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Audrey e Marcello, icone di stile e di eleganza nel mondo

“L’eleganza è la sola bellezza che non sfiorisce mai. Si dice che l’abito non faccia il monaco. Ma a me la moda ha dato spesso la sicurezza di cui avevo bisogno. Personalmente dipendo da Givenchy come le donne americane dipendono dal loro psichiatra”.

(Audrey Hepburn)

Lei è Audrey Hepburn, l’attrice, la diva che più di ogni altra ha segnato un’icona di stile e di eleganza nel mondo. Modello di vita per tutte le donne che facciano del glamour e dell’eleganza uno stile, Audrey impose fin da subito il suo charme fuori dagli schemi, la sua bellezza moderna, e conquistò le riviste di moda; si pensi che le ballerine indossate da lei diventarono più seducenti dei tacchi a spillo. Elegante, semplice e affascinante. Sorrideva sempre ai fotografi che le puntavano contro l’obiettivo. E non la si incontrava mai per strada sciatta e trasandata. Fu proprio il cinema a consegnarle i ruoli della vita e a farla diventare la “diva delle dive” internazionale. Erano precisamente i tempi in cui Hollywood si era trasferita a Cinecittà e in cui Roma e Via Veneto erano diventati il centro del mondo cinematografico e mondano. In questo humus culturale si gira un film “storico”, divenuto grande grazie a tutto questo ecosistema cinematografico che gira intorno a Via Veneto, a Piazza di Spagna e a Cinecittà, ovvero Vacanze romane.

Si a m o ne l 19 52 e qu est a è la pe llic ola ch e re nd e famosa Audrey Hepburn in cui recita con Gregory Peck. Il ruolo, conteso con Elizabeth Taylor, è affidato a lei per “il fascino, l’innocenza e il talento” che mostra di possedere, come disse lo stesso regista William Wyler. Ed è proprio grazie a Vacanze Romane che la Hepburn vince l’Oscar come migliore attrice protagonista. Ancora accanto ad un’altra star del cinema, la vediamo in Sabrina del 1954. Il film, diretto da Billy Wilder, la vede protagonista insieme a Humphrey Bogart.

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Ed è grazie a questo film che si stringe un importantissimo sodalizio per il mondo del cinema e della moda tra Audrey Hepburn e Hubert de Givenchy. Lo stilista esalta al massimo la sua femminilità, rendendola un’icona di stile. Ma Audrey fa di più, fa sognare il mondo qualche anno dopo con il ruolo dell’adorabile folle Holly di Colazione da Tiffany che la fa entrare nell’eternità e la trasforma in un modello d’eleganza universale: il tubino nero indossato nel film, creato da Givenchy, fu messo all’asta da Christie’s nel 2006 (aggiudicato per la cifra record di 700mila euro). I s u o i p u n t i f o r t i , i n f a t t o d i a b b i g l i a m e n t o , s ono rappresentati dall’uso di scarpe basse come le numerosissime paia di ballerine colorate e i mocassini. Questo stile mascolino non nascondeva, bensì esaltava la sua femminilità. Molto importante era anche il foulard, indossato sia per doveri di lavoro (per proteggere i capelli), sia per passione nei confronti di questo accessorio, di cui acquistava diversi modelli durante i suoi viaggi. Insomma Audrey, grazie soprattutto alla sua personalità e anche alla sua innata eleganza ha rappresentato il modello estetico per eccellenza dello stile e dell’eleganza femminile, al pari del “nostro” Marcello Mastroianni, quasi definibile il suo “alter ego” al maschile. Fu considerato, suo malgrado, un sex symbol, non a caso ebbe una breve relazione con la divina Silvana Mangano e una lunga storia con Catherine Deneuve (dalla quale nacque la figlia Chiara), ma sul grande schermo tutti lo ricordano infatuato come un adolescente di fronte ad Anita Ekberg che lo invita a tuffarsi nella Fontana di Trevi e partner di Sophia Loren in tantissime pellicole.

Di proverbiale eleganza, i suoi personaggi restano un punto di riferimento costante nella moda e per i marchi che celebrano la tradizione sartoriale italiana. Indimenticabili l’abito scuro a due bottoni indossato con camicia bianca e cravatta sottile nera (trend tornato in voga da diversi anni) e l’abito bianco del finale de “La dolce vita” indossato con camicia nera. Di mezzo la vestaglia da camera di seta e gli storici occhiali Persol 649 di “Divorzio all’italiana”, l’abito gessato a tre pezzi e i guanti da automobilista di “Matrimonio all’italiana”, l’irrinunciabile cappello (modello Borsalino)che conferisce sempre un’aria distinta durante la bella stagione. Pochi uomini al mondo sono in grado di indossare un frac blu, come quello confezionato dalla storica sartoria Farani di Roma per “Intervista”, perchè in fondo l’eleganza non è mai solo un abito, ma è un modo di fare disinvolto e mai artificioso. Marcello Mastroianni tra donne e trench. Roma e Parigi. Città dove l’attore fa ritorno durante la malattia che lo porta via per sempre, persino dalla Città Eterna, il 19 dicembre del 1996 a 72 anni. Quella voce nasale che ritorna nelle orecchie di chiunque stia leggendo la sua biografia. Quella voce inconfondibile che Marcello Mastroianni ha diffuso nel mondo. Cresciuto tra le colline di Frosinone non sente il richiamo delle colline di Hollywood: ma laggiù lo amano. Quasi quanto oltralpe dove ha come antagonisti di set belli e impossibili come Alain Delon e dove sul piatto di un duello estetico anche l’altezza di Marcello Mastroianni viene passata in rassegna (1,76 centimetri). Ma nonostante tutto e tutti, a Parigi Marcello Mastroianni conquista una Catherine Deneuve che sarà sua croce e delizia, una figlia, Chiara Mastroianni attaccatissima al padre e la foto che fa il giro del mondo del divo Mastroianni in trench e occhialoni neri che tiene per mano la piccola Chiara tra le strade di Parigi. Foto che fa a cazzotti con l’immagine di cattivo cattolico nell’Italia anni ’60 che non vede di buon occhio il suo principale divo di Cinecittà che tradisce in prima pagina la prima moglie, Flora Carabella (da cui ha avuto la primogenita Barbara).

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La tradisce e non divorzierà mai da lei – sposata quando era 26enne – neppure quando conosce Faye Dunaway con la quale gira “Amanti” di Vittorio De Sica in un inglese impeccabile. Impeccabile è anche il suo modo di mordere i collant di Sophia Loren nello spogliarello più famoso del cinema in “Ieri, oggi e domani”. Un ululato, quello di Mastroianni, che cambia il cinema: altro che dialoghi serrati, “basta” un riverbero animale e sinistro quanto basta per scuotere i buoni costumi dell’Italia democristiana (il film è del 1963 e Mastroianni ha un’amante in un’altra città).

Marcello Mastroianni è Federico Fellini: alter ego sullo schermo del più importante regista visionario, provocatorio e maschilista (apparentemente tale) del cinema moderno. Quell’ “8 e 1/2” faraonico con il finale all’alba di una ballata verso la fine di un tramonto artistico (non per Mastroianni) consegnano a Marcello le chiavi dell’eternità. Città eterna che Marcello Mastroianni aveva conosciuto già nel 1960: “Marcello come here” urlato da Anita Ekberg dalla fontana di Trevi de “La dolce vita” (da cui nasce anche il modo di chiamare così la maglia a collo alto). Motto cinematografico che corrisponde alla frase- cliché di “Je suis Catherine Deneuve”. Classici del parlato comune che inchiodano il cinema nelle nostre vite. E ironia della sorte sono proprio Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve a raccontare l’amore moderno sull’asse Parigi-Roma. Mastroianni è ancora sposato ma la relazione con Catherine dura quattro anni. Pochi ma sufficienti per metterli al centro della mondanità (e di un’ironia della stampa benpensante visto che si conoscono sul set del film “La Cagna” commedia di Marco Ferreri con loro sperduti su un’isola deserta). Per visionare attentamente la filmografia di Marcello Mastroianni non basta una vita: 147 film in 58 anni. Carriera infinita costellata da registi incredibili che tra le mani hanno una delle figure più poliedriche del cinema. Difficile da odiare perché così incapace di essere sempre e solo il reporter gossipparo de “La Dolce vita” o il volto di gomma de “Il Bell’Antonio”. Lui no, conduce con mano sicura una giovanissima Monica Vitti ne “La Notte” (in una Milano spettrale), è lui il ladruncolo de “I soliti ignoti” (e quell’Ostia che fa venire le lacrime), è lui che corre tra le masserie del sud Italia in “Casanova ’70”. Ed è lui l’attore italiano più premiato sia all’estero che in Italia.

“Il mestiere dell’attore io lo vivo come un gioco meraviglioso. Recitare è quasi meglio che fare l’amore perché è inebriante assumere sembianze, atteggiamenti e psicologie di qualche altro. E’ quello che fanno i bambini. E’ il gioco più antico. E’ il primo gioco che inventiamo quando facciamo finta di essere tu il poliziotto, io il gangster. Io mi nascondo lì, tu fai così. E uno ci crede”.

(Marcello Mastroianni)

David di Donatello 2018: i verdetti

L’edizione numero 62 degli Oscar italiani, ovvero dei David di Donatello, si è tenuta in una sfarzosa serata di inizio primavera, lo scorso 21 marzo: gli “Oscar tricolore, la grande festa del cinema italiano” come avrà modo più volte di sottolineare il presentatore Carlo Conti. Una festa che premia Ammore e Malavita dei Manetti Bros, come il miglior film dell’anno, in una escalation che lo porterà a vincere altre quattro statuette. Una vittoria, quella del film dei Manetti Bros, meritata per un musical d’azione all’americana, ma girato in salsa napoletana, che davvero lascia il segno. Peraltro, è la prima volta che accade, la pellicola vincitrice del premio come miglior film, non è nella lista dei 20 maggiori incassi dell’annata, a fronte comunque di un incasso dignitoso. Segno tangibile, della qualità della giuria dei David, che non si piega al commerciale, nonché della decisione di premiare la qualità, piuttosto che la quantità. Ammore e Malavita vince comunque altre 4 statuette, tra cui quella alla Miglior attrice non protagonista, di una bella e commossa Claudia Gerini. Più che l’edizione del ritorno in Rai, questa dei 62esimi David di Donatello, rimarrà come l’edizione delle donne. Quella di Paola Cortellesi che spiega come certe parole declinate al femminile acquistano un significato sgradevole; di Jasmine Trinca che vince come miglior attrice per Fortunata, dopo aver meritatamente vinto a Cannes l’anno precedente; di Claudia Gerini che a stento riesce a trattenere l’emozione; di Stefania Sandrelli che corona «un sogno iniziato nel 1961», vincendo il David alla Carriera; di Diane Keaton che ringrazia Woody Allen per aver lanciato la sua carriera senza vergognarsene.

Ma è stata anche l’edizione della “Tenerezza”, la tenerezza di un vecchio, grandissimo attore come Renato Carpentieri, che commosso ottiene non solo il David di Donatello come miglior attore protagonista, ma anche la standing ovation del pubblico e dei colleghi presenti in sala. Alla veneranda età di 76 anni, l’attore napoletano si issa come il più anziano vincitore del premio come “miglior attore protagonista” e dice «la tenerezza è una virtù straordinaria, nella cortesia c’è un pizzico di ipocrisia, la tenerezza è così com’è», parafrasando l’omonimo film di Gianni Amelio. Momento internazionale da brividi con il David alla carriera a Steven Spielberg, che ricorda come Lina Wertmüller sia stata la prima donna mai candidata come miglior regista agli Oscar, a Diane Keaton che canta Three Coins in the Fountain senza musica.

Da segnalare, inoltre, il trionfo del giovane Jonas Carpignano come miglior regista per A ciambra che ringrazia l’Accademia e fa una battuta a Pierfrancesco Favino («prima portavo il caffè e ora sei tu a portarmi qualcosa»); i quattro David a Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli e i due a Gatta Cenerentola, il primo lungometraggio di animazione ad aver ricevuto la candidatura come miglior film. Poco male, il cartone animato prodotto da Rai Cinema si porta a casa il premio per il miglior produttore e i miglior effetti speciali. A sorpresa il premio come miglior film straniero va a Dunkirk di Christopher Nolan, che beffa La La land; infine, premio del miglior film dell’Unione Europea a The square di Ruben Ostlund.

Frammenti segreti di ingerenze politiche nel cinema italiano

I primi due mesi del 2018, si sono vissuti interamente, o quasi, in campagna elettorale. Le elezioni si sa, catalizzano l’attenzione mediatica dei mass-media e diventano un po’ un fenomeno di costume. Oggi c’è Berlusconi, c’è Renzi e c’è Di Maio; una volta c’era la DC e c’era il PC. Oggi c’è la televisione, prima del 1954 invece no. C’era però il Cinema, con la sua proverbiale capacità trascinatrice. Oggi la politica entra dappertutto, come allora, come allora nel Cinema. E dato che parliamo di Cinema, proviamo ora a raccontarvi quattro storie di Cinema segrete, curiose, quattro storie di ingerenze politiche a cavallo tra Italia e Francia. Fissiamo l’inizio del nostro racconto nel 1951 e precisamente nell’estate del 1951, quando nella Bassa Padana arriva la gente del Cinema, da Roma, da Cinecittà, e inizia un folle giro tra le province di Parma, Reggio Emilia e Piacenza, alla ricerca di un borgo particolare. Questa è la genesi della avventure epocali di Don Camillo e del Sindaco comunista Peppone, sul quale produttori e registi, sapevano già che ci sarebbero stati parecchi problemi, e si cercò in maniera preventiva di trovare un accordo con la censura. La pellicola ovviamente trae spunto dalle avventure di Don Camillo e del sindaco Peppone, nati dalla sagace penna di Giovannino Guareschi, reazionario e comunque pesantemente schierato politicamente.

G i n o C e r v i e F e r n a n d e l, ovvero Don Camillo e Peppone, sul set del film omonimo tratto dai racconti di Giovannino Guareschi.

