Mercoledì 28 aprile | Sa Die de Sa

Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale fra questione rurale, lingua e letteratura sarda Bono, Macomer

Organizzato In collaborazione con Con il patrocinio di dall’Associazione culturale Comune di Bono Frontes Comune di Macomer Comune Montana Assessorato della Pubblica istruzione, Beni culturali, Informazione, Spettacolo e Sport del Goceano Indice

Pagina 3 E se la storiografia e la cultura autonomistica fossero un equivoco? di Michele Pinna

Pagina 8 Agire, non reagire. Quale identita’ per i sardi? di Alessandro Mongili

Pagina 18 L’inno di Francesco Ignazio Mannu Procurad’ ‘e moderare barones sa tirannia: inquadramento storico e ipotesi di datazione di Luciano Carta

Convegno: e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 2 E se la storiografia e la cultura autonomistica fossero un equivoco? di Michele Pinna

li equivoci sono, dal nostro punto di di vista, quella serie di leggende e di ideologie che si sono costruite attorno alla vicenda angioyana e al periodo dei motti rivoluzionari sardi tra il 1793 e il 1796. Quando noi costruiamo le Gnostre rappresentazioni della storia lo facciamo perché questa ci serve per il presente; è lo sguardo contemporaneo, siamo noi, dalla situazione in cui ci troviamo, che guardiamo il passato in termini retrospettivi, per riappropriarcene secondo esigenze che nascono dal presente. Del passato recuperiamo quello che ci interessa, quello che ci serve, sia con la funzione di legittimare il presente che di metterlo in discussione E’ quello che Macchiavelli chiamava il problematicismo storico. Non è detto che tutto il passato sia vero, giusto e utile ma non è detto che sia tutto da buttar via.

In tutti questi anni ho cercato di vedere in termini critici, le letture, i modi di vedere e di pensare che ha la sardità, il sardismo, il pensiero autonomistico. Rilevo che vi sono intorno a questi problemi, vitali per la storia civile dei sardi, tutta una serie di confusioni ideologiche, linguistiche, politiche. E dico che se noi costruiamo il nostro presente sugli equivoci, questo diventa fallace. Ci porta verso direzioni che noi crediamo siano le une e invece sono le altre. Cristoforo Colombo credeva di andare nelle Indie invece è approdato in un altro territorio perché è partito da presupposti geografici (e teorici) che in realtà erano fallaci, rispetto alla meta da lui prefissata. Egli è giunto in un territorio altro rispetto a quello in cui voleva approdare. Altri esploratori si sono resi conto che egli in realtà era giunto in un altro territorio.

L’errore, d’altra parte, come in questo caso, può produrre delle nuove verità, però ciò che conta è il recupero in consapevole dell’errore, il quale in questa maniera diventa verità spendibile. Quando noi diciamo per esempio che l’autonomismo politico, la regione autonoma della Sardegna, a statuto speciale, la letteratura a statuto speciale in verità non stiamo dicendo cose non vere. Nel senso che le parole non sono i fatti. La Costituzione italiana riconosce la Sardegna come Regione a statuto speciale, ne riconosce la diversità del territorio, la sua specialità linguistica, ma la riconosce in termini subalterni, in termini concessori, con un potere derivato, delegato dall’alto verso il basso. La storiografia sarda post bellica, del periodo cosiddeto “autonomistico” ha ricostruito una storia della Sardegna, subalterna allo Stato italiano, spacciandola per storia dell’autonomia. Se autonomia, come richiede la lettera significa autogoverno, potere di legiferare in proprio, la storia della Sardegna autonomistica non risponde, nei fatti, a ciò che sostiene il racconto storiografico. Tutta la storiografia sarda, ha ricostruito in una prospettiva autonomistica, e cioè, in una prospettiva di diversità subalterna la propria storia.

In questa stessa direzione c’ è ad esempio chi sostiene la teoria di una “letteratura sarda a statuto speciale”. La letteratura a statuto speciale, io dico che è una sciocchezza, perché se noi abbiamo una letteratura sarda, e cioè una letteratura linguisticamente fondata, fondata, cioè, su una lingua che si chiama lingua sarda, non è una letteratura

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 3 a statuto speciale ma è una letteratura indipendente, con una sua lingua, una sua storia, un suo percorso che non può essere visto come un dia-sistema della letteratura italiana, ossia come un sub sistema incluso nelle modalità costitutive della letteratura italiana.

Se la Sardegna ha una sua storia fisica, linguistica, una storia politica, per certi aspetti indipendente, non può essere una regione dello Stato italiano. Chi non riconosce, perciò l’indipendenza culturale della Sardegna, in realtà non riconosce la legittimità della sua indipendenza politico-istituzionale dallo Stato italiano. Se la Sardegna è tutto questo deve essere un territorio indipendente, che ha autogoverno, che ha sovranità, potestà interna ed esterna. Se noi partiamo da questa ipotesi, e leggiamo la Sardegna come una nazione, non per cadere nella terza via della storia di Francesco Cesare Casula perché anche quello è l’ennesimo equivoco, cioè se noi costruiamo la storia di una Sardegna come nazione, perché la Sardegna nasce come nazione, che ha una sua epoca in cui ha un governo autonomo, indipendente, sovrano, il periodo giudicale, il periodo in cui la Sardegna ha lasua statualità, e il giudice di Torres, il giudice di , il giudice di Arborea fanno le loro leggi fanno le loro trattative internazionali usano la loro lingua, la lingua parlata nel territorio con le codificazioni che loro ritengono opportune e quindi come dire sono degli Stati. Ora se è vero questo e quindi che la statualità è una categoria politica che esprime autogoverno e sovranità, Casula dice: noi con questa sovranità a seguito del passaggio, nel trattato di Londra, ai Savoia, abbiamo dato vita allo Stato Italiano, al Regno d’Italia e quindi e quindi siamo i fondatori di questo Stato e quindi non ha senso proclamare l’indipendenza. Ma se siamo i fondatori in realtà noi dobbiamo essere i protagonisti di questa vicenda, in realtà noi non siamo mai stati protagonisti; ma lasciamo perdere questa cosa.

Se noi volessimo recuperare questa idea della statualità sovrana di una Sardegna nazione indipendente e dico nella logica di Carta-Raspi e in parte nella logica di Bellieni che è una linea storiografica minoritaria, oscurata per certi versi, anzi per tutti i versi, dalla storiografia dominante in Sardegna, la cosiddetta storiografia autonomistica, se noi confrontassimo questa linea storiografica con l’operazione settecentesca, col movimento angioiano noi diciamo davvero che è tutto un equivoco, nel senso che il progetto angioiano, a parte l’ultimo periodo, dove lui crede, forse, io non ho mai creduto che Angioi potesse essere un repubblicano indipendentista, è una forzatura ermeneutica di alcuni storici forse per mettersi a la page con questo pensiero politico, io sono fermamente convinto che Angioy sia un personaggio inserito dentro il sistema politico del suo tempo, che sia un uomo d’ordine, un uomo espressione di quel potere politico che certamente si rende conto quando lui arriva a , quando attraversa il Marghine, il che, certamente, la situazione è quella, lui tocca con mano e in qualche modo è chiamato a fare delle valutazioni.

Ma chi è poi Angioy? Nasce a Bono, si forma nel collegio Canopoleno a Sassari, fa una brillante carriera universitaria, diventa magistrato percorre rapidamente tutti i gradi della magistratura e vive come vive una persona che non si è mai sporcata le mani con le cose pratiche. Lui, secondo me, inizia veramente a rendersi conto di cosa possa essere la Sardegna quando viene mandato a fare l’alter nos e deve fare i conti con tutta la situazione complessa e complicata che si trova dinanzi; tanto è vero che non riesce a governarla, a metterla insieme. E’ , come dire, frastornato da una situazione

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 4 del genere dove da una parte ci sono pressioni corporative, dall’altra ci sono piccoli interessi, e dall’altra ancora, c’ è il potere regio di cui egli è espressione. Chi coglie molto bene, secondo me, questi aspetti, è uno storico sardo che non viene tenuto molto in considerazione dalle linee storiografiche dominanti, dell’ autonomismo. Damiano Filia oltre a formulare giudizi negativi nei confronti di quei sacerdoti che avevano seguito , su Muroni, dice delle cose molto brute su Muroni, delle cose molto brutte su Sanna-Corda, questa è gente che ha perso la testa, questa è gentucola che ha perso il lume della ragione, non sa più cosa sta facendo. Poi riprende in seria considerazione il ruolo che ha avuto la chiesa, un ruolo di mediazione tra le popolazioni e il potere regio. Certo Damiano Filia è un sacerdote. La chiesa, nel racconto di Filia, è stata il vero mentore del vicerè e il vicerè quando inizia a capire, quando manda la famosa circolare per la riduzione dei tributti nei territori, ove il senso è: guardate che stiamo tirando troppo la corda forse è giunto il momento di allentarla un pò. Procurade e moderare barone sa tirannia, come esortano i versi del Mannu, è in fondo un invito che è dentro la geografia del potere, nella consapevolezza del potere e che loro non possono andare oltre altrimenti le cose potranno precipitare sul serio.

Una delle prime comunità, quella di Thiesi, che dichiara di non riconoscere più alcun feudatario, tutto sommato lo ha fatto dentro lo spirito quasi legittimo della circolare vice regia: guardate che in fondo ci stanno dicendo che noi possiamo ridurre il carico fiscale. Ed è allora che Santuccio, il governatore di Sassari, cerca di intralciare la circolare vice regia e quindi sobilla i feudatari di Sassari: guardate che a Cagliari probabilmente stanno perdendo la bussola e ci sono questi filofrancesi francesi che si stanno innamorando del giacobinismo, queste persone senza Dio. Quando Angoy giunge a Sassari trova, quindi un clima di rivolta da parte della nobiltà locale, preoccupata per quanto sta e potrebbe accadere.

La marcia guidata da Angioy, come è stato detto da più parti, presenta molti lati oscuri sulle sue intenzioni, sui risultati che voleva ottenere, sugli obiettivi che voleva raggiungere. E’ una marcia, però, che vede a capo un funzionario del re, e tra coloro che vi partecipavano persone coninteressi diversi. Le informazioni del tempo, i tempi di reazione, le notizie, tutto ciò che accade intorno a quella marcia, nella distanza, anche fisica tra il capo di sopra e il capo di sotto, ha creato una zona d’ombra,una zona di opacità storiografica che rende indecifrabile il gesto dell’Angioy e di coloro che lo avevano seguito, o di coloro che lo avevano spinto ad intraprendere quel percorso. Nel frattempo, qualcuno a Cagliari lo aveva tradito. Anche questa ipotesi è stata avanzata. E da zelante funzionario, fedele servitore dello Stato Angioy è diventaato agli occhi del Vicerè unribelle, un soversivo. Gli amici gli stessi di Angioy e i poteri istituzionali cagliaritani si ricompatano tagliando fuori l’Alternos. Il fatto è che ad , come si sa, il movimento angoyano, trova lo sbarramento delle milizie viceregge mentre Angioi capisce che deve mollare, che ha perso, che non è riuscito a tenere i collegamenti e che da quando lui era partito fino al suo rientro, le cose erano nel frattempo cambiate cambiate. Ora, a parte questi fraintendimenti, questi slittamenti di situazioni, questa perdita del controllo politico da parte dell‘Angioy, in realtà, sono convinto, e propenso a sostenere, in termini critici, la linea di un movimento angioiano che resta dentro il sistema che non è assolutamente propenso ad uscirne. Faccio un esempio con un salto nell‘oggi: quando la giunta Soru, qualche anno fa,

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 5 aveva chiesto allo Stato la restituzione delle imposte, dell’iva che lo Stato doveva restituire alla Regione, in un convegno a Como, presso il circolo degli emigrati, a Fulvio Dettori, allora direttore generale della Presidenza della giunta regionale, anche lui relatore in quella circostanza dissi: “voi state sbagliando tutto voi state facendo quello che ha fatto Angio. Dite che state cambiando le cose per non cambiare nulla, e cosa vuoi dire? Mi chiese: Voglio dire che se voi non vi dotate di uno strumento istituzionale, cioè, se voi non riscriverete lo statuto in termini sovranitari, in termini indipendentisti dove tu Regione dici allo Stato “sono io che decido le imposte che ti devo dare, decido i tributi da pagare quelli da riscuotere e quelli che ti devo devolvere se te ne voglio devolvere. E’ in sostanza quell’idea di un federalismo alla Cattaneo che nasce dal basso, dove è la comunità locale che decide, il contratto da stipulare con lo Stato. Non un federalismo di tipo centralista dove lo Stato centrale, ormai alla frutta, ormai finito, delega i poteri che non riesce più a gestire e a governare, quindi le rogne, alle regioni non è questo il federalismo. Il federalismo ha bisogno di una riscrittura delle norme costituzionali e statutarie però questo lo devono fare le comunità. Finché voi non fate questo, ho detto, voi potete urlare e se magari trovate un governo amico, un premier che è d’accordo con voi vi restituisce pure i soldi che vi deve dare ma se l’anno prossimo voi trovate un governante che di voi se ne infischia, perché non è vostro amico, i soldi non ve li restituirà più” Quindi quale è il problema? Il problema è che il sistema va riscritto; va ripensato il rapporto tra lo Stato e il territorio. Il rapporto tra la Sardegna che ha una consapevolezza nazionale, che aspira alla sovranità e quindi vuole uscire da questa condizione di nazione abortita, di nazione che non è stata in grado di costruire una propria statualità questa è l’idea.

