Don Pasquale Interno Libretto

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Don Pasquale Interno Libretto FVG BALLET COMPANY CORO DEL FRIULI VENEZIA GIULIA ORCHESTRA DELLA SOCIETÀ FILARMONIA DON PASQUALE DRAMMA LIRICO IN TRE ATTI LIBRETTO DI GIOVANNI RUFFINI Musica di GAETANO DONIZETTI CORO DI TESPI - Circuito 2009 Si ringrazia per la gentile collaborazione il tenore Beniamino Prior Non ci sono fate né incantesimi in questa Cenerentola, niente topi, zucche o fughe di mezzanotte. Nella scombinata famiglia della protagonista troviamo un patrigno al posto della matrigna e due pessime sorelle che nonostante le loro malefatte vengono perdo- nate nel finale. Molto meglio di altre cruente versioni in cui le due bisbetiche vengono accecate da colombe sadiche, costrette tra dolori infernali a smozzicarsi i piedi per farli entrare in una scarpetta, purgate o bollite e offerte in pasto alla matrigna. C’è un gioco serrato di apparenze e metamorfosi, se il principe si tra- veste da cameriere, il cameriere da principe e il filosofo tutore del re ha le sembianze di un mendicante, secondo uno scambio di abiti e ruoli che porta, nello svelamento finale, al colpo di scena; la sorpresa, lo stupore, la meraviglia, sono tutti elementi forti del linguaggio rossiniano. Uno «smaniglio», cioè un brac- ciale, prende il posto della famosa scarpetta di cristallo che la protagonista affida al principe per essere ritrovata dopo il ballo. E pare che la variante del braccialetto sia poi stata dettata anche da ragioni di censura, dal momento che nei teatri romani era proibito alle donne mostrare piedi e polpacci in scena. Cenerentola, secondo l’estetica larmoyante di fine diciottesimo ASQUALE secolo, trionfa per la sua virtù: non si lascia abbagliare dallo sfar- zo e segue il cuore nelle sue scelte. La sua trasformazione da sot- tomessa fanciulla coperta di cenci a donna trionfante e regale - il P mutamento è sottolineato dalla musica che va dalla malinconica canzone iniziale «Una volta c’era un re» alla superba e brillante aria finale «Non più mesta» - è merito non di un qualsivoglia for- tunato intervento della fatina, ma della sincera bontà della pro- tagonista e della sua dolce timidezza che incantano il cuore del principe. Rossini, contrariamente alla totalità giocosa dei perso- naggi del Barbiere di Siviglia, rimane qui legato al nucleo senti- ON mentale delle prime farse. Seri sono Cenerentola e Don Ramiro; Don Magnifico, Clorinda, Tisbe e Dandini sono prelevati diret- tamente dal mondo dell’opera buffa, mentre la figura di Alidoro è quella del basso saggio, un deus ex machina che D muove gli eventi. Il soggetto fu tratto non solo dalla celebre fiaba di Charles Perrault Cendrillon ou La petite pantoufle de verre poi ripresa dai fratelli Grimm, ma anche da due libretti d’opera: Cendrillon di Charles Guillaume Etienne per Nicolò Isouard (1810) e Agatina, o la virtù premiata di Francesco Fiorini per Stefano Pavesi (1814). L’archetipo delle tre sorelle di cui una è perseguitata poiché diversa, rimanda anche al King Lear di Shakespeare (Cordelia incarna il tipo di fanciulla virtuosa perseguitata) ma la storia è in realtà dominio di molte antiche narrazioni e in Italia ne fu pre- cursore il racconto di Basile La gatta cenerentola. È lo stesso librettista Jacopo Ferretti nelle sue Memorie a descri- vere le circostanze in cui nacque l’idea di musicare l’opera: nella difficile notte del 23 dicembre 1816, Rossini si trovò in tutta fret- ta a scegliere insieme al librettista e all’impresario Cartoni, un nuovo argomento da rappresentare al Teatro Valle di Roma, dopo che la censura pontificia aveva bocciato la prevista Ninetta alla corte. Un’infinità di titoli venne vagliata in questa lunga ed estenuante veglia, fino a che la scelta non cadde su Cendrillon. L’opera avrebbe dovuto chiamarsi poi Angiolina, ossia la bontà in trionfo, ma anche qui la censura la fece da padrona: il nome Angiolina coincideva con quello di una popolana romana che si era all’epoca resa nota per i suoi comportamenti licenziosi. E così ASQUALE si optò per La Cenerentola, o sia La bontà in trionfo. «Miei fratelli!» scriveva Ferretti nell’avvertenza in prefazione al libretto «Conosco la mediocrità de’miei versi non ritornati sul- P l’incude: ma ho la fortuna di consegnarli al moderno Prometeo dell’armonia, che saprà scaldarli con la favilla del sole». Il «novello Prometeo», dotato di grande facilità di scrittura, ci mise solo ventiquattro giorni a preparare la musica - terminando a due giorni dalla prima rappresentazione - mentre il testo fu pronto in ventidue giorni. Le arie meno importanti e i recitativi secchi furono composti da Luca Agolini, assistente del maestro. ON A Roma le opere erano spesso scritte in tempi record ma Rossini era spinto anche da una forte ansia di affermazione. Gli impre- sari esigevano da lui un titolo dopo l’altro: la sua prodigiosa capacità di lavoro lo porterà a produrre venti opere solo tra la D fine del 1815 e l’inizio del 1823. Con La Cenerentola il pesarese chiude la grande stagione dell’opera buffa, nella piena consape- volezza