Cahiers d’études italiennes

Filigrana 6 | 2007 La Nouvelle italienne du Moyen Âge à la Renaissance

Johannes Bartuschat (dir.)

Édition électronique URL : http://journals.openedition.org/cei/835 DOI : 10.4000/cei.835 ISSN : 2260-779X

Éditeur UGA Éditions/Université Grenoble Alpes

Édition imprimée Date de publication : 15 mai 2007 ISBN : 978-2-84310-096-3 ISSN : 1770-9571

Référence électronique Johannes Bartuschat (dir.), Cahiers d’études italiennes, 6 | 2007, « La Nouvelle italienne du Moyen Âge à la Renaissance » [En ligne], mis en ligne le 15 novembre 2008, consulté le 19 mars 2021. URL : http:// journals.openedition.org/cei/835 ; DOI : https://doi.org/10.4000/cei.835

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SOMMAIRE

Avant-propos Johannes Bartuschat

La nouvelle face à l'histoire : fictions, faits historiques, récits

Banditi e pirati nella narrativa medievale: alcuni casi di fuorilegge cortesi Federica Veglia

Histoire et quête d’authenticité dans le Novellino. Quelques pistes de réflexion Alessandra Stazzone

« E io scrittore » : stratégies narratives et vérité historique dans le Trecentonovelle de Franco Sacchetti Irena Prosenc Šegula

« Per autentiche istorie approbate » : les fonctions de l’histoire dans le Novellino de Masuccio Salernitano Maria Cristina Panzera

Nouvelle et Histoire : incertitudes génériques dans les Novelle de Matteo Bandello Serge Stolf

La nouvelle et les autres genres : genèses et contacts

Dalla legenda alla novella: continuità di moduli e variazioni di genere. Il caso di Boccaccio Filippo Fonio

Pontano, Castiglione, Guazzo : facétie et normes de comportement dans la trattatistica de la Renaissance Florence Bistagne

Un capitolo minore della narrativa cinquecentesca: gli Apologi di Bernardino Ochino (Ginevra, 1554). Appunti in vista di un’edizione Franco Pierno

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Avant-propos

Johannes Bartuschat

1 La présente livraison de notre revue réunit les premiers résultats d’un nouveau cycle de recherches que notre séminaire, qui travaille sur la littérature italienne du Moyen Âge et de la Renaissance, a entamé depuis un an. Notre projet se propose d’étudier l’évolution de la nouvelle en Italie, des origines jusqu’au XVIe siècle, à la lumière de deux problématiques susceptibles de mieux dégager la spécificité de ce genre.

2 La première de ces problématiques concerne le rapport de la nouvelle à l’histoire. Nous étudierons à ce sujet la représentation de l’histoire dans la nouvelle ; nous entendons par là la façon dont elle relate des événements historiques, mais aussi plus largement les modalités selon lesquelles elle accueille et reflète dans ses personnages, dans ses intrigues et ses structures narratives, une réalité historique donnée. Mais il s’agit aussi d’analyser la façon dont la nouvelle définit son rapport à la réalité historique, notamment lorsqu’elle prétend relater des faits authentiques. La première section des articles ici rassemblés se consacre à l’étude de cette question, du Novellino jusqu’à Bandello, et essaie de dégager les enjeux d’une telle prétention ainsi que les modalités de sa mise en œuvre dans les textes. L’étude des nouvelles de Bandello offre également l’occasion d’aborder la question de la réécriture de sources historiographiques dans une optique littéraire. Cette section s’intéresse aussi, notamment à travers l’exemple des « bandits », comme le célèbre Ghino di Tacco, au problème du rapport entre la création d’un type littéraire et les réalités historiques.

3 Pour le deuxième volet de nos recherches, nous nous proposons, dans la lignée des travaux de H. R. Jauss et de C. Segre1, d’étudier la nouvelle à travers ses rapports avec d’autres genres – qu’ils appartiennent au domaine du récit bref comme l’anecdote ou à d’autres domaines comme la prédication et l’historiographie –, autrement dit : à travers sa place dans le « système » des genres. Les études consacrées aux rapports que le Décaméron entretient avec l’hagiographie (et plus largement avec la littérature édifiante et religieuse), à la facetia et à sa théorie, ainsi qu’aux Apologues de Bernardo Ochino, rassemblées dans la deuxième section, constituent des premières explorations de ce domaine de recherche.

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4 Les études ici publiées ouvrent de nombreuses perspectives sur d’autres domaines annexes, comme l’évolution, pendant l’époque étudiée, des conceptions du récit et de l’histoire, ou encore les rapports entre nouvelle et épistolographie, pour ne citer que deux exemples. Le lecteur trouvera de nouvelles recherches explorant ces domaines, et d’autres, ainsi que les approfondissements des résultats provisoires publiés ici, dans un prochain numéro de nos « Cahiers ».

NOTES

1. Hans Robert Jauss, « Littérature médiévale et théorie des genres », dans Poétique, I (1970), p. 79-101 ; Cesare Segre, « La novella e i generi letterari », dans La novella italiana, Atti del Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Rome, Salerno Editrice, 1989, vol. I, p. 47-57.

AUTEUR

JOHANNES BARTUSCHAT Université Stendhal-Grenoble 3

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Filigrana La nouvelle face à l'histoire : fictions, faits historiques, récits

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Banditi e pirati nella narrativa medievale: alcuni casi di fuorilegge cortesi

Federica Veglia

1 Di predoni di strada e pirati dei mari la letteratura medievale è estremamente ricca. Si tratta di uomini dai profili negativi, che spesso anche la fortuna, dopo averli temporaneamente assecondati, colpisce duramente, attraverso le mani di una legittima giustizia, terrena o divina che sia. C’è una figura, però, che emerge dal gruppo di questi personaggi abietti e suscita un particolare interesse per il lettore: si tratta del fuorilegge che adotta come principi etici assoluti la liberalità e la magnanimità, e che, pur compiendo azioni ritenute colpevoli dall’autorità legittima, è considerato in qualche modo eroe positivo dalla comunità a cui appartiene. Con un’espressione sintetica, anche se approssimativa, potremmo definire ‘fuorilegge cortese’ tale figura letteraria.

2 Essa è presente in maniera significativa, anche se quantitativamente circoscritta, nella produzione letteraria italiana del Trecento e Quattrocento, e si manifesta in forme letterarie della tradizione alta e della tradizione popolare anche in altri Paesi europei (si pensi al Robin Hood della tradizione inglese); attraversa poi l’età moderna e riemerge con insistenza alla fine del Settecento e lungo tutto l’Ottocento, dando vita a numerosi personaggi di questo tipo, attivi in diversi codici artistici (dalla narrativa al teatro, all’opera lirica, più avanti al cinema)1. In essa, elementi storici e trasfigurazione leggendaria e letteraria si intrecciano in una maniera del tutto peculiare, che merita un’attenzione specifica da parte dello storico della letteratura.

3 Mia intenzione è proprio di verificare la presenza e la portata di tali personaggi nella tradizione letteraria italiana del Tre-Quattrocento (in particolare nella novellistica), anche in rapporto con le figure di altri banditi non cortesi; di individuarne eventuali fonti; di scoprire resistenze oppure filoni particolarmente fecondi; di interpretare le testimonianze letterarie nel loro stretto legame con gli eventi e i personaggi storici a cui si riferiscono.

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4 Il fenomeno dell’insorgenza di tali figure leggendarie e letterarie è stato in parte analizzato da Eric Hobsbawm a proposito di quello che egli chiama «banditismo sociale», di cui una specifica forma si incarna nella figura del «bandito-gentiluomo», secondo la sua stessa definizione, ossia del bandito di nobile origine che ha comportamenti liberali. Con l’espressione di «banditismo sociale» Hobsbawm si riferisce all’emergenza, in aree contadine in genere marginali, soggette ad un dominio non accettato e in momenti di forte cambiamento sociale, di persone o gruppi di persone che commettono azioni considerate punibili dalla legge e dall’autorità costituita ma non considerate colpevoli dalle comunità di appartenenza. Il fatto storico che secondo lo studioso suscita il maggiore interesse, però, è proprio la trasfigurazione leggendaria che di tali personaggi viene data: secondo l’autore essa è originata dalla necessità di idealizzare, e rendere compatibile con le aspirazioni di cambiamento e rinnovamento, un comportamento che si dimostra innanzi tutto libero e privo di legami, noncurante dell’autorità, ispirato a valori di equità assoluta e moderazione nell’uso della violenza, e spesso determinato da un torto iniziale subito ingiustamente2. Ebbene, a quanto consta dalle ricerche effettuate dallo studioso in diversi contesti geografici e storici, anche se non nel Medioevo italiano, la trasfigurazione leggendaria e letteraria delle figure di fuorilegge di nobile origine che diventano paladini dei deboli e raddrizzatori dei torti ha un successo straordinariamente più ampio e duraturo di quella del bandito di provenienza contadina3.

5 Perché, però, e come proprio alcune figure e non altre subiscano questa sorta di trasfigurazione è una domanda a cui è molto difficile rispondere; nel campo d’indagine che ho scelto di considerare, per esempio, risulta difficile comprendere come mai di un personaggio come Ghino di Tacco nasca e si sviluppi una fama leggendaria che collima con tutte le caratteristiche enunciate da Hobsbawm, senza che alcun documento storico ci lasci testimonianza di un suo agire particolarmente magnanimo o liberale, mentre di altri banditi l’immagine letteraria sia totalmente ribaltata. Sarebbe interessante scoprire davvero il percorso storico attraversato da tali nodi leggendari e potere così dare una spiegazione delle straordinarie affinità tra personaggi come Ghino e Robin Hood. Per far questo, penso che sia necessaria innanzitutto una buona documentazione storica e storico-letteraria, e accanto un’analisi mirata delle risultanze letterarie di tale processo di costruzione leggendaria.

6 Ghino di Tacco è il primo e, per quantità e qualità d’attestazioni, più significativo personaggio che la tradizione letteraria italiana ci presenta con i tratti del bandito- cortese; l’unico, per ora, per il quale sia possibile confrontare ampiamente documenti storici e testimonianze letterarie4. Uomo della nobiltà feudale della Val di Chiana, di famiglia ghibellina, risulta pluri-condannato a morte dal comune di Siena, e di lui si hanno notizie nei documenti degli Archivi senesi tra il 1285 e il 1296. Si deve ad un avvincente articolo di Giovanni Cecchini una ricostruzione dettagliata e rigorosa di ciò che si può ancora sapere della vita del personaggio, corredata dalla pubblicazione in appendice di tutti i documenti ritrovati che lo riguardano5. In sintesi: la famiglia della Fratta, della quale fa parte Ghino, appartenente al ceppo dei Cacciaconti, perde il dominio feudale sulla zona della Fratta e di Torrita già dagli inizi del Duecento, a causa dell’espansione del comune senese; riesce però a conservare i propri diritti e una sostanziale indipendenza ancora per diversi anni, intrattenendo buoni rapporti con tale comune. Sennonché l’avvento della parte guelfa rende sempre più difficili i rapporti con le famiglie feudali ghibelline e i fuoriusciti ghibellini da Siena si uniscono ad alcuni

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nobili ghibellini della zona per azioni di disturbo contro il comune; tra costoro, sono attivi il padre di Ghino, Tacco, e lo zio, Ghino. Contro di loro sono emesse diverse condanne, che si fanno sempre più gravi a mano a mano che la situazione diventa più difficile per la città, sino al bando assoluto dall’intero contado.

7 Tacco e il fratello, insieme agli altri, si danno alla macchia, ottenendo grande appoggio, a quanto consta, in diversi luoghi della zona, e possono vivere impunemente per parecchio tempo. Interessante, per esempio, un documento in cui viene emanata una condanna contro il nipote dei due fratelli (Ghino, figlio di Federico, il quale aveva raggiunto gli zii nella macchia), con l’accusa di avere rubato diversi maiali nella zona (nella silva communis Torrita). Questa è la vita quotidiana dei fuorusciti, che devono senz’altro godere dell’appoggio di un buon numero di persone per non essere scoperti, ma che conducono pur sempre una vita irregolare, per affrontare la quale è necessario essere dotati di grandi capacità di adattamento. Soprattutto, è una vita che si svolge interamente al di fuori degli spazi sociali abitati o in qualche modo antropizzati. Coraggio, adattamento ad una natura che per la comunità umana è ostile (la montagna, non a caso) e alterità spaziale: forse queste, a ben vedere, sono tra le caratteristiche che favoriscono la loro trasformazione letteraria in figure eccezionali.

8 Alla vita da banditi, poi, probabilmente partecipa fin da molto presto anche Ghino, figlio di Tacco, la cui madre, forse della famiglia dei Tolomei, trova asilo, dopo la condanna del marito, in un palazzo senese. Finché il giudice vicario del podestà di Siena, l’aretino Benincasa da Laterina (che sarà citato da Dante) non riesce a fare arrestare Tacco e a farlo giustiziare (1285). A partire dal 1288, tre anni dopo, sono attestate condanne anche nei confronti del figlio Ghino, «qui fecit insultum in stratam publicam». La pena a cui è condannato, come fa notare Cecchini, non è quella prevista per un reato privato come il latrocinio di strada, ma è una pena equivalente a quella per un reato contro il comune stesso. Anche Ghino, dunque, viene considerato nemico «pubblico» (più avanti verrà definito «rebelle et inimico manifesto communis et populi senensis»).

9 Altri documenti per noi interessanti sono quelli che attestano, tra il 1294 e il 1296, il tentativo di alcuni nobili locali di aiutare Ghino ad insediarsi nel castello delle Serre, e infine il suo sicuro insediamento nel castello di Radicofani, in un territorio nominalmente della Chiesa, ma su cui accampa diritti il comune di Siena (nella realtà, quindi, territorio di nessuno, in cui facilmente Ghino riesce a trovare rifugio stabile). L’appoggio nei confronti del fuoruscito, a questo punto, rivela nettamente un’origine più propriamente politica che sociale, legata cioè ad aspirazioni di potere più che di riscatto sociale, il che sarà del tutto assente dai documenti letterari che considereremo. Da qui in poi le notizie dei documenti d’archivio si interrompono. È probabilmente vera la notizia che dà Dante della vendetta di Ghino sul giudice Benincasa (non si vede perché, a questo proposito, Dante avrebbe dovuto intenzionalmente dare una notizia falsa), ma le fonti che abbiamo non lo accertano. Così come assolutamente nulla ci dicono di eventuali azioni liberali o magnanime nei confronti di chicchessia.

10 È qui che interviene la “trasfigurazione”, o meglio, seguendo le teorie di Hobsbawm, l’applicazione al personaggio, che doveva avere in qualche modo fascinato i contemporanei, dei caratteri peculiari che il cosiddetto bandito ideale ha per una comunità che mal sopporta un’autorità estranea. Di tale trasfigurazione non possediamo altro se non testi letterari (o di commento letterario) e dunque ci è difficile ricostruire, se davvero è esistita, una leggenda popolare sul personaggio; cioè, sempre

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che Hobsbawm abbia ragione, ricostruire quanto di quello che i nostri autori dicono appartenga ad una tradizione popolare che vede nel ribelle una possibilità di riscatto, quanto alla tradizione letteraria alta (in particolare alcuni testi antichi), quanto ad invenzioni o reinvenzioni dei singoli autori.

11 L’excursus tra le testimonianze letterarie che nominano Ghino di Tacco non seguirà un ordine cronologico, perché preferisco prendere avvio dal testo che per primo fissa nel personaggio in maniera compiuta alcuni dei caratteri del bandito-gentiluomo, ovvero la novella seconda della X giornata del Decameron. Considererò in seguito due testi dei primi decenni del Trecento, ossia i Documenti d’Amore di Francesco da Barberino e la Commedia che, pur senza attribuire esplicitamente al personaggio i caratteri del bandito gentiluomo, si riferiscono implicitamente ad una sua fama eccezionale, perlomeno ambivalente; infine, prenderò in esame alcuni commenti antichi alla Commedia, influenzati o meno dal testo boccacciano, primo su tutti il commento di Benvenuto da Imola.

12 Dunque, la novella di Boccaccio. A ben vedere, qui il protagonista di azioni «magnifiche», secondo il volere della narratrice Elissa, è l’abate di Cluny, non il «rubatore delle strade» Ghino di Tacco6. Addirittura c’è chi sostiene, come Santini, che il comportamento di Ghino non sia per nulla ispirato a cortesia e liberalità, e che anzi la sua azione sia tutta tesa a sminuire la dignità dell’abate e a privarlo della sua posizione dominante più che a dimostrargli magnificenza e liberalità7. Non credo che le cose stiano così: mi sembra che il personaggio che campeggia, in tutta la narrazione, sia proprio Ghino, la cui effettiva comparsa nella storia viene ritardata, con studiata tensione narrativa, fino all’incontro finale con l’abate e alla proposta indiscutibilmente magnanima (il consentirgli di riprendersi l’intero bottino di cui era stato privato). L’abate ottiene poi per lui una prioria nell’Ordine degli Ospitalieri, ma ciò non mi pare sminuisca la posizione centrale del bandito e il rilievo dato alla sua azione (il personaggio risulta onnipresente, direi, nella novella): l’epilogo della storia, in effetti, risulta più una chiosa aggiuntiva che non il momento culminante e risolutivo della vicenda. Tale momento culminante si conclude e si risolve con la risposta che l’abate dà alle proposte del brigante («Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere […]. “Maledetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole mestier ti costringe!”»; (X, 2, 24). Risposta che fornisce una completa riabilitazione morale del personaggio, deresponsabilizzandolo per quei comportamenti su cui il narratore aveva in precedenza sospeso il giudizio.

13 Al di là del ruolo di protagonista attribuibile o meno al personaggio, penso che più interessante sia concentrarsi sui modi che Boccaccio sceglie per la rappresentazione di una figura potenzialmente così ambigua. La valutazione della vicenda e dei due personaggi si gioca tutta sul dialogo finale tra i due protagonisti, mentre la presentazione iniziale e i comportamenti durante lo svolgimento dell’azione non sono accompagnati da alcun giudizio univoco. Il giudizio su di essi rimane sospeso, e sul personaggio di Ghino in particolare in tutta la novella, sino al dialogo risolutivo, prevale un’impressione di mistero non risolto, più che un positivo riconoscimento di eroismo. Il ritratto iniziale lo presenta come uomo famoso contemporaneamente per la sua «fierezza» e per le sue «ruberie», quasi il narratore volesse lasciare intravedere il fascino che il personaggio esercita con la sua condotta di vita, ma allo stesso tempo intendesse mantenere una posizione ambivalente e prudente nei suoi confronti, senza apertamente cedere:

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Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santafiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma: e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri. (X, 2, 5)

14 Lo stesso termine «fierezza», come vedremo a proposito del passo dantesco in cui è nominato Ghino, con il quale senz’altro il testo di Boccaccio è connesso, ha significato duplice: come per l’eroe pagano Fierabras, fierezza vale allo stesso tempo nobiltà e ferocia. In ogni caso, una dote d’eccezione. Nel corso della novella, poi, soprattutto grazie all’intervento degli ambasciatori, al silenzioso accerchiamento operato dai masnadieri, ai tratti del luogo e di tutto l’ambiente che lo circonda, la sua eccezionalità, già intravista in quella connotazione iniziale, arriva a risultare predominante. Così il personaggio acquista autorevolezza e fascino agli occhi del narratore e del lettore, e grazie a questa autorevolezza conquistata il suo gesto magnanimo risulterà anch’esso eccezionale.

15 Altri aspetti da considerare, l’origine nobiliare del personaggio e gli eventi che lo hanno portato a diventare «rubatore delle strade». È Ghino stesso ad affermarli nel suo discorso all’abate: Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: «Messere l’abate, voi dovete sapere che l’esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero e avere molti e possenti nimici hanno, per potere la sua vita difendere e la sua nobiltà, e non malvagità d’animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, a essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma […]» (X, 2, 20-21)

16 Gli elementi che delineano il Ghino di Boccaccio come un fuorilegge cortese, dunque, sono diversi: la pratica di un comportamento liberale e magnanimo, l’effettiva origine nobile del personaggio e la sua caduta a causa di un torto subito, la sua scelta eroica di vivere alla macchia senza compromessi. Ebbene, è possibile ricostruire delle fonti letterarie per questi tratti?

17 Per quanto riguarda il torto subito da un personaggio nobile e la sua conseguente scelta di uscire dalla società civile e di vivere alle sue spese, ho riscontrato perlomeno un’attestazione antica, nella tradizione romanzesca. Nelle Etiopiche di Eliodoro, Tiamis, il capo dei pirati che rapiscono i due giovani innamorati appena sbarcati in Egitto, a loro volta già vittime di un altro rapimento fallito, è il figlio di un sacerdote egiziano, che è stato defraudato dal fratello della legittima successione al padre. Si dà dunque alla macchia e diventa capo di uno dei gruppi pirateschi della zona del Delta del Nilo, dove, secondo la rappresentazione di Eliodoro, un’intera comunità di persone vive dei proventi della pirateria. La sua figura straordinaria risalta immediatamente, le sue qualità di capo sono quelle proprie di un buon comandante militare, e, soprattutto, il suo comportamento si dimostra del tutto liberale per esempio con l’anteposizione della straordinaria bellezza della fanciulla all’intero bottino8. Lo scioglimento della trama porterà naturalmente ad un riequilibrio del torto subito, e il nobile Tiamis potrà felicemente ricongiungersi con il padre e rioccupare la posizione sociale che gli spetta.

18 Senz’altro un prototipo del bandito gentiluomo, anche se il motivo viene sviluppato da Eliodoro soltanto nei tratti funzionali allo sviluppo della vicenda. Del suo rapporto con i più deboli, come del resto avviene anche nella novella di Boccaccio, si intravede soltanto una breve esemplificazione, attraverso l’incontro che lo lega al personaggio protagonista (nel caso di Ghino si tratta del co-protagonista), e attraverso l’autorevolezza conquistata tra i suoi. Probabilmente, in entrambi i casi il personaggio è

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già presente come un “tipo” nella mente e nella cultura degli autori, e sfugge dunque a ulteriori caratterizzazioni individuali.

19 Vediamo allora quali tracce ci restano, per il personaggio di Boccaccio, della tradizione che si è creata intorno al personaggio. Nella Commedia, nel VI canto del Purgatorio, viene nominato un episodio della vicenda di Ghino: «Quiv’er l’Aretin che da le braccia / Fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte» (vv. 13-14). Come ho già scritto qualche anno fa, penso che Dante, evocando Ghino nel Purgatorio come assassino di Benincasa e non nominandolo affatto nel girone dell’Inferno in cui sono puniti «guastatori e predoni» (Inf. XII), dimostri di tenere in considerazione in qualche modo una fama quantomeno ambigua del personaggio, e in particolare intenda creare con essa una sorta di compromesso9. Il nesso «braccia fiere», peraltro in forte enjambement, di per sé ambivalente e già presente nella tradizione della chanson de geste, consente a Dante di non prendere partito per nessuna delle due interpretazioni e di non offendere, quindi, una tradizione di Ghino di Tacco che probabilmente è ormai leggendaria.

20 Credo che se avesse inteso condannare esplicitamente la sua ferocia, e avesse quindi collocato il personaggio insieme agli altri predoni che «fecero alle strade tanta guerra», in Inf. XII, Dante avrebbe fornito in questo modo una condanna esemplare di tutta la fama costruitasi intorno al personaggio. Proprio il fatto che ciò non sia avvenuto, e che il personaggio goda di un privilegio indiscutibile, testimonia innanzitutto che tale fama è già attiva, e allo stesso tempo che Dante non intende opporlesi. È invece del tutto improbabile che sia Dante stesso il primo a voler suggerire un’ambivalenza nella valutazione del personaggio ed eventualmente a dare il via ad una sua trasfigurazione leggendaria.

21 Che il passo sia da considerare in stretta relazione e richiamo con quello di Inf. XII, poi, è suggerito non solo dall’affinità tematica, ma anche dal fatto che alcuni dei personaggi là elencati, in particolare Rinieri da Corneto e Rinieri dei Pazzi, hanno non poco in comune con Ghino10. Di Rinieri dei Pazzi sappiamo che appartenne ad una nobile famiglia ghibellina che esercitava diritti feudali sul contado di Firenze, che fu poi bandito dal comune, e fu artefice di un’imboscata ai danni di un vescovo di passaggio verso Roma e del suo conseguente omicidio11. Le analogie con la figura di Ghino di Tacco, in particolare con ciò che di lui rappresenterà Boccaccio, sono notevoli: la differenza, in Boccaccio, è l’esito esattamente ribaltato delle vicende; in Dante, la caratterizzazione di fierezza e un’evocazione nel solo Purgatorio, che lascia perlomeno un dubbio sul suo effettivo destino ultraterreno. Ciò che ha spinto Dante verso questa scelta è probabilmente stata la fama creata intorno all’uomo, più o meno supportata da fatti certi; e si noti che nella novella di Boccaccio, tra i primi aggettivi usati per la connotazione del personaggio, compare l’aggettivo «famoso».

22 Di Rinieri da Corneto, invece, non abbiamo alcuna testimonianza documentaria. Qualcuno, però, come Michele Barbi, lo identifica con quel Rinieri presente proprio in un altro dei testi di inizio Trecento in cui si parla di Ghino di Tacco, i Documenti d’Amore di Francesco da Barberino12. In quel passo, egli si trova in competizione con Ghino e sperimenta a sue spese la settima delle regole sub industria, di cui la storia dei due personaggi costituisce un exemplum («Meglio divider che perder la preda / e danno ognun leggero / chi sa portar e saggio / per riparar contra laltro che maggio»13). Ecco il brano narrativo che fa da esemplificazione:

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Amideus de Brixia mercator ibat Romam cum duobus equis et uno discreto famulo invenit quedam robatorem nomine Raynerium qui austulit ei equos et pannos quo facto supervenit Ghinus de Tacco et dixit Raynerio: “quomodo es tu ausus sine mea licentia hoc fecisse”. Dixit ille: “et quomodo vis tu privilegium in rapina qui non proficis ad tuitionem?”. Tunc Ghinus obmissis aliis dixit: “aut da michi unum ex istis equis aut auferam a te ambos”. Erat enim iste Ghinus potentior valde, ille autem respondit nolens, cum eo fuit in rixa et perdidit ambos quos cum abduceret obviavit mercatori et narravit ei hoc totum. Tunc mercator dixit ad eum verba istius regule ita ex hiis motus Ghinus unum restituit sibi equum14.

23 Rinieri non è in grado di accettare né le norme di comportamento che regolano la vita sociale e consentono l’utile finale di ognuno in qualunque circostanza, anche nel caso di rapine, e neppure la logica del più forte (Ghino è «parecchio più forte» di lui, e per questo è in grado di scegliere come concludere una trattativa). Il suo personaggio è del tutto perdente. Ghino, da parte sua, pur comparendo anch’egli come un usurpatore (come osa il rubator meno forte depredare un viandante senza la sua licentia?), sa rendere attiva in concreto la norma a cui conforma il proprio comportamento anche quando lo svantaggio apparente ricade su di lui (decide dunque di restituire al derubato metà del bottino). Accortezza e piena attuazione della norma enunciata, con una tale capacità etica da non esitare un attimo («ex hiis motus», dice il narratore subito di seguito alle parole del mercante) di fronte ad un gesto che avvantaggia un’altra parte. Il bandito agisce dunque in maniera liberale: non subordina la propria azione al proprio esclusivo vantaggio, ma riconosce una regola morale superiore.

24 Su Ghino, dunque, paiono essersi addensate qualità morali diverse: magnanimità, capacità oratorie, rigore morale. Sempre più sono convinta che Dante non abbia alcun interesse, per quanto non condivida i metodi violenti di Ghino, ad essere provocatorio o apertamente ostile nei confronti della sua fama.

25 Ritornando alle tracce di tale fama, ad essa accennano senza metterla in alcun modo in discussione tutti i commentatori antichi alla Commedia, che in parte risultano essere l’uno fonte dell’altro, a catena, in parte ricavano le loro notizie direttamente dal racconto boccacciano.

26 Jacopo della Lana, prima del testo di Boccaccio, commenta così il personaggio dantesco: [...] Cervo, fratello d’uno Ghino di Tacco, il quale era un grande rubatore e gentile uomo del contado di Siena […]. Aveva una tale usanza lo detto Ghino, che mai né sofferì, né volle, che persona, ch’elli avesse, morisse in prigione.

27 È la prima attestazione esplicita di un tratto così evidente del bandito cortese: Ghino non usa la violenza in maniera gratuita, e si prende cura di chi è sotto la sua prigionia, trasformando la prigionia stessa in una sorta di protezione. È senz’altro significativo che l’episodio scelto da Boccaccio, pochi anni dopo, riguardi proprio una prigionia inflitta dal personaggio, ma rivelatasi in ultima analisi una cura benefica. È difficile ricostruire con precisione da quale patrimonio Jacopo della Lana attinga per fornire queste informazioni, certo non dal passo dantesco.

28 Con gli stessi argomenti e le stesse notizie, poi, chiosano l’Ottimo e Jacopo Alighieri15; tornando più fedelmente al testo dantesco, a cui aggiunge però questa ulteriore notizia, Francesco da Buti («Non consentendo mai lo detto Ghino che nessuno, che n’avesse in prigione morisse, con tutto che fosse fiero e violento omo»). Sono, queste, attestazioni che si collocano, a mio parere, a metà tra la storia della leggenda e la costruzione della leggenda stessa.

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29 Il più accanito sostenitore e diffusore della fama di Ghino di Tacco, tra i commentatori della Commedia, è però Benvenuto da Imola, che dedica un’ampia parte del proprio commento ai versi in cui compare il bandito. Benvenuto si riferisce a Boccaccio e all’episodio dell’abate di Cluny, ma aggiunge parecchie altre informazioni, che rivelano in maniera compiuta i caratteri del bandito cortese: Ideo, Lector, volo quod scias quod iste Ghinus non fuit ita infamis ut aliqui scribunt, quod fuerit magnus sicarius, et spoliator stratarum. Iste namque fuit vir mirabilis, membratus, niger pilo, et carne fortissimus, ut Scaeva levissimus, ut Papirius Cursor prudens et largus. Fuit de nobilibus de la Fratta, comitatus Senarum. Qui expulsus viribus comitum de Sancta Flora occupavit castrum nobile Radicofani contra Papam. Et cum suis famulis manipulariis faciebat multas et magnas praedas, ita quod nullus poterat ire tutus Romam vel alio per partes illas. Sed fere nullus incurrebat in manus eius, qui non recederet contentus, et amaret et laudaret eum. Et audi morem laudabilem in tali arte latrocinandi: si mercator erat captus, Ghinus explorabat placibiliter quantum ille poterat sibi dare; et si ille dicebat quingentos aureos, auferebat trecentos, et reddebat ducentos, dicens: Volo quod possis negotiari et lucrari. Si erat unus sacerdos dives et pinguis, auferebat sibi mulam pulcram et dabat ei unum tristem roncinum. Et si erat unus scholaris pauper vadens ad studium, donabat sibi aliquam pecuniam, et exhortabatur ipsum ad bene agendum et proficiscendum in scientia […] De homine isto plura non dico, de quo posset fieri Tragoedia.

30 Non perché fu rubatore delle strade, Ghino deve essere considerato «infamis». Il carattere elogiativo del pezzo è evidente sin dall’inizio. Benvenuto si rivolge al lettore, come è sua abitudine, raccomandandogli di seguire una certa interpretazione del personaggio: questo non è affatto un personaggio da poco conto, è anzi «mirabile» e il suo ritratto merita gli elementi di un ritratto classico latino, sino all’aperta similitudine con i personaggi più leggendari della storia romana. Dapprima, gli elementi fisici, tutti implicanti un giudizio positivo; poi, tra gli attributi caratteriali, la prudentia e la largitas16. Nella parte narrativa, invece, emergono i tratti più specifici del bandito cortese: egli non sopporta che le persone da lui catturate vengano uccise (quindi è moderato nell’uso della violenza), non ruba a chi è già povero, anzi, dà a chi è povero (in particolare agli studenti) denaro sufficiente per continuare il proprio percorso, concede ai mercanti di mantenere dei denari per i commerci, e infierisce soltanto sul «sacerdote ricco e grasso». Esattamente gli stessi elementi riscontrabili nelle ballate medievali che ci restano su Robin Hood, compreso l’aneddoto sui membri della Chiesa, ed evidenziati, in gran parte, nella ricostruzione di Hobsbawm.

31 Questa parte del commento dell’Imolese, che peraltro cita esplicitamente la novella del Decameron, sembra avere la struttura, a sua volta, di una novella di Boccaccio. Ritratto del personaggio, racconto dei suoi comportamenti più noti, con abbondanza di particolari aneddotici, uccisione del giudice (a commento del testo dantesco) e infine la morte, paragonata esplicitamente a quella di Cesare, in un crescendo di stile, sino ad arrivare ad uno stile alto, tragico. E proprio una tragedia, secondo Benvenuto, potrebbe essere scritta su Ghino. È questo un dato estremamente interessante, al di là di tutte le connotazioni che vengono date del personaggio. Una tragedia su Ghino, così come una tragedia è stata scritta su Ezzelino da Romano, peraltro citata con ammirazione dall’Imolese17? Certo, qui la valutazione sarebbe ribaltata. La storia di Ghino, però, potrebbe così “scalare” diversi generi letterari, sino al più alto.

32 A proposito del rapporto del bandito cortese con la Chiesa e con la devozione religiosa, si apre un campo che ci spinge a ulteriori osservazioni e indagini. Riguardo a Ghino,

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innanzitutto, occorre notare che se in questo brano egli si dimostra ostile, e in maniera sarcastica, nei confronti del rappresentante della religione, nella novella di Boccaccio, nonostante il racconto prenda avvio dal rapimento di un ecclesiastico notoriamente tra i più ricchi dell’epoca, oltre al finale atteggiamento magnanimo, si manifesta un atteggiamento di devozione diretta nei confronti di Dio stesso, che scavalca, in maniera ostentatamente provocatoria, l’autorità religiosa terrena. Dice infatti l’ambasciatore di Ghino all’abate: «Messere, voi siete in parte dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente si teme per noi»18. Nell’insofferenza ad ogni genere d’autorità, la masnada di banditi alle dipendenze di Ghino non rinnega la «forza» divina e la riconosce come unica in grado di suscitare timore e obbedienza.

33 Ebbene, una forma di devozione religiosa slegata dal riconoscimento dell’autorità ecclesiastica si ritrova anche nelle ballate medievali di Robin Hood (la sua devozione, in particolare, è per Maria, e ciò lo porta addirittura a rischiare la vita per partecipare in città ad un rito solenne in suo onore); si ritrova anche, però, in altri personaggi di fuorilegge della tradizione letteraria italiana, che, pur non essendo affatto presentati come personaggi positivi, manifestano almeno uno dei tratti caratteristici del bandito cortese.

34 Un caso evidente è nella novella 39 del Novelliere di Sercambi. Il protagonista è un nobile (un conte, come si dice subito nell’incipit della novella) il quale assomma in sé ogni «mala condizione»: Fu un conte di quelli da Bruscola, del contado e giurisdizione di Bologna, il quale possedea alcune terre e fortezze innella montagna, nomato lo conte Sparaleone, omo di gran superbia e crudeltà e d’ogni mala condizione. E non stante che lui fusse malvagio e reo – ancora a’ suoi famigli comandava che ogni male facessero –, e’ pur non era però tanto malvagio, che almeno questo poco di bene facea: che ogni dì la mattina quando si levava, per lo dì dicea una avemaria, e la sera ne dicea per la notte un’altra. E questo era tutto lo bene che questo conte facea, né mai altro bene si disse che lui facesse. Avea questo conte molti maliscalzoni, e ladroncelli e d’ogni cattiva condizione, ai quali avea comandato che ogni dì facessero o furto o rubaria o micidio; e più, che a tutti, sotto grave pena ditto loro che mai persona che trovassero innel suo terreno che a lui per neuno modo si presentasse, ma che rubato che fusse quello uccidessero. E ogni cosa crudele li piacea più che le pietose. E per questo modo moltissimi prelati, mercadanti et altre buone persone, oltra le rubarie a loro fatte, erano stati morti19.

35 In effetti, egli si comporta esattamente come un feroce anti-Ghino (per esempio, dopo averli derubati, uccide tutti coloro che hanno attraversato il suo territorio), ma c’è una circostanza che nobilita le sue azioni terribili e lo salva dalla dannazione eterna: egli ha una tale devozione religiosa che ogni giorno recita una preghiera mattutina e una preghiera serale. Quando il demonio, travestitosi da cuoco, cercherà di guadagnare la sua anima, un «angelo mandato da Dio», sotto le sembianze di un pellegrino, riuscirà a salvarlo proprio in virtù delle preghiere quotidiane del personaggio.

36 Il motivo, presente anche nella Legenda aurea e poi ripreso senza sostanziali varianti in tanti testi europei, si ritrova in Italia nel De castellano e nel De pirata di Bovensin de la Riva, all’interno delle Laudes de virgine Maria20. Nel primo componimento, in particolare, esattamente come poi in Sercambi, il diavolo si traveste da cantiniere per cercare di conquistare l’anima del bandito, ma deve lottare con un angelo che, in virtù delle preghiere e della devozione a Dio del malvagio peccatore, gli impedisce di ottenere definitivamente quel trofeo.

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37 Elementi del bandito cortese, dunque, anche là dove dell’audacia e della libertà dai vincoli sociali propri di quel personaggio non si intende in nessun modo dare una valutazione positiva. Nello stesso Novelliere di Sercambi, per esempio, sono diverse le novelle che hanno per protagonisti banditi o pirati, ma in esse sono messi in risalto la ferocia e la spietatezza, e l’esito della loro vicenda è sempre la giusta punizione data dall’autorità statale o da singoli personaggi eroici. Nella maggior parte dei casi, poi, tale punizione viene ostentatamente descritta dal testo, con un rilievo particolare per gli aspetti più macabri (l’impiccagione, la pena del bruciare vivi, ecc.). La posizione dell’autore al riguardo è inequivocabile.

38 Nella novella 84, per esempio, è di nuovo protagonista un anti-Ghino: un «malandrino» che ha dimora nel castello di Montalto (sulla via dei pellegrini per Roma, come Ghino), tale Suffilello, deruba e fa uccidere tutti coloro che passano dal territorio che controlla, finché non rapisce la contessa d’Artois, con l’intenzione di gettarla da un dirupo dopo averla letteralmente spogliata di tutto. È lei, però, la protagonista e l’eroe positivo del racconto, e con un abile inganno riesce a gettare il brigante dallo stesso dirupo e a fare impiccare, vivi o morti che siano, tutti i componenti della masnada.

39 Nella novella 88 è di nuovo protagonista la stessa contessa, questa volta nei suoi territori francesi, impegnata a sterminare (bruciandoli vivi in un casolare oppure facendoli impiccare) i malandrini che operano lungo la strada per Parigi. Qui il narratore precisa che tra di essi vi sono anche uomini «gentili», ossia nobili datisi alla macchia. Neanche per loro, però, vi è una possibilità di salvezza o uno spiraglio di pietà, e nessuna loro caratteristica risulta quantomeno ambigua per la valutazione finale. Uguale esito impietoso e persino inquietante nelle novelle 87 e 82: la prima ha per protagonisti un gruppo di malandrini storpi, poi scoperti e impiccati; la seconda, sostanziale riscrittura della novella di Boccaccio di Rinaldo d’Esti (Decameron, II, 2), ha come riferimento la leggenda di San Giuliano, e fa concludere con l’impiccagione la vicenda dei briganti.

40 Sempre in Sercambi, però, compare un ulteriore elemento che vivacizza il nostro quadro. C’è un’altra figura di fuorilegge, oltre al conte da Bruscola, che ha un comportamento non univocamente condannato. Si tratta di un pirata che salva una delle vittime dei suoi rapimenti per la brillante risposta che riesce a dargli (novella 54). Il pirata è Piero da Rabat, «corsale crudelissimo» pronto ad uccidere annegandoli tutti gli uomini delle navi che ha depredato. Sen nonché uno di questi prigionieri, un francese, riesce a salvarsi la vita con un «bel motto» che ben dispone il pirata: vedendo l’acqua nella quale sta per essere gettato, dopo due giorni di digiuno, gli dice: «O sire, ciest est trou gran boire a si petit mangier». Dunque, un uomo “crudelissimo” inaspettatamente ravveduto di fronte all’intelligenza dell’interlocutore. È anch’esso una forma di fuorilegge cortese, che dimostra elementi di liberalità.

41 Le figure dei pirati, fuorilegge che godono di uno statuto di libertà dai vincoli sociali ancora maggiore rispetto a quello dei banditi di strada, sono anch’esse numerose nella novellistica medievale, e nella maggior parte dei casi la loro caratterizzazione non differisce di molto da quella dei banditi di strada. In alcune circostanze, però, essi suscitano nei narratori simpatie più marcate.

42 Per ritornare al Decameron, da cui era partito il nostro excursus sui testi, sono diverse le novelle in cui compare questo tipo di personaggio, le cui fonti sono facilmente rintracciabili perlomeno nel romanzo antico latino e greco. Nella maggior parte dei casi si tratta di elementi di puro motore narrativo (il rapimento, l’abbandono, il

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ricongiungimento o l’agnizione, come nella novella II, 6, che ha per protagonista Madama Beritola); ma in alcune circostanze i personaggi dei pirati diventano essi stessi protagonisti. È il caso per esempio di Landolfo Rufolo (II, 4), che diventa corsale (è questo il termine più usato da Boccaccio) per recuperare il patrimonio perduto (e si noti che la sua scelta e la sua azione non sono affatto connotate negativamente nel testo).

43 Ma il caso per noi più significativo è quello di Paganino da Mare (II, 10), pirata che rapisce la moglie di un giudice pisano, secondo il consolidato schema già proprio del romanzo antico. Qui il pirata è di gran lunga l’eroe positivo, colui che, seguendo uno stile di vita libero, riesce davvero a realizzare pienamente la propria umanità, e ad avere un comportamento ispirato a valori etici assoluti, privi di condizionamenti e impedimenti. Messer Riccardo di Chinzica, giudice pisano di grande ingegno ma di età avanzata e di poche doti «corporali», riesce ad ottenere in sposa la giovanissima Bartolomea, ma, seguendo rigorosamente i precetti di astinenza a suo dire dettati dalla Chiesa, non arriva a soddisfarne adeguatamente il desiderio sessuale. La donna, rapita un giorno da Paganino, scopre una vita radicalmente diversa e decide di non tornare più dal marito. Questi morirà di disperazione e la donna e il famoso pirata potranno regolarmente sposarsi. Paganino, nominato nella sintesi della novella con l’aggiunta del toponimo dove ha sede il suo covo (Monaco), ma nel resto della novella indicato con il nome di famiglia («da Mare», nobile famiglia genovese), ha fin da subito un comportamento libero e sicuro e, come il capo dei pirati di Eliodoro, è attratto dalla bellezza della giovane donna in maniera assoluta, tanto da non anteporle nulla: E mentre che essi più attenti stavano a riguardare, subito una galeotta di Paganin da Mare, allora molto famoso corsale, sopravvenne e, vedute le barche si dirizzò a loro; le quali non poteron sì tosto fuggire, che Paganin non giugnesse quella ove eran le donne: nella quale veggendo la bella donna, senza altro volerne, quella veggente messer Riccardo che già era in terra, sopra la sua galeotta posta andò via […]. A Paganino, veggendola così bella, parve star bene; e non avendo moglie, si pensò di sempre tenersi costei, e lei che forte piangea cominciò dolcemente a confortare. E venuta la notte, essendo a lui il calendaro caduto da cintola e ogni festa o feria uscita di mente, la cominciò a confortar co’ fatti, parendogli che poco fossero il dì giovate le parole; e per sì fatta maniera la racconsolò, che, prima che a Monaco giugnessero, e il giudice e le sue leggi le furono uscite di mente, e cominciò a viver più lietamente del mondo con Paganino; il quale, a Monaco menatala, oltre alle consolazioni che di dì e di notte le dava, onoratamente come sua moglie la tenea. (II, 10)

44 Specularmente, anche la donna si adatta immediatamente allo stile di vita del pirata e condivide infatti con lui la capacità di perseguire con fermezza ciò che ritiene giusto per sé. Quando il marito arriverà nel covo dei pirati per riprendersi la moglie, il contrasto tra i due personaggi maschili sarà nettissimo, e sarà la donna, invitata dal bandito a parlare «come le piacesse» a dimostrare la distanza tra i due e la sua scelta: Imaginossi messer Riccardo che ella questo facesse per tema di Paganino, di non volere in sua presenza confessar di conoscerlo: per che dopo alquanto chiese di grazia a Paganino che in camera solo con essolei le potesse parlare. Paganin disse che gli piacea, sì veramente che egli non la dovesse contra suo piacere basciare; e alla donna comandò che con lui in camera andasse e udisse ciò che egli volesse dire e come le piacesse gli rispondesse. […] «[…] E dicovi così, che qui mi pare esser moglie di Paganino e a Pisa mi pareva esser vostra bagascia, pensando che per punti di luna e per isquadri di geometria si conveniano tra voi e me congiugnere i pianeti, dove qui Paganino tutta la notte mi tiene in braccio e strignemi e mordemi, e come egli mi conci Dio vel dica per me […]. (II, 10)

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45 Paganino da Mare dimostra dunque cortesia nei confronti della donna (dicendole di parlare liberamente con il marito, mostra di darle piena dignità). È proprio questo suo comportamento a ridare alla donna il pieno possesso della propria persona, del proprio corpo ma anche della propria sfera decisionale, e dunque il personaggio del pirata ha nel racconto il ruolo di eroe positivo e nello stesso tempo maieutico nei confronti del personaggio femminile.

46 Riguardo ai pirati, come dicevo, alla libertà dai vincoli sociali che li rende più facilmente protagonisti positivi, si aggiunge la condizione di libertà fisica nello spazio, e in uno spazio come il mare, che sembra rendere effettivamente nulle le regole ordinarie delle comunità civili. Ancor più che i banditi di terra, i pirati si escludono totalmente e per periodi molto più prolungati dalla convivenza civile e dunque è ancora più agevole applicare su di loro una trasfigurazione letteraria. Non è difficile trovare altre storie in cui di un pirata venga data una connotazione positiva. Nel Novellino di Masuccio Salernitano, alla novella 22, per esempio, Nicolao d’Agnito, «gentilomo trapanese» «nei dì suoi famosissimo corsalo» nelle vicine coste «di Barbaria», abbandona la pirateria quando sposa una donna trapanese, ma è pronto a riprendere un «lignetto da corseggiare con i suoi cari compagni» quando la moglie scappa in Africa con un servo moro e lui intende vendicarsi. Il narratore considera positivamente la sua «animosità» e del tutto naturale l’attività della pirateria21.

47 Riguardo la pirateria nella narrativa, in contiguità, in effetti, con il mondo del banditismo, la letteratura antica è fonte non solo per quella funzione di motore e snodo della vicenda, ma anche per la tradizione di un personaggio che contribuisce a mio parere sia nella rappresentazione genericamente elogiativa dei pirati, come paladini di libertà e coraggio, che abbiamo visto, sia nella piena formazione del personaggio eroico del bandito cortese. Ne ritroviamo un’esplicita ripresa nell’Orlando innamorato, ma la fonte antica, probabilmente, ha agito già in precedenza nella strutturazione dei nostri personaggi. Quando Brandimarte si trova a duellare con il malandrino Barigaccio e gli riconosce un grandissimo valore nelle armi, lo invita ad abbandonare la vita da brigante e a diventare cavaliere, chiedendosi anzi come mai abbia fatto quella scelta. Così gli risponde Barigaccio: Rispose il malandrin: — Questo che io faccio, Fallo anco al mondo ciascun gran signore; E’ de’ nemici fanno in guerra istraccio Per agrandire e far stato maggiore. Io solo a sette o dece dono impaccio, E loro a dieci millia con furore; Tanto ancora di me peggio essi fanno, Togliendo quel del che mestier non hanno. – Diceva Brandimarte: — Egli è peccato A tuor l’altrui, sì come al mondo se usa; Ma pur quando se fa sol per il stato, Non è quel male, ed è degno di scusa, – Rispose il ladro: — Meglio è perdonato Quel fallo onde se stesso l’omo accusa; Ed io te dico e confessoti a pieno Che ciò che io posso, toglio a chi può meno22.

48 Ciò che fa il «ladro» lo fa «al mondo ciascun gran signore» che voglia «agrandire e far stato maggiore», con la differenza che un signore danneggia diecimila persone, mentre un comune bandito sette o dieci. Il motivo, come è noto, è presente nel De civitate Dei

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(IV, 4) di Agostino, che a sua volta cita un perduto passo ciceroniano del De re publica, il quale riporta una tradizione diffusa nella produzione narrativa antica su Alessandro Magno23. Soltanto, il malandrino di strada di Boiardo è in realtà un pirata nella tradizione che ha come interlocutore Alessandro, a testimoniare in effetti una facile sovrapposizione tra le due figure.

49 Nel brano di Agostino, dunque, un pirata, incontrato da Alessandro e da lui invitato a spiegare le ragioni della sua condizione, risponde eleganter et veraciter al re: Eleganter enim et veraciter Alexandro illi Magno quidam comprehensus pirata respondit. Nam cum idem rex hominem interrogaret, quid ei videretur, ut mare haberet infestum, ille libera contumacia: «Quod tibi», inquit, «orbem terrarum; sed quia id ego exiguo navigio facio, latro vocor; quia tu magna classe, imperator».

50 Solo perché opera con una piccola imbarcazione, il pirata viene considerato «predone», mentre chi agisce allo stesso modo, ma con una grande flotta, sarà chiamato imperatore. La risposta intende dimostrare quanto gli stati costituiti siano simili ai latrocini là dove è assente la giustizia: il pirata, con l’eleganza e la libertà nel parlare, smaschera l’ipocrisia verbale e invita a non giudicare sulla base di apparenze e di categorie sociali effimere.

51 Con una funzione simile l’episodio viene citato di frequente tra Trecento e Quattrocento: nei Gesta Romanorum, per esempio, nel Dittamondo di Fazio degli Uberti (e in maniera più articolata nel relativo commento di Guglielmo Capello), nel Dialogus creaturarum24. In tutti questi testi, però, la risposta del pirata ad Alessandro è più articolata, e la vicenda ha un seguito narrativo (che anche Boiardo avvia, ma poi decide di ribaltare): Alessandro, ammirato di fronte alle parole del pirata, decide di modificare la sua fortuna perché possa effettivamente essere migliore e lo rende «de latrone» «princeps»: [...] «Et quare te orbis terrarum? Sed quia ego illud ago galea una, latro vocor; tu vero mundum opprimens navium multitudine magna diceris imperator. Sed si fortuna circa me mansuesceret, fierem melior; at contra, quo tu fortunatior, tanto eris deterior». Alexander respondit: «Fortunam tibi mutabo, ne malitia suae fortunae sed meritis asscribatur». Sicque ditatus est per eum, de latrone factus est princeps et mirabilis zelator iustitiae.25

52 La vicenda della “conversione” del bandito, resa possibile dalla sua abilità oratoria e allo stesso tempo dal gesto magnanimo di un potente, è del tutto analoga a quella di Ghino nella novella di Boccaccio, che non esiterei a mettere in relazione con questi testi: l’intervento del potente serve a neutralizzare uno svantaggio prodotto dalla fortuna, e l’abilità e l’ingegno oratorio del protagonista, che lo rendono eroe positivo, hanno la funzione di scatenare tale intervento. Il bandito diventa dunque una funzione narrativa che innesca la possibilità di rappresentare un riequilibrio tra differenze sociali considerate prive di un giusto fondamento. In fondo, ciò che sostiene Hobsbawm a proposito del banditismo sociale, e ciò che lasciano intravedere personaggi come il Ghino di Benvenuto da Imola o il Robin Hood delle ballate medievali inglesi.

53 La proposta che Brandimarte fa a Barigaccio, invece, cioè di abbandonare la vita da brigante per diventare onesto cavaliere, non ha lo stesso esito: Brandimarte, innanzitutto, non considera iniquo il rubare o l’uccidere «per il stato», mentre Barigaccio, da parte sua, ribadisce una sorta di legge del più forte, per cui continuerà a togliere «a chi può meno». Tra i due c’è dunque totale incomunicabilità, e Brandimarte, paladino nel racconto, avrà la meglio su di lui con le armi.

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54 Il cerchio si chiude: se i banditi cortesi, eroi positivi a tutto tondo (Benvenuto da Imola) o eroi ambivalenti che lasciano supporre su di essi la circolazione di una leggenda ben più ampia e articolata di quanto i testi non rappresentino (Boccaccio, Francesco da Barberino, probabilmente Dante), suscitano un interesse rilevante nella letteratura trecentesca e quattrocentesca, con Boiardo quell’interesse sembra spegnersi. Prevale la ragion di stato, la legalità assoluta, alla quale è subordinata qualsiasi altra azione. Bisognerà attendere I masnadieri di Schiller per ritrovare, pienamente realizzato, il personaggio del bandito gentiluomo.

NOTE

1. Riguardo al personaggio di Robin Hood, il testo di riferimento per la tradizione medievale è R. B. Dobson-J. Taylor, Rhymes of Robin Hood, London, Heinemann, 1976. I più antichi testi rimasti che hanno per protagonista il personaggio sono ballate, probabilmente composte nel XIV secolo, ma i manoscritti più antichi risalgono al 1450 e non è possibile stabilire una datazione certa. Del resto, gli storici stessi non sono concordi nemmeno sulla ricostruzione del personaggio storico di Robin conte di Huntington (il probabile referente storico per la costruzione della leggenda) e alcuni negano che vi sia un’unica figura storica di riferimento. Quanto a personaggi di questo tipo tra Settecento e Ottocento, essi sono numerosissimi in Europa: basti citare testi come I masnadieri [Die Räuber] di Schiller (1781, da cui è tratta l’omonima opera musicata da Verdi) e Il corsaro di Byron (1814), da cui l’opera di Bellini Il pirata (1827) e di Verdi Il corsaro (1848). 2. Riguardo ai «banditi sociali», Hobsbawm traccia il ritratto di persone «ritenute criminali dal signore e dall’autorità statale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerate dalla loro gente eroi, campioni, , combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque degni di ammirazione, aiuto, appoggio» (Eric Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Torino, Einaudi, 1971, pp. 11-12). Per quanto riguarda invece la categoria specifica del «bandito-gentiluomo», tra le caratteristiche che Hobsbawm individua attraverso un’analisi contrastiva dei testi e delle testimonianze vi è per esempio il fatto che egli «non uccide, se non per autodifesa o per giusta vendetta», che «inizia come vittima di un’ingiustizia o perseguitato per un’azione che l’autorità, ma non la sua gente, giudica criminosa», che «prende dal ricco per dare al povero» (ibid., p. 37). 3. Ibid., p. 36. Riguardo al «bandito-gentiluomo» (o «ladro-gentiluomo»), Hobsbawm sostiene che «il suo ruolo è quello del campione, del vendicatore dei torti, del difensore della giustizia e dell’equità sociale. Le sue relazioni con i contadini sono di solidarietà e identità totali» (ibid., p. 37). 4. Sull’argomento si vedano Ghino di Tacco nella tradizione letteraria del Medioevo, a cura di Bruno Bentivogli, Roma, Salerno Editrice, 1992; Id., La vendetta di Ghino di Tacco. Per il commento a Purgatorio VI, 13-14, in «Filologia e critica», XVI (1991), pp. 267-271; Franco Cardini, Ghino di Tacco: una storia toscana fra medioevo mitografico e Medievistica, in La Val d’Orcia nel medioevo e nei primi secoli dell’età moderna, Atti del Convegno internazionale di studi storici (Pienza, 15-18 settembre 1988), a cura di A. Cortonesi, Roma, 1990. 5. Giovanni Cecchini, Ghino di Tacco, in «Archivio storico italiano», CXV (1957), pp. 263-298. 6. «Che direm noi se si racconterà un chierico aver mirabil magnificenzia usata verso persona che, se inimicato l’avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? […] La qual cosa, cioè come

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un chierico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto» (Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 1992, p. 810). 7. Emilio Santini, La novella di Ghino di Tacco e dell’abate di Clignì, in «Lo spettatore italiano», VII (1954), pp. 491-495. 8. Eliodoro, Le Etiopiche, a cura di A. Colonna, Torino, UTET, 1987, I, 1-4. 9. Cf. Federica Veglia, Predoni e banditi nella Commedia (a proposito del ‘bandito-cortese’), in Leggere Dante, a cura di Lucia Battaglia Ricci, Ravenna, Longo, 2002, pp. 307-321. 10. I due personaggi compaiono nei vv. 135-138: «[…] e in etterno munge / le lagrime, che col bollor disserra, / a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, / che fecero a le strade tanta guerra» (Inf. XII, 135-138). 11. Cf. Umberto Carpi, I tiranni (a proposito di Inf. XII), in «L’Alighieri», 39 (1998), pp. 7-31. 12. Michele Barbi, Problemi di critica dantesca, I serie, (1893-1918), Firenze, Sansoni, 1934, p. 300. Sul parallelo tra il passo di Francesco da Barberino e i personaggi di Dante, si veda anche Oreste Antognoni, Saggio di studi sulla Divina Commedia, Livorno, Giusti, 1893, pp. 67 ss. 13. I documenti d’Amore di Francesco da Barberino secondo i manoscritti originali, a cura di Francesco Egidi, Roma, Società Filologica Romana, 1912, vol. II, p. 96. 14. Ibid., pp. 96-97. 15. «Guido di Tacco, il quale era un grande rubatore […] ed avendo il detto Ghino una tale usanza che mai non sofferìo, né volle, che persona ch’elli miesse [avesse] morisse in prigione» (Ottimo); «Fuit magnus depredator, tamen nullos captos occidebat» (Jacopo Alighieri). 16. Per quanto riguarda gli elementi fisici del ritratto, la connotazione niger pilo può sembrare una nota stonata: in realtà, c’è un richiamo alla descrizione di Azzolino da Romano in Inf., XII, 109 («E quella fronte ch’ha ‘l pel così nero»). Là, però, la chiosa dell’Imolese si era arricchita di particolari: il pilus niger sarebbe in quel caso, secondo Benvenuto, un pelo sul naso di Azzolino che si drizzerebbe nei momenti di ira, e non l’intera sua chioma. Anche rispetto agli altri elementi del ritratto di Azzolino delineato dall’Imolese l’immagine di Ghino sembra in perfetto richiamo, per antitesi. Si dice infatti di Azzolino: «[…] vir pessimus, crudelissimus […]. Exercuit magnas violentias et crudelitates, adeo quod quidam scripserunt ipsum fecisse mori quinquaginta milia hominum […]. Scribunt aliqui, quod Ecerinus fuit corporis mediocris, niger, pilosus totus. Sed audio quod habebat unum pilum longum super nasum qui statim erigebatur, quando excandescebat in iram, et tunc omnes fugiebant a facie eius». 17. Sempre nel commento ad Inf., XII, 109-110, Benvenuto afferma: «[…] vocatus Ecerinus, sicut scribit Mussattus Paduanus, Musarum amicus, in Tragoedia quam fecit de Eccerino in qua fingit quod fuit genitum a patre Diablo». 18. Boccaccio, Decameron, X, 2, 9. La ricchezza dell’abate di Cluny è esplicitamente menzionata ad inizio di novella («venne a corte l’abate di Clignì, il quale si crede essere un de’ più ricchi prelati del mondo»). 19. Giovanni Sercambi, Il Novelliere, a cura di G. Sinicropi, Firenze, Le Lettere, 1995, vol. I, pp. 374-375. 20. Bonvesin de la riva, Laudes de Virgine Maria, in Le opere volgari di Bonvesin da la Riva, a cura di Gianfranco Contini, Roma, Società Filologica Romana, 1941, vol. I, pp. 215-218 e 218-221. 21. Masuccio Salernitano, Il Novellino, a cura di Giorgio Petrocchi, Firenze, Sansoni, 1991. 22. II, XIX, 40-41, in Matteo Maria Boiardo, Opere, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Milano, Ricciardi, 1999. 23. Il passo ciceroniano è noto, oltre che dalla citazione agostiniana, grazie al De compendiosa doctrina di Nonio Marcello (alla voce habere infestum e alla voce myoparone): «Nam cum quaereretur ex eo, quo scelere impulsus mare haberet infestum uno myoparone, “Eodem”, inquit, “quo tu orbem terrae”» (Cicerone, De re publica, III, 24). Sull’argomento, si veda Edoardo Fumagalli, Appunti sul brigante Barigaccio nell’Orlando innamorato, in «Studi umanistici piceni», 19 (1999), pp. 88-93.

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24. Gesta Romanorum, a cura di H. Oesterley, Hildesheim, Olms, 1963, § 118 (De Alexandro et Dionide pirata); Fazio degli Uberti, Il Dittamondo, IV, II, 70-72, in Id., Il Dittamondo e le rime, a cura di G. Corsi, Bari, Laterza, 1952; Dialogus creaturarum, 79 (De perdice fure), in Die beiden ältesten lateinischen Fabelbücher des Mittelalters: des Bischofs Cyrillus Speculum sapientiae und des Nicolaus Pergamenus Dialogus creaturarum, a cura di J. G. Th. Grasse, Hildesheim, Olms, 1965. 25. Gesta Romanorum, op. cit., § 118. Di poco più articolato il Dialogus creaturarum: «[…] Si solus captus fuisset Alexander, latro esset, si ad nutum Dionidis populi famulentur, erit Dionides imperator; me fortunae iniquitas, te fastus intolerabilis et inexplicabilis avaritia furem facit. Si fortuna mutaretur, fierem forte melior, ac tu, quo fortunatior, eo nequior eris. Miratus Alexander de piratae constantia dixit: experiar, an futurus sis melior, fortunam ego tibi mutabo, ut non ei anmodo quae deliqueris, sed tuis potius moribus adscribatur. Et eum adscribi fecit militiae, ut posset exinde salvis legibus militare» (dialogo 79). Più sintetico, ma identico nei riferimenti il Dittamondo: «Seguia Dionides, del qual si sona / che ‘l mar rubava e che parlò sì vivo, / che acquistò terra e scampò la persona» (IV, II, 70-72).

RIASSUNTI

Banditi e pirati sono figure ricorrenti nella narrativa medievale: generalmente la loro funzione, così come nel romanzo antico, è quella di creare un ostacolo alla riuscita dei protagonisti, e la loro azione è vista senza adesione da parte del narratore. Esistono però alcuni personaggi di banditi e di pirati che sfuggono a tale rappresentazione e incarnano invece, accanto alla forza fisica e all’impunità, virtù e ideali assimilabili a quelli cortesi (liberalità, magnanimità, difesa dei deboli, devozione assoluta, abilità oratoria). Il fenomeno, di portata europea, è stato analizzato da Hobsbawm a proposito del “banditismo sociale”, e le sue tesi sono riferimento essenziale nell’indagine. L’articolo ripercorre gli elementi storici dai quali nasce la fama di tali personaggi (di Ghino di Tacco in particolare, eroe boccacciano e personaggio dantesco, sul quale è piuttosto rilevante la documentazione storica), ma risale anche a fonti letterarie antiche; tracciando un legame tra elementi storici, leggenda popolare, fonti antiche e rappresentazione letteraria, si tenta di individuare e analizzare l’attrazione che tali personaggi suscitano sui narratori.

Les bandits et les pirates sont des personnages très fréquents dans la littérature médiévale : en général leur fonction est, tout comme dans le roman antique, celle de mettre un obstacle à la réussite des protagonistes, et leurs actions sont regardées sans sympathie par le narrateur. Mais il y a aussi des personnages de bandits et de pirates qui échappent à une telle représentation, et qui mettent en scène, outre la force physique et l’impunité, des vertus et des idéaux voisins aux vertus courtoises (libéralité, magnanimité, défense des faibles, dévotion absolue, éloquence). Pour l’analyse de ce phénomène, les travaux de Hobsbawm sur le « banditisme social » sont une référence essentielle. L’article analyse les éléments historiques sur lesquels la renommée de ces personnages s’appuie (notamment pour Ghino di Tacco, personnage du Décameron et cité par Dante, sur qui nous possédons un certain nombre de documents), mais remonte aussi aux sources littéraires anciennes ; tout en traçant un lien entre éléments historiques, sources anciennes, légende populaire et représentation littéraire, on essaye d’analyser la fascination que ces personnages exercent sur les auteurs.

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AUTORE

FEDERICA VEGLIA Biella

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Histoire et quête d’authenticité dans le Novellino. Quelques pistes de réflexion

Alessandra Stazzone

In generale, si può dire che il Novellino non attribuisce molta importanza ai nomi : manca, infatti, totalmente, l’onomastica allusiva e quasi completamente, salvo rari casi, […] quella di tipo locale o realistico. […] La ragione è da ritrovare soprattutto nel fatto che per gli autori conta non tanto la particolarità, quanto la tipicità dei personaggi (un re, un mercatante, un villano…), tipicità che di poco si modifica quando gli antroponimi sono tali da veicolare soltanto connotazioni di fama ed eccellenza. […] Si dà il caso, in questo deprezzamento dell’individuazione, che il Novellino e le altre raccolte coeve sostituiscano frequentemente, rispetto alle fonti, i nomi degli attanti, senza che in ciò sia avvertita alcuna diminuzione del valore esemplare o narrativo della storia.1

1 Peut-on, si l’on s’en tient à ces remarques, considérer que la recherche d’authenticité dans le Novellino se fonde sur la référence à des faits historiques ? Autrement dit, les nouvelles du Novellino présentent-elles leur récit comme authentique, soit en prétendant explicitement relater un fait historique, soit en choisissant comme protagoniste un personnage historique ?

2 La réponse à cette question semble d’emblée négative. Bruno Porcelli évoque également le cas de personnages extrêmement célèbres au Moyen Âge, tel l’empereur Frédéric II, protagoniste de plusieurs nouvelles du recueil. Il s’agit d’un exemple à ses yeux peu convaincant puisque bien trop confus. La formulation lo ’mperadore Federico désignant

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en effet à la fois l’empereur Frédéric II et son prédécesseur Frédéric I Barberousse, il pourrait être tout simplement considéré comme le « type » même du souverain. C’est ce que l’on peut remarquer dans la nouvelle LXIV, dans laquelle l’auteur, en désignant l’un des nobles chevaliers du comte Raymond de Provence, montre, par la remarque suivante, qu’il n’est pas nécessaire de s’attarder sur son identité exacte : Alla corte del Po di Nostra Donna di Provenza s’ordinò una nobile corte. Quando il figliuolo del conte Raimondo si fece cavaliere, invitò tutta la buona gente […]. I cavalieri e’ donzelli ch’erano giulivi e gai sì faceano di belle canzoni el suono e ’l motto; e quattro approvatori erano stabiliti, che quelle ch’aveano valore facevano mettere in conto, e l’altre, a chi l’avea fatte, diceano che le migliorasse. Or dimorarono, e dicìano molto bene di lor signore; e li loro figlioli furono nobili cavalieri e costumati. Or avvenne che uno di quei cavalieri (pognalli nome messer Alamanno), uomo di gran prodezza e bontade, amava una molto bella donna di Proenza, la quale avea nome madonna Grigia2. Dans le cas de ce Pognalli nome messer Alamanno, l’auteur du recueil semble, d’après Porcelli, remplacer les noms des protagonistes par d’autres sans aucune perte de valeur exemplaire de la nouvelle.

3 L’apparition de personnages historiques garants de l’authenticité du récit, fortement connotés par une identité précise, soulignée par un nom individuel réaliste commencerait seulement avec la rédaction de la Divine Comédie, dans laquelle Dante introduit des personnages doués d’une « individualità e una storia particolari, provviste perciò di nomi personali e non intercambiabili. Nella Commedia ogni personaggio, peccatore, penitente o beato, sta con i suoi eventi biografici e il nome anagrafico, reso esemplare proprio in virtù dell’individualità che lo responsabilizza e lo rende dissimile dagli altri3 ». Par conséquent, l’auteur du Novellino ne ferait que réactualiser certains motifs déjà exploités en attribuant aux personnages de ses nouvelles des noms quasiment au hasard, sans aucune prétention de relater une histoire ou de fournir un témoignage véridique.

4 D’autres études soulignent l’ampleur du procédé de réactualisation qui marque toutes les nouvelles du recueil. D’après M. L. Mulas, par exemple, ce procédé répondrait à l’exigence de conférer une plus grande vraisemblance aux faits racontés : Oltre che ad una maggiore capacità di presa sul lettore, il procedimento di attualizzazione sembra mirare ad un effetto di maggiore credibilità e verosimiglianza. […] Tutto ciò che non appare verisimile, direi persino quotidiano, viene escluso dal racconto. La novella […] non ha l’obbligo morale della verità, perciò ci è apparsa più libera dell’esempio; ma la legge della verosimiglianza le vieta quella mescolanza di quotidiano e di meraviglioso proprio del racconto favolistico, fiabesco, leggendario4.

5 La recherche de vraisemblance ne repose pas, dans ce cas, sur l’évocation d’un fait ou d’un personnage historique, mais sur l’introduction, dans la tissu de la narration, de détails ou éléments de la vie quotidienne destinés à rapprocher le récit, aussi bien culturellement que chronologiquement, des lecteurs.

6 Si l’on s’en tient cependant à la lecture Prologue du recueil, contenant l’objet de l’œuvre, on peut déceler l’existence d’autres pistes de lecture, ou du moins la présence d’un intérêt pour la notion d’« histoire » : Questo libro tratta di alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be’ risposi e di belle valentie e doni, secondo che per lo tempo passato anno fatto molti valenti uomini5.

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7 L’importance des textes proposés à la lecture repose aussi bien sur les qualités morales ou intellectuelles des personnages cités (molti valenti uomini) que sur l’époque pendant laquelle ces fiori di parlare ont été prononcés. Plus loin, le recueil est d’ailleurs explicitement envisagé comme un modèle de comportement : E chi avrà cuore nobile e intelligenzia sottile, sì li potrà simigliare per lo tempo che verrà innanzi, e argomentare e dire e raccontare in quelle parti dove avranno luogo, a prode e piacere di coloro che non sanno6.

8 Dans le Prologue est clairement présente la dimension temporelle, et plus particulièrement celle de la mémoire des textes et des faits que l’auteur du Novellino se propose de réactiver mais qu’il suppose connu de ses lecteurs, tel un patrimoine commun. L’auteur semble en effet vouloir établir une continuité temporelle entre le passé et le présent (per lo tempo che verrà innanzi), et envisage le tempo passato comme la source de ses textes. Il évoque en outre la mémoire collective : Facciamo qui memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi, di belle valentìe e di belli donari e belli amori, secondo che per lo tempo passato ànno fatto molti7.

9 Les récits du passé sont ici légués aux lecteurs de l’œuvre comme un héritage. Il est donc légitime de s’interroger sur deux questions concernant la transmission de cette connaissance commune dans le recueil de nouvelles. De quelle façon cette mémoire commune, appartenant au passé, est-elle transmise, si elle ne se fonde pas sur la narration de faits historiques ? Et, de même, peut-on vraiment considérer que la prétendue authenticité du récit ne se fonde jamais, dans le Novellino, sur l’élément historique, qu’il s’agisse du choix de relater un fait historique ou de choisir un personnage historique comme protagoniste du récit ?

10 Le but de cette étude n’est pas de fournir une réponse définitive à ces questions, mais plutôt d’ouvrir des pistes de réflexion. C’est pourquoi, dans nos réflexions préalables à cette analyse, nous avons interrogé l’ensemble des nouvelles composant le Novellino à l’aide d’une grille de lecture s’articulant sur quatre points. Pour chaque nouvelle, nous avons étudié l’origine du personnage protagoniste de la nouvelle, le discours qu’il produit, le fait exposé (c’est-à-dire production d’un témoignage présenté comme « historique » ou non), et, éventuellement, l’intervention de l’auteur. Cette grille de lecture, préalablement appliquée au corpus des nouvelles 8, nous a permis de dégager quatre groupes de textes qui présentent autant de facettes différentes du rapport que le Novellino entretient avec la vérité historique, et notamment avec l’équation entre référence historique et véridicité des faits racontés.

La parole divine ou le récit authentique par excellence

11 Ce groupe de nouvelles a pour protagonistes des personnages d’origine scripturaire. Dans ces textes apparaissent en effet Dieu lui-même, le Christ9, ainsi que des personnages chargés d’appliquer de manière concrète la justice divine. C’est le cas de l’ange exterminateur armé d’épée apparaissant à plusieurs reprises dans différentes nouvelles, mais également des prophètes comme Barlam10 ou de personnages célèbres pour avoir accompli des miracles (c’est le cas de Grégoire I11) ou des souverains bibliques comme David, Roboam, Aminadab12 et Salomon 13. Il s’agit d’un groupe de textes assez restreint dans l’ensemble de l’œuvre, puisqu’il est composé de huit nouvelles.

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12 Ces textes sont marqués par des traits spécifiques, aussi bien au niveau de la structure que du choix lexical et rhétorique. Ces récits s’articulent sur deux séquences, la première, plus brève, contenant le postulat à démontrer, la seconde, plus développée, consacrée à la démonstration de l’exemple. C’est ainsi que la nouvelle VI, consacrée à la description des conséquences du péché d’orgueil de David est composée d’une première séquence, dans laquelle le péché de vaine-gloire, au lieu de faire l’objet d’un dévoilement progressif au fil du récit, est d’emblée clairement affiché et présenté au lecteur sans ambiguïtés : David re, essendo re per la bontà d’Iddio, che di pecoraio l’aveva fatto signore, li venne un giorno in pensiero di volere al postutto sapere quanti fossero i sudditi suoi. E ciò fu atto di vanagloria, onde molto ne dispiacque a Dio14.