Quest’anno si celebreranno cento cinquant’anni della nascita dello Statoitaliano. Di uno Stato che non ha mai unito ne creatouna nazione italiana. L’Italia è nata divisa ed è rimasta divisa. Il Regno di Sardegna dovrà riprendere il cammino e ritornare sui passi della storia non per scrivere uno Statuto di autonomia come quello che abbiamo ma per riscrivere uno statuto di sovranità nazionale; la sovranità statuale della nazione sarda. Se la storia non può essere letta così la storia, allora non ci serve non serve più. E dico, a chi ne ha parlato prima di me, che non ci serve più neanche la Deledda, a cosa ci serve? Per dire che in sardegna è nata una grande scrittrice italiana? Ci può servire, invece, un Antonino Mura Ena, per dire che abbiamo un poeta, un grande poeta europeo che scrive in sardo. Una volta al telefono Antonino Mura Ena (sono di Bono e potevo essere un suo nipote, figlio di un figlio) però per una circostanza fortuita mi ha fatto dono della sua stima e della sua amicizia e mi ha fatto dono anche dei suoi dattiloscritti che, poi, ho dato a Nicola Tanda e che ha pubblicato nell’edizione critica da lui curata. Antonino Mura Ena in una delle tante, lunghissime telefonate mi diceva “Fizu caru custa classe dirigente sarda è sempre sa matessi (e poi in italiano). Finché non affrontano seriamente il problema della lingua, il problema dell’autonomia è una grande sciocchezza” (sto parlando di 20 anni fa). - Che cosa vuol dire professò questa cosa? - vuol dire che il problema della lingua è un problema di politica pura, l’individuo, l’uomo, passa nel mondo attraverso la lingua che egli usa, che egli gestisce meglio; le classi dirigenti sarde parlano tutte la lingua che gli hanno insegnato e mi citava i versi del poeta di Villanova Monteleone di Remundu Piras. “ Si ses sardu e si ses bonu sempre sa limba tua appas presente non sias che s’isciau

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 6 ubbidiente chi imprea sa limba de su padronu”. Questo è il senso del rapporto tra lingua è questione politica della Sardegna. La lingua è il segnale forte, forte della volontà di indipendenza che gli individui e i popoli hanno; altrimenti è tutto un equivoco e se fosse tutto un equivoco perché agli equivoci si aggiungono altri equivoci noi continueremo ad andare in una direzione che è quella del piagnisteo querulo perché noi chiederemo ai governi rmani sempre più soldi, sempre meno tasse, chiederemo sempre che siano loro a farci stare meglio ma la felicità dei popoli non la danno gli altri. Guai il popolo che si fa dare la felicità da altri. Il popolo la felicità se la deve costruire lui. Così come gli individui, anche i popoli devono essere artefici della loro felicità. Quindi il messaggio quale è? Certamente questa storia angioiana questo momento va sempre ripensato, bisogna riflettere. E’, certo, un momento della nostra storia che ci ha segnato qualcosa, però dobbiamo assumerla anche nei suoi limiti.

E chiudo citando Nietzsche quando parla di utilità e danno della storia. Ci sono momenti della storia che per noi si possono rivelare utili e altri meno utili se non dannosi. Questo è il senso della interrogazione da cui sono partito. E se fosse tutto un equivoco? Noi saremo qui a continuare a camminare sulle sabbie mobili. Grazie.

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 7 Agire, non reagire. Quale identita’ per i sardi? di Alessandro Mongili

“Il mare regna incontrastato ... La costa Smeralda (cliccabile, ndr) con la sua perla, Porto Cervo, ne è un esempio e alle dolci sfumature di colore del suo mare unisce la storia e la cultura di una regione con tradizioni antiche ad una vita notturna allegra e colorata. Porto Cervo deve il suo nome all’incantevole insenatura che lo limita proprio come le corna di un cervo ed il Porto Vecchio è considerato il più attrezzato porto turistico del Mediterraneo. A nord della Baia si trova il nuovo Porto Cervo Marina, affascinante e suggestiva località dove è sicuramente da visitare la chiesetta di Stella Maris, al cui interno sono conservati un dipinto di El Greco e un organo del seicento. Porto Rotondo è una località anch’essa rinomata. Affacciata sull’ampio Golfo di Cugnana, è popolata da ville e piazzette incastonati in una magnifica natura. Chi al mare preferisce la montagna potrà andare alla scoperta della regione del Gennargentu”). La Sardegna sul sito www.italia.it, del Ministero del Turismo, citata in www.sardegnademocratica.it

E’ con grande emozione che intervengo a Bono, paese natale di Giovanni Maria Angioy, a 202 anni dalla sua morte, in occasione de 2010, e di questo invito vi sono molto grato perché lo considero un grande onore. Giovanni Maria Angioy è stato un uomo, un patriota sardo, che si è speso sino alla fine per il bene comune, per la democrazia e per la dignità del popolo sardo, sino a morire in esilio a Parigi, nel Marais, in povertà e in decoro, insistendo sino alla fine presso le Autorità francesi, dal Direttorio a Napoleone, perché si decidessero ad intervenire in Sardegna a sostegno dei patrioti, al fine di liberare la nostra Isola dai Piemontesi e dal giogo feudale, similmente a quanto tentò vanamente Emilio Lussu con la sua “diplomazia clandestina” presso gli Alleati nel corso dell’ultima guerra. Purtroppo, al massimo massacratore di patrioti sardi (si calcola siano stati 3000 ad essere mandati a morte nel corso della repressione sabauda successiva ai moti angioyani), il Re Carlo Felice, ancora oggi è impropriamente dedicata una grande arteria e un pomposo monumento nel centro di Cagliari, mentre un autentico patriota come Giovanni Maria Angioy è spesso ignorato anche da molti Sardi.

Ma, si sa, nella coscienza comune dei Sardi noi siamo stati solo spettatori passivi della nostra stessa storia (Brundu 2009, 1), che sembra fatta solo da dominazioni straniere. Una damnatio memoriae ferrea colpisce chiunque eroda la dipendenza e voglia fare dei sardi i protagonisti della propria storia, chiunque si batta per incrementare le pratiche di autogoverno dei sardi (ivi, 3), da Giovanni Maria Angioy sino al tentativo di erodere la dipendenza sarda svolto dalla Giunta Soru.

COME CI CLASSIFICHIAMO, NOI SARDI?

Come mai noi sardi giudichiamo noi stessi in un modo così severo? Come mai annulliamo il nostro protagonismo, la nostra stessa storia e le sue pagine più belle? In tutte le tradizioni politiche, in tutte le sensibilità culturali prevalenti sino ad ora, sembra condivisa l’idea indimostrata che ci sia qualcosa di sbagliato in noi.

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 8 Nell’intercettazione di una telefonata avuta con un politico nazionale e con un affarista oggi in prigione, il Presidente Cappellacci si esprimeva in questi termini:

Fusi: «Io sono innamorato di quella terra lì». (Cappellacci ride). Un po’ meno dei sardi...». Cappellacci: «Guarda... sfondi una porta aperta... perché ho la consapevolezza del vero grande limite della Sardegna: noi sardi. E quindi...» (ride ancora) I due si salutano, non prima che il presidente, ricambiato da un laconico «grazie», abbia detto: «Spero di poterti conoscere presto di persona». La conversazione tra Fusi e Verdini riprende. Ma parlano ancora di Cappellacci. Verdini: «C’avrebbe delle aragoste pronte...». (L’Unità, 18 febbraio 2010)

In molte altre situazioni esiste questo sentimento di vergogna per la propria condizione, vista come anormale rispetto allo standard di riferimento. Si tratta di una situazione comune ad ogni minoranza, non solo etnico-linguistica, ma anche religiosa, sessuale, o di altra natura. La studiosa americana (chicana) Gloria Anzaldúa (1987, 65), nella sua analisi della popolazione ispanica nativa del Sud degli Stati Uniti, rimasta intrappolata negli Stati Uniti a seguito delle guerre con il Messico della fine del XIX secolo, osserva gli stessi fenomeni che noi notiamo in Sardegna. In particolar modo, è comune a chi si ritrova a essere diverso per condizione in un insieme che descrive se stesso in modi standard. Ad esempio, i chicanos sono americani a tutti gli effetti, ma non per cultura e lingua materna, ragion per cui si vergognano delle proprie tradizioni, adottano modi di vivere imitati per acquisire prestigio. Essi sono particolarmente controllati con se stessi quando parlano. Se incontrano altri spagnoli, si vergognano del loro spagnolo, e preferiscono parlare in inglese (ivi, 80), similmente a me che, qui a Bono, esito a parlare nel mio cagliaritano, e preferisco un più neutrale italiano. Sento che in me, ripeto, “c’è qualcosa di sbagliato” (Butler 2006, 67) a parlare casteddaio a Bono, pur non arrivando personalmente a volermi sbarazzare completamente della mia lingua e, come avviene sempre di più in Sardegna, perfino del mio accento. Ma questo è un fenomeno ben presente e generale, che non deve essere giudicato come una “colpa” né tantomeno una scelta di chi lo adotta. E’ tipico ad esempio di chi vuole acquisire un’identità socialmente riconosciuta e ha paura di essere emarginato proprio perché la sua condizione lo spinge ad essere ambiguo, a non possedere esattamente né un codice né un altro. Ad essere sardo e parlare male il sardo, ad essere italiano e parlare l’italiano con un forte accento sardo. Molti studiosi e studiose delle identità ambigue, ad esempio quelle sessuali, hanno messo in rilievo come questo fenomeno sia generale. Non si può stare in mezzo, ci dice la filosofa americana Judith Butler, è grande la pressione perché ci si sbarazzi della lingua e dell’accento che sono oggetto di stigmatizzazione (ivi, 75-76). Altrettanto ci insegna un grande sociologo, Harold Garfinkel, il quale in un classico della sociologia, Agnese, ci spiega come la maggior parte delle persone hanno diritto a vivere normalmente e a conformarsi all’ordine legittimo, pur di andare avanti, e di adottare a questo proposito una serie di accorgimenti mimetici che gli facciano somigliare il più possibile al modello di come si deve essere ufficialmente in un certo contesto (Garfinkel 2000, 73-74). Egli definisce queste strategie con il termine di passing, che è in Sardegna pratica linguistica diffusissima, e anche qui si accompagna con il disprezzo degli atteggiamenti non conformi e per l’ambiguità identitaria e le trading zones (ivi, 67), come esemplifica un episodio accaduto qualche tempo fa:

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 9 Le sue due telefonate sono state registrate, trasformate in un file leggero e spammate, come si dice in gergo, a centinaia di indirizzi e-mail cagliaritani che a loro volta l’hanno girata ad altre centinaia di mail. Il gioco è uscito dalla provincia e ha contagiato tutta la Sardegna con rivoli nazionali e internazionali tanto da fargli perdere la sua originalità e tramutarlo in leggenda metropolitana. C’è persino chi l’ha messo nella suoneria del telefonino1. Francesco Abate, “Salvatore Zedda, il tormentone vìola la privacy”, L’unione sarda, 14 marzo 2005,

Ogni sardismo è ridicolo per chi è nell’orizzonte del passing. Dunque, niente autolesionismo o colpa, ma semplicemente necessità di sopravvivere in un mondo in cui la propria lingua e il proprio accento non solo non sono riconosciuti, ma sono anche oggetto di dileggio. In questo senso appaiono completamente fuori luogo alcune interpretazioni, sempre molto diffuse, che usano il solito meccanismo del blaming the victim, di incolpare la vittima, dalla “vocazione all’autolesionismo” (Dettori 2009), alle costruzioni teoriche del sardismo storico, richiamate giustamente da Franciscu Sedda, per cui saremmo una nazione abortiva destinata per sua natura alla subalternità e all’autocastrazione (Sedda 2009, 11).

RINOMINATI DAGLI ALTRI

Il problema dell’identità dei sardi sembra essere quello di essere edificata principalmente sulla base delle “rinominazione”(pereimenovanie) compiuta da intrusi esterni (Lotman 2000, 117), che si compie cioè utilizzando idee, immagini, concetti e descrizioni che abbiamo raccolto da altre descrizioni, storie, classificazioni, repertori e altre narrazioni scritte da viaggiatori esterni, conquistatori, esteti decadenti o amministratori stranieri. In queste descrizioni la nostra cultura viene costruita come un insieme coerente e tipologizzata a partire da una posizione di dominio, e non sempre in modo benevolo. In una lettera a Titino Melis, recentemente ripresa da Franciscu Sedda, Michelangelo Pira riassumeva l’immagine della cultura sarda sviluppata nel corso del fascismo come corrispondente a “ignoranza” e “barbarie” anzi, per usare le sue forti parole, a “merda” (Sedda 2009, 8). Tale immagine è fortissima nel senso comune, a prescindere dallo schieramento politico e dall’orientamento ideologico. In un sorprendente testo scritto dall’intellettuale bittese emigrato Giovanni Dettori (2009), possiamo ritrovarne una lettura meno greve ma interamente sovrapponibile. Molti sardi hanno così profondamente assorbito nelle loro coscienze gli stereotipi elaborati da posizioni conquistatrici, che se ne fanno corifei, e arrivano ad affermare cose indimostrabili come, cito a caso, che “il sardo è una lingua che non inventa”

1. Prima telefonata (testuale): «Buonasera, allora sono Salvatore Zedda di Ortacesus, ho sollecitato di mandarmi le mail la passaword del flat notturno salv punto zedda chiocciola tiscali punto it. Ancora a... aspetto. Allora? Che cosa sono... dobbiamo fare? Eh? Se non posso entrare con la posta elettronica dò la disdetta eh... non scherzo eh. Buona serata». E poi in chiusura: «Rinci fazzu ficchiri». Seconda telefona- ta: «Sollecito nuovamente». Poi si rivolge a qualcuno in casa: «Cittudì pagu pagu». E riprende: «Sollecito nuovamente sono Salvatore Zedda di Ortacesus: vorrei la passaword eh... di supermail flat notturno salv punto zedda chiocciola tiscali punto it. Non poss... non poss... ho mandato un email per niente, allora se c’ho supermail che cosa... eppure col flat notturno ci entro in internet eh... eh non posso accedere alla posta.. eh non è possibile.. eh oh come fare? » (http://www.girodivite.it/article.php3?id_article=1967). L’uso del sardo in una telefonata a un call center e la pronuncia sarda del termine password ha provocato la diffusione a valanga di registrazioni, commenti, ironie, basata sull’attesa data per scontata che i rice- venti dei messaggi condividessero il giudizio ridicolo espresso verso l’accento sardo e l’uso del sardo in un contesto giudicato inadatto. È il meccanismo tipico delle dicerie e delle barzellette, che si diffondono perché si pensa che il ricevente condivida i pregiudizi di chi diffonde il messaggio.

