Cassiano:La collina del prete 1

DOMENICO A. CASSIANO

LA COLLINA DEL PRETE

L’umana avventura di un arbresh di

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Alla periferia di , nella contrada detta “La Collina del prete”, fu

trovata una fossa comune con alcune ossa, tra cui quelle – sembra – di Terenzio Tocci, fucilato a Tirana nell’aprile del 1945.

Ai mortali la Parca reca beni e reca mali

E ai doni degli dèi scampo non c’è.

Solone, Alle Muse.

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PREMESSA

Nella memoria storica del paese esiste ancora, ben radicato, il ricordo della tragica fine dell’avvocato Terenzio Tocci e non tanto della sua avventura in terra albanese. Era comunemente chiamato “Don Terenzio”e, negli anni ’40 dello scorso secolo, i paesani di lui favoleggiavano come di una persona di potere senza, peraltro, sapere indicare che cosa effettivamente facesse in , quali erano i suoi rapporti col fascismo, che cosa avesse mai fatto prima della occupazione fascista del 1939. Sembrava che fosse un personaggio avvolto nel mito e nella leggenda. Noi e quanti erano ragazzi in quel periodo ne sentivamo parlare dai grandi in piazza e nelle botteghe artigiane – che, allora, fungevano anche da circoli e luoghi di aggregazione e di socializzazione. Non riuscivamo a capire alcunché se non che “era arrivato assai in alto”. Dopo l’occupazione italiana dell’Albania, vi andarono a lavorare, con mansioni varie, alle dipendenze di ditte italiane, molte persone del paese, per lo più muratori, manovali, meccanici, autisti. Si diceva che “Don Terenzi gli aveva trovato il posto di lavoro” con la prospettiva – almeno fino al 1942 – di avere trovato in Albania una durevole, se non definitiva, sistemazione. Ma le cose cambiarono con il tracollo della potenza militare dell’Asse. Dopo l’8 settembre del 1943, per quelle famiglie che avevano figli o genitori in Albania arrivò la tragedia. Non riuscivano più a sapere nulla dei loro cari: dov’erano, cosa n’era stato di loro con l’occupazione tedesca dopo il disfacimento dell’esercito italiano. L’ansia e la preoccupazione aumentavano di giorno in giorno e si trasmettevano all’intera popolazione. Come,del resto, era un fatto inevitabile in un piccolo paese, dove tutti sono o amici o imparentati o, comunque, legati con altri non meno rilevanti rapporti sociali. Cassiano:La collina del prete 4

Poi, col tempo, verso la fine del 1944, incominciarono ad arrivare le prime notizie. Si seppe che l’Albania era stata liberata dai Partigiani; che molti soldati italiani avevano combattuto con il fronte di liberazione nazionale, battendosi per la riconquista della indipendenza e della libertà dell’Albania; che i nostri compaesani, che vi erano andati per lavoro, erano salvi, ma Don Terenzio era stato arrestato e si trovava in un carcere, a Tirana. La triste notizia mise naturalmente in apprensione tutti i paesani, che volevano ovviamente conoscere i particolari, sapere delle accuse specifiche formulate; per sapere qualcosa si recavano – singolarmente o a gruppi – dal Parroco, Don Giovani, fratello di Don Terenzio. Neppure lui sapeva qualcosa se non che il fratello era detenuto. Si trattava di una notizia – chissà – forse non vera. Bisognava attendere lo sviluppo degli eventi. Quando le cose si sarebbero chiarite, Don Terenzio sarebbe ritornato libero e potente come prima o, forse, più di prima. Egli – certamente – non era capace di fare del male; era di animo buono; aveva disinteressatamente trovato lavoro a molti compaesani e li aveva anche ricevuti amichevolmente nella propria casa. Nel paese, unanime era l’opinione sull’innocenza del Personaggio, sulla cui rettitudine si giurava e spergiurava. Passò il 1944 senza avere altre notizie. Ancora nessuno dei soldati e degli operai aveva fatto ritorno in casa, però, le rispettive famiglie avevano avuto rassicurazione che erano sani e salvi e che, ben presto, sarebbero rientrati. Nell’aprile inoltrato del 1945, si diffuse rapidamente per il paese la ferale notizia: Don Terenzio era stato condannato a morte dal tribunale dei partigiani e la sentenza era stata già eseguita. La cosa toccò nel profondo tutti i paesani, come se fosse uno stretto parente. Le campane della Chiesa suonarono a mortorio. L’indomani fu celebrata la messa in suffragio dell’anima del defunto. Non si conosceva alcun particolare sulla qualità e Cassiano:La collina del prete 5

quantità delle accuse, sull’andamento del processo, sul perché della terribile condanna, inflitta ad una persona che, per amore della patria – che ora l’aveva condannato – aveva rinunziato alla cittadinanza italiana e si era trasferito in quel paese, ancora diviso in tribù che si facevano tra di loro la guerra. Le opinioni dei paesani erano diverse così come le ipotesi, da cui derivavano. E intanto si aspettava che ritornasse qualcuno dall’Albania, lavoratore o soldato. Ognuno di costoro, essendosi trovato sul posto, certamente sarebbe stato in grado di riferire la verità dei fatti e di fare la cronistoria degli avvenimenti. Finalmente, nel corso del mese di luglio 1945, arrivarono, alla spicciolata, con mezzi di fortuna, i primi lavoratori emigrati. Noi ragazzi – che giocavamo e ci rincorrevamo lungo l’unica strada carrabile, che spezzava l’isolamento del paese – vedevamo questi uomini che non conoscevamo, ma li seguivamo accompagnandoli fino alle loro case. Era come una festa. Furono costoro che spiegarono qualcosa ai paesani senza riuscire a fugare ogni dubbio sul perché della condanna capitale. Ora sono tutti deceduti. Essi riferivano che il processo a Don Terenzio e ad altri capi del passato regime era stato celebrato nei locali del cinema “Savoia” di Tirana; che Don Terenzio si era difeso sostenendo la propria assoluta innocenza. Alcuni altri, che avevano avuto modo di contattare persone della famiglia, riferirono che, più volte, gli era stato consigliato di scappare, nascondersi, fuggire in Italia, perché i capi del Fronte di liberazione nazionale avevano già deciso la sua condanna a morte. Anche la moglie l’aveva pregato e implorato di mettersi in salvo. Non ci fu nulla da fare. Egli non si mosse. Era convinto che contro di lui ogni accusa sarebbe risultata infondata perché non aveva fatto del male a nessuno. Anzi, i fascisti, con i quali aveva collaborato, per il dissenso manifestato sull’operato del governo, l’avevano addirittura dimissionato Cassiano:La collina del prete 6

dalla presidenza del Consiglio Superiore Corporativo. Ma – allora – perché la condanna alla pena capitale? Questa domanda rimaneva senza risposta. Ragazzi, assistevamo alle discussioni che si svolgevano in vari posti del paese: naturalmente si scontravano opinioni diverse e congetture diverse. Nessuno era in grado di dare, però, una risposta soddisfacente ed esauriente al perché non era scappato. I lavoratori ritornati – almeno quelli che l’avevano conosciuto ed erano stati da lui ricevuti nella sua casa – garantivano della sua onestà e bontà d’animo. Anche loro, però, non si sapevano spiegare il perché era rimasto tranquillo nella sua casa ad aspettare che i Partigiani arrivassero a Tirana, dal momento che era stato avvertito del gravissimo rischio che correva. Passarono gli anni ed i ragazzi di allora, diventati adulti, presero ognuno la sua strada. Molti lasciarono il paese, ma non il suo ricordo. Perché lì, in fondo in fondo, erano nati, cresciuti, avevano giocato con gli altri ragazzi, correndo lungo i viottoli o a cercare i nidi nella vicina campagna. Negli anni ’90 del secolo scorso, dopo la caduta del regime in Albania, incominciarono a circolare sui giornali le notizie sulle esecuzioni di Tirana ed, in particolare, su Terenzio Tocci, di cui qualcuno scriveva che andava riesaminata la sua posizione e la sua condotta politica, non potendo essere confuso con criminali di guerra o volgari voltagabbana. Ritornava a riproporsi il dilemma: era un collaborazionista che si era macchiato di tradimento oppure no? Dilemma di assai ardua – se non impossibile – soluzione, data la complessità e l’anomalia del Personaggio e la carenza di elementi probatori sicuri ed indiscutibili. Le amministrazioni comunali, succedutesi nel paese, di vario colore politico, non gli hanno mai dedicato una via o un qualche altro sito cittadino. Non si tratta, però, di damnatio memoriae perché, in taluni atti ufficiali, il Cassiano:La collina del prete 7

paese pensa di trarre un qualche vanto per avere dato i natali al nostro Personaggio. Se non si ha il coraggio di dedicargli una via o, magari, di apporgli una targa o un’epigrafe su marmo, vuol dire che il solo suo nome desta un certo imbarazzo. Singolare destino commisurato, del resto, all’anomalia del Personaggio. Certamente, non si tratta di un caso unico e raro. La stessa cosa è capitata a Leandro Arpinati (1892-1945), anarchico, socialista, infatuatosi di Mussolini, diventato un potente gerarca, uno dei principali leaders in Emilia – Romagna, podestà di Bologna, sottosegretario all’interno, venne silurato dallo stesso duce che lo fece addirittura arrestare, nel 1933, per pretesi dissensi e contestazioni sulla linea politica, ma, in effetti, perché geloso e timoroso del suo crescente potere e dell’influenza che esercitava in ambienti fascisti italiani. Venuto il ’43 e caduto il fascismo, Arpinati aiutò i partigiani e, perfino, qualcuno pensò di offrirgli il comando di una banda partigiana. La sua villa diventa una succursale della Resistenza: vi trovano riparo sfollati, partigiani azionisti, come Dino Zanobetti, e membri dell’Intelligence inglese ed alte persone. Dopo la Liberazione, Arpinati era convinto di dovere affrontare una fase di processi per il suo passato di gerarca, senza che potesse essere accusato d’altro; passato che riteneva di avere in qualche modo smacchiato e riscattato con il suo pentimento attivo e col rifiuto di collaborare col duce nel governo della repubblica di Salò. Invece, avvenne che, il 22 aprile del 1945, quando tutto ormai sembrava filare per il verso giusto, fu ucciso nella sua casa da persone, rimaste, allora, ignote. Dopo anni si appurò che probabilmente l’autore dell’assassinio era stato uno squinternato, macchiatosi di numerosi delitti nel dopoguerra e condannato ad oltre vent’anni di reclusione. (v. Brunella Dalla Casa, Leandro Arpinati. Un fascista anomalo, ed. il Mulino, 2013). Cassiano:La collina del prete 8

Per conseguenza, nonostante che Arpinati avesse dimostrato con i fatti di avere rinnegato il fascismo, tuttavia su di lui ha continuato a pesare, offuscandone la memoria, solo ed esclusivamente il suo essere stato un importante gerarca fascista, venendo messo tra parentesi il suo dissenso con Mussolini e la sua dissonanza col regime su problemi, come i Patti Lateranensi, col filosofo Gentiile sulla amministrazione della Treccani o sostenendo la necessità di provvedimenti di clemenza contro avversari politici. Tutto questo non gli fu di alcun giovamento: egli sarà ricordato dai fascisti come un traditore e non sarà considerato nella giusta e dovuta misura dagli antifascisti che, in lui, continueranno a vedere il potente gerarca fascista con gli stivaloni lucidi. Anche per Terenzio Tocci – mutatis mutandis - è avvenuta la medesima cosa. La sua figura passa, nell’immaginario collettivo, come quella di un giovane romantico e scapigliato che, in gioventù, si avventurò sconsideratamente tra le tribù delle montagne albanesi, per poi finire collaboratore dei fascisti invasori dell’Albania e, quindi, traditore della sua patria. Si trascura che, ravvedutosi del collaborazionismo, tentò di organizzare – non riuscendovi – un’opposizione che desse vita ad un nuovo governo di unità nazionale anche al fine di fare cessare le feroci rappresaglie, messe indiscriminatamente in atto dal governo quisling. Fascista e collaborazionista con i fascisti, lo fu con indiscutibile certezza, ma – ed è altrettanto certo – che ad un determinato momento, si ravvide dell’errore, espresse anche alle alte sfere del regime la sua dissonanza e la sua opposizione contro le linee di gestione politica del governo, senza concreti risultati, pagando con la privazione della sua carica di presidente della camera fascista. Tentò anche di fondare un partito repubblicano albanese con un ardito programma sociale, come la riforma agraria fondata sul principio di dare la terra a chi la lavora; esaltò – come, del resto, inequivocabilmente attestato dai Cassiano:La collina del prete 9

suoi appunti per l’autodifesa – la rivoluzione comunista come “grandiosa”, che aveva liberato l’Albania dalle tenebre del feudalesimo e che aveva dato una nuova prospettiva alle giovani generazioni. Questo era l’uomo, con tutte le sue contraddizioni, con la complessa sua personalità e che aveva – come tanti in quel periodo – forse con eccessivo ottimismo, ceduto alle tentazioni della storia e del potere. Non valgono né le condanne e neppure le assoluzioni. Non resta che prenderne atto. E’ arcinoto che larghi settori della cultura italiana non furono contrari al fascismo ed, anzi, alcuni vi aderirono e lo sostennero, salvo, poi, dopo la disfatta, scoprirsi improvvisamente antifascisti. Si è trattato di un inammissibile cedimento morale, riscattato dalla tenace opposizione di pochi col carcere e l’esilio. Tuttavia, le ragioni che condussero o che guidarono molti intellettuali verso il fascismo, restano ancora abbastanza nebulose ed oscure. Occorre avere coscienza di ciò per non cadere nella facile denigrazione o nell’altrettanto facile, immotivata esaltazione. L’ambivalenza della fisionomia politica del Tocci, la sua gioventù romantica e scapigliata, l’alternarsi di luci ed ombre nei suoi atteggiamenti, l’oggettiva disinvoltura ideologica dei suoi transiti politici, hanno significativamente pungolato la mia curiosità e mi hanno spinto alla ricerca ed alla consultazione di tutto ciò che è stato scritto su di lui, ma anche a contattare quanti l’hanno conosciuto. Purtroppo ne ho trovato uno soltanto, anch’egli già abbastanza avanzato negli anni, Salvatore Altimari, nato a S. Cosmo Albanese nel 1929, attualmente residente in Cantinella di Corigliano Calabro. Salvatore Altimari, che ha fatto il carpentiere ed ora è pensionato, si esprime con proprietà di linguaggio e ricorda perfettamente, anche nei particolari, gli anni passati in Albania proprio durante gli anni cruciali della guerra, prima e dopo l’8 settembre ’43, dove già vi era il padre Damiano, che Cassiano:La collina del prete 10

vi si era recato nel 1941 per ragione di lavoro, insieme a tanti altri lavoratori di S. Cosmo, fidando sul fatto della presenza del potente compaesano, che gli avrebbe potuto dare una mano: cosa che puntualmente accadde. Terenzio Tocci riceveva questi suoi compaesani che arrivavano magari con una lettera del fratello Parroco – che, peraltro, manco conosceva – nella sua casa, a Tirana, venendo loro incontro, nei limiti delle sue possibilità. Tutta questa gente, senza lavoro in patria e senza risorse, aveva trovato, in Albania, un’occasione preziosa per potere sbarcare il lunario e per procurare il pane alla propria famiglia. Salvatore, che aveva 14 anni quando si recò in Albania col padre Damiano, dice che lo scopo era, sì, il potere lavorare e guadagnare, ma – in prospettiva – anche quello di trovarvi una sistemazione definitiva. Questo ovviamente era il proposito prima della disfatta, perché dopo maturarono ben altri pensieri. Il padre di Salvatore frequentava la casa di Terenzio Tocci, come gli altri compaesani. Quando, quattordicenne, arrivò in Albania, il padre lo portò con sé a fare visita al Tocci. Lo trovarono nella villa che passeggiava, da solo, lungo il viale. “ Vidi – mi riferisce Salvatore – un uomo piuttosto basso e tozzo. Si salutarono con mio padre. Poi, mi accarezzò, tagliò da una vite lì vicino un grappolo d’uva e me l’offrì, dicendomi: ”mangiala; quest’uva proviene da un vitigno italiano”. Dopo di allora, non lo vidi più. Poi, ci fu l’8 settembre. La notizia che v’era stato l’armistizio, io ed altri compaesani l’apprendemmo nel cinema “Savoia” di Tirana, dove si proiettava il film “Le due orfanelle”.Alla diffusione della notizia tutti gli spettatori applaudirono. Finalmente era la fine della guerra. Ma, in effetti, non era così perché l’esercito italiano si sbandò ed i tedeschi occuparono Tirana. Io e mio padre, che ci trovavano all’autocentro, fummo ivi chiusi e fatti prigionieri dai tedeschi. Fortunatamente, con grave rischio, riuscimmo a scappare: il compaesano, Mulinari Cosmo, ci accolse nella sua casa. Fino al luglio 1945, Cassiano:La collina del prete 11

epoca del rimpatrio, vivemmo e tirammo alla men peggio facendo qualche lavoretto”. Salvatore non ricorda com’è venuto a conoscenza dell’arresto di Terenzio Tocci, ma certamente l’avrà saputo dal padre che era solito frequentare la famiglia Tocci. Le udienze del processo contro il Tocci e gli altri esponenti del passato regime si tenevano al cinema “Savoia”. Salvatore non ricorda nulla in particolare. “Più volte - mi riferisce – la Signora Tocci mi incaricò di portare al marito, nel carcere di Tirana, delle cose, che non so di che si trattava, avvolte in un cestino di vimini, che consegnavo a chi apriva il portone del carcere, dichiarando solo a chi era destinato e subito andavo via. Ogni volta che mi incaricava di tale commissione, la Signora Tocci mii dava anche il denaro per l’acquisto di un barattolo di marmellata che – mi raccomandava vivamente - doveva essere di prugne da portare a Don Terenzio”. Queste cose Salvatore, una volta rientrato in paese, chissà quante volte le avrà raccontate ai compaesani nei luoghi di lavoro, nei circoli, nelle botteghe artigiane o passeggiando ai suoi amici. Colpiscono alcuni innegabili tratti umani di pregnante commozione, ma che non contribuiscono a fornire significativi lumi alla figura politica del Tocci, la cui responsabilità fu quella di avere avuto fiducia nel fascismo, di avere ricoperto l’importante carica di Presidente del Consiglio Superiore Fascista Corporativo, di essersene pentito e di avere tentato di organizzare un’opposizione con la formazione di un governo di unità nazionale. Tanti fascisti si salvarono, vivendo due vite – una da fascista, prima, e quella da antifascista dopo. Per Tocci non fu così: un processo equo e con le garanzie di difesa, gli avrebbe dato la possibilità di spiegare le sue ragioni e, con ogni probabilità, non si sarebbe concluso con quella condanna. Egli si era reso conto – come attestano i suoi appunti per l’autodifesa – di trovarsi al centro di un grave equivoco: i fascisti o certi rozzi Cassiano:La collina del prete 12

imperialisti italiani l’avrebbero considerato un voltagabbana; gli albanesi, che non erano a conoscenza di certi particolari della sua recente condotta politica. l’avrebbero considerato, tout court, un traditore, travisando la realtà dei fatti accaduti. In ogni caso, la sua umana avventura merita rispetto e considerazione, anche se la sua importante vicenda politica in Albania (deputato, prefetto, segretario generale della Presidenza della Repubblica, ministro, Presidente della camera fascista), non è inquadrabile in un preciso e specifico progetto politico a causa delle sue, a volte, improvvise e mutevoli posizioni ed orientamenti. Nella pagine che seguono ho, comunque, cercato di cogliere tutte le sfaccettature della sua composita personalità, senza riserve o reticenze, con un’indagine che – forse – a tratti potrebbe sembrare spietata, ma che vuole essere soltanto oggettiva.

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I

Nel 1885, Gustavo Meyer in uno scritto sulla Nuova Antologia, a proposito dell’”attività letteraria degli Albanesi d’Italia”, evidenziava l’esistenza di “una animata vita intellettuale, la quale fra noi è del tutto sconosciuta e perfino in Italia è appena osservata”. Sottolineava, inoltre, il Meyer come “la classe colta degli Albanesi prende viva parte allo sviluppo politico e letterario della patria italiana (il noto e celebre deputato Crispi è un albanese della Sicilia) senza per questo sentire meno profondamente l’affetto per la loro nazionalità.

Considerando la posizione eccezionale che è ancora sempre riservata agli Albanesi d’Italia in relazione alla Chiesa, essi sono cattolici-romani di rito greco ed il bisogno che ne consegue di avere sacerdoti puramente nazionali, non può meravigliare il fatto che un gran numero di uomini di molto valore intellettuale si sia dedicato al sacerdozio, e che fra gli scrittori, la maggior parte siano sacerdoti”.

Questa vivacità “culturale” – che faceva capo a Girolamo de’

Rada ed ai poeti della sua scuola, come Giuseppe Serembe e Giueppe de’ Rada, Francesco Antonio Santori di S. Caterina Albanese, Domenico Antonio Marchese di Macchia e ad alcuni altri – oltre che dispiegarsi nell’attività letteraria vera e propria, si prodigava anche per l’indipendenza dell’Albania. Verso la fine dell’Ottocento, era stato lo stesso Girolamo de’ Rada ad iniziare la pubblicazione, a sue spese, del Fiamuri Arberit (La Bandiera Albanese), in Corigliano Calabro; quasi contemporaneamente, usciva, in Sicilia, l’altra rivista Arbri i Rii Cassiano:La collina del prete 14

(Albania Nuova). Le due riviste furono i punti di riferimento e di aggregazione per tutti gli intellettuali italo-albanesi. Esse tentarono di unificare l’alfabeto e di individuare una lingua letteraria comune.

Nei primi dell’ottobre del 1895, si tenne in Corigliano Calabro, nei locali del ginnasio “Garopoli”, il congresso linguistico italo- albanese, al quale parteciparono rappresentanti di tutti i Comuni (per

S. Cosmo erano presenti Francesco Saverio, Giovanni Andrea e Achille Tocci) ed ebbe come presidente onorario Francesco Crispi, il quale telegrafò al de’ Rada per accettare “la onorifica distinzione”, aggiungendo anche: “Albanese di sangue e di cuore godo di questa iniziativa che mi auguro sarà utile alla storia della civiltà albanese ed allo incremento della sua letteratura”.

La rivista quindicinale Ili i Arbresvet (La Stella degli Albanesi), la cui direzione fu affidata all’arciprete di S. Giorgio Antonio

Argondizza e che uscì solo per quattro numeri, come organo ufficiale del congresso, tentò di portare avanti i due temi congressuali dell’unità linguistica e della rivendicazione dell’indipendenza albanese, due problemi di assai difficile soluzione, su cui, peraltro, non v’era neppure unanimità nel piccolo mondo dei calabro-arbresh. Il giovane Terenzio Tocci di S. Cosmo Albanese, in un suo scritto, relativamente alla lingua, rilevava di non “comprendere in base a quali criteri si voglia imporre il dialetto delle colonie (cioè, dei paesi albanofoni, n.d.R.) a quello della nazione intera che ha la lingua pura dei primi avi…mentre nelle colonie essa, benchè continui a vivere, è sempre corrotta e ciò ognuno ben comprende se pensa che Cassiano:La collina del prete 15

esse, site in mezzo a paesi italiani, hanno un attivo commercio con questi e da ciò uno scambio di vocaboli e anche di costumanze”. In relazione alla questione politica, il Tocci denunziava la tendenza filo- montenegrina della rivista in appoggio al progetto di unione fra

Albania e Montenegro, sostenuto “da qualche solitario” anche dopo il matrimonio tra Vittorio Emanuele, erede al trono d’Italia, ed Elena di

Montene6gro. Dal 21 al 24 aprile del 1901, si tenne a Napoli un altro congresso linguistico, del cui comitato promotore fece parte Cosmo

Serembe di S. Cosmo, presidente dell’associazione “La Giovane

Albania”. Anche questo congresso non approdò ad alcun concreto risultato. Esso fu ferocemente stroncato da Terenzio Tocci per la sua ambiguità e per la carenza di senso politico. “I congressi – scriveva il Tocci – debbono essere politici soprattutto e quando si tengono non bisogna chiedere alti patronati, ma si deve fare appello alla lealtà, all’onore e alla generosità dei popoli, non dei governanti e della diplomazia, perché diplomazia e tirannide sono sinonimi”.

Del resto, un noto giornalista dell’epoca, Ugo Ojetti, nelle sue corrispondenze dall’Albania, a proposito delle associazioni e dell’opera degli italo-albanesi, aveva avuto buon gioco nel criticare le loro astratte ed ingenue enunciazioni, prive di realismo politico, poco affidabili e che, pertanto, andavano prese cum grano salis: nient’altro che solitarie esercitazioni retoriche di “grandi uomini del villaggio”.

Un altro congresso fu convocato e tenuto a Napoli nel giugno del 1903 con lo scopo di unire gli italo-albanesi per concorrere Cassiano:La collina del prete 16

all’indipendenza ed allo sviluppo dell’Albania. Fu individuato in

Ricciotti Garibaldi la personalità che avrebbe potuto – “secondo il programma di Mazzini e di Garibaldi”- provvedere all’organizzazione della gioventù italo-albanese “e tenerla pronta ad ogni evenienza nel senso della rivendicazione dei diritti nazionali sia dell’Italia e sia dei popoli balcanici”. Questa idea della consonanza politica e della comunanza di interessi tra Italia e Albania sarà la linea – guida del movimento arberisco nella rivendicazione dell’indipendenza albanese. Essa era priva di realismo perché, già alla fine dell’Ottocento, la politica italiana aveva ben altri progetti di espansione e di dominio nell’altra sponda adriatica.

A proposito è opportuno sottolineare che il Collegio di S.

Adriano fu trasformato in Istituto Internazionale italo-albanese; l’Ispettore generale delle Scuole Italiane all’Estero, Angelo Scalabrini, vi venne nominato, nel giugno del 1900, Commissario Straordinario perché ne curasse l’ammodernamento dell’insegnamento e la ristrutturazione dei fabbricati, lo dotasse di attrezzati gabinetti scientifici e vi aggiungesse una Scuola Normale ed una Scuola

Agraria. Il tutto era predisposto per attirare, con la concessione di borse di studio, giovani dalle diverse regioni d’Albania, che avrebbero costituito la futura classe dirigente di quel paese ed in qualche modo garantito l’egemonia italiana. La rinomata Istituzione culturale veniva, così, piegata a strumento di politica estera. Cassiano:La collina del prete 17

Al Garibaldi venne affidata la presidenza del “Consiglio

Albanese d’Italia” col solito programma politico dell’indipendenza albanese. Ma anche questa volta senza alcun risultato pratico.

“L’Albania – ha osservato Giovanni Laviola – per molti rappresentava una terra sognata che essi idealizzavano, creandone un motivo di scontri cartacei: nessuno partì per combattere. Quella che essi chiamavano la madre patria dovette conquistare per altre vie la propria indipendenza”.

In un periodo di rinascente nazionalismo, in cui i Balcani erano il teatro dello scontro fra nazionalità diverse e fra gli opposti imperialismi russo e austriaco, gli intellettuali arbresh si trastullavano nel coltivare l’illusione romantica di affratellamento e di libertà di tutti i popoli. L’Italia avrebbe dovuto adoperarsi per la libertà dell’Albania; le due nazioni “sorelle” non potevano che filare d’amore e d’accordo. Ma i fatti concreti e la realtà della politica estera italiana parlavano un ben altro linguaggio.