13 Cette séquence initiale est suivie d’une deuxième séquence ayant le fonction de décrire les conséquences de cet acte déraisonné (la réaction brutale de l’ange exterminateur, chargé de supprimer les sujets de David, dont le nombre était considéré comme la mesure de la puissance du souverain), puis la miséricorde divine (Dieu pardonne à David cet acte de vaine-gloire) : […] Or che fece Iddio? Punillo secondo la colpa: ché quasi la maggior parte del populo suo li tolse per morte, acciò che elli si vanagloriò nel grande novero; così lo scemò e appiccolò il novero. Un giorno avvenne che, cavalcando David, vide l’angelo di Dio con una spada ignuda, ch’andava uccidendo. E comunque elli volle colpire uno, e David smontoe subitamente e disse: «Messere, mercè per Dio. Non uccidere l’innocenti, ma uccidi me, cui è la colpa. Allora, per la dibonarità di questa parola, Dio perdonò al popolo e rimase l’uccisione15».

14 Cette même structure peut être relevée dans les autres nouvelles composant ce groupe de textes ; ainsi, la nouvelle VII, se propose-t-elle de démontrer que les mérites ou les péchés sont héréditaires et transmissibles d’une génération à l’autre16. La nouvelle LXIX, quant à elle, se propose de démontrer l’importance des bonnes actions accomplies de son vivant. C’est ainsi que l’auteur de la nouvelle met en scène l’« étonnant » récit de la salvation de Trajan par œuvre des prières de Grégoire I le Grand17, ou qu’il démontre les conséquences dangereuses du péché d’avarice dans la nouvelle LXXXIII18.

15 Dans ce groupe de nouvelles on peut également relever des phénomènes récurrents aussi bien du point de vue lexical que du point de vue rhétorique et stylistique. Remarquons tout d’abord l’apparition constante fréquente du substantif essemplo ainsi que de l’adjectif essemplare ou encore du verbe dimostrare, qui constituent ici une marque textuelle constante. Ce phénomène est par ailleurs observable uniquement dans les nouvelles composant ce groupe. Notons également, d’un point de vue plus strictement rhétorique et stylistique, que la parole des protagonistes de ces nouvelles n’est jamais mise en doute. Ainsi, l’auteur n’a-il jamais recours à la caution d’une autorité, ce qui nous laisse supposer que la fonction de ces nouvelles est moins de raconter que de démontrer. C’est pourquoi, par exemple, même les miracles les plus inouïs semblent dans certains passages presque prévisibles ; c’est le cas de la nouvelle LXIX, dans laquelle le véritable miracle opéré par Grégoire le Grand est brièvement évoqué par une formule dépourvue de tout suspense : « E santo Grigoro orò per lui, e dicesi per evidente miracolo che per li prieghi di questo papa l’anima di questo imperadore fu liberata dalle pene dell’inferno […]19 ».

16 Cette logique démonstrative est soulignée, voire même exhibée par différents procédés stylistiques ; du choix de connecteurs indiquant une relation de cause à effet comme

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così et surtout onde20, répétés à la fin de la Séquence 1 et reprenant la fin de la Séquence 2 au choix d’une formule plus développée. À la fin de la nouvelle LXXV, après avoir exposé les conséquences du mensonge, l’auteur termine son récit en affirmant e così si prouvano tali cose21.

17 De même, c’est dans ce groupe de textes que nous relevons la présence de formules destinées à demander l’attention du public, qui est invité à écouter un message salutaire du point de vue moral, comme dans un sermon. Ainsi, l’auteur préfère-t-il renforcer le contenu pédagogique de ces récits en encourageant ses lecteurs à redoubler d’attention ou en introduisant des formules qui ménagent un sentiment d’attente ayant la même finalité, au lieu de donner des indications justifiant la véridicité des faits proposés à la lecture. C’est le cas de formules telles Or che fece Iddio? 22, ou encore Nota che…23, ainsi que de la longue admonestation, bien plus explicite, que l’auteur choisit d’intégrer dans la nouvelle LXXXIII avant de poursuivre son récit sur les dangers de l’avarice : « Ma udite opere ree che ne seguiro poscia de’ pensieri rei che ’l Nemico diè loro24 ».

18 Dans le cas de ces textes, l’histoire ou la référence historique est absente à juste titre, puisqu’elle n’est d’aucune utilité, la logique démonstrative qui structure ces passages s’appuyant sur une parole dont la véridicité n’a pas à être démontrée.

Récit et quête d’autorité : une caution livresque et auctoriale

19 Un deuxième groupe de textes met en scène, au sein du Novellino, des personnages d’origine explicitement livresque ou transmise par une circulation écrite. Cette origine s’appuyant sur la matérialité du texte écrit ou du nom d’un auteur est particulièrement frappante puisque volontairement soulignée. Ces nouvelles ont pour protagonistes aussi bien des souverains de l’Antiquité, dont la biographie se confond avec le mythe – c’est le cas, par exemple, d’Alexandre le Grand25 ou du Roi Poro – mais aussi de personnages mythologiques comme Hercule26 ou Narcis27, et, surtout, de personnages issus d’une œuvre littéraire, comme dans le cas des personnages des romans arthuriens28.

20 Observons tout d’abord que dans ce groupe de textes la véridicité du contenu se fonde sur la notoriété de ces personnages ou des textes qui en on relaté les dires ou l’existence bien avant la rédaction du recueil. Ainsi leur identité est-elle supposée connue du lecteur, et aucune ou peu de données supplémentaires sont fournies par l’auteur afin d’en faciliter l’identification. Deux procédés stylistiques sont alors utilisés pour « cautionner » le contenu de la nouvelle. Dans le premier cas, la notoriété du personnage ne semble pas être mise en doute, puisque que le superlatif grandissimo, associé au nom individuel, semble à même de produire un effet de réalité. Ce procédé a alors pour but de souligner la position de supériorité du personnage dans un domaine précis ; ainsi, le contenu de ces textes est-il cautionné par la déclaration explicite de cette supériorité, qu’elle soit intellectuelle ou physique, comme dans le cas de la séquence initiale de la nouvelle 70 qui a pour protagoniste Hercule : Ercule fu uomo fortissimo oltre li altri uomini.

21 Mais le procédé le plus fréquent est celui de l’insistance sur l’origine littéraire de ces personnages ou sur les sources littéraires dans lesquelles l’auteur a puisé le noyau

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inspirateur de son récit. Citons, à titre d’exemple, le début de la nouvelle XV, dont la phrase initiale est entièrement occupée par l’évocation de la source livresque dans laquelle l’auteur semble avoir tiré son récit : Valerio Massimo nel libro sesto narra che Chalogno29… Le début du récit renvoie par conséquent explicitement à une source littéraire et à son auteur, à savoir le chapitre De Iustitia des Facta et Dicta memorabilia de Valère Maxime. Ce même procédé est employé dans la nouvelle LXXI, dans laquelle la source livresque de l’anecdote est encore davantage soulignée par la tournure impersonnelle si legge30. Dans d’autres nouvelles la référence à la source littéraire ne s’effectue pas par au moyen d’une citation ; dans la nouvelle XXVIII31, l’auteur en vient même à donner des indications de lecture à son public en sélectionnant lui-même un passage précis au sein d’une histoire qu’il suppose déjà bien connue de ses lecteurs : Costuma era nel reame di Francia che l’uomo ch’era degno d’essere disonorato e giustiziato, sì andava in sullo carro. E se avenisse che campasse la morte, mai non trovava chi volesse usare né stare con lui per niuna cagione. Lancialotto, quand’elli venne forsennato per amore della reina Ginevra, sì andò in su la carretta e fecesi tirare per molte luogora, e da quello giorno innanzi non si spregiò più la carretta […]32.

22 Dans ce cas, la nouvelle situe l’action à un point précis du Lancelot, celui de la folie33. Ce même phénomène apparaît dans une autre nouvelle du recueil ayant pour protagoniste un autre personnage des romans arthuriens, à savoir Tristan34 : « Amando messere Tristano di Cornovaglia Isotta la Bionda, moglie del re Marco, sì fecero tra loro un signale d’amore di cotal guisa […]35 ».

23 D’une manière générale, on peut observer, d’un point de vue lexical, que l’auteur souligne la circulation écrite de ces textes, notamment le support matérialisé du texte écrit, qui se situe dans l’espace circonscrit d’un texte déjà rédigé. C’est pourquoi ces formules indiquant la fixation écrite de ces textes sont insérées au début des nouvelles.

Mémorabilité et authenticité

24 Dans le Novellino est néanmoins présent un troisième groupe de nouvelles, bien plus nourri d’un point de vue quantitatif que ceux analysés ci-dessus. Dans ces textes apparaissent des personnages « historiques », ce qui nous donne un aperçu de l’importance que l’auteur du Novellino manifeste à l’égard de ce type de personnages. C’est le cas de personnes ayant marqué l’histoire politique des XIIIe-XIVe siècles : depuis Ezzelino da Romano36 jusqu’à des seigneurs dont la notoriété était à l’époque répandue localement, pourtant suffisamment connus (c’est la cas d’Imberal del Balzo37), des représentants du milieu intellectuel, tels François Accurse et le Maître Thaddée de Bologne38. Bon nombre de nouvelles sont en outre consacrées à des souverains, notamment l’empereur Frédéric II39.

25 Dans ces nouvelles, l’auteur semble vouloir raconter des événements prétendument « historiques ». Ainsi, tous ces textes sont-ils fortement marquées par un repérage spatio-temporel précis, comme si l’auteur prenait soin de « situer » ses textes dans un contexte bien défini. Il s’agit là d’une pratique d’écriture absente des nouvelles composant les deux autres groupes analysés ci-dessus, dans lesquelles la formule, bien plus floue, employée pour situer un événement, est plutôt uno giorno. C’est pourquoi il est intéressant d’observer, pour ne citer qu’un exemple, que dans la nouvelle XXXII, consacrée à Riccar lo Ghercio d’Illa40, l’auteur insiste longuement sur la description de

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la période historique dans laquelle la nouvelle se déroule, puis sur le déroulement même de la bataille opposant les Chrétiens aux Sarrasins sur le sol espagnol : Riccar lo Ghercio fu signore dell’Illa, e fu grande gentiluomo di Provenza, e di grande ardire e prodezza a dismisura. E quando i Saracini vennero a combattere la Spagna, elli fu in quella battaglia che si chiamò la Spagnata, e fu la più perigliosa battaglia che fosse dallo tempo di quella di troiani e di Greci in qua. Allora erano li Saracini grandissima multitudine, e con molte generazioni di stormenti […]41.

26 Peu importe que la bataille désignée par l’auteur soit difficilement identifiable d’un point de vue historique ; il convient tout de même d’observer que, par rapport aux textes composant les groupes 1 et 2, la volonté de fournir des précisions d’ordre « historique » est particulièrement frappante.

27 Ces précisions temporelles s’accompagnent d’ailleurs souvent de précisions spatiales : l’auteur tente, dans ce cas, autant que ses sources le lui permettent, de circonscrire les événements d’un point de vue géographique ou linguistique. Ainsi ces textes sont-ils ponctuées de notations temporelles (voir, par exemple, les notations qui ouvrent la nouvelle XLII : al tempo del conte42…), ou spatiales (in Proenza, in Cicilia, nella Marca… Les indications linguistiques qui permettent de donner un effet de réalité au récit sont également très fréquentes : c’est le cas de l’imitation des parlers régionaux que l’on retrouve dans les nouvelles consacrées à Ezzelino da Romano et à Imberal del Balzo43, tout comme les interventions du narrateur, qui contribuent également à cette recherche de réalisme. Notons en effet que ces interventions sont absentes des nouvelles du groupe 1, à l’exception des formulations destinées à demander au lecteur de redoubler d’attention afin d’écouter une vérité salutaire, comme précisé ci-dessus, et plutôt figées dans les nouvelles du groupe 2. En revanche, dans les textes étudiés ici, l’auteur semble être parfaitement conscient de la nature orale de ces récits, et se concentre sur les origines des histoires qui font l’objet de cette diffusion (molto si contò, di questo nacque sententia, perciò si dice che, di questo nacque una quistione). La volonté de circonscrire les événements, soit du point de vue des actions, mais aussi des discours par l’indication de leur origine est donc manifeste ; ainsi, dans ces nouvelles est même décortiqué et observé le processus de formation d’une nouvelle, comme lorsque l’auteur prend soin d’observer que d’un fait initial nacquero molte novelle, ou nacquero molte sententie. L’histoire produit ici une histoire, que le Novellino est chargé de diffuser.

28 Bien que ces textes ne se fondent pas sur des faits identifiables avec précision de nos jours, l’auteur manifeste la volonté de produire un témoignage véridique dont le fonctionnement est élucidé et décortiqué à l’aide de critères « historiques » ; ainsi, les faits qui sont exposés dans ces nouvelles s’appuient sur un témoignage présenté comme véridique.

Mémoire ou rumeur ?

29 Contrairement aux nouvelles composant les groupes 1, 2, et 3, on peut dégager, dans le Novellino, un dernier groupe de nouvelles dont les protagonistes n’ont pas une identité bien définie. Ils sont même dépourvus de nom individuel ou leur identité est à peine suggérée par une initiale ou par des noms inventés. Nous faisons allusion, par exemple, à la longue série de personnages désignés par leur identité sociale, tels le jongleur et le « seigneur » de la nouvelle LXXIX44, les Gênois de la nouvelle LXXXV45, les marchands des nouvelles XCVII46 et XCVIII47, etc. Ces nouvelles font également souvent référence à

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des groupes anonymes ; nous faisons par exemple allusion à la nouvelle LVII dans laquelle Madonna Agnesina est accompagnée d’un groupe de femmes48.

30 Si l’on s’intéresse au cadre spatio-temporel défini dans ces nouvelles, on peut observer qu’il est bien plus flou que celui qui marque les nouvelles composant le groupe 3. Aucune indication précise ne permet d’établir l’époque à laquelle ces faits se sont produits49. Le phénomène le plus frappant qui caractérise de manière générale toutes ces nouvelles, c’est qu’elles semblent présenter une vérité plutôt incertaine, non vérifiée, non fondée sur des faits précis. Ces derniers reposent d’ailleurs pour la plupart sur des rumeurs, comme l’indiquent les formules soulignant ce type d’incertitude (la novella si sparse, il grido andò, il grido corse), ou comme dans la nouvelle IX, dans laquelle la rumeur d’un fait inhabituel parvient aux oreille du sultan50.

31 D’autres formules décrivent même la formation d’une rumeur qui sera transmise de bouche en bouche par un groupe d’anonymes ; de même, ce vecteur privilégié de racontars est généralement représenté par les groupes de femmes : « La madre […] il manifestò a un’altra donna, e quella andò da un’altra. Tanto andò d’una in altra, che tutta Roma il sentì51. » Il s’agit donc d’une parole non cautionnée, presque incontrôlable, dont le caractère incertain est encore davantage renforcé par la présence de la parole des fous52, dont les propos ne jouissent d’aucune crédibilité auprès de leurs interlocuteurs.

32 En conclusion, dans le Novellino, nous sommes confrontés à une sorte de hiérarchisation de la vérité, c’est-à-dire à plusieurs niveaux de vérité. Tous ces textes accomplissent le rôle préconisé dans le prologue, mais certaines nouvelles ont un degré d’authenticité plus marqué que d’autres. Ainsi, d’une vérité absolue, d’un postulat sur lequel on ne revient pas, parfaitement démontré par le déroulement du récit (nouvelles du groupe 1), l’on passe à l’extrême opposé, à savoir à une vérité incertaine, fondée sur des faits diffusés oralement, dont l’authenticité et la véridicité reposent sur la circulation orale des nouvelles et sur la déformation que le vecteur des racontars peut entraîner. Entre ces deux pôles se situent d’autres textes, ceux dont la véridicité est d’emblée prouvée par leur source, celle d’un texte connu ou d’un auteur qui en cautionne le contenu, ainsi que ceux dont la véridicité est cautionnée par la précision « historique » des données proposées. Ainsi, semble-t-il, la prétendue authenticité des nouvelles du Novellino se fonde sur de nombreux procédés, dont la référence à un fait historique fait partie intégrante.

NOTES

1. Bruno Porcelli, Il nome nel racconto. Dal Novellino e la Commedia ai novellieri del Trecento, Milan, Angeli, 1997, p. 13-14. 2. Nov. LXIV, Qui conta d’una novella ch’avvenne in Proenza alla corte del Po. (Histoire de ce qu’il advint en Provence, à la cour du Puy : « À la cour du Puy Notre Dame de Provence fut organisée une noble fête. Lorsque le fils du comte Raimond fut fait chevalier, il invita toute la noblesse […]. Les chevaliers et les pages, gais et joyeux, composaient de belles chansons, musique et paroles ; et

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l’on instituait quatre juges qui distinguaient celles qui valaient le plus, et aux auteurs des autres il conseillait de les améliorer. Ces fêtes se perpétuèrent, où les participants s’employaient à louer leur seigneur ; et leur fils devinrent des chevaliers nobles et bien éduqués. Il se trouva que l’un de ces chevaliers (appelons-le messire Alaman), homme de grande prouesse et bonté, aimait une fort belle dame de Provence, qui avait nom Dame Grise »). Toutes nos citations du Novellino d’après Il Novellino, a cura di Alberto Conte, prefazione di Cesare Segre, Roma, Salerno Editrice, 2001. Nos traductions du Novellino sont tirées de Novellino, suivi de Contes de chevaliers du temps de jadis, introduction, traduction et notes de Gérard Genot et Paul Larivaille, Paris, Union Générale d’Éditions (10/18), 1988. 3. B. Porcelli, Il nome nel racconto, ouvr. cité, p. 15. 4. Maria-Luisa Mulas, Lettura del « Novellino », Rome, Bulzoni, 1984, p. 176-177 et p. 182. 5. Nov. I, 5 : « Ce livre traite de quelques fleurs de parler, de belles courtoisies et de belles réponses et de belles prouesses et de beaux dons, que par le passé ont accomplis nombre d’hommes valeureux ». 6. Nov. I. : « Qui aura cœur noble et entendement subtil les pourra à l’avenir imiter, commenter, citer et raconter là où il y aura lieu, pour le profit et le plaisir de ceux qui ne savent point et désirent savoir ». 7. Nov. I. : « Nous notons ici pour mémoire quelques fleurs de parler, de belles courtoisies et de belles réponses et de belles prouesses, de beaux dons et de belles amours, que par le passé accomplirent un grand nombre d’hommes ». 8. Il convient de souligner que notre analyse a été effectuée à partir du texte, sans doute postérieur au XIIIe siècle, du Novellino vulgato. Sur cette question, voir la Presentazione de Cesare Segre ainsi que l’Introduzione par Alberto Conte à Novellino, éd. cit., p. I-XXVIII. 9. Domenedio – désigné également par la formule Nostro Signore – est le protagoniste de la nouvelle LXXV intitulée Qui conta come Domenedio s’accompagnò con uno giullare ; le Christ apparaît, quant à lui, dans la nouvelle LXXXIII intitulée Come Cristo andando un giorno co’ discepoli videro molto grande tesoro. 10. Voir nouvelle XXXIV, Qui conta come uno re crudele perseguitava i Cristiani, qui met en scène non seulement Barlam et le roi Balac, mais également un ange exterminateur armée d’une épée de feu appelé l’Angelo di Dio. 11. Le miracle attribué à Grégoire I est exposé dans la nouvelle LXIX (Qui conta della gran iustizia di Traiano imperadore). 12. David et Aminadab sont les protagonistes d’une même nouvelle, la XII, intitulée Qui conta de l’onore che Minadab fece al re David, suo naturale signore. David est également le protagoniste, avec un ange exterminateur, de la nouvelle VI (Come a David re venne in pensiero di volere sapere quanti fossero i sudditi suoi). 13. Salomon, Roboam et l’Angelo sont les protagonistes de la nouvelle VII, Qui conta come l’angelo parlò a Salamone e disseli che torrebbe Domenedio il reame al figliuolo per li suoi peccati. 14. Nov. VI, 1-2 : « Le roi David, roi par la bonté de Dieu, qui de berger l’avait fait seigneur, fut pris un jour du désir de savoir à tout prix combien étaient ses sujets. Et ce fut là un acte de vanité, qui fort déplut à Dieu ». 15. Nov. VI, 6-11 : « Or donc, que fit Dieu ? Il le punit selon la faute, lui ôtant par la mort presque la plus grande partie de son peuple, puisqu’il avait tiré vanité de son grand nombre : ainsi il le diminua, et en réduisit le nombre. Il advint qu’un jour, alors qu’il chevauchait, David vit l’ange du Seigneur avec une épée nue, qui allait tuant. Et au moment même où celui-ci allait frapper un homme, David mit pied à terre et dit : — Par Dieu, Messire, grâce ! Ne tue pas les innocents, mais tue-moi, moi, car c’est ma faute. – Alors pour la bonté de ces paroles, Dieu épargna le peuple et mit fin au massacre ». 16. Séquence 1 : Salomon se rend coupable d’une offense envers Dieu et doit être puni. Le postulat à démontrer est affiché à la fin de la séquence : « E così dimostra i guiderdoni del padre

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meritati nel figliuolo, e le colpe del padre pulite nel figliuolo ». Séquence 2 : Description du châtiment réservé à Roboam, fils de Salomon, afin de « laver » l’offense commise par Salomon : « Giuraro insieme certi baroni, sicché in trentaquattro dì, dopo la morte di Salomone, [Roboam] perdé delle dodici parti le diece del suo reame per il folle consiglio de’ giovani » (« Certains barons ourdirent une conspiration, si bien qu’à trente-quatre jours de la mort de Salomon, [Roboam] avait perdu les dix douzièmes de son royaume par l’effet des recommandations insensées des jeunes »). 17. Séquence 1 : Évocation des grandes qualités de justice dont Trajan fait preuve de son vivant. Séquence 2 : Effet des prières de Grégoire le Grand ; suit la description d’un fait extraordinaire destiné à prouver les mérites de Trajan : « E dopo non molto tempo, dopo la sua morte, venne il beato san Ghirigoro papa, e trovando la sua giustizia, andò alla statua sua, e con lagrime l’onorò di gran lodo e fecelo disoppellire. Trovaro che tutto era tornato alla terra, salvo che l’ossa e la lingua; e ciò dimostrava com’era suto giustissimo uomo, e come giustamente avea parlato » (§ 10-11 : « Peu de temps après la mort de Trajan, le bienheureux saint Grégoire devint pape, et, apprenant la justice de l’empereur, il se rendit au pied de sa statue ; pleurant, il l’honora de grandes louanges et fit ouvrir son tombeau. On découvrit que tout était retourné à la terre, sauf les os et la langue, ce qui montrait combien il avait été juste et avait parlé selon justice »). À cette démonstration s’ajoute un discours ayant pour but de démontrer l’efficacité des prières de Grégoire I. Celui-ci parvient en effet à sortir l’âme de Trajan de l’enfer : « E santo Grigoro orò per lui a Dio, e dicesi per evidente miracolo che per li prieghi di questo santo papa l’anima di questo imperadore fu liberata dalle pene dell’inferno, e andòne in vita eterna; ed era stato pagano » (§ 12 : « Et saint Grégoire pria Dieu pour lui, et l’on rapporte comme un miracle évident que, grâce aux prières de ce saint pape, l’âme de l’empereur fut délivrée des peines de l’enfer et atteignit à la vie éternelle ; et pourtant, c’était un païen »). Cette salvation paradoxale est fortement soulignée par la formule qui clôt la nouvelle (ed era stato pagano) que le lecteur doit mémoriser et retenir. 18. Séquence 1 : Le Christ lui-même annonce à ses disciples ce qu’il va leur prouver dans la suite de la nouvelle, à savoir le danger de la damnation éternelle provoqué par le désir de richesses : « Voi volete quelle cose che toglie al regno nostro la maggiore parte dell’anime. E che ciò sia vero, alla tornata n’udirete l’asempro » (Vous convoitez des choses qui détournent de notre royaume la plupart des âmes ; et la preuve que cela est vrai, vous la verrez à notre retou »). Séquence 2 : Évocation d’un exemple de cupidité, qui amène deux amis (due cari compagni) à s’entretuer pour s’emparer de lingots d’or fin. La dernière phrase de cette séquence réprend le postulat à démontrer, afin de souligner que le postulat annoncé dans la Séquence 1 vient d’être démontré : « El Nostro Signore passò indi co’ suoi discepoli nel detto giorno, e mostrò loro l’esmpre che detto avea » (Notre Seigneur repassa avec ses disciples le même jour, et il leur montra la preuve qu’il leur avait annoncée »). 19. § 12 : « Et saint Grégoire pria Dieu pour lui, et l’on rapporte comme un miracle évident que, grâce aux prières de ce saint pape, l’âme de l’empereur fut délivrée des peines de l’enfer […] ». 20. Voir à cet égard Nov. XXXVI, 17 et 28. 21. Nov. LXXV, 36. 22. Nov. VI, 6. 23. Nov. VII, 5. Sur ce point, voir aussi M. L. Mulas, Lettura del « Novellino », ouvr. cité, p. 128-129 : « […] la novella di Salomone e di suo figlio Roboam sembra divisa in due unità narrative da due lettere iniziali colorate, Legesi di Salomone… e Nota che Salomone. Insomma, […] la novella non ha marche grafiche di confine precise (numerazione, titolo, rubrica), come se il singolo testo, in quanto unità logico-narrativa, avesse meno importanza del senso esemplare che si può ricavare dalle sue singole parti o da una filza di narrazioni ». 24. Nov. LXXXIII, 6.

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25. Alexandre le Grand est notamment le protagoniste de Nov. IV (Come uno giullare si compianse dinanzi ad Alessandro d’un cavaliere, al quale elli avea donato per intenzione che ’l cavaliere li donerebbe ciò ch’Alessandro li donasse), de Nov. XIII (Qui conta come Antinogo riprese Alessandro perch’elli si faceva sonare una cetera a suo diletto) et de Nov. LXVI (Qui parla d’uno filosafo lo qual era chiamato Diogene). Il est en revanche rapidement évoqué au début de Nov. IX (Qui si ditermina una nova quistione e sentenzia che fu data in Alessandria). 26. Nov. LXX (Qui conta d’Ercules come n’andò alla foresta). 27. Voir Nov. XLVI (Come Narcis innamorò de l’ombra sua). 28. Nov. XXVI (Qui conta d’uno borghese di Francia), Nov. XXVIII (D’una costuma ch’era nello reame di Francia), Nov. XLV (Come Lancialotto si combatté a una fontana), Nov. LXIII (Del buono re Emeladus e del Cavaliere senza paura), Nov. LXV (Qui conta della Reina Isotta e di Messere Tristano di Leonis), Nov. LXXXII (Qui conta come la damigella di Scalot morì per amore di Lancialotto del Lac). 29. Nov. XV, Come uno rettore di terra fece cavare un occhio a sé e uno al figliuolo per osservare giustizia, par. 1. 30. Nov. LXXI. Ancora si legge di Seneca… 31. Nov. XXVIII, Qui conta della costuma ch’era nello reame di Francia. 32. Nov. XXVIII, 1-3. Nous soulignons. « C’était la coutume, au royaume de France, que tout homme qui avait mérité d’être déshonoré et justicié, fût emmené sur une charrette. Et s’il advenait qu’il échappât à la mort, il ne se trouvait jamais personne qui voulût avoir commerce avec lui pour quelque raison que ce fût. Lancelot, lorsqu’il perdit le sens par amour pour la reine Guenièvre, monta sur une charrette et se fît traîner en maints lieux, et à partir de ce jour la charrette ne fut plus honnie […] ». 33. Sur les sources de l’épisode de la folie de Lancelot dans le Novellino, voir Daniela Delcorno Branca, « I racconti arturiani del Novellino », dans Tristano e Lancillotto in Italia, Ravenne ; Longo, 1997, p. 115-142. 34. Cf. Nov. LXV, Qui conta della reina Isotta e di messere Tristano da Leonis. 35. Nov. LXV, 1 : « Au temps où messire Tristan de Cornouaille aimait Yseut la blonde, épouse du roi Marc, ils convinrent entre eux d’un signal d’amour […] » (nous soulignons). 36. Voir à cet égard les nouvelles XXXI (D’un novellatore ch’avea Messere Azzolino) et LXXXIV (Come Messere Azzolino fece bandire una grande pietanza). 37. Nov. XXXIII ( Qui conta una novella di Messere Imberal del Balzo). D’autres personnages historiques, pourvus d’une identité clairement définie, sont présents dans recueil : Riccar lo Gercio d’Illa, Messer Polo Traversaro, Marco Lombardo, Messere Migliore delli Abati, Messer Castellano da Cafferi… 38. Nov. XXXV (Qui conta del Maestro Taddeo da Bologna). 39. Pour Frédéric II, que l’auteur confond parfois avec son prédécesseur Frédéric I Barberousse, voir les nouvelles II (Della ricca ambasceria la quale fece il Presto Giovanni al nobile imperatore Federigo), XXII (Come allo ’mperadore Federigo fuggì un astore dentro in Melano), XXXIII (Come lo ’mperadore Federigo fece una quistione a due savi e come li guiderdonò), LIX (Qui conta d’uno gentile uomo che lo ’mperadore fece impendere), XC (Qui conta come lo ’mperadore Federigo uccise uno suo falcone), C (Come lo ’mperadore Federigo andò alla montagna del Veglio). Parmi les souverains célèbres, l’on retrouve également dans le recueil le Saladin, Charlemagne, Charles d’Anjou, Conrad IV ainsi que Henri II Plantagenêt et Richard Cœur de Lion. 40. L’identité de ce personnage n’a pas été définie avec précision ; « Illa » pourrait désigner soit la ville de Lille soit celle, bien plus petite, de l’Isle-sur-Sorgue, dans le Vaucluse ; voir Novellino, a cura di A. Conte, ouvr. cité, p. 59-60 : « Riccar lo Ghercio d’Illa potrebbe essere Richard de Lille, un nobile delle Fiandre che, sotto la guida di Simone di Monfort, partecipò alla crociata del 1211 contro gli Albigesi; o il nobile del tempo di Raimondo VI, conte di Tolosa, citato in un anonimo exemplum […]. Ma non mi pare che ci siano argomenti validi per la sua identificazione, così come

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per quella della città: forse l’Isle-Jourdain del circondario di Auch (Gers), o forse l’Isla en Venaissi, cioè Isle-sur-Sorgue ». 41. Nov. XXXII, 1-3 : « Richard-le-Bigle, Seigneur de l’Isle, était grand gentilhomme de Provence, de grande hardiesse et preux outre mesure. Lorsque les Sarrasins passèrent en Espagne, il fut de la bataille qu’on nomma [l’expédition] d’Espagne, la plus périlleuse bataille depuis celle des Troyens et des Grecs. Les Sarrasins étaient une très grande multitude et avaient toute sorte de machines de guerre […] ». 42. Voir à cet égard Nov. XLII, intitulée : Qui conta una bellissima novella di Guiglielmo Berghedam di Proenza. La séquence initiale, consacrée à une rapide identification du protagoniste de la nouvelle, situe la narration qui va suivre autour des années 1160-1180 : Guiglielmo di Berghedam fue nobile cavaliere di Proenza al tempo del conte Raimondo Berlinghieri. 43. La nouvelle LXXXIV (Come messere Azzolino fece bandire una grande pietanza) est entièrement consacrée au malentendu d’origine linguistique (le mot olaro est confondu avec laro) qui amène Ezzelino da Romano à condamner à la pendaison un innocent qu’il croit être un voleur : « In Lombardia e nella Marca si chiamano le pentole «ole». E la sua famiglia aveano un dì preso un pentolaio per maleveria, e menandolo a giudice, messere Azzolino era nella sala; disse: – Chi è costui? – L’uno rispuose: – Messere, è un olaro – Andalo ad impendere […] » (« En Lombardie et dans les Marches, on appelle les chaudrons « ole ». Un jour ses gens amenaient un chaudronnier comme garant devant le juge. Messire Ezzelino qui se trouvait dans la salle, dit : – Qui est cet homme ? – Quelqu’un répondit : – Messire, c’est un olaro. – Qu’on le pende ! […] »). L’auteur a recours à l’imitation des prononciations régionales également dans le mélange de toscan et de provençal qui compose la réponse qu’une Provençale adresse à Imberal del Balzo : Segner, ie vit una cornacchia in su uno ceppo di salice (Seigneur, j’ai vu une corneille sur une souche de saule »). L’auteur a recours à l’imitation des prononciations régionales également dans le mélange de toscan et de provençal qui compose la réponse qu’une Provençale adresse à Imberal del Balzo : Segner, ie vit una cornacchia in su uno ceppo di salice (Nov. XXXIII, 4). 44. Nov. LXXIX : Qui conta d’uno giullare ch’adorava uno signore. 45. Nov. LXXXV : D’una grande carestia che fu una volta in Genova. 46. Nov. XCVII : Qui conta come uno mercatante portò vino oltremare in botti a due palcora, e come li intervenne. 47. Nov. XCVIII : Qui conta d’uno mercatante che comperò berrette. 48. Nov. LVII : Di Madonna Agnesina da Bologna. 49. Voir, à cet égard, la nouvelle XCII, intitulée Qui conta d’una buona femina ch’avea fatta una fine crostata, dans laquelle le récit est introduit par la formule Fue una femina ch’avea fatta una fine crostata, ou bien la nouvelle XCIII (Qui conta d’uno villano che s’andò a confessare), qui commence par une formule semblable à la précédente : « Uno villano se ne andò a un giorno a confessare. E pigliò dell’acqua benedetta, e vide il prete che lavorava nel colto » (§ 1-2 : « Un vilain s’alla un jour confesser ; il prit l’eau bénite et vit le prêtre qui travaillait à sa terre »). 50. Nov. IX, 6 : « Tanto fu la contesa, che per la nova quistione e rozza, non mai più avenuta, n’andaro le novelle al soldano » (« La dispute dura si longtemps et la cause était si nouvelle, si ardue et sans précédent, que l’écho en alla jusqu’au Sultan »). 51. Nov. LXVII (Qui conta di Papiro, come il padre lo menò al Consiglio), § 7-9 : « La mère, qui lui avait promis de garder le secret, révéla la chose à une autre femme, et celle-là à une autre. Et la nouvelle passa de bouche en bouche, si bien que tout Rome le sut ». 52. Voir à cet égard les nouvelles XXII et XXIX.

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RÉSUMÉS

Peut-on considérer que la recherche d’authenticité dans le Novellino se fonde exclusivement sur la référence à des faits historiques ? Autrement dit, les nouvelles du Novellino présentent-elles leur récit comme authentique, soit en prétendant explicitement relater un fait historique, soit en choisissant comme protagoniste un personnage historique ? Cet article se propose d’ouvrir des pistes de réflexion sur ce sujet, et présente les premiers résultats d’une analyse de l’ensemble des nouvelles du Novellino à l’aide d’une grille de lecture s’articulant sur quatre points. Pour chaque nouvelle, nous avons étudié l’origine du protagoniste de la nouvelle, le discours qu’il produit, le fait exposé (c’est-à-dire production d’un témoignage présenté comme historique ou non), et, éventuellement, l’intervention de l’auteur. Cette grille de lecture a permis de dégager quatre groupes de textes qui présentent autant de facettes différentes du rapport que le Novellino entretient avec la vérité historique, et notamment avec l’équation entre référence historique et véridicité des faits racontés.

È possibile affermare che la ricerca di autenticità nel Novellino si fonda esclusivamente sul riferimento a fatti storici ? In altri termini, le novelle del Novellino presentano la narrazione come autentica, o dichiarando esplicitamente di riferire un avvenimento storico, o scegliendo come protagonista del racconto un personaggio storico ? Questo articolo si propone di aprire qualche pista di riflessione su questo punto, e presenta i primi risultati di un’indagine condotta sull’insieme delle novelle che compongono il Novellino, basandosi su una griglia di lettura che si fonda su quattro punti : l’origine del personaggio protagonista della novella, il discorso che produce, l’avvenimento esposto (cioè produzione di una testimonianza presentata come storica o no) e, eventualmente, l’intervento dell’autore nella narrazione. Questa griglia di lettura ha permesso di individuare quattro gruppi di testi che presentano diversi aspetti del rapporto tra il Novellino e la verità storica, e, in particolar modo, con l’equivalenza tra riferimento storico e veridicità dei fatti narrati.

AUTEUR

ALESSANDRA STAZZONE Université Paris Sorbonne – Paris 4

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« E io scrittore » : stratégies narratives et vérité historique dans le Trecentonovelle de Franco Sacchetti

Irena Prosenc Šegula

1 Dans le prologue de son recueil de ses « trois cents nouvelles », Franco Sacchetti tient à assurer au lecteur que les histoires qu’il se propose de raconter sont vraies. Ce souci de vérité est d’ailleurs fréquent parmi les auteurs de nouvelles dont Boccace lui-même1. Mais si Boccace, dans le prologue du Décaméron, se limite à annoncer qu’il racontera des événements « così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi2 » (le sens même des expressions « avvenimenti » et « avvenuti » indiquant une certaine vérité historique), Sacchetti pense aussi à se défendre d’emblée contre d’éventuelles accusations. Tout en assurant qu’il s’est efforcé de composer ses nouvelles « selon la vérité », il admet qu’il a peut-être modifié quelques détails, par exemple certains prénoms de protagonistes, mais cela ne signifie pas que la nouvelle « non fosse stata » : E perché molti, e spezialmente quelli a cui [le novelle] in dispiacere toccano, forse diranno, come spesso si dice: «queste son favole», a ciò rispondo che ce ne saranno forse alcune, ma nella verità mi sono ingegnato di comporle. Ben potrebbe essere, come spesso incontra, che una novella sarà intitolata in Giovanni, e uno dirà: ella intervenne a Piero; questo serebbe piccolo errore, ma non sarebbe che la novella non fosse stata3.

2 Selon les intentions explicitées par l’auteur, il s’agirait donc d’un recueil de novelle pour la plupart réellement advenues, avec quelques modifications de détails tout à fait admissibles qui ne nuiraient pas à leur authenticité. Or, le terme novella est très présent dans le recueil de Sacchetti où il apparaît fréquemment dans le prologue et dans le texte des nouvelles. Il ne s’agit bien entendu pas d’une dénomination du genre littéraire ; plutôt, sa valeur sémantique n’est pas loin des « avvenimenti » mentionnés dans le prologue de Boccace. Son sens comprend plusieurs nuances : fait, vicissitude ; nouvelle, nouveauté, nouveauté du jour, cancan du jour ; brève histoire, histoire plaisante, histoire bizarre ; cas bizarre (donc « l’événement inouï » que Neuschäfer

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compte parmi les traits distinctifs du genre nouvelle4) ; bon mot, repartie spirituelle ; trouvaille ingénieuse. Ces différents aspects sémantiques suggèrent déjà le type d’événements auxquels se rapporte la véracité déployée par l’auteur dans le prologue. En effet, parmi les motivations qui l’ont amené à l’écriture, Sacchetti inclut une description pessimiste de son époque et de la condition humaine, troublée par la peste et par les guerres. Il précise ensuite que l’intention de son œuvre est celle de distraire, consoler, amuser, faire rire les lecteurs éprouvés par des temps troublés. La plainte concernant le « temps présent » peut, certes, être interprétée comme un topos littéraire. Cependant, mis à part la question des relations de cette plainte avec la réalité historique de l’époque de Sacchetti, notre contribution n’entend pas établir une distinction entre des déclarations topiques et des intentions “sincères” de l’auteur. Ce qui nous intéresse, ce sont plutôt l’attitude de l’auteur à l’égard de la thématique de son œuvre, les aspects thématiques sur lesquels il choisit de se concentrer, et surtout la manière dont il se propose de les faire accepter par ses lecteurs comme des faits réellement advenus.

3 Les circonstances désolantes par l’évocation desquelles Sacchetti ouvre le prologue appartiennent à une sphère de la réalité qui peut être définie comme historique. Cependant, dès le prologue il devient évident que l’auteur ne se sert des circonstances historiques que comme une toile de fond pour se concentrer ensuite sur d’autres aspects de l’existence humaine. Son attention se déplace aussitôt sur les novelle dans toute la gamme de sens déjà mentionnée, ce qui donne le ton à la plupart de ses nouvelles. Il annonce une typologie des personnages en précisant que dans les nouvelles « si tratterà di diverse condizioni di genti, come di re e principi e marchesi e conti e cavalieri, e di “uomeni” grandi e piccoli, e così di grandi donne, mezzane e minori e d’ogni altra generazione ».

4 Ainsi, parmi les protagonistes il y aura certes de grands personnages capables de façonner l’histoire, mais aussi des hommes « petits » et des femmes « moyennes et mineures ». À la lecture des nouvelles, il transparaît ensuite que dans la plupart des cas, même à l’égard des personnages historiques, l’attention de l’auteur ne se porte pas sur des événements historiques, mais sur des faits limités à leur vie privée, sur des “micro- histoires” liées à l’existence quotidienne, sur ce que Battaglia définit le « vivere quotidiano (antieroico e antimitico)5 ».

5 Dans son prologue, Sacchetti emploie trois verbes pour indiquer le processus de l’écriture : tout d’abord, écrire (« mi proposi di scrivere la presente opera »), mais aussi recueillir (« raccogliere tutte quelle novelle ») et composer (« nella verità mi sono ingegnato di comporle ») qui ont des valeurs sémantiques légèrement différentes. Tandis qu’écrire a une valeur neutre et que composer indiquerait un complexe dessein de la structuration de l’œuvre de la part de l’auteur6, recueillir semble se rapporter à l’une des stratégies qui, dans les intentions de l’auteur, assureraient l’authenticité des faits racontés. En effet, les novelle qu’il prétend avoir recueillies (et non pas inventées) sont présentées comme « e antiche e moderne », et pour certaines, comme « alcune ancora che io vidi e fui presente, e certe di quelle che a me medesimo sono intervenute » (Proemio). Comme il le répétera à plusieurs reprises, il a donc recueilli des novelle dont il a entendu parler, d’autres auxquelles il a été présent et, enfin, certaines dont il a été lui-même protagoniste. En plus, il précise que la plupart d’entre elles se sont déroulées à Florence : « non è da maravigliare se la maggior parte delle dette novelle sono

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fiorentine, però che a quelle sono stato prossimano » (ivi). L’auteur, qui se présente comme « io Franco Sacchetti fiorentino » (ivi), souligne ainsi son statut de témoin.

6 Le prologue du Trecentonovelle indique donc clairement quelques stratégies narratives assurant la prétendue authenticité des faits narrés. Ces stratégies reposent pour la plupart sur une très forte présence de l’auteur7. Celui-ci s’assigne, de manière explicite ou implicite, le rôle de garant personnel et d’intermédiaire entre la thématique de ses nouvelles et le lecteur. Il est aussi significatif (quoique généralement assez fréquent chez les auteurs de nouvelles) que Sacchetti ne fasse aucune mention de ses sources, ni dans le prologue ni dans les nouvelles, bien qu’il ait été observé qu’il est un « disinvolto saccheggiatore di fonti e trame di ogni genere8 », pas très différent en cela de Boccace9. Ses sources sont simplement assimilées à la catégorie des novelle qui lui ont été racontées de la part de personnes dignes de confiance et dont il a donc personnellement entendu parler.

7 Aux stratégies narratives explicitées dans le prologue, d’autres viennent se joindre au cours des nouvelles. Nous en proposons ici une liste succincte : • l’auteur est le protagoniste de la nouvelle, son expérience personnelle garantissant la véracité des faits narrés ; • l’auteur déclare avoir été présent aux faits narrés et témoigne personnellement de leur authenticité ainsi que de l’existence historique des personnages ; • pour renforcer l’authenticité d’une novella, l’auteur y ajoute un autre fait semblable auquel il a été présent ; • les protagonistes ou les témoins des faits narrés sont des personnes que l’auteur connaît, ce qui prouverait leur existence historique et implicitement la véracité des faits mêmes ; • l’auteur indique les “sources” des nouvelles en déclarant qui les lui a racontées et où il les a entendues ; • l’auteur précise que les faits narrés sont advenus de son vivant ou récemment ; • un grand nombre de nouvelles est situé à Florence, aux environs de Florence ou en Toscane ; de nombreux protagonistes sont des Florentins vivant dans d’autres villes italiennes ou passant par d’autres villes italiennes.

8 Ces différentes stratégies sont souvent combinées à l’intérieur de la même nouvelle (voire de la même phrase), ce qui renforce l’effet de véracité et traduit le souci de l’auteur de donner une impression de vérité.

9 L’auteur apparaît en tant que protagoniste dans plusieurs nouvelles10. Tandis que dans le prologue il se présente comme « io Franco Sacchetti fiorentino », sa présence dans les nouvelles se traduit pour la plupart par les formules « io scrittore » et « io » (ou plus simplement par le verbe à la première personne du singulier), avec quelques rares mentions de son prénom ou de son nom, par exemple dans la rubrica de la nouvelle CLI : Fazio da Pisa volendo astrologare e indovinare inanzi a molti valentri uomeni, da Franco Sacchetti è confuso per molte ragioni a lui assegnate per forma che non seppe mai rispondere11.

10 Le noyau de la nouvelle est ainsi bien mis en évidence : il s’agit d’un échange verbal au cours duquel l’auteur fait preuve de sa supériorité à l’égard de son interlocuteur. On remarque que l’action du protagoniste Franco Sacchetti coïncide avec son rôle dans le dialogue, plus précisément dans le motto (la repartie spirituelle, le mot d’esprit) qu’il s’y attribue. C’est là un élément auquel Sacchetti attache une grande valeur et qui est à la base d’un bon nombre de ses nouvelles. Voici un extrait de la même nouvelle :

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Nella città di Genova io scrittore trovandomi già fa più anni, essendo nella piazza de’ mercatanti in uno gran cerchio di molti savi uomeni d’ogni paese, tra’ quali era messer Giovanni de l’Agnello e alcuno suo consorto e alcuni Fiorentini confinati da Firenze, e Lucchesi che non poteano stare a Lucca, e alcuno Sanese che non potea stare in Siena, e ancora v’era certi Genovesi; quivi si cominciò a ragionare di quelle cose che spesso vanamente pascono quelli che sono fuori di casa loro, cioè di novelle, di bugie e di speranza, e in fine di astrologia; della quale sì efficacemente parlava uno uscito di Pisa che avea nome Fazio, dicendo pur che per molti segni del cielo comprendea che chiunque era uscito di casa sua fra quello anno vi dovea tornare, allegando ancora che per profezia questo vedea; e io contradicendo che delle cose che doveano venire né elli né altri ne potea esser certo; ed elli contrastando, parendogli essere Alfonso o Tolomeo, deridendo verso me, come egli avesse inanzi ciò che dovea venire e io del presente non vedesse alcuna cosa. Onde io gli dissi: – Fazio, tu se’ grandissimo astronomaco, ma in presenza di costoro rispondimi a ragione: qual è più agevole a sapere, o le cose passate o quelle che debbono venire? – Dice Fazio : – O chi nol sa? Ché bene è smemorato chi non sa le cose che ha veduto adrieto; ma quelle che debbono venire non si sanno così agevolmente –. E io dissi: – Or veggiamo come tu sai le passate che sono così agevoli: Deh, dìmi quello che tu facesti in cotal dì or fa un anno –. E Fazio pensa. E io seguo: – Or dìmi quello che facesti or fa sei mesi –. E quelli smemora. [etc.]12

11 Au début de la nouvelle, l’auteur introduit des détails autobiographiques (il a en effet plusieurs fois séjourné à Gênes13), topographiques (la place des commerçants) et historiques (les exilés des différentes villes toscanes parmi lesquels Giovanni de l’Agnello, un personnage historique14) qui contribuent à l’impression d’authenticité que l’auteur souhaite conférer au récit. Son attention se déplace ensuite entièrement sur un aspect “micro-historique”, c’est-à-dire sur l’échange verbal qui se prolonge jusqu’à sa “victoire” finale.

12 L’auteur a souvent la fonction de protagoniste secondaire dans le sens où son expérience personnelle vient s’ajouter à un autre fait narré. La nouvelle XL, par exemple, commence par un dialogue entre Ridolfo de Camerino et son neveu qui se conclut par un motto prononcé par Ridolfo. Ce dialogue est suivi directement par un autre dialogue semblable dont l’un des protagonistes est l’auteur : E io scrittore, essendo con certi scolari che udiano da messer Agnolo da Perogia, dissi che si perdeano il tempo a studiare in quello che faceano. Risposono: – Perché? – E io segui’: – Che apparate voi? – Dissono: – Appariamo ragione. – E io dissi: – O che ne farete, s’ella non s’usa? (p. 156, nous soulignons)

13 Voici un autre exemple où l’auteur, en tant que protagoniste, agit en parlant. C’est en outre un exemple typique de l’emploi des personnages historiques dans le Trecentonovelle. Ridolfo de Camerino, un commandant de troupes mercenaires lié à la politique florentine15 et protagoniste de plusieurs nouvelles 16, n’est pas présenté du point de vue militaire ou politique. Ses aventures militaires sont évoquées, mais non pas approfondies. Ce qui est mis en évidence, ce sont « le notabil parole e i brievi detti di messer Ridolfo da Camerino » (p. 152), donc encore une fois des aspects “micro- historiques” centrés sur le dialogue et sur le motto.

14 Il n’est pas rare qu’une nouvelle dont l’auteur est le protagoniste lui attribue également un rôle de témoin direct. Dans la première partie de la nouvelle LXXI, par exemple, l’auteur raconte un sermon auquel il a personnellement assisté, tandis que dans la deuxième, il assume le rôle du protagoniste participant lui-même à la conversation

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rapportée. L’ouverture de la nouvelle est semblable à celle de la nouvelle CLI, comprenant des détails autobiographiques (le séjour de l’auteur à Gênes), topographiques (le déroulement de la nouvelle dans la cathédrale de Gênes) et historiques (l’allusion à la guerre de Chioggia17) : E’ non è molt’anni che trovandom’io in Genova di quaresima, e andando, com’è d’usanza, la mattina alla chiesa, fui alla chiesa di Santo Lorenzo, dove predicava in quell’ora un frate romitano, ed era la guerra tra Genovesi e Viniziani; e in quelli dì li Viniziani aveano forte soprastato a’ Genovesi. Ora, accostandomi e porgendo gli orecchi per udire alquanto, le sante parole e’ buoni esempli che io gli udi’ dire furono questi. (p. 216 ; nous soulignons)

15 L’auteur assure avoir personnellement assisté aux faits narrés par le biais de quelques formules assez souvent répétées comme : « j’y ai été présent », « je l’ai vu » et « je l’ai entendu » (dans le sens : « j’ai personnellement assisté au dialogue »), qui sont parfois renforcées par : « d’autres personnes y ont aussi assisté ». En voici quelques exemples : — e io scrittore fui presente a tre volte, le quali a’ piedi si diranno18; — E pensa tu, lettore, che frate costui potea essere; ché passando io scrittore […] per Mercato Vecchio, costui era sopra un paniere di fichi, e dicea alla forese […]19; — Molto fu più nuova cosa quella che al presente voglio raccontare, e io scrittor mi vi trovai20; — E io scrittore mi trovai con un altro valente frate maestro in eologia, che avea nome maestro Ruggieri di Cicilia, nella detta chiesa; vidi certi che ’l pregavono21; — gli vidi un dì conficcare la cappa su le sponde del pergamo, e altre cose assai22; — io scrittore il posso dire di veduta23; — [una novella] che già io vidi24; — in casa Cavalcanti fu un gentiluomo chiamato Matteo di Cantino, il quale io scrittore e molti altri già vedemo25; — questa cotanta predica udi’ io26.

16 Ces formules sont souvent accompagnées de détails d’ordre historique, à l’instar des cas cités plus haut, par exemple : — Ferrantino degli Argenti da Spuleto, il quale io scrittore e molti altri vidono essecutore di Firenze nel MCCCXC o circa27; — maestro Ubertino di Fetto Ubertini in teologia, frate eremitano […] trovai in Portovenere, il quale, com’io, fu presente a tutte queste cose28.

17 Dans certaines nouvelles, les protagonistes ou les témoins sont des personnes connues par l’auteur : son père Benci Sacchetti (XCVIII), son voisin (CX) ou un ami (CXLI). L’auteur s’y présente encore une fois comme un intermédiaire entre le lecteur et les personnages, ce qui devrait, dans ses intentions, suffire comme preuve de leur existence historique. À travers les personnages, la véracité des faits devrait ainsi être renforcée, bien que quelques-uns d’entre eux soient indiqués d’une manière plutôt vague. Dans la nouvelle CXLI, par exemple, qui a pour protagoniste un ami de Sacchetti, celui-ci est défini par des termes assez vagues, comme « mio singulare amico », « mio cordiale amico », « uno Rettore » et « Podestà in una terra non di lungi dalla nostra venticinque miglia » (p. 376-377).

18 Quant à ses prétendues sources, l’auteur précise souvent qui lui a raconté une nouvelle et où il l’a entendue, en se bornant parfois à la simple déclaration qu’il les a entendues, par exemple : — per quello che io udisse già io scrittore da mio padre, il quale fu principio della presente novella29; — non è mill’anni che questo fu, ma è sì piccolo tempo che io ho favellato al buon uomo a cui questa novella che io racconterò avvenne; il quale fu Bertino da Castelfalfi30;

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— Antonio Pucci, piacevole fiorentino, dicitore di molte cose in rima, m’ha pregato che io il discriva qui in una sua novella31; — Questa novella mi fu narrata a Portovenere, là dove io scrittore nel 1383 arrivai andando a Genova32; — raccorda a me scrittore che io udi’ dire a Salvestro Brunelleschi che […]33; — Non voglio lasciare la quarta novella d’Alberto, di quelle che già udi’ di lui, come che molte altre ne facesse34; — Sempre fu che tra’ dipintori si sono trovati di nuovi uomeni e fra gli altri, secondo che ho udito, fu uno dipintore fiorentino, il quale ebbe nome Buonamico35.

19 En ce qui concerne le cadre chronologique et géographique des nouvelles, le souci d’authenticité se traduit par le choix de la proximité dans le temps et dans l’espace. Ainsi, l’auteur répète-t-il à plusieurs reprises, surtout au début des nouvelles, quelques formules topiques assurant que les faits narrés sont advenus de son vivant, par exemple : « nel mio tempo36 », « ne’ dì miei37 », « ne’ miei dì poco tempo fa38 », ou, plus explicitement : « fu a’ miei dì, e io il conobbi, e spesso mi trovava con lui39 ». Plus nombreuses encore sont les formules assurant que les faits narrés se sont passés récemment, ce qui signifie qu’ils font encore partie de la mémoire collective : « non è gran tempo40 », « poco tempo fa41 », « non è molto42 », « non è molti anni43 », « non è ancora dieci anni44 », « non sono molti anni passati45 », « fu, e ancora è46 », « [Noddo d’Andrea,] ch’ancora è vivo47 », « [uno monimento] che ancora oggi si vede48 ».

20 L’effet de proximité spatiale est très souvent obtenu en situant les nouvelles à Florence (« nella città di Firenze », « nella nostra città », « nella mia città », « per la nostra terra »), dans les alentours de Florence et en Toscane, ou en choisissant comme protagonistes des Florentins vivant – ou se trouvant de passage – dans d’autres villes italiennes. Pour les nouvelles dont l’action se déroule à Florence, on trouve de nombreuses références topographiques, d’une grande précision, à des marchés, des rues et des palais publics, autrement dit à des « lieux significatifs de la ville49 ». Il n’est guère surprenant que la proximité spatiale et celle temporelle se combinent souvent l’une avec l’autre, surtout lorsqu’il s’agit de faits qui sont présentés comme advenus récemment à Florence50, ce qui a pour résultat une “double” assurance de la véracité. Plus généralement, Sacchetti combine souvent plusieurs stratégies visant à “authentifier” ses nouvelles, comme dans ces exemples : – Minonna Brunelleschi da Firenze fu ne’ miei dì, e fu cieco, come che in molte cose passava gli aluminati, per tale che niuno suo vicino era che, se aveva a mettere cannella in botte di vino, non mandasse per l‹o› Minonna che la mettesse; e io più volte il vidi che mai non versava gocciola di vino51; – Fammi venire a memoria la precedente novella d’un’altra che già io vidi; però che non è molti anni che in Mercato Vecchio nella detta città [Firenze] era allevato un corbo, tanto piacevole a far male quanto altro fosse mai52.

21 L’auteur va jusqu’à assurer implicitement que les faits qu’il narre sont vrais jusque dans les détails, lorsqu’il réfute une version différente de la même nouvelle (qu’il considère peut-être comme concurrente), par exemple dans la nouvelle LXX53 : La novella detta per alcuno giovane fu già scritta e molto più lungamente, però che mette ch’e’ porci andorono in cucina e in quella tempestorono ciò che v’era. E questo non fu vero; però che quello della cucina avvenne a uno gentiluomo de’ Cerchi, vicino di Torello. (p. 216)

22 Les nombreuses stratégies destinées à garantir l’authenticité des faits narrés et la fréquence de leur emploi témoignent d’une forte présence du souci de véracité dans les nouvelles de Sacchetti. Il y a du reste plusieurs indices qui révèlent que l’auteur considère les novelle comme des faits dont la véracité devrait être acceptée à priori.

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Ainsi, dans la nouvelle CXCII la narration d’une trouvaille ingénieuse de la part de Buonamico se conclut par la phrase : « E questo Buonamico fu ancora via più nuovo, e la pruova della presente novella il manifesta » (p. 549, nous soulignons). Dans ce cas il n’est donc même plus nécessaire d’assurer l’authenticité des faits narrés ; la nouvelle peut en elle-même suffire comme preuve. Il est ainsi possible d’identifier l’authenticité, combinée à la « nouveauté » (dans tous les sens employés par Sacchetti), comme l’un des traits caractéristiques du Trecentonovelle et comme un élément-clé de la conception implicite du genre de la nouvelle chez Sacchetti.

NOTES

1. Voir Lionello Sozzi, « L’intention du conteur : des textes introductifs aux recueils de nouvelles », dans L’écrivain face à son public en France et en Italie à la Renaissance. Actes du colloque international (Tours, 4-6 décembre 1986), Charles Adelin Fiorato et Jean-Claude Margolin (éds), Paris, Vrin, 1989, p. 71-72. 2. Giovanni Boccaccio, Decameron, Mario Marti (éd.), Milan, Rizzoli, 1994, p. 5. 3. Franco Sacchetti, « Proemio », dans Il Trecentonovelle, Davide Puccini (éd.), Turin, UTET, 2004, p. 64 (toutes nos citations d’après cette édition). 4. Hans-Jörg Neuschäfer, « Boccace et l’origine de la nouvelle : le problème de la codification d’un genre médiéval », dans La nouvelle : formation, codification et rayonnement d’un genre médiéval. Actes du Colloque international de Montréal (McGill University, 14-16 octobre 1982), M. Picone et al. (éds), Montréal, Plato Academic Press, 1983, p. 109. 5. Salvatore Battaglia, « L’infinito quotidiano (e la vita senza qualità) », dans Id., Mitografia del personaggio, Milan, Rizzoli, 1968, p. 261 (la partie de l’article concernant Sacchetti est reproduite, avec de légères modifications et quelque peu abrégée, dans Salvatore Battaglia, « Franco Sacchetti», dans Id., Capitoli per una storia della novellistica italiana: Dalle origini al Cinquecento, Naples, Liguori, 1993, p. 295-297). 6. Davide Puccini, « Sul titolo del Trecentonovelle », Lingua nostra, LXIII, 3-4 (2002), p. 95. 7. La présence de l’auteur est en outre remarquable dans les moralités qui commentent les nouvelles, même si, dans la plupart des cas, c’est avec une fonction bien différente. 8. Antonio Corsaro, « Boccaccio e Sacchetti: incontri e dissociazioni », The Italianist, II (1982), p. 10. 9. En ce qui concerne le rapport complexe de Sacchetti avec son célèbre prédécesseur, voir, par exemple : Antonio Corsaro, « Boccaccio e Sacchetti… », art. cité ; Michelangelo Picone, « La cornice degli epigoni (Ser Giovanni, Sercambi, Sacchetti) », dans Forma e parola: Studi in memoria di Fredi Chiappelli, D. J. Dutschke et al. (éds), Ravenne, Longo, 1992, p. 173-185 ; Id., « Gli epigoni di Boccaccio e il racconto nel Quattrocento », dans Manuale di letteratura italiana: Storia per generi e problemi, 1: Dalle origini alla fine del Quattrocento, Franco Brioschi et Costanzo Di Girolamo (éds), Turin, Bollati Boringhieri, 1993, p. 655-696 ; Giancarlo Mazzacurati, « Dopo Boccaccio: percorsi del genere novella dal Sacchetti al Bandello », art. cité ; Bruno Porcelli, « Boccaccio in Sacchetti », Giornale storico della letteratura italiana, 575 (1999), p. 355-362 ; Davide Puccini, « Introduzione », ouvr. cité. 10. XL, LXXI, LXXII, CIV, CXII, CXXIV et CLI. 11. Il Trecentonovelle, ed. cit., p. 410 (nous soulignons).

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12. Ibid. (nous soulignons). Pour des raisons d’espace, nous ne pouvons citer ici qu’une partie du dialogue qui est plutôt long, toutefois l’extrait cité est assez caractéristique. 13. En ce qui concerne la date du séjour mentionné dans cette nouvelle, l’an 1383 semble probable tant à Puccini qu’à Faccioli (Il Trecentonovelle, Emilio Faccioli (éd.), Turin, Einaudi, 1970). 14. Le doge de Pise (1364-1368) exilé à Gênes, où il mourut en 1387. 15. Ridolfo Varano, seigneur de Camerino (mort en 1384), participa à la guerre des Huit Saints (1375-1378) menée par Florence contre le pape Grégoire XI, pendant laquelle il changea de camp plusieurs fois. Sacchetti le connaissait personnellement. 16. VII, XXXVIII, XXXIX, XL, XLI, XC, CIV et CLXXXII. 17. Il s’agit d’une guerre entre les Génois et les Vénitiens (1379-1381) gagnée par ces derniers, comme l’explique Sacchetti dans sa nouvelle. 18. XXXVII, p. 150 (nous soulignons dans tous les exemples regroupés ici). 19. LXXII, p. 219. 20. CCIV, p. 587. 21. LXXIII, p. 221. 22. LXXII, p. 219. 23. CIV, p. 296. 24. CLX, p. 448. 25. LXXVI, p. 225-226. 26. LXXI, p. 217. 27. XXXIV, p. 139 ; Ferrantino Massioli de Spolète fut exécuteur à Florence en 1 389. 28. CLXXVII, p. 502 ; Ubertino fut frère augustinien et théologien (il mourut en 1389). L’auteur figure en tant que témoin aussi dans les nouvelles XXI, XXXVIII et CXXXVII. 29. XCVIII, p. 277 (nous soulignons dans tous les exemples regroupés ici). 30. CXXXV, p. 360. 31. CLXXV, p. 493. 32. CLXXVII, p. 501. 33. CLXXVIII, p. 506. 34. XIV, p. 93. 35. CLXI, p. 455 ; d’autres exemples : LXXII, LXI, CXCVI. 36. XXVIII, p. 122. 37. CCLVIII, p. 669. 38. CCXXI, p. 641 ; d’autres exemples : XCI, CXXXVII. 39. XLVIII, p. 166. 40. CII, p. 291 ; d’autres exemples : XXII, LXIV, LXXXIX, CXVIII, CXLV, CLIV, CLIX, CLXVII, CLXXIX, CCXIV. 41. CXVIII, p. 324. 42. CI, p. 286. 43. CLX, p. 448 ; d’autres exemples : LII, LXXI, LXXVI, CX, CLX, CLXXVII, CLXXXVI, CCX. 44. CXII, p. 311 ; d’autres exemples : LXXVIII, LXXXVI, CCI. 45. CCIII, p. 585. 46. CXLVIII, p. 402 ; d’autres exemples : CXLIII, CLXVI. 47. XCVIII, p. 277 ; d ‘autres exemples : C, CXXIV, CLXXV. 48. CXX, p. 330 ; d’autres exemples : LXVI, CXVII, CLXXXV. 49. C’est en fait une expression de Massimo Miglio à propos de la chronique de Villani, mais qui peut être parfaitement appliquée aux nouvelles de Sacchetti. Miglio fait mention aussi des détails concernant l’aspect extérieur des personnages et leur habillement, qui viseraient à augmenter leur caractérisation sociale, ce qui vaut aussi pour les nouvelles de Sacchetti (Massimo Miglio, « La novella come fonte storica: Cronaca e novella dal Compagni al Pecorone », dans La novella

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italiana. Atti del Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Rome, Salerno Editrice, 1989, vol. I, p. 175-176). 50. Par exemple : « Non è gran tempo che in Firenze fu un nuovo pesce, il quale ebbe nome Agnolo di ser Gherardo » (LXIV, p. 199). 51. XCI, p. 270 (nous soulignons). 52. CLX, p. 448 (nous soulignons). 53. « Torello del Maestro Dino con uno suo figliuolo si mettono a uccidere dua porci venuti da’ suo’ poderi, e in fine, volendogli fedire, li porci si fuggono e vanno in uno pozzo. » (p. 213)

RÉSUMÉS

Dans son recueil de nouvelles, Franco Sacchetti emploie plusieurs stratégies narratives pour persuader son lecteur que les faits narrés sont vrais. Au centre de ces stratégies il y a la présence de l’auteur dans les nouvelles ; il sert en effet d’intermédiaire entre leur thématique et le lecteur. Il y apparaît en tant que protagoniste ou témoin ; il y introduit des personnages qu’il connaît personnellement ; il indique les “sources” de ses nouvelles en déclarant qui les lui a racontées et où il les a entendues ; il précise que les faits narrés sont advenus de son vivant ou récemment ; et finalement, un grand nombre de nouvelles est situé à Florence ou dans ses environs. Les nombreuses stratégies destinées à garantir la véracité des faits narrés et la fréquence de leur emploi témoignent que la prétendue authenticité, combinée à la “nouveauté”, est l’un des éléments essentiels des nouvelles de Sacchetti.

Nella sua raccolta di novelle Franco Sacchetti usa varie strategie narrative per convincere il lettore che i fatti narrati sono veri. Al centro di tali strategie c’è la presenza dell’autore nelle novelle; l’autore serve infatti da intermediario tra la loro tematica e il lettore. Vi appare come protagonista o come testimone; introduce personaggi che conosce personalmente; indica le “fonti” delle novelle dichiarando chi gliele ha raccontate e dove le ha sentite raccontare; precisa che i fatti narrati sono avvenuti durante la sua vita o di recente; e infine, numerose novelle sono localizzate a Firenze o nei suoi dintorni. Le numerose strategie ideate per garantire la veracità dei fatti narrati e la frequenza del loro uso indicano che la pretesa autenticità, insieme alla “novità”, è uno degli elementi essenziali delle novelle di Sacchetti.

AUTEUR

IRENA PROSENC ŠEGULA Université de Ljubljana

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« Per autentiche istorie approbate » : les fonctions de l’histoire dans le Novellino de Masuccio Salernitano

Maria Cristina Panzera

1 Les dernières années de la domination aragonaise sur le Royaume de Naples sont marquées par des événements sanglants qui témoignent d’une grande instabilité et fragilité politique : en 1462 le roi Ferdinand, fils naturel et successeur d’Alphonse Ier d’Aragon, avait réussi à s’imposer sur son rival Jean d’Anjou dans la bataille de Troie en rétablissant le pouvoir de la couronne d’Aragon sur Naples, mais de 1485 à 1487 il est contraint de la défendre de nouveau par les armes contre les barons du Royaume soutenus par le Pape Innocent VIII1. Persécutions, procès sommaires, exils et confiscations de biens frappent les ennemis de la dynastie au pouvoir dans un climat de guerre civile quasi permanente que les chroniques de l’époque ne manquent pas de décrier. Malgré la résistance de Ferdinand et de ses successeurs, Naples sera conquise en 1498 par Charles VIII d’Anjou, avant de passer sous les Bourbons en 1504, devenant ainsi pendant longtemps une province de l’Empire espagnol.

2 Dans ce contexte, entre la bataille de Troie et la conjuration des barons, se situe précisément la composition des cinquante nouvelles de Tommaso Guardati de Salerne, dit Masuccio, notable de la cour aragonaise et secrétaire du prince Robert de Sanseverino. La première édition du Novellino parut à Naples en 1476 2, mais plusieurs nouvelles étaient sans doute déjà connues dans le milieu de la cour à partir des années cinquante, comme l’a prouvé Giorgio Petrocchi en analysant le texte d’une rédaction primitive et incomplète tirée de trois manuscrits florentins3. Malheureusement, les données biographiques disponibles sur l’auteur du Novellino sont trop limitées pour permettre de répondre de manière exhaustive à toutes les questions qui se posent au sujet de l’idéologie de Masuccio, de son rapport au monde de la cour et de la visée satirique de son ouvrage4. Néanmoins, l’importance de ce recueil est reconnue depuis longtemps aussi bien dans le domaine de la recherche historiographique que dans celui

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de la critique littéraire en ce qui concerne l’étude de la société méridionale de la Renaissance, qu’il s’agisse de considérer les nouvelles comme une source pour l’étude de faits extra-littéraires, relatifs aux mœurs, aux institutions et à la mentalité5, ou que l’on cherche au contraire dans les sources documentaires de l’époque les clés pour l’interprétation d’une nouvelle ou d’un passage, selon les démarches suivies, entre autres, par Salvatore Nigro dans sa recherche sur la nouvelle et la prédication à la Renaissance6. En effet, le réseau d’allusions à l’histoire et à l’actualité est assez riche dans le Novellino et manifeste la volonté de Masuccio de nous parler de son temps « per autentiche istorie approbate », à travers des récits véridiques et authentiques7.

3 Que vise cette poétique de la véridicité chez un auteur de nouvelles ? Au-delà des problèmes du réalisme narratif et du rapport entre fiction et données historiques, valables pour tout ouvrage littéraire, il serait intéressant, dans le cas du Novellino, d’étudier les fonctions de l’histoire du point de vue des stratégies discursives et des modalités d’écriture associées au topos de la narration véridique afin de les évaluer par rapport au genre de la nouvelle et à son évolution dans le temps : dans quelle mesure Masuccio hérite-t-il, par exemple, de la tradition du genre et en particulier de son modèle le plus prestigieux, le Décaméron, ou comment s’en démarque-t-il dans son traitement de l’histoire ? Il faudrait s’intéresser, alors, aux stratégies narratives propres à l’auteur, les vérifier à travers une analyse sélective des nouvelles et les interpréter, enfin, dans le contexte culturel de l’époque, par rapport à la place que la nouvelle occupe dans le système des genres littéraires à la Renaissance8.

4 Les critères de véridicité et de fidélité à l’histoire font partie du programme narratif de Masuccio. Par son appel fréquent à la vérité du récit, la voix narrative instaure d’emblée le pacte de lecture du livre dans la lettre de dédicace à Hippolyte Sforza, belle- fille du roi Ferdinand après ses noces avec le prince Alphonse en 1465. Dans cette lettre qui, dans le Novellino, fait fonction de prologue, Masuccio fait allusion à la modestie de son style tout en soulignant, par contraste, la qualité authentique de ses nouvelles : […] avendo da la mia tenera età faticato per esercizio il mio grosso e rudissimo ingegno, e de la pigra e rozza mano scritte alcune novelle per autentiche istorie approbate, ne gli moderni e antiqui tempi travenute9.

5 Cette déclaration revient, presque dans les mêmes termes, à la conclusion du livre, dans le Parlamento de l’auteur, où celui-ci répond aux critiques avancées par ses détracteurs : Dopo costoro, estimo che saranno altri de assai meno mala sorte, che diranno che de cinquanta novelle, de le quale io te ho ordinato, la maiore parte sono faole e buscìe; a’ quale te piazza nondimeno li dire che loro se delongano multo de la verità, e invoca l’altissimo Dio per testimonio che tutte sono verisimile istorie e le più negli nostri moderni tempi travenute; e quelle che d’antique veste e de canuta barba sono ornate, da persone de grandissima autorità me sono state per istorie, in contando, approvate10.

6 Tel un historien, l’auteur de nouvelles semble vouloir revendiquer la priorité d’une fonction référentielle de son discours sur les autres fonctions ; il se veut le témoin de la réalité, d’une situation, d’une condition de la vie humaine. De ce fait, il se défend d’avoir accordé une place dans son recueil aux mensonges et aux faits imaginaires (« faole e buscìe »), en précisant que ses nouvelles sont ancrées dans le réel, d’où le choix de privilégier l’histoire contemporaine et récente, tandis que pour les récits du passé l’auteur dispose de sources orales dignes de la plus grande foi. Un répertoire varié de formules d’authentification du récit vient ainsi émailler le discours du narrateur : « racontasi dunque con approbata verità », « fu per verissimo racontato »,

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« me racontò per verissimo », « per autentico racontato » ou « verissima istoria », « non meno vera che piacevole novella », etc.11.

7 Ces remarques rassurantes n’étaient pas inédites pour les lecteurs de nouvelles, il s’agit au contraire d’un élément rhétorique, que l’on pourrait définir le topos de la narration véridique, bien connu dans le domaine des recherches sur la genèse du genre narratif de la nouvelle12. Il a été observé, par exemple, que le critère de vraisemblance du récit pourrait démarquer la nouvelle – et cela dès ses origines – d’autres formes narratives brèves comme le conte merveilleux ou la fable13. De manière plus générale, ce critère pourrait remonter à la rhétorique ancienne et à sa distinction des trois genera narrationum : l’historia ou narratio aperta à savoir le récit de faits réels du passé (« historia est gesta res, sed ab aetatis nostrae memoria remota »), l’argumentum ou narratio probabilis fondée sur le critère de vraisemblance (« est ficta res quae tamen fieri potuit »), et enfin la fabula qui fait abstraction des codes du réel (« neque veras neque veri similes continet res14 »). Bien que des hypothèses existent sur la continuité de cette typologie ancienne dans les formes narratives romanes, il serait difficile d’en étudier la transmission jusqu’aux conteurs de la Renaissance. De plus, il faudra reconnaître que toute narration qui se réclame de la vérité n’appartient pas nécessairement au genre de l’historia ou de l’ argumentum, comme le prouve, parmi les exemples possibles, cet exorde surprenant du lai de Guingamor : « d’un lay vos dirai l’aventure / nel tenez pas a troveüre, / veritez est ce que dirai15 », juste au début d’un texte appartenant à la tradition des lais féeriques où le surnaturel est particulièrement présent.

