Di Gabriele Maestri

Di Gabriele Maestri

* IL GOVERNO DINI: UNA MAGGIORANZA “A TUTTI I COSTI”? di Gabriele Maestri (Dottorando di ricerca in Teoria dello Stato e istituzioni politiche comparate Sapienza – Università di Roma) 26 giugno 2013 Sommario: 1. Il contesto politico-istituzionale della crisi – 2. Le consultazioni e la disputa sullo scioglimento – 3. L’incarico a Dini: esecutivo tecnico a tempo determinato? – 4. Dalla formazione del governo alla fiducia. Dei tredici esecutivi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni (da quello guidato da Ciampi a quello in carica presieduto da Enrico Letta), il governo formato all’inizio del 1995 da Lamberto Dini presenta vari motivi di interesse. Come si è ricordato spesso in riferimento alle vicende contemporanee, si è trattato del primo esecutivo «tecnico», per la totale assenza di eletti in Parlamento tra i suoi componenti. A portare Dini a palazzo Chigi, poi, era stata la prima crisi di governo della cd. “Seconda Repubblica”, dopo le prime elezioni svoltesi con un sistema elettorale prevalentemente maggioritario1: esso per il legislatore avrebbe dovuto dare più stabilità alle compagini governative, ma l’auspicio fu smentito dopo poco più di otto mesi. * L’autore ringrazia Alessandro Gigliotti per i preziosi suggerimenti. Il presente articolo rientra nella Call for papers della Rivista sulla formazione dei Governi ed è stato sottoposto alla valutazione scientifica di un comitato composto dai Professori Beniamino Caravita, Vincenzo Lippolis e Giulio M. Salerno. 1 Il riferimento è al sistema introdotto con le leggi 4 agosto 1993, nn. 276 e 277, note come “legge Mattarella”. federalismi.it n. 13/2013 Per le stesse ragioni, quella crisi di governo fu anche la prima in cui ci si domandò se il ruolo del Presidente della Repubblica rispetto alle scelte da compiere (sciogliere le Camere o attribuire un incarico per formare un nuovo esecutivo) fosse cambiato rispetto alla prassi che oltre quarant’anni di elezioni con sistema proporzionale e di parlamentarismo a prevalenza del Parlamento avevano “codificato”. Da ultimo, fece scalpore il fatto che a guidare il primo governo del tutto tecnico fosse un ministro – per giunta di peso, pur se alla prima esperienza politica – dell’esecutivo precedente di centrodestra, ma a sostenerlo fosse buona parte dei gruppi parlamentari di centrosinistra che a inizio legislatura si erano trovati all’opposizione, con l’aggiunta (determinante) di deputati e senatori della Lega Nord, che togliendo il loro consenso al Presidente del Consiglio uscente Silvio Berlusconi avevano aperto la crisi di governo. Questi elementi saranno sviluppati nelle pagine che seguono, cercando di prestare attenzione ai riflessi di rilievo costituzionale che il making-of del governo Dini può suggerire. 1. Il contesto politico-istituzionale della crisi. Quando Silvio Berlusconi, il 22 dicembre 1994, si presentò al Quirinale per rassegnare le dimissioni dalla Presidenza del Consiglio, non aveva ricevuto voti contrari in Parlamento – in quel giorno l’assemblea di Montecitorio si sarebbe dovuta esprimere sulle tre mozioni di sfiducia presentate il 19 dicembre2, ma l’atto di dimissioni impedì di passare al voto – ma era conscio dello “smottamento” della compagine che lo aveva sostenuto dal 20 maggio, quando ottenne la fiducia alla Camera. Il giorno prima delle dimissioni Berlusconi si era presentato proprio a Montecitorio per «una verifica parlamentare urgente di scelte e orientamenti dei diversi gruppi di maggioranza e di opposizione» e Umberto Bossi era intervenuto per dire che il suo partito avrebbe tolto la fiducia all’esecutivo (di cui la Lega era parte)3, rendendo “ufficiale” una posizione politica che i commentatori avevano prospettato da tempo4. Nel discorso alla Camera, peraltro, Berlusconi si espresse sulla crisi di governo (di fatto aperta) e sull’esito da lui auspicato. In quell’occasione, infatti, qualificò il comportamento di Bossi – eletto coi voti determinanti degli elettori di Forza Italia – come «un inganno che carpisce la buona fede dei cittadini italiani, in una clamorosa violazione del primo articolo della Costituzione»: esso avrebbe espropriato la volontà politica dei cittadini portandola «nel 2 Le mozioni erano a prima firma rispettivamente dei deputati Umberto Bossi (Lega Nord) e Rocco Buttiglione (Ppi), Luigi Berlinguer (Pds - Progressisti) e Famiano Crucianelli (Rifondazione comunista). 3 Per ripercorrere il dibattito, specie i discorsi di Berlusconi (citato anche più avanti) e Bossi, v. A.P. Camera dei Deputati, XII legislatura – discussioni, seduta del 21 dicembre 1994, n. 119, p. 7303 ss. (resoconto stenografico). 