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di PINO CASAMASSIMA ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pagina 2

PINO CASAMASSIMA giornalista e scrittore di lungo corso, collabora con la trasmissione “La storia siamo noi” di Giovanni Minoli. Autore teatrale, è stato opinionista del network statunitense CBS e consulente per Rizzoli. Nella sua bibliografia compare una ventina di titoli, tra cui Il libro nero delle Brigate Rosse (Newton&Compton), 68, l’anno che ritorna con Franco Piperno (Rizzoli) e Il sangue dei rossi. Morire di politica negli anni Settanta (Cairo). Ha inoltre curato Il dizionario della musica leggera (Le Lettere).

© 2010 Pino Casamassima © 2010 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri

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INTRODUZIONE

La fame, la miseria, l’indigenza: altro che Nord Est dei tanti miracoli. Per decenni i veneti hanno dovuto lasciare le loro terre e raggiungere il Nuovo Mondo: quell’America che accoglieva anche lombardi e friulani, calabresi e pugliesi. Fughe di stomaci, non di cervelli. Nel suo libro Gli ultimi veneti, Gianfranco Cavallin sostiene che, tra le regioni del Nord, il Veneto ha subito i maggiori danni dall’unificazione d’Italia, della quale nel 2011 si celebreranno i 150 anni. Cavallin può sostenere questa tesi perché, in effetti, prima del 1861 il Regno Lombardo-Veneto era il più ricco e prosperoso della penisola, dopo quello delle due Sicilie. Nell’arco di dieci anni la situazione dei veneti precipitò drammaticamente: dal 1876 al 1976, cento anni di storia italiana hanno registrato – in una regione che non ha mai superato i cinque milioni di abitanti – l’emigrazione di oltre tre milioni persone. Trevigiani e veronesi, padovani e vicentini e veneziani scampati alla povertà provocata dall’Italia sabauda. Una nuova e drammatica situazione tratteggiata in una filastrocca che recitava: «Co San Marco comandava/ se sisnava e se senava/ Soto Franza brava gente se disnava solamente/ Soto casa de Lorena non se disna e no se sena/ Soto casa de Savoia de magnar te ga voja».

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Il dopoguerra era stato caratterizzato da Porto Marghera, il polo chimico destinato a diventare uno dei siti produttivi più importanti d’Europa, ma, a partire dagli anni Ottanta, la decadenza della grande industria fu compensata da un esponenziale incremento di piccole imprese. Questa rivoluzione determinò in breve tempo una crescita economica formidabile della regione, fino ad assegnarle il primato economico non solo in Italia, ma in tutta Europa, tanto da mutare il Veneto da terra di emigrazione a terra di immigrazione. Nell’arco di pochi decenni, il Veneto era dunque passato dalla miseria alla ricchezza. Nuove generazioni crescevano in un’opulenza senza memoria, mentre esplodevano inevitabilmente contraddizioni destinate ad avere inquietanti riverberi politici di natura eversiva e sovversiva. Ecco perché non raccontiamo solo storie di criminali, ma anche di brigatisti, neofascisti e mafiosi: non mafiosi “importati” dalle regioni del Sud, Sicilia in primis, ma autoctoni con tanto di nome, come “la mafia del Brenta”. Basta pensarci per non meravigliarsi. Per non stupirsi che sul territorio di una regione passata dalla miseria al primato economico poteva solo germogliare un’associazione a delinquere con tutti i connotati mafiosi al loro posto. Così come non potevano che trovare “naturale” sviluppo eccentricità politiche pericolosissime e devastanti, come i terrorismi di diversa natura e colore. Nella terra politicamente “bianca” per eccellenza, hanno così trovato acqua in cui nuotare non solo piovre mafiose, ma anche

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pesci rossi delle Brigate Rosse e seppie plumbee dei vari ordini nuovi e neri. Tutto ciò contestualmente, contemporaneamente e specularmente a una criminalità comune finita sui giornali con episodi assolutamente inediti per ferocia e amoralità.

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I ROSSI

OPERAZIONE TRAMONTO: E IL VENETO SI RITINSE DI ROSSO BRIGATISTA

Galdino è in pensione da quasi cinque anni. Da quando ha smesso di lavorare, si alza con comodo, ma mai trop- po tardi, e dopo aver fatto colazione con la Rita esce di casa e in pochi minuti raggiunge l’edicola di viale delle Grazie. Lui abita in via Friburgo. Due passi. Prende “Il Mattino”, il suo giornale da sempre, e poi va al bar, dove lo aspettano Dino, Raniero e il Carletto, il suo ex-collega, anche lui in pensione, ma da più anni, almeno una deci- na. Due commenti sulle notizie del giorno e poi, via con la briscola. Quella mattina però le discussioni erano sta- te più lunghe del solito. Sì, perché Dino aveva iniziato a pontificare sulle differenze fra la vecchia e la nuova 500, lanciata sul mercato proprio il giorno prima con una mes- sinscena spettacolare organizzata dalla FIAT sul Po, ma poi aveva troncato subito quell’argomento mettendone sul piatto uno ben più serio: gli arresti avvenuti lì, a Pa- dova. «Brigatisti». «Padovani?». «Padovani…». Il 6 luglio 2007 Padova s’era infatti svegliata con un in- cubo che arrivava da lontano, da quando «la città del Santo» s’era trovata al centro di trame eversive e sov- versive. Un incubo che sembrava non dover più torna- re. E invece… Invece erano stati arrestati due padova- ni con l’accusa di appartenere alle nuove Brigate Ros-

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se1. Un’altra volta, le nuove Brigate Rosse. Nuove erano state anche quelle della Lioce, quelle che avevano am- mazzato Massimo D’Antona e Marco Biagi2. Adesso ce n’erano ancora di “nuove”. «E chi sono questi padovani?», aveva chiesto Dino. «Il cinquantaduenne Andrea Tonello, detto Zebb, e Giusep- pe Simonetto, che di anni ne ha solo 19», aveva letto a voce alta Galdino dal giornale. «L’accusa a loro carico è di concorso esterno in banda armata e associazione terrori- stica, mentre il troncone dell’inchiesta è quello partito il 12 febbraio scorso e che aveva portato all’arresto di quin- dici persone pronte a colpire una sede dell’Eni, il giusla- vorista Piero Ichino, l’abitazione milanese di Silvio Berlu- sconi, oltre alla redazione del quotidiano “Libero”: azione prevista prima di Pasqua». Quando aveva smesso di leggere, gli amici avevano guarda- to Galdino come fosse uno scolaro che non aveva finito i compiti. Così era andato avanti e dalle pagine del giornale erano arrivate le altre informazioni. Agli arresti di Padova – spiegava “Il Mattino” – si era giunti anche grazie alle dichia- razioni di uno degli arrestati di febbraio, Valentino Rossin. A febbraio, oltre cinquecento poliziotti avevano preso par- te a un’operazione condotta dalle questure di Milano, Tori- no e della stessa Padova che aveva portato all’arresto di quindici persone accusate di banda armata: di appartenere

1. Il 6 luglio 2007 finiscono in carcere i padovani Andrea Tonello, detto Zebb, 52 anni, e Giuseppe Simonetto, 19 anni, il primo iscritto alla Cisl, il secondo vicino (secondo gli investigatori) al Pcdl di Marco Ferrando e ambedue attivisti del centro sociale “Gramigna”. Questi nuovi arresti allungano la lista dei presunti militanti dell’organizzazione riconducibile alle vecchie Brigate Rosse Seconda Posizione. Il 12 febbraio, un’operazione di polizia fra Veneto, Lombardia e Piemonte aveva fatto scattare le manette attorno ai polsi di quindici persone. 2. Massimo D’Antona, consulente del Ministero del Lavoro del governo D’Alema, fu ucciso il 20 maggio 1999 a Roma. Marco Biagi, che svolgeva la stessa funzione nel governo Berlusconi, fu assassinato il 19 marzo 2002 a Bologna. A compiere i due omicidi, le nuove BR-PCC fra i cui leader spiccava Nadia Desdemona Lioce.

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cioè alle Brigate Rosse. «Nuove», s’intende. Ora, la storia si ripeteva con questi nuovi arresti. Da quel che diceva il giornale, Andrea Tonello, 52 anni, era accusato di essere stato presente alla collocazione di armi in un casolare nel padovano, oltre ad avere ospitato nella propria abitazione Latino e Ghirardi, due degli arre- stati di febbraio. Giampiero Simonetto, che di anni ne de- nunciava invece solo 19, si sarebbe reso disponibile ad acquistare munizioni nuove. Fra le armi rinvenute nel pa- dovano, una mitraglietta Skorpion, una pistola Sig Sauer e una carabina Winchester provenienti dalla storica co- lonna milanese del partito armato, la Walter Alasia3: se- gno di una continuità che faceva sbiadire la qualifica di “nuove” alle attuali Brigate Rosse. A confermare che quelle armi appartenevano alla Walter Alasia, era stato Calogero Diana, brigatista condannato all’ergastolo an- che per l’omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo4. Nomi e sigle che insomma riportavano indietro le lancet- te della storia. Di oltre un quarto di secolo. Cioè, un tem- po precedente alla nascita di quel ragazzo che, a 19 anni, s’era ritrovato con l’accusa di partecipazione a banda ar- mata contro i poteri costituiti dello Stato.

Un’altra “Aurora” brigatista Dopo l’arresto di Mario Moretti ed Enrico Fenzi, avvenu- to a Milano il 4 aprile 1981 mentre tentavano di ricucire lo strappo con la colonna milanese della Walter Alasia, s’erano formate due correnti principali in seno alle BR:

3. La colonna milanese delle Brigate Rosse era stata dedicata a Walter Alasia, militante ventenne morto in uno scontro a fuoco con la polizia avvenuto nella sua abitazione di Sesto San Giovanni il 15 dicembre 1976. 4. Maresciallo degli agenti di custodia del carcere milanese di San Vittore, Francesco Di Cataldo fu ucciso dalle Brigate Rosse il 20 aprile 1978, a poco più di un mese dal sequestro di Aldo Moro.

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una “movimentista” (BR – Partito della Guerriglia), in li- nea col fronte delle carceri e con la colonna napoletana guidata da Giovanni Senzani, e una “militarista” (BR – Partito Comunista Combattente), con a capo Barbara Balzerani. Con la cattura di Senzani nel 1982 – e la con- seguente disgregazione del Partito della Guerriglia – e con la dissoluzione della Walter Alasia, erano rimaste sul- la scena solo le BR-PCC. Nell’autunno del 1984, però, al- l’interno dell’ala militarista, le tensioni iniziate tre anni prima avevano provocato una nuova scissione che aveva dato origine da un lato alle Brigate Rosse per l’Unione dei Comunisti Combattenti o BR-UCC, e dall’altro alla cosid- detta ala movimentista o “Seconda Posizione”, contrap- posta alla “Prima Posizione” assunta dall’ala militarista, cioè le BR-PCC. L’ala movimentista, e quindi le UCC, si porranno in azione soprattutto tenendo conto delle battaglie sindacali. Gli ultimi fuochi erano stati del 1988, con l’uccisione del pro- fessor Roberto Ruffilli5. Poi, per oltre dieci anni non era più accaduto nulla, finché nel ’99 i brigatisti avevano col- pito Massimo D’Antona e, nel 2002, Marco Biagi. Respon- sabili le BR-PCC della Lioce, legate alla “Prima Posizione” (ala militarista). Dopo l’annientamento di questo ennesi- mo troncone brigatista, era sceso nuovamente il silenzio. La guerra, questa volta, sembrava davvero finita. E inve- ce no, perché il 14 ottobre del 2004 “Panorama” aveva presentato in esclusiva i primi due numeri del “Foglio di propaganda per la costruzione del Partito Comunista Po- litico-Militare” chiamato “Aurora”, che rappresentavano

5. Roberto Ruffilli fu ucciso nella sua casa forlivese da un commando delle Brigate Rosse il 16 aprile 1988. Senatore democristiano ed esperto di riforme istituzionali, Ruffilli era uno stretto collaboratore di Ciriaco De Mita, il cui governo si era insediato solo pochi giorni prima.

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una sorta di manifesto per la rinascita della lotta armata nel Nord Italia. Come riferimento, non c’erano però le ul- time BR, quelle della Nadia Desdemona Lioce e Mario Ga- lesi ormai sconfitte, bensì quelle di “Seconda Posizione”, secondo le quali la guerra rivoluzionaria in Italia andava centrata in modo essenziale, ma non esclusivo, sulla lot- ta armata. Per gli investigatori, i punti di partenza dei nuovi brigatisti potevano nascondersi dietro due sigle inedite milanesi – il Fronte rivoluzionario per il comuni- smo e i Nuclei comunisti rivoluzionari – e si sarebbero ispirati all’attività della Walter Alasia: quella del sindaca- lismo armato, dello scontro nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro.

Proseliti nel Veneto Quando si parla di Brigate Rosse, spesso si pensa erro- neamente a un’entità monolitica, mentre dagli inizi degli anni Ottanta non era più così. Nel corso di quegli anni, infatti, le BR subirono una serie di scissioni e ricomposi- zioni, fino alla suddivisione in due filoni principali: milita- risti e movimentisti. I “militaristi” avevano dato vita alle BR-PCC, delle quali il gruppo della Lioce e di Galesi erano stati gli ultimi eredi. Gli altri, invece, erano rimasti in disparte per dare nuova vita alle BR con una linea molto differente rispetto al gruppo Lioce-Galesi. Linea che intendeva radicare il pro- getto sovversivo all’interno delle lotte sociali e i movi- menti di massa, fino a ipotizzare un doppio livello: azio- ne legale-clandestina e opera di proselitismo. Nel docu- mento di “Aurora” era ipotizzata la costituzione di cellu- le rivoluzionarie in ogni singola fabbrica. Se cioè i “mili- taristi” interpretavano fortemente il loro ruolo di avan-

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guardia, i “movimentisti”, al contrario, volevano far cre- scere il sentimento rivoluzionario tra le masse popolari partendo dal basso: una visione, per quanto settaria, me- no “ortodossa” rispetto al gruppo “militarista” e poten- zialmente in grado di raccogliere più consensi, soprattut- to se il sentimento antimperialista (altro possibile collan- te rivoluzionario) si fosse ulteriormente rafforzato. Il gruppo sgominato a febbraio e i due arrestati di Pado- va facevano parte proprio di questo troncone, cioè del- l’ala movimentista, potenzialmente più pericolosa, per- ché – contrariamente a quella “militarista”, del tutto iso- lata – era fortemente radicata nelle realtà della fabbrica, del lavoro precario, del sindacato, dei centri sociali. E il Veneto, come la Lombardia e il Piemonte, era una regio- ne “privilegiata” per fare proseliti: le stesse BR-PCC della Lioce avevano tentato di agganciare alcune realtà sov- versive del Nord Est, come i Nuclei territoriali antimpe- rialisti. Nei file cancellati e poi recuperati dalla polizia postale in casa di Cinzia Banelli, la brigatista “pentita” del gruppo della Lioce, erano stati trovati due documen- ti che gli investigatori avevano attribuito ai Nuclei terri- toriali antimperialisti del Nord Est, a testimonianza di un dibattito in corso finalizzato ad allargare la base di ade- sioni e di militanti delle BR-PCC nel triveneto. Tentativo poi però abortito con la sconfitta subita nel 2003, ma an- dato a buon fine per l’ala movimentista, che nel frattem- po era penetrata in questo territorio fino a fare di Pado- va una base logistica importante, in attesa di identificare gli elementi sovversivi presenti nel movimento contesta- tivo che si stava sviluppando a Vicenza per l’allargamen- to della base NATO Dal Molin.

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“L’INCIDENTE” DI PADOVA: IL PRIMO OMICIDIO DELLE BRIGATE ROSSE

Se nel terzo millennio Padova si era ritrovata al centro dell’interesse degli inquirenti per l’ennesima riorganizza- zione delle Brigate Rosse, molti anni prima, precisamen- te nel 1974, proprio lì si era consumato il primo omicidio brigatista. Era infatti il 17 giugno, quando Giuseppe Maz- zola e Graziano Giralucci erano stati uccisi nella sede del Movimento Sociale Italiano. Era appena trascorso un mese dal rilascio del giudice ge- novese Mario Sossi, liberato dalle BR sano e salvo alla fine di un lungo e tormentato braccio di ferro con lo Stato, che aveva dato alla banda armata comunista l’immagine di banditi gentiluomini, di coloro che erano riusciti a mette- re in scacco le forze dell’ordine e a dividere drammatica- mente quelle politiche senza spargere una sola goccia di sangue. Il rapimento aveva generato immediatamente due fronti: quello della trattativa e quello dell’intransigenza (come avverrà quattro anni dopo con Moro). Posizioni in- conciliabili e perdenti: alla fine, a vincere saranno solo le BR, che offriranno all’opinione pubblica l’incarnazione di novelli Robin Hood in un’escalation di azioni in cui non so- lo nessuno era morto, ma addirittura senza feriti. Fino a quel momento, fino alla tragedia di Padova, le Brigate Ros- se avevano compiuto solo gesti dimostrativi contro mac- chine e fabbriche, ma anche di una certa audacia e consi- stenza penale, come i diversi sequestri lampo di capi e ca- petti messi a segno su segnalazioni provenienti dall’inter- no delle stesse fabbriche. Ora però quei due omicidi de- nunciavano un tragico salto di qualità del partito armato: una nuova fase in cui nulla sarebbe più stato come prima.

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Vedi alla voce “Primavalle” Contrariamente a quanto era sempre accaduto, questa volta le BR non avevano rivendicato l’azione, col risultato che nelle ventiquattro ore successive (cioè fino all’assun- zione di responsabilità) si era scatenata una ridda di ipo- tesi che andavano dalle “fantomatiche Brigate Rosse”6 al- le piste nere, fino al delirio di un regolamento di conti tra fascisti. Insomma, le stesse congetture funamboliche e colpevolmente demenziali avanzate un anno prima con il rogo di Primavalle7, dove due figli di un missino erano morti carbonizzati nella loro abitazione. Anche in quel- l’occasione c’era stato chi – e non certo l’ultimo qualun- quista che passava per strada, ma fior di intellettuali – aveva avallato la tesi “interna”: cioè che i Mattei avesse- ro dato fuoco al loro appartamento per far ricadere la colpa sull’ultrasinistra, non valutando bene l’impossibili- tà di controllare il fuoco e di mettere al riparo tutti i com- ponenti di una famiglia numerosa. In alternativa si dice- va che fossero stati puniti da una faida fascista. Insom- ma, come con Primavalle, anche dopo gli omicidi di Pa- dova erano andati in scena stupidari di vario genere e in malafede. Il sipario sulle diverse speculazioni era calato solo quando, finalmente, le BR avevano diffuso un comu-

6. Fino al sequestro del giudice genovese Mario Sossi, la vera natura delle Brigate Rosse era messa in dubbio da più parti. Anche sulla stampa della sinistra storica (“L’Unità” e “L’Avanti”) e di quella “nuova” (“Il Manifesto”, “Lotta continua”) erano qualificate come “fantomatiche”, “sedicenti” o “cosiddette”, se non come veri e propri provocatori, oppure fascisti travestiti o ancora creazioni di servizi segreti italiani o stranieri. 7. Nella notte del 16 aprile 1973 un rogo sviluppatosi con benzina sparsa sotto la porta dell’appartamento di Mario Mattei, segretario della sezione missina del quartiere romano di Primavalle, uccise due dei suoi sei figli: Virgilio, di 22 anni, e Stefano, di 10. I responsabili – che sul selciato avevano lasciato una rivendicazione a firma “Brigata Tanas” – saranno identificati in Marino Clavo, Manlio Grillo e Achille Lollo. Si vedano: Ritratto di un terrorista da giovane di Valerio Morucci (Piemme, 1999), Primavalle, incendio a porte chiuse (Savelli, 1974) e le intervista ad Achille Lollo sul “Corriere della Sera” del 10 febbraio 2005, a Franco Piperno su “La Repubblica” del 13 febbraio 2005 e a Manlio Grillo su “La Repubblica” del 17 febbraio 2005.

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nicato in cui si assumevano la responsabilità del duplice omicidio, pur precisando che comunque quelle morti non volute, erano la tragica conseguenza della reazione in- consulta dei due missini. Renato Curcio: «Non posso che ribadire quanto detto più volte e cioè che ciò che accadde a Padova quel giorno non fu affatto voluto. L’azione di via Zabarella non aveva niente a che vedere con ciò che le BR stavano facendo, non rientrava nei nostri piani. Noi ormai puntavamo al “cuore dello Stato”, cioè alla Democrazia cristiana. Non solo i fascisti non ci interessavano più perché non li rite- nevamo realmente pericolosi, ma anzi contestavamo a quelle frange del movimento ancora impegnate nel cosid- detto “antifascismo militante”, di essere assolutamente fuori rotta, imbevute di una cultura postbellica tutto sommato di comodo, arretrata e mascheratrice. Non a caso, proprio perché non ci apparteneva, fu forte la ten- tazione di non rivendicare l’episodio»8. Da parte sua, Mario Moretti dichiarerà: «Non era mai morto nessuno nelle nostre azioni, ma chiunque non stesse nelle nuvole sapeva che poteva succedere e che avrebbe modificato la nostra collocazione. E malaugura- tamente, con Padova, lì ci trovavamo. Ne discutemmo. Considerai un opportunismo intollerabile far finta di niente. E pericoloso: cullarsi nell’illusione che stessimo spensieratamente giocando una partita della quale non sapevamo valutare le conseguenze. Cambiammo il volan- tino proposto dalla colonna del Veneto e rivendicammo l’azione spiegando quel che era avvenuto. Non è che la lotta armata ci stava prendendo la mano, si manifestava

8. Dichiarazione resa all’autore.

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per quello che è: una lotta dove si muore. Negli anni suc- cessivi sospendemmo ogni attività nel Veneto e ci ritor- nammo soltanto nel ‘78»9. Insomma, un incidente.

Morire di politica Ma Giralucci e Mazzola non erano due “incidenti”. Erano due persone col loro lavoro, i loro affetti, le loro idee. An- che politiche. Ed era proprio questa la loro “colpa”: quel- la di avere una propria identità politica e, peggio, di pra- ticarla in un periodo in cui morire di politica era un’even- tualità all’ordine del giorno. Per Mazzola e Giralucci, que- sta nefasta “eventualità” si era concretizzata la mattina del 17 giugno 1974 fra le 9.30 e le 10, quando al numero 24 di via Zabarella che ospitava la sede dell’MSI-DN di Pa- dova era arrivato un commando brigatista per una “per- quisizione e acquisizione di documenti”: prassi ormai consueta e collaudata delle BR. Questa volta, però, qualcosa era andato storto, come confermerà la ricostruzione fatta in un’aula di giustizia da una componente del commando, Susanna Ronconi: Martino Serafini faceva il palo, Giorgio Semeria guidava l’auto, la stessa Ronconi era rimasta sulle scale in attesa dei documenti prelevati da mettere in una borsa, mentre Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli erano entrati nella se- de. La settimana prima, in visita di ricognizione si era presentato alla sede del MSI Ognibene che, dando genera- lità false e dichiarando la propria simpatia per il MSI, ave- va annunciato la sua prossima iscrizione al partito. Pene- trati dunque all’interno del locali che avrebbero dovuto “perquisire” con tutta tranquillità perché teoricamente

9 In Brigate rosse, una storia italiana, intervista di Carla Mosca e Rossana Rossanda, Anabasi, 1994.

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vuoti, Pelli e Ognibene s’erano trovati invece inaspettata- mente al cospetto di due persone: Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, entrambi casualmente presenti nella sede del partito. Un imprevisto di fronte al quale i due brigatisti avevano reagito estraendo le pistole, una P38 e una 7,65 con silenziatore, ma Mazzola s’era avventato contro uno dei due, subito imitato da Giralucci, che però era stato colpito alla spalla, mentre Mazzola aveva rice- vuto un colpo alla gamba destra. Poi erano stati finiti en- trambi con un colpo alla testa. La rivendicazione – in ri- tardo, come detto – arriverà con due volantini fatti ritro- vare in cabine telefoniche a Padova e Milano, con una te- lefonata alla redazione padovana del quotidiano “Il gaz- zettino”.

Due vie per due vite Sedici anni dopo, l’11 maggio 1990, i giudici della Corte d’Assise di Padova avevano condannato i responsabili di quegli omicidi a queste pene: Roberto Ognibene a diciot- to anni di reclusione, Susanna Ronconi e Giorgio Semeria a nove anni e sei mesi, Martino Serafini a sei anni, un me- se e dieci giorni. Fabrizio Pelli era intanto morto in carce- re nel 1979 per leucemia. Contro la sentenza avevano pre- sentato appello sia il pubblico ministero che la difesa. Il processo di secondo grado si era aperto il 20 novembre 1991 di fronte alla Corte d’Assise di Venezia e il 9 dicembre dello stesso anno Susanna Ronconi, Giorgio Semeria e Mar- tino Serafini si erano visti convertire la condanna in con- corso pieno in duplice omicidio rispetto al concorso ano- malo del primo grado. Semeria e Ronconi avevano così ri- cevuto dodici anni di carcere, Serafini sette anni e sei me- si, mentre a Ognibene era stata confermata la pena di di-

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ciotto anni: tutte pene inasprite, quindi, rispetto al primo grado. Serafini aveva ottenuto la grazia nel luglio 1992, ma il 1° agosto era stato riarrestato per scontare due anni e mezzo di pena residua. Susanna Ronconi e Giorgio Seme- ria avevano poi usufruito della semilibertà, mentre Rober- to Ognibene aveva goduto dei benefici dovuti alla legge sui dissociati ed era stato assunto dal Comune di Bologna. E le famiglie delle vittime? All’epoca dei fatti, Piero, figlio di Giuseppe Mazzola, era stato assunto come assistente di diritto costituzionale all’Università di Padova dopo aver vinto il concorso in marzo. Quella mattina stava facendo lezione in via del Santo quando il preside lo aveva avverti- to che era accaduto qualcosa alla sede del Movimento So- ciale, dove suo padre svolgeva mansioni di contabilità. «In pochi istanti sono arrivato al numero 24 di via Zaba- rella. C’era tanta gente, erano già sul posto mia sorella, mia madre e uno dei miei fratelli, che mi ha detto: “Han- no sparato a papà”. Abbiamo lasciato la mamma sul por- tone dello stabile e siamo saliti. Non dimenticherò mai la scena. Sullo scalino davanti alla porta del partito c’era il corpo di Graziano, riverso, immobile. Poco più in là, die- tro una scrivania, mio padre. Ricordo di avergli messo le mani intorno alla nuca e poi più niente: un senso di gelo assoluto in quella giornata calda. Soltanto a casa, dopo ore, mi sono accorto che avevo le mani piene di sangue. Ricordo quel gelo, come di ibernazione, che mi prende ancora quando ci penso, e lo sgomento, e l’angoscia, e mia madre che nella sua infinita tristezza non piange, perché non ha lacrime, e meccanicamente mette in ordi- ne le cose di mio padre, sì, per l’ultima volta...»10.

10. Dichiarazione resa all’autore.

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Giuseppe Mazzola aveva sessant’anni, era un carabiniere bergamasco in pensione. In Calabria, dove aveva prestato servizio agli inizi, aveva conosciuto e sposato Giuditta Cac- cia mettendo al mondo quattro figli. Poi tutta la famiglia si era trasferita a Padova nei primi anni Sessanta. Una volta in pensione, Mazzola aveva assunto, pur non avendo la tes- sera del partito, l’impegno di tenere la contabilità del Movi- mento Sociale. Quando l’ho incontrato, l’avvocato Piero Mazzola mi ha ribadito la sua ferma convinzione che non si fosse trattato affatto di un incidente, ma di un’azione pre- ordinata che prevedesse anche l’omicidio: «La ricostruzio- ne da lei fatta (ne Il libro nero delle Brigate Rosse, N.D.A.) non è affatto rispondente alla verità. Glielo dice uno che ha seguito tutto l’iter giudiziario sia come vittima, sia come uo- mo di legge. Riveda le sue posizioni, Casamassima…»11. Graziano Giralucci aveva invece 29 anni, lavorava come agente di commercio di articoli sanitari, era sposato con Bruna Vettorato ed era padre di una bambina di tre anni, Silvia. La giunta comunale di Padova, con delibera numero 3427 del 12 novembre 1992, ha deciso di onorare la memoria di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola con la denomi- nazione di due vie contigue nella zona di Altichiero. Due vie per due vite.

IL FEROCE BIENNIO DEI PAC DI CESARE BATTISTI

Dopo lo scioglimento di Potere Operaio al convegno di Rosolina nel giugno del 1973, nei due anni successivi la

11. Idem

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maggioranza dei militanti veneti di questa organizzazio- ne – ad eccezione delle sezioni di Venezia e Verona – ave- vano formato i Collettivi Politici del Veneto per il Potere Operaio (CPV). La loro azione di lotta si focalizzava prin- cipalmente sul precariato, inteso come forma-lavoro del nuovo ciclo produttivo, ed erano stati elaborati i concet- ti di “zona omogenea”, di “fabbrica diffusa” e di “territo- rio liberato”. Tra il 1977 e il 1978, il loro intervento si era manifestato contro la ristrutturazione in fabbrica e con- tro le infrastrutture dell’università. Le azioni conseguen- ti erano stati i ferimenti del giornalista Antonio Granzot- to – avvenuto ad Abano Terme il 7 luglio 1977 – e del di- rettore dell’Opera universitaria Giampaolo Mercanzin – compiuto a Padova il 20 ottobre dell’anno successivo. Numerosi erano stati anche i sabotaggi – come quelli compiuti il 30 giugno ’77 ai vagoni ferroviari della Zanus- si-Rex – e gli attentati incendiari, il più clamoroso dei quali era stato attuato il 30 ottobre ‘78 contro la sede del- l’Ispettorato regionale veneto delle case di reclusione e pena di Padova. Dopo il convegno tenuto a Bologna nel settembre del ’77 dal Movimento che prenderà il suo no- me proprio da quell’anno “rivoltoso”, i Collettivi Politici Veneti avevano promosso il Movimento Comunista Orga- nizzato (MCO) che si prefiggeva il duplice compito di for- mare una forza politica nazionale (Autonomia Operaia Organizzata) e di concentrare l’attenzione sulla specifici- tà territoriale. La cosiddetta “notte dei fuochi” era stata la conseguenza “naturale” di queste tesi che avevano at- tuato a livello locale il disegno politico del MCO: tra il 18 e il 19 dicembre 1978 erano state colpite la sede dell’Asso- ciazione Industriali di Schio, l’abitazione del presidente dell’Associazione Industriali di Rovigo, la sede dell’Inter-

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sind di Venezia, la sede dell’Associazione Industriali di Vicenza, la Federazione Regionale Industriali del Veneto a Mestre e infine l’Associazione Artigiani di Rovigo. Nel- l’autunno di quello stesso anno era nato intanto il giorna- le “Autonomia”, ospitato nei locali di Radio Sherwood, a Padova, per dare voce all’area aggregatasi attorno ai CPV. Nello stesso periodo era maturato un più profondo rap- porto politico-organizzativo con collettivi autonomi mila- nesi e torinesi che editavano il giornale “Rosso” e che, proprio per palesare la ricerca di una nuova omogeneità e una modifica della linea politica ed editoriale, era stato poi chiamato “Rosso per il Potere Operaio”.

Fine dei Collettivi Politici Veneti In risposta all’ondata di arresti seguita all’istruttoria del processo noto come “7 Aprile” (vedi capitolo successi- vo), nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1979 erano stati compiuti diversi attentati contro caserme dei – inieri del Veneto. Nel contesto di questa “campagna”, l’11 aprile 1979, a Thiene, mentre manipolavano un ordigno esplo- sivo, avevano perso la vita tre militanti del CPV-Fronte Comunista Combattente: Maria Antonietta Berna, Ange- lo Del Santo e Alberto Graziani. Un quarto militante, Lo- renzo Bortoli, arrestato, era morto suicida in carcere. Nell’ottobre del 1979 i CPV avevano poi compiuto diversi attentati contro filiali della FIAT, fra cui uno a Padova il 30 ottobre ’79, per protestare contro il licenziamento di ses- santuno operai a Torino. Il 3 dicembre dello stesso anno, circa duecento militanti armati del CPV avevano bloccato gli snodi viari di Padova. Nel corso del biennio successi- vo, la forte repressione poliziesca, i conflitti politici inter- ni ai collettivi e il crollo dell’ipotesi politica intorno a cui

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era nato l’MCO avevano portato all’esaurimento dell’espe- rienza dei Collettivi Politici Veneti: una decisione sancita nel Convegno Internazionale di Venezia, svoltosi nell’au- tunno del 1981. In quest’ultimo periodo erano stati rivendicati l’attacco alla caserma della 4a Brigata Carabinieri con razzi bazoo- ka a Mestre il 17 aprile dell’81, le incursioni in agenzie immobiliari di Padova e Venezia fra il 7 e l’8 ottobre del- lo stesso anno, oltre al sequestro dell’ingegner Luigi Strizzolo, capogruppo dello stabilimento Montedison pe- trolchimico di Porto Maghera, il 22 ottobre ’80. La sua fo- tografia, con al collo un cartello con la scritta “sono uno sfruttatore della classe operaia”, era stata distribuita ai giornali. Il 1o dicembre ’81 era stato invece ferito a Vicen- za il medico carcerario Antonino Mundo.

I Proletari armati per il comunismo In questo clima sovversivo avevano così trovato facile spazio i Proletari Armati per il Comunismo (PAC): un’or- ganizzazione armata che, pur messa in piedi a Milano nel ’77 da Sebastiano Masala, Arrigo Cavallina e Giuseppe Memeo, di estrazione operaia, aveva in Cesare Battisti – un ragazzo all’epoca di 23 anni, nato a Sermoneta – l’esponente di maggiore spicco, destinato a far parlare di sé nei decenni successivi12. Gli obiettivi più importanti dei Proletari armati per il comunismo furono la lotta alle strutture carcerarie e, nei quartieri, contro coloro che venivano giudicati collaboratori delle forze dell’ordine.

12. Il caso Battisti tiene banco da diversi anni nel panorama politico/giudiziario italiano e internazionale. Arrestato a Copacabana il 18 marzo 2007, Cesare Battisti ha ottenuto dal governo del Brasile lo stato di rifugiato politico il 13 gennaio 2009; il 18 novembre successivo la Corte costituzionale brasiliana considera illegittimo quel riconoscimento. Il 5 marzo 2010 il Tribunale di Rio de Janeiro condanna Battisti a due anni da scontare in regime di semilibertà per uso di passaporto falso.

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“Lotta” al carcere che – “politicamente” – si sostanziava nei ferimenti (gambizzazioni) di Giorgio Rossanigo, me- dico del penitenziario di Novara, e di Arturo Nigro, agen- te di sorveglianza in quello di Verona. Poi, il 16 giugno ’78, era arrivato anche l’omicidio: il condannato a morte era stato Antonio Santoro, maresciallo nel carcere di Udine. Sul “fronte collaboratori”, i puniti furono il macel- laio Lino Sabbadin, ucciso a Santa Maria di Sala, nei pres- si di Venezia, il 16 febbraio 1979 e, nello stesso giorno, ma a Milano, il gioielliere Luigi Torregiani, il cui figlio, fe- rito nell’agguato, era rimasto paraplegico e sarebbe di- ventato il più acerrimo nemico di Cesare Battisti. I Torregiani furono colpiti perché mesi prima avevano sparato e ucciso due ragazzi durante una rapina ai loro danni. La contemporaneità delle due azioni era stata ideata per aumentarne la rilevanza mediatica, oltre a en- fatizzare la reale consistenza del gruppo: una formazione cioè capace di colpire contemporaneamente in due città di due regioni diverse. Un’audacia che però fu duramen- te pagata dai PAC. Le indagini serrate alla fine avevano portato all’identificazione di alcuni membri dell’organiz- zazione, che erano stati arrestati. Alcuni di essi denun- ciarono di aver subito delle torture – una prassi che di- venterà drammaticamente consueta negli anni successi- vi – e la ritorsione dei PAC non si fece attendere: il 19 aprile 1979 era stato mortalmente colpito a Milano l’agente della DIGOS Andrea Campagna. Ma l’offensiva po- liziesca contro i PAC era ormai avanzata e gli arresti che produsse nei mesi successivi stroncarono definitivamen- te l’organizzazione. I militanti sfuggiti alla giustizia con- fluirono per lo più in Prima Linea.

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La vicenda Cesare Battisti Nel corso dei decenni successivi, dei PAC si erano perse le tracce, come del resto di tante sigle di organizzazioni ar- mate, ma nel 2004 si era improvvisamente tornato a par- lare di loro. A riaccendere i riflettori su questa formazio- ne, la vicenda di Cesare Battisti, condannato all’ergasto- lo in contumacia dalla giustizia italiana e superlatitante in Francia, Messico e di nuovo in Francia, sotto la prote- zione della dottrina Mitterrand. Una legge che dava asilo politico a chiunque si fosse macchiato di delitti a sfondo politico, a condizione che i loro crimini non fossero avve- nuti in territorio francese o contro lo Stato francese. In base a tale direttiva, la Francia aveva rifiutato già negli anni Novanta l’estradizione avanzata dalla magistratura italiana di Battisti, che nel frattempo era diventato un autore di noir di successo, nonché un intellettuale di ri- ferimento dell’intellighenzia parigina. Entrata infine in vigore la normativa sul mandato di cattura europeo – che di fatto rendeva inefficace la dottrina Mitterrand – di Battisti era stata nuovamente chiesta l’estradizione in Italia. Estradizione concessa dalla Francia il 30 giugno 2004. Nel frattempo, però, Battisti si era reso nuovamen- te irreperibile. Rifugiatosi in Brasile, il leader dei PAC era stato rintracciato e arrestato in un albergo di Copacaba- na il 18 marzo 2007, ma il 13 gennaio 2009 gli è stato ri- conosciuto lo status di rifugiato politico.

PIETRO CALOGERO: UN TEOREMA PER L’AUTONOMIA

L’opinione pubblica italiana era ancora lacerata dalla po- lemica scatenatasi all’indomani del ritrovamento del ca-

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davere di Aldo Moro (9 maggio 1978) fra chi voleva trat- tare con i brigatisti e chi invece pretendeva la linea dura (che poi sarà quella adottata), quando a neppure un an- no di distanza, esattamente sabato 7 aprile 1979, agenti della DIGOS, della polizia e dei carabinieri avevano effet- tuato centinaia di perquisizioni in tutta Italia, arrestando, sulla base di ventidue ordini di cattura firmati dal sosti- tuto procuratore della Repubblica di Padova Pietro Calo- gero, quindici esponenti di Autonomia Operaia: Antonio Negri (a Milano); Oreste Scalzone, Emilio Vesce, Lauro Zagato (a Roma); Ivo Galimberti, Luciano Ferrari Bravo, Carmela Di Rocco, Giuseppe Nicotri, Paolo Benvegnù, Alisa Del Re, Sandro Serafini, Massimo Tramonti (a Pa- dova); Mario Dalmaviva (a Torino); Guido Bianchini (a Ferrara); Marzio Sturaro (a Rovigo). Erano sfuggiti alla retata Franco Piperno, Pietro Despali, Roberto Ferrari, Giambattista Marongiu, Gianfranco Pancino, Giancarlo Balestrini e Gianni Boeto. Gli arrestati e i ricercati erano tutti professori, assistenti e studenti universitari, giornalisti. A dodici di essi veniva contestato il reato di «avere organizzato e diretto le Bri- gate Rosse al fine di promuovere l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato e mutare violentemente la Co- stituzione e le forme di governo sia mediante propagan- da di azioni armate contro persone e cose, sia mediante la predisposizione e la messa in opera di rapimenti e se- questri di persona, omicidi e ferimenti e danneggiamen- ti, di attentati contro istituzioni pubbliche e private». Tutti gli imputati erano accusati di avere organizzato e diretto Potere Operaio e Autonomia Operaia al fine di «sovvertire violentemente gli ordinamenti costituiti dello Stato sia mediante la propaganda e l’incitamento alla

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pratica cosiddetta dell’illegalità di massa di varie forme di violenza e di lotta armata, espropri e perquisizioni pro- letarie, incendi e danneggiamenti ai beni pubblici e pri- vati, rapimenti e sequestri di persona, pestaggi e feri- menti, attentati a carceri, caserme, sedi di partito, asso- ciazioni e cosiddetti “covi di lavoro nero”, sia mediante l’addestramento all’uso delle armi, munizioni, esplosivi, ordigni incendiari e, infine, mediante il ricorso ad atti di illegalità, di violenza e di attacco armato contro taluni de- gli obbiettivi sopra precisati». A sostegno di queste impu- tazioni, secondo il PM Calogero: «esistono sufficienti indi- zi di colpevolezza, desumibili dalla copiosa documenta- zione sequestrata o acquisita soprattutto nelle parti in cui si esalta e si programma la lotta armata, si annuncia- no e si rivendicano atti di violenza o attentati terroristici, si predispongono mezzi e organizzazioni di tipo paramili- tare, si promuove e si incita alla insurrezione armata con- tro lo Stato».

I cattivi maestri Il professore padovano Antonio Negri era stato colpito da un mandato di cattura emesso dal di Roma Achille Gallucci basato – tra l’altro – sui seguenti punti: il primo, due rapporti, uno della DIGOS di Padova e l’altro della DIGOS di Roma; il secondo, le “enunciazioni ideologi- che” di Negri sarebbero “sostanzialmente riprese” in do- cumenti delle Brigate Rosse; il terzo, la voce del telefoni- sta delle BR che parlò con Eleonora Moro il 30 aprile 1978 sarebbe quella di Negri. Il procuratore della Repubblica Aldo Fais poco dopo gli arresti aveva dichiarato: «Noi ci spingiamo verso la soluzione di un problema sociale enorme, quale quello del terrorismo» e, riferendosi agli

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arrestati: «Li teniamo saldamente in pugno». Il Presiden- te della Repubblica Sandro Pertini aveva telefonato a Fais e gli aveva inviato un telegramma in cui affermava: «Facendo seguito alla mia telefonata, riconfermo piena solidarietà a Lei e ai magistrati di Padova per la fermez- za e il coraggio con cui stanno agendo in difesa delle no- stre istituzioni democratiche». Infine, l’istruttoria era stata divisa in due tronconi: uno a Roma per Negri, Nico- tri, Scalzone, Zagato, Ferrari Bravo, Dalmaviva, Piperno, Ferrari, Marongiu, Pacino e Balestrini, quali imputati di “banda armata”; l’altro a Padova per i restanti dieci, per “associazione sovversiva”. Un altro professore, Franco Piperno, dalla latitanza aveva inviato una lettera a “L’Espresso” in cui affermava: «Qui si tratta della possi- bilità stessa di espressione politica (cioè di mediazione intelligente) da parte dei nuovi strati sociali minoritari ma significativi che sono oltre l’etica del lavoro – vero tarlo che rode lentamente l’assetto sociale vigente […]. A una logica politica si sostituisce una logica di guerra». E concludeva con un appello: «Coloro che pur essendo no- stri avversari si battono contro il regime armonico DC-PCI devono venire allo scoperto […]. La nuova sinistra, il par- tito radicale, magistratura democratica, Terracini, Lom- bardi, Pannella, Rodotà, Rossanda, Pintor, Bocca voglia- mo sapere da che parte state». A parte le prese di posi- zione individuali, si erano svolte manifestazioni di prote- sta a Milano, Roma, Bologna (con scontri violenti con la polizia che cercava di impedirle), mentre quella naziona- le indetta a Padova si era ridotta a un’assemblea per il co- lossale dispiegamento di polizia e carabinieri. Quattro giorni dopo la maxi-retata, a Thiene, tre elementi del Gruppo sociale locale (legato all’Autonomia padovana)

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erano morti per l’esplosione di un ordigno che stavano preparando: Angelo Dal Santo, Maria Antonietta Berna, Alberto Graziani.