8 Nous nous rapprocherons alors plus des intentions de Masuccio en nous référant au Décaméron et à la façon dont le rapport entre nouvelle et histoire était traité par Boccace, l’auteur que Masuccio cite comme étant son modèle : « del famoso commendato poeta Boccaccio, l’ornatissimo idioma e stile del quale te hai sempre ingegnato de imitare16 ». Ainsi on remarquera que les proclamations de véridicité de Masuccio ressemblent à celle du prologue du Décaméron : « Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così nei moderni tempi avvenuti come negli antichi17 ».

9 D’ailleurs, Boccace n’avait-il pas joué sur le registre de la chronique avec son récit de la peste et en présentant comme des personnages réels les membres de la brigata réunie dans l’église de Santa Maria Novella ? Aussi, tout au long du Décaméron, à l’intérieur du récit cadre et dans l’introduction des nouvelles, par exemple, le lecteur est appelé à prêter fois à une narration véridique et à des événements décrits selon un code de représentation essentiellement réaliste, avec toutes les nuances et les possibilités de renversement ironique qu’il nous est impossible ici d’examiner18. Néanmoins, il faudra prendre en compte d’importantes transformations que le genre de la nouvelle subit en passant de la Florence marchande et bourgeoise de la fin du XIVe siècle à la Naples aristocratique sous la domination aragonaise, du public citadin au monde de la cour.

10 Pour ce qui est de la structure de son recueil, Masuccio suit le modèle du Décaméron avec une certaine originalité. Il en garde l’organisation thématique des nouvelles par décades, les réduisant à cinq comme dans le Pecorone de messire Giovanni pour un total de cinquante nouvelles, tout en gardant aussi un ordre ascendant dans la succession thématique des livres, de sorte à reproduire en abrégé l’ordonnancement idéal des journées du Décaméron. Dans le Novellino le premier livre de dix nouvelles est consacré à la satire des religieux « alcune detestande operazione de certi religiosi19 », le deuxième aux beffe, le troisième à la satire des femmes. Le quatrième livre propose l’alternance

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thématique entre nouvelles à issue tragique ou comique, faisant succéder à une « materia lagrimevole e mesta » des nouvelles « piacivole e facete20 ». Le dernier livre exalte, enfin, le thème de la magnificence avec des nouvelles « a lieto fine ».

11 À la place du Proemio du Décaméron et des conclusions de l’auteur figurent la dédicace du Novellino à la duchesse Hyppolite Visconti d’Aragon et la section dite « Parlamento de lo autore al libro suo », véritable apologie où Masuccio rejette les accusations de ses critiques malveillants. Le principe organisateur du recueil n’est pas constitué par un récit cadre, comme dans le Décaméron, mais par les cinquante épîtres de dédicace de chaque nouvelle à un personnage de la cour, où l’auteur s’exprime à la première personne. Dans le Novellino chaque nouvelle est donc encadrée à l’intérieur d’une lettre adressée à un destinataire choisi, selon une typologie humaniste qui a été récemment étudiée par Gabriella Albanese à propos du De insigni obedientia et fide uxoria de Pétrarque et de ses influences sur la nouvelle courtisane, bien qu’elle reste à étudier dans les détails quant à son adaptation chez Masuccio21. L’un des premiers exemples de nouvelle en langue vernaculaire insérée dans un cadre épistolaire est représenté par le Seleuco de Leonardo Bruni, mais, pour rester dans l’entourage de Masuccio, cette association entre l’écriture épistolaire et la nouvelle se retrouve aussi chez Bartolomeo Facio, un humaniste très prisé à la cour aragonaise, qui avait placé au début de son recueil épistolaire la nouvelle latine De origine inter Gallos ac Britannos belli historia, composée autour de 1440 et adressée au comte Charles Ventimiglia22. Cette nouvelle latine de Facio sera traduite en langue vernaculaire par Jacopo de Poggio Bracciolini en 1470, quelque temps avant la publication du Novellino de Masuccio, toujours en association avec une lettre-cadre, que Jacopo adresse à Charles Guasconi23.

12 Pour revenir donc au Novellino, chaque unité de narration s’y articule en cinq parties : d’abord l’argomento, à savoir un bref résumé de la nouvelle, ensuite la dédicace contenant le nom et les titres nobiliaires du dédicataire, l’exorde sous forme de lettre et la moralité à la fin, dans la partie qui porte le sous-titre « Masuccio ». De cette manière, la lecture des nouvelles est orientée deux fois, à travers les commentaires contenus dans l’esordio et les remarques moralisatrices de la fin. De plus, la partie « Masuccio » assure la continuité de lecture du livre par l’annonce du thème de la nouvelle qui va suivre.

13 Cette structure confère d’abord au livre, au-delà de la variété thématique, une certaine rigidité et répétitivité qui s’opposent à la variété des transitions entre les journées et les nouvelles du Décaméron. La longueur très homogène des nouvelles confirme d’ailleurs cette impression, malgré la pluralité des motifs et des schémas narratifs proposés24. En définitive, l’ensemble de ces transformations structurelles contribue à renforcer la présence de la voix du narrateur dans le recueil, autrement dit le registre subjectif, ce qui pourrait en partie expliquer la surenchère du topos de la narration véridique. Une autre différence importante par rapport au Décaméron concerne le cadre historique des nouvelles : les récits contemporains ou se référant à l’histoire récente sont largement majoritaires sur les récits du passé. Seulement six nouvelles relatent des faits plus anciens, comme la nouvelle XLIX dont le héros est l’empereur Frédéric Barberousse, la XXI qui commence par la victoire de Charles d’Anjou à Bénévent, ou la XLVIII qui évoque le temps de l’occupation de la Sicile par le roi Pierre d’Aragon25. Aucune place n’est réservée, en tout cas, à l’époque grecque et romaine que Boccace avait évoquée dans les nouvelles de Cimone (Déc. V, 1), de Lidia et Pirro (Déc. VII, 9) ou de Titus et Gisippe (Déc. X, 8), de même que l’on ne cherchera pas dans le Novellino

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l’orient mythique de la nouvelle de Natan et Mitridanes (Déc. X, 3) ou des histoires de sultans et de magiciens, comme celle de messire Torello (Déc. X, 9).

14 Plusieurs remarques s’imposent, alors, dans notre analyse des fonctions de l’histoire. Tout d’abord, la rhétorique de la véridicité est assurée par l’omniprésence de la voix du narrateur, lors des dédicaces, des commentaires et même au cours de la narration par le biais de séquences méta-narratives (apostrophes, invectives etc.), ce qui est foncièrement différent de la logique compositive du Décaméron, où Boccace avait délégué la narration aux dix membres de la brigata : il est clair que lorsque les personnages d’Emilia ou de Lauretta, par exemple, se mettent à proclamer que leur nouvelle est vraie (« j’ai l’intention de vous raconter une histoire aussi pitoyable que véridique », dit Emilia Déc. II 6, et Lauretta quant à elle : « je me vois contrainte de vous raconter une histoire vraie, qui ressemble beaucoup plus à une fable qu’à un fait attesté, ce qu’elle est bien en réalité » pour introduire la nouvelle de Ferondo au Purgatoire, Déc. III 8) cela n’engage en rien la crédibilité de l’auteur.

15 Deuxièmement, il faudra prendre en compte le discours sur les sources des nouvelles qui présente plusieurs éléments en commun avec l’écriture de l’histoire et ses procédés d’allégation de sources26. Les sources orales dans le Novellino sont citées selon une typologie très variée : l’informateur peut être par exemple nommé ou simplement évoqué par allusion à son origine et à sa classe sociale : « l’altr’anno sentivi da uno nobile fiorentino per autentico racontare » dans la nouvelle XLVIII, ou « secundo da un notevole gaitano me è stato racontato » dans la nouvelle XXXIX et « per quello che da un mercante ho già inteso » pour la nouvelle XXV27. Une source privilégiée est le chevalier Tommaso Mariconda, le grand-père de Masuccio, qui s’était illustré à la cour de Marguerite de Durazzo et dont Masuccio rappelle le goût pour les histoires : « de infinite e dignissime istorie ricontar se dilettava, e quelle non senza grandissima facondia e memoria incredibile le porgea28 » : il s’agit dans ce cas d’une transmission de mémoires familiales du genre des ricordanze, comme il en existait dans la Toscane du XIVe siècle. Il se peut même que l’informateur soit le protagoniste de l’histoire, comme dans la nouvelle XXXVIII : « [Antonio Moro] tra gli altri nostri piacevoli ragionamenti me racontò per verissimo il sottoscritto caso essere a lui pontalmente traveduto29 », ou enfin que l’informateur soit également le dédicataire de la nouvelle, comme c’est le cas pour Francesco Galeota dans la nouvelle XLI. Le pacte de lecture se fonde alors sur la disponibilité des lecteurs à prêter fois d’une part à la parole de l’auteur et d’autre part au savoir d’une communauté qui fait autorité (« persone de grandissima autorità »).

16 L’abandon du récit cadre en faveur de la structure épistolaire contribue également à renforcer cette fonction de l’histoire dans la mesure où les destinataires sont souvent appelés comme témoins informés des faits, des personnages et des situations dont ils partagent la connaissance avec l’auteur : par exemple la nouvelle XXX est adressée au prince de Salerno et le protagoniste est un membre de sa famille et la nouvelle XLIV ayant pour protagoniste le duc Alphonse de Calabre est offerte à l’épouse de celui-ci, Hyppolite Visconti. En outre la nouvelle XXI célèbre en la personne de Bertramo d’Aquino le paradigme du parfait chevalier et elle s’adresse à Antonella d’Aquino qui ne pourrait certes démentir la vérité des faits puisqu’ils visent indirectement à célébrer sa propre lignée.

17 De plus, par le biais de ces lettres les nouvelles entrent dans un circuit de « civile conversazione » devenant prétexte d’un discours autour de valeurs d’actualité. En ce

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sens on pourrait parler d’un procédé d’actualisation des contenus narratifs, comme on le voit dans le passage suivant : Quanto dagli antichi gesti per vetustà dei tempi semo fatti da longi, eccellente e strenuo signore mio, tanto più il racontare de quelli a’ novi ascoltanti deveno parere estrani e peregrini. E como io non dubito de la sequente istoria sono già più anni ne abbi perfetta notizia avuta, pure, avendola fatta con le mie rude littere digna de eterna memoria, me è piaciuto a te, che per nova e verissima la farai e da’ presenti e da’ posteri estimare, la intitolare30.

18 Dans cette dédicace au comte Matteo de Capoue, Masuccio prend soin de distinguer entre la circulation orale d’une nouvelle et le travail d’écriture qui rend la nouvelle mémorable (« digna de eterna memoria ») grâce à la maîtrise rhétorique et stylistique de l’auteur (« con le mie rude littere ») pour enfin la destiner à durer dans le temps, en en faisant un monument littéraire (le « monumentum aere perennius » d’Horace) accessible à la postérité. De la même manière, Masuccio affirme que la première nouvelle, dédiée au roi Ferdinand, a été déjà racontée au roi dans une version plus brève, « con breve eloquio », mais qu’il se plaît à la rendre à présent « degna d’eterna memoria31 » : de ce point de vue le travail du narrateur présente beaucoup d’affinités avec celui de l’historien tel qu’il était conçu bien avant la définition de l’approche scientifique moderne, l’ars historica s’associant depuis ses origines à la rhétorique (« opus oratorium maxime » selon la célèbre définition de Cicéron) et à la transmission de mémoire.

19 Mais les fonctions de l’histoire dans le Novellino sont visibles aussi au niveau des modalités de la narration, par exemple dans les exordes des nouvelles qui très souvent offrent un cadre historique précis, faisant référence à un événement, à une guerre, à des personnages historiques connus, ou encore dans la présence de personnages masqués faisant allusion à des personnalités connues à la cour, comme frère Roberto Caracciolo que Salvatore Nigro a proposé de reconnaître derrière le personnage de frère Niccolò da Narni dans la nouvelle III32. Un autre élément venant appuyer le topos de la narration véridique employé par l’auteur concerne la description des lieux et l’adoption d’une toponymie très précise que le public du Novellino devait pouvoir reconnaître, non seulement parce que le cadre de la plupart des nouvelles est offert par des villes méridionales, mais parce que Masuccio en détaille facilement les noms des rues, des monuments, des rivières etc., comme dans la nouvelle XIX qui a comme cadre la route de Cava dei Tirreni à Naples et où l’on trouve l’allusion à Torre del Greco, au pont Riziardo, à la route de Somma, etc.

20 Tous les éléments considérés contribuent dans leur ensemble à renforcer la fonction de l’histoire dans le Novellino, conformément aux déclarations de l’auteur. Prenant en compte cet aspect de l’ouvrage, S. Nigro a donc pu observer que les nouvelles de Masuccio naissent de la fusion entre des éléments tirés de la chronique de son temps et de motifs narratifs traditionnels : « Masuccio aveva trasformato i fatti di cronaca in exempla, facendoli combaciare con schemi fabliolistici e novellistici33 », ce qui enrichit considérablement l’image un peu naïve, présentée autrefois par Letterio Di Francia, d’un écrivain attaché aux seules traditions populaires et au folklore34. L’analyse d’une nouvelle en particulier nous fournira un exemple de ce rapport très fuyant entre chronique et « schemi novellistici » pour enfin mettre en évidence toute la complexité de la question.

21 La nouvelle XXI ouvre la troisième section du Novellino, consacrée à la satire des femmes, et occupe de ce fait une position importante dans le recueil. Pour cette

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nouvelle nous disposons d’une rédaction antérieure à la date de publication et que G. Petrocchi a pu dater avec une certaine précision : dans la première rédaction, la dédicataire est citée comme Antonella d’Aquino comtesse de Monte Odorisio alors que dans la rédaction finale elle est dite « contessa camberlinga », titre qu’elle eut seulement après ses noces en 1452 avec Inico d’Avalos, le grand chambellan du roi.

22 La nouvelle est présentée comme une anecdote de la vie d’un personnage de la famille d’Aquino, une histoire qui a été racontée au narrateur comme véridique : « per verissimo racontato ». Les faits remontent à un temps lointain, lors de la venue de Charles d’Anjou à Naples après la défaite de Manfred à Bénévent (en 1266) : nous sommes donc en présence de l’une de ces nouvelles qui ont « d’antique veste e de canuta barba », comme le dit Masuccio dans le Parlamento35. Après un exorde de type historique évoquant la victoire de Charles d’Anjou sur Manfred et les jouissances publiques organisées dans la ville de Naples en l’honneur du roi et de ses barons, le récit se tourne vers la thématique amoureuse. Parmi les barons français à Naples se trouve messire Bertramo, le héros de la nouvelle, que Masuccio loue dans la lettre de dédicace avec une certaine flatterie à l’intention d’Antonella d’Aquino : « uno eccellente cavaliero de tua generosa stirpe36 ».

23 L’histoire est la suivante : un chevalier aime la femme d’un autre, mais cet amour n’est pas payé de retour jusqu’au jour où la dame convoitée, qui répond au nom très napolitain de Fiola Tortella, entend son propre mari faire l’éloge du chevalier ; il suffit de cet éloge pour que la femme change complètement d’attitude et accepte de recevoir son amant. Néanmoins, lorsque celui-ci apprend la véritable raison de ce changement radical, à savoir qu’il doit sa conquête amoureuse au mari de la dame, il décide de ne pas profiter de la situation, préférant l’abstinence sexuelle. Cette nouvelle fonctionne selon un schéma à trois temps et une logique de renversement de situations qui vise la surprise. On pourrait la représenter schématiquement par un changement de signe (négatif/positif et puis encore négatif) associé à une condition amoureuse : au début le héros se trouve dans la situation courtoise par excellence, l’impasse de celui qui ‘aime mais n’est pas aimé’, ensuite il parvient à se faire aimer, ‘est aimé’, parce que son adversaire potentiel, le mari, devient son adjuvant et l’on assiste alors au paradoxe d’une femme qui tombe amoureuse d’un autre homme parce que son propre mari l’estime. La conclusion propose le renversement de la situation de départ avec la négation définitive de l’amour, le chevalier désormais ‘est aimé mais n’aime pas’ car il a choisi la chasteté. Le double effet de surprise est assuré d’abord par le changement de sentiments de la dame et ensuite par le refus du chevalier.

24 Le fondement historique de ce récit pose problème dans la mesure où Masuccio réélabore un motif traditionnel que l’on retrouve dans un corpus narratif assez varié, comprenant des exempla en latin, un cantare du XVe siècle et une nouvelle du Pecorone de messire Giovanni (qui a été composé, semble-t-il, entre 1378 et 1385) : c’est le motif de l’éloge fait par un mari ou un personnage d’autorité (un roi) à un rival qui va gagner l’amour d’une dame jusqu’alors insensible à ses avances. Il faut dire que la nouvelle du Pecorone n’avait pas de cadre historique précis : « una novelletta che intervenne nella città di Siena, non è molto tempo », donc peu avant 137837. Plusieurs recherches ont été consacrées à la fortune de ce motif littéraire que Masuccio ne semblerait pas avoir tiré de l’une des sources écrites connues aujourd’hui38. Notre enquête sur le traitement de la fonction histoire chez Masuccio pourra alors s’appuyer sur la comparaison entre la

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version de ce motif dans le Novellino et sa tradition antérieure, que nous n’examinerons cependant pas dans le cadre d’une étude directe des sources.

25 La fortune de ce motif de l’amant abstinent remonte aux anciens recueils exemplaires en latin : sa première attestation est l’histoire des chevaliers Rollon et Résus dans le De nugis Curialium de Gautier, ou Walter, Map (1140-1210), un ouvrage destiné à l’éducation ainsi qu’à la récréation des nobles de la cour d’Henri II Plantagenêt. Dans le milieu ecclésiastique ce motif est repris par Gérard de Cambrais au xiiie siècle dans sa Gemma ecclesiastica (II, XII) où l’amant est le chevalier Reginaldo de Pampona : le héros participe à un tournoi, le mari de la femme convoitée par Reginaldo fait alors l’éloge de celui-ci en disant : « Tous les chevaliers prennent la fuite devant Reginaldo comme les colombes devant le faucon », première ébauche du thème du faucon qui sera développé par la tradition successive. Dans le Pecorone et dans le Novellino, en particulier, cette comparaison se trouve au centre d’une séquence importante du récit, car c’est en voyant voler un faucon qui fait fuir les autres oiseaux que le mari fait l’éloge du chevalier : la force et la valeur du faucon lui rappellent le courage et la vaillance du chevalier qui, à son insu, courtise sa femme. Dans les deux nouvelles, le faucon a la même fonction de transfert, symbolisant à la fois la noblesse de son maître et son succès dans le domaine érotique, mais les détails narratifs sont différents : dans le Pecorone c’est l’oiseau du chevalier, un épervier (« sparviero »), qui s’échappe du poing de celui-ci pour aller capturer une pie (la « rigagia ») dans le jardin de la dame, alors que dans le Novellino la dame et son mari participent à une chasse, vont « a caccia de sparaveri », et ils voient soudain « un salvaggio falcone » qui fait fuir des perdrix grises, « una brigata de starne39 ». Sachant que le faucon est au Moyen Âge un symbole de chasteté et de victoire sur les passions, on pourrait mettre en relation sa présence dans cette séquence du récit avec le dénouement de la nouvelle, par anticipation implicite40.

26 Poursuivant une lecture croisée des nouvelles, nous essayerons de caractériser les choix narratifs de Masuccio41. En commençant par la présentation des personnages, Masuccio nous offre un portrait assez conventionnel du chevalier Bertramo d’Aquino qui est défini « savio, proveduto e gagliardo » comme l’était déjà le Galgano du Pecorone : Egli ebbe a Siena un giovane, el quale avea nome Galgano, il quale era ricco e di nobile progenie, atto e pratico e sperto comunemente in ogni cosa, valoroso e gagliardo, magnanimo e cortese e universale con ogni maniera di gente42.

27 Le choix des adjectifs, dans les deux nouvelles, est centré sur la notion de force pour introduire la comparaison avec le faucon.

28 L’intensité de la passion des chevaliers s’exprime dans les deux textes à travers l’image hyperbolique : Pec., p. 11 : « questa donna a cui egli volea meglio che a sé », et Nov., p. 212 : « de continuo gli facea intendere lei più che sé medesimo amare » (dans la première rédaction : « de continuo le facea intendere lei più che la propria vita amare43 »). En outre l’impasse de l’amour est présentée comme une situation paradoxale où l’amant n’a plus d’espoir et toutefois continue d’espérer : Pec., p. 12 : « si voleva disperare. Ma pure saviamente si deliberò di portare questo giogo […] sempre sperando di trovare grazia », et Nov., p. 212 : « fusse fuggita la speranza, nondimeno […] de continuo il desiderio in maiore fiamme crescendo augmentava » 44.

29 Le déroulement de l’histoire laisse apparaître encore des détails communs, comme la formule de salutation lors des retrouvailles des amants, prononcée par la dame dans le Pecorone et par le chevalier dans le Novellino : Pec., p. 15 : « la donna con molta festa il

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prese per mano, e poi l’abracciò dicendo : “Ben venga il mio Galgano per cento mila volte” » ; Nov., p. 212 : « qual, fattoglisi incontro con le braccia aperte, graziosamente la recevette, dicendo : “Ben venga l’anima mia, per la quale tanti affanni ho già sostenuti”45 ». Au commencement de l’explication de la dame on retrouve, dans les deux nouvelles, un effet de pathos qui souligne l’engagement à parler et la disposition à la confession : Pec., p. 16 : « Rispose la donna : ‘Io tel dirò. Egli è vero che […] » ; la syntaxe et la ponctuation sont les mêmes dans le Novellino, p. 216 : « per quello più breve modo che posso risponderò. Egli è vero che […]46 ». Les dialogues se ressemblent également au moment du refus de la part du chevalier, sa formule de déprécation faisant appel dans les deux nouvelles au motif de la villania : Pec., p. 17 : « Disse Galgano: Non piaccia a Dio, né voglia che, poi che ’l vostro marito ha fatto e detto di me tanta cortesia, ch’io facci a lui villania », Nov., p. 217 : « “Deh! Messer Bertramo, sarai mai tu villano cavaliero […] Or non piazza a Dio che in cavaliero d’Aquino tal villania casche già mai47 ».

30 Cette approche comparative nous permet de tirer enfin quelques conclusions sur la technique narrative de Masuccio. Au niveau de l’intrigue, celui-ci développe et enrichit considérablement la narration par rapport à l’auteur du Pecorone : non seulement la version du Novellino est plus longue, mais elle contient en plus la séquence de l’intervention d’un quatrième personnage, l’ami du chevalier qui l’encourage à poursuivre son aventure. Masuccio augmente le taux de véridicité de la nouvelle au moyen d’un cadre historique bien précis, qui manquait dans le Pecorone, et en s’adressant à la comtesse d’Aquino comme source d’autorité. Toujours dans le sens d’une quête de vraisemblance, l’analyse psychologique des personnages est plus poussée, permettant d’expliquer quelques transitions, par exemple au moment où la dame passe de l’admiration à la passion envers le chevalier. Un dernier aspect concerne les échanges dialogiques qui étaient très élémentaires chez messire Giovanni, tandis que Masuccio leur confère une dimension oratoire en insérant par exemple la tirade contre les femmes ou en orchestrant le discours de la dame et celui du chevalier sur une série d’oppositions rhétoriques à travers la reprise du mot clef « onore » et du syntagme « le cose sue », etc.48. L’ensemble de ses remarques prouve que Masuccio soumet le canevas traditionnel à une réécriture qui va dans le sens d’un rehaussement du style et de l’adaptation aux goûts de son public, comme le montrent la séquence initiale des jouissances publiques à Naples ou celle de la partie de chasse.

31 Pour revenir à la fonction de l’histoire dans la nouvelle, une question importante concerne certes l’identité historique de Bertramo d’Aquino auquel, nous l’avons vu, Masuccio prête les traits conventionnels de l’amant jeune et courtois. La question est d’autant plus importante que Masuccio se sert de ce personnage pour célébrer la maison d’Aquino, ce qui est d’emblée étonnant car les d’Aquino sont une ancienne famille d’origine lombarde établie depuis le ixe siècle dans la région au nord de Naples, dans l’actuelle province de Frosinone, alors que Bertramo est présenté comme un baron du roi Charles d’Anjou. Faute de documents historiques nous en restons pour le moment à ce constat, avec le soupçon que Masuccio ait pu façonner son personnage de Bertramo à partir de l’histoire d’une autre famille aristocratique méridionale, peut-être celle des Del Balzo, ou des Baux, dont la venue à Naples pourrait bien être associée à la geste du roi Charles d’Anjou. Il est intéressant, alors, de remarquer que Giovanni Villani dans le livre VIII de sa Cronica, où il raconte comment Charles d’Anjou s’est emparé du trésor de Manfred après la bataille de Bénévent, consacre quelques paragraphes à l’éloge d’un chevalier « Beltram del Balzo » que le roi fait comte d’Avellino : ce Beltram

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était fils du comte de Provence, Raimond des Baux49. Des mariages entre les D’Aquino et les Del Balzo eurent lieu au cours du XIVe siècle et plus tard, ce qui pourrait étayer notre hypothèse sur l’origine du personnage du Novellino50.

32 En définitive, la figure du preux chevalier possède, dans cette nouvelle, un statut paradigmatique et exemplaire qui dépasse sa crédibilité historique. Dans ce sens on observe sur le plan de la narration des remarques généralisantes faisant référence à l’expérience du commun pour la compréhension de l’histoire et qui vont à l’encontre d’une recherche d’individualisation ou de caractérisation, par exemple pour décrire le comportement du roi français et de ses barons « per li delettevoli e suavi frutti che rende la pace ai vincitori, cominciorno ad attendere in giostre […] », ou l’état d’âme de Bertramo épris d’amour « como è de costume de cui ferventemente ama » et la joie des retrouvailles « E qui per mano tenendosi, sollazzando e basciandosi como negli aspettati ultimi termeni d’amore se richiede », ou enfin pour blâmer Fiola après la scène du refus « pur tirata da loro innata avaricia stringendo a sé le carissime gioie a casa se ne ritornò51 ».

33 L’intention de la nouvelle, aussi bien dans le Pecorone que dans le Novellino, est de fournir un exemple de la victoire de l’homme sur la passion d’amour classée au rang des simples appétits de la chair : mais messire Giovanni ne va pas jusqu’à condamner l’attitude de la dame, alors que Masuccio, dans sa version misogyne, insiste en particulier sur le motif de la sagesse virile et oppose le chevalier « savio » aux femmes incapables de suivre « ordene o ragione ». Nous verrons en outre que cette idéalisation s’accompagne d’une recherche d’épuration littéraire du discours à travers le réseau des allusions intertextuelles.

34 Il y a dans la tradition narrative une autre figure emblématique de chevalier – un chevalier au faucon, lui aussi – qui passe de la démesure à la raison comme mode de vie : c’est évidemment le Federico degli Alberighi de Déc. V, 9. Dans sa récriture du canevas traditionnel, Masuccio enrichit le portrait du chevalier Bertramo d’allusions subtiles à la célèbre nouvelle de Boccace.

35 Le jeu d’allusions est manifeste déjà dans l’argomento où la condition initiale du chevalier est synthétisée selon la formule oppositive, employant une figure de polyptote, ‘aime mais n’est pas aimé’ : « Messer Bertramo d’Aquino ama e non è amato », de même que l’on retrouve chez Boccace « Federigo degli Alberghi ama e non è amato, e in cortesia spendendo si consuma52 ».

36 La séquence initiale qui dépeint le comportement parfaitement courtois du chevalier épris d’amour pour la dame, insiste sur l’idée de sa libéralité. Dans la nouvelle du Décaméron la libéralité de Federigo était présentée comme excessive : « e acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva […]53 », de même que Bertramo dans la première rédaction de la nouvelle de Masuccio « e per lei cominciò a giostrare ed a fare de molte altre magnificencie ; ed in diversi modi spendendo el suo senza alcuno ritegnio […]54 », mais dans la rédaction finale ce détail est supprimé, sans doute dans le souci de sauvegarder le portrait positif d’un héros sans faille : « e per lei cominciò a giostrare e a fare de multe magnificenze ; ed in diversi modi spendendo e donando del suo […]55 ».

37 Encore dans cette première partie de la nouvelle se trouve une autre allusion fine à l’intertexte Décaméronien de Federigo degli Alberighi : pour souligner l’écart entre le désir du chevalier et l’indifférence de la belle dame sans merci, Boccace, de même que Masuccio, présente le motif du regard, la « guatatura », qui est refusé par la dame :

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« Ella sapeva che Federigo lungamente l’aveva amata, né mai da lei una sola guatatura aveva avuta », repris par le Novellino : « E in tale reo stato dimorando, senza mai una sola guardatura con piacevolezza essergli concessa56 ». Ce passage était plus développé dans la première rédaction : « Ed avendo in tale amorosa battaglia più anni indarno combattuto, non si possette per alcun tempo vantare che la donna de una sola guatatura gli fusse stata liberale57 ».

38 Bertramo, comme Federigo, connaît une transformation psychologique radicale, véritable métanoia, au cours de la nouvelle, mais dans une direction opposée. Le point de départ est le même, à savoir la courtoisie et un amour démesuré, mais l’aboutissement est différent, car Federigo sera initié à la rationalité bourgeoise devenant « miglior massaio », tandis qu’à travers Bertramo Masuccio radicalise l’idéologie nobiliaire avec les thèmes de l’honneur, de la magnanimité et de la continence. Cette moralité nouvelle se réalise, dans le Novellino, comme un lien de solidarité et d’amitié entre nobles, comme le montre la conclusion de la nouvelle où Bertramo se proclame lié au mari de la dame par un rapport fraternel. Ici Masuccio préfère donc au modèle de Federigo degli Alberighi celui d’Ansaldo dans la nouvelle X, 5 du Décaméron, un amant qui renonce lui aussi à la satisfaction des sens, après avoir longuement courtisé sa belle, pour faire preuve de magnificence et de courtoisie. Ainsi, vers la fin de cette nouvelle, Ansaldo repousse la dame qu’il a tant convoitée au nom de l’amitié envers son mari courtois : […] dalla liberalità di Gilberto commosso il suo fervore in compassione cominciò a cambiare e disse: «Madonna, unque a Dio non piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore dello onore di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l’esser qui sarà, quanto vi piacerà, non altrimenti che se mia sorella foste […] al vostro marito di tanta cortesia, quanta la sua è stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo tempo avvenire avendo per fratello e per servitore58. »

39 Mais le dialogue avec l’intertexte de Boccace dans cette nouvelle ne se limite pas à la lecture du Décaméron. Les critiques ont déjà remarqué que la séquence où intervient l’ami de Bertramo rappelle le Corbaccio et précisément le violent réquisitoire contre le sexe féminin prononcé par l’esprit du mari défunt. Dans son attitude misogyne le personnage du Novellino reprend certains motifs polémiques que Boccace avait développés, comme le blâme des femmes qui préfèrent se donner à des amants vils plutôt qu’à ceux qui les méritent, ou l’image de la femme qui se pavane en faisant semblant d’accepter un amant dans le seul but d’accroître le nombre de ses admirateurs et enfin la célébration de l’amour libre auquel les hommes devraient s’adonner comme à un simple acte de nature, reprenant l’idée de la vénus libre chantée par Lucrèce etc. En abrégé, ce discours de l’ami, qui est un double de la voix narrative, propose une satire des femmes à la manière de Boccace et nous pouvons y reconnaître une fonction méta-narrative, du moment que le but déclaré de l’ami « Li fé intendere la qualità e natura de femine » correspond parfaitement à la visée mysogine de toute la nouvelle59. Il faut dire qu’en même temps Masuccio se détache de son modèle, car en effet Bertramo ne suit pas le conseil de l’ami qui consiste à jouir tout simplement de l’amour, mais sa décision finale va à l’encontre d’une conception volage et libertine de l’amour.

40 Ces remarques sur l’intertextualité et les modalités de réécriture dans la nouvelle XXI peuvent éclairer l’importance des schémas narratifs dans le Novellino et leur rapport avec la représentation de l’histoire. Bertramo d’Aquino est présenté à la fois comme un personnage historique et comme une figure exemplaire qui rappelle d’autres figures

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emblématiques de chevaliers de la tradition narrative antérieure. Comme nous l’avons vu, à la fin de la nouvelle le chevalier adopte la mentalité d’un clerc, il devient avisé, « savio », et sait dominer ses passions. Il s’agit d’une moralité que d’autres nouvelles du recueil contribuent à renforcer et qu’il est donc nécessaire d’interpréter par rapport à l’ensemble du livre.

41 Le héros de la nouvelle XLIV est le prince héritier Alphonse de Calabre, fils du roi Frédéric, et la nouvelle est dédiée à son épouse, la duchesse Hyppolite Visconti. Lors de son séjour à Pise à l’époque de la guerre de Romagne, le duc participe à une fête où il est remarqué par une belle et noble dame de la région. Il doit se rendre à un rendez- vous avec elle lorsqu’il découvre que son vassal Marino Caracciolo est lui aussi très épris de la dame depuis longtemps ; il va donc faire preuve de grande libéralité en cédant sa place à Marino dans le lit de la jeune femme. L’idéalisation du personnage est fondée sur sa capacité de faire abstinence, exactement comme l’avait fait Bertramo, au nom de la solidarité entre nobles, bien que Marino ne soit pas un pair du duc. Peu importe, en définitive, que la dame soit une victime de l’échange et que le duc Alphonse la trompe par la ruse lui faisant croire que Marino doit s’assurer de l’absence de dangers pour permettre ensuite à son supérieur de coucher, comme il le dit de façon plus polie : « per dopo essere tuo continuo, abandonato e unico amatore60 ».

42 Si dans la nouvelle de Bertramo nous avons souligné la part d’idéalisation de l’histoire, avec la célébration des valeurs courtoises, nous voyons que cette idéalisation rejoint le présent à travers la figure du duc de Calabre, qui sera roi en 1494 (il meurt en 1495) et dont les historiens s’accordent à dire qu’il était au contraire particulièrement enclin aux vices. Les nobles mis en scène dans le Novellino renvoient sans doute au noble public des lecteurs, appelés à se faire représentants d’une idéologie du sérieux et de la moralité qui renforce l’idéologie de classe. Toute atteinte à ce code de comportement sera punie de manière exemplaire. Dans la nouvelle XLVII le roi de Sicile Ferdinand II d’Aragon, futur roi de Castille, est appelé par son père en Espagne pour le conflit contre les Français qui avaient occupé la ville de Perpignan. Lors d’un séjour du roi à Valladolid, deux chevaliers de sa suite violent les deux filles de leur noble hôte, qui s’en plaint auprès du roi. La répression est sévère et immédiate : les deux violeurs sont contraints aux noces réparatrices avec leurs victimes et ensuite mis à mort par décollation, de sorte que les veuves, devenues encore plus riches qu’elles ne l’étaient, puissent se remarier avec deux nobles de la ville. L’exemplarité de la peine renforce les liens à l’intérieur de la classe dominante. Les noces ne suffisent pas à réparer le viol parce qu’elles pourraient légitimer un crime qui menace l’honneur et la pureté d’une lignée.

43 Face à l’importance de cette moralité dans le recueil, il est difficile de déterminer les intentions implicites de Masuccio, à savoir de comprendre si son idéalisation de la société aristocratique correspond à une attitude obséquieuse de la part d’un courtisan ou si au contraire elle assume une fonction polémique dans le but de proposer au monde de la cour une conduite idéale prônant la réforme des mœurs. Nous avons déjà évoqué au début, en effet, les problèmes qui empêchent de formuler un jugement critique global sur cet auteur : écrivain circonspect et rallié au régime, dont il partagerait toutes les valeurs et tous les intérêts, ou bien polémiste dérangeant capable de mettre en cause, par ses allusions satiriques acérées, torts et travers de la classe dominante61 ? Nous ne pouvons pas reprendre ici les éléments de ce débat qui nous éloignerait de notre problématique. Néanmoins, si l’on prend en compte un autre

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thème important du Novellino, qui est la satire des religieux, dont Masuccio ne cesse de condamner la luxure et le libertinage, on pourrait interpréter le code nobiliaire de l’abstinence sexuelle et de l’honneur comme la sauvegarde de la part de la classe au pouvoir d’une moralité que les religieux ont complètement reniée et que Masuccio considère comme nécessaire à la préservation de l’ordre social.

44 La question de la visée du Novellino est d’importance capitale pour notre analyse de la ‘fonction histoire’ dans l’ensemble du recueil, car si Masuccio revendique avec une telle force la vérité de ces récits, c’est qu’il en fait un instrument de persuasion vis-à-vis de son auditoire, dans les registres variés de la flatterie, de la célébration dynastique, de la satire, de la moralisation etc. À propos de l’intention moralisatrice et satirique de Masuccio, S. Nigro a proposé un parallèle entre le Novellino et les sermons religieux : « le novelle si motivano come contropartita laica alle prediche62 ». En cherchant à persuader son auditoire de la nécessité d’une réforme morale de la société, Masuccio montre qu’il considère ses lecteurs comme les potentiels acteurs de ce renouveau.

45 D’un autre point de vue, il est nécessaire de prendre en compte le statut littéraire de la nouvelle et s’interroger sur l’importance que Masuccio y assigne à la fonction de l’histoire. Par son recours à l’histoire, la nouvelle en langue vulgaire cherche avec Masuccio ses lettres de noblesse en s’adressant au public de la cour. En effet l’historiographie, ou ars historica, occupe le premier rang dans une hiérarchie des genres littéraires de l’époque à la cour Aragonaise. Le roi Alphonse, qui s’entourait d’humanistes, était lui aussi passionné d’histoire ancienne et se faisait lire Tite- Live par le Panormita. Plusieurs ouvrages historiques lui furent offerts, ainsi qu’à son fils Ferdinand, avec des intentions élogieuses par les principaux intellectuels de la cour, comme Giovanni Pontano, Bartolomeo Facio et Lorenzo Valla63. Ce n’est donc pas par hasard que lorsque dans le Parlamento Masuccio renouvelle l’offre de son livre à Hyppolite Visconti, il prend soin de la mentionner comme lectrice des histoires grecques : « io non dubito lei avere tra le dignissime greche istorie già letto como Xerxes […] », puisqu’elle avait été l’élève de l’humaniste Costantino Lascaris64. Nous avons vu, d’autre part, que le cadre historique privilégié dans le Novellino est tiré de l’actualité ou des événements relatifs à la maison d’Aragon, de même que les nouvelles nous parlent souvent de la société méridionale. En rapprochant la nouvelle de l’ars historica et en exploitant sa rhétorique de la narration véridique plus que ne l’avait fait Boccace, Masuccio vise la légitimation d’un genre mineur et dans son essence récréatif, destiné plus au divertissement qu’à l’éducation morale, pour en faire un instrument de persuasion adapté à l’horizon d’attente de son public.

NOTES

1. Sur la politique de Ferdinand d’Aragon, voir Ernesto Pontieri, Per la storia del Regno di Ferrante I d’Aragona re di Napoli: studi e ricerche, Naples, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969, ainsi que son édition de la chronique ancienne du napolitain Camillo Porzio, La congiura dei baroni del Regno di Napoli contra il re Ferdinando, Naples, Edizioni Scientifiche Italiane, 1964. En outre Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, Turin, Einaudi 1973, p. 18-21, Giuseppe Campolieti, Breve storia della città

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di Napoli, Milan, Mondadori, 2004, p. 156-162 et l’article d’Alan Ryder, « Ferdinando I d’Aragona », dans le Dizionario Biografico degli Italiani, Rome, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, vol. 46, 1996, p. 174-189. 2. Cette première édition, due aux soins de Francesco del Tuppo, a disparu, ainsi que le manuscrit de Masuccio qui lui avait servi de modèle, et les éditions modernes du Novellino sont fondées sur les incunables de 1483 et 1484, voir Danielle Boillet, « L’usage circonspect de la beffa dans le Novellino de Masuccio Salernitano », dans Formes et significations de la beffa dans la littérature italienne de la Renaissance (Deuxième série), Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1975, p. 65-169, p. 75. 3. Giorgio Petrocchi, « La prima redazione del Novellino di Masuccio », dans Giornale Storico della letteratura italiana, CXXIX, nos 3-4, 1952, p. 266-317. Cette rédaction primitive concerne les nouvelles II, III, XXI, XXI et remonte selon Petrocchi aux années 1450-1457. 4. Nous reviendrons par la suite sur ces problèmes d’interprétation générale pour lesquels les critiques ont émis des avis différents. Voir pour un premier encadrement Renato Pastore, « Per una interpretazione del Novellino di Masuccio Salernitano », Cultura Neolatina, XXIX, 1969, p. 235-265, et D. Boillet, « L’usage circonspect de la beffa… », art. cité, mais aussi Salvatore Nigro, Le brache di San Griffone: novellistica e predicazione tra ’400 e ’500, Bari, Laterza 1983, repris par Anna Fontes-Baratto, « Le Décaméron comme modèle impraticable : la crise du rapport auteur-public dans le Novellino de Masuccio Salernitano », dans L’écrivain face à son public en France et en Italie à la Renaissance, Actes du Colloque International (Tours, 4-6 Décembre 1986), Paris, Vrin 1989, p. 265-281. 5. Par exemple Jacob Burckhardt, La civilisation de la Renaissance en Italie, Paris, Librairie Plon 1958 (l’édition originale en allemand date de 1860). 6. S. Nigro, Le brache…, ouvr. cité, mais également Leonardo Terrusi, « La “Vita della beata Barbara Lanzhuet” nel Novellino di Masuccio Salernitano », La nuova Ricerca, nos 9-10, 2000-2001, p. 77-98. 7. Masuccio Salernitano, Il Novellino. Con appendice di prosatori napoletani del ’400, Giorgio Petrocchi (éd.), Florence, Sansoni 1957, la citation est tirée du prologue, p. 7. Nous avons consulté également l’édition Il Novellino nell’edizione di Luigi Settembrini, S. Nigro (éd.), Milan, Rizzoli 1990. 8. Pour cette problématique nous faisons référence en particulier à Hans-Robert Jauss, « Littérature médiévale et théorie des genres », Poétique, 1, 1970, p. 79-101. 9. Novellino, p. 7 : « Comme depuis ma jeunesse j’ai exercé mes modestes et vils talents en écrivant de ma main paresseuse et maladroite des nouvelles fondées sur des faits réels advenus dans les temps modernes ou dans le passé ». 10. Novellino, p. 453-54 : « Après ces gens là, je crois qu’il y en aura d’autres de moins mauvaise nature qui vont dire que la plus part des cinquante nouvelles dont je t’ai doué ce sont des fables et des mensonges. Qu’il te plaise au moins de leur répondre qu’ils s’éloignent énormément de la vérité et appelles-toi comme témoin au Très-Haut pour affirmer que toutes ces histoires sont vraisemblables et que la plus part d’entre elles se sont passé aux temps modernes ; quant à celles qui sont habillées à l’ancienne et qui portent une barbe blanche, c’est des gens de très grande autorité qui m’en ont parlé comme de faits authentiques ». 11. Novellino, nouvelle II, p. 28 : « On raconte donc de manière authentique » ; nouvelle XXXII, p. 299 : « Ce fut raconté selon toute vérité » ; nouvelle XXXVIII, p. 344 : « Il me raconta selon toute vérité » ; nouvelle L, p. 442 : « Racontée comme authentique » ; nouvelle II, p. 28 : « Histoire très véritable » ; nouvelle XVI, p. 171 : « Une nouvelle plaisante et véridique », etc. 12. Voir par exemple les données fournies par Gabriel-André Pérouse, « Des nouvelles “vrayes comme evangile”. Réflexions sur la présentation du récit bref au XVI siècle », dans B. Alluin et Fr. Suard, La Nouvelle. Définitions, transformations, Lille, Presses universitaires de Lille, 1990, p. 89-99.

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13. Enrico Malato, « La nascita della novella italiana: un’alternativa letteraria borghese alla civiltà cortese », dans La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Rome, Salerno Editrice 1989, p. 3-45, et Cesare Segre, « La novella e i generi letterari », ibid., p. 47-57, mais aussi les articles de Lucia Battaglia Ricci et Selene Sarteschi publiés dans Favole, parabole, istorie. Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, G. Albanese, L. Battaglia Ricci et R. Bessi (éds), Rome, Salerno Editrice, 2000. 14. Selon Michelangelo Picone, « La codificazione della novella », dans Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, vol. I : Dalle origini alla fine del Quattrocento, Turin, Bollati Boringhieri 1993, p. 587-624, p. 589, la nouvelle naît de la fusion de ces trois genres narratifs car elle veut instruire comme l’histoire, est basée sur des faits vraisemblables comme l’argumentum, mais vise aussi, comme la fabula, le plaisir et le divertissement ; voir, en outre Alexander Cizek, « Considérations sur la poétique de l’exemplum et de l’anecdote : à propos du Novellino », dans Le récit bref au Moyen Âge. Actes du colloque d’Amiens des 27-29 mai 1979, Danielle Buschinger (éd.), Paris, Honoré Champion, 1979, p. 341-368. 15. « Je vais vous dire l’aventure rapportée dans un lai. / Ne croyez pas que ce soit fiction, / c’est la pure vérité » ; Lais féeriques des XIIe et XIIIe siècles, A. Micha (éd.), Paris, Flammarion 1992, p. 65. 16. « Du célèbre et glorieux poète Boccace, dont tu as toujours essayé d’imiter la langue et le style », Novellino, p. 208. 17. « Dans ces nouvelles, on verra d’agréables et de cruelles aventures amoureuses et d’autres événements de fortune, advenus aussi bien dans les temps modernes que dans les temps anciens » ; Boccace, Décaméron, sous la direction de Christian Bec, Paris, Le livre de Poche 1994, p. 33. 18. Pour le réalisme et les effets de réel chez Boccace voir Pier Massimo Forni, « Retorica del reale nel Decameron », Studi sul Boccaccio, XVII, 1988, p. 183-202, Id., « Come cominciano le novelle del Decameron », dans La novella italiana…, ouvr. cité, p. 689-700 et aussi Id., « Realtà / verità », dans Lessico critico decameroniano, R. Bragantini et P. M. Forni (éds), Turin, Bollati Boringhieri, 1995, p. 300-319. L’analyse de Forni concerne aussi bien les aspects formels de la rhétorique du discours, au niveau par exemple de la description des lieux et des personnages, que le plan des contenus, les nouvelles de Boccace pouvant synthétiser la vérité universelle des mœurs et des caractères humains, ou bien la vérité d’une analyse anthropologique et sociologique de son époque. 19. « Quelques actions exécrables de certains religieux », Novellino, p. 11. 20. « Matière triste à pleurer » et « nouvelles agréables et amusantes », Novellino, p. 285. 21. Gabriella Albanese, « Da Petrarca a Piccolomini: codificazione della novella umanistica », dans Favole, parabole…, ouvr. cité, p. 257-308 et Letizia Leoncini, La novella a corte: Giovanni Conversini da Ravenna, ibid., p. 189-222. En outre G. Albanese, « Per la storia della fondazione del genere novella tra volgare e latino. Edizioni di testi e problemi critici », Medioevo e Rinascimento, XII, 1998, p. 263-84. Ce rapport de continuité avec la typologie de la nouvelle humaniste latine n’a pas été bien saisi par les critiques qui se sont intéressés à la structure du Novellino, ainsi par exemple S. Nigro avait proposé le modèle de la prédication, en particulier des sermons de Saint Bernardin : « in una ridefinizione epistolare del sermone epidittico e politico » (S. Nigro, Le brache…, ouvr. cité, p. 33), et plus récemment Michael Papio, Keen and Violent Remedies. Social Satire and the Grotesque in Masuccio Salernitano’s Novellino, Berne-New York, Peter Lang, 2000 associe Masuccio à l’essor de l’épistolographie humaniste, mais il affirme trop hâtivement qu’il serait l’inventeur de l’épître-nouvelle : « It appears […] that the fullest use of an epistolary structural formula as a frame, in effect a mixture of genres, is born with Masuccio ». 22. Gabriella Albanese et Rossella Bessi, All’origine della guerra dei cento anni. Una novella latina di Bartolomeo Facio e il volgarizzamento di Jacopo di Poggio Bracciolini, Florence, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 2000.

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23. G. Albanese et R. Bessi, All’origine della guerra…, ouvr. cité, p. 102. 24. À ce propos Donato Pirovano, Modi narrativi e stile del Novellino di Masuccio Salernitano, Florence, La Nuova Italia, 1996 a essayé d’appliquer au Novellino l’analyse par typologies narratives que Mario Baratto avait proposée pour le Décaméron dans son essai de 1970, Realtà e stile nel « Decameron ». Il parvient ainsi à distinguer plusieurs catégories de nouvelles : la nouvelle- roman, axée sur les personnages plus que sur la suite des actions, la nouvelle-épisode centrée sur une situation déterminée, le débat ou « contrasto », le mime ou la comédie, et enfin la nouvelle polémique. 25. D’après notre recensement, 22 nouvelles sont ancrées dans l’actualité, 21 se réfèrent à l’histoire récente, et seulement 6 à l’histoire plus ancienne (les nouvelles XXI, XLII, XLIII, XLVIII, XLIX et L) ; une nouvelle, la XLV, n’a pas de cadre historique précis. 26. Pour le parallèle entre l’écriture des chroniques et le genre de la nouvelle, voir en particulier Alberto Varvaro, « Tra cronaca e novella », dans La Novella italiana…, ouvr. cité, p. 155-171 et Massimo Miglio, « La novella come fonte storica. Cronaca e novella dal Compagni al Pecorone », ibid., p. 173-190. Pour le traitement des sources chez les premiers compilateurs de chroniques à Florence, on pourra voir l’analyse très intéressante de Franca Ragone, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Firenze nel Trecento, Rome, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, 1998, qui rappelle la distinction traditionnelle entre information de visu, à savoir par expérience personnelle des faits, et information orale. Pour l’époque de Villani, F. Ragone remarque que « la trasmissione orale delle notizie, come forma del rapporto interpersonale, come pratica diffusa di socialità, è del resto un elemento portante nella tradizione storiografica medievale, ancora fortemente legata alla dimensione dell’oralità » (p. 24), et elle ajoute : « nessuno scetticismo, invece, manifesta Villani circa il fondamento di quelle notizie, tramandate da ‘antichi nostri cittadini, che i loro padri furono presenti a queste cose e ne feciono loro ricordo e memoria’ (VII 2): l’antichità degli informatori, il loro farsi portatori di una tradizione raccolta e affidata loro da testimoni oculari, è sufficiente a dare al cronista la convinzione di ‘sapere il vero’ dei fatti » (p. 26). 27. Nouvelle XLVIII : « L’année dernière j’ai entendu un noble florentin qui racontait comme un fait authentique » ; nouvelle XXXIX : « selon ce qu’un noble citoyen de Gaete m’a raconté » ; nouvelle XXV : « à ce que j’ai entendu par un marchand ». 28. Novellino, XIV, p. 152 : « Il se plaisait à raconter un nombre infini d’histoires magnifiques pour lesquelles il faisait preuve d’un grand talent oratoire et d’une mémoire incroyable ». Sur Tommaso Mariconda voir les notes de D. Boillet, « L’usage circonspect de la beffa… », art. cité, p. 69. La nouvelle XLIII est également tirée de cette source familiale. 29. Novellino, p. 344 : « (Antonio Moro) me raconta, parmi d’autres sujets de notre aimable conversation, qu’il lui était arrivé pour de vrai le cas dont je vais vous parler ». 30. Novellino, XLIX, 2 : « Plus nous sommes éloignés des gestes appartenant à des époques très anciennes, mon excellent et vaillant seigneur, plus leur récits doivent paraître étranges et bizarres au public d’aujourd’hui. Bien que je sache que vous avez été pleinement informé il y a plusieurs années de l’histoire que je raconterai dans la nouvelle suivante, néanmoins il m’a plu, après l’avoir rendue digne de mémoire éternelle grâce à mon modeste style, de la dédier à vous qui allez la faire apprécier aussi bien par nos contemporains que par la postérité comme étant une nouvelle surprenante et véridique ». 31. Novellino, p. 24. 32. S. Nigro, Le brache…, ouvr. cité, p. 59. 33. S. Nigro, Le brache…, ouvr. cité, p. 153. 34. Letterio Di Francia, La novellistica, Milan, Vallardi, 1924, p. 449. 35. Voir pour la traduction la note 10. 36. Novellino, p. 211 : « Un excellent chevalier de ton illustre famille ».

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37. « Une courte histoire qui s’est passée il n’y a pas longtemps dans la ville de Sienne » ; Ser Giovanni, Il Pecorone, Enzo Esposito (éd.), Ravenne, Longo, 1974, p. 9. Il s’agit de la première nouvelle du Pecorone. 38. Maria Bendinelli Predelli, « Storia della dama bolognese che s’innamora sentendo lodare un cavaliere dal marito. Cantare inedito del Quattrocento », Letteratura Italiana Antica, III, 2002, p. 19-40, et Ead., « The Lover Praised by the Husband: a Courtly Tale between Exemplum and Novella », dans The Italian Novella, Gloria Allaire (éd.), Chicago, Routledge 2003, p. 105-118. Plusieurs critiques avaient déjà signalé la ressemblance entre les deux nouvelles de ser Giovanni et de Masuccio : voir Gaetano Amalfi, « Quellen und Parallelen zum Novellino des Salernitaners Masuccio », Zeitschrift des Vereins für Volkskunde, no 9, 1899, p. 136-153, et James Hinton, « Walter Map e ser Giovanni », Modern Philology, XV, 1917, p. 11-17, puis L. Di Francia, La novellistica, ouvr. cité, p. 458 selon qui Masuccio s’inspire d’une source orale inconnue. Marga Cottino-Jones qui consacre quelques pages de son livre à notre nouvelle, ignore le rapport avec le Pecorone, voir Il dir novellando: modello e deviazioni, Rome, Salerno Editrice, 1994, p. 71-74. En revanche M. Papio, Keen and Violent Remedies…, ouvr. cité, se limite à parler d’un simple remaniement (« a simple refashioning ») de la nouvelle de ser Giovanni de la part de Masuccio (p. 110, note 83). 39. Cet épisode de la chasse a été commenté par D. Boillet, « L’usage circonspect de la beffa… », art. cité, d’une part comme la reprise d’un topos littéraire (« Cet épisode de la chasse reprend le procédé, fondamental dans la poésie courtoise, de la démonstration par comparaison », note 301, p. 139), et d’autre part comme un élément d’effet de réel car la chasse au faucon était très prisée à la cour Aragonaise : « Le rôle fonctionnel de la chasse exprime, par delà la valeur symbolique de la référence littéraire, le traitement réaliste d’un fait de civilisation contemporaine ». 40. Jean Chevalier-Alain Gheerbrant, Dictionnaire des symboles, Paris, Laffont, 1982, p. 429. Pour une analyse de la nouvelle de Boccace, voir Claude Imberty, « Le symbolisme du faucon dans la nouvelle 9 de la Ve journée du Décaméron », Revue des études italiennes, no 20, 1974, p. 147-156. Mais chez Masuccio je n’exclurais pas un double sens érotique, si l’on pense à la nouvelle des braies de Saint Griffon où frère Nicolò da Narni a une relation avec Agata, la femme d’un célèbre médecin. En quittant la maison de la dame, Nicolò se vante de ses exploits sexuels avec un confrère : « So ben io che ’l mio sparaveri prise ad un volo due starne, ed avendo per la terza tentato, se venne il maestro; cossì egli se avesse prima fiaccato il collo! », et « Oh! Dio volesse – disse il frate – che ritornare a la già lassata caccia a me fusse concesso […] », Novellino, III, p. 46-47 (« Je sais bien que mon épervier a pris deux perdrix en un seul vol et qu’il allait s’envoler pour la troisième fois lorsque le maître est rentré, qu’il aille au diable ! », et « Oh ! Plût à Dieu – dit le moine – qu’on me laisse retourner à la chasse interrompue […] »). 41. Je ne poserai pas ici la question de savoir si le Pecorone est une source directe ou indirecte du Novellino. Le principal obstacle à l’identification du Pecorone comme source du Novellino était représenté par la date de composition et par la circulation restreinte de l’ouvrage (nous avons seulement trois manuscrits du Pecorone, et une édition procurée par Ludovico Domenichi à Milan en 1558), mais les études plus récentes sur Giovanni de Florence ont fait tomber ces obstacles, depuis que Pasquale Stoppelli a réussi à identifier cet auteur avec un jongleur, Malizia Barattone, qui a vécu à Naples à la cour de Robert d’Anjou vers 1360, voir P. Stoppelli, « Malizia Barattone (Giovanni di Firenze) autore del Pecorone », Filologia e critica, II, 1977, p. 1-34. En attendant que l’édition critique promise par Enzo Quaglio soit disponible dans la collection des Novellieri italiani, nous pouvons supposer que le Pecorone était connu à Naples : Bartolomeo Facio se sert de la nouvelle X,1 du Pecorone pour sa nouvelle latine De origine belli inter Gallos et Britannos historia composée en 1440 environ. En 1443 Facio est à Naples comme ambassadeur de la République de Gênes et en 1446 il est nommé historiographe de la cour par Alphonse d’Aragon. 42. Pecorone I, 1, p. 10 : « Il était à Sienne un jeune homme qui se prénommait Galgano, riche, noble, très adroit et expert dans tous les domaines, vaillant et courageux, magnanime, courtois et affable avec les gens de tous les niveaux ». Dans la première rédaction du Novellino : « un valeruso

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e strenuo cavaliero… vigoroso… animoso e gagliardo » il y a un surplus d’adjectivation dont Masuccio fait l’économie pour la rédaction finale de la nouvelle. 43. Pecorone, p. 11, ligne 14 : « Cette dame qu’il aimait plus que sa personne » ; Novellino, p. 212, § 5 : « il lui faisait entendre constamment qu’il l’aimait plus que sa personne » ; « il lui faisait entendre constamment qu’il l’aimait plus que sa propre vie ». 44. Pecorone, p. 12, ligne 30 : « Il voulait mettre fin à ses espoirs, cependant il prit sagement le parti de soutenir ce joug […] en espérant toujours d’obtenir merci » ; Novellino, p. 212, § 6 : « l’espoir s’était enfui, cependant […] son désir augmentait constamment s’embrasant toujours plus ». 45. Pecorone, p. 15, ligne 85 : « La dame le prit joyeusement par la main et elle le serra dans ses bras en lui disant : “Vous êtes mille fois le bienvenu, cher Galgano” » ; Novellino, p. 216, § 20 : « lui, allant vers elle les bras ouverts, lui fit très bon accueil en disant : “Vous êtes la bienvenue, mon cœur, pour qui j’ai déjà soutenu tant de preuves” ». 46. Pecorone, p. 16, ligne 111 : « La dame répondit : “Je vais te l’avouer. Il est vrai que […]” » ; Novellino, p. 216, § 23 : « Je vais te répondre le plus brièvement que je peux. Il est vrai que […] ». 47. Pecorone, p. 17, ligne 130 : « Galgano dit : “Qu’à Dieu ne plaise et qu’il ne permette que, vu la grande courtoisie montrée par votre mari envers moi dans ses gestes et ses paroles, je soit félon envers lui” » ; Novellino, p. 217, § 27 : « Doh ! Messire Bertramo, vas-tu devenir un chevalier félon […] Qu’à Dieu ne plaise qu’une telle félonie soit commise par un chevalier des d’Aquino ». 48. Novellino, p. 216, § 23-25 et p. 218, § 30. 49. Giovanni Villani, Nuova Cronica, éd. Giuseppe Porta, Parme, Guanda, 1991, livre VIII, 10. 50. Par exemple les noces de Margherita d’Aquino avec Raymond del Balzo en 1331 ou d’Isabella d’Aquino avec un autre personnage du même nom. Il faut rappeler aussi qu’Antonella d’Aquino et Inigo d’Avalos marièrent leur fille Constance, née en 1470, à Frédéric des Baux, prince de Taranto, mais la nouvelle est bien antérieure à ce mariage. 51. Novellino, p. 212, § 4 : « En jouissant des bons et doux fruits que la paix rend aux vainqueurs, il se mirent à organiser des tournois » ; ibid., § 6 : « comme font ceux qui sont épris d’un grand amour » ; p. 216, § 22 : « se tenant par la main, parmi les caresses et les baisers qui sont d’office au dernier stade de l’amour », p. 219 ; § 32 : « cependant en serrant contre sa poitrine les précieux bijoux, poussée par l’avarice qui est innée chez la femme, s’en retourna chez elle ». 52. Décaméron V, 9 : « Federigo degli Alberighi aime et n’est pas aimé ; il se ruine en dépenses de courtoisie ». Dans le Pecorone également Galgano s’écrie, p. 11, lignes 24-25 : « Dòh, Signore mio, come puoi tu sostenere ch’io ami e non sia amato? Non vedi tu che questo è contra natura? ». 53. Décaméron V, 9, 6 : « Afin d’acquérir son amour, il participait aux joutes et aux tournois, donnait des fêtes, prodiguait les cadeaux et dépensait son bien sans compter ». 54. « Pour elle il commença à participer aux joutes et à faire assaut de magnificence ; en dépensant de plusieurs manières sans pouvoir se retenir […] ». 55. Novellino, p. 212, § 5 : « Pour elle il commença à participer aux joutes et à faire assaut de magnificence ; en dépensant de plusieurs manières et en offrant ses richesses […] ». La version du Pecorone est un peu différente, p. 10-11 : « giostrando e armeggiando e faccendo di ricchi mangiari per amore di lei […] » (« en participant aux joutes et aux tournois et en offrant par amour d’elle des banquets somptueux »). 56. Décaméron V, 9, p. 473 : « Elle savait que Federigo l’avait longtemps aimée et qu’il n’avait jamais obtenu d’elle le moindre regard », Novellino, p. 212, § 7 : « se trouvant dans cette malheureuse condition, sans avoir jamais obtenu d’elle le moindre regard bienveillant ». 57. « Ayant donc lutté plusieurs années dans cette bataille de l’amour, il ne put jamais se vanter d’avoir obtenu le moindre regard de sa dame ». 58. Décaméron X, 5, p. 787 : « […] touché par la libéralité de Gilberto, de l’ardeur amoureuse il passa bientôt à la compassion et il dit : Madame, s’il en est ainsi, à Dieu ne plaise que je veuille ternir l’honneur de celui qui compatit à ma passion. Soyez donc ici autant qu’il vous plaira

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comme si vous étiez ma sœur […] à condition que vous rendiez grâces à votre mari, comme bon vous semblera, pour la grande courtoisie dont il a témoigné, l’assurant qu’à l’avenir il trouvera toujours en moi un frère et un serviteur ». 59. Novellino, p. 215, § 17 : « Il lui fit comprendre la qualité et la nature des femmes ». 60. Novellino, p. 396 : « pour que je devienne ensuite ton seul amant passionné et fidèle ». 61. Le rapport que Masuccio entretient avec son public a été particulièrement étudié par D. Boillet, « L’usage circonspect de la beffa… », art. cité, qui a relevé dans le Novellino l’expression d’une idéologie de classe solidaire au monde de la cour aragonaise. D’autres recherches plus récentes ont en revanche mis en valeur les aspects polémiques et critiques, voir S. Nigro, Les brache…, ouvr. cité, et A. Fontes-Baratto, « Le Décaméron comme modèle impraticable… », art. cité. 62. S. Nigro, Le brache…, ouvr. cité, p. 32. 63. Nous pouvons rappeler quelques titres : Bartolomeo Facio, De rebus gestis ab Alphonso primo Neapolitanorum rege ; Lorenzo Valla, Gesta Ferdinandi regis Aragonum (en 1445) ; Panormita, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis ; Giovanni Pontano, De bello Neapolitano ; Giovanni Albino, De gestis regum Neapolitanorum ab Aragonia qui extant libri quatuor, etc. 64. Novellino, p. 450 : « Je ne doute pas que vous ayez déjà lu dans l’histoire grecque que Xerxes […] ».

RÉSUMÉS

Le topos de la narration véridique se trouve au cœur du programme narratif que Masuccio Salernitano affiche dans son Novellino (1476 environ), en développant certains éléments de réalisme et de fidélité à l’histoire déjà présents dans le modèle de référence, le Décaméron. Ainsi, un réseau assez riche d’allusions à l’histoire et à l’actualité émaille les nouvelles de Masuccio qui d’ailleurs privilégient des sujets contemporains ou se référant à l’histoire récente. L’analyse de la structure du recueil, des stratégies discursives propres à l’auteur et de ses modalités d’écriture montre que celui-ci redéfinit le genre de la nouvelle à la lumière d’une nouvelle conception de l’ars historique. En particulier, l’étude de la nouvelle de Bertramo d’Aquino, la XXI de la troisième section, permet de saisir toute la complexité de l’opération de Masuccio entre réélaboration de sources narratives traditionnelles, intertextualité et traitement idéalisant des données historiques.

Il topos della narrazione veridica appare centrale nel programma narrativo che Masuccio Salernitano propone nel suo Novellino (1476 ca.), sviluppando alcuni elementi di realismo e di fedeltà alla storia già presenti nel modello di referenza, il Decameron. Una fitta trama di allusioni alla storia e all’attualità caratterizza allora le novelle di Masuccio che d’altra parte previlegiano soggetti contemporanei o appartenenti alla storia recente. L’analisi della struttura della raccolta, delle strategie narrative proprie all’autore e delle sue modalità di scrittura mostra come questi ridefinisca il genere novellistico alla luce di una nuova concezione dell’ars historica. In particolare, lo studio della novella di Bertramo d’Aquino, la XXI della terza sezione, permette di cogliere tutta la complessità dell’operazione di Masuccio tra rielaborazione di motivi narrativi tradizionali, intertestualità e trattamento idealizzante della storia.

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AUTEUR

MARIA CRISTINA PANZERA Université d’Avignon

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Nouvelle et Histoire : incertitudes génériques dans les Novelle de Matteo Bandello

Serge Stolf

1 Le rapport qu’entretiennent les nouvelles de Bandello avec l’histoire est certainement l’un des aspects sur lequel la critique a mis le plus volontiers l’accent. La thèse consacrée au nouvelliste par A. C. Fiorato en 1979, s’intitule, symptomatiquement, Bandello entre l’histoire et l’écriture. Le propos entendait surtout souligner le rapport entre les nouvelles et « la réalité socio-culturelle et l’idéologie » de la société contemporaine de l’auteur, mais donnait également des aperçus sur les registres narratifs : la nouvelle pouvait être « sèche chronique historique » ou « fait divers journalistique »1. Bandello puise si généreusement dans la matière historique que celle- ci a souvent été regardée davantage du point de vue documentaire que du point de vue des incidences que la présence d’une telle matière dans la fiction pouvait avoir sur la nouvelle comme genre, et sur les transformations génériques qu’elle pouvait y opérer2.

2 Il est vrai que la nouvelle présente les difficultés inhérentes à la définition d’un genre qui n’a jamais eu de véritable codification. Quant à la nouvelle italienne, il est admis qu’elle trouve avec le Décaméron en même temps que son fondement générique sa typologie. Dans la tripartition donnée par Boccace (« cento Novelle, o favole o parabole o istorie3 »), on peut voir une tentative de définition large, englobant des contenus différents, mais les dépassant. Les frontières du genre n’en restent pas moins vagues, à en juger par l’évolution des formes de la nouvelle, sur la base d’un modèle aussi abouti4. On peut s’interroger sur le degré de dilution de cette matière historique (« istorie ») dans la fiction. Celle-ci ne risquera-t-elle pas d’en être dénaturée ? Dans les matériaux auxquels puisent certains recueils ultérieurs au modèle établi par Boccace, les chroniques contemporaines peuvent avoir une plus grande place, tels que le Pecorone. La nouvelle peut se faire ainsi le reflet d’une réalité historique transposée5, susceptible de modifier les frontières du genre.

3 Il faut souligner que les Novelle de Bandello naissent au terme d’une évolution déjà longue et d’expérimentations multiples dans ce domaine. Bandello, et c’est un point

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que la critique se plaît à souligner, emprunte à l’histoire passée ou récente une grande part de l’inspiration de ses nouvelles, mais en ce qui concerne le rapport que ces nouvelles entretiennent avec l’histoire, il faut faire une distinction. Notre étude ne s’intéressera pas directement à la récupération de l’histoire comme « chronique d’une société ». Cette analyse a donné de brillants travaux, comme nous l’avons indiqué. Notre intérêt se portera sur la récupération de l’histoire comme matière narrative, et sur les incidences qu’une telle intrusion, parfois massive, de ce matériau peut avoir sur les frontières, devenues instables, du genre.

4 Nous avons procédé, pour cela, à une sélection de nouvelles, généralement considérées avec suspicion en raison de leur dépendance trop grande avec l’histoire événementielle et avec des sources utilisées de manière trop servile. Le jugement est sévère, en effet, à l’égard de ces nouvelles, mais il provient probablement d’une appréciation esthétique. Elles ne présentent pas une distance suffisante par rapport à leurs sources, et l’inventivité de l’auteur y semble réduite. Il y a, au contraire, de bonnes raisons de s’y intéresser. D’une part, Bandello donne comme nouvelles des textes dont le statut se révèle incertain et ambigu par rapport au genre auquel leur auteur les rattache. D’autre part, leur étroite dépendance avec l’histoire ou la chronique historique permet d’apporter des éclairages sur l’affranchissement du nouvelliste par rapport au code générique. Nous suivrons donc une démarche soucieuse d’éclairer les relations d’intertextualité, et les transferts d’un texte à l’autre. Une telle approche permet de mesurer concrètement le travail opéré à partir de ces sources, d’en apprécier les lignes de force ou de faiblesse, et d’apporter quelques éléments de réponse à la question de savoir si le rapport entretenu par ces nouvelles avec l’histoire en a modifié les règles génériques.

5 Nous commencerons par la nouvelle III, 186. Son titre est on ne peut plus raccrocheur : « Rosimonda fa ammazzare il marito, e poi se stessa e il secondo marito avvelena, accecata da disordinato appetito ». Deux meurtres et un suicide involontaire, il y a là, en effet, matière à une tragédie domestique illustrant le désordre passionnel. L’occasion de la nouvelle est fournie par une généalogie établissant l’ascendance lombarde des Pallavicini. Le sujet intéresse donc les plus illustres familles qui ont essaimé en Italie à partir d’un ancêtre commun, Alboïn, roi des Lombards (561-573). Parmi celles-ci, les Visconti. C’est justement chez l’un des représentants de cette famille, Alfonso Visconti, que Bandello a entendu raconter les faits qu’il prétend rapporter de son mieux, comme il l’affirme dans la lettre dédicatoire.

6 Une indication liminaire pose le problème de la nature de ce texte que Bandello qualifie de « novella o vero istoria ». Cette formulation sur le statut du récit peut avoir au moins deux explications. En premier lieu, elle n’est pas sans rappeler celle, déjà citée, du Proemio du Décameron : « intendo di raccontare cento Novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo ». Le terme istorie renvoie aux récits fondés sur des faits historiques et mettant en scène des personnages célèbres. En second lieu, la précision fournie (o vero) oriente le lecteur vers une authenticité des faits relatés qui constitue, aux yeux de Bandello, une des raisons de sa poétique : l’expérience humaine s’offre comme l’inépuisable source des faits (« casi »), d’autant plus dignes d’être rapportés qu’il sont surprenants ou inattendus7. Le narrateur propose donc au lecteur un récit dont la véridicité devrait fournir un supplément de plaisir à sa lecture, et dont l’écriture soumise aux règles de la fiction devrait éviter la sécheresse du fait historique.

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7 À la fin de la nouvelle, Bandello glisse une indication pleine d’intérêt : « affermano gli istorici che […]8 ». Veut-il par là suggérer les sources qu’il s’est bien gardé de fournir dans le corps du récit, réservant cette remarque incidente pour des faits n’intéressant pas directement l’économie de ce récit ? Il ne donne d’ailleurs nulle précision quant à ces « historiens », mais nous pouvons avancer avec certitude les deux sources principales auxquelles il a puisé sa matière. La première est l’Historia Langobardorum qu’écrivit Paul Diacre, pendant un séjour au monastère du Mont-Cassin, aux alentours de 787. L’essentiel du récit de Bandello se trouve au chapitre 27 du livre I, et aux chapitres 28-31 du livre II. La seconde est constituée par les Istorie fiorentine (I, VIII) de Machiavel qui utilise lui aussi, entre autres textes, celui de Paul Diacre, peut-être indirectement. Nous montrerons, par une confrontation des textes, que Bandello a bien eu sous les yeux ces deux textes9.

8 Les faits relatés sont les suivants. Narsès, qui gouverne l’Italie pour l’empereur d’Orient, tombe en disgrâce et appelle Alboïn, roi des Lombards, à envahir l’Italie. Celui-ci tue Cunimonde, roi des Gépides, dont il épouse la fille Rosemonde. Il contraint celle-ci à boire dans le crâne de son père, au cours d’un festin. Humiliée, elle se venge en le faisant assassiner par son amant, Helmichis. Plus tard, elle empoisonne celui-ci, mais se voit contrainte de boire à la même coupe, et meurt.

9 Dans son récit, Paul Diacre relate les faits à sa manière, assez sèche et impersonnelle. Nous donnons un premier extrait que nous confronterons avec Machiavel tout d’abord, puis avec Bandello : […] quae ei Alboin, virum bellis aptum et per omnia strenuum, peperit. […] In eo proelio Alboin Cunimundum occidit, caputque illius sublatum, ad bibendum ex eo poculum fecit. […] Cuius filiam nomine Rosimundam […] duxit captivam [et eam] duxit uxorem10. Alboino, uomo efferato e audace […]. E trovandosi nella preda Rosmunda, figliuola di Commundo, la prese Alboino per moglie […]; e mosso dalla sua efferata natura, fece del teschio di Commundo una tazza con la quale in memoria di quella vittoria beeva11. Alboino, uomo crudele, audace, di costumi efferati e barbari pieno, e ne le cose de la guerra molto isperimentato. […] Alboino, fatto pigliare l’orribil teschio di Comondo, del cranio di quello ne fece far una coppa, ne la quale, essendo d’oro guarnita, beveva ai conviti solenni. Si trovò ne la preda ostile, tra le donne, Rosimonda figliuola di Comondo, fanciulla oltra ogni credenza bellissima, la quale, veduta da Alboino, fu da lui per moglie sposata12.

