, dà spazio e si concede spazio per sfoghi, permette di riflettere e offre riflessioni.

 2 Ivi, pp. 17-18. 3 FEDERICO PIETRANERA, Introduzione a ENRICO FILIPPINI, La verità del gatto, Torino, Einaudi, 1990, p. VI. 4 Ibidem.

170  Sono rilevanti considerazioni sulla storia contemporanea svizzera le

‘chiacchierate’ con l’amico MAX FRISCH, con il sociologo e storico JEAN ZIEGLER e il regista Markus Imhoff. Con l’autore di Stiller, Filippini condivide il desiderio di fuga dalla realtà elvetica — dal “qui” verso un “altrove” — per poi constatare che con la globalizzazione ormai tutto si assomiglia, tutto è uguale in qualsiasi parte del mondo e, quindi, « siamo tutti “qui” »5, non c’è più un “altrove” in cui sperare. A questo punto va riconosciuto, tuttavia, che la situazione non si può considerare proprio uniforme; c’è un “qui” più claustrofobico ed è quello elvetico con la sua piccola borghesia estremamente irritante, « molto concreta, molto modesta e molto arrogante, e sotto sotto inevitabilmente melanconica. Melanconica ma solida e sicura di sé ».6 Filippini — emerge chiaramente dall’intervista a Frisch — apprezza i protagonisti delle opere dell’autore zurighese, le crisi d’identità che li caratterizzano e che tanto ricordano le sue medesime difficoltà e il suo stesso desiderio di scomparire; la messa in discussione della propria identità per il ticinese « equivale a uno specchio deformante ma veritiero, che ti dice con fedeltà quanto sei idiota (e violento, e ingiusto, e crudele, e in malafede, e ipocrita, ecc.) ogni volta che ti pare di fare proprio sul serio. È una mossa dello scetticismo in vista di una qualche autenticità. Ed è un atteggiamento verso la storia ».7 Per uno svizzero, si deduce da Frisch, interrogarsi sul rapporto con la madrepatria, mettere in discussione la propria identità, equivale a scrivere una pagina di storia poiché, riprendendo un’affermazione di Benedetto Croce, il carattere di un popolo è « la sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia ».8 Il carattere della popolazione non è dato una volta per tutte, ma è in continua evoluzione ed è una pagina di storia elvetica non solo l’interrogarsi sull’identità nazionale ma ogni aspetto che porta alla coscienza e alla consapevolezza di tale identità. È solamente quando non siamo più certi, più detentori del nostro io, che l’identità diventa un problema; spiega Filippini: « la deflagrazione dell’identità personale diventa la

 5 GUGLIELMO VOLONTERIO, op. cit., p. 78. 6 Ibidem. 7 Cfr. il sito internet http://www.feltrinellieditore.it/BlogAutore 8 GUGLIELMO VOLONTERIO, op. cit., p. 79.

171  deflagrazione dell’identità storica, dell’ideologia solidificata, insomma del mito politico ».9 Altro scambio di opinioni di un certo rilievo, atto a far luce sulla realtà svizzera, è anche quello che l’autore di Locarno intrattiene con JEAN ZIEGLER, personalità di spicco del mondo elvetico, uomo estremamente critico nei confronti della sua Patria, che vede la Confederazione come il centro di un imperialismo secondario che ha contribuito a rendere schiavo il Brasile, a uccidere Allende, a finanziare i razzisti sudafricani, che si mantiene in vita grazie al sangue dei paesi del terzo e quarto mondo10; nonostante un ruolo così centrale attribuito al piccolo stato nello scacchiere degli eventi mondiali, il sociologo di Thun afferma che la Svizzera è un paese che vive al di fuori della storia. Filippini, rispondendo alla necessità di comprendere il ruolo del suo Paese nella storia contemporanea mondiale, si interroga inizialmente proprio su questa sorta di dicotomico appartenere senza, però, far parte di stampo ziegleriano: « perché lei dice che è un paese fuori dalla storia? »11 chiede, quindi, Filippini. Jean Ziegler spiega, dunque, che la Svizzera è a capo del giro mondiale di ricettazione dei capitali, ed è artefice principale della devastazione delle economie nazionali; è, inoltre, una fabbrica ideologica che predica pace, umanità e uguaglianza ma vive di violenza ed è fuori dalla storia perché gli interessi oligarchici della Confederazione coincidono esattamente con quelli del popolo: la complicità tra Stato e cittadini riesce perfettamente a mettere a tacere i misfatti elvetici. L’atteggiamento del piccolo stato dell’Europa centrale ha, inevitabilmente, conseguenze anche dal punto di vista culturale; Ziegler e Filippini parlano di vuoto culturale: « è un vuoto che è insieme un ‘troppo pieno’: quella che era un’ideologia di classe, non lo è più. In cento anni circa, dall’epoca della costruzione delle grandi ferrovie, dei grandi trafori, della fondazione del Crédit Suisse, si è creato un apparato totalizzante, un blocco compatto e impenetrabile ».12 Un punto di vista eccessivamente estremo quello di Ziegler forse anche per

 9 Ivi, p. 82. 10 Ivi, p. 85. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 86.

172  Filippini che, non a caso, chiude l’intervista senza lasciare al pubblico il suo consueto commento. Una solida coesione tra Stato e cittadini che non lascia spazio per altro: questa sarebbe la Svizzera nell’ideologia di Ziegler. Das Boot ist voll è proprio il caso di dire prendendo in prestito, con intento metaforico, il titolo del film del 1981 di Markus Imhoff, altro intellettuale trasformato in narratore della storia elvetica in un’intervista di Enrico Filippini. La pellicola, che ottenne una nomination all’Oscar come miglior film straniero, è ambientata in epoca nazista e ha per protagonista un gruppo di perseguitati che chiede asilo politico allo stato neutrale, viene respinto e costretto a tornare nei territori controllati dall’Asse con conseguenze tragiche facilmente immaginabili. Il ticinese, anche in questa intervista, sembra particolarmente coinvolto; le sensazioni dei protagonisti del film sono, in parte, anche le sue. I sentimenti legati alla schweizer Enge sono da Filippini pienamente condivisibili: « Sì, lei sta dicendo che nei miei film c’è un tema costante, un tema di incarceramento e di claustrofobia […] La claustrofobia è per così dire dialettica: sono chiuso dentro, dunque, sono al sicuro ma nello stesso tempo voglio uscire ».13 Ancora una volta il giornalista può arrivare a condividere che questa sensazione di claustrofobia tutta elvetica sia il vero problema della Svizzera: « forse sì » afferma Imhoff « la Svizzera è la casa di famiglia, è il luogo dove la difesa verso l’estraneo non è mai cessata, dove tutti i conflitti sono diventati conflitti di generazioni ».14 Filippini, però, non è stato soltanto un occhio critico e attento sulla storia elvetica; il ticinese è stato anche protagonista involontario degli avvenimenti storici svizzeri con quella che Guglielmo Volonterio, nella monografia che gli ha dedicato, chiama “la questione del Politecnico federale”: alla morte di Guido Calgari resta vacante la cattedra di Lingua e Letteratura Italiana del Politecnico Federale di Zurigo; viene indetto un concorso che sembra, per come siano state svolte le prove, Filippini avrebbe meritato di vincere ma la cattedra non gli viene affidata. In un recente omaggio al giornalista ticinese organizzato dall’Istituto Svizzero romano, la figlia Concita dichiara di non aver dubbi sul fatto che la decisione di non affidare la cattedra a suo padre sia stata di natura politica e la sua  13 Ivi, p. 88. 14 Ivi, pp. 88-89.

173  affermazione non si nutre di soli sospetti e ipotesi ma si basa su quanto scritto nel verbale del concorso che contiene valutazioni che esulano dal contesto puramente accademico. L’autore di Locarno è vittima di quel sistema oligarchico della Svizzera benpensante dove il marxismo, ideologia sposata da Filippini, veniva visto come « corpo spurio, al quale era doveroso togliere il diritto di cittadinanza, così come ai suoi esponenti. Di qui la politica di emarginazione sia del marxismo sia dei suoi teorici e simpatizzanti, che doveva sfociare in una deleteria politica di discriminazione e di controllo ».15 Il ticinese è vittima dell’emarginazione derivata dal suo credo politico — che, inevitabilmente, porta con sé problemi di integrazione sociale, culturale e professionale, ostacola carriere e ingressi ai centri di potere — che subisce chi abbraccia il pensiero comunista in territorio elvetico in un periodo in cui si temono non poco i possibili — dannosi per la perfetta macchina governativa svizzera — riflessi dei movimenti sessantottini dei vicini stati europei, al punto che i simpatizzanti delle idee marxiste vengono schedati dalla polizia. Il dossier relativo alle ‘attività sovversive’ di Enrico Filippini qualche anno fa è stato consegnato agli eredi del ticinese dal Dipartimento federale degli Interni: la registrazione delle attività dell’intellettuale parte dagli anni Cinquanta, periodo in cui Filippini partecipa ad alcune riunioni del POCT (Partito Comunista Ticinese, che non supera il migliaio di elettori in sede cantonale), va a vedere al Festival di Locarno del 1953 il film sovietico Il compositore Glimka, per poi iscriversi nel 1959 al POCT e, nello stesso anno, discutere una tesi di laurea in Filosofia a Milano dal titolo La nazione germanica prima del Nazismo. Non è dato sapere se esistessero altre schedature su Filippini ma lo si può presupporre se Ferruccio Bolla, il più acerrimo oppositore dell’intellettuale ticinese nella commissione giudicatrice del concorso per la cattedra del Politecnico, sostiene che il mondo accademico si deve tenere ben lontano da personalità come quelle di Filippini « agitatore non solo a parole ma anche nei fatti »16: una constatazione, quest’ultima, che costringe la commissione a chiudere il verbale con una nota: « le attività politiche di questo candidato sono pure poste in questione dai membri della Commissione. Tuttavia, nessuno ha le prove che Filippini sia un agitatore.  15 Ivi, p. 96. 16 Ivi, p. 105.

174  Questo aspetto non deve dunque influenzare la scelta di questo candidato ».17 Una nota finale che serve a salvare l’apparenza democratica e meritocratica della Svizzera ma che, di fatto, non ha una valenza concreta: Filippini è vittima degli eventi, bersaglio in un momento storico particolare in cui la politica culturale conservatrice degli ambienti universitari elvetici si integra con la politica discriminatoria del partito di centro-destra Liberale Radicale. Se lo scrittore e giornalista ticinese è attento osservatore della storia coeva e, al contempo, vittima degli eventi, l’autrice di lingua tedesca EVELINE HASLER, nota oltre i confini elvetici per la sua letteratura per l’infanzia, al pubblico adulto offre romanzi che traggono spunto da fatti e personaggi storici della Svizzera: Anna Göldin. Letzte Hexe (1982) e Die Vogelmacherin. Die Geschichte von Hexenkindern (1997) sulla caccia alle streghe nel piccolo territorio, Die Wachsflügelfrau. Geschichte der Emily Kempin-Spyri (1991), dedicato alla prima giurista elvetica e Der Zeitreisende. Die Visionen des Henry Dunant (1994) sulla figura del fondatore della Croce Rossa. Eveline Hasler ricostruisce i fatti con dovizia di particolari, grazie a elaborate ricerche storiche, con l’ausilio di numerosi documenti originali che vengono menzionati nel testo per conferire veridicità a quanto raccontato; nel primo dei romanzi sopra citati viene narrata la storia di Anna Göldin, l’ultima strega processata in Svizzera che il 18 giugno del 1782 viene condannata a morte dal Tribunale di Glarona. Originaria del cantone San Gallo, dove nasce nel 1734, la Göldin proviene da una famiglia di umili origini e, sin da giovanissima, si vede costretta a guadagnarsi da vivere lavorando come domestica; all’età di 31 anni mette al mondo il suo primo figlio che, però, muore per complicazioni post-parto e Anna, secondo le leggi dell’epoca, viene, quindi, accusata di infanticidio e costretta agli arresti domiciliari. Scontata la pena, la protagonista trova un’occupazione presso l’influente famiglia di Johann Jakob Tschudi a Glarona; poco tempo dopo la sua assunzione, la figlia dei Tschudi inizia a soffrire di convulsioni e, stando a quanto insinuato dai familiari, vomita spilli che — prestando sempre fede a quanto narrato dalla potente famiglia — venivano messi da Anna nel pane e nel latte serviti alla bambina, seguendo qualche rito magico. Il

 17 Ivi, p. 103.

175  signor Tschudi denuncia la Göldin per stregoneria e avvelenamento, la domestica prova a difendersi ma durante il processo, sotto tortura, dichiara di aver stretto un patto con il diavolo, manifestatosi a lei con le sembianze di un cane nero. Anna viene decapitata in piazza a Glarona. Dal libro della Hasler, così ricco di dettagli, viene tratto, nel 1991, un film del regista Gertrud Pinkus che ha ricevuto numerose recensioni positive, come quella di Heiko Blum: Gewiss hat Gertrud Pinkus mit “Anna Göldin — Letzte Hexe” beeindrucken können. Sie hat mit äußerster Diskretion, geschickter Dramaturgie und einer brillanten Schauspielführung (und das gilt nur für die preisverdächtige Hauptdarstellerin Cornelia Kempers) die Geschichte der Diffamierung und Verketzerung einer Frau in den letzten Jahren der Hexenprozesse geschildert und dabei nicht von ungefähr an Drezer und Bresson erinnert.18

Nel 2007, sulla figura di Anna Göldin, è stato realizzato, dal giornalista di

Glarona Walter Hauser, un nuovo libro che ha dato il via al processo di riabilitazione dell’ultima strega; nella sua ricostruzione, Hauser dà particolare importanza, per le accuse, il processo e la successiva condanna della donna, alla figura di Johann Jakob Tschudi, il magistrato appartenente a una delle più influenti famiglie di Glarona, presso il quale lavorava la Göldin. Il giornalista allude a una possibile relazione sessuale tra l’influente uomo e la sua domestica; il timore di uno scandalo, che avrebbe potuto mettere in serio pericolo la sua carriera e la sua reputazione, lo convinse a tentare ogni strada pur di riuscire a far condannare la donna alle sue dipendenze. Durante le ricerche per il caso Göldin, Eveline Hasler si imbatte in diverse storie di presunti maghi e streghe e in particolar modo viene colpita dai numerosi bambini condannati a morte perché accusati di stregoneria; l’ondata persecutoria, nota la scrittrice, dal XVII secolo agli inizi del XVIII, coinvolse Italia, Francia, Svizzera e Germania, per estendersi poi a Finlandia e Svezia e quindi anche agli Stati della Nuova Inghilterra. Le vittime erano bambini che, per le loro diversità e fantasie, furono visti come una minaccia da un mondo ostile alla natura e inquinato da concezioni degenerate.

 18 Cfr. sito internet http://www.artfilm.ch/annagoeldin.php (Ultima visita: 21 luglio 2013).

176  In special modo la Hasler si concentra su alcune fonti che testimoniano due episodi di stregoneria, accaduti a Lucerna nel 1652 e in Svezia nel 1658, e costruisce così la trama della sua seconda opera a carattere storico. Il primo avvenimento descritto — quello che più ci interessa poiché coinvolge il contesto svizzero — ha per protagonista una bambina di undici anni, tale Katharina Schmidlin, condannata a morte perché vantatasi di saper “fare uccelli”; l’autrice di Glarona allega, alla fine del testo, i documenti che lei stessa ha rintracciato e che testimoniano che tutta la storia narrata nel libro, seppur con qualche artifizio narrativo, è da considerarsi vera. Negli anni 1991, con Die Wachsflügelfrau. Geschichte der Emily Kempin- Spyri, e 1994, con Der Zeitreisende. Die Visionen des Henry Dunant, si registrano i tentativi meglio riusciti di romanzo a sfondo storico della svizzero-tedesca Eveline Hasler: al centro di questi libri, come già accennato, ci sono le figure di Emily Kempin (1853-1901), la prima donna di lingua tedesca laureatasi in legge, e Henry Dunant (1828-1910), il fondatore della Croce Rossa Internazionale e vincitore del premio Nobel per la pace nel 1901. Entrambe queste opere, proprio come nel caso dei romanzi sulla stregoneria, si basano su documenti autentici dell’epoca, su diari, lettere e notizie ricavate dai giornali del periodo, grazie ai quali si riesce a recuperare la vicenda nel modo più veritiero possibile, cercando di evitare il rischio di idealizzare i protagonisti dei fatti narrati e provando, dunque, a non realizzare e descrivere dei miti della storia, ma degli uomini con i loro punti di forza e le loro debolezze, di non creare opere storiografiche, bensì veri e propri romanzi. L’autrice sembra voler cercare una risposta ai perenni interrogativi sui successi e gli insuccessi delle menti eccelse che intessono rapporti precari con la società, che vivono sospesi tra forza e fragilità personale, intelligenza e follia. Le due opere affrontano, inoltre, tematiche ancora attuali, ad esempio in materia di diritto del lavoro, in merito alla parità tra uomo e donna che in molte zone del mondo non è ancora effettiva, alla pericolosità delle zone di guerra e alla difficoltà di fornire aiuti umanitari. Entrambi i protagonisti di queste due opere della Hasler terminano i loro giorni in povertà, in lotta con le istituzioni, e in preda a problemi psichici: la Kempin, all’età di quarantasei anni, ci viene narrato che invia lettere di

177  presentazione con lo scopo di ottenere un lavoro come domestica per cercare di ricominciare a vivere ed evitare di proseguire il periodo di reclusione nel manicomio di Basilea in cui, invece, morirà due anni più tardi; Dunant mette per iscritto le sue memorie dall’ospedale di Heiden, dove trascorre gli ultimi diciotto anni della sua vita tormentato da paranoie, amarezza per i contrasti con i potenti, e disturbi fisici vari. La narrazione di questi eventi è inquietante; la Kempin e Dunant vengono presentati come sgraditi profeti in patria, incompresi da un mondo apparentemente civilizzato che respinge quasi istintivamente i massimi sostenitori di uguaglianza e fraternità. Proprio la pretesa di non realizzare opere di storiografia permette alla Hasler di approfondire maggiormente le caratteristiche psicologiche di questi importanti protagonisti della storia svizzera e di conferire un tocco di drammaticità agli eventi narrati. Questi lavori sono, dunque, volutamente designati come romanzi piuttosto che come biografie per la scelta di seguire « den künstlerisch intuitiven- Weg »19 come la definisce la stessa Eveline Hasler, quella strada che la porta a scegliere di non descrivere i fatti cronologicamente, di fare ampio utilizzo di discorso diretto e metafore e di arricchire gli eventi rinvenuti nei documenti storici con storie frutto della sua fantasia e con personaggi inventati che servono per spiegare problemi del XIX secolo ma che possano contemporaneamente anche far riflettere il lettore sulla società contemporanea. La Kempin della Hasler è una donna a cui nel paese natio non viene concessa la possibilità di inseguire il suo sogno di diventare avvocato e decide, quindi, di trasferirsi in America alla ricerca di prospettive migliori e con la speranza di poter lavorare; il romanzo offre una descrizione degli scontri con le figure di maggior rilievo dell’epoca, la campagna della donna portata avanti per poter insegnare all’università di New York e la creazione della Woman’s Law Class, una scuola privata per donne. La Hasler dipinge i contorni di una donna di grande intelligenza, dotata di eccezionale acume, sofferente, però, per le incomprensioni con le istituzioni e con i membri della sua famiglia. A causa della malattia del figlio, la Kempin si vede costretta a tornare in Svizzera proprio in un  19 EVELINE HASLER, Fakten and Fiktion im historischen Roman, in TERESA MARTINS DE OLIVEIRA, Akten des Workshops über Eveline Hasler in Anwesenheit der Autorin, Faculdade de Letras, Universidade de Coimbra, Coimbra, 2002, p. 14.

178  periodo in cui era riuscita a farsi strada negli Stati Uniti; nella sua terra non ottiene lo stesso successo e i medesimi riconoscimenti, sono troppi gli oppositori, la donna cade in povertà ma non si perde d’animo, lotta per far valere il diritto di esercitare la sua professione. Quando ottiene, dopo anni di attese e lotte, l’autorizzazione a svolgere la sua attività lavorativa nella città di Zurigo, la sua salute psichica è ormai seriamente compromessa e deve rinunciare all’impiego. La malattia mentale è un aspetto centrale nell’opera dedicata alla Kempin; Eveline Hasler, non seguendo nella sua storia l’ordine cronologico degli eventi, ci presenta già nelle prime righe del romanzo questo elemento, rimuovendo così qualsiasi componente di suspense, come pure di speranza per una risoluzione favorevole della situazione: Der 18. Dezember 1899 Sie sitzt am Mahagonitisch. Ein Tintenklecks wie ein Teufelskopf ist in den Lack der Tischplatte eingedrungen. Der Schatten einer Palme verfangt sich in ihrem matten, von Schwester Rosa geschnittenen Haar. Sie darf neuerdings zum Briefeschreiben in den Salon der Pensionare kommen. Eine Gunst? Nein, sie hatte diese Sonderregelung ‘verdient’. Mache Fortschritte. Keine Fluchtversuche mehr, keine Protestaktionen.20

Per sottolineare l’alternarsi continuo di speranze e difficoltà, l’autrice utilizza un linguaggio ricco di rimandi simbolici; per evidenziare la speranza della protagonista di trovare nuove opportunità professionali, di vivere finalmente in autonomia, al cospetto della Statua della Libertà si fa affermare alla Kempin: « Endlich sieht sie sie mit eigenen Augen. Freiheit, Kolossalfrau des Rechts […] Die Freiheit — eine Frau, sie dachte. So etwas kann nur den Franzosen einfallen ».21 Questa affermazione ironica, oltre a rivelare uno spirito ottimista in questa fase della storia, mira anche a colpire l’intransigenza degli svizzeri che erano, effettivamente, molto indietro rispetto ai francesi in tematiche legate all’emancipazione delle donne (basti pensare che il diritto al voto alle donne in Svizzera venne concesso soltanto nel 1971). Altre immagini simboliche della Kempin che ci vengono offerte, trasmettono meno fiducia: l’analogia tra Emily e uno spazzaneve, creato in un pomeriggio invernale per far felice i suoi bambini, può far alludere, in un primo  20 EVELINE HASLER, Die Wachsflügelfrau: Geschichte der Emily Kempin-Spyri, Zürich, Nagel&Kimche, 1991, p. 7. 21 Ivi, pp. 12-13.

179  momento, alla capacità della giurista di mettere insieme tutte le difficoltà e spazzarle via ma, in verità, ha un significato più ambivalente, esprimendo qualcosa che si costruisce con tanta fatica ma può sciogliersi al primo raggio di sole.22 La difficoltà del dividersi tra i vari impegni domestici e i sogni professionali viene esplicitata nella metafora del labirinto23, motivo centrale di tutta l’opera, con radici nel pensiero classico, evidente già nel titolo: Die Wachsflügelfrau allude, infatti, alle ali che Dedalo, secondo il mito, costruì e attaccò con della cera sulla sua schiena e su quella di suo figlio Icaro per sfuggire dal labirinto voluto da Minosse per il Minotauro. In più di un’occasione i figli della Kempin chiedono al loro padre di narrargli la storia di Icaro; il monito di Dedalo al figlio che il marito della giurista riferisce ai suoi rampolli, sembra un avvertimento valido anche per la protagonista della Hasler. Linguaggio di stampo patriarcale quello dell’uomo che mira a etichettare la Kempin come moderno Icaro: « Fliege nicht zu hoch und nicht zu tief, nach mir immer! Keine neuen Luftbahnen, keine Kapriolen, keine Luftsprunge ».24 Quando Emily sposa Walter Kempin sembra iniziare una nuova vita con un uomo che apparentemente è l’esatto opposto del padre. Un teologo mite e compassionevole, un individuo che si impegna a favore della riforma sociale, che libera la moglie dalla trappola della vita domestica e dall’ignoranza, insegnandole il latino e la matematica, al fine di consentirle di ottenere l’ammissione all’università. Decide di cambiare il suo stile di vita per permettere alla moglie di seguire i suoi studi, si trasferisce, dunque, in America e per questo viene salutato come « der erträumte Mann des herannahenden 20. Jahrhunderts ».25 Questo uomo apparentemente moderno, tuttavia, si rivela troppo debole per affrontare la sfida nel Nuovo Mondo; incapace di trovare un lavoro per sé e di adeguarsi al cambiamento di lingua e cultura « er sei geschrumpft, müsse, während seine Frau wachse, eines geheimen Gleichgewichts wegen kleiner werden ».26 La coppia entra pesantemente in crisi e Walter se ne torna in Europa; il marito, nonostante  22 Cfr. Ivi, p. 92. 23 Cfr. Ivi, p. 94. 24 Ivi, p. 16. 25 Ivi, p. 58. 26 Ivi, p. 76.

180  l’appoggio iniziale alle sue ricerche, diventa con il tempo uno dei grandi nemici della Kempin e la abbandona. L’opposizione dell’uomo sembra ancora più pesante e insidiosa per Emily rispetto a quella del padre, è un turbinio di sensazioni che le porta via le energie necessarie e raggiungere i suoi scopi. Colui che ha facilitato la sua ascesa fulminea aiuta anche la sua rapida caduta. Ciò suggerisce l’incapacità di Walter di prestarsi seriamente alla realizzazione di una donna con doti naturali evidentemente superiori alle sue. L’altro grande oppositore che la Kempin trova all’interno della famiglia è suo padre Johann Ludwig Spyri, fratello di Johanna Spyri, autrice delle storie di Heidi, stereotipo patriarcale della tradizione cristiana ottocentesca. Pur riconoscendo il talento e l’intelligenza della figlia — durante l’infanzia la tratta come un maschio, abbreviandone addirittura il nome in Emil — la sua affermazione apparentemente ironica, « Pfarrer könnte sie werden oder Advokat, wenn sie nur kein Mädchen wäre »27, rivela un conservatorismo che rifiuta qualsiasi eccezione al ruolo di moglie e madre per una donna. La situazione peggiora a seguito del matrimonio di Emily Kempin con Walter — che il padre considera troppo liberale — e per l’ostinato rifiuto di riconoscere i suoi successi nel mondo della giurisprudenza. Dall’ambiente americano ricco di speranza la giurista dà vita a delle riflessioni sul suo rapporto con il padre: « ein Meer zwischen uns, Vater. Ich bin weggegangen aus deinem Leben ».28 Con questo si vuole indicare la sua lotta interiore, l’incapacità di venire a patti con il rifiuto paterno, la sua delusione, la rabbia repressa ma anche un commovente attaccamento al padre nonostante le diatribe. L’altra figura storica, Henry Dunant, protagonista del romanzo del 1994, è un uomo a cui intraprendenza e, in un certo verso, follia hanno permesso di vivere una vita assolutamente fuori dall’ordinario. Dalla Hasler, già nel titolo, Dunant viene definito una sorta di visionario poiché le sue utopie — l’idea della costituzione di Società di Soccorso che in ogni Paese potessero operare seguendo gli stessi principi e linee guida, l’imparzialità nel prestare aiuti, la neutralità dei soccorritori e dell’apparato di assistenza sanitaria per i militari feriti e malati in guerra — senza un pizzico di follia non si  27 Ivi, p. 30. 28 Ivi, p. 21.

181  sarebbero trasformate in una realtà in continua evoluzione; a Dunant va riconosciuto il merito di aver creduto fortemente nelle sue idee e la convinzione di essere nel giusto, anche se poi tristi vicende relative a contrasti con persone influenti e affari andati male, lo porteranno a essere un incompreso e a venire allontanato dalla società ginevrina. Nell’affrontare la vita di un uomo eccezionale, fondatore della Croce Rossa, quella che divenne la più grande organizzazione umanitaria del mondo, la Hasler riesce a evitare l’agiografia, mettendo in evidenza i punti deboli del carattere di Dunant. La mancanza di senso degli affari, la passività nell’accettare le circostanze spiacevoli della vita e la tendenza a essere un sognatore si rivelano le gravi carenze della sua personalità. La città di Heiden, dove Dunant si rifugia in pessime condizioni di salute nel 1887, all’età di cinquantanove anni, è lo scenario di una serie di flashback che ricordano anche momenti positivi della vita del fondatore della Croce Rossa: il suo impegno disinteressato nell’aiutare i feriti nella battaglia di Solferino del 1859, la pubblicazione dopo tre anni di Un souvenir de Solférino in cui egli formula la sua proposta di organizzazione di soccorso permanente e assistenza per le vittime di guerra, l’attuazione di questa ‘visione’ con la nascita della Croce Rossa nel 1863, e la firma della prima Convenzione di Ginevra nel 1864, sono alcuni punti fatti emergere dalla Hasler nel suo testo. L’energia con cui ha esercitato la sua missione filantropica, il talento letterario e il carisma con cui quest’uomo è riuscito a ottenere il sostegno per le sue buone cause, l’accanimento nel rifiutare i compromessi politici e perseguire sempre i suoi obiettivi caratterizzano un uomo di straordinaria integrità e zelo. Tutti meriti che vanno riconosciuti anche alla fase senile di Dunant, caratterizzata, però, maggiormente da sofferenze emotive e pratiche. Il tono utilizzato dalla Hasler è, non a caso, sin dall’incipit, malinconico: « Der Mann wußte, daß er auffiel ».29 La descrizione del suo aspetto trasandato, rafforzata dal riferimento allegorico al completo funereo, nonché la connotazione di pazzia derivanti dal suo comportamento inspiegabile possono creare inizialmente dei dubbi sull’identità del protagonista. Il fatto stesso che egli è presentato al lettore senza un nome  29 EVELINE HASLER, Der Zeitreisende. Die Visionen des Henry Dunant, Zürich, Nagel&Kimche, 1994, p. 7.

182  allude al fallimento momentaneo, all’impossibilità per la società di riconoscere a Dunant i risultati raggiunti, ma anche la propria autoalienazione. Inoltre, va evidenziato che la narrazione inizia il giorno in cui Dunant viene a sapere che un giornale di Ginevra ha pubblicato il suo necrologio, comincia, dunque, con la perdita, subita dal protagonista, di se stesso. La sua espressione sconsolata « Ich bin tot »30, ripetuta quattro volte in rapida successione, si libra, durante una cena con amici, tra incredulità e indignazione e la consapevolezza che i suoi avversari sono finalmente riusciti nel loro obiettivo di affossare la sua identità. Ogni speranza di consolazione è nutrita comunque dalla risposta del medico presente tra i commensali: « Keine Sorge, wir schauen zusammen vorwärts ».31 Il romanzo della Hasler termina con la fase del riconoscimento della grandezza morale di Henry Dunant e il conferimento del premio Nobel per la pace, avvenuto nel 1901. Interessata agli eventi storici della Svizzera è anche la francofona, di origine 32 italiana, ANNE CUNEO ; nel radiodramma Scènes de la vie d’un pavé (1986), l’autrice nata a Parigi sviluppa la tematica delle ripercussioni della Rivoluzione Francese in Svizzera. Una pietra al centro di Zurigo, testimone di questa epoca tumultuosa, funge da osservatore-giudice, ha il ruolo di narratore, ricorda, quindi, il contesto storico senza celare simpatie per la Francia. Protagonista è, invece, il giovane Jakob Graf, deputato della nuova Assemblea legislativa, fermo difensore delle idee rivoluzionarie, mentre a incarnare lo scetticismo vi è il suo interlocutore, l’anziano istitutore che auspica un ritorno agli antichi valori patriottici, proprio come accade nel celebre pamphlet del 1798, scritto da

PESTALOZZI, Wach auf Volk! Ein Revolutionsgespräch zwischen den Bürgern Hans und Jakob (1798) e citato dall’autrice stessa nell’appendice del manoscritto in cui compare il radiodramma. Se è vero, inoltre, che Anne Cuneo dichiara di essersi attenuta alle fonti storiche per il suo lavoro, va anche sottolineato che la convinzione dei suoi personaggi, secondo i quali la città di Zurigo avrebbe abolito  30 Ivi, p. 10. 31 Ibidem. 32 Per l’analisi delle opere a carattere storico di Anne Cuneo fondamentale è il lavoro di BÉATRICE CHISSALÉ, Anne Cuneo: Témoignage et écriture, Bern-Berlin-Frankfurt am Main- New York- Paris-Wien, Peter Lang, 1997.

183  il sistema patriarcale feudale per volere proprio e non per imposizione, non è condivisa dagli storici. È la giornata del 13 marzo del 1798, data in cui viene eretto l’albero della libertà in Münsterplatz, quella messa in scena da Anne Cuneo. Jakob Graf informa l’istitutore dei recenti avvenimenti di Berna e Zurigo; con entusiasmo, senza però cadere nella demagogia, cerca di convincere il suo reticente interlocutore: cita le iscrizioni sull’albero della libertà e narra di come a Berna il popolo avesse acclamato la Mère Helvetia. A Zurigo esprime, dunque, la sua gioia per i concetti rivoluzionari di Liberté ed Egalité che avevano portato i francesi, e incita i concittadini a eliminare ogni discordia e a battersi per realizzare un’unione fraterna: Oui, liberté, égalité, harmonie et fidélité Unissez de nouveau les cœurs, De sorte que tout le monde se réjouisse de la liberté et de l’égalité Les arbres de la liberté ne vaudraient rien, hélas Si la liberté et la paix n’étaient qu’un jeu. A quoi serviraient rubans, drapeaux et couronne? A quoi serviraient chant, allégresse et danse? O citoyens de la ville! O citoyens de la campagne! Oubliez le passé! Réunissez-vous à jamais!33

Jakob Graf condivide tale ottimismo, crede fermamente in un avvenire migliore. L’atteggiamento zelante del giovane continua con il suo richiamo all’azione rivolto al popolo, il suo invito a battersi per la patria — che Anne Cuneo prende dalla conclusione del testo di Pestalozzi — che finisce per convincere l’istitutore a unirsi al movimento rivoluzionario: Réveille-toi, peuple! Retourne à ton ancien engagement pour tout ce qui est noble, beau et bon. Ne deviens plus jamais ce que tu as été. Mais ne perds rien de ce que tu avais de bon. Réveille-toi — avance — deviens plus grand et meilleur que tu n’étais. N’aie pas peur — ta meilleure force repose dans ta poussière. Soulève-toi, peuple! Soulève-toi! Tu portes en toi-même une force intérieure et tu as des hommes à ta tête qui mèneront plus loin l’Helvétie qu’aucun pays européen n’a été mené par la liberté, par l’égalité et à l’instigation de la France — mais tu dois collaborer. De la sorte seulement sera sauvée la patrie et c’est ainsi que la liberté et l’égalité contribueront à la verité, au plaisir et à la vie du peuple.34

Per la conversione del vecchio istitutore, quindi, Anne Cuneo si serve di

Pestalozzi che, come altri spiriti filo-rivoluzionari quali JOHANN CASPAR  33 ANNE CUNEO, Scènes de la vie d’un pavé, citato secondo BÉATRICE CHISSALÉ, op. cit., p. 106. 34 Ivi, p. 107.

184  LAVATER, HEINRICH FÜSSLI e JAKOB HESS, si fa coinvolgere dalla speranza di costituire un ordine nuovo. Tuttavia, l’autrice lascia intravedere le difficoltà da superare e non produce, nella sua opera, un elogio incondizionato dei Francesi; i protagonisti non condannano direttamente, ad esempio, il periodo del Terrore e Robespierre, piuttosto che la politica di brutale espansione della neonata repubblica, ma sia il sampietrino, bizzarra voce narrante, che Jakob Graf menzionano gli atti di barbarie dell’esercito francese. Effettivamente i dubbi dell’istitutore avevano ragion d’essere, la credulità di Jakob Graf è tradita dalla storia; il sampietrino racconta, infatti, che nonostante l’albero della libertà, i Francesi invasero Zurigo, saccheggiarono e devastarono il paese. Anne Cuneo — è evidente — ha l’intento, con quest’opera, di mettere in risalto come non sempre delle apprezzabili e condivisibili idee filosofiche riescano a esser messe in pratica a causa di interessi politici e militari più grandi. Anche della Costituzione svizzera del 1874, aggiornata nel 1999, si può dire che è, senza dubbio, fondata su princìpi democratici. Ma anche in questo caso, però, i buoni propositi contenuti non vengono messi in atto a causa del potere oligarchico detenuto dalla borghesia capitalista che gestisce l’economia, controlla l’intera nazione con la complicità dei partiti politici e garantisce l’ordine grazie all’esercito e alla polizia. Anne Cuneo attacca la classe dominante prendendo due momenti controversi della storia svizzera: il confronto sanguinoso tra la popolazione e l’esercito a Ginevra il 9 novembre del 1932 e la rivolta dei giovani a Zurigo nel 1980. La pièce Une fenêtre sur le 9 novembre (1981) fa riferimento proprio ai fatti ginevrini all’epoca della crisi economica e dell’ascesa del Fascismo. Anne Cuneo rappresenta gli avvenimenti della serata del 9 novembre 1932 attraverso le reazioni contrastanti di alcuni elementi di una famiglia piccolo-borghese e due personaggi agli antipodi, un sindacalista e un soldato. All’uomo delle prime associazioni di categoria e alla figura di Julie, infermiera, figlia dei piccolo-borghesi protagonisti, la scrittrice nata a Parigi affida il compito di informare la famiglia sulle convinzioni della piazza e di esporre i loro punti di vista sul clima politico e sociale di Ginevra; Julie non nasconde le sue simpatie per il leader socialista Léon Nicole, il sindacalista denuncia la

185  diminuzione dei salari e insorge contro le autorità che reprimono, spesso brutalmente, gli scioperi e cercano di mettere a tacere la libertà di opinione. Preoccupato per la minaccia fascista, il giovane è scandalizzato quando vede intervenire l’esercito per bloccare una manifestazione pacifica. Ma Julie e il sindacalista si trovano a fare i conti, inoltre, con l’ignoranza e l’ottusità della famiglia della ragazza: la madre non conosce nemmeno il Consigliere di Stato Alexandre Moriaud; il padre difende i governanti ed etichetta tutti gli oppositori come vecchie canaglie bolsceviche, simpatizza con dell’Unione Nazionale, venera Hitler e Mussolini e considera Léon Nicole un semplice agitatore di piazza che stava preparando un’insurrezione; Arthur, suo figlio, fa suoi gli stereotipi della propaganda fascista e chiede più volte alla sorella: « pourquoi tu vas pas faire tes saletés en URSS, si chez nous ça te plaît pas? ».35 Il padre della famiglia protagonista non sopporta la presenza di un provocatore comunista e applaude l’altro protagonista delle vicende, un soldato, non riuscendo però a capire lo stato emotivo della recluta, giovane umano e sensibile, che denuncia l’assurdità dell’intervento militare, l’illogicità dell’atto di sparare ai propri concittadini, l’irresponsabilità di mettere in mano armi a dei giovani senza avergli prima insegnato il senso di responsabilità, senza esortarli a riflettere sulle conseguenze fatali in caso di guerra. Contrariamente a quel che avviene nel radiodramma Scènes de la vie d’un pavé, un vero e ragionato confronto tra le opinioni politiche contrastanti è impossibile, considerando quanto le posizioni siano nettamente avverse e aspre: Julie, così, triste e delusa, finisce per rompere con la sua famiglia, decisa a seguire il suo credo politico e sociale. La rivolta giovanile del 1980 a Zurigo differisce dagli avvenimenti del 1798 e del 1932 per due aspetti fondamentali: non coinvolge direttamente le strutture politiche e i suoi obiettivi non sono ideologici ma pragmatici. Senza voler fornire un quadro esaustivo della Bewegung, senza la pretesa di analizzare dettagliatamente il movimento giovanile, Anne Cuneo riesce tuttavia a rendere l’essenziale della rivolta, a fornirne i contorni attraverso l’abbozzo di tre  35 ANNE CUNEO, Une fenêtre sur le 9 novembre, citato secondo BÉATRICE CHISSALÉ, op. cit., p. 109.

186  gruppi, seguendo la distinzione fatta dallo storico Hanspeter Kriesi36: le due fazioni in lotta e i simpatizzanti dei giovani. Come altri scrittori, l’autrice di Station Victoria fa parte dei simpatizzanti, vive gli avvenimenti di Zurigo e sente la necessità di una testimonianza immediata, con l’occhio attento del reporter, di prendere posizione, senza concedersi il tempo di una riflessione che porterebbe via le emozioni a caldo. Il risultato è la sua collaborazione a un’opera collettiva consacrata proprio alle rivolte giovanili zurighesi, Die Zürcher Unruhe (1980), e un radiodramma, Au sud des nuages (1981). In questi testi drammatici, i moti rivoluzionari costituiscono un elemento essenziale per presentare le teorie in contrapposizione in auge all’epoca dei fatti. Anne Cuneo non si limita, tuttavia, a descrivere questi eventi nei testi citati, apparsi in tedesco, ma decide di esporre gli eventi anche in un articolo per la rivista Écriture. Nei suoi scritti l’autrice di D’or et d’oublis mette al centro gli avvenimenti delle prime settimane della rivolta in modo da poter presentare gli attori principali, gruppi o singoli individui, e di spiegare le cause dei tumulti. Nel suo articolo in francese, Anne Cuneo riassume la situazione, che ha anche messo in scena con Au sud des nuages, così: Cent cinquante jeunes gens et jeunes filles avaient défilé devant l’Opéra, pour lequel on allait voter un crédit de reconstruction de 61 millions de francs. Ils criaient à l’injustice: la jeunesse zurichoise attend depuis trente ans une maison de jeunes où organiser ses propres concerts, ses propres manifestations, ses propres réunions. À Zurich, les manifs pour la création d’une telle maison ne se comptent plus. Il y a douze ans, les dernières barricades, c’était déjà pour cette raison-là. […] Chaque année, le budget de la ville de Zurich prévoit 30 millions de francs pour faire marcher l’Opéra, plus de 20 millions pour le théâtre municipal, et 500000 francs pour les jeunes. Les manifestants résumaient la situation, au soir du 30 mai 1980, par le slogan: NOUS SOMMES LES CADAVRES CULTURELS DE CETTE VILLE. […] Il était dix-neuf heures trente. Des dames en robe du soir, des messieurs en frac désiraient se rendre au spectacle sans être importunés. Les manifestants désiraient les importuner pendant trente minutes pour attirer l’attention sur leurs problèmes. Casqués et bottés, ce sont trente policiers qui, sortis de l’Opéra même, sont venus les chasser. Ce fut comme une traînée de poudre. Cent cinquante à sept heures, les manifestants étaient deux milla à minuit. La frustration accumulée depuis des années a explosé avec une force inouïe.37

 36 Si veda HANSPETER KRIESI, Die Zürcher Bewegung. Bilder, Interaktionen, Zusammenhänge, Frankfurt am Main-New York, Campus Verlag, 1984. 37 ANNE CUNEO, “L’air de Zurich au juin 1980”, in Écriture, (15) 1980, pp. 181-182.

187  Due concezioni diverse della cultura, dunque, due sistemi di valori che si contrappongono, conducono allo scontro tra la gioventù zurighese e la borghesia. I giovani chiedono semplicemente un centro autonomo senza, tra l’altro, mettere in discussione la cultura ufficiale. Anne Cuneo è convinta che la manifestazione sarebbe degenerata solo ed esclusivamente a causa dell’intervento avventato e provocatore della polizia; nel suo scritto per la radio svizzero-tedesca riproduce l’atmosfera attraverso la descrizione degli odori e dei rumori dei tumulti, si odono in sottofondo grida, fischietti, le sirene della polizia, petardi che esplodono, vetri infranti, i gas lacrimogeni che fanno tossire irritando le vie respiratorie e rendono complicate le comunicazioni. Nell’articolo Ich war da, und so geschah mir, contenuto nel volume Die Zürcher Unruhe, la scrittrice condanna le versioni dei fatti deformate che i giornali hanno offerto per l’occasione; Anne Cuneo narra, inoltre, quanto accaduto per la seduta del Consiglio Comunale del 18 giugno 1980 e i disordini che ne sono seguiti: i giovani si erano riuniti davanti al municipio per protestare ma i Consiglieri si rifiutarono di inserire le motivazioni alla base dei malumori della piazza nell’ordine del giorno e chiesero alla polizia di disperdere i manifestanti con gas lacrimogeni e quant’altro potesse servire alla ‘giusta’ causa. L’autrice nata a Parigi sottolinea come le intenzioni dei giovani fossero tutt’altro che violente, raccoglie le testimonianze dei passanti, alcune a favore dei manifestanti, altre contro, racconta di poliziotti simpatizzanti con la folla che evitavano di trattare con violenza i giovani indignati e punta il dito contro gli altri media che narravano senza equanimità i fatti, schierandosi contro i dimostranti. Persino il giornale con spirito liberale Tages-Anzeiger fornisce una visione deformata degli eventi, provocando la rabbia e l’indignazione di Anne Cuneo che nel suo reportage del 18 giugno scrive: « Ich war dort. Ich habe es gesehen. Es hat sich nicht so abgespielt ».38 Mostrando i sentimenti ambivalenti della popolazione, Anne Cuneo fa un bilancio della prima fase dei tumulti zurighesi, terminati con l’apertura di un centro autonomo giovanile alla fine del giugno del 1980. Ironica, ma al contempo  38 ANNE CUNEO, Ich war da, und so geschah mir, in AA.VV., Die Zürcher Unruhe, Zürich, Orte Verlag, 1980, p. 29.

188  preoccupata per il futuro, con un sarcasmo graffiante, l’autrice residente a Losanna scrive: Les jeunes Zurichois ont reçu un centre autonome: une vieille usine vouée à la démolition, peu confortable, porteuse de conflits à venir. Mais malgré tout, c’est une victoire. […] La police anti-émeutes reçoit cent nouvelles vestes blindées — bien qu’elle seule ait montré, dans les rues de juin 1980, le bout d’une arme. Les trois douzaines de pavés (dont on a tant parlé) ne peuvent certes justifier une telle dépense. L’Opéra reçoit son crédit de reconstruction de 61 millions.39

I timori della scrittrice sono dovuti ai problemi fondamentali che non sono stati risolti con questo piccolo intervento statale; non a caso le agitazioni giovanili continueranno fino al marzo del 1982, momento in cui il centro autonomo verrà distrutto. Ma Anne Cuneo non mostrerà più interesse per il movimento se si fa eccezione per il testo del 1981, pubblicato in tedesco, non direttamente incentrato sulla Bewegung ma su tematiche comunque care agli agitatori: i pochi alloggi disponibili nella città di Zurigo e il traffico insopportabile. L’autrice solidarizza così con le esigenze dei giovani che auspicavano una città a misura d’uomo, pensata più per le esigenze degli esseri umani che per quelle dell’economia e si abbandona al sogno di un agglomerato urbano con spazi verdi per la popolazione, per i bambini, per i pedoni, per gli animali e incita i lettori alla ribellione: Platz den Menschen.

Gebt die Stadt ihren Bewohnern, die Plätze den Kindern, die Strasse den Fussgängern zurück. Überlasst die Stadt den Poeten, vertreibt die Herren des Geldes. Mitten auf der Fahrbahn treten wir beiseite, der tief fliegende Vogel hat Vortritt. Und wir lachen, unter den Bäumen, entlang der Avenuen, breit genug, dass wir darauf herumkurven können, wie es uns gefällt. Platz den Menschen. Die Stadt ist ein Ort der Brüderlichkeit.40

Anne Cuneo, delusa, con ogni probabilità, dall’atteggiamento evidentemente troppo remissivo dei manifestanti e da quello falsamente accomodante delle autorità, deciderà di non tornare più, nei suoi scritti, sull’argomento.  39 ANNE CUNEO, “L’air de Zurich au juin 1980”, cit., p. 183. 40 ANNE CUNEO, Platz den Menschen — in Zürich zum Beispiel, in AA.VV., Die Zürcher Unruhe 2, Zürich, Orte Verlag, 1981, p. 17.

189  Con la descrizione di questi avvenimenti storici, comunque, la scrittrice francofona vuole dimostrare che in Svizzera un’opposizione c’è e che non sempre chi critica viene messo a tacere; anche in un paese reputato universalmente conservatore, gli emarginati riescono a far sentire la loro voce.

190  1 3.2 TRA STORIA E MITO: GUGLIELMO TELL

Con la figura di Guglielmo Tell si sono cimentati, per secoli, storici e studiosi, ma non esistono testimonianze e prove dell’esistenza di questo stoico personaggio, anche se la sua vicenda è legata alla nascita della Confederazione Elvetica, convenzionalmente fissata al primo agosto del 1291, a quel giuramento di mutuo sostegno fatto dai tre “cantoni primitivi” — Svitto, Uri e Untervaldo — in seguito alla morte dell’Imperatore Rodolfo d’Asburgo e come conseguenza del timore che il suo successore avrebbe cercato di sollevare i diritti e le libertà da loro goduti. La cerimonia del giuramento avvenne in un campo del Grütli, nei pressi del Lago dei Quattro Cantoni, che da allora è diventato un simbolo della libertà elvetica. La Svizzera ha avuto i suoi eroi in carne e ossa, ad esempio i veri padri fondatori della Confederazione, Werner Stauffacher, Arnold von Melchtal e Walter Fürst, ma sono pochi i cittadini svizzeri — e ancora meno quelli lontani dai confini elvetici — in grado di conoscere anche uno soltanto dei tre nomi citati. Ai veri condottieri, ai teologi e ai comandanti svizzeri che hanno portato avanti imprese eroiche, sono state dedicate statue e vie, ma nessuno — a prescindere dall’importanza dell’impresa compiuta — riesce ad avvicinarsi alla fama e agli onori tributati a Tell. Secondo la leggenda, originario di Bürglen, un villaggio del canton Uri, Guglielmo Tell sarebbe stato un valoroso cacciatore, onesto padre di famiglia e abile balestriere. L’uomo si sarebbe recato nel capoluogo regionale, Altdorf, e passando per la piazza principale avrebbe ignorato il cappello imperiale issato con un’asta, simbolo dell’autorità imperiale, a cui ogni passante avrebbe dovuto mostrare riverenza. Chi si fosse rifiutato, avrebbe rischiato la pena di morte o la confisca dei beni. L’impavido Guglielmo Tell non avrebbe concesso i dovuti ossequi e sarebbe stato, di conseguenza, chiamato in piazza, davanti a tutti i cittadini per giustificare, pubblicamente, il suo ardito agire.  1 Sul mito di Guglielmo Tell si veda: AA.VV., Tell im Visier, Zürich, Scheidegger & Spiess, 2007; ALFRED BERCHTOLD, . Résistant et citoyen du monde, Carouge-Genève, Zoé, 2004; JEAN-FRANÇOIS BERGIER, Guillaume Tell, Paris, Fayard, 1988; RENATO MARTINONI, Guglielmo Tell: tragedia del XVIII secolo, Balerna, Ulivo, 2003; LILLY STUNZI (curatore), Tell. Werden und Wandern eines Mythos, Bern/Stuttgart, Hallwag, 1973.

191  Il perfido balivo Gessler gli avrebbe quindi imposto la nota prova della mela, posta sulla testa del figlioletto Walter. L’ardua impresa sarebbe riuscita ma l’eroe svizzero avrebbe nascosto, nel malaugurato caso qualcosa fosse andato storto, una seconda freccia sotto la giacca, pronta per essere scagliata contro il tiranno. Scoperte le intenzioni di Tell, il balivo ne avrebbe predisposto l’arresto; Guglielmo sarebbe stato, dunque, portato in prigione con una barca. Improvvisamente si sarebbe scatenata una tempesta e i suoi carcerieri — considerando che leggenda vuole che il nostro eroe fosse anche un ottimo timoniere — lo avrebbero liberato per farsi aiutare a domare le acque agitate. Giunti a riva, Tell sarebbe riuscito a dileguarsi non senza aver prima, con una possente spinta, allontanato l’imbarcazione verso il largo. Dopo pochi giorni, nascosto dietro a un albero, ai lati di quella che oggi è nota come “via cava” — la strada che dal Gottardo conduce a Zurigo — Tell sarebbe riuscito a vendicarsi uccidendo Gessler. Poi del nostro eroe più nessuna traccia. La lotta per l’indipendenza dei confederati continua ma senza il coraggioso balestriere di Bürglen. Con assoluta dedizione al lavoro gli esperti hanno spulciato centinaia di registri medievali cercando il suo nome, ma nulla è stato trovato. La possibile conclusione di chi non vuole relegare i fatti riguardanti la figura di Tell a mera leggenda, è che il nostro eroe non si chiamasse Tell; considerando i tempi che correvano e il livello di alfabetizzazione alquanto basso, si è pensato a un errore ortografico. Così fra la bassa nobiltà di Uri si è scoperta una famiglia chiamata vom Thal; intorno al 1300 il capofamiglia, però, si chiamava Conrad e non Wilhelm. L’eroe nazionale sembra — che questa conclusione possa sminuire la lotta per l’indipendenza elvetica o meno — essere più un mito che una figura realmente esistita. La presenza in altre regioni dell’Europa di analoghi personaggi, che sono chiamati a colpire un oggetto sulla testa del proprio figliuolo, rafforza questa ipotesi. Prima di Tell, infatti, bisogna registrare l’esistenza di due cacciatori norvegesi dell’XI secolo, Eindridi e Hemingr.

192  Per quel che concerne il primo, il re Olaf il Santo, con la speranza di convertirlo al cristianesimo, gli ordina di colpire una tavola di argilla poggiata sulla testa di suo figlio, ma l’episodio è repentinamente interrotto dall’arrivo della madre del giovane che riesce a far cambiare idea al re e a portarlo a un atteggiamento più mite. Risale più o meno allo stesso periodo storico la vicenda di un altro cacciatore — tale Hemingr — che accetta di confrontarsi, in una serie di gare sportive, con un certo re Harald. Hemingr ha la meglio sul sovrano in tutte le gare, al punto che il re si infuria e finisce per ordinare al cacciatore di colpire una nocciola poggiata sulla testa di suo figlio. La condanna a morte è l’unica alternativa: Hemingr riesce anche in questa sfida e alla fine — elemento importante perché punto di contatto con la leggenda di Guglielmo Tell — si prende la sua rivincita uccidendo il terribile tiranno. Lo stesso scenario si rinviene in Danimarca, circa un secolo dopo, nella saga di Saxo Grammaticus. Il letterato medievale danese, autore — come noto — di un racconto che sembra esser stato fonte d’ispirazione per l’Amleto di Shakespeare, decide di chiamare Toko il suo eroe, un guerriero del X secolo al servizio del condottiero Harald, soprannominato “Dente azzurro”. È noto agli storici che “Dente azzurro” — colui che ha introdotto il cristianesimo in Danimarca — è morto combattendo contro le truppe di suo figlio. Come si sia arrivati a questa lotta, però, non è del tutto chiaro ai giorni nostri e lo era, inevitabilmente, ancora meno nel XII secolo, quando Saxo Grammaticus ha fatto ricorso all’inventiva poetica per creare di sana pianta gli eventi che avrebbero portato alla morte del re. Toko ci viene descritto — è vero — come un coraggioso cacciatore, ma anche come un gran bevitore e un simpatico contrafrottole. Così una volta, in preda all’alcool, inizia a vantarsi delle sue abilità come arciere e si ritrova costretto da Harald a fare quel che avevano fatto prima di lui Eindridi e Hemingr. Stavolta però l’oggetto da colpire, posato sul capo, è una mela. Proprio come Guglielmo Tell, Toko decide che, in caso di malaugurato fallimento e ferimento del figlio, una delle sue frecce sarebbe andata a colpire il re. Ma il cacciatore danese riuscì nell’impresa, pur non nascondendo le sue cattive

193  intenzioni in caso di insuccesso. Come l’eroe svizzero, viene condannato dal re, ma, rispetto a Tell, anziché fuggire saltando da una barca in un lago in tempesta, Toko, per salvarsi, si vede costretto a scivolare giù per una ripida scogliera, fino a giungere al mare. Miracolosamente sopravvissuto agli eventi, l’eroe danese si conferma un modello ideale per Tell quando uccide in un agguato il re. Passeranno duecento anni prima di veder apparire un altro eroico tiratore in grado di scombinare i piani dei potenti: il palcoscenico non sarà né la Svizzera né la Scandinavia, bensì la Britannia medievale e le gesta di un coraggioso eroe saranno narrate in un’antica ballata inglese, Adam Bell, Clim of the Clough, and William of Cloudesley, con degli eventi che, per i conoscitori delle vicende di Guglielmo Tell, hanno un che di familiare: « “And lay an apple upon hys head, And go syxe score paces hym fro, And I my selfe, with a brode arow, Shall cleve the apple in two.”

“Now hast the,” then sayd the kyng; “By Him that dyed on a tre, But yf thou do not as thou hest sayde, Hanged shalt thou be ».2

La leggenda di Tell si sarebbe, forse, persa nei secoli, se non fosse stata fissata per iscritto da alcuni amanuensi alla fine del XV secolo nel codice, conservato all’Archivio cantonale di , rilegato con un’elegante pergamena bianca — da qui il nome Libro bianco di Sarnen (1470 circa) — che aveva lo scopo, più che altro, di raccogliere tutti gli atti ufficiali, i trattati di alleanza ad esempio, che hanno portato alla formazione e all’ampliamento della Confederazione; al suo interno però, nelle vicende evocate nelle cronache, narra anche la storia di Guglielmo Tell. Importante è stato anche il lavoro del dotto glaronense Ägidius Tschudi — noto anche come l’Erodoto svizzero —, il più prestigioso storico del tardo Rinascimento elvetico che, con il suo (1550), compone una dettagliata storia del territorio della Confederazione dall’antichità ai suoi giorni, nella quale trova spazio anche la vicenda di Guglielmo Tell. La sua cronaca ha, da

 2 Il testo integrale è consultabile sul sito http://www.bartleby.com/243/1143.html (Ultima visita: 21 luglio 2013).

194  subito, avuto notevole riscontro, anche se diffusa solo in copie manoscritte. Fra il 1734 e il 1736, l’opera è stata data alle stampe, permettendo così anche alla leggenda di Tell di venir diffusa nei salotti bene del popolo elvetico. Grazie all’autorità conferitagli dalla narrazione dell’illustre storico, ormai, già nel Settecento l’eroe svizzero non è più una figura ricordata solo dai saltimbanchi alle feste di paese, ma diventa un episodio della grande storia nazionale che si presta a quell’avvincente narrazione, sospesa tra realtà e mito, che ha fatto sentire la sua eco fino ai giorni nostri. Gli svizzeri hanno così, per quattrocento anni, conosciuto e amato il proprio eroe. Sia per il popolo che per gli aristocratici, Guglielmo Tell è l’impavido combattente che lotta in prima persona contro il grande nemico: l’Austria imperiale. Grande rispetto, dunque, per la figura sospesa tra storia e mito, finché verso la metà del Settecento, una mano anonima che rispondeva a ideali illuministi, rompe con le interpretazioni precedenti: Der Wilhelm Tell, ein dänisches Mährgen-Guillaume Tell, fable danoise è il titolo provocatorio di un libello, pubblicato sia in tedesco che in francese a Berna, primo tentativo di destrutturazione del mito. Dietro all’anonimo scritto si celano, con tutta probabilità, le menti di due fra i più autorevoli illuministi elvetici, i fratelli Gottlieb Emanuel e Albrecht von Haller. Rinnegare l’esistenza di Guglielmo Tell, mettere in dubbio il mito su cui si fondava la coscienza nazionale, era un po’ come spezzare le radici con la patria e tale atteggiamento, si può affermare con convinzione, ha proprio dato il via a quel difficile rapporto, fatto di amore e odio, che gli intellettuali hanno intrattenuto con la patria e che ha intriso, come abbiamo visto, la letteratura della Svizzera fino ai giorni nostri. L’indisponente libricino dei due bernesi venne addirittura bruciato pubblicamente sulla piazza di Altdorf che, secondo la leggenda, era stata palcoscenico delle gesta dell’eroe nazionale. Nel secolo dell’Illuminismo il modello democratico del piccolo stato dell’Europa centrale suscita grande interesse, il suo sistema politico viene messo al centro di dibattiti filosofici e politici e le congiure contro il sistema monarchico francese e le assemblee giacobine trovano un parallelo nel patto segreto del Grütli.

195  Inevitabilmente coinvolta nei parallelismi anche la figura di Tell, il tirannicida, che legittima, in un certo senso, l’esecuzione di Luigi XVI. Tra l’altro, nel 1766, ad accrescere la popolarità dell’eroe svizzero anche oltre i confini nazionali elvetici, lo scrittore francese Antoine-Marin Lemierre realizza un’opera drammatica, riproposta con successo anche nel 1786, incentrata sulla figura del mito svizzero per eccellenza. Ma quando si parla di Guglielmo Tell in letteratura non si può fare a meno di ricollegare le gesta dell’eroe svizzero alla pièce del 1804 del tedesco Friedrich Schiller: all’epoca la Germania stava subendo l’invasione di Napoleone che, già a partire dal 1803, aveva imposto l’abolizione dei più piccoli fra le centinaia di statarelli in cui era diviso il territorio dell’attuale repubblica federale, trovando in ciò l’appoggio dei maggiori sovrani, dal re di Prussia — all’epoca ancora in buoni rapporti con la Francia — ai duchi di Baviera e Württemberg, che furono i veri beneficiari di questo profondo riassetto territoriale. Mettendo in scena gli Svizzeri del Trecento in lotta contro l’aggressiva egemonia austriaca, impersonata dall’autoritario balivo Gessler, Schiller invita il proprio pubblico a rafforzare il senso di dignità e umanità, all’odio per gli invasori e all’amore per la libertà, bene supremo per cui tutti i cittadini, legati fra loro da vincoli di fratellanza, devono essere disposti a morire. Ideali, insomma, della Rivoluzione Francese, movimento di cui Schiller condivide lo scopo ma non i mezzi, come si può intuire già nell’opera del 1795 Über die ästhetische Erziehung des Menschen. È lecito chiedersi cosa porti Schiller, oltre ai possibili collegamenti tra i moti del 1789 e le vicende elvetiche del XIII secolo, a interessarsi alla figura di Tell, considerando che non ha mai soggiornato in Svizzera e non ha potuto, dunque, raccogliere sul luogo fonti in merito al mito elvetico per eccellenza. È sua moglie Charlotte a trascorrere qualche tempo nella Confederazione, dove rimane molto impressionata dal paesaggio e dalla storia di Tell che le viene narrata dalla gente del luogo, proprio come accade anche al massimo rappresentante della letteratura tedesca, Johann Wolfgang von Goethe, amico di Schiller, che trascorre un periodo nei cantoni primitivi, raccogliendo anche materiale sulla figura di Guglielmo Tell. Proprio l’autore del Werther, nel 1797, ha mostrato per primo l’intenzione di scrivere un’opera sulla figura dell’eroe svizzero e ne parla a

196  Schiller, ma poi, preso da altri progetti e dalla stesura di Der Zauberlehrling e, soprattutto, di Hermann und Dorothea, desiste dal suo intento. Schiller si fa raccontare da Goethe e da sua moglie quel che avevano appreso nella Svizzera centrale, e legge, in merito alla vicenda Tell, tutto quello che è possibile ottenere, primo fra tutti il famoso Chronicon Helveticum di Ägidius Tschudi. Alla fine del suo studio è talmente addentro alla vicenda, alle caratteristiche del popolo elvetico e al paesaggio che fa da sfondo al dramma, che riesce a formulare descrizioni tanto dettagliate e suggestive da sorprendere anche chi conosce bene quei luoghi. Nel 1802 Schiller si accinge, quindi, a cominciare il suo Wilhelm Tell, ma condizioni di salute precarie e impegni vari rinviano l’inizio dei lavori e l’opera viene conclusa soltanto nel febbraio del 1804. L’autore di Marbach am Neckar avrebbe voluto che il suo dramma fosse messo in scena al teatro nazionale di Berlino ma il direttore di quell’impianto non gradisce i — neanche tanto velati — riferimenti politici ed esortazioni alla lotta per la libertà. L’opera è quindi allestita al teatro di corte di Weimar, diretto dall’amico Goethe; il Tell di Schiller, come ha scritto il germanista Giuliano Baioni nella nota introduttiva all’edizione italiana edita da Einaudi, « rappresentava l’uomo di natura che basta a se stesso e non ha bisogno degli altri, il libero individuo prima del contratto sociale, l’uomo che non fa parte di un gruppo, di una classe o di una qualsiasi organizzazione, ma che è tanto autentico, intero e naturale da rappresentare le ragioni degli altri anche quando difende soltanto se stesso ».3 Da Wilhelm Tell, ultimo dramma realizzato da Schiller — morto nel 1805 — Gioacchino Rossini ha tratto l’omonima opera, il suo ultimo lavoro, realizzato a soli 36 anni e rappresentato per la prima volta al teatro Opéra di Parigi il 3 agosto 1829. Il compositore di Pesaro lascia, infatti, il mondo operistico a causa di condizioni di salute precarie, aggravate dalla mole di lavoro a cui si era sottoposto negli anni precedenti, quando arrivò a comporre anche cinque opere l’anno; inoltre, grazie alla dote della moglie e a saggi e redditizi investimenti, il pesarese riuscirà a garantirsi mezzi più che sufficienti per vivere, senza considerare che la monarchia francese gli concederà un reddito annuo a vita.  3 GIULIANO BAIONI, Nota introduttiva a FRIEDRICH SCHILLER, Wilhelm Tell, Torino, Einaudi, 2002, p. XXIV.

197  La scelta di realizzare un lavoro su Guglielmo Tell può sembrare una scelta strana per un’opera scritta sotto il patrocinio di un vecchio re reazionario come Carlo X; ma Rossini, che non poteva certo essere considerato un rivoluzionario agitatore di piazze, non lo considerava, almeno all’apparenza, un argomento pericoloso. Va, inoltre, tenuto presente che la vicenda di Tell, anche nell’universo operistico, non era di certo originale: André Grétry, infatti, aveva scritto un’opera sull’arciere nel 1791 con libretto di Michel Jean Sedaine e il pubblico, tra l’altro, ben conosceva il dramma di Schiller e aveva potuto apprezzare una pièce, incentrata sull’eroe svizzero, di Pixerécourt rappresentata nel 1825. Forse conscio che il Tell sarebbe stata la sua ultima opera, Rossini vi dedicò particolare attenzione: il compositore riuscì a fondere sublimemente la magnificenza delle sue opere tragiche, come il melodramma Semiramide, all’umanità malinconica dei drammi giocosi quali, ad esempio, Cenerentola, facendo incontrare e incrociare, già nella celebre ouverture, violoncelli, corni inglesi contrappuntati da flauti e trombe. Nel Novecento, la Letteratura Svizzera ha provocato lo sgretolamento dei grandi miti nazionali, primo fra tutti quello di Guglielmo Tell4; questo è il concetto espresso nel brano iniziale dell’opera a carattere saggistico di Peter von Matt Die tintenblauen Eidgenossen. Über die literarische und politische Schweiz (2001): Die Geschichte ist ein Rauschmittel. Sie gehört zu den großen Drogen der Menschheit. An der eigenen Geschichte berauschen sich die Völker nicht erst, seit es den Nationalismus der Nationalstaaten gibt. Sie haben es immer schon getan. Das auszusprechen gilt allerdings als unpassend. Zu viel Elend und praktizierte Niedertracht ist aus dem Nationalismus der letzten zweihundert Jahre hervorgegangen, als daß man heute anders als mit strafender Empörung davon reden dürfte. Zum Rausch gehört sein Komplementärzustand, der Cafard, die graue Ernüchterung. Seit dem Ende des Zweiten Weltkriegs ist der Cafard des Gerichtsrausches weithin zur Norm geworden.5

 4 Per un approfondimento sull’opera di Von Matt e sulla decostruzione dei miti elvetici si ascoltino le puntate, curate da Mattia Mantovani, della trasmissione radiofonica della RSI-Rete Due Spiracoli aventi come oggetto La Svizzera degli scrittori ovvero viaggio al termine dei miti (http://retedue.rsi.ch/home/networks/retedue/spiracoli/2009/08/03/svizzerascrittori.html?selectedA udio=0#Text. Ultima visita: 21 luglio 2013). 5 PETER VON MATT, Die tintenblauen Eidgenossen. Über die literarische und politische Schweiz, München, Hanser, 2001, pp. 13-14.

198  Von Matt offre, con questo incipit, alcune considerazioni generali su quella che egli stesso definisce “l’ebbrezza della storia”, che viene collocata su una linea di confine dove mito, storia e leggenda tendono a fondersi e confondersi. Le considerazioni assumono poi un carattere molto più specifico quando von Matt inizia a parlare della Svizzera: Wer von der Literatur der Schweiz spricht, muß früher oder später von ihrem Verhältnis zur Geschichte sprechen, auch zum Rauschcharakter der Geschichte, auch zur Kultur des Cafards, zur Kultur der historischen Ernüchterung. Patriotismus als strenge Patriotismuskritik, das Paradox eines »kritischen Patriotismus« also, bestimmt entscheidend das künstlerisch verbindliche Schreiben in der Schweiz seit der Mitte des 20. Jahrhunderts. Der Aufwand läßt auf die Gegenkräfte schließen. Die dreißiger und ersten vierziger Jahre hatten der Schweiz noch einmal eine mächtige Intoxikation mit den Heldenfabeln ihrer Geschichte gebracht. Dies stärkte den Widerstand gegen das faschistische Europa in dem Maße, in dem es auch zur Herzlosigkeit gegenüber den Verfolgten, den um Einlaß flehenden Juden an der Grenze, beitrug. Die gemeinschftliche Erregung förderte eine kollektive Anästhesie. Das Stichwort, unter dem die Geschichte als gesellschaftliches Halluzinogen in der Schweiz der dreißiger Jahre, mit Ausläufern weit in die Zeit des Kalten Kriegs hinein, neu belebt und politisch instrumentierbar wurde, hieß »Geistige Landesverteidigung« . […] Deshalb wurde sie in den Jahren des Cafards, in der Literatur des kritischen Patriotismus, zum Inbegriff eines falschen und verantwortungslosen schweizerischen Nationalismus.6

Ed ecco che proprio in questo momento entrano in scena quelli che Peter von Matt definisce die tintenblauen Eidgenossen — i confederati dell’inchiostro — che oppongono, a quello che è stato chiamato un “patriottismo falso e irresponsabile”, un nuovo patriottismo, un rapporto di amore e odio che si profila e si realizza nella cosiddetta böse Schweiz, la cattiva Svizzera, il paese dei miti incancreniti e usati in modo strumentale e tutto questo, ovviamente, a partire dal mito elvetico per eccellenza, quello di Guglielmo Tell. Ecco, a tal proposito, le considerazioni di von Matt: Die Literatur der deutschsprachigen Schweiz […] steht seit ihren Anfängen in einer sehr wechselhaften Beziehung zur Geschichte der Schweiz als einem Corpus von Heldenlegenden. Das ließe sich am besten illustrieren an der Haupt - und Kernfabel um Wilhelm Tell. Kaum ein Autor der letzten dreihundert Jahre, der nicht früher oder später schreibend in die Nähe dieser Erzählung und ihrer vielfachen politischen Aussagekraft geraten wäre, sei es im zustimmenden, sei es im kritisch-demontierenden Sinn.7

 6 Ivi, pp. 10-11. 7 Ivi, pp. 11.

199  Questa decostruzione critica del mito, che gli scrittori svizzeri hanno declinato, per lo più, in forma ironica e che hanno intrapreso a volte con tono apocalittico, altre volte con rigorosa lucidità, ha come interprete principale, con il suo Wilhelm Tell für die Schule (1971), MAX FRISCH. Va segnalato, in questa occasione, che la decostruzione del mito Tell prima che per l’autore di Zurigo, è passata, come segnala Peter von Matt, per la penna di 8 ROBERT WALSER: « der sanfte Walser » descrive il salto di Tell, in una prosa del 1909, in modo curioso e senza paragoni con le trasposizioni letterarie precedenti; è come se tutta l’energia della storia universale si concentrasse nella gigantesca gamba di Tell nel momento del salto. Il movimento del tirannicida è descritto in un’unica e immensa frase iniziale9: Dadurch, daß Tell aus der landvögtischen Schiffes-Finsternis, indem er der schaukelnden Tyrannei einen endgültigen verabschiedenden Fußtritt versetzt, auf die hohe Felsenplatte springt, wo ihn Licht, Luft und Befreiung umarmen, dadurch hat er sich auf eine Wolke, glänzend von Bewegungsfreiheit, hinaufgeschwungen, und er hat, indem er sich persönlich befreit, auch schon dem Vaterland den Dienst des Erretters und Befreiers geleistet, er hat schon hier den Drachen getötet, hier schon ist das feige Tyrannen-Ungeheuer erschossen worden, uns zwar durch eben jenen endgültig wegstoßenden Fußtritt, durch dieselbe Bewegung also, die ihn selbst ans Licht und auf die Platte schwingt, indem das schwankende Greuel auf den Wellen des empörten Sees weitertribet.10

Come incipit un’unica frase lunghissima, che presenta grandi difficoltà e appare ambigua, misteriosa, polivalente, ma che, a una prima lettura, sembra inserirsi tranquillamente nel solco della tradizione relativa al mito Tell e sembra, anzi, evidenziare il carattere eroico e leggendario dell’intera vicenda. Ma con l’autore di Biel, bisogna sempre andare oltre le apparenze e questo atteggiamento di diffidenza nei confronti delle prime impressioni suscitate, va tenuto anche per questa frase, forse una delle più ambigue di tutta la sua produzione. Ecco, a tal proposito, le considerazioni di Peter von Matt: Erst wenn man genauer zusieht, erkennt man, daß das leuchtende Tableau aus aufgelesenem Material zusammengesetzt ist. Der »Erretter und Befreier« zitiert den Schluß von Schillers »Wilhelm Tell« . Das »feige Tyrannen- Ungeheuer« stammt aus patristischen Ramschtexten. Der »getötete Drache« ist ein Etikett aus den archetypischen Rettersagen, das hier einer  8 Ivi, p. 16. 9 Cfr. PETER VON MATT, op. cit., p. 24. 10 ROBERT WALSER, Tell, in ID., Das Gesamtwerk in 12 Bänden, vol. 6, Frankfurt am Main / Zürich, Suhrkamp, 1978, p. 23-24.

200  archetypischen Rettersage tautologisch aufgeklebt wird. Aber die naheliegende Folgerung, daß demnach alles ironisch sei und parodistisch, daß hier ein aufgeklärter Kopf die abgetakelte Vaterländerei dem öffentlichen Gelächter überantworte, täuscht. Es sind gerade die Klischees, die billigen Bilder, der Gehirnschrott, was Walser tief fasziniert. Er ist hingerissen von den Alltagsmythen der Öldrucke und Groschenhefte.11

Queste osservazioni di von Matt, particolarmente acute e illuminanti, permettono di porre in evidenza il nucleo della questione: con il Tell walseriano, infatti, non ci troviamo al cospetto di una semplice rilettura ironica che, in quanto tale, si limiterebbe a essere simpatica e divertente ma, in fin dei conti, indolore e insapore. Con Walser ci troviamo, invece, coinvolti in un vero e proprio smontaggio del mito, alla decostruzione di un materiale leggendario — e quindi antico — che viene operata attraverso l’utilizzo molto sapiente ma — come si è già avuto modo di dire in questo contesto — anche molto ambiguo di una tecnica letteraria, una sorta di pastiche, assolutamente moderna. Questo è proprio il motivo per cui tale prosa di Robert Walser, che è vecchia di cento anni, possiede caratteristiche molto attuali, la stessa impostazione e lo stesso taglio che si troveranno poi nei testi di Frisch, Dürrenmatt e degli altri autori che nel secondo dopoguerra metteranno sotto torchio la cosiddetta böse Schweiz con i suoi miti e le sue leggende. Peter von Matt descrive assai bene questo ruolo di precursore svolto da Walser: Er war vielleicht der erste Autor in deutschen Kulturraum, der für das, was man heute Trash nennt, Trash-Kunst, ein leidenschaftliches Interesse hegte. Diese Leidenschaft verwandelt den Text über den Tellsprung unversehens in ein Gebilde, in dem der Trash hohe Kunst wird. Mit der Kategorie der Ironie ist dem nicht beizukommen, viel eher mit dem Kunstbegriff Nietzsches, wo sich die farbigen Bilder, ihres Traumcharakters bewußt, ohne metaphysische Wahrheitsverpflichtung vor den Augen des »freigewordenen Intellekts« schimmernd bewegen.12

E, senza ombra di dubbio, si deve parlare di intelletto liberato nel caso della Letteratura Svizzera del patriottismo critico. Un chiaro esempio di questo intelletto liberato — che auspica a diventare intelletto liberatore, uno stimolo per le coscienze — è rappresentato da MAX FRISCH e dall’insieme della sua produzione, all’interno della quale si situa un’opera, Wilhelm Tell für die Schule,

 11 PETER VON MATT, op. cit., p. 17. 12 Ivi, pp. 17-18.

201  che illustra in maniera estremamente perspicua questo ruolo e questa funzione dell’intelletto liberato. L’opera dello zurighese, un’altra tappa fondamentale del percorso di decostruzione del mito Tell, è stata pubblicata nel 1971 dall’editore Suhrkamp di Francoforte e, due anni dopo, ha visto la luce anche in versione italiana grazie a

Einaudi e alla traduzione di ENRICO FILIPPINI. Nell’ambito del patriottismo critico, l’opera di Frisch ricopre un ruolo fondamentale perché accelera il processo di decostruzione e arriva addirittura a infrangere, in maniera che si può ritenere definitiva, il mito Tell. Max Frisch porta a compimento l’opera di smontaggio che, come abbiamo visto, fu iniziata da Robert Walser e la porta a compimento sul piano stilistico e della struttura narrativa. Il Wilhelm Tell für die Schule è certamente l’unica opera del Novecento elvetico interamente incentrata sul Tell di Schiller, che viene decostruito e riscritto. Siamo al cospetto di un genere diverso rispetto a quello dello scrittore tedesco — non si tratta di teatro come nel caso dell’autore di Maria Stuart (1800), bensì di narrativa o di qualcosa che si situa a metà strada tra narrativa e saggistica —, tutto viene osservato dalla prospettiva del balivo e non dell’eroe svizzero per eccellenza e approfondito nelle numerosissime note apposte da Frisch in cui vengono indicate molte fonti, manuali di storia del Novecento — quindi realizzati da alcuni suoi contemporanei —, e molto spesso vengono fatti dei raffronti con i testi utilizzati da Schiller per far emergere, quindi, una nuova versione, cercando di mettere a nudo i fatti, tentando, magari, di avvicinarsi il più possibile a quella che dovrebbe o potrebbe essere la storia. Di sovente, tra l’altro, Frisch si riferisce a fatti di cronaca, agli eventi che hanno scosso l’opinione pubblica negli anni Sessanta; in particolare, lo spunto per quest’opera sul mito elvetico è fornito da un attentato palestinese a un velivolo a Kloten, l’aeroporto di Zurigo. Gli attentatori dichiararono di ispirarsi a Tell e questa affermazione fece infuriare Frisch, come ci si può render conto da alcuni suoi scritti del tempo, e proprio da questo episodio fu indotto a occuparsi del Tell di Schiller anche se, vent’anni prima, il collega Brecht gli aveva già consigliato di confrontarsi con il materiale offerto dal mito elvetico per eccellenza per decostruirlo, per evidenziare che Tell non era propriamente un rivoluzionario,

202  bensì un reazionario e che operava per lo status quo e non per un cambiamento assoluto in modo positivo. La decostruzione messa in atto da Frisch passa anche attraverso la metamorfosi operata sui protagonisti; il Gessler dell’autore di Andorra, per esempio, è completamente distante non solo dal balivo proposto dalla tradizione, ma anche da quello di Schiller. Si assiste al rovesciamento del mito: Gessler è un personaggio benevolo, accondiscendente, disponibile, si direbbe che si trova suo malgrado nella Svizzera centrale, vorrebbe trovarsi altrove, ha il mal di testa a causa del föhn, il suo modo di esprimersi è completamente diverso rispetto al balivo schilleriano, più semplice e vicino a quello del popolo e non sempre viene chiamato Gessler, talvolta si trova Konrad, Corrado e diversi altri nomi. Il balivo, quasi suo malgrado anche in questo caso, come se agisse soltanto per rispondere ai suoi doveri nei confronti dell’imperatore, intima di colpire la mela posta sulla testa del figlio di Tell ma spera che non si arrivi a questo episodio, ritenuto disagevole e fastidioso, per carestia di mele. La metamorfosi dei personaggi non può, ovviamente, non riguardare anche il personaggio di Guglielmo Tell e, pure in questo caso, si è molto lontani dall’immagine dell’eroe offerta dalla tradizione: già dal punto di vista fisico appare comico, è un indigeno dalla barba rossa, con le gambe corte, comunque ben piantato, e porta sempre con sé la balestra, che sembra essere quasi tutt’uno con il suo corpo, è una parte di sé; il Tell di Frisch è sicuramente un eroe passivo. L’unico personaggio che sembra poter aspirare al ruolo di vero eroe coraggioso è il figlio dell’arciere che, però, appare anche malato di una sorta di autolesionismo seppur non può rendersene pienamente conto a causa dello scorrere degli eventi. Va comunque tenuto presente che i fatti vengono descritti sempre dalla prospettiva del balivo e che, quindi, anche la descrizione di Tell che ci viene fornita, è quella di Gessler: « Il Wilhelm Tell für die Schule di Frisch realizza attraverso uno stile colloquiale ed efficaci tagli dell’acme dell’accadere un doppio scambio di ruoli, rendendo l’eroe Tell negativo e caratterizzando invece

203  positivamente il ‘cattivo’ Gessler, che si pone all’attenzione proprio in quanto vittima, anti-eroe ».13 L’uomo al servizio dell’imperatore è mite nei confronti dell’arciere quando questi è condotto a lui per non aver riverito il cappello; il balivo riconosce in lui l’uomo che ha già visto scendere dalla montagna e lo tratta benevolmente, con una certa accondiscendenza, esprimendosi in maniera totalmente diversa rispetto all’equivalente personaggio schilleriano. In Frisch troviamo: « Riteneva che l’incidente potesse finire in scherzo: — Eh già: tu non saluti mai, lo so è il tuo modo di fare — »14. Nell’episodio analogo del dramma dell’autore tedesco si rinviene un linguaggio e un tono totalmente diverso: « Verachtest du so deinen Kaiser, Tell, und mich, der hier an seiner Statt gebietet, dass du die Ehr’ versagst dem Hut, den ich zur Prüfung des Gehorsams aufgehangen? ».15 Questa rilettura delle vicende di Tell lascia giusto dei piccoli frammenti del mito e, forse, nemmeno quelli; il personaggio di Frisch sembra un eroe da fumetto: è buffo, al tempo stesso patetico, è debole, non riesce a prendere posizioni, deve essere continuamente convinto dai concittadini, si lascia influenzare e sembra quasi una vittima predestinata, scelta dal popolo, non agisce in base al suo spirito di iniziativa, bensì in seguito a quel che il popolo sussurra o a ciò che vorrebbe, è quasi privo di vita propria.

Non c’è da sorprendersi se anche FRIEDRICH DÜRRENMATT, che ha fatto della parodia il suo marchio di fabbrica, offre, seguendo l’esempio di numerosi autori elvetici, la propria versione del mito fondatore della Svizzera. In Turmbau: Stoffe IV-IX (1990), l’autore di Konolfingen accenna la storia, progettata ma mai realizzata, di un Guglielmo Tell in chiave moderna. L’eroe dürrenmattiano si reca in Italia in auto per affari concernenti la sua impresa di utensili da cucina. Egli investe e uccide un uomo in una piccola città mentre sta attraversando; la vittima non è altri che il sindaco, un tiranno odiato dai suoi amministrati.

 13 ANNA FATTORI, “Monologhi telliani: Friedrich Schiller, Robert Walser, Max Frisch”, in LINKS Rivista di letteratura e cultura tedesca, (IV) 2004, pp. 109-129. 14 MAX FRISCH, Guglielmo Tell per la scuola, Torino, Einaudi, 1973, p. 63. 15 FRIEDRICH SCHILLER, Wilhelm Tell, Torino, Einaudi, 2002, p. 174.

204  Ma, a ben riflettere, questi appunti non sono l’unica traccia del personaggio sospeso tra storia e mito nell’opera di quello che è uno dei più importanti autori della Svizzera del Novecento: il dramma di Schiller appare, infatti, come uno dei punti di riferimento essenziali del teatro di Dürrenmatt, specialmente quando si trova a descrivere un’azione collettiva. Si prenda, ad esempio, la scena finale di Der Besuch der alten Damen (1956) quando il popolo uccide, in un’ambigua assemblea, per volere della ricca e potente Claire Zachanassian, Alfred III; sono piuttosto evidenti delle analogie con la scena del giuramento del Grütli nel dramma di Schiller, ma si porta tutto verso un cinismo totale, esasperato. La morte del tiranno è una tematica che appare, con tutte le sue varianti, lungo tutta l’opera dello scrittore, da Romulus der Große (1950) a Achterloo (1982). Che questi riferimenti al mito Tell siano manifesti o celati, che li si possa rinvenire nei romanzi polizieschi o nelle opere teatrali, si può chiaramente notare che mirano a criticare la facciata della Svizzera, l’idea che il paese vuole si abbia di sé e mettere in evidenza come un’azione collettiva ricercata possa trasformarsi in disillusione e condurre a risultati totalmente opposti a quelli auspicati.16 Contributo alla decostruzione del mito viene fornito anche dal saggio a carattere storico degli anni Settanta Schweizer Geschichte für Ketzer (1981) di

OTTO MARCHI, polemica volta contro il punto di vista offerto dalla storia tradizionale e che tratta ironicamente i soggetti principali del piccolo stato dell’Europa centrale; pur sempre fondata su basi storiche solide, questa critica delle fonti esamina la relazione della Svizzera con gli Asburgo e analizza la capacità tutta elvetica di creare una storia nazionale a partire da un personaggio mitologico come Guglielmo Tell. Marchi intrattiene i suoi lettori con un piacevole viaggio nel tempo mediante il quale analizza meticolosamente la figura di Tell attraverso la sua trattazione letteraria da una parte e tramite le multiple sfaccettature dell’emancipazione e del mutamento del personaggio dall’altra. Con l’analisi dello storico di Lucerna è la Svizzera stessa, attraverso la decostruzione del mito Tell, a essere decostruita.17  16 Per l’influenza di Tell sull’opera di Dürrenmatt si veda: ULRICH WEBER, Tells Fehlschüsse in Dürrenmatts Werk, in AA.VV., Tell im Visier, cit., pp. 291-303. 17 Per l’influenza di Tell sull’opera di Marchi si veda: KATJA FRIES, Mutationen des Tell. Otto Marchis « Schweizer Geschichte für Ketzer » als polemische Historie, in AA.VV., Tell im Visier, cit., pp. 305-316.

205  Anche in vari romanzi di GERTRUD LEUTENEGGER — Ninive (1977), Meduse (1988) e Acheron (1994), e nell’ultima opera Pomona (2004 — sono presenti allusioni al mito che portano a un libero gioco di associazioni tra saga e realtà. Ma è il racconto Komm ins Schiff (1983), ambientato nei luoghi rappresentativi della leggenda di Tell, il lago dei Quattro Cantoni, a non avere eguali nella recente Letteratura Svizzera e a rompere più marcatamente con la maniera tradizionale di trattare il soggetto. La scrittrice di Schwyz ci presenta un parallelo tra una storia d’amore moderna e le avventure del personaggio leggendario; in fuga con il suo amante, l’Ich-Erzählerin passa quasi per caso attraverso i luoghi leggendari. Sul posto vengono ricordati al lettore gli elementi che compongono la saga: il salto con il quale si salva il protagonista, la fuga, l’omicidio di Gessler. Questo ardito parallelo tra una relazione sentimentale dei tempi moderni e il mito della libertà, evocato attraverso i luoghi e gli avvenimenti storici, non è solamente un nuovo modo di presentare il mito antico ma permette anche alla Ich-Erzählerin di illustrare al meglio i suoi moti interiori. La Leutenegger utilizza la leggenda di Tell come qualcosa di eroico; la sua metodologia poetologica rende visibile quello che Mythologies di Barthes aveva teorizzato: svuotare e ricostruire la relazione tra significante e significato. I personaggi del presente narrato occupano i luoghi storici, i posti e le rievocazioni storiche sono portatori di significati e, attraverso la lettura, possono suscitare delle analogie. Il contatto con la Storia è come se trasmettesse sensazioni portatrici di conoscenza. A differenza di quella di Roland Barthes, la mitogenesi della Leutenegger è essenzialmente soggettiva, poiché soltanto l’Ich-Erzählerin riconosce cosa le appartiene delle vicende estranee al suo privato. Tale capacità riflessiva poetica rende possibile l’esperienza paradossale che fa di un episodio storico la base di un avvenire possibile.18 Considerando questo continuo démontage, spesso sarcastico, del mito fondatore della Svizzera e la conseguente confusione che si è potuta creare intorno alla sua figura, lo scrittore JÜRG SCHUBIGER, autore di numerosi libri per  18 Per l’influenza di Tell sull’opera della Leutenegger si veda: IRMGARD M. WIRTZ, Gertrud Leuteneggers Mythogenesen oder « Die gelöschte Erinnerung an die Zukunft », in AA.VV., Tell im Visier, cit., pp. 317-326.

206  l’infanzia, ha deciso di spiegare ai bambini chi fosse veramente l’eroe con l’arco a cui il piccolo paese diviso in ventisei cantoni deve la sua libertà e indipendenza. Diversamente da Schiller, che si rivolge a un pubblico adulto, dunque, Schubiger crea il suo Tell per bambini in Die Geschichte von Wilhelm Tell, che ha per protagonista un bambino di nove anni che trascorre le vacanze estive dai nonni ad Altdorf, la cittadina del cantone Uri dove, secondo la leggenda si sono svolte le vicende dell’eroe nazionale. Sulla piazza ove si erge imponente il monumento dell’arciere e di suo figlio, il nonno — con l’entusiasmo di un moderno telecronista sportivo, stando a quanto affermato dal giovane protagonista — inizia a narrare le avventure dell’eroe: « Vor vielen hundert Jahren ist auf demselben Platz der richtige Tell gestanden ».19 Si passa poi direttamente alla descrizione del punto più alto della vicenda mitologico-storica, la scena della mela, e il nonno spiega al piccolo protagonista, affascinato da cotanto eroico coraggio, come il balivo sia potuto arrivare a decidere quella punizione. La storia prosegue con gli eventi che già conosciamo: l’arresto di Tell, la fuga dell’eroe, l’uccisione di Gessler e l’arciere che può finalmente riabbracciare i suoi figli. Nel corso della narrazione dei fatti, Schubiger offre un parallelo tra i problemi del giovane Ich-Erzähler e quelli del suo coetaneo dei tempi antichi: i due sono accomunati, tra l’altro, dall’orgoglioso amore nei confronti di un padre coraggioso e dalla nostalgia per il genitore quando il lavoro lo costringe a trascorrere periodi lontano da casa. Alla fine del racconto delle vicende dell’impavido arciere, il ragazzo — e con lui tutti i giovani lettori — comprende perché « im Städtchen las ich überall den Namen Tell: Tell-Drogerie, Tellenbräu. Ein Touristenbüro bot eine Fahrt zur Tells-Kapelle an ».20 Più vicino al Toko del Saxo Grammaticus che al Tell di Schiller è l’eroe dello scrittore di Aarau HANSJÖRG SCHNEIDER, protagonista della pièce Der Schütze Tell (1975) — rappresentata per la prima volta, e ripresa dalla televisione austriaca, nel 1975 vicino Vienna e proposta anche per una versione radiofonica —, uomo descritto come grande millantatore ed eccezionale amante dell’alcool. Nell’opera di Schneider viene presentato un Tell perdigiorno, padre di sei figli; le caratteristiche del personaggio sono chiare sin dalle prime battute fatte  19 JÜRG SCHUBIGER, Die Geschichte von Wilhelm Tell, Zürich, Nagel&Kimche, 2003, p. 9. 20 Ivi, p. 89.

