Il Discorso Straviato. Stefano D'arrigo E Il Romanzo Del Novecento Daria
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Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi 1 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi 2 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi Indice Introduzione Capitolo I. Il poeta ingrato I.1 Hölderlin 1942. Una tesi di laurea I.2 Il dibattito su Hölderlin negli anni della guerra I.3 Il «saettato d'Apollo» I.4 Percorsi hölderliniani in Codice I.4.1 La migrazione in Pregreca I.4.2 «Un segno siamo noi, indifferente» I.4.3 Amici occhi di svevi I.5 Semidei e reduci di guerra I.6 Il confine del dire Capitolo II. Horcynus Orca, una lingua a due voci II.1 D'Arrigo romanziere II.2 Storpiarsi in coda. La logica della paretimologia II.3 Parole calamitose II.3.1 Fraintendimenti e rimotivazioni II.3.2 Nomi parlanti (I) II.4 Paretimologia come processo cognitivo II.5 Il problema della «terza lingua» II.6 Discorso straviato e discorso serio 3 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi 4 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi Capitolo III. I teorici eccentrici III.1 Voci umane III.2 Il mondo delle femminote III.3 La guerra di Ciccina, «morte e scortesia» III.4 Pirri e il tema di 'Ndrja III.5 Il teatro di Cariddi III.6 Il mostro III.6.1 Un racconto mitologico III.6.2 L' “affare della balena” III.6.3 La dimensione del lutto Capitolo IV. Ulisse tra le anime morte IV.1 Un eroe muto IV.2 Ulissidi comici IV.3 La fase gogoliana: Il compratore di anime morte IV.3.1 Gogol' e il “poema” IV.3.2 Le anime morte secondo D'Arrigo IV.3.3 Una brička col sonaglio IV.3.4 Nomi parlanti (II) IV.4 Čičikov, Cirillo, 'Ndrja IV.5 Nomi e cognomi IV.6 Avvicinamenti Conclusioni Appendice Horcynus Orca e i suoi traduttori Elenco delle abbreviazioni Bibliografia 5 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi 6 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi Introduzione L'amicizia con Stefano D'Arrigo si è ormai conclusa da diversi anni quando, nel 1985, Renato Guttuso realizza per il soffitto del Teatro Vittorio Emanuele di Messina un dipinto dal titolo La leggenda di Colapesce. Le quarantatré tavole che lo compongono, ispirate alla nota fiaba siciliana, mostrano l'istante in cui Colapesce, per obbedienza verso il Re Federico o per un proprio desiderio di conoscenza, si tuffa nelle acque dello Stretto di Messina. Se l'abisso sia davvero senza fine, o se, come vuole la leggenda, sia abitato da feroci creature marine, solo Cola può rivelarlo: figura a metà tra il mondo umano e il mondo animale, egli ha infatti la capacità di nuotare rapidamente e rimanere sott'acqua per giorni interi. Esistono varie versioni della sua storia, la più famosa delle quali è probabilmente quella palermitana, trascritta da Italo Calvino nelle Fiabe Italiane, ma tutte concordano su un punto: dalla terza e più profonda delle sue immersioni Colapesce non riemerge più. 7 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi Il tuffo di Colapesce nel mare tra Scilla e Cariddi è dunque un tuffo nella morte, e Guttuso sembra alludervi con la scelta di sagomare la figura di Cola in modo tale da richiamare un'antica decorazione tombale, quella del Tuffatore di Paestum. «Da Cariddi a lì, il suo era un salto solo nella morte», scriveva qualche anno prima Stefano D'Arrigo, narrando la sorte di un pescespada che preannunciava la drammatica fine del marinaio 'Ndrja Cambria. Per Guttuso come per D'Arrigo, siciliani espatriati nella capitale, lo scenario dello Stretto è un luogo mitico e reale nello stesso tempo, passaggio inevitabile per chi emigra lasciando la propria terra d'origine, pericoloso braccio di mare per i naviganti, confine e frattura archetipica legata all'idea dello sprofondamento nell'inco- noscibile. È proprio sulle sponde rocciose di Scilla, dove lo scrittore e il pittore sono soliti trascorrere lunghi periodi di vacanza negli anni più intensi della loro amicizia, che nasce la prima idea dell'opera a cui D'Arrigo legherà il suo nome: il romanzo Horcynus Orca. Nel descrivere 'Ndrja, il protagonista di Horcynus Orca – figura appena tratteggiata nelle pur 1257 pagine che compongono il romanzo –, D'Arrigo gli attribuisce un connotato fisico tipico di Colapesce, ovvero quel «petto palombino», leggermente sporgente, che anche Guttuso non manca di ritrarre nel suo dipinto. «Ah, fossi Colapesce, col suo famoso petto a bombé di palombaro, con la sua grande capacità di lena. E fossi, fossi almeno mio figlio ‘Ndrja, con la grande capacità del suo petto palombino. Fossi io lui o fosse lui qua, come sarebbe di dovere, qua, al fianco di suo padre», lamenta Caitanello Cambria, padre del protagonista, rimasto solo nel villaggio di Cariddi nei lunghi di anni di guerra che hanno allontanato 'Ndrja dal paese natale. 