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 10 (Dettori 2009), per sua natura. Questo non deve sorprenderci perché ogni costruzione di identità a partire da intrusioni dall’esterno ha caratteri simili, come hanno messo in luce soprattutto le studiose femministe, che hanno dovuto decostruire un edificio monumentale e molto più stratificato e oppressivo del nostro, cioè l’identità femminile. Qui mi rifaccio soprattutto alla lezione di Butler, che mette in evidenza due caratteri importanti di queste costruzioni. Il primo corrisponde alla coerenza e unità delle costruzioni delle identità dei dominati. Coerenza e unità significa che in tutte le loro parti, in tutti gli eventi, la cultura dei gruppi a cui viene assegnata un’identità riproduce gli stessi effetti, in quanto funziona come un sistema con tratti organici (Butler 2006, 19). Nel nostro caso, ai Sardi è dunque assegnata un’essenza che riproduce in ogni evento della loro vita gli stessi tratti. Questi tratti possono essere anche positivi (come la testardaggine, la coerenza, l’onestà e così via) ma (è questo è il secondo carattere delle costruzioni identitarie dei dominati identificato da Butler) sono principalmente caratterizzati da una mancanza (lack). Questo è evidente per le donne, descritte sempre in base alla differenza essenziale rispetto ai maschi, ma si può applicare anche agli altri gruppi dominati, in quanto i gruppi dominanti (i maschi, gli Italiani, i bianchi, i ricchi, ecc.) percepiscono se stessi come pura razionalità e misura di ogni altro comportamento, mentre assegnano ai dominati, in primis alle donne, lo stigma dell’irrazionalità, della vicinanza alla “natura” e all’”istinto”, del “disordine” (ivi, 13, 38), e basterebbe pensare a Grazia Deledda a questo proposito per trovare moltissimi legami con la costruzione della narrazione identitaria dei Sardi. Noi siamo soprattutto visti come un “popolo senza”, dalla conversazione del Presidente Cappellacci sino alle retoriche sviluppiste dei sociologi e dei politici esaltati dalla programmazione e dai modelli di sviluppo. Ora, il problema è che sul piano empirico questa “coerenza” e “unità” delle culture non solo non ha fondamento ma è stato seriamente messo in discussione dall’antropologia contemporanea, soprattutto a partire dal lavoro di Clifford Geertz. Tuttavia, essa ha successo, soprattutto nel senso comune, perché rende intelligibile la diversità, quella delle donne o anche quella dei sardi (ivi, 23). Noi non siamo semplicemente dominati, ma siccome abbiamo dei problemi con una cultura “arretrata”, “barbara” e così via, è pure giusto che altri più maturi e in gamba di noi ci comandino. Insomma, il problema siamo noi sardi, direbbe il Presidente Cappellacci. Tutta questa costruzione fornisce ragioni per dominarci ancora, ma soprattutto fornisce idee e parole per “comprenderci”, per interpretarci come fenomeno coeso e unitario.

NECESSITA’ DEL PASSING

Nel suo lavoro generoso di decostruzione di un’immagine autostereotipizzata di noi stessi, Franciscu Sedda si lancia in una genealogia del tradimento di noi stessi, che trova il suo apice nella critica spietata, motivata e per molti versi fondata dell’Autonomia sarda. Non solo del periodo autonomistico, che può esser fatto durare sino al termine della giunta Palomba e quindi al dominio dei partiti tradizionali (sino al 1999), ma della stessa idea di Autonomia, che viene fatta corrispondere con la necessità, per i sardi, di “fare gli italiani” (Sedda 2009, 12), quindi con la italianizzazione profonda della Sardegna (Brundu 2009) e con la furia autodistruttrice rispetto al nostro paesaggio svenduto, alle nostre case tradizionali abbattute, alla nostra lingua abbandonata in favore di un passing di massa, della banalizzazione di un mimetismo sociale. Di questo si imputano le élite, a partire da Emilio Lussu. Egli è stato sicuramente un pensatore politico provinciale, ma nondimeno un grande uomo politico e a mio parere non

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 11 merita certo tutta questa severità, anche perché non ha fatto altro che esprimere il senso comune di tutti i sardi colti del Novecento. In realtà si imputa ai sardi di essere colpevoli di una situazione perfettamente normale, cioè di essere consapevoli della situazione ma non della natura della situazione (Sassatelli 2000, 15), di essere presi in una situazione data e di non essere (stati) in grado di superarla. Si imputa a Michelangelo Pira di avere detto che “dopo tutto siamo Italiani”, ma si chiudono gli occhi di fronte al fatto che dopo più di duecento anni noi non possiamo non essere anche italiani, cioè gli si imputa il fatto di avere riconosciuto che la nostra situazione è ambigua nel presente storico. In altre parole, si imputa ai sardi di essere in un presente storico ibrido e ambiguo, e di non radicarsi solamente in un’origine pura e al 100% sarda. Si tratta di una posizione indifendibile perché nega la concretezza dell’esistere a favore di una idealità dell’essere, mai attingibile, mai verificabile, mai descrivibile. Se è vero che ci sono casi estremi, che alcuni generalizzano, in cui “si decide di essere italiani con fredda ragione” (Dettori 2009) è pur sempre vero che le persone concrete devono descrivere la loro vita ricorrendo principalmente a motivazioni ammesse nei discorsi condivisi con gli altri (Sassatelli 2000, 19), cioè nelle narrazioni esistenti e circolanti nel momento in cui si vive. Nessuno ha infatti accesso a narrazioni trascendenti assolutamente vere, se non nel discorso religioso. E nelle narrazioni novecentesche disponibili all’epoca c’era poco posto per motivazioni molto diverse da quelle utilizzate nei discorsi delle élite sarde. Non è un caso che solo Antonio Gramsci riuscisse solo in parte a trascenderle (Sedda 2009, 11). Ma si tratta in assoluto del maggiore intellettuale sardo del XX secolo, e di un pensatore assolutamente poco provinciale e, per molti versi, marginale rispetto alle élite sarde, al loro senso comune e alle loro ambiguità. E’ proprio l’ambiguità della nostra identità sarda e italiana in modi disuguali ma coesistenti, insomma è proprio la nostra diversità che non è pensabile e dicibile facilmente, proprio perché non si fonda su posizioni narrative, ma sulla concretezza della nostra storia, di tutta la nostra storia, anche di quella della dipendenza, dell’ibridizzazione con altre culture e con altre identità, e su meccaniche di dominio che hanno teso a ripulire la Sardegna dalle sue diversità, accomunandole in una costruzione identitaria con il segno meno da abbattere. Se si passa poi dalle élite alle persone ordinarie, il mimetismo, la necessità di razionalizzare la propria vita all’interno di una narrazione “allineata” con le aspettative dominanti (Sassatelli 2000, 27), deriva dalla necessità, per poter sopravvivere nella vita quotidiana stessa, di essere ammessi come “normali” nella vita sociale, di poter passare (passing). Farsi passare da italiani normali non è tradimento o abbandono delle radici, ma un modo che si impara facendolo, per imitazione, al di fuori di intenzionalità o scelte (Garfinkel 2000, 71), non diverso da quello che possiamo osservare ogni giorno negli extracomunitari immigrati che procedono nello stesso identico modo in questi ultimi anni. Significa solo sopravvivere in un contesto ambiguo, in cui però la nostra lingua, i nostri codici non hanno valore, non hanno prestigio, non danno potere e talvolta neanche di che sopravvivere.

INDIPENDENZA DELLE COSCIENZE O RECUPERO DELL’IDENTITA’ RADICALMENTE DIFFERENTE?

Nessuno può ergersi a giudice di chi pratica il passing, perchè, di fronte a un ordine legittimo, tutti hanno il diritto di vivere normalmente e dunque di conformarsi alle attese di comportamento dominanti (ivi, 73-74). Il passing, lo ripeto ancora,

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 12 corrisponde banalmente all’imitazione di comportamenti dominanti che regolano la vita quotidiana, a una necessità di sopravvivenza nella vita quotidiana più che a una strategia. Questo non significa che tutta questa normalità sia condivisibile, in quanto spinge i Sardi ad adattarsi a un’immagine di sé costruita con gli occhi di chi ci domina e ci ha dominati. Il passing che tutti pratichiamo in Sardegna è infatti non esattamente la nostra italianizzazione, ma qualcosa di più ambiguo, corrisponde cioè all’eliminazione dai nostri comportamenti di quelle differenze rispetto alle aspettative dominanti che sono considerate inaccettabili, a partire dal parlare in sardo. Infatti, l’ordine dominante non solo si presenta come l’ordine naturale delle cose, ma soprattutto come un ordine moralmente superiore rispetto a quello “barbaro” della cosiddetta tradizione sarda (Garfinkel 2000, 47). Essere sardi infatti non è solo avere un’identità, ma è soprattutto una condizione in cui si entra con la nascita e si esce con la morte e a cui si può sfuggire solo con l’emigrazione. Le narrazioni identitarie non toccano l’essere sardi, ma il come si è e si deve essere sardi in un presente storico determinato. A questo proposito sembrano del tutto inutili le lunghe, contraddittorie, invadenti e ripetitive narrazioni che riferiscono l’identità sarda a un’essenza, a un’ontologia che ci caratterizzerebbe sub speciem aeternitatis, dal Nuraghe a Marco Carta, per dire, senza possibilità di scampo. E’ chiaro che, ripartendo in questo da Marx, dobbiamo assumere come punto critico di partenza per le nostre riflessioni e per la nostra azione civile non immaginari punti iniziali della nostra storia o caratteri invarianti dei nostri comportamenti e dei nostri vissuti, anche perché difficilmente ne troveremmo anche uno solo che non sia discutibile, ma il presente storico con tutte le sue ambiguità, anche identitarie (Butler 2006, 7, 10).

RESTITUIRCI LA DIFFERENZA

Coloro che vivono con difficoltà la nostra ambiguità identitaria sottolineano giustamente come in questo stato attuale della coscienza collettiva dei Sardi si sia costituita culturalmente dunque un’identità fondata su alcune regole dei discorsi che distinguono il dicibile (autonomia in politica, italianità linguistica, criteri di gusto musicali convenzionali non sardi, mode, gastronomie, uso del tempo libero, orientamenti politici a scelta nel quadro nazionale) come campo che può comprendere quasi tutto ma non l’indicibile, cioè ciò che viene stigmatizzato come “arretrato”, “barbaro”, “primitivo”, cioè sardo de souche. Questa esclusione del sardo de souche si è costituita lentamente attraverso una serie di atti repressivi (ivi, 89), dalle punizioni scolastiche alla repressione fascista del sardismo, ma anche grazie alla pratica quotidiana del passing e al diffondersi della cultura di massa in epoca recente (in realtà molto più porosa della cultura promossa dall’istruzione centralizzata). Questa identità ambigua e repressiva ha, agli occhi della maggior parte delle persone, un carattere di “naturalezza”, sembra cioè “normale” vivere così, sradicando da se stessi tutti i caratteri di “sardità” come modo per accedere alla accettazione sociale (ivi, XXXI). Questo dispositivo che ho cercato qui di descrivere produce, come esito, il fatto che proprio ciò che cerchiamo di nascondere della nostra condizione con il passing, e proprio ciò che ordinariamente viene represso o sanzionato, cioè i caratteri giudicati troppo “sardi” dei nostri comportamenti (e in primis la lingua), si ritrova a costituire la nostra differenza, la nostra malinconica pretesa di identità. Ora, proprio questo insieme malinconico di espressioni linguistiche, aspirazioni politiche, criteri di gusto e simbologie è frutto del dominio, e si è formato per sottrazione rispetto