Il primo regista a essere interpellato fu Alessandro Blasetti, che cominciò a pensarci con entusiasmo e poi, visti i problemi di natura politica che ne sarebbero sorti, rifiutò in modo simpatico e cordiale. L’affare passò nelle mani del produttore Peppino Amato, che coinvolse la Cineriz di Angelo Rizzoli, e furono interpellati altri registi. Mario Camerini, che nel 1972 avrebbe diretto “Don Camillo e i giovani d’oggi”, non se la sentì di passare per anticomunista. Vittorio De Sica si vantò su “l’Unità” di aver rifiutato sdegnosamente l’offerta. Luigi Zampa, solo all’idea di mischiarsi a quel bifolco reazionario di Guareschi disse che non ci pensassero nemmeno. Lo scoglio politico pareva insormontabile, quanto meno in Italia. Vista la fermezza di Guareschi e visto che in Italia la fifa faceva 90, Amato tentò all’estero. Il primo a essere interpellato fu Frank Capra, ma il regista americano si sarebbe liberato solo nel 1953, troppo tardi per i progetti del produttore. Finalmente si arrivò a Julièn Duvivier, uno dei cineasti di maggior successo in quel periodo, che accettò e ottenne la possibilità di riscriverne il copione. Affidare dunque ad uno straniero la direzione del film sembrò a tutti la direzione migliore per superare gli ostacoli di natura politica, che rischiarono di far naufragare il film. Si creò, comunque durante il film un grosso polverone politico e il frutto un simile baccano risultò essere la fifa a scoppio semiritardato di Duvivier.

Fin dall’inizio aveva avuto qualche remora nell’associarsi a un reazionario dichiarato come Guareschi. Ma ora proprio voleva prenderne le distanze. Cominciò modificando la sceneggiatura e compiendo una vera e propria opera di depoliticizzazione lasciando spazio al solo umorismo. Eppure, quando il film andò nelle sale nel 1952, gli spettatori capirono ugualmente quello che Guareschi aveva voluto dire. Merito dei suoi personaggi, delle sue atmosfere, del suo sentimento della vita. E merito anche di quella accoppiata fantastica e bizzarra, ma azzeccata fatta da Fernandel e Gino Cervi. Pochi ci avrebbero scommesso al momento di metterli insieme, tanto che della serie ci saranno altre quattro riuscite pellicole negli anni a seguire. Stessa cosa grosso modo, accadde per “Ho scelto l’amore” del 1953, anche se in questo caso ancor di più si può parlare di ingerenze politiche che determinano il risultato della pellicola stessa. Anzi, il film venne messo in piedi appositamente per un interesse politico. Siamo alla vigilia delle elezioni del 1953 e la DC incarica la “Film costellazioni”, società di produzione cattolica dei democristiani Turi Vasile e Diego Fabbri, di realizzare un film di chiara satira anticomunista che screditasse il partito comunista in previsione delle imminenti elezioni nazionali. Il volto del protagonista è quello di Renato Rascel, in quel momento l’attore più acclamato del cinema italiano. La vicenda che ne segue è una bizzarra e incredibile storia di auto-censura della stessa censura. La censura, ovviamente era dunque un organo strettamente correlato con la situazione politica e quindi con il governo, e dunque con la DC, si poteva quindi facilmente ipotizzare che non ci sarebbero stati alcun problema di visto. Niente di più ipotizzabile. Ed infatti il film ottiene (guarda caso) senza problemi il visto pieno e completo il 23/ 02/ 1953, due mesi prima delle elezioni, quel che serviva alla Democrazia Cristiana. R e n a t o R a s c e l n e l f i l m “ I l cappotto”.

Senonché a fine febbraio muore Stalin, e all’ultimo momento viene stoppato e rinviato, per evitare scontri nel paese (l’Italia) dove l’ideologia comunista godeva ancora di un certo numero di sostenitori. La pellicola uscì comunque ad aprile e fece in tempo ad assolvere il compito per cui era stata concepita. E come per “Don Camillo”, la regia del film venne affidato ad uno straniero, Mario Zampi, regista italo-americano, nato a Sora nel 1903, ma che dalla metà degli anni ’30 viveva e lavorava stabilmente nel Regno Unito. Tutto ciò per prudenza, per una sorta di preventiva prudenza che governava su queste cose troppo grosse, troppo eccessive per quello che era il clima culturale, politico ed ideologico dell’Italia degli anni ’50. Addirittura l’intervento censorio venne esteso anche sulle locandine pubblicitarie correlate alle pellicole stesse, le quali non dovevano ovviamente ledere il buon costume e mostrare espliciti riferimenti a sesso, politica, religione o violenza. Tre casi su tutti vorrei qui enunciare. Per la locandina de “La famiglia Passaguai”(1952) di e con Aldo Fabrizi, venne censurata una delle locandine, perché Aldo Fabrizi mostra un disegno di un corpo di donna nudo, su cui aveva inserito il suo viso; e il manifesto del film “Poveri ma belli”, venne modificato, quindi censurato, su indicazione delle istituzioni ecclesiastiche, perchè il fondoschiena di Marisa Allasio era ben in evidenza; anche il manifesto di “Dove sta Zazà”, con Nino Taranto, venne censurato perchè la locandina mostrava chiaramente il disegno di una donna in costume da bagno. V a l t e r C h i a r i e L u c a B a rbareschi sul set di Romance

Ma le ingerenze politiche non si limitano soltanto alla censura di un film o alla sua creazione per scopi meramente politici. Come in molti concorsi, ahimé, la politica è parte integrante, spesso, dei risultati che scaturiscono dai Festival. Due casi spiacevoli su tutti, ci aiuteranno a capire questo concetto. Parliamo ancora di Renato Rascel e di quella che da molti è ritenuta una delle più belle interpretazioni della storia del cinema italiano, ovvero quella del “Cappotto”, di Alberto Lattuada. Il film è talmente tanto applaudito, da mettere d’accordo pubblico e critica (spesso, troppo spesso, in disaccordo) e unanime è l’apprezzamento per l’interpretazione di Rascel, che dal film riceve ampia notorietà e fama internazionale. Il film presentato in concorso alla quinta edizione del Festival di Cannes, riceve sonori e scroscianti applausi sia per la sua confezione che per l’interpretazione dell’attore protagonista; leggenda vuole che i giurati stiano per dare la coppa per la miglior interpretazione proprio a Renato Rascel, il film come detto piace molto, ma Marlon Brando con Viva Zapata gliela porta via. Tale fu il clamore suscitato da quell’incredibile ingerenza politica, neanche troppo malcelata, che sei anni più tardi, Renato è di nuovo a Cannes, sfila di nuovo sul red carpet del Festival francese, e questa volta il suo film in gara, “Policarpo, ufficiale di scrittura” vince il premio come miglior commedia della kermesse. Un risarcimento per l’efferato scippo di sei anni prima? Forse. Probabile. Ma peggio, molto peggio si fece nel 1986, con il grande Walter Chiari, rientrato dopo anni di faticosa risalita, alla ribalta, in seguito a quell’assurda storia di droga, che gli tolse fama e lavoro.

Al film “Romance”, appunto presentato alla 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, resta legato un episodio molto spiacevole divenuto poi famosissimo. Proviamo a ricostruire il fattaccio. Era un settembre bollente e Venezia si era fatta bella per accogliere il meglio del cinema mondiale. Alla kermesse era presente anche un piccolo grande film, poetico,elegante, sincero, che aveva riportato una vecchia volpe dello spettacolo come Walter Chiari, ai fasti di un tempo. Il titolo era “Romance” e il regista Massimo Mazzucco. Il film fu applauditissimo dal pubblico e osannato dalla critica, e da outsider, si issò ben presto addirittura, come il film favorito per la vittoria finale del Leone d’oro, o almeno per la Coppa Volpi al miglior attore. Il giorno prima della premiazione ad un Walter Chiari raggiante fu annunciato da un incaricato della giuria che avrebbe vinto il premio per la migliore interpretazione maschile. Lui pazzo di gioia chiamò amici e parenti al Lido, per vedere consegnare, durante la cerimonia finale, il premio ad un altro attore, Carlo Delle Piane, che proprio Walter aveva tenuto a battesimo in teatro fin dagli anni ’50. Così quello che avrebbe potuto essere un giusto riconoscimento per un grande attore giunto al termine della sua carriera si tramutò in una beffa feroce. Una brutta storia che conferma come il grande successo di Walter Chiari sia sempre stato scomodo a qualcuno. Questa fu quindi la storia di un tradimento allucinante, eclatante e orrendo. Nella notte prima della premiazione, secondo una ricostruzione alquanto attendibile, suonano i telefoni della giuria, una misteriosa voce dall’altra parte della cornetta li riunisce tutti, in piena notte e in grande segreto. La motivazione? Togliere il premio già assegnato a Walter Chiari e assegnarlo ad un altro, magari a Carlo Delle Piane, perché no. Lì c’è stata un’ingerenza politica talmente evidente che Grazzini sul Corriere della Sera scrisse: “vittoria artistica di Walter Chiari, vittoria politica di De Mita [allora a capo del Governo] e Pupi Avati”. Fu un grosso sgarbo fatto a Walter, tanto che la protesta dei fotografi che poggiarono le macchine a terra e i fischi della platea, al momento della consegna del premio a Carlo Delle Piane, sono rimasti nella storia. Curiosamente dieci anni dopo lo stesso Pupi Avati, consegnerà a Massimo Boldi il ruolo della vita, facendogli interpretare il personaggio di Walter Chiari e ricostruendo gli attimi concitati della 43esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e di tutto quello che successe in quella tormentata edizione della kermesse italiana. Il film si chiamerà proprio “Festival” e rappresenta la vetta artistica di un Massimo Boldi sorprendente, per la prima e unica volta drammatico. Ed è tantissima roba.

Ci siamo dilungati, ma se il mondo è pieno di ingerenze politiche, volte a rovesciare sovente i verdetti, per opportunità, per comodità o per scomodità, anche il Cinema bisogna ammettere non è scevro da questo cancro. Abbiamo elencato i casi più comuni, più eclatanti, quelli che hanno fatto storia e che, per colpa di ingerenze politiche, ci hanno regalato casi orribili, come quello capitato al povero Walter Chiari, che innanzitutto era una brava persona ed un’artista insuperabile e non avrebbe meritato questo tipo di trattamento.

David di Donatello 2018 - Le nominations Se per la notte degli Oscar ormai è conto alla rovescia, anche gli Oscar italiani, ovvero i David di Donatello, scaldano i motori. Sono stati annunciati infatti il 14 febbraio scorso le candidature per quello che è definito il premio cinematografico nazionale più importante d’Italia e d’Europa. La 63esima edizione dei David di Donatello si terrà negli studi Rai di Cinecittà, essendo stato l’evento riacquistato dalla Rai, dopo due anni di monopolio Sky. La cerimonia di premiazione, in grande stile e in diretta su Rai Uno, il 21 marzo prossimo, vedrà collegati oltre due miliardi di persone da tutto il mondo, per celebrare quello che da sempre è il secondo cinema più importante del mondo e il più importante d’Europa, ovvero il CINEMA ITALIANO.

Quella della “notte dei David” sarà come sempre una festa del cinema, che celebra non solo il presente, ma anche il passato glorioso del nostro cinema e dell’Accademia dei David. A farla da padrone nelle “cinquine” dei candidati ai vari premi è Ammore e malavita. Per la pellicola dei Manetti Bros le candidature sono ben 15 comprese quella a miglior film, miglior regia, miglior attrice non protagonista e miglior attore non protagonista, rispettivamente Claudia Gerini e Carlo Buccirosso. Grandi consensi anche per Ferzan Ozpetek ed il suo Napoli velata con 11 nomination. Completano il podio a quota 8 La tenerezza di Gianni Amelio e The Place di Paolo Genovese. Da notare anche come nella 4 categorie attoriali, invece sia Come un gatto in tangenziale di Riccardo Milani a collezionare ben 3 nominations su 4 massime (Antonio Albanese come “miglior attore protagonista”, Paola Cortellesi come “miglior attrice protagonista”, Sonia Bergamasco come “miglior attrice non protagonista”). Per il premio più ambito, quello di miglior film, concorrono: A Ciambra di Jonas Carpignano, Ammore e malavita dei Manetti Bros, il film d’animazione Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone, La tenerezza di Gianni Amelio e Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli. Similare a quella di miglior film, la categoria dedicata al miglior regista: Jonas Carpignano (A Ciambra), Manetti Bros (Ammore e malavita), Gianni Amelio (La tenerezza), Ferzan Ozpetek (Napoli Velata), Paolo Genovese (The Place). P a o l a C o r t e l l e s i e Antonio Albanese candidati nelle categorie per miglior attore e attrice protagonista per Come un gatto in tangenziale.

Grandi nomi del cinema italiano anche nelle nomination a migliore attore ed attrice protagonista. Nella prima categoria le nomination sono: Antonio Albanese per Come un gatto in tangenziale, Nicola Nocella per Easy – Un viaggio facile facile, Renato Carpentieri per La tenerezza, Alessandro Borghi per Napoli Velata, Valerio Mastrandrea per The Place. Nella seconda invece: Paola Cortellesi per Come un gatto in tangenziale, Jasmine Trinca per Fortunata, Valeria Golino per Il colore nascosto delle cose, Giovanna Mezzogiorno per Napoli Velata, Isabella Ragonese per Sole cuore amore.

Rimanendo sulle categorie attoriali, di livello assoluto anche le cinquine dei migliori attori e attrici non protagonisti. Per la categoria maschile nominations per Alessandro Borghi (Fortunata), Elio Germano (La tenerezza), Peppe Barra (Napoli velata), Giuliano Montaldo (Tutto quello che vuoi) e il già nominato Carlo Buccirosso (Ammore e malavita). La categoria femminile è popolata dalle nominations di Claudia Gerini per Ammore e malavita; Sonia Bergamasco per Come un gatto in tangenziale; Micaela Ramazzotti per La tenerezza; Anna Bonaiuto per Napoli velata; Giulia Lazzarini per The place.

Già assegnato oggi invece il premio al miglior cortometraggio. La giuria ha scelto Bismillah di Alessandro Grande, in una cinquina che conteneva anche Mezzanotte zero zero, del tarantino Nicola Conversa, meglio conosciuto come membro dei Nirkiop. D o n a t o C a r r i s i sul set del film “La ragazza nella nebbia”.

Nella categoria Miglior regista esordiente emerge la candidatura di Donato Carrisi e il suo La ragazza nella nebbia, grosso successo al botteghino della seconda parte dell’anno 2017. Al suo fianco Cosimo Gomez per Brutti e cattivi; Roberto De Paolis con Cuori puri; Andrea Magnani con Easy- un viaggio facile facile; Andrea De Sica con I figli della notte.

