Calcio - La Storia Del Calcio
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CALCIO - LA STORIA DEL CALCIO Enciclopedia dello Sport di Adalberto Bortolotti, Gianni Leali, Mario Valitutti, Angelo Pesciaroli, Fino Fini, Marco Brunelli, Salvatore Lo Presti, Leonardo Vecchiet, Luca Gatteschi, Maria Grazia Rubenni, Franco Ordine, Ruggiero Palombo, Gigi Garanzini Aspetti economici di Marco Brunelli Il calcio, oltre a rappresentare senza dubbio uno straordinario fenomeno sociale, culturale e di costume nella maggior parte dei paesi del mondo, si è affermato anche come una realtà economica di enormi proporzioni in almeno tre continenti (Europa, Sud America e Asia), al punto che attualmente costituisce senza dubbio una delle poche 'industrie globali' del pianeta. All'inizio del 3° millennio, è giocato da 240 milioni di persone in 204 paesi. Non è certamente un caso che proprio una partita di calcio sia stato il programma televisivo più visto nel 2000 in 19 paesi europei su 23, oltre che in Argentina, Brasile, Cile e Perù. Il Campionato del Mondo giocato in Francia nel 1998 è stato trasmesso in 196 paesi del mondo (per 29.700 ore), totalizzando nel complesso 33,4 miliardi di spettatori. La sola finale tra Francia e Brasile è stata vista da 1 miliardo di persone. In 153 nazioni si seguono in TV gli incontri del Campionato inglese. D'altra parte, nei principali 20 Campionati europei giocano calciatori di 102 paesi diversi. Dei quasi 16 miliardi di dollari che sono stati spesi nel 2000 per sponsorizzare lo sport nel mondo, più della metà sono andati al calcio, ai suoi club, eventi e campioni. Il diritto di trasmettere il Campionato nazionale costa ogni anno 2830 milioni di euro alle televisioni di Inghilterra, Italia, Spagna, Francia, Germania, Brasile, Grecia, Giappone, Olanda, Scozia, Portogallo, Belgio, Danimarca, Austria, Svizzera e Svezia. Questo dato è evidente prova del fatto che l'attuale dimensione economica del calcio è strettamente legata alla scoperta del suo valore mediatico e promozionale, scoperta di fatto piuttosto recente. In realtà, il calcio si è caratterizzato come un fenomeno economico sin dalle sue primissime origini, se è vero che già nel 1876, nove anni prima che la Football Association riconoscesse ufficialmente il professionismo, i club inglesi e scozzesi recintavano il terreno di gioco per far pagare un biglietto agli spettatori e corrispondevano salari, sotto forma di rimborsi, ai propri giocatori. Quasi altrettanto antica è l'abitudine di scambiarsi calciatori a cifre elevatissime: 30.000 lire per Renzo De Vecchi nel 1913; 45.000 per Virginio Rosetta nel 1925; 100.000 lire più una FIAT 509 per Mumo Orsi nel 1929; 625.000 per Valentino Mazzola nel 1942; 2 milioni per Silvio Piola nel 1945. Tuttavia, fino ai primi anni Ottanta, il giro d'affari del calcio mondiale è stato alimentato soprattutto dai consumi diretti dei suoi numerosissimi appassionati (biglietti e, in minor misura, scommesse) e dall'apporto diretto dei soci finanziatori, chiamati spesso a ripianare con mezzi propri bilanci in perdita. In ogni caso, niente a che vedere con le dimensioni attuali del business. Il gradimento del pubblico è stato evidente sin dall'inizio: tra il 1905 e il 1914 la finale di Coppa d'Inghilterra ebbe una media di 79.300 spettatori paganti (con la cifra record di 120.000 nel 1913). Centomila persone assistettero sia alla finale della prima Coppa Rimet a Montevideo sia a quella delle Olimpiadi di Berlino nel 1936. In Inghilterra, nella stagione 1948-49, le quattro divisioni professionistiche totalizzarono 41,3 milioni di presenze negli stadi. In paesi come l'Inghilterra, l'Italia e la Spagna il calcio ha storicamente alimentato la crescita dell'industria delle scommesse e dei concorsi pronostici. In Svezia i concorsi pronostici sul calcio esistono dal 1926, in Inghilterra le scommesse dal 1927, il Totocalcio svizzero nasce nel 1938, quelli spagnolo e italiano nel 1946. Vi sono concorsi pronostici sul calcio in una trentina di paesi del mondo, quasi tutti in Europa e Sud America. In Italia, la crescita dei giochi è stata pressoché ininterrotta tra il 1970 e il 1997, quando le giocate lorde hanno raggiunto i 3831 miliardi di lire, per poi precipitare in una crisi che prosegue tuttora (1550 miliardi di lire raccolti complessivamente da Totocalcio, Totogol e Totosei nel 2000, oltre a circa 1200 miliardi di scommesse sportive). In oltre cinquant'anni di vita, i concorsi pronostici hanno assicurato al calcio italiano quasi 2500 miliardi di lire di entrate. Ciononostante, l'assenza di legami significativi tra lo sviluppo del calcio e quello di un settore produttivo specifico spiega perché, fino agli anni Sessanta, l'impatto di questo gioco sull'economia non sia stato neanche lontanamente paragonabile a quello di sport come il ciclismo o l'automobilismo, le cui grandi manifestazioni svolgevano una precisa funzione promozionale per le rispettive industrie. Anche le sponsorizzazioni sono