* IL GOVERNO DINI: UNA MAGGIORANZA “A TUTTI I COSTI”?

di

Gabriele Maestri (Dottorando di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate Sapienza – Università di Roma)

26 giugno 2013

Sommario: 1. Il contesto politico-istituzionale della crisi – 2. Le consultazioni e la disputa sullo scioglimento – 3. L’incarico a Dini: esecutivo tecnico a tempo determinato? – 4. Dalla formazione del governo alla fiducia.

Dei tredici esecutivi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni (da quello guidato da Ciampi a quello in carica presieduto da ), il governo formato all’inizio del 1995 da presenta vari motivi di interesse. Come si è ricordato spesso in riferimento alle vicende contemporanee, si è trattato del primo esecutivo «tecnico», per la totale assenza di eletti in Parlamento tra i suoi componenti. A portare Dini a palazzo Chigi, poi, era stata la prima crisi di governo della cd. “Seconda Repubblica”, dopo le prime elezioni svoltesi con un sistema elettorale prevalentemente maggioritario1: esso per il legislatore avrebbe dovuto dare più stabilità alle compagini governative, ma l’auspicio fu smentito dopo poco più di otto mesi.

* L’autore ringrazia Alessandro Gigliotti per i preziosi suggerimenti. Il presente articolo rientra nella Call for papers della Rivista sulla formazione dei Governi ed è stato sottoposto alla valutazione scientifica di un comitato composto dai Professori Beniamino Caravita, Vincenzo Lippolis e Giulio M. Salerno. 1 Il riferimento è al sistema introdotto con le leggi 4 agosto 1993, nn. 276 e 277, note come “legge Mattarella”. federalismi.it n. 13/2013 Per le stesse ragioni, quella crisi di governo fu anche la prima in cui ci si domandò se il ruolo del Presidente della Repubblica rispetto alle scelte da compiere (sciogliere le Camere o attribuire un incarico per formare un nuovo esecutivo) fosse cambiato rispetto alla prassi che oltre quarant’anni di elezioni con sistema proporzionale e di parlamentarismo a prevalenza del Parlamento avevano “codificato”. Da ultimo, fece scalpore il fatto che a guidare il primo governo del tutto tecnico fosse un ministro – per giunta di peso, pur se alla prima esperienza politica – dell’esecutivo precedente di centrodestra, ma a sostenerlo fosse buona parte dei gruppi parlamentari di centrosinistra che a inizio legislatura si erano trovati all’opposizione, con l’aggiunta (determinante) di deputati e senatori della Lega Nord, che togliendo il loro consenso al Presidente del Consiglio uscente avevano aperto la crisi di governo. Questi elementi saranno sviluppati nelle pagine che seguono, cercando di prestare attenzione ai riflessi di rilievo costituzionale che il making-of del governo Dini può suggerire.

1. Il contesto politico-istituzionale della crisi. Quando Silvio Berlusconi, il 22 dicembre 1994, si presentò al Quirinale per rassegnare le dimissioni dalla Presidenza del Consiglio, non aveva ricevuto voti contrari in Parlamento – in quel giorno l’assemblea di Montecitorio si sarebbe dovuta esprimere sulle tre mozioni di sfiducia presentate il 19 dicembre2, ma l’atto di dimissioni impedì di passare al voto – ma era conscio dello “smottamento” della compagine che lo aveva sostenuto dal 20 maggio, quando ottenne la fiducia alla Camera. Il giorno prima delle dimissioni Berlusconi si era presentato proprio a Montecitorio per «una verifica parlamentare urgente di scelte e orientamenti dei diversi gruppi di maggioranza e di opposizione» e era intervenuto per dire che il suo partito avrebbe tolto la fiducia all’esecutivo (di cui la Lega era parte)3, rendendo “ufficiale” una posizione politica che i commentatori avevano prospettato da tempo4. Nel discorso alla Camera, peraltro, Berlusconi si espresse sulla crisi di governo (di fatto aperta) e sull’esito da lui auspicato. In quell’occasione, infatti, qualificò il comportamento di Bossi – eletto coi voti determinanti degli elettori di – come «un inganno che carpisce la buona fede dei cittadini italiani, in una clamorosa violazione del primo articolo della Costituzione»: esso avrebbe espropriato la volontà politica dei cittadini portandola «nel

2 Le mozioni erano a prima firma rispettivamente dei deputati Umberto Bossi (Lega Nord) e Rocco Buttiglione (Ppi), (Pds - Progressisti) e Famiano Crucianelli (Rifondazione comunista). 3 Per ripercorrere il dibattito, specie i discorsi di Berlusconi (citato anche più avanti) e Bossi, v. A.P. Camera dei Deputati, XII legislatura – discussioni, seduta del 21 dicembre 1994, n. 119, p. 7303 ss. (resoconto stenografico). 4 I primi segni di un diverso progetto politico Bossi li aveva manifestati a Genova il 6 novembre 1994, durante un’assemblea federale della Lega Nord (v. L. FUCCARO, Bossi: un nuovo polo per nuove regole, pubblicato sul Corriere della Sera, 7 novembre 1994, p. 7). L’uscita di Bossi, peraltro, causò non pochi dubbi e dissensi nel partito, che minacciarono “a corrente alternata” di produrre scissioni.

www.federalismi.it 2 campo degli avversari»: «L’Italia è una Repubblica parlamentare – disse ancora il Presidente quasi dimissionario – ma tutto il nostro sistema istituzionale deriva la sua legittimità dal più scrupoloso rispetto della libera volontà degli elettori. Chiunque operi contro la volontà libera degli elettori […] offende per ciò stesso lo spirito e l'anima della Costituzione democratica e lacera la materia stessa di cui è fatto il patto che unisce i cittadini». Sottolineò così che «una sola maggioranza è legittimata dagli elettori […]. Se questa maggioranza si sfalda, occorre decisamente e serenamente tornare a chiedere il parere degli elettori». Venuta meno l’unica «maggioranza legittimata dagli elettori», dunque, per Berlusconi la sola via da perseguire – e in fretta – era quella delle elezioni anticipate, dando “copertura costituzionale” all’ipotesi addirittura col secondo comma dell’art. 1 Cost., citandone peraltro solo la prima parte («La sovranità appartiene al popolo»). I costituzionalisti accolsero il discorso in modo non unanime: ci fu chi concordò con Paolo Armaroli (futuro deputato di An), secondo il quale le richieste di Berlusconi erano «più che legittime» perché, dopo l’entrata in vigore della “legge Mattarella”, «oltre alla lettura formalistica del dettato costituzionale, adesso ce n’è una più sostanziale che prevede l’esistenza di tre fonti di legittimazione per il governo in carica», aggiungendo il voto degli elettori a monte della nomina del Presidente della Repubblica e alla fiducia delle Camere; altri si trovarono in sintonia con Paolo Barile, per il quale era giusto ribadire l’appartenenza della sovranità al popolo, «ma è necessario ricordare che l’articolo 1 della Costituzione precisa che questa sovranità viene esercitata nelle forme e nei limiti previsti dalla carta stessa»5. Dalla sua il Presidente dimissionario contava su vari indici della torsione del sistema parlamentare dalla versione “compromissoria” a quella maggioritaria: in primis la legge elettorale, ma ce n’erano altri, a partire dalla “rottura” della convenzione costituzionale che dal 1976 (e di fatto fino alla fine della XI legislatura) aveva assegnato la guida di un ramo del Parlamento a un esponente dell’opposizione6. Il sistema elettorale, però, aveva prodotto una maggioranza chiara alla Camera, non al Senato: l’elezione del presidente Pasini arrivò all’ultimo scrutinio previsto dal regolamento, determinata da un solo voto7.

