1 Indice

Introduzione 4

CAPITOLO I DESCRIZIONE DI UNA BATTAGLIA Il calcio come linguaggio universale 10 Il calcio come social problem 13 Il derby nichilista 17 Oltre il panico sociale 20 Nel campo della storia: il calcio delle origini 22 Verso la modernità 24 Nascita del football 25 Panem et circenses? 26 Il calcio come forma di rituale 29 Descrizione di una battaglia 31 Calcio e civilizzazione 37 Play e game 41

CAPITOLO II IL CALCIO COME GENERE DI CONSUMO La calcistizzazione delle masse 45 Il governo del calcio: il “colpo di stato” della FIGC 48 Calcio, industria e pubblicità 49 Minuto per minuto: la radiocronaca di Nicolò Carosio e l’esordio televisivo 52 Totocalcio 56 La nascita del tifo 59 Il fenomeno del tifo organizzato 61 Gli hooligans, mito e terrore del calcio inglese 66 I primi gruppi ultras in Italia 73 Ultras e nuovi movimenti sociali 81 “I furiosi” anni '80 91

2 CAPITOLO III I CONFLITTI DEL CALCIO MODERNO Un'officina del potere 102 La trasformazione delle maglie in business 102 All seater stadium 104 Commodification: le nuove categorie di spettatore 107 Mentalità supporter e disincanto flâneur 110 Pay tv: il crollo del monopolio della televisione pubblica in Europa 113 Stadio Italia: le riforme degli anni '90 114 Il dispositivo berlusconiano 117 L'Italia come il Milan 120 Il calcio on demand 123 I conflitti dietro l'immagine 128 La rivolta contro il calcio moderno 136 La nuova strategia: l'autonomia da Stato e mercato 145 Le leggi speciali 151 Acab 156 La tessera del tifoso 180 Gli stadi di proprietà 185

CAPITOLO IV SIAMO NOI 197 Un certo sguardo 199 Un rito d'iniziazione 203 Una domenica all' nei “lunghi” anni '80 205 Le Brigate Autonome Livornesi 218 Un'avanguardia ultras 230 Millenovecentonovantanove 241 Fino all'ultimo bandito 249 Controluce 262 Generazione post-fordista 273 La crisi nella trasmissione dei saperi 277 Conclusioni 294 Bibliografia 297

3 Introduzione

Da tempo il calcio ha venduto la sua popolarità. Si è fatto, inevitabilmente, industria e spettacolo: oggi tanti guardano e pochi giocano, come in una versione rovesciata del panopticon originario di Bentham. E' diventato un genere di consumo che, felicemente abbinato al linguaggio televisivo, catalizza l'attenzione distaccando fisicamente il pubblico dallo spettacolo. In Italia, il progressivo svuotamento degli stadi è seguito a un lungo processo di selezione che ha portato alla rottura di un dispositivo che fino a qualche decennio fa poneva al centro di ogni evento una ritualità di massa. Come sostiene Debord nel suo “La società dello spettacolo”, quanto più l'esperienza deperisce e si degrada sul piano reale, tanto più la sua messa in scena spettacolare è chiamata a offrirne un surrogato seducente e potente. Il movimento è direttamente proporzionale: più la qualità reale perde vigore più si incrementa lo splendore apparente della sua immagine e si nasconde l'annullamento effettivo dell'esperienza. L'oggetto della ricerca è appunto l'indagine dei mutamenti del rito calcistico fino all'avvento del cosiddetto “calcio moderno”, una nuova fase caratterizzata da un afflusso inedito di capitali che ha modificato più che in passato gli assetti del calcio e della sua fruizione, ora prevalentemente televisiva. Un processo accompagnato da una serie di riforme che hanno favorito la privatizzazione e la commercializzazione della merce- calcio e predisposto la nascita di un pubblico orientato al consumo, “rieducando” chi continua a considerare il gioco una sorta di “bene comune”. La nuova forma spettacolare e “moderna” necessita di un'analisi che tenga conto dei cambiamenti cui il rito calcistico è andato incontro e che, a parte rare eccezioni, non è ancora stata affrontata in modo sistematico dalla letteratura del settore, anche per il suo sviluppo relativamente recente. Anche uno dei testi di riferimento per l'analisi del rito calcistico, “Descrizione di una battaglia” di Alessandro Dal Lago, fondamentale anche per la realizzazione di questa ricerca, per ammissione dello stesso autore nella prefazione alla seconda edizione, dice ben poco della nuova dimensione, subordinata alle esigenze della televisione. L'allentamento della fase esperienziale diretta del pubblico non si deve ridurre a un solo dato quantitativo: a cambiare è soprattutto la qualità dello spettatore, che ha subito a partire dagli anni '90 un processo di selezione produttiva, volto a ridimensionare o

4 espellere dagli stadi quelle soggettività eccedenti, spesso identificate negli ultras delle curve. Portatori di una conflittualità sostanzialmente simbolica, i tifosi organizzati riflettono in forme evidenti le inquietudini che soggiaciono la “messinscena di una battaglia”, metafora che sembra aderire puntualmente alla situazione di una partita di calcio. Sui tifosi legati alla vita di curva si è concentrata negli anni una prolifica attività legislativa, che ha individuato in essi il nemico interno al nuovo ordine sociale degli stadi. La stampa e l'opinione pubblica riconoscono questa metafora dominante e la evocano di continuo, ma ne negano la legittimità attraverso una lettura dello sport e dei processi di socializzazione dei giovani edulcorata e avulsa dalla struttura sociale. Proprio alla questione dell'elevata conflittualità legata al gioco la ricerca tenta di offrire una risposta che dia conto della profondità dell'argomento, che si intreccia con il riconoscimento del calcio come dispositivo antropologico di conflitto. Una posizione che differisce da quella sostenuta dalle retoriche degli organi di governo del calcio (e di parte dell'opinione pubblica), che lamentano da sempre l'esistenza di conflitti che si sovrapporrebbero a un gioco puro. Il lavoro cerca di dare una lettura dei conflitti del calcio riattivando un percorso storico in termini sociali, politici e antropologici, evitando di ridurre l'analisi a questioni di ordine pubblico ed aprendo un punto di osservazione sul calcio che tenga conto della sua dimensione di fatto sociale totale. L'analisi si pone infatti in modo critico rispetto a versioni ufficiali e forme di sapere consolidate e avallate dai media, egemoni nella narrazione del calcio, e fa proprio lo sguardo della metodologia etnografica, che presuppone essenzialmente metodi empirici basati su osservazione e descrizione, la valorizzazione delle voci soggettive dei protagonisti della ricerca e l'uso di analisi documentaria (interviste, storie di vita, materiale audiovisivo e sonoro). Lo studio teorico dell'evolversi e del mutare del rito nel calcio è supportato dalla ricerca sul campo relativamente a una vicenda specifica: la forte conflittualità che a Livorno per circa un quinquennio (fine secolo - inizio anni 2000) ha avuto come fulcro lo stadio.

La tesi si compone di quattro capitoli. Il primo capitolo offre un'analisi storica della natura del calcio volta a mostrare, nei suoi caratteri originari, l'associazione di questo sport al rito, il suo processo di civilizzazione e la sua particolare predisposizione al conflitto.

5 In quanto sport di squadra, si configura come una forma di attività collettiva che condensa e trasfigura significati sociali profondi che rimandano alla messinscena di una battaglia; si associa immediatamente al sentimento di appartenenza a un gruppo- comunità e alla rappresentazione del conflitto. Il richiamo alla battaglia si esprime in una dimensione rituale e perlopiù performativa, ma è parte integrante del gioco. Il calcio, in quanto rituale, possiede in essenza tratti che attengono a un processo di civilizzazione e ne ospita tutte le contraddizioni. La trasformazione del gioco in sport, ovvero “il processo di sportivizzazione”, ha fatto da ponte tra gli aspetti più selvaggi del gioco e la dimensione normativa dello stesso; è l’esito di un percorso che ha permesso il mantenimento entro forme razionalizzate e moralmente tollerabili dell’espressione originaria di un rito. Sin dalle origini il termine “sport” non è stato però applicato solo a chi lo praticava: il ruolo degli spettatori nel tempo è stato centrale nella riaffermazione della divisione amico/nemico e lo stadio è diventato il contenitore simbolico di un rituale bellico, confine e barriera nei confronti del pieno dispiegamento di un’ostilità. Con l’avvento della società industriale il processo di civilizzazione traccia un perimetro di comportamenti “produttivi” che vanno a garantire allo Stato il monopolio della violenza e della definizione dell’ordine. Pur ridimensionata nel suo protagonismo, la comunità ha continuato a prendere parte attivamente al gioco, collocandosi sugli spalti degli stadi e nutrendosi di appendici estetiche che ne hanno rafforzato l'aggregazione e la comunanza. I conflitti del calcio emergono sostanzialmente da una contraddizione profonda di questo processo di civilizzazione, che il calcio assume fin dalle sue origini: la distinzione antropologica tra play e game. Al play attiene il gioco libero, selvaggio, con regole tacite e non scritte, che perennemente ridiscute l'autorità del game, al quale si riferisce la grammatica normativa dello sport, le sue regole e le sue istituzioni. Il processo di sterilizzazione delle condotte sportive non ha infatti impedito il riaffiorare di comportamenti appassionati e violenti, evidenziando una relazione critica tra le due cornici. La violenza fa infatti parte della società e il calcio non è solo uno sport, ma uno specchio “deformato” della società. L’equazione è semplice e disarmante. Il tema è dunque attuale, perché il calcio con ogni probabilità continuerà a produrre conflitti, a meno che non si verifichi un mutamento delle sue cornici normative.

6 «Quando un gioco è importante per miliardi di persone cessa di essere semplicemente un gioco». La massima di Simon Kuper accompagna il percorso di questo lavoro nell'esplorazione dei grandi mutamenti intervenuti con l’avvento del calcio moderno, che si distingue per l'immissione massiccia di capitali e forme nuove di accumulazione capitalista.

In questa parte, che occupa il secondo capitolo, l'indagine affronta l'avvento del calcio in Italia e tutte le fasi che precedono la svolta “moderna”. Decenni che non esulano da processi di burocratizzazione del gioco, dall'interesse di fattori economici o da forme di spettacolarizzazione degli eventi, ma la cui funzione sembra operare, più che verso una disaffezione al rito come sarà in seguito, una sua socializzazione più profonda nell'intera penisola. Il campionato unificato, le prime radiocronache, l'abbinamento della pubblicità al calcio, l'interesse della grande imprenditoria alla gestione delle società calcistiche, la nascita del tifo, prima spontaneo, poi organizzato, l'avvento degli ultras, la comparsa del calcio nella tv pubblica, l'affermazione del gioco d'azzardo correlato alle partite (il Totocalcio) disseminano una sorta di calcistizzazione di massa della società.

Il terzo capitolo muove dai passaggi decisivi per la commodificazione dell'evento calcistico, ovvero per la sua centratura sul mercato, che saranno osservati in un confronto con quanto avvenuto in precedenza in Inghilterra. Individuati in alcuni passaggi significativi vengono qui affrontati i cambiamenti assorbiti già nei decenni precedenti e che mettono il calcio in relazione con i dispositivi di potere, socialità e consumo del capitalismo contemporaneo. In particolare, la ricerca si concentra sull'evoluzione del tifo organizzato in Italia, che nella sua specificità di movimento ultras, concentra su di sé l'elaborazione della retorica del nemico interno allo spettacolo calcistico. Il processo di civilizzazione moderno insito nel rito influenza infatti inevitabilmente anche il tifo. Man mano che si assiste ai primi ricambi generazionali e allo scioglimento di alcuni gruppi storici si verificano nuove forme di socializzazione nel mondo ultras. In mezzo ai tanti cambiamenti di un'epoca che si affaccia al postfordismo e si accompagna a una disgregazione più accentuata dei rapporti sociali, lo stadio che aveva continuato a caratterizzarsi come un

7 luogo di esasperazione delle identità conflittuali, diventa funzionale alle nuove esigenze marcate dal protagonismo delle tv private. I fenomeni di repressione da parte delle forze dell'ordine, una volta formalizzato il disconoscimento del rito autonomo dei tifosi da parte di Stato, mass media e mercato, si fanno sempre più frequenti e sono supportati da una prolifica legislazione che produce normative, che gli autori stessi, considerano ai limiti della costituzionalità. Si assiste così a una crisi generazionale che, insieme alla commercializzazione del gioco del calcio, conduce alla fine del rito autonomo: il rito nel calcio moderno è parte integrante dello spettacolo o a rischio espulsione. Una condizione che diventa chiarissima negli stadi di ultima generazione.

Con il quarto capitolo la ricerca passa allo studio di un caso specifico, che chiarisce ed esplicita i presupposti teorici della ricerca stessa. Come anticipato, si tratta dell'analisi della marcata conflittualità sviluppatasi intorno allo stadio a Livorno negli anni tra la fine del 1999 e l'inizio degli anni 2000. In una città preda delle conseguenze della deindustrializzazione, che vede svanire gli spazi fisici tradizionali sui quali si sviluppava la potenza di partiti e sindacati di sinistra, riemergono in forme inattese e in spazi considerati fino a quel momento innaturali contenuti che sembravano destinati agli archivi. In primo luogo, la tifoseria organizzata viene egemonizzata da formazioni che si richiamano esplicitamente alla sinistra radicale, attraverso un apparato simbolico che evoca le esperienze del socialismo novecentesco. Compaiono allo stadio bandiere dell’Unione Sovietica e vessilli delle esperienze ritenute più aderenti ai principi dell’ideologia comunista; attraverso striscioni, spesso polemici, si affrontano sia questioni inerenti lo stadio sia problematiche cittadine. Lo stadio, in breve tempo, diventa “la nuova piazza”, un dispositivo dove ricomporre territorialmente e socialmente “un’idea di popolo”. Ma le novità non si fermano a una produzione simbolica inattesa. In un contenitore immutato nei suoi processi di trasmissione di saperi (regolazione della vita cittadina attraverso la direzione locale di partito, sindacato, stampa) irrompono contenuti ormai dati per dissolti, che al contrario risultano sovraesposti in quel circuito calcistico che porta all’eccesso il potere sociale delle immagini. Attraverso l'uso di tecniche etnografiche, esplicitate nella sezione dedicata alla metodologia, si è inteso far emergere il protagonismo di una comunità - una generazione postfordista che esercita

8 un forte fascino sul mondo giovanile - che rivendica una visione autonoma della ritualità ultras e l’appartenenza a una tradizione cittadina di pratiche e saperi che, attraverso lo stadio e la piazza, vuole riprendere e innovare. Sottoposto alle critiche dei soggetti politici, al disappunto delle istituzioni, alla caccia alla streghe della stampa e alla repressione delle forze dell’ordine, il movimento dei tifosi subisce una sorta di disconoscimento pubblico delle proprie azioni, ma darà la misura di una rottura nel processo di riproduzione sociale dei comportamenti che sta maturando nella “vita seria”.

9 Capitolo I DESCRIZIONE DI UNA BATTAGLIA

Il calcio come linguaggio universale

Il calcio è spesso descritto come un idioma universale del nostro tempo. La semplice riproducibilità delle sue regole di base ha infatti permesso al gioco di disseminarsi agilmente in ogni angolo del pianeta. Una qualità ben documentata, ad esempio, nel volume dedicato al calcio dall’editore di arte visive Phaidon, realizzato selezionando tra migliaia di immagini della nota agenzia fotografica Magnum. Giornalista sportivo e autore dell’introduzione, Simon Kuper fa notare come il calcio compaia continuamente nei lavori della Magnum, sebbene negli oltre cinquant’anni di attività i fotografi dell'agenzia non abbiano mai pensato di occuparsene direttamente.

[…] rovistando negli archivi durante la fase di preparazione di questo volume, sono saltate fuori 4000 immagini in qualche modo legate al calcio, scattate nel tentativo di documentare la furia di un monsone, l’Islam, le manifestazioni di protesta in Albania, o anche semplicemente cani. Lo spettro è ampio quanto l’orizzonte della Magnum […] un’agenzia associata ai grandi eventi – le guerre, Robert Capa ucciso da una mina, lo studente cinese che sfida i carri armati in piazza Tien An Men – eppure il calcio è un suo tema fondamentale, non un semplice hobby1.

Creata nel 1947 da fotografi formati durante la seconda guerra mondiale e provati dai costi umani del conflitto, l’agenzia insegue l’idea di un mondo fondato «sulla fratellanza internazionale2». Non a caso, il primo progetto collettivo della Magnum è intitolato Le persone sono persone in tutto il mondo, e significativa è stata la presenza di molte fotografie dell'agenzia alla mostra Family Man, allestita al MoMa nel 1955, in piena continuità con lo spirito di riconciliazione diffuso all’epoca. Per Kuper, «nella grande famiglia umana il calcio rappresenta un’esperienza universale3» e imprescindibile, così diffusa da apparire come «una necessità umana4». Il volume,

1 AAVV, Magnum Calcio, Phaidon Press Limited, 2003, Londra, pp. 5-6. 2 Ivi, p. 6. 3 Ibidem. 4 Ibidem.

1 includendo immagini di luoghi e situazioni assai differenti, sembra perseguire la finalità del primo progetto della Magnum, ribadendo che “il calcio è il calcio”, sia esso giocato ai piedi del muro di Berlino, come in un campetto ricavato all’interno di una piattaforma petrolifera o su un radura sovrastata dai cavi di trasporto del manganese in un villaggio del Gabon. Per quanto possano sembrare tra loro distanti o imperscrutabili questi luoghi, l'universalità del calcio velocizza socialmente la produzione di emozioni, rappresentando la chiave d’accesso per renderli familiari al nostro sguardo. Il volume esprime in sintesi la forza di radicamento universale del linguaggio calcistico, un aspetto che ha portato il gioco a essere lo sport più seguito al mondo e «certamente quello che ha sviluppato più capacità mitopoietiche5». Sono pochi gli argomenti che occupano più spazio della chiacchiera calcistica nella vita odierna, un'abitudine incoraggiata dalla stampa e soprattutto dalla crescente offerta di calcio giocato e parlato in televisione, dove le partite, a pagamento o in chiaro, sono un appuntamento quasi quotidiano, al pari delle infinite trasmissioni di commento. Del resto, l'esplosione quantitativa della domanda di calcio, nella sua versione moderna, ha saputo mobilitare ingenti risorse e una spasmodica attenzione dei mezzi di comunicazione di massa. Michael Real, analizzando il rapporto tra sport e informazione, ha evidenziato la principale trasformazione avvenuta lungo il secolo diciannovesimo: la partecipazione amatoriale con finalità ricreative è stata trasformata dal dispiegamento, intorno all'evento sportivo, dei più raffinati mezzi tecnologici, volti alla valorizzazione in chiave consumistica dello spettatore6. In ambito italiano, il rapporto tra sport e informazione conferma la grande attenzione per le cronache agonistiche. La stampa di settore risulta particolarmente letta, seguita e diffusa, e in alcuni periodi ha potuto contare su quattro quotidiani nazionali (La gazzetta dello sport, Il corriere dello sport, Tuttosport e Stadio). È Alessandro Campi a rilevare il dato in una puntata di Rai Storia in cui sottolinea come il ruolo della stampa sportiva, presente in tutti paesi, assuma in Italia una caratteristica particolare: «si parla moltissimo di sport ma poi di sport se ne fa molto poco, gli italiani amano andare allo stadio, seguire lo sport stando a casa o appunto attraverso i giornali. L’Italia è un paese dove si leggono pochi quotidiani ma moltissimo la stampa sportiva e questa è

5 DAL LAGO A., Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Bologna, Il Mulino, 1990. 6 REAL M., Mediasport Technology and the Commodification of Postmodern Sport in WENNER L., Mediasport, Routledge, 1998, London.

11 sicuramente una stranezza7». Un altro aspetto evidenziato dal giornalista è il ruolo del linguaggio della stampa sportiva, «che ha travalicato il suo ambito ed è diventato egemone nel modo di parlare degli italiani, per esempio è diventato egemone all’interno della stessa politica. Le metafore sportive-calcistiche vengono molto utilizzate nella discussione politica. Se seguite una qualunque tribuna politica avete spesso l’impressione di aver di fronte una conversazione, una discussione da bar sport. Ci si confronta sul piano politico come se si fosse dei tifosi8». Il debordare delle espressioni calcistiche nel linguaggio politico, per Giorgio Triani, è parte di quel fenomeno «di calcistizzazione della politica che procedeva al passo di quella più generale che investiva la società italiana degli anni Ottanta e che scaturiva dal crescente peso sociale ed economico dello spettacolo calcistico, capace [...] di offrirsi come modello di una contesa in cui erano chiare le ragioni del contendere e dunque le appartenenze, i ruoli e gli obiettivi9». Nel suo saggio sul rapporto tra calcio e politica, Triani scorre in rassegna una serie di titoli giornalistici, a volte in apertura di quotidiani non sportivi, che rappresentano a suo parere l'esigenza della società di rispondere, attraverso le forme espressive e comportamentali del calcio, a un'identità nazionale frustrata e disorientata dalla crisi della rappresentanza partitica.

Meglio Rossi [il centravanti azzurro] che morti, titolò “l'Unità” un articolo del sociologo Franco Ferrarotti e in quel riprendere un celebre slogan della sinistra (o, capovolto, della destra) si manifestava appunto il completo, radicale rovesciamento di senso che aveva sempre regolato il rapporto fra politica e spettacolo calcistico. Innanzitutto il fatto che la prima non era più capace di produrre e regolare entusiasmi e tensioni collettive, in secondo luogo il riversarsi delle identità negate dalla politica in ambito sportivo. Il calcio come surrogato dell'identità nazionale frustrata e come risposta alla crisi della rappresentanza partitica10.

Per Triani, l'importanza del fenomeno risiede nella stabilizzazione del suo carattere.

7 CAMPI A., Gli italiani e la stampa sportiva, RAI STORIA, trasmissione on line. Disponibile sul web: http://www.raistoria.rai.it/articoli/gli-italiani-e-la-stampa-sportiva/12372/default.aspx 8 Ibidem. 9 TRIANI G., La politica nel pallone, Caffè Europa, rivista on line, 1999. Disponibile sul web: http://www.caffeeuropa.it/attualita/58attualita-calciopolitica.html 10 Ibidem.

1 […] non più una parentesi, un delirio di folla carnevalesco, ma invece uno stabile trasferimento di aspettative, valori e comportamenti da un piano all'altro. Dimostrato dal fatto che le feste del tifo negli anni Ottanta sono diventate un tratto costante delle domeniche calcistiche e della vita nazionale. Nello stesso tempo in cui le forme espressive e comportamentali tradizionalmente proprie della lotta politica (parole d'ordine, slogan e battimani ritmati e cantati, bandiere e striscioni) si sono trasferite sulle gradinate degli stadi11.

Nella sua forma contemporanea il calcio ha saputo quindi imporsi come un genere di consumo profondamente inserito nel linguaggio ordinario, scritto e televisivo, e in questo senso, insieme alla sua capacità di generare processi di appartenenza, arriva ad assumere per il proprio pubblico la veste di bene comune12.

Il calcio come social problem

Genere di consumo, bene comune, strumento di rielaborazione del linguaggio della vita ordinaria, il calcio, circolando copiosamente nella sfera dell’opinione pubblica e nei media mainstream, incontra però non pochi problemi di “codifica”. Mentre restano rare le occasioni in cui il fenomeno è trattato dal punto di vista sociale e culturale, ampio spazio è dedicato all'aspetto della violenza dei tifosi; e questo non tanto come fattore specifico, quanto piuttosto come elemento la cui condanna morale «trascina con sé tutte le culture, i codici e le manifestazioni quotidiane dei comportamenti da stadio13». Poco si è riflettuto sulle metafore dominanti nel calcio e sui motivi che inducono una quantità così elevata di persone a partecipare agli eventi calcistici - «un'occasione pressoché unica nella nostra società di partecipare a un evento eccezionale14» - fermandosi al diffuso pregiudizio normativo che riduce il calcio a ciò che dovrebbe essere, occultando in definitiva ciò che è15. Dal Lago ricorda che quella che viene pomposamente chiamata public opinion è soprattutto la rete del pregiudizio e degli stereotipi, puntualizzando che «non significa

11 Ibidem. 12 PORRO N., Sociologia del calcio, Roma, Carocci, 2008, p.52. 13 CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), Stadio Italia. I conflitti nel calcio moderno, Firenze, la Casa Usher, 2010, p.251. 14 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.38. 15 DE BIASI R.,Un Il tifo calcistico, in DAL LAGO A., DE BIASI R. (a cura di), Un certo sguardo. Introduzione all'etnografia sociale, Bari-Roma, Laterza, 2002, p.113.

1 che in questa rete circolino informazioni vere o semplicemente plausibili. E non si tratta nemmeno di informazioni “false”. Si tratta piuttosto di un’alterazione di dimensioni, dell’ignoranza dei contesti, di una manipolazione raramente deliberata, ma “necessaria”, delle proporzioni tra gli eventi, cioè di meccanismi che obbediscono alla logica quantitativa e qualitativa della semplificazione16». Tra i miti dell'opinione pubblica rientra ad esempio la “violenza calcistica”. Un mito moderno che ha a che fare con la retorica della verità: «un discorso che pretende e poi assume un valore fattuale17». Esiste certamente una violenza sociale nel calcio, ma si agita in un terreno culturalmente complesso che fa da sfondo a episodi prevalentemente ritualizzati, «spesso modesti, sporadicamente gravi18»; esiste però anche una retorica della violenza che non consiste solo nel denunciarla, ma nel nutrirsi del suo mito: i media spettacolarizzano le azioni dei tifosi ma ne negano la legittimità, rafforzando l'immagine dello stadio come scenario di eventi pericolosi, ma soprattutto, non forniscono di quei gesti un'appropriata prospettiva, lo sfondo, le giuste dimensioni, aspetti «ritagliati e congelati in stereotipi19». La dimensione del calcio come campo di investimenti emotivi, sociali e politici, nel quale oltre agli stessi media, appare con una certa ridondanza l'operato di imprenditori e istituzioni, sembra subire un giudizio ambivalente nel momento in cui anche gli spettatori, e in particolare il popolo delle curve, vogliono conquistarsi una porzione rilevante in un contenitore che porta all'eccesso «il potere sociale delle immagini20» . In particolare, la concezione secondo cui il calcio è stato irregimentato come disciplina sportiva e quindi reso immune dalle ambivalenza emotive rende ancora più severo ed esasperato il giudizio degli addetti ai lavori sulle tensioni che si sprigionano intorno ad esso. Un meccanismo ambivalente che in realtà rivela che il calcio è oggi uno spettacolo interpretato da professionisti su cui avvengono investimenti materiali, emotivi e simbolici di massa: «un fenomeno sociale costitutivamente produttore di tensione21». La visibilità sociale del calcio sovraespone però gli atti di violenza e rende palese la sproporzione tra eventi e notizia: gli incidenti, anche i più trascurabili, subiscono

16 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.156. 17 Ivi, p.155. 18 Ivi, p.41. 19 LIPPMANN W., Public Opinion, New York, Macmillan, 1960, p.156 (trad. it. Opinione pubblica, Milano, Comunità, 1963). 20 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.40. 21 Ivi, p.37.

1 l'amplificazione dai media. La violenza calcistica è quindi un mito sociale in quanto relativo alla dimensione sfuggente dell'opinione pubblica, il cui agire è spesso avulso dalla crescita quantitativa di un fenomeno o da una sua indagine in profondità, ma riflette il tasso di preoccupazione intorno ad esso, assegnando a tali astrazioni un valore morale. Al comportamento dei media mainstream è dedicata la riflessione di Silvano Cacciari. Ammettendo un conflitto antropologico nel calcio, Cacciari illustra come i media tentino continuamente di appropriarsi del centro disciplinare dell’attenzione sociale; «vista la convergenza storica tra media mainstream e istituzioni della civilizzazione» mostra a che punto risulti «comprensibile come attraverso i grandi media non si faccia informazione sul tifo ma si ritualizzi la legittimità di un solo attore in campo, quello istituzionale22». In questa dinamica, il calcio si trova a essere un dispositivo centrale per accogliere le passioni collettive e allo stesso tempo modellarle attraverso una codifica sociale realizzata dai media sulle esigenze di governo della società. Riallacciandosi ai processi evolutivi di questo fenomeno, Cacciari afferma che «l’assunzione del calcio entro il modello di disciplinamento e di messa a produzione dei comportamenti individuali dato dalla civilizzazione comporta quindi una sua complessiva regolamentazione, entro i canoni delle buone maniere (il fair play) e la sua immissione in una forma di governamentalità23 (delle società e delle istituzioni dello sport) entro l’ormai consolidato fenomeno del monopolio statuale dell’ordine pubblico24» A questo accennato intreccio tra narrazione e codificazione di gesta sportive e protagonismi del pubblico occorre aggiungere una riflessione sul ruolo delle scienze sociali. Come già accennato, il calcio è uno sport tra i più vulnerabili nei confronti dei comportamenti conflittuali e su questo social problem, rappresentato essenzialmente dal comportamento dei tifosi organizzati, si è attivata in modo quasi esclusivo la curiosità sociologica. Un esempio alquanto paradigmatico sull'approccio delle scienze sociali ai conflitti del calcio è offerto dal paragrafo che Umberto Galimberti dedica agli ultras nel suo libro L’ospite inquietante, insieme di saggi nel quale l’autore affronta il rapporto tra i giovani e il nichilismo. Parafrasando Nietzsche, il filosofo presenta l’ospite nelle vesti

22 CACCIARI S., Immersi nel gioco, in CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), op.cit., 2010, p.252. 23 Con il termine governamentalità si intende quella specifica «arte del governo» che attraverso un insieme di «istituzioni, procedure, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche» assicura la presa in carico delle popolazioni e garantisce il «governo dei viventi» in FOUCAULT M., La governamentalità, «Aut-aut», 167-168, 1978, p.28. 24 Ivi, p.248.

1 di un nichilismo che si aggira tra i giovani, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella le spinte vitali verso i nuovi orizzonti e intristisce le loro passioni. Resi inespressivi da un analfabetismo emotivo, i giovani appaiono pervasi dallo spaesamento, da condotte irrazionali in ogni tappa del loro percorso. Il nulla a cui aspirano li accomuna in una generazione nichilista, nella quale Galimberti individua i topoi delle più inquietanti condotte sociali nel rifiorente terrorismo politico, nella frivolezza programmatica, nella sociopatia, nel rifiuto della socialità, e pone al primo posto la violenza dei ragazzi dello stadio. I tifosi sono il punto più alto del disordine sociale: per Galimberti, seppur non sia l’unica, «quella degli stadi è la violenza più emblematica25». Così scrive l’autore:

con i loro passamontagna calati, perché la violenza è codarda, con i loro fumogeni che annebbiano l’ambiente per garantire impunità, le loro sassaiole che piovono come grandine da tutte le parti in modo che non ti puoi difendere, con i petardi, che quando non spaventano, feriscono, con le loro bombe-carte che uccidono. […] L’analfabetismo mentale, verbale ed emotivo con cui rispondono a chi li interroga sono per loro una giustificazione. La loro violenza è nichilista perché è assurda, e assurda perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno scopo. È puro scatenamento della forza che non si sa come impiegare e dove convogliare, e perciò si sfoga nell’anonimato di massa, senza considerazione e senza calcolo delle conseguenze. La mancanza di scopi rende la violenza infondata, e quindi assoluta. La violenza da stadio, infatti, non ha creatività e lascia poco spazio alla fantasia. E dal momento che è ripetitiva e qualitativamente identica, l’unica variazione può essere solo quantitativa, e perciò ogni volta si aumenta la dose e, con la dose, l’euforia di un incontrollato sconfinamento di sé, di una nuova sovranità illimitata e di un’assoluta libertà dal peso morale e dal vincolo sociale. La caratteristica rituale della violenza nichilista dei ragazzi dello stadio rende questa violenza diversa dall’insurrezione o dal tumulto che, avendo di mira uno scopo, si placa quando lo scopo è raggiunto. Proprio perché è senza scopo, la violenza nichilista si compie con annoiata indifferenza, prorompe senza motivo e interesse e, per effetto della ritualità del suo compiersi, non necessita di alcuna decisione. Vivendo esclusivamente per la prosecuzione di se stessa, la violenza nichilista traduce la barbarie in normalità26.

25 GALIMBERTI U., L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Feltrinelli, 2007, p.137-139. 26 Ibidem.

1 E’ evidente che applicando i caratteri della patologia all'esperienza dei tifosi, Galimberti chiuda di fatto ogni visione più complessa del fenomeno27. Dalla sua visione è assente un'indagine qualitativa dei conflitti del calcio e non si esprime sulle modalità simboliche dell'agire collettivo né sulle differenti razionalità tattiche dei tifosi come delle istituzioni. Rappresentata come sfrenata, muta e acritica, l'azione dei tifosi è evocata al solo fine di delegittimarla, arrivando a parlare di disturbo mentale di chi compie atti di violenza. Un approccio, quello di Galimberti, già visto nella breve trattazione sui media, che oscura i significati profondi del calcio e la cultura degli spettatori, insieme ai codici e le manifestazioni che quell’universo esprime. Gli esempi di questa letteratura sono molti e, come sottolinea Cacciari partendo dall’analisi di Un antropologo nel pallone di Bruno Barba, essa è «destinata a essere recensita e utilizzata dal media mainstream come scienza della separazione tra calcio puro e “violenti” che non c’entrano nulla con il football giocato che è passione per la vita. Ecco quindi come un’allegra letteratura colta sul calcio finisce per essere usata come strumento di legittimazione dell’animalizzazione dei comportamenti da stadio e del riconoscimento di un’unica razionalità e sensibilità in campo, quella delle forme governamentali28». Questo tipo di filone sociologico sembra essere in qualche modo la riserva discorsiva a cui attingono i media mainstream, le cui successive rielaborazioni vanno ad alimentare pericolose dichiarazioni di senso comune e verità stereotipate. Vediamone un esempio.

Il derby nichilista

In Italia, una della vicende che negli ultimi anni ha più di altre alimentano le “litanie” sugli eccessi intorno al calcio, escludendo dal dibattito qualsiasi elemento interpretativo, è relativa ai fatti del derby tra Salernitana e Nocerina. Tre giorni prima di quello che storicamente è un incontro che genera grandi aspettative tra i tifosi, il prefetto di Salerno

27 «La complessità è un modo di interpretare la realtà che presuppone principi e concetti costitutivi non confondibili con le pericolose dichiarazioni di senso comune; insegna ad osservare la realtà attraverso rigorosi sistemi di nessi e relazioni che legano sempre la realtà al suo osservatore. La scoperta della complessità riguarda l’intera tradizione epistemologica occidentale. Rimanda ad un clima complessivo denso di inquietudine, ad un ethos, [direbbe Amsterdamski] all’interno del quale la storia del nostro pensiero scientifico si sviluppa; rimanda alla messa in discussione dell’unicità epistemologica e della dominanza delle cosiddette scienze dure. Rimanda ad un nuovo modo di pensare che riconosca il reale e il possibile non come dati immutabili, ma come costruzioni mai definitive e dipendenti anche dalle nostre scelte; [un nuovo modo di pensare] che tratti l’incertezza non come il peggior nemico, ma come il migliore alleato». DE MENNATO P., Nuovi modelli di apprendimento nelle scienze della salute per rispondere alla complessità delle cure, relazione al XIV° congresso SIPEM di Rimini. 28 CACCIARI S., Immersi nel gioco, in CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), op.cit., 2010, p.256.

1 decide di vietare la trasferta agli ospiti, dopo che il Comitato di analisi per la sicurezza delle manifestazioni sportive (CASMS) ha classificato la partita come «connotata da alti profili di rischio». La decisione comporta la vendita dei biglietti ai soli residenti nella provincia di Salerno, con esclusione dei residenti nei comuni di Nocera Inferiore, Nocera Superiore, Roccapiemonte, Castel San Giorgio, Siano e Pagani. Solo per la provincia di Salerno era stata stabilita la messa in onda in chiaro della partita sui canali Rai. L’immediata risposta dei tifosi ospiti è affidata a un comunicato dei gruppi organizzati della curva:

In merito alla vergognosa decisione di vietare la trasferta allo ai sostenitori nocerini, la Curva Sud pretende di essere messa a conoscenza dei seguenti punti: perché una volta reperiti i pullman, ritenuti unica necessaria condizione per l’effettuarsi della trasferta, con ancora 5 giorni disponibili prima della gara, tale atto viene adesso invece bollato come tardivo? Come mai nell’impianto salernitano sono state disputate ripetutamente in passato gare dall’elevato rischio senza inibizione alcuna alle tifoserie ospiti? Perché se la gara presenta realmente un rischio cosi elevato di incidenti non viene disputata a porte chiuse ma ne vengono discriminati soltanto i tifosi ospiti? Perché per mesi e mesi si è voluta fingere l’intenzione di far giocare questo incontro, mentre poi nei fatti si è data palese dimostrazione di volere ostacolare ed impedire ad ogni costo la presenza nocerina sugli spalti? Per noi questa decisione è discriminante, indecente, iniqua ed inaccettabile, e confligge contro ogni principio di giustizia ed uguaglianza, nonché rende praticamente nullo il valore del concetto di tessera del tifoso. Se esistesse un organo di giustizia davvero sovrano e imparziale abilitato a giudicare chi di norma è giudicante, anche la prefettura di Salerno dovrebbe essere chiusa e subire svariati turni di squalifica per discriminazione territoriale!!! Domenica presto o tardi arriverà… e dinanzi a una decisione che va contro ogni forma di giustizia e razionalità… che sarà sarà… tutti… come non mai… aduniamoci!!! Avanti curva sud, avanti Nocera29.

A poche ore dal match, un gruppo di tifosi molossi si presenta - minacciosamente, secondo alcune ricostruzioni - nella sede del ritiro pre-partita della Nocerina chiedendo ai calciatori di non scendere in campo. Arrivati allo stadio, i calciatori rossoneri avrebbero comunicato all’arbitro la volontà di non giocare perché scossi dal colloquio coi propri tifosi, contrariati per le restrizioni subite in vista della trasferta a Salerno.

29 Comunicato degli ultras della Nocerina.

1 Convinti dal Questore e dalla società, i giocatori accettano di fare comunque il loro ingresso in campo, ma quello che segue si rivela una vera e propria farsa. Dopo pochi minuti di gioco il tecnico della Nocerina sostituisce tre elementi, esaurendo da subito la possibilità di fare nuovi cambi. Nel giro di un’altra manciata di minuti cinque giocatori della squadra lamentano infortuni tali da dover abbandonare il terreno di gioco. La Nocerina rimane in 6 e, seguendo la regola che prevede un minimo di 7 giocatori per squadra, al 22’ minuto l’arbitro si vede costretto a concludere in anticipo la partita. Appreso l’esito del derby, gli ultras della Nocerina scendono immediatamente in piazza a Nocera Inferiore per festeggiare. Più di un centinaio di tifosi ha raccolto l’invito diramato attraverso i social network e si è radunato in piazza Diaz, intonando cori e sventolando bandiere. Oltre all’attivazione di un’inchiesta della Procura contro ignoti per i reati di “violenza privata” e “manifestazione non autorizzata” e un’inchiesta della FIGC ai danni della A.S.G. Nocerina per “illecito sportivo”, il derby-farsa ha prodotto una notevole quantità di interventi a mezzo stampa nella maggior parte dei casi concordi sulla netta condanna del comportamento dei tifosi molossi e sulla necessità di liberare un calcio ostaggio della violenza dei tifosi30. Etichettando la disponibilità alla violenza come risultato di impulsi arbitrari e irrazionali o erigendola all’azione di bande di delinquenti che si nascondono dietro i colori e la presunta fede calcistica31, gli autori degli articoli ricostruiscono l’episodio in un’acritica visione dei comportamenti da stadio. Obiettivo tra l’altro dichiarato nell’intervento che segue, per certi versi esemplare di un certo rapporto che si è andato sviluppando tra i costruttori dell’opinione pubblica e gli studiosi dei fenomeni sociali:

Non è il caso di avventurarsi in trattati sociologici, non ne vale neppure la pena. Chi sono, perché sono così, di cosa si nutrono gli ultrà. Ora non conta. Conta un po' di più ragionare su cosa si dovrebbe e potrebbe fare per scongiurare giornate come quella segnata dalla mortificante resa di Salerno: club, giocatori, Stato, tutti messi alla berlina da dieci, venti, cento, trecento persone, in grado però di comandare. Ogni volta che si tocca il fondo,

30 REVELLO E., La partita “ostaggio”. Spunti di riflessione sul caso Salernitana-Nocerina, Sport & Legge – il blog di Gazzetta dello Sport, 16 novembre 2013. Disponibile sul web: http://sportelegge.gazzetta.it/2013/11/16/la-partita-ostaggio-spunti-di-riflessione-sul-caso-salernitana- nocerina/ FOSCHINI G., MENSURATI M., Palla prigioniera. Il calcio in ostaggio, Repubblica, 12 novembre 2013. 31 VULPIS M., La farsa Salernitana-Nocerina, nuovo schiaffo all’immagine del calcio italiano, Formiche, 10 novembre 2013.

1 spostando il limite della vergogna, il calcio spende fiumi di parole: indignate prima, severe poi. Mai più, si dice, prima di aspettare la vergogna successiva. Uno dei pochi fatti, in mezzo al coro vociante dei venditori di fumo atteggiati a supermanager, era stato proprio quell'inasprimento delle sanzioni contro la violenza verbale da stadio, che voleva recepire le indicazioni dell'Uefa che, guarda un po' che coincidenza, ha scelto “respect” come sua parola d'ordine. Non vale la pena, ancora, stabilire quanto fossero giuste o ingiuste quelle regole. È assai più importante ricordare perché il calcio italiano le abbia cambiate così di fretta: semplicemente, non ha avuto la forza di combattere la guerra scatenata dagli ultrà contro il sistema che le aveva prodotte32.

In questo esempio il contributo dei media determina un’ulteriore frattura rispetto a quell’approccio alla complessità richiesto nell’analisi dei fenomeni sociali. Il sistema di informazione in questo caso evita deliberatamente l’approccio “sociologico” «come se rappresentasse un insulto33». La netta cesura verso le forme di alterità a un governo del calcio, che esclude dalla cornice del tifo una parte fondamentale per riaffermare l'eterna partita amico/nemico tra tifosi e impone la sua linea utilitaristica là dove la posta in gioco è elevata sul piano simbolico, offre legittimità unicamente all'attore istituzionale della contesa, amplificandola con la richiesta di uno stato d’eccezione («non vale la pena, ancora, stabilire quanto fossero giuste o ingiuste quelle regole»). Il timore verso l'approccio sociologico è connesso alla paura che l’analisi di un fenomeno possa diventare un processo di giustificazione: si ignora che «da oltre un secolo, le radici stesse delle correnti correnti sociologiche principali si danno nella separazione dall’analisi delle dinamiche sociali dai giudizi di valore34».

Oltre il panico sociale

Emerge un quadro supportato in maniera paradossale da contributi che da un lato si autorappresentano come “imparzialmente” scientifici e dall’altro rifuggono gli strumenti delle scienze sociali che, ai loro occhi, sembrerebbero rallentare gli sforzi di chi vuole operare concretamente contro chi devia le norme governamentali. A vent’anni di distanza dalla pubblicazione del testo La produzione della devianza, nel quale Dal Lago

32 PONTANI A., La degenerazione del tifo non trova ostacoli, Repubblica, 10 novembre 2013. 33 DAL LAGO, op. cit., 1990, p.155. 34 NIQUE LA POLICE, Magliette a strisce, teddy boys e black bloc. Dall’epica popolare al moral panic, Senza Soste online, 27 ottobre 2011.

2 si proponeva di tracciare una genealogia del concetto di devianza a partire da alcune suggestioni foucaultiane, l’autore ribadisce il ruolo di un certo ordine discorsivo:

sono convinto, oggi come ieri, che i discorsi sociologici (e criminologici) sulla devianza non debbono essere trattati tanto come ipotesi scientifiche su certi aspetti della realtà sociale, quanto e soprattutto come dispositivi che costruiscono il proprio oggetto in base a strategie che hanno a che fare con il potere.

Cosa comporta una rappresentazione mediatica che evita ogni approfondimento sociologico, rendendo egemone l’aspetto della violenza sulla totalità del sistema culturale del calcio, senza peraltro indagare origini, motivazioni e trasformazioni del fenomeno? Sicuramente una delle conseguenze è la diffusione di panico (anche morale) che ne accompagna la percezione. Per Dal Lago, oltre a una complessiva sovraesposizione del “teppismo calcistico” in quanto associato a uno spettacolo «visibile e costoso come il calcio», l’aumento del panico è «probabilmente legato a un altro fattore, relativo alla memoria storica. Negli anni 1968/77 la società italiana ha conosciuto una violenza sociale e politica, soprattutto tra i giovani, diffusa e capillare. Dall’inizio degli anni ’80 si è affermata probabilmente l’illusione che, come si augurava De Gaulle nel suo famoso discorso televisivo dopo i fatti del maggio ’68, “la ricreazione [fosse] finita”. Insomma, è il mito di una società pacificata che predispone gli osservatori sociali al panico35». Su questa falsa riga, anche il mito di un calcio pacificato predispone gli osservatori al panico. Ciò che infatti sembra mancare a tutti i discorsi che fondano il senso comune sul calcio e i suoi conflitti, di cui sono stati presentati alcuni esempi, è prima di tutto un’analisi della dimensione antropologica del gioco. In un contesto egemonizzato dal racconto dei media e dall’opinione pubblica, incline a una condanna morale dei fatti che non lascia ulteriori spazi di interpretazione, è opportuno indagare e riscoprire costantemente il processo storico, e la letteratura che nel tempo ha tentato di indagare in modo più profondo sulla natura inquieta del calcio e dei suoi protagonisti.

35 DAL LAGO, op. cit., 171-172.

2 Nel campo della storia: il calcio delle origini

Ogni contesto storico ha assegnato ai giochi e agli sport una funzione irripetibile. Sembrerebbe pertanto rischioso tracciare una continuità tra realtà separate da millenni o anche solo da poche decine di anni. Fatta questa premessa, operare una sorta di viaggio a ritroso - e per grandi passaggi - nella comparsa dei giochi a palla può mettere in luce elementi che, seppur supportati da una struttura sociale costantemente in evoluzione (e di conseguenza a una riformulazione dei giochi stessi), non sono completamente avulsi alla forma attuale: il ruolo del pubblico, l'antagonismo esasperato, l'impunità rituale dell'evento, ma sopratutto la sua metafora dominante.

Fin dall’età precolombiana, l’esistenza di giochi con la palla è documentata nell’America Centrale. Anche nella Grecia e nella Roma antiche sono state individuate pratiche sportive o parasportive che prevedevano l’impiego di una palla. Un remoto antenato di quello che è oggi il football moderno sarebbe stato però ideato in ambienti cinesi, all’alba della civilizzazione dal mitico Huangdi, “l’imperatore giallo”. In realtà, abbiamo notizia di acrobati e giocolieri che, durante l’impero di mezzo (2000 anni or sono), si esibivano a pagamento in prestazioni di abilità che è difficile ricondurre alla nostra idea di sport competitivo. In epoca Han, fra il 206 a.C. e il 220 d.C., si praticava invece il cuju, traducibile alla lettera come spingere il pallone con il piede. Nel cuju il campo di gioco, quadrangolare, a formare una gabbia con un foro al centro, sembra richiamarsi alla città-palazzo, al tempio degli antenati ed estensivamente all’idea di terra quadrata. Giochi con la palla sono poi documentati tra le popolazioni di eschimesi nella Groenlandia, gli Inuit: consistevano nella disputa tra due squadre che cercavano di calciare il pallone oltre la linea avversaria, secondo il modello dei giochi territoriali che prevedono appunto la simbolica invasione dello spazio altrui. Altre documentazioni hanno rivelato la presenza del gioco presso i nativi del Nordamerica e nella regione australiana del Victoria. Già da questi esempi si attesta che il gioco del calcio si configura come la riproposizione rituale di una battaglia per lo spazio, la celebrazione di un’occupazione di terra.

2 Più abbondanti sono le informazioni sull’età medievale e in epoca moderna: tra il XIV e il XV secolo si attesta la codifica della soule, gioco praticato prevalentemente in territori oggi a sovranità francese (Bretagna, Normandia, Piccardia). La soule e le sue varianti erano giochi strutturati su una commistione di rugby (in prevalenza) e di calcio: appartenevano a contesti sociali urbani ed erano spesso praticati durante il carnevale o in particolari ricorrenze. Di tipo rurale erano invece i folkgames britannici che si svolgevano con selvagge partite in cui a fronteggiarsi era un numero indefinito di giocatori (anche tutto il villaggio poteva partecipare alla partita), in uno spazio mal definito (l’intero terreno tra due villaggi vicini) e con tempi sregolati di gioco (più giorni e più notti consecutivamente). Il contenuto della disputa era fortemente simbolico: una vescica di maiale o altri oggetti dovevano materialmente violare lo spazio difeso dalla folla avversaria, spesso delimitato dalle pietre miliari che indicavano i confini dei villaggi o dalla balconata della parrocchia. In queste occasioni il popolo riaffermava la propria identità, attraverso un tipico sistema di immagini e linguaggi espressivo-comunicativi, improntati su un ritorno alle origini, al “basso materiale corporeo”. Il mob football era invece caratteristico dei contesti urbani. Per le strade, giovani bande si fronteggiavano sostenute da vere e proprie tifoserie che invadevano lo spazio di gioco con cavalli, carri, campanacci e coreografie. Un gioco ascrivibile a quei rituali allegorici tipici del mondo popolare, di stampo carnevalesco, in cui emergono in senso figurato la trasgressione e la sovversione delle norme, delle regole, e dei divieti religiosi e che permette di rovesciare le gerarchie sociali in un tempo delimitato. Praticati dunque da tempo immemorabile sotto forme molto diverse e selvagge, questi antesignani del calcio furono proibiti dal podestà di Londra nel 1314 e rimasero fuorilegge e sotterranei fino al 1835, quando il cosiddetto Highway Act pur ribadendo il divieto del gioco nelle strade pubbliche lo rese possibile negli spazi recintati. In Italia è il calcio fiorentino a emergere come precursore del moderno football. Inizialmente fu praticato da bande giovanili in competizioni poco strutturate e «ovunque fosse materialmente possibile», con particolare riguardo per le spaziose piazze della città di Firenze (Santo Spirito, Santa Croce, Santa Maria Novella). Adottato ben presto dall’aristocrazia cittadina, fu meticolosamente regolamentato e il suo svolgimento accompagnato da marcati elementi ritualistici. Le partite si disputavano su un terreno

2 sabbioso a perimetro rettangolare, avevano la durata di cinquanta minuti e nella versione classica prevedevano la presenza di ventisette Calcianti per squadra, abbigliati con sfarzose divise (denominate livree) e differenziati per ruoli come nelle odierne competizioni calcistiche. Il campo era diviso in due da una linea bianca e l’obiettivo dei calcianti era raggiungere il fondo campo avversario depositando la palla nella rete che lo delimita. Erano ammessi pugni, calci, spallate: in generale l’interdizione della violenza era scarsa, nonostante lo svolgimento del gioco fosse monitorato da un cospicuo numero di figure preposte a vigilare sul “pacifico” sviluppo dell’incontro. Accanto a quelle ufficiali, per un periodo, sono sopravvissute manifestazioni più estemporanee del gioco, ma sono finite presto nel mirino degli amministratori locali, preoccupati per il disturbo alla quiete pubblica.

Verso la modernità

Il calcio compie il passo decisivo verso la modernità nella Gran Bretagna vittoriana. Dopo aver rischiato la soppressione, come dimostra la ricca giurisdizione intenta a metterlo al bando (circa trenta fra editti reali e leggi locali fra il 1324 e il 1667), il calcio incontra il laboratorio adatto per avviare il processo di sportivizzazione: una risposta organizzativa alla crescente domanda sociale di football. Come spiega Nicola Porro, «il laboratorio che riuscirà a uniformare le regole del gioco, permettendo così l’estensione del raggio delle competizioni e omologandone progressivamente le stesse manifestazioni tecniche, sarà rappresentato dalle public school britanniche36». Le public school sono istituzioni private, spesso con ambizioni elitarie, organizzate in classi formate da dieci allievi, accompagnati da un tutor durante le attività sportive. «Di qui - fa notare Porro - la composizione a undici delle squadre di football». È in questo laboratorio che l’eredità dei folkgames, poi ripresa nella forma del calcio di strada espressa dal mob football, viene socialmente addomesticata e «comincia ad assumere il profilo di un moderno gioco di squadra. Un gioco tecnico, rigorosamente regolamentato e destinato a uno sviluppo per diffusione37». La nascente rivalità tra public school è tra le cause più rilevanti del processo di standardizzazione di regole, tecniche e procedure del gioco. Nel 1840, da uno di questi istituti - il Winchester College - esce la prima

36 PORRO N., op. cit., 2008, p.21. 37 Ibidem.

2 attestazione di un gioco praticato con regole molto simili a quelle che saranno alla base della differenziazione formale con il rugby. Lo sviluppo del sistema ferroviario faciliterà i contatti e lo scambio di esperienze tra le varie scuole, nonché il radicamento di un insieme di regole condivise.

Nascita del football

Le prime regole del calcio furono formalmente discusse e approvate con l’accordo di quattro sedi universitarie (Eton, Harrow, Winchester e Shrewsbury) nel 1848 all’Università di Cambridge, contesto nel quale avvenne la separazione ufficiale dal rugby, che optava per una tipologia di gioco più fisica. Circa quindici anni dopo quegli accordi nacquero le prime federazioni e nel 1888-89 si svolse il primo campionato inglese. Il gioco, inizialmente appannaggio delle classi alte, viste anche le condizioni materialmente difficili della classe lavoratrice britannica, «si diffonderà e radicherà in maniera complessivamente assai rapida, anche se per qualche decennio ancora il football conserverà una capacità di insediamento assai maggiore in alcuni contesti sociali e territoriali rispetto ad altri. In questa transizione si delinea quel cambio di paradigma sociale che tanto interesserà storici e sociologi38». Il mutamento che Porro evidenzia è rappresentato dalla rapida diffusione del calcio tra la classe lavoratrice e dalla sua affermazione nei contesti urbani e industriali. È il rugby a rimanere appannaggio delle scuole d’élite, nonostante un radicamento «in subculture territoriali e professionali dove più significativa è la tradizione dell’amatorialità distintiva39». Sul piano della codifica delle regole, il primo tentativo di uniformità fu promosso a Sheffield nel 1857, ma fino a circa il 1870 rimasero in vigore anche le regole di Cambridge. La seconda metà dell’Ottocento è il periodo di maggior diffusione del calcio: commercianti e imprenditori esportano con i loro viaggi la cultura del football e nell’Europa continentale cominciano a prendere piede esperienze contenenti l’imprinting britannico. Non di poco conto sarà il ruolo dei porti, le cui banchine

38 PORRO N., op. cit., 2008, p.25. 39 Ibidem.

2 saranno spesso utilizzate dai marittimi inglesi come campi da gioco improvvisati, suscitando grande curiosità a livello internazionale. Agli inizi del novecento la passione popolare per il calcio era tale che in Inghilterra le partite di cartello arrivavano ad ospitare fino a 100.000 spettatori, eventi non di rado costellati da incidenti, invasioni di campo, tentate aggressioni all'arbitro e ai giocatori. Violenze dal carattere spontaneo e correlate al gioco, che non alimentavano particolari inquietudini nelle istituzioni e nell'opinione pubblica.

Panem et circenses?

Con la separazione dal rugby, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, il calcio diventa la parte egemone dell’intrattenimento popolare e allieta le masse protagoniste del lavoro e della produzione nella rivoluzione industriale. A tal proposito occorre ricordare l'esistenza di una tradizione filosofica e sociologica ben radicata che ci invita a guardare con prudenza i grandi assembramenti sportivi e a considerare il calcio una pedina fondamentale di quel progetto di distrazione di massa dalle “cose serie” racchiuso nella formula panem et circenses. Per Eco, ad esempio, «la società trova il suo equilibrio incoraggiando milioni di persone a parlare di sport. Purché non parlino d’altro, il che è molto comodo». Per altri, addirittura, la pratica e soprattutto gli spettacoli sportivi sarebbero «strumenti ideologici di Stato» incentivati per distogliere le masse oppresse dal loro fine liberatorio e imbarbarire culturalmente la società40. L’uso strumentale del calcio come tipica modalità di preservazione del potere di individui o stati41 è una tesi che non manca di fornire argomentazioni. Si pensi all’utilizzo per fini propagandistici e nazionalistici che il fascismo ha fatto delle vittorie dell’Italia ai campionati mondiali del ’34 e del ’38, duranti i quali la compagine italiana esibiva sulle maglie un fascio littorio ricamato e i giocatori, in alcune occasioni scesero in campo con una tenuta da gara completamente nera al posto del classico completo azzurro. In tal senso, il caso forse più clamoroso è stato il Mondiale del 1978 giocato in Argentina (e vinto dalla selecion) appena due anni dopo che l’esercito aveva conquistato

40 BROMBERGER C., La partita di calcio. Etnologia di una passione, Roma, Editori Riuniti, 1999, p.137. 41 BROMBERGER C., Il calcio come visione del mondo e come rituale, in Aut aut, 2001, p.303.

2 il potere con un colpo di stato. L’evento sportivo, ribattezzato “il mondiale della vergogna” fu l’occasione per la giunta militare di trovare l’appoggio e il silenzio della comunità internazionale e investire denaro (l’organizzazione costò svariate volte più di qualsiasi edizione precedente) ed energie per far sì che l’eco di una vittoria soffocasse il grido di migliaia di desaparecidos. Per raggiungere il suo scopo la giunta militare ingaggiò una società newyorchese di pubbliche relazioni e si adoperò per abbellire il paese: interi quartieri malfamati furono abbattuti e i suoi abitanti espulsi nelle province non toccate dall’evento sportivo; lungo la strada principale di Rosario fu invece costruito un muro, la cui parete fu ingentilita da dipinti raffiguranti case gradevoli per nascondere alla vista degli stranieri i quartieri più poveri della città. Prima dell’evento, l’operazione El Barrido portò alla sparizione giornaliera di circa 200 oppositori (o presunti tali) del regime. La vittoria dell’Argentina dalla quale la giunta attendeva benefici e consenso, irradiò anche le zone d’ombra del paese. La visibilità che l'evento e il titolo avevano offerto fu in parte conquistata dai soggetti fino a quel momento marginalizzati dalle iniziative del regime. Come ricorda Simon Kuper:

La giunta cercò di capitalizzare la gioia. […] Sembrava che il calcio fosse il nuovo oppio del popolo: date ai vostri sottoposti una Coppa del mondo e questi vi ameranno. Così sembrava, ma così non fu. “Argentina campeon” scrive Bayer in Futbol argentino, “ma la gioia non è gioia. È una sorta di esplosione di una società che è stata obbligata a restare in silenzio”. […] Le persone sanno pensare. Se sono povere, spaventate, e campioni del mondo, fa loro piacere essere campioni del mondo, e le indigna essere povere e spaventate”. Forse panem et circenses sono tutto ciò che il popolo desidera, ma, come fa notare Bayer, nel 1978 avevano un sacco di giochi e pochissimo pane. I tifosi non facevano nessuna associazione mentale tra la Nazionale e la junta. Acclamavano i giocatori e (almeno alcuni di loro) fischiavano il generale Videla quando compariva in uno stadio. Se avevano pensato di salvare il proprio posto investendo il denaro dell’Argentina nel calcio, erano stati ingenui.42

Pur considerando alcune delle motivazioni che vogliono il calcio manipolatorio e compensatorio, alla luce degli esempi è possibile affermare che club, competizioni o

42 KUPER S., Calcio e potere, Milano, Isbn Edizioni, 2008, p.239-240.

2 singole partite43 si sono spesso rivelati potenti catalizzatori di rivendicazioni politiche dal basso, creando talvolta un effetto boomerang contro chi pensava di egemonizzarne la narrazione ufficiale. A tal proposito, Bromberger afferma che «quando si tenta di decifrare le funzioni latenti e strumentali del calcio si scoprono processi instabili, contraddittori, restii a interpretazioni univoche e con effetti sul reale spesso più deboli di quanto si pensi. Né più né meno di qualsiasi altra persona, gli appassionati di calcio non sono né “idioti culturali”, né “fanatici alienati” incapaci di prendere le distanze in modo critico dal mondo che li circonda e che la loro passione imprigionerebbe nell’illusione44». Un altro esempio “illustre” di analisi del rapporto tra gioco e potere, in particolare sull’uso “distraente” del dono, è offerto da Paul Veyne, che dissotterra i significati portanti delle relazioni antiche tra reggenti e corpo sociale. Sullo sfondo dell’antico impero romano, Paul Veyne ha mostrato come l’argomentazione di un utilizzo spoliticizzante dei giochi da parte della classe dirigente non regga a una seria analisi dei rapporti di potere e dei campi di forza che si fronteggiavano nel circo. Lo storico francese pone il problema dell’uso conflittuale dello spazio nei grandi circhi e anfiteatri in cui le istituzioni imperiali mettevano in scena i Ludi45. Nella sua analisi, ciò che si consuma nell’arena è un momento privilegiato di un complesso «dramma politico», che vede sempre l'imperatore, gli oligarchi e i plebei fronteggiarsi dentro una fitta trama di relazioni e scontri; un triangolo politico, sociale e sentimentale.

L’idea della spoliticizzazione solleva continue contraddizioni; comincia con l’idealizzare gli uomini, perché suppone che l’autonomia politica sia contenuta nella loro essenza, poi li ricaccia nella polvere, notando che basta proporre loro il circo per snaturarli; infine li riabilita imputando la loro alienazione alla bacchetta magica del tiranno. Per un sogno di autonomia politica, essa nega loro l’autonomia antropologica.46

Proprio l’inquieta antropologia descritta da Veyne mette in crisi il facile ricorso alla disillusione politica come topos ricorrente per spiegare l’aggregazione intorno a eventi

43 Emblematica la sfida tra Germania Ovest e Germania Est del 22 giugno 1974, terminata con la sorprendente vittoria della squadra “socialista”. Un'impresa ben riassunta nell'articolo di Alessandro Colombini “Jurgen Sparwasser: la rivincita della Germania che viaggi in Trabant”. Disponibile sul web: http://zonacesarini.net/2015/03/07/jurgen-sparwasser-la-rivincita-della-germania-che-viaggia-in-trabant/ 44 BROMBERGER, op. cit., 1999, p.140. 45 VEYNE P., Il pane e il circo, Bologna, Il Mulino, 1984. 46 Ivi, p.77.

2 sportivi; la sua ricerca pone la necessità di problematizzare la tecnologia di potere, la «modalità della disciplina» in opera nel circo, nonché il protagonismo della plebe, le ambizioni dei patrizi, le cautele e l’esibizionismo dell’imperatore dentro il palcoscenico offerto dai giochi, che insieme contiene e dispiega ritualmente le relazioni tra gli attori sociali.

Il calcio come forma di rituale

Per alcuni studiosi il calcio è soprattutto un rito. Sulla questione, tuttavia, la letteratura sociologica ha offerto risposte discordanti. I più disparati eventi sociali vengono oggi infatti codificati attraverso il rito, cosa che crea non pochi oppositori a un uso ridondante della categoria. L’eventuale rifiuto di esaminare tali eventi attraverso il rito sarebbe in ogni caso carico di un retaggio che presuppone incompatibilità tra eventi della modernità ed espressioni simboliche dense, in quanto quest’ultime apparterebbero a un’età pre-scientifica. Seppur prudente nei confronti della ritualomania, Bromberger ha criticato questa cesura verso alcuni fatti culturali connotati da caratteri rituali, ricordando che alcune di queste pratiche sono creazioni urbane e moderne. L’autore invita a non acuire una divisione tra eventi delle società tradizionali e moderne: non esisteva un evento completamente assoggettato a elementi religiosi prima, non si può parlare di pratiche interamente secolarizzate oggi. Per rafforzare la sua posizione, Bromberger riassume gli elementi strutturali che rituali religiosi e secolari condividono:

rottura con la routine quotidiana, quadro spazio-temporale specifico, scenario programmato che si ripete periodicamente in modo ciclico, parole proferite, gesti compiuti, oggetti manipolati al fine di ottenere un’efficacia extra-empirica che non si esaurisce nel concatenamento meccanico delle cause e degli effetti, configurazione simbolica che dà significato alla pratica rituale e ne garantisce il valore, instaurazione di un’antistruttura, affrancata dalle gerarchie ordinarie che dal tempo, un rango diverso a seconda della sua prossimità relativa all’oggetto della celebrazione e agli officianti.47

47 BROMBERGER, op. cit., 1999, p.232.

2 Il rito può essere quindi definito come un tipo di rappresentazione strutturata, orientata al controllo delle faccende umane, eminentemente simbolica e con un referente non empirico, ma determinato socialmente. Le caratteristiche peculiari del rito, che hanno attirato in particolare l'attenzione degli antropologi, sono la sua dimensione spettacolare, la ripetitività, la presenza di norme che regolano lo svolgimento dell'azione e che non sono giustificate da scopi dichiarati, il coinvolgimento emotivo degli attori e degli spettatori. Nel testo in cui lo storico olandese Johan Huizinga ha promosso la tesi dell’homo ludens48, risulta evidente come le qualità che caratterizzano il rito siano rintracciabili nella natura del gioco. Per Huizinga il gioco è lo strumento innato attraverso il quale l’uomo esprime l’aspirazione a un fine più alto («il carattere ludico può essere inerente alle azioni più elevate») e attraverso il gioco la collettività cerca una trasfigurazione della realtà. Tra le caratteristiche essenziali del gioco sono evidenziate la libera partecipazione («ogni gioco è soprattutto un atto libero»), l’allontanamento dalla vita ordinaria («un intermezzo della vita quotidiana, una ricreazione») e il conseguente ingresso in una sfera spazio-temporale di attività con finalità propria («si svolge entro certi limiti di tempo e di spazio. Ha uno svolgimento proprio e un senso in sé») e regole specifiche («non valgono le leggi e le usanze della vita consueta»). Huizinga attribuisce al gioco (considerato più antico della cultura, «perché il concetto di cultura […] presuppone in ogni modo convivenza umana […] e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare») una funzione biologica e, soprattutto, lo eleva a indispensabile elemento culturale per «il senso che contiene, per il significato, per il valore espressivo, per i legami spirituali e sociali che crea». Le dimensioni rituali della partita di calcio sono rappresentate da una configurazione spaziale particolare (lo stadio, il campo da gioco, la distribuzione del pubblico), una calendarizzazione degli eventi (campionati di calcio, competizioni europee, mondiali), organismi dediti al suo funzionamento formale (le federazioni sportive, nazionali e internazionali, es. Lega calcio, FIFA), uno scenario consuetudinario (preparazione della partita, svolgimento, dopo-partita), una rielaborazione dell’ordine statutario (la tensione tra l’ordine calcistico e l’ordine del mondo), l'adesione a un universo simbolico (riti propiziatori, feticismi…).

48 «Da molto tempo sono sempre più convinto che la civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco» (HUIZINGA J., Homo Ludens, Torino, Einaudi, 1973, p.XXXI).

3 Le riflessioni di questi autori mostrano dunque come la struttura del rito sostenga la partita di calcio; andiamo adesso ad esplorare i significati che questa forma di attività collettiva esprime.

Descrizione di una battaglia

Tra i lavori che sostengono pienamente la dimensione rituale dell'evento calcistico spicca la ricerca di Alessandro Dal Lago, che appare incentrata sul dispiegamento di una metafora sociale fondamentale: «il calcio è soprattutto un rito, ovvero una forma di attività collettiva che condensa e trasfigura significati sociali profondi. Significati che in ultima analisi rimandano alla messinscena di una battaglia49». In questa cornice il gioco degli spettatori consiste soprattutto nel riaffermare la divisione amico/nemico e lo stadio diventa il contenitore di un rituale bellico, confine e barriera nei confronti del pieno dispiegamento di un’ostilità. Il richiamo alla battaglia deve attenersi a grandi linee a una dimensione rituale e perlopiù performativa50. In questa prospettiva l'azione rituale si distingue da quella tecnico-strumentale per la presenza di una componente simbolico-espressiva. Come ha notato Guttmann, l’obiettivo primario di questa guerra non è la distruzione fisica del nemico, ma la conquista del suo territorio51. Per comprendere meglio questo passaggio può risultare interessante la scena del documentario “Commando ultrà curva sud”, mandato in onda sulla RAI nel 1980 (ora disponibile sul canale youtube), in cui il regista interroga gli ultrà romanisti sulla valenza di cori e scritte arrecanti minacce di morte verso i tifosi laziali e viceversa.

Nel derby ognuno si trasforma. Sono cori che anche loro fanno nei nostri confronti e che fanno tutti i tifosi ultras delle altre squadre. Allo stadio si grida. E' un momento così. Come lo possiamo fare noi, lo possono fare loro. Come gridiamo “Forza Roma” o come gridano “Forza Lazio”. Non è che lo gridiamo proprio con cattiveria. Un giornalista scrive: “L'assassino è il tifo. Il tifoso è un sicario” [a proposito del caso

49 DAL LAGO A., op. cit.,1990, p.8. 50 La performance è vista come messa in scena del corpo. Secondo Turner, i generi performativi possono essere considerati come modalità attive ed agenti della cultura espressiva, una sorta di specchi magici, che riflettono i drammi e le trasformazioni sociali, e nella loro frammentazione ne indagano i diversi aspetti e le molteplici sfaccettature, dando vita a forme diverse di riflessività critica. Come gli specchi magici non rappresentano in modo unidirezionale e verticistico la realtà, ma operano un’ibridazione creativa deformando le sue proprietà, così i generi performativi (arte, spettacolo, sport, gioco, teatro...) si fanno non-luoghi liminali di sperimentazione libera, in cui vengono rimodellate le forme socio-culturali legittimate. 51 GUTTMANN A., Dal rituale al record, Napoli, ESI, 1995.

3 Paparelli, tifoso della Lazio ucciso accidentalmente da un razzo sparato dalla curva romanista, n.d.A.]. E' falso. Allo stadio c'è una trasformazione in meglio che può dare solo di più alla squadra. Molte partite le abbiamo fatte vincere noi, lo dicono anche i giocatori. Senza di noi la Roma vincerebbe il 50% delle partite, si perderebbe tutto lo spettacolo. […] Senza l'apporto del tifo, la partita diventa un'opera morta. […] Una scritta ce l'ha con me? E' perché sono uno degli ex trascinatori della curva, mi conosco bene. Ma rischi? No. Se dovessimo dar retta a queste scritte dovremmo essere tutti morti da un bel pezzo52.

Voler rinnovare “la battaglia” comporta, solitamente, che la violenza dispiegata all'interno degli stadi sia simulata, recitata e fortemente ludica, ma contemporaneamente la messinscena non sterilizza del tutto la sua “reale” portata conflittuale e lo spazio recintato non può impedire che i conflitti escano dal perimetro di gioco o che sovvertano le regole vigenti. Il calcio infatti si fonda sull’identificazione collettiva e conflittuale dei suoi attori e del pubblico, che «pretende di dire la sua sul conflitto profondo che questo [il gioco] esprime53». Performatività, sconfinamenti, affermazione d'identità anche conflittuale, sono passaggi gravidi di forma estetica che ritroviamo nell'analisi sul rito espressa da Durkheim54. L'azione del rito, per Durkheim, si esercita in modo diverso da qualsiasi forma d'arte e smuove forze che agiscono sia sul gruppo che sui singoli individui. Nel rito ciò che viene evocato è apparentemente senza scopo (immagini, parole, cori che spesso non hanno alcun legame con la realtà) ma risulta fondamentale alla conservazione fisica della collettività: il gruppo si nutre di appendici estetiche, con ovvio coinvolgimento dell'individuo, cui il gruppo è indispensabile. Per avere coscienza di sé il gruppo ha bisogno non solo di riunirsi e fare azioni comuni ma anche di sapere che i sentimenti provati dagli individui del gruppo siano comuni, e per farlo deve indagare la loro natura: a favorire questo passaggio è il canale artistico che influisce in modo deciso e diretto. Il rito è, dunque, il mezzo attraverso cui il gruppo si afferma e si riafferma periodicamente, attraverso cui sopravvive. Nella sopravvivenza del gruppo è inclusa la sopravvivenza dell'individuo, cosa che fa del rito una pratica che cui l'individuo

52 NEGRIN A., Commando ultrà curva sud, Antenna, RAI, 12 gennaio 1980. 53 DAL LAGO A., op. cit.,1990, p.10. 54 DURKHEIM E., Le forme elementari della vita religiosa, Roma, Meltemi Editore, 2005

3 attribuisce un valore molto “serio”. Il rito riassume e combina dunque lo scopo profondo che lo contraddistingue con l'elemento ludico, irreale, immaginario, che è molto spesso centrale e che risulta legato a una sorta di ricompensa, di ricreazione volta ad appagare l'individuo e risarcirlo degli sforzi compiuti. L'uomo, a cui possiamo sostituire il tifoso, si trova pertanto trasportato fuori da sé, al di là della quotidianità, in una dinamica in cui l'elemento ricreativo ed estetico acquista valore di aggregazione e comunanza. Il rito quindi è generalmente associato all'idea di festa: cori, canti, colori e movimento alzano il livello vitale e creano uno stato di agitazione positiva. Spesso l'effervescenza positiva sfocia in azioni che sconfinano nell'illegittimo. Durkheim fa l'esempio delle cerimonie religiose, in cui i fedeli sentono spesso il bisogno di violare regole che normalmente vengono rispettate o alle licenze sessuali nelle feste popolari55. Particolare, è il fatto che ciò riconduce all'idea dell'uscire da sé, in comunanza con gli altri componenti del gruppo, è percepito quasi come un innalzamento della propria limitata individualità. Per questo anche il gesto goffo o illecito nel rito mantiene una sua fierezza: tutto è fatto in nome della forza collettiva, e in essa trova giustificazione e valore. In ambito calcistico, la forma estetica del rito coinvolge i tifosi in due diverse modalità, entrambe cariche di ridondanza emotiva: una improntata al commento linguistico (i discorsi da “bar sport”, con duelli verbali e teatrali interminabili) e una “attiva” del pubblico che partecipa fisicamente all’evento. Per il coinvolgimento emotivo che provoca nei suoi partecipanti, Dal Lago assegna al rito calcistico un ruolo fondamentale nell’espressione pubblica delle passioni nella vita sociale. La manifestazione e l’intensità di questa enfasi, in rapporto alla metafora bellica, dipende essenzialmente da due fattori: uno storico, basato sulla relazione di alleanza o ostilità prevalente tra i tifosi, e uno situazionale, legato agli sviluppi del gioco. All’origine del gioco e dello spettacolo c’è l’opposizione antagonistica tra due campi avversi sostenuti da militanti convinti di poter incidere coi loro comportamenti sull’esito finale dell’incontro. Linguaggio, abbigliamento ed emblemi, organizzazione spaziale

55 Ivi, p. 446.

3 del gioco e dello spettacolo, comportamenti e strategie, illustrano, in modo evidente o latente, queste dimensioni guerresche56. Il campo simbolico del tifo calcistico è costituito essenzialmente da un registro di termini che richiamano la guerra, la vita, la morte e il sesso57. La ritualità della battaglia è accentuata dalla mobilitazione dei tifosi che «preparano la partita come se fosse una campagna militare58»: dispongono i vessilli, sventolano le sciarpe, lanciano gli slogan, talvolta organizzano delle coreografie con il compito di esaltare “il proprio esercito” e intimidire gli avversari. Ad esempio, la preparazione di una coreografia, oltre a un impegno economico e partecipativo ingente, a un’organizzazione specifica dello spazio e il rispetto di una precisa scansione temporale per il suo lancio, necessita del “segreto militare”: occorre infatti la massima discrezione affinché nessun contenuto trapeli all’esterno, pena il ritrovarsi di fronte a una risposta già confezionata da parte dei rivali. I momenti che precedono di poco una partita accentuano l’atmosfera bellicosa e l’azione dei supporter organizzati tende a stabilire la propria egemonia comunicativa sia sui nemici che sugli altri settori. Il lancio di fumogeni o di materiali pirotecnici è sovente l’atto che inaugura le ostilità, accompagnato dal canto dell’inno della squadra (o di quello patriottico, nel caso di incontri tra nazionali). La messa in scena di un dispositivo guerresco condita dall’acceso scambio tra tifoserie di vocaboli volgari e oltraggiosi nonché da elementi dissacratori, rientra a pieno titolo nella forma antagonista e territoriale del gioco. Inoltre, l’aspetto rituale e mimetico della battaglia non fa che ammettere la provenienza storica del gioco, il legame a quelle contese popolari e violente che nel tempo, come vedremo, sono state investite da un processo di civilizzazione. Per Bromberger:

pratica e spettacolo sportivi sarebbero dunque degli scontri pacifici che conservano traccia delle loro origini e prevedono un margine di scatenamento che conferisce loro un sapore emotivo particolare […] queste analisi rivelano anche la loro difficoltà a valutare l’evoluzione della violenza in campo e sulle gradinate: ciò che la sensibilità odierna

56 BROMBERGER, op. cit., 1999, p.198. 57 Occorre in ogni caso evitare di sovraccaricare di significato di tali espressioni che se da un lato testimoniano paure e ostilità presenti nel corpo sociale e sfruttano il linguaggio della rivalità insita nel gioco per emergere, dall’altro sono soprattutto segnali di discredito dell’avversario, che possono mutare a seconda della situazione, nonché ostentare forme di parodia. 58 BROMBERGER, op. cit., 1999, p.199.

3 qualifica immediatamente come comportamento inaccettabile, un tempo poteva essere considerata una benevole, giustificata turbolenza.59

Le ragioni della ritualizzazione del combattimento militare vanno quindi ricercate simultaneamente nella logica di parte del gioco, nel riemergere di una storia fatta di identificazioni che si configura come un gioco interminabile e aperto e nelle stesse origini dei simboli cardinali della modernità: al simbolismo guerresco, espresso dalla sofferenza, dalla tensione o dall’esaltazione, si sovrappone un simbolismo sacrificale, anche in questo caso variazione semidrammatica e semicomica sulla vita e la morte60. Il calcio si rivela così nella sua natura di gioco profondo perché nella forma del dramma caricaturale sviscera l’orizzonte simbolico della nostra società: lo svolgimento di una partita è la metafora dell’incerto destino degli uomini. Scrive Bromberger:

in modo brutale e realistico, la storia di una partita e di un club mostrano e fanno riflettere sulla fragilità e la mutevolezza della condizione individuale e collettiva, rappresentate dall’alternanza di vittorie e sconfitte, promozioni e retrocessioni delle squadre, dalle figure emblematiche dei giocatori in panchina, dall’ascesa e dalla decadenza dei campioni. Allo stesso modo, e anche in questo consiste la loro forza metaforica, una partita, un campionato rappresentano un concentrato delle gioie, dei drammi, delle tappe di cui è disseminata un’esistenza. Ma ci ricordano soprattutto che nella nostra società i giochi non sono mai chiusi in modo definitivo e che il merito è la pietra angolare del successo61.

Lo stadio rappresenta la scena di questa celebrazione, dove al frame costitutivo imposto dalle istituzioni calcistiche, che rimanda ai principi dell'etica sportiva, vanno a incastrarsi una pluralità di prospettive che i diversi attori coinvolti adottano re- incorniciando, sul piano cognitivo, la definizione della situazione. All'interno del rituale calcistico approdano motivazioni interne ed esterne alla logica del gioco e lo stile dominante - quello ludico e metaforico - è sottoposto all'azione di elementi eterogenei in grado, come afferma Goffman, «di lacerare il velo sottile della realtà immediata62».

59 Ivi, p.204. 60 Cori funerei, esibizioni di bare, inviti alla sopraffazione fisica degli avversari sono i segni emblematici della mimesi della morte dell’avversario. 61 Ivi, p.140. 62 GOFFMAN E., Gender Advertisements. Ritualità ed espressione tra i gender, Roma, Armando Editore, 1979, p.79.

3 Gianmarco Navarini ha proposto la denominazione “polisemici” per indicare la polivalenza di significati e il pluralismo di rappresentazioni dei riti contemporanei, «fenomeni aperti di produzione, negoziazione e diffusione non solo dei valori e dei sentimenti di appartenenza specifica, ma anche e soprattutto dei codici di senso che essi, in quanto attori sociali visibili, intendono comunicare63». Per questa caratteristica la ritualità del calcio si accompagna a una dimensione di gioco aperto che provoca tensione e rende volubili definizioni date per scontate nella vita “reale”. Per Dal Lago, almeno in Italia, uno stadio non riassume e non esaspera conflitti o tensioni relative alla struttura sociale esterna al mondo del calcio, nonostante elementi simbolici di conflitti sociali, politici, etnici possano trovare spazio nelle curve. Principalmente, lo stadio costituisce la cornice ideale per dare vita a un conflitto largamente simbolico, in cui gli spettatori cercano di conquistare un ruolo di primo piano. In questa cornice:

la metafora amico/nemico e riti e i comportamenti che ad essa si riferiscono non sono il semplice e automatico riflesso di metafore, riti e comportamenti correnti della società, ma una loro trasformazione resa autonoma; essi costituiscono una “forma”, parafrasando Simmel, che si è staccata dai propri contenuti, o meglio che ogni domenica si stacca dai contenuti della vita quotidiana64.

In generale l’analisi di Dal Lago, ricalcando la celebre definizione del politico data da Carl Schmitt, individua nella distinzione tra amico e nemico l’oggetto del rito, il frame simbolico giocato in una cornice con particolari regole di rilevanza e di accesso in cui operano i tifosi (e i giocatori meno “professionali”). Questa identificazione potrebbe essere complicata proprio a partire da un frutto più tardo della riflessione schmittiana. Nel Nomos della terra65 un avvenimento spaziale (in particolare una concreta appropriazione di terra) è l’atto che inaugura la coscienza storica di una comunità, unendo in sé localizzazione in uno spazio (Ortung) e creazione di un ordinamento (Ordnung). Le regolamentazioni, le istituzioni, le forme della vita sociale sono successive e dipendono sia da questa originaria acquisizione di terra che da

63 NAVARINI G., Etnografia dei confini: dilemma clinico e polisemia, in ''Rassegna Italiana di Sociologia'' XLII, 2: 283-308, 2001. 64 DAL LAGO A., op. cit. 1990, p.52. 65 SCHMITT C., Il nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991

3 una divisione del suolo altrettanto primitiva. Questo intreccio viene reso dal termine nomos, che è solitamente tradotto con ‘legge’; in realtà, nomos viene dal verbo nemein , che possiede tre significati correlati tra loro: 1) presa di possesso, conquista di terra; 2) divisione e spartizione della terra acquisita, istituzione della proprietà, recinzione; 3) coltivare, valorizzare il terreno diviso, produrre e consumare i frutti. Le trasformazioni storiche sono così trasformazioni spaziali, modifiche del nomos che le sorregge e le veicola, cioè modifiche del modo in cui gli uomini si appropriano, si spartiscono e “coltivano” la terra. La creazione del legame sociale e le norme di questo legame sono indissolubilmente legate a una concreta occupazione di spazio. Riproposizione rituale di una battaglia per lo spazio, come si è visto sia nella breve ricognizione storica sia nelle riflessioni sociologiche più recenti, il calcio celebra, dalle origini fino alla sua versione ritualizzata odierna, l’occupazione di terra. I folkgames rurali e il mob football, antesignani del calcio ed espressioni tra le più significative delle antiche origini dei giochi territoriali, hanno subito progressivamente un processo di regimentazione, in cui la violenza insita nell’occupazione dello spazio altrui viene sempre più sublimata (fino al simbolo del pallone che entra in una rete, difesa dal portiere come ultimo baluardo) e il contatto fisico attenuato. L’organizzazione diffusa e informale, le regole consuetudinarie, la vaghezza dell’ambito spaziale e temporale, la labile distinzione tra i ruoli di giocatore e spettatore, l’enfasi sulla forza fisica, il controllo sociale informale esercitato dagli stessi partecipanti, la tolleranza per la violenza e la spontaneità emotiva, la pressione comunitaria sui giocatori sono caratteristiche che vengono ribaltate da un processo di codificazione, formalizzazione, standardizzazione e razionalizzazione del gioco. L’etica e la pedagogia dell’età vittoriana hanno avviato su larga scala questo processo, in funzione di una ridefinizione delle gerarchie e delle relazioni sociali.

Calcio e civilizzazione

Un contributo decisivo alla ricostruzione del processo di sportivizzazione è rappresentato dagli studi del sociologo tedesco Norbert Elias66, che a partire dalle

66 Norbert Elias è il noto sociologo tedesco che insieme a Eric Dunning ha ripercorso le tappe dell’evoluzione sportiva individuando al loro interno processi di razionalizzazione emotiva che si offrono in una più ampia razionalizzazione del comportamento della società occidentale. Fondamentale, per ogni ricerca che voglia occuparsi dei conflitti intorno allo sport, il testo ELIAS N., DUNNING E., Sport e aggressività, Bologna, Il Mulino, 1989.

