INDICE

Prefazione Sono stati anni da ricordare. Tutti. di Maurizio Laudi pag. I

Introduzione pag. III

Capitolo I Emozioni che ritornano pag. 5

Capitolo II Un pallone che cambia pag. 12

Capitolo III La Storia è passata da qui pag. 24

Capitolo IV Quella famosa maglia viola pag. 29

Capitolo V Tempi di vera passione pag. 41

Capitolo VI Un po’ per caso, un po’ per necessità pag. 77

Capitolo VII Tra buoni sentimenti e anni di fuoco pag. 89

Capitolo VIII Con il pallone di fianco pag. 118

Capitolo IX Metti che una fiaba… pag. 137

Capitolo X Da una grammatica presa a calci ad un calcio tutto rosa pag. 147

Capitolo XI Una esperienza unica pag. 160

Capitolo XII L’arbitro di calcio, ma chi è? pag. 173

Capitolo XIII Scorza dura, ma… pag. 187

Capitolo XIV La vera storia di Elio Bandiera che a quella partita proprio non c’era pag. 197

Capitolo XV Un vescovo, qualche frate e… Pier Augusto Righetti pag. 201

Capitolo XVI Il calcio, la politica e tanta autarchia pag. 211

Capitolo XVII “Viaggiare” da soli e lasciare il segno pag. 219

Capitolo XVIII Il calcio “nobile” del Lascaris pag. 231

Capitolo XIX Tra il Po, la collina e tanta voglia di fare pag. 249

Capitolo XX Un calcio che vale di Giorgio Tosatti pag. 259 Tito Delton

Una Storia, tante storie Sessant’anni della nostra vita e del calcio giovanile e dilettantistico a Torino e dintorni

Prefazione di Maurizio Laudi

Volume 1°

Edizioni

Sono stati anni da ricordare. Tutti. di Maurizio Laudi

Ci sono libri che ognuno di noi appassionati del pallone vorrebbe aver scritto. Penso che "Una Storia, tante storie" di Tito Delton meriti di trovarsi in questo elenco dei sogni. Certamente lo è nel mio; ma sono sicuro che, dopo aver letto l'ultima pagina, tantissimi penseranno la stessa cosa. Perché questa, raccontata dall'autore, è in fondo anche la nostra storia. "Nostra" di tutti quelli che, dagli anni dell'immediato dopo guerra in poi, hanno dedicato una parte importante del loro tempo e tutta la loro passione al "football": dirigenti, allenatori, calciatori, massaggiatori, tifosi. Ci sono le nostre speranze, le nostre delusioni, le nostre vittorie, le nostre sconfitte, le nostre rivalità. In una parola, c'è il nostro mondo. Un mondo autentico che Tito Delton ha descritto con la fedeltà del cronista, la partecipazione sentimentale del protagonista, la cultura dello storico. In questo caleidoscopio di prospettive sta il fascino del libro. Chi lo leggerà andrà a cercare, subito, con golosità il capitolo o la pagina che parla della sua società, del suo campo, del suo presidente, del suo campionato vinto o perso. E sarà soddisfatto nella sua ricerca perché le singole storie sono raccontate in maniera tale che, capitolo per capitolo, non ci sia un solo attore ad occupare tutta la scena, ma tante altre persone e tante altre vicende. Come è giusto sia in una storia collettiva. Ma lo stesso lettore, una volta soddisfatta la sua curiosità più personale, troverà anche un mondo fuori dal campo di gioco e dalle stanze, più o meno attrezzate, delle società di calcio. Troverà la storia di Torino: gli anni durissimi finita la guerra e dolorosissimi per la tragedia di Superga; quelli faticosi ma pieni di speranza della ripresa economica; quelli di un maggior benessere generale. Troverà anche i decenni più vicini ad oggi, per certi aspetti anche più aspri del periodo delle ristrettezze, perché segnati da tensioni sociali avvelenate dalla violenza e da quella confusione di valori che ancor oggi viviamo.

II La seduzione del libro è in questo continuo intrecciarsi tra gli eventi sportivi dei nostri campionati giovanili e dilettantistici e gli accadimenti della città, ma anche dell'Italia e del mondo. Tito Delton ha dato voce a ciascuno di noi, perché ha raccontato attraverso la nostra esperienza sportiva, la storia della nostra vita. Certo, non di tutte le società si parla perché sarebbe stato impossibile. Non di tutte le partite si fa menzione, perché altrimenti sarebbe stato non un libro ma un almanacco calcistico. C'è però, ugualmente, una forza di identificazione collettiva che fa sentire tutti noi - quegli appassionati del calcio di cui parlavo all'inizio - come protagonisti di queste storie. Perciò non serve citare, qui, quel certo presidente, quella determinata società, quel calciatore o quel dirigente, escludendo altri nomi, altre vicende, altre peripezie. Chi leggerà la Storia, anzi le storie di Tito Delton avrà il piacere di sentirsi prendere per mano e farsi accompagnare a ritroso, più o meno lontano nel tempo, lungo le strade di un mondo che è stato, è e continuerà ad essere anche il suo. In questo cammino troverà - io le ho trovate - occasioni di sorriso, di rimpianto, di commozione, di tanti altri sentimenti. E soprattutto si convincerà, ancora una volta, che è bello aver dedicato e dedicare anche oggi un pezzo della propria vita a questo pallone, non rutilante di riflettori, non soffocato dal mercato e dalle esigenze televisive, non inquinato da tante brutture, ma alimentato dalla passione e nobilitato dai sacrifici personali.

III Introduzione

Scrivere del calcio di casa nostra, una casa diventata anche mia dopo che proprio sessant'anni fa approdai, da esule d'Istria, in queste contrade, è un po' come ritornare ragazzetti e rivivere umori, ambienti, oratori, strade e cortili ormai inesistenti. Certo, il calcio a Torino e dintorni è nato ben prima, le stesse Juventus e Torino sono lì a rammentarcelo, e qualcuna delle società dilettantistiche di cui spenderemo fogli e fogli sono vicine ai cento in quanto a primavere, ma vuoi perché ci si fida più della memoria che di certi stralci, vuoi perché il calcio organizzato dalla nostra gente, organizzato bene voglio dire, ha il suo start nel secondo dopoguerra, ho voluto sentire le trame dei tanti e raccontarle in diretta dopo aver scavato nei miei personali ricordi per una verifica che vuol essere più di nostalgia che di rigore giornalistico. Ecco, allora, che non sentirete peana ed osanna per "certe" maglie bianconere o per "certe" maglie granata, se non per degli obbligati accostamenti, ma leggerete, se ne avrete voglia, di pedate ben date anche da ragazzi che hanno finito per appendere le classiche scarpe al classico chiodo sempre giocando nei dilettanti, leggerete di club che hanno fatto storia non solo regionale e di altri che si sono "consumati" in pochi lustri ma che, comunque, sono stati un bel punto di riferimento per qualche centinaio o migliaio di persone, non sempre tutte ligie ai doveri, come s’usa dire, perché le "lingere" (e l’etimologia dialettale piemontese di questo vocabolo ci spiega che “lingera” non sta per delinquente, bensì per fannullone, scansafatiche, intrigante, loffio, insomma!) sono esistite anche nello sport, a dimostrazione che possono coesistere, in un "undici", in una squadra che gioca al calcio, la “guardia” e il “ladro”, il misero e l'intelligente e fare, ugualmente, scorpacciate di gol. Racconterò del tale che per poco non rifilò un cazzotto ad un arbitro e che poi è diventato presidente di una grande società, del giovanotto che con altri dieci compagni andò per quindici giorni a giocare nel Kazakistan e dintorni, realmente ai confini con la Cina, e finì per emettere, in tutti i sensi, sentenze di vario tipo, dell’amico che è morto ancora ragazzo, del cronista sportivo che è diventato un simbolo di correttezza, del presidente “cannibale” che non si accontentava mai di poche vittorie ed invece dichiarava in pubblico che per lui l’importante era solo partecipare: si, partecipare! Ma anche di quei dieci o dodici dilettanti che hanno finito la carriera tra i professionisti,