Anche negli anni, immediatamente antecedenti alla prima guerra mondiale, quando avrebbe dovuto essere chiaro che nei rapporti fra gli Stati prevalgono altri interessi e non i sentimenti, si continuò ad insistere su quell’ingenuo concetto: “l’Italia e l’Albania debbono vivere da buone e fedeli sorelle, rispettose l’una dell’altra, in collaborazione per i supremi interessi della giustizia internazionale, della civiltà e della pace”.

E non è veramente un caso se coloro che sostenevano tali amenità in politica internazionale, all’avvento del fascismo, Cassiano:La collina del prete 18

nonostante le conclamate professioni di fede democratica, vi si trovarono talmente coinvolti da diventarne strumento di propaganda tra gli italo-albanesi ed in Albania, per la quale, com’è noto, la

“fraternità” e la “collaborazione” non altro furono che perdita dell’indipendenza e concreta invasione straniera con conseguente colonizzazione e snazionalizzazione.

In buona sostanza, tutto questo gran discutere in pro dell’Albania e della sua indipendenza era puramente retorico e accademico; neppure coinvolgeva in qualche modo le popolazioni albanofone, le quali, nella stragrande maggioranza, oppresse da un doppio analfabetismo nella propria lingua materna e nell’italiano, non erano neppure in grado di recepire ciò che si andava dicendo e scrivendo da parte di esigui gruppi intellettuali isolati, slegati dai problemi concreti della propria comunità e perloppiù espressione della piccola borghesia paesana in crisi di identità ed in cerca di occupazione e, perciò stesso, malcontenta e smaniosa di impossibili avventure alla ricerca di una patria di sogno.

Questa piccola borghesia rurale, chiusa al concreto e quotidiano impegno civile in favore delle proprie comunità, ancora civilmente arretrate, senza scuole pubbliche e prive delle fondamentali ed essenziali strutture civili, depauperate dall’emigrazione transoceanica massiccia, dava sfogo alla propria fantasia, impegnandosi nelle più strampalate avventure intellettuali, chiudendo gli occhi sulla realtà circostante e, infine, adagiandosi comodamente nel fascismo, divenendone un necessario supporto nei Cassiano:La collina del prete 19

paesi albanofoni, così oscurando e dimenticando la nobile tradizione democratica e risorgimentale delle popolazioni albanesi della

Calabria.

Si discuteva su di una lingua letteraria comune in modo astratto e utopico perché il problema, nei termini elitari in cui era posto, interessava alcuni isolati personaggi e non la maggioranza della popolazione che, pur usando la parlata locale, era del tutto analfabeta nella stessa lingua che veniva tramandata oralmente e di cui ignorava del tutto la scrittura.

Nessuno fu mai sfiorato dal dubbio – neppure lo stesso de’

Rada – che la “salvezza” della lingua albanese non avrebbe avuto senso alcuno se fosse finalizzata solo alla conservazione di uno dei

“superstiti monumenti dell’antichità classica”. Ma la lingua serve al popolo, è uno strumento vivo di comunicazione, e sarebbe stato necessario, quindi, legare le ragioni della sopravvivenza della lingua alle popolazioni che la parlavano, alle quali avrebbe dovuto essere data la possibilità effettiva di continuare a permanere nei luoghi degli antichi insediamenti, incentivandone le attività economiche, senza costringerle all’emigrazione ed alla conseguente assimilazione con altri gruppi linguistici ed alla definitiva perdita della propria identità culturale.

Cosmo Serembe, alla fine dell’Ottocento, aveva fondato in S.

Cosmo “La Giovane Albania”, che aveva come programma

“L’Albania una, libera, indipendente”; interveniva – con apposite pubblicazioni - nella questione del cosiddetto “alfabeto nazionale” Cassiano:La collina del prete 20

per proporre l’adozione di quello approvato al congresso di

Costantinopoli del 1879 e nella questione politica per ribadire la propria opposizione all’unione dell’Albania col Montenegro.

Ma si trattava, il più delle volte, di esercitazioni accademiche tra intellettuali che, forse, contribuirono a portare all’attenzione dell’opinione pubblica la “questione albanese”, la quale troverà la sua soluzione solo dopo il primo conflitto mondiale nell’intricato equilibrio degli interessi delle grandi potenze.

In precedenza e fino alle guerre balcaniche (1912-13), l’Albania era dominio turco. Per ben due volte, nel 1883 e nel 1885, gli Albanesi erano insorti contro il dominio ottomano senza alcun apporto degli arbresh. Questo movimento anti-turco sempre represso, dopo il trattato di Berlino del 1878, era nuovamente divampato nell’estate del 1911 ad opera dei Malissori, gruppo di montanari cattolici del retroterra di Scutari, capeggiati dal nazionalista Issa Bolleti. Fu una disperata resistenza, una strenua lotta fra le montagne, contro il feroce

Turgut Pascià e durò poche settimane. Anche se conclusosi con un netto insuccesso militare, esso fu veramente utile a fare conoscere la drammatica situazione albanese alle grandi potenze dell’epoca, alle quali, nel giugno 1911, fu indirizzata la cosiddetta Memoria dei

Malissori, scritta in francese dai guerriglieri per invocarne l’intervento al fine di liberare – era scritto – cette terre que nous aimons et dont l’armèe turque a fait un èpouvantable dèsert.

Il problema albanese costituì fra Russia, Impero Austro- ungarico, Italia, e Balcani un nodo di scontro per i contrastanti Cassiano:La collina del prete 21

interessi; ad un certo momento, quando sembrava possibile trovarvi una soluzione a causa di concessioni, promesse dai Turchi agli

Albanesi, saltò tutto in aria per lo scoppio, nell’ottobre 1912, della prima guerra balcanica.

La conferenza di Londra del luglio 1913 creò lo stato indipendente d’Albania, dopo che l’anno precedente – il 28 novembre

1912 – l’avevano proclamato, nella Conferenza di Valona, i delegati da ogni parte d’Albania, issando per la prima volta la bandiera rossa con l’aquila bicipite nera.

Nel marzo del 1914, fu nominato re il principe tedesco

Guglielmo di Wied che, nel settembre successivo, abbandonò il paese per la manifesta sua incapacità di governarlo portandovi l’ordine e la pace. Allo scoppio della prima guerra mondiale fu di nuovo occupata da greci, serbi, montenegrini, bulgari, austriaci e francesi, che tentarono di spartirla, finchè, nel giugno 1917, divenne protettorato italiano. Dopo il primo conflitto mondiale, tornò indipendente e fu ammessa alla Società delle Nazioni, nel 1920, costituendosi in repubblica. Successivamente, nel 1928, il Presidente Zogu, con l’appoggio dell’Italia fascista, si proclamò re ed instaurò un regime dittatoriale.

Cassiano:La collina del prete 22

II

Terenzio Tocci fu forse il solo personaggio italo-albanese che si trasferì in Albania, ne prese la cittadinanza e fece parte della dirigenza politica di quel paese almeno fino al 1943. Tumultuosa fu la sua vicenda umana e politica, conclusasi tragicamente in Albania nel

1945, sulla quale inconferente sarebbe ogni espressione di ordine moralistico. La storia non pronunzia sentenze di condanna o di assoluzione; essa tenta di comprendere gli avvenimenti, le loro cause ed i loro effetti attraverso la conoscenza reale degli avvenimenti e del loro complesso ed, a volte, tortuoso sviluppo.

Era nato a S. Cosmo Albanese il 9 marzo 1880. Fu naturalmente avviato agli studi nel Collegio di S. Adriano, che aveva e manteneva ancora una consolidata tradizione culturale laica e libertaria. Dopo alcuni anni, un vivace battibecco con un istitutore determinò la sua espulsione dal Collegio.

Quindicenne, nel 1895, assistette al primo Congresso linguistico italo-albanese, presieduto da Girolamo de’ Rada, nei locali del “Garopoli” di Corigliano Calabro. Terminò gli studi ad Urbino, nella cui Università conseguì anche la laurea in giurisprudenza ai primi del Novecento.

Esercita la professione forense per qualche tempo a Roma; ma la sua passione è il giornalismo politico. Da repubblicano e mazziniano, sulle pagine de La Terza Italia, diretta da Felice Albani, sollecita l’interesse del partito mazziniano per le sorti ell’Albania. Per Cassiano:La collina del prete 23

la sua liberazione, con la pubblicazione de La Questione Albanese, nel

1901, aveva sostenuto, in contrasto con le deliberazioni del Congresso linguistico di Corigliano Calabro, che non l’alfabeto e la letteratura erano necessari, ma una concreta azione immediata. “Quando un popolo vuole essere libero non fa politica, ma guerra invece; non si raccomanda ai diplomatici, ma al proprio coraggio…è da preferirsi l’analfabetismo alla cultura deleteria che si riceve dagli stranieri. Si convincano gli albanofili che per scacciare lo straniero dalla patria basta che si sviluppi bene quella coscienza nazionale che là c’è; si ricordino che sentimento nazionale c’è sempre stato, che non è necessario che tutti sappiano leggere e scrivere perché quando si deve cacciare lo straniero dalla patria, basta che si impari ad odiarlo, facendogli comprendere che ha dei diritti che nessuno può manomettere in qualsiasi modo e per nessuna ragione”.

Tra il 1906 ed il 1908, fonda due periodici: Il Corriere dei Balcani e Speranze d’Albania. Il suo tentativo è quello di intervenire nella annosa questione d’Oriente, da lui ritenuta giustamente “un incubo tremendo per l’Europa, perché per la sua soluzione si può scatenare in mezzo ad essa una guerra che condurrà a disastrose conseguenze i popoli, trascinati a massacrarsi da governi che sono la negazione assoluta di ogni principio di Giustizia e di Diritto”.

Ormai, è assai chiaro che tutto il suo impegno politico consiste nel prodigarsi per l’indipendenza albanese. Per il giovane mazziniano, quella che era stata solo una “patria di sogno”, sotto i rinascenti furori nazionalistici che avrebbero condotto l’Europa a Cassiano:La collina del prete 24

sanguinosi conflitti, diventa un obiettivo da perseguire nella convinzione ingenua ed abbastanza ambigua della pretesa complementarità tra le aspirazioni italiane e quelle albanesi alla libertà e della reciprocità degli interessi fra le due Nazioni, pure consapevolmente, ma strumentalmente propagandata da certi dirigenti politici italiani e, se ingenuamente creduta in ambienti popolari albanesi, altrettanto strumentalmente abbracciata dai gruppi dirigenti nazionalzoghisti nella speranza di trovare un consistente appoggio e aiuto dal governo italiano.

Si trattava di una visione caratteristica della prima ondata romantica. Dopo la conclusione del moto risorgimentale e l’inserimento dell’Italia nel gioco diplomatico internazionale, nell’infuocato clima nazionalistico, diventava assai problematica la comunione di interessi fra le due sponde dell’Adriatico.

Tra il 1908 ed il 1909, il giovane Tocci si reca nelle Americhe per visitare le comunità di albanesi e di italo-albanesi nel tentativo di raccogliere fondi per organizzare un movimento di protesta all’interno dell’Albania allo scopo di richiamare l’attenzione del mondo civile sulla situazione albanese. Nella primavera del 1911, si reca in Albania inviato dal generale Ricciotti Garibaldi per dare vita ad un governo provvisorio che avrebbe dovuto richiedere l’intervento del generale, il quale avrebbe dovuto rispondere con l’invio di una spedizione di volontari.

Tocci, sostenuto da alcuni notabili, vi costituisce un governo provvisorio della Mirdizia, regione dei Malissori, il 27 aprile. Solo più Cassiano:La collina del prete 25

tardi, nel settembre 1911, riesce a mettersi a capo di tale governo, quando ormai era conclusa la rivolta per l’azione diplomatica di

Russia, Inghilterra e Francia, da una parte e Austria e Germania dall’altra.

L’esperienza, messa in atto in un momento poco opportuno, non ebbe esito positivo: dall’Italia non arrivarono né gli aiuti promessi e neppure i volontari garibaldini, di cui s’era fatto garante Ricciotti Garibaldi, il quale – secondo il colorito e fantasmagorico linguaggio del Tocci – “aveva rinnegato le gloriose tradizioni della

Camicia Rossa, rinunziando definitivamente alla spedizione ed in forma clamorosa, che suonava anche oltraggio alla gioventù italiana che con baldanza eroica e cavalleria degne di ben altri tempi aveva offerto il suo sangue alla causa degli oppressi albanesi”. Naturalmente erano in gioco gli interessi delle grandi potenze del tempo nei Balcani, verso cui l’Austria-Ungheria, scacciata dall’Italia, tentava di estendere la propria egemonia. D’altra parte l’Italia, alleata dell’Austria nella Triplice, in procinto di invadere la

Libia, non aveva alcun interesse di mettersi in contrasto con il governo austriaco. Per tale motivo, sarebbe stata irrealizzabile la spedizione garibaldina, promessa a parole, ma di fatto rimasta allo stato “platonico”; lo stesso Ricciotti Garibaldi fu formalmente sottoposto a procedimento penale al fine di non allarmare le grandi potenze.

Inutilmente il Tocci protestò contro la politica italiana, in un’intervista rilasciata al Giornale d’Italia nel giugno del 1911, Cassiano:La collina del prete 26

sostenendo che “il Governo italiano non è stato mai nemico all’italianità come in Albania. Esso non ha inteso come il suo interesse collimi là con le più alte idealità nazionali e umanitarie”.

Ma il Tocci, fuggiasco, raggiunto a Podgoritza ed intervistato dal giornalista democratico russo Michele Osorgin, esule in Italia, pur esprimendo delusione per la condotta di Ricciotti Garibaldi, ritiene di essere in grado di guidare la rivolta, ormai finita, manifestando quello che il giornalista giudica un atteggiamento piuttosto spavaldo e spaccone.

…involontariamente, dal tono della sua voce – scrive il giornalista – e dal suo modo di esprimersi, mi viene in mente quel genere, già noto da un pezzo, di giovani oppositori italiani, repubblicani, sindacalisti, che ad ogni momento invocano “un bello scossone che risvegli l’Italia”. Dunque, eccolo qui il duce dell’insurrezione albanese! Giovani identici a questo, altrettanto carini e limitati, anch’essi avvocati, conducono in Italia scioperi nelle fabbriche, con un certo successo. La differenza sta solo nel fatto che costui è stato gettato dalla sorte in una provincia turca. Si crede in quelli come si crede in questo…e gli ultimi ad arrendersi sono proprio loro, accusando intanto qualcuno di tradimento di un nobile ideale: i sindacalisti accusano i riformisti, e viceversa, costui accusa Garibaldi ed il Montenegro. Ed ora – prosegue Osorgin – mi si presenta in chiaro rilievo la figura del “capo del governo provvisorio”. Un bravo giovane, pieno di abnegazione e di energia, ma troppo cattivo politico per essere un duce. Che ridicolo malinteso!”

Ed, in effetti, come gli avvenimenti successivi dimostreranno, gli atteggiamenti e le manifestazioni di irredentismo e di aggressivo Cassiano:La collina del prete 27

nazionalismo, che andavano allora diffondendosi in Europa, costituivano un pericoloso inganno ideologico perché suscettibili di scatenare una inarrestabile catena di reazioni belliche.

Ma la politica degli Stati non segue le ragioni ideologiche o di principio, essendo essa condizionata dall’economia, dalla posizione geografica e da altri interessi di politica internazionale che, in quel momento, non consentivano al governo italiano di chiudere un occhio o, addirittura, di sostenere il movimento insurrezionale albanese.

V’è, inoltre, da rimarcare che i progetti garibaldini e mazziniani non si risolsero in alcunché di concreto. L’altra componente della sinistra italiana, quella socialista, dalle pagine dell’Avanti! del 16 nov.

1912, addirittura ridicolizzò la figura di Ricciotti Garibaldi, “povero vecchio ormai ridiventato fanciullo come suole accadere nella tarda senilità”, il quale non si rendeva conto dell’impossibilità storica della riproposizione del garibaldinismo. “Così non è possibile plagiare il garibaldinismo, riprodurlo in una edizione riveduta e corretta ad uso e consumo degli eroi a scartamento ridotto dell’Italia contemporanea… La gesta garibaldina ha avuto la sua stagione. Garibaldi non torna più…Non è chi non veda la posizione grottesca in cui si trovano i duci delle esigue schiere dei volontari italici. Costoro sono partiti per soccorrere la Grecia…ma la Grecia, seguendo la Quadruplice cui è indissolubilmente legata, dovrà aiutare i serbi nell’oppressione dell’Albania…Una guerra di nazionalità, intrapresa da monarchie, si Cassiano:La collina del prete 28

conclude sempre nel mercato e nel tradimento dei popoli. L’Albania sarà dunque sacrificata. Tale è il manifesto disegno della Quadruplice.

Ebbene i volontari garibaldini che sino a pochi mesi fa spasimarono d’amore per l’Albania…i garibaldini italiani cooperano oggi colla

Quadruplice allo smembramento dell’Albania”.

Quegli intellettuali arbresh, che si interessavano alla problematica, e lo stesso Ricciotti Garibaldi dimostrarono di essere ancora legati ad un’ottica risorgimentale di stampo romantico- ottocentesco e di non avere compreso che l’indipendenza albanese era legata alla nuova realtà internazionale, allo scontro delle nazionalità balcaniche ed ai problemi emergenti dalla dissoluzione dell’Impero

Ottomano.

I tentativi di esponenti repubblicani italiani, come Damiano Chiesa, Guido Mazzocchi e dello stesso Tocci, furono semplicemente velleitari. Essi avrebbero voluto mettersi a capo di un vasto movimento nella Mirdizia, ma si esaurirono nell’arco di qualche settimana quando fu assai chiaro che, in Albania, non vi sarebbe stato nessuno sbarco di volontari garibaldini, condotti da Ricciotti

Garibaldi che, sulle orme del padre, si era fatto promotore di una spedizione velleitaria e non reale, come gli avvenimenti acclararono e come non mancò di sottolineare la stampa internazionale ironizzando sul “nuovo Garibaldi” che, a differenza del padre, “parla molto ma non si è ancora per nulla fatto conoscere nell’azione…nel complesso, la seconda edizione di Garibaldi ricorda una pessima traduzione da una lingua eroica nel dialetto borghese contemporaneo”. Cassiano:La collina del prete 29

III

Il 26 settembre 1913, Terenzio Tocci inizia, a Scutari, la pubblicazione del quotidiano Taraboshi, che uscirà fino all’11 agosto

1914, quando la pubblicazione verrà sospesa dai rappresentanti delle grandi potenze. Il Tocci venne espulso dall’Albania per “motivi di ordine pubblico” e confinato in S. Cosmo Albanese perché contrario all’intervento italiano in guerra e assertore della neutralità italiana nella Triplice Alleanza.

Egli era convinto che “lo sfasciamento dell’Austria sarebbe la vittoria del panslavismo, fatale per gli Albanesi, pericoloso per gli

Italiani”. Ritornò in Albania dopo la fine della prima guerra mondiale, stabilendosi, nell’agosto del 1920, a Scutari, dove gli venne conferita la cittadinanza albanese.

Nel 1921 è nominato prefetto di Corcia e, nel 1923, fu eletto, per la circoscrizione di Scutari, deputato all’Assemblea Costituente. Ma, dal 1921 al 1924, si inasprisce il conflitto politico in Albania tra conservatori reazionari, capeggiati da Ahmed Zogu, e forze democratiche che avevano il loro punto di riferimento nel Bashkimi, l’Unione che raggruppava un buon nucleo di studenti e di intellettuali i quali sostenevano vigorosamente le rivendicazioni dei contadini, tra cui, in particolare, la riforma agraria.

In questo tormentato momento di acuto scontro sociale tra progressisti democratici e latifondisti conservatori, Terenzio Tocci è sparito. Non prende posizione, anche se resta saldo e forte il legame Cassiano:La collina del prete 30

con Zog, al quale, in buona sostanza, è debitore delle sue fortune politiche in questo momento. Ufficialmente, la sua posizione è come di attesa, di evidente ed ambigua ambivalenza. Eppure, da uno come lui, democratico e repubblicano di ispirazione mazziniana e garibaldina che, nel 1920, aveva capeggiato a Scutari la Società del

Lavoro ed aveva fondato, a Cosenza, nel 1898, il Circolo repubblicano popolare, ci si attendeva una scelta decisa con il movimento democratico o, quanto meno, con gli elementi borghesi progressisti albanesi che, pure tra enormi difficoltà, riuscirono a costituire il governo presieduto da (1882-1965), uomo di vasta cultura e di apertura europea, che, nel 1920, era riuscito ad ottenere l’ammissione dell’Albania alla Società delle Nazioni.

Nel 1924, i latifondisti albanesi assassinarono Avni Rustemi, uno dei dirigenti del movimento democratico, che aveva fatto i suoi studi nel Collegio Italo-albanese di S. Demetrio Corone. Ma il governo di Fan Noli – che aveva affrancato l’Albania dalla sottomissione e dall’asservimento all’Italia fascista - incontrò naturalmente una violentissima opposizione da parte dei grandi proprietari terrieri proprio a causa del programma di riforme sociali ed economiche, che non riuscì a portare a compimento perché non ne ebbe il tempo necessario.

Infatti, il 24 dicembre 1924, il fronte controrivoluzionario, capeggiato da Zogu, con il diretto appoggio delle truppe reazionarie serbe e delle guardie bianche, riuscì a rovesciare il governo, costringendo Fan Noli all’esilio negli Stati Uniti, troncando Cassiano:La collina del prete 31

l’esperimento democratico che probabilmente sarebbe stato assai fecondo per l’avvenire dell’Albania, consegnando, in questo modo, il potere a Zogu, il quale, di fatto, instaurò una dittatura personale, riducendo al silenzio ogni opposizione sociale e politica, arrivando fino all’assassinio di eminenti personalità democratiche, come Luigi

Gurakuqi, che aveva studiato in S. Adriano, nel Collegio italo- albanese, dove aveva avuto tra i suoi maestri il poeta de’ Rada e che fu assassinato a Bari da agenti zoghisti.

Dopo la “normalizzazione” zoghista dell’Albania, Terenzio

Tocci riappare, pur mantenendo una certa ambiguità. Si fa più stretta la sua intesa con Zogu quando questi viene eletto Presidente della

Repubblica (31 gennaio 1925); e Zogu premia la sua fedeltà facendogli assumere la carica di presidente della Cassazione penale e, qualche anno dopo (1927), quella di Segretario Generale della Presidenza della

Repubblica.

Ed era già abbastanza chiaro che Zog aveva dato vita ad un governo autoritario: perseguitava gli avversari e li faceva assassinare e neppure tutelava gli interessi e l’integrità nazionale. Con il suo governo, infatti, fu agevolata la penetrazione italiana in Albania: in forza del trattato segreto militare, il territorio albanese fu messo nella completa disponibilità italiana in caso di guerra con la Jugoslavia; fu assicurato all’Italia il controllo totale del settore economico- finanziario albanese; l’Azienda Italiana Petroli Albanesi (A.I.P.A.) ebbe la gestione esclusiva di tutte le risorse petrolifere. Cassiano:La collina del prete 32

Le origini repubblicane, mazziniane e democratiche del Tocci vanno, così, progressivamente sfumando, offuscate e sporcate, se non definitivamente sotterrate, dalla connivenza, se non dalla complicità nell’esercizio di un potere autoritario, intollerante e violento, oltre che subalterno agli interessi italiani. In definitiva, non si riesce a vedere come il Tocci potesse giustificare, sotto il profilo ideologico e politico, la sua attuale posizione di subalternità a Zog ed alla sua rozza e violenta compagnia con le pregresse battaglie politiche in difesa della democrazia e della libertà.

Nel 1928, traduce e fa pubblicare scritti e discorsi di Mussolini.

La figlia giustifica tale iniziativa, peraltro, in modo erroneo, scrivendo che “uomini di Stato, scienziati, politici e letterati seguivano con simpatia l’attività di Mussolini che alla ricostruzione del Paese imprimeva ritmo e direttive. Mio padre, sempre costante nell’idea di un’Albania libera ed indipendente sul cammino che percorreva l’Italia, non poteva rimanere indifferente dinanzi a quel movimento che vedeva filtrato attraverso l’Adriatico. Così nel 1928 trovò il tempo per tradurre in albanese vari scritti e discorsi di

Mussolini ( Fashiszmi, Tirana, 1928)”. Evidentemente, attraverso l’Adriatico, non “filtravano” l’antifascismo di Benedetto Croce, l’assassinio di Giacomo Matteotti, di Piero Gobetti, di Giovanni Amendola, l’esilio di Don Luigi Sturzo, la soppressione di tutte le libertà e dei partiti avversi al fascismo, gli innumerevoli ed arbitrari arresti e le condanne al confino ed al carcere Cassiano:La collina del prete 33

degli avversari, compresa quella dell’italo-albanese Antonio Gramsci, una delle grandi menti dell’Italia contemporanea!

La pubblicazione fu giustamente interpretata come adesione ai principi fascisti. Non per nulla Midhat Frasheri, fondatore del Partito

Nazionalista Albanese, scrisse che “questo libro si può ritenere per ognuno di noi come guida, come un buon consigliere, che merita di essere ascoltato e seguito”. Il fatto vero è che, con la traduzione di scritti e discorsi di

Mussolini, il Tocci non solo faceva opera di diffusione del fascismo ed additava come modello di buon governo quello fascista, ma, contestualmente, poneva un ulteriore tassello per rendersi bene accetto ed affidabile alle autorità italiane.

Quando Zogu da Presidente della Repubblica si autoproclama Re degli Albanesi ( 1° settembre 1928), il Tocci si ritira a vita privata.

Non si pensi, però, ad un improvviso risveglio degli ideali democratici e repubblicani. Tante volte in passato, con estrema disinvoltura, aveva dato prova di tenerli in scarsa o nulla considerazione. Almeno in tre occasioni, nel recente passato, si era fatto sostenitore addirittura di prìncipi stranieri al trono albanese: tanto era avvenuto con il principe Guglielmo di Wied; con il sostegno alla candidatura di un esponente di casa Savoia e quando aveva proposto come futuro re l’egiziano Fuad che, tra l’altro, lo foraggiava a mani larghe, consentendogli la pubblicazione del Taraboshi.

Addirittura la candidatura del musulmano Fuad gli sembrava l’ideale perché rappresentava la maggioranza della popolazione e, quindi, a Cassiano:La collina del prete 34

differenza del principe cristiano che costituiva elemento di divisione, il principe musulmano era in grado di ricomporre l’unità dell’Albania, musulmana nella stragrande maggioranza.

Il malumore per l’elevazione al trono di Zog era da considerarsi un episodio momentaneo, dovuto piuttosto al suo carattere, che lo portava ad essere scontento in continuazione, ed alla sua indubbia natura di bastian contrario, ragione per cui paradossalmente coesistevano in lui tesi e antitesi senza essere superate dalla sintesi: in concreto era certamente filo-zoghiano, ma contemporaneamente era come portato a nutrire motivi di malumore e di insoddisfazione, di cui non sa definire la natura, ma che, ne Il re degli albanesi, attribuisce al suo essere “idealista e scontento per…destino”. Nel dicembre 1936, accetta, però, di entrare nel governo zoghista come ministro dell’Economia Nazionale, carica dalla quale si dimetterà nel corso del 1938 per le reiterate critiche, mosse all’Esecutivo, considerato poco dinamico e scarsamente sollecito agli interessi nazionali.