5 Le dichiarazioni sono state raccolte dall’agenzia Adnkronos e riportate, per esempio, dal quotidiano La Stampa (Costituzionalisti. Pareri opposti sul discorso, pubblicato il 22 dicembre 1994, p. 4). 6 Sulla convenzione e la sua “rottura”, v. N. LUPO, La difficile «tenuta» del diritto parlamentare, tra Corte costituzionale, Presidente di assemblea e Presidente della Repubblica, in A. MANZELLA (a cura di), I regolamenti parlamentari a quarant’anni dal 1971, il Mulino, Bologna, 2012, p. 223 ss. V. pure A. MANZELLA, Il parlamento, il Mulino, Bologna, 2003 (III ed.), p. 141 e A. MANNINO, Diritto parlamentare, Giuffrè, Milano, 2010, p. 126 (ma con dubbi su «un uso non imparziale dei […] poteri» in caso di due presidenti di maggioranza). 7 Sulla strumentalità (per lo sfruttamento dei meccanismi della legge elettorale) e sostanziale “illegittimità” dello schieramento che aveva vinto le elezioni politiche del 1994 (per la mancanza di una proposta politica unitaria) v. G. ZAGREBELSKY, Scegliendo la Carta dei valori, pubblicato su La Stampa, 2 gennaio 1995, pp. 1-2. Sul mancato apporto di stabilità della nuova legge elettorale alle compagini di governo v. B. CARAVITA, Il

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2. Le consultazioni e la disputa sullo scioglimento. L’intenzione di tornare nel più breve tempo possibile al voto fu ovviamente riportata da Berlusconi al Presidente della Repubblica nel colloquio di annuncio delle dimissioni8. In quell’occasione, tuttavia, il Capo dello Stato ribadì una posizione già manifestata in precedenza9, che non contemplava affatto lo scioglimento delle Camere in tempi brevi: convinto che «sul piano costituzionale, l’anticipazione di una chiamata alle urne non [sia] un fatto normale ma un elemento patologico della democrazia», egli riteneva che il potere di scioglimento dovesse essere esercitato unicamente quando il Parlamento «non è più in grado di generare una maggioranza capace di governare, né una eventuale formazione che non nasca dalla sua volontà, come quella che di solito chiamano “esecutivo del presidente”»10. Tale linea si tradusse in una non disponibilità del Quirinale a porre fine in quel momento alla XII legislatura, anche su sollecitazione di soggetti diversi dalle forze politiche, preoccupati per la stabilità della moneta italiana e, di riflesso, dell’intera finanza nazionale11. Nel (primo) giro di consultazioni, iniziato già il 23 dicembre con gli ex Presidenti della Repubblica Francesco Cossiga e Giovanni Leone – e ripreso il 27 con i Presidenti delle Camere e, nei giorni successivi, con le delegazioni dei gruppi – emersero nettamente due diverse tendenze: se Lega Nord, Progressisti e Popolari appoggiavano l’idea di un nuovo governo, in forte discontinuità con quello dimissionario12, Forza Italia e Alleanza nazionale rimanevano ferme nella loro idea di un voto anticipato in tempi rapidi, con la fase intermedia gestita dallo stesso governo dimissionario. Lo stesso presidente Scalfaro, tuttavia, non mutò opinione, ritenendo che dai colloqui fosse emerso chiaramente come la maggioranza dei parlamentari fosse contraria allo scioglimento anticipato: il concetto fu comunicato addirittura nella più “classica” delle esternazioni tipiche del Capo dello Stato, il messaggio di fine anno.

Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo: i poteri di nomina e di scioglimento delle Camere, in Federalismi.it, 2010, n. 22, p. 6. 8 Egli, in quell’occasione, indicò come possibile data per le elezioni anticipate il 26 marzo 1995. 9 Si veda M. BREDA, Scalfaro: non si va al voto adesso. «Ho il dovere di sciogliere le Camere esclusivamente in caso di necessità. La gente è confusa, ha bisogno di tempo», pubblicato sul Corriere della Sera, 22 novembre 1994, p. 3. È questa la prima enunciazione della cd. “dottrina Scalfaro”, citata in dottrina ad esempio in S. CECCANTI, Dalle istituzioni locali alla forma di governo nazionale, in Instrumenta, 2001, n. 14, p. 551 ss. o ID., La forma neoparlamentare di governo alla prova della dottrina e della prassi, in Quad. cost., 2002, n. 1, p. 118. 10 V. BREDA, Scalfaro: non si va al voto adesso, cit. 11 Nella stessa direzione, stando alle notizie date dalla stampa, sarebbero andati i commenti di Antonio Fazio (allora governatore della Banca d’Italia) e dei leader dei tre sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil. 12 Sia pure con coloriture diverse tra le varie forze politiche: di «governo di tregua» parlavano i Progressisti, di un esecutivo «tecnico-politico» i Popolari, di un governo istituzionale o, in subordine, “del Presidente” con un economista a guidarlo e tecnici come ministri la Lega. Cfr. M.T. MELI, Crisi lunga, si va ai tempi supplementari, pubblicato su La Stampa, 29 dicembre 1994, p. 3.

www.federalismi.it 4 In quell’occasione13, Scalfaro riconobbe di avere come bussola la Costituzione – che lui stesso aveva contribuito a scrivere – e di tenere come riferimento il risultato elettorale di marzo; disse però apertamente che «[i]l Presidente della Repubblica […] avendo constatato la maggioranza, al Senato e alla Camera, di pareri contrari a elezioni immediate, ha il dovere costituzionale di esaminare se esistono le condizioni per costituire un governo che possa governare». E questa non era affatto una «tesi personale» del Capo dello Stato, ma – lui ne era convinto – la registrazione della «volontà del Parlamento», come da dettato costituzionale. Le diverse visioni del Presidente della Repubblica e del Capo dei Governo dimissionario (che in quei giorni si espresse duramente sul Parlamento in carica, definendolo «delegittimato»14), a ben guardare, sembrano celare a monte una differenza di concezioni circa il potere di scioglimento delle Camere: un potere che, come è noto, la dottrina non qualifica in modo unanime, specie per quanto riguarda la sua effettiva titolarità e i presupposti per l’esercizio15. Così, la posizione di Fi e An sembrava riprendere con vigore la tesi di chi subordina sostanzialmente il potere di scioglimento all’iniziativa del Governo16 o – dal momento che dell’esecutivo fanno ancora parte i ministri della Lega Nord – vede al più lo scioglimento come atto complesso17, risultato della collaborazione tra il Capo dello Stato e una parte significativa delle forze politiche, ma con speciale riguardo per la volontà di queste ultime. La posizione tenuta da Scalfaro, nel mettere in luce il dovere per il Presidente della Repubblica di verificare le condizioni per costruire una nuova maggioranza (a prescindere, se occorre, dalle