Per quanto riguarda le categorie dedicate al cinema internazionale, l’equivalente italiano all’Oscar come miglior film straniero, la cinquina di assoluto livello si compone delle seguenti pellicole: Dunkirk di Christopher Nolan ; L’insulto di Ziad Doueiri; La La Land di Damien Chazelle; Loveless di Andrey Zviagyntsev; Manchester by the sea di Kenneth Lonergan. Importante anche il premio come miglior film dell’Unione Europea che vede in gara, tra gli altri, film come 12 battiti al minuto di Robin Campillo e The square di Roben Ostlund.

Top secret sui premi speciali assegnati ogni anno per particolari interpretazioni degne di nota, o quelli alla carriera sui cui nomi c’è il massimo riserbo. La cerimonia di premiazione sarà presentata da Carlo Conti, volto notissimo della Prima Rete Nazionale.

Appuntamento al 21 marzo allora, per quelli che sono e resteranno sempre gli “Oscar italiani”, ovvero i “David di Donatello”, l’eccellenza del nostro cinema.

Cinema, internet e social network

Da sempre il Cinema ha subito continue influenze derivanti dai molteplici cambiamenti della società, che si sono sviluppati nell’arco dei suoi 120 anni di vita. L’arte cinematografica appare dunque come un’arte alla continua ricerca di nuovi stimoli e territori da esplorare. Il cinema mondiale infatti, già da qualche anno ha rivolto spesso la propria attenzione a quello che, da un punto di vista sociologico, è di gran lunga il fenomeno di maggior rilievo da almeno un decennio a questa parte: la diffusione dei social network e il ruolo preponderante che la comunicazione via internet ha assunto nella nostra esistenza. Internet, del resto, costituisce uno degli aspetti fondamentali della nostra vita quotidiana: per molti di noi a livello professionale, per quasi tutti noi pure nelle relazioni sociali, che volenti o nolenti oggi passano in gran parte (in alcuni casi, soprattutto) attraverso la rete. E il cinema, ovviamente, non poteva non essere contagiato da un elemento tanto importante, se non addirittura emblematico della nostra epoca.

La curiosità del cinema nei confronti della realtà virtuale di internet (e dell’area social nello specifico) ha abbracciato generi diversi, dal dramma alla commedia, passando anche per l’horror. Nel 2010 ad esempio, nel pieno dell’esplosione della popolarità di Facebook, il regista giapponese Hideo Nakata, ha realizzato un thriller dall’ambientazione assai atipica: I segreti della mente. Il film si svolge quasi del tutto all’interno delle chatroom. Aaron Taylor-Johnson interpreta il ruolo di William Collins, adolescente di Chelsea, disadattato e con tendenze autolesioniste, che decide di sfogare la propria depressione nel dialogo virtuale con quattro suoi coetanei sconosciuti; ma il tentativo di condividere i rispettivi problemi sfocerà in un meccanismo di sudditanza psicologica gravido di rischi.

Parlando di cinema, internet e social media, un’altra tematica verso cui diversi film hanno puntato lo sguardo è la voglia di essere notati e di apparire esattamente il contrario di quello che siamo nella vita reale: quella bizzarra commistione fra la volontà e l’esigenza di aprirsi a un ‘auditorio’ quanto più vasto possibile e le barriere di una solitudine che, talvolta, la rete non fa altro che accentuare. Questo è uno degli aspetti rintracciabili, nel capolavoro dedicato al fenomeno della socialità in rete: The Social Network, il film del 2010 di David Fincher sceneggiato da Aaron Sorkin e ricompensato con tre premi Oscar. Se The Social Network costituisce una sapiente ricostruzione della nascita di Facebook e un intrigante ritratto del suo creatore, il giovane e ambizioso Mark Zukerberg (Jesse Eisenberg), il valore della pellicola va al di là della cronaca di una svolta epocale per il nostro stile di vita: perché all’interno del film si può cogliere pure una riflessione amarissima sui social media come compulsiva forma di reazione ad un senso di isolamento, di alienazione e di rifiuto contro il quale, però, non basterebbero neppure cinquemila “amici”, giusto per parafrasare il limite di amicizie per ogni profilo su facebook.

Dall’ambito della socialità sul web ci spostiamo ora verso fenomeni pur sempre collegati ad internet come “villaggio globale”, in cui la riservatezza- e la segretezza – sono beni preziosi nonché oggetti di violazioni e diffusioni indesiderate. E il cinema dell’ultimo lustro ha affrontato questo peculiare aspetto nelle maniere più differenti, dalla docu-fiction alla comicità, dai pubblici scandali sulla politica mondiale ai piccoli scandali di singoli individui. A tal proposito molto riuscita appare la commedia Sex Tape – Finiti in rete (2014), per la regia di Jake Kasdan, che getta uno sguardo sulla moda dei filmini erotici “fatti in casa”, con Cameron Diaz e Jason Segel nei panni di una coppia che, per errore, diffonde sul web un video osé che sarebbe dovuto restare privato.

Interessante anche Friend Request (2016), che parte da interrogativi che tutti coloro che frequentano i social network si sono posti (o dovrebbero porsi) più e più volte: qual è il “codice di comportamento” più corretto laddove le nostre interazioni con l’altro sono filtrate interamente attraverso internet? E in quale misura una richiesta d’amicizia approvata o respinta può influire sulla nostra privacy e sul modo in cui scegliamo di ‘proporci’ al mondo esterno?

Concludiamo il saggio con un film tutto italiano, ovvero il nostrano Perfetti sconosciuti (2016) che getta uno sguardo terribile e aberrante sui piccoli, grandi, meschini segreti che ognuno di noi nasconde tra smartphone, facebook e watshapp. Il concetto del film di Paolo Genovese si riassume tutto in questa frase: “Quante coppie si sfascerebbero se uno dei due guardasse nel cellulare dell’altro?” È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioco al massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio l’utilizzo “ludico” dei nuovi “facilitatori di comunicazione” – chat, whatsapp, mail, sms, selfie, app, t9, skype, social – a svelarne la natura più pericolosa: la superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di non andare incontro a conseguenze, o peggio ancora, flirtando con quelle conseguenze per rendere tutto più eccitante. I “perfetti sconosciuti” di Genovese in realtà si conoscono da una vita, si reggono il gioco a vicenda e fanno fin da piccoli il gioco della verità, ben sapendo che di divertente in certi esperimenti c’è ben poco. E si ostinano a non capire che è la protezione dell’altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.

Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l’allargarsi dei cerchi nell’acqua di questi “giochi” finisca per rivelare la “frangibilità” di tutti: e la scelta stessa di questo vocabolo al limite del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. Il copione lavora bene sugli incastri e sugli snodi narrativi che rimangono fondamentalmente credibili, instilla verità nei dialoghi (che certamente verranno riecheggiati sui social e nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe “conversazioni”: l’eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch’esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una parte di sé, un proprio timore reale.

Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa). Il tono è adeguato alla narrazione: non farsesco, non romanticamente nostalgico, non cinico, ma comico al punto giusto, con sfumature sarcastiche e iniezioni di dolore. Questa “cena delle beffe” attinge a molto cinema francese e americano, ma la declinazione dei rapporti fra i commensali è italiana, con continui riferimenti a un presente in cui il lavoro è precario, i legami fragili e i sogni impossibili. La scrittura è crudele, precisa, disincantata, e ha il coraggio di lasciare appese alcune linee narrative, senza la compulsione televisiva a chiudere ogni scena. C’è anche una coda alla Sliding Doors che mostra come il “gioco” (prima che diventi al massacro) sia gestibile solo con l’ipocrisia e l’accettazione di certe regole non scritte: ed è questa la strada che più spesso scelgono gli esseri “frangibili”. Come un gatto in tangenziale - Il film

Cortellesi e Albanese: la “nuova” coppia del cinema italiano. Tra i tanti film usciti nell’annata 2017, esso verrà ricordato anche per il sodalizio artistico nato tra Antonio Albanese e Paola Cortellesi, due dell’attuale commedia all’italiana. Curiosamente diretti dal marito di lei, Riccardo Milani, nel 2017 sono stati nelle sale con due commedie amare, riuscite e di grande successo: “Mamma o Papà?” e “Come un gatto in tangenziale”. I due film confermano la propensione tipica di Albanese di farsi portavoce dei problemi sociali dei tempi attuali e quella di Paola Cortellesi, una vera forza della natura, strepitosa quando deve disegnare ruoli di donna autentici. Insieme la Cortellesi e Albanese hanno creato un coppia ben affiatata, che potrebbe anche trionfare ai prossimi Nastri, nella categoria dedicata alle coppie (Nastro d’argento intitolato a Nino Manfredi), anche soprattutto considerato il successo unanime di pubblico e critica che hanno avuto nel corso delle loro due interpretazioni insieme. Sembra essere nata una nuova coppia del cinema italiano, una coppia “alta” in grado di sorprenderci. Il loro primo film è uscito nelle sale il 14 febbraio del 2017, “Mamma o Papà?” che è una divertente commedia grottesca dove genitori e figli si invertono i ruoli ed i primi diventano il peggior incubo dei secondi. Politicamente scorretto, diseducativo ed eccessivo, il film fa ridere, con un retrogusto amaro tipico dello stile di entrambi gli attori, che qui per la prima volta in coppia funzionano a meraviglia. E quando il risultato ottenuto supera le più rosee previsioni, si dice “squadra che vince non si cambia”. Fin da subito, dalla primavera 2017 Riccardo Milani e la moglie Paola Cortellesi, hanno iniziato a lavorare su un secondo film con Antonio Albanese. Questa volta il tema è più ambizioso e il risultato ancora più riuscito, forse per un maggiore affiatamento, forse per una maggiore consapevolezza dei propri mezzi. “Con questo film siamo partiti da un livello di conoscenza diversa – conferma lo stesso Albanese – con Paola abbiamo trova un’intesa di sguardi e gestualità che si traducono in comicità. Mi spaventa che gli italiani stiano perdendo la loro storica ironia, forse l’umorismo non può trovare sempre soluzioni ma può dare una mano a sostenere il tema”.

“Come un gatto in tangenziale” è una commedia amara, al di là dei molti momenti comici anche piuttosto riusciti, e racconta l’incontro-scontro tra l’intellettuale snob Giovanni e l’ex cassiera Monica. I loro figli s’innamorano, Romeo e Giulietta 2.0 divisi dal Raccordo anulare – lui in borgata, lei in una bellissima casa del centro storico – e dallo stile di vita dei genitori. La storia dei due ragazzini sarà destinata a naufragare vittime delle differenze sociali tra i due, mentre quella dei due genitori decollerà a fine film, unita dalla voglia di lei di staccarsi dall’arretramento culturale e sociale della borgata di Roma in cui vive; e dalla consapevolezza di lui, che in fondo bisogna conoscere le realtà popolari e le persone oneste che ci vivono, per capire che i sentimenti e la dignità sono appannaggio di tutte le classi sociali, senza distinzioni. Il quartiere “a rischio” prescelto è quello di Bastogi, a Roma, un luogo studiato a fondo dal regista, prima di procedere alla stesura della sceneggiatura: “Abbiamo fatto dei sopralluoghi, abbiamo incontrato persone, fatto molte interviste, volevamo essere il più accurati e credibili possibile – dice il regista– Durante questo periodo si sono creati dei rapporti, abbiamo ascoltato storie incredibili anche divertenti, nella loro dimensione tragica, raccontate con la flemma e il dialetto di certi romani”. Insomma, dentro ad un film dove si ride e si sorride perché la situazione è paradossale, perché l’argomento toccato è attuale, perché Paola Cortellesi e Antonio Albanese sono attori comici capaci; c’è un altro film che incalza, un altro film più coraggioso, meno scontato, più aderente alla realtà. Un film necessario come necessario è il tema, e come necessario è raccontarlo con la sagacia del nostro stile di fare commedia, confermando ancora una volta la rinascita della “commedia all’italiana” come specchio della nostra società, dei quali Paola Cortellesi e Antonio Albanese ne rappresentano la parte più “alta”, pur non rinnegando la comicità pura, dalla quale entrambi derivano e con la quale entrambi gli attori hanno costruito la loro intensa carriera cinematografica. Forse nel 2018 per una terza volta in coppia? Chissà, ci speriamo un pò tutti, anche il pubblico, che ha dimostrato di apprezzare entrambi i film affollando le sale cinematografiche.

Il meglio del cinema italiano nel 2017

Il 2017 per il cinema italiano è stato un anno fruttuoso, importante, che conferma la propensione italiana a fare del Cinema un’arte. Con quasi 500 lavori ufficialmente registrati presso l’ANICA, il nostro cinema si conferma come quantità di prodotti, il primo d’Europa e il secondo del mondo, in ossequio alla sua gloriosa storia. E anche come qualità questo è stato un buon anno, ci confermano questa sensazione i resoconti del festival di Venezia e dei film italiani presentati a Cannes. La figura femminile italiana che spicca in quest’annata è quella di Jasmine Trinca, trionfatrice a Cannes per la splendida e sofferta interpretazione del film di Sergio Castellitto, Fortunata. La giovane Jasmine Trinca si issa così tra le attrici più promettenti del panorama cinematografico nazionale. Proprio dal festival francese provengono quelli che probabilmente sono i tre migliori film italiani dell’annata: Cuori puri, A ciambra, L’intrusa. Tre film di autori diversissimi tra loro, ma che si pongono di fronte alle cose e alle persone, e ai loro rapporti con il contesto italiano, per provare a raccontarlo e a volte a interpretarlo.