207  proferire a sua moglie: « Du Faulpelz, du fauler Sack, ich will dir. […] Wir schreien uns die Seele aus dem Leib, und du schläfst […] Jetzt ist Tag, und am Tag wird gearbeitet […] Das Vieh ist Männersache ».21 I bambini del miglior tiratore di tutto il canton Uri (« Ich bin der best Schütze von ganz Uri »22) soffrono la fame e a disposizione ci sono soltanto mele, come sottolinea, per rendere ancor più chiara l’idea di che tipo di uomo possa mai essere questo Tell, ancora la moglie dell’arciere: « Jedes bekommt jetzt einen Apfel, und dann suchen wir weiter. Ja, ja, du bekommst auch einen ».23 La donna sembra addirittura pentita di aver sposato Tell: « Mein Vater hat mich gewarnt, ich solle dich nicht nehmen ».24 La storia prosegue come da leggenda con l’arciere che non presta ossequio al cappello imperiale perché, però, come del resto spesso gli capitava, era ubriaco. A Tell viene, quindi, chiesto dal terribile Gessler di colpire una mela posata sul capo di suo figlio Walter; viene poi caricato su un’imbarcazione per esser portato in prigione, riesce a fuggire e, in seguito, a uccidere il balivo Gessler. Lo spettatore non sa provar simpatia per questo Tell che pare un eroe per caso, come dimostrato dalle battute finali; il principe gli dice soddisfatto: « Uri ist stolz auf dich, großer Tell […] Du hast für unsere Freiheit gestritten […] Du hast für das allgemeine Wohl gelitten […] Du hast das Urner Volk gerettet […] Du hast der Freiheit eine Wiege gebettet ».25 L’eroe per caso, senza troppa convinzione, con la stessa apatia che l’ha caratterizzato per l’intera opera, ripete: « Ich habe für die Freiheit gestritten. Ich habe für das allgemeine Wohl gelitten. Ich habe das Urner Volk gerettet. Ich habe der Freiheit eine Wiege gebettet ».26 Il mito Tell in letteratura, fino a questo momento, se si fa eccezione per Antoine-Marin Lemierre e il suo Guillaume Tell, sembra affare esclusivamente dell’ambito germanofono: dal dramma di Schiller ai vari Walser, Frisch e Marchi, scrittori dei cantoni della Svizzera tedesca, è stata la lingua dei teutonici a cantar le gesta di un eroe che, però, viene etichettato sempre come nazionale.

 21 HANSJÖRG SCHNEIDER, Der Schütze Tell in ID., Stücke, Zürich, Ammann Verlag, 1992, p. 157. 22 Ivi, p. 160. 23 Ivi, p. 158. 24 Ivi, p. 160. 25 Ivi, p. 213. 26 Ivi, p. 214.

208  Ma nel 2007, dal fronte francofono, arriva una riscrittura molto particolare che contribuisce alla decostruzione del mito: a narrare le avventure dell’infallibile arciere è RAFIK BEN SALAH, scrittore originario della Tunisia, autore di La véritable histoire de Gayoum Ben Tell. L’eroe dello svizzero-maghrebino non è un cittadino elvetico, si chiama, in verità, Gayoum, proviene dalla Berbérie (« qui sait aujourd’hui que la Barbarie est encore un pays et que ses habitants ne sont autres que des Berbères déguisés en Arbis? »27), attraversa la Blanchemédiane (il Mediterraneo), per venire a combattere i Trèchiènes (gli Austriaci) al fianco di Murad Boumgardène (Conrad Baumgartner), dell’eroe ben Machtel (Arnold de Melchtal) e di ce cher Stouffa (Werner Stauffacher). Come appare evidente, Rafik ben Salah adatta alla cultura maghrebina il più elvetico dei miti, gli crea intorno una genealogia fantasiosa e inserisce nel testo le inflessioni del parlare nord- africano. Per conferire veridicità agli eventi narrati, si dice, nelle prime pagine, che la storia è attestata in documenti custoditi in bauli dello scrittore Staline e guardati dall’alto da Allah: « les documentes qui sont la base de cette histoire sont encore dans les coffres de l’écrivain Staline, Allah les garde inexpugnables, et leur propriétaire toujours honorable! ».28 Ancora onore, più avanti, al fantomatico scrittore Staline (« heureusement que nous avons l’écrivain Staline qui a tout écrit, sous la dictée de mes ascendants et tout conservé dans ses coffres! »29), che, come gli Evangelisti al seguito di Gesù, redattori dei Vangeli, è spettatore dei prodigi dell’eroe e li mette per iscritto: « Staline dit que l’exploit le plus prodigieux que cet homme ait réalisé, c’est d’avoir appris de ah à zut, tout votre livre, al Cor’âne, à l’âge de six ans! ».30 A narrare gli eventi è una certa Munia, di origine svizzera, discendente dello storico al-Tschudy, che « n’a pas renié ses origines, ni même son pays »31, la quale racconta ai suoi amici arabi, con un’irresistibile combinazione tra dialetto svizzero-tedesco e maghrebino, le gesta di ben Tell: « et Munia Swissy de conter partout au village l’histoire de Gayoum ben Tell (Le Vaillant fils de Tell) à sa

 27 RAFIK BEN SALAH, La véritable histoire de Gayoum ben Tell, Vevey, Xenia, 2007, p. 9. 28 Ivi, p. 13. 29 Ivi, p. 26. 30 Ivi, p. 30. 31 Ivi, p. 12.

209  manière, ayant pris racine en Barbarie depuis nombre de générations, mais tenant toujours le fil des racines et des origines ».32 Ben Tell lotta al fianco delle genti di lingua francese, in città come Gynyf (Ginevra), Louzâne (Losanna), Fyfy (Vevey), Montrey (Montreux), in seguito « il a quitté la partie françaouia de la Suisse et il chemine maintenant dans les contrées germaniques où il a vite appris leurs dialectes ».33 Il nome di ben Tell inizia a farsi conoscere in tutto il paese e gli amministratori locali, proprio come nella vicenda relativa a Guglielmo Tell e narrata da Schiller e gli altri, sembrano non apprezzare l’impavido arciere: « mais voici ce qui a monté Gess-lard contre ben Tell. Un jour, sept hallebardiers se présentent chez ben Tell. Ils sont envoyés par Gess-lard, le Tâte-gras qui demande à voir le génial arb’alattier. Ben Tell refuse d’obtempérer ».34 L’affronto equivale, come del resto nel mito di Guglielmo Tell che ben conosciamo, a una vera e propria dichiarazione di guerra; il coraggioso cacciatore va punito mettendo a rischio quel che ha di più caro: Voici à quoi je te condamne, insolent. Pour n’avoir pas obéi à mes ordres et refusé de saluer les couleurs de notre roi […] Je sais que tu aimes tous tes enfants, mais peut-être as-tu une légère préférence pour le tout dernier qui est ton tardillon, m’a-t-on dit. Alors comme tu excelles dans le tir à l’arb’alatte, tu vas nous le prouver sur l’heure. Nous allons donc faire venir le petit sur cette place, le placer à côté de l’épouvantail, lui placer une figue de Barbarie sur la tête, vu tes origines, insolent Berbère.35

Sul capo del fanciullo non viene posata, come in tutte le versioni fin qui prese in esame, una mela, bensì un fico d’India, considerando l’origine berbera del protagonista; la storia prosegue nella modalità che invece è ben nota: « l’enfant placé si loin tremble maintenant et il claque des dents. […] On le voit se saisir de son arb’alatte, et il crie à son fils de se calmer et de faire confiance à son père. […] La flèche a transpercé la figue et emporté tout l’attirail posé sur la tête de l’enfant! ».36 È un trionfo per ben Tell, la folla è completamente dalla sua parte, si inizia a respirare odor di libertà; a quel punto, come da tradizione, la replica dell’autorità deve essere crudele e decisa: « je te condamne à la réclusion perpétuelle. […] Pour humilier ben Tell une dernière fois devant les siens, Tâte-  32 Ibidem. 33 Ivi, p. 64. 34 Ivi, p.116. 35 Ivi, p. 130. 36 Ivi, p. 131.

210  gras décide de le transporter dans une embarcation noire, comme celle du nocher Charon ».37 Ben Tell riesce, dunque, a fuggire; la conclusione offerta da Ben Salah sembra un po’ precipitosa: Ce que j’ai oublié de vous dire, mes jolies, c’est que ben Tell s’était converti à la religion du Phalestinien, pour laquelle il éprouvait déjà, avant son départ de Kroumirie, une attirance naturelle. Pour étayer sa convinction et sa foi en Jésus, il avait confectionné une sorte d’amulette, en forme de poisson, mais qui, déployée, se transformait en flèche empoisonnée. C’était son arme secrète qu’il appelait Ichtus, allez savoir pourquoi!38

Proprio con questa sorta di amuleto, l’Ichtus, ben Tell riesce a uccidere Gess-lard. Il desiderio di appartenere totalmente alla cultura europea — elvetica nello specifico — sembra la motivazione principale che ha spinto Rafik ben Salah a occuparsi, seppur stravolgendolo, del mito svizzero per eccellenza; con la rielaborazione delle vicende legate a Guglielmo Tell, l’autore nato a Moknine si sente, ed è considerato, svizzero a tutti gli effetti, come dimostra la sua partecipazione alle Giornate Letterarie di Soletta del 2009, in cui è stato, per l’appunto, presentato come scrittore elvetico, omettendo quasi del tutto le sue origini maghrebine o citandole solo ed esclusivamente per giustificare un nome che non suona propriamente come europeo. L’appartenenza alla cultura elvetica passa, dunque, come in questo caso, anche attraverso il destreggiarsi con il materiale che costituisce l’essenza svizzera.

 37 Ivi, pp. 133-134. 38 Ivi, p. 137.

211  3.3 IL SECONDO CONFLITTO MONDIALE DALLA PROSPETTIVA ELVETICA

L’8 maggio 1945 le campane delle chiese di tutto il mondo suonano a festa: è stato sancito il ‘cessate il fuoco’, la guerra è finita. La fine del conflitto mondiale segna una duplice, profonda cesura: il regime criminale nazista crolla e la macchina di sterminio cessa di funzionare. Dopo le due bombe atomiche sganciate il 6 e il 9 agosto su Hiroshima e Nagasaki, il 2 settembre capitola anche il Giappone, segnando la conclusione definitiva del conflitto mondiale. Anche nei giorni dei festeggiamenti per la resa senza condizioni della Germania, la potenza che era responsabile principale del conflitto, la Svizzera si presenta come un’eccezione: il piccolo stato dell’Europa centrale, infatti, non sa bene come comportarsi, non sa se può e deve festeggiare, se considerarsi una delle potenze vincitrici o leccarsi le ferite insieme ai vinti. I dubbi elvetici provengono dal fatto che durante la guerra non è stata presa una posizione chiara e univoca, bensì si è prestato il fianco in parte ai futuri vincitori, in parte ai vinti. Quindi il primo grande dilemma della Svizzera del dopoguerra è se festeggiare o no la fine della guerra e se è giusto considerarsi vincitori. THOMAS 1 HÜRLIMANN in Neutralien, contenuto nella raccolta Das Holztheater. Geschichten und Gedanken am Rand (1997), spiega: « Der Schweizer Bundesrat braucht volle 48 Stunden, um diese Frage zu klären und gibt schließlich in einem kleinlauten Communiqué bekannt, “die Schweiz werde in ihrer Weise mitfeiern” ».2 La Svizzera deve così festeggiare a modo suo come, del resto, ha già interpretato la guerra in modo del tutto unico: « und natürlich hat diese “Weise” einen Namen: Neutralität ».3 La neutralità per Hürlimann è dunque ambiguità, è un modo quasi codardo per sottrarsi alle proprie responsabilità, per evitare di scegliere i propri alleati così come i nemici. Ambiguo è stato l’atteggiamento per tutto il secondo conflitto mondiale: « Man war darauf bedacht, mit den potentiellen Feinden gut Freund zu sein; man ließ die Züge der Achsenmächte  1 Su Thomas Hürlimann si veda la mia monografia, edita nel 2007 da Aracne, Thomas Hürlimann drammaturgo, narratore e saggista. 2 THOMAS HÜRLIMANN, Neutralien, in ID., Das Holztheater. Geschichten und Gedanken am Rand. Zürich, Ammann, 1997, p. 45. 3 Ibidem.

212  passieren, erledigte für das Reich die internationalen Bankgeschäfte und benutzte sogar die Armee dazu, dem gefährlichen Nachbarn die nötige Reverenz zu erweisen ».4 Potrà anche sembrare subdolo l’atteggiamento della Svizzera durante la II guerra mondiale, ma come si legge nel Rapporto finale della Commissione Indipendente d’Esperti Svizzera — Seconda Guerra Mondiale5, presieduta dallo storico Jean-François Bergier, a cui fu affidato il compito di analizzare dal punto di vista storico e giuridico quale fu il comportamento della Confederazione all’epoca del nazionalsocialismo, il piccolo stato si è attenuto alle norme del diritto internazionale generale, le quali prevedono per lo status di paese neutrale dei diritti e dei doveri. Questi ultimi sono elencati dalle Convenzioni dell’Aia e si limitano sostanzialmente al divieto di fornire aiuti militari a una parte belligerante — cosiddetto dovere di astensione — e all’obbligo di impedire ai belligeranti l’utilizzo del territorio neutrale per scopi militari — dovere di impedimento o di difesa —, mentre non esiste un dovere generale di neutralità economica: in linea teorica lo Stato imparziale ha diritto a rapporti commerciali con tutte le fazioni. Quindi la Commissione d’Esperti chiamata a un giudizio sul comportamento della Svizzera nel secondo conflitto mondiale, riconoscerebbe delle colpe al piccolo stato dell’Europa centrale che, nel tentativo di attenersi alle regole generali della neutralità, ha finito per scegliere la strada dell’ambiguità e della finta imparzialità. Va considerato comunque che in linea di principio, per tutte le proibizioni o restrizioni varate dallo Stato neutrale sulle esportazioni o sul transito di materiale bellico, c’è un obbligo, di natura formale, di pari trattamento: nei confronti di entrambe le parti belligeranti, s’intende, devono vigere le stesse disposizioni. A questa regola ‘morale’ ha provato ad attenersi la Svizzera e per questo, dopo il rapporto della Commissione d’Esperti, molti sentono di non dover vivere come una colpa il fatto di aver prestato il fianco ad entrambe le parti in guerra; era questa, del resto, l’essenza del suo ruolo neutrale. A difesa proprio di questa sostanza equanime viene creato a metà degli anni Novanta — all’inizio, quindi, delle controversie sui beni rivendicati e  4 Ibidem. 5 Cfr. AA.VV., Rapporto finale della Commissione Indipendente d’Esperti Svizzera — Seconda Guerra Mondiale, Zürich-Locarno, Pendo-Armando Dadò Editore, 2002, p. 394.

213  sull’atteggiamento della Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale — il Gruppo di Lavoro Storia Vissuta, formato da tredici reduci del periodo del conflitto, grandi personalità del mondo della politica, dell’economia, della scienza, della diplomazia e dell’esercito, e nato per contrastare la ricostruzione storica, a loro avviso spesso distorta, offerta dai Rapporti della Commissione Bergier, attraverso esperienze di vita vissuta, ricordi e valutazioni condivisi. Particolarmente illuminanti le spiegazioni fornite da Heinz Langenbacher. L’ex-capitano dell’aviazione sostiene che la Commissione Bergier non ha tenuto presente quello che è stato il principale obiettivo della Svizzera durante tutto il conflitto e, vale a dire, la difesa della libertà e dell’indipendenza; bisognava risparmiare al paese, a tutti i costi, un coinvolgimento diretto nel conflitto armato, garantire la libertà, nonché difendere i valori fondamentali e le conquiste della società democratica per eccellenza. Altro particolare omesso da Bergier e dagli storici al suo servizio è il contesto storico globale: non si può evitare di considerare, secondo Langenbacher, il continuo ricatto delle due parti belligeranti, a cui era sottoposta la Svizzera, la politica degli Alleati e dei nazisti e, di conseguenza, il limitato margine di manovra elvetico. In conclusione, l’ex- ambasciatore elvetico sostiene che « la Commissione Bergier ha palesemente — sotto la pressione dei propri membri ebraici? dell’Olocausto? — seguito la moda del « turbamento morale » — per esempio con l’epica rappresentazione della sorte dei profughi! —, concedendole maggiore importanza rispetto al diritto internazionale ».6 L’atteggiamento della Commissione, secondo un altro esponente del Gruppo di Lavoro Storia Vissuta, Hans-Georg Bandi, ex-ufficiale di milizia, non fa altro che confermare la Svizzera nel ruolo di Sonderfall della realtà occidentale: « quale altro Paese, in effetti, sarebbe disposto a investire tante risorse e tanti milioni affinché degli storici dipingano nel modo più negativo possibile il suo passato? ».7 Sono molte le figure che hanno pagato a caro prezzo le contraddizioni dello spirito neutrale elvetico; nel già citato Hürlimann appare vittima  6 GRUPPO DI LAVORO STORIA VISSUTA, La Svizzera alla berlina? Testimonianze e bilancio dopo la pubblicazione del Rapporto Bergier, Varese, Macchione Editore, 2006, p. 27. 7 Ivi, p. 95.

214  dell’atteggiamento tenuto dalla Svizzera anche, nella pièce Der Gesandte, l’ambasciatore elvetico a Berlino durante la II guerra mondiale; questi, al ritorno in patria, anziché essere accolto con gli onori del caso, anziché vedersi trattato come un trionfatore, un eroe nazionale, per essere riuscito con le sue capacità diplomatiche di mediazione a evitare la partecipazione attiva alla lotta armata, viene allontanato, emarginato politicamente, diventa all’improvviso un personaggio scomodo per la storia nazionale. Gli interrogativi che si pone in quest’opera teatrale il protagonista Heinrich Zwygart, piuttosto che il suo entourage o la sua famiglia, sono i dilemmi circolati in Svizzera a partire dalla fine della guerra per molti anni: « haben wir diesen Scheißkrieg auf seiten der Sieger beendet oder — oder auf seiten der Achse? ».8 Più avanti si legge: « Entweder hat man einen Krieg gewonnen. Oder man hat ihn verloren ».9 Il personaggio di Zwygart ricalca la figura di Hans Frölicher, l’ambasciatore svizzero a Berlino — ma forse, come sottolineato da Ziegler nel suo saggio La Svizzera, l’oro e i morti, sarebbe meglio definirlo ministro in quanto la Svizzera all’epoca non aveva ambasciatori10 — che si adoperò molto per integrare l’industria elvetica nell’area economica tedesca. Frölicher appoggiava e condivideva l’ideologia nazista, Berna non approvava pienamente, ma lo utilizzava in quanto era sempre ben accetto alla cancelleria del Reich; nel Rapporto Finale della Commissione Indipendente d’Esperti si legge: « anche Hans Frölicher, che dal 1938 al 1945 aveva rappresentato la Confederazione a Berlino, a causa della sua linea accondiscendente verso il regime nazista era inadatto ai tempi nuovi, con la fine della guerra vide terminare precocemente la propria carriera ».11 Ziegler afferma: « Thomas Hürlimann ha scritto un dramma su Frölicher, sulla sua attività a Berlino e sui rapporti che inviava a Berna, che ho visto rappresentare per la prima volta nel 1994 al Théâtre de Poche di Ginevra. Al

 8 THOMAS HÜRLIMANN, Der Gesandte, in ID., Das Lied der Heimat. Alle Stücke, Frankfurt am Main, Fischer, 1998, p. 226. 9 Ivi, p. 235. 10 Cfr. JEAN ZIEGLER, La Svizzera, l’oro e i morti. I banchieri di Hitler, Milano, Mondadori, 1997, p. 177. 11 Ivi, p. 93.

215  calar del sipario regnava in sala un silenzio di morte; la gente aveva gli occhi pieni di lacrime di rabbia e di vergogna ».12 L’atteggiamento svizzero lascia ancora oggi dei dubbi secondo Hürlimann: « Und so streiten sich die Geister noch heute, ob unsere Politiker und Militärs besonders klug oder besonders ängstlich gehandelt haben ».13 Secondo l’opinione dello scrittore originario di Zug: “Neutralien […] operierte im Nebel des Niemandslandes ».14 La Svizzera, quindi, che diventa terra di nessuno da quando sposa un atteggiamento neutrale: l’affermazione ha una spiegazione anche etimologica se si considera che il termine neutro deriva dal latino e significa “nessuno dei due”. Uno stato che si nega costantemente a una presa di posizione internazionale non può avere alcuna esistenza sul piano internazionale. Va però riconosciuto che è errato ritenere la neutralità una sorta di alibi per non farsi coinvolgere troppo negli affari bellici; questo status fa parte proprio dell’identità nazionale elvetica, è un elemento fondamentale che non ha portato, come unico aspetto positivo, l’arricchimento della classe dirigente svizzera che finanziava le battaglie di Hitler; per valutare i tratti vantaggiosi che comporta una condizione di equanimità si pensi ai negoziati, spesso lunghi e snervanti, che la Svizzera doveva condurre con le due fazioni in lotta, al ruolo, insomma, di mediazione, alla possibilità, offerta dalla neutralità, per due nemici di incontrarsi su un territorio neutrale. La guerra ha finito anche per rafforzare l’autostima elvetica, come afferma

PETER BICHSEL in Des Schweizers Schweiz (1967): « Der Krieg hat unser Selbstbewußtsein gestärkt. Daß wir verschont wurden, beweist sozusagen alles, was wir bewiesen haben wollen: Die Kraft unserer Armee, unsere Redlichkeit, die Stärke des Staates, die Demokratie und die Gottgefälligkeit unseres Landes ».15 Ancora più avanti si legge: « Die Schweiz war während des Krieges ein Paradies. Sie war die Zauberformel für die Verfolgten, das gelobte Land. Auch unsere

 12 Ibidem. 13 THOMAS HÜRLIMANN, Neutralien, in ID., Holztheater, cit., p. 45. 14 Ivi, p. 46. 15 PETER BICHSEL, Des Schweizers Schweiz, in ID., Des Schweizers Schweiz, Zürich, Die Arche, 1969, p. 12.

216  Landschaft bekam in den Augen der Leidenden den Anstrich des Paradiesischen ».16 Tornando a Hürlimann, egli vede la Svizzera come terra di nessuno, patria senza una precisa identità, a volte ipocrita come quando, per esempio, prestava ascolto e dava aiuto alle fazioni in lotta, senza prendere una posizione univoca schierandosi dalla parte dell’una piuttosto che dell’altra. Per lo scrittore svizzero il prezzo da pagare per chi tiene un comportamento del genere è molto alto: « wer sich und seine Werte meistbietend verkauft, verliert seine Seele ».17 Hürlimann sente quindi d’appartenere a questa terra di nessuno che ha perso l’anima vendendosi al miglior offerente. Successivamente lo scrittore prova a risalire alla base di questa condizione elvetica e parte da una domanda che si potrebbe quasi definire esistenziale: « Wie wurden wir, was wir sind? ».18 Senza bisogno di ripercorrere le tappe della storia svizzera, e quindi, ad esempio, sottolineare che la neutralità del Paese fu riconosciuta dalle potenze europee al momento della pace di Westfalia nel 1648, poi di nuovo confermata dal Congresso di Vienna del 1815, come risposta al suo quesito, a Hürlimann basta constatare che « wir sprechen verschiedene Sprachen, leben im verschiedenen Kulturen und glauben an einen Gott, der, hier katholisch, dort protestantisch angerufen ».19 Quindi la Svizzera, nell’analisi di Hürlimann, risulta terra di nessuno poiché, in un certo senso, di tutti, delle varie etnie che vi convivono e non ha una propria anima in quanto deve far spazio, nel suo piccolo territorio, a più anime, a quella dei cattolici e dei protestanti contemporaneamente. La neutralità risulta, di conseguenza, elemento fondamentale per salvaguardare le diversità di una nazione come la Svizzera: « übersiehst du meine Eigenschaften, übersehe ich deine »20 è la conclusione a cui arriva lo scrittore di Zug per giustificare la non belligeranza elvetica, per dimostrare come questo stato di cose non può mutare in quanto principio essenziale alla base della Confederazione. Jean Ziegler sembra appoggiare questa affermazione di Hürlimann:

 16 Ivi, p. 13. 17 THOMAS HÜRLIMANN, Neutralien, in ID., Holztheater, cit., p. 46. 18 Ivi, p. 47. 19 Ibidem. 20 Ibidem.

217  La nazione è concepita come un’alleanza tra popolazioni largamente autonome, ciascuna delle quali possiede la propria lingua, la propria cultura, la propria religione e la propria storia; come una confederazione approvata mediante giuramento, la cui unità viene dall’esterno; come un’associazione il cui scopo è la comune autodifesa.21

Quindi la neutralità, vista come elemento di rilievo dell’identità nazionale, non fu solo importante come motto di politica estera, ma attenuò anche varie fonti di conflitto all’interno del paese; si può far riferimento, in particolar modo, al rapporto fra Svizzera tedesca e francese, in cui si rispecchiava l’inimicizia secolare fra Germania e Francia: già durante la Prima Guerra Mondiale quel conflitto si acuì pericolosamente, con una popolazione elvetica divisa dalla solidarietà nei confronti dei belligeranti contrapposti. CARL SPITTELER in Unser Schweizer Standpunkt (1914) sosteneva che erano stati gli elvetici stessi a far sì che emergesse un tale contrasto di sentimenti tra la parte di lingua tedesca e quella di lingua francese; l’intellettuale riteneva che tutti gli elvetici, per far sì che la Svizzera fosse considerata a tutti gli effetti uno stato unitario, avrebbero dovuto comprendere che le frontiere rappresentavano un limite anche per i sentimenti politici: coloro che stavano al di là dei confini erano dei cari vicini, quelli all’interno erano dei fratelli. Anche il migliore dei vicini nel momento del bisogno può voltare le spalle, un fratello mai. Dopo essersi interrogato sull’atteggiamento elvetico durante il secondo conflitto mondiale e sull’appartenenza ai vincitori o ai vinti, e il quesito, che abbiamo definito esistenziale, che serviva a capire cosa ha portato la Svizzera ad assumere un atteggiamento di neutralità, Hürlimann, di ritorno da un’esperienza di tre mesi negli Stati Uniti, dove il suo scopo principale sembrava quello di far capire « dass die Schweiz ein eigener Staat ist »22, si confronta con quelle che definisce « Geldseiten unserer Geschichte »23, facendo riferimento al comportamento del piccolo stato dell’Europa centrale che è riuscito a sfuggire alla Seconda Guerra Mondiale grazie alla sua complicità economica con il Terzo Reich. Più esplicite le parole in merito di Ziegler: « Dal 1940 al 1945, l’economia

 21 JEAN ZIEGLER, op. cit., p. 31. 22 THOMAS HÜRLIMANN, Neutralien, in ID., Holztheater, cit., p. 48. 23 Ibidem.

218  svizzera fu ampiamente integrata nell’ambito economico della grande Germania ».24

Uno dei principali intellettuali elvetici, FRIEDRICH DÜRRENMATT, in un suo saggio avvalora la tesi che vede gli svizzeri complici consenzienti, estremamente disponibili a fornire tutta l’assistenza possibile alle truppe tedesche: « Wir wurden nicht angegriffen, mußten jedoch auch für Hitler arbeiten, und die Juden, die wir an der Grenze zurückwiesen, wurden auch vergast »25. Anche in altri scritti, Dürrenmatt ha modo di dichiararsi indignato perché la Svizzera affermava di essere stata innocente nella guerra. Lo scrittore paragona il suo Paese a una ragazza che lavora in una casa d’appuntamenti e pretende di non perdere la sua verginità; così durante il conflitto mondiale la Confederazione è scesa a patti con i nazisti e ora vuole far credere di aver mantenuto intatte le sue virtù. A nulla servono, durante tutti quegli anni bui della storia mondiale, i tentativi da parte degli Alleati di far cambiare atteggiamento agli elvetici; le pressioni diplomatiche non servono a molto, i trattati restano semplici pezzi di carta, le intimidazioni sono assolutamente ignorate e anche l’istituzione di una lista nera che comprende più di mille imprese svizzere e il blocco di tutti i conti elvetici negli Stati Uniti non producono alcun effetto. Utilizzando un concetto caro a Friedrich Dürrenmatt, e che è l’essenza del suo dramma Es steht geschrieben (1947), si potrebbe affermare che niente costa più caro agli uomini di una libertà a poco prezzo. E quella offerta da Hitler agli svizzeri sembra in effetti un’autonomia di poco conto, una finta libertà economica che si è impossessata del mondo bancario elvetico nel 1939 e non l’ha più lasciato, se consideriamo che ancora oggi nelle banche di Lugano, Berna, Basilea e Zurigo si conserva il denaro più sporco di tutto il mondo. Ancora ai giorni nostri le banche elvetiche continuano a ottenere enormi profitti proveniente da denaro rubato, ricettazione e fughe di capitali « solo che i loro clienti di oggi non si chiamano più Hitler, Himmler, Göring e Ribbentropp, bensì Mobutu, Ceausescu,

 24 JEAN ZIEGLER, op. cit., p. 33. 25 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Die Schweiz: Ein Gefängnis, in ID., Kants Hoffnung. Zwei politische Reden. Zwei Gedichte aus dem Nachlaß. Mit einem Essay von Walter Jens, Zürich, Diogenes, 1991, p. 12.

219  Saddam Hussein, Abu Nidal, Duvalier, Noriega, Suharto, Eyadema, Marcos o Radovan Karadzic ».26 In virtù di tutti questi affari loschi che nel corso della storia hanno visto, e in parte vedono ancora, coinvolta la Svizzera, quasi tirando un sospiro di sollievo, Hürlimann arriva ad affermare: « Auch wir haben Politik und Geld und Geschichte gemacht ».27 Queste parole dello scrittore elvetico, pur non volendo togliere nulla all’impegno dei soldati, delle donne e degli uomini che in quegli anni combatterono, su vari fronti, la loro battaglia per obiettivi lodevoli, intenzionati a opporre qualcosa di valido al nazismo, sottolineano come la seconda guerra mondiale fu un conflitto non solo militare, ma anche economico e ideologico e, in quanto tale, la Svizzera vi fu fortemente coinvolta. Anche Ziegler sostiene che « gli svizzeri non sono un popolo senza storia. Hanno una memoria collettiva, un super-io, un’identità forte, vecchia di parecchi secoli ».28 Il coinvolgimento del piccolo stato dell’Europa centrale, il ruolo recitato dalla Svizzera, porta Hürlimann a concludere le sue riflessioni con queste parole: « Wir waren kein Zwischenreich, kein Niemandsland ».29 Dagli scritti a carattere saggistico qui presi in esame si è potuto evincere come gli intellettuali elvetici si siano interrogati costantemente, dalla fine del secondo conflitto mondiale ai giorni nostri, sugli orrori della guerra e sul ruolo tenuto dalla Svizzera durante tutto il periodo dei terribili scontri armati. La seconda guerra mondiale e le sue conseguenze sono entrate, però, anche nelle trame delle opere di narrativa di autori elvetici come GIOVANNI ORELLI,

AGOTA KRISTOF e ANNE-LISE GROBÉTY. Il ticinese affronta il problema dell’emigrazione di italiani in terra elvetica nel secondo dopoguerra in Il treno delle italiane, romanzo del 1995, frammenti di vita di donne del Belpaese raccolti da un bigliettaio delle ferrovie svizzere, storie comuni a molti nostri connazionali, fatte di povertà e soprusi frammisti alla speranza di guadagnare, con grande volontà e a fronte di enormi sacrifici, un

 26 JEAN ZIEGLER, op. cit., p. 35. 27 THOMAS HÜRLIMANN, Neutralien in ID., Holztheater, cit., p. 49. 28 JEAN ZIEGLER, op. cit., p. 221. 29 THOMAS HÜRLIMANN, Neutralien, in ID., Holztheater, cit., p. 49.

220  posto al sole nel piccolo territorio europeo che aveva mantenuto intatto, nell’immediato periodo post-bellico, il suo apparato produttivo. Nel suo quinto romanzo — che, curiosamente, non ha avuto molta risonanza nei media elvetici — Orelli parte dal presupposto che il popolo italiano abbia pagato a caro prezzo, forse più di chiunque altro, la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, al punto che il ferroviere che funge da narratore arriva ad affermare: « mi sono chiesto più volte, forando biglietti e no, perché i tedeschi, che hanno perso la guerra, quando girano la Svizzera, viaggiano in carrozze confortevoli, biglietti collettivi, viaggi organizzati con tutte le riduzioni possibili, posti riservati, e gli italiani tutto il contrario, li vedi quasi sempre in treni che io chiamo carri bestiame ».30 E su quelle affollate bétaillères si spingono dal profondo sud della penisola italica sino a oltrepassare i confini delle Alpi, alla ricerca di un’occupazione da domestica presso le benestanti famiglie svizzere, le varie Lisetta, Ludovica, Clementina ed Ernestina, con le loro valigie colme di speranze, illusioni e nostalgia, impressionate da quegli altissimi tralicci che scorgono appena giunte in territorio elvetico e che tanto somigliano alla ‘turefèl’, così spesso ammirata nelle cartoline: « c’è una torre a Parigi, col nome di chi l’ha inventata, la chiamano alla francese: « turefèl » […] Un traliccio che somiglia a quella torre. […] In Svizzera fanno un pieno di centrali elettriche che sfruttano acque e ghiacciai. Poi devono mandare l’elettricità al di là delle montagne, nelle grandi città, farle attraversare le Alpi ».31 Le italiane, una volta giunte sul suolo elvetico, riescono a trovare una sistemazione e un’occupazione grazie al marossero (« il nome malossero o marossero (anche bastrozzone) significa mediatore, sensale, intermediario »32), incaricato di far da tramite per la vendita e l’acquisto di terreni, case, bestiame, nonché di serve provenienti dall’Italia. Proprio il sensale è la figura che ci permette di tirare le fila dei destini delle coraggiose donne dei treni elvetici; conosciamo meglio, così, Lisetta Seconda che sogna di poter aspirare a un futuro più roseo rispetto a quello delle sue connazionali grazie al matrimonio con un

 30 GIOVANNI ORELLI, Il treno delle italiane, Roma, Donzelli, 1995, p. 38. 31 Ivi, p. 13. 32 Ivi, p. 23.

221  cittadino svizzero ma « i sogni della Lisetta sono finiti presto »33: si ritrova a far, né più né meno, la donna di servizio per la famiglia del consorte e a soddisfare desideri e bisogni sessuali non solo del marito ma anche dei villani cognati (« facendola lavorare di giorno né più né meno che un’altra serva e trafiggendo di notte i suoi quarantadue chili col turno dei loro quintali, la disfecero in pochi mesi come la Motosacoche del prestinaio che tutti i malpratici usavano senza riguardi, roba di tutti e di nessuno »34) e va incontro a una — probabilmente volontaria — silenziosa e dignitosa morte: « [Va] a riposare in pace. Non risulta che siano state emesse lamentazioni, niente annunci sul giornale, non parenti che la reclamassero, per riguardo alla gente, al paese ».35 Le donne dei treni svizzeri non perdono mai dignità e orgoglio anche a dispetto di una vita di stenti e fatica, appaiono come meteore per poi scomparire nel nulla e il ferroviere narratore si interroga su quel che può aver riservato loro il fato: « e dove saranno andate a finire due come la Fausta e la Giuditta che per un po’ di tempo mandarono cartoline dalla Germania e poi non mandarono più niente? ».36 « I formiconi svizzeri hanno il prurito della serva […] la serva fa i lavori di casa […] dà un tocco di classe »37 e con poco — un piatto caldo in più a pasto, un posto letto in mansarda e qualche franco a fine mese — « la signora può alzare la cresta »38 e il padrone di casa si sente autorizzato ad allungare le mani od osare addirittura qualcosa in più. Il ruolo del marossero è quello di aiutare le povere italiane a trovare un’occupazione e il lettore a conoscere meglio il passato povero di queste viaggiatrici della speranza e il destino triste a cui vanno incontro, finché la narrazione non si concentra su quel che avviene nell’abitazione di uno di quei piccoli boss locali, con una moglie che è soprannominata « Generalessa dell’Inverno »39, un figlio — Giuliano —, e una domestica, la bergamasca Marina, che attira subito le attenzioni del giovane rampollo, promesso sposo, nei disegni di vita della Generalessa, a una certa Maria Clotilde, erede di una ‘famiglia bene’  33 Ivi, p. 27. 34 Ibidem. 35 Ibidem. 36 Ivi, pp. 28-29. 37 Ivi, p. 23. 38 Ivi, pp. 23-24. 39 Ivi, p. 39.

222  ticinese. Ma « Marina è la rivoluzione di Copernico in casa di Giuliano. Tornando dal primo anno di università, il ragazzo vide subito la ragazza. Non ci furono domande particolari, esclamazioni, sorprese per l’età verde, il biondo della criniera. Volto gambe seno e groppa ».40 Una grande mente — sempre a detta della madre — questo Giuliano (« e mio figlio — diceva ergendosi sui cuscini — arriverà a Mosca. È intelligentissimo. […] Carriera forense e carriera militare corrono parallele e concordi come le pupille di due occhi sani »41), che viene mandato in montagna con Marina per colmare le lacune in materia amorosa; ma tra i due nasce un sentimento reale e subito profondo, fatto di attrazione e affetto, descritto poeticamente da Orelli con un linguaggio che non appare molto lontano da quello che si rinviene nelle raccolte di liriche Né timo né maggiorana (1995) o Un eterno imperfetto (2006): Giuliano si avvicinò a Marina con la movenza di un gatto, le pose la mano sulla nuca, sul biondo dei capelli, e dopo una pausa un po’ lunghetta, anche vigliacchetta, assassina, sessina, a lei parve una breve pausa per tirare il fiato, fece scivolare nell’orecchio destro di Marina, sotto un’onda di quel biondo, la parola d’inferno. Che fu come un bacio furtivo, rubato, arditamente, veloce, da padrone giovane a giovane serva: un soffio, una bolla d’aria. Era la parola più conosciuta e desiderata nel dizionario degli uomini d’Italia.42

Nella notte di San Silvestro il dramma: mentre Marina assiste alla nascita di un vitello in una stalla, Giuliano — ormai conscio di essere poco più di un burattino i cui fili sono tirati dai suoi genitori e di non poter, quindi, mai condurre, né tantomeno regalare all’amata Marina, una vita in libertà — si toglie, improvvisamente, la vita. Il linguaggio usato per descrivere questo momento si fa di nuovo poeticamente cupo e metaforico: A mezzanotte nasceva il vitello nella stalla dell’Angelo. Marina è sotto la luce dell’acetilene a vedere le zampe del vitello che spuntano. L’Angelo passa la sua mano larga piena di olio sulla natura della vacca, perché la natura si allarghi e i muscoli doloranti si distendano, perché la testa bagnata del vitello possa comparire e scomparire nel flusso e riflusso del nascere, giusta le spinte e controspinte della vacca-madre. Al momento giusto l’Angelo fa un nodo con la corda ai piedi del nascituro, che è un quarto fuori, come uno che nuota e lascia la dolce caverna di umore e di sangue, perché quando il vitello è passato con le spalle è lì che bisogna tirare e liberarlo.

 40 Ivi, p. 36. 41 Ivi, p. 39. 42 Ivi, p. 57.

223  […] Giuliano non pensava più a niente. Ha preso il fucile da caccia, lo ha caricato. Eccetera.43

Alla Generalessa non resta altro che il sapore della sconfitta (« la madre stava seduta sul letto guardando davanti a sé nel vuoto come può guardare un generale al quale un soldato è venuto a dire della sconfitta. Tutto l’esercito è morto, annientato, finito »44), al marossero la disperazione del dolore e della solitudine (« il marossero, quando glielo dissero […] andò dove le gambe andavano. Si appoggiò alla catasta di assi. Disse alla catasta: è morto. […] Andò nella stalla, andò vicino alla prima vacca, disse a lei: è morto »45) e a Marina una rabbia da scaricare e un onore difeso e da continuare a difendere (« mi creda o non mi creda, Giuliano e io non abbiamo fatto l’amore […] Non ho fatto l’amore con Giuliano anche se ero pronta a farlo. Ero in attesa. […] Neanche con il padre di Giuliano ho fatto l’amore […] Mai me lo ha chiesto, anche se avete pensato il contrario, madre e figlio »46). La guerra sa portare, anche dopo la sua conclusione, morte e disperazione in questo romanzo amaro, ma a tratti ironico, in cui Orelli alterna, con grande maestria, il linguaggio del popolo valligiano e il dialetto locale (ad esempio si trova “alpe” anziché il più comune femminile plurale “Alpi” e “usciere”, termine con il quale si indica il “poliziotto comunale”) alla cifra espressiva delle sue liriche migliori. Se in Orelli il contesto storico funge solo da sfondo alle vicende delle italiane in cerca di fortuna nella Confederazione e, più approfonditamente, alla disgraziata vicenda dell’amore tragico tra Marina e il figlio di un marossero, OTTO

F. WALTER con Zeit des Fasans (1988) « sovrappone, chiarendole reciprocamente, ricerca storica e indagine biografica, pubblico e privato, passato e presente, realtà e immaginazione, con registro che varia dai toni lirici alla più cruda oggettività »47 attraverso gli avvenimenti della famiglia Winter, alto borghesi in decadenza. In particolare, la ricostruzione dei fatti storici e del passato di Thomas Winter, anche

 43 Ivi, pp. 77-78. 44 Ivi, p. 80. 45 Ivi, pp. 84-85. 46 Ivi, p. 92. 47 DOMENICO BONINI e RUDOLF SCHÜRCH, Voci e accordi. Cento autori svizzeri dell’Ottocento e del Novecento, Locarno, Armando Dadò editore, 2003, p. 454.

224  mediante il racconto della relazione con la berlinese Lisbeth Bronnen, è il mezzo per raccontare dettagli dell’evento bellico con la precisione di uno storico, facendo quello che MEINRAD INGLIN con Schweizerspiegel (1938) aveva realizzato per la Grande Guerra: il romanzo — vale a dire — di una società, di un’epoca che, nel caso di Otto F. Walter, è quella svizzera che va dal 1933 agli anni Cinquanta. Come nota Heinrich Vormweg si può dire in merito a Zeit des Fasans che, rispetto a opere precedenti come Lob der Heimat (1928), « Walter hat seine Verfahrensweisen nicht korrigiert, holt sorgfältig Realität ein, doch diesmal weniger der Umwelt, der Gegenwart, als der Geschichte — in durchaus aktueller Perspektive die heikle Geschichte der Schweiz um Nazizeit und Zweiten Weltkrieg. Ein Roman von Gewicht ».48 Thomas Winter e Lisbeth Bronnen, nel giugno del 1982, compiono un viaggio da Berlino verso il sud della Germania, visitano la casa della famiglia dell’uomo che ripercorre con la memoria le tappe principali della sua infanzia trascorsa a Jammers. La grande casa in rovina — che rispecchia la decadenza della famiglia protagonista e che ci ricorda le abitazioni di altri borghesi in declino della letteratura come i Buddenbrook di Thomas Mann, gli Ardengo de Gli Indifferenti di Moravia e, restando ancorati al contesto svizzero, i Tobler di Der Gehülfe di Robert Walser — è ancora abitata da Gret, sorella di Thomas, dalla sua famiglia e dalla vecchia, fedele servitù. Lisbeth — e con lei i lettori — ha, così, l’opportunità di conoscere il bosco selvaggio nel quale suo marito amava fare lunghe passeggiate, la stalla e il fienile dove si rifugiava per i suoi giochi e l’amico d’infanzia del rampollo dei Winter, André. Thom — così viene anche chiamato nel corso del romanzo il protagonista — rincontra sua zia Esther, la menzognera e inaffidabile testimone degli eventi familiari e di quelli storici: Das war hier, hier im Haus, hier in der Stadt, in diesem deinem Vaterland, das war 1936, die Welt brodelte wie das Meer, wenn ein Vulkan darunter sich anschickt, ausbrechend ein Gebirge zu türmen, ja, und das Rad der Geschichte drehte sich, drehte. Die einen wurden nach oben getragen, sie lachte: die anderen wurden vom Rad überrollt. Nicht irgendwann.49

 48 OTTO F. WALTER, Der Ort einer verlorenen Utopie, Hamburg, Rowohlt, 1993, p. 41. 49 Ivi, p. 173.

225  L’anziana donna racconta le sue storie piena di odio e rancore ma, al contempo, con una passione dirompente, come fosse l’unica testimone dei fatti storici legati al conflitto mondiale oltre che degli intrecci della famiglia Winter. Thomas è interessato a sapere di più anche in merito alle misteriose circostanze che hanno portato alla morte della madre; la zia parte da molto lontano nel suo racconto (« Deine Mutter Lilly? Vergiß nie, sie ist eine Schaub. Eine Tochter dieses Kammbarons aus dem Guldental dahinten »50), sovrappone alle questioni familiari i fatti storici (« In der Luft roch’s nach Krieg »51) e lascia intatti tutti i sospetti sulla prematura scomparsa della donna a cui riesce solo ad addossare le colpe per il tracollo della famiglia Winter (« die Wahrheit ist, daß mit der Lilly das ganze Unglück in dieses Haus gekommen ist »52). La curiosità di Thom lo condurrà sempre più addentro alla storia dei misfatti della sua famiglia e Walter non perde l’opportunità di fornire riferimenti assai dettagliati sul secondo conflitto mondiale: Wieder in epischer Breite das Panorama beschreiben. Am I. Juni dringen zwölf deutsche Bomber in den Luftraum ein. Vier Schweizer Jäger — übrigens: Messerschmitt 109-Maschinen — fordern den Verband zur Landung auf, erfolglos. Zwei Bombe werden abgeschlossen. Schweizerischerseits keine Verluste. 2. Juni: Abschuß eines Heinkelbombers über Yverdon am Lac de Neuchâtel. 4.Juni: neue Luftkämpfe über dem Jura. Reichsmarschall Göring ordnet eine Strafexpedition gegen die Schweiz an: 32 deutsche Kampfmaschinen fliegen ein und beginnen über der nördlichen Romandie zu kreisen. Zuerst drei, dann zehn schweizerische Jagdflieger überwachen sie. Im folgenden Luftkampf werden zwei deutsche Bombe abgeschossen, daraufhin verläßt der Trupp das Schweizer Hoheitsgebiet. Ein Pilot der CH, durch drei Lungenschüsse verletzt, brachte seine durchlöcherte Maschine zu Boden.53

La seconda guerra mondiale, come si sa, è stata grande nemica soprattutto dell’infanzia. L’impatto della guerra sui bambini è, infatti, come spiega in un illuminante saggio la psicoterapeuta Maria Rita Parsi, davvero devastante. Essi non possono che uscire profondamente colpiti nell’anima dalle atrocità belliche, da quei comportamenti che, al cospetto della loro purezza, non hanno nulla di umano: gli adulti si inseguono, senza pietà, per portare la morte e riceverla. I luoghi dove hanno sempre vissuto i bambini, improvvisamente vengono ridotti in  50 Ivi, p. 92. 51 Ivi, p. 97. 52 Ivi, p. 96. 53 Ivi, pp. 212-213.

226  cumuli di macerie, ogni giorno si vive con l’angoscia di non vedere più una persona cara; i più piccoli che non perdono la vita in guerra, o che non escono menomati fisicamente, muoiono, spesso, psichicamente o vengono menomati nell’anima.54 Offrono ai lettori gli eventi bellici dal punto di vista dei bambini due romanzi di autrici appartenenti alla Letteratura Svizzera: l’ungherese di nascita

AGOTA KRISTOF con La trilogie des jumeaux e ANNE-LISE GROBÉTY con la commovente novella sull’amicizia ai tempi della guerra Le Temps des Mots à Voix basse. La prima parte della Trilogie, chiamata Le Grand Cahier, — edita nel 1988 da Seuil e apparsa per la prima volta in italiano con il discutibile titolo Quello che resta — è caratterizzata da un’orrenda guerra sanguinosa, mai identificata con precisione nel libro — quasi a indicare che un conflitto armato vale l’altro poiché le conseguenze, specie per i bambini, sono le stesse, morte e desolazione ovunque — ma che si può supporre, considerando le esperienza biografiche dell’autrice, si tratti principalmente della Seconda Guerra Mondiale con qualche riferimento all’invasione russa di Ungheria del 1956. Protagonisti dell’opera sono due bambini, gemelli pressoché identici, di circa sette anni, con dei nomi — Claus e Lucas — che sono l’uno l’anagramma dell’altro, a testimoniare il forte legame tra i due, la reciproca dipendenza; i fratellini abbandonano la Grande Città55, dove gli orrori della guerra non lasciano ormai più molta speranza di sopravvivenza, vengono condotti dalla Madre presso la Piccola Città dove vive l’anziana, terribile nonna e dove la situazione è apparentemente più tranquilla: « je ne demande rien pour moi. J’aimerais seulement que mes enfants survivent à cette guerre. La Grande Ville est bombardée jour et nuit, et il n’y a plus de nourriture. On évacue les enfants à la campagne, chez des parents ou chez des étrangers, n’importe où ».56 La Nonna vive in uno squallido casolare orribilmente sudicio, è incredibilmente sporca, avida e crudele anche con i bambini ma, nel corso della  54 Cfr. MARIA RITA PARSI, Cortili, trincee, in TIZIANA GRASSI e MARIO MORCELLINI, La guerra negli occhi dei bambini, Cosenza, Pellegrini Editore, 2005, p. 149. 55 Sia nella versione originale che nella traduzione italiana, i termini Grande Città, Piccola Città, Mamma e Nonna sono scritti con una lettera maiuscola a inizio di parola. 56 AGOTA KRISTOF, Le grand cahier, Paris, Éditions du Seuil, 1986, p. 10.

227  lettura, si capirà che un simile atteggiamento è una protezione, è l’unico modo per spronarli a lottare per la sopravvivenza, educarli al lavoro e insegnargli a badare a se stessi: « Grand-Mère nous dit: — Fils de chienne! Les gens nous disent: — Fils de Sorcière! Fils de pute! D’autres disent: — Imbéciles! Voyous! Morveux! Ânes! Gorets! Pourceaux! Canailles! Charognes! Petits merdeux! Gibier de potence! Graines d’assassin! […] Notre Mère nous disait: — Mes chéris! Mes amours! Mon bonheur! Mes petits bébés adorés! ».57 I giovani protagonisti provvedono da soli alla loro istruzione; leggono, infatti, la Bibbia, che avevano iniziato a studiare già nella Grande Città, il Grande Dizionario, appartenente a loro padre e che avevano portato con loro, e un Grande Quaderno — da qui il titolo di questo primo libro — nel quale provano a mettere per iscritto tutto quello che succede e fanno esercizi di scrittura, sottostando a un patto di oggettività: non devono essere riportate sensazioni e opinioni personali ma solo i fatti nudi e crudi. L’arte della sopravvivenza porta i fratellini anche a uccidere senza provare senso di colpa, a questuare e a rubare (« les sirènes se mettent à hurler à n’importe quel moment du jour et de la nuit, exactement comme dans la Grande Ville. Les gens courent se mettre à l’abri, se réfugient dans les caves. Pendant ce temps, les rues sont désertes. Parfois les portes des maisons et des magasins restent ouvertes. Nous en profitons pour entrer et prendre tranquillement ce qui nous plaît »58), provano a guadagnarsi da vivere suonando e recitando nelle osterie e nelle vie della Piccola Città, un po’ alla maniera dei protagonisti dei romanzi picareschi che per vivere si vedono costretti a compiere azioni riprovevoli. Una ragazzina con delle gravi malformazioni fisiche chiamata Labbro Leporino li inizia al sesso, ma la loro formazione amatoria alquanto precoce viene portata a compimento dalla fantesca del curato; la Kristof non risparmia al lettore scene dettagliate riconducibili ad atti di pedofilia: « elle nous caresse et nous embrasse sur tout le corps. Elle nous chatouille avec sa langue dans le cou, sous les bras, entre les fesses. Elle s’agenouille devant le banc et elle suce nos sexes qui grandissent et durcissent dans sa bouche ».59  57 Ivi, pp. 26-27. 58 Ivi, p. 101. 59 Ivi, pp. 78-79.

228  Attenzioni particolari riserva ai due fanciulli anche l’ufficiale straniero che frequenta la casa della Nonna (« l’officier nous sourit, nous fait entrer dans sa chambre. Il s’assied sur une chaise, il nous tire à lui, nous soulève, nous fait asseoir sur ses genoux. […] En dessous de nous, entre les jambes de l’officier, nous sentons un mouvement chaud. […] Il nous tend deux cravaches et il se couche sur son lit à plat ventre. […] Nous frappons. Une fois l’un, une fois l’autre »60) e che ha una relazione omosessuale con un ufficiale più giovane: L’officier rentre parfois avec un ami, un autre officier, plus jeune. Ils passent la soirée ensemble et l’ami reste aussi pour dormir. Nous les avons observés plusieurs fois par le trou pratiqué dans le plafond. […] Nous entendons aussi le bruit d’une bagarre, des coups, le fracas de chaises renversées, une chute, des cris, des halètements. Puis c’est le silence.61

I due bambini portano sempre con loro la foto della Madre che, un giorno, considerando l’intensificarsi degli attacchi bellici anche nella Piccola Città, passerà per riprenderli ma li troverà molto cambiati dagli eventi e poco propensi a seguirla e sarà uccisa, insieme alla bimba che tiene tra le braccia, da una granata piovuta nel giardino di proprietà dell’anziana nonna dei ragazzini dove, inizialmente, verrà seppellita. I resti sotterrati verranno poi riesumati e gli scheletri della donna e della sua piccola creatura verranno conservati in soffitta. Anche il padre dei due fanciulli, in seguito, giungerà al casolare diroccato; l’uomo si farà aiutare dai figli a fuggire e con lui riuscirà a dileguarsi anche uno dei giovani: « Oui, il y a un moyen de traverser la frontière: c’est de faire passer quelqu’un devant soi. Prenant le sac de toile, marchant dans les traces des pas, puis sur le corps inerte de notre Père, l’un de nous s’en va dans l’autre pays. Celui qui reste retourne dans la maison de Grand-Mère ».62 Il primo libro della trilogia si conclude proprio con questa lacerante separazione. Nella seconda parte, quindi, che prende il titolo di La preuve (1989), si ritrova Lucas da solo, unico protagonista e, ben presto, si insinua nel lettore il dubbio che sia stato sempre, anche nel Grand Cahier, in solitudine e che il doppio sia soltanto il frutto della sua fantasia, espediente per affrontare meglio i drammi della guerra, il freudiano unheimlich insomma — termine di difficile resa in

 60 Ivi, pp. 87-88. 61 Ivi, pp. 91-93. 62 Ivi, p. 168.

229  italiano ma che viene generalmente tradotto come perturbante — con cui si sottintende un contesto in cui una situazione di disagio porta a uno sdoppiamento, una perdita d’identità e un’alienazione che riguarda il soggetto, l’Io, e il suo inconscio. In questo caso l’ammissibile comparsa della figura di un doppio è da considerare come l’invasione dell’inconscio nel campo del conscio che ha tratti del dionisiaco poiché rappresenta « il manifestarsi dell’angoscia della morte, la quale, scansata in quanto lutto e dolore, si ripresenta nel reale, con la beffarda e ghignante figura del Sosia ».63 Quel che è estromesso, rimosso, quindi il familiare, diviene supplizio e perturbante. Il nous del primo libro, il doppio, dunque Claus, è con ogni probabilità la parte altra di Lucas, quello che realmente è ma che razionalmente ancora non conosce e che è emerso solo a causa della guerra: « antagonismes, dislocation, morcellement, on pourrait penser que s’oppose à ces mots le « nous »; que, par lui, se rassemble ce qui a été séparé; qu’en lui se trouvent réunis les inconciliables. L’antique fantasme d’une symbiose parfaite avec l’autre et avec le monde, c’est ce que pourrait symboliser ce pronom personnel ».64 In La Preuve, quindi, viene meno l’aura di candore e arguzia quasi sovrumana del primo libro; tra l’altro sono fornite un minimo di coordinate spazio-temporali che fanno luce anche su quanto narrato nel primo libro: qui Lucas ha un’età precisa — quindici anni — e viene detto che la mamma lo ha portato dalla Nonna sei anni prima, quindi all’età di nove anni circa. Nella seconda parte della trilogia, Lucas trova nuovi amici come Peter, funzionario di partito omosessuale che tenterà anche un timido approccio con il giovane originario della Grande Città, Victor — un libraio con problemi di alcool e con l’ossessione della scrittura —, Clara, la sua prima relazione adolescenziale e Yasmine, il grande amore, già madre di un bambino, Mathias, a cui Lucas farà amorevolmente da padre. Anche il figliastro del protagonista — proprio al pari dei gemelli del primo libro — viene presentato come incredibilmente sensibile e acuto, con un’emotività più marcata rispetto agli altri coetanei e con una

 63 LUIGI GUIDI-BUFFARINI e VINCENZO LA VIA, Introduzione a OTTO RANK, Il doppio, Milano, Sugarco, 1994, p. 12. 64 MARIE-NOËLLE RIBONI-EDME, La trilogie d’Agota Kristof. Écrire la division, Paris, L’Harmattan, 2007, p. 107.

230  malformazione fisica che lo rende zoppo e che gli attirerà tutta la cattiveria dei suoi compagni di scuola. Mathias non ha un doppio, è solo, non regge alla crudeltà umana dell’immediato dopoguerra e si toglierà la vita; a Lucas non resterà che un velo di apatia sulla sua esistenza: « J’ai oublié aussi mon jardin, le marché, le lait, le fromage. J’ai même oublié de manger. Pendant de mois, j’ai dormi dans le galetas, j’avais peur d’entrer dans ma chambre. Il a fallu qu’une petite fille, la nièce de Léonie, vienne aujourd’hui, pour que j’aie le courage d’y entrer ».65 L’ultima parte della trilogia, Le troisième mensonge (1991), è ancora più aggrovigliata, anche se tutto viene presentato su un piano più realistico; ricompaiono Claus e Lucas e vengono narrati, in modo diverso — si può ipotizzare a causa del tempo passato che logora i ricordi — le scene di guerra, la nonna dispotica e il superamento della frontiera. In questo terzo libro c’è, inoltre, una madre ancora in vita, decrepita e autoritaria quanto la Nonna della prima parte della trilogia e c’è un fratello che ritorna ma viene allontanato, per paura di ulteriori sofferenze. Tutto resta aperto in questi tre volumi della Kristof, ogni punto della trama lascia spazio a diverse possibilità, si gioca tutto sul confine tra menzogna e verità.66 La menzogna è il fil rouge della trilogia, dove ogni cosa si duplica, si scinde e si confonde; l’autrice stessa sembra dar voce a un suo doppio e lo fa con uno stile che la critica più volte ha definito crudo, essenziale, duro, secco, vicino a Kakfa anche se, va detto, la scrittrice svizzero-ungherese ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera: « Kafka un mio modello? No, è troppo noioso »67. Ha aggiungento in una conversazione con un altro giornalista, Michele De Mieri de L’Unità: « per la verità chi mi ha messo definitivamente sulla buona strada è stato mio figlio quando aveva dieci, dodici anni, io l’osservavo molto

 65 AGOTA KRISTOF, La preuve, Paris, Éditions du Seuil, 1988, p. 18. 66 Per un approfondimento sulla Trilogia della città di K. si veda: MICHELLE BACHOLLE, Un Passé contraignant, Amsterdam, Rodopi, 2000; NOËL CORDONIER, “Deux Modèles de Réception de la « Trilogie » d’Agota Kristof”, in Littérature et Nation, (24) 2001; SONIA DAYAN-HERZBRUN, “La Trilogie d’Agota Kristof ou le miroir brisé”, in Tumultes (12) 1999; VALERIE PETITPIERRE, D’un exil l’autre, Ed. Zoé, Genève, 2000. 67 ANTONIO DEBENEDETTI, Agota Kristof: Kafka un mio modello? No, è troppo noioso, “Corriere della Sera”, 15 dicembre 1998, p. 38.

231  scrivere, studiavo il modo e il contenuto, e cercavo di apprendere quello stile, quel punto di vista. Il mio stile è figlio di mio figlio ».68 Sicuramente è attraverso il punto di vista dei bambini che si riesce a dimostrare la brutalità e la stupidità che si cela dietro ogni guerra: le circostanze portano i più giovani delle fazioni in lotta a toccare con mano la crudeltà, la sofferenza, li conducono a comprendere l’inutilità del pianto e del chiedere aiuto in una fase della vita assai precoce, li portano, insomma, a diventare adulti troppo presto. Tra l’altro — ed è un aspetto non del tutto irrilevante — le storie di fanciulli nel periodo bellico suscitano un sentimento di pietas nel lettore, che più facilmente, dunque, si appassiona agli eventi narrati. Sarà, tra gli altri, per questo motivo che anche un’altra autrice svizzera,

ANNE-LISE GROBÉTY, per raccontare gli orrori della seconda guerra mondiale, dà voce a due giovani protagonisti in Le temps de mots à voix basse (2001). I personaggi principali di questa novella, Kurt e Oskar, figli di due amici di vecchia data (« mon père et Anton, le père d’Oskar, étaient les meilleurs amis du monde. Depuis tout petits, comme Oskar et moi »69), cresciuti insieme come fratelli, sono convinti che nulla nella vita potrà separarli. Ma le cose con il tempo cambiano; arriva un’epoca in cui si può parlare solamente sottovoce: Rien ne menaçait notre vie d’enfants jusqu’à ce que survienne le temps des mots à voix basse70

È il periodo in cui i Nazisti sono saliti al potere e per la famiglia di Oskar, ebrea, comincia l’inferno; il mutamento generale viene notato dai bambini a partire dal tono della voce, dalle parole utilizzate, dal modo in cui le persone comunicano: « ce sont les voix qui se sont mises à changer d’abord — leurs intonations, leur intensité, l’insistance de certains mots et de quelques noms qui pesaient de plus en plus lourd dans les conversations. Et si je dis le temps des mots à voix basse, ce n’est qu’une demi-vérité puisque nombre de gens se sont

 68 MICHELE DE MIERI, Dentro la fabbrica di Agota Kristof, “L’Unità”, 5 ottobre 2003. 69 ANNE-LISE GROBÉTY, Le temps des mots à voix basse, Genève, Éditions La Joie de Lire, 2001, p. 7. 70 Ivi, p. 16.

232  mis au contraire à parler plus haut qu’avant ».71 Queste persone diventano “la voce”: « maintenant que la voix avait pris tellement d’importance dans le maisons, les lieux publics et même à l’école, on voyait grimper partout sur les murs cette espèce d’araignée noire avec ses pattes tordues, posée sur le fond rouge sang des drapeaux ».72 Anche a scuola, per il giovane giudeo Oskar, iniziano tempi duri: On venait d’entrer en classe. Le maître a dit à Oskar, très fort: — Toi, tu prends tes affaires et tu déménages tout au fond. Kurt, viens prendre sa place, devant! Puis le maître n’a plus adressé la parole à Oskar, comme s’il n’avait plus été là du tout. Je me retournais tout le temps pour voir la tête de mon ami. Je voyais bien qu’il y avait des larmes dans ses yeux. Et quand il a voulu donner une bonne réponse, le maître l’a fait taire: « Estime-toi encore heureux qu’on te garde! » Et il a ajouté quelque chose où j’ai cru comprendre: « Fils du chien… » À la fin de la classe, j’ai couru vers lui: — Mais qu’est-ce que tu lui as fait au maître? Oskar avait beau se creuser la tête pour chercher ce qui avait pu tellement lui déplaire dans sa conduite et déclencher une telle colère, il ne voyait pas. Il avait les yeux rouges, marchait la tête en bas, il ne savait pas ce qu’il dirait à son père, il avait peur de ce qui arrivait! ».73

La situazione, come noto, per gli ebrei diventa sempre più insostenibile e la famiglia di Oskar è costretta a fuggire; i due capifamiglia si dicono addio per sempre, spiati dal piccolo Kurt: Je me souviens seulement que l’heure était devenue grave tout à coup. Qu’elle pesait lourd dans leur bouche. Que les mots s’accrochaient à leurs lèvres comme pris dans les dents d’un peigre. J’avais encore dans le corps la légèreté de l’enfance. Mais d’un coup je me remplissais du poids de l’homme et de ses supplices.74

La decisione della famiglia ebrea arriva però troppo tardi: « “Trop tard, trop tard!”, criait quelque chose dans mon regard tandis que je voyais comment les bras de l’un se refermaient sur le désespoir de l’autre ».75 La famiglia viene deportata ma riesce a consegnare agli amici la figlia più piccola, risparmiandole così un atroce destino. La conclusione viene lasciata alla poesia delle parole sottovoce:  71 Ivi, pp. 17-18. 72 Ivi, p. 22. 73 Ivi, p. 25. 74 Ivi, p. 42. 75 Ivi, p. 60.

233  Aux paroles de fiel, j’ai toujours préféré les paroles de miel!76

Di vicende di amicizia nei periodi bellici è, comunque, ricca la letteratura di ogni parte del mondo — basti citare come esempio Reunion. Der wiedergefundene Freund (1971) del tedesco Fred Uhlman, storia ambientata a Stoccarda del sodalizio umano tra l’ebreo Hans Schwarz e il nobile Könradin von Hohenfels — ma quelle narrate da Agota Kristof e Anne-Lise Grobéty sono strutturate in modo differente poiché hanno, rispetto ad altri libri, un’atmosfera fiabesca, alcune caratteristiche in comune con il genere del Märchen — caro, ad esempio, nella prima metà dell’Ottocento, ai fratelli Grimm — che è stato dettagliatamente studiato e analizzato dallo svizzero MAX LÜTHI in opere a carattere saggistico come Das europäische Volksmärchen. Form und Wesen. Eine literaturwissenschaftliche Darstellung (1947). Tentare di definire dettagliatamente il genere Märchen, tuttavia, non è impresa da poco e numerosi sono stati gli studiosi che hanno provato a fornire connotati precisi al genere. Tutte le fiabe del mondo hanno caratteristiche analoghe: indeterminatezza — personaggi, epoche e luoghi sono sempre indefiniti, appena accennati, mai identificabili con precisione —, inverosimiglianza — i fatti e i personaggi esistono solo nella fantasia popolare —, manicheismo morale — i protagonisti, cioè, sono o buoni o cattivi, senza opportunità di vie di mezzo —, happy ending e scopo didattico. Quello che assolutamente non si rinviene, tanto nella Kristof quanto nella Grobéty, rispetto alle fiabe tradizionali, è il lieto fine, fondamentale nel genere letterario in questione se si considera che il suo scopo principale sarebbe quello di trasmettere al lettore una visione ottimistica della vita. Questa mancanza di happy ending potrebbe far pensare, dunque, che con le due autrici svizzere ci si trovi, piuttosto, al cospetto di due esempi di anti- Märchen, anche in questo caso quindi — come del resto abbiamo visto per i vari esempi relativi al mito Tell — di una destrutturazione, o ribaltamento dello schema canonico, di un genere letterario.

 76 Ivi, p. 71.

234  È un demontage graduale quello delle due scrittrici francofone, palese soltanto nell’epilogo delle opere. Nel corso delle vicende narrate, la Kristof e la Grobéty sembrano quasi abbracciare le caratteristiche del genere Märchen; Agota Kristof, se si analizza attentamente la sua trilogia, non fornendoci coordinate spazio-temporali precise, ci porta proprio in quel never-neverland di cui parlano molti studiosi di folclore, come, ad esempio, l’americano Stith Thompson; anche le varie formule che si rinvengono nell’opera della Grobéty (« C’était dans un pays de collines parfaites et de vergers. […] C’était il y a bien des années »77 e al principio della seconda parte « C’était il y a longtemps, dans une petite ville tranquille […] Dans un pays de collines parfaites et de vergers aux douces toisons de printemps »78) e che tanto ricordano il fiabesco incipit “c’era una volta”, ci conducono in una dimensione altra, non specificata da elementi spaziali e temporali ma lasciata all’intuizione del lettore. Le due opere delle autrici svizzere sembrano avere molto in comune con le fiabe anche se si prendono le parole con cui tenta di definire il popolare genere letterario: « tema pauroso e truculento, particolari scatologici o coprolalici, versi intercalati alla prosa con tendenza alla filastrocca ».79 Il Märchen è anche qualcosa di non facile identificazione dove, di conseguenza, si può tentare di far rientrare molte opere di difficile collocazione, come sembra asserire John Ronald Reuel Tolkien (« Faërie cannot be caught in a net of words; for it is one of its qualities to be indescribable, though not 80 imperceptible » ) e anche i protagonisti della Trilogie e di Le temps de mots à voix basse possono ricordare molto da vicino i personaggi della tradizione fiabesca. I gemelli della trilogia sembrano avere numerose caratteristiche in comune con Hänsel und Grethel dei Grimm, i figli di un povero taglialegna abbandonati in un bosco, e la nonna ha davvero molto della alte Hexe decrepita, con gli occhi rossi e il naso lungo sul quale poggiano gli occhiali, della stessa fiaba dei celebri fratelli tedeschi; così nel libro della Kristof viene descritta l’anziana donna: « Grand-Mère est petite et maigre. Elle a un fichu noir sur la tête.  77 Ivi, p. 5. 78 Ivi, p. 45. 79 ITALO CALVINO, Introduzione a Fiabe Italiane, Einaudi, Torino, 1971, p. XL. 80 JOHN RONALD REUEL TOLKIEN, On Fairy-Stories, in ID., Tree and Leaf, Harper & Collins Publishers, London, 2001, p. 39.

235  Ses habits sont gris foncé. Elle porte de vieux souliers militaires […] Son visage est couvert de rides, de taches brunes et de verrus où poussent des poils. Elle n’a plus de dents, du moins plus de dents visibles ».81 Va aggiunto che i giovani protagonisti, almeno quelli della Kristof, più dettagliatamente descritti, hanno le caratteristiche che lo svizzero MAX LÜTHI individua per gli eroi della fiaba: nel Märchen, infatti, il personaggio principale è un essere umano imperfetto, in genere il più giovane, l’escluso, il più sciocco, fannullone o povero, è vittima della persecuzione della matrigna, dei fratelli maggiori o della strega cattiva ma, al tempo stesso, l’unico capace di fronteggiare i pericoli, anche con l’appoggio di aiutanti, di sfidare la morte e raggiungere la ricchezza. Il suo isolamento dal resto del mondo gli dona quella libertà che lo predispone a rapportarsi con gli aiutanti; essere senza difese apparenti non lo porta alla rovina, al contrario lo conduce a superare prove che ricordano i riti di iniziazione e lo conducono alla salvezza.82 Nonostante queste caratteristiche in comune con il genere fiabesco, la mancanza di uno happy ending, così come di un vero e proprio intento morale, fa propendere più verso una definizione di anti-Märchen, verso l’ennesimo tentativo, quindi, di destrutturazione degli schemi canonici intrapreso — non è lecito sapere quanto volontariamente e quanto inconsciamente — da un autore appartenente alla Letteratura Svizzera, per far notare la propria arte e conferirle una connotazione il più originale possibile. Con l’avvento del Nazionalsocialismo, e per tutto il periodo del dodicennio nero, nemmeno gli ebrei svizzeri, o quelli che si trovavano sul territorio elvetico, potevano considerarsi completamente al sicuro. Anche nel piccolo stato dell’Europa centrale la propaganda antisemita dei nazisti trovò una vasta eco nei movimenti frontisti83 e nello strato sociale borghese. Le decisioni assunte dalle autorità in merito alla naturalizzazione degli stranieri e all’asilo politico si fecero sempre più marcatamente antisemite, i giudei elvetici si sentirono — a ragione — sempre più disorientati e, in gran parte,

 81 Ivi, p. 14. 82 Cfr. la voce Einsamkeit curata da MAX LÜTHI nell’Enzyklopädie des Märchens, vol. 3, p. 1274. 83 Molti gruppi e movimenti politici unirono al proprio nome il termine Front (fronte) con lo scopo di sottolineare il carattere combattivo che andavano assumendo. Tali formazioni di estrema destra furono fomentate dalla crisi economica mondiale e dalla seduzione esercitata dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo.

236  decisero di emigrare. Coloro che rimasero nel paese lottarono per la difesa dei diritti civili, fornirono sostegno ai rifugiati in terra elvetica e appoggi alle vittime della politica nazista di persecuzione e sterminio adottata in tutta Europa. L’Unione Svizzera dei Comitati Ebraici d’Assistenza ai Rifugiati — che fino al 1943 era nota come Unione Svizzera dei Comitati di Soccorso Israelita — si preoccupò di gran parte dei 28000 profughi giudei costretti dalle forze dell’ordine delle potenze straniere filo-naziste a lasciare il Paese nel pieno del secondo conflitto mondiale e la collaborazione con associazioni ebraiche di livello internazionale rese possibile un sostegno all’emigrazione verso gli Stati Uniti e il sostentamento economico della politica d’asilo dello Stato neutrale, realizzato, comunque, anche grazie a donazioni ebraiche provenienti in maggioranza dall’American Jewish Joint Distribution Committee. Fu dopo la guerra che si iniziò a registrare il malcontento per la politica tenuta dalla Confederazione durante il conflitto; si fece subito largo — avvertendosi ancora di più con il passare del tempo — l’idea che il paese neutrale avesse fatto troppo poco per i rifugiati. Grandi rimostranze, ad esempio, si ebbero per la decisione, frutto di un accordo con i Nazisti, di apporre il timbro “J” sui documenti dei giudei tedeschi e per i numerosi rifugiati respinti alla frontiera e poi deceduti nei lager delle potenze hitleriane. Il periodo post-bellico è stato — è vero — tempo di recriminazioni e analisi degli errori commessi ma, per gli ebrei elvetici, è stato anche — soprattutto — tempo di ricostruzione: la nascita nel 1948 dello stato di Israele, nel quale sono emigrati circa 3000 ebrei svizzeri, ha alimentato nuove speranze e portato, tra l’altro, alla creazione di diverse associazioni a sostegno della cultura giudaica, di Università e di servizi sociali ebraici, nonché alle opere di bonifica delle zone desertiche israeliane. Oggi le 23 comunità ebraiche presenti nella Confederazione praticano, per la maggior parte, il culto nelle forme tradizionali, ma consentono la critica testuale della Torah e dei testi sacri come il Talmud, la loro contestualizzazione storica e, inoltre, non si occupano della vita privata dei loro membri.84  84 Cfr. la voce Giudaismo dal sito www.hls-dhs-dss.ch. Per un approfondimento sugli ebrei in Svizzera non si può prescindere da: JACQUES PICARD, Die Schweiz und die Juden 1933-1945, Zürich, Chronos, 1994. Si veda anche: AARON KAMIS-MÜLLER, Leitfaden zur schweizerisch-

237  Quando si parla di ebraismo in relazione alla letteratura svizzera non si può prescindere dal considerare l’opera dello scrittore originario di Corfù, figlio di industriali del sapone, ALBERT COHEN: Sa judaïté et, plus globalement, le destin juif innervent, irriguent l’ensemble de son œuvre. Le judaïsme est au cœur de Paroles juives, son tout premier texte, mais aussi Solal, Ézechiel, Mangeclous, Le livre de ma mère, Belle du seigneur, Les Valeureux, Ô vous, frères humaines et Carnets 1978. Tous ses livres portent l’empreinte puissante de son appartenance au peuple du Livre.85

Gran parte della produzione di Cohen è incentrata sul personaggio di Solal, presentato, innanzitutto, come un ebreo del ghetto dell’isola ionica di Cefalonia con, tra gli altri, il padre Gamaliel, la madre Rachel e cinque cugini. La comunità isolana ingloba gli abitanti del ghetto dove tutti si conoscono, si chiamano per nome e cognome e sono identificati in base a un’attività specifica che svolgono per la ristretta cerchia. Una piccola comunità implica una condivisione generalizzata di beni e situazioni: i membri hanno un’identità comune, una storia condivisa, gli stessi ideali da abbracciare, delle tradizioni.86 È esattamente questo lo spirito della comunità descritta da Cohen: Entrèrent successivement Issacar, le grand fruitier barbu; Benjamin Montefiore, le boiteux vendeur de graines de courges rôties et salées; Samson Espinosa, un jeune changeur anémique, accompagné de sa femme, coiffée d’une résille de jais, épouvantée par tant de mâles […] Samuel Fano, le brocanteur eczémateux, dit Grattejoue, dit Fourbinet, qui portait toujours sa petite fortune sur lui afin de séduire les éventuels vendeurs par un payement comptant.87

Nella perfetta comunità di Cefalonia, Solal sembra essere stimato e rispettato da tutti, principalmente perché Gamaliel, suo padre, è « l’éminentissime grand rabbin de la communauté des sept îles Ioniennes avec siège à Céphalonie ».88

 jüdischen Geschichte, Zürich, Schweizerische Gesellschaft für Judaistische Forschung, 1997; CLAUDE KUPFER, RALF WEINGARTEN, Zwischen Ausgrenzung und Integration: Geschichte und Gegenwart der Jüdinnen und Juden in der Schweiz, Zürich, Sabe, 1999; GABRIELLE ROSENSTEIN (a cura di), Jüdische Lebenswelt Schweiz, Zürich, Chronos, 2004; STEFAN MÄCHLER, Hilfe und Ohnmacht: der Schweizerische Israelitische Gemeindebund und die nazionalsozialistische Verfolgung 1933-1945, Zürich, Chronos, 2005. 85 FRANCK MÉDIONI, Albert Cohen, Paris, Gallimard, 2008, p. 58. 86 Cfr. FABIO BERTI, Per una sociologia della comunità, Milano, FrancoAngeli, 2005, p. 19. 87 ALBERT COHEN, Les Valeureux, Paris, Gallimard, 1969, p. 112. 88 ID., Solal, Paris, Gallimard, 1981, p. 15.

238  È certo che Cohen, descrivendo una comunità ebraica tanto chiusa, realizza quella che da sempre viene chiamata “misantropia ebraica”, un sentimento di estrema solidarietà per i propri fratelli di religione (al punto che Pascal nel XVII secolo arrivò ad apostrofare gli ebrei come « ce peuple tout composé de frères »89), misantropia per chi è fuori dal ghetto. Già nell’antichità — basti pensare alle requisitorie antiebraiche di Tacito, Orazio, Giovenale e Marziale — i giudei furono accusati di nutrire sentimenti di totale sfiducia nei confronti della razza umana in contrasto con le tradizioni che li rendono diversi dagli altri, e di ateismo, per il rifiuto di adorare divinità pagane; Cohen fa sua questa antica idea di misantropia ebraica e descrive la comunità partendo da questo luogo comune. Lo scrittore originario di Corfù offre al lettore anche numerosi esempi della professione di fede del personaggio Solal des Solal; il primo romanzo che lo vede protagonista si apre, ad esempio, con il personaggio principale che a dodici anni si trova, grazie ai ricordi dello zio Saltiel, a fornire numerosi riferimenti in merito alle cerimonie che seguirono la sua nascita. Due sono le funzioni che tradizionalmente hanno luogo per festeggiare un nuovo nato della comunità; la prima, privata, si svolge in casa, alla presenza solo dei familiari più stretti, all’ottavo giorno dalla nascita (lo zio Saltiel ricorda infatti: « Je le tins sur mes genoux lors de son entrée dans l’Alliance, en son huitième jour »90) e il rito più importante di questa cerimonia è la circoncisione: l’intervento viene praticato da un esperto della commemorazione, detto mohel, per rispondere al brit milà — il patto della circoncisione — che, secondo la tradizione, fu comandato da Dio ad Abramo, il Padre del popolo ebraico, e che viene realizzato a simboleggiare l’eterno legame tra la Divinità e la comunità ebraica. La seconda cerimonia è pubblica e consiste nella presentazione ufficiale del nuovo membro alla collettività. In quest’occasione il bambino riceve il suo nome, come descritto riguardo a Solal attraverso le parole di Saltiel: « et même sur l’acte rabbinique de naissance il est inscrit comme Solal XIV des Solal, fils du révéré grand rabbin de Céphalonie et descendant du grand prêtre Aaron, frère de Moïse! ».91

 89 BLAISE PASCAL, Pensées de B. Pascal, Paris, Librairie de Firmin Didot frères, fils etc., 1873, p. 216. 90 ALBERT COHEN, Belle du Seigneur, Paris, Gallimard, 1968, p. 112. 91 Ivi, p. 150.

239  Altro rito di cui parla Cohen nelle sue opere incentrate sul personaggio di Solal è il bar mitzvà (alla lettera “figlio del precetto”) che avviene per ogni ebreo all’età di tredici anni ed è la cerimonia in cui il giovane giudeo indossa per la prima volta il talleth per le preghiere e i tefillin e in sinagoga deve declamare tutta la parte della Torah di quel giorno. Nella sua formazione religiosa il ragazzo mostra grande curiosità e attitudine, come testimonia il pensiero del severo rabbino Gamaliel: « En realité, il jugeait admirable l’étude talmudique de son fils ».92 Ma Solal si trova ben presto a fare i conti con una tentazione che appare innata nel suo animo: l’ambizione di fuggire via, di sconfinare e raggiungere un altro mondo; il suo sguardo diventa ben presto lontano dall’innocenza e dall’ingenuità dell’infanzia. Il personaggio creato da Cohen ammira la Francia e non prova alcun interesse nei confronti delle bellezze naturalistiche del luogo natio che vuole fargli ammirare lo zio: « mais la beauté des volatiles fût impuissante à conjurer le mal, et l’enfant se mit soudain à courir vers la femme dont il était amoureux ».93 Solal segue, dunque, il percorso degli eroi della tradizione del romanzo di formazione; nell’infanzia non conosce ancora nulla del mondo che lo circonda ma crescendo ha il desiderio di esplorare nuove realtà. La bella Adrienne è il primo simbolo di un universo da scoprire e l’elemento che gli conferisce il coraggio e la convinzione di dover fuggire. Ma questa evasione dal contesto in cui è cresciuto non è per Solal soltanto la risposta a un desiderio d’amore, a un’ambizione sentimentale; Adrienne non rappresenta altro che una prima tappa di un mondo sconosciuto tutto da percorrere e con il quale confrontarsi. Il richiamo del padre a tornare sui suoi passi finisce semplicemente per convincerlo ancora di più che la fuga dal luogo natio è nel suo destino: « Retourner là-bas, pourquoi? Le monde était large et il ne fallait pas perdre de temps ».94 L’eroe che è al centro di questa sorta di Bildungsroman è un individuo che cerca, per rispondere a una sua intima necessità, di distinguersi dal mondo circostante vivendo una drammatica ostilità intellettuale e passionale nei confronti della realtà. Anche l’amore generalmente — nel caso di Solal la relazione con  92 Ivi, p. 26. 93 ID., Solal, op. cit., p. 18. 94 Ivi, p. 109.

240  Adrienne — si presenta come un’esperienza conoscitiva complessa e ricca di incertezze. Il protagonista si regge soltanto sulle sue forze, constatando l’assenza del Divino. In un lungo monologo appare evidente la rottura del protagonista con la religione ebraica; Solal distrugge con cinismo tutti i suoi cardini a partire dai dieci comandamenti che diventano « dix pauvres, dix élémentaires règles de conduite bourgeoise »95 e il popolo eletto è « une race de grenouilles qui s’imaginent élues parce que, rouées de coups, elle croassent “Justice! Justice! ».96 Il punto estremo di rottura arriva quando Solal, con un gesto provocatore, facendo il segno della croce davanti a suo padre, rinnega le sue origini: Solal lança un regard venimeux sur cet homme qui, après être venu le ridiculiser, briser une vie péniblement construite, avait la stupide audace de sourire. Fou de honte, il s’approcha pour frapper. Mais une inspiration subite le fit s’arrêter. Les yeux ardents de malignité, il fit, lentement et avec délices, le signe de croix.97

Solal arriva poi — proprio come l’autore storico Albert Cohen, stando a quanto emerge dai suoi diari e taccuini — a sfidare Dio, chiedendogli una prova della sua esistenza; non si può continuare a credere in eterno in un’entità superiore tanto sperata ma che non si manifesta in alcun modo e resta in silenzio a osservare. Il protagonista cerca, quindi, di riprodurre le condizioni per un miracolo, al fine di avere almeno una volta nella vita una testimonianza del Divino: « J’implore sans cesse, j’implore ridiculement, et Dieu ne répond jamais, implacablement sourd ».98 La pretesa di un riscontro da parte di un’entità superiore può, però, anche sembrare il sentimento di una persona che ama, o è disposta ad amare, troppo il suo Signore per accontentarsi di una fede che non potrà mai essere assoluta: Ah oui voilà des réalités invisibles qui rappliquent, très commode, des réalités qui ont la politesse d’être invisibles, et moi dans tout ça qu’est-ce que je deviens moi, et qu’est-ce que je ferai dans l’au-delà parmi toutes ces invisibilités et chétives bouffées pas très captivantes moi qui aime tant regarder et entendre. […] Je les entends qui s’indignent mais angéliquement et avec beaucoup de pitié pour ce pauvre vulgaire de moi et me parlent d’yeux spirituels et d’oreilles immatérielles.99

 95 Ivi, p. 334. 96 Ivi, p. 335. 97 Ivi, p. 337. 98 ID., Carnets 1978, Paris, Gallimard, 1993, p. 116. 99 ID., Belle du Seigneur, op. cit., p. 991.

241  Solal è troppo consapevole di quello che la fede può avere di confortante, di consolante, ma anche dell’abiezione che rappresenta il fatto di rifugiarsi nell’idea di un mondo controllato dallo sguardo di Dio, nella promessa di un aldilà; a questa speranza si abbandona invece completamente Madame Deume: agli occhi di Solal, però, la posizione della donna, se confrontata con la sua, è addirittura meno rispettosa nei confronti di Dio, è un atteggiamento adottato per puro narcisismo, per il rifiuto di ammettere l’imminenza della morte, è un qualcosa che aiuta ad acquietare la coscienza: « Qu’y puis-je si je n’ai pas assez d’innocente ruse pour baptiser vérité ce qui me rassure ni assez peur de la mort pour avoir besoin d’un paradis? ».100 L’idea di Dio non basta a Solal; se il Signore non si presenta alla prova d’appello, il protagonista non può che volgersi verso un umanesimo ateo, verso, quindi, una filosofia di vita priva di verità assolute rivelate e fede, che diventa un’alternativa a qualsiasi religione e pone al centro della sua essenza l’uomo e la razionalità. Cohen, nei suoi libri, non può ovviamente esimersi dall’accennare anche al sentimento antisemita tra le due guerre e durante il secondo conflitto mondiale, quando gli ebrei venivano accusati, ad esempio, di essere i dominatori della finanza internazionale e, anche per questo motivo, dovevano essere ridimensionati, o eliminati del tutto: La finance internationale est entre leurs mains […] Un bon coup de balai […] Les vieux domestiques d’autrefois qui étaient vraiment de la famille. Moi je tiens toujours registre des invitations à rendre […] Mussolini a un si bon sourire. Tandis que ces bonnes d’aujourd’hui […] Un immeuble c’est quand même le meilleur placement […] Blum est de mèche avec Staline. Entre Juifs on s’entend toujours.101

Il tempo delle recriminazioni, comunque, per la Svizzera, che è stata tacciata di aver ottenuto indebito profitto dalla guerra e di esser stata una base per le operazioni illecite dei nazisti, di aver respinto migliaia di rifugiati ebrei, di aver comprato dagli uomini di Hitler oro estorto ai giudei, di aver rifiutato di riconsegnare i depositi fatti nelle banche svizzere per ragioni di sicurezza da investitori poi deceduti nel periodo del conflitto e di aver contribuito a protrarre la

 100 Ivi, p. 988. 101 Ivi, pp. 853-860.

242  guerra fornendo materiale bellico alla Germania102, passa quindi, inevitabilmente, anche attraverso la letteratura e il teatro. Il tema della guerra costituisce — come noto — un leit-motiv che percorre la storia del teatro occidentale, dal mondo classico ai giorni nostri. Il Novecento è ricco di esempi soprattutto per quanto concerne la letteratura tedesca: Ernst Toller, nel periodo tra le due guerre mondiali, scrive tre drammi incentrati sul tema della pace, Hinkemann, Die Wandlung e Pastor Hall che pone l’attenzione sulle persecuzioni naziste; Alfred Andersch in Die Kirschen der Freiheit associa il sapore della libertà al gusto delle ciliegie; da menzionare naturalmente la drammaturgia dell’impegno politico di Bertolt Brecht.

Il già citato THOMAS HÜRLIMANN, tra gli autori svizzeri, s’immette per primo in questo filone del teatro novecentesco e porta il contesto della Seconda Guerra Mondiale sul palcoscenico con la sua prima pièce Großvater und Halbbruder (1980) oltre che con Der Gesandte (1991), di cui si è trattato in precedenza; lo scrittore elvetico cerca di sfatare il mito della totale estraneità della Svizzera ai fatti della guerra. Il piccolo stato effettivamente prima e durante il secondo conflitto mondiale aveva come obiettivo principale quello di conservare l’indipendenza e restare fuori dalla guerra ma poi, per far fronte alle minacce d’invasione, incrementò i finanziamenti alla difesa, ampliò la preparazione delle reclute, costruì opere di sbarramento e chiamò i riservisti a protezione del confine con la Germania. Hürlimann dimostra di conoscere bene queste tematiche che, quando egli era poco più di un bambino, con tutta probabilità erano al centro di discussioni che avvenivano a casa sua tra il padre, importante esponente del mondo politico elvetico, e i suoi ospiti. Così, quando arriva a comporre Großvater und Halbbruder, Hürlimann domina la materia politica essendo presumibilmente cresciuto con gli interrogativi che espone, ma non presenta, come accennato da Hans-Rüdiger Schwab103, una ricostruzione documentaristica, che poteva essere realizzata da qualcuno che aveva vissuto in prima persona il periodo e gli eventi

 102 Per maggiori informazioni si veda EMILIO R. PAPA, Storia della Svizzera. Dall’antichità ad oggi. Il mito del federalismo, Milano, Bompiani, 1993, pp. 262-275. 103 Cfr. HANS-RÜDIGER SCHWAB, Thomas Hürlimann, in « Kritisches Lexikon zur deutschsprachigen Gegenwartsliteratur », (10) 1978, p. 2.