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 13 al modello standardizzato che ci viene imposto dall’ordine dominante. Le cornici istituzionali all’interno delle quali oggi viviamo sono repressive in quanto permettono di individuare e di definire la nostra differenza, ma non di esprimerla (Sassatelli 2000, 20). Noi possiamo possedere duecento dizionari di lingua sarda e perfino mettere dei cartelli con i nomi di luogo in lingua sarda per le strade, ma mai potremmo rivolgerci a uno sconosciuto in un bar cittadino in questa stessa lingua. L’espressione, è indicibile e inesperibile. La nominazione, secondo modelli classificatori tratti dalle scienze, sì. Questo processo viene ben riassunto da Franciscu Sedda con due espressioni, secondo cui “avere un’identità è essere nominati”, ma noi viviamo nell’impossibilità di nominarci (Sedda 2009, 2-3), nella necessità di usare le “rinominazioni” che di noi stessi ci offrono gli stranieri e chi ci domina. Tuttavia, queste visioni non corrispondono, a mio parere, all’interezza del processo di costruzione dell’identità, poiché non tengono in considerazione l’aspetto incarnato delle identità, le pratiche identitarie, ma solo i discorsi attraverso i quali noi descriviamo l’identità. Infatti l’identità non è solo discorso, ma anche “ripetizione e rito, naturalizzata in un corpo” (Butler 2006, XV). Cioè è costitutivo dell’identità anche un insieme di atti, di gesti, di enactment, che è quel processo attraverso il quale un modello o un discorso diventano pratiche quotidiane o rituali. Nelle nostre vite, noi ripetiamo per anni, riesperiamo riti identitari in pubblico e nella vita privata, usiamo una lingua, sviluppiamo preferenze ecc., che corrispondono a queste “nominazioni” identitarie, e senza le quali nessuna identità può avere una base relazionale e empiricamente tangibile, concreta (ivi, 185, 191). Altre minoranze si sono ritrovate in questa impasse e hanno reagito nel solo modo che ci è dato. Esso corrisponde prima di tutto non a rivendicazioni mitologiche, ma all’accettazione (liberatoria e semplice) della nostra diversità. Occorre sviluppare un lavoro che ognuno di noi è chiamato a compiere per liberarsi dal rigetto della parte negata di noi stessi, la parte sarda, per liberarsi dalla vergogna, per liberarsi della negazione (Anzaldúa 1987, 107). In questo senso accanto al lavoro che spetta ad ognuno di noi, e che corrisponde a una lotta interna alle nostre coscienze (ivi, 109), è assolutamente necessario accompagnare questo passaggio con atti pubblici, politici e civili o semplicemente collettivi che conducano alla “restituzione” collettiva di quella parte di noi stessi che ci viene negata dalle costruzioni identitarie dominanti oggi (ivi, 108), fondate come si è detto sulla produzione della nostra differenza e sulla negazione della sua espressione. Ritengo che per riequilibrare le nostre identità e per immalinconirle siano importanti sia le politiche che rafforzino il nostro autogoverno che azioni rituali e simboliche, come anche una presa di coscienza che però corrisponda a forme di enactment e non si risolva solamente in sterili rivendicazioni o in cambi di bandiere. Bisogna radicare la restituzione della parte negata di noi stessi in pratiche.

L’EMPOWERMENT CHE CI SPETTA

Se noi dobbiamo porci l’obiettivo dell’empowerment della nostra comunità (Sedda 2009, 3), cioè del suo rafforzamento politico, economico, spirituale e sociale, un obiettivo che in tanti condividiamo profondamente come unico modo per uscire dalla nostra situazione disagiata, non basta quindi “rinominarci” noi stessi, passare solo per il discorso e la rivendicazione. Ma occorre agire sul nostro vissuto. Possiamo certo seguire le vecchie strade piene di sangue del riconoscimento di un fondamento ontologico della nostra identità, da ricercare in chissà quale principio lontano o in

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 14 chissà quale bandiera pura, oppure più saggiamente possiamo sviluppare un agire diverso fondato sul superamento della negazione di parti della nostra condizione. Se ricorriamo alla reazione al dominio attuale inventandoci una nuova pura ontologia come una nuova ingiunzione normativa, e la installiamo nel discorso politico come fondamento necessario, allora corriamo il rischio scorgibile già ora di schiacciare chi vogliamo liberare (Butler 2006, 203), cioè noi stessi. Possiamo agire invece sul piano delle strutture di significazione e dell’enactment, dell’indipendenza delle coscienze, della lotta per la restituzione, della rivendicazione del diritto a che la nostra condizione storica non venga negata perché imprevista per il discorso dominante, dell’identità come possibilità di azione e come apertura a un futuro che non possiamo sapere e che non è necessariamente definibile nelle forme che ci immaginiamo a partire da discorsi a fondamento ontologico. Per questo, è necessario rompere con l’idea che ad essere sardi corrispondano una serie di comportamenti chiaramente definibili, come nel discorso negativo che ci domina. Essere sardi, come essere qualsiasi cosa, è essere ambigui, ibridi, è essere molte cose assieme, nelle pratiche. E’ solo nei discorsi che questo mondo opaco diventa chiaramente distinguibile, classificabile, ma lo è solo perché ci serve capirlo, interpretarlo. Siamo sempre ambigui e ibridi rispetto ai modelli ideali con i quali ci descriviamo (Sassatelli 2000, 35). Per questa ragione è necessario avere molta tolleranza per l’ambiguità (Anzaldúa 1987, 100), accettare di parlare un sardo non proprio corretto e di parlare due dialetti diversi assieme, accettare la nostra italianità, il nostro essere europei e sempre più cittadini del mondo, assieme alla nostra contemporaneità, accettare insomma il fatto che la vita si discosti sempre dai modelli ideali. E questo, proprio perché rivendichiamo ogni lato della nostra condizione umana, e ci battiamo anche perché il suo lato negato, quello sardo, venga restituito. Rispetto all’adesione entusiasta allo sradicamento da noi stessi di tanti intellettuali e politici sardi (esemplarmente, D), mi piace qui riprendere una testimonianza di enactment di Boris Pahor, il grande scrittore italiano di lingua slovena candidato al Nobel per la lettratura. Durante il fascismo, nella nera repressione della diversità linguistica in Italia, Pahor si reca a Capodistria dove si pose l’obiettivo di avviare la sua formazione slovena. Trasferendo in comportamenti il rifiuto della negazione, Pahor così descrive il suo personale enactment, che conduce attraverso pratiche concrete (e non solo discorsi) a una modifica delle identità personali e a un loro riequilibrio libero da negazioni e da malinconie per il perduto passato:

“... leggevo qualsiasi libro nella mia lingua , senza distinzione e senza selezione, perché era difficile procurarsi un libro in sloveno... Con la mia scarsa conoscenza della lingua letteraria, inciampavo in continuazione in parole che non capivo. Cominciai ad appuntare su un quaderno i termini difficili da cercare nel vocabolario. Ci misi impegno e ostinazione, ma il solo fatto di trascrivere le parole per me significava perfezionare la mia conoscenza dello sloveno. Quelle letture mi fecero innamorare della mia lingua e della mia letteratura”. (Pahor 2009, 33)

IDENTITA’ LINGUISTICA TWIN SKIN CON L’IDENTITA’ SARDA

Il brano di Pahor mi dà la possibilità di sottolineare un aspetto che credo fondamentale. Se infatti c’è una parte più negata dell’insieme delle negazioni e delle espunzioni che riguardano la nostra condizione di sardi, questa è la lingua. In nessun paese civile butterebbero a mare un monumento della cultura così elevato come la lingua sarda.

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 15 E qui lo stiamo facendo, ogni giorno. Il terrorismo linguistico microfisico di cui siamo vittime, che ci sommerge di paura e di vergogna per il nostro stesso accento è pericoloso non solo politicamente ma anche individualmente, in quanto riduce il senso di sé (Anzaldúa 1987, 80). Le politiche dell’identità in Sardegna o passeranno attraverso la lingua o rimarranno allo stadio di nominalismi alla fine conformisti e ininfluenti per il cambiamento della nostra condizione. Quando noi saremo liberi di non tradurre il nostro sardo e di passare da una lingua all’altra in ogni situazione della nostra vita in Sardegna avremo superato la negazione della parte sarda di noi stessi e potremo fondare una politica identitaria non più limitata alla tutela ma caratterizzata dalla azione creativa. Questo, principalmente, perché è attraverso la lingua che la nostra identità collettiva si radica in pratiche e si radica in abilità corporee, cioè investe allo stesso tempo la nostra appartenenza a una comunità e il nostro corpo. Bloccare questa appartenenza e la libera espressione di queste abilità corrisponde a una forma di mutilazione. Fare politiche dell’identità connotate linguisticamente significa fare politiche che coinvolgano le persone e le loro vite. Significa cambiare realmente il nostro mondo e renderlo meno passivo e malinconico. Significa mutare un’atmosfera culturale e sviluppare la creatività collettiva.

CONFLITTO, ESPLOSIONE E AZIONE CREATIVA

Conosco bene il tipo di reazione che questa posizione può provocare. Imbottiti di vetero-marxismo, perfino gli assessori di Forza Italia credono fermamente che il dossier della lingua sia secondario o, come un tempo si diceva, un problema di sovrastruttura. Dettori arriva ingenuamente a sostenere che il mistilinguismo sia “bieco”, mettendo in luce i tratti autoritari delle generazioni che ci hanno preceduto, intrise di fascismo e di novecentismo. In fondo, tutte le élite ancora forsennatamente abbrancate alle loro posizioni direzionali vedono di sbieco la circolazione, gli ibridi, la trasformazione. Preferiscono i dizionari dei dialetti locali a forme innovative di creatività linguistica. Ora, il meccanismo che fa vivere ogni cultura è invece quello della trasformazione del proprio nell’altrui (Lotman 2000, 119), cioè proprio la traduzione, l’ibridazione, la metamorfosi. La circolazione. Questo timore, se vogliamo, è comprensibile, proprio perché di fronte a una situazione di conflitto culturale chi ha una visione autoritaria del mondo fondata sulla “necessità” e sull’idealizzazione dell’ordine sociale vive le situazioni, come la nostra ibride e ambigue, con la “sensazione aspra della sua insufficienza e contraddittorietà interna” (ivi, 65). Questo perché si pensa che al modello di negazioni di parte della nostra condizione che oggi ci immalinconisce e opprime si possa rispondere solamente attraverso la reazione, che dovrebbe consistere non nella restituzione di ogni parte della nostra condizione identitaria, ma nella negazione di altre parti, ad esempio della nostra italianità, come in un gioco a somma zero. Ma, al contrario, reagire contro un’oppressione non vuol dire limitarsi al gioco a somma zero, e quindi a dipendere da ciò contro cui si reagisce (Anzaldúa 1987, 100), come in una coppia immalinconita dalle incomprensioni in cui non ci si riesce mai a separarsi o a divorziare. Significa invece agire, attraverso pratiche personali e politiche di restituzione del lato negato della nostra condizione identitaria, e soprattutto attraverso l’enactment. Il conflitto culturale - come quello che la Sardegna ospita da più di un secolo fra i modelli identitari autoritari creati dalla nation building italiana e dalla costruzione di una riduttiva identità nazionale spogliata delle diversità e le condizioni storiche delle nostra identità sarda - è un’occasione incredibile di esplosione creativa, e crea non gioco postadolescenziale fra vincitori

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 16 e vinti ma nuove condizioni, cioè un fascio di possibilità imprevedibili di cui finora si sono avvantaggiati tutti gli artisti sardi che, in forme diverse, partecipano di questo “nuovo rinascimento” espressivo degli ultimi anni, non a caso tendenzialmente mistilingue.

TOLLERANZA PER L’AMBIGUITA’

In questo senso, noi non abbiamo bisogno di purezza, poiché la cultura non è e non sarà mai uno “spazio ordinato”, ma un insieme di repertori incoesi dai quali noi peschiamo strumenti utili per le nostre strategie d’azione, per la nostra sopravvivenza nella vita sociale (Lotman 2000, 63, Geertz). Abbiamo bisogno di amore per noi stessi e di tolleranza per tutte le ambiguità che caratterizzano la nostra condizione. Gloria Anzaldùa, la studiosa e poetessa chicana a cui spesso mi sono riferito qui, esalta ad esempio come simbolo della condizione del suo popolo, diviso fra il Messico e il Sud degli Stati Uniti, la Vergine di Guadalupe, icona cristiana che riprende simboli aztechi e unisce, nelle loro diversità, ambiguità, ostilità talvolta nella loro mestiza, tutti coloro che partecipano di una condizione (52). Sarebbe il caso che anche noi abbandonassimo i sogni mitologici e tornassimo ad occuparci, con lo stesso spirito pratico che caratterizzò Giovanni Maria Angioy, del nostro concreto empowerment.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Anzaldúa, Gloria (1987) Borderlands/La Frontera. The New Mestiza, San Francisco, Aunt Lute Books. Brundu, Sergio (2009) Il negazionismo dei Sardi. Autonomismo e Sovranità, www,sardegnademocratica.it, 8 novembre Butler, Judith (2006) Gender Trouble. Feminism and the Suversion of Identity, New York-London, Routledge Classics 2006. Dettori, Giovanni (2009) Diaspora e lingue. Considerazioni inattuali, www,sardegnademocratica.it, 5 novembre. Garfinkel, Harold (2000) Agnese, Roma, Armando Armando (ed. orig. Passing and the Managed Achieving of Sex Status in an “Inter-Sexed” Person, New York, Prentice Hall, 1967). Lotman, Jurij M. (2000) Semiosfera, Sankt-Petersburg, Iskusstvo-SPb. Pahor, Boris (con Mila Orli), (2009) Tre volte no. Memorie di un uomo libero, Milano, Rizzoli. Sassatelli, Roberta (2000) “Presentazione”, in Garfinkel, cit., pp. 7-44. Sedda, Franciscu (2009) “A Telltale Preface. Contradictions of a Self, Wounds of a Culture”, in S. Montes e L. Taverna, Forework and Book Reviews in Social and Human Sciences. Interdisciplinary Approaches to Texts and Cultures, Tallin, Tallin University Press.

