Botte Agli Amici IMP INGEGNI

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Botte Agli Amici IMP INGEGNI INGEGNI Andrea Carraro BOTTE AGLI AMICI Alberto Gaffi editore in Roma © 2005 Gaffi Via della Guglia, 69/b 00186 - Roma www.gaffi.it INTRODUZIONE Non sono un critico, ma sono un uomo a cui piace moltissimo giu- dicare. Direi che esercitare il giudizio risponde a un’esigenza della mia anima. Qualcuno dice che il giudizio di valore sia il primo atto di ogni processo conoscitivo. Non so se questo è vero fino in fondo, ma vorrei che lo fosse. Le recensioni che qui raccolgo sono per la gran parte uscite su l’Unità negli anni Novanta in una rubrica che si chiamava ‘Ita- liani’. Le altre, di lunghezze diverse, anche brevissime, sono apparse su Il Messaggero, su Diario e altre testate in un’epoca compresa fra il 1990 e il 2004. Il medaglione su La felicità impura di Andrea Porporati è inedito e fu scritto nel 1990 quando il romanzo uscì: ho voluto inse- rirlo perché si tratta di un libro e di un autore colpevolmente “dimenti- cati” che meritano secondo me un recupero. Quanto al saggio su Ninfa plebea di Domenico Rea, uscito su Nuovi argomenti in occasione della morte dello scrittore, l’ho lasciato quasi intatto nella sua stesura origi- nale, anche se è più lungo degli altri testi, semplicemente perché rileg- gendolo mi sembrava un peccato tagliarlo. Lo considero un tributo postumo a un grande della nostra letteratura che non viene abbastan- za ricordato e a un romanzo che non ha avuto a mio giudizio (malgra- do il premio Strega) l’apprezzamento che meritava. Luce del Nord è invece l’esordio narrativo del compianto Sandro Onofri, morto appena quarantaquattrenne per un cancro nel 1999. La lunga recensione al romanzo fu anch’essa ospitata da Nuovi Argomenti quando il libro uscì: la inserisco non soltanto per ricordare un amico che mi manca molto, ma anche perché è, secondo me, uno dei romanzi più significativi degli anni Novanta. Nei tre anni che durò l’esperienza di critica militante su l’Unità mi trovai a parlare benissimo di libri di totali sconosciuti e a stroncare una quantità di romanzi di intoccabili e astri nascenti già cullati dall’e- stablishment mediatico-editoriale (Baricco, Benni, Mazzucco, De Car- lo, Maurensig, Capriolo e altri). Obbedendo all’unica tirannia del mio gusto quasi mai soddisfatto. Una fondamentale precisazione: queste mie critiche – positive o negative – non hanno l’ambizione di definire esaustivamente un autore, ma soltanto una sua opera (massimo due). È bene leggerle come delle istantanee che fotografano una situazione in movimento. So per esperienza che un libro si può “sbagliare”, quin- di, ripeto, i miei pollice verso vanno considerati con molta cautela. Per questo chiedo preventivamente scusa a quegli autori che hanno scritto opere migliori rispetto a quelle da me prese in esame e che risultano pertanto penalizzati. Quando uscivano questi pezzi negli ambienti letterari molti storce- vano il naso, brontolavano, me ne giungevano gli echi, commentavano che era di cattivo gusto fare lo scrittore e nello stesso tempo parlare VII male degli altri scrittori, dei colleghi. Se qualcuno aveva l’ardire di dir- melo in faccia, rispondevo fieramente con tre parole: “E Pasolini, allo- ra?...”. Pasolini nelle sue bellissime recensioni raccolte nel volume Descrizioni di descrizioni (Garzanti) attaccò con furia persino gli amici, spiegavo, per esempio la Morante quando scrisse La Storia. “Vedi, sarebbe meglio che parlassi degli stranieri…”, mi consigliavano. “Capi- sci, tu sei uno scrittore italiano, nessuno ti darà mai un premio lettera- rio, alla fine nessuno ti pubblicherà più, ti stai facendo un sacco di nemici, chi te lo fa fare?” Già, chi me lo faceva fare? Non ci guadagnavo una lira (il giornale attraversava una crisi e non pagava i collaboratori), non mi facilitava affatto nella mia carriera di scrittore alla quale in fondo tenevo, mi regalava la gratitudine di pochi e l’inimicizia di molti. Beh, sarà stato il mio innato masochismo. O forse semplicemente il fatto che quella rubrica era vacante e l’amico Nicola Fano, che a quel tempo dirigeva le pagine culturali de l’Unità, me l’aveva assegnata. Non mollavo per non deluderlo e per continuare a scrivere in un periodo in cui avevo spesso la paralisi della pagina bianca. Quell’impegno settimanale mi serviva a non pensarci, a darmi l’illusione di “creare comunque qual- cosa”, anche se non riuscivo a concepire storie e personaggi. Bene, dirà il maligno, hai spiegato perché li scrivevi, ora, ammesso e non concesso che ci hai convinti, devi spiegarci perché li raccogli in un libro. Era davvero necessario? No, rispondo, non era affatto neces- sario e non l’avrei forse fatto mai se non avessi conosciuto un editore, Alberto Gaffi, a cui interessa anche questa parte più seriale del mio lavoro. Raccolgo questi pezzi per vedere che effetto fanno tutti insie- me, se rivelano una idea di letteratura da un lato, e uno stile dall’altro, cioè in fondo