243  del grande conflitto, bensì la prospettiva di una persona nata dopo la guerra e che modella il ‘sentito dire’. Per dare più credibilità possibile a quanto descritto nell’opera, Hürlimann l’accosta alla sua realtà, al suo mondo familiare, introducendo nei personaggi « mein Grossvater Ott », « meine Mutter Theres Ott » e « mein Vater Hans Hürlimann ».104 L’intera pièce è basata comunque sull’incertezza. Dopo le scene introduttive che servono a fornire le coordinate spazio- temporali — siamo nell’estate del 1939 a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale in uno stabilimento sulle rive di un lago gestito da nonno Ott — nella terza scena fa la sua comparsa sul palcoscenico il fuggiasco straniero Alois che, considerato il contesto in cui viene ambientata l’opera, lo spettatore è spinto a considerare uno dei tanti poveri ebrei in cerca di un rifugio in terra svizzera; lo stesso Alois però specifica subito: « Ich bin kein Jud […] Ich bin der Halbbruder vom Hitler »105 e inizia così un irritante rapporto di sottomissione del nonno da parte del presunto ebreo. Alois risulta l’emblema del dubbio e dell’incertezza da cui è permeata l’intera opera; l’appellativo stesso di questo protagonista nasconde ambiguità: Alois era infatti il nome del padre di , sembra di origine ebrea in quanto sua madre, Maria Anna Chicklgruber, aveva avuto un figlio da un ricco commerciante ebreo, Frankenberger, o forse era stata ingravidata da suo figlio ventenne; Alois tuttavia era anche il nome di un ‘fastidioso’ fratellastro del Führer che pare fosse in possesso di lettere del nonno ebreo indirizzate a un’amante, lettere che costituivano la prova di un’origine giudea della famiglia Hitler, e che tentò di vendere alla stampa per denaro e per screditare la figura dell’illustre fratellastro, ma il dittatore le fece acquistare per una somma molto ingente e le distrusse. L’Alois di Hürlimann ricopre entrambi gli aspetti: a volte è un ebreo in fuga che si nasconde per non farsi catturare dalla polizia, come nella terza scena quando trova rifugio sul tetto di una casupola dello stabilimento di nonno Ott106, altre volte un uomo dalla cattiveria indescrivibile tipica dei gerarchi nazisti come quando, nella sesta scena, tortura il nipote di nonno Ott e porta

 104 THOMAS HÜRLIMANN, Großvater und Halbbruder, in ID., Das Lied der Heimat. Alle Stücke, Frankfurt am Main, Fischer, 1998, p. 8. 105 Ivi, p. 20. 106 Cfr. Ivi, p. 21.

244  l’anziano uomo ad affermare: « jetzt habe ich den Hitler erkannt ».107 L’ambiguità di Alois porterà alla pazzia il povero nonno; nella dodicesima scena l’ebreo- fratellastro dice al vecchio: « Ich habe dir den Verstand gestohlen »108 e nell’ultima scena si capisce dalle parole di una zia di Hürlimann che il nonno è stato ricoverato a Herisau, sede di un ospedale psichiatrico noto soprattutto per aver ospitato lo scrittore svizzero Robert Walser negli ultimi 23 anni della sua vita: « für den Kleinen [Thomas Hürlimann], denk ich manchmal, wär’s fast besser gewesen, der Alte wär noch ein Jährchen oder zwei in Herisau geblieben ».109 In quest’opera s’intuiscono anche le origini ebree della famiglia Hürlimann; Alois, infatti, più volte, come nella sesta scena, quando è in compagnia del Tötschlivetter, dice di aver trovato un ebreo: « Ich hab da gerade einen Jud erwischt ».110 Il lato antisemita del fratellastro lo spinge a trattar male il povero ragazzo: « Alois stößt ihn vom Dach » si dice nella sesta scena.111 Hürlimann arricchisce il contenuto della sua opera con la scelta di canti popolar-patriottici come Heißt ein Haus zum Schweizerdegen112, canzone creata da Gottfried Keller presente già nella I scena, e una rivisitazione, in chiave ancor più negativa dell’originale, del Reiters Morgenlied di Wilhelm Hauff il cui inizio è « Morgenrot, Morgenrot, leuchtest mir zum frühen Tod? »113 che in Hürlimann diventa « Morgenrot, Morgenrot, Sterben ist der schönste Tod ».114 Porta sul palcoscenico — e successivamente anche nelle sale cinematografiche con un film di novanta minuti per la regia di Oliver Hirschbiegel e come unico protagonista Ben Becker — la storia di un reduce dei campi di concentramento anche CHARLES LEWINSKY con Ein ganz gewöhnlicher Jude (2008); il giornalista Emanuel Goldfarb riceve, tramite un’associazione ebraica di Amburgo, la lettera di uno sconosciuto, il docente di storia di un liceo, che vorrebbe spiegare gli orrori del Nazionalsocialismo attraverso il racconto diretto

 107 Ivi, p. 33. 108 Ivi, p. 54. 109 Ivi, p. 63. 110 Ivi, p. 32. 111 Ibidem. 112 L’intero testo della canzone è presente sul sito www.ingeb.org/Lieder/heisstei.html (Ultima visita: 21 luglio 2013). 113 Il testo della canzone è presente sul sito www.ingeb.org/Lieder/morgenro.html (Ultima visita: 21 luglio 2013). 114 THOMAS HÜRLIMANN, Großvater und Halbbruder, in ID., Das Lied, op.cit., p. 52.

245  di un sopravvissuto: « Sehr geehrte Damen und Herren. Mit meiner achten Klasse werde ich im Sozialkundeunterricht im nächsten Trimester das Thema Judentum behandeln. Ich habe die Erfahrung gemacht… ».115 La scelta è ricaduta su Goldfarb poiché si ritiene che nessuno meglio di un giornalista possa saper narrare e suscitare l’interesse dei giovani; ma il reporter in questione non vuole assolutamente raccontare la sua storia, gli eventi che ha vissuto, poiché certo dell’impossibilità di riprodurre un quadro vicino alla realtà, non vuole sentirsi come dietro a una vetrina con una sorta di etichetta “ebreo” stampata addosso e, dunque, si dice contrario a iniziative come quella a cui è stato invitato: « so sieht er also aus, der Jude. Der Israelit. Der Hebräer. Schaut gut ihn, liebe Kinder, und wenn ihr alle typischen Merkmale erkannt habt, dann schreiben wir einen Aufsatz darüber. Aber nicht vergessen, es müssen die Worte “Toleranz” und “Versöhnung” darin vorkommen. Nicht vergessen! Toleranz und Versöhnung. Sonst kriegt ihr eine schlechte Note ».116 La lettera scritta al computer nelle mani del giornalista è il pretesto per dar vita a un suo lungo monologo, o meglio a un suo immaginario dialogo con il Professor Gebhardt, firmatario della missiva: Sehen Sie, Herr Gebhardt, es funktioniert nicht. Sie wollen von mir wissen, was das ist, ein Jude heute in Deutschland, und ich erzähle Ihnen immer von damals. Das ist unser Problem: zu viel Vergangenheit. Man schleppt so viel Vergangenheit mit sich rum, dass man mit dem Wegräumen gar nicht nachkommt. Geschichte, die jüdische Krankheit.117

L’insegnante funge da rappresentante del pensiero di gran parte della popolazione tedesca benestante e benpensante, di quella categoria di persone che vuole ripulire pubblicamente l’anima di un popolo che in passato si è macchiato di terribili crimini; per il giornalista il dialogo a distanza è anche l’occasione per far rivivere i ricordi della sua infanzia, quelli legati ai suoi genitori, per osservare fotografie del passato ed emozionarsi, e per far spazio a riflessioni sulla sua religione come quelle in merito all’importanza dello stato d’Israele, a quello che per lui e tutti gli ebrei rappresenta quel paese dai confini non ancora delineati con esattezza:

 115 CHARLES LEWINSKY, Ein ganz gewöhnlicher Jude, Berlin, Rotbuch, 2008, p. 10. 116 Ivi, p. 14. 117 Ivi, p. 40.

246  Als ich ein Junge war, da war die Sache noch einfach für mich. Da war Israel das gelobte Land, und es gab kaum jemanden, der in das Lob nicht mit einstimmte. Unser Kartenspiel hatte seinen Joker bekommen. Bube, Dame, König, Ass. Theresienstadt, Auschwitz, Caracas. Und jetzt plötzlich: Israel. Ein Land, wo man einfach hinfahren konnte, jederzeit, und wenn man am Flughafen ankam oder am Hafen, dann stand da schon einer und wartete, drückte einem einen Pass in die Hand und sagte: « Jetzt bist du zu Hause ».118

Il finale dell’opera, incentrata interamente sulle buone motivazioni dietro il rifiuto di comparire in una scuola per rispondere alle domande di un gruppo di adolescenti più o meno curiosi e interessati, risulta affrettato e, per certi versi, deludente; nell’ultima scena viene mostrato, infatti, Emanuel Goldfarb che, contravvenendo a tutti i suoi ‘buoni’ propositi, si reca in aula insieme al professor Gebhardt: « Ruhe bitte! Ruhe! Setzt euch! Ich freue mich sehr, euch unseren Gast vorzustellen: Herr Emanuel Goldfarb ».119 Le storie dei sopravvissuti dell’Olocausto, specie le autobiografie, sono, dal punto di vista editoriale, garanzia di successo, potendo contare sul sentimento di pietas dei lettori; sarà questo dato di fatto, unito al desiderio di celebrità, ad aver spinto un certo Bruno Dössekker, nato Grosjean, a crearsi un’identità fittizia, quella di BINJAMIN WILKOMIRSKI e a dare alle stampe nel 1996 i suoi — altrettanto falsi — Bruchstücke: aus einer Kindheit 1939-1948, il racconto, tradotto in numerose lingue, di un’infanzia trascorsa tra il lager, l’orfanotrofio e l’adozione da parte di una famiglia svizzera, frammenti di vita offerti in maniera confusa, senza un preciso ordine cronologico, come se si trattasse di una grande, immane sofferenza, di un uomo qualunque che dichiara, sin dall’incipit, di non essere uno scrittore di professione (« Ich bin kein Dichter, kein Schriftsteller. Ich kann nur versuchen, mit Worten das Erlebte, das Gesehene so exakt wie möglich abzuzeichnen — so genau, wie es eben mein Kindergedächtnis aufbewahrt hat »120). La costante in quest’opera è la sensazione di sradicamento e spaesamento assoluto; per il resto si punta molto — in un narrazione priva di una costruzione e di una scorrevolezza convincenti che, se il libro non fosse stato presentato come un insieme delle memorie di un’infanzia vissuta in un campo di concentramento,  118 Ivi, p. 86. 119 Ivi, p. 97. 120 BINJAMIN WILKOMIRSKI, Bruchstücke. Aus einer Kindheit 1939-1948, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1995, p. 8.

247  non avrebbe, con tutta probabilità, riscontrato il successo a cui, invece, è andato incontro — sulla descrizione ad effetto di situazioni drammatiche avvenute nel lager, come quella in cui viene ricordato l’arrivo ad Auschwitz: Eine Wärterin, eine Blockowa vielleicht, erblickte mich, brüllte, auf mich nieder und zeigte auf die frisch ausgespritzten und gesäuberten Bodenplanken. Eine andere stand daneben und grinste. Ich blickte hinter mich. Eine Blutspur zeigte den Weg, den ich gekommen war. Sie warf mir einen riesigen, schweren Lappen zu. Sie befahl, den Boden zu reinigen. Ich bückte mich und versuchte, das Blut aufzuwischen. Immer wieder von neuem. Es schien kein Ende zu nehmen. Wenn ich mich bückte und wischte, tropfte es erneut von meiner Stirn, und ich wischte wieder und wieder und ich dachte: So wird es ewig weitergehen — bis ich leergetropft bin —, und dann werde ich tot sein! Ich weiß nicht mehr, wie es wirklich endete.121

Wilkomirski diventa una vera star, partecipa a dibattiti televisivi, viene intervistato da tutti gli organi di informazione più prestigiosi, è paragonato a Elie Wiesel, e Anne Frank, vince numerosi premi ma lascia anche sempre più aspetti poco chiari nei suoi frammenti di ricordi; aggiunge, tra l’altro, di essere stato vittima di esperimenti medici nei campi di concentramento. Le sue storie diventano sempre meno convincenti, l’opinione pubblica si insospettisce e nell’agosto del 1998 un giornalista e scrittore svizzero, DANIEL GANZFRIED, sostiene che Wilkomirski « kennt Auschwitz und Majdanek nur als Tourist »122, e fornisce una ricostruzione dettagliata della reale identità dell’autore dei Bruchstücke. Nell’aprile del 1999, considerando le accuse sempre più insistenti rivolte al best-seller, la Jüdischer Verlag, la casa editrice che lo ha dato alle stampe, chiede allo storico STEFAN MAECHLER di indagare in merito; quest’ultimo conclude che le ricostruzioni di Ganzfried, diventate con il tempo sempre più dettagliate e incluse nel volume Alias Wilkomirski. Die Holocaust-Travestie. Enthüllung und Dokumentation eines literarischen Skandals, corrispondono alla verità dei fatti: « Fünf Jahre lang — vom Frühjahr 1995 bis zum Herbst 1999 — dauerte das Falschspiel “Wilkomirski” ».123 Poco conta a questo punto se Bruno Dössekker-Binjamin Wilkomirski creda davvero di essere stato Binjamin (« auch ich habe noch als Kind eine neue  121 Ivi, p. 20. 122 DANIEL GANZFRIED, Alias Wilkomirski. Die Holocaust-Travestie. Enthüllung und Dokumentation eines literarischen Skandals, Berlin, Jüdische Verlagsanstalt, 2002, p. 118. 123 Ivi, p. 7.

248  Identität erhalten, einen anderen Namen, ein anderes Geburtsdatum, einen anderen Geburtsort »124) o se l’inganno sia stato intenzionale; è più probabile, comunque, che l’improvvisato scrittore abbia inventato di sana pianta la sua permanenza nei lager nazisti e alternato, quindi, la narrazione di fantasia agli eventi che hanno caratterizzato, probabilmente, la sua infanzia. Realistici appaiono, infatti, gli episodi legati all’adozione da parte di una famiglia svizzera, in particolar modo le difficoltà relative all’integrazione nel nuovo paese e ai primi giorni di scuola: “Schweizer Heldensagen?” fragt sie nochmals und zeigt auf mich. Ich stehe auf, alle blicken zu mir. Was soll ich nur sagen? Was will sie von mir? Ich beginne zu schwitzen. “Ich… ich weiß doch nicht, was diese Helden sagen, … diese schweizerischen …” Die Mädchen in den hinteren Bänken kichern, einige Knaben rufen “buhh”. Die Lehrerin schaut mich resigniert an, so wie sie mich immer anschaut, wenn sie meine Antworten nicht versteht, und dann entrollt sie ein großes, buntes Wandbild. “Was ist hier zu sehen?” fragt sie wieder. “Der Tell! Wilhelm Tell! Der Schuß!” tönt es von den Bänken. “Nun? Was siehst du? Beschreibe das Bild”, sagt die Lehrerin, noch immer zu mir gewandt. Ich blickte entsetzt auf das Bild, auf diesen Mann, der offenbar Tell heißt, der offenbar ein Held ist, der eine merkwürdige Waffe hält und zielt. Er zielt auf ein Kind, und das Kind steht ahnungslos da! Ich wende mich ab. Was hat das mit der Schule zu tun?, frage ich mich, warum zeigt sie mir dieses schreckliche Bild? In diesem Land, wo doch alle sagen, ich müßte es vergessen, es hätte dies nie gegeben, ich hätte nur geträumt. Aber scheinbar wissen sie es doch! “Das Bild sollst du anschauen! Was siehst du?” sagt sie ungeduldig, und ich zwinge nochmals meine Augen, auf das Bild zu blicken”.125

La Svizzera, abbiamo sottolineato in precedenza, pur non essendo scesa attivamente sul campo di battaglia del conflitto mondiale, ha le sue colpe e ha fatto le sue vittime, specialmente tra la popolazione di religione ebraica: due esempi di personalità danneggiate dall’atteggiamento filo-nazista di parte dei confederati sono rappresentati dai protagonisti di Die Rückkehr (2003) di STEFAN

KELLER e di Un juif pour l’exemple (2009) di JACQUES CHESSEX. Il libro dell’autore germanofono narra la storia di Joseph Spring, uno dei tanti ebrei respinti alla frontiera elvetica, che fu consegnato, all’età di sedici anni, nel 1943, ai nazisti e deportato direttamente dalle frontiere svizzere ad Auschwitz. Spring sarà uno dei superstiti dell’Olocausto e, quasi novantenne, deciderà di denunciare il governo elvetico con l’intento di ottenere giustizia per quanto subito nell’infanzia, non tanto per avere un risarcimento in denaro ma per una rivincita  124 BINJAMIN WILKOMIRSKI, cit., p. 143. 125 Ivi, p. 120.

249  morale e poter sottolineare, con il suo caso, le contraddizioni dello spirito neutrale svizzero che altro non era, secondo lui, che perfettamente funzionale agli interessi di Hitler e i suoi alleati. Nel 2000 il giudice Karl Harttmann darà torto al reduce di guerra stabilendo che la Svizzera, durante il conflitto, non ha preso una posizione palese e non può, di conseguenza, aver favorito l’una o l’altra fazione in guerra e commesso crimini: la consegna in mani naziste era legale, dice il giudice. Non esisteva il diritto d’asilo in Svizzera, secondo lui. Il divieto di rispedire i rifugiati nelle braccia dei loro persecutori non ledeva un diritto fondamentale dell’uomo a cui i singoli fuggiaschi avrebbero potuto appellarsi […] Le accuse si dimostrano quindi infondate e al querelante non spetta alcun risarcimento […] Non esiste nessuna colpa.126

La vittima delle simpatie filonaziste elvetiche nel periodo del regime hitleriano su cui si concentrano le attenzioni di Jacques Chessex in Un juif pour l’exemple è Arthur Bloch, mercante di bestiame, uomo pio e buon padre di famiglia. I fatti narrati nel libro dell’autore francofono si svolgono a Payerne, sua città natale e capitale svizzera dei salumi, nel 1942. All’epoca Chessex aveva otto anni, suo padre era il direttore della scuola locale: « En 1942, il y a plusieurs familles juives à Payerne, dont les Bladt, les Gunzburger, marchands de tissus et de vêtements de travail, et les Fernand Bloch, qui ont accueilli chez eux leurs parents alsaciens ».127 Ma in quegli anni a Payerne numerosi erano anche i simpatizzanti del Nazismo, quelli che amavano la « beauté des corps aryens, étendards, nudité, blondeur, fanfares de trompes gothiques, regards bleus fixés haut dans le regard extatique du Chef ».128 Questi fanatici hitleriani fecero una vittima, Arthur Bloch, commerciante in bestiame recatosi a Payerne per acquistare delle mucche. L’uomo, ottimo professionista, rispettato e benvoluto da tutti — come Chessex mira a sottolineare nel sesto capitolo della sua opera, interamente dedicato alla biografia della vittima — ha l’unica ‘pecca’ di essere nato ebreo; è l’appartenenza a una comunità che lo condanna: « On va nettoyer. Épurer. Ainsi hâter la solution définitive. Sieg heil!

 126 STEFAN KELLER, Dalla Svizzera ad Auschwitz. La storia di Josef Spring, Locarno, Armando Dadò Editore, 2010, pp. 230-231. 127 JACQUES CHESSEX, Un juif pour l’exemple, Paris, Grasset, 2009, p. 35. 128 Ivi, p. 35.

250  ».129 Jacques Chessex descrive con crudezza i dettagli relativi all’uccisione di Bloch, l’orrore della decapitazione del cadavere ridotto a una carcassa da macello, i resti ammassati in fretta in bidoni di latta e gettati nelle acque di un lago vicino, gli effetti personali nascosti in una grotta e che, una volta scoperti, finiscono per tradire i colpevoli del grave crimine che verranno smascherati, giudicati e condannati. Ventidue anni più tardi il narratore rincontrerà uno dei responsabili dell’efferato omicidio e scoprirà che non prova alcun rimorso. Il libro dello scrittore francofono mette in luce la mancanza di valori e l’insulsaggine dei responsabili di questo crimine, oltre alla loro incoerenza intellettuale: non si può, effettivamente, compiere un tale misfatto pour l’exemple, far poi sparire il corpo, con l’intento di non farlo più riemergere e lasciare, dunque, che il gesto resti ignoto. Questa mancanza di logica fa sì che il crimine appaia ancora più gratuito e costituisce un’aggravante che rende più amara la vicenda agli occhi dei lettori. Un altro aspetto che può alimentare lo stupore del pubblico di questo romanzo di Chessex è, senza dubbio, la fiducia che mostra Bloch nei confronti dei suoi aguzzini, nonostante facce e reputazione fossero poco rassicuranti, quando questi lo attirano per tendergli l’agguato mortale; con questo atteggiamento attribuito al protagonista lo scrittore punta a sottolineare l’eccesso di fiducia verso il prossimo che caratterizza gran parte degli ebrei europei durante la seconda guerra mondiale che li ha spesso portati, tra l’altro, a rifiutare di lasciare il loro paese, ignari di quella che poi sarebbe stata la sorte loro riservata. Un juif pour l’exemple riporta al cospetto dell’opinione pubblica un vecchio delitto che in molti avrebbero preferito dimenticare; a dimostrazione di ciò, il quotidiano 24 Heures ha dato spazio alla rabbia di Michel Vauthey, archivista comunale di Payerne, che attacca Chessex e si domanda a cosa serva tornare su « une histoire vieille de septante ans »; secondo lui il romanzo umilia « les descendants des victimes, cités abondamment, qui une fois encore voient surgir ce drame dont ils ne sont pas responsables ».130

 129 Ivi, p. 36. 130 Cfr. sito internet: http://www.swissinfo.ch/fre/index/Jacques_Chessex (Ultima visita: 21 febbraio 2011).

251  3.4 ISLAM E SVIZZERA

La facciata perbenista imposta dallo status di neutralità della Svizzera in relazione al comportamento tenuto con i fedeli della religione ebraica durante il secondo conflitto mondiale è stata, in larga misura, scalfita dal Rapporto finale della Commissione Indipendente d’Esperti Svizzera-Seconda Guerra Mondiale. Quella che non è stata intaccata, però, è l’opinione pubblica nei confronti del piccolo stato dell’Europa centrale: i misfatti sono emersi soltanto in tempi recenti, quando l’eco dei bombardamenti della guerra mondiale era ormai lontana, e la Confederazione ha potuto, quindi, continuare a godere dell’effetto di tutti i suoi luoghi comuni. La Svizzera, agli occhi di molti, è ancora un paese idilliaco dal paesaggio arcadico, dove tutti vivono in serenità e nel rispetto reciproco della propria religione, delle credenze personali o dell’orientamento sessuale, seguendo alla lettera l’articolo 8 della Costituzione Federale che sanziona ogni forma discriminatoria basata su stili di vita non condivisi. Ma da questi primi capitoli è emerso chiaramente che la Svizzera è un paese ricco di contraddizioni e che, spesso, quello che è messo su carta, nelle leggi federali o costituzionali, non corrisponde alla realtà dei fatti. Ambiguo appare, quindi, anche l’atteggiamento dei Confederati nei confronti dei seguaci della religione islamica, aumentati costantemente negli ultimi trent’anni fino ad arrivare a essere la più numerosa compagine religiosa non cristiana; se nel 1970, infatti, si registravano in Svizzera 16.300 musulmani, il censimento federale del 2000 dimostra che vivono sul territorio elvetico circa 311.000 musulmani, per lo più immigrati provenienti dall’ex-Jugoslavia — kosovari e bosniaci soprattutto —, dalla Turchia, dal Maghreb e dall’Asia e un rapporto di una organizzazione per le donne musulmane mostra come circa 30000 donne in Svizzera si siano covertite all’Islam. Appare ovvio che con una tale maggiorazione di aderenti alla religione islamica in Svizzera aumenti anche la necessità di una partecipazione attiva nella società e di un incremento di luoghi nei quali poter praticare i propri culti. La costruzione di minareti è stata così, ad esempio, oggetto di controversie politiche e legali nella Confederazione a partire dal 2000. Nei tradizionali luoghi di preghiera

252  dell’Islam, infatti, il muezzin chiama a raccolta i fedeli, cinque volte al giorno, dall’alto di un manār. Il timore di un’eccessiva islamizzazione della Svizzera ha fatto unire alcuni cittadini e politici locali per chiedere una legge che vietasse la costruzione di minareti. Nel tempo, come è immaginabile, la vicenda ha dato vita a una vera e propria islamofobia all’interno del territorio elvetico che ha oltrepassato di gran lunga l’antisemitismo del periodo nazista ed è stata oggetto di aspre diatribe politiche. La vicenda dei minareti è l’ennesimo elemento che ci porta a ritenere che la Confederazione non sia esattamente il paese del dialogo, del confronto civile, della pacifica convivenza tra diverse etnie e religioni come spesso si crede o si desidera far credere. Può avere del paradossale però che il bando ai manār sia stato promosso per primo nel Vecchio Continente proprio nel paese che ha dato i natali a uno degli intellettuali più controversi e criticati dell’Islam europeo, quel TARIQ RAMADAN —nipote di Hasan al-Banna, creatore in Egitto dell’associazione fondamentalista dei Fratelli Musulmani — autore di circa trenta libri e innumerevoli articoli, collaboratore dal 2008 del quotidiano italiano Il Riformista, teorico dell’islamismo, ovvero dell’insieme delle dottrine e pratiche politiche volte alla creazione di uno stato che rintracci nella religione islamica le regole fondamentali per disciplinare l’economia, la società, la realtà politica e, ovviamente, la vita religiosa. Le teorie che Ramadan presenta nei suoi scritti a carattere saggistico partono da un Occidente allo sbando, in preda a un vuoto dovuto alla decadenza delle principali religioni storicamente più diffuse in Europa, l’ebraismo e il cristianesimo, e in cui si può, dunque, insediare l’Islam, non più costretto a subire i danni della modernità, ma pronto a ‘islamizzare’ il progresso, a sfruttare le innovazioni del tempo senza rinunciare ai precetti musulmani: « essere musulmano significa agire conformemente agli insegnamenti dell’islam, ovunque si viva, e non c’è niente nell’islam che ordini a un musulmano di tenersi lontano dalla società per essere più vicino a Dio ».1 Più avanti il ginevrino spiega meglio la sua idea sullo stile di vita che un musulmano dovrebbe adottare in Occidente:

 1 TARIQ RAMADAN, L’Islam in Occidente, Milano, Rizzoli, 2006, p. 115.

253  Adattarsi, da un punto di vista islamico e per quanto concerne le nuove generazioni, non significa fare concessioni sull’essenziale, ma piuttosto costruire, elaborare, ricercare la fedeltà tenendo conto dell’evoluzione. In tal senso, i musulmani dovrebbero avvalersi dei metodi più efficaci e delle scoperte scientifiche e tecnologiche (che di per sé […] non sono in contraddizione con gli insegnamenti dell’islam) per confrontarsi con l’ambiente in cui vivono, armati di strumenti appropriati.2

Ramadan, almeno in apparenza, si prodiga per il superamento delle barriere ideologiche che dividono le varie religioni e culture e invita tutti i cittadini europei, musulmani e non, a provare a sperimentare un percorso comune di rispetto reciproco dei propri usi e costumi e dei precetti stabiliti dal proprio credo; in virtù di questo, invita i fratelli musulmani in Europa a sentirsi, a tutti gli effetti, parte integrante della società, prendendo parte alla vita politica e sociale. Da questi che appaiono, almeno a giudicare dalle parole moderate spese sul suo sito internet oltre che nei suoi libri, i principi alla base del suo pensiero, l’intellettuale ginevrino sembrerebbe davvero una figura di musulmano particolarmente moderata, elemento di incontro utile per creare un dialogo tra il mondo dell’Islam e la vecchia Europa; per rendere un quadro il più possibile completo della personalità di Ramadan, va però aggiunto che l’accademico di lingua francese è considerato, dai suoi numerosi detrattori — fra cui il ventitreesimo Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy — un maestro della taqiyya — alla lettera “doppio linguaggio” —, ossia l’arte della dissimulazione tipica dei Fratelli Musulmani, organizzazione creata nel 1928 dal nonno di Ramadan, Hasan al-Banna, quell’abilità di parlare in un modo rivolgendosi a un pubblico non musulmano e in un altro quando ci si trova al cospetto di persone di fede islamica; questo sostiene, ad esempio, Caroline Fourest nel libro Frère Tariq del 2004, dopo aver analizzato quindici testi dello scrittore francofono, varie interviste e registrazioni audio. Anche Magdi Allam, il giornalista di origini egiziane convertito al cattolicesimo, cerca di rivelare all’opinione pubblica il vero volto dello svizzero; in un articolo apparso nel 2007 sul Corriere della Sera l’autore di Viva Israele definisce, senza troppi giri di parole, l’intellettuale elvetico e la marocchina Nadia Yassine, fondatrice del movimento integralista Al Adl Wa Al Ihssane (Giustizia e  2 Ivi, p. 119.

254  carità), « esponenti di punta della rete internazionale dei Fratelli Musulmani! Estremisti che esaltano Hamas, Hezbollah e la “resistenza” irachena, negano il diritto all’esistenza di Israele e predicano il califfato islamico ».3 Sembra testimoniare l’ambiguità di questo personaggio anche quanto riferito da Farian Sabahi, docente di Storia dei paesi islamici e Culture politiche dell’Islam presso l’Università degli Studi di Torino, secondo la quale Ramadan si sarebbe rifiutato di farsi intervistare da lei perché appartenente alla sua stessa cultura, quella musulmana europea, e in possesso, dunque, degli strumenti per ribattergli senza farsi abbindolare. Ma l’accusa più grande dalla quale l’intellettuale elvetico ha dovuto — e deve ancora — difendersi, è quella di antisemitismo, conseguente, in particolar modo, alla pubblicazione di un articolo intitolato Critique des (nouveaux) intellectuels communautaires, apparso il 3 ottobre 2003 sul sito oumma.com, dopo che i quotidiani francesi Le Monde e Le Figaro lo avevano rifiutato, in cui l’accademico di lingua francese critica personalità di fede ebraica come Alexandre Adler, Bernard-Henri Lévy, André Glucksmann, sostenendo che leur positionnement politique répond à des logiques communautaires, en tant que juifs, ou nationalistes, en tant que défenseurs d’Israël. Disparus les principes universels, le repli identitaire est patent et biaise le débat puisque tous ceux qui osent dénoncer cette attitude sont traités d’antisémites. C’est pourtant sur ce terrain que doit s’engager le dialogue si l’on veut éviter le choc des communautarismes pervers.4

Nello stesso articolo Ramadan apostrofa, con tono dispregiativo, Paul Wolfowitz, politico dell’amministrazione Bush, come « sioniste notoire ».5 Tutti gli interessati rispondono alle accuse con un coro unanime: lo svizzero viene tacciato di antisemitismo e di utilizzare un linguaggio sempre volto a infiammare gli animi. L’intellettuale si difende sostenendo che chi lancia tali accuse non è stato in grado di interpretare i suoi scritti o ha poca confidenza con essi e critica per il solo gusto di criticare.6 Dopo i fatti dell’11 settembre 2001 e l’islamofobia dilagante, la situazione si fa ancora più difficile per Tariq Ramadan, da sempre accusato di avere contatti

 3 MAGDI ALLAM, “Se i musulmani democratici sono estremisti”, La Repubblica, 7 febbraio 2007. 4 Cfr. sito internet http://oumma.com/Critique-des-nouveaux (Ultima visita: 21 luglio 2013). 5 Ibidem. 6 Ibidem.

255  con terroristi e fondamentalisti islamici, specialmente dopo le sue dichiarazioni su Osama Bin Laden in linea, secondo alcuni, con le posizioni degli attivisti musulmani; per il nipote di Hasan al-Banna mancherebbe qualsiasi prova certa della colpevolezza del militante islamista sunnita. Tali dichiarazioni non hanno fatto altro che alimentare le tensioni con gli Stati Uniti al punto che, in poco tempo, nel 2004, Ramadan finisce vittima del Patriot Act dell’amministrazione Bush — l’insieme di norme che, tra l’altro, vieta agli stranieri, con una posizione influente in un qualsiasi paese, di appoggiare attività di carattere terroristico — poiché accusato di aver elargito, tra il 1998 e il 2002, circa 1.300 dollari a una fondazione svizzera collegata all’organizzazione palestinese di ispirazione islamica Hamas e non può più, quindi, metter piede in territorio americano, dove era stato chiamato a insegnare alla University Notre Dame nell’Indiana. L’intellettuale ginevrino, in sua difesa, sostiene di non essere a conoscenza dei legami tra l’organismo finanziato e il gruppo militante palestinese e di essere stato messo al bando soltanto perché reo di aver criticato la politica di Washington; Ramadan decide, dunque, con l’aiuto dell’American Civil Liberties Union e dell’organizzazione degli scrittori P.E.N., di portare il suo caso nei tribunali americani. L’opinione pubblica è divisa sul caso Ramadan: c’è chi vede nel ginevrino una vittima dell’intolleranza americana dopo la strage del World Trade Center, per altri, tra cui lo storico Paul Berman, un terribile fondamentalista che vuole apparire persona mite aperta al dialogo. Nel gennaio 2010 il segretario di Stato Hillary Clinton, senza attendere la sentenza dei giudici sul caso Ramadan, firma un’ordinanza per la revoca del bando. Il rientro negli States è, come prevedibile tutt’altro che semplice: appena giunto sul suolo americano, il ginevrino è stato interrogato per due ore a porte chiuse da alcuni funzionari dell’immigrazione che gli hanno chiesto preventivamente gli argomenti che sarebbe andato a toccare negli incontri pubblici e le persone che avrebbe voluto incontrare e il motivo delle loro riunioni. Il primo meeting pubblico si è svolto, come previsto, alla Cooper Union di New York, moderato dal giornalista Jacob Weisberg, alla presenza dello scaltro reporter del New Yorker George Packer, e Ramadan è incappato subito in una

256  situazione scomoda: il cronista del periodico statunitense ha ricordato al pubblico, in maniera piuttosto dettagliata, corredando di citazioni il suo discorso, l’adesione al Nazismo del nonno di Ramadan, Hassan al-Banna, e ha chiesto all’intellettuale elvetico di commentarle; l’autore di Peut-on vivre avec l’Islam? ha risposto affermando di rispettare molto suo nonno e che, comunque, le sue idee devono essere lette in un quadro di resistenza contro i colonizzatori europei. Negli ultimi anni Ramadan abbina a un atteggiamento (falsamente?) moderato una patina di vittimismo che lo fa sembrare, agli occhi degli interlocutori più sprovveduti, ancora più mite; così si esprime, ad esempio, in merito alla diatriba sui minareti con un tono tra il malinconico e il rassegnato: « non doveva andare così. Per mesi ci hanno detto che gli sforzi per vietare la costruzione dei minareti in Svizzera erano destinati a fallire. Dagli ultimi sondaggi sembrava che non più del 34% della popolazione svizzera avrebbe votato a favore di questa scioccante iniziativa ».7 L’analisi prosegue in modo molto scrupoloso; Ramadan sostiene che, dietro al bando sui minareti, in verità si cela una reazione alla nuova visibilità dei musulmani europei: « il mio paese, come molti altri in Europa, sta registrando una reazione nazionale contro la nuova visibilità dei musulmani europei. I minareti sono solo un pretesto - l’UDC voleva inizialmente lanciare un’iniziativa contro i metodi islamici tradizionali di macellazione degli animali, ma temeva di urtare la sensibilità degli ebrei svizzeri, e aveva quindi deciso di prendere come obiettivo alternativo i minareti, considerandoli un simbolo adeguato.8

Secondo il docente di Studi Islamici della Oxford University, la campagna contro i minareti è stata alimentata proprio da queste ansie e accuse nei confronti del mondo dell’Islam. Gli elettori sono stati convinti a votare contro i manār grazie alla manipolazione di una gran parte degli uomini politici elvetici delle paure e delle emozioni popolari. Accuse pesanti che fanno di Tariq Ramadan un personaggio estremamente scomodo per una realtà ristretta come quella svizzera. E imbarazzante nella Confederazione, dove tutto deve apparire moderato e vicino ai principi storici alla base di ogni forma di governo democratico, può essere anche affermare di ammirare l’intellettuale ginevrino; un polverone ha

 7 Cfr. sito internet http://www.infoaut.org/articolo/tariq-ramadan-il-voto-dei-miei-compatrioti- contro-i-minareti-e-alimentato-dalla-paura/print/ (Ultima visita: 21 febbraio 2011). 8 Ibidem.

257  suscitato, come racconta dal suo sito internet lo stesso Ramadan, l’attestato di stima verso l’islamico elvetico di Nassim ben Khalifa, giovane calciatore della nazionale svizzera, campione del mondo categoria under 17 nel 2009. I giornali hanno preso le affermazioni come testimonianza della mancata — e forse impossibile — integrazione dei musulmani in Europa e addirittura la progressista Association suisse pour un islam progressiste interviene e prende posizione cercando di giustificare il calciatore affermando che, a causa della giovane età, non è in grado di riconoscere le sfumature dei concetti di questo uomo di cultura musulmano definito addirittura dangereux. È lecito chiedersi, considerando il vespaio, a volte eccessivo, che si innalza a ogni dichiarazione dell’intellettuale islamico, prendendo in prestito il titolo di un volume di Nina zu Fürstenberg del 2007, Chi ha paura di Tariq Ramadan? La risposta appare piuttosto semplice: hanno paura i potenti uomini politici europei, primo fra tutti Sarkozy, preoccupato per il grande fascino che il nipote di Hasan al-Banna esercita su musulmani e no-global francesi, l’America, che vede in lui un pericoloso riferimento in Occidente per le cellule terroristiche islamiche, la lobby ebraica che non si fida della sua apparente apertura al dialogo. Ma finché le armi dello svizzero sono soltanto un insieme di parole taglienti, nessuno, forse, dovrebbe aver paura.

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  CAPITOLO QUARTO

IL LEGAME CON LA TRADIZIONE 

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CAPITOLO QUARTO

IL LEGAME CON LA TRADIZIONE

FORMA:

4.1 IL LEGAME CON LA TRADIZIONE LETTERARIA: IL ROMANZO DI

FORMAZIONE

La narrativa svizzera del secondo Novecento è caratterizzata da residui di letteratura europea dell’Ottocento; affermando ciò non si vuole attribuire una connotazione negativa alla letteratura elvetica, sminuirne il valore o tacciarla di essere mera imitazione dei grandi autori delle principali espressioni letterarie del XIX secolo ma si vuole piuttosto evidenziare, come accennato già nel primo capitolo del presente lavoro, che nella Confederazione tutto accade con grande ritardo, i movimenti letterari giungono nel paese degli orologi almeno mezzo secolo dopo, quasi come se le alte montagne che circondano il paese non fossero soltanto barriere fisiche ma anche ostacoli ideologici. In Svizzera il tempo e la letteratura sembrano essersi fermati: se il romanzo di formazione è un genere in voga soprattutto nell’Ottocento, nel Novecento conosce un periodo di crisi, con l’ingresso prepotente nella narrativa della psicoanalisi, la quale permette una nuova modalità di narrazione che consiste nell’entrare nella mente dei personaggi e raccontare dal di dentro gli eventi.1 Il romanzo di formazione è il genere che più di ogni altro risente della forte influenza della psicoanalisi sulla letteratura; se l’analisi della mente, infatti, ha come punto di forza lo scomponimento, per l’appunto, della psiche in tutti i suoi costituenti opposti, il Bildungsroman ha, da sempre, il compito — o mette in atto, quanto meno, il tentativo — di amalgamare, o comunque di far convivere, gli

 1 Cfr. STEFANO FERRARI, Scrittura come riparazione: saggio su letteratura e psicoanalisi, Bari, Laterza, 1994, pp. 12-49.

263  aspetti in contraddizione della personalità di un individuo; in altre parole, quelle più esaustive e precise di Moretti: « la vocazione della psicoanalisi consiste nel guardare oltre l’Io, mentre il romanzo di formazione ambisce a costruirlo e a porlo come centro indiscusso e invalicabile della propria struttura ».2 In tale prospettiva, l’ingresso della psicoanalisi porta all’affermazione di un altro particolare genere narrativo, il romanzo psicologico, che penetra nella mente di un personaggio e ne racconta l’agire dal suo interno. È naturale che, focalizzando l’attenzione sui meccanismi interiori della psiche, l’autore storico finisca per presentare personaggi sofferenti e inquieti in cerca di un’identità precisa; dal punto di vista strutturale ne consegue la dissoluzione della tradizionale trama romanzesca; non seguendo un ordine logico ma rispondendo esclusivamente alla soggettività del protagonista, viene meno la consueta successione di eventi, si afferma il monologo interiore che unisce idee e riflessioni, conta l’introspezione e l’analisi minuziosa e casuale degli stati d’animo e dei profondi conflitti interiori. La letteratura europea del Novecento sposta, quindi, la sua attenzione e le sue riflessioni da una rappresentazione oggettiva di una particolare fase dell’esistenza — nei Bildungsroman il passaggio dall’adolescenza all’età adulta — verso una prospettiva soggettiva incentrata sulla mente del personaggio e completamente distaccata dalla realtà circostante. Nel XX secolo c’è stato, comunque, chi ha tentato di attenersi allo schema canonico del romanzo di formazione; chi sembra esser riuscito meglio di altri nell’impresa è lo scrittore originario del Baden-Württemberg, ma svizzero di adozione, HERMANN HESSE con Das Glasperlenspiel (1943), opera che, più di ogni altra, per struttura e caratteristiche dell’eroe meglio si ricollega al prototipo del Bildungsroman, Wilhelm Meisters Lehrjahre (1795-1796) — il quale segue il percorso di formazione del protagonista che comporta numerosi sacrifici — o, restando in territorio elvetico, a Der grüne Heinrich (1854-1855) di GOTTFRIED

KELLER, che narra le gesta di Heinrich Lee, detto « il Verde » per il colore della sua giacca e che, dopo essere stato espulso dalla scuola che frequentava, e dopo aver tentato di seguire le sue inclinazioni artistiche, resosi conto delle sue velleità, si dedica, con successo, ad attività amministrative dello stato.

 2 Cfr. FRANCO MORETTI, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, p. 12.

264  Das Glasperlenspiel, che contribuì all’attribuzione nel 1946 del Premio Nobel per la Letteratura allo scrittore germanofono, è l’ultimo romanzo di Hermann Hesse, iniziato nel 1931 e portato a compimento nel 1943, noto anche come Magister Ludi, dal nome di uno dei personaggi, appellativo che rende subito evidente l’intento pedagogico, tipico del romanzo di formazione, presente anche in quest’opera: ludus ha, infatti, in latino il doppio significato di “gioco” e di “scuola”. La biografia fittizia che ci offre l’autore di Calw è quella di Josef Knecht, di cui i lettori possono seguire l’educazione, la carriera e l’evoluzione intellettuale, ed è ambientata nell’immaginaria regione di Castalia, in un’epoca non meglio precisata; chiaro l’intento, sin dall’incipit, dell’imponente opera di Hesse: « es ist unsere Absicht, in diesem Buch das Wenige festzuhalten, was wir an biographischem Material über Josef Knecht aufzufinden vermochten, den Ludi Magister Josephus III, wie er in den Archiven des Glasperlenspiels genannt wird ».3 Attraverso la vita del giovane protagonista, il lettore ha la possibilità di conoscere un altro modo di vivere la cultura, quello dell’ordine monastico composto da soli intellettuali che caratterizza Castalia e che presenta una commistione tra elementi della civiltà occidentale e componenti di quella orientale. L’espressione massima di questa esclusiva vita culturale è il gioco delle perle di vetro, che dà il titolo all’opera, di cui il narratore non ci fornisce mai spiegazione (« man erwarte also von uns nicht eine vollständige Geschichte und Theorie des Glasperlenspiels, auch würdigere und geschicktere Autoren als wir wären dazu heute nicht imstande »4), ma le cui regole, estremamente complesse, si possono dedurre nel corso della storia; l’intrattenimento consiste, dunque, nello stabilire nessi fra elementi molto lontani tra loro, almeno all’apparenza, appartenenti a realtà diverse — ad esempio la musica e la matematica — e sembra avere punti di contatto con un gioco cinese dalla tradizione millenaria, detto Go, una sorta di dama orientale: diese Regeln, die Zeichensprache und Grammatik des Spieles, stellen eine Art von hochentwickelter Geheimsprache dar, an welcher mehrere Wissenschaften und Künste, namentlich aber die Mathematik und die Musik  3 HERMANN HESSE, Das Glasperlenspiel, in ID., Gesammelte Werke, vol. 9, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1970, p. 8. 4 Ivi, p. 11.

265  (beziehungsweise Musikwissenschaft) teilhaben und welche die Inhalte und Ergebnisse nahezu aller Wissenschaften auszudrücken und zueinander in Beziehung zu setzen imstande ist. Das Glasperlenspiel ist also ein Spiel mit sämtlichen Inhalten und Werten unsrer Kultur.5

L’opera è divisa in tre parti, collegate tra loro da un sottile filo rosso: la prima sezione, la più ampia, è dedicata alla vita di Josef Knecht, un ragazzo ritenuto dai suoi istitutori, sin da piccolo, un allievo dalle straordinarie capacità, in grado, nella vita, di raggiungere obiettivi non di certo alla portata di tutti: « Knecht gehört zu den Glücklichen, welche recht eigentlich für Kastalien, für den Orden und für den Dienst in der Erziehungsbehörde geboren und vorbestimmt scheinen ».6 Un giorno il giovane viene sottoposto a un esame — che sembra più un gioco musicale che una terribile prova — dal Magister Musicae che non può, in quell’occasione, che limitarsi a constatare le straordinarie qualità del ragazzo, il quale viene, senza molti dubbi, indirizzato alla prestigiosa scuola di Waldzell, con la quasi certezza di ottenere, in seguito, un posto nell’Ordine di Castalia: Der Schüler Knecht nun hatte dem alten Musikmeister gefallen, sehr gut hatte er ihm gefallen, noch auf der Weiterreise dachte er vergnügt an ihn zurück; er hatte sich keinerlei Notizen und Zeugnisse über ihn ins Heft geschrieben, sondern nahm die Erinnerung an den frischen, bescheidenen Knaben mit sich und schrieb nach der Rückkehr mit eigener Hand seinem Namen in die Liste der Schüler, welche von einem Mitglied der obersten Behörde selbst geprüft und der Aufnahme würdig befunden waren.7

La scuola è un luogo utopico nel quale si lascia libera scelta agli studenti sulle materie da seguire e così, per esempio, Josef inizialmente si rifiuta di partecipare alle lezioni sul giuoco delle perle di vetro (« alle im Belieben des Schülers stehenden Lehrfächer, darunter die erste Einführung ins Glasperlenspiel, versäumte er zugunsten der Musik so sehr, daß gegen Ende des ersten Semesters der Schulvorstand ihn darüber zur Rede stellte »8), insegnamento non obbligatorio, ma di una certa rilevanza, della prestigiosa scuola, la disciplina ritenuta più nobile in assoluto in quanto la più astratta e lontana dal mondo reale. Il giovane Knecht preferisce di gran lunga dedicarsi alla musica — e al lettore più esperto, nel constatare l’amore del protagonista per quest’arte, non

 5 Ivi, p. 12. 6 Ivi, p. 45. 7 Ivi, p. 56. 8 Ivi, p. 93.

266  sfuggiranno le similitudini con l’attrazione verso il teatro del Wilhelm Meister di Goethe o la passione per la pittura di Enrico il Verde di Keller — o a confronti con il suo compagno Plinio Designori, di nobile famiglia e buone prospettive che deciderà di lasciare il mondo utopico nel quale è stato rinchiuso per rientrare nella realtà ordinaria. Il compito affidato al giovane protagonista sarà proprio quello di difendere, con scontri verbali talvolta anche piuttosto accesi, la legittimità e l’essenza della particolare regione di Castalia. Josef Knecht arricchisce la sua formazione di questi anni con lo studio della lingua cinese, del confucianesimo e della filosofia di Tchouang-tseu, nonché dell’I King, che è considerato il primo dei testi classici cinesi e i cui oracoli « mit Hilfe der traditionellen Schafgarbenstengel er meisterhaft übte ».9 L’eroe viene poi inviato dall’Ordine in missione al monastero benedettino di Mariafels, luogo in cui, comunque, riesce a portare avanti lo studio della musica e conosce Padre Jacobus, un personaggio che mette in dubbio, alla stregua di Plinio Designori, la validità della congrega di Castalia e dei suoi ideali che il giovane si troverà, dunque, di nuovo, efficacemente, a difendere: « Ihre Gespräche wuchsen oft zu richtigen Disputationen, Angriffen und Rechtfertigungen aus […] Josef nahm die Kritik an Kastalien sehr ruhig auf, und wo der alte Herr in seiner Leidenschftlichkeit ihm zu weit zu gehen schien, wies er seine Angriffe kühl zurück ».10 Gli enormi successi riscontrati, la preparazione e una sensibilità fuori dal comune fanno sì che Josef venga nominato, ancora molto giovane, Magister Ludi, la più importante carica del mondo utopico: « es wurde ihm seine Ernennung zum Glasperlenspielmeister mitgeteilt und er zur Investitur und Vereidigung auf den übernächsten Taf in die Festspielhalle befohlen ».11 In età matura però Knecht inizierà a percepire come eccessivo il peso delle responsabilità e a sentirsi sempre più attratto dal mondo esterno, ad avere voglia di riconquistare — o conquistare per la prima volta — la sua libertà, di affermarsi in una realtà più concreta; deciderà così di rinunciare alla prestigiosa carica, infrangendo in tal modo una tradizione secolare e creando non poco scalpore a  9 Ivi, p. 133. 10 Ivi, pp. 178-179. 11 Ivi, pp. 239.

267  Castalia, dove nessun Magister Ludi aveva preso mai una tale decisione in passato. Josef rincontra Plinio Designori e si offre come educatore di suo figlio Tito; impreparato ad affrontare il mondo esterno, l’eroe di Hesse perde la vita inseguendo Tito in un’assurda sfida di nuoto nel lago ghiacciato di Belpunt: Der junge Schwimmer hatte das öftern zurückgeblickt und mit Genugtuung wahrgenommen, daß der Magister ihm ins Wasser gefolgt sei. Nun spähte er wieder, sah den andern nicht mehr, wurde unruhig, spähte und rief, kehrte um und beeilte sich, um ihm beizustehen. Er fand ihn nicht mehr und suchte schwimmend und tauchend so lange nach dem Versunkenen, bis in der bittern Kälte auch ihm die Kräfte schwanden.12

Il finale di questa prima parte, va evidenziato, rompe con quello che può essere ritenuto lo schema canonico del romanzo di formazione che prevede lo happy ending (generalmente, come nota Moretti, un matrimonio che suggella il compromesso tra l’individuo e la società13), con il giovane protagonista che, diventato adulto, riesce a inserirsi completamente nella società; in Hesse, Josef Knecht sembra fare un percorso inverso: si avvicina molto presto alla totale integrazione nella comunità di Castalia per poi rifuggirne, per poi accorgersi che si è nulla se si resta confinati in uno spazio ristretto e andare incontro a una tragica morte per inadeguatezza alla vita. Nella seconda e terza parte di Das Glasperlenspiel, il lettore si trova al cospetto di alcune poesie scritte in tenera età dal protagonista Josef Knecht, frutto dei suoi studi filosofici e della sua spiccata sensibilità, e di tre racconti, ugualmente realizzati dal giovane che dimostra, dunque, che il suo amore e la sua inclinazione artistica vanno ben al di là del semplice apprezzamento per la musica; dal punto di vista stilistico e contenutistico, le tre narrazioni in prosa molto si avvicinano ad altri libri di Hermann Hesse come, ad esempio, Siddharta (1922), incentrati, quindi, sulla ricerca della felicità nella vita: con un “mago della pioggia” il protagonista parla della costanza necessaria per perseguire i propri obiettivi, fa incontrare al lettore un uomo che ha deciso di abbandonare tutto e diventare un eremita senza, però, riuscire a trovare uno stato di pace interiore, e

 12 Ivi, pp. 470-471. 13 Cfr. FRANCO MORETTI, op.cit., p. 25.

268  un rajah indiano, altro personaggio che ha scavato nel proprio Io più profondo e si lascia andare a preziose riflessioni sulla vita. L’amore per l’arte — la musica in particolare — di Josef Knecht avvicina questo personaggio, come accennato, al Wilhelm Meister di Goethe, i cui anni della giovinezza sono caratterizzati dalla passione per il teatro. Entrambe le vicende sono storie di un’iniziazione, di una vocazione che alla fine, però, si rivela soltanto mera illusione. Significativi per l’evoluzione dei personaggi principali dei due romanzi sono gli incontri con le congregazioni: quello di Wilhelm Meister con un gruppo di attori itineranti che accompagnerà nel loro girovagare di città in città e quello di Josef Knecht con l’utopica compagnia di Castalia; al termine del loro percorso formativo, entrambi i personaggi si renderanno conto che quello stile di vita tanto perseguito alla fine non corrisponde alle loro reali inclinazioni: l’eroe goethiano rinuncia al teatro, il protagonista di Hesse si fa attrarre dal richiamo di una vita meno elitaria, comune. Ma il rapporto, quasi di dipendenza, che si instaura tra la musica e Josef Knecht, l’importanza che l’arte ricopre nella sua vita, può far riaffiorare alla mente un altro classico della letteratura germanofona, il Doktor Faustus (1947) di Thomas Mann, scrittore con il quale Hesse intrattenne un fitto carteggio. L’eroe dello svizzero di adozione sembra essere accomunato dallo stesso destino di Adrian Leverkuhn, il musicista cui dà vita l’intellettuale di Lubecca, che ottiene dal diavolo anni di intensa attività intellettuale in cambio della dannazione eterna. In ventiquattro anni di vivida operosità artistica, Adrian darà vita a una musica sublime mai udita prima e rinuncerà a ogni affetto, a qualsiasi contatto, espressione di umana stima e rispetto, e sarà arido e gelido, così Josef raggiungerà il prestigioso ruolo di Magister Ludi giovanissimo, mieterà successi su successi, per poi rinunciare a tutto, come quasi in preda alla stessa follia che caratterizza le ultime scene del Doktor Faustus di Mann. Dietro a entrambi i personaggi di due tra i maggiori esponenti della cerchia intellettuale germanofona della prima metà del Novecento, inoltre, sembrano celarsi riferimenti al popolo tedesco che, al pari di Adrian Leverkuhn, sembra aver stretto un patto diabolico con Hitler; il fallimento, per Adrian, Josef, così come

269  per gli abitanti della Germania nazista, interviene laddove non esiste più soluzione, non c’è un freno allo spietato e incontrollabile desiderio di gloria. Altra opera elvetica, spesso indicata dalla critica come romanzo di formazione, è Fräulein Stark (2001) di THOMAS HÜRLIMANN; in verità, per stessa definizione dell’autore rilasciata in un’intervista, il lavoro in questione dovrebbe essere ritenuto una novella che ha caratteristiche non lontane da un’opera teatrale e come tale segue le unità di tempo, luogo e azione.14 Novella o romanzo che sia, molti sono i punti di contatto con il genere del Bildungsroman. L’opera forse più discussa di Thomas Hürlimann, pubblicata da Ammann nel 2001, narra il passaggio dall’infanzia all’adolescenza di un giovane che trascorre nel convento di San Gallo, dove lo zio prelato è bibliotecario, l’ultima estate prima degli otto anni da passare in un collegio. Il giovane protagonista si trova a fronteggiare due necessità che provengono dalla sua interiorità: il passaggio dal controllo di chi adulto lo è già — i suoi genitori, la signorina Stark, lo zio — all’autonomia, e la consapevolezza della maturazione sessuale. Il ragazzo sviluppa in sé un conflitto tra quello che è stato fino al suo arrivo nella biblioteca conventuale e quello che la vita, un processo naturale, lo porterà a diventare: in lui c’è la disputa tra il ‘fanciullino’ e l’uomo che sarà. Il personaggio di Hürlimann deve scegliere quale persona intende diventare e cercare di aderire a dei modelli: gli sembrano buoni esempi quelli offerti dagli amici dello zio presenti nella locanda “Porter” che lo fanno star bene e lo rendono a tratti euforico: « am liebsten hätte ich auf dem Abort die Kacheln geküßt. Alles war jetzt schön, ging leicht, wen wunderts, dass mir die Altherren, als ich zum Tisch zurückschwankte, anerkennend zugrinsten ».15 Quando in lui però riaffiora e prevale il lato del ‘fanciullino’ e sale la consapevolezza di non esser lontano dal perdere l’innocenza, la purezza, il candore che hanno caratterizzato la sua vita fino a quel momento, contemporaneamente cresce la paura per l’ignoto, per quel che sarà, per quello che tutti chiamano, senza saper spiegare esattamente in cosa consista, ‘crescere’.

 14 L’intervista, realizzata da Daniel Rothenbühler, è presente sul sito internet www.culturactif.ch (Ultima visita: 21 febbraio 2011). 15 THOMAS HÜRLIMANN, Fräulein Stark, Zürich, Ammann, 2001, p. 76.

270  Hürlimann descrive magistralmente quindi quello che potremmo chiamare il ‘doppio adolescenziale’: il ‘fanciullino’ diventa, a poco a poco, per il giovane protagonista un alter ego che lo accompagna, silenzioso e discreto, nel cammino verso l’adolescenza, lungo tutta l’estate nel monastero di San Gallo. Il ragazzo riesce a incrociare il suo ‘doppio’ di sfuggita, s’imbatte in lui e poi ha la sensazione che scompaia; il ‘doppio’ lo affianca come un compagno immaginario che assomiglia a Virgilio quando conduce Dante nei meandri ignoti della sua interiorità: « Vorher, im »Porter«, hatte ich mich gross gefühlt, jetzt war ich klein, ein Kind in den Pantoffeln ».16 Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza si accompagna, nell’autore di Zug, al progressivo sviluppo dei cinque sensi. L’inizio della novella è caratterizzato da situazioni legate alla vista; gli occhi del ragazzo sono catturati dall’ambiente che lo ospiterà durante le vacanze estive e così comunicherà ai lettori che: Im Eßzimmer […] herrschte die Strenge des Klosters, das hohe Gewölbe war kahl vergipst, schwarz glänzten die Türen, und die Bilder zeigten über lebensgroß ehemalige Fürstäbte und Stiftsbibliothekare mit wachsbleichen, lippenlosen Geisteshäuptern. Aber vor dem Onkel war der Tisch mit Damast bedeckt, der Porzellanteller passte zum Silberbesteck, und seinen Trollinger liess er sich aus einer Kristallkaraffe eingießen.17

Dopo aver osservato attentamente e descritto l’abbigliamento e le abitudini dello zio e della perpetua, il giovane, prima di riferire la sua mansione nella biblioteca, parla del « Parkett der barocken Bücherkirche »18: « dieser Boden war aus Kirschbaum — und Tannenholz zusammengefügt, erhaben wie ein Schiffsdeck, wohlklingender als ein Geigenkasten ».19 Dalla vista si passa allo sviluppo dell’olfatto; come sottolineato da Anna Fattori « l’olfatto viene ad assumere una funzione emblematica all’interno del testo in quanto rappresenta il nesso tra dimensione fisica e metafisica, tra ciò che i sensi percepiscono e ciò che la nostra mente, sulla base delle percezioni, è portata ad immaginare ».20 Nel personaggio di Hürlimann l’olfatto è il senso più legato alla scoperta del sesso; gli

 16 Ivi, p. 82. 17 THOMAS HÜRLIMANN, op. cit., p. 9. 18 Ivi, p. 15. 19 Ibidem. 20 ANNA FATTORI, Thomas Hürlimann narratore, in ANNA CHIARLONI (a cura di), La prosa della riunificazione. Il romanzo in lingua tedesca dopo il 1989, Alessandria, Edizione dell’Orso, 2002, p. 246.

271  odori, infatti, svegliano in lui l’attrazione verso le donne: « heute rochen sie, und jede Hochtoupierte roch anders als ihre Vorgängerin ».21 Il compito del ragazzo è quello di fornire delle pantofole di feltro per non rovinare il prezioso parquet della biblioteca conventuale; di conseguenza la scoperta del sesso per il ragazzo parte dai piedi: « ein Nylonfuß streift den Schuh ab, und zum ersten Mal erlebe ich das Wunder eines aufblühenden Geruchs, diesen Frauenfußduft, eine Spezialmischung aus frischem Schweiß, Flieder und Leder ».22 L’attrazione si accompagna alla vergogna, al senso del peccato e il nipote del prelato responsabile della biblioteca di San Gallo s’interroga: « war es denn eine Sünde, den Wohlgeruch der Frauen einzuatmen? ».23 Era peccaminoso secondo la Stark ma non per il giovane; con il suo ingresso nella fase adolescenziale acquisisce quindi anche la capacità di ragionare in astratto, saper valutare ipotesi diverse, punti di vista differenti, soppesare le conseguenze di una scelta o di una decisione come quella che lo porta a ritenere di non aver commesso alcun peccato nel perdersi nel piacere del profumo delle donne e quindi a concludere di non doversi confessare, come invece lo avrebbe spinto a fare la Stark: « gut, zugegeben, ich hatte wieder gegen das Sechste verstoßen, ich war rückfällig geworden, ich hatte zu dieser verdammten Spiegelchen gegriffen, aber gab das dem Fräulein das Recht, mich zur Strafe in Zweifel und Ängste hineinzudrängen, die mich verfolgten wie hechelnde Hunde? ».24 Gli odori che giungono al ragazzo sono descritti in modo talmente dettagliato che il lettore può quasi avere la sensazione di percepirli, un po’ come accade in Der Zauberberg (1924) di Thomas Mann, in cui sembra di avvertire l’odore del sanatorio di Davos, o nel fenomeno letterario degli anni Ottanta dello scorso secolo Das Parfum — Die Geschichte eines Mörders (1985) di Patrick Süskind, dove le percezioni olfattive del protagonista Grenouille, una persona che non ha odore ma che dell’odore della gente in qualche modo si nutre, sono al centro dell’intera opera.

 21 THOMAS HÜRLIMANN, op. cit., p. 31. 22 Ivi, p. 32. 23 Ivi, p. 51. 24 Ivi, p. 111.

272  Dopo lo sviluppo della vista e dell’olfatto è la volta dell’udito; l’adolescente di Fräulein Stark è infastidito dallo sferruzzamento del lavoro a maglia della perpetua: « klick, machte sie, klickidi — klick! Sie strickte! […] Das giftige Genadel mußte auch den Onkel nerven ».25 Si ha quasi la sensazione che questo ticchettio continuo sia un suono con cui la Stark ricorda al giovane il suo perseverare nel peccare: più il giovane continuerà a perdersi nelle vie del peccato, a catturare l’odore delle donne, a fiutare e spiare sotto le gonne, più la Stark persisterà nel suo sferruzzamento. Grazie all’esperienza nella locanda « Porter » insieme allo zio, l’erede della famiglia Katz può sviluppare anche il suo gusto e farlo maturare fino a raggiungere il livello degli adulti; beve quindi il suo primo Pfiff, il boccale minimo di birra, e riesce ad apprezzare il sapore di una salsiccia non proprio appetitosa: « seitdem ich die Gummiwurst bezwungen hatte, fühlte ich mich wohl und wohler ».26 Alla lista dei cinque sensi manca ancora il tatto. Il termine tatto evoca immediatamente l’organo col quale tocchiamo qualcosa, quindi le mani, anche se in realtà l’intera epidermide che riveste il nostro corpo è sede del senso del tatto. Siamo infatti tutti in grado di percepire qualità, come il caldo o il freddo, e caratteristiche di un oggetto anche, per esempio, con le guance. In questa novella di Hürlimann non abbiamo particolari situazioni incentrate sull’uso del tatto ma si può comunque intuire l’importanza di questo senso per l’adolescente di Fräulein Stark che toccando il proprio corpo arriverà a scoprire il piacere fisico.

In ambienti ecclesiastici si sviluppano anche le vicende narrate da GEORGES

BORGEAUD in Le Préau (1952) e da GIOVANNI BONALUMI in Gli ostaggi (1954). Il romanzo del francofono n’est pas tout à fait un « roman de formation », une éducation sentimentale, puisque le narrateur ressuscite seulement ses année de college. C’est pourtant l’histoire d’une formatin d’âme, de l’éveil et de la maturation d’une sensibilité. Dans la lenteur et le désordre de l’enfance — quand la vie semble innombrable et vous laisse le souffle court — apparaissent tous les thèmes d’une pédagogie sentimentale: la mère, le rival (sous forme de l’amant de la mère), la femme-mère, les premières jeunes filles, les amitiés passionnées, les présences viriles (Robert, le colonel), la foi, la nature, la maison, les livres. […] Le préau, c’est là où les enfants s’abritent. Le lieu à la fois ouvert  25 Ivi, pp. 46-47. 26 Ivi, p. 75.

273  et clos, à l’écart des jeux de la cour, protégé des cris et des bruits de la récréation, où se réfugie l’enfant timide, le rêveur.27

Il protagonista dell’opera è Maurice Passereau, un ragazzo presentato subito come ipersensibile, che ha trascorso la sua infanzia in compagnia della sola madre, persona estremamente esigente e prosaica, che alle porte dell’adolescenza viene condotto in un collegio gestito da ecclesiastici, dove gli si offre l’opportunità di nutrire la propria cultura con pie letture, opere liturgiche e, sul modello di Fra’ Bernardo, si vanta ben presto di essere diventato l’asino della religione e dei frati. Questo atteggiamento provoca l’irritazione della madre che lo affida, quindi, a una famiglia protestante; ma Maurice, segretamente, si reca ogni giorno in una cappella cattolica dove incontrerà una donna all’apparenza pia e austera, Elisabeth Beaussire, le cui attenzioni nei confronti del giovane assumeranno ben presto proporzioni inaspettate. Il Bildungsroman dell’autore francofono ricorda per certi versi quello di Moravia, pubblicato nel 1944, Agostino, per l’analisi dei turbamenti dell’adolescente protagonista alla rivelazione della sessualità. L’eros, per entrambi i personaggi, appare una sorta di filtro attraverso il quale distillare i rapporti tra individuo e società. Anche la vita di Agostino, così come quella di Maurice, è dominata da un’unica figura femminile, quella della madre; Agostino, secondo Gadda, « è l’incontro di un ragazzo tredicenne, di famiglia ‘civile’, Agostino, coi fatti e coi problemi del sesso. Figlio unico di madre vedova (e piacente), egli ‘subisce’ la scoperta del sesso »28, proprio come accade a Maurice Passereau. La tematica sessuale nei due romanzi — ma anche in Fräulein Stark di Thomas Hürlimann — appare il vero e proprio motore per il passaggio del giovane protagonista dall’adolescenza all’età adulta; tuttavia, sia l’eroe moraviano che quello di Borgeaud sono descritti, e considerati a ragione, adolescenti incompleti che vivono ancora in una realtà infantile, al centro della quale domina incontrastata la figura materna. Addirittura Agostino arriva a contemplarla, orgoglioso e incantato, come se desiderasse fare soltanto quello nella vita, come

 27 FRANÇOIS NOURISSIER, Préface a GEORGES BORGEAUD, Le Préau, Lausanne, L’Age d’Homme, 1982, pp. 7-8. 28 , “Agostino di Alberto Moravia” in Il Mondo, 3 novembre 1945.

274  se avesse esclusivamente il « desiderio di seguirla ovunque, anche in fondo al mare »29. Agostino e Maurice lentamente iniziano a svestire la genitrice di quella sorta di alone magico in cui l’avevano avvolta e cominciano a vedere l’universo femminile, che i giovani non avevano mai esplorato, con occhi nuovi.

Esposto alle polemiche sin dal titolo è Gli ostaggi di GIOVANNI BONALUMI; ostaggi del Signore sono, come esplicitato in una poesia di Gerard Manley Hopkins citata all’inizio del romanzo dell’autore di Mualto, gli adolescenti scelti nella loro « ora di maggio » e consacrati a Dio. Al momento della sua pubblicazione, nel 1954, l’opera suscitò in Ticino grande scalpore; già il titolo, come si diceva, fu considerato un’offesa alla Chiesa e a nulla servirono i tentativi di difesa a mezzo stampa di Bonalumi che affermò che era sua intenzione colpire un sistema corrotto e non di certo una fede. Protagonista del romanzo Gli Ostaggi è un giovane seminarista con una vocazione assai incerta, ma convinto da un sacerdote, proprio nell’ora di maggio, di essere un eletto del Signore: Dio — continuò — di tanto in tanto sceglie tra i suoi fedeli un’anima, e la colloca sopra tutte le altre. T’ho seguito passo per passo fin dal giorno che m’è stata affidata la parrocchia. Credo che faresti bene a entrare in Seminario. Il discorso era diventato così assurdo che in un modo o in un altro dovetti tradire il mio turbamento. […] Il parroco continuò il suo discorso. Venne così a chiedermi se mi sarebbe piaciuto dir messa, benedire la gente. Dissi sempre di sì: la mia mente era però lontana. Rotolava via per un prato dietro a un pallone, tra un gridio di ragazzi.30

Questo romanzo rappresenta per la realtà ticinese un ulteriore tassello della rottura dalla tradizione culturale che aveva caratterizzato l’esercizio della narrativa fino a quel momento e che risultava completamente dominata, nella prima metà del Novecento, dalle figure e dalle opere di FRANCESCO CHIESA e

GIUSEPPE ZOPPI che, di fatto, avevano dettato le regole e le avevano in parte fermate negli schemi dell’idillio. Tale frattura, a cui contribuisce Gli ostaggi, che appare salutare e necessaria per lo sviluppo artistico dell’area italofona, segue la scia di FELICE FILIPPINI con il romanzo Signore dei poveri morti del 1942 e viene completata dalle opere di PLINIO MARTINI e GIOVANNI ORELLI.

 29 ALBERTO MORAVIA, Agostino, Milano, Bompiani, 1980, pp. 6-7. 30 GIOVANNI BONALUMI, Gli Ostaggi, Bellinzona, Casagrande, 1986, pp. 30-31.

275  Bonalumi ci disegna una realtà che oggi, specialmente in Svizzera, appare lontanissima ma che ha avuto un peso rilevante nella vita culturale del paese, soprattutto di matrice cattolica, quella dei seminari pre-conciliari dove i ‘pretini’ erano gli ostaggi del Divino e venivano educati a difendere una religione piuttosto che una fede, secondo schemi superati dall’evoluzione della società e da sacerdoti che non erano sempre adatti ad affrontare, con strumenti culturali adeguati, le intemperie del mondo esterno a quelle mura. Questo era anche, del resto, già nell’Ottocento, parte dell’atto di accusa del sacerdote e filosofo Antonio Rosmini che denunciò, per l’appunto, fra le cinque piaghe della Chiesa l’ignoranza del clero. Il romanzo dello scrittore italofono non ci dà, comunque, soltanto il sapore dei seminari ecclesiastici; per naturale logica estensione ci offre anche, in termini più generali, una visione della vita di tutti i collegi, al punto che il giovane protagonista de Gli Ostaggi può sembrare, per alcuni tratti comuni, una versione più mite di Törless, il ragazzo di buona famiglia, protagonista del romanzo di Robert Musil del 1906 Die Verwirrungen des Zöglings Törleß, che vive con i suoi compagni in un collegio militare esperienze omosessuali, prove di forza e virilità realizzate con atti di bullismo che lo conducono nel finale all’espulsione dell’istituto. Gli ingredienti del romanzo di Bonalumi sono pressoché i medesimi ma vengono offerti, come accennato, in una versione edulcorata; non si parla, ad esempio, esplicitamente di intesa omosessuale tra alcuni ospiti del collegio ma si lascia comunque intuire l’attrazione in particolare del giovane protagonista per un altro ragazzo, un certo Berto, il leader del gruppo: In dormitorio sono rimasto solo, seduto sul letto. Berto sporge fuori un piede dalle lenzuola. — Prendilo! — dice. Allungo le mani, il piede scompare sotto le lenzuola. Un attimo, eccolo che sporge da un’altra parte, mentre Berto s’arriccia dentro il letto. — Via, prendilo! Questa volta sono più pronto. Afferro il piede alla caviglia. Berto cerca di svincolarsi contorcendosi come un ossesso. La faccia sempre più rossa, il respiro affannoso. La mia mano scivola su fino al ginocchio: poi, d’un tratto, come presa da torpore, ecco che è ferma. Lascia la presa, torna fuori. Berto mi guarda dal letto, per niente scomposto.31

Gli atti di viltà e bullismo provocano, anche in questo caso, l’espulsione del ragazzo, vissuta comunque come una sorta di liberazione anche se è un evento  31 Ivi, p. 89.

276  difficile da far accettare alla madre, l’unica veramente convinta della vocazione del ragazzo: « No — dissi. — Le vacanze cominciano la settimana prossima. M’hanno scacciato via. Subito non volle credere. Pensava che scherzassi. Dovetti raccontarle tutta la storia. Adesso mi guardava con altri occhi. Senza la luce di prima, come addolorata ».32 Di difficile classificazione, un ibrido tra confessione, monologo teatrale, forma diaristica, ma comunque riconducibile al Bildungsroman — se è vero, come afferma Mariolina Bongiovanni Bertini nell’introduzione alla raccolta Autocoscienza e autoinganno. Saggi sul romanzo di formazione che « il romanzo di formazione è una struttura aperta, che indica una tendenza, piuttosto che descrivere il raggiungimento di una meta definita e la Bildung si fonda su una 33 precisa virtù del protagonista » — è l’opera di ANNE-LISE GROBÉTY Pour mourir en février (1970), che descrive il sorgere di una passione irrefrenabile, un sentimento che muta profondamente l’interiorità di una giovane donna. Nel lungo monologo realizzato dall’autrice di La Chaux-de-Fonds, in questo libro che sembra un’unica frase pronunciata tutta d’un fiato, la protagonista confessa l’amore per un’altra donna e le difficoltà di accettarlo. Accanto all’inquietudine, però, l’io narrante riconosce anche di essere diventata, grazie alla sua compagna, che l’ha portata a vivere senza le paure di prima, una persona più matura, di aver compiuto un processo di Bildung: tu m’as tant donné, en tout appris, je ne savais même pas respirer, ni être douce, ni tolérante, ni marcher sans me révolter contre la raideur, ni me donner, ni recevoir, j’ignorais même qu’il y avait une façon d’aborder les êtres, les autres, je vivais arquée, courbée, crispée, muette, et j’avais élévé des barricades contre toutes les formes de sensibilité extérieure, rien ne sortait de moi, rien n’y entrait, ni musiue, ni élan, aucun souffle ne débordait de moi, je n’attachais personne, et je jouais ce jeu avec le sérieux des inconscients, tu as tout déchiré, mais doucement, en prenant garde de ne pas meurtrir ma peau, ma peau de bolnde, moi, fille de l’onde, comment renier l’amitié, j’étais toute nichée en toi, jamais dans ma vie je n’ai eu si chaud.34

Sul finale dell’opera la protagonista rinuncia — come Wilhelm Meister si è privato del teatro ed Enrico il Verde della pittura — alla sua ars amatoria:

 32 Ivi, p. 185. 33 AA.VV., Autocoscienza e autoinganno. Saggi sul romanzo di formazione, Napoli, Liguori Editore, 1985, p. 7. 34 ANNE-LISE GROBÉTY, Pour mourir en février, Yvonard, Bernard Campiche Éditeur, 1994, pp. 9-10.

277  aujourd’hui 17 février où, assise à cette table, je tente de retenir ces quelques mois de ma vie qui m’ont faite, parce qu’ils sont importants pour moi, parce que tout cela est important, parce que, avant eux, j’étais tout autre qu’aujourd’hui, je n’avais ni conscience des autres, ni de moi, et il y aura un après, un ensuite.35

Già nelle prime pagine l’eroina della Grobéty aveva affermato: « Je leur ai obéi, tu vois, je ne t’ai pas revue, je ne t’ai plus parlé ».36 Il processo di formazione è compiuto, la Bildung è completa, si può dire conclusa, poiché, per usare le parole di Moretti, « la gioventù trapassa in maturità e lì si ferma ».37 E con lei si ferma anche il tempo, quanto meno quello narrativo.

 35 Ivi, pp. 89-90. 36 Ivi, p. 10. 37 FRANCO MORETTI, op.cit., p. 29.

278  4.2 MEMORIE D’INFANZIA

In letteratura, da molto tempo, come nota Francesco Orlando in Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici (1966), la prima fase della vita di un uomo è diventata qualcosa di più di un semplice tema: è considerata « un presupposto primario, invadente e spesso determinante della condizione umana ».1 Anche il ricordo d’infanzia, cominciato ad affacciarsi in letteratura timidamente ed esclusivamente come tema, finisce per assumere sempre maggiore importanza e a ottenere significativi spazi negli scritti a carattere biografico delle principali letterature europee. Pur riconoscendo il fondamentale impulso della psicanalisi sulla letteratura, — in particolare quella che risponde, per dirla con le parole di Sergio Zatti, « alla generica pulsione egotistica al “dire di sé” »2 — che porta, in particolar modo nel XX secolo, a non considerare l’infanzia un semplice stadio preliminare, preparatorio a una fase successiva, ma a giudicarla come un’età autonoma ben definita, si deve convenire su una certa difficoltà a fissare delle regole da rispettare per chi volesse narrare questo delicato momento dell’esistenza umana poiché, come sostiene Freud, i ricordi ci mostrano i primi anni di vita non come sono stati ma come ci appaiono nel tempo presente: « senz’altro la stretta aderenza al ‘vissuto’ e la singolarità irripetibile di ogni esistenza hanno reso problematica la definizione — e con ciò determinato lo statuto formale fluido e instabile — di un genere alla continua reinvenzione di se stesso ».3 Nonostante questa comprensibile difficoltà, Sergio Zatti ha provato ugualmente a rintracciare delle caratteristiche comuni alla narrativa basata sui ricordi d’infanzia: l’eroe ha, generalmente, una nascita travagliata — basti pensare a quanto raccontato nell’autobiografia del matematico del Cinquecento Girolamo Cardano, nella novella René (1802) di Chateaubriand, nonché nei Mémoires di Carlo Goldoni —, conosce precocemente la malattia che a volte porta addirittura all’infermità — si pensi di nuovo a quanto narrato da Cardano e da Giambattista

 1 FRANCESCO ORLANDO, Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai romantici, Pisa, Pacini Editore, 2007, p. 19. 2 SERGIO ZATTI, Raccontare la propria infanzia, in FRANCESCO ORLANDO, op. cit., p. 276. 3 Ivi, pp. 276-277.

279  Vico —, si macchia di un piccolo ‘crimine’ — e Sergio Zatti in merito porta gli esempi del morso del piccolo Stendhal alla cugina, del giovane Goethe che lancia dalla finestra utensili da cucina, della scure con il quale il piccolo Canetti minaccia la compagna di giochi — ed è isolato intellettualmente e socialmente per esclusione o per ricercata solitudine.4 Il récit de vie si conclude, inoltre, spesso con un dramma che segna la fine della fase dell’innocenza. Sono assenti, comunque, i due eventi principali di una vita, incipit ed explicit, e la morte rappresenta l’indicibile in uno scritto basato sui ricordi d’infanzia.5 Sia Orlando che Zatti evidenziano, oltre a ciò, che a portare un nuovo atteggiamento nel modo di rapportarsi a un’età così affascinante come quella dell’infanzia è proprio uno svizzero, il ginevrino JEAN-JACQUES ROUSSEAU, con le sue Confessions (1764-1771) che « si devono considerare paradigmatiche per la nascita della soggettività europea moderna e, se non la inaugurano in senso stretto (il dibattito è tuttora aperto fra gli studiosi), restano fondamentali per la trasformazione in ‘genere’ del récit de vie ».6 Ma l’autore francofono aveva già gettato una nuova luce sull’infanzia tra il 1758 e il 1762 con la sua opera forse più nota, Émile ou de l’éducation, che tratta dell’educazione graduale — fatta di giochi e attività come disegno, canto e musica — che si deve impartire a un essere umano dal primo anno di età fino al momento in cui non è ritenuto pronto a contrarre matrimonio e che si poggia sull’assunto di base che l’uomo è buono per natura ma va preservato sin dalla prima fase della vita dalla degradazione e dalla corruzione che dominano l’universo culturale e le strutture sociali. Per Rousseau va difesa l’originale indole umana per evitare la trasformazione in essere artificiale; questa è una visione, pertanto, totalmente diversa da quella offerta da John Locke, contemporaneo del ginevrino, secondo il quale la mente dell’infante è una tabula rasa al momento della nascita e, di conseguenza, l’individuo è completamente da formare con regole precise che hanno lo scopo di esaltare le risorse di base.

 4 Cfr. Ivi, p. 311. 5 Ivi, pp. 306-307. 6 Ivi, p. 277.

280  Il limite che sembra essersi posto Rousseau come termine a cui far arrivare il flusso dei ricordi coincide con le prime apparizioni del desiderio o dell’esperienza sentimentale-sessuale.7 Come afferma Orlando « tutti sembrano aver fatto a loro modo i conti con le Confessions »8, tentando di imitarle, sorpassarle o respingerle, soprattutto — si può, a ragione, immaginare — nella patria di Rousseau. Nella Svizzera del secondo Novecento, a cimentarsi più volte con autobiografismo e memorie d’infanzia è stata l’autrice di origine italiana ANNE

CUNEO che, nonostante il conferimento del prestigioso Prix des Libraires — il premio dell’associazione dei librai francesi — nel 1995, e di numerosi altri riconoscimenti, continua a essere considerata dall’élite culturale del mondo francofono semplicemente una scrittrice provinciale. Anne Cuneo è nata a Parigi da genitori italiani nel 1936 ma poco prima della Seconda Guerra Mondiale è rientrata nel Belpaese con la sua famiglia; la pressione del governo francese sugli immigrati italiani nell’Hexagone e le ristrette possibilità lavorative determinano questo rientro in Patria. L’assassinio del padre alla fine del conflitto porta gravi conseguenze all’assetto familiare e Anne, all’età di nove anni, viene portata in un orfanotrofio. Due volumi autobiografici, pubblicati con il titolo Portrait d’une femme ordinaire, raccolgono i ricordi di questo periodo; nel primo libro, Les portes du jour (1980), reminiscenze della prima infanzia, vissuta con le angosce della guerra, sono intervallate con pagine del diario della madre della protagonista, mentre il secondo volume, Le temps des loups blancs (1982), ha a che fare con la vita di Anne Cuneo in Svizzera: sua madre trova lavoro come domestica a Losanna e per la giovane italiana, ossessionata dalla morte violenta del padre e da quello che percepisce come un abbandono da parte della madre, trasferirsi nella Confederazione sembra un altro inquietante episodio della sua vita: non solo si trova a dover imparare un’altra lingua ma, crescendo, capisce ben presto che le opportunità di portar avanti gli studi e di trovare una buona occupazione per una persona di sesso femminile — nella Svizzera che ha concesso il diritto al voto alle donne soltanto nel 1971 — sembrano davvero ridotte al minimo. In poco tempo, la giovane Cuneo deve fare i  7 FRANCESCO ORLANDO, op. cit., p. 24. 8 Ivi, p. 20.

281  conti con le ristrettezze imposte dalla religione, dal razzismo sociale, dal sessismo intellettuale e una volta giunta comunque, seppur con enormi difficoltà, a studiare letteratura all’Università di Losanna, dal conservatorismo accademico. La prima produzione di Anne Cuneo è ampiamente influenzata da André Breton e i surrealisti ed è fortemente a carattere autobiografico, dominata dai ricordi traumatici, citati in precedenza, della sua infanzia. Gravé au diamant, il suo primo romanzo a riscuotere un certo successo, è stato pubblicato nel 1967 e testimonia il forte legame ricercato con lo scrittore e critico d’arte francese attraverso una citazione tratta da Nadja (1928), adottata come epigrafe all’inizio del libro e che sembra riassumere il credo della scrittrice elvetica: « pour moi, je continuerai à habiter ma maison de verre ».9 Il romanzo non offre molto altro, dal punto di vista del contenuto, rispetto agli altri due citati prima e racchiusi nel volume Portrait d’une femme ordinaire: una giovane donna a cui viene impedito di aspirare al massimo della vita, proprio perché di sesso femminile, si divide tra i ricordi delle privazioni subite nell’infanzia, le esperienze traumatiche, e la noia e la monotonia terribili offerte da un lavoro stabile. Non è ancora sufficiente per la Cuneo quanto elaborato fino a quel momento per arrivare a una totale comprensione e accettazione della catena di eventi che hanno caratterizzato i primi anni della sua esistenza, dalla morte del padre, alla vita in collegio, ai sensi di colpa legati alla sfera sessuale e imposti dall’ortodossia dominante e la quasi vergogna di essere nata donna. Con un intento e un valore ancora più introspettivi viene quindi concepito, nel 1969, Mortelle Maladie, di nuovo sotto l’evidente influsso di Bréton; la protagonista è posta ancora una volta in una sorta di maison de verre che stavolta appare, se possibile, con le pareti ancora più trasparenti che permettono di poter arrivare, senza ostacoli, a leggere l’anima della protagonista. Anne Cuneo non smette, dopo Mortelle Maladie, di parlare direttamente di sé ed elementi della propria infanzia sono presenti nelle opere a carattere biografico concepite a partire dagli anni Settanta: Le piano du pauvre ou la vie de Denise Letourneur, musicienne (1975), ad esempio, è la storia di una donna di mezza età, grande talento musicale osteggiato dalla società sin dai primi anni della

 9 ANNE CUNEO, Gravé au diamant, Lausanne, L’Aire, 1978, p. 3.

282  sua vita poiché orfana di una famiglia italiana molto povera. Evidenti, nel corso della narrazione, i punti di contatto tra la vita di Anne Cuneo e quella della protagonista Denise Letourneur che appare semplicemente una ‘variazione’ della biografia della scrittrice. La narrativa dell’autrice francofona si mostra, comunque, più convincente quando parla direttamente delle sue esperienze di vita, senza intermediari, come era tornata a fare nel 1972 con Poussière du réveil — incentrato sul concetto d’amore e sulle esperienze sentimentali della scrittrice — e come tornerà a fare poi nel 1978 con Passage des Panoramas, la narrazione di quattro sogni attraverso i quali la protagonista ripercorrerà a ritroso la sua esistenza e cercherà di venir fuori dalla terribile depressione che si era impossessata della sua anima. Riconciliatasi, almeno in parte, con se stessa, Anne Cuneo fa intendere di non voler più scrivere di sé, della prima fase sofferta della sua vita; poi nuovi dolori e nuove sfide da affrontare — come un tumore diagnosticatole alla fine degli anni Settanta — la portano di nuovo a far dell’autobiografia e a tornare anche ad affrontare quei primi anni della sua esistenza; in Station Victoria (2007), opera ambientata a metà degli anni Cinquanta, si narrano le vicende di una ragazza italiana, Amalia, una quattordicenne che viene portata via da un orfanotrofio in Svizzera per essere condotta in Inghilterra da una donna di ottantatre anni che diventerà suo mentore e punto di riferimento. Al suo ritorno dalla Gran Bretagna i pessimi rapporti con la madre naturale non le proibiscono di realizzarsi come studentessa e moglie e di amare con passione la musica, la letteratura e l’arte pittorica. Anche qui innegabili le similitudini tra il personaggio di Amalia e l’autore storico Anne Cuneo: entrambe sono di origine italiana, sono state condotte in un orfanotrofio in Svizzera, sono amanti del cinema e della musica e avide lettrici. Eppure, nonostante tali evidenti affinità, Anne Cuneo — come emerge da alcune interviste rilasciate a quotidiani e riviste della Svizzera o a quanto dichiarato, incalzata da alcune domande dei presenti, agli incontri che hanno avuto luogo all’Istituto Svizzero di Roma o all’Università degli Studi di Napoli-L’Orientale nel marzo 2009 — ha voluto prendere le distanze dal personaggio di Amalia, nonché da quello di Mrs. Bee — l’anziana donna che si è presa cura in Inghilterra della ragazza di origini italiane — in cui molti hanno

283  visto due proiezioni della scrittrice, sottolineando che nel suo percorso artistico — da Gravé au diamant a Station Victoria — è gradualmente passata da pura autobiographie a mera fiction.10 Altra scrittrice svizzera d’adozione con un’infanzia difficile che si affaccia di tanto in tanto nelle sue opere è AGOTA KRISTOF. Protagonista del romanzo Hier (1995) è Sandor Lester, emigrante, privato delle sue radici, transfuga, operaio di una fabbrica di orologi, figura estremamente disagiata, priva di contorni, che ha un nulla inestimabile come unica alternativa alla sua vita. Sandor Lester corre nel vento; è l’unico modo per fruire di un attimo di quiete, perché « la peur ne peut être chassée que par le vent ».11 Se non riuscisse a cedere al richiamo del vento, non gli rimarrebbe che qualcosa di addirittura peggiore rispetto al nulla: il ricordo. Le rievocazioni lo aspettano, comunque, in ogni angolo; inevitabile, dunque, che occasionalmente le si incontri e gli si ceda: « quand ils viennent me voir, la pluie ruisselle sur leur visage décomposé, fluide. Ils me regardent et le froid devient plus intense, mes murs blancs ne me protègent plus. Ils ne m’ont jamais protégé. Leur solidité n’est qu’une illusion et leur blancheur est souillée ».12 I ricordi riportano immagini legate all’infanzia (« Je peux même dire que j’ai eu une enfance heureuse puisque je ne savais pas qu’il existait d’autres enfances. […] Nous habitions près du cimitière, dernière rue du village, dernière maison. J’étais heureux de jouer dans la cour, dans la boue. Parfois, le ciel était beau, mais j’aimais le vent, la pluie, les nuages »13), al primo giorno di scuola per esempio: pour la première journée d’école, ma mère m’a lavé, m’a habillé, elle a coupé mes cheveux. Elle-même s’est habillé comme elle a pu. […] Je suis entré dans la classe, je me suis assis au premier rang. Juste en face du pupitre de l’instituteur. J’attendais. A côté de moi, s’est assise une petite fille pas très belle, pâle et maigre, avec des tresses des deux côtés du visage.14

Il lettore viene poi a sapere che l’operaio Lestor Sandor in passato — hier — aveva un altro nome, si chiamava Tobias Horvath, è nato in un piccolo paese senza importanza, un villaggio irrilevante, sua madre era la donna più bella del  10 Per un approfondimento si veda: JEAN-MARIE VOLET, “From Autobiography to Fiction: Swiss Author Anne Cuneo”, in World Literature Today, (2) 1996, pp. 295-300. 11 AGOTA KRISTOF, Hier, Paris, Éditions du Seuil, 1995, p. 12. 12 Ivi, p. 75. 13 Ivi, p. 28. 14 Ivi, p. 30.