III oppure di come e perché un professionista regalò undici maglie rosse ad un giovane che si inventò, da lì in avanti, una società che fece scalpore. Parlerò di un trio di “mediani” che non ha avuto uguali nella Torino del calcio giovanile, di come si vinsero scudetti tricolori a grappoli, di quali dirigenti diedero lustro al calcio delle nostre contrade, di quali tecnici seppero fare “squadre impossibili”, di come si assimilarono i concetti del gioco di squadra che si evolveva e ancora tante di quelle storie personali, private, sovente diventate pubbliche che finiranno per stupirvi. Sì, stupirvi, perché il nostro calcio, il calcio di Torino e dei suoi immediati dintorni mai nessuno ve l’ha raccontato come leggerete più avanti. Forse potrete anche commuovervi, forse vi farò ridere o, almeno, sorridere. Comunque scriverò di gente misco- nosciuta ai grandi media o, al massimo, imperante nei propri borghi e, in ogni caso, gente che ha saputo costruire con tanta passione, molta intelligenza e un briciolo di cinismo un gioco fatto da undici “boys”, consentitemi ancora questo termine, poi diventati tredici, quindi sedici e, di questi tempi, anche diciotto. Così sono arrivato al gioco di squadra, a quel bellissimo gioco di squadra che è il gioco del calcio, al fulbal (il balon era roba da primordi) come veniva chiamato dai più sessant'anni addietro e che, gioco forza, con il progresso, l'immigrazione e l'integrazione è ridiventato calcio o, al massimo, football. E' un po' come la storia che si ripete o si perpetua, fate voi, dove il dialettale opsaid è diventato off side e poi fuori gioco, il canonico corner (ricordate? Tre corner, ‘n rigôr!) è ritornato calcio d'angolo ed i termini inglesi, se ci fate caso, in questa sola circostanza del terzo millennio non hanno attecchito del tutto. Come dire: il gioco è stato inventato dai britannici, ma noi ce ne siamo appropriati e l'abbiamo fatto tutto nostro. E quando dico "noi" intendo i torinesi che, tra le altre centinaia di grand'idee messe sul piatto, hanno anche "inventato" la Federazione e il Campionato di Calcio. Ma questa è Storia con l'iniziale maiuscola, una Storia, d’altronde, che viene raffigurata in queste pagine e contornerà le nostre vicende sportive. Per come, invece, il calcio delle nostre contrade si è sviluppato e per quanto ha compiuto ed è cresciuto, è meglio proseguire per gradi e cominciare a leggere questi primi accenni. Sono le prime storie, quelle che riguardano da vicino soltanto alcuni di noi ma che, comunque, hanno saputo intrecciare il proprio cammino sportivo con molti dei personaggi che nei prossimi volumi incontrerete e conoscerete meglio. Tito Delton

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Capitolo I

Emozioni che ritornano

Oggi non ho sentito gli aruspici, ma sono venuto ugualmente all’appuntamento. Non è che sia superstizioso, esserlo dimostra soltanto stupidità, ma gli aruspici, la supposizione di sapere cosa sarebbe accaduto, sono, per me, quegli sbattimenti del cuore, quelle sensazioni, quello, come raccontava Gaber in una sua ballata, “scuotimento epigastrico duodenale” che, solo, ti fa sentire quasi impaurito, sensibile sul divenire, comunque emozionato. Persino Caio Giulio, il Cesare per eccellenza, ascoltava i suoi indovini (gli aruspici, appunto, che predicevano visionando le viscere degli animali, baah) per far piacere alla plebe, ai populares, ai suoi elettori in definitiva, ma non li teneva mai, ma proprio mai in considerazione perché, nonostante l’epoca, era il più intelligente di tutti, e agiva secondo ciò che più gli comodava; se ne serviva, insomma. Nei Commentari racconta come prima dell’assedio di Gergovia gli aruspici gli avessero raccomandato di insistere nella battaglia e le beccò quasi salate, mentre ad Alesia gli predissero che anche senza le legioni del generale Tito Labieno avrebbe potuto sconfiggere Vergingetorìge: meno male che aspettò Labieno, l’infido Labieno, in arrivo a tappe forzate dalla Gallia belgica, altrimenti a quest’ora staremmo a raccontare un’altra storia e probabilmente in un’altra lingua. A proposito di un’altra lingua e di Vergingetorìge, con l’accento sulla ì finale, ecco uno sfizio scolastico che al più suonerà stonato. La mia insegnante di latino, tanti, troppi anni fa, mi fece notare che, in celtico, si scriveva Vergingetorix e che rix stava per rex, il “re” latino, e che l’accento, in questi casi, cadeva sull’ultima. Sarà vero? Non lo sarà? Tuttavia, se volete fare esercizio, godere di una quasi novità e pensarci sopra quando il pallone avrà cominciato a stufarvi, provate a pronunciare quel nome e i tanti altri simili in gallico (che non è una vera e propria lingua ma che non so come chiamare perché il celtico era solo di poche tribù e quindi mi adatto a cercare di farmi capire, se posso) e potreste anche divertirvi: ma ci vuole lo spirito giusto!

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A questo punto direte: va bene, va bene, ma che c’entra parlare di aruspici, di predizione, di divinazione, di intuizione latente, persino di Vergingetorìge nell’anno del Signore 2005? Forse che voglio propinarvi, penserete anche, la vecchia storia di Lucio Domizio Enobarbo, quello che stava sui cocones a Cesare e che non ne combinò mai una giusta pur facendosi eleggere console e che degli aruspici era un fanatico? Ma no, che era solo un modo per avvicinarmi alla storia giusta, divagando e tentando di supporre, indovinare insomma, cosa poteva riservarmi la giornata festiva, in attesa che arrivi il mio amico Bruno Bovio, un “sacerdote” della torinesità, in ritardo, qui in Piazza Massaua a Torino, di quasi venti minuti. Alle cinque meno dieci, la sua Fulvia HF coupè, immatricolazione del 1974, con quelle grosse targhe su ambedue i paraurti che stanno ad indicare l’appartenenza al club delle meraviglie automobilistiche d’altri tempi, si ferma al mio fianco ed il Bruno, serafico e candido come un cit, scende, mi abbraccia e fa: “Passato bene il Natale?”. E’ il 26 dicembre 2005, l’appuntamento che ci eravamo dati era per recarci al “Lucento”, dove di lì a poco sarebbe cominciata la finale della trentaduesima edizione del “Caduti di Superga”, anche se la serata che ci attende comincia ad avere un aspetto di… emme. Non lo strozzo perché ho un freddo terribile alle mani, i piedi quasi congelati e poi avrei troppe grane con un… cadavere lì, nel mezzo della piazza! Ma glielo faccio comunque notare e lui, di rimando, mi schiaffeggia: “ Dih, disbela, mi avevi detto alle cinque perché la finale cominciava a quell’ora e se anche non ci saremmo visti i primi minuti di gioco….”. Era vero, aveva ragione, ero io che avevo sbagliato le quadre e mi ero preso, io vecchiaccio di duecento anni, un disbela più che meritato da un altro nonnetto di trecentoventi. Bruno Bovio, qualche primavera in più, era stato mio dirigente in una delle prime società di calcio che avevo frequentato, l’USAM (Unione Sportiva Aldo Marcozzi di Torino), ed in tutti gli ultimi cinquant’anni abbiamo mantenuto un rapporto che chiamo cordiale soltanto perché non mi viene un aggettivo migliore. Testa fine, modi pacati, sempre senza un filo di voce sopra le righe, un misurato buon senso e quella naturale autorevolezza tanto che solo una ventina di anni addietro ho “saputo” dargli del tu. Con noi avrebbe dovuto esserci anche Roberto Reinaudi, ma proprio cinque giorni prima, all’improvviso, l’aorta gli si spaccò in tutto il corpo, devastandolo e portandocelo via in neanche ventiquattr’ore.