10 La confrontation des trois textes met en évidence le caractère plus développé du récit chez Bandello. Chacun d’eux contient le bref portrait moral d’Alboïn, l’épisode du crâne, le choix de Rosemonde comme épouse. Paul Diacre ne retient du roi des Lombards que son aptitude pour la guerre et son caractère décidé. Machiavel garde la même sobriété, se contentant d’indiquer la sauvagerie du personnage, explication rendue nécessaire pour des lecteurs dont la culture est très éloignée des mœurs du VIIIe siècle.

11 On remarque que Bandello reprend de manière approximative la forme employée par Machiavel pour désigner le père de Rosemonde : « Commundo », « Comondo ». Pour tracer le portrait d’Alboïn, il semble avoir fondu les deux textes (l’audace et la sauvagerie signalées par Machiavel, l’expérience de l’homme de guerre chez Paul Diacre) en ajoutant des qualificatifs (« crudele », « [costumi] barbari ») qui donnent d’emblée au personnage une coloration violente, éloignée des mœurs civilisées, et installent cette sorte de dépaysement psychologique qu’on retrouve si souvent chez

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Bandello. L’adjectif « orribile » pour qualifier la tête du mort participe de cette poétique : il s’agit moins d’un détail utile que d’une notation apportant une tonalité, celle du registre de l’horrible. Nous sommes ici dans le domaine de la fiction, comme le prouvent le détail de la coupe « d’oro guarnita » et celui de la « fanciulla oltra ogni credenza bellissima ». Cette très grande beauté ne sert qu’à faire contraste avec la hideur du chef tranché de son père, mêlant ainsi le sang et la sensualité dans le plus pur style tragique. Cette beauté ne jouera plus aucun rôle dans la suite du récit, et ne paraît avoir d’autre fonction que de suggérer la passion de convoitise à laquelle s’abandonne Alboïn.

12 La suite du récit prouve que Bandello suit fidèlement Paul Diacre. Chez ce dernier, l’épisode du crâne occupe quelques lignes à la fin du livre I. Le livre II est presque entièrement consacré (26 chapitres sur 32) aux conquêtes d’Alboïn en Italie et à une longue digression sur la géographie régionale et sur les différents peuplements de la péninsule. C’est seulement à la fin de ce livre II (chap. 28-31) que Paul Diacre relate la vengeance de Rosimonde et les trois morts qui en résultent. Bandello, contre toute loi d’économie du récit de fiction, consacre un très long paragraphe au résumé des conquêtes d’Alboïn. Alors que Paul Diacre fait état d’un geste de clémence du roi à l’égard des habitants de Pavie, Bandello gomme ce trait, et en ajoute d’autres de son cru : le guerrier présomptueux s’endort sur ses lauriers et s’amollit dans l’oisiveté13.

13 Ces délices de Capoue vont entraîner le roi à des beuveries au cours desquelles, perdant tout contrôle de lui-même, il va s’exposer à perdre la vie. Lors d’un banquet, il invite sa femme à boire dans le crâne de son père. L’humiliation infligée à Rosemonde suscite en elle le désir de se venger de son mari en le supprimant. Paul Diacre relate sèchement les faits : Poculo quod de capite Cunimundi regis soceri fecerat reginae ad bibendum vinum dari praecepit atque eam ut cum patre suo laetanter biberet invitavit […] Igitur Rosemunda ubi rem animadvertit, altum concipiens in corde dolorem, quem copescere non valens, mox in mariti necem patris funus vindicatura exarsit, consiliumque mox cum Helmichis […] ut regem interficeret iniit14.

14 Machiavel enrichit le récit de quelques notations (la blessure ressentie par la reine quand Alboïn l’invite à trinquer au vu et au su de tous) que Bandello amplifie : Comandò ad uno suo scudiero, che di coppa lo serviva, che a la reina la portasse, dicendo: — To’ qui: prendi questa coppa e dálla a Rosimonda mia moglie e dille che allegramente beva con suo padre. – Sedeva Rosimonda a un’altra tavola con le donne per iscontro al marito, e sentì la voce di quello, perciò che assai forte aveva gridato, e di dentro grandemente si conturbò. […] Non poteva la reina sofferire che il re a la presenza di tutta la nobiltà longobarda le avesse non solamente ricordata la morte del padre, ma per più disprezzarla avesse voluto che bevesse ne la tazza fatta de la testa di quello; onde restò dopo questo, non potendo vincere l’ira, piena così di mal animo contra Alboino, che a lei non pareva di poter vivere né mai aver contentezza in questo mondo se di sì grande ingiuria altamente non si vendicava, sensibilmente ognora sentendo che le parole del re di continovo dolore la trafiggevano e come un mordace e rodente verme le radici del core miseramente la rodevano. Ma che! ella, vinta da l’acerbità de la penace e assidua passione che requie alcuna non le concedeva già mai, deliberò tra sé, se bene fosse stata sicura di morire, di far per ogni modo che il marito morisse. Così fermatasi in questo proponimento ad altro tutto il dì non facendo che farneticare e chimerizzare come si potesse contra il re vendicare, non sapeva imaginarsi modo che le sodisfacesse15.

15 Bandello, comme on le constate, développe l’anecdote dans deux directions. Tout d’abord, il introduit un personnage adjacent, l’échanson, qui va apporter à la reine la

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coupe et l’invitation du roi. Ce déplacement (qui ne figure pas dans la citation) crée un espace et focalise les regards des assistants sur la reine qui fait semblant de boire à la coupe. Les mots du roi, rapportés au style direct, contribuent à matérialiser cet espace : entendus par tous, ils ajoutent à l’humiliation publique de la reine. Cette restitution de l’espace est liée à la véritable raison qui explique le désir de vengeance de Rosemonde : sa mortification publique. Pour Bandello, elle doit réagir en reine et en fille de roi : l’injure est faite à ses sentiments filiaux et à son rang. Bandello peut ainsi justifier la profondeur du ressentiment de Rosemonde. On remarque que, chez Paul Diacre, elle réagit aussitôt (« mox ») à l’insulte, et conçoit immédiatement (« mox ») son plan de vengeance. Bandello insiste sur la durée qui accentue la blessure (le « ver rongeur »), soumet la reine à une passion qui triomphe d’elle, et lui fait concevoir finalement, au mépris du danger que court sa propre vie, la mort de son mari. Nous avons donc les deux éléments – spatial et temporel – coordonnant le récit de fiction pour le faire converger vers ce qui demeure sa fonction principale aux yeux de Bandello : la mise à jour du cœur humain et de ses passions. Ici, la passion dominante est la vengeance : la reine est subjuguée par elle, au point d’entrer dans des pensées délirantes sur les possibilités de la satisfaire. On voit se dessiner un autre signe d’excès : l’obsession conduisant à la folie homicide.

16 Bandello déplace donc l’intérêt du récit, du personnage d’Alboïn à celui de la reine. Ce gauchissement correspond en fait à la relation particulière qu’il entretient avec le texte de son modèle. Bandello, nous l’avons vu, résume en un excursus les conquêtes d’Alboïn relatées par Paul Diacre qui fait de ce roi le héros d’une geste militaire. Les circonstances dans lesquelles est perpétré le meurtre du roi pendant son sommeil sont, chez Paul Diacre, tout à fait douteuses d’un point de vue historique ; le souvenir littéraire de l’assassinat de Déiphobe dans l’Énéide (livre VI, v. 520-527) affleure largement : la machination de la femme, sollicitant un complice pour son crime, l’impossibilité pour la victime de se servir de son épée pour se défendre. Bandello puise donc à un récit largement tributaire des caractères dramatiques d’une fiction. Il n’a qu’à suivre son modèle : Peredeo cum reginae suadenti tanti nefas consensum adhibere nollet, illa se noctu in lectulo suae vestiariae, cum qua stupri consuetudinem habebat, supposuit; ubi Paeredeo rem nescius veniens, cum regina concubuit16. Ma non volendo Perideo a tanta sceleraggine acconsentire, e dubitando Rosimonda che egli il tradimento non discoprisse, sapendo che con la donna che le vestimenta sue governava spesso si giaceva, la indusse che per la vegnente notte desse l’ordine a Perideo di giacersi seco. La reina in luogo de la sua donna con Perideo si giacque17.

17 Bandello ne s’éloigne guère de Paul Diacre qui consacre le chapitre suivant au destin des meurtriers : Rosemonde épouse son complice principal, Helmichis, mais, flattée dans son ambition par Longin, se laisse persuader par ce dernier d’empoisonner son second époux. Au moment de mourir, celui-ci l’oblige à avaler le poison et leur mort commune scelle l’heureux effet de la justice divine : « Sicque Dei omnipotentis iudicio interfectores iniquissimi uno momento perierunt18 ».

18 Bandello ne fait aucune mention de l’intervention providentielle dans le châtiment des deux meurtriers, mais introduit une digression sur la duplicité de Rosemonde, cherchant ainsi dans les profondeurs du cœur féminin une culpabilité qui porte atteinte à l’ordre social autant que moral : Eccovi che cervello di donna! Non le era paruto far assai a romper il nodo matrimoniale e sottomettersi in adulterio ad un semplice privato armigero; non le

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bastava d’avere con inganno fatto ammazzare Alboino suo marito […]; se anco il secondo marito […] senza colpa alcuna di lui non avvelenava19.

19 Ces remarques ne sont pas incidentes, car Bandello veut unifier (maladroitement) son récit sur le personnage de Rosemonde pour lui imputer la rupture d’un code social où se reconnaîtront les lecteurs de Bandello. Cette rupture suffit à justifier la mort de l’épouse qui apparaît ici sous les espèces de l’éternelle tentatrice. Bien que Dieu n’apparaisse plus dans le récit de Bandello, la mort de Rosemonde fait justice d’un péché qui se mesure lui aussi à l’aune de l’excès : tarification de l’adultère et de l’assassinat des deux conjoints. La fin de la nouvelle épuise le récit de Paul Diacre qui raconte le sort réservé au second complice, Peredeo, et celui du nouveau roi lombard, égorgé par un serviteur. De ces deux derniers épisodes, seule la punition (yeux crevés) de Peredeo se justifie (« E così dei tre omicidiarii d’Alboino nessuno rimase impunito »), mais cette deuxième conclusion apparaît redondante par rapport à la première, celle qui laissait le lecteur sur l’effet dramatique provoqué par la double mort de Rosemonde et d’Helmichis.

20 Nous avons la confirmation que non seulement Bandello est dépendant de son modèle, mais qu’il n’est pas parvenu à établir nettement les limites entre matière à récit historique et matière à récit de fiction. Alors que la relation de Paul Diacre tendait à établir la grandeur du roi Alboïn dans l’histoire réelle de ses conquêtes et conférait à sa mort le halo légendaire du héros, victime des basses intrigues d’une femme et d’un sicaire, le récit de Bandello restitue la vraie grandeur à la femme criminelle dans l’échelle de l’horreur, véritable matière de sa poétique de la nouvelle.

21 Dès lors, l’histoire offre moins la vérité des faits que la vérité potentielle des folies et des passions humaines continuellement à l’œuvre dans cette histoire. Les frontières entre la fiction et la réalité sont inopérantes, poreuses, perméables : pour illustrer la vérité de la nature humaine et ses multiples facettes, il importe peu de puiser à l’imagination du conteur ou à la réalité historique, il suffit de puiser à la démesure humaine, seule constante de l’histoire sous les variables que constituent les temps et les cultures.

22 Un exemple tout à fait intéressant du travail de Bandello nouvelliste sur le fait d’histoire est celui de la nouvelle I, 36, intitulée « Disonestissimo amore di Faustina imperadrice e con che rimedii si levò cotal amore ». Le contenu de la lettre dédicatoire est simple : la mort d’une dame de la bonne société milanaise, Caterina da San Celso, a fait jaser tout Milan sur l’impudicité de la défunte. Ce fait divers provoque une discussion sur l’importance de la pudeur chez les femmes, particulièrement chez celles de la noblesse, et la conversation roule ensuite sur les exemples des femmes célèbres, dans l’histoire antique et moderne, pour leur dévergondage. Selon son procédé habituel, Bandello dit avoir mis par écrit le récit de l’un des interlocuteurs, celui de Faustine, fille de l’empereur romain Antonin le Pieux, et épouse de Marc-Aurèle le philosophe. On voit d’emblée que la clé du récit tient dans cette confrontation de la femme impudique et de deux hommes vertueux : le « Pieux » et le « philosophe ».

23 La nouvelle commence par des réflexions liminaires sur le plus grand trésor de la femme : son honneur. Caterina da San Celso, toute parée de qualités qu’elle était, manquait de la seule qui pouvait la faire estimer : la pudeur. Cette dépréciation rejaillit aussi sur leur entourage, le mari et la famille, et l’on ne saurait dire si Bandello n’y trouve pas matière à condamnation encore plus sévère. Il en donne quelques exemples tirés des historiens de l’Antiquité. Le premier est celui des deux Julie, respectivement

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fille et petite-fille de l’empereur Auguste. Bandello reprend presque textuellement le texte de Suétone (Vita Augusti, LXV). Le second exemple est celui de Messaline, femme de l’empereur Claude.

24 Le principe adopté est donc celui de la série : Bandello propose une sorte de De claris mulieribus, dont les titres de célébrité seraient la luxure. La disposition ainsi adoptée introduit une distorsion dans le principe de la relation écrite à partir d’un récit oral centré sur Faustine. Ce dernier est soumis à un retardement qui inscrit les débauches de Faustine dans une série où se sont illustrées des femmes liées par le sang ou par le mariage à des empereurs romains. L’intention implicite paraît double : la première est de montrer que les grands personnages n’échappent pas dans leur vie privée aux déboires où les comportements féminins entraînent le commun des hommes, et la seconde d’inscrire l’histoire dans la grille morale des passions.

25 Bandello resserre le récit sur Faustine en passant des amours à un amour. Il met en place les conditions structurelles de la nouvelle centrée sur l’unicité d’une action développée jusqu’à son terme. Les informations sur le personnage sont tirées du recueil de biographies que, depuis le XVIIe siècle, l’on appelle l’Historia Augusta, et qui rassemble, sous la plume de divers auteurs de la fin du IIIe siècle et du début du IVe (cachés sous des pseudonymes), trente « Vies » d’empereurs romains, en commençant par celle d’Hadrien. Parmi les nombreuses anecdotes pittoresques qui émaillent l’ouvrage, volontiers orienté vers la fabulation, celles des amours de Faustine la Jeune, dans la Vita Marci Antonini philosophi ( Vie de Marc Antonin le philosophe), offrent à Bandello la matière de son propre récit. Pour l’auteur latin de la Vie, Julius Capitolinus, l’anecdote illustre la rumeur populaire selon laquelle Commode, successeur de Marc- Aurèle, n’aurait pas été le fils de celui-ci, mais un enfant que son épouse, Faustine, aurait conçu de ses amours avec un gladiateur : Aiunt quidam, quod et verisimile videtur, Commodum Antoninum, successorem illius ac filium, non esse de eo natum sed de adulterio, ac talem fabellam vulgari sermone contexunt. […] Faustinam quondam, Pii filiam, Marci uxorem, cum gladiatores transire vidisset, unius ex his amore succensam, cum longa aegritudine laboraret, viro de amore confessam. Quod cum ad Chaldaeos Marcus rettulisset, illorum fuisse consilium, ut occiso gladiatore sanguine illius sese Faustina sublavaret atque ita cum viro concumberet. Quod cum esset factum, solutum quidem amorem, natum vero Commodum gladiatorem esse, non principem […]. Multi autem ferunt Commodum omnino ex adultero natum, si quidem Faustinam satis constet apud Caietam condiciones sibi et nauticas et gladiatoras elegisse20.

26 Comme le montrera la citation du texte de Bandello, celui-ci réordonne le récit sans beaucoup s’en écarter sur l’essentiel : [Faustina] non si guardò a commettere molti adulterii e farsi favola di tutto il popolo. […] ella fieramente d’un gladiatore s’innamorò di tal maniera che perdutone il cibo ed il sonno non ritrovava in modo alcuno requie. Pareva pur a Faustina […] che troppo di vituperio seco recasse che una figliuola d’Antonino Pio e moglie di Marco il filosofo devesse con sì basso uomo meschiarsi, ancor che a Gaieta a molti de la ciurma navale, con quelli che più membruti erano molte fiate giaciuta si fosse. Il marito che ardentissimamente l’amava, le era da ogni ora a torno al letto confortandola e facendo venir a curarla tutti i più eccellenti medici che ci erano, ma indarno si affaticava. A la fine ella conoscendo già per lunga esperienza quanto del marito poteva disponere, gli manifestò tutta la pena sua esser per amor d’un gladiatore […]. Il misero marito che fuor di misura come amante la moglie amava, a la meglio che puotè la confortò e le fece buon animo. Poi consegliata la cosa con un mago caldeo, il pregò che a questo male alcun rimedio trovasse. Il caldeo gli disse

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che altro rimedio non ci era se non questo solo, che si facesse morire il povero gladiatore e del sangue di lui s’ungesse il corpo de l’imperadrice senza che ella sapesse che cosa fosse, e poi che l’imperadore seco giacesse. Sono alcuni istorici che scrivono che il caldeo consegliò che del sangue del gladiatore Faustina bevesse, ma i più scrivono del bagnare. […] l’imperadore con l’imperadrice si giacque e quella ingravidò. Ella in tutto il gladiatore pose in oblio né mai se ne ricordò, che certamente fu cosa meravigliosa. Ma di questo concubito nacque Comodo imperatore, il quale assai più rassembrò al gladiatore che al padre, perché suo padre Marco fu santissimo uomo e di costumi castigati che, se avesse creduto in Cristo e fosse stato battezzato, si sarebbe potuto canonizzare21.

27 En comparant les deux textes, on remarque tout d’abord que celui de Capitolinus utilise des sources s’appuyant sur l’anecdote (une « petite histoire »), à saveur populaire, du remède pire que le mal : la dégénérescence de Commode qui aimait à se battre dans l’arène comme un gladiateur n’aurait pas d’autre origine. Mais l’auteur semble pencher pour une explication plus logique : Faustine fricotait avec les marins et les gladiateurs de Gaète, et elle en eut ce fils qui leur ressemblait.

28 Bandello relit de toute évidence ce passage de Capitolinus. Il en traduit librement certains éléments, comme « fabella[m] vulgari » (« farsi favola a tutto il popolo »), « cum longa aegritudine laboraret, viro de amore confessam » (« gli manifestò tutta la sua pena sua esser per amor d’un gladiatore »). Il adopte le mouvement général de la phrase centrale du récit : « Quod cum ad Chaldaeos Marcus rettulisset, illorum fuisse consilium, ut occiso gladiatore sanguine illius sese Faustina sublavaret atque ita cum viro concumberet ». La présence du « mage Chaldéen » prouve que Bandello conserve l’élément original du récit de Capitolinus : le remède préconisé par l’astrologue relève de pratiques magiques où le sacrifice du gladiateur et le bain dans son sang ont pour but de libérer Faustine de son ensorcellement sexuel. Toutefois, il introduit un élément nouveau modifiant le rapport entretenu par son récit avec le texte d’origine : la conscience que manifeste Faustine de déchoir de son « sang » en aimant un gladiateur, le rebut de la société. On peut noter, à cet égard, l’incongruité de cet élément dans le passage même où il est précisé que Faustine se donnait aux matelots les plus dotés par la nature.

29 Car cette problématique, absente du texte de Capitolinus, relève d’une problématique contemporaine de Bandello, et qu’il a eu l’occasion d’illustrer par la célèbre nouvelle de la comtesse de Cellant (I, 4), inspirée par un fait divers d’actualité : la question de la mésalliance et celle des enfants naturels. C’est un de ces problèmes que se posait la société aristocratique pour laquelle Bandello écrit. La noblesse, incarnée par sa double qualité de fille d’un empereur « pieux » et d’épouse d’un empereur « philosophe », ne peut déchoir que par le sang-mêlé. Comment expliquer autrement que par ces abâtardissements dont l’histoire des dynasties est remplie, que les vertus morales ne se transmettent pas toujours d’un prince à son successeur22 ?

30 C’est ici que se pose la question du rapport de la nouvelle à l’histoire, et des modifications « génétiques » qui en résultent quand la frontière devient incertaine de l’une et de l’autre. En effet, Bandello joue des ressorts traditionnels de la nouvelle dans le rapport de la femme et du mari. Faustine, rongée par ce mal d’amour que les médecins sont impuissants à discerner, fait l’aveu de sa passion à l’empereur, et cet aveu est l’illustration du pouvoir de la femme sur un mari qui l’adore (« quanto del marito poteva disponere »). L’impuissance est manifeste du mari face à l’exigence sexuelle de son épouse. L’étrange médication à laquelle se prête l’empereur philosophe

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rappelle, dans un registre magique et sanglant, les situations de « beffe » où l’époux naïf prête son concours involontaire au plaisir sexuel de la femme et de son amant.

31 Quant à la contamination de la nouvelle par l’histoire, elle apparaît sous-jacente au récit de Bandello sous la forme d’une « vie » de Marc-Aurèle, illustrée non point par la figure de l’empereur, mais celle du « philosophe », incarnation des plus hautes vertus morales (« santissimo uomo », « di costumi così castigati ») plus encore que d’une sagesse peu compatible ici avec l’amour aveugle porté à sa dévergondée de femme. Le personnage de Marc-Aurèle, présenté comme « le philosophe », et comme modèle de mari aimant et patient, devient la figure exemplaire (et sanctifiée !) dont Faustine et son bâtard servent de repoussoirs. Si Bandello semble sacrifier la référence aux « historiens » à un point de détail23, c’est que l’histoire, au sens de contenu (l’istoria24), et la nouvelle (sa réalisation narrative) trouvent précisément leur meilleur point de rencontre et de fusion dans la matière puisée à l’histoire. Celle-ci, par l’infinie diversité des situations, est d’une certaine manière « nouvelle(s) » en puissance. Même grandi par sa potentielle sainteté, Marc-Aurèle entre dans la galerie des personnages « moyens » de la nouvelle. Bandello infléchit son récit vers une ébauche de « vie » où le personnage de Marc-Aurèle acquiert une dimension plus humaine, qui ne le soustrait pas aux aléas de l’Histoire (la majuscule s’impose), et même le ramène à une dimension « moyenne » de cette humanité.

32 Les sujets empruntés à l’histoire de l’Antiquité ne sont pas très nombreux dans les Novelle, et Bandello puise plus largement à celle de l’Europe médiévale. Bien qu’il ne les mentionne généralement pas, comme nous l’avons vu dans le cas de la nouvelle de Rosemonde, ses sources écrites sont celles de chroniqueurs et d’historiens, parmi lesquels Froissart, Commynes, Jean Bouchet, Giovanni Villani, Machiavel, Paolo Giovio, pour ne citer que ceux envers qui la dette de Bandello est la plus notoire. Les sources françaises tiennent une bonne place, principalement avec Jean Bouchet25 dont les Annales d’Aquitaine, parues en 1524, fournissent à notre auteur matière à onze nouvelles. Bandello connaissait ce livre, comme il le déclare dans la lettre de dédicace de la nouvelle IV, 15 que nous examinerons sous peu26.

33 Les rapports de Bandello nouvelliste avec les sources historiographiques doivent être examinés ici avec attention, car ils montrent que la frontière générique théoriquement tracée entre chronique et nouvelle peut se révéler poreuse27. La contamination des genres peut se faire par inclusion lorsque le chroniqueur construit un récit en le modelant et en le structurant selon les codes narratifs de la nouvelle. La nouvelle peut à son tour intégrer des éléments constitutifs de la chronique, et aboutir à des formes génétiquement hybrides.

34 Nous choisirons trois nouvelles de Bandello (respectivement : III, 15 ; IV, 15 ; I, 39) dont les sujets sont inspirés des Annales de Jean Bouchet dont il convient de rappeler qu’elles constituent, de toutes les sources écrites des Novelle, la plus utilisée.

35 La première (III, 15) a pour titre : Morte miserabile del re Carlo di Navarra per soverchia libidine ne la sua vecchiezza. J. Bouchet rapporte la mort singulière de Charles le Mauvais (1332-1387), roi de Navarre, qui se singularisa, au cours de la guerre de Cent Ans, par ses rapports conflictuels avec les souverains Valois et par son alliance avec les Anglais. Son rôle et ses actions sont largement évoqués dans les Chroniques de Froissart, consacrées à la période allant des origines de la guerre à la fin du XIVe siècle. Du récit de Froissart qui raconte la mort du roi selon les critères narratifs d’une nouvelle (caractérisation psychologique des personnages, éléments spatio-temporels,

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progression, nœud et dénouement), Bouchet ne retient qu’un résumé succinct sans progression, proche du compte-rendu d’un fait divers, mais digne de figurer dans une chronique par son caractère spectaculaire : Environ ledit temps, Charles roi de Navarre, qui avait tant fait de maux en France, mourut misérablement à Pampelune. Car comme récite Froissart, ledit Roi de Navarre, en le propos et délibération qu’il avait de faire mourir soixante hommes, des plus nobles cités du Royaume de Navarre, qui étaient allés vers lui à Pampelune, pour excuser le pays de deux cent milles florins qu’il demandait de nouvelle taille, après qu’il en eut fait mourir et décapiter trois des principaux, un jour qu’il était venu faire son plaisir charnel, avec une sienne concubine, eut froid : et pour se réchauffer se fit bassiner, et étuver entre deux draps mouillés d’eau de vie, d’une bassine d’airain qu’on lui soufflait en air volant, ainsi qu’il avait accoutumé faire pour se réchauffer, au moyen de sa grande et débile vieillesse : mais la chose tourna en mal, car le feu se prit en l’eau de vie, si très véhément qu’il brûla tous les draps, et une partie de son corps, sans qu’on y pût remédier, et au bout de quinze jours mourut en rage, et douleur merveilleuse. Les historiens disent que ce fut jugement de Dieu, les conjectures en sont grandes : mais Dieu seul en sait la vérité28.

36 Bouchet résume et condense Froissart dont il conserve la plupart des détails matériels : la taille de deux cent mille florins imposée à ses sujets, la députation des nobles (qui passent de 40 chez Froissart à 60) menacés de mort, les trois délégués décapités, le coup de froid survenant chez le roi de Navarre après avoir fait l’amour avec sa concubine, l’accident qui provoque l’incendie, la mort de la victime au bout de quinze jours de souffrances. Quant à la conclusion, Bouchet rapporte avec scepticisme l’opinion des « historiens » expliquant cette mort par une justice divine providentielle. Écrivant un siècle et demi après Froissart, dans un contexte culturel très différent, Bouchet s’en prend évidemment à l’interprétation du chroniqueur médiéval pour qui la mort soudaine du roi, au moment où il s’apprête à faire mourir les autres membres de la députation, est une intervention divine : « Or avint soudainement, par merveilleuse incidence, que Dieu y envoya un grand miracle29 ». La mort du roi est présentée comme un hasard survenant à un moment critique. Bouchet se désintéresse de tous les autres éléments du texte de Froissart (l’affrontement entre les nobles et le roi, la brutale décision de ce dernier faisant mettre à mort trois d’entre eux et enfermer les autres dans un enclos sans eau ni nourriture), éléments destinés à souligner, par la mort providentielle du roi, que Dieu intervient au-dessus des puissances humaines.

37 À présent, venons-en à la nouvelle de Bandello, fort brève au demeurant. La lettre de dédicace est aussi longue que la nouvelle proprement dite, et témoigne, comme très souvent, de l’importance accordée par l’auteur à l’interprétation exemplaire de l’histoire qu’il va raconter. Elle commence par une considération morale assez générale sur le thème du memento mori : Non essendo cosa a l’uomo, mentre in questo mondo vive, più certa de la morte, né più incerta de l’ora e sorte o sia maniera di morire, meravigliosa cosa mi pare che sia generalmente quella a cui meno che ad altro che ci sia si pensa. […] sono di parere che di grandissimo profitto a ciascuno sarebbe, di qualunque condizione egli si sia, sovente ricordarsi che è uomo e consequentemente mortale30.

38 On remarque, par ailleurs, que pour Bandello la pensée de la mort a une utilité sociale, car elle doit inciter les hommes a « vivere politicamente » (« vivre selon les lois de la cité ») : les puissants renonceraient à tyranniser leurs sujets (argument implicitement contenu dans la citation de Froissart), les épicuriens à se perdre de réputation, et les malfaiteurs à leurs crimes en songeant à la hache du bourreau. Ainsi, chacun se gouvernant par la crainte de la mort et s’appliquant à mieux vivre, la société vivrait en

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paix et en harmonie, vrai retour à « l’âge d’or31 ». Bandello constate, au contraire, que l’insouciance des hommes à l’égard de leur mort et leur certitude de n’avoir point à quitter ce monde sont sources d’un nombre infini de maux.

39 Comme toujours, l’histoire annoncée semble venir à propos illustrer les considérations morales ou philosophiques, à moins qu’elle ne les ait suscitées. Rien de tel, comme l’on a pu le constater, dans le récit succinct de Jean Bouchet. En revanche, lorsque l’on compare le chapitre des Chroniques où Froissart relate la mort du roi de Navarre et le texte de Bandello, on constate avec surprise de troublantes analogies. Froissart rassemble dans ce chapitre deux événements survenus en 1387 : d’une part, la mort en odeur de sainteté, à 18 ans, du cardinal Pierre de Luxembourg, suivie par des miracles, et d’autre part, la mort en d’horribles circonstances, à 60 ans passés, du roi surnommé « le Mauvais ». Le rapprochement est intentionnel, et permet d’accuser le contraste entre une mort couronnant une vie édifiante et une mort consumant dans les flammes un triste personnage. Les qualités du jeune cardinal (« doux, courtois et débonnaire, vierge et chaste de son corps, et large aumônier. […] et tant fit que Dieu, en sa jeunesse, l’appela en sa compagnie ») trouvent leur contraire dans les vices du roi « moult cruel », avide d’argent, impitoyable, « [qui] en son vivant avoit toujours aimé femmes », et qui meurt brûlé vif « ainsi que Dieu ou le diable le vouldrent32 ».

40 Bandello, quant à lui, introduit sa nouvelle par une anecdote mettant en scène le cardinal Federico Sanseverino qui, devant se faire opérer d’une pierre dans la vessie, mais incertain sur l’issue, se prépare très chrétiennement à la mort, et fait largesse d’aumônes33. Pour Bandello, la raison en est « la paura del morire », et d’ajouter : « Ora se questo avesse pensato il re Carlo di Navarra, egli sarebbe vivuto più quietamente che non fece, e averebbe fuggita la malvagia fine che ebbe34 ».

41 Bandello rapproche donc, lui aussi, la figure d’un cardinal vivant, nous dit-il, « da catolico e buon cristiano », et un personnage repoussoir dont la fin « malvagia » scelle en réalité la méchanceté de toute une vie. Nous voici en présence d’un schéma identique à celui de Froissart : même si le cardinal Sanseverino n’est pas rappelé à Dieu pour sa pierre dans la vessie comme le cardinal Pierre de Luxembourg l’est pour sa sainteté, la pensée de la mort – le memento mori – l’incite à de charitables donations. La mort du roi illustre en regard l’impréparation à cette échéance, la persistance de mauvais penchants qui l’empêchent de « vivere politicamente ».

42 Ces éléments doivent être pris en considération pour soutenir l’hypothèse selon laquelle Bandello aurait lu non seulement Bouchet, mais aussi Froissart, lequel lui fournit le schéma binaire, simple et efficace – bien/mal, bons/méchants –, qui structure les forces agissantes de l’histoire. Bandello a bien pu tirer de Bouchet l’anecdote, les faits matériels, que lui donne aussi Froissart, et avec lesquels il prend les libertés utiles à sa fiction, mais c’est de Froissart qu’il a pu tirer cette présentation propre à l’historiographe soucieux d’interpréter le fait historique. Nous verrons que cette présentation est encore accentuée dans la nouvelle proprement dite.

43 Celle-ci est construite en deux parties. Sur le plan narratif, la première partie n’est pas fonctionnellement liée à la seconde. Bandello y retrace succinctement le rôle et la figure politiques du roi de Navarre, qui apparaissent aussi négatifs l’un que l’autre : Fu esso re Carlo uomo di pessimi costumi e molto crudele […] fece ammazzare il contestabile de la Francia e s’accordò con inglesi a danno de’ francesi. Essendo poi fatto prigione da esso re Giovanni suo suocero, ammutinò […], e sollevò i parigini contra Carlo delfino […] e fece di molti mali […] per tutta la Francia, ne la quale egli

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saccheggiò ed abbrusciò molte terre e commise infiniti omicidii.[…] Nel suo reame di Navarra egli essercitò grandissime crudeltà con rubarie vituperose, con occisioni e con sforzamenti di donne, di maniera che tutti gli volevano male35.

44 Bien informé sur les événements, Bandello dresse en quelques lignes l’image d’un homme sans moralité, et surtout d’un grand vassal trahissant les intérêts de sa famille pour passer à l’ennemi, rebelle à son suzerain, ne cessant de fomenter des troubles, pillard, incendiaire, assassin. Ce portrait est à deux volets. Le premier constitue le contre-exemple des vertus aristocratiques : fidélité, loyauté, magnanimité ; le second résume les comportements négatifs du monarque. Bandello ne se souvient-il pas ici des préceptes machiavéliens adressés au « prince » soucieux de ne pas s’attirer la haine de ses sujets36 ? Cette esquisse est l’introduction à la seconde partie de la nouvelle : le récit proprement dit de la mort du souverain.

45 Du récit de Bouchet, et de celui de Froissart, Bandello ne va conserver que la trame événementielle : l’impôt extraordinaire, la députation des notables, l’exécution de trois d’entre eux, l’accident survenant après le plaisir charnel et le feu se communiquant aux draps où est enveloppé le roi. Pour le reste, il introduit des éléments nouveaux dans la trame narrative, comme en témoigne les extraits suivants : Egli era molto vecchio anzi pur decrepito, ma tanto lussurioso ed immerso nei piaceri e appetiti venerei, che mai non era senza concubina; ed alora aveva una bellissima giovane di ventidui anni, de la quale era fieramente innamorato. Onde quel dì che aveva fatta tagliar la testa ai tre ambasciatori, essendo tutto acceso di grandissima còlera, per ricrearsi andò a trovar la sua bella innamorata, e seco carnalmente in modo si trastullò, che, volendo far vie più di quello che a l’età non si conveniva, si sentì esser debolissimo. E volendo ricuperar le perdute forze […] si fece porre in una calda camera tra tre gran vasi di rame pieni d’ardenti carboni37.

46 Bandello dépeint le roi comme un vieillard libidineux, plongé dans une luxure qui n’est plus de son âge. Sa jeune amie a vingt-deux ans, accusant ainsi le contraste entre la jeunesse et la déchéance physique (« decrepito ») du souverain, amateur de chair fraîche. Sa prestation sexuelle, au-dessus de ses forces, lui ôte celles-ci, et l’épuisement de la joute amoureuse explique sa fatigue et le bain de vapeur qui lui sera fatal. Ses éléments ne figurent pas dans Bouchet qui se contente, en suivant Froissart, d’évoquer un coup de froid consécutif au plaisir charnel qu’il vient de prendre avec une « sienne concubine ».

47 En revanche, Bandello a trouvé dans Froissart des précisions sur le tempérament amoureux du roi : Et me fut dit que ce roi en son vivant avoit toujours aimé femmes, et encore, en ces jours, avoit-il une très belle demoiselle à amie, ou à la fois il se déportoit, car de grand temps avoit été veuf. Une nuit il avoit ju avec elle ; si s’en retourna en sa chambre tout frileux […] et ne se pouvait échauffer, car jà avoit-il grand âge, et environ soixante ans38.

48 Mais il a accusé les traits, supprimant la mention du veuvage, soulignant une décrépitude absente du texte du chroniqueur, forçant l’âge de l’homme qui n’a alors que cinquante-cinq ans. Deux détails, enfin, modifient profondément le sens de l’anecdote : Bandello fait coïncider la mort du roi avec le jour même où il a exercé une justice inique, et attribue au roi une « très grande colère » qu’il pense calmer en se récréant avec la demoiselle. Ainsi, se constituent les éléments narratifs d’une nouvelle qui, si brève soit-elle, dramatise l’événement en le liant à des « péchés » : luxure, colère, et peut-être orgueil de présumer de ses forces. N’oublions pas que le roi est le contre-exemple des vertus du cardinal Sanseverino. Si minces soient ces éléments, ils

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jouent sur le réseau spatio-temporel, sur la confrontation de deux personnages dans une joute sexuelle qui rappelle les situations classiques de la nouvelle.

49 Quant au récit de la mort du roi, Bandello ne s’en écarte que pour éliminer la mention d’une agonie qui dure quinze jours chez Bouchet et Froissart : « miseramente arse e come una bestia se ne morì39 ». Le principe d’homogénéisation de la nouvelle lui fait resserrer l’événement dans la durée. Le plaisir coupable entraîne la mort immédiate, et transforme celle-ci en une consomption dans les flammes qui évoque l’enfer. Punition immanente, semble-t-il, si l’on relève le fait que Bandello supprime la phrase de Froissart (« ainsi que Dieu ou le diable vouldrent »), mais en illustre le contenu par la fin tragique donnée à son récit. Le commentaire final reprend celui de Bouchet, auquel il fait discrètement allusion : Le croniche, che di cotal morte parlano, dicono chef u espresso giudicio di Dio per punire l’esecrabili sceleratezze di così vizioso re. Ma Dio solo è quello che sa la verità40.

50 Tirons quelques conclusions de ces diverses analyses. Tout d’abord, il ne sert pas à notre propos d’avancer pour cette nouvelle le paravent souvent invoqué, pour celle-ci ou d’autres, du récit anecdotique, ou journalistique, la ramenant au fait divers. Le premier point à souligner est le rapport étroit existant entre la nouvelle et ses sources écrites. On se rend compte que Bandello réunit dans son récit des éléments historiographiques et des éléments narratifs, fort réduits, certes, mais efficaces. On pourrait penser qu’il hésite entre les uns et les autres, car l’articulation entre la première partie et la seconde est quelque peu artificielle. S’il fallait illustrer une mort en rapport avec la débauche d’un vieux roi, comme l’indique le titre, les démêlés politiques de Charles le Mauvais avec les rois de France sont, au mieux, un éclairage pour les lecteurs italiens peu avertis d’événements déjà lointains, au pire, une verrue dans le récit.

51 Bandello, et c’est le second point, n’hésite pas à bousculer les données historiques en sa possession, voire à les modifier en vue de l’efficacité dramatique du récit. Toutefois, sa nouvelle trouve son point d’unité dans le portrait psychologique du roi. Pour ce faire, il lui importe d’illustrer non seulement la mort du roi, mais aussi sa vie. Du rôle politique brossé rapidement au début de la nouvelle, il met en évidence la personnalité morale de l’individu. La mort s’inscrit donc non plus comme un simple « fait divers » (comme chez Bouchet), mais comme le terme logique d’une progression culminant dans les flammes où l’homme brûle ainsi qu’une « bête », car il a vécu comme une bête. La nouvelle permet de rassembler ces éléments disparates et de les unifier en vue d’une interprétation morale de l’histoire dont la ligne de partage est tracée par les figures contrastées de ses acteurs. La nouvelle dépasse ainsi l’anecdote, car il n’est pas de fait isolé qui ne puisse s’insérer dans la trame plus vaste de l’histoire. La nouvelle sur la mort de Charles de Mauvais rejoint ici le récit biographique, et l’on sait que les biographes de l’Antiquité, nullement étrangers à la culture de Bandello, et modèles d’une certaine historiographie de la Renaissance, accordaient à la mort du protagoniste une grande importance41. Il résulte, comme troisième point, que cette interpénétration de l’histoire et de la nouvelle modifie sensiblement la structure de celle-ci. On voit fonctionner ici un modèle de nouvelle à personnage unique, entièrement enveloppé dans les rets de la destinée comme il l’est symboliquement par les draps enflammés où il se consume, en une trajectoire que justifie une justice immanente.

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52 La seconde nouvelle (IV, 15) tirée des Annales de Jean Bouchet est intitulée : Guglielmo, duca d’Acquitania, persecutore de li catolici, a la fine de li suoi peccati, abbandona il ducato e va incognitamente peregrinando e facendo penitenzia, e se ne more santo. Dans la lettre-dédicace, Bandello cite explicitement l’ouvrage de l’historien français, où il a lu l’histoire de ce Guillaume, duc d’Aquitaine, dont Bouchet reconstitue, sur des bases historiques plus que douteuses42, le retour à l’orthodoxie catholique et la fin édifiante, véritables enjeux de ce récit. Bandello, sans se soucier de véracité chez son modèle, reprend l’essentiel du long chapitre (III, 2) du chroniqueur, qu’il adapte autant qu’il traduit, éliminant les passages où l’attention du lecteur sur le personnage central pourrait se disperser. Bouchet, mêlant deux personnages, l’un princier, le duc d’Aquitaine, et l’autre, Guillaume, simple chevalier français renonçant à la vie mondaine pour devenir ermite, déclare préliminairement : La forme de vivre dudit Guillaume fut diverse et variable, car le commencement en fut bon, le milieu mauvais, et la fin saincte et catholique43.

53 Bandello affirme lui aussi l’intention de proposer un récit exemplaire : E questo ho io fra tanti altri scielto a narrarvi, perché la vita sua fu molto varia, e visse gran tempo discorretto e persecutore de la catolica Chiesa acerrimo. Poi, allumato dal divino lume de la Spirito Santo, cangiò di modo di male in bene la sua vita, e fece tanta aspra penitenzia che, lasciando il suo paterno ed avito stato acquitanico, fu, morendo, ne lo numero de li santi del reame de lo cielo meritamente collocato44.

54 La nouvelle de Bandello se présente donc comme une hagiographie. Raconter une vie (le mot « vita » est employé à plusieurs reprises dans l’introduction au récit), fut-elle celle d’un saint, dans l’espace d’une nouvelle, suppose une singulière distorsion des structures et des objectifs du récit court. Bandello, qui en est conscient, essaie, tant bien que mal, d’en éviter les écueils. Du texte de Bouchet, il supprime ce qui pourrait accentuer le caractère centrifuge du récit (le voyage de saint Bernard à Rome pour mettre fin au schisme, le concile de Clermont, puis celui de Reims), mais il semble avoir plus de mal à élaguer les faits historiques expliquant les démêlés d’Innocent II avec les Normands du roi Roger et avec le duc d’Aquitaine, qui soutiennent l’antipape Anaclet II. Le moins qu’on puisse dire est que Bandello a principalement allégé le texte de Bouchet, mais n’a pas débarrassé le sien d’un certain nombre de scories (le testament de Guillaume précisant non seulement l’héritage d’Aliénor, sa fille, mais aussi celui de sa cadette, éléments n’intéressant en rien la suite du récit). Sa réécriture est souvent une traduction presque littérale de Bouchet45, et cela s’explique sans doute par le peu de distance prise par rapport à l’original où Bandello a trouvé une histoire assez extraordinaire, comme il aime en rapporter.

55 La conversion du duc est due à sa rencontre avec saint Bernard de Clairvaux. Le rôle que lui fait jouer Bouchet s’accorde avec le soutien que saint Bernard apporta à Innocent II. Par rapport à l’original, Bandello développe le passage où le duc est pris de remords d’avoir soutenu, en la personne d’un antipape, la division de l’Église. Bouchet se contente de rapporter l’information sans y insister : Ledit Duc Guillaume, après toutes ces choses, eut un merveilleux scrupule (et non sans cause) d’avoir soutenu par tant de temps ledit schisme dans son païs […] ensemble de dix mil maux et péchés, qui étaient de ce procédé. Et pour en avoir consolation, se retira vers Saint Bernard46.

56 Bandello insiste sur le tourment intérieur du duc, afin de rendre plus plausible le retournement radical du personnage. Ce souci de cohérence psychologique témoigne

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de l’intervention du nouvelliste qui, ne disposant par ailleurs qu’assez peu de latitude pour s’écarter des faits de la chronique, intervient sur les parties les plus propres à étoffer l’intériorité du personnage, à dramatiser la crise traversée par ce dernier : Onde il duca Guglielmo, intesi questi tanto strani e tremendi accidenti, aperti gli occhi de l’intelletto e ben considerato ciò che il devoto san Bernardo predicato gli avea, si sentì uno grandissimo rimorso de la giusta sinteresi, che il core li rodeva e agramente lo sgridava de la iniqua persecuzione fatta da lui a la Chiesa contra ogni ragione. Il perchè, la sua malvagia passata vita diligentemente considerata, e tocco nel core di vera contrizione, tra sé senza fine detestava, odiava e fieramente aborriva gli enormi suoi peccati, e a Dio si confessava essere meritevole di ogni supplicio e divotamente li chiedeva perdono, tra sé deliberato di cangiare vita e confessarsi. Indi, non dando indugio a la santa inspirazione, andò a trovar san Bernardo […]47.

57 Convaincu, après son entretien avec saint Bernard, de se rendre en pèlerinage à Saint- Jacques-de-Compostelle, Guillaume réunit avant son départ trois de ses fidèles serviteurs pour leur faire part de sa décision. Son discours, l’intervention de l’un des serviteurs essayant de le persuader qu’il sera plus utile à la société en restant à son poste qu’en se faisant ermite, et la réponse du duc, fournissent la partie quantitativement la plus importante de la nouvelle. Cet entretien, présent dans le texte de Bouchet, est repris sans grandes modifications par Bandello qui se contente d’ajouter quelques considérations sur la préférence qu’il faut accorder au vin sur l’eau (symbole de renoncement aux plaisirs de ce monde), et à la musique sur les cris des animaux sauvages peuplant les solitudes. L’entretien se transforme ainsi en débat sur les avantages et les inconvénients de la vie solitaire : en défendant les plaisirs mondains, le serviteur argumente pour une préférence à accorder à la vie sociale. Bandello parvient ainsi à dramatiser l’entretien, en accentuant les éléments de rupture qui marquent la décision du duc de se rapprocher de Dieu en désertant la vie mondaine.

58 La ruse du duc qui demande à ses serviteurs de faire croire à sa mort et d’organiser un faux enterrement rappelle un élément caractéristique de la nouvelle, en ce qu’il permet au personnage de disparaître au monde, mais sans réapparition spectaculaire. Aussi, la fin de la nouvelle recourt-elle à nouveau, en le suivant de très près, au texte de la chronique. Bandello condense les multiples pérégrinations de Guillaume et ne dit rien des visions dont il est assailli dans sa solitude : sans doute, ces éléments lui paraissent- ils relever d’un genre hagiographique désuet. Il concentre la fin de la nouvelle sur la mort édifiante de Guillaume, et la conclut sur le mariage de Louis VI avec Aliénor en exécution du testament du duc, et sur le divorce qui s’ensuivit, matière du chapitre suivant de Bouchet. Cette conclusion inattendue confirme, s’il en était besoin, l’incertitude de type générique qui marque cette nouvelle. La matière historique, et qu’il conviendrait de qualifier plutôt ici de légendaire, est recentrée autant que possible par Bandello sur le personnage du duc dont le renoncement est d’autant plus remarquable que celui-ci est un prince de ce monde. Toutefois, son testament prouve que Guillaume n’a pas oublié les devoirs ni les règles politiques, et l’exemplarité du personnage tient autant à l’image du prince soucieux de la pérennité de sa maison qu’au fait de sa conversion. Celle-ci n’est d’ailleurs que le substitut des devoirs religieux du prince et de son nécessaire soutien à l’Église. Bandello écrit en une époque de rupture et de crise de l’unité du catholicisme entraîné par le luthéranisme, et les princes de la Chrétienté sont eux-mêmes divisés sur la question.

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59 Rappelons enfin que le récit s’annonçait comme hagiographique. Il en conserve bon nombre d’éléments structurels : la vie avant la conversion, le renoncement au monde, la mort édifiante, les miracles, la canonisation. Bandello choisit d’organiser la nouvelle sur un élément dramatique qui est l’obstacle intérieur. Guillaume parvient à surmonter les erreurs de sa vie passée. En revanche, il doit user d’un subterfuge pour convaincre la société qu’il est mort au monde : sous-jacent, c’est le modèle de la beffa (échappatoire à une situation critique), dilué, dissous dans un autre codage générique. La nouvelle de Bandello, ayant posé quelques jalons historiques (le schisme d’Anaclet, le rôle de saint Bernard, le mariage d’Aliénor avec le roi de France), relate la chronique d’une conversion en utilisant des éléments légendaires. Bandello traite ici la nouvelle comme une chronique : n’affirme-t-il pas en avoir trouvé la matière en lisant (notation plutôt exceptionnelle chez Bandello qui, d’ordinaire, est auditeur) des annales qu’il feint de croire garantes d’une totale authenticité ?

60 La troisième nouvelle de Bandello, tirée en partie de Bouchet, s’intitule : Filippo duca di Borgogna si mette fuor di proposito a grandissimo periglio (I, 39). Elle présente l’originalité d’associer deux sources – les Annales de Bouchet pour sa première partie, l’Heptaméron de Marguerite de Navarre pour la seconde – et par là deux genres dont nous avons déjà signalés la proximité : chronique et nouvelle. Dans sa lettre de dédicace, Bandello raconte comment la conversation étant tombée sur « questi capricci che fuor di proposito vengano ai principi48 », il a entendu à ce sujet une histoire qu’il a aussitôt mis par écrit. Nous verrons qu’il en est tout autrement, et que sa nouvelle résulte plutôt de lectures croisées. Elle met en scène des personnages historiques, dont le protagoniste, Philippe de Bourgogne, dit Philippe III le Bon, présida aux destinées du Duché de 1419 à 1467. Prévenu qu’un homme de son entourage veut l’assassiner à l’instigation du roi de France ou de Charles d’Orléans, ses ennemis jurés, il le met au défi d’accomplir son forfait, en s’isolant avec lui au cours d’une chasse en forêt. Le courage imprudent du duc désarme pourtant son adversaire.

61 Dans la première partie du récit, Bandello relate les événements justifiant la haine qui s’était installée entre le duc et le parti royal. Pour cela, il utilise le chapitre des Annales consacrés aux « faicts et gestes du roy de France Charles VI » (IV, 7). Bouchet y évoque la période où, profitant de la folie de Charles VI, les maisons d’Orléans et de Bourgogne se disputent le pouvoir. Cette lutte de partis est envenimée par l’assassinat de Louis d’Orléans, en 1407, perpétré sur l’ordre de Jean sans Peur, duc de Bourgogne, lequel sera à son tour assassiné par des fidèles du dauphin Charles sur le pont de Montereau en 1419. Ces crimes vont être désormais l’aliment de la haine entre les deux partis : celui des Armagnacs, soutenant la maison royale, et celui des Bourguignons. Ces épisodes fournissaient à Bouchet des éléments propres à colorer sa pâle chronique. Il s’en tient par ailleurs aux grands événements marquant l’évolution du conflit anglo- français : désastre d’Azincourt, exactions des Anglais et des Bourguignons en Normandie.

62 Bandello se contente d’adapter le texte de Bouchet, en éliminant tout ce qui concerne les faits politico-militaires, et n’en retenant que ce qui a trait aux épisodes les plus significatifs du conflit entre Armagnacs et Bourguignons. Les origines de ce conflit s’expliquent selon lui par une faute politique : l’aliénation de l’apanage de Bourgogne aux dépens du royaume de France. Ce qui intéresse Bandello, ce ne sont pas les enjeux politiques, mais bien la succession et l’accumulation des meurtres jusqu’à celui,

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irréparable, de Jean sans Peur à Montereau. Bandello, qui goûte les détails anecdotiques au moins autant que le chroniqueur, lui emprunte ceux de son récit : E perseverando il duca in parlar molto superbo e non tenendo conto de la persona del delfino, anzi più tosto villaneggiandolo, messer Tanegiù di Castello che era uno dei dieci cavalieri del delfino, non potendo sofferire la superbia del borgognone, e bramoso di vendicar il suo duca Luigi, alzò una azza che aveva in mano et quanto più gagliardamente puotè diede una gran percossa sul capo al duca di Borgogna e subito l’ammazzò49. Et comme ils parloient ensemble, pour aucunes arrogantes paroles, que le dit Duc de Bourgongne dist à mondit seigneur le Dauphin, l’un des chevaliers (aucuns ont dit que ce fut messire Taneguy du Chastel, qui avoit ésté serviteur du feu Duc d’Orleans Loys qui avait été occis, comme dit est,) occist d’un coup d’hache ledit Duc de Bourgongne. (IV, 750)

63 Bandello ajoute quelques traits absents de l’original, destinés à souligner pour son public les fautes commises par le duc, peint précédemment comme un méchant homme : sa « superbe » à l’encontre du dauphin enfreint les règles de la vassalité, et la réaction de Tanguy du Chastel sanctionne cette infraction au moins autant que son désir de venger son maître fournit un prétexte au meurtre. Le texte de Bouchet n’allait pas au-delà, alors que Bandello, parvenu à ce point du récit, enchaîne sur la seconde partie, consacrée à un autre épisode de cette « haine sans merci » (« odio crudelissimo ») dont le héros est cette fois le duc Philippe, fils et successeur de la victime de Montereau. À ce stade, Bandello n’a donc fait que rapporter les faits empruntés au chroniqueur, mais en détournant leur interprétation strictement politique : non seulement l’histoire peut ainsi se ramener aux actions désordonnées des individus dont le meurtre est la manifestation extrême, mais le sang appelant le sang, cette histoire se transforme en tragédie digne des Atrides : Onde la nemicizia che di già era cominciata crebbe in odio crudelissimo e tante fiero che, o fosse il re Carlo settimo o Carlo duca d’Orliens, fu da un di loro indutto un alemanno per forza d’andar a mettersi al servigio di Filippo, a ciò che egli con più comodità potesse ammazzarlo51.

64 Ce long préambule aux dissensions entre maisons rivales introduit la deuxième partie de la nouvelle, consacrée au duc Philippe de Bourgogne. La source littéraire de Bandello est très vraisemblablement la nouvelle XVII de l’Heptaméron de Marguerite de Navarre. Bien que le recueil ne parût qu’en 1558, par les soins de P. Boaistuau, dans une version approximative, puis de manière complète l’année suivante, ce n’est pas par ces éditions que Bandello a pu prendre connaissance du texte de Marguerite. En revanche, Bandello, durant son séjour français, put lire les ébauches de ces nouvelles qui circulèrent librement avant la mort de son auteur, en 1549. Bien que nous sachions bien peu de choses sur les rapports entre Marguerite et lui, il eut accès à la version manuscrite.

65 Cette nouvelle XVII, intitulée Le Roi François montra sa générosité au comte Guillaume qui le voulait faire mourir, a pour thème l’histoire d’un comte d’Allemagne, venu au service du roi François Ier, à Dijon, dans le duché de Bourgogne, mais soudoyé pour l’assassiner. Averti par son entourage des intentions du comte, le roi, pour s’en assurer, prit le risque de le rencontrer seul à seul au cours d’une chasse, lui montra son épée que l’autre jugea bonne. Le roi l’avertit qu’il disposait non seulement d’une bonne arme, mais aussi d’assez de courage pour décourager toute tentative d’assassinat sur sa personne. Le comte comprit, et demanda aussitôt son congé. Dans la conclusion donnée à la nouvelle, le courage et la vertu du prince sont l’objet de louanges de la part des conteurs. Marguerite relayait dans son récit la tentative de trahison, bien réelle, du

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comte de Furstenberg, et invoquait des personnages de l’entourage du roi tout aussi réels : La Trémouille, le trésorier Robertet, l’amiral de Bonnivet.

66 Sur cette trame, Bandello construit le récit du geste téméraire de Philippe aux prises avec le sicaire venu l’assassiner. Les liens avec la nouvelle de Marguerite de Navarre sont évidents : la nationalité allemande de l’homme de main, le lieu (la Bourgogne), les circonstances (la partie de chasse, un coin de forêt à l’écart, le défi téméraire du duc provoquant son adversaire). Bandello transforme toutefois la scène principale : François Ier met en avant son courage pour désarmer son adversaire, tandis que Philippe a donné à l’Allemand les mêmes armes que les siennes et le défie en un combat singulier où il risque d’avoir le dessous. L’Allemand, comme dans le récit de Marguerite, est subjugué par la personnalité du prince, assez magnanime pour lui donner ses chances d’accomplir son forfait. Cette confrontation d’homme à homme tourne à l’avantage du prince, dont la noblesse terrasse l’adversaire : Il duca alora cacciata la sua spada del fodro, con alta e ferma voce gli disse : — […] Sforzati pur di far ciò che tuo padrone che qui ti mandò t’ha comandato, perché io so che tu sei venuto in casa mia per uccidermi. – A queste parole il tedesco tutto sbigottito, cavatasi la spada e quella tratta via, s’inginocchiò e con le braccia in croce domandò perdono al duca […]. Filippo alora gli rispose: — Or via, […] fa che più non ti veggia su lo stato mio, ché tu sei un vile e codardo non ti dando l’animo di essequire ciò che il tuo padrone t’ha comandato52.

67 L’attitude très dure du duc s’explique par le fait que son adversaire n’est pas gentilhomme comme dans le récit de Marguerite, et que Bandello entend souligner l’écrasante (l’agenouillement est un acte de soumission) supériorité morale du prince, en forçant quelque peu le trait.

68 Bandello a donc croisé deux sources. Les éléments historiques empruntés à Bouchet introduisent un récit purement fictif, auquel ils donnent l’apparence d’un épisode réel. Ainsi, Philippe devenait-il l’illustration vivante d’une témérité dépassant les bornes de la prudence qui sied à un prince. Elle convenait assez à ce personnage qui s’était acquis dans la Chrétienté la renommée d’un prince chevaleresque. Il importe peu qu’il lui soit attribué un trait concernant un autre : pour Bandello, l’histoire est riche potentiellement de ces exemples fournissant matière à illustrer les vertus à suivre ou les défauts à éviter, et la fiction peut puiser à cette potentialité53. La nouvelle et l’histoire se rejoignent dans cette capacité à fournir le plus large éventail possible de situations où se révèlent les passions humaines, folie plus que raison, vices plus que vertus. Dans le cas présent, le récit contribue à une éducation du prince qui doit cultiver la prudence s’il ne veut perdre « lo stato e la vita […] e insiememente l’onore » (« le pouvoir et la vie en même temps que l’honneur »).

69 La nouvelle que nous venons d’examiner présente un statut plus ambigu encore que les précédentes. En effet, la partie du récit consacrée au duc Philippe pouvait se suffire à elle-même, comme le démontrait la nouvelle de Marguerite : la confrontation du prince et de l’homme venu l’assassiner en constituait l’essentiel. Bandello prenait soin de ménager un suspens : le duc, averti des coupables desseins de l’homme envoyé par ses ennemis préparait pour celui-ci un habit de chasse et des armes identiques aux siennes, piquant la curiosité de son entourage, et celle du lecteur. Dès lors, la première partie, un peu indigeste, semble superflue. Bandello eût pu se limiter à rappeler en quelques lignes la haine irréductible existant entre les familles. Il a préféré donner une justification historique à la tentative d’assassinat du duc Philippe, flétrissant du même coup des pratiques indignes de la bonne politique des princes. Les commanditaires d’un

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meurtre en la personne d’un souverain sont au moins aussi indignes que leurs hommes de main, et le duc renvoie le sicaire à son « padrone ». À mauvais maître, mauvais serviteur.

70 La nouvelle apparaît ainsi constituée de deux pôles narratifs : le premier relevant de la chronique pure et simple, le second fonctionnant comme une inclusion du premier, sans véritable autonomie. Cet éclatement du récit brouille quelque peu la lisibilité : la nouvelle n’est plus constituée d’un noyau narratif, mais de deux, sinon plus. Elle subit l’attraction mimétique de la chronique qui fonctionne sur des séries, et des répétitions. Nous ne sommes pas loin d’une nouvelle « fourre-tout », envisagée par Bandello à l’aune de ce réservoir inépuisable de « casi » et d’anecdotes, de faits inédits propres à piquer la curiosité, que constitue l’histoire. La nouvelle n’est plus qu’une excroissance du fait historique, et peut fonctionner sur un jeu de substitutions (Philippe de Bourgogne à la place de François Ier) puisque cette vision est celle d’une histoire répétant d’un siècle à l’autre, du passé au présent, les mêmes passions humaines.

71 Les deux dernières nouvelles que nous voulons examiner ont pour point commun d’être centrées sur un personnage historique étranger à la sphère culturelle chrétienne. On peut même dire que ce choix relève chez Bandello d’une intention déterminée d’opposer deux modèles culturels, l’un européen et chrétien, l’autre oriental et musulman. Ce personnage n’est autre que le sultan ottoman Mahomet II, ou Mehmet II, celui qui mit fin, avec la prise de Constantinople en 1453, à l’Empire byzantin. Le personnage est contemporain de duc Philippe de Bourgogne dont il vient d’être question, mais il fait l’objet de deux nouvelles dont les titres sont particulièrement significatifs du rôle qui lui est assigné : Maometto imperador de’ turchi crudelmente ammazza una sua donna (I, 10), Maometto imperador de’ turchi ammazza i fratelli, i nipoti e i servidori con inudita crudeltà vie più che barbara (II, 13).

72 À travers ces deux nouvelles, Bandello cristallise dans le personnage du sultan une image du despote cruel et sanguinaire, au pôle exactement opposé à la civilisation : celui de la barbarie. La prise de Constantinople avait représenté la fin d’un empire chrétien, la réalité plus ou moins traumatique d’une avancée de l’Islam vers cette Europe que les appels d’un Pie II n’incita pas pour autant à reprendre une croisade jugée sans doute bien éloignée des vrais enjeux politiques des uns et des autres. Elle avait suffi à fixer l’image repoussoir d’une barbarie confinant avec la civilisation chrétienne. Beaucoup de récits et de témoignages s’étaient faits l’écho de la brutalité qui avait présidé à la prise de la capitale byzantine54, brutalité qui englobait non seulement les Turcs, mais aussi leur chef.

73 Bandello, dans la première des nouvelles citées, commence d’ailleurs par rappeler cette prise de la ville, premier exploit de Mehmet II. À vrai dire, celui-ci ne sera pas ici le héros de la guerre contre les chrétiens, mais celui d’une sombre histoire d’amour et de sang, comme l’annonce Bandello dans la lettre de dédicace : « il modo che tenne Maometto figliolo d’amorato imperador de’ turchi in un suo amore, che più tosto furore si può chiamare55 ».

74 Il s’agit d’illustrer un thème qui revient à plusieurs reprises dans les Novelle : celui de « l’amor ferino e bestiale » (« l’amour sauvage et bestial ») qui bafoue la raison humaine. Le début de la nouvelle détermine les traits constitutifs du personnage. Mehmet fait torturer et exécuter un membre de son proche entourage, parce que celui- ci a interdit les violences au cours du sac de Constantinople. La tyrannie du jeune sultan est aussi celle qu’exerce sur lui la cruauté :

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Maometto, che di natura era crudelissimo, ordinò che Calibasso […] fosse ammazzato, perciò che aveva ne la rovina di Costantinopoli vietate molte crudeltà. E così il buon Calibasso fu crudelissimamente con varii tormenti morto56.

75 Aussitôt après, il se fait réserver, parmi le butin, une très belle jeune fille de seize ans, Irénée : « Era Maometto assai giovine ed inclinatissimo a la libidine, come per lo più son tutti i turchi, e veggendo sì bella giovanetta e senza fine sendogli piaciuta, comandò che gli fosse serbata […]57 ».

76 Les défauts de Mehmet sont, on l’aura remarqué, au superlatif. Cruauté et désir sexuel exacerbé suffisent à le présenter comme un être primaire. Bandello nous le dépeint ensuite, prenant avec sa jeune captive, jour et nuit, pendant trois ans, un plaisir qui l’enchaîne complètement. Il délaisse ses obligations de prince, en oublie les conquêtes militaires, et l’on murmure que cette passion exclusive l’a efféminé. Un homme de son entourage, Mustapha, se décide courageusement à le rappeler à ses devoirs. Son long discours occupe la plus grande partie de la nouvelle : l’oisiveté amoureuse ne sied pas un prince qui doit songer à agrandir son empire, comme l’ont fait ses ancêtres. Il fait défiler aux yeux de Mehmet les conquêtes qui ont marqué la longue et irréversible expansion des Ottomans : une galerie de portraits qui est une page d’histoire, probablement inspirée de l’ouvrage de Paolo Giovio, Commentario de le cose de Turchi58. Cette évocation est également destinée aux lecteurs qui devaient ignorer des événements remontant à plus de deux siècles, et qui formaient la matière d’autres publications que celle de Giovio59. La conclusion de ce discours est que la femme doit être le repos du guerrier, et qu’il appartient au prince de se vaincre soi-même s’il veut vaincre le monde : Restami, signor mio, a dirti che le tante vittorie che i tuoi maggiori hanno avute e l’acquisto che tu di questo imperio greco hai fatto, sono nulla, se tu non le mantieni ed accresci, perciò che minor virtù non è l’acquistare che il saper conservare le cose acquistate. Vince, vince, signor mio, te stesso, e vincerai tutto il resto60.

77 Cette conclusion se ressent à la fois de la dialectique machiavélienne (« acquistare », « conservare »), et d’une morale du dépassement appliqué à l’art du politique. Le rôle joué par Mustapha qui parle le langage de la vérité au prince, fait incontestablement penser à celui que doit jouer le courtisan de Castiglione, conseiller fidèle n’hésitant pas à ramener son maître sur le chemin de la vertu61.

78 Ce franc-parler touche Mehmet qui, sans dévoiler ses intentions, dès le lendemain exige de la jeune Irénée qu’elle revête ses plus beaux atours. Ainsi parée, il la présente aux dignitaires de sa cour, et leur demande si, à sa place, ils se sépareraient d’une aussi belle créature. Tous répondent négativement. La réaction de Mehmet est alors explicitée dans ces quelques lignes : A questa voce il barbaro crudele rispose loro : — Ed io vi vo’ far conoscere che non sarà mai cosa al mondo che mi possa impedire che io non attenda a la grandezza de la casa Ottomanna. – Dette queste parole, subito pigliando i capelli de la donna in mano, con la destra tolto un coltello che a lato aveva, la svenò per mezzo la gola, e la sfortunata cadde in terra morta62.

79 Scène théâtrale, comme toute cette nouvelle qui repose presque entièrement sur la confrontation du courtisan et de son prince, sur la longue tirade du premier et sur la brève déclaration du second : il n’y manque pas même le sacrifice sanglant sur l’autel du dévouement à l’État et du triomphe sur soi-même. La longue évocation des conquêtes ottomanes n’avait donc d’autre but que de préparer ce retournement ? Aussitôt après cette scène sanglante, Bandello expédie en quelques lignes la fin de

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l’histoire : il résume les fulgurantes conquêtes ultérieures de Mehmet, enfin libéré du joug de l’oisiveté amoureuse qui convient si mal à un prince.

80 La conclusion a d’ailleurs de quoi surprendre. En effet, nous aurions déjà oublié que l’objet de la nouvelle était d’illustrer l’amour bestial et sauvage, si Bandello ne venait in extremis nous le rappeler : Potete adunque vedere che in Maometto mon era amore né pietà. Ché se più non voleva trastullarsi con la greca, non la deveva il barbaro crudele ammazzare. Ma tali sono i costumi turcheschi. E chi volesse le particulari crudeltà da questo Maometto usate narrare, averebbe troppo che fare, essendo innoverabili63.

81 L’amour avait donc fort peu à voir avec cette leçon de politique. L’acte barbare commis sur la jeune femme relève des « mœurs turques ». La décision de Mehmet de rompre avec un amour où il oubliait ses devoirs est au fond un bon exemple, et Bandello le réservait sans doute à bien des princes chrétiens : il appartient à la sphère publique. Le meurtre de la jeune femme appartient en revanche à la sphère privée : il témoigne d’une barbarie incompatible avec la grandeur d’âme du sacrifice supposé. Bandello construit avec Mehmet une image ambiguë, faite d’excès, de sauvagerie instinctive, de réactions bestiales : Mehmet cristallise la part infrahumaine de l’homme, la fragilité de la civilisation qui a la barbarie à ses portes. La conclusion souligne le fait que les cruautés de Mehmet sont « innombrables », et donc inracontables : en fait, elles ne le sont pas quant à la dose d’horreur qu’elles comportent (les âmes sensibles n’étant pas priées de s’abstenir chez Bandello), mais quant à leur nombre. En réalité, Bandello ouvre ainsi la porte à d’autres récits possibles, où le personnage de Mehmet servirait de repoussoir à une raison toujours menacée de se voir submergée.

82 La nouvelle présente donc des axes divergents. Le (trop) long passage central, inspiré par la lecture de Giovio ou de Cambini, dans lequel Mustapha brosse un tableau des conquêtes ottomanes, fait figure de morceau rapporté, et sans doute Bandello trouvait- il là, à peu de frais, de quoi étoffer sa nouvelle. Aucune place n’est laissée à une progression psychologique préparant la réaction de Mehmet : la part de l’action est réduite à quelques lignes initiales et finales. Quant au discours, la part de Mustapha est prépondérante, et Mehmet se voit réduit à son geste. Bandello a-t-il encore à l’esprit que Mehmet est son personnage principal ? La disproportion entre discours et action reflète celle existant entre histoire et nouvelle : Bandello veut dépeindre une manifestation brutale de l’amour, un trait de mœurs étrangères à sa culture et à celle de ses lecteurs, en même temps qu’une page de l’histoire des Turcs en Asie et en Europe. Ces divers axes donne une image centrifuge et éclatée de la nouvelle qui finit par ressembler à un habit d’Arlequin.

83 La seconde nouvelle (II, 13) mettant en scène Mehmet a pour point de départ un épisode des guerres d’Italie. Un chef de l’armée impériale s’est livré à un acte d’une incroyable barbarie sur le cadavre d’un ennemi : il lui a fait arracher le cœur et l’a donné à ses chiens, refusant au mort une sépulture. Cet acte unanimement réprouvé, par le tabou qui s’attache au mort, amène un interlocuteur à parler des cruautés de Mehmet. Si Bandello revient sur ce personnage, c’est qu’il veut en faire l’incarnation de la cruauté absolue, en revendiquant, comme nous le verrons, une historicité douteuse, mais habilement manipulée.

84 La nouvelle n’a pas de centre d’unité. Bandello dévide un écheveau de crimes, le fil les reliant entre eux étant des plus minces. Il n’y faut donc voir que l’expression de celui qui les commet. Mehmet, par rapport à la nouvelle précédente, devient le véritable

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protagoniste de la nouvelle, et gagne en cruauté. Le premier acte est l’assassinat de son jeune frère, âgé de dix-huit mois, étouffé sur son ordre par un serviteur sous les yeux de la mère. Ce fait est historique, si l’on en croit Giovio et Cambini qui relatent cet événement comme le premier acte du règne de Mehmet II : [Amorath] raccomandato alla fede di Calibasso uno piccolo figluolo di eta di sei mesi il quale haveva generato […] e Calibassa bascia volendosi gratificare al nuovo re Maumeth li misse in mano il figluolo di Amorath insieme con la madre, il quale fattolo strangolare lo restituì morto alla madre havendo ordinato che se li celebrassino le essequie con pompa regia, consecrando ad questo modo le primitie del regnio suo con la morte del fratello innocente64.

85 Bandello dépeint une scène fort circonstanciée où, à des considérations sur les mœurs, se mêlent les réactions de Mehmet et les justifications à son crime : Rideva il crudelissimo tiranno e pareva a punto che gioisse del pianto de la matrigna. […] — Madre mia, egli bisogna che voi abbiate pazienza […] Sapete bene che de la nostra casa Ottomana l’antica costuma è che ne la creazione del nuovo prencipe tutti i maschi del sangue ottomano soffocare si sogliono, a ciò ch’un solo senza competitore resti signore […]65.

86 À la suite de quoi, Mehmet livre son sicaire à la mère qui exerce sur ce dernier une terrible vengeance : égorgé, poignardé, le foie arraché et jeté aux chiens. Ici, prend fin ce que l’on peut considérer comme une première « nouvelle » en inclusion dans l’ensemble plus vaste que représente la nouvelle annoncée par Bandello. Elle est suivie par une digression, une courte biographie d’un demi-frère de Mehmet, échappé à une probable élimination, converti à la foi chrétienne, et terminant ses jours en Autriche.

87 Bandello revient alors à son thème, les cruautés de Mehmet, non sans avoir souligné la solution de continuité entre la première partie et la seconde de sa nouvelle (« Ma tornando a le crudeltà di Maometto » ; « Mais pour en revenir aux cruautés de Mehmet »). Celles-ci vont s’exercer maintenant sur son entourage : courtisans et dignitaires. Quelles ont été ses sources ? Il est certain qu’il les a utilisées en ne retenant que ce qui allait dans le sens du Mehmet qu’il entendait dépeindre : être cruel, instinctif, tyrannique dans ses passions et dans sa violence66.

88 Mehmet s’en prend à son tuteur, vieux serviteur fidèle, mais envié par son pupille à cause de ses richesses. Même traitement que celui subi par le serviteur de la première histoire : le vieillard est torturé, mis en pièces, son cœur est arraché et son cadavre abandonné aux bêtes. Ce deuxième épisode, plus court que le précédent, est une deuxième inclusion. Elle permet à Bandello d’ajouter au portrait de son Mehmet une tare supplémentaire. Loin d’être le prince « libéral » dont parle Giovio, il est aux antipodes de cette vertu princière : « Maometto che era avarissimo e de la roba altrui più bramoso che l’orso del mele67… ». La comparaison avec l’ours souligne, une fois de plus, la proximité de Mehmet avec l’infrahumain. Il présente en outre, précisément le défaut contre lequel Machiavel met en garde son « prince » : s’en prendre au bien de ses sujets68. Sans doute, Bandello se réfère-t-il ici davantage au prince idéal défini par les humanistes qu’à celui selon les vues plus pragmatiques du Florentin : Mehmet est le modèle même du tyran, image repoussoir du souverain respectueux d’un pouvoir borné par la raison.