Il telefonista Entrando nello specifico delle accuse, Antonio (Toni) Ne- gri era stato dunque indicato dagli inquirenti come l’ideo- logo delle Brigate Rosse e mandante morale dell’omicidio di Aldo Moro. Non solo: era anche accusato di essere l’au- tore della drammatica telefonata effettuata alla moglie di Moro il 30 aprile ’78 in cui le BR chiedevano un intervento di Benigno Zaccagnini come unica possibilità per salvare la vita del presidente della Democrazia cristiana (telefo- nata effettuata invece da Mario Moretti, come si appure- rà nei vari processi Moro). Nel 1983, mentre era ancora in prigione in attesa di giudizio, Toni Negri aveva accettato la candidatura alla Camera dei deputati propostagli da Marco Pannella per il Partito Radicale (nelle circoscrizio- ni di Roma, Milano e Napoli, anche se non come capoli- sta). Con la sua iniziativa, Pannella presentava “una can- didatura critica”, sostenendo che Negri fosse vittima di leggi repressive imposte dai vertici del PCI. Una candida- tura quindi provocatoria per aprire un dibattito sulle leg- gi liberticide. Da parte sua, Negri aveva promesso di im- pegnarsi su questo fronte e, una volta eletto alla Camera, era stato quindi scarcerato, anche se il Parlamento aveva poi concesso l’autorizzazione all’arresto: l’astensione dei radicali, contrari per principio alle votazioni, aveva avuto un peso determinante nell’esito della votazione; dietro proposta del PCI, s’era votato anche sulla sospensiva, che era stata respinta per pochi voti. Per sfuggire al nuovo ar- resto, Negri si rifugiò in Francia, dove rimase per quattor-

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dici anni, svolgendo l’attività di scrittore e docente pres- so l’università di Parigi (Saint Denis), al Collegio Interna- zionale di Filosofia, fondato da Jacques Derrida. Nel 1990 fondò con Jean-Marie Vincent e Denis Berger la rivista “Futur Antérieur”. Anche se non poté impegnarsi in atti- vità politiche per via dello specifico divieto che la legisla- zione francese (Dottrina Mitterand) imponeva ai rifugiati politici, durante la permanenza francese Negri scrisse nu- merosi testi politici e, grazie alla sua produzione filosofi- ca, nel 2005, “Le Nouvel Observateur” lo inserì tra i ven- ticinque “grandi pensatori del mondo intero”, unico italia- no assieme al filosofo Giorgio Agamben. Negri rientrò volontariamente in Italia nel 1997 per fini- re di scontare la sua pena e anche per promuovere un nuovo dibattito sulla conclusione politica degli “anni di piombo”. Pena che finì di scontare (sotto forma di reclu- sione e, in seguito, di semi-libertà tra Rebibbia e la sua casa di Trastevere) nella primavera del 2003. «Sto ri- prendendo il mio lavoro politico», disse, «e con il mio ri- torno vorrei dare una spinta alla generazione che è stata emarginata dalle leggi anti-terrorismo degli anni Settan- ta in modo che ancora partecipi alla vita pubblica e de- mocratica». Oggi vive tra Venezia e Parigi. L’ho incontrato a Padova nell’agosto del 2008 e gli ho chie- sto un giudizio sulle radicali trasformazioni avvenute nel “suo” Veneto. «Basta rapportare il Veneto del dopoguerra a quello degli anni Settanta per accorgersi della formidabi- le trasformazione sociale avvenuta in esso: non sembrano trascorsi pochi decenni, ma oltre un secolo e questo per- ché ha vissuto quasi contemporaneamente l’industrializza- zione e il suo superamento. Una trasformazione perfino antropologica, estetica – è impressionante quanto sono di-

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ventate belle le ragazze e i ragazzi – che è proseguita fino al ’79: dopo ci sono stati solo i Pietro Maso, c’è stata la rot- tura tra lo sviluppo dell’uomo e lo sviluppo delle idee. È ri- masto solo un grande bordello, ma vivente e contradditto- rio: la Lega e alcune delle punte culturali più sviluppate, la ripresa di una brutalità rozza e plebea, ma anche alcune delle più intelligenti innovazioni industriali. Bisognerebbe raccontarlo questo nuovo Veneto, ma più che Carlo Goldo- ni ci vorrebbe Ruzante. Anzi, mi ci potrei cimentare io stesso, mi piacerebbe. Ho iniziato a fare del teatro: ho scritto una trilogia, Trilogia della Differenza, presentata a Parigi. Quando non avrò più le energie necessarie per continuare a spostarmi così frequentemente, penso che mi metterò a scrivere qualcosa del genere sul Veneto»13. Per quanto riguarda l’inchiesta 7 aprile, i vari gradi di giudizio si erano incaricati di dimostrare come non ci fos- se stato nessun tentativo di organizzare un’insurrezione contro i poteri dello Stato e come nessuno degli arresta- ti appartenesse alle Brigate Rosse.

MESTRE CUORE BRIGATISTA: IL SEQUESTRO E L’UCCISIONE DELL’INGEGNER TALIERCIO

La famiglia Taliercio abitava a Mestre. Era composta da set- te persone, ma all’ora di pranzo di mercoledì 20 maggio 1981 solo quattro erano sedute a tavola, in cucina, per il pranzo: papà Pino, mamma Lella e i figli Cesare e Bianca. Gli altri tre erano fuori casa: Lucia al lavoro, Antonio a scuo- la, Elda all’università. Quel pranzo, però, non iniziò mai.

13. Dichiarazione resa all’autore.

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Suonò il campanello e la signora Lella andò ad aprire la por- ta. «Sono quattro finanzieri», disse al marito rientrando in cucina. «Vogliono te». Pino si era quindi alzato e li aveva in- vitati a seguirlo in salotto, ma all’improvviso lo scenario era cambiato. I sorrisi di circostanza, i modi educati e rispetto- si avevano lasciato il posto alle pistole. Sì, perché quei quat- tro non avevano nulla a che fare con la Finanza. Quei quat- tro erano un commando delle Brigate Rosse. Che se ne era andato portando con sé Pino Taliercio, il direttore del Pe- trolchimico di Marghera, la “fabbrica di morti bianche”, co- me si leggeva da qualche parte, anche su qualche muro. La colonna veneta delle BR aveva identificato in lui il nemico da colpire nella campagna contro lo sfruttamento in fabbrica. Dopo la tragica conclusione del sequestro Moro, le BR avevano alzato il tiro in un crescendo di ferimenti, seque- stri e uccisioni scandite con drammatica frequenza sui vari “fronti” aperti. Su quello delle carceri, con il rapi- mento avvenuto a Roma il 12 dicembre 1980 del giudice Giovanni D’Urso, direttore dell’Ufficio III della direzione generale degli istituti di prevenzione e pena del Ministe- ro della Giustizia. Le Brigate Rosse avevano chiesto la chiusura immediata del carcere dell’Asinara, che contava ormai solo pochi brigatisti, dopo lo smantellamento della rivolta del 2 ottobre 197914. La “campagna carceri” era

14. Il 2 ottobre 1979 i brigatisti detenuti nel supercarcere sardo dell’Asinara avevano dato il via a una rivolta finalizzata allo smantellamento della struttura distruggendo la diramazione Fornelli (la sezione speciale del complesso carcerario dell’isola dell’Asinara) all’insegna della parola d’ordine «chiudere con ogni mezzo l’Asinara e i punti di massima deterrenza del circuito delle carceri speciali». Dopo la rivolta tutti i detenuti erano stati trasferiti in altre carceri speciali, mentre si era acceso un dibattito all’interno del partito armato, che aveva portato alla proposta di attaccare frontalmente i Carceri Speciali, sia con rivolte da dentro le strutture, sia con attacchi esterni. Nel settembre del 1980 ci sarà la rivolta nella sezione speciale del carcere di Badu ‘e Carros (Nuoro), e nel dicembre dell’80, in concomitanza con il sequestro del magistrato D’Urso (responsabile ministeriale dei CS) realizzato dalle Brigate Rosse, ci sarà la rivolta nel carcere di Trani.

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proseguita con l’attentato mortale, avvenuto sempre a Roma alla fine dello stesso mese, al generale dei carabi- nieri Enrico Galvaligi, responsabile del coordinamento delle misure di sicurezza nelle carceri speciali e ritenuto responsabile dell’assalto compiuto il 29 dicembre 1980 dal Gruppo d’Intervento Speciale (GIS) per riprendere il controllo del carcere di Trani in rivolta da due giorni. Il sequestro D’Urso si era concluso il 15 gennaio 1981 con la liberazione del magistrato e la chiusura dell’Asinara (peraltro già deserta a causa della rivolta del ’79), ma questa azione era coincisa con la conclusione del percor- so unitario delle Brigate Rosse. Nell’aprile 1981, i già pre- cari equilibri tra le varie istanze e le diverse posizioni po- litiche all’interno delle BR erano precipitate, mentre a Mi- lano era stato arrestato Mario Moretti, il capo. Da questo momento, i percorsi all’interno del partito armato si era- no divisi: la colonna milanese della Walter Alasia aveva gestito in proprio il sequestro dell’ingegnere dell’Alfa Ro- meo Sandrucci (liberato)15; quella napoletana e del Fronte Carceri i rapimenti di Ciro Cirillo (liberato) e Ro- berto Peci (ucciso in quanto fratello del “delatore” Patri- zio Peci), dando vita alle Brigate Rosse-Partito della Guerriglia, guidate dal criminologo Giovanni Senzani, co-

15. «Al processo, l’ingegner Sandrucci testimoniò che era stato trattato bene, che l’avevamo trattato bene, e mentre deponeva guardò proprio me». «Ma come è successo che sei finito nelle Brigate Rosse?». «Per me è iniziato tutto con l’occupazione delle case a Milano. A un’assemblea un compagno mi disse che ero stupido a pagare un affitto per stare lì a studiare: che sia lo studio che la casa erano diritti. Così andai in quella casa occupata. Poi mi trovai a lasciare in giro volantini con la stella a cinque punte: ero nelle Brigate Rosse senza accorgermene». «Quanto hai fatto in tutto di carcere?». «Quattordici anni. In primo grado presi trent’anni per partecipazione a banda armata, poi fra appello e Legge Gozzini riuscii a finire la pena dopo quattordici anni». M. F. lo conoscevo da anni. Nella seconda metà dei Settanta aveva partecipato saltuariamente a qualche riunione politica del mio collettivo, poi l’avevo perso di vista: sapevo solo che era andato a studiare a Milano. Poi venni a sapere del suo arresto. È uscito dal carcere a metà degli anni Novanta.

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gnato di quell’Enrico Fenzi arrestato a Milano con Moret- ti. Solo il sequestro dell’ingegner Giuseppe Taliercio, di- rettore del Petrolchimico di Mestre, era ancora rivendi- cato con la sigla BR. Ma anche nel Veneto, proprio in se- guito a divergenze sorte nella gestione di questa opera- zione, tra ottobre e novembre successivi, alcuni militanti della colonna veneta erano usciti dall’organizzazione dando vita alla colonna “2 Agosto”.

L’ingegnere buono L’ingegner Giuseppe Taliercio, Pino per i familiari e gli amici, proveniva da una famiglia segnata dalla prematu- ra scomparsa del papà – un commerciante che aveva tra- sferito la sua attività da Ischia a Marina di Carrara – e la mamma che aveva dovuto occuparsi di un’attività che non conosceva per poter mantenere i quattro figli. Dopo la maturità classica, Pino si era laureato in ingegneria al- la Normale di Pisa e nel 1952 era entrato alla Montedison di Porto Marghera, dove, dopo la “gavetta”, era arrivato ai vertici della direzione. Frequentando l’Azione Cattoli- ca, aveva incontrato la sua futura sposa, Gabriella. Dalla loro unione erano nati cinque figli, ma la serenità di que- sta famiglia borghese era andata incrinandosi con il clima di sempre maggiore violenza che ormai si respirava in tutto il Paese e in modo particolare in Veneto. Quel Ve- neto che aveva proprio nella Montedison un centro ormai riconosciuto di scontro frontale: un obiettivo privilegiato da colpire. Un clima pesante, avvertito in modo dramma- tico dallo stesso Taliercio, che solo una settimana prima del suo rapimento aveva confidato a un amico: «L’anno scorso hanno ucciso l’ingegnere Sergio Gori, vicediretto- re. Ma è stato un errore. Miravano a me».

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«Non era il suo posto», confiderà un ex-dipendente del Petrolchimico. «Era un grande tecnico, ma troppo leale e coerente con la sua fede cristiana per occupare il ver- tice di una multinazionale, fatto di furberie e fondato sul- le bugie. Mi sono incontrato più volte con lui: era un uo- mo di gentilezza e competenza estreme. Nella sua co- scienza sentiva lo stridore del “sistema”»16. Si racconta- va che a un dirigente licenziato, fra l’altro anche amico, che gli rinfacciava il suo mancato interessamento, Talier- cio avesse risposto: «Non ho steso io la lista dei licenzia- ti, ma se dovessi sostituirti non saprei chi mandare a ca- sa al tuo posto. Vieni, guarda i nomi e dimmi: chi avresti il coraggio di sacrificare al tuo posto?»17. In un’altra oc- casione, con gli operai in cassa integrazione, la direzione di Milano, dopo una revisione amministrativa, aveva pu- nito un dirigente giovane e capace: Taliercio aveva mi- nacciato le dimissioni se non fosse stato reintegrato.

È andata male «Era la notte del 5 luglio», aveva raccontato Bianca, la fi- glia di Taliercio che curava i rapporti con la stampa. «Eravamo molto in ansia per papà. Verso le due di notte, squilla il telefono. Va a rispondere Elda, la nostra sorella maggiore. Un giornalista del quotidiano “Il Gazzettino” ci comunicava che era stato trovato il corpo del papà. Elda si avvicina al mio letto e, piangendo, mi dice: “Bianca, è andata male”. Capisco subito e corro ad abbracciare la mamma e gli altri di casa. Poco dopo, giungono l’avvoca- to, che ci era stato tanto vicino, don Franco De Pieri e

16. Ne «Il Messaggero di Sant’Antonio» del novembre 2000. 17. Ibidem

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monsignor Valentino Vecchi, della parrocchia di San Lo- renzo di Mestre; e ci raccogliamo in preghiera»18. L’inge- gner Taliercio fu trovato raggomitolato nel bagagliaio di una FIAT 128 azzurra, a pochi metri dal Petrolchimico, de- vastato da diciassette colpi di pistola: i capelli diventati tutti bianchi, la barba lunga, il volto scavato. Avrebbe compiuto 54 anni un mese dopo. A ucciderlo, Antonio Savasta. In una lettera firmata del 18 febbraio 1987, indirizzata alla signora Gabriella Talier- cio, che pubblicamente aveva perdonato agli assassini di suo marito, una brigatista scriveva: «Il suo perdono [...] mi porta a pensare in un possibile riscatto di me stessa. Ciò che scrivo mi viene dettato dal cuore. Voglio render- le una parte dei momenti intimamente vissuti da suo ma- rito. Nella nostra follia volevamo colpire il simbolo, ma il vivergli accanto, giorno dopo giorno, ora dopo ora, mi portò, inevitabilmente, alla conoscenza dell’uomo, del suo spirito estremamente delicato, dignitoso e mai arro- gante. C’era nelle sue preghiere qualcosa che allora non capivo. Oggi comprendo che tutta la sua forza d’animo era intimamente legata al valore che egli dava alla pre- ghiera. La preghiera era il suo mondo insindacabile, do- ve noi, con la nostra stupida razionalità, non potevamo raggiungerlo. Questa sua forza si imponeva con dolcezza, si trasformava in serenità di giudizio, anche, con noi aguzzini. Non potrò mai pensare a quei momenti senza morire ogni volta un po’ [...]. La mia angoscia diventa di- sperazione rendendomi conto che la spirale di violenza non si è ancora chiusa e che ciò è frutto mio e di altri. È un mostro che io ho contribuito a far venire al mondo...

18. Ibidem

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Signora Taliercio, lei ha avuto tanto coraggio nel perdo- nare gli assassini di suo marito, la prego, accetti che una simile persona, quale io sono, le chieda umilmente per- dono... Non potrò mai restituire ciò che ho rubato e per- ciò non mi basterà la mia intera vita a pagare un prezzo equo»19. Due anni prima, un altro brigatista così si era rivolto alla vedova Taliercio: «La parola che portava suo marito... ha vinto: contro di me, che solo oggi riesco a comprendere qualcosa; contro tutti coloro che ancora oggi non capi- scono. Anche in quei momenti suo marito ha dato amo- re... Questo è un fiore che voglio coltivare per poter poi essere io a donarlo. Forse, se non ci foste stati voi a do- nare per primi questo seme, sarei ancora perso nel de- serto... Spero soltanto di colmare questo vuoto, resti- tuendo e insegnando ad altri quello che voi avete dato e insegnato a me»20.

Le parole dei figli Vent’anni dopo la morte del loro padre, anche i figli del- l’ingegner Taliercio resero pubblica una lettera. Questa:

In questi lunghi anni senza di te, grande è stato il nostro dolore, per la violenza con cui ci sei stato tolto. Ma, ugualmente, forti so- no stati i ricordi delle tue parole, della fede, della fiducia che po- nevi nella misericordia e provvidenza di Dio. Ci hanno aiutato a guardare alla vita nuovamente, con serenità. A scriverti questa lettera aperta proviamo emozione e tristezza, anche se tante vol- te ci siamo ritrovati, nel nostro cuore, a parlare con te delle gioie

19. Ibidem 20. Ibidem

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o delle croci che stavamo vivendo. Le gioie più grandi sono stati i matrimoni di Elda e Mauro, di Bianca e Gigi, di Rosa e Cesare e la nascita di tanti nipoti: Stefano, Giulia, Luca, Giovanni, Marco, Laura e i piccoli Michele e Sofia. Spesso parliamo a loro di te, di come la tua presenza, a volte silenziosa, era per noi bambini, ra- gazzi, una sicurezza. Ricordiamo la gioia che suscitava in noi il sentire la porta aprirsi ed eri tu che rientravi, dopo una lunga giornata di lavoro. Nonostante la stanchezza, ci aiutavi a finire i compiti; ci chiedevi come era andata la giornata. Poi ci riunivi tutti a tavola. Sentiamo forte l’impegno e la difficoltà di essere genitori, specialmente ora che i bambini stanno crescendo: Ste- fano ha 16 anni, Giulia 13, Luca 12 e manifestano i problemi del- l’adolescenza: le difficoltà scolastiche, l’amicizia con i coetanei, le prime simpatie. Pensiamo ai modi adottati da te e dalla mam- ma durante la nostra crescita, al dialogo, che cercavate di stabi- lire con tutti noi, all’amore alla vita che ci avete trasmesso, al co- raggio nell’affrontare le difficoltà, le croci, sorretti dalla fede e dalla preghiera. È difficile educare i giovani ai sani principi! La mamma spesso ci ricorda che anche tu, giovane genitore, pensa- vi con un po’ di timore al nostro futuro. Grandissimo è stato il do- lore, profonda la sofferenza, per la malattia e la morte di Elda, nostra sorella: un altro grande terremoto che ha scosso tutta la famiglia e ha messo in crisi la nostra fede. Il sostegno di tanti amici, di fratelli nella fede, soprattutto, la misericordia e l’amo- re di Dio ci hanno aiutato a sentire Elda nella gloria di Dio, vici- no a te. Abbiamo imparato a confidare nella vostra intercessione per noi, specialmente per la mamma, che, pur sostenuta dalla fe- de, prova un grande vuoto con la vostra mancanza. Carissimo pa- pà, sarai sempre nel nostro cuore: di Antonio, che hai lasciato bambino e ora è un giovane prossimo alla laurea; di Lucia, che continua con interesse e impegno il suo lavoro; di Bianca e Cesa- re, che, con le proprie famiglie, testimoniano l’amore del Signore

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per noi. Siamo certi che sei ancora nel cuore di tanti tuoi colleghi, amici, di tante persone di Mestre e Marina di Carrara, che, pur senza averti personalmente conosciuto, riconoscono nella tua vi- ta e nella tua morte i segni di un progetto divino21.

J. L. DOZIER: UN AMERIKANO A VERONA

Erano passati solo centosessanta giorni dall’uccisione di Giuseppe Taliercio, il direttore del Petrolchimico di Mar- ghera, a Mestre. In quel 1981 che sembrava non finire mai, ora erano Verona e Padova a dover vivere un nuovo capitolo drammatico. Questa volta, però, le cose andran- no diversamente. Questa volta non morirà nessuno. Tan- to meno con diciassette colpi di pistola in faccia. Questa nuova storia era iniziata a Verona, il 17 dicembre, sotto un sole piacevole, di quelli che in una giornata in- vernale e vicina al Natale scaldano anche il cuore. Verona è una bella città, ma ospita una base NATO. Una base im- portante, dove in quel 1981 lavorava anche un americano di cinquant’anni: alto, affilato, le orecchie a sventola. Un generale. James Lee Dozier, un veterano del Vietnam. Da un anno Dozier era sottocapo di Stato maggiore della FTA- SE e dirigeva i servizi logistici e amministrativi in Italia. Come ogni giorno, alle cinque del pomeriggio in punto, dalla FIAT 132 blu il suo autista faceva un cenno con la ma- no al piantone, che azionava quindi elettronicamente il pesante portone di ferro facendo sfilare la macchina del generale. Nonostante le vicine festività, quel pomeriggio il traffico era scorrevole, tanto da raggiungere la destinazio-

21. Ibidem

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ne cinque minuti dopo: il numero 5 di Lungadige Capena. Era lì che abitava Dozier, in un appartamento al sesto pia- no con un grande living e una mansarda, insieme con la moglie Judith, poco più giovane di lui. La famiglia era composta anche da due figli, un maschio e una femmina, che però vivevano negli Stati Uniti. Quel giorno, quel 17 dicembre quasi primaverile, c’era un pulmino parcheggiato nei pressi del palazzo del genera- le. Un pulmino blu con una striscia bianca, ma senza al- cuna scritta. Anonimo, anomalo. Il generale non ci aveva fatto caso: congedato il suo autista, aveva varcato l’in- gresso. Sua moglie non c’era ancora, arriverà da lì a po- co, ma anche lei non baderà a quel pulmino. Sono quasi le sei del pomeriggio.

L’azione Dal pulmino erano usciti due uomini in tuta da idraulici e si erano diretti verso il portone, che però, ovviamente, era chiuso. «La cosa più semplice era entrare nell’appartamento con un pretesto. Quindi io e “Daniele” ci eravamo trave- stiti da idraulici. Il portone era sempre chiuso, ma ave- vamo scoperto che nell’androne c’era un negozio di ar- ticoli sportivi. Così “Giorgio” doveva suonare il campa- nello fingendosi un cliente. Io e “Daniele” saremmo sa- liti allora sino all’appartamento, mentre “Rolando” e “Fabrizio” sarebbero rimasti sulla rampa delle scale. “Martina” e “Giorgio” si sarebbero fermati in strada per coprirci con i mitra in caso di necessità, e “Federico” non si sarebbe mosso dal posto di guida del pulmino». Lo racconterà Antonio Savasta, capo del commando. Sì, perché quelli non erano idraulici, ma un commando bri-

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gatista. Saliti sino al sesto piano, Savasta aveva suonato il campanello. «Siamo dell’acqua potabile», aveva mentito attraverso la porta, «e abbiamo notato che al piano di sotto c’è una perdita. Dobbiamo dare una controllata». Dozier aveva aperto la porta disattendendo ogni precauzio- ne. Dopo essersi assicurati che nell’appartamento non ci fos- se nessun altro, i brigatisti avevano estratto le pistole. Dozier aveva cercato di reagire, ma “Daniele” lo aveva colpito al ca- po con il calcio della pistola, facendogli perdere i sensi. An- che la moglie era stata immobilizzata, poi “Fabrizio” era sce- so a prendere dal pulmino una grande cassa. Una cassa ca- pace di contenere un uomo, com’era avvenuto con Moro. «Dopo aver caricato la cassa», ricordò ancora Savasta, «diamo l’ok con un walkie-talkie a “Rolando” e “Daniele” che sono rimasti nell’appartamento. Se ne andranno più tardi, per evitare che qualcuno possa dare l’allarme men- tre siamo ancora in strada. In una specie di galleria fra due palazzi trasbordiamo la cassa su una Ritmo, a cui abbiamo levato il sedile posteriore. Poi io e “Giorgio” abbandoniamo il pulmino e prendiamo il treno per Padova. “Rolando” e “Daniele” partiranno invece più tardi per Milano».

Quei “cialtroni” delle Brigate Rosse Fu l’ANSA a ricevere, per telefono verso le 23, la rivendi- cazione del sequestro. L’indomani, alle 14, ci fu un’altra conferma, sempre telefonica, ma più precisa. Una voce maschile, con accento veneto, aveva dettato: «Qui Briga- te Rosse, colonna Anna Maria Ludmann, “Cecilia”22. Ri-

22. Anna Maria Ludmann, nome di battaglia “Cecilia”, era la brigatista proprietaria dell’appartamento genovese di via Fracchia, dove il 28 marzo 1980 era stata uccisa dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa insieme a Riccardo Dura, Lorenzo Betassa e Piero Panciarelli.

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vendichiamo il rapimento del boia della NATO, James Do- zier, che sarà rinchiuso nelle carceri del popolo e sotto- posto al giudizio del proletariato». Il presidente americano Ronald Reagan aveva reagito con violenza, chiedendo come fosse possibile che “quattro cialtroni” potessero permettersi il lusso di rapire un gene- rale americano. I primi agenti della CIA arrivarono a Vero- na già il 18 sera, seguiti da una task-force composta da set- te agenti speciali scelti tra il fior fiore della CIA e del FBI (più alcuni “tecnici” di origine siciliana, “esperti di mafia”). A Roma, intanto, la direzione delle indagini era stata af- fidata all’Ufficio Centrale per le Investigazioni Generali e le Operazioni Speciali (UCIGOS), che coordinava l’azione delle divisioni provinciali (DIGOS, ex uffici politici) ope- ranti su piano locale. Anche l’Arma dei carabinieri parte- cipava alle ricerche. I reparti speciali, invece, attendeva- no il loro momento. Le “teste di cuoio” italiane erano sta- te create al tempo del sequestro Moro, nel 1978; a questi si affiancavano i Gruppi per Interventi Speciali (GIS) dei carabinieri. Subito dopo il sequestro, la NATO aveva preci- sato che il generale Dozier non era depositario di alcun segreto militare, ma la verità era un po’ diversa. Come responsabile dei servizi logistici e amministrativi, in- fatti, Dozier conosceva perfettamente la struttura com- plessiva delle basi NATO in Italia. Forse non era al corrente dei dati più segreti relativi al “parco nucleare” puntato ver- so Est, ma le informazioni di cui era in possesso bastava- no per destare inquietudini in seno all’Alleanza, qualora le BR avessero deciso di “passarlo” al setaccio. Inquietudini superflue semplicemente perché nessuno dei brigatisti che tenevano prigioniero Dozier conosceva bene l’inglese e il generale americano non era andato oltre il minimo in-

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dispensabile: “rivelando” quasi dei luoghi comuni. I rapito- ri si erano fatti nuovamente vivi due giorni più tardi, que- sta volta con un messaggio scritto. Altri quattro erano se- guiti a intervalli di otto-dieci giorni. Con il comunicato n. 2 del 27 dicembre era stata diffusa anche una foto in cui si vedeva il generale sullo sfondo della stella brigatista a cin- que punte mentre reggeva un messaggio a lettere di sca- tola, con il viso segnato da una ecchimosi.

So io dov’è il generale Dozier era stato trasferito a Padova, sin dalla sera del se- questro, in un appartamento di via Ippolito Pindemonte 2, alla periferia della città: cinque stanze al primo piano di un condominio popolare, sopra un grande supermercato. Proprietario della “prigione del popolo” era un ignaro me- dico, Mario Frascella, che aveva lasciato l’appartamento a disposizione della figlia secondogenita Emanuela (nome di battaglia “Daniela” o “Lucia”), una studentessa di vent’an- ni, incensurata. Nel salone, insonorizzato, i brigatisti ave- vano montato una tenda verde da campo ed è lì che Do- zier avrebbe passato i quaranta e passa giorni della sua pri- gionia, su un materassino di gomma, e con i ferri ai piedi. I comunicati delle BR erano tutti firmati con una sigla ine- dita, “Brigate Rosse per la costruzione del Partito comu- nista combattente”, quelle che avevano rapito e ucciso Taliercio, firmando però quell’azione ancora unitaria- mente come BR. La svolta decisiva nelle indagini era av- venuta a Verona fra il 26 e il 27 gennaio. Tra i fermati c’era un sospetto che si chiamava Ruggero Volinia, detto “Spillo” per la sua somiglianza con il calciatore Alessan- dro Altobelli. Sottoposto a un interrogatorio a dir poco “duro”, “Spillo” aveva chiesto garanzie in cambio dell’in-

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dicazione della prigione del generale. Lui quel posto lo conosceva bene, perché era lui che aveva guidato il pul- mino da Verona a Padova. Volinia infatti altri non era che “Federico”. Un’Alfetta era partita pochi minuti dopo “la confessione”. A bordo c’era anche il commissario Salvatore Genova – poi eletto nelle file del PSDI e autore di un libro sulla sua personale esperienza, nonché grande accusatore per le torture perpetrate nella caserma Diaz di Genova in occa- sione del G8 di Genova del 2001 –, membro del Comita- to di coordinamento per le indagini sul sequestro, ed era passata davanti alla casa in questione per controllare la situazione. Un quarto d’ora dopo, un altro passaggio, poi dritti in Questura. Volinia aveva disegnato una pianta dell’appartamento. C’era stato solo una volta, ma ricorda- va tutto con precisione e aveva così fornito due dettagli della massima importanza: il primo che la porta d’ingres- so, non blindata, poteva essere sfondata con facilità; il secondo che il “codice di comportamento” delle BR dopo la strage di via Fracchia – dove erano morti quattro bri- gatisti uccisi dai carabinieri – sconsigliava gli scontri a fuoco nel caso di irruzioni.

L’irruzione I preparativi per l’irruzione erano cominciati all’alba del 28 gennaio. L’intervento era stato affidato a dieci NOCS coperti da agenti della polizia in borghese. Via Pinde- monte è una strada popolare, piena di gente tranquilla. Bisognava agire quindi con cautela. Nei pressi era stato messo in funzione un bulldozer che con il suo frastuono aveva coperto ogni possibile rumore e che giustificava la deviazione di tutto il traffico dalla “zona calda”.

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Salvatore Genova: «Mi infilo un giubbotto antiproiettile e faccio scattare il tamburo della mia Smith & Wesson. È ok. Alle 11.15 in via Pindemonte arriva un camion della “Domenichelli Trasporti”. È carico di NOCS con il loro in- credibile e ingombrante armamentario: tute mimetiche, mute subacquee, una bi-bombola con erogatore, sagole e cordami, arnesi da rocciatori, caschi e armi pesanti, che hanno l’ordine di portare sempre con loro. Sono in piena forma grazie ai loro allenamenti quotidiani di judo, pugi- lato, karate, lotta, pesi; ma anche tiro con armi lunghe e corte, discesa con corde da elicotteri e lungo le facciate dei palazzi, guida veloce di auto con catapultamento esterno, tecniche di irruzione in luoghi aperti e chiusi, azioni antiguerriglia urbane ed extraurbane, e chi più ne ha più ne metta. Sul marciapiede un ragazzo e una ragaz- za, mano nella mano, tubano come i fidanzatini di Pey- net. Sono due poliziotti: lui ha una Smith & Wesson alla cintura, lei un’automatica nel reggicalze. Altri poliziotti stazionano qua e là con disinvoltura, confondendosi con l’ambiente. Un cenno e, come in un film d’azione, grap- poli di NOCS e poliziotti si catapultano verso il fabbricato. I primi divorano le scale sino all’ingresso dell’apparta- mento; gli altri si allargano a ventaglio sul marciapiede. I NOCS sono armati sino ai denti, con il volto coperto dal passamontagna che lascia vedere solo gli occhi. “Tran- quilli, siamo della polizia” dicono a chi, vedendoli, rima- ne paralizzato dallo stupore. Una spallata, una sola, e la porta si schianta. I ragazzi rimbalzano dentro. L’attimo di sorpresa dei cinque BR è il loro punto di forza. Sotto la tenda da campo, un brigatista punta una rivoltella alla tempia di Dozier. Le frazioni di tempo sono vitali. Un NOCS allunga una gamba in una mossa di karate e riesce a

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far volare via l’arma. Poi prende il terrorista per le spalle e lo immobilizza. I BR non hanno letteralmente il tempo di premere il grilletto. I NOCS danno fondo al loro reper- torio, senza mai usare le armi. Io, altri tre investigatori e un agente della DIGOS siamo rimasti fermi sul pianerotto- lo disposti a ventaglio. Abbiamo il compito di coprire le spalle all’avanguardia NOCS e siamo disposti a tutto, ma dall’interno una voce grida “tutto ok”. Sono passati esat- tamente novanta secondi»23.

23. La soffiata per la liberazione di Dozier arrivò con le torture effettuate in una chiesa sconsacrata di Verona: Un passaggio che impressionò persino la CIA». Questa la ricostruzione, dettagliata e inedita, fatta dal “Secolo XIX” che pubblicò il 16 giugno 2007 una clamorosa intervista a Salvatore Genova, in cui l’allora commissario della DIGOS genovese “aggregato” all’UCIGOS ha rivelato l’esistenza di una squadra di veri e propri torturatori di Stato specializzati nell’estorsione di confessioni. «Nei primi anni ’80», dice Genova, «esistevano due gruppi di cui tutti sapevano: “i della notte” e “i cinque dell’Ave Maria”. I primi operavano nella caserma di Padova, dov’erano detenuti i brigatisti fermati per Dozier (oltre a Cesare Di Lenardo, c’erano Antonio Savasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella e Giovanni Ciucci). Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Una volta, presentandomi al mattino per un interrogatorio, Savasta mi disse: «Ma perché continuano a torturarci, che stiamo collaborando?» (la sua “dissociazione” permise centinaia di arresti, N.d.A.). Le violenze avvenivano di notte, naturalmente, e poi è stato facile confondere le acque mandando sotto processo le persone sbagliate». Il discorso è più ampio e inquietante quando entrano in gioco “i cinque dell’Ave Maria”. Rievoca Genova: «Ovunque era nota l’esistenza della “squadretta torturatori” che si muoveva in più zone d’Italia, poiché altri BR (in particolare Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, bloccati dalla DIGOS di Roma) avevano già denunciato procedure identiche. Non sarebbe stato difficile individuarne nomi, cognomi e “mandanti” a quei tempi. Ecco, il rimpallo di responsabilità: le “amnesie” che caratterizzano le deposizioni sul G8 e la scuola Diaz dimostrano che purtroppo il metodo, per alcuni gruppi ristretti ma potenti, non è cambiato». «Furono messe sotto controllo centinaia di utenze telefoniche», rievoca Genova ritornando ai tempi di Dozier, «con l’obiettivo di scandagliare l’area dell’eversione. Ascoltavamo di tutto, in particolare le conversazioni di giovani militanti nell’Autonomia operaia. Il centro investigativo era la questura di Verona, dove di tanto in tanto venivano accompagnati i sospetti. Talvolta passavano per le mani di altri uomini in divisa, che usavano ogni sistema pur di farli parlare». È in questo modo che vengono individuati Ruggero Volinia (il cui nome risulta negli atti dei vari processi) e la sua fidanzata. «Vennero accompagnati in questura», prosegue Genova, «e nessuno si aspettava che da quell’uomo potessero arrivare indicazioni tanto importanti». Non potevano immaginare, sulle prime, di trovarsi davanti “Federico” (questo il suo nome di battaglia), ovvero colui che materialmente, a bordo d’un furgone, trasferì Dozier dalla sua casa di Lungadige Catena, a Verona, al covo di via Ippolito Pindemonte, a Padova. «Un gruppo specializzato», prosegue Genova, «si occupò dell’interrogatorio. Separarono Volinia dalla compagna e su di lei ci furono violenze. Io non partecipai all’azione, ma in seguito tacqui davanti ai giudici per proteggere altri funzionari, che mi garantirono avanzamenti di carriera in cambio del silenzio. Sentendo le urla disumane della fidanzata, Ruggero Volinia a un certo punto supplicò di fermarsi. E iniziò a fare qualche nome; nulla di eclatante, ma palesava evidentemente una consapevolezza superiore a tanti altri». «Non credevamo», dissero gli uomini della CIA mandati da Reagan, «che gli italiani arrivassero a un livello di pressione tale». Volinia, dunque, cede: «Se vi dicessi dov’è nascosto Dozier?». È la notte fra il 26 e il 27 gennaio 1982, nella chiesa scende finalmente il silenzio. E scatta il blitz dei NOCS. Si veda Le torture affiorate (Sensibili alle Foglie, 1998).

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Pentiti e tortura I cinque carcerieri vengono portati fuori ammanettati. Sono tumefatti. Si tratta di Antonio Savasta, la sua fidan- zata Emilia Libera (“Martina”), Cesare Di Leonardo (“Fa- brizio”), Giovanni Ciucci (“Saverio”, che aveva puntato la rivoltella contro Dozier), e la proprietaria dell’apparta- mento, Daniela Frascella. Intanto, altri poliziotti avevano liberato Dozier, che si era presentato in tuta, barba e ca- pelli lunghi, una catena alla caviglia e una cuffia stereo incollata alle orecchie. I brigatisti lo avevano obbligato a usarla quasi ininterrottamente per isolarlo dal mondo e la musica rock, trasmessa a tutto volume, gli aveva pro- vocato una lesione interna all’orecchio destro. Le prime parole del generale erano state: «Wonderful, police!», ma poi confessò di aver temuto – per un attimo interminabi- le – di essere vicino alla fine. Savasta, ritenuto responsabile di diciassette omicidi, ave- va iniziato pochi giorni dopo una confessione fiume che si era aggiunta a quella di altri pentiti e che portò nei me- si successivi ad arresti in massa di brigatisti e fiancheg- giatori. Già il giorno successivo erano stati arrestati di- ciotto brigatisti. A fine gennaio c’era stata la scoperta della prigione di Moro in via Montalcini a Roma, all’inizio di febbraio erano stati arrestati in Friuli gli altri respon- sabili dell’omicidio Taliercio, tra aprile e maggio era sta- ta quasi sgominata la colonna romana che al momento contava cento regolari e quattrocento fiancheggiatori. Savasta e la Libera si guadagnarono presto la libertà gra- zie al loro “contributo”. Barbara Balzerani riuscì invece a sfuggire a questa ondata di arresti – capeggiando poi le BR-PCC in contrasto con le BR-PG di Giovanni Senzani – mentre Cesare Di Leonardo, nonostante le brutali tortu-

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re cui fu ripetutamente sottoposto, scelse di non collabo- rare con la giustizia e fu condannato all’ergastolo.

LA PRIMA LINEA DI ROVIGO: EVASIONE CON MORTO

Mentre il generale Dozier era nella “prigione del popolo” di Padova, un’altra città veneta, Rovigo, stava per entra- re a far parte di un capitolo della guerra contro lo Stato dichiarata da comunisti passati «dalle armi della dialetti- ca alla dialettica delle armi». Era il 3 gennaio del 1982. Cioè dell’anno che avrebbe regalato all’Italia il mondiale di calcio, anzi, il “mundial”, ché questa volta era la Spa- gna a ospitare la tenzone quadriennale, con Pertini – il presidente con la pipa, il presidente partigiano – a esul- tare come un hooligan sulla faccia dell’impassibile mo- narca Borbone quando l’Italia, alla terza cannonata con- tro la Germania, era salita sull’irraggiungibile vetta calci- stica. Lo stesso anno che avrebbe visto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa cadere sotto i colpi della mafia, sot- to i colpi della politica24. Purtroppo eravamo solo agli ini- zi, l’anno era ancora giovanissimo, era appena nato. Quel 3 gennaio, un network di diciotto televisioni locali, guida- to dall’editore Edilio Rusconi, si era unito per trasmette- re su scala nazionale il segnale di una nuova rete televi- siva: Italia 1.

24. Dopo aver lasciato la Prefettura di , alle 21.15 del 3 settembre 1982 la Autobianchi A112 con a bordo Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro fu affiancata in via Carini da una BMW dalla quale furono esplose raffiche di Kalashikov che uccisero il prefetto e sua moglie. Contemporaneamente l’auto con a bordo l’autista e l’agente di scorta Domenico Russo fu colpita da due uomini in motocicletta, che uccisero Russo. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Nenè Geraci e Bernardo Brusca, mentre gli esecutori sono stati identificati in Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, anch’essi condannati all’ergastolo. Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci sono stati condannati a 14 anni.

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Quel giorno a Rovigo c’era il sole: faceva freddo, ma c’era il sole. Eppure in un punto il cielo si era scurito, sembra- va notte, anche se le lancette dell’orologio segnavano le tre e mezza del pomeriggio. Era scoppiata una bomba: venti chili di esplosivo che avevano aperto una breccia nel muro del penitenziario femminile. Sotto quel cielo in- grigitosi improvvisamente col boato di una improbabile saetta di Zeus, il pulviscolo dell’audacia aveva coperto la fuga di Susanna, Marina, Loredana e Federica. Che non erano donne qualsiasi, non erano detenute qualsiasi, “co- muni”, ma donne condannate per appartenenza a banda armata. Donne che invece di darla la vita, avevano scelto di poterla togliere e poterla perdere. La miccia no, la miccia l’aveva innescata un uomo. Un ragazzo in “Prima linea” contro lo Stato. Il suo nome di battaglia era Sirio. Il comandante Sirio.

Miccia corta Per squarciare il muro, Sergio Segio, alias Comandante Sirio, aveva parcheggiato l’auto rasente la cinta del car- cere e poi aveva innescato la miccia: una miccia corta. Come ha ricordato in un libro chiamato proprio così, Miccia corta, dal quale, poi, è stato tratto un film (La prima linea): «Doveva essere un’azione motivata dal- l’amore e dalla solidarietà verso i nostri compagni… Si ri- solse invece in un nuovo lutto». Sì, perché quell’esplosio- ne spaventò a morte un pensionato uscito come sempre, ogni pomeriggio, per portare il suo cane a fare una pas- seggiata. Angelo Furlan, così si chiamava, aveva 64 anni, era iscritto al PCI dall’età della ragione e quel giorno si trovò nel più classico dei posti sbagliati nel momento sbagliato.

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«Hai pianificato tutto, hai pensato a tutto e ti sei preoc- cupato che nessuno si faccia del male», mi confidò quan- do lo convinsi a scrivere un altro libro, Una vita in pri- ma linea, «poi arriva l’imponderabile con le vesti di un pensionato»25. Quando lo sento al telefono, faccio sem- pre una notevole fatica perché parla a voce bassissima, forse per andare contro la naturale propensione a urlare che hanno tutti i sordi. Segio, infatti, non ci sente da un orecchio: «Il regalo di un maresciallo che mi sfondò il timpano con la guida del telefono». Per quella e altre azioni, omicidi compresi, Segio ha scontato ventidue anni di carcere e poi, a pena conclusa, è entrato nel Gruppo Abele di don Luigi Ciotti per occu- parsi di volontariato sui problemi di carcere, esclusione e tossicodipendenze. Nel 2003 gli è stato conferito il pre- mio internazionale all’impegno sociale “Rosario Livati- no”, il giudice bambino ucciso dalla mafia. Quel 1982, però, Segio era ancora l’ex-comandante Sirio di Prima Linea, una banda armata comunista formatasi nella seconda metà degli anni Settanta da reduci di Lot- ta continua e Potere Operaio. Una sigla, Prima Linea, mutuata dalla prima linea del servizio d’ordine di Lotta continua. Inizialmente il gruppo non aveva rivendicato le proprie azioni, anche perché nei primi mesi si autodefini- va «non un nuovo nucleo combattente, ma l’aggregazio- ne di vari gruppi guerriglieri che finora hanno agito con sigle diverse» (dal testo di un comunicato fatto trovare dopo un’irruzione nella sede del gruppo dirigente della FIAT di Torino). Il modello di questa formazione – le cui tesi erano state definite in una riunione tenutasi a Salò,

25. Dichiarazione resa all’autore.

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sul lago di Garda – era molto diverso rispetto alla rigida impostazione stalinista delle Brigate Rosse, rifiutando la logica della clandestinità per muoversi meglio e con mag- giore disinvoltura nel “Movimento”. Altro punto di diver- genza con le BR, il mettere l’azione al centro dell’attività politica, confinando in second’ordine l’elaborazione ideo- logica (tipica invece dei brigatisti). Per l’attività di que- sta formazione furono inquisite oltre novecento persone, un numero superiore a quello delle Brigate Rosse, nono- stante una vita ben più breve, conclusasi nell’arco di un quinquennio, dopo l’arresto nel 1980 di Michele Viscardi, alla fine di una rocambolesca fuga seguita a una rapina conclusasi nel sangue con l’uccisione del brigadiere Pie- tro Cuzzoli e dell’appuntato Ippolito Cortelessa. Il repen- tino pentimento di Viscardi provocò la decapitazione di Prima Linea: fra gli arrestati anche Susanna Ronconi, le- gata sentimentalmente proprio al comandante Sirio, che dopo l’azzeramento di PL diede vita ai COLP (Combattenti per la Liberazione Proletaria), e successivamente ai Nu- clei comunisti. Proprio quando era a capo di quest’ultima formazione, Segio progettò l’assalto al carcere di Rovigo. Dalla breccia nel muro del penitenziario, oltre alla Ron- coni, erano uscite anche Marina Premoli (figlia di un se- natore liberale di Venezia), Loredana Biancamano e l’in- fermiera milanese Federica Meroni. Nata a Venezia, do- po una militanza nella sinistra extraparlamentare, Susan- na Ronconi era entrata nelle Brigate Rosse, partecipan- do anche all’azione che nel ’74 aveva provocato la morte di Giuseppe Giralucci e Graziano Mazzola nella sede mis- sina di Padova. Uscita dalle BR, aveva aderito al progetto di Prima Linea ed era stata arrestata a Firenze nel 1980. Evasa quindi dal carcere di Rovigo, era stata nuovamen-

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te arrestata e finì di scontare la sua pena nel ’98, diven- tando una specialista dei problemi legati alle tossicodi- pendenze.

