don Floriano Pellegrini Beretìn

Forni Avoltri: una comunità zoldana in dal 1328

Pubblicazione © del Libero Maso de I Coi Prima edizione giugno 2011 n. 19 della serie

1 INDICE .

La diocesi di Zuglio Carnico, p. 2 Dopo la soppressione della diocesi propria, il continuare dei rapporti, p. 3 Ancora nel 1328 e dopo le dedizioni, p. 5 L’investitura del 1328, p. 7 Traduzione dell’investitura, p. 8

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Il 6 giugno 1328 due intraprendenti tecnici della lavorazione del ferro, giunti dal- la lontana valle di Zoldo, agli estremi confini occidentali dell’antico municipio di Zuglio Carnico, si presentarono al patriarca di , allora nel castello di (sua re- sidenza carnica) ed ottennero l’investitura della conca di . La carnica Forni Avoltri è, pertanto, una comunità d’origine zoldana. Quei due zoldani, Nascimbene e Pietro, con tutta probabilità erano stati prece- dentemente contattati da emissari del Patriarca, alla ricerca di persone adatto al ripristino del forno per la fusione di ferro che il Patriarcato possedeva ad Avoltri e che, forse a se- guito di un’alluvione, era stato abbandonato. Se gli emissari del Patriarca erano giunti fi- no in Zoldo, sarebbe segno della buona fama che godevano i forni zoldani, i loro tecnici e le loro maestranze. Al Patriarca, signore politico e militare oltreché ecclesiastico, il for- no fusorio di Avoltri interessava soprattutto per motivi militari, poiché ne ricavava an- nualmente 1500 libbre di ferro per la cavalleria: aveva bisogno che riprendesse a funzio- nare!

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LA DIOCESI DI ZUGLIO CARNICO . Tra la valletta di Zoldo, quelle più ampie del Cadore e le dirupate della Carnia e- sistono legami antichissimi. Essi risalgono all’epoca romana, quando quest’area costitui- va un unico municipio, quello di Zuglio Carnico o, meglio, di Forum Julium Carnicum. Dopo l’avvento del cristianesimo ad Aquileia, gli Zugliocarnici ebbero in Forum Julium Carnicum oltre che il capoluogo civile, quello ecclesiastico, con la costituzione di una loro diocesi, suffraganea della Chiesa metropolitana di Aquileia, seconda città per importanza dell’Occidente e capoluogo della provincia romana di Venezia e Istria. 1 Quando avvenne ciò, con precisione, non lo si sa. «Non ci sono documenti anteriori al III secolo […]. Una sorta di legame affettivo tradizionale col Principe degli Apostoli, sbarcato ad Aquileja con San Marco, sarebbe [provato], dal III secolo, con la nascita del culto per San Pietro, che farà sorgere numerose cattedrali a lui dedicate, tra cui San Pie- tro di Carnia, San Pietro di Castello a Venezia e San Pietro di Salisburgo». 2

1 La prima menzione del titolo di patriarca si avrà soltanto in un documento del febbraio 559, che è una lettera di papa Pelagio I. 2 Così scrive (e qui è riassunto) Giovanni Canciani sul sito www.cjargne.it al link dedicato alla diocesi di Zuglio. 2 Secondo l’opinione più accreditata, primo vescovo sarebbe stato, nel 490, certo Januarius o Gennaio. 3 Al primo, che fosse o meno Januarius, dovrebbero essere seguiti altri sei vescovi: Acceptus,Theodorus, Asterius, Maxentius, Fidentius e Amator. 4 Sappiamo per certo che la cattedrale di Massenzio, del VI secolo, era la basilica cimiteriale di Zuglio e che, dopo la distruzione della cittadina, la cattedrale di San Pietro venne riedificata, nell’VIII secolo, sul monte, forse all’interno di una struttura fortificata. Sappiamo, altre- sì, che essa fu sede di Amatore, ultimo vescovo zuliocarnico. Egli, infatti (è doloroso so- lo il dirlo) nel 732 venne cacciato dalla sede, per azione violenta del patriarca Callisto. Amatore trovò riparo a Cividale, ma il patriarca nel 744 lo cacciò anche da lì. Da allora non si hanno più notizie di una Chiesa zugliocarnica; soppressa con atto d’imperio, ven- ne annessa a quella patriarcale, il suo territorio venne ridotto ad una prepositura, la sua cattedrale ad una chiesa collegiata (successivamente suffragata da un Capitolo di otto canonici). 5 Fa una dolorosa impressione questa soppressione di una Chiesa locale, da parte della sua Chiesa madre, che tale non fu; e, ciò, per rozzi motivi di supremazia poli- tica, senza nessuna avvertenza di natura pastorale, nei riguardi dei fedeli ad essa apparte- nenti!