89 L’épisode suivant constitue la troisième inclusion d’une « micro-nouvelle » dans la « macro-nouvelle ». Un esclave de Mehmet s’est acquis par sa ressemblance morale avec le tyran (« simile al tiranno, era simulatore e dissimulator eccellente, avveduto sopra modo, astuto […] » ; « pareil au tyran, il était parfait simulateur et dissimulateur,

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extrêmement avisé, rusé […] ») les faveurs de celui-ci, mais il veut en obtenir sa liberté. Il lui offre de l’acheter à prix d’or, mais Mehmet réagit fort mal : il lui brise les reins. La fin de la nouvelle rassemble, de manière décousue, d’autres cruautés imputables à Mehmet. Une lecture attentive permet de constater que Bandello croise ici deux sources. La première est Giovio qui donne sur Mehmet cette information peu flatteuse : fu etiamdio molto crudele in guerra, e nel serraglio, di sorte che ammazzava giovenetti, e fanciulli, quali lui amava libidinosamente, per ogni picciola cagione69.

90 Bandello y trouve sans doute de quoi nourrir son imagination, à moins qu’il ne brode à partir de quelque autre source : Simil crudeltà anzi maggiore usò il perfido tiranno contra alcuni giovanetti tenuti da lui in luogo di femine, i quali pareva che amasse più che gli occho suoi. Questi poveri fanciulli avevano bevuto del vino che al signore era avanzato, il che da lui inteso, gli fece tutti senza pietàalcuna crudelmente morire70.

91 Quelques lignes plus loin, Bandello précise les rapports de Mehmet avec ses sujets : Molti ne fece morire per levar lor la roba, altri ammazzò per torgli le mogli, e per ogni minima occasione comandava che uno fosse ucciso71.

92 Ce passage nous permet d’identifier la seconde source, à savoir le chapitre XVII du Prince de Machiavel, auquel nous avons fait plus haut une brève allusion : Il che [esser temuto e non odiato] farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognassi procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione conveniente e causa manifesta72.

93 Il faut rappeler que ce chapitre s’intitule : De crudelitate et pietate ; et an sit melius amari quam timeri, vel et contra (« cruauté et pitié ; s’il vaut mieux être aimé que craint, ou le contraire »). Bandello démarque Machiavel lorsque celui-ci envisage pour le prince l’usage de la cruauté, parfois nécessaire, mais limitée. Mehmet fait donc figure du prince qui emploie une cruauté non “politique”. Cependant, l’objectif de Bandello est différent de celui de Machiavel : il dépeint un “tyran”, une figure monstrueuse dont il avoue ne pouvoir épuiser la liste des crimes73. Sans foi ni loi74, il incarne l’image antithétique à celle du prince modèle de vertu et de raison. Si l’on se rappelle que la nouvelle dont Mehmet est le héros a été amenée par le récit d’une cruauté dont s’est rendu coupable un chef militaire chrétien pendant les guerres d’Italie, on peut comprendre que Bandello a voulu illustrer une même disposition de l’être humain, qu’elle se manifeste en Chrétienté ou en Turquie. Le pessimisme de Bandello sur la nature humaine affleure ici clairement : les barrières morales sont fragiles, les débordements difficilement contrôlables, la raison n’étant pas aussi souveraine qu’on voudrait le croire. La “tyrannie” n’est pas l’apanage d’une nation ou d’une société particulière, et Bandello se fait discret sur les “mœurs” turques, pourtant mises en avant dans la nouvelle précédente.

94 Concluons sur cette dernière nouvelle. Celle-ci, nous l’avons vu, présente une construction en inclusions : trois micro-nouvelles reliées entre elles par des épisodes adjacents, des anecdotes cursives formant un catalogue des cruautés du personnage, ouvertes, comme le laisse entendre Bandello lui-même, à une série sans fin, un ensemble qui tient du puzzle, de morceaux disparates cousus les uns aux autres, dont le seul principe unificateur est le personnage de Mehmet. Si nous sommes en présence d’une série, c’est que la nouvelle (conservons-lui le nom que lui donne son auteur) n’a pas de fin. Elle rompt avec le principe du schéma narratif tel que le résume Francesco Bonciani, appliquant à la nouvelle les concepts utilisés par d’Aristote à propos de la

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tragédie : « diremo che le Novelle sieno imitazione d’una intera azione […] diciamo tre essere le parti di quantità delle Novelle : il prolago, lo scompiglio e lo sviluppo […] o snodamento75 ».

95 Le texte de Bonciani date de 1574, et tente de fixer les règles d’un genre où l’on retrouverait les principes d’unité d’action et de schéma narratif (exposition, nœud, dénouement) que les nouvellistes, depuis Boccace, avait appliquées, avec plus ou moins de latitude.

96 Dans la nouvelle de Bandello que nous venons d’examiner, les actions sont multiples, et il est difficile de leur trouver un dénouement. Cette nouvelle apparaît donc conçue sur le modèle des chroniques. Elle n’a de principe unificateur que dans le personnage historique, acteur d’une série présentée comme non finie, susceptible de fournir les éléments d’une autre nouvelle construite sur le même schéma. Le caractère morcelé de l’ensemble donne à la « nouvelle » une physionomie étrangère aux coordonnées temporelles de la fiction. La lecture de la « nouvelle » n’est plus nécessairement liée à l’unité du dispositif logique et temporel du récit, elle peut se satisfaire d’un éparpillement, d’un décentrement, comme ces bribes de conversation saisies au vol, dans une fragmentation propre au lecteur pressé, peut-être distrait.

97 À présent, nous pouvons reprendre les diverses constatations qui ont été faites. En premier lieu, l’utilisation de matériaux historiques par Bandello ne fonctionne pas seulement comme source d’inspiration, mais implique un rapport particulier entre écriture de chroniques et écriture de nouvelle. L’attention portée par Bandello au texte source signifie qu’il y a un véritable travail de réélaboration dont dépend la maîtrise, plus ou moins grande ou plus ou moins fonctionnelle, de l’équilibre entre histoire et fiction.

98 On se rend compte à ce sujet que Bandello propose des solutions diverses, qu’on ne peut simplement réduire aux catégories trop commodes du démarcage ou du plagiat. Le problème n’est certainement pas que Bandello veuille dissimuler ses emprunts : il lui faut être logique avec l’artifice qui, dans la lettre de dédicace, fait dépendre la nouvelle écrite d’un récit oral, non élaboré, fruit de l’improvisation, et supposant parfois des lectures ou des sources non indiquées à l’auditoire. Il est plus intéressant, en revanche, de souligner les choix qu’il opère dans les matériaux utilisés, et surtout les éléments retenus. Car, et c’est là un deuxième point, le rapport à l’histoire implique naturellement une lecture idéologique. Bandello manipule ses sources afin de livrer une clé de lecture qui corresponde aux codes de la morale aristocratique du public auquel il s’adresse. Aussi, avons-nous vu que certaines nouvelles prennent la forme de courtes biographies de princes et de rois, et s’organisent sur des schémas mettant en valeur les caractéristiques positives ou négatives des personnages en question. La nouvelle peut alors accueillir l’histoire dont elle mettra en valeur tel ou tel aspect d’une personnalité pouvant servir d’exemple ou de repoussoir.

99 Le troisième point concerne les modifications opérées dans les schémas narratifs de la nouvelle par l’apport de schémas dérivés de la chronique. L’échantillonnage des nouvelles examinées montre que celles-ci comportent le plus souvent des passages où le récit devient événementiel, comme dans les chroniques. La part réservée au récit élaboré selon les règles de la nouvelle n’est pas toujours prépondérante, et l’on peut constater qu’elle fonctionne tantôt comme une inclusion anecdotique dans un ensemble donné comme historique, tantôt comme l’élément d’une série ouverte, sans constituer un véritable principe unificateur de la nouvelle.

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100 Il apparaît ainsi que la nouvelle peut présenter chez Bandello des dérives génériques importantes. D’une nouvelle à l’autre, le rapport entre histoire et nouvelle n’est pas le même, mais il introduit, même à petit dosage, un brouillage dans les codes de l’un comme de l’autre. Les frontières se révèlent imperméables entre chronique et nouvelle, et Bandello expérimente ainsi l’ambiguïté d’un genre dont la définition n’est pas totalement acquise, restant ouvert à des solutions plus ou moins réussies, mais riches de potentialités.

NOTES

1. Adelin Charles Fiorato, Bandello entre l’histoire et l’écriture. La vie, l’expérience sociale, l’évolution culturelle d’un conteur de la Renaissance, Florence, Olschki, 1979. Pour les citations, p. 584, p. 582. 2. L’ouvrage de Giuliano pirotta, Bandello narratore, Florence, Edizioni Polistampa, 1997, présente une histoire de la critique sur Bandello, et une bibliographie sur le sujet jusqu’à 1961. Citons également pour leurs éclairages intéressants sur Bandello : Bruno Porcelli, Novellieri italiani, dal Sacchetti al Basile, Ravenne, Longo, 1969 ; Renzo Bragantini, Il riso sotto il velame. La novella cinquecentesca tra l’avventura e la norma, Florence, Olschki, 1987 ; Marziano Guglielminetti, La cornice e il furto. Studi sulla novella del Cinquecento, Bologne, Zanichelli, 1984 ; G. Patrizi, Le Novelle di M. Bandello, dans Letteratura italiana, Le opere : vol. II : Dal Cinquecento al Seicento, Turin, Einaudi, 1993, p. 517-540. 3. Giovanni Boccaccio, Decameron, sous la dir. de Vittore Branca, Turin, Einaudi, 1980, vol. I, p. 9. 4. Sur la genèse de la nouvelle italienne : Enrico Malato, La nascita della novella italiana: un’alternativa letteraria borghese alla tradizione cortese, dans La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola, Rome, Salerno Editrice, 1989, p. 3-45 ; Cesare Segre, La novella e i generi letterari, dans La novella italiana, ouvr. cité ; sur l’évolution du genre : Favole, Parabole, Istorie, le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, sous la dir. de G. Albanese, L. Battaglia Ricci et R. Bessi, Rome, Salerno Editrice, 2000 ; Giancarlo Mazzacurati, Préface à Conteurs italiens de la Renaissance, Paris, Gallimard, La Pléiade, 1993, p. XI-LXXIX. 5. Voir Anita Simon, La novella e la storia. Toscana e Oriente fra Tre e Quattrocento, Rome, Salerno Editrice, 1999. 6. Nous nous référons à l’édition suivante : Matteo Bandello, Tutte le opere, sous la dir. de F. Flora, Milan, Mondadori, 2 vol., 1942-1943. 7. On peut aussi interpréter la formule comme une assimilation de la nouvelle à l’histoire racontée oralement, et qu’elle prétend rapporter plus ou moins fidèlement, mais d’ordinaire Bandello utilise l’un ou l’autre terme, et ne les rapproche pas comme il le fait ici. 8. Bandello, éd. cit., vol. II, p. 353. 9. Le livre de Paul Diacre est au XVe siècle la source principale d’historiens comme Flavio Biondo, puis connaît au siècle suivant plusieurs éditions (1514, 1515, 1532…). Quant à l’ouvrage de Machiavel, il est édité plusieurs fois entre 1532 et 1554. 10. Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, texte latin en regard, sous la dir. de A. Zanella, Milan, Rizzoli, 1991, I, 27, p. 214-216 : « […] elle lui donna un fils, Alboïn, un homme fait pour la guerre et actif en toutes choses. […] Dans cette bataille, Alboïn tua Cunimonde, et lui ayant tranché la tête, il en fit une coupe à boire. […] Il fit prisonnière sa fille, appelée Rosimonde [et] la prit pour épouse. »

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11. Machiavelli, Istorie fiorentine, sous la dir. de F. Gaeta, Milan, Feltrinelli, 1962, I, 8, p. 86 : « Alboïn, homme cruel et audacieux […]. Trouvant dans son butin Rosemonde, fille de Cunimonde, il l’épousa […]. Poussé par la cruauté de sa nature, il se fit une tasse du crâne de Cunimonde, qu’il utilisait en souvenir de sa victoire » (Machiavel, Œuvres, trad. de C. Bec, Paris, Laffont, Bouquins, 1996, p. 608). 12. Bandello, éd. cit., p. 348 : « Alboïn, homme cruel, hardi, aux mœurs sauvages et barbares, et fort expérimenté en matière de guerre. […] Alboïn, ayant fait trancher le chef hideux de Cunimonde, se fit faire avec ce crâne une coupe, garnie d’or, dans laquelle il buvait au cours des festins solennels. Dans le butin pris à l’ennemi, il trouva parmi les femmes Rosemonde, fille de Cunimonde, jeune fille d’une incroyable beauté : ayant jeté les yeux sur elle, il la prit pour épouse. » Nous avons traduit toutes les citations de Bandello, et celle de B. Castiglione (voir infra). 13. Ibid., p. 349 : « Era il barbaro re, come s’è detto, crudelissimo e fuor di misura superbo, presumendo tanto di se stesso […] [che] lasciata la cura de la guerra, si diede a l’ozio e a celebrar conviti. » 14. Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, ouvr. cité, II, 28, p. 266-268 : « il ordonna que l’on porte à boire à la reine du vin dans la coupe qu’il avait faite avec le crâne de son beau-père, le roi Cunimonde, et il l’invita à boire joyeusement avec son père. […] Alors, quand Rosemonde s’en aperçut, elle en éprouva dans le cœur une très vive douleur, impossible à réprimer, brûlant aussitôt de venger la mort de son père par le meurtre de son époux, et sans plus tarder elle conçut avec Elmichis […] un plan pour assassiner le roi ». 15. Bandello, éd. cit., p. 349-350 : « il ordonna à l’un de ses écuyers, qui lui servait d’échanson, de l’apporter à la reine, en ajoutant ses mots : — Tiens donc : prends cette coupe et donne-la à ma femme Rosemonde, et dis-lui de boire joyeusement avec son père. – Rosemonde était assise à une autre table avec les femmes, en face de son mari, et elle entendit les mots de celui-ci, car il les avait criés d’une voix très forte, et elle en éprouva intérieurement un grand trouble. […] La reine ne pouvait supporter que le roi, en présence de toute la noblesse lombarde, lui eût non seulement rappelé la mort de son père, mais ajoutant à son mépris pour elle, eût voulu la voir boire dans la coupe faite avec la tête de ce père ; aussi, après cela, ne pouvant réprimer sa colère, elle demeura remplie d’un tel ressentiment à l’encontre d’Alboïn qu’elle pensait ne pouvoir vivre ni trouver de satisfaction en ce monde si elle ne tirait une grande vengeance d’une insulte aussi grave, et à chaque instant elle sentait réellement que les mots du roi la perçaient d’une douleur continuelle et rongeaient misérablement les racines de son cœur comme un ver mordant et rongeur. Mais quoi ! Vaincue par la passion torturante et permanente qui ne lui laissait aucun repos, elle décida, bien qu’elle fût sûre de mourir, de tout faire pour que son époux mourût. Ayant ainsi arrêté son dessein et ne passant toutes ses journées qu’à délirer et à bâtir des chimères sur les moyens de se venger du roi, elle ne parvenait pas à en imaginer un seul qui la satisfît ». 16. Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, ouvr. cité, p. 268 : « Comme Peredeo ne voulait pas prêter son consentement à une telle impiété, bien que la reine usât de toute sa persuasion, cette dernière se glissa une nuit dans le lit d’une de ses femmes chargées de sa garde-robe, avec laquelle Peredeo couchait habituellement ; Peredeo, ignorant la substitution, coucha avec la reine. » 17. Bandello, éd. cit., p. 351 : « Comme Perideo ne voulait pas accepter de commettre une action aussi criminelle, Rosemonde, craignant qu’il ne révélât sa trahison, et sachant que celui-ci couchait souvent avec la femme qui s’occupait de sa garde-robe, convainquit cette femme d’exiger que Perideo vînt coucher avec elle la nuit suivante. La reine coucha avec Perideo à la place de sa servante. » 18. Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, ouvr. cité, p. 272 : « Ainsi, par le jugement de Dieu tout- puissant, les deux cruels assassins moururent au même instant. »

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19. Bandello, éd. cit., p. 352 : « Voyez donc le cerveau d’une femme ! Elle n’avait pas cru suffisant de rompre le lien du mariage et de commettre un adultère avec un simple homme d’armes ; il ne lui suffisait pas d’avoir par ses intrigues fait assassiner son mari Alboïn […] ; il lui fallait aussi […] empoisonner son second mari, qui n’était coupable de rien. » 20. Vita Marci Antonini philosophi (XIX), dans Histoire Auguste, édition bilingue, trad. du latin par A. Chastagnol, Paris, R. Laffont, Bouquins, 1994, p. 144 : « Certains prétendent, ce qui paraît très vraisemblable, que Commode Antonin, son successeur et fils, n’était pas de son sang mais un enfant adultérin, en s’appuyant sur cette petite histoire qui courait parmi le peuple : la fille de Pius, Faustine, épouse de Marc, voyant un jour défiler des gladiateurs, se prit de passion pour l’un d’eux ; elle en conçut un long tourment et se décida à avouer son amour à son mari. Marc consulta des [astrologues] chaldéens qui furent d’avis qu’il fallait tuer le gladiateur, après quoi Faustine prendrait un bain de siège dans son sang et en cet état coucherait avec son mari. Ainsi fut fait ; la passion de Faustine s’évanouit, mais elle mit au monde Commode, qui fut moins un empereur qu’un gladiateur […]. Mais beaucoup affirment que Commode fut vraiment un enfant adultérin, car il est patent qu’à Gaète Faustine rechercha la fréquentation des marins et des gladiateurs. » 21. Bandello, éd. cit., vol. I, p. 446-447 : « [Faustina] ne se retint pas de commettre de nombreux adultères et de devenir la fable de tout le peuple. […] elle conçut un violent amour pour un gladiateur au point qu’elle en perdit le manger et le dormir, et ne trouvait plus aucun repos. Pourtant, il semblait à Faustine […] qu’il y avait trop de honte pour une fille d’Antonin le Pieux, et épouse de Marc le philosophe, de s’unir à un homme de si basse condition, bien qu’elle eût maintes fois couché avec les plus membrus des matelots de Gaète. Son mari qui l’aimait passionnément, ne quittait pas son chevet d’une heure, la réconfortant et appelant pour la soigner les meilleurs médecins, mais ses efforts étaient vains. À la fin, sachant par une longue expérience combien elle pouvait disposer de son mari, elle lui avoua que tout son tourment provenait de son amour pour un gladiateur […]. Le malheureux mari qui aimait sa femme d’un amour sans mesure, la réconforta du mieux qu’il put, et lui donna du courage. Puis, après avoir pris l’avis d’un mage chaldéen, il pria ce dernier de trouver un remède à ce mal. Le Chaldéen lui dit qu’il n’y avait qu’un seul remède : il fallait mettre à mort le pauvre gladiateur et, avec son sang, oindre le corps de l’impératrice sans qu’elle sût de quoi il s’agissait, puis l’empereur devait coucher avec elle. Certains historiens écrivent que le Chaldéen conseilla de faire boire le sang du gladiateur à Faustine, mais la plupart parlent du bain. […] l’empereur coucha avec l’impératrice et elle fut enceinte. Elle oublia complètement le gladiateur et ne se le rappela plus jamais, ce qui est à coup sûr étonnant. Mais de cette union naquit l’empereur Commode, qui ressembla bien plus au gladiateur qu’à son père, car son père Marc fut un très saint homme et aux mœurs si pures qu’on aurait pu, s’il avait cru en Christ et avait été baptisé, le canoniser. » 22. A. C. Fiorato, Bandello entre l’histoire et l’écriture…, ouvr. cité, p. 601, remarque très justement : « [Bandello] actualise et utilise le passé pour tenir à ses lecteurs un discours sur le présent. » 23. Bandello, éd. cit., vol. 1, p. 446-447 : « Sono alcuni istorici che scrivono che il caldeo consegliò che del sangue del gladiatore Faustina bevesse, ma i più scrivono del bagnare. » 24. Ibid., p. 444 : « mi diceste che io farei bene a scriver questa mia istoria » (lettre de dédicace). 25. Jean Bouchet (Poitiers, 1476-vers 1557). Poète, il fait partie de la génération des « rhétoriqueurs », active de la fin du XVe au début du XVIe siècle. Il laisse également une œuvre d’historien, les Annales d’Aquitaine, qui connurent un grand succès dès leur parution, où il relate, dans un style assez sec, événements et anecdotes concernant non seulement sa province (l’Aquitaine), mais aussi l’histoire de la France et de ses rois. 26. Bandello, éd. cit., vol. II, p. 730 : « Me la [la storia] fece poi leggere negli annali de l’Acquitania impressi in idioma francese. » La dette de Bandello envers les Annales ne se limite pas, comme nous l’avons dit, à cette nouvelle. Bandello a pu s’intéresser à la matière des Annales au cours du séjour qu’il fit en Aquitaine, de 1541 à 1561 (année probable de sa mort), quand sa

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protectrice, Costanza Fregoso, se réfugia en France. Bandello vécut à Bassens, puis à Agen, en qualité d’évêque par intérim de cette ville. 27. C’est tout l’objet de l’article de Renata Fabbri, « Il “genere” fuori dei confini (qualche caso esemplare) », dans Favole parabole istorie..., ouvr. cité, p. 109-131. L’auteur y fait ce constat : « sembrerebbe dunque che il campo storiografico (o cronachistico) fosse quello più prossimo alla novellistica, e più propenso ad accoglierne più o meno particolari intrusioni. […] Fra questi [generi] il genere narrativo, la novella in particolare, più spesso travalica e forza i suoi confini » (p. 125, p. 131). 28. J’ai utilisé, pour sa qualité et sa clarté typographique, l’édition suivante : Les Annales d’Aquitaine par Jean Bouchet, Poitiers, par Abraham Mounin Imprimeur & Libraire, MDCXXXXIIII. Le texte est au chapitre 7, IVe partie. J’ai jugé plus confortable pour la lecture la modernisation de l’orthographe, sans aucune autre intervention. 29. Jean Froissart, Chroniques, texte établi par J. A. C. Buchon, Paris, A. Desrez libraire-éditeur, MDCCCXXXVII, tome II, p. 663 (livre III, chap. 96). 30. Bandello, éd. cit., vol. II, p. 324 : « Comme il n’est, pour l’homme vivant en ce monde, rien de plus certain que sa mort, et rien de plus incertain que l’heure de cette mort, son genre ou la façon de mourir, je trouve étonnant que l’on n’y pense en général moins qu’à tout le reste. […] mon opinion est qu’il serait d’une grande utilité à chacun, quelle que soit sa condition, de se rappeler souvent qu’il est homme et par conséquent mortel. » 31. Bandello, éd. cit., vol. II, p. 325 : « Dal che nascerebbe che la vita umana sarebbe assai più tranquilla di quello che è, e ritorneria a’ nostri tempi la tanto lodata e da noi mai veduta età de l’oro. » 32. Froissart, Chroniques, ouvr. cité, p. 662-663. 33. Bandello, éd. cit., vol. II, p. 326 : « Ma prima, confessato, si communicò e fece tante elemosine a’ luoghi pii ed altri beni. » 34. Ibid., p. 326 : « Or, si le roi de Navarre avait songé à cela, il aurait vécu plus tranquillement qu’il ne le fit, et aurait évité la méchante fin qu’il eut. » Il faut rapprocher cette réflexion de celle de Froissart, Chroniques, ouvr. cité, p. 662-663 : « [que] le roi de Navarre ne cuidoit point, quand il mourut, être si près de sa fin, car espoir, s’il l’eût sçu, par aventure se fût-il avisé, et n’eût point mis en termes, ni en avant, ce qu’il mit ». 35. Bandello, éd. cit., vol. II, p. 327 : « Ce roi Charles fut un homme aux mœurs exécrables et fort cruel […] il fit assassiner le connétable de France et s’allia avec les Anglais au détriment des Français. Puis, ayant été fait prisonnier par le roi Jean son beau-père, il se mutina […], et souleva les Parisiens contre le Dauphin Charles […] et il causa beaucoup de maux […] partout en France, où il saccagea et incendia de nombreuses villes et où il commit d’innombrables meurtres. […] Dans son royaume de Navarre, il se livra à de très grandes cruautés, avec d’infâmes rapineries, des meurtres et des violences sur les femmes, si bien que tout le monde le détestait. » Charles II le Mauvais était le gendre de Jean II le Bon, et le Dauphin n’est autre que le futur Charles V. 36. Niccolò Machiavelli, Il Principe XVII, dans Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, S. Bertelli (éd.), Milan, Feltrinelli, 1971, p. 70 : « Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non acquista lo amore, che fugga l’odio […]; il che farà sempre, quando si astenga della roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognassi procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione conveniente e causa manifesta; ma sopra a tutto, astenersi della roba d’altri » ; (« Néanmoins le prince doit se faire craindre de façon que, s’il n’acquiert pas l’amour, il fuie la haine […]. Il y arrivera toujours pourvu qu’il s’abstienne des biens de ses concitoyens et de ses sujets, et de leurs femmes. S’il lui faut cependant s’en prendre à la vie de quelqu’un, il faut le faire à condition qu’il y ait une justification convenable et une cause manifeste ; mais surtout s’abstenir du bien d’autrui », Machiavel, Œuvres, trad. de C. Bec, ouvr. cité, p. 152).

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37. Bandello, éd. cit., vol. II, p. 327-328 : « Il était très vieux, et même décrépit, mais si luxurieux et si porté aux plaisirs et aux appétits sexuels qu’il n’était jamais sans concubine ; et il avait, à ce moment-là, une très belle jeune femme de vingt-deux ans, dont il était violemment amoureux. Donc, le jour même où il avait fait couper la tête aux trois ambassadeurs, enflammé d’une très grande colère, il alla rejoindre, pour se récréer, la belle dont il était amoureux, et s’adonna avec elle aux plaisirs de la chair si bien que, voulant s’y adonner plus qu’il ne convenait à son âge, il se sentit pris d’une grande faiblesse. Et, désireux de récupérer ses forces défaillantes […] il se fit installer dans une salle chauffée entre trois grands récipients de cuivre remplis de charbons incandescents. » 38. Froissart, Chroniques, ouvr. cité, p. 663. 39. Bandello, éd. cit., p. 328 : « il brûla misérablement et mourut comme une bête ». 40. Bandello, éd. cit., p. 328 : « Les chroniques, qui parlent de cette mort, disent qu’elle fut un jugement de Dieu intentionnel, afin de punir les exécrables crimes d’un roi aussi vicieux. Mais Dieu seul sait la vérité. » Les « chroniques » désignent les Annales d’Aquitaine, mais probablement aussi les Chroniques de Froissart. 41. Bien que les Istorie fiorentine de Machiavel ne présentent pas le caractère de biographies, elles se concluent par un chapitre évoquant la mort de Laurent de Médicis, accompagnée de signes spectaculaires, et précédée d’un résumé de sa vie publique et privée, chapitre où l’on peut reconnaître le modèle du récit biographique classique (livre VIII, chap. 36). 42. Bouchet n’est pas fiable. En effet, il fait, sous le nom de Guillaume, plusieurs confusions. Le Guillaume dont il parle, neuvième duc d’Aquitaine, est indiqué par lui comme le père d’Aliénor d’Aquitaine ou de Guyenne, mariée en premières noces à Louis VII, roi de France. Il ne peut lui être attribué la fondation des Guillemites ou Blancs-Manteaux, due aux disciples d’un certain Guillaume de Malavalle, gentilhomme français qui, renonçant à une vie mondaine, accomplit sur l’ordre du pape Eugène III, un pèlerinage expiatoire à Jérusalem, puis, de retour en Italie, se fit ermite, et s’établit dans la région de Grosseto, en une vallée à l’écart nommée Malavalle. Après sa mort, en 1157, la communauté prit le nom de Guillemites (ordre des Ermites de saint Guillaume), appelés par la suite Blancs-Manteaux. 43. Bouchet, Les Annales d’Aquitaine, ouvr. cité, p. 126. 44. Bandello, éd. cit., vol. II, p. 730-731 : « J’ai choisi de vous raconter, parmi tant d’autres, la vie de celui-ci [Guillaume, duc d’Aquitaine], car elle fut très variable, et il vécut longtemps en homme vicieux et persécuteur acharné de l’Église catholique. Puis, éclairé par la divine lumière de l’Esprit Saint, il passa d’une mauvaise à une bonne vie, et fit si dure pénitence qu’abandonnant son état d’Aquitaine, hérité de son père et de ses aïeux, il fut mis à juste titre, à sa mort, au nombre des saints du royaume céleste. » Guillaume de Malavalle ne fut pas officiellement canonisé, mais le pape autorisa son culte dans le diocèse de Grosseto. 45. Ibid., p. 730 : « E perché mi parve molto degna e notabile, la tradussi in lingua italiana. » Il y a là une part de vérité qui cache, par ailleurs, la liberté prise avec le texte. 46. Bouchet, Les Annales d’Aquitaine, ouvr. cité, p. 130. 47. Bandello, éd. cit., p. 732-733 : « Alors, ayant appris ces étranges et terribles événements, et ayant ouvert les yeux de l’intelligence et mûrement réfléchi sur ce que le dévot Bernard lui avait prêché, le duc Guillaume éprouva un très grand remords dicté par un juste sentiment de sa conscience, qui rongeait son cœur et lui reprochait durement l’injuste persécution dont il avait poursuivit l’Église, sans aucun motif. Aussi, considérant avec soin sa méchante vie passée, et touché par une vraie contrition de cœur, ne cessait-il de se détester, de se haïr et d’exécrer au plus au point ses énormes péchés, et avouait-il devant Dieu avoir mérité toutes sortes de châtiments, et Lui demandait-il dévotement pardon, décidé au fond de lui-même à changer de vie et à se confesser. Ne laissant aucun délai à cette sainte inspiration, il alla donc voir saint Bernard […] ». Les « étranges et terribles événements » font référence aux morts subites et mystérieuses d’ecclésiastiques soutenant le duc dans son opposition à Innocent II.

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48. Bandello, éd. cit., vol. I, p. 458 : « ces fantaisies hors de propos qui naissent chez les princes ». 49. Ibid., p. 460-461 : « Comme le duc continuait à parler avec une grande superbe et sans égard pour la personne du dauphin, voire en lui disant des vilenies, messire Tanguy du Chastel, l’un des dix chevaliers du dauphin, ne pouvant souffrir la superbe du Bourguignon, et désireux de venger son duc Louis [d’Orléans], leva une hache qu’il tenait à la main et en asséna un très grand coup, de toute sa force, sur la tête du duc de Bourgogne, le tuant net. » 50. J. Bouchet, Les Annales d’Aquitaine, ouvr. cité, p. 239. 51. Bandello, éd. cit., p. 461 : « C’est pourquoi l’hostilité qui avait déjà commencé de naître entre eux grandit jusqu’à devenir une haine sans merci et si violente que sur ordre du roi Charles VII, ou bien de Charles d’Orléans, un Allemand fut contraint d’aller se mettre au service de Philippe, afin de pouvoir plus aisément assassiner celui-ci. » 52. Ibid., p. 463 : « Le duc, alors, ayant tiré son épée de son fourreau, lui dit d’une voix haute et ferme : — […] Efforce-toi donc de faire ce que ton maître qui t’a envoyé ici t’a donné l’ordre de faire, car je sais que tu es venu dans ma maison pour me tuer. – À ces mots, l’Allemand, tout ébahi, ayant tiré son épée et s’en étant débarrassé, s’agenouilla et, les bras en croix, demanda pardon au duc […]. Philippe lui dit alors : — Allez […] fais en sorte que je ne te vois plus sur mes terres, car tu es un lâche et un couard pour n’avoir pas eu le courage d’exécuter ce que ton maître t’avait ordonné de faire. » 53. Ibid., p. 457 : « E di queste sorte si veggiono esser infinite azioni ed opere dei prencipi e grandi uomini, i quali il più de le volte, massimamente essendo giovini e nodriti licenziosamente, mettono fuor di proposito la vita loro a pericolo di morte e di perder in un tratto lo stato e la vita ed insiememente l’onore. » 54. Voir, par exemple, les relations d’Enea Silvio Piccolomini (futur pape Pie II), datées de 1453, sur cet événement, dans Opera omnia, Basilae, 1571 : Oratio de Constantinopolitana Clade, et bello contra Turcos congregando (lettre CXXXI), p. 678-689, et Ad Nicolaum quintum Pontificem summum de clade universalis Ecclesiae orthodoxae (lettre CLXII), p. 712-716. Pie II écrira une Lettre à Mahomet II (Epistola ad Mahumetem) où le sultan est présenté comme un interlocuteur possible. 55. Bandello, éd. cit., vol. I, p. 129 : « la manière dont Mehmet, fils de Mourad, empereur des Turcs, se comporta en un sien amour, ou fureur, comme on peut plutôt l’appeler ». 56. Ibid., p. 130 : « Mehmet, qui était très cruel de nature, ordonna que Khalibas […] fût exécuté, car il avait empêché que fussent commises plusieurs cruautés au cours de la destruction de Constantinople. Ainsi le bon Khalibas fut-il mis à mort avec beaucoup de cruauté accompagnée de multiples tortures. » 57. Ibid., p. 130 : « Mehmet était très jeune et très porté sur les plaisirs de la chair, comme le sont tous les Turcs en général : voyant une si belle jeune fille, elle lui plut infiniment, et il ordonna qu’on la lui réservât […]. » 58. Voir Paolo Giovio, Commentario de le cose de Turchi, di Paolo Iovio, vescovo di Nocera, a Carlo Quinto imperadore augusto, [Rome, 1532] dans Venetia, MDXXXX. Giovio donne des notices sur les divers princes ottomans avant et après Mehmet II, et sur leurs conquêtes : source plus que probable de Bandello. 59. Commentario de Andrea Cambini Fiorentino, della origine de Turchi, et imperio della Casa Ottomana, MDXXXVII (Venise, 1540). Le passage où est racontée la prise de Constantinople comporte des éléments (soulignés ici) susceptibles d’avoir inspiré à Bandello le personnage d’un Mehmet cruel et bassement sensuel : « Era il numero de vincitori quasi infinito, le quali non havendo altro intento che rubare e nella lussuria satiare lo appetito bestiale, et molto dedito alle volupta carnali, sendo di natura crudeli non perdonono ne a eta ne a sesso miscolando li stupri con le uccisioni e la morte con li stupri, et faccendo stiavi li vecchi […] e se capitava loro alle mani qualche vergine o giovane formosa con qualche giovanetto di bello aspetto concorrendo molti ad volergli venivano fra loro alle mani […]. » (p. 20-21)

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60. Bandello, éd. cit., p. 134 : « Il me reste à te dire, mon Seigneur, que les nombreuses victoires remportées par tes ancêtres et la conquête que tu as faite de cet empire grec ne valent rien si tu ne les conserves ni ne les accroîs, car il n’y a pas moins de vertu à conquérir qu’à savoir conserver les biens conquis. Sois vainqueur, mon Seigneur, sois vainqueur de toi-même, et tu seras vainqueur de tout le reste. » 61. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, Milan, Garzanti, 1990, IV, 5, p. 368-369 : « Il fin adunque del perfetto cortegiano […] estimo io che sia il guadagnarsi […] talmente la benivolenzia e l’animo di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed indurlo al camin della virtù » ; « Donc, le but du courtisan accompli […] est, à mon avis, de se gagner […] la bienveillance et l’âme du prince qu’il sert à tel point qu’il puisse lui dire et lui dise toujours la vérité sur tout ce qu’il doit savoir, sans crainte et sans risque de lui déplaire, et, s’il aperçoit l’esprit du prince enclin à faire une chose inopportune, qu’il ose le contredire, et, de noble façon, se valoir de la grâce qu’il s’est acquise par ses bonnes qualités pour le détourner de toute mauvaise intention et l’engager sur le chemin de la vertu. » 62. Bandello, éd. cit., p. 136 : « À ces paroles le barbare cruel répondit : – Et moi je veux vous montrer qu’il n’est aucune chose au monde qui puisse m’empêcher de me consacrer à la grandeur de la maison ottomane. – Aussitôt après avoir prononcé ces mots, saisissant la femme par les cheveux, il l’égorgea en lui tranchant la moitié de la gorge, et l’infortunée tomba par terre, morte. » 63. Ibid., p. 136 : « Vous pouvez donc voir qu’il n’y avait chez Mehmet ni amour ni pitié. Car s’il ne voulait plus s’amuser de la grecque, le barbare cruel ne devait point la tuer. Mais ce sont là les moeurs turques. Et si l’on voulait raconter les cruautés particulières à ce Mehmet, l’on aurait trop à faire, tant elles sont innombrables. » 64. Cambini (Antonio), Commentario…, ouvr. cité, p. 16 : « [Mourad] ayant confié au fidèle Khalibas un petit enfant de six mois dont il était le père […] et Khalibas Pacha, désireux de se faire valoir auprès du nouveau roi Mehmet, lui remit le fils de Mourad ainsi que la mère : Mehmet fit étrangler l’enfant, puis le rendit mort à sa mère, après avoir donné l’ordre que l’on célébrât les funérailles avec une pompe royale, consacrant ainsi les débuts de son règne avec la mort d’un frère innocent. » Giovio évoque ce crime en peu de mots : « Morto che fu Amurathe con estremo favore de soldati fu cridato Signor Mahometto suo figliuolo, d’eta di XXI anno qual per regnare senza sospetto, subito fece ammazzare il fratello. » (Commentario…, ouvr. cité, p. 8) 65. Bandello, éd. cit., vol. 1, p. 798 : « Le cruel tyran riait et semblait justement jouir des pleurs de sa belle-mère. […] – Ma mère, il faut que vous soyez patiente […]. Vous savez bien que, dans la vieille coutume de notre maison ottomane, il est d’usage, quand un nouveau prince est proclamé, d’étouffer tous les mâles de sang ottoman, afin qu’un seul reste seigneur sans rival […]. » 66. Bandello a probablement eu d’autres sources que celles de Giovio ou de Cambini : dans la lettre de dédicace, il prétend que ces histoires sur Mehmet ont été racontées par un voyageur qui connaissait la Turquie et ses mœurs. Il n’a tenu aucun compte du portrait plus nuancé que fait Giovio qui, à la suite du passage qui vient d’être cité, ajoute : « ma per contra fu liberale, remuneratore de virtuosi, et valenti uomini, et di chi bene lo servia, molti estimorono che non credessi più nelle fede di Mahometto che in quella di Christo, ò dei Gentili […] ». 67. Bandello, éd. cit., vol. 1, p. 801 ; « Mehmet, qui était très cupide et convoitait le bien d’autrui plus que l’ours ne convoite le miel […]. » 68. Machiavelli, Il Principe, XVII : « ma, sopra a tutto, astenersi dalla roba d’altri ». Bandello dépeint Mehmet, dans un autre passage de sa nouvelle, comme un tyran outrageant ses sujets : « Molti ne fece morire per levar lor la roba, altri ammazzò par torgli le mogli, e per ogni occasione comandava che uno fosse ucciso. »

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69. Commentario, ouvr. cité, p. 8 : « il fut également très cruel à la guerre, et dans son sérail, en sorte qu’il assassinait de jeunes garçons, et des enfants, avec qui il satisfaisait ses plaisirs libidineux ». 70. Bandello, éd. cit., vol. 1, p. 802 : « Le perfide tyran exerça de semblables cruautés, et même pires, envers de jeunes garçons qui lui tenaient lieu de femmes, et qu’il paraissait aimer plus que la prunelle de ses yeux. Ces pauvres enfants avaient bu du vin qu’avait laissé leur maître, et, quand il s’en aperçut, il les fit tous cruellement mourir sans nulle pitié. » 71. Ibid., p. 802 : « Il en fit mourir un grand nombre pour s’emparer de leurs biens, il en fit assassiner d’autres pour prendre leurs femmes, et à la moindre occasion il donnait l’ordre de tuer quelqu’un. » 72. « Il y [être craint et n’être pas haï] arrivera toujours pourvu qu’il s’abstienne des biens de ses concitoyens et de ses sujets, et de leurs femmes. S’il lui faut cependant s’en prendre à la vie de quelqu’un, il faut le faire à condition qu’il y ait une justification convenable et une cause manifeste. » (Machiavel, Œuvres, ouvr. cité, p. 152). 73. Bandello, éd. cit., vol. 1, p. 803 : « ma se io vorrò tutte le crudelissime crudeltà di questo fierissimo tiranno annoverare, prima il giorno è per mancarmi che io ne possa venir al fine […] ». 74. Ibid., p. 803 : « si beffava de la fede dei cristiani, sprezzava la legge giudaica e nulla o ben poco stimava la religione maomettana ». 75. Francesco Bonciani, Lezione Trattati di poetica e di retorica del Cinquecento, sous la dir. de B. Weinberg, vol. III, Bari, Laterza, 1972, p. 145.

RÉSUMÉS

L’étude ne prend pas en considération le jugement traditionnel sur la nouvelle bandellienne comme récit anecdotique ou comme chronique, mais examine les transformations résultant de la perméabilité de la nouvelle à l’histoire. Bandello introduit ainsi dans ses récits de fiction des incertitudes et des nouveautés qui altèrent les frontières génériques de la nouvelle.

Lo studio non prende in considerazione il giudizio tradizionale sulla novella bandelliana come racconto aneddotico o cronachistico, ma prende in esame le trasformazioni che risultano dalla permeabilità della novella alla storia. Vengono così introdotte nelle finzioni bandelliane incertezze e novità che alterano i confini del genere novellistico.

AUTEUR

SERGE STOLF Université Stendhal – Grenoble 3

Cahiers d’études italiennes, 6 | 2007 96

La nouvelle et les autres genres : genèses et contacts

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Dalla legenda alla novella: continuità di moduli e variazioni di genere. Il caso di Boccaccio*

Filippo Fonio

Introduzione

1 La mia proposta è quella di pensare al rapporto fra generi della letteratura agiografica e narrativa breve dalla fine del XIII a quella del XIV secolo (con poche incursioni al di fuori di tale periodo) come a un processo di prestiti unilaterali. Forme, storie, motivi, stilemi delle vite di santi passano nella nascente novellistica italiana in maniera ancora riconoscibile proprio grazie allo stadio, maturo se guardiamo alla tradizione dei materiali ai quali i novellisti attingono o alle cosiddette fonti, ma ancora acerbo dal punto di vista di una tradizione interna al genere novella, in cui la prosa narrativa italiana si trova fino al Boccaccio. Dopo il Decameron, invece, le cose si faranno più complicate, dal momento che la presenza di un modello già sentito dai contemporanei come un classico passibile di imitazione e creatore di una tradizione fortemente autonoma rende difficile la ricerca di moduli che prescindano dal novelliere boccacciano. Il primato decameroniano sussisterà almeno fino al Quattrocento, quando la cultura umanistica cerca nuovi modelli da affiancare (nient’affatto da sostituire) al Decameron1.

2 Il legame fra agiografia e novella, più volte postulato (il grande bacino della letteratura sacra è tradizionalmente considerato fra i serbatoi da cui i novellisti attingono materiale) e in qualche caso indagato con dovizia di prove a sostegno2, è ambito di ricerca che manca però finora di uno studio d’insieme. Esiste una letteratura di analisi acuta e circostanziata intorno ad aspetti della più vasta problematica del rapporto agiografia-novella, incentrata su singoli ambiti del macrogenere della letteratura sacra3 o su case studies emblematici 4. Molto è stato scritto (specie in anni recenti, ma sulla scorta delle pagine di Auerbach5) sulla componente narrativa della letteratura religiosa, presente fin dalle Scritture e che impronterà gli sviluppi del genere 6. Quel che non è

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stato fatto invece, ma la cui necessità si sente tanto più impellente dal momento che una filiazione fra generi agiografici e novella è ormai assodata, è tentare di avvicinare su un piano morfologico il problema del confluire nella novella di materiali allotropi, in particolare provenienti dalla letteratura religiosa7.

3 Proprio in considerazione di tale mancanza, quel che ho tentato di fare è presentare una tassonomia del ricorrere nel genere della novella di forme desunte dalla letteratura agiografica. La classificazione che propongo, e che vuole essere anche e soprattutto la proposta di un metodo di indagine che tenga conto delle specificità dei due generi (uno, quello agiografico, che assume a ben vedere le forme di un macrogenere), è accompagnata da un’esemplificazione senza pretese di esaustività.

4 La scelta di Boccaccio come campo principale di applicazione della tassonomia si basa su ragioni di cronologia ed è giustificata dal carattere esemplare che la raccolta di Boccaccio viene ad assumere in termini di prestigio, diffusione, tentativi di imitazione. Come già detto, dopo il Decameron sarà più difficile determinare quali elementi siano da considerarsi ripresi dai generi agiografici, e quali invece dalla matrice agiografica presente nel novelliere boccacciano8.

Si può considerare il rapporto fra novella e Storia sacra come un caso particolare del rapporto fra novella e Storia?9

5 La ricerca delle «radici storiche» della novella ha dato in qualche caso risultati soddisfacenti, mentre più spesso non è riuscita ad andare molto al di là degli elementi contestuali forniti dal testo10. Si può nondimeno affermare che la novella, in questo accomunata ad altri generi letterari caratterizzati da una certa matrice realistica, intrattenga uno stretto legame con la Storia.

6 A partire dal Decameron, «epopea mercantile» secondo la celebre definizione di Branca, la componente finzionale, sentita come celebrativa in questo caso, propria di ogni prodotto artistico, si innesta in un preciso contesto socio-economico e culturale, coincidente con la nascente struttura comunale e con la pratica di mercatura. Se la Storia contemporanea fa da sfondo a molte delle novelle boccacciane11, altrettante sono quelle ambientate nel passato, ma mai o quasi in un passato che resta indefinito e si perde nell’indeterminatezza in ragione della distanza cronologica12. Questo sarà fra l’altro un lascito decameroniano importante rispetto alla tradizione successiva del genere novella13.

7 A volte anzi la Storia nel Decameron funge da indispensabile impalcatura narrativa, dinamizzando la propria funzione di mero sfondo alle vicende oggetto della novella ed entrando essa stessa a pieno titolo nella narrazione. Ad esempio nella prima novella della raccolta, dove l’ingresso della Storia come memoria e tradizione consente, nella conclusione, uno scioglimento sorprendente in quanto (e qui ci interessa a maggior ragione): «[Il culto di san Ciappelletto] cancella la memoria storica collettiva e ne fabbrica immediatamente una agiografica»14. Già lo stratificarsi e l’avvicendarsi di una memoria agiografica a una memoria storica suggerisce un legame non aleatorio fra Storia e Storia sacra da un lato, agiografia dall’altro, tanto più che la percezione moderna di una prospettiva storica si trova spesso appiattita, specie nei secoli

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precedenti il Boccaccio, nelle categorie tipologiche che tendono ad assimilare la Storia alla Storia sacra.

8 Con il Decameron, ma già con le Croniche del Compagni e di Giovanni Villani, siamo tuttavia a un punto di svolta rispetto a tale assimilazione. Basti pensare – e con ciò avvicinandosi maggiormente all’oggetto specifico di questo paragrafo, ovvero il passaggio di categoria dalla Storia alla fabula – alla molto minore incidenza della Storia sacra come repertorio di argomenti per le novelle del Decameron, rispetto a quanto era avvenuto qualche decennio prima con il Novellino15. Anzi, l’unica novella boccacciana che presenti un soggetto biblico è la IX, 916, un caso che Salomone è chiamato a risolvere in virtù della proverbiale saggezza. Prendendo appunto come paradigma quest’ultima novella, si vede come nel Boccaccio17 ci si avvicini fra l’altro a quella sentita nel Medioevo come la forma naturale di passaggio dalla Storia (magistra vitae) alla storia, l’exemplum.

9 E la storia (l’aneddoto, la fabula, il Kasus per Jolles) costituisce il medium attraverso cui l’exemplum si riattiva e rifunzionalizza nel genere novella, con una parabola ascendente circa l’importanza della componente esemplare dal Boccaccio al Concilio di Trento18. La Storia stessa, seguendo tale parabola, diviene storia aneddotica (caso), in quanto investita da un’esigenza morale che, veicolandone la lettura in un’ottica assolutamente parziale e selettiva, la travolge in quanto Storia e la ripropone come “macro- exemplum”19. Un processo analogo a quello che coinvolge la Storia si verifica, contemporaneamente, per la storia, che si fa exemplum e, deideologizzandosi, novella.

10 Un’efficace illustrazione di questo movimento exemplum-novella è quello dell’antecedente della novella boccacciana di Tito e Gisippo (X, 8) nella Disciplina clericalis di Pietro Alfonso20. Il discorso del Tito boccacciano, che occupa il centro, ideale e non, della novella, è indice di una problematizzazione del personaggio che, assumendo statura autonoma e profilo ‘eroico’, si affranca dalla stilizzazione del carattere allegorico propria dell’exemplum21.

11 Jolles considera la novella come forma artistica corrispondente all’einfache Form del Kasus, che è analogo alle questioni d’amore medievali o, per riprendere gli esempi di Jolles, a un caso discusso in tribunale22. La controversia anzi, esercizio in cui si dovevano cimentare gli aspiranti oratori giudiziari, è fra le fonti riconosciute della novella, proprio passando da questa dinamica di soluzione del Kasus in un intreccio. Già nei Gesta Romanorum, raccolta di exempla dal carattere narrativo molto accentuato e fonte riconosciuta dei novellieri italiani, si può notare la presenza dei modelli delle Controversiae senecane 23. Dal thema delle esercitazioni deriverebbe in particolare la fabula, dallo sviluppo del thema l’intreccio.

12 La novella costituirebbe per Jolles il superamento del Kasus, laddove ne risolve l’anfibolia. Questa posizione ha però suscitato diverse perplessità, in particolare in merito al fatto che già l’exemplum, inteso come forma caratteristica della storia nell’accezione sopra chiarita, oltre che come antecedente della novella, supera l’ambiguità del caso proponendone una risoluzione chiara e moralmente fondata. Si può semmai dire il contrario, che la novella riproblematizzi la soluzione univoca di una questione fornita da un exemplum corrispondente24. La novella può dunque considerarsi il ponte fra exemplum (storia) e Storia, il che è sufficiente a chiarire la portata anche storiografica del materiale novellistico25.

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Agiografia e storia: primo punto di contatto con il genere della novella

13 Se la Storia è assimilata, dalla cultura precedente il Boccaccio, alla Storia sacra, una volta stabilito che esiste un legame fra Storia e novella ciò basterebbe a postulare un rapporto analogo fra la Storia sacra e la sua componente narrativa, ovvero la matrice storica della letteratura agiografica26.

14 Ogni volta poi che l’agiografia, come accade nella quasi totalità dei casi, ha pretese di veridicità, ecco che si richiama alla Storia, e non più soltanto alla Storia sacra. Ciò avviene sia in una prospettiva testimoniale, con il ricorrere di formule quali audivi, vidi, eccetera (il che è tipico in particolare dell’exemplum), sia attraverso un costante richiamo a vicende politiche o militari risalenti all’epoca dei fatti narrati, il che dà luogo fra l’altro a frequenti anacronismi, dovuti alla “smania” dell’agiografo di inserire nella narrazione quanti più elementi contestuali sia possibile. Questo scrupolo di storicizzare la narrazione risulta perfettamente compatibile con la tendenza, tutt’altro che infrequente specie nella patristica e nella letteratura cristiana dei primi secoli, a considerare ‘Storia’ solo gli avvenimenti, non importa quanto favolosi e inverosimili, della Storia sacra, assimilando a ‘favole’ tutto quanto, materiali letterari come storiografici, provenisse dalla cultura pagana. Sul piano della scrittura, la pretesa di veridicità accomuna lo storiografo e l’agiografo, come pure, almeno fino al basso Medioevo, un analogo richiamo allo scopo didascalico e/o dottrinale di cui l’attività dello scrittore risulta costantemente investita, abbia egli a che fare con materiali della Storia o della Storia sacra27.

15 Questo avvicinamento della Storia sacra alla Storia riceve un impulso decisivo a partire dalla seconda metà del VI secolo, con l’opera agiografica di Gregorio Magno, in particolare coi Dialogi. L’agiografia (esclusi gli Acta autentici, che sono trascrizioni di procedimenti giudiziari o ricostruzioni di poco successive) aveva infatti sempre trattato di fatti lontani o sentiti come tali, magari tentando nondimeno di presentarli come visti o sentiti raccontare allo scrivente da parte di persone che vi avevano assistito (in ossequio all’equazione antico quindi degno di fede). Con i Dialogi invece la contemporaneità fa irruzione nell’agiografia, accompagnata da un interesse per la storicità, che avvicina in maniera di lì in poi costante la Storia sacra alla storia28.

L’interesse per la storia, evoluzione nel sistema dei generi della letteratura sacra, come punto di contatto fra agiografia e novella. Il racconto agiografico

16 Il culto dei santi, secondo una serie di acquisizioni ormai assodate a partire almeno dai primi del Novecento, sarebbe nato dalla fusione di elementi propri al culto pagano degli eroi e a quello dei morti29. Restando tuttavia sul versante narrativo del culto, ovvero la narrativa agiografica, si può dire qualcosa di simile circa l’influsso della più sviluppata cultura pagana sulle forme narrative cristiane.

17 Un lascito non secondario del sistema letterario classico alla nascente agiografia, elemento fondamentale ai fini dell’analisi di un rapporto fra agiografia e novella, è infatti la componente narrativa che viene affermandosi con sempre maggior sicurezza

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allorché le vite dei santi possono considerarsi un genere letterario con una fisionomia riconoscibile. L’agiografia accoglie «motivi, intrecci, luoghi comuni del romanzo e della narrativa popolare [greca e latina]», non soltanto al fine di miscere utile dulci, ma da un certo punto in poi, si intuisce, in funzione meramente esornativa: «Proprio perché sottratta, grazie al suo valore edificante, al controllo della assoluta rispondenza alla realtà, l’agiografia può accogliere, a livelli diversi di verosimiglianza, motivi che rendano più accattivante e gradevole il racconto»30.

18 È interessante il fatto che la dimensione narrativa si affermi come componente caratteristica delle vite dei santi in un’ottica tradizionale, come perdurare di una memoria culturale: «l’agiografia […] rappresentava anche, nella sua forma più diffusa, quella narrativa, l’erede della novella»31. Per “novella” sono da intendersi probabilmente la fabula milesia e simili, ovvero quella vasta (ma ancora non ben definita dagli studiosi) costellazione di forme narrative brevi che si affiancano ai generi meglio codificati del sistema culturale classico.

19 Si può tentare una lettura platonico-aristotelica di quanto detto finora. Prendendo per adesso come dato acquisito32 che passio e vita siano i generi principali della letteratura agiografica, ai quali è possibile entro certi limiti ricondurre anche le altre forme di discorso non trattatistico sul sacro, considerandole come dei sottogeneri di passio e vita, riconosco nella mimesi il tratto dominante del primo tipo (che meno ci interessa), nella diegesi la caratteristica del secondo. La passio è infatti incentrata, nella sua forma minima, sul contrasto fra martire e autorità civili, mentre la vita su una trasformazione da uomo in dio, descritta come un processo (diegetico) oppure colta nell’atto del suo verificarsi33. E ciò può valere tanto in termini di modelli culturali forniti all’agiografia dalle letterature classiche, quanto in termini di continuità rispetto al successivo sviluppo delle forme letterarie medievali latine e romanze34. In questa ottica si può infatti meglio comprendere la considerazione di un lascito delle forme narrative greche e latine (e orientali) alla narrativa agiografica.

20 Ho parlato però di dominanti, di tratti che non esauriscono le componenti delle due forme della passio e della vita, e di generi all’interno dei quali si possono ascrivere le altre forme della letteratura agiografica, in particolare acta (storici), lettere, dialogi, miracula, visiones, inventiones, translationes35. Le quali però, ammesso che non assurgano allo statuto di generi a sé stanti nell’ambito del sistema agiografico, mantengono nondimeno una serie di specificità tali da caratterizzarne il successivo sviluppo36.

21 Ho dovuto inoltre astrarre le due forme dal contesto in cui si sono formate, applicando anche una forzatura cronologica. È infatti dal IV secolo circa che la forma della vita inizia a specializzarsi rispetto a quella della passio, assumendo subito i caratteri di un genere letterario misto, che presenta caratteristiche derivate dalla biografia svetoniana e dal panegirico, con la presenza costante di una lezione morale37.

22 Infine è evidente come, ogni volta che forme letterarie agiografiche vogliono essere qualcosa di più rispetto alla mera trascrizione di atti processuali38, una certa componente narrativa sia imprescindibile, anche qualora si tratti di passiones. La passio è infatti interpretabile anche come estremizzazione della forma della vita in cui la trasformazione dell’uomo in dio viene colta nel momento del suo verificarsi. È una vita della quale si narra, inizialmente, soltanto la fine, il martirio, inteso però come il passaggio a una nuova e superiore forma di esistenza. Questa enfasi sulla morte del martire viene espressa dilazionandola, articolandone sempre più il decorso, da cui lo schema tipico di una passio complessa risulta il seguente: «Généralités sur la

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persécution, introduction du héros, arrestation, interrogatoire, refus de sacrifier, tortures, renvoi en prison, vision céleste, nouvel interrogatoire, nouvelles tortures, nouveau séjour en prison […]»39. Come si vede si è già in presenza di un intreccio, la cui matrice narrativa si apre a sviluppi indefiniti quando la passio diventa vita ante martyrium, mantenendo l’enfasi sulla morte e sulle fasi che portano a essa, ma anteponendovi un breve profilo biografico del martire, all’interno del quale trovano da subito spazio aneddoti modulati sulle parabole evangeliche e sugli Atti degli apostoli. Nasce così la vita, la legenda, il récit agiografico, inizialmente destinata a concludere i sermones de sanctis, pronunciati in occasione della festa del santo in questione. Dapprima in ambito popolare, poi via via in maniera sempre più diffusa, la legenda (il principale degli elementi narrativi dislocati nella struttura dimostrativa del sermone a scopo di variatio e di edificazione) tende a prendere il sopravvento e a diventare autonoma. Le prediche ad status destinate a un uditorio meno colto consistono spesso soltanto della legenda, limitando la parte dottrinale del sermone all’insegnamento che si può desumere dal récit agiografico40.

23 Dalla crescente importanza della componente aneddotica delle vitae ante martyrium e dalla tradizione classica dei memorabilia prende le mosse l’exemplum agiografico 41, la narrazione autonoma rispetto alla quale la vita costituisce una cornice assai labile, riducendosi spesso a uno scheletro che non conosce evoluzione né durata, solo successione di aneddoti che la rendano esemplare42. Quando poi la cultura popolare entra in gioco nelle dinamiche di produzione e trasmissione degli aneddoti, l’exemplum diventa una novella appena tinta di motivi religiosi, con l’apertura di spazi al comico e al grottesco e lo sviluppo di una componente presente ab origine nell’agiografia non storica, quella del meraviglioso43.

24 Delehaye introduce una classificazione delle passiones in base al prevalere dell’elemento storico (passions historiques), encomiastico (panégyriques), eroico o meraviglioso (passions épiques e romantiques)44. Vista la stretta relazione che la passio intrattiene con la vita, tale classificazione può essere utilmente estesa al récit agiografico. Lo studioso riconosce per ciascuna delle categorie individuate una serie di antecedenti e caratteristiche.

25 Così gli Acta o passions historiques, il cui tratto caratterizzante è il risalto del rigore morale con cui il personaggio affronta la morte piuttosto che abdicare ai propri principi, conoscono gli influssi delle vite di filosofi raccolte da Diogene Laerzio e del genere già imperiale dell’Exitus illustrium virorum45.

26 Finita l’epoca delle persecuzioni, si diffonde il genere del panegirico dei martiri, pronunciato in occasione della loro commemorazione. L’omiletica costituisce una nuova branca dell’oratoria epidittica, che subisce l’influenza della retorica pagana e della sofistica in particolare46. Il panegirico è caratterizzato dall’importanza dell’ornatus, con un’attenzione particolare alla mise en abîme come tecnica d’amplificazione47 e al motto 48, elemento destinato a una straordinaria fortuna nel genere della novella, fino a diventare, dal Quattrocento, un sottogenere fortemente indipendente. Questa forma della passio, che ormai può pienamente considerarsi narrazione di una vita, si situa tra il documento storico e l’opera d’invenzione, con ancora però scarso rilievo dell’elemento meraviglioso49. Oltre che all’amplificatio, il panegirico (e questo è un altro elemento utile a chiarire il lascito dei generi agiografici alla novella) tende alla creazione di un personaggio-tipo, mostrando la tendenza a ricondurre il luogo comune all’universale50.

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27 Panegirici e passioni epiche, oltre alle raccolte di miracoli, sono anzi il luogo proprio dell’amplificatio51, per il loro più spiccato carattere di esercizi retorici rispetto per esempio agli Acta e alle prime passiones, oltre che per l’atteggiamento di maggiore apertura che gli autori assumono nei confronti dell’eredità e dei modelli pagani52.

28 Le passions épiques si diffondono dalla fine del IV secolo, con una particolare fioritura tra V e VI53. Questi récits de martyre sono spesso narrazioni anonime, probabilmente prodotti seriali dato il ricorrere straordinario di topoi (anche in ragione della distanza che inizia a sussistere coi fatti narrati): « Lors même, ce qui est rare, que l’auteur rapporte des événements proches et dont il a eu personnellement connaissance, il procède à une mise en forme pathétique selon un modèle plus ou moins stéréotypé»54. La forma è influenzata dal panegirico, ma la differenza è che «le récit se donne pour de l’histoire»55. Il martire vi appare (e questa è la ragione in base alla quale sono definibili passions épiques) con caratteri simili a quelli dell’eroe epico, fondatore di una nazione: Le martyre n’est plus l’homme sujet à toutes les faiblesses, qui souffre lamentablement dans sa chair, tandis que son âme reste inébranlablement attachée à sa foi. C’est un être surhumain qui dispose à son gré de la force et de la faveur divine. Ce mortel qui, avant même d’avoir consommé son sacrifice, est entré dans la gloire, c’est, dans les proportions grandies, le héros d’épopée. […] C’est pourquoi on le fera parler longuement et avec autorité, on prolongera ses supplices, on multipliera les interventions surnaturelles56.

29 Questo ulteriore sviluppo della retorica del martire, del «potere della parola» per riprendere quello che Giorgio Barberi Squarotti considera uno dei tratti salienti del Decameron57, si nota in particolare nella replica alle accuse, nelle esposizioni di dottrina e nelle preghiere58. A ciò, e a una nuova importanza accordata ai personaggi (ancora sotto forma di tipi) che fanno da cornice al martire59, si accompagna appunto l’introduzione di una componente meravigliosa sempre più accentuata60.

30 Questi elementi si ritrovano in un’ulteriore specializzazione del genere epico, quello delle passions romantiques61. Caratterizzate, come già le passioni epiche, da una noncuranza pressoché totale nei confronti della cronologia62, le passioni romanzesche sono imparentate con il romanzo d’avventure ellenistico63, la letteratura indiana, il romanzo idillico e quello didattico, poi allegorico64.

31 Due esempi particolarmente significativi di opere agiografiche derivate dal romanzo greco e dalla letteratura orientale65 sono rispettivamente le legendae di sant’Eustachio (Legenda aurea, CLXI)66 e dei santi Barlaam e Josaphat ( Legenda aurea, CLXXX). Quest’ultimo caso è ben noto, ma vale la pena di ricordarlo brevemente, se non altro perché un episodio dalla Vita di Barlaam e Josaphat fornirà al Boccaccio l’occasione di una particolarissima riscrittura, che avrà come esito la «novelletta delle papere» dall’Introduzione alla IV giornata del Decameron: si tratta di una vita sanscrita del Buddha del VI sec.67, che si diffonde in Europa come biografia di un santo cristiano, Josaphat appunto68.

32 Della fortuna decameroniana di alcune delle forme e dei motivi di cui si è data una sommaria descrizione parlerò nella seconda parte. Vorrei quindi concludere questo paragrafo in maniera speculare a come l’ho iniziato, tornando al sistema dei lasciti, non più della letteratura precristiana all’agiografia, ma delle forme ‘epiche’ delle vite di santi alla cultura cortese-cavalleresca, ricordando la creazione più originale delle vite epiche, quella dell’eroe cristiano, il paladino. Il cavaliere cristiano infatti, figura che si affaccia in letteratura fra XI e XII secolo, si presenta come fusione di santo ed eroe,

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rappresentando in questo senso un esempio di appropriazione agiografica di un’area culturale profana, con una ricaduta sulla stessa letteratura profana69. È perfettamente ragionevole in quest’ottica che Orderico Vitale, attivo a cavallo fra i due secoli, assimili nella predicazione Rolando ai santi militari70.

33 Il processo che ha portato a tali contaminazioni si è probabilmente iniziato già con la rinascita carolingia, quando si delinea «l’ipotesi di una scrittura sacra onnicomprensiva, capace di funzionare quale modello testuale universale, e che rinviene nelle strutture agiografiche la sua base formale»71.

I generi letterari, con particolare riferimento alla novella e alle analogie con l’agiografia. Un excursus

Toute œuvre littéraire appartient à un genre72.

34 Se, come chiarito nei primi paragrafi, ogni rapporto di intertestualità rinvia un testo a un contesto, e la matrice storica di una storia rinvia alla Storia, le marche di genere di un testo rinvieranno a un sistema di generi. Pensando però al genere novella, le cose si complicano73. Non a caso la novella è stata a lungo assente dalle poetiche descrittivo- prescrittive rinascimentali. La prima è la Lezione sopra il comporre delle novelle, esposta da Francesco Bonciani all’Accademia degli Alterati nel 157474. La poetica di marca aristotelica del Bonciani riduce in pratica la novella alla beffa, e la mette in relazione con quelli che sarebbero, nel sistema aristotelico, i caratteri della commedia, sancendone il divorzio da tragedia ed epos (il che sarà una costante delle considerazioni successive in merito alla novella), ma anche dall’exemplum.

35 In clima controriformistico, anche la beffa tende a moralizzarsi, avvicinandosi all’esempio. Bragantini identifica anzi la reductio ad exemplum come una delle caratteristiche della novellistica cinquecentesca, già pretridentina75.

36 Il modello de optimo genere scribendi novelle a cui il Bonciani si rifà è ovviamente il Boccaccio, e la Lezione risulta quindi un improbabile tentativo di sposare boccaccismo e aristotelismo rinascimentale. Il che però solleva una questione importante circa la tradizione del genere della novella all’epoca in cui scrive il Bonciani, ma anche prima, all’indomani dell’uscita del Decameron. Con la novella medievale siamo infatti in presenza di un genere dalla tradizione relativamente breve, ma che in pratica ha inizio con quello che rimarrà il modello principale di tale tradizione, un archetipo al quale i successori possono scegliere di rifarsi o meno, ma del quale non possono non tenere conto. I continuatori del Boccaccio si sono per lo più schierati dalla parte della trasgressione e non da quella della norma, tentando con i loro novellieri di mostrare la fallibilità di quel grande e scomodo archetipo76.

37 Di qui l’esigenza, più volte riconosciuta, di storicizzare i generi letterari77, in particolare un genere come la novella, che rischierebbe altrimenti di essere catalogato come una congerie di elementi ripresi ex abrupto da altri generi. Anzi è importante considerare che «la novella […] in quanto forma letteraria [è] perciò dotata d’una sua particolare tradizione e segnata da speciali esigenze d’ordine storico, morale, stilistico», e che «ha la stessa vita dell’epica, della lirica, del teatro e d’ogni altra forma letteraria»78.

38 Non intendo soffermarmi su quelli che sono stati individuati come i caratteri del genere letterario della novella. Alcuni di essi, quelli di più vicina attinenza agiografica, emergeranno più avanti. Mi interessa invece mostrare la prospettiva secondo la quale

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intendo considerare la novella, ovvero come un genere letterario, pertanto inserita nel sistema dei generi letterari, che deriva la propria forma da una tradizione, quella della narrativa breve antica e soprattutto medievale, e ha uno sviluppo che dal Boccaccio continua ancor oggi. È all’interno della tradizione che va considerato il rapporto fra la novella e gli altri generi. Quello che si considera qui è un caso particolare di tale rapporto, quello fra novella e agiografia.

39 Ritengo che i metodi più proficui ai fini della dimostrazione dell’esistenza della novella come genere siano stati quello contrastivo proposto da Segre e Bragantini79, e quello della «comparaison sélective» impiegato da Neuschäfer80, che ha inoltre il vantaggio di partire da una base contrastiva per poi individuare una serie di caratteri specifici del genere, non solo ex negativo.

40 Riguardo invece al sistema dei generi di cui la novella fa parte, dal punto di vista di una tradizione nel senso sopra chiarito, in particolare quella delle forme narrative brevi medievali da cui deriva e al quale dalla fine del XIII secolo va ascritta a pieno titolo, essa si caratterizza come una forma particolare di discorso: quel que soit le fondement traditionnel (folklorique, ou «littéraire» et «savant») des thèmes exposés, il existe un discours narratif perçu comme original, par opposition soit à ses antécédents (conte populaire ou anecdote latine), soit à d’autres discours narratifs81.

41 La novella è una forma breve. Questo non è soltanto un truismo, in quanto «[la brièveté] constitue un modèle formalisant»82. Zumthor individua cinque caratteri nella novella come forma discorsiva specifica83. Tali caratteri, che la riconducono alle altre forme brevi della letteratura medievale, sono strettamente connessi alla brevità, che, tautologicamente, ne costituisce un primo e fondamentale tratto. Gli altri sono: unità nell’avvenimento narrato84; compiutezza, fine assoluta85, non apertura della forma; andamento circolare (che costituisce un corollario del punto precendente); esplicitazione del significato morale86.

42 Una lettura di questo tipo non tiene conto di una nozione concorrenziale del genere della novella, che parte dall’etimologia del termine ‘novella’ come notizia, novità87. Sembra infatti più pertinente, ai fini della considerazione di un rapporto fra Decameron e generi agiografici, chiarire come la novella si inserisce in una tradizione. Questa tradizione, quella dell’abbreviatio, che caratterizza per intenderci l’exemplum, è riconosciuta già nella Poetria nova di Geoffrey de Vinsauf, che scrive nella prima metà del Duecento, come in costante tensione con un’opposta tendenza all’amplificatio, parimenti attiva nella cultura medievale, e che darà esiti straordinari quali il roman.

Decameron e Legenda aurea

43 Quella fra abbreviatio e amplificatio è fra l’altro una polarità valida anche per l’agiografia. I leggendari che iniziano a diffondersi dal IX secolo (legendae novae) contengono vite di santi rimaneggiate e abbreviate, a uso dei predicatori e di letture liturgiche. I grandi modelli del genere sono le raccolte di Jean de Mailly e Bartolomeo da Trento, su cui si basa il più diffuso di questi leggendari abbreviati, la Legenda aurea di Iacopo da Varazze (attorno alla metà del Duecento, quindi contemporanea o di poco precedente al volgarizzamento delle Vitae Patrum a opera del Cavalca, che il Boccaccio ha probabilmente letto).

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44 Diversi caratteri accomunano la Legenda aurea al Decameron. L’inquadramento dottrinale che regge la costruzione del leggendario per circulum anni di Iacopo da Varazze ha, nell’economia delle vitae, un ruolo analogo a quello che ha la cornice del novelliere boccacciano rispetto alle singole novelle, che in mancanza della cornice sarebbero in primo luogo meno coese a livello macrotestuale, ma soprattutto prive della chiave di lettura “dottrinale” (in senso ovviamente laico) fornita dai commenti dei novellatori. Iacopo e Boccaccio hanno inoltre, con una consapevolezza autoriale molto diversa, una maniera simile di trattare i materiali derivati dalla tradizione. Allo spazio che Iacopo dedica alla religione e alla cultura precristiane, oltre che a episodi apocrifi, corrisponde la maniera che il Boccaccio ha di contaminare diverse fonti, facendole reagire con effetti comici o sorprendenti. Anche Iacopo contamina le fonti (o, come sostengono diversi dei lettori della Legenda aurea, fa confusione), sovrappone modelli e figure diverse, come nel celebre caso di san Giorgio martire identificato con san Giorgio sauroctono, o degli omonimi Giuliani di cui mischia le tracce, narrando la vita dell’Apostata «non quidem sanctus sed sceleratissimus» accanto a quelle di altri quattro santi di nome Giuliano.

45 Confusioni o contaminationes, a seconda del grado di autocoscienza che si vuole accordare ai due autori, non sono tuttavia soltanto una maniera particolare di manipolare la tradizione, ma derivano anche dalla modalità di trasmissione, oltre che da quella della raccolta del materiale in cui l’agiografo e lo scrittore di novelle si trovano coinvolti. Da quanto detto finora emerge infatti che praticamente tutto può entrare a far parte di una narrazione agiografica o di una novella, essendo queste costituite di aneddoti, e trovandosi aneddoti ovunque, nella vita come nella letteratura88. Carattere poi particolare dell’aneddoto, connesso alla componente di oralità, facile trasmissibilità, ampia diffusione che lo contraddistingue, è la tendenza a essere snaturato mano a mano che gli intermediari si differenziano e si stratificano89, fino al punto che nomina nuda tenemus. Analoghe modalità di trasmissione accomunano la storia sacra e il conte90, e problemi simili si presentano a chi raccoglie e tenta di ordinare materiale tanto eterogeneo. Exemplum e novella L’exemplum et la legenda se distinguent mal l’un de l’autre. Le premier remonte à quelque pratique oratoire antique, et nous est connu spécialement en qualité d’ornement prédicatoire ou démonstratif. L’importance historique dut en être considérable et sans doute l’exemplum constitua-t-il la matrice principale de la « nouvelle »91.