A ciambra di Jonas Carpignano è un film più di constatazione che di interpretazione. Racconta gli “anni di apprendistato” di un adolescente rom, Pio, in un paese calabrese, un ragazzo che per diventare adulto deve accettare le regole degli adulti che ha intorno: quelle della sua comunità rom (rom e non sinti), marginale da tutti i punti di vista, anche per la legge; quelle della comunità degli immigrati africani, che oggi sono marginali per definizione, ma si spera che le cose possano cambiare; e infine quelle della ‘ndrangheta. Roberto De Paolis in Cuori puri mostra una periferia romana dove le scelte sono ancora possibili, dove la prepotenza della società può essere combattuta dall’amore tra i due protagonisti e, sullo sfondo, dal gruppo a cui la ragazza appartiene. Mentre in L’intrusa, di Leonardo Di Costanzo, ci troviamo tra i cosiddetti “operatori sociali”, dentro un’esperienza educativa nella periferia napoletana dove si impone il confronto tra i “buoni” che si occupano del prossimo, tra cui i bambini – puri o recuperabili di per sé –, ma anche certi adulti che partecipano di una cultura e di una pratica camorriste. Direttamente da Venezia ereditiamo invece Il colore nascosto delle cose, di Silvio Soldini, con Adriano Giannini ed una strepitosa Valeria Golino, che non ha vinto per la terza volta a Venezia solo perché il film era presente alla kermesse fuori concorso. L’attrice rende in maniera impeccabile la complessità di una diversa condizione esistenziale ed interpreta una donna forte, in gamba, tenace che però deve fare i conti con la propria cecità. Fa da contraltare il personaggio interpretato da Adriano Giannini, un creativo che lavora presso un’importante agenzia di pubblicità e che quindi della vista ne fa praticamente il suo lavoro. Lui ci vede, fa un lavoro in cui l’elemento visivo o la sua evocazione sono fondamentali, ma la sua vita sembra avere bisogno di una messa a fuoco sia nel confronti di un passato familiare complesso sia nell’ambito delle relazioni uomo/donna. Il personaggio interpretato dalla Golino, che non è nata priva della vista, non ha dimenticato i volti e i colori che ha conosciuto nel passato così come non nega la propria disabilità ma non la affoga nel auto compatimento ed è in grado di affrontare un rapporto con la maturità che ciò che ha vissuto le ha consentito di sviluppare. I due finiranno per trovarsi, per innamorarsi l’uno dell’altro, rendendo al meglio la sensibilità del regista nei confronti del tema.

Nella seconda parte dell’anno, quella commercialmente più rilevante val la pena nominare una serie di film, che si caratterizzano per la capacità tutta italiana di creare pellicole dalla struttura corale ben orchestrata. Così risultano particolarmente riusciti The place, di Paolo Genovese, con Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Rocco Papaleo; Caccia al tesoro, con Vincenzo Salemme; la saga di Smetto quando voglio, di Sydney Sibilla che sfocia negli ultimi due strepitosi capitoli della serie, Masterclass e Ad Honorem; La casa di famiglia, con Lino Guanciale e Stefano Fresi; Il premio, con Gigi Proietti, Alessandro Gassman e Rocco Papaleo; Come un gatto in tangenziale con Paola Cortellesi e Antonio Albanese; Chi m’ha visto? con la strana coppia composta da Beppe Fiorello e Pierfrancesco Favino, tanto bizzarra da funzionare. Un film niente affatto banale che analizza con tono ironico, i turbamenti provenienti dall’attenzione mediatica e degli effetti collaterali ad esso collegati, come il fatto che la notorietà conta più del talento, in questa società anestetizzata da programmi televisivi in cerca di un facile scoop.

A concludere l’anno cinematografico all’italiana va citata la classica sfida di Natale, orfana di Leonardo Pieraccioni, che sarà nei cinema il prossimo anno, tutta incentrata sulla sfida tra i due ex compagni cinematografici De Sica e Boldi. Il primo in sala con il sequel di Poveri ma ricchi dal titolo Poveri ma ricchissimi; il secondo con lo squallido Natale da chef. Sfida stra-vinta dal sempre bravo Christian De Sica, che nel periodo natalizio è come sempre campione di incassi, come da trent’anni a questa parte. Infine chiudo l’articolo con quello che vuol’essere un omaggio a due stelle di prima grandezza del cinema italiano, che quest’anno ci hanno lasciato, ovvero Paolo Villaggio e Gastone Moschin. Due Maestri del cinema a cui il nostro Paese deve tantissimo e che ci mancheranno senza dubbio. Natale 2017: cosa ci aspetta al cinema

Arriva il Natale e come ogni anno l’offerta cinematografica si fa variegata e aperta a tutti i gusti. Mai come quest’anno però, si assiste ad un cambiamento marcato, in cui ai classici cinepanettoni si aggiungono film d’autore, film amari, in un contesto mai verificato, perlomeno dall’avvento del nuovo millennio.

Il primo dato che balza all’occhio è l’assenza dopo 21 anni, del Cinepanettone “apocrifo” della “Medusa” (la quale quest’anno vira sul classico Boldi), che era solita, ormai dal lontano 1996 alternare Aldo, Giovanni & Giacomo negli anni pari e Leonardo Pieraccioni negli anni dispari. E’ proprio l’assenza di quest’ultimo che colpisce, mentre perlomeno il trio comico, a quanto pare però ai ferri corti già da qualche mese, l’anno scorso il loro lo avevano fatto discretamente (Fuga da Reuma-Park).

Quest’anno si rinnova la solita sfida De Sica-Boldi, tra un fake e una notizia reale di riavvicinamento tra i due, ex coppia comica storica del cinema italiano. I due attori si ritroveranno uno contro l’altro e paradossalmente anche contro se stessi, dal 14 dicembre, nella tripletta Poveri ma ricchissimi (Warner Bros.) con De Sica, Natale da chef di Neri Parenti con Boldi (Medusa), e in duetto vintage nel best of dei cinepanettoni di Filmauro, Super vacanze di Natale, film di montaggio curato da Paolo Ruffini.

Quest’ultimo film ha creato non poche polemiche, primo fra tutti perché è un film di montaggio dal costo ovviamente zero, secondo ha ricevuto critiche sonore da parte dei suoi protagonisti storici: De Sica ha dichiarato che De Laurentiis non lo ha neanche messo al corrente preventivamente; Boldi ha intentato una causa giudiziaria per diritti d’immagine, persa però sonoramente in quanto il materiale è di proprietà della Filmauro e quindi nella piena disponibilità della Casa di produzione.

In Super vacanze di Natale dei fili conduttori tematici cuciranno insieme scene da 33 film girati in 35 anni.

Fra gli interpreti, con Boldi e De Sica, si ritroveranno, fra gli altri, Alberto Sordi, Stefania Sandrelli, Massimo Ghini, Sabrina Ferilli, Diego Abatantuono, Michelle Hunziker. ”Dopo 35 anni di successi ci è sembrato bello regalare al pubblico un film unico, che racconti diverse decadi di comicità ma anche di bellezza e cambiamenti nella società” aveva spiegato Luigi De Laurentiis a margine della presentazione del prodotto.

Tuttavia sull’operazione non sono mancate le frecciate: ”Quest’anno vanno di moda i film di Natale riciclati, il nostro invece è inedito” aveva ironizzato Brizzi (regista di Poveri ma ricchissimi) che ora, travolto dallo scandalo molestie sessuali non parteciperà alla promozione del film ed è stato anche cacciato dalla Warner che non produrrà più suoi film. Di questo film però la produzione ha confermato la data d’uscita proprio perché “è il risultato della creatività, del lavoro e della dedizione di centinaia di donne e di uomini di cast e produzione”. Poveri ma ricchissimi è il seguito di Poveri ma ricchi (remake del successo francese Les Tuche) che pur in un panorama di segno negativo al botteghino, è stato il maggior incasso italiano dello scorso Natale. Con De Sica, ritroviamo Enrico Brignano, Anna Mazzamauro, Lucia Ocone, Lodovica Comello e nuovi innesti come Paolo Rossi e Massimo Ciavarro.

Stavolta La famiglia Tucci, diventata nel primo film straricca grazie alla lotteria, ”si dà alla politica e organizza nel proprio paese, Torresecca, un referendum per una Brexit ciociara” aveva spiegato il regista. Se perlomeno la saga dei Tucci è divertente e comunque solidamente poggiata su un cast istrionico di livello (De Sica-Brignano-Ocone), quello di Natale da chef è il solito cinepanettone scaduto con Massimo Boldi, Enzo Salvi e Biagio Izzo, che ormai davvero ha segnato il tempo: soliti equivoci a sfondo sessuale, solita comicità riscaldata, solita comicità slapstick di basso livello.

Davvero ci si sorprende come un film del genere possa attirare la benché minima attenzione del pubblico del cinematografo. Meglio, decisamente molto meglio, invece la commedia amara, un po’ road-movie, un po’ walzer dei sentimenti di Alessandro Gassmann, dal titolo Il premio, già uscito nelle sale il 6 dicembre scorso. Protagonista uno scrittore famoso, interpretato da uno straordinario Gigi Proietti (davvero il film merita soprattutto per la performance da urlo dell’attore romano) che parte da Roma, accompagnato dai due figli (Gassmann e Anna Foglietta) e dal suo fidato segretario (Rocco Papaleo) per andare a ricevere il Nobel a Copenhagen. ”E’ una storia che mi riguarda venendo anch’io da una famiglia un po’ speciale ma certe dinamiche sono le stesse per tutti” ha spiegato l’attore-regista, che infatti analizza il rapporto ingombrante che un figlio può avere nel corso della sua vita con un padre famoso e celebrato. In questo, nella figura di Gigi Proietti vi si può riconoscere quella di Vittorio Gassman; mentre la presenza di Papaleo sembra quasi una restituzione del favore all’amico, anch’egli attore-regista per averlo chiamato sempre o quasi per i suoi lavori. Oltretutto, Gassman e Papaleo al loro quinto film insieme, stanno ormai per entrare nell’Olimpo delle coppie del cinema italiano.

L’offerta per il periodo natalizio si chiude con un film d’autore e una bella commedia dei sentimenti. Alessandro Borghi e Giovanna Mezzogiorno sono protagonisti in Napoli velata di Ferzan Ozpetek (28 dicembre): ”Racconto – ha detto il regista – i segreti di una città che conosce oro e polvere, una città pagana e sacra allo stesso tempo. E dentro alla cornice del thriller esplode una potente storia d’amore”. Invece Antonio Albanese e Paola Cortellesi, tornano di nuovo come coppia cinematografica nelle sale con Come un gatto in tangenziale, dopo il successo di Mamma o papà del febbraio scorso, ancora diretti da Riccardo Milani, che per la cronaca è il marito della Cortellesi. Dopo i litigi del precedente film, dove i due attori interpretavano una coppia sull’orlo della separazione; questa volta Antonio Albanese e Paola Cortellesi vestono i panni di Giovanni e Monica, due persone idealisticamente opposte, ma entrambi hanno un obiettivo in comune: separare i propri figli, i quali si sono appena fidanzati.

Insomma, riusciranno nei loro intenti, o invece il destino ha altro in serbo per loro? Non spoileriamo il finale, ma è tutto facilmente intuibile, in un trionfo dei sentimenti, che in fondo è parte integrante del “buonismo” natalizio. Non c’è da lamentarsi però, in confronto a tante altre pellicole coeve, questa si poggia su una buona sceneggiatura e su una coppia di attori di eccelso livello, infatti sia Albanese che la Cortellesi, hanno già dimostrato in passato il loro livello assoluto.

Dunque l’offerta cinematografica natalizia si ferma qui. Probabilmente negli scorsi anni non c’era mai stata una tale varietà di pellicole e soprattutto di generi, capaci di cogliere un po’ tutti i gusti, dai più facilotti (che ahimè non fa minimamente bene al cinema) ai più forbiti. C’è anche un’altra nota positiva, non ci sono né Checco Zalone, né Alessandro Siani all’orizzonte; e se non ci fosse stato neppure Boldi, sarebbe stato perfetto. Ma non si può pretendere l’impossibile.

La casa di famiglia - Il film

La casa di famiglia – Il film

Opera prima del regista Augusto Fornari, è nelle sale in questi giorni il film “La casa di famiglia”.

Un film che sembra una commedia road-movie degli anni ’60, quelli della migliore commedia all’italiana. Il cast corale è ricco e ben affiatato, difatti i protagonisti, totalmente a proprio agio nelle vesti dei personaggi, sono in grado di sfruttare pienamente il potenziale del racconto e della sceneggiatura. Perfetto il quartetto composto da Lino Guanciale, Stefano Fresi, Libero De Rienzo e Matilde Gioli, che interpretano la parte di quattro fratelli, ognuno nel classico stereotipo delle caratterizzazioni tipiche da commedia all’italiana.

C’è Lino Guanciale che interpreta il fratello sciupa femmine e combina guai; Stefano Fresi, il “grosso” della compagnia è l’ingenuo sognatore, artista e direttore di una piccola orchestra per ragazzini; Libero De Rienzo è il fratello in carriera, affermato, rispettato, che però ha totalmente sepolto ogni tipo di sentimento; e infine c’è Matilde Gioli, la sorella del gruppo, bella come il sole, ma disperata per una tormentata storia d’amore. E poi c’è un quinto protagonista, il padre di famiglia (Luigi Diberti), in coma da cinque anni, che di colpo si risveglia, e costringe i quattro fratelli a riacquistare la vecchia casa di famiglia. L a c a s a d i f a m i g l i a – I l f i l m

Il film scorre via piacevolmente, un po’ road-movie, un po’ commedia dei sentimenti, un po’ parabola familiare dei rapporti spesso complessi che si vivono in ogni famiglia. La sua fluidità da walzer degli affetti, il suo ritmo incalzante da commedia all’italiana, l’affiatamento tra gli attori così sapientemente dosati dal regista, sono gli ingredienti di un film gradevolissimo, che forse non avrà il successo che meriterebbe, ma testimonia la capacità italiana di fare buon cinema, quando si ha a che fare con una storia che si eleva dalla volgarità dilagante di molte altre pellicole coeve.

E per finire, non manca neanche una piccola e velata critica sociale ai tempi attuali. C’è infatti un piccolo ricatto che non va a buon fine, solo perché ormai non ci si vergogna più di mettere in piazza le nostre performance imbarazzanti, merito (o colpa) dei social network che hanno dato la parola a chi in altri luoghi non avrebbe avuto spazio; ma ha dato anche la possibilità ad alcuni improbabili “mostri” della società di mostrare il lato peggiore di se stessi. Un film educativo, consigliabile, dove è possibile ritrovare un po’ tutti i generi, mischiati sapientemente.

Unico difetto?

Il finale moscio, per una storia cui si sarebbe potuto osare di più proprio nel capitolo conclusivo. Comunque un film riuscito, con una previsione: scommettiamo che ai Nastri e ai David prossimi questo piccolo film otterrà perlomeno qualche nominations, anche importante?

Pensiamo a Lino Guanciale, a Stefano Fresi, o anche a Matilde Gioli (probabilmente la migliore).