13 O.L. SCALFARO, Messaggio di fine anno agli Italiani, 31 dicembre 1994 (pubblicato sul sito www.quirinale.it). 14 A. DI ROBILANT, Berlusconi: il Parlamento è delegittimato, pubblicato su La Stampa, 31 dicembre 1994, p. 2 (lo stesso Berlusconi, peraltro, definì la condotta di Scalfaro come «golpe bianco»). 15 Tra le più recenti ricostruzioni di dottrina, v. C. DE GIROLAMO, Lo scioglimento anticipato delle Camere: una ricognizione della dottrina e della prassi, in Forumcostituzionale.it, 5 settembre 2011 e CARAVITA, Il Presidente della Repubblica, cit., p. 6 ss. 16 In tempi risalenti, la tesi era stata sostenuta ad esempio da A. AMORTH, La Costituzione italiana, Giuffrè, Milano, 1948, p. 151; G. GUARINO, Lo scioglimento del Parlamento nel progetto per la nuova Costituzione italiana, in Rass. dir. pubbl., 1947, n. 3, p. 166-167; ID. Lo scioglimento delle assemblee parlamentari, Jovene, Napoli, 1948, pp. 255 ss.; S. GALEOTTI, La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, Ufficio editoriale dell’Università cattolica, Milano, 1949, pp. 12-35 (tesi riprese in ID., Il Presidente della Repubblica: struttura garantista e struttura governante, in G. SILVESTRI (a cura di), La figura e il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, Giuffrè, Milano, 1985). Più di recente (dopo vari anni in cui si era ritenuto che la costruzione fosse troppo lontana da un ordinamento non maggioritario come il nostro), la tesi si ritrova, debitamente rivisitata e “aggiornata” in A. BARBERA, Tendenze nello scioglimento delle Assemblee parlamentari, in Rass. parl., 1996, n. 2, pp. 231-261; L. CARLASSARE, Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica - Relazione generale, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI, Annuario 2001. Il governo, Cedam, Padova, 2002, pp. 73-108. 17 Per la dottrina storica, v. G. GUARINO, Il Presidente della Repubblica italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, p. 940 ss. (si tratta di un’evoluzione del pensiero dell’autore); L. ELIA, La continuità nel funzionamento degli organi costituzionali, Giuffrè, Milano, 1958, p. 19 ss,; V. CRISAFULLI, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in; Studi per Crosa, vol. I, Giuffrè, Milano, 1960, p. 640 ss.; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico. Tomo II, Cedam, Padova, 1976, p. 664; L. PALADIN, Presidente della Repubblica (voce), in Enc. dir., vol. XXXV, 1986, p. 165 ss. Sulla stessa linea anche L. CARLASSARE, Art. 88, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione, Zanichelli - Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1983, p. 1 ss e CARAVITA, Il Presidente della Repubblica, cit., p. 14 ss.

www.federalismi.it 5 richieste del Governo o dei partiti), sembrerebbe invece più in linea con chi sostiene che il Capo dello Stato abbia un potere sostanziale e non solo formale di scioglimento: quell’atto verrebbe inquadrato tra quelli esclusivamente presidenziali (con la controfirma ridotta a mera verifica di legittimità, fatta ovviamente salva la possibilità per il governo di proporre soluzioni al Presidente della Repubblica)18 o, al limite, come un atto complesso (a collaborazione per lo meno paritaria, se non a prevalenza del Capo dello Stato) o ancora come atto “a configurazione variabile” (presidenziale, sostanzialmente governativo o complesso) a seconda del fattore scatenante, con prevalenza del ruolo del Presidente della Repubblica nelle situazioni di crisi di sistema, come quella riscontrabile tra il 1994 e 199519. La stessa differenza di vedute considerata sin qui, per dire, si estendeva anche alle condizioni in grado di legittimare l’esercizio del potere di scioglimento. Escludendo che il caso in esame fosse riconducibile a varie delle ipotesi tradizionalmente individuate dalla dottrina – contrasto tra Governo e Parlamento in seguito a sfiducia, contrasto insanabile tra le Camere, insorgenza di problemi nuovi e imprevisti, inerzia parlamentare nell’attuazione della Costituzione, “autoscioglimento” – gli esponenti di Fi e An sembravano ravvisare gli elementi per prospettare un contrasto tra le Camere e l’opinione pubblica20, poiché dopo il sostanziale “cambio di fronte” da parte della Lega Nord sarebbe stato impossibile ritenere ancora rappresentativa del corpo elettorale l’intera compagine parlamentare21; del resto, pochi mesi prima, lo stesso Scalfaro aveva “chiamato in causa” proprio il contrasto tra Parlamento e opinione pubblica per giustificare lo scioglimento delle Camere, riferendosi in particolare all’approvazione della “legge Mattarella” e all’esito degli ultimi turni di elezioni

18 Su questa posizione storicamente si sono attestati G. GUARINO, Lo scioglimento anticipato del Senato, in Foro it., 1953, n. 4, col. 98 ss. (contributo in cui l’autore mostra di avere nuovamente mutato il proprio pensiero); P. BARILE, I poteri del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, n. 2, p. 332 ss.; P. BISCARETTI DI RUFFIA, Le attribuzioni del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1963, n. 2, p. 285 ss.; M. GALIZIA, Lineamenti generali sul rapporto di fiducia tra Parlamento e governo, vol. I, Giuffrè, Milano, 1964, p. 244 ss.; più di recente, G.F. CIAURRO, Scioglimento delle assemblee parlamentari (voce), in Enc. giur., vol. XXVIII, 1991, pp. 4-6 (pur con rilievo alla posizione dei partiti) e M. OLIVETTI, Le dimissioni rientrate del governo Prodi, in Giur. cost., 1997, n.. 5, p. 3166 ss. 19 Storicamente, v. C. ESPOSITO, Capo dello Stato (voce), in Enc. dir., vol. VI, 1960, p. 237 ss. ; ID., Controfirma ministeriale (voce), in Enc. dir., vol. X, 1962, p. 294 ss.; M. MAZZONI HONORATI, Aspetti giuridici e prassi costituzionale dello scioglimento delle Camere nell’ordinamento repubblicano italiano, in Riv. trim. dir. pubbl., 1978, n. 4, pp. 1340-1344 (si deve all’autrice, in particolare, la distinzione tra atto composto, spettante al Presidente della Repubblica nei casi in cui occorre ripristinare l’efficienza del sistema – riducendo la controfirma a un atto dovuto – e atto complesso ineguale, funzionale all’attuazione dell’indirizzo politico governativo). 20 Eventualità prospettata in seno all’Assemblea costituente da Luigi Einaudi e Vincenzo La Rocca, essa è stata ripresa ad esempio da BARILE, I poteri del Presidente, cit.; A. MANZELLA, Il Parlamento, in G. AMATO - A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, 2008; F. PINTO, Scioglimento anticipato delle Camere e poteri del Presidente della Repubblica, in Pol. dir., 1980, n. 2, p. 246 (l’autore sottolinea che il contrasto dovrebbe emergere anche a livello istituzionale). 21 Per un’ipotesi simile, v. C. DE CESARE, La coalizione nella nuova forma di governo italiana, in ASSOCIAZIONE PER GLI STUDI E LE RICERCHE PARLAMENTARI, Quaderno, 2002, n. 13, pp. 99-119.