284  paese, Esther, e concedeva il suo splendore al migliore offerente; i ricordi vengono a rivangare anche questo momento della vita: « comme d’habitude, je suis resté seul dans la cuisine. De la chambre me parvenaient ces bruits habituels que je détestais. Malgré tout, ils faisaient encore l’amour. Je les écoutais. Je tremblais sur ma paillasse, sous ma couverture, et toute la cuisine tremblait avec moi. […] J’étais secoué par un sanglot qui ne pouvait sortir de mon corps ».15 Il giovane fugge dopo aver ucciso sua madre e l’amante — o essersi semplicemente convinto di aver compiuto il genitoricidio — con un coltello. Tobias prende i nomi dei genitori e li unisce in una comunanza celebrativa: sceglie per sé, quindi, l’appellativo di Sandor Lester e si mette a fare l’operaio in una fabbrica di orologi, scelta significativa se è vero che il tempo scandito dalla pendola è quello presente che scorre verso il futuro, mentre i minuti in cui vive il protagonista sono quelli che richiamano il passato, un angosciante e terribile flusso di ricordi. La sola porta aperta, appiglio di speranza per un futuro degno di essere vissuto è rappresentata dal personaggio di Line, unica e perfetta soluzione agli occhi di Sandor, in grado di fungere da ponte tra un passato doloroso e un tempo indefinito che deve arrivare. Il legame tra Sandor e Line è un vincolo di sangue; lei è, infatti, la sorellastra con cui ha in comune la figura paterna. Questa donna, per il protagonista, rappresenta, dunque, la certezza del futuro; tutto deve rimanere statico, sospeso, deve essere messo in attesa nell’auspicio di rincontrarla. Progetti a lunga scadenza non vanno fatti perché la vita provvede a tutto da sé. E così sarà effettivamente per Sandor: una mattina, il solito autobus che porta il protagonista sul posto di lavoro fa una fermata che mai aveva fatto prima di allora e fa salire una giovane donna che il protagonista individua subito essere Line. L’eroe della Kristof la riconosce, sa che quella ragazza è proprio colei che a lungo aveva tanto atteso ma che non può identificarlo poiché è passato troppo tempo dal loro ultimo incontro. Come spesso accade nei testi della scrittrice di origine ungherese, tra l’altro, il lettore deve confrontarsi con una figura doppia: c’è la Line del sogno, del progetto futuro, e quella reale che, almeno fisicamente, sembra deludere le

 15 Ivi, p. 38.

285  aspettative di Sandor. Il protagonista apprende ben presto che la donna lavorerà nella sua stessa fabbrica di orologi e che il tempo per lei non si è fermato, la vita ha continuato a scorrere: Line ha, infatti, una figlia piccola e un marito che fa il ricercatore universitario; la donna possiede sia la dimensione dei ricordi, il passato, sia quella dei progetti, il futuro, e a Sandor non resterà che correre nel vento per sfuggire ai ricordi: « Je marchais. Il n’y avait rien d’autre que la marche, la pluie, la boue. Mes cheveux, mes vêtement étaient mouillés, je n’avais pas de souliers, je marchais pieds nus. […] Je partirai vers des hauteurs inconnues. Il n’y a que la moisson sur la terre, l’attente insupportable et l’inexprimable silence ».16 Il romanzo della Kristof è stato trasposto cinematograficamente con il titolo Brucio nel vento (2002), a detta della critica con ottimi risultati, dal regista, originario del Canton Ticino, Silvio Soldini che ha saputo riprodurre le atmosfere create dal libro della svizzero-ungherese con una direzione pregevole ed elegante che è riuscita a evidenziare il tentativo di fuga del protagonista Tobias dal senso di colpa che lo tormenta, dal disagio per una famiglia che non ha mai avuto realmente, nei boschi pieni di neve e gelidi della glaciale Svizzera. Agota Kristof arricchisce con ricordi della sua infanzia anche un altro romanzo molto apprezzato da pubblico e critica: L’Analphabète (2004). L’analfabeta del titolo non è altri che l’autrice alle prese con una lingua diversa da quella parlata nella sua madrepatria una volta giunta, nel 1956, in territorio elvetico. L’incontro con il nuovo idioma non è facile; dopo qualche anno in Svizzera, la Kristof constata di sapersi esprimere, seppur ancora con qualche difficoltà, in francese ma di non essere in grado di leggere e scrivere nella nuova lingua e di essere tornata, pertanto, a una condizione di analfabetismo: « Je suis redevenue une analphabète. Moi, qui savais lire à l’âge de quatre ans. […] À l’âge de vingt-six ans, je m’inscris aux cours d’été de l’Université de Neuchâtel, pour apprendre à lire ».17 Una condizione, quella della scrittrice di origine ungherese, difficile da sopportare per una persona abituata, sin dai primissimi anni della sua vita, a leggere nella sua lingua madre: « Je lis. C’est comme une maladie. Je lis tout ce  16 Ivi, pp. 120-122. 17 AGOTA KRISTOF, L’analphabète. Récit autobiographique, Genève, Éditions Zoé, 2004, pp. 52- 53.

286  qui me tombe sous la main, sous les yeux: journaux, livres d’école, affiches, bouts de papier trouvés dans la rue, recettes de cuisine, livres d’enfant. Tout ce qui est imprimé. J’ai quatre ans. La guerre vient de commencer »18. La protagonista ha la sensazione che il nuovo idioma « est en train de tuer ma langue maternelle »19, la stessa con cui, sempre sin da molto piccola, ama raccontare storie, « des histoires inventées par moi-même ».20 Dalla passione per la lettura e la narrazione orale a quella per la scrittura il passo è breve; si affaccia sin da subito, non appena « le fil d’argent de l’enfance »21 si rompe, quando arrivano gli anni disperati del collegio in cui la scrittura diventa necessità, una modalità unica attraverso la quale esprimere la propria interiorità, i segreti più intimi, tutto ciò che non si può confidare e che viene, quindi, trasposto in un diario: Je lis encore, si j’ai de quoi lire, à la lumière du réverbère, puis, pendant que je m’endors en larmes, des phrases naissent dans la nuit. Elles tournent autour de moi, chuchotent, prennent un rythme, des rimes, elles chantent, elles deviennent poèmes: « Hier, tout était plus beau, La musique dans les arbres Le vent dans mes cheveux Et dans tes mains tendues Le Soleil ».22

La scrittura, che sembra avere quasi l’unico scopo di tenere vivi i ricordi, è necessaria anche nella condizione di esule in Svizzera, è elemento essenziale per fare esercizio nel nuovo idioma e poter coltivare il sogno di una vita, quello di diventare scrittrice anche se si legge che « en arrivant en Suisse, mon espoir de devenir un écrivain était à peu près nul ».23 Eppure la Kristof va avanti e scrive frasi semplici e brevi in un corretto francese e riesce a realizzare, come noto, il suo sogno. Sul fronte italofono « romanzo della recherche di un’infanzia perduta, inseguita perfino nei particolari più suggestivi (il ricordo del violino del padre,

 18 Ivi, p. 5. 19 Ivi, p. 24. 20 Ivi, p. 9. 21 Ivi, p. 12. 22 Ivi, p. 16. 23 Ivi, p. 45.

287  della casa nuova in costruzione) »24 è Signore dei poveri morti (1943) di Felice Filippini. Al suo apparire, nella primavera del 1943, questo romanzo sollevò qualche perplessità: si rimproverano al suo autore, in particolare, la crudezza degli eventi narrati e la disinvoltura nell’uso di un linguaggio saporito, come quel passo di vacca con cui Filippini fissa l’immagine iniziale dell’incedere di un uomo: « soprattutto da parte cattolica il dito accusatore si levò a denunciare la pericolosa morbosità sensuale di tante pagine, l’assenza di quel sentimento religioso che è patrimonio del nostro popolo ».25 In anni recenti, però, Signore dei poveri morti è stato riletto con maggiore attenzione critica e le ristampe del 2000, presso gli editori Marsilio e Dadò, hanno contribuito a restituire il giusto merito e valore, collocandolo tra le opere più interessanti e originali che la letteratura ticinese abbia prodotto nel Novecento. Non è un romanzo dai toni leggeri quello di Filippini, né certamente invita alla spensieratezza come suggeriscono, del resto, il suo titolo e, soprattutto, il disegno del teschio e del capro che figura sulla copertina della prima storica edizione. I bambini protagonisti appartengono a un Ticino assai remoto che riaffiora nella mente e sono provvisti di una loro sensibilità e naturalezza estremamente genuina e spontanea. Marcellino, il protagonista, è un giovane molto alto e magro che il padre considera un buono a nulla, affidato, perché impari un mestiere, a un artista e scultore di lapidi, tale Baciccia, che vive e ha un atelier in un paese nelle vicinanze di Lugano. Qui conosce una donna, Aurora, e tre vecchi che discorrono convulsamente delle miserie del mondo. Durante una festa campestre, Marcellino e il suo maestro vengono coinvolti in una zuffa con dei giovinastri a seguito della quale Baciccia viene ferito da un sasso lanciato involontariamente dal suo giovanissimo allievo: Il ragazzo ululava disperato e piangeva, a cavalcioni sul ramo, e vedeva tutti quegli uomini in prospettiva, sotto di lui, attorno a Baciccia. Mise una mano in tasca e ne cavò un bel sasso che riempiva tutto il pugno, pesante e freddo. Prese la mira con cura, fissando la testa del giovinotto armato di bastone; il suo braccio si alzò nella notte fredda e minacciosa, frustò l’aria; il sasso partì.  24 FLAVIO CATENAZZI, Introduzione a FELICE FILIPPINI, Signore dei poveri morti, Venezia, Marsilio, 2000, p. 14. 25 Ivi, pp. 8-9.

288  « Baciccia » urlò piangendo il ragazzo « cosa t’ho fatto! Non volevo, non volevo! ». L’uomo colpito alla testa si era abbandonato sul tavolo e giaceva, ora, senza moto. Quelli parvero stupiti di quel fatto: si guardavano senza dire nulla, sbalorditi; poi uno a uno, si staccarono dal tavolo, il cerchio si allargò, si fece vago e oscillante finché si ruppe; l’onda si ritirava verso le case, silenziosamente, in punta di piedi quasi; era tutto finito per quella sera.26

Giunge l’ora del commiato, il viaggio di Marcellino si chiarisce nel suo significato profondo che è quello dell’espiazione o purificazione di una colpa che il padre gli ha reso insopportabile: l’aver costretto il fratellino Dante a bagnarsi nel fiume Ticino provocandogli la morte per annegamento. Questo è un evento traumatico che la memoria del ragazzo restituisce a poco a poco e che riproduce una tragedia realmente vissuta dall’autore sedici anni prima, quando a essere inghiottito dalle acque fu suo fratello Diego: Avevo dieci anni. Vidi il fiume sbagliarsi e inghiottire un bambino, mio fratello. Tornò fuori solo tre giorni dopo (più tardi una donna affermò che avrei dovuto morire io). Udii un rombo di voce lombarda dirmi che ero segnato. Divenuto uomo mi chinai sul ventre del liquido immortale, donde sorgevano da ogni parte figure labili a volare lontano. Più che l’elemento assassino che perdonai in un mea culpa (anche se un saggio astrologo predisse da Budapest che anch’io sarei morto d’acqua) bruciante idea totale m’assalì: un fanciullo era stato rapito. Curiosa solitudine solo istruita da quella mano fraterna che me cercava nella foresta della gente. Sul dramma ho scritto un libro, ma tutto ciò che ho fatto e faccio è costruito — lamento d’uomo e esatta ossessione globale — sul bimbo che prende il largo, disarmato felino che fulge per un attimo prima di scomparire.27

Anche all’epoca lo stesso sgomento di genitori in preda a un’insopportabile sopravvivenza, anche in quell’occasione la stessa solitudine del ragazzo che si chiude in un lungo silenzio. La morte, secondo Zatti, è l’indicibile in uno scritto a carattere biografico28; tale norma, è evidente, non viene rispettata da Filippini, tanto è forte la voglia di dire tutto e di liberarsi definitivamente dai fantasmi del passato. Romanzo della ricerca di un’infanzia perduta, Signore dei poveri morti è comunque anche luogo delle confessioni di un uomo, Baciccia, che vive pure un suo privato dramma, vittima della cattiveria degli uomini, egli percorre una via

 26 FELICE FILIPPINI, op.cit., pp. 159-160. 27 Il testo è ricavato dal catalogo (che reca un’introduzione di GIANCARLO VIGORELLI) Felice Filippini, autoritratto di un pittore, pubblicato nel 1977 dal Centro Internazionale di studi per le arti figurative. 28 SERGIO ZATTI, Raccontare la propria infanzia, in FRANCESCO ORLANDO, op. cit., p. 306.

289  crucis che troverà nella lapidazione, seppur involontaria, il suo tragico epilogo ma anche la sua catarsi. Due storie di ‘offesi’, dunque, quelle dello scultore e di Marcellino che nell’intercambiabilità delle situazioni narrative vengono a congiungersi nel segno di una solidarietà che è l’unico valore della vita o forse a comporre il volto di uno stesso destino, quello dello scrittore per il quale l’opera assume un significato quasi freudiano di liberazione. Incantato e insieme doloroso, il mondo evocato da Filippini suscita nel lettore reazioni contrastanti, di sgomento e di attrazione al contempo, e ha, come nota Flavio Catenazzi nell’introduzione all’edizione Marsilio, lo stesso potere evocativo della parola che si può riscontrare in opere come La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo, quella stessa forza di rievocare per dare corpo ai fantasmi che lo agitano dentro.29 Il protagonista del romanzo elvetico frantuma la propria memoria in una lunga serie di ricordi proprio come fa il personaggio dello scrittore triestino, lasciando riemergere soltanto le esperienze fondamentali che, nel caso di Svevo, sono sei e vanno a dare il titolo a ognuna delle sezioni che compongono l’opera. Anche le caratteristiche di Marcellino e Baciccia ricordano gli inetti sveviani Zeno Cosini, ma anche Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, protagonisti rispettivamente di Una vita e Senilità, per le esistenze caratterizzate da incostanza e arrendevolezza. Di un’infanzia, in ogni caso, da adulti resta ben poco, afferma la scrittrice di

Schwyz GERTRUD LEUTENEGGER: « am Ende behälte man wenig von einer Kindheit; einen Geruch, eine Lichtstimmung, eine Geste. Alles andere ist zum Stoff geworden, aus dem wir atmen, handeln, vergessen ».30 In Pomona la protagonista riesce a riportare alla mente soltanto alcune sensazioni della sua infanzia: in sogno rivede, quasi ogni notte, la madre in cantina che, con le sembianze della dea romana Pomona, si volta verso di lei e le pone una succosa mela rossa. La trama è incentrata esclusivamente su questo episodio, sulla sensazione di sentire in sogno l’odore di quel frutto polposo e sulla mancanza della figura materna strappata via da una morte prematura.  29 FLAVIO CATENAZZI, Introduzione a FELICE FILIPPINI, op. cit., p. 13. 30 GERTRUD LEUTENEGGER, Pomona, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2004, pp. 9-10.

290  Nel tempo che passa e tutto cambia, ingurgita velocemente, trasforma le cose e finisce per adeguare anche quelle usanze più radicate alla modernità dei tempi, gli autori che appartengono alla Letteratura Svizzera, attraverso memorie di un’infanzia perduta, ricordano le tradizioni elvetiche e si ritengono parte di una comunità, si donano l’opportunità di sentirsi tutt’uno con la propria terra, di maturare un legame viscerale senza limiti con il luogo natio.

291  4.3 TRE ESEMPI DI RISCRITTURE: IFIGENIA, ORFEO, GIUDITTA

Altra modalità attraverso la quale la Letteratura Svizzera si ricollega alla tradizione letteraria europea dei secoli precedenti e cerca, di conseguenza, di far emergere la propria voce dal ‘cantuccio’ culturale in cui è confinata a causa della supremazia della creatività proveniente dalle potenze confinanti, quali l’Italia, la Germania e la Francia, è la riscrittura. Secondo Gérard Genette, stando a quanto emerge da Palimpsestes (1982), la riscrittura va considerata come una forma di ipertestualità, prodotto di una operazione di trasformazione attraverso la quale viene stabilito un nesso tra un “testo B” (ipertesto) e un “testo A” (ipotesto), sul quale il primo poggia, senza però limitarsi a essere un suo commento.1 Negli esempi che riporteremo di seguito, inerenti alla Letteratura Svizzera — le rielaborazioni di due miti greci, quello di Ifigenia e quello di Orfeo, e una rivisitazione in chiave poetica del personaggio biblico Giuditta — ci troviamo al cospetto di una produzione intenzionale di una fitta intertestualità e della volontà, dunque, da parte degli intellettuali elvetici di instaurare un legame con le principali figure che appaiono nelle varie letterature europee anche perché, come afferma Piero Boitani « la letteratura è un albero gigantesco, ma le radici sono sempre le medesime, e la ri- scrittura è il principio che governa la crescita ».2

- Ifigenia Personaggio tratto dalla mitologia greca, Ifigenia è, come noto, la figlia di Agamennone e Clitemnestra destinata a essere sacrificata dal padre per permettere la partenza della flotta assiepata nel porto della città di Aulide, pronta a partire per la Guerra di Troia ma trattenuta dalla dea Artemide per mezzo di forti venti.

 1 Sul tema della riscrittura si veda: AA.VV., “Du thème en littérature” in Poétique, (64) 1985; LUCIANA BORSETTO, Riscrivere gli antichi, riscrivere i moderni e altri studi di letteratura italiana e comparata tra Quattro e Ottocento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002; NORTHROP FRYE, Il potere delle parole. Nuovi studi su Bibbia e Letteratura, Firenze, La Nuova Italia, 1994; GÉRARD GENETTE, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Torino, Einaudi, 1997; DANIELE GIGLIOLI, Tema, Firenze, La Nuova Italia, 2001; ANDRÉ LEFÈVRE, Traduzione e riscrittura. La manipolazione della fama letteraria, Torino, Utet, 1998. 2 PIERO BOITANI, Ri-scritture, Bologna, Il Mulino, 1997, p. XII.

292  Lo svizzero JÜRG AMANN in Iphigenie oder Operation Meereswind (1998), opera mai rappresentata a teatro seppur concepito strutturalmente come una pièce, traspone gli eventi ai giorni nostri e immagina il mito di Ifigenia trasmesso dal network statunitense CNN e raccontato dal suo corrispondente in Aulide, Linda Xanakis: « Hello, Ladies and Gentlemen! Herzlich willkommen, meine Damen und Herren, die Sie auf der ganzen Welt von Ihren Bildschirmen sitzen und mit uns gespannt auf den Ausbruch des Krieges warten! Wir sind hier für Sie direkt vor Ort, in der Hafenstadt Aulis ».3 Con l’opera dello svizzero non ci si trova al cospetto di « una revisione critica del mito, di una messa in discussione degli eroi (o anti-eroi) di Euripide. Per lunghi tratti si ha una traduzione in cui il testo originale viene riportato spesso alla lettera, sebbene in prosa, non in versi ».4 Prendendo la categorizzazione che Genette fa in Palimpsestes in merito alle varie tipologie di riscrittura, si può affermare che quella compiuta da Amann non è una parodia, poiché non si arriva a un degrado con fini ironici del contenuto, né un travestimento, in quanto l’autore svizzero, pur conservando l’invenzione e la disposizione, non impone tutt’altra elocuzione — utilizzando i termini con cui il critico parigino ha spiegato l’evento —, non propone, dunque, un altro stile ma si limita a intervenire esclusivamente su alcune sezioni. Si ha a che fare piuttosto, quindi, come sottolineato da Amann stesso nella pagina introduttiva dell’opera, con un adattamento, come spiega Anna Fattori con « una attualizzazione dell’originale, una ripresa seria, non dissacrante, sebbene non priva di risvolti ironici che si riferiscono però al presente, non al mito proposto ».5 Lo spunto per quest’opera, rende noto l’autore di Winterthur nell’introduzione al dramma rivisitato, è fornito da uno dei fatti storici più recenti, la Guerra del Golfo: Amann trova un punto di contatto tra le vicende mitiche di Ifigenia e quelle contemporanee che hanno visto contrapposte le forze dell’ONU a quelle irachene di Saddam Hussein, nella fase di stasi che caratterizza i due avvenimenti; il vento blocca la partenza della flotta dal porto di Aulide così come

 3 JÜRG AMANN, Iphigenie oder Operation Meereswind: eine Tragödie, Frankfurt am Main, Eremiten-Presse, 1998, p. 6. 4 ANNA FATTORI, La coercizione a èleos e fobos. Iphigenie oder Operation Meereswind (1998) di Jürg Amann, in LIA SECCI (a cura di) Il mito di Ifigenia da Euripide al Novecento, Roma, Artemide, 2008, p. 158. 5 Ivi, p. 159.

293  i media di tutto il mondo il 17 gennaio 1991 sono in attesa della scadenza dell’ultimatum delle Nazioni Unite all’Iraq e del conseguente bombardamento al paese asiatico da parte degli alleati. L’operazione, come noto, prese il nome di Desert Storm che, nella pièce di Amann, corrisponde all’Operazione Brezza Marina che ritroviamo sin dal titolo. La novità sostanziale introdotta in questa rivisitazione elvetica sta proprio nella presenza del personaggio della corrispondente in Aulide della CNN che ha la funzione di presentare con enfasi giornalistica gli accadimenti e permette due livelli di comunicazione nell’opera: da una parte troviamo Ifigenia che interagisce con gli altri protagonisti del dramma e dall’altra il programma televisivo, quanto narrato dalla reporter, quindi, intervallato, come in ogni show che si rispetti, con le interruzioni pubblicitarie. Linda Xanakis usa un linguaggio e delle frasi sempre ‘ad effetto’ per tenere alta l’attenzione dei suoi telespettatori e per far salire la Spannung, la tensione intorno all’evento: « Bruderzwist im Haus der Atriden! »6, « Kindesliebe gegen Brüderliebe! »7, « Spannung in Aulis — gibt Agamennon nach? »8, « Iphigenie opfert sich für Griechenland! »9 e ancora « Iphigenie durch Wunder gerettet? ».10 Riconosciuta la reporter della rete televisiva statunitense come la grande novità e differenza con le versioni precedenti del mito di Ifigenia introdotta da Amann, va altresì evidenziata un’ulteriore variazione che riguarda il finale dell’opera; a rivelare a Clitemnestra quanto accaduto a sua figlia, lo happy ending, non sarà un messaggero ma Agamennone. La reazione della figlia del re di Sparta sarà, però, alquanto scettica e mostrerà la sua poca fiducia nei confronti del marito: « Wie soll ich dich nennen? Lügner? Betrüger? Selbstbetrüger? Muß ich nicht denken, die Botschaft sei falsch ».11

 6 JÜRG AMANN, op. cit., p. 20. 7 Ivi, p. 24. 8 Ivi, p. 60. 9 Ivi, p. 67. 10 Ivi, p. 73. 11 Ivi, p 72.

294  - Orfeo Congedarono deluso dall’aldilà Orfeo, il figliolo di Eagro. Gli avevano lasciato vedere l’ombra della donna per cui era venuto, ma lei non la rilasciarono: aveva fatto la figura di uno senza spina dorsale (naturale, un suonatore di cetra), uno senza l’audacia di morire per eros come Alcesti: un cercatore di trucchi per infiltrarsi vivo nell’aldilà. E ovviamente lo castigarono per questo e vollero che la sua morte avvennisse per mano femminile.12

Queste le parole con cui Platone nel suo Simposio sintetizza i tre momenti essenziali del mito greco di Orfeo: il canto, l’amore e la morte costituiscono l’intelaiatura del corpus leggendario che nel corso dei secoli ha subìto varianti e aggiunte ma ha continuato ad affascinare sempre artisti di ogni parte del mondo; dagli anni Settanta dello scorso secolo ai giorni nostri la figura di Orfeo è stata più volte protagonista di opere dell’universo letterario francofono come le elvetiche

Orphée di ÉTIENNE BARILIER e Orphée errant di GEORGES HALDAS. Nella rielaborazione dell’autore nato a Payerne, l’Orfeo che riporta la sua sposa dagli inferi, si volta verso di lei e la perde per l’ardito gesto, è un giovane uomo che ritrova l’Euridice della sua infanzia: « elle est là, paradis défaillant, étoile mûrie par des nuits étrangères; son sourire fleurit les tombes de l’innocence. Sa beauté, transie de regards mâles, ses cheveux sagement coiffés nient le passé, avec une implacable tristesse. […] Cette nuit-là, j’aurais pris la main de la mort comme celle d’une soeur, et nous aurions marché sous la lune ».13 L’Orfeo di Barilier, che tenterà di risalire con lei verso la luce del presente ma rimarrà affascinato dal paradiso perduto, in questo récit incarna l’egoismo e il misticismo ingenuo dell’adolescenza, la lotta sempre incerta tra la vita e l’arte, è il rifiuto di vivere per l’Assoluto che non si può raggiungere e neanche nominare ma che si cerca nella purezza e nell’innocenza di qualche esistenza: Lui qui si souvent faisait de la vie un jeu de concepts, un jeu verbal, se sentait envahi d’une gravité nouvelle, parce que sa quête, maintenant, était d’abord celle d’une âme. Le génie est peut-être retour à l’enfance, mais lui, il avait fait allègrement de l’enfance un tremplin du génie. Il s’était forcé pour pleurer devant des cieux abstraits. Mais on ne pleure pas devant l’infini: on pleure devant ce qu’une âme nous en livre. Et peut-être, malgré son orgueil

 12 PLATONE, Simposio, in ID., Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone (a cura di Ezio Savino, ed. con testo originale a fronte), Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1987, pp. 43-45. 13 ÉTIENNE BARILIER, Orphée, Lausanne, L’Age d’Homme, 1971, p. 23.

295  et sa solitaire course à l’étoile, peut-être comprend-on, tout au fond de soi, que la pureté ne s’atteint jamais qu’à travers le pardon.14

Nell’Orphée errant Haldas, invece, mostra come la poesia — e l’arte più in generale — per lui costituisca il fine ultimo dell’esistenza e sviluppi per l’uomo una relazione in verità più organica, un legame dell’essere umano con la fonte unica di tutta la vita, il Divino: « la poésie a ceci de commun avec la foi qu’elle transcende toutes les dispositions particulières: sensations, sentiments, pensées, rêves, projets (dont, par ailleurs, elle se nourrit). Elle est déjà, au coeur des choses, l’audelà de toutes choses ».15 Per lo scrittore ginevrino, quindi, nel mito di Orfeo che non deve mai voltarsi all’indietro (« ne jamais se retourner. Ne regarder qu’en avant. Celui qui regarde en avant est plus relié au passé que celui qui se retourne sur le passé. Et qui regarde en avant vit mieux, de surcroit, le moment présent. L’instant. Cette pépite d’éternité »16), Euridice rappresenta, a fronte di tutte le peripezie sentimentali, proprio l’aspirazione massima del figlio della musa Calliope — e di tutti gli esseri umani — a essere congiunti alla fonte unica della vita senza, però, riuscirvi. Haldas cerca di passare, con il suo Orfeo, dalla sfera magica della poesia a quella della realtà religiosa, in altri termini dalla malia seduttrice del figlio di Eagro alla realtà salvifica del Cristo: « Etat de Poésie et Etat de Prière qui, à certains moments, se confondent, et, à d’autres, radicalement se disjoignent ».17

- Giuditta Nella Bibbia il testo che vede protagonista Giuditta costituisce uno dei libri deuterocanonici che viene considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre per la tradizione protestante è apocrifo e nel Tanakh, la Bibbia ebraica, non viene accolto. La storia della donna che ha dato la libertà, grazie al suo coraggio, al popolo di Betulia, è da sempre fonte di ispirazione letteraria e iconografica; basti pensare alle versioni che si rinvengono nel Novecento: quella misogina del 1911 realizzata da Georg Kaiser, Die jüdische Witwe, che presenta una Giuditta desiderosa di  14 Ivi, p. 120. 15 GEORGES HALDAS, Orphée errant. Carnet 1989, Lausanne, L’Age d’Homme, 1996, p. 25. 16 Ivi, p. 27. 17 Ivi, p. 110.

296  esperienze erotiche, quella passionale del 1932 di Jean Giraudoux, che immagina l’eroina innamorata di Oloferne e lo uccide per non perderlo, e quella di Rolf Hochhuth del 1984, in cui Giuditta è una giornalista disinvolta e sicura di sé che compie un attentato contro il presidente degli Stati Uniti quando questi conferma la produzione di armi chimiche nel paese. A queste versioni più o meno note del Novecento europeo va aggiunta quella svizzera, il poema Judith et Holopherne (1989) di FRANÇOIS DEBLUË, dal tono di un canto recitativo che accompagna l’azione del dramma antico e che gioca sull’alternanza con il silenzio — con quelle pause che certe parole richiedono — per dar vita a versi di notevole impatto: Pour eux tu es partie pour eux tu as quitté les murs de Béthulie

Derrière toi tu laissais la terrasse les cintronniers les champs semés d’orge et de seigle la plaine tout entière abandonnée

Pour eux tu es partie pour eux tu as quitté les murs de Béthulie.18

La Giuditta dello scrittore vodese è una donna ferita, una vedova che vive sola con l’intensità del suo dolore. Aver sconfitto Oloferne la fa piangere e più che una donna trionfante, quella di Debluë ci appare una vittima dell’interesse collettivo; sono stati, infatti, contrariamente a quanto avviene nella Bibbia, gli abitanti della città assediata di Betulia a sollecitare l’intervento dell’eroina e la pace ritrovata porterà gioia in tutta la comunità ma non nel cuore della vedova, che continuerà a vivere nel ricordo dell’uomo che ha amato e che la vita le ha portato via troppo presto (« ni l’allégresse de ton peuple / ni les jours ni les ans / ne t’ont rendu / celui que tu aimais tant / celui / que ton cœur aime encore »19). Fedele ai suoi principi e all’amor perduto, Giuditta rifiuta di esser considerata, abbandonata allo sconforto e al dolore, lo strumento della vendetta

 18 FRANÇOIS DEBLUË, Judith et Holopherne, in ID., Travail du Temps, Judith et Holopherne, Poèmes de la Nuit Venue, Lausanne, Éditions Empreintes, 1997, p. 126. 19 Ivi, p. 140.

297  divina, scelta proprio dal Signore perché « plus belle que la beauté »20, e al potere della seduzione che tutti le riconoscono preferisce la purezza dei sentimenti. Da questa coscienza, quindi, deriva la rabbia per la trappola che, per compassione nei confronti del suo popolo e per orrore della guerra, ha accettato di tendere al condottiero dell’esercito assiro, il motivo di tanto odio. Per un crudele capovolgimento la bella e giovane vedova, che qui incarna l’amore assoluto, diviene, nello spazio di una notte, colei che uccide il più nobile dei sentimenti. È il disprezzo per la considerazione che si è avuta della sua nobiltà d’animo, del suo corpo e del suo spirito che la porta a piangere. L’atto di violenza non è, dunque, quello di mostrarsi e offrirsi a Oloferne per poi ucciderlo, ma è quello compiuto dal popolo di Betulia, reo di non aver compreso la vera essenza di Giuditta (« mais tu pleures ce matin / comme jamais tu n’as pleuré »21) e di averla ridotta a simbolo, al livello di un’immagine o di un oggetto (« de ta beauté ils ne distinguèrent que l’ombre sur la toile »22).

 20 Ivi, p. 123. 21 Ivi, p. 136. 22 Ivi, p. 133.

298  1 4.4 ROMANZO POLIZIESCO E CRITICA SOCIALE

4.4.1 GLAUSER E LE REGOLE DEL GENERE POLIZIESCO

La storia del romanzo poliziesco è vecchia quanto quella dell’uomo: nella Bibbia, nel libro della Genesi, Caino uccide suo fratello Abele, il movente è l’invidia, indaga sul caso il Signore in persona che dà vita a un fine interrogatorio —« Dov’è Abele tuo fratello? Che hai fatto? »2 chiede a conferma dei suoi sospetti —, le prove sono schiaccianti — « la voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! »3 dice, infatti, l’Onnipotente — e a Caino non resta che confessare e arrendersi alla sentenza: « troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! ».4 Va senz’altro sottolineato, però, come per l’investigatore in questione il caso non presentasse grandissime difficoltà: senza voler considerare l’onniscienza divina, va ricordato che la rosa dei possibili responsabili dell’efferato delitto era molto ristretta. Sono stati indicati dalla critica come prototipi del romanzo investigativo anche l’Odissea di Omero, con Ulisse che riesce a depistare il gigante Polifemo ricoprendosi di pelli di capra, e Mille e una notte, in cui spesso una bella donna riesce a carpire segreti con vari abili espedienti e un ladro lavora con ingegno e astuzia. E anche in Hamlet di William Shakespeare, con il principe di Danimarca intento a far confessare lo zio che ritiene colpevole servendosi di vari stratagemmi, c’è chi intravede il progenitore di tutti gli investigatori. Ma forse, se

 1 Per la storia, l’evoluzione e le caratteristiche del romanzo poliziesco si veda: STEFANO BENVENUTI e GIANNI RIZZONI, Il romanzo giallo: storia, autori e personaggi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1979; RENZO CREMANTE e LORIS RAMBELLI (a cura di), La trama del delitto. Teoria e analisi del racconto poliziesco, , Pratiche editrice, 1980; ALBERTO DEL MONTE, Breve storia del romanzo poliziesco, Bari, Laterza, 1962; LORETTA ELDER, Il giallo. Storia- personaggi-autori-illustratori, Roma, Fratelli Palombi Editori, 1996; LAURA GRIMALDI, Il giallo e il nero. Scrivere suspense, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1996; SIEGFRIED KRACAUER, Der Detektiv-Roman: Ein philosophischer Traktat, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1979; ERNESTO G. LAURA, Storia del giallo da Poe a Borges, Roma, Nuova Universale Studium, 1981; CARLO OLIVA, Storia sociale del giallo, Lugano, Todaro Editore, 2003; RAFFAELLA PETRILLI, Il detective e le parole: le strutture semantiche del “giallo”, Enna, Città Aperta, 2004; GIUSEPPE PETRONIO (a cura di), Il punto su: il romanzo poliziesco, Bari, Laterza, 1985; GIUSEPPE PETRONIO, Sulle tracce del giallo, Roma, Gamberetti editore, 2000; ELENA SORMANO, Il romanzo giallo e i suoi meccanismi, Torino, Paravia, 1979. 2 La Sacra Bibbia, Genesi, 4, 1-16. 3 Ibidem. 4 Ibidem.

299  proprio si deve rintracciare un anticipatore del metodo di indagine, è più giusto far riferimento a Zadig ou la destinée. Histoire orientale (1747) di Voltaire, opera in cui il protagonista riesce nell’intento di descrivere alla perfezione la cagnetta e il cavallo del re scomparsi da corte, basandosi meramente sull’osservazione di tracce e indizi vari e scampando alla condanna a morte grazie alle informazioni che riesce a fornire dal carcere e che risultano essenziali ai fini del ritrovamento dei due animali. Senza dubbio nelle opere fin qui menzionate sono ravvisabili alcuni degli ingredienti principali che caratterizzano il romanzo poliziesco — vi sono intrighi, indagini, espedienti per tentare di smascherare misfatti e crimini e ottenere importanti confessioni, sono presenti fini deduzioni e ragionamenti basati sull’osservazione di indizi e tracce — ma non sono sufficienti affinché si possano menzionare tali opere come autentiche progenitrici del genere letterario preso in esame. La prima opera che si ritiene convenzionalmente unisca in sé i temi e la struttura propri del poliziesco è il racconto The murders in the Rue Morgue (1841) di Edgar Allan Poe: lo scrittore americano presenta un mistero apparentemente inspiegabile a cui si attribuisce una prima soluzione superficiale, si passa a un’osservazione attenta e razionale degli eventi e delle tracce, si medita sulle possibili soluzioni e si arriva, attraverso il ragionamento logico, alla soluzione dell’enigma. La razionalità vince sull’irrazionalità e il mistero viene svelato senza far ricorso a fenomeni sovrannaturali come invece avveniva nella gothic novel.5 Si sono via via cimentati con questo genere letterario Emile Gaboriau, — protagonista delle sue storie è Monsieur Lecoq, « un investigatore eccezionale perché è dotato di una “mentalità criminale” che gli permetterebbe di commettere crimini perfetti. E quindi anche di svelarli »6 — Conan Doyle, padre di Sherlock Holmes, Agatha Christie con i suoi Hercule Poirot e Miss Marple, Georges Simenon, creatore del commissario Maigret. Nel corso degli anni, sempre più spesso, si è sentita la necessità di dettare delle regole in merito al romanzo poliziesco: quando si parla di regole del giallo non ci si può esimere, però, dal riferire in merito alle “venti regole per il delitto  5 Cfr. STEFANO BENVENUTI e GIANNI RIZZONI, op. cit., pp. 15-19. 6 Ivi, p. 21.

300  d’autore” di S.S. Van Dine, scrittore e critico d’arte statunitense, autore di polizieschi incentrati sulla figura dell’intellettuale investigatore, appassionato di psicologia e arte, Philo Vance. Nelle sue norme, pubblicate nel 1928 sulla rivista americana The American Magazine, Van Dine sostiene innanzitutto che il pubblico alle prese con la lettura di un romanzo poliziesco deve avere le stesse possibilità del detective di risolvere l’enigma; tutti gli indizi e le tracce, infatti, devono emergere chiaramente durante la lettura, devono essere elencati e descritti e, dunque, non devono essere esercitati sotterfugi e inganni oltre a quelli comunemente perpetrati ai danni dell’investigatore. Nel romanzo giallo, tra l’altro, secondo Van Dine, non deve esserci una storia d’amore troppo tormentata in quanto si rischierebbe di far scadere l’interesse nei confronti del crimine alla base della narrazione; del resto lo scopo di un’opera appartenente a questo genere è portare un criminale davanti alla giustizia e non due innamorati all’altare. Il colpevole, continua lo scrittore americano, non deve essere mai l’investigatore o qualcuno impegnato nella ricerca dell’assassino; si deve arrivare alla soluzione dell’enigma attraverso logiche deduzioni e la raccolta di indizi: non può essere determinante il caso; affidarsi a coincidenze e circostanze fortuite è mancare di rispetto al lettore, equivale a non concedergli le stesse possibilità del detective di arrivare a smascherare il criminale che, comunque, deve essere una persona che ha avuto una parte importante nella storia, che sia diventata familiare al lettore — insomma non una semplice comparsa —, un personaggio molto vicino alla vittima, uno di cui mai si potrebbe sospettare ma non un servitore: la soluzione sarebbe troppo semplice e banale. Da evitare, per lo stesso motivo, anche far ricadere la colpa su un delinquente di professione. Il lettore, ad ogni modo, giunto all’ultimo capitolo, ripercorrendo il libro a ritroso, deve constatare che la soluzione stava davanti ai suoi occhi dall’inizio, che tutti gli indizi portavano effettivamente a quello che è stato individuato come il colpevole e che, se egli fosse stato astuto quanto il detective, avrebbe potuto risolvere il mistero da sé, senza arrivare alla fine del libro. Non sono ben visti, tra l’altro, i metodi irrazionali: non si deve giungere alla soluzione per mezzo di scritture medianiche, sedute spiritiche, letture del pensiero o magie varie. Ad

301  indagare sul caso deve esserci un solo detective; mettere in scena tre o quattro ‘deduttori’ finisce solo per creare confusione: per il lettore deve essere chiaro con chi sta gareggiando nel tentativo di trovare per primo il responsabile del misfatto. Anche il colpevole deve essere uno soltanto, qualunque sia il numero dei delitti commessi e non deve appartenere a società segrete o qualsivoglia associazione a delinquere; ben vengano i complici ma l’intera responsabilità deve cadere esclusivamente su una persona. Essenziale, prosegue Van Dine, che ci sia almeno un morto: non vale la pena spendersi in una lettura di trecento pagine per una colpa minore di un assassinio. Descrizioni troppo ampie, pezzi di bravura letteraria e analisi psicologiche troppo insistenti non servono in un romanzo poliziesco: rallentano l’azione e distraggono dallo scopo principale che è, solo ed esclusivamente, rintracciare il responsabile del crimine. Il delitto non deve mai avvenire per incidente, né si deve mai scoprire trattarsi di un suicidio: terminare un’odissea di indagini con una soluzione così banale significherebbe prendere in giro il lettore; tra l’altro il movente deve collegarsi a motivi puramente personali. Van Dine conclude le sue regole con degli elementi da evitare perché già abusati in passato dagli scrittori di romanzi gialli: meglio rifuggire quindi, ad esempio, dallo scoprire il colpevole grazie al confronto di un mozzicone di sigaretta sul luogo del delitto con le sigarette fumate da uno dei sospettati, a impronte digitali falsificate, a cani che non abbaiano e quindi rivelano la familiarità dell’assassino, piuttosto che a delitti commessi in una stanza chiusa dopo che la polizia vi ha già fatto il suo ingresso, all’utilizzo di sosia o gemelli di persone sospettate, bevande soporifere o alfabeti convenzionali che il poliziotto riesce a decifrare.7 L’epoca d’oro del romanzo giallo è quella a cavallo tra le due guerre mondiali, gli anni che vanno dal 1920 al 1940: in questo periodo si affermano a livello mondiale scrittori di romanzi polizieschi anglofoni come Agatha Christie e Raymond Chandler; il successo di tali autori è notevole anche in Svizzera se si considera il proliferare di scrittori che danno vita ad opere fortemente ispirate al poliziesco classico. Tra i numerosi tentativi di imitazione che si registrano sul

 7 Cfr. Ivi, pp. 84-85.

302  suolo elvetico nel periodo sopra citato, degni di nota sono quelli di STEFAN

BROCKHOFF, uno pseudonimo dietro il quale si celano Dieter Cuntz (1910-1969), Oskar Seidlin (1911-1984) e Richard Plant (1910-1998), fuggiti dalla Germania in concomitanza dell’avvento al potere di Adolf Hitler e vissuti in Svizzera — a Basilea e Losanna — fino al 1938, prima di emigrare negli Stati Uniti. Il piccolo stato dell’Europa centrale ha funto da catalizzatore per i tre tedeschi che solo ed esclusivamente nei cinque anni trascorsi sul territorio elvetico hanno lavorato alla stesura di romanzi polizieschi, oltre a sembrare inseparabili anche nella vita di tutti i giorni; una volta giunti sul suolo americano Cuntz, Seidlin e Plant non hanno più scritto e vissuto insieme. L’angoscia per le vicende della vicina Germania nazista, così in contrasto con la quasi irreale tranquillità svizzera, evidentemente ha spinto i tre a far vita comune e a creare, oltre allo pseudonimo Stefan Brockhoff, il personaggio del commissario Wienert, protagonista di Der Schuss auf die Bühne (1935) — l’unico romanzo di Brockhoff non ambientato in Svizzera, bensì nella Germania Ovest —, Musik im Totengässlein (1936), in cui il detective viene aiutato da tre studenti — Jupp, Gerda e Alex —, amici inseparabili, e i romanzi a puntate, apparsi sulla rivista Zürcher Illustrierte, Drei Kioske am See (1937) e, Verwirrung um Veronika. Ein heiterer Roman (1938). L’influenza del giallo classico è evidente: il commissario Wienert ha la calma e la perspicacia di Hercule Poirot, è osservatore della natura umana alla maniera di Miss Jane Marple ma, soprattutto, sembra ricalcato sulla figura di Philo Vance, il bon vivant di New York, a tratti profondamente altezzoso e irritante, uscito dalla penna di S.S. Van Dine. Si può, a ragione, ritenere che proprio il giallista statunitense sia il maggior modello di riferimento per Stefan Brockhoff, se si tiene anche in considerazione che sulla falsariga delle Twenty Rules for Writing Detective Stories di Van Dine, i tre creatori del commissario Wienert hanno dato alle stampe Zehn Gebote für den Kriminalroman, editi sul numero del 5 febbraio 1937 della Zürcher Illustrierte, una settimana prima che venisse pubblicata dalla stessa rivista la prima parte di Drei Kioske am See. Brockhoff si limita a riassumere le leggi messe per iscritto da Van Dine e

303  condivise dagli autori del Detection Club8: assodato che un romanzo poliziesco è « ein Spiel. Ein Spiel zwischen den einzelnen Figuren, Spiel zwischen Autor und Leser »9, va anche riconosciuto che in tale gioco lo scrittore sembra essere fortemente in vantaggio; è lui che distribuisce le carte e sta ben attento a scegliere quelle da passare al suo compagno. Proprio perché il creatore del giallo gode di tale privilegio, risulta essenziale fissare delle regole a cui si deve attenere, affinché il lettore non finisca vittima di un imbroglio sleale: ne consegue, quindi, che « alle rätselhaften Ereignisse, die im Verlauf des Romans geschehen, müssen am Schluss erklärt und aufgelöst werden »10; Brockhoff aggiunge che tutto quello che fa accadere nei suoi romanzi polizieschi nel finale trova una spiegazione, al contrario di quel che avviene nelle opere di un certo autore classico — e che riscuote ben più ampi consensi si potrebbe aggiungere — in cui succede tre volte tanto ma viene spiegato soltanto la metà. Il decalogo del ‘bravo giallista’ prosegue con continue allusioni a quell’autore classico che non conosce norme e regole: ad esempio per Brockhoff è essenziale che « die Ereignisse, die vor dem Leser ausgebreitet werden, dürfen nicht nur dazu erfunden sein, den Leser irrezuführen »11 eppure, sottolinea, c’è quel classico che non fa altro che spingere il lettore nella direzione sbagliata, mostrandosi così un disonesto compagno di gioco oppure va alla ricerca dell’originalità a tutti i costi, escogitando marchingegni misteriosi e complicatissimi con i quali togliere la vita alle vittime dei suoi romanzi, senza comprendere il confine tra raffinatezza e stupidità. Anche l’assassino e l’investigatore devono essere uomini privi di « überirdische Kräfte »12 e il detective, in particolare, non deve avere il dono dell’ubiquità né quello dell’onniscienza: per trovare deve semplicemente cercare, « muss er sein menschliches Gehirn in Bewegung setzen »13 e la lotta deve

 8 Il Detection Club è la più prestigiosa associazione di scrittori di romanzi polizieschi, una sorta di accademia del genere giallo che stabilisce regole e codice etico e di cui è stata presidentessa dal 1957 al 1976 Agatha Christie. 9 STEFAN BROCKHOFF, “Zehn Gebote für den Kriminalroman”, in Zürcher Illustrierte, 5 febbraio 1937. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Ibidem.

304  contrapporre unicamente le azioni insidiose di un criminale e le riflessioni intelligenti dell’investigatore che è lì per scoprire i suoi trucchi. Inoltre è importante che il lettore conosca l’assassino ma non lo riconosca nelle prime pagine; Brockhoff intende dire che il malvagio non può essere né una figura marginale né un personaggio messo troppo in risalto e trovare il giusto equilibrio è il compito principale dell’autore che deve, inoltre, impegnarsi a non stancare eccessivamente il lettore con udienze interminabili, verbali dettagliati e scrupolosi sopralluoghi. Infine Brockhoff sottolinea che « nicht alles, was geschieht, kann in einem Kriminalroman gezeigt werden »14 ma è auspicabile che il lettore assista agli avvenimenti decisivi e vi partecipi: « der Leser soll die handelnden Figuren und deren Tun mit seinen Augen verfolgen können ».15 Brockoff, però, se si considera che sembra parlare del « Klassiker des Kriminalromans »16 alla stregua di un criminale in un romanzo giallo, e poi non fornisce al lettore il nome di questo ‘assassino del genere poliziesco’ o indizi sufficienti per arrivare a scovarlo, appare soltanto un buon predicatore; sembra lui per primo, così, ad andare contro le regole che ha cercato di imporre. Ma a pochi giorni di distanza dall’apparizione del decalogo di Brockhoff, il

25 marzo del 1937, è ‘l’assassino del genere poliziesco’ stesso, FRIEDRICH

GLAUSER, a palesarsi e a rivolgersi direttamente al suo accusatore con una lettera alla Zürcher Illustrierte, in realtà poi mai pubblicata: Sehr geehrter und lieber Kollege Brockhoff, vor einiger Zeit haben Sie vom Sinai der Zürcher Illustrierten herab zehn Gebote für den Kriminalroman erlassen, und über die Forderungen, die Sie aufstellen, hätte ich gerne mit Ihnen diskutiert. Einige Behauptungen haben meinen Widerspruch und meine Kritik geweckt — nur hätte ich Ihnen gerne meine Bemerkungen mündlich mitgeteilt. […]Ich habe immer gefunden, das Alte Testament habe mit der Aufstellung der Zehn Gebote — deren Übertretung, nebenbei bemerkt, uns immer noch den Stoff für unsere Romane liefert — einen bedauerlichen Präzedenzfall geschaffen. Alle Leute, die den dunklen Drang verspüren, ihren geplagten Mitmenschen Vorschriften zu machen, fühlen sich seither verpflichtet, ihr Thema in zehn Teile zu gliedern, auch wenn es mit fünf, vier oder drei Geboten erschöpft wäre.17

 14 Ibidem. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 FRIEDRICH GLAUSER, Wachtmeister Studers erste Fälle, Hamburg, Arche Verlag, 1986, p. 181.

305  Glauser mette da parte l’ironia e continua la sua disquisizione sottolineando, per prima cosa, la poca originalità del decalogo di Brockhoff: molte delle regole messe per iscritto — verosimiglianza dell’azione, rinuncia alle bande, gioco leale, lingua decorosa — sono ovvie e a lui note, in quanto sancite anche dal Detection Club di Londra nei suoi statuti, ma volutamente ignorate poiché ritiene che « ein Roman, nach diesem Rezept geschrieben, ist schicksalslos. Der Mord, der ein-, zwei-, dreifache Mord, am Anfang, in der Mitte und vielleicht auch gegen Ende geschieht nur, um einer Denkmaschine Stoff zu logischen Deduktionen zu geben. […] Jetzt aber ist sie abgegriffen — um nicht zu sagen abgeschmackt ».18 Va notato come il termine schicksalslos, tradotto per l’edizione italiana da Gabriella de’ Grandi come “non fortunato”, letteralmente sta per “privo di destino”; il concetto di destino è strettamente connesso al “caso”, che ricopre un ruolo fondamentale nei polizieschi di Glauser e, con intensità ancora maggiore, vedremo più avatni, in quelli di Dürrenmatt. Così, ‘per caso’, il sergente Studer — il protagonista dei gialli di Glauser ad eccezione di Der Tee der drei alten Damen (1939) — in Wachtmeister Studer (1935) si trova in un piccolo paese svizzero a indagare su un omicidio che sembra un suicidio e, altrettanto ‘per caso’, in Kroch & Co. (1937) si trova in un albergo di un paesino della regione dell’Appenzell, dove un giovane viene ucciso con un raggio di bicicletta. Con lo scrittore originario di Vienna approdano, quindi, anche in Svizzera quei gialli alla Simenon che Giuseppe Petronio definisce, in contrapposizione con quelli “classici”, “aperti”, « dove la soluzione o appare addirittura impossibile o appare possibile (e intravista o addirittura vista dal detective) ma non può avere gli sbocchi pratici tradizionali: la rivelazione del nome del colpevole e il suo arresto. Una fase nuova dunque, che mette in discussione tutte le tesi sul “giallo” e lo problematizza in modo nuovo ».19 Nella sua difesa Glauser dimostra di conoscere bene lo schema canonico del giallo che Brockhoff teneva tanto a rinfrescare con i suoi dieci comandamenti: all’inizio l’autore crea l’elenco dei personaggi e, « um die Gehirntätigkeit des Lesers zu schonen »20, lo pone sul retro del frontespizio. Nelle prime pagine  18 Ibidem. 19 GIUSEPPE PETRONIO, Sulle tracce, cit., p. 82. 20 FRIEDRICH GLAUSER, op. cit., p. 183.

306  avviene l’omicidio, un infallibile detective, abile e ingegnoso come aveva sottolineato Brockhoff, parte alla ricerca degli indizi e ottiene, senza troppi sforzi, la confessione dell’assassino: « die Lösung aber blühet ihm als Blümlein am Wege ».21 Per Brockhoff l’assassino sarebbe semplicemente « ein böser Mensch »22; per Glauser non esistono uomini malvagi e uomini buoni a priori, c’è “qualcosa” che porta una persona a essere malvagio e quello che egli vuole indagare nei suoi romanzi polizieschi è proprio questo “qualcosa”: lo scrittore svizzero intende proporre al lettore, e anche a se stesso, una discesa nei meandri della mente umana, capire cosa spinge un uomo a uccidere e se le sue azioni possono essere in qualche modo influenzate dall’ambiente in cui vive. L’assassino è un uomo come gli altri, proprio come accade nella vita di tutti i giorni. I romanzi polizieschi di Glauser non sono, quindi, incentrati tanto sulla ricerca dell’assassino, quanto su quella del movente: « im Gegensatz zu den Erzählungen der anderen Detektive verleiht der Text seiner Lösung jedoch nicht das größtmögliche narrative Gewicht, sondern diskreditiert sie ».23 I personaggi creati dallo scrittore svizzero conoscono la rabbia, l’amore, la vendetta, sono persone — e non personaggi — in cui il lettore deve potersi identificare: Vermenschlichen! Die Bahnhofsautomaten zu Menschen machen. Und vor allem die Denkmaschine, den Schlaumeier mit der Blümchenlösung im Knopfloch nicht mehr idealisieren. […] Er braucht gar nicht findig und geschickt zu sein. Es genügt, wenn er über Einfühlungsvermögen und einen gesunden Menschenverstand verfügt. […] Er muss herunter von seinem Sockel, der Schlaumeier! Er muss reagieren, wie Sie und ich. Versehen wir ihn mit diesen Reaktionen, geben wir ihm Familie, eine Frau, Kinder — warum soll er immer Junggeselle sein?24

Glauser, nella parte finale della sua risposta a Brockhoff, rende manifesto il suo modello, uno scrittore unico in cui ha trovato inglobato tutto quello che non ha avvertito nel resto della letteratura poliziesca: « Der Autor heißt Simenon »25 e non pone al centro delle sue opere la scoperta dell’assassino e la soluzione dell’enigma, bensì le persone e l’ambiente in cui si muovono e ha creato un investigatore, il commissario Maigret, dotato di una passionalità che non ha  21 Ivi, p. 184. 22 STEFAN BROCKHOFF, op. cit.. 23 PATRICK BÜHLER, Die Leiche in der Bibliothek. Friedrich Glauser und der Detektiv-Roman, Heidelberg, Winter, 2002, p. 147. 24 FRIEDRICH GLAUSER, op. cit., p. 188. 25 Ivi, p. 186.

307  eguali, secondo Glauser, in tutta la letteratura poliziesca. Il lettore resta indifferente alla soluzione poiché, in Simenon, « es scheint jenes Licht, das auch die bescheidensten, kleinsten Dinge zum Leben erweckt — zu einem bisweilen gespenstischen Leben ».26 Lo scrittore svizzero conclude la sua difesa pubblica con un ringraziamento al suo maestro: « Ich möchte Georges Simenon danken. Was ich kann, habe ich von ihm gelernt. Er war mein Lehrer, sind wir nicht alle jemandes Schüler? ».27 Con questa domanda il “Simenon svizzero” — così è stato definito Glauser da gran parte della critica — tende a rendere evidente l’appartenenza a due scuole di pensiero totalmente diverse: Brockhoff è figlio del Detection Club, Glauser del vento rivoluzionario che aveva iniziato a spirare sulle pagine della letteratura poliziesca; c’è spazio per tutti, sembra dire lo svizzero, ognuno segue la strada che vuole e, nelle ultimissime righe della sua missiva mai pubblicata, affonda la stoccata finale all’avversario: « Leider habe ich noch nie die Gelegenheit gehabt und das Vergnügen, einen Ihrer Romane zu lesen. […] Ich bin überzeugt, dass Sie mit Ihrem Roman 3 Kioske am See großen Erfolg errungen haben ».28 Con celata ironia Glauser, con questa affermazione, rimarca innanzitutto lo scarso successo di critica e pubblico raccolto dai romanzi di Brockhoff e come questo esiguo favore denoti, evidentemente, che la formula canonica del poliziesco, che si era desiderato rimarcare con i dieci comandamenti, fosse ormai da considerarsi superata; Glauser, percorrendo la strada che in Francia aveva portato al successo Simenon, prepara il terreno al ribaltamento totale dello schema classico a cui, in Svizzera, darà vita Friedrich Dürrenmatt.

 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Ibidem.

308  4.4.2 I GIALLI DI FRIEDRICH DÜRRENMATT

In Friedrich Dürrenmatt il germe della rivoluzione si insinua a poco a poco se si considera che il suo esordio nel genere poliziesco, Der Richter und sein Henker (1950), segue in parte la struttura narrativa del giallo classico: si parte con un’accurata descrizione ambientale, una esposizione dei fatti estremamente minuziosa e il ritrovamento di un cadavere. L’azione si snoda su quattro giorni, dalla mattina del 3 a quella del 7 novembre e a esser rinvenuto nella sua Mercedes blu, lungo la strada che conduce da Lamboing a Twann, nel cantone bernese, è il corpo senza vita del tenente di polizia Ulrich Schmied. A trovare il cadavere è il poliziotto Alphons Clenin ed è subito evidente che a uccidere Schmied sia stato un colpo di pistola. Altrettanto lampante, anche agli occhi di un lettore inesperto, è il dilettantismo di Clenin: il poliziotto, come prima mossa una volta rinvenuto il corpo della vittima, non rileva le possibili tracce lasciate dall’assassino sul luogo del delitto, come avrebbe fatto qualsiasi esponente delle forze dell’ordine al suo posto, ma porta via il cadavere e la macchina nella quale è stato trovato. Il caso viene affidato al commissario bernese Hans Bärlach che si mette subito a indagare e per prima cosa si reca nell’abitazione della vittima dove porta via, all’insaputa di tutti, una cartella contenente alcuni documenti. Soltanto molto più avanti nel romanzo, quasi verso il finale, al lettore sarà dato conoscere il contenuto di quegli incartamenti sottratti dall’abitazione di Schmied; i vari Van Dine e Brockhoff avrebbero gridato allo scandalo, adducendo una mancanza di rispetto nei confronti del pubblico che, a causa di quell’occultamento, non ha avuto tra le mani le stesse informazioni di cui ha potuto avvalersi il detective. Durante la prima ispezione sul luogo in cui è stato ritrovato il corpo senza vita di Schmied, il commissario Bärlach trova un solo indizio: una pallottola di revolver. La reazione del detective porta il lettore a comprendere chiaramente che si trova davanti a qualcosa di totalmente diverso rispetto al metodo scientifico di altri investigatori che hanno fatto la storia del poliziesco: « Das ist nur Zufall »1 esclama Bärlach. La sensazione che ci si trovi di fronte a un personaggio alquanto  1 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Der Richter und sein Henker, Einsiedeln, Zürich, Köln, Benzinger, 1958, p. 17.

309  bizzarro viene confermata dalla strana richiesta che il detective avanza nei confronti del suo superiore, il giudice Lucius Lutz: Bärlach pretende che gli venga assegnato come collaboratore nelle indagini sul caso dell’uccisione di Schmied, il poliziotto Tschanz, un uomo per il quale, si capisce subito, il nostro detective non nutre la minima stima. In questa prima parte della storia, tuttavia, Tschanz è il personaggio che sembra essere più acuto, l’unico ad offrire supposizioni verosimili: il poliziotto è, ad esempio, convinto che la vittima si stesse recando a un ricevimento; a farglielo pensare è l’abbigliamento, vuole vederci chiaro e decide di indagare sulle ultime attività di Schmied. Nel corso della narrazione il pubblico è davvero spiazzato, s’insinuano dubbi e sospetti sulla buona fede del detective e viene meno quella regola del giallo classico che vede l’investigatore come qualcuno con cui il lettore debba gareggiare per giungere alla soluzione del caso e non come una figura losca di cui dubitare. Al pubblico mancano punti di riferimento e certezze ma cresce l’attenzione e la voglia di riuscire a capire non soltanto se si riuscirà a scoprire l’assassino di Schmied, ma anche quale ruolo gioca il detective. Nel giorno dei funerali di Schmied, Bärlach nota come Tschanz riservi molte attenzioni alla fidanzata della vittima, la quale sembra ricambiare con molto piacere. Ecco che si contravviene a un’altra regola del giallo: niente storie d’amore, sostengono Van Dine e Brockhoff, che possano distogliere l’attenzione del lettore; Dürrenmatt, invece, inserisce anche questo lato sentimentale, accantonando le indagini e tutto quel che costituisce il materiale puro per un romanzo poliziesco. Dopo la cerimonia funebre, tuttavia, c’è un dialogo, che contiene importanti rivelazioni per l’interpretazione di tutta la vicenda, tra Bärlach e un uomo d’affari, Gastmann; in primo luogo si viene a sapere che il detective è gravemente malato, ha un cancro allo stomaco, deve essere operato ma le aspettative di vita restano molto basse. Le azioni apparentemente strambe di Bärlach si leggono ora sotto una nuova luce: egli sta conducendo una lotta contro il tempo, è costretto a trovare l’assassino prima che le sue forze lo abbandonino.

310  In seconda battuta si definisce più chiaramente il ruolo di Gastmann in questa vicenda: il noto industriale e il detective si erano conosciuti anni prima in una bettola di Costantinopoli e si erano animatamente scontrati sul concetto di giustizia: Bärlach sosteneva che non può esistere un “delitto perfetto”, in quanto il Caso, prima o poi, conduce alla soluzione e giustizia viene fatta; Gastmann, invece, riteneva che proprio grazie all’imprevedibilità del Caso, la maggior parte dei delitti può rimanere impunita. Dall’acceso diverbio scaturì una scommessa: Gastmann lanciò una sfida all’allora giovane poliziotto, dicendogli che un giorno avrebbe commesso un omicidio e la polizia mai sarebbe riuscita a dimostrare la sua colpevolezza. Effettivamente, tre giorni dopo, Gastmann uccise un uomo sotto gli occhi di Bärlach e l’omicidio rimase insoluto. A distanza di anni, i due nemici si ritrovano a fronteggiarsi: Gastmann sa che Bärlach è sulle sue tracce e che sta tentando di incastrarlo per il caso Schmied che, si viene a sapere, stava conducendo delle indagini, per conto di Bärlach, proprio sull’influente industriale e uomo politico. Successivamente il detective avvisa Gastmann che quel giorno stesso lo avrebbe fatto giustiziare dal suo “boia” per un delitto mai commesso. Gastmann è in preda al panico e, per la prima volta dal momento della scommessa di Costantinopoli, pensa di darsi alla fuga. Tschanz si reca da Gastmann e lo sfida. In uno scontro a fuoco muoiono Gastmann e i suoi due servitori. Tschanz, invece, sopravvive, riportando solo lievi ferite. Si scopre, infine, che Schmied è stato ucciso con la stessa pistola trovata in mano a uno dei servitori di Gastmann uccisi da Tschanz. Il lettore, che è stato spinto a sospettare fino a questo momento dell’aiutante di Bärlach, si trova spiazzato. Tuttavia il caso è chiuso: Gastmann ha commissionato l’omicidio di Schmied per nascondere quel che il poliziotto ha scoperto su di lui. Tschanz ottiene una promozione. Tutto è bene quel che finisce bene solo apparentemente. Perché Dürrenmatt ci riserva un ultimo coup de théâtre con cui ci rivela che la soluzione emersa è errata: Bärlach invita Tschanz a cena per festeggiare con lui la promozione ottenuta e gli confessa di sapere, sin dall’inizio, che è stato lui a uccidere Schmied. Il Caso, che gli ha fatto arrivare tra le mani gli indizi giusti, trionfa e la verità non verrà mai a galla. Tschanz abbandona l’abitazione del

311  commissario, capisce che la sua invidia nei confronti di Schmied è stata strumentalizzata da Bärlach per far fuori il suo nemico storico e, una volta abbandonata la casa del detective, sconvolto per l’epilogo della vicenda, si toglie la vita. La posizione del detective, anche in questo epilogo, dimostra il grande divario che intercorre tra Bärlach e gli investigatori propinatici dalla tradizione letteraria poliziesca: « er ist ein Einzelgänger, verlässt sich mehr auf seinen Instinkt als auf “wissenschaftliche” Polizeimethoden »2; anche secondo i classici, è vero, nessun delinquente può commettere un delitto e restare impunito ma l’origine delle loro sicurezze è di altra natura: per loro qualsivoglia misfatto può essere scoperto grazie a un’analisi minuziosa dei fatti, l’utilizzo delle capacità intellettive. L’opinione di Dürrenmatt, invece, non si basa sulla fiducia nei confronti delle facoltà umane ma sulla convinzione che, nel mondo dominato dal Caos, prima o poi il Caso tende una trappola al delinquente e fa emergere i suoi misfatti. Questo primo romanzo di Dürrenmatt, dal punto di vista strutturale, sembra comunque piuttosto conforme al modello classico: c’è un omicidio, uno spietato criminale, Gastmann, l’indagine più o meno razionale, il passato a far da sfondo. Tutto questo potrebbe far apparire Der Richter und sein Henker un romanzo tradizionale, nel quale il detective — coadiuvato da un valido assistente — riesce a scovare il pericoloso criminale e ad arrestarlo, grazie alle prove derivate da un secondo crimine. La situazione non è così semplice: già l’esposizione dei fatti allontana il nostro romanzo dallo schema canonico del poliziesco; in tutta la prima parte dell’opera le indagini sembrano portate avanti da Tschanz, l’assistente di cui il detective non ha molta fiducia e che si rivela, agli occhi del lettore, un personaggio alquanto enigmatico. Tutti i protagonisti di questo giallo, per la verità, hanno atteggiamenti inconsueti e, spesso, sembrano caricature degli eroi della tradizione letteraria. L’intento parodistico è evidente già nelle prime pagine del romanzo dove, a causa della loro incompetenza in campo criminale, gli investigatori possono perdere da subito credibilità agli occhi del lettore. Bärlach, in più, dimostra sin  2 AA.VV., Königserläuterungen und materialen: Der Richter und sein Henker, Hollfeld, C. Bange Verlag, 2009, p. 18.

312  dalle prime righe di essere a conoscenza del colpevole e sa, quindi, molto prima del lettore, che Gastmann questa volta è innocente ma sfrutta l’occasione — il suo apparente coinvolgimento nell’assassinio — per incastrarlo; viene meno quella regola del fair play tra lettore e scrittore che ha fatto la fortuna del genere poliziesco. Ma del resto per Dürrenmatt « es gibt keine Regel, es gibt kein Gesetz ».3 Assai discutibile è anche il metodo utilizzato dall’investigatore per incastrare il malvagio Gastmann: non lo fa incriminare procurandosi delle prove, per poi farlo giudicare da un tribunale ordinario, bensì lo fa giustiziare da un poliziotto che, inoltre, da tempo ha scoperto essere il reale assassino di Schmied. La fede nell’evidenza del mondo, che costituiva contemporaneamente il presupposto e il punto di arrivo del giallo tradizionale — il quale « spielt in einer Welt ohne Zufall, einer Welt, die zwar möglich, aber nicht die gewöhnliche ist »4 — viene meno; con Dürrenmatt il lettore e il detective non si muovono più in un mondo artificialmente ordinato in cui il momentaneo disordine viene superato grazie al ristabilimento del giusto equilibrio tra Bene e Male. Hans Bärlach è il protagonista anche del secondo romanzo giallo di Dürrenmatt: Der Verdacht (1951). In quest’opera non si tratta tanto di svelare chi è l’assassino, quanto di capire se, e come, l’investigatore riuscirà a tirarsi fuori dalla trappola in cui egli stesso si è cacciato: il commissario Bärlach è, dunque, un malato terminale e si fa ricoverare in una clinica zurighese per indagare sui crimini di guerra del medico Emmenberger. Egli riesce a confermare i suoi sospetti ma non ha più la forza di reagire e viene quindi salvato da Gulliver, che fu una vittima di Emmenberger nei lager nazisti. In Der Verdacht va evidenziato il legame con la tradizione classica poliziesca: il commissario porta avanti le indagini direttamente dal suo letto, utilizzando solo ed esclusivamente gli indizi ottenuti in seguito ai dialoghi con i diversi personaggi; questo si ricollega ai grandi detectives dei romanzi gialli, i quali procedono solo attraverso ipotesi formulate in modo logico in base alle

 3 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Schriftsteller im Gespräch mit Heinz Ludwig Arnold, Zürich, Haffmans, 1990, p. 332. 4 RICHARD ALEWYN, Das Rätsel des Detektivromans, in ADOLF FRISÉ (curatore), Definitionen. Essays zur Literatur, Frankfurt am Main, Klostermann, 1963, p. 125.

313  prove a loro disposizione. Anche nel romanzo di Dürrenmatt, Bärlach riesce, per merito delle sue capacità deduttive, a trovare il colpevole; la differenza con le opere classiche del genere sta nel fatto che il responsabile non viene consegnato nelle mani della giustizia. Ne consegue che, per lo scrittore di Konolfingen, la scientificità dei processi deduttivi non garantisce più la vittoria della giustizia: è, di nuovo, il Caso che riesce a portare alla giusta conclusione una vicenda in una società — quella moderna — dove tutti barano, tutto è un misfatto. In questo secondo romanzo giallo di Dürrenmatt, tra l’altro, il contrasto Bene-Male, già al centro di Der Richter und sein Henker, si sviluppa ulteriormente. Emmenberger sostiene che « ein indizienloses Verbrechen ist in dieser Welt des Zufalls unmöglich »5: si tratta di una tesi in contrasto con quanto sostenuto da Gastmann nel primo romanzo — vale a dire che, grazie all’imprevedibilità del Caso, la maggior parte dei crimini può rimanere irrisolta — ma che non abbraccia nemmeno il credo di Bärlach. Emmenberger e il detective giungono, infatti, a conclusioni diverse: il medico delle SS è convinto che non esista il delitto perfetto ma, tuttavia, il criminale può farla franca lo stesso; Bärlach continua a sostenere, invece, che il Caso, prima o poi, prende per mano l’investigatore e lo conduce alla soluzione. Tra la stesura dei tre romanzi polizieschi, si introduce quella di un racconto giallo: Die Panne. Eine noch mögliche Geschichte (1956). Il titolo cela l’essenza di fondo del racconto: « tutto nel racconto diventa “panne”, la giustizia positiva e quella d’eccezione, il carattere selvaggio della società del benessere e la coscienza dell’uomo della tarda modernità, sempre più abituato a concepire la colpa e il castigo come una panne ».6 Com’è scritto nel primo capitolo del racconto di Dürrenmatt — che ha la funzione di introduzione — anche una banale panne automobilistica può rappresentare un Caso che finisce per cambiare radicalmente il corso di un’esistenza: « so droht kein Gott mehr, keine Gerechtigkeit, kein Fatum wie in der fünften Symphonie, sondern Verkehrsunfälle, Deichbrüche infolge Fehlkonstruktion, Explosion einer Atombombenfabrik, hervorgerufen  5 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Der Richter und sein Henker, Zürich, Diogenes, 1980, p. 242. 6 EUGENIO SPEDICATO, Facezie truculente. Il delitto perfetto nella narrativa di Dürrenmatt, Roma, Donzelli, 1999, p. 34.

314  durch einen zerstreuten Laboranten, falsch eingestellte Brutmaschinen. In diese Welt der Pannen führt unser Weg ».7 Protagonista di Die Panne è Alfredo Traps, rappresentante di articoli tessili, sta viaggiando per lavoro verso una non meglio precisata città della Svizzera, quando la sua automobile, una lussuosa Studebaker, arresta la sua corsa improvvisamente: all’inizio non dispiace a Traps l’idea di passare una notte fuori casa, sperando in qualche piacevole avventura. Il protagonista viene così ospitato per la nottata a casa di un giudice in pensione che, vivendo solo, offre l’alloggio in cambio soltanto di un poco di compagnia. Il padrone di casa annuncia inoltre che avrà dei colleghi a cena, anche loro pensionati, con i quali è solito passare il tempo simulando processi storici o, in presenza di ospiti, come nel caso di Traps, mettendo il malcapitato sul banco degli imputati. Alfredo, per quanto confuso, è lieto di prendere parte a questo gioco e passare una serata insolita. A cena, tra piatti luculliani e buon vino, Traps inizia a chiacchierare e raccontare di sé nel modo più sincero, rivelando i suoi molti rancori nei confronti del suo ex- principale, un certo Gygax, che era casualmente morto poco prima che Traps prendesse il suo posto. Non sono semplici conversazioni e confessioni: il processo, in cui lui fa la parte dell’imputato, è già iniziato e lui, ben presto, viene accusato dell’omicidio del suo principale. Gli viene assegnato un avvocato difensore e, soprattutto, viene nominato un boia nel caso di condanna a morte. Il processo oscilla tra gioco e realtà e a poco a poco gli ospiti diventano sempre più euforici, sono strabiliati dalla sincerità disarmante dell’imputato che, entusiasta, si comporta in modo tutt’altro che normale, giungendo persino a ringraziare il giudice per la definitiva sentenza di condanna a morte. Una volta concluso il processo, i protagonisti, completamente ubriachi, si addormentano. La mattina successiva i pensionati si recano nella stanza di Traps e lo trovano impiccato; il rappresentante di articoli tessili ha eseguito la sua condanna a morte. Il processo, che doveva essere un semplice gioco, termina in tragedia.

 7 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Die Panne, in ID., Der Hund. Der Tunnel. Die Panne. Erzählungen, Zürich, Diogenes, 1985, p. 39.

315  In una successiva versione ricavata dallo stesso racconto, scritta da Dürrenmatt per la radio, il protagonista, alla fine della serata, si addormenterà e, una volta risvegliatosi la mattina, riprenderà il suo viaggio e la vita di sempre. Anche qui l’intento dell’autore, come in altri suoi romanzi e racconti, è quello di dimostrare che i meccanismi investigativi sono sostanzialmente incapaci di giungere alla verità assoluta dei fatti in una società in cui tutti hanno delle colpe. Alcuni comportamenti negativi spesso non vengono percepiti come colpevoli dalla mente umana: è il caso del protagonista di questo racconto che, appunto, più o meno inconsapevolmente, ha provocato la morte di un uomo. Traps è moralmente colpevole; tuttavia il suo delitto, tecnicamente, non sarebbe dimostrabile né tantomeno punibile da un vero tribunale. È proprio Zorn, che nel gioco dürrenmattiano ricopre il ruolo di pubblico ministero che accuserà Traps, ad affermare che si tratta di un delitto « so raffiniert angelegt, daß er unserer staatlichen Justiz natürlicherweise mit Glanz entgangen ist ».8 I quattro anziani, fra una risata e l’altra, arrivano a una verità esclusivamente umana, etica, non certo processuale; come afferma il giudice del racconto, « wir vier an diesem Tisch sind pensioniert und haben uns vom unnötigen Wust der Formeln, Protokolle, Schreibereien, Gesetze und was sonst noch für Kram unsere Gerichtssäle belastet, befreit. Wir richten ohne Rücksicht auf die lumpigen Gesetzbücher und Paragraphen »9. Se ne deduce che la giustizia vera non si identifica con quella voluta dai legislatori, con le regole, le norme che i commissariati, le prefetture, i tribunali impongono. I quattro inquisitori godono del loro gioco proprio perché con esso hanno la possibilità di sperimentare una ricerca della giustizia autentica, non formale e codificata, perché hanno la libertà di arrivare alla verità autentica. Nel 1957, con la pubblicazione del terzo romanzo poliziesco, Das Versprechen, si completa la destrutturazione del giallo a opera di Friedrich Dürrenmatt. La forma della versione letteraria di Das Versprechen è quella del romanzo a cornice, nella quale lo scrittore si ritaglia un ruolo da protagonista. La cornice è rappresentata dal dialogo tra il Dottor H. — ex-comandante della polizia  8 Ivi, p. 69. 9 Ivi, p. 58.

316  cantonale zurighese — e Dürrenmatt, durante un viaggio in auto da Coira a Zurigo. Nella capitale dei Grigioni, il rappresentante delle forze dell’ordine, ormai in pensione, deve assistere a una conferenza tenuta dallo scrittore sull’arte di scrivere romanzi polizieschi. Questa circostanza offre a Dürrenmatt-autore storico di portare avanti una sorta di autocritica nei riguardi della sua precedente produzione poliziesca. Al termine del simposio, che riscuote scarso successo a causa della concorrenza esercitata da un convegno di Emil Staiger sull’ultimo Goethe che si svolge in contemporanea, i due si incontrano casualmente in un bar e il dottor H. gli offre un passaggio in auto fino a Zurigo. Il requiem per il romanzo giallo inizia a consumarsi già nella cornice e bene si inserisce nell’atmosfera funebre creata dalle descrizioni paesaggistiche: il Dottor H. si dichiara convinto di sapere che « der Wirklichkeit ist mit Logik nur zum Teil beizukommen »10 e, per questo motivo, quel che lo irrita maggiormente nei romanzi polizieschi è l’intreccio. Il dottor H. afferma infatti: « Ihr baut eure Handlungen logisch auf; wie bei einem Schachspiel geht es zu, hier der Verbrecher, hier das Opfer, hier der Mitwisser, hier der Nutznießer »11 e prosegue la sua invettiva contro gli scrittori di romanzi gialli, accusandoli di non conferire alcuna importanza al Caso, per cui, se nelle loro opere qualcosa sembra accadere casualmente, essi parlano di destino, concatenazione di eventi o, tutt’al più, di provvidenza divina: Die Wahrheit wird seit jeher von euch Schriftstellern den dramaturgischen Regeln zum Fraße hingeworfen. […] Ihr versucht nicht, euch mit einer Realität herumzuschlagen, die sich uns immer wieder entzieht, sondern ihr stellt eine Welt auf, die zu bewältigen ist. Diese Welt mag vollkommen sein, möglich, aber sie ist eine Lüge. Laßt die Vollkommenheit fahren, wollt ihr weiterkommen, zu den Dingen, zu der Wirklichkeit, wie es sich für Männer schickt, sonst bleibt ihr sitzen, mit nutzlosen Stilübungen beschäftigt.12

Secondo il punto di vista del comandante — che, è evidente, corrisponde a quello di Dürrenmatt autore storico — il mondo in cui viviamo, così come quello in cui è ambientato il romanzo poliziesco, non è zu bewältigen (da portare a compimento), ma zu bestehen (da costituire), è necessario analizzare i fatti, avvicinarsi il più possibile alla realtà umana, altrimenti tutto diventa un banale  10 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Das Versprechen. Requiem auf den Kriminalroman, München, dtv, 1978, p. 18. 11 Ibidem. 12 Ivi, pp. 18-19.

317  esercizio stilistico. È dunque chiaro come da quest’opera ci si debba attendere un concentrato delle tematiche e dei punti di vista esposti nei romanzi precedenti, quasi come se l’autore volesse fare il punto sulla sua precedente produzione. Tornando alla trama — e più precisamente ancora alla cornice — durante il tragitto, lo scrittore e il Dottor H. fanno una breve sosta presso una stazione di servizio, dove la figura di un malinconico anziano, che fa loro il pieno di benzina, colpisce lo scrittore. Il dottor H. conosce bene l’identità di quell’uomo malridotto e triste: un tempo era il suo investigatore più capace. Da qui si snoda la storia che vede protagonista l’ex-detective impegnato nella ricerca del colpevole dell’omicidio di una bambina: è aprile, nella foresta vicino a Mägendorf, un villaggio nei pressi di Zurigo, il venditore ambulante von Gunten trova il cadavere della piccola Gritli Moser. La prima impressione della polizia è quella di trovarsi alle prese con un omicidio a sfondo sessuale. Matthäi, al suo ultimo giorno di servizio prima del suo nuovo incarico ad Ammann, in Giordania, ottenuto in seguito a una tanto attesa promozione, non ha alcuna intenzione di occuparsi del caso, ma deve farlo obbligatoriamente in quanto, proprio quel giorno, il capitano è assente. Matthäi, « ein einsamer Mensch, stets sorgfältig gekleidet, unpersönlich, formell, beziehungslos, der weder rauchte noch trank, aber hart und unbarmherzig sein Metier beherrschte, ebenso verhaßt wie erfolgreich »13 — si reca, quindi, sul luogo del delitto e, successivamente, a Moosbach, dai genitori della bambina uccisa, con il compito ingrato di dar loro la triste notizia. In questa occasione, il detective giura alla madre della vittima di riuscire, prima o poi, a fare giustizia, ad acciuffare l’assassino della piccola Gritli. Tutti, a eccezione di Matthäi, nel piccolo paese svizzero, credono che il responsabile dell’atroce delitto sia proprio l’ambulante, in passato già implicato in un reato a sfondo sessuale perpetrato ai danni di una quattordicenne che, però, continua a dichiararsi innocente: « Ganz zufällig bin ich vorbeigekommen, ganz zufällig! ».14 L’unico che non vuole arrivare a conclusioni affrettate è il commissario: che von Gunten abbia già riportato simili condanne penali finisce per rafforzare, a suo giudizio, i sospetti nei suoi confronti, ma non è una prova sufficiente per determinarne la colpevolezza. La polizia ha a disposizione pochi  13 Ivi, p. 20. 14 Ivi, p. 28.

318  indizi, insufficienti a fondare una valida accusa e i metodi del detective, appare evidente, si basano esclusivamente sulla razionalità e l’analisi socio-psicologica. Matthäi sembra nutrire piena fiducia nelle proprie capacità, per cui è profondamente convinto di poter analizzare e prevedere la realtà attraverso la logica. Il vero fondamento delle azioni del nostro detective è da individuare nell’impulso quasi irresistibile a riscontrare le proprie ipotesi logiche nella realtà; egli costruisce la sua vita basandosi sulla fede nella perfetta corrispondenza tra pensiero logico e realtà: « Er wollte, dass seine Rechnung auch in der Wirklichkeit aufgehe ».15 L’indagine sul caso Moser, dunque, non rappresenta altro che l’ennesima occasione per dimostrare, a se stesso e agli altri, la validità della sua visione del mondo. Le indagini proseguono: il capitano e Matthäi si recano nella scuola frequentata dalla piccola vittima e lì hanno un’interessante conversazione con una compagna di Gritli, Ursula Fehlmann, che dichiara che la sua amichetta, proprio in quei giorni, aveva incontrato qualcuno, un uomo gigante. Nonostante la promessa fatta ai genitori di Gritli, Matthäi è consapevole del fatto che non potrà più occuparsi del caso, considerando la sua imminente partenza per la Giordania; lascia quindi le indagini nelle mani di Henzi, un collega più giovane che, per prima cosa, sottopone von Gunten a un interrogatorio estenuante che si conclude con la confessione dell’ambulante. In preda alla disperazione, l’uomo si impicca in carcere e il caso sembra definitivamente chiuso; il gesto estremo, per gli addetti ai lavori, non è altro che la conferma della sua colpevolezza. Matthäi, convinto che l’assassino di Gritli sia ancora libero e che molti bambini si trovino quindi in pericolo, decide di non dedicarsi più alla sua nuova avventura professionale e di restare in Svizzera per proseguire le indagini sul caso. Da questo momento in poi, Matthäi diventa un’altra persona: perde l’impiego presso la polizia cantonale, comincia a fumare e a bere e continua, privatamente, le sue indagini sull’assassinio della piccola Gritli, riuscendo a mettere in relazione il caso Moser con altri due omicidi simili, commessi nel

 15 Ivi, p. 145.

319  cantone di San Gallo e in quello di Schwyz, rispettivamente cinque e due anni prima. Nei tre episodi, le vittime sono state uccise con un rasoio. Il cambiamento di Matthäi non passa inosservato neanche tra la popolazione del piccolo villaggio svizzero: ogni giorno arrivano alla polizia le proteste dei cittadini per le stranezze del commissario, tra le quali, ad esempio, la sottrazione di un disegno della piccola Gritli dalla scuola, il tentativo di adozione di un’orfana, il suo stato di ebbrezza quasi perenne. Tutto questo convince il comandante a indirizzare il detective da uno psichiatra ma Matthäi approfitta dell’incontro col medico per mostrare il disegno realizzato da Gritli Moser, in cui è rappresentato il gigante, un’automobile nera e un animale con le corna. Le spiegazioni fornite dal dottore non fanno altro che rafforzare la supposizione del detective, convinto che in quel disegno la bambina abbia voluto ritrarre il suo carnefice. Le certezze di Matthäi restano poche: i delitti irrisolti sono tre e l’intervallo di tempo tra un delitto e l’altro diventa ogni volta più breve; l’assassino, tra l’altro, avvicina sempre bambine dello stesso tipo, con caratteristiche fisiche molto simili tra loro. In virtù di questi elementi, il commissario decide di tendere una trappola all’assassino: prende in gestione un distributore di benzina e vi si trasferisce con una governante, la signora Heller, un’ex prostituta, e di sua figlia, Annemarie, una bimba tra i sette e gli otto anni, con lunghe trecce bionde, un vestitino rosso, che assomiglia molto a Gritli Moser. Matthäi ha intenzione di utilizzare Annemarie come esca, sfruttando la somiglianza tra la figlia della governante e la piccola Moser. Secondo i calcoli dell’investigatore, l’assassino prima o poi dovrà passare lungo quella strada, noterà Annemarie e cadrà nella sua trappola. Dopo quasi un anno di attesa, Matthäi comincia a notare una serie di particolari che lo inducono a credere che la bambina abbia già incontrato l’assassino. Il detective, infatti, scopre che la piccola incontra a volte un uomo, che chiama “il mago”, il quale le regale praline di cioccolato. L’investigatore si sente vicino alla soluzione dell’enigma ma interviene il Caso — più intensamente che negli altri romanzi polizieschi di Dürrenmatt — a far fallire i suoi piani: l’assassino ha un incidente automobilistico e muore. Matthäi continua ad aspettare

320  per anni che il criminale passi per la stazione di servizio, riducendosi a un vecchio alcolizzato, deperito, ridicolo, che sta seduto sul bordo della strada, borbottando fra sé e sé: « Ich warte, ich warte, er wird kommen, er wird kommen ».16 Al contrario di Bärlach, il protagonista dei due precedenti romanzi gialli di Dürrenmatt, Matthäi crede che il crimine possa essere sconfitto facendo affidamento esclusivamente sulla ragione umana e fallisce, quindi, proprio perché nei suoi calcoli non prende in considerazione l’intervento del Caso, non lo riesce ad accettare, come non riesce ad ammettere l’incompletezza dell’uomo e del suo intelletto. Il commissario è destinato a impazzire proprio perché continua a insistere sulla validità delle sue ipotesi strutturate logicamente, senza trovarvi un riscontro nella realtà; si crea così una frattura insanabile tra razionalità e irrazionalità, tra mondo interno e mondo esterno: « entweder ist er verrückt oder wir ».17 Il Caso espleta anche qui la sua funzione: dimostrare l’impotenza dell’uomo e del suo intelletto nella società moderna; come scrive Eugenio Spedicato in merito a Das Versprechen: « è la cieca fiducia nella razionalità il vero bersaglio, la presunzione tutta umana che non vuol vedere come il caso sia l’altra faccia della razionalità, come incrementando la razionalità si incrementi anche il disordine, secondo un diabolico circolo vizioso ».18 Soltanto molti anni più tardi, una donna, in punto di morte, confesserà che è stato il suo defunto marito, Albert Schrott, ritardato mentale, il colpevole dei tre delitti, aggiungendo, inoltre, che l’uomo aveva già progettato il quarto omicidio e che non era riuscito a realizzarlo solo a causa dell’incidente d’auto in cui aveva perso la vita. Dalle sporadiche descrizioni riguardanti il suo aspetto, l’assassino appare « immer feierlich schwarz gekleidet mit einem runden Hut »19, gentile, ligio ai suoi doveri domestici, ma anche ingordo, taciturno e malato. Schrott commette i delitti in preda a un totale ottenebramento mentale, ubbidendo a una « Stimme vom Himmel ».20

 16 Ivi, p. 7. 17 Ivi, p. 103. 18 EUGENIO SPEDICATO, op. cit., p. 55. 19 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Das Versprechen, cit., p. 155. 20 Ivi, p. 158.

321  Il finale della vicenda si ricollega alla cornice iniziale: Dürrenmatt e il Dottor H. sono a pranzo insieme a Zurigo; l’ex-comandante commenta i motivi che hanno ridotto Matthäi in quelle condizioni: il detective non è stato in grado di accettare il Caso. Le tre opere di Dürrenmatt che abbiamo considerato, presentano una progressiva decadenza dei concetti di giustizia e diritto che sono alla base del genere poliziesco. Il sottotitolo di Das Versprechen — Requiem auf den Kriminalroman — racchiude la destrutturazione di ogni caratteristica dei romanzi gialli tradizionali; lo scrittore di Konolfingen arriva, infatti, a realizzare un totale requiem per la figura del detective: « aus einem bestimmten Fall wurde der Fall des Detektivs, eine Kritik an einer der typischen Gestalten des neunzehnten Jahrhunderts ».21 La capacità di risolvere o meno i casi mira a screditare progressivamente la legittimità di questa figura: in Der Richter und sein Henker, infatti, è ancora Bärlach a gestire l’indagine, sebbene il suo successo sia garantito soltanto dall’intervento del Caso; nel secondo romanzo è solo grazie all’intervento di un deus ex-machina che l’investigatore riesce a salvarsi dal pericolo in cui si era andato a cacciare e in Das Versprechen, infine, il Caso si fa beffa dell’acume del detective. La caratterizzazione inusuale dei protagonisti sottintende anche un requiem per la logica, da intendere come la capacità di indagare e conoscere la realtà: dalla ragione — che ancora caratterizza il personaggio di Bärlach — si passa progressivamente alla follia, che colpisce Matthäi. La sconfitta della ratio è totale: il caos del mondo reale ha la meglio. Nell’evoluzione che passa attraverso i tre romanzi polizieschi, si legge, inoltre, un requiem per la produzione edificante, che ha sempre fornito un’immagine falsificata della realtà umana e sociale. Il vero obiettivo di Dürrenmatt, quindi, è colpire, ancora una volta, quella letteratura ‘demiurgica’, di cui il romanzo giallo sarebbe la perfetta rappresentazione. La letteratura, per lo scrittore svizzero, non può dipendere dalla società né, di conseguenza, dalla politica; è proprio il mondo intellettuale per primo che deve esigere la libertà dello spirito. Dürrenmatt riassumerà la sua posizione nel Monstervortrag (1968):

 21 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Nachwort a ID., Das Versprechen, cit., p. 203.