3 cronache inerenti lo sport ha rafforzato la sua teoria sui mutamenti dei codici di sensibilità e comportamento nella società occidentale rispetto alla manifestazione incontrollata delle emozioni. In una ricerca ventennale sull’argomento, Elias notava che gli standard sociali, in particolare delle classi abbienti, «cominciarono a cambiare abbastanza drasticamente dal sedicesimo secolo in una direzione più precisa67». Specifica l’autore:

il controllo del comportamento e della sensibilità divenne più stretto, più differenziato e complessivo, ma anche più equo, più temperato, ponendo al bando sia gli eccessi di autopunizione che quelli di indulgenza verso se stessi. Il cambiamento trovò la propria espressione in un nuovo termine introdotto da Erasmo da Rotterdam e usato in molti altri paesi come simbolo della nuova raffinatezza di maniere, il termine “civiltà” (civilty) da cui più tardi nacque il verbo “civilizzare”. Ulteriori ricerche rafforzano l’ipotesi che i processi di formazione dello Stato, in particolare l’assoggettamento delle classi guerriere a un controllo più stretto e la concentrazione dei nobili nella società di corte, la courtization, nei paesi continentali, avessero qualcosa a che fare con il cambiamento dei codici di sensibilità e di comportamento»68.

Elias sostiene la centralità delle ricerche sull’evoluzione dello sport, e in particolare gli studi sul calcio, per rivelare a pieno l’intreccio tra i processi di sportivizzazione e la fasi cruciali della civilizzazione intesa come «intreccio tra processo di formazione dello Stato moderno, detentore del monopolio pubblico della violenza fisica e dell’apparato fiscale, e processo di sviluppo del controllo e della repressione emozionale69». Per l’autore, non è un caso che la nascita degli sport - intesi come imprese umane inserite in istituzioni sociali moderne - abbia avuto luogo nell’Inghilterra del diciottesimo secolo70. Per comprendere questo passaggio, Elias invita a spostare l’attenzione su quanto succede nel mondo della politica nel Settecento, nel quale era preponderante l’antagonismo delle due formazioni ancora oggi alla base della competizione parlamentare inglese, i conservatori e i liberali, Tories e Whigs. Scrive Elias:

67 ELIAS N., DUNNING E., op.cit., p.23. 68 Ibidem. 69 ROVERSI A., Introduzione a ELIAS N. La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1998, pp. 10-11. 70 Il sociologo Rocco De Biasi assegna già alle competizioni fisiche premoderne il compito di mimetizzare l’aggressività correlata alle attività sportive. Scrive il sociologo: «La dimensione ludica delle competizioni fisiche premoderne (dai Giochi Olimpici dell'antica Grecia ai tornei medioevali) ha progressivamente generato quelle strategie rituali di limitazione dell'aggressività e della violenza che oggi sono tipiche degli sport organizzati».

3 All’inizio del Settecento i passaggi di governo, dai Whigs ai Tories o dai Tories ai Whigs, facevano ancora temere che chi arrivava al potere avrebbe potuto vendicarsi brutalmente contro gli oppositori. Nessuna delle due fazioni poteva essere sicura che l'altra, una volta in carica, non avrebbe perseguito, gettato in prigione o mandato a morte i rivali con un pretesto.

In meno di cento anni, tuttavia, questo scenario muta. Entrambi gli schieramenti superano gradualmente la sfiducia nei confronti degli avversari e attenuano il ricorso alla violenza, apprendendo e sviluppando nuove qualità: le capacità verbali di discussione, retorica e persuasione, doti che esigono un maggiore controllo complessivo delle pulsioni aggressive. La trasformazione delle tradizionali assemblee degli ordini in camere parlamentari ha convogliato interessi divergenti in una disputa temperata e regolata all’interno di strutture istituzionali, ponendo fine a un ciclo di violenze tra fazioni rivali. Elias, appurato che al tempo i passatempi emergenti erano appannaggio delle classi superiori inglesi, ha evidenziato il parallelo tra il disciplinamento del loisir e la parlamentarizzazione di quella classe politica dominante che andava sviluppando pratiche governative regolate da modalità di confronto non più violente71. Per Elias la formazione di nuovi organismi politici «denotò non solo un mutamento istituzionale, ma anche una trasformazione della personalità delle classi superiori inglesi». Sport e parlamento si rivelavano così caratteristici «dei cambiamenti nelle strutture di potere e dei costumi sociali delle categorie di persone che si esprimevano come dominanti72». In sintesi, la parlamentarizzazione delle classi terriere si manifestò parallelamente nel processo di sportivizzazione dei loro passatempi. Nelle moderne società occidentali l’attività sportiva, oltre che impegnare fisicamente una popolazione occupata per lo più in mansioni sedentarie, induce tutte le persone coinvolte «[…] a mantenere un controllo abbastanza uniforme e stabile sui loro impulsi più spontanei, libidici, affettivi ed emozionali, così come sui loro mutevoli stati d’animo73». Per poter assumere un ruolo del genere le attività di loisir «devono conformarsi alla sensibilità rispetto alla violenza fisica che è caratteristica del costume

71 In particolare Elias sottolinea la disponibilità da parte di un partito o una fazione al governo di consegnare il potere ai propri oppositori in forma pacifica e di conseguenza il sorgere di una maggiore sensibilità nei confronti dell’uso della violenza, che si riflesse anche nello sviluppo dei passatempi. 72 ELIAS N., DUNNING E., op.cit.,p.47. 73 Ibidem.

3 sociale delle persone che si trovano a stadi avanzati di un processo di civilizzazione74». L’autore conviene che le attività di loisir sopravvissute nel tempo sono state adattate per non andare oltre una certa soglia di ripugnanza nei confronti della violenza fisica tra uomini. Il momento ludico fa comunque appello ai sentimenti e lo sport in particolare non può prescindere dallo sprigionare emozioni:

è un eccitamento “mimetico” che si può gustare e può avere un effetto liberatorio, catartico, anche se l’eco emotiva dell’apparato immaginario contiene, come accade normalmente elementi di ansia, paura, o disperazione.75

L’aspetto appena descritto è oltremodo evidente negli sport centrati sulla contesa e la metafora del combattimento, come il calcio, dove un temperato eccitamento degli attori in gioco è parte costitutiva del divertimento. È l’equilibrio di tensione tra polarità interdipendenti che determina il tono della partita: «se è eccitante o noiosa, se resta una finta battaglia oppure degenera in un vero combattimento»76. La disponibilità a rompere la barriera mimetica spingendosi verso atti di violenza è una pratica che trova un certo rilievo nel calcio, non tanto per l’efficacia e le dimensioni degli scontri (soprattutto in ambito più moderno) quanto per la visibilità attribuita a questi episodi dall’azione congiunta di organi di stampa e istituzioni disciplinari. Un passaggio fondamentale delle ricerche di Elias e Dunning ricorda però che «la ricerca di eccitamento […] nelle nostre attività di loisir è complementare al controllo e al contenimento dell’emozionalità aperta nella vita quotidiana»77. Gli autori sostengono che:

la stimolazione e il sollievo emotivo, peculiari prodotti della classe mimetica e delle attività di loisir, che culminano con una gradevole tensione ed eccitazione, rappresentano una controparte più o meno istituzionalizzata della forza e dell’uniformità delle limitazioni emotive richieste dalle classi di attività dirette a uno scopo nelle società differenziate. Il gradevole eccitamento del gioco, di cui la gente va in cerca nelle ore di loisir, rappresenta dunque allo stesso tempo il complemento e l’antitesi della tendenza periodica all’esaurimento delle valenze emotive nella routine della vita diretta a uno scopo «razionale», mentre la struttura delle organizzazioni e delle istituzioni mimetiche

74 Ivi, p.49. 75 ELIAS N., DUNNING E., op.cit.,p.58. 76 DUNNING E., Le dinamiche dello sport moderno, in ELIAS N., DUNNING E., op. cit., pp. 261-285. 77 ELIAS N., DUNNING E., op.cit., p.83.

4 rappresenta l’antitesi e il completamento della struttura di istituzioni formalmente impersonali e orientate a un compito, che lasciano poco posto alle emozioni appassionate o alle fluttuazioni dell’umore.78

In sintesi, il calcio si è sviluppato come uno dei principali veicoli delle emozioni; ha cominciato a funzionare come uno dei più potenti strumenti di identificazione collettiva, essendo per natura un gioco territoriale e antagonistico, «una lotta per qualche cosa», che esprime ritmo e armonia e genera una tensione - condizione portante ed espressione di incertezza e possibilità di una buona o di una cattiva riuscita di un certo sforzo 79 - che cresce d’importanza a seconda del carattere più o meno rivaleggiante del gioco. Il processo di sportivizzazione è stato l’elemento di equilibrio tra piacere e costrizione, l’esito di un percorso che ha permesso il mantenimento entro forme razionalizzate e moralmente tollerabili dell’espressione originaria di un rito.

Play e game

Con l’avvento della società industriale il processo di civilizzazione ha codificato la personalità individuale entro un perimetro di comportamenti “produttivi” volti a garantire allo Stato il monopolio della violenza e della definizione dell’ordine80. Spogliata di ogni ruolo attivo, la comunità ha continuato a pretendere di partecipare al gioco, pur nella veste di tifoseria, percependone istintivamente il carattere rituale, cioè lo spessore decisivo per il radicamento del legame sociale. Lo stadio è divenuto così il confine e il palcoscenico di questo rito/conflitto; ne è quindi lo strumento e spesso ne è la posta in palio (la supremazia canora o coreografica di una curva su un’altra, l’invasione di spazi altrui, la dura reazione all’ingresso della polizia nel terreno sacro della curva, ecc...). Il radicamento concreto di una comunità è l’oggetto che il rito reifica e sublima. Nel gioco ne va del legame sociale, perché il gioco celebra il radicamento di una comunità in uno spazio comune. La battaglia di cui, per Dal Lago, il calcio sarebbe una metafora

78 Ivi, p.92. 79 Ivi, p.14. 80 Sulla scia di Norbert Elias, questi processi sono stati ricostruiti da Eric Dunning e Kenneth Sheard in Barbarians, Gentlemen and Players: A Sociological Study of Rugby Football, New York, New York University Press, 1979 e da Allen Guttmann in Dal rituale al record, Napoli, ESI, 1995. Questi testi descrivono la connessione tra la formazione delle istituzioni portanti della modernità (apparato statale e sistema industriale) e la nascita dello sport moderno.

4 è una contesa per lo spazio, per il radicamento spaziale da cui prendono vita la storia e la coscienza di una comunità. Il calcio, in quanto rituale, possiede in essenza tratti che attengono a un processo di civilizzazione e ne ospita tutte le contraddizioni. La razionalizzazione delle condotte sportive, infatti, non ha debellato il verificarsi di comportamenti distruttivi o, comunque, direttamente riconducibili alla sfera emozionale. Commenta così Cacciari in Stadio Italia:

Un elemento di questa contraddizione profonda del processo di civilizzazione, che il calcio assume fin dalle sue origini, sta nella differenziazione antropologica tra play e game, che nel calcio trova un elevato livello di conflittualità nella contraddizione esistente tra regole e poteri inscritti nella istituzionalizzazione del gioco e comportamento degli spettatori che il gioco intendono “viverselo”81.

Il game è la dimensione dello sport normato e civile, mentre al play attiene il gioco libero, selvaggio, con regole tacite e non scritte, perennemente rinegoziate e dipendenti dai rapporti di forza contingenti, legate indissolubilmente alla tesa e volubile cornice dello stadio. Tra game e play non vi è diacronia e superamento, ma un’inevitabile sincronia: le regole scritte vengono costantemente messe in questione dalla potenza sociale evocata dal rito, dal suo fondo conflittuale, emotivo e violento. Il game istituito trascina con sé un’infinità di play, che a loro volta caratterizzano le modalità di partecipazione degli attori sociali al game. Il piano originario del processo tocca dunque le modalità simboliche dell’organizzazione sociale, tra controllo e raffinamento delle emozioni sociali e la legittimità dei rituali collettivi: «un conflitto che si esercita sul grado zero della costruzione del legame sociale, là dove il potere cerca di fare presa sulla vita sociale82». Gary Armstrong esplicita questa analogia: il divario tra la civilizzazione e il rifiuto della sua egemonia è mirabilmente riassunto nei conflitti del calcio83. Armstrong mostra così come la civilizzazione non possa che negare l’orizzonte antropologico di un’identità che è legata a una regolamentazione informale delle emozioni e dei vincoli sociali e scissa tra appartenenza al gruppo, esigenze individuali, razionalità tattiche collettive: un

81 CACCIARI S., Immersi nel gioco, in CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), op.cit., 2010, p.249. 82 Ivi, p.250. 83 ARMSTRONG G., Football Hooligans. Knowing the Score, Oxford, Berg Publishers, 1998.

4 archetipo conflittuale più profondo, che salda le identità alla dinamica del play e non solo del game. A partire da queste riflessioni, così viene espressa la tesi di fondo di Stadio Italia, testo più volte preso in esame: «E’ lo spessore antropologico stesso del calcio a produrre conflitti. […] Il calcio è un dispositivo che continuamente crea conflitti, per la sua stessa natura, interpretando continuamente le mutazioni e le ristrutturazioni sociali. […] Non esistono conflitti che si sovrappongono al calcio puro, è il calcio stesso che è un dispositivo puro di conflitto84». La performatività delle azioni di gioco nello spazio perimetrato e solcato, per conquistare lo spazio dell’avversario, e la riproposizione informale del conflitto operata dai tifosi alludono a una dimensione in cui lo spazio assume la contraddizione fondamentale tra interessi diversi e medesimo orizzonte di possibilità: il conflitto come “produzione di spazio”. Solo l’occupazione dello spazio, pur in una dimensione metaforica (che non è mai solo metaforica), permette la costituzione del legame sociale:

Non esiste quindi il campo [lo spazio] come dimensione del gioco puro pervertita dalla violenza hooligan: il campo [lo spazio] è la perimetrazione del dispositivo sociale del calcio che genera conflitti che oltrepassano regolarmente la dimensione dello stadio [delle norme sociali, della disciplina]. La dimensione definita come hooligan è quindi un epifenomeno del conflitto simbolico originario che avviene nello stesso dispositivo sociale del calcio, che non rimane confinato nel campo e che da questo si diffonde con effetto palla di neve nell’immaginario e nelle pratiche sociali. Con buona pace dei teorici della metafora idraulica del calcio come valvola di sfogo di frustrazioni prodotte altrove, nel football avviene esattamente il contrario: non esiste il calcio pacificato che raccoglie i conflitti generati altrove, ma esiste invece il carico, simbolico e non, di conflitti prodotti sul campo [nello spazio e per lo spazio], che oltrepassano il terreno di gioco verso le nervature del sociale85.

La lotta nello spazio e per lo spazio, anche ritualizzata, rivela una dimensione eccedente rispetto a una restituzione puramente economicista o politicista dello scontro, che riguarda il nesso tra identità sociale e appropriazione di spazio come risorsa concreta e simbolica allo stesso tempo. Lo spazio è così il prodotto di rapporti di forza,

84 CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), op.cit., 2010, p.12. 85 CACCIARI S., Immersi nel gioco, in CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), op.cit., 2010, p.257.

4 un manufatto sociale, e al tempo stesso l’elemento che genera tali rapporti. Costruzione sociale dello spazio e costruzione spaziale delle identità sono due dimensioni inestricabili. Alla luce di questa relazione, alcuni autori sono portati ad affermare che sul terreno di un evento sportivo si vivono in modo condensato i valori fondamentali di una comunità umana e il calcio, considerato un gioco profondo per la sua forma del «dramma caricaturale», sviscera l’orizzonte simbolico della nostra società: lo svolgimento di una partita è la metafora dell’incerto destino degli uomini. Come afferma Bromberger:

in modo brutale e realistico, la storia di una partita e di un club mostrano e fanno riflettere sulla fragilità e la mutevolezza della condizione individuale e collettiva, rappresentate dall’alternanza di vittorie e sconfitte, promozioni e retrocessioni delle squadre, dalle figure emblematiche dei giocatori in panchina, dall’ascesa e dalla decadenza dei campioni. Allo stesso modo, e anche in questo consiste la loro forza metaforica, una partita, un campionato rappresentano un concentrato delle gioie, dei drammi, delle tappe di cui è disseminata un’esistenza. Ma ci ricordano soprattutto che nella nostra società i giochi non sono mai chiusi in modo definitivo e che il merito è la pietra angolare del successo86.

86 BROMBERGER, op. cit., 1999, p.140.

4 Capitolo II IL CALCIO COME GENERE DI CONSUMO

La calcistizzazione delle masse

L’analisi dei processi storici più significativi sulla nascita e l’evoluzione del calcio ha rivelato la centralità dei caratteri conflittuali del gioco. In sintesi, è possibile individuare nel calcio, in quanto gioco territoriale, i segni originari di una sua disposizione antropologica al conflitto, assunta nella metafora della battaglia. A partire dal ‘700, i processi di sportivizzazione sono intervenuti per codificare, regolare e strutturare a livello organizzativo pratiche derivanti dagli antichi giochi comunitari e mimetizzare l’aggressività correlata alle attività sportive. Il rito della battaglia è stato così regolato all’interno di un fragile equilibrio tra play e game (gioco libero e dimensione normativa) che non ha impedito il riaffiorare sistematico di espressioni di conflittualità e violenza, dovute soprattutto all’azione degli spettatori. In Italia, la diffusione del calcio è stata favorita già dalla fine dell'Ottocento dall’attività di commercianti e imprenditori che con i loro viaggi avevano esportato la cultura del football. Linguaggio semplice ed universale, il calcio si affermerà gradualmente su scala nazionale e planetaria, lungo tutto il corso del Novecento, incontrando processi di istituzionalizzazione, attirando interessi economici e sviluppando nuove relazioni sociali, ma soprattutto costituendosi come una delle cornici simboliche più rappresentative per l’espressione delle emozioni. Pier Paolo Pasolini ne ha analizzato la forma espressiva offrendo una lettura comparativa con il teatro e il cinema:

[…] il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio sì. Perché il teatro è rapporto tra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo spettacolo in cui

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un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso. Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto al nostro tempo87.

Il rilievo di Pasolini conferma la funzionalità della chiave interpretativa del rito, una rappresentazione, attraversata nel tempo da importanti mutazioni. Tra queste la portata degli appassionati che, secondo la lettura di Simon Kuper, ha avuto un riflesso significativo sull'evoluzione del calcio, in quanto «quando un gioco è importante per miliardi di persone cessa di essere semplicemente un gioco88». Partendo dalla massima di Kuper, è opportuno ora riflettere su come un rito, partecipato da un numero così elevato di persone, progressivamente si misuri all’interno di una struttura sociale in evoluzione, accolga e rielabori le trasformazioni imposte dai costumi, dall’economia, dalla politica. In altre parole, occorre non isolare il calcio dalla sensibilità e dai cambiamenti della struttura sociale. Come vedremo infatti «senza coscienza della complessità non si comprende la storia reale del nostro calcio89». Una storia, quella del sistema calcistico nel contesto italiano, accompagnata da sviluppi e trasformazioni che saranno individuati nei prossimi due capitoli, in alcuni passaggi significativi sviluppati in ordine di apparizione: la nascita delle istituzioni di governo; il rapporto tra calcio e industria; l'evoluzione del tifo calcistico, dalle prime forme di coinvolgimento ai movimenti organizzati; la scommessa sportiva; la diffusione del calcio “parlato”: le radiocronache, la stampa sportiva, fino all'avvento del calcio in tv; la comparsa del movimento ultras; la svolta degli anni '90 con i nuovi afflussi di capitale e la trasformazione del calcio in chiave moderna; le leggi speciali; l'acuirsi del conflitto tra Stato e ultras; la costruzione degli stadi di ultima generazione. Un’indagine di questo tipo, seppur localizzata principalmente in Italia, non può prescindere, in corso d’opera,

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PICCIONI. V., Quando giocava Pasolini. Calci, corse e parole di un poeta, Arezzo, Limina, 1996, p.118. 88 KUPER S., op.cit., 2008, p.22. 89 LIGUORI G., SMARGIASSE A., Calcio e neocalcio. Geopolitica e prospettive del football in Italia, Roma, Manifesto Libri, p.10. 46 da un confronto, su alcuni temi, con quanto avvenuto in Inghilterra, patria del football e realtà che anticipa i processi di commercializzazione della passione sportiva e rivede la fruizione pubblica degli stadi attraverso una severa azione di disciplinamento degli spettatori. Come accennato, l'analisi di questo percorso, ormai più che centennale, è stata suddivisa in due differenti capitoli. In Italia, infatti, dalle origini delle prime compagini ufficiali, l'evoluzione del rito calcistico ha subito una rimodulazione significativa a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, quando uno straordinario afflusso di risorse ha inciso più profondamente che in passato sul gioco del calcio e su tutte quelle piattaforme fisiche e mediali nelle quali è praticato e mostrato. Un processo supportato da una serie di riforme che porterà all'aziendalizzazione del “prodotto”, predisporrà la nascita di un nuovo pubblico e reinventerà le relazioni sociali esistenti tra il consumo di calcio e i suoi spettatori. Le fasi precedenti la svolta “moderna” del calcio, che saranno oggetto dell'indagine di questo secondo capitolo, in realtà non esulano da processi di burocratizzazione del gioco, dall'interesse di fattori economici, o da forme di spettacolarizzazione degli eventi. A marcare una differenza da quello che sarà definito nel terzo capitolo “calcio moderno” sembra essere la funzione degli elementi che fanno da corollario al rito. In questa lunga fase la formalizzazione di un unico campionato che unisce nord e sud del Paese, la voce “spettacolare” dei radiocronisti che arriva nelle prime radio di bar, circoli e abitazioni private, l'uso a scopo pubblicitario dell'immagine dei nuovi miti calcistici, la nascita del tifo e la presenza del calcio nella tv di Stato, il diffondersi delle schedine del Totocalcio e con esse la frenetica attesa e speranza di un'alta percentuale di scommettitori, sembrano avere ricadute prevalentemente quantitative, e favorire l'affermazione pubblica e popolare del rituale calcistico che disseminando la produzione di emozioni innesta una sorta di calcistizzazione delle masse.

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Il governo del calcio: il “colpo di stato” della FIGC

Se non esistono date certe per collocare il debutto “non ufficiale” del calcio in Italia, pochi dubbi accompagnano la collocazione dei primi campi da gioco: spazi erbosi a ridosso dei moli, dove equipaggi della marina britannica approdati nei principali porti italiani - Genova, Livorno, Napoli - si sfidavano alla presenza di uno sparuto pubblico locale. La prima società che praticò esclusivamente la specialità del calcio fin dalle origini nacque a Torino nel 1891. Denominata International Football Club, fu fondata per merito dell’iniziativa di , un torinese che ebbe modo di lavorare in una ditta tessile britannica e venire a contatto con le esperienze calcistiche d’Oltremanica. Per la neonata società fu difficile inizialmente reperire degli sfidanti, e così i primi incontri di football si svolgevano “in famiglia” o con team inglesi. La fondazione del Cricket and Athletic Club e dell’Unione Pro Sport di Alessandria condusse all’organizzazione di un triangolare ospitato dalla squadra torinese. Le partite giocate nel gennaio del 1898 furono probabilmente l’occasione per discutere della nascita della Federazione Italiana del Football che fu fondata ufficialmente a marzo dello stesso anno e diede il via all’organizzazione del primo torneo federale, a cui parteciparono il Genoa Cricket and Athletic Club e tre squadre torinesi. Le prime stagioni del calcio furono caratterizzate da tornei molto brevi (un giorno il primo, tre giorni il secondo, venti giorni le edizioni del 1900 e del 1901) e con poche concorrenti, ma già nel primo decennio del ‘900 ci fu una crescita esponenziale di nuove società calcistiche a cui non corrispose però un’organizzazione federale efficiente e organica. Con molte squadre non inquadrate in una federazione, regole non ancora uniformi e le puntuali manifestazioni di litigiosità dei club, si evidenziò la necessità di un intervento per evitare che il movimento calcistico diventasse ingovernabile. Le spinte riformatrici, richieste in particolare dai grandi club, portarono nel 1909 ad una nuova denominazione della federazione calcistica, che prese il nome di

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Federazione Italiana del Giuoco del Calcio (FIGC), e all’elaborazione di nuovi regolamenti. La nascente FIGC accentrò su di sé tutti i poteri fino a quel momento frammentati e si affermò come l'unica autorità decisionale in materia calcistica. Così commentano Papa e Panico il nuovo statuto federale:

Il governo del calcio estendeva i propri poteri su tutto il territorio della penisola e si imponeva come l’unica, legittima autorità nel mondo del football, avocando a sé ogni diritto d’iniziativa, ogni giurisdizione sportiva. Tutte le coppe e i premi messi in palio dalle società erano dichiarati di proprietà della FIGC, mediante una presa di possesso, un’assunzione di sovranità, che ad alcuni sembrò, impropriamente, un vero e proprio colpo di stato90.

Con questa operazione la FIGC riunì sotto un’unica bandiera le anime calcistiche del paese. Il campionato venne articolato in due gironi, uno settentrionale e uno meridionale: le prime classificate si affrontavano tra loro e puntualmente a soccombere erano le squadre del sud, incapaci di reggere il confronto con le rivali del triangolo originario del football (Torino, Milano, Genova). Nel trentennio 1898-1929 a dominare erano in particolare Genoa (9 scudetti) e Pro Vercelli (7): le grandi del calcio odierno (Juventus, Inter, Milan) nasceranno di lì a poco, ma ci vorrà del tempo prima che le imprese delle squadre pioniere risultino oscurate.

Calcio, industria e pubblicità

Ai primi del novecento era stato il ciclismo, il fiore all'occhiello del processo di sfruttamento industriale e promozionale dello spettacolo agonistico. Le prime grandi manifestazioni popolari come il Tour de France e il Giro d'Italia si rivelarono favorevoli allo sviluppo degli interessi congiunti dei fabbricanti di biciclette e pneumatici e delle imprese editoriali. Come ricorda Giorgio Triani, «per i primi le corse si rivelarono eccellenti mezzi per promuovere le vendite, per le seconde un'opportunità unica per fare

90 PAPA A., PANICO G., Storia sociale del calcio in Italia, Bologna, Il Mulino, 1993, p.71. 49 lievitare le tirature. Per questa ragione, le gare sportive da subito furono anche rivalità industriali e i giornali, quotidiani e periodici non solo specializzati, figurarono quasi sempre come organizzatori di quelle stesse gare91». Nonostante agli albori del nuovo secolo una struttura dei consumi risultasse inesistente e i beni pubblicizzati figurassero come desideri irraggiungibili alla maggioranza, le carovane ciclistiche furono il primo chiaro indizio di un trionfale installarsi della pubblicità sulla scena sportiva. In generale, infatti, l'incontro tra pubblicità e sport metteva a frutto identità comunicative identiche: nel loro rispettivo ambito entrambe esprimevano i valori di , di competizione, di visibilità sociale, di immediatezza e spettacolarità. In un mercato che dal dopoguerra sarebbe andato crescendo la pubblicità era diventata essenziale per orientare i consumatori mentre gli spettacoli sportivi erano tra i più frequentati, nel tempo libero, dalle classi lavoratrici. L'incontro risultava perciò funzionale alle esigenze della produzione industriale e culturale di massa, che cominciò a prender forma dopo la Prima guerra mondiale. L'incontro tra calcio, industria e pubblicità si concretizzò negli anni ’20.

Cominciarono a essere vistosi intorno ai campi di gioco delle grandi città i cartelloni della réclame della Pirelli, della Perugina, delle industrie alimentari, farmaceutiche e dei dissetanti. Si diffondevano le cartoline sportive dei biscotti della Wafar. Nella pubblicità cominciarono a comparire le immagini dei calciatori, che si riferivano di solito a prodotti di consumo corrente, come la brillantina per i capelli; ma non era raro che si associassero anche a beni di alto consumo, come le automobili92.

L’attenzione del mondo industriale conferma la centralità assunta dai protagonisti delle domeniche calcistiche rispetto ad altri tipi di soggetti, implicati nel mondo della politica, del business o dello spettacolo. Più che per il riscontro economico, che era ancora modesto per gli investitori, l'abbraccio del mondo industriale al calcio era dovuto alla crescita di popolarità del gioco, un dato che si poteva rilevare negli impianti che

91 TRIANI G., Sport, pubblicità e sponsor nella società moderna, Enciclopedia dello Sport, Treccani on line. 92 PAPA A., PANICO G., op. cit., 1993, p.117. 50 cominciavano ad ospitare un pubblico quantitativamente elevato. In piena fase di ristrutturazione post-guerra, in Italia si assiste a una riorganizzazione dei comportamenti collettivi e del loisir: la socialità, nella quale rientrano la frequentazione dei cinema, l’ascolto radiofonico e altre forme di intrattenimento, comincia ad includere lo spettacolo calcistico come forma ordinaria. La grande imprenditoria italiana patrocina questa fase: l’antesignano, Piero Pirelli, presidente del Milan dal 1908 al 1929, fu il primo industriale a concepire il calcio come canale pubblicitario. Un rapporto che, una volta inaugurato, avrà però esiti differenti rispetto al già collaudato contesto inglese. In Inghilterra, lo sport nasce nella seconda metà dell’Ottocento come fenomeno legato all’industrializzazione e alla cultura del lavoro, secondo un'organizzazione armonica tra vita produttiva e tempo libero. Questa dinamica si trasferisce più di mezzo secolo dopo anche in Italia. La differenza, come fanno notare Papa e Panico, sta nella ricezione dei tentativi aziendali di promuovere l’industrial recreation - ovvero le prime squadre con l’insegna industriale - secondo una politica ispirata al taylorismo. La Motori Savoia Marchetti di Sestro Calende, l’Ilva di Napoli, la squadra della Falk di Sesto San Giovanni furono alcuni esempi di questo tentativo “taylorista“ introdotto in Italia, che non ebbe i risultati attesi.

La cultura calcistica italiana non ebbe radicamenti nei luoghi del lavoro della produzione, a differenza di quanto era successo in Gran Bretagna, dove i padroni della fabbriche e dei cantieri avevano promosso la costituzione di squadre divenute protagoniste del calcio. Il calcio aziendale italiano non ebbe la sorte che in Germania, in Austria, nel Belgio, in Spagna vide il football delle fabbriche e delle miniere occupare posizioni di vertice nelle vicende agonistiche e nella passione dei tifosi. In Italia non vi fu nessuna squadra che potesse paragonarsi all’Arsenal di Londra o al Rapid Vienna93.

In Italia a limitare lo sviluppo di un calcio aziendale era in particolare il ruolo attribuito allo spettacolo sportivo, che era considerato strumento di controllo e mobilitazione, in

93 Ivi, p.118. 51 particolare durante il fascismo. Le finalità commerciali non rispondevano a politiche aziendali autonome come avveniva in Inghilterra, ma erano assoggettate a quelle paternalistiche espresse, non di rado in chiave politica, dai padri-padroni delle società. Dopo gli anni '50 che avevano visto l'abbinamento del nome di alcune aziende a quello di squadre significative come il Lanerossi Vicenza (1953), il Talamone Torino (1954) e a fine decennio l'Ozo Mantova, la Simmenthal Monza, il Sarom Ravenna, a pesare sulla crescita del binomio fu l'intervento della Federazione che vietò ogni forma di legame pubblicitario per tutelare l'identificazione dei tifosi con i colori del club. La questione resterà congelata per vent'anni, ma in seguito la pubblicità diventerà un luogo comune sportivo, oltre che il principale, e unanimemente riconosciuto, sostegno dello spettacolo professionistico e le società sportive si trasformeranno in aziende, commercializzando, nelle più svariate forme, la fede dei propri tifosi.

Minuto per minuto: la radiocronaca di Nicolò Carosio e l’esordio televisivo

Con l’avvento del girone unico nel 1929-1930, il campionato compatta la penisola. Nel ventennio a seguire, un ulteriore elemento di impatto per la calcistizzazione della società italiana sarà la nascita della radiocronaca. Un’invenzione che si deve a Nicolò Carosio (1907-84), il primo cronista sportivo della radiofonia italiana. Grazie alla madre inglese, Carosio ebbe modo di conoscere le chiacchierate radiofoniche di Herbert Chapman, storico allenatore britannico. Nel tentativo di emularle, sperimentò una radiocronaca durante il derby Torino-Juventus del 1933: un esperimento che convinse l’EIAR, l’ente statale, a cominciare a trasmettere. La sua voce pastosa ed emozionante arrivò nelle case del fascio, negli oratori, nei circoli sportivi, nei bar e dagli altoparlanti installati agli angoli delle strade. Il suo stile animò l’evento, resuscitò partite monotone e la radiocronaca diventò il mezzo più efficace per la conversione calcistica del Paese. Negli anni del fascismo, Carosio evitò di assumere uno tono perentorio e aggressivo e le

52 sue radiocronache si mantennero «sobrie, tecnicamente precise, sintatticamente inappuntabili94». In questi anni cambiarono anche le protagoniste della : la Juventus, legata alla famiglia Agnelli, conquistò cinque scudetti consecutivi, il Bologna diventò campione per quattro volte, mentre tre scudetti andarono all’Ambrosiana Inter. Nel 1943 cominciò l’epica del Grande Torino, campione d’Italia fino al 1949, anno della tragedia di Superga95. Con la scomparsa della squadra granata, a conquistare l’egemonia del calcio italiano furono le società di Milano e della sponda bianconera di Torino. Milan, Inter e Juventus fecero incetta di titoli dal 1950 al 1968, e solo Fiorentina e Bologna spezzeranno questa sorta di monopolio dell’Italia produttiva:

Inutile sottolineare il ruolo che la Fiat ha avuto nella realtà e nell’immaginario di quel ventennio, o su come, negli stessi anni, Milano abbia saputo proporsi come “capitale morale” del Paese, metropoli efficiente e laboriosa, meta ambita per chiunque volesse tentare di riscrivere la propria esistenza. Le vittorie sul campo delle squadre milanesi e torinesi (manca il Torino, in realtà, ma il peso di Superga è troppo grande e del resto nella capitale sabauda c’era ormai posto per un solo re) rappresentano con tutta evidenza la traduzione nello sport del ruolo egemonico della grande borghesia imprenditoriale piemontese e lombarda96.

Nel 1950 si giocò il primo campionato senza gli invincibili granata e a contendersi il titolo furono proprio Juventus e Milan che il 5 febbraio si sfidarono nel capoluogo piemontese sul manto innevato e fangoso dello stadio Comunale. Sarà una partita storica e non tanto per il clamoroso 1-7 con il quale i milanisti surclassarono i padroni di casa, ma per l'esperimento tentato dalla RAI, che per la prima volta trasmetterà un incontro di calcio sul teleschermo. All'epoca erano poche le persone a possedere un apparecchio televisivo e la diretta venne destinata alla zona di Torino e dintorni, dove erano installati i ripetitori. Il clima di quel giorno rese ardua persino la telecronaca

94 Ivi, p.54. 95 La leggendaria compagine del Torino fu investita da una tragedia il 4 maggio 1949, quando un aereo che riportava a casa la squadra da una trasferta a Lisbona si schiantò sulla collina di Superga. 96 PAPA A., PANICO G., op. cit., 1993, p.117. 53 affidata alla voce di Carlo Balilla Bacarelli. Il conduttore ricorda che «Juventus-Milan si giocò in un pomeriggio di nebbia: vedevo figure vaghe, allora commentai guardando il monitor e mi accorsi che l'occhio elettronico è più sensibile di quello umano97». L'adattamento del calcio al nuovo mezzo di diffusione non fu da subito dirompente. A pesare erano l’alto costo degli apparecchi – il loro prezzo corrispondeva a sei mesi di un salario operaio – l’incompleta copertura del territorio nazionale e riprese ancora lontane dall'affascinare il tifoso al punto da convincerlo a sobbarcarsi il sacrificio dell’acquisto di un mezzo televisivo. Furono i programmi di intrattenimento a creare inizialmente quella forte affezione tra mezzo televisivo e pubblico. Un genere che smosse le abitudini dei cittadini, favorendo un nuovo tipo di socialità. I possessori di televisori e gli abbonati, che salirono a dismisura sotto l’effetto del miracolo economico e dell’enfatizzazione dei beni di consumo, la sera aprivano le porte ai vicini mentre i locali pubblici offrivano la visione collettiva dei programmi più popolari. Il rapporto tra sport e fruizione pubblica della televisione ebbe modo di sbocciare in occasione di eventi internazionali, quali ad esempio la Coppa Rimet, disputata in Svezia nell’agosto del 1958. Per l'occasione la RAI mandò in onda l’intera manifestazione in piena sinergia con la stampa sportiva che dava indicazione degli orari delle partite in tv. Nacque la nuova convivialità sportiva. Come ricordano Papa e Panico:

bar e ristoranti si fecero concorrenza, avvisando clienti che nei loro locali avrebbero potuto assistere alla più grande competizione del calcio mondiale. Per la prima volta milioni di italiani che non avevano consuetudine con lo spettacolo sportivo videro una partita di calcio. Si pensi al mondo domestico, a quello femminile in particolare; si pensi ai tifosi che non avevano conosciuto il calcio internazionale se non attraverso le pagine dei giornali e le suggestive, ma cieche, radiocronache di Nicolò Carosio. Gli appassionati del pallone si trovarono d’un tratto immersi nel mondo della grande tecnica calcistica internazionale98.

97 CELLETTI L., Carlo Bacarelli: Pioniere e galantuomo, Archeologia dello Sport, rivista online. Disponibile sul web: http://www.archeologiadellosport.com/CARLO_BACARELLI.html 98 PAPA A., PANICO G., op. cit., 1993, p.277. 54

Di pari passo con la diffusione delle prime partite di calcio, nacquero i programmi dedicati alle domeniche sportive che nel tempo raggiunsero un seguito tale da condizionare i rituali festivi degli appassionati. E' il caso di “Novantesimo Minuto”, una trasmissione risalente agli anni '70, in onda alle 18.15 di ogni domenica sul primo canale della RAI.

Attraverso i collegamenti tra lo studio centrale e i vari stadi, con le immagini dei gol, delle fasi salienti delle singole partite e con i primi commenti, “Novantesimo Minuto” fu la prima vera palestra di un giornalismo televisivo dai ritmi frenetici.

Anche le trasmissioni di intrattenimento più seguite aprirono nei loro format delle finestre sul calcio. “Domenica in” dava vita a un continuum narrativo che iniziava con le “Notizie Sportive”, una rubrica di presentazione della giornata, e finiva con una telecronaca di un tempo di una partita di serie A. Altre trasmissioni informavano di ogni variazione dai campi attraverso una scritta in sovraimpressione. Non mancarono le lamentele: il calcio stava invadendo i consueti format di intrattenimento. Era il segno di una delle tante piccole rivoluzioni televisive, che modificarono costumi e abitudini, incidendo sulla stessa natura e nella stessa tradizione del calcio.

L'ansia dell'attesa dei risultati della propria squadra o la tensione dell'ascolto radiofonico cominciarono ad attenuarsi. “Tutto il calcio minuto per minuto” conservò il suo carattere di trasmissione da ascoltare con concentrazione solo sulle gradinate degli stadi, dove i tifosi impararono a soffrire contemporaneamente per quello che vedevano con gli occhi e ciò che ascoltavano dal transistor. Nelle case degli italiani anche la più calda trasmissione radiofonica finì lentamente per confondersi con le immagini degli spettacoli televisivi.

Dagli inizi degli anni '80 era ormai impossibile ignorare le vicende del campionato: le tre reti televisive nazionali (nel 1979 si era dato l'avvio al terzo programma) erano state

55 affiancate dalle emittenti locali, che informavano minuto per minuto dell'andamento delle partite. A tenere informato anche chi si fosse disinteressato alle vicende calcistiche ci pensava lo schiamazzo che proveniva dai cortili e dalla strada in occasione dei gol. Nel corso del tempo, la televisione abbinata al calcio, considerata come il centro disciplinare dell'attenzione sociale delle grandi masse, diventerà ambita merce del capitalismo. Un rapporto, quello tra tv, calcio e capitale che, come vedremo, condizionerà più di ogni altro il sistema calcistico a partire dagli anni '80, quando il monopolio della televisione pubblica in Europa crollerà, spezzato dal potere d'acquisto delle tv private che, nel tempo, acquisiranno il mandato per ripensare radicalmente i luoghi e i modi di vivere l’evento sportivo.

Totocalcio

Importato d'Oltremanica, nel 1946 fu ideato anche in Italia un sistema di scommesse legato ai risultati calcistici. Il gusto del gioco aveva già dei precedenti: nel corso dell'Ottocento proprio su emulazione di ciò che avveniva nel football inglese la scommessa aveva acceso l'interesse di tanti appassionati. Agli inizi del Novecento, invece, a imporsi come motivo di richiamo degli appuntamenti calcistici era stato il totalizzatore: un sistema con il quale si raccolgono le puntate e si distribuisce la somma ai vincitori, dopo averne sottratta una debita percentuale. La presenza del totalizzatore, indicata negli stessi manifesti che pubblicizzavano i match, era un richiamo non trascurabile per le folle sportive, così come le cifre giocate e gli episodi di violenza registrati a causa delle intemperanze degli scommettitori. Queste prime pratiche si spensero a ridosso della Prima Guerra Mondiale e un nuovo progetto di pubblica scommessa, proposto dal Ministero delle Finanze nel 1932, fu respinto da Leandro Arpinati, all'epoca presidente della FIGC, «sensibilissimo all'incompatibilità del denaro con lo sport99».

99 Ivi, p.247. 56

La paternità del nuovo progetto che, al contrario del precedente, sarà accolto dalle istituzioni è di Massimo Della Pergola, un giornalista italiano rifugiato in Svizzera durante le persecuzioni naziste. Nonostante qualche iniziale diffidenza, Della Pergola ottenne una concessione di due anni per sviluppare le sue idee. Fondò la SISAL (Sport Italia Società a responsabilità limitata) e costituì la prima rete per la distribuzione delle schedine da compilare per il pronostico. Il primo impatto del nuovo gioco non fu entusiasmante: Della Pergola fece stampare 5.000.000 di schedine al prezzo di 30 lire, a fronte di un montepremi di 463.146 lire, ma solo 30.000 furono distribuite: si pensò che la presenza del gioco del lotto fosse un ostacolo insormontabile per una nuova pratica del gioco d'azzardo. Ben presto però, anche per merito della caparbietà e delle trovate pubblicitarie di Della Pergola, la scommessa sportiva trovò la via del successo. «Fu il primo gioco laico della società di massa in Italia100», differente culturalmente dal lotto per la presenza di elementi di previsione che andavano incontro a quella fame di passione sportiva che andava dilagando nel paese. Il successo portò il CONI101 ad assumere il diretto esercizio del concorso che cambiò denominazione in Totocalcio. La crescita esponenziale del gioco si intrecciava con quella generale dei consumi che anticipava gli anni del miracolo economico. In breve si moltiplicarono i luoghi dove era possibile effettuare i pronostici e alla metà degli anni '50 furono messe in commercio delle trottole che ricadevano su un lato, su cui era impressa la scritta 1, 2 o X (i possibili pronostici da indicare sulla schedina). Contestualmente, l’espressione “fare tredici” era entrata a pieno titolo tra i modi di dire del linguaggio corrente indicando un colpo di fortuna o l’ottima riuscita di un evento.

100 Ivi, p.248. 101 Sigla del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, è l'ente pubblico cui è demandata l’organizzazione e il potenziamento dello sport nazionale. Emanazione del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), promuove la massima diffusione della pratica sportiva e coordina le organizzazioni sportive nazionali e sovrintende a esse. Fu fondato nel 1914 a Roma per coordinare l’attività dei vari comitati italiani per le Olimpiadi attivi dal 1896. Dopo le modifiche normative del 2004 (d. legisl. 15/8 gennaio 2004, recante modifiche e integrazioni al d. legisl. 242/23 luglio 1999), il CONI deve essere considerato come la Confederazione delle federazioni sportive e delle discipline associate; è autorità di disciplina, regolazione e gestione delle attività sportive, intese come elemento essenziale della formazione fisica e morale dell’individuo e parte integrante dell’educazione e della cultura nazionale. Ha anche il compito di curare, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, l’adozione di misure di prevenzione e repressione del doping, oltre all’organizzazione e al potenziamento dello sport nazionale, in armonia con le deliberazioni del CIO. È posto sotto la vigilanza del Ministero per i Beni e le attività culturali. 57

La passione per il Totocalcio indusse la conoscenza del calcio giocato e portò a seguire con più attenzione le vicissitudini settimanali delle squadre: lo stato di forma dei giocatori, gli infortuni, i nuovi acquisti, lo schema ipotizzato da un allenatore erano tutte variabili che potevano influire sull'esito di una decisione da marcare sulla schedina. Nell'accentuare la popolarità del gioco non fu da meno l'esaltazione delle umili origini dei nuovi milionari: «nel 1950 un minatore sardo, Giovanni Mannu, un bigliettaio siciliano, Giovanni Capello, e un operaio torinese, Giovanni Frigato, vinsero rispettivamente 77, 75 e 74 milioni ed entrarono nella cronaca del tempo, nella stampa, nei cinegiornali102». Il gioco avrà poi una sua evoluzione moderna con il Totogol, introdotto nel 1994, che è stato il primo concorso a istituire il meccanismo del jackpot. La nuova schedina invitava a pronosticare, tra i 14 eventi presenti, i sette con il numero più elevato di reti segnate, posti in ordine decrescente rispetto al numero totale di reti. Di certo la novità più importante, che finirà per egemonizzare l'attenzione degli scommettitori - soppiantando i giochi precedenti -, sarà l'introduzione delle scommesse a quota fissa. Le nuove schedine si strutturavano su avvenimenti sportivi e non sportivi: sul calcio, ad esempio, oltre a poter puntare sul classico “1, X, 2” diventava possibile scommettere anche sul risultato esatto di una partita, sul risultato del primo tempo, sul numero di gol rispetto a un numero prefissato e su molte altre tipologie di esiti. Sui principali avvenimenti sportivi era possibile effettuare anche scommesse live, (mentre, cioè l’avvenimento era in corso) e sugli eventi che si verificavano durante lo svolgimento (ad esempio, quale squadra avrebbe segnato il gol seguente). Oltre a favorire un consumo popolare di calcio, il Totocalcio, il Totogol e le scommesse sportive furono interessati da pesanti scandali che evidenziarono la permeabilità al malaffare del sistema delle scommesse. Il primo, conosciuto anche come Totonero, colpì il calcio italiano nella stagione agonistica 1979-1980 e vide coinvolti giocatori, dirigenti e società di Serie A e B, i quali truccavano le partite di campionato attraverso

102 Ivi, p.249. 58 scommesse clandestine che per la FIGC rappresentarono casi di illecito sportivo. Tra le sanzioni eccellenti dell'inchiesta, fece clamore la condanna di Milan e Lazio, che pagarono con la retrocessione in . Lo scandalo, che costò penalità alle altre società coinvolte e la radiazione di diversi calciatori e massimi dirigenti, fu seguito freneticamente dalla televisione: le immagini degli arresti, avvenuti a fine partita, e delle camionette di Polizia e Guardia di Finanza presenti negli stadi sono note ancora oggi per essere state riprese in diretta nel corso della trasmissione sportiva 90º minuto. Come già anticipato, questo non fu l'unico scandalo. Nel 2001, l'inchiesta denominata Calcioscommesse, portò all'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva nei confronti degli indagati.

La nascita del tifo

«Masse entusiaste, anche se digiune di competenza e di fair play103», così, Papa e Panico descrivono gli appassionati che negli anni ’20 cominciarono ad affollare gli stadi con presenze significative. Dopo i primi incontri che «si erano inseriti nel paesaggio urbano senza clamore, senza alterare i ritmi della vita della gente», gli appuntamenti calcistici avevano raggiunto una maggiore eco anche per merito dei primi match internazionali: cominciavano a coinvolgere l’interno ambiente urbano e avere una risonanza che andava oltre il campo di gioco. La faziosità non aveva ancora raggiunto livelli esasperati, ma si registravano incontrollate le prime irruzioni del pubblico sul terreno di gioco. Nonostante il tentativo di normare e distinguere i ruoli dei componenti della partita, il pubblico esprimeva una compartecipazione attiva che si manifestava in una solidarietà “militante” nei confronti della propria squadra. Del resto, «il termine sport non fu mai applicato solo a chi lo praticava; indicò sempre contese allestite per il divertimento degli spettatori104». Nella testimonianza seguente, uno dei pionieri del calcio in Italia rappresenta bene la mentalità del pubblico, sin dalle origini:

103 Ivi, p.119. 104 ELIAS N., DUNNING E., Sport e aggressività, Bologna, Il Mulino, 1989, p.27. 59

Non avevo ancora vent’anni quando venni in Italia, stabilendomi dapprima a Torino. Era il settembre del 1891. Ero arrivato da poche settimane quando, una domenica, il mio carissimo amico e compatriota Savage, valentissimo giocatore, mi invitò ad accompagnarlo in piazza d’armi, per partecipare ad un match. Il football era da pochissimi anni praticato a Torino e a Genova. Quel giorno, si disputava un match amichevole fra la squadra inglese e quella italiana del FC Torinese. Mi invitarono a occupare un posto nella prima linea della squadra inglese. Mi rimboccai i calzoni, deposi la giacca ed eccomi in gara. Mi avvidi di due cose curiose; prima di tutto, che non c’era ombra dell’arbitro; in secondo luogo, che mano a mano che la partita si inoltrava, la squadra avversaria italiana andava sempre più ingrossandosi. Ogni tanto uno del pubblico, entusiasmatosi, entrava in gioco, sicché ci trovammo presto a lottare contro una squadra formata almeno da venti giocatori.105

Pur rievocando una partita informale, il racconto di rivela un aspetto curioso del coinvolgimento del pubblico e sembra poter contribuire a ravvivare la dimensione romantica del calcio della prima ora. In realtà già nel primo decennio del nuovo secolo “cronache spensierate” sono affiancate da resoconti che riportano un’escalation di episodi turbolenti: risse dentro e fuori gli stadi, sassaiole contro gli arbitri, invasioni di campo e anche colpi di rivoltella tra le opposte fazioni106. Dal primo dopoguerra il tifo divenne un tratto consuetudinario della vita quotidiana: durante la settimana la notizia calcistica entrò come elemento familiare nei discorsi comuni tra le persone, anche in virtù della nascita del giornalismo sportivo e del moltiplicarsi delle testate di settore. Il fenomeno del tifo ha una dimensione intersociale, ma al tempo si potevano ancora distinguere preferenze di ceto per squadre specifiche e lo stile dei supporters degli anni ’20 fa apparire il fenomeno come manifestazione di un pubblico essenzialmente borghese. La diffusione territoriale del gioco e le fusioni di piccole realtà in un unico club cittadino, come nei casi di Napoli e Firenze, favorì la

105 PAPA A., PANICO G., op. cit., 1993, p.47. 106 Uno degli episodi più gravi del periodo avviene durante l'incontro tra Spes e Livorno e Pisa Sporting Club del 1914: a fine partita le rispettive tifoserie si affrontano a colpi di rivoltella. Da segnalare un decennio dopo, la sparatoria alla stazione di Torino Porta Nuova, dopo il quarto spareggio per il titolo tra il Genoa e il Bologna. PAPA A., PANICO G., op. cit., 1993, p.89, p.122. 60 concentrazione dei tifosi, l'intensificazione di identità marcate e portò gradualmente alla nascita del campanilismo. A questa novità si collega il rafforzamento del “fattore campo”, la presenza assidua di un nucleo di tifosi a sostegno delle partite casalinghe della propria squadra: una cornice di pubblico incoraggiata dalla propaganda delle società sportive anche attraverso la pubblicazione di propri periodici. “Il fattore campo” si rivelò una sorta di necessità per far fronte alla presenza dei tifosi avversari: è in questi anni, infatti, che nascono le trasferte, rappresentate da carovane di tifosi in viaggio, incoraggiati anch'essi dalla propaganda dei primi periodici delle società sportive. La crescita della passione per la propria squadra e il moltiplicarsi delle occasioni di tifo misero da subito in risalto la condotta minacciosa del pubblico, ma tendenzialmente si trattò di un protagonismo che andò ad arricchire più le carte di polizia che le cronache sportive. L’aggressività del tifo era spontanea, priva della predeterminazione e dell'organizzazione che nasceranno con il tifo organizzato.

Il fenomeno del tifo organizzato

Il salto qualitativo della partecipazione del pubblico all’evento sportivo è rappresentato dalla nascita del tifo organizzato. Il fenomeno nasce in Italia negli anni ‘50, quando al tifo spontaneo si affiancano gruppi strutturati, il più delle volte sotto forma di club o di federazione di tifosi. I primi a comparire sono i Moschettieri Nerazzurri, che fanno capolino allo stadio Meazza di Milano nel 1950, seguiti un anno più tardi dai Fedelissimi Granata 1951, un gruppo di tifosi del Torino. Nella prima metà degli anni ‘60 il movimento si allarga con la fondazione del Little Club Genoa (1962) e di due club della Fiorentina, il Vieusseux (nel 1963) e il Settebello (nel 1965). Ben presto molti dei neonati club aderiscono ai centri di coordinamento. È il caso dell’Inter, ad esempio, che su iniziativa del presidente Angelo Moratti nel 1960 raggruppò le varie strutture ponendo le basi di quello che sarebbe stato il primo Centro Coordinamento di club operante in Italia. L’omaggio del sito ufficiale interista, a cinquant’anni dalla fondazione

61 del Centro di Coordinamento Inter Club, permette di ricostruire lo spirito in cui proliferarono queste iniziative.

Il connubio è nato sotto i migliori auspici poiché fortemente voluto da uomini che sapevano coniugare le capacità professionali con l’unione delle persone, la comunanza dei sentimenti, la giusta dimensione dei valori umani, la stima nelle bellezze e le ostilità imposte dallo sport. L’amore per i colori sociali non sfuggì al Presidentissimo Angelo Moratti che accennò l’idea ai suoi collaboratori e ad Helenio Herrera, che aveva già vissuto l'esperienza dell'associazionismo con il Barcellona, pensando di costituire un organismo che raggruppasse tutti i tifosi nerazzurri. Indisse un incontro con alcuni tifosi qualificati e con il “vecchio saggio” Maurizio Migliori, che ai tempi si occupava, per primo nella storia del calcio italiano, del servizio stadio e dell’attivissima conduzione del gruppo denominato “I Moschettieri”. Esaminò la possibilità di raggrupparli in club, ponendo così le basi di quello che sarebbe stato il primo Centro Coordinamento di club operante in Italia. Il Centro Coordinamento Inter Club (C.C.I.C.) è stato, appunto, il primo in Italia e, nonostante sia stato oggetto di imitazione, resta all’avanguardia anche in campo europeo. […] Dal 1960 ad oggi si sono affiliati un numero elevatissimo di club; i risultati hanno favorito o condizionato le adesioni, a seconda dei casi e del punto di vista, ma lo zoccolo duro della tifoseria ufficialmente organizzata, onorando con convinzione i dettami della vecchia, ma sempre attuale, iniziativa costitutiva, non ha fatto mancare il sostegno incondizionato alla Società, agli atleti ed ai dirigenti107.

Nasce così un nuovo modello di tifoso “qualificato”, che mette a disposizione il proprio credo calcistico in un’organizzazione condivisa da altri appassionati. Un’esperienza, come emerge dal caso interista, talvolta incoraggiata dalle società, che stabiliscono rapporti economici con i club, dai quali si attendono passione, vicinanza, proselitismo, nonché correttezza e capacità di mediazione con le fasce più emotive delle gradinate. In

107 REDAZIONE, Inter Club: i primi 50 anni del CCIC, Inter.it, 10 settembre 2010. Disponibile sul web: http://www.inter.it/it/news/49444 62 cambio, i club garantiscono essenzialmente la prelazione sui biglietti delle partite, in particolare quelle di cartello. Accanto al tifo “ufficialmente” organizzato, alla fine degli anni ’60 compare una forma destinata a stravolgere completamente l’ordine ecologico dello stadio108. Tra i più giovani emerge la volontà di staccarsi da un modello di tifoso omologato, di stabilirsi in una propria zona dello stadio e di esprimere l’appartenenza ai propri colori con un atteggiamento più vivace e marcato, restando in piedi dietro a striscioni di forte impatto semiotico e incitando ininterrottamente i propri colori. Sono questi i primi ultras.

Ultrà significa “oltre”, perché significa di più e noi diamo di più del tifoso normale. Perché per noi la partita comincia una settimana prima, perché noi seguiamo la Roma ovunque a qualunque distanza e con qualunque tempo, perché noi voltiamo le spalle alla gara per poter organizzare meglio i nostri canti, i nostri cori di incitamento, perché noi facciamo di più di quello che fa il tifoso normale, anche se lo rispettiamo perché anche se non canta insieme a noi ama lo stesso la Roma, perché anche se preferisce vedersi la partita comodo dalla tribuna invece che dalle gradinate della curva professa la nostra stessa fede. Però lo critichiamo quando si lascia andare [...] a fischiare se la squadra non riesce a vincere. Noi questo non lo tolleriamo: la Roma si ama sempre e comunque. Ecco, forse anche per questo siamo ultrà109.

Le condizioni di avvio di questo processo sono ben evidenziate nella ricostruzione della “via italiana” al tifo di Antonio Roversi. Per il sociologo il primo dato da osservare è che la maggior parte dei giovani aderenti ai gruppi ultras frequentano già gli spalti degli stadi. «Molti di loro hanno seguito il normale iter di socializzazione al rito domenicale assimilando in famiglia - in genere dal padre o dai fratelli maggiori, in ogni caso quasi

108 Con il termine “ecologico” si intende la distribuzione degli spazi e dei territori simbolici all’interno di uno stadio di calcio. Un’analisi del caso italiano è stata proposta da Dal Lago nel capitolo Ecologia e politica dello stadio in DAL LAGO A., op. cit., 1990, pp.99-130. Per lo studio di un caso inglese: MIGNON P., Liverpool, ovvero “addio alla Kop”, in DE BIASI R. (a cura di), op.cit., pp.51-75. 109 Autore sconosciuto, Il Cucs si confessa, Giallorossi, n.101, marzo 1981. Disponibile sul web: http://www.asromaultras.org/intervistacucs.html 63 sempre da un maschio adulto – la passione per il calcio e già da anni si recano assieme a queste figure familiari alle partite110». Altri hanno iniziato a frequentare l’ambiente degli stadi all’interno dei club, a fianco di tifosi più anziani e riconosciuti ufficialmente dalle società. È chiaro in ogni caso che non si parla di novizi, ma di soggetti in qualche modo già presenti negli stadi, che a un certo punto decidono di rendersi autonomi, o dal vincolo familiare o dalla tutela del club. E' questo il caso degli Ultras Granata, nati nel 1973 da una scissione dei Fedelissimi, storico club del tifo torinese. Sui motivi che concorrono a formare il nuovo tipo di aggregazione, Roversi individua «un preesistente legame amicale tra i giovani che ne sono i fondatori. Amicizie di quartiere, di scuola, di bar, sembrano costituire, nella grande maggioranza dei casi, la prima rete informale di rapporti sui cui si costruisce l’aggregazione da stadio. Non sono necessariamente gruppi di pari […] ma certamente la distanza tra loro è veramente piccola». Lo stadio, in questo senso, rappresenta la tappa di arrivo di un processo di socializzazione alla vita di gruppo che avveniva altrove. Quartieri, bar, compagnie di amici, centri giovanili, gruppi politici erano i luoghi di apprendimento di quella «grammatica etico normativa111» consistente nel mostrare doti di affidabilità, coraggio, solidarietà e durezza, grazie alle quali il giovane alla fine era considerato uno del gruppo. Nella fase di adattamento e perfezionamento dei codici specifici della curva, i giovani si confrontano con gerarchie e competenze molto più strutturate, formalizzate e vincolanti. Per Roversi «le esperienze maturate fuori dal confine dello stadio venivano riassorbite dal gruppo ultrà classico in schemi tematici ricorrenti - la coralità assorbente, gli slogan ossessivi, la militarizzazione del gruppo, una rassicurante visione manichea - e ripopolavano continuamente l'immaginario del giovane tifoso di nuove figure mitiche e nuovi contenuti simbolici tratti dallo specifico contesto del calcio112». Lo spazio delle curve, che sarà il luogo tributato ad accogliere le carriere degli ultras, oltre ad essere uno

110 ROVERSI A.,Calcio, tifo e violenza, Bologna, Il Mulino, p.42. 111 ROVERSI A., BALESTRI C., Gli Ultras oggi. Declino o cambiamento?, in ''Polis'' XIII, 3: 453-467, 1999. 112 Ibidem. 64 spazio fisico, si affermerà come territorio identitario, assumendo un significato culturale e sociale, narrativo e linguistico che darà origine a soggettività individuali e collettive. Per questi motivi, Roversi riconosce che la cultura ultras dei gruppi storici è stata per lungo tempo una cultura forte e altamente attrattiva, al punto da imporsi come uno dei principali movimenti sociali del secolo. Diversamente dall’aggregazione informale del pubblico inglese, il modello delle tifoserie italiane mette quindi in risalto la realtà associativa a supporto del tifo. Per Rocco De Biasi: «l’ultrà italiano e l’hooligan inglese costituiscono due tipi sociali alquanto differenti. I tifosi di curva italiani, diversamente dagli hooligans inglesi, hanno come scopo primario la creazione di eventi spettacolari, la coreografia e i rituali collettivi di incoraggiamento, mentre l’incitamento tipico dei supporters britannici è contrassegnato da una maggiore informalità e spontaneità. Lo stile ultrà è basato sulla visibilità e sul folclore, su riti di massa che comportano un grande lavoro preparatorio impensabile per la realtà inglese113». Un aspetto, come si evince dal brano seguente, che caratterizza “la via italiana” al tifo e differenzia il nascente movimento ultras dal football hooliganism.

L’invenzione di aver portato sugli spalti lo spettacolo appartiene a noi, nessuno lo può negare. Sull’anzianità di gruppo sappiamo di non essere stati i primi ma la coreografia ultrà è nostra figlia. Non è passato un solo campionato dal 1977 che una nostra frase, un nostro striscione, giochi di palloncini, fumogeni, bandiere e colori non siano stati ripresi da altre tifoserie. Così pure le canzoni. La prima stracittadina dietro lo striscione Commando ultrà risale al 27 marzo 1977, 1-0 per la Roma, gol di Bruno Conti. In quell’occasione non fu organizzato niente di particolare, se però fiaccole e fumoni, bandiere e cori le considerate niente di particolare. La prima umiliazione laziale fu nel campionato 77/78 il 20 novembre un Roma-Lazio terminato 0-0. Grappoli di palloncini riempivano il fossato dell’Olimpico; alla loro estremità erano attaccate lunghe strisce di

113 DE BIASI R. (a cura di), You’ll never walk alone. Il mito del tifo inglese, op.cit., p.12. 65

stoffa colorata, gialla e rossa. Dieci nuovi bandieroni ognuno con un disegno, un simbolo ed una forma diversa, sventolavano dal nostro muretto. Nel derby di ritorno avevamo progettato una scritta luminosa, un semplice “Forza Roma” costruita con 400 fumogeni accesi contemporaneamente: 200 gialli e 200 rossi. L’autore di quella scritta era un costruttore di giochi pirotecnici, ma purtroppo era laziale; per non fargli capire a cosa sarebbe dovuta servire la scritta anagrammammo le parole e gli dicemmo che era per la festa di un paese chiamato Morazofra. Avevamo paura che piovesse, ma il tempo ci ha assistiti... la scritta si è accesa creando un effetto stupendo che ha steso un velo di silenzio su tutta la nord! Nel derby del 12 novembre 1978 si rischiò lo sciopero del tifo poi rientrato. La Roma era proprio una squadretta, al contrario di noi che proprio per il derby di ritorno organizzammo un’altra incredibile sorpresa. Fu la partita delle mongolfiere: 3.000 palloncini con 400 fumogeni attaccati sotto. Quel giorno c’era un vento fortissimo. In realtà le mongolfiere dovevano essere legate al fossato, per fare un muro di fumo metà giallo e metà rosso una volta lanciate in aria. Ma non reggevano, così decidemmo di tenerle una per una in mano. Lo spettacolo fu ugualmente incredibile!114

Gli hooligans, mito e terrore del calcio inglese

Fino a tempi recenti, in Inghilterra la passione per il calcio ha coinvolto prevalentemente la working class. Per avere un’idea della compenetrazione tra calcio e cultura operaia in Inghilterra occorre guardare all’architettura degli stadi che richiama molto da vicino la tipica struttura delle fabbriche e, come accennato in precedenza, l’origine operaia di molte delle squadre inglesi. In virtù di queste origini e di questo legame, il modello del football hooliganism si manifesta come una sorta di prolungamento del tradizionale schema comportamentale della rough working class. Mito del tifo britannico, gli hooligans hanno cominciato la loro diffusione capillare alla fine degli anni Sessanta, manifestando varie forme di comportamenti giovanili turbolenti, particolarmente evidenti nel teppismo calcistico. La tradizione di gruppi di

114 CUCS, Commando Ultrà Curva Sud. 12 anni di storia, immagini, passioni e follie di uno dei gruppi ultrà più famosi d'Italia, Roma, Multimedia, 1987. 66 ragazzi che si affrontano, specialmente nella vasta area metropolitana di Londra, risale all’epoca vittoriana. Il calcio, come ha sostenuto Ian “Butch” Stuttard115, documentarista insediatosi tra le file di una firm inglese, ha solo fornito loro un contesto più appropriato e un palcoscenico nazionale, poi mediatico, che al debutto ha esaltato gli aspetti ludici dello scontro ma col passare del tempo ha portato la violenza ai primi posti tra i social problem legati alla sicurezza interna del paese. Le prime forme di hooliganismo associato agli stadi di calcio sono già presenti ad inizio secolo. Luca Macca ha ricostruito le origini del fenomeno.

Le bande giovanili di inizio secolo portano alle partite i comportamenti ed i linguaggi usati nelle strade, si appropriano quindi del football, che diventa sport per la working class, la classe operaia. Sono i ragazzi dell’età vittoriana, i victorian boys, che fieri di essere temuti dalle classi più agiate, monopolizzano l’ambiente circostante il gioco del calcio dando luogo ai primi disordini con tentativi di invasioni di campo, insulti a giocatori ed arbitri. Giornali dell’epoca di Londra e di Glasgow documentano svariati disordini116.

Tra i victorian boys – prosegue l’autore – si diffonde la pratica dell’holding the end (tenere la curva). È una pratica importata dalle bande di strada che si scagliano contro chiunque attraversi il passaggio che loro giudicano sotto il proprio controllo: l’holding the street. Alla partita la questione è così riformulata: nessun estraneo ai miei colori deve attraversare lo spazio attorno al campo di gioco. Queste originarie forme di teppismo di marca hooligans resistono fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale. In corrispondenza del conflitto i campionati di calcio vengono sospesi e alla ripresa «il pubblico che segue il football non è più esclusivamente proveniente dalla working class. Anche le classi più abbienti ed altolocate si avvicinano alle partite, come una sorta di svago per dimenticare gli orrori del conflitto. È in questi anni che anche le donne si

115 Ian “Butch” Stuttard, documentarista della BBC, per un certo periodo ha filmato le gesta degli hooligans poi passate con grande scalpore in tv. 116 MACCA L., Il fenomeno Hooligans: dalla nascita agli anni '80, InfoAut on line, 8 marzo 2014. 67 avvicinano per la prima volta al fenomeno calcio ed è sempre negli anni del primo dopoguerra che nasce il mito dello spettatore inglese educato e sportivo, proprio in virtù dell’incorporazione delle classi agiate negli stadi117».

Alla metà degli anni Cinquanta, tornano alla ribalta i ragazzi della working class, che accentuando lo stile dei victorian boys creano una rough working class e favoriscono la nascita dei teddy boys.

[I teddy boys] sono ragazzi che vogliono recuperare i valori di inizio secolo quali il maschilismo, il sessismo ed appunto la rudezza. Intorno agli stadi tornano violenza e disordini, specie nei derby tesissimi (anche per ragioni religiose) tra Celtic e Rangers a Glasgow e tra Liverpool ed Everton a Liverpool. La stampa punta il dito contro i teddy boys, sono loro i colpevoli della nuova ondata di violenza collegata al calcio e in quegli anni si hanno i primi disordini nei convogli ferroviari che riportano le tifoserie o presunte tali a casa dopo le trasferte118.

Negli esuberanti anni Sessanta inglesi a questo nascente fenomeno se ne sovrappongono altri, espressione di diverse controculture giovanili, le cui suddivisioni si amplificano in particolare rispetto alla preferenze musicali di gruppi quali Beatles, Rolling Stones e Who che daranno vita ad altri due movimenti giovanili, i mods ed i rockers: «i primi sono appartenenti alla classe operaia ed hanno un look effeminato, vestono elegante, fanno uso di droghe come LSD e si muovono con gli scooters. I secondi portano i capelli lunghi, vestono più rozzo, appartengono alla stessa estrazione sociale e odiano i mods. Quest’odio darà vita a violenti scontri tra i due gruppi nelle spiagge di Brighton e nel sud dell’isola119».

117 Ibidem. 118 Ibidem. 119 Ibidem. 68

Dalla fusione e dal riadattamento dei mods (gli hard mods) e in particolare della cultura rude boy - propria degli immigrati giamaicani - verrà fuori il movimento skinheads. Prodotto delle periferie inglesi, abitate da famiglie di estrazione sottoproletaria e operaia, gli skinheads rivendicano una forte appartenenza di classe e si distinguono per un’estetica ribelle e anticonformista: teste rigorosamente rasate, abbigliamento composto da capi ricercati e una forte passione per la musica punk-rock, lo ska e il reggae. La preoccupazione per l’imborghesimento della classe lavoratrice e il senso di oppressione derivante dal governo delle classi dirigenti rappresentano il retroterra favorevole alla nascita del movimento. Lo skinhead si riconosce totalmente nella classe “sfruttata”, la working class, svolge lavori manuali, detesta borghesi e poliziotti, al punto da affermare di avere più cose in comune con un nero proletario che con un bianco middle-class; le uniche concessioni alla politica riguardano un vago sentimento socialista, di stampo laburista, e un discreto sentimento nazionalista, sempre però nella sua variante britannica, e quindi non in chiave espansionista o razzista. L’immagine stereotipata di questi giovani, caratterizzata da teste rasate e stivali anfibi deriva principalmente da esigenze lavorative: condizioni igieniche e di sicurezza scarse rendono necessarie precauzioni contro infortuni e infezioni; non si tratta, quindi, di una divisa da combattimento, come molti hanno teorizzato, bensì di uno stile strettamente legato alle proprie origini. Uno dei settori di cui si appropriano gli skinheads è rappresentato dalle football ends (le curve degli stadi inglesi) poco oltre la metà degli anni sessanta. La stampa mostra da subito una forte apprensione verso il nascente fenomeno, temendo soprattutto ripercussioni sui mondiali del 1966 organizzati proprio dall’Inghilterra. Ma le partite dell’evento mondiale non fanno segnalare incidenti di rilievo, e «il tipico fair play anglosassone sembra trionfare120». È a partire dal campionato 67/68 che si manifesterà platealmente il football hooliganism, nel momento in cui gli skinheads cominciano a

120 Ibidem. 69 farsi notare negli stadi inglesi, anche grazie al loro inconfondibile look: capelli rasati, sciarpe con i colori della propria squadra, giubbotto imbottito e anfibi con punta in metallo (da qui il soprannome boot boys). Le football ends, poste dietro le porte degli stadi, diventano territorio degli skinheads e i vecchi tifosi, anziani e pacifici, vengono in fretta emarginati e allontanati. Nascono i primi gruppi: Headhunters (Chelsea), Yids (Tottenham), Red army (Manchester Uniteed), Gooners (Arsenal); anche le ends assumono nomi specifici: nascono la Kop di Liverpool, il North Bank dell’Arsenal, lo Shed del Chelsea, la Stretford End di Manchester. Conseguenza di ciò sono le tensioni e gli scontri che nascono fra bande di tifoserie avversarie, che hanno l’unico e solo obiettivo di prendere letteralmente la end (take an end) mettendo in fuga il gruppo nemico. Il dato che crea allarme è la relativa facilità con cui queste bande generano scontri all’interno e all’esterno dello stadio, creando panico diffuso tra il pubblico. Uno dei motivi che facilita il fenomeno è la completa impreparazione delle forze dell’ordine alle nuove tattiche di scontro, un aspetto che avrà ricadute specifiche anche su alcune note tragedie del calcio inglese. In questa fase, sono molte le partite interrotte per le invasioni del terreno di gioco, anche per via della totale assenza di barriere a bordo campo. Per frenare il protagonismo hooligans, uno dei primi provvedimenti adottati dalle autorità sarà quello di recintare le gradinate, nel tentativo di arginare il fenomeno del pitch invasion (invasione di campo). Alcuni stralci della biografia di Cass Pennant, leader dell'ICF, gruppo hooligan diventato famoso per le proprie scorribande al seguito del West Ham United, offrono un contributo qualitativo alla ricostruzione delle origini fenomeno, anch'esso esposto al severo giudizio della letteratura sociologica e dei mass media. Questi ultimi, esasperando la condanna morale delle violenze hooligans, hanno impedito di approfondirne i comportamenti che si intrecciano sullo sfondo di stagioni metropolitane

70 e che rispondono a dinamiche di scomposizione e di composizione sociale inedita, nonché di notevole interesse per le sfere della politica e della teoria della società.

Il Mile End era emersa come banda sin dal 1968, quando gli skinhead bianchi della classe operaia avevano cominciato a riunirsi nella curva dei popolari dietro la porta, in occasione delle partite. […] Essere immersi nella violenza e nella cultura delle gang faceva parte, per molti giovani, della moda del tempo. La maggior parte dei membri delle gang aveva dai dodici ai vent'anni e spesso scoppiavano scontri tra bande che si combattevano fra loro per questioni di supremazia. La band del Mile End era diversa. […] Per far parte di questa banda bisognava provenire dal Mile End della zona est di Londra. Non si fidavano di nessuno e attaccavano briga con chiunque altro del West Ham. […] Quelli del West Ham erano diventati maestri nella nuova moda dei tifosi di tutto il paese, quella di andare ad occupare la curva degli avversari. […] Quel primo movimento skinhead fu un grande fenomeno. Fu un grande evento per i giovani che si sentivano anti- tutto. Non importava che tu fossi povero della classe operaia, condannato a una vita di lavori senza senso, o che tu avessi un'età in cui non avevi alcuna voce o influenza. Noi stavamo mostrando al mondo - «siamo qui e siamo vivi...andate a farvi fottere!». […] Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione giovanile121.

Conquistare la curva avversaria, pratica che riporta alle contese territoriali antesignane del calcio normato, «diventava una specie di tiro alla fune122», sottolinea Pennant, marcando la dimensione ludica dei comportamenti, riconducibili a un gioco dai significati profondi: entrare in una curva ti porta a vivere, infatti, istanti terrificanti, «perché hai profanato il Sacro Graal123» e farlo non significa solo fiaccare una gang rivale ma «calpestare l'orgoglio di un'intera comunità124». All'epoca la fruibilità del gioco era consentita dalla possibilità di muoversi liberamente all'interno dello stadio e

121 PENNANT C., Congratulazioni, hai appena incontrato l’Inter City Firm, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004, pp.17-19. 122 Ivi, p.23. 123 Ibidem. 124 Ibidem. 71 da un approccio della polizia più orientato al contenimento che allo sradicamento della violenza. Questa, in ogni caso, nelle intenzioni del leader dell'ICF, non sembra carica di una portata distruttiva, ma veicolo per apparire al centro dello spettacolo calcistico e rafforzare i legami sociali nel quartiere.

Sospinti dalla polizia fuori dalla curva, gli invasori venivano scortati lungo la linea laterale, fermando temporaneamente la partita mentre i tifosi di casa incazzati gesticolavano con segnali osceni. Era questo il divertimento. A me piaceva da morire perché tutti avevano il loro momento...Potevi vedere uno sfigato qualsiasi che non noteresti mai, ma gli facevi un cenno di saluto col capo in segno di riconoscimento perché era un West Ham. Poi un giorno, magari nella stessa stagione, ti trovavi da qualche parte quando scoppiavano i tumulti ed era proprio lui quello che faceva la parte del leone. Ora tutti parlavano di lui125.

La stagione spettacolare degli hooligans scorre nelle pagine di Pennant come un contenitore sociale schiuso da cui fuoriescono storie, culture, mode suburbane, influenze musicali, epiche calcistiche. Per Cacciari, autore di un'interessante recensione al testo126, spicca, tra i tifosi che si scontrano parlando apertamente di un gioco, la richiesta allusiva di quel rispetto che si deve ai giocatori, ma soprattutto il riconoscimento di una dimensione non istituzionalizzata delle loro pratiche – che Cacciari definisce neotribale - che «sta qui a garanzia della produzione del nuovo nelle culture a differenza di quanto accade nelle aggregazioni che si richiamano al concetto di società civile che subiscono i processi di neutralizzazione e declino perché riconoscono quelli di istituzionalizzazione127». Le pesanti contromisure operate dal primo ministro Margaret Thatcher, come vedremo, ridimensioneranno non solo le pratiche hooligans, ma un'intera ritualità che aveva

125 Ibidem. 126 CACCIARI S., Blowing Bubble, culture.internet.rekombinat, rivista on line, 18 gennaio 2005. 127 Ibidem. 72 contraddistinto la fruizione degli impianti da parte delle classi popolari. Del resto, il graduale affermarsi della commercializzazione della passione sportiva, incentrata sulla valorizzazione del brand ufficiale delle società, non poteva convivere con una centralità diversa da quella istituzionale e situazioni come quelle raccontate da Pennant furono riportate momentaneamente ai margini. Il leader della firm del West Ham ricorda come, a un tratto, la tifoseria avesse raggiunto una fama superiore a quella della squadra stessa: un rischio insopportabile in un calcio e in una società che si vogliono pacificate e predisposte al mercato.

I primi gruppi ultras in Italia

Tra la fine degli anni Sessanta e a partire dai primi anni Settanta il pubblico delle gradinate si trova a ospitare un crescente numero di gruppi organizzati di giovani dagli atteggiamenti vistosamente aggressivi. Tra i fattori che caratterizzano la nuova generazione di tifosi che si affaccia sugli spalti, oltre all'autonomia dalla tutela paterna (si comincia ad andare allo stadio con i coetanei), c'è, in particolare, l'assimilazione per via imitativa delle forme di tifo hooligan e di conseguenza del teppismo di matrice anglosassone. La conoscenza del tifo inglese, secondo alcuni osservatori, è alla base della proliferazione del movimento ultras in Italia. Roversi individua due differenti ragioni, la prima legata alla conoscenza diretta del pubblico britannico, in virtù delle trasferte sulla penisola tra il 1969 e il 1974 di Celtic, Manchester United, Leeds, Newcastle, Tottenham, Rangers Glasgow, Derby County e Ispswich, l’altra lo studio ravvicinato delle tecniche e della mentalità del tifo “all'inglese”, che alcuni ultras - spesso spesati dal proprio gruppo - compiono viaggiando in Inghilterra. Questa la testimonianza di un ultrà veronese:

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Un elemento che ha sempre distinto il tifo veronese da quello delle altre città è il cosiddetto “tifo all’inglese” e cioè basato sulla coralità senza l’ausilio dei tamburi. Questo è nato dal fatto che fin dagli albori abbiamo coltivato una vera e propria passione per il calcio inglese trascorrendo vacanze in Gran Bretagna, seguendo partite, registrando il tifo e imparando tutto ciò che era possibile. Tornati a Verona poi cercavamo di sostituire le parole inglesi con frasi di incitamento al Verona…Tutt’ora continuiamo ad andare a Londra e quasi tutti noi tifiamo anche per una squadra inglese e seguiamo sui giornali notizie e risultati.

La testimonianza che segue è di un ultrà romanista, nonostante la curva Sud assumerà uno stile diverso dalla modalità inglese, emerge anche in questo caso il riconoscimento di una scuola del tifo con cui confrontarsi e di cui apprendere alcuni aspetti.

Nel 1977 gli ultras del Liverpool vennero a Roma in trentamila. E noi andammo con loro per imparare il loro stile e imparare le loro canzoni che abbiamo tradotto in italiano128.

La precisa ricostruzione di Valerio Marchi, inquadra la fondamentale differenza di ambizioni tra gli hooligans e gli emergenti gruppi ultras italiani. Quest'ultimi nascono dall'insoddisfazione per una modalità di tifare ritenuta poco efficace da parte dei coordinamenti e irrompono con una volontà di protagonismo, impensabile in Inghilterra, che si pone come fenomeno controcorrente rispetto alla politica impressa dalle istituzioni calcistiche.

Sin dalla nascita la cultura ultras – pur legata alla pari della Terrace Culture alla sfera del leisure time – sembra dotata di una carica antagonista impensabile nei propri cugini britannici. Gli ultras nascono infatti contro un modo considerato antico e inefficace di tifare e, sin dalle origini, manifestano insofferenza verso ogni forma di controllo uscendo presto dai coordinamenti di quei club considerati una pura cinghia di trasmissione dei

128 NEGRIN A., op. cit, 1980. 74

voleri delle società, o nascendo direttamente al loro esterno. I rapporti con le società sono segnati da un lato dal comune interesse nel voler sviluppare un livello di tifo sempre più spettacolare, dall’altro dalla rivendicazione di un proprio diritto di critica e di contestazione. Con gli ultras avviene insomma ciò che per gli inglesi sarebbe inconcepibile, ovvero che gruppi di tifosi organizzati intendono dire la propria sulle regole e le scelte del sistema calcio, investendosi di un ruolo che da semplici comparse li innalzi a «parte in causa». In un sistema che ha creato per i tifosi un meccanismo, il coordinamento dei club, intrinsecamente incapace di esercitare una critica efficace ai voleri e all’operato delle società, gli ultras hanno costruito la propria identità soprattutto nel rappresentare l’unica forma di opposizione, per quanto imperfetta, alle politiche commerciali di tv, società sportive e lega professionista129.

Innegabilmente, con gli ultras cambia l’atmosfera all’interno degli stadi. Laddove esisteva una passione indifferenziata e disorganizzata (le ombrellate in tribuna di altri tempi, le intemperanze verbali, la cacce all'arbitro, le invasioni spontanee di campo, frequenti negli anni '60) gli ultrà non fanno che tirare «le logiche conseguenze organizzative del calcio come rito collettivo130». Dopo brevi apparizioni in gradinata trovano una propria collocazione al centro delle curve, delimitando così un territorio autonomo; si dotano di un proprio nome e di uno striscione dietro cui radunarsi e danno forma estetica al tifo: sventolano bandiere di grandi dimensioni e stringono al collo la sciarpa coi colori della squadra. La caratteristica distintiva è la partecipazione attiva alle partite che prevede un'incessante sequenza di canti coadiuvata dal suono di trombe e tamburi. In breve tempo compaiono anche i primi fumogeni, che al fischio iniziale avvolgono le curve e insieme a razzi e bengala danno vita alle prime vere e proprie coreografie, che col tempo si faranno sempre più articolate. Gli ultras assumono un look antagonista e sviluppano senso di appartenenza e territorialità, spesso misurato in risse

129 MARCHI V., Il derby del bambino morto. Violenza e ordine pubblico nel calcio, Roma, Derive Approdi, p.170. 130 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.11. 75 ed incidenti con gli avversari. e in breve tempo creano un regolamento informale negli scontri con li avversari. Mentre la violenza è stata una costante nel calcio, spesso dovuta alla frustrazione per un senso di mancanza di equità131, gli scontri diventano una specificità ultras: hanno un valore simbolico, estetico ed emotivo e l'obiettivo è affrontare gli avversari e sottrarre i loro simboli, che possono essere conservati o esposti come trofeo. In questi anni la polizia si caratterizza per un intervento poco invasivo, e sembra assumere il ruolo di “arbitro” del confronto tra i gruppi, con cui capita di scontrarsi solo occasionalmente e incidentalmente: non sono le forze dell'ordine, in questa fase, l'obiettivo dei tifosi, ma la difesa dei propri spazi e l'attacco ai gruppi rivali. L'occasione per dar vita a scontri è dovuta anche alle modalità di visione delle partite: fino agli anni ’70 non esisteva ancora l’odierno “settore ospiti” e i tifosi in trasferta prendevano liberamente posto nei vari settori dello stadio, non di rado a contatto con i tifosi locali. Fu proprio per questo motivo che a ogni partita in cui si incontravano tifoserie nemiche si registravano cariche da parte di una delle due fazioni per rubare stendardi, pezze e bandiere della tifoseria opposta, considerati veri e propri trofei di guerra.