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DOPO LA SOPPRESSIONE DELLA DIOCESI PROPRIA, IL CONTINUARE DEI RAPPORTI . Povera Carnia, povero Cadore, povero Zoldo: la loro antica unione non avrebbe più mostrato il suo volto luminoso sotto il sole! Le tre comunità avrebbero preso strade diverse! Ancora una volta i «grandi» della politica avrebbero diviso e non unito le comu- nità ad essi affidate, facendone brandelli più o meno grandi, peggio dei soldati assassini di Cristo, che, mentre egli innocente dava gli ultimi strazianti sospiri, non si curavano d’altro che d’occupare le ore del servizio militare d’un pomeriggio qualsiasi, giocando a dadi, e di ricavarne un qualche beneficio materiale distribuendosi le vesti e tirando a sor- te a chi di loro fosse toccata la bella tunica del Figlio di Dio! Voglia Dio che questa unità possa ricostituirsi! 6

3 Così scrive (e qui è riassunto) Pieri Pinçan , riprendendo il libretto «La diocesi di Zuglio» (da p. 12), sul sito www.cjargne.it ; egli osserva che il prof. Nazzi, nel suo «Dizionario Biografico Friu- lano», parla di un Januarius vescovo però di Aquileia, dal 441 al 449. 4 E’ quanto afferma il prof. mons. Franco Quai nel suo «La sede episcopale del Forum Julium Carnicum ». 5 Il Capitolo venne soppresso solo nel 1810, ad opera del governo napoleonico; quindi da un’autorità civile e militare d’occupazione, non dall’ente ecclesiastico superiore. Commenta il Canciani: «Sarebbe tempo che San Pietro post cinerem resurgat, magari a piccoli passi, incomincian- do a ricostituire quel piccolo senato del Capitolo di otto canonici, che potrebbe forse fermare l’attuale deriva religiosa e morale della Carnia». Condivido caldamente il suo auspicio. 6 Nel 1964 la Santa Sede ha ripristinato, quale sede titolare (cioè solo nominale, non reale e resi- denziale) la diocesi di Zuglio Carnico. Tale iniziativa rappresenta un fatto spiacevole e, per quan- to attiene alla cura d’anime, che sempre deve (o, meglio, dovrebbe essere) la suprema lex , una contro-testimonianza. Infatti, come tutte le formalità, ha il solo scopo di creare un’apparenza, nel nostro caso di cura d’anime, ma non l’effettiva cura d’anime indicata. Formalità di tal fatta, sempre disdicevoli, lo sono ancor più nella Chiesa! Ricordo che anche il Patriarcato di Aquleia venne soppresso, per motivi politici, nel 1751 e che a nulla giovò allora la nobile lettera del pa- triarca Daniele Delfino. Ricordo che tutto l’arcidiaconato di Cadore venne infine staccato dall’arcidiocesi di e unito alla diocesi di Belluno nel 1846 per compromesso tra 3 Sarebbe lungo presentare le vicende delle tre Comunità (Cadore, Carnia e Zoldo) dal 744 in poi, né lo credo qui necessario. Basti l’accenno ad alcuni fatti che, pur macro- scopici, sono stati completamente e colpevolmente ignorati dalla storiografia ufficiale e che è nell’interesse di tutti conoscere, amare e, anche istituzionalmente, valorizzare: I) E’ certo, in base alla Bolla di papa Lucio III del 1185, che allora Zoldo era una pieve della diocesi (nel testo papale è scritto ancora «parrocchia», sinonimo di dioce- si) di Belluno, e pieve dedicata a San Floriano di Lorch. Ebbene, è stato notato che, nell’arco delle Alpi, a San Floriano, ufficiale romano di servizio nel Norico (attuale Au- stria) e martire, sono dedicate tre pievi storicamente collegate: quella di Illegio (ora in comune di Tolmezzo), quella di Zoldo, e quella d’Oltrechiusa di Cadore (poi inglobata nella pieve di San Vito), alla quale affluivano, oltre che dai paesi ora del comune di San Vito, le primissime popolazioni di e della Val Fiorentina. Risulta dai docu- menti che la pieve di Zoldo comprendeva, oltre al proprio «contado» (così nella citata Bolla), quello di Lavazzo (da Castello a Fortogna inclusi). – Si tratta di un dato storico di primaria importanza, quando solo si consideri che, in tal modo, San Floriano risulta es- sere stato il patronus (un militare) del territorio di confine, su ogni lato, del municipio romano di Zuglio Carnico e delle sue popolazioni, i Carni, i Cadorini e gli Zoldani. – L’esistenza nel 1185 della pieve florianea di Zoldo, porta inoltre