DOMENICO A. CASSIANO LA COLLINA DEL PRETE L'umana
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Cassiano:La collina del prete 1 DOMENICO A. CASSIANO LA COLLINA DEL PRETE L’umana avventura di un arbresh di Calabria Cassiano:La collina del prete 2 Alla periferia di Tirana, nella contrada detta “La Collina del prete”, fu trovata una fossa comune con alcune ossa, tra cui quelle – sembra – di Terenzio Tocci, fucilato a Tirana nell’aprile del 1945. Ai mortali la Parca reca beni e reca mali E ai doni degli dèi scampo non c’è. Solone, Alle Muse. Cassiano:La collina del prete 3 PREMESSA Nella memoria storica del paese esiste ancora, ben radicato, il ricordo della tragica fine dell’avvocato Terenzio Tocci e non tanto della sua avventura in terra albanese. Era comunemente chiamato “Don Terenzio”e, negli anni ’40 dello scorso secolo, i paesani di lui favoleggiavano come di una persona di potere senza, peraltro, sapere indicare che cosa effettivamente facesse in Albania, quali erano i suoi rapporti col fascismo, che cosa avesse mai fatto prima della occupazione fascista del 1939. Sembrava che fosse un personaggio avvolto nel mito e nella leggenda. Noi e quanti erano ragazzi in quel periodo ne sentivamo parlare dai grandi in piazza e nelle botteghe artigiane – che, allora, fungevano anche da circoli e luoghi di aggregazione e di socializzazione. Non riuscivamo a capire alcunché se non che “era arrivato assai in alto”. Dopo l’occupazione italiana dell’Albania, vi andarono a lavorare, con mansioni varie, alle dipendenze di ditte italiane, molte persone del paese, per lo più muratori, manovali, meccanici, autisti. Si diceva che “Don Terenzi gli aveva trovato il posto di lavoro” con la prospettiva – almeno fino al 1942 – di avere trovato in Albania una durevole, se non definitiva, sistemazione. Ma le cose cambiarono con il tracollo della potenza militare dell’Asse. Dopo l’8 settembre del 1943, per quelle famiglie che avevano figli o genitori in Albania arrivò la tragedia. Non riuscivano più a sapere nulla dei loro cari: dov’erano, cosa n’era stato di loro con l’occupazione tedesca dopo il disfacimento dell’esercito italiano. L’ansia e la preoccupazione aumentavano di giorno in giorno e si trasmettevano all’intera popolazione. Come,del resto, era un fatto inevitabile in un piccolo paese, dove tutti sono o amici o imparentati o, comunque, legati con altri non meno rilevanti rapporti sociali. Cassiano:La collina del prete 4 Poi, col tempo, verso la fine del 1944, incominciarono ad arrivare le prime notizie. Si seppe che l’Albania era stata liberata dai Partigiani; che molti soldati italiani avevano combattuto con il fronte di liberazione nazionale, battendosi per la riconquista della indipendenza e della libertà dell’Albania; che i nostri compaesani, che vi erano andati per lavoro, erano salvi, ma Don Terenzio era stato arrestato e si trovava in un carcere, a Tirana. La triste notizia mise naturalmente in apprensione tutti i paesani, che volevano ovviamente conoscere i particolari, sapere delle accuse specifiche formulate; per sapere qualcosa si recavano – singolarmente o a gruppi – dal Parroco, Don Giovani, fratello di Don Terenzio. Neppure lui sapeva qualcosa se non che il fratello era detenuto. Si trattava di una notizia – chissà – forse non vera. Bisognava attendere lo sviluppo degli eventi. Quando le cose si sarebbero chiarite, Don Terenzio sarebbe ritornato libero e potente come prima o, forse, più di prima. Egli – certamente – non era capace di fare del male; era di animo buono; aveva disinteressatamente trovato lavoro a molti compaesani e li aveva anche ricevuti amichevolmente nella propria casa. Nel paese, unanime era l’opinione sull’innocenza del Personaggio, sulla cui rettitudine si giurava e spergiurava. Passò il 1944 senza avere altre notizie. Ancora nessuno dei soldati e degli operai aveva fatto ritorno in casa, però, le rispettive famiglie avevano avuto rassicurazione che erano sani e salvi e che, ben presto, sarebbero rientrati. Nell’aprile inoltrato del 1945, si diffuse rapidamente per il paese la ferale notizia: Don Terenzio era stato condannato a morte dal tribunale dei partigiani e la sentenza era stata già eseguita. La cosa toccò nel profondo tutti i paesani, come se fosse uno stretto parente. Le campane della Chiesa suonarono a mortorio. L’indomani fu celebrata la messa in suffragio dell’anima del defunto. Non si conosceva alcun particolare sulla qualità e Cassiano:La collina del prete 5 quantità delle accuse, sull’andamento del processo, sul perché della terribile condanna, inflitta ad una persona che, per amore della patria – che ora l’aveva condannato – aveva rinunziato alla cittadinanza italiana e si era trasferito in quel paese, ancora diviso in tribù che si facevano tra di loro la guerra. Le opinioni dei paesani erano diverse così come le ipotesi, da cui derivavano. E intanto si aspettava che ritornasse qualcuno dall’Albania, lavoratore o soldato. Ognuno di costoro, essendosi trovato sul posto, certamente sarebbe stato in grado di riferire la verità dei fatti e