Ho sentito raccontare mille storie e dare tante definizioni di cosa era essere ultras in quel periodo. Ma adesso te lo dico io davvero cosa era un ultras. A Firenze quando giocavano il Napoli o la Roma sembrava di essere in trasferta. La Fiesole si riempiva di tifosi avversari, e i fiorentini dovevano stare belli e zitti. Allora noi decidemmo che era troppo e ci mettemmo d’accordo. Ci mettemmo tutti insieme in mezzo alla curva. Potevi vedere questa macchia viola in mezzo a un fiume di napoletani. Circondati da ogni parte. Iniziammo a picchiare. Da quel giorno a nessuno è mai più venuto in mente di venire in

131 In questo senso si può registrare la morte del tifoso salernitano Giuseppe Platano, 48 anni, prima vittima da stadio, morto nel 1963 durante un Salernitana-Potenza valido per la in serie B. A causa di un rigore negato ai padroni di casa, la tifoseria locale invase il campo dando luogo a scontri violenti che coinvolsero le due tifoserie e le forze dell’ordine. Proprio un colpo di pistola sparato da un poliziotto raggiunse il tifoso sulle tribune dello stadio uccidendolo sul colpo.

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Fiesole. Come posso descriverti cosa ho provato? Una macchia viola in mezzo ai napoletani. Questi erano gli Ultras. [Ultras fiorentino]

Da una ricognizione tra le varie biografiche dei tifosi, spesso polemicamente in contrasto tra loro per affermare il primato del proprio gruppo, risulta che la prima compagine ultras a nascere è la Fossa dei Leoni (1968), che si stabilizza inizialmente nel settore dei popolari e prende il nome dall’allora campo di allenamento del Milan. Seguono i “cugini” nerazzurri che nel 1969 fondano i Boys, espressione di un nucleo di ragazzi appartenenti all’Inter Club Fossati e che nel 1981 aggiungeranno al proprio nome la dicitura “S.A.N.” (“Squadre d’azione nerazzurra”) a testimonianza della tendenza politica di destra dei componenti. Nello stesso anno fanno la loro comparsa a Bologna i Commandos Rossoblu, gli Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria e gli Ultras Granata del Torino. Nel documentario “Ragazzi di stadio” del 1980, il torinese Daniele Segre intervista alcuni dei fondatori del gruppo granata. La testimonianza di Margaro racconta il distacco dal primo club ufficiale del Torino e la presa di coscienza dei giovani ultras del proprio ruolo:

Io andavo allo stadio a vedere il Toro da gagno [in torinese ‘da bambino’] insieme a mio padre, in distinti. Però guardavo verso la curva, dove c’erano i Fedelissimi, il primo club organizzato dei tifosi del Toro, ed ero affascinato dal loro modo di guardare la partita, di sostenere la squadra, di vivere il Toro sette giorni su sette. Allora è normale che quando sono cresciuto e non andavo più con mio padre, allo stadio mi mettevo in mezzo a quelli che facevano il casino. E allora dopo un pò, queste centinaia di ragazzi, giovanissimi che seguivano il Toro in curva, andavano in trasferta compatti per evitare le botte dai gruppi di quelle città dove gli ultras c’erano già da qualche anno, si vedevano in fabbrica, al bar, in piazza e allora nascono gli ultras del Toro. Ci stacchiamo dai Fedelissimi e facciamo a modo nostro. I cori, i tamburi, gli striscioni, le sciarpe, i fumogeni..sì c’è anche la violenza. Le tipe ci aiutano molto, nell’organizzazione del tifo, è logico che quando c’è da fare a botte stanno un poco in disparte – cazzo dici, oooohhh, disappunto delle ragazze 77

presenti – comunque lo sappiamo che se spacchiamo qualcosa o ci scontriamo coi gobbi o con gli altri tifosi, il lunedì sul Tuttosport c’è scritto degli incidenti e non del nostro tifo, incessante, per 90 minuti132.

Nel 1971 nascono Le Brigate Gialloblu del Verona, le prime a importare in Italia il cosiddetto “stile britannico”. L’anno dopo è la volta degli Ultrà Napoli e dei Boys della Roma (1972), degli Ultras Catanzaro, degli Ultras della Fiorentina, della Fossa dei Grifoni del Genoa, dei Commandos della Pro Patria (1973), delle Brigate Rossonere milaniste, dei Fighters Juventus, delle Brigate Nerazzurre Atalanta (1975) e del Commando Ultrà Curva Sud della Roma (1977), più noto come CUCS, che raduna tutte le anime del tifo giallorosso e per la prima volta porta i tamburi all'interno di uno stadio di calcio.

Prima di quel giorno in curva c'erano tanti gruppi, più che altro di quartiere. C'erano la Fossa dei Lupi, i Guerriglieri, i Boys, le Pantere, le Brigate Giallorosse, gli Ultras, con la “s” nel finale. Ma ogni muretto cantava per conto suo, il tifo era scomposto, diviso. Così, finalmente, decidemmo di cantare tutti insieme e di chiamarci con lo stesso nome133.

I nomi dei gruppi riprendono le denominazioni dei movimenti estremisti o clandestini degli anni '70 (Brigate, Fronte, Fedayn...), la cultura calcistica inglese o tedesca, in particolare privilegiando quei termini che esaltano l'eroismo, l'arditismo e il combattimento (Boys, Korps, Fighters...), in alternativa lo spirito goliardico (Sbandati, Sconvolts, Freak Brothers...). Su ogni striscione campeggiano vari simboli inneggianti alla presunta imponenza del gruppo, quali teschi, teste di tigri, pantere, leoni, fulmini, stelle rosse, caschi, chiavi inglesi.

132 SEGRE D., Ragazzi di stadio, Filmalpha, Italia, 1980. 133 AS ROMA ULTRAS, Nel nome di Lio, intervista a Vittorio Trenta, disponibile su: http://www.asromaultras.org/8889intervistacucs0004.JPG. 78

Uno spaccato della cultura dei gruppi ultras delle origini può essere ripercorso nei suoi tratti più caratteristici attraverso le parole di Claudio Bosotin, fondatore degli Ultras Tito Cucchiaroni. Durante la trasmissione Momenti di Doria134, confermando in larga parte gli elementi costitutivi della formazione del movimento ultras individuati finora, “Boso” riporta alla memoria il suo “romanzo di formazione” allo stadio, le vicende - non esenti da forzature leggendarie - della nascita del suo gruppo, il rapporto e il distacco coi club, gli esiti della passione per i colori blucerchiati, il rapporto, talvolta scanzonato, con la violenza.

Eravamo ragazzini, giocavamo nella parrocchia di Fossato, tutti sampdoriani. Io devo tutto a Enrico Mantero: mi ha portato la prima volta allo stadio, eravamo bambini, coi pantaloncini corti e le magliette coi bottoncini all’inglese, andavamo col padre, Giuseppin, un personaggio storico, uno dei più forti portuali di Genova, una bestia, simpaticissimo, con cui andavamo anche in trasferta: a Livorno…tutte le vecchie trasferte, le abbiamo fatte tutte. Lì è iniziata la mia malattia. La prima partita che ho visto è stata il 29 maggio 1966, facevo la comunione e come regalo chiesi di poter andare a vedere la Sampdoria. Purtroppo fu la prima volta che la Sampdoria andò in serie B. Ricordo i gol: Salvi, Cinesinho e Menichelli e traversa di Cristin. E questi tifosi della Juve che ci gridavano “Serie B, serie B”. Eravamo in ventimila, tanti e non di cartone come capita adesso. Uno stadio ci urlava contro. Ricordo un uomo coi capelli grigi che si girò verso di me e mi disse: “Noi siamo quelli delle elezioni, siamo quelli che eleggiamo chi deve stare in Serie A o no, perché vinciamo sempre”. Dicendo così mi tirò uno sputo, che me lo ricordo ancora, perché mi cola ancora. Io l’ho fissato. Quell’uomo non sa cosa ha fatto con quel gesto, perché io ho fondato gli ultras. E il primo striscione della mia vita che ho rotto è stato quello della Juve con scritto “Goba”. Andai e me lo presi da solo a Torino. E di lì ho cominciato. Prima di me c’era un grande tifoso che è stato ricordato poco, Gerardo Orlando, di Napoli. Era dei Corsari della val Porcevera, stavano a Bolzaneto. Io pensai di parlare con tutti questi ragazzi in delle assemblee e chiedergli di

134 Trasmissione televisiva sulle partite e i personaggi che hanno fatto la storia dell’U.C. Sampdoria. La puntata in cui è stata realizzata l'intervista è datata 7 febbraio 2013. 79 formare un gruppo unico, scegliendo un nome. Funziona, lo fondiamo, compriamo i tamburi. Scegliemmo il nome Ultras: Uniti Legneremo Tutti (i) Rossoblu Ancora (a) Sangue. […] Siamo nati anche grazie a Gino Della Scala, che anche lui mi ha pompato tantissimo. La prima volta siamo nati come Commando del Serpente, nella cantina di Gino. Poi ci siamo avvicinati ai Fedelissimi, poi siamo diventati Ultras San Alberto, fatto da Walter Patrone di Sestri […]. Gli dissi: “Metti lo striscione vicino che lo controlliamo”. E lui: “No, lo metto dall’altra parte”…così la prima volta mettemmo lo striscione contro gli Ultras del Toro che ce lo ruppero e poi noi con atti di violenza riuscimmo a recuperarlo. Poi Walter lo rifece. [..] Il nostro simbolo? Era Alex dell’Arancia Meccanica. Siccome andavamo coi treni speciali organizzati dalla Federazione dei Club Blucerchiati dove vendevamo gli adesivi col simbolo per poi comprare i tamburi, le trombe elettriche, le bandiere, facevamo gli striscioni. Questo simbolo qua, i papà non lo prendevano per i bambini perché era violento (aveva un coltello in mano, con un occhio rossoblu). Allora dovevamo trovare un altro simbolo. Mia madre ai tempi leggeva “Grand Hotel” e allora vidi questo personaggio, Franco Gasparri, che era il più figo di tutti e io ritagliai la sua faccia e lo feci disegnare a Ugo Ezio, un artista […] che quindi disegnò Gasparri con la sciarpa della Sampdoria […] Avevamo bisogno di un club e io ho riunito quelli di Sampierdarena. Io parlai con mia sorella, una pacifista e tra l’altro genoana, un’universitaria, che andava ai concerti di gruppi come Viva la Gente…io non potevo firmare per un locale. Lei mi chiese: “Ma fate un gruppo, ma suonate anche voi? Ed io “Sì sì…”. Lei firmò…e poi facemmo la sede degli ultras. Poi dopo poche settimane visto che il capo della squadra mobile si dava del tu con mia madre, volevo levare questo impiccio a mia sorella. C’era un club fondato da un certo Moccagatta, in un bar delle Cinque Terre. Questo tipo ci offre questo club che stava chiudendo: non erano i tempi migliori, i risultati della Samp erano scadenti. Moccagatta ci chiese di mantenere il nome Tito Cucchiaroni. Noi volevamo Ultras e allora decidemmo per Ultras Tito Cucchiaroni […]

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Un piccolo aneddoto legato a mia madre. Soddisfazioni che le ho dato? A scuola mi hanno mandato via, se no facevo carriera…entravo nei bidelli. Ricordo che eravamo a Goteborg e tiravano su la coppa che avevamo vinto. Mantovani era davanti a me, e io dissi a un collega (...lavoravo alla Sampdoria): “Se quella coppa la vedesse mia madre…”. Al ritorno quando siamo saliti sull’aereo, il ragionier Traverso disse a Mantovani: “La coppa la portiamo in sede, c’è anche la scorta”. Il presidente, che forse aveva sentito, disse: “No, la coppa la porta a casa Bosotin, che la fa vedere a sua madre”. Sfido nella storia del calcio e in quella di tutte le squadre del mondo a trovare un presidente che dà la coppa a un magazziniere per portarla a casa a far vedere alla madre… che quando l’ho portata tutta Sampierdarena era a casa mia. Mia madre fuori con la coppa sembrava il Papa, fuori dalla finestra c’era un entusiasmo. […] Era più semplice fare il tifo prima? Ci voleva una gran voce, gran convinzione. Come vieni eletto capo ultras? Ero un po’ estroso…a volte mi sono presentato allo stadio vestito da frate, e facevo gasare la gente e a quei tempi non c’erano Vialli e Mancini…dovevi convincere la gente a partire, a prendere freddo e pioggia, a suonarle agli altri gruppi. […] La denominazione ultras? I primi siamo stati noi. […] Avevamo delle divise, c’era scritto ultras davanti, avevamo la giacca dell’aeronautica, portata da un amico, e il basco da paracadutisti tipo rivoluzione francese, i blu jeans, e i giornali lo dicevano: arrivano gli ultras. Partivamo in 500 e tornavamo in 500. Arrestavano uno di noi? Tiravamo il freno del treno e non ripartivamo finché non arrivava il commissario. […] A fine partita facevamo invasione…e chi ci fermava? Noi eravamo il braccio violento della tifoseria blucerchiata.

Ultras e nuovi movimenti sociali

Come abbiamo appena visto dall'utilizzo dei simboli sugli striscioni, la crescita delle mobilitazioni connesse allo stadio si compie in contemporanea ai grandi rivolgimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta. Un periodo connotato dalla rivolta esistenziale, dal profondo rifiuto del principio di autorità e di dominio, in un contesto storico che vedeva l'Italia passare dalla faticosa ricostruzione del dopoguerra a una fase capitalista

81 più matura. Il boom economico aveva trascinato con sé ingiustizie e diseguaglianze, un'affermazione decisa del dominio del capitale e una contemporanea neutralizzazione del dissenso. L'imposizione del fordismo aveva difatti trasformato il modello precedente di fabbrica e rovesciava nei grandi centri urbani del nord masse di contadini provenienti dalle campagne del meridione. Si affacciava la società dei consumi e con essa la razionalizzazione di un modello gerarchico della società, che dalla fabbrica si estendeva a tutto il resto della società e alle forme di rappresentanza politica. Il sistema politico istituzionale sembrò incapace di dare risposte efficaci alle emergenti richieste di ampi strati sociali, che da un lato rifiutavano i nuovi disciplinamenti produttivi e dell'altro erano persuasi dalla necessità di un processo di modernizzazione della società. In questo contesto prende vigore la grande ondata di contestazione e l'affermazione di movimenti decisi a governare le trasformazioni in atto con un profondo bisogno di autodeterminazione della soggettività. Per Marica Tolomelli: «I movimenti del ’68 denunciarono con spiccata enfasi la dissonanza tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Essi stessi erano emanazione della crisi di rappresentazione e mediazione delle istanze collettive135». Nonostante lo scenario appena accennato evidenzi un movimento attento e contrapposto al nuovo ordine economico e sociale, è frequente ritenere che il movimento ultras sorga in un periodo di crisi dell’azione collettiva. Roversi, in uno dei primi rilevanti contributi sociologici sul movimento ultras, riconosceva al movimento una certa capacità di anticipare, seppur in forme simboliche, il futuro prossimo dell’immaginario giovanile: negli anni Settanta il distacco dalla prassi politica di massa; negli anni Ottanta la frantumazione in clan dell’identità collettiva; negli anni Novanta la conflittualità etnica, politica e impolitica. Una posizione che ricorrerà di frequente nello studio dei conflitti sociali, che vedono protagonista la composizione giovanile. Così ad esempio si esprime Alberto Melucci, storico dei movimenti sociali: «Alla base del processo di adesione al modello ultrà sembrano esserci quei meccanismi di delusione sociale attivati dalla duplice crisi del modello

135 TOLOMELLI M., Il Sessantotto. Una breve storia, Roma, Carocci, 2008, p.10. 82 occidentale di sviluppo e delle prassi politiche tese a modificarlo. Elementi quali il tramonto delle certezze ideologiche e religiose, la caduta delle illusioni sull’egualitarismo della società dell’affluenza, l’affermarsi di un modello televisivo totalizzante, la perdita progressiva della memoria storica sfociano in una crisi generalizzata del senso d’identità, in una “individualizzazione dei conflitti collettivi” che rielabora la scala delle priorità individuali e collettive136». La visione di Melucci esaspera il sentimento di frustrazione dei giovani per il crollo delle aspettative sull’inclusione sociale e sulle «capacità emancipatrici della politica», nonché le difficoltà incontrate nel comprendere le complesse trasformazioni sociali e tecnologiche in corso. Tuttavia, marcare “l'individualizzazione dei conflitti collettivi” tra le qualità intrinseche dei nascenti gruppi ultras appare decisamente una forzatura. I primi gruppi ultras nascono nel ’68, contemporaneamente alle prime contestazioni, e già a partire dal ’73 tutte le grandi città del centro e del nord Italia ospitano una consistente aggregazione ultras. Gli slogan, i nomi, i simboli, le pratiche e le forme organizzative richiamano inequivocabilmente i gruppi extraparlamentari dell'epoca137. Occorre inoltre sottolineare, come si evince da diverse autobiografie e interviste, che non di rado i leader delle tifoserie erano allo stesso tempo elementi di spicco dei movimenti extraparlamentari138. In controtendenza con gli autori sopracitati è l'approccio di Valerio Marchi, i cui lavori offrono una delle più lucide ricostruzioni della nascita della cultura ultras, a partire dal contesto socio-politico della fine degli anni Sessanta. L’autore colloca il movimento ultras dentro un più ampio rivolgimento sociale che travalica i tradizionali campi del

136 MELUCCI A., L'invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni individuali, Bologna, Il Mulino, 1982, p.91. 137 Per Dal Lago, non bisogna considerare le curve come espressione immediatamente riconoscibile di un determinato pensiero politico: i vari simboli che compaiono in curva sono generalmente un insieme di elementi che creano l'identità della tifoseria in opposizione con quella di altre tifoserie, al di là del riferimento stretto al senso originale dei simboli stessi. DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.114. 138 Per Domenico Mungo, storico ultras della Fiorentina e autore di tesi sul tifo calcistico, la questione del rapporto tra curve e politica è «storicamente fisiologica». I gruppi ultras «nacquero anche in virtù dell’imitazione delle esperienze di aggregazione politica degli anni 60 e 70, secondo tipologie, estetica e parole d’ordine. A seconda delle città i gruppi avevano una connotazione politica di un segno piuttosto che di un altro». PROVINCIALI A., Ultras e cani sciolti, Mucchio Selvaggio, dicembre 2008. Disponibile sul web: http://www.ultrasblog.biz/2008/12/parla-mungo.html. 83 conflitto. Il decennio che parte dalla fine degli anni settanta vede il susseguirsi di vasti e strutturati movimenti politici, a scuola come in fabbrica e sui territori, che promuovono la liberazione sessuale e una nuova visione della donna, le campagne per l’ingresso gratuito ai concerti e negli stadi, le azioni di esproprio delle merci, le feste del proletariato giovanile e i festival, le occupazioni, fino alla “riappropriazione dei bisogni” del ’77. In questo turbolento frangente una gioventù intrisa di coinvolgimento politico inizia ad aggregarsi in gruppi da stadio. È la nascita del movimento ultras139. Elementi distintivi di questa cultura sono atteggiamenti e comportamenti che si richiamano da un lato alle pratiche del tifo in voga fin dai tardi anni Cinquanta ad opera di club di supporters sostenuti dalle società sportive, dall’altro alle “maniere” di una nuova generazione che «ha già messo in discussione il principio di autorità in famiglia, nella scuola e nell’università, nella fabbrica140». I brani delle interviste raccolte tra i protagonisti del periodo dimostrano con chiarezza origini, presa di coscienza e connessioni del movimento ultras. Nei due brani che seguono colpisce in particolare il trasferimento continuo di pratiche tra la piazza e altre manifestazioni pubbliche (partite, concerti...).

La curva rossonera diciamo che da sempre ha avuto tre gruppi predominanti: il primo gruppo a nascere è stato la Fossa dei Leoni, nel ’68, che inizialmente non stava neanche in curva ma sul rettilineo; poi ci sono stati i Commandos e infine le Brigate Rossonere nel ’75. Dati gli anni di fondazione, in particolare della Fossa dei Leoni, e la matrice qui in una città come Milano che sentiva molto le influenze politiche del momento, (e vale anche per le Brigate Rossonere che nascono nel ’75), diciamo che la componente maggioritaria era comunque di sinistra e ostentava in una prima parte dei simboli, come la bandiera del “Che” in curva, al centro della curva, come simbologia, ma in realtà non c’è mai stata una richiesta di appartenenza ideologica forzata, anche perché già all’epoca c’erano già persone di “spicco” della destra milanese che convivevano con personaggi di spicco dell’area di sinistra, antagonista milanese. [Ultras milanista]

139 MARCHI V., op. cit., 2005, pp.126-149. 140 Ivi, p.126. 84

Siamo partiti da Firenze col treno la mattina presto e siamo andati a Genova. Eravamo tutti [membri] dei movimenti politici che c’erano in quegli anni là. Avevamo i caschi che portavamo ai cortei, e le stesse mazze. [Ultras fiorentino]

Sono stato con le Brigate [Rossonere] quasi fin dall’inizio. L’amico che mi ci ha portato l’ho conosciuto a un concerto. Mi sa al Palalido. Ahah, il concerto non l’abbiamo nemmeno visto. Ero andato là perché sapevo che ci sarebbe stato casino ai cancelli. Si radunavano i giovani che volevano entrare gratis. Appena c’era il numero sufficiente partivano i petardi, le spinte, le cariche, i sassi. […] Era una pratica abituale del collettivo. [Ultras milanista]

Un quadro più approfondito dello spaccato sociale in cui si muovono i primi ultras arriva dalle voci dei sostenitori di fede granata. Negli anni presi in esame, Torino è una metropoli industriale segnata da frequenti tumulti politici e scontri sociali, nonché sede di due squadre di calcio fortemente popolari e antiteticamente rappresentative. Joe è tra i volti che compaiono nel già citato documentario di Daniele Segre: leader degli Ultras Granata, occupato al reparto presse dello stabilimento di Mirafiori, interpellato dal regista, esprime attraverso una comparazione tra elementi sonori la propria duplice condizione di operaio e militante di curva.

Ci dicono che allo stadio facciamo rumore. Con i tamburi, le trombe, i cori. Ma allo stadio quel rumore è per Novanta minuti. Ed è gioia e passione. In fabbrica quel rumore è un martello nel cervello per otto ore al giorno141.

Attivo politicamente, impegnato nel sindacato, è cosciente del disappunto che i mass media dell'epoca rivolgono puntualmente alla sua passione domenicale.

141 SEGRE D., op. cit.,1980 85

Non credo di essere un disadattato perché vado allo stadio con gli ultras. Non credo di essere un violento, o perlomeno non diverso dalla società in cui vivo. Quelli che non si picchiano allo stadio lo fanno in discoteca o per un parcheggio142.

A trent'anni dal documentario di Segre è un altro ultras granata, Roberto, a inquadrare la passione ultras nello scenario della città torinese in uno scontro con i rivali della Juventus che assume le sembianze della dialettica capitale-lavoro.

Sono nato a Torino, alla fine degli anni Sessanta. L’autunno caldo era qualcosa che noi di Mirafiori sentivamo ancora sulla nostra pelle. Le lotte degli operai della FIAT, le occupazioni delle case popolari, la mancata integrazione dei meridionali nel tessuto cittadino. Il piombo. L’eroina. L’antagonismo sociale. Il riflusso edonista della seconda metà degli anni Ottanta. La crisi economica e la depressione della FIAT e il mito ingombrante di una Milano da bere, troppo vicina e troppo lontana. I primi centri occupati. Fra cui El Paso, ma non solo, anche il Kinoz, all’inizio degli anni Novanta, in via Giordano Bruno di fronte ai Mercati generali e a 100 metri dal Fila, più che uno squat un covo di quartiere, dove entravano ultras, tamarri di zona, ragazzi delle case popolari, si facevano i cylum ma fuori restavano spacciatori ed eroina. Dove sui muri c’erano A cerchiate, Che Guevara e Pulici. Questo era quello in cui siamo cresciuti. E sullo sfondo c’era il calcio. C’era lo Stadio Comunale, che è qui, a Santa Rita, in Corso Agnelli. C’erano i primi gruppi organizzati che nascevano dalle compagnie di zona, dai giardinetti, dalle case popolari, c’eravamo noi e i gobbi. Loro molto meno di noi sentivano questa identità. Noi da subito abbiamo iniziato a sentirci ultras del Toro, prima che tifosi del Toro. Loro tenevano per la Juve perché vinceva tutto, un riscatto anche sociale per generazioni di figli di meridionali operai FIAT. I gobbi erano prima compagni e poi sono diventati tutti fascisti. Noi eravamo il Toro e noi eravamo quella Torino operaia e incazzata che odiava non solo la Juve, ma anche e soprattutto quello che significava socialmente e politicamente come emanazione della FIAT. Il Toro contro la Juve, due Torino contro, due visioni del mondo diverse, sebbene figlie della stessa madre. Uno scontro che non si affievolì nemmeno nel tremendo , anch’esso nato 142 Ibidem. 86

per logiche speculative legate a Italia ’90, mai amato da nessuno, per il suo essere asettico e freddo. Si moltiplicavano, per gli Ultras Granata, gli scontri allo stadio e le storie di amicizie e di gruppi che si consolidavano, prendendo l’eredità che ci lasciarono Joe e Margaro, Cocco e Fausto. Un nuovo nucleo di ultras era nato da quegli insegnamenti143.

Anche il brano che segue evidenzia come la denuncia della condizione operaia e più in generale del rifiuto del lavoro normato si materializzasse all'interno delle curve italiane nell'odio contro la Juventus, la società emanazione della Fiat.

Non si poteva non odiare la Juventus, la squadra del potere, dei padroni. Ce sta questo coro che si alzava in Sud: È lunedì / che umiliazione / andare in fabbrica a servire il tuo padrone / o juventino / ciucciapiselli / di tutta quanta la famiglia Agnelli… oggi può apparire un coro snob, oppure qualunquista. Ma all’epoca era il proletariato romano, con un bel pezzo di autonomia, che rivendicava la propria differenza. Una sorta di rifiuto del lavoro che si teneva con l’odio calcistico. Tieni presente che a Roma non se lavorava un granché in fabbrica. [Ultras romanista]

Il coro suggerito dall'ultrà romanista è un'elaborazione degli anni '70 e conferma le tensioni tra curva e mutamenti sociali. Il «bel pezzo di autonomia che rivendicava la propria differenza» è frutto della nuova composizione sociale operaia che ha cominciato ad affacciarsi alla vita di fabbrica con l'occupazione di Mirafiori del 1973. Un'esperienza che fece emergere «la radicalità di un rifiuto consapevole della prestazione lavorativa144» in un contesto di intensa critica operaia al sindacato, dove ad emergere «non erano più emigrati meridionali privi di radicamento nella metropoli [che la Juventus, legata alla Fiat, affascinava acquistando giocatori del sud Italia, vedi i siciliani Furino e Anastasi, il pugliese Causio, il sardo Cuccureddu, il calabrese

143 MUNGO D., Ragazzi di stadio, ragazzi di vita, in CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), op.cit., 2010, pp. 60-61. 144 BALESTRINI N., MORONI P., L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 1988, p.435. 87

Longobucco, mio corsivo], ma giovani torinesi e piemontesi scolarizzati e formatisi nel clima delle lotte studentesche e delle esperienze aggregative del quartiere145». Da questi frammenti di interviste la liaison tra settori delle curve e la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, appaiono in tutta la loro evidenza. Modelli parapolitici di coesione di gruppo, nei quali soprattutto l'amicizia e la fratellanza espressa sul campo cementificano i legami, si sovrappongono alla militanza nei gruppi politici extraparlamentari, seppur in forme originali. Nella cultura del tifo, infatti, a lungo andare si allentano i vincoli coi significati originali delle espressioni politiche e la loro riproposizione risulterà evidentemente stratificata: un assemblaggio di elementi diversificati e riproposti secondo logiche dall’evidenza non immediata o semplicemente strumentale e atta a contrapporsi con l’avversario146. A tal proposito, Marchi coglie all'interno del movimento ultras la presenza di una cultura cumulativa che tende ad assemblare i più diversi elementi delle controculture e delle sottoculture giovanili, elementi che al pari delle tendenze politiche si sovrappongono e si mescolano nella superiore istanza ultras147. A conferma di questo passaggio, le voci dei protagonisti narrano una realtà nella quale i repertori dei movimenti politici sono messi in discussione dall’interno: l’aggregazione ultras sviluppa simbologie e saperi che sono vissuti consapevolmente da una quota di proletariato metropolitano e di ceto medio anche come sfida, o alternativa, rispetto alle pratiche e all’identità ritenute troppo “ingessate” dei gruppi extraparlamentari:

145 Ibidem. 146 Tra le nuove icone, la più curiosa è forse la “Confederate Navy Jack” (la bandiera degli Stati Confederati d’America dal 1° maggio 1863 al 4 marzo 1865), con troppa semplificazione chiamata generalmente la “bandiera sudista” degli stati secessionisti americani, un simbolo il cui significato viene letteralmente stravolto: adottato da molti gruppi ultrà del Meridione che ne ignorano le implicazioni politiche e razziali ad esso connesso (era la bandiera dei sudisti, che sfruttavano la manodopera schiava nera nella coltivazione dei campi di cotone) e ne fanno un simbolo di ribellione del Sud nei confronti del Nord. La bandiera sudista viene presa come simbolo dal Commando Ultrà Curva B di Napoli ma anche da alcuni gruppi del nord come la Nuova Guardia di Udine che la stampa sul proprio striscione. 147 Per Dal Lago «ciò che avviene in uno stadio, anche se apparentemente riprende valori e contenuti della vita ordinaria, ha una forma autonoma rispetto al mondo esterno» in DAL LAGO A., op. cit.,1990, p.115. 88

A Firenze avevamo due capi. C’era il Pompa, che era anche un capo di un gruppo comunista di Prato, e il Pampa, che stava con i fascisti. Il Pompa lo disse subito: «Qui si tifa Fiorentina tutti uniti» e si incazzava come un toro se qualcuno toccava un fascista. Era una cosa strana, se tieni conto delle regole dei gruppi politici e del fatto che all’epoca tra rossi e neri ci si menava davvero. Ma quello che contava di più era che se eravamo tutti insieme potevamo girare per l’Italia, perché era più difficile picchiarci. Devi considerare che all’epoca non c’erano le scorte, le barriere. Andavi a Milano, a Roma, e se non ti sapevi difendere tornavi rotto. E poi le emozioni che il gruppo ci dava erano esattamente quelle di cui discutevamo nei collettivi, quando ci ribellavamo a tutti e dicevamo di voler fare come si diceva noi. Eravamo ultras. [Ultras fiorentino, 2012] La Fossa dei Leoni era composto da compagni. Ma alla fine devo dire che allo stadio non si stava attenti come lo si era fuori al colore di chi era con te. A me piaceva, perché mi sembrava una qualità maggiore di condivisione, di conoscenza, di amicizia. La Sud era un posto libero, il primo posto che mi ha fatto sentire così. [Ultras milanista, 2012]

Il Commando per me prima di tutto è un’idea. È qualcosa che crea un’appartenenza così stretta tra una città e una squadra da rendere impossibile che, come oggi, il calcio sia di tutti fuorché dei tifosi. Il Commando non era un gruppo di sinistra, il Commando era semplicemente il popolo di Roma; la gente veniva dalle borgate, dai quartieri popolari, dalle scuole, dalle fabbriche. Per questo si dice che il Commando era di sinistra, pure se non era politicamente schierato. Era lo specchio di una certa città. […] Quando la Sud cantava, quando si muoveva, era immediatamente chiaro di chi fosse la squadra, a chi appartenesse, per chi giocasse. Non c’era bisogno di niente se non di essere. […] Noi dettavamo le regole, e non ricattando ma solo con la forza della nostra passione; noi dipingevamo il calcio. Prova solo a immaginare quanto, di quello che gli ultrà hanno inventato, è diventato il linguaggio ufficiale del calcio. Tantissimo. È dagli anni Settanta che gli ultrà inventano il calcio. Noi siamo la cultura del calcio. Perché il calcio è una città con la sua squadra e i suoi tifosi, un unico amore. [Ultras romanista, 2012]

L’aggregazione ultras produce nuove forme di socialità, una produzione simbolica originale e una conflittualità che, seppur con le sue differenze, attinge al filone dei 89 molteplici rivolgimenti di fine anni Sessanta. Come suggerisce Melucci, è un movimento che coglie i mutamenti strutturali della società italiana e mette in luce l’eterogeneità della composizione sociale e delle aspirazioni del ciclo di protesta stesso. Il dibattito sulle forme del conflitto inaugurato nel ’68, la riflessione sulla qualità politica delle nuove pratiche messe in campo, suggerisce a distanza di tempo riconsiderazioni critiche sui caratteri di fondo di quel periodo148. Illuminati evidenzia come il ’68 sia stato soprattutto «demolizione della cultura corrente149», un «atteggiamento edipico150» che si rovescia su tutti gli aspetti della vita sociale. La trasmissione dei saperi e il patto tra generazioni sono messi in crisi ovunque, ma allo stesso modo un’analoga tendenza centrifuga e dissacrante coinvolge le forme organizzative e i simboli appena sorti. L’equivoco della precoce depoliticizzazione dovrebbe così sciogliersi nel riconoscimento della presenza di istanze strutturalmente composite e contraddittorie nei movimenti sorti alla fine dei Sessanta. Il movimento ultras rappresenta soprattutto la costruzione di una particolare forma di legame sociale, ben radicato nel tessuto urbano, in grado di ribaltare provvisoriamente le gerarchie sociali e di innalzare il protagonismo di una composizione sociale desiderosa di ribalta e di riconoscimento, a cui le recenti trasformazioni della struttura sociale hanno consegnato possibilità inedite.

Guarda lo stadio. È la metafora delle nostre divisioni di classe. Allora anche più di oggi. La grande borghesia nella tribuna centrale, la media borghesia nella tribuna laterale, la piccola borghesia nella tribuna opposta e i popolari nella curva. La curva Fiesole aveva i prezzi più bassi dell’altra curva perché era esposta al sole. Fuori, nella società reale, la borghesia detta legge. Ma allo stadio abbiamo invertito i rapporti di forza. Noi ultras siamo i protagonisti. Noi siamo Firenze. Lo stadio intero segue il nostro tifo, guarda le nostre bandiere, aspetta le nostre coreografie. La cultura che vince e che contagia allo stadio è la nostra. [Ultras fiorentino, 2012]

148 BALDISSARA L., MELEGARI D. (a cura di), La rivoluzione dietro di noi, Roma, Manifesto Libri, 2008. 149 Ibidem. 150 Ibidem. 90

In effetti, è raro trovare un luogo come lo stadio, dove il modello culturale dominante è imposto dagli “ultimi”. Il potere magnetico che il movimento ultras ha esercitato verso tanti giovani, portandoli a contravvenire alle formule e alle distinzioni apprese nei gruppi politici, sembra potersi spiegare con l’accumulo di forza generatosi nella curva, capace di suscitare nei giovani la sensazione di un vero e proprio rovesciamento delle gerarchie sociali e, di conseguenza, una sensazione inedita di appagamento proprio sul terreno bollente della contestazione delle stratificazioni sociali e delle divisioni generate dalle dinamiche capitalistiche.

“I furiosi” anni '80

Nel corso degli anni Ottanta, il movimento ultras conosce una delle sue stagioni più intense ma per certi versi anche drammatiche. Mentre i giovani danno l'impressione generale di essere pacificati - «il lungo '68 italiano, durato più di dieci anni, era finito, le università e le scuole sonnecchiavano, l'ordine pubblico non appariva più ai primi posti dell'agenda governativa151» - a inquietare sono i “rumorosi” ultras che danno vita ad attività ricreative, elaborano slogan e canti non di rado truculenti, e più in generale mettono in scena complessi riti domenicali che includono lo scontro con gli avversari per ragioni territoriali, per faide e più raramente per motivi strettamente legati all'esito fatidico della partita. Del resto i gruppi ultras si sono moltiplicati e rappresentano culturalmente il soggetto esasperante la metafora della battaglia, inoltre agiscono in uno spettacolo di massa come il calcio. Tuttavia la cosiddetta “violenza da banda”, che è quella che di cui gradualmente si impossessa il movimento ultras è quasi esclusivamente ludica, ha a che fare «con meccanismi di esibizione e di emulazione» e risponde alla logica del “mordi e fuggi”: aggressioni istantanee, sassaiole, sequenza di pochi minuti. Per Dal Lago, provocatoriamente, osserva che «dato il gran numero di formazioni di

151 DAL LAGO A., op. cit.,1990, p.10. 91 tifosi o gruppi di curva, e data la comune cultura che le anima, basata su conflitti storici, avversioni e gemellaggi (cioè alleanze) instabili, oltre che sulla propensione verbale allo scontro, il vero problema è: come è possibile che le guerre tra i tifosi siano così incruente e che, tutto sommato, un certo ordine rituale sia mantenuto comunque negli stadi di calcio152». Seppur volontariamente provocatoria, l'idea che sia soprattutto la percezione del pericolo a iniettare il panico tra gli osservatori non sembra distante dalla realtà dei dati. In ogni caso sarà proprio un episodio drammatico, a dare conferme a chi sostiene il esattamente contrario. Il campionato 79/80 si apre infatti con una tragedia destinata a lasciare un segno indelebile nel mondo del calcio. Il 28 ottobre 1979, durante il derby di Roma, un razzo parte dalla curva romanista e raggiunge i dirimpettai biancocelesti. Il razzo, esploso da un diciottenne di Piazza Vittorio, colpisce e uccide Vincenzo Paparelli, un tifoso laziale seduto in curva Nord. La partita si gioca ugualmente, nonostante le proteste degli ultrà laziali, in particolare quelli raccolti nel gruppo degli Eagles che cercano senza successo di invadere il campo e sospendere l'incontro. La polizia carica e svuota il settore dei biancocelesti mentre il derby finisce in parità. Il primo omicidio avvenuto nel mondo delle curve153 ridisegna agli occhi dell'opinione pubblica il movimento ultras in termini di allarme sociale e darà l'occasione alle forze di polizia di incrementare in senso qualitativo e quantitativo la propria presenza. Viene introdotta la pratica della perquisizione - con metodi non del tutto efficaci - e si alzano grate e inferriate per separare gli spazi e rendere più difficoltosi i contatti tra opposte tifoserie. Una pesante criminalizzazione è subita dal Commando Ultrà Curva Sud, considerato il mandante dell'omicidio. Di seguito il resoconto pubblicato da un ultrà romanista sulle “difficili” giornate del dopo-Paparelli.

152 Ivi, p.9 153 La prima vittima da stadio come già ricordato è quella del tifoso salernitano Giuseppe Platano, nel 1963 durante un Salernitana-Potenza raggiunto da un colpo di pistola sparato da un poliziotto. 92

Il Commando era un bambino appena nato, piccola creatura dalle guance rosse, piena di salute e di voglia di vivere. Te la vedi crescere sotto gli occhi, sempre a posto e sempre più bella; poi improvvisamente, senza una ragione precisa, te la vedi morire tra le braccia e tu non puoi fare altro che urlare di rabbia e di paura. Quel giorno e i seguenti li ricorderemo come i più drammatici: titoli cubitali sui giornali, l'angoscia di trovarsi di fronte ad una situazione più grande di noi che non capivamo. Tutto il paese ad urlarci assassini, i quotidiani che ci definivano banda armata, il tutto nell'impotenza del non sapere che fare. Quegli stessi momenti però, ci fecero capire chi veramente credeva nel gruppo e nell'amicizia che con grandi sforzi avevamo costruito. E oggi da quell'esperienza abbiamo tratto insegnamenti che mai più scorderemo. Uscivamo da una stagione difficile quella del '78/'79, da una salvezza strappata con i denti. La squadra era un disastro ma noi conoscemmo forse il nostro periodo di gloria. Eravamo i migliori e non e' certo la presunzione a farci parlare. I gruppi di tutta Italia ci invidiavano e ci imitavano, molti venivano a Roma per vedere da vicino cosa eravamo capaci di fare. Il tifo era una voce sola, l'unione era perfetta, i nostri tamburi rullavano come mai in passato. [...] Avevamo grandi progetti, iniziavano i primi timidi colloqui con il nuovo presidente, ma tutto fu irrimediabilmente spezzato nel derby del 28 ottobre 1979: Vincenzo Paparelli un tifoso della Lazio fu ucciso da un razzo sparato dalla curva sud. Via i tamburi, via gli striscioni; i nostri slogan? Apologia di reato! Il nostro nome? Banda armata! Per noi tutte le serrande abbassate non ci conosceva più nessuno. Chi eravamo? Strati sottoproletari di gioventù violenta. Ma chi ha dato a tutti noi la forza di continuare? Chi il coraggio di subire interrogatori e processi d'opinione? La convinzione di essere innocenti e nient' altro154.

Quella che l'opinione pubblica, seppur con qualche distinguo, aveva fino a quel momento considerato una movimentata festa popolare sembra lasciar posto a uno scenario più cupo e drammatico.

154 CUCS, op. cit, 1987. 93

Non è forse del tutto cervellotico pensare che l'avvenimento dell'Olimpico, da un punto di vista mediatico e di percezione pubblica, venga vissuto come una sorta di passaggio di testimone da una violenza all'altra, da una tensione all'altra: mentre le dolorose passioni politiche degli anni Settanta, dopo Moro, cominciano a declinare verso il distacco e la voglia di evasione che domineranno il decennio successivo, ecco che un altro tipo di violenza, altrettanto se non più spettacolare, e certo meno pericolosa, conquista spazio nell'immaginario popolare e diventa un ottimo sfogo per facili indignazioni155.

L'episodio che apre il decennio condiziona la percezione dei tifosi organizzati e rafforza il sistema di controllo da parte della polizia, ma non intaccherà l'adesione al movimento ultras. Nel giro di poco tempo ogni realtà calcistica ha il proprio gruppo di riferimento e anche al sud crescono manipoli di tifosi. I gruppi storici strutturati secondo scale gerarchiche e organizzative crescono ulteriormente e arrivano a contare migliaia di iscritti (ad esempio, alla Fossa dei Leoni del Milan nella stagione 1987-88 risulteranno 15.000 iscritti). Sono loro, ogni domenica, a regalare lo spettacolo delle curve e ad affermarsi come il dodicesimo uomo in campo. All'espansione del fenomeno corrisponde un periodo di importanti mutamenti: avvengono i primi ricambi generazionali all'interno dei gruppi originari e si nota un generale riflusso dei movimenti politici, la cui influenza aveva conferito a gran parte del movimento ultras un ulteriore elemento di identificazione e unità. A evaporare sono infatti molti spazi aggregativi e di socializzazione esterni allo stadio che, come faceva notare Roversi, costituivano il primo gradino di identificazione per il futuro ultras. Le disgregazioni della società si riflettono nella vita di curva: diminuisce l’interesse e la partecipazione alla vita del gruppo e viene meno quella militanza che fa dell’essere ultras uno stile di vita totalizzante e coinvolgente. La curva comincia a essere una vetrina dove emergere individualmente e al suo interno c'è chi ci prova a farsi avanti con la voce e l'inventiva, chi con la forza fisica e i coltelli. I direttivi hanno difficoltà a mantenere l'egemonia sull'intera curva e non sempre controllano le azioni dei membri

155 FRANCESIO G., Tifare contro, Milano, Sperling & Kupfer, 2008, p.46. 94 più giovani o di altri gruppi. Si assiste gradualmente alla nascita dei “cani sciolti”, giovani che non si riconoscono in nessuno dei gruppi presenti in curva e che, spesso senza esperienza, si rendono protagonisti di atti vandalici gratuiti e pericolosi, senza considerare e tanto meno conoscere la storia del movimento ultras e le sue “regole del disordine”. Un concetto, quest'ultimo, coniato da Marsh, Rosser ed Herré, nel libro The rules of disorder156, che indica una sorta di razionalità nell'uso della violenza, praticata non indistintamente ma solo in determinati casi e contro alcuni precisi gruppi di ultras considerati nemici: una gestione sul campo degli scontri da parte dei componenti del direttivo, che decidevano se e in che modo praticarla; un coinvolgimento dei più giovani nello scontro vincolato da precedenti prove di affidabilità; la selezione dei soggetti con cui scontrarsi (era proibito coinvolgere negli scontri persone estranee alla logica ultrà, così come tendenzialmente era fuori dalla mentalità compiere atti di vandalismo gratuiti). Un esempio del modello proposto da Marsh e dai suoi colleghi compare nelle parole di C., da me intervistato nel 2005. Per anni elemento di spicco delle Brigate Rossonere, nonché attivo negli spazi sociali della città, C. riassume il senso della disciplina e del rispetto delle regole, rievocando una trasferta dei milanisti a Roma.

Tra i fiori all’occhiello della curva del Milan c'è il fatto che con componenti politiche completamente diverse si è riusciti ad evitare il tracollo da una parte o dall’altra grazie ad esperienze di vita, esperienze ultrà e la capacità di scindere il mondo esterno, il mondo reale, con il mondo ultras cioè quella situazione, quella sfera ultrà dove ognuno di noi viveva e vive. Quindi quello che tu crei lì poi dopo ha un peso rilevante anche fuori ed eviti di creare situazioni in cui si possa schierare la curva in una maniera o in un'altra. L'altra qualità è stata la gran compattezza: io non so quanti gruppi abbiano avuto la forza negli anni in cui gli scontri erano all’ordine del giorno, non come ora, di andare a Roma mandando due giorni prima gente da qua, parlo di due/tre persone non di mille, che vanno a Roma con i compagni di Roma delle Brigate sez. Roma per organizzare un tragitto

156 MARSH P., ROSSER E., HERRÉ R., Le regole del disordine, Roma, Giuffrè, 1984. 95

alternativo, un posto dove abbandonare i pullman e arrivare allo stadio a piedi ed arrivare praticamente in curva sud della Roma. Fuori di qui questo può anche essere criticato, ma già arrivare a farlo, ad avere una struttura tale per cui, anche gente convinta, picchiatori piuttosto che magari fascisti che c’erano anche nella nostra area, - gente molto così “andiamo andiamo”- è stato un gran segno di compattezza. Nessuno si è permesso di prendere nessun tipo di decisione autonoma, tutti sapevano che una persona sola, una persona sola, in questo caso della Fossa parlava, uno solo, nessuno doveva toccare una macchina, spaccare uno specchietto, doveva insultare nessuno, il tragitto doveva essere in silenzio, un funerale, un corteo di tremila persone in silenzio per Monte Mario, tra le villette dei ricchi di Roma. Siamo scesi giù, i romanisti da dentro lo stadio ci hanno visto scendere da Monte Mario, hanno provato a uscire ma una volta fuori noi eravamo già arrivati e una volante dei carabinieri è passata e ci ha chiesto “Ma voi dove andate?” “Ciao, è tardi…” ma nessuno che gli abbia detto qualcosa ai carabinieri: salve e via dritti. Questi qua che dicevano “no fermi”, e una persona parlava. Anche queste sono cazzate però se non c’è un unione di fondo, ma perché dovrebbero aspettare che parla prima lui… no, il gruppo è uno…

La rielaborazione simbolica dei gruppi ultras, fin a quel momento caratterizzata da espressioni connotate politicamente, tende adesso a conferire maggiore importanza al senso di appartenenza locale e ad utilizzare le contrapposizioni campanilistiche come rafforzamento del proprio legame, o quanto meno a far convivere entrambe le rappresentazioni. Nonostante l'affievolirsi di una marcata linea “politica”, in questo periodo avvengono infatti alcune spaccature tra i gruppi principali, proprio per divergenze politiche. Uno dei casi più eclatanti è certamente quello di Torino, dove al fianco degli Ultras Granata, spuntano nel 1981 i Granata Korps, inequivocabilmente schierati a destra. Non saranno i soli ad affacciarsi nelle curve, che in questo periodo metabolizzano le influenze delle sottoculture giovanili, soprattutto in ambito metropolitano, vedendo emergere in

96 particolare mods (è del 1982 la comparsa di un gruppo “Mods” a Bologna) e skinheads157. Parallelamente proseguono alleanze e inimicizie, che assumono i tratti più disparati; in particolare, la ricerca dello scontro trova maggior disponibilità tra gli ultras, come possibilità di espressione fine a se stessa. Accanto all'aumento delle situazioni di scontro si assiste a un modo di fronteggiarsi più militaresco: compaiono spranghe, petardi, bottiglie incendiarie, razzi e coltelli. La trasferta diviene un momento fondamentale nella vita di un ultrà: è l'occasione per compattare il gruppo, selezionare i più fedeli e dare prova di coraggio e attaccamento verso i compagni e i propri simboli. In trasferta occorre infatti difendere il proprio gruppo da eventuali assalti dei tifosi locali, proteggere il proprio striscione e, qualora si presenti l'occasione, tentare di appropriarsi delle insegne altrui. L'aumento del pubblico in trasferta costringe a un notevole sforzo organizzativo; le Ferrovie dello Stato, per evitare di intasare i treni di linea, predispongono infatti i cosiddetti “treni speciali”. Gli incidenti sono una costante delle domeniche calcistiche ma come anticipato seguono generalmente la logica delle tattiche da guerre irregolari e gli episodi sono più rilevanti per il numero e la frequenza che per l'effettiva consistenza. Per Dal Lago «quando parliamo di violenza degli ultrà ci troviamo nel campo delle micro-aggressioni giovanili, e non in quello di una strategia della tensione applicata al calcio158». Nonostante il permanere di una violenza più simbolica che efferata e di un codice del disordine a garanzia della continuità del rito dello scontro, più che della sua corruzione in sequenze dalle conseguenze catastrofiche, negli anni Ottanta si assiste ad altri lutti legati al calcio. Si tratta di un numero esiguo, almeno in Italia, se si pensa, come detto, al gran fermento di formazioni ultras costantemente alla ricerca della messa in scena del rito bellico, che indubbiamente travalica di frequente i confini della scena; sono però

157 Tra i più noti gli “Skins” dell'Inter di chiara matrice neofascista che saranno attivi in curva nord tra il 1987 e il 1990. 158 DAL LAGO A., op. cit.,1990, p.171. 97 lutti associati a uno spettacolo «visibile e vistoso159» come il calcio e quindi “inquietanti”, perché indicano un mutamento delle forme della violenza, come si vedrà, non più confinata negli stadi ma esercitata soprattutto all'esterno. Dopo Paparelli a perdere la vita è il quattordicenne Andrea Vitone nel 1982, soffocato in seguito allo scoppio di un petardo che incendia il treno dei tifosi romanisti di ritorno da Bologna. Nel 1984, Marco Fonghessi, tifoso del Milan, è aggredito e accoltellato da altri tifosi milanisti perché scambiato per un tifoso della Cremonese. Nello stesso anno il triestino Stefano Furlan, vent'anni, viene ripetutamente colpito dalle manganellate della polizia duranti gli scontri che seguono Triestina-Udinese, entra in coma e muore il giorno dopo. Ad Ascoli nel 1988, fuori da un bar, una carica dei tifosi interisti ai danni di Nazareno Filippini, provoca una trauma cranico fatale ai uno dei fondatori di Settembre Bianconero. Il 4 giugno 1989 un gruppetto di tifosi romani staziona davanti alla tribuna autorità dello stadio Meazza di Milano; è avvicinato da un giovane che chiede l'ora e una sigaretta e una volta intuito l'accento lancia un segnale: decine di tifosi milanisti irrompono e malmenano Antonio De Falchi, il più lento a fuggire. Poche ore dopo morirà d'infarto al San Carlo. La domenica successiva un altro fatto di cronaca domenicale scuote il paese. Il treno dei tifosi del Bologna diretto a Firenze è attaccato all'altezza di Rifredi da un gruppo di tifosi viola che lanciano una molotov all'indirizzo dei vagoni: Ivan Dall'Olio, quattordicenne, rimane sfigurato al volto. Per molte tragedie accadute ce ne sono infatti altrettante sfiorate. Il simbolo delle violenze da stadio che si imporrà nell'immaginario collettivo sarà però rappresentato da un altro episodio, che avviene all'estero, in Belgio, e coinvolge suo malgrado una tifoseria italiana. È la tragedia dell'Heysel. I fatti sono noti, anche se per anni hanno dovuto insinuarsi a fatica tra verità di comodo che hanno nascosto per un periodo la superficialità, l'incompetenza e le responsabilità delle istituzioni calcistiche internazionali. È il 29 maggio 1989 e allo stadio Heysel a Bruxelles si gioca la finale di

159 Ivi, p.171. 98

Coppa Campioni tra Juventus e Liverpool. Lo stadio è vecchio e scadente e preoccupa perfino i giocatori durante il tradizionale sopralluogo pre-gara. Le curve sono state divise in tre grandi spicchi: uno destinato agli inglesi, uno agli juventini e uno ai tifosi neutrali (il settore Z). Poco prima del match il solito scenario: grandi bevute, qualche scaramuccia, ma anche momenti di incontro pacifico tra gli spettatori. Una volta riempiti gli spalti, ci si accorge però che il settore Z è interamente occupato dagli juventini; non ultras, non dei club, ma generici tifosi, gente “normale” che era riuscita a procurarsi il biglietto per quell'appuntamento con la storia. Inoltre tanti tifosi inglesi, come da tradizione, sono entrati senza biglietto e quindi i settori a loro destinati, nella stessa curva del settore Z, traboccano oltremisura. A dividere il settore Z dagli inglesi c'è solo una fragile rete (passerà alla storia come chicken wire) e dodici gendarmi che a un certo punto si allontanano per soccorrere la padrona di un chiosco di hot-dog che è stata rapinata. L'epilogo, tragico, è presto detto: cariche, simulate e non, dei tifosi del Liverpool, figlie della cultura del taking the end, terrorizzano la pacifica e inerme tifoseria bianconera, che si ammassa sotto il muro opposto al settore degli inglesi, il quale crolla in pochi minuti per il peso eccessivo. Schiacciati e soffocati, 39 tifosi bianconeri perdono la vita, con gli inglesi che non si rendono neanche conto di ciò che era accaduto. La partita, su imposizione della polizia, si giocherà lo stesso. Una tragedia brutale ma facilmente evitabile160, che farà il giro del mondo e che vedrà il tribunale condannare 14 dei 26 accusati delle cariche, oltre al capitano della gendarmeria belga e al segretario della Federcalcio belga. Due anni dopo, in appello, una condanna “storica” è inflitta anche all'UEFA161, mentre su iniziativa del governo di Londra le squadre inglesi saranno estromesse da tutte le competizioni europee. L'eco dell'Heysel, l'omicidio Paparelli e gli scontri consuetudinari delle domeniche italiane porteranno alla militarizzazione degli stadi della penisola. Compaiono le

160 A favorire la tragedia, è stata prevalentemente una violazione dell'ordine ecologico dei settori dello stadio. 161 Sigla di Union of European football associations, è l'associazione fondata nel 1955 che organizza i tornei di calcio riservati alle squadre nazionali e di club dei paesi europei. 99 camionette dei reparti celere che agiranno nei dintorni degli stadi in assetto antisommossa, equipaggiati come per affrontare “una guerriglia urbana”. Sul piano legislativo si registra l'introduzione della legge 401 che sancisce il divieto di ingresso allo stadio come misura preventiva da adottare contro chi viene denunciato per reati di violenza sportiva. È il cosiddetto D.A.S.P.O. (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive), una legge che sarà coadiuvata dal diffondersi, in occasione di Italia ‘90, di telecamere a circuito chiuso per riprendere i comportamenti degli ultras negli stadi italiani e nelle vie di transito. Provvedimenti che colpiranno, a volte in modo indiscriminato, alcuni dei responsabili dei gruppi contribuendo a quella perdita di egemonia in curva delle figure storiche del movimento ultras.

100

Capitolo III

I CONFLITTI DEL CALCIO MODERNO

Un'officina del potere

Con l'avvento degli anni '90, in Italia il calcio diventa profondamente diverso da quello che era stato fino a quel momento e manifesta concretamente i cambiamenti assorbiti già nei decenni precedenti, soprattutto, in relazione ai dispositivi di potere, socialità e consumo del capitalismo contemporaneo. È questa la tesi da cui parte Stadio Italia. I conflitti del calcio moderno, testo che pone al centro dei saggi che lo compongono una riflessione sulle istituzioni che governano il gioco, l’economia che lo ristruttura e i conflitti che lo attraversano.

La convinzione […] è che lo stadio, nell’epoca del calcio moderno, sia lo specchio delle nostre città e dell’Italia intera: lo stadio non è solo un luogo di passione e intrattenimento, ma un luogo di comprensione del mondo. Vi si dispiega in forme rivelatrici la costruzione di un laboratorio sociale ed economico inedito, capace di spingersi al di fuori dei propri confini. Potremmo considerarlo un’officina del potere162.

Con l’approccio della contro-inchiesta il testo propone una prima descrizione dei meccanismi di potere che, trasformando il calcio, cambiano ben più delle regole di un gioco. I temi affrontati sono i conflitti legati al calcio dal punto di vista della storia soggettiva delle curve, i comportamenti degli apparati di controllo, l'intersezione tra marketing e football, le modalità di narrazione del gioco tramite il cinema e la televisione. Emerge l’invito a ripensare lo stadio come paradigma della nostra epoca, centro simbolico di un insieme di pratiche, di relazioni, di memorie e di identità che, vista l'eco della vetrina calcistica, dialogano con l'intero corpo sociale.

162 CACCIARI S., GIUDICI L. (a cura di), op.cit., 2010, p.7. 101

Un approccio che emerge anche nelle riflessioni di questo terzo capitolo. L'analisi sulle forme del rito calcistico, già avviata nel precedente, aveva visto dagli albori del Novecento la formalizzazione politica del calcio, l'ingresso dell'industria e della pubblicità, la nascita del tifo e delle scommesse e la funzione di stampa, radio e televisione come potenti veicoli di diffusione prevalentemente quantitativa del calcio. Nelle prossime pagine lo sguardo avanza sulla portata dei nuovi cambiamenti, tra cui le riforme degli anni '90 e la nascita delle pay tv (che più di ogni altra innovazione ristrutturano il rito e producono nuovi e inediti conflitti), la stagione “politica” del movimento ultras combattuta con leggi speciali, l'introduzione della tessera del tifoso e la sua spendibilità negli stadi di nuova generazione.

La trasformazione delle maglie in business

Nel corso degli anni '90 in Italia si afferma con una progressione inarrestabile il cosiddetto «calcio moderno». Nuovi flussi di capitale inondano l'industria del calcio e ridimensionano fortemente l’evento sportivo rivedendo i suoi significati. Quello che lo scrittore Eduardo Galeano ha definito il «triste viaggio del calcio dal piacere al dovere», ha però origini inglesi: è il Regno Unito, patria del football, che anticipa i processi di commercializzazione della passione sportiva e rivede la fruizione pubblica degli stadi attraverso una selezione e una severa azione di disciplinamento degli spettatori dovuta, in apparenza, al contenimento del protagonismo degli hooligans. Uno dei simboli fondanti del calcio moderno fa la sua comparsa durante la stagione 73- 74. Come molti appassionati del calcio inglese ricordano, quella stagione della Football League163 è l’ultima da manager del Leeds United di Don Revie164. Dopo aver portato

163 La Football League, fondata nel 1888, è la più antica competizione calcistica al mondo. Fino al 1992 era la principale struttura del calcio inglese, ma in quell’anno le 22 squadre della First Division si dimisero fondando la FA Premier League con l’obiettivo di beneficiare di una maggior libertà individuale relativa alla contrattazione di diritti televisivi e sponsorizzazioni. 164 Donald George Revie (1927-1989) è stato uno degli allenatori più vincenti della storia del Leeds che ha allenato dal 1961 al 1974, prima di passare alla guida della nazionale inglese. 102 the whites dalla second division alla massima serie già alla prima stagione (61-62), in cui si divideva ancora tra campo e panchina, Revie concludeva quell’anno il ciclo dei glory years del team con la conquista del secondo titolo nazionale, lasciando indietro le squadre Liverpool e Derby County. L’ultima stagione di Don Revie sulla panchina del Leeds non ha effetti straordinari solo per la bacheca dei trofei della società del West Yorkshire, ma per l'intero sistema calcistico. Cucito all’altezza del petto della white shirt ufficiale del Leeds, compare un grado da ammiraglio, frutto dell’accordo tra la società e un’azienda produttrice di abbigliamento e accessori sportivi. È l’inizio della sponsorizzazione tecnica dell’Admiral nel calcio inglese che avrà un ruolo decisivo nell’ammodernamento e nella commercializzazione di quello che passerà ad essere conosciuto come “tessuto tecnico”. Ad un anno di distanza dall’accordo con il club inglese, la Admiral ottiene la sponsorizzazione del materiale sportivo della nazionale britannica sulla cui panchina era stato chiamato proprio Don Revie. La divisa ufficiale della nazionale subirà un processo di ammodernamento, superando i pareri contrari dei più tradizionalisti e affermando la possibilità di intervenire sulle forme, i motivi e i tessuti del più rappresentativo indumento di gioco165. Il successo dell’operazione, supportato da una massiccia campagna pubblicitaria mirata in particolare al coinvolgimento del pubblico giovanile, persuade altre società della League ad offrire la disponibilità del marchio per modificare le proprie divise ufficiali. Tra le principali novità importate dalla casa d’abbigliamento c’è la numerazione dei calzettoni da gioco, un’operazione volta ad alleggerire il rapporto diretto tra divisa e club e a valorizzare l’immagine del singolo calciatore. Il passaggio decisivo per la trasformazione delle maglie in business si è avuto con l’introduzione della numerazione fissa e dell'introduzione dei nomi dei giocatori sul dorso delle maglie. L’operazione nasce nell’alveo del campionato europeo giocato in Svezia nel 1992 e si ripete durante il mondiale Usa del 1994. Il protagonismo individuale fuoriesce così formalmente dall’aggregato collettivo, attraverso il manifestarsi di segni di riconoscimento sui quali

165 OTTONE G., La trasformazione delle maglie in business, Uk Football Please, settembre 2006, n.16. 103 costruire narrazioni personali. Le società perdono simbolicamente il tradizionale fascino identitario connesso alla divisa ma ampliano le opportunità commerciali in quanto non esiste più una sola maglia, ma un’offerta di tessuti che richiamano molteplici storie individuali. La comparsa dei marchi pubblicitari sulle divise, la progressiva lottizzazione dei tessuti e la differenziazione dei prodotti166 rafforzano il percorso di capitalizzazione della passione sportiva167 che raggiungerà il suo attuale picco con la vendita dei diritti di trasmissione delle partite168.

All seater stadium

Don Revie ricompare in un altro passaggio simbolico della riorganizzazione del calcio inglese. A cinque anni dalla sua scomparsa, in omaggio alla most successful conduzione tecnica del Leeds United, nel 1994 la vecchia standing terrace169 situata al lato nord degli spalti dello stadio “Elland Road”, conosciuta come Gelderd End o Kop, fu rinominata Revie North Stand. In quell’occasione fu presentato il nuovo aspetto del settore170, adeguato strutturalmente alle prescrizioni contenute nel rapporto Taylor, il documento fuoriuscito dalla commissione voluta in seguito ai fatti dell'Hillsborough171. In precedenza, il “disastro di Bradford172” del 1985 seguito a pochi giorni di distanza

166 È a cavallo tra gli anni ‘70 e gli ’80 che in Italia passò la decisione di sponsorizzare le maglie da gioco e si aprì un dibattito su quanto spazio fosse lecito occupare dagli sponsor per non ledere la funzione rappresentativa della maglia. In seguito si è passati all’introduzione di più scritte e simboli che possono occupare spazi differenti del completo da gioco (la maglietta all’altezza del petto, delle braccia, della parte inferiore, i pantaloncini, i calzettoni). Un’altra recente novità è la differenziazione dei completi da gioco a seconda delle competizioni a cui la squadra partecipa. Sul tema: RUSSO P., L’invasione dell’ultracalcio. Anatomia di uno sport mutante, Ombre corte, Verona, 2005. 167 «La passione è il nostro prodotto di punta» è lo slogan della campagna abbonamenti della AS Roma nell’anno dell’entrata in borsa. 168 È stato calcolata in circa 2/3 l’incidenza dei diritti di trasmissione delle partite nei bilanci delle società di calcio. Particolarmente dettagliata, la nota di wikipedia sulla storia dei diritti tv in Italia: http://it.wikipedia.org/wiki/Diritti_televisivi_del_calcio_in_Italia. Per ulteriori aspetti: VALDISERRI L., Calcio totale, Corriere della Sera Magazine, 18 marzo 2008, ed. online; MONTI F., Calcio e diritti tv: 5,9 miliardi sfumati, Corriere della Sera, 3 luglio 2009, ed. online. 169 La tribuna dove era solito vedere le partite in piedi. 170 Storicamente il settore era destinato al pubblico più giovanile e rumoroso che per riferirsi ad esso utilizza ancora l’appellativo Kop. 171 Il 15 aprile 1989 all'Hillsborough Stadium di Sheffield durante la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest 96 tifosi dei “reds” morirono schiacciati a seguito di un sovraffollamento della curva che li ospitava. 172 L'11 maggio 1985 durante la partita tra Bradford City e Lincoln City un incendio scoppiato in un settore dello stadio e diffusosi fino a far crollare il tetto provocò la morte di 56 spettatori e 265 feriti. 104 dalla “tragedia dell’Heysel173”, aveva fatto nascere una riflessione sulla condizione strutturale degli impianti e delle norme di sicurezza e segnato la credibilità del calcio inglese. Il rapporto Taylor, all’indomani dell’ennesima e controversa tragedia calcistica, ridisegna completamente le norme di sicurezza del calcio inglese, determinando importanti ristrutturazioni negli stadi e ridefinendo la partecipazione del pubblico. Per questo motivo l’old standing terrace dei tifosi del Leeds, nel giorno dell’intitolazione a Revie, si ritrova dotata di un sistema di telecamere a circuito chiuso che puntano lo sguardo elettronico sui nuovi 7.000 posti a sedere, concludendo l’epoca dei tifosi ammassati in piedi, pochi metri alle spalle della porta di gioco. Lo stadio d’esordio di un diciassettenne John Charles174, diventa definitivamente un all-seater stadium. Il monitoraggio dei tifosi è affidato al ground control box, una struttura avanguardistica che raccoglie foto e video, capace di sincronizzare i materiali raccolti anche in tutto il resto dello stadio per identificare gli autori di comportamenti ritenuti non conformi175. Ad indirizzare la ristrutturazione dei vecchi stadi in un primo momento è la necessità di garantirne la sicurezza, ma il dibattito sui futuri impianti vede una marcata differenza tra tifosi e società. I primi, attivi in quegli anni con la FSA (Football Supporters Associations) e il movimento dei Fanzinemakers, chiedono l’eliminazione di barriere, recinti e fossati e la creazione di vie di fuga per gli spettatori, mentre le società, sostenute dal governo, spingono per la costruzione di stadi con posti a sedere, più piccoli ma più confortevoli. Ad imporsi, anche in vista dell'eminente appuntamento con gli Europei del 1996 per il quale il governo offre importanti finanziamenti, è un modello di stadio per famiglie consumatrici che sia luogo di intrattenimento totale, ben oltre la sua funzione originaria.

173 Come già ricordato, prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, giocata il 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, morirono trentanove tifosi bianconeri schiacciati dalla folla in preda al panico a seguito di una carica dei tifosi inglesi. 174 Giocatore simbolo del Leeds, con il quale ha segnato 150 reti in 297 presenze, , nel 2002 gallese è diventò il primo calciatore d'origine non inglese ad essere inserito Hall of fame del calcio inglese. 175 Alcuni osservatori vi hanno rivisto un’analogia con il panopticon benthamiano, poi ripreso da Michel Foucault. Per approfondire: FOUCAULT M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976. 105

Gli stadi si trasformano. Nascono comodissime aree vip, dove si sta in pochi ma a prezzi inaccessibili ai più e settori intermedi, dove ognuno dispone di una propria poltroncina numerata. Una vera rivoluzione riguarda anche le ends (curve) e le terraces (gradinate): «prima piene di persone che con entusiasmo cantavano, ballavano ed incitavano la squadra sono sottoposte a strettissimi vincoli. Non ci si può più alzare dal seggiolino pena l’intervento della sicurezza, non ci si può più rivolgere all’arbitro (neanche in caso di contestazioni clamorose) pena l’accusa di istigazione alla violenza; tutti seduti, tutti composti e, soprattutto, tutti disponibili a pagare un biglietto più caro di prima176». Gli effetti della riforma Taylor mutano così, in termini materiali e di espressione identitaria, il settore destinato agli attori principali del tifo, contrassegnato fino a quel momento da una maggiore autonomia nell’ordine ecologico dello stadio177. Il target dei fruitori è cambiato: «è il ceto medio ad affollare maggiormente gli spalti, mentre il ceto più popolare, così come coloro che consideravano andare alla partita una festa in cui essere protagonisti (e non necessariamente per le risse, ma soprattutto per il calore, l’entusiasmo, la partecipazione) si sentono messi in un angolo: il calcio è diventato per loro un “divertimento” troppo costoso, oppure talmente privo delle sue caratteristiche essenziali da non essere più considerato degno di interesse178». Nei nuovi stadi inglesi i prezzi dei biglietti, soprattutto quelli più popolari, subiscono rincari vertiginosi. Una tendenza giustificata da un lato dalla minor capienza e dall’altro dalla precisa volontà da parte dei club e del governo di selezionare un certa tipologia di pubblico, più disposto ad avvalorare con le proprie risorse l’insieme di servizi che fanno da cornice all’evento calcistico. Più in generale, in Inghilterra le direttive della commissione comporteranno, per quanto riguarda l’aspetto logistico, la completa ristrutturazione degli impianti sportivi e

176 Sintesi del gruppo di ricerca sulla commercializzazione, PROGETTO ULTRÀ, Gli anni del business, 1990-2000. 177 Ecologia e politica dello stadio in DAL LAGO A., Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Bologna, Il Mulino, 1990, pp.99-130. Per uno studio di caso: MIGNON P., Liverpool, ovvero “addio alla Kop”, in DE BIASI R. (a cura di), You’ll never walk alone. Il mito del tifo inglese, op.cit., pp.51-75. 178 Ibidem. 106 l’abbattimento delle barriere divisorie tra campo di gioco e spalti179; l’introduzione dei posti numerati in tutti i settori, l’installazione di telecamere a circuito chiuso e una diversa gestione interna del servizio d’ordine, affidata da quel momento a stewards dipendenti delle società. Commentano così Giudici e Cacciari:

Il Regno Unito si rivela così la corporation che esporta tecnologie di controllo a partire dal prodotto di punta costituito dai pacchetti-repressione applicati allo stadio, per la prima volta emanati da Margaret Thatcher nella seconda metà degli anni Ottanta.

Commodification: le nuove categorie di spettatore

Un’analisi sull’impatto della nuova economia politica nel calcio è stata offerta da Richard Giulianotti che introduce il concetto di commodificazione e la sua evoluzione per riferire l’intensificazione di particolari caratteristiche di mercato in questo sport180. Più precisamente, con commodificazione l’autore intende «quel processo tramite il quale un oggetto o una pratica sociale acquisisce un valore di scambio o un significato centrato sul mercato181». Giulianotti riporta le osservazioni di Ian Taylor e Chas Critcher che negli anni ’60 e ’70 utilizzarono argomenti marxisti per spiegare le problematiche sorte attorno al calcio inglese. Per Taylor l’aziendalizzazione del calcio necessitava di un nuovo pubblico, più ricettivo nei confronti dell’offerta; occorreva pertanto reinventare le relazioni sociali esistenti tra la fruizione pubblica dello stadio e i suoi spettatori. «I vecchi tifosi» di estrazione popolare caratterizzati per la loro «subculturale coscienza di calcio» incentrata sul legame con il club locale, sulla mascolinità, sulla partecipazione attiva e

179 La rinuncia alle barriere divisorie ha significato riconoscerne la potenziale pericolosità in caso di evacuazione degli stadi in situazioni d’emergenza, come nei casi di Hillsborough e Bruxelles. 180 GIULIANOTTI R., Sport Spectators and the Social Consequences of Commodification in Journal of Sports and Social Issues, N.29, 2002. 181 Ivi, p.26. Ancora l’autore nello stesso articolo: «la popolarità in crescita del calcio, i suoi legami sempre più stretti con le corporations e altre istituzioni del mondo degli affari, la riduzione della capienza degli stadi per creare posti molto costosi, e l’avvento della televisione pay-per-view sono quattro ingredienti chiave che si individuano in questo processo di commodificazione». 107 sulla vittoria perdevano l’accessibilità all’evento a vantaggio di un pubblico di classe media, interessato allo spettacolo, alla tecnica e all’efficienza nella prestazione e, di riflesso, orientato al consumo e maggiormente disciplinato182. Critcher, partendo dagli studi di Taylor, offrì un primo tentativo di categorizzare le figure emergenti in seguito alla «clientelizzazione» del tifoso. In sintesi, Taylor e Critcher, alla ricerca di spiegazioni sul fenomeno degli hooligans, abbozzavano alcune nuove importanti categorie di spettatore con caratteristiche costituenti, per supportare la teoria della commodificazione del gioco. Sulla base di queste analisi, Giulianotti descrive come l’introduzione di ingenti capitali provenienti da fonti differenziate e inedite dia nuovi impulsi al processo di commodificazione a partire dalla fine degli anni Ottanta183. Per Giulianotti, la variazione finanziaria seguita allo straordinario afflusso di risorse, l’allargamento delle relazioni su scala globale e il massiccio utilizzo delle nuove piattaforme mediatiche introducono il football in una fase economica postindustriale, postmoderna, e post-fordista184. L’autore traccia un modello di quattro identità ideali di spettatore reperibili nel calcio contemporaneo. Richiamando i paradigmi individuati da Taylor e Critchter, e a seconda del genere di identificazione dello spettatore verso un club specifico, Giulianotti formula categorie sociologiche di spettatori quali supporters, followers, fans e flâneurs185. Le quattro categorie si reggono su due opposizioni binarie di base:

182 Giulianotti, op.cit., p.27. 183 Le fonti citate da Giulianotti sono «reti televisive via satellite e pay-per-view, Internet e corporazioni delle telecomunicazioni, fabbricanti transnazionali di attrezzature sportive, compagnie di pubbliche relazioni e grandi stock di mercato derivanti dalla vendita di azioni ordinarie dei club». Giulianotti, op.cit., p.29. 184 L’autore sintetizza queste categorie nel termine iper-commodificazione. 185 Propongo una «traduzione» nel contesto italiano delle categorie di tifosi individuate da Giulianotti. Con supporter (lett. sostenitore) possiamo identificare una figura simile all’ultrà, il militante di un gruppo organizzato della curva che instaura un legame inscindibile con una squadra di calcio e la segue con trasporto. Meno enfasi si trova nel follower (lett. seguace), il tifoso dei club organizzati, che per buona parte si identifica con i valori di riferimento della cultura del tifo ed esprime particolare interesse per le sorti della società, ma che difficilmente passerebbe a un’azione diretta (ad esempio scontrarsi con la tifoseria avversaria) in nome dell’appartenenza alla propria squadra. È un “tifoso appassionato”, che frequenta curve o gradinate e, come direbbe Dal Lago, orientato alla partita. Il fan (che certi dizionari riportano non a caso come ammiratore), prima che un tifoso di calcio, è un soggetto comune a tutti gli ambiti dello sport e dello spettacolo dove si crea «una relazione non reciproca con altri distanti» (Thompson, 1997). È un tifoso il cui rapporto con i vari attori di una partita di calcio è mediata dal consumo di prodotti, dall’acquisto della maglietta del campione preferito alla stipulazione di contratti pay-per-view. Il flâneur (termine prestato allo sport ma a cui solitamente si associa il borghese che vaga alla scoperta della città), nei termini di Walter Benjamin, è un turista allo stadio, un tifoso alla ricerca di emozioni o di un’identità sociale di alto profilo, sostanzialmente benestante da 108 caldo/freddo e tradizionale/consumatore. Gli spettatori tradizionali, individuati in supporters e followers, esprimono un’identificazione culturale più duratura, più locale e popolare con il club, mentre fans e flâneurs intrattengono una relazione con il club sbilanciata sul mercato che si riflette nell’esercizio del consumo di prodotti. Le qualità caldo/freddo mostrano il diverso grado per cui il club è centrale nel progetto di autoformazione dell’individuo. Giulianotti individua nel flâneur l’ideal-tipo del tifoso di un calcio orientato ai continui movimenti del mercato. È una figura più distaccata dalle altre dal momento esperienziale del calcio, auto-regolata secondo le teorie foucaultiane o «civilizzata» come direbbe Elias186, assunta in un sistema di forme comunicative virtuali e di relazioni che si fanno sempre più immateriali: un consumatore freddo che «passeggia» alla ricerca di un’identità vincente, soggetto all’azione persuasiva delle componenti competitive del mercato. Giulianotti mette in luce il paradosso sociale che esprime la relazione tra flâneurs e supporters attraverso un richiamo al filosofo politico Michael Walzer, secondo il quale «[…] il cosmopolita187 è un parassita verso le persone che non sono cosmopolite». E aggiunge: «non si potrebbe esistere se non ci fosse gente che sta ferma e seduta e creasse i posti che visiti e che ti piacciono». Il rischio insito nella mutazione dei supporters in flâneurs (o nella loro espulsione) è la mancanza di cornice spettacolare a supporto dell’evento, che determinerebbe un abbassamento generale di «temperatura»188 privando inoltre il flâneur stesso di quella relazione che gli permette di caratterizzare il suo atteggiamento. permettersi il posto in tribuna. È un commentatore di calcio, poco consapevole del contesto di riferimento ma attratto superficialmente dalla momentanea enfasi o dalle narrazioni di un partita. 186 Norbert Elias è il noto sociologo tedesco che insieme a Eric Dunning ha ripercorso le tappe dell’evoluzione sportiva individuando al loro interno processi di limitazione emozionale che si offrono in una più ampia razionalizzazione del comportamento della società occidentale. Fondamentale anche per la stesura di questo testo ELIAS N., DUNNING E., Sport e aggressività, Bologna, Il Mulino, 1989. 187 Figura in questo caso sovrapponibile al flâneur. 188 John Williams, per anni direttore del Sir Norman Chester Centre for Football Research, in un saggio sui cambiamenti negli stadi inglesi ha scritto: «La maggior parte del pubblico calcistico vuole che i giovani tifosi organizzino uno spettacolo creando atmosfera alle partite, e non vuole un’eccessiva presenza della polizia […] I tifosi in Inghilterra stanno già esprimendo dissenso nei confronti del nuovo calcio e delle strategie orientate a escludere “gli indesiderabili” e a convertire il calcio in un prodotto per “clienti” danarosi e non per tifosi». Il saggio completo: WILLIAMS J., La cultura calcistica nella “nuova Inghilterra” in DE BIASI R. (a cura di), You’ll never walk alone. Il mito del tifo inglese, op.cit., pp.77-121. 109

La variazione degli assetti del calcio in favore di una struttura fortemente appannaggio del flâneur è per lo studioso inglese un rischio molto elevato perfino per l’agenda neoliberista. Lo fa capire evidenziando un’osservazione di Turner, che ricorda quanto i tifosi orientati al mercato portino con sé le «lealtà trasferibili del passeggero postmoderno», per cui sono capaci di svariare tra le tendenze del momento passando a identificarsi con giocatori e squadre diverse, «ma anche ad abbandonare il calcio per altre forme di divertimento189».

Mentalità supporter e disincanto flâneur

E' possibile accompagnare questa breve panoramica volta a definire a grandi linee l'approccio al tifo caldo ricordando alcuni slogan e canti riprodotti allo stadio. Il ben noto You’ll never walk alone, trascinante inno dei supporters del Liverpool, è emblematico dell’investimento a lungo termine che lega i tifosi al club. Tra il tifoso caldo/tradizionale e la propria squadra si crea infatti un rapporto non negoziabile, indifferente alle persuasioni del mercato e che a seconda dei contesti assume il profilo di una vera e propria militanza. All’interno dello stadio il rapporto si consuma in uno spazio ben definito quale la curva (o la terrace), vissuta come il proprio inviolabile territorio190. L’interpretazione di rituali di guerra è espressa dalla quantità di vocaboli con cui si formano striscioni e canti. Gli scontri tra opposte tifoserie sono supportati dalla disponibilità del supporter tradizionale/caldo: si tratta di sequenze per lo più ritualizzate e rivendicate di frequente come estensione dell’espressione simbolica e ludica del confronto191 e non a caso regolate informalmente da codici non scritti. Una delle altre caratteristiche distintive del tifoso/caldo tradizionale è quella di assumere il

189 GIULIANOTTI, op.cit. p.40. Per l’articolo originale CARLEHEDEN M., GABRIËLS R., An Interview with Michael Walzer, in Theory Culture Society, Volume 14, No. 1, Febbraio 1997, pp.113-130. 190 DAL LAGO, op. cit., pp.107-108. L’autore fa notare inoltre che anche le forze dell’ordine intervengono eccezionalmente dentro la curva dei tifosi di casa, in quanto riconoscono implicitamente le pretese avanzate dai gruppi organizzati rispetto al controllo di quel territorio. Ivi, pp.49-50. 191 Si veda la già citata biografia degli ICF, un gruppo di tifosi del West Ham United scritta da uno dei protagonisti: PENNANT C., op. cit, 2004. Da rilevare il richiamo dei tifosi alla dimensione ludica dello scontro e l’invito a rispettare il loro ruolo di giocatori. 110 ruolo di portabandiera esclusivo dell’espressione identitaria, sia essa giocata in termini territoriali, di valori, o ideologica192, connessa al proprio club. Giulianotti in questo senso parla di «valori locali distintivi193» che possono essere oggetto della comunicazione verbale e non, parimenti tra tifosi e squadra. Il supporter in sintesi è un tifoso che esprime un’adesione massima nei confronti del club e rivendica una partecipazione attiva durante gli eventi, elabora cori, slogan e dà vita a performances, per lo più ritualizzate, che ne rafforzano l’identità e il bisogno di apparire in uno scenario pubblico carico di tensione emotiva e parzialmente sottratto alla routinizzazione quotidiana. Il flâneur, al contrario, a causa della sua identità di passeggiatore moderno194, vive il suo rapporto con le emozioni sportive in spazi non perimetrati dal solo campo di calcio in quanto la sua adesione viaggia su relazioni spesso virtuali. Secondo Garry Crawford, «spesso in Gran Bretagna nei dibattiti e negli studi accademici le considerazioni sui tifosi di calcio si sono limitate solo a coloro che seguono regolarmente le partite allo stadio. In realtà, nelle moderne società occidentali, questa è una prospettiva molto ridotta del “consumo culturale” del calcio da parte della sua audience, che tralascia ampiamente, per esempio, una miriade di modi in cui il rapporto calcio/tifoso viene mediato, o semplicemente espresso, attraverso l’acquisto del merchandising della squadra, o tramite discussioni tra tifosi o, caso più importante, attraverso la (rap)presentazione dello sport nei media, soprattutto nella televisione195». In generale, il flâneur ha con il club un legame di natura sfuggente ed è soggetto all’azione accecante contenuta sia in un particolare stile di gioco o nella figura di qualche elemento top class, sia nella qualità della linea di prodotti realizzati dal club

192 Eduardo Galeano scrive a tal proposito: «Nel calcio, rituale sublimazione della guerra, undici uomini in pantaloncini corti sono la spada del quartiere, della città o della nazione. Questi guerrieri senza arma né corazza esorcizzano i demoni della folla e ne confermano la fede: a ogni confronto tra due squadre entrano in gioco vecchi odi e amori trasmessi in eredità dai padri ai figli» (GALEANO E., La guerra danzata in GALEANO E., op.cit., 2009, p.18). 193 GIULIANOTTI, op. cit., pp.33-34. 194 GIULIANOTTI, op. cit., pp.30-40. 195 CRAWFORD G., The deadliest. Striker nin front of the Box: televisione, calcio e tifosi in Inghilterra, in DE BIASI R. (a cura di), op.cit., 1998, p.155. 111 sfruttando la commercializzazione del marchio. A differenza del supporter, che offre il suo contributo a prescindere dai risultati, il flâneur predilige il “tutto e subito” in quanto coinvolto più dall’esperienza estetica che da una relazione fondata nel tempo e destinata a non esaurirsi. La sua relazione identitaria con il club, l’ambiente e perfino la tifoseria è temporanea in quanto gli elementi citati non sono altro che appendici sfruttate per raggiungere il culmine della soddisfazione personale. Pertanto la visione dei rituali dei tifosi risulta al flâneur decisamente stereotipata e la sua sovrapposizione con l’attitudine predatoria del mercato neoliberista lo colloca in contrapposizione con una figura di tifoso caldo/tradizionale. Le differenze si acuiscono quando a confrontarsi sono i differenti stili di partecipazione e coinvolgimento all’evento. La coesistenza tra questi modelli di tifosi appare simile a quella descritta da Dal Lago e Quadrelli196 rispetto al rapporto tra cittadini legittimi e non che popolano la stessa città, condividendo spazi ma stabilendo relazioni asimmetriche: la città di chi ha «piena cittadinanza», dell’opinione pubblica, delle associazioni professionali, dei partiti, e quella dell’illegittimità, dell’immigrazione, della microcriminalità. Mondi collocati a distanze insuperabili ma legati in ogni caso da relazioni, principalmente occulte, che non impediscono alla città legittima di pronunciare parole di paura o di sospetto verso quella illegittima197, accusata del degrado urbano e civile198 e che, contrariamente alla prima, è priva di parola nei circuiti di trasmissione mediatica riconosciuti. La stigmatizzazione operata dalla voce del tifoso «post-moderno», moderatamente eccitato, seduto e ben disposto verso le offerte del mercato e che in un termine potremmo ridefinire «legittimo», sostiene l’azione dei dispositivi di intervento governamentale nella razionalizzazione del pubblico degli stadi.