'Ndrja Cambria è infatti un ex marinaio della flotta italiana, lasciata allo sbaraglio l'8 settembre del 1943 e in breve dispersasi lungo le infinite traiettorie dei soldati in fuga. Una di queste è appunto quella del viaggio a piedi di 'Ndrja, che, partito da una Napoli ridotta in macerie, il 4 ottobre 1943 giunge sulle sponde dello Stretto, dove di lì a poco si concluderà per sempre il suo viaggio. Il percorso di 'Ndrja attraverso l'Italia meridionale rivela progressivamente i tratti di una discesa agli inferi, costellata di incontri ora dolorosi, ora surreali, ora comici, con uomini sradicati e resi incapaci di agire da una guerra che, per la prima volta nella Storia, è stata violenta con i civili non meno che con i soldati al fronte. In questo scenario di devastazione e 8 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi forzata rinascita, 'Ndrja si scopre a sua volta come una creatura a metà, incapace di vivere al di fuori del proprio mondo originario ma incapace anche di rientrarvi come se questo non fosse stato mai toccato dall'esperienza della guerra. Quello di 'Ndrja è dunque anche un viaggio di conoscenza, che nell'attraversare lo spazio arcaico e mitico dello Stretto entra in una ferita altrettanto profonda e ancora aperta, quella della seconda guerra mondiale. Nonostante le evidenti affinità che Horcynus Orca, questa «ultima riscrittura novecentesca dell'Odissea»1, intrattiene con l'epopea omerica, 'Ndrja non è più un ulisside che aspiri a superare i limiti dell'umano: come Colapesce, più che come Ulisse, 'Ndrja compie un viaggio che non ha come meta l'“oltre”, quanto il «dentro, più dentro», come si legge nella celebre chiusa del romanzo. È un cambiamento di rotta che è spia di un sentimento diffuso tra gli autori del Novecento, se solo si pensa all'ulisside Bloom di Joyce o all'ottuso, “sordo” Ulisse protagonista di un racconto di Kafka: il personaggio simbolo della razionalità e della sete di conoscenza dell'Occidente arretra sempre più verso posizioni di retroguardia man mano che gli effetti distruttivi della tecnica e della disumanizzazione del sapere si rendono palesi agli occhi dei contemporanei. La morale individualistica ed eroica di cui è portatore risulta sempre meno convincente di fronte alla massa crescente di lutti e macerie che si lascia alle spalle; e la stessa prontezza dell'eroe all'azione inizia a ribaltarsi nel suo opposto comico: goffaggine, inconcludenza. È questa l'“atmosfera di genere” in cui anche il romanzo di D'Arrigo viene concepito e, per oltre vent'anni, scritto, corretto, tagliato e rimaneggiato. Quando Horcynus Orca viene pubblicato, nel 1975, lettori e critici intuiscono che si tratta di un'opera che aspira a dialogare con la grande letteratura europea, scavalcando gran parte del dibattito culturale che ha dominato in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta. Già Elio Vittorini, presentandone un'anticipazione sulle pagine del Menabò nel 1960, metteva in risalto come la valorizzazione della materia locale derivasse in D'Arrigo «da una ricca esperienza di cultura», e dedicava uno spazio significativo agli studi giovanili dello scrittore intorno a Friedrich 1 Alfano 2009, p. 100. 9 Il discorso straviato. Stefano D'Arrigo e il romanzo del Novecento – Daria Biagi Hölderlin. Dopo l'uscita del romanzo, è invece l'anglista Nemi D'Agostino a intraprendere le prime perlustrazioni dell'opera in chiave comparatistica, dalle quali emerge come le ragioni compositive di Horcynus Orca vadano cercate al di là del ventennio della sua composizione, nell'atmosfera letteraria dell'Occidente dopo le avanguardie storiche, quando negli animi più consapevoli è presente l'idea di una crisi dell'arte e della cultura avanzata dalle stesse avanguardie e ripresa fino ai nostri giorni dalle nuove avanguardie letterarie e politiche. Un'idea alla quale i maggiori artisti hanno reagito con un raddoppiato sforzo creativo e teorico, oppure lasciandosi attirare dall'idea della catastrofe. In Italia, gli echi di questi turbamenti arrivarono tardi, praticamente nel corso degli anni Cinquanta [...]2. Nonostante la lucidità con cui una parte della critica militante si accosta fin dall'inizio a D'Arrigo – il saggio di D'Agostino ne è un brillante esempio –, all'indomani dell'uscita di Horcynus prevale la logica bipolare in base alla quale si dividono il campo estimatori e detrattori, complice anche la campagna pubblicitaria di Mondadori che ha esacerbato gli animi prima ancora che l'opera giungesse nelle librerie. Il romanzo va dunque incontro a un destino doppiamente ingrato: da un lato nelle mani di chi ne magnifica la grandezza a fianco di classici come Proust o Musil – considerando evidentemente trascurabile il fatto che, non essendo mai stato tradotto integralmente in nessuna lingua straniera, Horcynus non può che rimanere patrimonio di pochi lettori; dall'altro di chi vuole leggerlo come un prodotto (tardivo, per giunta) della stagione dello sperimentalismo italiano, riconducendone forzatamente le caratteristiche entro dicotomie già ampiamente consolidate.