46 Un breve discorso a sé va fatto sul rapporto fra exemplum e novella. Più volte si è accennato all’exemplum come a una delle forme caratteristiche della letteratura agiografica, e lo considererò anche fra le forme che passano dall’agiografia alla novella. Si tratta del campo della letteratura sacra meglio studiato nei suoi rapporti con la novella92. Molte sono le novelle che anzi non si distaccano radicalmente dalla forma dell’exemplum, tanto che alcuni tentativi di classificazione della novella annoverano fra le categorie la novella-exemplum93.

47 Le componenti riconoscibili nell’exemplum già classico sono due, e in costante tensione fra loro, il che rende l’exemplum forse il più complesso dei generi narrativi brevi fra Antichità e Medioevo. Si tratta della componente ideale, della tendenza all’universalità e alla tipicità da un lato, del realismo dall’altro94. Tale coesistenza è resa possibile dalla natura duplice dell’exemplum, che «è una lezione del passato, è un accadimento registrato dall’esperienza e affidato alla memoria delle generazioni, che vale appunto

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come paradigma del reale e può sempre proiettarsi nell’avvenire», «un panorama di fatti, miti, esperienze, immaginazioni, e, d’altra parte, il loro elevamento a testimonianza esemplare e paradigmatica»95. Come già accennato, è infatti l’exemplum (assieme al fabliau) a introdurre, ai primi del Duecento, la contemporaneità fra gli argomenti di interesse per la letteratura agiografica96.

48 Genere di derivazione classica (penso in particolare a Valerio Massimo) preso a prestito dall’agiografia, l’exemplum si sviluppa in un primo tempo come parte integrante della vita di santo, per poi progressivamente svincolarsene diventando un genere autonomo e repertoriato in apposite summae. Queste summae exemplorum conoscono la massima diffusione fra Due e Quattrocento97. Si tratta di manuali di récits ad usum praedicatorum, dai quali attingere aneddoti da inserire nel discorso religioso, nella prospettiva di una variatio che veicoli in maniera più diretta la morale98.

49 A partire quindi da Jacques de Vitry e Honoré d’Autun, l’exemplum entra nella predicazione, affiancandosi dapprima a doctrina e auctoritates, quindi progressivamente soppiantando in particolare la componente dottrinale. Jacques de Vitry introduce l’exemplum nella predicazione proprio a favore dei laici 99, e questo elemento sarà non privo di importanza nell’ottica di un passaggio dall’exemplum alla novella. È infatti con gli ordini mendicanti che cresce l’importanza dell’exemplum nei sermoni e si diffondono i repertori di exempla; il francescanesimo in particolare contribuisce al superamento della dicotomia, fino ad allora imperante, fra clericus laico e non, e più in generale fra sacro e profano. Nel corso del XIII secolo, l’exemplum si svincola quasi del tutto dalla predicazione. Si diffonde il raggruppamento degli exempla su base tematica, come nel caso di Cesario di Heisterbach, la ripartizione in vizi e virtù, o del domenicano Etienne de Bourbon, che suddivide il proprio materiale esemplare in base ai sette doni dello spirito santo.

50 Le cose cambieranno con l’avvento della temperie tridentina (ma è un periodo che non ci riguarda più, quindi basti un accenno). Fra il XVI e il XVII secolo infatti100, diversi concili si espressero contro l’uso di ridiculae et aniles fabulae all’interno dei sermones, sancendo in pratica il divorzio dell’exemplum dalla predicazione, quando però l’exemplum ha già trovato nella novella un efficacissimo canale per amplificare la propria diffusione101.

51 Dal punto di vista discorsivo, l’exemplum è un récit, elemento narrativo del sermone, nell’ambito del quale introduce una componente dialogica. L’exemplum ha dunque una funzione pragmatica, nella cui ottica vanno visti i richiami alla verità o alla verosimiglianza102, di nuovo in una prospettiva in cui reale e universale tentano di fondersi. L’importanza, in termini jakobsoniani, dell’emittente e del canale, e l’esigenza di un’agevole memorizzabilità fanno sì che nell’exemplum medievale l’intreccio prevalga sulla fabula e sulla caratterizzazione dei personaggi. L’exemplum funge da conferma di un principio morale precedentemente enunciato o chiaramente desumibile dalla storia, perciò il narratore esclude l’inessenziale, ciò che non concerne strettamente la morale che intende dimostrare103. È appunto questa visione unilaterale a differenziare l’exemplum dal Kasus analizzato da Jolles 104. La verosimiglianza è importante in particolare per quella categoria di exempla che Bremond ha definito sineddotici, al cui interno agisce il principio in base al quale un caso, che necessita quindi di verosimiglianza, illustra un principio generale. Negli exempla che lo studioso definisce, a partire dalla struttura che li caratterizza, metaforici, prevale invece la componente ideale, in quanto la loro efficacia è valida per analogia105.

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52 È dunque nel corso del Trecento che la forma finora descritta nella sua storia e caratteristiche, l’exemplum, si affranca dalla predicazione, che fino ad allora era stata il suo canale di diffusione. La secolarizzazione dell’exemplum (che così diventa, in pratica, exemplum-novella106) avviene anche per influenza della crescente popolarità della narrativa laica107. Possiamo dire (gli esempi di analisi dal Decameron chiariranno meglio la questione) che se una novella riprende un exemplum, ne accentua la componente dialogica108. Auerbach distingue l’exemplum dalla novella in quanto la novella dà importanza precipua a un evento, mentre nell’exemplum occidentale l’importanza dell’evento è del tutto secondaria109. Altri studiosi riconoscono invece una profonda alterità tra le forme dell’exemplum e della novella, tanto da considerarle sostanzialmente irriducibili o quasi l’uno all’altra110. Anche dal punto di vista della morale veicolata l’exemplum subisce, laicizzandosi, un’evoluzione che già prelude agli esiti della novella.

Il Decameron e le forme dell’agiografia. Premessa

53 Parlare di forme e non di fonti è una maniera anzitutto più umile e meno deterministica di ricondurre un motivo ai suoi antecedenti, in quanto nel parlare di fonti c’è sempre una certa componente di rischio: «Senza negare che esistono i cosiddetti soggetti vaganti, dobbiamo ricordare che i racconti che coincidono nella loro trama non sempre sono collegati nella derivazione e possono avere un diverso valore espressivo»111.

54 Non mi soffermerò sulla religione o sulla “superstizione” del Boccaccio, su cui pure ci sarebbe ancora molto da scrivere112. Né sulla trasposizione boccacciana di episodi della Storia sacra, seppure trovare gli antecedenti scritturali o agiografici di alcune novelle del Decameron (penso al modello della novella del conte d’Anguersa, probabilmente da riconoscersi, non è facile chiarire con quale rapporto di dipendenza, nella storia di Giuseppe e i suoi fratelli in Genesi, 37 ss., o alla patientia di Giobbe nella novella di Griselda113) getterebbe chiaramente nuova luce sull’atteggiamento che il Boccaccio assume nei confronti di materiali più o meno rielaborati, oltre a chiarire le ragioni della fortuna di determinati temi.

55 Vorrei lavorare attorno al concetto di forma agiografica, per vedere come le forme, molto più evanescenti dei testi, passino dall’ambito agiografico a quello spesso più che profano del Decameron, mantenendo talvolta tracce evidenti della loro origine, talaltra camuffandosi e subendo radicali ricontestualizzazioni. Come già detto nell’introduzione, intendo proporre una tassonomia delle forme agiografiche che è possibile riconoscere nel Decameron, analizzando per ciascuna i tratti caratteristici, sempre nell’ottica della continuità di una tradizione che vede nel Boccaccio un punto di snodo non trascurabile.

56 Ho riconosciuto principalmente tre tipi di forme agiografiche che agiscono nelle novelle del Decameron: si tratta di forme narrative (confessione, exemplum, martirio, miracolo, visio), di forme del discorso (di nuovo, entro certi limiti, l’exemplum, ma in particolare, orazione, predica, comico), di forme linguistiche (il motto). La confessione, l’exemplum e il martirio sono quelle principali, nel senso che presentano antecedenti agiografici più forti e vengono sottoposte a un analogo trattamento da parte del Boccaccio. Vi dedicherò dunque più attenzione. Per quanto riguarda le altre, ne

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mostrerò alcune riprese boccacciane, ferma restando la loro minore attinenza ai fini della dimostrazione dell’assunto.

57 Le forme infatti non sono la stessa cosa dei temi, ragion per la quale, avendo inizialmente pensato di introdurre una categoria in più, quella delle reliquie (uno dei motivi agiografici più diffusi), ho deciso in un secondo tempo di stralciarla, perché si tratta di qualcosa di diverso rispetto alle altre forme. Il tema delle reliquie infatti, seppure più strettamente imparentato con il sottogenere agiografico del miraculum, ricorre ogni qualvolta un testo (e ciò accade di frequente) tratti della dimensione fisica, oggettuale della santità.

58 Alcune novelle rientrano in più di una categoria, perciò ne tratto più approfonditamente nell’ambito della forma che mi sembra dominante, e mi limito ad accennarvi altrove. Per ciascuna delle forme considerate analizzerò in dettaglio una o due novelle, ricordando più in breve altri casi in cui la stessa forma ricorre nel Decameron.

Forme

Confessione

59 Una delle forme del religioso più frequenti nel Decameron è quella della confessione. Si tratta di una forma liturgica, di una pratica, che diventa forma narrativa dalle vitae dei santi (tradizionalmente distinti in martiri e confessori) ed è destinata, a seguito del Boccaccio, a una certa fortuna in area culturale italiana, non soltanto nella novellistica114.

60 La più famosa delle confessioni decameroniane è quella di ser Ciappelletto (I, 1)115, sicuramente non a caso collocata in limine al novelliere. Come già il Proemio, la prima novella del Decameron inizia nel nome di Dio e delle donne. Connubio tipicamente boccaccesco, assimilazione irriverente come in numerosi altri episodi, in cornice e non, del novelliere boccacciano, con in più, nel Proemio e nell’introduzione di Panfilo alla novella di Ciappelletto, un’invocazione che sa di politeismo. In una maniera simile Boccaccio, nell’apologia-introduzione alla quarta giornata, divinizza le donne, sostituendole alle tradizionali Muse, delle quali egli anzi non esita a prendersi gioco.

61 Le parole di Panfilo sembrano preludere a una narrazione agiografica; pare di stare per leggere un racconto dei santi, la cui efficacia come mediatori e latori della grazia divina è esplicitata. Narrando della canonizzazione di Ciappelletto, Boccaccio non mette in discussione la funzione tradizionalmente attribuita ai santi, di intermediari fra il piano umano e quello divino, anzi ribadisce l’efficacia di tale intercessione. Il punto è un altro: «il narratore ci suggerisce […] che Dio, senza curarsi dell’insufficienza di chi prega, fa caso solo alle preghiere, senza tener in conto gli errori che esse contengono, e non solo il sacerdote, ma anche il santo possono essere degli immorali e perfino dei malfattori»116.

62 Resta saldo, insomma, il valore dell’efficacia dell’orazione rivolta ai santi, ma crolla tutto il resto. Crollano i santi, anzitutto, sembra crollare anche Dio117, e tutto ciò accade in limine, come un crollo sociale (la peste) ha dato inizio alla narrazione di secondo grado, la cornice. In questo caso però è diverso, in quanto messi in discussione sono il

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divino e il divinizzato (il santo), mentre l’unica certezza è affidata all’umano, all’orazione118.

63 O meglio (e qui si vede bene come la novella non comporti la soluzione del Kasus), Boccaccio-Panfilo invita il lettore a scegliere se credere che il falso santo Ciappelletto, beffato anche Dio, faccia veri miracoli119 – il che viene affermato in forma dubitativa, con un dicitur (I, 1, 88), oppure che il peccatore si sia pentito in punto di morte: Così adunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio esser possibile lui esser beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in su lo stremo aver sì fatta contrizione, che per aventura Idio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette: ma per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso (I, 1, 89).

64 È possibile una terza lettura, agnostica, del passo in questione e di quello immediatamente precedente, in cui il narratore accenna ai miracoli di san Ciappelletto, ai pellegrinaggi di cui la sua tomba era oggetto, agli ex voto. Fatto è che Panfilo sospende il giudizio, dopo aver suggerito che forse l’elemento umano (l’orazione, il voto) mantiene la propria importanza come gesto, indipendentemente dalla reale efficacia del voto e della richiesta di intercessione120. E non importa quanto il santo (o i santi121, i confessori) siano indegni.

65 Se il dogma della comunione dei santi vacilla122, sono l’eloquenza, l’ingegno di un uomo a farlo vacillare, mediante l’appropriazione di una delle forme agiografiche più diffuse, quella della confessione. Tale appropriazione avviene ai danni di chi dovrebbe essere il detentore dell’eloquenza sacra, «un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione avevano»123. La sfida intellettuale che consiste nel battere il frate sul proprio terreno è stata letta anche come la prima e una delle più efficaci beffe del Decameron124, e non sembra una lettura forzata.

66 Sono tuttavia in gioco una serie di parallelismi tra Ciappelletto, “procuratore” e “mezzano” in vita, e san Ciappelletto, “mediatore” degli uomini presso Dio. Il che presuppone due côtés, uno legale e uno osceno, dell’intercessione uomo-Dio125. Ma Ciappelletto agisce “per amore del prossimo”, per vincere una suprema sfida intellettuale per lui falsario, consistente nel falsificare una confessione, o perché commettere l’ennesimo sgarbo a Dio in fondo poco gli costerebbe126?

67 Ovviamente l’accento può essere posto sulle qualità di Ciappelletto ottimo parlatore e infingitore127, oppure sulla dabbenaggine del «santo frate» confessore, che confessa sé e tutta la sua classe, inadempiente le regole che si è data o le sono state date, violando fra l’altro la regola del segreto confessionale128. La confessione del peccatore per antonomasia Ciappelletto è perfettamente verisimile a chi non legga gli antefatti, si potrebbe anzi sospettarne la non veridicità in ragione della troppa perfezione, che “suona falsa”. Può sembrare, anzi, un tentativo di auto-agiografia, un «autoritratto parenetico»129 che pare stucchevole come molti exempla. Se invece si considera la presentazione che il narratore fa di Ciappelletto, la novella resta un exemplum, ma di segno negativo, e la confessione sacrilega del notaio diventa il rovesciamento delle «buone morti»130, dei sereni trapassi di chi è in odore di santità.

68 Questa profonda scissione fra come il personaggio è (ovvero come viene descritto dalla voce che rappresenta l’onniscienza) e come vuole apparire, si ripercuote sul valore da

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attribuire alla confessione di Ciappelletto. Che si presenta come il capovolgimento del sacramento, in quanto a essere confessati sono comportamenti innocenti o quasi, caricati però di tutti gli scrupoli, i sudori freddi e le reticenze con cui un frate Puccio confesserebbe in punto di morte i più gravi crimini.

69 Un primo capovolgimento, e una vera confessione, aveva già avuto luogo nel ritratto del personaggio131, che, come una professione di fede, espone i principi in base ai quali Ciappelletto regola la propria condotta. Tale ritratto, letto in termini forse troppo religiosi, può rappresentare anche una sorta di etero-confessione, una confessione- denuncia dei peccati altrui. Se non che il ritratto è strettamente funzionale al decorso della novella, in quanto offre una pista di lettura per la successiva confessione. Lettura tuttavia non univoca, in quanto partendo dall’iniziale ritratto e considerandolo una professione di fede e non una denuncia, si arriva alla sorprendente individuazione della «paradossale sincerità»132 della confessione di Ciappelletto di fronte al frate. Nell’ottica in cui il personaggio viene presentato, ovvero nell’ottica di chi fa solo e soltanto il male, per il puro piacere di farlo, quelli che il morente si trova a confessare sono in effetti peccati nell’accezione cattolica del termine, ovvero violazioni rispetto a una norma di vita che si sceglie di seguire.

70 Questo sdoppiamento della forma della confessione avviene per mezzo di un’altra delle forme agiografiche che qui andrebbero considerate: la parola, in particolare la forma discorsiva dell’eloquenza sacra. Ciappelletto se ne serve con tale perizia, appropriandosi delle movenze di questo genere discorsivo di cui il religioso dovrebbe detenere l’appannaggio, in virtù del fatto che «la retorica religiosa, non meno di ogni altra retorica, può essere proprietà di chiunque, anche di chi, come ser Ciappelletto, è forse il peggior uomo che mai sia nato», e «la parola religiosa […] è non meno equivoca di ogni altra parola»133.

71 Il frate, uso a dare per scontata la buona fede del peccatore che si confessa in punto di morte, nonché totalmente immerso in questo tipo di discorso di cui si ritiene il detentore, non può accorgersi che il peccatore usa, nel confessarsi, gli artifici della retorica sacra, la stessa retorica del confessore134. Quel che però può intuire solo una lettura che rischia di essere una troppo azzardata psicanalisi del personaggio, è la paradossale genuinità, nell’ottica di Ciappelletto come emerge dal ritratto iniziale, della falsa confessione. Quelli che sono peccati per il finto Ciappelletto, la cui fede rasenta e oltrepassa il fanatismo, e tali non sono per il «santo frate» né per la categoria sociale cui costui appartiene, tornano a essere peccati per il vero Ciappelletto, il peggiore uomo che mai sia vissuto.

72 Secondo questa lettura, la canonizzazione che conclude la novella ha perfettamente senso, in quanto il morente ha confessato i propri peccati. La canonizzazione costituisce però al contempo l’ultimo rovesciamento della novella. Il campione del male Ciappelletto sarà infatti oggetto di quel culto al quale si era sempre fatto vanto di non credere135, diverrà un santo, restando imprigionato negli effetti, fin troppo efficaci, della sua appropriazione della retorica sacra e della forma della confessione136.

73 Ci sono altre due confessioni interessanti nel Decameron, che sostanzialmente confermano quanto detto finora. Si tratta di un altro inganno ai danni di un «santo frate» (III, 3)137, e della versione boccacciana di un diffuso motivo narrativo, quello del marito confessore (VII, 5)138. In entrambi i casi, analogamente a quanto avviene con Ciappelletto, la confessione svela il proprio carattere di forma, diventando il luogo della dissimulazione. Così Ciappelletto “mente” al «santo frate» (nel senso sopra chiarito),

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come la donna di III, 3139 usa il religioso, facendone un intermediario per comunicare il proprio amore e poterlo soddisfare140, e di nuovo la moglie del geloso travestito da prete di VII, 5 mente al marito per poter avere buon tempo con l’amante. Anche il frate di III, 3 è uomo «di santissima vita», e nella novella si trova una messa in questione della nozione di peccato, e conseguentemente del valore del sacramento della confessione, simile a quella di I, 1, dato che quella della donna «è una confessione che precede il peccato, e in questo senso capovolge, pur nella sua veridicità obiettiva e dei fatti, il significato stesso del sacramento»141.

74 La forma agiografica della confessione, in questi tre casi dal Decameron, senza perdere la propria riconoscibilità in quanto forma, caratterizzata da una componente rituale e una precisa struttura discorsiva, diventa il luogo deputato alla messa alla prova dei contenuti della confessione stessa. In particolare la componente retorica della confessione viene svelata nel suo carattere di ormai semplice struttura142.

Exemplum

75 Ho cercato in precedenza di chiarire i rapporti che intercorrono fra exemplum e novella. Si tratta di un argomento particolarmente studiato, specie in riferimento al Decameron143. Sebbene nel Novellino la matrice esemplare sia più scoperta rispetto al novelliere boccacciano, non sarebbe azzardato sostenere che tutto o quasi, nel Decameron, dal macrotesto alle singole novelle, è exemplum144.

76 Così, la cornice costituisce una sorta di exemplum escatologico145, e l’ordinamento delle novelle potrebbe essere stato influenzato dai repertori di exempla raccolti tematicamente146. A ben vedere però, quel che differenzia, a livello di organizzazione macrotestuale, raccolta di exempla e novelliere, è la posizione intercambiabile che i singoli exempla assumono all’interno di una data sezione di una silloge 147. Se ciò è ancora probabilmente valido in riferimento al Novellino, nel caso del Decameron la maggior parte degli studiosi ritiene che la posizione delle novelle nella raccolta sia il rispecchiamento di un sistema di virtù (di vizi in qualche caso) o di grandi temi (amore, fortuna…). Detto questo, la suggestione di un rapporto fra ordinamento delle summae exemplorum e cornice del Decameron resta.

77 Evidente è il carattere esemplare di alcune giornate, della decima in particolare148. Le novelle di cui la giornata consta sembrano costituire altrettanti specula, ordinati secondo una progressione nell’espressione di ideali di magnanimità e cortesia, principio a cui forse solo la novella di Griselda (X, 10) rappresenta una deroga, comportando in qualche modo un abbassamento del tono dato dall’inserimento di elementi favolistici di matrice popolare149.

78 Anche al di fuori della decima giornata, molte delle novelle boccacciane hanno forma scopertamente esemplare (penso ad Alatiel, II, 7150, o a Rustico e Alibech, III, 10), oppure contengono exempla, come quello costituito dalla risposta di Melchisedech al Saladino in I, 3, o l’improbabile viaggio di cui frate Cipolla in VI, 10 fornisce un resoconto nella sua predica ai Certaldesi. Si tratta però di aneddoti decontestualizzati, inseriti dal Boccaccio in un ambiente a loro parzialmente estraneo, oppure che possono essere ugualmente ricondotti ad altri generi di narrativa, breve o meno (nel caso di Melchisedech a una favola, in quello di frate Cipolla a un Itinerarium ad loca sancta).

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79 Due sono invece i casi in cui, nel Decameron, tale decontestualizzazione non avviene, e gli exempla si mantengono nel loro carattere di forme originarie, anche se vengono ‘cambiati di segno’.

80 L’exemplum inserito nell’introduzione alla quarta giornata 151 mantiene la propria funzione originaria, anche in termini di collocazione, raccontato com’è non da un novellatore ma dal narratore di primo grado, e inserito a fini dimostrativi in un discorso apologetico. La «novelletta delle papere» (o dei diavoli) non è d’invenzione boccacciana. Si trova già nel Ramayana e nella Vita di Barlaam e Josaphat, oltre che nelle principali raccolte di exempla, nelle Vitae Patrum volgarizzate dal Cavalca, nel Novellino152 e nello Specchio di vera penitenza di Passavanti153. Boccaccio probabilmente la conosceva dal Cavalca o dalla Legenda aurea (cap. CLXXX).

81 Interessante però è vedere la maniera in cui il Decameron si appropria di un exemplum classico della tradizione misogina, usandolo pragmaticamente a dimostrare che le donne non costituiscono alcun pericolo, per il narratore come per il lettore154. La novella non perde cioè la propria forma aneddotica, restando riconoscibile come exemplum, e in particolare il personaggio di Filippo Balducci mantiene la tipicità di un carattere da exemplum.

82 Il fatto che costui «ragionasse al figlio […] sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi […] nulla altro che sante orazioni insegnandogli» (IV, Introduzione, 15) prelude infatti, nella logica decameroniana, allo scacco della pia educazione del devoto padre. Filippo Balducci è destinato, come ogni personaggio che il Boccaccio tratteggi in maniera tanto marcata (come nel caso del marito geloso di VII, 5), a essere strumentalizzato dall’autore, a fungere da dimostrazione di una tesi che di solito comporta la rottura delle certezze sulle quali questi monoliti del maschilismo o della fanatica devozione si reggono. Il figlio infatti, una volta vista «una brigata di belle donne giovani e ornate, che da un paio di nozze venieno» (IV, Introduzione, 20), non si contenta della spiegazione paterna (fra l’altro ripetuta), che le cosiddette papere «son mala cosa» (§ 21 e 25), ma ribatte al padre sul suo stesso terreno, «O son così fatte le male cose?» (26), al che Filippo Balducci può rispondere soltanto “Sì”.

83 Al lettore non viene detto come la storia si concluderà, il che distingue in parte la ripresa boccacciana dalla tradizione dell’exemplum, che si deve sapere come va a finire, avvicinando l’aneddoto alla forma “problematica” della novella. Nondimeno, si può considerare la novella delle papere come un exemplum self-evident. Si intuisce infatti che la vita di romitaggio del giovane sia destinata a rapida conclusione, ammesso che non riesca a contravvenire alla volontà del padre portandosi subito qualche «papera» all’eremo.

84 Altro exemplum decontestualizzato dal Boccaccio a proprio uso e consumo è la novella di Nastagio degli Onesti (V, 8)155. Vero è che qui l’exemplum è inserito nella narrazione principale (come nel caso di Melchisedech), costituendone parte integrante, ma la caccia infernale non sarebbe exemplum senza uno spettatore che vi assistesse 156, il che apre già uno spazio narrativo di secondo grado, come in ekphrasis. Il Boccaccio trova inoltre il medesimo exemplum ‘in cornice’ già nello Specchio di Passavanti (Dist. III, cap. 2), che ricorda di aver ripreso l’episodio da Elinardo157.

85 L’aneddoto tràdito è però, anche in questo caso, riconducibile alla corrente misogina della predicazione, preda della caccia infernale, ad esempio in Passivanti, essendo infatti una donna che in vita scelse di farsi aiutare dall’amante a eliminare il marito. La

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caccia infernale della novella di Nastagio, viceversa, è una pena riservata alle donne che, non contraccambiando i sentimenti di quanti le amano, portano gli amanti al suicidio158.

86 È una donna, Filomena, a narrare la novella di Nastagio rovinatosi per amore (in maniera analoga a Federigo degli Alberighi della novella successiva), introducendola con un piccolo discorso al contempo serio e faceto (riconducibile a quello con cui Panfilo introduce la vicenda di Ciappelletto, ma in questo caso più breve e meno solenne): «Amabili donne, come in noi è la pietà commendata, così ancora in noi è dalla divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata: il che acciò che io vi dimostri e materia vi dea di cacciarla del tutto da voi […]» (V, 8, 3)159. L’exemplum in questione non perde completamente la propria componente misogina, ma il lieto fine che consiste nell’unione dei due a discapito delle barriere sociali che li dividono mina alle fondamenta la visione oscurantista che stigmatizza l’adulterio ricorrendo alla visione macabra.

87 I due exempla decameroniani analizzati mantengono intatti – o comunque riconoscibili – caratteri linguistici, narrativi e di caratterizzazione del personaggio, in uno dei due casi anche strutturali. Quello però che ne rivela il passaggio da exempla (intesi come possibili fonti delle novelle) a forme esemplari è il riutilizzo che il Boccaccio compie. La morale non manca, ma è una morale che snatura il contesto da cui provengono tali aneddoti. Di più, è una morale che si ritorce contro quelle categorie di predicatori la cui attività è stata indispensabile affinché la forma giungesse al Boccaccio.

Martirio

La plupart des martyrs sur lesquels on a quelques détails n’entrent dans l’histoire [dunque nel récit] qu’au moment de leur arrestation160.

88 Secondo un’ottica di questo tipo, la storia di Griselda (X, 10) costituisce un esempio di Vita ante martyrium, sottogenere della vita non privo di ramificazioni medievali 161. Anche nel caso di martiri, ci sono passiones in cui l’agiografo non indugia, come invece accade di frequente, sulla descrizione particolareggiata della tortura e delle circostanze della morte162. Penso alle Vitae di Sebastiano e del protomartire Stefano, come le racconta Iacopo da Varazze (Legenda aurea XXIII e VIII).

89 La novella di Griselda163 è pressoché universalmente considerata un exemplum di costanza muliebre che si spinge fino al martirio, da una prospettiva schiettamente cristiana, e ciò in gran parte grazie alla riscrittura petrarchesca164. Sarà infatti il Petrarca ad accentuare la patientia di Griselda, facendone un’agiografia cristiana in senso stretto, mediante censure e rimaneggiamenti non secondari165. Il De insigni obedientia et fide uxoria è infatti la storia di un’anima nel suo percorso di salvazione dai pericoli e imprevisti del mondo, attraverso la costanza che Dio le concede. La cristianizzazione della storia di Griselda sembra muoversi su un’analogia dei rapporti fra Gualtieri e Griselda basata sul modello di quello che intercorre fra Dio e l’anima166. Questa riscrittura contribuirà in maniera non secondaria a determinare la fortuna del personaggio di Griselda e della sua storia167.

90 Nel Decameron però le cose non stanno così, o almeno non soltanto. Alcuni modelli biblici sono sicuramente attivi nella caratterizzazione del personaggio della mulier

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patiens. Griselda sopporta (e subisce) con cieca ostinazione, come Giobbe168, ma la radicale alterità della sua storia rispetto a una passio, al cui modello la novella pare ispirata, si vede già dal fatto che pallido surrogato borghese della palma del martirio sarà, per Griselda, la conquista della pace coniugale.

91 Nella sua lettura della novella (su cui mi sono basato), Giorgio Barberi Squarotti169 insiste sulla presenza di una triplice matrice, fiabesca, sociologico-borghese, religiosa. Questo secondo elemento in particolare serve a temperare la solennità dell’agiografia a lieto fine di Griselda, inficiando anche la statura eroica del personaggio. Il commento ironico di Dioneo a suggello della storia di Griselda170 contribuisce in maniera evidente a questo effetto di abbassamento, suggerendo che la patientia di Griselda sia indice di un’«anima pargoletta» nell’accezione deteriore. In effetti la fisionomia del personaggio di Griselda è una delle meno articolate del Decameron, e data l’importanza che il Boccaccio accorda alla caratterizzazione (positiva o negativa), questo dato non può non avere un significato.

92 Il modello religioso, concorrenziale alla dimensione sociologica, agisce in maniera costante nella novella171: la gratuità della scelta operata da Gualtieri si presenta nelle forme della gratuità dell’elezione divina; la spoliazione e successiva vestizione nelle forme della cerimonia di ordinamento religioso (a cui rinvia anche il continuo rispondere “sì” alle domande circa l’obbedienza…). L’uccisione dei figli ricorda il sacrificio di Isacco da parte di Abramo, come pure la ricomparsa dei figli che sancisce il perdono e ricompensa per il superamento delle prove172. Il gradus stesso delle tre prove a cui Griselda è sottoposta si spiega meglio, o forse soltanto173, in una prospettiva religiosa, o magico-fiabesca appunto, in quanto il ripudio si presenta come il culmine di questa climax, nella stessa misura in cui l’allontanamento da Dio e l’essere privati della possibilità di contemplarlo rappresenta la definitiva perdita di speranza da parte dell’anima. Alla sfera del religioso rinviano anche l’obbedienza e dedizione assolute a cui Griselda si uniforma, di solito adottando un linguaggio riconoscibile come mariano, così come l’arbitrio di Gualtieri. All’agiografia riconduce infine l’elemento patetico che accompagna le prove cui Griselda è sottoposta, e tale modello è presente anche nei singoli episodi. Sempre secondo Barberi Squarotti, Griselda che torna dalla fonte, e il primo incontro con Gualtieri, ricorderebbero la chiamata di Maria e il dialogo con l’angelo174.

93 Alla dimensione fiabesca riconducono invece l’ambientazione della novella, raramente nel Decameron così poco definita, e le tre prove sempre più ardue (sul modello anche della Psiche apuleiana)175.

94 Tanto i moduli della fiaba dunque, quanto quelli dell’agiografia, sono reimpiegati dal Boccaccio con la conseguenza di operarne uno «smantellamento», un superamento, una violazione (il che sarebbe, secondo Barberi Squarotti, fra le ragioni della duratura fortuna della fabula di Griselda). Tale violazione è causata dall’introduzione dell’elemento sociologico in un’atmosfera magico-fiabesca e religiosa. Secondo questa prospettiva, ci troveremmo di fronte alla storia delle circostanze che portano a un matrimonio di convenienza attraverso una verifica consistente in tre prove. Analogamente, in un’ottica al contempo religiosa e sociologica, andrebbe letto l’«io non son degna» nella risposta di Griselda alla prima delle prove a cui viene sottoposta176.

95 Nel corso della seconda prova si assiste secondo Barberi Squarotti a un altro esempio della tensione fra il religioso, il fiabesco e il sociologico-borghese: al primo ambito andrebbe ricondotto l’elemento patetico, le «coltella nel cuore», al secondo la non

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insistenza su tale elemento e la quasi totale impassibilità dell’eroe, al terzo le notazioni sull’affidamento dei figli a una parente di Bologna.

96 Lo stesso avviene per la terza prova, quella del ripudio, dove elementi religioso-patetici ed eroico-fiabeschi risiederebbero nella gratuità dell’allontanamento dell’eroe, mentre la componente sociologica nell’accenno alla dispensa papale che accorda lo scioglimento del matrimonio. In sostanza: […] la novella ha […] una ben precisa intenzione esemplare da definire, attraverso tanto uso di strumenti narrativi e ideologici, tra fiaba e agiografia, ma interamente e costantemente, a ogni momento e punto, deformati e trasgrediti in senso sociologico, al fine di radicare concretamente in un ambito preciso di praticabilità sociale quelli che, nella fiaba e nell’agiografia, sarebbero stati esempi atemporali, assoluti177.

97 Mi sono soffermato a lungo sulla lettura di Barberi Squarotti della novella di Griselda perché tale lettura mostra il sussistere di una forma, quella che lui definisce genericamente agiografica ma io preferisco chiamare martirologica, a partire dalla quale il Boccaccio costruisce la novella. Da questo punto di vista, quello compiuto dal Petrarca sarebbe un recupero del sottotesto da cui il Boccaccio è partito, e la riscrittura avviene eliminando o attenuando le componenti non agiografiche del modello.

98 Il Boccaccio prende a prestito la forma della passio adattandola a contenuti nuovi, che la snaturano rendendola scarsamente riconoscibile.

99 C’è nel Decameron un’altra donna sventurata che, seppure su toni meno tragici, sopporta prove178 di natura fiabesca affinché il marito la ami: si tratta di Giletta di Narbona (III, 9)179. La figura di Giletta tuttavia non corrisponde all’epiteto patiens, in quanto è donna attiva, che lotta per superare le prove che si trova ad affrontare, e che anzi viene infine accettata dal recalcitrante marito in virtù dello spirito d’iniziativa dimostrato, non dell’abnegazione. Ed è chiaro il rapporto (anche etimologico) che intercorre fra patientia e passio.

Il miracolo e il soprannaturale

100 Se di interscambio fra i generi letterari si può, e in una certa misura si deve parlare, miracoloso e soprannaturale costituiscono sicuramente un ponte fra il genere agiografico e altri ambiti, in apparenza piuttosto alieni dalla letteratura sacra, della cultura medievale (il roman fra tutti)180.

101 Il soprannaturale costituisce una violazione al principio di causa181, oltre a essere una delle principali modalità di attuazione dell’amplificatio (in agiografia come altrove) 182. L’elemento meraviglioso è stato pressoché introdotto nella letteratura medievale dai generi agiografici, in particolare nella forma del miracolo. Esso si presenta di solito come un’accumulazione di mirabilia in una sorta di cataloghi, che vedono chiaramente, a un certo punto del loro sviluppo e ancora una volta per l’influenza della crescente popolarità delle forme di cultura laica, la reintroduzione del soprannaturale ripreso dalla letteratura classica183.

102 Nel Decameron, la presenza del meraviglioso o, più spesso, del presunto tale, è davvero massiccia. Una modalità tipica di inserzione dell’elemento soprannaturale nelle novelle boccacciane si ha nelle beffe. Spesso infatti al soprannaturale, agiografico o meno, viene ricondotta dal beffato la spiegazione più economica dell’accaduto184. La vittima degli inganni del superiore ingegno altrui riconduce ciò che gli risulta incomprensibile

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a un ordine che sia per sua natura incomprensibile. Simile atteggiamento ha molta attinenza, per il Boccaccio, con la superstizione, solitamente derisa.

103 Ho scelto cinque novelle che mi sembrano significative a livello di casistica del meraviglioso, e del miracolo in particolare, nel Decameron. Si tratta del finto miracolo di cui beneficia il finto storpio Martellino (II, 1)185, del vero miracolo di cui approfitta Rinaldo d’Asti (II, 2)186, della grottesca imitatio Christi a cui è indotto il credulo frate Puccio (III, 4)187, del figlio di madonna Agnesa miracolosamente “guarito” dai vermini per opera di frate Rinaldo (VII, 3)188 e della magia di donno Gianni (IX, 10)189.

104 Perché il miracolo abbia luogo è necessario che si creino determinate condizioni, che sono però quelle “tradizionali” in uno solo dei casi che considero, quello di Rinaldo d’Asti, che si raccomanda con schietta religiosità a san Giuliano Ospitaliere. Nelle altre quattro novelle, le circostanze ottimali affinché il prodigio si verifichi sono invece la credulità, del popolo trevigiano nel caso di Martellino, dei diretti interessati, vittime di un presunto miracolo, nei restanti tre casi. La beffa di Martellino e la finta guarigione vengono scoperte, come pure il vero fine dell’incantamento tentato da donno Gianni per trasformare la moglie di compare Pietro in cavalla, mentre i prodigi di dom Felice e frate Rinaldo vanno a buon fine per gli incantatori.

105 La novella di Martellino risente probabilmente dell’influsso della letteratura edificante dei miracoli190. I Trevigiani che si affollano attorno al corpo di sant’Arrigo, fidando nelle sue capacità taumaturgiche, e divengono il bersaglio dell’innocente truffa da parte dei tre infingitori, sono un’efficace rappresentazione di pietà popolare intrisa di superstizione e campanilismo: «Sia preso questo traditore e beffatore di Dio e de’ santi, il quale, non essendo attratto, per ischernire il nostro santo e noi, qui a guisa d’atratto è venuto!» (II, 1, 27).

106 Il caso di Rinaldo d’Asti è meno univocamente interpretabile come derisorio. L’efficacia dell’orazione che il mercante è solito pronunciare ogni mattina per avere buon albergo la sera è infatti provata dai fatti. Il Boccaccio si rivela però anche qui in certa misura irriverente, dal momento che, come già la tradizione provenzale dell’«albergo di san Giuliano» suggeriva191, l’ospitalità offerta a Rinaldo per intercessione per santo a ciò deputato è intesa in senso licenzioso.

107 La possibilità di una remissione dei peccati (anche di quelli a venire) che dom Felice offre a frate Puccio, «bizzoco di quelli di san Francesco» (III, 4, 4), non è in realtà miracolosa di per sé, ma costituisce un caso interessante di rapportarsi al meraviglioso inteso come percezione del tutto soggettiva, indotta dalla propria credulità e dall’inventiva verbale altrui (analogamente a quanto accade nella predica di frate Cipolla, o a Calandrino, che in VIII, 3 “immagina” il paese di Berlinzone). Il personaggio di frate Puccio è subito ritratto in maniera non equivocabile: «E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta, diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, né mai falliva che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori» (III, 4, 5). Il fanatismo di frate Puccio fa da contraltare alla religiosità di Rinaldo d’Asti, improntata a buon senso e pragmatismo (caratteri che per la verità ben difficilmente nel Boccaccio si sposano alla fede, se non nel caso di alcune figure femminili).

108 Le altre due novelle sono le più tipiche dal punto di vista della maniera in cui il Boccaccio vi introduce il meraviglioso. La beffa architettata da frate Rinaldo riesce senza problemi, per la complicità della donna, che non esita a dichiarare al marito il potere taumaturgico del frate in visita. Il carattere del marito vittima dell’inganno non

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è tuttavia quello consueto dei personaggi boccacciani vittime di beffe a sfondo religioso (come Ferondo in Dec., III, 8), e sono piuttosto qui l’ipocrisia e la malizia del frate a essere messe in evidenza.

109 L’episodio dell’incantamento di donno Gianni va accostato per alcuni versi a quello di Rinaldo d’Asti. Si riconosce nella novella un carattere affatto peculiare rispetto alle altre occasioni in cui nel Decameron si affronta il soprannaturale. Qui non è trattato con irrisione, ma, dopo che il lettore è stato immerso nell’atmosfera di arretratezza e degrado in cui la novella si situa, all’elemento magico è attribuito un carattere di plausibilità e verosimiglianza, in ottemperanza al punto di vista dei protagonisti, che ci credono… La magia sarebbe, in questo caso, «controfigura del miracolo»192. Rovesciamento della novella di Griselda, anche qui la nudità è propedeutica alla trasformazione, al sopravvenire del miracoloso, all’investitura, ma il processo si verifica con ben altri esiti193.

110 Evidente da questi esempi è la radice magica, trasformativa che Boccaccio accorda al soprannaturale. Si tratta normalmente di meraviglioso cristiano, sottoposto però a una rigida critica e, anche laddove (come nel caso di Rinaldo d’Asti) il miracolo sembra avvenire, la forma in questione veicola contenuti non convenzionali, e di matrice schiettamente boccacciana194.

Orazioni e prediche

111 Assimilo le preghiere ai sermoni in quanto si tratta di due forme discorsive di derivazione agiografica, a differenza del comico, che pur essendo una forma discorsiva non è nato né ha conosciuto esiti originali in ambiente agiografico. Anche qui la casistica sarebbe ricchissima, e mi limiterò a pochi esempi. Normalmente, orazioni e prediche conoscono nel Boccaccio una decontestualizzazione e un trattamento parodico simili a quelli delle altre forme agiografiche. L’unica eccezione è costituita dalla già ricordata novella di Rinaldo d’Asti195, dove l’orazione è efficace, e dove non solo si recitano preghiere, ma se ne parla anche196. A essere parodici rispetto alla forma agiografica da cui derivano in questo caso sono gli effetti che dalle preghiere conseguono.

112 La predica più celebre del Decameron è quella di frate Cipolla ai Certaldesi (VI, 10) 197, per parlare della quale andrebbe distinta in via preliminare la natura dei materiali di cui Boccaccio opera un reimpiego parodico. Se da un lato troviamo una serie di esempi in cui oggetto della riscrittura comica boccacciana sono le formule e il linguaggio delle Scritture e delle orazioni, non rare sono, come in questo caso, le situazioni in cui la satira decameroniana ha per oggetto situazioni comunicative più complesse, fino a giungere alla riscrittura di generi della letteratura religiosa legati e prediche e orazioni. Mi riferisco al pellegrinaggio di frate Cipolla, un periplo per Firenze e dintorni travestito con toni epici attraverso un uso insistito della polisemia198.

113 Pastore Stocchi in particolare, discostandosi dalla linea su cui si sono mossi la maggior parte degli esegeti della novella di frate Cipolla, tradizionalmente considerata come la riscrittura parodica di un’orazione o una predica, riconduce invece l’invenzione verbale del frate al genere para-agiografico dell’itinerarium ad loca sancta, riportando una serie di riferimenti a sostegno della sua tesi199. Il catalogo delle reliquie in particolare rinvierebbe all’enumerazione dei mirabilia esotici che viaggiatori e pellegrini, in ossequio a una tradizione che viene da molto lontano, allegano costantemente ai

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resoconti di viaggio. «Questo processo di re-invenzione sulla base di una struttura prontamente riconoscibile presuppone nel Boccaccio una notevole familiarità con le testimonianze relative alla Terrasanta, sia orali sia scritte»200. Ma il viaggio di frate Cipolla non si limita alla Terrasanta, prosegue fino all’India (Pastinaca), ricongiungendosi all’itinerario di Alessandro Magno, uno dei personaggi più conosciuti e favoleggiati dal Medioevo. Con un procedimento quindi tipico dell’amplificatio del comico verbale, Boccaccio contamina le fonti impiegate nel descrivere l’itinerarium ultramarinum di frate Cipolla con materiali desunti dalla letteratura alessandrina201.

114 Il viaggio improbabile di frate Cipolla è un’architettura linguistica a due livelli, uno (quello falso) immediatamente comprensibile ai Certaldesi, l’altro, vero, solo a chi ha messo in opera la beffa ai suoi danni. Questo sdoppiamento nasce come un gioco che coinvolge le dinamiche dell’oratoria sacra, con procedimento analogo alla novella di Ciappelletto, ma in questo caso ai danni di una forma diversa, quella della predica: The sermo modernus not only supplies opportunities for comic subversion of elements such as the exemplum, the description of the Holy Land, and the cult of relics, it also […] supplies the narrative model for reception, with its dual addresses (simul simplicibus et eruditis) in the form of the ignorant Certaldesi and the two street-wise pranksters. Ultimately, the mixed nature of the religious model, with its reliance on auctoritates on one hand and experience on the other, is a convenient metaphor for the kind of literature Boccaccio is attempting, with its conscious if subversive re-evocation of past models, and its internal tensions between pre- existent récit and his own penchant for discourse202.

115 Anche le reliquie203 hanno la loro importanza nell’economia dello stravolgimento della forma del sermone praticata da frate Cipolla, essendo un capovolgimento del rapporto tradizionale che si ha, normalmente, fra l’oggetto di culto e il valore che gli viene assegnato: Relics are […] a material incitement to spiritual meditation. Secular objects become imbued, via the faith of the beholder, with a transcendental value. Cipolla’s list is an absurd inversion of this basic principle. Insubstantial concepts of spiritual significance become substantial items of secular materiality204.

116 Frate Cipolla, dell’ordine di sant’Antonio (che cura dal ‘fuoco di sant’Antonio’ appunto), maneggia reliquie che molta attinenza hanno con il fuoco. Che è anche il fuoco dell’eloquenza, dono dello spirito santo… proprio ciò di cui frate Cipolla ha bisogno per cavarsi d’impaccio dopo il furto/sostituzione delle reliquie205.

117 Un trattamento analogo nei confronti delle forme dell’eloquenza (profana in questo caso) si ha nella novella di Alatiel206 (II, 7), dove si verifica, sul piano delle forme, uno di quei casi di «comparsa di nuovo nell’antico» di cui parla Sklovskij207. La novella di Alatiel ha molto a che fare con le forme del sacro finora analizzate. Anzitutto la ‘vergine’ è protetta da un santo, e la parodia nei confronti del mantenersi intatto della sua verginità viene sistematicamente portata avanti con il ricorso a fraseologia cristiana208. La sua vicenda, in particolare l’orazione conclusiva di fronte al ritrovato padre e ad Antigono, è una evidente manifestazione di quello che Barberi Squarotti definisce «il potere della parola», che fa sì che le cose non solo sembrino, ma diventino come non sono. In questo caso, come avviene alle sante per intercessione divina, la parola ripristina la verginità della fanciulla che è passata per nove uomini.

118 Il tema della verginità protetta dagli dei è tipicamente agiografico, una costante ad esempio delle storie di Agnese e Teodora; ma non soltanto, lo si ritrova anche in un esercizio dalle Controversiae senecane 209. Alatiel, come sant’Orsola o sant’Uliva già

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ricordate da Barberi Squarotti a proposito di Griselda, rimane intatta fra i pericoli del mondo: è il trionfo della verginità, che avviene però ancora una volta mediante l’appropriazione boccacciana di un discorso mistificatorio che, alla fine, procede in modo analogo alla predica di frate Cipolla.

119 Concludo questo discorso sulle forme del sermone nel Decameron accennando ad altre due novelle in cui il discorso sul sacro, nella manifestazione tipica della predica, si presta a una parodia anticlericale, nel primo caso, o ai soliti effetti di beffa a scopo sessuale nel secondo. Tedaldo degli Alisei (III, 7), vittima di un confessore ipocrita, si prodiga in un sermone profano, antifratesco e non indispensabile all’economia della novella (sebbene perfettamente spiegabile in termini di vissuto del personaggio). Delcorno individua antecedenti neotestamentari alla base della tirata di Tedaldo, sottolineando che «Lo stile ecclesiastico è magistralmente parodiato per aggredire l’ideologia e l’immaginario della predicazione. Se altrove Boccaccio risemantizza gli intrecci della narrativa esemplare per ricavarne ammiccanti effetti comici, qui colpisce la logica e il funzionamento stesso dell’exemplum»210.

120 Anche la novella di frate Alberto e dell’agnolo Gabriello (IV, 2)211 comporta un rovesciamento parodico delle forme dell’eloquenza sacra e dell’orazione, anche se, in questo caso, più nelle manifestazioni linguistiche che in quelle discorsive212. Tra le fonti della novella Branca riconosce, in area cristiana, Gregorio Magno, Cesario di Heisterbach, Iacopo da Varazze, lo Pseudo Egesippo213. In particolare la seduzione del presunto agnolo Gabriello nei confronti di Lisetta, come di consueto caratterizzata come una sprovveduta (sebbene ciò avvenga più di rado per i personaggi femminili, che sono difatti percentualmente meno vittime di beffe), sarebbe una parodia delle parole di santa Cecilia circa la propria intatta verginità (Legenda Aurea, CLXIX: «Angelum Gabrielem habeo amatorem qui nimio zelo custodit corpus meum»). I codici parodiati in questa novella tuttavia non sono unicamente quelli agiografici. Anche la letteratura cortese e le donne angelicate sono qui infatti oggetto di una demistificazione214.

121 Concludo ricordando due altri esempi di orazioni decameroniane, più o meno sul modello di quella di Rinaldo d’Asti, ma meno significativi. Si tratta della novella di Gianni Lotteringhi e dell’orazione per stornare la fantasima (VII, 1), dove, analogamente a quanto accade in II, 2, non solo si prega, ma si parla anche di orazioni; e della già ricordata novella di frate Rinaldo215, in cui si assiste alla tipica appropriazione boccacciana della forma dell’orazione (alla quale non si dà più di tanto peso, a parte la consueta metafora oscena dei paternostri).

Visiones e viaggi nell’oltretomba

122 Costituiscono una forma agiografica molto diffusa e con una fisionomia chiaramente riconoscibile216. Considero però visio e viaggio ultraterreno meno interessanti di quelle che ho definito le tre forme principali in ragione del fatto che, tralasciando cacce infernali (di cui si è già detto), presunti morti che ritornano e sogni profetici217, nel Decameron si trovano solo due casi di viaggi nell’oltretomba (III, 8 e VII, 10), entrambi in novelle scopertamente comiche, e che nulla aggiungono rispetto a quanto detto finora sul trattamento boccacciano delle forme derivate dall’agiografia.

123 Il primo viaggio, quello di Ferondo218, non è un reale viaggio, né in corpore né da morto. I dieci mesi che Ferondo trascorre in purgatorio sono una detenzione a cui costui è relegato per guarire dalla gelosia, e per consentire a un abate di farne le veci con la

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moglie. A Ferondo «uomo materiale e grosso senza modo» (III, 8, 5), ma non classificato fervente cristiano, come invece spesso accade per le vittime di beffe a sfondo religioso219, viene fatto credere di essere morto e di scontare in purgatorio la pena destinata ai gelosi, sotto forma di due battiture il giorno che gli vengono inferte da un monaco bolognese, complice dell’abate. Si deciderà di liberarlo (mentre anche alla moglie viene fatto credere che egli sia morto, ma passibile di resurrezione una volta emendato) quando la donna sarà incinta. Finché Ferondo resta in purgatorio, la novella si connota come una classica narrazione decameroniana, che prende a prestito dalla forma del viaggio ultraterreno solo una serie di spunti. Invece, nel descrivere il ritorno del geloso, ovvero la resurrezione, il Boccaccio introduce quello che è un elemento tipico della visio avuta in corpore, il resoconto di chi viene dai regni d’oltretomba: [Ferondo] quasi savio ritornato, a tutti rispondeva e diceva loro novelle dell’anime de’ parenti loro e faceva da se medesimo le più belle favole del mondo de’ fatti del Purgatorio: e in pien popolo raccontò la revelazione statagli fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello avanti che risuscitasse (III, 8, 74).

124 Come un turista de cabinet descrive ciò che non ha mai visto coi propri occhi, così Ferondo, raccontando quanto ha ‘visto’ in purgatorio, dice a tutti quello che ciascuno vuole sentirsi dire, e ciò che ha probabilmente udito da qualche predicatore tempo addietro. Ferondo non torna insomma da questo soggiorno ultraterreno soltanto guarito dalla gelosia, ma anche smaliziato da «grosso» che era.

125 Delcorno ricorda fra l’altro come numerosi exempla siano contemporaneamente in azione nella novella, suggestionando tanto Ferondo (che crede di essere morto e in purgatorio), quanto sua moglie, persuasa che il marito sia resuscitato220. La suggestionabilità e la religiosità fanatica dunque, che non avevano caratterizzato il personaggio di Ferondo nel ritratto iniziale, si presentano ora, nel soggiorno in purgatorio, che avrà comunque per Ferondo l’effetto di una sorta di passaggio di categoria, da beffato a beffatore221. Specie nella conclusione della novella si ha dunque la consueta ricontestualizzazione boccaccesca degli elementi di una forma agiografica, riplasmati in un’ottica che prevede l’appropriazione da parte dei laici dei generi discorsivi o (come in questo caso) narrativi cristiani.

126 Meno interessante è il caso di VII, 10. Qui il morto è realmente tale, e si presenta all’amico222 sotto specie di revenant per garantirgli che darsi buon tempo con le comari non è fra i peccati puniti nell’aldilà. L’elemento da notare è la strumentalizzazione boccacciana della topica anche agiografica del morto che comunica ai vivi ciò che avviene nell’oltretomba, il tutto al fine di costruire una novelletta erotica particolarmente poco raffinata.

127 L’unico sogno profetico di matrice scopertamente agiografica nel Decameron è quello di Lisabetta da (IV, 5). La derivazione agiografica di tale sogno, che porta, fra l’altro, all’inventio del corpo di Lorenzo, è stata più volte notata 223. Anche il cadavere rinvenuto intatto (almeno quando è Lisabetta a trovarlo, mentre quando i fratelli scopriranno il contenuto del «testo» non sarà più così…) rinvia alla tradizione agiografica dei corpi santi miracolosamente conservati224. Non solo modelli agiografici intervengono nella novella, ma anche rinvii scritturali: il trasporto della testa amputata avvolta in un panno costituisce ad esempio un richiamo alla storia di Giuditta e Oloferne225.

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Rifunzionalizzazione del linguaggio sacro. Con un’appendice sul motto e sul comico, particolarmente in agiografia

128 Gran parte di questo breve paragrafo è dedicata alla novella di Rustico e Alibech226 (III, 10), di cui Branca individua episodi simili in Legenda aurea CLXXX, nella Vita di Barlaam e Josaphat volgarizzata dal Cavalca, nella Legenda Rustici227, o anche nelle vite di Giovanni Crisostomo (il quale però si ravvede in tempo)228, Pacomio e Macario229, Maria Egiziaca.

129 Due sono i livelli di lettura della matrice sacra nella novella, uno patristico- veterotestamentario, l’altro più strettamente esemplare. Ci si può da un lato soffermare su Alibech come altra riscrittura delle forme del sacro, anzi forse come quella che costituisce la summa dell’operazione compiuta dal Boccaccio nei confronti dei generi agiografici. Tale è infatti la stratificazione dei modelli ascetici230, scritturali e più specificamente agiografici nella novella, che la storia di Alibech, non a caso la più censurata del Decameron, mantiene la forma di un aneddoto delle Vitae patrum, più ancora di quanto la novella di Ciappelletto mantenga la forma di una confessione, o quella di Griselda di un martirio. La forma rimane, ma la lezione morale viene ribaltata in senso grottesco, tanto da essere Rustico, alla fine, a gioire per l’allontanamento della tentazione, ma non perché brama tornare a essere un austero eremita, bensì soltanto perché la sua alimentazione romitica alla lunga non gli permette di «rimettere in diavolo in ninferno» quanto la giovane, latrice dell’inferno, desidererebbe.

130 Antecedenti della novella si trovano dunque nella patristica, e la narrazione sembra essere una sarcastica risposta a distanza alla morale sessuale di Agostino e Gerolamo231. Fin dalla scelta del nome dell’eremita, Rustico, Boccaccio si pone nel solco della tradizione anacoretica e agiografica: Diane Duyos Vacca ricorda un Rustico nell’epistolario di Gerolamo, e sappiamo che lo stesso Boccaccio aveva copiato la vita di san Rustico martire232. La lettera geronimiana in particolare avrebbe diversi punti di contatto con la novella di Alibech, a partire dal fatto che Gerolamo vi si rivolge a un uomo colpevole di aver infranto il voto di castità, e che si mostra renitente all’espiazione del peccato commesso via pellegrinaggio (cosa che invece la moglie del Rustico geronimiano, Artemia, si è affrettata a compiere). Di particolare interesse è il parallelo fra la domus di Artemia (da leggersi in senso metaforico?), sempre pronta ad accogliere Rustico, e il ninferno di Alibech233.

131 La studiosa suggerisce anche l’ipotesi di leggervi una riscrittura dell’episodio biblico della caduta (Genesi, III), data l’analogia fra Alibech ed Eva che conseguirebbe logicamente da una interpretazione in chiave patristica della tematica e dei personaggi della novella. Il modello della cacciata dal paradiso terrestre viene tuttavia ribaltato dal Boccaccio attraverso uno scambio nei ruoli maschile e femminile: nella novella di Alibech la tentazione è operata dall’uomo, che pure (e anche in questo caso il parallelo col Genesi non tiene), sa e pecca consapevolmente, pur nella componente di irrazionalità che comporta per la cultura medievale (ma non per il Boccaccio) l’obbedienza alle leggi della natura234.

132 Il filtro parodico trova qui un canale d’espressione privilegiato nella lingua della scrittura sacra, di cui il Boccaccio si appropria. Quella di considerare lo snaturarsi delle forme agiografiche anche sul piano linguistico sembra, in particolare nel caso di Alibech, una pista di lettura lecita. Come nella novella delle papere già considerata

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(altro rinvio alla letteratura ascetica), nel caso della novella di Alibech il linguaggio è strumento di dissimulazione impiegato da un personaggio per conseguire un proprio fine. Non a caso le due novelle si trovano in successione. La differenza nelle modalità di appropriazione delle forme linguistiche dell’agiografia da parte dei personaggi ha tuttavia esito diverso: Rustico riesce là dove Filippo Balducci fallisce, nel provare “sul campo” la riuscita dell’appropriazione linguistica. Non è da escludersi che il successo di Rustico sia in gran parte dovuto all’intervento autoriale, corresponsabile in questo caso della sorte del personaggio, essendo la novella III, 10 un exemplum positivo, sull’imprescindibilità dell’obbedienza alle leggi di natura, mentre l’exemplum delle papere era usato a illustrazione del medesimo principio, ex negativo però235.

133 È difficile distinguere fra i tre elementi (appropriazione linguistica, motto, comico) considerati in questo paragrafo, in ragione del fatto che, nella quasi totalità dei casi, queste riprese avvengono nel segno della parodia, o ancor più spesso del comico vero è proprio236. E comico nel Decameron significa spesso osceno, specie se filtrato dal sacro237. Penso al «santo cresci in man» (II, 7) o al «san Cresci in Valcava» (II, 7, 109), o ancora alla «resurrezion della carne» (III, 10, 13). Ma non in tutti i casi la rifunzionalizzazione è a sfondo licenzioso. C’è per esempio anche il «Verbum caro fatti alle finestre» (VI, 10, 45), parodia/misunderstanding di Giovanni, I, 14 («Verbum caro factum est»). C’è infine una novella (I, 6) costruita, in maniera interessante, come un exemplum negativo che si serve in funzione anticlericale dell’espressione «voi riceverete per ognuno cento»238.

134 La ripresa in chiave parodica di formule sacre è la forma minima dell’appropriazione agiografica fin qui descritta239. Questa è la ragione per cui la colloco come ultima forma individuata, concludendo in pratica qui l’analisi del Decameron. Parlare infatti degli altri due fenomeni individuati in questo paragrafo, motto e comico, rischierebbe di snaturare il discorso, coinvolgendo aree di ripresa ben più vaste del già ampio panorama dei generi agiografici.

135 Per il motto sacro nella novella, bastino questi pochi esempi. Circa la comicità improntata a forme del religioso, essendo il trattamento boccaccesco dei materiali agiografici mai serio, si vede come la categoria possa ragionevolmente riguardare l’intero corpus di novelle viste finora.

136 Il motto non è assente in agiografia, come pure l’elemento comico. Mi limito a pochissimi esempi perché è difficile stabilire un rapporto di derivazione fra gli elementi analoghi della novella (che ha portato a notevoli sviluppi le forme del motto e del comico) e i generi agiografici. Celebri sono i motti di san Lorenzo (Legenda aurea, CXVII) sulla graticola: «Has epulas sempre optavi», e: «Assasti unam partem, gira aliam et manduca»240. La parola sarcastica si confà a quello che è considerato, da Iacopo da Varazze, il martire dei martiri (l’agiografo pospone alla sua vita un trattatello che lo mostra come il prototipo del testimone). Oppure il caso di san Tiburzio, ricordato da Iacopo nella vita di san Sebastiano (Legenda aurea, XXIII), che, fatto camminare sui carboni ardenti, li paragona a petali di rosa.

137 Un caso in qualche modo a metà fra il comico verbale (il motto) degli esempi sopra riportati, e il comico di situazione, elemento molto presente in agiografia241, è quello celebre di santa Maura, che reclama perché l’acqua in cui l’hanno gettata non è abbastanza calda. Il carnefice vi immerge la mano per controllarne la temperatura e… le conseguenze sono facilmente immaginabili242.

138 Il comico di situazione in agiografia si accompagna spesso all’elemento meraviglioso. Tipicamente, il santo subisce delle trasformazioni, viene fatto sparire e riapparire

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altrove, diventa invisibile o invulnerabile, con sommo scorno di quanti vogliono fargli del male. Così nella Vita di Martino di Sulpicio Severo i nemici sono costretti a girare intorno al santo, non potendoglisi avvicinare, o le spade non riescono a colpirlo. Nel caso delle sante, il magico che innesta il comico viene introdotto per conservarne la castità243. Nella già ricordata legenda di santa Anastasia, il prefetto che vuole fare violenza alle sue tre ancelle si trova ad abbracciare pentole e utensili da cucina, e irriconoscibile per la fuliggine e scambiato per un’anima dannata viene malmenato dai servi244. Il che ricorda assai da vicino un episodio della vita di san Clemente, mutato in colonna per non essere trascinato fuori dalla chiesa, nonostante gli sforzi di quanti vengono incitati col il «Fili de le pute traite» di Sisinnio.

139 Fra i soggetti privilegiati ai danni dei quali si attua il comico di situazione, oltre a persecutori vari dei santi, è ovviamente anche il diavolo245. Fra il comico e il grottesco infine (sempre che scegliamo di adottare categorie percettive affatto anacronistiche) possono annoverarsi diversi aneddoti rintracciabili in alcuni generi della letteratura agiografica, in particolar modo nelle raccolte di miracoli. Già Delehaye ad esempio ricorda246 l’episodio, attribuito ai santi Cosma e Damiano e a santa Mena nella raccolta di Sofronio (e desunto dalla tradizione delle guarigioni di Esculapio), di un paralitico al quale si suggerisce di usare violenza e una donna muta, di modo tale che, questa messasi a urlare, il paralitico sia indotto a darsi alla fuga. O ancora, la prescrizione dei santi Ciro e Giovanni a uno affetto da emicrania, al quale si dice di dare un ceffone alla prima persona in cui dovesse imbattersi. Sarà un a ricevere lo schiaffo, al quale ricambia con una bastonata che provoca in effetti la guarigione dell’uomo247.

140 Da questi pochi esempi, scelti per illustrare il comico di parola e di situazione in agiografia, emerge in particolare il carattere di transgenere che contraddistingue il comico. La matrice comica si presenta infatti come una forma (linguistica nel primo tipo, narrativa nel secondo), ma in un’accezione non identica a quella considerata finora. Non si tratta infatti di un genere in origine agiografico (o comunque radicalmente influenzato da un riutilizzo agiografico) e quindi passato nella novella, ma di una forma preesistente all’agiografia, e che conosce con la novella una diffusione molto più ampia di quella che ha in agiografia.

Bilancio provvisorio

141 Credo che il paragrafo introduttivo, in cui spiego le ragioni della scelta e la metodologia, possa utilmente fungere anche da conclusione. Quindi ora solo poche parole per ampliare la portata sociologica dello sviluppo dei generi agiografici narrativi nella novella e altrove. La letteratura agiografica ha creato una sorta di macrogenere che ha avuto, forse come prima e principale ricaduta, l’indurre a un allargamento della sensibilità dell’uditorio, il quale si trova esposto a una serie di dimensioni emotive (il comico come il fantastico, il tragico, l’elegiaco-sentimentale) che prima erano riservate ciascuna a forme sue proprie rigidamente codificate, mentre ora vengono offerte (sebbene con dominanti per i singoli santi) con maggiore libertà248.

142 Oltre a tale ruolo in termini di ricezione, l’agiografia introduce anche una modalità meno rigida, da parte degli autori in primo luogo, a rapportarsi al sistema dei generi. Mi pare sia emersa un’importante distinzione fra quel che è un genere (e lo si è visto nel caso della novella) e quel che invece è una forma, separata da altre forme simili e dotata di caratteri riconoscibili, ma tali che le consentono di passare a un ambito

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profondamente diverso, com’è quello della novella rispetto all’agiografia. La casistica è stata esaminata con tipi di analisi eterogenei. Ciò si è reso necessario ai fini della dimostrazione della particolare modalità di riappropriazione che Boccaccio mette in atto nei confronti del materiale agiografico.

NOTE

*. Ho presentato una versione ancora poco sbozzata di queste considerazioni in un seminario tenuto all’Université Stendhal-Grenoble 3 il 23 giugno 2006, nell’ambito dei lavori dell’HURBI. Un grazie particolare a Johannes Bartuschat, Enzo Neppi e ad Alessandro Grilli. La dedica è, ancora una volta, a Francesca. Trattandosi di novelle ben note, nella seconda parte ho preferito ridurre al minimo le citazioni dal Boccaccio per dare più spazio all’analisi o alla letteratura in merito, a volte meno conosciuta. 1. Solo due esempi, del resto ben noti, basteranno a testimoniare la durevole fortuna del modello decameroniano nei confronti della prosa letteraria italiana, e del genere novella in particolare. Come le Prose del Bembo (1525) riconoscono nelle novelle tragiche del Decameron un paradigma con valore normativo per la prosa volgare, così la prima poetica (del resto molto tarda) della novella come genere letterario, la Lezione sopra il comporre delle novelle di Francesco Bonciani (1574), identifica la novella tout court con Boccaccio. 2. Cf. fra l’altro Letterio Di Francia, Novellistica, Milano, Vallardi («Storia dei Generi Letterari Italiani»), 2 vol., 1924-1925, passim. 3. Penso in particolare alla raccolta di articoli di Carlo Delcorno, Exemplum e letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1989. 4. Questo è il caso ad esempio di Peter F. Dembrowski, «Traits essentiels des récits hagiographiques», in M. Picone, G. Di Stefano, P. D. Stewart (eds), La nouvelle : genèse, codification et rayonnement d’un genre médiéval. Actes du colloque international de Montréal (McGill University, 14-16 octobre 1982), Montréal, Plato Academic Press, 1983, pp. 80-88, studio dedicato al passaggio dal verso alla prosa nelle vite in antico francese di Maria Maddalena, e ai mutamenti nelle modalità narrative che tale passaggio comporta, nell’assunzione fra l’altro di un andamento novellistico. 5. Vedi oltre. 6. Cf. Alain Boureau, L’événement sans fin : récit et christianisme au Moyen Âge, Paris, Les Belles Lettres, 1993, e Northrop Frye, The Great Code. The Bible and Literature, New York, Harcourt Brace, 1982 (tr. it. Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Torino, Einaudi, 1986). 7. Un esempio di studio morfologico della novella come genere, sulla traccia dei contributi di André Jolles [in part. l’introduzione alla traduzione tedesca del Decameron, Leipzig, Insel, 1921, poi rivisto in traduzione olandese in Bezieling en vorm, Haarlem, Tjeenk Willinck, 1923, tr. it. «Il Decameron di Boccaccio», in S. Contarini (ed.), I travestimenti della letteratura, Saggi critici e teorici (1897-1932), Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 57-116 (la traduzione è basata sulla revisione del 1923); Einfache Formen. Legende, Sage, Mythe, Rätsel, Spruch, Kasus, Memorabile, Märchen, Witz, Halle/ Saale, Max Niemeyer, 1930 (n. ed. 1958), tr. it. «Forme semplici», in I travestimenti della letteratura, op. cit., pp. 253-451 (prima ed. it.: Forme semplici, Milano, Mursia, 1980)], è Hans-Jörg Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle. Strukturen der Kurzerzählung auf der Schwelle zwischen Mittelalter und Neuzeit, München, Fink, 1969, tr. it. parziale in M. Picone (ed.), Il racconto, Bologna, Il Mulino,

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1985, pp. 299-308. Cf. anche Hans Robert Jauss, Alterität und Modernität der mittelalterlichen Literatur. Gesammelte Aufsätze 1956-1976, München, Fink, 1977, tr. it. Alterità e modernità della letteratura medievale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, in part. l’introduzione, ed. it., pp. 3-50. 8. Hans Robert Jauss, «Littérature médiévale et théorie des genres», Poétique, 1, 1970, pp. 79-101, riconosce l’importanza del modello boccacciano sugli sviluppi successivi del genere della novella. Importanza notevolmente ridimensionata, fra gli altri, da H.-J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle, op. cit., e Idem, «Boccaccio et l’origine de la nouvelle. Le problème de la codification d’un genre médiéval», in La nouvelle : genèse, codification et rayonnement…, op. cit., pp. 103-110, p. 103. 9. Distinguo in questo paragrafo la Storia (e il suo corrispettivo da una prospettiva agiografica, la Storia sacra) dalla storia, sacra e non, intendendo con questo secondo termine la fabula, l’argomento di una novella o di una narrazione agiografica, che quindi va a coincidere, sulla scorta di Jolles (Einfache Formen, op. cit.), con un caso particolare della Storia. 10. Emblematico in tal senso è il caso di tutta una serie di studi finalizzati all’identificazione delle figure storiche che, in maniera più o meno diretta, si celano dietro i personaggi di novella privi di connotazione storica precisa. Se a molti personaggi la critica è riuscita ad attribuire un nome e un profilo biografico, molti di più sono quelli non ancora identificati. 11. Sul rapporto fra novella e Storia nel Decameron, cf. fra l’altro: L. Di Francia, Novellistica, 1924, op. cit., pp. 160 ss.; Vittore Branca, Boccaccio medievale, Firenze, Sansoni, 1981 [prima ed. 1956], pp. 165-187; Giusi Baldissone, «Il piacere di narrare a piacere», in G. Barberi Squarotti (ed.), Prospettive sul «Decameron», Torino, Tirrenia Stampatori, 1991, pp. 9-23, in part. pp. 12 e 17-18; Marga Cottino-Jones, Il dir novellando: modello e deviazioni, Roma, Salerno, 1994, p. 25. 12. Un esempio decameroniano di ambientazione – relativamente – generica è la novella di Gualtieri e Griselda. A partire dall’indicazione «Già è gran tempo» (X, 10, 4: Giovanni Boccaccio, Decameron, V. Branca (ed.), 2 vol., Torino, Einaudi, 1992 [prima edizione: 1980], p. 1234), gli elementi di contestualizzazione si inseriscono in questa prospettiva indefinita (cf. la posizione di Giorgio Barberi Squarotti in proposito: vedi oltre). Ciò non è senza ragione, e come si può vedere altrove nel Decameron, ad esempio per la novella di Tancredi e Ghismunda, ogni qualvolta il nodo della narrazione sia da ritrovare in un conflitto tra due visioni del mondo, una sentita come vecchia ma radicata nella società in cui la novella è ambientata, una nuova e destinata a prevalere sul lungo periodo, ma ancora culturalmente minoritaria, quel mondo ormai sociologicamente inadeguato e come a un crocevia è trattato con distacco e senza eccessiva attenzione alla verosimiglianza (cf. anche il commento di Branca a IV, 1: ed. cit., p. 471, n. 4 con relativa bibliografia). 13. In merito alla presenza della Storia in Sacchetti, cf. L. Di Francia, Novellistica, 1924, op. cit., p. 494. In Masuccio Salernitano: ibid., pp. 451-453; M. Cottino-Jones, Il dir novellando…, op. cit., pp. 50 ss. In Sabadino degli Arienti: L. Di Francia, Novellistica, 1924, op. cit., p. 494. In Bandello: Di Francia, Novellistica, 1925, op. cit., pp. 16 ss. 14. Giusi Baldissone, «Il piacere di narrare a piacere», art. cit., p. 18. Su I, 1 vedi oltre. 15. Le narrazioni di argomento sacro nel Novellino sono almeno nove, considerando soltanto quelle basate sulle Scritture, sulle Vitae Patrum e su fonti agiografiche. Penso alle novelle VI, VII, XII, XIV, XVI, XVII, XXXVI, LXXV, LXXXIII, secondo la numerazione dell’edizione Gualteruzzi. 16. Per quanto concerne le novelle decameroniane basate su testi agiografici e sulle Vitae Patrum, vedi oltre. 17. Ma già prima nel Novellino, sebbene in forme meno rielaborate rispetto alla matrice esemplare. Molte narrazioni del Novellino sono infatti exempla la cui componente narrativa è asservita all’esigenza dimostrativa (ma su questi problemi vedi oltre). Diversi studiosi hanno nondimeno proposto letture del Novellino come distanziamento già decisivo dalla tradizione dell’exemplum; cf. in part. Cesare Segre, «La novella e i generi letterari», in La novella italiana, Atti

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del Convegno di Caprarola (19-24 settembre 1988), Roma, Salerno, 1989, vol. I, pp. 47-57, pp. 51-52. 18. Cf. Renzo Bragantini, Il riso sotto il velame. La novella cinquecentesca tra l’avventura e la norma, Firenze, Olschki, 1987, in part. pp. 64-66. Le considerazioni di Bragantini si basano fra l’altro sugli studi di Neuschäfer (op. cit.), Karlheinz Stierle («L’histoire comme exemple, l’exemple comme histoire. Contribution à la pragmatique et à la poétique des textes narratifs», Poétique, 10, 1972, pp. 176-198) e Walter Pabst, Novellentheorie und Novellendichtung. Zur Geschichte ihrer Antinomie in den romanischen Literaturen [1953], Heidelberg, Carl Winter 2, 1967. 19. Cf. R. Bragantini, Il riso sotto il velame, op. cit., pp. 64-66. 20. La novella boccacciana in relazione all’exemplum dalla Disciplina clericalis è stata studiata da Salvatore Battaglia, «Dall’esempio alla novella» [1960], in V. Russo (ed.), Capitoli per una storia della novellistica italiana (Dalle Origini al Cinquecento), Napoli, Liguori, 1993, pp. 153-208; cf. inoltre Barbara L. Blackbourn, «The eighth story of the tenth day of Boccaccio’s Decameron. An example of rhetoric or a rhetorical example?», Italian Quarterly, 27, 1986, pp. 5-13. 21. R. Bragantini, Il riso sotto il velame, op. cit., pp. 64-66. 22. A. Jolles, Forme semplici, op. cit., pp. 379 ss. Sul rapporto Kasus/novella in Jolles cf. anche Paolo Cherchi, «From controversia to novella», in La nouvelle : genèse, codification et rayonnement…, op. cit., pp. 89-99. I rapporti fra exemplum e novella saranno chiariti più avanti. 23. P. Cherchi, «From controversia to novella», art. cit., p. 90; cf. inoltre Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, Francke, 1948; trad. it.: Letteratura europea e Medio Evo latino, R. Antonelli e C. Bologna (eds), Firenze, La Nuova Italia, 1992, ed. it., pp. 174-175. 24. È questa la posizione, fra gli altri, di H.-J. Neuschäfer, «Boccaccio et l’origine de la nouvelle», art. cit., p. 109. 25. Le opinioni a questo riguardo non sono univoche. C. Segre in particolare («La novella e i generi letterari», art. cit., p. 48) sottolinea la minore attinenza della novella alla Storia, rispetto ad altre forme quali l’aneddoto. 26. Studi recenti hanno inoltre mostrato come materiali agiografici siano ormai annoverati a pieno titolo fra le fonti storiche (cf. Claudio Leonardi, «Agiografia», in G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò (eds), Lo spazio letterario del Medioevo. 1.1.2 Il Medioevo latino. La produzione del testo, Roma, Salerno, 1993, pp. 421-462, p. 425, e Maria Acconcia Longo, «Vite passioni miracoli dei santi», in G. Cavallo (ed.), Lo spazio letterario del Medioevo. 3.1 Le culture circostanti. La cultura bizantina, Roma, Salerno Editrice, 2004, pp. 183-227, p. 215), analogamente a quanto avvenuto per la novella (cf. V. Branca, Boccaccio medievale, op. cit.). 27. Sulla fortuna di questa polarità cf. Corrado Bologna, «Fra devozione e tentazione. Appunti su alcune metamorfosi nelle categorie letterarie dall’agiografia mediolatina ai testi romanzi medievali», in S. Boesch-Gajano e L. Sebastiani (eds), Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale, L’Aquila-Roma, Japadre, 1984, pp. 263-363. 28. Antecedenti di questa tendenza sono già nelle Scritture, specie nel Nuovo Testamento. Penso in particolare alla forma della parabola evangelica, che è la narrazione di un avvenimento investita di valore paradigmatico. 29. Pierre Saintyves, Les saints successeurs des dieux, Paris, Emile Nourry, 1907, in part. p. 93. La bibliografia in merito è ovviamente sterminata. Mi limito a segnalare alcuni saggi “storici” a soggetto: Hyppolite Delehaye, Les passions des martyrs et les genres littéraires, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1921 (n. ed. 1966); Idem, Les légendes hagiographiques, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1905 (facs. dell’ed. 1927); Idem, Les origines du culte des martyrs, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1912 (n. ed. 1927); Pierre Saintyves, En marge de la Légende dorée. Songes, miracles et survivances. Essai sur la formation de quelques thèmes hagiographiques [1931], Paris, Robert Laffont, 1987). Cf. inoltre il recente Dom Jacques Dubois, Jean-Loup Lemaître, Sources et méthodes de l’hagiographie médiévale, Paris, Cerf, 1993. 30. M. Acconcia Longo, «Vite passioni miracoli dei santi», art. cit., p. 209.