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 17 L’inno di Francesco Ignazio Mannu Procurad’ ‘e moderare barones sa tirannia: inquadramento storico e ipotesi di datazione

di Luciano Carta

Nel 1864 usciva per i tipi dell’editore Dentu di Parigi l’opera di Auguste Boullier L’ île de Sardaigne. Dialecte et chants populaires. Questo “touriste francese innamorato dell’isola nostra, di cui studiò i canti con grande simpatia e con fine sentimento d’arte”, come scrive Raffa Garzia, che agli 1.inizi del secolo avrebbe tradotto l’opera in italiano, osservava che la produzione poetica in lingua sarda è eminentemente lirica e che mancano in essa quasi del tutto le composizioni di argomento patriottico e civile. Di tale singolare scarsezza il Boullier abbozzava una spiegazione: “Freddo davanti alla bellezza della natura, il poeta sardo si ripiega su se stesso e canta il presente. Il passato non ha per lui nessun ricordo, nessuna ispirazione. E come? La nutrice non parla mai di cose patrie. I monumenti, fatto poi grande, non parlano alla sua mente, tutti intorno a lui ignorano la storia passata e ciascuna età porta con sé i suoi ricordi, le sue passioni. E’ questa appunto la ragione del perché mancano i canti storici della Sardegna. Certo qualche canto deve aver suscitato nell’animo dei sardi le vicende della loro nazione, ma questi canti non trovando fondamento nell’indole del popolo sparirono con le cause che li produssero: quindi la poesia popolare sarda ha poco d’antico; ciascun secolo che sorge ha nuovi poeti che soppiantano i vecchi e le poesie di questi muoiono troppo spesso con loro. I canti sardi sono essenzialmente lirico- soggettivi”. L’affermazione del Boullier diede luogo ad una lunga querelle, iniziata sulle pagine del “Corriere di Sardegna” con la recensione, nel 1866, di Pietro Amat di San Filippo alla seconda edizione del libro uscita l’anno prima. Lo Amat riteneva che il Boullier, turista frettoloso, non avesse fatto adeguate ricerche e riteneva impossibile che un popolo, così attaccato alle sue tradizioni, difettasse di un genere letterario così importante e consueto. Di questo lontano dibattito, cui presero parte in tempi diversi oltre allo Amat, Giovanni Spano, Giuseppe Pitrè e Raffa Garzia, offre un’accurata disamina Alberto Mario Cirese nel saggio Poesia sarda e poesia popolare nella storia degli studi (“Studi Sardi”, XVII (1959-61), p. 526 segg.). Il trentennio successivo, anche in coincidenza con l’affermazione del verismo nella letteratura europea, fu fervido di ricerche e di studi sulla cultura e le tradizioni popolari sarde, ma la stessa tradizione orale, accuratamente studiata e pazientemente raccolta, rivelò labili tracce di poesia patriottica: un Canto dei sardi per la guerra d’indipendenza (1848), due composizioni rispettivamente di Michele Carboni di Gavoi e di una poetessa di Ploaghe dedicate alla resistenza dei sardi contro l’invasione dei francesi del 1793, l’inno Su patriottu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu. Il touriste francese aveva dunque ragione e ora come allora, a distanza di oltre un secolo, siamo costretti a fare la stessa constatazione. Né l’epopea della Brigata Sassari durante la prima guerra mondiale, né la forte mobilitazione popolare di rivendicazione autonomistica e di lotta per la riforma agraria del primo e del secondo

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 18 dopoguerra, momenti alti di coralità politica e di passione civile del popolo sardo, hanno offerto motivo d’ispirazione ad una poesia patriottica degna d’attenzione e che abbia, soprattutto, trovato un radicamento nell’immaginario collettivo. Dalla fine del XVIII secolo ad oggi ad un solo componimento i sardi hanno riconosciuto dignità di canto patriottico, attraverso il quale esprimere il sentimento di ribellione contro le ingiustizie e l’aspirazione ad una società più giusta: l’inno Su patriottu sardu a sos feudatarios. Non può non colpire, da quanto si è accennato sopra, una circostanza. Tre dei canti patriottici che le ricerche demologiche della seconda metà del secolo scorso portarono alla luce, si riferiscono a un momento particolare della nostra storia regionale: la tentata invasione francese del 1793 e la cosiddetta “sarda rivoluzione” che ne seguì. A guardare con attenzione le vicende storiche della Sardegna degli ultimi secoli, gli anni tra il 1793 e il 1796 furono anni drammatici ed eroici in cui il popolo sardo riuscì ad esprimere in modo corale le sue rivendicazioni di autonomia politica e di riforma sociale. L’irripetibile momento di unità patriottica con la rivendicazione delle “cinque domande” nel 1793-94, la cacciata dei piemontesi il 28 aprile 1794 e la breve intensa stagione di governo autonomo nell’estate di quell’anno, il feroce assassinio del Pitzolo e del Planargia nell’estate 1795, conseguenza del contrasto insanabile tra il partito reazionario e il partito progressista delineatosi in seno al movimento patriottico, l’epopea di Giommaria Angioy della sollevazione antifeudale nel 1795-96, sono i momenti in cui si coagulano ed esplodono i fermenti di un vasto moto popolare che costituisce uno snodo della storia isolana, in coincidenza con i mutamenti epocali dell’Europa intera seguiti all’Ottantanove. Di tutto quel mondo di sentimenti, di passioni, di dibattiti, di disperazione e di speranze, l’espressione più sincera ed emozionante è un inno, nato dal cuore stesso degli avvenimenti: l’inno Su patriottu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu. E’ per questi motivi che quest’inno, in modo forse troppo retorico, ma con sufficiente verosimiglianza, è stato definito “la Marsigliese sarda”.

2. L’autore dell’inno è Francesco Ignazio Mannu, un personaggio che ha avuto un ruolo importante nell’ambito del “triennio rivoluzionario sardo” del 1793-1796. Della sua biografia ricorderemo qui alcuni momenti essenziali, cercando di collegarli al quadro generale della cultura della Sardegna del secondo Settecento nel quale Mannu si è formato; tale quadro costituisce l’antecedente imprescindibile per una comprensione dell’inno antifeudale. F.I. Mannu nacque a Ozieri nel 1758 da una famiglia della piccola nobiltà locale; studiò Leggi all’Università di Sassari e dopo la laurea si trasferì a Cagliari dove visse fino al 1839, anno della morte. Dopo aver esercitato l’attività forense, in coincidenza con le sessioni degli (l’assemblea cetuale caratteristica dell’ordinamento costituzionale del Regno di Sardegna dell’ancien régime) autoconvocatisi in occasione dell’invasione francese del gennaio 1793, svolse un’intensa attività politica nello stamento militare di cui era membro e dal luglio 1793 al luglio 1794 funse da avvocato dello stamento stesso, in pratica estensore delle deliberazioni e dei documenti politici di quell’assemblea cetuale caratteristica dell’ordinamento costituzionale del Regno di Sardegna dell’ancien régime. Nel 1795 fu nominato giudice ad interim nella sala civile della Reale Udienza, incarico che ricoprì poi ufficialmente a partire dal 1807. Nel 1816 venne spostato ad altro incarico per essersi opposto alle direttive di Carlo Felice, allora vicerè, che sollecitava un’amministrazione della giustizia poco rispettosa dei diritti del reo, e dal 1818 fu assegnato al Magistrato del Consolato, tribunale incaricato

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 19 di dirimere le controversie sul commercio. Parsimonioso e filantropo, alla sua morte lasciò un ingente patrimonio di 40.000 scudi all’ospedale di Cagliari. Non deve colpire il fatto che l’autore dell’inno antifeudale abbia poi ricoperto altissime cariche burocratiche nella pubblica amministrazione del Regno: la gran parte dei promotori della “sarda rivoluzione” - e Mannu fu tra questi - erano in fondo dei moderati, e l’inno antifeudale è espressione di una visione politica moderatamente riformista, che non mette in discussione la forma politica dello Stato monarchico, il fondamento contrattualistico di questa forma di governo, l’organizzazione cetuale della società; vuole semplicemente che venga asportato dall’organismo politico e sociale della Sardegna un sistema di governo perverso e degenerato, irrispettoso della legge di natura, qual è appunto il sistema feudale. Gran parte dei personaggi che furono ispiratori e promotori della “sarda rivoluzione” occuperanno negli anni successivi le più alte cariche del Regno: ricordo, per essere l’esempio più noto e più emblematico, Vincenzo Cabras - l’anziano avvocato nativo di Tonara il cui arresto con procedura ‘economica’ il 28 aprile 1794 scatenò l’insurrezione antipiemontese a Cagliari - che subito dopo la fine dei moti antifeudali del giugno 1796 diventerà intendente generale, ossia responsabile dell’amministrazione delle finanze. Recenti acquisizioni documentarie consentono di definire in termini abbastanza precisi il ruolo politico svolto da F.I. Mannu nel quadro delle vicende del triennio rivoluzionari sardo; tali nuove acquisizioni offrono pertanto un contributo prezioso per comprendere la genesi e il significato dell’inno antifeudale, che è stato caricato di valenze che non gli appartengono affatto e ne distorcono il significato genuino. Tale è ad esempio la tesi di chi, come Raffa Garzia, ha creduto di individuare l’intima ragione del componimento poetico in un improbabilissimo e storicamente insostenibile “ideale repubblicano di riscossa” del popolo sardo. Nonostante questa forzatura interpretativa, il saggio di Raffa Garzia, Il canto di una rivoluzione, apparso nel 1899, rimane ancora oggi il lavoro più accurato e più denso che si conosca sull’inno. Non risponde a verità, dunque, com’è stato scritto anche recentemente, che il ruolo del Mannu negli anni della rivoluzione sarda rimane ancora oscuro; al contrario egli ha svolto un’azione energica e propositiva in seno agli stamenti, in difesa dell’autonomia del Regno sardo e della pari dignità di esso nell’ambito dello Stato sabaudo. In qualità di avvocato dello stamento militare tra il luglio 1793 e il luglio 1794 egli è stato l’estensore dei documenti politici di quell’assemblea parlamentare della nazione sarda, documenti nei quali ritroviamo i temi che saranno propri dell’inno antifeudale: la contestazione del centralismo bieco e retrivo del governo di Torino, la rivendicazione di un ruolo attivo dei sardi nel governo dello Stato, la polemica feroce contro la sistematica occupazione dello Stato da parte dei piemontesi fino ad affermare pubblicamente che “avrebbe rinunziato al paradiso qualora vi trovasse un piemontese”. Ma l’antipiemontesismo del Mannu, va precisato, non è frutto di un odio razziale o etnico, ma si tratta di un odio di carattere eminentemente politico. D’altra parte l’odio di tipo etnico non aveva ragione di essere, soprattutto se si guarda alla formazione culturale del Mannu e più in generale dell’intellettualità isolana del secondo Settecento: dai piemontesi egli e i suoi coetanei avevano ricevuto quella formazione e quell’apertura di idee che costituisce, com’è stato giustamente osservato, l’incubazione della rivoluzione sarda di fine secolo. Francesco Ignazio Mannu appartiene infatti a quella generazione di intellettuali, tra cui sono da annoverare Giommaria Angioy (n. 1751), Domenico Alberto Azuni (n. 1749), Gerolamo Pitzolo (1748), i fratelli Domenico, Matteo Luigi e Gianfrancesco Simon di Alghero (nati rispettivamente nel 1758, nel 1761 e nel 1762), Ignazio Musso (n. 1756), Nicolò

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 20 Guiso, Efisio Luigi Pintor (n. 1765) - tutti protagonisti, se si eccettua l’Azuni, della rivoluzione sarda - formatisi nelle Università sarde riformate dal ministro Bogino nel 1764-65, forniti di una cultura umanistica e politico-giuridica solida e, soprattutto, partecipe delle problematiche e delle aspirazioni proprie dell’intellettualità europea del secolo dei lumi. Nelle due Università riformate questa generazione di intellettuali era stata allieva di valenti insegnanti come Giambattista Vasco, Francesco Cetti e Francesco Gemelli, che avevano profuso nell’insegnamento universitario sardo una ventata di cultura rinnovata, improntata allo spirito del secolo, l’esprit systématique, per riprendere l’espressione di Condillac, ossia il metodo sperimentale che predilige l’osservazione diretta della natura, della realtà sociale, dei fenomeni economici. Così Giambattista Vasco, uno tra i più rappresentativi illuministi italiani, docente di Teologia dogmatica nell’Università di Cagliari negli anni 1764-67, nelle sue lezioni utilizzava alcune voci dell’Encyclopédie, come ha documentato FrancoVenturi in un suo importante saggio; rientrato in Piemonte Vasco pubblicherà nel 1769 l’opera ispirata alle teorie fisiocratiche del Quesnay, La felicità pubblica considerata nei coltivatori delle terre proprie. Nel 1776, un docente dell’Università di Sassari, l’ex gesuita novarese Francesco Gemelli, offriva una trattazione del problema della riforma fondiaria in Sardegna secondo coordinate ispirate alle teorie fisiocratiche, sinonimo di liberismo economico, nell’opera Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura; l’opera sull’assetto fondiario in Sardegna era stata espressamente commissionata al Gemelli dal governo piemontese in vista di una riforma del sistema feudale e della creazione della proprietà perfetta onde incoraggiare l’intraprendenza di una nascente e timida borghesia terriera. Tra il 1774 e il 1777 l’abate Francesco Cetti, anch’egli docente dell’Università di Sassari e seguace del celebre naturalista francese Buffon, autore dell’Histoire naturelle, pubblicava in tre volumi la splendida Storia naturale della Sardegna, impreziosita da pregevoli tavole a colori. La nuova cultura universitaria era inoltre permeata da una rinnovata sensibilità per la storia patria e da una particolare attenzione in ambito giuridico ai fondamenti e ai fini della società, che traevano ispirazione, oltre che dalla tradizione giusnaturalistica e contrattualistica, dalla grande lezione di Ludovico Antonio Muratori sia sul versante della ricerca storica che su quello della filosofia civile, espressa questa nell’ultima opera del grande intellettuale modenese, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi, pubblicata un anno prima della morte nel 1749. Rifacendosi espressamente all’opera Rerum italicarum scriptores del Muratori, Domenico Simon aveva iniziato, tra il 1785 e il 1788, la pubblicazione della collana intitolata Rerum sardoarum scriptores, di cui uscirono due volumi, tra cui, significativamente, il breve compendio di Sigismondo Arquer, vittima dell’Inquisizione, Sardiniae brevis historia et descriptio. Esempio significativo del rinnovato impegno civile dell’intellettualità isolana è la letteratura didascalica del secondo Settecento sardo, redatta sia in lingua sarda che italiana, di cui costituisce un esempio il poema giovanile dello stesso Domenico Simon intitolato Le piante (1779). Questa nuove temperie culturale interagiva, com’è ovvio, con il contesto locale e con le condizioni politiche ed economiche della Sardegna del Settecento: i principi della fisiocrazia e del liberismo economico, applicati alla situazione sarda, comportavano uno scontro decisivo col sistema feudale che costituiva il principale ostacolo per la loro concreta affermazione; l’impegno civile per il riconoscimento della specificità della costituzione del Regno sardo era ostacolato dal sistema coloniale di governo del Piemonte sabaudo, che oltre a vanificare le prerogative costituzionali della nazione