con sé il vantaggio di una datazione della chiesa omonima di Oltrechiusa, dove recentemente, per grande me- rito delle Regole, si è provveduto al recupero dei preziosi resti della chiesa di San Floria- no; è pressoché certo, infatti, che la chiesa di Zoldo venne fondata da persone dei paesi cadorini d’Oltrechiusa e, dunque, la chiesa cadorina non può essere che antecedente. II) Lo storico Giorgio Piloni ricordava, nel 1607, che Zoldo deriva il nome da quello della Carnia e che in antico era un castello, poi conquistato dai Bellunesi: «…Zaurnia Castello da loro [=i Norici, non i Bellunesi] edificato, qual si chiama hora Zaudo». 7 III) La pieve di Zoldo conserva alcune tracce materiali, che, per quanto minu- scole, sono preziosissime, non fosse altro che per la loro antichità, nel parlarci del colle- gamento con la Chiesa madre (in greco «metropoli») di Antiochia, il Cadore e Zuglio Carnico. Prima di queste tracce credo debba essere considerato il frammento che si nota sul lato sinistro del portale principale della pieve, tra le pietre del livello più basso: ne compare una, purtroppo mutila, con un motivo ornamentale (un semiarco e una specie di uccello o galletto) che richiama molto da vicino i plutei di Aquileia e le incisioni alla base del trono del patriarca Poppone (1019-1042); tale prezioso frammento ben si spiega con il fatto che l’attuale chiesa di San Floriano venne edificata, a partire dal 1300, con i materiali della precedente, del 1113, e che il Piloni (1607) ricorda essere stata un «tempio sontuoso»; il frammento notato è uno, ma è evidente che nelle mura e sotto gli intonaci ce ne sono altri (un lavoro di ricognizione, se anche possibile, non è mai stato fatto). IV) Seconda traccia dobbiamo considerare la singolare copia di pesci guizzanti, in legno, mal adattati alle ultime sistemazioni del coro pievanale. Posti sopra il seggio del pievano, tali pesci richiamano, secondo l’antica simbologia, il munus apostolico quale ori- ginariamente venne descritto da Gesù: «Vi farò pescatori di uomini». Siamo abituati a parlare di sacerdoti (preti e vescovi) quali pastori ed è giusto, ma l’immagine antica del l’Imperatore d’Austria e il papa bellunese Gregorio XVI (Mauro Capellari, di famiglia originaria – guarda un po’! – della carnica Pesariis, per nascita suddito del Lombardo-Veneto, cioè dell’Impero). Insomma, verrebbe da dire, «a che gioco giochiamo»? Confido nell’opera consape- vole dei vescovi del Triveneto, per il ripristino effettivo dell’antica diocesi, nel rispetto del suo territorio di competenza. 7 PILONI Georgio, Historia; Belluno, Tip. Sommavilla, 1929; ristampa dell’originale del 1607; p. 8. 4 ministero era quella della pesca e in Zoldo ne abbiamo ancora una testimonianza, tanto più preziosa quanto rara; e ad Aquileia la tomba del grande patriarca Poppone è inserita in un mosaico con scene di pesca. V) Un raffronto tra il portale di Zoldo e quelli delle chiese di Carnia metterebbe in evidenzia vicendevoli richiami. Interessante, ad esempio, il confronto tra la facciata del duomo di Gemona e quella della pieve di Zoldo, pur nell’evidente maggior sobrietà d’impianto di quest’ultima. Entrambe le facciate sono strutturate secondo due piani, uno superiore e uno inferiore. Lì ad una balaustrata di figure sacre, in scultura, è sovrapposto un rosone a duplice apertura di raggi; qui ad un rosone più sobrio (ma piuttosto curato nel traforo) si sovrappone in affresco l’immagine della Beata Vergine, ora quasi comple- tamente sbiadita. A Gemona sul lato destro della facciata è inserita la statua di un gigan- tesco San Cristoforo, in Zoldo tale figura appare in affresco sul lato sinistro. Molto simi- li sono soprattutto i due portali, come tali, entrambi strutturati secondo quattro ordini di archi convergenti al centro. 8 VI) Sulla lunetta del portale principale della pieve di Zoldo compare la scritta «yhs xps», cioè «Jhesus Christos», nientemeno che in greco, da collegare presumibilmen- te alla data 1487 e alla lettera D sottostanti, tradizionalmente considerati quali data di consacrazione della seconda chiesa di san Floriano (dopo ben 187 dall’inizio?). 9