www.federalismi.it 6 amministrative, molto diverso rispetto alle forze rappresentate nelle aule22. Il Presidente della Repubblica, per parte sua, sembrò negare con forza la riconducibilità a un’altra ipotesi – quella più usuale – ossia l’incapacità delle Camere a esprimere un Governo sorretto da una maggioranza: la prevalenza di pareri contrari allo scioglimento del Parlamento e la successiva formazione del governo Dini avrebbero dimostrato meglio di ogni altro evento che «la fine di una maggioranza non è la fine della legislatura»23. Gran parte delle interruzioni anticipate delle legislature precedenti – se si escludono i pochi scioglimenti “puramente tecnici” che si erano verificati fino a quel momento24 – erano sostanzialmente avvenute su richiesta delle forze politiche (senza che la volontà del Presidente del Consiglio avesse un peso rilevante)25: in quelle condizioni, i Capi dello Stato si erano ritagliati un ruolo di mediatori-arbitri, chiamati a registrare con chiarezza la volontà dei partiti e dei gruppi parlamentari e a cercare il più ampio consenso possibile circa l’eventuale scioglimento (anche per non concentrare su se stessi la responsabilità politica di quel gesto). Dopo l’episodio “di rottura” del gennaio 1994 – in cui lo scioglimento avvenne pur in presenza di una maggioranza parlamentare contraria al voto anticipato, ma per le ragioni dette prima – Scalfaro non ritenne di potersi discostare dal modello che era stato “costruito” negli anni della “Prima Repubblica”, credendo probabilmente che non potessero esservi certezze sul fatto gli italiani a marzo avessero scelto (in modo “vincolante”) un governo e una maggioranza ben precisi26: ciò anche sulla scorta di un risultato elettorale non

22 Su quello scioglimento, v. ex multis G.G. FLORIDIA, L’eccezione e la regola: lo scioglimento del 1994, in Corr. giur., 1994, n. 3, pp. 264-265; C. DE FIORES, La travagliata fine della XI legislatura, in Giur. cost., 1994, p. 1497 ss. (spec. 1504); C. FUSARO, Scalfaro e la transizione: non ha fatto quel che poteva, in Quad. cost., 1999, n. 2, p. 396 ss.; L. PEGORARO - A. REPOSO - A. RINELLA - R. SCARCIGLIA - M. VOLPI, Diritto costituzionale e pubblico, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 324-325. 23 Così ZAGREBELSKY, Scegliendo la Carta dei valori, cit.: l’autore sottolinea con chiarezza che quello di Scalfaro «è il punto di vista della Costituzione ed è un grave limite culturale non comprendere che vi siano soggetti che non possono ragionare da politici, da uomini di partito». Concordava già giorni prima con Scalfaro sull’inopportunità di sciogliere il Parlamento in quelle condizioni di non sufficiente stabilità A. MANZELLA, Gli angeli sopra Montecitorio, pubblicato su la Repubblica, 21 dicembre 1994, p. 1. 24 C’è concordanza sulla natura tecnica degli scioglimenti del 1963 e del 1992; DE GIROLAMO, Lo scioglimento anticipato delle Camere, cit. accomuna ad essi anche quelli del 1953 e 1958, mentre per essi si propone la diversa qualificazione di «scioglimento solo apparentemente tecnico» in T.E. FROSINI - P.L. PETRILLO, Art. 88 (voce), in R. BIFULCO - A. CELOTTO - M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Utet, Milano, 2006 (per il 1953 si era parlato dello scioglimento del Senato richiesto dalla Democrazia cristiana a causa della presenza di vari esponenti della sinistra e dei partiti minori; nel 1958 sarebbe accaduta una cosa simile, con la Dc di nuovo a chiedere la conclusione anticipata di una legislatura che stava intralciando l’attività di governo). 25 Cfr. BARBERA, Tendenze nello scioglimento, cit. 26 Cfr. G. PITRUZZELLA, Forme di governo e trasformazione della politica, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 110 ss. Sulla stessa linea, FROSINI - PETRILLO, Art. 88 (voce), cit. Più esplicito G. ZAGREBELSKY, I punti fermi della Costituzione, pubblicato su La Stampa, 16 gennaio 1995, pp. 1, 4: nel suo commento, egli mette in luce da una parte che «la legge elettorale maggioritaria, di per sé, non comporta un’investitura diretta […] né del Presidente del Consiglio né del suo governo», dall’altra che «il Presidente della Repubblica non può agire da nemico del Parlamento. Avendo la maggioranza dei suoi componenti espresso un orientamento contrario […], lo

www.federalismi.it 7 sufficientemente univoco «per poter superare la consolidata interpreazione dei poteri costituzionali e introdurre nuove convenzioni»27. Prendendo per buona questa ricostruzione, il ragionamento di Scalfaro – pure sulla scorta di quanto detto durante il discorso di fine anno – risulta razionale e logico, anche se non mancò di attirarsi critiche da parte di autorevoli esponenti della dottrina per la sua scelta maturata di fatto “in solitudine”: essa infatti non avrebbe consentito il completamento della transizione della forma di governo (provocando di fatto la fragilità del sistema)28 e avrebbe esposto a rischi rilevanti l’imparzialità della carica presidenziale, avendola caricata pressoché per intero della responsabilità politica circa la decisione sullo scioglimento29.

3. L’incarico a Dini: esecutivo tecnico a tempo determinato? La situazione riscontrata dal presidente Scalfaro nelle consultazioni svolte a fine dicembre fu sufficiente per rilevare la maggioranza di voci contrarie a un immediato ritorno alle urne; non bastò, invece, per indicare chi avrebbe potuto guidare il nuovo esecutivo che avrebbe dovuto scongiurare – almeno per un po’ di tempo – le elezioni anticipate, per cui il Capo dello Stato ritenne necessario procedere a un nuovo giro di incontri con le forze politiche, i Presidenti delle Camere e gli ex Presidenti della Repubblica. La situazione era resa ulteriormente delicata dall’attesa per il pronunciamento della Corte costituzionale sulle numerose richieste di referendum presentate, inter alios, da vari esponenti legati al mondo radicale, alcune delle quali vertevano di nuovo sulla normativa elettorale (per cancellare la quota proporzionale) e altre sulla disciplina della radiotelevisione, fonte di tensioni tra le forze politiche30. Le ipotesi sui nomi iniziarono a circolare già negli ultimi giorni del 1994: si fece largo, tra i commentatori, l’ipotesi di un mandato esplorativo a figure di caratura istituzionale, come il presidente del Senato Scognamiglio Pasini (per un esecutivo più incentrato su Forza Italia), oppure , già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio quando a palazzo Chigi c’era ; si diede credito pure a un esecutivo “del Presidente” presieduto da Francesco Cossiga, non sgradito a molte forze politiche (a

scioglimento sarebbe stato un atto di guerra istituzionale. Egli si sarebbe reso complice di un inconcepibile “scioglimento di minoranza”, al limite dell’attentato alla Costituzione». 27 A. BARBERA, La forma di governo in transizione, in Quad. cost., 1995, n. 2, p. 226 ss. 28 Cfr. FUSARO, Scalfaro e la transizione, cit., pp. 397, 399. 29 Su questa linea G. PITRUZZELLA, Il governo del Premier, in G. CALDERISI - F. CINTIOLI - G. PITRUZZELLA (a cura di), La Costituzione promessa, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pp. 12-13. 30 Sul ruolo del Presidente della Repubblica nella “partita” referendaria e sulla possibilità che potesse intervenire sulla Consulta si sviluppò una polemica politica molto aspra. Sui quesiti, specie in materia elettorale, vanno registrati gli interventi di P. BARILE, Referendum inammissibili, pubblicato su la Repubblica, 28 dicembre 1994, p. 12 e A. MANZELLA, Gli effetti della tregua, pubblicato su la Repubblica, 2 febbraio 1995, p. 12.