Il Ministro - Il film

Favola nera, anzi nerissima, che ha avuto una distribuzione limitata, sul complicato intrigo di corruzione e connivenze in cui molti si muovono, e a cui alcuni hanno venduto l’anima tout court. Nessuno è innocente in questa storia, e il cinismo crudele che anima tutti i personaggi non li abbandonerà dalla prima all’ultima scena, mostrando un coraggio e una coerenza narrativi non comuni nel cinema italiano contemporaneo, sempre pronto alla deriva piaciona e buonista. Inquietante la didascalia iniziale prima dei titoli di testa che avverte: “storia probabilmente accaduta”, il che la dice tutta sull’attualità della storia e sulle sue dinamiche. Il film però va ben oltre, è un ritratto attento, ironico e cattivo su usi e costumi della società di oggi, a prescindere dalle vicende politiche. L’immoralità politica e le abitudini poco pulite (diciamo così) sembrano in effetti una naturale conseguenza di modi maleducati e irrispettosi al limite della legalità di una intera società. Da lla pri m a sc en a si int uis ce su bit o ch e il fil m no n far à sc on ti sul la pe rs on ali tà de l pr ot ag on ist a, no n cerca di rendercelo simpatico. Franco, uno splendido e inusuale Gianmarco Tognazzi, è continuamente incazzato e in tensione, spende e spande soldi a casaccio: per comprare un vino costosissimo (un Sassicaia che “…non si sposa però bene con il coniglio” – l’episodio alla enoteca è uno dei più simpatici) e ingaggiare all’ultimo momento una escort che si rivelerà in seguito “solo” una ballerina di burlesque (Jun Ichikawa). Per far bella figura non si fa problemi a comprare cocaina da uno strozzino chiamato “Il Pitone” e nascondere nella scrivania del suo studio la valigetta con la maxitangente. Franco non si fa scrupoli nemmeno nel sedurre e indurre alla prostituzione la sua affascinante cameriera di colore (Ira Fronten) una volta accortosi che al ministro non dispiacerebbe. Franco è quindi un protagonista antipatico, irresponsabile e sicuramente negativo. Di contro abbiamo la moglie e il cognato che non sono di meno: egoisti e privi di qualsiasi morale condivisa. Possiamo sperare nel ministro? Sarà lui la svolta positiva alla storia? Quello che ci farà ricredere sulla politica italiana?

La commedia di Giorgio Amato è di quelle cattive, anzi cattivissime, politicamente scorrette verso qualsiasi categoria, amare come sapeva essere la migliore commedia all’italiana dei tempi d’oro. Questa commedia non è sicuramente di quelle che mette d’accordo tutti, di quelle accomodanti dove la risata è strappata dalla battutaccia o dal luogo comune. La risata che ne scaturisce è di quelle amare, che lasciano il ghigno una volta passata. Il malcostume politico è una conseguenza dei comportamenti poco puliti di chi la politica non la fa, una sorta di assuefazione all’illegalità o comunque ad una maleducazione diffusa. Tra i personaggi in questione non c’è mai una parvenza di pentimento o di ripensamento verso ciò che stanno facendo, la corruzione è un comportamento dovuto per ottenere ciò che si vuole.

Il film è sorretto da un ottimo cast, su tutti il protagonista, Gianmarco Tognazzi, presente in quasi ogni scena, che riesce a mantenere un ritmo e un livello sempre alto fino al finale che rasenta il grottesco. Tognazzi sa stare al centro dell’attenzione e allo stesso tempo dare il giusto spazio ai compagni di lavoro. Un ruolo quello di Gianmarco Tognazzi, che è quasi un omaggio ai ruoli più riprovevoli interpretati dal padre Ugo. Poi c’è Fortunato Cerlino, il ministro “perfetto”, quello che ognuno di noi vorremmo vedere al governo in questi ultimi anni. La cena che ci viene raccontata nel film, e che è la sequenza centrale del film, pare prendere vita da uno dei tanti articoli letti, o dalle notizie apprese nei telegiornali, e la memoria fa presto ad andare ai festini in maschera organizzati dai nostri politici nazionali. Ma quello che rende il film divertente e per nulla scontato sono proprio i personaggi femminili, che non sono relegati a puro oggetto del desiderio e merce di scambio per i loschi affari, ma al contrario si rivelano essere le menti più astute di tutta la combriccola. Amato, insomma costruisce una galleria di nuovi mostri senza possibilità di redenzione, ma ognuno animato da una disperazione di fondo che rende l’etica un fantoccio nelle mani dell’economia. L’ispirazione è chiaramente la commedia all’italiana anni ’60, il modello è quello della cattiveria castigatrice di Monicelli, Salce e Risi. Questa del film “Il Ministro” è una bella commedia caustica, come non se ne vedono da un po’ nella nostra cinematografia, e meriterebbe quell’attenzione, che ad esempio, hanno commedie e pellicole molto meno meritevoli di questa.

“Chi m’ha visto”- Il film

Primo film rilevante della nuova stagione cinematografica italiana “Chi m’ha visto”, l’opera prima di Alessandro Pondi racconta di come, al giorno d’oggi, la notorietà conti più del talento, in questa società anestetizzata da programmi televisivi in cerca di un facile scoop.

Il film ha tre grandi protagonisti e su di loro si poggia, per ovviare ad alcune lacune in fase di sceneggiatura, che però vengono ben camuffate da Beppe Fiorello, Pierfrancesco Favino e dal paesaggio mozzafiato della Murgia tarantina della cittadina di Ginosa. A fare faville è però l’inedito duo composto da Fiorello e Favino, il primo lavora in levare, nei panni di Martino, malinconico musicista dal talento sopraffino che vorrebbe emergere e si inventa la sua scomparsa per salire alla ribalta, aiutato dall’amico Peppino, che a differenza sua è portatore sano di tutti gli istinti primordiali dell’uomo: cibo, sesso, danaro. Peppino è uno strepitoso Favino, vera anima comica del film, uno showman che mette su una macchietta che diventa presto un carattere, di quelli delle nostre commedie degli anni d’oro.

Sue le scene più esilaranti, le battute più guascone, la goliardia. Favino fa quasi l’effetto di un Sordi, di un Gassman, di un Peppino De Filippo, quando è lui in scena la pellicola si illumina di luce propria. La pellicola vive su un umorismo venato di malinconia, degno delle migliori commedie all’italiana degli anni passati, e tratta in maniera adeguata, ma leggera, due temi forti della nostra società contemporanea.

Il primo, il flagello degli artisti di ogni tipo, che se suoni, canti, dipingi o altro, non stai davvero lavorando ma giocando. Non importa se sei ricco, rispettato, conosciuto o famoso, il lavoro è sudore, per cui stai solo perdendo tempo. L’altro è l’influenza dei media sulla gente, soprattutto la TV spazzatura con i suoi reality, i talk show sensazionalisti, i programmi studiati per generare ansie ed emozioni pilotate.

Facendo questo però, la sceneggiatura lascia fuori completamente i social, che nel film non vengono mai nominati, ma che invece nella realtà, plasmano l’opinione pubblica, quanto e forse anche di più dei media.

Menzioni speciali per le riuscite caratterizzazioni delle due presenze femminili del film: la prostituta dal cuore d’oro (Mariela Garriga) che nasconde anche cultura e saggezza e che fa innamorare il musicista-poeta impersonato da Fiorello; e la sempre eclettica Sabrina Impacciatore negli esilaranti panni della conduttrice di “Scomparsi”, che altro non sarebbe che il celebre programma di Rai Tre, chiamato in un altro modo.

A completare il film, decine di gustosi camei di celebri cantanti italiani in ansia per le sorti del loro musicista Martino/Fiorello, da Jovanotti a Max Pezzali, passando per Giuliano Sangiorgi, Fedez, Elisa, Giorgia, Gigi D’Alessio, Gianni Morandi. “Chi m’ha visto” è un film che rimarrà, per tanti motivi: per la qualità sopraffina dei due protagonisti, per la suggestione di paesaggi mozzafiato, che in un film non guastano mai e per la capacità di raccontare la nostra società, i nostri difetti e le nostre “involuzioni”, cosi come facevano i maestri della commedia all’italiana 50 anni fa.

Perché il cinema italiano si fa grande, solo quando racconta l’Italia e gli italiani e questo è nel nostro DNA, ed è una qualità e una prerogativa che ci porteremo sempre appresso.

Il Cinema e le implicazioni socio- economiche negli anni del Boom

Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia è un paese profondamente ferito dai bombardamenti anglo-americani e dalle distruzioni lasciate dai nazisti, stanco, sfiduciato, senza prospettive precise, incerto addirittura sulla sua stessa unità. L’economia è prostrata; la società è sostanzialmente la stessa di inizio secolo: agricola, arretrata e provinciale; la presenza di un fortissimo partito comunista rende incerta la posizione dell’Italia sullo scacchiere internazionale.

Siamo nel 1946. Quarant’anni più tardi, con due “miracoli economici” alle spalle, lo stesso paese è uno dei sette più industrializzati del mondo, saldamente integrato nel sistema occidentale di mercato, il tenore di vita dei suoi cittadini si può a buon diritto definire tra i più elevati del mondo. Il volto dell’Italia è dunque decisamente cambiato da allora, e per certi aspetti è addirittura irriconoscibile, trasformato da un processo di accumulazione, di urbanizzazione e di secolarizzazione così rapido e profondo da avere pochi altri riscontri nella storia europea del dopoguerra. In questo clima culturale di ammodernamento, fondamentale risulta essere il ruolo svolto dal Cinema, che mai come in Italia, ha rappresentato e rappresenta lo specchio della società.

Il Cinema infatti, ha accompagnato i profondi mutamenti socio-economici del nostro Paese con tempismo e precisione sociologica di straordinaria efficacia.

Primi scampoli di benessere economico si registrano già a partire dai primi anni ’50 in due capisaldi della commedia all’italiana: “La famiglia Passaguai” di e con Aldo Fabrizi; e “Pane, amore e fantasia” con Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida, due film leggendari che ironizzano splendidamente sui comportamenti di una piccola borghesia che si confronta a fatica con i primi segni del benessere, ma che guarda con rinnovata fiducia verso il futuro. E poi venne la fine degli anni ’50 e pellicole leggendarie come “Poveri ma belli”, con Maurizio Arena e Renato Salvatori; “I soliti ignoti” con Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni e ancora Renato Salvatori; e “La dolce vita”, che contribuirono a lanciare nel mondo il mito della “dolce vita” italiana, sinonimo di spensieratezza e di benessere economico. In particolare quel 1960 de “La dolce vita” di Fellini e Mastroianni e de “La ciociara” di De Sica e della Loren, è il nostro anno mirabilis: ciliegina sulla torta le Olimpiadi di Roma ’60, il punto più alto dell’Italia del secolo scorso.

E poi, in pieno clima di benessere economico, venne la commedia all’italiana, vera e propria rappresentazione dei nostri vizi e delle nostre virtù, supportata da attori di eccezionale livello artistico: Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Walter Chiari…

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Venti anni dopo sopraggiunse il secondo boom economico, quello degli anni ’80, un decennio che ha portato con se una inimitabile ventata di ottimismo, modernità e spensieratezza. Un decennio che arriva dopo i cupi anni ’70, dopo le stragi delle Brigate Rosse, dopo un’epoca di tumulti nella società e nella politica italiana. Solo pochi anni prima erano accadute alcune gravi tragedie che avevano scosso l’opinione pubblica: la strage di Piazza Fontana a Milano, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, il suicidio “sospetto” di un grande e popolare artista come Alighiero Noschese.

Eppure quando arrivano gli anni ’80, cambia tutto. Un rinnovato clima di spensieratezza riavvolge l’Italia, come se ci fossimo ricatapultati venti anni addietro, ovvero negli anni ’60. E il Cinema ancora una volta si ripropone di raccontare quegli anni, così come aveva fatto fino ad allora. Infatti, negli anni ’70, in sintonia con i tempi, la commedia all’italiana si era fatta cupa, triste, sconsolata (“Una storia triste è meglio per l’Inverno”, dice il piccolo Mamilio in The Winter’s Tale, di William Shakespeare); e quella più popolare era diventata irrimediabilmente volgare, trita e ritrita di seni al vento e di parolacce sconce, in linea con l’involgarimento culturale della società italiana. La ripresa del decennio successivo, nasceva da una buona situazione dell’economia mondiale, favorita soprattutto dal ribasso dei prezzi del petrolio, e da una nuova disponibilità interna degli imprenditori ad investire. L’”urbanizzazione” e la “nuclearizzazione” nonché una maggiore ricchezza delle famiglie italiane comportò la nascita di un “terziario” come non era mai avvenuto prima, il quale da una parte offriva servizi ad una famiglia non più in grado di essere autosufficiente e dall’altra offriva servizi alla persona in ragione delle nuove esigenze e bisogni.

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E nel cinema riprende dunque, a marciare la “nuova” commedia all’italiana, finalmente epurata da quegli elementi tristi che l’avevano caratterizzata nel decennio precedente. Arrivano anche le cosiddette “nuove leve”: Paolo Villaggio, Enrico Montesano, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Lino Banfi, Jerry Calà, Adriano Celentano, Diego Abatantuono, Christian De Sica…tutti attori brillanti, in sintonia con il determinato periodo storico. Vale la pena qui, citare alcuni titoli, destinati a rimanere nella storia degli anni ’80: “Vieni avanti cretino”(1982), con Lino Banfi; “”Ricomincio da tre”(1982), con Massimo Troisi; “Sapore di mare”(1983), con Jerry Calà e Christian De Sica; “Bianco, rosso e Verdone”(1982), con Carlo Verdone; “Aragosta a colazione”(1980), con Enrico Montesano.

In conclusione, un saggio come questo, ha l’obiettivo di far capire come il Cinema sia parte integrante del processo socio-economico del nostro Paese, e come quest’ultimo addirittura sia influenzato dal Cinema stesso, subendone mutamenti al passo con i tempi. Per il rapporto tra Cinema, società e storia, vale ancora quella famosa citazione, che semplifica in maniera esaustiva la valenza che il Cinema ha nelle nostre vite: “Il Cinema è la maniera migliore per rivivere una fetta importante della storia del nostro paese, meglio di qualsiasi trattato sociologico”.

Addio a Gastone Moschin, il “signore del cinema italiano”

Se ne è andato anche l’ultimo amico nostro. A 88 anni è morto Gastone Moschin, l’attore che è entrato nel nostro immaginario (comico e amaro) collettivo con l’architetto Rambaldo Melandri, compagno di zingarate con i suoi inseparabili quattro amici. Gastone è stato un attore di grandissimo valore, uno dei più importanti e poliedrici della nostra cinematografia.