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ANCORA NEL 1328 E DOPO LE DEDIZIONI . Evidenziati alcuni elementi di storia antica, di strutturazione del culto e materiali, che appaiono prove inconfutabili (come dicevo) del costante collegamento tra le comu- nità zugliocarniche, e tornando all’investitura del 1328 su Avoltri, è finalmente possibile dedurre che essa si inseriva in un contesto di secolari rapporti intervallivi. Agli Zoldani, purché si fossero trasferiti, il Patriarca fece le offerte più vantag- giose ed essi accettarono. Si sentivano Zugliocarnici e sostenevano il loro signore, il Pa- triarca: non ricusarono di sostenerlo nelle sue necessità militari, volte alla difesa del Pa- triarcato, soprattutto dalle pretese dei Veneti o Veneziani. In quegli anni, mai Carni, Ca- dorini o Zoldani si sarebbero definiti Veneti, membri dell’area politica della Repubblica di Venezia. E’ facile immaginare che, dopo il trasferimento in Avoltri, gli Zoldani abbia- no continuato a sentirsi parte della comunità di valle e, nel contempo, della più vasta comunità di Zuglio, della quale si saranno sentiti anche prima, al di là delle divisioni poli- tiche ed ecclesiastiche già attuate, membri e parte.

8 Seguendo acriticamente l’opinione tradizionale, avvallata nel 1838 dal Catullo («Il tufo dell’Arzé, circa trenta passi sopra il livello attuale del torrente Mareson, fu scavato nel secolo de- cimoquinto per adoperarlo nella costruzione della parrocchiale di Zoldo, e serve anche oggi co- me pietra di fabbrica»), nel 1987 l’Alpago Novello riteneva la pietra del portale il tufo. In un re- cente sopralluogo un perito minerario ha evidenziato come, almeno per quanto riguarda gli archi del portale principale, si tratta invece di travertino, il che apre il dibattito sul come questo tipo di pietra sia potuto giungere in Zoldo e in epoche tanto lontane. 9 Recentemente ho segnalato come al centro della lunetta compare la traccia di una croce, che in antico vi era stata posta e che, per alcuni aspetti, sembrerebbe essere (o, meglio, potrebbe essere) una croce dei Cavalieri di Malta. Che significa? La croce probabilmente era in ferro o altro me- tallo e venne staccata, chissà quando e da chi e per qual motivo, in una maniera abbastanza bru- sca, tanto che alla base la pietra ne è stata leggermente rovinata. 5 Tanto più che è abbondantemente provato l’assunto in linea contraria: nei ri- guardi di Belluno gli Zoldani furono sempre in un atteggiamento critico e apertamente conflittuale, che sarebbe culminato nel 1508 con il clamoroso e formale distacco da Bel- luno e l’inserimento (formalizzato) nella Magnifica Comunità di Cadore, durato poi circa nove anni; distacco fatto rientrare solo per la diretta volontà della Serenissima, in questo caso del tutto riprovevole. Gli Zoldani non accettavano l’appartenenza politica ed eccle- siastica alla città di Belluno (al suo vescovo e conte, prima, e poi a quel Consiglio dei nobili), 10 di cui facevano (e fanno) parte obtorto collo, cioè per il fatto, materiale e brutale, che non hanno (oggi come oggi) la forza sufficiente per scuotere dal proprio collo tale odioso giogo e riunirsi in comunità con i fratelli zugliocarnici! E’ pertanto da ritenere che gli Zoldani trasferiti nel 1328 in Avoltri di Carnia ab- biano desiderato mandare ogni tanto qualche contributo, oltre che ai familiari rimasti in valle, alla loro antica parrocchia di San Floriano. E che questo desiderio non sia venuto meno nel 1404, quando la Cividal di Belluno (e, con essa, il capitaniato di Zoldo) fece la sua dedizione alla Serenissima, 11 né sia cessato nel 1420, quando il Cadore fece un’analoga dedizione. 12 Le dedizioni del 1404 e 1420 costituirono certamente, nella storia del Cadore e di Zoldo, una svolta politica e culturale verso l’area veneta e veneziana, con tutto ciò essa comportava; ma non sarebbe stata in grado di cancellare la coscienza dell’identità comu- ne e originaria.

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10 MONEGO Pietro, In Val di Zoldo nel Medioevo, Zoldo Alto, Centro culturale «Amicizia e Li- bertà», 1999, pp. 41-50 (cioè l’intero capitolo VI) ricorda vari fatti ed esempi di ribellione, fin dai primi tempi di soggezione, per altro confermati anche nei secoli successivi, come mostra l’intera pubblicazione. 11 PELLEGRINI Floriano e MONEGO Pietro, Le Regole di Zoldo e le investiture della Serenissima; Centro culturale «Amicizia e Libertà», 2003, p. 5 e ss. dà una dettagliata spiegazione del senso re- ale del termine «dedizione», quale accettazione condizionata di una resa imposta. 12 COFFEN MARCOLIN Antonio, La legislazione e l’ordinamento civile del Cadore; Belluno, Tip. Piave, 1973, p. 17, spiega che Il 5 luglio di quell’anno il doge Tomaso Mocenigo invitò la Comu- nità di Cadore ad unirsi alla Repubblica di San Marco. Da prima «la richiesta ebbe un netto rifiu- to perché i Cadorini, sempre fedeli alla parola data, si ritenevano ancora vincolati al patriarcato, con il giuramento fatto a suo tempo» e risposero che «solamente se sciolti da tale giuramento a- vrebbero assecondato i desideri della Repubblica. Liberati da questo, il doge Tomaso Mocenigo – tramite l’ambasciata dei Signori Nicolò Palatini Notaio di Pieve, Antonio Barnabò di Vallesel- la, Antonio da Venas Notaio, Bartolomeo da Salla – accolse il Cadore con il seguente ricono- scimento: “Noi umilmente alle preghiere, e supplicazioni di detta Communità inclinati, ricevia- mo, et accettiamo, et abbiamo ricevuto, et accettato la detta Communità, luogo, paese e distretto di Cadore, con le sue ragioni, giurisdizioni, e pertinenze, sotto la potestà, protezione, obbedien- za, e governo del nostro dominio”». Sarebbe interessante verificare se il Palatini è un antenato del notaio Matteo Palatini, sempre di Pieve, che nel 1508 fu intrepido difensore del Cadore con- tro gli Imperiali, assieme a Conte [di nome] Vecellio, nonno di Tiziano, ed era il proprietario del maso di Zoppè. 6 L’ INVESTITURA DEL 1328. 13