196 DAL LAGO A., QUADRELLI E., La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Milano, Feltrinelli, 2003, p.13. 197 Ibidem. 198 Ibidem. 112

Pay tv: il crollo del monopolio della televisione pubblica in Europa

Il modo in cui le società guardano al loro pubblico, inquadrato non più e non solo come un gruppo di appassionati o tifosi ma soprattutto di potenziali consumatori, è conseguente a un'altra grande svolta avvenuta alla fine degli anni '80: il crollo del monopolio della televisione pubblica in Europa. La nuova normativa ha favorito una notevole lievitazione dei prezzi per l’acquisto dei diritti televisivi delle partite di calcio e il monopolio delle tv statali è stato ben presto spezzato dal potere d'acquisto delle tv private. È la Germania, nel 1988, il primo paese in cui si stipulano i primi accordi tra la Federazione calcistica nazionale e le tv private per i diritti del campionato, ma l'eco più vasta e di maggiore impatto economico l'avranno gli accordi firmati in Inghilterra agli inizi degli anni '90 dal magnate Rupert Murdoch. Attraverso la sua società, la British Sky Broadcasting (BskyB), l'imprenditore australiano escluse la storica Bbc dai diritti del campionato versando alla Federazione Calcio Inglese 305 milioni di sterline per il quinquennio 1992-95. Contestualmente le tv commerciali europee esportano e introducono nuovi tipi di tecnologie già utilizzate negli Stati Uniti: nascono così le pay tv che introducono la cultura del pagamento dei programmi televisivi. Appena dopo, spesso all’interno dello stesso pacchetto che fornisce la pay tv, si diffonde la cosiddetta pay per view: un servizio interattivo che offre una serie di canali tematici e consente all’utente di pagare, in tempo reale, il programma che si è scelto, solitamente attraverso l’introduzione nel decodificatore di una smart card. Le potenzialità di successo della nuova forma di televisione a pagamento sono enormi: potrebbero esserne fruitori ed abbonati tutti coloro che, aldilà dell’antenna che consente di ricevere i classici canali in chiaro basati sul sistema analogico, sono possessori di antenna parabolica (utilizzata per la ricezione del segnale via satellite) o di cavi in fibra ottica. Con la vendita dei diritti tv e la conseguente possibilità di vedere le partite sullo schermo di casa propria affiora un pubblico nuovo, disposto a spendere per un nuovo

113 tipo di consumo legato al calcio; per le società diventa così prioritario non solo rispondere alle esigenze di questo nuovo pubblico, ma anche stimolarle, indirizzarle e crearle. A questo fine si è reso anche necessario un ripensamento delle forme di partecipazione all'evento sportivo, nonché delle strutture che lo accolgono. Un'esigenza, come già visto, manifestatasi in Inghilterra prima che altrove.

Stadio Italia: le riforme degli anni '90

Gli anni '90 introducono nel mondo del calcio una serie di novità destinate a cambiare per sempre il volto di questo sport, per come era stato conosciuto fino a quel momento. Il Decreto Legge n. 485, voluto fortemente dall'ambiente calcistico e patrocinato dal vicepresidente del Consiglio con delega allo sport, Walter Veltroni, porta decisive innovazioni alla disciplina delle società sportive professionistiche, regolate dalla Legge 23 marzo 1981, n. 91. Si tratta di un intervento legislativo di ampia portata, con il quale si disciplinano tutte le società sportive professionistiche e si riconosce e si regolamenta giuridicamente e fiscalmente il lavoro, e dunque la figura, dello sportivo professionista. La maggiore di tali innovazioni è rappresentata, senza dubbio, dalla possibilità concessa a siffatte società di avere fine di lucro. L'articolo abrogato, infatti, imponeva alle società sportive, costituite sotto forma di società per azioni o a responsabilità limitata, di prevedere nell'atto costitutivo l'obbligo di reinvestimento, per il perseguimento esclusivo dell'attività sportiva, degli utili conseguiti. La finalità lucrativa consentirà alle società sportive professionistiche anche la quotazione in borsa. La legge n. 91/1981 sullo sport professionistico ha regolamentato le attività sportive e quelle calcistiche per oltre quindici anni. In quel quadro normativo intervenne un’inattesa sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 15 dicembre 1995, conosciuta come sentenza Bosman, dal nome del calciatore belga Jean-Marc Bosman. Tesserato nella Jupiler League, la massima serie belga, il suo contratto era scaduto nel 1990 e il calciatore intendeva cambiare squadra e trasferirsi al Dunkerque, una 114 compagine francese. Il Dunkerque non offrì al club del R.F.C. Liegi una contropartita in denaro sufficiente e la squadra belga rifiutò il trasferimento. Nel frattempo, l'ingaggio di Bosman venne ridotto e il calciatore si ritrovò fuori dalla prima squadra. Dopo una dura battaglia legale ottene a suo favore una sentenza che stabilì che il sistema fino ad allora portato avanti costituiva una restrizione alla libera circolazione dei lavoratori e ciò era proibito dall'articolo 39 del Trattato di Roma. A Bosman e a tutti i calciatori dell'Unione Europea fu permesso di trasferirsi gratuitamente alla fine del loro contratto, nel caso di un trasferimento da un club appartenente a una federazione calcistica dell'Unione Europea a un club appartenente ad un'altra federazione calcistica, sempre dell'UE. Inoltre, un calciatore poteva firmare un pre-contratto con un altro club, sempre a titolo gratuito, se il contratto attuale aveva una durata residua inferiore o uguale ai sei mesi. La sentenza Bosman ha anche proibito alle leghe calcistiche nazionali degli stati UE, nonché all'UEFA, di porre un tetto al numero di calciatori stranieri qualora ciò discriminasse cittadini dell'Unione Europea. Dopo la sentenza, la regola poteva ancora essere imposta, ma solo con riguardo ai calciatori non aventi cittadinanza di paesi facenti parte dell'Unione Europea. Negli anni novanta un'altra grande riforma è destinata a ristrutturate radicalmente il sistema agonistico del vecchio continente: la riorganizzazione delle coppe europee, con la nascita della Champions League al posto della Coppa dei Campioni, l'abolizione della Coppa delle Coppe e la riformulazione della Coppa UEFA, oggi Europa League. Tramutato dal sistema inglese, il metodo della “League” trasferisce sull'intero continente europeo il principio dei campionati nazionali dove l'eliminazione non è ammessa, ma i club sfidano, in un intreccio che si dipana per tutta la stagione, tutti gli altri club ammessi al torneo. In questo modo la competizione allarga le fila dei partecipanti, i calendari si fanno fittissimi e le società sono costrette ad investire in rose più larghe e competitive. A infoltire le squadre europee contribuirà sempre di più la presenza di stranieri. Per Papa e Panico, «come in nessun altro settore della vita sociale,

115 il progetto di un'Europa unica del lavoro – corollario fondamentale dell'integrazione economica, finanziaria e giuridica tra i paesi del vecchio continente – è stato realizzato con il pallone prima che con la moneta unica199». Le riforme avranno presto i loro effetti: la trasformazione dei club in aziende alla ricerca di continui profitti immette nelle valutazioni dei dirigenti criteri estranei a quelli propriamente sportivi. I nuovi ritmi produttivi dovuti all'allargamento delle competizioni richiedono rose ampie e ricambi continui: turnover, termine tipico dell'organizzazione del lavoro200. Le inedite possibilità offerte dalla legge Bosman accentuano inoltre il cosiddetto spirito “mercenario” dei giocatori, creano un solco tra tifoseria e società e rendono più disincantato il rapporto con i beniamini in campo. Le trattative di mercato in corso tutto l'anno e i continui trasferimenti ostacolano infatti il processo di identificazione con la squadra e rendono sempre più rara l'affermazione in un club delle cosiddette “bandiere201”. In gran parte provenienti dal modello inglese, anche altre trasformazioni di tipo economico investono e sconvolgono l'organizzazione e i significati dell'evento sportivo in Italia. Nascono le prime pay tv, i prezzi dei biglietti diventano i più cari d'Europa e i calciatori, che come abbiamo visto hanno ottenuto maggiore libertà di movimento grazie alla sentenza Bosman, stipulano contratti miliardari. Il calcio si afferma così come un prodotto da sfruttare con modalità inedite: partite e trasmissioni televisive

199 PAPA A., PANICO G., op. cit., 1993, p.423. 200 L'allenatore di calcio Serse Cosmi, da me intervistato durante la sua permanenza a Livorno nel 2009, a proposito degli effetti dei cambiamenti del calcio dagli anni '90 ai vent'anni successivi, si è così' espresso: «[un aspetto che cambia] è la velocità, ma non mi riferisco solo a quella del gioco quanto ai tempi a disposizione per poter programmare. Una volta potevano nascere i cicli di allenatori, o di squadre che avevano l'identità con il proprio allenatore. Oggi le società hanno richieste che devono essere esaudite più velocemente che in passato, quindi gli allenatori sono disorientati, specie quelli che nascono nel mio stesso periodo [anni '90]. Devono far riferimento a un calcio che va molto più veloce in campo ma soprattutto fuori dovendo adattarsi a prendere in considerazione “l'oggi”. Prima invece si prendeva in considerazione anche il domani e il dopodomani. Intervista parzialmente pubblicata in Il calcio di Serse, Senza Soste, n.45, 2000, p.8. 201 A tal proposito fece scalpore prima di Brescia-Roma la dichiarazione rilasciata in conferenza stampa da Alessandro Diamanti, all'epoca capitano rossoblu sul rivale di turno . «È un grande campione, non dico una bandiera perché le bandiere nel calcio moderno per me non esistono più. Lui ha fatto una grande carriera, ma se gli chiedessero di giocare gratis allora sarebbe una bandiera. Con dieci milioni di stipendio è facile: quando ci sono di mezzo i soldi le bandiere non esistono, le bandiere esistono nel volontariato. Anche a me piacerebbe essere una bandiera da 10 milioni». 116 raggiungono una cadenza giornaliera e il rituale domenicale è fagocitato da un nuovo modello di consumo, socialità e spettacolarizzazione dell'evento. L'assegnazione dei Mondiali del 1990 rappresenta l'occasione per far interagire interessi immobiliari e sportivi e avviare un ampio processo di ristrutturazione degli stadi italiani a partire dagli anni '80. Un riqualificazione che non ha dato i risultati attesi (circa vent'anni dopo nessuno dei nuovi stadi interessati dai lavori per i Mondiali è considerato a norma), è stata oggetto dell'interesse della magistratura per i capitoli di spesa ed è costata un pesante contributo di sangue: 678 infortuni e 24 morti tra gli operai. A differenza degli impianti inglesi, l'ammodernamento di quelli italiani non include ancora l’idea di stadi pensati per famiglie, dotati di comfort e servizi commerciali. Assorbite invece le direttive della FIFA che impongono per le gare internazionali impianti con posti a sedere e personalizzati in ogni settore: una novità che però non attecchirà nelle abitudini del tifoso italiano, che nelle curve continuerà a disporsi secondo “le modalità del settore” e ad assistere alle partite in piedi. A variare sarà però il prezzo dei biglietti dei posti più popolari: dalla stagione 1986/87 a quella del 1990/91 si passerà da una media di 15.702 lire a 27.123 lire, praticamente il doppio del costo in quattro anni202.

Il dispositivo berlusconiano

Nel panorama italiano, uno dei contributi più innovativi alla commodification e in particolare all'assimilazione di club professionistici a grandi aziende d'intrattenimento è stato l'ingresso nel calcio dell'imprenditore milanese Silvio Berlusconi. Già presidente del gruppo televisivo Fininvest, ha realizzato l'acquisito del Milan nel 1986, e in breve tempo ha dettato nuove regole al mondo del calcio italiano. Ed è proprio dell'estate del 1986 il primo “ciak”. Per scelta diretta del nuovo presidente rossonero «il Milan si radunò all'Arena con uno show all'americana: i giocatori arrivarono allo stadio dal cielo,

202 Dati estratti dalla relazione di Progetto ultrà, op. cit.. 117 a bordo di elicotteri, colonna sonora "La Cavalcata delle Valchirie". Berlusconi spendeva e spandeva...203». Capo dell'ufficio legale della Fininvest all'epoca era Vittorio Dotti ed è proprio il suo racconto a far luce sulle intenzioni di Berlusconi.

Come imprenditore televisivo aveva avuto una grande intuizione: il mondo del calcio è un immenso bacino di pubblico; ogni tifoso è un potenziale consumatore; ogni consumatore è un potenziale utente televisivo. Gli ingranaggi del pallone e quelli della tv si sarebbero sincronizzati alla perfezione, mettendo in moto una poderosa macchina da soldi204.

Il Milan, dopo lo scandalo che colpì il presidente uscente (fu implicato nel caso Calcioscommesse, già accennato nelle pagine precedenti), versava in un momento di crisi agonistica e finanziaria. Berlusconi si dedicò fortemente alla ricostruzione della squadra, cercando di dare gran risalto alla sua operazione di salvataggio. In un volume dedicato ai processi di trasformazione che hanno investito Milano negli ultimi cinquant'anni, attraverso un'indagine sull’urbanistica, il design, la moda, il cinema, la famiglia, l’immigrazione, la televisione e il calcio, l'autore John Foot dedica diverse pagine al self-made man e all'importanza rivestita dal Milan nella sua scalata al potere.

Berlusconi assisteva personalmente alle partite, catturava l'amicizia dei giocatori e dava consigli tattici ai giocatori. La tribuna d'onore di divenne una passerella prestigiosa ed esclusiva e in breve tempo Berlusconi fu considerato dai tifosi come un idolo.205

Nel giro di due anni, con la guida tecnica affidata a un grande innovatore quale Arrigo Sacchi e lo spettacolare trio di calciatori olandesi composto da Frank Rijkaard, Ruud

203 VERNAZZA S., Berlusconi non voleva comprare il Milan, Gazzetta dello Sport, ed. online, 12 agosto 2014. 204 Ibidem. 205 FOOT J., Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, Milano, Feltrinelli, 2003, p.123. 118

Gullit e , il Milan di Berlusconi conquista per ben due edizioni la Coppa dei Campioni. Racconta John Foot:

Più di ventimila tifosi si erano recati a Barcellona per la finale del 1989, per un totale di venticinque voli charter, quattrocentocinquanta pullman e una nave. Non si trattava solo della vittoria, ma dello stile. Lo spettacolare gioco d'attacco del Milan non aveva nulla a che fare con il classico “catenaccio” ancora usato dagli allenatori italiani più tradizionalisti. Berlusconi fece in modo che il calcio entrasse a far parte della sfera dei divertimenti di ogni famiglia, invece di restare un'attività riservata esclusivamente a tifosi fanatici.206

Come è stato sottolineato dal sociologo inglese, l'efficacia del modello poggia sulla simbiosi tra il controllo dei media, in particolare la tv, e il successo della squadra. Un dispositivo efficace nella sua narrazione in quanto caratteristico di una nuova fase del calcio, quella moderna, che ha assunto centralità come luogo di emanazione di un certo ordine del discorso, nel quale la televisione si rivela la tecnologia portante dell'attenzione sociale. Per Cacciari e Giudici, «Al di là delle retoriche della stessa FIFA, lo stadio non è un’agorà, come e il suo portavoce William Gallard amano ripetere, ma un laboratorio della società dello spettacolo, di governo delle immagini, un centro di «produzione» di socialità paradossalmente dipanato dentro questo non-luogo contemporaneo, scenario artificiale simile ai grandi complessi del consumo di massa e insieme un laboratorio pubblico di repressione; in sostanza uno strumento, duttile e differenziato, usato per dare forma a una certa idea di territorio207». Interrogarsi sul senso del calcio come dispositivo di potere, di socialità e di consumo del capitalismo contemporaneo significa, per gli autori, rilevare l'importanza dello strumento televisivo. Pur ammettendo che «nessuna istituzione disciplinare può essere elevata al rango di modello o laboratorio per le altre, poiché non si cessa di passare

206 Ivi, p.124 207 CACCIARI S., GIUDICI L., op. cit., 2010, p.7. 119 dall’una all’altra208», Giudici e Cacciari sostengono che il rapporto tra televisione e calcio rappresenti un’importante eccezione. «La televisione è infatti la tecnologia della comunicazione che si pone come centro disciplinare dell’attenzione sociale. Si costruisce un centro per regolare un ininterrotto processo di redistribuzione e riorganizzazione di poteri e rapporti di forza. Il calcio si sposa alla televisione perché è storicamente produttivo per rafforzare l’idea di un centro, catalizzando l’attenzione delle grandi masse. Vende dunque la propria popolarità a uno strumento, la televisione, la cui ragion d’essere è la produzione di un centro su cui costruire l’identità sociale209».

L'Italia come il Milan

Nel modello berlusconiano, alla simbiosi tra il controllo mediatico e televisivo e le frequenti vittorie del club calcistico si aggiunge l'ingresso di Berlusconi in politica all'inizio degli anni '90. L'identificazione del presidente con i trionfi del Milan in un paese fortemente coinvolto dalle vicende sportive ha rappresentato una solida base di potere a sostegno della candidatura alla guida del governo. Il partito-azienda, come è stato definito da più parti Forza Italia210, poggia sulla filosofia che ha portato alla ridefinizione della società milanista. Adriano Galliani, uomo di fiducia di Berlusconi, impegnato a presidiare i capisaldi dell'attività dell'imprenditore di Arcore, ha ben riassunto le linee guida della nuova identità calcistica:

Il calcio è lo specchio della società. Le squadre sono aziende. La cosa più vicina al calcio è una major, che produce film. La partita è una pellicola che dura novanta minuti. Lo stadio è la sala cinematografica. Lo sfruttamento tv è pressochè analogo a quello di un film. Attorno a questo film vanno create le attività collaterali. I miei modelli di sviluppo sono la Warner e la Walt Disney. In quel senso io sviluppo il Milan. Quando acquistammo la società, nel 1986, la biglietteria rappresentava il 90% del fatturato. Oggi il mix è 60%

208 Ivi, p.8. 209 Ibidem. 210 FOOT J., Modern , Palgrave Macmillan, 2004. 120

diritti tv, 25% sponsorizzazioni e attività commerciali, 15% biglietteria. L'85% va conquistato come in qualunque altra azienda211.

L’acquisto di Gianluigi Lentini nel 1992 da parte del Milan, alla cifra record di 18,5 miliardi di lire, più di conclamati campioni come Roberto Baggio e Diego Armando Maradona, traccia irreversibilmente il passaggio a un calcio modellato dalle esigenze dello show business. È l'ultimo colpo del calciomercato in un'estate che ha visto spendere fino a mille miliardi le società italiane, ma in ogni caso l'acquisto dell'ala torinista Lentini è quello che provoca più scandalo e polemiche in tutta Italia. Berlusconi spettacolarizza la trattativa, inviando per ben due volte un elicottero a Caselle, nei pressi di Torino, per convincere il giocatore ad accettare la maglia rossonera. L'affare si conclude con la dichiarazione del presidente granata Borsano che parla di un affare complessivo da 67 miliardi. Cifra che ha ricevuto la smentita della società milanista, ma che in seguito è stata oggetto di una pesante e complessa indagine a carico di Berlusconi per il reato di falso in bilancio, perpetrato attraverso il versamento "in nero" di una decina di miliardi di lire dalle casse della squadra di calcio del Milan a quelle del Torino212. I presidenti delle altre squadre più ricche del campionato sono sbalorditi. Gianni Agnelli, presidente onorario della Juventus ha commentato: «Non credevo si potesse arrivare a tanto. Berlusconi è un grande leader, ma gli manca il senso dell'equilibrio213». A Torino si scatenata la rabbia dei tifosi che tentano di assaltare la sede del club granata e di raggiungere Lentini, che riesce a sfuggire a un tentativo di aggressione. Il giocatore tenta di smentire le cifre che circolano sul suo ingaggio, che pare sottoscritto per 8 miliardi di lire, affermando che si tratta esattamente della metà di quel compenso. A chiarire l'investimento è il gruppo Fininvest che annuncia un'altra importante novità contrattuale, dichiarando di aver sottoscritto con il giocatore, oltre al contratto col Milan, anche un contratto di gestione della sua immagine.

211 SACCHI M.S., Galliani: Voglio un Milan come Walt Disney, Corriere della Sera Economia, 6 settembre 1999, p.7. 212 FOSCHINI P., Lentini, quinto processo per Berlusconi, Corriere della Sera, 29 maggio 1998, p.15. 213 DI CARO A. BEHA O., Il calcio alla sbarra, Milano, Bur, 2012. 121

Berlusconi attraverso le sue televisioni amplifica il potere comunicativo del gioco, la propaganda politica non manca di rifarsi ad un uso strumentale del calcio e a breve Forza Italia diventa il primo partito italiano. Celebre la frase: “Voglio fare l'Italia come il Milan”, pronunciata da Berlusconi in campagna elettorale durante la trasmissione “Milano Italia” nel giugno del 1994, irraggiungibile sintesi dell'ambivalente utilizzo della terminologia sportiva e politica per marchiare il proprio linguaggio. Una caratteristica che si è arricchita nel tempo e che ha portato gli studiosi ad interessarsi della “discesa in campo” di Berlusconi sottolineando proprio l'importanza del linguaggio mutuato dalla sfera calcistica.214 Con l'avvento degli anni '90 altri importanti imprenditori si mettono in luce sotto i riflettori degli stadi: Sergio Cragnotti, titolare del marchio Cirio, acquista la Lazio; Callisto Tanzi compra il Parma e attraverso la sua società Parmalat controlla il 98,7% del pacchetto azionario del club; la famiglia Sensi investe sulla Roma e l'imprenditore cinematografico Cecchi Gori rileva la Fiorentina e sogna di realizzare un «terzo polo» televisivo. Il rapporto con presidenti dalle apparenti risorse illimitate farà la fortuna delle squadre elencate: Lazio e Roma torneranno a vincere lo scudetto, il Parma lo sfiorerà più volte, ma sarà protagonista in Europa al pari della Fiorentina che vivrà gli anni d'oro con gli indimenticabili Batistuta e Rui Costa. Un sogno che durerà pochi anni: dal punto di vista finanziario, «l'intero sistema italiano sfiorò il collasso e solo una serie di trucchi, conti creativi e leggi d'emergenza evitarono il crollo totale215». Lazio e Roma vacillarono sotto il peso di enormi debiti, Fiorentina (e Napoli) fallirono e furono retrocesse nelle serie inferiori, il Parma, dal 2014 è in preda a una crisi ingovernabile che si risolverà presumibilmente con il fallimento pilotato. Il calcio italiano si rivelò la fetta di un sistema finanziario malato, con regole facoltative e controlli inesistenti, dove era facile occultare debiti e raggiri agli occhi della finanza, degli azionisti e soprattutto dei tifosi.

214 TRIANI G., op. cit., 1999. 215 FOOT, J., Calcio. 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia, Milano, RCS Libri, 2010, p.574. 122

Il calcio on demand

Come in Inghilterra, ciò a che ha dato linfa vitale al sistema è stato l'ingresso decisivo delle tv private che rompono il monopolio statale e ristrutturano completamente il mondo del calcio e le abitudini dei suoi sostenitori. Inizialmente, verso la fine degli anni Ottanta, Berlusconi aveva provato a scalfire il monopolio RAI aggiudicandosi i diritti di molte partite amichevoli, di campionati esteri e di alcune partite di coppa ma senza riuscire a intaccare i diritti sul campionato e la . L'impresa riuscirà a TELE +, prima piattaforma televisiva commerciale a pagamento destinata al mercato televisivo italiano. La società Telepiù SpA controllata dalla cordata formata dal tedesco Leo Kirch (45%) e dal neo proprietario della Fiorentina Vittorio Cecchi Gori (35%) vantava anche la presenza Silvio Berlusconi (10%) e di altri soci di minoranza. Con l'entrata in vigore della legge Mammì sulla regolamentazione dei mezzi di comunicazione TELE + ottenne tre concessioni televisive per una piattaforma a pagamento. Inizialmente il servizio di pay tv non incontrò il favore degli utenti televisivi e dopo i primi 7 mesi di programmazione crittografata le perdite per Telepiù S.p.A. toccavano i 150 miliardi di lire. Il rimedio individuato per le sorti della piattaforma rappresenta ancora oggi una delle più grandi rivoluzioni nel calcio. Nella primavera del 1993, mentre l'azienda mostrava ancora forti perdite di bilancio, i soci avviarono trattative con la Lega Calcio raggiungendo un accordo appena pochi mesi dopo per trasmettere a pagamento e in diretta un posticipo della Serie A, la domenica alle 20:30, e un anticipo della Serie B, il sabato sempre alle 20:30. Il 29 agosto del 1993, allo , Lazio-Foggia apre il campionato delle partite a pagamento. Dino Zoff e Zdenĕk Zeman sulle panchine delle rispettive squadre regalano uno scialbo 0-0 agli abbonati ma le rispettive società incassano 600 milioni a testa. È questa la cifra pattuita dall'accordo fra Lega e Telepiù: 1.200 milioni per ogni partita di A, divisi alla pari tra le due squadre interessate, mentre

123 sono 175 milioni in B, per un totale di 44.800 milioni. In chiaro restano il pre-gara e i primi 3' di gioco. Dalle colonne del Corriere della Sera, un articolo riassume i concetti ispiratori delle scelte della Lega. Sono sei: «1. il maggior numero di partite trasmesse in pay tv deve vedere impegnata una squadra classificatasi dal 1° al 7° posto nella serie A '92-93 e dal 1° all'8° nella B '92-93; 2. tutte le squadre hanno diritto di apparizione; 3. nel periodo invernale (dal 1 dicembre al 28 febbraio), niente anticipi e posticipi nel Nord Italia a rischio nebbia; 4. niente posticipi nelle giornate antecedenti i turni delle coppe europee, a partire dal terzo turno; 5. il 19 settembre è stata posticipata Piacenza-Lecce, per non creare intralci a Estonia-Italia del 22; 6. ripartizione in parti uguali tra le due società partecipanti dei proventi della pay tv216». L'ingresso della tv commerciale nel calcio diventa pretesto di malcontento e terreno di lotta politica. La RAI denuncia la perdita di esclusiva del calcio al pari di un disinvestimento su un bene comune e attraverso i suoi servizi manda messaggi allarmanti agli ascoltatori. In un articolo sul Corriere della Sera, il giornalista sportivo Giorgio Tosatti ne riporta alcuni:

Ricordate questo gol? Non lo vedrete più. “Sentite questa voce? Non l'ascolterete più”. Il format “Tempo reale” organizza una puntata per diffondere il drammatico annuncio: “Gli italiani non vedranno piu' il calcio alla domenica”. Sentite, in un Tg, domande di questo tipo: “Cosa farà nel suo giorno di festa non potendo più seguire le partite?217

La Lega Nazionale Professionisti, rispondendo indirettamente alle levate di scudi della Rai, ha puntualizzato che «si è trattato di un ottimo affare. Finora la Rai aveva pagato al massimo 850 milioni per una gara di campionato, anche se si trattava di partite particolari, con interessi più elevati perché disputate nel finale di stagione. E per quanto riguarda la B, pochissime società possono vantare finora incassi da 175 milioni netti per

216 REDAZIONE, La Lega delude Telepiù. Lazio Foggia è la prima, Corriere della Sera, 31 luglio 1993, p.27. 217 TOSATTI G., Ricordate questo gol? Non lo vedrete più, Corriere della Sera, 11 marzo 1996, p.35. 124 incontro. La maggior parte di loro ha una media di introiti che supera di poco i 50 milioni218». Il presidente della Lega ha inoltre difeso l'accordo per la cessione dei diritti nel suo complesso, sostenendo che «in un momento di recessione economica in tutto il Paese, con molte aziende in difficoltà, il calcio è riuscito a elevare dell'80% circa gli introiti tv: dai 108 miliardi del precedente contratto si è saliti a 180, una crescita notevole, che tutti i presidenti di società hanno giudicato in modo positivo219». Anche la politica affronta il caso. Il centrodestra cavalca l'indignazione popolare per la sconfitta dell'ente pubblico, il centrosinistra difende le norme sulla concorrenza. Luciana Castellina, presidente della commissione Cultura nell'Europarlamento afferma che «vedere la partita di calcio è un diritto dell'uomo, un diritto storico dello Stato sociale e la concessione dei diritti a emittenti commerciali può violarlo220». Nel corso di tutti gli anni '90 saranno tre le negoziazioni tra la Lega Calcio e le piattaforme televisive per la cessione dei diritti di trasmissione delle partite. Il primo accordo, valido per le stagione dal 1993-1996, prevede che il canale Tele+2 - interamente dedicato allo sport - trasmetta una gara del massimo campionato, generalmente posticipata alle 20:30 della domenica, per ciascuna delle prime 28 giornate mentre negli ultimi sei turni non sono previsti posticipi per garantire la regolarità della fase finale del torneo. Le gare sono visibili attraverso un decoder e per i soli abbonati. Il contratto consentiva alla pay tv di scegliere, all'inizio della stagione, i match da trasmettere durante le 28 giornate, rispettando alcuni vincoli: un minino di 2 e un massimo di 5 posticipi a squadra e l'impossibilità di scegliere le stesse partite tra andata e ritorno. Una successiva rinegoziazione ha poi abolito questo vincolo e aumentato a 6 il numero massimo di passaggi televisivi per i grandi club. Alla Rai restavano i recuperi infrasettimanali di partite precedentemente rinviate e gli anticipi dettati da impegni delle

218 REDAZIONE, La Lazio inaugura il calcio di Serie A in pay-tv in Italia, La Stampa on line, 31 luglio 1993. 219 Ibidem. 220 TOSATTI G., cit. 1996, p.35. 125 squadre nelle competizioni internazionali, purché non coincidenti con le gare prescelte da Tele+ a inizio stagione, nonché gli spareggi di fine campionato. Il triennio 1996-1999 coincide con il monopolio assoluto di Tele + che si accorda con la Lega Calcio per la copertura pressoché totale della Serie A. La piattaforma si aggiudica tutte le partite del massimo campionato (quindi non più solo i posticipi) e varia le offerte per gli abbonati, che possono optare per l'intera stagione oppure acquistare le partite di una singola squadra oppure on demand singole partite. Solo gli spareggi di fine campionato, se giocati in gara unica in campo neutro, sono esclusi dal controllo di Tele +. Alcune importanti novità investono il triennio 1999-2003. La principale riguarda l'assunzione nel 1999 della sentenza dell’Antitrust che dichiara illegittima la vendita collettiva dei diritti (ritenuta in contrasto con la legge 287/1990 - “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”), alla quale fa seguito il decreto del governo D’Alema che garantisce per legge la soggettività dei diritti. Da quel momento non è più la Lega Calcio a trattare con le televisioni: ma ciascuna società è libera di gestire in autonomia il valore delle gare casalinghe. Non meno importante è l'ingresso di una piattaforma satellitare concorrente: a TELE+ si affianca Stream tv del magnate australiano Rupert Murdoch. Per quattro stagioni, dal 1999-2000 al 2002-03, il torneo viene spaccato in due: una parte di partite è trasmessa da Tele + e l'altra su Stream tv con conseguenze dirette per i telespettatori, che per seguire anche solo la propria squadra del cuore, si trovano costretti ad abbonarsi ad entrambe le piattaforme, che oltretutto utilizzano due decoder differenti. Nelle prime stagioni, Tele + mantiene un lieve vantaggio, aggiudicandosi i diritti di 11 squadre (tra le quali Juventus, Milan ed Inter) contro le 7 di Stream tv (di cui facevano parte Roma, Lazio, Fiorentina e Parma). Nel 2001-02 il vantaggio si riduce e nel 2002-03 si registra invece un pareggio (9 squadre per ciascuna piattaforma). In quest'ultima stagione il sistema comincia ad entrare in crisi, con molte società minori che tardarono a vendere i

126 diritti (all'una o all'altra emittente), dichiarandosi insoddisfatte delle offerte economiche, provocando addirittura lo slittamento dell'inizio dei campionati. L’invadenza del mercato televisivo, con la conseguente trasmissione a ciclo continuo della chiacchiera e dell'approfondimento sportivo, la moltiplicazione degli eventi agonistici, l’allargamento degli organici e il forte turnover tra giocatori, l’aumento esponenziale degli ingaggi e l’indebitamento conseguente di molte società, la privatizzazione del consumo televisivo del calcio e il progressivo allontanamento dagli stadi, sono alcune tra le conseguenze di quello che è stato definito calcio moderno. Da un punto di vista sportivo il risultato più tangibile dell'ingresso di ingenti capitali nel calcio attraverso i diritti tv è l’estensione del divario tra le grandi e le piccole squadre. La distribuzione delle risorse non fu uniforme, favorendo le big: imprese come il Verona, vincitore dello scudetto nella stagione 1984/85, si trasformano presto in leggenda e sono relegate a un calcio che sembra non esistere più. Che ormai siano esclusivamente i fatturati a delineare la lotta per lo scudetto lo si capisce dagli esiti dell'ascesa di altri importanti imprenditori che negli anni '90 si mettono in luce sotto i riflettori degli stadi: Sergio Cragnotti, titolare del marchio Cirio, acquista la Lazio; Callisto Tanzi compra il Parma e attraverso la sua società Parmalat controlla il 98,7% del pacchetto azionario del club; la famiglia Sensi investe sulla Roma e l'imprenditore cinematografico Cecchi Gori rileva la Fiorentina e sogna di realizzare un «terzo polo» televisivo. Con il loro ingresso, per anni la conquista del titolo si restringe a 7 squadre: le solite Juventus e Inter, il Milan di Berlusconi, e appunto la Roma di Sensi, la Lazio di Cragnotti, il Parma di Tanzi, la Fiorentina di Cecchi Gori. Verranno ribattezzate le sette sorelle e per diverse stagioni consecutive queste squadre disputeranno un campionato a sé. Il rapporto con i nuovi presidenti dalle apparenti risorse illimitate farà la fortuna delle squadre seguenti: Lazio e Roma torneranno a vincere lo scudetto, il Parma lo sfiorerà più volte, ma sarà protagonista in Europa al pari della Fiorentina che vivrà gli anni d'oro con gli indimenticabili Batistuta e Rui Costa. Alla fine degli anni ‘90 tutti i più grandi campioni mondiali giocano in Italia, ovviamente nelle sette squadre di

127 vertice. Per le pay tv sarà un business enorme. Un sogno che durerà pochi anni: dal punto di vista finanziario, «l'intero sistema italiano sfiorò il collasso e solo una serie di trucchi, conti creativi e leggi d'emergenza evitarono il crollo totale221». Lazio e Roma vacillano sotto il peso di enormi debiti, Fiorentina e Napoli falliscono e retrocedono nelle serie inferiori, il Parma dal 2014 è in preda a una crisi ingovernabile che si risolverà presumibilmente solo con il fallimento pilotato. Il calcio italiano si rivela parte di un sistema finanziario malato, con regole facoltative e controlli inesistenti, dove è facile occultare debiti e raggiri agli occhi della finanza, degli azionisti e soprattutto dei tifosi.

I conflitti dietro l'immagine

«Utopia e desiderio nel mercato riescono a produrre quello spazio pubblico dell’emozione, che unifica affettivamente la società e rende attraenti le merci che riescono a popolarlo, che è il campo di applicazione delle discipline del marketing legate a tattiche istantanee di promozione e dall’effetto permanente. Dove c’è storia c’è affetto, dove c’è utopia c’è desiderio: il marketing legato all’emozione deve saper cogliere queste dinamiche per veicolare un prodotto che arrivi nell’emotività del consumatore come lo choc metropolitano arrivava al passante parigino della metropoli di Benjamin: come prodotto di un ambiente che si imprime nella capacità di percepire emozioni nel contesto di una pluralità di confuse sollecitazioni cognitive»222.

Le nuove strategie di comunicazione legate al calcio, ben riassunte nella riflessione di Cacciari e Mori, rivelano una narrazione che segue le regole della società dello spettacolo che prevedono «non un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediatizzato da immagini»223. Le immagini rappresentano da decenni il medium principale attraverso cui le persone e le collettività entrano in contatto tra loro,

221 FOOT, J., op. cit., 2010, p.574. 222 CACCIARI S., MORI L., Mesh di comunicazione, Pisa, Ets, 2008, p.108. 223 GUY DEBORD, Opere Cinematografiche, Milano, Bompiani, 2004, p.53. 128 il medium che crea legame sociale. Un medium che «ha modificato sostanzialmente il nostro rapporto con la realtà che ci circonda»224. Come ha sottolineato il filosofo Ernst Cassirer, «l’uomo è continuamente a colloquio con sè medesimo. Si è circondato di forme linguistiche, di immagini artistiche, di simboli mitici e di riti religiosi a tal segno da non poter vedere e conoscere più nulla se non per il tramite di questa artificiale mediazione»225. Etimologicamente simbolo significa ciò-che-lega-insieme, ed è attraverso l’elemento simbolico (mito, linguaggio, arte, gioco) che si crea legame sociale. Controllare o modificare il simbolico significa dunque controllare o modificare lo stesso legame sociale. Con l'egemonia raggiunta dalle pay tv, le abitudini calcistiche vanno in frantumi: si gioca seguendo il palinsesto televisivo, che spezzetta le partite - un tempo appuntamento domenicale - lungo tutto l'arco della settimana, un potere dato dal fatto che gli introiti televisivi hanno assunto più o meno in ogni società il primato tra le voci di bilancio; si assiste a una trasmissione continua e globalizzata dei campionati di calcio, esportando ovunque il blasone delle squadre più vincenti che catturano l'attenzione dei tifosi in ogni angolo del pianeta. Con il prevalere di questo tipo di consumo della partita, mediata dagli schermi televisivi, che tipo di immagine del calcio viene veicolata? Alessandro Giusti, autore di un saggio sull'impatto di SKY nel calcio italiano, spiega come «il sistema che governa il mondo del calcio nella sua accezione mediatico- televisiva rende conto dell’esigenza di fare emergere due aspetti inseparabili: la costruzione tecnica dell’evento partita, e della divisione del lavoro che comporta, unita alla spettacolarizzazione del gioco, con il carico di mistificazione e distaccamento dalla realtà che questa comporta226». L’avvenimento sportivo, assunta la forma del prodotto mediatico, risente dell'interpretazione delle figure di supporto alla sua trasmissione: il regista, il

224 RONDOLINO G., Cinema, Milano, Jaka Book, 1992, p.59. 225 CASSIRER E., Saggio sull’uomo, Roma, Armando Editore, 1996, p.80. 226 BIAGIOTTI F., GIUSTI A., SKY. I conflitti dietro l'immagine, in CACCIARI S., GIUDICI L., op. cit., 2010, p.186. 129 cameraman, il replaysta, il commentatore, lavorano operando costantemente delle scelte, agendo per sottrazione dall’intero universo possibile affinché un evento televisivo come un partita di calcio susciti nel telespettatore le emozioni necessarie. Così le riassume Giusti:

l’aumento del numero delle telecamere, con possibilità di coprire ogni parte del campo di gara e offrire numerosi punti di vista; introduzione di camere a spalla e steadycam per offrire immagini di bordo-campo in diretta e supportare interviste; l’evoluzione delle tecniche di elaborazione in tempo reale delle immagini con la possibilità di immagazzinare il flusso di ogni camera, consentendo il replay di ogni punto del flusso, il fermo immagine (moviola), l’evidenziazione e ingrandimento; la sovraimpressione di un numero maggiore di informazioni inclusi i dati in tempo reale generati da computer. A questo vanno aggiunti la figura dell’«esperto», in genere uno «sportivo» che affianca il tradizionale telecronista, l’introduzione di intervistatori e osservatori a bordo-campo collegati in audio o in video e il miglioramento della tecnica di registrazione sonora con un aumento del numero di microfoni, della direzionalità e delle possibilità di regia del sonoro227

La lettura del “sistema di ripresa” - la modalità tecnico-linguistica offerta dal dispositivo tecnico e dalle possibilità linguistiche da esso generate - chiarisce la direzione intrapresa da chi governa l'uso dell'immagine. Come in un racconto scritto o cinematografico, sono le sequenze a formare la narrazione di una partita. Per Giusti «rappresentano delle vere e proprie frasi di un racconto (e come in un racconto si può omettere, tacere, stravolgere la realtà), le cui proposizioni principali - rappresentate dal gesto atletico - possono essere arricchite da una serie di subordinate: la tensione prima della prova, la concentrazione, la reazione al risultato, il confronto con l’antagonista, la risposta dello stadio, nonché l’analisi in dettaglio della performance dell’atleta228».

227 Ivi, p.289. 228 Ivi, p.188. 130

Con l'evoluzione dei mezzi tecnici e il dispiegamento di un sempre maggior numero di telecamere a supporto della narrazione, proprio il dettaglio può assumere una centralità inedita. Il replay, la riproposizione dell’azione, oppure il rallenty, che è uno strumento di analisi e di spettacolarizzazione del gesto atletico, danno la possibilità allo sguardo di soffermarsi su un particolare gesto tecnico, una decisione poco chiara dell'arbitro, il look di un giocatore, il marchio o il prodotto utilizzato da un singolo o dall'intera squadra. Si tratta si strumenti capaci di valorizzare determinati aspetti agli occhi dello spettatore, ma anche di condizionare il gioco del calcio stesso: basta pensare alla prova televisiva, con cui il giocatore può incorrere in squalifiche, anche pesanti, se “pizzicato” a compiere una scorrettezza lontano dalla vista dell'arbitro, un'eventualità che ha trasformato gli atteggiamenti e l’agonismo sul campo da gioco. Esistono infatti due modi diversi di ripresa: uno in cui le telecamere sono più alte e distanti dal campo, “in totale”, e offrono informazioni sugli schemi di gioco; l'altro che prevede telecamere basse, vicine ai soggetti e usate “in campo stretto” (mostrano i giocatori in contesa sul pallone, le espressioni di gioia, rabbia, fatica, le urla, i movimenti stereotipati e i gesti tecnici, e più in generale tutto ciò che suscita le corde emozionali e offre spettacolo). La possibilità di seguire il gioco staccando tra più telecamere è un fondamentale elemento di spettacolarizzazione offerto dal linguaggio televisivo. Per Giusti «il modo di accostare le diverse immagini le une alle altre, il montaggio delle inquadrature provenienti dalle diverse camere, il passaggio dal totale di gioco alla figura ravvicinata dei giocatori in tackle, al primo piano del giocatore che ha subito il fallo, al particolare delle mani che stringono la caviglia, sono procedimenti quasi naturali, che riproducono con stacchi successivi l’attenzione dello spettatore in tribuna nella focalizzazione della fase di gioco. Il procedimento è tipico della televisione degli inizi, che tenta di imitare la situazione dello spettatore allo stadio. Ma se il campo stretto del giocatore che porta palla mi impedisce di vedere il

131 posizionamento della squadra, è una realtà falsata, oscurata: lo spettacolo ha preso il posto dell’informazione229» . I meccanismi appena evidenziati hanno fatto sì che il calcio fosse sempre più declinato come spettacolo (immagine da riprodurre e commercializzare) che integra al proprio interno i paradigmi della cosiddetta industria culturale e di massa. La centralità del calcio diventa così produttiva nelle economie post-moderne grazie alla valorizzazione del sistema televisivo e mediale. La produzione di immagini valorizza lo stadio in termini di iniziativa spettacolare riducendo il tradizionale rapporto tra l'impianto e il territorio, sostituito da una comunicazione che mira alla ricerca di un pubblico più esteso di quello assiepato sulle gradinate. Come sostiene Morin: «L’industria culturale non sfugge a questa legge: la ricerca di un grande pubblico implica la ricerca di un denominatore comune, ovvero omogeneizzazione dei consumi. La tendenza omogeneizzante è nello stesso tempo una tendenza cosmopolita che mira ad attenuare le differenziazioni culturali nazionali a vantaggio di una cultura delle grandi aree trans- nazionali230». In questa nuova veste post-moderna, lo stadio deve funzionare come un dispositivo nel quale non deve accadere niente che possa entrare in conflitto con la vendita di un ottimo prodotto commerciale. Nel momento in cui il calcio diventa un merce privilegiata per la produzione di centro nella nostra società occorre adeguare la struttura nel contesto urbano e rafforzare l’industria della sicurezza. Che ne è quindi dei conflitti, dentro questo scenario? Un esempio paradigmatico può rivelarsi l’importante partita delle qualificazioni mondiali, Italia-Serbia, giocata il 12 ottobre 2010 a Genova. La serata sarà ricordata per la decisione della Federazione calcistica internazionale (FIFA), tramite il direttore di gara, di sancire la sospensione definitiva della partita per motivi di ordine pubblico, fatto che avviene solitamente in circostanze rarissime e gravi. Circostanze che non sono apparse tali alla grande maggioranza del pubblico italiano presente. Mentre i media

229 Ivi, p.190. 230 MORIN E., L'industria culturale: saggio sulla cultura di massa, Bologna, Il Mulino, 1963. 132 hanno narrato di famiglie italiane presenti allo stadio terrorizzate e messe in fuga dall’agire violento dei tifosi serbi arrivati a Genova, la scena che si dispiega ad occhi più formati ai meccanismi di un incontro di calcio è di ben altro tenore: il pubblico si mostrava più che altro infastidito dall’interruzione della partita e, addirittura, dalla gradinata Nord i «terrorizzati» tifosi italiani hanno azionato un idrante verso i serbi, schernendoli e provocandoli. Numerose sono state le proteste e i fischi per la sospensione, accolta dall'incredulità generale degli spettatori, data l’«ordinarietà» di quanto si stava verificando nel settore ospiti. Anche i rappresentanti delle forze dell’ordine si sono mostrati contrari alla scelta della Federazione, consapevoli di dover gestire una situazione divenuta in un istante complicata per il deflusso improvviso dei tifosi e l’eccitazione dei serbi. La decisione ha rivelato inoltre una differente opzione di gestione dell’evento tra i vertici delle forze dell’ordine e le istituzioni del calcio. Se la polizia ha operato sul campo in modo ordinario, secondo un tradizionale uso disciplinare dello spazio, cercando così il contenimento e la ghettizzazione della tifoseria in trasferta (ricevendo i tifosi fin dalla stazione, scortando senza danni il corteo allo stadio, ingabbiando gli ultras nel settore ospiti e sottoponendoli alle telecamere di sorveglianza per posteriori sanzioni) alle istituzioni del calcio non interessa tanto una razionalità funzionale alla limitazione dei danni (che infatti a quel punto si sono amplificati e sono stati scaricati sulle forze dell’ordine), quanto piuttosto promuovere un nuovo stile di comportamento e di consumo del calcio (ancor più in opera nelle gare internazionali), che coltivi nuove pratiche di massa dei brands ufficiali e che generi in ultima istanza l’auspicata gentrification. La forma dello stadio non può più essere una forma disciplinare (forma invece ancora pienamente assunta dalle forze dell’ordine) e il comportamento dei serbi, mosso anche dalla volontà di usare la conflittuale platea internazionale della partita per lanciare messaggi nazionalistici contro l’indipendenza del Kosovo, non può più essere «gestito», diventando del tutto inadeguato per il nuovo scenario auspicato dalle istituzioni.

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Quanto gli eventi sono apparsi risibili «sul campo», tanto i media ne hanno proposto in diretta nei giorni seguenti un’immagine catastrofica e del tutto irreale. Il centro di Genova sarebbe stato saccheggiato dal corteo dei serbi, che dentro lo stadio avrebbero poi messo in serio pericolo l’incolumità dei giocatori e degli spettatori. Le immagini televisive, sapientemente orchestrate, davano la sensazione di uno scenario profondamente destabilizzato e caotico. Il potere «performativo» delle rappresentazioni, la capacità di condizionare gli attori coinvolti conformemente alla progettualità dominante di governo e di rigenerazione dell’economia locale, modella la nuova «forma» dello stadio e ne depotenzia i conflitti. È opportuno rivolgere l’attenzione alle rappresentazioni degli stadi contenute nei media, nelle strategie politico-economiche, nei documenti politici e nei prodotti culturali. Attraverso le immagini che celebrano le gesta della squadra locale, imprenditori e gruppi economici cercano di proiettarsi nello spazio delle relazioni globali mediante operazioni di marketing territoriale, di promozione del marchio urbano, di invenzione di immagini attraenti per richiamare capitali, infondere negli attori politici locali una mentalità competitiva e collaborativa e catturare i flussi globali di visitatori. Si investe così nel «governo delle immagini», in «narrazioni selettive»231 e simboli incarnati. Lo stadio diventa prima di tutto uno straordinario oggetto di attenzione su cui insistono complesse ed eterogenee piattaforme mediali, pronte a usare il potere sociale del calcio per rafforzare il potere sociale delle immagini prodotte. Nell’esempio del Ferraris, il governo dell’immagine non riguarda quindi solo la questione dell’egemonia delle forme governamentali della «civilizzazione» sui comportamenti difformi all’ordine pubblico. È soprattutto questione di difesa delle strategie di branding inscritte nel codice di valorizzazione del calcio contemporaneo, ossia il suo principale fattore di sviluppo, di accumulazione finanziaria e di funzionamento: la carica conflittuale contenuta nel rito calcistico deve essere neutralizzata, per non turbare gli investimenti ed esporli a rischio.

231 SANDERCOCK L., Cosmopolis II: Mongrel Cities for the 21st Century, London, Continuum, 2003. 134

Si tratta di dinamiche capitalistiche che finiscono poi per plasmare la nuova forma urbana del terreno dove si gioca questo conflitto. Lo stadio diviene così un modello di «panottico rovesciato»232: tecnologie urbanistiche e della comunicazione, del controllo e del consumo convergono sul campo per perimetrare e regolare un terreno dove, al contrario del panottico tradizionale in cui un unico occhio sorveglia i molti, lo sguardo di molti si fa unico e si concentra sui pochi che giocano, secondo i ritmi dettati dalle forme di governamentalità ad alta complessità e dalle strategie di branding promosse dalle piattaforme mediali e di marketing. Negli impianti sportivi di oggi sono così i molti a osservare i pochi; il «disciplinamento» avviene tramite il consumo e lo spettacolo di un evento privato quanto più possibile degli originari significati rituali e riconvertito a merce. Lo stadio si rivela come creazione di uno spazio urbano deputato alla rappresentazione performativa e «valorizzante» della realtà sociale, secondo un modello che culmina nei palazzetti statunitensi che ospitano le partite dell’NBA233. L’intervento sullo spazio dello stadio, con l'imposizione dei seggiolini a schienale rigido nelle curve per limitare la possibilità di movimento e di assembramento, l'eliminazione delle balaustre su cui attaccare gli striscioni per impedire la visibilità e la circolazione di messaggi sgraditi, la divisione dei tifosi più caldi in tanti settori separati, in modo da intaccare anche la qualità del canto (e dunque del messaggio orale) è funzionale alla conquista stessa dello spazio, liberato dalle componenti più conflittuali e sregolate. Lo spazio è ora modellato dal rapporto con le immagini: nell’evento live cui si partecipa fisicamente andando allo stadio si vuole riprodurre il rapporto tra schermo e spettatore proprio della televisione. Il

232 ELMER G., A Diagram of Panoptic Surveillance, in New Media and Society, 5, 2, 2003, pp.231-247. 233 In ogni palezzetto dell’NBA si staglia un gigantesco cubo sospeso, dove sono montati 4 grandi schermi visibili da ogni tribuna. Il cubo è il sovrano assoluto di tutto ciò che avviene nel palazzetto. La voce dello speaker non commenta l’azione che si svolge in campo ma le immagini dell’azione che appaiono negli schermi. L’agire degli spettatori è guidato dalle istruzioni che vi appaiono: make noise quando gli avversari battono un tiro libero, applause quando la squadra di casa segna. Anche nelle pause di gioco tutto ciò che accade nell’arena è interamente scandito dallo schermo del cubo, che propone giochi e svaghi interattivi tra gli spettatori e le immagini. Tutti guardano in continuazione lo schermo, stimolati all’interazione continua. Quando uno spettatore si vede inquadrato compie live l’attività che il cubo richiede, appare la scritta applause e tutto lo stadio applaude. La costante interazione col pubblico è la caratteristica più interessante: è uno spettacolo senza spazi vuoti, omogeneo, senza buchi, strutturato per non permettere relazioni tra spettatori che non passino tramite la mediazione del cubo. Ogni rapporto è mediato dallo schermo, che tutti guardano continuamente, rovesciando e riproducendo lo schema panottico. 135 potere simbolico del dispositivo poi, non appena sorto dalla ristrutturazione della cornice spaziale dello stadio, esce immediatamente da questo spazio, pronto per essere esaltato e riprodotto nei circuiti globali delle immagini televisive, rafforzando il potere di centro e la capacità di attrazione di grandi masse da parte delle piattaforme mediali.

La rivolta contro il calcio moderno

Come è stato detto, negli anni Novanta un nuovo flusso di capitale cambia totalmente gli assetti del calcio anche in Italia. Le società sportive diventano aziende, le pay tv stravolgono i calendari e dettano le regole del gioco, le squadre si riempiono di campioni ma anche di giocatori sopravvalutati e strapagati. Il calcio si configura come un gran laboratorio della società dello spettacolo e parte del suo fascino deriva ancora dai tifosi organizzati, che inquietano l'opinione pubblica ma restano più o meno saldi nelle proprie curve. Il movimento ultras, in un primo momento, sembra infatti assorbire i cambiamenti senza particolari traumi ma già nei primissimi anni '90 alcuni segnali sono inequivocabilmente il sintomo di una crisi di identità. Il segno più tangibile è lo scioglimento di alcuni gruppi storici del tifo italiano, primo fra tutti quello delle Brigate Gialloblu, fondate nel 1971, presumibilmente da simpatizzanti di estrema sinistra (da qui il nome Brigate). Nel corso del tempo gli ultrà veronesi avevano acquisito un ruolo di primo piano nello scenario del tifo attraverso trasferte di massa, numerosissimi scontri, invasioni nelle curve altrui, episodi di goliardia e razzismo, legami non troppo nascosti con gruppi locali di estrema destra. Ma soprattutto uno stile di stampo inglese, evidente per le affinità con i gruppi hooligans nella mentalità e nei cori, per le bandiere, per il modo di vestire e di vivere la partita.

Le Brigate Gialloblu erano violente, cattive, razziste, drogate e ubriache, ma erano anche originali, imprevedibili, divertenti, assolutamente incontrollabili. Erano i veronesi tuti mati, erano quelli che avevano i modi del tifo inglese, mutuati in gran parte dai tifosi del

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Chelsea con cui ci furono rapporti molto stretti, praticamente un gemellaggio, al punto che nel 1976 ebbero il privilegio di esporre il loro striscione nello “shed” di Stamford Bridge, la celebre gradinata degli Headhunters del Chelsea. […] Le Brigate davano profondamente fastidio a tutto quello che era autorità costituita, sfregiavano tutto quello che era senso comune, politicamente corretto, socialmente accettato. Disturbavano. E questo, agli altri ultras, piacevano moltissimo, anche a quelli, ed erano la maggior parte, che le Brigate le odiavano234.

Per i motivi riportati sopra, le Brigate Gialloblu diventano presto un caso nazionale e, per Verona, un pericolo da estirpare - come si evince dal titolo di un quotidiano locale: “Da Bangkok della droga a Beirut del calcio”. Già nel febbraio 1987 vengono arrestati 12 ultrà veronesi con l’accusa di “associazione a delinquere”. È la prima volta, in Italia, che a un tifoso di calcio viene attribuita un'accusa di tale gravità. Nelle abitazioni degli ultrà arrestati vengono rinvenute mazze, attrezzi da arti marziali e materiale propagandistico di estrema destra. La curva risponde presentandosi vuota all'appuntamento domenicale, ma con un unico striscione ben visibile in balaustra: “Non 12, ma 5000 colpevoli”. Le indagini della procura continuano e arrivano anche le condanne definitive. Curva e dirigenza gialloblu si spaccano. E il 14 novembre 1991: pochi giorni prima di compiere 20 anni, le Brigate Gialloblu annunciano il loro autoscioglimento. I vertici dello storico gruppo veronese si dicono stanchi dell'accanimento nei loro confronti: “Non possiamo essere il capro espiatorio per problemi di ordine pubblico che travalicano il tifo sportivo”. Ma quello delle Brigate Gialloblu non è altro che il primo di una serie di scioglimenti che faranno notizia. Nel 1992 lasciano i comaschi della Fossa Lariana e nel 1993, con motivazioni diverse dai veronesi, si scioglie la Fossa dei Grifoni genoana, uno dei primi e più importanti gruppi del movimento ultras. E proprio le motivazioni dello

234 FRANCESIO G., op. cit., 2008, p.69. 137 scioglimento della Fossa fanno intendere che qualcosa nei meccanismi delle curve degli stadi non gira più come prima.

La Fossa dei Grifoni, a seguito della riunione avvenuta il 28/7/1993, intende chiarire ufficialmente con questo comunicato stampa le motivazioni reali che hanno portato allo scioglimento del gruppo, ciò affinché non vengano date interpretazioni diverse dalle seguenti: la Fossa dei Grifoni non si riconosce più nel suddetto mondo ultrà così com’è considerato attualmente; la Fossa dei Grifoni non accetta più di essere additata da parte della società Genoa Calcio come la causa di tutti i mali del Genoa; la Fossa dei Grifoni disprezza l’atteggiamento di parte del pubblico genoano nei confronti della Fossa stessa; la Fossa dei Grifoni non intende più sopportare il comportamento repressivo delle forze di polizia (leggi divieti di entrata allo stadio notificati con allarmante superficialità); la Fossa dei Grifoni è stanca di leggere sulla stampa cittadina e nazionale giudizi espressi da alcuni giornalisti, i quali hanno tentato di far apparire sempre in negativo il nostro gruppo, addossandoci responsabilità che andrebbero ricercate altrove, senza dare peraltro il risalto necessario a tutte le iniziative umanitarie e sociali che abbiamo sempre effettuato; la Fossa dei Grifoni smentisce categoricamente che, alla base dello scioglimento del gruppo, vi siano motivazioni economiche di qualunque tipo; la Fossa dei Grifoni diffida chiunque, dopo la pubblicazione di questo comunicato, a rilasciare dichiarazioni anche a titolo personale riguardo l’argomento. Vogliamo ricordare che in 20 anni di storia abbiamo dato, anche con il pieno consenso di quella parte di pubblico che disprezziamo, il massimo apporto e sostegno che, garantiamo, non verranno mai meno nel futuro.

In molte curve, l'avvento di una nuova generazione di ultras porta in molte curve alla nascita di nuovi gruppi, spesso più esigui dal punto di vista numerico ma più compatti e motivati dei gruppi storici, che ormai cominciano a mostrare segni di cedimento sempre più evidenti. Anche nelle curve della capitale arriva qualche scossone. Gli Eagles Supporters, gruppo trainante della nord biancoceleste, lasciano spazio agli Irriducibili, un gruppo nuovo e diversamente connotato politicamente. Sulla sponda romanista a entrare in crisi è la compattezza del Commando Ultrà Curva Sud.

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A Roma i problemi e le divergenze si accentuano perché tutto è moltiplicato. Siamo una curva metropolitana, una curva di ventimila teste, un miscuglio di tipi e di razze. Noi tifiamo sempre Roma, ma con la differenza che i giovani di oggi vivono lo stadio in maniera diversa come fanno tutti i giorni, perché hanno mancato il periodo degli anni Settanta e degli anni Ottanta che aveva insegnato un comportamento di tipo ultras. Generazioni più arroganti, coatte, irresponsabili235.

Le nuove generazioni “arroganti, coatte, irresponsabili” a loro volta accusano la generazione precedente di non essere stata capace di rinnovarsi, di essere incappata in un poco chiaro processo di omologazione e di aver smarrito il vero stile di vita ultras. E in parte la critica si spiega attraverso il ruolo assunto dagli ultrà nel decennio in esame. Per certi versi gli ultrà sono ormai parte integrante del sistema calcistico, sono insostituibili e influenti, determinanti nelle strategie societarie, nell'allontanamento di allenatori o nell'acquisto e nella rinuncia di calciatori. Nella prima fase delle trasformazioni economiche che hanno investito il decennio, molti ultras, talvolta grazie all’appoggio di società preoccupate di tenere sotto controllo potenziali focolai di disordini, sono riusciti a trasformare il loro «prestigio» allo stadio in un vero e proprio lavoro: biglietti omaggio, contributi per le coreografie e le trasferte, business legati ai parcheggi e alla sicurezza. Un fenomeno legato soprattutto alle metropoli e alle grandi tifoserie.

Il business è stato uno degli elementi responsabili della trasformazione del movimento ultras italiano da fenomeno di aggregazione giovanile spontaneo e generato da fattori sociali e di costume in qualcosa che ha smarrito i suoi presupposti originari. Per business intendo la strutturazione dei gruppi ultras secondo criteri commerciali, che si è concretizzata a partire della seconda metà degli anni 80. Quelle che erano pratiche di autofinanziamento come le collette, la vendita degli adesivi e sciarpe sono state trasformate in vere e proprie macchine da soldi. Con capipopolo cinici e senza scrupoli

235 NUCCI N., 1977-1997: 20 anni del CUCS, Supertifo, 4 febbraio 1997, pp.14-17. 139

che hanno inteso trasformare la propria militanza da stadio in un vero e proprio mestiere. Ciò ha alzato il livello degli interessi in ballo. Relazionandosi anche in maniera ambigua con le società che hanno foraggiato ufficiosamente determinati personaggi potendoli strumentalizzare e ammansire236.

Ma con l’approfondirsi delle dinamiche di valorizzazione, gli incentivi per gli ultras vacillano e si inaspriscono a dismisura le pratiche di patologizzazione e di repressione del movimento. I gruppi storici, i principali beneficiari degli accordi con le società calcistiche, si sciolgono quasi ovunque e si moltiplicano reti ultras più informali e di conseguenza incontrollabili. Gli scontri tra le tifoserie proseguono ma, vista la maggiore attenzione all'interno degli stadi da parte di polizia e carabinieri, la violenza si consuma nei dintorni degli impianti, nelle piazze, presso le stazioni ferroviarie. Altri tifosi perdono la vita. Il 10 gennaio 1993 il quarantaduenne bergamasco Celestino Colombi, che non è un ultrà, muore d'infarto nei paraggi dello stadio in seguito a una carica della polizia diretta a disperdere un gruppo di ultrà atalantini che voleva aggredire i tifosi della Roma. L'azione degli agenti (che con l'avvallo dei media parleranno di decesso fortuito di un tossicodipendente) viene giudicata unanimemente spropositata e mobilita la protesta di moltissimi gruppi ultrà italiani che la domenica successiva espongono questo striscione: “10-1-93, la morte è uguale per tutti”. È un gesto significativo che presuppone la consapevolezza, nonostante le rivalità e le schizofrenie, di dover essere anche un movimento unito; ma soprattutto ufficializza e denuncia l'ingresso di un nuovo “nemico” comune, le forze dell'ordine. Nel frattempo molte identità delle curve vengono rovesciate da una penetrazione di elementi dichiaratamente di destra, che sembrano far presa soprattutto sulle nuove generazioni. Il caso è evidente nelle curve delle metropoli, dove la disgregazione

236 PROVINCIALI A., op. cit., Mucchio Selvaggio, dicembre 2008. Disponibile sul web: http://www.ultrasblog.biz/2008/12/parla-mungo.html. 140 urbana, in particolare dei quartieri periferici, ha accelerato i processi di compattamento delle avanguardie di una condizione sociale, culturale ed esistenziale, flessibile e precaria che trovano nella destra estrema un collante identitario.

Cosa offre la destra a queste masse senza storia e senza futuro? Non molto, a dire il vero. Le fornisce di un collante collettivo, becero finché si vuole, ma che è pur sempre qualcosa. Soprattutto gli offre un nemico. Con la sola esclusione delle elite, che possono guardare con cinico e ironico distacco la presa che la coppia concettuale amico/nemico riesce a esercitare sul mondo, per i più, gli esclusi dal dorato mondo degli individui, il nemico continua a essere l’indispensabile elemento in grado di definire i contorni “forti” dell’amicizia. In poche parole la destra radicale veicola l’odio delle periferie verso qualcosa di “concreto”. Gli offre un’identità e una speranza. Se noi oggi siamo ridotti così, questo il succo del loro discorso, la colpa è di quelli là, gli abitanti del “centro”, che hanno i soldi, i mezzi e il potere e lo usano contro di noi. Ma noi non siamo più disposti a subire. Noi esistiamo e loro dovranno presto accorgersene237.

Brescia-Roma del 20 novembre 1994 esplicita le inquietudini di questa parte del movimento ultras che emerge nella sua matrice più violenta. La trasferta dei romanisti è monopolizzata dal gruppo di estrema destra Opposta Fazione che dà vita a violentissimi tafferugli con le forze dell’ordine locali che portano all’accoltellamento, tra gli altri, del vicequestore Giovanni Selmin, rimasto gravemente ferito all’addome. Che l’incontro al Rigamonti di Brescia non sarebbe stato uno come tanti altri lo si era capito nel corso della settimana precedente da tanti piccoli segnali: striscioni con misteriosi messaggi esposti all’Olimpico la domenica precedente, un clima di tensione, un tam tam in codice sulle seguitissime radio locali romane. Unico obiettivo, la polizia. L'episodio che ha svelato l'apice della crisi del movimento ultras italiano è ancora una volta luttuoso e si verifica il 29 gennaio 1995, in occasione della partita di campionato italiano Genoa – Milan. In quell'occasione un giovane sostenitore rossoblu, Vincenzo

237 QUADRELLI E., Andare ai resti, Roma, DeriveApprodi, 2005, p.42. 141

Spagnolo, 24 anni, viene accoltellato dal diciottenne Simone Barbaglia e rimane ucciso. I fatti, in breve, sono questi: un gruppo di tifosi milanisti, le cosiddette Brigate II (un gruppo staccatosi o addirittura emarginato dalle Brigate Rossonere) si reca alla trasferta di Genova evitando il treno speciale e arriva alla stazione Brignole con un normale intercity, applicando il modello dell'Inter City Firm. Rigorosamente vestiti casual e senza sciarpa per non essere riconosciuti, preparano, cercano e trovano lo scontro con i tifosi rossoblu, gente “tosta” e un tempo gemellati proprio coi milanisti. Improvvisamente, infatti, alcuni dei più giovani, appartenenti al sottogruppo Barbour (denominazione ripresa dal giaccone indossato dai componenti, molto di moda in quegli anni), punta la gradinata Nord, sede del tifo genoano e una volta nei paraggi comincia a farsi notare, urlando: “Dov'è la Fossa238?”. I pochi genoani presenti si battono e fanno arretrare i milanisti che durante la loro fuga incontrano Spagnolo, che non è un ultras ma un tifoso che si immette nella scena e insieme ad alcuni amici comincia a rincorrere i milanisti. A quel punto il gruppo del Barbour si ferma e Barbaglia fa scattare la lama davanti al rivale, che prova a difendersi a mani nude, sferra un calcio ma viene colpito mortalmente al petto. I milanisti non si rendono conto della morte di “Spagna” ed entrano nel settore credendo di aver realizzato un'azione spettacolare semplicemente “tagliando” un rivale. Ma presto allo stadio circolano voci inquietanti: si parla di un ferito grave, di un morto, e per un momento addirittura di tre. Poi la notizia è resa ufficiale dal radiocronista di Tutto il calcio minuto per minuto; e sullo stadio prima cala il silenzio, poi è il caos e la partita viene sospesa, dopo una consultazione tra gli ultrà e il capitano genoano Torrente. Fuori dal Ferraris, scatta la vana caccia al milanista (che sarà arrestato il giorno seguente e condannato a 15 anni), con la polizia ad assorbire le cariche rabbiose dei genoani. Non sarà una tragedia qualsiasi. Nella morte di Spagnolo «sembrano confluire tutti i processi di deterioramento del mondo ultras che si erano avviati a partire dagli anni '80:

238 La Fossa è lo storico gruppo sciolto anni prima. 142 i gruppi storici sciolti o sempre più frastagliati al loro interno, i gemellaggi rotti, la ricerca ossessiva dello scontro e del “gesto”, la mistica delle lame239». Nell'occasione l'opinione pubblica appare fortemente colpita, più che in altre circostanze simili, probabilmente, perché la tragedia si svolge “in diretta” nel corso della trasmissione radiofonica più seguita d'Europa ed è rilanciata dalla Rai tramite Quelli che il calcio, che interrompe il consueto palinsesto e segue l'assedio dei genoani agli “assassini” milanisti. La risposta delle istituzioni è forte e i campionati si fermano per lutto. Anche gli ultras decidono di dare un segnale e su iniziativa dei leader delle curve genovesi ne approfittano per organizzare il primo raduno tra gruppi. Dal confronto emergerà un comunicato scarno ispirato dagli ultrà bergamaschi e dalla loro mentalità ruvida e conservatrice, dal titolo “basta lame, basta infami”. Una regola che avrebbe dovuto cambiare le modalità dello scontro tra i gruppi, ma che negli anni successivi sarà raramente osservata dalla nuova generazione, più sbandata e poco incline a sottostare alle gerarchie e ai codici di comportamento, anche etici, che si erano consolidati nei gruppi ultras sino agli inizi degli anni '90 e che avevano evitato conseguenze eccessivamente gravi.

Domenica, Vincenzo Spagnolo, un ultrà del Genoa, è morto. L’ennesimo assurdo agguato ci fa dire basta. Basta con questi che ultrà non sono, che cercano a spese del mondo ultrà di fare notizia, di diventare grandi ignorando il male fatto (come in questo caso irreparabile). Basta con la moda dei 20 contro 2 o 3 o di molotov e coltelli. Ultrà: alla ripresa del campionato ci aspetta un altro periodo durissimo, la polizia ora ha carta bianca, gli unici che davvero ci rimetteranno saremo noi che con questi vili comportamenti non abbiamo nulla a che spartire. Ora, se vivere ultrà è davvero un modo di vivere, tiriamo fuori le palle. Se altre volte ci siamo girati, pensando che in fondo erano problemi altrui, ora gridiamo basta. L’alternativa non c’è? Ci troveremo poliziotti che aspettano solo di vederci finiti e questi luridi infami fregandosene di tutto e di tutti

239 FRANCESIO G., op. cit., 2008, p.106 143

continueranno con i loro agguati dove non serve nemmeno essere coraggiosi. Uniamoci contro chi vuol far morire tutto il mondo ultrà, un mondo libero e vero pur con tutte le sue contraddizioni.

I media sbeffeggiano la povertà lessicale e di contenuti del comunicato e il movimento ultras subisce l'unanime e irrimediabile condanna da parte dell’opinione pubblica, una sorta di preambolo alla scomparsa di ulteriori possibilità concertative nel rapporto tra tifoserie e istituzioni. Eppure, al di là delle apparenze, il comunicato mette in luce alcuni punti chiave della svolta che di lì a breve sarà intrapresa dal movimento. È l'inizio di un processo di «compattamento ideologico» in cui gli ultras cominciano a riconoscersi in quello che probabilmente sono sempre stati, un galassia di espressioni di matrice antagonista, che trova nel calcio la cornice ideale per manifestarsi. È un movimento che avverte il pericolo della disgregazione interna ed è consapevole che una risposta forte dello Stato dopo l'ennesima, assurda, morte da stadio, arriverà. Gli ultras cercano di ritracciare le regole non scritte, non mettendo al bando non la possibilità dello scontro ma ciò che può renderlo fatale, e fanno un duro appello contro “le lame”. L'unità risulta però più di facciata che di sostanza: a tenere le fila del processo interno è soprattutto la “vecchia guardia” mentre le nuove generazioni “arroganti, coatte, irresponsabili” o sono assenti o storcono la bocca.

Dopo la morte di “Spagna” si decise che forse il segno era stato passato e si stilò il famoso comunicato di Genova del “Basta lame basta infami”, dove si chiedeva reciprocamente di rispettare alcune buone norme, quasi delle regole di ingaggio cavalleresco: numero pari di contendenti, non usare armi, scontrarsi solo fra ultras consenzienti e tante altre amenità che durarono il tempo di un girone di ritorno. Poi, che ci siano tifoserie che abiurano le lame e altre che ne fanno un vanto è un dato di fatto oggettivo. Che poi possa ammazzarti anche una cinghiata in faccia o una bastonata sulla schiena è altrettanto veritiero240.

240 PROVINCIALI A., art. cit., dicembre 2008. 144

La nuova strategia: l'autonomia da Stato e mercato

Dal raduno di Genova, l'autocritica da parte degli ultras presenta alcuni effetti. Il numero degli incidenti - dove non mancano gli accoltellamenti - diminuisce al ritmo del 40% l'anno, ma a questo dato corrisponde un aumento rilevante dei feriti, soprattutto tra le fila delle forze dell'ordine. È in atto un cambio di strategia. Il movimento ultras va avanti e in alcune città vive addirittura le sue stagioni più spettacolari, ma è cosciente dell'accerchiamento subito su almeno tre fronti: Su quello interno, le nuove leve reagiscono ai gruppi che si sono dati una struttura manageriale e, da ultras d'azione come nell'iconografia anni settanta, sembrano essere approdati alla forma del club (sede, materiale ultrà ricercato e curato, allargamento commerciale al semplice tifoso) contravvenendo a molti di quei principi che sono stati per decenni precedenti alla base della “mentalità ultras”; Sul fronte delle forze dell'ordine, in anni caratterizzati da una fase generale di soft policing241 in cui il consolidarsi di forme d’azione politica che rifuggono la violenza suscita uno stile di controllo della protesta più morbido e selettivo, si nota un'azione prettamente repressiva242 verso l'ultrà, considerato «senza causa né legge, anomico e sfuggente, animato dal puro gusto per la violenza, irrazionale al punto da rendere inutile ogni strategia che non sia coercitiva243». Allo stadio un dialogo appare impossibile: «sarebbe come dare un carisma a quella gentaglia244», affermano alcuni funzionari fiorentini. In realtà le testimonianze risultano contrastanti e c'è chi parla di forze dell'ordine fino a quel momento improntate alla prevenzione che avvicinano gli ultras durante la settimana e che, quando le circostanze lo permettono, concedono libertà di

241 DELLA PORTA D., REITER H., Polizia e protesta. L'ordine pubblico dalla Liberazione ai "no global", Bologna, Il Mulino, 2003. 242 “Perché proprio nel 1991, nel pieno di questa conclamata soft policing, le forze di polizia vengono dotate di un nuovo, più potente e dannoso gas lacrimogeno?”, in MARCHI V., op. cit., 2005, p.102. 243 Ivi, p.99. 244 Ibidem. 145 confronto ai tifosi. Un versione romanzata di questo scenario è presente nel poema epico metropolitano “I Furiosi” di Nanni Balestrini, ispirato dalle gesta delle Brigate Rossonere, che offre alla narrativa un vigoroso spaccato dell'area milanese underground degli anni Ottanta e Novanta.

questo qua mentre aspettava fuori dal tribunale per testimoniare ci ha raccontato delle cose impressionanti ci ha detto ma voi non siete veramente ultra perché c'è un sacco di voi che pagano il biglietto del treno io quando porto i miei ragazzi io parlo subito col controllore e nessuno di loro fa il biglietto e quando siamo nello stadio dico fate quello che volete ma se succede che uno muore o è ferito grave io voglio un colpevole chiunque sia ha fatto l'esempio di Bergamo lì si odiano di brutto coi romani Lega lombarda e tutte queste cose qua non si possono vedere sono venuti lì i miei ragazzi e mi hanno detto dai commissa' facce usci' 'na ventina e io che dovevo fa' li faccio diverti' se fanno 'sta scazzottata e poi stanno tranquilli li ho fatti usci' in 20 so' tornati e io gli chiedo ahò ragazzi com'è andata è andata bene commissa' uno l'avemo steso eh ma che l'avete ammazzato no commissa' morto nun è morto eh ma guardate che se viene da me il commissario di Bergamo e quello è morto o è grave io almeno uno di voi glielo devo dare è chiaro eh nun c'è 'sta problema commissà e noi je damo er tossico je damo.245

Che i metodi della polizia siano stati fino a quel momenti improntati al dialogo, a una brusca coercizione o - più probabilmente - a un dosaggio di entrambe le strategie, dopo l'omicidio di Vincenzo Spagnolo l'atteggiamento cambia, sospinto dal richiamo mediatico a una pedagogia dell'ordine e dall'ingresso di personale più giovane, interventista e con un'altra tipologia di “sapere”.

Mi spiego: alla fine degli anni Ottanta e ancora nei primissimi anni Novanta, a fare servizio d'ordine allo stadio trovavi dei bestioni di trantacinque-quarant'anni, con due mani così, con i baffi, tutti enormi. Facevano paura, incutevano timore e –

245 BALESTRINI N., I furiosi, Roma, Derive Approdi, 1994, pp.89-90 146

conseguentemente anche una sorta di animalesco rispetto. Era gente che dava l'impressione di essere reduce da un'altra scuola, dai servizi d'ordine nelle piazze della politica, dove si rischiava di più sia da un punto di vista fisico, sia da quello, diremmo oggi, mediatico. Era gente che quando lavorava era abituata a vedersi sparare addosso e i ragazzi delle curve, anche i più cattivi, anche gli psicopatici, anche quelli con i coltelli, dovevano sembrargli meno pericolosi degli autonomi con le p38 nei cortei. Quei poliziotti non perdevano la testa, non davano mai l'impressione di mettersi sullo stesso piano degli ultras che dovevano controllare246.

Il terzo fronte è quello dei media. Ad ogni episodio di cronaca nera associato al calcio, stampa e programmi televisivi non perdono occasione per suggerire ricette giuridiche dai vaghi riflessi costituzionali e alimentare luoghi comuni con l'obiettivo di riassegnare il ruolo di nuovi barbari agli ultras, elevati a social problem maggioritario del calcio moderno247. C'è poi il potere televisivo, che ha allargato il suo peso ed esige processi di segregazione delle tifoserie, in spazi dedicati e funzionali al format dello spettacolo. Una complessità di strumenti di comunicazione che corrisponde a una ancora più elevata complessità della sorveglianza governamentale: «la comunicazione è potere che si forma, che circola e che confligge. Potere sul quale le forme governamentali non possono perdere il primato248». Il senso di questa affermazione risulta più chiaro se si prende in analisi la reazione dei tifosi alla morte del tifoso napoletano Sergio Ercolano in trasferta ad Avellino nel 2003. È una partita di serie B tra due nobili decadute del calcio, ma è pur sempre un derby e l'entusiasmo non manca. Poco prima dell'inizio 5.000 napoletani sono già sugli spalti del vecchio stadio Partenio, mentre 2000 senza biglietto spingono per accedere all'impianto. La polizia interviene e carica duramente. Nella calca, un ragazzo di 19 anni

246 FRANCESIO G., op. cit., 2008, p.123 247 «Il calcio non è solo passione, folklore, chiacchiera sportiva di massa, ma anche risorsa televisiva, stampa specializzata, speculazione finanziaria, azzardo di massa legale (Totocalcio) e illegale (Totonero) e così via. In questo quadro l'ossessione dilagante sulla violenza ultrà che ucciderebbe il “gioco più bello del mondo” mi sembra oggi, come ieri, più che altro retorica mediale. Ogni rito di massa ha dei costi umani, sociali ed economici inevitabili...» in DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.12 248 NIQUE LA POLICE, La finale del tifoso mezzo morto, Senza Soste on line, 4 maggio 2014. 147 cerca un pertugio alternativo e sale su una tettoia che crolla all'istante. I soccorsi arrivano in ritardo e nel frattempo esplode la rabbia dei tifosi, che una volta ritirati gli striscioni invadono il terreno di gioco e affrontano polizia e carabinieri. L'assalto è feroce e nel giro di qualche minuto i tifosi napoletani mettono in fuga le forze dell'ordine e diventano padroni del campo. Le immagini scorrono in televisione: Sky oscura l'assalto, le tv locali proseguono la diretta. Sono sequenze “forti” e la loro riproposizione ossessiva nei giorni seguenti impongono «uno stato di emergenza che non vale solo per il mondo del calcio, ma per il complesso della società. Se l'evento calcistico è un dispositivo non secondario del capitalismo, la considerazione dei conflitti che vi si giocano attorno deve per forza mutare»249. Su un piano simile possono esser collocate le dinamiche di quello che è passato alla storia come il derby del bambino morto. È il 2005, e un tradizionale clima “bellico” precede la sfida tra le squadre della capitale. Secondo le testimonianze di diversi osservatori250, le consuete scaramucce tra tifosi trovano infatti una risposta decisa e sproporzionata da parte delle forze dell'ordine. A partita in corso nella curva sud dove risiedono i romanisti circola la voce che un ragazzo è stato ucciso dalla polizia. La situazione pre-match è tale da rendere plausibile la circostanza. La curva si infiamma e la smentita delle autorità sembra ai più un escamotage al fine di mantenere l'ordine pubblico. Alcuni capi tifosi entrano in campo, parlottano coi giocatori e ottengono la sospensione della partita, nonostante la contrarietà di Questore e Prefetto che continuano a smentire categoricamente la morte.

La smentita, da parte dei vertici delle forze dell’ordine e delle maggiori autorità cittadine, fu accolta con un assordante e prolungato coro, infami, infami, (ugualmente condiviso da laziali e romanisti) che non lasciava spazio a troppe interpretazioni e mostrava come, dovendo scegliere tra la verità istituzionale e la verità illegittima di “piccoli gruppi” di “tifosi facinorosi”, l’intero stadio non aveva manifestato granché dubbi da che parte stare251.

249 CACCIARI S., GIUDICI L., op. cit., 2010, p.8. 250 MARCHI V., 2005, pp.18-31. 251 QUADRELLI E., Il nodo di Gordio, in CACCIARI S., GIUDICI L., op. cit., 2010, p.41 148

Decisivo per lo stop sarà l'intervento del presidente della Lega Calcio, Adriano Galliani. Fuori dallo stadio altri scontri, caroselli, e una pioggia di lacrimogeni per sedare i numerosi ultras che si battono per vendicare il bambino che credono morto. Come emergerà in seguito effettivamente nessuno aveva perso la vita. Ma la sospensione del derby di Roma, in diretta televisiva, per la volontà della curva giallorossa e del resto dei settori che ha creduto alle parole dei tifosi, rivela una centralità inaspettata degli ultras che avanzano a centrocampo e appaiono a loro agio come gli affidatari della situazione, coprendo per qualche interminabile minuto quello stereotipo animalizzante che li descrive incapaci di regolare le pulsioni e mantenere una cittadinanza negli stadi. Aspetti che il sistema-calcio avrebbe preferito non esibire pubblicamente: il vuoto di potere decisionale e nella gestione del deflusso di 80.000 spettatori; il rifiuto della logica del “giocare ad ogni costo”, che ha scavalcato l'interesse degli sponsor, del business, delle scommesse e anche il piacere del pubblico di godersi la partita, facendo emergere la disponibilità a fermarsi per una tragedia, anche se in questo caso, fortunatamente solo ipotetica; la scarsa credibilità di cui godono le forze di polizia nelle pratiche di mediazione nell'ambito dell'universo calcistico. Riassumendo, gli anni '90 certificano con ancora più forza l'evidente riconoscimento del calcio come un “fatto sociale totale” cresciuto intorno al gioco, accezione elaborata da Marcel Mauss252, che intende con essa la contemporanea osservazione in una realtà sociale di una molteplicità di elementi (cognitivi, giuridici, economici, politici ecc.), la loro connessione e il riflesso nelle esperienze individuali. Nel calcio il semplice assistere a una partita integra un attore in un groviglio di realtà sociali, economiche, simboliche, ludiche e perfino politiche che fanno «sistema» e trovano la propria espressione completa nello stadio. Il movimento ultras, consapevole che il calcio moderno è un fatto sociale totale sbilanciato sugli interessi economici, rafforza un'identità interna direttamente antagonista allo Stato e al mercato, in un clima politico nazionale al contrario dominato

252 MAUSS M., Saggio sul dono, Torino, Einaudi, 1965. 149 dalla concertazione e dal primato della comunicazione, anche per quanto riguarda i movimenti sociali. Si tratta di un processo non privo di contraddizioni, ma che vede gli ultras agire rivendicando una comproprietà morale di un calcio inteso «non come “sistema” o show business, ma come res pubblica253». Un'iniziativa dentro la quale gli ultras rielaborano la figura del nemico da affrontare corpo a corpo: la polizia per i tifosi - il braccio armato dello Stato. In questi anni gli incidenti tra tifosi e polizia superano infatti quelli tra opposte tifoserie. La blue firm254 assume il ruolo di «terza tribù» in campo e lo scontro delle origini è ora ricodificato in uno scontro a tre. Molti gruppi ultras riprendono dal testo di una banda musicale skinhead inglese, The 4Skins, l’acronimo “A.C.A.B.” (“All Cops Are Bastards”, tutti i poliziotti sono bastardi). La sigla è accolta nel movimento ultras rivelando la nuova linea di pensiero e si configura sempre più per la sua crescente estensione semantica che mira ad una manifestazione di disprezzo, non più soltanto nei confronti delle forze dell’ordine ma anche del sistema politico e sociale a guardia del quale le forze di polizia sono percepite. C'è dunque un'estensione semantica che connota ACAB come espressione antisistema dai connotati sociali e politici estesi ma coerenti con quelli originari. Anche la polizia dà segnali di cambiamento, riassumibili in un documento fotografico che all'inizio del nuovo millennio immortala a Perugia un poliziotto intento a lanciare una “torcia” contro dei tifosi. Da parte delle forze dell'ordine si verifica un'ibridazione tra le abituali tattiche di polizia in funzione allo stadio e comportamenti più selvaggi e informali.

