La-Venere-Spezia Edizgratuita
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www.giorgioperuzionarra.it www.giorgioperuzionarra.it Può il calcio femminile crescere in direzioni alternative a quello maschile? Lorenzo D’Elni, brillante imprenditore, ne è convinto. Le qualità delle donne sono eleganza, agilità e possono evolvere in tecnica, velocità, precisione. Al contrario del calcio maschile che sta privilegiando pressing, potenza atletica, aggressività. La Venere Spezia lancia la sfida. ”Porteremo grazia e bellezza” è il suo slogan. La squadra interpreta uno stile che tenta di far vivere nell’intera dimensione esistenziale. Per affermarsi dovrà affrontare un clan camorristico, assistere allo scontro tra il clan e la misteriosa mafia cinese. L’accordo con il Commissario Gabuzzi, giunto da Bologna, è decisivo per organizzare la difesa della squadra e delle altre attività del gruppo D’Elni. Lorenzo si innamora, ricambiato, di Fulgencia Felmez, giornalista spagnola. Roldan Felmez, vulcanico capo di un piccolo impero mediatico spagnolo e padre di Fulgencia coinvolge Lorenzo in una impresa globale che riprende ed esalta le intuizioni sul valore della metafora calcistica: legare cultura, sport, spettacolo, comunicazione, arte in un business orientato a privilegiare il consumo per l’essere e non per l’avere. L’idea di Roldan è fare affari facendo il bene del mondo. Lorenzo, che Roldan vede come suo erede, è chiamato a cimentarsi in questa grandiosa avventura. Giorgio Peruzio è nato a Torino nel 1954. Laureato in Scienze Politiche, fu dirigente nella Pubblica Amministrazione e insegnò per alcuni anni all’Università di Torino. Dopo il pensionamento, nel 2016 si è trasferito a Viareggio, dove vive con la moglie Anna. La Venere Spezia è il suo primo romanzo edito. www.giorgioperuzionarra.it Nota dell’autore Questa storia è frutto di pura immaginazione. Il suo oggetto, i suoi personaggi, le loro vicende non si ritrovano nei fatti reali. Anche gli aspetti più tecnici non si preoccupano della loro effettiva praticabilità e verosimiglianza. Sono pretesti per sviluppare metafore, per declinare sentimenti e disegnare esperienze. Le formazioni di calcio femminile non richiamano quelle reali, il campionato e il contesto sportivo internazionale non hanno alcun nesso con quelli esistenti. Anche la collocazione geografica segue il medesimo principio di libertà. I luoghi sono riferimenti che vengono descritti e attraversati nel registro della fantasia, reinterpretati per essere funzionali alla trama e non dover sottostare all’aderenza a ciò che è. Per tutto questo chiedo scusa ai lettori che hanno buona padronanza tecnica delle cose di cui scrivo tanto ecletticamente e che riterranno sbagliate o inappropriate, quando non fastidiose, le soluzioni che propongo. E chiedo scusa a quanti vivono e amano i luoghi che cito e che non riconosceranno. O che li vivono e vedono in chiave diversa da quella che propongo. A ognuno chiedo di perdonare la mia fuga verso storie differenti da quella che si è effettivamente svolta in questi anni. È il mio modo di indagare sulle vie di una dimensione immaginaria e di riflettere sul senso del nostro presente. 3 A quelli che hanno la sensibilità di sognare un mondo nel quale la bellezza vince sulla forza. 4 1 Fine luglio 2012 Ines Terjofer imboccò il sentiero a lato del mare canticchiando un motivetto rap. Si sentiva allegra e vincente. Zeno le aveva assicurato che sarebbe partita titolare nel nuovo campionato. Nonostante la concorrenza fosse ampia e qualificata, la rotazione del modulo le apriva spazi. Nella partitella amichevole con la Genova Oriana, conclusa con un rotondo 3 a 0, la sua intesa con Nelly Chevinter e Helena Dovack era stata perfetta. Anche la Lancelli, ormai capitana fissa e schierata tra il centrocampo e l’attacco, l’aveva gratificata di complimenti. Strappò due ciuffi d’erba dal crinale alla sua destra e ne respirò l’aroma fresco e pungente. Il mare era tranquillo e accarezzava la scarpata, un centinaio di metri sotto di lei. Le piaceva passeggiare e assaporare l’abbraccio della natura. Le Cinque Terre l’avevano conquistata e la forza selvaggia della bora non le mancava più tanto. Cominciò a saltellare e prese a correre senza forzare. Pensò che di lì a un’ora sarebbe arrivata a Riomaggiore, dove Stefan l’avrebbe raggiunta. Li aspettava un pranzo in riva al mare, in quel ristorantino che lei aveva scoperto e poi rivelato al fidanzato triestino. Potevano concedersi soltanto quel giorno di libertà dai reciproci impegni e desiderava che poesia e amore trovassero le condizioni ideali per esprimersi. Il loro rapporto a distanza scricchiolava, tante domande le si srotolavano intorno. Troppe. L’incontro, sperava, avrebbe diradato le nubi. Al bivio, svoltò sulla sinistra, sulla parte più larga e sicura della passeggiata. Due uomini avanzavano nella direzione opposta. Portavano scarponcini tecnici e calzoni attillati. I loro volti erano parzialmente celati da berretti con lunga visiera. Li incrociò accennando a un saluto, cui i due non risposero. Appena li ebbe doppiati, Ines sentì raspare sul sentiero. Percepì un movimento