un’unità. Devo un’ulteriore spiegazione ai lettori ignari che si accostano a questo libro. Non sono un critico, come dicevo all’inizio, non sono un accademico, non sono neppure uno specialista, ma sono uno che i romanzi li scrive, che cioè vive “dall’interno” tutte le difficoltà e i pro- blemi tecnici legati alla realizzazione di un’opera letteraria. Sono un accanito lettore di romanzi che detesta non la complessità, ma l’inuti- le complicazione, la fumosità retorica. Aggiungo che a mio parere – e non solo al mio – la semplicità, in arte come nell’esercizio della critica, è la cosa più bella e più difficile da ottenere. Noterete che il difetto che metto più alla gogna dei romanzi e racconti che esamino è proprio la retorica. Certo, talvolta la lunghezza e la complessità hanno una ragio- ne poetica, ma credetemi sulla parola, assai raramente, il più delle vol- te servono a mascherare la carenza di rigore e di immaginazione e a intorbidare le acque. Mi piace la letteratura che non si veste, che si mostra per quello che è, nella sostanza per quello che ha da dire. Le mie recensioni, similmente alla letteratura che amo, sono “semplici”, accessibili a tutti, esperti e non esperti, laureati e non laureati. Fra i miei modelli di critica militante ci metto, oltre al già citato e ormai VIII classico Pasolini, Angelo Guglielmi (sebbene raramente il mio giudizio coincida con il suo) e Giulio Ferroni, e fra i “giovani” che leggo regolar- mente, Filippo La Porta, Massimo Onofri e Mario Barenghi. Magari ce ne saranno altri di bravissimi e a me non estranei (Perrella, Belpoliti, Tesio, Pent, Monina, Manica, Carnero…), che tuttavia non ho letto abbastanza per poter dichiarare una loro diretta influenza sul mio lavoro. Mi interessa anche il punto di vista di alcuni irregolari come Goffredo Fofi e Alfonso Berardinelli. Il primo requisito che ricerco in un critico è la libertà di giudizio, ovvero l’integrità morale, poi viene l’idea di letteratura che propone, infine ma non da ultimo la sua scrittura. Si dirà: ama quelli che parla- no bene di lui! Falso: Guglielmi, a parte Il branco, mi ha ripetutamente stroncato. Il discorso è con ogni evidenza più complesso. Va conside- rato che io il critico mi trovo ad osservarlo nella duplice prospettiva di collega e di narratore. Egli veste nel mio immaginario i panni di un padre o di un fratello più grande piuttosto che di un giudice. Deve dire delle cose utili allo scrittore, può essere magari severissimo, ma non solo distruttivo. Deve suggerire seppure implicitamente un cammino. Ecco perché, come padre, non può non essere ai miei occhi che di moralità specchiata, totalmente libero da condizionamenti esterni. Amo il realismo e non ne faccio certo mistero neppure in questi pezzi. Credo che il realismo in arte non morirà mai, anche se nel nostro paese ha sempre avuto vita difficile. “Un tratto distintivo della nostra letteratura continua infatti ad essere la difficoltà a inventare storie e personaggi. Storie nel senso più banale della parola: trame, vicende interessanti, avvincenti, in grado di catturare l’attenzione del lettore. E personaggi: caratteri ben definiti, riconoscibili, in grado di imprimersi nella memoria” ha scritto Mario Barenghi nell’introduzione al suo Oltre il Novecento (Marcos y Marcos). Uno scrittore che stimo – Antonio Debenedetti – mi ha confidato di vedere solo quei film che hanno almeno un 40 % di realismo. Ora, la percentuale può anche variare, ma il sistema di riferimento è il più affidabile che conosco. Tut- tavia, malgrado questa mia esplicita preferenza, credo di essere aper- to anche ad altre istanze espressive, purché oneste, non servili o di riporto. Ho detestato il romanzo pulp non perché distante dal realismo, ma perché complessivamente provinciale rispetto a fenomeni artistici d’oltreoceano che non ci appartengono per cultura e tradizione. La tradizione, appunto. Molti scrittori che ho maltrattato in questo libro manifestano nei loro romanzi un’ignoranza colpevole verso la nostra tradizione e un fanatico entusiasmo verso tutto ciò che è “stra- niero”, meglio ancora se americano. Qualcuno ha anche dichiarato con soddisfazione che non ha mai letto il nostro Novecento letterario, salvo Calvino e Gadda. Anche io ho gravi lacune in questo ambito, sono un autodidatta e ho dimenticato di leggere tante cose, ma lungi dal vantarmene, me ne vergogno assai. Credo, con Enzo Siciliano, che “uno scrittore per istinto sa che non può non muoversi dentro le linee IX culturali della tradizione cui appartiene, sia per adesione sia per il con- trario, anche quando si senta investito da suggestioni raccolte da lon- tano, da altre culture, da altre tradizioni” (Romanzo e destini, Theoria). E del resto non si può sfuggire a questa realtà, poiché “visti da lontano i nostri autori ci appaiono molto più familiarmente italiani di quanto loro stessi credano o temano” (Filippo La Porta, La nuova narrativa ita- liana, Bollati Boringhieri).
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