Cassiano:La collina del prete 35

IV

L’occupazione italiana del 7 aprile 1939 sarebbe stata per il

Tocci una “sorpresa” perché non riteneva che “il Governo Fascista di

Roma volesse sul serio invadere l’Albania…mi era giunto all’orecchio che persone note per rettilineo patriottismo avevano pattuito con i rappresentanti dell’Italia ufficiale e con qualche gerarca fascista che sul trono del Regno d’Albania sarebbe stato posto un Principe della

Casa Savoia, che, pertanto, si sarebbe avuto non un’occupazione, ma un temporaneo sbarco di truppe con funzioni di guarnigione”.

Era certamente contrario ad ogni logica considerare “patrioti” persone che concordavano con lo straniero l’occupazione del proprio

Paese o acconsentivano allo sbarco – sia pure temporaneo – di truppe straniere nei confini nazionali. Rientravano, intanto, anche i vecchi quadri dell’opposizione borghese a Zogu, mettendosi a disposizione dell’invasore. Solo alcuni gruppi di intellettuali, di studenti ed operai, nelle strade di Durazzo, Skodra ed Argirocastro, contrastavano eroicamente ed inutilmente l’invasore.

Fu una vivace resistenza che fece scrivere al Daily Telegraph: “l’Albania ha parlato una lingua che l’Europa aveva perduto l’abitudine di comprendere”. Altri intellettuali, durante il periodo di Zogu e del colonialismo fascista, preferirono, come Giorgio Fishta, vendere l’anima agli occupanti oppure si rifugiarono nella composizione di poesie d’evasione. Mentre veri poeti come fecero della poesia uno strumento per combattere la corruzione e la servitù, per Cassiano:La collina del prete 36

promuovere l’elevazione morale e culturale e per annunziare una società nuova.

Il Tocci – secondo quel ch’egli stesso scrive in un’opera inedita

– quando il mattino dell’8 aprile la sua casa “fu invasa da vecchi amici…approfittai per convocare presso di me amici provati cui davo l’incarico di fare propaganda acchè l’esercito italiano in marcia verso

Tirana fosse accolto – e cordialmente - come amico ed alleato…Verso le ore dieci dello stesso mattino arrivò la prima truppa italiana, ma io non mi mossi di casa…accolsi ben volentieri l’invito della Legazione d’Italia che mi invitava ad un colloquio con Galeazzo Ciano. A questi spiegai – presente Francesco Jacomoni – che consideravo la truppa italiana come un’armata di fratelli liberatori per l’organizzazione della nuova Albania e Jacomoni disse a Ciano: “Tocci è l’unico amico albanese che stanotte si è ricordato di noi e che ci ha mandato anche dell’aiuto…

E mi parve che Ciano accogliesse la comunicazione quasi con un senso di ammirazione e riconoscenza. Indi mi disse: “Sentite,

Tocci: preparatemi subito la lista del nuovo ministero” – al che risposi: “stamattina non è possibile essendo stanco morto da tre notti di veglia. In secondo luogo ho bisogno di consultare gli amici. Ma domani l’avrete immancabilmente. Intanto tengo a dirvi che se non si farà opera di moralizzazione e di rigenerazione, io mi metterò da parte”.

Com’è assai chiaro ed evidente, tale comportamento di sottomissione e di adesione alle ragioni dell’occupatore e Cassiano:La collina del prete 37

dell’invasore del proprio Paese non è affatto conciliabile con lo spirito del mazzinianesimo e del garibaldinismo e neppure col buonsenso e, naturalmente, con la salvaguardia dell’indipendenza nazionale.

Quanto all’annessione dell’Albania all’Italia, la figlia scrive:

“mio padre accettò come un lieto destino l’allontanamento di re

Zog…E salutò con riservato ottimismo l’unione delle due corone perché, diceva, solo seguendo l’antica via dell’Italia, l’Albania poteva trovare il suo benessere e la sua pace. Mia madre, invece, la pensava diversamente. Infatti, diceva: “ meglio un mediocre re albanese che un ottimo re straniero”. E così la pensavano tutti quegli Albanesi, preoccupati e addolorati per la perdita dell’indipendenza.

Tuttavia, si deve rimarcare che anche gruppi di italo-albanesi la pensavano allo stesso modo del Tocci: podestà e singoli cittadini – senza esserne in alcun modo obbligati - inviarono al governo telegrammi di felicitazioni.

Tra questi merita di essere ricordato il telegramma che il poeta

Salvatore Braile di S. Demetrio Corone inviò a Mussolini in data 12 aprile 1939, redatto in termini di smaccata retorica e di adulazione:

“Amatissimo Duce, comandato insegnamento lingua italiana glorioso Seminario Francescano Scutari improvviso selvaggio irrompere Albania soldataglia serba capitanata venduto sanguinario Ahmet Zogu scampai miracolosamente morte rifugiandomi consolato italiano seguì decennale regno terrore Viva Duce Italia imperiale che novello San Giorgio ha liberato

Albania dal drago divoratore e che libererà presto mondo dalla rozza idra bolscevica. Salvatore Braile insegnante italo-albanese”. Cassiano:La collina del prete 38

Oggi, dal Diario di Ciano, apprendiamo che le dichiarazioni ufficiali che, a parole, garantivano l’indipendenza, erano solo strumentali: “Ho soprattutto successo – scrive Ciano - quando assicuro che la decisione non intacca né formalmente né sostanzialmente l’indipendenza albanese. Successo, beninteso, nella massa, perché vidi gli occhi di alcuni patrioti arrossarsi e le lacrime scorrere sui volti. L’Albania indipendente non è più”. Nel 1940, quando – come scrive la figlia - vi erano ormai

“abbastanza prove per convincersi di quel che il Fascismo stava facendo dell’Albania: non fusione di due popoli, non collaborazione, ma asservimento, snazionalizzazione ed accantonamento dello

Statuto”, il Tocci accettò di collaborare apertamente e attivamente con gli occupatori, presiedendo il Consiglio Superiore Fascista Corporativo, corrispondente all’italiana Camera dei Fasci e delle

Corporazioni.

Egli non si rese conto della forte opposizione popolare, che andava maturando contro gli invasori, neppure quando l’operaio albanese Basil Laci attentò al re d’Italia.

Con la costituzione del Fronte di Liberazione Nazionale, nella Conferenza di Peza del 1942, nasceva un organismo di massa, aperto a tutti e subito appariva, assai chiaramente, che esso era l’unico e legittimo detentore del potere politico, che lottava contro gli occupanti ed i collaborazionisti. Incominciarono gli atti di sabotaggio, le imboscate, gli attacchi ai presidi militari. Finalmente, dopo secoli di dominazione straniera e dopo essere stato governato da un gruppo Cassiano:La collina del prete 39

dirigente che aveva voluto ed accettato l’annessione, svendendo la libertà e l’indipendenza nazionale, il popolo albanese si appropriava del proprio paese e del proprio destino.

A questo punto, il Tocci si rivolge ufficialmente alla

Luogotenenza per evidenziare “che il fratricidio ci avrebbe sterminati, che occorrevano misure che punissero i ladrocini e gli abusi, che una distensione degli animi in rivolta poteva essere ottenuta con giustizia e nuovi sistemi amministrativi, poiché gli abusi erano ormai un sistema del regime, che gli avversari dovevano essere perseguitati legalmente e non con torture; che, pertanto, non era possibile per me proseguire nelle mie funzioni di Presidente della Camera

Corporativa in tale situazione…mi si disse che il mio ritiro sarebbe stato interpretato come una manifestazione antifascista”. Dopo alcuni giorni, il Tocci apprese dalla radio delle sue dimissioni.

Cassiano:La collina del prete 40

V

Ai primi del settembre 1943, gli italiani abbandonarono Tirana.

Le truppe tedesche occuparono l’Albania. La lotta partigiana andò mano a mano intensificandosi fino a riuscire a conquistare la capitale.

Allora, il Tocci si ricorda delle sue origini mazziniane e repubblicane.

Convoca alcuni amici e consiglia loro di costituire un “Partito

Repubblicano Popolare Albanese” con alcuni precisi obiettivi programmatici: dare vita alla Repubblica a suffragio universale;

“riforma agraria portata fino all’osso in base al principio che nessuno possa possedere terre se non le coltiva direttamente; limitazione della ricchezza nei possessi urbani; assistenza massima alla classe agricola; libertà completa di stampa, di parola e di organizzazione”.

Ma era troppo tardi. Altre forze politiche ormai guidavano il Paese nel tentativo di strapparlo dal buio di un medioevo in ritardo.

Conservatori e reazionari – tra i quali era schierato il Tocci - abbattendo il governo democratico e sostenendo la dittatura di Zogu, avevano mantenuto l’Albania nell’arretratezza ed, infine, le avevano fatta perdere l’indipendenza, facendola precipitare nell’asservimento coloniale. Non meno equivoco era stato l’atteggiamento della maggior parte dei rappresentanti delle confessioni religiose, qualcuno dei quali

– come il francescano p. Anton Harapi – arrivò sino al punto di fare parte del governo fantoccio e collaborazionista durante l’occupazione tedesca.

Terenzio Tocci fu arrestato il 17 novembre 1944. Il processo, celebrato davanti al Tribunale del Popolo, che teneva le sue sedute Cassiano:La collina del prete 41

nella sala del cinema “Savoia” di Tirana, si protrasse a lungo. Si difese vigorosamente, com’era, del resto, nel suo carattere, fatto di impeti e di passione. Fece appello al suo passato di patriota ed alle tradizioni della sua famiglia – come si apprende dagli appunti per l’autodifesa, pubblicati dalla figlia.

“Un giorno – disse – la storia, quando sarà pubblicato il mio libro Mezzo secolo di vita balcanica, dovrà darmi un posto nel Risorgimento Nazionale, per le opere politiche e scientifiche, per la rivoluzione del 1911 contro i Turchi, per la prigionia e l’internamento che ho patito, ma non desidero essere ricordato se per la nera misconoscenza e la grande ingiustizia di taluni, si possa sospettare capace di alto tradimento e svergognarmi in vecchiaia come strumento in danno dei popoli e soprattutto del nostro popolo! Nel 1898, ho fondato a Cosenza il Circolo repubblicano popolare e a

Scutari nel 1920 ho capeggiato la Società del Lavoro”.

Una delle accuse era quella di avere avuto rapporti d’intesa con i fascisti per l’occupazione dell’Albania. Egli sostenne, contro ogni evidenza, l’infondatezza del capo di accusa, invocando in suo favore lo stato di necessità per avere tentato di salvare l’Albania da una sicura snazionalizzazione.

“Il re fuggì col governo, la gendarmeria si sciolse, l’esercito scomparve, gli impiegati si misero agli ordini di quelli che alcuni chiamarono invasori ed altri liberatori; la massa, in parte dispiaciuta, in parte spinta dalla fame di pane e dalla sete di giustizia, aspettò il Cassiano:La collina del prete 42

fascismo con entusiasmo, cosicchè coloro i quali non si sottomisero, formarono una eccezione e molti di loro subirono persecuzioni”.

Ma l’esistenza dello stato di necessità non si giustificava con la volontaria sottomissione all’occupatore. Tocci non fu costretto ad accettare l’occupatore ed a collaborare con esso. La resistenza contro l’invasione, pur debole ed impari nella prima fase, dimostrava che non tutto il popolo era pronto e disposto alla sottomissione allo straniero, ma vi reagiva, anche con le armi, mettendo a repentaglio la propria pelle, tanto da suscitare l’ammirazione, espressa dalla libera stampa estera.

E questi erano i veri e gli unici patrioti che coraggiosamente salvavano l’onore del popolo albanese ed il suo diritto all’indipendenza. Del resto, lo stesso ministro degli esteri italiano, Galeazzo Ciano, era costretto a prendere atto che non tutti i “patrioti” erano disposti a credere alla bella favola della collaborazione fra le due sponde dell’Adriatico.

Venendo alla giustificazione del proprio comportamento cercò di farlo passare come l’estrinsecazione di una inammissibile ed inconsistente “dissimulazione onesta”: “allora io pensavo che non rimaneva altro che rispondere alle forze brutali con sottigliezza mentale e con il tentativo di mettere l’Italia fascista con le spalle al muro, cioè ricordando all’Italia che uno Stato di 45 milioni di abitanti si getterebbe nel fango della vergogna, se fosse risultato sleale, offendendo e calpestando un popolo nobile e piccolo come l’albanese…E, nello stordimento generale, quando tutti si Cassiano:La collina del prete 43

rallegravano in promozioni, nomine, decorazioni, io operai con coraggio garibaldino ed iniziai fin dal 1° aprile 1939 le mie proteste…Di nuovo il 15 aprile, in giugno, in ottobre del ’39, ho puntato i miei piedi affinchè i fascisti rispettassero i diritti del popolo albanese. E questa campagna l’ho svolta con lettere, conversazioni con

Mussolini, Ciano, Jacomoni, ed altri e ho continuato su questa linea da privato e da alto funzionario, finchè ho potuto, sforzandomi con tutta l’anima e non ascoltando le minacce del Comando dei

Carabinieri che, con ostinazione, voleva il mio internamento inItalia”.

Ma, se fin dall’aprile del 1939 e, cioè, proprio subito dopo l’occupazione, aveva “puntato i piedi” nei confronti dei fascisti, non si giustifica e non si spiega il motivo dell’accettazione dagli occupatori fascisti dell’offerta della Presidenza del Consiglio Superiore Corporativo Fascista, che era sicuramente una carica pubblica che lo poneva all’apice della dirigenza filo-italiana e gli dava grande visibilità, ma inevitabilmente lo contrassegnava come collaborazionista.

Se reale fosse stato il suo dissenso e vere le sue pretese riserve mentali, non avrebbe dovuto, alla guida della delegazione albanese, nel maggio 1940, recarsi al Quirinale, a rendere l’omaggio dovuto a

Vittorio Emnuele III, nella nuova veste di “re d’Albania”.

Voleva dimostrare che la sua condotta non era penalmente rilevante e reprimibile perché aveva agito in stato di necessità nell’interesse generale della Nazione. Assumeva che tale circostanza era ignorata da persone che non erano a conoscenza dei fatti nella Cassiano:La collina del prete 44

loro effettiva evoluzione e trascurata da chi era “avvelenato da un odio cieco”, ma che doveva essere presa in considerazione “da persone come Voi – continuò, rivolgendosi ai Giudici nel tentativo di captarne la benevolenza - che hanno deciso di fare opera edificatrice e che a tal fine hanno offerto la vita…

Perciò, una rivoluzione grandiosa, vittoriosa come la vostra, che ha dato alla gioventù un nuovo respiro, che creando una nuova atmosfera, ha sotterrato il feudalesimo, piaga di questo povero popolo, ora si fermi e stenda la mano ai principi del diritto naturale…”.

Si tratta di concetti forti e, nello stesso tempo, in contrasto con il suo recente passato. Se la “rivoluzione grandiosa” aveva sotterrato il passato oscurantista, egli che aveva operato in quel passato e ne era stato parte attiva o, comunque, uno degli attori, implicitamente se ne dichiarava responsabile e, di conseguenza, non gli restava che invocare la magnanimità dei vincitori, che si erano resi benemeriti della Nazione per averle aperto una valida prospettiva di progresso e di ammodernamento, contestualmente distruggendo le arcaiche e feudali strutture. Affrontando il tema del suo collaborazionismo con l’invasore, sostenne, contro ogni evidenza, l’assenza di malafede da parte sua come se vi fosse stato costretto con la forza.

Anche l’accusa circa la dichiarazione di guerra avrebbe dovuto essere considerata priva di fondamento perché l’Albania era tenuta a seguire la politica dell’Italia fascista, alla quale era legata da un patto Cassiano:La collina del prete 45

internazionale in vigore. Per conseguenza, “avendo noi un legame col popolo italiano, e questo vincolo non essendo mai stato né denunciato né svalutato, la legge relativa alla guerra (che doveva essere una colpa) non era altro che un atto che mandava in vigore la legge stessa”.

Ma chi aveva consentito alla perdita dell’indipendenza nazionale coll’asservire il proprio Paese al dominio coloniale, evidentemente ne aveva accettato tutte le conseguenze e non poteva non rendersene conto ed assumerne le responsabilità conseguenti.

Quanto all’accusa relativa alla pubblicazione, nel 1928, dei discorsi di Mussolini, come prova di collaborazionismo, portò, a sua difesa, le lodi della stampa del tempo, aggiungendo anche di avere avuto come scopo “l’amore per la Patria, la moralizzazione e l’elevazione dei popoli”.

Relativamente all’altro capo d’imputazione riguardante l’accettazione della Presidenza della Camera Corporativa, ribadì che la sua scelta era stata fatta nell’interesse della Nazione per salvare il salvabile: “questa era la nostra ideologia che ci era imposta dai fatti, questa era una politica che aveva per scopo la salvezza dell’Albania nel caso che l’asse italo-tedesco avesse vinto la guerra…quando persi la speranza che la politica fascista poteva prendere la retta via, nell’agosto del 1942, feci a Roma l’ultimo passo, con l’affettuosa collaborazione del generale Ricciotti Garibaldi…debbo ricordare che egli – Ricciotti Garibaldi – ed io, fin dalla primavera del 1942, ci siamo Cassiano:La collina del prete 46

impegnati per una insurrezione contro il fascismo, unendo il nostro popolo all’esercito italiano”.

Era una giustificazione scarsamente plausibile perché voleva significare che, finchè reggeva il regime coloniale fascista, imposto dall’occupazione, non si poteva fare altro che cercare di salvarsi all’interno di quel sistema, “imposto dai fatti”, accettando, quindi, l’invasione straniera. All’evidenza, era un inammissibile paralogismo, un marchingegno logico-giuridico senza alcun fondamento reale e . soprattutto – inaccettabile sotto il profilo morale, che si poneva in contrasto con la Resistenza, con la sollevazione popolare, la quale, invece, concretamente stava a dimostrare che era pur possibile la non accettazione della servitù verso lo straniero, che era la vera “ideologia imposta dai fatti”. Ed era, pertanto, inevitabile che tale scelta volontaria di collaborare, in posti di alta responsabilità, con lo straniero occupante sembrasse al Tribunale evidentemente inconciliabile con l’invocato stato di necessità. Egli stesso ne doveva essere convinto se, in via subordinata, invocò dal Tribunale l’applicazione dell’amnistìa: “Che io sia nella verità lo dimostrano gli stessi organi della Giustizia del Popolo, poiché la Grazia l’hanno applicata a persone diverse che hanno collaborato con l’occupazione fino all’ultima ora, anzi passando dalle file fasciste a quelle naziste. Perciò l’amnistìa ha avuto ampia interpretazione ed applicazione”.

Si rese conto il Tocci di trovarsi in “un grande disagio” perché

“la disgrazia maggiore è questa: se parlerete con alcuni imperialisti Cassiano:La collina del prete 47

impazziti ed ignoranti d’Italia, vedrete che io sono un traditore perché onoro e amo l’Albania, se invece parlerete con alcuni albanesi che non mi conoscono o che non sono nella condizione intellettuale di capirmi, sono di nuovo in colpa, perché onoro e amo l’Italia del Risorgimento, di Mazzini, di Garibaldi, della fratellanza dei Popoli”.

Il tribunale del popolo pronunziò sentenza di morte per fucilazione, che venne eseguita alle ore 19 del 14 aprile 1945, in via Dibra vecchia, nella Collina del Prete, alla periferia di Tirana

Ma questo tragico epilogo, probabilmente, non scioglie tutti i nodi di una personalità complessa e tormentata, come quella del

Tocci. Sicuramente accolse le truppe italiane come liberatrici, collaborò col fascismo rivestendo cariche di alta responsabilità, come la presidenza del Supremo Consiglio Corporativo ed in tale veste, guidò i notabili albanesi ad omaggiare, nel maggio del 1940, Vittorio

Emanuele III, il nuovo re degli Albanesi.

Non è revocabile in dubbio che si tratta di una grave responsabilità politica. D’altra parte, non si può sottacere che effettivamente protestò per talune azioni di rappresaglia, per i metodi illegali di persecuzione degli oppositori, per l’imperante corruzione e per il disfacimento dello Stato di diritto.

Era questa, però, una critica all’interno del regime, destinata ad essere – come, in effetti, fu – inefficace e, come gli avvenimenti dimostrarono, neppure presa in considerazione, dannosa solo per lui perché lo poneva in sospetto dei gruppi dirigenti collaborazionisti e neppure lo salvava dal giusto risentimento e dalla diffidenza, se non Cassiano:La collina del prete 48

dal disprezzo, degli oppositori. Forse, se il processo fosse stato celebrato in un altro contesto storico, i giudici avrebbero potuto riconoscergli – com’è avvenuto in tanti casi nel dopo-guerra – quelle attenuanti, che lo avrebbero sottratto dalla condanna capitale o, addirittura, applicargli quell’amnistìa invocata.

Né, in un periodo di così gravi e repentini sconvolgimenti era facile e agevole la distinzione tra il suo presentarsi ed apparire come uno dei massimi dirigenti ed il suo interno tormento, che lo portava al rispetto della legalità e dei principi morali. E questo era anche il suo grave limite, che lo caratterizzò per tutta la vita. Era in lui come una sorta di duplice personalità: si accendeva improvvisamente per un qualche progetto politico e, poi, andava gradualmente spegnendosi fino all’abbandono, non appena ne prendeva coscienza delle difficoltà di attuazione.

E tale parabola di entusiasmi improvvisi e di cadute, altrettanto improvvise ed ingiustificabili razionalmente, la si vide quando sostenne l’ascesa al trono albanese del principe egiziano Fuad, o di un

Savoia o del principe Guglielmo di Wied e, poi, conosciuto Zogu, si accese di lui, per successivamente metterlo da parte per ritornare alla romantica illusione che la salvezza dell’Albania stava solo nella politica di solidarietà con l’Italia fascista. E, infine, quasi alla vigilia della tragica morte, ritornò alle sue origini democratiche e repubblicane, consigliando i suoi amici di dare vita a quel Partito

Repubblicano con un vasto progetto di riforme sociali ed economiche che egli forse avrebbe voluto fondare. Cassiano:La collina del prete 49

Era come il fare ammenda di tutto un tumultuoso passato di errori e di vaneggiamenti, di cui non si poteva sentire appagato perché, nei fatti, doveva avvertire di non avere conquistato nella storia quel posto e quella onorata collocazione che avrebbe voluto. Ne sentiva il grande “disagio” dal momento che si rendeva conto – come si apprende dagli appunti per la difesa, resi noti dalla figlia Rita – che avrebbe potuto essere considerato “traditore” sia dagli italiani che dagli albanesi.

La sua umana avventura, anche se attraversata da molte ombre e poca luce, merita di essere tolta dall’oblìo della storia non foss’altro che per comprendere attraverso quali meccanismi e quali oscure spinte un figlio della piccola borghesia rurale di un villaggio calabro-albanese, che aveva fatto un rapido noviziato politico nella democrazia massonico-repubblicana, ai primi dello scorso secolo, fu spinto in un ambiente, certamente arretrato, come quello albanese, restandone schiacciato e come disperso, la cui memoria venne espulsa anche nella sua località d’origine con, del resto, giustificato fastidio.

Cassiano:La collina del prete 50

VI

La recente pubblicazione del saggio di Francesco Caccamo

(Odissea Arbereshe – Terenzio Tocci tra Italia e Albania, ed. Rubbettino,

2012) più che una riabilitazione politica, vuole essere – ed effettivamente è – una “riscoperta storica” di un singolare personaggio che, pure se con le “sue luci e anche con le sue ombre”, occupa un qualche spazio nella storia “non solo albanese, ma anche arberesh, italiana, in definitiva “adriatica”.

La ricerca storica è avvalorata dal risultato del minuzioso scavo di archivio che illumina – suggerendone ulteriori approfondimenti - singoli aspetti della vita del Tocci, finora rimasti sconosciuti o come in ombra, nascosti dal tentativo di scrivere una cronaca pedestremente apologetica del personaggio. Neppure le pagine di Rita Tocci

(Terenzio Tocco, mio padre (Ricordi e Pensieri), Corigliano Calabro, 1977), anche se giustificate dall’affetto filiale, offrono tanta sciatta e maldestra apologia come quelle di certi scrittorelli che vorrebbero, per ragioni strettamente politiche, erigere un monumento alla figura del

Tocci, riscattandone la damnatio memoriae, ed, invece, creano solo danno e confusione.

Solo l’oggettiva ricerca delle fonti – come ha fatto il Caccamo – può essere di aiuto nella comprensione del personaggio, non complessivamente, cosa, del resto, impossibile per le esperienze diverse, vissute dal Tocci, a partire dalla gioventù romantica ed avventurosa, per passare, poi, dopo la fine della prima guerra Cassiano:La collina del prete 51

mondiale, all’amicizia con Zogu ed al ritorno in Albania al servizio di quest’ultimo, all’occupazione fascista ed alla sua tragica fine. Ove ben si analizzino tali singoli aspetti, ci si rende conto che ci troviamo in presenza di momenti diversi, a volte in contrasto tra di loro per l’impostazione programmatica e per le opposte finalità.

Preliminarmente, mi corre l’obbligo di sottolineare che, tra il

Tocci e gli arbresh di Calabria, in modo particolare della provincia di Cosenza, non v’è uno stretto legame. Il Tocci, in effetti, gradualmente, si estraneò dalla comunità, ov’era nato, per dedicarsi al suo lavoro in

Albania e neppure si ha ricordo di sue visite ufficiali. Né agli Albanesi di Calabria interessavano più di tanto le ingarbugliate vicende skipetare.

Dopo secoli dal loro insediamento tra il declinare del secolo XV e gli inizi del secolo seguente, le popolazioni albanofone della

Calabria settentrionale si dovevano considerare alla stregua del

“popolo minimo” calabrese o meridionale, in genere, del quale condividevano le condizioni ed alla pari del quale subivano gli effetti dell’arretratezza economica e del degrado sociale.

Dismesso il nomadismo, gli albanesi, nella stragrande maggioranza, per lo più contadini ed altre minores gentes, si inserirono nel tessuto sociale ed economico calabrese, senza farsi assimilare, ma con esse si integrarono e gradualmente rafforzarono l’integrazione mediante scambi di merce, parentele, rapporti di amicizia, di comparatici e di lavoro. Diverso per pratica religiosa dalle popolazioni indigene, il contadino arbresh non differiva in nulla Cassiano:La collina del prete 52

dall’omologo calabrese. Anche i casali arbresh non erano diversi da quelli calabresi per organizzazione architettonica.

Allo stato, non è possibile neppure ipotizzare una sostanziale differenziazione tra le popolazioni calabresi autoctone e quelle albanesi sopraggiunte né con riferimento ai mestieri, né in relazione all’organizzazione ed alla struttura economica, all’organizzazione della famiglia ed alla distinzione fra classi sociali ed alla ripartizione delle ricchezze. Non sussiste, pertanto, una specifica diversità arbreshe. Ciò perché la formazione culturale delle popolazioni arbresh ed, in modo particolare, dei loro gruppi dirigenti è essenzialmente italiana, europea, occidentale. E questo è il loro mondo. Né potrebbe essere diversamente, essendo nate in Italia, avendo quivi frequentato le istituzioni pedagogiche e culturali ed assorbito l’humus culturale italiano o, meglio, calabrese e meridionale.

Invero, si ha l’impressione che, in Tocci, sia posticcia la lacerazione della sua identità, quella arbresh diversa da quella italiana, l’essere, cioè, preso da due mondi diversi. Tanto non era stato possibile, per la verità, in casi di assoluta rilevanza: in Crispi e

Gramsci. Quest’ultimo, in una delle lettere dal carcere, esprime un concetto ovvio e indiscutibile: L’essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese e parlava albanese.