322  Die Freiheit des Geistes ist die noch mögliche Freiheit, die dem Menschen bleibt. Sie ist ein Risiko wie jede Freiheit. Durch sie wird die Politik immer wieder vom Individuellen her getestet. Sie zieht die politische Freiheit nach sich und wirft endlich die Frage nach der Kontrolle der Macht auf.22

Negli anni Novanta lo scrittore, originario di Adliswil, FELIX METTLER ha prodotto un giallo, Der Keiler (1990), di chiara ispirazione dürrenmattiana: il protagonista si chiama Gottfried Sonder e ricorda molto da vicino Bärlach, il commissario dei primi due polizieschi di Dürrenmatt; come lui è burbero e taciturno e, soprattutto, come lui è malato di cancro allo stadio terminale. Diversa è la sede del tumore — il male di Sonder si è insediato nei polmoni, quello di Bärlach nello stomaco — e differente è anche il ruolo ricoperto dai protagonisti: l’eroe di Mettler è un assassino, quello di Dürrenmatt è un detective. L’intento dei due scrittori è lo stesso: dimostrare l’importanza del Caso nella vita e quanto siano labili i confini della giustizia. E comune è anche il mezzo per dimostrarlo: si crea un giallo anticonvenzionale, si ribaltano gli schemi canonici, le regole che sono alla base dello scrivere romanzi polizieschi. Sonder — assistente anatomopatologo prossimo alla pensione, un uomo basso, un po’ tarchiato, con la barba incolta e i capelli scuri impossibili da domare anche se tagliati corti, che zoppica da quando, durante una passeggiata in un bosco, se l’è dovuta vedere con la furia di un cinghiale — uccide quello che ritiene essere il responsabile della sua malattia, colui che per anni gli ha fumato accanto e ha fatto sì che il tumore si radicasse in lui, il suo collega Götze. Mettler crea un senso di pietà intorno a questo protagonista, il lettore non può che assecondare la sete di vendetta di Gottfried Sonder e schierarsi al fianco di quest’uomo burbero che non vuole arrendersi di fronte all’ingiustizia che non è rappresentata tanto dalla morte in sé e per sé che, da uomo estremamente razionale che non crede né ai miracoli di qualche divinità né a quelli della medicina, vede certa e molto vicina, bensì al fatto che quella malattia non fosse la sua, che fosse destinata a un altro ma, per puro Caso, avesse attecchito al suo corpo.

 22 FRIEDRICH DÜRRENMATT, Monstervortrag über Gerechtigkeit und Recht: Nebst einem helvetischen Zwischenspiel (Eine kleine Dramaturgie der Politik), in ID., Philosophie und Naturwissenschaft, Werkausgabe in dreißig Bänden, Bd. 27, Zürich, Arche Verlag, 1980, p. 101.

323  Sonder si reca nella sua abitazione e sceglie l’arma del delitto tra vari fucili e oggetti mortali collezionati nei suoi molti viaggi; tra questi c’è una siringa simile a una freccia, una sorta di proiettile usato dai Masai per narcotizzare gli animali: « Der Gedanke, das Projektil durch die Luft aus der eigenen verletzten Lunge anzutreiben, hatte etwas für sich, gefiel ihm. Auf diese Weise würde ein gerechter Kampf daraus, sinnierte er, zumindest aus seiner Sicht ».23 Sonder si apposta e colpisce, con la freccia avvelenata, Götze che, lentamente, perde i sensi e muore. Sonder nasconde poi il corpo nel portabagagli della macchina di Bäni, l’assistente di Götze. Mettler considera l’assassino — un po’ come Dürrenmatt — contemporaneamente Richter e Henker: in quanto giudice, il criminale si prende la libertà di condannare e di decidere riguardo la vita altrui e poi, in qualità di boia, egli porta a compimento delle condanne a morte, agendo quasi come esecutore di un ordine divino. Attraverso le sue azioni, egli intende svincolarsi come individuo dalle costrizioni sociali, al fine di dar libero sfogo alle proprie inclinazioni e ai propri istinti; il criminale di Mettler è un uomo che vive in una società dalla quale può venire condizionato, dalla quale è inevitabilmente dipendente e alla quale deve rendere conto, ma, allo stesso tempo, si pone come un individuo tendenzialmente libero, che mira a realizzare la propria autonomia contrapponendosi alle convenzioni sociali. In questo romanzo poliziesco, il pubblico non deve sforzarsi, come in un giallo canonico, di capire chi è l’assassino — quello è chiaro sin dalle prime battute — o di adoperarsi alla ricerca di un movente — anche quello viene dichiarato subito in maniera esplicita — ma si trova a sperare che la verità non emerga, che Sonder abbia veramente messo in scena un delitto perfetto. L’’innalzamento’ a eroe dell’assassino e la perdita d’importanza dell’elemento misterioso che ha sempre caratterizzato il genere poliziesco, trovano la loro ragione nell’insistenza sulla problematica etica. L’omicidio qui, in effetti, costituisce solo un pretesto che consente di suscitare una discussione etica. Non a caso, quindi, il detective Häberli e il suo assistente Manz capiscono l’importanza di individuare per prima cosa il movente (« und gerade das Motiv wäre es, das

 23 FELIX METTLER, Der Keiler, Zürich, Ammann, 1990, p. 43.

324  unsere Denkweise bestimmen sollte »24) ma non possono andare oltre l’intenzione di capire: « die Tat scheint perfekt durchgeführt. Ohne Spuren, ohne Zeugen, ohne klares Motiv. […] Letztlich also ein perfekter Mord […] wenn auch kaum als das geplant. […] Doch ich bezweifle, ob sich das perfekte Verbrechen überhaupt planen läßt. Niemals ist alles und jedes vorhersehbar ».25 Alla fine, con indagini estenuanti e l’aiuto del Caso, l’investigatore e il suo braccio destro arrivano a capire che Sonder è il colpevole del delitto ma dimostrano di comprendere profondamente anche il movente decidendo di non arrestare l’assassino del dottore e di fargli vivere serenamente i suoi ultimi giorni. Vera giustizia è fatta.

 24 Ivi, p. 139. 25 Ivi, pp. 143-145.

325  4.4.3 IL ROMANZO POLIZIESCO DI ANDREA FAZIOLI E MICHEL BORY

In tempi più recenti il romanzo poliziesco elvetico parla soprattutto francese

— grazie alle opere di ANNE CUNEO e MICHEL BORY — e italiano, con le opere di

ANDREA FAZIOLI. Protagonista dei gialli della scrittrice nata a Parigi è l’investigatrice Marie Machiavelli, di chiare origini italiane, laureata in giurisprudenza — percorso di studi intrapreso esclusivamente per far piacere al padre — ma impiegata in un’azienda con il compito di realizzare analisi finanziarie (« les analyses financières me passionnent »1). L’eroina della Cuneo indaga controvoglia, soltanto perché non sa negare il suo aiuto agli amici. Marie cerca indizi, ascolta testimonianze e, in seguito, tira le somme: lo schema seguito dalla scrittrice di origini italiane è, quindi, quello dei polizieschi classici e, a tratti, l’investigatrice può sembrare una moderna Miss Marple. Il romanzo poliziesco della Cuneo ha, dunque, una struttura a intreccio piuttosto consueta. C’è il caso apparentemente inspiegabile, l’osservazione, l’analisi dei fatti attraverso l’indagine, la soluzione, la conclusione, quindi, a cui perviene l’investigatore e, infine, la dimostrazione, ovvero la spiegazione ricavabile dalle prove. Fondamentale in un poliziesco è l’ambientazione: in un giallo è un elemento essenziale e lo sfondo elvetico dei romanzi della Cuneo riesce a creare l’atmosfera adatta, a far crescere la tensione. Il luogo dove si muove il personaggio è descritto per indizi, accenni, informazioni indirette: tutto lascia supporre che qualcosa accadrà, qualcosa di insolito, di cui non si può prevedere la natura. L’ambientazione quindi aiuta a preparare la sorpresa, il colpo di scena. Prevalgono, inoltre, le tecniche di coinvolgimento più consuete quali la suspence, il colpo di scena e il finale a sorpresa; quel che conta in questi romanzi è catturare il lettore nel gioco della deduzione e del ragionamento ed evocare passioni umane elementari: la paura, il coraggio, la volontà di potere, l’abnegazione, l’istinto di vita e di morte, l’amore. Riproducendole si porta il lettore a riviverle.

 1 ANNE CUNEO, Lacunes de la mémoire, Orbe, Bernard Campiche, 2006, p. 13.

326  Il linguaggio dei polizieschi della Cuneo è sostanzialmente semplice e diretto, condito da elvetismi. Tuttavia nelle fasi in cui l’investigatore “spiega”, dipana l’enigma, più volte fa ricorso a linguaggi specifici, quale quello medico legato agli episodi della raccolta e dell’analisi degli indizi in laboratorio. Nei momenti dedicati all’azione, le frasi sono brevi e spesso vengono usati punti esclamativi. Il dialogo fra i personaggi, fra l’investigatore e il suo assistente viene usato spesso come strumento per riportare riflessioni circa gli indizi. L’ispettore Alexandre Perrin è il protagonista, invece, dei romanzi polizieschi di MICHEL BORY, su cui, però, l’autore non ci fornisce, nel corso delle varie opere, particolari dettagli sulle sue caratteristiche comportamentali, piuttosto che sull’abbigliamento o le sue abitudini: il lettore sa soltanto che Perrin ha una tormentata relazione coniugale e che indossa sempre un trench. Sembra avere, in ogni romanzo, più spazio la descrizione degli altri personaggi — colpevoli dei misfatti in primis — che del detective. Poiché l’attenzione del lettore deve essere conquistata dal meccanismo dell’intreccio (basato su tre domande: com’è accaduto? qual è il movente? chi è stato?) è prevalsa in Bory l’abitudine di costruire i personaggi in modo semplice e schematico. Dei protagonisti è sufficiente tratteggiare i contorni — nome, condizione sociale, relazioni interpersonali — mentre la psicologia e i motivi reali del loro agire sono ricostruiti dall’indagine investigativa. Anche Michel Bory sembra seguire lo schema canonico “assassinio-raccolta indizi-soluzione”. Da una situazione misteriosa e interessante parte l’indagine, che viene svolta da Perrin, coinvolto, suo malgrado, nell’evento. L’investigatore percorre un cammino disseminato di indizi, informazioni e segnali che ingenerano dubbi e necessitano di chiarimenti. Attraverso l’immaginazione, ma anche la razionalità e la determinazione dell’investigatore, si giunge a individuare il colpevole e a ricostruire l’ordine degli eventi. Una delle regole basilari per Bory, al fine di realizzare un intreccio efficace, è la lealtà narrativa dello scrittore. Essa consiste nel dare a chi è giunto alla lettura del capitolo conclusivo del romanzo la possibilità di ripercorrere il libro a ritroso e di convenire che, in un certo senso, la soluzione gli stava davanti agli occhi, perché lealmente il narratore non gli aveva tenuto nascosto alcun indizio.

327  Una regola generale è che ogni personaggio può e deve essere sospettabile, ma il colpevole deve essere il meno probabile. Il ritmo della narrazione è un elemento importante: a momenti emozionanti e coinvolgenti ne susseguono altri in cui prevalgono dialoghi, riflessioni, osservazioni, interrotti nuovamente da colpi di scena. Appare invece molto curata da Andrea Fazioli, sin nei dettagli più minimi, la figura dell’investigatore Elia Contini, protagonista di quattro romanzi. Del detective ticinese si sa che ama collezionare cactus, non sa usare granché il computer, ama i gatti, al punto da parlare spesso con il suo animale, e le volpi, che fotografa di notte, adora le poltrone di vimini, è un grande esperto di cinema e musica francese, costruisce piccole imbarcazioni di legno o sughero che poi getta in qualche torrente, non ama leggere ma cita spesso versi della Divina Commedia, fa fatica a concentrarsi e si arrangia in cucina con la sua “paella d’emergenza” che prepara per le sue serate ‘intime’ con la fidanzata Francesca. Si sa, inoltre, che Contini indossa sempre un cappello a tesa larga, un abito di lino bianco o una giacca di pelle marrone scuro, è figlio di un poliziotto e non sembra molto felice, proprio come Marie Machiavelli di Anne Cuneo e altri investigatori della tradizione classica, di essere un detective, beve birra e fuma da cinque a dieci sigarette al giorno che prepara con un tabacco che gli regala un suo amico e non accetta mai sigarette offertegli da altri. L’investigatore creato da Fazioli si fida più delle sensazioni che delle deduzioni, mette per iscritto le sue avventure, creando una specie di diario che spedisce a un ignoto destinatario. Contini entra nel suo ufficio sempre dal retro e controlla dallo spioncino della porta principale chi c’è in sala d’attesa; sulla sua scrivania c’è una rassegna di piccoli cactus, un’edizione della Divina Commedia, un modellino di zattera costruito in legno, una borsa di pelle, un coltello con il manico di corno, una bottiglia vuota di Merlot e non sembra infallibile: spesso se arriva alla soluzione finale è anche grazie al caso e sempre con il rischio di giungere un po’ in ritardo. L’ambientazione dei romanzi di Fazioli è strettamente legata alla Confederazione, a una Svizzera che il lettore non si aspetta, dove si consumano efferati omicidi e da dove si sviluppano intrighi politico-finanziari che finiscono

328  per riguardare le sorti dell’economia mondiale; il primo romanzo del ticinese, Chi muore si rivede (2005), parte proprio dal ritrovamento di un uomo morto ammazzato nel centro di Lugano e ruota attorno a un misterioso collier di diamanti e una famiglia piena di segreti. Contini si muove anche nella caotica Zurigo della Streetparade, in una sequenza narrativa che, come è stato sottolineato in numerose recensioni, ha l’avvincente fascino di un film d’azione. L’incredibile soluzione arriva su un treno, sulla linea ferroviaria del San Gottardo. In questo esordio Fazioli, quindi, sembra rendere omaggio a uno dei grandi classici della letteratura poliziesca: Murder on the Orient Express. Al fortunato esordio del 2005, Fazioli dà un seguito con L’uomo senza casa (2008), romanzo intento a dimostrare, anche in questo caso, come la Svizzera possa soltanto apparire un luogo lindo e tranquillo, ma che, in verità, nasconde inganni, delitti e interessi economici. In questo poliziesco Elia Contini si vede costretto a scontrarsi con una storia che lo riguarda da vicino: la vicenda di un paese — quello nel quale è cresciuto — sommerso dall’acqua per permettere la costruzione di una diga. Molte cose negli anni sono cambiate ma c’è chi vorrebbe tornare indietro, vorrebbe rivedere i volti del passato, e per farlo è disposto anche a uccidere. Sotto al lago artificiale sono rimaste le case e forse qualche cadavere: quando il villaggio è stato sgomberato per riempire il bacino, due persone mancano all’appello. Indaga Contini, rischiando anche la vita. Risale al 2009 Come rapinare una banca svizzera, in cui un ladro pentito, Jean Salviati, un detective privato, l’ormai noto Contini, e alcuni distinti borghesi sono coinvolti nel progetto della più sofisticata rapina a una banca svizzera. Il ladro a riposo deciderà di tornare alle sue vecchie attività per salvare la figlia in pericolo, inguaribile giocatrice di casinò che si è indebitata con un losco e ambizioso individuo che ha messo gli occhi su un’importante transazione di denaro. Una banca svizzera resta sempre sinonimo di forziere ben custodito e svaligiarne una richiede la stessa precisione puntuale e regolare applicata dai banchieri elvetici nella difesa della propria sicurezza: il piano del nostro ‘ladro gentiluomo’ Jean Salviati è estremamente dettagliato ma la sua buona riuscita, un po’ come nei romanzi polizieschi di Dürrenmatt, è dovuta anche al caso.

329  È del 2010 La sparizione: la giovane protagonista di questo romanzo di Andrea Fazioli, Natalia, e sua madre, Sonia, si sono rifugiate tra le montagne del Canton Ticino per superare il dolore della morte improvvisa e poco chiara del padre della ragazza, un facoltoso medico di Lugano; Sonia si mette a indagare e viene uccisa. Sua figlia assiste alla scena e fugge nel bosco, inseguita dall’assassino della madre. Riesce a disperdere le sue tracce e, quando viene ritrovata, è sotto shock e non riesce più a parlare: i suoi ricordi sono confusi e non può esprimersi. Suo padre ha lasciato in giro delle carte che celano un mistero inquietante, Natalia ha paura e non sa più di chi fidarsi. Fondamentale per la giovane è l’incontro con Contini che, nel frattempo, ha deciso di non fare più il detective e si è messo a lavorare per un giornale di provincia, ma che davanti al caso di Natalia non può che farsi trascinare dalla curiosità e tornare a indagare nel Ticino dove poliziotti, medici e avvocati sono soltanto in apparenza irreprensibili. Attraverso i romanzi polizieschi, gli autori elvetici — sia che stravolgano lo schema del giallo sia che cerchino di rispettare le regole alla base della forma canonica — sembrano prefiggersi lo scopo di smascherare la società elvetica, di far vedere cosa si nasconde dietro la facciata perbenista e mostrare, dunque, che anche nella popolazione della Confederazione c’è del marcio, non meno di quello che si può rinvenire negli altri paesi industrializzati. La crisi della società contemporanea viene vista come l’effetto naturale della serie di contraddizioni che si sono sviluppate e radicate nella Confederazione, sulle quali è giunto il momento di riflettere a fondo se si vuole comprendere come uscirne e quali potrebbero essere le connotazioni del mondo che si potrà trovare una volta risolte le difficoltà. L’evidenza offerta dai romanzi polizieschi elvetici è che la società democratica è sempre più esposta a una contraddizione di fondo: la crescita economica non crea un benessere condiviso e diffuso, ma è un fattore di aumento delle disuguaglianze, sia qualitative sia quantitative. La società è stata quasi obbligata a una crescita economica sempre maggiore, ma questa ha creato squilibri che hanno minato la base della stabilità del sistema, producendo una società delle differenze, una comunità aperta apparentemente ma sempre più

330  esposta anche al razzismo, all’intolleranza, ai conflitti tra etnie, democratica ma costretta a far convivere le imprescindibili libertà individuali con le necessarie rigidità del sistema. In questa situazione l’individuo ha perso i tradizionali punti di riferimento e anziché rivolgersi al futuro si è ancorato sempre più alla tradizione e alla conservazione. I giallisti elvetici hanno provato a mettere in guardia il lettore dal pensare che l’uscita dalla crisi consista nel continuare a immaginare una società priva di aspetti negativi o interventi risolutivi da parte degli organi governativi. Il superamento della crisi consiste, piuttosto, nella comprensione della necessità di una decisa inversione di tendenza nei comportamenti consolidati e nell’immaginare che l’obiettivo da raggiungere sia una società meno ricca ma più responsabile.

331  TEMI:

4.5 LA NATURA COME MOTORE DELLA CREAZIONE ARTISTICA

Le numerose opere di autori elvetici incentrate sul contatto con la natura mostrano l’intenzione di voler restare ben saldi a una di quelle che viene riconosciuta, da sempre, da tutti i critici come una peculiarità svizzera, ma mostra anche, dal punto di vista letterario, un ricercato legame con quello che può essere considerato uno dei massimi maestri della scena culturale elvetica, Robert Walser, in cui movimento e natura, almeno nelle opere giovanili, non devono essere intesi come sintomo di rassegnazione o considerati prima conseguenza della mancanza di attività lavorativa, bensì vanno interpretati come veri e propri motori della creazione artistica. Sul rapporto tra pratica artistica e natura, interessante è quanto si legge in Geschwister Tanner (1907): Wenn man jetzt an eine stille Landschaft denkt, da draussen liege sie, die Wälder und Hügel und die weiten Wieser, und man sitzt hier in einem glitzerden Theater. Wie sonderbar. Vielleicht ist aber alles Natur. Nicht nur das Grosse und Stille da draussen, sondern auch das Bewegliche und Kleine, was die Menschen erschaffen. Ein Theater ist auch Natur. […] Mag die Kultur so fein werden wie sie will, sie bleibt doch Natur, denn sie ist doch nur die langsame Erfindung durch Zeiten, und zwar von Wesen, die an der Natur immer hangen werden. Wenn sie ein Bild malen, Kaspar, so wird es Natur, denn sie malen mit ihren Sinnen und Fingern und diese haben sie doch von der Natur bekommen.1

Anche per quanto concerne la poetessa di Aarau ERIKA BURKART, il rapporto con la natura è qualcosa di più di un semplice tema ricorrente all’interno della sua opera; si presenta, difatti, come il pretesto essenziale per la creazione artistica. La cantrice della natura si inserisce così nel solco della tradizione germanofona della Naturlyrik, vale a dire di quegli autori che vedono negli elementi primordiali una forza cosmica dinamica, dotata di una potenza creatrice di cui può sentirsi partecipe l’individualità umana e che danno vita così a una

 1 ROBERT WALSER, Geschwister Tanner in ID., Das Gesamtwerk in 12 Bänden, vol. 4, Frankfurt am Main / Zürich, Suhrkamp, 1978, pp. 236-237.

332  sorta di filosofia panteistica, a un panteismo naturalistico e vitalistico secondo cui l’esistenza è una conquista continua, è un impegno all’azione, una filosofia del divenire che si oppone alla concezione metafisica e statica dell’essere. Un primo aspetto della Naturkyrik della Burkart, come nota Annarosa Azzone Zweifel nella prefazione al volume di poesie della scrittrice di Aarau edito da Campanotto nel 2005, è un raccoglimento quasi religioso che l’io lirico si concede per stare in ascolto e dedicarsi all’osservazione degli eventi naturali; gli accadimenti, seppur minimi, vengono fissati in immagini semplici, in grado, però, di trasmettere al lettore la sensazione di meraviglia e di incanto che la Burkart ha al cospetto dello spettacolo della natura2. Le poesie della scrittrice elvetica, talvolta, dimostrano una vera e propria osmosi dell’io lirico con la natura. Imprecisato è il luogo dove nasce l’opera della Burkart, ma indefinito è sempre, del resto, come afferma l’illustre epistemologo Gaston Bachelard, autore de La Poétique de l’espace (1957), il luogo nel quale si sviluppa l’immaginazione e si fa parola, verso. L’unica certezza che si può riscontrare sul luogo della poesia dell’argoviana è che si tratta di uno spazio che viene attraversato costantemente da alcuni grandi temi come la vita (« angerempelt vom Leben, / entgegnete ich mit Gedichten »3), la morte (« jeden Sonntag kämpft meine Mutter / gegen den Tod und erliegt. […] Keine Gebete. / Denn diese Krankheit ist gottlos »4), l’amore e la natura: Am Morgen zwischen den windbewegten Fransen des Tannasts der erste Schnee auf den fernen Hügeln.5

Lo spazio della poesia è quello aperto dei grandi orizzonti, del cielo e dell’elemento acqua che si ritrova nella poesia Biographie (« im Wasser geschlafen, / nach Luft gerungen, / ins Feuer gesprungen, / heimgekehrt in die Erde »6) ma anche quello chiuso, delimitato dalla casa, quello dell’antica abbazia benedettina tra le colline dell’Argovia, legata nel ricordo alla figura del padre e  2 ANNAROSA AZZONE ZWEIFEL, Prefazione a ERIKA BURKART, Poesie, Pasian di Prato, Campanotto editore, 2005, p. 7. 3 ERIKA BURKART, Die Antwort in EAD., Poesie, cit., p. 68. 4 ERIKA BURKART, Ort der Kiefer. Ein Requiem in EAD, Poesie, cit., p. 50. 5 ERIKA BURKART, Winteranfang in EAD., Poesie, cit., p. 16. 6 ERIKA BURKART, Biographie in EAD., Poesie, cit., p. 72.

333  della madre che agiscono come poli emozionali opposti, lo spazio dell’immensità intima, dove l’esperienza dell’autrice trova la sua dimora, una sorta di guscio nel quale ripararsi e ritrovarsi.

Meglio definito è il luogo dove nasce il Florilège alpestre (1953) di CORINNA

BILLE: « mais le lieu dont je vous parlais tout à l’heure, cet Eden oublié, vous pouvez le découvrir sur la carte sous le signe de Plaine Madeleine, et vous y verrez encore le grand Chardon bleu ou panicaut que l’on prétend disparu du et réfugié seulement dans les Alpes voisines ».7 L’opera si presenta a metà strada tra un racconto e un erbario, con la descrizione minuziosa di ogni tipologia di fiore che si può incontrare passeggiando per quei territori alpini, accompagnata dalle fini illustrazioni della pittrice Pia Roshardt (figura 1): La première soldanelle, je l’ai vue, fragile et couleur de cerne, sur la sente détrempée d’aiguilles de mélèzes que les tambours du village en dessous faisaient vibrer. Entre la haie de neige et la pente nue, la fleur frangée à laquelle je commençais à peine à croire, elle aussi vibrait. Je n’osais la cueillir de peur qu’elle ne s’évanouisse entre mes doigts. Fleur née du brouillard et de la fonte des glaces, elle en avait les reflets mauves et l’impondérable. Elle me rappellait ces petites méduses qui deviennent invisibles une fois prises dans le creux de la main.8

Proseguendo il cammino: « chemin des coqs et des tichodromes au plumage de feu, nous les apercevions suspendues aux roches les Primevères visqueuses, rose feu elles aussi, mais prêtes à tomber avec la pierre décalcifiée ».9 Rapporto stretto con i frutti offerti dalla natura alpina elvetica mostra anche il protagonista di L’Homme aux herbes (1980) di MAURICE ZERMATTEN, scrittore che ogni anno per più di quarant’anni, nei mesi di luglio e agosto, ha lasciato Sion per rifugiarsi nel suo chalet di Grangeneuve, vicino al piccolo paese natìo Saint- Martin, per abbandonarsi alla sua vocazione primaria, la stesura di novelle, romanzi, saggi o pièces teatrali. Salvo rare eccezioni, le sue opere sono tutte ambientate nei suoi luoghi di villeggiatura, tra boschi e vigne, con protagonisti ispirati proprio alla popolazione di quelle zone.

 7 CORINNA BILLE, Florilège alpestre, Lausanne, Payot, 1953, p. 8. 8 Ivi, p. 3. 9 Ivi, p. 4.

334  Figura 1 Una delle illustrazioni di Pia Roshardt

335  Particolarmente riuscita sembra l’alchimia uomo-natura in L’Homme aux herbes, dove protagonista è Colas, un medico di una valle alpina, vedovo settantenne che ha sempre guarito i suoi pazienti con l’ausilio di piante medicamentali, foglie, steli e radici che lui stesso raccoglie e ammassa nella sua gerla per poi usarle all’occorrenza. Ma i tempi cambiano, viene costruita una strada che attraversa proprio la valle dove risiede l’anziano medico, viene creato un piccolo ambulatorio e arriva un nuovo dottore che cura esclusivamente con i metodi della medicina tradizionale; Colas, nell’opinione comune, diventa semplicemente un ciarlatano. Il protagonista abbandona allora il villaggio, diretto in alta montagna per restare a contatto solo con la natura, elemento che non l’ha mai tradito, munito di provviste sufficienti per quindici giorni e accompagnato da una capra e un cane: « Donc, tu as une chèvre, un chien; tu as aussi une hotte, un bâton, un livre, ton couteau, et toute cette grange pour toi seul: tu vas pas te plaindre ».10 Nel cammino verso le alte vette, si ferma presso la vecchia Séraphine per prendere l’antico libro con le ricette degli unguenti per guarire che era stato utilizzato da suo padre e da suo nonno prima. Installatosi nel suo alpeggio a fare una vita di stampo primitivo, prolunga il suo soggiorno senza che nessuno — ad eccezione della figlia Mariette e del genero Léon — lo vada a cercare per convincerlo a ridiscendere a valle entro l’inverno: « J’étais heureux parce que j’étais aimé. Je viens d’être malade parce que personne m’aime plus. Quand on est plus aimé, il reste plus qu’à mourir. J’avais maman: elle est morte. J’avais Victoire, elle est morte. J’avais Mariette ».11 Quando alla fine, affamato e allo stremo delle forze, si convince a rientrare a valle, trova la morte nella neve in solitudine: Elle était petite, dodue, le caraco bien rempli par deux seins ronds et blancs où fleurissaient deux églantines roses ne vient-elle pas le voir et lui donner le plaisir, la joie de vivre? Hélas! Il rêve à l’enfant que sa fille Mariette aura bientôt et qu’il ne verra jamais. Il rêve. Il est tout rempli de souvenirs, mais ni les rêves ni les souvenirs, ni tout ce que contient le livre ne le sauveront de la mort.12

La natura può anche essere, come si sa, particolarmente crudele con gli esseri umani; questa la constatazione di base da cui parte FRANZ HOHLER per la  10 MAURICE ZERMATTEN, L’homme aux herbes, Lausanne, L’Age d’Homme, 1980, p. 84. 11 Ivi, p. 138. 12 Ivi, p. 128.

sua novella Die Steinflut (1998), collegata a un fatto storico risalente al 1881, vale a dire la frana che ha travolto il piccolo villaggio di Elm. Protagonista è una giovane fanciulla, Katharina, che sembra creata sul modello di Heidi di JOHANNA

SPYRI ed è, quindi, una ragazza cresciuta tra baite, paesaggi alpini e immersa nella natura montana che rappresenta tutte le virtù e le qualità che un essere umano dovrebbe possedere per giungere a una perfetta armonia con la natura circostante. Ampio spazio viene dato nel corso della novella ai pensieri della giovane protagonista così che l’intera opera finisce per offrire uno sguardo ingenuo sulla catastrofe naturale che si va per abbattere sul piccolo paese; il rischio di una eccessiva semplificazione viene corso dall’autore perché quel che preferisce mettere in evidenza sono le qualità di Katharina, la capacità di vivere nel rispetto delle leggi della natura che gli adulti sembrano aver perso, e la riscoperta della paura, altro particolare sentimento che l’uomo occidentale, nel suo delirio di onnipotenza, sembra aver perso. La novella inizia con un motivo classico della Bergliteratur; l’eroina della storia, infatti, si reca in montagna, nel paese in cui è nata, per un breve soggiorno: « als die siebenjährige Katharina Disch mit ihrem vierjährigen Bruder Kaspar am Freitag, den 9. Semptember 1881 das Haus ihrer Großmutter betrat, wußte sie nicht, daß sie erst wieder bei ihrer Hochzeit von hier weggehen würde ».13 Come si può notare, per conferire veridicità ai fatti narrati vengono indicati chiaramente i nomi dei protagonisti e, soprattutto, coordinate temporali estremamente precise. Il lettore si trova, dunque, a osservare con gli occhi di Katharina la quotidianità del piccolo villaggio, gli uomini che lì vi vivono e lavorano, come trascorrono le giornate nella scuola della piccola realtà elvetica e i giochi che svolgono i bambini. Già nel primo capitolo ci sono segnali evidenti dell’imminente catastrofe: la madre della protagonista aspetta un bambino e sembra quasi un’estranea per gli altri due figli che passeggiano con lei in montagna e da cui si va temporaneamente congedando. L’atteggiamento della donna incute quasi paura ai giovani; tra l’altro la genitrice appare pallida, suda, le sue mani sono fredde, la sua voce è flebile, dona due susine ai figliuoli sulla strada e continua a ripetere che non si deve mai

 13 FRANZ HOHLER, Die Steinflut. Eine Novelle, München, dtv, 2000, p. 5.

337  aver paura di nulla. In lontananza, però, si sentono dei forti tuoni e dai discorsi che si odono nella taverna dei nonni della piccola protagonista, si viene a sapere che pezzi di roccia si sono staccati e sono rotolati giù a valle. Il fratellino di Katharina piange e vorrebbe andarsene. L’eroina di Franz Hohler prende seriamente il ruolo affidatole dalla mamma, tranquillizza il fratello e continua a camminare. Il sentimento di paura di Katharina aumenta sempre più, soprattutto dopo che viene a sapere che una compagna di scuola è stata colpita da un fulmine e che la pioggia battente incessante continua a far rotolare rocce fin giù nella valle; la protagonista pensa che sia meglio starsene a casa e si trova, tra l’altro, a continuare a calmare le ansie del fratellino e decide di farlo raccontandogli una storia: « Katharina wollte ihn ausschimpfen und musterte in Gedanken ihre übelsten Wörter für einen solchen Fall, Angsthase, Hosenscheißer, Brüelibueb, Grännitante, Chuefüdli, aber auf einmal besann sie sich anders, setzte sich mit ihm zusammen auf einen Baumstrunk und sagte: “Komm, ich erzähl dir eine Geschichte ».14 Segue, con la narrazione del diluvio universale, una storia nella storia, una mise en abyme; Katharina e suo fratello non riescono a spiegarsi come Dio abbia permesso la sparizione di qualche razza animale e come ne abbia potuto preferire una rispetto a un’altra e dove sia, dunque, la giustizia divina: « Wieso sollte der liebe Gott die Fische lieber haben als die Murmeltiere? Eigentlich müßte sie dies den Pfarrer fragen, aber die anderen würden sie bestimmt auslachen ».15 Il tema del diluvio universale compare spesso nelle opere degli autori della Letteratura Svizzera, quasi come se essi si sentissero baluardi degli elementi naturali, moderni Noè che nella loro arca — la Confederazione — possono provare a portare tutte le specie appartenenti alla flora e alla fauna per salvarle dalla depravazione degli orribili uomini.

Tra coloro che seguono le orme del patriarca biblico c’è FERNAND

AUBERJONOIS, autore dei testi e dei disegni di L’arche de Noé en cale sèche (2001): « dans mon arche, les animaux sont montés un par un et non en couple. Je les décris tels qu’ils se sont présentés au petit garçon que je fus, et, plus tard, à  14 Ivi, p. 28. 15 Ivi, p. 29.

338  l’adulte que j’essayais de devenir ».16 L’amore per la natura, per uno svizzero, è qualcosa di innato; il cittadino elvetico è tutt’uno con l’ambiente verde: « contrairement à Noè, je me suis intéressé aux bêtes dès ma petite enfance, car il y en avait partout à la ferme de Grandchamps où mon père avait installé son atelier de peintre, à côté de Beau-Cèdre, la très élégante propriété de mes grands-parents, à Jouxtens, près de Lausanne ».17 Il moderno Noè continua poi la narrazione con la descrizione degli incontri con i vari animali che raccoglie nel suo percorso: tra gli altri un riccio, una lumaca, un pappagallo, una giraffa, un cavallo e una mantide religiosa. Tornando a Franz Hohler, il tema della paura gioca un ruolo importante anche nella casa della nonna; così, poco dopo il suo arrivo, a Katharina viene chiesto, ad esempio, se non avesse timore a girare per strada da sola: Natürlich hatte sie Angst gehabt, und ohne den kleinen Kasar, den sie beschützen mußte und der sich noch viel mehr fürchtete, wäre sie gestorben vor Angst. Aber wer zugab, daß er Angst hatte, wurde gewöhnlich ausgelacht. Angsthase war eines der bösesten Schimpfwörter unter den Kindern und eigentlich auch unter den Erwachsenen. Hatte nicht gestern Abend derselbe Bergführer Elmer, der Mann der Hebamme also, in der Gaststube zu Beat Rhyner gesagt, er sei ein Schißhase?18

La protagonista di questa novella nota i rapporti contrastanti che gli uomini intrattengono con le loro paure e la reticenza a mostrare le loro ansie; in opposizione alla sua inquietudine c’è l’apparente noncuranza del gruppo dei Leichtsinnigen che, a prima vista, sembrano non vivere come un pericolo i blocchi di roccia che minacciano di staccarsi e franare sul loro paese; tra questi si possono annoverare la guida alpina Elmer, suo cugino Paul, che fa il contadino e il capomastro Müller, uomo concentrato esclusivamente sul proprio profitto. Le caratteristiche fisiche e psicologiche attribuite a queste figure tendono a sottolineare proprio il contrasto con Katharina; così, ad esempio, la guida alpina viene presentata come un ciarliero e si sottolinea che la giovane trova « seine Geschichten übertrieben » e che « vielleicht ist etwa die Hälfte davon wahr ».19 A rendere Paul un personaggio poco affidabile, invece, contribuiscono anche i tratti somatici: « Paul war der älteste, aber auch der kleinste von allen, er war sogar  16 FERNAND AUBERJONOIS, L’Arche de Noé en cale sèche, Genève, Editions Zoé, 2001, p. 5. 17 Ivi, p. 8. 18 FRANZ HOHLER, op. cit., p. 38. 19 Ivi, p. 9.

339  etwas kleiner als seine junge Frau, das war Katharina aufgefallen […]. Er hatte krauses Haar und listige Augen. Er sprach schnell, und Katharina traute ihm nicht ganz, wie allen, die gern Witze machten. Wer einen Witz machte, sagte nicht das, was er meinte, und Katharina fürchtete immer, er sage das, was er meine ».20 Si può distinguere poi il gruppo dei Vorsichtigen, coloro che posseggono reali conoscenze sulla situazione della montagna, composto dal cugino Fridolin e da alcuni osservatori esperti con i quali si confronta; a differenza di Paul, Fridolin riflette con lucidità sulla situazione: « und wenn Paul mit donnernder Stimme von den paar Steinchen sprach, neigte Fridolin seinen Kauskopf etwas zur Seite und sagte dauernd, man dürfe nicht vergessen, man müsse auch bedenken, man solle doch vorstellen ».21 La preoccupazione della nonna, invece, si esprime su un piano fisico; la donna mostra, infatti, inappetenza e nausea e sembra essere in possesso, come del resto i suoi nipoti e gli animali della valle alpina, di una sensibilità che le permette di cogliere i segnali provenienti dalla natura e riesce a percepire, dunque, l’imminente catastrofe. Anche i bambini hanno reazioni fisiche alla sensazione di pericolo: il fratellino di Katharina vomita e il neonato è inquieto e piagnucolante. Che gli animali possano percepire in anticipo le catastrofi naturali, è un’antica credenza che, tuttavia, gli abitanti della valle non sembrano conoscere; soltanto la piccola protagonista pare intuire le sensazioni delle bestie: Im Untertal verstehe niemand, wie die Katze den Weg in die “Bleiggen” gefunden habe, sagte Anna, und auch noch das mit den Hühnern, ein Rätsel sei das. “Die Tiere haben halt auch ihre Launen”, sagte Paul, “wie die Kinder, gell, Didi?” und gab Katharina einen Klaps auf die Schulter, der sie fast umstieß. “Ja”, sagte Katharina, und fügte dann schnell hinzu: “Vielleicht haben sie Angst”.22

Nonostante le premonizioni, Katharina si ostinerà a non voler abbandonare il paese e troverà la morte. Chi soffoca sentimenti e intuizioni, soccombe alle leggi della natura. Anche se si volge lo sguardo alle opere degli ultimi anni, si intuisce che il rapporto tra gli autori svizzeri e la natura resta forte, una relazione quasi di dipendenza che porta l’ambiente a essere ancora lo spunto principale della  20 Ivi, p. 48. 21 Ivi, p. 137. 22 Ivi, p. 134.

340  creazione artistica; a conferma di tale affermazione si prendano due opere che hanno riscosso grande successo di pubblico e critica nella Confederazione:

Rapport aux bêtes (2002) di NOËLLE REVAZ e L’embrasure (2010) di DOUNA

LOUP. Nel libro del 2002 della vincitrice del Premio Schiller, il più prestigioso riconoscimento letterario elvetico, già nelle prime righe si legge: « Il faut nourrir. Les bêtes se lèvent bien avant nous, ce sont pas des paresseuses, elles attendent patiemment qu’on ait terminé nos purges pour pouvoir prendre leurs forces et se remettre à la peine. Il faut nourrir et aussi traire ».23 L’incipit del romanzo di recita: La forêt est grande, profonde, vibrante, vivante et vivifiante. Elle est quelque chose comme une femme qui voudrait l’homme sans lui dire. Quelque chose qui dit oui sous la robe mais qui s’est perdu dans la bouche, qui devient tendre dans l’humus et vous jette des ronces au visage. La forêt est comme ça, ici. Le sauvage sait y faire. L’attirance qu’elle éprouve à se faire explorer, elle la garde au-dedans, de la sève en puissance qui coule sous la terre, qui monte comme une odeur et vous emballe sur-le-champ. Même le ciel, au-dessus, ne reste pas indifférent.24

Non si può evitare di considerare, quindi, che gli intellettuali svizzeri ricevano, ancora oggi, nel loro rapporto con la natura, una delle forme più estese e profonde di rivelazione del senso di appartenenza a una comunità. Il rapporto con la natura dà agli elvetici, dunque, un senso di pienezza, di compiutezza, di sicurezza nella partecipazione all’esistenza dell’universo.

 23 NOËLLE REVAZ, Rapport aux bêtes, Paris, Gallimard, 2002, p. 9. 24 DOUNA LOUP, L’embrasure, Paris, Mercure de France, 2010, p. 11.

341  4.5.1 LA MONTAGNA

Poeti della montagna è un’espressione che ricorre spesso nella recente antologia sulla Letteratura Elvetica, edita da Armando Dadò e curata da Domenico Bonini e Rudolf Schürch, Voci e accordi, con cui si indica quel gruppo di autori svizzero-italiani per i quali sembra che il paesaggio alpino funga da pretesto primario per creare storie letterarie e che con le descrizioni dei loro personaggi offrono una fotografia del popolo montano. Limitare il discorso, come è stato fatto, al contesto italofono del Novecento è, però, approssimativo; molto più antico e ampio è, difatti, il fenomeno che lega la Letteratura Svizzera alle Alpi. Ci si limiterà, in questa occasione, a sottolineare che già nel 1729 il bernese ALBRECHT VON HALLER con il poema Die Alpen aveva posto l’attenzione sullo stile di vita puro e semplice del popolo della montagna — che doveva fungere, quindi, da modello per tutti gli uomini di buona volontà — in netta contrapposizione con quello corrotto e artificioso della gente di città: Entfernt vom eiteln Tand der mühsamen Geschäfte, wohnt hier die Seelen-Ruh, und flieht der Städte Rauch: ihr thätig Leben stärkt der Leiber reife Kräfte, der träge Müssiggang schwellt niemals ihren Bauch. Die Arbeit weckt sie auf, und stillet ihr Gemühte, Die Lust macht sie gering, und die Gesundheit leicht.1

L’opera halleriana ha avuto un ruolo fondamentale nella guida al moderno Grand Tour svizzero; i versi dell’autore di Berna sono serviti da viatico a turisti, scienziati o artisti nel loro errare per le montagne elvetiche, e versi del poema furono talvolta apposti come massima nei resoconti di viaggio o negli studi come nel caso della Beschreibung einiger Merckwürdigkeiten, welche er in einer […] gemachten Berg = Reise durch einige Oerter der Schweitz beobachtet hat (1747) del teorico Johann Georg Sulzer, esposizione scientifico-antropologica sulle Alpi svizzere introdotta da un’immagine con una didascalia tratta dal poema di Haller.

I paesaggi alpini hanno in seguito nutrito la Heimatliteratur di ERNST ZAHN,

JAKOB CHRISTOPH HEER e , nonché la letteratura per l’infanzia incentrata sul personaggio di Heidi della scrittrice di Hirzel JOHANNA SPYRI che

 1 ALBRECHT VON HALLER, Le Alpi (con testo a fronte), Verbania, Tararà, 1999, pp. 16-18.

idealizza la vita alpina, contrapponendola anch’ella allo stile di vita insano delle grandi città, in particolare quello di Francoforte. Le Alpi divengono sempre più un elemento cardine dell’identità svizzera, come risulta messo in risalto già nel saggio del 1905 di ERNST JENNY Die Alpendichtung der deutschen Schweiz: Unser Patriotismus, unser Heimatliebe haben ihren stärksten Untergrund und Rückhalt an den Alpen. […] Die Alpen sind des Schweizers grösste, höchste und beste Schule. Sie zu lieben und zu pflegen mit Leidenschaft muss ihm allezeit am Herzen liegen. Sie zu preisen, ihr Wesen, ihre Bedeutung uns künstlerisch zu vermitteln, ist hohe Aufgabe des vaterländischen Dichters.2

La catena montuosa mitteleuropea si pone al centro dell’opera non solo degli scrittori ma anche dei pittori svizzeri, basti pensare ai quadri di Ferdinand

Hodler (figura 1) che ritraggono i paesaggi alpini elvetici purificati da tutto quello che il progresso ha portato deturpandoli; l’artista bernese ritocca la realtà, eliminando dai suoi dipinti case, strade, ferrovie e qualsiasi altra testimonianza del passaggio dell’uomo. Con l’avvento del Nazismo in Germania, la Confederazione sente minacciati i suoi confini e, come si è visto nei capitoli precedenti, si sviluppa la cosiddetta Geistige Landesverteidigung che si richiama alle tradizioni elvetiche per salvaguardare l’unità dello stato e allontanare gli influssi provenienti dall’estero; anche la letteratura deve essere concepita partendo da questa idea, così come emerge chiaramente dalle affermazioni ufficiali del 1935 dell’Associazione Scrittori Svizzeri: « Sie schenken dem Schweizervolk das stolze Bewusstsein seines Wertes, sie verteidigen die schweizerische Seele gegen fremde Beeinflussung und tragen deren Grundsätze, auf denen unser Staat beruht, über die Grenzen hinaus ».3 Avvicinandoci ai giorni nostri, cantore della purezza della vita alpina appare

LUDWIG HOHL, in particolare nelle opere Nächtlicher Weg (1943) e Bergfahrt (1975), opere sostanzialmente prive di una trama — e, infatti, etichettate da pubblico e critica come tediose, specchio di una Svizzera dove il tempo sembra non passare mai — e concepite esclusivamente per cantare la bellezza dei  2 ERNST JENNY citato secondo PETER UTZ, Tanz auf den Rändern: Robert Walsers “Jetztzeitstil”, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1998, p. 96. 3 ULRICH IM HOF, Mythos Schweiz. Identität-Nation-Geschichte 1291-1991. Zürich, Verlag Neue Zürcher Zeitung, 1991, p. 247.

343  paesaggi di montagna e l’integrità morale dell’homo alpinus helveticus che già lo zurighese JOHANN JAKOB SCHEUCHZER a cavallo tra XVII e XVIII secolo aveva posto al centro dei suoi scritti. In Nächtlicher Weg, Hohl offre nove racconti, una prosa scarna che serve a fermare la realtà e donarla al lettore nella sua più intima profondità, mettendo a nudo un’umanità vera, descrivendo immagini nel modo più nitido possibile, presentando una serie di ritratti autentici come quello delle tre vecchie donne in un paese di montagna: « unter den Erscheinungen, die mir aus der Zeit meines Aufenthaltes im Bergdorf in Erinnerung sind, heben sich diejenigen dreier alter Weiber mit besonderer Deutlichkeit hervor ».4 La prima di queste tre figure descritte è la Possente, dalle enormi mani di un colore tra il rame ossidato e il cuoio, tozze, con le vene ben evidenti che emergono dalla pelle, mani di chi ha sempre lavorato, di una donna gentile, parca e risparmiatrice, semplice e cordiale ma diffidente, per cui il tempo è scandito dal passare delle stagioni e gli spazi abitativi sono, e sempre saranno, quelli montani, una donna dalla voce sgraziata, roca ma con improvvisi picchi striduli, « die Stimme einer Kuh »5, frutto di una identificazione totale con la natura: « nicht, weil sie minder deutlich wäre, ist von dieser am schwersten zu reden, aber weil sie nichts als in ungemeinem Maße Gegenwart besaß; was gibt es von einem Menschen zu erzählen, der in reiner Monumentalität da ist, ohne etwas zu werden, ohne sich zu bewegen? ».6 Non appare semplice, però, neanche descrivere La Silenziosa, donna con il peso della fatica di anni di lavoro sulla schiena, che tiene ad angolo retto rispetto alle gambe e che possiede un orto cui sembra unita da un legame indissolubile: « Still ist alles an ihr, so still, daß man sie lange Zeit nicht, dann erst wahrnimmt, wenn einmal die äußere Welt selber sich zur Stille neigt; im Lärm, da, wo Menschen versammelt sind, verschwindet ihre Erscheinung, sei es, daß sie lautlos hin- und vorüberging, sei es, daß einfach den Augen die Fähigkeit genommen ist, sie hier zu bemerken ».7

 4 LUDWIG HOHL, Nächtlicher Weg, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1971, p. 80. 5 Ivi, p. 85. 6 Ivi, p. 82. 7 Ivi, p. 90.

344 

Figura 1 Ferdinand Hodler Lago di Thun e il monte Stockhorn

345  La terza figura, La Spaventosa, è la meno vecchia delle tre ma ancora più povera, vestita di stracci sporchi, il viso scuro: Mehr als einmal sah ich sie am Straßenrand stehen, erinnernd an einen schmutzigen, verwischten, abschmelzenden Schneemann im Frühling, aber mit grauenerregendem Blick […] und dann bückte sie sich und nahm zu meinem Schrecken aus dem Rinnsal am Wegrand, das eine graue, völlig undurchsichtige Flüssigkeit führte, ein Pfännchen voll hoch und trank langsam davon.8

Più ci si allontana dalla montagna, sostiene Hohl in questi suoi racconti, e più ci si sposta dalla purezza dell’anima, dalla vita incontaminata, si sposa la corruzione, non si è più in grado di comprendere i valori essenziali della vita, si diventa uomini peggiori; chiaro sin dall’incipit del primo racconto della raccolta, Paesaggi, il concetto dello scrittore glaronese e la differenza che lui ritiene esserci tra la vita in città e quella in campagna: Von Jahr zu Jahr habe ich das Gebirge mehr aus den Augen verloren: Die Dinge, wie mächtig sie einst waren, erblassen, wenn der Moment der Trennung immer weiter zurücktritt, eine gewaltigere Distanz uns von ihnen scheidet. Die Sehnsucht, die mich einst jedes Jahr so heftig gefaßt, getrieben hatte, die Berge zu suchen, erlosch auch, allmählich, aber sie erlosch dennoch, wie ich es nie für möglich gehalten hätte, und ich wurde von anderen Dingen erfüllt. Als ich längst den Punkt der größten inneren Entfernung erreicht hatte, da auf einmal begannen sie, die Berge, aus dem Nichts heraus, zu wachsen.9

In Bergfahrt protagonisti sono, invece, due giovani alpinisti e il ghiacciaio: « Im Frühsommer, zu frühester Morgenstunde, tief in den Alpen, am Vereinigungspunkt zweier Täler, auf grünen Eisenstühlen vor einem noch schlafenden Café sitzen zwei Gestalten, an ihrer Aufmachung und Ausrüstung unschwer als Alpinisten zu erkennen »10; la salita in montagna offre a Hohl l’opportunità per realizzare una parabola sulla vita (« im folgenden Teil des Aufstiegs erwies sich das Vorrücken bald als mühsam, weil der Schnee tiefer wurde und vor allem — verwunderlicherweise in Anbetracht der Höhe und der Tageszeit — weicher; man sank oft schuhtief ein »11), con un susseguirsi di interrogativi e considerazioni improvvise che sembrano aforismi, offerti con

 8 Ivi, pp. 96-97. 9 Ivi, p. 15. 10 LUDWIG HOHL, Bergfahrt, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1978, p. 7. 11 Ivi, p. 36.

346  l’intento nietzscheano di riassumere, in queste brevi frasi, principi morali e quasi di non voler essere semplicemente letto ma imparato a memoria. Passando al filone della letteratura della Svizzera italofona, troviamo quegli autori indicati da Domenico Bonini e Rudolf Schürch nella loro antologia come “poeti della montagna”; c’è, effettivamente, tra gli scrittori di questa area linguistica, e in particolare nelle opere di autori come FELICE MENGHINI, REMO

FASANI e PLINIO MARTINI, un continuo e ripetuto modo di riferire il paesaggio montano e associarlo a un proprio modo di essere e di porsi, a una dimensione tanto psicologica quanto metafisica. Il poeta di Poschiavo riassume l’essenza della sua arte e del suo legame con le Alpi già nei primi versi dei Sonetti alla mia valle, contenuti nella raccolta Esplorazione (1947): Se la mia terra fosse una pianura […] non avrei vinto mai la mia tristezza e immobile sarebbe la mia vita giaciuta come l’ora che infinita sembra su quelle terre senza il volo alto delle montagne, con il solo orizzonte che distrugge ogni altezza.12

Degna di nota è anche la breve lirica di Menghini Vento sulla valle del 1946, che cattura un aspetto particolare del mondo alpestre, quello del vento impetuoso che, partendo dai ghiacciai del Bernina — gli « invisibili vulcani » del primo verso — sembra allontanare dal mondo, durante i mesi invernali, la Val Poschiavo, di cui è originario il poeta: Nasce da invisibili vulcani corre improvviso il vento sulla valle inerme straziata nella sua carne viva, illividita dalla sua carezza.

Vento, liquido ghiaccio, il tuo impeto è un urlo di vergogna, errante sulla valle morta nella sua squallida nudità.13

 12 FELICE MENGHINI, Sonetti alla mia valle, in ID., Esplorazione, Bellinzona, S.A. Grassi & co., 1946, p. 59. 13 FELICE MENGHINI, Vento sulla valle, in ID., Esplorazione, cit., p. 28.

347  Menghini avvicina, negli ultimi versi della sua lirica, le sue sensazioni di fronte alla forza della natura a quelle fermate dal pittore Edvard Munch nel celeberrimo Urlo. La natura, che offre spontaneamente emozioni tanto forti, provoca angoscia, smarrimento e un senso di impotenza. Lo scrittore elvetico, come Munch, concede il ricordo di un attimo di vita vissuta, filtra il reale attraverso il suo stato d’animo, la sua profonda sofferenza, il vento trapassa le sue emozioni con ferocia. Dalla tematica della natura alpestre traggono ispirazione molte delle migliori liriche di REMO FASANI, come Racconto del passeggero, contenuta in Un altro segno: Prima fu solo il timbro trasognato dell’aria in mezzo ai pini.

Poi, lontano, dal fondo, batté il picchio, la lepre lampeggiò sull’erba cupa, da uno spiraglio s’intromise il cielo, un lembo di montagna… A poco a poco io penetravo nella selva antica e l’orma si perdeva.

Tutto, in quell’ora, aveva la sua pace, nella terra affondavano radici l’anima e il corpo, e tutto si moveva e mi chiamava altrove.

Poi come spenti i suoni naufragarono, svanirono le cose, e non la selva, ma si aprì alla mente la pagina del nulla istoriata.14

Lasciare le montagne svizzere, cercare fortuna altrove, può essere una dannazione, lo si è intuito già da quel che scrive Ludwig Hohl in uno dei suoi racconti della raccolta Nächtlicher Weg, in merito a un personaggio che abbandona la Confederazione per l’Olanda. Lo stesso concetto è alla base de Il fondo del sacco (1970) di PLINIO MARTINI, un romanzo incentrato sulla fuga del protagonista dalla Val Maggia per cercare una stabilità economica ma che finisce per fargli perdere i valori veri della vita, per sradicarlo dagli affetti, dal proprio paese, dalla propria valle, dalle montagne che sono viste, da chi ci vive, nemiche

 14 REMO FASANI, Racconto del passeggero, in ID., Senso dell’esilio — Orme del vivere — Un altro segno, Milano, Scheiwiller, 1965, p. 112.

348  irriducibili, cause di pesanti fatiche ma che sono pur sempre la culla della propria cultura. Il fondo del sacco è un importante documento, quasi alla stregua del romanzo storico, perché offre un vasto quadro della vita sociale, l’economia, la religiosità, il folklore, la cultura popolare di un paese che Martini ben conosceva e amava — il suo villaggio di origine Cavergno — e riguarda, tra l’altro, un vasto arco di tempo che va dalla metà dell’Ottocento agli anni Cinquanta del secolo successivo. Originale la commistione linguistica dell’opera: in Martini è presente l’impianto dialettale; la sua lingua è sì di forma italiana ma contiene anche alcuni dialettismi, soprattutto a livello delle costruzioni sintattiche. Accanto al gergo locale, al registro che potrebbe essere definito parlato e popolare, c’è la lingua raffinata, la prosa d’arte, soprattutto nei brani in cui Martini esprime la tenerezza per la natura o il rimpianto per il villaggio, recuperando la lezione del Piero Bianconi de L’albero genealogico (1969), altro romanzo che narra vicende di emigranti. La lingua di Martini, già interessante nel primo romanzo, si presenta ancora più ricca, variata e interessante nella seconda opera, Requiem per zia Domenica (1976): qui non c’è più solo una lingua vicina al parlato ma una pluralità dei registri, che alcuni critici collegano all’insegnamento di Gadda. Per creare ironia, i personaggi e la loro mentalità sono presentati imitando il loro linguaggio caratteristico; quindi troviamo riprodotto, a scopo sarcastico-ironico, il lessico pio dei libri di devozione o, magari, anche la parlata contorta e involuta dei discorsi politici ed elettorali per imbonire l’uditorio. Si rinviene anche l’italiano riempito di dialettismi della gente del popolo, la retorica ampollosa dei predicatori. In altri casi, poi, si intrecciano punti di vista diversi; in Requiem per zia Domenica abbiamo fondamentalmente due prospettive: una è quella ingenua, interna all’orizzonte del piccolo villaggio, ovviamente dominato dalla religione cattolica, l’altra è quello colta e smaliziata appartenente al protagonista Marco e all’autore che in lui si riflette e manifesta anche la propria crisi religiosa. Va notata, inoltre, l’abitudine di Martini a elencare, utile a imitare il rovello interiore del protagonista — e la tendenza all’elencazione è anche una caratteristica della prosa di Gadda — oppure le digressioni che hanno lo scopo di

349  documentare le caratteristiche del luogo dove si svolgono i fatti e, infine, le citazioni con una forte presenza di Manzoni e più occasionali riferimenti a Foscolo, Gozzano, Leopardi, Pascoli, Ungaretti, a tutte le sue intense letture che permettono di parlare di una pluralità di voci. Sull’abbandono della montagna abbiamo avuto, negli ultimi anni, le testimonianze più diverse: specialisti di tutte le scienze hanno espresso opinioni su un fenomeno che viene a interrompere una secolare consuetudine di vita e implica la trasformazione dei luoghi non più presidiati, non meno che degli uomini. Tuttavia è sempre mancata in questi anni la voce dei protagonisti, coloro che sono coinvolti in prima persona nella vicenda, cioè i valligiani. Requiem per zia Domenica costituisce a questo silenzio, a questa rimozione, una vera e propria eccezione ed è, inoltre, uno dei documenti più significativi della letteratura ticinese della seconda metà del Novecento. In questo romanzo del 1976, Martini riunisce, quindi, due identità: da una parte c’è l’uomo di montagna tormentato dalle memorie di un tempo diverso e dall’altro lo scrittore che si interroga sul significato dell’esistenza estendendo le sue analisi delle condizioni delle valli fino a includere le grandi questioni sulle quali l’uomo non ha mai smesso di interrogarsi. Così facendo, come ha già notato Carlo Bo nella prefazione al romanzo nell’edizione uscita presso le Edizioni Gottardo di Giubiasco, Plinio Martini sfugge al bozzettismo e all’elegia e imposta seriamente il problema cruciale dei rapporti tra conservazione e mutamento. Il libro è costituito dalle meditazioni del protagonista durante i funerali di una parente, appunto zia Domenica, che incarna il vecchio mondo che se ne è andato. Tutto il romanzo è giocato sul contrappunto tra i semplici precetti su cui si fondava la vita di un tempo e la più sofisticata consapevolezza del nipote, un intellettuale scettico, che non riesce tuttavia a staccarsi dall’universo in cui ha trascorso la sua giovinezza: Non era passato molto tempo da quando aveva lasciato il paese. Al pari degli altri era cresciuto lì, aveva fatto gli stessi lavori, amato i prati puliti, le bestie, sopportato le fatiche dell’alpe e della fienagione, dei sentieri interminabili sotto il carico che diventa sempre più greve; ma ricordava anche l’ora del riposo, o godimenti fuggevoli, che duravano però nella memoria e che dovevano essere comuni a tutti, come il ritrovamento, in pause inattese, del fragore dei torrenti che risonava in tutta la valle, fra l’alte pareti rocciose, quasi a significare la pace totale del tempo che cancella

350  l’umano soffrire; o l’ascoltare all’alba, dal letto, la pioggia che promette una giornata di riposo. […] Anche se possedeva pensieri diversi, usciva dallo stesso mondo pastorale, che poteva essere identificato nell’odore dei cibi, nella fragranza dei fienili, dello stallatico sparso d’autunno sui prati, nello stesso modo di raccontare o accennare a un aneddoto, nelle metafore d’uso comune, nella cadenza del parlare, qualificativa di un ritmo di vita rassegnato e tenace; quella era la sua gente, con la quale avrebbe voluto poter condividere i semplici pensieri, il dolore e la speranza.15

Come accade nel protagonista, anche in Martini la forza dello spirito critico è più forte della spinta al ricordo e, proprio per questo, il libro è una rivisitazione, ora ben più consapevole ma mai dall’esterno, del mondo della montagna. Eppure il fascino della narrazione consiste nella suggestione che lo scrittore continua a provare per la vita di un tempo, oggetto di alcune commosse rievocazioni: Anche la piazza di Aldrione, l’unica vera piazza di Val Soldina, non più grande di una comune sala borghese e dove Marco ricordava riunita tutta la gente della terra prima e dopo il rosario, non era stata risparmiata dallo stupro. Marco cercò di ricordarla come era allora, grigia di pietre abitate da lucertole nonché adorna di licheni e muschi vari, con la sua bella forma di ciotola riscaldata dal sole, donatale dalle scale condiscendenti dal primo piano al pianterreno delle casette che la chiudevano in quadrilatero, un lato essendo però tutto occupato dalla facciata dell’oratorio: rimanendo così, di piazza vera e propria, pochi metri quadrati di selciato, e tutto in giro quel salire di gradini come un anfiteatro in miniatura, sui quali tutti potevano trovare da sedere, ciascuno scegliendo la pietra più adatta alla propria stanchezza. Il che succedeva ogni sera, se si escludono dall’adunanza i piccoli già messi a dormire con un ultimo segno di croce sulla fronte nei loro lettini di foglie di faggio, quando all’imbrunire suonava la campana del rosario. La campana suonava due volte, con discreto intervallo, ed era un segnale atteso dalla gente, seduti gli uni davanti alle case a consumare la cena; attardati altri pochi nei campi più vicini; quell’intervallo dava a tutti il tempo di radunarsi concordemente nella piazza, quasi a prendere atto che la giornata era finalmente compiuta, e cominciava il riposo con la preghiera comune.16

Alla fine non ci sarà possibilità di scegliere tra i due mondi, quello della zia Domenica e quello del nipote; la morte dell’anziana donna segnerà davvero la fine di quell’universo. L’interramento, che conclude il racconto del funerale, accentua questa separazione, eppure in quella stessa terra affondano le radici dello scrittore ed esse hanno alimentato, in un certo senso, la testimonianza di cui il libro si è fatto portatore.

 15 PLINIO MARTINI, Requiem per zia Domenica, Milano, Edizioni Il Formichiere, 1976, pp. 27-28. 16 Ivi, pp. 58-59.

351  Nella tragedia di un uomo che si sente sospeso tra due mondi paralleli e che ha la sensazione di avere due anime, Martini ha probabilmente rappresentato la situazione delle valli divise tra passato e presente ma ha anche saputo dire qualcosa che riguarda tutti e che va oltre i confini della letteratura regionale, qualcosa di universale: ci ha ricordato, difatti, il prezzo doloroso che impone il progresso; il tempo passa e tutto distrugge, anche le tradizioni. Un paese di contadini al centro delle Alpi fa da sfondo anche a L’anno della valanga (1965) di GIOVANNI ORELLI; gli abitanti della valle vivono un lungo inverno con il rischio di essere travolti da una valanga: La grande montagna che sta sopra il nostro villaggio non si è mossa. Una valanga è su, così hanno detto quelli dall’aeroplano che sorvolano la valle, in cima al bosco, sopra il paese, ferma. Una valanga è scesa, proprio nel mezzo della notte, sulle case del borgo, un’altra è passata rabbiosa vicino a Nostengo, ha rotto tutti i vetri delle case con lo spostamento d’aria.17

La neve sembra voler cancellare ogni cosa (« la neve cade su altra neve con un fruscio sottile. Dopo qualche giorno, è il solo cadere di neve »18), compresa la tradizione, e il lettore si trova ad affrontare le paure dei protagonisti, i contrasti tra valori arcaici e moderni, la voglia di fuggire che accomuna tutti: « fuggire, ecco, lasciandosi portare dal vento, considerare lo spettacolo della distruzione, la valanga che sradica alberi altissimi e saldamente attaccati alla terra, rotola macigni micidiali senza rumore, spazza via case ».19 Paesaggi alpini in distruzione sono anche al centro della raccolta di liriche di FABIO PUSTERLA Concessione all’inverno (1985): ambienti naturali sommersi, mondi sprofondati, frane improvvise, territori precari, cedimenti di rocce, stratificazioni arcaiche, correnti sconosciute, pericolosi vuoti, fanghiglie, frastagliamenti, rifiuti, nebbia fitta. In questo scenario quasi catastrofico, Pusterla va alla ricerca di minime tracce di sopravvivenza e ricordi del passato che diano senso a un presente avvilente e degradato: L’erosione cancellerà le Alpi, prima scavando le valli, poi ripidi burroni, vuoti insanabili che preludono al crollo, gorghi. Lo scricchiolio  17 GIOVANNI ORELLI, L’anno della valanga, in ID., La festa del ringraziamento; l’anno della valanga, Milano, Mondadori, 1972, p. 123. 18 Ivi, p. 125. 19 Ivi, p. 164.

352  sarà il segnale di fuga: questo il verdetto. Rimarranno le pozze, i montaruzzi casuali, le pause di riposo, i sassi rotolanti, le caverne e le piante paludose. Nel Nuovo Mondo rimarranno, cadute principali e alberi sintattici, sperse certezze e affermazioni, le parentesi, gli incisi e le interiezioni: le palafitte del domani.20

Sul fronte francofono è ambientato nelle Alpi il romanzo del giovane

BLAISE HOFMANN, Estive (2007), che narra di un’estate del protagonista passata sulle montagne a fare il pastore; l’esperienza è una possibilità per interrogarsi su quella che gli elvetisti chiamano suissitude o svizzerità, il suo rapporto con la tradizione della Confederazione e, inevitabilmente, anche sulla sua relazione con la montagna: Les Alpes, un bûcher de décoration, un bac à géraniums, une fourche en bois, un balcon sculpté, une vie miniature, un rude labeur, l’esthétique nationale dessinée dans les expositions universelles, ce que la ville dit être authentique, un drapeau rouge à croix blanche, une famille paysanne au grand complet qui pose devant l’objectif comme de jolis petits nègres terreux, une pauvreté que l’on dit volontaire et épanouie, des monts, des merveilles, des subventions et une plusvalue touristique.21

In conclusione appare evidente che le Alpi unificano, si ergono a conservatrici dei valori confederali e appaiono come tema di una letteratura che sempre più sembra potersi definire come nazionale, nonostante l’assenza di una lingua unitaria. In Svizzera le montagne hanno favorito la nascita di una specifica identità, montanari e Alpi sono da ritenere elementi costitutivi dell’identità elvetica, il paesaggio montano, gli usi e i costumi dei suoi abitanti sono considerati i veri depositari della democrazia e dell’autentica libertà. Le Alpi svolgono a tutti gli effetti il ruolo di collante dell’unità nazionale.

 20 FABIO PUSTERLA, Le parentesi, in ID., Concessioni all’inverno, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1985, p. 25. 21 BLAISE HOFMANN, Estive, Genève, Éditions Zoé, 2007, p. 129.

353  4.5.2 LA PASSEGGIATA

Nel breve trattato del 1802 Die Spatziergänge oder die Kunst spatzieren zu gehen del tedesco Karl Gottlob Schelle si riconosce come scopo della passeggiata la « spensierata contemplazione della natura »1 nelle sue incommensurabili mutazioni. Non ci si deve limitare a « scrutare »2 la natura come se fosse un semplice oggetto d’indagine, deve esserci attrazione per la sua « superficie malia ».3 « L’interesse verso la natura dovrebbe essere eminentemente estetico »4 per poterla apprezzare realmente nella sua totalità, per poter godere a pieno delle sensazioni e delle emozioni che suscita. Le descrizioni, secondo Schelle, non riescono mai a restituire il lato energico e ammaliante della natura che agisce sullo spirito; per coglierne l’essenza più pura è necessario viverci a stretto contatto e la passeggiata è il mezzo migliore per cogliere totalmente questa esperienza, nel mutare del tempo e dello spazio, poter osservare, dunque, la vita della natura e abbandonarsi all’influsso di essa sulla propria interiorità. L’esperienza mediata dalla natura, continua Schelle, non è sufficiente e non bastano neanche « gli stessi quadri paesaggistici […] che agiscono nell’arte in modo assai diverso, di quanto facciano i loro corrispondenti oggetti in natura »5 perché è necessario conoscerla per contatto diretto. Ma per far sì che il moto del corpo sia anche sollievo per l’anima, si deve evitare ovviamente una totale concentrazione su se stessi che comporterebbe l’annullamento del diletto provocato dalla natura; quindi chi ci vedesse « solo se stesso, o di essa necessitasse solo come sfondo per inseguire le proprie idee, totalmente distaccate […] potrebbe far tutto ciò nel chiuso della sua stanza ».6 Schelle cita diversi intellettuali di epoche precedenti o suoi contemporanei e, in merito al passeggiare nella natura, sostiene che « dovrebbe avere il

 1 KARL GOTTLOB SCHELLE, L’arte di andare a passeggio, Palermo, Sellerio, 1993, p. 61. 2 Ivi, p. 45. 3 Ivi, p. 49. 4 Ivi, p. 51. 5 Ivi, p. 91. 6 Ivi, pp. 64-65.

354  medesimo carattere di una passeggiata alla Rousseau ».7 Lo svizzero è, quindi, già all’epoca un modello, è il flâneur solitario per eccellenza, colui che ha fatto del passeggiare una pratica di vita e un argomento alla base di molte sue opere. In Julie ou la Nouvelle Héloïse (1761), che già nella seconda metà del XVIII secolo conta numerose edizioni e che diventa subito valido esempio letterario, tra le pagine più significative ci sono proprio quelle che pongono al centro i paesaggi alpini e la passeggiata vista come punto di incontro tra la natura e l’interiorità dei personaggi. Nella Lettre XXIII à Julie il protagonista espone la sua esperienza nel territorio del Vallese; in questa zona il passeggiatore vuole potersi godere la solitudine e smarrirsi nei luoghi selvatici che ai suoi occhi fanno la bellezza del paese, mettersi in movimento senza meta, per apprezzarlo nella sua totalità. L’eroe di Rousseau vuole annullare la distanza tra spettatore e natura, diventare un unicuum con l’ambiente e questo può avvenire soltanto passeggiando in mezzo a tanto splendore puro. Al moto del corpo, per lo scrittore ginevrino, ne corrisponde uno interiore: è più evidente questo connubio in Rêveries du promeneur solitaire (1782), descrizione di nove passeggiate8 in cui Rousseau effettua un percorso filosofico fornendo risposte a questioni esistenziali come per esempio Que suis-je moi même? al centro della prima passeggiata; la meditazione nel ritiro, lo studio della natura, la contemplazione dell’universo, si dice nella terza passeggiata, spingono un solitario a lanciarsi senza tregua verso l’autore delle cose, e a cercare con una certa inquietudine il fine di tutto ciò che vede e la causa di tutto ciò che sente. Col passeggiare si riprende, quindi, la temporalità del paesaggio, la si esperisce in una sequenza, nella durata e non nell’attimo del contemplare un’immagine fermata come in un quadro, spazio statico e circoscritto. Il flâneur di Rousseau si muove — senza meta — per ‘possedere’ quello che attraversa con lo sguardo; con lo stesso atteggiamento si muoverà, a due secoli di distanza, un altro instancabile osservatore della natura elvetica: ROBERT WALSER. Il motivo della passeggiata caratterizza l’intera produzione dell’autore di Biel: le lunghe camminate diventano fonte primaria d’ispirazione per l’attività letteraria e il contatto con la natura libera la sua creatività. Secondo Georg  7 Ivi, p. 113. 8 La decima, dedicata a M.me de Warens, è rimasta incompiuta.

355  Kurscheidt la passeggiata è qualcosa di più di un motivo centrale: è una vera e propria caratteristica strutturale delle opere di Walser.9 Il suo vagabondaggio è un modo per andare incontro agli episodi quotidiani senza attenderli passivamente come fanno le ‘persone comuni’ ma mal si concilia con qualsivoglia attività lavorativa; sia Walser che i protagonisti delle sue opere, non a caso, non riescono a svolgere lavori per un periodo consistente di tempo, subendo — e cedendo — inesorabilmente al richiamo dell’anima errabonda presente dentro di loro. Sul rapporto tra il passeggiare e l’attività lavorativa è degno di nota quanto appare in Der Spaziergang (1917): « Ohne Spazieren wäre ich tot, und meinen Beruf, den ich leidenschaftlich liebe, hätte ich längst preisgeben müssen ».10 Passeggiare comporta una serie di contatti sociali; a una prima lettura lo scrittore può sembrare un solitario che vuole diventare uno ‘zero assoluto’, uno sconfitto dalla vita, ma se si approfondisce, si capisce che quest’uomo mite ha combattuto una lotta titanica ed è uno dei pochi esseri umani che è riuscito a non farsi fagocitare dall’ingranaggio infernale della vita. In definitiva Walser è un isolato, un cultore della riservatezza, pronto a prendere solo il meglio dalle persone incontrate.11 La natura è il luogo in cui si possono rintracciare, in particolare in un’epoca come quella contemporanea, gli aspetti in assoluto più semplici della vita; questo

è il messaggio — sulla scia di Walser — che diffonde PHILIPPE JACCOTTET con le sue prose poetiche contenute in La promenade sous les arbres (1957). In La vision et la vue si legge: « Je puis vraiment parler de splendeur, bien qu’il se soit toujours agi de paysages très simples, dépourvus de pittoresque, de lieux plutôt pauvres et d’espaces mesurés. Or cette splendeur m’apparaissait de plus en plus lumineuse, aérée, et en même temps de moins en moins compréhensible ».12 In Remarques sans fin si dice: « J’assistais alors à la rencontre d’éléments simples, parce que le boi et l’eau me faisaient découvrir ou le vent, ou la lumière, ou tous  9 Cfr. GEORG KURSCHEIDT, “>Stillstehendes Galoppieren< — Der Spaziergang bei Robert Walser — zur Paradoxie einer Bewegung und zum Motiv des >stehenden Sturmlaufs< bei Franz Kafka”, in Euphorion, (81) 1987, pp. 131-155. 10 ROBERT WALSER, Der Spaziergang, in ROBERT WALSER, Das Gesamtwerk in 12 Bänden, vol. 3, op. cit., p. 251. 11 Per un approfondimento si veda il mio saggio Il motivo della passeggiata nell’opera di Robert Walser , in Homo Sapiens nuova serie, (1) 2009, pp. 103-114. 12 PHILIPPE JACCOTTET, La vision et la vue, in ID., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009, p. 14.

356  les deux ensemble, c’est-à-dire que la visible me révélait l’invisible, l’obstacle, le mouvement et la direction du mouvement ».13 Il paesaggio, privato di ogni aspetto che si presterebbe a una rappresentazione pittorica, evocato da Jaccottet in modo così ricorrente, si può associare alle montagne della Drôme — la zona montana nel sud della Francia — quanto a qualsiasi riva ornata di alberi di uno dei numerosi corsi o bacini d’acqua che si trovano in Svizzera e che sono più dettagliatamente descritti dal poeta di Moudon in La rivière échappée. I due estratti dell’opera di Jaccottet sopra citati, dimostrano proprio l’intenzione dell’autore di voler restare su valori generali, rimanere in una certa vaghezza, come testimonia anche la mancata menzione di specie vegetali che si incontrano nel cammino, fatta eccezione per qualche pioppo e salice piangente; precisione e definitezza si riscontrano, invece, nella prosa poetica intitolata L’habitant de Grignan in cui la passeggiata è all’origine di un’osservazione dettagliata delle specie incontrate, offerta al lettore quasi con l’occhio attento di un botanico: Je ne sais pas très bien ce qu’il en est des frontières administratives, mais je devine qu’ici la Provence commence dans les sols. Il n’y a pas encore d’oliviers (le mistral les glacerait), mais des collines rocheuses, d’une certain roche, sur lesquelles pousse en abondance le chêne-vert, arbre maigre, presque noir, pas du tout frémissant, arbre avare et vieux, protecteur de la truffe; puis des genévriers hérissés, le thym noueux, des genêts à balais; plutôt arbuste qu’arbres, et toujours ce qu’il y a de plus sec, de plus tordu, ne donnant aucune ombre, aucun murmure, mais d’intenses parfums; et dans le terreau meuble, des lichens gris, mille espèces de graines pareilles aux rouages minuscules d’un mécanisme de bois, de loin en loin une petite fleur extrêmement rose, et la pierre. Ailleurs, sur des versants, tremblent des pins. Puis, si l’on descend, tout change.14

Il vocabolario utilizzato in queste descrizioni più minuziose di Jaccottet, tra l’altro, fa riferimento a un reale movimento, a una vera passeggiata tra gli elementi della natura; per rendere il meglio possibile questo cammino nell’ambiente si fa ampio utilizzo di verbi che esprimono un moto: si trova « si l’on descend »15, « je marche »16 o, ancora, « je vais revenir sur mes pas »17,  13 PHILIPPE JACCOTTET, Remarques sans fin, in ID., La promenade, cit., p. 105. 14 PHILIPPE JACCOTTET, L’habitant de Grignan, in ID., La promenade, cit., pp. 40-41. 15 Ivi, p. 41. 16 Ivi, p. 42. 17 PHILIPPE JACCOTTET, La rivière échappée, in ID., La promenade, cit., p. 76.

357  espressione che suggerisce un movimento circolare proprio come in Walser che nella sua passeggiata più nota, quella descritta in Der Spaziergang, si muove da uno scrittoio, incontra persone e elementi naturalistici per poi tornare, attraverso un motivo circolare, al punto di partenza, un movimento che si effettua con un ritorno sempre al punto di partenza in un tempo breve. L’apparente linearità della passeggiata si piega dunque anch’essa alla circolarità: il movimento e il tempo del passeggiare implicano il tornare sui propri passi, nascondono, cioè, una struttura circolare. Mentre crediamo di esserci smarriti nel labirinto dei pensieri di Walser o di Jaccottet, nelle contrapposizioni e contraddizioni, si ritorna al punto di partenza. La scrittura non ordina il mondo, dunque, ma ne elenca soltanto gli eventi. Paragonando un qualsivoglia testo a un tessuto possiamo affermare che nel ‘racconto classico’ l’insieme dei fili, la trama, è strettamente intrecciato all’ordito, alla dimensione quindi sintetizzabile nell’idea di inizio-fine; in Walser e Jaccottet l’ordito viene reciso e la trama resta come sciolta nel mare della casualità, abbandonata a un vagare senza meta. Le due fasi più importanti sono il partire e il transitare; la meta e il quando non vengono definiti, vengono piuttosto decisi dal destino e accettati al momento. Il moto di questi autori è, dunque, un fuggire da un mondo dove ogni cosa è strumentalizzata al raggiungimento di uno scopo. Nelle passeggiate dell’autore francofono non ci sono coordinate temporali precise, i riferimenti sono ridotti al minimo: non compaiono mesi (se si fa eccezione per il marzo, giusto menzionato nel testo Éponyme), non vi sono né date precise, né giorni, le annotazioni sulle stagioni sono rare (« l’hiver »18), e compaiono riferimenti molto più generici come « dès le matin »19, « vers midi »20, « à tout les heures du jour »21, o « cette nuit de lune ».22 L’esplorazione dello spazio avviene con il corpo in movimento nel mezzo della natura ma anche e soprattutto con lo sguardo; non a caso il primo testo che si rinviene in La promenade sous les arbres ha come titolo La vision et la vue. La passeggiata non è per Jaccottet, quindi, tanto un pretesto per sviluppare pensieri o  18 PHILIPPE JACCOTTET, La promenade sous les arbres, in ID., La promenade, cit., p. 84. 19 PHILIPPE JACCOTTET, Le jour me conduit la main, in ID., La promenade, cit., p. 45. 20 Ivi, p. 47. 21 PHILIPPE JACCOTTET, L’approche des montagnes, in ID., La promenade, cit., p. 52. 22 PHILIPPE JACCOTTET, Sur les pas de la lune, in ID., La promenade, cit., p. 59.

358  conversazioni, quanto piuttosto per osservare l’esistente, la natura circostante, perdersi a contemplare, ad esempio, la bellezza di un fiume: Elle scintille à l’autre bout du pré, entre les arbres. C’est ainsi qu’on la découvre d’abord, un étincellement plus vif à travers les feuilles brillantes, entre deux près endormis, sous des virevoltes d’oiseaux. Quelle merveille, est-ce là, dit le regard, se faisant plus attentif (ainsi de l’oreille qui entendrait soudain, derrière des vitres, un instrument finement articulé comme la harpe ou le clavein).23

Oltre alla vista, dunque, l’udito per tradurre un modo di essere al mondo, un’attenzione particolare per tutte le cose, per i dettagli concreti che è possibile rinvenire anche nelle opere in versi di Jaccottet, basti pensare a L’Ignorant: Plus je vieillis et plus je croîs en ignorance, plus j’ai vécu, moins je possède et moins je règne. Tout ce que j’ai, c’est un espace tour à tour enneigé ou brillant, mais jamais habité. Où est le donateur, le guide, le gardien? Je me tiens dans ma chambre et d’abord je me tais (le silence entre en serviteur mettre un peu d’ordre), et j’attends qu’un à un les mensonges s’écartent : que reste-t-il? Que reste-t-il à ce mourant qui l’empêche si bien de mourir? Quelle force le fait encor parler entre ses quatre murs? Pourrais-je le savoir, moi l’ignare et l’inquiet? Mais je l’entends vraiment qui parle, et sa parole pénètre avec le jour, encore que bien vague: « Comme le feu, l’amour n’établit sa clarté que sur la faute et la beauté des bois en cendres… »24

È quindi la presenza delle cose in apparenza più semplici che interessa il poeta, quelle che dietro il visibile celano l’invisibile, dietro il limite l’infinitezza e, quindi, il mistero, come appare evidente già nella prosa La vision et la vue in cui si afferma che « la splendeur lumineuse du paysage très simple » diviene « du moins en moins compréhensible » fino a essere identificata come « mystère nourricier ».25 Si ritrova anche in Paysages avec figures absentes (1970)26 — già nel titolo stesso dell’opera — questa alleanza quasi paradossale di visibile e invisibile: « dès  23 PHILIPPE JACCOTTET, La rivière échappée, in ID., La promenade, cit., p. 73. 24 PHILIPPE JACCOTTET, L’ignorant, in ID., L’ignorant, Paris, Gallimard, 1957, p. 50. 25 PHILIPPE JACCOTTET, La vision et la vue, in ID., La promenade, cit., p. 14. 26 Per un approfondimento si veda MICHEL COLLOT, Le visible et l’invisible: les Paysages avec figures absentes de Philippe Jaccottet, in RITA COLANTONIO VENTURELLI, I paesaggi d’Europa tra storia, arte e natura. Atti della Conferenza Trilaterale di Ricerca 2005-2007 pubblicati sul sito www.villavigoni.eu.

359  que j’ai regardé, avant même — à peine avais-je vu ces paysages, je les ai sentis m’attirer comme ce qui se dérobe […] ma pensée, ma vue, ma rêverie, plus que mes pas, furent entraînées sans cesse vers quelque chose d’évasif, plutôt parole que lueur, et qui m’est apparu quelquefois analogue à la poésie même ».27 Il crepuscolo, in particolar modo, associa le luci più ricche alle ombre più cupe, opacità e limpidezza: Ce soir-là, une vue plus déchirante et plus secrète encore m’attendait quand, la rue ayant tourné vers l’horizon opposé, le levant, j’aperçus au-dessus des murs et des toits, entre les rares arbres, la montagne basse éclairée par le soir, juste veinée de très peu de neige à la cime. Je sais encore moins comment elle me parla, ce qu’elle me dit. C’était une fois de plus l’énigmatique luminosité du crépuscule.28

L’orizzonte è l’esempio perfetto di questo incontro tra meraviglia ed enigma: « c’est encore une énigme à l’horizon paisiblement campée, une merveille qui nous accompagne tous les jours et semble souhaiter d’être comprise ».29 Il confine fra cielo e terra inscrive nei limiti del visibile il mistero di un mondo altro, invisibile e lontano: « J’aime cet espace que les montagnes définissent mais n’emprisonnent pas, comme quelqu’un peut aimer le mur de son jardin, autant parce qu’il suscite l’étrangeté d’un ailleurs que parce qu’il arrête son regard; quand nous considérons les montagnes, il y a toujours en nous, plus ou moins forte, plus ou moins consciente aussi, l’idée du col, du passage, l’attrait de ce qu’on n’a pas vu ».30 L’essenza delle passeggiate di Jaccottet è più vicina a quella di Robert Walser che del francofono Rousseau; quello del poeta di Moudon è un moto che sacrifica la verità interiore a favore di una realtà esteriore, percepibile e basata su ciò che si ode e si vede e che lascia intravedere l’ignoto, il mistero, « la surprise, l’émotion venait d’un foyer plus secret, antérieur à la description ».31

A stretto contatto con la natura avviene anche la passeggiata che CORINNA BILLE compie con il marito MAURICE CHAPPAZ, e il loro figlioletto Blaise, narrata in À pied du Rhône à la Maggia, pubblicato per la prima volta nel 1957 e apparso di nuovo nel 1999 corredato dalle immagini del giovane fotografo Matthieu Gétaz  27 PHILIPPE JACCOTTET, Paysages avec figures absentes, Paris, Gallimard, 1997, pp. 21-22. 28 Ivi, p. 19. 29 Ivi, p. 57. 30 Ivi, p. 63. 31 PHILIPPE JACCOTTET, La semaison, Paris, Gallimard, 1984, p. 81.

360  che ha ripercorso il cammino della scrittrice vallesana cercando, con la macchina fotografica, di fermare gli attimi da lei descritti. La Bille narra, con un linguaggio limpido e semplice come i territori nei quali si muove, incontri, ambienti e suggestioni di un mondo che è rimasto intatto fino ai giorni nostri e che, quindi, Gétaz (figura 1) non ha avuto difficoltà a riconoscere e fermare anche a quarant’anni di distanza. I tre viandanti protagonisti di quest’opera valicano l’Albrunpass dalla valle del Binn, per trovare l’ospitalità degli alpigiani dell’alta valle di Devero; passano poi per la Scatta Minoia per ridiscendere nella Val Formazza, dove è ancora in uso l’idioma walser e si riscontra un particolare stile architettonico. Successivamente per il Passo della Furka, i nostri passeggiatori giungono a Bosco Gurin, località nella quale si imbattono in un pastore, un uomo che sembra non appartenere ai tempi moderni. Nel villaggio walser dell’alta Val Rovana i tre viandanti incontrano Plinio Martini, gestore di una locanda, all’epoca già autore di liriche apprezzabili, ma che ancora non ha pubblicato i romanzi Il fondo del sacco (1970) e Requiem per zia Domenica (1976), le opere che lo hanno portato al successo a livello nazionale. Infine, per i nostri passeggiatori, la discesa sul Cevio e un rilassante pediluvio nella Maggia.

Ironizza, invece, AMÉLIE PLUME con il motivo, ricorrente nella letteratura elvetica, della passeggiata; l’autrice desidera immettersi in uno dei filoni tipici dell’espressione culturale svizzera descrivendo il momento di una delle tante escursioni naturalistiche che caratterizzano la vita di ogni ‘buon cittadino elvetico’; Promenade avec Emilie L. (1992) si apre, quindi, con la protagonista che prova, nel flusso dei ricordi, a rintracciare una delle passeggiate più emozionanti realizzate nella sua vita da narrare per iscritto; l’eroina della Plume esita, tentenna, si sforza a cercare tracce di ricordi e le viene in mente, con non poca fatica (« à vrai dire, je ne me souviens de rien »32), una passeggiata in montagna, realizzata da adolescente con la sua amica Emilie L..

 32 AMÉLIE PLUME, Promenade avec Emile L., Genève, Éditions Zoé, 1992, p. 8.

361 

Figura 1 Una fotografia di Gétaz utilizzata come copertina dell’edizione italiana dell’opera di Corinna Bille

Ma non le tornano in mente attimi particolari, indimenticabili, vissuti in quell’occasione; molto più vivi, forti e affascinanti sono i ricordi più recenti, quelli scaturiti da un suo viaggio avventuroso in Egitto. Le reminiscenze sono intervallate dalla narrazione di quel che avviene nel presente. Va evidenziato, però, che il rapido alternarsi della narrazione dell’esperienza in Africa con i tentativi di far affiorare alla mente ricordi della passeggiata con Emilie L. e gli inconvenienti del presente, più che ironizzare e destrutturare anche questa tematica ricorrente nell’ambito della Letteratura Svizzera, sembra creare un’eccessiva confusione e destabilizzare, quindi, il lettore. Molto più dettagliati e precisi i ricordi delle 52 Wanderungen33 (2005) di

FRANZ HOHLER, in cui si può riscontrare la stessa circolarità che si è rinvenuta nelle opere di Walser e Jaccottet. Inizialmente, dichiara lo scrittore di Biel, non era nelle sue intenzioni trasformare i suoi appunti di viaggio in un libro: « Ich schrieb in der einfachen Logik: Heute habe ich das und das gemacht ».34 In occasione del suo sessantesimo compleanno, Hohler « für das Alter üben »35, decide di « keine Auftritte abzumachen, keine Lesungen, keine Schulbesuche, kurz, nicht von alledem, was mich zum Gefangenen meiner eigenen Agenda macht »36 e intraprendere, quindi, per un anno, ogni fine settimana, una gita in un luogo ogni volta diverso; le sue peregrinazioni si aprono il 5 marzo 2003 con una gita nella zona del fiume Sihl e si chiudono il 25 febbraio 2004 con una visita alla stessa località: anche per questo si può parlare di carattere circolare per l’opera di Hohler, le cui passeggiate, si può ipotizzare, inoltre, partano tutte dallo stesso punto — dallo scrittoio o stanza degli spiriti come scriveva Robert Walser —, toccano varie località della Svizzera, con qualche sconfinamento in territorio italico, nelle Cinque Terre ad esempio, per poi concludersi nel medesimo luogo di partenza.