Venne soprannominato il “signore del cinema italiano”, per il suo stile elegante, per la raffinatezza delle sue caratterizzazioni.

Poliedrico come nessun altro nella sua capacità di passare da un genere all’altro senza mai fossilizzarsi in una sola tipologia di ruoli o di film. Attore di superbo talento, forse nessuno come lui, è stato in grado di sfornare tanti personaggi memorabili, rimasti nella memoria collettiva. Oltre 70 film interpretati nella sua gloriosa carriera ed una miriade di personaggi italici disegnati alla perfezione. Tra i tanti, bisogna citare due titoli su tutti, quelli che insomma possono essere definiti i suoi film della vita: “Signore e signori” (1966) e “Amici miei” (1975), quest’ultimo film darà poi vita a due seguiti. Sarà proprio la saga delle avventure degli “Amici miei” e lo splendido ritratto della provincia veneta di “Signore e signori”, a regalargli i due Nastri d’argento della sua carriera.

G a s t o n e M o s c h i n i n u n a scena del film Amici Miei

Ma Gastone Moschin, è stato anche molto altro. I generi e le tante interpretazioni sublimi si sprecano, come quella del bieco Don Fanucci nel “Padrino II” (1974). Nel 1972 è l’ambiguo Ugo Piazza del celebre noir “Milano calibro 9”, di Fernando Di Leo, con al fianco Barbara Bouchet e Mario Adorf, uno dei film capostipiti del genere poliziesco. Lo stesso anno sostituisce Fernandel in “Don Camillo e i giovani d’oggi”. Nel 1973 è un convincente Filippo Turati ne “Il delitto Matteotti”. Nel 1974 interpreta il crudele bandito detto Il Marsigliese nel poliziesco “Squadra volante” di Stelvio Massi, con Tomas Milian e Mario Carotenuto. Il personaggio del Marsigliese avrà successo tanto da essere citato in varie forme in numerosi polizieschi successivi. È ad ogni modo un ruolo brillante quello a cui Moschin deve la popolarità maggiore, vale a dire il ruolo dell’architetto inguaribilmente romantico Rambaldo Melandri, protagonista, al fianco di Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Adolfo Celi e Duilio Del Prete, della saga di “Amici miei”.

Il primo film, diretto da Mario Monicelli, esce nel 1975 e si classifica al primo posto negli incassi della stagione. Il progetto di «Amici miei» (1975) apparteneva a Germi che morì poco prima dell’inizio delle riprese, lasciando la regia a Monicelli. Ma il vuoto rimase, il lutto aleggiava, la vita riassunto di commedia e tragedia. Lo aveva raccontato lo stesso Moschin in un’intervista: «È un film che fa ridere, ma non è comico. È velato dalla malinconia della mancanza di Germi, che a volte pervadeva il set. La malinconia della domenica sera in attesa del lunedì, come nella scena delle giostre, dove facciamo i conti con il ritorno, il giorno successivo, alla vita reale».

Fu un successo strepitoso e inaspettato quello dei cinque indivisibili amici fiorentini, intelligenti e cialtroni allo stesso tempo, ritratto di molti italiani: il conte Mascetti (il nobile decaduto interpretato da Tognazzi), il Perozzi (Philippe Noiret, giornalista più attento alle donne che alle notizie), il Sassaroli (uno strepitoso Adolfo Celi, brillante e annoiato chirurgo), il Necchi (Duilio Del Prete) che gestisce il bar dove i 5 si incontrano. E poi lui, il Melandri, architetto con poche aspirazioni, se non quella di trovare finalmente una donna, per cui sarebbe stato anche disposto ad abbandonare i suoi amici. Ma non lo farà mai. Gli italiani corsero in massa nelle sale: oltre 10 milioni di spettatori con due sequel, nel 1982 (sempre Monicelli) e poi nel 1985 (quando la regia passò a Nanni Loy). «E chi poteva immaginare che il film sarebbe diventato una specie di mito? — ricordava ancora Moschin —. Credo sia stato possibile per la freschezza della sceneggiatura, la felicità della scrittura che prendeva spunto da episodi accaduti davvero o che si raccontavano nei bar. Erano anni diversi, era un’Italia nella quale si poteva ancora ridere». La situazione poi è cambiata: «L’Italia non mi sembra più un Paese per le zingarate mentre di supercazzole ne vedo ancora tante, ma quelle ci sono sempre state».

G a s t o n e M o s c h i n

Insomma, quello dell’architetto Melandri, è per Moschin il ruolo che lo ha reso immortale. Oggi ci sentiamo tutti un po’ più vuoti, tristi, perché Gastone era rimasto non solo l’ultimo in vita degli “Amici miei”, ma era l’ultimo vero grande del nostro cinema, l’ultimo superstite di una stagione irripetibile, poetica, gioiosa della nostra società. Un magone in gola ci pervade, mi pervade, perché la sua morte segna un po’ la vera fine di un’epoca, iniziata nel lontano 1967 con la morte di Totò e protrattasi nel corso degli ultimi 50 anni.

Ciao Gastone, oggi ci sentiamo tutti un po’ Melandri, ma ci sentiamo un po’ tutti “Amici tuoi”. I cinque film italiani sulle vacanze

Tutto ebbe inizio negli anni ’50, finita la stagione del Neorealismo, gli italiani avevano bisogno di ridere, o perlomeno di sorridere con il cinema, incitati anche dal sopraggiunto benessere economico. Sono infatti gli anni in cui l’Italia vive un boom economico inarrestabile, il PIL è in vertiginoso aumento, arriva la televisione, nel 1956 Roma si aggiudica per il 1960 l’organizzazione dei XVII Giochi Olimpici, la Dolce Vita romana sta raggiungendo i massimi storici…e il rinnovato benessere fa si che i luoghi turistici, balneari per eccellenza vengano presi d’assalto. Perché? Perché ora l’italiano può spendere, perché può godersi i frutti del suo lavoro.

Nel decennio compreso tra la metà degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 l’Italia visse una stagione di crescita economica e di cambiamenti sociali veloci e intensi, e divenne una delle maggiori potenze industriali.

Lo sviluppo economico superò addirittura quello demografico (pure evidente) e ciò ebbe come conseguenza un miglioramento diffuso del tenore di vita (i primi apparecchi televisivi, la storica 500). Molti dei film girati in quegli anni testimoniano sia questi cambiamenti, sia le tante contraddizioni ad essi collegate. Ha così inizio la voga del film turistico, branca della commedia all’italiana. Quella del film turistico-balneare diventa una vera e propria moda che nel giro di pochi anni arriva a produrre una moltitudine di pellicole del genere. Si trattava di ambientare le pellicole nelle più importanti località turistiche italiane, e spesso località balneari, con il luogo di consueto già pre-annunciato dal titolo. Un piccolo escamotage di produttori e sceneggiatori destinato a fare epoca, e come ovvia conseguenza il film veniva girato in piena estate, facendo aumentare ancora di più il mito dell’Italia della “Dolce Vita”.

Proviamo ora a fare una piccola selezione delle pellicole, che meglio hanno espresso, nella storia del nostro cinema, questo sottogenere di successo della commedia all’italiana.

1. Vacanze romane(1953), di William Wyler. Con Gregory Peck e Audrey Hepburn. Film a dir poco epocale, “Vacanze romane” è la tappa fondamentale nel percorso che aveva attirato verso Roma, destinazione Cinecittà, divi e professionisti di Hollywood. Era l’epoca in cui Roma veniva soprannominata per la prima volta la “Hollywood sul Tevere” e il centro del cinema mondiale, almeno fino alla fine degli anni ’60. Nel film lo scenario è Roma, con le sue bellezze artistiche, la poesia dei suoi paesaggi, con la sua voglia di vivere, con il suo charme, con le sue serate fashion di Via Veneto. E’ fuori discussione che l’accoppiata Audrey Hepburn-Gregory Peck sullo sfondo di una Roma piena di colori e di vivacità lasci davvero il segno nell’immaginario comune. L’immagine rimasta nella memoria collettiva è infatti, quella di Gregory Peck e Audrey Hepburn sulla scalinata di Trinità dei Monti: quando le Arti si fondono creando un cortocircuito artistico di incredibile livello estetico. Vacanze Romane

2. Vacanze a Ischia(1957), di Mario Camerini. Con Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Isabelle Corey, Antonio Cifariello. Il film, diretto da un vecchio maestro di cinema come Mario Camerini, si issa fin da subito come uno dei migliori del genere, anche grazie alla presenza di stelle del cinema, come Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Nadia Gray e Antonio Cifariello. La pellicola, che tra le altre cose ottenne un considerevole successo al botteghino, mette in evidenza le bellezze di Ischia e venne finanziata dal commendator Angelo Rizzoli anche per fare un pò di propaganda ai suoi investimenti sull’isola, ma nel contempo ci guadagnava la stessa immagine di Ischia. Locandina de Vacanze a Ischia

3. Racconti d’estate(1958), di Gianni Franciolini. Con Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, Michélé Morgan, Gabriele Ferzetti. “Racconti d’estate” nato da un’idea di Alberto Moravia, nonostante l’apparenza scanzonata, sa offrire molte annotazioni di costume e di vita spicciola per niente superficiali. Sotto l’affresco dell’italiano in vacanza si snodano episodi di vita vera, degni della migliore commedia all’italiana. C’è Ferzetti industriale che potrebbe far fare carriera al marito della Koscina, c’è Dorian Gray cortigiana indipendente e sfortunata, e soprattutto c’è la splendida abiezione di Sordi accompagnatore-mantenuto di una cantante grassissima. Molto riuscito anche l’episodio con Mastroianni, questurino incaricato di accompagnare alla frontiera una bella prigioniera francese (Michèlè Morgan), della quale si innamora.

Locandina de Racconti d’estate

4. Torna a settembre (1961), di Robert Mulligan. Con Gina Lollobrigida, Rock Hudson, Sandra Dee. Una commedia di co-produzione italo-americana, girata sulla riviera di levante della costa ligure. Le bellezze sono da cartolina, così come quella della Lollobrigida, qui al massimo del suo splendore. Per il film si aggiudicherà il Golden Globe come miglior attrice del mondo della stagione 1961.

Torna a settembre con Gina Lollobrigida e Rock Hudson

5. Sapore di mare(1983), di Carlo ed Enrico Vanzina. Con Jerry Calà, Karina Huff, Marina Suma, Christian De Sica, Virna Lisi. Una commedia nostalgica, attuale e mai volgare, ‘Sapore di mare’ dei fratelli Carlo ed Enrico Vanzina uscito nel 1983 è divenuto ormai un cult, uno dei piccoli classici del cinema italiano anni ’80. Il film non presenta una vera e propria trama, ma si limita a descrivere un insieme di situazioni e sottostorie di cui sono protagonisti alcuni ragazzi in vacanza a Forte dei Marmi nei primi anni ’60, ragazzi provenienti da tutta Italia con origini sociali e culturali diverse. Il film è infarcito di una malinconia autentica, che imperversa per tutta la sua durata, nostalgico e divertente al punto giusto, grazie alle hit anni ’60 e alla caratterizzazione di Jerry Calà, che nel primo piano finale riesce a far raggiungere l’apoteosi malinconica di un’epoca ormai andata.

Insomma, a conti fatti, ciò che questi film descrivono non è altro che la meraviglia di un’epoca irripetibile. Un’epoca che ha fatto storia, che oggi è nostalgia, che oggi è malinconia, perché non tornerà più. Non tornerà più quella spensieratezza, quella voglia di fare, quell’impeto e quella classe cinematografica che avevano fatto diventare Roma la “Hollywood sul Tevere” e il nostro cinema, il più invidiato del mondo.

Nastri d’argento 2017: i verdetti

Nell’incantevole cornice del teatro greco di Taormina, si è tenuta sabato 1 luglio, la 71esima edizione dei Nastri d’argento, il premio cinematografico più antico del mondo, secondo solamente agli Oscar negli Usa.

L o g o N A S T R I d ’ A R G ENTO

I Nastri d’argento, come sempre assegnati dai giornalisti cinematografici, hanno visto la presenza di numerose star nazionali ed internazionali, nonché di un’attenzione mediatica sempre crescente. La copertina d’onore è tutta per Gianni Amelio, che con La tenerezza, ha sbancato ai Nastri, aggiudicandosi non solo il premio come miglior film, ma anche quello alla regia, fotografia, attore protagonista (Renato Carpentieri).

L a t e n e r e z z a d i G i a n n i Amelio trionfa ai Nastri d’Argento Vola però anche Indivisibili di Edoardo De Angelis con ben cinque riconoscimenti per la gran parte tecnici. Prestigioso premio per Ficarra & Picone che con il delizioso L’ora legale si sono aggiudicati il Nastro d’argento come miglior commedia dell’anno.

Per gli attori verdetto in parte annunciato: Jasmine Trinca, reduce dal trionfo di Cannes, fa il bis come migliore attrice protagonista per Fortunata di Sergio Castellitto che raccoglie tre Nastri nel palmarès, lo seguono con due ciascuno, Fai bei sogni di Marco Bellocchio, L’ora legale di Ficarra e Picone, che si aggiudica anche il Nastro come miglior produzione, e Sicilian Ghost Story di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia. J a s m i n e T r i n c a a i N a s t r i d ’ A a r g e n t o Al grande Renato Carpentieri, tornato sul set con Amelio dopo alcuni anni di assenza, il Nastro come miglior attore protagonista per La tenerezza. Ad Alessandro Borghi invece il Nastro come miglior attore non protagonista (ancora per Fortunata e per l’opera prima di Michele Vannucci, Il più grande sogno).

S a b r i n a F e r i l l i a i N a s t ri d’Argento

Ex aequo, infine, tra le attrici, per le non protagoniste: Sabrina Ferilli (Omicidio all’italiana, di Maccio Capatonda) e Carla Signoris per Lasciati andare di Francesco Amato. A Monica Bellucci va il Nastro d’ Argento europeo per On the Milky Road-Sulla via lattea di Emir Kusturica. Nella categoria dei Premi speciali, assegnati per particolari interpretazioni degne di nota, va menzionato quello assegnato ai due protagonisti di Monte di Amir Naderi, Claudia Potenza e Andrea Sartoretti. Infine Premio ‘Nino Manfredì per la commedia’ a Pierfrancesco Favino e Kasia Smutniak.