alle sue spalle. Improvvisamente si sentì afferrare al collo, poi un panno dal sentore acidulo le venne premuto sulla bocca. Scivolò a terra, semi-incosciente e si sentì sollevare. Tutto divenne buio e confuso. In un attimo fu il vuoto, dentro e intorno a lei. Si risvegliò sdraiata su una panca, in un’angusta cella dove stavano un basso tavolino metallico e una sedia. Sul tavolino erano poggiati una brocca d’acqua e un bicchiere. La stanza era piccola e buia, con un lucernario che dava su una strada sterrata. Dinanzi alla ragazza la porta scura era chiusa. Si guardò intorno. Vicino a lei c’era il suo cappellino con i simboli della squadra. Bene: la minuscola telecamera di protezione era inserita nella fibbia che campeggiava sul davanti del cappellino. Al dito portava ancora l’anello che incorporava il trasmettitore-ricevitore 5 del Soft Armor. A parte lo sgradevole sapore del narcotico, non rilevava alcun danno fisico. Un rapimento?, pensò. Che senso ha?, si domandò Ines nel tentativo di razionalizzare. Di lì a poco uno dei suoi carcerieri venne a portarle da mangiare. Le avevano tolto il cellulare ma aveva ancora al polso l’orologio: erano le 13.15. «Perché mi avete portato qui?» chiese. L’uomo non rispose. Era corpulento, indossava un maglione e portava un fazzoletto avvolto intorno al viso per nasconderlo. «Mangia» le disse. «Poi faremo la fotografia». La ragazza prese il piatto. Tonno in scatola, mais con aceto e pane. Si rassegnò. Era un pasto ben diverso da quello che aveva pregustato durante l’escursione. Non provava paura. I rapitori non mostravano intenzioni ostili. E non sapevano che la sua posizione era facilmente rintracciabile dal sistema di sicurezza della Venere Spezia. Un brivido di incertezza la attraversò: le rassicurazioni di Ermete venivano messe a dura prova. Respinse la morsa della paura stringendo i pugni. Le diedero anche un caffè, non sgradevole: evidentemente avevano una macchina espresso a cialde. Come annunciato, la fotografarono, con bella evidenza del quotidiano aperto sul suo petto a garantire la data. A Ines venne quasi da sorridere: tutto da manuale, come nei telefilm. Ma cosa si aspettavano dal rapimento? Intanto Stefan era in allarme. Ines non era andata all’appuntamento e non rispondeva alle chiamate e ai messaggi sul cellulare. Telefonò a Clelia Accini, l’amica che la sua fidanzata gli aveva presentato mesi prima. Clelia disse di non sapere nulla di Ines, ma aggiunse anche che. qualora temesse pericoli, poteva rivolgersi al responsabile della sicurezza della squadra e gli diede il numero a cui chiamare Zibaldo Chierone; quest’ultimo, tuttavia, non si mostrò preoccupato, ma promise che avrebbe fatto delle verifiche. Tranquillizzò il giovane sostenendo che Ines era una ragazza seria e prudente e che se ci fossero stati problemi l’avrebbe avvertito. Non appena chiuse la conversazione, Zibaldo attivò il monitoraggio del sistema Soft Armor puntandolo sulla Terjofer. Non fu difficile localizzare la ragazza. Stava appena fuori Campiglia. Meno agevole fu scaricare le registrazioni video. Il sistema le acquisiva tutte in un server, dal quale potevano essere visualizzate grazie alla classificazione per nominativo e orario. Le registrazioni erano conservate per non oltre quarantotto ore, per ragioni di tutela della privacy, ma, se scaricate, potevano essere salvate. Con ogni probabilità la copertura di rete era insufficiente e le immagini non arrivavano dalla remota posizione di Ines. Mentre ancora stava cercando di venire a capo del problema – il punto debole del sistema era il ritardo nella diffusione della banda larga e a quello non c’era rimedio – squillò il telefono. Lorenzo gli parlò concitato. 6 «Ho appena ricevuto una richiesta di riscatto per il rilascio di Ines Terjofer. Mi hanno mandato una mail criptata con rinvio a un link sul quale si vede la fotografia della ragazza con in mano un quotidiano di oggi. Lo sfondo è anonimo. Chiedono duecentomila euro». Zibaldo quasi fu sollevato: tutto era chiaro e la linea d’azione non poteva essere diversa. «Me ne occupo io. Avevo già una segnalazione sull’assenza di Ines a un appuntamento con il fidanzato. Ho localizzato il luogo in cui potrebbero tenerla rinchiusa. Contatto immediatamente il commissariato di Spezia e organizziamo l’intervento». Il commissario Vitini si meravigliò delle potenzialità del sistema Soft Armor. Zibaldo, che era finalmente riuscito a fare i download delle immagini, gli aveva mostrato la sequenza del rapimento che si poteva ricostruire dall’insieme dei fotogrammi scattati nel momento dell’assalto, nonostante risultassero mossi quando la ragazza era stata afferrata. Anche i volti dei due rapitori si potevano distinguere perché ripresi durante l’avvicinamento. Meno significative erano le riprese d’interno. Durante il trasporto il cappellino doveva essere rimasto in ombra e la registrazione non rivelò nulla. L’elemento decisivo era la tracciatura, che collocava Ines in una vecchia costruzione alla periferia di Campiglia. Viste le caratteristiche dell’intervento, l’operazione fu presa in carico dai carabinieri, che inviarono due auto con quattro uomini.