 33 “Passeggiata” in tedesco si rende sia con Wanderung che con Spaziergang. Con il primo termine si intende qualcosa di pianificato in tutti i suoi dettagli; la parola Spaziergang sottintende un atto più spontaneo, impulsivo e l’assenza di una meta specifica. 34 Si veda l’intervista sul sito http://www.woz.ch/artikel/inhalt/2005/nr08/Kultur/11434.html. 35 FRANZ HOHLER, Sihlaufwärts, in ID., 52 Wanderungen, München, Luchterhand, 2005, p. 5. 36 Ibidem.

Nella Wanderung del 16 ottobre 2003, Hohler si mette proprio sulle tracce dell’illustre predecessore Walser: « Gestern habe ich die Nachricht gehört, das Walser-Archiv stehe finanziell und damit überhaupt am Ende. Das hat mich daran erinnert, daß ich schon lange einmal den Robert Walser-Pfad in Herisau begehen wollte ».37 Questo ricercato legame con il passato dimostra, ancora una volta, l’esistenza di un terreno comune da cui attingere, di autori ormai canonici e di tematiche a questo punto proprie, quasi esclusive, della Letteratura Elvetica.

 37 FRANZ HOHLER, Wachtenegg, in ID., 52 Wanderungen, cit., p. 146.

364  4.6 CRITICA ALLA SOCIETA’ MODERNA E AL PROGRESSO

In Les cinq paradoxes de la modernité (1990), Antoine Compagnon, storico della letteratura nato in Belgio, si interroga sulle tendenze degli autori di varie epoche e, in particolare, su quella che appare come una vera e propria esigenza: rompere con il passato, con la tradizione. C’è sempre, secondo il critico francofono, un’illusione progressista che si fa strada nel solco della tradizione, un’esaltazione del nuovo come valore assoluto, la negazione dei valori del passato da cui i posteri devono prendere le distanze, limitandosi a giudicare, comprendere e non riproporre. Quindici anni più tardi Compagnon con Les Antimodernes (2005) conferma e approfondisce questa inclinazione per « les Modernes en délicatesse avec les Temps Modernes, le modernisme ou la modernité, ou les modernes qui le furent à contrecœur, modernes déchirés ou modernes intempestifs »1 e dedica la sua attenzione a un gruppo di ‘franchi tiratori’ della letteratura francese, ricalcitranti a qualsivoglia forma di imbrigliamento, in controtendenza rispetto alle mode del momento, come, ad esempio, Joseph de Maistre, Chateaubriand, Baudelaire e, tra i contemporanei, Gracq e Barthes, personalità che si sono mostrate più moderne proprio perché capaci di resistere e contrapporsi alle inclinazioni ingenue ma indiscutibili di quello che veniva presentato come modernismo. L’antiprogressismo sembra anche la tendenza della Letteratura Svizzera — che abbiamo già avuto modo di definire nei capitoli precedenti conservatorista e perfino passatista — da cui si eleva una costante critica al progresso e alla società contemporanea a partire dall’Ottocento, evidente, dunque, già a partire dal Martin 2 Salander (1886), uno dei capolavori di GOTTFRIED KELLER : Ein noch nicht bejahrter Mann, wohl gekleidet und eine Reisetasche von englischer Lederarbeit umgehängt, ging von einem Bahnhofe der helvetischen Stadt Münsterburg weg, auf neuen Straßen, nicht in die Stadt hinein, sondern sofort in einer bestimmten Richtung nach einem Punkte der Umgegend, gleich einem, der am Orte bekannt und seiner Sache sicher ist. Dennoch wußte er bald anhalten, sich besser umzusehen, da diese  1 ANTOINE COMPAGNON, Les Antimodernes, de Joseph de Maistre à Roland Barthes, Paris, Gallimard, 2005, p. 7. 2 Al Martin Salander di Gotffried Keller sono state dedicate le puntate dal 15 al 19 giugno 2009 della trasmissione radiofonica della Rete Due della RSI Spiracoli, curate dall’elevetista Mattia Mantovani.

365  Straßenanlagen schon nicht mehr die frühern neuen Straßen waren, die er einst gegangen; und als er jetzt rückwärts schaute, bemerkte er, daß er auch nicht aus dem Bahnhofe herausgekommen, von welchem er vor Jahren abgefahren, vielmehr am alten Ort ein weit größeres Gebäude stand.3

Questo romanzo di più di un secolo fa è particolarmente attuale ancora oggi che la Svizzera si trova a confrontarsi con una sostanziale crisi di immagine e di identità che la obbliga costantemente a fare i conti con se stessa e con la realtà circostante, l’universo dell’economia globale e di una finanza sempre più spregiudicata, un mondo che, in maniera sicuramente provocatoria, potremmo definire, dal punto di vista elvetico, troppo liberale. Il Martin Salander, con più di cento anni di anticipo, ha colto e indovinato la crisi di un sistema economico e di un intero sistema di vita, quelle strutture che si è soliti racchiudere nell’espressione “libero mercato”. Ma l’opera di Keller, almeno nella parte iniziale, è per prima cosa un romanzo che parla di mutamenti. Nell’incipit, sopra riproposto, il protagonista fa ritorno in Svizzera, per la precisione a Münsterburg — che, nella finzione letteraria, sta per Zurigo, città natale dell’autore germanofono — dopo sette anni, dal 1864 al 1871, trascorsi in Brasile. Martin Salander si è trovato, infatti, costretto a emigrare a causa di una truffa operata ai suoi danni da un amico di giovinezza, Louis Wohlwend, un personaggio nel quale Keller ha fissato, davvero una volta per tutte, il tipo psicologico e sociologico dello speculatore che si muove a proprio agio in una finanza — e forse anche in una società — senza più regole. In Brasile l’eroe di Keller ha evitato non solo la totale rovina ma è riuscito anche a guadagnare onestamente una cospicua somma di denaro, fa quindi ritorno in patria ma, sin dall’inizio, si trova a confrontarsi con i mutamenti, per esempio quelli relativi alla stazione di Zurigo, la quale, proprio nel 1871, era stata completamente riedificata sul modello del Palais de l’Industrie, costruito nel 1855 a Parigi in occasione dell’Esposizione Universale. Ma in sette anni non è cambiata soltanto la stazione, è mutata anche la città nel suo complesso e Salander se ne rende subito conto: Die reich gegliederte, kaum zu übersehende Steinmasse leuchtete auch so still prächtig in der Nachmittagssonne, daß der Mann wie verzückt hinsah, bis er von dem Verkehrstrubel unsanft gestört wurde und das Feld räumte.  3 GOTTFRIED KELLER, Martin Salander, München-Wien, Nagel & Kimche, 2003, p. 5.

366  Aber der erhobene Kopf, die an der Hüfte gelind sich hin und her wiegende Reisetasche ließen erkennen, wie er vom Schwunge der Gedanken bewegt, von Genugtuung erfüllt dahin schritt, um Weib und Kinder aufzusuchen, wo er sie vor Jahren gelassen. Jedoch vergeblich forschte er zwischen der rastlosen Überbauung des Bodens nach Spuren früherer Pfade, die sonst zwischen Wiesen und Gärten schattig und freundlich hügelan geleitet hatten. Denn diese Pfade lagen auch weiterhin unter staubigen oder mit hartem Kies beschotterten Fahrstraßen begraben.4

Al ritorno in patria, il protagonista del romanzo di Keller, quindi, scopre che la propria città è profondamente cambiata; i mutamenti intervenuti nel cosiddetto paesaggio urbano fanno da sfondo e, insieme, sono il riflesso di un altro cambiamento ancora più radicale: il liberalismo — nel quale il giovane Keller aveva profondamente creduto negli anni immediatamente successivi alla nascita dello Stato Federale celebrandolo nel ciclo delle Züricher Novellen (1877) — aveva imboccato una sorta di vicolo cieco e si era via via sempre più degenerato, incanaglito, provocando nello stesso scrittore elvetico — che quando scrive il Martin Salander è ormai prossimo ai settant’anni — una profonda delusione. Gli anni Settanta e i primi anni Ottanta del XIX secolo sono, difatti, un periodo segnato da un progresso non privo di conseguenze e di effetti collaterali, sono molti coloro i quali si arricchiscono ma questo profitto avviene, troppo spesso, in maniera troppo veloce e poco chiara e non sono pochi i casi di fallimento e di vera e propria criminalità finanziaria. A tutto questo va aggiunta la terribile crisi della Borsa del 1873. Il romanzo di Keller nasce proprio dal tentativo di rappresentare tale stato di crisi, questa corruzione del liberalismo e Martin Salander è una vittima di questo nuovo corso sociale. Danneggiato dai raggiri della comunità è anche il protagonista di Abwässer

(1963) di HUGO LOETSCHER; l’ispettore delle fogne, proprio come Salander al suo rientro dal Brasile, quando riemerge dai bassifondi, trova una città ampiamente cambiata, stavolta a causa di un ribaltone politico. Egli viene accusato di aver indicato agli oppositori del nuovo governo le vie di fuga sotterranee e cerca di discolparsi redigendo un rapporto molto dettagliato sulla sua attività negli anni in cui è stato supervisore delle acque di scolo. Nello stilare questa relazione, lo strano personaggio di Loetscher si abbandona ai ricordi delle personalità

 4 Ibidem.

367  incontrate nelle sue peregrinazioni sotterranee e non chiede di più che essere impiegato nella sua vecchia mansione. Le fogne non sono altro che un microcosmo nel quale si accumula tutto quello che viene rimosso in superficie. Anche la Svizzera, probabilmente, agli occhi di Loetscher, appare un microcosmo, ma non così diverso dal resto del mondo; anzi, a volte — basti pensare al ruolo delle banche e della finanza elvetiche — si mostra come una discarica che raccoglie il lato più marcio, quello che viene gettato via dagli altri paesi. Si sente spesso, però, nel piccolo paese dell’Europa centrale, la necessità di difendersi da queste ondate di rifiuti provenienti dagli altri stati e salvaguardare l’immagine del paese, al punto che, nota PETER BICHSEL, « die Igestellung — eingerollt und die Stacheln nach außen — ist zum Sinnbild unserer Unabhängigkeit geworden. Aber auch ein Igel muß sich zur Nahrungsaufnahme entrollen ».5 Per procurarsi lo stretto necessario poiché « wir sind zwar nicht alle reich, aber wir denken bereits alle wie die Reichen »6 e la ricchezza è solo un luogo comune associato alla Confederazione: « Reich sind wir nicht, aber der Virus Reichtum macht uns schon alle krank, und die bürgerliche Vorstellung, daß Freiheit nichts anderes ist als das Recht aller, reich zu werden, das wird auch mehr und mehr unsere Vorstellung ».7 Il virus della ricchezza individuato da Bichsel è qualcosa che, come tutti gli altri virus, non si vede e di cui si cerca di negare l’esistenza, cominciando a elencare, improvvisamente la ‘gran quantità’ di poveri presenti sul territorio elvetico. Se ne parla, si finge interesse alla causa dei miserabili ma poi non si vuole far altro che allontanare prepotentemente il povero, il diverso: « unser Fremdenhaß ist ein Teil dieses Verhaltens. Wir sind überzeugt, daß uns jeder Fremde nur bestehlen will, wir halten jeden Flüchtling für einen Betrüger, der nichts anderes will als unseren Reichtum ».8 Il diverso nella ‘perfetta’ società elvetica viene emarginato e costretto inevitabilmente a vivere in una condizione

 5 PETER BICHSEL, Des Schweizers Schweiz, in ID., Des Schweizers Schweiz, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1997, pp. 26-27. 6 PETER BICHSEL, Der Virus Reichtum, in ID., Des Schweizers Schweiz, cit., p. 61. 7 Ivi, p. 60. 8 Ivi, p. 63.

368  d’indigenza, escluso dalla vita sociale in quanto limitato fisicamente, culturalmente o psichicamente. I ‘diversi’ diventano, sempre più spesso, protagonisti nella Letteratura

Svizzera del secondo Novecento. Una emarginata, la scrittrice MARIELLA MEHR, nata a Zurigo, di etnia Rom e quindi vittima delle persecuzioni sul suolo elvetico conseguenti al programma della “Opera di Soccorso Kinder der Landstrasse” — di cui ancora oggi troppo poco si conosce ma che portò allo sterminio di almeno mezzo milione di zingari, soprattutto nei cantoni di lingua tedesca, e all’estirpazione della pratica del nomadismo attraverso il ‘rapimento legalizzato’ di centinaia di bambini e la loro rieducazione coatta presso istituti o famiglie borghesi — racconta storie di ‘diversi’ nelle sue opere, tra le quali appare particolarmente degna di nota Daskind (1995). L’opera è all’insegna della violenza perpetrata e subìta all’interno della comunità descritta. Uno dei personaggi principali, Lina, vive ai margini della società e preferisce vivere immersa nella natura che appare, senza dubbio, più rassicurante degli essere umani. Nelle esistenze proposte dalla Mehr non c’è un alternarsi tra bene e male — che attraversa la storia dell’uomo a partire dai personaggi biblici Caino e Abele — ma sembra incarnarsi solo il male che vieta ogni sentimento diverso dalla violenza. Troviamo così Frieda, la madre adottiva della piccola protagonista, perfettamente integrata nel gruppo e che non mostra mai alcuna compassione per la figlioccia, l’equivoco e avverso Kari che si prende cura della figlia nata da un incesto ma poi cerca di approfittare dell’autismo della bambina con la violenza e la picchia selvaggiamente con la cintura mentre la piccola piange per il dolore e le ferite provocate, e il viscido Armin a caccia di piaceri libidinosi ottenuti a danno di minori. La comunità descritta dalla Mehr, anche quando si riunisce per le ricorrenze, per le feste religiose o pagane, oltrepassa i limiti della tolleranza comune e si lascia andare a brutalità, così come succede nel Carnevale quando dietro alle maschere e alle smorfie da streghe, infuriavano la libidine e la voglia di litigare. […] Gli uomini non stavano a pensarci su, la donna veniva immobilizzata e presa di forza. Durante il carnevale le donne imparavano davvero a conoscere gli uomini, quelli degli altri e i loro, perché nel copulare

369  non sono selettivi, neanche la moglie del vicino viene risparmiata in quel periodo.9

In un romanzo dalle tinte così fosche e dalla lingua mai armoniosa e delicata, bensì aspra e dura, neanche gli uomini religiosi riescono a fornire un minimo di fiducia nella vita; Dio è semplicemente la vendetta suprema per le malefatte degli uomini. Soltanto il personaggio di Lina, anche in questo caso, riesce a fornire riflessioni illuminanti in merito al rapporto tra uomo e divinità: La vita e la morte seguono le loro leggi, inutile aggrapparsi alle sottane del Signore. […] Il Dio della Chiesa, quello invocato dai preti, non è nient’altro che un penoso inganno che toglie dignità agli esseri umani così come ad ogni creatura […] Chi impara a vivere come le formiche, le farfalle o gli alberi, può fare a meno di Dio di cui deve verificare l’esistenza giorno per giorno.10

La Mehr crea, tra l’altro, anche un parallelismo fra il Divino e labambina, visibile sin dalle prime righe: « sopra la testa della bambina, il Cristo sofferente sulla croce. Brilla d’argento sul legno scuro. […] Sanguedargento sgorga dal cuore argenteo, cuoredargento muore. Muore senza sosta. Come può uno morire senza sosta, si chiede Labambina. Così è la vita della bambina nello chalet Idaho, con Ladonna e Luomo, che si prendono cura di lei, ma continua morte dargento ».11 E in seguito, quando il padre con uno schiaffo la fa finire in mezzo a delle lamiere: « Labambina vaga dentro una notte che non finisce mai. […] Si morde la lingua fino a farla sanguinare per non urlare. Ha un sapore rosso di metallo segato. Un gusto di aceto, si aggrappa ad esso succhiandolo ».12 Il passo richiama subito alla mente un accostamento all’aceto dato a Gesù in punto di morte sulla croce. Il Signore implorato nel romanzo della Mehr non è mai un Cristo tenero e benevolo, compare anch’egli addolorato, in croce, è solo giustizia e castigo. Gesù muore ‘senza sosta’, così come Labambina continua a spegnersi perché nessuno desidera averla in vita, nessuno la accetta13: Tutti avevano un castigo per Labambina, l’estranea. Anche il sagrestano e Ilpensionante e la Sbarragioie, anche lei. E i bambini che imparavano dai loro genitori. Labambina si sentiva in trappola. Più tardi, pensava, forse  9 MARIELLA MEHR, Labambina, Milano, Effigie edizioni, 2006, pp. 48-49 (trad.it. di Anna Ruchat). 10 Ivi, p. 90. 11 Ivi, pp. 7-8. 12 Ivi, p. 60. 13 Per un’analisi del romanzo si veda la scheda presente sul sito http://www.el- ghibli.provincia.bologna.it/index.php?id=2&issue=05_20&sezione=6&testo=0 (Ultima visita: 26 luglio 2013).

370  cambieranno molte cose, anche Labambina potrà essere salvata, prometteva Labambina alla bambina, doveva rendere la morte sua schiava. Ma è difficile obbedire a ordini del genere. Labambina non sa ancora niente della pazienza, dell’attesa. Conosce troppo poco la rabbia incapsulata, ancora l’odio non ha un volto preciso. Tutto questo cambierà dice qualcosa all’orecchio della bambina, e che l’odio è una stella radiosa, una luce nera dietro la paura che la tormenta.14

Se nel romanzo della Mehr la bambina e le altre protagoniste sono escluse dalla società, pur non sentendo un forte bisogno d’integrazione, nel romanzo Lea

(2007) di PASCAL MERCIER, pseudonimo di un bernese nato nel 1944, Peter Bieri, che insegna filosofia presso la Freie Universität di Berlino, sarà la piccola eroina a decidere di autoescludersi dal contesto sociale. Lea, infatti, ha perso la madre già da qualche anno e si risveglia improvvisamente dopo un lungo periodo di silenzi e rifiuti grazie a un’artista di strada che si esibisce alla stazione di Berna suonando Bach con un violino e uno strano costume che la rende misteriosa e che pare si chiami Loyola De Colón: >Écoute!< sagte sie, als ich zu ihr trat. Sie sagte es in dem gleichen Tonfall wie Cécile, die diese Aufforderung auch stets auf französisch geäußert hatte, selbst wenn wir sonst deutsch sprachen. Für jemanden wie mich, dessen Kehle nicht für die hellen französischen Laute gemacht ist, hatte das spitze Wort einen befehlshaberischen, diktatorischen Klang, der mich einschüchterte, selbst wenn es um etwas Harmloses ging. Und so zügelte ich meine Ungeduld und horchte gehorsam in die Bahnhofshalle hinunter. Nun hörte auch ich, was Lea vorhin hatte innehalten lassen: die Klänge einer Geige.15

Il padre di Lea, Martijn van Vliet, è un genio della biocibernetica, un inventore-scopritore in procinto di entrare nel firmamento dei grandi scienziati; già molto provato dalla morte della moglie amatissima e dai problemi della figlia, farà di tutto per darle ciò che gli pare lei desideri e voglia fino alle estreme conseguenze: Noten […] Lea las sie, als wären sie die angeborenen Symbole ihres Geistes. Es war mir unerträglich, zu diesem Teil von ihr, der sich immer mehr als der wichtigste entpuppte, keinen Zugang zu haben. Ich mußte sie auch lesen können. Ich fragte, ob ich ihr beim Spielen über die Schulter blicken dürfe. Sie sagte nichts und begann zu spielen. Nach wenigen Takten brach sie ab. >Es… es geht nicht, Papa<, sagte sie. Eine hilflose Gereiztheit lag in den Worten, sie nahm es mir übel, daß ich sie in die Lage gebracht hatte, das sagen zu müssen.16  14 Ivi, p. 64. 15 PASCAL MERCIER, Lea, München, Hanser Verlag, 2007, pp. 19-20. 16 Ivi, p. 70.

371 

Il narratore, Adrian, è stato brillante e stimato chirurgo, ha sfiorato un incidente e da allora non è più in grado di operare, si mette in pensione anticipata e cerca uno scopo per vivere. Si aiuta un po’ con la sua grande passione per il cinema e la fotografia. Ha relazioni difficili anche con i familiari ed è goffo nei suoi tentativi di comunicare con la figlia Leslie, pur amandola molto. Viene attratto e incuriosito dalla giostra dei personaggi e dei fatti che van Vliet gli racconta ampiamente; gli verranno via via presentati la commessa del negozio di strumenti musicali dove si cercherà il violino giusto per Lea, principiante ma di natura dotata in modo eccezionale per la musica, la maestra Maria Pasteur, « die Frau, die Leas Begabung in unglaublichem, atemlosem, verrücktem Tempo zur Entfaltung bringen würde »17, per la quale l’insegnamento a Lea sarà fonte di grande sofferenza, il maestro David Levi (« der Geiger der Schweiz. Vor allem der französischen Schweiz. Es gab keinen besseren, damals, vor zwanzig Jahren. So sahen es die meisten, und er ließ keinen Zweifel daran, daß er selbst es auch dachte »18) che sarà quasi fatale alla figlia dello scienziato (« Monatelang hatte sie zusammengekauert gelebt, innerlich und oft auch äußerlich »19), i vari medici e i veri e pochi amici di Lea che cercheranno di salvarla dalla follia. Se per Lea la musica è essenziale impulso dell’anima al quale è impossibile sottrarsi, per Adrian è la scrittura a essere pulsione irresistibile: « und so begann ich in der Morgendämmerung aufzuschreiben, was ich erfahren hatte seit jenem hellen, windigen Morgen in der Provence ».20 Nella società elvetica di oggi — lo abbiamo affermato in precedenza basandoci sulle parole di Peter Bichsel — i poveri vengono emarginati, i deboli calpestati, gli umili e i candidi raggirati e manipolati da mezzi di persuasione e di potere che annientano non solo il corpo ma anche l’anima di chi subisce angherie.

MILENA MOSER in Die Putzfraueninsel (1991) ci racconta proprio la storia di una donna povera, Irma, allontanata, di conseguenza, dal contesto sociale, costretta, per guadagnarsi da vivere, a fare la domestica presso un’odiosa signora della ‘Zurigo bene’, la dottoressa Schwarz, che « war nicht nur eine bekannte und  17 Ivi, p. 52. 18 Ivi, p. 133. 19 Ivi, p. 211. 20 Ivi, p. 253.

372  erfolgreiche Rechtsanwältin, Hausfrau und Mutter, sondern seit kurzem auch eine hoffnungsvolle Politikerin »21 e che, lontana dal lavoro non ha molto altro da fare che rannicchiarsi sul divano e sognare che il domani possa riservare qualcosa di importante: « Irma saß auf dem Sofa mit angezogenen Beinen. In einer Hand hielt sie ein Wasserglas, mit dunkelbraunem, bitterem Likör gefüllt, in der anderen ihren Reisewecker. Sie sah zu, wie die Minuten wegtickten, und versuchte sich vorzustellen, was morgen wäre ».22 Anche per Irma, come per Lea, la giovane protagonista del romanzo di Mercier, l’arte — la danza nel suo caso — avrebbe potuto rappresentare uno sfogo, una risposta importante all’emarginazione: purtroppo, a causa del suo fisico imponente (« klassische Tänzer, Balletttänzer, waren selten größer als einen Meter siebzig, einen Meter fünfundsiebzig »23), la protagonista del romanzo della Moser ha dovuto abbandonare il grande sogno di diventare una ballerina. Nella sua vita non resta altro che l’insoddisfacente lavoro al servizio della dottoressa Schwarz, finché un giorno l’esistenza di Irma incontra quella, altrettanto triste e disperata, di Nelly, la suocera della borghese datrice di lavoro, segregata dalla famiglia in uno scantinato e resa quasi cieca dall’oscurità e dalla solitudine. Irma, che ha infranto il divieto della sua padrona di recarsi in cantina, rapisce Nelly, la porta a casa sua, la lava, la riveste e le ridà una dignità. La Moser offre, quindi, in questo romanzo, un’opportunità di riscatto alle categorie più deboli della società; unite le due protagoniste faranno di tutto, infatti, per vendicarsi dei soprusi subiti ad opera della signora Schwarz, per rovinarle la reputazione, la carriera politica, il rapporto con i figli e voleranno a Maiorca « [die] Putzfraueninsel ».24 La Moser offre ai suoi lettori un ribaltamento sociale: i miserabili da buoni diventano maligni, da spettatori passano ad assumere il ruolo di protagonisti. Il progresso tecnologico e materiale della società anche in Svizzera, come nel resto del mondo industrializzato, non è andato di pari passo con il progresso morale; esemplare è la situazione degli anziani, che la comunità elvetica — in cui

 21 MILENA MOSER, Die Putzfraueninsel, München, Blanvalet, 2004, p. 12. 22 Ivi, p. 41. 23 Ivi, p. 98. 24 Ivi, p. 221.

373  conta soltanto la produttività, l’efficienza, il consumo immediato, l’individualismo esasperato — tende a relegare ai margini. MARTIN SUTER e

ROBERT PINGET ci presentano proprio due esempi di questa categoria di emarginati sociali in Small world (1997) e Monsieur Songe (1982). Protagonista del romanzo di Suter è un malato di Alzheimer. L’autore di Zurigo racconta, con il talento del narratore e la precisione propria della scienza, la vicenda di Konrad Lang, ricordandoci molto da vicino i lavori del neurologo e scrittore Oliver Sacks Awakenings (1973), in cui si narra di una misteriosa epidemia di encefalite letargica agli inizi del Novecento, e The man who mistook his wife for a hat (1985) che descrive le condizioni di alcuni pazienti con lesioni encefaliche. Il personaggio chiave del romanzo di Suter sta scivolando lentamente nel tunnel della demenza di Alzheimer; questa malattia non mette la vita a rischio immediato ma tragicamente distrugge a poco a poco le peculiarità degli esseri umani, la propria identità personale. Il malato non riconosce più i familiari e non è più riconosciuto da loro, gradualmente non arriva più a distinguere la propria immagine allo specchio, la memoria autobiografica cambia, si cancellano tragicamente i ricordi più recenti, si rivolge al passato e recupera le reminiscenze più antiche di un mondo sepolto che sembrava perduto. L’autore ricostruisce così la storia sconcertante della vita di Konrad Lang: la cancellazione del nastro della memoria recente, la perdita di identità nel presente, il suo divenire quasi inumano permette di far riemergere la sua identità dal passato, guardando vecchie fotografie. Perdendo via via contatti sociali nel presente, Konrad si trova a recuperare ricordi di un lontano passato oscuro e ingarbugliato che racchiude vecchi segreti e minaccia di far crollare la facciata perbenista dei Koch, la vecchia famiglia di industriali che ha provveduto finanziariamente a lui durante tutta la vita. Una traccia che, come un giallo psicologico che richiama molto il Friedrich Dürrenmatt di Der Richter und sein Henker (1950), porterà i medici a una scoperta incredibile: è Konrad — e non Thomas Koch — il figlio legittimo, e quindi l’erede, dell’impero industriale lasciato da Wilhelm Koch, il magnate che, rimasto vedovo, quando Konrad aveva quattro anni, aveva sposato Elvira, madre giovanissima di Thomas, fatto passare però per il figlio della sorella maggiore,

374  Anna. Con la complicità della sorella, Elvira intende confondere l’identità dei due bambini per far sì che alla morte del marito, il proprio figlio, Thomas, e non il legittimo erede Konrad, divenga l’erede della grande fortuna dei Koch. Le due donne cominciano a confondere i nomi dei due bambini, a chiamarli Tomi e Koni e poi Tomikoni e Konitomi e farsi chiamare mamma Vira e mamma Anna. Le due donne hanno talmente confuso le idee ai piccoli, hanno giocato tanto con la loro identità che, alla fine, a essi non era più chiaro chi fossero. A quel punto, i due bambini sono stati letteralmente scambiati. Alla scoperta dell’intrigo da parte dei medici, Elvira, terrorizzata, parte per un viaggio durante il quale muore tragicamente. Konrad viene in seguito ricoverato in un centro di riabilitazione e, a questo punto, avviene il colpo di scena finale: Konrad occupa la suite della torre e trascorre un soggiorno gradevole finché riesce a stare alla larga dal paziente della camera che si trova al piano di sotto, un uomo con la testa quadrata e gli occhi riavvicinati che gli si rivolge, cosa che nessun altro faceva, chiamandolo Koni e lo annoia con certi ricordi di gioventù a suo dire comuni. Il finale è, dunque, davvero a sorpresa: i due quasi fratelli, che la malattia priva per la seconda volta della loro vera identità, perché affetti dallo stesso morbo impietoso, sprofondano in un oblio che forse donerà loro una pace che non hanno mai potuto assaporare. Il possesso del denaro che aveva spinto la costruzione di una macchinazione diabolica si rivela, alla fine, di nessuna importanza quando manca il fondamento che fa l’uomo: la sua coscienza. Ruotano attorno alla complessa vicenda del protagonista, miliardari svizzeri, inetti di fronte alla vita, banali, senza ricordi propri né memoria collettiva. Suter fissa per iscritto una società caratterizzata da perbenismo e apatia, norme apparenti e trasgressioni celate.

ROBERT PINGET, invece, indaga l’emarginazione a cui sono condannati spesso gli anziani in Monsieur Songe che séjourne avec sa domestique dans une villa en bord de mer non loin d’Agapa, petite station balnéaire pleine de monde l’été et très ennuyeuse l’hiver. […] A son âge, quand on a passé sa vie à surveiller ses mindres penchants, à justifier ou à condamner ses moindres réactions on ne peut plus guère se laisser vivre. On a dans la tête un certain nombre d’attitudes qui doivent refléter l’état d’esprit d’un homme respectable, sa bonne conscience. Rester assis devant la mer à dix heures du matin sans un journal ne se fait

375  pas. Monsieur Songe n’a pas de voisin direct qui puisse l’épier mais là n’est pas la question. Il y a longtemps qu’il n’a plus besoin de personne pour lui dicter sa conduit.25

Sono le dieci di mattina di una bella giornata di agosto, davanti a Monsieur Songe su un tavolo di ferro c’è una tazzina vuota, la stessa in cui la sua vecchia domestica, che lui chiama Sosie, ha versato il caffè poco prima delle otto. Accanto alla tazza c’è il quotidiano locale che Monsieur Songe non legge, gli serve solo per darsi un contegno di fronte a se stesso. Riparandosi gli occhi con la mano, l’anziano protagonista guarda il mare che scintilla e una barca di pescatori che in lontananza scompare dietro un isolotto di rocce rosa. Monsieur Songe scende la scalinata che dal giardino porta in una minuscola spiaggia che pulisce quotidianamente con cura, rastrellando la sabbia e gettando gli oggetti depositati dalle onde in una cavità della roccia, in attesa di poterli bruciare. Poi si siede su una panca di cemento e fuma una sigaretta. Quando torna sul balcone è sudato, temendo un raffreddore indossa la giacca di lana che la domestica, durante la sua assenza, ha posato sulla sedia. Sul tavolo, al posto della tazzina di caffè, Sosie ha lasciato un libro, un’edizione delle opere di Virgilio in traduzione e con testo originale a fronte. Monsieur Songe apre il libro e lo chiude, non lo legge proprio come fa con il quotidiano locale. Da una tasca della giacca estrae un pacchetto di fatture che comincia a studiare attentamente. Alle 12:30 la domestica suona la campana che sta sopra la porta della cucina. Monsieur Songe scende al pianterreno e, come al solito, le domanda: « ce qu’il y a pour le déjeuner. Elle répond comment ce qu’il y a, Monsieur m’a commandé une escalope et des pommes-purée, il y a une escalope et des pommes- purée ».26 Seduto al tavolo della sala da pranzo, Monsieur Songe inforca gli occhiali e guarda con sospetto nel piatto che la domestica gli ha posato davanti, poi si toglie gli occhiali, taglia la carne a pezzettini e comincia a mangiare fissando il vuoto. Sosie porta il formaggio e la frutta. Se il formaggio è camembert, Monsieur Songe dice che è ben stagionato, se è gruyere è bello grasso e se è gorgonzola è di Bresse.27 La domestica risponde invariabilmente in modo affermativo e si ritira. Il caffè Monsieur Songe lo beve stando seduto in una  25 ROBERT PINGET, Monsieur Songe, Paris, Les Éditions de Minuit, 1982, p. 11. 26 Ivi, p. 16. 27 Cfr. ivi, p. 19.

376  poltrona di cuoio accanto a un tavolino proveniente dal Marocco, sul quale la domestica ha posato la caffettiera e una tazzina. A volte lo beve caldo, altre volte aspetta che si intiepidisca; quando decide di attendere, gli capita di assopirsi, sonnecchia una mezz’ora, si sveglia, beve il caffè e si appisola di nuovo. Per Monsieur Songe, come per la maggior parte delle persone anziane, essere vecchi significa, anche per colpa della società, ripetizione e declino. Per questo attende con ansia o sollecita per iscritto, con tono a volte quasi supplichevole, la visita di una nipote che vive in città, con la quale crede di intendersi meglio che con altri e per questo progetta, con grande disappunto di Sosie e sprofondando a tratti in una totale confusione, di organizzare una festa a cui invitare gli amici di sempre, tre vecchi scapoli come lui, insieme ai loro parenti più stretti. Per passare il tempo, inoltre, il protagonista si applica quotidianamente a quelli che chiama i suoi esercizi, annotazioni riguardanti principalmente i fatti del giorno che gli danno una relativa certezza circa la fondatezza della sua esistenza, benché gli capiti di pensare che scrivendole non faccia altro che abbellire o gonfiare avvenimenti sempre uguali per la sola vanità di costruire congruamente una frase. Al sopraggiungere dell’autunno, Monsieur Songe scrive alla nipote: « sur quoi vais-je me rabattre pour continuer mes exercices? ».28 Nel mese di agosto può contare sulle sorprese, seppur minime, legate al fatto di stare spesso all’aperto. In inverno, invece, è costretto a rimanere chiuso in casa con la vecchia Sosie che ripete dieci volte la stessa cosa e rifà per dieci volte quello che ha appena fatto; « tu imagines » scrive Monsieur Songe alla nipote « notre duo au coin de l’âtre. C’est à se détruire. N’auras-tu pas pitié de ton tonton? Une petite visite de rien du tout? ».29 Invecchiare per Monsieur Songe significa soprattutto dimenticare ciò che si è detto e fatto di recente; un giorno, sedendo a tavola con la nipote, che lui chiama Siso, l’anziano uomo dice: « Vieillir c’est s’habituer à l’Absence avec un grand A et la nature nous y invite en nous infligeant ce qu’on appelle justement des absences avec un petit a qui se font de plus en plus fréquentes ».30 La nipote dice:  28 Ivi, p. 68. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 40.

377  Tu as des absences? Monsieur Songe dit oui, et de toutes sortes. Et il ajoute en se levant de table tu vois, jamais ça ne me serait arrivé autrefois. […] Qu’est-ce que je disais? dit monsieur Songe en revenant. […] Tu me parlais de tes absences dit la nièce. Parfaitement dit monsieur Songe. […] Ce que j’appelle les absences avec un petit a c’est comment dire, c’est croire moins à ce qu’on fait. Moins y tenir. Se surprendre à penser à autre chose […] c’est-à-dire la mort. […] C’est se détacher qu’on la veuille ou non. Connaître l’indifférence. N’être plus là vraiment mais déjà dans l’antichambre fatale où….31

Monsieur Songe è un’esemplificazione frammentaria e inquietantemente comica di quel processo, che sembra naturale ormai per la società, di decadimento e di estraniazione che è legato al trascorrere degli anni e che sfocia nella definitiva assenza. Monsieur Songe di Robert Pinget ricorda il Molloy del suo amico Samuel Beckett, travolto dal nulla, dal vuoto della troppa indifferenza della società in cui l’uomo non viene presentato come eroico martire della senilità, ma come essere che, quando sopraggiungono le naturali fragilità e menomazioni della vecchiaia, semplicemente appassisce: Aujourd’hui premier novembre dit monsieur Songe, bien du mal à me tenir debout, tentation de me recoucher, résistons, me rendormir ne me vaut rien, besoin d’une pensée claire pour tirer la journée à bonne fin, nous ne sommes plus au temps des surprises équivoques, je m’entends, il s’agit de donner forme à ma terreur du silence, chronique des riens qui se murmurent ailleurs, ne plus me demander où, l’oreille de jadis était trop complaisante, j’ai déclaré la guerre à ce penchant de me prendre pour un autre, assumons notre insuffisance.32

Già Rousseau sosteneva che il progresso materiale è una minaccia per l’opportunità di stringere rapporti interpersonali validi e sinceri e nel Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1754) illustra proprio la degenerazione dell’umanità e il passaggio dal primitivo stato di natura sino alla società moderna affermando che è « nel progresso delle cose il momento in cui, avendo il diritto preso il posto della violenza, la natura fu sottoposta alla legge ».33 Il progresso come danno per il benessere della comunità è il messaggio di fondo anche delle prose poetiche contenute in Le messi d’agosto (1969) di

AMLETO PEDROLI e Bocksten (1989) di FABIO PUSTERLA.  31 Ivi, pp. 49-50. 32 Ivi, p. 73. 33 JEAN-JACQUES ROUSSEAU, Qual è l’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini, in ID., Sull’origine dell’ineguaglianza, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 98.

378  Lo scrittore di Chiasso introduce il lettore in un mondo dove il rapporto uomo-natura occupa l’intera scena poetica, è una relazione descritta con estrema eleganza, una grazia che si potrebbe ricondurre all’insegnamento di Cardarelli — la cui opera è legata al motivo, che ricorre quasi come un’ossessione, del tempo che passa, delle stagioni, dei ricordi dolorosi che tornano — più che a quello di Montale, come spesso indica la critica, ed è un rapporto che testimonia una perdita, quella di un mondo arcaico e rurale che non c’è più. Pedroli non mostra tanto una grande nostalgia per i tempi andati — la giovinezza per lui è stata un’epoca difficile e dura — ma queste immagini che tornano dal passato sono come dei miti, dei momenti che si ripresentano vivi ma senza nostalgia, senza pensare che quello era il mondo della felicità. Si vive con malinconia anche il ricordo della natura che si mostrava come espressione assoluta di grazia e bellezza, negli anni di un Ticino profondamente rurale che poi è cambiato in modo radicale e brusco con il conseguente passaggio da una società di stampo contadino a una di matrice tecnologica. « Se potessi scegliere un gesto, un luogo, un’ora, l’ora sarebbe una sera d’aria tesa e il luogo sarebbe un luogo come tanti, una baracca in curva, una pausa appena accennata di qualcosa, calda, bassa e fumosa dove seduto a un tavolo, toccando una spalla, una mano o un bicchiere, prenderei tempo prima di alzarmi a seguire qualche sconosciuto fuori »34: Pusterla descrive qui un territorio sospeso e le persone che lo popolano. Un uomo, probabilmente ucciso nel Medioevo, riemerge dalla terra in una torbiera svedese. Il poeta si interroga sul senso di voler affermare e comprendere il passato, sebbene esso sia inesorabilmente accaduto. Lo schema che si ritrova in tutti i lavori di Pusterla — e in particolare in quest’opera — è quello dell’utilizzo della storia per raccontare le vicende contemporanee; il poeta diviene non solo il protagonista delle proprie avventure, della propria personale esistenza, come accaduto tante volte nella poesia — con i lettori sempre più disorientati dai personalismi che la letteratura italofona va proponendo — ma, in qualche modo, riprende il proprio ruolo di veicolo, di tramite, ritorna a essere, insomma, un reale racconto.

 34 FABIO PUSTERLA, Se potessi scegliere un gesto, un luogo e un’ora, in ID., Bocksten, Milano, Marcos y Marcos, 1989, p. 5.

379  In quest’opera di Pusterla tutto ha un nome, tutto è contatto fisico; natura, terre, acque, nebbie e in mezzo sempre l’uomo, inserito dunque, finalmente, nella natura, non più corpo estraneo. Il rischio dell’uomo che appare nei versi dello scrittore di Mendrisio — e il pericolo che corre l’autore — è che si esca dal livello normale di percezione di se stessi, ponendosi sul livello aulico e astratto sul quale si colloca la poesia. L’uomo e il poeta rischiano di perdere il contatto con la realtà e divenire mera astrazione.

380  1 4.7 LE TRAGICOMMEDIE DELL’ASSURDO DI FRISCH E DÜRRENMATT

MAX FRISCH, cresciuto in una famiglia di estrazione borghese, figlio di un architetto, studia Germanistica per poi dedicarsi al giornalismo, attività che gli permette di assecondare la sua grande passione per i viaggi e di dedicarsi, quindi, a trasferte in Unione Sovietica e nei Balcani. Nel 1936, improvvisamente, decide di seguire le orme del padre e di studiare architettura e per più di dieci anni effettivamente Frisch eserciterà la stessa professione del genitore, prima di dedicarsi esclusivamente alla letteratura, mezzo più efficace per analizzare e smascherare i misfatti della società elvetica, per evidenziare la differenza tra Sein e Schein, tra essere e apparire, tra quello che la comunità svizzera vuole sembrare e quello che, invece, è realmente. Già nelle sue opere narrative giovanili, i romanzi Jürg Reinhard (1934) e J’adore ce qui me brûle oder die Schwierigen (1943), Frisch ha dato vita a una sottile critica sociale e autocritica al suo stile di vita borghese — lo scrittore aveva aperto uno studio di architetto, si era sposato con una donna della borghesia zurighese e frequentava i salotti mondani — e si è raffigurato sotto la maschera di protagonisti per i quali il confronto con il mondo è l’occasione per mettere alla prova se stessi. Affiora anche il tema — affrontato già da molti scrittori del tardo Ottocento e del primo Novecento, basti pensare a Buddenbrooks di Thomas Mann — dell’artista nella società borghese. Il fallimento del protagonista del primo romanzo, un pittore, in amore e nella professione viene ricondotto ai limiti della sua natura fintamente borghese, al suo essere uomo inquieto che non riesce a identificarsi pienamente con la società a cui appartiene e da cui sogna di evadere. Ma è stato il teatro a dare a Max Frisch il suo primo grande successo. Insieme al connazionale Dürrenmatt, lo scrittore zurighese costituirà nell’epoca post-bellica un punto di riferimento stabile per la vita teatrale di lingua tedesca che stentava a riallacciarsi agli sviluppi europei più recenti: la rottura con il teatro avanguardistico, imposta dal Nazismo nel periodo del dodicennio nero,

 1 Per un approfondimento si veda: ANTON REININGER, Storia della letteratura tedesca. Fra l’Illuminismo e il Postmoderno 1700-2000, Torino, Rosenberg & Sellier, 2005, pp. 601-609; MANFRED DURZAK, Dürrenmatt, Frisch, Weiss. Deutsches Drama der Gegenwart zwischen Kritik und Utopie, Stuttgart, Reclam, 1972.

381  condiziona negativamente la produzione drammatica della Germania del dopoguerra che, per diversi anni, rimane di basso valore. Brecht, nel periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale, viene recepito come autore ‘classico’, un moralista sociale che evita l’attualità politica; il Brecht marxista verrà scoperto soltanto negli anni Sessanta. Nei teatri — anche in quelli tedeschi — dominano, quindi, per di più autori inglesi, francesi e americani: enorme successo riscuotono drammaturghi come Paul Claudel, T.S. Eliot, W.H. Auden e Thornton Wilder. Le soulier de satin (1929) dello scrittore francese, uno dei drammi più rappresentati nella Germania del dopoguerra, ha nella sua concezione religiosa e metafisica delle vicende storiche e umane una funzione sicuramente consolatoria per il pubblico tedesco. La sublimazione raggiunta dal suo protagonista tramite sconfitte brucianti e sofferenze estreme sembra indicare una via di uscita da un fato non meno crudele di quello toccato a molti teutonici. Anche la popolarità di Murder in the cathedral (1935) di Eliot, con la sua accentuazione dei valori spirituali e trascendenti rispetto a quelli terreni e laici, sta a testimoniare questa voglia di rinascita estetico-religiosa nel periodo dell’immediato dopoguerra; dietro al successo di tali opere si cela un impulso spontaneo dovuto al crollo morale della sconfitta e, in molti casi, alla perdita delle basi materiali della propria esistenza e una consapevole e intenzionale rimozione dei problemi politici e sociali. Il successo di Frisch e Dürrenmatt è dovuto al fatto che essi, spettatori molto coinvolti dal punto di vista emotivo della tragedia mondiale, forniscono interpretazioni molto interessanti delle problematiche in quanto non coinvolti direttamente negli eventi e, dunque, capaci di una maggiore distanza analitica della realtà. I primi tentativi drammatici dello scrittore di Zurigo affrontano il tema della colpa sociale alla luce delle esperienze storiche recenti; Nun singen sie wieder (1945), tematizza proprio il fallimento dell’umanesimo borghese mostratosi incapace di impedire la caduta nella crudeltà e fa affiorare la consapevolezza della sopravvivenza dei falsi valori che hanno portato al sacrificio di molti uomini. In Als der Krieg zu Ende war (1947-1948), con la storia dell’amore di una donna tedesca, moglie di un criminale di guerra, con un ufficiale russo, ambientata nella

382  Berlino appena occupata dall’Armata Rossa, Frisch intende realizzare una critica aspra ai pregiudizi razziali e ideologici della società, quella elvetica in particolare. Ma la contrapposizione fra civiltà e barbarie sembra essere fissato in uno spazio al di là dei condizionamenti storici, è qualcosa di insito all’umanità stessa; anche Frisch, tra l’altro, pone il confronto con il nazionalsocialismo in una sfera metafisica al di fuori dei meccanismi storici e psicologici concreti e ricalca in parte quanto aveva già offerto il drammaturgo americano Thornton Wilder. Il primo grande successo teatrale dell’autore elvetico è Herr Biedermann und die Brandstifter (1958), “dramma didattico senza insegnamento” come recita il sottotitolo con un’evidente allusione a Brecht; Frisch in questi anni tenta di definire una drammaturgia propria, ponendosi sempre in contrapposizione all’autore di Augusta che aveva conosciuto personalmente a Zurigo negli anni successivi alla conclusione del conflitto mondiale. Come Brecht anche lo svizzero si affida all’astrazione della parabola per avvicinarsi il più possibile alla descrizione della realtà e criticare gli atteggiamenti della società contemporanea ma, al contempo, sostiene, a differenza del tedesco, che il teatro non può rappresentare il mondo reale in tutte le sue sfaccettature ma può soltanto fingere di mostrarlo e, inoltre, non può avere una funzione educativa al punto da contribuire all’evoluzione del mondo. Nel personaggio di Biedermann, un uomo pavido e accomodante al punto da diventare quasi il complice involontario di due incendiari entrati in casa sua per dare tutto alle fiamme, Frisch offre un ritratto ironico dell’uomo moderno che ha rinunciato alla propria autonomia di soggetto pensante e razionale e si nasconde dietro ai suoi atteggiamenti vigliacchi. Con Andorra, dramma del 1958, invece, il drammaturgo svizzero ha l’intento di smascherare i meccanismi psicologici del pregiudizio razzista. Il dramma si svolge nel piccolo stato ma non è, a differenza di quello che la critica generalmente evidenzia associando i fatti narrati da Frisch in questo dramma all’epoca del nazionalsocialismo, la raffigurazione di un determinato periodo storico, bensì presenta il problema del razzismo in una tale astrazione che l’opera si offre come modello per qualsiasi epoca e società. L’autore di Homo Faber dimostra la potenza del pregiudizio che nella piccola comunità di Andorra porta

383  un ragazzo dalle origini ignote e, di conseguenza, ritenuto ebreo a identificarsi con il pensiero comune. L’altro drammaturgo svizzero che domina le scene nel secondo dopoguerra è Friedrich Dürrenmatt, figlio di un pastore protestante proveniente dalla campagna elvetica. Sin dai suoi esordi mostra una certa inclinazione per l’estetica dell’Espressionismo e pare decisivo per il suo sviluppo lo studio della commedia di Aristofane e di Frank Wedekind, uno dei seguaci moderni del commediografo greco. Proprio dal drammaturgo di Hannover si può ritenere che Dürrenmatt abbia imparato a trattare i suoi personaggi drammatici come marionette e rappresentanti di messaggi ideologici oltre ad aver appreso il gusto per il tragicomico: nel suo saggio Theaterprobleme (1955), lo scrittore svizzero afferma che nei tempi moderni non è più la tragedia a poter esprimere in modo adeguato la conflittualità dell’esistenza umana, il pervertimento dei valori sociali e umani, bensì la commedia e la farsa, anche se — e in questo Dürrenmatt sembra concordare con Frisch — di fronte al male nel mondo la denuncia è rivelatrice ma improduttiva, non basta a provocare mutamenti. La commedia si rivela, secondo lo scrittore di Konolfingen, l’unica forma teatrale possibile nei tempi moderni, con la quale si può ugualmente ottenere anche il tragico: l’accentuazione comica e grottesca delle manifestazioni di disgregazione del mondo e dell’ordine naturale delle cose serve proprio a concentrare l’attenzione su una realtà che di comico ha poco o nulla e che Dürrenmatt, di solito, rivela nella sua tragicità proprio nel finale delle sue opere, tutt’altro che in linea con quello tipico della commedia. Dopo lo scandalo suscitato dal suo dramma Es steht geschrieben (1947), l’intellettuale svizzero coglie la prima importante affermazione con il suo dramma storico sull’ultimo imperatore romano Romulus der Große (1949), che rappresenta l’ironica incarnazione di un utopico superamento della storia fatta di battaglie, stragi e cospirazioni. L’ultimo imperatore che si è ritirato in campagna a fare la vita del semplice contadino e che ha dedicato il suo tempo alla riflessione filosofica mentre l’impero stava crollando e Odoacre si stava sempre più avvicinando, demitizza, con il suo rifiuto per l’azione politica, il vecchio concetto di storia e la spirale di violenza che ne appare naturale conseguenza.

384  In Die Ehe des Herrn Mississippi (1952), che è stato per Dürrenmatt il primo grande successo, il drammaturgo elvetico ha rappresentato, nel destino di due vecchi amici, Mississippi e Saint-Claude, che hanno in seguito assunto false generalità e sono diventati rappresentanti di due schieramenti ideologici opposti, le incertezze dell’astrattezza del razionalismo. Entrambi i personaggi sono disposti a sacrificare l’umanità in base ai loro ideali di ordine: Mississippi, divenuto pubblico ministero, vorrebbe ripristinare la dura legge mosaica e fa pronunciare trecentocinquanta condanne a morte, mentre Saint-Claude, rivoluzionario comunista, vorrebbe imporre un regime dittatoriale che come ogni tirannia non rispetta il bisogno di libertà di ogni essere umano. Soltanto sul piano privato Mississippi riesce a realizzare il suo ideale di giustizia: egli ritiene, infatti, il matrimonio con Anastasia la giusta espiazione per entrambi dopo che hanno avvelenato i rispettivi coniugi fedifraghi. Il vero motivo che aveva però spinto Anastasia a eliminare il marito era l’amore per un terzo uomo e, quando Mississippi lo viene a sapere, il suo universo moralista e intransingente apparentemente crolla; la consorte, negando fermamente l’amore per quest’altro uomo, finirà per permettere al protagonista di salvare l’ideale monogamico del Vecchio Testamento. L’opera che ha consolidato la fama di Dürrenmatt drammaturgo è Der Besuch der alten Damen (1956), ambientata a Güllen, cittadina svizzera che, in mezzo alla prosperità elvetica generale, è afflitta da una grave crisi economica. A risanare la situazione potrebbe concorrere proprio la vecchia signora, Claire Zachanassian, arrivata in visita nel suo piccolo villaggio d’origine dal quale era partita dopo che un suo amico d’infanzia, Alfredo III, l’aveva sedotta e abbandonata e con la complicità di due suoi amici era riuscito anche a evitare di riconoscere il figlio da lei avuto. Diventata ricca dopo il matrimonio con un miliardario, la protagonista offre il suo aiuto economico alla comunità di Güllen, a patto che questa le consegni il cadavere del suo vecchio seduttore. E così accadrà perché nessuno sa resistere al richiamo del denaro. Nei paesi sotto il dominio comunista la commedia fu interpretata come satira delle deformazioni che il capitalismo può produrre nella mente umana,

385  mentre in Europa centrale si pose l’attenzione maggiormente sulla corruzione all’interno della società moderna. Gli anni Sessanta sono segnati dalla forte polemica sul’uso dell’energia atomica per scopi militari. Die Physiker (1962) prende spunto proprio dall’atmosfera di terrore collegata alle riflessioni sull’annientamento dell’umanità in caso di conflitto nucleare. Dürrenmatt, in questo caso, vuole portare, il più possibile, la realtà davanti agli occhi dello spettatore in modo che sia chiaro il pericolo che il progresso tecnologico e scientifico può rappresentare. Ambientata in una clinica psichiatrica in Svizzera, l’opera ha come protagonista un grande fisico, Moebius, che si finge pazzo per poter lavorare, evitando il rischio che le sue scoperte nel campo della fisica atomica possano essere utilizzate a scapito dell’umanità. Il personaggio principale ha, quindi, rinunciato alla libertà personale per poter essere libero di pensare e lavorare. Si trovano nella stessa clinica, per spiarlo, altri due fisici che si fingono folli, in realtà agenti di due opposte potenze che intendono appropriarsi delle scoperte di Moebius. Tutti e tre uccidono le loro infermiere per paura di essere scoperti e, quando il protagonista li informa di aver distrutto le sue formule perché potenzialmente micidiali per l’umanità, si viene a sapere che la vera pazza, la direttrice della clinica, le ha copiate e ha intenzione di utilizzarle per dominare l’economia e la politica del mondo intero. La visione pessimistica della società contemporanea, dove si è disposti a tutto pur di ottenere il potere e sopraffare il prossimo, si acutizza ancor di più, se possibile, in Porträt eines Planeten (1970) in cui Dürrenmatt confronta la terra prima e dopo la sua distruzione sotto lo sguardo impassibile degli dèi. Questa opera ha riscosso però scarso successo come, del resto, l’altra pièce, Die Frist (1977), satira delle deformazioni psicosociali prodotte da un regime dittatoriale in cui sono mescolati elementi di cabaret politico — con evidenti riferimenti alla morte di Franco — e del teatro del grottesco. Lo scenario, che ruota intorno alla scomparsa del dittatore e al gioco di intrighi per la sua successione, assume le dimensioni di una tragicommedia dalla quale emerge, a sorpresa, la vittoria della speranza nella figura di un medico ebreo, sopravvissuto ai campi di concentramento, che diventa una guida per la società con la sua autorità morale.

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SCHEDE BIO-BIBLIOGRAFICHE

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HENRI-FRÉDÉRIC AMIEL

HENRI-FRÉDÉRIC AMIEL è nato a Ginevra nel 1821 ed è morto, nella sua città natale, nel 1881. Di famiglia protestante di origine francese, dopo aver viaggiato e aver vissuto per qualche tempo a Berlino, torna a Ginevra, dove, nel 1849, ottiene la cattedra di Estetica e nel 1853 quella di Filosofia. Spirito attivo e curioso, Amiel nelle sue opere ha dato vita a una filosofia della vita profonda e talvolta amara.

OPERE PRINCIPALI: 1849 Berlin au printemps de l’année 1848 1854 Grains de mil 1860 La Cloche 1863 La Part du rêve 1875 L’Escalade de MDCII 1876 Charles le Téméraire 1876 Les Étrangères 1879 Jean-Jacques Rousseau jugé par les Genevois d’aujourd’hui 1880 Jour à jour

CONTRIBUTI CRITICI: Ursula Schöni, Henri-Frédéric Amiel. Réflexions sur les Français et les Allemands à l’occasion de la guerre franco-allemande de 1870-71, 1972 Pierre Trahard, Henri-Frédéric Amiel, juge de l’esprit français, 1978

JÜRG AMMANN

JÜRG AMMANN è nato nel 1947 a Winterthur. Dopo aver studiato Germanistica, dal 1974 al 1976 è drammaturgo presso la Schauspielhaus di Zurigo. Ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui l’Ingeborg Bachmann Preis nel 1982 e il Conrad Ferdinand Meyer Preis nel 1983.

OPERE PRINCIPALI: 1974 Das Symbol Kafka 1977 Die Korrektur 1978 Verirren oder Das plötzliche Schweigen des Robert Walser 1982 Die Baumschule 1983 Büchners Lenz 1985 Ach, diese Wege sind sehr dunkel 1985 Robert Walser 1988 Nach dem Fest 1989 Der Rücktritt 1990 Der Vater der Mutter und Der Vater des Vaters 1994 Über die Jahre 1998 Ikarus 1998 Iphigenie oder Operation Meereswind 2001 Am Ufer des Flusses 2003 Mutter töten 2005 Wind und Weh. Abschied von den Eltern 2005 Pornographische Novelle 2006 Zimmer zum Hof 2008 Nichtsangst. Fragmente auf Tod und Leben 2009 Die kalabrische Hochzeit 2010 Die Reise zum Horizont

390  FERNAND AUBERJONOIS

FERNAND AUBERJONOIS è nato nel 1910 a Valeyres-sous-Montagny. È figlio del pittore René Auberjonois. Ha studiato Geologia all’Università di Losanna prima di trasferirsi negli Stati Uniti dove, tra l’altro, è stato l’insegnante privato di francese di Katherine Hepburn. È morto nel 2004 a Enniskeane.

OPERE PRINCIPALI: 1944 Air d’Amérique 1946 Mon village U.S.A. 1950 L’île aux feux 1980 Top dog: a cavalier view of the English 1993 Entre deux mondes : chroniques, 1910/1953 1994 L’air d’ailleurs : chroniques 1953/1994 1995 Londres intime 1997 L’apprentie sorcière: roman, ornementé par l’auteur 1998 Ballade irlandaise 1998 Un conte à rebours 2001 L’arche de Noé en cale sèche 2001 Les Sentiers de ma guerre 2002 Vers à soi

ÉTIENNE BARILIER

ÉTIENNE BARILIER è uno scrittore e traduttore, nato nel 1947 a Payerne, nel cantone Vaud. È professore associato del Dipartimento di Francesistica dell’Università di Losanna. Ha tradotto in francese Dürrenmatt, Hohl, Muschg e Wedekind.

OPERE PRINCIPALI: 1971 Orphée 1974 Passion 1975 Une seule vie 1977 Albert Camus: Philosophie et littérature 1977 Journal d’une mort 1977 Le chien Tristan 1981 Le Grand inquisiteur 1984 La Créature 1986 Le Dixième ciel 1988 Musique 1989 Les trois anneaux: petite métaphysique de la critique littéraire 1989 Un monde irréel: chroniques de télévision 1990 Les belles fidèles: petit essai sur la traduction 1991 La ressemblance humaine 1995 Un rêve californien 1997 B-A-C-H : histoire d’un nom dans la musique 2001 Après les idéologies 2001 L’Enigme 2003 Le vrai Robinson 2006 Ma seule étoile est morte 2010 Un Véronèse

CONTRIBUTI CRITICI: Thomas Liechti, La Quête de l’ambiguïté dans “Orphée” et “Passion”: analyse structurale de deux récits d’Etienne Barilier, 1983 Sylviane Dupuis, Étienne Barilier, 1998 Sylvie Jeanneret, La musique dans l’œuvre romanesque d’Étienne Barilier: vers une poétique de la modernité, 1998

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ALBERT BÉGUIN

ALBERT BÉGUIN è nato a Neuchâtel nel 1901 ed è morto a Roma nel 1957. La famiglia è calvinista e lui si converte al cattolicesimo nel 1950. Succede a Mounier alla direzione della rivista cattolica « Esprit ». I suoi saggi più noti sono raccolti in due volumi sotto il titolo Création et destiné. Molto noti i saggi su Pascal, Balzac, Nerval, Péguy, Bloy, Ramuz, Bernanos. Importanti anche le sue traduzioni da Goethe, Hoffmann, Schiller, Richter.

OPERE PRINCIPALI: 1937 L’âme romantique et le rêve, essai sur le romantisme allemand et la poésie française 1937 Gérard de Nerval 1942 Nos Cahiers 1942 La Prière de Péguy 1944 Léon Bloy l’Impatient 1944 Le Livre Noir du Vercors 1946 Faiblesse de l’Allemagne 1950 Patience de Ramuz 1952 Pascal

CONTRIBUTI CRITICI: Pierre Grotzer, Les écrits d’Albert Béguin, 1967 Jean Borie (curatore), De l’amitié. Hommage à Albert Béguin, 2001

RAFIK BEN SALAH

RAFIK BEN SALAH è nato nel 1948 a Moknine, è un insegnante e scrittore di nazionalità tunisina e svizzera. Vive nel cantone Vaud. Ben Salah studia in Tunisia fino al 1967, prima di trasferirsi a Parigi dove si laurea nel 1971 e diventa giornalista. In seguito decide di trasferirsi in Svizzera dove insegna francese e storia.

OPERE PRINCIPALI: 1987 Retour d’Exil 1991 Lettres scellées au président 1993 La Prophétie du chameau 1998 La femme du cousin 1999 Le Harem en péril 2001 L’Œil du frère 2004 Récits de Tunisie 2005 La Mort du Sid 2007 La véritable histoire de Gayoum Ben Tell 2009 L’invasion des criquets de terre et autres nouvelles de la dérive ordinaire

DONATA BERRA

DONATA BERRA è nata a Milano nel 1947, dove ha studiato Letteratura Italiana e Musicologia, e vive a Berna da diversi anni. Insegna Letteratura Italiana all’università. Ha tradotto dal tedesco all’italiano autori come Friedrich Dürrenmatt, e Stefan Zweig. Per la sua opera poetica ha ricevuto il Premio Schiller nel 1993, il Premio Letterario del cantone di Berna nel 1997 e la menzione d’onore al Premio Gottfried Keller nel 2001.

392  OPERE PRINCIPALI: 1992 Santi quattro coronati 1997 Tra terra e cielo 1999 Maria, di sguincio, addossata a un palo: poesie 2005 Vedute bernesi 2006 Quel che resta del cielo 2010 A memoria di mare

PIERO BIANCONI

PIERO BIANCONI è nato a Minusio il 1 giugno 1899. Dopo la scuola dell’obbligo a Minusio riceve una formazione commerciale a Locarno dove, per un breve periodo, lavora come commesso in un negozio di stoffe; tuttavia un suo insegnante lo convince a riprendere gli studi. Si iscrive allora alla scuola magistrale e ottiene l’abilitazione all’insegnamento nel 1927, poi prosegue la sua formazione accademica in lettere italiane all’Università di Friburgo. All’Università di Berna accetta il ruolo di lettore di italiano durante gli anni accademici 1935 e 1936. Poi torna in Ticino in qualità di docente di francese e storia dell’arte alla Scuola magistrale di Locarno e al liceo cantonale di Lugano, dando inizio a una sua produzione letteraria prossima alla prosa d’arte con Ritagli del 1935; si afferma ulteriormente nel 1943 con Croci e rascane, ove illustra con maestria la realtà della vita contadina dell’uomo di montagna. Muore investito da un motociclista il 5 giugno 1984.

OPERE PRINCIPALI: 1935 Ritagli 1951 Il cavallo Leopoldo 1963 Ossi da mordere 1963 Gocce sui fili 1966 L’Alberelle di San Lorenzo 1968 Le soste del sedentario 1969 Albero genealogico 1979 Diario del rimorso. 1975-1977

PETER BICHSEL

PETER BICHSEL è nato a Solothurn nel 1935, dove vive tuttora. Figlio di un artigiano, cresce dapprima a Lucerna e poi, dal 1941, a Olten. Frequenta la scuola magistrale a Solothurn e nel 1956 sposa l’attrice Therese Spörri, con cui ha avuto due figli. Fino al 1968 (e un’ultima volta nel 1973) ha lavorato come maestro di scuola elementare. Dal 1974 al 1981 è consulente personale del consigliere federale Willi Ritschard, che era suo amico. Nella cerchia dei suoi amici rientra anche lo scrittore Max Frisch, deceduto nel 1991. Oggi Bichsel vive a Bellach, vicino Solothurn. Nel 1964 conosce la notorietà con la raccolta di racconti Kindergeschichten, riflessioni a tratti surreali sui paradossi del mondo. Bichsel oggi è noto soprattutto per raccolte di saggi in cui sarcasticamente analizza la società moderna.

OPERE PRINCIPALI: 1960 Versuche über Gino 1964 Eigentlich möchte Frau Blum den Milchmann kennenlernen 1967 Die Jahreszeiten 1969 Kindergeschichten 1969 Des Schweizers Schweiz 1982 Der Leser. Das Erzählen 1986 Irgendwo anderswo. Kolumnen 1980-1985 1990 Möchten Sie Mozart gewesen sein?

393  1990 Im Gegenteil. Kolumnen 1986-1990 1993 Zur Stadt Paris 1995 Gegen unseren Briefträger konnte man nichts machen. Kolumnen 1990-1994 1995 Ein Tisch ist ein Tisch 1998 Die Totaldemokraten. Aufsätze über die Schweiz 1999 Cherubin Hammer und Cherubin Hammer 2000 Alles von mir gelernt. Kolumnen 1995-1999 2004 Wo wir wohnen 2004 Von der Erfindung der heiligen Schriften 2005 Kolumnen, Kolumnen

CONTRIBUTI CRITICI: Hans Bänziger, Peter Bichsel. Weg und Werk, 1984 Herbert Hoven, Peter Bichsel. Auskunft für Leser, 1984 Herbert Hoven, Peter Bichsel. Texte, Daten, Bilder, 1991 Herbert Hoven, In Olten umsteigen. Über Peter Bichsel, 2000 Chalit Durongphan, Poetik und Praxis des Erzählens bei Peter Bichsel, 2005

CORINNA BILLE

CORINNA BILLE è nata nel 1912 a Losanna. Il suo vero nome è Stéphanie ma sceglie di chiamarsi Corinna in onore a Corin, il paese dove è nata la madre. È stata sposata con lo scrittore Maurice Chappaz da cui ha avuto tre figli. È morta di cancro a Sierre nel 1979.

OPERE PRINCIPALI: 1939 Printemps 1944 Théoda 1952 Le Sabot de Vénus 1953 Florilège alpestre 1961 Le Pays Secret 1967 Entre hiver et printemps 1971 Juliette éternelle 1973 Cent petites histoires cruelles 1978 Cent petites histoires d’amour 1978 La Montagne déserte 1981 Le Pantin noir 1989 Forêts obscures 1992 Le Vrai conte de ma vie, écrits autobiographiques 1996 Les étranges noces et autres inédits 1999 À pied du Rhône à La Maggia

GIOVANNI BONALUMI

GIOVANNI BONALUMI è nato a Muralto nel 1920 ed è morto a Minusio nel 2002. È stato narratore, saggista e traduttore, docente di Letteratura Italiana all’Università di Basilea per più di venti anni, autore di una nutrita serie di studi critici, di racconti confluiti in Coincidenze (1988) e Il profilo dell’eremita (1996) e dei romanzi Gli ostaggi (1954), racconto di formazione ispirato al primo neorealismo italiano, e il meno riuscito Per Luisa (1972).

OPERE PRINCIPALI: 1954 Gli ostaggi 1958 Introduzione all’Aminta 1963 Storia di Miranda e altri saggi

394  1970 La giovane Adula 1972 Per Luisa 1988 Coincidenze 1988 Il pane fatto in casa 1993 Le nevi d’una volta 1996 Il profilo dell’eremita

CONTRIBUTI CRITICI: Luigi Poma, Giovanni Bonalumi, Parini e la satira, 1959

FRANÇOIS BONDY

FRANÇOIS BONDY è nato nel 1915 a Berlino ed è morto a Zurigo nel 2003. Figlio del regista Fritz Bondy, è cresciuto tra Davos, Lugano e Nizza. Ha studiato Germanistica alla Sorbonne di Parigi. Dal 1941 è redattore di Weltwoche e di altre prestigiose testate non solo svizzere. È il padre del regista Luc Bondy.

OPERE PRINCIPALI: 1970 Aus nächster Ferne 1972 Der Rest ist Schreiben 1988 Pfade der Neugier 1990 Mein dreiviertel Jahrhundert

GEORGES BORGEAUD

GEORGES BORGEAUD è nato a Losanna nel 1914 ed è morto a Parigi nel 1998. Dal 1933 al 1946 vive in Belgio, prima di trasferirsi definitivamente a Parigi. Risale al 1952 il suo esordio letterario.

OPERE PRINCIPALI: 1952 Le Préau 1959 La Vaisselle des évêques 1969 Italiques 1974 Le Voyage à l’étranger 1986 Le Soleil sur Aubiac 1999 Le Jour du printemps

MICHEL BORY

MICHEL BORY è nato nel 1943 a Losanna. Dopo gli studi nella città natale, frequenta l’École supérieure de journalisme di Parigi. Ha creato il personaggio dell’ispettore Perrin che appare in una serie di romanzi polizieschi a partire dal 1995.

OPERE PRINCIPALI: 1973 Un goût de sel, récits 1983 Ses petites mains blanches 1995 Coup de théâtre: l’inspecteur Perrin monte sur les planches 1995 Le barbare et les jonquilles 1995 L’inspecteur Perrin va en bateau 1996 Perrin à Moudon 1997 L’inspecteur Perrin croit au père Noël 1997 La limousine et le bungalow 2000 Les mensonges de l’inspecteur Perrin

395  2001 Bienvenue à New Hong-Kong 2003 Perrin creuse le canal du Rhône au Rhin 2005 Perrin a peur dans le noir 2005 Perrin enquête 2006 L’assassinat du président Bush

NICOLAS BOUVIER

NICOLAS BOUVIER nasce nel 1929 a Grand-Lancy. Compie il suo primo viaggio solitario in Norvegia a 17 anni. Presso l’Università di Ginevra segue corsi di Storia Medievale e sanscrito. Nel 1948 il quotidiano La Tribune de Genève lo invia per un reportage in Finlandia. Nel 1950 viaggia nel Sahara algerino per conto di un altro giornale, Le Courrier. Nel 1951 parte assieme agli amici Thierry Vernet e Jacques Choisy da Venezia e si reca fino a Istanbul. Nel 1953 a bordo di una Topolino, in compagnia di Thierry Vernet, attraversa la Jugoslavia, la Turchia, l’Iran e il Pakistan. Un anno e sei mesi dopo i due amici si separano a Kabul e Nicolas Bouvier continua da solo il suo viaggio attraverso l’India. Arriva a Ceylon dove, malato e depresso, resta sette mesi. Questo doloroso soggiorno sarà descritto in Le Poisson Scorpion, pubblicato solo nel 1982. Nel 1958 sposa Eliane Petitpierre, figlia del consigliere federale Max Petitpierre e nipote di Denis de Rougemont. Compierà molti viaggi per l’Europa e l’Asia fino alla sua morte avvenuta il 17 febbraio 1998.

OPERE PRINCIPALI: 1963 L’Usage du monde 1967 Japon 1975 Chronique japonaise 1982 Le poisson-scorpion 1990 Journal d’Aran et d’autres lieux 1991 L’Art populaire en Suisse 1993 Le Hibou et la baleine 1994 Les Chemins du Halla-San 1996 Comment va l’écriture ce matin? 1997 Routes et déroutes, entretiens avec Irène Lichtenstein-Fall 1998 Le dehors et le dedans 1998 Entre errance et éternité 2001 Histoires d’une image, 2001 L’Oeil du voyageur

CONTRIBUTI CRITICI: Adrien Pasquali, Nicolas Bouvier. Un galet dans le torrent du monde, 1996 Jean-Xavier Ridon, Le Poisson-Scorpion de Nicolas Bouvier, 2007

JACOB BURCKHARDT

JACOB BURCKHARDT è nato a Basilea il 25 maggio 1818. È il più importante storico svizzero di tutti i tempi. Dal 1836 studia Filologia, Storia Antica, Storia dell’Arte, Teologia al Collège Latin di Neuchâtel fino al 1839. Nel 1838 intraprende il suo primo viaggio in Italia. Al rientro pubblica il suo primo importante saggio, Bemerkungen über Schweizerische Kathedralen, poi si trasferisce all’Università di Berlino per studiare Storia. Nel 1846 parte per l’Italia, dove soggiorna per un biennio; qui resta affascinato dalla ricchezza del patrimonio culturale italiano. Tornato in patria, dopo due anni riprende l’insegnamento, ma nel 1853 l’Università di Basilea lo licenzia a causa di ristrettezze economiche. Si affida alla letteratura, e nel 1853 pubblica la sua prima grande opera: Die Zeit Constantins des Großen. Nel 1874 riceve la

396  proposta di insegnare Storia dell’Arte presso l’Università di Berlino ma rifiuta; il suo legame con Basilea è troppo forte e nella città svizzera resterà fino alla morte, avvenuta nel 1897.

OPERE PRINCIPALI: 1840 Carl Martell 1842 Kunstwerke der belgischen Städte 1843 Conrad von Hochstaden 1853 Die Zeit Constantins des Großen 1855 Cicerone 1860 Die Kultur der Renaissance in Italien

CONTRIBUTI CRITICI: Laura Bazzicalupo, Il potere e la cultura. Sulle riflessioni storico- politiche di Jacob Burckhardt, 1990 René Teuteberg, Wer war Jacob Burckhardt?, 1997

ERIKA BURKART

ERIKA BURKART nasce ad Aarau nel 1922, vive in solitudine in un’antica abbazia della campagna argoviese e viene reputata tra le voci poetiche più significative del Novecento. Ha composto una dozzina di raccolte di poesie — da Der dunkle Vogel (1953) a Der Weg zu den Schafen (1979) — incentrate sul rapporto con la natura, l’amore, il confronto con il dolore e l’esistenza. Muore il 14 aprile 2010.

OPERE PRINCIPALI: 1953 Der dunkle Vogel 1955 Sterngefährten 1960 Die gerettete Erde 1964 Ich lebe 1967 Die weichenden Ufer 1970 Moräne 1972 Jemand entfernt sich 1972 Fernkristall. Ausgewählte Gedichte 1973 Die Transparenz der Scherben 1975 Rufweite 1977 Das Licht im Kahlschlag 1979 Der Weg zu den Schafen 1981 Die Freiheit der Nacht 1984 Sternbild des Kindes 1985 Die Spiele der Erkenntnis 1989 Ich suche den blauen Mohn 1991 Die Zärtlichkeit der Schatten 1994 Das Schimmern der Flügel 2002 Langsamer Satz 2005 Ortlose Nähe 2006 Die Vikarin 2009 Geheimbrief 2010 Das späte Erkennen der Zeichen

CONTRIBUTI CRITICI: Frieda Vogt-Baumann, Von der Landschaft zur Sprache. Die Lyrik von Erika Burkart, 1977

397  ISO CAMARTIN

ISO CAMARTIN è originario della Svizzera romancia, dove è nato nel 1944; è un brillante difensore della pluralità, sia linguistica che artistica. Nelle sue nume- rose pubblicazioni si impegna a favore di una coabitazione pacifica e arric- chente delle diverse culture. Ha insegnato nelle università di Lione, Friburgo, Ginevra e Zurigo (cultura e letteratura romancia). È stato a capo del dipar- timento della cultura della televisione DRS tra il 2000 e il 2003. Il suo spiccato interesse per la musica l’ha portato a presentare, a partire dal 2003, le matinée musicali tenute all’Opera di Zurigo. Vive tra Zurigo e gli Stati Uniti.

OPERE PRINCIPALI: 1971 Kants Schematismuslehre und ihre Transformation beim frühen Fichte. Zur Ausformung des Identitätsdenkens 1985 Nichts als Worte? Ein Plädoyer für Kleinsprachen 1987 Lob der Verführung. Essays über die Nachgiebigkeit 1990 Karambolagen. Geschichten und Glossen 1991 Von Sils-Maria aus betrachtet. Ausblicke vom Dach Europas 1994 Die Bibliothek von Pila. 1997 Nelke und Caruso. Über Hunde. Eine Romanze 1998 Der Teufel auf der Säule. 52 Flash-Geschichten 1999 Graziendienst 2000 Hinauslehnen. Geschichten, Glossen 2003 Jeder braucht seinen Süden 2005 Belvedere. Das schöne Fernsehen 2006 Bin ich Europäer? Eine Tauglichkeitsprüfung 2008 Die Geschichten des Herrn Casparis

BLAISE CENDRARS

BLAISE CENDRARS, pseudonimo di Frédéric Sauser, nasce nel 1887 a la Chaux- de-Fonds. Vive all’estero, a Londra, Napoli e Parigi, per molti anni. Nel 1914 si arruola nella Legione Straniera, dove rimane solo un anno, subendo inoltre l’amputazione del braccio destro. La sua opera è stata fin dagli inizi caratte- rizzata dal viaggio e dall’avventura. Poeta, scrittore, reporter, realizzatore cine- matografico, sceneggiatore, fondatore di riviste culturali, uomo d’affari, Blaise Cendrars ha una forte influenza su tutte le avanguardie artistiche e letterarie di inizio XX secolo. La sua opera è di grande respiro e un inno alla vita. Nella sua poesia come nella sua prosa (romanzi, corrispondenze, memorie) all’esaltazione della modernità si aggiunge la volontà di crearsi una leggenda dove l’imma- ginario s’intreccia inestricabilmente al reale. Muore a Parigi nel 1961.

OPERE PRINCIPALI: 1912 Les Pâques à New York 1913 La Prose du Transsibérien et la petite Jehanne de France 1917 Profond aujourd’hui 1918 J’ai tué 1919 Dix-neuf poèmes élastiques 1924 Feuilles de route 1925 L’Or 1926 Moravagine 1926 Éloge de la vie dangereuse 1928 Petits contes nègres pour les enfants des blancs 1929 Les Confessions de Dan Yack 1930 Rhum - L’aventure de Jean Galmot 1931 Aujourd’hui 1936 Hollywood, La Mecque du cinéma 1937 Histoires vraies

398  1938 La Vie dangereuse 1945 L’Homme foudroyé 1946 La Main coupée 1948 Bourlinguer 1949 Le Lotissement du ciel 1949 La Banlieue de Paris 1956 Emmène-moi au bout du monde! 1957 Du monde entier au cœur du monde 1957 Trop c’est trop

CONTRIBUTI CRITICI: Yvette Bozon-Scalzitti, Blaise Cendrars ou la passion de l’écriture, 1977 Gabriel Boillat, À l’origine, Cendrars, 1985 Miriam Cendrars, Blaise Cendrars. L’Or d’un poète, 1996 Patrice Delbourg, L’Odyssée Cendrars, 2010

ALICE CERESA

ALICE CERESA è nata a Basilea nel 1923 ed è cresciuta in Ticino. Si è trasferita a Roma nel 1950 dove ha lavorato come traduttrice, giornalista e collaboratrice della casa editrice Longanesi. Il suo debutto risale al 1967 con La figlia prodiga, seguito da La morte del padre (1976) e Bambine (1990), tutti pub- blicati da Einaudi. E’ morta a Roma nel 2001.

OPERE PRINCIPALI: 1943 Gli altri 1967 La figlia prodiga 1979 La morte del padre 1990 Bambine 2007 Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile

CONTRIBUTI CRITICI: Barbara Fittipaldi, Alice Ceresa, 2004

MAURICE CHAPPAZ

MAURICE CHAPPAZ, è nato nel 1916 a Losanna ed è morto a Martigny nel 2009; è da considerarsi una delle voci più importanti della letteratura della Svizzera Romanda. L’autore vallesano imbocca da giovanissimo la strada della poesia senza trascurare il racconto, la forma epistolare, l’autobiografia, la traduzione (Teocrito, Virgilio). Grande viaggiatore e infaticabile camminatore, Chappaz sa sempre trarre ispirazione dalle sue peregrinazioni per colli e ghiacciai, a cominciare dalle vie secolari dei Walser fra Svizzera e Italia. Ma l’orizzonte di esplorazione del mondo e di sé lo porta dalla Costa d’Avorio al Libano, dalla Lapponia al Nepal. Il Tibet diventerà per lui la metafora più significativa di un Oriente personale, conosciuto ed esplorato, ma sempre ritrovato e ripensato nel suo Vallese natale.

OPERE PRINCIPALI: 1944 Les Grandes Journées de printemps 1953 Grand Saint-Bernard 1953 Testament du Haut-Rhône 1960 Le Valais au gosier de grive 1965 Chant de la Grande Dixence 1966 Un homme qui vivait couché sur un banc 1969 Le Match Valais-Judée 1970 La Tentation de l’Orient: lettres autour du monde

399  1976 Les Maquereaux des cimes blanches 1976 Portrait des Valaisans : en légende et en vérité 1983 À rire et à mourir: récits, paraboles et chansons du lointain pays 1987 Le Livre de C 1989 Le Garçon qui croyait au paradis 1996 Journal de l’année 1984: écriture et errance 1998 Bienheureux les lacs 1999 Partir à vingt ans 2001 Évangile selon Judas 2001 Le Voyage en Savoie: du renard à l’eubage 2008 La Pipe qui prie et fume 2010 Autour de liberté à l’aube. Correspondance 1967-1972

CONTRIBUTI CRITICI: Christophe Carraud, Maurice Chappaz, 2005

JACQUES CHESSEX

JACQUES CHESSEX è nato a Payerne nel 1934. Dopo aver compiuto studi letterari a Losanna, si dedica all’insegnamento del francese, pur non tralasciando il suo grande amore per la poesia. Pubblica la sua prima raccolta nel 1954 col titolo Le jour proche, ma è grazie al romanzo L’ogre che vince il Prix Goncourt nel 1973. Il successo dei suoi scritti è dovuto ai temi trattati con crudo realismo e accostamenti arditi. Muore il 9 ottobre 2009 dopo che in una discussione pubblica, molto accesa, ha preso le parti del regista Roman Polanski, arrestato dalla polizia in Svizzera su mandato di cattura internazionale emesso delle autorità americane per un presunto stupro ai danni di una tredicenne avvenuto nel 1978.

OPERE PRINCIPALI: 1954 Le Jour proche 1955 Chant de printemps 1957 Une Voix la nuit 1962 La Tête ouverte 1967 La Confession du pasteur Burg 1969 Portrait des Vaudois 1971 Carabas 1973 L’Ogre 1980 Où vont mourir les oiseaux 1982 Judas le transparent 1983 Le Calviniste 1988 Comme l’os 1991 Les Aveugles du seul regard 1991 François dans la forêt 1995 Le Temps sans Temps 1995 Le Rêve de Voltaire 2002 Le désir de la neige 2004 L’Éternel sentit une odeur agréable 2005 Allegria 2007 Le Vampire de Ropraz 2008 Revanche des purs 2008 Pardon mère 2009 Un Juif pour l’exemple 2010 Le Dernier Crâne de M. de Sade

CONTRIBUTI CRITICI: Christine Arquembourg, Une lecture de “La Confession du Pasteur Burg”, 1996 Jérôme Garcin, Entretiens avec Jacques Chessex, 1979 Anne Marie Jaton, Jacques Chessex. La lumière de l’obscur, 2001

400  FRANCESCO CHIESA

FRANCESCO CHIESA è nato a Sagno nel 1871. È poeta, narratore e saggista. Tra le sue opere d’esordio spicca l’ambizioso poema storico Calliope (1907), duecentoventi sonetti suddivisi in tre cantiche; ma nel decennio successivo, l’autore approda a una più spontanea vena regionalistica, condita da memorie d’infanzia e senso idillico della natura come nelle raccolte Racconti puerili (1921), Racconti del mio orto (1929) e nel romanzo Tempo di marzo (1925) e nella raccolta poetica La stellata sera (1933). Nel 1971, in occasione del centenario dalla nascita, pubblica ancora la raccolta Sonetti di San Silvestro. Muore a Lugano nel 1973.

OPERE PRINCIPALI: 1893 Bisbino 1987 Preludio 1907 Calliope 1911 I viali d’oro 1918 Versetti 1919 Fuochi di primavera 1921 Consolazioni 1921 Racconti puerili 1925 Tempo di marzo 1927 Racconti del mio orto 1932 I romanzi che non scriverò 1933 La stellata sera 1935 Voci nella notte 1938 Sant’Amarillide 1941 Racconti del passato prossimo 1941 Sei racconti dinanzi al folclore 1948 Ricordi dell’età minore 1950 L’artefice malcontento 1960 La scatola di pergamena 1963 Ricordi dell’età minore 1971 Sonetti di San Silvestro 1976 Lettere iperboliche 1990 Casi della vita: tre racconti

CHARLES-ALBERT CINGRIA

CHARLES-ALBERT CINGRIA è nato a Ginevra nel 1883 ed è morto nella stessa città nel 1954. Ha studiato musica a Ginevra e Roma. Tra il 1902 e il 1909 viaggia per la Svizzera, si reca in Francia, in Italia, in Germania, in Spagna, in Africa e in Turchia, prima di decidere di stabilirsi a Parigi nel 1915. Gli eventi della Seconda Guerra Mondiale lo obbligano a rientrare in Svizzera.

OPERE PRINCIPALI: 1967-1981 Œuvres complètes

CONTRIBUTI CRITICI: Nicolas Bouvier, Charles-Albert Cingria en roue libre, 2005

ALBERT COHEN

ALBERT COHEN è nato a Corfù il 16 agosto 1895 ed è morto a Ginevra il 17 ottobre 1981, ebreo d’origine ottomana, naturalizzato svizzero-francese. Pro- veniente da una famiglia di industriali del sapone, nel 1900 i genitori di Albert

401  emigrano a Marsiglia per sfuggire alle persecuzioni razziali contro gli ebrei. Qui si danno al commercio di olio d’oliva e poi uova, mandando dapprima il figlio a scuola presso un istituto privato cattolico, poi al liceo Thiers. Si di- ploma nel 1913 e l’anno successivo si trasferisce a Ginevra, dove studia Diritto e Letteratura. Nel 1919 si sposa con Elisabeth Brocher, dalla quale ha una figlia ma che muore di cancro a soli cinque anni dal matrimonio. Nel 1925 diventa il direttore della Revue juive di Parigi. Nel 1931 sposa in seconde nozze Marianne Goss, da cui presto divorzia. Durante l’invasione tedesca del maggio 1940 fugge a Bordeaux e poi a Londra, dove si attiva con altri intellettuali rifugiati a favore della fondazione dello stato ebraico di Israele, nel quale però non metterà mai piede. Nel 1944 si sposa per la terza volta. Lavora quindi per il “Comitato intergovernamentale per i rifugiati. Nel 1947 rientra a Ginevra, rinunciando al posto di ambasciatore di Israele per dedicarsi all’attività lette- raria. Nel 1970 viene fatto cavaliere della Legion d’onore, ma poi inizia a soffrire di depressione nervosa che lo porta a voler morire abbandonandosi a un’anoressia volontaria nel 1978, ma non riuscendovi si decise a promuovere la propria opera, pubblicando il Carnet 1978 e lasciandosi intervistare (per esem- pio anche da Bernard Pivot, per la sua famosa trasmissione Apostrophes). L’ultimo suo testo esce nel 1981, scritto per glorificare l’amore verso la moglie (che sentiva ancora travolgente all’età di 86 anni). Per la rottura di una costola a seguito di una caduta, alla quale segue anemia e broncopolmonite, muore nello stesso anno.

OPERE PRINCIPALI: 1921 Paroles juives 1930 Solal 1938 Mangeclous 1954 Le livre de ma mère 1956 Ezéchiel 1968 Belle du Seigneur 1969 Les valeureux 1972 Ô vous, frères humains 1979 Carnets 1978

CONTRIBUTI CRITICI: Gérard Valbert, Albert Cohen, ou le Pouvoir de vie, 1981 Alain Schaffner, Le Goût de l’absolu. L’enjeu sacré de la littérature dans l’œuvre d’Albert Cohen, 1999 Alain Schaffner, Philippe Zard, Albert Cohen dans son siècle, 2003

ANNE CUNEO

ANNE CUNEO, di origine italiana, è nata a Parigi il 6 settembre 1936. È la sorella del cantante e attore Roger Cuneo. All’inizio della guerra, nel 1939, rientra in Italia, a Milano, con la sua famiglia. Dopo la morte del padre, nel 1945, viene ospitata in diversi collegi di religiosi, prima in Italia e poi a Losanna. Nel 1950 va in Inghilterra per apprendere l’inglese; dopo un anno torna in Svizzera e si iscrive all’Università di Losanna alla Facoltà di Lettere. Nella vita svolge diversi mestieri: domestica, telefonista, segretaria, traduttrice, insegnante, giornalista, regista per il cinema. Il suo esordio letterario risale al 1967 con Gravé au diamant. Dal 1998 inizia a scrivere romanzi gialli incentrati sulla figura dell’investigatrice Marie Machiavelli.

OPERE PRINCIPALI: 1967 Gravé au diamant 1969 Mortelle maladie 1972 Poussière du réveil 1978 Passage des Panoramas 1979 Une cuillerée de bleu

402  1979 Une fenêtre sur le 9 novembre 1984 Hôtel Vénus 1985 Le Monde des forains 1987 Benno Besson et Hamlet 1989 Station Victoria 1990 Prague aux doigts de feu 1994 La flûte et les ratonneurs 1995 Au bas de mon rêve 1996 Objets de splendeur 1998 Âme de bronze 1999 D’or et d’oublis 2000 Le sourire de Lisa 2002 Le maître de Garamond 2004 Hôtel des cœurs brisés 2005 Rencontres avec Hamlet 2006 Les corbeaux sur nos plaines 2006 Lacunes de la mémoire 2007 Zaïda

FRANÇOIS DEBLUË

FRANÇOIS DEBLUË è nato a Pully nel 1950; è il nipote dello scrittore Henri Debluë. Trascorre la sua infanzia a Montreux, studia Lettere a Losanna e si dedica all’insegnamento. A partire dal 1979, realizza circa venti opere. Fa parte della generazione che ha rinnovato il modo di fare poesia nella Svizzera romanda.