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Brutta botta per tutti perché Roberto era un “ragazzo”, consentitemi questo termine perché a soli sessantasei anni non è giusto sparire per sempre, dall’animo dolce, deciso e autorevole, ma con un sorriso, perenne, che nessuno, mai, potrà dimenticarlo. Era stato, anche lui, un atleta importante, aveva vestito, negli anni cinquanta, la maglia numero uno di portiere nel Cenisia e poi, anni sessanta, nell’Istituto Sociale dei tempi d’oro, aveva sfiorato il professionismo che aveva abbandonato perché la scuola ed un lavoro gratificante lo avevano attirato molto, molto di più. Tramite le rispettive famiglie ci eravamo conosciuti bene e ci eravamo frequentati in modo continuativo. Recentemente era andato a vivere in campagna, in simbiosi con una moltitudine di animali (aah, i suoi cani, i suoi cani!) che amava, o meglio, che aveva imparato ad amare dopo alcuni spaventi da ragazzino e che soltanto le persone delicate, intelligenti sanno commutare in comportamenti appropriati. Come da molte stagioni, all’inizio di dicembre ci eravamo dati appuntamento per l’ennesima edizione del “Caduti” dove, anche se lo spettacolo avesse lasciato a desiderare, in ogni caso avremmo incontrato, era certo, una marea di amici. Di vecchi amici. L’antivigilia di Natale, giù al cimitero di corso Novara a Torino, i tanti vecchi amici lo hanno veramente incontrato, ma è stata l’ultima volta. Intanto si va. A bordo della Fulvia coupè, “HF” specifica il Bruno, imbocchiamo il viale che attraversa il parco della Pellerina e ci dirigiamo verso l’impianto del “Lucento”. “Sai – è sempre lui che mi stuzzica vedendo come mi sfrego le mani pur inguantate e notando il mio sguardo scettico che rotea nell’abitacolo – che questa vettura ha portato a passeggio persone importanti ed anche una miss Italia?” “Lascia perdere Cristina Chiabotto – prorompo io – pensa piuttosto a dare un po’ di riscaldamento qui dentro, perché neanche i miei aruspici potevano supporre che saresti venuto con questo carciofo” “Ma non la Chiabotto di Borgaro, na turinèisa bela côme ‘n cheur, e nemmeno quell’altra di Santa Rita che è torinese come io sono asburgico, ma un’altra miss degli anni settanta!” Mi sono fregato da solo. E sì, perché sono andato a toccare il tasto della torinesità proprio con un cultore di storia patria e quando dico storia patria, si sappia che Bruno Bovio intende e non comprende altro che la storia di Torino da Augusta Taurinorum in avanti. Ci mette anche la Venaria, perché Reale, Moncalieri per il castello di Vittorio Emanuele II, Nichelino per la Palazzina di Stupinigi, Rivoli per il

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Conte Verde e tutti gli altri luoghi della cintura soltanto, afferma e ripete, perché sedi dei “nostri” vassalli e valvassori. Dice “nostri” ed è categorico. Io non è che non approvi, ma se mi insinuo in discussioni di questo tipo, faccio la figura del principe consorte che sta ad ascoltare e non dice una parola: e troppo! Allora divago per portarlo altrove e riaccenno alle previsioni sulla giornata. “Se facevi lavorare la testa nel modo giusto – ribatte – avresti pensato a Giôanin ‘l sop, quel tipo strano ma simpatico di Borgo Vittoria che è zoppo come me e te, e non so perché lo chiamino così” “E cosa c’entra Giôanin?” “Cosa c’entra? Ma non ti ricordi che in tanti lo chiamavano, anche in radio è andato, per farsi predire il futuro o per sapere che tempo avrebbe fatto il giorno dopo o la domenica successiva. Lui, che sapeva di essere un boia fauss di prima categoria, in queste occasioni se ne usciva con una previsione eccezionale per… precisione. Diceva, ad esempio: se ‘l Monviso a l’ha ‘l capel (le nubi, ndr) o ch’a fa brut o ch’a fa bel. E’ vero, non riuscivi a capirci niente, ma per lo meno ti saresti fatto una bella risata” Arriviamo in Corso Lombardia per cercare di parcheggiare il più possibile vicino all’impianto e da dove, lo intuiamo da un improvviso boato del pubblico e da uno strepitio di trombe a bomboletta, qualcuno è andato in gol: è il Lascaris di Pianezza, ci raccontano subito dopo, che nei minuti iniziali (quelli che, ci eravamo detti, forse sarebbero andati sprecati…) ha infilato il sette della porta del SanMauroPianese (il San Mauro di Benedetto, Vomiero, Mazzuchetti e Gagna, tanto per intenderci) con il proprio centravanti Reale e conduce la gara per uno a zero. Ci sistemiamo nelle tribune del campo dopo un’infinità di saluti e di strette di mano e ci godiamo questa finale che pare accesa nei toni e molto decorosa in quanto a qualità. Non è passato un quarto d’ora dal nostro arrivo che il San Mauro pareggia: bel fraseggio a centrocampo e botta sicura di Dellisanti che porta in parità il match. Non verrà segnata più alcuna rete anche se il gioco continuerà ad essere piacevole e soltanto i rituali calci di rigore determineranno i vincitori. La spunta il San Mauro per 5 a 3 e logica esultanza di tutto lo staff gialloblu che per la seconda volta, la prima era stata nel 2001, scrive il proprio nome nell’Albo d’Oro di un torneo giovanile così importante. Preannunciata dall’altoparlante, quando ormai il buio incombe totale, dopo poco avviene la premiazione dei vinti e dei vincitori in una atmosfera surreale, con una iniziale