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31. Ibid., p. 184; cf. anche le indicazioni bibliografiche a soggetto indicate in nota. 32. Ma vedi oltre, nella seconda parte di questo paragrafo. 33. Cf. C. Leonardi, «Agiografia», art. cit., p. 454. 34. Per l’influenza dei modelli dell’agiografia sul teatro medievale penso in particolare a Erich Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Bern, Francke, 1946; trad. it.: Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956, ed. it., vol. I, pp. 174 ss. 35. Cf. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit., p. 3. Delehaye classifica i generi della letteratura agiografica in base al fattore di storicità che li caratterizza, considerando miracula, inventiones e translationes come generi meno storici e più retorici rispetto alla passio e, in misura minore, rispetto alla vita. 36. Ad esempio si può considerare il catalogo dei miracula della Vergine o di un santo come l’antecedente più prossimo delle raccolte di exempla, quindi a ben vedere della novella, proprio per l’assoluto prevalere dell’elemento aneddotico. Il tratto caratteristico dei miracula che verrà parzialmente superato nelle sillogi esemplari, e a pieno titolo nei novellieri della fine del XIII secolo, è la natura irrelata dei singoli aneddoti. 37. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit. 38. Si differenziano cioè dagli Acta o passions historiques, che possono presentarsi sotto forma di enciclica, verbali del processo, «petits livres», e al valore storico, di testimonianza, aggiungono sempre un valore didascalico (tanto che, Delehaye conclude in maniera discutibile, falsificare dei dati sarebbe violare la filigrana tipologica, procedimento assurdo per un agiografo); ibid., p. 150. 39. Ibid., p. 308. 40. È stata inoltre riconosciuta l’influenza di altre forme letterarie brevi, fra cui in particolare l’apologo, sulla matrice narrativa della predicazione (cf. P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, op. cit., pp. 174 ss.). 41. Che si trova di gran lunga al primo posto nelle raccolte di exempla medievali. 42. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit. Cf. inoltre Idem, Les légendes hagiographiques, op. cit. 43. Penso in particolare al miracolo, ma non soltanto. Anche l’exitus del martire, che assume statura eroica in termini di coraggio e capacità sovrannaturale di sopportazione al dolore, è caratterizzato da frequenti incursioni nel meraviglioso. 44. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit. 45. Ibid., pp. 156 ss. 46. Ibid., pp. 183 ss. 47. Ibid., pp. 214 ss. 48. Ibid., pp. 204 ss. 49. Ibid., p. 203 : «Le panégyrique est […] un témoin attestant le culte local d’un martyr, attestant aussi la ferveur du culte rendu à tous les martyrs dans l’Église entière. Nous y trouverons parfois davantage : un vestige des traditions, écrites ou non, qui avaient cours dans les églises particulières par rapport au martyr, à ses antécédents, à son genre de mort»; vedi anche ibid., pp. 234-235. 50. Ibid., pp. 233 ss. 51. La tendenza all’amplificazione può considerarsi una polarità della cultura medievale costantemente in tensione con l’abbreviatio, ovvero con il carattere che accomuna, da un certo periodo in poi, i novellieri ai compilatori dei leggendari (legendae novae) diffusi dal IX secolo. 52. Cf. M. Acconcia Longo, «Vite passioni miracoli dei santi», art. cit., pp. 194 ss. 53. H. Delehaye, Les passions des martyrs…, op. cit., p. 312. 54. Paul Zumthor, Essai de poétique médiévale, Paris, Seuil, 1972, p. 179. Cf. inoltre H. Delehaye, Les passions des martyrs…, op. cit., pp. 236 ss. 55. Ibid., p. 238.

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56. Ibid., pp. 238-239. 57. Giorgio Barberi Squarotti, Il potere della parola. Studi sul Decameron, Napoli, Federico & Ardia, 1983. 58. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit., p. 261. 59. Ibid., pp. 239 ss. 60. Dal XIII secolo in avanti si ha una certa inversione di tendenza, caratterizzata dal ritorno in agiografia al prevalere dell’elemento biografico sul meraviglioso e féerique (cf. C. Bologna, «Fra devozione e tentazione...», art. cit., in part. p. 357, n. 180, che cita fra l’altro André Vauchez, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Âge, Roma, École française de Rome, 1981, pp. 617 ss.). 61. H. Delehaye, Les passions des martyrs…, op. cit., pp. 317 ss. 62. Ibid., p. 240. 63. Per una serie di esempi di temi romanzeschi passati nell’agiografia cf. P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, op. cit., pp. 204 ss. 64. Cf. P. Zumthor, Essai de poétique médiévale, op. cit., pp. 348-349 e 394. 65. Sull’orientalismo in agiografia, cf. P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, op. cit., pp. 204 ss. Una derivazione analoga è stata ipotizzata, a partire dal XIX secolo, per rendere ragione delle origini della novella; per un resoconto della questione e una presa di posizione cauta e ben argomentata cf. almeno S. Battaglia, Capitoli per una storia della novellistica italiana, op. cit. 66. Su cui Cf. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit., pp. 317 ss. La legenda di sant’Eustachio presenta fra l’altro diversi punti di contatto con la novella boccacciana del conte d’Anguersa (II, 8), la quale riprende anche il motivo agiografico della calunnia della donna respinta (cf. ad esempio la legenda dei santi Proto e Giacinto, Legenda aurea, CXXXVI). 67. Tradotta in ebraico e in arabo, verso il 630 in greco, nel X sec. in latino, nella prima metà del XIV in volgare italiano. 68. Sulla Vita di Barlaam e Josaphat cf. almeno L. Di Francia, Novellistica, 1924, op. cit., pp. 3-4; Arturo Graf, «La credenza nella fatalità» [1890], in Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, Milano, Mondadori, 1984 (prima ed. 2 vol., Torino, 1892-93; ed. def. in un vol., Torino, 1925), pp. 167-189, in part. pp. 184 ss.; P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, op. cit., pp. 178 ss. Anche la novella di Federigo degli Alberighi (V, 9) riprenderebbe per alcuni diverse leggende del Buddha, in particolare una secondo la quale egli si sarebbe gettato in pasto a una tigre affamata, donando con gratuità quel che aveva di più prezioso, la vita (riprendo queste osservazioni da Viktor Sklovskij, Chudožestvennaja proza, Moskva, Sovetskij Pisatel’, 1961, tr. it.: Lettura del Decameron. Dal romanzo d’avventura al romanzo di carattere, Bologna, Il Mulino, 1969; tr. it., p. 210). 69. Troppo vasta è la bibliografia sull’argomento perché se ne possa rendere conto in questa sede. Ricordo almeno C. Bologna, «Fra devozione e tentazione...», art. cit., in part. p. 311. 70. Ibid., p. 287. 71. Ibid., p. 309. 72. H. R. Jauss, Littérature médiévale et théorie des genres, op. cit., p. 82. 73. Per il punto sulla questione, oltre che per una proposta molto sensata di definizione del genere su base contrastiva, rinvio a C. Segre, «La novella e i generi letterari», art. cit. 74. Ed. in B. Weinberg (ed.), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, vol. III, Bari, Laterza, 1972, pp. 135-173; per un’attenta lettura della Lezione del Bonciani, cf. R. Bragantini, Il riso sotto il velame, op. cit. 75. Ibid., pp. 62-64. 76. «I generi letterari non sono istituzioni statiche, immutabili, condizionate esclusivamente da un archetipo unico ed infallibile. Essi sono piuttosto proiezioni in fieri di un archetipo base, sempre soggetto alle mutazioni apportate dalle nuove opere che con l’archetipo condividono alcuni tratti di base. Si parla dunque di relatività storica dei generi letterari, in accordo con

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Neuschäfer, per cui “les genres n’ont pas d’essence immuable donnée une fois pour toutes”. Ogni genere ha una sua dinamica interna e i condizionamenti imposti dalla tradizione dell’archetipo si scontrano costantemente con le deviazioni apportate da opere prodotte in climi letterari e storici diversi dal modello, che premono sulle strutture portanti del genere allo scopo di attuare delle aperture nuove che tendono continuamente a trasformarlo. In certi casi, queste trasformazioni ne intaccano così profondamente le strutture portanti, che l’archetipo di base non è più recuperabile e il genere converge verso un altro genere fino a fondersi con esso». M. Cottino- Jones, Il dir novellando…, op. cit., pp. 12-13. 77. H. R. Jauss, Littérature médiévale et théorie des genres, op. cit., p. 82; H.-J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle, op. cit.; C. Segre, «La novella e i generi letterari», art. cit. 78. S. Battaglia, «Tradizione e innovazione» [1947], in Capitoli per una storia della novellistica italiana, op. cit., pp. 25-37, p. 27 e 26. 79. C. Segre, «La novella e i generi letterari», art. cit.; R. Bragantini, Il riso sotto il velame, op. cit., in part. pp. 95 ss. Bragantini riconosce del resto le difficoltà incontrate nella definizione del genere, mostrando l’opportunità di adottare un metodo contrastivo, precisando cosa sia la novella sulla base di quanto non è novella. 80. H.-J. Neuschäfer, «Boccaccio et l’origine de la nouvelle», art. cit., p. 104; è lo stesso metodo applicato in maniera più diffusa in Boccaccio und der Beginn der Novelle, op. cit. 81. P. Zumthor, Essai de poétique médiévale, op. cit., p. 392. 82. Paul Zumthor, «La brièveté comme forme», in La nouvelle : genèse, codification et rayonnement…, op. cit., pp. 3-8, p. 3. R. Bragantini (Il riso sotto il velame, op. cit.) si mostra invece restio a classificare la novella in base a criteri dimensionali. 83. P. Zumthor, «La brièveté comme forme», art. cit., pp. 7-8; cf. inoltre Idem, Essai de poétique médiévale, op. cit., pp. 399-401. 84. Cf. in proposito il recente contributo di Thomas Pavel, il quale individua, di nuovo aristotelicamente, tra i caratteri della novella «la rappresentazione di un unico evento straordinario su uno sfondo verosimile […], suscettibile di trattamento comico o serio» («Il romanzo alla ricerca di se stesso. Saggio di morfologia storica», in F. Moretti (ed.), Il romanzo, II: Le forme, Torino, Einaudi, 2002, pp. 34-63, p. 45). 85. Il che rinvia alla concezione di Jolles della novella come scioglimento del Kasus. 86. Quest’ultimo punto, quello del carattere esemplare che caratterizza la novella e più in generale le forme brevi della letteratura medievale, trova concordi la maggior parte degli studiosi. Ricordo almeno la posizione di Jacques Le Goff e di Vittore Branca, secondo il quale strettissimo e imprescindibile sarebbe il nesso fra exemplum (inteso non soltanto in senso tecnico, ma appunto come esemplarità) e novella. 87. Cf. Giusi Baldissone, Le voci della novella. Storia di una scrittura da ascolto, Firenze, Olschki, 1992, in part. pp. 7-91; V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit. Sklovskij (pp. 167 ss.) riporta alcuni giudizi sette-ottocenteschi sui caratteri che individuerebbero la novella. Per Goethe e Schlegel in particolare, la novella va ricondotta al non ordinario, all’aneddoto «nuovo», ma non al meraviglioso, terreno di indagine di altri generi. 88. V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., p. 173: «La costruzione della novella si basa sulle contraddizioni esistenti nella vita, le quali, mediante avvenimenti di una serie diversa o col confronto di diverse serie, che illuminano in vario modo lo stesso caso, si vanno rivelando nel corso della narrazione». 89. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit., pp. 424 ss. 90. Ibid., p. 369. 91. P. Zumthor, Essai de poétique médiévale, op. cit., p. 392. 92. Fra la ricca letteratura a soggetto, di particolare attinenza con una considerazione dell’exemplum come genere letterario segnalo: S. Battaglia, «Tradizione e innovazione», art. cit.; Idem, «L’esempio medievale» [1959], in Capitoli per una storia della novellistica italiana, op. cit.,

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pp. 67-101; Idem, Dall’esempio alla novella, op. cit.; Claude Bremond, «Structure de l’exemplum chez Jacques de Vitry», in Atti del Convegno Internazionale Letterature classiche e narratologia (Selva di Fasano (Br), 6-8 ottobre 1980), Perugia, Istituto di Filologia latina dell’Università di Perugia, 1981, pp. 27-50; Claude Bremond, Jacques Le Goff, Jean-Claude Schmitt, L’exemplum, Turnhout, Brepols, 1982; Jean-Thiébault Welter, L’exemplum dans la littérature religieuse et didactique du Moyen Âge, 2 vol., Paris-Toulouse, Occitania, 1927; Michel Zink, «Le temps du récit et la mise en scène du narrateur dans le fabliau et dans l’exemplum», in La nouvelle : genèse, codification et rayonnement..., op. cit., pp. 27-44. 93. Cf. Hermann H. Wetzel, «Éléments socio-historiques d’un genre littéraire : l’histoire de la nouvelle jusqu’à Cervantes», in L. Sozzi et V. L. Saulnier (eds), La nouvelle française à la Renaissance, Genève, Slatkine, 1981, pp. 41-78. 94. «L’auteur d’un exemplum se porte garant de l’événement rapporté en précisant l’année où il s’est produit, à défaut celle où il l’a entendu de la bouche d’un témoin digne de foi» (M. Zink, «Le temps du récit…», art. cit., p. 29). Cf. inoltre S. Battaglia, «L’esempio medievale», art. cit., p. 79. 95. Ibid., pp. 72-72 e p. 79. 96. M. Zink, «Le temps du récit…», art. cit., p. 27. Cf. comunque quanto detto prima circa l’importanza dei Dialogi di Gregorio Magno nei confronti dell’ingresso della dimensione storica e contemporanea nei generi agiografici. 97. Si tratta di promptuaria, alphabeta, summae o specula. Ricordo almeno i Gesta Romanorum (fine XIII secolo), l’Alphabetum narrationum (fine XIII-inizi XIV secolo) e la Summa praedicantium (XIV secolo), che si diffondono presto anche in volgare. Gli exempla erano repertoriati anche in apposite sezioni di opere enciclopediche (fra cui gli Specula di Vincent de Beauvais e il De nugis curialium di Walter Map). 98. Erich Auerbach, Zur Technik der Frührenaissancenovelle in Italien und Frankreich, Heidelberg, Carl Winter, 1971; tr. it. La tecnica di composizione della novella, Roma-Napoli, Theoria, 1984; ed. it. p. 19: «A fini didattici, l’avvenimento veniva strappato rozzamente al suo terreno concreto e spogliato di ogni realtà, affinché potesse servire a un’etica estranea (exemplum), oppure finiva alla mercé del cantastorie, che senza pensarci su due volte accumulava effetti comici grossolani per far ridere gente riunitasi chissà come». Nelle raccolte medievali di exempla quella che sarà poi la novella (l’exemplum) veniva aggiunta a illustrazione di una tesi, un’etica… con procedimento artificioso. Si tratta infatti di massime spesso inventate o quasi per poter giustificare l’inserzione di un racconto. Maggiore importanza è, nelle sillogi di exempla, accordata alla cornice (che in qualche modo nelle raccolte di novelle perde importanza, fino a essere rifunzionalizzata dal Boccaccio), a cui è infatti dedicato maggiore sforzo compositivo (Ibid., pp. 21-22 e n. 10). 99. C. Bologna, «Fra devozione e tentazione...», art. cit., pp. 319 ss.; cf. inoltre C. Bremond, «Structure de l’exemplum chez Jacques de Vitry», art. cit. 100. Ma già molto prima. È il caso ad esempio di fra Giordano da Pisa (seconda metà del XIII sec.), le cui novelle ed exempla sono stati stralciati dai trascrittori delle sue prediche (Cf. C. Delcorno, Exemplum e letteratura…, op. cit., pp. 31-32). 101. Cf. inoltre due esempi, uno pre- e uno post-boccacciano, che illustrano sprezzo e scetticismo che hanno accompagnato la predicazione anche nel periodo del suo massimo fiorire. Penso a Dante, Pd., XXIX, vv. 109-129, e a Erasmo, Moriae encomium [1509], c. 45: «Cuius rei [cioè del fatto che molti siano attirati più dall’apparenza che dalla verità] si quis experimentum expositum et obvium quaerat, conciones ac templa petat, in quibus si quid serium narratur, dormitant, oscitant, nauseant omnes. Quod si clamator ille – lapsa sum, decalmator dicere volebam – ita ut saepe faciunt, anilem aliquam fabellam exordiatur, expergiscuntur, eriguntur, inhiant omnes. Item si quis sit divus fabulosior et poeticus, quod si exemplum requiris, finge huius generis Georgium aut Christophorum aut Barbaram, videbitis huc longe religiosius coli quam Petrum aut Paulum aut ipsum etiam Christum». Quanto ai rapporti fra sermo modernus e novella, essi vanno considerati nel più ampio discorso del realismo cristiano, opposto e complementare al

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meraviglioso. Va infatti tenuto presente che, già secondo Auerbach, «l’elemento quotidiano realistico è […] essenziale nell’arte medievale-cristiana» (Mimesis, op. cit., p. 174). Dapprima, l’inserimento del quotidiano è limitato a particolari di ambiente o a una sorta di contemporaneizzazione del passato (i milites si fanno chivalers, ecc.), ma «[dal XV secolo] la cosa cambia aspetto; comincia a prosperare un realismo crudo e sorgono forme di mescolanza di stili e di immediata giustapposizione di passione e di farsa grossolana» (ivi), e: «Non si può dire con sicurezza quando questo fenomeno sia incominciato, probabilmente già molto prima di quanto i testi drammatici conservati facciano supporre» (ivi). Auerbach cita come prove a sostegno della propria tesi che già nel XII sec. abbiamo notizia di critiche nei confronti dell’elemento realistico nelle rappresentazioni di misteri. Il discorso di Auerbach si riferisce in particolare ai misteri e alle sacre rappresentazioni, tuttavia «[la compenetrazione di sacro e secolo] non si limita soltanto alla letteratura drammatica cristiana, ma si trova dovunque nella letteratura cristiana del Medioevo […] non appena essa è destinata a una cerchia più ampia. In modo particolare ciò dovrebbe manifestarsi nella predica popolare, di cui abbiamo però esempi più abbondanti soltanto molto più tardi […]; in essi si vede l’accostamento di un’interpretazione figurale della Scrittura a un realismo ardito, che portò successivamente a un gusto per il grottesco». Il rapporto fra novellistica e predicazione non va soltanto indagato in una prospettiva di intertestualità. Così facendo si ridurrebbe il ruolo della novellistica, in questo che sembra un passaggio di contenuti in cambio del passaggio di forme avvenuto centocinquant’anni prima, all’ennesimo materiale quanto mai eterogeneo cui i predicatori potevano attingere per arricchire i loro sermoni. Se tale esigenza di un allargamento della gamma delle fonti si era certo manifestata – non senza perplessità, restrizioni e opposizioni di sorta – con tanta più urgenza con il passaggio al sermo modernus, risalente al XIII secolo, e in particolare con il diffondersi delle artes praedicandi fra 1220 e 1250, un approccio intertestuale all’indagine delle contaminazioni fra novella e predicazione rischierebbe di capovolgere grottescamente il problema dell’auctoritas. 102. M. Zink, Le temps du récit…, op. cit., p. 43 : «La démonstration de la vérité d’ordre moral, qui est la leçon de l’exemplum, passe par l’affirmation de la vérité référentielle de l’anecdote qui l’illustre». 103. H.-J. Neuschäfer, «Boccaccio et l’origine de la nouvelle», art. cit., p. 105. 104. Vedi sopra. Neuschäfer riconosce nel passaggio dall’exemplum alla novella un relativizzarsi della morale; Edoardo Sanguineti, Lettura del Decameron, Salerno, 10/17, 1989, p. 23, parafrasa la medesima intuizione rinviandola alle categorie della cultura medievale, e riconoscendo nel Decameron quello che considera un passaggio dall’exemplum alla quaestio. 105. C. Bremond, «Structure de l’exemplum chez Jacques de Vitry», art. cit. 106. Non è un caso se, pochi decenni dopo il Decameron, Giovanni Sercambi chiama esempi le sue novelle, proprio a testimoniare un rapporto di particolare prossimità tra le due forme. 107. Sul rapporto fra exemplum e novella, e più specificamente fra Decameron e Novellino, Cf. Giovanni Cappello, La dimensione macrotestuale. Dante, Boccaccio, Petrarca, Ravenna, Longo, 1998, pp. 164 ss. 108. In questo senso ho parlato di dinamizzazione del Kasus. Per il passaggio dall’exemplum alla novella cf. inoltre H.-J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle, op. cit., pp. 52-75. 109. E. Auerbach, La tecnica di composizione della novella, op. cit., pp. 74-75. 110. S. Battaglia («Tradizione e innovazione», art. cit., p. 26) arriva a negare legami di tipo non tematico fra exemplum e novella (riconoscendo d’altra parte relativamente prive di interesse le ricerche genealogiche sulla “fortuna” di un motivo). 111. V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., p. 172. Scettico nei confronti dell’applicabilità della ricerca indiscriminata delle fonti nella novellistica è anche S. Battaglia (cf. in part. Capitoli per una storia della novellistica italiana, op. cit.). 112. Largamente incompleti sono gli studi sulla tematica religiosa in Boccaccio. Mi riferisco in particolare a Florinda M. Iannace, La religione di Boccaccio, Roma, Trevi, 1977, e a Cormac

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O’Cuillenáin, Religion and the Clergy in Boccaccio’s Decameron, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984. Un interessante case study, sebbene prospetti la questione da un’ottica esclusivamente antropologico-religiosa, è Paolo Valesio, «Il sacro», in R. Brigantini, P. M. Forni (eds), Lessico critico decameroniano, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 372-418. Per quanto riguarda la superstizione nel Decameron, andrebbero aggiornate le pagine molto acute di Arturo Graf, «Fu superstizioso il Boccaccio?» [1885], in Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, op. cit., pp. 257-277; cf. inoltre Maria Pia Giardini, Tradizioni popolari nel Decameron, Firenze, Olschki, 1965; Elisabetta Menetti, Il Decameron fantastico, Bologna, CLUEB, 1994. Più in generale sui rapporti fra novella decameroniana e agiografia, con particolare riferimento a legenda e raccolte di miracoli, cf. H.-J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle, op. cit., pp. 90-99. Fondamentali restano gli studi di Carlo Delcorno (in part. «Modelli agiografici e modelli narrativi», in La novella italiana, op. cit., vol. I, pp. 337-363; Exemplum e letteratura tra Medioevo e Rinascimento, op. cit.). Oggetto di analisi di Delcorno sono appunto alcune delle forme (exempla e sermones) della letteratura agiografica, colte nel loro passaggio nella cultura laica. 113. Mi rifaccio in part. alla lettura di Karin Schöpflin, «Boccaccios Griselda und Hiob», Romanistisches Jahrbuch, 42, 1991, pp. 136-149. Cf. inoltre, su Dec., II, 3, Ruggero Stefanini, «La leggenda di Sant’Eugenia e la novella d’Alessandro», Romance Philology, 33, 1980, pp. 388-410. 114. Cf. G. Barberi Squarotti, «Quattro confessioni» [1980], in Il potere della parola, op. cit., pp. 97-127, che accosta la confessione di Ciappelletto a Bandello, VI, e a due episodi di confessione dal Morgante di Pulci e dal Baldus di Folengo. 115. Per l’analisi della novella mi rifaccio a Giusi Baldissone, «Il piacere di narrare a piacere», art. cit., in part. pp. 17 ss.; G. Barberi Squarotti, «Quattro confessioni», art. cit.; Vittore Branca, «Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», in C. Ballerini (ed.), Atti del convegno di Nimega sul Boccaccio (28-30 ottobre 1975), Bologna, Patron, 1976, pp. 13-35; G. Cappello, La dimensione macrotestuale..., op. cit., pp. 148 ss. (sulla dimensione del religioso in Dec. I, 1 / I, 3); C. Delcorno, Exemplum e letteratura…, op. cit., pp. 269-276; Anna Fontes-Baratto, «Le thème de la beffa dans le Décaméron», in André Rochon (ed.), Formes et significations de la « beffa » dans la littérature italienne de la Renaissance, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1972, pp. 11-44; Robert Hollander, «Boccaccio’s Dante: imitative distance (Decameron I, 1 and VI, 10)», Studi sul Boccaccio, 13, 1981-1982, pp. 169-198 (interessante tentativo di trovare echi del Brunetto della Commedia nella figura di Ciappelletto, e altri antecedenti danteschi di tratti della novella di frate Cipolla); C. O’Cuillenáin, Religion and the Clergy in Boccaccio’s Decameron, op. cit., pp. 154 ss.; Luciano Rossi, «Ironia e parodia nel Decameron: da Ciappelletto a Griselda», in La novella italiana, op. cit., vol. I, pp. 365-405; V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., pp. 203-205; P. Valesio, «Il sacro», art. cit., pp. 396 ss. 116. V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., p. 204. 117. Cf. tuttavia G. Baldissone, «Il piacere di narrare a piacere», art. cit., e G. Barberi Squarotti, «Quattro confessioni», art. cit. 118. V. Sklovskij (Lettura del Decameron, op. cit., pp. 203 ss.) sottolinea il legame fra la confessione di Ciappelletto narrata da Panfilo e le vite dei santi. Cf. anche G. Baldissone, «Il piacere di narrare a piacere», art. cit., p. 18. 119. È la lettura che suggerisce fra gli altri V. Branca («Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», art. cit., p. 26). 120. Altra lettura possibile è ovviamente quella satirica, di un Boccaccio che si fa beffe della superstizione del popolo, che venera come santo «il piggiore uomo che mai si nascesse» (I, 1, 15). Non infrequenti nell’agiografia sono episodi di briganti o criminali oggetto di culto superstizioso da parte della popolazione locale, ma ovviamente conoscono una fine ben diversa. 121. V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., p. 205: «La forma agiografica data alla storia del furfante acuisce la percezione della differenza, suggerisce il sospetto circa la verosimiglianza anche delle altre Vite, e mediante il confronto della storia di un furfante con le Vite dei santi viene

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smentita, nonostante la compunzione del discorso, l’idea stessa dell’intercessione di un santo per dei peccatori». 122. Cf. P. Valesio, «Il sacro», art. cit. Valesio riconosce fra l’altro (pp. 396 ss.) una possibile fonte della novella nella Lettera ai fedeli di san Francesco. Si tratta, a parere dello studioso, di «genealogia non solo tematica ma anche formale» (p. 399). 123. I, 1, 30. Al frate che confessa Ciappelletto dunque, come poco dopo a Ciappelletto stesso, canonizzato, i cittadini erano molto devoti. 124. A. Fontes-Baratto, «Le thème de la beffa...», art. cit., pp. 37-39. La studiosa identifica la beffa messa in atto da Ciappelletto come l’archetipo della ‘perdita dell’innocenza’ da parte del beffatore. Ritengo che in questo caso sia in azione un modello parodico, letterario quindi, e non psicologico-esistenziale, come la lettura della studiosa suggerisce, né strettamente teologico, come quello che spiegherebbe la novella di Ciappelletto in termini di unica risposta possibile e manifestazione naturale dell’intelligenza dell’uomo laico privato del rapporto col divino che garantiva le generazioni precedenti. 125. P. Valesio, «Il sacro», art. cit., p. 406. 126. Come sembra suggerire il Boccaccio; Cf. I, 1, 28. 127. Cf. in part. G. Barberi Squarotti, «Quattro confessioni», art. cit. 128. Come fa G. Baldissone («Il piacere di narrare a piacere», art. cit., pp. 20-21). La studiosa ritiene inoltre che la novella di Ciappelletto, come pure quella di frate Cipolla (VI, 10), non attacchino né intacchino la religione in sé, né tantomeno misconoscano il valore o la possibilità di un rapporto diretto con Dio. 129. P. Valesio, «Il sacro», art. cit., p. 404. 130. Cf. V. Branca, «Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», art. cit., p. 26. 131. Che contiene un «capovolgimento dei comandamenti del decalogo» (G. Barberi Squarotti, «Quattro confessioni», art. cit., p. 98). 132. Ibid., p. 99. 133. Ibid., p. 104-105. 134. Ibid., p. 108. 135. Interessante a questo proposito è la componente di esibizionismo che emerge dal ritratto di Ciappelletto. Non solo egli gioisce nel violare precetti divini (e umani), ma ama ancor più ostentare tali trasgressioni. 136. Cf. G. Barberi Squarotti, «Quattro confessioni», art. cit., p. 108. 137. La novella boccacciana conosce una larga fortuna, a partire dalla ripresa del Sercambi (nov. CVI). 138. Una ripresa particolarmente interessante del soggetto si ha, al di fuori dell’area italiana, nella novella 78 delle Cent Nouvelles Nouvelles. 139. Sulla novella: G. Barberi Squarotti, «La forma dell’avventura», in Il potere della parola, op. cit., pp. 155-173; C. O’Cuillenáin, Religion and the Clergy…, op. cit., pp. 151 ss. 140. Grande sarà la fortuna della figura del religioso mezzano, in buona o in cattiva fede. Penso in particolare, in questa seconda accezione, a Fra Timoteo nella Mandragola machiavelliana. 141. G. Barberi Squarotti, «La forma dell’avventura», art. cit., p. 161. 142. Si trovano degli esempi di confessioni, ai quali però non pare il Boccaccio si sia ispirato, in Novellino LXXXVII, XCI e XCIII ed. Gualteruzzi. In E. Auerbach (La tecnica di composizione della novella, op. cit., pp. 80-81) trovo un cenno a un altro caso celebre di confessione sacrilega, quello di Gianni Schicchi (ricordato anche in Dante, Inf., XXX, 32), che avrà una certa diffusione novellistica, fino a Puccini. Auerbach ricorda la nov. 67 della raccolta Zambrini. 143. Ricordo almeno: Lucia Battaglia Ricci, « Exemplum e novella», in G. Auzzas, G. Baffetti, C. Delcorno (eds), Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI. Atti del Seminario di studi (Bologna, 15-17 novembre 2001), Firenze, Olschki, 2003, pp. 281-293; Carlo Delcorno, «Studi sugli exempla e il Decameron», Studi sul Boccaccio, 15,

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1985-1986, pp. 189-214 (poi come Metamorfosi boccacciane dell’exemplum, in Exemplum e letteratura…, op. cit., pp. 265-294); Idem, «Modelli agiografici…», art. cit.; Vittore Branca, «L’exemplum, il Decameron e Iacopo da Varazze», in Varazze, G. Farris e B. Tino Delfino (eds), Iacopo da Varagine. Atti del primo convegno di studi, Cogoleto, SMA, 1987, pp. 207-222; Vittore Branca-Chiara Degani, «Studi sugli exempla e il Decameron», Studi sul Boccaccio, 14, 1983-1984, pp. 178-208. 144. Mi rifaccio in particolare a quanto emerge da V. Branca e C. Degani, «Studi sugli exempla e il Decameron», art. cit. 145. G. Barberi Squarotti, «La cornice del Decameron o il mito di Robinson» [1970], in Il potere della parola, op. cit., pp. 5-63, in part. p. 59. 146. Cf. V. Branca, «L’ exemplum, il Decameron e Iacopo da Varazze», art. cit., pp. 210 ss. L’importanza della cornice nelle raccolte di exempla non è tuttavia universalmente riconosciuta. E. Auerbach (La tecnica di composizione della novella, op. cit.) trova scarsi cambiamenti negli exempla tratti da sillogi dotate di un inquadramento dottrinale, e trasposti in altre, come i Fioretti, prive di cornice. 147. Solitamente non si cerca infatti una progressione negli exempla, con effetti di climax o anticlimax. 148. Cf. Claude Perrus, «La nouvelle X, 10 du Décaméron : une anti-nouvelle ?», Arzanà, 3 (1995), pp. 129-160. 149. Ibid., pp. 132-133. Sulla novella di Griselda tuttavia vedi il paragrafo successivo. 150. Cf. Giorgio Barberi Squarotti, «L’orazione di Alatiel», in Il potere della parola, op. cit., pp. 64-96, p. 66. 151. Cf. fra l’altro C. Delcorno, «Modelli agiografici…», art. cit.; L. Di Francia, Novellistica, 1924, op. cit., in part. p. 16; Diane Duyos Vacca, «Converting Alibech: “Nunc spiritu copuleris”», Journal of Medieval and Renaissance Studies, 25, 2, 1995, pp. 207-227. 152. Nov. XIV ed. Gualteruzzi. 153. Cf. G. Boccaccio, Decameron, ed. cit., pp. 462-463 (n. 5). Si tratta di un motivo molto diffuso, non soltanto in riferimento a interdetti di natura religiosa. Penso (e ringrazio Enzo Neppi per avermi fatto riflettere in merito) alle scene iniziali del Perceval di Chrétien de Troyes, in cui la madre di Perceval fa di tutto perché il figlio non sia tentato di diventare cavaliere. 154. D. Duyos Vacca («Converting Alibech...», art. cit., p. 224) nota come il fatto che i diavoli della tradizione siano diventati nient’altro che papere comporti già un’attenuazione della percezione negativa della donna, anche dal punto di vista del rigoroso « cratilista » Filippo Balducci. La studiosa non tiene presente che l’alternanza fra papere o oche e diavoli è già nella tradizione. Significativo è semmai (ma bisognerebbe appurare quale versione il Boccaccio effettivamente conoscesse) che il narratore del Decameron scelga la variante delle papere anziché quella dei diavoli, tanto più che il diavolo era già presente nella novella immediatamente precedente, quella di Rustico e Alibech. 155. Cf. Andrea Baldi, «La retorica dell’exemplum nella novella di Nastagio», Italian Quarterly, 32, 1995, p. 17-28; L. Di Francia, Novellistica, 1924, op. cit., pp. 155 ss. e 177; Gerald Kambler, «Antitesi e sintesi in Nastagio degli Onesti», Italica, 44, 1967, pp. 61-67; C. O’Cuillenáin, Religion and the Clergy…, op. cit., pp. 224 ss; Guido Pugliese, «Nastagio degli Onesti ovverosia della lotta dei sessi», Ipotesi 80, 1983, pp. 3-13; Cesare Segre, «La novella di Nastagio: i due tempi della visione», in Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, pp. 87-96; V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., pp. 225 ss. 156. Ciò si percepisce in maniera molto precisa anche nell’analogo dantesco. 157. Cf. G. Boccaccio, Decameron, ed. cit., pp. 670-671 (n. 3). 158. Ben diversa e più ‘seria’ è l’altra caccia infernale del Decameron, quella del sogno premonitore di Gabriotto in IV, 6.

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159. L’uso del verbo «dimostrare» è un altro elemento che riconduce la novella alla sua matrice esemplare; non è forse casuale neppure il fatto che Filomena dica che il fine della sua narrazione è di «cacciare» la crudeltà dall’animo muliebre. 160. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit., p. 24. 161. H. Delehaye ( ibid., pp. 320-321) postula un legame fra le vite prima del martirio e il sottogenere delle Enfances nelle chansons de geste. 162. Su questa tendenza da parte dei redattori delle passiones. Cf. ibid., pp. 273 ss. 163. Su cui Cf. fra l’altro G. Barberi Squarotti, «L’ambigua sociologia di Griselda» [1970], ora in Il potere della parola, op. cit., pp. 193-230; Marga Cottino-Jones, «Realtà e mito in Griselda», Problemi, 11-12, 1968, pp. 522-523; Eadem, «Fabula vs. Figura. Another interpretation of the Griselda Story», Italica, 50, 1973, pp. 38-52; Raffaele Morabito, «Griselda tra exemplum ed esempio», in A. Montadon (ed.), Traités de savoir-vivre en Italie, Clermont-Ferrand, université de Clermont- Ferrand 2 (Publications de la Faculté des lettres et sciences humaines), 1993, pp. 25-43; C. O’Cuillenáin, Religion and the Clergy…, op. cit., pp. 145 ss. e 270 ss.; C. Perrus, «La nouvelle X, 10», art. cit.; L. Rossi, «Ironia e parodia…», art. cit. Cf. inoltre la bibliografia riportata da Branca in G. Boccaccio, Decameron, ed. cit., pp. CXIX-CXXII. 164. In merito cf. Rossella Bessi, «La Griselda del Petrarca», in La novella italiana, op. cit., vol. II, pp. 711-726; Maria Cristina Panzera, «La nouvelle de Griselda et les Seniles de Pétrarque», Cahiers d’Études italiennes, 4, 2005, pp. 33-49. 165. C. Perrus, «La nouvelle X, 10», art. cit., p. 133. 166. Cf. G. Barberi Squarotti, «L’ambigua sociologia di Griselda», art. cit., p. 204. 167. Per la fortuna della storia di Griselda rinvio in part. a: G. Cappello, La dimensione macrotestuale, op. cit., n. 6 p. 139, e a R. Morabito (ed.), La storia di Griselda in Europa, L’Aquila-Roma, Japadre, 1990, oltre all’imprescindibile V. Branca, «Origini e fortuna europea della Griselda», in Boccaccio medievale, op. cit., pp. 308-313. La storia di Griselda è ripresa fra gli altri dal Sercambi (De muliere costante, nov. CLII) e nel Menasgier de Paris. Il personaggio di Griselda contribuirà fra l’altro alla creazione di un tipo molto fortunato nella novellistica, quello appunto della mulier patiens, che torna anche ad esempio in Straparola con le figure di Doralice (III, 4), Biancabella (III, 3), Chiaretta (IV, 3), particolarmente vicine alla Griselda boccacciana per l’atmosfera fiabesca in cui si muovono. 168. Vedi sopra, n. 113. «È il grande tema biblico del libro di Giobbe, a cui l’agiografia e la letteratura medievale avevano aggiunto l’ulteriore seduzione patetica della protagonista femminile nelle leggende di S. Uliva e di S. Genoveffa, di Rosana: l’accrescimento estremo, cioè della fragilità, della debolezza fisica e fisiologica della vittima, con la connessione, che vi è inevitabile, dell’elemento sadico nell’esporre i casi della donna più crudelmente e violentemente messa alla prova quanto più appare indifesa, incapace di efficaci risorse e priva delle forze fisiche adatte per resistere ai tormenti del corpo, e tradizionalmente indicata come esposta al più rapido cedimento morale, fragile nelle virtù, abbandonata alle tentazioni, pronta a cedere anche alle più tenui minacce» (G. Barberi Squarotti, «L’ambigua sociologia di Griselda», art. cit., pp. 205-206). 169. «L’ambigua sociologia di Griselda», art. cit. 170. «Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso non solamente asciutto ma lieto sofferir le rigide e mai più non udite pruove da Gualtier fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto a una che quando, fuor di casa, l’avesse fuori in camiscia cacciata, s’avesse sì a un altro fatto scuotere il pilliccione che riuscito ne fosse una bella roba» (X, 10, 68-69). 171. G. Barberi Squarotti, «L’ambigua sociologia di Griselda», art. cit., pp. 204 ss. C. Perrus («La nouvelle X, 10», art. cit.) riconosce nella novella di Griselda l’inquadramento, entro una cornice agiografica, di elementi topici dei contes, oltre che del romanzo cavalleresco, del quale, più che della società feudale, la novella in questione può rappresentare una parodia. 172. G. Barberi Squarotti, «L’ambigua sociologia di Griselda», art. cit., p. 205 ss

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173. «Solo il rapporto con Dio può rendere ragione di una tale gerarchia di valori nelle prova di Griselda», ibid., p. 206. 174. Ibid., pp. 205-211. 175. Le funzioni proppiane sono fra l’altro utilmente applicabili alla novella, il che suggerisce che ci troviamo di fronte a un testo non solo dotato di una matrice fiabesca, come sostiene Barberi Squarotti, ma anche particolarmente vicino alla fiaba di magia, intesa come genere e tradizione. 176. G. Barberi Squarotti, «L’ambigua sociologia di Griselda», art. cit., pp. 207 ss. 177. Ibid., p. 223. 178. La prova da affrontare è per la verità un motivo troppo generico perché lo si possa ascrivere al genere della passio. Questa è una delle ragioni per cui mi limito ad accennare a questa seconda mulier tenace boccacciana. Sarebbe altrimenti anche da considerare il caso di molte altre novelle, fra cui in particolare quelle di Tancredi (IV, 1) e di Lisabetta da Messina (IV, 5). 179. La cui vicenda sarà portata al successo dallo shakespeariano All’s well that ends well. 180. C. Bologna, «Fra devozione e tentazione...», art. cit., p. 265. Sul meraviglioso in agiografia cf. inoltre (ma la bibliografia è ovviamente sterminata): H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit., pp. 287 ss.; P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, op. cit., pp. 230 ss.; V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., pp. 72 ss. 181. P. Zumthor, Essai de poétique médiévale, op. cit., p. 139. 182. C. Bologna, «Fra devozione e tentazione...», art. cit., p. 282. Sul meraviglioso specificamente cristiano, pp. 308 ss. 183. Ibid., pp. 312-313. 184. Rimando a tal proposito alla casistica analizzata in A. Fontes-Baratto, «Le thème de la beffa...», art. cit., in part. p. 15. 185. Su cui V. Branca, «Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», art. cit., pp. 26-27; cf. inoltre C. O’Cuillenáin, Religion and the Clergy…, op. cit., pp. 235 ss. 186. Arturo Graf, «San Giuliano nel Decamerone e altrove», in Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, op. cit., pp. 279-286. 187. Sulla novella di frate Puccio cf. in part. C. Delcorno, «Modelli agiografici…», art. cit.; P. Valesio, «Il sacro», art. cit., pp. 393 ss. Lo studioso parla di «anti-ierofania» (p. 395). 188. Cf. M. P. Giardini, Tradizioni popolari nel Decameron, op. cit., pp. 40 ss. 189. G. Barberi Squarotti, «Gli ammaestramenti di Dioneo» [1977], in Il potere della parola, op. cit., pp. 174-192. 190. V. Branca, «Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», art. cit., pp. 26-27. 191. A. Graf, «San Giuliano nel Decamerone e altrove», art. cit. 192. G. Barberi Squarotti, «Gli ammaestramenti di Dioneo», art. cit., p. 180. 193. Ibid., p. 185; Cf. inoltre Idem, «L’ambigua sociologia di Griselda», art. cit., pp. 195-196. L’episodio della donna che si trasforma in cavalla è un topos già dalle Vitae Patrum, poi in Vincent de Beauvais e Jacques de Vitry. 194. Si possono trovare innumerevoli altri esempi di meraviglioso novellistico inteso in senso simile (come pure di satira ai danni della superstizione). Particolarmente vicino alla concezione boccacciana, anche perché di matrice senza dubbio agiografica, è il caso della nov. II, 3 dello Straparola. Si tratta di un exemplum di libido punita attraverso trasformazioni delle vittime in diversi oggetti, con evidente effetto comico e grottesco. Modello dello Straparola è, con ogni probabilità, la legenda di santa Anastasia (Legenda aurea, VII). 195. Cf. C. Delcorno, Exemplum e letteratura…, op. cit., pp. 282 ss. 196. Interessante è per esempio il fatto che il brigante, prima di derubare Rinaldo, dica quali sono le orazioni che lui è solito pronunciare quotidianamente (II, 2, 12). 197. Cf. G. Barberi Squarotti, «Il trionfo di frate Cipolla», in Il potere della parola, op. cit., pp. 128-154; Percy Matenko, «The prototype of Cipolla», Italica, 31, 1954, pp. 133-135; Patrick

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Mula, «Le pélerinage de frate Cipolla : une ironie à tiroirs», Filigrana, I , 1993, pp. 32-71; C. O’Cuillenáin, Religion and the Clergy…, op. cit., pp. 177 ss. e 188 ss.; Manlio Pastore Stocchi, «Dioneo e l’orazione di Fra Cipolla», Studi sul Boccaccio, 10, 1977-1978, pp. 201-215; Jonathan Usher, «Frate Cipolla’s Ars praedicandi or a “récit du discours” in Boccaccio», Modern Language Review, 88 (1993), pp. 321-336. La novella di frate Cipolla pertiene anche ad altre forme qui trattate, in particolare al miracolo. Mi pare tuttavia che, a livello del meccanismo d’innesco del (finto) soprannaturale, sia riconducibile alla casistica già vista. 198. Cf. J. Usher, «Frate Cipolla’s Ars praedicandi...», art. cit., pp. 328 ss. 199. M. Pastore Stocchi, «Dioneo e l’orazione di Fra Cipolla», art. cit., pp. 206-207. 200. Ibid., p. 208 (lo studioso pensa fra gli altri a Niccolò da Poggibonsi e a Paolino Veneto). 201. La stessa esasperazione della capacità demiurgica del linguaggio si trova altrove, come in VIII, 3 dove Maso del Saggio (al quale non a caso frate Cipolla fa riferimento) crea davanti agli occhi del credulo Calandrino il fantasmagorico paese di Berlinzone. Sul piano della parodia del linguaggio dell’agiografia, è chiaro che il Boccaccio si è inserito nel solco di una tradizione, minoritaria e sotterranea certo, ma che annovera fra gli altri il Roman de la rose, che rifà in chiave profana (laddove la polarità fra eros e caritas si mostra una costante della cultura medievale) il Cantico dei cantici, e alcuni fabliaux che costituiscono una parodia dell’Imitatio Christi sullo sfondo di adulteri aventi come protagonisti dei chierici (D. Duyos Vacca, «Converting Alibech...», art. cit., p. 210). Alcuni esempi di parodia del linguaggio sacro, categovia che consegue naturalmente dall’oggetto di questo paragrafo, costituendo il contenuto di sermoni e orazioni qui considerate, si trovano nel successivo. 202. J. Usher, «Frate Cipolla’s Ars praedicandi...», art. cit., p. 336. 203. Anche sulle reliquie false, e sull’uso che se ne fa nel Medioevo la critica ha scritto molto. Cf. almeno P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, op. cit., pp. 33 ss. 204. J. Usher, «Frate Cipolla’s Ars praedicandi...», art. cit., p. 330. 205. Ibid., p. 331. Lo studioso propone fra l’altro una serie di analogie fra le reliquie di cui frate Cipolla si trova in possesso e alcuni passi della Vita prima e secunda di Francesco d’Assisi di Tommaso da Celano, oltre a una (forse troppo) fitta serie di rimandi intertestuali alle Scritture, tanto che risulta Boccaccio abbia tenuto costantemente conto dell’auctoritas testamentaria per ‘fondare’ teologicamente le reliquie. E le reliquie che hanno a che fare con il fuoco servirebbero appunto per «raccendere la divozione» (VI, 10, 51) nell’animo dei Certaldesi. Un fortunato motivo novellistico collegato alle reliquie è quello delle brache di san Griffone (o di san Francesco), derivante da Dec., IX, 2. 206. G. Barberi Squarotti, «L’orazione di Alatiel», art. cit.; V. Branca, «Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», art. cit., p. 27; Giancarlo Mazzacurati, «Alatiel ovvero gli alibi del desiderio», in Forma e ideologia, Napoli, Liguori, 1974, pp. 25-62; Michelangelo Picone, «Il romanzo di Alatiel», Studi sul Boccaccio, 23, 1995, pp. 197-217 (sui precedenti della novella boccacciana nel romanzo greco); Cesare Segre, «Comicità strutturale della novella di Alatiel», in Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 145-159; V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., pp. 22 ss.; P. Valesio, «Il sacro», art. cit., pp. 383 ss. 207. V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit. 208. G. Barberi Squarotti, «L’orazione di Alatiel», art. cit.; V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., pp. 222 ss. 209. P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, op. cit., pp. 246-247. 210. Cf. in particolare Carlo Delcorno, «La ‘predica’ di Tedaldo», Studi sul Boccaccio, 27, 2002, pp. 55-80, p. 75. 211. Erich Auerbach, «Frate Alberto», in Mimesis, op. cit., ed. it. vol. I, pp. 222-252; Saverio Bellomo, «La caduta dell’agnolo Gabriello», in L’angelo dell’immaginazione, F. Rosa (ed.), Trento, Dipartimento di scienze filologiche e storiche, 1992 ; Millicent J. Marcus, «The accomodating Frate Alberto», Italica, 56, 1979, pp. 3-21; H.-J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle,

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op. cit., pp. 58 ss.; Michelangelo Picone, «Alle fonti del Decameron: il caso di frate Alberto», in La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, C. Di Girolamo, I. Paccagnella (eds), , Sellerio, 1982, pp. 99-117. 212. V. Sklovskij, Lettura del Decameron, op. cit., pp. 214-215. 213. V. Branca, «Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», art. cit., pp. 27-28. 214. Cf. Louise George Clubb, «Boccaccio and the boundaries of love», Italica, 38, 1960, pp. 188-196; la novella in questione, specie se ricondotta a uno dei suoi motivi, quello dell’apparizione, conosce larga diffusione. Interessante è in particolare la versione che si trova nel Pecorone (XIII, 2), dove il futuro Bonifacio VIII si presenta a Celestino sotto le spoglie di un angelo. Su questo motivo e le sue ramificazioni cf. in part. Arturo Graf, «Il rifiuto di Celestino V», in Miti, leggende e superstizioni del Medioevo, op. cit., pp. 287-292. Ecco la conclusione del Graf, molto pertinente alla novella di frate Alberto: «la leggenda […] entra nel copioso gruppo di quei racconti, diffusi così in Oriente come in Occidente, nei quali un mortale prende l’aspetto e gli attributi di alcun essere soprannaturale, per così ingannare altrui e ottenere i suoi fini» (p. 292). 215. Steven M. Grossvogel, «Frate Rinaldo’s paternoster to saint Ambrose», Studi sul Boccaccio, 13, 1981-1982, pp. 161-167. Lo studioso riconosce un rapporto fra il motivo della colomba e l’iconografia di sant’Ambrogio Sansedoni, nel cui nome la novella si conclude. 216. Numerosi sono i viaggi nell’aldilà nella letteratura agiografica, in particolare quelli che hanno come meta il purgatorio. Solo per citarne alcuni ricordo san Patrizio, santa Caterina di Bolsena, san Brandano, le cui imprese sono ovviamente ispirate al modello della catabasi di Cristo. Oltre alla ricca letteratura a soggetto, Cf. almeno P. Saintyves, Les saints successeurs des dieux, op. cit., pp. 277 ss. 217. Che sono un motivo di troppo ampia diffusione perché se ne possa ipotizzare un’ascendenza agiografica. Sui sogni profetici nel Decameron (notevoli quelli di IV, 5, IV, 6 e IX, 7), Cf. Pierre Blanc, «Vision d’amour et lumières du rêve», Arzanà, 4, 1997, pp. 89-116; Barry Jones, «Dreams and ideology», Studi sul Boccaccio, 10, 1977-1978, pp. 149-161. 218. Vanni Bramanti, «Il Purgatorio di Ferondo», Studi sul Boccaccio, 7, 1973, pp. 178-187; C. Delcorno, Exemplum e letteratura…, op. cit., pp. 276 ss.; H.-J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle, op. cit., pp. 95 ss. 219. Penso in particolare a frate Puccio. 220. C. Delcorno, Exemplum e letteratura…, op. cit., pp. 276 ss. 221. La novella di Ferondo conosce una moderata fortuna. Ho trovato le riprese di Sabadino degli Arienti (Le Porrettane, nov. XLI) e del Doni (nov. VI). Anche Falananna nel novelliere del Lasca (II, 2), su cui Francesco Bruni, Sistemi critici e strutture narrative (Ricerche sulla cultura fiorentina del Rinascimento), Napoli, Liguori, 1969, pp. 161-174, visita i regni dell’oltretomba. Costui è inoltre vittima di un finto martirio, e muore realmente allorché la folla lo crede resuscitato. La novella del Lasca è una satira, nemmeno troppo velata, della superstizione popolare. In questa ottica la figura di Falananna è forse una parodia di Cristo. 222. Il motivo dell’amicizia che lega oltre la morte è molto diffuso all’epoca, nella letteratura cortese come in agiografia. 223. G. Barberi Squarotti, «L’orazione di Alatiel», art. cit., p. 65, che si rifà al giudizio di Branca; Cf. inoltre P. Blanc, «Vision d’amour…», art. cit., in part. p. 115, n. 4. Lo studioso riconosce appunto nell’apparizione di Lorenzo a Lisabetta una laicizzazione del topos agiografico del santo che si manifesta in sogno ai fedeli per comunicare loro dove si trova il suo corpo e permetterne così l’inventio. 224. Cf. Piero Camporesi, La casa dell’eternità, Milano, Garzanti, 1987. 225. G. Barberi Squarotti, «L’orazione di Alatiel», art. cit., p. 66. 226. V. Branca, «Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», art. cit., p. 27; C. Delcorno, «Modelli agiografici…», art. cit.; L. Di Francia, Novellistica, 1924, op. cit., pp. 157-158; Viktoria Kirkham, «Love’s Labors Rewarded and Paradise Lost (Decameron, III, 10)», The Romanic

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Review, 72, 1981, pp. 79-93; Alfonso Paolella, «I livelli narrativi nella novella di Rustico e di Alibech ‘romita’ nel Decameron», Revue Romane, 13, 1978, pp. 189-205; D. Duyos Vacca, «Converting Alibech...», art. cit.; Harry Wayne Storey, «Parodic structure in ‘Alibech and Rustico’: antecedents and traditions», Canadian Journal of Italian Studies, 5, 1982, pp. 163-176. 227. V. Branca, «Giovanni Boccaccio, rinnovatore dei generi letterari», art. cit., p. 27. 228. L. Di Francia, Novellistica, 1924, op. cit., pp. 157-158. 229. H. Wayne Storey, «Parodic structure...», art. cit., p. 164. 230. Cf. in part. D. Duyos Vacca, «Converting Alibech...», art. cit., e H. Wayne Storey, «Parodic structure...», art. cit. 231. D. Duyos Vacca, «Converting Alibech...», art. cit., p. 209 e n. 3. 232. Zibaldone Magliabechiano, fol. 196v. 233. Cf. D. Duyos Vacca, «Converting Alibech...», art. cit., pp. 209-211. 234. Ibid., pp. 220 ss. Alla Summa theologiae e al nesso approfondito da Tommaso fra peccato e volontà (il peccato commesso per ignoranza non è peccato, laddove tale ignoranza sia involontaria) rinvierebbe il substrato dottrinale della novella (ibid., p. 217: come mostra anche quanto dice il Boccaccio nel suo commento a Inf., IV). Anche la metafora su cui si regge la novella, di cui anzi la narrazione rappresenta un’illustrazione particolarmente vicina alla tecnica dimostrativa dell’exemplum, qui rovesciata in chiave parodica, rinvia alla misoginia dell’ambiente patristico e alla diffusa analogia donna/inferno, come alla medesima tradizione misogina va ricondotta l’insaziabilità di Alibech 235. La novella di Alibech è ripresa in Sacchetti, nov. VI. 236. Rinvio all’interessante, pur se datato, Francesco Novati, «La parodia sacra nelle letterature moderne», in Studi critici e letterari, Torino, Loescher, 1889, pp. 177-310. 237. Cf. G. Barberi Squarotti, «L’orazione di Alatiel», art. cit., in part. p. 71; P. Valesio, «Il sacro», art. cit. 238. I, 6, 19. La storia è ripresa anche da Poggio nella Fac. CCXXVI. 239. Il fenomeno ha una straordinaria fortuna novellistica. Mi limito a ricordare due esempi, quello della «plenaria remissione» di Novellino, XXIX ed. Gualteruzzi, e dell’orazione di Masuccio, nov. 2 (quella del quinto evangelista), ovviamente pronunciata in un contesto osceno: «Io adoro te, felicissimo ventre, nel quale da qui a poche ore il lume de tutto el cristianesimo ingenerar si deve». 240. Su cui, e su altri motti pronunciati da santi, cf. H. Delehaye, Les passions des martyrs..., op. cit., p. 266. 241. Segnalo fra l’altro: E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, op. cit., pp. 474-478; H. Delehaye, Les légendes hagiographiques, op. cit.; Guy Philippart, Les légendiers latins et autres manuscrits hagiographiques. Mise à jour, Turnhout, Brepols, 1985, pp. 11-12. 242. E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, op. cit., p. 476; H. Delehaye, E il Boccaccio forse se ne ricordava nello scrivere il lungo discorso di Alatiel. 243. E il Boccaccio forse se ne ricordava nello scrivere il lungo discorso di Alatiel. 244. G. Philippart, Les légendiers latins…, op. cit., pp. 11-12. 245. C. Bologna, «Fra devozione e tentazione...», art. cit., pp. 359-360, n. 195, ricorda un aneddoto del Liber exemplorum, raccolta francescana del Duecento: il diavolo disturba una messa ridendo, proprio come farebbero i rustici, e prendendo nota dei peccati che vengono commessi durante la funzione; alla fine san Martino, predicando davanti al popolo, lo fa pentire di quanto avevo scritto. 246. H. Delehaye, Les légendes hagiographiques, op. cit., in part. pp. 146-148. 247. Cf. inoltre M. Acconcia Longo, «Vite passioni miracoli dei santi», art. cit., pp. 205-206. 248. In part. G. Philippart, Les légendiers latins..., op. cit.

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RIASSUNTI

L’indagine dei generi della letteratura agiografica permette di individuarne la componente narrativa in una serie di forme (confessione, exemplum, martirio, miracolo e soprannaturale, orazioni e prediche, visiones e viaggi ultramondani, jeux de mots). Una riprova del carattere di tali forme è che esse tornano nel Decameron di Boccaccio, in una prospettiva ancora scopertamente agiografica. L’individuazione – non aproblematica - delle forme narrative nei generi agiografici va vista in prospettiva rispetto all’articolazione delle dinamiche fra agiografia, storia e novella. Segue un’analisi della casistica boccacciana riconoscibile per ciascuna delle forme.

L’article propose l’identification d’un ensemble de formes narratives dans la littérature hagiographique (confession, exemplum, martyre, miracles et surnaturel, oraisons et prêches, visiones et voyages dans l’au-delà, jeux de mots). Le caractère narratif de ces formes est confirmé par le fait que l´on les retrouve dans le Decameron de Boccace, dans une perspective qui reste très proche de leur matrice hagiographique. L’identification des formes narratives dans les genres de la littérature hagiographique doit être aussi considérée en fonction des rapports entre hagiographie, histoire et novella. La seconde partie de l’essai est consacrée à l’analyse des nouvelles de Boccace les plus proches de chacune des formes établies.

AUTORE

FILIPPO FONIO Università di Pisa et Stendhal – Grenoble 3

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Pontano, Castiglione, Guazzo : facétie et normes de comportement dans la trattatistica de la Renaissance

Florence Bistagne

1 Giovanni Pontano est l’un des principaux représentants de l’humanisme napolitain1, et l’Académie qu’il a dirigée portera son nom jusqu’en 1808. Homme de lettres mais aussi homme politique de premier plan2, il a eu des relais dans l’humanisme du Nord, et ses œuvres sont imprimées à Venise entre 1502 et 15193. Il connaît aussi Bembo4, qui a fait ses études à Messine avec Lascaris vers 1492, et que l’on retrouve à Ferrare vers 1498 et 1500. La seule personne à ne jamais citer Pontano est probablement celle qui lui doit le plus, puisqu’il s’agit de Baldassare Castiglione qui, dans le Cortegiano, reprend des passages entiers du De Sermone. Castiglione, grand ami de Bembo et de l’entourage immédiat des Gonzaga, ne peut pas ne pas avoir eu connaissance du De Sermone, qui se trouvait aussi dans leur bibliothèque ainsi que dans celle de Frédéric d’Urbin5. La lettre d’Olivarus à Erasme du 13 mars 1527 le montre d’ailleurs avec Navagero comme défenseur de Pontano contre Erasme et Thomas More6. D’autre part Pontao a eu lui- même conscience qu’il jetait les bases d’une nouvelle littérature didactique : à la fin du chapitre 20 du livre III, il écrit : « Nam et futuros vaticinamur, qui de iis sint suptilius atque enucleatius diserturi7 ». Or à cette date seul son ami Diomede Carafa a rédigé un Courtisan, paru en 1478, en langue vulgaire. Pontano tire donc lui-même son ouvrage vers le traité de comportement.

2 En effet Pontano est une des sources directes du Courtisan, et son nom même apparaît dans les deux premières rédactions8. Le livre II est une réinterprétation du livre II du De Oratore sur la place des facéties dans l’inuentio, cela est bien connu et bien visible9, mais aussi du De Sermone. Les chapitres 45 à 83 du livre II sont une paraphrase des livres III et IV de Pontano, sur la fonction et l’emploi des facéties dans le discours du parfait courtisan. Mais si chez Pontano la facetudo était la vertu du parfait homme social, dans des rapports de convivialité entre pairs et dans l’alternance « à l’antique » entre l’otium et le negotium, et s’il fallait certes codifier la parole, c’était uniquement du point de vue de l’énoncé et non du référent10, dans une confiance absolue en son pouvoir

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performatif. En revanche, dans le Courtisan, le décor a changé. Il n’y a plus de moment de l’otium et du negotium, plus de notion de loisirs et de relaxatio animi, la seule conversation possible est celle avec le Prince, car entre courtisans c’est la lutte qui domine : Io estimo che la conversazione, alla quale dee principalmente attendere il Cortegiano con ogni suo studio per farla grata, sia quella che averà col suo principe ; e benché questo nome di conversare importi una certa parità, che pare che non possa cader tra’l signore e ’l servitore, pur noi per ora la chiamaremo così.11 dit Frederico Fregoso au chapitre XVIII du livre II, prenant acte du rapport biaisé qu’entretiennent le Prince et le courtisan, dans une fausse acception de la conversation, que l’on ne peut malheureusement pas éviter. D’ailleurs le livre II commence par une évocation nostalgique des cours du ’400, celles de Borso d’Este à Ferrare, de Frédéric de Montefeltro à Urbin, dans un dialogue dont la diégèse même est censée avoir lieu dans un passé idéalisé par rapport au moment de l’écriture.

3 Le uir facetus est maintenant un courtisan devant le regard du prince, donc la norme de régulation des comportements sociaux sera l’opinion que le prince aura et, partant, que les autres courtisans s’emploieront toujours à enlaidir. Car il faut éviter l’écueil de la flatterie. Bien sûr Pontano parlait des flatteurs, mais ce n’était pas dans le moment de l’otium ; ces personnages n’étaient pas en concurrence avec le uir facetus, mais on les trouvait dans les cours des princes12 : cela n’a pas changé.

4 Ainsi la facétie et son utilisation à bon escient, qui étaient une arme pour l’orateur idéal de Cicéron (se concilier l’auditoire faisait gagner ou perdre un procès) et une vertu sociale pour l’homme d’esprit de Pontano (détendre le cercle des amis faisait de vous une personne recherchée pour sa compagnie), deviennent chez Castiglione une façon de contrôler les rapports humains et de désamorcer l’inimitié d’autrui sous le regard de qui l’on se trouve.

5 C’est pourquoi à côté de la division traditionnelle en deux espèces du genre du bon mot13, le « motto » et la « festiva narrazione », Castiglione ajoute la « burla », qui associe la parole et l’acte, alors que les deux premières ne relevaient que de la parole avec éventuellement le geste approprié. Car si Pontano pouvait séparer les conuentus hominum selon le but, le lieu et le moment, réunions de négoce, de loisir, de divertissement14, chez Castiglione toutes réunions d’hommes, toute société sont à la cour, et donc les repoussoirs de l’homme d’esprit aussi, et notamment le bouffon, dont il faut éviter le rire15. Les précautions qui entourent le rire sont beaucoup plus importantes que chez Cicéron et Pontano : pour eux le delectus, le discernement suffit, l’attention « aux lieux, aux circonstances et aux personnes16 », alors que si Fregoso a bien affirmé qu’il fallait tenir compte des « circonstanzie17 », il faut que le courtisan soit très prudent avec tout ce qui peut faire rire car « il far ridere non sempre si convien al Cortegiano18 ». L’exercice est périlleux, et dans l’exposé sur les lieux d’où l’on tire le rire, Bibbiena s’éloigne de Cicéron et de Pontano, même s’il reprend en plus la distinction entre comique in re et in uerbo19, et résume son propos en une amère réflexion : rire est un art, celui de tromper l’opinion d’autrui20, et, à ce jeu des apparences, la dissimulation devient un moyen de piéger, et non plus, comme chez Pontano, ce sur quoi se clôt le De Sermone, la juste ironie socratique21, apanage de l’homme d’esprit. Ainsi il existe non pas un art des facéties, comme l’avait théorisé Pontano allant plus loin que Cicéron, mais il existe un « inganno », une tromperie qui les fait utiliser, comme la nature les offre.

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6 Pontano reste, tout au long du Cortegiano, la référence dans l’ombre que Castiglione reprend mot à mot ; parfois pour l’imiter22, comme dans les deux facéties qui lui sont directement empruntées23, parfois pour s’en démarquer, dans une lecture plus noire et désenchantée de la vie en société.

7 Avec Guazzo24, l’autre traité de conversation de la fin du XVIe siècle, héritier de Castiglione, s’opère un retour aux idées de l’humaniste napolitain. Celui-ci en effet intitulant La civil conversazione un traité sur le comportement inclut dans ce terme la notion de communication verbale entre les hommes dans un cadre plus large que celui de la cour. Au contraire il met en scène dans le livre IV un banquet, exemple de conversation civile, dans la lignée de la littérature sympotique où le dialogue devient un récit exemplaire, outre les facéties prononcées ou rapportées par les devisants. Tout comme chez Pontano, la conversation est pressentie chez Guazzo comme antithèse de la réflexion solitaire, et comme nécessité pour l’homme de lettres de se confronter à ses pairs dans le monde25. Cette attitude, que Francesco Tateo nomme « antipétrarquisme26 », condamne la vita solitaria, la contemplation, et refuse le sophisme d’origine cicéronienne des humanistes florentins, qui interprète la maxime de Scipion comme conversion de l’otium en negotium et de la solitude en conversation27. En revanche il se réclame de la théorie de Boccace selon laquelle la fable est nécessaire aux ignorants pour comprendre des vérités insaisissables autrement28.

8 Dans le dernier livre, où dominent les facéties et le comique, le dialogue semble se passer à la fin du repas. La conversation, comme chez Macrobe, se passe en récits plaisants et le banquet même a la fonction d’exemplum29, jouant sur le comique propre à la forme brève de la facétie. On est ici exactement dans la tradition pontanienne de la conversation : d’une part elle se passe dans l’espace de la recreatio, d’autre part elle se passe entre pairs. Guazzo utilise la fiction du banquet, comme Platon30, Lucien31, Macrobe32, et plus tard même Poggio33, et il définit la conversation comme vertu lui aussi. Mais en cela il se rapproche plus de la vertu que Pontano appelle conuiuentia34, et qui est l’art d’être ensemble à table, c’est-à-dire un moment social où l’on est ensemble. La conversation dans le sens moderne35 est quant à elle définie dans le De Sermone, mais Guazzo ici semble s’inspirer des deux ouvrages.

9 La référence à Pontano est donc lisible tout au long du XVIe siècle ; celui-ci fait partie d’une culture commune. Et si Castiglione s’en inspire beaucoup, mais en fait une interprétation pessimiste, à la fin du siècle Guazzo, contemporain de Montaigne, redécouvre la vertu sociale du discours plaisant d’obédience pontanienne.