Rovigo, poligono di tiro Ventiquattro anni dopo l’assalto al penitenziario, Rovigo era salita nuovamente alla ribalta sovversiva: il 19 no- vembre 2006 la campagna veneta era diventata una sor- ta di poligono di tiro, dove le “Nuove Brigate Rosse” si esercitavano a sparare. Rapporto della DIGOS: «Alle 17.10, in località Mardimago (Rovigo), lungo la provinciale che attraversa il paese, so- no stati visti Davide Bortolato, Claudio Latino e Bruno Ghirardi mentre insieme passeggiavano e conversavano tra loro. Poco più avanti, in un parcheggio, sono stati no- tati Toschi Massimiliano e Rossi Valentino. Alle 17.20, in condizioni di buio totale, gli ultimi due vanno in una zo- na meno frequentata. Hanno quindi percorso l’argine per circa settecento metri, sino a giungere in corrisponden- za di un piccolo casolare […]. Le sagome si sono sposta- te di una ventina di metri, in corrispondenza di un bloc- co di cemento, [dove] è stata notata accendersi la luce di una piccola torcia. Immediatamente dopo è stato distin- tamente udito il tipico rumore di scarrellamento di armi. Nel frattempo, arrivano gli altri tre brigatisti, dopo aver controllato che la zona fosse tranquilla. Ma il personale operante ha potuto udire, provenienti dal punto in cui il gruppo si era radunato, brevi e ripetute raffiche di mitra, nonché altri colpi singoli. Nel corso dello svolgimento di questa attività si è vista quindi una delle auto dei brigati- sti staccarsi e girare per i soliti “controlli antisbirri”. Ma è stata in più occasioni inquadrata dalla nostra telecame-

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ra […]. Accertato il definitivo allontanamento di tutti i soggetti coinvolti dalla zona delle “prove”, il personale ha proceduto a un sopralluogo e sono stati sequestrati quat- tro bossoli di due calibri diversi». Nessuno però era stato arrestato, perché, dicono i detec- tive, «la lepre doveva ancora correre». Anche se era una lepre armata. «Noi», avevano spiegano alla DIGOS, «aveva- mo un solo patema: che colpissero. Perciò, anche se s’in- filavano a tutta velocità contromano nelle strade, peda- lando come ossessi, tentavamo di non perderli mai. E mai li abbiamo persi, anzi, eravamo spesso insieme a loro, an- che se invisibili, grazie ai nostri microfoni». La corsa di quella lepre ebbe termine il 17 febbraio 2007, con la va- sta operazione di polizia che portò in carcere anche la “componente veneta” delle Nuove Brigate Rosse, il co- siddetto Partito Comunista Politico Militare.

LA VITA SPERICOLATA DI MARCO DONAT CATTIN

Verona, 19 giugno 1988. Domenica e, come tutte le do- meniche, l’autostrada A4 che collega Venezia a Milano era trafficata più che mai. La giornata era quasi ormai terminata e il traffico intenso nelle due direzioni annun- ciava che la festa era finita. Dall’indomani si tornava a la- vorare. All’altezza dello svincolo con la Modena-Brenne- ro, una FIAT Regata aveva tamponato violentemente una BMW: un incidente che aveva coinvolto altre quattro vet- ture. Un’auto aveva preso fuoco, cinque persone erano rimaste ferite, mentre una donna, Andreina Furlan, era morta. Un inferno d’asfalto sul quale giacevano altre due persone, un uomo e una donna: Alberto Quagli e Franca

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Marchetto, in condizioni gravissime. Una scena apocalit- tica. Dal fumo che tutto avvolgeva in una nuvola di orrore era comparso all’improvviso un uomo che correva agi- tando le braccia e urlando per attirare l’attenzione del- le auto in corsa: voleva che si fermassero per prestare aiuto o che almeno rallentassero. I telefoni cellulari so- no ancora di là da venire. Anche lui stava passando con la sua auto, ma si era fermato non appena si era reso conto di quanto fosse successo. Alto, robusto, un bel ra- gazzo di 35 anni che però non era un ragazzo come tut- ti gli altri. Sulle spalle si portava sette anni di galera de- gli undici che gli erano stati comminati per partecipa- zione a banda armata: precisamente Prima Linea, sotto la cui sigla aveva firmato rapine, ferimenti e uccisioni. Era riuscito a evitare decenni di carcere perché era sta- to un collaboratore di giustizia, un . Il suo nome: Marco Donat Cattin. Un nome importante. Suo padre era un papavero della Democrazia cristiana: Carlo Donat Cattin26. Uscito di prigione, Marco s’era messo a lavorare come assistente sociale in un istituto per bambini abbandonati, il Raz- zetti, poi al progetto Exodus nella comunità di don An- tonio Mazzi. Ora correva nel buio, nell’inferno di quel- l’incidente, quando all’improvviso dal fumo era uscita un’automobile che lo aveva travolto. Il suo corpo era di- ventato un manichino volato per aria e ricaduto rovino- samente sull’asfalto. Era morto così Marco Donat Cat- tin, travolto sulla A4 nel tentativo di portare soccorso in un incidente.

26. Carlo Donat Cattin è stato più volte ministro. È morto il 17 marzo 1991.

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Una storia ribelle La “vita contro” di Marco Donat Cattin, classe 1953, era iniziata a Torino nel 1974, quando aveva preso servizio co- me bibliotecario al liceo scientifico Galileo Ferraris, noto come il “Gal-Fer”. Pur essendo figlio di uno dei politici più importanti, la sua era una vita precaria, inquieta, simile a quella di tanti ragazzi del suo tempo in un Paese devasta- to dalle bombe e dagli scontri di piazza, dove spesso ci scappava anche il morto. Gli studenti del “Gal-Fer” erano sempre fra i più attivi nelle manifestazioni. Nell’autunno del 1976, Lotta Continua aveva deciso di sciogliersi. Per alcuni militanti del servizio d’ordine era l’occasione per il definitivo salto di qualità: il passaggio alla lotta armata. Fra essi, Marco Donat Cattin. La forma- zione, quella di Prima Linea. Il 29 novembre 1976, un commando di cui faceva parte anche Marco aveva assal- tato l’Associazione Dirigenti FIAT di Torino. La prima azio- ne. La più feroce fu quella che nel ‘79 lo vide partecipa- re all’uccisione del sostituto procuratore di Milano Emi- lio Alessandrini27. La “carriera” nella lotta armata di Mar- co finì nel 1980, precisamente il 18 febbraio, quando i ca- rabinieri arrestarono a Torino il brigatista Patrizio Peci. Poco più di un mese dopo, Peci iniziò a parlare, a rivela- re tutto: nomi, fatti, date. A parlare anche di Prima Li- nea, facendo i nomi dei suoi leader: fra questi, Marco Do- nat Cattin. Una rivelazione esplosiva. Una confidenza da fare tremare il palazzo. L’8 maggio successivo, il quotidiano romano “Paese sera” riportò le affermazioni di Peci su Marco Donat Cattin.

27 Il giudice Emilio Alessandrini fu ucciso da un commando di Prima Linea la mattina del 29 gennaio 1979 mentre si recava al Palazzo di Giustizia di Milano.

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Due giorni dopo fu pubblicata la notizia di un mandato di cattura contro il figlio del vice segretario della DC, impu- tato anche per l’omicidio del giudice Alessandrini. La nuova accusa era arrivata da Roberto Sandalo, “pentito” di Prima Linea. Questi aveva detto ai magistrati che il suo capo era riuscito a scappare perché il presidente France- sco Cossiga aveva avvisato Donat Cattin e quest’ultimo suo figlio. Carlo Donat Cattin s’era quindi dimesso dalla segreteria DC ed era stato sostituito dal compagno di cor- rente Vittorino Colombo. Il 31 maggio la Commissione in- quirente (l’organo addetto a giudicare i reati ministeria- li) assolse Cossiga per il caso Donat Cattin con una mag- gioranza risicata: undici voti contro nove. Determinante il voto dei commissari di nomina PSI. Questa la sequenza degli avvenimenti fino a quel mo- mento: il 24 aprile, il senatore Donat Cattin aveva incon- trato il presidente del consiglio Cossiga per parlargli di suo figlio e l’indomani aveva chiesto a Roberto Sandalo di rintracciare Marco e avvertirlo che il pentito Patrizio Pe- ci aveva fatto il suo nome. Sandalo sarà arrestato il 29 aprile a Torino. Pentitosi, rivelerà il presunto favoreggia- mento di Cossiga nei confronti di Donat Cattin. Le con- fessioni di Sandalo proseguirono per quattordici giorni. Il suo nome era stato fatto da Patrizio Peci, che lo aveva in- contrato due volte per valutare il suo ingresso nelle Bri- gate Rosse dopo aver abbandonato Prima Linea. Era sta- to in uno di questi incontri che Sandalo aveva rivelato a Peci il nome di Marco Donat Cattin. Anche lui – aveva confidato Sandalo al capo brigatista – voleva lasciare PL perché ormai in rotta di collisione con l’esecutivo. Il 2 maggio il vicecapo del SISDE, Silvano Russomanno, aveva consegnato al giornalista Fabio Isman – che li aveva pub-

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blicati sulle pagine del quotidiano “Il Messaggero” a par- tire dal 4 maggio – i verbali delle confessioni di Peci. Il verbale però non era completo, mancava infatti una pa- gina, la numero 50, quella che conteneva le rivelazioni di Peci su Marco Donat Cattin. Il 7 maggio, “Lotta Continua”, che aveva avuto da Fabio Ismam copia dei verbali dell’interrogatorio di Peci, era uscita con un supplemento di 16 pagine, mentre nell’edi- zione pomeridiana dello stesso giorno, “Paese sera” ave- va titolato: “Peci: il figlio di Donat Cattin fa parte di Pri- ma Linea”. Fabio Ismam era stato arrestato per divulga- zione di atti giudiziari. Contemporaneamente era stato spiccato un mandato di cattura contro Marco Donat Cat- tin. L’11 maggio era però scappato in Francia, destinazio- ne Parigi: lo stesso giorno in cui i giornali avevano pub- blicato la notizia della sua partecipazione all’uccisione del giudice Alessandrini.

Polemiche incrociate Venerdì 7 settembre 2007, dalle pagine del “Corriere del- la sera”, l’emerito presidente della Repubblica, France- sco Cossiga, rivelò in un’intervista i retroscena della sua informazione all’amico Carlo Donat Cattin. Un’intervista che suscitò molte polemiche. «Vennero da me», spiegò Cossiga, «Virginio Rognoni, che era il ministro dell’Interno, e Flaminio Piccoli, segretario della DC. Patrizio Peci, il primo pentito del terrorismo, aveva cominciato a parlare. E aveva fatto il nome di Mar- co Donat Cattin. Rognoni mi chiese: “Diglielo tu a Donat Cattin, perché io non ci vado d’accordo”. Presi su di me la grana. Verificai la notizia con il generale Dalla Chiesa. E avvertii il mio ministro che suo figlio era ricercato […].

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Chiesi a Donat Cattin di dire al figlio di consegnarsi e rac- contare tutto quanto sapeva». L’indomani, su “Il Giornale”, Roberto Sandalo aveva for- nito la sua versione dei fatti. «[Carlo Donat Cattin] Mi convocò a casa sua, a Torino, la mattina del 25 aprile 1980. Erano le sette e mezzo, ave- va il pigiama a righe e gli occhialoni. Venne subito al dun- que: “Ieri sera Cossiga mi ha detto che Patrizio Peci ha parlato. Mio figlio è in Prima Linea ed è uno dei capi. Cos- siga mi suggerisce di dirgli di scappare all’estero perché se lo pigliano in Italia, con le elezioni in vista, è un casi- no”. Il senatore e la moglie Amalia continuavano a ripe- tere: andiamo a prenderlo, partiamo subito. Io li fermai: non so dov’è. Dovete pazientare. Io e Marco eravamo usciti da Prima Linea nell’ottobre precedente, portando- ci dietro un terzo circa dell’organizzazione. Sapevo a ma- lapena che era a Brescia. Poi ero preoccupato; avevamo tutti e due sulla coscienza reati da ergastolo e non sape- vo nemmeno che Peci si era pentito, ma il ministro del Lavoro mi rassicurò: “Sandalo, stia tranquillo, lei è in una botte di ferro”». «Aspettai il lunedì e la fine del ponte. Il 28 andai a lavo- rare alla Simca e feci alcune telefonate. Alle due e mez- zo un contatto mi chiamò: Marco è stato avvisato, ti rin- grazia. Mia mamma parlò con la signora Amalia che però era tesissima e si auto-invitò a cena a casa nostra. E a ce- na accadde l’incredibile: una telefonata per la signora Amalia. Tornò a tavola felice. Disse che era il convivente della figlia che, guarda la combinazione, aveva incontra- to a Milano Marco: tutto ok». «Inverosimile. Qualcuno, ai piani alti delle istituzioni, confermava il mio contatto: Marco era in fuga. Accompa-

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gnammo Amalia a casa sua, tornammo a Mirafiori: polizia da tutte le parti. Scappai. Ma dove? Prima Linea mi vole- va morto. Andai nell’unico posto dove non mi avrebbero cercato: da Maria Pia Donat Cattin, la sorella di Marco. Ma non avevo vie d’uscita: ero il figlio di un operaio, non di un ministro. La mattina dopo andai in fabbrica e lì un agente della DIGOS, travestito da autista, mi puntò una pi- stola alla tempia». «Querelerò Cossiga quando dice che ero stato catturato e rimesso in libertà a seguito di un accordo fra il giudice Giancarlo Caselli e la polizia per utilizzarmi come agente provocatore contro Marco. Una follia: perché non accet- ta un confronto con me in TV? A novembre però i carabi- nieri di Dalla Chiesa mi mostrarono le foto di Marco scat- tate col teleobiettivo a Parigi. Confermai: è lui. Così an- che Donat-Cattin fu blindato». Storie, versioni. Gli unici che non possono dire la loro so- no i diretti protagonisti: Carlo Donat Cattin, morto a Montecarlo nel ’91, e suo figlio Marco, travolto tre anni prima da un’auto mentre cercava di portare soccorso sul- la A4, all’altezza di Verona.

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I NERI

LA PISTA VENETA DELLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

Il 15 aprile 1969, cioè otto mesi prima della strage di piazza Fontana, era esplosa una bomba collocata nel ret- torato di Padova, occupato dal professor Enrico Opo- cher. Responsabili, appartenenti alle classi più elevate di una borghesia che strizzava l’occhio al neofascismo. Da Padova, a Treviso, dove Guido Lorenzon era il segretario di una sezione della Democrazia cristiana. La sera del 15 dicembre 1969 – cioè tre giorni dopo l’esplosione della bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano e mentre l’anarchico Pino Pinelli volava dal quarto piano della Questura milanese – Lorenzon si trovava nello stu- dio dell’avvocato Alberto Steccanella, cui confidava, chiedendo consiglio, di essere a conoscenza di fatti in- quietanti riguardanti le bombe del 12 dicembre28. Fatti che riguardavano Giovanni Ventura, un piccolo editore di Treviso che lui conosceva da anni. Ventura non solo gli aveva dato informazioni precise e dettagliate su quelle bombe, ma alcune settimane prima gli aveva descritto gli attentati ai treni compiuti nel Nord Italia nella notte tra l’8 e il 9 agosto, rivendicando l’appar- tenenza a un’organizzazione clandestina e mettendolo al

28. Oltre alla bomba esplosa alle 16.37 nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana (17 morti e 88 feriti), a Milano era stato rinvenuto un ulteriore ordigno nella Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala. Alle 16.55 scoppiò un’altra bomba, questa volta a Roma, nel passaggio sotterraneo che collegava l’entrata di via Veneto con quella di via San Basilio della Banca Nazionale del Lavoro, provocando il ferimento di tredici persone. Fra le 17.20 e le 17.30, nella capitale esplosero altre due bombe: una davanti all’Altare della Patria e la seconda all’ingresso del Museo del Risorgimento, ferendo quattro persone.

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corrente del progetto di un colpo di Stato imminente. L’avvocato Steccanella aveva quindi consigliato il suo in- terlocutore di stendere un memoriale dettagliato da pre- sentare alla magistratura. Lorenzon si trovò così faccia a faccia col procuratore Pietro Calogero che, sulla base di quel memoriale, aveva aperto un’istruttoria nei confron- ti del Ventura. Lorenzon aveva poi cercato Ventura e i due si erano quindi nuovamente incontrati, ma l’editore veneto non sapeva che questa volta le sue confidenze erano registrate dalla polizia giudiziaria: meno di un me- se dopo, il procuratore Calogero aveva raccolto indizi sufficienti non solo contro di lui, ma anche nei confronti di Franco Freda, nome emerso da quelle registrazioni. Pochi giorni dopo l’attentato al rettore di Padova, il com- missario di pubblica sicurezza Pasquale Juliano aveva or- dinato perquisizioni nelle abitazioni di diversi neofascisti e una sua fonte, Franco Tommasoni, gli aveva riferito che responsabile di quelli e di altri attentati era un’organizza- zione con a capo Franco Freda, Giovanni Ventura e Mar- co Pozzan, un bidello dell’istituto Configliachi di Padova. Inoltre, Nicolò Pezzato, un pregiudicato, in cambio di de- naro aveva fatto a Juliano i nomi di altri componenti la cellula eversiva, fra cui quello di Massimiliano Fachini, che il commissario aveva fatto pedinare perché sospetta- to di essere l’armiere del gruppo neofascista. Gli appostamenti avevano dato il loro frutto: un giorno, dall’abitazione del Fachini, era uscito Giancarlo Patrese, un neofascista che, fermato e perquisito, era stato trova- to in possesso di una Beretta calibro 9 e di un ordigno esplosivo. Era la prova che Juliano cercava. Aveva quin- di arrestato Fachini e i suoi camerati, ma per lui erano iniziati i guai. Alcuni degli arrestati e i confidenti aveva-

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no scagionato infatti Patrese, denunciando una macchi- nazione orchestrata da Juliano. Così, il commissario era stato prima sospeso dal servizio, poi trasferito a Matera, mentre il carabiniere Alberto Murano, l’unico testimone intervenuto in suo favore, era morto in circostanze so- spette, volando nella tromba di un ascensore.

Rivelazioni e depistaggi A incastrare però Ventura & company si era aggiunto an- che un muratore che, mentre svolgeva alcuni lavori in un’abitazione di Castelfranco Veneto, aveva sfondato inavvertitamente una tramezza che divideva quella casa da un’altra, trovandosi al cospetto di una vera santa bar- bara: pistole, fucili, mitra, esplosivo. Giancarlo Marche- sin, proprietario di quella casa, era stato così arrestato. «Quelle armi», aveva rivelato, «sono state nascoste da Giovanni Ventura dopo gli attentati del 12 dicembre. Pri- ma si trovavano nell’abitazione di Ruggero Pan». La poli- zia aveva perciò interrogato questo Ruggero Pan, che aveva dichiarato: «Durante l’estate del 1969, dopo gli at- tentati ai treni, Ventura mi aveva chiesto di comprare delle casse metalliche tedesche di marca Jewell. Diceva che quelle di legno usate per collocarvi gli esplosivi negli attentati non avevano prodotto l’effetto sperato: quello di compressione esplosiva del metallo. Io mi sono rifiuta- to di acquistarle, ma il giorno dopo notai da Ventura una cassetta di metallo. Ho presto compreso che altri erano andati a comprarla al posto mio»29. In più, ora i magistrati sapevano che il gruppo neofasci- sta si riuniva nella sala di un istituto universitario di Pa-

29. Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, X Legislatura.

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dova, grazie alla collaborazione del custode, Marco Poz- zan, braccio destro di Franco Freda. Interrogato, Pozzan aveva parlato di una riunione notturna tenutasi il 18 apri- le con Pino Rauti, in cui si era deciso il piano degli atten- tati, ma pochi giorni dopo aveva ritrattato tutto e, torna- to in libertà, aveva fatto perdere le sue tracce. «Gli apparati dello Stato», dichiarò sconsolato il procu- ratore Calogero, «cominciano a lavorare non a favore delle indagini, ma contro di esse. Non per collaborare con i giudici, ma per intralciare e depistare il loro lavo- ro. Pozzan aveva dato segni di cedimento in un interro- gatorio e aveva rivelato fatti di notevole rilievo sulla strategia della tensione e sulla sua matrice di destra. Era così importante avere la disponibilità fisica di Pozzan. Ma uomini del SID avevano intercettato Pozzan durante la sua latitanza, lo avevano condotto a Roma, in via Sici- lia dove il SID aveva uffici di copertura, e lo avevano sot- toposto a un interrogatorio per saggiarne la tenuta, quindi lo avevano fatto espatriare in Spagna fornendogli un passaporto falso»30.

I processi Il 21 marzo del 1972 il giudice Giancarlo Stiz di Treviso trasmise il fascicolo riguardante Freda e Ventura alla procura di Milano per competenza e da quel momento l’indagine era passata nelle mani del giudice Gerardo D’Ambrosio e dei sostituti Luigi Rocco Fiasconaro ed Emilio Alessandrini. Chiusa l’istruttoria, seguì l’Assise a Catanzaro, dove il processo era stato spostato, e il 23 feb- braio 1979 era stata emessa la sentenza di primo grado:

30. Ibidem

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ergastolo per Freda, Ventura, Pozzan e l’agente del SID Guido Giannettini31, due e quattro anni rispettivamente ai carabinieri Antonio La Bruna e Gian Adelio Maletti, an- ch’essi appartenenti al SID, mentre Giulio Andreotti, Ma- rio Tanassi e Mariano Rumor furono rinviati a giudizio per reati ministeriali. L’anarchico Pietro Valpreda e il neofascista Mario Merli- no (infiltrato nel circolo anarchico 22 marzo di Roma) erano stati condannati a quattro anni e sei mesi di reclu- sione, ma assolti dall’accusa di strage per insufficienza di prove. Il 20 marzo 1981, la Corte d’Assise di Appello di Catanzaro aveva assolto Giannettini, Freda, Ventura, Ma- letti e La Bruna per il reato di falsità ideologica, decreta- to l’insufficienza di prove per Merlino, condannato a quindici anni Freda e Ventura per associazione sovversi- va, e prosciolto Pozzan. Il 10 giugno 1982, la Corte di Cassazione annullava la sentenza di Appello, rinviando il processo a Bari. Il 1° agosto 1985, la Corte d’Assise d’Ap- pello di Bari confermava le sentenze di assoluzione per insufficienza di prove per strage nei confronti di Valpre- da, Merlino, Freda e Ventura, riducendo ulteriormente le pene contro La Bruna e Maletti. Il 22 gennaio ’87, la Cor- te di Cassazione confermava la sentenza emanata dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari, mentre proseguiva la quarta istruttoria sulla strage, durata fino al 1986. Al centro di questa nuova inchiesta, Stefano Delle Chia- ie e Massimiliano Fachini. Il 25 luglio 1989 la Corte d’As- sise di Catanzaro però li assolveva dall’imputazione del delitto di strage per non aver commesso il fatto. Il 5 lu-

31. In un’intervista a “Il Mondo”, pubblicata il 20 giugno 1974, Giulio Andreotti, all’epoca ministro della Difesa, indicò Guido Giannettini come uomo del SID, sostenendo che era stato un errore tenere nascosta questa informazione agli inquirenti durante le indagini per la strage di piazza Fontana.

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glio 1991 la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro confer- mava la sentenza di primo grado. La sentenza di Appello diventava definitiva per decorso del termine utile al ri- corso per Cassazione.

So chi è stato Tra il ’91 e il ’92, Vincenzo Vinciguerra32, esponente di Avanguardia Nazionale, riempiva centocinquanta pagine di verbali in cui parlava anche del gruppo neofascista La Fenice e dei contatti di questo gruppo con Ordine Nuo- vo del Veneto. Questo gruppo aveva il suo baricentro nel Veneto, ma naturalmente aveva agito anche a Roma e a Milano. Nel 1992 il SISMI, il servizio segreto militare, ave- va individuato nel suo rifugio all’estero Martino Siciliano che davanti ai giudici affermava: «Pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana mi trovavo nella Galleria Matte- otti di Mestre in compagnia di camerati del MSI, fra cui l’ex-senatore Piergiorgio Gradari. Parlando di quanto era avvenuto a Milano, a un certo punto ebbi una crisi di pianto. Nel corso di questa crisi, confidai a Granari la mia convinzione che la strage non fosse opera degli anarchi- ci, ma che fosse da attribuirsi a elementi di Ordine Nuo- vo di Venezia e Padova. Gradari mi consigliò di calmarmi e mi disse che, anche se ciò che pensavo fosse stato ve- ro, avrei dovuto tenermelo per me. C’era l’assoluta somi- glianza fra gli ordigni che avevo visto e materialmente deposto a Trieste e Gorizia con la descrizione che era sta- ta fatta dai giornali della bomba esplosa alla Banca Nazio- nale dell’Agricoltura. Intendo riferirmi al contenitore del- l’esplosivo che era costituito in tutti e tre i casi da una

32. Autore della strage di Peteano. Vedi capitolo successivo.

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cassetta metallica. I giornali, inoltre, avevano riportato la notizia che l’esplosivo impiegato era costituito da cande- lotti di gelignite perfettamente analoghi a quelli che ave- vo visto, manipolati e innescati insieme a Delfo Zorzi nei due falliti attentati di Trieste e Gorizia. Mi è quindi venu- ta in mente l’affermazione di Delfo Zorzi nel corso del viaggio a Trieste. Disse che vi erano molte altre cassette metalliche e molto altro materiale, cioè candelotti di ge- lignite come quelli che stavamo trasportando in quel mo- mento»33. Affermazioni che avevano generato una nuova inchiesta.

La pietra tombale Il 21 maggio 1998 la Procura di Milano chiudeva la nuo- va inchiesta sulla strage chiedendo il rinvio a giudizio per Carlo Maria Maggi, Delfo Zorgi, Giancarlo Rognoni, Carlo Digilio e per i due ex-appartenenti a Ordine Nuovo, Pie- ro Andreatta e Piercarlo Motagner, con l’accusa di favo- reggiamento. L’8 giugno dell’anno successivo erano stati rinviati a giudizio per strage Zorzi, Maggi e Rognoni. Per favoreggiamento nei confronti di Zorzi era stato rinviato a giudizio Stefano Tringali: sorte toccata in seguito anche a Carlo Digilio. In un’intervista al TG2, dalla sua latitanza giapponese Delfo Zorzi dichiarava che i servizi segreti italiani avevano dato 100 milioni di lire al pentito Marti- no Siciliano perché indicasse in lui l’autore materiale del- la strage. Il 24 febbraio 2000 si era aperto a Milano il settimo pro- cesso e il 30 giugno dell’anno successivo erano stati con- dannati all’ergastolo Zorzi, Maggi e Rognoni, mentre i

33. Fonte: Retegreen.

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reati per Digilio risultavano prescritti dopo la concessio- ne delle attenuanti generiche per la sua collaborazione. Tringali era stato condannato a tre anni per favoreggia- mento (il PM ne aveva chiesti due). Il 19 gennaio 2002 erano state depositate le motivazioni della sentenza, in cui i pentiti Carlo Digilio e Martino Siciliano venivano di- chiarati credibili. Il 6 luglio dello stesso anno era morto Pietro Valpreda (aveva 69 anni) mentre il 22 novembre veniva scoperta la fuga all’estero di Martino Siciliano, ex- appartenente a Ordine Nuovo e vecchio amico di Delfo Zorzi, nonché collaboratore di giustizia nell’ambito delle indagini per le stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia a Brescia. Il 22 gennaio 2004 il sostituto procuratore generale, al termine della requisitoria, aveva chiesto la conferma del- le condanne emesse nella sentenza di primo grado e in- vitava la Corte a trasmettere gli atti alla Procura della Re- pubblica per verificare eventuali false testimonianze da parte di alcuni testimoni della difesa. Il 12 marzo succes- sivo, la Corte d’Assise d’Appello di Milano assolveva Del- fo Zorzi e Carlo Maria Maggi (sotto processo anche per la strage di Brescia e quella alla questura di Milano) per in- sufficienza di prove, Giancarlo Rognoni per non aver commesso il fatto e riduceva da tre anni a uno la pena per Stefano Tringali con la sospensione condizionale e la non menzione della condanna. Veniva quindi revocata l’ordinanza di arresto (per altro mai eseguita perché lati- tante in Giappone) nei confronti di Zorzi e la misura cau- telare dell’obbligo di dimora per Maggi. Il 21 aprile 2005 iniziava il lavoro della Corte di Cassazio- ne che doveva valutare il ricorso presentato dalla Procu- ra generale milanese contro le sentenze di assoluzione

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della Corte d’Appello. Il 3 maggio successivo la Cassazio- ne metteva la pietra tombale su Piazza Fontana, confer- mando le sentenze dei giudici della Corte D’Appello e condannando al pagamento delle spese processuali i pa- renti delle vittime.

PETEANO, PROVINCIA DI ORDINE NUOVO

Peteano è un piccolo paese in provincia di Gorizia. Un piccolo paese con una piccola stazione di carabinieri, dove il 31 maggio 1972 era arrivata una telefonata che raccoglieva il carabiniere Domenico La Malfa: «Senta, vorrei dirle che xè una machina che la gà do busi sul parabresa. La xè una sinquesento bianca, visin la fero- via, sula strada per Savogna». Ma chi parla? Click, fine della comunicazione. Non restava che andare sul posto per verificare. C’erano andati in quattro, con due gazzelle, e avevano facilmente rintracciato la FIAT 500 col parabrezza sfon- dato dai colpi di pistola. Non erano artificieri, quei quattro, ma semplici carabinieri di una piccola stazio- ne di un piccolo paese. Non sapevano, né potevano im- maginare, che nel bauletto di quella piccola macchina era stipato dell’esplosivo sufficiente per farli saltare in aria. Non sapevano che forzare quel baule significava attivare un congegno mortale. E fu proprio ciò che ac- cadde. La deflagrazione uccise tre dei quattro militi: Antonio Ferraro, Franco Dongiovanni e Donato Pove- romo. Quel botto passò alla storia come la strage di Pe- teano. Le prime indagini puntarono subito su un nucleo di Lot-

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ta Continua, sulla base delle presunte confidenze fatte dal brigatista pentito Marco Pisetta34 al colonnello Mi- chele Santoro, comandante della stazione dei carabinieri di Trento. Tuttavia, sia i magistrati presenti all’incontro con Santoro, sia lo stesso Pisetta smentirono sempre tut- to. E allora? E allora era successo che il generale Giovan- ni Battista Palumbo, comandante della Pastrengo di Mi- lano, aveva mandato in maniera del tutto irregolare – va- le a dire fuori protocollo, tramite corriere e senza segui- re le vie gerarchiche – una “velina” con il riferimento a Lotta Continua. Destinatario: il colonnello Dino Minga- relli, comandante della Legione Udine, che aveva avoca- to a sé la responsabilità delle indagini. «Quella fu l’origine della cosiddetta pista rossa. Io sape- vo che quelle notizie arrivavano da Trento e che la fonte confidenziale era Marco Pisetta», dichiarò Mingarelli da- vanti alla commissione stragi. Del resto, in quel momen- to Lotta Continua era nell’occhio del ciclone: solo due settimane prima, infatti, il commissario Luigi Calabresi, accusato da LC di essere il responsabile della morte del- l’anarchico Pino Pinelli, era stato ucciso davanti alla sua abitazione. E gli occhi erano tutti puntati sulla formazio- ne di Adriano Sofri. Dimostratasi inverosimile la “pista rossa”, se ne seguì una nuova, questa volta di colore giallo. Laddove il giallo identificava la piccola criminalità locale. Tuttavia anche questa si dimostrò non solo inconsistente, ma addirittu- ra risibile e basata esclusivamente sulle affermazioni di

34. Arrestato nel 1970 per una serie di attentati compiuti a Trento, Marco Pisetta era stato condannato a tre anni, ma poco dopo era uscito di galera. Entrato nelle Brigate Rosse, fu arrestato con altri brigatisti il 2 maggio 1972 nel covo milanese di via Boiardo, ma fu subito rilasciato, consegnando il 29 settembre successivo un dettagliato memoriale seguito da un secondo poco dopo, grazie ai quali furono scoperte diverse basi e arrestati diversi brigatisti.

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un informatore dei carabinieri che, quando si trovò da- vanti al magistrato, ritrattò tutto. Il danno nel frattempo era stato fatto e i pregiudicati chiamati in causa dovette- ro subire lunghe indagini e vari giudizi prima di essere ri- conosciuti estranei ai fatti. Estranei cioè a una strage che solo nel 1984, vale a dire dodici anni dopo, ebbe la sua spiegazione e i relativi colpevoli. Una verità che non emerse grazie a una nuova e illuminata indagine, ma dal- la bocca di Vincenzo Vinciguerra: l’autore della strage.

Sono stato io Militante di Ordine Nuovo, nel 1974 Vinciguerra si era ri- fugiato prima in Spagna, dove era entrato in contatto con Avanguardia Nazionale di Stefano delle Chiaie, per poi raggiungere l’Argentina, dove era vissuto fino al 1979, anno in cui aveva deciso di rientrare in Italia e di costi- tuirsi, motivando il suo gesto clamoroso con la salvaguar- dia della sua dignità di rivoluzionario. Al momento della sua seppur tardiva confessione, Vinciguerra si trovava in carcere per un altro episodio criminoso avvenuto nel 1972 e che lo aveva indotto a darsi alla latitanza in Spa- gna e in Argentina: all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, Ivano Boccaccio, un ex-paracadutista militante ordinovi- sta, aveva tentato di dirottare un aereo per ottenere un riscatto allo scopo di finanziare il gruppo neofascista. Circondato dalla polizia, aveva cominciato a sparare, ri- manendo ucciso nel conflitto a fuoco. Ma cosa aveva spinto Vinciguerra a vuotare il sacco su Peteano? «L’onore». Vinciguerra non rinnegava infatti nulla del suo passato, rivendicando anzi con orgoglio il suo ruolo di “ po- litico”. La sua decisione non andava dunque interpretata

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come la collaborazione di un qualsiasi pentito, ma come la volontà di fare chiarezza, avendo compreso che «tutte le precedenti azioni della destra radicale, incluse le stra- gi, in realtà erano state manovrate da quello stesso regi- me che mi proponevo di attaccare. Mi assumo la respon- sabilità piena, completa e totale dell’ideazione, dell’orga- nizzazione e dell’esecuzione materiale dell’attentato di Peteano, che si inquadra in una logica di rottura con la strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che invece seguiva- no una strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello Stato [...]»35. Perché colpire proprio un gruppo di carabinieri? Perché i carabinieri rappresentavano lo Stato e non una folla in- discriminata e innocente. Quello Stato che Vinciguerra voleva combattere “da vero rivoluzionario”. Una confes- sione costata l’ergastolo. Solo dopo che la condanna era passata in giudicato, e quindi solo dopo che non aveva più la possibilità di barattare dichiarazioni con sconti di pena, Vinciguerra aveva assunto un atteggiamento colla- borativo, grazie al quale la magistratura aveva potuto ri- costruire l’attività di Ordine Nuovo di Udine. Per quanto riguarda Peteano, per capire i contorni di una delle tante, troppe stragi che hanno insanguinato l’Italia, basta leggere le considerazioni della commissione stragi, alla quale, «in ordine a tale episodio, non resta che pren- dere atto di ciò che può ritenersi ormai un fatto storico accertato e consacrato in giudicati penali di condanna; e cioè l’illecita copertura attribuita agli estremisti di destra

35. Nell’intervista a Vincenzo Vinciguerra effettuata da Gigi Marcucci e Paola Minoliti nel carcere di Opera l’8 luglio 2000.

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autori dell’attentato da parte di alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri, tra questi il colonnello Mingarelli condanna- to dalla Corte di Assise di Appello di Venezia per falso ideologico e materiale e per soppressione di prove [...]. Appare sul punto innegabile che i carabinieri dispones- sero di un elemento chiarissimo per l’individuazione del- la matrice della strage, in quanto l’ordinovista Ivano Boccaccio era stato trovato in possesso della stessa ar- ma utilizzata per sparare contro i vetri della 500 ove era stata collocata la bomba di Peteano, e i cui bossoli esplo- si erano stati repertati dai carabinieri. Alla luce di ciò, è del tutto evidente come la pista rossa subito imboccata non possa giustificarsi neppure come una volontà di tro- vare comunque il colpevole, anche a fini di immagine; emerge infatti chiaro l’intento deliberato di strumenta- lizzare un episodio, pure così tragico e una criminalizza- zione della sinistra eversiva secondo un disegno strate- gico preciso»36.

La strage è solo di Stato La commissione addebitava quindi pesantissime respon- sabilità agli apparati di sicurezza del nostro Paese, tra le quali l’aver pilotato le indagini verso una direzione stra- tegicamente stabilita. Per questa ragione, nonostante nelle intenzioni dell’attentatore avrebbe dovuto avere tutt’altro significato, anche la strage di Peteano diventa- va funzionale alla “strategia della tensione”. «La strage», dichiarò Vinciguerra, «è un mezzo che il po- tere utilizza per creare uno stato di allarme tra la popo- lazione ed eventualmente poter intervenire per rassicu-

36. Estratto dalla relazione della commissione stragi.

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rare questa stessa popolazione. Perché è un evento traumatico che ha interesse a determinare solo chi de- tiene il potere, perché solo chi detiene il potere può pa- droneggiare gli eventi successivi. Quindi la strage è un mezzo di prevaricazione del potere sulla popolazione. Ecco, allora c’è una precisazione da fare. L’attentato di Peteano non ha le connotazioni della strage. È strage sul piano giuridico. Cioè sulla base degli articoli del Codice penale può essere, viene definita strage. Perché il nume- ro dei morti poteva essere indeterminato. Cioè invece di tre carabinieri ne potevo uccidere cinque, sei, sette. Pe- rò non è strage, nel senso che l’attentato di Peteano col- pisce per la prima e unica volta un apparato militare del- lo Stato. In un posto solitario, dove viene esclusa la pos- sibilità di colpire i civili e ha una finalizzazione esclusi- vamente di opposizione al regime, cioè non si colpisce l’apparato militare del regime per dare la possibilità al regime di sfruttare questo attentato. Ha avuto, come era nelle mie intenzioni, implicazioni politiche pesantissime. Perché anche se sono state sottaciute, negli ultimi anni, di fronte alla commissione stragi, Francesco Cossiga ha dovuto ammettere che dopo Peteano iniziò il percorso di divaricazione tra l’Arma dei carabinieri e il SID da un lato, e la destra dall’altro. Cioè l’Arma dei carabinieri, pur tacendo, occultando le prove, depistando le indagi- ni, insieme ad altri apparati dello Stato (Ministero del- l’Interno, Guardia di Finanza), prese atto che dall’estre- ma destra gli era venuto un attacco di quella gravità. E cominciò a prendere le distanze, a staccare dall’estrema destra. Quindi definire l’attentato di Peteano una strage, si confondono un po’ le idee alle persone nel senso ad- dirittura di far credere che l’attentato di Peteano avesse

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le stesse finalità della strage di Piazza Fontana, della strage di Bologna, della strage dell’Italicus. Esattamente l’opposto»37.

GIANFRANCO BERTOLI, COME TI PLAGIO L’ANARCHICO

Milano, mattina del 17 maggio 1973. C’è un uomo che si aggira in via Fatebenefratelli, nei pressi della Questura. Si chiama Gianfranco Bertoli ed è nato a Venezia quaran- t’anni prima. Guarda continuamente l’orologio. Sono le 10.45. Un cicchetto ci sta. Così entra in un bar e chiede un cognac. In via Fatebenefratelli c’è anche Aldo Bernareggi. Lui guarda l’orologio quando sono le 10.53: il suo turno di servizio è quasi finito. Turno da ghisa, come si dice a Mi- lano, da vigile urbano. «Muoviamoci che se qui iniziano a tirare pietre, finisce che si menano» dice il ghisa a Fede- rico Masarin, un agente veneto dell’ufficio politico della Questura. Sa bene Masarin che potrebbero volare non solo pietre. Per quello è lì. Perché quello non è un gior- no qualsiasi. È una ricorrenza: giusto un anno prima è stato ammazzato il commissario Luigi Calabresi, in me- moria del quale nell’atrio della Questura meneghina è stato eretto un busto che Mariano Rumor, ministro degli Interni, deve inaugurare. «Mi sono trovato in mezzo a quella brutta storia», confi- da Bernareggi a Masarin ricordando l’esecuzione di un anno prima, «Ero in strada a fare il gambone, il servizio in strada, quando mi si accosta l’auto di un collega: “Cor-

37. Nell’intervista a Vinciguerra, cit.

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ri e svolta in via Cherubini, che hanno sparato”. Sono sta- to uno dei primi ad arrivare lì. C’era un uomo riverso tra due macchine, mi sembrava incastrato. Cinque persone intorno, che non sapevano cosa fare. Neanch’io capivo cos’era successo. Poi una donna sul marciapiede si mise a urlare: “Gesù, Gesù, è il commissario Calabresi”»38. Intanto le porte della Questura si erano aperte facendo sfilare le auto delle autorità: il sindaco Aldo Aniasi, il mi- nistro Rumor. L’orologio di Bernareggi segnava le 10.57 quando il ghisa aveva visto volare qualcosa nella direzio- ne del portone: «Non pensai a una bomba, mi vennero in mente solo i sassi»39. Altro che sassi. Quello che aveva vi- sto il vigile Bernareggi era un ordigno: un’ananas a fram- mentazione di fabbricazione israeliana. Il lancio, però, era stato maldestro: invece di colpire l’obiettivo – l’auto di Rumor – la bomba era finita contro il muro al quale erano appoggiati Bernareggi e Masarin e lì era esplosa, aprendo una grossa crepa e provocando tantissime schegge. Schegge mortali.

Punire Rumor C’era anche un fotografo in via Fatebenefratelli, e due dei suoi scatti erano destinati a diventare storia d’Italia. Nel primo: Gabriella Bortolon, Felicia Bertolozzi, l’ap- puntato Masarin e il vigile Bernareggi, unico sopravvissu- to: si è voltato e per questo non ha preso le schegge in volto, ma sulla schiena. Dato per spacciato per il troppo sangue perso, aveva ricevuto due volte l’estrema unzio- ne, ma si era salvato, seppur convivendo con centotren-

38. “Corriere della sera”, 17 maggio 2003, in Io, testimone per caso con 130 schegge addosso di Marco Imarisio. 39. Ibidem

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ta schegge impossibili da estrargli. Nel secondo foto- gramma era stato immortalato Gianfranco Bertoli, l’at- tentatore, bloccato dalla folla pochi secondi dopo il lan- cio. Quasi indifferente a quel che gli capitava, non aveva neppure cercato di sottrarsi alla cattura: sembrava lì per caso, stralunato. Sembrava non c’entrasse nulla con quei morti, con quelle quarantasei persone ferite. Fuori dalle due inquadrature, un’altra vittima: il pensionato Giusep- pe Panzino. Vittime al posto di Rumor. Era lui l’obiettivo. Era lui che doveva morire, perché da presidente del consiglio, dopo Piazza Fontana, non ave- va dichiarato lo stato d’emergenza e poi, da ministro del- l’Interno, nel 1972, aveva avviato l’iter per mettere fuori legge Ordine Nuovo, un compito portato a termine un anno dopo dal suo successore al Viminale, Paolo Emilio Taviani. Per questo Rumor e Taviani erano nel mirino dell’organizzazione neofascista. Lo avevano detto in tanti che Ordine Nuovo voleva puni- re Rumor. Lo aveva detto Vincenzo Vinciguerra, il “solda- to politico” di Peteano, al quale era stato chiesto di am- mazzare il ministro democristiano nella sua villa in Vene- to, garantendogli il non intervento della scorta. Vinci- guerra aveva rifiutato, perché «io volevo fare la guerra al- lo Stato, non la guerra per lo Stato». Lo aveva detto an- che Roberto Cavallaro, finto magistrato militare, ma vero golpista di Stato coinvolto nell’operazione della Rosa dei Venti40. Lo aveva detto il neofascista Marco Affatigato. Anche Carlo Digilio, lo “zio Otto” informatore degli ame- ricani e armiere di Ordine Nuovo, aveva avuto qualcosa da dire ai magistrati: «Maggi ci parlò del suo progetto di

40. Vedi capitolo successivo.

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un attentato a Rumor e ci informò che Vinciguerra, inter- pellato per l’esecuzione, si era rifiutato... Prospettò la possibilità di reclutare per l’attentato tale Gianfranco Bertoli, persona disposta a tutto. Se si fosse riusciti a re- clutarlo, vi sarebbe stata per l’azione una copertura anar- chica dinanzi all’opinione pubblica»41. Dunque, Rumor. Dunque Piazza Fontana, la madre di tutte le stragi.