4 nebbiolina che ovatta l’ambiente e che nemmeno le torri faro del campo riescono a penetrare integralmente. E’ a questo punto che Bruno mi da di gomito, mi guarda negli occhi e dice: “Non ti ricorda nulla tutto questo?” Per la miseriaccia, se mi ricordo! Sono passati quarantasei anni ed in un attimo rivivo la “mia” finale, la finale del primo “Caduti di Superga” che il Lucento organizzava nel suo vecchio impianto, quello a ridosso della chiesa parrocchiale, con un fossato che separava gli spogliatoi dal terreno di gioco e che nei tempi andati ha sempre caratterizzato la borgata. L’unica differenza riguarda il periodo di svolgimento che, all’epoca, si sviluppava tutto tra Pasqua e Pasquetta. Non dico che un groppo mi salga in gola, ma certo che le parole del Bruno hanno finito per darmi un’emozione. Sarà l’età, sarà anche il ricordo di quella medaglia, ‘d tola, che non mi ha mai abbandonato e che sempre, proprio sempre, va sapere perché, ho tenuto agganciata al mio borsone da gioco: fosse del 1959, del ’68, oppure del 1980, ultima stagione effettiva con le braghe corte, o anche di questi giorni che, ormai, quel borsone è solo un ingombro ma che non ho il coraggio di sbattere via, di privarmene. Quasi d’improvviso, come in un remake al contrario, la gara che ho appena visto si trasforma nel match tra l’USAM, maglie verdi, e il Palatino, maglie gialle, quel Palatino che avrebbe vinto il torneo l’anno dopo e che era guidato dal “grande” Angelo Fracchia, poi passato al Rapit, prima edizione, e quindi, al seguito di Dino Raviola, al Bacigalupo quando la società di Borgo Dora scomparve. Quel giorno di Pasquetta del 1959 il tempo era ballerino, nel senso che si alternavano piovaschi a schiarite e che, tuttavia, nel pomeriggio si mantenne sul discreto, senza sole e senza pioggia, ma con ancora il cielo grigio ed il terreno chiazzato di pozzanghere: si sa, non era una pelouse perfetta, mica s’era ancora inventata l’erba sintetica! Il nostro “undici” era guidato da un certo Beppe Angela e quasi tutti i giocatori non si capacitavano del suo cognome (il famoso Piero e l’altrettanto famoso figlio Alberto non erano ancora apparsi in tv!) tanto da chiamarlo semplicemente Beppe, pur se anteponevano, come i costumi dell’epoca dettavano, il “signor” in ogni occasione. Angela era un allenatore d’antico stampo, tanta psicologia e tattica manco concepita, poche parole sugli avversari e continui incoraggiamenti personali da bordo campo. Quel pomeriggio, dunque, nello spogliatoio avevamo tutti una certa ansia addosso e poiché non esistevano le riserve, in undici si giocava e

5 in undici, se andava tutto bene, si finiva, il batticuore non era certo dettato dal sapere o meno se si entrava in campo, quanto dal fatto di giocare una finale di un torneo che era una rarità per i periodi che stavamo vivendo. Consci, quindi, dell’intensità di quei minuti, tutti noi eravamo attenti alle parole di Angela e proprio mentre aveva cominciato a leggere i nostri nomi, ricordo dei piccoli foglietti che strappava, ogni volta, da un blocco, secondo la numerazione crescente delle maglie: “1 Lupi, 2 Poggio….”, a qualcuno nel fondo del camerone era scappata una scoreggia, una sberla che non vi dico! Non era possibile, assolutamente non era possibile far passare… sotto silenzio una cosa del genere e lo stesso Angela, come tutti gli altri dirigenti e ragazzi, erano scoppiati in una risata, quasi liberatoria, che aveva stemperato l’atmosfera ambientale. Ma pensateci, pensateci un attimo, fate mente locale alla situazione e poi traetene le conseguenze: c’era da pisciarsi addosso dal ridere e non è detto che non sia accaduto a qualcuno. Non solo, ma non siamo neanche mai riusciti a sapere chi fosse stato l’artefice della “bomba”, anche se molti di noi avevano qualche sospetto, e, comunque, gli undici scesi in campo erano stati: Lupi, portiere, Poggio e Coltella, terzini, Del Bianco, Delton e Bugala in mediana, Brenna, ala destra, Paporello e Ferraris, le due mezze ali, Marchetti, ala sinistra e Felace centravanti. Avevamo vinto con una sberla di Felace dal limite e con un’autorete del centromediano avversario che “pizzicò” con lo stinco un tiro di Brenna sotto misura. Avete fatto caso alla denominazione e alla suddivisione dei ruoli? C’erano ancora i terzini, i mediani, le mezze ali e le ali, lo stopper cominciava ad intravedersi ed il libero, nel calcio giovanile, l’aveva appena “inventato” un certo Polchini, di cui diremo. Non era un altro sport, era un altro calcio. Non si andava ai cento all’ora, si giocava con la moviola, ma il divertimento, l’emozione di quando il gioco era ben fatto, era tal quale a quello d’oggidì. Emozione e nostalgia, dunque. Vero, ho vissuto quell’emozione, forse, con maggiore intensità adesso di quanta ne abbia provata al momento di ricevere la coppa del vincitore dal presidente del Lucento, Ferraris, in quel pomeriggio di Pasquetta del 1959. Per la nostalgia non divago, non voglio divagare perché potrei non essere sincero fino in fondo e su tutto, comunque, c’è quella medaglietta di latta con un’iscrizione elegante in basso che indica il “1° premio”, un riconoscimento talmente grande che, mi risulta, anche altri miei compagni di gioco hanno conservato.

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Capitolo II

Un pallone che cambia

Per una strana combinazione del caso sono… trapassato dai giorni nostri ad un bel numero di anni addietro e proprio questo non impossibile gioco della memoria mi ha fatto pensare a come tutto ciò era potuto accadere, come lo sport, nazionale, regionale e locale aveva fatto a riprendersi da quella immane batosta che era stata la Seconda Guerra Mondiale. E ci ho ragionato. Nel 1945 l’Italia era a pezzi. Coloro che hanno meno di sessanta, settant’anni manco concepiscono come si viveva in quelle stagioni. Arrivai a Torino in un inverno naturalmente freddissimo (l’effetto serra era di là da venire!), mia madre, mia sorella ed io avevamo dovuto abbandonare, in fretta e furia, a Pola, capoluogo dell’Istria ormai perduta, qualsiasi cosa avessimo posseduto, con un bilancio economico familiare allo stremo e con una iniziale necessità che tuttavia era difficile da soddisfare: avevamo freddo! Noi, abituati alle zone di mare e quindi ad un inverno temperato, non trovavamo che pochissima legna da ardere, ed eravamo nella continua ricerca di una qualsiasi cosa che potesse fare fuoco, scaldarci insomma. Ricordo che mia madre (mio padre, ormai, da qualche mese non c’era più su questa terra!) mi raccomandava in continuazione di raccogliere carte e giornali, se li vedevo a terra, e poi nei momenti liberi dalla scuola mi obbligava ad immergere tutta la carta raccolta in una bacinella colma d’acqua e, in seguito, a farne delle palle molto ben compresse da lasciare ad asciugare sul pavimento vicino alla stufa: sarebbero servite, quelle palle, per fare fuoco, un fuoco lento a consumarsi in un lasso di tempo lunghissimo a causa della compressione della carta. Era un modo per riscaldarsi, per cucinare ed oltretutto a costo zero. Ma non era soltanto il freddo che attanagliava me e i miei connazionali in quelle ore. Un altro fantasma aleggiava sulla nazione: la fame! Se era vero che mancava il carbone, che c’era poco legname e molte materie prime erano inesistenti, se le fabbriche funzionavano a singhiozzo e la disoccupazione era allarmante, ciò che preoccupava fortemente era la scarsità degli approvvigionamenti alimentari. Si