La foto di Perugia circolò su Internet, fece impressione, e arrivò anche in ambienti vicini alla politica di movimento. Fu fatto notare, in prossimità con le mobilitazioni del G8 di Genova, come il comportamento della polizia nelle manifestazioni collettive rispondesse poco a criteri di contenimento razionale dell’ordine pubblico e tantomeno a quelli di minimizzazione dei rischi per la grande massa dei manifestanti pacifici. La segnalazione

253 MARCHI V., op.cit., 2005, p. 72. 254 Ivi, p.52. 150

restò praticamente ignorata per essere poi percepita nella realtà della piazza: gli scontri di Napoli 2001 e, su scala più ampia, del G8 genovese mostrarono come negli stadi, lungo tutto il decennio degli anni Novanta, si era coltivata una pratica di polizia da mucchio selvaggio invece che da ordinata «polizia dei cittadini», arrivata infine nelle manifestazioni politiche. [...] furono proprio gli ultras i soggetti meno sorpresi da quanto accadde. Per la sinistra più o meno ufficiale invece il ritardo d’analisi e lo stupore furono tali da trovare una spiegazione al comportamento delle forze dell’ordine nel complottismo tipico di chi non ha analisi razionali: celebre all’epoca fu l’elaborazione del mito metropolitano dei «black bloc pagati dalla polizia» sulle responsabilità del dramma genovese255.

Le leggi speciali

“La polizia ora ha carta bianca”, scrivono gli autori del comunicato emerso dal primo raduno dei tifosi in seguito alla morte di Spagnolo. Sicuramente negli anni gli spazi di mediazione si sono ridotti e “sul campo di battaglia” sono rimasti gli ultras più intransigenti e una violenza del potere che per Valerio Marchi «si manifesta e colpisce in forme abnormi rispetto alle offese ricevute256». Tra gli strumenti a disposizione delle istituzioni operanti nei confronti dei tifosi, il D.A.S.P.O., varato nel 1989, è quello che appare come il più iniquo, per la sua applicazione, come si evince dalle modifiche del 2001, “anche con sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni”. Il D.A.S.P.O., che subirà continui upgrade legislativi fino al 2007, si attesta come il provvedimento più usato dalle Questure e temuto dai tifosi, per l'eccessiva discrezionalità e le insufficienti garanzie difensive per gli interessati. Non occorre una denuncia, tanto meno un processo per vedersi comminare il provvedimento: basta la parola della polizia, una valutazione disciplinare negativa per far scattate l'allontanamento dagli stadi per uno o più anni, con annesse firme in Questura prima, durante e dopo le partite della propria squadra.

255 CACCIARI S., GIUDICI L., op. cit., 2010, p.9. 256 MARCHI V., op. cit. p.167. 151

Altri provvedimenti per la regolazione dei conflitti da stadio, seppur dislocati nel tempo, hanno avuto una profonda incidenza a partire dal 2005, quando il ministro dell’interno Giuseppe Pisanu ha varato una legge257 con l’obiettivo di allineare le norme vigenti in Italia agli standard europei di sicurezza. Tra le principali novità si segnalano il divieto per i tifosi italiani diffidati di seguire la propria squadra all'estero, il parziale affidamento della sicurezza interna agli stewards, l’obbligo di disporre di un sistema di video sorveglianza258, l’accesso allo stadio esclusivamente attraverso biglietti nominali e abbinati a un posto a sedere, il tentativo di contrastare il fenomeno del bagarinaggio259 e infine il progressivo abbattimento di barriere tra il pubblico e il campo di gioco. Disposizioni quali l’introduzione di soli posti a sedere e l’abbattimento delle barriere sono state in parte eluse. Il pubblico delle curve, bacino del tifoso caldo, ha continuato a disporsi secondo «una gerarchia di prestigio informale260» che implica il rispetto della funzione di incitamento. Negli altri settori dello stadio, la formalizzazione dei posti numerati ha provocato la rottura di certi legami di vicinanza mentre la certezza di disporre di un posto riservato ha alimentato la facoltà di arrivare allo stadio anche all’ultimo momento e indotto la progressiva perdita di alcuni rituali d’attesa261. I provvedimenti sul piano generale sembrano incoraggiare l'affiliazione televisiva degli spettatori: acquistare un biglietto diventa “un'impresa” burocratica circoscritta al giorno della partita, quando i tifosi si recano a registrare le proprie generalità presso scarsi e affollati botteghini262. L'ingresso agli stadi, ormai sempre più inadeguati e a rischio chiusura, rievoca il passaggio di un check-point e si consuma tra cancellati e tornelli vigilati da stewards dotati di metal detector che scannerizzano i tifosi sotto l'occhio attento di DIGOS e forze dell'ordine.

257 Legge Pisanu (L. 17 ottobre 2005, n.210). 258 Obbligatorio per gli stadi che possono ospitare oltre 10.000 spettatori. 259 Il bagarinaggio è un fenomeno legato alla vendita dei biglietti di un evento. Il «bagarino» acquista in blocco una quota di biglietti che rivende a prezzo maggiorato, una volta esauriti i regolari posti disponibili. È molto diffuso nel calcio. 260 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.106. 261 Per le stesse conseguenze sulla tifoseria del Liverpool, cfr. il paragrafo “Gli effetti immediati degli stadi con soli posti a sedere” in CROLLEY L., In casa e in trasferta: i tifosi del Liverpool e i cambiamenti nella cultura calcistica, in DE BIASI R. (a cura di), You’ll never walk alone. Il mito del tifo inglese, op. cit., pp.82-83. 262 ZUNINO C., Stadi e sicurezza, caos biglietti il decreto Pisanu non parte, La Repubblica, on line, 24 agosto 2005 152

Giunti al nuovo millennio, in questo nuovo palcoscenico che i dati dicono non attrarre particolarmente il pubblico263, il baricentro del tifo caldo si sposta al sud. Proprio nel meridione della penisola avviene uno degli episodi più controversi e decisivi del conflitto aperto tra ultras, Stato e polizia. Sabato 27 gennaio 2007 si gioca nel fatiscente stadio “Massimino” l'accesissimo derby Catania-Palermo. Dopo un tira e molla tra società, Lega Calcio e SKY per stabilire l'orario della partita, il derby, inizialmente previsto per le 15, viene posticipato alle 18, orario sul quale insiste il Catania per venire incontro alle esigenze dei propri abbonati, ben 15.000. Un'ora e mezza prima del match la folla antistante la curva catanese è enorme e a un certo punto si decide di aprire i cancelli e le quasi 5-6 mila persone accedono senza filtraggio. Al contrario, per motivi di sicurezza, i tifosi accorsi da Palermo vengono fatti attendere all'esterno con l'intenzione di immetterli a partita in corso. Ma i catanesi, che all'interno dello stadio hanno introdotto un vasto armamentario, aspettano il loro arrivo e nel frattempo cominciano ad attaccare le forze di polizia. All'arrivo dei palermitani è il caos: cominciano a volare razzi e bombe carta. I poliziotti fanno i caroselli con le auto, gli ultras reagiscono con il lancio di oggetti. Nella confusione, un ispettore del reparto mobile, Filippo Raciti, riceve un colpo che gli recide una vena del fegato. Sul momento non si accorge della ferita, prosegue la sua attività, ma dopo un'ora e mezzo si accascia e muore in mezzo a una guerriglia che provocherà, oltre alla sua uccisione, quasi 90 feriti. Le indagini, rapidissime, portano subito all’arresto di un indiziato minorenne, Antonio Speziale, avvalendosi dei filmati dei circuiti di sicurezza dello stadio e di successive intercettazioni ambientali. Speziale è accusato di aver ferito mortalmente l'ispettore con un lavandino e viene condannato il 9 febbraio del 2010 per omicidio preterintenzionale a quattordici anni di reclusione. Poi, il 21 dicembre del 2011, la Corte d’Appello, mantenendo l'accusa di omicidio preterintenzionale, riduce la pena a otto anni. Tuttavia, emergono delle incongruenze. A tre giorni dall'omicidio, Giuseppe Lipari, avvocato difensore di Speziale, trova un verbale nel quale un poliziotto aveva dichiarato

263 Per un'analisi della disaffezione del pubblico si rimanda a PORRO N., op. cit.,2008, pp.61-68. 153 di aver colpito un collega con il suo Discovery, il blindato degli agenti, e contemporaneamente il RIS di Parma - che smonta l'ipotesi del lavandino - contemporaneamente trova tracce di vernice blu, compatibili con la carrozzeria del mezzo sugli indumenti dell'ispettore. La pista blu è spinta da un'inchiesta dell'Espresso264, ma trova fortissime ostruzioni in Procura e nelle istituzioni di polizia. Intanto l'opinione pubblica è scossa e in Italia si foraggia un nuovo giro di vite degli ultras. Il campionato è sospeso per una domenica, tempo utile al Parlamento per legiferare immediatamente ed approvare le misure del decreto legge voluto da Amato, un provvedimento che sblocca e inasprisce la legge Pisanu. Il Senato, seppur con qualche perplessità, si vede costretto dal clima generale ad approvare il decreto. Amato stesso scende direttamente in campo, chiedendo in maniera esplicita l’appoggio di tutti i partiti di maggioranza e impegnandosi anche a modificare il decreto una volta in vigore in cambio dell’approvazione: molti senatori ritengono infatti che il decreto contenga misure anticostituzionali. Con i provvedimenti approvati dalla legge Amato del 2007, le norme che disciplinano la sorveglianza degli incontri di calcio vengono rese ancora più rigide. Oltre che ribadire in parte i contenuti della Legge Pisanu, inasprendo le sanzioni nei confronti di alcuni comportamenti ritenuti gravi per l'incolumità collettiva265, le nuove norme puntano decisamente l'attenzione verso la cultura del tifo organizzato: è fatto divieto di introdurre negli impianti striscioni e materiale affine, compreso quello per la realizzazione delle coreografiche se non preventivamente autorizzato attraverso un iter burocratico gestito dagli uffici delle Questure; sono vietati i tamburi ed altri mezzi di diffusione sonora; striscioni inneggianti esclusivamente la propria squadra o recanti i colori ufficiali possono essere ammessi previa autorizzazione della società da inoltrare almeno 7 giorni prima della partita; la società, valutati gli spazi di collocazione dei materiali, concorda in ogni caso l'ingresso dei suddetti con la Questura che può concedere anche nulla osta annuali, ma revocarli immediatamente qualora uno o più

264 LO BIANCO G., MESSINA P., Raciti la pista è blu, L'Espresso, on line, 31 maggio 2007. 265 Ad esempio, l’inasprimento delle pene per chi invade o lancia oggetti in campo. 154 soggetti del gruppo richiedente siano stati interessati da provvedimenti disciplinari; il materiale deve entrare allo stadio un'ora prima dell'incontro e dovrà essere collocato esattamente nel punto concordato pena l'immediata rimozione. I provvedimenti hanno l’effetto di svuotare di colore le curve degli stadi italiani, in particolare quelle occupate dalle tifoserie considerate «piccole» o di provincia: meno coinvolte da interessi economici derivanti dallo sfruttamento del brand della grande società molte di queste tifoserie hanno rifiutato di concertare l’introduzione allo stadio dei propri striscioni. Un altro elemento che ha influito sulla qualità dello spettacolo è stata l’interdizione degli strumenti che permettevano la diffusione sonora del tifo (megafoni, impianti) e l’accompagnamento dei brani cantati (tamburi) con la conseguente caduta di decibel della voce dei tifosi ma soprattutto la maggior difficoltà di coinvolgimento complessivo dei settori. L'inasprimento delle regole di accesso allo stadio e il conseguente tentativo di selezionare i tifosi, nonostante i tentativi, in Italia, non generano alcuna gentrification di successo: ciò a cui si è assistito è stato un graduale svuotamento degli stadi, con la presenza degli ultras tollerata in forme edulcorate e ridimensionate, per il potenziale spettacolare che portano all’evento. La cultura ultras, già sfibrata da vent’anni di leggi speciali e criminalizzazione mediatica, probabilmente si accorge di essere arrivata al definitivo capolinea, almeno nelle forme che l’hanno sempre contraddistinta. Qualcosa è definitivamente morto. La curva perderà ineluttabilmente i suoi caratteri di autorganizzazione e aggregazione spontanea e cesserà di essere il principale palcoscenico in cui esprimere la mentalità ultras. Sembra di tornare indietro di quarant’anni, agli esordi dei primi gruppi, quando il rapporto tra curva e strada, tra stadio e città, era molto fluido. Come scrive Valerio Marchi: «[nei ’70] appare una generazione che ha già messo in discussione il principio d’autorità in famiglia, nella scuola e nell’università, nella fabbrica». La cultura ultras nasceva dentro un clima che estendeva il conflitto sociale dai luoghi di lavoro a tutta la città, fino ad arrivare ai concerti (autoriduzioni e

155 sfondamenti) e allo stadio. Poi per decenni il conflitto si è «cristallizzato» dentro le curve e il movimento ultras si è sempre più definito nella sua unicità ed esclusività di controcultura. Oggi i gruppi, «espulsi» dalle curve, compiono un percorso inverso e rovesciano nuovamente il conflitto sul territorio. Ne è un chiaro esempio il comunicato emesso dalla Sud di Roma, dove la parola ultras non è mai nominata e si dice: «nessun tifoso impegnato in questa battaglia sarà lasciato solo: in questo modo tutti assieme, da TIFOSI LIBERI, potremo di volta in volta entrare allo stadio...».

Acab

In mezzo al grande albero malato che è il calcio italiano, travolto da una serie di scandali di vaste proporzioni culminati nell'inchiesta denominata del 2006, si continua ad indicare la componente ultrà come l'unica mela marcia. Allo Stato (quindi alle forze dell'ordine), è delegato il compito di estirpare il problema. In questo clima di isolamento mediatico dei tifosi e di sfida perenne tra “divise blu” e gruppi ultrà, la mattina dell'11 novembre 2007 perde la vita Gabriele Sandri. È un tifoso laziale di ventisei anni che si trova in viaggio a bordo di un’auto guidata da un amico per seguire la Lazio nella trasferta di Milano. All’autogrill di Badia al Pino, in provincia di Arezzo, sull’A1, scoppia una rissa tra il suo gruppo e alcuni tifosi juventini. Un agente della polstrada, Luigi Spaccarotella, esplode due colpi di pistola dalla parte opposta della carreggiata autostradale. Uno di questi colpisce al collo il giovane, seduto in macchina. Da subito gli organi istituzionali tentano di celare la dinamica dell’omicidio: la prima versione è che Sandri sarebbe morto in uno scontro tra tifosi. La verità istituzionale si rivela presto insostenibile e il primo cambio di rotta racconta di un agente che ha sparato, ma in aria e il colpo è stato deviato. Come a Genova, durante il G8. Successivamente le agenzie di stampa forniscono particolari che tendono a rafforzare le virtù dell’omicida, descritto, malgrado la giovane età, come «un agente con dieci anni di esperienza alle spalle, stimato e padre di famiglia». I rappresentanti dello

156

Stato scendono in campo a fianco dell'agente. Prima Vincenzo Giacobbe, questore di Arezzo, che sottolinea l'involontarietà del gesto: «È stato un tragico errore. […] Tengo a sottolineare il sillogismo polizia-trasparenza, purtroppo bisogna fare mea culpa. Non c’è motivo di coprire nessuno, la morte del tifoso laziale è stata una tragica fatalità 266». E dopo che il ministro dell'interno Amato conferma la versione del Questore, il capo della polizia Manganelli inizia a «correggere» l'attenzione mediatica, indirizzando altrove una parte delle responsabilità: «Devo anche constatare, però, come dei sostenitori di due squadre di calcio si siano ancora una volta scontrati in nome di un tifo becero267». La notizia della reale dinamica si diffonde rapidamente in tutta Italia, grazie a cellulari, Internet e radio, suscitando ovunque le reazioni dei tifosi. Rispetto a quanto successo pochi mesi prima con la morte dell'ispettore Raciti, il Campionato non viene interrotto. Fuori da San Siro, ultrà interisti e laziali confezionato uno striscione: “Per Raciti fermate il campionato. La morte di un ragazzo non ha significato”, segnalando un’implicita gerarchia tra le due morti. Per Giuseppe D'Avanzo, giornalista di Repubblica, la mancata sospensione è un altro anello che si aggiunge alla catena degli errori commessi dalle istituzioni:

Per lunghe ore, la ricostruzione - che non allevia la tragicità dell’insensata morte di Gabriele Sandri - non è saltata fuori. In un imbarazzato silenzio, è stata eclissata. Chi doveva svelarla - la questura di Arezzo, il Viminale - ha taciuto e, tacendo, ha gonfiato l’attesa, la rabbia, la frustrazione delle migliaia di ultras che si preparavano a raggiungere in quelle ore gli stadi, sciogliendola poi con una cosmesi dei fatti che si è rivelata un abbaglio grossolano che, a sua volta, ne ha provocato un altro ancor più doloroso. È stato detto che l’agente della polizia stradale è intervenuto per sedare una rissa tra i tifosi e, nel farlo, ha sparato in aria un colpo di pistola (“introvabile l’ogiva”) che “accidentalmente”, “forse per un rimbalzo”, ha ucciso Sandri. Consapevole che non di calcio si trattava, ma del tragico deficit professionale di un agente lungo un’autostrada, il Viminale non ha ritenuto di dover fermare le partite muovendo

266 BINDI A., Polizia uguale trasparenza: non c’è ragione di coprire nessuno, Arezzo Notizie, 11 novembre 2007 267 REDAZIONE, Agente esplode un colpo. Morto tifoso della Lazio, Gazzetta dello Sport, on line, 11 novembre 2007 157

l’ennesimo passo falso di un’infelice domenica. Il racconto contraffatto è stato accreditato di ora in ora senza correzioni. Rilanciato e amplificato dalle dirette televisive, dalle radio degli ultras, dai blog delle tifoserie, ha acceso come una fiamma in quella polveriera che sono i rapporti tra le forze dell’ordine e l’area più violenta degli stadi, prima e soprattutto dopo la morte dell’ispettore Filippo Raciti a Catania. L’illogica catena di errori, malintesi, confusione, silenzio e furbe manipolazioni - non degne di un governo trasparente, non coerenti con una polizia cristallina - ha trasformato la morte di Sandri in altro. L’ha declinata come morte “di calcio”, morte “per il calcio”268.

Nel frattempo gli ultrà dell’Atalanta, in segno di vicinanza all’ultrà laziale morto e come forma di protesta per la mancata sospensione del campionato, provano a sfondare la barriera di recinzione in plexiglas che separa la curva dal campo di calcio per chiedere l’annullamento della partita casalinga contro il Milan. A Roma, dal tardo pomeriggio centinaia di ultrà di Lazio e Roma scatenano un’annunciata guerriglia urbana nei quartieri adiacenti allo stadio Olimpico e mettono a ferro e a fuoco di un commissariato. Per motivi di ordine pubblico viene rinviato il posticipo Roma-Cagliari, ma il provvedimento è inutile. Gli incidenti si susseguono sotto la curva Nord: «via Paolo Boselli è in fiamme, in tutta Prati bruciano scooter e cassonetti, via della Farnesina è invasa di lacrimogeni, sono assaltate la stazione dei carabinieri di Vecchia e la foresteria della polizia di Stato di via Ferdinando Fuga, la caserma della polizia di Stato “Maurizio Giglio” in via Guido Reni è assediata fino all’arrivo di una decina di blindati269». Intorno alle 20 il traffico è bloccato, gli ultras assaltano il Palazzo H, sede centrale del CONI e la sede dell’Istituto Universitario di Scienze Motorie. Alle 21 gli obiettivi diventano la stazione dei carabinieri e il commissariato di polizia di Ponte Milvio. «È in questo momento che gruppi della squadra mobile vengono spediti d’urgenza a presidiare il Quirinale e Palazzo Chigi: stasera, tutto a un tratto, in Italia

268 D'AVANZO G., La catena degli errori, La Repubblica, on line, 12 novembre 2007 269 MARTUCCI, M., 11 novembre 2007. L’uccisione di Gabriele Sandri una giornata buia della Repubblica, Roma, Sovera Editore, 2008, pp.133-134. 158 sembra scoppiata la rivoluzione […] Sono gli ultimi atti di una giornata di ordinaria follia collettiva, i gesti risolutivi di una serie terribile di attacchi ai simboli dello Stato, durati senza soluzione di continuità per circa 4 ore. Si disperdono nella notte i facinorosi, protagonisti di una guerriglia urbana che l’Italia intera non aveva visto neanche negli anni di piombo, nemmeno nel lontano biennio ’77-’78, quando la violenza politica imperversava indisturbata nelle piazze e l’ordine pubblico si ristabiliva anche con le pallottole delle pistole270». Il bollettino snocciola cifre da guerriglia urbana e un dato significativo sulle forze di polizia: settantacinque agenti feriti. I mass media immediatamente dirottano l’attenzione dall’insensato assassino avvenuto a Badia Al Pino agli scontri di Roma, predisponendo una formazione discorsiva satura di retorica istituzionale, che annulla la complessità del conflitto andato in scena. Per Giudici si è trattato di «uno dei momenti più alti del conflitto sociale intorno agli stadi avvenuti in Italia, e può valere da laboratorio per valutare le retoriche normalizzanti su cui si modella il governo della società271». I titoli dei giornali («Che incubo! La tragica fine di un ragazzo scatena l’inferno» - La Gazzetta dello Spor; «Tifoso ucciso, guerra ultrà» - La Repubblica; «Buio sul calcio» - Il Messaggero - Sport; «Tifoso ucciso, gli ultrà all’assalto» - Corriere della Sera; «Una domenica di follia» - Il Tempo) chiamano in causa il buio, l’incubo, la follia, l’inferno, il caos. Nessuna razionalità, nessuna legittimità, nessuna spiegazione illumina la scena. Una prassi abituale quando l’oggetto è l’ultras. Eppure l'11 novembre accanto alla violenza degli ultras c'è la violenza che portato all'uccisione di Gabriele Sandri, che come dichiara la “supertestimone” del processo, una turista giapponese in transito all'autogrill di Badia al Pino, ha ben poco di accidentale.

Dopo aver fatto colazione - si legge sul verbale - uscivo dall'autogrill per fumare una sigaretta nel piazzale antistante. All'improvviso sentii uno sparo. Ma non capivo la

270 Ibidem. 271 GIUDICI L., La giusta distanza. La notte dell'11 novembre 2007, in CACCIARI S., GIUDICI L., op. cit., 2010, p.69. 159

provenienza. Vidi allora dei ragazzi, dall'altra parte dell'autostrada, scappare e correre verso delle autovetture. Successivamente vidi i due poliziotti correre verso di me e in particolare uno dirigersi verso l'estremità del piazzale mentre dall'altra parte i ragazzi salivano su un'autovettura di colore chiaro. Il poliziotto dopo essersi fermato puntava una pistola tenendola con entrambe le mani protese in direzione dell'autovettura e dopo circa dieci secondi sparava. Ricordo bene il momento dello sparo: l'autovettura era in movimento e anche dopo proseguiva la marcia. A quel punto, impaurita, mi sono recata verso il pullman sul quale viaggiavo 272.

Cosa abbia spinto un poliziotto a decidere coscientemente di sparare a un gruppo esiguo di tifosi che si stava affrontando dalla parte opposta della sua carreggiata e un ministro dell'Interno a dichiarare che Sandri «non sarebbe morto se quel poliziotto non avesse sparato, ma neanche se i tifosi di due squadre diverse, incontrandosi in autogrill, non si fossero cimentati in risse ma avessero bevuto un caffé insieme» (Il Messaggero, 14 novembre 2007) è una questione uscita troppo presto dal dibattito pubblico, ma un'analisi in profondità può rivelare quali conseguenze abbia espresso il livello di allarme nei confronti degli ultras, e quale sia diventata la dimensione della vita di curva, rapportata nel contesto delle trasformazioni sociali e delle ristrutturazioni delle tecnologie di controllo. Acab è un libro scritto dopo una lunga inchiesta sul campo da Carlo Bonini, giornalista di Repubblica. Il libro ricostruisce, attraverso le vicende di un reparto di Roma, alcuni passaggi del conflitto sociale degli ultimi anni e inserisce come ultimo capitolo la vicenda Sandri. Il filo che sembra unire tutte le storie è l'assenza dello Stato. «Credo che la storia dimostri, ancora una volta, che lo Stato per ragioni diverse preferisca, con un pizzico di cinismo e di rimozione, che nel paese le responsabilità vengano scaricate in quella che si chiama la “parabola del fusibile”. Questo fusibile può essere il celerino, come negli ospedali è il medico273». Una solitudine confermata dalle parole dall'allora

272 BISSO M., Sandri, la superteste giapponese. L'agente mirò per 10 secondi, La Repubblica, on line, 11 marzo, 2008 273 REDAZIONE EINAUDI, Intervista a Carlo Bonini, Giulio Einaudi Editore, disponibile sul web: http://www.einaudi.it/multimedia/Intervista-a-Carlo-Bonini 160 segretario generale del sindacato di polizia Co.i.s.p. che commenta anche una scena del film ACAB, tratto proprio dal libro di Bonini.

Ci sentiamo spesso molto soli: se tutto va bene è ok, ma se qualche operazione fallisce è sempre colpa dell'anello più debole. A volte ci sentiamo figli di nessuno, figli dell'opposizione e orfani della maggioranza. Mi è piaciuta molto la scena del film in cui il poliziotto davanti al Parlamento urla contro il potere: anche lui ha una figlia di S anni da salvaguardare. È una scena spettacolare in cui si esprime rabbia, angoscia e frustrazione: lo spirito dei poliziotti va al di là della politica.274

Nell'indagine di Bonini, la tesi, confermata dall'intervista del sindacalista, è che lo Stato sembra “esaurirsi” nelle spalle di chi è in prima linea. «Qual è il risultato di tutto questo? Che questi uomini che vivono per mestiere il marciapiede, dal marciapiede, poi, finiscono per assimilare i veleni275». A prevalere nelle argomentazioni di Bonini è la metafora del contagio: la violenza, supportata da un odio senza ideali o contenitori è generazionale e interclassista, difficile da prevenire, ma soprattutto, contagiosa.

Noi tutti siamo seduti da tempo su un vulcano, e il vulcano ciclicamente borbotta, e spesso con una certa forza. Con un po’ di incoscienza rimuoviamo questi segnali che ci arrivano dal marciapiede delle nostre città. […] Perché c’è qualcosa che non capiamo, che ci fa paura. Io nel libro lo faccio definire ai miei personaggi un «odio liquido», un odio che non ha briglie e soprattutto non ha un contenitore ideologico o ideale. Ha un segno nichilista, la violenza si giustifica per il semplice fatto di manifestarsi, non ha progetto. Questo tipo di violenza qui è particolarmente insidioso, o addirittura esiziale, perché non avendo progetto è difficile da prevenire. Ma proprio perché è così, è estremamente contagioso, è contagioso perché trasversale, tiene insieme pezzi di società molto diversi per estrazione culturale e sociale, ed è contagioso anche per chi è dall’altra parte, per chi veste un’uniforme e dovrebbe far rispettare la legge. A forza di essere immersi in questo 274 D.D., “Sì al dibattito, non alle etichette sulla Polizia di destra”, Il Tempo, 24 gennaio 2012 275 REDAZIONE EINAUDI, op.cit., 2007. 161

brodo io ho capito e provato a raccontare che se ne rimane contagiati. […] Il segno distintivo del libro è che non ci sono buoni e non ci sono cattivi, c’è un mondo che è grigio, non è bianco né nero. Io spero che questo colore sfumato e questo segno amorale che attraversa tutti i protagonisti possa essere restituito in un film276.

Per sua stessa ammissione Bonini riflette dentro lo schema che vuole i conflitti sociali cessati dopo lo smantellamento del movimento operaio e delle altre forme organizzate di lotta per la trasformazione della società. E senza qualità politica, il conflitto è materia esclusiva di ordine pubblico e l'ultrà, come già sentenziato da Galimberti, è l'autore più emblematico di una violenza «infondata, e quindi assoluta», patologica, priva di collegamenti con le questioni sociali irrisolte. Chi affronta l'ultrà, la prima linea, è una certa parte della polizia italiana, di cui Bonini ne svela quel background infarcito di destra reazionaria e violenta, quella che si è resa colpevole, a Genova nel 2001, di uno dei più controversi e criticati servizi d'ordine che ha contribuito a far passare il G8 genovese, nelle parole di Amnesty International, come «la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale277». Quella che segue è una conversazione da me raccolta nel settore ospiti dello stadio Olimpico dopo Roma-Livorno del 2004, una partita carica di contenuti politici, vista la “svolta destrorsa” della curva giallorossa e l'identità comunista di quella livornese. Due esponenti della curva ospite chiedono informazioni ad un poliziotto circa il destino di un ragazzo condotto in Questura in seguito ai pesanti scontri avvenuti nel pre-partita, che hanno visto le cariche della celere spingersi fin dentro il settore.

Oggi quando vi ho visto arrivare, con il vostro atteggiamento polemico…tirando la roba, bottiglie, ecc...ho pensato che finiva male. Perché oggi avevamo i numeri, e tra molti miei colleghi serpeggiava anche la voglia, per potervi massacrare. Tenere in piedi una situazione come quella romana non è facile, di conseguenza, oggi, c’è un incattivimento

276 Ibidem. 277 Una dichiarazione ripresa nell'intervento presentato allo camera il 24 luglio 2007 per richiedere l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle vicende relative ai fatti accaduti a Genova nel luglio 2001. 162 del reparto celere. Voi sapete bene come si svolgono le cariche, anche se uno tira una bottiglietta dal fondo [l'episodio che ha fatto scattare la carica quel giorno, n.d.A.], il reparto avanza e va sui primi. Dovrebbero essere cariche di alleggerimento, ma tra molti miei colleghi c’è chi non la pensa proprio così. Certo, ci vorrebbe molta più collaborazione, vedete, voi ora siete qua a chiedermi spiegazioni e io ve le sto dando, ora sapete che dovete aspettare, magari anche un’ora, perché a Roma è così, allo stadio e nei pressi, non ti succede niente, perché non si esce dal settore finché i piazzali fuori non sono completamente vuoti. Però c’è già qualcuno che si lamenta, che ci fa il coro, ma ormai, dopo tanti anni, certe cose entrano da una parte e escono dall’altra, siamo completamente “anestetizzati”, non ci tocca più niente. Se noi carichiamo più vigorosamente le tifoserie di sinistra? Guarda non è così, pensate a romanisti e laziali, che oggi sono due tifoserie fasciste e vi posso assicurare che ne prendono tante, li stiamo sfacendo. Io ti dico una cosa, quando c’è la politica nel mezzo, è tutto più problematico e il calcio ne perde, l’evento sportivo muore. A me questo calcio fa schifo da quando è diventato una guerra e la politica crea questa situazione. Io non sono più andato a vedere una partita allo stadio, non ci vado neanche se mi regalano il biglietto. Eppure sono un tifoso della Lazio, io per la Lazio ce moro, me ce sento male. Sono stato tra le prime 50 tessere degli Irriducibili, ero un ultras, capisco le esigenze dei gruppi, la mentalità, la voglia di scontrarsi, ma oggi non te lo posso far fare di scontrarti. È successo una volta che con i modenesi, che erano stati attaccati, era come se caricassimo insieme i laziali, poi quando li abbiamo dispersi, ai modenesi abbiamo detto di salire tranquilli sui pullman e li abbiamo portati via e non ci sono stati problemi perché hanno fatto come dicevamo noi. Questo è un esempio di collaborazione, la situazione dobbiamo sempre avercela in pugno noi, se gli ultras collaborano si verificano anche queste cose e nessuno rischia. Comunque per me la curva della Lazio è morta, è sfruttata per fare un enorme merchandising, e poi ti dico, ritornando al discorso del colore politico delle curve, che per come si comportano laziali e romanisti ne prendono tante al di là del colore politico, e dopo quello che è successo al derby, hanno 50 anni di botte arretrate da prendere. […] Da questo punto di vista la situazione è tragica. Fino a cinque anni fa, anche durante la settimana c’erano problemi, scontri, accoltellamenti, poi sia romanisti che laziali hanno cominciato ad incontrarsi nelle sedi politiche. Perché sia chiaro, in Forza Nuova ci stanno 163

loro, Fiamma ci stanno loro, Terza posizione pure. È così si sono parlati, hanno fatto l’accordo, “il patto di non belligeranza”.[…] Per concludere, il reparto ora è tosto, quello di Roma lo conosco tutti per la durezza. Prima c’era un reparto molto duro, un reparto di Firenze… [il nome non sono riuscito a ricordarlo, n.d.A.], perchè composto da tutti gli scarti degli altri. Se tu facevi delle storie, con la droga, con le mignotte, per punirti, finivi in quel reparto. Hanno esagerato e creato una sorta di mostro, un reparto di delinquenti. Oggi Roma è un reparto che non accetta provocazioni, se ti sai comportare non ti succede niente, altrimenti...”.

Incattivimento, linea dura, faide, vendette, esagerazioni, storie. Il contagio, suggerito da Bonini, è in atto e conferma l’ibridazione tra le abituali tattiche di polizia in voga allo stadio e comportamenti più selvaggi e informali. Arrivati a questo punto resterebbe da capire se effettivamente “il virus”, ovvero i conflitti prodotti da un calcio che interpreta continuamente le mutazioni e le ristrutturazioni sociali, sia completamente anomico o suggerisca una riflessione sulle nuove soggettività che abitano gli spazi urbani. Fonte privilegiata di questo “vulcano che ciclicamente borbotta” sono proprio le voci raccolte all'indomani della vicenda Sandri. La prima è comparsa sul sito AsRomaUltras, uno dei più aggiornati e seguiti sulle vicende della squadra capitolina e sulla storia degli ultras in generale.

No, non lo sapete. Non lo sapete perché ieri pomeriggio e ieri sera è successo quello che è successo. Ed è proprio questo il motivo per cui succede e continuerà a succedere. Per la distanza che da trent’anni ci separa. Una giusta distanza. Tutti scrivete, tutti sapevate, tutti avete opinioni e soluzioni. Ma nessuno capisce che in realtà è la distanza che determina questo stato delle cose. Una distanza sempre uguale, da sempre, da Furlan a Sandri, da Colombi a Raciti. Ma quale caccia al poliziotto…ma quale l’agente voleva fermare la rissa…ma quale complotto al derby sospeso. Non è colpa di nessuno se in questo paese l’abitudine all’impunità è diventata assuefazione. E chi non si assuefà, per volontà, per mancanza di strumenti o per il rifiuto di strumenti, che ad altro non servono che a sopportare, fa quello che fa. Reagisce. Agisce. Sbaglia. Fa bene. Fa 164 male. Ma fa. Sappiamo tutti che quell’agente non pagherà. Ci hanno abituato a questo. Ci hanno abituato nei secoli. Ma anche recentemente. E non pagherà perché la tensione che si è inevitabilmente alzata verrà usata (di fatto già lo è) per pareggiare il danno. Ma il danno culturale, la frattura… la distanza non è così che si ripara. Così si afferma. Si sentenzia. Si scolpisce dentro le persone, nella loro vita quotidiana, nei pensieri, nei gesti e nello strato più profondo dell’animo. La distanza. Giusta perché ancora una volta nessuno ammette, nessuno si dimette, nessuno è e sarà vero nella verità delle cose. Nessuno ha sparato come conseguenza di uno scontro tra ultras. A uccidere Raciti non è stato il diciassettenne. Il bambino morto al derby è stato creduto possibile da 70.000 persone perché 70.000 persone erano testimoni dalle 18 di quel pomeriggio della violenza dei reparti della finanza attorno allo stadio olimpico. La distanza la mettono i pomeriggi domenicali con le loro discussioni sull’accaduto affidate a Moggi e Belpietro. Condannano l’odio. Loro, che di odio sono maestri nelle rispettive vite professionali. La giusta distanza la mettevano gli opinionisti biscardiani che se le davano peggio che in qualsiasi autogrill dell’A1 e che oggi scrivono editoriali condannando ieri pomeriggio e ieri sera. Pareggia. Pareggia il danno. Sandri è morto come un qualsiasi pischello napoletano che senza casco sul motorino a 14 anni viene sparato alle spalle perché non si ferma a un controllo di polizia. Sandri è morto come un qualsiasi operaio pagato in nero che casca da un ponteggio di otto metri. È morto in un modo assurdo e ingiusto. È la paura che questa morte resti tale a mandarti fuori di testa. Perché è possibile che resti tale. Possibilissimo in questa società civile dove quattro cazzotti o venti minuti, o un’ora di tafferugli contemplano spari in faccia mentre migliaia di famiglie rovinate da un crack finanziario possono andare a fare in culo. Loro. E non chi li ha ridotti così. Questo è quello in cui le giovani leve crescono e senza accorgersene incamerano. Questa è l’acqua che bevono. La carne che mangiano. I sogni che non sognano. Questo è quello in cui i più adulti cercano di galleggiare. È questo il nostro paese di cui si canta l’inno. In cui uno che si dopa in tv vince il pallone d’oro ed è chiamato a testimone dei valori dello sport. La distanza ce la teniamo. A questo punto la pretendiamo. In lei ci riconosciamo, la difendiamo. Ci saranno sempre due verità nello stato delle cose. La nostra la sappiamo. La sapremo sempre e sempre la cavalcheremo. Senza sosta, senza tregua. 165

Non curandoci delle «leggi del branco» con cui cercano di incasellarci in sondaggi e programmi tv o affibbiando stemmi di partito o appartenenze terroristiche. Che dicano, che scrivano, che reprimano. Biglie, sassi, punteruoli. Era un ragazzo buono e gentile. E se fosse stato cattivo? Faceva differenza? Doveva morire con tre, quattro botte invece che una? Una morte insegna sempre. Per questo il modo migliore di ricordare Gabriele è dicendogli grazie anche se non si conosceva. Grazie perché molti da ieri saranno persone migliori. Lontano adesso. Distanti. Giustamente distanti. E lui è qui dalla parte nostra. È loro il disagio sociale. Soltanto loro regà278.

Le testimonianze di X e Y. raccolte da Lorenzo Giudici279, riportano una visione ascrivibile all’estrema destra. Documentano un consapevole confronto con le istituzioni, attento ai rapporti di forza e capace di una certa progettualità, più che a uno sfogo patologico e nichilista.

Y: Voglio mettere subito le cose in chiaro aggiungendo che, almeno per quanto mi riguarda, non avevo nemmeno il bisogno di credere o non credere alle varie versioni dei fatti che si sovrapponevano. Non sentivo, come non ho mai sentito, il bisogno di un motivo valido per giustificare ciò che è successo dopo, l’attacco alla polizia; lo ritengo sempre giustificato, è insito nel mio modo di vedere lo stato di cose. Anche il mio primo pensiero è stato quello di uscire subito; dato però che non voglio essere ipocrita ammetto tranquillamente che la mia motivazione, come dicevo, non richiedeva pretesti particolari ma soltanto un’occasione per stare accanto a gente incazzata pronta a muoversi come si deve. È chiaro che ero più che arrabbiato e dispiaciuto per Gabriele, era una ragazzo come me, ed è vero che entrano in gioco anche le esperienze vissute in passato, ma non è che la guardia è infame solo quando spara; i poliziotti sono merde comunque, anche quelli che ti fanno il sorriso gentile quando ti controllano i documenti, che anzi sono i servi più viscidi di tutti. Non ho bisogno del Placanica o dello Spaccarotella di turno. Piuttosto che fare del vittimismo o piagnistei, dico che, come considero necessaria la mia

278 ANONIMO, La giusta distanza, AS ROMA ULTRAS, 12 novembre 2007. Disponibile sul web: http://www.asromaultras.org/giustadistanza.html 279 GIUDICI L., op. cit. , in CACCIARI S., GIUDICI L., op. cit., 2010, pp.68-95. 166 violenza nei loro confronti, ci sta anche la loro nei confronti nostri, non si può pretendere di fare la guerra o di inscenare rivoluzioni, salvo poi lamentarsi delle scorrettezze dell’avversario. Non fanno altro che difendere il mondo loro e dei loro padroni e la parte dalla quale hanno deciso di stare, così come io difendo la mia. So che è un discorso che sembra trascendere i confini dello stadio ma ritengo che in realtà la violenza istintiva e appassionata dell’ultras rientri in questo modo di vedere le cose. Spesso l’azione fine a se stessa spiega più di mille parole; poi magari parli col tuo vicino di seggiolino e ti dice le cose più reazionarie del mondo, ma anche in lui si agitano gli stessi pensieri. Potrebbe essere definito un ribelle, solo che non lo sa, o non se ne vuol rendere conto, o non gli interessa, o comunque gli fa schifo essere etichettato in qualsiasi modo, rischiando magari poi di finire a fare l’utile idiota di qualcuno o qualcosa. [...] per te all’interno della polizia si ricreano semplicemente delle dinamiche degenerative che coinvolgono allo stesso modo tutti gli altri ambiti della società? Y: Mah… a me sembra piuttosto che la polizia faccia esattamente gli interessi dello Stato e che sia più che funzionale alla sopravvivenza di questa società. Non vorrei ripetermi, anche perché credo che il discorso sia piuttosto semplice e banale e non serva sprecare troppe parole: la polizia è il braccio armato dello Stato; chi è realmente contro di esso è di conseguenza, volente o nolente, contro la polizia; allo stesso modo quest’ultima si occupa sostanzialmente di proteggere lo Stato da chi gli è contro. È una inevitabile contrapposizione fra chi difende il presente e chi lotta per il futuro. Ora non voglio dire che tutti coloro che creano incidenti con le guardie in ambito stadio condividano questo punto di vista, anzi. Magari molti si stanno solo sfogando per le continue vessazioni e frustrazioni della vita di tutti i giorni, e magari oltre che allo stadio lo fanno anche con il primo zingaro o negro che gli passa davanti; ma tutto ciò fa parte delle contraddizioni di questa società, e sarebbe opportuno anche per loro che fossero sciolte. Come? Y: Non voglio parlare di politica, ma ovviamente mi riferisco a un superamento di questa società. Non penso che la conflittualità negli stadi faccia parte di questo processo, ma nel frattempo preferisco temermi pronto, sveglio e attivo; anche con chi non condivide le mie stesse idee. Stare sempre dalla parte dei «cattivi», dei provocatori, di quelli che creano scandalo. Non penso insomma che gli ultras possano condividere una piattaforma comune 167 e universale; possono però rendere palesi le contraddizioni e far vedere ciò che si vorrebbe nascondere, dimostrare che la nostra società non è tutta rose e fiori, che non siamo tutti contenti e inculati, che esistono problemi più profondi. Per questo sono anche molto contento del fatto che la piazza romana, o per lo meno le sue componenti più oltranziste, abbia sempre avuto poco o nulla a che fare con le stronzate della mentalità, dei codici, del ciò che «vale» o che «non vale». Anche fra molti sedicenti ultras si è diffusa la norma della convenienza e del compromesso, e se qualche coltellata può pregiudicare la riuscita dei loro «progetti» o danneggiarne i profitti, ben venga. Fare scalpore fra massaie, giornalisti e benpensanti, le cui fila sono ormai rimpinzate anche da molti di questi ultras moderni pronti a illuminarci su cosa si può o non si può fare, la considero già una vittoria. Vi chiedo allora due parole sulla politica in curva. X: La politica non c’entra con lo stadio. Sì, esistono dei valori che possono essere associati alla destra perché sono esaltati dalla destra quali il coraggio, la lealtà, l’onore, l’amicizia vissuta in un rapporto particolare, stretto, la fedeltà al gruppo e agli amici, in una parola la fratellanza diciamo. Y: Questo è il punto: è chiaro che, come su qualsiasi altro fenomeno, si può fare un discorso politico. Bisogna farlo, a mio modo di vedere le cose. Ma il mio modo di intendere la politica è distante anni luce dalle logiche dei partiti. X: Anche un discorso di destra c’entra ma fino a un certo punto, e secondo me se vuole essere un discorso politico o c’entra tutto, o non c’entra per niente. Se ci sono degli aspetti che richiamano alla destra politica, ce ne sono altri che invece ne sono ben distanti. Pensa ad esempio al nazionalismo e al concetto dell’ordine: come si rapportano al forte sentimento localistico e campanilistico delle tifoserie, di odio verso la città vicina dove si va per spaccare il più possibile, danneggiando magari anche la stazione o l’autogrill di passaggio? D’altronde ci sono anche tifoserie di sinistra che si scontrano con altre tifoserie di sinistra, con tanti saluti all’unità proletaria. Si può far riferimento allo spirito ribellistico nei confronti di questa società o alla spinta anti-sistema, ma a quel punto entrano in gioco valori e idee abbastanza intercambiabili fra una parte politica e l’altra. Il nemico principale e trasversale a tutte le tifoserie rimane la polizia. Non è che una curva parte per quello o per quell’altro valore, si parte e basta, si vanno a fa gli 168 scontri, si vanno a dà le cintate, si vanno a tirà le mattonate alla polizia. A differenza del resto della società di oggi, dove la protesta-tipo è la lettera al giornale – e la cosa più triste è che mi riferisco principalmente anche a ragazzi e conoscenti della mia età – l’ultras invece prende il bastone e carica. Ancora. Per quanto riguarda la presenza dei partiti in curva, per esperienza personale, avendo militato in un gruppo in cui la maggior parte delle persone faceva riferimento all’estrema destra, posso dire che c’era stata una sorta di collegamento forzato. Si era cioè voluto cercare un collegamento che però non ha retto, proprio perché non tutto ciò che riguarda l’ultras può poi essere collegato a una determinata visione politica totale. All’interno della vita del gruppo ognuno porta le sue idee, e anche se queste possono molto spesso combaciare e portare poi al proseguimento dei rapporti fra singoli in un ambito politico esterno, tutto ciò non regge all’urto delle contraddizioni che bene o male esistono e fanno parte del comportamento assunto negli stadi. A parte insomma la «conquista» di qualche militante, come è normale che sia in qualsiasi ambito sociale e soprattutto fortemente aggregativo, la politica intesa come politica dei partiti non credo abbia mai avuto alcun peso all’interno degli stadi. Di fronte alla politicizzazione, nel senso che avete appena delineato, della curva, come si è comportato lo Stato? Che tipo di repressione ha attuato? Y: Si dice spesso che la repressione fa male a tutti, che la militarizzazione degli stadi porta conseguenze peggiori di qualche rissa fra tifosi soprattutto per quanto riguarda l’amplificazione delle violenze, perché è ovvio che cariche e lacrimogeni sono ben peggiori di qualche cazzotto, e la limitazione delle libertà personali, in caso ad esempio di trasferte vietate. La realtà è che alle istituzioni non frega un cazzo di tutto ciò, anche se riguarda concetti cardine dello Stato liberale quali ordine e libertà democratiche. La verità è che la repressione funziona, risponde a ciò che lo Stato le richiede. Prima X parlava dei ragazzetti diffidati, magari con obbligo di firma, per aver scavalcato una barriera fra i settori; ebbene siamo davvero sicuri che, come dice qualcuno, quello poi torna allo stadio ancora più incazzato? Secondo me dopo uno, due o tre anni di domeniche in questura quello col cazzo che ha ancora voglia di sentir parlare di curva. Certo, magari scaricherà la sua rabbia in altri ambiti; ma non è proprio così che funziona la repressione? Non è esattamente ciò che serve allo Stato? Allontanare, nascondere i problemi, spostarli fuori dalla vista, nelle periferie; poi magari quando queste inizieranno a scoppiare, allora verrà 169

nuovamente concesso di fare un po’ di casino e di sfogarsi negli stadi. Anche quando lo Stato mostra la forza e palesa la sua violenza – come nei casi più vicini a me, ma ce ne sarebbero molti altri, di Gabriele e di Carlo – la risposta immediata e brutale divampa in un attimo, ma si consuma in poco tempo. È vero, l’11 novembre ci siamo tolti delle belle soddisfazioni; ma dopo? Dopo è uscita fuori tutta la storia della «giustizia», della «verità». Ma quale giustizia ci si aspetta? Invocare la galera dello Stato per il proprio figlio manesco? E anche se fosse, non si legittima così implicitamente lo Stato stesso e la sua giustizia, con la violenza e la repressione che si porta appresso? La nostra giustizia ce la facciamo da soli, e in parte ce la siamo fatta quella sera stessa.

Il protagonista della testimonianza seguente è uno dei quattro arrestati dopo la notte del'11 novembre 2007. È un ultrà della Roma e un militante politico della sinistra. Le sue parole risultano interessanti per leggere, con gli occhi della piazza romana, un'ipotesi sull'uccisione di Gabriele Sandri. Ma non solo. La sua analisi più generale dà conferme sul riconoscimento di quella prospettiva che vede l'esperienza negli stadi inserita in un fatto sociale totale gravido di conseguenze politiche, economiche, giuridiche e simboliche. L'intervistato rivela inoltre aspetti della realtà della capitale che vanno oltre gli spalti e segnala l'acuirsi del paradigma amico/nemico all'interno dei rapporti politici: una dimensione che entra nel conflitto sociale e registra la distanza di quest'ultimo dalla sinistra militante romana.

Cosa è successo l’11 novembre 2007? L’11 novembre accade una cosa che è accaduta moltissime volte nella storia della Repubblica italiana. Un ragazzo è stato ucciso da parte delle forze dell’ordine. Di diverso, questa volta, c’è stato il contesto in cui è maturato l’omicidio, immediatamente riconducibile al mondo ultras. Non è la prima volta che muore un ultras, o comunque un tifoso di calcio. Era già successo in passato. Questa volta però c’è stata la platealità nel colpo di pistola, che non c’era mai stata prima. Credo non sia irrilevante che si trattasse di un ragazzo romano. Questo è un aspetto su cui ci si è soffermati poco, ma è una condizione essenziale per quanto è successo dopo. Che Gabbo fosse un ragazzo di Roma

170 ha creato dei meccanismi di conflittualità particolarmente potenti. La realtà ultras romana è ancora forte, in un contesto nazionale dove la capacità sia aggregativa che di mobilitazione dei gruppi ultras si è ridimensionata negli ultimi anni. Inoltre, cosa ancor più significativa, a Roma il tipo di fenomeno ultras che è sopravvissuto e si è rafforzato, è legato a un autentico ribellismo sociale, che prescinde molto dai fattori legati al calcio e agli stadi, ma è un fenomeno che assume dei connotati che vanno a sfumare in altri ambiti della vita della città. Quindi questo è un primo punto: l’11 novembre 2007 si sviluppa così perché si sviluppa soprattutto a Roma. Cosa è successo? Diversamente da una morte che nasce in un contesto politicizzato, come ad esempio la morte di Carlo Giuliani, dove scattano una serie di fattori di mediazione tra ciò che è accaduto e un’eventuale risposta da dare, a Roma è successo che non ci sono stati meccanismi di mediazione, di ammortizzazione, di edulcorazione del conflitto. Subito si è diffusa nella città una forma assolutamente istintiva di disponibilità alla reazione immediata. Romanisti, laziali, ragazzi di destra, ragazzi di sinistra, con le opportune differenze e specificazioni, hanno dato vita a un meccanismo quasi inevitabile di reazione istintiva a quello che è stato vissuto come un omicidio. Ben prima che ci si potesse fermare a ragionare sulle differenziazioni giuridiche dell’omicidio, quel giorno la città di Roma, in particolar modo le sue frange giovanili più ribelli, ha risposto. Dal punto di vista pratico è accaduto che da varie zone i ragazzi si siano riversati nella zona dello stadio Olimpico, non casualmente, ma in quanto doveva svolgersi una partita di calcio, Roma-Cagliari. Il primo pensiero di tutti, dei romanisti come dei laziali, la volontà istintiva di tanti ragazzi è stata quella di evitare che quella sera a Roma si potesse svolgere uno spettacolo legato al calcio, e in particolar modo evitare che, qualora quello spettacolo si fosse svolto, le persone potessero accedere come se nulla fosse per usufruire di quella partita di calcio. Non c’è bisogno di perdere tempo su ipotesi cospirative e quant’altro. Non c’è ne sarebbe stato nemmeno il tempo materiale. Già la mancanza di una sospensione immediata, unita a una conferenza stampa grottesca, in cui lo Stato italiano non si è assunto la responsabilità di quanto accaduto, aveva tolto ogni dubbio residuo nelle menti di chi si è sentito coinvolto direttamente dall’omicidio di Gabriele. La conferenza è stata vissuta davvero come un affronto.

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Che vuol dire «coinvolto direttamente»? Coinvolto in quanto tifoso di calcio, in quanto ultras? Ti formulo la domanda più ingenuamente che posso, che c’entra il calcio con tutto questo? C’entra in assoluto, ma se vogliamo attenerci al contesto in cui è maturato l’omicidio, il fatto che c’entrasse con il calcio lo ha certificato fin da principio lo Stato italiano nel momento in cui ha cercato di giustificare un colpo di pistola con una rissa a sfondo calcistico. Quindi, al di là della consapevolezza di Spaccarotella che la rissa era effettivamente una rissa tra tifosi, quello che in primo luogo ti pare interessante è che lo Stato abbia immediatamente tentato di usare lo sfondo calcistico per giustificare quello che era successo? Esattamente, la prima cosa è questa. Ma ho la presunzione di avere un’idea anche su un aspetto di cui non si è parlato per niente: del perché un semplice operatore di polizia quel giorno si sia sentito persino in diritto, o comunque non abbia avuto timore, di poter tirare fuori la pistola e di utilizzarla in un contesto del genere. Se ci limitiamo alla tesi del gesto di follia, secondo me facciamo un favore a chi quel giorno, e parlo dello Stato nel suo insieme, ha cercato di giustificare come somma di opposte follie quanto è avvenuto; ossia, da un lato c’è la follia di due comitive di ragazzi, che invece di scambiarsi cornetto e cappuccino si sono scambiate due ombrellate e cazzotti per il solo fatto di tifare due squadre diverse, e dall’altro il gesto folle di un poliziotto che, non si sa per quale motivo, per qualche istante ha perso la lucidità e quell’istante è stato fatale. Io direi che questo discorso va respinto, e bisogna cercare invece di dire qualcosa di diverso, bisogna cercare di dire che nel novembre 2007 si veniva da un anno, dall’omicidio Raciti in poi, di decretazione d’urgenza, di leggi speciali. Eravamo in una fase in cui un ragazzino innocente a Catania veniva preso e sbattuto dietro le sbarre e poi a giro tra comunità e riformatori, perché andava assolutamente giustificata la tesi che il poliziotto Raciti fosse stato assassinato, tesi che è tutt’oggi indimostrata e indimostrabile. Fu creato un clima psicologico allucinante intorno all’«emergenza ultras», capace di catturare l’opinione pubblica. Un periodo in cui lo Stato italiano ha ufficialmente deciso di sbarazzarsi della pratica ultras, forte delle immagini di una vedova catanese utilizzata nella maniera più ridondante possibile, per ricordare a tutte le mamme italiane, a tutte le famiglie italiane, 172 che c’è un padre di famiglia che non può più portare il salario a casa perché esistono questi ragazzi che si fanno chiamare ultras che addirittura uccidono i buoni padri di famiglia come l’ispettore Raciti e lasciano una madre e una figlia nella disperazione. Questo è un messaggio martellante e ridondante che per un anno e mezzo ha saturato il panorama informativo rispetto al mondo ultras. Gli ultras erano diventati ufficialmente una categoria di assassini, e non di assassini qualunque, ma di assassini di poliziotti, e sappiamo bene quanto lo Stato, ogni volta che ha la possibilità di rimarcarla, segni la differenza tra agire in divisa e agire da semplice cittadino, così come l’ha rimarcata il giudice che si è espresso in primo grado sull’omicidio di Gabriele. Quindi io direi che è facile immaginare, quanta protervia, quanta superficialità, quanto astio sia stato inoculato da parte dei dirigenti delle forze dell’ordine ai sottoposti. In un contesto del genere credo che qualcosa possa succedere nella testa di un poliziotto e che in una testa magari più suscettibile di altre sia apparso un semplice ragionamento: «ma in fondo questi ragazzi si stanno picchiando per il calcio, se lo fanno sono ultras, e se sono ultras potenzialmente oggi si picchiano in autogrill e domani sono pronti a uccidere un altro Raciti, probabilmente se tiro fuori la pistola e sparo due colpi – magari senza la volontà di uccidere qualcuno, non dico che l’intenzione fosse necessariamente quella – faccio qualcosa per cui tutti mi diranno grazie». C’è stata una leggerezza e una superficialità nell’utilizzo della pistola che dobbiamo assolutamente imputare al clima creato ad arte dopo l’omicidio Raciti. Se noi non facciamo questo già togliamo una certa dose di coerenza e di dignità a quello che è successo dopo, e alle responsabilità che sono state assunte in strada da chi è sceso. Era un ragionamento condiviso in strada? Guarda, questo è un ragionamento che ho fatto nella mia testa e che mi sono ripetuto nei mesi. Sento di poterlo fare ancora oggi con assoluta lucidità. Non ho partecipato con altri ultras, se non gli amici più stretti, a ragionamenti sull’argomento, e tantomeno l’ho fatto prima degli scontri. Da molti anni, in tutta Italia e con maggiore forza a Roma, nel mondo ultras si è creata e si è poi sedimentata, soprattutto a fine dei Novanta, una mentalità di contrapposizione allo Stato in quanto tale. È una cosa che nei contesti di politica rivoluzionaria o comunque extraparlamentare c’è ovviamente sempre stata, è da lì che viene. Quello che noto io però è che da vent’anni, in particolare negli ultimi dieci, nei 173 contesti dove si fa militanza politica, questa mentalità di contrapposizione allo Stato italiano in quanto tale si è smarrita. Nei contesti dove si fa politica ormai non esiste proprio più lo Stato come controparte, se non in maniera fortemente mediata da mille altri fattori che stanno in mezzo tra te militante, lavoratore, studente, operaio e lo Stato. Il conflitto nel consesso della politica viene vissuto ormai come una tensione tra te e altre entità intermedie, mediane tra te e lo Stato. Nel mondo ultras, invece, soprattutto qui a Roma, continua a sopravvivere una contrapposizione diretta. Una contrapposizione, se vogliamo spesso superficiale e contraddittoria, tra i ragazzi e lo Stato in quanto tale. Se non riflettiamo su questo punto ci perdiamo una parte rilevante del discorso, soprattutto per chi da compagno vuole inquadrare quello che è successo e che sta succedendo nel mondo ultras. Registri una perdita della contrapposizione, del paradigma amico/nemico sul terreno della politica, e in effetti questa analisi mi pare pertinente. Ma come questa dimensione rimossa è arrivata allo stadio? Io, da compagno, arrivo a dire che ci è arrivata nella maniera più sana. Quello che oggi lo stadio offre, in maniera crescente ed esponenziale negli ultimi quindici anni, ai ragazzi animati da uno spirito ribelle di qualsivoglia tipo, è un paradigma chiaro e diretto del proprio conflitto con lo Stato. Di come, quando e perché lo Stato italiano ti sta togliendo spazio, ti sta togliendo diritti, ti sta reprimendo, ti sta inquadrando, ti sta classificando, ti sta ferendo, ti sta uccidendo. Tutto questo allo stadio è ancora chiaramente visibile. I ragazzi che seguono la propria squadra di calcio, con quello che il calcio è diventato oggi, compresa ovviamente la repressione, hanno immediatamente davanti a loro lo scenario più chiaro su cui poter intervenire con il proprio ribellismo, nella maniera più nitida e efficace possibile. Questi stessi ragazzi durerebbero poco in un contesto di militanza politica come viene vissuta oggi, iper-mediata, iper-normalizzata, ipermoralizzata. Se ne andrebbero o perderebbero la carica eversiva che hanno acquisito in un contesto come quello dello stadio, dove tra te e la mano repressiva dello Stato non c’è niente, non c’è nessuno disposto a mettersi in mezzo, a mediare, e anche ammesso che ogni tanto qualcuno ci provi, questa opera di mediazione viene consapevolmente respinta da parte dei ragazzi, mentre invece nei contesti politici, persino extraparlamentari, oggi è solo la mediazione che si cerca. Noi 174 abbiamo nel territorio romano diversi contesti di militanza politica che sono ormai molto poco attraenti, rispetto al contesto stadio, dal punto di vista della possibilità di esprimere un’autentica ribellione. Voglio essere più preciso. Perché allo stadio hai un paradigma completo del rapporto tra potere e cittadinanza, tra Stato e società, tra Stato e individuo? Un ragazzo che da anni segue assiduamente la sua squadra persino senza velleità ribelli, nello stadio ha trovato il poliziotto, il potere repressivo, il presidente della sua squadra di calcio, il potere economico, la Lega Calcio, cioè il potere politico del mondo del calcio, il giornalista, il potere mediatico. Oggi, un ragazzo che vive lo stadio, si confronta settimanalmente con il potere, non superficialmente inteso, ma con tutte le sue declinazioni. Se lo stesso ragazzo oggi inizia a frequentare un centro sociale intorno a sé trova solo una serie di mediazioni, gente che gli dice «questo si può fare, questo non si può fare, questo si può dire, questo non si può dire». Lo Stato lo legge sui giornali, almeno che non ci sia uno sgombero, un’esperienza assimilabile a quanto avviene in uno stadio, ma è un’esperienza limite. Nei contesti dove si dovrebbe fare politica, educando i ragazzi a un attivismo che è fortemente connotato in senso anti-sistema, questa cosa ormai non c’è più. Un ragazzo ribelle che va oggi in un centro sociale si trova a fare i conti con appelli alle istituzioni democratiche, petizioni, oppure ricerche di mediazione del presidente di municipio o del consigliere comunale che ci aiuta a fare una richiesta per essere autorizzati. Ecco, tutto questo, che in qualche modo smorza la capacità, la potenza o la carica ribelle o sovversiva, allo stadio non c’è. Lì ti contrapponi direttamente, vivendo tutto ciò con maggiore o minore coscienza politica, perché c’è chi già ha una propria consapevolezza, e c’è chi non ce l’ha e non la vuole avere. Ma io dico, se siamo, e qui uso delle parole «vecchie» che vecchie non sono, se siamo comunisti, se siamo marxisti se siamo materialisti, noi i fenomeni della società li dovremmo cogliere con oggettività, non dovremmo stare tanto a guardare cosa c’è nella soggettività delle persone che prendono parte a un determinato fenomeno. A me non interessa se i ragazzi che hanno assaltato le caserme, in quel momento avevano in testa faccetta nera o avanti popolo. Pensate che se andiamo tra i banlieuesard francesi, tanto coccolati a parole dai vari ambienti sinistroidi, troviamo ragazzi comunisti o di sinistra? Troverete sì qualcuno col mito del Che, ma anche ragazzi anticomunisti, antisemiti convinti, razzisti a modo loro o fanatici dell’Islam… ma dare simpatia a loro è più facile e più alla moda, negli ambienti 175 della gauche nostrana. Ben più difficile rischiare la galera o anche solo schierarsi a parole: vedere una caserma che brucia in tv e fare esclamazioni di entusiasmo è decisamente meno impegnativo che schierarsi se la stessa cosa accade qua. Invece io dico: ricominciamo a guardare i fenomeni dal punto di vista oggettivo. Mi interessa che cosa fanno oggettivamente i ragazzi dentro e fuori gli stadi, mi interessa quale ruolo oggettivamente hanno avuto quando l’11 novembre hanno deciso di prendersi quel certo tipo di responsabilità. Se io mi vado a perdere nelle loro soggettività, che poi sono diversissime tra loro, faccio un lavoro ben poco politico. Questo purtroppo è un costume diffusissimo ormai nell’ambiente dei compagni. Andare a fare le pulci alle soggettività coinvolte in un determinato fenomeno. Questo ormai è dilagante, senti parlare i compagni del perché, del percome quel determinato ragazzo, quell’ultras, quello studente, ha fatto una determinata cosa. A me come compagno interessa quale peso specifico io oggettivamente assegno a quell’episodio. A tirare nel giardino della villa del Governatore la spazzatura campana appena sbarcata in Sardegna ci sarebbero andati volentieri tanti compagni comunistissimi di tutta Italia, ma ci sono andati gli ultras del Cagliari, gente tosta e rispettata in tutti gli stadi a cui lo Stato ha «suicidato» in carcere uno dei leader poco tempo fa. O qualcuno pensa che in carcere vengano suicidati solo i compagni? Sono temi importanti, perché questa mia riflessione non attiene solo allo stadio, ma ai conflitti sociali e politici in generale. Ormai c’è il costume diffuso di analizzare e fare le pulci ai curriculum vitae delle persone coinvolte. Ci sono contesti in cui questo è importante, ma ci sono anche momenti e fenomeni sociali in cui, da materialisti, questo dovrebbe essere poco rilevante. Se torniamo all’11 novembre, andare a spulciare l’appartenenza politica e il curriculum dei ragazzi che hanno preso parte agli scontri, secondo me non deve aver senso per chi si ritiene un militante comunista. Sono persuaso che quando i compagni erano ancora inseriti nella società a 360 gradi – non nell’alta società ma in quella che ci interessa a noi – non ragionavano così. Alcuni dei miei «maestri» politici, per usare un’espressione un po’ forzata, erano compagni che negli anni Settanta non si ponevano minimamente il problema di chi fossero gli altri ragazzi con cui andavano a fare gli scontri, anche allo stadio; cioè i compagni della vecchia autonomia romana con cui sono cresciuto, quando c’era da andare a scontrarsi con le guardie fuori dallo stadio pigliavano e partivano, non è 176 che stavano là a vedere se accanto a loro ci stava un altro militante dell’autonomia operaia o un militante di un altro gruppo della sinistra o ci stava magari un ragazzo di destra. Non gliene fregava un cazzo, ma manco ci pensavano proprio. Quello era il conflitto. Lì dovevano stare i compagni, poi dopo si poteva disquisire e analizzare. Questo si è completamente perso. Stai dicendo che una cosa è l’«odio liquido» che Carlo Bonini descrive in ACAB, proprio a proposito della notte dell’11 settembre, e un’altra è la dignità politica dell’odio? Quando tutto viene ricondotto a malattia e devianza, quando il paradigma amico/nemico viene sostituito con una comprensione del conflitto tale da ridurlo a patologia sociale, si toglie legittimità sociale all’odio, che è invece un sentimento sociale e politico nato da contraddizioni a cui non si può mettere il coperchio? Non so chi sia Carlo Bonini, di ACAB conosco solo la canzone dei Four Skins. Nel panorama storico e simbolico del movimento operaio l’odio è una categoria importante: l’odio di classe. Ci siamo nutriti per decenni di miti legati a rivolte operaie e contadine che non avevano più razionalità intrinseca dell’assalto alle caserme intorno all’Olimpico. Ci siamo simbolicamente nutriti di contadini che andavano coi forconi a uccidere i possidenti, del luddismo, degli scioperi violenti e dei sabotaggi. I nostri miti politici si fondano su momenti di forte contrapposizione, dove la razionalità non era l’unica dimensione importante. Perché allora qui devo andare a fare le pulci su quanto fosse politico il sentimento dei ragazzi di quella notte? Bisogna rivalutare il semplice meccanismo di odio di chi è sceso nelle strade. Se si è disposti a rischiare tanto o hai da guadagnarci qualcosa in termini di interesse personale oppure significa che sei animato da qualcosa che non è molto saggio relegare nel campo della patologia, della devianza e dell’istintività priva di razionalità politica e sociale. Rivendico il forte sentimento di odio che c’era quella notte. D’altra parte c’era anche un livello di grande consapevolezza. Quando succedono queste cose solitamente si è più indulgenti verso se stessi analizzando il fatto a caldo e poi quando magari passa del tempo si fa un po’ marcia indietro. Quello che posso dire oggi, a distanza di due anni e mezzo, è che più passa il tempo e più trovo motivi lucidi e razionali per rivendicare l’intera mobilitazione di quel giorno. Non soltanto Roma, dove ci sono stati gli episodi più forti dal punto di vista militare e dal punto di vista dell’adesione psicologica dei cittadini, ma anche nel resto d’Italia. Più 177 passa il tempo e più sono persuaso che ci sia stato una politicità intrinseca molto forte, in cui oggi trovo dei risvolti molto positivi. Lo dico con una nota di amarezza, perché i media si sono immediatamente gettati sugli avvenimenti per distogliere l’attenzione da un omicidio ingiustificabile. Quindi qualche scrupolo di coscienza me lo sono fatto verso la famiglia Sandri. Oggi però se tu mi dovessi chiedere quale è stata l’importanza dei fatti dell’11 novembre 2007, ti risponderei che l’importanza l’abbiamo vista con Stefano Cucchi. Mi sembra di capire che dopo quella notte ci sia un’attenzione diversa rispetto alla degenerazione dell’apparato repressivo dello Stato. Dopo quel casino che si è creato, oggi è un po’ più difficile fare finta di niente, insabbiare, svicolare. C’è una certa dose di timore da parte dello Stato. Si deve rendere conto a una famiglia, a dei cittadini, a dei ragazzi. Noto anche una predisposizione maggiore ad alzare la testa contro simili ingiustizie. Anche con gli strascichi della vicenda Aldovrandi, la cui coda giudiziaria ha avuto fortissima eco proprio a partire dall’11 Novembre 2007. Sono valutazioni delicate queste, però bisogna un compagno è stato ammazzato dalle guardie e nella sostanza non è successo nulla. Dopo l’omicidio di Carlo Giuliani non c’è stato un solo episodio significativo di manifestazione decisa di un sentimento di intolleranza, di «tolleranza zero», contro quello che era successo. L’11 novembre la categoria di «tolleranza zero» è stata invece rovesciata sullo Stato italiano. Lo Stato la utilizza ormai un po’ ovunque, che si tratti di immigrazione o di incidenti con la macchina; c’è una tracotanza del potere nell’utilizzo del concetto. Forse l’11 novembre è stato l’unico giorno in cui sono stati settori della popolazione a esprimere un forte concetto di «tolleranza zero» contro lo Stato, a dire che c’è un limite oltre il quale siamo disposti a tutto per reclamare giustizia. Nel mondo della politica succede che muore Carlo Giuliani e chi vuole esprimere odio e disgusto per l’ingiustizia si trova di fronte a un mondo talmente pieno di sentinelle, di ostacoli, di canali obbligati, di cose che si possono fare ma non si possono dire, che si possono dire ma non si possono fare, che ha sterilizzato la capacità di rendere la morte drammatica di Carlo Giuliani un momento di avanzamento. È diventata esattamente il contrario, il momento della fine di una fase lunga qualche anno, il crollo di un intero movimento. Dalla retorica di guerra alla retorica del pianto. Allora cos’è in fondo che voglio dire? Credo che sia possibile leggere l’11 novembre con una visione che metta al centro anche il problema della classe. 178

Oggi che la classe, il mondo proletario delle borgate vota per tre quarti a destra. In primo luogo l’11 novembre è un’occasione per ricordarci cosa sia la classe. La classe non è mai pura. È un torrente, è un mosaico. Ma noi dobbiamo avere la fedeltà alla classe. Quello è l’agente del conflitto. La memoria di classe è l’unica memoria che ci appartiene, ed è una memoria che non ha niente a che vedere con il purismo. Il comunismo non ha niente a che vedere con il purismo tipico di una certa borghesia illuminata e di sinistra. Non si può fare la lotta di classe pretendendo che il soggetto rivoluzionario siano i borghesi di sinistra. L’11 novembre una componente elitaria forte e decisa si è mischiata con un grande sentimento popolare. Psicologicamente, dall’omicidio di Gabbo è stata coinvolta in primo luogo la classe che ancora vive a Roma, il mondo delle borgate. È anche questo che si deve capire. avere l’onestà di farle. Io ero a Genova nel 2001 e ne porto i segni. A Genova un compagno è stato ammazzato dalle guardie e nella sostanza non è successo nulla. Dopo l’omicidio di Carlo Giuliani non c’è stato un solo episodio significativo di manifestazione decisa di un sentimento di intolleranza, di «tolleranza zero», contro quello che era successo. L’11 novembre la categoria di «tolleranza zero» è stata invece rovesciata sullo Stato italiano. Lo Stato la utilizza ormai un po’ ovunque, che si tratti di immigrazione o di incidenti con la macchina; c’è una tracotanza del potere nell’utilizzo del concetto. Forse l’11 novembre è stato l’unico giorno in cui sono stati settori della popolazione a esprimere un forte concetto di «tolleranza zero» contro lo Stato, a dire che c’è un limite oltre il quale siamo disposti a tutto per reclamare giustizia. Nel mondo della politica succede che muore Carlo Giuliani e chi vuole esprimere odio e disgusto per l’ingiustizia si trova di fronte a un mondo talmente pieno di sentinelle, di ostacoli, di canali obbligati, di cose che si possono fare ma non si possono dire, che si possono dire ma non si possono fare, che ha sterilizzato la capacità di rendere la morte drammatica di Carlo Giuliani un momento di avanzamento. È diventata esattamente il contrario, il momento della fine di una fase lunga qualche anno, il crollo di un intero movimento. Dalla retorica di guerra alla retorica del pianto. Allora cos’è in fondo che voglio dire? Credo che sia possibile leggere l’11 novembre con una visione che metta al centro anche il problema della classe. Oggi che la classe, il mondo proletario delle borgate vota per tre quarti a destra. In primo luogo l’11 novembre è un’occasione per ricordarci cosa sia la classe. La classe non è mai pura. È un torrente, è un mosaico. Ma noi dobbiamo avere la 179

fedeltà alla classe. Quello è l’agente del conflitto. La memoria di classe è l’unica memoria che ci appartiene, ed è una memoria che non ha niente a che vedere con il purismo. Il comunismo non ha niente a che vedere con il purismo tipico di una certa borghesia illuminata e di sinistra. Non si può fare la lotta di classe pretendendo che il soggetto rivoluzionario siano i borghesi di sinistra. L’11 novembre una componente elitaria forte e decisa si è mischiata con un grande sentimento popolare. Psicologicamente, dall’omicidio di Gabbo è stata coinvolta in primo luogo la classe che ancora vive a Roma, il mondo delle borgate. È anche questo che si deve capire.

Tessera del tifoso

All’indomani della morte di quattro tifosi salernitani a causa dell’incendio di un vagone di un treno speciale, l’allora presidente della Lega calcio Nizzola affermava che in futuro le trasferte in occasione di una partita saranno seguite solo in televisione280. Era il 1999. Da quella frase sono seguite diverse ristrutturazioni nei dispositivi di ordine pubblico istituite per controllare il calcio, tese a limitare l'agibilità dei tifosi “tradizionali” e favorire la nascita di un nuovo spettatore più disposto verso le offerte dell'industria calcistica. All’inizio della stagione 2010/11, con un anno di ritardo sui tempi inizialmente previsti, è varata la “tessera del tifoso”, introdotta con una circolare amministrativa con la quale il Ministro Maroni dà disposizioni a Prefetti e Questori di invitare, a loro volta, le società di calcio ad adottare questo strumento. La Tessera del Tifoso è una carta magnetica simile a un bancomat, contenente nome e cognome del tifoso e, in via facoltativa, anche la foto (che diventerà obbligatoria a partire dal campionato 2009- 2010). Nella quasi totalità dei casi è rilasciata dalle banche o dal circuito Lottomatica. La smart card, oltre a costituire titolo di accesso allo stadio, è una carta di credito ricaricabile con una validità di 5 anni. In alcuni casi a rilasciarla sono direttamente le società calcistiche. Non ha un costo fisso: è generalmente gratuita per gli abbonati o per

280 REDAZIONE, Rogo sul treno per tifo scatenato, quattro morti, La Repubblica, on line, 24 maggio 1999 180 coloro che l'hanno richiesta entro un certo tempo utile, mentre ha un prezzo generalmente di una decina di euro per i non abbonati e per coloro che decidono di sottoscriverla in un qualsiasi momento. Per averla, il tifoso deve ottenere il via libera dalla Questura, «ma non si tratta di una schedatura - ha specificato Felice Ferlizzi, presidente dell'Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive durante la presentazione - piuttosto, una sorta di passaggio privilegiato per i tifosi che non hanno a che fare con la violenza. Le società vogliono avere tifoserie sempre più selezionate e questo si sposa con le esigenze di sicurezza che sono il nostro primario obbiettivo281». A sperimentazione avviata per Ferlizzi si potrà cominciare a parlare «di tifoseria-clientela, e non di massa di persone che entrano in uno stadio282». Nelle retoriche degli ideatori la carta vuole rappresentare un segno di appartenenza, fornire servizi e vantaggi per coloro che vanno allo stadio, ma soprattutto imporsi come uno strumento di fidelizzazione fra i tifosi e le squadre e contribuisce ad aumentare gli standard di sicurezza all’interno dello stadio. In realtà, dal punto di vista della sicurezza e della prevenzione della violenza, la tessera del tifoso non aggiunge novità rispetto al biglietto nominale introdotto dalla Legge Amato del 2007, e che obbliga chiunque a presentare i propri documenti sia all’atto dell’acquisto che all'entrata allo stadio. Inoltre, gli episodi di violenza all'interno degli stadi sono ormai una parte residuale all'interno delle statistiche fornite dallo stesso ministero dell’Interno. A incidere per chi non aderisce alla sottoscrizione della tessera è la partecipazione alle trasferte. Nello specifico, a chi non ha la tessera del tifoso la legge preclude non tanto la trasferta ma solo il settore ospiti dello stadio. Un elemento che nel tempo sarà aggirato con provvedimenti ad hoc che vietano la trasferta al seguito della propria squadra ai non possessori della tessera. Questa articolazione legislativa, paradossalmente, ha offerto più probabilità a un tifoso ospite di ritrovarsi in altri settori diversi da quello abitualmente destinato agli ospiti e quindi di entrare più facilmente in contatto fisico con i tifosi

281 REDAZIONE, Nasce il tifoso doc, Gazzetta dello Sport, on line, 26 maggio 2008. 282 Ibidem. 181 avversari. Cosa che puntualmente è accaduta nella stagione d'esordio della tessera del tifoso: ad esempio tra bresciani e palermitani (il 12 settembre 2010), paganesi e salernitani (il 13 settembre 2010), sampdoriani e napoletani (il 19 settembre 2010) o bolognesi e juventini (il 24 ottobre 2010). Il provvedimento ha suscitato da subito un moto di indignazione collettiva e dure prese di posizione: manifestazioni, proteste, sciopero del tifo hanno rimarcato la contrarietà dei tifosi. In linea generale le curve hanno rifiutato la sottoscrizione della tessera e rinunciato al rito della trasferta, annullando uno dei passaggi identitari più forti della socializzazione ultrà. Ovunque la tessera è stata etichettata come l'ennesimo strumento repressivo ai danni dei tifosi. In realtà, la grande novità della tessera è il passaggio dello Stato dalla fase prettamente repressiva a quella del controllo e soprattutto del consumo monitorato. La tessera appare, in sintesi, come una fidelizzazione del tifoso in ottica commerciale, legata al fine statale della pubblica sicurezza, in quanto strumento strategico di selezione di una tifoseria che si vuole di mansueti consumatori. Infatti la tessera non è per tutti. Ne sono esclusi quei tifosi che abbiano contratto il Daspo, il provvedimento amministrativo di allontanamento dallo stadio per un periodo definito dalle autorità competenti (come già evidenziato, non si applica solo in base a una condanna penale ma è un provvedimento anche di natura amministrativa). Inoltre la tessera non verrà concessa a chi ha processi in corso, legati a fatti di “violenza da stadio”, la cui sentenza di primo grado deve essere emessa. Nel caso di sentenza di primo grado negativa per l’imputato e in attesa della sentenza di secondo grado e del giudizio in cassazione, la tessera non verrà concessa. È implicito in questo senso un rovesciamento della presunzione d’innocenza per i comportamenti da stadio rispetto a quanto previsto dall’ordinamento giuridico per il resto dei reati. Inizialmente a protestare contro il provvedimento, oltre al movimento ultras che si è visto vincolare il momento della trasferta alla sottoscrizione della tessera, si sono unite

182 anche diverse società preoccupate che un ennesimo passaggio burocratico nel rapporto coi propri tifosi acuisse la disaffezione già manifestata dal biglietto nominale. In ogni caso, le società non hanno avuto possibilità di scelta. «L’articolo 7 della circolare è chiaro», spiega Alberto Monguidi, responsabile comunicazione del Parma Calcio: «La mancata adesione al programma tessera del tifoso è considerata come una carenza strutturale dello stadio. In altre parole, ci hanno detto o vi adeguate o al primo problema vi chiudiamo lo stadio283». Ma le società, anche alcune di quelle che hanno protestato inizialmente, hanno subito capito il potenziale commerciale della tessera del tifoso. Il cliente-tifoso, monitorato costantemente in ogni suo acquisto attraverso la tessera, fornisce continuamente quel sapere su cui le imprese formulano un’offerta di prodotti diversificata sulle esigenze individuali di ogni singolo cliente. La banca dati che le transizioni effettuate dalla tessera permettono di costruire offre la possibilità di sintonizzare le strategie commerciali sui consumi abituali del tifoso, personalizzando il rapporto e anticipandone e guidandone le esigenze. Fidelizzare, selezionare, monitorare e promuovere un nuovo profilo di «tifoso», quale «rappresentante» della propria società. Il lessico richiamato non dà margini di interpretazione. Il tifoso è un cliente da fidelizzare, membro di una «comunità privilegiata» che deve sviluppare pratiche coerenti con una passione sportiva che si ottimizza in rapporto alla capacità di consumare. Obiettivi, quelli della Tessera del Tifoso, che si intrecciano con le offerte commerciali della società, la circolazione del brand e lo sviluppo del merchandising. Un percorso il cui accesso è condizionato da un rapporto bancario, canale preferenziale per la sottoscrizione della card. Un'anomalia sulla quale è intervenuto il Consiglio di Stato, che in una sentenza su un ricorso di Codacons e Federsupporter ha chiarito: «L’abbinamento inscindibile tra il rilascio della tessera del tifoso e la sottoscrizione di un contratto con un partner bancario per il rilascio di una carta di credito prepagata potrebbe condizionare indebitamente la libertà

283 REDAZIONE, Calcio, per il Consiglio di Stato è illegittima la tessera del tifoso, Codacons, 14 dicembre 2011 183 di scelta del tifoso-utente e potrebbe pertanto assumere i tratti di una pratica scorretta ai sensi del Codice di consumo284». Per averla, infatti, i tifosi sono costretti ad acquisire una carta di credito ricaricabile che favorisce gli interessi di banche, colossi delle scommesse e società sportive, come Banca Intesa-Sanpaolo, Lottomatica, Poste Italiane ed Erg, a cui ogni club avrebbe consegnato centinaia di migliaia, se non milioni, di nuovi clienti. Un passaggio che svela da subito la natura commerciale dell'operazione, fatta scorrere tra le pieghe della finalità di ordine pubblico con un'operazione talmente malcelata da far ammettere perfino al capo della polizia, Antonio Manganelli, che «la tessera nasce c Le società sono imprese con fine di lucro, e sono tra le poche aziende che ancora non conoscono la propria clientela285». In questi anni in Italia si dibatte intorno al disegno di legge 1881, sulla creazione di nuovi impianti sportivi, e in quei contesti si valuta di rendere la tessera l’unica modalità di pagamento prevista. Ad esempio, allo , unico stadio di proprietà in Italia e concepito in modo polifunzionale (di cui si parla nel paragrafo successivo), la Tessera del Tifoso della Juventus, la Stadium Member Card, non a caso vale già come “borsellino elettronico” per fare acquisti. Il concetto coniato nella relazione che introduce la proposta di legge è quello di «stadio produttivo»; si parla infatti di «attività commerciali, ricettive, di svago, del tempo libero, di servizio, nonché a insediamenti residenziali o direzionali286». Lo stadio potrà così «svolgere un’importante funzione di aggregazione sociale, diverrà uno spazio accogliente, da vivere tutta la settimana, adatto a tutta la famiglia. Sarà dotato di cinema, ristoranti e attività commerciali di vario genere. È noto che le aziende sono attratte dalle strutture sportive (stadi, centri polifunzionali ecc.) in quanto ritenute ottime

284 PELLIZZARI D., Consiglio di Stato boccia la tessera del tifoso.“Illegittima, è pratica commerciale scorretta”, Il Fatto Quotidiano, on line, 14 dicembre 2011. 285 REDAZIONE, art. cit.,14 dicembre 2011. 286 Proposta di legge presentata il 7 novembre 2008, n. 1881, in materia di "Disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione degli impianti sportivi". 184 location per intrattenere rapporti con la propria clientela287». L’aggregazione è proposta e concessa solo dentro un luogo di consumo, dove la tessera mette al lavoro il tifoso proprio attraverso la sua qualità più ovvia: la passione. Roberto Massucci, segretario dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, ha sintetizzato così la questione: «Finora i gruppi ultrà sono l’unico tipo di aggregazione allo stadio. Io però credo che sia giunto il momento di una nuova community di tifosi ufficiali che faccia capo alla società sportiva288».