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 21 sarda, impediva alla nuova intellettualità la concreta partecipazione al governo dello Stato interamente affidato ad una burocrazia esterna famelica e incapace; il rinnovato interesse per la storia consentiva di individuare in un passato lontano una sorta di età dell’oro o di stato di natura in cui la Sardegna viveva arbitra del proprio destino e libera dalle catene del giogo feudale. La linfa nuova immessa nella cultura compenetratasi con le condizioni oggettive della realtà politica e sociale dell’isola costituì l’elemento motore della nostra rivoluzione; di essa dobbiamo tener conto per comprendere i motivi ispiratori del canto della rivoluzione sarda, che esamineremo nei suoi aspetti essenziali e proponiamo nel testo che nel 1896 il poeta nuorese Sebastiano Satta pubblicò sul quotidiano sassarese “La Nuova Sardegna”, con traduzione italiana a fronte - non esente da mende e da qualche travisamento di tipo semantico – in occasione del primo centenario della “sarda rivoluzione” e dei moti antifeudali guidati da Giovanni Maria Angioy nel giugno del 1796.

3. L’inno del Mannu, redatto in sardo logudorese, consta di 47 strofe, ciascuna di otto versi ottonari; la struttura metrica è cioè quella dell’ottava torrada, ossia dell’ottava con ritornello, di lunga tradizione nella poesia in lingua sarda, che usa indifferentemente, secondo le classificazioni metriche date dallo Spano nell’Ortografia sarda nazionale (1842), sia l’endecasillabo che l’ottonario. La scelta dell’ottonario risiede probabilmente nel fatto che tale struttura metrica è la stessa usata nei gosos in onore dei santi, generalmente cantati dalle popolazioni rurali: l’ottonario che ha un ritmo veloce, consente una facile memorizzazione del contenuto ed è particolarmente adatto al canto. Il testo era probabilmente finalizzato al canto; nel canto comunque l’inno ha trovato ampia utilizzazione sia durante la marcia dell’Angioy nel giugno 1796 sia nei secoli successivi sino ai nostri giorni. Considerata la lunghezza dell’inno, le strofe più usate nel canto sono la prima (Procurad’ ‘e moderare/ barones sa tirannia), la ventiquattresima (Trabagliade trabagliade / sos poberos de sas biddas) e la quarantaseiesima (Custa populos est s’ora / d’estirpare sos abusos), indubbiamente fra le più intense per il pathos emotivo che sono capaci di infondere, cariche di un forte sentimento di ribellione, di protesta, di denuncia, di lotta contro l’ingiustizia: come canto di protesta e di guerra contro le ingiustizie l’inno è stato interiorizzato dall’immaginario collettivo dei sardi. Lo schema metrico predominante, che interessa 44 strofe su 47, è a - bb - cc - dd - e; non sono cioè legati da rima il primo e l’ultimo, mentre gli altri versi sono legati da rime interne; una curiosità ritmica è costituita dal fatto che per tutto il componimento l’ultimo verso termina in -ia (15 strofe su 47), e in -are (32 strofe su 47). La non fitta schiera di studiosi che si sono occupati dell’inno non sono d’accordo circa la data di composizione e di pubblicazione, oscillando tra il 1794 (è l’opinione dello Spano) e il 1796 (per questa data propende il Garzia). Si tratta però di proposte di datazione che si basano su testimonianze indirette; un’analisi ab intra del componimento - a giudizio di chi scrive – offre elementi specifici che consentono di individuare particolari episodi del “triennio rivoluzionario sardo” e, conseguentemente, di ipotizzare una datazione meno approssimata. Di ciò si tratterà nella parte finale di questa presentazione dell’inno Procurad’ ‘e moderare. E’ comunque sicuro che la prima edizione dell’opera, che fu fatta durante il “triennio”, non avvenne in Sardegna; l’inno fu pubblicato clandestinamente in Corsica, verosimilmente attorno alla fine del 1795 e l’inizio del 1796; di questa prima edizione - un piccolissimo volumetto di dodici pagine assai scorretto, secondo Raffa Garzia - la

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 22 Biblioteca Universitaria di Cagliari dovrebbe possedere tre esemplari. Diverse fonti attestano che l’inno era sicuramente noto nel giugno 1796: esso veniva infatti cantato dall’improvvisato esercito che accompagnò l’alternos Giommaria Angioy durante la sua “marcia” verso o contro Cagliari (la ricerca storica non è ancora oggi in grado di dire con certezza l’una o l’altra cosa) tra il 2 e il 10 giugno 1796. Dopo l’esilio dell’Angioy (il capo dei moti antifeudali in Sardegna riparò in Francia e morì a Parigi nel 1808) e la feroce persecuzione degli angioiani, l’inno visse alla macchia, nella tradizione orale e manoscritta; da un esemplare manoscritto lo trasse l’inglese John Warre Tyndale nell’opera The Island of Sardinia del 1849, che lo pubblicò per la prima volta dopo l’edizione corsa del 1796, offrendo anche a fronte la traduzione in versi in lingua inglese. Dalla traduzione inglese del Tyndale il Boullier ricavò nel 1864 la traduzione dell’inno in lingua francese nell’opera di cui si è detto innanzi; particolare curioso, alcune strofe tradotte dal Boullier risultano poeticamente più efficaci che quelle originali. L’inno riceveva infine diritto di cittadinanza in Sardegna solo nel 1865 ad opera del canonico Giovanni Spano, che lo inserì nella raccolta di Canzoni popolari inedite in dialetto sardo centrale ossia logudorese. Da quel momento sino ad oggi l’inno ha avuto larga diffusione a stampa, sebbene attenda ancora l’opera competente del filologo che ne stabilisca il testo critico. Considerata la lunghezza del componimento, non è semplice districarsi al suo interno. Si delinea in questa sede una sintesi del contenuto e verrà proposta un’ipotesi di datazione.

4. Due sono le idee base che l’inno intende trasmettere: la necessità di porre fine al sistema feudale, o forse sarebbe meglio dire alla sua degenerazione, e quella di denunciare il malgoverno e le vessazioni dei funzionari piemontesi. Due sono anche gli espliciti destinatari: i feudatari e il popolo, in particolare le popolazioni rurali. All’interno delle strategie testuali messe in atto dall’autore i feudatari, bersaglio immediato dell’invettiva e della protesta, rappresentano un interlocutore ‘passivo’ che permette di esplicitare i contenuti ideologici del componimento; i feudatari servono cioè da espediente stilistico che consente l’impiego del discorso diretto, dell’invettiva, giocata sui vocativi e gl’imperativi, che producono un forte coinvolgimento emotivo. In realtà i veri destinatari, che il testo suggerisce nei contenuti ideologici e nelle scelte linguistiche e stilistiche operate, sono le vittime principali dei feudatari, le masse contadine. Sulle masse contadine è concentrato l’impianto stilistico del componimento e la connotazione dottrinaria e didattica di esso. Mentre l’impianto stilistico, in particolare il codice linguistico usato, è rivolto ad ottenere comunione e assenso, quello dottrinario e didattico è volto a produrre competenze nelle masse subalterne, al fine di adeguare in qualche misura la loro “enciclopedia” a quella contenuta nel messaggio, confermandole o conquistandole alla causa della rivolta antifeudale. L’articolazione dei contenuti, semplificando al massimo, è la seguente: Fatta nelle strofe 1-3 s’isterrida, ossia la proposizione dell’argomento, che è l’esistenza, in pieno secolo dei lumi, di un istituto anacronistico e vessatorio, il feudalesimo, il poeta inizia l’opera di “rischiaramento” del popolo attraverso la delineazione di una breve storia delle origini del sistema feudale, sorto a seguito di uno squallido mercimonio operato da conquistatori senza scrupoli durante il medioevo - periodo storico definito illuministicamente “età buia” (zega antighidade) - ai danni delle genti libere e sovrane dell’isola di Sardegna (strofe 4-7). L’età presente, che è l’età dei lumi contrapposta all’età buia, è comunque in grado

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 23 di porre rimedio a questa forma di “schiavitù”. Dopo aver descritto nella strofa 8 la condizione del vassallo, sottoposto a “milli cumandamentos”, cioè ad un’infinità di balzelli che ne rendono insopportabile l’esistenza, segue una disquisizione storico- giuridica circa il carattere violento dell’istituto feudale, contrario alla legge di natura (strofe 9-10). Il sistema feudale è contrario alla sana speculazione politica e quindi di per sé è illegittimo. Tuttavia il sistema feudale sardo alle origini dovette essere mite. Col passare dei secoli però esso ha subito un progressivo imbarbarimento per l’ingordigia dei feudatari (strofe 11-12). Nonostante il vizio d’origine, sembra suggerire il poeta, qualunque forma di organizzazione sociale può rispondere al fine della società civile, perfino il sistema feudale! Ma la rapacità della classe feudale, interessata solo a percepire censi e a drenare ricchezze, ha impedito e impedisce una corretta amministrazione, che non sarebbe forse impossibile. Funzionale a questa rapacità è la scelta della burocrazia feudale, ignorante e corrotta, che risponde solo all’esigenza di arricchire se stessa e il feudatario, con la conseguenza di scorticare (“iscorzare”) i vassalli (strofe 13-17). Il rapporto tra governanti e governati, argomenta il poeta, è un rapporto pattizio, frutto di un contratto originario. Quando uno dei contraenti non rispetta il patto sociale, finalizzato alla difesa dei diritti fondamentali (la vita, la proprietà e implicitamente la libertà), è giustificata la ribellione, anche se il poeta sembra limitarla ad una ribellione di carattere fiscale (strofe 18-19). Le strofe 20-27 rappresentano, con efficace contrappunto, la giornata del feudatario, gaudente lussuosa e immersa nel vizio, e la giornata del vassallo, stentata faticosa e grama, chiara imitazione di alcune parti del Giorno del Parini. E’ all’interno di questa descrizione che il poeta, tra la preghiera attonita e l’imprecazione irosa, raggiunge uno dei momenti più alti d’ispirazione lirica e di pathos (strofe 23-24), con cui si chiude la prima parte del poema, dedicata ad illustrare gli aspetti caratteristici del sistema feudale. A partire dalla strofa 28 l’inno assume una fisionomia storicamente più connotata essendo tutto incentrato sul riferimento agli avvenimenti politici della Sardegna del 1793-1795. Feudatari e governo piemontese hanno disatteso la convocazione delle Corti o Parlamento sardo, prima delle “cinque domande”, ossia della piattaforma unitaria di riforma politica riassunta in cinque richieste, che per volontà della nazione sarda una deputazione stamentaria presentò al sovrano nell’autunno 1793. Scopo della convocazione delle Corti, assemblea legislativa della nazione sarda secondo la costituzione del Regno che non fu mai convocata dal governo piemontese, era quello di predisporre la riforma dello Stato. I membri degli stamenti che chiedevano, a norma del diritto patrio, la convocazione dell’assise parlamentare come sede naturale per avviare l’improcrastinabile riforma degli ordinamenti del Regno di Sardegna, sono stati invece accusati di essere contrari all’istituto monarchico - accusa del tutto falsa - ed hanno corso il rischio di essere massacrati come giacobini, ossia come repubblicani incalliti. Il poeta è tuttavia fiducioso che Dio, come ha salvato la Sardegna e i veri patrioti sardi dall’invasione ‘giacobina’ del 1793, così saprà anche, secondo la bella preghiera del Magnificat, deporre i potenti ed esaltare gli umili (strofe 28-30). Dopo aver espresso fiducia che la “sarda rivoluzione” approderà a buon fine, il poeta inizia la lunga invettiva contro i piemontesi (strofe 30-43), ai quali i feudatari si sono venduti. I piemontesi si sono comportati in Sardegna da colonizzatori, né più né meno di come i conquistadores spagnoli si sono comportati nei confronti delle popolazioni indigene delle Americhe. Essi si sono arricchiti alle spalle dei sardi: giungevano in Sardegna poverissimi e se ne tornavano in patria titolati, occupavano gli impieghi più