7 diceva che se una sola nave, anche una sola, programmata dall’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitations Administrations), un’organizzazione di aiuti economici gestita da USA e alcuni paesi dell’America Latina, e carica di cereali “argentini” (il “Piano Marshall” arriverà soltanto due anni dopo), non avesse potuto attraccare nei nostri porti sarebbe stato il disastro per milioni di italiani. Le nostre campagne erano ancora in stato di semi abbandono, mancavano quasi del tutto i macchinari per far “funzionare” egregiamente la terra e, come sempre è avvenuto e come sempre avviene, sono i contadini che pagano maggiormente il peso della guerra: a fine ’45 e per tutto il ’46 e anche oltre, migliaia e migliaia di prigionieri dovevano ancora rientrare in patria e oltre il 70% di questi erano contadini, pastori o montanari. Oramai da tempo si usavano le tessere annonarie, qualcuno ricorda quei foglietti stampati su carta ruvida e di colore indefinito, quasi marrone, con i quadratini che il negoziante ritagliava? Servivano per razionare i prodotti alimentari di prima necessità: tot grammi di pane, tot di burro, di zucchero, di carne, di olio. Erano documenti personali, assolutamente non cedibili e suddivisi per fasce di età. La razione di pane, tuttavia, in quei mesi grami era molto esigua, tanto da far nascere qualche trambusto tra la popolazione, come era accaduto a Ferrara dove era dovuta intervenire la “Celere”. Ma non c’era protesta che teneva: i giornali annunciavano che la razione giornaliera di pane era stata ridotta e da fine mese sarebbero stati disponibili soltanto 200 grammi a persona, fatti con una miscela di farina di grano all’80%, oltre a 35 grammi di farina di granturco. Inoltre tutte le carte annonarie avrebbero dovuto essere riviste. Ci informavano anche che l’Alto Commissario per l’Alimentazione aveva stabilito che da Roma, compresa, in giù, il “chilogrammo di generi da minestra” sarà composto per metà di riso e l’altra metà di pasta, mentre da Roma alle Alpi sarà composto esclusivamente da riso. Prospettive nere. Chi aveva qualche possibilità economica in più se la vedeva con la “borsa nera”, composta da gente che faceva contrabbando, che “saltava” le postazioni daziarie, quei fabbricati situati a ridosso delle vie di comunicazione in entrata delle grandi città e che anche il più piccolo paese possedeva. Erano uffici dell’erario, scomparsi dopo l’entrata in vigore dell’IVA, che acquisivano la prima tassa su qualsiasi tipo di merce che entrava nei grandi centri urbani o nei piccoli paesi e che doveva essere collegata ad una bolletta, la ricordo di colore rosa e verde, che dimostrava l’avvenuto pagamento, appunto,

8 del dazio. Ma il “borsaro nero”, l’uomo in macchina, in moto, o anche solo in bici, che girava per le campagne non saltava soltanto il dazio, l’Annona come ufficialmente si chiamava, evitava anche l’ammasso e da fuori legge poteva vendere al prezzo che riteneva la sua merce, senza tener conto della tessera annonaria: era un benefattore o un profittatore indegno? Questa domanda se lo sono posta in tanti, ma una risposta precisa non c’è mai stata. Per noi ragazzi che stavamo crescendo, ed alcuni cresceranno persino troppo in fretta, era un continuo arrabattarsi per riempire un po’ di più la pancia: inutile chiedere in casa, ci rivolgevamo… altrove. E così a farne le spese, qualche volta, erano i cavalli di una cascina situata nelle vicinanze di casa mia, cui noi rubavamo qualche carruba dal sacco che pendeva dal loro collo. Nei mesi estivi si provvedeva con la “maroda”, termine dialettale piemontese di cui non ho mai conosciuto l’effettiva etimologia, ma che intendeva… ehm… il “prelievo di frutta varia dagli alberi di proprietà altrui compiuto in collettività”, mentre in inverno non restavano che le carrube, asciutte, dolcissime che non riuscivamo a comprendere come potessero darle solo ai cavalli. Come era possibile restare a guardare quelle dolcezze quando lo stomaco gorgogliava ed a portata di mano c’era la soluzione? Ma noi eravamo moderati, i cavalli non si lamentavano e i contadini non se ne accorgevano, salvo qualche rara volta, in estate, quando i loro insulti ci giungevano da distante mentre eravamo appollaiati su qualche pianta e facevamo in tempo a dileguarci. Oltre ai soliti giochi, dopo le ore di scuola, c’erano dei giorni in cui, verso sera, calava una strana calma. Era l’ora del “giornaleradio”! Non erano in molti, nel nostro cortile, a possedere la radio e quando si prevedeva che qualche cosa di interessante sarebbe stato trasmesso, anche noi ragazzi ci radunavamo sotto la finestra di qualche amico e, tutti in religioso silenzio, stavamo ad ascoltare cosa succedeva nel resto d’Italia o del mondo. A molti parrà banale, persino puerile di questi tempi, che si incollasse l’orecchio a quella scatola misteriosa, tale pareva a noi ragazzetti, mentre invece era un “rito” che nessuno disdegnava e perfino dopo cena, quando erano annunciati “spettacoli d’eccezione”, si faceva gruppo da questo o da quel vicino di casa. A pensarci ora, erano momenti struggenti. Quindici o venti persone attorno alla radio, due copie di morosi, qualche anziano che pretendeva la postazione migliore, mamme e papà, figli e parenti. Ed era una cosa seria se anche i giornali annunciavano, in un tassello pubblicitario della “RAI – Radio Audizioni Italiane”, che quella

9 settimana, dal 9 al 16 febbraio, ci sarebbero state tre opere (Resurrezione, Otello, La Boheme), una operetta, due concerti sinfonici diretti da Fernando Previtali e tre commedie (Pigmalione di B. Shaw, George Dandin di Moliere e La signorina Josette di Gavault), ed era per tutte le famiglie, bastava fare l’abbonamento annuo alle Radioaudizioni che scadeva il 19 di febbraio! Sono cose che fan sorridere, ma che per quei giorni erano straordinarie, come il ricordo di certe pubblicità che i quotidiani sfoggiavano in spazi invero modesti. C’era il “Thermogene, l’ovatta che genera calore, per curare raffreddori di petto o dolori alla schiena”, ricordate la silhouette dell’omino con l’ovatta sul petto e le lingue di fuoco che uscivano dalla bocca? Ma esistevano anche le “Pillole di Santa Fosca, lassative, purgative” e poi la “Catramina, pastiglie per i mali di gola e per la tosse”. Tutti prodotti scomparsi o, per lo meno, di cui è scomparsa la relativa pubblicità. E lo sport? Trenta righe su una colonna, titolo compreso, informavano che Maroso, Mazzola (Torino) e Parola (Juventus) erano stati convocati nella squadra del “Resto d’Europa” che doveva incontrare i maestri della Gran Bretagna: oggi non sarebbe stata sufficiente una pagina intera. Oltre la radio, tuttavia, un’altra attrazione colpiva la popolazione: era il cinema! A Torino, nella sola Torino, esistevano, tra centrali e periferici, tra prime visioni e seconde visioni, oltre quaranta cinema. E così, mentre all’Astor davano “Situazione imbarazzante” con Ginger Rogers e David Niven, all’Ideal si programmava “Maria Antonietta” con Norma Shearer e Tyrone Power, e c’erano dei locali di borgata, sempre pieni, come l’Odeon di Barriera Francia con “Paradiso perduto”, a colori, il Brescia a Barriera di Milano con “Questo nostro amore” o lo Spezia al Lingotto con “Idolo delle folle”. Ma non basta, al Teatro Carignano si esibiva la Compagna teatrale “Ruggeri Adani” e l’avanspettacolo, dopo il film, lo trovavi al Frejus, all’Adua, al Regina, al Radium. Come è facile intuire, pur tra tanta miseria, si ricominciava a vivere. E non era finita qui, perché, in fin dei conti, quanto ho indicato negli ultimi paragrafi si rivolgeva quasi esclusivamente agli adulti. Sì, sì la radio andava bene anche per noi, specie quando si collegava al Giro d’Italia e ci si scazzottava, realmente, per Coppi o per Bartali, mentre il tifoso “ultras” di Torino e Juventus manco era concepito in quanto i campioni delle due squadre li incontravi quando volevi in giro per la città, ma il bello arrivava alla domenica.