Tutta quella retorica che si manifestava nei cosiddetti

Congressi italo-albanesi e la pubblicistica in italiano ed in arbresh non toccavano per nulla la popolazione, in genere, analfabeta, costretta a Cassiano:La collina del prete 53

sbarcare il lunario in condizioni di estrema precarietà e, proprio per tale motivo, spinta ad una emigrazione transoceanica di carattere biblico. Le avventure del Tocci, oltre Adriatico, non interessavano nessuno nel piccolo mondo arbresh. Nessuno degli intellettuali di origine arbresh, che aveva raggiunto una consolidata posizione professionale, aderì all’invito del Tocci di recarsi in Albania. La loro era una patria poetica, ideale, e non l’Albania, teatro dello scontro delle varie tribù, all’interno, e oggetto di egemonia fra le grandi potenze dell’epoca. E tale concetto è bene espresso nella lettera – riportata nel saggio di F. Caccamo (pag. 117) - dell’avvocato Cosmo

Serembe, persona di elevata cultura, che esercitava la professione legale a Milano, nella quale scriveva di avere “sempre sognato l’Albania di Scanderbech” e non quella reale del tempo che “è ben altra cosa e mi farebbe troppo soffrire spiritualmente”.

Di ben altro spessore si appalesa l’impegno culturale dell’arbresh Costantino Mortati che, giovane studente liceale in S.

Adriano ai primi del secolo scorso, dalle pagine del periodico studentesco, denuncia, sollecitando i lavoratori calabresi a prenderne coscienza, le condizioni di servitù della classe lavoratrice, costretta a vivere “la vita dei bruti, curve le fronti sotto la parca legge della fame…il capitalista vi può impunemente sfruttare rubandovi una parte del vostro salario…può gettarvi sul lastrico costringendovi fra il delitto ed il morire d’inedia”. Perciò i lavoratori debbono associarsi.

La sola associazione è lo strumento primario ed imprescindibile della loro emancipazione. Cassiano:La collina del prete 54

Ma non è sufficiente. Occorrono, in più, l’istruzione e l’educazione, in mancanza delle quali essi non possono diventare coscienti dei loro diritti e, per conseguenza, “non potete ottenere quella partecipazione alla vita pubblica, senza la quale non riuscirete ad emanciparvi”. In queste tesi giovanili si ritrovano in nuce i princìpi fondamentali di lavoro, libertà, giustizia ed uguaglianza, che il costituzionalista Mortati porterà all’attenzione dell’Assemblea Costituente e saranno le idee fondanti e basilari della Cosituzione italiana.

Il giovane Tocci è su un’altra lunghezza d’onda. Espulso dal

Collegio di S. Adriano per motivi disciplinari, con un padre, clericale sfegatato, che non gli era d’aiuto, costretto a trasferirsi a Cosenza per finirvi gli studi, si sentiva –come scrive a Felice Albani – un povero studente che, per una serie di tristi casi…benché maturo di pensiero e d’età, era in ritardo negli studi curriculari. I “tristi casi” erano le truffe, subìte dal padre, che avevano ridotto al lumicino il patrimonio immobiliare della famiglia, causando anche il ritardo negli studi.

A Cosenza, allora fervida di iniziative politiche e culturali, il giovane Tocci – certamente sotto l’influenza del noto agitatore mazziniano e massonico, Felice Albani – incomincia ad interessarsi di politica militante, aderendo al partito repubblicano. Fu determinante l’influenza del radicale Felice Albani, segretario del Partito Mazziniano

Italiano, che, in coerenza con il pensiero del Mazzini, rifacendosi agli ideali di nazionalità e di lotta contro le dinastie, si faceva promotore, nei Balcani, della liberazione delle nazionalità oppresse e, quindi, Cassiano:La collina del prete 55

dell’indipendenza albanese; all’Albani si dovevano molte delle iniziative e convegni, anche a carattere internazionale, al fine di tenere vivo il carattere risorgimentale dell’intervento nei Balcani. Uno dei più attivi comitati Pro Albania – quello di Ancona – faceva direttamente capo alla Terza Italia, organo del Partito Mazziniano.

Francesco Caccamo, nel saggio in oggetto, meritoriamente e per la prima volta, utilizzando fonti di prima mano, analizza particolarmente e documentandolo con gli articoli del Tocci, pubblicati su La Terza Italia, il graduale convergere del Tocci sul problema dell’indipendenza albanese, in nome del principio di nazionalità ed in opposizione alle tendenze slavofile e grecofile, prevalenti in Italia, ed, in tale prospettiva, collegando alla causa albanese quell’Italia popolare e progressista che avrebbe dovuto soppiantare il conservatorismo dell’Italia ufficiale.

Era una battaglia ideale che il Tocci, dalle pagine de La Terza

Italia, conduceva sul fronte dell’opinione pubblica italiana e nei confronti della Nazione Albanese, diretta da Anselmo Lorecchio, sostenitrice di un graduale processo di emancipazione dell’Albania fino al raggiungimento dell’autonomia all’interno dell’impero ottomano, alla cui strategia opponeva l’insurrezione armata. Eccoci, dunque, pervenuti al duce dell’insurrezione albanese, che il giornalista russo Osorgin, nella sua corrispondenza da Podgoritza, giudicherà

“spavaldo” ed “ingenuo”, ma “troppo cattivo politico”.

Con l’appoggio dell’Albani, il Tocci che, nel frattempo, conseguita finalmente la maturità classica, si era iscritto in Cassiano:La collina del prete 56

giurisprudenza presso l’Università di Urbino, fa una rapida carriera politica all’interno del Partito Mazziniano. Conosce Ricciotti

Garibaldi, secondogenito dell’Eroe dei Due Mondi, sempre speranzoso nell’indipendenza albanese che, nonostante un passato di delusioni, aveva costituito all’uopo il Consiglio Albanese d’Italia, collegandolo alla federazione dell’Italia irredenta; diventa amico del Maestro del

Grande Oriente d’Italia, lo scultore e pittore Ettore Ferrari, deputato radicale, irredentista e della sinistra nazionalista, che gli promette protezione e aiuto.

In tale contesto, strinse rapporti col patriota albanese del nord,

Nikolla Ivanaj, detto anche Ivanaj Bey, affiliato alla massoneria ed in contatto con la dirigenza del Partito Mazziniano. Altri due scutarini strinsero rapporti d’amicizia col Tocci, che in seguito, si riveleranno assai utili: Filippo Kraja, dipendente di una società di navigazione, e

Giacomo Cocci, Jak Koci, in albanese, imprenditore di Scutari, tessitore di oscure trame politiche, instancabile e principale sostenitore di Ahmed Zogolli, il futuro re Zog, filo-italiano che, da

Trieste, sosteneva la necessità e l’utilità dell’ingerenza italiana nelle vicende albanese. Jak Cocci, nell’immediato primo dopoguerra, fu il principale interlocutore, per conto di Ahmed Zog, col governo italiano nel negoziare i termini e le modalità dell’intervento italiano; quando, alla fine degli anni trenta del ‘900, la politica di re Zog sembrò cambiare registro, si offrì alle autorità italiane come sicario per la sua eliminazione. Cassiano:La collina del prete 57

Non è inutile sottolineare, ad integrazione sul punto del saggio del Caccamo, che nell’Albania del Nord, particolarmente a Scutari, era nata e si consolidava una corrente filo-italiana, che ipotizzava l’intervento italiano alfine di contrastare la consistente espansione dell’impero austro-ungarico, soprattutto sotto il profilo dell’egemonia culturale. Ma che il governo italiano, proprio con lo scopo di mantenere la sua influenza e di ulteriormente espanderla, nel 1900, trasformò il Collegio di S. Adriano in S. Demetrio Corone in scuola laica e internazionale, per accogliervi, con la concessione di borse di studio gratuite, studenti di Giannina, Durazzo, Scutari, Vlora e di ogni parte d’Albania, inviandovi come regio Commissario l’Ispettore generale delle Scuole italiane all’estero, Angelo Scalabrini. E grande fu il concorso degli studenti – sottolineano le cronache dell’epoca – e grandissimo il credito della scuola di S. Adriano. Sicchè S. Demetrio si vide popolata, oltre che dagli studenti accolti nel convitto, anche da numerosi altri studenti esterni, provenienti dalle Puglie, dalle

Calabrie e dalla Basilicata.

Cassiano:La collina del prete 58

VII

Forse la improvvisa ed inaspettata decisione del Tocci di partire per le impervie montane albanesi per collegarsi ai ribelli, senza un previo concerto ed in assenza di una efficace organizzazione di volontari, forniti di adeguati mezzi finanziari, avrebbe richiesto una più analitica puntualizzazione in considerazione che quella decisione era anche l’inizio di un destino, incerto ed avventuroso, che si sarebbe concluso tragicamente di fronte al plotone d’esecuzione, nell’aprile

’45, nella cosiddetta Collina del Prete, alla periferia di Tirana. Quale era la posizione politica del Tocci, quali erano i termini del suo accordo con Ricciotti Garibaldi, con Felice Albani e con i suoi amici albanesi, quale impulso lo spingeva così prepotentemente da trascinarlo in un’avventura rischiosa senza collegamenti internazionali, posto che avrebbe dovuto essere assai chiaro e di palmare evidenza che alla questione albanese ed alla sistemazione dei Balcani erano interessate le grandi potenze europee.

Né il Comitato italiano Pro Albania, nel quale convivevano tendenze politiche diverse, avrebbe potuto essere considerato, già per questo, uno strumento politico capace di guidare l’insurrezione, di supportarla convenientemente con armi, munizioni e volontari, per il cui trasporto nei luoghi della rivolta ovviamente occorrevano navi e denaro. Erano del tutto carenti tali presupposti organizzativi essenziali per dare inizio alle operazioni e per sostenerle nel seguito.

Quando si diffuse la notizia dell’insurrezione albanese contro i

Giovani Turchi – che, nonostante le promesse, non avevano dato, anzi, Cassiano:La collina del prete 59

neppure avevano inteso dare corso all’autonomia dei distretti albanesi nell’ambito dell’impero ottomano – Ricciotti Garibaldi, vincendo le pregresse perplessità, lanciò un manifesto per dichiarare che “il momento dell’azione è arrivato”. Al che pronte seguirono le proteste austriache e quelle turche ed immediatamente il governo italiano predispose tutte le misure opportune ad ogni e qualsiasi iniziativa di raccolta e di partenza di eventuali volontari garibaldini dai porti italiani.

Quali garanzie avrebbe potuto avere, quindi, il Tocci sul buon esito del suo tentativo? Che cosa avrebbe potuto fare da solo o in compagnia di quattro amici tra gente che neppure conosceva? Non potendosi neppure procedere all’organizzazione di una spedizione, la ragione politica o, meglio, il buon senso avrebbero dovuto sconsigliare l’avventura, salvo che non si volesse porre in atto un bel gesto rivoluzionario solo …nell’immaginazione.

Si giocava alla rivoluzione. Giovani laureati o studenti falliti della piccola borghesia – come aveva sostenuto l’Osorgin nella sua corrispondenza – si ergevano a guide e condottieri della rivolta;

“carini e limitati” erano, però, “troppo cattivi politici”, capaci solo di fare un gran baccano.

Qualche anno prima, un colto e stimato intellettuale di Lungro

– Camillo Vaccaro - seriamente e concretamente impegnato nell’educazione ed istruzione delle masse contadine analfabete, aveva, con dati di fatto, severamente ammonito gli italo-albanesi dal fare affidamento su Ricciotti Garibaldi e sul “guasconismo” di alcuni, Cassiano:La collina del prete 60

affermando che “purtroppo fino a ieri noialtri albanesi su pei giornali abbiamo ammazzato normalmente tre volte al giorno il Sultano ed abbiamo redenta la madre patria altrettante volte; ma non abbiamo saputo ammazzare in noi quel guasconismo donchisciottesco – indice di debolezza – che ci permette di sognare, poveri di tutto, la soluzione rapida dei più complicati problemi diplomatici, a colpi di frasi…”

Facendo richiamo alla lezione del Cuoco, evidenziava che “le masse – e nol voglia l’idealismo convenzionale – non si muovono pel fulgore lontano di idee sublimi, ma per interessi propri, vicini, tangibili e sentiti.. ci vuole pazienza e, cresciuta che sia, i frutti non mancheranno, e se ne potrà trarre anche, se il caso lo richieda, il legname per l’asta di Achille”.

Questa lezione di realismo politico non era destinata a fruttificare.

Nel marzo del 1911, Terenzio Tocci ruppe gli indugi e partì per il Montenegro: aveva avuto la promessa da parte di Ricciotti

Garibaldi, che Felice Albani giudicava essere “un confusionario”, che sarebbe intervenuto solo se richiesto da un governo provvisorio, costituito dai capi della futura rivolta. Ma rimaneva da provvedere sull’arruolamento dei volontari, il loro armamento, la ricerca delle navi per assicurarne la partenza, la raccolta dei fondi e – non facile ostacolo da superare – il tacito consenso del governo italiano. Nulla di tutto questo era stato previsto ed organizzato.

Il vecchio, ormai quasi nonagenario, ex deputato e suo parente

Guglielmo Tocci lo dissuase dall’intraprendere una simile avventura Cassiano:La collina del prete 61

in quelle condizioni, ricordandogli “il povero fratello mio morto da eroe ma per una impresa che potea parere seria solo a un poeta come

Mauro ed un utopista come quel fiore di galantuomo senza pari qual era il buon Ricciardi…ricordandomi questa ed altre eroiche imprudenze che costarono vita e sangue prezioso, dal profondo del cuore esprimo un voto ardente che fa non averti a rimanere vittima nobile di fantasmi e ambizioni altrui”. Filippo Kraja, dopo avere constatato che dai circoli garibaldini e mazziniani, non arrivavano gli aiuti finanziari, gli consigliò e quasi gli impose in termini realisti e crudi di soprassedere alla impresa che, senza denaro, già appariva velleitaria e pericolosa. A Francesco

Caccamo dev’essere riconosciuto il merito di avere portato alla luce e debitamente utilizzato tale interessante documentazione. “Per realizzare utopie quali le tue bisogna che tutti siano ispirati dal profondo dell’animo dell’ideale di patria”. Ma le tribù albanesi – gli sottolineava il Kraja – non possiedono “se non in germe” questo ideale. Per indurle alla insurrezione “ci vuole denaro. Ma dal momento che non si dispone di mezzi, perché corriamo dietro a chimere? Inutile la tua logica con me: non mi persuaderebbe la logica di Demostene. Tu non conosci il paese nostro”. Ed il Kraja, per fare capire l’importanza del denaro, gli spiegava che i capi-tribù albanesi si garantivano il potere e la sicurezza arruolando dei mercenari, pagati dalle venti alle trenta lire mensili. Questa era la prassi ed a questa prassi bisognava attenersi per raggiungere qualche risultato positivo. “Non per un ideale”- come pensava il Tocci – si era disposti Cassiano:La collina del prete 62

a lottare, ma per denaro: “la maggior parte lascia la vita per una lira al giorno”.

A queste premesse tutte negative vanno aggiunte le profonde diversità di vedute di Ricciotti Garibaldi e di Felice Albani: il primo tergiversava perché intendeva agire secondo la tradizione garibaldina nel tentativo di ottenere anche il coinvolgimento tacito della monarchia e del governo italiano; il secondo scalpitava perché, decisamente avverso a tale progetto, si richiamava agli ideali di nazionalità e di lotta alle dinastie, nel cui ambito andava inquadrato il movimento dei repubblicani di aiutare le popolazioni albanesi a riscattarsi dall’oppressione.

La conseguenza non poteva che essere una soltanto e, cioè, quella di paralizzare l’azione del Comitato Pro Albania. Sicchè Tocci e compagni furono abbandonati al loro destino; attaccarono, male armati, la fortezza di Alessio, ma furono facilmente respinti e dovettero rifugiarsi nel Montenegro, sperando inutilmente nell’aiuto di quel Sovrano, il quale non aveva interesse alcuno nell’assecondare i rivoltosi; in realtà, fingeva di avere a cuore la soluzione della questione albanese, ma, nei fatti, tale simulazione era strumentale per il raggiungimento di suoi fini particolari.

La fine ingloriosa di codesta avventura fu segnata – com’era naturale - da aspre polemiche ed anche inimicizie personali tra il

Tocci e l’Albani ed il Garibaldi, i mazziniani e gli stessi patrioti albanesi, qualcuno dei quali – Simon Doda – rivelò che la dichiarazione di indipendenza del 27 aprile 1911 fu estorta col fare Cassiano:La collina del prete 63

credere che si trattava di una richiesta di armi e munizioni, indirizzata a Ricciotti Garibaldi ed al Comitato Pro Albania.

Il Tocci, intervistato dal Giornale d’Italia nel giugno 1911, polemizzò con Ricciotti Garibaldi perché non gli aveva inviato alcun aiuto né in armi e né in volontari, menò gran vanto delle sue gesta, si autoproclamò “capo del governo provvisorio” che aveva accettato di presiedere semplicemente per dovere “così come la necessità mi imponeva e permetteva di farlo”, anche “se in quelle condizioni poteva sembrare eroico e pazzesco”; criticò il governo italiano per non essere “mai stato nemico all’italianità come in Albania” e per non avere compreso “come il suo interesse collimi là con le più alte idealità nazionali e umanitarie”.

Quando l’intervistatore gli chiede se era stato inviato in Albania da Ricciotti Garibaldi, il Tocci lo nega recisamente, affermando orgogliosamente di non essere stato e di non essere

“l’emissario di nessuno”. Ammette, però, di avere avuto “una piccola sovvenzione dal Comitato di Garibaldi”, non trascurando di aggiungere, per sminuirla, che “essa non servì se non in parte minima alle necessità della mia azione. Avevo per fortuna altro denaro raccolto da vari amici o che era frutto dei miei personali sacrifici”. Ammette di essersi recato “laggiù senza neppure una lettera di raccomandazione” , ma di avere concepito “un disegno assai chiaro” perché aveva maturato la convinzione “che all’insurrezione albanese occorresse, quanto più presto si poteva improvvisarla, un’organizzazione ferrea di poteri civili e militari la quale si Cassiano:La collina del prete 64

accordasse con quelle magnifiche antichissime tradizioni nazionali…senza una tale organizzazione, agli albanesi sarebbe mancata la possibilità di uno sforzo concorde fattivo…”. E “tale organizzazione doveva consistere in un governo provvisorio investito della somma dell’autorità e della responsabilità”, che Tocci afferma di avere costituito dimostrandolo con l’esibizione “di un foglio di carta protocollo con tre pagine vergate di parole misteriose tra le quali ricorreva spesso il suo nome: in calce al posto della firma…le rispettive impronte digitali” di alcuni notabili albanesi. Contro ogni evidenza, parla dell’esistenza di un “governo provvisorio” che

“provvede al mantenimento dell’ordine e della disciplina e alla organizzazione dei posti di guardia”, e della esistenza di un esercito di “sessantamila uomini atti alle armi (che) ubbidiscono come un solo soldato”.

Quel “giovane avvocato milanese senza clientela, repubblicano per convinzione, albanese per lontana parentela”, che il giornalista russo, ma esule in Italia, Michele Osorgin, inviato in

Montenegro dal giornale Russkie Vedomosti, incontrò “fuggiasco” a

Podgoritza, aveva fatto tutto lui, perfino costituito un “governo provvisorio”, che garantiva l’amministrazione della Mirdizia.

Osorgin si era recato in Albania ai primi di giugno del 1911 ed aveva constatato che i Malissori, montanari cattolici, ai confini del

Montenegro, guidati dal patriota Isa Bolleti, si erano ribellati e benché sostenuti sotterraneamente dal Montenegro, soprattutto per le Cassiano:La collina del prete 65

pressioni delle grandi potenze, avevano deposto le armi non prima di avere stipulato un accordo con i Turchi il 12 settembre 1911.

Il giornalista russo fu testimone del velleitario tentativo di esponenti repubblicani italiani, quali Damiano Chiesa, Guido

Mazzocchi e Terenzio Tocci, di mettersi a capo di un vasto movimento in tutta la Mirdizia, che si esaurì, come si è detto, nel giro di poche settimane. Di fronte a tale inammissibile e pericolosa guasconata, Osorgin ha parole di pesante sarcasmo nei confronti dei nuovi Mille e del nuovo Garibaldi, che rischiavano, senza rendersene conto, di scatenare pericolosi conflitti fra le grandi potenze, con il loro forsennato nazionalismo e l’aggressivo irredentismo, di cui si faceva portatore il Tocci, il Tartarin alla caccia dei leoni turchi, il governatore immaginario quanto provvisorio dell’Albania, catalogato in quel genere di oppositori italiani, che menano molto rumore e si ripromettono di

“dare una bella scossa al Paese” per farlo filare diritto.

Aveva ragione Michele Osorgin. In Tocci e negli altri, più che il solidarismo internazionale mazziniano, era possibile riscontrare la prevalenza di spinte nazionalistiche, di quel tipo di nazionalismo nostrano, provinciale, declamatorio e retorico ed, in fondo, inconcludente.

Cassiano:La collina del prete 66

VIII

L’incontro con Zog, a Roma, e la successiva collaborazione con lo stesso – determinante per la carriera politica del Tocci in Albania –

è acutamente analizzato nel saggio di Francesco Caccamo che non trascura dall’evidenziarne tutti i risvolti particolari. Si fa piena luce dell’attività del Tocci subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale. Al fine di ottenere di potere rientrare a Scutari, in memorandum ed istanze al Ministero degli esteri ed allo stesso governo italiano, si dichiara favorevole alla linea di politica estera italiana, non esistendo, a suo parere, “inconciliabilità di vedute” tra l’Italia e l’Albania. Arriva fino al punto di fare intravedere la possibilità dell’ascesa al trono albanese di un principe di casa Savoia, “il che costituirebbe la maggiore garanzia della fraternità italo.albanese ed allontanerebbe per sempre ogni disordine ed anche gli intrighi di nemici comuni”.

Non si può fare a meno di osservare come il Tocci, partito repubblicano con spinte e velleità libertarie, non conosca il principio di non contraddizione e riesca, con leggerezza e con apparente convinzione, ad adattarsi alla realtà politica in movimento, adeguandovi le sue mutevoli convinzioni. Non stupisce che in un documento del Ministero degli Esteri del 28 luglio 1919, forse per questa disinvolta capacità di adattamento, sia qualificato di

“mediocre capacità”. Cassiano:La collina del prete 67

Intanto, la politica estera italiana seguiva, nelle trattative a

Parigi, la sua linea tradizionale, che era quella di procurarsi uno spazio nell’Adriatico, com’era del resto consacrato nel Patto di

Londra, anche sacrificando parte del territorio albanese in favore della

Grecia e della Jugoslavia.

A questo punto, nel momento in cui il congresso panalbanese di Lushnja si pronunziò contro ogni forma di protettorato e quando sembrava che il giovane Zog o Zogolli dovesse capeggiare un movimento militare antitaliano, il Tocci si schierò dalla parte albanese.

Egli era veramente preso tra due fuochi e, cioè, il suo essere italiano per nascita, cultura, formazione, ed il volersi sentire albanese.

Non riusciva a sciogliere i nodi di questo intricato rapporto. La soluzione del quale poteva essere l’antico e romantico concetto dei due popoli affratellati o delle due nazioni sorelle. Ma altra, più dura e stringente, era la realtà della politica nazionale, della quale evidentemente il Tocci “italiano” non voleva o non poteva prendere atto, se non a pezzo di tagliare, di negare o di fare tacere la parte italiana, che era in lui. Giudicava – nel suo opuscolo Italia ed Albania – che tutta la politica italiana in Albania, sin dal 1913, era stata frutto di errori, di contraddizioni, priva di umanità, frutto di menzogne. Non se ne accorgeva che, invece, era stata sempre la stessa, avendo sempre perseguito un progetto di egemonia per garantirsi nell’Adriatico.

Riteneva che, stando ai pregressi rapporti, non v’erano alternative che Cassiano:La collina del prete 68

o “una eterna guerra coloniale” oppure l’ipotesi – che egli naturalmente prediligeva – “di un’Italia ed Albania associate, alleate da buone e fedeli sorelle, di cui la maggiore sorregge la minore, rispettandone e facendone rispettare l’unità, l’indipendenza, la completa sovranità territoriale”. Ma tale concezione, astratta e fuori dalla realtà, - come le evenienze rudi e reali dimostravano - era tipica di un poeta della politica. Da una analisi, anche approssimativa della sua vicenda politica anche durante il regime di Zog e durante l’occupazione italiana, si vede chiaramente che la sua condotta oscilla tra i due poli di riferimento, non agevolmente conciliabili, e, cioè, tra il suo essere italiano ed il suo voler essere albanese. Quando Zog, infatti, tentò di scostarsi dalla politica filo-italiana, Tocci incominciò a sganciarsi da lui; fu allora che pubblicò una Grammatica della lingua italiana senza maestro, tradusse e pubblicò Il Cuore di Edmondo De Amicis ed un’antologia degli scritti e dei discorsi di Mussolini sotto il titolo di

Fashizmi: biseda e shkrime te B. Mussolini-t, certamente indubbia esaltazione della personalità del dittatore italiano, ma che rispondeva alla sua idea o, meglio, alla illusione che l’Italia, come sorella maggiore, doveva garantire l’indipendenza della sorella minore,

Albania, particolarmente nel momento in cui si consolidava il potere mussoliniano.

Alla fine degli anni trenta del ‘900, dopo un periodo non breve di allontanamento dalla politica e di esercizio della professione forense, quando Zog sembrò privilegiare una politica di Cassiano:La collina del prete 69

collaborazione con l’Italia, Tocci, nel 1938, assunse le redini del ministero dell’Economia, si prodigò per il consolidamento dell’intesa con l’Italia fascista, ciecamente convinto che “soltanto il ben avviato ritorno di Roma a Maestra delle genti ci porterà alla Universalità plasmata dal genio del “Dittatore Perpetuo” e che “per l’Italia fascista

è un dovere rigenerare un popolo…tanto più che il rinnovamento albanese dovrà avere altri sviluppi nel futuro, utili ad entrambe le nazioni”.

Ma questa, a ben considerare, poteva essere l’ideologia della contingenza, suggerita dai fatti ed imposta, anzi, dalla momentanea supremazia della “Roma imperiale”, alla quale evidentemente il Tocci si adeguava, ritenendo di non avere altre scelte. Ma, in precedenza, per esempio durante la campagna elettorale per l’elezione del Parlamento di Tirana nella primavera del 1921, nella quale non fu eletto, aveva sostenuto la tesi diametralmente opposta, rigettando la teoria fallace ed illusoria secondo la quale l’Albania, a sostegno della propria indipendenza e della propria libertà, aveva bisogno dell’appoggio di una grande potenza straniera. Viceversa, un popolo

– e quello albanese, nella fattispecie – deve trarre dal proprio seno tutte le risorse al fine di garantire alla propria patria una vita sua particolare, che lo faccia vivere in autonomia, “di vita propria”.

Tocci, dopo le elezioni del 1921, riprese la pubblicazione del

Taraboshi, che trasformò in periodico, col quale si schierò a fianco di

Zog e del suo partito nazionalista, del quale redasse lo statuto seguendo un indirizzo autoritario e verticistico. Con la protezione di Cassiano:La collina del prete 70

Zog, fece una rapida carriera: fu prefetto di Korca, per poco tempo ambasciatore al Cairo, direttore dell’ufficio stampa del governo albanese e deputato nel 1923.