Die VI. Mensis Junii. In castro Tulmetii. Presentibus testibus Magistro Condeo de Calio Medico, D. Zonfredino de Oppreno Rectore Ecclesie S. Michelis de Oppreno vicedo- mino, Gubertino de Novate notario, et Aymerico de Laturre Domicello infrascripti D. Patriarche, Raymundo de Paona, et aliis. Ven. pater D. Paganus Dei gratia S. Sedis A- quil. Patriarcha, volens sui Patriarchatus utilitatem procurare, suo, et ipsius Patriarchatus nomine concessit perpetuo Naximbeno, dicto Guercio de Scarfedara, et Petro q. ser Vallantini de eodem loco presentibus, et pro se, et pro D. Petro Fauri 14 de Fusina, Jo- hanne de Ayrale, ser Ottobono dicto Monacho de Ayrale, Spinello de la Fusina, et Go- cello eius fratre, et Nicolao de Scarfedara, ac sociis suis, a quibus dictus Petrus habebat super hoc speciale, et plenum mandatum, sicut apparebat per publicum Instrumentum factum manu Silvestri [f.] ser Bennaxuti 15 de Lefusina, imperiali auctoritate Notarii, an- no et indictione presentibus, die tertio intrante madio, ut ipsi socii superius nominati pro se, et suis heredibus, et aliis quos sibi associare voluerint, possint, et valeant facere unum furnum ad ferrum faciendum, et laborandum cum fusinis una, aut pluribus necessariis ad ipsum furnum super terram ipsius D. Patriarche, et Ecclesie Aquil. In Carnia, in con- trata Avoltri, ubi fuit antiquitus. Et quod possint reparare domos existentes, et alias ne- cessarias pro habitatione ipsorum et familiarum suarum infra sceptam, 16 sive terminos assignandos eis per predictum Raymondum de Paona, et alios destinandos ad ipsum lo- cum ex parte ipsius D. Patriarche: nec non unum, aut plura molendina construere ipsum

13 Il documento è stato fatto conoscere da: MONEGO Pietro, op. cit., pp. 172-173, con la tradu- zione (qui rielaborata) di pp. 173-174, che informa: «Il documento è stato trascritto, dall’originale sito presso l’Archivio notarile di Udine, dall’abate Giuseppe Bianchi, prefetto del Ginnasio comunale di Udine, e riportato in una sua opera dal titolo «Documenti per la storia del », pubblicata in Udine dalla Nuova Tipografia di Onofrio Turchetto, nel 1844-45, alle pp. 200-203, come doc. n. 511 del secondo volume». Per quanto trascritto oltre 150 anni fa, il doc. nella storiografia locale era sconosciuto. 14 La traduzione del Bianchi, ripetuta da Monego, è «Lauri», che risulta assai strana per l’onomastica locale di quel tempo; ritengo si tratti dell’errata lettura di fauri, nel senso di «fabbro» (al genitivo nel testo), che risolve d’un colpo ogni interrogativo e corrisponde perfettamente al contesto. Mi sembra errata l’ipotesi (MONEGO, op. cit., p. 115) che il detto Pietro Lauri fosse un sacerdote (congetturata, alla fin fine dal rapporto tra la «D.» e quel misterioso cognome; si sa- rebbe trattato, cioè, di un sacerdote assoldato dai ferratari e fatto venire da chissà dove). Possibi- le ipotizzare, piuttosto, che il Fabbro possa essere inteso quale cognome, analogamente a quanto successo, proprio in quegli anni, nei paesi cadorini contermini, dove abbiamo i cognomi Fabbro, Fauro, Del Favero. Per la toponomastica, nella zona sovrastante la fucina de La Fusina (ora Fu- sine, al plurale), superati i masi di Pianaz e Mareson, c’è la pala Favera ossia dei fauri, il pendio boscoso ai piedi del Pelmo, rientrante nella più vasta area dello Staulanza, le cui piante d’alto fu- sto con tutta probabilità erano vincolate o vizzate a pro dei fabbri (un caso analogo è documenta- to nella parte bassa della valle, con i boschi del Fagarè e del Bosconero). 