OPERE PRINCIPALI: 1979 Lieux communs 1983 Faux jours 1985 Travail du temps 1989 Judith et Holopherne 1992 Poèmes de la nuit venue 1998 Figures de la patience, proses et poèmes 1999 Les saisons d’Arlevin 1999 L’embarquement 2000 Demeures de l’ombre 2001 L’arbre de lumière 2001 Naissance de la lumière 2002 Pour l’instant 2004 Courts traités du dévouement 2010 Fausses notes 2010 De la mort prochaine

SYLVIANE DUPUIS

SYLVIANE DUPUIS è nata nel 1956 a Ginevra da padre francese e madre svizzera di origine russa e italiana. Ottiene la laurea in Letteratura Francese nel 1979 seguita da Jean Starobinski. Vive di scrittura e insegnamento. Diversi viaggi hanno caratterizzato la sua vita, principalmente in Grecia, Turchia e Cina. Nel 1988-89 è stata borsista all’Istituto Svizzero di Roma. Dopo aver prestato servizio presso l’Università di Ginevra dal 1997 al 2000; attualmente insegna Letteratura Francese presso un liceo di Ginevra. È membro del comitato della rivista Écriture.

OPERE PRINCIPALI: 1985 D’un Lieu l’autre

403  1985 Creuser la Nuit 1989 Figures d’égarées 1992 Travaux du Voyage 1993 La Seconde Chute ou Godot 1995 Odes brèves 1997 Moi, Maude... ou la malvivante 1998 A quoi sert le théâtre? 1999 La Paresse 2000 Poésie 1985-1989 2000 Géométrie de l’illimité 2001 Etre là 2004 Les enfers ventriloques

FRIEDRICH DÜRRENMATT

FRIEDRICH DÜRRENMATT è nato a Konolfingen il 5 gennaio 1921. La sua infanzia è stata piuttosto difficile — il giovane Dürrenmatt presenta già problemi di alcol nella prima fase della sua vita —, si diploma nel 1941 e studia Filosofia e lingue germaniche a Zurigo e a Berna. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, ispirato dalla lettura di Lessing, Kafka e Brecht, inizia a scrivere racconti brevi e opere teatrali. Il suo esordio in teatro avviene con Es steht geschrieben e provoca uno scandalo che gli vale da subito notorietà anche oltre i confini elvetici. Nel 1947 sposa l’attrice Lotti Geissler. Nei primi anni Cinquanta riesce a vivere di sola scrittura grazie ai romanzi Der Richter und sein Henker e Der Verdacht, che vengono pubblicati a puntate su riviste. Nel 1956 ottiene grande successo con Der Besuch der alten Dame. Il dramma viene rappresentato a New York, Roma, Londra e Parigi e ottiene numerosi ricono- scimenti. Altre opere di spicco sono Die Physiker e Der Meteor, rispetti- vamente degli anni 1962 e 1966. Negli anni Settanta e Ottanta visita gli Stati Uniti, Israele, la Polonia e il campo di concentramento di Auschwitz. Nel 1983 muore sua moglie e nel 1984 si risposa con l’attrice e produttrice Charlotte Kerr. Muore il 14 dicembre 1990 in seguito a un infarto. A Neuchâtel, la città della Svizzera dove l’autore ha vissuto l’ultimo periodo della sua vita, nel 2000 è stato creato il Centre Dürrenmatt, un centro interdisciplinare sorto nei pressi della casa dello scrittore, che raccoglie anche gran parte dei suoi dipinti.

OPERE PRINCIPALI: 1947 Es steht geschrieben 1949 Romulus der Grosse 1952 Die Ehe des Herrn Mississippi 1952 Der Richter und sein Henker 1953 Der Verdacht 1955 Grieche sucht Griechin 1956 Die Panne 1956 Der Besuch der alten Dame 1958 Das Versprechen 1962 Die Physiker 1966 Der Meteor 1985 Minotaurus. Eine Ballade 1985 Justiz

CONTRIBUTI CRITICI: Elisabeth Brock-Sulzer, Friedrich Dürrenmatt. Stationen seines Werkes, 1960 Jan Knopf, Friedrich Dürrenmatt, 1976 Gerhard P. Knapp, Friedrich Dürrenmatt, 1980

404  REMO FASANI

Remo Fasani è nato a Mesocco, nella valle grigionese della Mesolcina, nel 1922. Ha frequentato le scuole elementari e secondarie del suo villaggio e ha proseguito gli studi alla Scuola Magistrale di Coira e alle Università di Zurigo (dove si è laureato) e di Firenze. Ha insegnato alle scuole secondarie di Poschiavo e di Roveredo Grigioni e alla scuola cantonale di Coira. Dal 1962 al 1985 è stato docente di Lingua e Letteratura Italiana all’Università di Neuchâtel. A soli venticinque anni pubblica una raccolta di poesie nelle quali si dimostra autore di vivo talento, capace di individuare senza esitazioni uno dei temi essenziali della sua vocazione: il peso della solitudine dell’uomo e del poeta. Cresce culturalmente alla scuola dei grandi toscani (Dante in primo luogo), quindi dei tedeschi (Hölderlin in particolare), per poi lasciarsi sedurre dal fascino delle filosofie orientali. Una forte vena ecologica lo ha, inoltre, spinto ad assumere atteggiamenti fortemente polemici, soprattutto nella difesa della sua valle natale, che pareva destinata a diventare deposito di ben sgradite scorie radioattive. La prima fase del lavoro poetico di Fasani, dal 1943 fino ai primi anni sessanta, appare contrassegnata da una disposizione idilliaca. La seconda fase segna una svolta nettissima e rientra a pieno titolo in una tradizione di poesia saggistica modellata su esempi lombardi (Parini, in primo luogo) ma non certo immune da altri influssi.

OPERE PRINCIPALI: 1945 Senso dell’esilio 1965 Un altro segno 1971 Qui e ora 1974 Senso dell’esilio. Orme del vivere. Un altro segno 1976 Oggi come oggi 1993 Giornale minimo 1995 Sonetti morali 2000 A Sils. Maria nel mondo

CONTRIBUTI CRITICI: Aino Paasonen, Remo Fasani: montanaro, poeta, studioso di Dante, 2005 Cristina Campo, Un ramo già fiorito: lettere a Remo Fasani, 2010

ANDREA FAZIOLI

ANDREA FAZIOLI è nato nel 1978 e vive a Bellinzona. Nel 1998 ha vinto il Premio Internazionale Chiara giovani. Nel 2004 si è laureato all’Università di Zurigo con una tesi su . È stato cronista per un quotidiano ticinese, il Giornale del Popolo. Attualmente lavora come giornalista per la Radio Svizzera Italiana e come insegnante.

OPERE PRINCIPALI: 2005 Chi muore si rivede 2007 Swisstango 2008 L’uomo senza casa 2009 Come rapinare una banca svizzera 2010 La sparizione

ENRICO FILIPPINI

ENRICO FILIPPINI è nato a Locarno nel 1932 ed è morto a Roma nel 1988. Originario della Vallemaggia, studia a Milano, Berlino e Monaco. Si laurea con una tesi sui movimenti giovanili e le ideologie pedagogiche in Germania tra il 1890 e il 1930. Dal 1959 al 1968 è consulente letterario alla Feltrinelli,

405  passando negli anni del terrorismo alla Bompiani. Si trasferisce a Roma nel 1976, collabora per dodici anni con “La Repubblica“. Una selezione dei quasi cinquecento articoli scritti per il quotidiano viene pubblicata da Einaudi nel 1990, in una raccolta dal titolo La verità del gatto, con una introduzione di Umberto Eco. Traduce pensatori quali Edmund Husserl e Walter Benjamin e narratori di lingua tedesca quali Friedrich Dürrenmatt, Max Frisch e Günter Grass. Oltre all’attività di giornalista e traduttore, Filippini pubblica alcuni racconti che riscuotono notevole successo di critica e pubblico. Feltrinelli li pubblica nel 1991 in un volume dal titolo L’ultimo viaggio.

OPERE PRINCIPALI: 1990 La verità del gatto 1991 L’ultimo viaggio

CONTRIBUTI CRITICI: Guglielmo Volonterio, Il delitto di essere qui: Enrico Filippini e la Svizzera, 1996 Sandro Bianconi (curatore), Enrico Filippini, le neoavanguardie, il tedesco: atti del Convegno di Locarno, 3-4 ottobre 2008, 2009

FELICE FILIPPINI

FELICE FILIPPINI è nato ad Arbedo-Castione nel 1917. È stato scrittore e pittore apprezzato da pubblico e critica. Ha frequentato la Scuola Normale magistrale a Locarno dal 1934 al 1937 e nel 1940 ha sposato la pianista Dafne Salati. Con il romanzo Il signore dei poveri morti vince il Premio Lugano nel 1942. Dal 1949 al 1969 è direttore del servizio parlato della Radio della Svizzera italiana (RSI). Muore a Muzzano nel 1988.

OPERE PRINCIPALI: 1943 Signore dei poveri morti 1947 Racconti del sabato sera 1950 Ragno di sera 1966 Fare il ritratto di Alberto Giacometti

DANTE ANDREA FRANZETTI

DANTE ANDREA FRANZETTI è nato da madre svizzera e padre italiano nel 1959 a Zurigo. Studia Germanistica, Romanistica e Sociologia all’Università di Zurigo. Successivamente insegna italiano in un Ginnasio zurighese. Dal 1994 al 1998 è corrispondente in Italia per il Tagesanzeiger. Attualmente vive tra Zurigo e Roma.

OPERE PRINCIPALI: 1985 Der Großvater 1987 Cosimo und Hamlet 1990 Die Versammlung der Engel im Hotel Excelsior 1993 Das Funkhaus 1996 Liebeslügen 1996 Die Sardinennacht 1998 Vaterland 2000 Curriculum eines Grabräubers 2006 Passion 2008 Mit den Frauen

406  MAX FRISCH

MAX FRISCH nasce a Zurigo nel 1911, figlio di un architetto. Nel 1930 si iscrive all’Università di Zurigo in Germanistica, ma dopo la morte del padre, avvenuta nel 1932, deve interrompere gli studi per motivi finanziari e inizia a lavorare come corrispondente per il giornale Neue Zürcher Zeitung. Tra il 1934 e il 1936 intraprende molti viaggi per l’est ed il sud-est d’Europa. Il suo primo viaggio in Germania lo fa nel 1935. Dal 1936 inizia lo studio di Architettura presso l’Università Tecnica di Zurigo, laureandosi nel 1942. Dopo che nel 1942 vince un concorso di architettura della città di Zurigo per la pianificazione e costruzione di una piscina comunale, che oggi porta il suo nome (Max-Frisch- Bad), apre il suo studio di architettura. Sempre nello stesso anno sposa Gertrud Constanze von Meyenburg. Nel 1943 nasce la figlia Ursula e nel 1944 il figlio Hans Peter. Nel 1947 incontra Bertolt Brecht e Friedrich Dürrenmatt. Nel 1951 una borsa di studio della Fondazione Rockefeller gli permette di trascorrere un anno negli Stati Uniti. Nel 1954 si separa dalla sua famiglia e dopo aver chiuso il suo studio di architettura, nel 1955, inizia a lavorare come libero scrittore. Dal 1958 al 1963 vive a Roma e incontra la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann. Dal 1981 si trasferisce a New York. Muore nel 1991.

OPERE PRINCIPALI: 1934 Jürg Reinhard: Eine sommerliche Schicksalsfahrt 1939 Blätter aus dem Brotsack: Geschrieben im Grenzdienst 1943 J’adore ce qui me brûle oder Die Schwierigen 1945 Nun singen sie wieder 1949 Als der Krieg zu Ende war 1950 Tagebuch 1946-1949 1953 Don Juan oder die Liebe zur Geometrie 1954 Stiller 1957 Homo Faber 1958 Biedermann und die Brandstifter 1961 Andorra 1964 Mein Name sei Gantenbein 1971 Wilhelm Tell für die Schule 1972 Tagebuch 1966-1971 1979 Der Mensch erscheint im Holozän 1989 Schweiz ohne Armee? Ein Palaver 1990 Schweiz als Heimat? Versuch über 50 Jahre

CONTRIBUTI CRITICI: Marcel Reich-Ranicki, Max Frisch. Aufsätze, 1991 Urs Bircher, Vom langsamen Wachsen eines Zorns: Max Frisch 1911- 1955, 1997 Heinz Ludwig Arnold, Was bin ich? Über Max Frisch, 2002 Ingeborg Gleichauf, Jetzt nicht die Wut verlieren. Max Frisch — eine Biografie, 2010

BERTIL GALLAND

BERTIL GALLAND, giornalista ed editore svizzero, nasce il 15 ottobre del 1931 a Leysin. Nato da padre vodese e madre svedese, compie studi di Lettere e Scienze Politiche per poi dedicarsi a una formazione da giornalista negli Stati Uniti tra il 1958 e il 1959. Di ritorno in Svizzera, diventa direttore dei Cahiers de la Renaissance vaudoise, ruolo che ricopre fino al 197, e fonda, con Jacques Chessex, la rivista Écriture. Nel 1971 fonda le Éditions Bertil Galland; diventa, successivamente, reporter per 24 Heures. Nel 1991 partecipa alla creazione di Nouveau Quotidien con Jacques Pilet.

407  OPERE PRINCIPALI: 1960 La machine sur les genoux : Portrait des États-Unis à la fin du règne d’Eisenhower 1972 Les yeux sur la Chine 1979 Retrouver l’Islande 1986 La littérature de la Suisse romande expliquée en un quart d’heure 1988 Lausanne et le pays de Vaud : Suisse = Schweiz = 1991 Princes des marges : la Suisse romande en trente destins d’artistes 1999 Luisella 2005 Fortes Têtes

CHRISTOPH GEISER

CHRISTOPH GEISER è nato nel 1949 a Basilea. Ha studiato Sociologia alle università di Friburgo e Basilea. Diventa giornalista e fonda la rivista letteraria Drehpunkt. Dal 1978 vive come scrittore a Berna. Il suo stile è influenzato da Kafka e Brecht. La tematica dell’omosessualità è ricorrente in quasi tutte le sue opere.

OPERE PRINCIPALI: 1968 Bessere Zeiten 1971 Mitteilung an Mitgefangene 1972 Hier steht alles unter Denkmalschutz 1974 Warnung für Tiefflieger 1975 Zimmer mit Frühstück 1978 Grünsee 1980 Brachland 1982 Disziplinen 1984 Wüstenfahrt 1987 Das geheime Fieber 1992 Das Gefängnis der Wünsche 1993 Wunschangst 1995 Kahn, Knaben, schnelle Fahrt 1998 Die Baumeister 2003 Über Wasser 2008 Wenn der Mann im Mond erwacht. Ein Regelverstoß 2009 Der Angler des Zufalls. Schreibszenen

CONTRIBUTI CRITICI: Martin Schellenberg, Stoffe — Motive — Formen im Werk Christoph Geisers, 1987 Martina Karena Schneider, Das „Coming-Out” der Sprache, 1996 Michael Schläfli, Vom Schlachtfeld zur Oase? Notieren als Schreibverfahren bei Christoph Geiser, 2006

SALOMON GESSNER

SALOMON GESSNER (1730-1788) è stato un poeta e pittore zurighese. Le prime poesie e prose poetiche, oltre a illustrazioni di paesaggi, vengono pubblicate a Zurigo nel 1756 nel suo libro Idyllen; una successiva edizione, comprendente 52 idilli, e pubblicata nel 1772, costituisce la sua opera più importante. Nel 1758 pubblica la prosa lirica Der Tod Abels, con la quale esprime il disagio per le innovazioni portate dal progresso, viste come un pericolo per le tradizioni pastorali. Con tali scritti diventa famoso in tutta Europa dove, del resto, il genere dell’idillio, che il Gessner riprende dalla tradizione classica, in particolare da Teocrito, trova già terreno fertile; le sue opere vengono tradotte nelle principali lingue europee, venendo apprezzate anche da grandi scrittori

408  come Lessing, Herder e Goethe. Come pittore Gessner, oltre a produrre acqueforti in qualità di illustrazioni di opere letterarie, dipinge un centinaio di paesaggi pastorali.

OPERE PRINCIPALI: 1753 Die Nacht 1754 Daphnis 1756 Idyllen. Von dem Verfasser der Daphnis 1758 Der Tod Abels 1762 Evander und Alcimna 1770 Brief über die Landschaftsmahlerey 1772 Neue Idyllen

CONTRIBUTI CRITICI: Maurizio Pirro, Anime floreali e utopia regressiva: Salomon Gessner e la tradizione dell’idillio, Pasian di Prato, Campanotto Editore, 2003.

FRANCIS GIAUQUE

FRANCIS GIAUQUE è nato nel 1934 nel cantone bernese. Terminati gli studi, trova un posto da insegnante di francese a Valence. La realtà provinciale lo attira ma conosce la noia e la depressione che lo porta anche a dei ricoveri in ospedali psichiatrici. Si suicida nella notte tra il 12 e il 13 maggio 1965 all’età di 31 anni.

OPERE PRINCIPALI: 1959 Parler seul 1962 L’Ombre et la nuit 1968 Terre de dénuement 1978 Journal d’enfer

EDMOND GILLIARD

EDMOND GILLIARD nasce a Fiez-sur-Grandson, dove trascorre la sua infanzia, il 10 ottobre 1875. Incontra il suo primo maestro, il poeta Henri Warnery, al Collège Cantonal di Losanna. A 23 anni interrompe i suoi studi per trascorrere un anno in Germania come precettore. Di ritorno a Losanna, si laurea in Lettere. Tra il 1901 e il 1904 soggiorna a Parigi. Incontra il romanziere vodese Edouard Rod. Nel 1904 rientra in Svizzera dove insegna francese in diverse scuole, abbinando a questa attività quella di scrittore. Edmond Gilliard sarà noto come l’anti-Ramuz. Nel 1914 fonda con Paul Budry i Cahiers Vaudois. Muore nel 1969, all’età di 94 anni, a Losanna.

OPERE PRINCIPALI: 1925 Rousseau et Vinet Individus sociaux 1926 Alchimie Verbale 1926 Du Pouvoir des Vaudois 1928 La Passion de la Mère et du Fils 1929 La Croix qui tourne 1942 L’École contre la Vie 1944 Reconnaissance filiale 1947 Métier d’une Vie 1965 La Chasse de Pan

CONTRIBUTI CRITICI: Jeanlouis Cornuz, Reconnaissance d’Edmond Gilliard, 1975

409  FRIEDRICH GLAUSER

FRIEDRICH GLAUSER è nato a Vienna nel 1896. Ha una vita breve e turbolenta: studia tre anni in riformatorio dopo averne passati altrettanti al ginnasio di Vienna. Si iscrive a un collegio di Ginevra ma viene espulso. Si diploma a Zurigo, scappa di casa nel 1921 e si arruola nella Legione Straniera. Vive il resto della sua vita in giro per l’Europa (fa il minatore in Belgio, l’infermiere a Charleroi, l’aiuto-giardiniere in Svizzera). Di natura ribelle, frequenta ospizi, case-alloggio per giovani disagiati e manicomi, luoghi dai quali trae spunto per molti dei suoi romanzi. Viene internato diverse volte in quanto tossicodipen- dente da morfina. La sua opera letteraria risulta divisibile in due filoni distinti: da un lato quello poliziesco legato alla figura del sergente Studer, dall’altro romanzi autobiografici quali Gourrama (1940) e Morphium (1970). Dal suo editore svizzero è stato presentato come il “Simenon svizzero”; ha in comune con lo scrittore belga l’attenzione al doloroso confronto umano che è generato dal delitto e la meticolosa investigazione del motivo che spinge una persona normale a uscire dalla società civile rendendosi colpevole di un omicidio. Sfondo dei suoi romanzi polizieschi è la provincia svizzera di inizio secolo. Muore a Nervi nel 1938.

OPERE PRINCIPALI: 1936 Wachtmeister Studer 1936 Matto regiert 1938 Die Fieberkurve. Wachtmeister Studers neuer Fall 1939 Der Chinese. Wachtmeister Studers dritter Fall 1940 Gourrama. Ein Roman aus der Fremdenlegion 1940 Der Tee der drei alten Damen 1941 Krock & Co. Wachtmeister Studers vierter Fall 1976 Dada, Ascona und andere Erinnerungen 1980 Morphium und autobiographische Texte

CONTRIBUTI CRITICI: Gerhard Saner, Friedrich Glauser. Eine Biographie, 1981 Birgit Kawohl, Friedrich Glauser. Personalbibliographie, 1997 Christa Baumberger: Resonanzraum Literatur. Friedrich Glausers Polyphonie, 2006

JEREMIAS GOTTHELF

JEREMIAS GOTTHELF (pseudonimo di Albert Bitzius) nasce a Morat nel 1797. Vicario protestante di un villaggio nell’Emmental, dedica l’intera esistenza al miglioramento delle condizioni dei suoi contadini; fonda associazioni culturali e istituti di educazione e pubblica dodici romanzi e molti racconti, considerati nulla più che strumenti utili a combattere i mali della blasfemia e del materialismo. Tra i titoli più importanti: Uli der Knecht (Uli il servo) e Uli der Pächter (Uli il mezzadro). Muore a Lützelflüh nel 1854.

OPERE PRINCIPALI: 1837 Der Bauern-Spiegel oder Lebensgeschichte des Jeremias Gotthelf, von ihm selbst beschrieben 1838 Die Wassernoth im Emmental 1838 Wie fünf Mädchen im Branntwein jämmerlich umkommen 1839 Leiden und Freuden eines Schulmeisters 1839 Dursli der Branntweinsäufer oder der heilige Weihnachtsabend 1841 Wie Joggeli eine Frau sucht 1843 Elsi, die seltsame Magd 1844 Anne Bäbi Jowäger haushaltet und wie es ihm mit dem Dokteren geht 1846 Der Geldstag

410  1846 Hans Joggeli der Erbvetter 1846 Uli der Knecht 1849 Uli der Pächter 1851 Zeitgeist und Berner Geist

CONTRIBUTI CRITICI: Karl Fehr, Jeremias Gotthelf (Albert Bitzius), 1985 Hanns Peter Holl, Jeremias Gotthelf. Leben, Werk, Zeit, 1988 Eduard Buess, Das Bild der Frau bei Jeremias Gotthelf, 1997

ANNE-LISE GROBÉTY

ANNE-LISE GROBÉTY nasce a La Chaux-de-Fonds il 29 dicembre 1949. È il suo professore di francese del ginnasio a intravedere in linee qualità di scrittura superiori alla media e a spronarla a continuare nel campo artistico. Si iscrive a Lettere all’Università di Neuchâtel e da allora dedica la sua vita alla scrittura; nel 2000 ottiene il Grand Prix Ramuz- Muore a Neuchâtel il 5 ottobre 2010.

OPERE PRINCIPALI: 1970 Pour mourir en février 1975 Zéro positif 1979 Maternances 1986 Contes-Gouttes 1989 Infiniment plus 1992 Belle dame qui mord 1996 Défense d’entrer et autres nouvelles 2000 Compost blues 2001 Le Temps des Mots à Voix basse 2004 Du mal à une mouche 2006 La corde de mi 2007 Jusqu’à pareil éclat 2008 L’abat-jour

GEORGES HALDAS

GEORGES HALDAS è nato a Ginevra nel 1917 da padre greco e madre svizzera. È morto il 25 ottobre del 2010. Ha studiato Lettere a Ginevra e ha soggiornato poi a Parigi e in Italia. Ha collaborato con Éditions Rencontre e ha pubblicato circa sessanta libri.

OPERE PRINCIPALI: 1942 Cantique de l’Aube 1948 La Voie d’Amour 1952 Chants de la Nuit 1954 Les Poètes malades de la Peste 1956 Le Couteau dans la Plaie 1957 La Peine capitale 1959 Le Pain quotidien 1962 Corps mutilé 1963 Gens qui soupirent, Quartiers qui meurent 1968 Sans Feu ni Lieu 1970 La Maison en Calabre 1974 Poèmes de la grande Usure 1976 Funéraires 1980 Echos d’une Vie 1982 Un Grain de Blé dans l’Eau profonde 1983 Massacre et Innocence

411  1988 Paradis perdu 1989 Orphée errant 1990 La Blessure essentielle 1995 Pâques à Jérusalem 1996 La Légende de Genève 1997 Venu pour dire 1997 Poèmes de Jeunesse 2009 La Russie à travers les écrivains que j’aime 2010 Patrie première

EVELINE HASLER

EVELINE HASLER è nata a Glarus nel 1933. Ha studiato Psicologia e Storia a Friburgo e Parigi, per poi dedicarsi all’insegnamento a San Gallo. Negli anni Sessanta e Settanta ha scritto numerosi libri per bambini e per adolescenti; con il passare del tempo si è dedicata poi anche a un pubblico adulto con opere in versi e in prosa. La trama dei suoi romanzi ha spesso a che fare con la storia svizzera. E’ membro dell’associazione Autorinnen und Autoren der Schweiz.

OPERE PRINCIPALI: 1966 Adieu Paris, adieu Catherine 1967 Komm wieder, Pepino 1973 Ein Baum für Filippo 1975 Denk an mich, Mauro 1978 Die Insel des blauen Arturo 1982 Anna Göldin. Letzte Hexe 1983 Die Katze Muhatze und andere Geschichten 1985 Ibicaba. Das Paradies in den Köpfen 1986 Das Schweinchen Bobo 1991 Die Wachsflügelfrau. Geschichte der Emily Kempin-Spyri 1993 Die Schule fliegt ins Pfefferland 1994 Der Zeitreisende. Die Visionen des Henry Dunant 1997 Die Vogelmacherin. Die Geschichte von Hexenkindern 2002 Spaziergänge durch mein Tessin. Landschaft, Kultur und Küche 2004 Tells Tochter. Julie Bondeli und die Zeit der Freiheit 2007 Stein bedeutet Liebe. Regina Ullmann und Otto Gross

CONTRIBUTI CRITICI: Susanne Volke-Manderscheid, Eveline Haslers Hexenroman “Die Vogel- macherin”, 2000 Aa.vv., Eveline Hasler in Porto. Akten des Workshops über Eveline Hasler in Anwesenheit der Autorin, Faculdade de Letras, Universidade do Porto, 2002

HERMANN HESSE

HERMANN HESSE è nato a Calw nel 1877. Nel 1911 compie un viaggio in India, esperienza che costituisce una delle principali fonti ispiratrici dei suoi romanzi. Trovando inconciliabile con la sua natura di pacifista il nazionalismo dilagante in Germania, decide di trasferirsi prima a Berna e poi, dal 1919, a Montagnola, vicino Lugano, dove compone due capolavori: Klingsors letzter Sommer (1920) e Siddharta (1922), sintesi delle sue riflessioni filosofiche. Nel 1946 Das Glasperlenspiel gli vale l’attribuzione del premio Nobel per la letteratura. In seguito non pubblica più alcuna opera di rilievo. Muore nel 1962.

OPERE PRINCIPALI: 1904 Peter Camenzind 1906 Unterm Rad

412  1910 Gertrud 1912 Roßhalde 1915 Knulp 1919 Demian 1920 Klingsors letzter Sommer 1922 Siddhartha 1927 Der Steppenwolf 1930 Narziß und Goldmund 1932 Die Morgenlandfahrt 1943 Das Glasperlenspiel

CONTRIBUTI CRITICI: Eike Middell, Hermann Hesse. Die Bilderwelt seines Lebens, 1975 Christian Immo Schneider, Hermann Hesse, 1991 Regina Bucher, Mit Hermann Hesse durchs Tessin. Ein Reisebegleiter von Regina Bucher, 2010

LUDWIG HOHL

LUDWIG HOHL è nato a Netstal nel 1904 ed è morto a Ginevra nel 1980. Figlio di Jakob Arnold, un pastore protestante, e di Anna Magdalena Zweifel, dopo aver vissuto a Vienna e in Olanda, dal 1937 fino alla morte si è stabilito a Ginevra, scegliendo come studio una cantina. Indifferente agli avvenimenti della sua epoca, è stato a lungo ignorato dal grande pubblico nonostante l’apprezzamento di Max Frisch, il sostegno di Friedrich Dürrenmatt, gli elogi di Peter Handke e . Importanti riconoscimenti come il Premio Schiller gli sono stati tributati soltanto verso la fine della sua vita.

OPERE PRINCIPALI: 1925 Gedichte 1943 Nächtlicher Weg: Erzählungen 1944 Die Notizen oder Von der unvoreiligen Versöhnung 1956 Vernunft und Güte 1962 Wirklichkeiten 1967 Daß fast alles anders ist 1970 Drei alte Weiber in einem Bergdorf 1975 Bergfahrt 1986 Von den hereinbrechenden Rändern. Nachnotizen. Und: Nachnoti- zen, Anmerkungen 1990 Und eine neue Erde 1992 Mut und Wahl. Aufsätze zur Literatur 1998 Jugendtagebuch 2005 Mitternachtsgesellschaft. Erzählungen

CONTRIBUTI CRITICI: Xaver Kronig, Ludwig Hohl. Seine Erzählprosa mit einer Einführung in das Gesamtwerk, 1972 Werner Fuchs, „Möglichkeitswelt”. Zu Ludwig Hohls Dichtung und Denkformen, 1980 Heinz Ludwig Arnold, Ludwig Hohl, 2004

FRANZ HOHLER

FRANZ HOHLER è nato nel 1943 a Biel; è cresciuto a Olten e ha studiato ad Aarau fino alla maturità, conseguita nel 1963. In seguito ha studiato Germanistica e Romanistica all’Università di Zurigo. È sposato dal 1969 con la psicologa Ursula Nagel. Autore poliedrico, si è cimentato indifferentemente con prosa, narrativa e saggistica.

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OPERE PRINCIPALI: 1967 Das verlorene Gähnen und andere nutzlose Geschichten 1970 Idyllen 1975 Wo? 1977 Der Wunsch, in einem Hühnerhof zu leben 1978 Darf ich Ihnen etwas vorlesen? 1978 Tschipo 1979 Sprachspiele 1985 Tschipo und die Pinguine 1988 Vierzig vorbei 1989 Der neue Berg 1991 Der Mann auf der Insel 1992 Sieben Schöpfungsgeschichten 1995 Die blaue Amsel 1995 Tschipo in der Steinzeit 1998 Die Spaghettifrau 1998 Die Steinflut 2004 Die Torte und andere Erzählungen 2005 52 Wanderungen 2008 Das Ende eines ganz normalen Tages 2009 Mayas Handtäschchen

CONTRIBUTI CRITICI: Michael Bauer e Klaus Siblewski, Franz Hohler: Texte, Daten, Bilder, 1993

THOMAS HÜRLIMANN

THOMAS HÜRLIMANN nasce il 21 dicembre 1950 a Zug. Suo padre Hans Hürlimann ha una brillante carriera politica, è membro del Bundesrat e Thomas è spettatore attento degli intrecci politici che poi ripropone in molte sue opere, prima fra tutte Der große Kater. Dopo aver frequentato il liceo in una fondazione ecclesiastica di Einsiedeln, dal 1971 studia Filosofia a Zurigo e alla Freie Universität di Berlino. Nel 1978, per due anni è assistente alla regia e direttore di produzione allo Schiller-Theater di Berlino. Fa seguito un breve periodo come assistente alla regia al Württembergischen Staatstheater di Stoccarda. Nel 1979 un episodio fondamentale per la vita di Hürlimann: muore, a causa di un cancro, l’amato fratello Matthias. È un episodio che segna pro- fondamente l’anima di Thomas Hürlimann al punto che fungerà da ‘motore ar- tistico’ per la sua carriera di scrittore; la sofferenza provata per questa terribile perdita sarà motivo ricorrente nelle sue opere. Nel 1980 ha debuttato come drammaturgo nei teatri berlinesi e da quel momento vive come libero scrittore.

OPERE PRINCIPALI: 1980 Großvater und Halbbruder 1981 Die Tessinerin 1989 Das Gartenhaus 1991 Der Gesandte 1991 Innerschweizer Trilogie 1992 Die Satellitenstadt 1997 Das Holztheater. Geschichten und Gedanken am Rand 1998 Der große Kater 1998 Das Lied der Heimat 2000 Das Einsiedler Welttheater 2001 Fräulein Stark 2006 Vierzig Rosen

CONTRIBUTI CRITICI:

414  Hans Steinegger, Literaturpreis der Innerschweiz 1992: Thomas Hürli- mann, 1992 Maurizio Basili, Thomas Hürlimann drammaturgo, narratore e saggista, 2007 Hans-Rüdiger Schwab, “darüber ein himmelweiter Abgrund”: zum Werk von Thomas Hürlimann, 2010.

MEINRAD INGLIN

MEINRAD INGLIN è nato a Svitto nel 1893, di umili origini, dedica la sua esistenza all’affinamento delle tecniche narrative. La sua opera più nota è Schweizerspiegel (1938), un affresco della realtà svizzera durante la prima guerra mondiale. Due sono le fonti ispiratrici che si rinvengono nei suoi romanzi: una prospettiva storico-patriottica e un’altra realistico-magica. Muore a Svitto nel 1971.

PRINCIPALI OPERE: 1922 Die Welt in Ingoldau 1925 Wendel von Euw 1925 Über den Wassern 1928 Grand Hotel Excelsior 1928 Lob der Heimat 1933 Jugend eines Volkes. Fünf Erzählungen 1935 Die graue March 1938 Schweizerspiegel 1947 Die Lawine und andere Erzählungen 1952 Ehrenhafter Untergang 1953 Rettender Ausweg, Anekdoten und Geschichten aus der Kriegszeit 1954 Urwang 1958 Verhexte Welt. Geschichten und Märchen 1961 Besuch aus dem Jenseits und andere Erzählungen 1965 Erlenbüel 1973 Notizen des Jägers

CONTRIBUTI CRITICI: Theodor Ernst Wepfer, Das bildende Leben in Meinrad Inglins Werk. Ein systematischer Beitrag zur politischen Pädagogik unter der besonderen Berücksichtigung der politisch-sittlichen Bildung auf funktionalem Wege, 1967 Beatrice von Matt, Meinrad Inglin. Eine Biographie, 1976 Daniel Annen, Natur und Geist in Ingoldau. Eine Untersuchung zur Verarbeitung weltanschaulicher Strömungen in Meinrad Inglins Erstlingsroman, 1985

ISAAK ISELIN

ISAAK ISELIN è nato a Basilea nel 1728; è il filosofo svizzero più importante dell’epoca dell’Illuminismo. È contrario alle idee di Rousseau e concepisce la storia come un processo lineare verso l’umanità. Muore a Basilea nel 1782.

OPERE PRINCIPALI: 1764 Philosophische Muthmassungen über die Geschichte der Menschheit 1770 Vermischte Schriften

CONTRIBUTI CRITICI: Ulrich im Hof, Isaak Iselin und die Spätaufklärung, 1967

415  Sigrid-Ursula Follmann, Gesellschaftsbild, Bildung und Geschlechterordnung bei Isaak Iselin in der Spätaufklärung, 2002 Andreas Urs Sommer, Geschichte als Trost. Isaak Iselins Geschichtsphilosophie, 2002

PHILIPPE JACCOTTET

PHILIPPE JACCOTTET è nato a Moudon il 30 giugno 1925. Dopo gli studi in Lettere all’Università di Losanna, ha vissuto a Parigi per un breve periodo, come corrispondente dell’editore Mermod. Nel 1953 si stabilisce a Grignan, nel Sud della Francia, con la moglie pittrice. Traduttore dal greco, dal tedesco, dall’italiano, dallo spagnolo. È oggi considerato uno dei maggiori poeti europei, più volte candidato al Premio Nobel, autore di un’opera dal lirismo asciutto, che interroga la natura, la morte, l’essere al mondo con una preoccupazione di rigore etico.

OPERE PRINCIPALI: 1953 L’Effraie 1968 L’Entretien des muses 1970 Paysages avec figures absentes 1974 Chant d’En-bas 1974 À la lumière d’hiver 1983 Pensées sous les nuages 1984 La Semaison, Carnets 1954-1967 1990 Cahier de verdure 1991 Requiem 1993 Cristal et fumée 1994 Après beaucoup d’années 1996 La seconde semaison: carnets 1980-1994 2001 Notes du ravin 2002 Une Constellation, tout près 2002 Correspondance, 1942 - 1976 / Philippe Jaccottet, Gustave Roud 2002 Nuages

CONTRIBUTI CRITICI: Jean Luc Steinmetz, Philippe Jaccottet, 2003 Mattia Cavadini, Il poeta ammutolito. Letteratura senza io. Un aspetto della postmodernità poetica: Philippe Jaccottet e Fabio Pusterla, 2004 Patrick Nee, Philippe Jaccottet: à la lumière d’ici, 2008

URS JAEGGI

URS JAEGGI è nato nel 1931 a Solothurn. Ha una formazione da banchiere e ha svolto per cinque anni, dopo il diploma, quella professione. Ha poi studiato Sociologia a Ginevra, Berna e Berlino. Nel 1959 si laurea all’Università di Berna e dal 1959 al 1961 è assistente all’Università di Münster. Nel 1965 ha ottenuto la cattedra di Sociologia. Dal 1985 Urs Jaeggi si dedica anche alla pittura. Vive tra Berlino e Città del Messico.

OPERE PRINCIPALI: 1960 Die gesellschaftliche Elite 1963 Die Wohltaten des Mondes 1964 Die Komplicen 1965 Berggemeinden im Wandel 1966 Der Soziologe 1968 Ein Mann geht vorbei 1968 Ordnung und Chaos

416  1972 Arbeiterklasse und Literatur 1972 Für und wider die revolutionäre Ungeduld 1973 Geschichten über uns 1978 Brandeis 1981 Grundrisse 1981 Was auf den Tisch kommt, wird gegessen 1984 Versuch über den Verrat 1985 Fazil und Johanna 1987 Rimpler 1990 Soulthorn 2002 Kunst 2008 Durcheinandergesellschaft

CONTRIBUTI CRITICI: Irmgard Elsner Hunt, Urs Jaeggi, 1993

FLEUR JAEGGY

FLEUR JAEGGY è nata a Zurigo nel 1940. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in vari collegi svizzeri per poi trasferirsi negli anni Sessanta a Roma. Qui diventa amica della scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann. Dal 1968 vive a Milano e inizia la sua collaborazione con la casa editrice Adelphi. Il successo arriva con I beati anni del castigo, premio Bagutta 1990. All’attività di narratrice affianca quella di traduttrice e saggista. I suoi romanzi sono tradotti in diciotto lingue. Ha scritto anche opere per il teatro. In musica ha collaborato ai testi di canzoni per e Giuni Russo. Proleterka è stato eletto libro dell’anno nel 2003 dal Times Literary Supplement. Fleur Jaeggy è moglie dello scrittore ed editore , sposato a Londra nel 1968.

OPERE PRINCIPALI: 1968 Il dito in bocca 1971 L’angelo custode 1980 Le statue d’acqua 1989 I beati anni del castigo 1994 La paura del cielo 2001 Proleterka 2009 Vite Congetturali

ZOË JENNY

ZOË JENNY è nata a Basilea nel 1974; è figlia dell’editore Matthyas Jenny. Nel 1997 appare il suo primo romanzo Das Blütenstaubzimmer, tradotto in 27 lingue. Nel 1999 scrive, insieme al fratello Caspar, la sceneggiatura del film In Nuce. Ein Filmpoem. Dal 2003 vive a Londra; si è sposata nel 2008 a St. Moritz con il veterinario Matthew Homfray.

OPERE PRINCIPALI: 1997 Das Blütenstaubzimmer 2000 Der Ruf des Muschelhorns 2001 Mittelpünktchens Reise um die Welt 2002 Ein schnelles Leben 2007 Das Portrait 2010 The Sky is Changing

417  HANNA JOHANSEN

HANNA JOHANSEN (vero nome Hanna Margarete Meyer) è nata nel 1939 a Brema. Ha studiato Germanistica e Pedagogia alle università di Marburg e Göttingen. Dal 1967 al 1969 ha vissuto a New York. Nel 1972 si trasferisce con il suo ex-marito, lo scrittore Adolf Muschg, a Zurigo, dove risiede tuttora. Hanna Johansen inizia la sua attività letteraria come traduttrice di autori americani contemporanei; successivamente si dedica alla scrittura di storie per l’infanzia. Risale al 1978 il suo primo romanzo.

OPERE PRINCIPALI: 1978 Die stehende Uhr 1978 Jan und die Großmutter 1980 Trocadero 1982 Die Analphabetin 1983 Bruder Bär und Schwester Bär 1986 Zurück nach Oraibi 1987 Felis Felis 1989 Die Geschichte von der kleinen Gans, die nicht schnell genug war 1992 Dinosaurier gibt es nicht 1993 Über den Himmel 1995 Die Hexe zieht den Schlafsack enger 1998 Bist du schon wach? 1998 Vom Hühnchen, das goldene Eier legen wollte 2000 Maus, die Maus, liest ein langes Buch 2000 Maus, die Maus, liest und liest 2002 Lena 2003 “Omps!” — ein Dinosaurier zu viel 2004 Die Hühneroper 2007 Ich bin hier bloß die Katze 2010 Wenn ich ein Vöglein wär

CONTRIBUTI CRITICI: Elisabeth Stuck, Hanna Johansen. Eine Studie zum erzählerischen Werk 1978-1995, 1997 Vesna Kondric Horvat, Der eigenen Utopie nachspüren. Zur Prosa der deutschsprachigen Autorinnen in der Schweiz zwischen 1970 und 1990, dargestellt am Werk Gertrud Leuteneggers und Hanna Johansens, 2002

GOTTFRIED KELLER

GOTTFRIED KELLER nasce a Zurigo il 19 luglio 1819. Viene considerato il massimo esponente della letteratura svizzera di tutti i tempi. La sua opera si può inquadrare nel filone del realismo borghese. Keller trascorre la giovinezza tra povertà ed emarginazione. Spirito ribelle, nel 1833 si iscrive a una scuola professionale cantonale ma dopo solo un anno viene espulso con l’accusa di aver istigato una sommossa degli studenti. L’accusa, che si rivelerà ingiusta, accresce in lui il carattere scontroso e lo spinge ad abbandonare gli studi in favore della pittura. Prende lezioni dal paesaggista Peter Steiger prima, e del tedesco Rudolf Mayer poi, con esiti modesti. Gottfried inizia a scrivere le sue prime liriche quasi per ripiego. Nel 1840 grazie a una piccola eredità, intraprende un viaggio a Monaco: è un periodo infelice in cui l’artista viene sopraffatto dai debiti. Due anni dopo, quindi, non avendo conseguito risultati per lui apprezzabili, decide di rientrare a Zurigo e dedicarsi alla scrittura. Nel 1848 le autorità cantonali gli conferiscono un primo sussidio che gli permette di recarsi a Heidelberg, dove conosce il filosofo Feuerbach, e in lui avviene una vera e propria rivoluzione che lo porta alla conversione religiosa. I primi anni Cinquanta, grazie a un secondo sussidio che gli permette il trasferimento a Berlino, sono i più prolifici dal punto di vista letterario, soprattutto per la

418  produzione in prosa. Il 14 settembre 1861 viene nominato primo cancelliere della città di Zurigo, nonostante alcune opposizioni interne. Dopo anni di disagi raggiunge finalmente prestigio e sicurezza economica, ricoprirà il suo incarico in maniera esemplare fino al 1876 quando deciderà di dimettersi. Muore il 15 luglio 1890 nella sua Zurigo.

OPERE PRINCIPALI: 1846 Gedichte 1851 Neuere Gedichte 1853 —55 Der grüne Heinrich 1856 Die Leute von Seldwyla 1872 Sieben Legenden 1877 Züricher Novellen 1881 Das Sinngedicht 1883 Gesammelte Gedichte 1886 Martin Salander

CONTRIBUTI CRITICI: Emil Ermatinger, Gottfried Kellers Leben. Mit Benutzung von Jakob Baechtolds Biographie, 1950 Adolf Muschg, Gottfried Keller, 1977 Rainer Würgau, Der Scheidungsprozess von Gottfried Kellers Mutter. Thesen gegen Adolf Muschg und Gerhard Kaiser, 1994 Martin Müller, Gottfried Keller. Personenlexikon zu seinem Leben und Werk, 2007

CHRISTIAN KRACHT

CHRISTIAN KRACHT è nato nel 1966 a Saanen, è uno scrittore e giornalista. A metà degli anni Novanta è stato il successore di Tiziano Terzani come corri- spondente in India per Der Spiegel. Successivamente ha vissuto diversi anni a Bangkok. Attualmente vive con la moglie, la regista Frauke Finsterwalder, a Buenos Aires. Appartiene alla corrente della Popliteratur.

OPERE PRINCIPALI: 1995 Faserland 1998 Ferien für immer 1999 Mesopotamia. Ein Avant-Pop-Reader 1999 Tristesse Royale 2000 Der gelbe Bleistift 2001 1979 2006 Die totale Erinnerung. Kim Jong Ils Nordkorea 2006 New Wave. Ein Kompendium 1999-2006 2007 Metan 2008 Ich werde hier sein im Sonnenschein und im Schatten 2009 Gebrauchsanweisung für Kathmandu und Nepal

CONTRIBUTI CRITICI: Johannes Birgfeld, Claude D. Conter (curatori), Christian Kracht. Zu Leben und Werk. 2009

AGOTA KRISTOF

AGOTA KRISTOF è nata a Csikvánd il 30 ottobre 1935; è una scrittrice ungherese naturalizzata svizzera. Come autrice si è espressa esclusivamente in francese, la sua seconda lingua, che non riuscirà mai a padroneggiare pienamente e senza errori, una circostanza che, nella narrazione autobiografica, la porta a definire se stessa come un’« analfabeta ». Nel 1956, in seguito all’intervento del-

419  l’Armata Rossa in Ungheria per soffocare la rivolta popolare contro l’invasione sovietica, Agota Kristof fugge con il marito e la figlia in Svizzera, a Neuchâtel, dove impara il francese e dove risiede tuttora. Raggiunge il successo inter- nazionale nel 1987, con la pubblicazione de Le grand cahier. L’opera confluirà, insieme a La preuve e Le troisième mensonge, nella Trilogie, il riconosciuto capolavoro letterario di Agota Kristof, stampato in oltre 30 paesi.

OPERE PRINCIPALI: 1972 John et Joe 1977 La Clé de l’ascenseur 1984 Un rat qui passe 1984 L’Heure grise ou le dernier client 1986 Le Grand Cahier 1988 La Preuve 1991 Le Troisième Mensonge 1995 Hier 2004 L’Analphabète 2005 C’est égal 2006 Où es-tu Mathias? 2007 Le monstre: et autres pièces

CONTRIBUTI CRITICI: Valérie Petitpierre, Agota Kristof. D’un exil l’autre, 2000

MONIQUE LAEDERACH

MONIQUE LAEDERACH è nata a Les Brenets nel 1938 ed è morta a Peseux il 17 marzo 2004. Ha studiato pianoforte a livello professionale, prima di laurearsi in Lettere all’Università di Neuchâtel e divenire insegnante di tedesco. Ha tradotto in francese Kafka, Rilke, Mariella Mehr, Erika Burkart ed è stata critico letterario. Dapprima poetessa si è poi dedicata in special modo alla narrativa, a partire da Stéphanie (1970). Il suo romanzo di maggiore successo, La femme séparée, si è visto attribuire il Premio Schiller nel 1983.

OPERE PRINCIPALI: 1970 L’Étain la source 1971 Pénélope 1974 La Ballade des faméliques baladins de la Grande Tanière 1977 J’habiterai mon nom, poème 1978 Jusqu’à ce que l’été devienne une chambre 1978 Stéphanie 1982 La Partition 1982 La Femme séparée 1986 Trop petits pour Dieu 1990 J’ai rêvé Lara debout 1998 Si vivre est tel 1999 La trahison 2000 Je n’ai pas dansé dans l’île 2001 L’Ombre où m’attire ta main 2001 Ce chant mon amour 2002 Les Noces de Cana 2003 Flèche dérobée au vent

CHARLES-FRANÇOIS LANDRY

CHARLES-FRANÇOIS LANDRY è nato a Losanna nel 1909. Muore a Vevey nel 1973. Poeta e drammaturgo, si impone soprattutto con l’originalità della sua opera narrativa, che comprende 7 volumi di novelle, memorie e romanzi di

420  ambiente vodese e provenzale: Diégo (1938), Baragne (1939), Les grelots de la mule (1948), Provence (1951), Suzan (1955), Petit Bar Mistral (1969). Pub- blica anche biografie, saggi e romanzi storici. Nel 1974 è apparsa postuma la raccolta poetica Et commenter la pierre.

OPERE PRINCIPALI: 1929 Imagerie 1932 Contrepoisons 1937 Un grand morceau de paradis 1937 La journée chez Mercier 1938 Diego 1939 Baragne 1940 Bord du monde 1941 La brume de printemps 1942 Le merle de novembre 1942 Le temps des amandiers 1947 Le pavé de Paris : (ainsi s’en vont les jours!) 1948 Basilida : petit roman de la jeunesse et de la plus douce mélancolie 1948 Les grelots de la mule 1949 Mon pauvre frère Judas 1950 La devinaize 1951 Le ciel d’eau 1951 Provence 1951 L’orgue de barbarie 1954 Tamyre ou les exigences de l’amour 1955 Suzan 1964 Les étés courts 1969 Moissons et vendanges 1970 L’affaire Henri Froment 1974 Et commenter la pierre

JOHANN KASPAR LAVATER

JOHANN KASPAR LAVATER è nato a Zurigo nel 1741 ed è morto, colpito inavvertitamente da un colpo di fucile, nella stessa città nel 1801. È stato uno scrittore, filosofo e teologo. Pastore protestante di confessione zwingliana, Lavater partecipa attivamente alla vita culturale del suo tempo, sia attraverso i suoi scritti, sia intrattenendo rapporti epistolari con i maggiori pensatori suoi contemporanei. Influenzato dalla lettura di Gottfried Leibniz, Charles Bonnet e Jean-Jacques Rousseau, Lavater cerca di combinare le sue esigenze pietistiche con la cultura razionale.

OPERE PRINCIPALI: 1762 Der ungerechte Landvogd 1769 Drey Fragen von den Gaben des Heiligen Geistes 1771 Geheimes Tagebuch von einem Beobachter seiner selbst 1772 Von der Physiognomik 1776 Abraham und Isaak 1780 Jesus Christus oder Die Zukunft des Herrn 1786 Nathanael 1793 Regeln für Kinder 1793 Reise nach Kopenhagen im Sommer 1793 1794 Joseph von Arimathia 1798 [Ein] Wort eines freyen Schweizers an die grosse Nation

CONTRIBUTI CRITICI: Horst Weigelt (curatore), Bibliographie der Werke Lavaters. Verzeichnis der zu seinen Lebzeiten im Druck erschienen Schriften, 2001

421  Tilman Hannemann, Die Bremer Magnetiseure. Ein Traum der Aufklärung, 2007 Franz Wegener, Lavater in Barth, 2008

GERTRUD LEUTENEGGER

GERTRUD LEUTENEGGER è nata nel 1948 a Schwyz, dove ha vissuto la sua infanzia. Si è poi spostata in diverse località della Svizzera italiana e francese. Ha studiato come regista all’Accademia di Zurigo e nel 1978 è assistente del regista Jürgen Flimms. Dopo numerosi viaggi e soggiorni a Firenze e Berlino, ha vissuto in Giappone. Oggi vive a Zurigo.

OPERE PRINCIPALI: 1975 Vorabend 1977 Ninive 1980 Lebewohl. Gute Reise. Ein dramatisches Poem 1981 Wie in Salomons Garten. Gedichte 1981 Gouverneur 1983 Komm ins Schiff. Dramatisches Poem 1985 Kontinent 1985 Das verlorene Monument 1988 Meduse 1994 Acheron 1999 Sphärenklang. Dramatisches Poem 2004 Pomona 2006 Gleich nach dem Gotthard kommt der Mailänder Dom 2008 Matutin

CONTRIBUTI CRITICI: Eve Pormeister, Grenzgängerinnen. Gertrud Leutenegger und die schreibende Nonne Silja Walter aus der Schweiz, 2010

CHARLES LEWINSKY

CHARLES LEWINSKY è nato nel 1946 a Zurigo. Ha studiato Germanistica e Teatro a Zurigo e Berlino. È stato assistente del regista Fritz Kortner e, in se- guito, drammaturgo e regista in diversi teatri, nonché collaboratore dei pro- grammi culturali della televisione svizzera. Nel 2001 ottiene il Premio Schiller per il romanzo Johannistag.

OPERE PRINCIPALI: 1984 Hitler auf dem Rütli 1985 Galaktische Gartenzwerge 1991 Mattscheibe 1992 Der gute Doktor Guillotin 1997 Der Teufel in der Weihnachtsnacht 2000 Ganz e feini Familie 2000 Johannistag 2001 Freunde, das Leben ist lebenswert 2004 Abdankung 2005 Ein ganz gewöhnlicher Jude 2006 Heimat, Sweet Heimat 2007 Einmal Erde und zurück. Der Besuch des alten Kindes 2007 Melnitz 2008 Zehnundeine Nacht 2009 Doppelpass. Ein Fortsetzungsroman 2010 Ein Heimspiel

422  HUGO LOETSCHER

HUGO LOETSCHER nasce a Zurigo nel 1929. Dopo la maturità ha studiato Scienze Politiche, Sociologia, Economia e Lettere nelle Università di Zurigo e Parigi. Nel 1956 ottiene il titolo di dottore di ricerca in Lettere con una tesi sulla filosofia politica in Francia dopo il 1945. In seguito lavora come critico letterario per il giornale Neue Zürcher Zeitung e per il settimanale Weltwoche. Dagli anni Sessanta intraprende lunghi viaggi nell’Europa del Sud e in Estremo Oriente. A partire dagli anni Ottanta si aggiungono diversi incarichi in qualità di docente ospite di poetica. Hugo Loetscher conosce Friedrich Dürrenmatt e il pittore Varlin. I tre sono buoni amici e collaborano strettamente. Le opere di Hugo Loetscher si basano spesso sulle sue esperienze di viaggio e includono elementi autobiografici. Oltre ai reportages di viaggio l’autore ha scritto romanzi, saggi, opere di teatro e favole. Dopo la morte di Friedrich Dürrenmatt nel 1990, Loetscher viene querelato dalla vedova Charlotte Kerr che lo accusa di aver scritto un testo sulle esequie del celebre scrittore in cui ferisce i suoi diritti della personalità. Kerr critica alcuni dettagli descritti, come le mani congiunte della salma esposta o la presenza di un libro di Stephen King sul comodino del defunto o ancora l’affermazione che in chiesa lei avrebbe avuto bisogno di essere sorretta. Secondo la vedova Loetscher si ricorda male. Dürrenmatt era ateo e come tale non avrebbe mai congiunto le mani. Inoltre lei non si è mai lasciata sorreggere in vita sua. Loetscher, dal canto suo, ha affermato che era esistito un disegno del defunto su cui le mani erano congiunte. Kerr l’aveva richiesto e poi bruciato. Loetscher è stato assolto. Muore a Zurigo nel 2009.

OPERE PRINCIPALI: 1963 Abwässer 1967 Noah 1969 Zehn Jahre Fidel Castro 1975 Der Immune 1976 Die Entdeckung der Schweiz und anderes 1979 Wunderwelt 1982 Herbst in der Grossen Orange 1988 Vom Erzählen erzählen 1999 Die Augen des Mandarin 2002 Der Buckel 2003 Lesen statt klettern 2004 Es war einmal die Welt 2009 War meine Zeit meine Zeit

CONTRIBUTI CRITICI: Romey Sabalius, Die Romane Hugo Loetschers im Spannungsfeld von Fremde und Vertrautheit, 1995 Jeroen Dewulf, Hugo Loetscher und die “portugiesischsprachige Welt”, 1999 Jeroen Dewulf, In alle Richtungen gehen. Reden und Aufsätze über Hugo Loetscher, 2005

CARL ALBERT LOOSLI

CARL ALBERT LOOSLI è tra i più importanti e significativi intellettuali svizzeri della prima metà del Novecento. Originario del villaggio di Sumiswald nell’Emmental, nato nel 1877 e morto nel 1959, lo scrittore, pubblicista e saggista bernese trascorre gran parte della propria esistenza nel sobborgo bernese di Bümpliz, ai margini della vita civile e lontano dai centri del potere intellettuale. La sua vastissima opera, che comprende tra l’altro romanzi, racconti, poesie dialettali e moltissimi scritti sul tema dell’educazione e del disagio giovanile, è stata oggetto fin da subito di una sorta di boicottaggio che è

423  durato anche oltre la morte di Loosli. Solo di recente, a quasi cinquant’anni dalla sua morte, viene offerta la possibilità di scoprire e apprezzare la sua opera. Rotpunkt Verlag di Zurigo ha infatti pubblicato in sette volumi le opere complete di Loosli, nell’ambito di un progetto editoriale portato a termine nella primavera del 2009, a cinquant’anni esatti dalla morte dello scrittore.

OPERE PRINCIPALI: 1903 Reiseskizzen und Erinnerungen 1906 Bümpliz und die Welt 1912 Ist die Schweiz regenerationsbedürftig? 1914 Was der kleine Peterli an der Landesausstellung gesehen hat und wie er es zu Hause seinen Geschwistern erzählt 1915 Schweizerische Zukunftspflichten 1917 Wir Schweizer und unsere Beziehungen zum Ausland 1917 Ausländische Einflüsse in der Schweiz 1918 Was ich in England sah 1927 Die schlimmen Juden! 1930 Die Juden und wir 1938 Schweizerdeutsch. Glossen zur schweizerischen Sprachbewegung

CONTRIBUTI CRITICI: Erwin Marti, Carl Albert Loosli 1877-1959, 3 vol., 1996-2009.

JEAN MARC LOVAY

JEAN MARC LOVAY è nato a Sion nel 1948. Abbandona improvvisamente gli studi a 16 anni per viaggiare in Asia. Torna periodicamente in Svizzera. Dal 1972 è giornalista a Berna. Incoraggiato dalla Fondazione Pro Helvetia è am- basciatore della letteratura romanda in diversi paesi e pubblica raccolte dei discorsi che tiene nelle sue conferenze.

OPERE PRINCIPALI: 1976 Les régions céréalières 1979 Le baluchon maudit 1980 Polenta 1984 La tentation de l’Orient 1985 Le convoi du colonel Fürst 1987 Conférences aux antipodes 1990 Un soir au bord de la rivière 1994 Le Valais en mouvement 1996 La négresse et le chef des avalanches et autres récits 1998 Aucun de mes os ne sera troué pour servir de flûte enchantée 2002 Asile d’azur 2004 Midi solaire 2004 Epître aux martiens 2008 Réverbération 2009 Tout là-bas avec Capolino

CONTRIBUTI CRITICI: Jérôme Meizoz, Le toboggan des images, lecture de Jean-Marc Lovay, 1994

ELLA MAILLART

ELLA MAILLART è nata a Ginevra nel 1903. Nel 1930, aiutata finanziariamente dalla vedova di Jack London, parte per Mosca. Due anni dopo pubblica il suo primo libro: Parmi la jeunesse russe. Nel 1932 viaggia attraverso il Turkestan

424  russo. Il racconto di quel viaggio diventa il suo secondo libro: des monts célestes aux sables rouges. Nel 1935 affronta, assieme a Peter Fleming, una traversata di sette mesi della Cina, da Pechino verso il Kashmir, attraverso i deserti dell’Asia centrale. Nel giugno del 1939 parte dalla Svizzera alla volta dell’Iran in compagnia di Annemarie Schwarzenbach. Muore nel 1997.

OPERE PRINCIPALI: 1932 Parmi la jeunesse russe - De Moscou au Caucase 1934 Des Monts célestes aux sables rouges 1937 Oasis interdites - De Pékin au Cachemire 1947 La Voie cruelle 1951 Ti-puss ou l’Inde avec ma chatte 1951 Croisières et caravanes

CONTRIBUTI CRITICI: Anne Deriaz, Chère Ella - Elégie pour Ella Maillart, 1998 Olivier Weber, Je suis de nulle part - Sur les traces d’Ella Maillart, 2003 Amandine Roche, Nomade sur la voie d’Ella Maillart, 2003

CHRISTOPH MARTHALER

CRISTOPH MARTHALER è nato a Erlenbach (Zurigo) nel 1951. Musicista di formazione, i suoi primi contatti con il teatro avvengono proprio grazie alla musica: per dieci anni Marthaler compone accompagnamenti per opere teatrali ad Amburgo, Monaco, Bonn e Zurigo. Trascorre poi due anni nella politicamente bollente Parigi del 1968 e lì si avvicina sempre più al teatro seguendo gli insegnamenti di Jacques Lecoq. Dal 2000 al 2004 dirige lo Schauspielhaus di Zurigo insieme all’autrice di testi teatrali Stefanie Carp.

OPERE PRINCIPALI: 1980 Indeed. Ein Interieur 1985 Große Worte Hymne. Ein Impromptu für Chor, Orchester, sechs bedeutende Männer und einen blinden Passagier 1989 Wenn das Alpenhirn sich rötet, tötet, freie Schweizer, tötet 1990 Stägeli uf, Stägeli ab, juhee! 1992 Amora 1993 Murx den Europäer! Murx ihn! Murx ihn! Murx ihn! Murx ihn ab! 1994 Sucht / Lust 1996 Lina Böglis Reise 1996 Straße der Besten. Ein Rundgang 1999 Die Spezialisten. Ein Überlebenstanztee 2000 Hotel Angst 2003 Groundings 2004 O. T. Eine Ersatzpassion 2005 Die Fruchtfliege 2007 Sauser aus Italien. Eine Urheberei 2007 Platz Mangel 2008 Das Theater mit dem Waldhaus

CONTRIBUTI CRITICI: Klaus Dermutz, Christoph Marthaler. Die einsamen Menschen sind die besonderen Menschen, 2000 David Roesner, Theater als Musik. Verfahren der Musikalisierung in chorischen Theaterformen bei Christoph Marthaler, Einar Schleef und Robert Wilson, 2002

425  HUGO MARTI

HUGO MARTI è nato a Basilea nel 1893. Ha studiato Giurisprudenza e Germanistica. Dal 1922 lavora come redattore per Der Bund. Apprezzato come autore dalla pungente ironia, muore a soli 44 anni a causa della tubercolosi.

OPERE PRINCIPALI: 1921 Beiträge zu einem vergleichenden Wörterbuch der deutschen Rechtssprache, auf Grund des Schweizerischen Zivilgesetzbuches 1922 Wortregister zum Schweizerischen Zivilgesetzbuch 1922 Das Haus am Haff. Erzählung 1922 Das Kirchlein zu den sieben Wundern 1923 Balder. Sieben Nächte 1925 Der Kelch. Gedichte 1925 Jahresring. Ein poetischer Roman voll Nordlandzauber 1926 Rumänisches Intermezzo. Buch der Erinnerung 1928 Rumänische Mädchen. Zwei Novellen 1928 Notizblätter von Bepp 1932 Die Herberge am Fluss. Ein Spiel 1935 Davoser Stundenbuch 1936 Eine Kindheit 1937 Der Jahrmarkt im Städtlein

CONTRIBUTI CRITICI: Carl Günther, Hugo Marti. Mensch und Dichter, 1938

KURT MARTI

KURT MARTI nasce a Berna nel 1921. Conclusi gli studi classici, si iscrive per due semestri alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Berna, prima di passare alla Facoltà di Teologia, prima all’Università di Berna e poi a quella di Basilea. Nel 1950 sposa Hanni Morgenthaler aus Langenthal da cui ha quattro figli. Dal 1983 vive come scrittore.

OPERE PRINCIPALI: 1959 Boulevard Bikini 1959 Republikanische Gedichte 1963 Gedichte am Rand 1966 Die Schweiz und ihre Schriftsteller — die Schriftsteller und ihre Schweiz 1971 Heil-Vetia. Etwas wie ein Gedicht 1975 Meergedichte, Alpengedichte 1981 Bürgerliche Geschichten 1987 Mein barfüßig Lob 1987 Nachtgeschichten 1989 Die gesellige Gottheit. Ein Diskurs 1991 Der Geiger von Brig. Helvetische Jubelgedichte 1999 Kleine Zeitrevue. Erzählgedichte. 2003 Der Traum geboren zu sein. Ausgewählte Gedichte 2004 Zoé Zebra. Neue Gedichte 2005 Gott im Diesseits. Versuche zu verstehen 2010 Heilige Vergänglichkeit. Spätsätze

CONTRIBUTI CRITICI: Elisabeth Grözinger, Dichtung in der Predigtvorbereitung. Zur homile- tischen Rezeption literarischer Texte — dargestellt am Beispiel der “Predigtstudien” (1968-1984) unter besonderer Berücksichtigung von Bertolt Brecht, Max Frisch und Kurt Marti, 1990

426  Ernst Rudolf Rinke, Der Weg kommt, indem wir gehen. Theologie und Poesie der Zärtlichkeit bei Kurt Marti, 1990 Christof Mauch, Kurt Marti: Texte — Daten — Bilder, 1991

PLINIO MARTINI

PLINIO MARTINI è nato a Cavergno il 4 agosto 1923 ed è morto nella stessa località il 6 agosto 1979. Insegnante alle scuole di Cavergno, è tutt’ora, anche a molti anni dalla sua scomparsa, uno degli scrittori più conosciuti e amati della Svizzera italiana. Nel 1956 è stato tra i fondatori della rivista ProVallemaggia. Le sue opere di maggior successo sono Il fondo del sacco e Requiem per zia Domenica, pubblicati in più edizioni e tradotti anche in altre lingue. La sua pro- duzione letteraria ha suscitato lusinghieri apprezzamenti in critici come Gio- vanni Pozzi, Pietro Gibellini e Carlo Bo. Ha contribuito a creare per sé l’imma- gine dell’« anti Giuseppe Zoppi », lo scrittore convallerano della generazione precedente e, quindi, dello scrittore anti-idillio. In realtà si tratta di incompa- tibilità ideologica fra un uomo di temperamento bonario e borghese (lo Zoppi) e il suo temperamento di denuncia neorealista-sociologico e intransigente.

OPERE PRINCIPALI: 1951 Paese così 1953 Diario forse d’amore 1956 Storia di un camoscio 1962 Acchiappamosche e il maiale 1970 Il fondo del sacco 1975 Le catene 1976 Requiem per zia Domenica 1979 Delle streghe e d’altro 1999 Nessuno ha pregato per noi

CONTRIBUTI CRITICI: Flavio Medici, A trent’anni dalla morte per rileggere Plinio Martini, 2009

PETER VON MATT

PETER VON MATT è nato a Lucerna nel 1937, è un germanista svizzero. Ha studiato Germanistica, Anglistica e Storia dell’Arte a Zurigo e si è laureato con Emil Staiger con una tesi su Franz Grillparzer. Dal 1976 al 2002 ha insegnato Letteratura Tedesca Contemporanea all’Università di Zurigo. È membro della Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung di Darmstadt. È sposato con la critica letteraria Beatrice von Matt-Albrecht e vive vicino Zurigo.

OPERE PRINCIPALI: 1965 Der Grundriss von Grillparzers Bühnenkunst 1971 Die Augen der Automaten. E.T.A. Hoffmanns Imaginationslehre als Prinzip seiner Erzählkunst 1983 ... fertig ist das Angesicht. Zur Literaturgeschichte des menschlichen Gesichts 1989 Liebesverrat — Die Treulosen in der Literatur 1994 Das Schicksal der Phantasie. Studien zur deutschen Literatur 1995 Verkommene Söhne, mißratene Töchter. Familiendesaster in der Literatur 1998 Die verdächtige Pracht. Über Dichtung und Gedichte 2001 Die tintenblauen Eidgenossen. Über die literarische und politische Schweiz 2003 Öffentliche Verehrung der Luftgeister

427  2006 Die Intrige. Theorie und Praxis der Hinterlist 2007 Das Wilde und die Ordnung. Zur deutschen Literatur 2007 Der Entflammte. Über 2009 Wörterleuchten. Kleine Deutungen deutscher Gedichte

MARIELLA MEHR

MARIELLA MEHR è nata a Zurigo nel 1947; appartenente alla stirpe dei Jenisch, come tanti altri figli del “popolo errante”, è stata vittima di persecuzioni in Svizzera: tolta alla madre nella primissima infanzia, passata per famiglie affidatarie, orfanotrofi e istituti psichiatrici, è stata soggetta a violenze di ogni genere, compreso l’elettroshock, e, come già successo a sua madre, a diciotto anni è stata resa sterile e le è stato sottratto il figlio. Autrice di romanzi, opere per il teatro e poesie, dal 1996 vive in Toscana. La sua letteratura è una lotta permanente contro l’intolleranza, il razzismo e la discriminazione.

OPERE PRINCIPALI: 1983 In diesen Traum schlendert ein roter Findling 1984 Das Licht der Frau 1987 Kinder der Landstrasse: ein Hilfswerk, ein Theater und die Folgen 1990 Steinzeit 1990 RückBlitze 1994 Zeus, oder, Der Zwillingston 1995 Daskind 1998 Nachrichten aus dem Exil 1998 Brandzauber 2001 Widerwelten 2002 Angeklagt 2003 Das Sternbild des Wolfes

NIKLAUS MEIENBERG

NIKLAUS MEIENBERG è nato a San Gallo nel 1940 ed è morto suicida a Zurigo nel 1993; è una delle figure più controverse della Svizzera del secondo Novecento. È stato corrispondente da Parigi della Weltwoche e collaboratore del Tages-Anzeiger fino al 1976.

OPERE PRINCIPALI: 1974 Reportagen aus der Schweiz 1976 Das Schmettern des gallischen Hahns. Reportagen aus Frankreich 1977 Die Erschiessung des Landesverräters Ernst S. 1980 Es ist kalt in Brandenburg. Ein Hitler-Attentat 1981 Die Erweiterung der Pupillen beim Eintritt ins Hochgebirge. Poesie 1966-1981 1983 Vorspiegelung wahrer Tatsachen 1985 Der wissenschaftliche Spazierstock 1986 Ein ausschweifendes Lesebuch 1987 Die Welt als Wille & Wahn. Elemente zur Naturgeschichte eines Clans 1989 Vielleicht sind wir morgen schon bleich und tot 1991 Weh unser guter Kaspar ist tot 1992 Geschichte der Liebe und des Liebäugelns 1993 Zunder. Überfälle, Übergriffe, Überbleibsel 2000 Reportagen 1 & 2 2006 St. Fiden — Paris — Oerlikon

428  CONTRIBUTI CRITICI: Martin Durrer und Barbara Lukesch (curatori), Niklaus Meienberg als Anlass, 1988 Christof Stillhard, Meienberg und seine Richter. Vom Umgang der Deutschschweizer Presse mit ihrem Starschreiber, 1992 Aline Graf, Der andere Niklaus Meienberg. Aufzeichnungen einer Geliebten, 1998 Marianne Fehr, Meienberg. Lebensgeschichte des Schweizer Journalisten und Schriftstellers, 1999 Klemens Renoldner, Hagenwil-les-deux-Eglises. Ein Gespräch mit Niklaus Meienberg, 2003

GERHARD MEIER

GERHARD MEIER è nato nel 1917 a Niederbipp ed è morto nel 2008 a Langenthal. Ha una formazione tecnica. È autore di romanzi, racconti e poesie. Secondo la critica il suo stile ricorda quello di Robert Walser e Adalbert Stifter.

OPERE PRINCIPALI: 1964 Das Gras grünt 1967 Im Schatten der Sonnenblumen 1969 Kübelpalmen träumen von Oasen 1971 Es regnet in meinem Dorf 1974 Der andere Tag 1976 Der Besuch 1977 Der schnurgerade Kanal 1979 Toteninsel 1982 Borodino 1985 Die Ballade vom Schneien 1989 Signale und Windstöße 1990 Land der Winde 1995 Das dunkle Fest des Lebens 2005 Ob die Granatbäume blühen

CONTRIBUTI CRITICI: Fernand Hoffmann, Heimkehr ins Reich der Wörter. Versuch über den Schweizer Schriftsteller Gerhard Meier, 1982 Dorota Sośnicka, Wie handgewobene Teppiche. Die Prosawerke Gerhard Meiers,1999 Jan Watrak, Gerhard Meiers Lyrik und Kurzprosa, 2002

HERBERT MEIER

HERBERT MEIER è nato a Solothurn nel 1928.Compie studi umanistici presso le università di Basilea, Vienna e Friburgo, dove si laurea con una tesi sui drammi di Ernst Barlach. Successivamente lavora come insegnante e lettore a Parigi e Poitiers. Al suo ritorno in patria si afferma come drammaturgo e attore al teatro di Biel. Dal 1955 vive di sola scrittura e risiede a Zurigo. Dal 1994 al 1998 ha condotto sulla televisione svizzera la trasmissione “Sternstunde Philosophie”.

OPERE PRINCIPALI: 1953 Ejiawanoko 1954 Die Dramen Barlachs 1956 Herodias tanzt noch 1956 Dem unbekannten Gott 1963 Der verborgene Gott 1963 Verwandtschaften

429  1965 Mit der Sprache leben 1969 Sequenzen 1971 Hirtengeschichte 1973 Von der Kultur 1983 Ophelia 1984 Die fröhlichen Wissenschafter 1987 Das Leben ist Traum 1991 Mythenspiel 1994 Über Tugenden 2003 Gesammelte Gedichte 2004 Denk an Siena

FELICE MENGHINI

FELICE MENGHINI è nato a Poschiavo nel 1909. A 14 anni lascia la valle per intraprendere gli studi a Milano e a Monza. Tornato nei Grigioni nel 1930, entra nel Seminario teologico di Coira dal quale esce sacerdote nel 1933. Dopo qualche anno di attività pastorale, a San Vittore, in Mesolcina e a Poschiavo, si iscrive all’Università del Sacro Cuore di Milano, conseguendovi, nel 1942, la laurea in Lettere. La passione per la scrittura si esprime molto presto, nel 1933, con la pubblicazione di una raccolta di prose sulla sua amata valle, Leggende e fiabe di Val Poschiavo, ma quella per la poesia risulta assai più intensa. Nel 1938 esce la sua prima raccolta poetica dal titolo Umili cose, un libro segnato da toni ancora fortemente pascoliani. Menghini rimane vittima di un tragico incidente di montagna il 10 agosto 1947, a soli 38 anni.

OPERE PRINCIPALI: 1933 Leggende e fiabe di Val Poschiavo 1938 Umili cose 1943 Parabola e altre poesie 1946 Esplorazioni

CONTRIBUTI CRITICI: Adelina Ferrini Brunetti, Le prose e le poesie di Felice Menghini, 1995 Remo Fasani, Felice Menghini: poeta, prosatore e uomo di cultura, 1995 Andrea Paganini, Lettere sul confine: scrittori italiani e svizzeri in corrispondenza con Felice Menghini (1940-1947), 2007

JACQUES MERCANTON

JACQUES MERCANTON è nato a Losanna nel 1910, è probabilmente il più cosmopolita degli scrittori svizzeri francofoni. Dopo aver studiato in Francia, Gran Bretagna, Spagna, Cecoslovacchia, ed essere stato lettore all’università di Firenze, diventa professore di letteratura all’università di Losanna. Collabo- ratore di Joyce, amico di Thomas Mann, Mercanton è autore di vari romanzi, racconti e saggi letterari e musicali. Ha avuto il raro onore di vedere pubblicata in vita la propria opera omnia in undici volumi presso le Éditions de l’Aire di Vevey. Muore a Losanna nel 1996.

OPERE PRINCIPALI: 1942 Le Secret de vos coeurs 1942 Thomas l’Incrédule 1947 Poètes de l’univers 1948 Le Soleil ni la mort 1949 Christ au désert 1951 La Joie d’amour 1954 Maroc, terre et ciel

430  1956 Celui qui doit venir 1957 Andalousie 1962 De Peur que vienne l’oubli 1967 La Sibylle 1974 L’Été des Sept-Dormants 1980 L’Amour dur 1981 Thomas l’incrédule 1985 Ceux qu’on croit sur parole 1986 L’Ami secret et l’enfant mystérieux

CONTRIBUTI CRITICI: Jean Romain, Présence de Jacques Mercanton, 1989 Jean Romain, Jacques Mercanton, un univers romanesque, 1991 Brooks La Chance, Jacques Mercanton, voix de l’Europe secrète, 2010

PASCAL MERCIER

PASCAL MERCIER è lo pseudonimo del docente di Filosofia dell’Università di Berlino Peter Bieri, nato a Berna nel 1944. Ha scritto tre romanzi, aggiu- dicandosi nel 2007 il Premio Grinzane Cavour per la narrativa straniera.

OPERE PRINCIPALI: 1995 Perlmanns Schweigen 1998 Der Klavierstimmer 2004 Nachtzug nach Lissabon 2007 Lea

FELIX METTLER

FELIX METTLER è nato nel 1945 ad Adliswil nel cantone zurighese. Ha studiato veterinaria e per molti anni ha lavorato presso l’Istituto per patologie veterinarie dell’Università di Zurigo. Il suo romanzo poliziesco Der Keiler ha riscosso un buon successo ed è stato tradotto anche in inglese e in italiano.

OPERE PRINCIPALI: 1990 Der Keiler 1994 Made in Africa 2009 Der Fehldruck

CONRAD FERDINAND MEYER

CONRAD FERDINAND MEYER è nato a Zurigo nel 1825 da una famiglia del patriziato zurighese. Risente dell’educazione calvinista impartitagli dalla madre. Termina la sua vita irrequieta in una casa di cura per malati mentali a Kilchberg nel 1898. Meyer, insieme a Keller e a Gotthelf, è considerato uno dei tre grandi esponenti del realismo svizzero. La sua produzione comprende numerose Balladen a sfondo storico e poesie di estrema plasticità, in cui Meyer tende a esprimersi in simboli oggettivi.

OPERE PRINCIPALI: 1864 Zwanzig Balladen von einem Schweizer 1873 Das Amulett 1876 Jürg Jenatsch 1878 Der Schuß von der Kanzel 1880 Der Heilige

431  1882 Plautus im Nonnenkloster 1882 Gustav Adolfs Page 1883 Das Leiden eines Knaben 1884 Die Hochzeit des Mönchs 1885 Die Richterin 1887 Die Versuchung des Pescara 1891 Angela Borgia

CONTRIBUTI CRITICI: Tamara S. Evans, Formen der Ironie in Conrad Ferdinand Meyers Novellen, 1980 Klauspeter Bungert. Die Felswand als Spiegel einer Entwicklung. Der Dichter C. F. Meyer als Gegenstand einer psychologischen Litera- turstudie, 1994 Ulrich Henry Gerlach, Conrad-Ferdinand-Meyer-Bibliographie, 1994

E.Y.MEYER

E.Y.MEYER, pseudonimo di Peter Meyer, è nato nel 1946 a Liestal. Ha studiato dal 1966 Germanistica, Storia e Filosofia all’Università di Berna. Autore poliedrico, le sue opere sono influenzate dai suoi studi storici e filosofici. Dal 1973 è membro dell’associazione Autorinnen und Autoren der Schweiz.

OPERE PRINCIPALI: 1972 Ein Reisender in Sachen Umsturz 1973 In Trubschachen 1975 Eine entfernte Ähnlichkeit 1977 Die Rückfahrt 1980 Die Hälfte der Erfahrung 1982 Plädoyer. Für die Erhaltung der Vielfalt der Natur beziehungsweise für deren Verteidigung gegen die drohende Vernichtung durch die Einfalt des Menschen 1983 Sundaymorning 1992 Wilde Beeren 1994 Das System des Doktor Maillard oder Die Welt der Maschinen 1995 Wintergeschichten 1997 Venezianisches Zwischenspiel 2004 Der Ritt. Ein Gotthelf-Roman 2006 Eine entfernte Ähnlichkeit. Eine Robert-Walser-Erzählung

CONTRIBUTI CRITICI: Beatrice von Matt (curatrice), E. Y. Meyer,1983 Maria Adèle Hafner, Die Gestalt des Lehrers in Albin Zollingers Roman “Pfannenstiel” und “Bohnenblust” und in E. Y. Meyers Roman “Die Rückfahrt”, 1995

JEAN-PIERRE MONNIER

JEAN-PIERRE MONNIER è nato nel 1921 ed è morto nel 1997. Scrittore regionalista, fa assumere alla vita locale valori universali in L’amour difficile (1953), mentre in La clarté de la nuit (1956) traduce il dramma della solitudine dell’uomo lacerato tra fede e dubbio, speranza e disperazione. Come saggista, Monnier focalizza i problemi del romanziere in L’âge ingrat du roman (1963), difendendo l’originalità della letteratura del Giura svizzero in Enquête d’une littérature (1963) e Ecrire en Suisse romande entre le ciel et la nuit (1986).

432  OPERE PRINCIPALI: 1953 L’Amour difficile 1956 La Clarté de la nuit 1959 Franches-Montagnes 1960 Les Algues du Fond 1965 La terre première 1967 L’âge ingrat du roman 1967 Tramelan 1971 L’arbre un jour 1975 L’allégement 1982 La clarté de la nuit 1986 Ces vols qui n’ont pas fui

PHILIPPE MONNIER

PHILIPPE MONNIER è nato a Ginevra il 2 novembre 1864, è il figlio dello scrittore Marc Monnier. Ha compiuto studi umanistici a Ginevra per poi trasferirsi a Monaco di Baviera, Parigi e Firenze, città nella quale ha vissuto fino al 1897, dedicandosi alla letteratura, al giornalismo e agli studi d’arte e d’archeologia. In seguito è tornato a vivere vicino Ginevra con la sua famiglia; è stato autore di poesie, novelle e romanzi. La notorietà è arrivata con le cronache della vita ginevrina, Causeries genevoises, Le livre de Blaise e Mon Village. Ha pubblicato anche opere sulla storia e sull’arte dell’Italia come Introduction au Quattrocento. Muore il 21 luglio 1911 a Plainpalais.

OPERE PRINCIPALI: 1891 Rimes d’écolier 1895 Vieilles femmes 1899 Jeunes ménages 1901 Introduction au Quattrocento 1902 Causeries genevoises 1904 Le livre de Blaise 1907 Venise au XVIII siècle 1909 Mon village 1914 La Genève de Töpffer

RENÉ MORAX

RENÉ MORAX nasce nel 1873 a Morges. Ha studiato Lettere a Parigi, Losanna e Berlino. Le sue opere teatrali hanno carattere provinciale: sono ambientate, per lo più, nelle valli alpine svizzere. Muore nel 1963.

OPERE PRINCIPALI: 1901 La Nuit des quatre-temps 1903 La Dîme 1910 Aliénor 1915 Les Quatre Doigts et le Pouce 1921 Le Roi David 1937 La Servante d’Évolène

CONTRIBUTI CRITICI: Jean Nicollier, René Morax, poète de la scène, 1958 Pierre Meylan, René Morax et Arthur Honegger au théâtre du Jorat, 1993 Yvan Schwab, René Morax, un théâtre pour le peuple: Histoire et aventures du théâtre du Jorat, 2003

433  MILENA MOSER

MILENA MOSER è nata a Zurigo nel 1963, figlia della psicologa Marlis Pörtner e dello scrittore Paul Pörtner. Moser è il cognome del suo primo marito. Inizia a scrivere dopo il diploma ma non trova un editore disposto a pubblicare i suoi lavori; fonda così la casa editrice Krösus Verlag, presso la quale esce il suo romanzo di maggior successo, Die Putzfraueninsel, riadattato successivamente per il cinema da Peter Timm. Nel 1998 Milena Moser si trasferisce con la famiglia a San Francisco. Rientra in Svizzera dopo otto anni e ora vive a Möriken, nel cantone Aargau. In seconde nozze sposa il fotografo Thomas Kern, dal quale ha due figli. Insieme a Sibylle Berg ha fondato una scuola di scrittura ad Aarau.

OPERE PRINCIPALI: 1990 Gebrochene Herzen oder Mein erster bis elfter Mord 1991 Die Putzfraueninsel 1992 Das Schlampenbuch 1994 Blondinenträume 1996 Mein Vater und andere Betrüger 1996 Das Faxenbuch 1999 Artischockenherz 2001 Bananenfüße 2003 Sofa, Yoga, Mord 2007 Stutenbiss 2008 Flowers in your hair. Wie man in San Francisco glücklich wird 2010 Möchtegern

ADOLF MUSCHG

ADOLF MUSCHG è nato a Zollikon (Zurigo) nel 1934. Ha studiato Germanistica, Anglistica e Psicologia a Zurigo e Cambridge. Dal 1959 al 1962 è stato insegnante di ginnasio a Zurigo; ha poi continuato la sua attività di docente in diverse scuole sia in patria che all’estero fino a diventare dal 1970 al 1999 professore di Lingua e Letteratura Tedesca al Politecnico Federale di Zurigo. Ha pubblicato diverse opere di narrativa e di teatro nonché scritti riguardanti la cultura elvetica di lingua tedesca. Per la sua attività di scrittore ha ricevuto molti premi: tra questi il Premio Hermann Hesse nel 1974 e il Premio Georg Büchner nel 1994. Attualmente vive a Kilchberg, nei pressi di Zurigo.

OPERE PRINCIPALI: 1965 Im Sommer des Hasen 1967 Gegenzauber 1968 Fremdkörper 1969 Mitgespielt 1970 Papierwände 1976 Entfernte Bekannte 1976 Kellers Abend. Ein Stück aus dem 19. Jahrhundert 1979 Noch ein Wunsch 1980 Baiyun oder die Freundschaftsgesellschaft 1981 Literatur als Therapie? Ein Exkurs über das Heilsame und das Unheilbare 1982 Leib und Leben 1986 Goethe als Emigrant 1987 Der Turmhahn und andere Liebesgeschichten 1993 Der Rote Ritter. Eine Geschichte von Parzival 1995 Nur ausziehen wollte sie sich nicht 1995Die Insel, die Kolumbus nicht gefunden hat. Sieben Gesichter Japans 1997Wenn Auschwitz in der Schweiz liegt 1998 O mein Heimatland!

434  2002 Das gefangene Lächeln. Eine Erzählung 2005 Eikan, du bist spät 2005 Was ist europäisch? Reden für einen gastlichen Erdteil 2008 Kinderhochzeit 2010 Sax

CONTRIBUTI CRITICI: Manfred Dierks, Adolf Muschg, 1989 Klaus Isele, Adrian Naef, Dasein als Da Sein. Adolf Muschg zum 75. Geburtstag, 2009 Alexandre Mirlesse, En attendant l’Europe (Rencontre avec Adolf Muschg), 2009

ALBERTO NESSI

ALBERTO NESSI è nato a Mendrisio nel 1940. È cresciuto a Chiasso, dove, dopo aver frequentato la Scuola Magistrale e l’Università di Friburgo, è stato docente di letteratura italiana. Tra le raccolte di poesie più note: Il colore della malva (1992) e Blu cobalto con cenere (2000).

OPERE PRINCIPALI: 1969 I giorni feriali 1975 Ai margini 1983 Rasoterra 1984 Terra matta 1989 Tutti discendono 1992 Il colore della malva 1997 Fiori d’ombra 2000 Blu cobalto con cenere 2004 Iris Viola 2005 Ode di gennaio 2010 Ladro di minuzie — Poesie scelte (1969-2009)

ANGELO NESSI

ANGELO NESSI è nato a Locarno nel 1873; è vissuto a Lugano e, per molti anni, a Milano. Frequenta l’Università di Genova (laurea in Filosofia) e di Pisa (laurea in Lettere) dove entra in contatto con Giosuè Carducci e prende parte alle discussioni letterarie del tempo mettendosi in luce per l’originalità delle sue opinioni. La sua vita scorre alternando momenti di splendore ad altri più difficili, segnati dalla solitudine e dalla povertà, e la sua figura è difficile, scomoda, mai completamente integrata. Spesso caustico e diretto, Nessi non lesina critiche pungenti a un paese che con i suoi compromessi gli risulta troppo angusto. Oltre a romanzi e poesie, ha trasposto in versi favole di Andersen. E’ morto a Lugano nel 1932.

OPERE PRINCIPALI: 1896 Colpe di gioventù 1919 La diligenza dei dodici posti: favole per i piccoli e per i grandi 1924 Cip 1927 Il miracolo delle camelie 1992 Poesie inedite

CONTRIBUTI CRITICI: Fausto Pedrotta, Angelo Nessi, 1938

435  PAUL NIZON

PAUL NIZON è nato a Berna nel 1929 da padre russo e madre svizzera. Ha studiato Storia dell’Arte, Archeologia Classica e Germanistica alle università di Berna e Monaco. Discussa la sua tesi di dottorato su Vincent van Gogh, per breve tempo è assistente presso un museo della sua città e critico d’arte per la Neue Zürcher Zeitung. Nel 1960 è a Roma come Stipendiat dell’Istituto Svizzero. Dal 1977 risiede a Parigi, in un appartamento di Montmartre.

OPERE PRINCIPALI: 1959 Bildteppiche und Antependien im Historischen Museum Bern 1960 Die Anfänge Vincent van Goghs, der Zeichnungsstil der hollän- dischen Zeit 1963 Canto 1970 Diskurs in der Enge. Aufsätze zur Schweizer Kunst 1971 Im Hause enden die Geschichten 1971 Swiss made. Portraits, Hommages, Curricula 1972 Untertauchen. Protokoll einer Reise 1975 Stolz 1981 Das Jahr der Liebe 1983 Aber wo ist das Leben. Ein Lesebuch 1994 Das Auge des Kuriers 1998 Hund. Beichte am Mittag 1999 Taubenfraß 2003 Abschied von Europa 2004 Das Drehbuch der Liebe. Journal 1973-1979 2005 Das Fell der Forelle 2008 Die Zettel des Kuriers. Journal 1990-1999

CONTRIBUTI CRITICI: Alfred Estermann, Paul Nizon, 1984 Philippe Derivière, Paul Nizon — Das Leben am Werk. Ein Essay, 2003 Doris Krockauer, Paul Nizon. Auf der Jagd nach dem eigenen Ich, 2003

JUSTE OLIVIER

JUSTE OLIVIER è nato nel 1807 vicino Nyon. Studia al liceo della sua città natale e poi all’Università di Losanna. Vive a Parigi dal 1830, prima di diventare docente di Storia presso l’Università di Losanna a partire dal 1833 e fino al 1846, anno in cui perde il suo posto per motivi religiosi e fa ritorno a Parigi. Di lui si ricordano, oltre alle raccolte poetiche, opere saggistiche sul canton Vaud. Muore nel 1876.