www.federalismi.it 8 cominciare da Fi) e con l’obiettivo di “ricucire” le forze politiche31, oppure a un governo privo di coloritura politica e guidato da un economista (si fece già allora il nome di Mario Monti, in quel momento uno dei due membri italiani della Commissione europea). Solo alla vigilia del secondo giro di consultazioni nelle cronache iniziò a essere ricorrente il nome di Lamberto Dini (incontrato addirittura per primo, in apertura dei colloqui), ministro del Tesoro dell’esecutivo uscente e in precedenza direttore generale della Banca d’Italia: quell’ipotesi si affacciò più volte con il passare dei giorni, in alternativa a quelle citate in precedenza. Dopo diversi giorni in cui – nella prima decade del 1995 – non sembrò fuori luogo parlare di vero scontro tra i partiti di centrodestra32 e il Quirinale, alla fine del secondo giro di consultazioni il presidente Scalfaro in un primo tempo non chiuse la porta a un possibile rinvio alle Camere del governo dimissionario o a un nuovo incarico a Berlusconi, purché ci fossero state basi concrete per superare l’esame della fiducia33; il 13 gennaio 1995, tuttavia, scelse di incaricare Lamberto Dini perché formasse un nuovo esecutivo. Membro del Governo uscente, Dini ottenne l’incarico – da lui accettato con riserva – nel diverso ruolo di “tecnico”34 come era già accaduto due anni prima con Carlo Azeglio Ciampi (anch’egli scelto in quanto governatore della Banca d’Italia), ma con una differenza fondamentale: se in quell’esecutivo la maggioranza dei membri era ben connotata politicamente, in questo caso la “squadra” sarebbe stata composta solo «da personalità svincolate dall’appartenenza a raggruppamenti politici e selezionata unicamente in base a criteri di professionalità e di capacità»35. Fu lo stesso Dini, nel suo discorso post-incarico, a delineare un «governo formato da tecnici» e con «un programma ben delineato», concentrato (solo?) sulla soluzione delle «questioni che appaiono particolarmente urgenti»: a questo proposito il Presidente incaricato indicò la “manovra” economico-finanziaria, la riforma previdenziale che desse seguito agli accordi con le parti sociali, la disciplina della par condicio nell’accesso dei partiti ai media in campagna

31 Era stato lo stesso predecessore di Scalfaro a non negare la possibilità di un suo coinvolgimento fin dal primo giorno di consultazioni, come emerge in F. MARTINI, E adesso Cossiga ritorna in campo, pubblicato su La Stampa, 24 dicembre 1994, p. 7. 32 Ciò che restava della coalizione, Forza Italia in testa, era ben risoluta a chiedere il voto in tempi brevi (con l’indicazione di una data certa), essendo disposta tutt’al più ad accettare un governo Berlusconi-bis o un rinvio dell’esecutivo dimissionario alle Camere. A rendere l’idea del clima possono bastare gli articoli di A. RAPISARDA, Scalfaro a Berlusconi: fatti da parte e M.T. MELI - A. MINZOLINI, Palazzo Chigi, la notte dell’ira, pubblicati su La Stampa, 10 gennaio 1995, p. 3. 33 V. F. MARTINI, Scalfaro: serve ancora tempo, pubblicato su La Stampa, 12 gennaio 1995, p. 2. 34 Nota peraltro CARAVITA, Il Presidente della Repubblica, cit., p. 9 che «i governi non sono mai “tecnici”, ma sono sempre politici, dovendo reggersi su di una fiducia parlamentare espressa su di una mozione motivata; ciò impone necessariamente l'esplicitazione delle ragioni - che non possono che essere politiche - sottese alla espressione di fiducia». 35 La citazione, come quelle che seguiranno, è tratta dal discorso di Dini dopo il conferimento dell’incarico da parte del Capo dello Stato: il testo del discorso è riportato integralmente da La Stampa, 14 gennaio 1995, p. 2.

www.federalismi.it 9 elettorale e, da ultimo, una nuova normativa che regolasse le elezioni regionali superando la legge vigente basata su un sistema proporzionale. L’indicazione specifica di quei quattro punti programmatici avevano ingenerato in qualche analista il pensiero che l’eventuale governo guidato da Dini, una volta ottenuta la fiducia delle Camere, potesse restare in carica solo per il tempo necessario a esaurire quei punti, magari giusto una manciata di mesi (magari essendo proprio questa la condizione per ottenere la fiducia da parte di alcuni partiti): quella di Dini, insomma, avrebbe potuto porsi in quel caso come una presidenza “a tempo determinato” per un governo “a termine”, come del resto una parte significativa della maggioranza che aveva appoggiato il governo di Silvio Berlusconi continuava a sostenere con forza36; l’eventualità, invece, era categoricamente smentita dal Presidente del Senato, secondo il quale non c’era stato alcun accordo in tal senso37, nonché dalle forze politiche già all’opposizione che si proponevano di sostenere il nuovo esecutivo38. Toccò allo stesso Presidente incaricato, a Governo formato, sostenere di non conoscere «un modo costituzionalmente valido per fare un governo a termine»39. Autorevoli studiosi di diritto costituzionale, del resto, erano sempre stati chiari nel sottolineare l’inesistenza nell’ordinamento italiano dell’ipotesi di un governo con una scadenza predefinita (sottoposto a condizione risolutiva o a termine finale), «ciascun Governo restando in carica sino a quando non sia privato della fiducia di una delle due Camere o non abbia più, comunque, una maggioranza che lo sostenga»40. La stessa dottrina, peraltro, pur riconoscendo che ogni patto o convenzione tra partiti che ponga un termine alla durata dell’esecutivo finisce per violare la Costituzione41, ammette che «non sarebbe la prima volta che il sistema politico si sovrappone

36 Ciò emerge chiaramente da un’intervista rilasciata da , ministro uscente della Difesa e in quel momento coordinatore di Forza Italia, nella quale sembra anche emergere un impegno di Scalfaro a un voto nel giro di pochi mesi, comunque entro giugno: v. G. TIBERGA, «Ma entro giugno alle urne», pubblicato su La Stampa, 14 gennaio 1995, p. 7. V. anche F. VERDERAMI, E Fini avverti: «Lamberto, il tuo governo è a termine», pubblicato sul Corriere della Sera, 14 gennaio 1995, p. 2. 37 Meno categorica fu la Presidente della Camera, Irene Pivetti, che rimandò piuttosto all’esito del dibattito sulla fiducia: v. A. RAPISARDA, Governo a termine, forse no, pubblicato su La Stampa, 15 gennaio 1995, p. 2. 38 Emblematico Massimo D’Alema, secondo il quale il governo Dini «in due mesi non potrebbe fare né la manovra economica, né la riforma delle pensioni. Per fare queste due cose, come minimo si arriverebbe ad elezioni a ottobre». V. P. GUZZANTI, «Con Dini nasca una Costituente», pubblicato su La Stampa, 15 gennaio 1995, p. 5. 39 G. CREDAZZI, Dini: «Non ho tradito nessuno», pubblicato sul Corriere della Sera, 19 gennaio 1995, p. 2. 40 T. MARTINES, Intervista, in P. CALANDRA (a cura di), Lo scioglimento del 1987, in Quad. cost., 1988, n. 1, p. 74. 41 Sulla stessa linea, del resto, fu anche una nota ufficiosa del Quirinale, con cui la Presidenza della Repubblica negò di avere preso alcun accordo sulla data delle elezioni: «Scalfaro ha concordato con Berlusconi che, realizzati i quattro punti del governo Dini, si sarebbe riaperta la questione politica e che, ovviamente, il problema delle elezioni sarebbe a questo punto ritornato sul tavolo, anche perché il Capo dello Stato, secondo la Costituzione, non può annunciare lo scioglimento delle Camere in anticipo». V. A. CAPORALE, La destra contro Scalfaro: «Dovrebbe dimettersi», pubblicato su la Repubblica, 26 gennaio 1995, p. 3.