Stadi di ultima generazione

Come già ravvisato nelle pagine precedenti, in Inghilterra l’importazione dei precetti aziendali nel calcio ha reinventato le relazioni sociali esistenti tra la fruizione pubblica dello stadio e i suoi spettatori. L’accessibilità all’evento è stata filtrata a vantaggio di un pubblico più disciplinato e interessato allo spettacolo, alla tecnica e all’efficienza nella prestazione e, di riflesso, orientato al consumo. Gli stadi, sottoposti alle direttive della commissione Taylor, sono stati completamente ristrutturati: sono state abbattute le barriere divisorie tra campo di gioco e spalti e introdotti posti numerati in tutti i settori, che hanno causato un allargamento degli spazi singoli e di conseguenza diminuito la capienza complessiva; sono state installate telecamere a circuito chiuso e applicata una diversa gestione interna del servizio d’ordine, autogestito dalle società che lo affidano a stewards da loro stipendiati. I provvedimenti hanno reso gli stadi inglesi più confortevoli e dato il là al cosiddetto “modello inglese”: «un calcio meno popolare, meno passionale, più elitario, più caro, più show e meno sport, forse un po' più triste, ma senz'altro più sicuro289». Fin da subito, anche per l'elevato aumento dei prezzi dei biglietti, i provvedimenti hanno diminuito fortemente l'accessibilità ai tifosi di estrazione popolare, caratterizzati per la

287 Ibidem. 288 REDAZIONE, Calcio: Masucci. Tessera tifoso alternativa a gruppi ultrà, Adnkronos, 28 settembre 2011. 289 FRANCESIO G., op. cit., 2008, p.88. 185 loro «subculturale coscienza di calcio» incentrata sul legame con il club locale, sulla mascolinità e sulla partecipazione attiva. I provvedimenti hanno poi mutato la funzione dello stadio, valorizzandone vertiginosamente l'aspetto produttivo. Lo stadio infatti non è più solo il luogo della partita, ma un centro polifunzionale aperto interrottamente che offre nella propria area spazi commerciali, ristoranti, pubs, sale vip, centri fitness, alberghi: un'isola del consumo agganciata al brand della società ma allo stesso tempo avulsa dall'esperienza agonistica. Nella testimonianza che segue, il giornalista e sociologo Tommaso Tintori racconta una giornata trascorsa ad Anfield in occasione della partita di andata dell'Europa League Liverpool-Besiktas (26 febbraio 2015); il contributo rivela l'evidenza dei cambiamenti accorsi nella fruizione dell'evento e una tifoseria, ormai spogliata della sua identità, piegata al cosiddetto “modello inglese”.

Sin dalla mattina lo stadio di Anfield è una lenta e continua processione. Colpisce favorevolmente l’ubicazione dell’impianto, in mezzo alle case, senza cancellate e muri di cinta. Ci sono gli immancabili turisti calcistici del terzo millennio (molti dei quali con gli occhi a mandorla) che arrivano in taxi e dopo essersi fatti un selfie davanti alla statua di Bill Shankly eseguono la visita guidata al museo, escono e rientrano nell’adiacente shop ufficiale, riempiono il carrello, pagano e poi vanno a mangiare uno scadente fish&chips da 10£ nel bar-ristorante dello stadio. Molti di loro, c’è da giurarlo, neanche entreranno allo stadio la sera per il match di Europa League contro i turchi del Besiktas. Ma gliene importerà il giusto. E se lo faranno sarà perché hanno tirato fuori una fraccata di soldi rivolgendosi ad agenzie private via internet, l’unico modo possibile per entrare in stadi particolarmente appetiti come Anfield. Si tratta di abbonamenti di cui viene venduta la singola partita per cifre esorbitanti. Abbonamenti nominali e quindi non vendibili a terzi. Ma in Inghilterra, a differenza dell’Italia, nessuno chiede i documenti di identità all’ingresso. Il biglietto più economico per assistere alla partita, costato 27 sterline agli abbonati, veniva rivenduto ad un prezzo minimo di circa 130 sterline. Tanto per avere un’idea della mole del business. Sul marciapiede opposto alla Kop ci sono due o tre pub e altrettanti paninari e venditori di sciarpe, cappellini, magliette. […] Per entrare allo stadio 186 c’è un solo tornello e nessuna perquisizione. Ci danno il benvenuto due cartelli: il primo ti ricorda il divieto di fumare, il secondo ti invita a fare la spia in caso di comportamenti illeciti da parte di qualche tifoso. Pochi passi e ci imbattiamo in un’agenzia di scommesse sportive. Lo stadio, a mezz’ora dal fischio d’inizio, è semivuoto. Le file sono strettissime e le poltroncine anguste. Quelli del Besiktas sono già tutti rigorosamente in piedi, cantano e non smetteranno più fino all’86’. Tranne due o tre momenti si sentiranno solo loro. Il primo momento è quello che da solo vale il prezzo del biglietto. Tutta Anfield si alza in piedi, mostra le sciarpe in alto e tira fuori la voce: When you walk through a storm - Hold your head up high - And don't be afraid of the dark - At the end of the storm - Is a golden sky - And the sweet silver song of a lark - Walk on through the wind - Walk on through the rain - Though your dreams be tossed and blown - Walk on walk on with hope in your heart - And you'll never walk alone - You'll never walk alone - Walk on walk on with hope in your heart - And you'll never walk alone - You'll never walk alone. I decibel non sono quelli degli stadi greci, ma si tratta comunque di uno dei momenti più magici che si possa vivere sugli spalti di uno stadio di calcio. La partita scorre via con la colonna sonora costante dei cori dei tifosi turchi. A parte loro e la Kop il resto dello stadio sta a sedere. Ci si alza solo per qualche secondo quando l’azione si svolge negli ultimi 25 metri. Poi passa uno steward che ti invita a rimetterti a sedere. Ci vuole un rigore di Balotelli a 4’ dal termine per sentire l’esplosione di Anfield. Che subito dopo, abbastanza sorprendentemente, si rivolge compatta ai duemila turchi gridandogli con rabbia: “You are not singing anymore”. Ci sono attimi di tensione, i primi di una lunga giornata tranquilla, iniziata con i turchi festanti per le strade del centro città con bandiere e torce. Un piccolo ma quanto mai importante segno di decadenza, l’ha definito Gareth Roberts, un giornalista locale: “Un canto piccolo, stupido e provinciale che fino a ieri è stato regolarmente deriso dai veri tifosi del Liverpool è stato cantato da quasi tutto lo stadio. Niente vi era di quella famosa atmosfera che ha reso celebre Anfield nelle notti europee. E allora perché tutta Anfield l’ha urlato all’unisono? Perché hanno voluto prendere per il culo chi, senza mai offenderci né mostrarci ostilità, ci ha dato una lezione di tifo? Chi mette piede ad Anfield dovrebbe conoscere cosa cantare e cosa non. Rispettare le tradizioni. Conoscere la storia di questa tifoseria. Non comprare The Sun e spiegartene con orgoglio il motivo. E invece oggi trovi chi urla ad Henderson che è una merda, chi 187

chiama Rodgers buffone, chi canta Pour Scouser Tommy con parole sbagliate e chi urla a squarciagola consigli tattici per 90 minuti. Stiamo assistendo all’omogeneizzazione della folla da stadio: i nostri stadi sono stati infiltrati da una folla addomesticata che indossa felicemente sciarpe metà e metà. Che consuma calcio piuttosto che amarlo. Una folla di tifosi occasionali che ha poco interesse a rivalità e tradizioni e vuole l'evento, il prodotto, la foto da postare su Facebook e lo You’ll Never Walk Alone da inserire su YouTube. I tifosi del Liverpool sono sempre stati considerati originali, diversi dagli altri inglesi. Divertenti, spiritosi, taglienti. Le nostre canzoni dove sono andate a finire? Che fine hanno fatto la fantasia e l’ingegno? Perché è più facile ascoltarli nei pub che allo stadio? Cosa si può fare per affrontare tutto questo? Lasciare che il Liverpool e la Kop diventino un club e una curva come tante altre sarebbe un vero peccato”290.

Il progressivo avvicinamento del calcio italiano al modello inglese, legittimato dalla necessità di imporre le pratiche securitarie a una presunta no man’s land e favorire l'avvicinamento ai medesimi standard di profitto, ha avviato un vivace dibattito sulla necessità di introdurre nuove leggi che permettano la costruzione in tempi rapidi di stadi di nuova generazione. I club, infatti, pagano l’affitto dell’impianto dove giocano ai rispettivi comuni e spesso sono soggetti a un dispendio economico che scoraggia ogni iniziativa che possa portare al miglioramento delle infrastrutture. Vecchi, insicuri, inadeguati, semivuoti, gli stadi italiani sono considerati tra le cause strutturali della crisi che ha investito il sistema calcistico, al momento incapace di replicare gli standard che fino a un decennio fa garantivano il campionato più ambito e ricco al mondo. La dibattuta necessità di rimodernizzazione di impianti ormai scadenti è generalmente accolta con favore dal pubblico, ma, allo stesso tempo, “rimodernare” o “ricostruire” uno stadio significa cedere porzioni di territorio urbano che ospiteranno nella loro area una serie di servizi (musei, parchi, ristoranti, centri fitness, negozi, alberghi...) che non saranno più pensati esclusivamente per il calcio, ma che saranno realizzato tenendo

290 TINTORI T., Un giorno ad Anfield, Senza Soste, n.102, 14 marzo 2015, p.8. 188 conto di ciò che il calcio può agganciare e capitalizzare. Queste le parole del progettista Gino Zavanella:

Sono due anni che aspettiamo il varo di una legge che ancora non passa. La legislazione urbanistica e quasi tutti i nostri piani regolatori quando parlano di impianti sportivi identificano gli impianti destinati esclusivamente allo sport. Un impianto sportivo per funzionare ha bisogno di infrastrutture consistenti, quindi di strade, parcheggi e servizi pubblici di un certo livello. Fare una struttura nuova esclusivamente per la manifestazione sportiva sarebbe un non senso e uno spreco. Bisognerebbe utilizzare questi spazi per dare servizi diversi alla città, non soltanto commerciali. Naturalmente ciò deve essere fatto con il consenso della città, del territorio, delle amministrazioni. Queste strutture dovrebbero essere viste come occasioni di sviluppo per la città e consentire agli abitanti nuovi stili di consumo e di vita291.

In Italia, la prima società di respiro europeo ad aver investito su uno stadio di proprietà costruito sul modello cosiddetto “multifunzionale” o “di terza generazione” è stata la Juventus292. Costruito sul terreno del precedente “Delle Alpi”, demolito, frutto delle operazioni finanziarie e immobiliari di Italia '90, lo Juventus Stadium è stato inaugurato l'8 settembre 2011. Situato tra i quartieri Vallette e Barriera di Lanzo in prossimità dell'area Continassa, nella V circoscrizione nell'area nord-occidentale della città, ha una capienza di 41.000 spettatori (meno della metà dell'impianto precedente) ed è totalmente privo di barriere architettoniche, ecocompatibile, avveniristico. Un impianto aperto 7 giorni su 7, frutto di un investimento pari a 105-120 milioni dal quale il C.d.A. bianconero punta a ricavare circa 30 milioni l'anno, seguendo le orme delle grandi società europee che, dagli stadi di proprietà, realizzano un fatturato medio pari al 25% del totale, mentre in Italia il dato finora si è attestato al 7% tra biglietteria parcheggi, catering, naming rights293 e no match day (museo, giro dello stadio, conferenze e

291 TREZZA C., Progetto Stadio Juve: bello, funzionale, aperto alla città, Sponsornet, on line, dicembre 2011. 292 La prima in assoluto fu la Reggiana, che nel 1995 inaugurò lo Stadio del Giglio. 293 Il termine naming rights indica i diritti di denominazione di una proprietà immobiliare, uno stadio, una infrastruttura, una stazione, un museo, un edificio universitario, offerti a uno sponsor in cambio di un prezzo e di un 189 banchetti). Ricavi che la Juventus conta di ottenere anche dai servizi integrati allo stadio, che ingloba una vasta area, costituita da 4000 posti auto, 8 ristoranti e 24 bar, il museo calcistico della Juventus, 34.000 metri quadrati di aree commerciali e 30.000 metri quadrati di aree verdi e piazze. Gli addetti ai lavori hanno parlato chiaramente di un vero e proprio laboratorio avanzato verso un modello italiano di stadio moderno. Il concetto fin dall’inizio alla base del progetto del nuovo stadio è stato la sua vivibilità: un luogo d’incontro e divertimento dove passare del tempo in compagnia degli amici o con la famiglia non solo il giorno della gara, ma durante tutta la settimana. A fianco dello stadio, infatti, è sorto l’imponente centro commerciale Area 12, che ospita 60 negozi tra cui l’ipermercato Leclerc-Conad. Mauro Lusetti, amministratore delegato di Nordiconad ha spiegato che «questi 34 mila metri quadri vogliono rappresentare un superluogo. Con la Juve abbiamo condiviso l’idea che la partita e lo shopping potessero essere vissute serenamente294». Le voci dei vari responsabili dell'architettura sia delle aree produttive confermano la volontà di cambiare la mentalità di vivere l’evento sportivo. Francesco Calvo, direttore commerciale, sottolinea come: «l’organizzazione dell’hospitality è il primo passo di un percorso che ci vuole portare a cambiare la mentalità del tifoso. Allo stadio non c’è solo la partita, ma un mondo tutto da scoprire fatto di servizi eccellenti, momenti di entertainment ed eventi dedicati alle diverse tipologie di pubblico. Per le aziende, il Premium Club offre l’importante opportunità di unire calcio e business295». Il Premium Club, che comprende circa 4.000 posti e offre servizi esclusivi di alto livello, può essere utilizzato dalle aziende per svolgere attività di public relations in occasione delle partite e anche durante la settimana. La filosofia che ha ispirato le forme architettoniche è volta a dare serenità all'ambiente. Larghe rampe conducono sugli spalti girando intorno alla struttura; i percorsi da seguire sono chiari e non ci sono imbuti o corridoi. Si accede alle tribune tramite 16 passerelle sospese che regalano una vista suggestiva degli spalti, delle interesse congiunto alla valorizzazione del luogo, del traffico, del business. 294 DI SEGNI S., Shopping e pranzo allo stadio, a Torino il modello inglese, La Stampa, on line, 4 agosto 2011. 295 REDAZIONE, Juventus Stadium, Spazio Mondo, on line, senza data. 190 curve e degli spazi adiacenti. Come già detto, non ci sono barriere tra tifosi e campo di gioco e la pista di atletica, che non permetteva la vista del campo dai posti più in basso delle tribune, è stata eliminata. Nel complesso l’assenza di barriere, muri e ostacoli crea un senso di sicurezza ideale soprattutto per chi intende portare allo stadio la famiglia. Come spiega l'ideatore Gino Zavanella, «l’immagine del calcio italiano, negli ultimi anni, è stata legata spesso a fatti di disordine e violenza. Se ci fossimo limitati a investire solo in uno stadio, i cittadini di Torino avrebbero potuto risentirsene. Il fatto di aver costruito tutta una serie di servizi che vanno al di là della sfera calcistica ha reso ancora più importante il progetto per i cittadini della zona296». In un'altra intervista ha confermato la nuova linea di costruzione degli impianti. «Un impianto sportivo per funzionare ha bisogno di infrastrutture consistenti, quindi di strade, parcheggi e servizi pubblici di un certo livello. Fare una struttura nuova esclusivamente per la manifestazione sportiva sarebbe un non senso e uno spreco. Bisognerebbe utilizzare questi spazi per dare servizi diversi alla città, non soltanto commerciali. Naturalmente ciò deve essere fatto con il consenso della città, del territorio, delle amministrazioni. Queste strutture dovrebbero essere viste come occasioni di sviluppo per la città e consentire agli abitanti nuovi stili di consumo e di vita. […] non dobbiamo rivolgerci soltanto ai tifosi della domenica, ma prendere in esame il fatto che un’opera così importante possa rivolgersi a tutta la città297». Tra gli impianti più avanzati a livello mondiale, lo Juventus Stadium, premiato con lo Stadium Innovation Trophy al Global Sports Forum 2012, è considerato oggi uno dei simboli architettonici della Torino contemporanea, nonché uno tra i maggiori poli d'attrazione turistica della città298. La sua immagine è un elemento di significazione primario della metropoli torinese. Tuttavia, al di là della retorica degli ideatori, più che un elemento di valorizzazione organica del territorio e di integrazione della vita sociale (vista anche la sua posizione periferica rispetto al centro e gli esorbitanti costi

296 Ibidem. 297 TREZZA C., art. cit., dicembre 2011. 298 VACIAGO G., Juve Stadium mania. È meglio della mole, Tuttosport, on line, 5 giugno 2014. 191 d'accesso), la sua funzione è quella di valorizzare l’industria globale dell’immagine e dell’immaginario che plasma un territorio. Un'operazione finemente studiata all'interno dello Juventus Stadium: «la scelta di arredare ogni angolo dello stadio con le immagini dei campioni che hanno fatto grande la Juve in oltre cent’anni di storia pare azzeccata: fra una gigantografia di Platini, un poster di Zoff e le stelle dei vari campioni stampate sul suolo, il tifoso juventino ha come la sensazione di sentirsi a casa299». Storia, tradizione, innovazione e marketing si fondono nella produzione urbana di nuovi comportamenti da stadio e nell’alta industria della spettacolarizzazione. Ne è un esempio ancora più evidente la cerimonia d'inaugurazione dell'impianto - affidata alla prestigiosa direzione di Marco Balich -, che si è aggiudicata il premio come miglior evento celebrativo ai Best Event Awards Italia. Un countdown di 114 secondi, tanti quanti gli anni di vita del club bianconero, che si fa incalzante negli ultimi 29, esattamente il numero degli scudetti vinti sul campo fino a quel momento. La scritta su sfondo bianconero Welcome home, poi l'inno nazionale eseguito dalla Brigata Alpina Taurinense che precede il taglio del nastro tricolore effettuato dal presidente Andrea Agnelli e dal sindaco di Torino, Piero Fassino. Passato e presente gettano un ponte verso il futuro, attraverso emozioni, ironia, trionfi e tragedie: trovano posto l'omaggio a Gaetano Scirea, il ricordo delle 39 vittime dell'Heysel, con 39 palloncini bianchi liberati in aria, e il ricordo di Alessio Ferramosca e Riccardo Neri, i due ragazzi delle giovanili che hanno perso la vita durante un allenamento al centro sportivo di Vinovo; e ancora le immagini di Gianni e Umberto Agnelli, accompagnate dalla standing ovation del pubblico, i successi, la sfilata di stelle del passato e i simboli, come la panchina di corso Galileo Ferraris (dove nel 1897 gli studenti del Liceo D'Azeglio fondarono la Juve dando inizio al tutto) che plana dall'alto. I fuochi d'artificio conclusivi, nella notte, fanno dello stadio il simbolo della metropoli. In questo scenario, in un interessante articolo che anticipa la costruzione del nuovo stadio della Juventus300, l’autore descrive le funzionalità attraverso «la giornata ideale»

299 STELLA L., Juve: com’è la partita vista dal nuovo stadio, Panorama, on line, 14 settembre 2011. 300 PIROVANO M., Nuovo stadio, vecchia tifoseria?, Magazine Bianconero, on line, 20 luglio 2009. 192 che una famiglia potrebbe trascorrere al suo interno. Il risultato è «un ciclo completo del consumo che passa dal merchandising al biglietto, dalla spesa al supermercato alla visita al museo della Juve, dal pranzo al ristorante per tifosi alla partita301». Non può passare inosservato che l’autore, una volta apprese le strategie di marketing della Juventus, rilevi con sincerità come sia «più difficile collocare in questo contesto i gruppi organizzati del tifo[...] che non avranno più spazi o abbonamenti da gestire. Niente bancarelle improvvisate per la vendita dei gadgets e soprattutto nessun avversario da schernire od insultare. Anche perché, nel nuovo tempio del calcio da “toccare”, sarebbe almeno azzardato. Una situazione disagevole da gestire e, non riuscendo a pensare alla disgregazione di gruppi storici del tifo bianconero, mi chiedo come la società riuscirà ad integrare i tifosi delle curve dell'Olimpico con quelli destinati e richiesti nel nuovo stadio302». E' una questione rilevante, se si considera inoltre che, nel caso della Juventus, i gruppi organizzati risultano “ingombranti”, frammentati e divisi da profonde inimicizie, che nel vecchio “catino” avevano portato alla distribuzione di alcuni degli stessi in curve opposte. Come società e tifosi abbiano trovato un equilibrio rispetto alle esigenze di entrambi è ben documentato nel seguente scambio avvenuto tra un tifoso occasionale e un militante di curva all'indomani di una polemica relativa a uno sciopero del tifo imposto dai gruppi organizzati della curva sud al proprio settore. Come si evince nelle parole dell'ultrà, la società bianconera non ha voluto rinunciare nel nuovo stadio al sostegno e al calore del “dodicesimo uomo in campo” e ha cercato di salvaguardare quei tifosi che “non desiderano come si deve”, ma la cui presenza, accompagnata da una relazione “calda” con il calcio, garantisce la portata esperienziale di una partita vissuta on the spot a tutte le componenti in gioco. Allo steso tempo però la società ha progressivamente adattato la presenza dei vecchi tifosi alle esigenze di un pubblico più occasionale, rivolto alla partita e all'immediatezza del risultato sportivo, desideroso di

301 REDAZIONE, Ufficiale, nel nuovo stadio della Juventus il problema saranno i tifosi, Senza Soste, on line, 5 agosto 2009. 302 Ibidem. 193 assistere senza eccessive interferenze sia allo spettacolo dei tifosi che alle gesta degli idoli in campo.

Ieri ero allo stadio e vi dico che se si cantava e sosteneva la squadra come al solito li asfaltavamo. Si sentiva la mancanza del 12 uomo. Ero all'ultima fila del primo anello in curva sud e dal secondo anello gli ULTRAS a suon di minacce e parolacce obbligavano a stare seduti e non cantare senza cmq spiegare il perché...Poi verso il 90° ci dicevano di alzarsi e cantare che Noi siamo la curva Sud o che Noi siamo la Juve...Non me la sono sentita e mi sono seduto...Penso che ogni protesta se giusta ha diritto di esistere, ma se veramente si è allo stadio per fare sentire il nostro apporto alla squadra quella di ieri non l'ho trovata una cosa giusta nella prima partita in Champions del Nostro nuovo Teatro del calcio!!! Ieri dopo aver comprato una sciarpa di un noto gruppo della Sud, alla fine della partita se ci fosse stato ancora il banchetto l'avrei restituita...Non vivendo le problematiche della curva non mi sento di andare oltre con i commenti, ma secondo l'umile parere di un operaio che si è pagato i 40 € del biglietto e il viaggio da Bergamo con alti due amici per vedere una grande festa ieri hanno toppato!!!!! Sempre forza Juve.....E la Juve è di TUTTI!!!!!!"(BIRO81)303.

Spero di essere conciso per far capire ai più un po' cosa succede. Lo scorso anno si decide di suddividere idealmente il tifo. Curva Nord agli Juventus Club Doc e a tutti coloro i quali volessero un settore "popolare", tranquillo. Ovvero? Posti assegnati, steward che li fanno rispettare, pochissimi bandieroni, ottima visuale e posti a sedere. Curva Sud ai gruppi organizzati e a tutti coloro i quali volessero un settore "popolare" ma caldo. Chiunque conoscesse un pò queste regole "non scritte", ma sbandierate ai quattro venti da TUTTI, sa che in Curva Sud si sta sostanzialmente in piedi, per cantare e saltare. E si sventolano i bandieroni. Che, parere personale, portano colore ad una curva in festa. Come una bella sciarpata. Lo scorso anno siamo stati, a detta di tutti, avversari e non, il 12 uomo. Quest'estate partono i primi rincari. Leggeri eh, 30 % abbondante nei settori popolari. E le curve come reagiscono? Con il record di abbonamenti...complimenti su

303 REDAZIONE, Tifo Juventus spaccato: obbligati a non tifare? Le due facce della medaglia, Tifobianconero.it, 4 ottobre 2012. 194

tutti i giornali, e tasche piene in società. Bene. Ci si aspetta però almeno il mini abbonamento di Champions. Per venire incontro agli abbonati. A tutti gli abbonati. Invece niente. Singolo biglietto a prezzi oggettivamente alti. La prelazione Champions? 3 giorni. Di cui il primo in concomitanza della trasferta di Londra. Bel modo di venir incontro a chi fa enormi sacrifici per una passione. Da 2 anni l'UEFA obbliga le società a nominare un referente che faccia da collante tra società e tifosi. Per le varie ed eventuali problematiche. Alla Juventus non si sa chi sia. Niente. Male. Prime partite di campionato. Arrivano le prime lamentele in società da parte di abbonati della curva Sud. Si lamentano della scarsa visuale, oscurata dagli orrendi bandieroni colorati. Oscurata dalle persone in piedi sul seggiolino. La società ne parla con i gruppi organizzati , che propone loro di trasferirli in curva Nord. E la Digos sarebbe anche sostanzialmente d'accordo, come SEMPRE fatto. La società nega il permesso. Anzi raddoppia. Niente più bandieroni in Sud, solo uno a gruppo organizzato. Ora, per voi lo so, il bandierone è solo "una bandiera". Invece per i gruppi, è il simbolo da portare con fierezza. Da sbandierare con orgoglio. Molti bandieroni hanno fatto 30 anni di trasferte. I loro buchi, i loro strappi, sono simboli di vita vissuta e di passione per la maglia. È il simbolo. Per noi è il simbolo. Per altri, il simbolo è la maglia del Sidney in curva Sud. Non so se mi spiego la leggera differenza. Ora, arriviamo allo sciopero. La società vuole tutti seduti senza bandieroni? Ok, eccola accontentata. Ed ecco accontentati tutti coloro i quali si sono giustamente o meno lamentati. Volevate un teatro? Eccolo. Con 22 attori e un pallone. Di cosa vi lamentate scusate? Pensate che noi non abbiamo sofferto a non cantare? Quella con lo Shakhtar ERA LA CURVA CHE VOLETE VOI IN SOCIETA'. E DI CHI SI È LAMENTATO CON LORO. Ci chiedete perché con lo Shaktar? Per gli abbonati da 20 anni, non c'è differenza tra Chievo e Shakhtar, nessuna. Per gli occasionali ovviamente si. E ci dispiace amaramente per loro. Ma nessuno ha obbligato a non cantare. Liberi di farlo. Organizzatevi. Da seduti. Senza bandieroni. Tirate fuori la voce. Sarete sicuramente più bravi di noi. Buona fortuna. E sempre Forza Juventus"304.

304 Ibidem. 195

Già dalla prima partita di Champions League vecchie e nuove figure di tifosi hanno così manifestato una convivenza conflittuale all'interno del nuovo stadio improntato al consumo. La materializzazione dello spettro di un tifoso senza qualità che da un lato sembra togliere agibilità a chi ha assunto negli anni il ruolo di portabandiera esclusivo dell’espressione identitaria connessa al proprio club, riafferma dall'altro quel legame inestricabile, nell'immaginario collettivo, tra tifo caldo e successo della squadra, sostegno coreografico e piacevolezza dello spettacolo.

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CAPITOLO IV LIVORNO SIAMO NOI

Nei capitoli precedenti è stato mostrato come il calcio sia soprattutto un rito, una forma di attività collettiva decisiva per il legame sociale, che accoglie e trasfigura significati sociali profondi che rimandano, in ultima analisi, alla messinscena di una battaglia. In questa veste il calcio assume i connotati di un importante fenomeno sociale che mantiene una ritualità popolare e di massa fino agli '80 e si trasforma in conseguenza dell’accelerazione delle dinamiche di valorizzazione economica negli anni '90, puntando alla soddisfazione di un pubblico più selezionato e predisposto al mercato. In virtù di questi cambiamenti muta anche il modello di gestione dell’ordine pubblico e si inaspriscono a dismisura le pratiche di patologizzazione e di repressione del movimento ultras che, a sua volta, vede prevalere al suo interno nuovi aggregati con una fisionomia più incentrata sull’opposizione al «calcio moderno» e alla critica sociale che sul mero sostegno alla squadra e alla contrapposizione all’opposta tifoseria. Considerando il panorama italiano, lo schema appena riprodotto rivela traiettorie interessanti e originali nel caso di Livorno, in particolare se si osserva la ritualità della tifoseria organizzata. Se fino agli anni '80 e per quasi tutti gli anni '90, i comportamenti della tifoseria livornese sono in linea con quelli delle altre realtà nazionali, alla fine degli anni '90 i cambiamenti che interessano la curva rivelano sia aderenza al nuovo modello comune che tratti del tutto inediti. Dentro la curva fa la sua comparsa un nuovo gruppo organizzato che riunisce tutte le realtà precedenti per rispondere a un'esigenza di maggior organizzazione e compattezza interna. Nel nuovo gruppo è presente una marcata soggettività politica, condizione comune a molte città italiane ma espressa a Livorno nel richiamo esplicito al simbolico della sinistra radicale, un'esperienza di assoluta discontinuità in un panorama che rielabora quasi omogeneamente contenuti della destra storica o neofascista.

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A Livorno, inoltre, sembra svilupparsi con maggior vigore l’egemonia dei tifosi sia sul mondo giovanile sia su strati dell’opinione pubblica locale fino al punto di influire su mobilitazioni di taglio antifascista, o comunque di contestazione di natura politica. In questo ambito, la politicizzazione non è provocata da soggettività esterne allo stadio; le aggregazioni calcistiche, un tempo disgregate in diverse nicchie cittadine, si ritrovano ad agire nello stadio in quanto spazio di riferimento della socialità di massa, dove il coinvolgimento assume forme più immediate e intense. Più in generale, le aggregazioni che emergono alla fine degli anni '90 sembrano supplire a bisogni di mobilitazione che non sono soddisfatti dalla normale vita sociale, soprattutto tra i giovani: per questi ultimi, “il gruppo organizzato” attraverso il quale si esprime l’entità ultras (a Livorno, come nelle altre realtà) diventa un laboratorio sociale in cui apprendere alcune regole della società adulta305 e pertanto una “scuola” di valori e pratiche, per lo più oppositiva, attraverso la quale assumere un’identità. L’evento calcistico infatti integra contemporaneamente i partecipanti in un groviglio di realtà simboliche, sociali, politiche ed economiche e ne stimola il confronto coi meccanismi di potere che lo regolano. Il gruppo “ultras” appare così in grado di soddisfare il bisogno di valorizzazione dei giovani in un contesto che porta all'eccesso i tratti identitari. Con le trasformazioni della curva, l'identità del tifoso livornese appare delinearsi attraverso l’assunzione di un simbolico recuperato dalla tradizione politica cittadina operaia e legata al PCI, proprio nel momento di accelerazione del processo di deindustrializzazione e di ulteriore smarcamento dal passato dei partiti storici della sinistra306.

305 SALVINI A., Il rito aggressivo. Dall'aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi ultras, Firenze, Giunti 1988. 306 Una condizione che può essere paragonata all'esplosione di alcune tifoserie nelle città del nord dell’Inghilterra (Liverpool, Leeds, Manchester...) nel momento di maggior evidenza delle conseguenze sociali seguite alla crisi dei comparti economici industriali tradizionali. Per approfondimenti: ROVERSI A., Calcio, tifo e violenza, Bologna, Il Mulino, 1992. 198

Un certo sguardo

A caratterizzare questi mutamenti sono una lunga serie di episodi conflittuali intrecciati ai comportamenti della tifoseria organizzata, che si impongono all'attenzione generale provocando un allarme che investe e travalica i confini cittadini. Alla metà degli anni 2000, in uno dei momenti di maggior tensione tra la curva e i vertici di Questura e magistratura - che sostenevano l'idea di una regia occulta del gruppo ultras principale dietro le azioni di conflittualità più eclatanti in città - è nata l'esigenza di interrogarsi su quell'ambito sociale e in particolare sui rapporti tra stadio e territorio. La mancanza di un'adeguata capacità di lettura dei cambiamenti e delle criticità espresse dalle nuove forme di socialità e aggregazione giovanile afferenti lo stadio e l'assoluta egemonia comunicativa del giornale locale sui processi di narrazione della vita sociale e politica cittadina avevano marcato la necessità di aggiornare lo strumento concettuale con il quale sia le forze politiche e sociali sia la collettività affrontavano un emergente social problem. Una situazione già affrontata nella premessa di questa ricerca: la sfera dell’opinione pubblica e dei media mainstream anche in questo caso occupava un ruolo egemone nella rielaborazione delle vicende calcistiche, mentre raramente le situazioni che avevano come fulcro lo stadio erano trattate da un'indagine in profondità. I fatti di violenza, anche in questo caso, tendevano a inglobare la pluralità di contenuti del fenomeno, trascinando con sé tutte le culture, i codici e le manifestazioni quotidiane dei comportamenti che ruotavano intorno al rito calcistico. Il mio primo approccio con le tematiche di questa ricerca nasce nelle convulse giornate di quel clima emergenziale. L'obiettivo delle mie prime riflessioni puntava a svelare l'effettiva consistenza della denuncia di alcuni meccanismi di prevaricazione che una parte della città, largamente accolta dai media, rovesciava sugli attori principali del tifo livornese, tanto da arrivare a chiedere «il ripristino della sovranità democratica in curva». Una verifica che vagliasse sia i nuovi comportamenti da stadio che le sue rappresentazioni, quantificando le espressioni di conflittualità collegate all'attività dei

199 tifosi, ma valutando allo stesso tempo il peso della retorica della violenza, che come abbiamo visto, si nutre del mito sociale della stessa. Più in generale, e soprattutto per evitare il rischio di essere assorbito da una trattazione che rincorresse esclusivamente le forme di violenza degli ultras, ho ritenuto opportuno convocare la forma del rito in tutte le sue sfaccettature, per un'indagine che accogliesse anche a Livorno, a partire da eventuali conseguenze dovute alle trasformazioni della struttura sociale che abbiamo visto affermarsi in Italia, una mutazione dei legami sociali, dell'estetica della curva, dei conflitti e del rapporto dei suoi protagonisti con i contenuti della “vita seria”. A distanza di anni, l'approccio e alcuni dei contenuti sorti da quell'interesse sono stati ripresi - e in parte ripensati - e sono andati a far parte del lavoro presentato in queste pagine. Il disegno della ricerca sul campo è pertanto un'indagine del rito calcistico a Livorno. Come avevo stabilito da subito, ho confermato il metodo etnografico come strumento più idoneo per elaborare delle risposte plausibili a interrogativi che il terreno stesso, almeno in parte, dovrebbe suggerire. I presupposti che accompagnano una ricerca di questo tipo indicano infatti l'osservazione ravvicinata e il punto di vista degli attori come decisivo e la loro voce come testo primario su cui costruire la descrizione o rappresentazione del loro mondo. É inoltre indispensabile che l’osservatore, per raccogliere le loro voci, si sia reso familiare il loro mondo e sia capace di descriverlo. E' pertanto fondamentale che un soggetto che si avvicina al proprio campo d'indagine sia consapevole di ciò che rappresenta agli occhi degli altri su quel terreno. Un errore di valutazione in tal senso può far decadere il presupposto operativo della ricerca, che prevede, come già evidenziato, che la voce degli attori indagati sia il testo fondamentale dell'analisi.

A Livorno, indubbiamente, mi si presentava una situazione di forte vicinanza al principale contesto d'indagine. Una prossimità che alcuni etnografi considerano un

200 punto a favore in quanto viatico per l'apertura di diverse prospettive di verità307. Seppur non coinvolto nei gruppi organizzati della curva, e quindi consapevole di godere di “una certa distanza” con quello spaccato sociale, per esperienze politiche e legami personali308 ero infatti una figura inserita in quell'ambiente e incuriosita dalle sue dinamiche: ero quindi “già sceso in strada” e avevo già relazioni attive e tendenzialmente positive coi soggetti della ricerca. Occorreva, in tale senso, problematizzare la mia presenza. Nella fase originaria, sottoponendomi in modo del tutto consuetudinario alle situazioni di volta in volta affrontate, ho dedicato ampio spazio all'osservazione del contesto e aumentato la mia presenza in curva e in trasferta e nei luoghi di ritrovo dei soggetti a cui ero interessato, cercando di rilevarne «gli stati interni»: gli atteggiamenti, le credenze, i valori, le intenzioni e i significati riposti nelle azioni309. Il mio sguardo è stato allargato in tutti i sensi possibili e non solo per quanto riguarda la vista: con il termine “guardare” in una ricerca etnografica si intende infatti «la capacità di sentire e di ascoltare, di annusare, di interpretare, di comprendere e anche di patire310». Come già accennato, in questa fase e per tutto il percorso di ricerca, non ho modificato il mio atteggiamento in funzione dell'ottenimento delle informazioni ma ho sicuramente cercato di mantenere salda la cooperazione con i miei interlocutori, cercando di non compromettere le relazioni chiave311 che avrebbero di fatto chiuso un accesso più radicale al terreno di ricerca. Il mio posizionamento è stato vicino a quello dell'osservatore militante312. Si

307 DAL LAGO A., DE BIASI R. (a cura di), op. cit., 2002, p.XI. 308 A causa di questa vicinanza, talvolta, mentre affrontavo con un interlocutore un particolare episodio, mi sono sentito rispondere: “Ma tu c'eri...quindi, posso non andare avanti...”. In quel momento si è presentato il problema di marcare ulteriormente la mia distanza, richiedendo una narrazione articolata che soddisfacesse una sorta di personale doppiezza: da un lato la conoscenza pregressa che favoriva la mia comprensione rispetto al racconto, dall'altro un approccio “spaesato” che suscitasse nell'altro una narrazione puntuale. 309 CARDANO M., La ricerca qualitativa, Bologna, Il Mulino, 2011, p.11. 310 DAL LAGO A., DE BIASI R. (a cura di), op.cit., 2002, p.XII. 311 In pratica, i gatekeepers o le figure del gruppo sociale che rispondono più di altri a criteri di rappresentatività rispetto al problema dell’indagine. 312 «Questa non è ispirata da imperativi ideologici ma "soltanto" dal desiderio del ricercatore di sposare la realtà per svelare la dinamica degli immaginari che sono utilizzati dagli individui o dai gruppi che gli danno corpo, per costruire o decostruire delle norme, degli spazi, dei luoghi, delle iniziative che modellano il nostro ambiente, la nostra storia e dunque i nostri riferimenti». PUCCIARELLI D., Dall'osservazione partecipante all'osservazione militante e viceversa, in Orazio Maria Valastro (a cura di), L'osservazione partecipante, M@gm@ vol.1, n.1 Gennaio-Marzo 2003. 201 tratta di un modello secondo cui l'osservatore studia situazioni sociali di cui fa già parte e gruppi di persone che si trovano già a contatto con lui: non è dunque estraneo al sistema di relazioni sociali che indaga, anzi partecipa attivamente alle attività condivise dal gruppo analizzato. L'appartenenza o meno dell'osservatore alla situazione sociale che intende descrivere è un criterio fortemente distintivo all'interno della ricerca etnografica. Secondo Nadel, l'antropologo è colui che «non fa parte del gruppo che studia; osserva individui le cui motivazioni, pensieri e sentimenti possono differire notevolmente da quelli che gli sono abituali e noti313». Un corpo estraneo, in pratica, che si inserisce in una dimensione in cui non era previsto. L'osservatore partecipante, invece, definito anche (con una lieve sfumatura di significato) osservatore-in-situazione da Cozzi e Nigris314, svolge ricerche su un mondo di cui fa parte e con cui condivide attività ed impegni più o meno regolari. Sicuramente l'osservatore militante ha un punto di vista privilegiato rispetto all'osservatore non partecipante, non tanto per l'accesso alle informazioni quanto per la condivisione di una certa mentalità e di certe dinamiche e l'aderenza che ne consegue. Optando per una ricerca scoperta, ho avuto più possibilità di movimento sul campo, di realizzare interviste formali anche con microfono e registratore315 e di effettuare analisi documentarie senza destare sospetti. L'intervista discorsiva è stata la forma privilegiata di interlocuzione con i soggetti prescelti e in diversi casi ha visto di fronte persone con precedenti occasioni d'interazione, in quanto partecipi del medesimo contesto sociale316. Nello specifico della forma discorsiva ho insistito sul colloquio libero317 e l'intervista

313 NADEL S.F., The Foundations of Social Antropology, Londra, Cohen & West, trad. it. Lineamenti di antropologia sociale, Roma-Bari, Laterza, p.82 314 COZZI D., NIGRIS D., Gesti di cura. Elementi di metodologia della ricerca etnografica e di analisi socioantropologica per il mursing, Milano, Colibrì, p.168. 315 In questo caso nel testo finale ho scelto talvolta di riportare anche le coloriture emotive e le forme dialettali dell'intervistato. 316 Sul tema si rimanda a CARDANO M., op. cit., 2011, p.147-197 317 In questo caso il ricercatore interviene solo per mantenere il colloquio incentrato sul fenomeno che interessa. Ha il vantaggio di non influenzare la risposta dell’informatore ponendolo entro alternative forzate e di permettergli di esprimere qualcosa di nuovo. Per iniziare questo tipo d’intervista il ricercatore può utilizzare una fotografia, un ritaglio di giornale o semplicemente invitarlo a esprimersi liberamente sulla propria biografia, opzione che ho privilegiato nei mie colloqui. 202 tematica318. Ho realizzato circa 35 interviste tra il 2006 e il 2014, concentrate quantitativamente negli anni più recenti. Ad essere coinvolti nell'interazione sono stati, tra gli altri, i protagonisti di spicco della curva del Livorno e di altre tifoserie, calciatori e allenatori di calcio, frequentatori degli spazi sociali, attori politici e dell'associazionismo. Per la stragrande maggioranza di loro si è ritenuto più consono utilizzare l'intervista anonima, anche in virtù di alcune situazioni, oggetto delle conversazioni, non ancora del tutto appianate dal punto di vista legale. Più in generale la metodologia scelta, si è basata su interviste non strutturate, osservazioni dal vivo delle dinamiche sportive (stadio) e politico-sociali (città), storie di vita e auto-biografie scritte e interviste a segmenti qualificati dei mondi giovanili, documentazione storica (siti, fanzine, volantini ecc.) e visuale (film, documentari, video-clip), rassegna stampa.

Il rito d'iniziazione

Il mio ingresso allo stadio “Armando Picchi” di Livorno, uno dei campi prediletti delle mie osservazioni, in ogni caso non coincide con l'inizio della ricerca. La frequentazione dello stadio livornese ha avuto inizio alla metà degli anni '80 e si è sviluppata in modo costante, seppur in spazi e forme differenti, fino ad oggi. Come per la gran parte dei miei coetanei, o più precisamente come la maggior parte dei frequentatori degli spalti, l'ingresso in uno stadio è avvenuto per mano di una figura parentale in età molto bassa. Attingere istintivamente a un'immagine di quello che a tutti gli effetti può essere considerato un rito d'iniziazione319, significa personalmente tornare alle domeniche sportive vissute a fianco di un nonno sardo, nell'isola, nella seconda metà degli anni '80. E questo nonostante nelle mie periodiche visite a Santa Teresa di Gallura, paese turistico

318 In questo caso, il ricercatore ha sotto gli occhi un elenco dei temi oggetto d’interesse e può formulare in modo non rigido le domande, cercando di indirizzare il dialogo su elementi specifici. 319 VAN GENNEP A., Riti di passaggio, Torino, Universale Bollati Boringheri, 2006. 203 che trattiene in Sardegna appena cinquemila anime in inverno per poi accogliere decine di migliaia di visitatori in estate, il malridotto campo sportivo “Tomaso Mariotti” non regalasse che partite di categorie dilettantistiche inferiori e di bassa qualità, il cui unico intrattenimento per i pochi spettatori presenti sembrava quello di ironizzare pesantemente sui giocatori della squadra gallurese e degli avversari di turno. Nella terra di origine della mia famiglia, ben altra cosa erano i derby che si giocavano nella vicina Tempio Pausania, tra la squadra locale e gli acerrimi rivali dell'Olbia. Situato ai piedi del Monte Limbara, Tempio è sede dell'ospedale di riferimento per l'estremo nord della Sardegna e per questo motivo, nelle carte d'identità dei galluresi è frequente trovare come luogo di nascita proprio il paese noto in tutto il resto dell'isola per lu carrasciali di re Gjolgju. Probabilmente è anche per questo motivo che il cuore di tanti teresini, compreso mio nonno - all'epoca comandante della delegazione marittima - battevano per la squadra azzurra e si infiammavano in occasione della visita al “Manconi” dei bianchi. Troppo distante il Cagliari, sia fisicamente - 335 km che al tempo non erano supportati dal breve tratto di superstrada attualmente presente e che impegnavano in quattro ore abbondanti di viaggio - sia dagli ambiti palcoscenici che conquisterà a partire dagli anni '90 con l'avvento dell'imprenditore agricolo Massimo Cellino. La trasferta a Tempio prevedeva un viaggio di circa un'ora e quindici minuti a bordo di una Fiat Uno 127 e una formazione all'evento alquanto sbrigativa che si consumava nei pressi dei cancelli dello stadio con la seguente indicazione di massima: «fijjula e zittu, chi ojji vi n'è di macchi» [trad. guarda e zitto che oggi sarà pieno di esaltati]. Di quelle domeniche permane il ricordo di un'atmosfera particolarmente sovreccitata tra i gradoni della tribuna unica dove i tifosi non organizzati delle compagini, arrivati in massa dai paesi limitrofi, seguivano in modo esasperato i ventidue giocatori contendersi in un campo di terra il più importante derby regionale del girone. Le due partite a cui presi parte terminarono a reti inviolate e furono caratterizzate da una bassissima fluidità delle azioni, compromessa dalla grande carica agonistica delle squadre, più impegnate a render conto del proprio attaccamento alla maglia che a sviluppare un'idea di gioco.

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Trascinati dall'atmosfera del derby e contenuti a fatica nelle anguste tribune del “Manconi” gli spettatori non mancavano mai di passare dai vivaci confronti verbali alle risse vere e proprie, che l'indomani si ritagliavano non più di un trafiletto nell'edizione della Nuova Sardegna, tanto sembravano così scontate e parte integrante del rito del derby. I sommovimenti della tribuna sembravano infastidire solo in parte mio nonno, e non tanto per il cattivo spettacolo offerto agli occhi di un bambino - verso il quale riservava un breve commento di censura - quanto per la perdita di attenzione alla partita che provocava quel continuo sbracarsi del pubblico.

Una domenica all'Armando Picchi nei “lunghi” anni '80

L'ingresso all'Armando Picchi avviene negli stessi anni e con dinamiche decisamente simili, ma stavolta è mio padre ad introdurmi per la prima volta nel “catino” livornese. Beneficiando per qualche anno di un abbonamento omaggio di un collega di lavoro non attratto dal calcio, mi accompagnava ogni domenica sulle gradinate dello stadio ardenzino320 dove la squadra amaranto si alternava tra i campionati più bassi delle serie professioniste. Per entrambi la frequentazione dell'Armando Picchi era uno dei modi per socializzare con il tessuto urbano cittadino, una pratica non difforme a quella della numerosa classe operaia immigrata a Livorno alla fine dell'Ottocento, che trovò nella compagine labronica uno strumento di ricomposizione sociale e di ridefinizione di un'identità. Come ricostruisce Sanacore:

Stringendosi attorno alla squadra, che difendeva e diffondeva il nome della città, questi operai si sentirono “livornesi” al pari della borghesia, che era in quel momento il gruppo sociale più omogeneo e di più antica origine. In particolare il calcio interessò i giovani di seconda generazione, i figli degli immigrati a Livorno negli anni Ottanta, che sentirono più forte la necessità di acquisire quest'identità etnica, e l'entrata nel “mondo del pallone”

320 Ardenza è il quartiere a sud della città in cui sorge lo stadio. 205

risultò essere uno dei più divertenti e meno impegnativi modi fra tutti quelli possibili di costruzione di questa etnicità321.

Al di là del successo in Coppa Italia di nella stagione 1986-87 e dell'esordio del diciottenne , che sarà un protagonista assoluto della storia calcistica amaranto nell'ultima parte della sua carriera, a livello sportivo furono anni prevalentemente bui. Dopo essersi salvato all'ultima giornata nel campionato 1987-1988, il Livorno arrivò ultimo nel disastroso campionato seguente - maturando la retrocessione in serie C2 - e subì l'onta di due fallimenti consecutivi nel '91 e nel '92 che relegarono la squadra fuori dai campionati professionisti, costringendola a ripartire dall'Eccellenza. L'andamento altalenante della squadra non scoraggiava però il seguito dei tifosi. Nonostante le categorie, lo stadio superava puntualmente le 10.000-12.000 presenze, e i numeri della tifoseria si distinguevano oltremodo durante le trasferte decisive della stagione, consuetudine che negli anni varrà ai seguaci amaranto l'appellativo di “stadio mobile”. Il richiamo alla partita domenicale era in parte alimentato dalla presenza di numerosi derby regionali. Ne ricordo uno in particolare. Era il 14 marzo 1988 e il Livorno ospitava la Lucchese. La società aveva disposto la giornata amaranto, un turno di campionato fuori abbonamento al fine di incrementare gli incassi di giornata. Anche gli abbonati pertanto erano tenuti a pagare il biglietto. Dopo qualche momento di esitazione, a malincuore, mio padre protese la testa nell'arco del botteghino, allungò i soldi per l'ingresso ed entrammo. Il risultato finale non lo appagò minimamente: «16.000 lire per un 0-0». Al contrario, ricordo la mia curiosità per i tanti rituali che scandirono quella domenica. L'ingresso dei calciatori accompagnato dall'inno della squadra di casa e contemporaneamente dal gesto di un tifoso che scorgevo in curva nord e che spalle al campo dava il via a un fitto lancio di rotoli di carta igienica che componevano una semplice ma efficace coreografia. Dall'altro lato, un centinaio di tifosi lucchesi sistemati

321 SANACORE M., Il pallone i livornesi: appunti per una storia sociale del calcio dalle origini al quasi-scudetto, Livorno, Belforte & C. Editori, 2001, p.214. 206 in curva sud avviavano un frenetico sventolio di bandiere rossonere e il loro impatto sembrava valere ben più del loro numero effettivo. Striscioni provocatori, canti incessanti, fischi e offese alimentavano una tensione generale che anche nel nostro settore sembrava moltiplicata rispetto alle occasioni precedenti. La curva nord era l'elemento trascinante del tifo ma al suo interno l'azione non si svolgeva in maniera compatta. A movimentare quell'arco fitto di tifosi era soprattutto un “cucuzzolo” centrale dove i tifosi erano più ammassati che nel resto del settore; là era posizionata una fila di tamburi dietro i quali non di rado i presenti si sbracciavano per coinvolgere il resto del settore, organizzavano dei battimani in sincrono, saltellavano tenendosi abbracciati. Era in quel lembo di stadio che evidentemente si trovava il principale trascinatore della contesa domenicale. Fuori dall'impianto, come riportano le cronache, non fu una domenica tranquilla sul fronte dell'ordine pubblico:

A parte il lancio di qualche grosso petardo dei rossoneri e cori offensivi, niente di particolare dentro lo stadio. Tutto è degenerato quando i lucchesi, sotto scorta, si dirigevano verso la stazione di Ardenza: molti Ultras labronici, in ricordo dell'andata e delle provocazioni odierne, inseguono il corteo lucchese. Una prima sassaiola, a meno di 100m dallo stadio, con polizia e carabinieri che caricavano i livornesi per non farli avvicinare ulteriormente. Ma nei pressi della “Vannucci”, in piazza di Ardenza e lungo la strada della stazione i lucchesi vengono raggiunti da un fitto lancio di pietre. Qui vengono feriti altri 3 agenti e 3 civili: un 37enne livornese colpito da un mattone alla fermata dell'autobus, un 21enne di Venturina e un 16enne livornese colpiti dai manganelli della polizia...Qua vengono portati in Questura e denunciati 3 livornesi per lesioni aggravate (ferimento di un poliziotto) e lancio di pietre, oltre a un lucchese (detenzione di un petardo). La sassaiola più violenta alla “Vannucci”, ma presso lo “Zio Popi” gli scontri più “lunghi” con le forze di polizia che non riuscivano a far proseguire il corteo lucchese e caricavano con decisione i livornesi. Poi i lucchesi saranno scortati fin sui binari e verranno sgombrati tutti i passaggi a livello tra Ardenza e la città, dove erano “appostati” gruppi di livornesi ad attendere il treno. Qualche pietra arriverà comunque a colpire il

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convoglio che trasportava i rossoneri, con alcune auto delle polizia presenti per far sgombrare con la forza i passaggi a livello... 322

Ricordi personali e memorie di altre tifosi introducono il clima delle domeniche allo stadio negli anni '80, in una “piazza” già movimentata dalla presenza di gruppi ultrà. Una breve ricognizione storica ci ricorda infatti che l'esordio del tifo ultrà a Livorno si attesta nella stagione 1974/75, quando un gruppo di ragazzi decide di confezionare lo striscione Livorno Boys Club e “movimentare” il pubblico della gradinata. Il trasloco dei “Boys” in curva nord e la comparsa del primo gruppo arrecante la scritta “Ultras” nel 1976 darà un'impronta leggermente più coesa al tifo e a un pubblico già molto caloroso. In questi anni la curva accoglie nuovi gruppi, tra cui “Fossa”, nato da un distaccamento degli “Ultras”. Tra i tifosi più attivi del gruppo “Fossa” (ma che in seguito sceglierà di entrare a far parte degli “Ultras”) c'è M.G., oggi cinquantenne e ancora abbonato in curva nord, che ha attraversato per intero i primi decenni del tifo organizzato livornese:

Eravamo molto giovani, io appena quattordicenne. Il modello dei neonati “Ultras” erano i tifosi della Fiorentina. Gli organizzatori erano una cinquantina, ma ci muovevamo in molti nonostante la categoria (la serie C, n.d.A.). Non esistevano capi, ma semplicemente personalità più carismatiche, i cosiddetti trascinatori, ossia quelli che ci dedicavano maggior tempo, oppure i fondatori. Ci chiamavano “argentini” ai nostri tempi, perché le forze dell'ordine diventavano matte con noi livornesi: senza veri comandanti non avevano referenti.

In questi anni un coordinamento non invasivo organizza gli appuntamenti domenicali interni e cerca di tenere unito l'aspetto vocale e coreografico. All'epoca lo spazio d'azione degli ultras è duplice: oltre ad essere impegnati sulle gradinate della curva,

322 Max, La mia curva. Storie di tifo amaranto, Livorno, Editrice Il Quadrifoglio, 2001, p. 65. 208 frequentano il e sono i protagonisti del tifo della P.L., squadra di basket cittadina.

Di solito facevo il doppio turno: prima andavo allo stadio, poi al basket a vedere la Pielle. Andavo coi miei compagni di classe e con i miei amici di piazza XX Settembre. Ho iniziato così a frequentare la curva323.

I protagonisti dell'epoca raccontano un rituale domenicale fortemente popolare, «un luogo di aggregazione che metteva molto a proprio agio perché si arrivava allo stadio con conche di pasta fredda, fiaschi del vino, tamburi, etc. Era una cosa molto gioiosa324». Accompagnato dal padre, G., approda allo stadio in concomitanza con la nascita dei primi gruppi ultras, per poi frequentare autonomamente la curva già dai primi anni '80. Ci conosciamo da tempo e durante una serata al Bar Sirena, per anni storico ritrovo dei tifosi amaranto in occasione delle gare casalinghe, mi aiuta a ricostruire la socialità turbolenta della generazione che negli anni '70 darà vita al movimento ultras, incontrando momenti significativi e discontinuità fino alla svolta degli anni '90.

La prima volta che sono entrato allo stadio ero con mio padre, che mi portò direttamente in curva. Ricordo che stetti tutto il tempo a fissare gli striscioni, e in particolare fui colpito da quello che recitava “Fossa della Morte”. Intorno ai dodici anni cominciai ad andare da solo e a frequentare gli Ultras, all'epoca diretti da G.. Uno dei primi striscioni ad essere confezionati recava la scritta “Ultras” con il simbolo di Che Guevara, ma la Questura dette disposizione di rimuoverlo: eravamo alla fine degli anni '70 e il clima non favoriva esibizioni di quel tipo. Il simbolo fu sostituito dal mostro degli Iron Maiden raffigurato nell'album “Killers”. La generazione che ha fondato il movimento ultras a Livorno viveva in una città fortemente ridotta rispetto a quella attuale: il centro cittadino finiva in piazza Roma; non

323 Intervista a Luca, in RICCI F. (a cura di), Ultras stile di vita, Livorno, Vittoria Iguazu Editora, 2012, p. 12. 324 Ivi, p.14. 209 esistevano ancora quartieri come Salviano e La Leccia, mentre La Rosa e Coteto erano in costruzione. Io venivo dal quartiere popolare Corea, abitavo in un minuscolo appartamento con il bagno in cortile. Livorno era la seconda città per numero di tossicodipendenti in rapporto agli abitanti, la prima era Sarzana. Eravamo una generazione senza pretese economiche e ci muovevamo in una città più stretta di quella attuale ma con 20.000 abitanti più: questi aspetti hanno favorito una maggiore concentrazione e conoscenza tra gli abitanti e ne hanno favorito la solidarietà reciproca. Tra i miei coetanei c'era tanta rabbia per la mancanza di opportunità e questo rafforzava i legami di quartiere: in ognuno si formavano delle bande che durante le occasioni sportive o di socialità collettiva si affrontavano. All'epoca ci entusiasmavamo per le gare remiere, frequentavamo più il palazzetto di basket che lo stadio e ogni giovedì era immancabile l'appuntamento all'ippodromo per le corse dei cavalli dove nel sottopassaggio scoppiavano puntualmente le scazzottate tra bande. Lo stadio era uno dei punti di ritrovo, ma ha cominciato ad avere una sua centralità ultras solo dopo la partita di coppa Italia Pisa-Monza del 1 agosto 1991 che il presidente Anconetani aveva insistito nel voler far giocare a Livorno, visti i continui problemi di illuminazione dell'Arena Garibaldi. Ci eravamo radunati in meno di cento intorno allo stadio, perché comunque quel gesto ci parve una mancanza di rispetto per la nostra città. A un certo punto partì una bomba molotov all'indirizzo del corteo dei pisani e da lì delle cariche violentissime dei carabinieri, che pestarono chi c'era usando il calcio dei fucili. La voce delle violenze dei carabinieri si diffusero rapidamente in città e allo stadio accorsero quasi settecento persone: ci furono ore di guerriglia urbana e feriti gravi tra i livornesi. Da quel giorno credo sia scattato un maggior senso di appartenenza allo stadio, dovuto alle ferite fisiche e morali subite. Un rafforzamento identitario a livello specificatamente ultras aveva cominciato a maturare già con la nascita del gruppo North Kaos nel 1990. Tra loro c'erano elementi che avevano conosciuto realtà più formate della nostra, e importarono uno stile all'inglese. Fecero uno striscione tutto ben curato che inaugurò l'obbligo di schierarsi obbligatoriamente alle sue spalle, produssero sciarpe, e lanciarono cori originali. In ogni caso, le occasioni per dare visibilità alla curva furono scarse, fino almeno al 1993. In quei decenni, penso di aver contato sulle dita della mano le tifoserie che si affacciarono 210

sugli spalti del nostro stadio. In quell'anno, oltre a riempire come di consuetudine la curva, ci furono delle trasferte più partecipate, anche perché c'era una società più solida alle spalle e la fiducia dell'ambiente era maggiore. Intanto gruppi nuovo nascevano, ma si trattava di aggregazioni che dietro lo striscione raccoglievano una manciata di partecipanti. A mio parere uno dei gruppi che cominciò a mettere in crisi l'egemonia degli Ultras Fossa fu il gruppo “Magenta”. Raccoglieva soggetti cresciuti nella piazza omonima, persone con vissuti particolari alle spalle e capaci sul piano dello scontro: profili che in curva sanno farsi rispettare. All'epoca piazza Magenta era un riferimento e cominciava ad essere uno spazio di mediazione dei conflitti tra le varie bande di quartiere. Si cominciava ad intravedere una forza giovanile inespressa che poteva essere messa a frutto solo se amalgamata. Da lì la realizzazione di pullman autonomi per le trasferte e i primi conti in tasca ai responsabili del gruppo principale che dichiaravano spese evidentemente troppo superiori a quelle sostenute dal nuovo gruppo. Cominciarono a sorgere malumori, poi col tempo, e grazie in particolare all'intelligenza di una persona e alla sua lungimiranza nacque l'idea di fare un fronte comune. Si tratta di una persona con una frequentazione attiva nei centri sociali e anche per questo motivo, rispettata e ascoltata.

Un gruppo con caratteristiche particolari, che sembra riportare allo stadio la condizione generazionale di una percentuale non indifferente di giovani cresciuti a cavallo tra gli anni '60 e '70, è quello dei “Fedayn”. Gruppo giovane, formato nel 1983 su legami di quartiere, coscientemente inadatto a qualsiasi tipo di disciplina suggerita dai gruppi principali e caratterizzato da accentuati tratti delinquenziali325, irrompe nello stadio con uno stile che richiama le firm inglesi. B. ha seguito il gruppo nel suo primo periodo, per poi lasciare all'indomani di un arresto, ma ancora oggi, con un orgoglio malcelato, ricorda che i Fedayn sono una “creatura” nata nel suo garage.

325 «Non è vero che essere ultras equivale ad essere delinquenti. Anch’io sono stato e mi sento tuttora ultras e non ho mai spaccato, rubato. Ci hanno accusato di non essere mai stati in grado di arginare il teppismo. Facevamo di tutto per impedirlo, ma quando ti trovi 2mila persone in un treno puoi beccare dieci bimbetti, tutti gli altri come fai?» mi aveva confessato M.G. 211

Eravamo una cinquantina di ragazzi che stazionava in via Montelungo a qualche centinaio di metri di distanza dallo stadio. Tra questi, 25 fondarono i Fedayn. Esisteva già un gruppo in Italia che portava quel nome, era nato nella curva Sud della Roma. Uno del nostro gruppo decise di incontrarli, e così io lo accompagnai. Viaggiamo in treno, di notte, poi lui andò allo da solo, raccontò la nostra storia ed ebbe il permesso per esporre lo striscione. All'inizio partecipavamo solo alle trasferte e quando il Livorno giocava in casa andavamo a ballare all'Atleti [discoteca nei pressi dello stadio, aperta solo la domenica pomeriggio]. Eravamo molto giovani, tra i 16 e i 17 anni. Volevamo un gruppo ristretto, che per qualcuno aveva delle finalità economiche: c'era tanta tossicodipendenza all'epoca e qualcuno si comprava la roba spacciando in trasferta. La curva era in mano agli Ultras che erano tantissimi e sopratutto partecipavano in massa alle trasferte, all'epoca piuttosto vicine, per cui si muovevano anche 2-3000 persone. Noi però non ci sentivano di unirci a loro, eravamo un'altra generazione, volevamo essere autonomi. Tifavamo solo in trasferta dove si facevano cori solo per il nostro gruppo. Quando si giocava alle 15, gli altri arrivavano nella città ospite due ore-due e mezza prima della partita, noi dalle 8.30 eravamo già in giro a devastare tutto, rubare e provocare la polizia. Avevamo cominciato sfidando i militari a Livorno, chiamandoli fuori dalle caserme. A noi interessava quello. In trasferta capitava di ricongiungerci al corteo degli Ultras che solitamente ci accoglieva e ci buttava nel mezzo per proteggerci, mentre la tifoseria avversaria e la polizia ci davano la caccia. In questo modo, affrontando gli avversari, provando ad entrare nelle loro curve, sfidando la polizia, ci siamo guadagnati il rispetto dei più vecchi. Allo stadio non si pagava mai, a Livorno l'ingresso era come la porta di casa, entravi e uscivi a piacimento, fuori se c'erano problemi si sfondava. Eravamo un gruppo di sbandati, qualcuno era senza una lira, altri senza una casa e infatti c'era persino chi dormiva nel mio garage. Per iniziare ci eravamo finanziati con un grosso furto. Ci trovavamo ormai alle spalle gli anni '60 e '70 che per Livorno non furono facili economicamente e si era entrati in una fase di pieno consumo: negli anni '80 questa città scoppiava di soldi, era la città dove per comprarti un paio di scarpe dovevi fare la fila fuori dai negozi. Il problema è che noi da quel benessere ci sentivamo esclusi. Io mollai prima degli altri. Fui arrestato

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a Pontedera. In Questura mi massacrarono di botte, ma fui rilasciato già dalla sera perché ero ancora minorenne. E da quel giorno smisi. Perché? Mi interessava più la fia.

Giorni dopo questa conversazione, ho incontrato nuovamente B. Era incerto, a differenzia mia, sull'utilità del suo racconto. «Non capisco cosa tu ci possa tirar fuori. Se ci ripenso ora, sono anni dove mi verrebbe da dire che, politicamente, avevano vinto loro». B., quasi scusandosi dello scarso spessore politico della sua storia – avrà una tarda autoformazione politica in omaggio al padre, un comunista eretico espulso dal PCI negli anni del realismo togliattiano e punto di riferimento per i nuovi movimenti degli anni '00 – ha indirettamente confermato un dato: il clima di depoliticizzazione e di riflusso di una parte non marginale della sua generazione. Una conferma di quanto sintetizzato in modo “colorito” da B., arriva da L., uno degli animatori della sinistra extraparlamentare a Livorno, fondatore di un piccolo gruppo afferente all'Autonomia Operaia.

Ho fatto poca politica negli anni ’80, anche perché c’era molto poco. Era attiva un po’ l’autonomia, ma erano pochi e non contavano. Si fece una rivistina ma arrivò subito la denuncia per stampa clandestina. Si trattava per lo più di gruppi di amici. Le cose iniziarono a cambiare con l’occupazione di Villa Sansoni nel’88, anche se il movimento spazi sociali era già attivo da almeno due anni. C’era una scena musicale, con alcuni gruppi punk, tra cui Bobo Rondelli [un noto cantautore di origini livornesi]. Qualcosa di politico lo portava avanti Democrazia Proletaria, mentre si può dire che non c’era un movimento negli anni ’80, ma non solo a Livorno. Veniva a mancare anche il luogo dove trovarsi perché non eravamo più a scuola dove perdemmo anche l’egemonia: l’I.T.I. che era un covo di rossi, nel giro di due anni diventò un covo di ciellini. Dipendeva molto dalle persone, che solitamente formavano altri per garantire continuità. Successe anche con me che di fatto non lasciai nessuno, perché mi affidai a una tipa che poi però si trasferì.

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T. è uno tra quelli che subentrerà al gruppo “Fedayn”: operaio e oggi attivo a livello sindacale, sarà coinvolto negli anni 2000 nei processi di ristrutturazione del bacino della cantieristica. Le sue parole confermano il pullulare di gruppi in curva nord, ne spiegano la genesi e accennano ai cambiamenti che di lì a poco condizioneranno il decennio successivo.

Quando ho iniziato io c’erano gli Ultras e i Fedayn e poi qualche altro striscione: Boys, Sezione 22 aprile326, ma il pezzo nel mezzo era occupato dagli Ultras. Prima della fine degli anni '80 sono stati ritirati fuori i Fedayn che all’inizio si erano un po’ sparsi per varie problematiche, mentre gli Ultras cominciavano a calare. Poi sono nati altri gruppi: Gruppo Autonomo, North Kaos, Magenta, Sbandati. Era l’amicizia che formava i gruppi. Ci trovavamo allo stadio tutti insieme ma ognuno aveva il suo striscione e la curva non era organizzata ed infatti abbiamo subito tanti arresti perché non c’era un coordinamento, ognuno faceva cosa gli pareva, non pagava il biglietto, spaccava i treni...situazioni che ci hanno portato un sacco di guai.

Come nel resto d'Italia, l'inizio degli anni '90 sono il periodo di punta per la generazione dei primi ultras amaranto, affiancati ora da una miriade di gruppetti, formati per la maggior parte da compagnie di quartiere. Gli scatti dell'epoca inquadrano al centro della curva lo striscione “Ultras Livorno” sul quale spicca il simbolo del Che Guevara.

La politica nello stadio c’è sempre stata, non solo a Livorno, dove l’abbiamo sempre pensata, e continueremo a pensarla, sempre in un certo modo. “Bandiera rossa” o altri cori li cantavamo solo quando venivano, una volta ogni tanto, gruppi importanti spiccatamente schierati a destra che a quei tempi, in quella categoria, erano difficili da trovare. Ma era un modo diverso di fare politica, meno marcato, sia a destra che a sinistra. E la politica, in curva, era al servizio dell’essere ultras, non viceversa.

326 Lo striscione riporta la data della vittoria a Pisa del 1979 con rete di Miguel Vitulano, un attaccante entrato nel cuore dei tifosi per il suo spirito di sacrificio e attaccamento alla maglia, nonché per la rete decisiva nel derby. 214

Come conferma M.G. la riproduzione di un simbolico politico dà respiro anche in curva a un sentire cittadino schierato a sinistra. Sulla stessa linea di pensiero è Omar, all'epoca giovane tifoso di curva e oggi sindacalista di base ed elemento di spicco del movimento politico cittadino.

Ai tempi che ho iniziato io non c'era la politicizzazione organizzata. Ai miei tempi (primi anni '90) c'era Che Guevara come simbolo dato dalla tradizione livornese di sinistra. Era un'appartenenza più simbolica e sui temi politici c'era un'impostazione della curva più improvvisata327.

Omar, oggi quarantenne, è un rappresentante della generazione entrata in curva negli anni novanta, quella in cui Paolo, suo coetaneo, anch'egli tifoso non ultras, ricorda la curva del Livorno come «colorata, potente e partecipata». Paolo partecipa alle trasferte più significative dell'epoca (Ferrara, Perugia, Cesena) e snocciola numeri impressionanti di partecipazione: «Eravamo nell'ordine delle 5-10-20 persone. Il fenomeno tifo a Livorno era un fenomeno da rotocalco nazionale. Tutti ci invidiamo e osannavano328». Un rituale imponente in una città che fino alla fine degli anni '90 non regalava ulteriori spazi di aggregazione. Omar la ricorda così:

A quei tempi andavo al bar dello stadio: andare lì durante la settimana e in curva la domenica era l'unico diversivo. Come indole mi è sempre piaciuto stare in mezzo al casino, alla gente. Fin da piccolo ero un osservatore incuriosito delle masse. In quegli anni, tutti finivano allo stadio. Ai miei tempi c'erano meno distrazioni, i giovanissimi passavano le serate a fare le “motorinate” al luna-park e qualche atto vandalico. Ricordo che c'era un pub in tutta Livorno. Andare allo stadio era l'unica distrazione, a Livorno non c'era una discoteca, non c'era un'iniziativa. Mi ricordo solo le discoteche sui bagni d'estate. A quell'età cerchi un'identità, il gruppo. Quando andavi in giro era il gruppo che

327 Intervista a Omar, in RICCI F. (a cura di), op. cit., 2012, p.72. 328 Intervista a Paolo, in RICCI F. (a cura di), op. cit., 2012, p.45. 215

andava allo stadio. Entravi in Piazza Attias e ti rispettavano. A quei tempi c'erano più gruppi frammentati che andavano in trasferta, era più informale, ognuno faceva il suo volantino e lo attaccava da Wympy (bar del centro cittadino, n.d.A.)329.

Con l'incedere degli anni '90 le intemperanze negli stadi si registrano con una frequenza maggiore e anche le forze di polizia assumono una centralità nei conflitti domenicali. Gli ultrà del Livorno, dopo anni di silenzio, si trovano coinvolti in episodi che incontrano l'interesse delle cronache nazionali. E' il caso della trasferta a Pontedera del 1993 che ha coinvolto 4.000 livornesi. I quotidiani registrano tre ore di violenti scontri con la polizia, guerriglia per le strade della cittadina e sul treno di ritorno, decine di feriti, un arresto, due minorenni denunciati e altri 15 tifosi identificati, danni alle auto e un treno devastato. Una situazione che crea tensioni anche a livello istituzionale dove si verificano reciproche accuse tra i sindaci di Livorno e Pontedera e costringono il Questore a intervenire e a smarcarsi dall'operato di alcuni reparti celere.

[…] c'è tanta rabbia tra gli ultrà del Livorno, si sentono vittime di ingiustizie e persecuzioni e dicono: “Ci hanno massacrato di botte, e lo hanno fatto in maniera premeditata. Forse non ci hanno perdonato gli striscioni contro Pontanari 330. Negli anni scorsi non abbiamo creato problemi e così pure all'inizio stagione, eppure siamo andati in tante trasferte in paesini con quattro carabinieri o, ad esempio l'anno scorso a Voghera in 4 mila. Non siamo stinchi di santo ma neppure teppisti”, proseguono: “Sei domeniche fa di ritorno da Poggibonsi, qualche imbecille ha tirato il freno di emergenza nella stazione di Empoli, era presente un reparto celere che aveva fatto servizio d'ordine a Empoli- Alessandria, ci caricarono subito con incredibile violenza, entrarono negli scompartimenti, picchiarono ragazzi e ragazze. Il treno ripartì e arrivammo a Pisa pesti e rabbiosi. Qui sono accaduti altri scontri. Da quella domenica quel reparto celere è

329 Intervista a Omar, in RICCI F. (a cura di), op. cit., 2012, p.72. 330 Il 20 aprile del 1993 il poliziotto Flavio Pontanari uccide a Livorno, con un colpo di pistola all’addome, il giovane Maurizio Tortorici, caduto dalla moto, dopo che non si era fermato all’alt della polizia. 216

diventato il nostro incubo, ormai li conosciamo tutti uno per uno, e anche loro conoscono noi, ci aspettano, ci provocano, ci deridono, non vedono l'ora di picchiarci. E' successo ancora a Montevarchi, e infine a Pontedera, e sul treno. Ci hanno caricato con rabbia offendendoci, dicendoci che ce l'avrebbero fatta pagare, noi eravamo barricati . Guardate i finestrini del treno non li abbiamo infranti noi, ma loro con il calcio del fucile e con le sassate sono tutti rotti dall'esterno”. E il treno distrutto? “Eravamo a mai nude, i pezzi delle suppellettili servivano a difenderci”. E se la polizia a Pontedera non ci fosse stata? “Un po' di casino lo avremmo fatto, ma niente di diverso dalle solite scaramucce, del resto io con decine di ragazzi sono uscito senza alcun controllo dallo stadio, i poliziotti erano tutti impegnati sotto la gradinata, noi siamo andati al centro. Vito Plantone, questore, dice che non è intervenuto sempre lo stesso reparto celere. Del resto a Livorno i rinforzi sono intervenuti solo in un paio di occasioni più calde. Quello che succede fuori dal suo territorio non è di sua competenza, cercheranno di fronteggiare ogni possibile evenienza331.

Polemiche altrettanto forti seguirono la trasferta di massa dei tifosi livornesi a Perugia, in occasione della finale play-off del 1998, anch'essa carica di strascichi per il comportamento giudicato “fuori controllo” delle forza dell'ordine. Il brano che segue riporta la testimonianza di Alessandro Baldi, all'epoca membro dell'Unione Comunale dei Democratici di Sinistra.

Non è accettabile che per pochi sconsiderati le forze dell'ordine abbiano avuto reazioni così forti e provocatorie, colpendo anche chi non ci entrava per niente. I fumogeni lanciati fra la gente o sulle vetture, le cariche sulle persone che hanno coinvolto anche coloro che si trovavano all'interno delle vetture sembravano proprio solo inutile e gratuita cattiveria. Anzi sono atteggiamenti e metodi che poi giustificano la reazione dei cosiddetti Ultras, i quali peraltro non sono gli hooligans inglesi. Vorrei chiedere al questore di Perugia (anche in occasione di Perugia-Torino furono dati gli stessi ordini) che ordini avrebbe dato se si

331 DONNARELLA L., Domenica bestiale, Il Tirreno, 15 dicembre 1993. 217

fosse trovato a Marsiglia a fronteggiare veramente gli hooligans. Sono atteggiamenti di una vecchia, vecchissima polizia che non vorremmo più vedere nei nostri stadi e nelle nostre città. Infine, un grazie a tutti coloro che sono andati a Perugia. Un particolare ringraziamento ai mitici della Curva Nord per come hanno sostenuto la squadra tutto l'anno e per l'affetto dimostrato ai colori amaranto332.

Sul finire degli anni '90 qualcosa all'interno della curva sembra sgretolarsi. Ognuno si organizza per conto proprio, non c’è unità e la curva, seppur al completo, non viaggia in sintonia: ognuno uno striscione, ognuno un coro.

Una situazione grottesca, priva di punti di riferimento: i più “vecchi” erano stufi e non c’era la minima organizzazione. I vari gruppetti facevano il loro pullman per le trasferte e chi rimaneva fuori s’arrangiava, salvo poi essere rincorso e supplicato per le trasferte più lunghe, dove si faticava a riempire i mezzi e non ci si rientrava coi costi. C’erano brutte abitudini, come quella di non far montare i “bimbetti” sul pullman, di non pagarlo, di mancare profondamente di coerenza e mascherarla col discorso di essere anarchici. I “vecchi” contavano e non pagavano, ma non facevano più attività, nemmeno il tifo, delegato ai giovani che non ricevevano comunque una grande considerazione. I migliori della vecchia generazione si erano, per un motivo o per l’altro, allontanati, ma ricomparvero poi e parteciparono alla nascita di un nuovo gruppo.

Le Brigate Autonome Livornesi

Dopo vent'anni di movimento ultras anche a Livorno arriva il momento del confronto tra vecchie e nuove generazioni. Le accuse ai gruppi originari sono le medesime che, come visto in precedenza, hanno contribuito a rompere gli equilibri in piazze come Roma e Genova. Gli “anziani” esigono rispetto per le tante stagioni in prima linea che

332 Lettera firmata, In ventimila a Perugia e una partita «strana»: riflessioni di un tifoso Un grazie al pubblico ma non alla polizia, Il Tirreno, 21 giugno 1998. 218 hanno segnato i primi decenni della storia degli ultras a Livorno; le nuove leve, ormai cresciute, accusano chi le ha precedute di svernare sul proprio prestigio ma di non essere più all'altezza del ruolo e delle sfide che stanno maturando nel mutato movimento ultras. L'accusa che farà scattare una violenta resa dei conti, è quella che vuole “i vecchi” lucrare sulla curva. Le parole di M.G. raccontano il passaggio di consegne tra generazioni.

Si è affacciato questo nuovo gruppo, ha fatto valere la logica del più forte dal punto di vista militare ed è entrato al posto nostro. Andò così: uno di loro aveva un pub e una sera mi presentai da lui con G., ex capo degli Ultras ’76, ma quando entrai mi fu detto che avrebbe ragionato con me ma non con lui. Accettai a malincuore. Mi proposero la realizzazione di un gruppo unico per rendere maggiormente coesa la curva ed evitare la proliferazione di mille gruppetti in curva il cui unico risultato era quello di farsi rubare gli striscioni come avvenne per “100% Livornesi” (rubato a Pontedera nel ’93 dai pisani, trasferta di cui è parlato in precedenza, n.d.A.). Io mi mostrai d’accordo, perché in un certo senso era quello che anch’io auspicavo da anni. Dei 6 gruppi, quelli che all’epoca dei fatti erano presenti in curva Nord, sarebbe dovuto uscire un direttivo con un responsabile di ciascun gruppo: una cosa democratica, da “compagni”. Loro mi risposero ok, ma non volevano che ci fosse G. Io ribattei che il rappresentante degli Ultras ’76 sarebbe stato eletto da una democratica votazione e che loro non avrebbero potuto metterci bocca. Finì lì. Votarono me e un altro ragazzo. Io lasciai la delega a lui perché più giovane, ma quando andammo a riferire l’esito delle votazioni ci fu risposto che loro avevano già deciso per noi, semplicemente perché 4 dei 6 gruppi, quella che loro definivano la maggioranza, volevano che fosse eletto un rappresentante degli Ultras ’76 che potesse garantire un nuovo corso al fianco del nuovo gruppo. Qualcuno, quindi, che fosse d’accordo con la linea di far fuori il gruppo dirigente che fino a quel momento aveva governato la curva. E questo sarà – mi dissero – con le buone o con le cattive. Ovviamente fu scontro. Era Livorno-Alzano, lo spareggio play-off e noi eravamo pronti al peggio. Ci attaccarono da tutti i lati e pur non riuscendo a rubarci lo striscione ce ne dettero ‘abbastanza’. Io addirittura volai di sotto. Di 70 che eravamo rimanemmo in 12. 219

Nessuno se la sentiva più di continuare questa guerra assurda e spietata. Chi aveva famiglia, chi un’attività come me…Insomma, fu così che la curva acquistò una nuova guida. Non contente, le nuove Armata ’99 (poi B.A.L.) non volevano neppure che gli Ultras mettessero lo striscione in altri settori dello stadio, tanto che furono costretti a toglierlo definitivamente.

Il marchio d'infamia («erano accusati di mettersi in tasca soldi», dirà in seguito uno dei nuovi leader della curva), unito alla scarsa capacità organizzativa e ad alcune leggerezze imperdonabili per la mentalità ultras come farsi rubare o abbandonare i propri striscioni («negli anni ’90 si fece anche “Potere Amaranto” - ammette M.G. - poi se lo dimenticarono sul treno per Reggio Emilia e si spaccò il gruppo»), delegittima il vecchio direttivo, che viene espulso violentemente dallo stadio. E' il 1999 e la curva muta drasticamente con l'affermarsi di nuovi protagonisti ma soprattutto attraverso una nuova organizzazione interna. Nascono le Brigate Autonome Livornesi.

Il nostro richiamo al 1999 è il richiamo al giorno in cui abbiamo realizzato la nostra unione; certo 1999 per molti non suona come i vari 1968 o 1971 dei gruppi che hanno fatto la storia del tifo, ma in fondo è anche vero che sono passate molte generazioni da quelle che crearono quei gruppi, la mentalità si è affinata e talvolta stravolta totalmente nel corso degli anni. Conosciamo molti, troppi gruppi che sono popolati di ragazzini che portano in giro il nome dei “vecchi ultras”, che allo stadio magari neanche vanno più o nel migliore dei casi stanno in gradinata con il proprio striscione, con una mentalità e uno stile che niente hanno a che vedere con quella originaria... Noi per esempio avremmo potuto prendere le redini della situazione proseguendo la storia ultras di una curva nata agli albori degli anni '70, ma non sarebbe stato giusto né coerente, la nostra era una generazione nuova che aveva bisogno di autodeterminare la sua evoluzione. La nostra è la storia di una generazione che ha fatto il suo ingresso in curva nella fine degli anni ‘80,

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che ha vissuto l’ultimo fallimento societario, ed ha visto pian piano tra sacrifici e delusioni risorgere il Livorno da una lunga notte di disgrazie.

Le parole di K., persona di spicco del nuovo direttivo, illustrano la consapevolezza che guida i nuovi protagonisti della curva: figli di un passato che li ha visti presenti, ma nelle retrovie, si ritrovano oggi a misurarsi in prima linea in un contesto cambiato che necessita di una totale autonomia di scelte rispetto alle generazioni precedenti. La gioiosa ritualità domenicale e le trasferte di massa che hanno caratterizzato fino a quel momento la totalità della tifoseria livornese, e per le quali un quotidiano sportivo nazionale aveva inventato l'espressione “stadio mobile”, si affacciano ora su uno scenario mutato dalle tattiche di gestione dell'ordine pubblico. Le parole di K. confermano, dal punto di vista della curva che il gran rito di massa calcistico, uno dei pochi a sopravvivere per tutti gli anni '80 in forme popolari, è ora in discussione.

Durante il campionato ‘98 -‘99 dopo l’ennesima delusione di un Livorno che non riusciva a concretizzare gli sforzi di un campionato fallito (serie B sfiorata a Perugia nella finale dei Play off ’97 ‘98) grazie alla mano pesante delle decisioni della Lega Calcio Italiana, da sempre avversa alla nostra città per ovvi motivi ideologici, l’esigenza di riunire le forze si faceva sempre più palpabile. La forte repressione esplosa più volte, tra cui Cesena (decine di diffide “date a caso” per danneggiamenti ai treni) e Perugia (cariche ed arresti immotivati da parte del reparto celere di Roma) aveva rimarcato come l’esigenza di tutti i ragazzi fosse quella di formare un fronte unico contro la repressione e la vecchia gestione uscente, corrosa dai “lucri” e dal tentativo di rimanere ancorata ad un ambiente che non gli apparteneva più. Molti, a dire il vero i “meglio” dei vecchi ultras avevano mollato, chi perché era stufo di 30 anni di C con tre fallimenti societari alle spalle, chi si era perso nella delinquenza e la molta, troppa tossicodipendenza che ha caratterizzato Livorno negli anni ‘60, ’70 e ’80. Così sembrava veramente inutile vedere ragazzi divisi solo dall’appartenenza del gruppo,

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spesso dovuta al quartiere di nascita anziché a motivi concreti, molti di noi si frequentavano anche settimanalmente, ma la domenica stavano su striscioni diversi. Abbiamo intrapreso questa avventura rivoluzionando tutto quello che prima significava stare in curva a Livorno, eliminando i gruppi, responsabilizzando i ruoli, tra i “mugugni” di chi non ci credeva, tra le infamie di chi ne era spaventato, nella difficoltà di imporre ad una curva “senza regole” la regola delle regole, la centralizzazione delle decisioni, il far prevalere l’unione degli intenti all’appartenenza di questo o quel gruppo in particolare.