OPERE PRINCIPALI: 1825 Marcos Botzaris au mont Aracynthe 1831 Le Canton de Vaud 1835 Les Deux Voix 1842 Études d’histoire nationale : Le major Davel (1723), Voltaire à Lausanne (1756-1758), la Révolution helvétique (1780-1830) 1845 Mouvement intellectuel de la Suisse 1847 Les Chansons lointaines 1850 M. Argant et ses compagnons d’aventure, histoire périlleuse 1856 Luze Léonard ou les Deux promesses 1861 Le Batelier de Clarens 1861 Hélena 1863 Le Pré aux noisettes 1867 Chansons du soir 1875 Sentiers de montagne

436  GIORGIO ORELLI

GIORGIO ORELLI è nato ad il 25 maggio 1921. Dopo gli studi universitari a Friburgo, sotto la guida, in particolare, di , Orelli si trasferisce a Bellinzona, dove diventa docente di letteratura italiana, dapprima alla Scuola Cantonale di Commercio, poi al Liceo Cantonale. La sua poesia, in parte appartenente al filone post-ermetico, è ricca di grazia musicale (notevole è l’attenzione per la dimensione fonosimbolica) e si caratterizza per una sua ironica ambiguità. Giorgio Orelli, oltre ad essere uno dei più importanti poeti in lingua italiana del dopoguerra, è un profondo conoscitore della letteratura italiana (che viene analizzata nel saggio Accertamenti verbali), traduttore (di Goethe in particolare) e narratore. Ha vinto il Gran Premio Schiller e nel 2001 gli è stato assegnato il Premio Chiara alla carriera. Giorgio Orelli è cugino dello scrittore Giovanni Orelli.

OPERE PRINCIPALI: 1944 Né bianco né viola 1952 Prima dell’anno nuovo 1960 Nel cerchio familiare 1960 Un giorno della vita 1962 L’ora del tempo 1977 Sinopie 1978 Accertamenti verbali 1982 Quel ramo del lago di Como 1984 Accertamenti montaliani 1989 Spiracoli 1990 Il suono dei sospiri 1992 Foscolo e la danzatrice 1998 Rückspiel - Partita di ritorno 2001 Il collo dell’anitra 2008 Sagt es den Amseln — Ditelo ai merli

CONTRIBUTI CRITICI: Pietro De Marchi, Paolo Di Stafano, Per Giorgio Orelli, 2001 Pietro De Marchi, Dove portano le parole: sulla poesia di Giorgio Orelli e altro Novecento, 2002

GIOVANNI ORELLI

GIOVANNI ORELLI è nato a Bedretto il 30 ottobre del 1928. Scrittore e intellettuale svizzero, ha studiato a Zurigo e a Milano, dove ha ottenuto la laurea in Filologia Medioevale e Umanistica. Ha trascorso gran parte della sua vita a Lugano, dove, fino all’età del pensionamento, è stato professore nel locale liceo cantonale. La sua carriera letteraria inizia nel 1965 con il romanzo L’anno della valanga (Premio Veillon). Nel 1972, con il romanzo La festa del ringraziamento, Orelli è insignito del Premio Schiller. Nel 1997 ha ottenuto il premio Gottfried Keller per l’insieme della sua opera. Considerato un ottimo prosatore, il leventinese ha percorso anche la via della poesia, sia in lingua che in dialetto. Politicamente impegnato, esponente dapprima del Partito socialista autonomo e collaboratore del suo settimanale Politica nuova, è stato per il Partito socialista deputato al Gran Consiglio del Canton Ticino per una le- gislatura. Giovanni Orelli è cugino del poeta Giorgio Orelli.

OPERE PRINCIPALI: 1965 L’anno della valanga 1972 La festa del ringraziamento 1980 Il giuoco del Monopoly 1983 Un Orto sopra Pontechiasso 1986 Sant’Antoni dai padü: poesie in dialetto leventinese

437  1990 Concertino per rane 1991 Il sogno di Walacek 1995 Il treno delle italiane 1995 Né timo né maggiorana 1998 Pane per Natale 1999 Di una sirena in Parlamento 2000 Farciámm da Punt a Punt: facezie dell’Alto Ticino 2000 Gli occhiali di Gionata Lerolieff 2003 E mentre a Belo Horizonte 2004 Quartine per Francesco 2006 Da quaresime lontane 2006 Un eterno imperfetto 2008 Immensee

CONTRIBUTI CRITICI: Rossana Dedola, La musica dell’uomo solo: saggi su Luigi Pirandello, Primo Levi, e Giovanni Orelli, 2000

AMLETO PEDROLI

AMLETO PEDROLI nasce a Chiasso nel 1922, è saggista, traduttore e poeta. Vive a Lugano. Dopo gli studi letterari nelle università di Zurigo, Friburgo e Roma, per lunghi anni docente al Ginnasio di Mendrisio, Amleto Pedroli ha esordito nel 1953 con la raccolta Poesie, introdotta da Giuseppe Ungaretti. Tema principale delle sue poesie è il rapporto con la natura. Forte è l’influsso di Chiesa. Accantonata la poesia, negli ultimi anni si è dedicato alla traduzione di autori tedeschi.

OPERE PRINCIPALI: 1953 Poesie 1961 Poesie nuove 1969 Le messi d’agosto 1971 Due cantate profane 1982 Nel garbuglio dei nomi 1987 Voci recitanti 1992 I maghi del nord: scrittori tedeschi nella Svizzera italiana

JOHANN HEINRICH PESTALOZZI

JOHANN HEINRICH PESTALOZZI è nato a Zurigo nel 1746 ed è morto a Brugg nel 1827; è stato un pedagogista e riformista svizzero. Pestalozzi è noto come educatore e riformatore del sistema scolastico ma era anche filosofo e si dedicò alla politica. Nato da una famiglia di origine italiana, di Chiavenna, è orfano di padre a soli sei anni. Egli, insieme con i suoi fratelli, è allevato dalla madre e dalla governante Bàbeli; questa esperienza segnerà la centralità del ruolo materno nella pedagogia del Pestalozzi. Studia al Collegium Carolinum di Zurigo, nella speranza di intraprendere la carriera ecclesiastica; tuttavia l’influsso della Società Patriottica, cui si è iscritto nel frattempo, lo persuade a lasciare gli studi teologici per dedicarsi a quelli di giurisprudenza. Si forma a contatto con l’Illuminismo.

OPERE PRINCIPALI: 1780 Die Abendstunde eines Einsiedlers 1781/87 Lienhard und Gertrud 1797 Meine Nachforschungen über den Gang der Natur in der Entwicklung des Menschengeschlechts 1801 Wie Gertrud ihre Kinder lehrt

438  CONTRIBUTI CRITICI: Volker Kraft, Pestalozzi oder Das Pädagogische Selbst, 1996 Fritz Osterwalder, Pestalozzi — ein pädagogischer Kult. Pestalozzis Wirkungsgeschichte in der Herausbildung der modernen Pädagogik, 1996

ROBERT PINGET

ROBERT PINGET è nato a Ginevra il 19 luglio del 1919 ed è morto a Tours il 25 agosto del 1997. Si laurea in legge e si dedica alla pittura prima che alla scrittura. Con Alain Robbe-Grillet e Nathalie Sarraute è stato uno dei protagonisti del Nouveau Roman. Le sue prime pièces teatrali furono riduzioni di opere in prosa. Con L’Hypothèse (1961) e Autour de Mortin, trasmessa alla radio nel 1965, inventa il personaggio di Mortin, uno scrittore assorto nelle sue nevrosi creative. Gli esperimenti del linguaggio di alcuni drammi collocano Pinget nella seconda generazione del Teatro dell’Assurdo.

OPERE PRINCIPALI: 1951 Entre Fantoine et Agapa 1952 Mahu ou le matériau 1953 Le Renard et la boussole 1956 Graal flibuste 1959 Lettre morte 1960 La Manivelle 1961 Clope au dossier 1961 Ici ou ailleurs 1961 Architruc 1961 L’Hypothèse 1962 L’Inquisitoire 1965 Autour de Mortin 1965 Quelqu’un 1969 Passacaille 1971 Identité 1971 Abel et Bela 1971 Fable 1975 Cette Voix 1980 L’Apocryphe 1982 Monsieur Songe 1984 Le Harnais 1986 Un Testament bizarre 1987 L’Ennemi 1990 Du Nerf 1991 Théo ou le temps neuf 1997 Tâches d’encre

CONTRIBUTI CRITICI: Iwata Yoshinori, Écriture et intériorité dans quatre romans de Robert Pinget, 1997

AMÉLIE PLUME

AMÉLIE PLUME è nata a La Chaux-de-Fonds nel 1943. Ha studiato Lettere ed Etnologia all’Università di Neuchâtel. Ha vissuto in Africa, in Israele e a New York, dove ha insegnato il francese e cominciato a dedicarsi alla scrittura e alla pittura.

439  OPERE PRINCIPALI: 1981 Les Aventures de Plumette et de son premier amant 1986 En bas, tout en bas dans la plaine 1988 Marie-Mélina s’en va 1989 La mort des forêts, ni plus ni moins 1992 Promenade avec Emile L. 1995 Hélas nos chéris sont nos ennemis 1995 Ô qu’il est beau le jet d’eau 1997 Oui Emile pour la vie 2003 Ailleurs c’est mieux qu’ici 2003 Toute une vie pour se déniaiser 2006 Chronique de la Côte des neiges 2007 Mademoiselle Petite au bord du Saint-Laurent 2010 Les fiancés du Glacier Express

TARCISIO POMA

TARCISIO POMA è nato nel 1916 a Brusino Arsizio, paesino del ramo meridionale del lago di Lugano, vicinissimo al confine con l’Italia; è morto nel 1995. Prima, proiettando il suo lavoro (ha fatto l’insegnante di latino) nel piacere della traduzione, aveva pubblicato versioni di Catullo, Marziale, Persio e altri latini. Ha pubblicato un solo romanzo Sagra di san Lorenzo, che ritrae con crudezza neorealistica, attraverso lo sguardo di un paesano, la realtà contadina di un paese la cui attività principale è il contrabbando. Ha fatto poi seguito una raccolta di racconti, La pioggia di sassi.

OPERE PRINCIPALI: 1980 Sagra di San Lorenzo 1983 La pioggia di sassi 1988 Giorni dell’anno corrente 1996 Fontalta

GUY DE POURTALÈS

GUY DE POURTALÈS nasce a Berlino nel 1881. Vive a lungo a Parigi e diventa cittadino francese. E’ autore di biografie di musicisti — Liszt, Chopin, Wagner — e romanzi nei quali la musica svolge un ruolo significativo. Cosmopolita e amante dei viaggi, fu un convinto assertore dell’unità europea. Muore a Losanna nel 1941.

OPERE PRINCIPALI: 1910 La Cendre et la Flamme 1913 Solitudes 1916 À mes amis Suisses 1917 Deux contes de fées pour les grandes personnes 1918 Odet de La Noue, soldat et poète huguenot de la fin du XVIe siècle 1923 La parabole des talents 1926 Montclar 1929 Trilogie Shakespearienne, traduction de Hamlet, Mesure pour Mesure et la Tempête 1929 Nietzsche en Italie 1930 Florentines 1931 Nous, a qui rien n’appartient, voyage au pays Kmer 1932 Wagner histoire d’un artiste 1937 La Pêche miraculeuse 1939 Berlioz et l’ Europe Romantique

440  CONTRIBUTI CRITICI: Denis de Rougemont, Guy de Pourtalès: Exposition du Centenaire, 1981 Françoise Fornerod, Histoire d’un roman: “La pêche miraculeuse” de Guy de Pourtalès, 1985

FABIO PUSTERLA

FABIO PUSTERLA è nato a Mendrisio il 3 maggio 1957; è un poeta, traduttore, critico letterario e televisivo. Laureato in Lettere con Maria Corti all’Università di Pavia, insegna al Liceo Cantonale di Lugano. Ha diretto l’edizione critica delle opere di Vittorio Imbriani e pubblicato saggi, traduzioni, volumi di versi. Caratterizzata in partenza da un forte influsso espressionista (come ha notato Pier Vincenzo Mengaldo), la poetica di Pusterla è andata sempre più avvi- cinandosi a una poesia dal forte contenuto civile (si veda in particolare Folla sommersa), mentre l’esperienza di traduzione, legata strettamente a Philippe Jaccottet, lo ha portato a una sempre maggior attenzione agli oggetti del quotidiano, alle vite e cose dimenticate. Nel 2007 gli è stato conferito il se- condo più importante premio letterario svizzero (secondo solo al Gran Premio Schiller): il Prix Gottfried Keller. Nel 2009 la “collana bianca” dell’editore Einaudi ha pubblicato un’antologia di poesie del periodo 1985-2008, sotto il titolo Le terre emerse, con il quale nel 2009 ha vinto la sezione poesia del Premio Giuseppe Dessì.

OPERE PRINCIPALI: 1985 Concessione all’inverno 1989 Bocksten 1994 Le cose senza storia 1995 Danza macabra 1997 Isla persa 1999 Pietra sangue 2003 Sette frammenti dalla terra di nessuno 2004 Folla sommersa 2004 Movimenti sull’acqua 2006 Storie dell’armadillo 2009 Le terre emerse. Poesie scelte 1985-2008 2010 Corpo stellare

CONTRIBUTI CRITICI: Mattia Cavadini, Il poeta ammutolito. Letteratura senza io. Un aspetto della postmodernità poetica: Philippe Jaccottet e Fabio Pusterla, 2004

TARIQ RAMADAN

TĀRIQ SAʿĪD RAMADĀN è nato a Ginevra il 26 agosto del 1962, è nipote di Hasan al-Banna, fondatore in Egitto dell’associazione fondamentalista dei Fratelli musulmani. È un accademico, scrittore e giornalista di lingua francese, il cui campo d’interesse è l’islamismo. Diplomato in filosofia e letteratura francese, Tariq Ramadan ha conseguito un dottorato in filosofia ed un altro sull’Islam ed approfondito la sua conoscenza sulla lingua araba e l’Islam studiando presso l’Università al-Azhar del Cairo. Dal settembre 2008 collabora con il quotidiano italiano Il Riformista. Definitosi fautore di una reinter- pretazione dei testi islamici, e teso a mettere in evidenza la natura eterogenea della società islamica, Ramadān sostiene la necessità per i musulmani del Vecchio Continente di dar vita a un Islam europeo e di impegnarsi nella società, con identici diritti e doveri degli altri cittadini. Tariq Ramadan è sposato e ha quattro figli, uno dei quali frequenta i corsi della scuola musulmana

441  Brondesbury diretta da Yusuf Islam (Cat Stevens). Sua moglie, francese, si è convertita all’Islam dopo il matrimonio.

OPERE PRINCIPALI: 1999 Être musulman européen: Etude des sources islamiques à la lumière du contexte européen 2000 L’Islam et les musulmans, grandeur et décadence 2000 L’islam en questions 2001 Islam: Le face à face des civilisations - Quel projet pour quelle modernité 2002 De l’Islam 2002 Jihâd, violence, guerre et paix en Islam 2002 La foi, la Voie et la résistance 2002 Musulmans d’Occident : Construire et Contribuer 2003 Les musulmans d’occident et l’avenir de l’islam 2003 Mondialisation Résistances musulmanes 2008 Islam, la réforme radicale, éthique et libération 2008 Muhammad, Vie du Prophète 2009 L’autre en nous pour une philosophie du pluralisme 2009 Mon intime conviction

CONTRIBUTI CRITICI: Caroline Fourest, Frère Tariq: Discours, stratégie et méthode de Tariq Ramadan, 2004 Ian Hamel, La vérité sur Tariq Ramadan, sa famille, ses réseaux, sa stratégie, 2007

EUGÈNE RAMBERT

EUGÈNE RAMBERT è nato il 6 aprile 1830; è stato professore di Letteratura Francese a Losanna e alla Scuola Politecnica di Zurigo. Nella sua carriera di scrittore si è dedicato prevalentemente alla poesia e alle biografie di personalità svizzere. Muore nel 1886.

OPERE PRINCIPALI: 1861 Corneille, Racine et Molière. Deux cours sur la poésie dramatique française au XVIIe siècle 1866 Les Alpes suisses 1868 Alexandre Vinet, d’après ses poésies 1871 Poésies et chansons d’enfants. Les quatre saisons 1871 Bex et ses environs. Guide et souvenir 1875 Alexandre Vinet. Histoire de sa vie et de ses œuvres 1884 Alexandre Calame, sa vie et son œuvre d’après les sources originales 1887 Dernières Poésies 1895 Les Fleurs de deuil

CHARLES-FERDINAND RAMUZ

CHARLES-FERDINAND RAMUZ nasce a Losanna nel 1878 ed è sicuramente uno dei più grandi scrittori romandi del XX secolo. Dopo la licenza in Lettere ottenuta a Losanna nel 1900, dal 1902 al 1914, prima di stabilire la sua dimora fra i vigneti del Lavaux, vive quasi sempre a Parigi, pur continuando a partecipare alla vita culturale del suo paese con collaborazioni a varie riviste elvetiche. Dopo il suo ritorno in Svizzera, diventa una delle firme più prestigiose dei Cahiers Vaudois fondati a Losanna dai suoi amici Edmond Gilliard e Paul Budry. Dopo un periodo finanziario e artistico molto difficile,

442  Ramuz nel 1924 firma un contratto con la casa editrice Grasset e pubblica la maggior parte delle sue opere, tra cui spicca Derborence (1934). Ramuz muore a Pully nel 1947.

OPERE PRINCIPALI: 1903 Le Petit Village 1905 Aline 1907 Les Circonstances de la vie 1908 Le Village dans la montagne 1915 La Guerre dans le Haut-Pays 1919 Les Signes parmi nous 1923 Passage du poète 1932 Adam et Eve 1934 Derborence 1935 Questions 1936 La Suisse romande 1938 Paris, notes d’un Vaudois 1938 Une province qui n’en est pas une 1939 Découverte du monde 1940 L’Année vigneronne 1942 La Guerre aux papiers

CONTRIBUTI CRITICI: Yvonne Guers-Villate, : l’authenticité éthique et esthétique de l’œuvre ramuzienne, 1966 Lucia Pelagatti, Il paesaggio nell’opera di C.F.Ramuz, 1970 Gerald Froidevaux, L’art et la vie: l’esthétique de C.F.Ramuz entre le symbolisme et les avant-gardes, 1982 Philippe Renaud, Ramuz ou l’intensité d’en bas, 1986 Francesco Cardellicchio, La montagna nella narrativa di C.F. Ramuz: Derborence, 1993 Jerome Meizoz, Ramuz, un passeger clandestin des lettres françaises, 1997 Donald R. Haggis, C.F.Ramuz ouvrier du langage, aspects de son art d’écrire d’après trois manuscrits, 1998

NOËLLE REVAZ

NOËLLE REVAZ è nata nel 1968 a Vernayaz. Ha studiato all’Università di Losanna. Il suo primo romanzo, Rapport aux bêtes, pubblicato nel 2002 da Gallimard, ha ottenuto molti premi e riconoscimenti, tra cui il Premio Schiller. Il romanzo di Laurence Cossé, Au bon roman, cita Rapport aux bêtes tra i “bon romans”.

OPERE PRINCIPALI: 2002 Rapport aux bêtes 2009 Efina

GONZAGUE DE REYNOLD

GONZAGUE DE REYNOLD nasce nel 1880 a Cressier e muore il 9 aprile del 1970. Viene da una famiglia aristocratica, è un conte friburghese, intellettuale di de- stra, nostalgico del passato aristocratico della Svizzera e nemico del radica- lismo incarnato dal partito radical-democratico. Dopo i suoi studi ginnasiali al Collège St-Michel a Friburgo, studia alla Sorbonne di Parigi. Docente al- l’Università di Berna e Friburgo, insegna Letteratura Francese. Nel 1912 fonda la Nouvelle Société Helvétique.

443  OPERE PRINCIPALI: 1912 Histoire littéraire de la Suisse au XVIIIe siècle 1913 Contes et Légendes de la Suisse héroïque 1923 La Suisse une et diverse 1934 La démocratie et la Suisse: Essai d’une philosophie de notre histoire nationale 1934 L’Europe tragique 1938 Conscience de la Suisse 1939 Défense et Illustration de l’Esprit suisse 1944 Qu’est-ce que l’Europe? 1965 Gonzague de Reynold raconte la Suisse et son Histoire 1970 Expérience de la Suisse

CONTRIBUTI CRITICI: Maurice Zermatten, Gonzague de Reynold, 1980 Aram Mattioli, Gonzague de Reynold, 1997

ALICE RIVAZ

ALICE RIVAZ è nata nel 1901 ed è morta nel 1998. Ha trascorso gran parte della sua vita a Ginevra; ha studiato musica, inseguendo il sogno di diventare una pianista. Oltre che una scrittrice affermata, è diventata un produttrice apprezzata. Ha iniziato a scrivere romanzi intorno al 1940; le sue trame hanno un’impronta femminista.

OPERE PRINCIPALI: 1940 Nuages dans la main 1943 Cendres 1946 Comme le sable 1947 La Paix des ruches 1961 Sans Alcool 1966 Comptez vos jours 1967 Le Creux de la vague 1968 L’Alphabet du matin 1973 De Mémoire et d’oubli 1979 Jette ton pain 1980 Ce Nom qui n’est pas le mien 1983 Traces de vie 2001 Creuser des puits dans le désert 2005 Les Enveloppes bleues 2008 Pourquoi serions-nous heureux?

CONTRIBUTI CRITICI: Roger-Louis Junod, Alice Rivaz, 1980 Françoise Fornerod, Alice Rivaz. Pêcheuse et bergère de mots, 1998

EDOUARD ROD

EDOUARD ROD è nato a Nyon il 31 marzo del 1857 ed è morto nella città di Grasse il 29 gennaio del 1910. Studia a Losanna, dove ha scritto la sua tesi di dottorato sul mito di Edipo, e a Berlino, prima di stabilirsi a Parigi nel 1878. È considerato un pioniere dell’approfondimento psicologico e dell’introversione nella narrativa francese oltre che un apripista della moderna critica comparata. Nel 1884 inizia a dirigere la Revue contemporaine mentre nel 1887 diviene professore di Letteratura comparata a Ginevra. Nel 1888 con La Course de la mort si allontana dal Naturalismo per dedicarsi all’analisi psicologica, nel- l’esame pessimista di casi di coscienza, nella rappresentazione sconfortata della

444  lotta tra le passione e il dovere, risolvibili soltanto con la rinuncia; questo nuo- vo atteggiamento spirituale permea tutti gli altri suoi libri. Edouard Rod è noto in Italia perché è stato il traduttore francese di Giovanni Verga: nella primavera del 1881Verga si recò a Parigi ove incontrò lo scrittore svizzero che aveva già conosciuto l’anno precedente e che nel 1887 pubblicherà “I Malavoglia” in lingua francese, riuscendo così a promuovere a livello internazionale il libro dell’autore siciliano (che era stato un insuccesso in patria).

OPERE PRINCIPALI: 1879 Le développement de la légende d’Oedipe dans l’histoire de la littérature 1880 Les Allemands à Paris 1882 Les Protestants. Côte à côte 1882 La Chute de Miss Topsy 1884 La Femme d’Henri Vanneau 1885 La Course de la mort 1889 Le Sens de la vie 1890 Les Trois cœurs 1893 La Vie privée de Michel Teissier 1894 La Seconde Vie de Michel Teissier 1894 Le Silence 1895 Les Roches blanches 1896 Le Dernier Refuge 1897 L’Innocente 1897 Là-haut 1898 Le Ménage du pasteur Naudié 1901 Mademoiselle Annette 1902 L’eau courante 1903 L’Inutile effort 1904 Un Vainqueur 1905 L’Indocile 1905 Reflets d’Amérique 1906 L’Affaire J.-J. Rousseau 1906 L’Incendie

CONTRIBUTI CRITICI: Henri Perrochon, Edouard Rod, 1957 Jean-Jacques Marchand, Edouard Rod et les écrivains italiens. Cor- respondance inédite avec S. Alermo, L. Capuana, G. Cena, G. Deledda, A Fogazzaro, et G. Verga, 1980

DENIS DE ROUGEMONT

DENIS DE ROUGEMONT è nato l’8 settembre 1906 a Couvet, nel Cantone svizzero di Neuchâtel, dal pastore Georges de Rougemont e da Anne Sophie Bouvet; viene cresciuto rigidamente nella tradizione protestante. Frequenta, tra il 1912 e il 1918 la scuola pubblica di Neuchâtel, e da questa esperienza nascerà più tardi l’opera Méfaits de l’Instruction Publique (1929). Dal 1918 al 1925 frequenta prima il Collège latin, poi il Ginnasio di Neuchâtel. In quegli anni scopre la sua vocazione letteraria e nel 1923 pubblica nella Semaine littéraire de Genève il suo primo articolo. Si laurea in Lettere nel 1930 e successivamente si stabilisce a Parigi, dove resterà fino al 1933. Nella capitale francese trova lavoro nelle casa editrice protestante Je sers come direttore editoriale. Nel 1933 Denis de Rougemont sposa Simone Vion. Nel 1936 è lettore all’Università di Francoforte. Lasciata la Germania, tra il 1938 e il 1939 si dedica alla redazione dell’opera che gli dona la celebrità, L’amour et l’Occident, che parte da una visione pessimistica del matrimonio, il quale pian piano stava perdendo la sua caratteristica religiosa per un’altra più laica, più passionale. Nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, Denis de Rougemont fonda la Lega del Gottardo, un

445  gruppo svizzero di resistenza agli estremismi europei, e ne redige il Manifesto, che sarà pubblicato su settantaquattro giornali svizzeri. La situazione si fa sempre più difficile sul piano internazionale e per la Confederazione Svizzera diventa pericoloso tenere Rougemont in patria. Nell’ottobre del 1940 viene così inviato negli Stati Uniti per tenere delle conferenze sull’Europa e sull’hitlerismo. Quella che era prevista come un’assenza di pochi mesi, si prolunga invece ben oltre la fine della guerra, fino al 1947. Muore a Ginevra il 6 dicembre 1985.

OPERE PRINCIPALI: 1929 Les Méfaits de l’Instruction publique 1932 Le Paysan du Danube 1934 Politique de la Personne 1937 Journal d’un Intellectuel en chômage 1938 Journal d’Allemagne 1939 L’Amour et l’Occident 1940 Mission ou Démission de la Suisse 1940 Qu’est-ce que la Ligue du Gothard? 1946 Journal des deux Mondes 1947 Personnes du Drame 1947 Vivre en Amérique 1948 L’Europe en jeu 1950 Lettres aux députés européens 1957 L’Aventure occidentale de l’Homme 1965 Fédéralisme culturel 1965 La Suisse ou l’Histoire d’un Peuple heureux

CONTRIBUTI CRITICI: Mary Jo Deering, Denis de Rougemont, l’Européen, 1991 Christian Campiche, Denis de Rougemont, le séducteur de l’Occident, 1999 Bruno Ackermann, Denis de Rougemont: de la personne à l’Europe, 2000

JEAN-JACQUES ROUSSEAU

JEAN-JACQUES ROUSSEAU è nato nel 1712 a Ginevra. Sua madre, Suzanne Bernard Rousseau, muore una settimana dopo per complicazioni post-parto. Suo padre Isaac, un orologiaio medio borghese, lo dà in affidamento nel 1722. È un giovane fantasioso, intelligente e creativo, nonché lettore precoce e infaticabile, si può dire che si sia formato sulla Bibbia, sulle Vite parallele di Plutarco e sui sermoni moralistici di Calvino, certamente molto diffusi a Ginevra, dato che Calvino era stato governatore della città per diversi anni. Rousseau lascia Ginevra il 14 marzo 1728, dopo diversi anni di apprendistato prima presso un notaio e poi presso un incisore. Dopo ripetuti vagabondaggi incontra Françoise-Louise de Warens, una baronessa svizzera convertitasi al cattolicesimo, di tredici anni più grande di lui, che se ne fece protettrice e in seguito divenne sua amante. Nel 1742 Rousseau si sposta a Parigi, dove grazie ai filomati presenta all’Accademia delle Scienze un nuovo sistema di notazione musicale, che aveva inventato, basato su una singola linea dove i numeri rappresentavano gli intervalli tra le note, mentre punti e virgole indicavano i valori ritmici. L’idea era quella di avere un sistema compatibile con la tipografia, ma l’Accademia lo respinse come inutile e privo di originalità. Dal 1743 al 1744 fu segretario dell’ambasciatore di Francia a Venezia. Torna quindi a Parigi, dove, intorno al 1745, inizia una relazione, che durerà tutta la vita, con Thérèse Le Vasseur, giovane sarta analfabeta da cui ebbe cinque figli, che Rousseau abbandonò tutti in orfanotrofio. Durante il soggiorno parigino, fa amicizia con Diderot, e dal 1749 collabora con diversi articoli, inizialmente sulla musica, all’Enciclopedia. Nel 1754 Rousseau torna a Ginevra. A causa delle critiche che lo seguirono anche in Svizzera per il contenuto delle sue

446  opere, Rousseau, nel gennaio del 1766, si rifugia in Gran Bretagna, presso il filosofo David Hume. Ma dopo diciotto mesi, credendo che Hume stesse complottando contro di lui, fugge anche da là. Rousseau torna quindi in Francia sotto il nome di “Renou”, nonostante ufficialmente non fosse stato autorizzato sino al 1770. Una mattina, passeggiando per le terre del marchese di Girardin, a Ermenonville (nei pressi di Parigi), è colpito da una emorragia, e muore il 2 luglio 1778.

OPERE PRINCIPALI: 1742 Projet concernant de nouveaux signes pour la musique 1743 Dissertation sur la musique moderne 1750 Discours sur les sciences et les arts 1752 Narcisse ou l’amant de lui-même 1750 Discours sur la vertu 1755 Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes 1756 Lettre sur la providence 1757 Lettres morales 1761 Julie ou la Nouvelle Héloïse 1762 Émile, ou De l’éducation 1771 Pygmalion 1781 Essai sur l’origine des langues 1765-1770 Les Confessions

CONTRIBUTI CRITICI: Jean Starobinski, Jean-Jacques Rousseau : la transparence et l’obstacle, 1976 Raymond Trousson, Frédéric S. Eigeldinger, Dictionnaire de Jean- Jacques Rousseau, 2006 Gaëtan Demulier, Apprendre à philosopher avec Rousseau, 2009

ANNA RUCHAT

ANNA RUCHAT è nata a Zurigo nel 1959. Ha studiato Filosofia e Letteratura Tedesca a Pavia e Zurigo. Thomas Bernhard, Paul Celan, Nelly Sachs, Victor Klemperer, Mariella Mehr, Werner Herzog, sono tra gli autori che in molti anni di attività ha tradotto dal tedesco. Insegna alla Scuola Europea di Traduzione del Comune di Milano. Dal 2002 si occupa della gestione dell’Archivio del poeta Franco Beltrametti. Nel 2004 è uscita la raccolta di racconti In questa vita. Nel 2005 ha pubblicato il volume di poesie Geografia senza fiume e, in collaborazione con la fotografa Elda Papa, il racconto Il male minore. Da più di due anni lavora per le Edizioni Effigie.

OPERE PRINCIPALI: 2004 In questa vita 2005 Mimare frasi 2006 Geografia senza fiume 2006 Il male minore 2009 Angeli di stoffa

JAKOB SCHAFFNER

JAKOB SCHAFFNER nasce a Basilea nel 1875. In gioventù conosce la miseria, l’internamento in istituti di orfani, l’avviamento al mestiere di calzolaio che detestava e, infine, il carcere, ma studia tenacemente la notte. A trent’anni co- mincia a pubblicare a Francoforte e Berlino, dove si stabilisce definitivamente

447  nel 1911. Accoglie con favore l’avvento del nazismo. Muore a Strasburgo, sotto un bombardamento, nel 1944.

OPERE PRINCIPALI: 1905 Irrfahrten 1908 Die Erlhöferin 1909 Hans Himmelhoch. Wanderbriefe an ein Weltkind 1910 Konrad Pilater 1911 Der Bote Gottes 1915 Geschichte der Schweizerischen Eidgenossenschaft 1915 Die Schweiz im Weltkrieg 1919 Die Weisheit der Liebe 1920 Die Erlösung vom Klassenkampf 1920 Kinder des Schicksals 1922 Johannes. Roman einer Kindheit 1926 Das große Erlebnis 1934 Offenbarung in deutscher Landschaft. Eine Sommerfahrt 1936 Volk zu Schiff. Zwei Seefahrten mit der KdF-Hochseeflotte 1939 Kampf und Reife 1940 Der Schicksalsweg des deutschen Volkes 1943 Das Reich in uns

CONTRIBUTI CRITICI: Martin Crabtree, Jakob Schaffner. Die Suche nach einer Heimat in den Romanen “Johannes” und den beiden Fassungen der “Glücksfischer”, 1978 Urs Gehrig, Leben strebt ins Werk, und Werk will wieder Leben werden. Wandel und Konstanz in Leben und Werk von Jakob Schaffner, 1990

WERNER SCHMIDLI

WERNER SCHMIDLI è nato a Basilea nel 1939. La sua formazione è scientifica; ha fatto studi per diventare chimico di laboratorio. Dal 1960 al 1962 viaggia molto: visita il Nordafrica, Panama, la Polinesia e l’Australia. Risiede sei mesi a Melbourne. Rientrato in Svizzera, lavora presso una casa editrice. Risale al 1966 il suo esordio letterario. Muore a Basilea nel 2005.

OPERE PRINCIPALI: 1966 Der Junge und die toten Fische 1967 Meinetwegen soll es doch schneien 1968 Der alte Mann, das Bier, die Uhr und andere Geschichten 1969 Das Schattenhaus 1970 Gebet eines Kindes vor dem Spielen 1976 Gustavs Untaten 1979 Zellers Geflecht 1980 Die Freiheiten eines Reisenden 1981 Ganz gewöhnliche Tage 1984 Warum werden Bäume im Alter schön 1985 Der Mann am See 1990 Von Sommer zu Sommer in meiner Nähe 1997 Schlitzohr 2001 Schabernack 2002 Teufel und Beelzebub 2004 Bergfest 2005 Oswalds Kater

448  HANSJÖRG SCHNEIDER

HANSJÖRG SCHNEIDER è nato nel 1938 ad Aarau; è cresciuto a Zofingen e ha studiato Germanistica, Storia e Psicologia all’Università di Basilea. Dopo la laurea ha lavorato come insegnante, giornalista e come assistente alla regia al teatro di Basilea. Vive a Basilea ed è autore di numerosi romanzi e racconti; negli ultimi anni riscuotono un discreto successo i suoi gialli incentrati sulla figura del commissario Hunkeler.

OPERE PRINCIPALI: 1970 Leköb 1972 Die Ansichtskarte 1975 Robinson lernt tanzen 1976 Der Bub 1980 Lieber Leo 1980 Stücke 1: Sennentuntschi. Der Erfinder. Der Schütze Tell 1982 Ein anderes Land 1985 Stücke 2: Brod und Wein. Der Brand von Uster. Das Kalbsfell 1986 Heimkehr in die Fremde 1997 Das Wasserzeichen 1999 Das Fähnlein der sieben Aufrechten 2000 Erwin und Philomene 2001 Tod einer Ärztin 2004 Hunkeler macht Sachen 2007 Hunkeler und der Fall Livius 2008 Hunkeler und die goldene Hand 2009 Leköb und Distra. Eine Lebens- und eine Liebesgeschichte 2010 Hunkeler und die Augen des Oedipus

MARGRIT SCHRIBER

MARGRIT SCHRIBER è nata nel 1939 a Lucerna. Ha lavorato come impiegata di banca fino al matrimonio. Nelle sue opere descrive la quotidianità con gran pessimismo. È membro dell’associazione Autorinnen und Autoren der Schweiz.

OPERE PRINCIPALI: 1976 Aussicht gerahmt 1977 Außer Saison 1978 Kartenhaus 1979 Dazwischen. Ein monologischer Dialog / Ein wenig Lärm im Keller. Monodrama / Montag 1980 Vogel flieg 1981 Luftwurzeln 1984 Muschelgarten 1987 Tresorschatten 1990 AugenWeiden 1993 Rauchrichter 1998 Schneefessel 2001 Von Zeit zu Zeit klingelt ein Fisch 2006 Das Lachen der Hexe 2008 Die falsche Herrin 2009 Die hässlichste Frau der Welt

CONTRIBUTI CRITICI: Linda M. Hess-Liechti, Das Gefängnis geht nebenan weiter... Studien zur mentalen Gefängnis - und Befreiungsthematik in Prosatexten von Margrit Baur, Maja Beutler und Margrit Schriber, 1996

449  JÜRG SCHUBIGER

JÜRG SCHUBIGER è nato nel 1936 a Zurigo, particolarmente noto per i suoi libri per bambini. Figlio di un editore zurighese, è cresciuto a Winterthur. Studia Germanistica, Psicologia e Filosofia a Zurigo. Per dieci anni lavora presso la casa editrice del padre, prima di dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Vive a Zurigo.

OPERE PRINCIPALI: 1956 Barbara 1958 Guten Morgen 1972 Die vorgezeigten Dinge 1978 Dieser Hund heißt Himmel 1980 Haus der Nonna. Eine Kindheit in Tessin 1983 Unerwartet grün 1989 Hinterlassene Schuhe 1995 Als die Welt noch jung war 1997 Mutter, Vater, ich und sie 2000 Wo ist das Meer? 2002 Haller und Helen 2003 Das Ausland 2003 Die Geschichte von Wilhelm Tell 2003 Seltsame Abenteuer des Don Quijote 2007 Der weiße und der schwarze Bär 2008 Die kleine Liebe 2010 Der Wind hat Geburtstag

ANNEMARIE SCHWARZENBACH

EMARIE SCHWARZENBACH nasce a Zurigo nel 1908. Figura fortemente andro- gina, apertamente omosessuale, grande viaggiatrice, dipendente da alcol e dro- ghe (morfina in particolare), ribelle e contrastata, la Schwarzenbach è una delle controverse protagoniste della vita culturale bohémien mitteleuropea tra la pri- ma e la Seconda guerra mondiale. Nata in una ricca famiglia di industriali sviz- zeri con forti simpatie naziste, entra nel circolo di Erika e Klaus Mann, i figli di Thomas Mann, ed è proprio grazie al loro incoraggiamento che intraprende la professione di scrittrice. Dal 1933 partecipa in Oriente ad alcune campagne di scavi archeologici. Soggiorna per periodi più o meno lunghi in Siria e in Iran. Il 25 maggio 1935 sposa Claude Clarac, diplomatico francese a Teheran. Viaggia molto negli Stati Uniti, dove realizza numerosi servizi giornalistici e fotografici pubblicati in diversi quotidiani svizzeri. Nel 1939 realizza, insieme alla gine- vrina Ella Maillart, quella che probabilmente resta una delle sue imprese più note, raggiungendo in auto il continente indiano. Per farlo attraverseranno, tra gli altri stati, l’Iran e l’Afghanistan. Dopo la sua morte, avvenuta per le con- seguenze di un banale incidente in bicicletta accadutole il 6 settembre 1942, la Schwarzenbach cade nell’oblio fino alla metà degli anni Ottanta, quando l’editore svizzero Huber inizia a ripubblicare le sue opere.

OPERE PRINCIPALI: 1931 Beiträge zur Geschichte des Oberengadins im Mittelalter und bis zu Beginn der Neuzeit 1933 Lyrische Novelle 1934 Winter in Vorderasien. Tagebuch einer Reise 1935 Tod in Persien 1938 Lorenz Saladin. Ein Leben für die Berge 1940 Das glückliche Tal 2000 Alle Wege sind offen. Die Reise nach Afghanistan 1939-1940

450  CONTRIBUTI CRITICI: Areti Georgiadou, Annemarie Schwarzenbach, Das Leben zerfetzt sich mir in tausend Stücke. Biographie, 1995 , Lei così amata, 2000 Charles Linsmayer, Annemarie Schwarzenbach. Ein Kapitel tragische Schweizer Literaturgeschicht’, 2008.

GEROLD SPÄTH

GEROLD SPÄTH è nato a Rapperswil nel 1939. Di famiglia benestante, ha soggiornato per diversi anni a Berlino e Roma prima di ritirarsi nel paese natale. Autore di racconti, testi teatrali e romanzi, coniuga a un tono satirico e talvolta causticamente antiborghese uno stile sensuale e verbalmente opulento e mira a descrivere squallidi dettagli della società moderna.

OPERE PRINCIPALI: 1970 Unschlecht 1972 Stimmgänge 1973 Zwölf Geschichten 1974 Die heile Hölle 1977 Balzapf oder Als ich auftauchte 1980 Commedia 1982 Von Rom bis Kotzebue. 15 Reisebilder 1983 Sacramento. Neun Geschichten 1984 Sindbadland 1988 Barbarswila 1991 Stilles Gelände am See 1993 Das Spiel des Sommers neunundneunzig 2001 Die gloriose White Queen. Ein Abenteuer 2003 Familienpapiere. Gesammelte Geschichten 2006 Aufzeichnungen eines Fischers (das erste Jahr) 2007 Mein Lac de Triomphe. Aufzeichnungen eines Fischers (das zweite Jahr) 2009 Mich lockte die Welt

CONTRIBUTI CRITICI: Klaus Isele, Franz Loquai , Gerold Späth, 1993 Charlotte E. Aske, Gerold Späth und die Rapperswiler Texte. Untersuchungen zu Intertextualität und kultureller Identität, 2002

CARL SPITTELER

CARL SPITTELER nasce a Liestal, nella Svizzera tedesca, studia prima giu- risprudenza all’Università di Zurigo e poi nel periodo 1865-1870 teologia nello stesso ateneo, e successivamente a Heidelberg e a Basilea. In seguito, dal- l’agosto 1871 fino al 1879, lavora come precettore in Russia e in Finlandia. Più tardi è insegnante elementare a Berna e a La Neuveville, finché non si dedica al giornalismo: fa il reporter per Der Kunstwart e il redattore del Neue Zürcher Zeitung. Durante la Prima guerra mondiale si batte vigorosamente a favore della neutralità svizzera e contro la partecipazione al conflitto a fianco della Germania, suscitando in tal modo il vivo risentimento della maggior parte degli svizzeri di lingua tedesca. Come poeta è un solitario, indipendente dalle correnti letterarie in voga nei suoi tempi. La sua prima opera, Prometheus und Epimetheus, è un poema in prosa ritmica, scritto in un linguaggio arcaicizzante che ricorda quello delle sacre scritture, rielaborato da Spitteler nel 1924, poco prima della sua morte, col titolo Prometheus del Dulder. Ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura nel 1919.

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OPERE PRINCIPALI: 1881 Prometheus und Epimetheus 1889 Schmetterlinge 1891 Friedli der Kolderi 1892 Gustav 1892 Litterarische Gleichnisse 1897 Der Gotthard 1898 Conrad der Leutnant 1898 Lachende Wahrheiten 1906 Imago

CONTRIBUTI CRITICI: Walter Adrian, Die Mythologie in Carl Spittelers ‘Olympischem Frühling’, 1970 Justus Hermann Wetzel, Carl Spitteler. Ein Lebens- und Schaffensbericht, 1973 Philipp Theisohn, Totalität des Mangels. Carl Spitteler und die Geburt des modernen Epos aus der Anschauung, 2001

JOHANNA SPYRI

JOHANNA LOUISE SPYRI nata Heusser, scrittrice di letteratura per ragazzi, è originaria di Hirzel, cantone zurighese; è nata il 12 giugno 1827, quarta di sei figli del medico Johann Jacob e della poetessa Meta Heusser-Schweizer. Nel 1852 contrae matrimonio con l’avvocato e giornalista zurighese Johann Bernhard Spyri, che fa parte della ristretta cerchia di amici elvetici di Richard Wagner. Il suo esordio letterario avviene con il racconto Ein Blatt auf Vronys Grab (Un foglio sulla tomba di Vrony) nel 1871, all’età di 44 anni; nel 1880 scrive Heidis Lehr- und Wanderjahre (Gli anni di formazione e di pere- grinazioni di Heidi) seguito, considerando l’ampio successo, l’anno seguente, dal secondo volume Heidi kann brauchen was es gelernt hat (Heidi può servirsi di ciò che ha imparato). Tutte le opere di Johanna Spyri presentano uno sguardo critico sulla Svizzera del suo tempo. In particolare, l’autrice ha a cuore la situazione dei bambini e delle giovani donne. Muore nel 1901 a Zurigo.

OPERE PRINCIPALI: 1871 Ein Blatt auf Vronys Grab 1872 Nach dem Vaterhause! 1878 Heimathlos 1880 Heidis Lehr- und Wanderjahre 1880 Aus unserem Lande 1881 Heidi kann brauchen, was es gelernt hat 1881 Ein Landaufenthalt von Onkel Titus 1882 Kurze Geschichten für Kinder und auch für Solche, welche die Kinder lieb haben 1886 Kurze Geschichten für Kinder und auch für Solche, welche die Kinder lieb haben. Zweiter Band 1891 Volksschriften von Johanna Spyri. Zweiter Band 1901 Die Stauffer-Mühle

CONTRIBUTI CRITICI: Marie Frey-Uhler, Eve Froidevaux, Johanna Spyri 1827-1901, 1952 Jean Villain, Der erschriebene Himmel: Johanna Spyri und ihre Zeit, 1997 Regine Schindler, Johanna Spyri: Spurensuche, 1997

452  JEAN STAROBINSKI

JEAN STAROBINSKI è nato a Ginevra nel 1920 da genitori medici. Dopo essersi laureato in Lettere all’Università di Ginevra (1941), ha intrapreso a sua volta la carriera medica fino a ottenere il diploma federale nel 1951 e il Dottorato in medicina all’Università di Losanna (1960). Ha inoltre conseguito, nel 1958, il dottorato in Lettere all’Università di Ginevra. Assistente di Letteratura Francese nella stessa Università dal 1946 al 1949, è stato successivamente interno presso la cattedra di Clinica terapeutica dell’Ospedale cantonale di Ginevra (1949- 1953) e all’ospedale psichiatrico cantonale di Cery, Losanna (1957-58). Ha insegnato al Dipartimento di lingue romanze dell’Università John Hopkins di Baltimora (1953-56), in quelle di Basilea e di Ginevra. In quest’ultima ha ricoperto dal 1967 al 1985, come professore ordinario, la cattedra di Letteratura Francese e dal 1966 come incaricato quella di Storia della medicina. Dal 1985 è professore emerito. Jean Starobinski è stato inoltre presidente della Società Jean-Jacques Rousseau dal 1967 al 1992. Ha ricevuto il Prix de l’Institut de France nel 1983, il Premio Balzan nel 1984, il Premio Tevere nel 1990 e il Premio Goethe nel 1994.

OPERE PRINCIPALI: 1943 Stendhal 1953 Montesquieu 1957 Jean-Jacques Rousseau: la transparence et l’obstacle 1960 Histoire du traitement de la mélancolie, des origines à 1900 1963 Histoire de la médecine 1970 La Relation critique 1970 Portrait de l’artiste en saltimbanque 1971 Les Mots sous les mots: les anagrammes de Ferdinand de Saussure 1982 Montaigne en mouvement 1989 Le Remède dans le mal. Critique et légitimation de l’artifice à l’âge des Lumières 1990 La Mélancolie au miroir. Trois lectures de Baudelaire 1999 La Poésie et la guerre, chroniques 1942-1944 1999 Action et réaction. Vie et aventures d’un couple 2005 Les Enchanteresses de l’opéra 2007 Largesse 2009 La parole est moitié à celuy qui parle...: entretiens avec Gérard Macé

JÖRG STEINER

JÖRG STEINER è nato a Bienne nel 1930. Dopo aver interrotto l’apprendistato di droghiere, diventa maestro di scuola elementare. La sua esperienza professionale in un istituto per disadattati agli inizi degli anni Cinquanta è confluita nei suoi primi romanzi, Strafarfeit (1962) e Ein Messer für der ehrlichen Finder (1966). A questi romanzi hanno fatto seguito una decina di libri. Steiner è anche autore di racconti per bambini che hanno riscosso un gran- de successo sia in Europa che negli Stati Uniti. Tra i numerosi riconoscimenti, il Premio letterario di Berlino (1988) e il Premio Max Frisch (2001).

OPERE PRINCIPALI: 1955 Feiere einen schönen Tag 1958 Eine Stunde vor Schlaf 1961 Abendanzug zu verkaufen 1962 Strafarbeit 1966 Ein Messer für den ehrlichen Finder 1969 Auf dem Berge Sinai sitzt der Schneider Kikrikri 1973 Schnee bis in die Niederungen 1976 Als es noch Grenzen gab

453  1976 Der Bär, der ein Bär bleiben wollte 1977 Die Kanincheninsel 1979 Eine Giraffe könnte es gewesen sein 1985 Antons Geheimnis 1987 Der Mann vom Bärengraben 1989 Fremdes Land 1996 Der Kollege 1998 Was wollt ihr machen, wenn der schwarze Mann kommt? 2005 Mit deiner Stimme überlebe ich. Geschichten 2008 Ein Kirschbaum am Pazifischen Ozean

CONTRIBUTI CRITICI: Daniel Weber, Jörg Steiner, 1988

RODOLPHE TÖPFFER

RODOLPHE TÖPFFER nasce nel 1799; è noto per essere il pioniere della bande dessinée di lingua francese. A partire dal 1827 le sue comiche e fantasiose histories en images compaiono per la prima volta in vignette con brevi testi scritti a mano, separate con una semplice linea verticale d’inchiostro. Attraverso questi personaggi, l’artista svizzero dipinge gustosi quadri satirici della società del suo tempo ricollegandosi alla grande tradizione della caricatura inglese e francese. Grande è l’interesse e l’ammirazione di molti uomini di cultura. Muore nel 1846.

OPERE PRINCIPALI: 1833 Histoire de monsieur Jabot 1837 Histoire de monsieur Vieux Bois 1837 Histoire de monsieur Crepin 1837 Monsieur Trictrac 1840 Docteur Festus 1840 Monsieur Pencil 1845 Histoire d’ Albert 1846 Histoire de monsieur Cryptogame

CONTRIBUTI CRITICI: Rolando Iotti, Guido Ziveri (a cura di), Le storie del signor Jabot e del signor Crépin, 1968 Thierry Groensteen, Benoît Peeters, Töpffer: L’Invention de la Bande Dessinée, 1994 Joachim Burmeister, Alessandra Ruspoli, David Tarallo (a cura di), Rodolphe Töpffer: il segno e l’avventura, 2002 Alfredo Castelli (a cura di), The Adventures of Obadiah Oldbuck: The First American Comic Book, 2003 Kunzle Davis (a cura di), Rodolphe Töpffer: The Complete comic stips, 2007 Kunzle Davis, Father of comic strip: Rodolphe Töpffer, 2007

REGINA ULLMANN

REGINA ULLMANN, scrittrice ebrea nata a San Gallo nel 1884. Vita segnata da profonde depressioni. Le sue opere sono rimaste sconosciute al grande pubblico fino a pochi anni fa. Con l’aiuto di Rainer Maria Rilke, pubblica novelle e poesie che i critici contemporanei definiscono vere e proprie gemme. Muore nel 1961.

454  OPERE PRINCIPALI: 1907 Die Feldpredigt. Dramatische Dichtung 1910 Von der Erde des Lebens. Dichtungen in Prosa 1921 Die Landstraße. Erzählungen 1925 Die Barockkirche von einer Votivtafel herab gelesen und ausführlich berichtet, zugleich mit etlichen Volkserzählungen 1932 Vom Brot der Stillen. Erzählungen 1934 Der Apfel in der Kirche und andere Geschichten 1942 Der Engelskranz. Erzählungen 1944 Madonna auf Glas und andere Geschichten 1945 Erinnerungen an Rilke 1946 Der ehrliche Dieb und andere Geschichten 1949 Von einem alten Wirtshausschild. Erzählungen 1952 Vergeltung durch Engel und andere Erzählungen 1954 Die schwarze Kerze. Erzählungen

CONTRIBUTI CRITICI: Eveline Hasler, Stein bedeutet Liebe. Regina Ullmann und Otto Gross, 2007

YVES VELAN

YVES VELAN è nato in Francia nel 1925. Il suo primo romanzo Je del 1959 è stato accolto positivamente da pubblico e critica francesi. Le sue opere sono incentrate sul ruolo dell’individuo all’interno della società moderna, il rapporto con l’Altro, l’importanza della cultura nelle comunità globalizzate.

OPERE PRINCIPALI: 1959 Je 1973 La statue de Condillac retouchée 1973 Onir 1977 Soft Goulag 1986 Le chat muche INEDITO Le narratuer et son Energumène

CONTRIBUTI CRITICI: Pascal Antonietti, Yves Velan, 2005

AGLAJA VETERANYI

AGLAJA VETERANYI è nata il 17 maggio 1962 a Bucarest, in Romania; figlia di un clown e di un’artista, cresce all’interno di un circo e ne sperimenta la vita disordinata, seguendo i genitori in tournée attraverso l’Europa, l’Africa e il Sud America. Ancora giovanissima comincia a esibirsi in spettacoli di varietà. Il continuo girovagare di paese in paese non le permette di ricevere un’istruzione. Quando a quindici anni, nel 1977, arriva a Zurigo, è ancora analfabeta e impara da autodidatta non solo a parlare una nuova lingua, lo svizzero-tedesco, ma anche a leggere e a scrivere. In Svizzera studia recitazione e dal 1982 è attiva sia come attrice che come autrice. Nel 1999 esce il primo romanzo di Aglaya Veteranyi: Warum das Kind in der Polenta kocht. Nonostante il successo e le molte soddisfazioni Aglaya Veteranyi porta dentro un male di vivere che la spinge al suicidio. Il 3 febbraio 2002, a quasi quarant’anni, la scrittrice si toglie la vita in riva al lago di Zurigo.

OPERE PRINCIPALI: 1999 Ein Totentanz: Geschenke 1999 Warum das Kind in der Polenta kocht

455  2002 Das Regal der letzten Atemzüge 2004 Vom geräumten Meer, den gemieteten Socken und Frau Butter

CONTRIBUTI CRITICI: Rudolf Bussmann und Martin Zingg (curatori), Aglaja Veteranyi weiterschreiben, 2002 Laura Gieser, Heimatlose Weltliteratur? Zum Werk von Aglaja Veteranyi, 2006 Katja Suren, Ein Engel verkleidete sich als Engel und blieb unerkannt: Rhetoriken des Kindlichen bei Natascha Wodin, Herta Müller und Aglaja Veterany, 2010

ALEXANDRE VOISARD

ALEXANDRE VOISARD è nato il 14 settembre 1930 a Porrentruy. Studia nella sua città natale prima di trasferirsi a Ginevra, dove tenta la carriera teatrale. Membro del Consiglio della Pro Helvetia dal 1982 al 1993. Deputato socialista al Parlamento giurassiano dal 1979 al 1983. Nel 1990 diventa membro dell’Accademia Mallarmé a Parigi. Nel 1997 è nominato all’Accademia Europea di poesia. Si è ritirato in Francia, nel paese natale della moglie e la sua ispirazione resta sempre molto vivace.

OPERE PRINCIPALI: 1954 Écrit sur un Mur 1955 Vert Paradis 1961 Chronique du guet 1967 Liberté à l’aube 1969 Les Deux Versants de la solitude 1972 Louve 1975 La Nuit en miettes 1975 Je ne sais pas si vous savez 1979 Un Train peut en cacher un autre 1981 La Claire Voyante 1984 L’Année des treize lunes 1989 Toutes les vies vécues 1991 Le Dire Le Faire 1993 Maîtres et valets entre deux orages 1993 Une enfance de fond en comble 1997 Le Déjeu 1997 Au rendez-vous des alluvions 2000 Sauver sa trace 2001 Quelques fourmis sur la plage 2003 L’Adieu aux abeilles et autres nouvelles 2004 Le Mot musique ou l’Enfance d’un poète 2007 De Cime et d’abîme 2010 La poésie en chemins de ronde

CONTRIBUTI CRITICI: Arnaud Buchs, Le Déjeu d’Alexandre Voisard, 2008

ROBERT WALSER

ROBERT WALSER è nato a Biel, cittadina al confine tra l’area linguistica tedesca e quella francese, il 15 aprile 1878. Dal 1892 al 1895 lavora come praticante presso la Bernischen Kantonalbank di Biel. Sua madre — donna con seri problemi psichici — muore nel 1894 dopo essere stata sottoposta a cure mediche per un lungo periodo. Nel 1895, quindi, Robert si trasferisce a

456  Stoccarda presso il fratello Karl, noto pittore, per lavorare come impiegato; tenta, inoltre, senza successo, di diventare un attore. Nel 1896 da Stoccarda torna a piedi in Svizzera. A Zurigo lavora come impiegato d’ufficio, ma in maniera saltuaria e in luoghi diversi. Nel 1898 l’influente critico Joseph Vistor Wildmann pubblica alcune poesie di Walser all’interno del supplemento domenicale del Bund di Berna. Fino al 1905 Walser vive prevalentemente a Zurigo, anche se cambia continuamente abitazione trasferendosi per brevi periodi a Thun, Solothurn, Winterthur e Monaco. Nel 1904 è assistente dell’inventore e ingegnere Dubler a Wädenswil sul lago di Zurigo. L’esperienza compiuta diventa la base del romanzo Der Gehülfe. Nel 1904 la casa editrice Insel pubblica il suo primo libro, Fritz Kochers Aufsätze. Nel 1905 si trasferisce a Berlino dove compone Geschwister Tanner, Der Gehülfe e Jakob von Gunten. Questi testi vengono distribuiti dalla casa editrice di Bruno Cassirer, nella quale Christian Morgenstern, ammiratore di Walser, lavora come lettore. Nella primavera del 1913, dopo un lungo viaggio a piedi, da Berlino a Biel, Walser torna a stabilirsi in Svizzera. Vive per un breve periodo con sua sorella Lisa. Torna a Biel dove realizza Der Spaziergang, Poetenleben, Seeland e Die Rose. All’inizio del 1929, Walser — che soffriva da tempo di crisi d’ansia e di allucinazioni — si presenta, sollecitato dalla sorella Lisa, nella clinica Waldau di Berna. In questo periodo scrive in una forma particolare: a matita, su fogli riciclati, con grafia piccolissima, realizza i cosiddetti “microgrammi”. Nel 1933 viene trasferito al sanatorio di Herisau, dove rimarrà per il resto della sua vita, finita il giorno di Natale del 1956, durante una delle sue solite passeggiate.

OPERE PRINCIPALI: 1903 Fritz Kochers Aufsätze 1907 Geschwister Tanner 1908 Der Gehülfe 1909 Jakob Von Gunten 1917 Der Spaziergang 1919 Seeland 1925 Die Rose 1947 Dichterbildnisse

CONTRIBUTI CRITICI: Carl Seelig, Wanderungen mit Robert Walser, 1977 Robert Mächler, Das Leben Robert Walsers. Eine dokumentarische Biographie, 1992 Bernhard Echte, Robert Walser. Sein Leben in Bildern und Texten, 2008

OTTO F. WALTER

OTTO FRIEDRICH WALTER è nato nel 1928 a Rickenbach; è il più piccolo dei nove figli dell’editore Otto Walter. Dopo gli studi, si trasferisce a Colonia dove fa lo stampatore. Dal 1951 è segretario e lettore presso la casa editrice Jakob Hegner. È membro del Gruppo Olten. Muore nel 1994 a Solothurn.

OPERE PRINCIPALI: 1959 Der Stumme 1962 Herr Tourel 1965 Elio oder Eine fröhliche Gesellschaft 1972 Die ersten Unruhen 1975 Luchterhand. Die ersten 50 Jahre 1924 —1974 1977 Die Verwilderung 1979 Wie wird Beton zu Gras 1983 Das Staunen der Schlafwandler am Ende der Nacht 1983 Eine Insel finden 1988 Gegenwort 1988 Zeit des Fasans

457  1991 Auf der Suche nach der anderen Schweiz 1993 Die verlorene Geschichte

CONTRIBUTI CRITICI: Marcel Roland Mattes, Das Bild des Menschen im Werk Otto F. Walters, 1973 Marc König, Die Spiegelung in Otto F. Walters Werk, 1991 Martin Zingg, Otto F.Walter und Paul Celan. Ein kleines Kapitel Verlagsgeschichte, 2007

MARIA WASER

MARIA WASER (vero nome Maria Krebs) nasce nel cantone di Berna nel 1878. Dal 1897 al 1901 studia Storia e Letteratura alle università di Losanna e Berna. Dal 1904 al 1919 lavora nella redazione di Die Schweiz. Nel 1905 sposa l’archeologo Otto Waser. Oltre che per la sua attività di narratrice è apprezzata per la sua opera di critica a scrittori come Robert Walser e Albin Zollinger. Muore nel 1939.

OPERE PRINCIPALI: 1902 Die Politik von Bern, Solothurn und Basel in den Jahren 1466-1468 1908 Nachspiel zu Schumanns “Der Rose Pilgerfahrt” 1913 Die Geschichte der Anna Waser 1917 Das Jätvreni 1918 Scala Santa 1920 Von der Liebe und vom Tod 1922 Wir Narren von gestern 1923 Das Gespenst im Antistitium 1927 Der heilige Weg 1928 Die Sendung der Frau 1929 Wende 1930 Land unter Sternen 1933 Begegnung am Abend 1934 Lebendiges Schweizertum 1936 Sinnbild des Lebens 1938 Das besinnliche Blumenjahr 1939 Vom Traum ins Licht 1941 Vom Zürcher Geschlecht der Waseren 1944 Nachklang

CONTRIBUTI CRITICI: Georg Küffer, Maria Waser, 1971 Franziska Romana Provini, Maria Waser, 1990

PETER WEBER

PETER WEBER è nato e cresciuto a Wattwill (Toggenburgo) nel 1968. Dopo la maturità, nel 1987, si è trasferito a Zurigo, dove è entrato nella scena Freejazz e ha suonato nella Werkstatt für improvisierte Musik. Assieme ad alcuni amici ha fondato nel 1992 il gruppo letterario Netz.

OPERE PRINCIPALI: 1993 Der Wettermacher 1999 Silber und Salbader 2002 Bahnhofsprosa 2007 Die melodielosen Jahre

458  URS WIDMER

URS WIDMER è nato a Basilea nel 1938. Dopo aver studiato Germanistica, Romanistica e Storia a Basilea, Montpellier e Parigi, si laurea con una tesi sulla prosa tedesca del dopoguerra. Dal 1967 al 1984 lavora come scrittore indipendente e lettore a Frankfurt am Main. Nel 1968 è il co-fondatore della casa editrice “Verlag der Autoren”. Nel 1984 torna in Svizzera. Ottiene con Top Dogs (1996) un successo internazionale; l’opera è tradotta in diverse lingue e rappresentata nei teatri di tutto il mondo. Nella sua carriera ottiene molti premi: degni di nota il “Premio Bertolt Brecht” della città di Augusta ricevuto nel 2000 e il “Gran Premio Letterario dell’Accademia Bavarese di Belle Arti” conferitogli nel 2003. Attualmente vive a Zurigo.

OPERE PRINCIPALI: 1968 Alois 1975 Schweizer Geschichten 1976 Die gelben Männer 1977 Vom Fenster meines Hauses aus 1978 Shakespeares Geschichten. Band 2. Stücke von Shakespeare nacherzählt 1979 Stan und Ollie in Deutschland 1981 Das enge Land 1982 Liebesnacht 1985 Indianersommer 1987 Das Verschwinden der Chinesen im neuen Jahr 1990 Das Paradies des Vergessens 1992 Der blaue Siphon 1993 Liebesbrief für Mary 1996 Top Dogs 1998 Vor uns die Sintflut 2000 Der Geliebte der Mutter 2004 Das Buch des Vaters 2006 Ein Leben als Zwerg 2009 Herr Adamson

CONTRIBUTI CRITICI: Ursi Schachenmann, “Top dogs”. Entstehung — Hintergründe — Materialien, 1997 Winfried Giesen, Urs Widmer — Vom Leben, vom Tod und vom Übrigen auch dies und das, 2006 Winfried Stephan, Daniel Keel, Das Schreiben ist das Ziel, nicht das Buch. Urs Widmer zum 70. Geburtstag, 2008

BINJAMIN WILKOMIRSKI

BINJAMIN WILKOMIRSKI è il nome che Bruno Dössekker, nato nel 1941, ha usato per crearsi l’identità di un sopravvissuto all’Olocausto. Nel 1995 le avventure del giovane ebreo vengono narrate in Bruchstücke. Aus einer Kindheit 1939-1948.

OPERE PRINCIPALI: 1995 Bruchstücke. Aus einer Kindheit 1939-1948

CONTRIBUTI CRITICI: Daniel Ganzfried, Die Holocaust-Travestie. Erzählung, in Sebastian Hefti, ...alias Wilkomirski. Die Holocaust-Travestie, 2002 Blake Eskin, A Life in Pieces: The Making and Unmaking of Binjamin Wilkomirski, 2002

459  MAURICE ZERMATTEN

MAURICE ZERMATTEN nasce a Suen nel 1910 e muore nel 2001 a Sion. Primo di nove figli, cresce nel piccolo paese di Suen, dove compie i suoi studi prima di giungere all’Università di Friburgo. Successivamente insegna in un liceo di Sion. Alla fine degli anni Sessanta è Presidente della Société suisse des écrivains. Si dedica, nella sua carriera di scrittore, a diversi generi letterari: romanzi, racconti, novelle, opere teatrali, saggi e biografie.

OPERE PRINCIPALI: 1936 Le Cœur inutile 1936 Le Chemin difficile 1940 La Colère de Dieu 1942 Le Sang des morts 1944 Christine 1946 L’Esprit des Tempêtes 1951 Le Jardin des Oliviers 1956 La Montagne sans étoiles 1962 L’été de la Saint-Martin 1964 Le Cancer des solitudes 1971 Une Soutane aux orties 1973 La Porte blanche 1980 L’Homme aux herbes 1990 Ô vous que je n’ai pas assez aimée 1999 Contes des Hauts-Pays du Rhône

CONTRIBUTI CRITICI: Micha Grin, Maurice Zermatten. Une ardente expression de la vie, 1995

YVETTE Z’GRAGGEN

YVETTE Z’GRAGGEN è nata il 31 marzo del 1920 a Ginevra da padre svizzero- tedesco e madre di origine ungherese. Ottiene la maturità a Ginevra e poi segue una formazione da segretaria. Dal 1949 al 1952 lavora proprio come segretaria ai Rencontres Internationales di Ginevra e alla Société européenne de culture a Venezia. Dal 1952 al 1982, realizza delle trasmissioni culturali e letterarie per la radio svizzera romanda. Dal 1982 al 1989, lavora alla Comédie de Genève. Ha scritto il suo primo libro, L’Appel du rêve, nel 1939 ma lo pubblicherà soltanto cinque anni più tardi. Ha tradotto anche numerose opere dall’italiano e dal tedesco.

OPERE PRINCIPALI: 1944 L’Appel du rêve (con lo pseudonimo Danièle Marnan) 1944 La Vie attendait 1950 L’Herbe d’octobre 1957 Le Filet de l’oiseleur 1962 Un Eté sans histoire 1971 Chemins perdus 1980 Un Temps de colère et d’amour 1982 Les Années silencieuses 1985 Cornelia 1989 Changer l’Oubli 1991 Les Collines 1992 La Punta 1995 La Preuve; Un long voyage 1996 Ciel d’Allemagne 1997 Quand la Vie n’attend plus 1999 Mémoire d’elles 2000 La Nuit n’est jamais complète

460  2003 Un Etang sous la glace 2007 Eclats de vie

CONTRIBUTI CRITICI: Joy Charnley, Les Écrits de Yvette Z’Graggen, romancière suisse contemporaine, 2006.

JEAN ZIEGLER

JEAN ZIEGLER è nato a Thun il 19 aprile 1934, è un sociologo e politico svizzero. È autore di numerosi saggi sui temi della povertà e sugli abusi e le pecche dei sistemi finanziari internazionali. Dopo aver compiuto gli studi all’Università di Berna e di Ginevra ha ottenuto il dottorato in Legge e Sociologia. Consigliere comunale socialista a Ginevra per un breve periodo e poi parlamentare per numerose legislature presso il Parlamento Federale elvetico, oggi ricopre la carica di Relatore speciale sul diritto all’alimentazione per la Commissione sui diritti dell’uomo delle Nazioni Unite. È professore di sociologia presso l’Università di Ginevra e l’università Sorbona di Parigi.

OPERE PRINCIPALI: 1969 Sociologie et contestation, essai sur la société mythique 1973 Les vivants et la mort ; Essai de sociologie 1976 Une Suisse au-dessus de tout soupçon 1983 Contre l’ordre du monde, les Rebelles 1985 Vive le pouvoir! Ou les délices de la raison d’état 1988 La Victoire des vaincus, oppression et résistance culturelle 1990 La Suisse lave plus blanc 1994 Le Bonheur d’être Suisse 1997 La Suisse, l’or et les morts 2002 Les Nouveaux Maîtres du monde et ceux qui leur résistent 2005 L’Empire de la honte 2008 La Haine de l’Occident

GIUSEPPE ZOPPI

GIUSEPPE ZOPPI è nato a Broglio nel 1896. Si è occupato delle traduzioni in italiano delle opere di Meyer e Ramuz e ha dato alle stampe raccolte di versi con echi dannunziani tra cui figurano La nuvola bianca (1923) e Azzurro sui monti (1936), anche se la sua opera più nota è la raccolta di brevi riflessioni Il libro dell’alpe (1920). E’ morto a Locarno nel 1952.

OPERE PRINCIPALI: 1922 Il libro dell’alpe 1923 La nuvola bianca 1924 Il libro dei gigli 1925 Quando avevo le ali 1936 Azzurro sui monti 1939 Presento il mio Ticino 1941 Ammira la tua patria: pagine per il popolo svizzero 1944 Poesie d’oggi e di ieri 1949 Dove nascono i fiumi 1953 Il libro del granito 1957 Le alpi. Poesie

461  MATTHIAS ZSCHOKKE

MATTHIAS ZSCHOKKE è nato nel 1954 a Berna. Ha studiato teatro ma dal 1980 vive come scrittore e regista cinematografico a Berlino. Le sue opere sono caratterizzate da un marcato tono malinconico. Molti critici paragonano Zschokke a Robert Walser.

OPERE PRINCIPALI: 1982 Max 1983 Elefanten können nicht in die Luft springen, weil sie zu dick sind — oder wollen sie nicht 1984 Prinz Hans 1986 ErSieEs 1986 Brut 1990 Die Alphabeten 1991 Piraten 1994 Der reiche Freund 1995 Der dicke Dichter 1997 Die Exzentrischen 1999 Das lose Glück 2000 Die Einladung 2001 Die singende Kommissarin 2002 Ein neuer Nachbar 2005 Raghadan 2006 Maurice mit Huhn 2008 Auf Reisen

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BIBLIOGRAFIA

SULLA SVIZZERA E LA SUA LETTERATURA:

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Letteratura critica: • Aa. Vv., Königserläuterungen und materialen: Der Richter und sein Henker, Hollfeld, C. Bange Verlag, 2009. • Achermann, E., Il teatro nella Svizzera di lingua tedesca dopo Dürrenmatt e Frisch, ovvero: la scoperta della storia e della lentezza, in Secci, L. — Dorowin, H., Il teatro contemporaneo di lingua tedesca in Italia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002. • Basili, M., Il motivo della passeggiata nell’opera di Robert Walser, in « Homo Sapiens », 1, 2008, pp. 103-114. • Basili, M., Thomas Hürlimann drammaturgo, narratore e saggista, Roma, Aracne Editrice, 2007. • Curiger, B., Meret Oppenheim. Tracce di una libertà sofferta, Lugano, Fidia Edizioni d’Arte, 1995. • Dewulf, J. — Zeller, R., In alle Richtungen gehen. Reden und Aufsätze über Hugo Loetscher, Zürich, Diogenes, 2005. • Durzak, M., Dürrenmatt, Frisch, Weiss. Deutsches Drama der Gegenwart zwischen Kritik und Utopie, Stuttgart, Reclam, 1972. • Fattori, A., La coercizione a èleos e fobos. Iphigenie oder Operation Meereswind (1998) di Jürg Amann, in Secci, L., Il mito di Ifigenia da Euripide al Novecento, Roma, Artemide, 2008. • Fattori, A., Monologhi telliani: Friedrich Schiller, Robert Walser, Max Frisch, in « LINKS. Rivista di letteratura e cultura tedesca », 4, 2004, pp. 109-129. • Fattori, A., Thomas Hürlimann narratore, in Chiarloni, A., La prosa della riunificazione. Il romanzo in lingua tedesca dopo il 1989, Alessandria, Edizione dell’Orso, 2002. • Fries, K., Mutationen des Tell. Otto Marchis « Schweizer Geschichte für Ketzer » als polemische Historie, in Aa.Vv., Tell im Visier, Zürich, Scheidegger & Spiess, 2007. • Georgiadou, A., « Das Leben zerfetzt sich mich in tausend Stücke » Annemarie Schwarzenbach. Eine Biographie. Frankfurt/New York, Campus Verlag, 1995. • Gianelli, I., Meret Oppenheim, Firenze, Alinari, 1983. • Goertz, H., Dürrenmatt. Mit Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbeck bei Hamburg, Rororo, 1987. • Hage, V., Max Frisch. Mit Selbstzeugnissen und Bilddokumenten dargestellt, Reinbeck bei Hamburg, Rororo, 1997. • Hasler, E., Fakten and Fiktion im historischen Roman, in Martins de Oliveira, T., Akten des Workshops über Eveline Hasler in Anwesenheit der Autorin, Faculdade de Letras, Universidade de Coimbra, Coimbra, 2002. • Kurscheidt, G., >Stillstehendes Galoppieren< — Der Spaziergang bei Robert Walser — zur Paradoxie einer Bewegung und zum Motiv des >stehenden Sturmlaufs< bei Franz Kafka, in « Euphorion », 81, 1987, pp. 131-155. • Linsmayer, C., Annemarie Schwarzenbach. Ein Kapitel tragische Schweizer Literaturgeschichte, Bern, Huber Verlag, 2008. • Linsmayer, C., L’opera e la vita di Annemarie Schwarzenbach, in Schwarzenbach, A., La valle felice, Ferrara, Tufani Editrice, 1998. • Petersen, J. H., Max Frisch, Stuttgart, Metzler, 2002.

469  • Reynold, G. de, Le génie épique de Spitteler, in Spitteler, C., Gustave, Genève, Georg, 1920, pp. I-XXIV. • Rusterholz, P., Paradox und Karikatur als Grundformen der Darstellung, in Spedicato, E., Friedrich Dürrenmatt e l’esperienza della paradossalità, Pisa, ETS, 2004, pp. 137- 163. • Schwab, H.-R., Thomas Hürlimann, in « Kritisches Lexikon zur deutschsprachigen Gegenwartsliteratur », 10, 1978. • Spedicato, E., Facezie truculente. Il delitto perfetto nella narrativa di Dürrenmatt, Roma, Donzelli, 1999. • Stadelmeier, G., Mach mal eine Gottespause. Hürlimanns Einsiedler Welttheter dortselbst uraufgeführt, in « Frankfurter Allgemeinen Zeitung », 26 giugno 2000. • Utz, P., Tanz auf den Rändern: Robert Walsers “Jetztzeitstil”, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1998. • Vogt-Baumann, F., Von der Landschaft zur Sprache. Die Lyrik von Erika Burkart, Zürich, Artemis, 1977. • Weber, U., Friedrich Dürrenmatt. Von der Lust, die Welt nochmals zu erdenken, Bern- Stuttgart-Wien, Haupt, 2006. • Weber, U., Tells Fehlschüsse in Dürrenmatts Werk, in Aa.Vv., Tell im Visier, Zürich, Scheidegger & Spiess, 2007. • Wellnitz, P., Max Frisch. La Suisse en question?, Strasbourg, Centre Culturel Suisse, 1997. • Wirtz, I. M., Gertrud Leuteneggers Mythogenesen oder « Die gelöschte Erinnerung an die Zukunft », in Aa.Vv., Tell im Visier, Zürich, Scheidegger & Spiess, 2007.

LETTERATURA FRANCOFONA:

Letteratura primaria: • Auberjonois, F., L’Arche de Noé en cale sèche, Genève, Editions Zoé, 2001. • Barilier, É., Orphée, Lausanne, L’Age d’Homme, 1971. • Ben Salah, R., La véritable histoire de Gayoum ben Tell, Vevey, Xenia, 2007. • Bille, C., Florilège alpestre, Lausanne, Payot, 1953. • Borgeaud, G., Le Préau, Lausanne, L’Age d’Homme, 1982. • Borgeaud, G., Rome, objet de mon sentiment in Id., Italiques, Lausanne, L’Age d’Homme, 1969. • Bouvier, N., Japon, Lausanne, Éditions Rencontre, 1967. • Bouvier, N., Le poisson-scorpion, Lausanne, Éditions 24 heures, 1990. • Bouvier, N., Routes et déroutes. Entretiens avec Irène Lichtenstein-Fall, Genève, Editions Métropolis, 1992. • Cendrars, B., Trop c’est trop, Paris, Editions Denöel, 1957. • Chappuis, M. A., Caprices romains, Vevey, Éditions de L’Aire, 2009. • Chessex, J., Le dernier crâne de M. de Sade, Paris, Grasset, 2009. • Chessex, J., Le romancier et son personnage in Id., De l’encre et du papier, Lausanne, La Bibliothèque des arts, 2001. • Chessex, J., Un juif pour l’exemple, Paris, Grasset, 2009. • Cingria, C.-A., Pendeloques alpestres, Genève, Editions Zoé, 2001. • Cohen, A., Belle du Seigneur, Paris, Gallimard, 1968. • Cohen, A., Carnets 1978, Paris, Gallimard, 1993. • Cohen, A., Les Valeureux, Paris, Gallimard, 1969. • Cohen, A., Solal, Paris, Gallimard, 1981. • Cuneo, A., Gravé au diamant, Lausanne, L’Aire, 1978. • Cuneo, A., Ich war da, und so geschah mir, in Aa.Vv., Die Zürcher Unruhe, Zürich, Orte Verlag, 1980. • Cuneo, A., Lacunes de la mémoire, Orbe, Bernard Campiche, 2006. • Cuneo, A., L’air de Zurich au juin 1980, in « Écriture », 15, 1980. • Cuneo, A., Platz den Menschen — in Zürich zum Beispiel, in Aa.Vv., Die Zürcher Unruhe 2, Zürich, Orte Verlag, 1981.

470  • Debluë, F., Judith et Holopherne, in ID., Travail du Temps, Judith et Holopherne, Poèmes de la Nuit Venue, Lausanne, Éditions Empreintes, 1997. • Dupuis, S., Le Minotaure intérieur (2000), in Id., Géométrie de l’illimité, Genève, La Dogana, 2000. • Giauque, F., Anne, in Id., Terre de dénuement, Lausanne, L’Aire, 1980. • Giauque, F., C’est devenu ça ma vie. Lettres à Hughes Richard, Les-Ponts-de-Martel, Hughes Richard, 1987. • Gilliard, E., Du pouvoir des Vaudois in Id., Œuvres Complètes, Genève, Éditions des Trois Collines, 1965. • Grobéty, A.-L., Le temps des mots à voix basse, Genève, Éditions La Joie de Lire, 2001. • Grobéty, A.-L., Pour mourir en février, Yvonard, Bernard Campiche Éditeur, 1994. • Haldas, G., Orphée errant. Carnet 1989, Lausanne, L’Age d’Homme, 1996. • Hofmann, B., Estive, Genève, Éditions Zoé, 2007. • Jaccottet, P., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Jaccottet, P., La rivière échappée, in Id., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Jaccottet, P., La semaison, Paris, Gallimard, 1984. • Jaccottet, P., La vision et la vue, in Id., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Jaccottet, P., L’approche des montagnes, in Id., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Jaccottet, P., Le jour me conduit la main, in Id., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Jaccottet, P., L’habitant de Grignan, in Id., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Jaccottet, P., L’ignorant, in Id., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Jaccottet, P., Paysages avec figures absentes, Paris, Gallimard, 1997. • Jaccottet, P., Remarques sans fin, in Id., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Jaccottet, P., Sur les pas de la lune, in Id., La promenade sous les arbres, Lausanne, La Biliothèque des Arts, 2009. • Kristof, A., Hier, Paris, Éditions du Seuil, 1995. • Kristof, A., La preuve, Paris, Éditions du Seuil, 1988. • Kristof, A., L’analphabète. Récit autobiographique, Genève, Éditions Zoé, 2004. • Kristof, A., Le grand cahier, Paris, Éditions du Seuil, 1986. • Laederach, M., La femme séparée, Lausanne, Editions L’Age d’Homme, 1993. • Loup, D., L’embrasure, Paris, Mercure de France, 2010. • Lovay, J. M., Conférence de Stockholm in Id., Conférences aux antipodes, Genève, Zoé, 1987. • Maillart, E., Croisières et caravanes, Paris, Éditions Payot & Rivages, 1993. • Maillart, E., Des monts Célestes aux sables Rouges, Paris, Éditions Payot & Rivages, 2001. • Maillart, E., La voie cruelle, Lausanne, Editions 24 heures, 1987. • Maillart, E., Oasis interdites, Lausanne, Le livre du mois, 1971. • Pinget, R., Monsieur Songe, Paris, Les Éditions de Minuit, 1982. • Plume, A., Promenade avec Emile L., Genève, Éditions Zoé, 1992. • Ramadan, T., L’Islam in Occidente, Milano, Rizzoli, 2006. • Ramuz, C.-F., Aime Pache. Peintre Vaudois in ID., Œuvres complètes, vol. V, Lausanne, Éditions Rencontre, 1967. • Ramuz, C.-F., Lettre en réponse à la question: que pensez-vous de la France? in Id., Une province qui n’en est pas une, Lausanne, Rencontre, 1952. • Ramuz, C.-F., Paris, notes d’un Vaudois, Tours, Éditions Les Amis de Ramuz, 2000. • Ramuz, C.-F., Remarques. Politique? in Id., Une province qui n’en est pas une, Lausanne, Rencontre, 1952.

471  • Ramuz, C.-F., Une province qui n’en est pas une, Lausanne, Rencontre, 1952. • Revaz, N., Rapport aux bêtes, Paris, Gallimard, 2002. • Rougemont, D. de, Journal d’un intellectuel en chômage, Paris-Genève, Editions Slatkine, 1995. • Rougemont, D. de, La Suisse ou l’histoire d’un peuple heureux, Lausanne, L’Age d’Homme, 1989. • Rousseau, J.-J., Qual è l’origine dell’ineguaglianza tra gli uomini in Id., Sull’origine dell’ineguaglianza, Roma, Editori Riuniti, 1968. • Voisard, A., L’exil et la plume, in « [vwa] », (2) 1983, p. 10. • Voisard, A., Liberté à l’aube, Vevey, Bertil Galland, 1978. • Voisard, A., Petite marche de nuit in Id., Liberté à l’aube, Vevey, Bertil Galland, 1978. • Zermatten, M., L’homme aux herbes, Lausanne, L’Age d’Homme, 1980.

Letteratura critica: • Ackermann, B., Denis de Rougemont. Une biographie intellectuelle, 2 tomi, Genève, Labor et Fides, 1996. • Auroy, C., Albert Cohen: une quête solitaire, Paris, Presses de l’Université de Paris- Sorbonne, 1996. • Bacholle, M., Un Passé contraignant, Amsterdam, Rodopi, 2000. • Bergé, A., Philippe Jaccottet: trajectoires et constellations. Lieux, livres, passages, Lausanne, Payot, 2003. • Chissalé, B., Anne Cuneo: Témoignage et écriture, Bern-Berlin-Frankfurt am Main- New York-Paris-Wien, Peter Lang, 1997. • Cohen, B., Albert Cohen, mythe et réalité, Paris, Gallimard, 1991. • Cordonier, N., Deux Modèles de Réception de la « Trilogie » d’Agota Kristof, in « Littérature et Nation », 24, 2001. • Courten, M. de, L’imaginaire dans l’œuvre de Corinna Bille, Neuchâtel, La Baconnière, 1989. • Courten, Maryke de, Erudition et liberté. L’univers de Charles-Albert Cingria, Paris, Gallimard, 2000. • Dayan-Herzbrun, S., La Trilogie d’Agota Kristof ou le miroir brisé, in « Tumultes », 12, 1999. • De Mieri, M., Dentro la fabbrica di Agota Kristof, « L’Unità », 5 ottobre 2003. • Debenedetti, A., Agota Kristof: Kafka un mio modello? No, è troppo noioso, « Corriere della Sera », 15 dicembre 1998.

• Debluë, F. — Vuilleumier, J. — Dimitrijevic, V., À la rencontre de Georges Haldas: essais et témoignages, Lausanne, L’Age d’Homme, 1987. • Deering, M. J., Denis de Rougemont. L’Européen, Lausanne, Fondation Jean Monnet pour l’Europe, 1991. • Dentan, M. — Piolino, P., Le jeu de la vie et de la mort dans l’œuvre de Monique Saint- Hélier, Lausanne, L’Age d’Homme, 1978. • Donzé, G., Un homme qui écrit: bibliographie de l’œuvre de Georges Haldas, Lausanne, L’Age d’Homme, 1997. • Durussel, A., Georges Borgeaud, Fribourg, Éditions Universitaires, coll. Cristal, 1990. • Favre, G., Corinna Bille. Le vrai conte de sa vie, Lausanne, 24 heures, 1981. • Fornerod, F., Alice Rivaz, Genève, Zoé, 1998. • Francillon, R., Georges Borgeaud et le style autobiographique, in « Versants », 20, 1991, pp. 63-81. • Francillon, R., Jacques Mercanton et le sentiment du tragique, in « Écriture », 24, 1985, pp. 37-53. • Froidevaux, G., Écriture et voyage en Suisse romande, de Béat de Muralt à Nicolas Bouvier, in « La Licorne », 16, 1989, pp. 179-188. • Garcin, J., Entretiens avec Jacques Chessex, Paris, La Différence, 1979. • Grin, M., Terre et violence, ou l’itinéraire de Maurice Zermatten, Lausanne, Favre, 1983. • Habersaat, E., Yvette Z’Graggen, Fribourg, Éditions Universitaires, coll. Cristal, 1987.

472  • Jaquier, C., Gustave Roud et la tentation du romantisme, Lausanne, Payot, 1987. • Jaquier, C., Le voyage de l’allégement ou les chances de l’inconfort intellectuel. Un récit de Nicolas Bouvier: L’Usage du monde, in « Études de Lettres », 4, 1980, pp. 57-67. • Jaton, A. M., Jacques Chessex. La lumière de l’obscur, Genève, Éditions Zoé, 2001. • Jaton, A. M., La « claustrophobie alpine » et la littérature de voyage (Blaise Cendrars, Charles-Albert Cingria, Nicolas Bouvier), in « Cahiers de l’Association internationale des études françaises », 53, 2001, pp. 143-157. • Jaton, A. M., Nicolas Bouvier, Lausanne, Payot, 2003. • Jaton, A. M., Nicolas Bouvier. Paroles du monde, du secret et de l’ombre, Lausanne, Presses polytechniques et universitaires romandes, 2004. • Junod, R.-L., Alice Rivaz, Fribourg, Éditions Universitaires, coll. Cristal, 1980. • Maggetti, D., Les récits de voyage de Nicolas Bouvier, ou la rencontre de l’ici et de l’ailleurs, in « Europe », 793, 1995, pp. 25-31. • Maggetti, D., Nicolas Bouvier, voyageur et moraliste, in « Versants », 20, 1991, pp. 83- 92. • Maggetti, D., Poésie et prose dans l’œuvre de Nicolas Bouvier, in « Études de Lettres », 3, 1989, pp. 79-88. • Médioni, F., Albert Cohen, Paris, Gallimard, 2008. • Mooser, A., Monique Saint-Hélier, Fribourg, Éditions Universitaires, coll. Cristal, 1996. • Paratte, H.-D., Alexandre Voisard: aventures et avatars des feux d’une écriture, Fribourg, Éditions Universitaires, coll. Cristal, 1986. • Pasquali, A., Nicolas Bouvier, un galet dans le torrent du monde, Genève, Zoé, 1996. • Petitpierre, V., D’un exil l’autre, Ed. Zoé, Genève, 2000. • Pons, R., Une malédiction annoncée in Id., Courant d’ombres, cahier consacré à Francis Giauque, (2) 1995. • Potterat, J.-C., En lettres de feu intérieur…, in « Études de Lettres », 2, 1972, pp. 27-49. • Reichler, C., Starobinski et la critique genevoise, in « Critique », 43, 1987, pp. 606-611. • Riboni-Edme, M.-N., La trilogie d’Agota Kristof. Écrire la division, Paris, L’Harmattan, 2007. • Ridon, J.-X., Le poisson-scorpion. Nicolas Bouvier, Genève, Éditions Zoé, 2007. • Romain, J., Jacques Mercanton: un univers romanesque, Fribourg, Éditions Universitaires, coll. Cristal, 1991. • Romain, J., Présence de Jacques Mercanton, Lausanne, L’Aire, 1989. • Schaffner, A., Albert Cohen, Paris-Roma, Memini, coll. Bibliographie des écrivains français, 1995. • Schnidrig-Arquembourg, C., Georges Borgeaud, ou le salut par l’écriture, Neuchâtel, La Baconnière, 1994. • Taminiaux, P., Robert Pinget, Paris, Seuil, 1994. • Volet, J.-M., From Autobiography to Fiction: Swiss Author Anne Cuneo, in « World Literature Today », (2) 1996. • Vuilleumier, J., Georges Haldas ou l’état de la poésie, Lausanne, L’Age d’Homme, 1982.

LETTERATURA ITALOFONA:

Letteratura primaria: • Bianconi, P., Albero genealogico, Locarno, Armando Dadò Editore, 2009. • Bonalumi, G., Gli Ostaggi, Bellinzona, Casagrande, 1986. • Fasani, R., Senso dell’esilio — Orme del vivere — Un altro segno, Milano, Scheiwiller, 1965. • Filippini, E., La verità del gatto, Torino, Einaudi, 1990. • Filippini, F., Signore dei poveri morti, Venezia, Marsilio, 2000. • Jaeggy, F., Proleterka, Milano, Adelphi, 2001. • Martini, P., Requiem per zia Domenica, Milano, Edizioni Il Formichiere, 1976. • Menghini, F., Esplorazione, Bellinzona, S.A. Grassi & co., 1946. • Orelli, Giov., Il treno delle italiane, Roma, Donzelli, 1995.

473  • Orelli, Giov., La festa del ringraziamento; l’anno della valanga, Milano, Mondadori, 1972. • Pusterla, F., Bocksten, Milano, Marcos y Marcos, 1989. • Pusterla, F., Concessioni all’inverno, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1985.

Letteratura critica: • Castagnola, R., Fleur Jaeggy, Roma, Cadmo, 2006. • Lovascio, R., Le storie inquiete di Fleur Jaeggy, Bari, Progedit, 2007. • Volonterio, G., Il delitto di essere qui. Enrico Filippini e la Svizzera, Milano, Feltrinelli, 1996.

ULTERIORI OPERE E CONTRIBUTI CITATI:

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