Durante la rivoluzione democratica del 1924, quando Zog, ferito in un attentato, si rifugiò in Jugoslavia, si tenne prudentemente in disparte in attesa dello sviluppo degli eventi, per poi schierarsi nuovamente con Zog, quando, con le sue bande armate, sostenuto dal governo jugoslavo e favorito dalle divisioni in campo democratico, riprese il potere e si autoproclamò presidente della repubblica, instaurando un potere dittatoriale.

Così Tocci – com’è evidenziato dal suo testo Il re degli Albanesi, dove non si contano gli sperticati elogi a Zog – rinsaldò l’amicizia con costui, assicurandosi ulteriori vantaggi nella progressione della carriera: console generale a New-York per poco tempo nel 1925, poi presidente della Corte di Cassazione penale, ed, infine, Segretario

Generale della Presidenza della Repubblica; nel frattempo, fondava il periodico La Stampa (Shtypi), di cui assumeva la direzione, che diventava organo del partito zoghista.

Le sue origini democratiche e repubblicane erano, ormai, definitivamente poste nel dimenticatoio, solo un lontano e, forse, fastidioso ricordo di una gioventù povera, romantica e ribelle.

Dopo l’autoproclamazione di Zog a re e la conseguente abolizione della repubblica, si è già detto come e perché il Tocci ne fosse stato in qualche modo turbato, tuttavia, bongrè malgrè, non lesina le lodi sperticate al re degli albanesi che, fino a ieri senza storia, avevano Cassiano:La collina del prete 71

finalmente trovato un punto fermo per la rinascita. E, ancora, successivamente, celebrerà il primo anniversario del regno – come si riferisce nel saggio storico citato – come l’alba della nuova vita degli albanesi uniti dopo secoli”.

Di fronte a tali manifestazioni – evidentemente insincere e ipocrite – si rimane di stucco nel venire a conoscenza che, contemporaneamente, il Tocci – come reso noto dallo storico inglese Fischer nel testo King Zog ed opportunamente evidenziato nel richiamato saggio – informava i diplomatici inglesi su particolari, poco commendevoli, relativi al tenore di vita privata di Zog, alle sue avventure galanti ed a quanto altro ne potesse sminuire il prestigio all’estero.

Imboccata tale via, nella quale era assente un pur minimo barlume di dialettica politica, degno di questo nome, il Tocci vi rimase intrappolato come prigioniero, costretto a sopravvivere ricorrendo a tutte le sue risorse per uscire indenne dalle congiure, dagli intrighi e dai misteri di quel notabilato di bey, arretrato ma astuto, affamato di denaro e di potere, che costituiva la corte zoghista.

Ministro dell’Economia Nazionale nel 1938, quando si era avvicinato a Zog, considerandolo e appellandolo suo Altissimo

Protettore, criticava aspramente lo stesso governo, di cui era componente, perché incapace di portare avanti una politica di ammodernamento e denunciava gli ostacoli che incontrava a causa di una mentalità meschina e intorpidita, che ha paura del dinamismo e del progresso. Cassiano:La collina del prete 72

Questa volta si scontrava con gli uomini più fidati, i più stretti ed i più potenti collaboratori del re – il primo ministro Kota ed il ministro dell’interno, Musa Juka – che Zog non avrebbe, mai ed in nessun caso, sacrificato. Inevitabili divennero le dimissioni, prontamente accettate.

Tocci non era riuscito a catturare la benevolenza del sovrano, nonostante che, per esaltarne la personalità, fosse ricorso alla pubblicazione – per esaltarne la figura anche all’estero - di Zog, re degli Albanesi, sperticata manifestazione di adulazione strumentale e di ricostruzione degli avvenimenti con disinvolto criterio a scopo puramente laudativo.

Per la verità, sotto l’apparenza del contrasto tra ministri, la sostanza era data dalla necessità, sostenuta dal Tocci. della continuazione della politica di collaborazione e di cooperazione economica con l’Italia, che non era del tutto condivisa dagli altri membri del governo e dallo stesso Zog, sul punto di tentare altre soluzioni di politica estera. Ma, ormai, nell’arco di pochi altri mesi, l’occupazione italiana avrebbe cancellato la monarchia e l’indipendenza albanese. E Tocci?

Riuscì a sopravvivere anche con i conquistatori italiani, accapparrandosi una posizione di grande prestigio: la presidenza del

Supremo Consiglio Corporativo Albanese, equivalente alla italiana

Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

Cassiano:La collina del prete 73

IX

A questo punto, si pone il problema della qualità o della forma, attiva o passiva, della collaborazione con l’invasione italiana dell’Albania nel 1939 e dell’aiuto o dell’assistenza, prestata al nemico occupatore. In una parola, si rende necessario analizzare, in modo particolare, se il Tocci accettò spontaneamente l’annientamento della

Stato nazionale albanese, operato dal fascismo invasore, se collaborò col fascismo ed in quali forme pubbliche si esplicò tutta la sua attività durante l’occupazione italiana.

Si tratta di un nodo cruciale e determinante del suo destino politico che, in capo a sei anni, avrebbe avuto il tragico epilogo con l’esecuzione della condanna alle pena capitale insieme ad altri collaborazionisti ex-zoghisti e nazionalisti, per alto tradimento, al tramonto del 14 aprile 1945, nella periferia di Tirana, nella Collina del

Prete ( Kodra e Priftit).

Dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista, Galeazzo Ciano, allora ministro degli Esteri, propose al suocero Mussolini l’annessione dell’Albania, a titolo di compenso per avere lasciato mano libera alla Germania, ed anche al fine di fare dell’Adriatico un mare interno italiano, per ragioni di sicurezza. Era, questa, in fondo, la conclusione della tradizionale politica estera italiana.

La proposta fu accettata dall’allora duce del fascismo. Tutta l’operazione fu stabilita per la primavera del 1939. Quando Ciano si recò in visita in Albania, in occasione della celebrazione del Cassiano:La collina del prete 74

matrimonio di re Zog, approfondì la situazione albanese; al ritorno, stese un dettagliato rapporto, nel quale evidenziava anche gli ulteriori vantaggi dell’annessione, sottolineando le potenzialità di sviluppo del suolo albanese, che, ove fossero debitamente sfruttate dall’Italia, avrebbero potuto accogliere almeno due milioni di lavoratori e tecnici italiani.

Si passò subito all’organizzazione dell’impresa, i cui preparativi, all’interno albanese, furono demandati al rappresentante diplomatico italiano, Francesco Jacomoni, il quale, legato alla tradizionale diplomazia italiana di fare dell’Albania un “protettorato” italiano, era inizialmente scettico sull’ipotesi dell’annessionismo. In seguito alle pressioni di Ciano, preparò un “piano d’azione locale”, nel quale, in definitiva, prevedeva che Zog restasse un re azzoppato perché assoggettato all’Italia.

L’ambasciatore Jacomoni restava, comunque, nella sua convinzione della possibilità di un accordo con Zog e ne discusse con

Ciano, il quale, sempre più convinto dell’annessione, nel marzo del

1939, gli dette le istruzioni di iniziare le trattative per la definizione di un nuovo trattato di alleanza con l’Albania sulla falsariga di quelli anglo-egiziani ed anglo-iraqeni.

Ma Jacomoni, forte della pregressa esperienza nei Balcani, capiva bene che un tale piano non sarebbe stato mai accettato dalle autorità albanesi, aggirò l’ostacolo e propose tatticamente una modifica del trattato del 1926. Venne, così, definito un nuovo progetto che naturalmente fu sottoposto a Mussolini, il quale fece pervenire Cassiano:La collina del prete 75

all’ambasciatore una sua controproposta, accompagnata da un messaggio a Zog, articolato praticamente in termini da non lasciare alternativa alla pura e semplice accettazione del protettorato, proposto perentoriamente dal duce. Alla mancata accettazione da parte di Zog, seguì l’ultimatum mussoliniano.

Era la guerra. Jacomoni, invitato a rientrare in Italia con tutto il personale dipendente, chiese ed ottenne di restare in Albania perché ritenne – da provetto ed esperimentato diplomatico – che la presenza di un rappresentante italiano nella capitale albanese, anche per i collegamenti già definiti e concordati con gli antizoghisti, avrebbe in qualche modo coperto lo sbarco delle truppe italiane, facendo passare tale atto di guerra in un atto di aiuto al popolo albanese, e dando contestualmente l’impressione della continuità dello Stato albanese, mentre Zog con la corte abbandonava Tirana.

In precedenza, Jacomoni aveva contattato e manovrato con un gruppo di politici di Tirana e addirittura con bande armate, pagando gli uni e le altre profumatamente perché organizzassero una sorta di movimento popolare antizoghista ed in appoggio delle truppe italiane, presentate come liberatrici ed in soccorso della popolazione albanese. Il movimento, così preparato, doveva naturalmente sembrava come una spontanea sollevazione popolare.

Mentre avveniva l’occupazione, Galeazzo Ciano, nei locali dell’ambasciata italiana a Tirana, reiterava astutamente, e prometteva e dava le più ampie assicurazioni sulla permanenza dell’Albania a Cassiano:La collina del prete 76

Stato indipendente. Contemporaneamente, riceveva quegli uomini politici, già contattati dall’ambasciatore.

Tra questi, vi è anche Terenzio Tocci, come riferisce la stessa figlia, riportando dal testo, scritto del padre, Mezzo secolo di vita balcanica, il brano del seguente tenore: “Il mattino dell’8 aprile la mia casa fu invasa da vecchi amici e…da nuovissimi, cioè, da gente che – ritenendomi erroneamente ed ingiustamente uno dei principali fautori della nuova situazione che veniva a crearsi in Albania – era convinta di occupare molto bene il suo tempo! Ma io non sciupai il mio tempo perché di amici e di nemici (che si presentavano sotto il manto di “vecchi gregari”) approfittai per convocare presso di me alla spicciolata amici provati cui davo l’incarico di far propaganda acchè l’Esercito Italiano in marcia su Tirana fosse accolto – e cordialmente – come “amico ed alleato” – non con la bandiera bianca issata sul municipio, come da alcuni si voleva fare, ma con la bandiera nazionale albanese e la italiana…verso le dieci dello stesso mattino, arrivò la prima truppa italiana, ma io non mi mossi di casa, soprattutto perché seppi che personaggi, i quali dodici ore prima avrebbero voluto seguire il Re in esilio o si erano congedati da lui baciandogli le mani, si mettevano in mostra in

Municipio e dovunque potessero e non tralasciavano attimo per affermare “fede fascista” ed italofilìa di calore e colore di neofiti ben attrezzati allo sfruttamento della nuova epoca che si schiudeva. E ne sentii nausea. Ma accolsi ben volentieri l’invito della Legazione d’Italia che mi invitava ad un colloquio con Galeazzo Ciano (sottolineatura mia). A questi spiegai – presente Francesco Jacomoni – che consideravo la truppa italiana come un’armata di fratelli liberatori per l’organizzazione di una nuova Albania e Cassiano:La collina del prete 77

Jacomoni disse a Ciano: “Tocci è l’unico amico albanese che stanotte si è ricordato di noi e ci ha mandato anche dell’aiuto. E oltre lui nessuno si è fatto vivo, meno il Consolato bulgaro, che ci ha domandato notizie per telefono”.

E mi parve che Ciano accogliesse la comunicazione quasi con un senso di ammirazione e riconoscenza. Indi mi disse: “sentite, Tocci: preparatemi subito la lista del nuovo ministero”; al che risposi: “stamattina non è possibile essendo stanco morto da tre notti di veglia. In secondo luogo ho bisogno di consultare gli amici. Ma domani l’avrete immancabilmente.

Intanto tengo a dirvi che se non si farà opera di moralizzazione e di rigenerazione, io mi metterò da parte”. Questa volta egli non rispose, ed anche Jacomoni tacque. Tale lista che combinai l’indomani con alcuni amici non ebbe alcun seguito, com’è ben noto e come spiegherò in appresso.

Intanto, la sera del 9 aprile a Tirana esplose una dimostrazione capitanata da giovani, che evidentemente erano ispirati da uomini meno fiduciosi di me, e cogliendo l’occasione della traslazione delle ossa del patriota Naim Frasheri, inneggiarono alla libertà ed all’indipendenza della Patria, che ritenevano aggredite e compromesse”.

Naturalmente, sotto le direttive di Ciano e con la determinante ed esperta collaborazione dell’ambasciatore, fu formato il nuovo governo provvisorio con vecchi arnesi nazionalisti, antizoghisti ed ex zoghisti. Nell’arco di cinque giorni dallo sbarco, questo ristretto gruppo di asserviti e rinnegati, autoproclamatosi

Assemblea Costituente, riunitasi il 12 aprile 1939, deliberò di offrire a

Vittorio Emanuele III la corona d’Albania, proclamando l’unione personale fra l’Italia e l’Albania. Vittorio Emanuele III delegò i suoi Cassiano:La collina del prete 78

poteri in territorio albanese ad un Luogotenente Generale, nella persona di Francesco Jacomoni. Il tre giugno 1939, Vittorio Emanuele

III, accettata l’offerta della corona albanese, emanava lo “Statuto fondamentale del Regno d’Albania”, dichiarando di essersi assunto

“l’alto compito di provvedere alla cura dei Nostri figli e di condurre anche questo nobile Popolo, rinnovato nel segno del Littorio, verso i suoi più alti destini”. Tuttavia, nonostante il soverchiante numero di servi, tutti appartenenti ai ceti dirigenti del recente passato e, tra questi, anche conosciuti ntellettuali, che si accodarono ai fascisti, deliberando – come si legge nel verbale dell’Assemblea Nazionale Costituente – di

“essere memori e riconoscenti dell’opera ricostruttiva data dal Duce e dall’Italia Fascista per lo sviluppo e prosperità dell’Albania”, associando “più intimamente la vita e i destini dell’Albania a quelli dell’Italia”, non mancarono i patrioti – com’è costretto ad ammettere lo stesso Tocci nello scritto testè citato – che, nella stessa capitale, al momento dell’occupazione, protestarono vivacemente per la libertà e l’indipendenza perdute e che, come si è già sottolineato, in altre parti del Paese, tentarono di resistere in armi all’invasore. Eppure, se i patrioti avessero avuto un po’ di armi e munizioni, avrebbero potuto respingere l’aggressore.

Filippo Anfuso, infatti, uno dei principali assistenti di

Galeazzo Ciano, dopo avere raccontato come costui, accompagnato da un certo numero di grossi gerarchi, dopo avere fatto una breve apparizione sul campo di battaglia, per strappare la medaglia di rito, Cassiano:La collina del prete 79

commenta tutta la vicenda in questi termini: “se gli albanesi avessero posseduto un corpo di pompieri ben addestrato ci avrebbero gettati nell’Adriatico”.

E ‘ stato ripetutamente affermato da più parti che Tocci, alla fin fine, fu un collaborazionista in buona fede e, spesso, anche in dissenso col fascismo albano-italico. Per fare una qualche chiarezza sulla cosa, occorre distinguere opportunamente tra i vari periodi dell’occupazione italiana: quello della preparazione, della stessa occupazione, dell’immediatamente dopo l’occupazione fino alla nomina (aprile 1940) del Tocci alla Presidenza del Consiglio

Superiore Fascista Corporativo ( Keshilli Eperm Korporativ Fashist).

Non si può seriamente avanzare dubbio alcuno sui rapporti – anche di amicizia, oltre che politici – tra l’ambasciatore italiano, Francesco Jacomoni ed il Tocci. Naturalmente Jacomoni sa - anche perché le dimissioni da ministro del Tocci sono di dominio pubblico - che egli è in rotta col nazional-zoghismo.

Constatata la sua disponibilità per una politica di stretta collaborazione, anche sul piano economico, tra l’Albania e l’Italia, si mette con lui in contatto e certamente lo trova disponibile all’ingresso dell’esercito italiano in Albania in qualità di liberatore. Lo stesso Tocci lo afferma nel citato scritto, in cui esplicita in termini sufficientemente chiari quale era la sua posizione: ricevere l’esercito italiano come “amico ed alleato” ed, all’uopo, al momento dell’invasione, incaricherà “amici fidati di fare propaganda” per la buona accoglienza dell’esercito italiano. Si deve, conseguentemente, Cassiano:La collina del prete 80

ritenere che il Tocci – ancora deputato in carica – è entrato a fare parte di quel gruppo di politici di Tirana, dichiaratosi disponibile a collaborare con l’Italia ed a rovesciare il regime abanese.

Tale inequivocabile dato di fatto spiega il perché Tocci viene convocato da Ciano – per il tramite dell’ambasciatore Jacomoni – non per essere salutato e riverito dal ministro e genero del duce, ma per essere consultato circa la formazione di un governo provvisorio e la convocazione successiva di un’assemblea per approvare l’occupazione avvenuta, simulandola sotto la finzione giuridica dell’unione personale delle due corone. E Tocci, dichiara di essere

“stanco morto da tre notti di veglia” – evidentemente impegnato ed assorbito nella preparazione e nel concordare gli accordi con gli

“amici” in vista di quel che sta per accadere - ed assicura e garantisce al ministro degli Esteri italiano, cioè, al rappresentante di un altro

Stato, che sta procedendo militarmente alla conquista della sua Patria, che, entro il termine di un giorno, dopo essersi consultato con i suoi

“amici”, avrebbe redatto e presentato la lista dei ministri per un governo provvisorio. Cosa che effettivamente fece, ma che, per il momento, rimase senza effetto per scelta di opportunità politica da parte del governo italiano, come si dirà in seguito.

Il Tocci - deputato in carica, membro sicuramente autorevole della classe dirigente - aveva l’obbligo di difendere l’indipendenza e la libertà del proprio Paese contro le pretese di assoggettamento da parte di altre potenze, quali che fossero e di protestare vivacemente nei confronti dell’occupazione, magari unendosi ai manifestanti, anzi, Cassiano:La collina del prete 81

dirigendo le manifestazioni di protesta ed organizzando la resistenza contro l’occupatore, dovendo egli assumere, come espressione del ceto dirigente, la responsabilità di dirigere anche gli altri e di mettersi alla guida, occorrendo, dei nuovi percorsi storici e politici del proprio popolo.

Invece, ciò non avvenne. Contrariamente ad ogni aspettativa, il Tocci accettò con entusiasmo di rispondere alla chiamata di Ciano e di preparare la lista dei ministri di un governo quisling, e, cioè, di un governo asservito agli invasori del proprio Paese e di essere a disposizione degli invasori, collaborando con essi, nulla pretendendo in cambio se non una politica di rettitudine e di risanamento morale.

Che sono veramente risibili richieste se fatte ad un invasore prepotente e nel momento in cui avviene l’occupazione. Tocci non può, dunque, essere considerato un collaborazionista senza importanza, uno dei tanti poveri diavoli. Egli certamente sapeva quel che faceva ed era in grado di valutare anche quali sarebbero state le conseguenze dei suoi gesti e che valore avrebbe potuto assumere la sua condotta politica, anche simbolicamente, nell’immaginario collettivo. Perché, dunque, così docilmente ubbidì alla chiamata di

Jacomoni che lo convocava davanti al ministro degli esteri italiano?

Perché non rifiutò sdegnosamente di comparire davanti al ministro italiano che, in quel momento, doveva considerare un nemico in quanto stava procedendo per via militare all’occupazione dell’Albania? Perché accettò dal rappresentante di una potenza Cassiano:La collina del prete 82

nemica – proprio mentre erano in atto le operazioni militari di occupazione - l’invito di preparare e presentare la lista per un governo provvisorio? Questo tipo di condotta – morale e politica - di sottomissione, di obbedienza, di vassallaggio e di dichiarata accettazione dei patti che lo straniero invasore impone, a sua discrezione, proprio nel momento in cui procede all’invasione militare, appartiene alla categoria spregevole dell’asservimento allo straniero.

Si faccia l’ipotesi, a mò d’esempio, che se il Tocci - com’era suo obbligo giuridico e non solo morale di cittadino albanese e di deputato in carica – avesse sdegnosamente respinto gli approcci di

Jacomoni, denunziando il tentativo italiano di colonizzare l’Albania, portando a conoscenza del Parlamento e dell’opinione pubblica le pretese italiane di vassallaggio; che, invece, di andare a riverire il potente ministro del Paese invasore, mettendosi a sua completa disposizione, veramente – è il caso di dire – perinde ac cadaver - , avesse organizzato la resistenza contro l’aggressione, probabilmente – anzi, sicuramente – per quel che ha scritto Anfuso, l’aggressione avrebbe potuto essere respinta o, quanto meno, la situazione politica avrebbe preso un’altra piega. Ed il Tocci avrebbe sì rischiato – e fortemente rischiato – ma avrebbe fatto il suo dovere morale ed adempiuto al suo obbligo, anche come deputato, di rappresentante del popolo albanese facendosene promotore della salvaguardia dell’indipendenza e della libertà. E solo così avrebbe difeso, salvato ed onorato la sua dignità di uomo, di cittadino, di deputato albanese e di ex ministro e, quindi Cassiano:La collina del prete 83

di autorevole rappresentante della elevata classe dirigente di quel

Paese.

L’aggressione avrebbe potuto essere respinta proprio per i gravi difetti di organizzazione e del materiale umano a sua disposizione, come la ricerca storica ha dimostrato. Lo stesso

Mussolini, del resto, poiché erano tanti a sapere dei pasticci combinati in Albania, fu costretto a farne franca esposizione alla gerarchia fascista ammettendo e spiegando le condizioni di precarietà in cui si era svolta la spedizione.

Il capo di Stato Maggiore fu avvisato del progetto di invasione solo 8 giorni prima e, cioè, il 29 marzo, e non gli fu, quindi, data neppure la possibilità di interloquire in merito. Il comandante designato dell’operazione fu avvisato solo il 31 marzo. L’aviazione ricevette le istruzioni, dettate dal duce, solo due giorni prima dell’invasione. Il generale Guzzoni dovette mobilitare il suo corpo di spedizione mentre si trovava in treno per Brindisi. Ovviamente le storie ufficiali presentarono l’occupazione dell’Albania come uno splendido esempio di organizzazione militare. Questa fu una evidente mistificazione, idonea ad impedire una più approfondita inchiesta, che avrebbe potuto evidenziare anche alcuni profondi guasti dello stesso regime con evidente conseguenza di ripercussioni negative sull’opinione pubblica.

Mack Smith osserva, a tale proposito, che “la mistificazione fu salutata con particolare favore dai comandanti della spedizione, che, dopo aver temuto la corte marziale, furono felici di apprendere che il Cassiano:La collina del prete 84

fascismo non si aspettava da loro nulla di meglio. Grandi scrisse a

Mussolini salutandolo come un secondo Augusto, come un eroe nazionale che senza vacillare aveva aperto all’Italia una via che l’avrebbe condotta, attraverso i Balcani, sino alla conquista dell’Oriente”. Ed invece, nella realtà, la spedizione aveva dimostrato e fatto toccare con mano l’eccesso di fretta, la mancanza di preparazione e di addestramento, l’assenza di coordinamento tra esercito, marina ed aviazione. Il che rendeva realista e fattibile, anche con probabile successo, la resistenza contro l’occupazione.

Dal manoscritto richiamato, abbondantemente citato dalla figlia, si viene a conoscenza, per confessione dello stesso Tocci, che egli era a conoscenza - anzi ne aveva avuto “la sensazione” - che “ai primi di aprile 1939 qualcosa di ben grave stesse per accadere, pensai che il R. Esercito Italiano…potesse venire a liberare da sistemi governativi che l’asfissiavano, tanto più che mi era giunto all’orecchio che persone note per rettilineo patriottismo avevano pattuito con i rappresentanti dell’Italia ufficiale e con qualche gerarca fascista che sul trono del Regno d’Albania sarebbe stato posto un principe della Casa Savoia e che, pertanto, si sarebbe avuta non un’occupazione, ma un temporaneo sbarco di truppe con funzioni di guarnigione”.

Il testo non lascia dubbi. Il Tocci sapeva, dunque, della occupazione, sia pure “temporanea”, come la chiama, da parte di una grande potenza europea, con l’intento addirittura di sostituirne il capo di Stato con un esponente della sua casa regnante e che, all’uopo, vi era stato patto apposito tra rappresentanti del governo Cassiano:La collina del prete 85

italiano, gerarchi fascisti ed un gruppo di congiurati albanesi, che il

Tocci, senza accorgersi dell’ironia, identifica come persone note per rettilineo patriottismo, proprio nel momento in cui rende pubblico il loro pactum sceleris con l’invasore, che si obbligavano ad aiutare nell’occupazione del proprio Paese e nella destituzione e nella successiva sostituzione del capo dello Stato: cosa che ebbe puntualmente a verificarsi subito dopo l’invasione. Ma chi erano questi patrioti e, soprattutto, da chi si erano fatti comprare per essere usati all’occorrenza? Certamente erano tutti quelli che, a invasione conclusa, gestirono il potere con i fascisti italiani, Tocci compreso, e che, in antecedenza, per come esattamente documenta lo storico Denis Mack Smith nella descrizione della politica bellicosa del fascismo, erano stati, in Albania, contattati, convinti e foraggiati da Francesco Jacomoni.

Costui aveva contattato, in precedenza “segretamente varie bande di briganti operanti sulle montagne, concordando con esse un piano in base al quale questi uomini, ad un segnale dato, sarebbero scesi nelle città, provocando una crisi che li avrebbe messi in grado di organizzare una manifestazione popolare a favore dell’unione con l’Italia”.

L’ambasciatore Jacomoni teneva questi due gruppi – briganti e politici di Tirana - a sua disposizione, naturalmente a spese dell’erario italiano, manovrandoli ed usandoli a seconda degli sviluppi degli avvenimenti. Nella notte tra il 7 e l’8 aprile, bande di briganti dilagarono per Tirana. E Tocci ne dà conferma quando scrive Cassiano:La collina del prete 86

che, quella notte, “le carceri giudiziarie erano state aperte e che gli evasi, o liberati che fossero, assieme a malviventi percorsero le strade della città dandosi a tutte quelle deplorevoli azioni che affiorano presso i popoli che piombano nell’anarchia”.

Il piano particolareggiato dell’invasione era pronto già dal febbraio 1939 e Jacomoni non riusciva più a contenere le pretese delle bande dei briganti e dei politici di Tirana assoldati, “i quali, naturalmente con l’avvicinarsi del momento di agire, alzavano il prezzo”. Si trattava, quindi, di distinti e dignitosi patrioti, desiderosi del benessere del proprio paese, o non piuttosto di masnadieri senza distinzione, sempre pronti ad alzare il prezzo del tradimento?

Il rettilineo patriottismo degli “amici” del Tocci non si manifestò in modo alcuno a difesa della propria patria, limitandosi evidentemente ad avvicinarsi alla borsa dell’ambasciatore per il saldo del prezzo finale delle proprie vergognose e delittuose prestazioni, accogliendo l’esercito italiano occupatore come alleato e liberatore, anzi che, com’era nella realtà, come oppressore della libertà e dell’indipendenza dell’Albania.

Come fece, del resto, lo stesso Tocci. Né più e né meno di come si sono comportati i “patrioti”, collusi col governo fascista invasore, ed i briganti, arruolati ed assoldati da Jacomoni.