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 24 lucrosi e le maggiori dignità ecclesiastiche civili e militari, contraevano matrimoni d’interesse. Eppure essi erano generalmente dei malandrini in quanto, come ebbe a scrivere lo stesso viceré Balbiano in un dispaccio al sovrano, il governo piemontese spediva in Sardegna ad occupare gli impieghi persone poco raccomandabili e indesiderate negli Stati di terraferma; gente insomma che perfino la poco civile Russia spedisce in Siberia invece di affidarle incarichi di responsabilità! Conseguenza di questa politica del governo piemontese è stato l’avvilimento della gioventù sarda che, ricca di talenti e di intelligenze, è costretta a vegetare nell’ozio. Quando poi a qualche sardo, generalmente poco dotato, i piemontesi hanno concesso di occupare qualche posto di poco conto, non gli basta lo stipendio per compensare con regali i suoi ingordi protettori. Infatti i piemontesi, come la classe feudale sarda, si propongono lo stesso fine di drenare risorse dalla Sardegna; della prosperità del Regno sardo e della sua corretta amministrazione non interessa loro nulla, anzi, ritengono che non convenga loro promuoverne la prosperità. Questi “bastardi” hanno così rovinato economicamente la Sardegna. Come se ciò non bastasse, ci hanno perfino privato della nostra memoria storica rubando dai nostri archivi e bruciando carte e documenti relativi alla nostra storia ed attestanti i diritti della nazione sarda. L’aiuto del Cielo ha consentito ai Sardi di cacciare via dall’isola questo flagello con l’insurrezione del 28 aprile 1794 e ciononostante i feudatari, che portano in fronte il marchio della fellonia, stanno facendo di tutto per farli rientrare e giovinette di alto lignaggio hanno ripreso a contrarre matrimoni con questi stranieri. Vergogna! Purché non sia sardo le nostre giovani sposano chiunque, anche se si tratta di un nettacessi (“basseri”)! Noi qui, ospitali com’è nella nostra tradizione, accogliamo questa gente; se invece ad un sardo capita di andare a Torino è costretto a baciare i piedi e il... deretano; per ottenere qualche piccolo privilegio o qualche stemma nobiliare i sardi devono lasciarvi le loro ricchezze, mandando in rovina e casa e patria, e il vero titolo che guadagnano è quello di traditori e spie. Occorre comunque avere fiducia, dice il poeta avviandosi alla conclusione (strofe 43- 47), perché Dio non lascia trionfare il malvagio. Aiutati però, chè il Ciel t’aiuta! Occorre che l’uomo faccia la sua parte nel combattere le ingiustizie. Sardi, svegliatevi - esorta il poeta - seguite la via che vi indico! Il sistema feudale, questo assurdo mercimonio di popoli deve finire! Attenti, perché il mostro sembra voler risollevare la testa. Sardi, non demordete. E’ questo il momento propizio per portare a fondo la lotta. Popoli, è giunta l’ora di lottare con decisione contro gli abusi, di abbattere i despoti. Guerra, guerra all’egoismo, guerra agli oppressori, disarcionate questi tirannelli, altrimenti, se non profitterete delle circostanze favorevoli, un giorno vi morderete le mani dalla rabbia. Prima che sia troppo tardi, o sardi, passate all’azione: ora che l’orditura è pronta, spetta a voi tessere la tela. Il contadino sa che quando spira il vento propizio, è il momento di lavorare sull’aia, è il momento di separare il grano dalla pula!

5. Abbiamo sin qui fatto le operazioni preliminari ed essenziali di approccio al testo dell’inno, delineandone la genesi, il contesto storico, la comprensione letterale. Faremo ora alcune brevi osservazioni di carattere generale sull’aspetto estetico e stilistico, su cui esiste fortunatamente un recente approfondito saggio che affronta egregiamente il problema utilizzando le moderne metodologie di analisi testuale. Sotto il profilo estetico, se dovessimo indulgere a un criterio di giudizio di derivazione crociana, come ad esempio hanno fatto lo storico della letteratura sarda Francesco Alziator e lo storico Carlino Sole, dovremmo concludere che la poeticità del componimento è veramente labile, se non del tutto inesistente.

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 25 Sarebbe tuttavia errato utilizzare, nella valutazione dell’inno patriottico Procurad’ ‘e moderare, superate categorie estetiche di interpretazione; è necessario invece ricorrere, per formulare un corretto giudizio estetico, ad un tipo di analisi testuale che tenga conto della specificità del componimento, che è fondamentalmente un testo di propaganda politica e di elaborazione ideologica, espressione di quella mobilitazione degli intellettuali nel sociale, che fu un elemento caratteristico dei movimenti rivoluzionari della fine del Settecento, non solo in Sardegna. L’autore non è un letterato di professione, ma un giurista, uno degli intellettuali impegnati sul nuovo fronte ideologico apertosi nella Sardegna di fine Settecento, e che concepisce la sua canzone patriottica non come opera d’arte, ma come contributo alla lotta politica e sociale, che investe la società sarda di quegli anni, contributo che segna il passaggio dal suo impegno personale contro l’ingiustizia dal piano delle idee al piano del concreto coinvolgimento nel sociale. E’ con lo sguardo rivolto a queste caratteristiche che occorre affrontare l’analisi ‘estetica’ del componimento. In questo senso ci può essere di valido aiuto un’analisi testuale e un criterio d’interpretazione e di comprensione come la teoria del Bachtin relativa alla stretta correlazione che esiste, in ogni testo letterario, fra ideologia e usi linguistici; oppure ci può essere d’aiuto l’analisi della funzione poetica all’interno delle funzioni del linguaggio suggerita dallo Jakobson nei Saggi di linguistica generale. Sono questi gli strumenti di analisi suggeriti e messi in pratica da Maria Antonietta Dettori, autrice di un saggio molto bello di analisi estetica e stilistica dell’inno di Francesco Ignazio Mannu, apparso sulla rivista “Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico” n. 32-34, intitolato ‘Su patriottu sardu a sos feudatarios’ di Francesco Ignazio Mannu (pp. 267-308), su cui è basata l’analisi stilistica che qui si propone. “La poesia patriottica di questo tipo - scrive M.A. Dettori - al pari degli opuscoli e dei manifesti di propaganda e dei catechismi repubblicani, della produzione teatrale d’indottrinamento popolare (si pensi ai “Dialoghi contadini” del circolo ambulante di Gionnetti), degli scritti giornalistici, dell’oratoria politica svolta spesso in dialetto, hanno valore di “formazioni discorsive” e produzioni letterarie strettamente correlate alle forme dell’ideologia dominante in quello scorcio di secolo, che è politica e orientata in senso democratico e rivoluzionario. Infatti - conclude la Dettori - nel [nostro] componimento la funzione conativa si intreccia saldamente a quella poetica, orientando il messaggio all’esortazione, attraverso scelte linguistiche finalizzate al coinvolgimento dei destinatari. Sul piano linguistico è ampio infatti l’uso del discorso diretto, strutturato sui modi dell’imperativo e sul largo impiego del vocativo e delle seconde persone: es. “Procurad’e moderare / barones sa tirannia (procurate di moderare, baroni, la tirannia); O poveros de sas biddas,/ trabagliade, trabagliade (O poveri dei paesi, lavorate, lavorate); Custa populos est s’ora/ d’estirpare sos abusos (Questo, o popoli, è l’ora di estirpare gli abusi)”. Sul piano stilistico “vengono messe in opera strategie retoriche di presenza e di comunione, volte al coinvolgimento emotivo e pragmatico dell’interlocutore”(pp. 277-78), che è, come dicevamo, la popolazione rurale: tali ad esempio il frequente uso dei proverbi della tradizione contadina, l’uso di un lessico caustico e triviale per descrivere gli avversari di classe, le metafore che utilizzano termini desunti dal lavoro delle campagne e di tipo meteorologico, l’uso frequente delle opposizioni nel delineare le differenti condizioni di vita, ecc. Sono queste peculiarità stilistiche ed estetiche che hanno contribuito alla fortuna del componimento sia alla fine del Settecento che nei due secoli successivi, producendo una forte interiorizzazione di esso da parte della “nazione” sarda a prescindere

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 26 dalle classi sociali e dalle differenti situazioni storiche. La “poeticità” di questo canto patriottico sardo non risiede, quindi, sicuramente nella sua perfezione stilistica e formale; risiede invece nella sua funzione conativa e nella sua aderenza all’ideologia di fondo del popolo sardo, in cui la memoria storica e le condizioni del presente hanno contribuito e contribuiscono a creare un’ideologia ribellistica, un’ideologia nella quale la subalternità pesa ancora come un macigno. Non a caso il messaggio contenuto delle strofe dell’inno Procurad’ ‘e moderare è stato interpretato dai sardi in vari modi, secondo il momento storico particolare, e i versi sono stati utilizzati a dare voce a proteste e a rivendicazioni diverse.

6. Ci siamo limitati, per l’analisi testuale, a rimandare al saggio di Maria Antonietta Dettori, del quale sono state delineate le tesi significative. Resta da affrontare in conclusione un argomento cui si accennava all’inizio, quello del periodo di composizione dell’inno, e quindi indirettamente di pubblicazione. Si tratta di notazioni che chi scrive ha pazientemente raccolto in questi anni, in cui ha concentrato la sua attenzione sul periodo del “triennio rivoluzionario sardo”, e che si fondano sull’analisi ab intra dell’inno. Si è detto sopra che non vi è concordia tra gli editori e gli studiosi circa il periodo di composizione dell’inno e la data di pubblicazione, anche perché il problema non è stato mai studiato approfonditamente da nessuno. Lo Spano propone, sebbene in modo indiretto, il 1794; Raffa Garzia sembra propendere per il 1796; prima di entrambi, lo storico Giuseppe Manno ricorda l’inno nella sua Storia moderna della Sardegna solo quando tratta dei moti angioiani, nel giugno 1796. Quanti in seguito hanno pubblicato o studiato questo componimento si sono rifatti a questi autori, non dando eccessivo peso al problema. Il problema della datazione, invece, non è di secondaria importanza; la collocazione il più possibile esatta sotto il profilo cronologico delle problematiche trattate nell’inno e degli eventi che in esso vengono richiamati sono invece fondamentali per la sua adeguata comprensione. E’ stata la scarsa attenzione a questo problema che ha fatto sì che si siano attribuite a questo testo valenze che non gli appartengono affatto, quale ad esempio quella di assegnargli una presunta parentela col movimento giacobino, assertore di idee democratiche e repubblicane, fino alla definizione, forse gratificante ma storicamente inattendibile, di “Marsigliese sarda”! Secondo la presente ipotesi la redazione dell’inno risale all’estate - autunno 1795, quando il problema dell’arroganza dei feudatari del Capo di sopra e il problema della mitigazione degli abusi del sistema feudale diventa centrale nel dibattito politico e nelle vicende storiche dell’isola. Sono fondamentali, per l’ipotesi di datazione che io propongo, le strofe 28-30 dell’inno, che costituiscono come il fulcro attorno al quale è costruita, dal punto di vista cronologico, la narrazione e l’articolazione logica degli argomenti. Nelle strofe 1-27 l’autore ha narrato, quasi una lunga preparazione per introdurre il lettore al momento storico particolare cui quella narrazione era funzionale, la storia e le caratteristiche sociali, politiche e giuridiche dell’istituto feudale. Nei ventiquattro versi delle strofe 28-31, dopo aver posto l’esigenza di una urgente riforma di quell’istituto barbarico e anacronistico, l’autore offre alcune indicazioni storicamente determinate e contestualizzate, per spiegare il motivo per cui quell’istituto non è stato riformato: Timende chi si reforment / Disordines tantu mannos, / cun manizzos e ingannos / sas Cortes hana impedidu; / e isperdere han cherfidu / sos patrizios pius zelantes, nende

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 27 chi fin petulantes / e contra sa Monarchia. Ai cuddos, ch’in favore / de sa patria han peroradu, / chi s’ispada hana ‘ogadu / pro sa causa comune, o a su tuju sa fune / cherian ponner meschinos! / O comente a Giacobinos / los cherian massacrare. Però su chelu hat difesu / sos bonos visibilmente / atterradu hat su potente, / e i s’umile esaltadu. / Deus, chi s’est declaradu / pro custa patria nostra, / de ogn’insidia ‘ostra / isse nos hat a salvare. Il primo quesito al quale dobbiamo rispondere è: quando e da chi è stata impedita la celebrazione delle Corti? Il secondo quesito è: quando e chi ha pensato di disperdere i veri patrioti, che sono stati accusati di essere contrari all’istituto monarchico, dei giacobini desiderosi d’instaurare la repubblica, fino a progettare di massacrarli ? Il terzo quesito è : chi è il potente, o i potenti, che sono stati abbattuti?