La stagione delle bombe I morti di via Fatebenefratelli erano solo gli ultimi di una stagione infausta inaugurata il 12 dicembre ‘69 alla Ban- ca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, e proseguita a Gioia Tauro il 22 luglio 197042, dove il deragliamento do-

41. In “Archivio storico dell’informazione”. 42. Un mese dopo la tragedia, i marescialli Guido De Claris e Giuseppe Ciliberti del commissariato di polizia presso la direzione compartimentale delle ferrovie dello Stato, in un rapporto del 28 agosto 1970 al procuratore della repubblica di Palmi, asserirono che era «da escludere che il disastro ferroviario abbia avuto origine dolosa». Nessuno dei presenti, in attesa alla stazione di Gioia Tauro o a bordo del treno, personale viaggiante compreso, testimoniò, infatti, di aver udito alcun boato. Tale interpretazione venne ribadita in un secondo rapporto del 9 settembre 1971 in cui si sostenne che «se non vi fu detonazione non poté esservi attentato dinamitardo», senza considerare minimamente che l’esplosione di un ordigno, in grado di tranciare una rotaia, poteva benissimo essere avvenuta prima del passaggio del treno. In questo nuovo atto la causa della tragedia venne individuata nella negligenza del personale ferroviario che aveva «illegittimamente» disposto la cessazione del rallentamento a 60 chilometri orari per tutti i treni percorrenti il binario pari della tratta Palmi-Gioia Tauro, interessati da giugno da lavori di livellamento e allineamento delle rotaie. Una posizione in palese contrasto con le conclusioni del collegio peritale, nominato dal sostituto procuratore della repubblica di Palmi, Paolo Scopelliti, che, depositando la propria relazione il 7 luglio 1971 escluse errori risalenti al personale di guida, alla disposizione degli scambi all’ingresso della stazione o a difetti del materiale rotabile. Il collegio riscontrò invece un’avaria su una rotaia che presentava la parziale asportazione della suola interna per circa 180 centimetri, ipotizzando un’origine dolosa. Si sostenne, in conclusione, che lo scoppio di un ordigno rappresentava la causa più probabile del deragliamento, rilevando forti analogie con altri attentati avvenuti successivamente, il 22 e il 27 settembre sulla linea Rosario-Gioia Tauro-Villa San Giovanni, e il 10 ottobre sul tratto Catania-Messina, in cui non erano stati rinvenuti pezzi di miccia ed evidenti segni di esplosione. Sulla base del rapporto di polizia, la procura della repubblica di Palmi decise comunque di promuovere un procedimento penale per disastro colposo e omicidio colposo plurimo nei confronti di quattro dipendenti delle ferrovie dello Stato. Il 30 maggio 1974 il giudice istruttore sentenziò il non doversi procedere nei confronti degli imputati per non aver commesso il fatto, chiudendo ogni indagine. L’ipotesi dell’attentato dinamitardo come causa del disastro venne confinata nel limbo delle congetture, non meritevole della riapertura del caso. Una conclusione sorprendente. Il fallimento dell’ipotesi del disastro colposo, smentita a sua volta da una commissione d’inchiesta delle ferrovie dello Stato, avrebbe infatti dovuto almeno portare al proseguimento delle investigazioni. (Il sangue dei rossi, Cairo, 2009, dell’autore).

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loso di un treno aveva causato sei morti e un centinaio di feriti. Poi c’era stato l’attentato di Peteano, dove il 31 mag- gio del ’72 erano morti tre carabinieri, mentre il 7 aprile 1973, sul treno Torino-Genova, il neofascista Nico Azzi43 era rimasto ferito mentre innescava una bomba cercando di far ricadere la colpa su Lotta Continua. Cinque giorni dopo, durante una manifestazione di missini a Milano, era stata lanciata contro la polizia una bomba a mano che ave- va ucciso l’agente Antonio Marino: gli autori, Maurizio Mo- relli e Vittorio Loi (figlio del noto pugile Duilio Loi), appar- tenevano al gruppo neofascista La Fenice. Che c’entrava un anarchico con questi attentati neofasci- sti? Bertoli s’era dichiarato subito “anarchico individuali- sta” – come testimoniava la “a” tatuata su un braccio – e di aver fatto tutto da solo. Ma non era così. Malgrado i de- pistaggi degli apparati dello Stato fossero scattati pun- tualmente come i meccanismi di una bomba, malgrado la “a” tatuata, la storia che l’anarchico raccontava – e cioè

43. La basilica di Sant’Ambrogio, la più bella chiesa di Milano, dedicata al patrono della città, si è aperta ieri nella tarda mattinata per i funerali di Nico Giuseppe Azzi, fascista ed ex-terrorista nero. Si è aperta anche ai naziskin, rapati a zero e in bomber e anfibi lustri che scortavano la bara, a un tricolore fascistissimo con l’aquila rampante sul fascio littorio, deposta su un cuscino di margherite bianche. In attesa, sul sagrato altri addolorati camerati che sventolavano altre bandiere, stavolta con la croce celtica. D’altra parte si sa che Nico Azzi, morto cinquantacinquenne per un colpo al cuore, si era avvicinato a Forza Nuova, che non s’è mai negato il piacere di certi lugubri simboli e che ieri, sul suo sito, ricordava Azzi così: «Le parole sono insufficienti a descrivere il dolore… Altrettanto povere sembrano le parole per descrivere il tributo di gratitudine e affetto che Nico ha saputo meritare nei confronti di tutte le generazioni forzanoviste, soprattutto verso le più giovani schiere militanti…». Nell’ideale eredità di Nico Azzi alcune bombe. La prima sarebbe dovuta esplodere sul treno Torino-Roma il 7 aprile 1973. Esplose invece tra le gambe di Azzi, mentre stava preparando l’innesco di due saponette di tritolo militare da mezzo chilo l’una nella toilette (dopo aver lasciato in giro, lui e i suoi compagni, un po’ di copie di Lotta Continua, tanto per far capire dove si dovessero cercare i colpevoli). Le altre erano le bombe a mano che aveva provveduto a fornire proprio lui per una manifestazione neofascista in quello stesso aprile a Milano: una venne lanciata e ferì un agente di pubblica sicurezza e un passante, la seconda uccise un altro agente, Antonio Marino, un ragazzo di ventidue anni. Vennero arrestati i responsabili, due fascisti, Maurizio Murelli e Vittorio Loi, il figlio del popolare Duilio, il campione di pugilato. Nico Azzi fu condannato per il treno a tredici anni di carcere, per le bombe a due: non le aveva lanciate, le aveva solo procurate (estratto da Nico Azzi: funerali in chiesa con svastica di Oreste Pivetta, pubblicato su “L’Unità” del 13 gennaio 2007).

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che avrebbe agito per vendicare la morte del compagno Pino Pinelli, volato dal quarto piano della Questura di Mi- lano – era stata smontata dal giudice istruttore milanese Antonio Lombardi, per il quale Bertoli era tutt’altro che anarchico e tutt’altro che solo. Da sempre amico dei neofascisti, fin dagli anni Cinquan- ta informatore del servizio segreto militare, uomo della struttura segreta di Gladio, nel 1971 Bertoli si era rifugia- to in un kibbutz israeliano, poi era tornato in Italia e ave- va scagliato la bomba. Non per vendicare Pinelli, ma per colpire Rumor. La sua non era stata un’iniziativa perso- nale, ma pilotata da quell’Ordine Nuovo che da tempo meditava di uccidere il ministro democristiano. Del re- sto, come avrebbe mai potuto Bertoli superare tre fron- tiere, da Israele fino a Milano, portando con sé anche una bomba a mano? Era chiaro che gli fosse stata data in Ita- lia, era chiaro che in questa bugia era contenuta la veri- tà su chi avesse armato la sua mano. Prima di armare quella mano, però, bisognava armare il cervello. Adde- strare Bertoli, insomma, ma addestrarlo bene, perché era un elemento poco affidabile, dedito all’alcool e alla dro- ga. L’unico, comunque, disposto a compiere l’attentato contro Rumor.

L’addestramento veronese di via Stella È stato Carlo Digilio, lo “zio Otto”, a parlare dell’addestra- mento di Bertoli in un appartamento di via Stella, a Vero- na, con il triestino Francesco Neami come insegnante. «Mi ricordo che Neami stava facendo con Bertoli una specie di lavaggio del cervello su cosa avrebbe dovuto di- re se fosse stato arrestato», dichiarò Digilio. «Se ciò fos- se avvenuto avrebbe dovuto dire che era un anarchico,

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che si era procurato da solo la bomba in Israele, che ave- va fatto tutto da solo, essendo un anarchico individuali- sta. Neami si comportava duramente con Bertoli quando non gli dava le risposte esatte... Bertoli fumava e beveva molto. In effetti gli piaceva molto bere e finiva con l’ubriacarsi a tavola. Annegava le sue malinconie nell’al- cool. Appresi che lo avevano convinto con la promessa di un po’ di soldi... Neami cercava di rafforzare i suoi propo- siti stuzzicando la sua vanità, dicendo che doveva mo- strare il suo coraggio, che sarebbe stato un eroe e che tutti avrebbero parlato di lui. Bertoli era molto esigente e chiedeva continuamente da bere e vitto di prima quali- tà portato da fuori. Chiedeva sigarette e alcolici di marca e nell’appartamento vi erano bottiglie vuote dovunque sul pavimento, tanto che a volte vi inciampavamo»44. Altro che tutto da solo. Del resto, alcolista e tossicodi- pendente, difficilmente Bertoli avrebbe potuto ideare e portare a termine un attentato tutto da solo. E fin da su- bito, fin dalle 11 di quella tragica mattina del 17 maggio del ’73, s’era comportato come gli era stato insegnato. Due anni dopo, il 1o marzo 1975, la prima Corte d’Assise di Milano lo aveva condannato all’ergastolo: sentenza confermata un anno dopo in Appello e dalla Cassazione nel novembre successivo. Nel 1998, il giudice istruttore Antonio Lombardi, a con- clusione del supplemento d’inchiesta condotto col vec- chio rito, aveva rinviato a giudizio sette persone accusan- dole di concorso in strage: Carlo Maria Maggi, Giorgio Boffelli, Francesco Neami, Carlo Digilio e Amos Spiazzi. Gian Adelio Maletti e Sandro Romagnoli erano stati accu-

44. In “Archivio storico dell’informazione”.

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sati invece di omissione di atti d’ufficio e di soppressione e sottrazione di atti e documenti concernenti la sicurez- za dello Stato. L’11 marzo 2000, dopo cinque giorni di ca- mera di consiglio, la quinta Corte d’Assise aveva emesso la sentenza che con l’accusa di strage condannava all’er- gastolo Maggi, Spiazzi, Boffelli e Neami. Maletti era stato condannato a quindici anni di reclusione. Il 27 settembre 2002, dopo nove ore di camera di consiglio, la Corte d’As- sise d’Appello assolveva tutti gli imputati perché il fatto non sussisteva o per non averlo commesso, rovesciando completamente la sentenza di primo grado. L’11 luglio 2003, la quinta sezione penale della Cassazione annulla- va l’assoluzione di Boffelli, Maggi e Neami confermando invece l’assoluzione del generale Gian Adelio Maletti e di Amos Spiazzi. Di Bertoli, per oltre vent’anni da quella mattina della strage, si erano perse le tracce finché si era venuto a sa- pere che il 18 giugno ‘97 aveva tentato il suicidio con un’overdose di eroina: non poteva sopportare di passare per fascista, lui che si era sempre proclamato un anarchi- co, fino a tatuarsi su un braccio quell’idea, in modo che tutti vedessero, che tutti sapessero. Che lui era un anar- chico. E la strage alla Questura di Milano, allora? Proba- bilmente aveva voluto essere per un giorno protagonista, come quegli anarchici degli inizi del Novecento. Certa- mente era stato usato: un utile idiota per altri fini. Gian- franco Bertoli è morto il 28 novembre del 2000 a Livor- no, dove viveva in semilibertà facendo il lavapiatti in un piccolo ristorante di periferia. Ottenuti i benefici di leg- ge, era ripiombato immediatamente nel tunnel della tos- sicodipendenza da eroina. Si è sempre dichiarato anar- chico. Per sua espressa volontà è stato seppellito con i

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funerali religiosi: nella bara ha voluto un crocefisso e la bandiera degli ultras del Livorno.

IL GIUDICE PADOVANO E LA ROSA DEI VENTI

Giovanni Tamburino era un giovane giudice di Padova. Aveva appena trent’anni quando nell’autunno del 1973 gli era stata affidata un’inchiesta che scottava. Le carte gli arrivavano da La Spezia, dove la procura aveva inizia- to a indagare su Giancarlo Porta Casucci, un medico ligu- re con la passione per armi, svastiche, medaglie e cimeli vari riguardanti fascismo e nazismo, oltre ad appartene- re a un gruppo di destra dal roboante nome di Elmi d’Ac- ciaio. Casucci aveva iniziato subito a collaborare, metten- do gli inquirenti al corrente di un’Organizzazione (iden- tificata proprio così, con la o maiuscola) di cui facevano parte diversi personaggi della destra eversiva, fra cui il principe Giovanni Francesco Alliata di Montereale, di- stintosi per essere stato fra i fondatori del Movimento na- zionale di opinione pubblica e della Maggioranza silenzio- sa, due gruppi contigui all’estrema destra. Ufficialmente, il principe risultava presidente di una non meglio identificata Libera confederazione mondiale del commercio e del turismo, con sede a Bruxelles. Dell’Or- ganizzazione faceva parte anche Eugenio Rizzato, ex-ge- rarca della RSI, la Repubblica sociale italiana, che, grazia- to dall’amnistia di Palmiro Togliatti, aveva ripreso subito la sua attività politica. Durante un normale controllo, la polizia aveva trovato la macchina di Rizzato imbottita di volantini, passamontagna e, dulcis in fundo, armi. A questi due signori, nella sua deposizione Casucci aveva

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aggiunto un altro personaggio: Roberto Cavallaro, le cui dichiarazioni furono fondamentali nelle successive tappe dell’inchiesta di Tamburino.

Il panorama di una nuova Italia Il giudice padovano aveva iniziato il suo lavoro partendo dalle tante carte di Casucci, fra le quali alcuni appunti ri- guardanti finanziamenti al gruppo, proclami da inviare alle caserme sul “pericolo rosso” e perfino un progetto insurrezionale. Il colpo grosso, però, Tamburino lo aveva fatto quando aveva messo le mani su una borsa nascosta da Casucci in una canonica. Più che una borsa, una mi- niera di informazioni che consentivano di mappare altre organizzazioni di estrema destra, fra le quali una in par- ticolare, la Rosa dei Venti, destinata a dare il nome alla stessa inchiesta di Tamburino. Senza saperlo, il giudice aveva scoperchiato una delle pentole dell’eversione della prima metà degli anni Set- tanta in cui bollivano, oltre ai richiami nostalgici, i pro- getti per un futuro “nero”. Progetti che coinvolgevano anche alcune caserme, come quella di Verona che ospita- va il reparto di artiglieria di stanza in Veneto, dove l’uffi- ciale responsabile dell’Ufficio I (Informazioni) era il co- lonnello Amos Spiazzi. Il suo reparto era l’unico che non aveva mai riconsegnato un codice segreto militare ormai in disuso (Farilc 59), né comunicato il verbale della sua distruzione, come volevano le disposizioni dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tamburino aveva quindi disposto la perquisizione dell’abitazione del colonnello Spiazzi, dove, fra cimeli fascisti e nazisti, erano saltate fuori an- che diverse armi. Non basta: grazie a Spiazzi, Roberto Cavallaro – che con l’avallo del colonnello si era spaccia-

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to per magistrato militare – aveva potuto tenere nella ca- serma di Verona un’affollata conferenza politico-organiz- zativa ai soldati, cui aveva tratteggiato «il panorama di una nuova Italia». Tamburino poteva ormai contare sulla collaborazione dei camerati pescati con le mani nella marmellata: come ave- va fatto Casucci, anche Cavallaro, infatti, aveva iniziato subito a parlare. E non solo aveva confermato tutto, ma aveva portato elementi assolutamente inediti e scono- sciuti, delineando la struttura di un’organizzazione (quella con la “o” maiuscola) ormai pronta ad agire. Or- ganizzazione che aveva in un’altra struttura il suo braccio armato: la Rosa dei Venti. Il piano prevedeva il radicale cambiamento politico del Paese col non trascurabile appoggio di ufficiali america- ni. Dal quartier generale della NATO sarebbe arrivato in- fatti l’avallo alla procedura operativa che avrebbe porta- to al colpo di Stato nella primavera del 1973, ma poi tut- to era finito nel nulla all’improvviso e senza una ragione. Come per il golpe Borghese insomma. Ancora una volta, un niente di fatto. Tuttavia, a differenza del maldestro tentativo dei forestali nel 1970, questa volta l’organizza- zione restava in piedi e, soprattutto, qualora si fossero create le condizioni favorevoli, era pronta all’azione. Ol- tre alla Rosa dei Venti, poi, utilizzava altri gruppi paralle- li: Ordine Nuovo, La Fenice, i MAR (Movimento di azione rivoluzionaria di Carlo Fumagalli) e i Giustizieri d’Italia. Cavallaro aveva confidato a un esterrefatto Tamburino che l’Organizzazione aveva ipotizzato due tipi di inter- vento attuabili a seconda delle circostanze: la prima, di carattere “cileno” (riferendosi al colpo di Stato organiz- zato in Cile l’11 settembre 1973 dalle forze armate col so-

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stanziale aiuto americano); la seconda prevedeva una strategia del terrore (bombe) che avrebbe giustificato una “naturale” svolta autoritaria. “Confidenze” che per il giudice Tamburino trovavano sostegno nelle ammissioni di Spiazzi: il colonnello confermava, infatti, l’esistenza di un’organizzazione costituita da civili e militari pronta a mettere in atto il progetto eversivo. Il collante politico era il “pericolo rosso”, il sostegno interno garantito dal SID, quello internazionale, neanche a dirlo, dagli USA, at- traverso la CIA.

Il livello parallelo del SID Per Tamburino, però, le sorprese non erano finite: sca- vando ulteriormente erano saltati fuori nomi blasonati dell’industria italiana – Andrea Maria Piaggio, in qualità di munifico finanziatore – e di Junio Valerio Borghese. A unire i due nomi, un passaggio di denaro dall’industriale all’ex-comandante della X Mas di ben 800 milioni: una ci- fra considerevole, se si considera che all’epoca lo stipen- dio medio di un operaio era di 150mila lire. Chi erano i capi dell’Organizzazione? Il risultato delle in- dagini era sconcertante: Vito Miceli, direttore del SID (Servizio Informazioni Difesa, succeduto al SIFAR, Servizio Informazioni Forze Armate) e Gian Adelio Maletti, capo del reparto D, Servizio Informazioni Difesa. Informazioni che per Tamburino diventavano il cuore dell’inchiesta. Messo alle strette, il colonnello Spiazzi aveva sostenuto che di più non poteva proprio dire, perché non poteva essere liberato dal segreto cui era tenuto, se non da un ufficiale dei carabinieri di grado superiore al suo. Tutta- via, c’era un’altra spiegazione alla diga che Spiazzi aveva alzato fra le sue affermazioni precedenti e la verità com-

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pleta: la paura. Antonio Alemanno, un altro generale del SID, gli aveva fatto arrivare il preciso ordine di tacere. Da questo momento, al giudice padovano avevano comincia- to a spuntarsi le armi e alla fine gli erano state tolte del tutto. Nell’estate del 1974, intanto, la bomba di piazza della Loggia a Brescia e quella al treno Italicus avevano provo- cato tensione in casa SID. Maletti sosteneva di aver più volte informato Miceli della pericolosità imminente di al- cune organizzazioni eversive in procinto di compiere at- tentati. Affermazioni che avevano indotto Tamburino a far arrestare il direttore del servizio militare. Il cerchio era chiuso, si poteva andare in tribunale, ma il 14 luglio 1978 la corte d’Assise di Roma – che nel frattempo ave- va sottratto a Tamburino l’inchiesta – aveva emesso ver- detti che di fatto vanificano il lavoro del giudice padova- no: Spiazzi era stato condannato a cinque anni di reclu- sione, Casucci a un anno e sei mesi, mentre Miceli – nel frattempo eletto alla Camera dei deputati fra le fila del Movimento sociale – era stato addirittura assolto dall’ac- cusa di favoreggiamento con la formula della non sussi- stenza del fatto. Assoluzione che strideva con quanto emerso nel corso della movimentatissima udienza del 14 dicembre 1977. In quella occasione, infatti, il giudice An- tonio Abbate aveva chiesto a Miceli conferma dell’esi- stenza di un doppio organismo parallelo – e quindi illega- le – del SID. Questa era stata la risposta: «Lei in sostanza vuole sape- re se esiste un organismo segretissimo nell’ambito del SID. Io finora ho parlato delle dodici branche in cui si di- vide. Ognuna di esse ha come appendice altri organismi, altre organizzazioni operative, sempre con scopi istitu-

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zionali. C’è, ed è sempre esistita, una particolare organiz- zazione segretissima, che è a conoscenza anche delle massime autorità dello Stato. Vista dall’esterno, da un profano, questa organizzazione può essere interpretata in senso non corretto, potrebbe apparire come qualcosa di estraneo alla linea ufficiale. Si tratta di un organismo inserito nell’ambito del SID, comunque svincolato dalla catena di ufficiali appartenenti al servizio I, che assolve compiti pienamente istituzionali, anche se si tratta di at- tività ben lontana dalla ricerca informativa. Se mi chiede- te dettagli particolareggiati, dico: non posso rispondere. Chiedeteli alle massime autorità dello Stato, in modo che possa esservi un chiarimento definitivo»45. Da questo livello parallelo illegale del Servizio Informa- zioni Difesa si poteva dunque ripartire per fare luce sul- l’inquinamento eversivo di interi apparati dello Stato e quindi su molti tragici misteri della strategia della tensio- ne, ma l’assoluzione del direttore del SID impedì tutto questo, mettendo una pietra tombale su fatti, circostan- ze, episodi. E anche sull’Organizzazione chiamata “Rosa dei Venti”.

ITALICUS, TRENO DI MORTE, VERONA SALUTA CON ONORE

La mattina del 5 agosto 1974 un’edizione straordinaria del telegiornale annunciava una nuova strage. Erano tra- scorsi poco più di due mesi dall’eccidio di Piazza della

45. Idem

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Loggia a Brescia e la storia d’Italia doveva registrarne un altro. Un nuovo massacro, che andava ad aumentare le troppe tessere del funesto mosaico della strategia della tensione, quella inaugurata cinque anni prima a Milano, in piazza Fontana. Nel 1969 Tito Stagno aveva testimo- niato con Ruggero Orlando, collegato da New York, l’allu- naggio di Apollo 11, ora gli era toccato l’ingrato compito di raccontare quanto accaduto nella notte. Cioè che all’1.30, all’uscita di una galleria di San Benedetto Val di Sambro, una bomba era esplosa nel secondo scomparti- mento della quinta carrozza del treno Italicus, partito da Roma alle 20.35 della sera precedente e diretto al Bren- nero, causando la morte di dodici persone e il ferimento di quarantaquattro. Quella stessa mattina, su un muro dei Bastioni di Porta Palio a Verona, era comparsa una scritta: «Camerata Esposti presente!» firmato ON, Ordine Nero, mentre un volantino dell’organizzazione neofascista, diffuso non so- lo nella città scaligera, proclamava: «Giancarlo Esposti è stato vendicato. Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno. Seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti».

Uno strano identikit Chi era quel Giancarlo Esposti vendicato con la morte di dodici persone? Due giorni dopo la strage di Brescia, l’identikit dell’uomo che avrebbe messo la bomba nel ce- stino dei rifiuti in Piazza della Loggia era apparso su tut- ti i giornali. Si trattava del neofascista Giancarlo Esposti, che però una settimana dopo era stato ucciso in un con-

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flitto a fuoco coi carabinieri a Pian del Rascino. Al mo- mento dell’autopsia, quando bisognava ufficializzare il ri- conoscimento con l’identikit, ci si era accorti che Espo- sti, da due mesi, si era fatto crescere la barba e quindi non poteva assomigliare a quell’identikit. Una constata- zione inquietante: significava cioè che per la strage di Brescia era stato tutto predisposto, colpevole compreso. Ma che c’entrava tutto ciò con l’Italicus? C’entrava con la strategia delle bombe, la strategia del terrore. Proprio Esposti e il suo gruppo, prima si essere intercettati dai carabinieri, si trovavano in Abruzzo in attesa di un’azio- ne clamorosa da interpretare come segnale preciso per l’entrata in scena insieme con altre formazioni, fra le qua- li Ordine Nero. La prospettiva era quella di un golpe da preparare attraverso “una serie di attentati di gravità crescente”, di stragi indiscriminate in città diverse. La bomba dell’Italicus – come quella di Brescia – obbediva quindi a questa “logica” stragista. Una “logica” che esige- va morti, tanti morti per mandare il Paese allo sbando. Morti ammazzati. Ammazzati con bombe che non guar- dano in faccia nessuno e proprio per questo seminano paura, terrore. Come di terrore erano le parole dei testi- moni di questo nuovo eccidio. «Improvvisamente», aveva raccontato uno di essi, «il tunnel da cui doveva sbucare il treno si è illuminato a giorno, la montagna ha tremato, poi è arrivato un boato assordante. Il convoglio, per for- za di inerzia, è arrivato fin davanti a noi. Le fiamme era- no altissime e abbaglianti. Nella vettura incendiata c’era gente che si muoveva. Vedevamo le loro sagome e le loro espressioni terrorizzate, ma non potevamo fare niente poiché le lamiere esterne erano incandescenti. Dentro doveva già esserci una temperatura da forno crematorio.

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“Mettetevi in salvo”, abbiamo gridato, senza renderci con- to che si trattava di un suggerimento ridicolo data la si- tuazione. Qualcuno si è buttato dal finestrino con gli abi- ti in fiamme. Sembravano torce. Ritto al centro della vet- tura un ferroviere, la pelle nera cosparsa di orribili mac- chie rosse, cercava di spostare qualcosa. Sotto doveva es- serci una persona impigliata. “Vieni via da lì”, gli abbiamo gridato, ma proprio in quel momento una vampata lo ha investito facendolo cadere accartocciato al suolo»46. Quel ferroviere era Silver Sirotti, in servizio sull’Italicus come macchinista. Diplomatosi all’ITIS di Forlì nel 1968, era sopravvissuto all’esplosione, ma trovandosi nelle vici- nanze della carrozza colpita, aveva cercato di portare soccorso. Il fumo e le fiamme avevano poi avuto il so- pravvento anche su di lui in un vagone che, come hanno poi raccontato due agenti di polizia, «sembrava friggere, gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzavano su. Su tut- ta la zona aleggiava l’odore dolciastro e nauseabondo del- la morte». La morte di dodici persone, con tanto di nome e cogno- me: Elena Donatini, Nicola Buffi, Herbert Kotriner, Nun- zio Russo, Maria Santina Carraro, Marco Russo, Tsugufu- mi Fukada, Antidio Medaglia, Elena Celli, Raffaella Garo- si, Wìlbelmus Jacobus Hanema e Silver Sirotti, il ferrovie- re. Tuttavia, seppur spaventoso, questo nuovo capitolo della politica del terrore, nelle intenzioni degli autori, do- veva essere ancor più consistente: il timer era stato pro- grammato infatti perché la bomba esplodesse all’interno della galleria, con effetti devastanti per la naturale com- pressione che avrebbe subito il treno e solo la differenza

46. Da “L’Unità” del 5 agosto 1999.

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di un minuto aveva evitato un’ecatombe. Molti anni dopo mi sono ritrovato a percorrere in treno quella galleria. Una galleria lunghissima che sembrava non finire mai. Quando siamo ritornati alla luce del sole, ho cercato qualcuno del personale delle ferrovie e gli ho quindi chie- sto se poteva controllare quanto fosse lungo quel tunnel: diciotto chilometri. Solo il caso ha voluto che la bomba esplodesse all’uscita di una galleria così lunga.

Camerata Mario Tuti C’era dunque la rivendicazione di Ordine Nero, ma su quali gambe marciava questa organizzazione? Chi aveva organizzato la strage? Chi aveva messo la bomba? Come da tradizionali copioni di questi almanacchi delle stragi, neanche a dirlo gli investigatori “brancolavano nel buio”, fino a quando un extraparlamentare di sinistra, Aurelio Fianchini, era evaso dal penitenziario di Arezzo facendo arrivare alla stampa questa dichiarazione, frutto a suo di- re di confidenze raccolte in carcere: «La bomba è stata messa sul treno dal gruppo eversivo di Mario Tuti, che ha ricevuto ordini dal Fronte nazionale rivoluzionario e da Ordine Nero. Materialmente hanno agito Piero Malentac- chi, che ha piazzato l’esplosivo alla stazione di Santa Ma- ria Novella a Firenze, Luciano Franci, che gli ha fatto da palo, e la donna di quest’ultimo, Margherita Luddi». All’inizio del ‘75 era stato emesso un mandato di cattura contro Mario Tuti, che però era riuscito a fuggire all’arre- sto dopo aver ucciso due carabinieri andati a casa sua per arrestarlo, Leonardo Falco e Giovanni Ceravolo, e averne ferito un terzo. Rifugiatosi prima ad Ajaccio, si era poi nascosto in Costa azzurra, dove però era stato rintracciato e arrestato dopo un conflitto a fuoco. In re-

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lazione alla strage dell’Italicus, Tuti sarà assolto definiti- vamente nel ’92, e quella è rimasta una delle troppe stra- gi impunite. Ho avuto modo di incontrare personalmente l’ex-terrori- sta nero condannato a due ergastoli per tre omicidi: i due carabinieri ed Ermanno Buzzi, strangolato con l’aiuto del camerata Pierluigi Concutelli nel carcere di Novara. Il 28 dicembre 2003 era uscito per la prima volta dopo ventiset- te anni, per quattro ore. Non si è mai pentito, né dissocia- to. Ha scritto un saggio per il libro La Bibbia dei non cre- denti, al quale hanno collaborato Massimo Cacciari, Lucia- no Violante e Francesco Guccini. È stato anche protagoni- sta in carcere di uno spettacolo sul Vangelo. La prima cosa che mi aveva detto, quando l’avevo incon- trato in un’assolata mattina di luglio, era stata che «co- munisti si diventa, fascisti si nasce». E lui, fascista lo era quindi da sempre, seppure con visioni diverse del mondo e degli uomini, del bene e del male. Ora si sentiva un al- tro uomo. Un uomo che odia la violenza, ogni forma di violenza: «ai blocchi stradali, a quelli dei treni, preferisco i girotondi». «I diversi, i reietti della cultura imperante di quegli an- ni terribili», aveva aggiunto quasi con orgoglio, «erava- mo noi, i fascisti. Avevamo contro tutti e noi eravamo contro tutti». Compreso Ermanno Buzzi, strangolato «perché si era sporcato le mani coi servizi, cioè con lo Stato, vale a dire con quello Stato che noi combatteva- mo. Per questo l’abbiamo ucciso, non perché era un de- latore, un infame, ma perché aveva tradito la nostra idea, che era quella appunto di combatterlo questo Sta- to, non di agire con lui o per lui». «Con la giustizia», aveva risposto a una mia precisa do-

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manda, «credo di aver saldato il mio conto. Il carcere cambia le persone. Non sono quello che si dice un penti- to, ma posso garantire che oggi non sono socialmente pe- ricoloso e non mi ritengo neppure una persona malvagia, tutt’altro, una persona buona, disponibile». E la coscienza che dice? «Con quella il conto è ancora aperto. Non sarei più capace di uccidere nessuno, ma ciò non mi consola. Provo un dolore profondo e incancellabi- le per ciò che ho commesso. Però non chiederei mai per- dono, perché il perdono non si chiede per potersi senti- re meglio, per un fatto egoistico, quindi, semmai si rice- ve da chi vuole dartelo, o meglio, concedertelo sponta- neamente». E ancora: «il carcere è dentro di me, dopo quasi trent’an- ni la galera ti entra dentro irrimediabilmente. Mi sto per laureare in Scienze forestali, mi manca la tesi. Sono iscritto al conservatorio di Parma. Ironia della sorte, l’ho potuto fare grazie a una vecchia legge sui prigionieri di guerra. Trent’anni fa mi sentivo anch’io un prigioniero di guerra. Oggi spero di poter aiutare la gente, fare qualco- sa di utile».

Il terribile segreto dell’Italicus Dopo quell’incontro, Tuti lo avevo sentito saltuariamen- te, finché mi aveva detto che aveva qualcosa di interes- sante per le mie ricerche storiche. Ma era sempre impe- gnato col teatro, così non ci pensai più. Finché, saputo che stavo lavorando al caso Campanile47, il giovane mili-

47. Il riferimento è al mio libro Il sangue dei rossi (Cairo, 2009) che contiene anche la storia di Alceste Campanile e alla puntata della trasmissione “La Storia siamo noi” da me realizzata come autore col titolo “Due spari nel buio, il caso Campanile” (Rai Storia, giugno 2009).

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tante di Lotta Continua ucciso a Reggio Emilia nel giugno del 1975, mi aveva finalmente “svelato il segreto”: «Ades- so ti dico una cosa nuova… E lo dico a te perché te lo de- vo da un po’ di tempo. Una cosa che riguarda Alceste Campanile». «Sei un po’ in ritardo…». «Diciamo che il libro e la trasmissione che hai fatto su Campanile sono ricostruzioni corrette, perché sostenute da sentenze di tribunale, ma sono la verità giudiziaria, non quella vera. Quella vera è un’altra…». «Quale?». «Porta dritto dritto proprio all’Italicus». «Spiegami per favore perché è tutto troppo sibillino». «Nel corso del processo in cui ero imputato, venne fuori un biglietto della polizia di Reggio Emilia che facendo ri- ferimento a una fonte confidenziale – e quindi protetta anche di fronte alla magistratura – riproponeva per la strage dell’Italicus una pista legata ad ambienti dell’in- tellighentia di sinistra di quella città, già indicata all’ini- zio delle indagini, ma poi lasciata cadere». «Se ti riferisci alla cosiddetta pista rossa, mi pare sia sta- ta smontata pezzo per pezzo, anche perché trovava so- stegno solo in Vittorio Campanile, il padre di Alceste, no- toriamente uomo di destra che, stando anche agli stessi inquirenti, si mosse più che per trovare la verità, per di- mostrare la sua tesi: cioè che suo figlio era stato ucciso dai suoi stessi compagni». «In effetti, malgrado la protezione della fonte, in via in- formale le notizie del biglietto vennero attribuite proprio al padre di Alceste, che mi pare venisse interrogato in proposito, ma senza dare conferme». «Quindi, niente di nuovo».

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«Non è così e ora ti spiego perché. Quando le persone in- dicate in quel biglietto furono chiamate a testimoniare per l’indomani, una di queste, tale Ennio Scolari, docen- te nella facoltà frequentata da Alceste e dirigente del Partito comunista, si suicidò durante la notte, impiccan- dosi e lasciando un biglietto molto confuso in cui ricorda- va appunto la sua dedizione al partito e l’angoscia per la citazione a testimoniare». «Avrà vissuto un particolare momento di debolezza emo- tiva, come quei ragazzini che si suicidano perché respin- ti a scuola: mica è per quello che saltano dalla finestra. La bocciatura è solo una goccia che fa traboccare un va- so già pieno». «A parte il fatto che un professore universitario ha tutti gli strumenti culturali per sapere che la citazione come testi- mone non ha niente di infamante, anzi è un alto dovere ci- vico, la cosa che fece pensare all’epoca e che dovrebbe far pensare adesso è che alla base di quel gesto estremo do- vesse esserci qualcosa di molto grave e sporco». «Che andava denunciato». «Infatti, tutti i giornali e i telegiornali diedero ampio rilie- vo alla notizia. Non solo, ma lo stesso processo per l’Ita- licus venne sospeso perché il pubblico ministero si era recato a consultarsi coi suo colleghi di Reggio Emilia». «E quali furono i risultati?». «I risultati sono sotto gli occhi: dal giorno dopo nessuno menzionò più l’episodio e nemmeno Scolari e, se ci fai ca- so, quella dell’Italicus è la strage meno ricordata di tutte». «Non mi pare. Comunque, seguendo la tua tesi, perché dovrebbe essere la meno ricordata?». «Perché è l’unica dove ci sono molti e concordanti indi- zi su una commistione tra servizi segreti deviati e, que-

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sta volta, non i soliti partiti governativi, o il Movimento sociale…». «Svela l’arcano». «Ma te l’ho già detto… Il Partito comunista». «Maddai…». «Quando un colonnello dei carabinieri si prende senza bat- tere ciglio una condanna a quattro anni per proteggere la loro “traduttrice” iscritta al Partito comunista, nonché compagna di un resistente greco, come Claudia Aiello…». «Che significa? Spiegami perché non capisco». «È qui che entra in ballo il tuo amico Alceste». «Amico…». «Amico nel senso che è uno su cui hai lavorato parec- chio». «Questo, sì». «Ma non abbastanza. Non hai analizzato bene le troppe ambiguità e reticenze su quel caso. Per non parlare del- l’opera di disinformazione operata da Paolo Bellini». «Reo confesso dell’omicidio di Alceste». «Credimi, dietro la morte di Alceste ci sono implicazioni innominabili. E ho speso la parola più idonea: innomina- bili». «La mia limitatezza mi impedisce di capire, di collega- re il caso Campanile all’Italicus, anche perché non mi hai spiegato nulla. Hai fatto solo affermazioni sibilline finora». «Rivaluta bene quel che ti ho detto. Ricomponi il puzzle che comprende il suo professore suicida, il biglietto del padre in cui coinvolgeva appartenenti al PCI, l’oscura- mento mediatico di quella strage, il colonnello dei cara- binieri e, infine, le plurime e discordanti confessioni di Bellini e hai il quadro giusto. Non ti devo dire niente, io,

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ce l’hai sotto gli occhi la storia vera dell’Italicus e di Al- ceste Campanile». «Tento una traduzione: nell’attentato all’Italicus è coin- volto il PCI e Alceste Campanile viene soppresso perché sa troppo e non ci si può fidare di uno come lui, fra l’al- tro eccessivamente esuberante ed esposto a Reggio Emi- lia. È così?». «Quel biglietto coi nomi è poi sparito, anche se la storia d’Italia è piena di pizzini e biglietti spariti… Ora tornia- mo alla pista nera dell’Italicus. Considera che dopo la mia assoluzione nel processo di primo grado, come richiesto anche dallo stesso pubblico ministero e dalle parti civili delle vittime, che non conclusero contro di noi – a parte le parti civili istituzionali come il comune di Bologna, il cui avvocato, Roberto Montorsi, ex-ufficiale dei carabi- nieri, sarà poi indagato insieme a Licio Gelli –, in Appel- lo, dopo le dichiarazioni dei cosiddetti pentiti neri, vale a dire Sergio Calore, Vincenzo Vinciguerra, Edgardo Bo- nazzi, Angelo Izzo – tutti concordi nell’escludere non so- lo la mia colpevolezza per la strage, ma anche il semplice coinvolgimento coi servizi o la massoneria – venni invece condannato. Formidabile, no?». «Vai avanti». «Mentre dopo l’assoluzione venni mandato nei cosiddetti “braccetti della morte”, il grado estremo di durezza re- pressiva in Italia, tipo Guantanamo per intenderci, strana- mente dopo la condanna in Appello per un delitto così gra- ve e infamante venni mandato nel miglior carcere d’Italia, Porto Azzurro. Quasi una sorta di scambio, che, implicita- mente mi diceva: “tieniti la condanna, tanto da qui con un paio di anni di buona condotta uscirai anche tu...”». «E tu?».

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«Come sai, io fui poi assolto definitivamente per la stra- ge dell’Italicus. Ma ti confesso che non presi bene quella specie di patto scellerato e cercai altre strade, magari an- che per provare ad andare a mia volta a interrogare qual- cuno di quei giudici, togati e popolari, che mi avevano condannato, e cercar di capire cosa c’era sotto...». «Senza riuscirci, ovviamente». «Ovviamente. Comunque, oggi non me ne frega più nien- te, anche perché sono certo che pure se uscisse una con- fessione o delle prove inoppugnabili, al massimo vivreb- bero un giorno sui giornali e in televisione, poi sarebbero oscurate dal silenzio. Tu che ami il teatro, dovresti pen- sare a trarre un adattamento da un bel giallo di Durren- matt: Giustizia...»48.

Anche Moro su quel treno Calato il sipario anche sull’Italicus, restavano solo i mor- ti, poiché perfino le carrozze del treno, rimaste per tanti anni in un deposito “a disposizione”, sono state vendute come ferro vecchio. Scenografie obsolete di una storia vecchia che nella relazione di maggioranza della commis- sione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, così era stata riassunta: «La strage dell’Italicus è ascrivibile a una

48. «Un ricco notabile svizzero – Isaak Kohler – uccide un uomo in mezzo a un ristorante “non senza averlo salutato cordialmente”, si lascia docilmente arrestare, loda i giudici per la condanna a vent’ anni che subisce, va soddisfatto in carcere, diventa detenuto modello, senza mai svelare – contro ogni logica investigativa – alcuna motivazione del suo gesto. Ma l’evento paradossale, che scuote la provincia subalpina, è solo il primo di una serie di colpi di scena pilotati dall’assassino, che riesce a muovere spavaldamente dal carcere alcuni uomini-pedine. Tra essi il protagonista, un avvocato spiantato di nome Spaet, a cui il consigliere cantonale Kohler propone di “riesaminare il caso partendo dall’ipotesi che l’omicida non sia lui”. È una sfida apparentemente senza senso – tutti hanno visto l’omicida sparare – che invece si rivela vincente e si conclude con l’assoluzione del notabile, il suicidio di un altro possibile colpevole e una raffica di morti ammazzati. È la trama di Giustizia, scritto nel 1985 da Friedrich Durrenmatt e tradotto – in modo eccellente – da Giovanna Agabio per Marcos y Marcos» (da “L’Almanacco dei libri”, “La Repubblica”, aprile 2005).

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organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana. La loggia P2, al cui ver- tice c’era Licio Gelli, già implicato nel tentato golpe Bor- ghese, svolse opera di istigazione agli attentanti e di fi- nanziamento nei confronti dei gruppi della destra extra- parlamentare toscana. La loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può considerarsene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari, ma storico-politici quale essenziale retroterra economi- co, organizzativo e morale». Per concludere – si fa per dire – questa triste e dolorosa vicenda, c’è da registrare una dichiarazione di Maria Fi- da Moro a Tele Serenissima il 18 aprile 2004 e contenuta anche nel suo libro, La nebulosa del caso Moro49: suo padre, il 4 agosto 1974, era salito sull’Italicus, ma venne fatto scendere all’improvviso per firmare delle carte che gli erano state portate. E il treno partì senza di lui. Era forse lui l’obiettivo? Il destino di Aldo Moro si sarebbe co- munque compiuto quattro anni dopo.

OCCORSIO, UNA SENTENZA A MORTE SCRITTA SUI MURI DI VERONA

Verona, via Stella, 9 luglio 1976. In un appartamento del centro, c’erano alcune persone, una delle quali leggeva ad alta voce il testo di un volantino: «Il Tribunale specia- le del MPON ha giudicato Vittorio Occorsio e lo ha ritenu- to colpevole di avere, per opportunismo carrieristico,

49. Il libro è uscito per Selene Edizioni nel giugno 2004. Maria Fida Moro spiega di non aver mai fatto prima cenno all’episodio dell’Italicus perché fortemente sconsigliata da amici per evitare qualsiasi forma di strumentalizzazione.

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servito la dittatura democratica perseguitando i militanti di Ordine Nuovo e le idee di cui essi sono portatori. Vit- torio Occorsio ha, infatti, istruito due processi contro il MPON. Al termine del primo, grazie alla complicità dei giu- dici marxisti [Ernesto] Battaglini e [Michele] Coiro e del barone DC Taviani, il movimento politico è stato sciolto e decine di anni di carcere sono stati inflitti ai suoi dirigen- ti. Nel corso della seconda istruttoria numerosi militanti del MPON sono stati inquisiti e incarcerati e condotti in ca- tene dinanzi ai Tribunali del sistema borghese. Molti di essi sono ancora illegalmente trattenuti nelle democrati- che galere, molti altri sono da anni costretti a una dura latitanza. L’atteggiamento inquisitorio tenuto dal servo del sistema Occorsio non è meritevole di alcuna atte- nuante. L’accanimento da lui usato per colpire gli ordino- visti lo ha degradato al livello di un boia. Ma anche i boia muoiono! La sentenza emessa dal Tribunale del MPON è di morte e sarà eseguita da uno speciale nucleo operativo. Avanti per l’Ordine Nuovo!». L’acronimo MPON stava per Movimento Politico Ordine Nuovo e l’appartamento era lo stesso nel quale era stato preparato il volantino diffuso in città all’indomani della strage dell’Italicus. Vittorio Occorsio era invece il giudice che stava “perseguitando” Ordine Nuovo. Non solo, fonti informate rivelavano che il giudice romano aveva in men- te di creare un pool con i giudici veneti, bresciani e mila- nesi per unire le forze contro l’eversione di destra. Roma, via Giulia, stesso giorno. In casa Occorsio – una fa- miglia composta da quattro persone – il giudice Vittorio stava cenando con suo figlio Enrico. Erano soli perché sua moglie era rimasta a dormire dai genitori e sua figlia si trovava fuori Roma. Dopo cena, il giudice si era ritira-

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to nel suo studio per controllare alcune carte. Verso mez- zanotte era andato a dormire, imitato poco dopo da suo figlio. Il mattino seguente Enrico era ancora a letto quan- do era stato svegliato dalla sventagliata di una mitragliet- ta: erano passate da poco le otto del mattino, suo padre era quindi già fuori casa. Atterrito da un tragico presen- timento, si era vestito in fretta e furia, era corso in stra- da e, girato l’angolo di via Mogadisco, era stato fulminato da una scena che gli rimarrà negli occhi per tutta la vita: suo padre riverso sul volante della sua auto, crivellato di colpi.