www.federalismi.it 10 a quello costituzionale»42: ciò, in pratica, avrebbe comportato che un “fatto concludente” come la scelta di togliere l’appoggio all’esecutivo perché non godesse più della fiducia sarebbe stato costituzionalmente “scorretto”, ma nella piena disponibilità delle forze politiche. Vale altrettanto la pena sottolineare che, all’atto del conferimento dell’incarico, Lamberto Dini non poteva contare su una maggioranza precostituita o, per lo meno, sufficientemente definita. Se, come si è detto, l’unica maggioranza riscontrabile nelle aule parlamentari era sulla contrarietà a uno scioglimento immediato delle Camere, in base alle consultazioni nessun potenziale candidato sembrava godere di una maggioranza certa nei due rami del Parlamento. Le cronache seguenti all’incarico indicarono come forze disponibili a votare la fiducia al governo il Pds (purché non fosse previsto alcun componente politico dell’esecutivo), il Ppi e la Lega Nord; Fi e An (e con loro Ccd e Udc-Costa) sembrarono intenzionati a sostenere il governo Dini a patto che fosse di breve durata per poi andare a elezioni anticipate (An, peraltro, scontava una dura opposizione alla soluzione Dini da parte di dirigenti come Teodoro Buontempo, contrari all’incarico a chi non avesse avuto una legittimazione popolare), mentre era diventata netta (almeno sulla carta) la contrarietà di Rifondazione comunista. Anche le dichiarazioni di Fini subito dopo la nomina di Dini («Può essere che il governo lo votino in molti, ma poi non è detto che sui singoli punti si coaguli la stessa maggioranza»)43, del resto, ponevano fin dall’inizio dubbi sulla “geometria variabile” del consenso su cui l’ex ministro del Tesoro avrebbe potuto contare in Parlamento. La scelta di affidare comunque l’incarico in forma piena – e non, ad esempio, un quid minus come un reincarico – da un lato scaricò di fatto sull’incaricato la responsabilità di trovare una maggioranza per evitare il fallimento e il ritorno alle urne (eventualità che Scalfaro mostrò in più occasioni di non voler perseguire), dall’altro svelò l’interpretazione data dal Capo dello Stato circa il noto concetto di potere “a fisarmonica”: il Presidente della Repubblica, dunque, ritenne che – pur restando fermo il rapporto teleologico che lega il potere di nomina del Presidente del Consiglio al suo successivo ottenimento della fiducia44 – in un momento di particolare crisi e instabilità del sistema, avrebbe potuto nominare Capo del governo e ministri anche in assenza di una maggioranza “preconfezionata” (ma pur sempre possibile, in base alle consultazioni), chiedendo di fatto all’incaricato un surplus di impegno per trovarla in concreto, all’atto del suo insediamento e in seguito45.

42 Ibidem. 43 F. MARTINI, Il «giorno nero» di Fini il falco, pubblicato su La Stampa, 14 gennaio 1995, p. 7. 44 V. ad es. CARAVITA, Il Presidente della Repubblica, cit., pp. 3-4. 45 Sempre CARAVITA, ivi, pp. 10-11 non nasconde affatto il suo giudizio molto sfavorevole sulla dinamica dei fatti riscontrata con la nascita del governo Dini: partendo dalla considerazione che l’esecutivo che chiede la

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4. Dalla formazione del governo alla fiducia. Nel rispetto degli accordi con il Presidente della Repubblica, Lamberto Dini si impegnò a formare il governo nel più breve tempo possibile, senza ricorrere a consultazioni formali (pur avendo comunque contatti con le forze politiche, con alcuni consiglieri e con coloro che avrebbero potuto ricoprire il ruolo di ministro). Con lo svolgersi dei colloqui, in ogni caso, si assistette a una progressiva “mutazione” della natura del governo: in un primo tempo, infatti, gli incontri tenuti dallo stesso Dini sembrarono delineare un esecutivo sì tecnico, ma con una certa continuità rispetto a quello precedente, sia per la conferma di alcune figure, sia per l’inserimento di alcuni “tecnici” riconoscibilmente legati al centrodestra46. La situazione cambiò radicalmente il 15 gennaio, dopo un incontro tra il Capo dello Stato e il Presidente incaricato: se non si registrarono obiezioni su alcune figure chiave del nuovo potenziale governo (come il direttore generale dell’Imi Rainer Masera al Bilancio, l’ex procuratore generale di Roma alla Giustizia), Scalfaro chiese ugualmente a Dini di preservare la natura super partes dell’esecutivo, individuando solo sottosegretari della stessa natura (o rinunciandovi del tutto)47 e, soprattutto, di dare «segni di discontinuità» rispetto al governo precedente circa i nomi dei ministri, per non “minare” la disponibilità delle forze politiche inizialmente disposte a sostenere il nuovo esecutivo48. Immediata conseguenza di quella richiesta di “un passo indietro” fu l’esclusione di dalla poltrona di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, inizialmente confermata da Lamberto Dini; non sortì effetto neppure il tentativo in extremis di Silvio Berlusconi di chiedere la conferma di quattro ministri legati alla precedente maggioranza (,

fiducia si è già insediato, «se la nomina avvenisse senza la ragionevole certezza – raggiungibile attraverso le consultazioni e la loro trasparenza – dell’esistenza di una maggioranza parlamentare, saremmo nella situazione di un Presidente del Consiglio, ormai in carica, che si presenta in Parlamento, cercando e contrattando in quella sede di volta in volta i voti necessari per sopravvivere», una situazione che all’autore «pare incompatibile con una ordinata e ben funzionante forma di governo parlamentare, o, meglio, totalmente e concettualmente estranea a questa esperienza». Il giudizio, del resto, non è meno negativo nei confronti dei cd. “governi elettorali”, privi di fiducia in violazione del dettato costituzionale. 46 Si parlava, in particolare, della conferma di Gianni Letta (come sottosegretario alla Presidenza o ministro per i rapporti col Parlamento) e di Giulio Tremonti (Fi) alle Finanze – purché si dimettesse da parlamentare – nonché di (Fi), (An) e Francesco D’Onofrio (Ccd). V. M.T. MELI, Dini, prove «tecniche» da premier, pubblicato su La Stampa, 15 gennaio 1995, p. 3. 47 Sul punto si discostò Scognamiglio Pasini: per lui i sottosegretari, per ragioni di «opportunità parlamentare […] non po[teva]o essere tutti tecnici», né la loro nomina avrebbe dovuto porsi in contrasto col risultato delle elezioni del 1994 (avrebbero dunque dovuto essere figure politicamente riconducibili al centrodestra). V. F. VERDERAMI, Guerra Colle-Polo, Dini tra due fuochi, pubblicato sul Corriere della Sera, 17 gennaio 1995, p. 3 e G. BUCCINI, I sottosegretari? Politici, tecnici o…, pubblicato sul Corriere della Sera, 17 gennaio 1995, p. 2. 48 Cfr. M.T. MELI, Scalfaro a Dini: governo super partes, pubblicato su La Stampa, 16 gennaio 1995, p. 3; F. VERDERAMI, Governo, adesso interviene Scalfaro, pubblicato sul Corriere della Sera, 16 gennaio 1995, p. 3.