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Al mattino, dalle otto e mezza, si andava a servir messa in parrocchia, un turno ciascuno ed eravamo in tanti in quanto, prima della Messa Grande, don Arisio, il parroco della “Natività di Maria Vergine” nel mio quartiere di Pozzo Strada, un uomo alto dal fisico asciutto e austero, ci rifilava una bella pagnotta col salame o col formaggio, poi si giocava a pallone nel campetto a fianco della chiesa sino all’ora di pranzo o, servita messa al vespro, all’ora di cena. Domenica per domenica la scena era sempre la stessa; prima della Messa Grande, quella “cantata”, don Arisio ci convocava in sacrestia e, mentre ci sistemavamo tutti in fila davanti ad un grosso comò dopo esserci tolti i paramenti e averli messi, ripiegati in assoluto ordine, su una cassapanca vicino alla porta, lui entrava di botto “sparando” con la sua voce squillante un “Sia lodato Gesù Cristo!” Noi tutti, ma proprio tutti, qualsiasi cosa stessimo facendo la tralasciavamo, ci voltavamo verso il sacerdote e rispondevamo con un unisono “Sempre sia lodato!” Quindi ci passava in rassegna quasi fosse un generale e noi i soldatini e prima di porgerci la pagnotta con il leggero companatico, chiedeva chi era di turno per la prossima messa e poi aveva qualche parola o qualche rimbrotto per ognuno di noi ragazzetti. “Tu, Giuseppe, oggi eri distratto. La campanella si suona quando il calice è alzato e non quando il sacerdote vi versa il vino!” “E tu, Tito, ti ho osservato, sai, non hai risposto a don Gerolamo due o tre volte, mentre parlare con l’amico ti veniva facile, eh!” E faceva cenno di rifilarmi uno scappellotto che, ovviamente, non giungeva mai a bersaglio. Poi continuava con le ramanzine e prima di porgerci la pagnotta, che era guardata con vera avidità, notavamo che sapeva sempre tutto, conosceva le nostre magagne e le nostre, poche, virtù, come si viveva in famiglia, cosa faceva il papà, chi era la mamma. C’è stato un periodo che, con uno di noi, se ricordo bene si chiamava Giacomino, aveva dei continui brevi colloqui. Per riservatezza se lo portava in un angolo della sacrestia, distante dalla nostra fila, si chinava alla sua altezza e gli parlava per qualche minuto. Il piccolo doveva avere grossi problemi in famiglia, pare che il padre fosse in galera, e don Arisio, l’ho saputo dopo, oltre ad aiutarli concretamente, si interessava all’evoluzione dei guai che anche un bambino di quell’età comprendeva perfettamente. Una grande persona, prima ancora che un bravo sacerdote è stato don Arisio, un prete che nessuno chiamava mai per nome, non ricordo nemmeno qual’era, ma che tutti rispettavano e di cui avevamo grande deferenza.

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Una festa vera, la domenica di quegl’anni, che non ho mai dimenticato. Se si è capita l’atmosfera, meglio ci si renderà conto di quanto grandi siano stati i primi dirigenti federali del nostro calcio e dello sport nazionale in genere. A livello politico si era compreso che per la “nuova” Italia era doveroso, anzi, impellente dare sfogo subito alla nostra gioventù. Pertanto si era messa in moto la vecchia macchina organizzativa, quella che aveva saputo costruire un calcio di prim’ordine, con due titoli mondiali, uno olimpico e aveva consentito di far giocare, con l’ULIC (Unione Libera Italiana Calcio), una moltitudine di ragazzi: dai quattordici anni in su! Proprio così, all’epoca si cominciava a giocare al fulbal organizzato dai quattordici anni in avanti. E organizzato, per stare a quanto un “antico” dirigente della FIGC mi ha raccontato e di cui stiamo per narrarne la storia sportiva, nel modo giusto, nel senso che si lasciavano aperte molte porte al regolamento per consentire a tutti di districarsi in uno sport che era sempre piaciuto e continuava a piacere. Intendiamo parlare di Barbotto, il Cavaliere Ufficiale della Repubblica Vittorio Barbotto, sulla breccia in FIGC ben prima della Seconda Guerra Mondiale e che continua ad esserlo con l’attuale Presidenza della Commissione Nazionale Premi di Preparazione. Un monumento, se mi è consentita l’iperbole, per uno dei dirigenti sportivi che più se lo merita e di cui Torino e il Piemonte possono menarne vanto. Come dirò più avanti e proprio per avvalorare le precedenti parole, Vittorio Barbotto ha fatto parte, negli anni “giusti” della crescita del nostro calcio, di una “squadra” eccezionale, composta da colleghi che, negli anni a venire, avrebbero occupato poltrone di alto, altissimo prestigio nel calcio nazionale ed internazionale. Per il momento occorre rimarcare che tutta questa gente era torinese, mentre per i particolari vi rimando a non molte righe avanti. “Dopo aver frequentato, nell’anteguerra, la sede storica della FIGC di via Ponza 2 a Torino, a due passi da piazza Solferino, – è Barbotto che racconta – come volontario di segreteria, nella primavera del ’45 si cominciarono a prendere le prime decisioni. Roma, inizialmente, mantenne in Alta Italia le sue macro zone ed il Piemonte con la Valle d’Aosta continuò ad essere chiamato Direttorio I Zona, mentre l’ULIC, praticamente un settore giovanile, divenne la Sezione Propaganda. Ma come partire e come suddividere i vari incarichi? Nelle primissime riunioni c’era un tale… ambientino che faceva