15 A Fusine c’è un notaio, segno che la comunità d’area (non tanto di Fusine come tale) era ab- bastanza numerosa e attiva, dal punto di vista contrattuale e commerciale. Così come scritto, cioè senza l’indicazione «q.», il notaio Silvestro risulta figlio del Bennato ancora vivente e, quindi, con un possibile «f.» sottinteso, nel senso di « filii, figlio di». Il notaio Silvestro compare anche in un documento del 1349, mentre il Bennato compare nella sentenza del 1331, quale padre (viven- te e col titolo di Signore) di Nicolò, uno dei due rappresentanti «omnium hominum et personarum de furnoris fusoriis de plebatu Çaudi», in lite con i masieri o abitanti dei masi. 16 Sceptam, tempesta, così è tradotto dal Monego; ma non sono convinto sia giusto, in quanto ve- do la frase così composta: «…infra sceptam, sive terminos…», il che mi fa pensare che ci sia una cat- tiva lettura del termine, che non so individuare nella forma corretta. 7 locum per blado necessario molendo, in aqua que ibidem labitur, et reparare antiquum, et piscare in ipsa aqua, et cum eorum bestiis in Contrata libere pascolare. Ligna quoque necessaria eis pro huiusmodi edificiis, et pro fusinis, ac furno predictis, et usu eorum et familiarum suarum incidere, et habere de Gualdo Luze, et alibi ubicumque a Ponte tre- mulo sursum versus Sapadam, usque in summo Cleve, et de summis montibus usque ad aquam Decani; ita quod predicti, et eorum heredes, et quibus dederint predicta omnia cum omnibus tectis et edificiis, sive domibus ibi existentibus, et de novo edificandis perpetuo habeant, teneant et possideant, eisque utantur, et fruantur 17 ad eorum liberam voluntatem, cum omni jure fodendi, huiusmodi ferrum faciendi, et laborandi, et cum aquis, et aquarum ductibus, piscariis, pascuis, et aliis superius nominatis, et cum omni usu, actione et requisitione, sine contradictione cujuscumque persone. Ita tamen quod ipsi, et famile ipsorurm subjecti sint ipsi D. Patriarche, et Gastaldie sue de Carnia, sicut alii in eadem Gastaldia habitantes. Promittentes idem D. Patriarcha per se, et suos suc- cessores eisdem Naximbeni, et Petro, pro se, et aliis superius nominatis, et eorum here- dibus, ac pro hiis quibus darent, predicta omnia concessa perpetuo eis difendere, man- tenere, et disbrigare ab omni persona, Collegio, et universitate suis sumptibus et expen- sis, et super eis litem, vel controversiam nullo umquam tempore inferre, aut inferrenti consentire, nec facere de ipsis alici concessionem aliquam in prejudicium eorundem, dummodo sibi et suis Successoribus obedientes sint, et solvant fictum inferius denota- tum; videlicet solidos quinquaginta Venetorum grossorum, et libras mille quingentas fer- ri pro equis ipsius D. Patriarche annuatim in festo S. Martini, et pro quolibet Molendino libram unam piperis. Et non teneantur solvere Mutam de victualibus quos ement, vel ducent pro usu eorum familiarium. De ferro autem teneantur solvere consuetum. Quod quidam fictum idem Naximbenus, et Petrus pro se, et suprascriptis, et eorum heredibus annuatim in perpetuum solvere promiserunt eidem D. Patriarche, et suis Successoribus in predominato festo S. Martini, cum omnibus damnis, expensis, et interesse faciendis, et substinendis a termino in antea pro eo petendo et exigendo, sive eius occasione, obli- gantes inde pignori ipsi D. Patriarche omnia bona sua, et omnium predictorum habita, et habenda. Unde idem D. Patriarcha suo, et successorum suorum, ac ecclesie sue predicte nomine, prefatos Naximbenum, et Petrum eorum, et predictorum nominibus de predic- tis omnibus presentialiter cum uno capucio investivit. Reservato tamen sibi, et suis suc- cessoribus jure concedendi aliis ut facere possint furnos et fusinas in dicto loco, sive Contrata, non tamen intra fines assignatos predictis, vel tam prope, quod eis posset dampnum vel gravamen inferre. Concedens predictis pro nuntio ad ponendum eos in possessionem predictorum omnium que concessit eis, Raimundum de Paona superius nominatum.