arrivate, nel calcio, molto più tardi rispetto ad altri sport come il ciclismo, l'automobilismo, il basket o il tennis. La consacrazione moderna del calcio in quanto industria è, quindi, strettamente legata alla sua affermazione come straordinario veicolo di comunicazione per le aziende e come contenuto insostituibile per i media di concezione vecchia (radio, televisione) e nuova (Internet, UMTS). In entrambi i casi, decisivi sono stati gli eccezionali livelli di ascolto raggiunti. Non solo: nel calcio, tale audience è trasversale e fedele come in nessun'altra forma di spettacolo, cosa che costituisce un'opportunità irrinunciabile per inserzionisti pubblicitari e acquirenti di diritti televisivi. In Italia, nella stagione 1996-97 le entrate da diritti televisivi hanno superato per la prima volta quelle da vendita di biglietti, che attualmente rappresentano meno del 20% del totale. Nella stagione 2000-01, emittenti e sponsor hanno garantito il 66% delle entrate complessive dei club inglesi di Premier League, e tale percentuale è aumentata ulteriormente, in maniera significativa, con l'entrata in vigore del nuovo contratto televisivo a partire dal Campionato 2001-02. In Francia, l'84% del fatturato delle società di prima divisione proviene da televisioni e partner commerciali, che rappresentano l'83% dei ricavi in Germania, l'81% in Giappone, il 69% in Portogallo, il 68% in Spagna e il 63% in Olanda. I soli diritti televisivi generano oltre il 60% del giro d'affari del Campionato nazionale brasiliano. Per un club come l'Arsenal, il peso del botteghino è passato dal 93% del fatturato nel 1974 al 42% nel 1994. Nel caso della Roma, l'incidenza dei ricavi da gare è scesa dal 63% del valore della produzione nel 1988 al 21% nel 2001. In meno di vent'anni, il calcio è risultato decisivo per l'affermazione di alcune delle industrie più dinamiche della comunicazione e del tempo libero: sponsorizzazioni, pubblicità, merchandising, televisione commerciale e a pagamento, Internet. Questo, come è ovvio, si è tradotto in un notevole ritorno economico: se tra il 1946 e il 1988 il fatturato dei club inglesi era cresciuto del 3% all'anno, nel decennio successivo l'incremento medio è stato del 18%. Negli ultimi cinque anni del decennio scorso, il giro d'affari dei club è aumentato del 22% a stagione in Inghilterra, del 24% in Italia, del 28% in Spagna, del 15% in Germania e del 22% in Francia. Attualmente nei paesi dell'Unione Europea, in Brasile e in Giappone il calcio di prima divisione fattura oltre 6400 milioni di euro, provenienti per il 40% dalla televisione, per il 24% dalla biglietteria e per il 36% da sponsorizzazioni e altre attività commerciali. Considerando anche l'indotto, il giro d'affari totale del calcio è di 5200 milioni di euro in Italia e di 3200 in Spagna. L'aumento delle entrate si è accompagnato, com'era inevitabile, a quello della remunerazione del principale fattore produttivo: i calciatori. Già nel 1913 un calciatore inglese (i professionisti erano 7000) guadagnava più del doppio di un impiegato. Nel 1929, tre anni dopo che la Carta di Viareggio, lo statuto emanato dal CONI contenente i punti fondamentali dell'Ente calcio, aveva sancito la distinzione tra dilettanti e non, Orsi guadagnava 8000 lire al mese (8 volte di più rispetto a un magistrato). Ma anche in questo caso, è solo dopo il 1960 che il fenomeno si espande e diventa generalizzato. Gli ingaggi dei calciatori inglesi di prima divisione sono aumentati del 61% tra il 1960 e il 1964 e triplicati tra il 1977 e il 1983, in coincidenza con l'abolizione del tetto salariale e del vincolo. Tra il 1992 e il 2000, gli anni del boom televisivo, la crescita è stata di oltre sei volte. Nel 1998 il calciatore medio della Premier League aveva uno stipendio superiore a quello del Governatore della Banca di Inghilterra e del Primo Ministro. In Italia, nel 1983, lo stipendio medio lordo annuo di un calciatore di serie A era di 130 milioni di lire, di 782 nel 1994 e di 2150 nel 2001. Le entrate dei club sono sempre più inadeguate a pagare gli ingaggi dei calciatori: nel 1984, in Italia, gli stipendi assorbivano il 34% dei ricavi, oggi, il 75%. In Inghilterra il 60% (il 38% negli anni Sessanta), in Scozia il 72%, in Germania il 46%, in Spagna il 55%, in Francia il 64%. Anche la campagna trasferimenti dei giocatori è andata crescendo di importanza con l'avvento dell'era televisiva. Da un lato, perché le maggiori risorse a disposizione dei club sono state investite nell'acquisto di nuovi calciatori: 105 milioni di lire per Jeppson nel 1950; più di un miliardo per Savoldi nel 1975; 13 miliardi nel 1984 per Maradona; 51 miliardi per Ronaldo nel 1997; 90 miliardi per Vieri nel 1999; 110 miliardi per Crespo nel 2000; 150 miliardi per Zidane nel 2001. Dall'altro, perché le società hanno fatto sempre più ricorso alle plusvalenze del calcio-mercato per attenuare i pesanti deficit operativi causati dall'aumento degli ingaggi dei calciatori e dei procuratori.