www.federalismi.it 12 Antonio Martino, Domenico Fisichella e Francesco D’Onofrio) perché i partiti vincitori delle elezioni del marzo 1994 fossero adeguatamente rappresentati nel nuovo esecutivo49. La formazione del governo rischiò seriamente di arenarsi il 16 gennaio, per l’indisponibilità di Berlusconi e dell’intero polo50 ad accettare sia la mancanza dei nomi richiesti, sia a tollerarne alcuni tra i presenti nella lista (a partire da quello di Adriano Ossicini51). Ad essere contestato, di nuovo, fu anche l’atteggiamento del Presidente della Repubblica e, in particolare, il suo “interventismo” in questo frangente: risultò poco gradito al Polo il fatto che certi contatti per la formazione della “squadra” di governo fossero stati tenuti direttamente da Scalfaro52, cosa che avrebbe concretizzato, a loro dire, una violazione dell’art. 92 Cost., spettando al Presidente del Consiglio (e non al Capo dello Stato) la scelta dei ministri; è probabile, d’altronde, che il Quirinale abbia interpretato in modo estensivo le «prestazioni di unità»53 consentitegli dalla Costituzione, in considerazione dello “stato di crisi” del sistema repubblicano in quel momento (a dispetto della “svolta” maggioritaria) e giocato in pieno il ruolo di «commissario della crisi»54 ricoperto dalle dimissioni del governo Berlusconi in poi. Il giorno successivo la lista dei ministri fu definitiva e Dini sciolse la riserva: il 17 gennaio 1995 comunicò la composizione dell’esecutivo e insieme ai ministri giurò al Quirinale. Confermati i nomi, circolati nei giorni precedenti, di Rainer Masera al Bilancio e Filippo Mancuso alla Giustizia, lo scacchiere si completò col tributarista al Ministero delle Finanze (Dini tenne per sé ad interim il dicastero del Tesoro), l’ex Primo Presidente della Corte di cassazione al Viminale, Susanna Agnelli55 alla Farnesina e il generale (ex Capo di Stato maggiore della Difesa) proprio al Ministero della Difesa; il dicastero della Pubblica istruzione andò all’imprenditore del tessile Giancarlo Lombardi (l’Università e la Ricerca toccarono al fisico ),

49 Cfr. VERDERAMI, Guerra Colle-Polo, cit. 50 Cfr. M.T. MELI, Dini a un passo dalla rinuncia, poi resiste e A. MINZOLINI, Dal bunker cannonate sul Colle, pubblicati su La Stampa, 17 gennaio 1995, p. 3. 51 Ossicini, già membro del Movimento dei cattolici comunisti – Partito della sinistra cristiana e dal 1968 al 1992 senatore indipendente per il Pci, era stato presidente del Comitato nazionale di bioetica fino al 1994, sostituito proprio dal governo Berlusconi 52 Ci si riferisce in particolare alle telefonate che Scalfaro in persona avrebbe fatto a Livio Paladin e Gian Domenico Pisapia (i quali avrebbero rifiutato di far parte del governo) e a (che invece accettò). 53 L’espressione è utilizzata da G. PITRUZZELLA, Art. 92-93, in G. BRANCA - A. PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione (vol. Il Consiglio dei Ministri), Zanichelli - Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1994, p. 48. 54 L’espressione, piuttosto convincente, è tratta da A. D’ANDREA, Art. 92 (voce), in R. BIFULCO - A. CELOTTO - M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. II, Utet, Milano, 2006. 55 La Agnelli era tra i pochi componenti del governo ad avere già ricoperto cariche in un esecutivo: era stata più volte sottosegretario agli Esteri, oltre che parlamentare italiano ed europeo per il Partito repubblicano italiano.

www.federalismi.it 13 quello dei Lavori pubblici all’economista Paolo Baratta56 (cui fu affidato pure il Ministero dell’Ambiente), le competenze in materia di Risorse agricole toccarono all’agronomo Walter Luchetti, mentre dei Trasporti si occupò il docente di economia Giovanni Caravale57. Alberto Clò, altro economista, ebbe la responsabilità dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (ma gli toccò anche occuparsi del Commercio con l’estero)58, il giuslavorista andò al dicastero del Lavoro, il medico ed esperto di organizzazione sanitaria si insediò al Ministero della Sanità (al posto del citato , nuovo ministro senza portafoglio per la Famiglia e la solidarietà sociale); il delicato settore delle Poste e Telecomunicazioni – per ciò che riguardava la materia radiotelevisiva – fu assegnato ad Agostino Gambino, docente di diritto commerciale e delle assicurazioni59, mentre lo storico dell’arte e soprintendente Antonio Paolucci fu il nuovo ministro per i Beni culturali60. Completata la “squadra” di governo con i sottosegretari, il governo Dini dovette subito fare i conti con la decisa e violenta delusione di quasi tutti i partiti della precedente maggioranza, risoluti a non sostenere in alcun modo un esecutivo del tutto diverso da quello che avevano immaginato pochi giorni prima61 e in profonda “rottura” con il Presidente della Repubblica, che a loro dire avrebbe dovuto assumersi tutta la responsabilità “politica” di un fallimento dell’esecutivo guidato da Dini; il Presidente del Consiglio, per parte sua, respinse ogni accusa di “tradimento” che gli era stata mossa e chiese comunque il voto dei suoi ex alleati, pur potendo contare essenzialmente – all’indomani della nomina del governo – sull’appoggio dei Popolari di Buttiglione, del Partito democratico della sinistra di Massimo D’Alema e sui parlamentari della Lista Pannella, oltre che su quelli della Lega Nord, che peraltro sembrò tutt’altro che compatta e in procinto di subire defezioni.

56 Anche Paolo Baratta aveva già esperienze di governo, in particolare come Ministro dell’industria e del commercio del governo Ciampi. 57 Caravale prese il posto di Antonio Marzano, legato a Forza Italia, che rifiutò di diventare ministro di un governo che non riteneva (più) super partes, per il mancato sostegno del Polo all’esecutivo. 58 Quel dicastero gli venne affidato dopo la rinuncia di Gaetano Rasi (Alleanza nazionale): questi ritenne che il nuovo governo non fosse «una risposta coerente con il risultato delle elezioni del 27 marzo». V. D. VAIANO, Rasi e Marzano, da destra due «no grazie» in un’ora, pubblicato sul Corriere della Sera, 18 gennaio 1995, p. 3. 59 Gambino era già noto agli esperti della politica italiana per aver partecipato alla commissione governativa (nota come “gruppo dei tre saggi”) incaricata di dare una soluzione legislativa al”conflitto di interessi” che aveva riguardato Silvio Berlusconi mentre era Presidente del Consiglio. 60 Il governo Dini si completò con la nomina di vari ministri senza portafoglio, oltre al citato Ossicini: (Funzione Pubblica e Affari Regionali), Franco Barberi (Protezione Civile), Giovanni Motzo (Riforme istituzionali), Guglielmo Negri (Rapporti con il Parlamento). 61 Cfr. M.T. MELI, «Se cade il governo, Scalfaro deve dimettersi» e A. MINZOLINI, Nel bunker parlando di «grande truffa», pubblicati su La Stampa, 18 gennaio 1995, p. 2 (si veda in particolare il dialogo tra Scalfaro e Berlusconi avvenuto durante le consultazioni – e riportato da Gianni Letta – in cui il Capo dello Stato avrebbe accettato di andare ad elezioni anticipate l’11 giugno 1995); v. anche G. TIBERGA, «Lamberto, anche tu mi hai tradito», pubblicato su La Stampa, 18 gennaio 1995, pag. 5.