I modelli artistici del cinema italiano: il realismo di Verga, Lega, Fattori e Guttuso

“Il cinema racchiude in sé molte altre arti; così come ha caratteristiche proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica.”

Akira Kurosawa

La definizione del maestro giapponese Akira Kurosawa, è quella che semplifica meglio l’essenza del termine Cinema e il legame indissolubile che lega la “settima arte” a tutte le altre arti. Anche e soprattutto qui da noi, considerato che il primissimo esempio di convergenza tra Arte e Cinema in Italia è ravvisabile nel legame tra il realismo della pittura, quella della corrente verista dei Macchiaioli, su tutti Silvestro Lega e Giovanni Fattori, che con i loro dipinti, descrivevano l’ambientazione popolare, meridionale, contadina, dell’Italia di metà ottocento; e quella della letteratura di Giovanni Verga, anch’essa basata sul verismo popolare, soprattutto del meridione e delle campagne.

Il realismo giunge a pieno compimento, però nel cinema, con i capolavori neorealisti, grazie alla rivoluzione epocale operata da Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, i quali ripresero l’insegnamento e l’ideologia verghiana, per portare il cinema nella realtà sociale della gente comune, per strada, e descriverne i piccoli e grandi problemi, rendendo così il cinema lo specchio della società. La scoperta che l’elemento realista, che affonda le sue radici in Verga, Fattori e Lega, si coniuga perfettamente con il mezzo cinematografico, sarà una svolta epocale, perché tutto il cinema che verrà dopo di “Ossessione” (1943, Luchino Visconti), “Roma città aperta” (1945, Roberto Rossellini) e “Ladri di biciclette” (1948, Vittorio De Sica), sarà basato sulla descrizione veritiera della realtà sociale dei tempi contemporanei, su tutti la “commedia all’italiana”, destinata a segnare un’epoca. In quello stesso periodo, così ricco di pulsioni artistiche, per la “nuova” Italia che usciva da anni di sanguinosa guerra, si sosteneva anche l’opportunità che gli artisti partecipassero in modo diretto alla realizzazione dei film. Colui che rappresentò in modo più compiuto questa tendenza fu Renato Guttuso, i cui dipinti, ancora una volta di ambientazione popolare e contadina, apparivano come riferimento ideale per il primo genere cinematografico italiano post-bellico: il Neorealismo. Peraltro Guttuso, massimo esponente della corrente della pittura neorealista, poteva segnare il trait- d’union tra il realismo ottocentesco di Verga e dei Macchiaioli, e quello cinematografico contemporaneo alla sua arte pittorica.

Oltre agli esempi di rappresentazione oggettiva e realistica della società italiana dell’immediato dopoguerra, il neorealismo produsse anche esempi di interpretazione onirica (Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica) e caricaturale della allora nascente società dei consumi di massa (Lo sceicco bianco, 1952, di Federico Fellini, con Alberto Sordi), che rappresentano il punto cardine di trasformazione del Neorealismo in Commedia all’Italiana.

Le origini del cinema documentario e il suo sviluppo in Italia

“Un documentario non parte da un tema, ma dalle persone. Per riconoscere chi è capace di trasferire un’emozione narrativa e costruirci una relazione occorrono mesi. È la premessa di tanto cinema documentario, e parte di questo lavoro esplorativo va a vuoto”

(Andrea Segrè, regista e documentarista)

Il termine “documentario” fu impiegato per la prima volta nel febbraio del 1926, in un articolo sul quotidiano New York Sun, firmato dall’inglese John Grierson, a proposito del film Moana realizzato dal regista americano Robert Flaherty. Il documentario è un film che documenta o tenta di documentare la realtà. Il documentario non è un film di finzione. I soggetti ripresi non sono attori. Qualche volta il film documentario viene narrato da una voce fuori campo (voice-over), in altri casi puo’ non esserci commento (le immagini “parlano” da sole) e in altri ancora il narratore è il soggetto che accompagna il fruitore del film, svolgendo il ruolo di “commentatore” delle immagini. In passato venne definito “cinema verità” o film del reale. Spesso il film documentario moderno include testimonianze o interviste. Nella rappresentazione verosimile del reale il documentario è un prodotto audiovisivo che si propone di svolgere un’operazione di documentazione filmica. Ma diventa documentario non solo il film sulla realtà ripresa così come si presenta ai nostri occhi (ovviamente reinterpretata dal nostro talento e dai nostri punti di vista) ma anche un personaggio dei nostri giorni o un evento storico puo’ essere il soggetto del nostro film. Sempre piu’ spesso negli ultimi anni si assiste ad una forma “ibrida” tra documentario e film di finzione, definito docu-film che include sia immagini reali che ricostruite o “sceneggiate” da attori. John Grierson nell’approfondire il suo discorso intorno ai principi fondamentali del cinema documentario e, in modo particolare intorno all’opera di Flaherty, non intendeva certamente proporre una definizione valida per tutta la produzione non-fiction nel suo complesso, ma al contrario gli premeva individuare un nuovo approccio nei confronti di questa forma di espressione filmica. Ed infatti egli ravvisa nella forma documentaria la possibilità di “rielaborare criticamente e drammatizzare il materiale naturale”. Perciò ad una concezione del film come “puro sguardo” si sostituisce l’idea del film come “discorso”, nel quale le immagini acquisiscono la funzione di “documento” e si inseriscono in un contesto più ampio, più strutturato e di carattere drammatico. Il documentario si gira sul posto che si vuol riprodurre, con gli individui del posto. Questa è la riflessione di Robert Flaherty, il grande documentarista, il grande poeta del cinema. Scevro da soverchie imposizioni commerciali, non pressato dal divismo, il documentario è stato spesso il cinema “puro” per eccellenza. La maggior parte dei film precedenti al 1900 erano notiziari d’attualità, tuttavia il primo film sufficientemente lungo e articolato da poter essere legittimamente considerato un documentario fu L’Accademia di cavalleria di Saumur (Francia, 1897), con una durata di 20 minuti.

I l r e g i s t a C a r l o L i zzani

Parlando più specificatamente del nostro Paese, il documentarismo non ha mai avuto una vera e propria tradizione, e non ha neanche mai avuto una progettualità evidente, ha però avuto esempi eccellenti, nonché individualità di rilievo, basti pensare a Pier Paolo Pasolini, Carlo Lizzani e Mario Soldati, poi divenuti Maestri del Cinema. Sostanzialmente i momenti salienti nella storia del documentario italiano, si possono dividere in cinque distinte fasi: i pionieri quali Luca Comeiro e Roberto Omega, maestri del documentario muto; il momento della rinascita con il sonoro e la CINES di Emilio Cecchi; gli anni del dopoguerra caratterizzati dalla produzione INCOM e dall’Istituto LUCE; quelli dei primi anni ’60 con i documentari a sfondo pseudo-erotico inventati da Alessandro Blasetti; e il documentario contemporaneo. Come è chiaro da questa suddivisione, il documentario in Italia, non ha mai avuto una sua continuità, ma ha vissuto brevi ed intense stagioni, ovvero “illuminazioni” temporanee. I registi italiani che hanno lavorato alla produzione di documentari, lo hanno fatto isolatamente o da inesperti, formulando esperienze di ricerca del tutto personali. E’ pur vero che il Neorealismo dei Maestri, Visconti, Rossellini e De Sica, è nato come documentario, però è anche vero che ad un certo punto il genere si allontana dal documentario puro, perché allora come oggi, in sala, il documentario non tira affatto.

Si può dire dunque, che il documentario piaccia di più ai critici che al pubblico delle sale. E dato che il “dio denaro” è sempre quello che regola il mondo, anche quello cinematografico, si può capire perché il documentario non ha mai sfondato, soprattutto qui da noi. D’altronde il pluripremiato Fuocoammare, di Gianfranco Rosi, è stato un colossale flop nelle sale, ed era stato ampiamente previsto. Però la qualità nella storia del documentario all’italiana c’è, ed è anche evidente. Infatti, guardando ai nomi degli autori che hanno regalato alla storia del documentarismo italiano le opere più prestigiose, si scopre come pochissimi tra essi sono stati documentaristi in senso stretto, e che molti siano stati i nostri maggiori cineasti.

Ettore Scola, Federico Fellini (I clowns), Mario Soldati, Pier Paolo Pasolini, Luchino Visconti, Paolo e Vittorio Taviani e potremmo ancora continuare. Il documentario, insomma, qui da noi, è stato inteso da tali autori sia come territorio di sperimentazioni linguistiche, sia come mezzo educativo. Oggi forse, a differenza del passato per il documentarismo italiano, esiste una certa progettualità, ed una generazione di autori che si muove in tal senso: Rosi, Segre, D’Anolfi, Parenti, Ciprì e Maresco(Come inguaiammo il cinema italiano-la vera storia di Franco e Ciccio). Insomma, abbiamo uno stuolo di autori e professionisti capaci di porre sfide di linguaggio e idee anche rivoluzionarie, che, è sotto gli occhi di tutti, stanno rilanciando il documentario italiano.

L’eterno Totò

Il 15 aprile 1967, esattamente 50 anni fa, moriva il grande Totò, colpito da una serie di infarti a catena che non gli lasciarono scampo. Da lì, da quel momento ebbe inizio il mito di Totò, che oggi, a ragione, è venerato praticamente come un dio, ed è amato soprattutto dalle nuove generazioni. La sua morta fu un vero e proprio lutto nazionale, a renderli l’estremo saluto si precipitò mezza Roma e tutta Napoli. Tutto il mondo dello spettacolo è presente al completo, a rendere omaggio al Maestro ineguagliabile: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia arrivano per primi a baciare devotamente la mano del Principe de Curtis. Anna Magnani non si stacca un momento dal collega e amico di tante avventure. A Napoli Nino Taranto tiene una straziante orazione funebre con il cuore in gola. Ci sono anche Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Luigi Pavese e tra i tanti anche Walter Chiari, distrutto dal dolore, che si prodiga in mille modi per consolare Franca Faldini, la compagna di Totò. Sono tutti muti e increduli, incapaci di darsi ragione che la morte, tante volte rappresentata per burla e così lontana dal carattere di Totò, questa volta aveva fatto sul serio. Quel che allora forse non si sapeva, o non si poteva immaginare a priori, è che il Mito di Totò, sarebbe sopravvissuto alla morte fisica, e che anzi negli anni a seguire avrebbe guadagnato una luminosità sempre crescente.

Il revival di Totò, oggi ha raggiunto dimensioni universali. Totò unico, inimitabile e anche indistruttibile. A lui è successo ciò che non è successo neppure a Charlie Chaplin né alla coppia Stan Laurel e Oliver Hardy, un tale amore di popolo davvero insuperabile: un mito senza tempo. Quello di Totò è un personaggio amatissimo, che appartiene alla cultura, alla tradizione e alla storia del nostro Paese. E poi c’è la storia personale del principe De Curtis, un uomo austero, all’antica, ma dal cuore d’oro e umanissimo; un uomo che aiutava tanta gente a campare:

«Era veramente un gran signore, generoso, anzi, generosissimo. Arrivava al punto di uscire di casa con un bel po’ di soldi in tasca per darli a chi ne aveva bisogno e comunque, a chi glieli chiedeva.»

(Vittorio De Sica su Totò) In 31 anni di attività (dal 1937 al 1968) Totò prese parte, come protagonista assoluto o in episodi, a ben 97 film che lo consegnarono alla storia del cinema. Possiamo quindi arguire che molti capolavori immortali (come “Ladri di biciclette” o “Umberto D”) che non incassarono al botteghino, furono prodotti con i guadagni procurati da Totò. Una serie di film girati a ritmo frenetico, cinque-sei-sette film all’anno, che dimostrano quanto Totò sia stato seguito e amato anche in vita.

“Non mi faccio capace che la gente, per vedere un mio film, esca di casa, lasci le comode pantofole, calzi un paio di scarpe, magari pure strette e paghi il biglietto. Ci penso spesso e mi commuovo. Umilmente ringrazio il mio pubblico, con la promessa che cercherò di fare sempre meglio”.

(Totò, nel 1965, in riferimento al grande apprezzamento che ha ricevuto dal pubblico nel corso della sua carriera cinematografica)

La televisione, proiettando e riproiettando i suoi film, ha poi operato il miracolo di far amare Totò anche da coloro che, nati dopo la sua morte avvenuta nel 1967, non avevano avuto la possibilità di conoscerlo e seguirlo nelle sale cinematografiche dove vengono proiettate soltanto le ultime uscite. E poi vennero, saggi, libri, collezioni, insomma sul principe De Curtis, per farla breve è stato già scritto l’impossibile, ma mai abbastanza, per tutta l’umanità e la classe che ci ha donato. Secondo un sondaggio del 2009, con mille intervistati equamente distribuiti per fasce d’età, sesso e collocazione geografica (Nord, Centro, Sud e Isole), Totò risultava essere l’attore italiano più conosciuto ed amato, seguìto rispettivamente da Alberto Sordi e Massimo Troisi. I suoi film, visti all’epoca da oltre 270 milioni di spettatori (un primato nella storia del cinema italiano), molti dei quali rimasti attuali per satira e ironia, sono stati raccolti in collane di VHS e DVD in svariate occasioni e vengono ancora oggi costantemente trasmessi dalla tv italiana, riscuotendo successo soprattutto tra il pubblico più giovane.

Inoltre talune sue celebri battute, espressioni-mimiche e gag sono divenute perifrasi entrate nel linguaggio comune. Umberto Eco ha espresso così l’importanza di Totò nella cultura italiana:

«In questo universo globalizzato in cui pare che ormai tutti vedano gli stessi film e mangino lo stesso cibo, esistono ancora fratture abissali e incolmabili tra cultura e cultura. Come faranno mai a intendersi due popoli [cioè cinesi e italiani] di cui uno ignora Totò?».

Liliana De Curtis, la figlia del comico, tuttora attiva per mantenere vivo il ricordo del padre, ha, nel corso di un’intervista, dichiarato che molti italiani, ancor oggi, si rivolgono a Totò inviando lettere e biglietti alla sua tomba, per confidarsi, chiedere favori e addirittura grazie, come fosse un santo. La notorietà di cui Totò gode in Italia è andata anche oltre i confini nazionali: ad esempio in America, dove il comico Jim Belushi lo ha definito un «clown meraviglioso». L’attore George Clooney, intervistato in Italia in occasione del remake de I soliti ignoti, Welcome to Collinwood (2002), in cui lui interpretava il corrispettivo ruolo di Totò, ha altresì dichiarato: «Era un vero poeta popolare, un fantasista espertissimo nell’arte di arrangiarsi e di arrangiare ogni gesto ed espressione», precisando inoltre che, secondo il suo parere, tutti i comici più celebri come Jerry Lewis, Woody Allen o Jim Carrey devono qualcosa all’attore italiano.