Il persecutore di Ordine Nuovo La polizia aveva trovato nella macchina sette volantini della rivendicazione, con tanto di ascia bipenne, simbolo di Ordine Nuovo. Chi aveva ucciso Vittorio Occorsio, e perché? Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro, esattamente al 1956, quando Pino Rauti e alcu- ni esponenti del MSI, tra cui Clemente Graziani ed Elio Massagrande, in dissidio con le linee politiche del parti- to, avevano fondato Ordine Nuovo: il nome era stato scel- to in onore della Neue Ordnung vagheggiata da Hitler. Il gruppo si rifaceva alla Repubblica di Salò, assumendo co- me tesi quelle di Julius Evola, e adottando come simbolo l’ascia bipenne in un cerchio bianco su fondo rosso. Il motto, quello delle SS: «Il nostro onore si chiama fedel- tà». Per Ordine Nuovo bisognava abbattere la democra- zia borghese, il capitalismo decadente e l’imperialismo americano per creare una società fondata sulla gerar- chia, l’autorità, la subordinazione. Un movimento, quello di ON, che configurava il reato di

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ricostituzione del disciolto Partito fascista e per questa ragione, il 6 giugno del 1973, era iniziato il processo che vedeva come pubblico ministero il giudice Vittorio Oc- corsio. Il 21 novembre successivo erano stati condannati trenta ordinovisti, tra cui Elio Massagrande, Clemente Graziani e Salvatore Francia, e l’anno successivo altri esponenti di Ordine Nuovo che, nonostante lo sciogli- mento, aveva continuato non solo a operare, ma anche a fare nuovi proseliti, fra cui il futuro killer di Occorsio: Pierluigi Concutelli. Mentre sui muri di Roma e Verona erano comparse scrit- te profeticamente minacciose, come «Occorsio, tu ci dai l’ergastolo, noi di più», alla fine del giugno 1975, Concu- telli partecipava insieme ad altri estremisti di destra al sequestro del banchiere pugliese Luigi Mariano. Il ban- chiere era stato liberato dopo un riscatto di 180 milioni di lire50. A quel sequestro aveva partecipato anche Luigi Martinese, segretario federale del MSI di Brindisi, che due anni dopo aveva rivelato la destinazione di quel denaro: il finanziamento di un gruppo eversivo.

Mafia, eversione e P2 Secondo un rapporto della polizia di noto come “Rapporto Peri”, nel rapimento Mariani c’era anche un forte coinvolgimento della mafia, così come in almeno al- tri tre sequestri avvenuti nello stesso anno. Un intreccio, quindi, che legava politica, criminalità organizzata ed eversione neofascista. Dopo il sequestro, Concutelli aveva partecipato a una

50. Novantacinquemila euro attuali, ma con un potere d’acquisto dieci volte superiore, visto che lo stipendio medio di un operaio si aggirava sulle 120mila lire: 65 euro circa.

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riunione che si era tenuta in un casolare di Albano insie- me a esponenti di Avanguardia Nazionale e del MSI. Moti- vo dell’incontro, trovare una soluzione per Ordine Nuo- vo: i militanti ordinovisti sarebbero confluiti in Avanguar- dia Nazionale, organizzazione ancora legale. Pochi giorni dopo, in relazione al sequestro Mariani, la procura di Pa- lermo aveva spiccato un mandato di cattura per Concu- telli, che era fuggito in Spagna, sotto la protezione di Ste- fano Delle Chiaie, ormai punto di riferimento dei latitan- ti di estrema destra. Intanto Occorsio proseguiva il suo lavoro e fiutava che la pista dei sequestri poteva portare lontano: indagando co- sì su quelli del gioielliere Gianni Bulgari, del figlio del fi- nanziere Umberto Ortolani, e di Alfredo Danesi, indu- striale del caffè, aveva notato un particolare inquietante. Ortolani e il padre di Danesi avevano qualcosa in comu- ne: la massoneria. Più precisamente, facevano parte di una loggia segreta ancora sconosciuta, la P2 di Licio Gel- li, che aveva sede a Roma in via Condotti, proprio vicino alla gioielleria di Bulgari. Per Occorsio l’ipotesi era che quei sequestri fossero maturati all’interno dell’ambiente massonico per finanziare un gruppo di eversione di de- stra e che fossero stati eseguiti con l’appoggio della più potente organizzazione criminale che in quel periodo operava a Roma: la banda dei Marsigliesi (che da lì a po- co sarebbe stata soppiantata da quella della Magliana51). Ma non basta: il magistrato aveva anche scoperto che il totale della cifra messa insieme con i riscatti, circa sei miliardi di lire, corrispondeva esattamente alla somma

51. La fu attiva per un decennio a partire dalla seconda metà degli anni Settanta.

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spesa per comprare un palazzo in via Romagna, a Roma, sede dell’OMPAM. OMPAM significava Organizzazione Mon- diale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica e – nean- che a dirlo – era stata fondata da Licio Gelli. Il 30 marzo ‘76 Occorsio ordinava quindi l’arresto di Albert Berga- melli, uno dei capi della banda dei Marsigliesi, e del se- gretario della P2, nonché braccio destro di Gelli, Gian Antonio Minghelli. Dieci giorni dopo, i risultati delle inda- gini di Occorsio arrivavano sui giornali: “L’Unità”, citando fonti della magistratura, denunciava forti collegamenti tra la P2, la malavita organizzata e l’estrema destra per un comune progetto eversivo (con la morte di Occorsio le indagini su questi intrecci saranno bloccate: bisognerà aspettare sei anni perché scoppi lo scandalo della P2).

Soffiate dal Palazzo di Giustizia Il destino di Occorsio era però ormai segnato: il 22 apri- le Concutelli era tornato a Roma dalla sua latitanza spa- gnola. Con sé aveva un mitra Ingram: gli sarebbe servito la mattina del 10 luglio. Ordine Nuovo gli aveva affidato, infatti, il compito di eseguire la sentenza di morte. Con- cutelli aveva pedinato quindi il magistrato, individuando- ne il posto di lavoro, l’abitazione e i luoghi maggiormen- te frequentati, ma l’informazione più preziosa gli arriva- va proprio dal Palazzo di Giustizia: da venerdì 9 luglio “il persecutore” di Ordine Nuovo non avrebbe avuto scorta, perché in procinto di partire per le ferie il lunedì seguen- te. Chi aveva soffiato questa notizia al killer? Concutelli si è sempre rifiutato di indicarlo. Dopo l’omicidio, le indagini sul delitto Occorsio erano state assegnate al giudice romano Claudio Vitalone, pas- sando poi però per competenza alla procura di Firenze e

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in particolare ai sostituti Antonio Pappalardo e Pier Lui- gi Vigna. L’indizio principale che avevano per le mani gli inquirenti era l’avvistamento di due persone su una mo- to Guzzi 750 rossa, notata diverse volte nei pressi del- l’abitazione di Occorsio. Vigna si era messo subito sulle tracce della moto e il 22 ottobre, in un covo romano di estremisti di destra, insieme ad armi e munizioni, era sal- tata fuori proprio una Guzzi. Ma nera. Vigna era però convinto che si trattasse della pista giusta: la sua ostina- zione fu premiata quando scoprì che un certo Gianfran- co Ferro, quindici giorni dopo l’omicidio, aveva lasciato in un’officina proprio una moto Guzzi rossa prendendone in cambio una nera. Arrestato e interrogato, Ferro am- metteva di aver partecipato all’omicidio, precisando che però era stato compiuto da Concutelli.

Un soldato politico Il 12 gennaio ’77, la procura di Firenze emetteva un man- dato di cattura contro Concutelli che diveniva il ricerca- to “numero uno” d’Italia. Esattamente un mese dopo sa- rebbe stato arrestato a Roma. «Sono un soldato politico», dichiarava ai giornali, «e quindi sono un prigioniero politico. Sono stato preso in nottata, grazie anche all’abilità del nucleo che mi ha cat- turato, una menzione merita il brigadiere Antonio Ger- mano, che è entrato per primo. Potevo opporre resisten- za, ma non avevo possibilità di fuga, quindi, come dove- re rivoluzionario, in virtù di un ragionamento di econo- mia rivoluzionaria, ho preferito non opporre resistenza». Concutelli è stato condannato a tre ergastoli: oltre che per l’omicidio Occorsio, anche per altri due. Il 13 aprile ’81, nel carcere di Novara, con Mario Tuti, ha strangolato

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Ermanno Buzzi, condannato in primo grado per la strage di Brescia, mentre il 12 agosto 1982, sempre nello stesso carcere, si era ripetuto strangolando un altro estremista di destra, Carmine Palladino, fin dagli anni Sessanta luo- gotenente di Stefano Delle Chiaie, uno dei capi del- l’estremismo nero già coinvolto nello stragismo fascista. Palladino, raggiunto dalle indagini sulla strage alla stazio- ne di Bologna, aveva dato segni di disponibilità a collabo- rare con la giustizia. Concutelli è stato indagato anche dalla questura di Trapani per il sequestro dell’imprendi- tore Luigi Corleo – suocero dell’esattore della mafia Nino Salvo di Salemi – effettuato il 17 luglio 1975. Il corpo del prigioniero non sarà mai ritrovato.

AMATO, DA ROVERETO A ROMA PER MORIRE DI EVERSIONE NERA

Si chiamava Mario Amato, era un magistrato. Era nato a Roma, ma per anni Rovereto è stata la sua città. Ogni mattina si recava in procura per svolgere il suo lavoro di giudice: piccoli reati, niente di particolarmente impor- tante, come in tutte le procure di provincia. Finché era arrivato il trasferimento a Roma. Amato ne era felice. Non sapeva che aveva cominciato a morire proprio in quel luglio del 1977, quando, con la famiglia, aveva la- sciato la tranquilla cittadina trentina per spostarsi nella capitale. A dicembre gli era stato affidato il primo “caso”: il fasci- colo del “processo della Balduina”. Il 1° ottobre prece- dente, infatti, nel quartiere romano della Balduina, la se- de missina di via delle Medaglie d’Oro, considerata tra i

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più pericolosi covi neri della città, era stata chiusa su di- sposizione del ministro dell’Interno. La direttissima era obbligatoria, perché si trattava di un processo per rico- stituzione del Partito fascista. Altro che piccoli reati di provincia: Amato si era trovato per le mani un caso im- portante, ma anche un caso che scottava: il 30 settembre Walter Rossi, simpatizzante di Lotta Continua, era stato ucciso da Alessandro Alibrandi e da Cristiano Fioravanti, militanti del gruppo di estrema destra dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari). Uno di quei due killer, Alessandro, era una patata bollente: era infatti figlio di Antonio Ali- brandi, giudice istruttore di Roma e collega di Mario Amato. Questo 1977, oltre a originare un nuovo movimento che riverberava il ‘68, sul fronte opposto aveva visto fiorire nuovi gruppi eversivi: a quelli “storici”, come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale sciolti per decreto del Viminale, si erano sostituiti quelli di Terza Posizione – at- tiva soprattutto nelle scuole – delle COP (Comunità Orga- niche di Popolo) – formate da giovanissimi neofascisti che gravitavano intorno al FUAN (l’organizzazione degli universitari missini) – e quello dei NAR, il più pericoloso e attivo52.

Un unico filo nero L’attivismo neofascista aveva subito una determinante accelerazione il 7 gennaio ‘78, quando davanti alla sezio- ne missina di Acca Larentia a Roma, una raffica di mitra aveva ucciso due giovanissimi militanti: il diciannovenne

52. «La nostra era un’organizzazione anomala, quasi anarchica, nel senso che ognuno poteva servirsi della sigla dei Nar per compiere azioni contro lo Stato, che fosse rappresentato da un carabiniere, un giudice, una qualsiasi istituzione». Testimonianza resa all’autore.

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Franco Bigonzetti, e Francesco Ciavatta, che di anni ne aveva solo 18. Negli scontri che erano seguiti con le for- ze dell’ordine, un carabiniere aveva ucciso un altro mis- sino, Stefano Recchioni, di 19 anni. «Acca Larentia segnò un punto di non ritorno», mi spiegò , leader dei NAR con . «Giurai che non mi sarei più fatta trovare disarmata»53. Amato si era convinto che i tanti gruppi di estrema de- stra fossero riconducibili a un’unica regia eversiva. Gli at- tentati erano diventati pressoché quotidiani e non sem- pre attribuibili a un gruppo specifico, anche perché spes- so erano rivendicati da sigle diverse. In questo contesto, Amato ebbe l’intuizione di mettere insieme fatti apparen- temente slegati tra loro e di cercare un filo conduttore, anche se l’attività dei NAR da questo momento era diven- tata preminente: nella primavera successiva era stata trovata una cassa contenente munizioni ed esplosivo nel- la caserma di Tauriano di Spilimbergo, vicino a Pordeno- ne, dove Valerio Fioravanti aveva svolto il servizio milita- re. Altre casse, Fioravanti era riuscito a farle arrivare a Roma, dove erano state utilizzate per diverse azioni sia dai NAR che dalla banda della Magliana, a significare una sorta di sinergia fra terrorismo nero e criminalità orga- nizzata. Amato, però, non poteva svolgere al meglio il proprio la- voro perché era stato isolato sempre di più, anche per la questione Alibrandi. Per salvaguardare suo figlio, il giu- dice era arrivato a mettere in guardia il collega “visiona- rio” con queste parole: «Attento, perché questi sparano».

53. Testimonianza resa all’autore.

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“Questi” erano i NAR, di cui faceva parte appunto Ales- sandro. Amato, però, era andato avanti per la sua strada e lo aveva fatto arrestare. Le manette erano scattate poi ai polsi di Paolo Signorelli, “cattivo maestro” dello spon- taneismo armato di destra, e Sergio Calore. L’inchiesta si era concentrata quindi sul gruppo di Costruiamo l’Azio- ne, nato dalle ceneri di Ordine Nuovo e Avanguardia Na- zionale. Tutto ciò aveva scatenato violente polemiche contro Amato: ad attaccarlo, non era solo una parte del- la stampa, ma addirittura l’ordine degli avvocati, che – su estenuante istigazione di Antonio Alibrandi – aveva scrit- to una lettera al procuratore generale in cui denunciava un comportamento «deontologicamente scorretto».

Rivelazioni La violenza intanto si era fatta più feroce, con molte per- sone uccise a sangue freddo, e anche Amato aveva inizia- to ad avere paura. «Ero a casa con un amichetto», confi- dò poi suo figlio Sergio, «probabilmente rovistavamo tra le cose di mio padre e uscì fuori questa pistola: ricordo la sorpresa di trovare quell’oggetto in mano. Era la confer- ma che papà si sentiva in pericolo». Amato era ormai quindi consapevole di essere un proba- bile bersaglio, ma aveva continuato il suo lavoro, seppur sempre più isolato in un contesto ostile, finché aveva messo le mani su qualcosa di teoricamente inattaccabile. Il 21 aprile ’80, nella relazione al procuratore capo di Ro- ma, Giovanni De Matteo, aveva infatti scritto: «Il 17 apri- le mi è pervenuta una lettera anonima secondo cui Mas- simi Marco Mario era a conoscenza di notizie utili sui Nu- clei Armati Rivoluzionari, sulle Comunità Organiche di Popolo e sul Movimento Rivoluzionario Popolare. Il Mas-

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simi, da me interpellato, ha ammesso senza esitare di es- sere l’autore della lettera e mi ha dichiarato di conosce- re fatti utili alle indagini, e a conferma di quanto mi sta- va dicendo, estraeva da sotto la camicia una catenina con applicata un’ascia bipenne, simbolo della disciolta asso- ciazione sovversiva ON, sostenendo di aver aderito a essa sin dal 1962. Prima ancora che il sottoscritto potesse far- gli delle domande, dichiarava che naturalmente la lette- ra a me pervenuta doveva sparire». Massimi non aveva però voluto verbalizzare le sue rivela- zioni, che quindi erano state sottovalutate: il procurato- re non aveva quindi preso nessuna decisione in merito, lasciando ulteriormente solo il suo sostituto. Solo e in pe- ricolo. Eppure Massimi era stato chiaro, molto chiaro, descrivendo la vera struttura dei NAR, indicando il ruolo preminente di Paolo Signorelli, Claudio Mutti e Aldo Se- merari e, oltre a svelare rapine e omicidi, aveva rivelato che nel mirino dei terroristi ormai c’erano agenti di poli- zia, carabinieri e magistrati.

Sostiene Fioravanti Le dichiarazioni di Massimi avevano trovato subito una tragica conferma il 28 maggio ’80, quando un commando dei NAR aveva attaccato una volante della polizia di guar- dia davanti al liceo romano Giulio Cesare: nello scontro a fuoco era morto l’agente Franco Evangelista, detto “Ser- pico”54, e altri due erano rimasti gravemente feriti. Pochi giorni più tardi, Amato aveva rinnovato al CSM le sue pre-

54. “Serpico” è un film del 1973 di Sidney Lumet che ha per protagonista Al Pacino nei panni di Frank Serpico, un poliziotto realmente esistito, in forza alla polizia di New York, che nel 1972 aveva denunciato di corruzione diversi suoi colleghi.

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occupazioni, denunciando ancora una volta la sua solitu- dine e la sua conseguente esposizione. Ormai mortale. I NAR, infatti, avevano iniziato a “preparare” il suo omici- dio. Il 22 giugno, Amato aveva chiamato in ufficio per chiede- re una macchina blindata, perché la sua era ferma in of- ficina, ma gli era stato risposto che per l’ora da lui richie- sta non era disponibile nessuna vettura. Il giorno seguen- te, intorno alle 7.50, il giudice era uscito di casa per l’ul- tima volta. Raggiunta la fermata dell’autobus di viale Io- nio, poco dopo, in mezzo ad altre persone, era stato fred- dato con un colpo di pistola alla nuca da un killer, poi ca- ricato da un complice su una moto di grossa cilindrata che si era dileguata nel traffico. Era stato Sergio Amato ad avvertire sua sorella Cristina che era accaduto qualcosa al padre: «Mio fratello è arri- vato e mi ha detto: “Papà l’hanno ucciso con la pistola”… Mio fratello di sei anni». Valerio Fioravanti mi ha spiegato così le motivazioni del- l’omicidio: «Avevamo identificato Amato come obiettivo per lanciare un messaggio chiaro, inequivocabile, direi clamoroso, che sanzionasse la rottura fra noi e quella se- rie di apparati dello Stato a cui eravamo stati perlomeno “simpatici” fino a quel momento». Da parte sua, Cristina Amato aveva avanzato questi dub- bi: «Non posso non pensarlo, non posso non pensare che ci sia stata una precisa volontà. Ci sono troppe coinci- denze: mio padre dopo tre giorni partiva per il mare e questa è una cosa che poteva sapere soltanto qualcuno. Mi sembra proprio strano che hanno deciso per quel gior- no e non dieci giorni dopo o un mese prima. Il fatto che non aveva la macchina…».

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L’immagine impietosa Gilberto Cavallini, esecutore materiale, è stato condanna- to all’ergastolo. Ottenuta la semilibertà nel 2001, è stato nuovamente arrestato nel 2002 per possesso d’arma da fuoco. Luigi Ciavardini il giorno dell’omicidio guidava la moto. Minorenne all’epoca dei fatti, è stato condannato a dieci anni e due mesi di reclusione. Fioravanti e Mambro, condannati all’ergastolo per concorso nell’omicidio di Amato, attualmente sono entrambi in semilibertà. Dopo la morte di Amato, alla procura di Roma sono state assegnate trecento macchine blindate. Si è inoltre costi- tuito un pool di magistrati che ha sgominato il terrorismo di destra a Roma, grazie al lavoro svolto da Amato, che a sua volta aveva ereditato i fascicoli del giudice che prima di lui si era occupato di terrorismo nero: quel Vittorio Oc- corsio ucciso il 10 luglio 1976 dal neofascista Pierluigi Concutelli. Con l’eliminazione di Amato era intanto svani- ta la possibilità di impedire la strage di Bologna. Mentre Amato cadeva a Roma, Valerio Fioravanti e Fran- cesca Mambro si trovavano a Treviso, dove, ricevuta la notizia, avevano festeggiato a ostriche e champagne pri- ma di stendere la rivendicazione: «Oggi Amato ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo». La fine di un’esistenza impietosamente apparsa su tutti i giornali con la fotografia del magistrato riverso sull’asfalto con la suola delle scarpe bucata.

LUDWIG E LA PULIZIA DEL MONDO

«La nostra fede è il nazismo, la nostra giustizia è la mor- te, la nostra democrazia lo sterminio. Il fine della nostra

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vita, la morte di coloro che tradiscono il vero Dio». Fir- mato Ludwig. Questa è una brutta storia. Una storia di confine fra i cri- mini comuni e quelli “politici”. Una storia nata e svilup- patasi in Veneto. Trento, 26 febbraio 1983. Per terra, un uomo. Un anziano prete con un punteruolo da scalpellino conficcato nel cra- nio. Sullo scalpellino è stato saldato un crocifisso di legno. Rantola, è in agonia. Una scena da film horror, ma non è una fiction. È tutto vero, e quello non è un attore. È padre Armando Bison, 71 anni, padovano di origine, della Con- gregazione dei Figli del Sacro Cuore, detti Venturini. Aveva appena celebrato la messa nella chiesa del Suffra- gio e stava tornando in convento. Piovigginava ed era or- mai buio. A un tratto, arrivato a pochi passi dal cancello, qualcuno lo aveva aggredito alle spalle, fracassandogli la testa a martellate. Un confratello l’aveva trovato così, in un lago di sangue. E si era messo a urlare, a disperarsi. Grida raccolte da una donna, la stessa che dichiarò poi alla polizia di aver notato dalla sua finestra due giovani sui vent’anni, mai visti in zona, nascondersi alla vista di alcuni passanti prima di sparire nel buio. Soccorso, padre Bison era stato portato al neurochirurgico di Verona, inu- tilmente: era morto dopo dieci giorni senza mai riprende- re conoscenza.

I pazzi Che mostri giravano per Trento? Fra quelle montagne che trasmettono serenità? Il fatto suscitò un’enorme emozio- ne, ma qualcuno ha pure memoria lunga: un massacro del genere non era forse già successo da qualche parte non tanto tempo prima? Ma sì, certo, a Vicenza. Lì, a centocin-

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quanta chilometri di distanza, l’estate prima due monaci del Santuario di Monte Berico, Gabriele Pigato e Giusep- pe Lovato, entrambi di settant’anni, erano stati massacra- ti a martellate. Un duplice omicidio firmato. “Rivendica- to”, come facevano tutte le formazioni politiche eversive e sovversive, nere e rosse. Sotto un’aquila stilizzata, sor- montata dalla scritta “Gott mit uns” (“Dio è con noi”, il motto dei nazisti), questo delirio: «Il fine della nostra vita è la morte di chi tradisce il vero Dio». La nuova “griffe” del terrore si chiamava Ludwig55. Ma non era un debutto, non era la prima volta che com- pariva quella sigla: già nel 1980 Ludwig aveva rivendicato la paternità di una catena di omicidi cominciata nel 1977 e proseguita al ritmo di uno all’anno. Le vittime: “impuri” da punire con la morte. Lo scenario era sempre quello del Veneto, fino a quell’omicidio fuori regione, a Trento. Una novità. Una svolta che proseguiva: dal Veneto al Trentino, dal Trentino alla Lombardia e poi anche all’estero. Il 4 marzo 1984, nella discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere (Mantova) c’erano circa trecento persone per una festa in maschera. «Ma questo è odore di benzina?». «Che ti sei fumato?». «Ti dico che è benzina». «Cambia pusher, va’!». Altro che pusher. C’era stato chi, oltre a sentire quel- l’odore, aveva visto, e non aveva le traveggole.

55. Per la sigla Ludwig, Abel e Furlan si sarebbero ispirati alla «metafisica biocentrica» di Ludwig Klages (1872-1956), psicologo e filosofo tedesco studioso del carattere umano, autore del trattato Lo spirito avversario dell’anima, mai tradotto per intero in italiano, secondo il quale «una masnada di razze sporche e inferiori - ebrei, sbandati, gente senza dignità - ha fatto irruzione nella storia, innescandovi un cancro che ormai non ha rimedio». E tutto ciò perché «lo spirito, da intendersi come ragione, si è incuneato nell’incontro tra corpo e anima, impedendolo per sempre».

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«Ma che fa quel pazzo vestito da Pierrot?». «Sta svuotando una tanica di benzina sulla moquette!». Nel parapiglia, era stato bloccato. Con lui c’era “un altro pazzo”, anche lui vestito da Pierrot. Tutti e due erano stati strattonati e poi tenuti ben fermi fino all’arrivo del- la polizia, che li aveva identificati. Dai documenti i due “pazzi” erano risultati essere Marco Furlan, veronese di 27 anni, figlio del primario del reparto ustionati del- l’ospedale di Verona, e Wolfgang Abel, 25 anni, figlio di un ricco assicuratore tedesco che da anni risiedeva a Ne- grar di Verona.

Colpire gli inferiori Disposte le perquisizioni domiciliari, nelle abitazioni dei due “pazzi”, gli inquirenti, fra croci uncinate, armi e chin- caglierie neonaziste di vario genere e natura, avevano trovato dei block notes con fogli uguali a quelli usati per le rivendicazioni e sui quali erano visibili i solchi lasciati sul foglio sottostante dalla penna che aveva tracciato i lo- ro messaggi. Comunicati molto “artigianali” insomma. Perché tutto questo? Perché due giovani dell’alta bor- ghesia, uno laureato in matematica, l’altro in fisica, si erano autoinvestiti del ruolo di giudice e boia. Forse non s’erano più ripresi dopo aver letto – rigorosamente in te- desco anche perché nessun editore italiano l’aveva trova- ta degna di traduzione – una tragedia di Otto Ludwig, fi- gura marginale del romanticismo germanico. Un dram- mone in cui il protagonista teorizzava la figura del “sacer- dote perfetto” e puniva con la morte “i servi dei falsi dei”. Insomma, “il progetto politico” dei due Ludwig era sem- plice quanto rozzo: ripulire la società da “froci”, “droga- ti”, “pervertiti”, “zingari”, “ebrei”, “puttane” e pure preti

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in odore di peccato. Ma anche dai malati di mente. In una parola, quegli “inferiori” di cui si era occupato il Terzo Reich. Il rinverdito “progetto” era costato la vita a quindici per- sone tra il 1977 e il 1984. La prima vittima, sacrificata sull’altare di una purezza che Ludwig non aveva, era sta- to Guerrino Spinelli, un clochard di trent’anni, bruciato vivo a Verona nel suo giaciglio di cartone inondato di benzina. Il poveretto, una torcia umana, era morto fra atroci dolori e urla disumane sentite dall’altra parte del canale Camuzzoni. Ironia della sorte, era finito – inutil- mente – nel reparto dell’ospedale di cui era primario il padre di uno dei suoi carnefici. Poi era toccato a Luciano Stefano, che faceva il sommelier a Padova. Uno bravo nel suo lavoro, ma aveva un difetto, anzi, una colpa grave: era omosessuale. Per questo era stato prima bastonato selvaggiamente, poi finito a coltellate. Coltellate che ave- vano straziato anche le carni di un altro “peccatore”, Claudio Costa, un ventiduenne reo di essere un tossico- dipendente. Reo di sporcare Venezia con la sua sola pre- senza. Anche Vicenza era sporca. C’era una certa Alice Beretta, che a cinquantacinque anni suonati faceva ancora la put- tana per strada. Un’indecenza punita a fil di lama. I due criminali erano quindi tornati a Verona per ripulirla di un capannone sul lungadige. “Un postaccio” dove trovavano riparo, neanche a dirlo, drogati e sbandati. Come Luca Martinotti. Uno che a diciott’anni era già un rifiuto della società. Un rifiuto da eliminare col fuoco. Ad altri due “tossici” era andata “meglio”: se l’erano cavata con ustio- ni destinate a lasciare i segni per tutta la vita, dopo lun- ghe degenze e interventi chirurgici.

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Era stata quindi la volta dei religiosi: i frati di Vicenza e il sacerdote di Trento. Dalle persone si era poi passati ai locali. Locali peccaminosi, s’intende. Il 14 maggio 1983 i due Ludwig si erano spostati fino a Milano per incendia- re il cinema a luci rosse Eros. Nel rogo purificatore era- no morte sei persone, trentadue erano rimaste ferite, al- cune in modo grave e debilitate per il resto della vita. Le trasferte si erano intensificate col cambio di “rotta politi- ca”, non si colpivano più le singole persone, ma i posti di perdizione. E non solo in Italia, perché era ormai l’intera Europa che doveva essere moralizzata, purificata. A co- minciare dalla Germania. A Monaco di Baviera c’erano luoghi di immoralità frequentati anche da molti italiani: era infatti italiana Corinna Tartarotti, morta nell’incendio della discoteca Liverpool, dove erano rimaste gravemen- te ferite altre sette persone. Anche il Melamara era un luogo di peccati indicibili a Castiglione delle Stiviere. Proprio lì, in quel paese che ospitava uno dei più noti ospedali psichiatrici giudiziari, Marco Furlan e Wolfgang Abel avevano trovato la fine della loro storia criminale.

Siamo estranei I due neonazisti moralizzatori, seppur beccati con le ma- ni nella benzina che avrebbe dovuto incendiare il Mela- mara di Castiglione delle Stiviere, si erano dichiarati estranei ai delitti firmati Ludwig. Le loro parole, comun- que, non potevano contare nulla di fronte alle prove rac- colte, e per i due era iniziato un iter giudiziario lunghis- simo. Ventuno udienze per omicidi e stragi. Di “ferreo”, dopo l’arresto, ai due era rimasto solo il silenzio, rotto so- lamente per dichiararsi «colpevoli di uno scherzo nato senza la volontà di nuocere a qualcuno». A entrambi era

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stata riconosciuta la seminfermità mentale. Abel – defini- to “potenzialmente pericoloso per sé e per gli altri” – ave- va tentato più volte il suicidio in carcere. Una seminfer- mità che aveva permesso loro di evitare l’ergastolo, per una condanna a 30 anni emessa l’11 febbraio 1987. Per la lunghezza dei procedimenti, nel frattempo erano decorsi i termini per la carcerazione preventiva e i due erano stati rimessi in libertà con l’obbligo di soggiorno a Mestrino e Casale Scodosia. Il 10 aprile 1990 la Corte d’Appello aveva ridotto le pene a ventisette anni sia per Abel che per Furlan, ma Furlan non ci stava ed era scap- pato. Per quattro anni era sparito dalla circolazione fin- ché fu rintracciato a Creta. Da parte sua, Abel si fece il carcere dal primo giorno. Dopo avere protestato contro la sentenza con lo sciopero della fame ed essere stato ri- coverato per molti anni in un ospedale psichiatrico sotto sorveglianza, Abel ha goduto di permessi premio. Il 24 aprile 2008 il tribunale di sorveglianza di Milano ha deciso di affidare Marco Furlan in prova ai servizi sociali. Attraverso i suoi legali, Furlan aveva chiesto di poter la- sciare il carcere di giorno per rientrarvi di notte, ma il tri- bunale aveva preso una decisione a sorpresa, preferendo anticipare la scarcerazione del serial killer, tornato libero a gennaio 2009. Pochi giorni ed è toccato all’altra metà Ludwig lasciare il carcere di Sulmona: Wolfgang Abel, che in un’intervista a una televisione veronese lamenta la sua lunga detenzione da innocente. Proprio così. Innocente. «Non ho nulla a che vedere con i delitti che mi sono sta- ti attribuiti», dice. «È stata dura, ma dal carcere sono uscito sano e in buona salute. La mia famiglia mi è sem- pre stata vicino e chi mi conosce sa che non c’entro nul- la con la vicenda Ludwig».

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Se non è stato lui col suo amico Furlan, allora chi? «Pre- sumo gente tipo le bestie di Satana o una setta religiosa». Già, una setta religiosa. Pazzi scatenati, insomma, prede di un delirio. Non come Ludwig, che invece agiva per un obiettivo politico nobile, come quello di eliminare dalla faccia della terra tutti quei reietti, quella feccia dell’uma- nità.

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LA NERA

FELICE MANIERO E LA MAFIA DEL BRENTA

«Non vedevo l’ora di andare in carcere per conquistare quel rispetto dovuto a chi passa dal gabbio». Parola di Felice Maniero, il boss della mafia del Brenta, l’organiz- zazione criminale che replicò nel Veneto le gesta crimi- nali compiute dalla banda della Magliana a Roma. Questa storia inizia nella campagna veneta nella seconda metà degli anni Sessanta, quando Felice, nato nel 1954, era un ragazzino che, invece di studiare e svolgere i com- piti assegnatigli dagli insegnanti della scuola media, al pomeriggio preferiva seguire suo zio Renato: per lui un vero mito. Sì, perché zio Renato era un criminale. Un la- dro, un truffatore, un rapinatore ben lieto di dare a suo nipote altre lezioni, diverse da quelle inutili della scuola. A 15 anni, Felice era così pronto per seguire suo zio nel- le rapine. Aveva anche imparato a sparare e sapeva ma- neggiare bene una pistola, un revolver. L’apprendistato era durato qualche anno, finché Felice fu in grado di an- dare per la sua strada, di intraprendere autonomamente la carriera di bandito. Fra l’altro, aveva scoperto qualco- sa di formidabile, sfuggita agli occhi di suo zio, ancora le- gato a una malavita di basso profilo, da rubagalline: l’oro del Veneto. Altro che rubare forme di parmigiano, che puzzavano pure! Un chilo d’oro valeva molto, molto di più e non puzzava. L’oro era lì, a portata di mano, per- ché un quarto di tutto l’oro del mondo veniva lavorato sotto il naso di Felice, nel vicentino. La scoperta l’aveva fatto sobbalzare nella poltrona dove

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era sprofondato mezzo addormentato mentre guardava un noiosissimo documentario sulla lavorazione del pre- ziosissimo metallo. Dalla TV aveva scoperto insomma che gli bastava uscire di casa per arricchirsi. Ecco a cosa si sarebbe dedicato con la sua banda: altro che furti da quattro palanche. All’interno del gruppo criminale che aveva messo in piedi era già lui il leader e ora, con quel- l’idea si era assicurato la totale deferenza e l’indiscussa obbedienza. Con la sua banda aveva messo quindi a se- gno una serie di colpi nelle botteghe orafe disseminate nel circondario. La sua banda era stata immortalata in una fotografia di gruppo scattata il giorno del matrimonio di uno di loro: Zeno Bertin. Tutti destinati a morire o finire in galera. Gli anni Settanta erano finiti e il 1980 s’incaricava di regi- strare la presenza in Veneto di una vera e propria banda organizzata con schemi e dinamiche mafiose. Maniero aveva infatti spostato la sua attenzione dalle seppur mu- nifiche campagne “dorate” vicentine alla ricca Venezia. Fra gondole e acqua da tutte le parti, quella città era per lui una zecca a cielo aperto col suo casinò. E attorno al casinò ruotavano i cambisti, cioè strozzini. «Gentaglia». Per questo Maniero aveva imposto loro una tangente di un milione e mezzo al giorno: tanto doveva versare ognu- no di loro se non voleva fare la fine di quell’idiota pesta- to a sangue e al quale erano state spezzate le dita perché s’era rifiutato.

La svolta mafiosa Il salto di qualità per Felice Maniero e la sua banda era avvenuto con l’incontro dei fratelli Fidanzati: due mafio- si siciliani mandati al soggiorno obbligato proprio lì, in

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Veneto. Erano stati loro che gli avevano prospettato un nuovo scenario con tanti soldi e pochi rischi. Quello del- la droga. I mafiosi procuravano la droga, l’organizzazione di Felice – che contava ormai oltre cinquecento “soldati” – la spacciava. Il primo omicidio di Maniero e della sua banda era avve- nuto ai danni di un vecchio amico dello zio Renato: Gian- ni Barizza. La sua colpa, quella di essersi impossessato di parte di una fornitura per spacciarla per proprio conto. Quasi la chiusura di un cerchio per Felice, una sorta di affrancamento definitivo dalla criminalità paesana del mondo di suo zio. Barizza era stato anche incaprettato, un chiaro messaggio mafioso per chiunque avesse lonta- namente pensato di fare uno sgarro a quell’organizzazio- ne criminale che ormai controllava tutto il territorio. Co- me era accaduto a Ottavio Andreoli che, pur facendo parte della banda, aveva deciso di mettersi in proprio, gestendo per sé e non per la banda il traffico di stupefa- centi a Venezia. Il suo corpo era stato trovato in un ap- partamento veneziano con sei colpi di calibro 38. Due erano bastati per chiudere la bocca della pericolosa testi- mone che stava passando la notte con lui. Va bene la droga, ma quando hai tanto oro sotto il naso non puoi proprio voltare la faccia dall’altra parte, non puoi dare un calcio a tutti quei soldi. A fine novembre ’83, Maniero aveva infatti saputo che nell’aeroporto Mar- co Polo di Venezia il 1° dicembre ci sarebbe stato oro per oltre 3 miliardi. Oro lavorato e destinato all’esportazione in tutto il mondo. Oro che invece finì nelle tasche della banda con un’azione da film spettacolare in cui non fu sparato neppure un colpo. Com’era accaduto per la rapi- na ai caveau dell’hotel De Bois. Un’attività, quella della

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banda, che aveva inevitabilmente finito col pagare qual- che pegno: qualcuno della banda era stato infatti arresta- to. Fra questi, un cugino del boss. «Dobbiamo trattare con le autorità», aveva annunciato Felice ai suoi sgherri che con tutta la buona volontà, non riuscivano proprio a capire. «Dobbiamo rubare opere d’arte e chiedere come riscatto la liberazione dei nostri». Un’idea folle. Invece no, perché loro non trafu- garono cosucce dalle chiese, ma tele del Correggio, an- che se l’affronto maggiore era arrivato col furto della mandibola di Sant’Antonio dalla basilica di Padova. Il ri- sultato, comunque, era stato raggiunto. Con tanto di re- stituzione della sacra reliquia. Sì, perché lui ci teneva a mantenere un buon rapporto con la gente e quell’azio- ne aveva scandalizzato non solo i veneti, ma tutto il mondo. Al suo paese – Campolongo Maggiore, nella campagna veneziana – tutti gli volevano bene. Era visto come un Robin Hood, anche perché chi aveva qualche problema sapeva di poter contare su di lui, che metteva subito ma- no al portafoglio. Nella sua banda c’era chi doveva fare il giro delle cassette delle lettere delle famiglie indicategli dal capo e in quelle cassette infilare centomila lire. Del resto, lui non si era mai mosso da lì, da Campolongo, dal- la casa di sua madre, vero e unico punto di riferimento. Un attaccamento che lo aveva portato a essere sopranno- minato “cottola”, sottana. A un magistrato che gli aveva chiesto perché dopo aver accumulato tutti quei miliardi non fosse fuggito all’estero, aveva risposto che per lui vi- vere lontano dalla sua terra – e da sua madre – non era vivere.

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L’arresto La fine della corsa arrivò in una giornata di maggio del 1984. Trasferito nel supercarcere di Fossombrone – do- ve sua madre gli faceva arrivare filetto e aragoste – ave- va stretto amicizia col brigatista Giuseppe Di Cecco, mentre la sua banda s’incaricava di mettere fine alla vita di quel traditore del “sauna”: Stefano Carraro, che aveva tagliato oltremodo una partita di eroina per impossessar- si di parecchi milioni per conto suo. Col Di Cecco, Maniero riuscì a evadere nel dicembre ’87, con una fuga rocambolesca finita a Bologna, dove i due avevano preso ognuno la propria strada. Ma era proprio col Di Cecco che aveva poi organizzato la rapina al cave- au dell’Istituto di vigilanza di Mestre. Per l’occasione, Ma- niero aveva deciso di creare due gruppi: uno capeggiato da lui, l’altro dal suo complice. Lui avrebbe raggiunto l’Istituto, mentre Di Cecco e gli altri, travestiti da finan- zieri, sarebbero andati a prelevare Donato Agnoletto, il direttore dell’Istituto, da casa sua. Agnoletto, però, che inizialmente aveva creduto a quei falsi finanzieri, aveva poi reagito quando si era accorto che usavano armi che non potevano essere in loro dotazione. Era infatti anche titolare di un’armeria e se ne intendeva. Nel parapiglia Agnoletto era stato ferito con un colpo sparato all’addo- me: «Erano pure male informati», disse poi, «perché il caveau era praticamente vuoto in quei giorni». Arrestato nuovamente a Chiasso, Maniero era stato però liberato per decorrenza dei termini carcerari e aveva or- ganizzato l’eliminazione dei fratelli Rizzi. Anche loro, in- fatti, si erano messi in testa la pericolosissima idea di vendere la droga per conto proprio. Singolare il fatto che dopo l’omicidio, la famiglia Rizzi non avesse presentato

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nessuna denuncia: una decisione ricompensata da Ma- niero con sostanziosi aiuti economici. Nel curriculum della banda mancava un assalto al treno, pecca cui era stato posto rimedio il giorno di San Valentino del ’90, quando una carica esplosiva aveva squarciato le lamiere di una carrozza portavalori, ma l’esplosione era avvenuta nel momento in cui dalla parte opposta arrivava un altro treno, col risultato che alcune schegge avevano trafitto una passeggera. La storia, comunque, stava per finire de- finitivamente.

Finale con dramma Dopo essere stato arrestato a Capri nel ‘93 su Lucy, lo yacht da due miliardi appena comprato al quale aveva dato il nome di sua madre, ed essere nuovamente evaso dal carcere di Padova, nel 1994 Maniero era stato arre- stato a Torino. La successiva condanna gli aveva assegna- to trentatré anni di galera. Un tempo che “faccia d’ange- lo” mai avrebbe trascorso dietro le sbarre. Questa volta, però, aveva deciso di uscire dal carcere in altra maniera. Basta evasioni, basta fughe. Stanco di quella vita, aveva deciso di collaborare. Con le sue rivelazioni, Maniero aveva fatto finire in gale- ra tutti i suoi uomini: ben centoquarantadue componen- ti della cosiddetta banda del Brenta erano stati rinviati a giudizio e poi seppelliti sotto centinaia di anni di carcere. La vita di “faccia d’angelo” non valeva più mezza lira, per questo era stato ammesso al regime di protezione previ- sto per i pentiti. Si era cambiato anche i connotati con un intervento plastico e aveva cambiato nome: come Luca Mori, ora vendeva pentole. La nuova identità era stata scoperta per una superficialità, la pubblicazione della ri-

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chiesta di cambio nome sulla “Gazzetta ufficiale”. La “nuova vita” dell’ex-boss della veniva sconvolta il 23 febbraio 2006, quando sua figlia, che vive- va a Pescara sotto protezione, come prevede la legge per i familiari dei pentiti, s’era suicidata lanciandosi dal bal- cone dell’appartamento del suo fidanzato. «Me l’hanno uccisa!», aveva urlato disperato suo padre. Ma la bella trentenne che aveva già alle spalle un matrimonio fallito, stava vivendo la fase più acuta di un nuovo fallimento af- fettivo.

I PREDATORI DEL CERMIS

La gente di montagna parla poco. Come i contadini, che ogni tanto sollevano il capo, si asciugano la fronte e lan- ciano lo sguardo verso l’orizzonte per scrutare anima vi- va e per interrogare quel cielo che si inarca sopra la ter- ra. Con quei gesti, atavici e quotidiani, gli chiedono silen- ziosamente se farà splendere il sole o butterà in pioggia. Parla con le nuvole, il sole, la luna, le stelle, la gente di montagna. Quel giorno, a Cavalese, il cielo rispose con un uccello di metallo. Un maledetto predatore che si portò via venti persone. Da qualche tempo, fra quelle montagne della Val di Fiemme avevano cominciato a volteggiare rapaci d’acciaio, innaturali nel loro muoversi così veloci e rumo- rosi in quella valle, un luogo di serenità e neve. Condizio- ni, queste ultime, che avevano convinto tanti “stranieri”, gente nata lontano, a venire lì per godere di quelle mon- tagne. Di quella pace. Anche quel giorno c’era gente ar- rivata da ogni dove.