La manifestazione di Tirana della sera del 9 aprile, guidata e animata da giovani che inneggiavano alla libertà e protestavano contro l’aggressione in nome del diritto del proprio Paese all’autonomia ed all’indipendenza, dovette metterlo in angoscia ed in Cassiano:La collina del prete 87

contrasto con la propria coscienza, per avere assentito, consentito e fatto applaudire l’esercito di occupazione e, così, di fatto, voluto l’occupazione del proprio Paese; per essersi successivamente così umiliato da presentarsi – non da deputato in carica ed ex ministro - ad un ministro dell’Italia occupante per riceverne gli ordini e mettersi a sua disposizione, come servitore.

Indubbiamente, valutata nel suo complesso, la condotta del Tocci, prima e dopo l’occupazione italiana, presenta molte zone di ambiguità, ma inequivocabilmente essa non è in contrasto con gli invasori, anzi, manifestamente accettati come liberatori, con i quali intende collaborare, tanto è vero che, su incarico di Ciano, aveva anche stilato la lista dei futuri ministri del governo provvisorio, che non poteva che essere di collaborazione ed asservito all’invasore.

Cassiano:La collina del prete 88

X

Ad occupazione avvenuta, sistemata sotto la simulazione giuridica di unione con l’Italia, nell’arco di qualche settimana, contemporaneamente l’ambasciatore Francesco Jacomoni che – come si è già esposto – aveva concordato con gli esponenti nazionalisti ed ex-zoghisti i piani d’azione – promosse subito la formazione del governo provvisorio, presieduto da Shefqet Verlaci, e la riunione (12 aprile 1939) di una cosiddetta assemblea costituente che, in obbedienza ai voleri degli invasori, proclamò la decadenza del precedente governo e della dinastia regnante, offrendo la corona d’Albania al re d’Italia in considerazione della costituita unione personale dei due Paesi.

Il 3 giugno 1939, fu emanato lo “statuto fondamentale del regno d’Albania” in forza del quale le basi costituzionali e fasciste dello Stato italiano furono estese al paese balcanico, ormai saldamente occupato. L’unico organo caratteristico era il “consiglio superiore fascista corporativo”, formato dai componenti del Consiglio Centrale del Partito Fascista Albanese e dai componenti effettivi del Consiglio

Centrale dell’Economia Corporativa, che aveva sostanzialmente funzione di organo consultivo e legislativo ed approvava i disegni di legge da presentare alla sanzione del re, al quale era riservata la facoltà di rifiutare il visto e di chiedere una seconda discussione, a norma dello “statuto fondamentale”(art. 26).

Il Tocci, certamente collaborazionista con l’invasore, nell’immediatezza della conquista fascista dell’Albania, non ebbe Cassiano:La collina del prete 89

alcun incarico di rilievo nè di secondaria importanza. Anche se

Jacomoni garantiva per lui, considerandolo “un intelligente e sicuro amico”, tuttavia, forse per i suoi trascorsi politici non lineari, per le recentissime e mirabolanti lodi a Zog, espresse nel testo citato Zog, re degli Albanesi, di fresca pubblicazione, per i suoi continui e disinvolti cangiamenti ideologici, forse anche per una certa spigolosità di carattere che lo faceva apparire irrequieto, instabile e pronto ai facili entusiasmi ed agli altrettanto facili capovolgimenti ed alle ribellioni – che apparivano repentine ed inspiegabili, ma in effetti finalizzate, nell’immediato, non ebbe il conferimento di incarico ministeriale e neppure altri alti riconoscimenti, dati, peraltro, con molta liberalità ad altri esponenti ex nazional-zoghisti, tutti bene ricompensati per i servizi resi ai fascisti liberatori. Verlaci ed alcuni altri esponenti del pregresso gruppo dirigente zoghista furono nominati senatori del Regno d’Italia; padre Giorgio

Fishta – che aveva venduto la penna e la coscienza agli occupanti - fu nominato accademico d’Italia; qualcun altro era stato promosso ambasciatore; a Ernesto Koliqi, notorio nazionalista, fu attribuita la titolarità della cattedra di lingua e letteratura albanese all’Università La Sapienza di Roma, che tenne fino al pensionamento e che non gli fu tolta neppure all’avvento della Repubblica in Italia. Insomma, una serie di riconoscimenti e di conferimenti di incarichi pecuniosi o di sinecure, dai quali il Tocci si sentiva ingiustamente escluso perché, per ragioni che non spiega, egli riteneva di avere bene meritato e, quindi, Cassiano:La collina del prete 90

di aspettarsi, un riconoscimento di qualche rilievo nella vita pubblica dai nuovi padroni del suo povero Paese.

Incominciò, allora, a scalpitare, a sollevare critiche – come attestano le lettere del Tocci a Jacomoni, pubblicate dalla figlia - alle procedure adottate per la nomina dei ministri e per quella dei cosiddetti costituenti, alla scelta dei personaggi ai quali venivano affidati incarichi governativi, giudicati tutti incapaci di garantire un sano governo del paese, promuovendone il progresso, il processo di moralizzazione e di rinnovamento.

Poiché gli era stato assicurato che ciò che era avvenuto non aveva molta importanza, perché assolutamente provvisorio, egli faceva osservare a Jacomoni “rispettosamente che anche nel breve periodo di due o tre mesi possono essere fatti gravi danni da un gruppo di persone che non sono all’altezza del momento storico e possono anche non temere il clamore pubblico appoggiandosi alle armi italiane, pur essendo queste in Albania per un altissimo ideale di rigenerazione politica, sociale e morale (!?)”.

Tocci non era un collaborazionista in odore di dissenso, ma era, invece, un collaborazionista perfetto, con tutti i crismi. Egli era provvisoriamente soltanto scontento per non essere stato accontentato nelle sue aspettative politiche o per non avere avuto il compenso, proporzionato ai meriti acquisiti per i servizi. Le sue critiche al sistema coloniale, imposto alla sua patria, peraltro, accettato e voluto da lui stesso, inviate anche allo stesso Mussolini, circa, per esempio,

“gli atteggiamenti da conquistatori che generano odio…molti sono tentati a Cassiano:La collina del prete 91

riesaminare la situazione ed a ritenere che Zog in fin dei conti simboleggiava e garantiva la nazionalità salvatasi contro molti invasori lungo i millenni…”, non possono essere all’evidenza considerate come espressione di opposizione e di resistenza all’occupazione straniera, perché ci troviamo in presenza di ovvie considerazioni sulla condotta degli invasori che persone avvedute pur avrebbero dovuto prevedere nell’acconsentire all’invasione. Se costoro sono stati così allocchi ed imprudenti da consegnare il proprio Paese allo straniero, benevolmente accogliendolo ed affidandosi alla sua generosità, avrebbero pur dovuto aspettarsi che inevitabilmente il conquistatore

– ritenuto erroneamente liberatore, in buona od in cattiva fede – si sarebbe arrogato diritti di padronanza ed, alla fine, se non proprio scacciati, per così dire, di casa, li avrebbe ridotti in condizione di asservimento e di basso vassallaggio.

Tocci si agitava e scalpitava a Tirana, presso l’ambasciata italiana, con Francesco Jacomoni, manifestando tutta la sua amara scontentezza. Il rappresentante italiano, ormai nominato Luogotenete di Vittorio Emanuele, cercava di tenerlo buono perché tutto sarebbe stato definito, una volta superata la contingenza (“Il Dottor De Angelis mi ha informato che si tratta di un periodo transitorio…”).

Considerato che in loco, non riusciva a spuntarla neppure col suo amico Jacomoni, incominciò a viaggiare per Roma nel tentativo di trovare ascolto presso le alte sfere del regime fascista che, ora, a invasione compiuta, sembravano ignorarlo. Bussò inutilmente alla porta dello stesso Mussolini, al quale, per la verità, - come emerge Cassiano:La collina del prete 92

dalla documentazione dell’Archivio del ministero degli esteri- gabineto Albania, evidenziato nel citato saggio di F. Caccamo - la sua “stessa persona…non era gradita”. Nell’ottobre del 1939, parte speranzoso per Roma, visto che i giorni passavano inutilmente e – scrive – “constatando che i piccoli della cornacchia si facevano sempre più neri – come dice un nostro motto popolare – andai a Roma per incontrarmi con Mussolini. Ma il Duce non volle o non credette di ricevermi”.

Finalmente, un mese dopo, nel corso del novembre, dopo avere inutilmente tentato di conferire con Mussolini o col genero

Ciano, venne ricevuto dall’infinitamente molto più modesto sottosegretario per gli affari albanesi, Zenone Benini, al quale consegnò un promemoria sulla situazione politica albanese e sulle misure necessarie – secondo lui - per risanarla.

Non voleva apparire un questuante, uno che andava a chiedere il compenso per le prestazioni effettuate, ma politico e uomo di Stato, intento all’interesse generale, che, dopo accurata analisi della situazione e delle condizioni politiche, sociali e morali del Paese, proponeva gli opportuni ed adeguati rimedi, finalizzati alla riuscita della collaborazione con l’Albania, in previsione che quest’ultima potesse convenientemente svolgere la funzione di “Avanguardia dell’Impero nei Balcani se li si vuole federare attorno a Roma”.

Nell’occasione, ritornò a bussare discretamente, ma vigorosamente, reiterando le sue aspirazioni ad un incarico politico o culturale di prestigio, nell’ordine, o accademico d’Italia, o Presidente Cassiano:La collina del prete 93

del Consiglio Superiore Fascista Corporativo, - istituito con lo Statuto, ma ancora non operativo - o senatore del Regno d’Italia o, infine, nella peggiore delle ipotesi, ministro dell’economia nel governo albanese quisling. Tocci aveva, di conseguenza, accettato il nuovo regime che, peraltro, aveva voluto, ed era un collaborazionista in attesa di riceverne il beneficio od il compenso atteso, finora non arrivato. Ma che arrivò ai primi dell’aprile 1940 con la nomina, che aveva richiesto, di Presidente del Consiglio Superiore Fascista

Corporativo.

Il 16 aprile avvenne l’inaugurazione, preceduta da un messaggio reale. Il Tocci, ormai nella qualità di presidente, pronunziò il discorso e naturalmente, nell’esaltazione del duce, ricorse al suo solito florilegio di esagerazioni verbali – che poi tanto dovranno nuocergli . indicandolo anche come il maggiore amico della nazione skipetara ed imprudentemente affermando, con altisonante retorica, inverosimili certezze come, per esempio, “gli albanesi sono convinti che come nazione e come stato nella comunità imperiale vivranno e progrediranno con sicura rapidità e guardano a Roma come ad eterno faro di civiltà e di giustizia nella storia del mondo”. Nello scritto, reso noto dalla figlia, steso evidentemente dal

Tocci a giustificazione ed a difesa del suo collaborazionismo - e che, pertanto, va necessariamente preso cum grano salis – ironizza su tale istituzione, rilevando che era una Camera delle corporazioni,

“ma..senza corporazioni ed in cambio con una nuova facciata posticcia, adorna di Fasci e di molti sottintesi”. E continua Cassiano:La collina del prete 94

affermando – in senso contrario a come effettivamente si era svolta tutta la vicenda - di avere accettato “quella carica” solo dopo avere rifiutato di essere nominato Ministro delle Finanze o Consigliere presso la Luogotenenza. In effetti, “quella carica” egli l’aveva richiesta perché, di fatto, lo poneva al vertice della vita politica albanese, dopo il Luogotenente, donandogli grande prestigio e visibilità.

Nella sua qualità di Presidente del Consiglio Superiore Fascista, guidò la delegazione dei politici e dei notabili e feudatari in ritardo schipetari che si recarono al Quirinale per omaggiare il nuovo sovrano dell’Albania e per portargli anche la relativa corona.

Nella edizione albanese del Giornale d’Italia del 23 giugno 1940, si dà notizia della solenne riunione del Consiglio Superiore Fascista

Corporativo per l’approvazione del decreto reale in forza del quale l’Albania deliberava di considerarsi in stato di guerra contro tutte le

Potenze contro le quali l’Italia era in guerra. Era una dichiarazione di guerra supplementare, da parte dei fascisti albanesi, in aiuto della

“sorella maggiore”, che il Tocci, nella qualità di Presidente della farsesca assemblea, esaltò oltremisura nella manifestata fede nella sicurezza della vittoria delle gloriose armi italiane, nelle quali si trovano fuse quelle albanesi.

Dichiarò di sentirsi “fiero del nostro sangue perché oggi la nostra Nazione dà una magnifica prova della sua maturità politica e dimostra che realmente ha posto termine al periodo degli intrighi e della politica delle avventure”. Sottolineò la rilevanza del “primo articolo della legge (che) dice: “Il regno d’Albania si considererà in Cassiano:La collina del prete 95

guerra con quegli Stati con i quali il regno d’Italia sarà in guerra”.

L’unione della corona dei Savoia con la corona degli Skanderbeg viene suggellata con il sangue. In questo articolo non soltanto si uniscono secoli di storia, ma con esso questo popolo piccolo, povero, ingannato, tradito, col fraterno aiuto dell’Italia, si può dire si vendica contro l’Inghilterra e la Francia. Se non pensasse in questo modo il popolo albanese, noi diremmo che la nostra Nazione meriterebbe la sorte degli uomini senza virilità”.

Veramente parole senza senso, al limite dell’incoscienza, messe in fila disinvoltamente per condannare, con la stucchevole retorica d’occasione, un “popolo piccolo, povero” ad un destino di guerre e di intuibili disastri e tragedie, in modo indeterminato e senza limiti di tempo e col vincolo perenne alle scelte ed alle sorti, fauste o infauste, di un altro Paese. Tutti i nemici dell’Italia fascista diventano automaticamente nemici del popolo albanese. Altro che la resurrezione del popolo albanese; ne era l’annientamento.

Con l’approvazione della legge – che obbligava l’Albania a subire, di fatto, la rovinosa sorte del fascismo – Terenzio Tocci, con la diligenza del collaborazionista, nella inconsapevolezza della gravità e della pericolosità degli obblighi internazionali, che caricava sulla propria nazione, affermò, invece, che, con tale atto deliberativo, la

“Camera Fascista Albanese non soltanto difende gli interessi vitali della Nazione, ma si mette anche su una via che un giorno ci onorerà nella sua nuova storia che si sta scrivendo con il sangue in questi tempi”. Cassiano:La collina del prete 96

Tocci non soltanto manifesta la sua cieca fede nel littorio, ma, nel delirio guerrafondaio, sposa anche la croce celtica: “…non soltanto proviamo al mondo che nel campo imperiale siamo legati per la vita e la morte, ma diciamo anche che siamo pronti e vogliamo combattere a fianco dei nostri fratelli d’oltre Adriatico e a fianco dei valorosi amici ed alleati della Germania di Hitler. Tale collaborazione costituisce un onore per la nostra Nazione”. Tocci lascia intendere – non è dato conoscere se in buona od in mala fede – che l’Albania è componente della Comunità imperiale di Roma e deve, di conseguenza, essere all’altezza dell’alto compito e se “noi sappiamo che verso il nostro diritto di non lasciare calpestare la terra albanese da piede nemico (ma non l’avevano lasciata calpestare ai fascisti occupatori?), abbiamo il dovere civile di combattere, come si addice al valore albanese, nel nome del re imperatore e del duce del fascismo”.

Il “povero popolo albanese, ingannato, tradito”, ancora costretto dal notabilato agrario dei bey, legato ai fascisti, a subìre un vero e proprio regime feudale, avrebbe dovuto dimostrare – secondo il Presidente della Camera fascista albanese - di difendere il proprio onore e la propria dignità disponendosi a combattere per interessi e ideali, che non gli appartenevano, solo perché così aveva deciso un gruppo di rinnegati, che avevano accolto lo straniero invasore come liberatore.

Non si riesce a comprendere che cosa aveva a che fare o che avrebbe potuto avere in comune il contadino o l’artigiano o Cassiano:La collina del prete 97

l’impiegato albanese con la difesa dell’Impero, che, peraltro, non conosceva, che non gli aveva portato alcun beneficio ed, anzi, gli avrebbe procurato molti guai, rovine e morti. Bisogna ritenere che il

Presidente della camera fascista albanese, per i suoi percorsi politici pregressi, per il suo grado di istruzione, non era a livello di uno zotico bey semianalfabeta; e quando faceva quelle gravi ed impegnative affermazioni in virtù delle quali il popolo albanese avrebbe dovuto identificare nell’Italia fascista una ragione propria e diretta, assoluta ed immediata della sua sorte, doveva essere certamente consapevole di interpretare la volontà e gli interessi del ristretto ceto dominante e non dell’intero popolo albanese. A meno che, nel delirio della fede cieca ed assoluta nel littorio, non avesse smarrito l’intelletto.

Tale discorso che accompagnava, manifestando entusiastico consenso, l’approvazione della clausola in forza della quale il popolo albanese assumeva l’obbligo di combattere in tutte le guerre dell’impero fascista, riveste una particolare importanza ai fini dell’indiscusso collaborazionismo del Tocci.

Egli, infatti, pur riconoscendo – come appare dagli appunti per l’autodifesa davanti al Tribunale del Popolo, resi noti dalla figlia – l’esistenza della “collaborazione”, si chiede se si è concretizzata in un delitto ai danni della patria; “se si è svolta con buona fede o non”.

Naturalmente la sua risposta è di avere agito in perfetta buona fede nell’interesse e non a danno del proprio Paese, facendogli trarre, durante l’occupazione, tutti i vantaggi possibili, trascurando del tutto tutta la sua azione e quella della camera fascista albanese e dell’intero Cassiano:La collina del prete 98

ceto dirigente filo-fascista, finalizzata a portare l’Albania nell’inferno della guerra.

“Dunque, dov’è il “dolo” elemento indispensabile per la costruzione e formazione del delitto? E poiché siamo in questo argomento, l’accusa che mi si fa, aggiungo: nessuno mi può accusare di antipatìa per la nazione inglese, poiché avrebbe dovuto accusarmi di ignorare il grande contributo che l’Inghilterra ha dato alla civilizzazione del mondo…”. Assume – contrariamente al vero – di essere indenne da colpe e di non rispondere a verità l’esistenza di un pregiudizio antinglese che determinava l’approvazione della guerra.

Ma tutti l’avevano ascoltato gridare, dallo scranno di presidente, ed i giornali l’avevano scritto, che una delle motivazioni della discesa in guerra, a fianco dell’Italia fascista, era il fatto che il popolo albanese, “col fraterno aiuto dell’Italia, si può dire si vendica contro l’Inghilterra e la Francia…(che)..durante la guerra balcanica hanno aiutato i nemici della nostra razza che volevano sopprimerci…”.

Comprende che la dichiarazione di accettazione della guerra, portata al voto della camera fascista, era un ostacolo difficile da superare; allora, ricorre all’ipotesi del patto internazionale da osservare: “avendo noi un legame col popolo italiano, e questo vincolo non essendo mai stato né denunciato, né svalutato, la legge relativa alla guerra (che doveva essere una colpa) non era altro che un atto che mandava in vigore la legge stessa”.

Il che era un volere forzare i fatti per piegarli a sostegno di una tesi inammissibile. In primo luogo, l’unione personale tra le due Cassiano:La collina del prete 99

corone – a prescindere che si trattava di una pura simulazione della colonizzazione – non imponeva la scelta della guerra, ma – secondo il verbale del 12 aprile 1939 della sedicente assemblea costituente –

“vincoli di una sempre più stretta solidarietà” con l’obbligo di stringere futuri “accordi ispirati a questa solidarietà”.

L’obbligo della guerra sicuramente non avrebbe potuto essere considerato, in nessun caso, e né qualificato come tipico e compreso in una politica, ispirata alla collaborazione bilaterale, avente come fine ultimo la solidarietà. La camera fascista albanese avrebbe pure potuto denunziare il pactum belli, che non rientrava nel principio della solidarietà, deliberando di non darvi esecuzione; tanto più che l’alleata Italia non era aggredita, ma era essa a dichiarare la guerra.

Sussisteva, quindi, una indubitabile gravissima responsabilità, consapevolmente assunta, dai componenti della camera fascista e dal suo presidente nell’approvazione della dichiarazione e nell’accettazione della guerra con la costrizione del popolo albanese a combattere e morire per la cosiddetta comunità imperiale.

Cassiano:La collina del prete 100

XI

Con la nomina alla presidenza del Consiglio Supremo Fascista,

Terenzio Tocci s’è venuto a trovare al centro del potere fascista in terra albanese e, quindi, a toccare con mano ed a vivere e sopportare il modo “coloniale” di esplicazione del potere. Sulla carta esistevano il governo e tutti gli altri organi di gestione dello Stato, ma, di fatto, tutti dipendevano da Roma, dal potere centrale, che, ad un certo momento, istituì un apposito Sottosegretariato per gli affari albanesi.

Non tardò il nostro ad esperimentare che la famosa politica di collaborazione e di solidarietà fra le due nazioni “sorelle” era solo una favola; la realtà vera era l’incipiente processo di snazionalizzazione e di colonizzazione. Il cosiddetto Statuto, che avrebbe dovuto costituire la legge fondamentale dell’unione delle corone, era puramente e semplicemente carta straccia. Di fatto, quindi, lo Stato albanese aveva cessato di esistere dal tempo dell’occupazione italiana.

L’Albania è diventata una riserva di caccia per abili trafficanti, per funzionari pubblici, italiani e albanesi, che rubano a man bassa; la corruzione è diffusa anche nelle alte sfere ex zoghiste ed ora fasciste; ogni ideale è scolorito o del tutto svanito. Da quanto si legge nel testo di Rita Tocci, che riporta ampi stralci degli scritti paterni, si comprende come non pochi funzionari del paese occupante, gerarchi o parenti di gerarchi o protetti da costoro, facevano “i loro comodi come se l’Albania fosse una colonia, vi erano alcuni che intendevano fare da padroni”. E cita alcuni casi esemplari, come il consigliere dei lavori pubblici che elargiva “con imperiale larghezza lotti e lotti di Cassiano:La collina del prete 101

terreno a centinaia di sudditi italiani…generali, ammiragli, dottori e professori ecc. . Non mancavano i nomi di ufficiali subalterni e di sottufficiali”. O il consigliere del ministero dell’industria che distribuiva concessioni minerarie e che, alle rimostranze delle commissioni delle finanze e dell’industria, oppose che quelle erano

“le direttive del Duce”.

Il Nostro non comprese o non volle comprendere che tutto questo sfasciume morale e politico aveva una sola origine: l’occupazione italiana dell’Albania, che aveva distrutto lo Stato albanese, creandovi una colonia di fatto, ed aveva consegnato il Paese a profittatori e traditori, interessati solo ai propri affari in danno degli interessi collettivi. Di conseguenza, a fronte di un ristretto nucleo di privilegiati, albanesi e italiani, la grande maggioranza della popolazione era costretta a soffrire e sopportare.

Al Tocci, pur costretto dalle oggettive contingenze a battere il muso contro la miriade di soprusi, concussioni, ruberie ed abusi vari, neppure passò per la testa che l’unico rimedio contro tanto degrado non era la costituzione di “qualcosa come il “Fronte della Corona”, cioè, arrestare l’opera di snazionalizzazione ed arrivare immediatamente al rispetto dello Statuto, che più tardi, dopo la guerra… si sarebbe riveduto”.

Era perfettamente inutile invocare il rispetto di uno strumento giuridico che – oltre a nascondere lo stato effettivo di colonizzazione – era stato imposto dallo stesso occupante. Non aveva, quindi, senso alcuno rifarsi allo Statuto; bisognava, invece, battersi per Cassiano:La collina del prete 102

l’indipendenza dell’Albania e non illudersi dietro le fole della politica di pretesa solidarietà da parte dell’Italia fascista. Possibile che il Tocci era tanto ingenuo da non capire che l’Italia fascista aveva occupato l’Albania per ragioni di sicurezza internazionale? Resta veramente assai difficile ammettere una simile ipotesi. Il fatto è che egli, invece di fare resistenza attiva o passiva, aveva scelto di adeguarsi all’occupazione ed era stato cooptato nelle alte sfere dirigenziali e, pour cause, aveva finito coll’abbracciare ciecamente la causa del littorio, mettendo nel dimenticatoio le sue origini mazziniane che gli avevano fatto scrivere, in altri tempi, parole come queste che ora sembravano bestemmie: “quando un popolo vuole essere libero non fa politica, ma guerra invece; non si raccomanda ai diplomatici, ma al proprio coraggio e se cade, risorge, purchè abbia fede nei suoi destini e da essa sappia trarre la forza e il coraggio che creano gli eroi”.

Quam mutatus ab illo!

Da fascista e da collaborazionista sui generis nutriva l’illusione che, nell’ambito dell’organizzazione fascista, avrebbe potuto muoversi con una certa autonomia e chiedere e pretendere di essere ascoltato dagli occupanti e dai loro servi del governo quisling per imporre un freno alle prevaricazioni dei colonizzatori. Era, né più e né meno, come pretendere che i ladri non rubassero.

Neppure ciò che era avvenuto subito dopo l’occupazione gli aveva fatto aprire gli occhi per fargli vedere la realtà della soggezione del proprio Paese, trattato come vinto e sottomesso, che, però, onde evitare colpi di mano e aiuto al nascente movimento partigiano – Cassiano:La collina del prete 103

ancora alquanto in difficoltà, ma destinato ad una rapida crescita – dovette subìre un severo sistema di rappresaglie indiscriminate e di illegali, feroci repressioni, secondo un piano particolareggiato studiato ed elaborato in vista della campagna albanese, ispirato al principio di recidere col terrore ogni possibilità di collegamento tra i gruppi partigiani, schierati in difesa dell’indipendenza nazionale, e la stragrande maggioranza della popolazione, fiancheggiatrice del movimento partigiano.

Solo quei politici skipetari, che avevano visto o vedevano nell’esercito italiano, anzi che un invasore, un “liberatore”, potevano veramente fare finta di non capire le modalità ed i termini di attuazione del progetto di occupazione: in un primo momento il piano prevedeva l’assoggettamento economico dell’Albania allo scopo di ridurla alla condizione di protettorato italiano ed, in un secondo momento, di vera e propria provincia italiana.

Proprio la finalità e la definizione ultima dell’operazione portarono le autorità italiane a progettare e poi adottare le suddette misure repressive contro ogni possibile e sospettabile manifestazione di resistenza, come le numerose fucilazioni illegali, l’arresto e la detenzione arbitrari, l’internamento in campi di concentramento in

Italia ed in Albania.

Un documento del servizio di informazioni militari, pubblicato nel testo La campagna di Grecia del generale Montanari, spiega in termini chiari il perché delle misure di repressione: “la propaganda a noi contraria…cerca di eccitare gli atavici istinti all’insurrezione…solo Cassiano:La collina del prete 104

il timore di immediate rappresaglie tiene a freno i mestatori albanesi.

Qualora essi si sentissero relativamente liberi di agire o, peggio, nostre disavventure militari risvegliassero gli istinti di rapina e di guerriglia della popolazione, sarebbe da attendersi l’immediata costituzione di bande che troverebbero largo aiuto in armi e munizioni…”.

Ben preso arrivarono le “disavventure militari” quando le truppe italiane furono respinte dal fronte greco e costrette all’arretramento. Allora, per contraccolpo, divenne difficoltoso il controllo dell’ordine pubblico all’interno dell’Albania. Anche se le milizie collaborazioniste abbandonarono l’esercito italiano, non per questo venne a cessare la repressione antipartigiana da parte delle forze di occupazione, la quale – come documenta l’archivio dell’ANPI – si attuò con massacri della popolazione, con incendio e distruzione di abitazioni e di villaggi, torture di prigionieri politici ed altre non meno ingiuste ed orribili forme.