«Non era certo solo un comico, proprio come Buster Keaton. I suoi film potrebbero essere anche muti: riesce sempre a trasmettere il senso della storia. Grazie ai vostri sceneggiatori e alla sua mimica, dai suoi film traspare un personaggio a tutto tondo: astuto, ingenuo e anche vessato dalle circostanze della vita. Per questo continuerà a essere imitato, senza speranza di eguagliarlo. C’è sempre suspense nella sua recitazione: si aspetta una sua nuova battuta, una strizzatina d’occhi, ma resta imprevedibile il suo modo di sviluppare una storia». E poi? Beh e poi c’è la storia del principe De Curtis, che spogliatosi dei panni di Totò, torna ad essere l’austero uomo d’altri tempi, di spirito caritatevole, poetico, malinconico. Quell’uomo, che altro non era che l’altra faccia della stessa medaglia, per tutta la sua vita compì molteplici gesti d’altruismo, che includevano sostegno e offerte di viveri ai più bisognosi. Con l’avanzare dell’età si dedicò sempre più spesso a numerose opere di beneficenza: la vita privata dell’attore, negli ultimi anni, si limitava a sporadiche apparizioni in pubblico ma anche (seppur non avendo guadagni eccelsi per il fatto che pretendeva sempre poco dai produttori) a un’intensa attività di benefattore, aiutando ospizi e brefotrofi, donando grandi somme alle associazioni che si occupavano degli ex carcerati e delle famiglie degli stessi. Franca Faldini, la storica compagna di Totò, che lo conobbe in profondità e lo amò per quello che era, affermò:

“Principe? Altezza reale? Poco importa che lo fosse o meno. Antonio De Curtis era nobile di fatto, nell’animo e nel cuore, a prescindere da qualunque appartenenza a un casato illustre. Inoltre a mio parere il suo titolo più bello è racchiuso nelle quattro lettere del suo nome d’arte: Totò”.

E Totò fu un nobile vero, ma soprattutto è l’anima d’Italia e lo sarà forse per sempre.

David di Donatello 2017: i verdetti

In netto anticipo rispetto al solito, probabilmente, anzi sicuramente per ragioni di convenienza televisiva, lo scorso 27 marzo si è tenuta a Roma, la 62esima edizione dei David di Donatello, il premio cinematografico più importante del cinema italiano. L’equivalente degli Oscar negli Usa, dei BAFTA in Gran Bretagna e dei César in Francia. Trionfa “La pazza gioia” di Paolo Virzì, che conquista 5 David di Donatello, e peraltro tutti di un certo peso: miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista (Valeria Bruni Tedeschi), miglior acconciatore e migliore scenografia. La storia della folle fuga di due pazienti della clinica psichiatrica Villa Biondi, Donatella e Beatrice, ovvero due strepitose Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, hanno stregato pubblico e critica. Un film davvero da vedere, che abbatte il confine tra tragedia e commedia e getta un occhio sulla situazione delle persone che vivono nei centri di salute mentale.

Altro premio cosiddetto di primo livello, quello al miglior attore protagonista premia Stefano Accorsi per il suo ruolo in “Veloce come il vento”; mentre a concludere le categorie dedicate alla recitazione, Valerio Mastrandrea si aggiudica il David come miglior attore non protagonista per “Fiore”, e Antonia Truppo trionfa per “Indivisibili”. Proprio il film di Edoardo De Angelis risulta essere quello più premiato della serata dei David, se ne aggiudica infatti 6 ( miglior sceneggiatura originale, miglior produttore, miglior attrice non protagonista, miglior musicista, miglior canzone originale, miglior costumista). Forse non proprio i più importanti, ma ciò rende comunque merito ad un film, che aveva incantato la critica a Venezia, qualche mese fa.

Sei David anche per “Veloci come il vento”, due di primissimo livello: miglior attore protagonista e miglior fotografia. Insomma 17 David su 23, vengono divisi quasi equamente, tra i tre film che abbiamo citato sopra. Possiamo dunque parlare di una sorta di monopolio a tre, che investe tutte le competenze cinematografiche, da quelle recitative a quelle più tecniche. Agli altri solo le briciole: David Giovani per Pif e il suo “In guerra per amore”; miglior sceneggiatura non originale a “La stoffa dei sogni”; e miglior regista esordiente a Marco Danieli per “La ragazza del mondo”.

Nelle categorie internazionali, trionfo per “Io, Daniel Blake” di Ken Loach, che vince il David come miglior film europeo; e per “Animali notturni” di Tom Ford, che si aggiudica quello come miglior film straniero. David speciale alla carriera per Roberto Benigni, che nel suo solito stile esuberante, ha dato spettacolo sul palco. Commovente il suo discorso, che tocca le corde della poesia, con un omaggio neanche troppo velato al grande cinema italiano del passato: “È il premio più prestigioso del cinema italiano che è il più grande del mondo, abbiamo reso grande l’arte più giovane e fragile e commuovente del mondo. Che voi vi sentiate immersi dalla piena della mia gratitudine, vi sento tutti amici e il cinema rende il mondo meno estraneo e nemico”.

Non sono mancati durante la serata, omaggi ad alcuni nomi importanti del cinema italiano che ci hanno lasciato dalla seconda parte del 2016 ad oggi: il decano dei critici Gian Luigi Rondi, il regista Pasquale Squitieri e l’attore Tomas Milian, solo per citarne alcuni.

Dal Pre-Cinema ai fratelli Lumiére: viaggio nel cinema dell’800 L a n t e r n a M a g i c a

Come tutte le invenzioni epocali che si rispettino, anche il Cinema non è stata un’allucinazione di una sera dei fratelli Lumiére o di Thomas Edison, ma piuttosto un percorso di evoluzione dell’immagine, che ha attraversato tutto il XIX secolo. Innanzitutto c’è da affermare come la suggestione delle proiezioni ha origini remote e ha da sempre affascinato l’uomo, basti pensare alle ombre cinesi o alla camera oscura leonardiana. Ma il primo vero esempio di cinema allo stato primitivo è ravvisabile già dal XVII secolo con l’invenzione della Lanterna Magica. La lanterna magica era uno strumento di semplice utilizzo che potrebbe essere paragonato ai moderni proiettori di diapositive. Il meccanismo di funzionamento era intuitivo: bastava inserire i disegni nella macchina perché questa li proiettasse su una parete o su uno schermo appositamente predisposto. La lanterna si prestava ai più svariati utilizzi, infatti fu utilizzata fin dall’inizio sia per scopi educativi (raccontare, ad esempio, la Bibbia col supporto di immagini colorate a tutto schermo), sia di intrattenimento.

T a u m a t r opio

Col tempo si capì che oltre la semplice proiezione si potevano riprodurre movimenti elementari. Alcune di queste semplici “animazioni” consistevano nel far scorrere dei vetri dipinti davanti l’obiettivo; usare sorte di ombre cinesi mosse con leve e fili; oppure attraverso levette far muovere parti delle pitture, come ad esempio gli occhi, ottenendo così degli “effetti speciali” primordiali. L’invenzione della fotografia nel 1826, ad opera di Joseph Nicéphore Niépce, pose le premesse per un ulteriore sviluppo. Se si fosse trovato il modo di far passare davanti all’obiettivo delle fotografie in successione si sarebbe potuto riprodurre la realtà. Sarà l’idea vincente dei fratelli Lumière. Ma probabilmente, anzi sicuramente, i tempi ad inizio ‘800 non erano ancora maturi. Eppure proprio in quegli anni si compivano i primi esempi concreti di passaggio dalla fotografia ferma e immobile, alle immagini in movimento che sono la base del significato della parola Cinema. Nel 1824 fu inventato il Taumatropio. Composto da un dischetto di cartoncino, fissato a due fili e disegnato da entrambe le parti con soggetti destinati a integrarsi a vicenda, facendo girare velocemente il disco (1/25 di secondo), le immagini si sovrappongono creando così l’illusione di movimento. Esempi tipici sono l’uccellino e la gabbia o il vaso e i fiori.

F e n a c h i t o s c o p i o Poi venne il Fenachitoscopio che fu inventato nel 1833 dal fisico belga Joseph Antoine Plateau. Consisteva in una ruota, fissata al centro su un manico e in grado di ruotare su se stessa. Sulla ruota, a intervalli regolari, venivano praticate delle fessure attraverso cui poter guardare e, sul lato interno venivano disegnate delle immagini, anche queste a intervalli regolari; uno specchio su cui proiettare le immagini completava il tutto. Il movimento veloce della ruota e gli spazi vuoti creavano, anche in questo caso, l’illusione del movimento. La grande novità del fenachistoscopio sta nel fatto che l’illusione sfrutta il fenomeno della persistenza della visione (persistenza retinica) che, ancora oggi, sta alla base della visione filmica. Il fenachistoscopio è il più diretto antenato della pellicola cinematografica, con le immagini montate su un cerchio invece che in una striscia di carta. Un altro esperimento andato a buon fine fu il Cineografo (oggi conosciuto anche con il termine inglese flip book), commercializzato già nel 1868. Il cineografo era una sorta di libro tascabile i cui fogli si facevano scorrere velocemente tra le dita. La sovrapposizione delle immagini dava l’illusione del movimento. Si trattava di brevissime storie con una vera (sia pur modesta) sceneggiatura e questo era il passo avanti in direzione del cinema: una storia appositamente pensata per essere raccontata attraverso immagini in movimento.

C i n e o g r a f o

E’ certo però, che al di là dei vari esperimenti animati, fu l’invenzione della fotografia ad aprire il campo alla possibilità di avere immagini reali in movimento. Se era possibile riprodurre su una lastra fotografica la realtà, si poteva pensare a strumenti in grado di scattare una serie di foto così vicine nel tempo da registrare il movimento. Si poteva utilizzare poi la pellicola così ottenuta al posto delle strisce di carta per proiettare quanto ripreso in precedenza. Quest’idea ispirò Étienne-Jules Marey che sfruttando il meccanismo utilizzato a quel tempo dai fucili più moderni riuscì a scattare 12 foto al secondo (infatti in inglese il verbo scattare è ancora lo stesso di sparare). La sua Onda (1888) è il più antico documento di fotografia in movimento pervenutoci. Ma il vero problema di Marey come di tutti gli altri pionieri del cinema non consisteva tanto nel riuscire a scattare foto in rapida sequenza, quanto nel trovare il meccanismo per proiettare il movimento (κίνημα – kìnema in greco, da cui più tardi cinematografo, l’apparecchio in grado di riprodurre il movimento) così ottenuto. K i n e t o s c o p i o

Un’ulteriore tappa di avvicinamento alla nascita del cinematografo si ebbe con la creazione della pellicola fotografica di celluloide, che permetteva di mettere in serie le immagini fotografiche, e che può essere intesa a tutti gli effetti come la prima pellicola cinematografica della storia. Tutto ciò avvenne nel 1882 grazie a George Eastman, il quale inventò anche il sistema per non dover più preoccuparsi di cambiare lastra tra una posa e l’altra. A questo punto, con il senno di poi, appare chiaro che sta per nascere il cinema, proprio perché grazie ad Eastman, cade l’ultima difficoltà per arrivare ad una vera e propria successione di fotogrammi, che sono alla base dell’illusione del movimento. Ulteriore evoluzione di ciò, si ha nel 1891 con Thomas Alva Edison che brevettò il kinetoscopio, una sorta di grande cassa sulla cui sommità si trovava un oculare; lo spettatore poggiava l’occhio su di esso, girava la manovella e poteva guardare il film montato nella macchina su rocchetti (il termine inglese film indicava la pellicola, cioè il supporto; più tardi passerà a indicare il contenuto registrato su quel supporto, il film com’è inteso oggi). Si aveva quindi una visione monoculare, ma che dava perfettamente l’idea dell’immagine in movimento. L’invenzione di Edison veniva portata nelle fiere o in stanzoni appositi e la si poteva utilizzare dietro pagamento di un biglietto. Per attirare nuovi curiosi Edison non riproponeva le stesse pellicole ma ne girava di nuove. Ancora oggi qualcuno discute su chi sia stato veramente l’inventore del cinema e se per la maggior parte degli storici è indiscutibile la paternità dei fratelli Lumière c’è chi, invece, ne ascrive l’invenzione a Thomas Alva Edison. L o u i s e A u g u s t e L u m i è r e

Sembrava che ci fossero tutti gli elementi del cinema come si svilupperà fino ai nostri giorni: c’era il pubblico, c’era il pagamento di un biglietto (con tutto quello che comportava in termini di industria cinematografica) e c’erano le immagini in movimento. Eppure mancava un elemento fondamentale: la visione collettiva piuttosto che individuale. Il cinema (come era accaduto per millenni con il teatro) è un fenomeno essenzialmente comunitario. La grande svolta dei fratelli Lumière e di quella sera di fine 1895 al Cafè de Paris risiede ancora oggi in questo. Quel 28 dicembre 1895 i fratelli Louis e Auguste Lumière, mostrarono per la prima volta, al pubblico del Gran Cafè del Boulevard des Capucines a Parigi, un apparecchio da loro brevettato, chiamato cinématographe, destinato a cambiare per sempre la storia del mondo.

Possiamo quindi affermare con assoluta certezza, quello che i libri di storia spesso non dicono, ovvero che l’invenzione del cinema è da dividere equamente in tre periodi distinti e la sua paternità non è ascrivibile ad una sola specifica personalità. L’invenzione della pellicola cinematografica nel 1882 ad opera di George Eastman; l’invenzione delle immagini in movimento nel 1891 ad opera di Thomas Edison; e l’invenzione del cinematografo, così come lo intendiamo noi, ad opera dei fratelli Lumiére nel 1895, sono le tre tappe fondamentali della nascita del Cinema. Tutte e tre legate da un indissolubile filo comune, tutte e tre esattamente propedeutiche l’una con l’altra. E dopo quella sera di fine 1895 ebbe inizio ufficialmente la straordinaria avventura del Cinema, la più bella invenzione dell’uomo.