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Quel giorno, martedì 3 febbraio 1998, diciannove perso- ne entrarono nella cabina della funivia che da Cavalese portava sul monte Cermis, a duemila metri. A manovrar- la, c’era Marcello. Marcello Vanzo, che aveva scambiato il turno e la vita con un suo collega. Ci siamo tutti? Bene, partiamo. Guarda che bello, che in- canto. Pensa solo a questa esplosione di bellezza che t’avvolge coi suoi colori: lascia fuori tutto il resto. Anche quegli orrori così vicini, così lontani. La Bosnia. Perché c’è una guerra, e non nel Sud-Est asiatico, ma là, a un na- so oltre l’Adriatico, dove fino a ieri si andava in vacanza.

NATO per uccidere Alla guerra bisogna arrivare pronti, preparati, come sta- vano facendo quei quattro, che nella base NATO di Aviano avevano preso posto su un aereo militare. Un comandan- te: il capitano Richard Ashby, 32 anni, californiano, 750 ore di volo, veterano della Bosnia; un navigatore: Joseph Schweitzer, 30 anni, dello Stato di New York; e, seduti al- le loro spalle, i due addetti alle attrezzature di ricognizio- ne: Chandler Seagraves, 28 anni, dell’Indiana, e William Raney, 26 anni, del Colorado. Mentre i vacanzieri si apprestavano a “scalare” il Cermis, questi quattro partivano per la missione Easy 01, all’in- terno dell’operazione pianificata Deny Flight. L’aereo, un Ea–6b dall’orrendo nome di Prowler (predatore), era de- collato alle 13.36. Un volo d’addestramento e un’impresa da far gonfiare il petto, scolando una birra che qualcuno avrebbe pagato. Perché qualcun altro aveva dimostrato d’averci le palle. È facile decollare, volare a norma e at- terrare: un protocollo da civili, da rammolliti. Meno faci- le è dimostrare di non aver paura, d’essere capaci di gio-

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care con la vita. È facile volare a mille piedi: prova a scendere se sei capace! Prova a infilarti fra le montagne e distinguere una lepre da un coniglio! E allora giù, giù e ancora più giù, fino a 800, 600, 400, 360 piedi: 360 piedi sono 110 metri, quelli che dividevano la cabina della fu- nivia da terra. Alle 15.12 i quattro americani avevano incrociato il desti- no di venti persone tranciando due cavi della funivia e la loro vita. «Cos’è stato? Ho sentito uno scossone». Alle 15.26 il “predatore” aveva fatto ritorno alla base di Aviano. Il presidente Bill Clinton si era scusato subito per l’inci- dente, promettendo di risarcire le famiglie delle vittime, tra cui tre italiani. Ma la tensione era salita, montata, fino a produrre manifestazioni in cui erano comparsi slogan quali “NATO per uccidere” perché anche la strage del Cer- mis stava assumendo contorni inquietanti, conosciuti, di impunità. Perché anche questa volta c’erano depistaggi e misteri. Eppure i responsabili erano certi, si conoscevano, le loro facce erano su tutti i giornali. Allora perché parlare di un’altra strage impunita? Perché i misteri? Perché – proprio nel giorno in cui la Cassazione assolve- va definitivamente Bruno Viviani, Roberto Corsini ed Eu- genio Brega dell’aeronautica militare italiana per il disa- stro dell’Istituto Salvemini di Casalecchio di Reno (Bolo- gna), dove il 6 dicembre 1990 erano stati uccisi dodici studenti e un’altra novantina di persone era rimasta feri- ta a causa di un aereo schiantatosi sulla scuola – c’erano dieci minuti di silenzio radio proprio a ridosso della tra- gedia, esattamente dalle 15.05 alle 15.15, quando il pilo- ta aveva lanciato l’emergenza. Perché era sparito un “mission recorder”. Perché una cassetta video era an- data distrutta. Perché c’era una carta di volo contestata.

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Perché, si diceva, c’era un radar-altimetro difettoso. E, soprattutto, perché c’era un finale scandaloso. Un’asso- luzione. Perché c’era qualcuno che non pagava. Perché questa, alla fine, era un’altra storia di impuniti. Tutto sot- to il naso. Anzi, sopra. Fra montagne e vite violate.

Non era la prima volta Bisogna fare un passo indietro, altrimenti non si capisce niente. E allora, riavvolgiamolo questo nastro maledetto e rivediamo questo film dell’orrore. O, almeno, rivediamo ciò che possiamo rivedere. Scopriamo così che quel volo, autorizzato dalle autorità italiane, era il quarto di una li- sta di dieci presentata dal comando dei marines e che sotto quell’elenco c’era una firma, o per meglio dire, la si- gla, lo scarabocchio di un capitano italiano, il cui cogno- me iniziava per “F”. Scopriamo che gli americani avreb- bero inserito il Prowler (il predatore) in un elenco che invece era destinato solo agli F16. Un errore macroscopi- co ma, curiosamente, nessuno se n’era accorto. Neanche l’altro ufficiale italiano – tal M.B.G. – che controfirmò l’elenco, né il centro di controllo di Martinafranca. Co- munque sia, l’inchiesta della procura di Trento addossa- va al pilota la responsabilità della tragedia. I voli normali erano autorizzati a una quota di 1100 metri e, anche se quel predatore fosse stato autorizzato al volo radente, non poteva scendere più in basso di 650 metri. L’impatto, invece, era avvenuto a 110 metri da terra. Non basta: anche la velocità non era a norma. Secondo i dati forniti da un aereo–radar USA “Awacs”, che in quel mo- mento volava a una quota superiore, il Prowler sfrecciava a 500 miglia orarie e non a 100 come previsto dal regola- mento. La conferma arrivava il 12 marzo, quaranta giorni

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dopo la strage. Il rapporto della commissione d’inchiesta americana parlava chiaro: «La causa dell’incidente è da ri- scontrarsi in un errore dell’equipaggio, che ha guidato in modo aggressivo l’aereo, superando la velocità massima e volando ben al di sotto della quota richiesta». Da parte loro, i periti italiani dimostravano che l’aereo si era incuneato fra i due cavi, tranciandoli. Cavi che dista- vano fra loro quaranta metri. Certo, quaranta metri! Ma è così che si dimostra d’avere le palle: passando fra due ca- vi distanti quaranta metri. «Ho visto passare quell’aereo poco prima. Volava basso sul pelo del lago artificiale di Stramentizzo. E non era certo la prima volta». La gente di montagna parla poco. Per questo bisogna ascoltarla quando apre bocca.

Lies, videotape and air conditioning In compenso parlavano molto le televisioni e i giornali e la politica. E poi i tribunali. Quasi esattamente un anno do- po, l’8 febbraio, si aprì il processo contro il capitano Ri- chard Ashby e il navigatore Joseph Schweitzer davanti al- la corte marziale di Camp Lejeune, la base dei marines nel North Carolina. Il capitano rischiava duecentosei anni di carcere. Non ne farà neanche uno. Il 4 marzo, Ashby fu assolto: la corte gli riconobbe che il volo era autorizzato a una quota di 500 piedi (ma lui era molto più basso: come avrebbe fatto altrimenti a tranciare i cavi?), che le mappe di volo non contenevano le indicazioni della funivia (la smentita arrivò dello stesso comando dei marines: sulla TPC, la carta di pilotaggio tattico, la funivia era segnata) e che il radar-altimetro era difettoso (particolare non da poco: peccato che non sia mai stato dimostrato). Perché tutti questi misteri, queste imprecisioni? Eppure,

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doveva essere tutto chiaro: come consuetudine, anche quel giorno era stato girato un video del volo (delle pro- dezze, cioè). Già, il video dov’era finito? Non esisteva più: era stato distrutto. Da chi? «Alla fine del volo ho conse- gnato la cassetta al comandante. Non l’ho più rivista». Parola di marine, parola di Joseph Schweitzer, il naviga- tore. Fuori uno. Cioè fuori dalla galera, perché quella “confessione” gli aveva evitato il carcere. Una confessione che però inguaiava nuovamente il pilota e a maggio Richard Ashby tornava infatti davanti alla sbarra per ostruzione di prove. Stavolta non si scherzava, perché c’era una dichiarazione giurata che lo inchiodava alle sue responsabilità. Quali? Quelle d’aver distrutto un reperto, non d’aver ammazzato delle persone. Così, era arrivata la condanna: non tanto, sei mesi. Tuttavia, anche sei mesi dovevano essere considerati troppi e infatti il 2 ottobre, vale a dire un mese prima del “fine pena”, Ashby aveva riconquistato la libertà. In carcere si era comportato bene, neanche a dirlo, ed era tornato a vivere nella villetta di Jacksonville, vicino alla base dei marines, perché i grandi amori non si scor- dano mai. Con la stampa lui non parla, ci mancherebbe. A tenere le pubbliche relazioni c’era Dodie, la sua com- pagna: «La cella di Richard non aveva nemmeno l’aria condizionata», si era indignata in un’intervista. «Ha pas- sato i primi mesi da solo a leggere davanti a un tavolo. E io potevo andarlo a trovare soltanto il fine settimana». Una pena davvero crudele. Poco dopo, Ashby era stato nuovamente posseduto dalla sua indole aggressiva: era stato infatti allontanato da un casinò di Las Vegas dopo una rissa con gli uscieri e denunciato per intrusione in luogo privato.

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Il risarcimento I pubblici ministeri italiani avevano chiesto di processare i quattro marines in Italia, ma il giudice per le indagini pre- liminari di Trento aveva ritenuto che, in forza della Con- venzione di Londra del 19 giugno 1951 sullo statuto dei militari NATO, la giurisdizione sul caso dovesse riconoscer- si alla giustizia militare statunitense. Decisioni che aveva- no scatenato polemiche e qualche giornale aveva ricorda- to una tragedia simile avvenuta in Francia nell’agosto 1961, quando sei persone erano morte dopo che un aereo militare francese in volo a bassa quota aveva tranciato i ca- vi di una funivia tra il Point Helbronner e la Aiguille du Mi- di, sul versante francese del Monte Bianco. Quella volta, i responsabili avevano pagato. Questa volta no. Il governo degli Stati Uniti verserà venti milioni di dolla- ri alla Provincia Autonoma di Trento per la ricostruzione dell’impianto di risalita, ma offrirà soltanto cinquemila dollari per ciascuna delle vittime. Il Congresso america- no respingerà una legge che prevedeva il risarcimento di- retto ai familiari delle persone decedute, mentre il parla- mento italiano approverà un indennizzo per i familiari di quattro miliardi di lire per ogni vittima. In conseguenza di questo e in ottemperanza ai trattati NATO, l’ammini- strazione Clinton risarcirà lo Stato italiano con il 75 per cento delle somme complessivamente erogate.

PIETRO MASO, IL PAVONE DI VERONA

Montecchia di Crosara, che pur appartenendo alla pro- vincia di Verona è più vicino a Vicenza, è un paesino con poco più di quattromila anime. Fra di loro, nel ’71 ne era

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nata una nera, quella di Pietro Maso. La sua storia inizia il 3 marzo 1990, quando sua madre trova in taverna due bombole di gas, fili elettrici, una sveglia puntata sulle 21.30 e, cosa ancora più strana, alcuni vestiti nascosti nella canna fumaria. Aveva quindi chiesto spiegazione di quella roba a suo marito e alle figlie, ma nessuno aveva saputo dare delle spiegazioni, così aveva atteso il rientro di Pietro. «Dobbiamo fare una festa in maschera», aveva spiegato il più giovane della famiglia. «E le bombole, che sono pure pericolose?». Servivano per alimentare due stufe aggiun- tive per il riscaldamento, mentre i fili elettrici per delle luci psichedeliche. E la sveglia? Quella l’aveva trovata per caso e l’aveva poggiata lì, in taverna. Una bugia dietro l’altra. Tutto quell’armamentario sareb- be servito per far saltar in aria la casa e gli abiti stipati nel camino. Non era successo nulla solo perché l’improvvisa- to e maldestro bombarolo aveva tolto le sicure delle bom- bole, lasciando però chiuse le manopole. E questo era stato il primo tentativo di sterminare la famiglia. Una famiglia – composta da Antonio, da sua moglie Rosa, due figlie e Pietro – proprietaria di numerosi terreni e che in banca poteva contare su una liquidità di oltre un miliardo e mezzo di vecchie lire (più o meno ottocento- mila euro attuali, ma ben di più come potere di acquisto). Una famiglia senza problemi, se non quelli che da un po’ di tempo arrivavano da Pietro. Da quando aveva deciso di abbandonare la scuola, infatti, non aveva mancato di destare preoccupazioni. Dopo aver rifiutato di lavorare con suo padre, era stato assunto in un supermercato, per poi passare a una con- cessionaria d’auto come intermediario, ma non era dura-

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to neppure lì. Lavori saltuari che non potevano garantire quel gettito economico capace di soddisfare i “piaceri della vita” scoperti dall’esuberante ventenne. Piaceri che si consumavano di notte fra night e sale da gioco, in pri- mis il casinò di Venezia, in compagnia dell’inseparabile amico del cuore, Giorgio Carbognin, più giovane di lui di due anni. Le preoccupazioni della signora Rosa avevano subito un’ac- celerazione quando aveva trovato un rotolo di banconote nelle tasche di un paio di pantaloni di Pietro. Come poteva suo figlio avere tutti quei soldi, visto che si era anche licen- ziato dall’autosalone? «Sono i soldi delle ultime provvigioni che mi sono state pagate tutte insieme», aveva spiegato Pietro. Sua madre, però, questa volta era stata irremovibi- le, pretendeva la verità. Messo alle strette, Pietro le aveva detto che potevano andare insieme a controllare all’autosa- lone, sperando che sua madre desistesse. Invece, ostinata- mente, la signora Rosa aveva detto: «Va bene, chiedi un ap- puntamento col tuo ex-datore di lavoro». Un bel problema, ma risolvibile con l’uccisione di sua ma- dre. Con loro, in macchina, sarebbe salito anche l’amico Giorgio col compito di sfondare la testa alla donna con un colpo di batticarne sferratole dal sedile posteriore. A Giorgio, però, era mancato il coraggio e Pietro s’era ritro- vato in pochi minuti a dover inventare una nuova scusa prima di raggiungere l’autosalone. «Mamma», aveva detto, «quei soldi me li hanno dati per star zitto. Dietro c’è un giro di computer trafugati…». Imbufalita ma nell’impossibilità di fare qualcosa, la signo- ra Rosa aveva chiuso la faccenda e, tornata a casa, si era fiondata da suo marito per consultarlo sul da farsi, per- ché quel ragazzo prima o poi l’avrebbe combinata grossa.

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La bella vita Tutto poteva sospettare la signora Rosa, tranne che quei soldi sarebbero stati la genesi della sua morte e di quella di suo marito. La vera provenienza del denaro, parados- salmente, era la cosa più pulita di tutta la vicenda: arri- vava da un regolarissimo prestito bancario. Un prestito di ventiquattro milioni di lire chiesto dall’amico Giorgio Carbognin, per il quale aveva garantito il suo datore di la- voro. Soldi, che servivano per acquistare una Lancia Del- ta «usata, ma come nuova». Il padre di Giorgio si era opposto però a quella follia, in- timandogli di restituire immediatamente il denaro. Gior- gio aveva perciò rinunciato all’auto, ma non ai ventiquat- tro milioni, che aveva sperperato con l’amico Pietro. Ine- vitabilmente si era però presentato il grosso problema di come fare per renderli. «Non ti preoccupare», l’aveva rassicurato Pietro, «ci penso io». Come? Staccando un assegno rubato a sua madre, della quale aveva falsificato la firma. Risolto un problema, se n’era però aperto un al- tro: cosa fare quando sarebbe arrivato a casa l’estratto conto e sua madre avrebbe visto quell’uscita di venti- quattro milioni? Non restava che eliminare sua madre. Anzi, anche suo pa- dre sarebbe morto, così avrebbe potuto mettere le mani sull’eredità. Complice, il solito Giorgio. L’inaffidabile, pavi- do e cagasotto Giorgio, che anche questa volta aveva falli- to. Il piano prevedeva che i signori Maso sarebbero stati colpiti in garage al rientro dopo una cena, ma all’ultimo momento Giorgio si era tirato indietro. Pietro, però, aveva ormai maturato l’irrevocabile decisione di sterminare la fa- miglia e, con o senza Giorgio, ci sarebbe riuscito. «Conducevo una vita brillante», cercò di spiegare dopo il

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massacro, «e quindi mi servivano molti soldi, al che per avere questo denaro l’unica soluzione possibile era quella di ottenere subito l’eredità che mi spettava dai miei geni- tori nel caso fossero morti. Mi sarebbe anche piaciuto averla tutta intera, ma per questo sarei stato costretto a uccidere anche le mie sorelle». Stabilito che con Giorgio non avrebbe mai combinato nulla, Pietro aveva “arruolato” altri amici. Altri complici, per meglio dire: Paolo Cavazza e Damiano Burano, rispettivamente di 18 e 17 anni.

Il massacro La sera del 17 aprile 1991, Maso, Carbognin, Cavazza e Burato si erano ritrovati nel solito bar di Montecchia per discutere gli ultimi dettagli, decidendo di far partecipare al delitto anche un altro amico, Michele, che però li ave- va lasciati ai loro deliri e se ne era andato, convinto che quei quattro scemi si fossero impasticcati pesantemente e che mai sarebbero stati capaci di fare davvero una co- sa del genere. Ma la banda dei quattro era lucidissima nel suo progetto omicida. Da lì a poco, quindi, era scattata l’ora X. Alle 23.10 l’auto dei signori Maso era entrata nel garage della villetta. Antonio aveva acceso la luce, accorgendosi che mancava la corrente. Era quindi salito per le scale raggiungendo il primo piano dove si trovava il contatore, ma in cucina era stato colpito alla testa da un tubo di fer- ro maneggiato da suo figlio, aiutato da Damiano, che sferrava colpi con una pesante pentola d’acciaio. Della si- gnora Rosa si occupavano invece Paolo e Giorgio, armati di un bloccasterzo e di un’altra pentola. La donna offriva però una resistenza impensata, così era intervenuto lo stesso Pietro che aveva colpito sua madre ripetutamen-

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te. Aveva preso il posto di Paolo che, a sua volta, si era accanito contro il signor Antonio, premendogli un piede sulla gola per soffocarlo. Cinquanta minuti. Tanto era durato l’orrore negli occhi dei signori Maso che avevano vissuto la disgrazia più tre- menda: quella di vedere il loro figlio ucciderli. Perché, se Burato, Carbognin e Cavazza avevano indossato delle maschere, Pietro no, lui aveva mostrato la sua faccia ai genitori mentre li uccideva. «Avevamo due borse», aveva poi confessato, «che conte- nevano le cose che ci servivano, cioè tute da lavoro, un tubo pieno di ferro del diametro di circa cinque centime- tri e lungo circa cinquanta, due maschere da carnevale con i capelli finti, un antifurto meccanico in ferro che serve a bloccare lo sterzo delle auto. Giunti a casa mia, abbiamo indossato le tute e quindi abbiamo atteso dietro la porta che dalla cucina conduce all’ingresso della scala interna, e siamo rimasti appostati in questo modo per un po’. Nel frattempo abbiamo spento le luci della scala svi- tando la lampadina e la stessa cosa abbiamo fatto con quella della cucina. E abbiamo aspettato».

I sospetti, le conferme A delitto compiuto, Paolo e Damiano erano rientrati a ca- sa. Pietro, invece, aveva bisogno di crearsi un alibi. Così, con Giorgio, si era recato in due diverse discoteche: nel- la prima, infatti, non erano riusciti a entrare perché pie- na. Alle 2 del mattino era infine rientrato a casa per “sco- prire” l’accaduto. Mostrandosi scosso e impaurito, aveva avvertito i vicini, uno dei quali si era precipitato in casa scoprendo quel che era avvenuto. Chi può aver compiuto uno scempio simile? Non può che

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trattarsi di un tentativo di rapina finita male. Ma a un ca- rabiniere che ha passato la vita fra delitti d’ogni genere non la si fa. Per quel carabiniere il furto con quel massa- cro non c’entra nulla. «I cassetti sono stati trovati aperti e il contenuto gettato intorno alla stanza, quando un la- dro, di solito, usa aprirli, limitarsi a cercarvi denaro e ro- ba di valore e poi richiuderli». Alla fine, gli inquirenti avevano abbandonato la pista fa- sulla del furto finito male per concentrarsi su altro, cioè su possibilità più inquietanti, seppur più verosimili: sulla stessa famiglia. I sospetti si erano così addensati sul fi- glio, quel ragazzo le cui reazioni non erano state coeren- ti fin dal primo momento. Sospetti che avevano assalito le stesse sorelle, Nadia e Laura, quando quest’ultima si era accorta dei ventiquattro milioni spariti dal conto del- la madre e aver trovato, lo stesso giorno, alcune “prove” di falsificazione della sua calligrafia su una rubrica tele- fonica. Pietro aveva ribattuto che quella firma era auten- tica, che quell’assegno l’aveva effettivamente staccato la mamma per un favore chiestogli dall’amico Giorgio, ma non sapeva spiegare il perché di quelle “prove” sulla ru- brica telefonica. A questi, che ormai erano fatti inoppu- gnabili, se ne erano aggiunti altri che contraddicevano la fallace versione di Pietro. Il quale, fiaccato dagli interro- gatori, due giorni dopo aveva confessato, coinvolgendo i suoi amici.

Le condanne L’accusa per tutti era stata quindi di omicidio volontario premeditato e pluriaggravato per la crudeltà e i futili mo- tivi. Su Pietro pesava anche il vincolo di parentela e que- sto elemento faceva di lui un autentico mostro. Un mo-

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stro che la perizia del professor Vittorino Andreoli rite- neva sano di mente, come il resto del branco. Per quan- to riguardava specificamente Pietro, la mente lucida- mente criminale del gruppo, lo psichiatra aveva spiegato che il disturbo narcisistico della personalità (su cui con- tava fortemente la difesa) non comportava una vera e propria infermità in grado di inficiare la capacità di inten- dere e volere. Insomma, quel pavone criminale poteva essere giudicato senza alcuna attenuante. Il 29 febbraio 1992 la Corte d’Assise I di Verona aveva così condannato Pietro Maso a trent’anni e due mesi di reclusione, Cavazza e Carbognin a ventisei ciascuno, mentre Burato, non essendo ancora diciottenne, era stato giudicato dal tribunale dei minori che lo aveva condannato a tredici anni. Nelle motivazioni della sen- tenza si faceva cenno a un parziale vizio di mente, men- tre l’opinione pubblica era ancora scossa dall’atteggia- mento di Pietro Maso che aveva a lungo insistito nel ri- vendicare la sua parte di eredità e solo i consigli dell’av- vocato lo avevano fatto desistere per evitare l’ergastolo in primo grado. Nei successivi gradi di giudizio la sen- tenza non subì alcuna modifica passando così in giudi- cato. Rinchiuso nel carcere milanese di Opera, Maso ha otte- nuto la concessione del regime di semilibertà nell’ottobre del 2008. Il mattino esce dal carcere alle 7.30 per recarsi al lavoro in un’azienda di computer e assemblaggio di componentistica, e vi rientra alle 22.30. Per effetto del- l’indulto, il suo fine pena è stato spostato dal 2018 al 2015, quando avrà 44 anni.

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PIETRO PERUFFO: IO SONO UN ORCO

Verona e Vicenza sono ancora scosse per quel che è acca- duto due mesi prima a Montecchia di Corsara, dove Pie- tro Maso ha ucciso i genitori per appropriarsi dell’eredità. Nelle case, nei bar si discute, ci si anima per quel massa- cro. Come è stato possibile? Che generazione stiamo cre- scendo? Di chi sono le reali responsabilità? Interrogativi che travalicano i confini regionali per coinvolgere l’intera nazione. Gli anni Novanta sono appena iniziati: cosa ci ri- serva questa società che ha avuto una lunga incubazione nel decennio precedente, quello che si identifica con il nuovo e sfrenato consumismo della “Milano da bere”? An- che a San Bonifacio, un paese che pur appartenendo alla provincia di Verona è equidistante da Vicenza, si discute. Probabilmente, anche a Locara, la sua frazione più popo- losa, nei diversi casolari sparsi nella campagna. Tuttavia, in uno di essi non si discute di Maso, perché c’è altro a cui pensare. Precisamente, un omicidio. È domenica. Il calendario in cucina segna la data del 23 giugno 1991. La campagna tutt’attorno sembra bruciata da un sole implacabile e inusuale per il periodo. «Altro che inizio estate, sembra già solleone», dice qualcuno al bar mentre sfoglia un giornale in cui campeggia una no- tizia sul disastro di Ustica del giugno 1980: la società in- glese Winpol è stata incaricata di completare il recupero del relitto e di riportare in superficie la scatola nera. Chissà, magari si verrà a capo di quel mistero… Anche nel casolare dei Peruffo l’aria è arroventata, ma non si discute di quel che accade in Italia o nel mondo. Ben altri sono gli argomenti che impone il capofamiglia. Si chiama Pietro, Pietro Peruffo, ha 46 anni, ufficialmen-

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te fa il rottamaio, ma di fatto campa di espedienti, alla giornata, oltre che con i soldi portati a casa dalle figlie, mandate a lavorare subito dopo le medie. Come tutti i pomeriggi, dopo pranzo, si stende sul letto anche per smaltire il vino bevuto smodatamente, come sempre. Per di più fa caldo, un caldo feroce, che debilita. Meglio dor- mire. Questa volta, però, Pietro Peruffo non si sveglierà più. Perché viene ucciso con due colpi di pistola alla testa. A premere il grilletto, sua figlia Marcellina. Sua sorella Ma- ria Cristina le sta accanto. Anzi, è lei che ricarica l’arma dopo il primo colpo, ripassandola alla sorella per colpire una seconda volta, per essere sicura che l’orco muoia. Perché quello non è un padre, è un orco. Un orco male- detto che deve morire in modo che loro possano vivere.

Una brutta storia Questa è una brutta storia iniziata il 24 febbraio 1968, quando Pietro Peruffo sposa Lucia Vallarin. Un’unione che genera quattro figli, due maschi e due femmine. Una famiglia che impara presto a conoscere la locale stazione dei carabinieri di San Bonifacio. La conosce per le de- nunce – poi però sempre ritirate – presentate in più oc- casioni da Lucia Vallarin, che parla di maltrattamenti di vario genere e natura, sia psichici sia fisici, subiti dal ma- rito. Quel Pietro Peruffo che i carabinieri conoscono an- cor meglio perché pregiudicato: fra il 1974 e il 1979, in- fatti, quel rottamaio si era reso protagonista di reati ses- suali culminati in una violenza carnale costatagli quasi cinque anni di reclusione. Scontata la pena e tornato a casa, per evitare altre de- nunce e altri anni di galera, Peruffo aveva pensato bene

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di sfogare i suoi istinti, concentrando le sue attenzioni morbose nei confronti delle figlie. Violenze ripetute e quasi quotidiane, che alla fine avevano convinto la moglie a minacciarlo: se non avesse smesso, sarebbe stato de- nunciato, questa volta senza rimessa di querela. Come ri- sposta, Lucia Vallarin era stata vittima di un vero e pro- prio massacro, con tanto di avvertimento: che ci avesse provato pure ad andare dai carabinieri. In quel caso sa- rebbero state uccise lei e le figlie. La vita prosegue così fra botte alla moglie, che arrivano gratuitamente anche per gli effetti dell’alcool, e violenze sulle ragazze, spesso costrette insieme a soddisfare i per- versi piaceri sessuali dell’orco. Ma non basta, a dimostra- zione del suo totale dominio sulla famiglia, Peruffo impo- ne in casa la presenza della sua amante. A questo punto, sua moglie si rivolge a un avvocato per chiedere cosa de- ve fare per separarsi. Lucia fa tutto di nascosto, ma suo marito la scopre e la sua reazione è quanto mai violenta: la massacra di botte e non smette finché lei non scrive una lettera all’avvocato in cui rinuncia all’azione intra- presa per la separazione. L’andazzo stava per riprendere come sempre, ma per le figlie questo episodio rappresentò la classica goccia nel vaso pieno. Si aggiunge, infatti, alle minacce subite da Maria Cristina per la sua relazione con Tiziano Albiero, un ragazzo che lavora nella stessa fabbrica in cui è occu- pata anche Marcellina. Roso dalla perversa gelosia, Pe- ruffo avverte la figlia che nel caso in cui avesse continua- to a frequentare quel ragazzo, ci avrebbe pensato lui: lo avrebbe ucciso. Maria Cristina, però, non è come la ma- dre e non ci sta a subire una vita che al processo defini- rà così: «Ero arrivata a pensare che sarebbe stato meglio

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non essere neanche nata piuttosto che vivere così». Co- me lei la pensa sua sorella Marcellina, che a sua volta di- chiarerà: «Mi chiedevo che senso avesse continuare a vi- vere in quel modo, che futuro mi aspettava, visto che ogni giorno era peggio del precedente». È a questo punto che le due sorelle decidono che basta così. Quell’orco deve morire e si concentrano su un uni- co punto: come fare? Il giorno successivo, in fabbrica, Marcellina chiede a Tiziano di aiutare lei e sua sorella – che è pure la sua fidanzata – a trovare il modo per elimi- nare l’aguzzino. Tiziano le procura così una pistola, un’ar- ma modificata artigianalmente. Il giorno dopo è domeni- ca. Lo faranno quando va a sdraiarsi. Aspetteranno che si addormenti e lo uccideranno. Così accade. Maria Cristina e Tiziano Albiero saranno condannati a tredici anni di carcere in primo grado, ridotti a nove in appello.

Una famiglia violenta Ma il nome di Peruffo ricorrerà nelle aule di tribunale an- che successivamente. Nel 1997, Marco, uno dei due figli maschi, confesserà di aver ucciso “inavvertitamente” Alfredo Aldighieri. “Inav- vertitamente”, dice lui. Di fatto, ha prima colpito la vitti- ma alla testa con una spranga, poi è passato sul suo cor- po con la macchina più volte, avanti e indietro. Movente: Aldighieri avrebbe dato delle “puttane” a sua madre e al- le sorelle. Tuttavia, non erano stati questi pesanti ap- prezzamenti familiari a scatenare la furia omicida di Mar- co, ma la sua incapacità di stare al volante. Aldighieri lo avrebbe infatti più volte apostrofato come “incapace”, adducendo come prova la sua totale inabilità alla guida.

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Del resto, non era un caso se aveva già sfasciato diverse auto, oltre a causare in stato di ebbrezza la morte di un quattordicenne. Dedito all’alcool e alla cocaina dopo un passato da eroi- nomane, prima di uccidere Aldighieri, Marco era stato in galera con suo fratello Walter per furto e ricettazione. In- somma, anche i figli maschi di Peruffo erano il frutto “na- turale” di una famiglia anomala. Come anomala era la fa- miglia d’origine dei Peruffo. Pietro aveva infatti sette fratelli, tutti con problemi più o meno rilevanti a livello penale. Mario, uno di loro, era morto dissanguato sotto una trebbiatrice, mentre Giu- seppe era stato in galera per stupro, come Pietro. An- drea, invece, essendo rifiutato da tutte le donne, si “ar- rangiava” con qualche animale, preferibilmente mucche. Animali che, come risulta dai racconti di Maria Cristina e Marcellina, utilizzava anche Pietro, facendo per esempio accoppiare un bestione di cane con una piccola cagnet- ta, mentre lui se ne stava lì a godersi lo spettacolo, che imponeva anche ai figli. È questo dunque l’ambiente in cui era maturato il delitto. Un ambiente geograficamente distante pochi chilometri da città come Verona e Vicen- za, ma distante anni luce a livello culturale e umano.

Legittima difesa Per cercare di capire come sia possibile che queste situa- zioni possano verificarsi a due passi dal vivere civile del- le nostre città, delle nostre quotidianità, basta ricordare quel che racconterà Maria Cristina a “L’Europeo” nel 1992, in un’intervista in cui ribadirà che era stata sua so- rella Marcellina e solo lei a sparare. «Quella domenica ero in bagno. Ho sentito uno sparo, poi

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un altro. Ho visto arrivare Marcellina. “Go copà ‘l mato,” mi ha detto, bianca come uno straccio. Le ho strappato la pistola di mano, ma lei l’ha ripresa ed è scappata nei campi. Per questo a quell’esame è risultato che la pistola l’avevo toccata anch’io. Lui, mio padre, non ci ha mai da- to una sola ragione per non odiarlo. Non ho un ricordo bello con lui: un Natale, una carezza. Ci ha allevato con rabbia. Conosceva solo quella. Faceva così anche con i cani, poveretti. Prima li bastonava a sangue, poi li legava per giorni e quando li liberava quelli erano diventati bel- ve feroci. Come lui. E non puoi dispiacerti se muore una belva feroce». «Marcellina è la più piccola di tutti noi fratelli, ma è an- che la più dura. Per forza, lei non ha avuto neppure que- gli anni di respiro in cui mio padre era in galera. E lui aveva un debole per lei. Per questo Marcellina passava le notti seduta sul letto con gli occhi sbarrati per paura che lui arrivasse da un momento all’altro. È stata in una di quelle notti che mi ha detto “io non ce la faccio più: o me o lui” e ha cominciato a piangere. Non si fermava più. Io e mia sorella abbiamo provato più volte a denunciarlo, ma poi mia madre ci diceva che se non ritiravamo la de- nuncia quello ci avrebbe ammazzate. Così, anche sul la- voro, raccontavamo che eravamo cadute, che i lividi ce li eravamo procurati da sole. Ma il padrone non ci credeva e diceva che quello era un maledetto. Lo disprezzavano tutti. E tutti mi hanno detto che dovevamo ucciderlo quando aveva il coltello in mano, così sarebbe stata legit- tima difesa». Come se, per quelle ragazze, uccidere nel sonno l’orco non fosse stata, comunque, una “legittima difesa”.

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GIANFRANCO STEVANIN, IL CONTADINO SERIAL KILLER

Vicenza, sera del 16 novembre 1994. Una Lancia Dedra aveva avvicinato una prostituta; l’uomo al volante le ave- va detto che oltre a un rapporto sessuale voleva fotogra- farla. Un milione, ma niente viso. Va bene. La macchina aveva raggiunto quindi la destinazione: un casolare a Ter- razzo, nella campagna veronese. Ma una volta lì, per Ga- brielle Musger, prostituta austriaca, era iniziato l’inferno: l’uomo che l’aveva caricata le aveva imposto infatti rap- porti violenti, giochi erotici estremi, oltre alle fotografie, viso compreso. L’aveva quindi minacciata con una pisto- la e un taglierino e la ragazza, terrorizzata, gli aveva of- ferto venticinque milioni che aveva a casa. L’uomo aveva accettato, ma al casello di Vicenza Ovest, mentre stava pagando il pedaggio, Gabrielle Musger aveva notato una pattuglia della polizia stradale ferma lì vicino e, aperta la portiera dell’auto, l’aveva raggiunta correndo a perdifia- to. Confusa e in lacrime, la ragazza aveva denunciato il suo aggressore, che era stato subito raggiunto dai poli- ziotti: dai documenti risultava essere Gianfranco Steva- nin, agricoltore. Dalla perquisizione dell’auto saltava fuo- ri una pistola giocattolo priva del regolamentare tappo rosso, e le sorprese non erano finite. Sulla base del racconto dalla prostituta austriaca, gli in- quirenti avevano deciso di perquisire anche la casa di Stevanin, dove i carabinieri avevano trovato un taglieri- no, altre due pistole giocattolo, indumenti intimi, capi d’abbigliamento femminile, borsette da donna, oltre ai documenti di cinque ragazze. Erano saltati fuori anche circa centocinquanta contenitori di foto, per un totale di oltre settemila scatti, negativi non ancora sviluppati, de-

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cine di videocassette porno, una parrucca bionda, conte- nitori con peli pubici, giornali pornografici e anche santi- ni e immagini sacre (soprattutto di Padre Pio), enciclo- pedie di medicina, atlanti di anatomia, volumi sull’uso della macchina fotografica e, infine, uno schedario sulle prestazioni delle donne incontrate. Per la polizia, Gianfranco Stevanin non era ancora un se- rial killer, ma un pervertito che aveva minacciato e vio- lentato una prostituta austriaca per estorcerle venticin- que milioni. Perciò era stato condannato a tre anni di carcere. Tuttavia, qualcosa faceva sospettare che la sto- ria non fosse tutta lì: tra i documenti e gli indumenti rin- venuti durante la perquisizione, c’erano infatti anche quelli di Claudia Pulejo, 29 anni, tossicodipendente di Legnano (Verona), scomparsa dal 15 gennaio, e di Bilja- na Pavlovic, cameriera serba di 25 anni residente ad Ar- zignano (Vicenza), della quale non si avevano più notizie da agosto. Le due ragazze figuravano nelle “schede” del- le prestazioni meticolosamente compilate da Stevanin.

Il mostro Solo un anno dopo si capì chi fosse realmente Stevanin, dopo che un agricoltore aveva trovato un sacco conte- nente un cadavere in un fosso di Terrazzo. Ora, l’accusa era di omicidio volontario e occultamento di cadavere, mentre nel podere di Terrazzo arrivavano le ruspe che, scavando, avevano riportato in superficie il cadavere di un’altra giovane donna, piegato in due, avvolto in un am- pio telone blu del tipo usato in agricoltura e sepolto a un’ottantina di centimetri di profondità. Gli esami del DNA e la ricostruzione del volto avevano appurato che si trattava di Biljana Pavlovic. Intanto era stato disseppelli-

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to un terzo cadavere, sempre avvolto in un bozzolo di pellicola trasparente: quello di Claudia Pulejo. Stevanin era diventato “il mostro di Terrazzo” e a lui ve- nivano attribuiti non solo quei tre omicidi, ma anche altri due: dalle foto rinvenute veniva infatti riconosciuta Ro- swita Adlassnig, una prostituta austriaca scomparsa da tempo, mentre in un’altra foto si vedeva una donna, mai identificata, ritratta in una pratica erotica estrema e che all’apparenza sembrava priva di vita. Dopo che Stevanin, confusamente, aveva alternato am- missioni a ritrattazioni, erano state disposte tre perizie psichiatriche al termine delle quali “il mostro di Terraz- zo” fu descritto come un individuo sano, abbastanza in- telligente (il suo quoziente era di 114) e calcolatore, ol- tre a non essere affetto da disturbi psicosomatici o del comportamento. Sicuramente il rapporto con la madre iperprotettiva e le disavventure della sua vita lo avevano segnato, ma era in grado di intendere e di volere. Perciò era processabile. Di idea completamente diversa i periti della difesa, che cercavano di ricondurre tutti i problemi di Stevanin a un incidente subito in moto nel 1976, in se- guito al quale avrebbe sviluppato «una complessa sindro- me psicopatologica». Tra il 19 luglio e il 23 agosto 1996, ma sempre in modo confuso, Gianfranco Stevanin aveva deciso finalmente di “confessare” i delitti di quattro ragazze che gli erano «morte tra le braccia»: tre durante rapporti sessuali spin- ti all’estremo, una, la Pulejo, per overdose da eroina. De- litti che aveva raccontato come incubi in cui agiva senza rendersene conto. Spesso diceva di non ricordare. Ricor- dava però di aver sezionato un cadavere per occultarlo e di aver vomitato durante quella operazione.

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La complicità della madre Nel settembre 1996, la giornalista Alessandra Vaccari aveva ricevuto cinque lettere con minacce di morte, scritte e inviate da Giuliano Barbatella, un criminale psi- colabile in cella con Stevanin autoaccusatosi di essere il colpevole di quei delitti. Mentre il tribunale cercava di convincere Stevanin a confessare di aver dettato lui quel- le lettere a Barbatella, lungo le rive dell’Adige era stato ritrovato un altro cadavere: si trattava di una giovane donna, priva di capelli e in avanzato stato di decomposi- zione (l’identità resterà sempre sconosciuta, ma anche questo omicidio è attribuito a Stevanin). Un anno più tardi, esattamente il 6 ottobre 1997, dopo l’ennesima perizia psichiatrica che lo dichiarava proces- sabile, si apriva finalmente il processo contro “il mostro di Terrazzo”, accusato di cinque omicidi, aggravati dalla premeditazione e dall’occultamento di cadavere. Anche la madre del “mostro”, Noemi Miola, fu processata: se- condo gli inquirenti, infatti, la donna era da tempo al cor- rente dell’attività omicida del figlio e lo aveva sempre protetto. Sembrava addirittura fosse stata lei a far spari- re una testa dimenticata nel granaio. La testa di Stevanin si presentava invece alla prima udienza rasata a zero per evidenziare una cicatrice rima- stagli dall’incidente motociclistico del 1976. Su quella ci- catrice e su quell’incidente si sarebbe incentrata tutta l’azione della difesa. Il processo era stato lungo e pieno di colpi di scena, con sentenze che si erano negate a vicen- da, la prima delle quali, emessa il 28 gennaio 1998, lo aveva condannato all’ergastolo. I primi tre anni li avreb- be trascorrere in totale isolamento diurno. Successiva- mente, la Corte d’Assise d’Appello, a sorpresa, lo aveva

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assolto perché incapace d’intendere e volere. La senten- za definitiva arrivò il 23 marzo 2001, quando la Corte di Cassazione confermò la sentenza di ergastolo di primo grado. Sua madre era stata invece assolta per mancanza di prove. Attualmente, “il mostro” è rinchiuso nel supercarcere di Sulmona (L’Aquila), dove, nell’estate del 2004, ha salva- to due volte la vita al suo compagno di cella, un aspiran- te suicida.

Un passato inquietante Chi è “il mostro di Terrazzo”? Stevanin era nato il 21 ot- tobre 1960 a Montagnana, un paesino in provincia di Pa- dova. I suoi genitori, Giuseppe Stevanin e Noemi Miola, erano proprietari terrieri. Quando aveva cinque anni, era stato costretto a entrare in un collegio di preti perché sua madre stava affrontando una gravidanza molto diffi- cile (infatti abortì) e non poteva badare anche a lui. Tor- nato a casa, aveva cominciato a dare una mano a suo pa- dre, ma un giorno era scivolato e aveva sbattuto la testa contro un attrezzo agricolo. I genitori avevano dedotto che la vita nei campi era peri- colosa per quel ragazzo, così lo avevano rispedito in un collegio di suore, dove aveva passato gli anni delle ele- mentari, delle medie e i primi due delle superiori, tornan- do a casa nel 1975. Un anno dopo, però, la sua vita ave- va avuto un’ulteriore svolta negativa: era caduto infatti da una moto e s’era procurato un grave trauma cranico che gli aveva provocato un coma e un intervento chirur- gico molto delicato. L’incidente gli aveva procurato anche un focolaio epilet- tico e, cinque anni dopo, una meningite batterica da in-

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fezione. C’erano anche conseguenze psichiche che ave- vano avuto su di lui effetti negativi a livello comporta- mentale. Era stato inoltre costretto ad abbandonare gli studi perché non riusciva a concentrarsi troppo a lungo senza venire aggredito da una fortissima emicrania. An- che il suo rapporto con il sesso era profondamente cam- biato, inducendolo a preferire sempre di più le forme estreme della pornografia. Il “debutto” delinquenziale di Stevanin era avvenuto tra il 1978 e il 1983 con una simulazione di reato (aveva fin- to di essere stato rapito e aveva chiamato i genitori per un riscatto), violenza privata (fingendo di avere una pi- stola in tasca, aveva obbligato una donna ad appartarsi con lui), rapina (sempre fingendo di possedere una pi- stola, aveva costretto una ragazza a consegnargli i suoi gioielli). Nel 1983, causa un altro incidente stradale nel quale una giovane perde la vita ed è condannato per omi- cidio colposo. Nel 1989, rapisce e violenta una prostituta di Verona, ma questo crimine rimane ignoto per diversi anni: fu scoperto solo in sede dibattimentale, quando Stevanin fu processato come “mostro”. Nonostante questi precedenti, solo dopo una lunga sto- ria d’amore finita per colpa dei suoi genitori, Gianfranco si era trasformato lentamente in un killer seriale. Aveva cominciato infatti a frequentare le prostitute in giro per il Veneto, sviluppando un profondo interesse per il sesso estremo, che praticava nella sua casa diventata presto un lager di morte per tante ragazze. Perso il padre, nel giro di poco tempo Stevanin aveva infatti trasformato il caso- lare di Terrazzo in un locale a luci rosse con videocasset- te, riviste porno, vibratori, mutandine di pizzo e reggical- ze, borchie e tutine di cuoio, cinghie e palline di varie di-

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mensioni. Gli piaceva anche rasare le ragazze con le qua- li passava la notte, perché desiderava realizzare un cusci- no di peli pubici femminili. Ben presto, però, quella casa si era trasformata in un luogo di orrori dal quale non tut- te le “prede” ebbero la fortuna di uscire vive. C’è chi è morta durante un rapporto per un braccio stretto troppo forte intorno al collo, e chi soffocata da un sacchetto di cellophane in testa durante un’esperienza di “bondage”. La prima vittima era stata Claudia Pulejo, l’ultima Ga- brielle Musger che, salvandosi miracolosamente, aveva fatto scoprire chi fosse davvero Gianfranco Stevanin.