Con le B.A.L. cambia l'estetica della curva. I consueti slogan e striscioni vernacolari sono soppiantati da quelli di natura politica333 (“Bella ciao”, “Bandiera Rossa”) e anche l’abbigliamento è uno strumento di propaganda che rimanda al comunismo sovietico intrecciato allo stile degli anni settanta italiani: c'è il cappello di lana con la scritta in cirillico “БРИГ” (che rimanda alle prime quattro lettere della parola “Brigate”) e lo scudo dell’NKVD, ci sono soprattutto gli eskimo, tutti rigorosamente verdi militare, uguali tra loro, con gli stemmi del gruppo sul braccio e sul petto. Gemellaggi e rivalità sono rivisti in chiave politica334 e alcune partite diventano l'occasione per tentare lo scontro con le tifoserie di destra. In trasferta il gruppo si avvicina allo stadio in maniera compatta, con le prime file a formare dei cordoni che richiamano lo stile delle manifestazioni della sinistra extraparlamentare negli anni '70. In generale il tifo compie un salto di qualità mai visto a livello visivo e sonoro: i cori sono decisamente originali e molto partecipati.

333 Tra i più celebri il coro “Perchè no? Perchè no? Mille euro di multa, perché no?”, seguito dal classico “Ooohhhh...Berlusconi pezzo di merda”. Un coro “d'ordinanza” nelle partite del Livorno soprattutto negli anni della presidenza del consiglio di Silvio Berlusconi e in ogni occasione in cui veniva effettuato costava alla società amaranto circa mille euro di sanzione alla Lega Calcio. Per un approfondimento si veda l'articolo: Corsi G., I cori anti Berlusconi sono costati 99.500 euro, Il Tirreno, archivio on line, 20 novembre 2003. 334 La contrapposizione politica con i gruppi avversari diventa il principale motivo di conflitto e così i gemellaggi e le rivalità sono completamente rivisti. Interrotta l'amicizia con i tifosi della Sampdoria e poco dopo quella con i fiorentini, perché vicini ai gruppi “neri” di Verona, è attenuata la pressione sul derby col Pisa e sancito uno storico armistizio con anconetani, ternani e modenesi, acerrimi rivali in passato, ma ora riabbracciati nell'ottica di una medesima visione politica. A nascere è il gemellaggio con i marsigliesi, venuti a Livorno espressamente per conoscere il nuovo gruppo, e che nel 2003 si estende agli ateniesi dell’Aek, già in rapporti “fraterni” con i francesi. 222

Le imponenti coreografie realizzate evidenziano una notevole pianificazione e disciplina interna. Emblematica in tal senso la coreografia realizzata il 5 maggio 2001, in occasione della partita che sancisce il ritorno del Livorno in serie B. Per l’occasione, la curva nord accoglie l’ingresso della squadra amaranto con un lunghissimo striscione attaccato sulla recinzione di plexiglas che delimita gli spalti dal campo che recita: “Una lunga notte sta per scomparire, all’orizzonte il nostro sol dell’avvenire”; contemporaneamente in curva 5mila cartoncini neri sono capovolti simultaneamente e diventano amaranto, al centro è issata un'enorme bandiera che raffigura un grande sole con una falce e martello all’interno. Riattingendo alle forme del rito elaborate da Dal Lago in merito alla cultura dei tifosi, certamente l'avvento delle B.A.L. prosegue e rafforza l'affermazione che vuole gli ultras collocati in un territorio autonomo, la curva, e ben caratterizzato nell'ecologia dello stadio, dove i ruoli sono distribuiti secondo una gerarchia di prestigio informale, ma rigorosa, che vede al centro della balconata le figure più importanti. Le parole di M.G. ci aiutano a percepire delle differenze rispetto ai suoi tempi:

Ora c’è un vero e proprio capo. Anche ai miei tempi nessuno si sognava di mancare di rispetto ai più anziani e se questo accadeva, si cercava di risolvere senza il ricorso alla violenza. Se un bimbetto si metteva in balaustra con una bandiera gli dicevamo semplicemente che quel posto lo doveva lasciare a qualcuno più anziano di lui. Oggi i 15enni si permettono di trattare male ultrà di 40 anni che hanno fatto la storia a Livorno, non c’è più il rispetto per la militanza e quindi il rispetto per i più anziani.

Proprio la partita che sancisce il ritorno del Livorno in B provoca una delle prime significative polemiche che trovano risalto sulla stampa cittadina, per effetto di un inasprimento delle regole informali ma ferree di inclusione ed esclusione negli spazi della curva:

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Sabato 23 dicembre, stadio «A. Picchi», il Livorno batte l'Alzano per 3-1. Sembrerebbe una bellissima giornata di sport ma... «Mentre assistevo alla partita sono cominciati a piovere insulti da parte degli ultrà. Il motivo della polemica? La nostra scarsa partecipazione nell'incitare la squadra. Ci contestavano con toni... coloriti di non saltare e cantare. Ognuno è libero di tifare come vuole, in piedi, seduto, in silenzio od urlando. [...]». Stessa opinione per [omissis]: «In linea di massima sarebbe meglio che in curva ci fossero solo i tifosi più accesi – sottolinea - tuttavia non si può certo impedire a chi lo desidera di sedere in curva Nord. Imporre un divieto a chi non vuol saltare mi sembra fuori luogo. Chi va allo stadio dovrebbe essere interessato a tifare solo Livorno». Polemiche anche su certi cori e striscioni, contenenti chiari riferimenti politici. «Sono venuto via dalla curva - dice [omissis] - poiché non mi trovavo più bene. Sono contro la violenza ma soprattutto non mi indentifico in certi tifosi. Gli stessi cori inneggiati al comunismo, cantati durante la gara, non hanno niente a che vedere con il Livorno»335.

Una polemica che prosegue per giorni e vede l'intervento anche dell'assessore allo sport, che ridimensiona “i battibecchi” e dà atto alla curva di essere lo spazio egemone del tifo “caldo”.

[…] se i biglietti di curva Nord sono i primi a sparire - dice Benetti - significa che lì ci si diverte di più. Chi ci va sa bene di andare in un ambiente diverso dagli altri settori, con più folklore, più tifo, più anima. Questo però non giustifica le offese, le forzature, la scarsa tolleranza di una Nord che invece si proclama democratica. Insomma, un passettino indietro da parte di tutti e le cose si aggiustano.

L'assessore individua però un punto, quello della politica in curva, sul quale la comprensione sembra trovare meno disponibilità.

Non credo lo stadio sia il luogo adatto per canti e slogan politici, anche se certo Livorno in questo senso non è certo unica. La politica allo stadio rischia di avvelenare lo sport, il

335 MULLER G., «Insulti, spintoni, parolacce. Sarebbe questa la libertà?», Il Tirreno, 3 gennaio 2001. 224

confronto civile. Canti e slogan li utilizzerei in ambienti diversi, dove hanno un senso. Ma anche questo, finché resta nei limiti, rientra nella democrazia336.

Con il tempo la polemica sul tifo si allenterà in curva espandendosi nei confronti del pubblico generico. Una condizione già descritta da Dal Lago che osserva come la responsabilità della curva si suddivida in un doppio ambito: nella contesa con il nemico e nell'esaltazione della propria squadra, situazione nella quale vorrebbe fosse coinvolto il pubblico generico. Una rivendicazione tipica delle «avanguardie morali337». Nel caso specifico, la gradinata ha riconosciuto la curva come protagonista assoluta del tifo, ma ha sempre criticato la connotazione politica in curva. Uno dei motivi di questa critica risiede probabilmente in un retaggio che vuole Livorno e i livornesi ostili al “palazzo”, e in tal senso, il timore che l'immagine di una curva “impegnata”, non solo sul fronte del tifo, irriti ulteriormente le istituzioni del calcio. In quest'ottica si possono notare le dichiarazioni di due capitani storici del Livorno, Enio Bonaldi e , entrambi convinti che il Livorno sia danneggiato dalla caratterizzazione politica. Nel 2001, all'indomani di un'aspra polemica tra la curva e il partito di maggioranza (nella quale i DS furono paragonati alle SS in uno striscione confezionato dalle B.A.L.), Bonaldi assume una dura posizione contro la connotazione politica del nuovo gruppo:

Questo stato di cose ci danneggia, ci ha sempre danneggiato. A Perugia c'erano ventimila livornesi e 400 cremonesi, eppure le decisioni arbitrali sono state tutte a favore loro. Questo per dire che, secondo me, c'è stata una mano invisibile ad affondarci. Ho la sensazione che nel Palazzo questa caratterizzazione politica non sia ben vista, cosa che tra l'altro è promossa da alcune decine di cani sciolti. La curva, la vera curva, è fatta di gente che viene allo stadio per stare insieme, ci sono anziani, bambini, coppie di fidanzati che

336 REDAZIONE, «Sì al tifo ultrà, ma lo stadio è di tutti». Appello di Comune e Livorno dopo i litigi nella curva nord, Il Tirreno, 4 gennaio 2001. 337 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.135. 225

inneggia ai giocatori e non fa propaganda. Anch'io sono d'accordo: la politica non deve esistere sugli spalti degli impianti sportivi. Poi ognuno, nel privato, può fare quel che vuole.

Anni dopo parole simili saranno pronunciate da Cristiano Lucarelli, in relazione a presunti torti arbitrali; a differenza di Bonaldi (candidato a fine carriera nelle liste del partito di maggioranza), Lucarelli sarà solidale con il tifo impegnato della nord.

Questo è già il quinto torto in questa stagione. Ormai è diventata tutta una questione politica. L'anno scorso c'erano quattro tifoserie di sinistra (Perugia, Modena, Empoli e Ancona, ndr) che esibivano immagini del "Che" e sono retrocesse tutte. Quest'anno c'è solo il Livorno e sapete meglio di me come andrà a finire. Può venire un arbitro internazionale o uno di terza fascia, le cose non cambieranno: il Livorno sarà sempre penalizzato.

K., concentrandosi principalmente sulla curva, sembra trovare nella disabitudine al tifo costante e disciplinato la motivazione più intensa delle polemiche emerse allo stadio:

Livorno non era abituata né a tanto movimento così concentrato, né all'obbligo del sostegno ad oltranza in qualsiasi occasione che il nuovo gruppo imponeva con forza al resto della curva, all'inizio questi passi suonarono come un imposizione eccessiva per molta gente, e c'è da dire che era più che naturale, poi però col tempo, molti si accorsero dei risultati che ottenevamo, i cori partivano decisi e potenti come non mai, ma la cosa più interessante era che non si basavano sull'entusiasmo del gioco in campo ma sull'atmosfera che la curva riusciva ad imporre alla partita. La Nord ha sempre avuto dei picchi impressionanti, ma mai in tutti gli anni passati era caratterizzata dalla costanza che le B.A.L. avevano apportato.

226

A differenza del passato, la politicizzazione della curva contrassegna simbolicamente e attivamente i rituali d'apertura delle partite. Il ritrovo davanti allo stadio è accompagnato ora dall'ascolto di musica militante e di canti tradizionali della protesta politica e sociale; non di rado all'appuntamento compaiono tifosi o attivisti di altre realtà attratti dalla dimensione livornese. La fase che precede la gara, che fa sì che gli interi paraggi dello stadio siano sorvegliati per le possibili incursioni dei tifosi ospiti, si anima in particolar modo in occasione di incontri con tifoserie “di destra”. Nonostante “l'odio politico” il codice di scontro della curva livornese rispecchia la mentalità ultras delle origini: ci si frappone esclusivamente tra ultras e sono bandite le lame, un atteggiamento che rispecchia una dimensione rituale e ludica dei conflitti. La blindatura dello stadio e degli spazi limitrofi ha reso in ogni caso ardue le possibilità di scontro tra tifoserie avversarie; a Livorno gli episodi di “contatto” sono rari ma, come vedremo in seguito, oltremodo censurati da stampa e istituzioni. Poco prima del fischio d'inizio, con le tifoserie già ai propri posti, inizia il confronto rituale tra le parti. Una situazione che non coinvolge i giocatori, ancora impegnati nelle fasi di riscaldamento, «ma si riferisce unicamente alla bandiera338» e mette pertanto in evidenza il legame sociale dei partecipanti. Con le B.A.L. questa fase è occupata dal lancio di cori politici, pugni chiusi e uno sventolio di bandiere rosse che trasformano il rito in oppositivo se i dirimpettai sono i tifosi di altra simbologia politica, in uno slancio di fratellanza quando la curva avversaria mostra icone affini. In questo senso si nota uno scarto con la ritualità descritta da Dal Lago che subordina il referente politico a quello dominante nello stadio. Il prevalere di una mentalità ultras sull'appartenenza politica nella nuova configurazione della curva livornese è totalmente rovesciato:

Se essere ultras è prima di tutto essere e fare un gruppo, ciò non può avvenire se non attraverso una condivisione di principi e idee che non possono prescindere da quelli con cui si vive e si affrontano i problemi di ogni giorno. Sembra impossibile da credere, ma

338 Ivi., 1990, p.135. 227

esistono soggetti che realmente ritengono l'essere ultras un'ideologia in sé per sé, legando il tutto ad un concetto di territorialità che ricorda molto quello con cui le bestie gestiscono il territorio della sopravvivenza. […] In ogni stadio in cui andiamo troviamo un saluto romano o una celtica in caso di ostilità, un pugno chiuso o una bandiera rossa in caso di rispetto, questo è stato il nostro ruolo di spartiacque, abbiamo dimostrato a molti, forse troppi, che il concetto di apoliticità, oltre ad essere riduttivo è spesso un velo ipocrita dietro al quale tanti si nascondono339.

L'attacco della curva al rito sovradeterminato dalla mentalità ultras, che appunto subordina in linea di massima le affinità politiche allo scontro territoriale o alla faida alimentata nel lungo periodo, dà vita a un ambizioso progetto denominato “Resistenza Ultras”. Coadiuvati in particolare da ternani e anconetani (coi primi c'erano stati degli scontri durissimi in passato), gli ultras livornesi avranno un ruolo centrale nel R.A.I. (Raduno Antirazzista Internazionale) ed elaboreranno Resistenza Ultras con l’obiettivo di contrastare il fenomeno della fascistizzazione delle curve italiane. A spiegare la nascita del progetto è L., uno dei leader riconosciuti delle Brigate:

Il primo anno che ci invitano i ternani ci si presentò con due furgoni coi bastoni dentro, tanto per intenderci, non si capiva che sarebbe successo. Poi invece di lì ci furono diversi contatti, quello fu un momento importante perché finalmente i compagni di curva che avevano una formazione solo di curva e non di movimento si resero conto che stando insieme potevano diversificare le barriere che li tenevano separati la domenica allo stadio. Cioè, mi spiego, la domenica allo stadio col compagno di Terni che fa le stesse mie lotte dal lunedì al sabato c’è una barriera alta così, la domenica allo stadio se c’ho invece un tifoso che invece ha tutte altre idee, la barriera invece è molto più alta. Quindi la domenica io posso trovare anche dei momenti in cui essendo un momento popolare noi si pensa insieme, e si dimostra che si pensa insieme. Quando ho i laziali davanti non lo posso fare. Anche se ho il pisano davanti: noi siamo riusciti a fare una cosa nel derby che

339 SPALTI RIBELLI, Mentalità Ultras e delirio collettivo. Dagli stadi alle piazze, lo spettro delle BAL compare in ogni angolo della terra, Senza Soste, n°3, marzo 2006, p.4. 228 penso per il cervello dei livornesi e dei pisani era impossibile. Noi siamo riusciti a metterci d’accordo, con i bombardamenti della guerra in Afghanistan, i primi dieci minuti, ultras del Livorno e ultras del Pisa zitti con uno striscione contro la guerra che diceva tra 10 minuti inizia la guerra nostra perché siamo rivali a livello campanilistico ma ora bisogna ricordare che c’è una guerra con la gente che sta morendo e questo penso che sia stato una cosa devastante. Un progetto politico su scala nazionale, il riconoscere che l’aggregazione di curva aveva delle potenzialità particolari, però, anche lì per lo stesso procedimento di cui dianzi si stava parlando, tra movimento e ragazzi di movimento che vanno allo stadio, anche all’interno dello stadio per buona parte di ultras compagni, come i pisani come per tanti altri, quel progetto era visto come una cosa che minava l’appartenenza ultras, ed è lo stesso identico procedimento per il quale il compagno di movimento dice al compagno di movimento che va allo stadio: “Ma che cazzo fai, vai allo stadio con quei deficienti che vanno dietro ai calciatori che guadagnano miliardi?”. Stessa cosa, il compagno che va in curva dice al compagno che va in curva di Resistenza Ultras: “Che cazzo fai, vai a cena coi livornesi e fai lo striscione insieme? La domenica è la domenica e loro sono nemici”. E’ uguale. Pari pari. Il tentativo esplicito politico era rompere questa cosa qui. Era un tentativo politico di riconoscere la forza sociale che le curve potevano esprimere. Partimmo proprio dal fatto che era menzionato nel primo volantino che si fece noi di Resistenza ultras dal fatto che ci siamo ritrovati a Genova da ultras insieme per dei motivi importanti senza domandarsi sul fatto che eravamo ultras. Però a un certo punto, la sera arrivavi al Carlini e si diceva: “Ma l’hai visto c’era i ternani, c’eran quelli, c’eran quegli altri”. E allora ti dicevi che oggi eri stato a lottare per una cosa importante accanto a uno che ha la sciarpa della Ternana, uno della Sampdoria, uno del Genoa, e nemmeno ci siamo domandati, come strutturalmente facciamo da sempre: “Che cazzo ci fa lui con la sciarpa del Genoa?”. La sera ci siamo raccontati di aver visto quello e quell’altro. E’ nata lì in embrione. Nonostante fossero in piazza, c’era tanta gente che sentiva il bisogno di portarsi dietro la sciarpa. Appartenenza, semplicemente appartenenza, questo è il bisogno. Con Resistenza Ultras l’obiettivo che ci eravamo posti era superare il fatto che in curva è l’ostentazione della politica poi negli atti pratici non significasse nulla. Perché in curve divise, in cui io portavo la falce e il martello, te la celtica, se c’era scontro era solo perché 229

si diceva: “Che figura si fa? Io porto una cosa e te ne porti un’altra?”. Però in realtà c’era una concertazione, c’era uno statuto, te stai di qui, te stai di là. Noi lì si entrava a scardinare quei compagni che accettavano questa cosa e gli si diceva: “Come fai ad accettare una cosa del genere?”

In tal senso, non è azzardato individuare nelle B.A.L. il primo gruppo ultras italiano a tentare un avvicinamento (o forse sarebbe più corretto parlare di “mediazione”) nei confronti di tifoserie storicamente nemiche ma di comune orientamento politico. Una vera e propria rivoluzione, nel suo piccolo, all’interno del movimento ultras italiano340.

Un'avanguardia ultras

La generazione che prende in mano le redini della curva nord dal 1999 è cresciuta negli stadi di provincia delle serie minori, ha contribuito per anni a un tifo popolare e festante, ma disarticolato e privo di gratificazioni sportive. Le incontrollate trasferte di massa nei campi della serie C dei dilettanti, che non di rado sfociavano in vandalismi, favorivano decise reazioni da parte delle forze dell'ordine che avevano talvolta gioco facile contro una tifoseria smisurata ma “militarmente” frammentata in piccoli gruppi senza un comando. Il debutto delle B.A.L si compie nei medesimi palcoscenici, ma con un'organizzazione rafforzata dall'unità di intenti e da un centralismo decisionale che impone una ferrea disciplina interna. In primo luogo, quindi, il passaggio di consegne che accade a Livorno è rappresentato da un'esigenza ultras, non estranea ai rivolgimenti che si compiono sul piano nazionale. Una “ristrutturazione” che rende più competitivo il gruppo, come emerge dalle interviste a L. e K.:

340 L'idea di creare le condizioni per un ribaltamento delle curve dove sono presenti gruppi di matrice fascista conquista di anno in anno nuovi sostenitori, ma non riuscirà ad incidere concretamente negli stadi. Resistenza Ultras si avvierà verso un declino progressivo, irreversibile e fisiologico, che segue di pari passo la crisi generale di quel “movimento ultras” di cui, volente o nolente, fa parte. Nel 2004 il progetto si ferma definitivamente, mentre il R.A.I andrà avanti fino al 2007. 230

C’era anche un’esigenza ultras, c’era una frammentazione e c’era una rottura con la vecchia gestione della curva, perché erano accusati di mettersi in tasca soldi e qualche volta di non andare nemmeno in trasferta.

I risultati non tardarono ad arrivare ed in tutti i campi: normali, semplici viaggi abitualmente “paranoici” di una serie C che ci stava stretta, diventavano comunque occasioni per fare sempre meglio, e la voglia di cantare (quando vai tre o quattro anni di seguito a Lumezzane e perdi ti passa...) iniziava a mobilitarci, nei cortei, negli scontri eravamo più compatti di quanto non lo fossimo mai stati, la “resistenza” alle aggressioni dei reparti Celere iniziava a progredire, sempre in quegli anni proprio a Carrara (dove l'Antisommossa dei Carabinieri compiva puntualmente dei veri propri agguati ingiustificati) dovette fare i conti con un altro tipo di “organizzazione”: lo sfondamento all'ingresso dello stadio Apuano e i 7 feriti che ne rimediarono ne furono la prova. Negli anni le battaglie con i reparti squadristi dello stato italiano si sono intensificate: Arezzo, Pisa, Carrara, Modena, Como, i comitati di accoglienza si moltiplicavano, provocazioni su provocazioni, saluti romani, sassaiole ai treni, pistole puntate in faccia, perquisizioni notturne. Ora però iniziavamo ad essere organizzati, ed ogni botta presa era una resa, non eravamo disorganizzati come quel lontano Pontedera-Livorno in cui riuscirono a montare sul treno e bastonare chi capitava senza motivo; ora quanto davano dovevano prendere o almeno preventivarlo, e se lo scompartimento che sceglievano non era quello giusto erano costretti a cambiare strada...

«La “resistenza” alle aggressioni dei reparti Celere», «lo sfondamento all'ingresso dello stadio», «le battaglie con i reparti squadristi dello stato italiano», denotano un rilancio della conflittualità in un periodo di mutamento dell'ordine negli stadi. Una condizione presente già da alcuni anni, come si evince dalle testimonianze seguenti di «un tranquillo professionista appassionato delle sorti degli amaranto» e di Luca, che esplicitano il clima di “formazione” nel quale emerge la generazione delle B.AL.

231

Quando seguo il Livorno in trasferta metto in conto che qualche stupido possa tirarmi una sassata. Ma non pensavo di dover stare attento anche ad un carabiniere che ha perso la testa». Non è un ultrà scatenato quello che ci ha chiamato ma un tranquillo professionista appassionato delle sorti degli amaranto. Racconta un episodio che è accaduto domenica scorsa sul treno che stava partendo da Arezzo dopo la prima partita dei play off. «Con gli amici avevo già preso posto nello scompartimento. Il grosso dei tifosi è arrivato poco dopo. Guardando dal finestrino ho capito che c'erano dei problemi e delle cariche da parte delle forze di polizia. Poi ho visto salire i tifosi. Era un momento di tensione ma, francamente, per quello che potevo vedere io, tutto si limitava alle parole. Ad un certo punto però, un carabiniere si è avvicinato al treno. Era infuriato ed urlava anche lui. C'era vicino a noi un poliziotto che cercava di calmare lui ed i tifosi. Ad un certo, il militare ha imbracciato il moschetto per la canna e ha colpito con violenza il finestrino del corridoio: i vetri sono schizzati da tutte le parti e per poco non venivamo colpiti. Si è avvicinato un ufficiale dei carabinieri in divisa e, invece di bloccare il sottoposto, col manganello ha spaccato i pezzi di finestrino rimasti attaccati al telaio341.

A Perugia fummo attaccati in maniera indecente dalla polizia, evento su cui ci fu anche un'interrogazione parlamentare perché fu davvero inspiegabile. Eravamo 20mila tifosi pacifici, organizzati in questo modo popolaresco con pasta, riso freddo e lasagne. Al termine della partita in cui venimmo sconfitti fummo attaccati nel parcheggio, in un momento in cui tutti mangiavano, bevevano e smaltivano la sconfitta. Ci fu questa carica assolutamente immotivata, c'erano stati degli screzi assolutamente minimali con la polizia nella curva occupata dai nostri. L'attacco avvenne addirittura con gli elicotteri che sparavano lacrimogeni. Questo causò il panico soprattutto tra le famiglie. Ciò che dico è documentato, io per primo sono stato testimone di un attacco da parte dei celerini in borghese, tutti vestiti di nero, modello, come si dice ora, “black bloc”. […] In generale, penso anche che ci sia stata una strategia politico-economica sia per attuare uno sfruttamento diverso del fenomeno calcio, sia per ridurlo a fatto televisivo e moltiplicare il fattore economico, con gli abbonamenti Sky e tutto il resto, sia per chiudere un ulteriore

341 Lettera firmata, «Quel finestrino del treno rotto col fucile da un carabiniere», Il Tirreno, archivio on line, 30 maggio 2001. 232

spazio di eventuale aggregazione e protesta. Con l'attuale situazione politico-economica gli stadi avrebbero potuto trasformarsi in luoghi e occasioni in cui urlare in tanti il proprio scontento o la propria richiesta di giustizia sociale342.

In questi anni, come riaffiora dalle parole di Luca, la stratificazione di interessi pubblici e privati concentratisi attorno al calcio ha mutato profondamente il gioco e imposto un nuovo ordine nello spazio dello stadio, provocando trasformazioni anche sull’identità ultras, legata fino a quel momento a una dimensione campanilistica, rituale e ludica. In un clima neo-emergenziale che permea la criminalizzazione del tifoso “caldo”, identificato come l'elemento di disturbo dello show business, la polizia vede aumentare la discrezionalità del proprio intervento sia per una diversa configurazione interna che si manifesta in un ruolo più informale e repressivo - vedi il resoconto del “tranquillo” professionista -, sia per i toni allarmanti di media e poteri di governo che si scagliano sistematicamente contro le pratiche dei tifosi e inneggiano a una politica di “tolleranza zero”. L'imposizione di un modello di consumo del calcio pensato per favorire e selezionare un nuovo tipo di clientela sembra far evaporare l'epoca delle curve come rito di massa ed estensione domenicale di una città, una situazione ben evidente nelle parole già citate di uno degli appartenenti al Commando Ultrà Curva Sud di Roma, probabilmente il gruppo che più di ogni altro ha rappresentato la ritualità popolare, una condizione che, come sottolinea l'autore stesso, «era il contrario del calcio moderno». L'assorbimento del nuovo paradigma, in una fase caratterizzata da un'elevata mediatizzazione degli appuntamenti calcistici, e di conseguenza del gran risalto alle azioni e agli scontri inscenati dalle tifoserie, nonché di una loro più decisa condanna e repressione, porta le curve a concentrarsi su un'organizzazione più competitiva che mira a tutelare e irrobustire i legami e la solidarietà interna e a rafforzare la dialettica amico/nemico. Nuove forme di espressività politica di importazione di slogan direttamente politici nella cultura e nelle pratiche di alcune curve sono il collante identitario dei nuovi gruppi. In larga misura, le curve italiane accolgono i contenuti

342 Ibidem. 233 della destra estrema. A Livorno, sono le B.A.L. a imporsi e a confrontarsi con il nuovo scenario, nonché ad attuare contromosse, come hanno rivelato le parole di K. Il gruppo è selezionato e organizzato secondo un modello gerarchico, i legami di quartiere sono sostituiti da un richiamo alla medesima identità politica cittadina, e di conseguenza muta la definizione del nemico, non più il generico gruppo ultras con cui misurare le proprie capacità di scontro, ma costituito dagli oppositori politici e dai «reparti squadristi dello stato italiano», le forze dell'ordine. Così commentano A.C. e M.S., due giovani tifosi della curva, appartenenti al gruppo B.A.L.:

Da bimbetti esistevano i gruppi dei quartieri, di Shangai, di Corea, c’erano delle storie, ora ci troviamo tutti alle cene. [interviene M.S.] Ma cosa ti ha unito? Lo stadio. [prosegue A.C.] Sì, quello e anche una certa maturità, perché prima era tutto uno scontrarsi, fare a puntate, ora bisognerebbe chiedere a ragazzi più giovani ma non credo sia più come prima. In giro vediamo bei gruppo compatti, che si rispettano, che vanno allo stadio tutti insieme e questo deriva dal pensiero comune che abbiamo, non ci sono più le bande, siamo tutti compagni.

Seppur con qualche anno di ritardo nella sua formulazione - condizione fisiologica per una realtà provinciale con una tifoseria appassionata, ma una storia ultras fino a quel momento non di primissimo piano - la traiettoria espressa dal tifo livornese si inserisce a pieno nelle dinamiche nazionali e vede cambiare quella ritualità che aveva accompagnato gli eventi calcistici per tutti gli anni '80 e per parte dei '90 e fatto registrare una certa relazione tra calcio di massa e forme di socialità dei tifosi, condizione che coinvolgeva quasi indistintamente il popolo della curva a supporto e difesa della propria squadra. Come ricorda M.N., esponente politico di Rifondazione Comunista, tifoso e vicino all’ambiente della curva, negli anni '80 «gli ultras vivevano nella città e non c’erano divisioni. Eravamo tutti ma quasi non si parlava di ultras. Quando si andava in trasferta eravamo tutti ultras, a Pavia o a Voghera magari il vero 234 ultras scappava e ci rimanevo io a fa a puntate e invece ora scappo io e ci rimangono le B.A.L.». Le parole di M.N. - e di seguito quelle di T. - danno conferma del nuovo scenario: a guidare il rito non è più una massa che si improvvisa “battagliera”, ma un gruppo ristretto e predisposto dietro il quale, eventualmente, trascinare la massa: un'avanguardia ultras.

L’organizzazione per me è stata importante, anche perché quando c’erano tutti i gruppi ci siamo trovati spesso in difficoltà sia con la polizia che con le altre tifoserie, quando invece s’è fatto il gruppo abbiamo sempre detto la nostra. E’ stato un fatto di evoluzione del gruppo e del mondo ultras che andava in un certo modo. Quando andavamo in trasferta in 5000 certe situazioni erano incontrollabili, ma tutto è stato risolto con l’avvento delle B.A.L. Anche nel modo di tifare è stato tralasciato l’ultras, nelle coreografie troppo impegnate, nella mancanza di punti di ritrovo o nel loro cambiamento. La base è stata Piazza Magenta, ma tanti non ci si ritrovavano, perché hanno il gruppo in Borgo, chi a Salviano, chi a Shangai, e quindi era lo stadio il punto di riferimento, ci trovavamo lì, a fare i coriandoli, le bandiere: arrivavi e ti buttavi, non come ora che devi fare un ingresso graduale.

La stagione calcistica 2001/02 è l'ultima che ha come palcoscenico la serie C e oltre che dall’ottimo tifo prodotto sarà caratterizzata da alcune contrapposizioni tra il gruppo ed ed alcune tifoserie di chiaro stampo neofascista o neonazista, tra le quali Como, Varese e Triestina. Proprio con gli alabardati, noti per le loro simpatie fasciste e antislave, il 3 marzo 2002 avviene un episodio che accenderà i riflettori nazionali sul gruppo ultras livornese. Durante la partita, le B.A.L. espongono uno striscione che suscita da subito una forte indignazione: “Tito ce l’ha insegnato, la foiba non è reato”. L’Ufficio indagini della Federcalcio apre un’inchiesta, il sindaco di Trieste, Di Piazza (Forza Italia), chiede al

235 primo cittadino di Livorno le scuse ufficiali. La polemica cresce e origina denunce, esposti in Procura, mozioni in Consiglio comunale e durissime reazioni a livello politico tra cui alcune interrogazioni parlamentari343. Ad intervenire è anche il Presidente della Repubblica, il livornese e tifoso amaranto, Carlo Azeglio Ciampi che si dice indignato come livornese e italiano. Un intervento, quello del Presidente della Repubblica, che farà coniare alle B.A.L. un motivetto che sarà, per anni, uno dei più cantati e pubblicizzati:

Siamo noi, siamo noi La rovina dell’Italia dell’Italia siamo noi Siamo noi, siamo noi Anche Ciampi ce l’ha detto siamo noi!

Dieci ultrà vengono diffidati e denunciati per avere tenuto in mano la stoffa incriminata. Le B.A.L. reagiscono esponendo in curva lo striscione “Onore ai martire delle fobie”; un tifoso interviene al dibattito sul giornale locale inviando un contributo scritto.

Si ritorna sulla questione ormai divenuta senza fine sulla politica in curva. Premetto che sono favorevole a dare sfoggio dei nostri ideali politici nella curva Nord e in tutti gli stadi nei quali andiamo in trasferta. Premetto anche che sicuramente le foibe costituiscono una pagina dolorosa della storia della seconda guerra mondiale. Vorrei però chiedere se il sindaco di Trieste non ha altre mille cose da fare prima di indignarsi di quello sciagurato striscione. E come lui tutti agli altri numerosi sindaci di quelle tifoserie che ogni domenica si macchiano di gesti razzisti, nazionalisti, fascisti, nazisti. Il sindaco di Roma che dovrebbe fare per gli episodi raccapriccianti di cui i tifosi laziali si sono macchiati: ideologicamente antisemiti, nazionalfascisti, hanno fatto sempre striscioni vergognosi. Che dire dei trevigiani razzisti all'ennesima potenza? Oppure i bravissimi tifosi della Triestina che non più di qualche mese fa venivano sul sito Internet delle B.A.L. dicendo che ci aspettavano a braccia aperte a Trieste, noi comunisti, così avrebbero riaperto la

343 Le polemiche sullo striscione, riportate da tutti i media nazionali per giorni, permettono di accelerare bruscamente l’iter legislativo sulla proposta di legge che proprio lo stesso Roberto Menia presenterà alla Camera il 12 febbraio 2003. Il “Giorno del Ricordo” diventerà legge il 30 marzo 2004 e verrà festeggiato il 10 febbraio di ogni anno.

236

risiera. E non spetta a me spiegare cos'è la risiera. Al di là del fatto che lo striscione è stato di cattivo gusto, le provocazioni ci sono state eccome, da parte di gente che domenica in curva ha fatto il saluto romano per tutto il tempo. E abbiamo visto anche squadracce che marciavano sui gradini del settore ospiti dell'Armando Picchi. Non più di qualche domenica fa abbiamo visto tutti benissimo in curva nord all'Arena Anconetani lo striscione Skinheads, ma nessuno si è indignato. Come se i cori di «buh» verso i giocatori di colore fosse un gesto da niente (intanto a Livorno non li abbiamo mai sentiti). Non mi sembra neanche che i triestini domenica abbiano rispettato il minuto di raccoglimento per la morte di Mayelè, giocatore di colore. Forse a qualcuno dà noia che tutte le domeniche in curva si canta Bandiera rossa o si canta contro la polizia o contro Berlusconi, ma probabilmente siamo una curva di gente che lavora, operai e figli di operai e tutti sappiamo bene cosa è stato il fascismo, e cosa è stata la resistenza, e i nostri partigiani non hanno gettato nessuno nelle Foibe, erano sui monti e combattevano contro quelli che ci avevano venduto ai tedeschi, era una lotta per la sopravvivenza in uno stato di libertà, libertà o morte. Il Sindaco di Trieste ha ben poco da insegnarci in proposito344.

L'episodio dà grande visibilità al linguaggio adottato, un unicum “a sinistra” nel panorama nazionale delle curve ad inizio secolo. L’intervista a L., in tal senso, rivela parecchi spunti di interesse:

Noi abbiamo ereditato una curva che come impatto, come simbologia era sempre stata una curva di sinistra. In realtà, però, attività dal punto di vista politico non ne faceva, coscienza non ne aveva. L’attività politica della curva era legata a portare il Che Guevara, c’era quello che faceva lo striscione sui Tupamaros perché andavano i Tupamaros, poi c’era il periodo in cui quello faceva lo striscione sui Fedayn: era quasi anche uno scozzo folcloristico, era un ostentare, usava. Una curva anni Ottanta normale, direi. […] Dal punto di vista ultras le cose stavano andando in malora, c’era una frammentazione interna e c’erano malumori nei confronti di chi gestiva la curva, perché erano accusati di mettersi in tasca soldi e qualche volta nemmeno andavano in trasferta.

344 Lettera firmata, Perché il silenzio sui cori fascisti? Siamo fieri della politica in curva e non offendiamo nessuno, Il Tirreno, 12 marzo 2002. 237

A un certo punto poi c’è stata una generazione, quei pochi che siamo usciti dai primi movimenti per gli spazi, dai movimenti studenteschi… parlo dei primi anni Novanta, quando ci sono state un po’ di occupazioni, il Centro, il Teatrino, c’era un po’ di fermento in città, quelli che siamo usciti di lì e andavamo anche allo stadio, abbiamo portato una svolta. A un certo punto la generazione mia ha detto: «Basta, io con voi rompo», però era frammentata in tantissimi gruppettini. Allora venne l’idea rivoluzionaria, perché in una città come Livorno ti assicuro che è stato come l’ottobre sovietico, di dire: «Ma ci si mette tutti assieme». Idea pazza.

È la fase dell'antagonismo allo Stato e al mercato e del disprezzo dell’opinione pubblica, in sintesi, di una nuova politicizzazione innestata come presa di coscienza di una contrapposizione accentuata coi poteri. Una condizione bene presente nelle parole di L.:

Dal momento di mettersi insieme, questo ha portato ad avere più coscienza su tante cose, anche politiche, e la scelta di fare attività politica è sempre stata più cosciente. Abbiamo detto: «Facciamo attività politica, siccome portiamo dei simboli, facciamo attività politica». Non ti voglio dire che è stato un caso, però quasi. E diventando un soggetto anche politico, forse tanti ragazzi che non conoscevano la politica hanno conosciuto la contrapposizione coi poteri e la cosa poi è partita per conto suo.

Il racconto di L. offre la giusta misura della collocazione d'esordio della simbologia politica espressa dalle B.A.L.. Se in precedenza l'assetto della curva prevedeva una varietà di gruppi i cui componenti erano tenuti insieme da legami di quartiere, ora l'unità dei medesimi si raggiunge rielaborando una mitologia originaria dell’identità cittadina: il Partito Comunista del 1921345 e di rimando l'Unione Sovietica e le altre esperienze socialiste di stampo novecentesco. Una scelta suggerita da un gruppo ristretto di

345 Il 21 gennaio del 1921 nel teatro S.Marco di Livorno nacque il Partito Comunista d’Italia (Pcd’I). Coloro che costituirono il Pci furono una minoranza dei delegati del XVII Congresso del Psi, che si tenne in quei giorni a Livorno in un altro teatro, il Goldoni. 238 persone, e che è innanzitutto identitaria e fortemente provocatoria, che sta dentro i processi di rielaborazione simbolica notoriamente in voga nella storia del movimento ultras, ma che da subito vede rafforzato il suo significato perché attrae, genera confronto e discussione tra i componenti e soprattutto è riconosciuta “fuori dalla curva” come politicamente inopportuna e per tanto sottoposta a una forte censura esterna. Nella fase moderna del calcio, che punta a proiettare nello spazio delle relazione dello stadio operazioni di marketing territoriale, promozione di stili di governo e ordine sociale, a Livorno domina una rielaborazione conflittuale di un simbolico che durante tutto il corso del Novecento ha trovato ampia legittimazione in una città governata ininterrottamente, dal dopoguerra, dal Partito Comunista e dalle esperienze politiche emerse dal suo scioglimento. Uno degli episodi più celebri dell’iconografia delle BAL è uno striscione mostrato a Como, in trasferta, in occasione di un «compleanno» di Stalin. Con le questure allertate e predisposte al divieto di qualsiasi simbolo inneggiante ideologie totalitarie (senza distinzione alcuna tra nazismo, fascismo e comunismo) e con l'eco che la tifoseria aveva raggiunto nel panorama ultras italiano, i livornesi di fronte ai controlli delle forze dell’ordine srotolarono uno striscione su cui capeggiava la scritta «auguri Postalino». Agli sguardi interrogativi dei funzionari fu risposto: «E’ un messaggio d’augurio per un nostro amico che fa il compleanno». Una volta passato, le lettere furono tagliate e ricomposte per mostrare al pubblico di Como, la cui tifoseria è schierata sul fronte opposto, “l'irritante” «auguri Stalin».

Allora, da dove viene generato? Non è stata una cosa tanto cosciente, è venuta fuori da alcune battute. C’è un fatto antecedente, vengono i padovani, abitualmente si stava tutti al bar dello stadio, perché a Livorno s’è sempre usato che c’era il bar allo stadio e tutti gli ultras dei vari gruppi stavano lì, tra uno scherzo o un passatempo, quello e quell’altro, venivano fuori le idee, le provocazioni. Venne fuori l’idea di fare uno striscione ai padovani con scritto «Benvenuti culachi». «C’è i padovani, contadini, quadrinai, gli si fa 239 uno striscione sui culachi». Maaahhh, un’idea così, no? Venne! [ride]. Quello striscione causò un bordello della madonna. Articoli sui giornali, prediche: «Ma voi lo sapete chi erano i culachi?». E iniziò la repressione. Ti puoi immaginare, dall’altra parte la gente che sventola le celtiche e noi a dire: «Ma come, rompete i coglioni a noi?». Questo ha creato un fattore che ha incrementato una cosa che c’è sempre stata a Livorno, cioè di voler ostentare questo essere di sinistra, cioè io non vado allo stadio a mostrare il Che Guevara, io vado allo stadio e voglio fare il viso di Pol Pot [ride]. Era provocatorio. Da lì fu fatto uno striscione, fu messa sotto sequestro un pezzo di stoffa a un vecchio ultras che ci voleva fare uno striscione di merda tipo «Fronte del porto». Fronte del porto? Mah, levati di 'ulo. Fu posto sotto sequestro da quelli che s’era allo stadio e si disse facciamo questo, facciamo quello. Un amico disse: «Facciamo armata stalinista. Ci si fa un bel baffone nel mezzo di quattro metri così lo vedi cosa succede». Fu attaccato quello striscione una domenica. La domenica dopo la questura vietò assolutamente questa cosa. Ha creato quella reazione, la gente diceva: «Ma perché io non posso mettere Stalin se davanti a me mettono Hitler?». […] Cioè, dicendo a della gente che non era alfabetizzata dal punto di vista politico «Te Stalin non lo puoi mettere», quando davanti c’era gente che metteva lo striscione «Me ne frego» durante il minuto di silenzio per il giocatore di colore, man mano scoprivano il procedimento per il quale questa o quella figura storica andava cancellata, cioè semplicemente perché creava imbarazzo a quelli che volevano governare ora. […] E a quel punto tu scopri la politica. La persona non alfabetizzata che sta in curva a quel punto scopre la politica: «Aaah cazzo, la politica è questa?», «Si!». Cioè, a quel punto anche chi è più disinteressato in curva scopre la politica. Non la politica strutturata che si fa nelle sedi di partito, ma la politica reale, quella di strada. Scoprono che si devono confrontare tutto il giorno con i media e con la politica che vogliono gestire il cervello della gente, quindi il danno le istituzioni se lo sono fatte da sole. Tirar fuori quelle icone è stato uno choc per chi governava la città, perché si è ritirato fuori gli scheletri dagli armadi di chi se li voleva accantonare. C’era una consapevolezza polemica in noi.

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Millenovecentonovantanove

La «consapevolezza polemica», abbinata ad alcuni episodi di violenza con altre tifoserie346 ma soprattutto con le forze dell'ordine, preoccupa l'amministrazione cittadina - essa stessa oggetto di critiche come vedremo in seguito - che cerca di limitare il danno di immagine che la ribalta della curva sembrerebbe riversare sull'intera città. Il Tirreno, il giornale locale, accoglie quotidianamente interventi sulla politicizzazione della curva da parte delle B.A.L.

«Non accettiamo che qualcuno si senta il padrone dello stadio. E tantomeno che imponga colori e slogan politici a chi viene a vedere la partita ed a tifare per il Livorno». No alla politicizzazione del pallone nella nostra città: il messaggio, forte e chiaro, arriva dai Ds347.

Nelle giovani generazioni, è evidente, esiste una situazione di forte disagio - ammette il sindaco Lamberti - Questi ragazzi sono alla ricerca di una nuova identità e di spazi diversi, e noi siamo pronti a discutere su tutto e con tutti, a patto che non si superi il confine della violenza. La forza delle idee non può essere surrogata dalla forza della prepotenza, e questo principio deve valere sia allo stadio, sia in un'area dove si svolge uno spettacolo, sia in una piazza dove si intende manifestare le proprie idee. Quindi sì al dialogo, in modo tale che i nostri giovani possano trovare spazi per confrontarsi, per ragionare, per riflettere, per fare proposte e svolgere iniziative, ma il confine della violenza resta un limite insuperabile. Per questo daremo subito il via ad una forte di campagna di sensibilizzazione che non riguarderà solo il mondo dello sport.

346 Pur mossi da una differente simbologia politica, gli scontri rientreranno prevalentemente “nel gioco delle bandiere”: avvicinarsi agli avversari, trasgredire i confini, tentare di impossessarsi del loro materiale e talvolta scontrarsi nella forma della micro-aggressione. 347 BILLERI G., «Basta politica in curva, lo stadio è di tutti». I Ds:«Assurdi richiami a Stalin e Che Guevara», Il Tirreno, archivio on line, 2 settembre 2001. 241

Tifo e politica. [...] «Il Livorno rappresenta un patrimonio dell'intera comunità cittadina - e pertanto non deve essere né assoggettato a strumentalizzazioni di sorta né utilizzato per scopi e fini di strumentalizzazione politica. Lo sport non deve essere una palestra per le contrapposizioni politiche o uno strumento per la determinazione di consensi, come in uso nei regimi totalitari: esiste una politica dello sport, non lo sport usato dalla politica. Sappiamo bene quali sono stati i regimi che hanno utilizzato lo sport per fini politici, ma noi siamo lontani da ogni logica di totalitarismo». Il «Che». «Nel mio ufficio c'è anche l'immagine di Che Guevara - prosegue Lamberti - un personaggio che fa parte della mia formazione politica. Ma accanto non ci sono immagini o simboli di regimi totalitari: io credo nella tolleranza e nel sacrificio per la libertà, non alla violenza sugli altri348.

Come ammette il sindaco, proprio la ricerca di identità e di spazi sociali sembra essere la stella polare di una nuova generazione che si affaccia in città. Dopo anni di vuoto sul fronte della politica di movimento l'avvento delle B.A.L coincide con un risveglio cittadino. La voglia di “ricreare” qualcosa era già emersa un paio d’anni prima, nelle assemblee della Federazione Anarchica Livornese che offriva la sua sede per la festa dell’autorganizzazione che si teneva in Fortezza Nuova e che promuoveva saltuarie iniziative di autofinanziamento.

Tutto molto bello e partecipato ma la disomogeneità del gruppo creò subito una frattura fra la parte più “artistica” e quella più “politica”, un classico dei movimenti giovanili. Ma il vero fattore che mancava a queste esperienze era quella spinta popolare che era pronta ad esplodere ma che non riusciva a trovare il punto di congiunzione con un progetto che quantomeno indicasse le rivendicazioni e i luoghi dove esprimersi. Era tuttavia chiaro che in città aleggiava una voglia di protagonismo politico e generazionale, fatto non insolito ma raro in una città dove il PCI ha sempre monopolizzato la vita politica e dove gli anni settanta sono passati in modo meno prorompente rispetto ad altre città349.

348 Guarducci. A., «Basta col tifo politicizzato» E il Comune ribadisce il suo no ad ogni forma di violenza, Il Tirreno, archivio on line, 29 agosto 2001. 242

L'anno cruciale è il 1999. Come abbiamo visto, in quell'anno una generazione di giovani ultras prendeva decisamente in mano le redini della curva nord con il nome di Brigate Autonome Livornesi e con il Livorno che di lì a poco avrebbe cominciato a scalare le categorie e riportare entusiasmo allo stadio. Contemporaneamente compare anche il “Movimento Spontaneo Spazi Sociali Autogestito”, un collettivo di giovanissimi formatosi con l'intento di ricreare una discussione sugli spazi cittadini abbandonati e ottenere un nuovo centro sociale autogestito.

Il centro sociale che avevamo in mente è completamente autogestito, libero, autonomo, e aperto ad ogni attività che abbia un risvolto culturale o sociale alternativo al sistema, in modo da non dividere le diverse realtà in una esasperata frammentazione, condizione intenzionalmente creata con lo scopo di evitare il sorgere di un movimento critico di massa350.

La svolta decisiva però è rappresentata dal G8 di Genova 2001 e dalle grandi manifestazioni no global che si concludono con la morte di Carlo Giuliani e «testimoniano la strutturale violenza dello Stato contro i processi di trasformazione radicale351». Un evento-genesi della formazione culturale di una intera generazione, che si ripercuote anche a Livorno.

Nei giorni successivi a Livorno, in Fortezza Nuova, si susseguirono assemblee e iniziative con la nascita del Social Forum Livornese. Ma ormai l’eco di Genova aveva prodotto quella scintilla che dette la spinta politica definitiva affinché i gruppi operativi in città trovassero un’unità di intenti e si sentissero pronti per un’occupazione stabile e la creazione di un soggetto politico conflittuale di movimento.

349 MARINO F., 1 novembre 2001 - 1 novembre 2011: 10 anni di movimento a Livorno, Senza Soste, on line, 1 novembre 2011. 350 Storia del Movimento Spontaneo Spazi Sociali Autogestiti, disponibile sul web: www.mspontaneo.00go.com/storiamovimento.htm 351 MUSELLA A., La generazione del luglio 2001, Fanpage.it, 20 luglio 2013. 243

Al fianco del gruppo di giovanissimi che, sotto la sigla “Movimento Spazi Sociali”, vagavano per la città rivendicando ancora uno spazio sociale, si schierano alcuni elementi più politicizzati della curva nord. Da questo percorso il 1° novembre 2001, tutti insieme, occuperanno il Centro Sociale Godzilla, una palazzina di due piani situata in via dei Mulini lasciata in stato di abbandono ma che nei primi anni ’90 era stata sede del vecchio centro sociale. Per A., all'epoca militante del C.S.A. Godzilla:

Senza le B.A.L. forse il Godzilla non sarebbe mai rinato. Mi spiego meglio, il Movimento Spontaneo, che di fatto fu il gruppo che creò le basi per il collettivo politico che di lì a poco sarebbe nato, già da tempo pensava alla necessità di occupare una sede dove poter fare politica. E sicuramente ci saremmo riusciti comunque. Però la nascita delle B.A.L. è stata importante, anzi, direi fondamentale per un altro motivo. Ci ha dato consapevolezze. Uso il plurale non a caso. Consapevolezza di non essere soli, consapevolezza di potersi rivolgere a una città che improvvisamente era stata risvegliata – può sembrare assurdo ma è così – dalla tifoseria della squadra di calcio locale, consapevolezza – di poter contare su una forza reale che sapesse in caso di necessità risvegliare pratiche sopite come l’antifascismo militante. Non fu facile far coesistere le varie anime politiche all’interno dello stesso centro sociale e neppure mancarono i momenti di tensione. Alcuni anarchici, proprio a causa delle presenza delle B.A.L., preferirono abbandonare il Godzilla.

Le attività del centro sociale e degli elementi della curva si separano presto in due collettivi politici che restano all'interno della stessa palazzina, ma in piani differenti. Al primo matureranno le attività del centro sociale “Godzilla”, mentre al secondo piano, che per anni, da molti, continuerà a essere chiamato “il centro sociale delle B.A.L.”, sarà costituita l’Associazione Ilio Dario Barontini, da cui nascerà il Centro Politico 1921 (C.p. '21). Proprio la figura di Ilio “Dario” Barontini, il cui ricordo era ormai sbiadito nella memoria storica locale, verrà ripescata diventando una figura simbolo del C.p. '21 e delle B.A.L., che ne faranno un’icona della lotta antifascista. 244

Mentre la programmazione del “Godzilla” proporrà attività culturali, aggregative, ludiche e politiche in linea con l'esperienza nazionale dei centri sociali, le attività del C.p. '21 saranno più incentrate all'organizzazione di dibattiti sulla memoria storica dell'antifascismo e del comunismo. Si rielaborano storie di partigiani locali, episodi di arditismo popolare, e in più in generale vengono riattivate le radici combattive e ribelli della città attraverso gli episodi del passato. L'appuntamento senza dubbio più importante per i militanti diventa la commemorazione, anno dopo anno, della nascita del Partito Comunista d’Italia, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921. Una manifestazione che fino all'avvento delle B.A.L radunava pochi “nostalgici”, cresce a dismisura e diventa un appuntamento di richiamo nazionale. Di questa traiettoria che rianima dibattito e spazi di socialità autonoma a Livorno, danno conferma le parole di L., leader della curva e già transitato nella prima esperienza del C.S.A. Godzilla dei primi anni '90.

Il movimento a metà anni Novanta era deceduto. Quello che è venuto dopo e che è passato per il G8 ha ripreso forza dalla curva. Però la generazione che io ho trovato quando sono entrato nella palazzina in via dei Mulini è scomparsa, si è dissolta. Quel centro sociale, l’unico della città, è stato chiuso per lassismo. Era rimasto solo lo stadio e dallo stadio poi è ripartito tutto. Ti sei ritrovato con gente che magari fino a cinque mesi prima non ci pensava nemmeno a cosa poteva essere, a cosa potesse voler dire fare una lotta politica, e ora c’era dentro. La curva mano a mano è stata riconosciuta come soggetto, un soggetto che s’allarga in termini differenti, perché te se hai un centro sociale o un organismo per prendere trenta persone dentro bisogna che fai un lavoro politico con una mole grossa. In curva basta che il Livorno vinca quattro partite di fila e te ti ritrovi centocinquanta persone in più e il meccanismo è facile, la gente non si identifica più in niente, viene in curva, si identifica con te e in un certo senso ti segue. Sei dentro la città e non sei chiuso in un centro sociale. Poi mettici il Livorno che dalla C2 è finito in serie A e questo ha causato un’esplosione grossa. Però quando si fece l’unione del gruppo il Livorno fece un campionato di merda, fu l’anno che poi venne Spinelli [l’attuale

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presidente del Livorno Calcio]. Il nostro è un progetto che è nato prima dell’esplosione del Livorno, la genuinità del progetto è stata il fatto che non è nato in un momento di enfasi, però dopo l’ha vissuto.

Il percorso tracciato da L., si ritrova puntualmente nelle parole di N., militante del movimento spazi sociali.

Ognuno si è ritrovato lì con istanze diverse: te con la tua socialità diffusa e il bisogno di spazio d'espressione, dicevi, per tutti, ma poi era per te. Ma poi chiedevi una cosa che aveva un significato politico; e quindi tante percorse politicamente interessate si sono viste costrette ad aderire al percorso. In realtà era un percorso che esisteva da anni a Livorno, ma tu non lo conoscevi perché avevi 17 anni. Perché non lo conoscevi? Perché era morto. E il ricambio generazionale non c'è stato. C'era anche una generazione a metà tra noi e loro, ma erano troppo giovani per andare dietro al csa gestito dai vecchi e quindi si sono avvicinati a noi. Qualcosa quindi sottotraccia c'era, poi mettici l'esplosione dello stadio, la politicizzazione della curva, i giovani comunisti e i gruppetti anarchici che vagavano nel nulla, riprendere la questione degli spazi rianimò tutti e quindi ci siamo rincontrati. C'era chi era politicizzato, chi aveva bisogno di spazi, chi esigenze culturali. La scintilla fu Genova, il risveglio della rabbia, forse una questione politica. C'era stato anche il Social Forum che ti ha fatto vedere quello che non volevi essere. Tutti ci siamo stati, lì si parlava anche senza conoscere le dinamiche che c'erano dietro, perché hai visto dei soggetti che campano per essere quei soggetti, non volevano un altro mondo possibile, volevano l'idea di quel mondo per esistere. Dopo Genova, più che la coscienza politica, cresce la rabbia contro l'istituzione, che può essere il governo o il sindacato, ogni forma organizzata e costituita.

Ricapitolando, con l'irrompere delle B.A.L., la curva passa le redini a un'avanguardia ultras che si caratterizza per una compattezza inedita fino a quel momento e per una marcata politicizzazione raffigurata da una simbologia che richiama alle esperienze comuniste nazionali e internazionali; dopo un decennio di forte depoliticizzazione

246 cittadina e di mancanza di spazi di socialità collettiva, la curva manifesta una potente capacità aggregativa («la gente non si identifica più in niente, viene in curva, si identifica con te e in un certo senso ti segue»), attraendo in particolare gli strati giovanili e, dopo i fatti di Genova del G8, dà linfa a una ricomposizione del movimento politico antagonista. Come fa presente L. nella frase di chiusura del brano precedente un elemento che dà ulteriore impulso alla visibilità della curva è rappresentato dai risultati della squadra: nel giro di pochi anni, il Livorno vivrà infatti stagioni indimenticabili dal punto di vista sportivo. Dopo aver sfiorato uno scudetto nel 1943, la società non aveva più partecipato alla massima serie dal campionato 1948/49. Dopo una serie di campionati tribolati, l'ultima comparsa in serie B fu nella stagione 1970-71. Poi un’altalena fra le categorie più basse dei professionisti, crisi finanziarie e fallimenti avevano accompagnato la società fino alla seconda metà degli anni '90. Dopo aver abbandonato faticosamente la serie C2 con la conquista del campionato del 1996-1997, l'ingresso in società del presidente Aldo Spinelli nel 1999 segna la svolta sportiva. Con l'acquisto di Igor Protti e la presenza in panchina dell'allenatore Osvaldo Jaconi, il Livorno torna infatti in serie B nella stagione 2001-2002, per poi compiere dopo 55 anni il ritorno in serie A nel 2003-2004 supportato dalle reti dell'idolo cittadino Cristiano Lucarelli. Addirittura, nel 2006-2007, in seguito alle penalizzazioni di alcune squadre per lo scandalo Calciopoli, la squadra è ammessa, per la prima volta nella sua storia, a una competizione europea, l'Europa League. I risultati proiettano la città in situazioni di ben altro spessore rispetto ai decenni precedenti e accentuano la visibilità della curva, che nel giro di poco tempo ottiene ancora più risalto per l'originale connotazione politica del rito. Un tratto particolare che accompagna le vicende di questi anni è la saldatura tra squadra, curva e città. Un “tutt'uno” che ha origine nelle grandi sofferenze sportive che la squadra amaranto patisce con le puntuali sconfitte nelle fasi finali dei campionati - i play off - e che fanno sfumare in più occasioni il salto di categoria, davanti a un

247 pubblico quantitativamente straordinario (20.000 a Perugia, 12.000 a Ferrara...). A rafforzare questo legame ci sono poi alcune figure nello spogliatoio che diventeranno nel tempo “bandiere” della società e della curva. Igor Protti, della serie A nella stagione 1994-1995, dopo qualche anno a vuoto, riparte dalla C con il Livorno, realtà già incontrata ad inizio carriera e per la quale aveva manifestato una grande attrazione, e vi giocherà fino alla fine della sua carriera, segnando ben 123 reti in appena sei stagioni, scalando tutte le categorie fino alla serie A. Con un ruolo diverso, uno dei massimi contributi al rafforzamento del rapporto “speciale” tra città e tifosi, è stato attribuito all'allenatore Osvaldo Jaconi352, che creerà un legame viscerale con la tifoseria: i capi ultrà lo chiameranno Vodz, che in cirillico vuol dire capo, e lui ricambierà l'affetto con un attaccamento particolare ai colori amaranto («Dopo la finale di Como, non ero più solo l'allenatore, ma anche uno dei tifosi»). Probabilmente, è con l'arrivo di Crisitiano Lucarelli, fortemente voluto dalla tifoseria nella seconda stagione di serie B, che l'osmosi si fa totale. Nato a Livorno, di origini popolari – è cresciuto con la famiglia nel quartiere Shangai - Lucarelli con la squadra in B fa di tutto per raggiungere la maglia amaranto e sigla nell'estate un accordo, in prestito dal Torino, che prevede la rinuncia a cinquecentomila euro di ingaggio del suo contratto. «Una spesa per me, un regalo. Ci sono calciatori che si fanno la Ferrari, lo yacht. Io mi ci sono comprato la maglietta del Livorno353», commenterà nel libro che gli dedica il suo procuratore, nonché giornalista, Carlo Pallavicino. Tra Lucarelli e i tifosi del Livorno c'è una storia segnata da un lungo inseguimento: il giocatore veste le maglie di Perugia, Padova, Cosenza, Bergamo, Valencia, Lecce e Torino, ma sfrutta ogni occasione, simulando anche infortuni, per aggregarsi ai tifosi amaranto e seguire le sorti della squadra. Appena 21enne balza agli onori delle cronache, non solo sportive, in occasione della partita Italia-Moldova Under 21 che si gioca a Livorno: festeggia un gol

352 Il presidente Aldo Spinelli, in occasione della festa del centenario del Livorno, il 14 febbraio 2015, ha ricordato l'importanza della figura di Osvaldo Jaconi: «Ci sono stati giocatori che hanno fatto il bene di questa società, ma una delle cose più belle è stata Jaconi e quel rapporto speciale che ha creato con la città e i tifosi. La sua promozione in serie B è stata la più bella per mille motivi. Ricordo quando a Vicarello [centro sportivo del Livorno Calcio all'epoca] il mister faceva la pastasciutta per tutti; quello sì che era un gruppo unico». 353 PALLAVICINO C., Tenetevi il miliardo, Milano, Baldini Castoldi Dalai Editore, 2004, p.180. 248 sotto la curva nord mostrando una maglietta degli ultrà livornesi con il “Che” ritratto al centro. Un gesto che per anni gli valse l'embargo dalla nazionale, oltre alla sconfessione degli ultrà del Padova per cui giocava all'epoca e la cessione da parte del Parma, che ne deteneva il cartellino. Lucarelli si comporta come un ultrà in campo, lotta su ogni pallone, trascina i compagni, esulta a pugno chiuso verso la nord ad ogni rete. Particolare anche la scelta del suo numero di maglia, il 99, omaggio al gruppo delle Brigate Autonome Livornesi che ne fanno un loro ingranaggio. Agli occhi dei tifosi, come confida un ultrà al suo procuratore, Lucarelli non è infatti arrivato per seppellire diffidenze e rancori cittadini sotto un “branco di gol”, ma per sospingere il conflitto, e quindi il rito, prodotto dalla curva354. E Lucarelli, come vedremo, non si tirerà indietro.

Fino all'ultimo bandito

In questi anni lo stadio è soggetto alla forte attenzione mediatica che squadra e gruppo ultras conquistano, un palcoscenico che secondo il Ministero degli Interni occorre monitorare con più attenzione e pertanto l'11 giugno del 2002 trasferisce il questore Cristofaro La Corte, in passato oggetto di critiche dallo stesso ministero per una gestione troppo soft della “questione ultrà”. In realtà sotto la sua ala, pur includendo conflittualità fisiologiche del mondo ultras affrontate sotto il profilo dell'ordine pubblico, i rapporti con la curva sembravano tenere: La Corte aveva puntato al dialogo e alla conoscenza del gruppo - collaborando anche per uno studio dell'Università di Pisa sull'argomento – e aveva riconosciuto alla tifoseria organizzata il mantenimento di un ordine sociale la cui mancanza avrebbe significato il ritorno alle turbolenze incontrollate del passato e al proliferare di “cani sciolti”355. Al suo posto, da Arezzo, viene inserito Antonino Puglisi, che sull'argomento si presenta con dichiarazioni che puntano a rinnovare il dialogo e la collaborazione con la tifoseria. Il rapporto, al contrario, si farà

354 Ivi, p.239. 355 SILVESTRI M., «Il dialogo aperto con gli ultrà ci permette di isolare i teppisti», Il Tirreno, 29 marzo 2001. 249 presto molto teso356 e il Questore emanerà un carico di provvedimenti tale da rendere la curva livornese la “più diffidata d'Italia”. Il secondo campionato di serie B sarà infatti l'ultimo che vedrà le Brigate Autonome Livornesi presenziare in massa gli appuntamenti calcistici. Alcuni pomeriggi di scontri con le tifoserie nemiche, ed alcuni striscioni provocatori, come quel “Gloria a te per sempre” con tanto di ritratto di Stalin, in occasione del compleanno del'ex leader sovietico, esasperano il clima cittadino e danno linfa alle invettive del giornale locale che in un'occasione viene addirittura occupato dagli ultras delle B.A.L. Come sostengono due tifosi amaranto B. e S.:

La situazione era diventata insostenibile, ogni occasione era diventata buona per metterci in cattiva luce, ogni episodio che magari solo da lontano poteva riguardarci veniva puntualmente ingigantito e strumentalizzato per vendere qualche copia in più. Senza contare le volte in cui le notizie se le inventavano di sana pianta oppure quando alcuni di noi si sono trovati sul giornale col proprio nome e cognome, alla faccia della deontologia. Perché all’epoca le Bal tiravano, eccome se tiravano! Non ne potevamo più e decidemmo di andare su da quegli avvoltoi a mettere le cose in chiaro. Non avevano nemmeno il coraggio di guardarti negli occhi.

Perché non avremmo dovuto ricordare Stalin? Quale sia la nostra idea politica lo sanno tutti e ne andiamo fieri. La curva di Livorno è orgogliosamente comunista e non si ferma all’ipocrisia di questa sinistra revisionista. All’entrata allo stadio ci facevano storie non tanto sullo slogan quanto sul ritratto perché era chiaro che non avessero la minima intenzione di chi fosse quel tizio baffuto. Allora noi gli rispondemmo che era Ocalan, il leader curdo, e loro lo fecero entrare.

356 Suscitando reazioni contrastanti negli altri settori e tra le istituzioni, la curva per tutto il periodo della permanenza del Questore lancerà un pesante coro offensivo nei riguardi della consorte. 250

All'inizio del 2003 gli episodi di conflittualità raggiungeranno uno dei picchi massimi di questi primi anni di esistenza del gruppo. Molti di questi si verificano il 25 gennaio 2003, in occasione del big match Livorno-Sampdoria. A fine gara si verificano incidenti tra le due tifoserie, tafferugli che decretano la fine di un vecchio gemellaggio e che rientrano in quel mutamento di strategia che ha interessato la tifoseria ultras livornese nei rapporti di amicizia e ostilità con le tifoserie avversarie, ora filtrato da un lettura politica. La tifoseria sampdoriana è gemellata con quella di La Spezia, acerrima rivale di quella livornese, e una parte ha una storica amicizia con la curva del Verona. Gli incidenti costeranno alle B.A.L. una trentina di diffide, in larga parte dirette ad elementi di spicco del gruppo che si professeranno, inutilmente, del tutto estranei agli scontri. Nella stessa giornata gli ultrà livornesi vengono pesantemente criticati dall’opinione pubblica per non essersi conformati al resto del pubblico presente allo stadio che ha applaudito in occasione del minuto di silenzio dedicato alla memoria dell’ex presidente della Fiat Giovanni Agnelli, deceduto nei giorni precedenti. Dalla curva nord piovono fischi e cori contro “il padrone” per antonomasia e le B.A.L. espongono anche uno striscione polemico: “Scusate, ma le nostre lacrime sono in cassa integrazione”. Livorno-Sampdoria è l'occasione per avviare un ulteriore diatriba, forse la più forte, che si anima per un altro striscione esposto dalla curva. E' la settimana in cui cade il Giorno della Memoria e dalla nord spunta uno striscione di denuncia contro i crimini di Israele contro i palestinesi: “Ricordare l’olocausto per condannare Israele. Palestina libera”. Uno striscione la cui lettura viene indirizzata da media e istituzioni locali e dalla comunità ebraica livornese in un messaggio carico di intolleranza. Come si evince dagli episodi, oltre agli scontri rituali degli ultras, a preoccupare è l'egemonia comunicativa, che non si limita ad affermarsi come avanguardia morale del tifo, ma si innesta sul piano della polemica politica. La riflessione che segue è comparsa sul forum “Alè Livorno”, che poco dopo la sua nascita, 1° settembre del 2000, si afferma come la più cliccata piazza virtuale cittadina, allargando al web le capacità

251 mitopoietiche della chiacchiera calcistica. Proprio da questa piattaforma è ripreso l'intervento di Neuro, uno delle voci più attive, che ricostruisce anni di investimento delle istituzioni nel palcoscenico dello stadio per affermarsi come il soggetto egemone della ritualità domenicale. Un modello di regolazione del rito che trova la rottura con l'avvento delle B.A.L.

Livorno è cosparsa di locandine sulla "legalità" in curva scritte a caratteri cubitali a monito dei riottosi. Se venissi da un altro pianeta ci crederei anche io a quello che dicono cioè che si tratta di restituire la curva a tutti. In verità questi signori hanno un solo vero isterico interesse: riprendersi il monopolio della comunicazione in città che è stato messo in discussione da quando la curva ha cominciato a far parlare di sé e quindi a non poter essere nascosta ai media. Piacciano o non piacciano questi comportamenti spero che non sfugga la posta in gioco: dietro il cosiddetto “ripristino della legalità in curva” ci sta il ritorno ad una situazione dove tramite il calcio parlano solo loro. […] Il notabilato che gestisce Livorno non gradisce che ci sia gente che fa parlare di sé con propri contenuti, con propri valori diversi da quelli del “palazzo” senza che i “signori” di Livorno possano farci davvero qualcosa. Una situazione inedita per le classi dirigenti di questa città. […] E qui andrei qualche anno addietro per ricordare quale situazione vorrebbero restaurare i notabili di questa città. Andiamo all'inizio degli anni '90. Si scioglie il Pci e di conseguenza l'apparato di partito. Lentamente, a fiancheggiamento dell'allora Pds, nasce un nuovo modo di produrre consenso che utilizza anche il calcio. Chi si ricorda le prese di posizione dell'allora sindaco sugli incidenti di Pontedera del '93? Non sfuggì in quelle prese di posizione un populismo di tipo nuovo che non tardò a maturare: dalle dirette in tv con gli sportivi del “sindaco primo tifoso”, alla presenza del figlio del sindaco come commentatore sportivo fino alla (guarda te il caso) valanga di telefonate degli sportivi, che ringraziavano il sindaco per la venuta di Spinelli, nelle trasmissioni sul Livorno durante la campagna elettorale per il comune del '99. Quelle telefonate non furono considerate da nessuno una intercessione della politica nello sport e infatti i sindaco fu rieletto facendo il pieno di voti.

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Durante gli anni '90 il calcio ha funzionato bene, anche per la risalita della squadra dall'eccellenza alla C e per il relativo ritrovato interesse, come strumento di marketing, anche se artigianale, del ceto politico livornese. E' in questo periodo che il maggior quotidiano locale si specializza nella costruzione di uno spazio del lunedì, da impaginare nel servizio sulla partita di calcio, di puro marketing dedicato ai pareri sulla partita da parte dei politici della maggioranza di questa città. Inutile dire che il vecchio sindaco quando non più eleggibile per mantenere visibilità si è fatto dare sul maggior quotidiano della città uno spazio in prima pagina dove commentare (in maniera orrenda e senza alcuna cognizione di causa) le partite del Livorno mica la vita politica cittadina. Questa situazione, di completamento del monopolio della comunicazione e della visibilità dei governo locale tramite il calcio, si è interrotta dalla fine degli anni '90 con il protagonismo della curva nord che esprime esigenze di comunicazione che vanno al di là del calcio come è naturale in ogni spazio pubblico. Un protagonismo anche mediatico, tutto creato dal basso, che ha fatto si che per la prima volta dopo decenni sfuggisse il monopolio dei comportamenti e della comunicazione in questa città al notabilato che pigramente si riproduce da sempre. Ora a me non interessano i giudizi sui "contenuti" della curva mi interessa indicare come una situazione di monopolio si sia rotta e qualcuno stia cercando di ripristinarla in modo autoritario. E dico autoritario non a caso: sono conosciuti a tutti gli esempi di allontanamento coatto da uno spazio pubblico e senza processo (leggi diffide) semplicemente per aver espresso un'opinione allo stadio (leggi striscioni). E questo è indice che ceto politico livornese, e parte della sua opinione (si fa per dire) pubblica non è in grado di confrontare opinione contro opinione, valore contro valore ma riesce solo a chiedere l'intervento della polizia o a legittimare misure di ordine pubblico contro chi esprime una cultura diversa che oltretutto è antifascista e antirazzista.

Le parole di L. offrono ulteriori particolari alla fase di imbarazzo politico causata dalla perdita di egemonia delle istituzioni sullo stadio.

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Gli striscioni di quel periodo crearono imbarazzi politici ma, come ho letto su una tua nota, quello che avete pagato di più è stato lo striscione sull’Olocausto. Da lì è partito tutto. Io sono molto sicuro. E sai perché? Perché ci sono stati dei messaggi come succedeva sempre. La curva fa uno striscione, l’indomani il consiglio comunale ne parla e l’articolo lo fa il giornale. Però da quel momento lì secondo me altri poteri di questa città hanno spinto e da lì son partite tutte le diffide ed è partita la guerra anche legale. Fino a quel momento l’ordine era gestito. Che poi sappiamo bene che l’ordine era gestito politicamente, che anche se sul giornale vogliono apparire, il Questore e il Sindaco, sul giornale vogliono apparire che tu fai il tuo lavoro e io il mio, però ne possiamo parlare insieme di questa cosa qui, in realtà poi a tavolino erano cose che decidevano insieme, lo sanno tutti. Chi fa politica sa che è così. Fino a quel momento, di fronte al fenomeno in crescita della curva che era poco gestibile, anche per la forza popolare che c’aveva, loro la gestivano dicendo “quando scoppio qualcuno che fa qualcosa sono giustificato dal salaccarlo” e c’era una mezza situazione di concertazione tra le forze dell’ordine, le forze politiche e noi in cui si sapeva che certi episodi...beccavano le persone. A quel punto lì loro cambiano programma. Questa è un’organizzazione che devo distruggere, devo trovare i modi piano piano per levare di mezzo tutti.

A poche settimane dal turbolento match contro la Sampdoria, l'Armando Picchi ospita il Verona, secondo le nuove logiche dalla curva, la partita più attesa dell’anno. In realtà i tifosi veneti a Livorno non arriveranno mai per una scelta risoluta del questore di Livorno, Antonio Puglisi, che approfittando del fatto che una minima parte dei componenti dei dieci pullman in viaggio per Livorno non avesse il biglietto, ha «parcheggiato» tutti i tifosi all’Interporto di Guasticce, in aperta campagna, a 15 km dalla città labronica, provocando uno scontro violentissimo tra ultras veronesi e forze dell’ordine. Nel frattempo nel piazzale antistante alla curva nord fin dalla mattina presto si forma un particolare presidio che vede mescolati alla tifoseria livornese qualche

254 centinaio di ultras e militanti politici provenienti da tutta Italia e da mezza Europa. Un'internazionale del tifo357, radunatasi in chiave antifascista. Mezz'ora prima della gara gli ultras livornesi all’esterno della curva caricano le forze dell’ordine. Gli scontri sono duri e apparentemente ingiustificati, ma in realtà hanno lo scopo di permettere ai “compagni” giunti da fuori di accedere allo stadio e di dare una risposta da “ultras” nel clima di crescente tensione che si è venuto a creare tra la curva nord e la Questura, ormai decisa a portare avanti la strategia di “tolleranza zero” imposta da Puglisi, che in seguito a questa vicenda, comminerà altre trenta diffide. Un'enormità, in meno di un mese, e in una curva relativamente piccola come quella dei tifosi livornesi. Durante la stagione il numero dei diffidati si ingrossa. Uno dei casi più rilevanti è la diffida collettiva emanata in occasione della partita del 20 settembre 2003, Triestina- Livorno, una partita che due pullman di tifosi non riusciranno neanche a vedere. In sosta all’autogrill di Gonars (Udine) sulla A4 i tifosi vengono infatti fermati dalle forze dell’ordine per presunti furti commessi all’interno dell’esercizio, trasportati presso la Questura di Udine, identificati uno ad uno e rilasciati solo a tarda notte. Verranno diffidati tutti e 99 nonostante non venga mai mostrata alcuna immagine (e quindi le prove del reato) ripresa dalle telecamere del circuito interno all’autogrill. Le B.A.L. protestano platealmente contro l'ennesimo provvedimento di allontanamento dagli stadi e il 16 novembre in occasione di una sfida casalinga decidono di lasciare un ampio buco vuoto all’interno della curva per i primi dieci minuti e di rinunciare alla tradizionale esposizione di striscioni. Nella stessa giornata un altro episodio proietta le B.A.L. all'attenzione nazionale. La FGIC ordina un minuto di silenzio su tutti i campi in ricordo della strage di Nassiriya di quattro giorni prima, dove 19 militari hanno perso la vita in un’offensiva locale contro le truppe di occupazione italiane in Iraq. Le B.A.L., seguite da un cospicuo numero di tifosi “generici” della curva nord, assistono muti al minuto di silenzio per poi attaccare, una volta sciolto il minuto, un coro contro i

357 TINTORI T., L'internazione del tifo, Il Manifesto, 11 febbraio 2003, p. 255 carabinieri, un “classico” da stadio e da manifestazione: “La disoccupazione – ti ha dato un bel mestiere – mestiere di merda – carabiniere!”. Il fatto è rilanciato immediatamente dall’agenzia Ansa che scrive, erroneamente, che gli ultrà livornesi non hanno rispettato il minuto di silenzio: l'oltraggio delle B.A.L. fa il giro dell'Italia e la tifoseria livornese finisce al centro della gogna mediatica. Nel secondo tempo della partita c'è spazio per un altro episodio che farà discutere: in curva viene esposto uno striscione che ritrae la consigliera comunale e leader provinciale di Alleanza Nazionale, Marcella Amadio, a testa in giù con una bandiera tricolore nel sedere. Dichiaratamente fascista358, la consigliera è nel mirino dei tifosi per aver più volte chiesto in consiglio comunale e attraverso comunicati stampa misure forti nei confronti delle B.A.L. In seguito all’esposizione di questo striscione, undici ultrà vengono diffidati e, cosa ben più grave, indagati per associazione a delinquere. Il brano che segue, tratto da un articolo dell'Unità registra la forte polemica per i cori contro i carabinieri e in poche frasi riassume una condizione emergenziale tale da impegnare assiduamente l'agenda politica del consiglio comunale.

[…] c'è un aspetto che colpisce, in vicende come questa: e cioè che spesso il consiglio comunale livornese si è trovato a dover valutare, commentare e censurare i comportamenti che i tifosi (è dura definirli così) hanno tenuto dentro lo stadio. È accaduto più d'una volta, insomma, che le frange più estreme del tifo livornese abbiano, in qualche modo, avuto il potere di scrivere l'agenda del consiglio comunale, ponendosi e imponendosi all'attenzione della città. Con le buone o con le cattive359.

E' opinione diffusa, insomma, che la situazione della curva e una serie di episodi conflittuali ad essa legati «rappresentino un'emergenza reale, sulla quale intervenire prima che i pericoli aumentino in modo incontrollato». L'articolo prosegue addossando una responsabilità culturale e indiretta delle B.A.L. anche laddove è difficile risalire a

358 ZUCCHELLI M., Amadio: nessuno tocchi la fiamma, Il Tirreno, on line, 28 novembre 2003. 359 DE MAJO L., Tutta Livorno condanna i fischi ai carabinieri, L'Unità ed. Firenze, 18 novembre 2003, p.5. 256 una colpevolezza oggettiva, uno scenario che di lì a poco sarà alla base del “teorema” che la procura di Livorno sosterrà nel formulare l'accusa di associazione a delinquere nei confronti di alcuni rappresentanti del gruppo ultras.

[in merito ai fischi] stavolta è difficile perfino risalire ai responsabili di questi gesti. Perché, a ben vedere, neppure alle Bal, Brigate autonome livornesi, la formazione più forte di ultrà amaranto, su posizioni politiche di estrema sinistra, è possibile ascrivere la responsabilità diretta degli atti di due giorni fa, avvenuti in pieno sciopero del tifo organizzato, provocato dal divieto di ingresso in campo per sistemare gli striscioni. Un gruppo che però ha la paternità della disseminazione di una cultura dell'intolleranza, che fa peraltro a pugni con ogni barlume di idea antifascista e di sinistra, e che adesso rischia seriamente di attecchire, fra decine di giovani il cui solo credo autentico è il tifo per una squadra di calcio. E l’impressione che si ha è che questa responsabilità sia addirittura più pesante di uno slogan, per quanto grave, contro i carabinieri360.

Per protestare contro diffide e strumentalizzazioni, le B.A.L sfilano in corteo alla fine di novembre, attraversano tutta la città e occupano lo stadio, dentro il quale è organizzato un concerto della Banda Bassotti, davanti a un migliaio di partecipanti. Il giorno seguente il resoconto del quotidiano locale su quanto avvenuto sarà tutto incentrato su una presunta sfida con la Questura, a cominciare dal titolo: “Gli ultrà sfidano la polizia”. Con il direttivo praticamente fuori dalla curva e uno sciopero del tifo ad oltranza, ad inizio dicembre, in occasione di Livorno-Catania, si registrano gravi incidenti tra polizia, carabinieri e le due tifoserie ma anche risse in campo tra i giocatori. Il 30 marzo a partire dalle 15 del pomeriggio un elicottero dei Carabinieri sorvola il quartiere Magenta, in pieno centro cittadino: è in corso una perquisizione all'interno della palazzina di via dei Mulini 29, sede del centro sociale Godzilla e del Centro Politico 1921. E' quest'ultimo a interessare l'azione dei militari, in quanto ritenuto luogo di ritrovo dell'ala politica delle B.A.L. L'obiettivo della procura è quello di rintracciare

360 Ibidem. 257 materiali legati ai pesanti scontri avvenuti nel dopo-partita di Livorno-Catania. Per quell'episodio tre tifosi livornesi erano stati colpiti da D.A.S.P.O. e denunciati e uno di loro, un sedicenne, accusato di aver lanciato una bottiglia Molotov. In clima di forte tensione, si tentano iniziative per mediare il rapporto ormai compromesso tra curva e Questura. Marco Susini, deputato dei DS, scrive una lettera direttamente al ministro degli Interni, Giuseppe Pisanu. Il giocatore Cristiano Lucarelli e il capitano della squadra Igor Protti chiedono di essere ricevuti in Questura, ma non trovano alcuna disponibilità a rivedere i provvedimenti. Il centravanti amaranto affida a un comunicato le sue perplessità sulla situazione.

Oltre 200 diffidati in una curva che ospita cinquemila tifosi mi sembrano obiettivamente un’esagerazione. E’ come se, in proporzione, si togliessero cinquemila ultrà alla Roma. Non credo che gli ultras livornesi siano una tifoseria violenta. Nei tanti anni in cui ho frequentato quella curva non ho mai visto circolare coltelli né spranghe, né ho assistito a episodi particolarmente violenti. In oltre quattro anni di Bal sono solo due gli striscioni che hanno fatto scatenare le polemiche, ma nessuno vuole poi ricordare le loro numerose iniziative di solidarietà, quella stessa solidarietà che oggi voglio esprimere io a loro.