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TRADUZIONE DELL ’INVESTITURA .

Il 6 giugno [1328], nel castello di Tolmezzo, alla presenza dei testimoni mistro 18 Condeo da Calio, medico, del Signor Zonfredino da Oppreno, rettore della chiesa di San Miche-

17 In dialetto c’è ancora fruare, nel senso di consumare, per uso prolungato. 18 Nella traduzione ho reso il magister con mistro e il ser con messer, rispettando in ciò il modo di parlare consuetudinario. 8 le, vicario, di Gubertino da Novate, notaio, e di Aimerico della Torre domicello 19 del sot- toscritto Signor Patriarca, di Raimondo da Paona, e di altri. Il venerabile padre, il Signor Pagano, per grazia di Dio Patriarca della Santa Sede Aquileiese, volendo curare l’interesse del suo Patriarcato, concesse in perpetuo, a nome suo e del medesimo Pa- triarcato, a Nascimbene detto Guercio da Scarfedara e a Pietro del fu messer Valentino, dello stesso luogo, presenti, e a loro beneficio, e a beneficio del Signor Pietro fabbro da Fusine, 20 di Giovanni da Iral, 21 di messer Ottobono 22 detto Monego 23 da Iral, di Spinello

19 Nel senso riduttivo di domestico o in quello più vasto di amministratore dei beni della casa, personali, del patriarca. 20 Alla lettera è al singolare, ma preferisco usare il toponimo corrente, al plurale. 21 Non è definito né maso né villa, o villaggio, quindi, come per il precedente Fusina, si tratta di un toponimo di semplice località, ove, da un po’ di tempo, i lavoranti del ferro avevano posto le loro abitazioni. La località rispondeva alle esigenze lavorative di preparazione della legna per il forno di Scarfedara, meno di un chilometro più a valle e soprattutto (poiché per il forno era più comodo il bosco sul lato destro del Maè) di fabbricazione del carbone per l’officina di Fusine. «Iral», dal latino arealis, in dialetto aiàl, ricorda infatti l’area istituita per questa seconda attività, la costruzione dei carbonili e i carbonili stessi (in dialetto aiàl da carbon ). E’ probabile che allora la zona fosse ricoperta dai faggi (in dialetto anche al femminile, faghère ) molto più di adesso, perché il loro legno è più adatto a conservare viva la brace, e quindi più utile di quello dei larici e abeti, ai lavori dei febbri. Sulla data di colonizzazione dell’area di Iral, osservo che (in base alla Bolla di papa Lucio III) nel 1185 esistevano in Zoldo, oltre alla pieve, delle altre cappelle, il che significa almeno altre due. E’ ben difficile non riconoscere tra queste «almeno altre due» quella di San Ni- colò di Fusine (documentata indirettamente nel 1331). Ebbene, se nella parte alta della valle fos- se esistito solo il «vico Marasono» (documentato il 5 marzo 1190, che comprendeva almeno i due masi di cui si parla), la chiesa di San Nicolò sarebbe stata fatta più a nord, più vicino al vil- laggio di Mareson, se non proprio al suo interno; se è (come è) più a sud, significa che la chiesa doveva servire anche ad altri masi o, comunque, ad altre famiglie stanziate più a sud. In definiti- va, mi sembra sostenibile l’affermazione che nella valle del Rù Torbol fin da subito dopo il 1177 siano stati costituiti degli abitati, che gradatamente si sarebbero evoluti in masi e poi villaggi, e che tra le località prescelte per i primi stanziamenti delle manovalanze dei ferratari vi siano state quelle (quantomeno) di Iral (che do per assodata) e Brusadaz. Ciò significherebbe pure che quel- la della cappella di San Nicolò fu una delle prime strutture in cui si riconobbero congiuntamente gli abitanti dei masi di Mareson ed i ferratari della valle del Rù Torto, poiché avrebbero dovuto edificarla (a comune vantaggio) tra il 1177 ed il 1185, e nel 1185 avrebbe dovuto essere conclusa e funzionante; il che (otto anni) sembra, pur con tutta la buona volontà, non realistico e induce ad una diversa conclusione non tanto sulla data di colonizzazione della valle del Rù Torbol, ma sui soggetti di tale colonizzazione, da identificare anch’essi in masieri, più che nei ferratari di quegli ultimissimi anni. Masieri che vedrei bene costituire uno o due masi nell’intera area da Col (compreso, indubbiamente, viste anche le vicissitudini successive) a Iral e Rutorbol, pure com- presi, almeno come aree territoriali, in una specie di comprensorio de facto, tra essi, che si sareb- be progressivamente evoluto e inquadrato nella Regola Grande dai Coi. 22 Nome composto da Otto e Bono, diminutivo di «buono», come il più diffuso Pierobon (anco- ra presente come cognome a Cadola di Ponte nelle Alpi), derivante da Pietro e Bono, «Pietro il buono». Il nome Otto è di chiara origine germanica. Una presenza germanofona appare in Zol- do anche presso i forni della parte più bassa della valle: un Hotone e un Raino nel 1203 (un Rai- jno nel 1306, un Raijno fu Otomano di Palù di Zoldo [forse il precedente] nel 1311), un Otolino nel 1216, un «Bertollo filio q. Hendrici qui fuit de Zaudo» nel 1302. E’ evidente che questa presenza fece immediato seguito alla scoperta delle miniere del Fursil, nel territorio tirolese di confine e ora comune di Colle S. Lucia, nel 1177. Da lì giungevano maestranze e tecnici della lavorazione del ferro, che vi veniva trasportato, per lo più a dorso di asini e muli, in sacconi. Se, pertanto, le testimonianze documentali dell’esistenza di forni (vescovili) in Zoldo risalgono al sec. XIV, da questa presenza onomastica stabile abbiamo prova che essi (forni) erano stati edificati già nel se- colo precedente, cioè, appunto, non molti decenni (e forse neppure molti anni) dopo il 1177. Del resto nel 1281 è documentato il forno e persino il toponimo di Forno di Zoldo. La presenza 9 da Fusine, e di suo fratello Gocello, e di Nicolò da Scarfedara, e dei loro consorti, dai quali il detto Pietro aveva ricevuto, per quest’effetto, specifica e completa procura, come appare dall’atto pubblico fatto per mano di Silvestro di messer Bennato da Fusine, no- taio di pubblica autorità, dell’anno e indizione presenti, del giorno 3 dello scorso mag- gio, affinché i consorti stessi sopra nominati per se, e i loro eredi, e gli altri che a loro si vorranno unire, possano, e abbiano facoltà di edificare un forno per fare e lavorare il ferro, con una o più officine necessarie al medesimo forno, nel