di fare la cronistoria degli avvenimenti. Finalmente, nel corso del mese di luglio 1945, arrivarono, alla spicciolata, con mezzi di fortuna, i primi lavoratori emigrati. Noi ragazzi – che giocavamo e ci rincorrevamo lungo l’unica strada carrabile, che spezzava l’isolamento del paese – vedevamo questi uomini che non conoscevamo, ma li seguivamo accompagnandoli fino alle loro case. Era come una festa. Furono costoro che spiegarono qualcosa ai paesani senza riuscire a fugare ogni dubbio sul perché della condanna capitale. Ora sono tutti deceduti. Essi riferivano che il processo a Don Terenzio e ad altri capi del passato regime era stato celebrato nei locali del cinema “Savoia” di Tirana; che Don Terenzio si era difeso sostenendo la propria assoluta innocenza. Alcuni altri, che avevano avuto modo di contattare persone della famiglia, riferirono che, più volte, gli era stato consigliato di scappare, nascondersi, fuggire in Italia, perché i capi del Fronte di liberazione nazionale avevano già deciso la sua condanna a morte. Anche la moglie l’aveva pregato e implorato di mettersi in salvo. Non ci fu nulla da fare. Egli non si mosse. Era convinto che contro di lui ogni accusa sarebbe risultata infondata perché non aveva fatto del male a nessuno. Anzi, i fascisti, con i quali aveva collaborato, per il dissenso manifestato sull’operato del governo, l’avevano addirittura dimissionato Cassiano:La collina del prete 6 dalla presidenza del Consiglio Superiore Corporativo. Ma – allora – perché la condanna alla pena capitale? Questa domanda rimaneva senza risposta. Ragazzi, assistevamo alle discussioni che si svolgevano in vari posti del paese: naturalmente si scontravano opinioni diverse e congetture diverse. Nessuno era in grado di dare, però, una risposta soddisfacente ed esauriente al perché non era scappato. I lavoratori ritornati – almeno quelli che l’avevano conosciuto ed erano stati da lui ricevuti nella sua casa – garantivano della sua onestà e bontà d’animo. Anche loro, però, non si sapevano spiegare il perché era rimasto tranquillo nella sua casa ad aspettare che i Partigiani arrivassero a Tirana, dal momento che era stato avvertito del gravissimo rischio che correva. Passarono gli anni ed i ragazzi di allora, diventati adulti, presero ognuno la sua strada. Molti lasciarono il paese, ma non il suo ricordo. Perché lì, in fondo in fondo, erano nati, cresciuti, avevano giocato con gli altri ragazzi, correndo lungo i viottoli o a cercare i nidi nella vicina campagna. Negli anni ’90 del secolo scorso, dopo la caduta del regime in Albania, incominciarono a circolare sui giornali le notizie sulle esecuzioni di Tirana ed, in particolare, su Terenzio Tocci, di cui qualcuno scriveva che andava riesaminata la sua posizione e la sua condotta politica, non potendo essere confuso con criminali di guerra o volgari voltagabbana. Ritornava a riproporsi il dilemma: era un collaborazionista che si era macchiato di tradimento oppure no? Dilemma di assai ardua – se non impossibile – soluzione, data la complessità e l’anomalia del Personaggio e la carenza di elementi probatori sicuri ed indiscutibili. Le amministrazioni comunali, succedutesi nel paese, di vario colore politico, non gli hanno mai dedicato una via o un qualche altro sito cittadino. Non si tratta, però, di damnatio memoriae perché, in taluni atti ufficiali, il Cassiano:La collina del prete 7 paese pensa di trarre un qualche vanto per avere dato i natali al nostro Personaggio. Se non si ha il coraggio di dedicargli una via o, magari, di apporgli una targa o un’epigrafe su marmo, vuol dire che il solo suo nome desta un certo imbarazzo. Singolare destino commisurato, del resto, all’anomalia del Personaggio. Certamente, non si tratta di un caso unico e raro. La stessa cosa è capitata a Leandro Arpinati (1892-1945), anarchico, socialista, infatuatosi di Mussolini, diventato un potente gerarca, uno dei principali leaders in Emilia – Romagna, podestà di Bologna, sottosegretario all’interno, venne silurato dallo stesso duce che lo fece addirittura arrestare, nel 1933, per pretesi dissensi e contestazioni sulla linea politica, ma, in effetti, perché geloso e timoroso del suo crescente potere e dell’influenza che esercitava in ambienti fascisti italiani. Venuto il ’43 e caduto il fascismo, Arpinati aiutò i partigiani e, perfino, qualcuno pensò di offrirgli il comando di una banda partigiana. La sua villa diventa una succursale della Resistenza: vi trovano riparo sfollati, partigiani azionisti, come Dino Zanobetti, e membri dell’Intelligence inglese ed alte persone. Dopo la Liberazione, Arpinati era convinto di dovere affrontare una fase di processi per il suo passato di gerarca, senza che potesse essere accusato d’altro; passato che riteneva di avere in qualche modo smacchiato e riscattato con il suo pentimento attivo e col rifiuto di collaborare col duce nel governo della repubblica di Salò. Invece, avvenne che, il 22 aprile del 1945, quando tutto ormai sembrava filare per il verso giusto, fu ucciso nella sua casa da persone, rimaste, allora, ignote.