Naturalmente più aspra e dura diventava la repressione nel momento in cui aumentava la pressione del movimento partigiano, che andava estendendosi in tutto il territorio nazionale ed esercitava un forte richiamo particolarmente sulle gioventù, ma trovava anche un appoggio decisivo nella popolazione.

La fucilazione del giovane Vasil Laci che, il 12 maggio 1941, aveva attentato a Vittorio Emanuele III, scatenò una forte ed impetuosa dimostrazione popolare, per le vie di Tirana, contro l’occupazione italiana. La successiva reazione delle truppe Cassiano:La collina del prete 105

d’occupazione, con il concorso delle milizie collaborazioniste e del governo quisling, fu portata a compimento attraverso rappresaglie pubbliche ed indiscriminate al fine di terrorizzare la popolazione e di ammonirla di non turbare ulteriormente l’ordine pubblico.

In seguito, proprio allo scopo di scoraggiare altre rivolte, il governo collaborazionista in collegamento con la Luogotenenza, eseguì una serie di indiscriminate e pubbliche impiccagioni, facendo fucilare diversi simpatizzanti e partigiani, aderenti al partito comunista albanese, presi prigionieri dai fascisti italo-albanesi.

Il governo presieduto dal collaborazionista Merlika Kruja, succeduto a Verlaci nel dicembre 1941, su precise indicazioni italiane e con il concorso delle forze occupanti, pianificò il sistema repressivo per tutto il territorio albanese con l’adozione dei metodi fascisti, usati nelle colonie africane.

Nelle città, come Valona, Fieri, Berat, Argirocastro, dove era cresciuto e fortificato il movimento partigiano, le milizie collaborazioniste di Kruja e le truppe italiane posero in atto numerosi e sanguinosi rastrellamenti, occupazioni e distruzioni di villaggi, arresti arbitrari, interrogatori seguiti da torture, dei supposti oppositori.

Tutti i villaggi della zona di Skrapari furono dapprima saccheggiati dei beni rinvenuti, poi incendiati e rasi al suolo. Un altro eccidio fu consumato da italiani e collaborazionisti albanesi a

“Mallakastra”, conosciuta come la Marzabotto albanese. Degli ottanta villaggi furono tutti rasi al suolo dall’artiglierie e dall’aviazione, con Cassiano:La collina del prete 106

centinaia di morti, in quattro giorni di combattimento, per il sospetto di essere luogo di rifugio delle truppe partigiane.

A Tirana, la caserma del viale regina Elena, oggi chiamata

Rruga Barrigades, divenne il simbolo dei luoghi delle torture, inflitte agli oppositori politici, inermi ed indifesi, e degli omicidi perpetrati contro gli stessi. Oltre quarantamila, tra civili e partigiani, furono arbitrariamente reclusi nelle prigioni o nei campi di concentramento. Molti partigiani, al fine di allontanarli dalla loro patria e per troncare ogni legame col movimento, furono deportati in Italia per essere carcerati nelle prigioni pugliesi o confinati a Ustica, Ventotene e

Lipari.

Furono ingenti i danni, in persone e cose, arrecati all’Albania dalla occupazione italiana, oggi esposti e sintetizzati nel Museo della Resistenza: 28.000 morti, 12.000 feriti, 43.000 deportati ed internati nei campi di concentramento, 61.000 abitazioni incendiate, 850 villaggi distrutti, 100.000 bestie razziate, centinaia di migliaia di alberi da frutto distrutti. I criminali di guerra italiani, inclusi nell’apposita lista delle Nazioni Unite, furono tre, ai quali vennero aggiunti altri 142 a richiesta del governo albanese. Ma nessuno fu mai processato per i gravi crimini contro l’umanità, perpetrati in Albania durante l’occupazione italiana.

Mentre accadevano tutti gli avvenimenti surriportati, nella stessa capitale Tirana avvenivano manifestazioni contro gli occupatori, seguite da pubbliche impiccagioni e fucilazioni, si eseguivano in tutto il territorio albanese repressioni e feroci Cassiano:La collina del prete 107

rappresaglie, il movimento partigiano si ingrossava e diventava rappresentativo dell’indipendenza e della libertà della nazione,

Terenzio Tocci dov’era? Egli era certamente a Tirana a presiedere il

Consiglio Corporativo Fascista e, per tale carica, sicuramente doveva essere a conoscenza che il popolo albanese, in tutte le parti del Paese, organizzava la resistenza contro gli invasori, e che, per neutralizzare il movimento patriottico partigiano, truppe italiane e collaborazionisti albanesi avevano pianificato la rete di repressione, che si attuava nel modo illegale e sanguinoso, come si è detto.

Non risulta da alcuna parte che egli avesse mai preso in considerazione le ragioni della stragrande maggioranza degli

Albanesi che manifestavano o lottavano, inquadrati nelle compagnie partigiane, contro l’occupazione italiana. Né che abbia – con l’autorità della sua alta carica – qualche volta vivacemente protestato o spiegato una qualche opposizione contro le illegali e incivili pubbliche impiccagioni, eseguite a Tirana, o contro le ricorrenti illegalità, perpetrate nella caserma-prigione di viale Elena di Tirana o contro il saccheggio e la distruzione di interi villaggi, incendiati e rasi al suolo.

Se egli fosse stato un collaborazionista in buona fede, come lo si vorrebbe fare apparire con addomesticate ricostruzioni degli avvenimenti, sicuramente di fronte agli evidenti crimini, perpetrati nel corso dell’occupazione italiana, non avrebbe potuto tacere. Invece, nulla vide – o non volle vedere - di quanto di drammatico accadeva sotto i suoi occhi; si consumavano eventi storici, che avrebbero sconvolto la geografia e la politica europea ed il Tocci ancora credeva Cassiano:La collina del prete 108

nell’unione delle corone, nella “Roma imperiale”, nella “fratellanza” italiana, proprio nel momento in cui avrebbe dovuto, per la forza prorompente degli avvenimenti, dei fatti e dei misfatti sperimentati, almeno – non dico, convertirsi al liberalismo – ma apportare una radicale correzione alle sue vedute politiche, senza aspettare che le sue ideologie ed i suoi miti si consumassero insieme alla fine inevitabile della cosiddetta potenza fascista – come ormai non era difficile intuire dal succedersi delle vicende internazionali e dal corso preso dagli avvenimenti bellici.

Il fatto che elevasse – sempre rispettosamente – qualche critica su disfunzioni amministrative e della condotta del governo fantoccio di Tirana, non è certamente sufficiente a collocarlo tra gli oppositori ed i contestatori del regime. Ciò perché egli, in effetti, propone e suggerisce l’adozione di rimedi per la “moralizzazione” del Paese, per il rafforzamento e consolidamento del regime, per la riuscita della

“rivoluzione nazionalista” ed il buon esito del cosiddetto ideale della fusione tra italiani e albanesi ed, in definitiva, della politica della Roma

Imperiale, “simbolo di un ciclo storico mondiale che riprende il suo corso”, com’era sua “ferma convinzione”, secondo quanto scriveva al Luogotenente Jacomoni il 31 marzo 1941, così esprimendo una convinzione politica basata sul nulla.

Eppure, non ci voleva molto per capire la realtà della colonizzazione da parte italiana, nascosta dietro la retorica della collaborazione tra due popoli, uniti dallo stesso destino. Già il modo frettoloso che aveva caratterizzato il passaggio all’unione delle Cassiano:La collina del prete 109

corone, avvenuto nell’arco di poco più di una settimana dalla occupazione, avrebbe dovuto costituire un campanello d’allarme. Ma l’atto successivo, posto in essere dalla Roma Imperiale con apposito regio decreto del 18 aprile 1939, in forza del quale veniva creato il

Sottosegretariato di Stato per gli affari albanesi (SSAA), rendeva esplicite le intenzioni degli occupatori. La creazione, infatti, del predetto Sottosegretariato, con sede in Roma, alle dipendenze dirette del Ministero degli Esteri italiano, segnò l’inizio di una serie di procedimenti in contrasto con l’affermazione dell’indipendenza albanese, più volte ipocritamente affermata dal governo italiano.

Da rilevare, inoltre, che il decreto di istituzione del nuovo organo non vide la partecipazione, nella fase della stesura, di nessun membro o rappresentate del governo albanese: questo spiega il mancato inserimento del decreto, come pure la legge di assunzione della corona d’Albania da parte di Vittorio Emanuele, nella legislazione albanese.

A fare nascere i dubbi sulla vera natura giuridica dell’unione fra i due Paesi, concorreva, in aggiunta, anche la circostanza oggettiva che il nuovo organo era modellato sul Sottosegretariato del Ministero dell’Africa italiana.

Fu l’Italia occupante a creare, con propria legge (13.7.1939, n.

1103), ed istituire a Tirana, la Luogotenenza generale, i cui servizi centrali e periferici furono demandati alla regolamentazione del

Ministero degli esteri italiano. Così la costituzione di un organo costituzionalmente rilevante e di primaria importanza, come la Cassiano:La collina del prete 110

Luogotenenza generale del re in Albania, restò una decisione solo ed esclusivamente italiana perché non vennero mai approvate e promulgate analoghe leggi albanesi per la nomina del Luogotenente e per l’istituzione della Luogotenenza. Per conseguenza, sotto il profilo giuridico, anche la Luogotenenza, del cui titolare la nomina era riservata al re, era nient’altro che organo dello Stato italiano, e fungeva da strumento di controllo politico sull’Albania. Ulteriore strumento di controllo fu l’istituzione – il 2 giugno

1939 – del partito fascista albanese, unico ammesso, totalmente subordinato all’italiano partito nazionale fascista, come chiaramente emerge dalla nota, posta a premessa dello statuto del nuovo partito, esplicitamente definito “non autoctono, né autonomo, ma filiazione del partito nazionale fascista”. La sua natura era sancita come “milizia civile volontaria agli ordini di Benito Mussolini, creatore e duce del fascismo”, il quale impartiva le sue disposizioni al segretario del partito fascista albanese attraverso il segretario nazionale del PNF, che era rappresentato – presso il partito albanese – da un ispettore del partito italiano, coadiuvato da un segretario federale e da due ispettori federali del PNF.

Soltanto chi vagava tra le nuvole, dunque, e non chi aveva i piedi ben piantati per terra, avrebbe potuto credere alla favola ingannatrice, reiteratamente recitata dalle autorità dello Stato invasore, dell’esistenza dello stato albanese, libero e indipendente.

Cassiano:La collina del prete 111

XII

Terenzio Tocci, ormai inserito tra le alte gerarchie fasciste albanesi, non dava molto affidamento ai padroni di Roma. Sia

Ciano che il duce ne avevano un fastidio quasi fisico; più volte rifiutarono di riceverlo.

E certamente ragioni v’erano per diffidare del Nostro: egli continuamente interveniva – sia verbalmente con il Luogotenente che inviando a Roma promemoria e memorandum – al fine di correggere errori, modificare la condotta dei funzionari italiani in Albania per non irritare gli albanesi, eliminare gli abusi particolarmente nei lavori pubblici, arrestare l’azione di completa fascistizzazione.

Questi rilievi e osservazioni – fatti dal Presidente del Consiglio

Corporativo, sicuramente nell’interesse complessivo del regime – irritavano , e di molto, le autorità romane, che non sopportavano alcuna critica, anche proveniente dall’interno dell’organizzazione.

Tocci, che era un nazionalista che aveva condiviso con convinzione l’unione delle due corone, riteneva che lo Statuto dovesse essere osservato alla lettera; non si era per nulla reso conto del carattere formale e strumentale attribuito allo Statuto dalla dirigenza fascista per simulare l’occupazione.

Perciò, mentre Roma o chi per essa – nel caso la Luogotenenza del re – parlava soltanto la lingua del dominio coloniale, il Presidente del Consiglio Corporativo – che andava ritagliandosi un proprio spazio politico – non l’intendeva o, comunque, fingeva di non intenderla e riteneva di potere conferire alla pari con le pompose Cassiano:La collina del prete 112

gerarchie romane o addirittura con lo stesso duce. Avvertendo che le sue osservazioni non erano prese in considerazione, punto nel proprio orgoglio, nell’autunno del 1941, in piena crisi greca, si recò a

Roma con un memoriale di dieci pagine per essere ricevuto da

Mussolini.

Già il marchingegno, a cui dovette ricorrere, denota il grado di corruzione nelle gerarchie del regime fascista. Conviene leggere il resoconto del Tocci. “ Andai, dunque, a Roma, temendo che non si volesse sapere la verità o che per lo meno non piacesse udirla da me, regalai alcune migliaia di lire a persona che promise di fare giungere il mio plico al Duce. E pare che quel denaro non sia stato speso invano… almeno per quanto riguardasse il recapito, perché a onor del vero, il mattino del 13 gennaio 1941, Mussolini mi ricevette in presenza di Ciano. (Per la moralità dei tempi: la persona che, dietro compenso lauto, faceva avere al padrone d’Italia i lamenti dei poveri negri, era una spia di Ciano!)”.

Le considerazioni del Tocci sul colloquio e le sue impressioni inclinano al pessimismo per l’avvenire. Testimoniano di una crisi incipiente di fiducia nel fascismo. “Quando me ne tornavo all’albergo – scrive il Tocci – pensai: tutto questo tempo è perduto. E a dire il vero, quelle tali migliaia di lire non mi vennero affatto in mente, tanto mi preoccupavano l’aspetto del Duce e molti dubbi sull’avvenire dell’Albania che, secondo me, – in quell’ora – non poteva essere guidata dal Duce – uomo ingannato, tradito e privo di Cassiano:La collina del prete 113

quella salute che è tanto necessaria a chi troppo concentra nelle sue mani”.

Dunque, l’Albania “non poteva essere guidata dal Duce”. Qui è concentrato tutto il disegno politico segreto del Tocci e la chiave di volta per capire i successivi sviluppi. Per tutta l’esperienza accumulata, per la conoscenza di uomini e cose, vizi privati e pubbliche virtù degli stracci umani che lo circondavano, Tocci perviene alla conclusione che, in Albania, era necessario un profondo e radicale mutamento. Non di regime, ma di uomini dello stesso regime. Si trattava naturalmente di un processo che avrebbe avuto un percorso tormentato, ma che pure bisognava tentare con tutte le cautele e le riserve del caso.

I tempi per iniziare l’attuazione di tale progetto sembrarono maturi nell’autunno del ’42, quando anche le sorti della guerra erano, più o meno, compromesse ed in Albania, nonostante la feroce rete repressiva predisposta dalle truppe occupanti e da quelle collaborazioniste, dilagava ormai il movimento partigiano, che non era fatto solo da comunisti, ma anche di nazionalisti del Balli

Kombetar. Dalle notizie, fornite dalla figlia, si deve ritenere che il Tocci, già in tale epoca, soleva tenere riunioni private con la maggioranza dei deputati per uno scambio di opinioni sulla situazione del Paese.

Una di tali riunioni private avvenne nel novembre 1942, “…quando – scrive il Tocci – il mio disgusto era al colmo e scrissi ufficialmente alla

Luogotenenza che la situazione giorno per giorno peggiorava in Cassiano:La collina del prete 114

maniera assai pericolosa, che il fratricidio ci avrebbe sterminati, che occorrevano misure che punissero i latrocini e gli abusi, che una distensione degli animi in rivolta poteva essere ottenuta con giustizia e nuovi sistemi amministrativi, poiché gli abusi erano ormai un sistema del regime, che gli avversari dovevano essere perseguitati legalmente e non con le torture; che pertanto non era possibile per me proseguire nelle funzioni di Presidente della Camera Corporativa in tale situazione. Per risposta ebbi alcune minacce che aderivano perfettamente alla teatrale mentalità dei gerarchi fascisti; e fra l’altro uno mi disse che il mio ritiro sarebbe stato interpretato a Roma come una manifestazione antifascista”.

Com’è assai chiaro, Tocci idealmente era ormai fuori dal fascismo; era un collaborazionista pentito, che stava studiando, insieme ad altri, allo stato ignoti, come uscire, gradualmente, da un governo quisling, assolutamente prono ai voleri di Roma, per poterne costituire un altro, idoneo a porre fine alla guerra civile ed all’esercizio reiterato della manifesta illegalità.

I deputati, suoi amici, che egli convocava per private riunioni, dovevano costituire il nerbo di quella formazione politica, detta “partito della Corona”, che, senza mettere in discussione l’assetto del regime, avrebbe dovuto dare uno sbocco politico nuovo all’Albania al fine di uscire dalla guerra civile con un governo di “concentrazione nazionale e di fiducia popolare”, che, in seguito, avrebbe sicuramente avuto altri sviluppi. Cassiano:La collina del prete 115

Per non destare i sospetti della Luogotenenza, sembrò

“prudente tattica” quella di affidare allo stesso Tocci, nella qualità di

Presidente del Consiglio Corporativo, l’incarico di recarsi “in udienza speciale” presso il Luogotenente per proporre misure idonee per evitare ulteriori abusi, furti, discordie, il protrarsi del fratricidio, e per chiedere “un governo di concentrazione nazionale e di fiducia popolare”. Ma “due dei “camerati” – che avevano preso parte alla riunione – non tennero chiuso il becco; “volarono alla Luogotenenza per annunziare che il parlamento affilava le armi per una rivoluzione!

Effettivamente nella modesta sala della Camera di Tirana era palpitata qualcosa come nella Pallacorda di Versailles (mia la sottolineatura)…ma noi non domandavamo la Costituzione, invece chiedevamo che si rispettasse la Costituzione e non ci si ritenesse svincolati dalla fedeltà al Re”.

Il Tocci si faceva soverchie illusioni. Ciò che riuscirà ai gerarchi fascisti nel Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio 1943, non sarebbe potuto riuscire a lui ed ai suoi amici del “partito della Corona”, alla periferia del cosiddetto impero, privi di alte protezioni e di appoggi popolari, in un povero paese popolato da spie assoldate e da traditori prezzolati. Congiurati – come effettivamente erano - furono facilmente scoperti e neutralizzati. Tocci, la mattina del 24 nov. 1942, mentre si preparava per recarsi alla camera fascista, apprese dalla radio che aveva dato le dimissioni e che erano state accettate. Altri furono costretti pure alle dimissioni; qualcuno fu arrestato. Cassiano:La collina del prete 116

Il professore Alessandro Serra, ufficiale dell’esercito italiano di stanza a Tirana ed amico del Tocci, ricorda, in un suo libro di memorie, che l’ex Luogotenente, Francesco Jacomoni, da lui appositamente interpellato, gli riferì che – relativamente al dimissionamento del Tocci – “si trattava di un ordine che giunse da

Roma”.

Finalmente, il Nostro deve prendere atto che la politica delle due nazioni sorelle è stata smentita dalla prassi. Al nuovo

Luogotenente, generale Pariani, succeduto a Jacomoni, in un colloquio avuto alla vigilia dell’armistizio dell’8 settembre ’43, confesserà che “raccomando da oltre un anno a tutti di “separarci signorilmente” dagli italiani onde poter vivere da buoni vicini nel futuro”. L’8 settembre segnò anche la fine dell’Unione italo-albanese.

Dopo tale data si accentuarono, da parte della popolazione albanese, tutti quei segnali di opposizione all’occupazione italiana, già evidenti fin dall’aprile 1939, con dimostrazioni, boicottaggi. Anche il movimento comunista, trasformatosi dal novembre 1941 in partito comunista, promosse alcune manifestazioni. Un movimento per un certo periodo incerto ed ambiguo fu il

Balli Kombetar (Fronte Nazionale), costituito nel 1942, nazionalista e conservatore, il quale inizialmente aderì al movimento partigiano e tentò un accordo con il partito comunista con fini antitaliani; successivamente si accordò con le autorità italiane per combattere i comunisti albanesi ed, infine, addirittura arrivò fino alla Cassiano:La collina del prete 117

collaborazione con le forze di occupazione tedesche, con fini antitaliani ed anticomunisti.

La maggioranza dei soldati italiani, sbandati perché lasciati senza direttive da Roma, fu fatta prigioniera dai tedeschi ed avviata verso i campi di concentramento tedeschi sparsi in Europa. Una parte delle forze armate italiane decise di reagire contro i tedeschi e affiancò il movimento partigiano, dando vita, fin dal 16 settembre ’43, al Comando italiano truppe della montagna, inquadrato nell’esercito di liberazione nazionale albanese. Tale Comando fu, poi, sostituito, dopo il giugno ’44, dal Comando truppe italiane d’Albania. Molti soldati italiani decisero di entrare a fare parte delle formazioni partigiane albanesi, costituendo dei reparti autonomi, di cui il più famoso è il

Battaglione Gramsci. Lo stato d’animo del Tocci nel periodo tra l’occupazione nazista di Tirana e l’arrivo delle milizie partigiane, è evidenziato dallo stesso Tocci in una lettera al francescano Paolo Dodaj, in cui afferma di sentirsi “oppresso, perduto, disorientato come un uomo in alto mare senza nemmeno la tradizionale tavola di salvataggio…sono sotto il pieno dominio di preoccupazioni che confinano con la disperazione”.

Il suo progetto politico di dare vita ad un governo di concentrazione nazionale era evidentemente e definitivamente fallito.

La sua effettivamente era una situazione oggettivamente difficile e che si prestava anche ad interpretazioni superficiali. Sentiva, certo, il peso della sua responsabilità – il francescano Paolo Dodaj gli aveva Cassiano:La collina del prete 118

chiesto se fosse “perseguitato da una crisi di coscienza” – per avere ricoperto l’incarico di Presidente del Consiglio Corporativo Fascista, ma riteneva di essersi riscattato, denunziando gli abusi del regime, chiedendo un nuovo governo sostenuto dal consenso popolare e, infine, pagando il prezzo delle sue scelte con la destituzione.

Come avrebbe potuto intervenire nella realtà politica albanese, dopo la definitiva sconfitta dell’Asse? Inservibili ed inadeguate tutte le vecchie ideologie, aveva intuìto che la battaglia politica si sarebbe imperniata sulle grandi formazioni politiche con programmi di riforme radicali nell’economia e nelle strutture delle istituzioni pubbliche. Tocci ritorna, così, alle sue origini repubblicane; convoca alcuni “dei pochissimi” amici rimastigli, e consiglia la fondazione del

“Partito Repubblicano Popolare Albanese”. Il programma è ultrademocratico: repubblica popolare con suffragio uninominale diretto. “Riforma agraria portata fino all’osso in base al principio che nessuno possa possedere terre se non le coltiva direttamente o come direttore-amministratore di aziende agricole; limitazione della ricchezza nei possessi urbani in modo che nessuna casa possa rendere più del cinque per cento annuo netto; semplificazione dell’organizzazione statale e avviamento dei funzionari governativi superflui all’agricoltura; assistenza massima alla classe agricola con concomitante programma di disurbanizzazione; libertà completa di stampa, di parola e di organizzazione, quando tale libertà non manchi di rispetto alle religioni ed alla loro morale; punizione con pena severa per tutti i Cassiano:La collina del prete 119

funzionari statali che dolosamente si sottraggono al loro dovere; elevazione della a Istituto Nazionale messo sotto la protezione dello Statuto fondamentale della Repubblica”.

Era un programma – parzialmente demagogico e adeguato alla situazione sociale, politica e culturale albanese – che non andò oltre l’enunciazione. Non si hanno notizie che amici o sodali del Tocci abbiano dato vita – o, almeno, tentato – ad una simile formazione politica. Nel caos della guerra civile tra movimento riformatore, ampiamente egemonizzato dai comunisti, e nazionalisti conservatori, la nuova formazione politica non trovava un proprio spazio o, quanto meno, ci sarebbe voluto un bel po’ di tempo per crearsene uno. E, poi, con quel programma, socialmente spinto, non avrebbe potuto che collocarsi a sinistra. Ma, a sinistra, sarebbe stato schiacciato dalla concorrenza del partito comunista, che aveva un suo radicamento sociale e – allora, nel momento dell’utopia – poteva contare anche su intellettuali progressisti e democratici di notevole prestigio, come il poeta e scrittore Seifulla Maleshova, successivamente isolato dall’integralismo dogmatico comunista e destinato a finire i suoi giorni, nel 1970, nel confino di Fieri. Tocci era consapevole che l’unica uscita di sicurezza, nella situazione data, non era quella di scappare clandestinamente e di mettersi eroicamente in salvo, come avevano fatto tanti ex zoghisti o nazionalisti collaborazionisti. Egli riteneva, invece, che, anche nelle mutate condizioni politiche del dopoguerra, avrebbe potuto avere voce in capitolo e fare valere le sue carte contrariamente a quel che, Cassiano:La collina del prete 120

invece, le apparenze facevano intravedere, presentandolo come esponente del vecchio regime da buttare via o da mettere fuori servizio. Egli, invece, riteneva di avere benemeritato dalla patria perché, nel momento in cui i vecchi gruppi dirigenti del notabilato albanese si erano umiliati e messi al servizio degli occupanti, aveva tentato di frenare il processo di snazionalizzazione servendosi della carica di presidente del Consiglio Corporativo fascista ed aveva pagato di persona.

Era, perciò, convinto che i nuovi gruppi dirigenti avrebbero riconosciuto i suoi meriti oggettivi e, probabilmente, gliene avevano già dato atto in separati pourparlers. Aveva maturato una così ferma convinzione in proposito che, reiteratamente, rifiutò di scappare.

Secondo il racconto della figlia – che non v’è motivo di disattendere - un “capo partigiano” – “uno di quelli che non riescono a rendere nemico anche il cuore” – gli aveva mandato a dire, attraverso il siculo-albanese Gaetano Petrotta, amico del Tocci e frequentatore della sua casa, di cercare di mettersi in salvo perché il “tribunale dei partigiani” aveva deciso la sua condanna alla pena capitale. Ma niente da fare: il Tocci non si mosse di casa. Successivamente, proprio alla vigilia dell’ingresso dei partigiani a Tirana (17 novembre 1944), si rifece vivo Gaetano Petrotta che, sempre a nome dell’innominato “capo partigiano”, gli rinnovava l’invito di farsi uccel di bosco, avvertendolo, altresì, delle non proprio benevoli intenzioni nei suoi confronti da parte del movimento partigiano. Anche questa volta Tocci fu irremovibile. Nemmeno i Cassiano:La collina del prete 121

pianti e le accorate preghiere della moglie e della figlia valsero a fargli mutare opinione. Perché? La domanda richiede una spiegazione che non sia di fantasia, ma razionale.

Il Nostro non era, certamente, un idealista, capace – come

Socrate – di sacrificarsi per testimoniare i propri convincimenti su valori fondamentali della vita. Egli, invece, da esperto politico doveva sapere – e di sicuro, ne aveva la consapevolezza – che l’egemonia, oramai chiaramente delineatasi, del movimento partigiano, significava l’egemonia del partito comunista albanese ed, in tale contesto, in teoria non poteva essere – al minimo - che emarginato, se non proprio punito come ex collaborazionista. Non poteva, inoltre, non essere a conoscenza che, dopo l’approvazione della Carta

Atlantica dell’11 agosto 1941, la guerra contro i paesi dell’Asse acquistava progressivamente e nettamente un carattere di guerra ideologica contro il nazismo e contro il fascismo. Ed egli, come si è già sottolineato, non si considerava fascista, anche se aveva sostenuto il fascismo.

E, allora, perché non scappò?