territorio di Carnia dello stesso Signor patriarca e della Chiesa Aquileiese, nella contrada di Avoltri, dove [il for- no] sorgeva per il passato. E che possano restaurare le abitazioni esistenti, e le altre ne- cessarie per abitazione tra … [?], ossia i confini che verranno fissati loro ad opera del detto Raimondo da Paona, e gli altri che verranno indicati da parte del medesimo Signor Patriarca; e [il Patriarca concesse loro il potere di] edificare uno o più mulini, per maci- nare il grano necessario, sul torrente che là scorre, e riparare quello vecchio, e pescare nello stesso torrente, e andare al pascolo liberamente con i loro animali nella Contrada. Inoltre [concesse loro] di tagliare i legnami necessari loro per qualsiasi edificio, e per le officine e il forno predetti, come per uso loro e delle loro famiglie, e di disporre del Bo- sco di Luze, e di ogni altro dal Ponte Tremulo su verso Sappada, fino in cima al Clevo, e dalle cime montane fino al torrente Degano, in modo che i predetti e i loro eredi, e colo- ro ai quali avranno concesso, tutti i beni predetti, con tutti i fabbricati e gli edifici o abi- tazioni colà esistenti e che saranno nuovamente edificati, per sempre abbiano, disponga- no e posseggano, e da essi siano usati e adoperati a loro libero piacimento, con ogni di- ritto di fondere e parimenti colare e lavorare il ferro, e con [quelli relativi] ai corsi d’acqua, e alle condotte d’acqua, ai diritti di pesca e di pascolo, e gli altri sopra nominati, e con [quelli relativi] ad ogni tipo d’uso, impiego e utilizzazione, senza ostacolo da parte di qualsisia persona. A condizione però che gli stessi, e le loro famiglie siano soggetti al medesimo Signor Patriarca, e al suo Gastaldo di Carnia, come gli altri abitanti in essa Gastaldia. Promettendo inoltre il Signor Patriarca, per sé ed i suoi successori, ai mede- simi Nascimbene e Pietro, a beneficio loro e degli altri sopra nominati, e dei loro eredi, e a beneficio di quelli coi quali facessero parte, di difendere e conservare tutti i beni pre- detti e a loro per sempre concessi e di tutelarli da ogni persona, società o comunità a propri denari e spese, e in alcun tempo far discussione o lite a loro riguardo, né appog- giare che la tentasse, né fare di essi beni concessione ad altri a loro discapito, purché re- tirolese sarebbe divenuta sempre più forte e significativa, in parallela crescita col numero di abi- tanti dei masi, i cui titolari erano certamente giunti in valle almeno un 200 anni prima, dal mo- mento che la prima chiesa è databile (stando al Piloni, 1607, confermato da qualche rinvenimen- to archeologico) al 1113, quale chiesa rientrante nell’area cadorino/carnica; in ogni caso prima di qualsiasi inizio di interesse metallurgico. 23 Il che significa che è il capostipite (poiché per lui è ancora un soprannome) delle famiglie con questo cognome, successivamente trasferite da Iral a Fusine. Il soprannome mi sembra interes- sante in quanto conferma l’esistenza della chiesa di San Nicolò, di cui messer Ottobono faceva da sagrestano o mónech, mónego. Trattandosi poi, qui, di fabbro o, comunque, persona dedita alle atti- vità collegate con la lavorazione del ferro (un carbonaio, ad esempio), mi sembra un segnale po- sitivo dell’essersi inserita a pieno titolo, nella società masale dell’area, la componente germano- fona dei ferratari, con l’assunzione di un incarico allora socialmente rilevante. Resta pure con- fermato che gli abitanti della valle del Rù Torbol non avevano quella condizione di marginalità che si è andata concretizzando nel Novecento, ma uno status paritetico a quello degli abitanti del fondovalle, ossia dell’alta valle del Maè. Le cose, forse, risulterebbero sotto un’ulteriore luce di integrazione vicendevole, se si potesse dimostrare che tra i masieri ed i ferratari vi era, al di là degli interessi di categoria, un intreccio parentale, con l’interscambio di persone, a livello profes- sionale. Vari elementi inducono a pensare a ciò. Uno di essi è il richiamarsi dei nomi propri; nel 1328 abbiamo, ad esempio, un Nascimbene ferratario e alla stessa epoca nel maso di Pianaz ci sono nome e toponimo Nascimben; nel 1328 c’è un Valentino, pure ferratario, ma il Valentino è tipico di Mareson (da prima sede di masi), che a San Valentino dedicherà più tardi la sua chiesa. 10 stino fedeli a lui e ai suoi Successori, e versino la quota d’affitto qui di seguito indicata, ossia annualmente, per la festa di San Martino, cinquanta soldi di grossi Veneti, e 1500 libbre di ferro per la cavalleria del medesimo Signor Patriarca, e una libbra di pepe per ogni mulino. E non siano obbligati a pagare il dazio degli alimenti che compreranno o condurranno per uso delle loro famiglie. Ma del ferro [esportato] siano tenuti versare il dazio tradizionale. 24 Il qual preciso fitto i medesimi Nascimbene e Pietro promisero a nome loro e dei soprascritti e dei loro eredi di pagare sempre, di anno in anno, al detto Signor Patriarca e ai suoi Successori nell’indicata festa di San Martino, con tutti i sopra- canoni, le spese e l’interesse da aggiungere e di cui gravarsi dalla data in avanti della ri- chiesta e della riscossione, o meglio del suo versamento, pignorando a tal fine a vantag- gio dello steso Signor Patriarca tutti i beni loro e di tutti i predetti, quelli che hanno e quelli che potranno avere. Per tutto ciò il medesimo Signor Patriarca, a nome suo e dei suoi successori e della sua Chiesa, a questo nome investì personalmente con una cappa i predetti Nascimbene e Pietro, in quanto tali e come rappresentanti delle persone dette, di tutti i beni sopra indicati. Riservato tuttavia a sé e ai suoi successori il diritto di conce- dere ad altri di poter fare forni o officine in detto luogo, o Contrada, ma non tra i confi- ni fissati ai predetti, o tanto vicino che possa risultare di danno o di ostacolo agli stessi. Assegnando loro, quale suo rappresentante a porli nel possesso di tutti i beni predetti, quali concesse loro, Raimondo da Paona sopra nominato.

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24 Vi era dunque una tassa fissa di 1500 libbre di ferro, vincolata all’approvvigionamento milita- re, e una variabile, in rapporto agli altri quantitativi di ferro prodotti. 11