NOTES

1. Giovanni Pontano est né à Spolète en Ombrie, le 7 mai 1429 et mort à Naples en 1503. Spolète est située dans les états du Pape, tout comme Pérouse, où il part faire ses études comme élève de Guido Vannucci, nous dit-il dans le De Sermone, livre V. En 1447, il décide d’entrer au service d’Alphonse d’Aragon, comme son oncle Lodovico, qui l’avait suivi au concile de Bâle en 1439. L’article de Salvatore Monti, « Il problema dell’anno di nascita di Giovanni Pontano », Atti

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dell’Accademia Pontaniana, n.s., XII, 1962-1963, p. 225-252, fixe de façon ferme la date de naissance de Pontano. En effet, les 3 dates les plus étayées par les biographes sont 1426, 1422 et 1429. On sait que Pontano est né le 7 mai d’après une lettre du 7 mai 1490 à Ferdinand d’Aragon dans laquelle il dit que c’est son anniversaire (voir E. Percopo, « Lettere di Giovanni Pontano a principi e amici », Atti dell’Accademia Pontaniana, 37, 1907, p. 1-86). La chronologie de composition du De Sermone fait pencher en faveur de 1429, car il dit dans le prologue avoir 72 ans, et fait allusion à des événements de 1501 : l’occupation partagée du Royaume de Naples entre les Français et les Espagnols, scellée par l’accord de Grenade du 11 novembre 1500 entre Ferdinand le Catholique et Louis XII. Les Français occuperont les Abruzzes, la Toscane, l’Emilie, les Espagnols la Calabre, la Basilicate, le duché de Bari, la Terre d’Otrante, ce que décrit exactement Giovanni Pontano dans la préface du De Sermone. Or cet accord n’est rendu public que le 15 juin 1501, à Rome, lorsque l’armée française y arrive. Les Espagnols occuperont le royaume sous la direction du Gran Capitan Gonsalvo de Cordoba sous prétexte d’aider le roi Frédéric, mais celui-ci fuit dès le 3 août pour Ischia, et le 4 les Espagnols entrent à Naples, ce qui n’était pas prévu par l’accord de Grenade. Cet épisode est mentionné dans le De Sermone, V, II, 51. La biographie la plus récente de Pontano est celle de Carol Kidwell, Pontano, Poet and Prime Minister, Londres, Duckworth, 1991. 2. En 1448 à son arrivée à Naples dans la suite d’Alphonse d’Aragon, il est engagé à la trésorerie royale. Il exerce une activité de chancellerie et de diplomatie : en 1450-1451, il est en ambassade à Venise avec Panormita, puis il devient le précepteur de Juan d’Aragon, neveu d’Alphonse, en 1460, puis d’Alphonse, duc de Calabre, en 1462. à la mort d’Alphonse le Magnanime, en 1458, il était devenu conseiller de Ferdinand, son fils, qui le nomme son secrétaire en 1466. En 1474 il devient président de la Chambre Royale de la Sommaria, une sorte de conseil des juges, et secrétaire d’Ippolita Sforza, épouse du duc de Calabre, grande humaniste elle aussi. à la mort de Panormita, en 1471, il avait pris la tête de l’Académie, et continue d’en animer les réunions. Cette même année Ferrante Ier lui accorde la citoyenneté napolitaine et c’est à partir de là qu’il cesse de s’appeler lui-même Vmber (Voir Esecutoriali della cancelleria aragonese, 1471-1475, vol. V, f. 48ro). Il exerce également des charges diplomatiques : en 1480, il est cosignataire avec Laurent le Magnifique de la paix entre Florence et Naples, avec cession de quelques villes frontalières ; en 1484, il doit négocier la paix avec Venise ; enfin en 1486, il prépare le traité de paix entre Ferdinand et Innocent VIII, traité où Ferdinand reconnaît que le Pape est son suzerain, car les barons ont préféré lui prêter l’hommage vassalique directement. Sa plus grande charge date de février 1487, il est nommé « premier secrétaire royal ». Suit toute une période très troublée de recherche d’alliances, par mariages, hommages, accords avec les cousins espagnols. En 1492, il veut se retirer de la politique, ce qu’il fera après la défaite napolitaine de 1494 devant les armées de Charles VIII, à qui il est chargé de donner les clefs de la ville. Avant de se retirer, il est témoin de la signature par Ferrante II, fils d’Alphonse II, qui a abdiqué, d’un décret protégeant les Juifs, leur évitant de porter des signes ou d’être enfermés dans des ghettos. 3. Opera omnia, Venetiis, Bernardinus Vercellensis, 1501 ; Venetiis, Aldus, 1505 ; Venetiis, Aldus, 1513 ; Venetiis, Aldus, 1518-1519 ; Carmina, Venetiis, Aldus, 1518. 4. Dans une lettre à Filippo Beroaldo le Jeune, datée des ides de janvier 1505, il regrette la perte de Pontano, mis sur le même plan que les grands Florentins ; lettre no 198 dans Pietro Bembo, Lettere, ed. E. Travi, Bologne, Commissione per i testi di lingua, 1987-1993, vol. I, p. 183 : « Sed redeo ad literas tuas. Beroaldum gentilem tuum praeclarum sane uirum, et optimarum artium studiis pereruditum, mortem obiisse ualde dolui, hoc praesertim tempore quo doctorum uereque literatorum hominum non nimis magna ubertas est. Recordari autem debes paucorum annorum spatio quot et quales uiros amiserimus, Picum, Politianum, Pontanum, Pomponium, Hermolaum, qui quidem omnes uno tempore floruerunt » ; « Mais je réponds à ta lettre, et j’ai eu beaucoup de chagrin à la mort de Béroalde, ton père, un homme tout à fait remarquable et extrêmement érudit dans l’études des arts les plus nobles, et surtout en cette époque où n’abondent guères les savants et les vrais lettrés. Tu dois bien te rappeler combien d’hommes, et quels hommes, nous

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avons perdus en l’espace de peu d’années, Pic, Politien, Pontano, Pomponio, Ermolao qui florissaient en effet tous à la même époque » ; (nous traduisons). 5. Né à Mantoue dans l’entourage des Gonzaga, on le trouve à la Cour des Este, à Rome et également à la Cour d’Urbin dont il sera le représentant à Rome. Or Pontano était l’ami de Francesco Gonzaga, à qui il a dédié plusieurs de ses poèmes, notamment l’Urania, son grand poème qu’il considère comme son chef-d’œuvre ; Vespasiano da Bisticci rappelle dans ses Vite, ed. Aurelio Greco, Florence, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 1976, p. 393, que Frédéric d’Urbin a voulu pour sa bibliothèque « tutte l’opere del Pontano ». D’ailleurs, dans une lettre à Cristoforo Tirabosco, Gubbio, 5 octobre 1514, dans B. Castiglione, Due lettere inedite di Baldassare Castiglione, sn, sl, sd (fac similé qui se trouve à la BAV), il écrit : « E mandatemi quelli tre volumi grandi de Cicerone coperti di rosso et un altro volume, pur de Cicerone, spartito da quelli, che è intitolato De Oratore et è commentato e postillato in molti lochi de mia mano, et un altro libro in prosa del Pontano, De Bello Neapolitano » ; « Et envoyez-moi ces trois grands volumes de Cicéron à la couverture rouge, et un autre volume, toujours de Cicéron, mais séparé de ceux-là, intitulé le De Oratore, et commenté et annoté en nombreux endroits de ma main, et un autre livre en prose de Pontano, De Bello Neapolitano » (nous traduisons). Or en 1514 la seule édition du De Bello Neapolitano disponible est celle de Mayr en 1508, qui est accompagnée du De Sermone. Le premier travail du Cortegiano commence en 1513, avec un prologue pour le roi de France écrit en 1515, qui sera gommé des états successifs. C’est peut-être dans un moment de la rédaction que Castiglione a besoin de son De Oratore, et du De Sermone… 6. Lettre 1791, Érasme, Correspondance, traduite et annotée d’après le texte latin de l’Opus Epistolarum de P. S. Allen, H. M. Alleng et H. W. Garrod, Bruxelles, Presses Académiques Européennes, 1974. Navagero et Castiglione le critiquent et lui opposent le seul Pontano, même s’ils reconnaissent que l’Éloge de la Folie est digne de Lucien. Olivarus répond à l’attaque contre Érasme en disant que Pontano est affecté, prétentieux, précieux et en lui opposant les épigrammes de Thomas More. 7. De Sermone, III, 20 : « En effet nous prophétisons qu’il y aura des gens à venir pour parler de ces sujets fort en détail et fort nettement » (nous traduisons) ; le verbe vaticinor a un sens très fort : au sens propre on l’emploie pour les devins (Cicéron, De Diuinatione., 1, 34 ; 67 ; Tite Live, II, 41), mais au sens figuré pour le poète inspiré des Dieux (Cicéron, De Amicitia, 25). 8. P. Floriani, « Esperienza e cultura nella genesi del Cortegiano », dans Bembo e Castiglione. Studi sul classicismo del Cinquecento, Rome, Bulzoni, 1976, rattache cela non à la volonté de satisfaire à la sprezzatura, théorisée par Castiglione, d’être cultivé sans pédantisme et de fuir l’étalage et l’affectation, mais au fait que dans les rédactions successives, il y a une prise de distance d’avec les facéties, et une réduction de leur nombre alors qu’elles sont destinées à illustrer le propos (voir A. Quondam, «Questo povero Cortegiano». Castiglione, il Libro, la Storia, Roma, Bulzoni (« Europa delle Corti », Centro studi sulle società di antico regime, Biblioteca del Cinquecento, 100), 1996, p. 455-457). Dans la troisième rédaction la première occurrence de Pontano (II, 74) a été remplacée par Caton, en fait protagoniste initial d’une facétie venue de Cicéron, et modifiée par Castiglione (qui la remet donc en l’état initial), la seconde (II, 35) par Sannazaro. Or ce passage traite de l’excellence de certains vers (« alcuni versi »). Pontano est mort depuis quinze ans en 1518, lors de cette rédaction, et rien ne suggère que les vers en question sont des vers latins. Castiglione s’en remet donc à l’autorité d’un Antique, et d’un Moderne, et la juxtaposition des deux est significative. Pontano, auteur de langue antique dans une époque moderne disparaît alors. Nous pensons surtout qu’il s’agit d’un processus systématique de gommage de toute source identifiable autre qu’antique (celles-ci faisant partie du bagage culturel commun). 9. La bibliographie sur ce sujet est immense, signalons en particulier : J. Guidi, « Festive narrazioni, motti e burle (beffe) : l’art des facéties dans le Courtisan », dans André Rochon (éd.), Formes et signification de la beffa dans la littérature italienne de la Renaissance, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1975, p. 175-210.

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10. À la restriction près des malheureux et des puissants. De Sermone, IV, 4, 2 : « Cum praesertim Cicero, De Oratore agens oratoriisque muneribus, dicat nec insignem improbitatem nec rursus miseriam rideri » : « Cicéron surtout, traitant de l’orateur et de ses fonctions, dit qu’il ne faut pas rire d’une malveillance remarquable ou à l’inverse d’un malheur remarquable ». Pontano fait ici référence à trois passages de Cicéron : De Oratore, II, 237 : « nec insignis improbitas et scelere iuncta nec rursus miseria insignis agitata ridetur » : « on ne rit pas d’une malveillance remarquable unie au crime, ni inversement d’un malheur remarquable » ; De Oratore, II, 238 : « itaque facillime luduntur quae neque odio magno nec misericordia maxima digna sunt » : « c’est pourquoi on rit très facilement de ce qui n’est pas digne ni d’une grande haine, ni de la plus grande compassion » ; Orator, 26, 88 : « illud admonemus tamen, ridiculo sit usurum oratorem ut nec nimis frequenti, ne scurrile sit, nec subobsceno, nec mimicum, nec petulanti, ne improbum, nec in calamitatem, ne inhumanum, nec in facinus, ne odii locum risus occupet » : « nous engageons cependant l’orateur à ne pas utiliser le rire trop souvent, ni de façon bouffonne, ni obscène, ni digne d’un mime, ni outrancier, ni malveillant, ni pour être tourmenter, ni être inhumain, ni criminel, que le rire ne prenne pas la place de la haine ». Voir aussi Quintilien, Institution Oratoire, VI, 3, 33 : « nam aduersus miseros inhumanus est iocus » : « car la plaisanterie contre les malheureux est inhumaine ». Nous traduisons. 11. Nous citons d’après Il libro del Cortegiano, ed. G. Carnazzi, Milan, Rizzoli, 1994, p. 132, et sauf indication contraire nous traduisons : « Quant à moi, j’estime que la conversation vers laquelle le courtisan doit principalement tendre, en employant toutes ses forces pour la rendre agréable, est celle qu’il aura avec son prince ; et bien que ce nom de conversation implique une certaine égalité, qui semble ne pas pouvoir exister entre le seigneur et le serviteur, nous aussi pour l’heure nous l’appellerons ainsi ». Un article récent de F. Pignetti, « La facezia tra Res Publica Literarum e società cortigiana », dans G. Patrizi et A. Quondam (éds), Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del Rinascimento, Rome, Bulzoni (« Europa delle Corti », Centro studi sulle società di antico regime, Biblioteca del Cinquecento, 80), 1998, p. 239-269, compare enfin la société dessinée en creux dans le De Sermone et celle de la cour nobiliaire du Duc d’Urbin, mais ne se place qu’au niveau de l’utilisation permise ou non de la facétie. Sur la question de l’existence ou non d’un art des facéties, il ne fait pas la comparaison précise entre Cicéron, Quintilien, Pontano et Castiglione. 12. De Sermone, II, 14, 5 : « Iam uero pontificum, regum, dominorum ac principum hominum aulae ac domus, utque hodie dicuntur, curiae simulationibus ac fallaciis mendacissimisque sussurationibus iisdemque nocentissimis infectae sunt, ut uideatur ueritas ab illorum regiis exterminata ; neque bonus quisquam habeatur curialis atque aulicus, nisi qui et mentiri admodum et pro loco ac tempore uultum fingere ac lenocinari scierit. Quo effectum est ut, quae maximorum uirorum domus est, sit eadem simulationibus ac mendacii » : « Mais désormais les palais et les demeures des papes, des rois, des seigneurs et des princes et, comme l’on dit aujourd’hui, les cours ont été infectées par les simulations, les tromperies et les médisances à la fois très mensongères et très malfaisantes, de sorte que la vérité semble bannie de ces demeures seigneuriales ; et personne n’est considéré comme bon à la cour ou au palais, sinon celui qui aura su à la fois beaucoup mentir, composer son visage et intriguer, selon le lieu et la circonstance. Le résultat ? la demeure des hommes les plus importants est en même temps celle de la simulation et du mensonge ». Nous traduisons. 13. De Sermone, III, 19, 1 : « Legitur autem apud eum duo esse genera facetiarum : alterum aequabiliter in omni sermone fusum, alterum peracutum et breue, illamque cauillationem a ueteribus appellatam, alteram uero hanc dicacitatem ; utramque tamen leuem rem esse, quando lene prorsus sit risum mouere » : « On lit effectivement chez lui [Cicéron] qu’il y a deux genres de bons mots : l’un répandu également sur toute la conversation, et l’autre perçant et bref ; que les anciens ont appelé le premier raillerie, et l’autre mordant ; et que pourtant les deux sont choses légères, puisqu’il est vraiment doux de faire rire ». Pontano reprend ici exactement les mots du

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De Oratore, II, 54, 218. Cette paraphrase est en fait une citation explicite puisqu’il se place dans le titre du chapitre sous l’autorité de cicéron. Ce n’est donc pas un renvoi ni un plagiat. Chez Castiglione l’exposé sur les facéties des deux genres occupe les chapitres 45 à 83 du livre II et celui sur les burle les chapitres 85 à 89. 14. De Sermone, I, 6. 15. C’est Bernardo Bibbiena, auteur de comédies assez scabreuses, qui se décrit comme gros et chauve et portant à rire, sous le regard des autres : Cortegiano, II, 44. 16. De Oratore, II, 239 : « Haberi enim dixisti rationem oportere hominum, rei, temporis, ne quid iocus de grauitate decerperet » : « tu as dit en effet qu’il fallait tenir compte des personnes, du sujet et des corconstances pour que la plaisanterie ne s’éloigne pas de la dignité », et passim ; De Sermone, I, 24, 1 : « Huic delectus cum primis habendus est et rerum et temporum et locorum et personarum » : « Il doit tenir pour primordial le choix des faits, du moment, du lieu ainsi que de la personne », et passim. 17. Cortegiano, II, 16. 18. Cortegiano, II, 46 : « Il ne convient pas toujours que le courtisan fasse rire ». 19. Cortegiano, II, 48-56 sur la dicacitas, et 57-69 sur la cauillatio. 20. Cortegiano, II, 83 : « Nell’una e nell’altra sorte la principale cosa è lo ingannar l’opinione e rispondere altramente che quello che aspetta l’auditore », « Dans les deux genres, le principal est de tromper l’opinion et de répondre différemment de ce qu’attend l’auditeur ». 21. De Sermone, VI, 3 : « Et Aristoteles, uirtutum moralium disputator solertissimus et Graeci scriptores plerique omnes tradunt Socratem fuisse ironicum » : « Aristote, qui a disserté sur les vertus morales avec beaucoup d’intelligence, ainsi que presque tous les auteurs grecs, rapporte que Socrate était ironique ». 22. Cortegiano II, 18 par exemple, reprend les termes de Pontano, VI, 1, 1-4, quasiment traduits en italien dans la définition récapitulative du courtisan idéal : « Erit igitur facetus is, quam nunc instituimus, in iocando suauis et hilaris, uultu placido et ad refocillandum composito, in respondendo gratus ac concinnus, uoce nece languida nec subrustica, uirili tamen et laeta, in motu urbanus uqique nec rus indicet nec nimias urbis delicias, a scurrilitate abhorrebit uti a scopulo, oscenitatem ad parasitos et mimos relegabit, salibus ita utetur ac mordacibus dictis ut, nisi prouocatus ac lacessitus, nec remordeat nec reuellicet ; ita tamen ut nunquam ab honesto recedat ab eaque animi compositione, quae ingenui hominis est propria […] Erit igitur facetus uir sui compos dictorumque moderator quique ubique consideret sermonem suum ad recreationem spectare ; et quamuis ipse et sciat et possit esse salsus ac mordax, tamen genus hoc siue dicacitatis siue aculeationis oratoribus relinquetquique defensitationibus dant operam salsique esse malunt quam faceti. Nam ab histrionicis mimicisque intemperamentis erit prorsus alienus, multo autem maxime parasiticis ab oscenitatibus et uerborum et significationum. Erit idem multum etiam comis, cum, ut initio diximus, comitas potissimum in fabellis uersetur suauibusque in earrationibus ac colloquiis ; habebit peritiam multam, multam item memoriam tum eorum, qui faceti sunt habiti, tum facetiarum ipsarum, quarum relationes multum habent gratiae apud audientes : quibus seruandis, delectu quoque adhibito, mediocritatem retinebit eam quae uirtutem hanc, de qua sermo est, constituitquique defensitationibus dant operam salsique esse malunt quam faceti. Nam ab histrionicis mimicisque intemperamentis erit prorsus alienus, multo autem maxime parasiticis ab oscenitatibus et uerborum et significationum. Erit idem multum etiam comis, cum, ut initio diximus, comitas potissimum in fabellis uersetur suauibusque in earrationibus ac colloquiis ; habebit peritiam multam, multam item memoriam tum eorum, qui faceti sunt habiti, tum facetiarum ipsarum, quarum relationes multum habent gratiae apud audientes : quibus seruandis, delectu quoque adhibito, mediocritatem retinebit eam quae uirtutem hanc, de qua sermo est, constituit » : « Voici donc l’homme d’esprit, que nous formons à présent : il sera doux et gai dans ses plaisanteries, aura un air amène et engageant à la détente, agréable et de bon ton dans ses réponses, un ton ni traînant ni quelque peu paysan, mais mâle et

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enjoué, une démarche pleine d’urbanité qui ne soit le signe ni de la campagne ni des raffinements excessifs de la ville ; il se tiendra loin de la bouffonnerie comme d’un écueil, il laissera l’obscénité aux parasites et aux mimes, il emploiera piques et traits mordants, à moins d’avoir été provoqué et blessé, sans mordre ni déchirer. Il fera pourtant en sorte de ne pas s’éloigner de l’honnêteté et de la maîtrise de son esprit, qui est le propre des hommes bien nés […]. L’homme d’esprit sera donc maître de lui, il modérera ses traits et considérera toujours que sa conversation doit chercher la détente. Bien que lui aussi sache et puisse être piquant et mordant, il laissera cependant ce genre de causticité et d’agressivité aux orateurs qui se consacrent en permanence aux défenses et préfèrent être piquants que spirituels. Car il sera tout à fait étranger aux outrances des histrions et des mimes, et extrêmement loin des obscénités de mots comme de pensées des parasites. Il sera aussi très aimable, puisque, comme nous l’avons dit au début, l’amabilité se trouve bien plutôt dans les anecdotes, dans les récits et les entretiens délicats ; il aura une grande expérience, et une grande souvenance aussi de ceux qu’on a considérés comme hommes d’esprit, et de leurs bons mots, dont le rappel est très agréable pour les auditeurs. En les adoptant, après avoir aussi fait preuve de discernement, il gardera la juste mesure qui constitue cette vertu objet de notre discours ». Voir Cortegiano, II, 18 : « Non sarà maledico, e specialmente dei suoi signori […]. Non usarà il nostro cortegiano prosonzione sciocca ; non sarà apportator di nove fastidiose ; non sarà inavvertito in dir talor parole che offendano in loco di voler compiacere ; non sarà ostinato e contenzioso, come alcuni, che par che non godano d’altro che d’esser molesti e fastidiosi a guisa di mosche e fanno profession di contradire dispettosamente ad ognuno senza rispetto ; non sarà cianciatore, vano o bugiardo, vantatore né adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando sempre e massimamente in publico, quella reverenzia e rispetto che si conviene verso il signor » ; « il ne sera pas médisant, et surtout de ses seigneurs […] Notre courtisan ne fera pas usage de sotte présomption, il ne sera pas le messager de pénibles nouvelles ; il ne manquera pas d’à-propos au point de parfois dire des paroles qui offensent alors qu’il voudrait faire plaisir ; il ne sera pas obstiné ni querelleur, comme certains qui semblent n’avoir d’autre plaisir que d’être fâcheux et pénibles comme les mouches, et font profession de contredire tout le monde avec mépris et sans respect ; il ne sera pas hâbleur, vaniteux ni menteur, il ne sera pas vantard ni sot adulateur, mais modeste et retenu, faisant toujours usage, et surtout en public, de la révérence et du respect qui conviennent envers le seigneur ». 23. De Sermone, IV, 2, 14 repris en Cort., II, 60 et De Sermone, IV, 2, 25 en Cort. II, 65. 24. Stefano Guazzo, La civil conversazione, Brescia, 1574. 25. Préface à Vespasiano Gonzaga, op. cit., p. 2 : « Al che fare mi spinge anco il confidare che le contese e gli scandali, che per lo più cadono fra i mortali, non altronde avvengono che dal non saper essi usare le convenevoli maniere nel conversare. E perciò m’indussi nell’animo, che s’io havessi potuto con la mia fatica insegnar a ciascuno quel secondo il suo stato gli si convenga conversando con gli altri osservare, havrei fatto opera grandamente al mondo giovevole. Et perché si trova di gran lunga maggioril numero de’poco intendenti, che de’letterati, et è la conversazione più a quelli che a questi comune, io havendo più riguardo al beneficio universale che alla mia particolar gloria, rimossa ogni ambizione, non ho atteso ad altro più, che a farmi intendere da quei che sono alquanto duri d’orecchie » ; « Me pousse aussi à faire cela le fait d’avouer que les disputes et les scandales qui arrivent le plus chez les mortels ne surviennent jamais que de ne pas savoir user des manières convenables dans la conversation. Et c’est pourquoi il m’est venu à l’esprit que si j’avais pu en y mettant de l’ardeur enseigner à chacun ce que, selon sa situation, il lui convient d’observer en conversant avec les autres, j’aurais fait une œuvre grandement utile au monde. Et parce qu’il se trouve de bien loin un plus grand nombre d’idiots que de lettrés, et que la conversation est plus commune à ceux-là qu’à ceux-ci, comme je vise plus au bénéfice universel qu’à ma gloire personnelle, ayant laissé de côté toute ambition, je ne me suis attaché à rien de plus que de me faire entendre de ceux qui sont un peu durs d’oreille » (nous traduisons).

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26. Francesco Tateo, « La civil conversazione », dans La novella italiana. Atti del Convegno di Caprarola, Rome, Salerno Editrice, 1989, p. 59-81. 27. Dans le De officiis, Cicéron fait dire à Scipion qu’il n’est jamais vraiment seul quand il est seul puisqu’il est avec ses pensées. 28. Ce faisant il suit aussi le genre classique de la trattatistica qui veut que la théorie soit illustrée par des exemples, ici les facéties, op. cit., p. 3 « Ch’io doveva nel disporre l’opera seguir compiutamente l’ordine di Aristotele », « Que je devais, dans la structure de l’œuvre, suivre absolument l’ordre d’Aristote » ; (nous traduisons). 29. Op. cit., IV, p. 564 : « Farebbe opera al mondo utilissima chi raccogliesse tutti questi successi in un volume e li mandasse in luce, perché dalla forma di questo convito imparerebbono gli huomini ad astenersi dalle confusioni e da i disordini de’comuni conviti, ne i quali ad altro non si attende che a scorpare et ad ebriacarsi » ; « Ferait œuvre très utile au monde celui qui recueillerait ces événements en un volume et les publierait, parce que de la forme de ce banquet les hommes apprendraient à s’abstenir des confusions et des désordres des banquets communs, dans lesquels on ne tend à rien d’autre qu’à s’empiffrer et à se saoûler ». Nous traduisons. 30. Platon, Le Banquet, traduit par P. Vicaire et J. Laborderie, présenté par M. Trede, Paris, Librio, 1995 [Trad. reprise au t. IV/2 (Le Banquet, par P. Vicaire, avec la collaboration de J. Laborderie) des Œuvres complètes, deuxième édition, Paris, Les Belles Lettres, 1989 (CUF)]. 31. Lucien de samosate, Œuvres, texte établi et traduit par J. Bompaire, Paris, Les Belles Lettres, 3 vol., 2003. 32. Macrobe, Saturnalia, éd. N. Marinane, Turin, UTET, 1977. 33. Poggio Bracciolini, Facéties, édition de S. Pittaluga, traduction E. Wolff, Paris, Les Belles Lettres, 2005. 34. I trattati delle virtù sociali, éd. Francesco Tateo, Rome, Edizioni dell’Ateneo, 1965, réédition avec introduction augmentée et traduction revue : Rome, Bulzoni (« Europa delle Corti », Centro studi sulle società di antico regime, Biblioteca del Cinquecento, 88), 1999. Le néologisme pontanien est dû à l’analogie qu’il fait avec la dénomination des autres vertus. Il insiste sur le fait de vivre ensemble, là où conuersatio a dans le sens latin antique le sens de fréquentation, dans le latin monastique le sens de vie en communauté par rapport à la vie de l’ermite, et en langue vulgaire le sens de familiarité. 35. De Sermone, I, 3, 2 : « Sed nos hac in parte de ea quae oratoria siue uis facultasque siue ars dicitur nihil omnino loquimur, uerum de oratione tantum ipsa communi quaque homines adeundis amicis, communicandis negociis in quotidianis praecipue utuntur sermonibus, in conuentibus, consessionibus, congressionibus familiaribusque ac ciuilibus consuetudinibus. Qua e re alia quadam hi ratione commendantur quam qui oratore dicuntur atque eloquentes » ; « Mais dans cette partie je ne parle absolument pas de ce que l’on appelle puissance, faculté ou art oratoire, mais du discours commun seulement, dont les hommes se servent surtout en rencontrant leurs amis, en faisant des affaires, dans les conversations quotidiennes, dans les réunions, les assemblées, les entrevues et les relations privées ou publiques. C’est pourqoi on loue ces gens-là pour une raison différente de celle qui fait louer ceux qu’on appelle orateurs et éloquents ».

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RÉSUMÉS

Le De Sermone de Giovanni Pontano est un essai de définition des fondements éthiques et des procédés techniques de la facétie, mais peut aussi être lu comme un ouvrage pédagogique sur la place de l’homme dans la société. Transposant l’orateur idéal en homme d’esprit idéal qui exerce ses talents à l’Académie, il préfigure le Courtisan idéal de Castiglione, mais aussi la Civil Conversazione de Stefano Guazzo à la fin du XVIe siècle. Nous allons voir comment ces deux auteurs ont été influencés par Pontano et son traité sur la conversation, l’un en faisant une lecture pessimiste, l’autre lui empruntant la notion de conversation comme détente.

Il De Sermone di Giovanni Pontano è un tentativo di definizione delle fondamenta etiche nonché dei procedimenti tecnici della facezia, ma può anche essere definito un’opera pedagogica sul posto dell’uomo nella società. Non si limita a trasporre l’oratore ideale nell’ideale uomo faceto che dimostra il suo ingegno nell’Accademia, ma abbozza anche il perfetto cortigiano del Castiglione e l’interlocutore della Civil Conversazione di Stefano Guazzo, alla fine del’500. Questi due autori sono infatti stati influenzati dal Pontano e dal suo trattato sulla conversazione, l’uno tramite una lettura pessimistica, l’altro tramite l’uso della nozione di conversazione come rilassamento.

AUTEUR

FLORENCE BISTAGNE Université de Provence

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Un capitolo minore della narrativa cinquecentesca: gli Apologi di Bernardino Ochino (Ginevra, 1554). Appunti in vista di un’edizione*

Franco Pierno

Introduzione

1 Negli ultimi anni non sono mancati contributi critici di rilievo allo studio dell’opera e della figura di Bernardino Ochino da Siena1, la cui parabola biografica (da prestigioso predicatore cappuccino conteso dalle località più importanti a perseguitato in perenne fuga dalle autorità ecclesiastiche2) si presenta come una delle più affascinanti del primo Cinquecento italiano. La produzione di scritti ochiniana resta, tuttavia, in gran parte ancora inesplorata: un’impressionante quantità di opere a stampa (ma anche testimonianze manoscritte), la cui produzione comincia in territorio italiano ed è, in seguito, continuata con fervore e perseveranza durante i duri anni dell’esilio3. Ginevra, che fu meta, nell’agosto 1542, della prima rocambolesca fuga, è il luogo “chiave” dell’attività editoriale del frate senese. Simbolo e rifugio per gli esuli italiani religionis causa, la città elvetica pullulava di tipografie, uno dei mezzi più utilizzati dalla propaganda riformata4. Ochino, arrivatovi con una già consolidata reputazione di nemico dell’Inquisizione, cominciò subito, nel settembre 1542, a stamparvi i propri scritti, proseguendo la propria attività fino al 1545, anno in cui una nuova fuga, questa volta dovuta a disaccordi con l’autorità di Calvino, lo costrinse a cercare asilo prima in Germania (ad Augusta) e, poi, in Inghilterra, a Londra. Malgrado la nuova e incerta situazione, che lo vedeva continuamente esule da un paese all’altro (con un’unica vera pausa quasi decennale a Zurigo, a partire dal 1555), fino alla morte avvenuta in Moravia verso il 1565 per stenti e malattia, Ochino continuò a dare alle stampe, dovunque fosse di passaggio, il risultato della sua svariata attività di poligrafo: testi teologici, commenti alla Sacra Scrittura, dialoghi, sermoni a stampa e gli Apologi, pubblicati a Ginevra nel

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15545 durante una pausa di un viaggio che, di ritorno da Londra, lo portò poi anche a Strasburgo e a Basilea, verso la fase zurighese a cui si è accennato sopra. Gli Apologi sono una raccolta di 100 racconti brevi6 che hanno tutti come oggetto o, per meglio dire, come bersaglio, i costumi e gli abusi della chiesa romana. Qui di seguito si vorrebbero offrire alcuni appunti presi in vista di una futura edizione critica e commentata, appunti che hanno puro valore indicativo e necessitano di sviluppi e approfondimenti ulteriori. Evitando per il momento l’aspetto ecdotico, che sembra, del resto, non riservare grandi sorprese7, si forniscono alcune osservazioni che abbozzano la genesi letteraria e ideologica di quest’operetta, un unicum nel panorama italiano della letteratura della Riforma, ma anche nell’usus scribendi del cappuccino, abituato a sforzi creativi di altro tipo. S’inizia con un excursus sui contenuti teologici e narrativi, nel tentativo d’individuare alcuni riferimenti intertestuali sia all’interno della stessa produzione ochiniana sia nel quadro di una produzione di stampo riformato. Segue una riflessione sulla configurazione letteraria degli Apologi, ossia sul genere e le possibili fonti. In conclusione si accennerà a un’altra possibile prospettiva di ricerca, quella storico-linguistica, nel contesto specifico della produzione italofona all’estero durante l’epoca della Riforma.

Gli Apologi : personaggi e contenuti

2 Gli Apologi ricostruiscono veloci quadretti comici in cui si muovono papi, personaggi della curia romana, ma anche domenicani, francescani, frati di altri ordini, preti secolari, tutti alle prese con l’assurdità del sistema ecclesiastico da loro stessi creato e mantenuto, osteggiati verbalmente dalla logica e dalle verità di interlocutori che mettono a nudo scandali e superstizioni degli stessi ecclesiastici.

3 Nella rassegna papale, la presenza più assidua è quella di papa Paolo III8, primo responsabile dei guai inquisitoriali di Ochino9. Accanto al papa Farnese spiccano poi i pontefici Clemente VII10 e Giulio II 11; anche Giulio III12, che determinò la ripresa del concilio di Trento nel 1551: tutti pontefici che rappresentavano una successione petrina senza limiti quanto all’ingerenza negli affari temporali. Allontanandosi dalla contemporaneità o dal passato prossimo, Ochino mette alla berlina anche papi meno recenti, come Adriano VI (Apologo 60), Bonifacio VII («gran ribaldo» Apologo 20) e, risalendo fino al IV secolo, Silvestro I (Apologo 34), beneficiario della donazione di Costantino (argomento pure dell’Apologo 56); ripescando poi un luogo comune della critica alla gestione ecclesiastica dei beni temporali, si spinge fino alle cause prime di questa degenerazione: oltre Costantino, Ochino arriva fino al coinvolgimento narrativo dell’imperatore Foca che nel 607 aveva concessó al vescovo di Roma la «potestà» sugli altri vescovi, inghippo già stigmatizzato da Lutero nei suoi raccontini brevi caratterizzati da un’efficace crudeltà verbale e pubblicati nel 1545.

4 Scendendo lungo la scala gerarchica clericale, si cade praticamente nell’anonimato; i cardinali stessi appartengono a quella massa indefinita di ecclesiastici che parassitano intorno al sistema papale. Costituiscono una debole eccezione personaggi come il cardinal di Chieti (Apologo 23), il cardinal d’Inghilterra (Apologo 40, personaggio nel quale non si fatica a riconoscere il celebre cardinale Pole), un cardinal «todesco» (Apologo 21) o, ancora, un vescovo proveniente dalla lontana «Datia» (Apologo 13): pur facendo riferimento a luoghi concreti, Ochino sembra piuttosto incrementare il grado di a-storicità del racconto. Per il resto, i protagonisti sono designati in base alla loro

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categoria gerarchico-religiosa: vescovi, monsignori, prelati, preti (tra cui diversi preti di campagna), fino alle numerose ramificazioni dei diversi ordini religiosi, talvolta non senza un certo compiacimento nell’esposizione verbale dei nomi e delle definizioni: domenicani, francescani, le monache di Siena, «frati delli zoccoli» (Apologo 31), e la schiera di «amadei, boscaini, chiarini e quelli della paula» (Apologo 23).

5 Il côté temporale è dominato dall’imperatore, un probabile Carlo V, e poi, a ritroso nel tempo, fanno una fugace apparizione Lorenzo de’ Medici e il Barbarossa, in lotta con Giannettino Doria (Apologo 32). Tuttavia, come per gli ecclesiastici, l’Ochino preferisce popolare gli apologi di personaggi indefiniti, se non sconosciuti, mettendo in scena un «duca di Malphi» (Apologo 35), e poi gentiluomini romani, popolani veneziani e genovesi, fino alla vecchietta semplice e saggia (Apologo 32)13. Anche quando accenna a elementi storici non sempre accertabili14, l’autore sembra sempre immergere i personaggi in un’atmosfera slegata dal loro contesto temporale, evitando ogni descrizione e semplificando la narrazione fino a ridurla, spesso, al semplice scambio dialogico, lasciando prevalere i vaghi contorni della fiaba, dell’apologo appunto.

6 L’Ochino aveva messo a frutto la propria competenza teologica nell’attività predicatoria, nella trattatistica e persino nei Dialogi, non solo in funzione del feroce dibattito con l’establishment romano che avrà soprattutto luogo negli anni dell’esilio, ma anche nell’approfondimento delle tematiche della perfezione cristiana, della cristologia e della mariologia15. Nella scia innovatrice di Valdès e dei primi riformatori transalpini, Ochino, predicatore in Italia, diffondeva e approfondiva soprattutto la mediazione di Cristo, esaltandone la funzione soteriologica fino a considerarla l’unico e assoluto mezzo di espiazione e riparazione della condizione peccaminosa originale e arrivando così a fornire un argomento di sostegno alla dottrina della sola giustificazione per Cristo, perno della futura discussione teologica tra cattolici e protestanti. Le conseguenze di questa visione dogmatica se, da un parte, accentuavano la tensione dell’amor Christi, dell’innamorarsi di Dio, corrente mistica già abbondantemente propagandata dai movimenti spirituali del Nord Europa a partire dalla seconda metà del XIV secolo16, dall’altra sottolineavano con forza l’inutilità delle opere umane ai fini della salvezza eterna e, indirettamente, l’ipocrisia dei mezzi salvifici offerti dalla curia romana, in primis le indulgenze ecclesiastiche; senza contare la drastica riduzione dell’importanza della figura di Maria nell’economia salvifica, aspetto che, comunque, Ochino evitò di approfondire in termini teologici, forse per non sfidare il magistero ecclesiastico su un terreno infido e delicato come quello della soteriologia mariologica17.

7 Negli Apologi il contesto narratologico e la finalità umoristico-satirica non permettevano certo la discussione di casi dogmatici e, in effetti, l’impressione è che Ochino abbia puntato a pochi contenuti, da una parte teologicamente impoveriti e suscettibili di creare uno spunto comico ma, dall’altra, costanti nella loro frequenza, una sorta di martellamento ideologico travestito dalla risata. L’argomento principale è costituito dall’assurdità del primato petrino e dall’ingerenza ecclesiastica nel potere temporale: ne scaturiscono discussioni tra pontefici preoccupati di difendere i privilegi acquisiti, imperatori che rivendicano la propria competenza terrena, luterani insoddisfatti che sperano di aver voce in capitolo al concilio di Trento. L’infallibilità ex cathedra, la possibilità di liberare le anime dal purgatorio e l’esistenza stessa di quest’ultimo luogo ultraterreno (argomenti che richiamavano immediatamente quello scottante delle indulgenze) sono i temi ricorrenti nella critica all’autorità papale;

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autorità che, a ogni modo, negli Apologi, appare sistematicamente rifiutata, in nome di una chiesa che possa essere governata da Cristo senza bisogno di poteri terreni intermediari (Apologi 11; 20; 26). I papi, consci di questa usurpazione, non hanno altra arma (a parte l’Inquisizione, praticamente assente negli Apologi se non nell’Apologo 37) che non sia una quantità smisurata di decreti e cavilli canonici (la montagna di «decreti, decretali e estravaganti» dell’Apologo 4), oppure si nascondono dietro i fumosi e confusi dibattiti tridentini. Inevitabile, ma poco sfruttato, diventa allora il luogo comune e diffusamente iconografico del papa anticristo e diabolico (Apologi 13; 34)18.

8 L’imposizione di una scala gerarchica con al vertice il pontefice è considerata all’origine dei piccoli e grandi abusi del resto del clero: dal vescovo che si arroga poteri papali ai fini di rimpinguare le proprie casse e che, una volta smascherato e accusato dal pontefice stesso, riesce a difendere con una serrata razionalità il proprio operato, al prete di contado, che domanda il beneficio ecclesiastico scandendo le proprie richieste a mo’ di litania, il tutto con un’ingenuità quasi infantile, prodotto spontaneo di un sistema perverso. Se si volesse interpretare alla lettera il titolo dato da Ochino alle sue prose brevi, apologi, e la tradizione letteraria che esso racchiude, tutti questi personaggi ecclesiastici non sarebbero allora che travestimenti per animali che si muovono nella giungla del sistema romano, ciascuno pronto a difendere il proprio territorio.

9 Le diverse superstizioni del mondo ecclesiastico (culto dei santi, delle reliquie, di alcune pratiche religiose, come nell’Apologo 29) sono un altro argomento ricorrente (del resto, già ben rappresentato nella satira protestante ginevrina, a cui lo stesso Calvino aveva contribuito stigmatizzando certi costumi religiosi19), e forniscono lo spunto per storielle popolari, dai toni vagamente boccacciani: il prete genovese che vende delle corna di bue spacciandole per quelle di Mosè e che, dopo che il suo imbroglio viene smascherato, si giustifica denunciando a sua volta quelli che vendono boccette contenenti il fiato del Cristo (Apologo 6); il frate che rispiega, rovesciandola, la simbologia dei tre nodi della corda dei francescani; il cerretano che vende innumerevoli messe di San Gregorio rubando la piazza ai frati zoccolanti e con i quali, dopo varie discussioni, riesce a trovare un accordo (Apologo 31). La bizzarìa del culto dei santi è messa alla berlina dallo sguardo e dal giudizio di persone semplici: una signora francese si stupisce del continuo abbinamento di santi e animali (sant’Antonio e il porcello, san Francesco e l’asinello, ecc.; Apologo 30), mentre la vecchiarella sopra citata denigra ingenuamente l’attaccamento alla rappresentazioni iconografiche delle posizioni assunte da determinati personaggi accanto alla croce di Cristo, dove destra e sinistra costituiscono un diverso livello d’importanza nella visione ecclesiastica.

10 Ochino, comunque, riesce anche a inserire argomenti di un maggior spessore teologico: è il caso della famosa dottrina della giustificazione, per cui viene messa in scena una discussione tridentina che degenera addiritura in tirate di capelli tra i cardinali presenti (Apologo 55); oppure, si discute del dogma della transunstanziazione che, sebbene serva da spunto per l’ennesima messa alla berlina di preti scansafatiche e calcolatori, viene curiosamente messo in dubbio almeno in tre apologi (44; 51; 52): un atteggiamento narrativo di questo tipo poteva risultare abbastanza ardito anche agli occhi dello stesso pubblico protestante, ma, allo stesso tempo, confermava la disinibizione teologica di Ochino, spesso nei guai, a Ginevra con i calvinisti come a Zurigo con gli zwingliani, per i suoi approfondimenti dottrinali in materia di Trinità o di sacramento del matrimonio20.

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Gli Apologi nella tradizione della facezia e del motto arguto

11 Unico esempio, nel Cinquecento italiano, di una raccolta con l’obiettivo monotematico puntato sulle pecche del clero cattolico, gli Apologi costituiscono innanzitutto una novità per il suo stesso autore, per la prima volta alle prese con la narrativa pura e col genere letterario probabilmente più frequentato durante l’epoca cinquecentesca: le raccolte di racconti brevi. Secondo la voga del tempo, Ochino non fornisce una cornice, ma i testi appaiono comunque ‘incorniciati’ in un «contesto performativo»21.

12 Ochino smette dunque (momentaneamente) i panni più impegnativi del teologo ed esegeta, persuaso che il pubblico percepirà meglio il messaggio attraverso la via del ridicolo; così infatti motiva la scelta di tale genere nella lettera dedicatoria: Desiderando discuprire in parte li abusi, superstitioni, idolatrie, errori, in pietà e pazie de’ papisti, non tutte, per essere innumerabili, ma circa mille d’elle principali, per esser cose ridicule ho giudicato essere ottimo modo el proceder sì come vedrete, non sol perché è modo conveniente alle lor sciocheze, ma anco perché diletta, è facile, breve e utile; imperò che serve alla intelligentia del vero e della memoria (p. 3)

13 Siamo però lontani (malgrado la veemenza del sonetto proemiale dedicato al «cristianesimo bastardo»22) dalle violenze narrative della prosa di Lutero, popolata da un clero dalle sembianze bestiali e immersa perennemente in situazioni scabrose, se non addirittura scatologiche.

14 I vizi, le superstizioni, le cattive abitudini del clero cattolico, ma anche certe posizioni dottrinali come l’infallibilità papale ex cathedra vengono smontate dalle contraddizioni messe in luce ogni volta dalla logica ferrea del discorso, dal procedimento verbale che non può esimersi dall’affermare la verità: non si tratta solo della battuta risolutrice, ma del crollo della grande «menzogna romana» di fronte all’evidenza della parola vera. Lo scherno, però, sotto la penna dell’Ochino, è uno scherno bonario, privo di volgarità. Papi, cardinali, frati, semplici sacerdoti sono sempre ironicamente consapevoli delle proprie mancanze e, addirittura, dell’assurdità del papal-system; messi alle strette, confessano ingenuamente di rimanervi fedeli per pure ragioni materiali, per non far cadere in rovina un redditizio sistema di cui non possono fare a meno. Emblematica è la confessione di Paolo III ai nipoti sui «modi che haveva tenuti per ascendere al papato»: A li quali respose: «Vi siam saliti con haver monstrato che ’l ci restasse una corta vita e con haver hauto una longa patientia, con haver fatte strette pratiche e larghe promesse. Con dir di haver alti favori e con indur li cardenali non ci elegendo in profondi timori; e finalmente con sottili astutie e grossa conscientia» (Apologo 9, pp. 3-4)

15 Nel mondo ecclesiale ricreato dai racconti ochiniani il sistema ecclesiale è così perversamente irreversibile e irrecuperabile che i suoi stessi membri (dal papa al più umile dei sacerdoti) talvolta discutono, si affrontano vicendevolmente, si rimproverano, ma, puntualmente, colui che si trova nella posizione gerarchica inferiore e che, dunque, viene ipocritamente ripreso per le sue esagerazioni (riguardanti ora un abuso di potere nella gestione delle indulgenze, ora una richiesta un po’ sfrontata di un beneficio di campagna), attraverso un ragionamento di strette analogie, passa, dall’apparente torto iniziale, a smentire il proprio superiore in grado.

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16 A volte gli ecclesiastici, colti in fallo, suggellano addirittura con una risata la messa a nudo della propria condizione, umana e dottrinale, riconoscendo l’arguzia discorsiva dei propri interlocutori23.

17 Le possibilità della parola, della beffa verbale, costituisce dunque il meccanismo principale degli Apologi; un esercizio di chiara tradizione medievale (basti ricordare il Novellino e il ricorso all’insegnamento morale attraverso la «bella sentenzia»24), ma che s’inseriva di buon diritto nella narrativa contemporanea la quale, attraverso le fonti quattrocentesche, raccoglieva l’eredità delle materie comiche trasmesse dal Decameron e perpetuava il genere della facezia e del motto arguto, ormai una precisa scelta letteraria distinta dalla novellistica25.

18 Il potere della parola assume un ruolo imprescindibile in certi Apologi, quando sulla scena verbale fanno la loro apparizione risposte talmente studiate nelle loro analogie e nei loro sofismi da sfiorare la letteratura del non-senso. Un esempio si può trovare nell’Apologo 45, dove l’impossibilità che la chiesa sia fondata sul papa viene così spiegata: Imperò che se è e si facesse luterano, ruinarebbe in tutto la chiesa romana, atteso che ognun si farebbe luterano. Ma non sarebbe già così se ’l papa si facesse luterano; immo sarebbe quasi pericoloso che gli luterani per paura che harebben di lui non si facessen papisti (p. 30)26.

19 Esempio poi fulminante e comicamente riuscito (anche per il senso umoristico di un lettore moderno, caso abbastanza raro, occorre dirlo, negli Apologi) di come gli uomini di chiesa si aggrappino alle parole e dietro di esse si trincerino, è l’ennesima ‘fanta- seduta’ tridentina, in cui il ruolo petrino viene direttamente messo in continuità con la gerarchia ecclesiastica e, soprattutto, con il ruolo del pontefice, tramite un magistrale accostamento, nelle bocche dei cardinali ignoranti, di due termini omofoni. Vale la pena di riportare l’intero e breve apologo in questione: Disputandosi nel concilio tridentino da quelli padri se per haver Cristo detto a Pietro: «Tu sarai chiamato “Cephas”» poteva provarsi che ’l papa fusse capo della chiesa? E dicendo alcuni che no, imperò che “Cephas” è nome siriaco e vuol dire “solido” over “pietra”, un di loro, come quello che era affetionato a’ francesi disse: «Voi non sapete quel che vi dite, imperò che Cristo ivi non parlò in lingua siriaca, ma in lingua francese nella qual Ceph vuol dire “capo”, ma disse “Cephas” per parlar non solamente francese, ma anco latino» (Apologo 25, p. 40).

Altri possibili modelli letterari

20 I pochissimi interventi critici che fanno menzione degli Apologi non approfondiscono la questione del genere letterario e delle possibili fonti: «aneddoti»27, «exempla all’incontrario di stampo novellistico»28, «facezie»29 sono le sole definizioni che si possono registrare. Solo Daniela Solfaroli Camillocci, nel suo ottimo saggio dedicato alla «Ginevra vista dai papisti, l’altra Roma»30, si sofferma sull’argomento e avvicina gli Apologi di Ochino a un genere letterario italiano ben preciso, quello delle contemporanee pasquinate, componimenti poetici e anonimi che circolavano a Roma costituendo uno spazio di sfogo artistico per i malumori nei confronti della curia romana. Discendenti da una tradizione antipapale tre-quattrocentesca, le pasquinate conoscono negli ambienti riformati cinquecenteschi un vero e proprio successo di raccolte e pubblicazioni31. Il genere si conforma perfettamente alla satira protestante antipapale, soprattutto di stampo calvinista, confluendo in risultati esemplari, come i

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Pasquillorum tomi duo pubblicati a Basilea nel 1544, a cura di Celio Secondo Curione, un’opera accostabile per struttura (in parte) e per finalità agli Apologi ochiniani.

21 Se delle pasquinate gli Apologi riprendono spesso il cronòtopo della curia romana degli anni quaranta e cinquanta, curia dominata da Paolo III e, in seguito, da Giulio III, il piano stilistico-linguistico se ne distacca non solo per l’evidente differenza tra scelta poetica e scelta narrativa, ma anche per l’accortezza nell’evitare quell’aggressività verbale e quel crudo realismo lessicale che nelle pasquinate costituivano un carattere imprescindibile e di cui Ochino era comunque capace32. Lo stesso contrasto dialogato, spesso incalzante negli anonimi poemi romani, negli Apologi assume un andamento più disteso, a favore di risposte lunghe e ragionate, appena osteggiate dagli uomini di chiesa.

22 Tuttavia, da non sottovalutare è anche il percorso personale e creativo dell’Ochino che, oltre alla produzione di trattati, era stato caratterizzato dalla scrittura di dialoghi33 e dall’attività predicatoria. Un’attività, quest’ultima, che per un cappuccino dei primi anni del Cinquecento non poteva non fare innanzitutto riferimento all’illustre precedente (nonché omonimo e conterraneo) di Bernardino da Siena. Malgrado la degenerazione del tipo di predicazione realistica da quest’ultimo provocata, degenerazione che si era rispecchiata prima nella tradizione della predicazione «mescidata», poi nella sciatta oratoria di cui gli ordini mendicanti, ormai affollati di gente inesperta e incompetente, si erano resi responsabili, i meccanismi della retorica popolare messi in valore dal cappuccino senese si erano radicati e diventavano un elemento indispensabile nella comunicazione religiosa. Si tratta dell’inserimento degli exempla, di dialoghi quasi messi in scena con l’ausilio di gesti e altri espedienti, del linguaggio realistico e quotidiano, si tratta dell’utilizzo di quelle tecniche appartenenti all’ars memorativa che dovevano appunto servire a far memorizzare al pubblico degli ascoltatori, attraverso il racconto e la ilarità suscitata, i punti chiave del discorso religioso34. Sebbene la predicazione dell’Ochino appaia sobria, infarcita di citazioni bibliche e di ragionamenti teologici, una predicazione di alto livello insomma35, è indubbio che la formazione francescana e cappuccina gli avesse trasmesso questo bagaglio retorico. Le dichiarazioni della lettera dedicatoria sopra citata sono infatti in perfetta linea con questo tipo di comunicazione, e il mondo degli Apologi, a parte le presenze ecclesiastiche altisonanti, si popola spesso di gentiluomini, di preti di campagna, tutti protagonisti di un ceto medio borghese che, dopo aver affollato le pagine del Decameron, figuravano negli scenari dei sermoni, specchio e, al tempo stesso, esempio efficace per l’uditorio.

Gli Apologi come documento linguistico dell’italiano all’estero

23 Un’altra linea di ricerca è data dal contesto storico-sociale in cui vengono concepiti e diffusi gli Apologi. Non è, infatti, solo il frutto letterario di un simpatizzante per la Riforma, ma anche l’opera di un italiano pubblicata a Ginevra. La città elvetica, in effetti, era la sede di un’importante comunità italofona, attiva dal punto di vista intellettuale e produttrice di testi in lingua italiana. Se è vero che alcuni di questi testi (tra cui, forse, anche gli Apologi) erano probabilmente concepiti per essere poi distribuiti in territorio italiano, è anche vero, come osserva Enea Balmas, che la produzione ginevrina in lingua italiana aveva dato luogo a una sorta di nuovo «langage

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théologique»36. Il testo di Ochino non è certo assimilabile a quello dei manuali, delle traduzioni di Calvino, dei salteri circolanti a pieno ritmo fra le mani degli italofoni ginevrini, ma rientra comunque nella stessa logica: quella di fornire strumenti fondanti un’idea e un credo per italiani che erano lontani dalla propria patria. Malgrado lo scarto cronologico e l’assenza di testimoni orali viventi, questa produzione fuori confine potrebbe di diritto (o quasi) rientrare nella categoria delle esperienze italofone all’estero37, di cui, per ovvi motivi, vengono studiate solo quelle dell’epoca contemporanea (a parte certi illustri esempi di saggi dedicati, per esempio, al veneziano coloniale o «di là dal mare»).

24 Tali strumenti erano scritti in una lingua italiana che diveniva anch’essa scelta religiosa in se stessa: una lingua priva dei fronzoli e degli eccessi del fiorentinismo di moda; non però un puro riflesso delle correnti anti-toscaniste circolanti nella madre patria, ma spesso una scelta coerente e giustificata, una vera lingua italiana di Ginevra. Basti pensare che nell’anno stesso in cui facevano la loro apparizione gli Apologi, a Ginevra venivano pubblicate due traduzioni del Nuovo Testamento in lingua italiana ed entrambe, nel frontespizio, affermavano con determinazione il rifiuto di una lingua che facesse uso di «toscanismi», quasi mescolando la presa di posizione linguistica con questioni di natura teologica e morale38. La polemica anti-fiorentinista, fatte le debite proporzioni, sembra infatti conformarsi al clima di controllo linguistico instauratosi nella città calvinista, dove la censura e gli organi competenti non solo intervenivano sui contenuti dei testi (per cui veniva richiesto il permesso di pubblicazione), ma anche sullo stile e la lingua utilizzata, argomenti su cui Calvino, promotore del sermo biblicus, aveva abbondantemente teorizzato, con le conseguenti applicazioni39.

25 Gli Apologi di Ochino a una prima lettura si dimostrano fonomorfologicamente distanti dai dettami bembiani40, ma nemmeno estremamente municipalizzati nella loro espressione, e sembrano offrire un altro tassello a questa lingua, quello del linguaggio comico anti-ecclesiastico. In questa direzione interessante è l’apporto in termini lessicali. Ochino, infatti, incrementa il registro comico servendosi di termini di sicuro effetto e che, di riflesso, possono interessare la lessicografia attuale. In effetti, non solo ricorrono parole o espressioni del linguaggio comico trecentesco (basti pensare a mammoli “bambini” o alla locuzione mentire per la gola “mentire in maniera sfacciata”, zuffa da cani; ribaldo; grandissimo minchione, ecc.), ma anche, si presume, del linguaggio a lui contemporaneo, cosa che, in alcuni casi, permette di retrodatare le prime attestazioni registrate dai dizionari storici ed etimologici. Si citano qui di seguito alcuni esempi: l’uso posposto di marcio in luogo di peggiorativo in «eretico marcio» (la stessa locuzione compare nel Nuovo Dizionario etimologico della lingua italiana41 – d’ora in avanti NDELI – e l’autore indicato della prima attestazione per tale significato è «Buonarrotti il Giovane, 1564»); «curadenti»: secondo il Dizionario etimologico italiano42 – d’ora in avanti DEI – entra in letteratura con Citolini, di cui, mancando la citazione dell’opera specifica43, non è certa la retrotadazione rispetto agli Apologi; la locuzione «fare del bàu» (‘‘far paura’’) permette di retrodatare il termine onomatopeico bàu, segnalato in prima attestazione dal NDELI con tale indicazione per quel che riguarda l’autore e la data: «E. Forcellini, 1771»; la locuzione «fare del babau» è, invece, presente nell’Ipocrito dell’Aretino, commedia del 1542, ma il significato non è certo; «spauracchi», nel significato di ‘‘persona o cosa che incute paura’’, secondo il NDELI appare per la prima volta con «Annibal Caro, 1566». Per finire, si fornisce un accenno ai nomi degli ordini religiosi, già citati sopra. Si trattava di correnti di ordini già esistenti (in genere

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francescani), nati dall’intenzione di una riforma interna della chiesa: «chiarini», termine indicante la corrente francescana fondata da Angelo Cingoli detto il Chiarino o Clareno, è presente solo nel Grande dizionario della lingua italiana44, grazie a una citazione di «Tommaso Garzoni, 1638»; «amadei» non è stato trovato nei dizionari che in genere registrano la parola amadèisti (Dizionario della lingua italiana45 di Tommaseo e Bellini e DEI), dal nome del fondatore di un altro ramo riformato francescano, Juan Menéndez Amadeo, e di cui lo stesso DEI fornisce una datazione (XV sec.) che sembra da ricondursi alla fondazione dell’ordine e non a un’attestazione documentaria.

NOTE

*. Questo articolo è frutto di una rilettura (apportatrice di aggiornamenti, modifiche e correzioni) di un contributo che, con lo stesso titolo, è apparso nel seguente volume: Percorsi incrociati. Studi di letteratura e linguistica italiana, Atti del Dies Romanicus Turicensis (Zurigo, 23 maggio 2003), Leonforte, Insula, 2004, pp. 33-45. 1. Cf. la bibliografia presente in U. Rozzo, Bernardino Ochino. I «Dialogi sette» e altri scritti del tempo della fuga, Torino, Claudiana, 1985, p. 37; o uno studio relativamente recente come quello di E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna: un dialogo artistico-retorico ispirato da Bernardino Ochino, Torino, Claudiana, 1994; o, ancora, un’edizione recentissima di alcuni dei sermoni ochiniani: B. Ochino, Laberinti del libero arbitrio, a cura di M. Bracali, Firenze, Olschki, 2004. 2. Bernardino Tommasini nasce a Siena, forse nel 1487, nella contrada dell’Oca; entrò nei francescani osservanti nel 1503-1504. Dopo una rapida carriera decise di passare al nascente ordine cappuccino dove assunse subito una posizione di rilievo («Diffinitore generale») nel 1535, collaborando alla stesura stessa delle costituzioni cappuccine. Parallelamente, Ochino si afferma come grande predicatore, soprattutto a Roma, nel 1534-1535, dove ha inizio la sua amicizia con Vittoria Colonna. Addirittura, l’anno successivo, a Napoli, Carlo V si recò ad ascoltarlo nella chiesa di San Giovanni Maggiore (cf. U. Rozzo, Bernardino Ochino, op. cit., pp. 9-10). 3. Cf. U. Rozzo, Bernardino Ochino, op. cit., pp. 15-21; 30-32. 4. Cf. le bibliografie fornite in J.-F. Gilmont, «Bibliotheca Gebennensis. Les livres imprimés à Genève de 1535 à 1549», Genava, n.s., 28, 1980, pp. 229-251. 5. Gli Extraits des Registres du Conseil relatifs à l’imprimerie et aux imprimeurs 1551-1570, consultati presso la Bibliothèque de Genève (Ms. fr. 3871, Papiers Théophile Dufour), registrano le pratiche amministrative che l’Ochino dovette affrontare per avere il permesso di pubblicare i suoi Apologi: Fascicolo «Arrets du Conseil 1551-1560», f. 17r.: «[in cima al foglio, a destra] Registre des particlrs: V. 7. 1553 // du 23 Novbre: f. 180: S. Bernhadin Ochino. Sus la supplication dudict Ochine tendant / aux fins de permettre habiter icy, arresté qui / luy soit permys, actendu que ja il est esté icy et y est pour la parole de Dieu. / Et de ce qu’il demande permettre imprimer ung livre / quil a faict, arresté que l’on le face veoir, puys ong verra que lon rap- /portera»; f. 20r.: «[foglio diviso in due colonne di uguali dimensioni: nella colonna a destra, sulla prima riga:] Vol. 47 1553 // [nella colonna a sinistra:] Bernadin Ochin. Se St Sindicq. Perrin a ref- /ferir avoir faict veoir le livre / que ledict Bernardin presenta pour faire imprimer [nella colonna a destra sulla stessa riga della frase: «Bernardin...»] du 7 xbre; f. 190v.». 6. Curiosamente, dopo la lettera dedicatoria, gli Apologi recano la dicitura: «Primo libro degli Apologi», lasciando supporre, almeno nelle intenzioni dell’autore, un seguito.

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7. Gli Apologi subiscono un destino editoriale dai risvolti curiosi: la stampa del 1545 resterà la sola in lingua italiana, senza alcuna ristampa, né in Italia, né all’estero (secondo un primo controllo effettuato consultando i cataloghi della quasi totalità delle biblioteche italiane, francesi, inglesi, tedesche e svizzere). Compariranno, tuttavia, delle traduzioni, soprattutto in tedesco. Sempre nel 1545 e sempre a Ginevra, esce la versione francese (conservata presso la Bibliothèque publique de Genève [côte H. Och. 4]; devo questa segnalazione alla gentilissima professoressa Maria-Cristina Pitassi, direttrice dell’Institut d’Histoire de la Réformation dell’Università di Ginevra). Per il pubblico germanofono, più attento e più abituato alla satira antipapale, a partire del 1553 uscirà ad Heidelberg la traduzione di Christoph Wirsung, ristampata nel 1559 (Des hochgelehrten und gottsäligen mans Bernhardini Ochini von Senis, fünf bücher siner Apologer, [s.l.]). Queste edizioni si presentano non solo come una semplice e fedele traduzione dell’originale italiano, ma anche come una riedizione ampliata e arricchita di nuovi testi (addirittura in cinque volumi con titolo autonomo). In traduzione tedesca gli Apologi vantano inoltre un’edizione del XX secolo, a conferma del successo del genere presso il pubblico germanofono (Apologe des Bernardino Ochino, eingeleitet und herausgegeben von Karl Amrain, Leipzig, Deutsche Verlagsactiengesellschaft, 1907). 8. Il cardinale Alessandro Farnese, eletto papa nel 1534. 9. Il 21 luglio 1542 Paolo III aveva riorganizzato l’Inquisizione con la bolla Licet ab initio, e Ochino fu uno dei primi a essere convocato dal tribunale ecclesiastico. 10. Giulio de’ Medici, figlio naturale di Giuliano de’ Medici, fu eletto papa nel 1523, predecessore di Paolo III. 11. Giuliano della Rovere fu eletto papa nel 1503. Scatenò le proteste di Erasmo da Rotterdam e di Lutero quando, nel 1506, domandò alla cristianità i fondi per finanziare la nuova basilica di San Pietro, commissionata all’inizio al Bramante. 12. Gian Maria Ciocchi, eletto papa nel 1550, successore di Paolo III. 13. Quest’ultimo apologo sembra richiamare un brano tratto da uno dei Dialogi sette (Dialogo del modo dell’innamorarsi di Dio), in cui Ochino rispondendo alla sua interlocutrice (la Duchessa) afferma: «E io tengo che una semplice vecchiarella può tanto amare Dio, quanto il primo dotto del mondo» (cf. il testo in U. Rozzo, Bernardino Ochino, op. cit., p. 26). 14. Per esempio: le sessioni tridentine (Apologi 25; 53; 56). 15. Cf. E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna, op. cit., pp. 22-37; cf. U. Rozzo, Bernardino Ochino, op. cit., pp. 25-30. 16. Soprattutto nella scia della corrente spirituale della devotio moderna, che aveva nell’opera di Tommaso da Kemphis, l’Imitazione di Cristo, il suo testo-simbolo. 17. Cf. E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna…, op. cit., pp. 35-37. 18. Probabilmente Ochino aveva avuto modo di vedere e leggere il Passional Christi und Antichristi illustrato con forza da Lucas Cranach (cf. U. Rozzo, Bernardino Ochino, op. cit., pp. 33-34); l’iconografia di tale testo rappresenta in maniera esemplare la visione apocalittica e demonica che il mondo protestante aveva del papato romano (cf. D. Solfaroli Camillocci, Lo sguardo dell’altra Roma: Ginevra e la capitale dei «papisti», in Storia d’Italia. Annali 16: Roma. La città del papa, a cura di L. Fioranti e A. Prosperi, Torino, Einaudi, 2000, pp. 177-186). 19. Calvino aveva pubblicato nel 1543 un Trattato delle reliquie (cf. l’edizione moderna in Jean Calvin, Traité des reliques, ed. I. Backus, Genève, Labor et Fides, 2000). Già Vergerio, del resto, nella sua Epistola nel quale sono descritte molte cose della città e della chiesa di Geneva, Genève, 1550, era positivamente stupito dal fatto di non trovare a Ginevra nessuna di quelle «superstizioni» della pietà tradizionale, così care alla cattolicità (cf. D. Solfaroli Camillocci, Lo sguardo dell’altra Roma…, op. cit., p. 183). 20. Cf. E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna, op. cit., pp. 29-37. 21. R. Bruscagli, «La novella e il romanzo», in Storia della letteratura italiana, sotto la direzione di E. Malato, vol. IV: Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Editrice, 1996, p. 836.

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22. «Nel caos che non ha né fin né fondo / d’errori, e dove il più fetido è immondo / sterco d’impietà tutto è raccolto» (vv. 6-8, dal sonetto Al christianesimo bastardo, p. 2). 23. Come nell’Apologo 36: «Rise el papa e gli voltò le spalle»; nell’Apologo 43: «Rise el vescovo, ma non di cuore e si partì»; nell’Apologo 51: «Rise el papa con dirgli che gl’haveva hauto ragione». 24. Il Novellino sembra essere ripreso anche quando viene proposta la struttura semplice che prevede l’esposizione dell’argomento prima del testo, cambiando l’iniziale «qui si conta», con l’inserimento di altri formule: «apologo nel qual si mostra...» o «nel qual si scuopre». Come nel Novellino, il paesaggio narrativo può rapidamente cambiare: dalle narrazioni imperniate sulla «sentenzia», a semplici descrizioni di abitudini e superstizioni del clero; da vicende in cui si citano con precisione fatti e personaggi, a situazioni in cui spazio e protagonisti non hanno un nome, il tutto all’insegna della cronaca esemplare e di una rappresentazione né mitica né realistica che conduce alla bonaria moralità della favola. 25. Secondo anche il giudizio di un altro novelliere senese del secondo Cinquecento, Girolamo Bargagli, giudizio riportato in S. Nigro, «La narrativa in prosa», in Manuale di storia della letteratura italiana, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. 2: Dal Cinquecento al Settecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 408. 26. O l’Apologo 55 dove, per i padri riuniti in concilio, la paura di Pietro invitato dal Cristo a uscire dalla barca e a camminare sulle acque, diventa lo spunto per l’esaltazione delle opere (significate dagli altri apostoli restati in barca a remare) rispetto alla pura fede, simboleggiata da Pietro «che allora era luterano». 27. U. Rozzo, Bernardino Ochino, op. cit., p. 18. 28. S. Cavazza, «Predicazione e propaganda religiosa», in Manuale di storia della letteratura italiana, op. cit., p. 742. 29. D. Solfaroli Camillocci, Lo sguardo dell’altra Roma: Ginevra e la capitale dei «papisti», op. cit., p. 184. 30. D. Solfaroli Camillocci, Lo sguardo dell’altra Roma…, op. cit., pp. 173-198. 31. Cf. l’edizione Pasquinate romane del Cinquecento, a cura di V. Marucci, A. Marzo e A. Romano Roma, Salerno Editrice, 1983. 32. Soprattutto se gli è possibile attribuire la paternità della celebre lettera a Paolo III, esempio efficace di virulenza verbale (cf. K. Benrath, «Lettera a Paolo III. Documento sconosciuto del secolo XVI», La Rivista cristiana, 2, 1874, pp. 257-272; 289-302; U. Rozzo, Bernardino Ochino, op. cit., p. 18). 33. Per quanto riguarda i dialoghi, esiste l’edizione recente (ma non critica) dei Dialogi sette realizzata da U. Rozzo, Bernardino Ochino, op. cit. Quanto alle doti di autore teatrale di Ochino, esiste una tragedia intitolata Una tragedia, cioè dialogo sul primato del vescovo di Roma ingiustamente usurpato, uscita in inglese nel 1549 (e il titolo qui fornito è infatti una traduzione), ma composta in latino. Quest’opera rivelò, secondo alcuni critici, delle doti drammaturgiche non indifferenti (cf. F. D’Anversa, «Bernardino Ochino fautore della pseudo-riforma», L’Italia francescana, 6, 1931, p. 168). 34. Tra i numerosi studi consacrati all’ars memorativa e alle imagines agentes nella predicazione di Bernardino da Siena, cf. L. Bolzoni, «Oratoria e prediche», Letteratura Italiana Einaudi, vol. 3/2: Le forme del testo. La prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1041-1074; P. Sollazzi, «Espressività del parlato bernardiniano», Studi francescani, 77, 1980, pp. 285-324; E. Pasquini, Costanti tematiche e varianti testuali nelle prediche bernardiniane, in Atti simposio cateriniano-bernardiniano, a cura di D. Maffei e P. Nardi, Siena, [s.e.], 1982, pp. 677-713. 35. Cf. per esempio le prediche riportate in E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna, op. cit., pp. 81-122; o quelle presenti in B. Ochino, Laberinti del libero arbitrio, op. cit. 36. E. Balmas, «L’activité des imprimeurs italiens réfugiés à Genève dans la deuxième moitié du XVIe siècle», in D. Candaux e B. Lascaze (eds), Cinq siècles d’imprimerie genevoise, Genève, Société d’histoire et d’archéologie, 1980, p. 131.

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37. Seguendo una definizione fornita da Ermanno Paccagnini, che però si è occupato delle diverse manifestazioni della letteratura italiana del dopoguerra, la produzione sorta nella Ginevra calvinista in seno alla comunità italofona potrebbe essere definita la letteratura «di chi, nato in Italia con madrelingua italiana, si trova a esprimersi in questo idioma in una realtà geograficamente differente, determinata da condizioni economiche, sociali, politiche o altro, che hanno fatto di lui un emigrante, sia esso povero o privilegiato» (E. Paccagnini, «La letteratura italiana e le culture minori», in Storia della letteratura italiana, op. cit., vol. XIII: La letteratura fuori d’Italia, p. 1019). In questo caso occorrerebbe parlare soprattutto di “condizioni religiose”, sia per quel che riguarda le cause determinanti la situazione d’espatrio, sia per i fattori d’influenza sulla lingua stessa; a quest’ultimo proposito cf. anche F. Pierno, «Toscanismo: una retrodatazione e appunti su una possibile “questione della lingua” nella Ginevra di Calvino», Lingua nostra, 65, 2004, pp. 6-15. 38. Si ritrova questa dichiarazione: «Nuova traduttione dal testo greco in lingua volgare italiana diligentemente conferita con molte altre traduttioni, e volgari, e latine e insieme pura e semplicemente tessuta con quella maggior chiarezza e facilità di parlare ch’era possibile, fuggendo sempre (quanto però la qualità di tale scrittura e la natura de le cose che vi si contengono poteva comportare) ogni durezza e oscurità e sopra tutto ogni vana e indegna affettatione d’importuni e mal convenienti toscanismi» sia nel Nuovo Testamento, [Genève], Jean Crespin, [15]55 (per una descrizione storico-bibliografica dell’edizione si può consultare il repertorio di E. Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento, vol. 1, Milano, 1992, pp. 336-337); sia nel Nuovo Testamento, [Genève], Giovan Luigi Pascale, 1555 (cf. ancora E. Barbieri, Le Bibbie italiane..., op. cit., pp. 338-340). 39. È superfluo, in questa sede, richiamare i vari brani delle opere di Calvino in cui il riformatore contesta la retorica dell’estetica e esalta la semplicità della narrazione biblica (da conservare rigorosamente in caso di volgarizzamento); tale argomento non è assolutamente secondario nella visione calvinista, secondo la quale l’essenzialità dello stile era elemento non trascurabile nel ricercato modello di equilibrio e medietas a cui doveva ispirarsi l’uomo riformato. Si possono, tuttavia, vedere gli esempi riportati da M. Richter, Jean de Sponde e la lingua poetica dei protestanti nel Cinquecento, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1973, pp. 169-177; e, soprattutto, alcuni studi sullo stile di Calvino, sull’idea che aveva della traduzione, sulla lingua da lui utilizzata e sull’influenza esercitata da quest’ultima: di carattere più generale: F. Higman, «The Reformation and the French Language», L’esprit créateur, 16/4, 1976, pp. 20-36, ora anche in Idem, Lire et découvrir. La circulation des idées au temps de la Réforme, Genève, Droz, 1998, pp. 337-351; più specifici i seguenti contributi: F. Higman, «Calvin and the Art of Translation», Western Canadian Studies in Modern Languages and Literature, 2, 1970, pp. 5-27, dove l’autore mette in luce l’uso di una lingua «familière» da parte di Calvino; F. Higman, «Linearity in Calvin’s Thought», Calvin Theological Journal, 26, 1991, pp. 277-287, ora anche in Idem, Lire et découvrir, op. cit., pp. 391-401: in quest’articolo viene analizzata l’esposizione della sintassi di Calvino e ne è evidenziata la linearità, secondo il modello grafico di analisi inventato da R. A. Sayce, Style in French Prose: a Method for Analysis, Oxford, University Press, 1953. Monumentale è poi lo studio fornito sull’argomento da O. Millet, Calvin et la dynamique de la parole. Étude de rhétorique réformée, Genève, Slatkine, 1992. 40. Non è stato compiuto uno spoglio linguistico esaustivo, ma sono evidenti, anche dai pochi esempi qui riportati, forti segnali in direzione anti-fiorentina, per esempio: l’utilizzo dell’articolo el e la frequenza dell’assenza dell’anafonesi, caratteri che certamente rientravano nell’usus scribendi della scuola narrativa senese cinquecentesca. 41. A cura di M. Cortelazzo e P. Zolli, Bologna, Zanichelli, 1992. 42. A cura di C. Battisti e G. Alessio, Firenze, Barbera, 1950-1957. 43. Le opere databili di Alessandro Citolini sono due: Tipocosmia, Venezia, 1561 e Lettera in difesa della lingua volgare, Venezia, 1540.

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44. Sotto la direzione di S. Battaglia (e, in seguito, di G. Bàrberi Squarotti), Torino, UTET, 1961-2002. 45. A cura di T. Bellini e N. Tommaseo, Torino, Union Tipografico-Editrice, 1861-1879.

RIASSUNTI

In quest’articolo viene fornita una prima descrizione degli Apologi di Bernardino Ochino, pubblicati a Ginevra nel 1554. Gli Apologi sono una raccolta di 100 brevi prose che, sul modello della facezia e del motto arguto, ricostruiscono quadretti comici ambientati in genere nella curia romana. I vizi, le cattive abitudini del clero, ma anche certe posizioni dottrinali come l’infallibilità papale ex cathedra sono il principale bersaglio degli Apologi. Allo scopo di allestire un’edizione critica e commentata, lo studio presenta un primo approccio agli aspetti principali di quest’opera: contenuti teologici, il genere letterario e le sue possibili fonti, e l’importanza della lingua comica ochiniana, nel contesto specifico della produzione in italiano all’estero durante l’epoca della Riforma.

Dans cette étude on fournit une première description des Apologi de Bernardino Ochino. Cet ouvrage, publié à Genève en 1554, consiste en un recueil de 100 brèves nouvelles qui, à l’instar de la facétie et du mot d’esprit, esquissent des scènes comiques se déroulant principalement à la Curie Romaine. Les vices, les mœurs du clergé, mais aussi certaines positions doctrinales telle que l’infaillibilité papale ex cathedra, sont la cible des petites histoires et des courts dialogues des Apologi. Dans le but d’en fournir une édition critique et commentée, cet article présente une première approche pour l’étude des principaux aspects de cet ouvrage : les thématiques théologiques, le genre littéraire et ses sources éventuelles, ainsi que l’importance du langage comique d’Ochino, considéré dans le contexte de la production en langue italienne à l’étranger pendant les années de la Réforme.

AUTORE

FRANCO PIERNO Université Marc Bloch - Strasbourg 2

Cahiers d’études italiennes, 6 | 2007