12 paura. Alcuni dirigenti, o autoproclamatisi tali, arrivavano in via Ponza armati di tutto punto e quando era ora di sedersi attorno ad un tavolo per discutere delle mille iniziative di cui necessitava il nostro calcio, due o tre di loro tiravano fuori le pistole “Beretta” dalla tasca o i mitra “Sten” da sotto la giacca e posavano smaccatamente il tutto sul tavolo a portata di mano, della loro mano. Garantisco che non era facile discutere di cose impellenti data la situazione e contrastare questa gente, ma che, tuttavia, riuscimmo a isolare facendo intervenire le persone giuste, anche usando le maniere forti”. Era il primissimo dopoguerra e delle vicissitudini amare, molto amare dei vinti nessuno parlava. Esistevano comportamenti assurdi, sovente vigliacchi, che soltanto la durezza di cinque anni di guerra può in parte, in minima parte giustificare, mentre il grande pubblico ne verrà a conoscenza oltre cinquant’anni dopo, leggendo, di queste vicissitudini, su “Il sangue dei vinti” o su “Sconosciuto 1945”, due libri eccezionali di Giampaolo Pansa, un grande giornalista ed un “revisionista” di buon senso per dirla con il linguaggio attuale, che citerà una notevole serie di efferatezze, vendette gratuite, omicidi sconvolgenti compiuti da alcune schiere di partigiani comunisti, a cui appartenevano anche i citati “dirigenti” che la FIGC piemontese aveva faticosamente allontanato. Intanto, quelle prime decisioni a cui accennava Barbotto erano state prese e il calcio giocato si faceva, ormai, nella Lega Regionale della FIGC, come già nel gennaio 1946 aveva cominciato a chiamarsi il Direttorio I Zona, con la Prima e la Seconda Divisione quali categorie dei dilettanti a livello regionale, mentre le categorie “Ragazzi” e “Juniores” costituivano l’ossatura del calcio giovanile, entrato a fare parte, come detto, della Sezione Propaganda. Per molti, se non per tutti coloro che nel calcio organizzato non hanno bazzicato la FIGC, da quel momento “giocare in Lega” assumeva il significato, tuttora valido per qualcuno, del calcio “importante”. Ed in Lega Regionale si affacciavano personaggi che avrebbero “marcato il territorio sportivo” per un bel po’. Primo presidente della restaurazione, a fine del 1945, fu Agnisetta, un dirigente del Torino “prestato” alla FIGC e morto pochi anni dopo nella tragedia di Superga. Con Agnisetta e Barbotto si affacciarono sul calcio Francesco Berta, anche lui dirigente societario, questa volta del Cenisia, Renato Zucchetti e poi Mesturino e Marocco che furono i primi dirigenti federali della neonata Lega Giovanile, ideata da , vero deus ex machina della Federazione Calcio in

13 quel primo dopoguerra. Alla prima riorganizzazione parteciparono, è il caso di citarlo a larghe lettere, dei dirigenti volontari che seppero mettere il “sale” della conoscenza sul “pepe” dei molti atleti che iniziavano a formare le squadre dilettantistiche e giovanili ed avevano una voglia matta di essere presenti nel nuovo corso del nostro calcio. In quelle stagioni ci fu da “inventare” quasi tutto perché era dato per scontato che l’organizzazione sportiva fascista avesse esageratamente politicizzato l’ambiente e quindi tutto doveva essere ridisegnato. Le Leghe, quella Regionale per i dilettanti e quella Giovanile per i vivai, diedero vita ai Comitati Provinciali, mentre nella Lega Giovanile ci fu la necessità di mettere in cantiere, data il numero sempre crescente di giovani iscritti, anche i Comitati Locali. Così si istituì il Comitato Locale di Ivrea, quello di Pinerolo, di Casale Monferrato (poi chiuso negli anni ottanta) e di Verbania che venne chiamato della “Zona Laghi”, prima di diventare del VCO con l’istituzione della nuova provincia di Verbania. Nella Lega Giovanile cominciò a profilarsi un gruppo di dirigenti che saprà distinguersi per capacità organizzative e competenza tecnica di lì a pochi anni. Presidente era stato nominato Teresio Patrucco, con Vittorio Barbotto, Dario Borgogno, Achille Busso e Renzo Righetti a condurre il “sistema”. Oltre all’aspetto puramente organizzativo e burocratico, si mosse anche quello prettamente sportivo con la realizzazione delle Rappresentative che, pur non partecipando ad alcuna manifestazione nazionale (non se ne parlava nemmeno, in quei primi tempi), mettevano in cantiere incontri con le selezioni delle regioni settentrionali. Il primo selezionatore e lo sarà per diverse stagioni fu Vittorio Barbotto che si sobbarcava anche questo compito oltre ai vari altri in Comitato. Contro i pari età di Parma, di Genova o di Modena, come negli avanspettacoli alle gare internazionali o della nostrana, Barbotto aveva l’occasione di vedere in azione ragazzi che faranno strada nel professionismo ma che, all’epoca, erano dei ragazzetti in squadre dilettantistiche giovanili. Parlo, per citarne alcuni, dei vari Rossano, andato al Milan, De Asti al Palermo, Mattrel e Giuliano alla Juventus e di un certo che nella trasferta della Rappresentativa nel 1946 a Genova, si era permesso di lasciare il suo borsone nello scompartimento del treno, pensando che ci fosse un dirigente incaricato del prelievo: il dirigente accompagnatore, un certo Volpato, lo richiamò, gli ingiunse di ritornare a prendere il proprio borsone e, già che c’era, di caricarsi

14 anche la valigia di Barbotto che stava proprio a fianco. Boniperti non fece una piega e ubbidì tranquillamente a quanto gli era stato ordinato. In quelle stagioni in cui anche il calcio nazionale subiva dei veri e propri stravolgimenti, probabilmente sulla spinta emotiva delle sonore batoste subite dalla Nazionale maggiore nei Campionati del Mondo del 1950, ’54 e ’58, orfana dei campioni granata scomparsi e di cui non era stato possibile una immediata sostituzione, il CONI nominò un Commissario Straordinario alla Federcalcio nella persona di Bruno Zauli. E Zauli fu veramente straordinario perché rimescolò le carte in modo tale, con l’ovvia consulenza di vari esperti, da disegnare le regole del nostro calcio come tuttora, per la stragrande maggioranza, esistono. Ci fu una grande resistenza dell’AIA che si è sempre ritenuta un corpo sportivo a sé stante e che invece Zauli incorporò quale Settore nella stessa Federcalcio, come “Settore” divenne anche il calcio giovanile, sempre alle dirette dipendenze della Federazione. Furono invece istituite le tre Leghe che ancora oggi conosciamo, quella Professionisti (A e B), quella Semi Professionisti (C e D), poi diventata Lega Professionisti di negli anni novanta e la Lega Nazionale Dilettanti che, attualmente, vede Carlo Tavecchio al timone. In Piemonte, come in molte, ma non tutte, regioni italiane, la Lega Dilettanti istituì la Terza Divisione, gestita dai Comitati Provinciali, per contrastare la potenza aggregativa degli Enti di Promozione sportiva che in quegli anni avevano assunto molta importanza e accumulavano iscritti a iosa. Era una questione di principio, era una questione tecnica, era una questione economica. Di principio perché in FIGC i “capoccioni” ritenevano che il calcio si dovesse fare tutto sotto le “braccia protettive” di un’unica organizzazione, la loro; tecnica in quanto le iscrizioni delle nuove squadre scarseggiavano per l’impossibilità di competere, almeno alla pari, con le società più esperte della Seconda Divisione; economica in considerazione del fatto che nuovi iscritti e, magari, tanti iscritti volevano dire molte lirette in più nelle asfittiche casse dell’epoca: come, d’altronde è avvenuto con la categoria Juniores alcuni anni dopo! A Torino intanto si proseguiva sulla scia del continuo rinnovamento e, come accennato pagine addietro, si affermò un gruppo di dirigenti federali che non avrà uguali non solo in Piemonte: Dario Borgogno, Renzo Righetti, Vittorio Barbotto, Achille Busso e Carlo Grassi. Dario Borgogno, dopo aver fatto il dirigente nel “Guerin”, dopo aver portato in auge il Cenisia, si era distinto nella FIGC locale e poi con