ROBERTO SUCCO. ANIMA PERSA

Due agenti di custodia controllano dallo spioncino della cella un detenuto. Non è uno qualsiasi, è uno che fa pau- ra, uno pericolosissimo, che va sorvegliato a vista. Per fortuna non ci resterà molto lì, solo il tempo del proces- so. Giornali e telegiornali hanno parlato a lungo di lui, an- che con “speciali”. «Come a suo tempo per il Renato Vallanzasca e prima an- cora col Pietro Cavallero». «Il bel René me lo ricordo, ma Cavallero chi è?». «Sei giovane, per questo non lo conosci il Cavallero. Mi- se in piedi una banda che fece razzie per qualche anno, poi li presero a Milano. Fecero pure un film». «Comunque io non vedo l’ora che questo qui se ne vada fuori dai coglioni». «Vedi che se s’è alzato». «Macché, è ancora in branda il signorino… È tutto coper- to».

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«Non è possibile… Ehi tu! Alzati che è tardi… dai!». «Che fa?». «Un cazzo!». «Vuoi vedere che è stato male?». «O è un altro dei suoi famosi trucchi…». «Già…». «Entriamo!». Su la coperta. «Per forza non rispondeva! Questo è morto! Dai, aiutami a togliergli ‘sto sacchetto dalla testa!». «Presto, corri, vai ad avvertire il direttore!».

Il ritardo di Nazario Mestre, II Distretto di Polizia San Marco, 11 aprile 1981. I colleghi dell’appuntato Nazario Succo, 53 anni di cui trenta passati in polizia, sono preoccupati perché da due giorni non si presenta al lavoro e non ha neppure avver- tito. «Non è da lui». «Deve essergli successo qualcosa». «Certo, Nazario avrebbe avvertito». «Sentiamo che dice il capo». Il capo dice di muoversi subito. «Perché non mi avete av- vertito prima?», sbraita. «Sta a vedere che adesso è pure colpa nostra…». «C’ha ragione, c’ha! Cazzo!». Al campanello non risponde nessuno. «L’appartamento però è al primo piano… È un attimo sfondare una finestra ed entrare in casa». «Guarda che qui non c’è nessuno». «Come sarebbe a dire che non c’è nessuno?». La porta del bagno è l’unica chiusa.

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Dietro c’è l’orrore, perché è così l’orrore. L’orrore sono due corpi immersi nella vasca da bagno in mezzo ad acqua e sangue. Nazario e Maria sono lì, nuovi martiri di chissà chi. «E Roberto dov’è?». «Chi è Roberto?». «Come chi è Roberto? Roberto è il figlio, ha 19 anni, fa l’ultimo anno allo scientifico, al Morin di Gazzera». «Tu lo conosci bene? Non è che è stato lui ed è sparito? Non sarebbe la prima volta, anzi…». «Ma che cazzo dici, sei matto? È un ragazzo tranquillo, forse un po’ troppo taciturno… È fissato col culturismo». «Vado a perquisire la casa». «Bravo, io avverto il comando». Cinque minuti dopo. «Erano ammucchiati dentro il ripostiglio, dietro un cas- settone… Sono pieni zeppi di sangue». Una camicia blu, un maglione marrone. «Non ci posso credere». «Per fortuna che ero io il matto…». Nella casa della mattanza, in via Terraglio, sono intanto arrivati quelli della polizia scientifica, il capo della squa- dra mobile di Venezia, dottor Arnaldo La Barbera, e il so- stituto procuratore di turno, il dottor Stefano Dragone.

La caccia Non sono passate due ore che inizia la caccia a Roberto Succo. Si batte tutto il Veneto e anche la Lombardia, pre- cisamente Brescia, dove abita uno zio. «Il ragazzo si è allontanato con l’Alfasud di suo padre», spiega da un telefono pubblico di un bar un concitato cronista de “Il Giornale di Vicenza” che ha bruciato sul

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tempo i colleghi grazie alla talpa che ha nella Questura di Mestre. Suo cognato, non l’ha ancora sposata sua sorella, ma “è come se”. «Ha pure la sua pistola d’ordinanza, una Beretta automatica 92s con quindici colpi calibro 9». In- tanto, la questura evidenzia nei suoi bollettini di ricerca che «Roberto Succo è armato e pericoloso». La fuga del ricercato dura due giorni, infine, nel pomerig- gio del 13 aprile viene scovato in provincia di Udine. «Pronto, polizia?». «Chi parla?». «Il ragazzo che cercate sta in una pizzeria, la pizzeria in piazza a San Pietro Natisone». «Che ragazzo?». «Quello che ha fatto fuori i genitori. La macchina è l’Al- fasud delle segnalazioni, solo che è targata Udine invece che Venezia». La targa è infatti falsa: Succo l’ha rubata a un’altra mac- china. Gli sono addosso in un soffio, prima che possa recuperare la Beretta dalla custodia di una macchina fotografica in cui l’aveva nascosta. Gli viene anche da sorridere. “Ti farei ri- derei io, pezzo di merda”, pensa il maresciallo dei carabi- nieri che l’ha bloccato mentre i suoi colleghi trovano nel- l’auto parecchi proiettili e un coltello. L’arma del massacro. Se prima sparava qualche sorriso ebete, una volta in ca- serma, Succo delira: «Sono stati dei carabinieri a uccide- re i miei genitori, io sono scappato prima che uccidesse- ro anche me». Poco dopo una macchina lo preleva per portarlo al commissariato di Mestre, dove lo aspetta il dottor La Barbera. Durante il tragitto, all’improvviso, ag- gredisce con pugni e morsi i due carabinieri. Ricondotto a più miti ragioni, resterà calmo per tutto l’interrogato-

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rio, durante il quale confessa tutto. È stato lui a uccide- re i suoi genitori. Dopo la deposizione viene condotto nel carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, dove sarà in- terrogato dal magistrato.

Perché? «Mia madre non era affettuosa con me. Era come se non esistessi. Non era come le altre mamme, dioboia!», spie- ga Succo al sostituto procuratore, il dottor Dragone, che cerca di capire che razza di mostro ha davanti. «E tuo padre? Pure tuo padre non era affettuoso?». «Lù non me faseva mai prender la machina! Che vada en malora pure lù!». Poi descrive le modalità del duplice omicidio. «Chi per primo? Chi hai ucciso prima?». «Mia madre. Gò copà prima ela. Poi ho aspettato che tor- nasse a casa mio padre e appena è entrato gli ho tirato la prima coltellata». «Perché li hai messi nella vasca?». «Perché così l’acqua copriva l’odore, ritardava la scoper- ta dei corpi e io potevo allontanarmi di più». «Che ora era quando sei uscito di casa?». «Le 7. Le 7 del mattino. Ho preso la pistola e trecentomi- la lire dal comò, tutto quello che c’era. Loro tenevano lì i contanti». «Sapevi già dove andare, cosa fare?». «Prima ho pensato di raggiungere mio zio a Brescia per raccontargli tutto, ma poi ho deciso di prendere tempo e pensare bene a cosa fare. Ho girato in macchina, sono ar- rivato in Friuli». «Ma prima sei passato nuovamente da casa… Sei stato tu a rompere i sigilli?».

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«Sì». «Perché, cosa ci sei tornato a fare?». «Volevo prendere i corpi e farli sparire, ma non c’erano più». Parlando col magistrato, Roberto evidenzia buone cono- scenze di anatomia derivategli da una passione che lo aveva portato fin da piccolo a scoprire come erano fatti i corpi. Per questo aveva sezionato molti animali dopo averli cloroformizzati.

Non punibile Reggio Emilia, 8 ottobre 1981 Le perizie psichiatriche lo hanno giudicato schizofrenico. Roberto Succo è stato dichiarato non punibile per totale infermità mentale e ricoverato nel manicomio criminale di Reggio Emilia, dove rimarrà fino alla guarigione e, co- munque, non meno di dieci anni. In questa struttura, Roberto è tranquillo, anche se scrive lettere inquietanti a don Domenico Franco, un sociologo: «Se volessi», scrive fra l’altro, «potrei stritolare con una sola mano almeno cinque guardie». Chi raccoglie le sue confidenze sente giudizi volgari e pieni di livore nei con- fronti delle donne: «Le mie compagne di classe erano tutte delle stronzette, avrei voluto strozzarle con le mie mani». Ammira molto un recluso che è nello stesso car- cere, uno “famoso”: Wolfgang Abel. Con l’amico Marco Furlan aveva massacrato a Verona quindici persone con la sigla di Ludwig. Dovevano “ripulire la società”. Non dà problemi, Roberto, che addirittura porta a termi- ne gli studi liceali e si iscrive alla facoltà di Scienze natu- rali, sostenendo un esame dietro l’altro. Risultati che gli fruttano alcune licenze studio. Ed è durante una di que-

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ste licenze che scompare. Va bene tutto, ma dieci anni sono un tempo troppo lungo. Ne ha passati ben sei lì den- tro, adesso basta. Lo cercano dappertutto, ma lui è scom- parso, scompare nel nulla per due anni. Fino all’11 feb- braio 1988, quando l’ANSA batte questa agenzia: «Parigi, 11 febbraio – Una serie di controlli effettuati in Italia hanno permesso alla polizia francese di identificare un pericoloso assassino al quale si sta dando la caccia da quindici giorni: è Roberto Succo, di 25 anni, fuggito nel 1986 da un ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, dove era stato rinchiuso per schizofrenia dopo avere ucciso nel 1981, a Mestre, il padre e la madre». Quindi era lì che era scappato, come sospettavano gli investigatori italiani, in Francia.

André Tolone, 28 gennaio 1988 Ajazzi e Morandin sono due ispettori della polizia france- se che stanno dando la caccia a un certo André che la notte prima, durante una rissa in un bar, ha ferito un uo- mo con un colpo di pistola. La soffiata di un informatore indica un hotel: «Lo trovate lì». La signora al banco informazioni ha passato da un pezzo i cinquanta, ma si sente ancora piacente. Fa un lungo so- spiro che gonfia oltremodo la sua quinta sfacciata, s’ag- giusta una ciocca di capelli biondo cenere che però tor- na giù per dispetto, controlla l’effetto che ha prodotto la sua avvenenza sui due poliziotti che chiedono dell’uomo e finalmente risponde: «Non è in camera». I flic stanno per infilare la seconda domanda quando la donna cambia espressione di colpo, mentre dall’ingresso dell’hotel arri- va l’inferno. Colpi di pistola.

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A sparare è proprio quell’André ricercato. L’ispettore Claude Ajazzi è a terra, immobile, ricurvo su un lato, gli occhi sbarrati. André lo crede morto, ma è solo ferito. Come ferito è anche Michel Morandin, che però si lamen- ta, reggendo ancora l’arma. Una Smith&Wesson 38 Spe- cial. Una meraviglia della tecnica. André la strappa dalle mani del poliziotto, la guarda con ammirazione, poi la punta contro la faccia del poliziotto, che lo supplica, piange, tira fuori la sua famiglia. Gli rispondono tre colpi di quel grosso calibro che gli sfasciano la faccia. La caccia a quel maledetto da parte della polizia france- se è rabbiosa. Tutta Tolone è sotto assedio, passata al se- taccio, mentre la TV diffonde l’identikit di André. Ed è grazie alla televisione che arriva la pista giusta. Al co- mando centrale di polizia si presentano infatti tre perso- ne: padre, madre e figlia di 16 anni. Lei, la ragazzina, era stata con quel bastardo. L’ha riconosciuto in televisione, poi è svenuta. Ma non si chiama André. Si chiama Rober- to. È un attimo incrociare l’informazione con le facce dei galantuomini sul cui capo pende un mandato di cattura internazionale. Bingo! È Roberto Succo. Che, due giorni dopo, sarà ricercato furiosamente anche dalla polizia svizzera. Dopo la sparatoria di Tolone aveva infatti passato il con- fine. Sulla strada fra Ginevra e Losanna aveva aggredito il gestore di una stazione di servizio per rubargli la mac- china e proseguire la sua fuga. Abbandonata anche quel- l’auto, ne aveva fermata un’altra alla cui guida c’era una ragazza alla quale aveva intimato di accompagnarlo fino a Berna. Lungo il tragitto, però, c’era stato un incidente e la ragazza, terrorizzata, era riuscita a fuggire. Intanto era arrivata la polizia, ma Succo non ci aveva pensato

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due volte a sparare, creandosi una via di fuga. Di nuovo libero. Libero di uccidere. Ma non solo.

Fine corsa Succo non è soltanto un omicida. È anche uno stuprato- re. A Lyss, vicino Berna, tre donne denunciano di essere state sequestrate e violentate. La descrizione che danno dell’aggressore non lascia spazio a dubbi: è lui. Il 20 feb- braio è segnalato a Sainte-Tuille, nell’Alta Provenza. È dunque rientrato in Francia. Perché? Forse per recupera- re denaro da qualcuno che lo aiuta. Un testimone lo ha identificato al volante di una Opel nera, ma di lui non c’è traccia, nonostante sia braccato da tre polizie europee. Ad avere fortuna è proprio quella italiana che, dopo aver- lo cercato a Belluno, Milano e Treviso, arriva a Santa Lu- cia di Piave, un paesino vicino a Conegliano. Questa vol- ta, fra le tante segnalazioni, è arrivata quella giusta. Suc- co si sente perso e cerca di raggiungere una Rover 800 ru- bata il giorno prima sul lago di Garda, a Sirmione, nel por- taoggetti c’è la Smith&Wesson dell’ispettore francese uc- ciso. I poliziotti, però, gli sono addosso e lo immobilizza- no prima che possa aprire lo sportello. Oltre alla pistola, in macchina Succo ha documenti falsi, un libretto d’asse- gni, quattrocentomila lire e sessantamila franchi francesi. C’è anche una cartina geografica sulla quale ha segnato l’itinerario della fuga, destinazione Nord Africa. Portato in questura, a Treviso, al dottor Francesco Zonno, capo della squadra mobile, che gli chiede di dichiarare an- che la sua professione, risponde: «Ammazzo la gente». Succo elenca quindi i suoi crimini come fossero tappe di un curriculum professionale. A parte i genitori, ha ucci- so l’ispettore Morandin, France Vu Dinh, una ragazza

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vietnamita, Michel Astoul, un medico di Annecy, Claudie Duschosal, una donna prima violentata, il brigadiere An- dré Castillo, un poliziotto svizzero che voleva controllar- gli i documenti. L’unica consolazione degli inquirenti è che ora Roberto Succo è nelle mani della giustizia. Que- sta volta la corsa è finita. Forse…

This is the end Treviso, carcere di Santa Bona, 1 marzo 1988 Le disposizioni sono precise: si tratta di un pericoloso criminale che va controllato a vista. A leggere la sua sto- ria sembra di stare in una canzone di Jim Morrison: «Fa- ther I want to kill you/ mother I want to fuck you». Uno che va controllato a vista perché basta un attimo e quel- lo è capace di scappare di nuovo. Deve solo aspettare il momento giusto. Che prima o poi arriverà. Infatti arriva quando, durante l’ora d’aria, Succo si accorge che i tre agenti di custodia si sono distratti e ne approfitta per raggiungere con un salto una tettoia e da lì il tetto del carcere, da dove raggiunge quello di un altro edificio. Nel frattempo arriva anche la TV e a quel punto Succo im- provvisa uno show, dondolandosi nel vuoto appeso a una sbarra, urlando che lui è meglio dei parà. Le sue invetti- ve sono rivolte soprattutto verso una donna che lo ha tra- dito, anzi, una ragazza di 16 anni, quella che lo ha denun- ciato a Tolone: «L’unica persona che ho amato». L’esibizione senza possibilità di fuga termina nel pome- riggio, quando durante un’altra acrobazia, Succo cade da sei metri rompendosi un po’ di ossa. Anche conciato ma- le, però, si dibatte come un leone quando viene afferrato e i medici sono costretti a somministrargli potenti dosi di calmanti. Il serial killer più pericoloso del momento vie-

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ne quindi trasferito nel carcere di Livorno, dove è rin- chiuso in isolamento e, neanche a dirlo, sorvegliato a vi- sta. I francesi però non si fidano e l’8 marzo chiedono l’estra- dizione di Succo. Hanno paura che una nuova perizia psi- chiatrica possa giudicarlo schizofrenico e che venga di nuova prosciolto dalle accuse perché riconosciuto infer- mo di mente. Contemporaneamente arrivano rogatorie, almeno una decina, inoltrate dai giudici svizzeri e france- si che indagano sugli altri delitti attribuiti a Roberto. Il 23 aprile è a Treviso un magistrato d’oltralpe, il giudice istruttore Louis Bertrand, del tribunale di Tolone. L’inter- rogatorio dura poco più di dieci minuti perché, appena vede il giudice, Succo comincia a parlare in francese: ve- ri e propri deliri, come quando diceva che a uccidere i suoi erano stati i carabinieri. Poi passa all’italiano, ma so- lo per avvalersi della facoltà di non rispondere. Il 17 maggio, il giudice istruttore Nicola Maria Pace esa- mina la perizia psichiatrica che un collegio di esperti ha condotto sul criminale con una serie di colloqui presso il carcere di Livorno. Qui c’è scritto che Roberto Succo è schizofrenico e pericoloso per la società, così il giudice Pace non può che dichiararlo incapace di intendere e di volere. In Francia il sindacato nazionale autonomo della polizia in borghese, che raccoglie ispettori e commissari di poli- zia, protesta vivamente con il Ministero della Giustizia francese e il giudice Bertrand chiede subito una contro- perizia con esperti e psichiatri francesi. Comunque sia, intanto Roberto deve tornare in un istituto psichiatrico giudiziario, come sette anni prima, ma anche questa vol- ta, le cose non vanno come dovrebbero andare.

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Notizia ANSA. «Roberto Succo si è suicidato la scorsa not- te nel carcere di Vicenza. Lo avevano trasferito lì dal carcere di Livorno perché fos- se più vicino al tribunale e non facesse scherzi durante i trasferimenti. Lo avevano chiuso in una cella d’isolamen- to del carcere San Pio X ed era praticamente sorvegliato a vista. Accortisi che il prigioniero era ancora in branda nonostante l’ora tarda, gli agenti di custodia erano entra- ti e, dopo aver sollevato il cuscino, si sono accorti che il Succo aveva la testa infilata in un sacchetto di plastica pieno del gas di una bomboletta da campeggio. Aveva 26 anni». Vicenza, 23 maggio 1988

LA STRANA MORTE DI DON BISAGLIA

Don Mario non era un prete qualunque. Il suo cognome, Bisaglia, era lo stesso di Antonio, “Toni” Bisaglia, il po- tente leader della DC, presidente del gruppo democristia- no al Senato, annegato il 24 giugno ’84 nel Mar Ligure. Onda anomala, avevano detto, ma lui, don Mario, non ci aveva mai creduto. Non aveva mai creduto a quella ver- sione, nonostante la moglie di Toni, Romilda Bollati di Saint Pierre, sposata l’anno prima, l’avesse sempre soste- nuta con tenacia: «Toni è stato investito da un’onda ano- mala mentre era a bordo del panfilo Rosalù, di mia pro- prietà». Don Mario era uscito di casa il 14 agosto 1992, senza to- naca, e con la sua bicicletta aveva raggiunto la Casa del Clero di Rovigo. Lì, una suora aveva chiesto di potergli parlare, ma lui non aveva tempo, aveva fretta, tanta fret-

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ta: doveva prendere il treno per Calalzo. E quel treno partiva alle 7. «Devo incontrare delle persone che mi aspettano», aveva detto in modo concitato, ed era scap- pato via. Testimoni lo avevano visto arrivare in stazione alle 6.45, acquistare il biglietto alle 6.55 e salire sul treno diretto a Padova, da dove avrebbe preso la coincidenza per Calalzo alle 9.25, ma a Calalzo, Don Mario non arrive- rà mai.

Si è suicidato Una donna che lo aveva incontrato alla stazione di Rovi- go, testimoniava di averlo rivisto alle 7.50 nel piazzale an- tistante la stazione mentre saliva a bordo di un’auto bian- ca di grossa cilindrata con quattro persone a bordo. Co- me poteva essere lì a quell’ora, don Mario? C’era chi te- stimoniava di averlo visto salire sul treno, quindi l’incon- gruenza poteva essere spiegata solo in un modo: il sacer- dote era sceso da quel treno alla prima fermata, a Mon- selice, ed era tornato a Rovigo con un altro convoglio. Perché lo avrebbe fatto? Un altro testimone dichiarava di averlo visto alle 8.35 alla stazione di Padova, dove avreb- be potuto arrivare se si fosse fatto accompagnare da quella fantomatica auto. Comunque, di don Mario s’erano perdute completamen- te le tracce, finché il suo corpo era stato rinvenuto due giorni dopo, il 17 agosto, nel lago di Domegge, in Cadore. A quando risaliva la morte? Non c’era concordanza nep- pure su questo. L’anatomopatologo, infatti, la faceva risa- lire al giorno 14 – lo stesso della scomparsa – per anne- gamento. Per un altro medico dell’USL locale, invece, il decesso risaliva a circa dodici ore prima del ritrovamen- to, cioè alla mattina di quello stesso 17 agosto. Su una co-

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sa i due medici erano d’accordo: si trattava di un suicidio per annegamento. Un suicidio, ma come si spiegavano i tanti punti oscuri? Perché, per suicidarsi, un uomo avrebbe preso un treno (o in alternativa farsi portare) da Rovigo fin su a Domeg- ge per buttarsi poi nel lago? Per annegarsi, acqua ce n’era a sufficienza anche a pochi chilometri da casa, ma, soprattutto, perché don Mario, un sacerdote molto atti- vo nella propria parrocchia, avrebbe dovuto suicidarsi? E perché doveva andare a Calalzo? Perché voleva incon- trare il Papa, in quei giorni in vacanza nel Cadore. Moti- vo: ottenere da lui la dispensa dal segreto del confessio- nale. Una dispensa negatagli dal vescovo di Belluno. Co- sa aveva di così grave da raccontare per chiedere una di- spensa? Dobbiamo tornare a otto anni prima, alla scomparsa, al- trettanto misteriosa, di suo fratello Toni. Una morte che don Mario non aveva mai ritenuto accidentale. Suo fra- tello era stato ucciso e ora, finalmente, sapeva da chi e perché.

L’ombra della P2 Quando morì, il senatore democristiano Toni Bisaglia era una figura di primissimo piano all’interno del suo partito. Nel mare antistante Portofino, quel 26 giugno, Toni si stava godendo il sole a bordo dello yacht Rosalù con sua moglie e alcuni amici. Per motivi mai chiariti, finì in ma- re e quando fu ripescato i tentativi di rianimarlo furono inutili. Sulla dinamica degli avvenimenti, gli ospiti dello yacht fornirono versioni discordanti. Non fu effettuata neppure l’autopsia, perché, su disposizione del presiden- te del Senato, Francesco Cossiga, un C130 dell’aeronau-

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tica militare recuperò subito la salma con destinazione Roma, per le esequie di Stato. La fine di Toni Bisaglia lasciò il gruppo dei dorotei senza una guida e nel giro di poco tempo sparì dalla circolazio- ne anche uno dei suoi amici più fidati: quell’Ugo Niutta posto a capo della Farmitalia (Carlo Erba) proprio dal politico di Rovigo. Niutta morì a Londra, “suicida”, come Roberto Calvi e, come Calvi, nel “giro” della P2. A diffe- renza di Calvi, però, lui non si impiccò, anzi, non fu im- piccato. A ucciderlo fu una dose massiccia di Tavor. Si era suicidato perché malato, ma pur essendo malato di Parkinson, le terapie “conservative” gli consentivano di condurre un’esistenza normale. Poco normale, inoltre, ri- sulta la scelta di Londra come scenario del suicidio. A Londra, molto probabilmente, Calvi e Niutta avevano co- muni frequentazioni e comuni affari. L’eliminazione di Niutta poteva rientrare in una più ampia strategia di li- quidazione del potere dei dorotei, che solo pochi anni prima aveva sofferto la perdita del loro leader, Aldo Mo- ro? I segreti della P2 dovevano restare tali, anche a costo di eliminare un senatore e un suo stretto collaboratore? Interrogativi destinati a restare senza risposta.

Chi l’ha visto? Don Mario, che non aveva mai ritenuto accidentale la morte del fratello, aveva scoperto qualcosa. Pochi giorni prima della sua morte aveva conosciuto particolari es- senziali su quella tragica vicenda di Portofino. Confiden- ze raccolte però dal confessionale, per poterle utilizzare aveva bisogno della dispensa. Dispensa che, negatagli dal vescovo, don Mario voleva chiedere direttamente al pa- pa. Per questo era stato eliminato, ma non c’era nessuna

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prova. Così, anche la morte di don Mario era stata archi- viata. Caso chiuso, come quello di suo fratello Toni. Qualcuno, però, non era convinto. Quel qualcuno era il sostituto procuratore Raffaele Massaro, che nel 2003 aveva fatto riaprire il caso, ordinando una nuova perizia sul cadavere. Si era così scoperto che il corpo era stato sicuramente gettato in acqua dopo essere rimasto espo- sto al caldo di agosto in un luogo asciutto. Crollava quin- di la tesi del suicidio per annegamento e il magistrato era ricorso all’informatore più potente: la televisione. Si era rivolto infatti alla trasmissione “Chi l’ha visto?” con la speranza che si facesse vivo un testimone anonimo. Un uomo che dopo la morte del sacerdote aveva telefonato agli inquirenti affermando di aver visto degli sconosciuti gettare nel lago qualcosa di voluminoso, forse un corpo. L’anonimo veniva dunque invitato a rifarsi vivo e a dichia- rare tutto quello che sapeva, ma nessuno si fece avanti. La seconda inchiesta faceva luce anche su altri dettagli. Si scopriva per esempio che don Mario aveva deciso di partire improvvisamente dopo una misteriosa telefonata ricevuta il giorno prima. Si era anche scoperto che per quel 14 agosto don Mario aveva fissato un appuntamen- to con due giornalisti, Daniele Vimercati e Michele Bram- billa, ai quali aveva promesso rivelazioni sensazionali per il libro che stavano scrivendo. Un libro uscito in quello stesso anno con l’inquietante titolo de Gli annegati. Fa- cile supporre che le rivelazioni promesse riguardassero suo fratello e l’improbabile incidente che gli era costata la vita. Don Mario non aveva mai creduto alla versione uf- ficiale e ora, finalmente, ne aveva le prove. Sarebbe ba- stata quella dispensa per svelare il segreto. Un segreto che doveva rimanere tale.

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Tuttavia, non c’era lo straccio di una prova, un riscontro, così su tutta la vicenda era calato di nuovo il sipario: l’in- chiesta riaperta da Massaro veniva archiviata per l’im- possibilità di identificare autori e mandanti dell’omicidio di don Mario Bisaglia. Perché quel sacerdote era stato ucciso.

È stato un omicidio Al mistero della morte di Toni Bisaglia, si aggiungeva quindi il mistero della morte del fratello, ma in questo ca- so la magistratura parlava chiaramente di omicidio. Quali elementi giustificavano questa convinzione? Mas- saro aveva riaperto l’inchiesta basandosi su un esposto rivelatosi poi poco attendibile, tuttavia, dopo aver riesu- mato la salma per verificare le cause della morte, si sco- prì che nei polmoni di don Bisaglia non c’era traccia del- le tipiche alghe della zona cadorina e i medici spiegarono che il sacerdote era morto per soffocamento, non per an- negamento. Quindi, don Mario era morto prima di essere gettato in acqua. Grazie a questa importante scoperta, e considerate le affermazioni della vittima sul caso del fra- tello, i magistrati tornarono a indagare anche sull’impor- tante uomo politico veneto. Indagini che però, ancora una volta, non portarono a nulla. Di nuovo, si ricostruirono tutti i movimenti di don Bisa- glia da Rovigo a Calalzo di Cadore, vicino al lago in cui venne trovato cadavere il 17 agosto, concentrando l’at- tenzione sull’intervallo di tempo che andava dalle 7 alle 20.30 di quella giornata. Furono riascoltati tutti i testi- moni, compresa la donna che aveva dichiarato di averlo visto salire a bordo di una berlina bianca, e non sul tre- no, in compagnia di misteriosi personaggi. Tuttavia, an-

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che questa volta non si riuscì ad andare oltre, a chiarire il giallo di don Bisaglia, che era stato ritrovato con alcu- ni sassi in tasca, un foglietto di appunti poco significati- vi, e 850mila lire nascosti nei calzini.

MICHELE PROFETA. SCALA REALE CON LA MORTE

Padova, 16 febbraio 2001. Michele Profeta, di origine si- ciliana ma residente a Mestre, veniva fermato per omici- dio. Nel corso delle perquisizioni a suo carico, furono tro- vati un revolver Iver Johnson calibro 32, un mazzo di car- te dal quale mancavano quattro re e un normografo. Il normografo con il quale il serial killer aveva scritto le let- tere. La storia di Michele Profeta era iniziata a Palermo, nel ‘47. Figlio di una famiglia medio borghese, aveva vissuto drammaticamente il costante confronto con suo fratello maggiore, Maurizio Profeta, al quale lo sottoponevano i genitori. Maurizio era più bravo, Maurizio era più educa- to, Maurizio era più rispettoso. Un tormento. I coniugi Profeta avevano grandi ambizioni per i figli, non tanto per il loro futuro, ma per tenere alto il nome di una fami- glia importante, rispettata. Nonostante ciò, nonostante la pressione di una famiglia oppressiva, sia il bravo Mauri- zio, sia la pecora nera Michele non erano andati oltre il diploma: Maurizio aveva trovato lavoro in banca, mentre Michele, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, non ave- va terminato gli studi. Per Michele erano iniziate le scon- fitte della vita, quasi dei fallimenti annunciati. Anche sul fronte privato, intimo, i fratelli Profeta subiva- no i voleri della famiglia, più precisamente della madre.

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Michele fu costretto infatti a chiudere con il suo grande amore, Concetta, perché Concetta era figlia del popolo, di una classe sociale inferiore. Non poteva mischiare il suo sangue con quello della loro famiglia, perché sareb- be stato un disonore. Adriana invece andava bene, quel- la poteva perfino sposarla e crearsi una famiglia. Sembra- va tutto a posto, erano nati anche due figli, ma era dura- ta finché era vissuta la madre padrona. Quando era morta, Michele si era sentito libero di sce- gliere. Libero di tornare da Concetta che non aveva mai dimenticato. Si era separato quindi dalla moglie e, appe- na la legge glielo aveva consentito, aveva sposato Con- cetta. Erano nati due figli anche da questa unione. L’unione per tutta la vita, perché quella era la donna del- la sua vita. Le cose sembravano andare finalmente per il verso giusto: era impiegato presso una società immobilia- re, chiudeva parecchi contratti, guadagnava bene. Una famiglia a posto, una famiglia borghese come tante. Purtroppo, un nuovo fallimento era dietro l’angolo di una notte. Una notte in cui Michele aveva scoperto casual- mente una verità raggelante e dolorosa. La sua donna, quella che aveva sempre amato, quella per la quale ave- va combattuto anche contro la sua famiglia, non esisteva. Era come Dulcinea per Don Chisciotte. La sua donna lo tradiva e il suo amore si era improvvisamente trasforma- to in odio, mentre lui non ci stava più con la testa. Anche il lavoro ne aveva risentito e da lì a poco era arrivato il fallimento della sua società immobiliare.

La svolta Dall’immobiliare era passato quindi al settore finanziario. Intanto aveva conosciuto un’altra donna, Antonella, ma

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non aveva il coraggio di lasciare Concetta. La odiava per quello che gli aveva fatto, però non riusciva a non amar- la. E poi aveva messo su una famiglia con lei, aveva mes- so al mondo dei figli. La nuova vita di Michele correva ora su un doppio bina- rio, con le due donne che ignoravano l’una l’esistenza dell’altra. Anche il settore finanziario però si era presto rivelato un fallimento. L’ennesimo. Alla soglia dei cin- quant’anni, si trasferisce in Veneto e sceglie Adria (Rovi- go) per vivere con la moglie e i figli, mentre a Mestre piazza Antonella. Le cose sembravano andare bene fino a quando non era stato licenziato. Un nuovo fallimento. Questa volta, però, aveva la soluzione: la svolta della sua vita. L’11 gennaio 2001, alla questura di Milano era arri- vata una lettera: «Questo è un ricatto. Vogliamo 12 mi- liardi altrimenti uccideremo delle persone a caso in qual- siasi città. Sarà un bagno di sangue, dovete pubblicare questa inserzione sul “Corriere della Sera”: offresi torni- tore specializzato dodici anni di esperienza e un numero di cellulare, entro il 15-01-01. Se non ubbidirete dopo le prime uccisioni manderemo copie alla TV e giornali e ma- gari a qualcuno verrà voglia di imitarci e scateneremo il terrore». Il 15 gennaio, come richiesto, erano stati pubblicati l’an- nuncio e il numero di cellulare, ma le telefonate che era- no seguite erano tutte da parte di persone effettivamen- te interessate all’impiego proposto. Il 29 gennaio la poli- zia aveva ricevuto una segnalazione per un taxi fermo con a bordo una persona esanime. Il quarantunenne Pierpaolo Lissandron giaceva all’interno della vettura, colpito da un proiettile alla nuca. Era morto poco dopo il ritrovamento, senza aver ripreso conoscenza. La spari-

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zione del suo portafogli faceva pensare a una rapina, ma non era così. Era la promessa mantenuta, come spiegava la seconda lettera del killer, arrivata il primo febbraio. «Continueremo fino a quando non pubblicherete sul “Corriere della Sera” questa inserzione: offresi tornitore specializzato dodici anni di esperienza e un numero di cellulare. Padova 1», recitava il secondo, folle messaggio. Passati dodici giorni, Walter Boscolo, 37 anni, agente im- mobiliare, era stato ritrovato riverso in una pozza di san- gue in un appartamento di via San Francesco, a Padova. Come nel caso di Lissandron, l’uomo era stato ucciso con tre colpi d’arma da fuoco alla nuca. Stavolta però, il killer non aveva inscenato una rapina. Accanto al cadavere aveva lasciato due carte da gioco: un re di quadri e un re di cuori. In una busta c’era un bigliettino con due righe scritte con un normografo: «Anche questa non è rapina, contattate il questore di Milano». Gli indizi a disposizione degli inquirenti erano pochi, ma si sapeva che alle 12.30 Boscolo aveva appuntamento con un presunto cliente, tale signor Pertini. Si era quin- di indagato in questa direzione e si era scoperto che la telefonata era partita da un telefono pubblico presso il Pronto soccorso dell’ospedale di Noventa Vicentina. Dal- lo stesso telefono risultavano partite svariate altre telefo- nate ad agenzie immobiliari, tutte effettuate dal sedicen- te signor Pertini.

L’arresto, la fine Il 18 gennaio, utilizzando lo stesso falso nome, Profeta aveva incontrato Leonardo Carraro, agente immobiliare, in una casa in via Marostica. A questo incontro ne erano seguiti altri due. Carraro, anche se non lo sapeva, aveva

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visto il killer in faccia ed era quindi in grado di ricono- scerlo. Determinanti per la cattura erano stati anche gli sms con cui Profeta rispondeva, dai suoi dieci cellulari, agli annunci che la questura pubblicava per comunicare con lui. Tra le chiamate effettuate, gli inquirenti ne avevano no- tata una molto strana, diretta a Palermo: il numero ap- parteneva a un certo Giovanni Profeta. I sospetti cadde- ro perciò su Michele, residente a Mestre ed era scattato immediatamente il mandato di cattura. Profeta fu così arrestato il 6 febbraio, mentre usciva dagli uffici di una società di servizi finanziari. Si era dichiarato innocente, ma nella casa in cui viveva con Antonella Gemmati erano stati ritrovati una pistola e una scatola di cartucce simili a quelle che avevano ucciso Lissandron e Boscolo, oltre a un mazzo di carte dove mancavano i quattro re. Quello di fiori verrà ritrovato successivamente nella sua auto, insieme al normografo e alla carta da lettere. Le prove erano inequivocabili: Michele Profeta era il se- rial killer. A inchiodarlo, anche le dichiarazioni della sua compagna che affermava come tra il 3 e il 15 gennaio il Profeta si trovasse a Milano per fantomatici impegni di lavoro. Il collega Vincenzo Bozzi, inoltre, diceva di averlo accompagnato all’ospedale di Noventa Vicentina l’8 feb- braio, nell’orario in cui erano state effettuate tutte le te- lefonate alle varie agenzie. Profeta era stato trasportato nel carcere Due Palazzi di Padova e, dopo due mesi di processo e quattordici udien- ze, era stato condannato all’ergastolo e a due anni di iso- lamento. Il suo avvocato aveva deciso di ricorrere in ap- pello, chiedendo che fossero effettuate delle perizie psi- chiatriche. Durante la sua permanenza in carcere, Profe-

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ta era stato sottoposto a varie analisi psichiche che cer- cavano di comprendere cosa l’avesse portato a uccidere. Ne era venuta fuori una personalità affetta da manie di grandiosità, compiaciuta dell’attenzione che la sua vicen- da stava riscuotendo. Profeta gestiva i colloqui indirizzan- doli dove più gli piaceva, discorreva di sé e della sua vita in termini sublimi, ma, contrapposta a questa magnifica e inesistente realtà, c’era la vita vera, fatta di fallimenti amo- rosi e lavorativi. Fallimenti iniziati tanto tempo prima, quando non reggeva il confronto col fratello: era questa continua frustrazione che l’aveva spinto all’omicidio. Tuttavia, la sensazione di onnipotenza non lo aveva ab- bandonato nemmeno in carcere. Non si era arreso e ave- va tentato la fuga con una limetta nascosta nel portaoc- chiali: con questo piccolo arnese aveva provato a segare le sbarre del bagno, di notte, fino a quando non era stato scoperto. Per questo era stato trasferito nel supercarce- re di Voghera. In appello, Profeta aveva dichiarato ancora la sua inno- cenza; durante un colloquio con lo psichiatra Vittorino Andreoli, però, aveva deciso di confessare la propria col- pevolezza. Ammetteva di aver ucciso, ma non riusciva a capacitarsene: era andato contro i propri principi, la pro- pria moralità. «È come se fossi stato preda del male, di un’entità che si era imposta e guidava il mio corpo e le mie azioni... I miei pensieri procedevano senza la mia partecipazione, come se qualcosa scorresse su di me». Queste confessioni evidenziavano come avesse compiuto i delitti in una chiara condizione maniacale, sopraffatto da deliri che avevano preso il sopravvento, facendogli perdere il contatto con la realtà: non era più padrone di se stesso.

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Le sentenze di appello e Cassazione, comunque, avevano confermato l’ergastolo. «Era meglio la pena di morte». Il 16 luglio 2004 stava sostenendo il suo primo esame uni- versitario nella sala avvocati del carcere. Conosceva be- ne l’argomento e sembrava perfettamente a suo agio. Al- l’improvviso, però, aveva iniziato a rantolare e si era ac- casciato. Era morto poco dopo. L’ennesimo, ultimo falli- mento.

LA MISTERIOSA SCOMPARSA DI LIVIO ZANUSSI

Pordenone è lontana mentre impazza il ’68. A marzo c’era stata la battaglia di Valle Giulia a Roma, apoteosi del movimento. Un fermento che faceva ribollire anche il mondo del lavoro e da lì a poco, anche gli operai sareb- bero stati protagonisti di una propria stagione, ma nel ‘68 erano solo gli studenti a fermentare. Gli operai, invece, lavoravano. Anche quelli della Rex, gloriosa azienda di Pordenone che sfornava elettrodomestici della nuova era del consumo, attirando manodopera da tutto il Veneto e non solo. A capo c’era Livio Zanussi, 48 anni, efficiente e dinamico. Stava volando in Spagna, il 18 giugno di quel- l’anno turbolento. L’ultimo giorno della sua vita. Zanussi volava in Spagna per affari. Dalla torre di con- trollo dell’aeroporto di Fuenterabbia, tra San Sebastian e Bilbao, si seguiva con sempre maggiore preoccupazione quel bireattore executive privato, perché c’era una tem- pesta violenta, che aveva obbligato molti voli a cambiare rotta, a scendere a terra prima possibile. Le luci di quel- l’executive sembravano intermittenti fra le nubi nere che avvolgevano l’aereo.

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Inizia la proceduta di atterraggio, ma la manovra non era perfetta. Meglio risalire. «Va bene, salgo nuovamente a cinquemila piedi e poi scendo». L’ultima frase registrata dalla torre di controllo. Poi un lampo nel cielo, una fiam- mata che aveva abbagliato un contadino. «L’ho vista alle spalle dell’aeroporto, sotto la vetta del monte Jaizkibel», aveva detto con sicurezza e senza tema di smentita. Nes- sun superstite: la tragedia aveva falciato le vite dei due piloti, del direttore generale della Rex, del dirigente del- la filiale spagnola, del direttore commerciale e del titola- re, Livio Zanussi.

Come Mattei? La commissione d’inchiesta governativa aveva concluso i suoi lavori giustificando la tragedia con un errore di pilo- taggio. Parlava di errata interpretazione degli strumenti di bordo, forse di un altimetro regolato male, e aggiunge- va che le condizioni meteorologiche erano proibitive. Ep- pure, non tutto quadrava, perché quel pilota era uno dei migliori piloti collaudatori sulla piazza. Forse non era sta- to un incidente, forse era una storia che si ripeteva. Una storia come quella di Enrico Mattei, caduto anche lui col suo aereo sei anni prima. Forse anche questa volta qual- cuno aveva voluto che quell’aereo cadesse. Per Mattei c’erano di mezzo il petrolio, la politica italiana ed estera, ma chi voleva morto Zanussi? E perché? Oggi, le persone che conoscono quei fatti sono quasi tut- te d’accordo: altro che incidente, quell’aereo doveva ca- dere. Il primo ad avanzare la tesi inquietante era stato Giorgio Rinaldi, di professione spia. Spia per i russi: per questo era rinchiuso dall’anno precedente nel carcere di Alessandria con sua moglie Zarina, spia anche lei.

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«Fateci parlare», avevano detto più volte. «Fateci rac- contare quello che sappiamo. Dobbiamo evitare altre tra- gedie come questa. Fateci parlare prima che muoia altra gente». Cosa avevano da dire i due spioni? Cose inquie- tanti. Affermavano per esempio di aver ricevuto in carce- re la visita di un uomo importante: il colonnello Renzo Rocca, papavero del SIFAR, che aveva voluto sapere tutto ciò che la coppia conosceva sul conto di alcune persone segnate su un taccuino. Una lunga lista di nomi. Fra i nomi segnati sul taccuino del colonnello Rocca, quello di Giovanni Battista Taolotti, parente della spiona e dirigente della Rex spagnola, anche lui sull’aereo preci- pitato. Era dunque lui che bisognava eliminare? Il colonnello Rocca, tuttavia, non avrebbe mai potuto ri- spondere a questa domanda, perché era morto suicida una settimana dopo la tragedia. I coniugi Rinaldi, però, smen- tivano la versione ufficiale dell’incidente costato la vita a Zanussi. «L’aereo dell’ingegner Zanussi aveva compiuto voli regolarissimi fino al 17 giugno», ribadivano. «Nella notte fra il 17 e il 18, a Madrid, gli accadde qualcosa che lo rese inefficiente. Il 18, Zanussi e Taolotti dovevano rag- giungere la città di Bilbao con un finanziere spagnolo. Poi- ché l’aereo di Zanussi era stranamente impossibilitato a volare, fu loro offerto in prestito un aereo privato che, guarda caso, era identico a quello di Zanussi. E fu questo l’aereo che andò a schiantarsi sul monte Jaizkibel». Versione suggestiva, da “spy story” vera, altro che James Bond. E Rocca? Non poteva trattarsi di suicidio, perché il colonnello, quando si era “suicidato”, era ufficialmente fuori dai servizi segreti militari e aveva aperto un ufficio di consulenze industriali legato ad alcuni grossi comples- si industriali del Nord. Nel suo ufficio, setacciato dopo “il

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suicidio”, erano stati rinvenuti documenti definiti “segre- tissimi” e quindi inaccessibili.