Anche il sindaco diessino Lamberti prova a chiedere al Questore un atto di “clemenza” per stemperare il clima. Per iniziativa dei club amaranto nasce uno specifico comitato pro diffidati. L'obiettivo è chiedere la revisione delle diffide, molte delle quali comminate ingiustamente come rivelano le prove documentali in mano agli inquirenti, e avviare quindi un processo di pacificazione e di dialogo tra gli ultrà stessi e la Questura livornese. Ma la solidarietà non basta. Mentre il Livorno vola in classifica, le B.A.L., colpite da oltre 200 diffide, annunciato una sorta di auto-scioglimento per protestare contro «attacchi e strumentalizzazioni» e tutelare «i pochi rimasti, i quali non sarebbero in grado di rispondere». La perquisizione incrina ulteriormente il clima tra tifosi e

258 istituzioni, ma non rimarrà l'unica. I tifosi decidono di mettere in soffitta i loro striscioni, su tutti quello di 80 metri che solitamente è esposto nelle partite casalinghe e riporta il nome del gruppo. Lo striscione “Brigate Autonome Livornesi” non apparirà più in nessuno stadio. Al suo posto viene confezionato lo striscione “Fino all’ultimo bandito” e altri contenenti slogan di protesta tra i quali uno al centro della balconata che recita “Sotto effetto daspo”. Intanto i giocatori fanno sentire il loro supporto alla curva e Igor Protti per festeggiare una rete mostra sotto la maglia da gioco una t-shirt con la scritta “Nessuna diffida arresta la fede. Avanti Livorno”. Ma le diffide continuano. Particolarmente amare risultano quelle comminate al pullman di 54 tifosi che ha seguito la squadra a Catania nel mese di maggio. E' una trasferta da “bollino rosso”, sia per i fatti dell'andata, che per le marcate differenze politiche delle due tifoserie. Così uno dei tifosi livornesi ricostruisce la trasferta:

Quando siamo arrivati vicino a Catania siamo stati presi in consegna dalla polizia. Saranno state le sette e mezza, mancava un’oretta alla partita. Ci siamo accorti subito che c’era qualcosa di strano: ci hanno fatto fare ripetuti giri della città ed è una cosa inusuale perché se vogliono evitare casini o se ritengono che non esistano le condizioni di sicurezza nei dintorni dello stadio ti fanno aspettare al casello autostradale e ti fanno entrare a partita iniziata. Invece quella volta no. Alcuni poliziotti erano saliti sul nostro pullman ed erano particolarmente nervosi, altri spaventati. Man mano che ci avvicinavamo allo stadio, la situazione si faceva sempre più tesa. La gente per strada ci offendeva, alcuni ci tiravano oggetti. Fino a che non siamo stati portati proprio nella tana del lupo ed è successo il finimondo. Hanno cominciato a lanciarci bombe, lamperogeni, bottiglie, sassi. Al che un poliziotto, evidentemente imparanoiato, ci ha detto: “Per noi potete scendere pure e scontrarvi con loro, basta che a noi ci lasciate stare”. E così è stato, anche perché a quel punto era questione di vita o di morte. Se fossimo rimasti dentro al pullman ci avrebbero

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bruciato vivi. Sono stati minuti di autentica guerriglia urbana e noi ce la siamo cavata alla grande.

Nel giro di alcune settimane, come detto, i 54 verranno tutti sottoposti a D.A.S.P.O., facendo salire così il numero dei diffidati a quasi 300. In città, comincia a circolare la convinzione che le tensioni tra Questura e ultrà abbia provocato un accanimento nei confronti di quest'ultimi: è la convinzione del Comitato pro diffidati, che dopo i fatti di Catania si scioglie e attraverso una nota di uno dei suoi esponenti di spicco, il segretario provinciale di Rifondazione Comunista, punta il dito contro le istituzioni. A fine anno, il Livorno ritrova la serie A, dopo 55 anni. Nel frattempo il parlamentare Ds Marco Susini e il capogruppo dei Ds in consiglio comunale, Mauro Penco, chiedono ancora una volta di rivedere tutte le diffide:

Pensiamo anche che un gesto di clemenza oggi potrebbe rappresentare non un cedimento ai facinorosi ma un investimento di fiducia sul futuro. Riavere in curva nord il tifo organizzato al completo potrebbe, a nostro sommesso giudizio, favorire la prevenzione di azioni sconsiderate e inaccettabili che, ormai è assodato, maturano più facilmente quando prevalgono l’anarchia e il nichilismo fuori da ogni controllo.

All'ultima giornata di campionato, in uno stadio traboccante di pubblico ed entusiasmo per il ritorno della squadra in serie A, i giocatori e il presidente della società, Aldo Spinelli, festeggiano sotto la curva nord esibendo una maglietta ironica contro le diffide comminate agli ultrà che recita “Sotto effetto dAspo”. L’iniziativa non passa inosservata e scatena una nuova ondata di polemiche, anche perché il presidente Spinelli indossa la maglietta per tutta la durata della partita seduto accanto al questore Puglisi. A fine giugno, all'indomani dei festeggiamenti della promozione in serie A caratterizzati da una notte di disordini culminati con l'assalto di ignoti alla sede elettorale dell'allora ministro all'ambiente Altero Matteoli, la palazzina di via dei Mulini è interessata da una

260 nuova perquisizione che impegna un centinaio di carabinieri e tiene il quartiere blindato per ore. Le B.A.L. prendono le distanze da tutti gli episodi di violenza accaduti (“non solo non siamo stati noi, ma quelle azioni ci danneggiano”), ma nei loro confronti fioccano le condanne di personaggi di prim'ordine della politica nazionale, a partire dal presidente della Repubblica, il livornese Carlo Azeglio Ciampi. Mentre i vertici di Questura e magistratura sostengono che ci sia la regia occulta del gruppo ultras dietro le azioni più eclatanti degli ultimi anni a Livorno, in un clima di totale accerchiamento, anche la sinistra istituzionale cittadina comincia a prendere le distanze dal “teorema” e risponde all'appello di spazi sociali e rappresentanti della curva ad interrogarsi su “disagio giovanile e conflittualità sociale” e in particolare sui rapporti tra stadio e territorio. In tal senso, in concomitanza con la chiusura della campagna elettorale per le amministrative, si svolge un incontro all'interno del centro sociale Godzilla che vede un'ampia partecipazione di militanti, tifosi, esponenti politici e rappresentanti della società civile. Anche il futuro sindaco, Alessandro Cosimi, ex segretario provinciale dei Ds, nonostante gli impegni di fine campagna elettorale, fa una breve comparsa all'appuntamento. Dal dibattito emergono tre forti questioni: la mancanza di adeguati strumenti di lettura che sappiano cogliere i cambiamenti e le criticità espresse dalle nuove forme di socialità e aggregazione giovanile, in particolare allo stadio; l'impatto delle trasformazioni economiche e urbanistiche tra grande distribuzione, speculazione immobiliare, ambizioni turistiche, e precarizzazione lavorativa; l'assoluta egemonia comunicativa del giornale locale sui processi di narrazione della vita sociale e politica cittadina.

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Controluce

L'approdo della squadra in serie A, in contemporanea ai 90 di vita dell'U.S. Livorno, offre alla città ulteriori attenzioni mediatiche. E la prima partita nella massima serie, dopo 55 anni di attesa, non poteva regalare, in tale senso, un esordio più suggestivo: il calendario concede da subito la trasferta a Milano contro il Milan del presidente Silvio Berlusconi, ormai da tempo bersaglio di un coro di scherno che accompagna ritualmente ogni gara del Livorno. L’attesa è spasmodica, e il match concede una visibilità inattesa soprattutto alla tifoseria generica. I club amaranto decidono di presentarsi allo stadio di San Siro con una bandana copricapo per ironizzare con il “rivale”, che pochi giorni prima aveva accolto con questo look il presidente russo Putin e quello inglese Blair nella sua villa in Sardegna. L'esodo di 10.000 tifosi che occupano l’intero anello inferiore della curva Nord, il loro calore e le gesta goliardiche, fa il giro del mondo, e anche la squadra dà il proprio contributo sfiorando l'impresa (la partita terminerà 2-2). Per G.:

Quel giorno, secondo me, la tifoseria livornese fece un salto indietro nel tempo. Sembrerà paradossale visto che tornavamo a San Siro dopo anni in cui siamo stati costretti a seguire il Livorno nei più improbabili campetti di provincia, ma quel giorno la tifoseria generica si rimpossessò di un palcoscenico che le era stato sottratto dalle B.A.L. Per farlo aveva rispolverato quell’arma che da qualche anno era stata messa in un cassetto: l’ironia. La necessità di distinguersi sempre e comunque. Non a caso siamo la città del Vernacoliere, delle false teste di Modì.

Il Livorno resterà per diverse stagioni in serie A, anche se, dopo il boom della prima volta, i numeri e l'entusiasmo caleranno sia in casa che in trasferta e marcare assiduamente la propria presenza resterà solo lo “zoccolo duro” della curva nord. I grandi palcoscenici se da un lato amplificano la particolarità del rito livornese, dall'altro lo fanno risultare incompatibile con le logiche del calcio moderno. Le trasferte, in 262 particolare sono abbandonate dalla maggior parte dei club, che intravedono troppi rischi nel raggiungere gli stadi esterni in cui il manifestarsi di una conflittualità politica sembra raggiungere una particolare intensità nel confronto con gli ultras livornesi, simbolicamente inediti nel panorama nazionale e quindi “preda” delle attenzioni dei rivali. Il caso più clamoroso è sicuramente legato agli episodi che hanno caratterizzato la partita Lazio-Livorno del 9 aprile 2015. Già nella prima partita all'Olimpico contro la Roma, le mie note di campo testimoniavano un clima di alta tensione nella capitale, derivato in parte del confronto rituale tra opposte cornici politiche, ma soprattutto dagli atteggiamenti delle forze dell'ordine poco aderenti a criteri di contenimento e più assimilabili a pratiche da “mucchio selvaggio”361. La trasferta contro la Lazio, squadra negli ultimi decenni associata assiduamente alla destra, è caricata di significati politici profondi. Per gli ultrà del Livorno è la trasferta dell’anno362, ma dopo i precedenti fatti all'Olimpico con la Roma, che aveva visto una partecipazione di circa 2.000 supporters, a partire sono appena 500. A dare peso estetico all'evento sono sia i giocatori in campo, l'icona livornese Lucarelli e il “fascista” Di Canio, sia le coreografie. Ma mentre ai livornesi saranno preventivamente sequestrate le bandiere rosse e altro materiale («le nostre felpe considerate cimeli, perfino le bandierine amaranto sequestrate come simbolo politico perché - ci dicevano - “oggi all’Olimpico il rosso non deve entrare”»), i laziali esporranno per lungo tempo un gigantesco striscione con scritto “Roma è fascista” che il giorno successivo si guadagna spazio sulle cronache di tutti i giornali locali e nazionali. Il culmine della tensione si raggiunge quando ai tifosi amaranto viene impedito di portare all'interno dello stadio uno striscione che ricorda la strage del Moby Prince, di cui il giorno dopo sarebbe corso il 14° anniversario, in cui morirono 140 persone al

361 Una dinamica che ha trovato conferme nella conversazione tra me e un responsabile delle forze dell'ordine, pubblicata nel capitolo precedente. 362 L'andata, Livorno-Lazio fu così presentata dagli ultras: «D'innanzi a questi schifi viventi, siamo orgogliosi di mostrare una squadra che dell'umiltà ha fatto la sua forza, un capitano livornese che ha scelto veramente dove andare a giocare, e un pubblico che porta dei valori ultras e ideologici che possono garantire ancora una volta un dietro front che suona come una Stalingrado 1942». SPALTI RIBELLI, Un'altra Stalingrado, Senza Soste, n.1, novembre 2004, p.4. 263 largo del porto di Livorno. Uno striscione che riporta semplicemente lo slogan del comitato dei familiari delle vittime: “Moby, 140 vittime, nessun colpevole”.

Tutto come previsto fino a quando arriviamo allo stadio. Lì iniziano gli abusi. […] La polizia ci controlla e ci porta via di tutto: bandiere rosse, maglie e bandiere di Che Guevara, sciarpe. A tanti ragazzi strappano anche gli stemmi dai giubbotti: qualcuno ha il Che, altri la scritta Bal. Inutile chiedere spiegazioni, le loro risposte saranno sempre allucinanti, della serie ‘o fai così o ti massacriamo dalle botte’. Addirittura a tanti tolgono le cinture e a qualcuno vanno a frugare dentro le scarpe». I tifosi amaranto avevano preparato uno striscione per ricordare la strage del Moby Prince, sopra c’era scritto ‘Moby Prince, 140 morti senza giustizia. E i responsabili?’. Ma anche quello finisce in un angolo impolverato, insieme agli altri. «Arriva uno in divisa e ci fa ‘ma ce l’avete lo striscione sui poliziotti morti?’. Ma che domande sono? E a quel punto ci prende lo striscione sul Moby e ce lo porta via.

Alcuni ultrà livornesi, per protestare contro la decisione di requisire loro tutto il materiale coreografico e, come si è visto, perfino alcuni indumenti, decide per il primo tempo di non entrare sugli spalti. La maggior parte, invece, sempre per lo stesso motivo optano per lo sciopero del tifo, che romperanno solo nel secondo tempo per rispondere alle offese politiche dei laziali. Dall'altro lato, uno dopo l’altro, si alzano infatti striscioni a raffica :“Partigiano pentito sei sempre fuggito”; “Compagno confidente con te lo Stato è sempre più clemente”; “Ieri in montagna, oggi in città, fare il verme è la tua rossa realtà”; “Foibe: Togliatti criminale di guerra”; “A Livorno ti ho cercato, babbo poliziotto mi hai mandato”; “Livornese verme rosso, il tuo posto è dentro il fosso”. E poi “Lucarelli prima di parlare conta fino a 88363”. Nel mezzo anche “Lucarelli il tuo salario non è certo quello di un proletario” e il coro “Lucarelli ebreo”. Spunta anche un

363 I due “otto” affiancati sono intensi come le iniziali di Heil Hitler. 264 lenzuolo con su scritto “L’Italia è nostra, Livorno fogna rossa”, poi ancora “Boia chi molla” e “Me ne frego”. Nel viaggio di ritorno, alla stazione di Roma San Pietro, gli ultrà livornesi azionano il freno a mano del convoglio. Alcuni tifosi laziali avrebbero lanciato alcuni oggetti verso il treno, e gli ultrà amaranto accettano la sfida. In pochi minuti arrivano le forze dell’ordine e scoppia il finimondo. Gli ultras lanciano dei sassi, poi si rifugiano sul treno e provano invano a chiudersi nei vagoni. La polizia replica da distanza alla sassaiola poi getta dentro il vagone gas lacrimogeni e urticanti impedendo ai tifosi di uscire, quindi carica entrando a forza negli scompartimenti e in alcuni casi punta le pistole alla testa dei tifosi. Ad un livornese che aveva ripreso quei quei minuti con la sua telecamera, viene prima sequestrata la cassetta e poi spezzato un braccio, a freddo. Altre testimonianze registrate, come quella seguente, saranno protette e successivamente rese pubbliche.

A' schifosi! Scrivetelo sul Vernacoliere, merde! Scrivetele `ste cose! Merda! Merde!!! Schifosi! Ohibò... Così non ci venite più qua, non ci dovete più venire qua... Stai zitto, tu, stai zitto e nun parlà'... Ve conviene sta' fermi e seduti perché sennò v'ammazzamo, seduti! E muti, muti, muti!!! Tutti dentro e seduti, tutti dentro e seduti, sennò ve pijamo tutti, uno per uno.

Urlavano «tutti seduti, non parlate, non aprite bocca, brutti comunisti di merda», e poi cintolate dei poliziotti a noi che eravamo seduti tutti in ordine. Loro erano tremila poliziotti e noi quattro gatti. Da lì hanno cominciato a tirar fuori vecchie ruggini, tipo di uno che aveva tirato una monetina per Livorno-Triestina, hanno cominciato a dire «fateli ora i cori per Nassirya», dicevano di aver preso tante botte dai ternani e quindi han detto «ci dobbiamo vendicare anche dei vostri amici». Insomma hanno tirato fuori tante cose che gli rodevano. Dicevano «ora ve lo facciamo vedere noi il comunismo».

265

I 295 fermati vengono fatti sdraiare sul binario 1 della stazione, sotto la pioggia battente, per oltre un’ora. Da lì saranno trasportati all’ufficio stranieri della questura di Tor Vergata e sottoposti a oltre 24 ore di “fermo identificativo” (per alcuni si arriverà anche a 36 ore). Per prima cosa viene loro impedito fino al giorno successivo di usare il telefonino per contattare parenti, amici, fidanzate o avvocati. Dentro la caserma i testimoni raccontano ulteriori violenze e abusi. Alcune testimonianze sono state raccolte in presa diretta da alcune radio indipendenti che i tifosi furtivamente riuscivano a contattare. La seguente è di A., una tifosa.

Dal momento in cui siamo stati portati in questura non è stata fatta una distinzione tra uomini e donne ma noi bimbe ci siamo trovate nelle stesse condizioni dei ragazzi. Non c’era neanche una poliziotta per accompagnarci in bagno e tutta la notte siamo dovute andare in bagno proprio passando davanti ai finanzieri che commentavano in maniera poco civile. Ci hanno lasciato senza mangiare, senza bere, come tutti gli altri, per due giorni e la mattina quando ho osato chiedere acqua e zucchero mi hanno detto che l’acqua se la volevo, c’era quella dei cessi. Trattamenti poco consoni insomma, a quello che dovrebbe essere il contegno delle forze dell’ordine. La poliziotta è arrivata solo la mattina dopo e tutta la notte siamo dovute rimanere con i bagni con le porte aperte, la luce spenta e loro che stavano dietro la porta a commentate, a battere il manganello contro il muro, a minacciare di entrare in bagno. Insomma uno stava lì in bagno con il terrore: o se la faceva addosso o stava lì in quelle condizioni. Ho vomitato tutta la notte per vie dei gas, avevo la nausea, mi sentivo male, quando andavo in bagno mi dicevano: «hai svuotato la fogna», insomma cose che rimangono dentro. Più che altro anche se non siamo state picchiate fisicamente, quello che rimane dentro è difficile da mandare via. E poi hanno pensato bene di farci delle fotografie mentre si dormiva sdraiate, di zone del corpo femminile che a loro potevano interessare. Non so ora cosa ci faranno con queste foto.

Dei 295 fermati (e tutti denunciati), 125 restano in caserma fino alla tarda sera dell’11 aprile. 7 ultrà vengono arrestati e portati al carcere romano di Regina Coeli. I reati 266 vanno da devastazione a lesioni, da resistenza aggravata ad attentato alla sicurezza del trasporto pubblico. Lasciati senza scorta dagli agenti romani, i 125 così come gli altri livornesi usciti precedentemente, hanno difficoltà logistiche a rientrare a casa anche perché sulle radio romane locali pare rimbalzi un tam-tam che inciterebbe alla caccia del livornese. A risolvere la faccenda e facilitare il ritorno a casa dei tifosi amaranto è Cristiano Lucarelli, che dopo aver chiesto e ottenuto l’appoggio formale dell’onorevole Susini, noleggia tre pullman e li invia a Roma per far riportare i tifosi a Livorno. I tifosi finiranno di rientrare in città alle 3.30 del giorno successivo. Ad attenderli alla stazione anche alcuni calciatori delle squadra. Volti tumefatti, socializzano coi presenti i momenti più drammatici della trasferta, mostrando audio raccolti coi telefonini. Un caso che colpirà fortemente l’opinione pubblica locale e sarà oggetto di un’interrogazione parlamentare al ministro Pisanu sul comportamento tenuto dalle forze dell’ordine, mentre il sindaco della città, Alessandro Cosimi, chiederà che si faccia chiarezza separando le eventuali responsabilità di ciascuno dei 296 fermati.

Gli eventi clamorosi di Lazio-Livorno, oltre a ribadire come talvolta il protagonismo delle forze dell'ordine sul piano dei conflitti da stadio assuma un ruolo “di terza forza in campo” (manifestando un odio liquido364, come si è visto nella lettura dell'autore di ACAB nel capitolo precedente), trovano la loro collocazione fuori dalla cornice dello stadio. Uno spazio a suo modo ordinato e rassicurante che ritualizza generalmente anche i conflitti, i quali non sono riconosciuti nello spazio esterno, «e cioè nei territori della vita seria365». Ciò che prima poteva sembrare un gioco, seppur lugubre e disdicevole nei contenuti, basato sulla provocazione reciproca scandita dalla sovrapposizione dei

364,BAUMANN Z., Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza 2002. 365 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.148. 267 turni366, è stato assorbito dallo spazio esterno «che è raramente disposto a considerare ludicamente contenuti di guerra367». Nello spazio esterno, così come nel protagonismo interno sgradito ai poteri, il rito si fa così meno autonomo da una struttura sociale disciplinante schierata a difesa delle retoriche dell'etica sportiva, delle nuove politiche commerciali e del controllo sociale delle emozioni. Elementi che provocano disaffezione e che coinvolgono a pieno anche la realtà di Livorno, che vede calare la partecipazione del pubblico. Le ragioni del fenomeno, in parte espresse sopra, sono ulteriormente appesantite dal confronto con le alte categorie che, dopo tanti anni in sordina, immettono Livorno sotto i riflettori del calcio moderno. Non sorprende quindi che Andrea Grillo convochi nella sua riflessione sul calo di partecipazione della realtà livornese (quantitativo ed emotivo) l'ancoraggio della piazza proprio al cosiddetto calcio moderno: pay tv e spezzettamento delle partite, innalzamento dei prezzi dei biglietti, posti numerati, ticket nominativi368, tornelli e diffide369, limitazione delle trasferte, segnalando oltretutto un particolare modo di dirigere la squadra da parte del presidente Spinelli che paradossalmente negli anni, «più che un passaggio all'era “postmoderna” del calcio, sembra quasi un ritorno al passato, alla figura del padrone ottocentesco avido e diffidente, portato a gestire in prima persona tutti gli aspetti della sua attività370», risultando avulso dalla tradizione cittadina che ha sempre legato il calcio alla vita sociale e al protagonismo attivo dei suoi tifosi371.

366 Ivi, p.136. 367 Ibidem. 368 «Il biglietto numerato ha decretato anche la fine di altre vecchie abitudini che facevano parte dei riti domenicali. Per esempio quella di aspettare sotto la gradinata il sorteggio del campo per andare a sedersi dalla parte dove il Livorno attaccava, e poi cambiare posto tra il primo e il secondo tempo per poter vedere sempre da vicino gli eventuali gol degli amaranto. E con i posti numerati è sfumata anche la possibilità di vedere la partita insieme a un amico abbonato» in GRILLO A., Livorno, dal tifo alla febbre gialla, in CACCIARI S., GIUDICI L., op. cit., 2010, p.170. 369 «C’è stato un momento in cui non c’era un condominio di Livorno senza un diffidato, e contro questa politica ci furono anche manifestazioni di piazza molto partecipate». Ivi, p.171. 370 Ivi, p.181. 371 Sull'argomento, un commento vicino alla visione della curva: «[Spinelli] è uno che considera il Livorno come una proprietà e la gestisce secondo le sue convinzioni. Non lo considera né un bene collettivo a gestione privata, né considera il tifoso un azionista morale della società. […] Se ci chiedono se tutto ciò ci piace rispondiamo no […] per noi è importante nel calcio la cindivisione di una passione, di un'identità e di un luogo pubblico. Per altri, invece la cosa più importante è la categoria e Spinelli è il massimo loro orizzonte, perché a sprazzi, i risultati li garantisce» in MARINO F., I conti in tasca, Senza Soste, n°85, p.8. 268

Se la fase calante non tarderà ad arrivare, i primi anni di alte categorie sono gli anni d'oro del rapporto tra città e squadra. L'approdo di Lucarelli, come già visto, rafforza in particolare quella simbiosi che negli ultimi anni si era creata tra lo spogliatoio e la tifoseria delle B.A.L. Con il tempo si inseriscono altri giocatori livornesi di nascita, altri che lo sono “di adozione”, altri ancora che si sentono livornesi acquisiti. Non a caso i mezzi di informazione iniziano a paragonare la squadra all’Athletic Bilbao che per statuto gioca con soli giocatori baschi372. La storia di una squadra “fortemente identitaria” e orgogliosa, che in campo sembra battersi coi poteri forti del calcio e della società come desiderano i suoi tifosi (e in tal senso la sfida col Milan ha avuto uno strascico quasi “mitologico”), attira i riflettori di SKY che dedicano al Livorno un lungo documentario andato in onda in occasione dei 90 anni della società. Proprio dal montaggio del video e dalle parole degli intervistati è possibile introdurre uno degli aspetti cruciali per capire com'è cambiato il rito calcistico a Livorno. La prima immagine è dedicata al risveglio della città: l'alba in controluce coincide con i movimenti delle braccia delle gru dei cantieri navali, come a voler da subito rimarcare il rapporto tra la vita cittadina e l'identità operaia. Prima di giungere allo stadio e negli spogliatoi, le telecamere indugiano sulle situazioni che animano il centro cittadino: i capannelli intorno all'attività dei pescatori impegnati nella pulitura del pesce fresco, il vociare mattutino tra i banchi del mercato della verdura, ma sopratutto, alternano di continuo le vicissitudini calcistiche della squadra alla ripresa delle ultime tracce di attività industriale sul territorio. Il montaggio, nel mostrare l'entusiasmo dei tifosi per la risalita della squadra, sembra voler trattenere in parallelo lo stereotipo della città produttiva e operaia, ma ben presto sono le parole del regista livornesi Paolo Virzì, intervistato con alle spalle la sagoma della raffineria Eni, a far sfumare una rappresentazione che non è più espressione centrale del territorio:

372 Una conferma di questa caratteristica arriva anche dalle parole di , allenatore del Livorno negli anni 2002-2003 e 2005-2006, da me intervistato: «Tutte le squadre diventano per certi versi, delle piccole nazionali. Livorno, in questo senso, è certamente tra le squadre dove il connubio squadra-città è più forte e più sentito». 269

I livornesi cresciuti con l'orgoglio operaio appuntato sul petto, con la chiusura della fabbriche, adesso che non ci sono prospettive industriali per la città, sembrano ammantarsi della bandiera della squadra come a sostituire questo vuoto. E la squadra e la bandiera amaranto sono una maniera per riaffermare questa identità: per dire siamo noi, la nostra storia, siamo di Livorno.

Proprio verso la riscossa di un popolo attraverso lo sport si muoverà la sceneggiatura del documentario che, immancabilmente, dedica l'epilogo alla vittoria interna della squadra amaranto contro il Milan, nella giornata di ritorno del campionato. Il trionfo è lo scatto d'orgoglio di una città che anche agli occhi dei giocatori più attenti appare innegabilmente «impoverita», come afferma il genovese Alessandro Doga, compagno di stanza di Lucarelli nei ritiri pre-gara. Durante la nostra conversazione, le sue parole tracciano una traiettoria del suo percorso formativo a contatto con la città e rimarcano la consapevolezza della responsabilità “politica” che in quegli anni assume chi indossa la maglia amaranto.

A Livorno, oltre ad essere maturato, ho assimilato una cultura politica e una visione generale del mondo che altrove, non solo per questione di età, non avevo. In questa squadra quasi tutti provengono da famiglie operaie e molto spesso il ceto operaio appartiene alla parte politica che contraddistingue questa città e la curva e questo, per tanti, è uno stimolo in più. Anch’io sono cresciuto con queste idee e al di là del mio credo politico cerco di difendere ed aiutare la classe operaia attraverso i miei privilegi di calciatore. Mio fratello è portuale, so quali sono le difficoltà e so che se io non avessi avuto la fortuna di diventare ricco facendo il calciatore sarei diventato anch’io portuale e avrei avuto i suoi stessi problemi ad arrivare in fondo al mese.

Le parole del calciatore, oggi responsabile del settore giovanile del Livorno Calcio, danno la percezione del legame e dell'interesse reciproco che si è sviluppato tra squadra

270 e città. In particolare, fanno emerge la consapevolezza, che arriva perfino tra i calciatori, che i contenuti della curva non si fermano a una produzione simbolica inattesa. Il linguaggio e il peso specifico della curva, oltre ad accendere i riflettori sul gruppo, a dare linfa ai contromovimenti e a ricreare un dibattito intorno ai temi della sinistra, amplificano ciò che sta avvenendo dal punto di vista dei processi economici cittadini. Una condizione insolita per il rito dei tifosi organizzati, nel quale Dal Lago non vede la possibilità di radicamento di un conflitto sociale: una partita di calcio può dare risalto a simboli di conflitti sociali, ma subordinandone il senso nell'opposizione rituale della cornice dello stadio. Come vedremo, questo assunto sembra quanto meno forzato dalla specificità livornese. In curva nord, accanto alle bandiere dell’Unione Sovietica e ai vessilli delle esperienze ritenute più aderenti ai principi dell’ideologia comunista, gli striscioni, con cui si affrontano questioni inerenti lo stadio ma anche problematiche cittadine e questioni lavorative, sembrano rappresentare lo specchio delle inquietudini della composizione del gruppo ultras e della curva stessa, che rappresenta uno spaccato fedele di quanto sta avvenendo in città, su cui occorre spostare lo sguardo. Livorno, che ha subito una decisa fase di deindustrializzazione negli ultimi trent'anni, appare ormai vulnerabile, indifesa e incapace di reagire di fronte all’emorragia di lavoro e di ricchezza che quotidianamente la colpisce. Come rivelano le parole di T. e L., le grandi concentrazioni industriali vanno a scomparire sostituite da un processo produttivo scomposto in un'infinità di piccole imprese, appalti e prestazioni occasionali o informali che progressivamente coinvolgono una generazione educata dalle lotte operaie.

Io ho avuto un nonno che ha lavorato al Cantiere, una mamma che ha fatto un’occupazione alla Barcas, un babbo che dopo la chiusura della Pirelli ha fatto la cassa integrazione, e dopo tutti questi processi, ritrovarmi in una situazione di precarietà con gente che vedi tutte le mattine alle sette entrare in fabbrica a testa bassa, ragazzi della mia età, mi fa girare i coglioni e vedo che le istituzioni e i partiti se ne sbattono totalmente.

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Qui stanno levando tutte le fabbriche e aprendo i centri commerciali, ma se poi non ci sono i soldi per comprarci cosa li fai a fare? E poi in fabbrica, almeno prima era così, c’era un insegnamento. Far lavorare come vogliono far lavorare loro i giovani, ti appiattisce il cervello, non sai niente del mondo del lavoro, lavori perché lo devi fare. La fabbrica era un sistema sociale che ti insegnava tante cose e un giovane che entrava a diciotto anni aveva poi una cultura diversa dai giovani che lavorano due mesi sulle baracchine sul mare, tre mesi a dare i volantini e quattro mesi a portare le pizze. Gli importa poi un cazzo se muoiono i bambini in Palestina, è naturale ma è un gioco di loro, lo Stato lo fa apposta a creare questo egoismo che ci attanaglia. La fabbrica invece unisce, sei sempre a contatto, vicino, stai più lì dentro che con tua moglie. E poi dalla fabbrica qualcosa esce, non è che stai lì dentro e non fai niente; quando vai a mensa, nella pausa ragioni, questi [i nuovi lavoratori precari] ma di cosa parlano? E poi in fabbrica girava il politico, l’anarchico, il sindacalista, c’erano i volantini, gli opuscoli. E quando hai i momenti di fermata prendevi il giornale e lo leggevi. Quando sono entrato in Cantiere c’erano tanti vecchi, i manifesti, l’Unità e non c’era scritto Totti e Ilary in Sardegna; ora in Cantiere ci trovi Vip, Chi, questi giornali qui, ed è un problema grosso, oppure il depliant dello yacht con il parquet che costa 7 miliardi. Al Cantiere prima c’era il Martello, il giornale diretto da dentro.

La gente di noi aveva cultura poca, scuola poca, parecchia disoccupazione, spesso e volentieri in curva confluiscono ragazzi che hanno tempo libero, sono quelli che sono più attivi. Poi la domenica, in trasferta, durante la settimana, hai anche tanta gente che lavora e poi dedica tempo al gruppo. Quindi in parte c’erano degli operai, dei lavoratori, in parte cascando in una città in cui il tasso di disoccupazione impennava, tanti disoccupati. Gente precaria. Oggi c’è il precariato legalizzato, al tempo c’era il precariato perché eri in nero. Ma l’educazione era quella di una città operaia, non di una città borghese. Chi aveva un’educazione borghese allo stadio non c’andava, perché era da animali: «Ti vai a picchiare allo stadio? Io non ci vado mica. Ci vanno gli scemi».

272

Una generazione post-fordista

Le testimonianze dei due ultras convocano un aspetto centrale per ricostruire in modo completo la portata conflittuale della curva. Se c'è un'esigenza “ultras” dietro l'unione della miriade di gruppetti che attraverso un gruppo coeso e organizzato deve far fronte alla forte competitività dei gruppi e a un clima generale fatto di “partite a rischio”, “città blindate”, imponenti servizi d'ordine e un atteggiamento della polizia che sembra porsi come “terza tifoseria in campo”, la «consapevolezza polemica» della scelta delle icone e dell'identità politica, la curva vissuta come la nuova piazza, la prassi delle B.A.L. di alzare in curva striscioni rivolti esplicitamente agli aspetti più visibili e contraddittori del nuovo modello di sviluppo cittadino e nazionale, indicano il protagonismo di una classe operaia ristrutturata che mette in scena, nel contesto dello stadio, un riflesso comportamentale e identitario, che sublima la perdita di un'orizzonte, il portato di insicurezza e vulnerabilità che investe un intero corpo sociale. Per L.:

Io gruppo ultras sono un soggetto importante della mia città, per di più ho anche un respiro ideologico e politico, voglio essere presente nella contestazione o comunque nella vita politica della città.

La volontà di un settore come la curva - tradizionalmente popolare e legato più alla socializzazione373 che al campo di gioco - di agire su quelle che avverte sulla propria pelle come le contraddizioni del nuovo sviluppo economico cittadino portano alla comparsa a cadenza quasi settimanale di striscioni di carattere politico e sociale: “Il nostro rispetto solo agli operai morti sul lavoro”, “Basta morti sul lavoro”, “Sempre al fianco di chi lotta, solidarietà agli operai Alcoa”, “Ilva: il lavoro è un diritto…salute e ambiente una priorità”, “Un'altra morte bianca, nessun minuto di silenzio? Ciao Igor”, “Chiude la Delphi, la raffineria, chiudete anche il porto e si va tutti via”, “Delphi: 400 famiglie senza lavoro. Cosimi è il turismo il nostro futuro?”, “La casa è un diritto

373 GRILLO A., op.cit., 2010, p.165. 273 occupare una necessità”, “No Tav”, “Papi ci stiamo incazzando…solidarietà ai lavoratori in cassa integrazione”, “Solidarietà agli operai Fiat, no al licenziamento no al profitto”, “Cosimi, ci vuoi tutti camerieri?”, “Solidarietà agli operai Lips”, sono solo alcuni dei tanti che compaiono in curva e che come si evince dal trafiletto che segue, trovano spesso la risonanza dei giocatori simbolo.

Cristiano Lucarelli segna il gol che porta in vantaggio il Livorno, corre sotto la curva nord, ma anziché fermarsi a raccogliere gli applausi si dirige verso lo striscione che ricorda la situazione della Delphi, la fabbrica livornese del settore componentistica auto la cui chiusura è stata annunciata due giorni fa, l' attaccante indica la scritta fatta dagli ultrà e dedica il gol a quei 400 lavoratori che stanno vivendo un momento drammatico. Ancora una volta il capitano amaranto riesce a dare un senso diverso a tutto e a richiamare l' attenzione generale sui veri problemi della vita. «Anche se non servirà a molto - dice Lucarelli - mi sono sentito di ricordare i 400 operai che stanno per perdere il lavoro. Oltre ad esprimere solidarietà non mi è possibile fare altro, è giusto però lanciare un appello affinché la situazione di questa fabbrica sia affrontata. Aiutiamo quelle famiglie»374.

Come detto, sono gli anni in cui il tessuto economico livornese sta mutando per reagire ai processi di deindustrializzazione iniziati a fine anni ’80. A cambiare è l'impianto di fondo dell'economia cittadina: finiscono le partecipazioni statali, si assiste alla liberalizzazione del lavoro portuale e alla contrazione del pubblico impiego. Alle industrie a partecipazione statale sono subentrate le multinazionali della componentistica auto. La centralità della Compagnia Portuale è andata scemando dai decreti Prandini375 e il porto si è aperto alla concorrenza tariffaria tra operatori e poi a

374 SALVETTI L., Quella dedica agli operai Delphi nello stadio diviso dalla politica, La Repubblica, 13 febbraio 2006. 375 I decreti ministeriali del 6 gennaio 1989 (c.d. decreti Prandini) escludevano dalla riserva riconosciuta a favore delle compagnie, ai sensi dell'art. 110 cod. nav., tutte quelle operazioni portuali nelle quali risultava prevalente l'utilizzo di mezzi meccanici rispetto all'impiego di manodopera.

274 partnership che si sono alternate per affrontare i problemi economici e imprenditoriali della Compagnia. La cantieristica pesante è stata sostituita da un’operazione turistico- immobiliare in cui ha resistito in parte la cantieristica leggera. Dal futuro di Livorno scompare la gigantesca gru a cavalletto con la scritta “Cantiere Navale Fratelli Orlando” a oltre 60 metri di altezza, un sorta di veglia cittadina, «la cui perdita simbolica, per me, equivale alla caduta del muro di Berlino» mi confiderà un tifoso. Nel cantiere che dopo la chiusura di Fincantieri del 1995 aveva avviato un periodo di autogestione cooperativista dall'anno successivo, avanza ora il piano «Porta a mare» che con l'approvazione dell'Amministrazione ha dato il via alla Società di Trasformazione Urbana per gestire una vasta operazione urbanistica che cambierà il waterfront della città. Il progetto prevede la riconversione del cantiere in una fabbrica di grandi yacht di lusso controllata dal gruppo viareggino Azimut-Benetti e il mantenimento dell'attività delle riparazioni ma anche la realizzazione di ampie aree commerciali e residenziali. Al posto della Lips, la fabbrica delle eliche, sorgeranno un grande albergo a cinque stelle e una sala convegni. Manovre che sottintendono la già prevista nascita di un nuovo porto turistico. Dentro un modello economico convertito nei suoi assi principali a emergere in controtendenza è il settore dell'edilizia a cui si affianca il pilastro per eccellenza dell’economia familiare cittadina: le pensioni, a volte investite nel mattone, più spesso per fronteggiare casi di inadempienze di figli e nipoti, alimentando casi di welfare generazionale. Al di là della sua attuale funzione, il dato sulle pensioni rispecchia la solida presenza del settore pubblico in una consolidata tradizione di lavoro operaio dipendente. Una tradizione che ha iniziato a perdere forza dalla fine degli anni ’80 specialmente per quelle produzioni di contenuto tecnologico medio-basso come la petrolchimica, la siderurgia, la metallurgia, la lavorazione della plastica e la cantieristica che rappresentavano quasi la metà del tessuto economico di tutta la provincia livornese.

275

Dopo gli anni '80, con la città che raggiunge l’apice di addetti, più di 21.000 nella grande industria manifatturiera, l'innovazione tecnologica e la conseguente accelerazione della produttività, abbassano quel numero a meno di 16.000. Si arriva così al progressivo processo di privatizzazione delle aziende a partecipazione statale e, contemporaneamente, si verificano alcune fusioni o incorporazioni nelle imprese a capitale privato. Sono questi i movimenti cardine di un processo più ampio, che rappresenta in sintesi, il passaggio tra un modello fordista (fine anni ‘80) basato su un capitalismo industriale e dei servizi correlati, a uno (inizio anni ’90) dove la finanziarizzazione della deindustrializzazione ha generato, dal basso, le condizioni per il modello basato sull'accumulazione mattone-moneta. Omar, sindacalista Cobas, spiega alcune delle conseguenze di questi passaggi:

Le amministrazioni che hanno governato in questi ultimi due decenni hanno spremuto al massimo la leva immobiliare e le conseguenti rendite senza investire e preparare il terreno per una riconversione economica che potesse favorire un modello alternativo, possibilmente con minore impatto ambientale ma un saldo occupazionale equilibrato. Nonostante le difficoltà e l’impreparazione strutturale dell’economia livornese ai processi di deindustrializzazione, specialmente per quei settori di contenuto tecnologico medio- basso dove si sente la competizione dei paesi emergenti, la crisi si è trasformata in un gigantesco alibi per poter smantellare prima i diritti e poi le lavorazioni, o addirittura direttamente le lavorazioni. Perché le multinazionali non smettono di produrre profitti. Vogliono solo ristrutturare i propri obiettivi e monetizzare quelle lavorazioni dove guadagnano meno o rimettono.

Alla luce di questo breve quadro sui mutati assetti dell'economia livornese, diventa più chiaro come si posso collocare una larga fetta della curva e del gruppo trainante dentro la ristrutturazione postfordista della città; un trapasso che vede arrancare Livorno nella

276 piena competizione globale376 e allo stesso tempo registra le attenzioni del gruppo B.A.L. verso l’azione politica e le vicende cittadine che si manifestano in slanci di solidarietà sociale e intense fasi di polemica con i media, l'amministrazione e perfino con gli altri settori dello stadio: una novità assoluta rispetto a quanto si era soliti vedere nelle curve italiane e che per anni terrà in tensione l'intera città.

La crisi della trasmissione dei saperi

La ricomposizione di alcune traiettorie biografiche dà ulteriore conferma della centralità “polemica” della curva nella fase in cui le grandi trasformazioni urbane e economiche cominciano a determinare i riassetti lavorativi e “umani” in città. Una delle storie più significative è quella di T.., già protagonista nella fase di sviluppo del movimento ultras quando, molto giovane, entra a far parte dei Fedayn. Seppur con qualche tribolazione iniziale, T. partecipa alla fusione che confluisce nelle B.A.L., affermandosi poi come una delle figure più carismatiche della curva.

Il fatto di essere un ultras è una cosa che ti porti dietro. Oggi in giro con la sciarpa del Livorno vanno tutti, ma prima, quando ho iniziato ad andare in curva, eravamo in tre a farlo, sui motorini. Quando uno fa l’ultras ha un marchio che si porta dietro: quando vai a lavorare sei ultras, quando vai al ristorante sei un ultras. Non è stato facile andare avanti per tanti anni, perché nella vita di tutti i giorni ti accorgi che non sei uguale agli altri. Quando ritornavi da una trasferta come quella di Cesena, che del treno erano rimaste solo le ruote, le persone ti conoscevano, sapevano che eri un ultras e ti attaccavano. I primi anni che frequentavo l’ambiente ricordo che non eri ben visto, né in famiglia, né dalle ragazze, perché eri un ultras, uno che faceva casino, che si drogava. Quando sono entrato a lavorare in Cantiere, anche se non mi conoscevano nemmeno, il principale mi ha preso

376 Una rivisitazione narrativa delle recenti trasformazioni del modello economico livornese e in particolare della vicenda LIPS sono state oggetto del romanzo dello scrittore Daniele Cerrai. Sua opera prima, il libro è un omaggio ai tanti lavoratori cittadini colti in una dolorosa e incerta fase di passaggio che disegna la città come un territorio aggredito ma, sia pur con un sano anacronismo, capace di mantenersi solidale. CERRAI D., Non è tempo di eroi, Genova, Editrice Zona, 2009. 277

da una parte e mi ha detto: “Insomma, te sei un ultras…”. Nell’ottantasei non era facile esserlo.

T. è un ex operaio della Lips, un’eccellenza cittadina nella fabbricazione di grandi eliche, oggi chiusa in seguito ai processi di ristrutturazione del bacino della cantieristica. Alla metà degli anni 2000, la fabbrica era passata al gruppo Azimut-Benetti, e in un primo momento sembrava che la produzione delle eliche potesse essere spostata altrove. Infine, è risultato più semplice cambiare la denominazione della LIPS in LIPU e il piano d'impresa: ai lavoratori è stato imposto una lavoro di verniciatura e lucidatura di yacht, all'interno dello stesso stabilimento. Un mancato riconoscimento professionale, nonostante la continuità del livello salariale, che è stato recepito come un attacco alla dignità operaia e ha fatto scattare la decisione di occupare la vecchia fabbrica, nonostante la direzione della FIOM non fosse favorevole all'iniziativa.

Capisci, prima producevamo le migliori eliche d’Europa. Lo sapevano tutti che le eliche della Lips erano le migliori. Poi sono arrivati questi nuovi e c’hanno detto: «Non preoccupatevi, nessuno perderà il lavoro. E si continuerà a lavorare con le navi». La nuova proprietà aveva preso degli impegni sulla robotizzazione delle operazioni, come in Spagna. Avevano promesso un corso di formazione professionale. Quasi un lavoro da colletti bianchi. Nulla di tutto questo. E siamo finiti a verniciare le barche dei signorotti e a scartavetrare dei pannelli. Nessuno di noi capiva più quale mestiere stava facendo. Ci avevano garantito che le nostre professionalità sarebbero state mantenute, invece non si capiva cosa dovevamo fare. Non era degno della nostra professionalità, era una totale presa di giro. Noi facevamo le eliche più grandi d’Europa, da sessanta tonnellate, che uscivano e luccicavano che parevano oro.

Dopo dieci giorni di occupazione, al di là di qualche dichiarazione di circostanza delle istituzioni, i quindici lavoratori respinti dalla riconversione dell'area, apparivano come una semplice zavorra da trascinare al buon senso. Nessuna solidarietà né a livello

278 confederale, né di categoria ha accompagnato quell'esperienza e il partito di maggioranza, all'epoca i DS, è rimasto acriticamente schierato sulle decisioni della giunta. L'occupazione ha ricevuto esclusivamente il saluto di Cristiano Lucarelli377 e il supporto dell'area del movimento politico e della curva, e di un collettivo, impegnato sulle questioni lavorative, composto da un quartetto di fuoriusciti dall'esperienza dei Giovani Comunisti, che ha filmato le fasi dell'iniziativa, realizzando un documentario auto-prodotto con in rilievo le voci degli operai. Nonostante una scarsa considerazione generale e il mancato patrocinio della FIOM all'occupazione (sebbene la RSU fosse composta da operai FIOM), con la direzione del sindacato iniziarono a generarsi ben presto delle tensioni. I lavoratori tiravano in ballo i dirigenti con l'accusa di essere conniventi con il progetto che definivano «speculativo» della “Porta a Mare” e di conseguenza di non aver difeso a sufficienza le ragioni dei lavoratori e del lavoro. Iniziò a trapelare la convinzione che ben presto ogni residuo industriale che ancora rimaneva nell’area sarebbe stato smantellato nel corso di pochi anni e gli inviti dei dirigenti sindacali e dell’amministrazione comunale alla responsabilità furono presi da una parte dei lavoratori come una prova di compromissione. Ad attivare la protesta fu la componente operaia proveniente dalla comune esperienza allo stadio, nel gruppo delle B.A.L. Per richiamare l'attenzione di una città poco attenta allo smantellamento della LIPS, salvo i presidi di solidarietà dei movimenti sociali, si accampò polemicamente sulle scalinate del Comune, confezionando e attaccando alla ringhiera uno striscione che chiedeva “dignità” per gli operai della fabbrica, vergato con una falce e martello. Come spiega T.:

Io e il gruppo con cui ero più stretto si veniva tutti dalla curva. Si decise di non stare a portare striscioni sindacali. Che stava facendo il sindacato per noi? Aveva chiamato uno sciopero di categoria? Aveva fatto arrivare la solidarietà di altre categorie? Aveva portato i lavoratori da noi al presidio? Si era speso con la comunicazione? Niente di tutto questo.

377 DE MAJO. L., Non più eliche, ma verniciature. E gli operai occupano, Unità ed. Firenze, 10 maggio 2005, p.4. 279

Certo, venivano e ci davano il supporto. Ma a parole. Con i fatti niente. Perché avrebbe voluto dire andare contro il progetto speculativo sul Cantiere, che non prevedeva disturbi alla diportistica e alle nuove costruzioni E noi si veniva dalla curva e abbiamo firmato con la falce e il martello, almeno qualcuno a Livorno avrebbe riconosciuto il messaggio che lì c’era la classe operaia. Una classe operaia che non era più difesa né dal partito né dal sindacato cittadino.

Le conclusioni di T. marcano l'assenza in termini di solidarietà e sostegno dei riferimenti tradizionali dell'apparato di governo cittadino, partito e sindacato, e il gesto di firmare con la falce e il martello lo striscione di protesta lo evidenzia con ancora più enfasi. Agli occhi di T., e di gran parte di quella generazione postfordista che popola la curva - come rileva anche il numero degli striscioni di carattere sociale - appare evidente che un regime di regolazione sembra saltare nei nuovi contenitori urbani. L'esempio di T., è utile per avviarci a comprendere il lascito forse più interessante di un'esperienza di curva che, come abbiamo visto, colma quantomeno in parte il bisogno di appartenenza simbolica e come in questo caso, la mancanza di altre reti di regolazione del territorio. In sintesi, l'assenza di quella forza di governo del territorio che emerge dalle parole di Silvano, dirigente comunista del PCI fino alla svolta di Occhetto:

Ci si muoveva per i contratti nazionali, su grandi vertenze nazionali, si scendeva in piazza, si facevano degli scioperi. A Livorno c’erano grosse fabbriche, l’economia era industriale e nazionale, quindi quando si chiudeva tutto ne veniva toccata la produzione nazionale. C’era una grande solidarietà e partecipazione. Il Partito era talmente forte e la CGIL ne era la cinghia di trasmissione.

Non è questo il contesto per dare conto del complesso di vicende che hanno fatto la storia del governo cittadino dal dopoguerra, ma da alcuni elementi è possibile ricostruirne i punti fondamentali e alcuni retroscena che hanno fatto del “Partito” la

280 prima e sola forza cittadina. Innanzitutto l'elemento chiave del governo della città è stata la continuità di giunte del PCI e di tutte le sue trasformazioni (PDS, DS, PD) almeno fino ai risvolti delle elezioni amministrative del 2014.378 E' con la Liberazione che la forza del PCI è stata legittimata e certificata dall'attribuzione della carica di sindaco a Furio Diaz, intellettuale e militante antifascista, iscritto al partito. Storicamente, la tradizione comunista si è innestata sopra un intreccio tra ribellismo, anarchismo, repubblicanesimo e socialismo, mentre solo a partire dalla seconda metà degli anni Trenta ha effettivamente conquistato il favore della maggioranza dei «sovversivi»379. Da alcune testimonianze orali raccolte, il PCI emerge come forza di governo attraverso la costante e diffusa attenzione esercitata nei confronti dei bisogni del corpo sociale. Otello, classe 1933, fa affiorare nei suoi ricordi la grande capacità del Partito Comunista di accompagnare la ricostruzione della città con una capillare mobilitazione politica e culturale della popolazione e riunire una generazione impoverita dalla guerra, attorno al sogno di una società diversa.

E mi venne questa voglia di cambiamento. E all’inizio il modo era leggere e io imparai all’edicola di Piazza Grande perché mi mettevo lì e aspettavo che qualcuno leggesse ad alta voce la locandina, perché in pochi sapevano leggere quindi c’era sempre qualcuno che leggeva per tutti e io imparavo ad associare suoni e lettere. Tornati dalle Marche infatti ci portarono a Calambrone, alla Colonia della Gioventù italiana del Littorio, in mezzo alle caserme americane, era pieno di soldati, e là io trovai il modo di guadagnarmi da vivere, trafficando liquori, andando a rubare nei depositi, e quando venivo via da Livorno dove vendevo la merce compravo sempre dei libri, e lì io iniziai le mie letture politiche e cominciai a credere nella trasformazione delle cose e volevo trasformare il nostro paese come era stata trasformata l’Unione Sovietica, perché a quel tempo lo credevamo davvero che ci fosse il paradiso là. Compravo i libri alla libreria della stazione

378 In occasione delle elezioni comunali del 2014 il candidato del Movimento 5 Stelle ha battuto al ballottaggio il candidato del Partito Democratico. 379 MANNARI E., Una città sovversiva. La protesta negli anni del fascismo, in Le voci del lavoro. 90 anni di organizzazione e di lotta della Camera del Lavoro di Livorno, Napoli-Roma, Edizioni Scientifiche Italiane, 1990, pp.463-496. 281

e leggevo i libri della sezione di piazza Cavallotti, i libri esaltanti sulla Rivoluzione russa, La giovane guardia, Come si tempra l’acciaio, e lì mi sono formato. E quando andarono via gli americani non mi sentii di continuare a trafficare, e fu un periodo duro ma iniziai anche a impegnarmi, perché non volevo rubare ai livornesi, agli italiani. A 16 anni chiesi la tessera al Pacini che era vice-segretario. Non me la voleva dare. Si incominciò a litigare, entrò Barontini, il segretario e disse «Che è questo casino?» e il Pacini che era un tipo educato rispose «sai Ilio, Otellino vuole la tessera del partito ma ha 16 anni». E lui gli disse «E io quando l’ho presa la tessera del partito?» e me la firmò lui. Entrai nel partito e ci rimasi fino al 1969, quando fui espulso col gruppo del Manifesto.

Un episodio ricorrente nella memoria storica livornese per inquadrare la centralità ma anche la forza disciplinante del PCI, riguarda le reazioni della città di Livorno in seguito all'attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. Nella ricostruzione di quelle giornate operata in modo puntuale nel lavoro di Andrea Grillo, quasi interamente svolto attraverso il ricorso a fonti orali, colpisce il fermento rivoluzionario che aveva scosso la città livornese e in particolare gli operai del Cantiere Orlando, che per far fronte agli scontri con le forze dell'ordine - e immaginando scenari di forte stravolgimento - avevano corazzato un grosso camion, trasformandolo in un carrarmato. Barontini380, celebre dirigente comunista di origini livornesi, divenuto senatore, giunto a Livorno per chiarire le intenzioni del partito e imporre una condotta moderata, in linea con il mandato togliattiano espresso dalla svolta di Salerno, interviene per un attivo coi lavoratori presso il Cantiere Orlando e secondo le testimonianze, dopo essersi complimentato con gli operai per la realizzazione, ne ordina il disfacimento. «Bravi, bravi! Avete fatto un bel lavoro. Quanto tempo ci avete messo? Sei ore? Allora in sei ore quello che avete fatto lo risfate».

380 Dirigente comunista di origini livornesi, divenuto senatore, protagonista già della scissione del Teatro San Marco nel 1921, primo segretario della Federazione del PCd’I di Livorno, perseguitato dai fascisti e costretto a riparare all’estero, commissario politico del Battaglione Garibaldi nella guerra civile spagnola, coordinatore della guerriglia etiope contro l’occupante fascista, organizzatore dei primi nuclei dei GAP e comandante partigiano delle Brigate Garibaldi dell’Emilia- Romagna. Quando il 14 luglio del 1948 lo studente Antonio Pallante ferisce gravemente Palmiro Togliatti con quattro colpi calibro 38 alla nuca e alla schiena, Barontini, divenuto senatore e di stanza a Roma, si precipita a Livorno. 282

Il carisma e il prestigio di Barontini, oltre all'organizzazione capillare del PCI e la disciplina dei militanti evitarono ulteriori degenerazioni, riuscendo a contenere il diffuso sentimento insurrezionale. La tesi di Grillo è che «proprio l’organizzazione capillare del PCI e la disciplina dei militanti evitarono episodi di maggiore “spontaneità” e illegalità, in contrasto con le interpretazioni di coloro che hanno voluto vedere, negli avvenimenti di quei giorni, l’esplicazione minuziosa di un piano insurrezionale predisposto dallo stesso PCI».381 Da questo esempio e da altri racconti dallo stesso autore si evince come a Livorno il PCI si sia proposto nel ruolo di garante e responsabile di tutto un complesso insieme di rapporti sociali, a partire dal dopoguerra, organizzando e certificando lo sforzo collettivo per uscire dalla miseria. Per il PCI governare la città nel dopoguerra ha significato poter contare su un ampio numero di militanti fedeli alla linea responsabile che il partito aveva intrapreso, ma allo stesso tempo misurarsi con le aspirazioni rivoluzionare dei soggetti stessi, forgiati dalla memoria della Resistenza e impegnati nell'affermare un protagonismo della classe lavoratrice: nel contenere la duplice identità dei suoi sostenitori, si è misurata la forza di governo del partito. La storia di Livorno, non a caso, è attraversata da memorabili episodi di insurrezione popolare (continuamente ritrasmessi tra generazioni e arrivati a determinare l'immaginario della composizione di curva) in cui il ruolo del partito è necessariamente duplice: da un lato il coinvolgimento emotivo e la difesa, seppur malcelata, dei propri militanti, dall'altro la responsabilità istituzionale e la fermezza nel contenere e gestire gli eccessi della lotta popolare. Tra i più ricorrenti nella memoria cittadina si incontrano il già citato fervore rivoluzionario seguito al ferimento di Togliatti, lo sciopero di quarantadue giorni del Cantiere382, l'aver issato una bandiera vietnamita su una nave da guerra americana in occasione della morte di Ho Chi Min, la cacciata di Almirante dalla città durante un comizio del MSI, le tensioni sfociate in

381 GRILLO A., Livorno: una rivolta tra mito e memoria, Pisa, BFS Edizioni, 1994, p.94. 382 PAGLIAI M., I quarantadue giorni del cantiere. Cronaca di una grande lotta 17 marzo - 27 aprile 1956, Livorno, Erasmo, 2009. 283 gravi incidenti coi paracadutisti della Folgore in piazza Cavallotti. Il mito di Livorno “rossa e ribelle”, riattivato nella cornice dello stadio dalla curva, si è sempre stretto a questi episodi che hanno costituito un sapere ancora oggi tramandato di generazione in generazione. Un altro momento cruciale del rapporto tra il PCI e la città è stato il governo della crisi degli anni '50 caratterizzata da ristagno produttivo, disoccupazione e assenza di interlocutori rilevanti sul territorio: da quel momento i dirigenti comunisti, del partito come del sindacato misero alla prova la capacità di pianificazione dello sviluppo economico della città. E il modello, che abbiamo già visto, caratterizza Livorno dalla fine degli anni Cinquanta alla prima metà degli anni Settanta - porto, industrie a partecipazioni statali e pubblico impiego - e costituisce un grande bacino di lavoro in cui il PCI ha collocato un numero rilevante e via via crescente di militanti e simpatizzanti, garantendosi così uno straordinario consenso e cementificando la propria capacità di governo. I rivolgimenti economici degli anni '80 hanno visto le giunte, a partire dal decennio successivo, traghettare Livorno dai principi di un’economia mista a una di mercato, con il sostegno dei vertici del partito e del sindacato. E questi ultimi dismettere progressivamente le istanze più conflittuali e guidare da protagonisti la riconversione del modello di sviluppo, un passaggio che T. senza mezzi termini reputa «una prova di compromissione». Denunciando la chiusura di un stagione simbolica per l'identità cittadina e in particolare criticando le velleità di terziarizzazione di entrambe le giunte383, la curva per prima e con una forza mediatica impareggiabile da altre entità ha denunciato i pericoli di una Livorno in piena competizione globale, dove il partito e il sindacato, ancora espressione dell'egemonia del territorio, governassero per una rendita di posizione e un sistema clientelare, che in quel momento, per la contrazione economica, non avrebbe avuto nemmeno la forza di riprodursi. Lo stadio è stato uno dei primi elementi sottratti

383 Si ricordino gli striscioni con l'eccesso uso di palme sul lungomare, predisposte dal sindaco Lamberti e quel “Sindaco, ci vuoi tutti camerieri?” rivolto al successore Cosimi per aver avviato il progetto Porta a Mare. 284 all'egemonia del controllo delle istituzioni sul “proprio” corpo sociale, una condizione che mette in evidenza come la formazione politica di una generazione non si compia più sotto l'ala del partito o nell'attesa di soluzioni offerte dal sindacato. Come dice P., ex dirigente comunista, oggi fortemente critico della svolta del PD:

Te il PCI lo trovavi ovunque. Ti faccio un esempio, ti dice niente che il trofeo di voga più popolare a Livorno si chiama coppa Ilio Barontini, storico dirigente del PCI, come ti dice niente che i gozzi della coppa Barontini portano i nomi di dirigenti del PCI o di partigiani? Si capisce immediatamente che c’è una coincidenza tra la presenza del partito e l’organizzazione delle feste popolari e dell’immaginario collettivo, ma non è meno facile cogliere il ruolo dei comunisti nelle manifestazioni sportive, nella diffusione del ballo e dello sport non agonistico in città, nelle sale da gioco, nella cultura gastronomica, nella musica, nelle occasioni ricreative. Non a caso qui si addormentavano i figlioli cantando Bandiera rossa come ninna nanna, il contraltare notturno dell’organizzazione diurna del territorio.

Con estrema precisione, Diego, tifoso del Livorno e oggi sindacalista USB dell'Ipercoop conferma la sua formazione all'interno dell'esperienza della curva e rivendica la bontà del fare politica in quell'ambito, anche perché «se decidi di stare da quella parte lì, non è sicuramente l’offerta politica istituzionale che ti arriva da quella che era una sinistra».

Vivo la curva nord da quando ero piccino, perché quando andavo alle medie andavo in curva. Io non ho mai fatto parte del gruppo dirigente. Io ero proprio un ragazzino che girava attorno alle BAL, che fa le trasferte in treno, con gli amici, con il classico gruppetto e vedi il gruppo dirigente della curva come quelli che vorresti avere come amici. In città non c’era più il PCI, nasceva il PDS, e inizi ad andare in curva negli anni in cui la curva ti insegna che il PDS non ha niente a che spartire con il comunismo e che quindi noi che volevamo essere una città rossa lo siamo e cantiamo avanti popolo e cantiamo bella ciao in curva e quando qualcuno, e io ce li ho negli occhi questi episodi, porta la bandierina del PDS, magari per polemica con Berlusconi, viene quasi picchiato:

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«Non è questo il comunismo, metti via quella bandiera». E sono fotogrammi che ti rimangono, ti segnano e ti iniziano a fare capire che la tua idea politica, se decidi di stare da quella parte lì, non è sicuramente l’offerta politica istituzionale che ti arriva da quella che era una sinistra. Noi che vivevamo certe dinamiche dall’interno non è che non ci rendessimo conto che all’esterno tutto questo era visto come una cosa anormale, perché dall’esterno erano tutti a dire: «Ma perché la politica in curva?». Però, nel nostro caso, la caratterizzazione e l’orgoglio di essere l’unica curva a farlo in un certo modo, o comunque l’emblema di quello che significa fare davvero politica in curva, era una molla speciale. C’era l’idea che Livorno è la città dove era nato il PCI e molto banalmente che anche la sua curva doveva far sì che a tutti fosse chiaro che Livorno era la città della falce e martello. Siccome era impossibile che tramite la cassa di risonanza del calcio quel messaggio non arrivasse al mondo, perché poi l’eco delle nostre gesta era anche mondiale, noi andavamo avanti così. Quindi stare in curva ti dava identità, lo cantavi allo stadio, lo cantavi ovunque, a Livorno divenne una moda girare con le falce e martello. In curva nasce questa curiosità perché il messaggio era forte, carismatico, era caratterizzante, ti dava orgoglio e quando hai quell’età lì, che è l’età in cui ti senti un pallone nel mondo, pensi che sei qualcosa perché sei nella curva del Livorno, perché vai a cantare negli stadi, ti accampi nelle stazioni, perché ti caricano, perché perdi le scarpe in trasferta ai playoff e cammini sull’asfalto rovente. E io ne ho vissute sicuramente meno di quelli che hanno vissuto le battaglie vere, storiche. Cresci con questo frame in mente che t’arriva e che ti dice: «Noi siamo comunisti, lo vogliamo gridare al mondo. Il comunismo non è il PDS, è qualcos’altro». E ti chiedi: «Quindi cos’è? Noi». Siamo noi che lo gridiamo, che lo cantiamo. Quando vedo le foto della curva degli anni Ottanta non vedo niente di tutto questo. O meglio, negli anni Ottanta Livorno era comunque una città rossa ma lo era con un legame con il PCI enorme. Lo era come decideva il PCI, tanto è vero che il fenomeno del sindacalismo di base non c’era perché non c’era proprio spazio. Davano tutto loro, benessere totale. E’ il momento in cui i miei genitori trovano un pubblico impiego, in fabbrica, nello Stato, perfetto. Cambia qualcosa in quegli anni lì e in curva ci si ritrova a chiedere cose diverse, a costruire un intero immaginario. 286

La curva è la scuola di saperi che permette a Diego di fare un passo fondamentale per la sua vita politica e lavorativa. Prima lo attrae a livello identitario, poi lo incuriosisce politicamente, infine lo motiva a fare il sindacalista.

Sono cresciuto con quella curiosità che ti fa capire queste cose, che ti fa cantare anche per i lavoratori. Ti fa capire anche che cos’é allora la sinistra, la sinistra è quella che sta con i lavoratori, quella che gli dà una mano. Probabilmente, tornando alla tua domanda di prima, io credo che sia lì che mi è scattato: «Cos’è che mi piacerebbe fare? Questo! Mi piacerebbe anche fare attività politica». Sinceramente non so perché poi mi viene subito in mente di fare il sindacato. «Ok», mi sono detto, «se non è la CGIL ad occuparsi dei nostri problemi, mi toccherà inventarmi un nuovo sindacato. Quindi decido, perché avevo deciso già nel corso dell’ultimo anno in cui preparavo la tesi, di fare il sindacalista. Il sindacalista però fuori dai cancelli dell’Ipercoop o dalle fabbriche, non il burocrate in giacca e cravatta.

La storia di Diego è esemplare per aggiungere un ulteriore riflessione sul rito calcistico. Lo schema classico dell'identità politica di una curva, nel caso di Livorno, regge fin al debutto. La ricerca di un corollario comune che possa cementificare le appartenenze di quartiere è sicuramente un aspetto che può dirsi strumentale e consuetudinario nelle dinamiche ultras. Un meccanismo che solitamente è considerato privo di significato ideologico384, ma orientato principalmente alla difesa di un territorio. Nella biografia di Diego, così come in altre storie incontrate, oltre a vedere il giovane colmare l'impulso all'esibizione di sé e ad apparire in un rito pubblico e mediatizzato, sembra inoltre emergere un modello inedito di apprendimento del rito, nel quale la politicizzazione non è solo esasperazione o gusto dell'iperbole, ma un lascito concreto dell'esperienza di curva. F., oggi più che trentenne, al contrario di Diego, è da subito parte integrante delle

384 DAL LAGO A., op. cit., 1990, p.123. 287

B.A.L. Le sue parole scavano ancora più a fondo nei significati della ritualità del gruppo.

Cerca di capire. Con mio babbo ho sempre avuto un confronto anche duro, perché lui giudicava estremiste le mie posizioni e io giudicavo troppo morbide le sue. Mi ricordo una litigata sulla legge Reale dopo la morte di Maurizio Tortorici…Ma è un confronto tra persone che si sentono parte della stessa storia. Un comunista, con gli ideali e le esperienze di un comunista. Tutto il bagaglio che i nostri genitori ci hanno trasmesso costituiva allora [all’epoca della nascita delle BAL] il nostro orizzonte, ed è così anche oggi. I miei erano stati aiutati dal partito, per quanto riguarda il lavoro e per quanto riguarda la casa. Noi abitiamo nelle case popolari. Prima queste cose erano conquiste, poi sono diventate privilegi. E’ giusto che il partito si occupi dei bisogni della popolazione, ma non può essere una cosa che vale per pochi fortunati. Noi si voleva la stessa città dei miei genitori, ma non come un privilegio, attraverso la lotta. Questo per me è il messaggio delle BAL.

Per un'intera generazione il sogno della città raccontata da genitori e nonni si ricompone nell'unico spazio di socialità collettiva vitale sul finire degli anni '90. La curva diventa un dispositivo fortemente identitario dove ricomporre territorialmente e socialmente “un’idea di popolo”. Gli ingredienti del rito ne facilitano il meccanismo in quanto la coscienza di sé (l'identità della curva), si sviluppa attraverso azioni (gli scontri) e sentimenti comuni (l'appartenenza alla città ribelle), che trovano nel canale artistico (il potenziale coreografico della curva) la loro piena affermazione. Negli schemi “ultras” le bandiere di quella città ideale sono amaranto e rosse insieme e la forte carica vitale del mito sovietico il collante ripreso dalle memorie cittadine. L'effige di Stalin non rappresenta per i «i bravi ragazzi delle B.A.L. o come si chiamano […] la “collettivizzazione delle campagne” nella Russia degli anni ’30, dove i poveri contadini che osavano ribellarsi a chi gli toglieva il fazzoletto di terra di loro proprietà venivano trucidati, o deportati con donne e bambini (2 milioni di persone), e mandati a morire di

288 stenti nei campi di lavoro in Siberia» come scriverà un polemico lettore sul principale quotidiano cittadino385, bensì i tratti del padre386 e del baluardo contro l'oppressione e lo sfruttamento delle strati popolari, che insieme al mito della Russia sovietica è stato il collante di una militanza, inizialmente clandestina, di un numero sempre maggiore di lavoratori comunisti fino agli anni '50. Un'immagine provocatoriamente trasfigurata allo stadio, ma ricorrente nelle famiglie comuniste livornesi387, come ha avuto modo di ricordare perfino un assessore comunale dei Democratici di sinistra che rivolgendosi informalmente agli occupanti del centro sociale locale frequentato da molti ultras, si espresse con indulgenza rispetto ai rimandi iconografici alla figura di Stalin: «Ma io vi capisco. Per me, come per tutti quelli della mia generazione che erano legati al PCI o più in generale alla tradizione comunista, Stalin non era il dittatore sanguinario che racconta oggi la storiografia, ma colui che ogni giorno ci portava il pane e la pasta e ci permetteva di sognare, di avere un giorno una vita migliore». Una socializzazione familiare della figura di Stalin e del Partito Comunista che arriva anche ai più giovani, come mi racconta N., protagonista alla fine degli anni '90 del movimento degli spazi sociali, ma restio alla vita di curva:

L'embrione ce l'hai familiare: mio babbo portava l'Unità, mia madre era iscritta al PCI da sempre, mia nonna aveva sul comodino la Madonna e la foto di Stalin come da prassi comunista livornese, quindi hai questa influenza inconscia. Quando cominci a confrontarti su certi argomenti col tuo gruppo emergono certi bisogni e uno spazio di piazza non basta, ci vuole uno spazio fisico dove ti riconosci, dove devi crearti un'identità. C'è chi ha lo stadio. Io? No, allo stadio mi annoio.

385 Lettera firmata, Gli ultras, Stalin e lo striscione, Il Tirreno, 12 marzo 2002. 386 “Viva Stalin nostro padre!” si leggeva a Livorno in una scritta apparsa alla “Vetreria” nel dicembre del 1938. Vedi: MANNARI E., op. cit., 1990, pp.463-496. 387 Un episodio curioso è emerso durante una serata in ricordo di Luciano De Majo, apprezzato giornalista del Tirreno, scomparso prematuramente nel 2001. Un suo collega, Fabrizio Pucci ha svelato che il primo pezzo di Luciano sul giornale è stato "firmato" con la sigla g.s. Il motivo? Autoironicamente erano le iniziali di "Giuseppe Stalin", visto che tutti lo sapevano comunista. 289

Appare dunque più chiaro adesso lo stuolo di riferimenti simbolici e materiali riversati per anni in curva nord e talvolta usati per accompagnare la conflittualità su posti di lavoro non più garantiti. A un’intera generazione cui iniziano a mancare i riferimenti simbolici e materiali per riscattare il disagio emergente, «l’idea di popolo» a disposizione è quella espressa dal Partito comunista, ma non quello berlingueriano nel quale hanno militato i genitori, identificato come un dispositivo di controllo della classe operaia388, tanto meno le sue evoluzioni convogliate in partiti di centrosinistra, bensì nella sua forza originaria, il PCI clandestino, del 1921 e dell'intoccabile Barontini, quel partito che fino a un certo periodo propagandava l’eroica resistenza di Stalingrado. Come afferma L.:

Tirar fuori quelle icone è stato uno choc per chi governava la città, perché si è ritirato fuori gli scheletri dagli armadi di chi se li voleva accantonare, no? C’era una consapevolezza polemica in noi. Il problema in primis era la classe dirigente. Chi aveva più coscienza riconosceva il fatto che il grosso fallimento politico della città di Livorno è stato quello che essendo una città che è andata dietro al PCI fino alla morte, insieme al PCI è andata nel burrone. E in contrapposizione a questo declino si rivedeva e rivendicava un’idea di PCI che non c’era più. Quindi non hai in piazza gente che è anarchica e che ti dice che il partito fa schifo e fate schifo anche voi perché siete il partito, c’è gente che ti dice che noi necessitiamo del partito, che non siete voi, voi ve lo siete dimenticato che cos’era il partito. E quindi per loro fu uno choc grandissimo. Cioè, quando ti vengono compagni che ti attaccano quadri di Stalin nel Centro [il Centro Politico 1921 è la sede occupata da elementi delle BAL] che l’hanno presi nella sede del PD che li tenevano inscatolati si capisce il cortocircuito che s’era generato.

Il cortocircuito di cui parla L. prende forma allo stadio traducendosi in un conflitto tra

388 «Lo strapotere incosciente, privo di autocritica, a cui i livornesi si sottoposero negli anni che seguirono il dopoguerra, distrusse infatti ogni forma di progresso ideologico e diresse quello che era lo strumento del proletariato – il partito – verso una metamorfosi che lo rese in pochi anni uno strumento di controllo delle masse al servizio, diretto o indiretto, della borghesia […] E' un dato di fatto che Livorno abbia vissuto un percorso ideologico parallelo a quello del PC ed insieme ad esso, non a caso, è finita nell'oblio della lotta sociale, divenuta sempre più latitante dagli anni '70 in poi». REDAZIONE, Un nuovo corso, Senza Soste, n.0, 2006, p.1 290 settori, idealmente tra la gradinata dei padri, occupata dai club389 e la curva dei figli, degli ultras. A., esponente dei movimenti sociali e assiduo frequentatore della curva nord prova, tenta di spiegare metaforicamente quella fase:

In quegli anni c’era una vera e propria battaglia tra la curva e la gradinata che ti posso raffigurare così. In curva i bimbi, in gradinata i genitori, simbolicamente intendo. Cioè, voglio dire, in curva c’erano i giovani, quindi un gran numero di disoccupati, di saltuari e di lavoratori dequalificati, mentre in gradinata c’era gente che aveva ricevuto un posto di lavoro, l’abbonamento allo stadio e poi la pensione. La curva era ribelle, la gradinata diessina. La curva cantava «Livorno siamo noi» e la gradinata avrebbe voluto cantare altrettanto, e non perdeva occasione per criticare o fischiare la curva. La curva diceva alla gradinata: «Bel mondo che ci avete regalato» e gli sventolava in faccia Stalin. La gradinata rispondeva che erano una manica di ignoranti infantili a usare certi simboli e la curva ribatteva «Ce li avete insegnati voi».

In conclusione affido alla lunga dissertazione di A. la rievocazione di un momento fortemente simbolico per interpretare fino in fondo la portata del cortocircuito prodotto dalla trasmissione di saperi, memorie e identità, un tempo elemento fondamentale dei processi di socializzazione del legame sociale cittadino. Una testimonianza che intreccia l'esperienza di curva e la trascina fuori dalla sua cornice originaria, in una città che si trasforma e riflette sulla propria identità.

Il cambiamento, per me, a livello simbolico è arrivato con la sparizione delle gru del Cantiere, una perdita che a livello simbolico per Livorno la puoi paragonare alla caduta del muro di Berlino. Non è un riflesso nostalgico, è una valutazione economica. Livorno in quel momento rinuncia a un pezzo della sua identità operaia. Per una città di camerieri, forse, come scrissero gli ultrà in curva. Un frase che fece arrabbiare il sindaco, ma effettivamente non si vedono prospettive diverse dai cambiamenti in corso. Ai tempi delle B.A.L c'era questa capacità di critica attraverso lo stadio, che aveva uno sguardo anche

389 In tal senso si può spiegare una polemica tra il gruppo delle B.A.L. e il presidente del centro di coordinamento dei club, Curzio Galatolo, in virtù della candidatura di quest'ultimo nelle liste del Partito Democratico. 291

dissacrante. Erano momenti che uno striscione valeva più di mille volantini o presidi davanti a una fabbrica. Sicuramente gli anni delle B.A.L. hanno forgiato un immaginario. Non l'hanno inventato, perché in questa città non è che devi smuovere troppo su certe corde. Semplicemente l'hanno riattivato. Personalmente non ho nessuna relazione identitaria con Stalin, perché a me non è mai arrivato, non avendo la famiglia comunista. Però, vedi, appunto quello che è sempre arrivato a me, che mi sono formato politicamente tardi e sull'esperienza degli spazi sociali, è la grande narrazione ribelle di Livorno. E' una città che ha sonnecchiato per tanto tempo, forse per merito o colpa del PCI, in ogni caso politicamente ci sono stati decenni di scarsa attività politica. Ma per quanto sia pigra questa città, forse appunto perché c'era un partito che pensava a tutto lui, ciò che l'ha sempre fatta risvegliare è la percezione di un sopruso. E su questa identità di Livorno che non vuole prepotenze, c'è una fila interminabile di episodi che ovunque ti trovi davanti a un bicchiere di vino saltan fuori. Non ce n'è, succede sempre. “Eh, ai nostri tempi...”. Ecco, in quegli anni dove l'identità te la facevi allo stadio, perché c'era un tripudio di bandiere rosse, Che, falce e martello, ma anche perché sì c'era anche un gioco di opposizioni, ma un gioco che rafforzava dentro perché ti faceva sentire in tanti dove di solito con quelle idee sei in pochi. E allora c'è stato un periodo in cui questa forza te la portavi in città, dove si diceva sempre che il fascismo non esisteva, che i fascisti tutt'al più stavano rinchiusi nelle caserme, eppure magari spuntava un leghista che dava di soppiatto dei volantini (a Livorno!) o il parà che veniva a commemorare El Alamein, o addirittura Matteoli che pensava di poter fare la sua campagna elettorale con una sede addobbata coi poster di An in pieno centro. Con quella sede pareva d'avecci in casa la Repubblia di Salò. Ecco in quel momento, vuoi per la curva, vuoi perché c'è stato comunque un bel fermento anche della generazione dei centri sociali, vuoi perché il livornese è naturalmente antifascista, tu il leghista lo prendevi a cascate, ai parà facevi un agguato se gironzolavano con le celtiche e a Matteoli390 devastavi la sede. Dico facevi, ma non so chi è stato, ma il fatto che possa essere stato chiunque è già indicativo. Ma la cosa importante, è che non concepivi proprio che queste azioni potessero essere messe in discussione, perché tu con la trasmissione di storie di ribellione, di antifascismo popolare ci sei cresciuto. Ti hanno detto, vedi Livorno era questa, e tu che soprattutto in una certa

390 Altero Matteoli è stato ministro dell'Ambiente. Cresciuto nel MSI, è passato poi ad Alleanza Nazionale. 292

fase della tua crescita vuoi essere qualcosa per la tua città, ecco volevi essere il protagonista di una storia come quella che ti hanno sempre raccontato. Non che la cercavi per forza, perché possono essere avvenimenti anche dolorosi, penalmente rilevanti, ma se capitava non potevi mancare. E per la mia generazione la più grande occasione si è presentata quando è venuto Mario Borghezio391, mi pare fosse il 2005. Cioè, Mario Borghezio, te lo ripeto, che voleva venire a Livorno a parla' di tolleranza tra religioni o che cazzo ne so. A me, come a tanti, è bastato il nome. Cioè, la prima cosa che pensi, è: ma cosa è diventa Livorno se parla Borghezio? Un terreno di conquista. Ecco in curva questa cosa la vedevi, per esempio. Tutti volevo fare “il numero” a Livorno. E comunque...tornando a Borghezio. Ma perché il Comune permette che parli Borghezio? Non può impedirlo istituzionalmente, non hai un Barontini che possa dialogare con la piazza? Bene ci penserà la tradizione della città. Lo sai, ci furono durissimi scontri al suo arrivo. Io ho avuto paura quel giorno, perché a me la violenza non piace, non fa per me, non so fare a botte, non so scontrarmi. Io quel giorno potevo anche morire per strada, ma ti giuro quel fascista nella mia città non avrebbe parlato. Mi sono sentito incaricato direttamente dalla città, da quelli che mi dicevano che le sedi dell'MSI a Livorno non duravano un giorno, da Otello che un giorno mi raccontò di aver rovesciato delle bombole addosso alla polizia che lo voleva arrestare ingiustamente, da quegli operai che hanno tentato di costruire un carroarmato in Cantiere dopo che provarono ad assassinare Togliatti. Te ne potrei citare quanti ne vuoi. Alla fine vabbè, ci sono stati 37 poliziotti all'ospedale, ma se la società non può impedire che parli Borghezio, a me la questione centrale mi sembra questa. E quando poi leggi per giorni che tentare di assalire Borghezio e farlo scappare impedendogli di parlare è qualcosa che non fa parte della tradizione di questa città, lo disse il sindaco e lo disse anche tutto il suo partito, tu pensi: forse siete voi che non siete più parte di una certa tradizione. O avete perso la memoria. E infatti...poi hanno perso.

391 Mario Borghezio è un europarlamentare della , noto per le sue dichiarate posizioni xenofobe e islamofobe. 293

Conclusioni

L'indagine condotta ha confermato che il calcio è assimilabile a un rito. Una forma collettiva che rimanda alla metafora di una battaglia in larga parte simbolica: una condizione messa costantemente alla prova dal fragile equilibrio tra play e game, elementi inscindibili del dispositivo del gioco. Come sport istituzionalizzato, in Italia, il calcio ha attraversato un secolo e come uno specchio deformato della vita "seria" ha accompagnato i cambiamenti della società, mantenendo quasi invariate alcune caratteristiche costitutive, ma subendo profonde trasformazioni a livello organizzativo e nella produzione di significato dei suoi eventi. In particolare, il rapporto tra calcio ed economia ha vissuto due fasi. Dapprima i dispositivi economici (le telecronache, il totocalcio, la tv, la pubblicità) hanno permesso la diffusione del rito calcistico, facendone un fenomeno di massa. In seguito, rinnovati processi di valorizzazione hanno impresso un'accelerazione negli investimenti, che hanno comportato una svolta epocale del calcio: da sport (e rito) popolare si è trasformato in uno spettacolo rivolto a un pubblico selezionato e predisposto al mercato. "Soldi e marketing" hanno capitalizzato la passione sportiva dei tifosi con interventi che hanno reso quella che era una passione un prodotto potenzialmente capitalizzabile in tutte le sue forme, a partire dalla maglia da gioco all'amichevole estiva. In questo percorso la voce dei tifosi è dapprima cresciuta a dismisura, diventando egemone nella comunicazione estetica di una partita, per poi essere silenziata da un'intensa stagione di leggi speciali e da una ferrea selezione che ammette solo tifoserie- clientele negli stadi di nuova generazione. La ricerca sul campo mi ha portato ad indagare una conflittualità a me prossima, perché esplosa in un quinquennio nella curva della tifoseria della mia città. La formula del rito mi ha accompagnato nella scoperta delle importanti mutazioni avvenute a Livorno sul finire degli anni '90: in curva si è affacciata un'avanguardia ultras, le Brigate Autonome Livornesi, che ha affermato con decisione la propria presenza in un contesto che nel

294 giro di pochi anni si è trovato d'improvviso alla ribalta, anche in virtù dei risultati della squadra. Un gruppo selezionato, centralista e, novità assoluta per il panorama ultras nazionale, esteticamente schierato a sinistra. Una politicizzazione che è andata oltre gli schemi del tradizionale rituale calcistico, imprimendo processi di socializzazione e di formazione politica che non trovavano la giusta attivazione nei consueti spazi cittadini. Se da un lato la curva, nella sua veste ultras, ha rivelato conflitti largamente simbolici ormai mal tollerati nel nuovo ordine del calcio moderno - una situazione pagata dalla tifoseria livornese con il record nazionale di diffide - nella sua veste politica ha espresso probabilmente i suoi tratti più interessanti. Il recupero del mito originario di Livorno (il Partito Comunista, la classe operaia) e gli striscioni polemici sul governo della città illustrano perfettamente la composizione sociale della curva di quegli anni: una generazione post-fordista, una classe operaia ristrutturata e fortemente precaria che sa di non avere più un futuro garantito in una Livorno proiettata in una spietata competizione globale. Allo stadio va in scena la polarizzazione del conflitto sul modello di governo del territorio, in cui una nuova generazione desidera le condizioni "dei padri" non più come privilegio erogato dal "partito" ma come diritto. Una forma inattesa del rito, che senza venir meno alla sua forma ludica si fa dispositivo di formazione politica reale di soggetti che si muoveranno nella città con un bagaglio identitario e di consapevolezze, sorprendentemente appreso tra i gradoni di uno stadio. I bisogni della vita reale, che invadono la forma autonoma del rito, sono introdotti con iniziative polemiche ma in ogni caso filtrati dalla cornice dello stadio e pertanto ampiamente criticati da politici, mass media e opinione pubblica, che vedono illegittima la rappresentazione di un conflitto là dove il potere ha creato, negli anni, una situazione di consumo acritico all'interno del gioco più mediatizzato al mondo. Tracciare il proseguimento di questo lavoro significa probabilmente analizzare più in profondità la qualità della vita "reale" che ha formato l'identità dei nuovi protagonisti della curva livornese attraverso lo specchio deformato del calcio. Un contesto, quello

295 della curva, fiaccato da leggi speciali ma che continua in qualche modo a sopravvivere, seppur all'ombra delle grandi stagioni vissute nel quinquennio delle Brigate Autonome Livornesi. La città vive invece una profonda crisi economica e per la prima volta nella sua storia non sono gli eredi del Partito Comunista a individuare un'ancora di salvezza per il futuro della comunità. Sicuramente una futura indagine dovrà comparare, nelle forme opportune, la specificità livornese con altre realtà, magari figlie di altri porti o di quelle complesse metropoli che talvolta si sono affacciate in questo lavoro. Uno sguardo che parta dalla curva per abbracciare magari, ancora una volta, un'intera città.

296

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