che quello del dramma giocoso era un settore in via di esaurimento. All’epoca Rossini aveva solo venticinque anni e un temperamento vulcanico ereditato forse dal padre (il cui sopran- nome, “Vivazza”, è sufficientemente esplicativo). Si narra che la sua scatenata verve lo portasse anche a comporre seduto ai tavo- li delle taverne, circondato da amici che festeggiavano e beveva- no, come accadde per esempio quando scrisse l’aria «Nacqui all’affanno e al pianto». Gli anni della depressione vissuta in tra- gica solitudine, nonostante fosse acclamato come il più grande operista vivente, erano fortunatamente ancora di là da venire. I successi veneziani del 1813 - Tancredi e L’Italiana in Algeri - e quel- li napoletani inaugurati nel 1815 da Elisabetta, regina d’Inghilterra con protagonista Isabella Colbran, sua futura moglie, lo avevano già reso un compositore conosciuto e stimato. Barbaja aveva lan- ciato nel mondo la sua fama e Rossini era già monumento di se stesso. La prima de La Cenerentola ebbe dunque luogo il 25 gennaio 1817 al Teatro Valle di Roma, dove il Nostro già aveva rappresentato la sua prima opera Demetrio e Polibio, e Torvaldo e Dorliska nel 1815. Il ruolo della protagonista fu affidato al contralto Geltrude Righetti Giorgi, già prima interprete di Rosina nel Barbiere di ASQUALE Siviglia (in seguito, la parte fu affrontata da altre straordinarie prime donne come Adelaide Borghi Mamo e Barbara Marchisio. Il ruolo fu anche della stimatissima Marietta Alboni, definita P scherzosamente da Rossini «l’ultimo dei castrati», donna dalla voce corposa e robusta quanto la sua taglia - «un elefante che ha ingoiato un usignolo» la si definì impietosamente). Primo Don Ramiro fu il tenore Giacomo Guglielmi, niente meno che il figlio del compositore Pietro Alessandro Guglielmi. Per il debutto Jacopo Ferretti nelle sue memorie parla di «fiasco», soprattutto perché non ci furono applausi durante la rappresentazione. A ON parte il largo del sestetto, il rondò finale e poco altro, il resto passò inosservato. Forse per l’allestimento frettoloso o per il con- seguente nervosismo degli interpreti, l’accoglienza dei cantanti da parte del pubblico fu tiepida. La fretta, del resto, era stata tale D da costringere Rossini a usare l’autoimprestito, riciclando la sinfonia composta l’anno prima per La Gazzetta e, come finale, il rondò del conte d’Almaviva nel Barbiere di Siviglia «Cessa, di più resistere», diventato ne La Cenerentola il celeberrimo ed efferve- scente «Non più mesta» della protagonista. Ma Rossini, memore della temporanea caduta del Barbiere di Siviglia e conscio del valore de La Cenerentola, così si rivolgeva a Ferretti, ancora stordito per il fiasco: «Sciocco! Non si termina il carnevale senza che tutti se ne innamorino: non passerà un anno che sarà cantata dal Lilibeo alla Dora e tra due anni piacerà in Francia e farà meravigliare l’Inghilterra. Se la disputeranno gli impresari e più ancora le prime donne». E così fu. La capitale che l’aveva disapprovata, dopo poche recite l’applaudì fino a consa- crarla come uno dei maggiori successi del maestro mentre era ancora in vita. L’opera infatti divenne popolarissima, anche in virtù del suo avvincente soggetto, e fu ripresa in Italia e all’este- ro; il suo trionfo eclissò addirittura quello del Barbiere. Fu solo a Stendhal che l’opera non piacque: «Malgrado la bravura degli interpreti e l’entusiasmo del pubblico, condizioni essenziali al piacere musicale, la Cenerentola non mi ha dato alcun piacere» scriveva nella sua celebre biografia di Rossini. «Il primo giorno credetti di essere malato, ma fui costretto a riconoscere, nel corso delle successive rappresentazioni che mi lasciavano sempre fred- ASQUALE do e indifferente in mezzo ad un pubblico in delirio, che il mio malessere era un fatto del tutto personale. La musica della Cenerentola mi sembra mancare del bello ideale». Questo perché, P secondo Stendhal, l’opera sarebbe stata pervasa dalla vanità: tale era la gioia di recarsi al ballo in abito elegante oppure l’essere nominato maggiordomo da un principe. Stendhal era semplice- mente stanco di vedere rappresentata sulle scene una passione che lui riteneva estremamente volgare. Questa nota contraria fu comunque mitigata dai giudizi positivi che lo stesso dette ad alcune singole arie e duetti, e dall’elogio che fece all’interpreta- ON zione triestina di Giuditta Pasta. Il pubblico di Trieste, entusiasta dell’opera, richiese addirittura cento repliche (ne erano previste originariamente «solo» trenta). Dopo un periodo di declino coincidente con il verismo, durante D il quale l’opera rischiò persino di uscire di repertorio, La Cenerentola è tornata trionfalmente sulle scene, anche grazie al lavoro di Alberto Zedda che verso la fine degli anni Sessanta ne ha curato l’edizione critica. È con questa edizione che, ad esem- pio, è stata recuperata l’aria virtuosistica di Alidoro «Là del ciel nell’arcano profondo», a lungo rimasta sconosciuta e al tempo scritta da Rossini per l’ottimo basso Gioacchino Moncada.
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