Quelli dello spionaggio I Rinaldi insistevano: come si faceva a non pensare a una relazione diretta fra la morte del colonnello e l’incidente aereo? La storia si faceva più complessa e articolata, una storia in cui Livio Zanussi, noto imprenditore di Pordeno- ne, era finito per sbaglio. Sui giornali, il suo nome oscu- rava tutto il resto, ma Zanussi era morto perché sul suo aereo c’era qualcun altro che doveva morire. Era impro- prio quindi accostare la sua morte a quella di Mattei, co- me aveva fatto qualcuno, l’unico punto di contatto era il boicottaggio dell’aereo. Su quell’aereo, Zanussi era il per- sonaggio più in vista, ma con lui c’era qualcuno noto ne- gli ambienti dello spionaggio internazionale. Ambienti dove i Rinaldi erano ben conosciuti: grazie a loro, e agli agenti da loro ingaggiati, ai sovietici pervenivano notizie importantissime sulla consistenza delle forze del Patto Atlantico, sui movimenti di truppe, sugli armamenti, sul- la dislocazione e sull’organizzazione delle basi aeree e na- vali. Ambienti dove accadevano cose molto particolari. Il 15 marzo ’67 il corriere Armando Girard era stato fer- mato al valico del Monginevro. Nella tasca dei pantaloni aveva una scatoletta di metallo, sigillata, contenente un microfilm, e un paio di spezzoni di pellicola cinematogra- fica. Lo stesso giorno, a Torino, ufficiali del controspio- naggio avevano arrestato i Rinaldi: in casa della coppia, avevano trovato una potente radioricevente, apparec- chiature per la lettura di microfilm, messaggi in codice, l’attrezzatura per scrivere con inchiostro simpatico, tac- cuini con diversi indirizzi, cartine con la localizzazione

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delle buche in cui il materiale doveva essere depositato e recuperato da agenti sovietici. Esattamente, dal diploma- tico Yuri Pavlenko. Il SIFAR gli aveva teso quindi una trap- pola e lo aveva inchiodato: il 20 marzo Pavlenko era sta- to rispedito in Russia, dopo essere stato dichiarato inde- siderabile sul suolo italiano. L’arresto di Rinaldi non ave- va provocato solo questo, ma aveva anche aperto una grossa falla all’interno del sistema di spionaggio sovieti- co. A catena, erano seguiti infatti arresti in Grecia, Sviz- zera, Francia, Marocco, Algeria, Cipro, Malta, con diplo- matici russi costretti a far le valigie in quattro e quattr’ot- to e tornare nella casa Russia.

Il doppiogiochista Da chi aveva ottenuto Rinaldi i documenti a lui seque- strati e destinati all’Unione Sovietica? Il suo uomo a Ma- drid era Joaquim Madolell, dal quale Rinaldi e sua moglie Zarina avevano ricevuto fra le sette e le ottocento foto- grafie di documenti spagnoli. Tra questi, anche le ripro- duzioni di fogli che recavano programmi di voli NATO ef- fettuati nel dicembre ’66 fra la base aerea di Torrejón, in Spagna, e altre basi del Patto Atlantico, fra le quali due italiane. I Rinaldi, però, affermavano di non aver mai chiesto a Madolell quei documenti, spiegando il loro ri- trovamento da parte del SIFAR col doppio gioco messo in atto da Madolell che in realtà doveva distruggere la rete spionistica sovietica in Europa meridionale. Aveva quin- di infilato quei documenti destinati ai Rinaldi proprio perché fossero trovati. L’inesistenza di voli propriamente NATO in Spagna confermavano quella tesi, avvalorata an- che dal fatto che questi documenti non saranno mai esi- biti durante il processo ai Rinaldi.

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I Rinaldi avevano deciso di vuotare il sacco dei grandi se- greti da tenere top secret quando si erano sentiti scari- cati. Arrestati, messi in isolamento, sottoposti a una sor- veglianza strettissima, con addirittura un assaggiatore di cibi per timore che fossero eliminati col veleno, i Rinaldi parlavano molto più di quel che le carte ufficiali del pro- cesso a loro carico evidenziassero. Interrogati da diversi colonnelli del SID, sfilati anche al processo, le loro dichia- razioni erano state puntigliosamente registrate e messe a verbale. Al processo, però, non era potuto comparire il colonnello più importante in quella storia: il colonnello Rocca che aveva trascorso un’intera giornata nel carcere di Torino faccia a faccia coi due spioni, perché Rocca era morto suicida. Parlando di Rocca, i Rinaldi affermavano che al colonnello non interessavano gli aspetti militari, ma quelli industriali, dei quali ormai si occupava nella sua nuova attività. Fra le informazioni raccolte da Rocca ce n’era comunque qualcuna che riguardava ben altro. Nomi che il colonnel- lo trasmise a chi di dovere. Informazioni che, oltre a pro- vocare il “suicidio” di Rocca, faranno fare la stessa fine ad alcuni generali della Germania dell’Ovest: sui giornali tedeschi si collegò infatti l’arresto dei Rinaldi con quei suicidi. Alla fine di questa storia, la figura di Livio Zanussi diven- ta marginale: una povera vittima. L’unica colpa del signor “Rex”, il monarca dell’elettrodomestico che dava lavoro a tutto il Nord Est, era stata quella di aver ospitato a bor- do del suo aereo privato qualcuno che doveva morire. Anzi, non del suo aereo, ma di uno uguale al suo, mano- messo proprio per farlo cadere.

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ADRIANO FABIAN. T’AMO, T’UCCIDO

Sono le 8.20 del mattino del primo giorno dell’anno 1995, quando vicino al bar Moresco di Vicenza, nei pressi di Campo Marzio, viene trovato il cadavere di una ragazza riverso nella Seriola, un piccolo corso d’acqua. È il corpo di Anna Bortoli, vent’anni. L’autopsia evidenzia modiche quantità di alcool, ma esclude droghe e violenza sessua- le: la ragazza risulta infatti vergine e la morte è soprag- giunta per asfissia dovuta a strangolamento. Anna non viveva in famiglia, ma in una comunità dove era in cura per gravi conflitti familiari. Si cercò quindi di ricostruire le sue ultime ore di vita rintracciando gli ami- ci con i quali la ragazza aveva trascorso l’ultimo dell’an- no: Tiziano Sciarelli e Adriano Fabian, il suo ragazzo. Sciarelli dichiarava di aver lasciato Anna e Adriano pochi minuti prima delle sette, dopo aver trascorso la notte in- sieme. Fabian ammise subito di essere stato lui a uccide- re Anna. «È successo stamattina intorno alle sette, vicino a Cam- po Marzio. Io e Anna avevamo un legame sentimentale che era iniziato nel marzo dello scorso anno e che poi era andato avanti, anche se in maniera poco serena. Tra me e Anna esistevano tantissime differenze, sia nel modo di essere che di comportarci. Lei era quella che si dice una brava ragazza, mentre io sono “uno di strada”. Perciò erano frequenti le occasioni di litigio e ci eravamo lascia- ti anche per qualche tempo, più o meno verso ottobre. Poi avevamo ricominciato a frequentarci e avevamo deci- so di trascorrere insieme la notte di Capodanno, in com- pagnia del nostro comune amico Tiziano, che ha assisti- to anche a qualche litigio fra me e Anna. È rimasto con

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noi fino alle sei e mezza, quando se n’è andato lasciando- ci soli…». La tragedia si consumerà da lì a poco. Ma perché? Per cercare di capire, bisogna prima conoscere Anna e Adria- no e le loro storie.

Storia di Anna La famiglia Bortoli era composta da sei persone – due fratelli e due sorelle – ed era economicamente benestan- te, ma non serena a causa della forte conflittualità fra i genitori. Una situazione che aveva portato Anna a soda- lizzare con il padre e a sviluppare contestualmente un’accentuata avversione nei confronti della madre. Inol- tre, la ragazza soffriva di problemi di scoliosi che la co- stringevano a portare un busto ortopedico. Per Anna, la vita in famiglia era diventata alla fine inso- stenibile, portandola ad assumere farmaci e a spostarsi addirittura in una comunità per psicotici gravi. Ad aggra- vare la situazione era infatti intervenuto un lutto gravis- simo: la morte della sorella maggiore, alla quale Anna era legata morbosamente, tanto da vedere in lei la figura ma- terna. Un trauma che l’aveva portata a tentare il suicidio. Eppure, ai medici del centro di salute mentale, la sua condizione non era parsa particolarmente grave, per lo- ro, il vero problema di quella ragazza era la perdita della sorella, figura per lei fondamentale. Con gli altri compo- nenti della famiglia, infatti, pur essendo persone a modo, Anna non riusciva a relazionarsi in modo sereno e il disa- gio la portava quindi ad allontanarsi da loro. Le suore Orsoline in contrà San Francesco Vecchio furo- no il primo approdo esterno alla famiglia. Quello succes- sivo, nel gennaio del 1994, fu il “Geranio”, una comunità

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terapeutica di piccole dimensioni che ospitava persone mentalmente disturbate. Lei, però, non aveva problemi psichici e, come un operatore, si occupava degli altri ospiti: un’attività che la gratificava talmente da non ave- re più bisogno di farmaci. Nel frattempo aveva anche instaurato una relazione con un ragazzo di quattro anni più grande di lei, Adriano. I medici avevano constatato che quella relazione era fon- te di ansia per Anna e la situazione si era aggravata quando Adriano aveva tentato di avere con lei un rap- porto sessuale. Al rifiuto della ragazza, il giovane le ave- va stretto le mani attorno al collo e lei a stento era riu- scita a sottrarsi a un tentativo di soffocamento. La rela- zione era quindi terminata e quando Anna, accompagna- ta da una volontaria, aveva incontrato casualmente per strada Adriano, era stata quasi costretta a fuggire per sottrarsi alle insistenze del ragazzo che la pregava di tor- nare con lui. Insistenze che si erano manifestate non so- lo verbalmente, fino a paventare un nuovo scatto di vio- lenza. Ormai era chiaro: Adriano era una persona della quale avere paura.

Storia di Adriano Nato nel 1971 a Vicenza, Adriano era stato abbandonato dalla madre in un orfanotrofio, l’Istituto San Rocco, che aveva lasciato quando il tribunale dei minori lo aveva da- to in adozione alla famiglia Fabian. Fin dall’asilo, Adriano aveva dimostrato un’incapacità a relazionarsi serenamente con gli altri e, per sfogarsi, di- struggeva oggetti, compresi gli abiti dei genitori adottivi. Con gli anni, i suoi problemi si erano acuiti e, quando fre- quentò il centro di formazione professionale, il quadro

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psicopatologico diventò evidente. Perfino gli scout lo al- lontanarono perché creava problemi. Aveva 17 anni quando, su suggerimento dell’assistente sociale del Comune, era stato inserito nella “Casa buoni fanciulli”, da dove però si era allontanato dopo neppure due settimane: un tempo sufficiente per farsi conoscere dagli altri ospiti come una persona con una doppia per- sonalità. Una doppia personalità che lui stesso avvertiva: in lui convivevano Jack, una persona forte, capace di far- si rispettare, un duro; e Adriano, un debole, uno sfigato, sempre timoroso di essere abbandonato. Lasciata definitivamente la scuola, Adriano aveva trova- to un’occupazione in una cooperativa che curava giardi- ni, ma poi aveva abbandonato questo lavoro preferendo un posto di aiutante al cimitero. Intanto, nel 1989 era morto il padre adottivo e sua madre, appena compiuti i diciotto anni, lo aveva cacciato di casa. Per interessa- mento dei servizi sociali del Comune, era stato assunto alla Lanerossi e la notte dormiva al dormitorio pubblico, con l’impegno di entrare in una comunità. L’impegno pre- so, però, non fu onorato e così aveva perso sia il posto al dormitorio, sia il lavoro. A questo punto iniziava per lui quella “vita da strada” della quale avrebbe parlato spesso ad Anna. Senza lavoro e senza un tetto, era diventato uno sbandato, non di rado dedito all’alcool e all’uso di stupefacenti. La comunità si era fatta quindi nuovamen- te carico del suo caso e gli aveva trovato un appartamen- to in attesa di un lavoro. Fu in quel periodo che conobbe Anna.

Jack il duro Con Anna, Adriano si trovava bene. Era tranquillo perché

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sentiva di avere accanto una persona che gli dimostrava affetto: un nuovo corso di vita coronato da un nuovo la- voro in una fabbrica metalmeccanica. Del ragazzo sban- dato di prima, sembrava non esserci più traccia. Dietro l’angolo, però, c’era una nuova e drammatica ricaduta: gli operatori della comunità che ospitava Anna si erano ac- corti, infatti, che la ragazza era peggiorata proprio da quando lo frequentava. La forzata rottura con Anna lo aveva rigettato in un tun- nel fatto di comportamenti illeciti e aggressivi, ai quali si erano unite violente crisi di panico e ansia che lo aveva- no portato per ben tre volte al Pronto soccorso. Era or- mai convinto di non essere degno d’amore, perché l’uni- ca persona che lo aveva capito, che gli aveva dimostrato affetto disinteressato, era Anna. Alla fine era riuscito a riallacciare i rapporti con lei, ma questa volta le cose era- no destinate a precipitare. Infatti, il loro legame era di- ventato sempre più pericoloso per l’equilibrio di entram- bi, con Adriano che perdeva sempre più facilmente il controllo delle sue azioni, arrivando alla convinzione che per “salvarsi” doveva dar retta a Jack, il duro, e non ad Adriano, lo sfigato. In quel priodo, Adriano occupava una stanza di una casa diroccata e abbandonata: dormiva su un materasso sul quale aveva sistemato un sacco a pelo. La sua vita era di nuovo quella di uno sbandato, di “uno di strada”. Intan- to, il legame con Anna proseguiva fra rotture e riconcilia- zioni. Era arrivato l’ultimo dell’anno del 1994 e Adriano e i suoi amici discutevano su come trascorrerlo: fra gli ami- ci c’era Tiziano, verso il quale Adriano nutriva sentimen- ti ambivalenti. Pur considerandolo l’amico più vicino, so- spettava infatti che avesse avuto una relazione con Anna

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in uno dei loro periodi di rottura. Un tradimento doppio: di Anna, la sua ragazza, e di Tiziano, il suo miglior amico. Fra l’altro, Anna gli aveva detto che proprio la notte di quell’ultimo dell’anno gli avrebbe comunicato la sua de- cisione: se cioè stare ancora con lui o lasciarlo definitiva- mente. Perduta anche lei, Adriano non avrebbe avuto più nulla. Un pensiero che lo aveva tormentato per tutta quella se- ra e la notte. Notte che alla fine erano rimasti in tre a tra- scorrere: Adriano, Anna e Tiziano. Poi, erano andati a una festa, dove però che non c’era nessuno, così si erano spostati fra pizzerie e bar finché era arrivata la mezzanot- te. Era Capodanno e Anna aveva baciato entrambi. Sicu- ramente il bacio di Anna a Tiziano era solo un bacio au- gurale e senza malizia, ma in Adriano cominciarono a prendere corpo i fantasmi del tradimento. Fra i due ra- gazzi nacque un diverbio, terminato solo quando Tiziano decise di uscire dal locale in cui si trovavano. Rimasti so- li, Adriano cominciò a tormentare Anna, chiedendole del suo legame con Tiziano. A quel punto la ragazza, non po- tendone più, era uscita, inseguita da Adriano che non po- teva perderla. Per lui sarebbe stata la fine.

La panchina Erano nuovamente tutti e tre insieme, fuori, all’aperto. Anna cercava di riportare la pace fra i due amici, ma Adriano la offendeva pesantemente, tanto che la ragazza si allontanava lasciandoli soli. Quando i due si erano ac- corti che non c’era più traccia di lei, avevano cominciato a cercarla ognuno per conto proprio. Adriano aveva va- gato fino all’alba. L’aveva infine trovata alle sei e mezza, ma era abbracciata a Tiziano.

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La mente di Adriano si era affollata di pensieri che ben presto non erano più i suoi, di uno sfigato, ma di Jack, il duro. E da duro aveva reagito: non s’era mosso, era rima- sto lì e si era acceso una sigaretta, li guardava. Alla fine erano stati loro ad accorgersi della sua presenza e lo ave- vano raggiunto. Anna, finalmente, aveva “sciolto la riser- va” sul loro amore: non sarebbero stati più insieme, ognuno per la propria strada, la propria vita. Adriano aveva abbassato la testa, senza reagire, ma infine l’aveva rialzata, guardando l’amico, e gli aveva detto che voleva restare, un’ultima volta, solo con Anna. Tiziano lo aveva accontentato ed era andato a casa. Rimasti soli, Anna e Adriano avevano camminato muti di- rigendosi verso la stazione, finché erano arrivati a Cam- po Marzio, dove c’era quella panchina sulla quale era na- to il loro amore. Ed era lì che sarebbe morto.

POLIZIOTTI A VERONA

Se si proviene dalle sponde del lago di Garda e non si pas- sa per l’autostrada, l’entrata a Verona è accompagnata da file di prostitute lungo i due lati della strada. Una via “sto- rica”, decennale, che nel corso degli anni ha visto diversi “cambi di guardia” nel sesso mercenario. Dalle prostitute “nostrane” di un tempo (italiane di 20, 30 fino a 50 anni) si è progressivamente passati alle baby-lucciole minoren- ni per assestarsi infine sulle straniere: prima in maggio- ranza nordafricane, poi albanesi e dei Paesi dell’Est. Anche Galyna Shafranek veniva dall’Est, esattamente dall’Ucraina e, neanche a dirlo, era clandestina. Arrivata in Italia grazie alle solite promesse ammalianti, era finita

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a fare la cosiddetta “vita”, vendendo ogni giorno il suo corpo su quella strada impropriamente chiamata “del- l’amore”. Era lì anche la notte del 21 febbraio 2005, l’ul- tima della sua vita. Quella notte, infatti, tre colpi di pisto- la all’addome fermarono i suoi 29 anni. Non fu un regolamento di conti fra bande criminali per il controllo del territorio, ma una strage, perché sull’asfal- to, alla fine, si contarono quattro corpi e l’autore della mattanza era un serial killer, non un semplice omicida.

Un massacro Sono le due di notte e due agenti di polizia sono in servi- zio di pattuglia lungo la statale “bresciana”. Vedono qual- cosa accanto a una Panda ferma sul piazzale di una con- cessionaria di autocaravan e la affiancano immediatamen- te, illuminandola con il faro della volante. Riverso per ter- ra, c’è il corpo di una donna. Non fanno in tempo a scen- dere dalla loro auto che vengono presi di mira da diversi colpi di pistola. Seppur feriti, i due poliziotti rispondono al fuoco, riuscendo ad abbattere il loro aggressore. Alla fine, sul selciato restano trenta bossoli, sedici dei quali esplosi dall’aggressore: tre contro la donna e tredi- ci contro i poliziotti. In fin di vita, i due agenti riescono a lanciare un disperato SOS con la radiomobile, ma, traspor- tati in ospedale, moriranno entrambi poco dopo. I loro nomi, Davide Turazza, di 36 anni, e Giuseppe Cimarrusti, di 26, andranno ad allungare la già troppo lunga lista de- gli agenti caduti in servizio. Fra l’altro, la famiglia Turraz- za aveva già pianto Massimiliano, un altro figlio poliziot- to, morto in un’altra sparatoria, sempre nel veronese, a Fumane. Come per quel figlio, anche questa volta i geni- tori di Davide autorizzeranno l’espianto degli organi. An-

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che Galyna muore in ospedale, mentre l’assassino viene trasportato direttamente nella camera mortuaria perché senza vita già all’arrivo dei soccorritori. Perché questo massacro e chi l’ha provocato? Il responsabile della “strage di Verona”, come tutti i gior- nali la definiranno, si chiamava Andrea Arrigoni, aveva 36 anni ed era il titolare dell’agenzia di investigazioni pri- vate Mercuri con sede a Bergamo. Ma perché aveva ucci- so la prostituta ucraina? E perché aveva ingaggiato un conflitto a fuoco con i due agenti? Cosa c’è dietro azioni che paiono frutto della follia? Per rispondere a questi interrogativi, gli investigatori partono dalla vita dell’Arrigoni e scoprono che, pur pos- sedendo regolare permesso di porto d’armi, era stato de- nunciato per aggressione alla sua ex-ragazza e al nuovo fidanzato di lei. Esclusa ogni ipotesi di rapina finita ma- le, si accerta che la prostituta era stata colpita all’interno della vettura, come dimostrano le tracce di sangue che sporcavano la tappezzeria e i tre bossoli rinvenuti sul pa- vimento della Panda, dove si trovavano anche gli abiti e gli stivali della donna.

Il quarto uomo Dall’inchiesta filtra però un’indiscrezione inquietante: i proiettili che hanno ucciso i due poliziotti, recuperati con l’autopsia, pur essendo dello stesso calibro, potrebbero essere di tipo diverso. Se ciò fosse confermato, si apri- rebbero nuovi scenari nella ricostruzione del conflitto a fuoco: scenari che implicherebbero la presenza di un’al- tra pistola e un altro uomo. A questo punto, l’unico dato certo è quello di un violen- tissimo scontro a fuoco a una distanza di cinque, sei me-

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tri al massimo. Insomma, se è vero – come afferma il pro- curatore della Repubblica Guido Papalia – che gli esiti delle autopsie eseguite sui corpi degli agenti e dell’Arri- goni confermano, in linea di massima, la prima ricostru- zione della sparatoria, è altrettanto vero che bisogna ac- certare la presenza o meno di un’altra arma e, quindi, di un altro omicida. Se così fosse, lo scenario della strage cambierebbe clamorosamente, come sostiene l’avvocato della famiglia Arrigoni. «Non è affatto confermato che la dinamica del conflitto a fuoco sia quella ricostruita finora. Oltre al particolare dei proiettili, resta soprattutto l’incognita su chi ha ucciso la prostituta. Ritengo, sulla base di quanto ho appreso dai medici che hanno effettuato le perizie sui corpi delle vit- time, che l’ipotesi della presenza di un quarto uomo non sia da escludere». Se i dubbi, invece di scemare, aumentano, una cosa sem- bra invece sicura: quando gli agenti si sono fermati da- vanti alla Panda 4x4 di Arrigoni, Galyna Shafranek era già gravemente ferita. La donna, con tutta probabilità, giaceva a terra tra rivoli di sangue e grida di dolore e sa- rebbe stata questa la circostanza che avrebbe spinto i po- liziotti a illuminare con il faro della volante lo spiazzo del- la concessionaria Bonometti Centro Caravan. Intanto da Bergamo emergono altri racconti sulla vita e la professione di Andrea Arrigoni. Testimonianze diverse e in alcuni casi divergenti sulla sua personalità, ma tutte con- cordi nel sottolineare le sue due grandi passioni: la politi- ca e le investigazioni. Due colleghi, con i quali Arrigoni aveva spesso lavorato, raccontano che quasi certamente l’ex-paracadutista di Osio di Sotto quella notte fosse “in servizio” a Verona. Due particolari soprattutto li rendono

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perplessi: la Panda (un’auto che a loro dire non aveva mai utilizzato per gli spostamenti di lavoro) e la mancanza del telefonino (ritrovato poi a casa spento, a significare la vo- lontà di non farsi rintracciare). Elementi che fanno pensa- re a una missione delicata, molto delicata.

La svolta La svolta arriva improvvisa, come un fulmine a ciel sere- no, quando si accerta che Andrea Arrigoni aveva già uc- ciso. Aveva sparato a un’altra prostituta: Giugni Fatmira, un’albanese di 26 anni scomparsa il 16 novembre prece- dente in provincia di Bergamo e il cui cadavere era stato rinvenuto nel comune di Osio di Sopra il 19 dicembre. Particolare raccapricciante, il corpo era privo di mani e testa, rinvenuti due giorni dopo nel fiume Grembo, cioè a poca distanza dalla stessa abitazione di Arrigoni, che vi- veva proprio a Osio di Sotto. Come era stato possibile collegare questo omicidio alla “strage di Verona”? A tale conclusione erano giunti gli esperti della polizia scientifica che, analizzando un fram- mento di proiettile estratto dalla testa della prostituta al- banese, avevano accertato che il colpo era stato esploso dalla Beretta 6,35 sequestrata dalla squadra mobile di Verona nell’abitazione dell’Arrigoni subito dopo i fatti del 21 febbraio. La “strage di Verona” non è quindi un singo- lo episodio, ma il tragico epilogo di una scia di sangue tracciata da Arrigoni con altri delitti. Se infatti si ha la certezza che l’omicida della prostituta albanese era Arri- goni, gli inquirenti avanzano fondati sospetti sulle re- sponsabilità dell’investigatore privato bergamasco anche per la fine di altre prostitute scomparse e mai più ritro- vate.

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Casamassima P., La FIAT e gli Agnelli, una storia italiana, Le Lettere, Firenze 2003 Casamassima P., Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton&Compton, Roma 2007 Casamassima P., Il sangue dei rossi, Cairo Editore, Milano 2009 Castellano L., Autonomia operaia. La storia e i documenti: da potere operaio all’autonomia organizzata, Savelli, Milano 1980 Catanzaro R. (a cura di), Ideologie, movimenti, terrorismi, Il Mulino, Bologna 1990 Catanzaro R., Manconi L., Storie di lotta armata, Il Mulino, Bologna 1995 Cavallini M., Il terrorismo in fabbrica, Editori Riuniti, Roma 1978 Cavedon R., Le sinistre e il terrorismo, Edizioni Cinque Lune, Roma 1982 Cazzullo A., I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Mondadori, Milano 1998 Cazzullo A., Il caso Sofri, Mondadori, Milano 2004 Cecchi A., Storia della P2, Editori Riuniti, Roma 1985 Cederna C., Sparare a vista, Feltrinelli, Milano 1975 Ceolin C. (a cura di), Università, cultura, terrorismo, Edizioni Franco Angeli, Milano 1984 Chiaia A. (a cura di), Il proletariato non si è pentito, Edizioni Maj, Milano 1984

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Scarano M., Il mandarino è marcio, Editori Riuniti, Roma 1985 Segio S., Miccia corta, DeriveApprodi, Roma 2005 Segio S., Una vita in prima linea, Rizzoli, Milano 2006 Sereni E., La rivoluzione italiana, Editori Riuniti, Roma 1978 Silj A., Brigate Rosse-Stato: lo scontro spettacolo nella regia della stampa quotidiana, Valecchi, Firenze 1978

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Soccorso Rosso, Le BR. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se n’è detto, Einaudi, Milano 1976 Sofri A., Si allontanarono alla spicciolata, Sellerio, Palermo 1996 Sofri A. (a cura di), Il malore attivo dell’anarchico Pinelli, Sellerio, Palermo 1996 Sogno E.-Cazzullo A., Testamento di un anticomunista: dalla resistenza al golpe bianco, Mondadori, Milano 2000 Stajano C., L’Italia nichilista: il caso di Marco Donat-Cattin, la rivolta, il potere, Mondadori, Milano 1982 Sterling C., La trama del terrore: la guerra segreta del terrorismo internazionale, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1981 Storchi M., La scelta della violenza, Il Mulino, Bologna 1996 Streccioni A., A destra della destra, Settimo Sigillo, Roma 2000 Tarantini D., La democrazia totalitaria, Bertani, Verona 1979 Tarrow S., Democrazie e disordine: movimenti di protesta in Italia 1965-1975, Laterza, Bari 1990 Tassinari U. M., Fascisteria, Sperling&Kupfer, Milano 2008

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Telese L., Cuori neri, Sperlig&Kupfer, Milano 2006 Teodori M., Storia della sinistra extraparlamentare in Italia, Il Mulino, Bologna 1976

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SITI WEB DI RIFERIMENTO

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INDICE DEI NOMI

Abbate, Antonio, 85 Battisti, Cesare, 22, 23, 24, 192, 198 Abel, Wolfgang, 113, 114, 116, 117, Bellini, Paolo, 95 156 Benvegnù, Paolo, 25 Adlassnig, Roswita, 147 Beretta, Alice, 115 Affatigato, Marco, 75 Bergamelli, Albert, 103 Agamben, Giorgio, 29 Berger, Denis, 29 Agnoletto, Donato, 123 Berlusconi, Silvio, 8, 194 Aiello, Claudia, 95 Berna, Maria Antonietta, 21, 28 Alasia, Walter, 9, 10, 11 Bernareggi, Aldo, 73, 74 Albiero, Tiziano, 141, 142 Bertin, Zeno, 120 Aldighieri, Alfredo, 142, 143 Bertoli, Gianfranco, 73, 75, 76, 77, Alemanno, Antonio, 85 78, 79, 80 Alessandrini, Emilio, 54, 55, 56, 62 Bertolozzi, Felicia, 74 Alibrandi, Alessandro, 106 Betassa, Lorenzo, 40 Alibrandi, Antonio, 106, 108 Biagi, Marco, 8, 10 Alliata di Montereale, Giovanni Fran- Biancamano, Loredana, 50 cesco, 81 Bianchini, Guido, 25 Altobelli, Alessandro, 42 Bigonzetti, Franco, 107 Amato, Mario, 105, 106, 107, 108, Bisaglia, Antonio (Toni), 162, 164, 109, 110, 111 165, 167, 168 Amato, Sergio, 110 Bisaglia, Mario, 167 Andreatta, Piero, 65 Bison, Armando, 112 Andreoli, Ottavio, 121 Boccaccio, Ivano, 69, 71 Andreoli, Vittorino, 138, 173 Boeto, Gianni, 25 Andreotti, Giulio, 63, 194 Boffelli, Giorgio, 79, 80 Aniasi, Aldo, 74 Bollati di Saint Pierre, Romilda, 162 Arrigoni, Andrea, 188, 189, 190 Bonazzi, Edgardo, 96 Ashby, Richard, 126, 129, 130 Borghese, Junio Valerio, 83, 84, 98 Astoul, Michel, 160 Bortolato, Davide, 51 Azzi, Nico, 77 Bortoli, Anna, 180, 181 Bortoli, Lorenzo, 21 Balestrini, Giancarlo, 25, 27, 192 Bortolon, Gabriella, 74 Balzerani, Barbara, 10, 46, 192 Boscolo, Walter, 171, 172 Banelli, Cinzia, 12 Bozzi, Vincenzo, 172 Barbatella, Giuliano, 148 Brambilla, Michele, 166, 194 Barizza, Gianni, 121 Brega, Eugenio, 127 Battaglini, Ernesto, 99, 192 Buffi, Nicola, 89

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Bulgari, Gianni, 102 Costa, Claudio, 115 Burano, Damiano, 135 Cuzzoli, Pietro, 50 Buzzi, Ermanno, 91, 105 Dalla Chiesa, Carlo Alberto, 40, 47, Caccia, Giuditta, 19 56, 58, 197, 202 Cacciari, Massimo, 91 Dalmaviva, Mario, 25, 27, Calabresi, Luigi, 68, 73, 74 Dal Santo, Angelo, 28 Calogero, Pietro, 25, 26, 60, 62 D’Ambrosio, Gerardo, 62 Calore, Sergio, 96, 108 Danesi Alfredo, 102 Calvi, Roberto, 165 D’Antona, Massimo, 8, 10 Campagna, Andrea, 23 De Claris, Guido, 76 Campanile, Alceste, 92, 93, 95, 96 Delle Chiaie, Stefano, 63, 102, 105 Campanile, Vittorio, 93 Del Re, Alisa, 25 Carbognin, Giorgio, 133, 134, 135, Del Santo, Angelo, 21 136, 138 De Matteo, Giovanni, 108 Carraro, Leonardo, 171 De Mita, Ciriaco, 10 Carraro, Stefano, 123 De Pieri, Franco, 34 Caselli, Giancarlo, 58, 197 Derrida, Jacques, 29 Cavallaro, Roberto, 75, 82, 83 Despali, Pietro, 25 Cavallero, Pietro, 151 Diana, Calogero, 9 Cavallin, Gianfranco, 3 Di Cataldo, Francesco, 9 Cavallina, Arrigo, 22 Di Cecco, Giuseppe, 123 Cavallini, Gilberto, 111 Digilio, Carlo, 65, 66, 75, 78, 79 Cavazza, Paolo, 135, 136, 138 Di Leonardo, Cesare, 46 Celli, Elena, 89 Di Rocco, Carmela, 25 Ceravolo, Giovanni, 90 Di Rocco, Ennio, 45 Ciavatta, Francesco, 107 Donat Cattin, Carlo, 53, 55, 56, 57, Ciliberti, Giuseppe, 76 58 Cimarrusti, Giuseppe, 187 Donat Cattin, Marco, 53, 54, 55, 56, Ciotti, Luigi, 49 58, 205 Cirillo, Ciro, 32 Donat Cattin, Maria Pia, 58 Ciucci, Giovanni, 45, 46 Donatini, Elena, 89 Clavo, Marino, 14 Dongiovanni, Franco, 67 Clinton, Bill, 127, 131 Dozier, James Lee, 38, 39, 40, 41, 42, Coiro, Michele, 99 44, 45, 46, 47 Colombo, Vittorino, 55 Dragone, Stefano, 153, 155 Concutelli, Pierluigi, 91, 101, 102, Dura, Riccardo, 40 103, 104, 105, 111 D’Urso, Giovanni, 31, 32 Corleo, Luigi, 105 Duschosal, Claudie, 160 Corsini, Roberto, 127, 196 Cortelessa, Ippolito, 50 Esposti, Giancarlo, 87, 88 Cossiga, Francesco, 55, 56, 57, 58, Evangelista, Franco, 109 72, 164 Evola, Julius, 100

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ARMI IN PUGNO

Fabian, Adriano, 180, 182 Granzotto, Antonio, 20 Fachini, Massimiliano, 60, 63 Graziani, Alberto, 21, 28 Fais, Aldo, 26, 27 Graziani, Clemente, 100, 101 Falco, Leonardo, 90 Grillo, Manlio, 14 Fatmira, Giugni, 190 Guccini, Francesco, 91 Fenzi, Enrico, 9, 33, 198 Ferrari Roberto, 25 Hanema, Wìlbelmus Jacobus, 89 Ferrari Bravo, Luciano, 25, 27 Ferraro, Antonio, 67 Ichino, Piero, 8 Ferro, Gianfranco, 104 Isman, Fabio, 55 Fianchini, Aurelio, 90 Izzo, Angelo, 96 Fiasconaro, Luigi Rocco, 62 Fioravanti, Cristiano, 106 Juliano, Pasquale, 60, 61 Fioravanti, Valerio, 107, 109, 110, 111 Kotriner, Herbert, 89 Franci, Luciano, 90 Francia, Salvatore, 101 La Barbera, Arnaldo, 153, 154 Franco, Domenico, 156 La Bruna, Antonio, 63 Frascella, Emanuela, 45 La Malfa, Domenico, 67 Frascella, Mario, 42 Latino, Claudio, 9, 51 Freda, Franco, 60, 62, 63 Libera, Emilia, 45, 46 Fukada, Tsugufumi, 89 Lioce, Nadia Desdemona, 8, 10, 11, 12 Fumagalli, Carlo, 83 Lissandron, Pierpaolo, 170, 171, 172 Furlan, Andreina, 52 Loi, Duilio, 77 Furlan, Angelo, 48 Loi, Vittorio, 77 Furlan, Marco, 113, 114, 116, 117, Lollo, Achille, 14 118, 156 Lombardi, Antonio, 27, 78 Lorenzon, Guido, 59, 60 Galesi, Mario, 11 Lovato, Giuseppe, 113 Galimberti, Ivo, 25 Luddi, Margherita, 90 Gallucci, Achille, 26 Ludmann, Anna Maria, 40 Galvaligi, Enrico, 32 Ludwig, Otto, 112, 113, 114, 115, Garosi, Raffaella, 89 116, 117, 118, 156 Gelli, Licio, 96, 98, 102, 103 Gemmati, Antonella, 172 Madolell, Joaquim, 178 Genova, Salvatore, 43, 44, 45 Maggi, Carlo Maria, 65, 66, 75, 79, Germano, Antonio, 104 80 Ghirardi, Bruno, 9, 51 Malentacchi, Piero, 90 Giralucci, Graziano, 13, 16, 17, 19 Maletti, Gian Adelio, 63, 79, 80, 84, Girard, Armando, 177 85 Goldoni, Carlo, 30 Mambro, Francesca, 107, 111 Gori, Sergio, 33 Maniero, Felice, 119, 120, 121, 123, Gradari, Piergiorgio, 64 124

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Marchesin, Giancarlo, 61 Nicotri, Giuseppe, 25, 27 Marchetto, Franca, 53 Nigro, Arturo, 23 Mariano, Luigi, 101 Niutta, Ugo, 165 Marino, Antonio, 77 Marongiu, Giambattista, 25, 27 Occorsio, Vittorio, 98, 99, 100, 101, Martinese, Luigi, 101 102, 103, 104, 111 Martinotti, Luca, 115 Ognibene, Roberto, 16, 17, 18 Masala, Sebastiano, 22 Opocher, Enrico, 59 Masarin, Federico, 73, 74 Orlando, Ruggero, 87 Maso, Pietro, 30, 132, 135, 138, 139 Ortolani, Umberto, 102 Massagrande, Elio, 100, 101 Massaro, Raffaele, 166, 167 Pace, Nicola Maria, 161 Massimi, Marco Mario, 108, 109 Palladino, Carmine, 105 Mattei, Enrico, 175, 177 Palumbo, Giovanni Battista, 68 Mazzola, Giuseppe, 13, 16, 17, 18, 19 Pan, Ruggero, 61 Mazzola, Graziano, 50 Panciarelli, Piero, 40 Mazzola, Piero, 19 Pancino, Gianfranco, 25 Mazzi, Antonio, 53 Pannella, Marco, 27, 28 Medaglia, Antidio, 89 Panzino, Giuseppe, 75 Memeo, Giuseppe, 22 Papalia, Guido, 189 Merlino, Mario, 63 Pappalardo, Antonio, 104 Meroni, Federica, 50 Patrese, Giancarlo, 60, 61 Miceli, Vito, 84, 85 Pavlenko, Yuri, 178 Miola, Noemi, 148, 149 Pavlovic, Biljana, 146 Mingarelli, Dino, 68, 71 Peci, Patrizio, 32, 54, 55, 56, 57, Minghelli, Gian Antonio, 103 202, 203 Montorsi, Roberto, 96 Peci, Roberto, 32 Morelli, Maurizio, 77, 202 Pelli, Fabrizio, 16, 17 Moretti, Mario, 9, 15, 28, 32, 33, 202 Pertini, Sandro, 27, 47, 171 Mori, Luca, 124 Peruffo, Pietro, 139, 140, 141, 142, Moro, Aldo, 9, 13, 25, 28, 31, 40, 46, 143 97, 98, 165, 198, 202 Petrella, Stefano, 45 Moro, Eleonora, 26, 28 Pezzato, Nicolò, 60 Moro, Maria Fida, 98 Piaggio, Andrea Maria, 84 Motagner, Piercarlo, 65 Piccoli, Flaminio, 56 Mundo, Antonino, 22 Pigato, Gabriele, 113 Murano, Alberto, 61 Pinelli, Pino, 59, 68, 78, 205 Musger, Gabrielle, 145, 151 Piperno, Franco, 2, 14, 25, 27, 203 Mutti, Claudio, 109 Pisetta, Marco, 68 Porta Casucci, Giancarlo, 81 Neami, Francesco, 78, 79, 80 Poveromo, Donato, 67 Negri, Antonio (Toni), 25, 26, 27, 28, Pozzan, Marco, 60, 62, 63 29, 192, 193 Premoli, Marina, 50

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ARMI IN PUGNO

Profeta, Giovanni, 168, 172 Semerari, Aldo, 109 Profeta, Maurizio, 171, 172, 173 Senzani, Giovanni, 10, 32, 46 Profeta, Michele, 172 Semeria, Giorgio, 16, 17, 18 Pulejo, Claudia, 146, 147, 151 Serafini, Martino, 16, 17, 18 Serafini, Sandro, 25 Quagli, Alberto, 52 Shafranek, Galyna, 186, 189 Siciliano, Martino, 64, 65, 66 Raney, William, 126 Signorelli, Paolo, 108, 109 Rauti, Pino, 62, 100 Simonetto, Giampiero, 8 Reagan, Ronald, 41, 45 Sirotti, Silver, 89 Recchioni, Stefano, 107 Sofri, Adriano, 68, 195, 205 Rinaldi, Giorgio, 175, 176, 177, 178, Sossi, Mario, 13, 14 179 Spiazzi, Amos, 79, 80, 82, 84, 85 Rizzato, Eugenio, 81 Spinelli, Guerrino, 115 Rocca, Renzo, 176, 179 Stagno, Tito, 87 Rognoni, Giancarlo, 65, 66 Steccanella, Alberto, 59, 60 Rognoni, Virginio, 56, 204 Stefano, Luciano, 215 Romagnoli, Sandro, 79 Stevanin, Gianfranco, 145, 146, 147, Ronconi, Susanna, 16, 17, 18, 50 148, 149, 150, 151 Rossanigo, Giorgio, 23 Stevanin, Giuseppe, 149 Rossin, Valentino, 8, 51 Stiz, Giancarlo, 62 Rossi, Walter, 106, 191 Strizzolo, Luigi, 22 Ruffilli, Roberto, 10 Sturaro, Marzio, 25 Rumor, Mariano, 63, 73, 74, 75, 76, Succo, Nazario, 152, 78 Succo, Roberto, 153, 154, 155, 156, Russo, Nunzio, 89 157, 158, 159, 160, 161, 162 Russomanno, Silvano, 55 Ruzante, 30 Taliercio, Bianca, 30, 34, 37 Taliercio, Elda, 30, 34, 37 Sabbadin, Lino, 23 Taliercio, Gabriella, 35, 36 Salvo, Nino, 105 Taliercio, Giuseppe (Pino), 31, 33, 34, Sandalo, Roberto, 55, 57 35, 36, 38, 42, 46 Sandrucci, Romeo, 32 Tamburino, Giovanni, 81, 82, 83, 84, Santoro, Antonio, 23 85 Santoro, Michele, 68 Tanassi, Mario, 63 Savasta, Antonio, 35, 39, 40, 45, 46 Taolotti, Giovanni Battista, 176 Scalzone, Oreste, 25, 27, 203, 204 Tartarotti, Corinna, 116 Schweitzer, Joseph, 126, 129, 130 Taviani, Paolo Emilio, 75, 99 Sciarelli, Tiziano, 180 Togliatti, Palmiro, 81 Scolari, Ennio, 94 Tommasoni, Franco, 60 Scopelliti, Paolo, 76 Tonello, Andrea, 8, 9 Seagraves, Chandler, 126 Torregiani, Luigi, 23 Segio, Sergio, 48, 49, 50, 205 Toschi, Massimiliano, 51

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Tramonti, Massimo, 25 Vincent, Jean-Marie, 29 Tringali, Stefano, 65, 66 Vinciguerra, Vincenzo, 64, 69, 70, 71, Turazza, Davide, 187 73, 75, 76, 96, 206 Tuti, Mario, 90, 91, 92, 104 Violante, Luciano, 91 Viscardi, Michele, 50 Vaccari, Alessandra, 148 Vitalone, Claudio, 103 Vallarin, Lucia, 140, 141 Viviani, Bruno, 127 Vallanzasca, Renato, 151 Volinia, Ruggero, 42, 43, 45 Valpreda, Pietro, 63, 66, 192 Vu Dinh, France, 159 Vanzo, Marcello, 126 Vecchi, Valentino, 35 Zaccagnini, Benigno, 28 Ventura, Giovanni, 59, 60, 61, 62, 63 Zagato, Lauro, 25, 27 Vesce, Emilio, 25 Zanussi, Livio, 174, 175, 176, 177, Vettorato, Bruna, 19 179 Vigna, Pier Luigi, 104 Zonno, Francesco, 159 Vimercati, Daniele, 166 Zorzi, Delfo, 65, 66

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INDICE

Introduzione ...... 3

I rossi ...... 7 Operazione Tramonto: e il Veneto si ritinse di rosso brigatista . . . . 7 “L’incidente” di Padova: il primo omicidio delle Brigate Rosse . . 13 Il feroce biennio dei PAC di Cesare Battisti ...... 19 Pietro Calogero: un teorema per l’autonomia ...... 24 Mestre cuore brigatista: il sequestro e l’uccisione dell’ingegner Taliercio ...... 30 J. L. Dozier: un amerikano a Verona ...... 38 La prima linea di Rovigo: evasione con morto ...... 47 La vita spericolata di Marco Donat Cattin ...... 52

I neri ...... 59 La pista veneta della strage di Piazza Fontana ...... 59 Peteano, provincia di Ordine Nuovo ...... 67 Gianfranco Bertoli, come ti plagio l’anarchico ...... 73 Il giudice padovano e la Rosa dei Venti ...... 81 Italicus, treno di morte, Verona saluta con onore ...... 86 Occorsio, una sentenza a morte scritta sui muri di Verona ...... 98 Amato, da Rovereto a Roma per morire di eversione nera ...... 105 Ludwig e la pulizia del mondo ...... 111

La nera ...... 119 Felice Maniero e la mafia del Brenta ...... 119 I predatori del Cermis ...... 125 ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pagina 215

Pietro Maso, il pavone di Verona ...... 131 Pietro Peruffo: io sono un orco ...... 139 Gianfranco Stevanin, il contadino serial killer ...... 145 Roberto Succo. Anima persa ...... 151 La strana morte di don Bisaglia ...... 162 Michele Profeta. Scala reale con la morte ...... 168 La misteriosa scomparsa di Livio Zanussi ...... 174 Adriano Fabian. T’amo, t’uccido ...... 180 Poliziotti a Verona ...... 186

Bibliografia e fonti ...... 191

Siti web di riferimento ...... 207

Indice dei nomi ...... 208 ARMI IN PUGNO 22_7_10 2-09-2010 11:53 Pagina 216

ARMI IN PUGNO di PINO CASAMASSIMA

Collana diretta da SIMONA MAMMANO e ANTONELLA BECCARIA Progetto grafico ANYONE! Impaginazione ROBERTA ROSSI

©2010 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri Casella postale 97 – 01100 Viterbo fax 0761.352751 e-mail: [email protected]

ISBN 978-88-6222-139-9 Finito di stampare nel mese di luglio 2010 presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)