Ricapitoliamo brevemente le vicende del 1795 ed avremo la risposta ai quesiti che ci siamo posti. La richiesta di convocazione delle Corti era la prima delle cinque domande che la delegazione stamentaria portò a Torino nel 1793. Il primo diniego è nel regio biglietto del 1° aprile 1794 in cui è detto, tra l’altro, che le sedute stamentarie potevano continuare per altri sei mesi al fine di proporre alcune riforme particolari, “riservandosi S.M. di permettere poi anche a tempo più opportuno, e sempreché le circostanze di pubblico bene lo richiederanno, la formale celebrazione delle Corti generali ogni qual volta non sia per adottarsi, come più proficuo pe’ motivi rilevati dallo Stamento ecclesiastico nella sessione delli 7 maggio dell’anno scorso, il sistema ivi dal medesimo suggerito”. Questa risposta elusiva, insieme alle altre, aveva provocato la cacciata dei piemontesi il 28 aprile 1794 e il periodo di governo autonomo della Sardegna nell’estate 1794, quando la Reale Udienza governò con i poteri viceregi e con la pressione vigile e determinante degli stamenti e del popolo cagliaritano. Giunto il nuovo viceré Vivalda in Sardegna nel settembre 1794, si rese conto delle improcrastinabilità della convocazione delle Corti per una riforma di cui gli stamenti e le masse urbane reclamavano l’urgenza. Nel giugno 1794 al conte Pietro Graneri era subentrato, nel governo degli affari della Sardegna, il conte Avogadro di Quaregna, che si dimostrò più attento alle richieste dei Sardi e alle pressioni del viceré; con regio dispaccio del gennaio 1795, letto nelle assemblee stamentarie il 5 febbraio, il conte Avogadro comunicava che il sovrano aveva dato il suo assenso per la celebrazione delle Corti, e che al prossimo dispaccio avrebbe fatto pervenire l’atto formale di convocazione. Ciò non avvenne, per cui gli stamenti, nella seduta del 18 marzo 1795 sollecitavano l’adempimento della promessa fatta un mese e mezzo prima. A Torino però maturavano decisioni nuove e importanti per il governo dell’isola. Alla fine di marzo il sovrano licenziava il conte Avogadro di Quaregna, e affidava l’incarico degli affari di Sardegna ad un nuovo ministro, il conte Galli della Loggia, per nulla propenso ad accogliere le richieste dei Sardi nonché molto incline ad ascoltare l’opinione del marchese della Planargia, che con missive segrete dissuadeva la Corte dal procedere alla convocazione delle Corti, in quanto le assemblee stamentarie erano da lui presentate come un covo di giacobini contrari all’istituto monarchico. Segue nel maggio 1795 una precisa vulnerazione delle leggi fondamentali del Regno ad opera del ministro Galli, con la nomina senza l’uso delle prescritte terne dei nuovi giudici della sala civile della Reale Udienza, che provoca una durissima reazione degli stamenti e successivamente, il 27 maggio 1795 lo stesso conte Galli comunicava che il re, cancellando la promessa del mese di gennaio, aveva

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 28 deciso di sospendere la celebrazione delle Corti. Il Planargia e il Pitzolo attraverso i loro maneggi presso i dicasteri torinesi, avevano avuto partita vinta. Alle proteste degli stamenti, dei giudici “patrioti” della Reale Udienza e del popolo cagliaritano, il marchese della Planargia e il Pitzolo, che rappresentavano l’oltranzismo del partito dei feudatari più retrivi, rispondevano approntando liste di proscrizione dei fautori dell’anarchia o giacobini, come li chiamavano, e ne invocavano il processo sommario e la condanna a morte per alto tradimento in quanto presunti fautori di un fantomatico partito contrario all’istituto monarchico. Stamenti e popolo chiedono la destituzione dei due; di fronte alle titubanze del viceré e dopo che vengono scoperte le loro trame, i due alti funzionari vengono trucidati, Pitzolo il 6 e Planargia il 22 luglio 1795. In quanto ho succintamente narrato è la spiegazione dei tre quesiti che ci siamo posti: la responsabilità della mancata convocazione delle Corti è del ministro Galli e dei due alti funzionari sardi, esponenti dell’oltranzismo feudale, che accusando di giacobinismo i “patrizi più zelanti”, ossia quanti volevano semplicemente l’applicazione delle leggi fondamentali del Regno, volevano annientarli; tali nemici della patria però erano stati abbattuti, cioè assassinati. Dopo l’assassinio dei due esponenti del partito feudale, i feudatari del Capo di Sassari danno luogo ad un’autentica secessione del Capo settentrionale, secessione avallata sempre dal conte Galli con due regi biglietti del 29 agosto 1795, in virtù dei quali la Reale Governazione di Sassari viene praticamente autorizzata a non eseguire gli ordini viceregi: si viene a creare una nuova alleanza tra feudatari e governo piemontese, come vien detto nella strofa 31, che non a caso introduce la lunga invettiva contro i piemontesi, la cui cacciata dall’isola, come si desume da tutto il contesto, appare come un fatto acquisito, rimesso in discussione appunto dal “perfido feudatario” per interesse personale, ossia per conservare una impossibile situazione di privilegio, non già per amore della costituzione del Regno sardo. La perfidia dei feudatari sassaresi consiste proprio nell’aver tradito le motivazioni che stavano alla base dell’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794: la rivendicazione dello statuto speciale della Sardegna nell’ambito degli stati sabaudi, il riconoscimento di un’identità politica e culturale. E’ questo tradimento che ispira all’autore dell’inno il sarcasmo e l’invettiva contro i piemontesi, quasi a voler rammemorare con tinte forti quanto ad ogni sardo, per riprendere un’espressione del Machiavelli, “puzza quel barbaro dominio”. Perfidu feudatariu! / Pro interesse privadu / protettore declaradu / ses de su piemontesu. / Cun issu ti fist’intesu / cun meda fazilidade;/ isse papada in zittade, / e tue in bidda a porfia. Le secessione dei feudatari sassaresi è osteggiata e combattuta dal “partito patriottico”, che persegue un disegno politico riformista in seno alle assemblee degli stamenti, un disegno politico avallato dal governo viceregio e dalla Reale Udienza; nei mesi di agosto e di settembre stamenti e governo avevano emanato due provvedimenti in cui invitavano le ville ad una pacifica composizione del contenzioso con i rispettivi feudatari circa i tributi esatti illegittimamente. Tale linea politica era condivisa dalle ville infeudate, che proprio in quei mesi furono protagoniste di un estesissimo moto di ribellione, che se registrò anche manifestazioni violente di saccheggio delle residenze baronali, s’incanalò essenzialmente in una forma di protesta legale contro l’istituto feudale, con il rifiuto di pagare i tributi. Il moto di contestazione delle ville nel Logudoro, contrastato in ogni modo dalla feudalità sassarese, contribuiva così a corroborare l’azione “legale” di soluzione della crisi proposta dagli stamenti e dal governo viceregio. Per far applicare le disposizioni stamentarie e viceregie che incoraggiavano una composizione legale delle vertenze, il viceré fu costretto alla

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 29 fine di ottobre a mandare per tutta l’isola tre delegati incaricati di verificare che nelle curie dei villaggi dei diversi feudi fossero affisse e rese di pubblico dominio le determinazioni del governo, pervicacemente osteggiate dal Governatore di Sassari e dai feudatari. L’azione antifeudale assume dunque una chiara connotazione legale; e legale intendeva essere l’abrogazione del sistema feudale, proposto per la prima volta dalle ville di Thiesi, Bessude e Cheremule col famoso strumento di unione e di concordia stipulato davanti ad un pubblico notaio, con cui, si legge tra l’altro nell’atto notarile, “le suddette ville hanno unanimemente risoluto, e giurato di non riconoscere più alcun feudatario, e quindi ricorrere prontamente a chi spetta per esser redente pagando a tal effetto quel tanto, che da’ superiori sarà creduto giusto, e ragionevole” (cfr. Luigi Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo 1795-96, in AA.VV. La Sardegna nel Risorgimento. Antologia di saggi storici, Sassari 1962, pp. 123-24). Dopo questo periodo gli “strumenti di unione” si moltiplicheranno in tutto il Logudoro e il riscatto dei feudi tramite indennizzo, non l’abolizione violenta e cruenta del feudalesimo, diventerà la vera parola d’ordine della rivolta antifeudale delle campagne. E’ questo il contesto storico e politico-ideologico in cui si inserisce l’inno patriottico di Francesco Ignazio Mannu. Invano si cercherebbe in esso l’incitamento alla rivoluzione cruenta: il tono complessivo dell’inno, anche nei passaggi più concitati, anche quando esplode l’ira contro la schiavitù feudale, i toni non oltrepassano mai i termini di una composizione ragionevole dello scontro sociale. Procurad’ ‘e moderare, avverte in apertura l’inno, a voler significare che se si tira troppo la corda, chi comanda viene disarcionato, e che la via maestra è quella della moderazione, non della contestazione globale del sistema. E anche quando, nella strofa 46, il sentimento d’ira raggiunge l’apice, l’incitamento assume ancora un significato di composizione possibile dello scontro sociale: il poeta infatti non incita alla lotta armata e cruenta contro i feudatari, ma chiede ancora di “estirpare gli abusi”, di abrogare le “cattive usanze”, che altro non sono che i diritti controversi o illegittimi introdotti dalla prepotenza dei feudatari (“su dispostismu”); viene con forza dichiarata guerra all’egoismo e agli oppressori; la guerra cioè deve essere portata contro le persone e le cattive qualità morali di esse non necessariamente contro il sistema; i “piccoli tiranni” occorre “umiliarli”, non sopprimerli! Il riferimento ai “tirannos minores”, i feudatari, è oltremodo significativo per comprendere la visione politica dell’autore e la valenza della “sarda rivoluzione”: non vi è l’incitamento ad abbattere il “grande tiranno”, cioè il sovrano, l’istituto monarchico, che resta il reggimento politico ideale. Come il poeta ci aveva avvertito nelle strofe 28 e 29, il patriota sardo non si contrappone all’istituto monarchico, non è un giacobino né un repubblicano. L’inno patriottico sardo non si muove dunque nell’alveo di una rivoluzione giacobina, di un programma politico teso ad instaurare una repubblica sarda, come pure è stato più volte adombrato e scritto. Ciò va detto per il rispetto della verità storica, con buona pace di chi ha creduto di vedere nell’inno patriottico sardo una “marsigliese sarda”. E’ sufficiente un semplice raffronto del nostro inno con l’inno nazionale francese per rendersi conto che l’inno antifeudale non incita alla guerra armata della nazione contro la tirannia, cioè contro i troni dei despoti d’Europa; non individua il fondamento della società civile negli immortali principi dell’Ottantanove, nella libertà individuale, nell’uguaglianza sociale, nella fratellanza universale. Ciò non significa affatto che l’inno patriottico sardo non sia un inno rivoluzionario, non sia l’espressione di un momento epico della storia del popolo sardo, non sia l’evocazione di una rivoluzione reale per quanto non coronata dal successo. Si vuol

Convegno: Giovanni Maria Angioy e la Sardegna centrale Bono, Macomer 28 Aprile 2010 tra questione rurale, lingua e letteratura sarda 30 semplicemente dire che è l’inno di una rivoluzione nazionale che ha tratti specifici, che non ha bisogno di essere rivestita di panni altrui; è l’inno di una rivoluzione che esprime la specificità della situazione sarda nel Settecento; è l’inno di una rivoluzione patriottica, non giacobina, che rientra a pieno titolo nell’ambito dell’Europa del secolo dei lumi; se è consentito concludere col titolo dell’opera di Franco Venturi, il grande storico dell’illuminismo italiano che più d’ogni altro ha contribuito col suo insegnamento a Cagliari e con due fondamentali saggi a suggerire un’interpretazione storicamente corretta della Sardegna nel secolo XVIII, Su patriottu sardu a sos feudatarios è l’inno di una delle tante rivoluzioni germinate nella temperie culturale e politica del Settecento riformatore.

Bibliografia essenziale Per un inquadramento generale del periodo con ampio corredo bibliografico cfr. F. VENTURI, Settecento riformatore, 5 voll. Einaudi, Torino, 1969-1990; G. SOTGIU, Storia della Sardegna sabauda, Laterza, Roma-Bari, 1984; C. SOLE, La Sardegna sabauda nel Settecento, Chiarella, Sassari, 1984; I. BIROCCHI, La carta autonomistica della Sardegna tra antico e moderno, Giappichelli, Torino, 1992; Storia de’ torbidi occorsi nel Regno di Sardegna dal 1792 in poi. Opera anonima del sec. XVIII, a cura di L. Carta, EDISAR, Cagliari, 1994; A. MATTONE- P. SANNA, I Simon, una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, in AA.VV., All’ombra dell’aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814), Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma, 1994, pp. 762-863; G. RICUPERATI, Il Settecento in AA.VV., Il Piemonte sabaudo, vol. VIII, tomo 1, della “Storia d’Italia” diretta da G. GALASSO, UTET, Torino, 1994, pp. 439-904; Francia e Italia negli anni della Rivoluzione, a cura di L. Carta e G. Murgia, Laterza, Roma-Bari, 1995. Sull’inno antifeudale di F. I. Mannu, cfr. R. GARZIA, Il canto d’una rivoluzione, tip. dell’Unione Sarda, Cagliari, 1899; P. A. BIANCO-F. CHERATZU, Su patriottu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu, Condaghes, Cagliari, 1991; M. A. DETTORI, Su patriottu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu, in “Archivio Sardo del Movimento Operaio Contadino e Autonomistico”, n. 32-34, pp. 267-380; L. MARROCU, Procurad’ ‘e moderare. Racconto popolare della Rivoluzione sarda, 1793- 1796, AM e D edizioni, Cagliari 1996; F. I. Mannu, Su patriota sardu a sos feudatarios, a cura di Luciano Carta, Centro Studi Filologici/CUEC, Cagliari 2002.

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