www.federalismi.it 14 Nel suo discorso alle Camere che precedette il voto di fiducia62, Lamberto Dini richiamò le «gravi responsabilità che sono state affidate a me e a questo Governo dal Capo dello Stato», sottolineò la «eccezionalità e transitorietà del compito» affidato al suo esecutivo (testimoniate anche dalla caratura “tecnica” dei suoi componenti); sviluppò con ampiezza i quattro punti del suo programma già enunciati in sede di incarico63, senza limitare ad essi l’azione di governo (indicando anzi molti impegni che l’esecutivo si sarebbe assunto in caso di esito positivo del voto di fiducia e che, come le priorità già note, non sembravano “esauribili” in pochi mesi). Sulla durata dell’esecutivo, Dini disse che il governo avrebbe operato solo avendo in Parlamento «una base di consenso e di concorde volontà che gli permetta di realizzare in tempi molto rapidi il proprio programma» e che «il Governo considererà esaurito il proprio compito non appena saranno stati esauriti i quattro impegni assunti come parte essenziale del proprio programma»; a maggior chiarezza, il Presidente del Consiglio precisò che, in caso di evidente impossibilità di realizzare i punti programmatici «a causa di ostacoli oggettivamente insuperabili» (chiaro il riferimento a un atteggiamento ostile delle aule parlamentari), il Governo ne avrebbe preso atto «ritenendo anche in questo caso esaurito il suo compito». Nessun riferimento, tuttavia, si trovò a una data certa per nuove elezioni, condizione richiesta da vari esponenti di Forza Italia e Alleanza nazionale per sostenere il nuovo esecutivo. Alla Camera, la mozione di fiducia presentata dai deputati Andreatta, Berlinguer, Masi, Petrini, Bogi, Ugolini, Caveri, Brugger fu approvata il 25 gennaio con 302 voti favorevoli (i contrari furono 39) su 341 votanti, con ben 270 astenuti64: votarono a favore della fiducia Pds, Ppi, Lega Nord (a parte qualche dissenso personale, convertito in astensioni o voti contrari), Patto Segni, Pri, Alleanza democratica, Svp, Union Valdôtaine; si astennero Fi, An, Ccd, Lista Pannella, Federalisti liberaldemocratici, mentre votò contro il gruppo di Rifondazione comunista. A Palazzo Madama, invece, la mozione presentata dai senatori Salvi, Tabladini, Mancino, Ronchi, Sellitti e Gualtieri ricevette l’approvazione dell’aula il 1° febbraio65: dei 211 senatori presenti all’atto della votazione, 191 appoggiarono il nuovo governo, 17 votarono contro, 2 si astennero; si riprodusse di fatto lo schieramento già visto a Montecitorio, anche se le forze politiche che alla Camera si erano astenute al Senato scelsero di non partecipare al voto uscendo dall’aula, per ben note ragioni legate al computo delle astensioni

62 A.P. Camera dei Deputati, XII legislatura – discussioni, seduta del 23 gennaio 1995, n. 125, p. 7507 ss. (resoconto stenografico). 63 Dini precisò, a beneficio del centrodestra, che era necessario «proseguire lungo il sentiero del risanamento finanziario» iniziato dal governo precedente. 64 A.P. Camera dei Deputati, XII legislatura – discussioni, seduta del 25 gennaio 1995, n. 127, p. 7666 ss. (resoconto stenografico). 65 A.P. Senato della Repubblica, XII legislatura – discussioni, seduta del 1° febbraio 1995, n. 113, p. 61 ss. (resoconto stenografico).

www.federalismi.it 15 in base al regolamento di Palazzo Madama. Non si può peraltro sorvolare sul fatto che al Senato concesse la fiducia al governo anche Umberto Carpi di Rifondazione comunista (per questo subito oggetto di sanzioni nel partito) e che tredici deputati rifondatori, pur votando contro per disciplina di gruppo, sottoscrissero un documento di sostegno al governo66: si trattò del segno inequivocabile di una frattura in atto, certificata dal voto sulla questione di fiducia posta dal governo il 16 marzo 1995 alla Camera, per il cui esito positivo furono determinanti i voti dei dissidenti del Prc67 che a giugno, al seguito dell’ex capogruppo alla Camera Famiano Crucianelli, avrebbero abbandonato il partito costituendo il Movimento dei comunisti unitari. L’esito dei voti di fiducia (e, in seguito, la trasformazione di parte delle astensioni in voti contrari) confermò il radicale cambio di maggioranza rispetto alle elezioni del 1994 – giornalisticamente noto come “ribaltone” – tanto da far dubitare autorevole dottrina della correttezza della “operazione Dini” fin dall’inizio, per la mancata corrispondenza tra maggioranza parlamentare e maggioranza elettorale68. Il governo di Lamberto Dini entrò così nella pienezza dei suoi poteri: vi sarebbe rimasto fino all’11 gennaio 1996, quando il Presidente del Consiglio presentò le proprie dimissioni «irrevocabili» al Capo dello Stato, dopo che questi aveva respinto un analogo atto il 30 dicembre 1995. Nei dodici mesi di guida del paese, l’esecutivo compì i quattro punti prioritari posti dall’inizio, ma giunse a fine mandato non senza scossoni, che ne minarono la stabilità: su tutti, si ricordi il cd. “caso Mancuso” (sorto in seguito alle iniziative e agli attacchi del ministro Guardasigilli nei confronti dei titolari dell’inchiesta “”), concluso col primo caso di mozione di sfiducia individuale nei confronti dello stesso Mancuso (atto su cui si sarebbe espressa la Corte costituzionale, in modo sfavorevole al ministro. Nemmeno il governo Dini, tuttavia, fu strettamente definibile come governo “pre-elettorale”: dopo le sue dimissioni, infatti, il Presidente della Repubblica affidò un nuovo incarico ad Antonio Maccanico (già nella “rosa” dei possibili successori di Berlusconi), perché formasse un nuovo esecutivo. L’indisponibilità pressoché totale delle forze politiche, tuttavia, fece

66 V. G. CREDAZZI, Sì a Dini, ma senza maggioranza assoluta, pubblicato sul Corriere della Sera, 26 gennaio 1995, p. 3. 67 A.P. Camera dei Deputati, XII legislatura – discussioni, seduta del 16 marzo 1995, n. 157, p. 9295 ss. (resoconto stenografico). 68 V. A. SPADARO, Poteri del Capo dello Stato, forma di governo parlamentare e rischio di “ribaltone”, in AA.VV., Studi in onore di Franco Modugno, vol. IV., Editoriale Scientifica, Napoli, 2011, pp. 3433-3460. L’autore in particolare ritenne che « l’operazione compiuta dava, sì, un governo c.d. tecnico al Paese – anzi di più: evitava uno scioglimento anticipato delle Camere – ma in qualche modo tradiva la volontà del corpo elettorale, riproponendo, in forme nuove, il fenomeno antico del trasformismo politico, ciò che il nuovo quadro politico bipolare, e soprattutto il nuovo sistema elettorale maggioritario, non consentiva».

www.federalismi.it 16 fallire il tentativo e portò il Capo dello Stato a sciogliere le Camere il 15 febbraio 1996, atto prodromico alle elezioni politiche che si svolsero il 21 aprile.

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