4 I primi segni di un diverso progetto politico Bossi li aveva manifestati a Genova il 6 novembre 1994, durante un’assemblea federale della Lega Nord (v. L. FUCCARO, Bossi: un nuovo polo per nuove regole, pubblicato sul Corriere della Sera, 7 novembre 1994, p. 7). L’uscita di Bossi, peraltro, causò non pochi dubbi e dissensi nel partito, che minacciarono “a corrente alternata” di produrre scissioni. www.federalismi.it 2 campo degli avversari»: «L’Italia è una Repubblica parlamentare – disse ancora il Presidente quasi dimissionario – ma tutto il nostro sistema istituzionale deriva la sua legittimità dal più scrupoloso rispetto della libera volontà degli elettori. Chiunque operi contro la volontà libera degli elettori […] offende per ciò stesso lo spirito e l'anima della Costituzione democratica e lacera la materia stessa di cui è fatto il patto che unisce i cittadini». Sottolineò così che «una sola maggioranza è legittimata dagli elettori […]. Se questa maggioranza si sfalda, occorre decisamente e serenamente tornare a chiedere il parere degli elettori». Venuta meno l’unica «maggioranza legittimata dagli elettori», dunque, per Berlusconi la sola via da perseguire – e in fretta – era quella delle elezioni anticipate, dando “copertura costituzionale” all’ipotesi addirittura col secondo comma dell’art. 1 Cost., citandone peraltro solo la prima parte («La sovranità appartiene al popolo»). I costituzionalisti accolsero il discorso in modo non unanime: ci fu chi concordò con Paolo Armaroli (futuro deputato di An), secondo il quale le richieste di Berlusconi erano «più che legittime» perché, dopo l’entrata in vigore della “legge Mattarella”, «oltre alla lettura formalistica del dettato costituzionale, adesso ce n’è una più sostanziale che prevede l’esistenza di tre fonti di legittimazione per il governo in carica», aggiungendo il voto degli elettori a monte della nomina del Presidente della Repubblica e alla fiducia delle Camere; altri si trovarono in sintonia con Paolo Barile, per il quale era giusto ribadire l’appartenenza della sovranità al popolo, «ma è necessario ricordare che l’articolo 1 della Costituzione precisa che questa sovranità viene esercitata nelle forme e nei limiti previsti dalla carta stessa»5. Dalla sua il Presidente dimissionario contava su vari indici della torsione del sistema parlamentare dalla versione “compromissoria” a quella maggioritaria: in primis la legge elettorale, ma ce n’erano altri, a partire dalla “rottura” della convenzione costituzionale che dal 1976 (e di fatto fino alla fine della XI legislatura) aveva assegnato la guida di un ramo del Parlamento a un esponente dell’opposizione6. Il sistema elettorale, però, aveva prodotto una maggioranza chiara alla Camera, non al Senato: l’elezione del presidente Carlo Scognamiglio Pasini arrivò all’ultimo scrutinio previsto dal regolamento, determinata da un solo voto7. 5 Le dichiarazioni sono state raccolte dall’agenzia Adnkronos e riportate, per esempio, dal quotidiano La Stampa (Costituzionalisti. Pareri opposti sul discorso, pubblicato il 22 dicembre 1994, p. 4). 6 Sulla convenzione e la sua “rottura”, v. N. LUPO, La difficile «tenuta» del diritto parlamentare, tra Corte costituzionale, Presidente di assemblea e Presidente della Repubblica, in A. MANZELLA (a cura di), I regolamenti parlamentari a quarant’anni dal 1971, il Mulino, Bologna, 2012, p. 223 ss. V. pure A. MANZELLA, Il parlamento, il Mulino, Bologna, 2003 (III ed.), p. 141 e A. MANNINO, Diritto parlamentare, Giuffrè, Milano, 2010, p. 126 (ma con dubbi su «un uso non imparziale dei […] poteri» in caso di due presidenti di maggioranza). 7 Sulla strumentalità (per lo sfruttamento dei meccanismi della legge elettorale) e sostanziale “illegittimità” dello schieramento che aveva vinto le elezioni politiche del 1994 (per la mancanza di una proposta politica unitaria) v. G. ZAGREBELSKY, Scegliendo la Carta dei valori, pubblicato su La Stampa, 2 gennaio 1995, pp. 1-2. Sul mancato apporto di stabilità della nuova legge elettorale alle compagini di governo v. B. CARAVITA, Il www.federalismi.it 3 2. Le consultazioni e la disputa sullo scioglimento. L’intenzione di tornare nel più breve tempo possibile al voto fu ovviamente riportata da Berlusconi al Presidente della Repubblica nel colloquio di annuncio delle dimissioni8. In quell’occasione, tuttavia, il Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro ribadì una posizione già manifestata in precedenza9, che non contemplava affatto lo scioglimento delle Camere in tempi brevi: convinto che «sul piano costituzionale, l’anticipazione di una chiamata alle urne non [sia] un fatto normale ma un elemento patologico della democrazia», egli riteneva che il potere di scioglimento dovesse essere esercitato unicamente quando il Parlamento «non è più in grado di generare una maggioranza capace di governare, né una eventuale formazione che non nasca dalla sua volontà, come quella che di solito chiamano “esecutivo del presidente”»10. Tale

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