Naturalmente, allo stato, si può avanzare qualche ipotesi, avvalorata proprio dal suo comportamento. Quando bussarono i partigiani alla sua porta di casa – riferisce la figlia – Tocci uscì in questa espressione :

“almeno con questi ci capiremo” e obbedì all’invito di seguirli al

Comando per dare alcune spiegazioni. Non era, quindi, affatto preoccupato che potesse essere arrestato come criminale di guerra. La circostanza deve fare arguire l’esistenza di un pregresso accordo con Cassiano:La collina del prete 122

alcuni rappresentanti del movimento partigiano, che egli, per la delicatezza della cosa, doveva tenere ben segreta anche agli stessi amici e famigliari.

Per questo motivo non intese scappare e seguì i partigiani al

Comando per dare “alcune spiegazioni”. Dopo di che sarebbe stato libero. Tanto era avvenuto, del resto, anche con altri ex collaborazionisti non solo dei fascisti, ma dei nazisti, come lo stesso Tocci non trascurerà di rilevare nelle note per l’autodifesa, osservando che “abbiamo migliaia di persone che hanno collaborato con l’occupazione fino all’ultima ora, anzi passando dalle file fasciste a quelle naziste. Perciò l’amnistia ha avuto ampia interpretazione ed applicazione”.

Non si può ritenere Terenzio Tocci così sprovveduto ed ingenuo da attendere a mani giunte nella sua casa i partigiani. In precedenza, nella transizione dal regime zoghista, egli aveva saputo tessere la tela delle sue amicizie politiche, restando ben a galla, anche come ex ministro ed amico personale del deposto sovrano. Era riuscito, in seguito, nel regime fascista, imposto all’Albania con le armi, a farsi attribuire un incarico istituzionale assai rilevante. Aveva, quindi, sempre diligentemente e pragmaticamente predisposto la sua personale transizione da un regime all’altro, per nulla curandosi delle ideologie o di quella specificamente e pubblicamente professata nel periodo precedente. L’ideologia è da lui considerata strumentale rispetto al potere; conseguentemente, ciò che conta è il potere, per la cui ricerca si ricorre all’ideologia. Cassiano:La collina del prete 123

Anche con il movimento partigiano aveva evidentemente usato lo stesso metodo e doveva avere avuto assicurazioni tali sulla sua salvezza da convincerlo a non muoversi di casa. Egli era, peraltro, sul piano delle rivendicazioni sociali schierato su posizioni di estrema sinistra, come evidenziava la bozza programmatica del partito repubblicano popolare e come – più e meglio – si espliciterà nella richiamata nota per l’autodifesa, nella quale esalterà il ribaltamento di regime in Albania come “una rivoluzione grandiosa, vittoriosa come la vostra, che ha dato alla gioventù un nuovo respiro, che creando una nuova atmosfera, ha sotterrato il feudalesimo, piaga di questo povero popolo, ma ora si fermi..una rivoluzione trionfatrice demolisce, stritola, spiana per abbozzare ed innalzare la sua costruzione. Ma un simile metodo di agire, vivo, dinamico, galvanizzante, si ferma alla porta di alcuni principii che hanno la loro sorgente nella natura…”.

Per essere stato arrestato al Comando e portato al giudizio del

“tribunale dei partigiani”, qualcosa non ha funzionato. E’ impossibile sapere che cosa. Le carte non parlano ed i protagonisti di quella tragedia sono morti, quasi tutti, di morte violenta. E’ certo, però, che il partito comunista albanese, pur diviso in varie correnti, nella conferenza di Labinot del marzo 1943, non aveva disdegnato di sollecitare e di ricercare la collaborazione dei nazionalisti in vista dell’insurrezione generale, partendo dal dato di fatto che buona parte di essi, soprattutto rappresentanti della media borghesia, s’erano schierati o stavano per schierarsi con il Fronte di Liberazione

Nazionale; altri si mantenevano neutrali. Solo quei gruppi di Cassiano:La collina del prete 124

nazionalisti che rappresentavano gli interessi della borghesia reazionaria e dei latifondisti, erano schierati col Balli Kombetar, mentre pochi di loro stavano in disparte in attesa dello sviluppo degli eventi.

Addirittura, nella richiamata Conferenza, furono ripresi e criticati quegli atteggiamenti di impazienza e la mancanza di tatto di alcuni singoli comunisti e di alcune organizzazioni nei riguardi dei nazionalisti titubanti o tentennanti o neutrali e di quelli che facevano parte del Balli Kombetar.

La Conferenza deliberò esplicitamente di dare prova di pazienza nell’intento di realizzare l’unione e la collaborazione con i nazionalisti. Anzi, i comunisti furono incaricati di lavorare instancabilmente per portare dalla loro parte tutti colono che erano all’opposizione, anche con quelli che erano recalcitranti, al fine di convincerli e di farseli alleati, fossero pure instabili. Non deve, quindi, meravigliare che anche il Tocci – anzi, soprattutto uno come lui, noto e con influenza su certa opinione pubblica – fosse avvicinato da elementi della dirigenza partigiana ed avesse con loro concordato le modalità ed i termini dell’alleanza o, meglio, del sostegno al nuovo potere politico. Qualcosa in seguito non andò per il verso giusto.

L’impressione è che i precedenti politici del Nostro siano stati valutati in modo unilaterale da qualche frazione del partito comunista ed abbiano costituito oggetto di scontri interni, facendo prevalere la linea più intransigente che vedeva nel Tocci, soltanto ed unicamente, il fascista ex presidente del Consiglio Corporativo, senza valutarne la Cassiano:La collina del prete 125

singolare e multiforme personalità, che, invece, andava approfondita per una reale ed oggettiva conoscenza dell’uomo e del politico. Del resto, la posizione dei comunisti albanesi, come si è sottolineato, mirava al recupero dei nazionalisti, che solitamente rappresentavano la piccola e media borghesia e, cioè, una consistente e rilevante fetta della popolazione.

Cosa sia accaduto, come e perché sia avvenuto, non è dato sapere nei termini reali per la carenza delle fonti. Però, è realmente accaduto; se ne ha una riprova nella più volte citata nota per l’autodifesa, nella quale il Tocci individua la fonte delle infondate

“accuse ordite presso gli organi della giustizia contro di me”. Chi sono costoro? Essi sono “persone che non sanno i fatti” oppure “li hanno visti o li vedono da un punto di vista soggettivo, avvelenato da un odio cieco”. Per conseguenza, solo persone che ignoravano i termini della rottura reale tra Tocci ed il fascismo avrebbero potuto formulare le accuse o, se non li ignoravano, soltanto sentimenti di odio nei suoi confronti ne sarebbero stati alla base.

Spiega il Tocci analiticamente la presa di distanza dal fascismo con queste motivazioni: “1) si facevano persecuzioni senza pietà, trasgredendo ogni limite legale; 2) le ruberie ed il contrabbando impoverivano il popolo; 3) lo Stato albanese, attraverso i due delitti soprannominati, andava verso la scomparsa anche per la politica personale di Mustafà Kruja. Faccio rilevare che queste cose le avevo messe in luce più dì una volta e soprattutto nell’agosto 1942 e che le dimissioni decise nell’agosto 1942 e date nell’ottobre dello stesso Cassiano:La collina del prete 126

anno, mi sono state accettate dal giornale Tomori, volendo con questo sistema fascista punirmi pubblicamente con pesante dileggio. Ma per coloro che ricordano e che simboleggiano gli avvenimenti, bisogna ricordare che la risposta l’ha data la gioventù albanese che il giorno della bandiera (28 novembre) ha atteso le massime autorità nella piazza Skandebeg con fischi, mentre acclamava il mio nome”.

Ricorda ancora di essersi dimesso quando “l’Italia era forte ed insieme alla Germania combatteva…perciò il mio allontanamento dalla politica con eco insurrezionale, aveva un valore ed era un grande e nobile dono all’altare della patria, perché se l’asse italo- tedesco non avesse perso la guerra, sulla mia testa sarebbe passata la macchina fascista con tutto il suo peso, per uccidermi fisicamente e moralmente. Ma queste cose le avevo tenute presenti quando diedi le dimissioni e le avevo… valutate nel mio cuore, quando riunii la

Camera che doveva presenziare ad una conferenza di Mustafà Kruja, in silenzio, nel lutto, per protesta contro le malvagità del Partito e di

Mustafà Kruja che segnavano l’apice della criminalità politica ed amministrativa. Ricordi questo popolo ingannato e troppo fiducioso che alcuni deputati scomparvero, non diedero le dimissioni e sulla mia ribellione stesero i panni neri dell’egoismo, del cinismo e della paura”.

Tocci aveva maturato la fondata convinzione che, dopo l’allontanamento dalla Presidenza del Consiglio Corporativo ed il tentativo di fondare o di contribuire alla costituzione di un governo di transizione verso un sistema democratico ed avere definitivamente Cassiano:La collina del prete 127

abbandonato il fascismo, i successivi rapporti con elementi della

Resistenza, lo avessero definitivamente riscattato dal suo recentissimo passato e reso immune da risvolti giudiziari. Definita e chiarita nei termini sopra delineati, la sua posizione, egli riteneva che fosse provata la insussistenza di ogni sua qualsivoglia responsabilità nei crimini, consumati dai fascisti e dal governo fantoccio ai danni della collettività o che, in ogni caso, restava provata la sua assoluta buona fede.

Tragico errore – si deve constatare post factum – che gli costerà la vita ed un imbarazzato silenzio sulla sua fine. La sua immagine è restata offuscata da una singolare anomalia: i fascisti ed “alcuni imperialisti impazziti ed ignoranti d’Italia” lo considerarono un traditore ed un voltagabbana, perché aveva denunciato i crimini del fascismo albano-italico; gli antifascisti non riuscirono a dimenticare il ruolo fondamentale, esercitato da lui durante l’occupazione del 1939 e successivamente, almeno fino al 1942.

Cassiano:La collina del prete 128

Note bibliografiche

Per lo scritto di G. Meyer, cfr.: G. Meyer, Della lingua e della Letteratura

Albanese, in “Nuova Antologia”, vol. L, serie II, 15 aprile 1885, in cui l’Autore, dopo avere osservato che nel testo di N. Camarda (Gli scrittori Albanesi dell’Italia

Meridionale, Palermo, 1867) il materiale raccolto è più completo che nel testo di G.

Stier (Die Albanesen in Italien und libre literatur, pubblicato nel Periodico Mensile

Universale nell’anno 1853, pp. 864-874), traccia, fra l’altro, per non parlare di Giulio

Varibbobba o di Antonio Santori o di “altri, le cui opere o non furono mai stampate, o io non ebbi innanzi agli occhi”, una sintesi delle opere poetiche del de’ Rada, osservando che “egli ricevette l’impulso dalle canzoni popolari come vengono presentemente cantate fra i suoi connazionali, e nelle sue poesie cercò di adottare la forma di questa poesia popolare per la poesia artistica. Secondo il suo parere esistono fra gli Albanesi della sua patria tali cicli di canzoni, quali dalle ricerche scientifiche sono posti come prolegomeni e fondamentali delle poesie omeriche e di altre più antiche epopee. Più tardi, nel 1866, egli pubblicò quei canti popolari albanesi, intitolandoli Rapsodie di un poema albanese…La figura del de’ Rada ha qualcosa di commovente, quel vecchio colpito ultimamente dalla morte di tutti i suoi discendenti diretti e laterali, non si stanca di combattere con la parola e con la penna per la sua nazionalità…”.

Giuseppe de’ Rada, figlio del poeta Girolamo, nato nel 1852 e deceduto il

1883, aveva sposato la signora Maria Rosa Tocci di S. Cosmo, sorella dell’On.le

Guglielmo Tocci; aveva pubblicato nel 1871 una grammatica albanese, ristampata nel 1965 (cfr. G. de’ Rada, Grammatica della lingua albanese, a cura del figlio dell’Autore Girolamo de’ Rada junior, Cosenza, 1965 (ed. MIT). Lasciò manoscritti Cassiano:La collina del prete 129

alcuni sonetti ed alcune altre poesie, pubblicate nel 1965 (cfr. Giuseppe de’ Rada,

Opere, a cura Girolamo de’ Rada Junior e V. Selvaggi, Cosenza (ed. MIT), 1965.

Francesco Antonio Santori era nato a S. Caterina Albanese da umili genitori il 16 settembre 1819. Il suo nome di battesimo era Francesco Paolo, che mutò in Francesco Antonio quando fu ordinato sacerdote nel convento francescano di S. Marco Argentano. Ebbe fama di predicatore; nel 1858, tenne un quaresimale a

Napoli. Abbandonò- non si sa per quale motivo - la vita monastica per ritirarsi nel

1860 nel paese natìo. Successivamente, nel 1875, fu nominato parroco di S. Giacomo di Cerzeto, ove morì il 7 settembre 1894. In vita, pubblicò solo Il Canzoniere Albanese ed Il Prigioniero politico (1848). Lasciò un considerevole numero di opere manoscritte, alcune delle quali pubblicate recentemente ( cfr. F. A. Santori, Tre

Novelle, a cura di I. C. Fortino, Carmine Stamile, Ernesto Tocci, Cosenza (ed.

Brenner), 1985; Id. Brisandi, Lletixhia e Ulladheni, a cura di I. C. Fortino, Cosenza (ed.

Brenner), 1977; Id., Panaini e Dellja – Femija pushtjerote, a cura di G. Gradilone, Roma,

1979; Id. Satirat, in “Studime filologjike; Tirana, 1982, a cura di Carmelo Candreva e

Gjovalin Shkurtaj; Id. Un saggio inedio di F. A. Santori sulla lingua alanese e i suoi dialetti, a cura di F. Altimari, Cosenza, 1982, Id. Alessio Ducagino, 1984, a cura di F.

Solano; Id., Emira, Grottaferrata, 1984, a ura di F: Solano ). Il Canzoniere Albanese è stato ristampato a cura di F. Solano (Ed. Quaderni di “Zjarri) nel 1975.

Domenico Antonio Marchese era nato a Macchia Albanese il 1° dicembre

1879 da Pietro, fratello di Francesco Saverio, e da Marianna Cunari. Studiò nel

Collegio di S. Adriano. Si iscrisse in giurisprudenza presso l’Università di Napoli, senza conseguirvi la laurea. Partecipò ai congressi linguistici di Corigliano Calabro Cassiano:La collina del prete 130

e di Lungro. Pubblicò i testi di poesia: Merii (Tristezza), Corigliano Calabro (tip. del

Popolano), 1898, con la traduzione in italiano; Rrympa (Raggi), Corigliano Calabro

(tip. del Popolano), 1900; Liufa e Male ( Pugne e amori) – Poesie albanesi – Corigliano

Calabro (tip. del Popolano), 1915; ed altri componimenti poetici su riviste varie.

Prese parte alla prima guerra mondiale col grado di tenente. Nel 1910, aveva sposato Emilia Tocci di Vaccarizzo Albanese, figlia di Domenico Antonio Tocci, dalla quale ebbe tre figli: Pierina, morta giovanissima di malaria; Samuele, studente universitario di Lettere, morto nella seconda guerra mondiale nel fronte jugoslavo il

18.7.1942 e sepolto a Novo Merto, Lubiana; Leopoldo, professore di Lettere e poi

Preside, trasferitosi in Nicastro. Nel 1919, fu incaricato dell’insegnamento della lingua e letteratura albanese nel Collegio di S. Adriano. Nel 1921, seguendo le grandi correnti migratorie dal Sud d’Italia, emigrò in Argentina e da qui passò al

Perù, dove morì, per attacco cardiaco, a Chiucha Alta (Lima) il 27 settembre 1926

(cfr:. Ortenzia Corino, Na shprishemi rrembat mbi dhen.. La poesia di Domenico Antonio

Marchese fra “raggi”, “tristezze” e “battaglie”, tesi di laurea, inedita, discussa all’Università della Calabria- Facoltà di Lettere e filosofia – nell’anno acc. 1995-96).

Sulla attività giornalistica italo-albanese, cfr. Domenico Cassiano, Temi e problemi della stampa arbreshe, in “Laboratorio di Educazione Permanente”, Cosenza, anno III (1982), n. 3-4, pp. 27-38.

Sui congressi linguistici e le varie associazioni, cfr. Giovanni Laviola, Società,

Comitati e Congressi Italo-Albanesi dal 1895 al 1904, Cosenza, 1974.

Cassiano:La collina del prete 131

Gli scritti di Terenzio Tocci sono tratti da T. Tocci, La questione albanese,

Cosenza, 1901.

Cosmo Serembe era nato a S. Cosmo Albanese nel 1879. Nipote del poeta

Giuseppe Serembe, pubblicò Kenka Lirie (Canti di libertà); La patria nei canti popolari albanesi, Cosenza (Tip. Riccio), 1899; Il pericolo clericale in Italia (fatti e cifre), Milano,

1913. Aveva studiato nel Collegio di S. Adriano e poi nel Liceo “Telesio” di

Cosenza. Conseguita la laurea in giurisprudenza, si trasferì a Milano, ove esercitò l’avvocatura. Morì a Milano nel 1938. Lasciò numerosi manoscritti, tra cui – pare – anche un poema in 25 canti, intitolato Kenget e Kruies.

Le corrispondenze di Ugo Ojetti furono raccolte nel volume L’Albania,

Lettere, I, Roma, 1901.

Sull’adesione al fascismo e la sua diffusione in Albania da parte di elementi italo-albanesi, cfr. Rita Tocci, Terenzio Tocci, mio padre (Ricordi e pensieri), Corigliano

Calabro, 1977, in cui scrive, pag. 71: “Uomini di Stato, scienziati, politici e letterati seguivano con simpatia l’attività di Mussolini che alla ricostruzione del Paese imprimeva ritmo e direttive. Mio padre, sempre costante nell’idea di un’Albania libera ed indipendente sul cammino che percorreva l’Italia, non poteva rimanere indifferente dinanzi a quel movimento che vedeva filtrato attraverso l’Adriatico.

Così, nel 1928 trovò il tempo per tradurre in albanese vari scritti e discorsi di

Mussolini. E’ significativo il giudizio che Lumo Ekendo, cioè Midhat Frasheri, il futuro fondatore del Partito Nazionalista Albanese, dà su quel libro in

“Diturjia”(luglio-settembre 1928, p. 352). “Se il lettore albanese legge albanese dove Cassiano:La collina del prete 132

c’è scritto italiano e Albania dove c’è scritto Italia, questo libro si può ritenere per ognuno di noi come guida, come un buon consigliere che merita di essere ascoltato e seguito”.

Sull’Albania come “terra sognata” e come “madrepatria” poetica, è significativo quanto scrive Girolamo de’ Rada al Tommaseo (cfr. in E. Paratore,

L’umanità di Gerolamo de’ Rada attraverso testi recentemente scoperti, in “Shejzat” (Le

Pleiadi), Roma, 1964, pp. 256 e seg.):”E perché non posso io seguire gli impulsi replicati ond’Ella mi spinge ad un viaggio in Albania? Ho in casa figli piccoli con la madre sola; coltivo i pochi miei fondi e n’ho il mantenimento e, negli alberi giovanetti, la promessa che l’abbiano proprio i miei figli. E abbandonandoli ora, tutti essiccherebbero uniti. Poi, là non conosco nessuno; né credo si sappia delle mie poesie: e con pochi mezzi sarei di continuo impedito e mortificato come fra stranieri sconosciuti. Forse da me fu dato solo rialzare la lingua della tradizione albanese…O se Iddio mi ha serbato ad altro e mi chiamerà è questo la difesa del nome del suo figliolo, a cui i popoli e i regi congregati fanno guerra”.

Le notizie su Terenzio Tocci sono tratte da Rita Tocci, Terenzio Tocci mio padre (ricordi e pensieri), Corigliano Calabro, 1977, cit. e da Francesco Caccamo,

Odissea Arbereshe Terenzio Tocci tra Italia e Albania, Soveria Mannelli, 2012

Le principali pubblicazioni di Terenzio Tocci sono:

La Questione Albanese, Cosenza, 1901;

L’Albania e gli Albanesei, Milano, 1911;

Il Governo Provvisorio di Albania, Cosenza, 1911;

La Rivista dei Balcani, Roma-Milano, 1912; Cassiano:La collina del prete 133

I delitti del Taraboshi ovvero la Civiltà Europea a Scutari d’Albania, Scutari, 1914;

L’anarchia albanese, Scutari, 1914;

L’Italia e l’Albania, Cosenza, 1915;

I crimini della politica, Korcia, 1922;

Grammatica Albanese, Tirana, 1929;

Il re degli Albanesi, Milano (ed. Mondadori), 1938.

Su Terenzio Tocci, cfr. anche Alessandro Serra, Albania: 8 settembre ’43 – 9 marzo

1944, ed. Longanesi, Milano, 1976, pp. 120 e seg..

Su Ricciotti Garibaldi, il tentativo insurrezionale in Mirdizia, cfr.: F. Guida,

Ricciotti Garibaldi e il movimento nazionale albanese in “Archivio Storico Italiano”,

Firenze, 1981, n. 507, pp. 97-138; A. Becca Pasquinelli, La vita e le opere di M. A.

Osorgin, Firenze, 1986, pp. 62-64.

La notizia dei telegrammi di felicitazione per l’occupazione dell’Albania, compreso quello del poeta sandemetrese Salvatore Braile, è riportata da G.

Belluscio, 1509-1939: microstoria, gli Arbereshe in mostra all’Archivio di Stato di

Cosenza, in Mezzoeuro del 17.10.2009.

Sulla rivoluzione del giugno 1924 in Albania e la successiva sconfitta delle forze democratiche, cfr.: AA.VV. Storia del Partito del Lavoro d’Albania, Tirana, 1971, pp. 18 e seg..

Fan Noli era nato nel 1882 nella colonia albanese di Ibrik-Tepe (Tracia); aveva fondato la chiesa autocefala ortodossa in Albania. Uomo di vasta cultura, aveva tradotto in albanese Cervantes, Shakespeare, Edgar Allan Poe; scrisse la storia di Cassiano:La collina del prete 134

Skanderbeg; fu musicologo e poeta; pregevole il suo “Album” di poesie, pubblicato a Boston nel 1948. Come delegato dell’Albania, ottenne nel 1920 la sua ammissione alla Società delle Nazioni. Dopo il colpo di stato zoghista, si rifugiò negli Stati Uniti, ove morì nel 1965 ( cfr. Joyce Lussu, La poesia degli Albanesi, ed. ERI, Torino, 1977, pp. VII-XXI).

Sugli intellettuali durante il colonialismo fascista, cfr.: J. Lussu, La poesia degli Albanesi, ed. ERI, Torino, 1977..

Sulla nomina a ministro dell’Economia del Tocci, il plenipotenziario italiano

F. Jacomoni ha scritto ( cfr. La politica dell’Italia in Albania, cit. da R. Tocci, op. cit., pag. 79): “Il nuovo presidente del Consiglio era Koco Kotta, un ortodosso che godeva fama di italo-filo. Ministro degli esteri diveniva Ekrem Libohova, fratello del defunto Mufid bey…Ministro dell’Economia Nazionale diveniva un intelligente e sicuro amico, Terenc Toci”.

Sull’occupazione italiana dell’Albania, cfr. : Francesco Jacomoni, La politica dell’Italia in Albania, ed Cappelli, 1965; Denis Mack Smith, Le guerre del duce, Milano,

1992; Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della

“brava gente” (1940-1943), ed. Odradek, Roma, 2008; Archivio ANPI, La Resistenza

Albanese, consultabile sul sito internet dell’Anpi; Enzo Misefari, La Resistenza degli albanesi contro l’imperialismo fascista, Ed. di cultura popolare, 1976; G. Ciano, Diario

1937-1943, ed. Rizzoli, Milano, 1999; L’Unione fra l’Italia e l’Albania Censimento delle fonti (1939-1945) conservate negli archivi pubblici e privati ( a cura di Silvia Trani), Roma,

2002; Istituto di studi marxisti-leninisti, Storia del Partito del Lavoro d’Albania, Tirana, Cassiano:La collina del prete 135

1971; Hinstitut d’Histoire de l’Acadèmie des sciences de la R. P. d’Albanie, La lutte antifasciste de libèration nationale du peuple albanais, Documents principaux, 1941-1944;

Tirana, 1975; F. Bonasera, Albania 1943-1946, Ancona, 1959; G. Lombardi, L’8 settembre fuori d’Italia, Milano, 1966; G, Bonomi, Albania 1943. La tragica marcia dei militari italiani da Tepeleni e Argirocastro a Santi Quaranta, Milano, 1972.

Seifulla Maleshova (1901-1971), noto anche con lo pseudonimo di Lame

Kodra, era nato il 2 marzo 1901 nel villaggio di Limar, dove ricevette l’istruzione primaria, per poi continuare, grazie ad una borsa di studio del governo italiano, nel

Collegio di S. Adriano, in S. Demetrio Corone. Qui, insieme al suo amico, Pascal

Odhise, pubblicò il periodico Studente Albanese, ove comparvero le sue prime poesie.

Conseguita la maturità classica, si iscrisse alla facoltà di medicina presso l’Università di Roma. Dopo tre anni abbandonò gli studi di medicina per ritornare in Albania, nel 1924, a Tirana, per fare da segretario del primo ministro Fan Noli, durante la breve rivoluzione democratica. Per sfuggire alla repressione zoghista, si rifugia a Parigi, da dove successivamente si recherà a Mosca, nella cui università completò gli studi di filosofia. Espulso dal partito comunista, come Bucharin e poi riabilitato, fu professore di filosofia all’università. Nel 1941, rientra in Albania, dove è tra i fondatori del Partito Comunista; si batte con gli occupatori fascisti e nazisti come partigiano e componente influente del movimento di liberazione nazionale. Durante la guerra di liberazione, divenne famoso per le sue poesie, pubblicate con lo pseudonimo di Lame Kodra. Nel 1945, è stato eletto presidente della “Lega degli Scrittori”, appena fondata, ed è stato anche nominato ministro della cultura. Nello stesso anno, sarà pubblicato il suo primo volume di poesie con lo pseudonimo di Lame Kodra. La sua linea politica democratica, scevra di Cassiano:La collina del prete 136

dogmatismi, ispirata realisticamente al dialogo anche con gli avversari ed al loro rispetto, ben presto lo mise in contrasto con il dogmatismo ottuso di Enver Hoxha, col quale, peraltro, lo divideva, in genere, la visione politica generale. Secondo

Maleshova il partito comunista albanese doveva ispirarsi alla democrazia e governare con metodo democratico ed, in politica estera, non operare chiusure.

Secondo il Quinto Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista d’Albania, riunitosi nel febbraio 1946, “Seifulla Maleshova professava l’opinione secondo cui il nuovo sistema democratico in Albania avrebbe dovuto essere un sistema del tipo democratico borghese. Egli preconizzava l’attenuazione della lotta di classe, sopravvalutava la forza delle classi rovesciate e non aveva fiducia nella forza del

Partito e del popolo…Egli era, in essenza, contrario all’edificazione del socialismo e fautore del libero sviluppo del capitalismo” (crf. Storia del Partito del Lavoro d’Albania, a cura dell’Istituto di Studi marxisti-leninisti presso il Comitato Centrale del Partito del Lavoro d’Albania, Tirana, 1971, pp. 288 e seg.). L’accusa era ovviamente del tutto infondata e sottintendeva piuttosto un forte contrasto d’opinioni sulla conduzione politica da seguire in Albania. Maleshova fu escluso da ogni carica sia al governo che al partito e, dopo avere scontato alcuni anni di reclusione, fu confinato a Fier a fare il magazziniere, dove, il 9 giugno 1971, morì per un attacco d’appendicite, solo ed evitato da tutti. La sua bara fu accompagnata al cimitero di Fier dalla sua unica sorella e da due agenti del Segurimi, il famigerato servizio segreto.