15 vari incarichi in quella nazionale, come nella UEFA e nella FIFA, tanto che, ancora nel 1990, fu l’artefice primo, seppur defilato, della perfetta organizzazione dei Campionati del Mondo in Italia: Luca di Montezemolo appariva e probabilmente dettava le linee base, Dario Borgogno organizzava. Alla grande. Lorenzo Righetti, arbitro nei suoi anni giovanili, diventato in seguito presidente del Comitato Regionale del Settore Giovanile, abbandonerà presto gli “scranni” locali per diventare vice designatore nazionale AIA, insieme a Ferrari-Aggradi (fratello dell’omonimo ministro in auge negli anni sessanta), poi presidente della Lega Professionisti, quindi presidente della Fiorentina (insediato in quella carica dai conti Pontello) ed infine presidente della Federcalcio Spa, la finanziaria della Federazione che ancora oggi dirige. A Righetti, comunque, voglio fare un “dispetto” e rivelare un breve episodio che un comune amico mi ha confidato e che gli farà fare un simpatico ritorno al passato, risalente ai primi anni cinquanta, quando ancora vestiva le braghette e la camicia di direttore di gara. Al campo “Ponchielli”, quello, tanto per ripetermi, che aveva il famoso tombino in ferro quasi a centro campo, si stava disputando una gara juniores tra il “Guerin” e il “Ferrante Aporti” (la Casa di Rieducazione che aveva formato una regolare squadra e che, regolarmente “usciva” per le gare in trasferta!). A fine partita, un match di quelli tosti, con il solito pubblico numeroso e le solite invettive di parte, successe che una accompagnatrice della squadra ospite, per nulla soddisfatta dell’arbitraggio di Righetti, gli si rivolgesse con acredine per un rimprovero oltre le righe. Righetti, che non si faceva intimorire da alcuno, cercò di tranquillizzare la signora la quale, invece, aumentò il tono della sua aggressività. A quel punto, come era obbligato a fare un qualsiasi direttore di gara, Righetti tirò fuori il notes e cominciò a prendere nota di quanto avrebbe, poi, segnalato nel referto: non l’avesse mai fatto! La signora si adirò talmente che nel gesticolare in modo scomposto, finì per graffiare, su di una guancia, Renzo Righetti. Quelle righe violacee sul viso dell’arbitro, tuttavia, servirono a calmare gli animi immediatamente e dopo le scuse della signora, resasi conto dell’esagerazione, tutto tornò nella norma di un dopo partita qualsiasi. Non so, invece, cosa successe a casa Righetti e quali furono le spiegazioni che Renzo dette in famiglia per quei graffi in faccia! Con Righetti fece un buon tratto di strada anche Vittorio Barbotto che dai vari incarichi federali, dalla presidenza del Comitato Regionale

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Piemonte e Valle d’Aosta del Settore Giovanile, tenuta per ben tredici anni dal 1975 al 1988, lo si trova attualmente alla presidenza della Commissione Premi di Preparazione, una commissione che è sotto il tiro di moltissime società giovanili italiane. Non ci si capacita, da parte di molti operatori delle società sportive, come alla FIGC non si riesca a trovare una soluzione alla tante, esagerate “ruberie” di mini atleti dei vivai che vengono, annualmente, sottratti, con i più disparati inghippi e i più appariscenti specchietti per le “allodole”, ad un club per passare all’altro, con alterchi e arrabbiature non da poco. Ma non si sa nemmeno che Barbotto ha dovuto lottare, in tutti questi anni, con le “lobby” delle società professionistiche che non intendono assumere cambiamenti in quel settore e che hanno saputo mettere in campo tutto il loro potere di conoscenze, amicizie, interessi. Qualcuno dice che, per limare almeno in parte la voglia di “rubare” a man bassa, basterebbe un piccolo premio di preparazione per ogni giocatore che a fine stagione se ne va a giocare in un’altra squadra, in modo tale che cuccarsi gratis otto o dieci giocatori non sarebbe più vantaggioso e sorgerebbero, almeno, dei ripensamenti. Altri, addentro alla “cosa pubblica”, ribattono che in questo modo si va contro il dettame di certe leggi, sia nostrane che comunitarie, ed allora è la solita storia del cane che si morde la coda e che non trova soluzioni se non interviene il “padrone”, in questo caso Stato e Sport. Di Achille Busso, dell’ingegner Busso, come abitualmente veniva chiamato tanto che ho dovuto fare un notevole sforzo per ricordarmi il nome di battesimo, è facile rammentarne la compostezza, la signorilità e, comunque, la competenza. Negli anni sessanta (ricoprì, per una stagione anche la carica di Commissario Straordinario del Comitato Regionale Giovanile) fece parte di quella nidiata di “teste fini” che condusse il calcio giovanile piemontese ad essere promotore in Italia di iniziative importanti come la proposta di istituire i NAGC (Nucleo Addestramento Giovani Calciatori), i capostipiti delle scuole calcio, modifiche ai regolamenti come la possibilità di sostituire i giocatori nelle partite del settore giovanile e molti, molti altri codicilli che potrebbero apparire banali se non venissero considerati nel loro insieme. Con l’avvocato Carlo Grassi, presidente per quasi vent’anni del Comitato Regionale del Settore Giovanile dal 1947 al 1965, divenuto in seguito anche lui un “grande” del calcio organizzato italiano, quel nucleo di dirigenti fornì un quadro, di Torino in particolare e del

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Piemonte in senso lato, che stupì tutta la penisola per la coesione delle persone e per le idee che quelle persone sapevano esprimere. Questa gente, preceduta dai Pozzi, dai Berta e dal “solito” Barbotto, fece da apripista ai tanti che si insediarono in via Volta alla fine degli anni cinquanta, dopo aver abbandonato la sede storica di via Ponza 2. Per la Lega Dilettanti, fu la volta di Felice Trentin, proveniente anche lui dall’AIA, che guidò il Comitato Regionale Dilettanti dopo il commissariamento di Grassi e si insediò fino a metà degli anni ottanta. Dopo Trentin, altro commissariamento con Rostagno e, subito dopo, lo stesso Rostagno fu fatto presidente dalle società affiliate. Giova ricordare che nei primi anni del dopoguerra e sino agli anni sessanta, le società affiliate eleggevano il presidente del Comitato Provinciale o Locale. I presidenti eletti, a loro volta, eleggevano il presidente regionale. Le cose cambiarono durante la presidenza Trentin, quando “Roma” decise che i presidente provinciali e quelli regionali giovanili fossero nominati, mentre il solo presidente regionale dilettanti, con i suoi consiglieri tratti da ciascuna provincia, fossero eletti dal consesso di tutte le società. Nel Settore Giovanile, divenuto anche “Scolastico” soltanto dal 1987, agli anni di presidenza Grassi e Righetti, seguì, nel 1968, la presidenza di Ermanno Boggio che lasciò il posto a Barbotto nel 1975. Mentre è facile intuire che i presidenti “nominati” fossero un’emanazione della presidenza votata, gradita a Roma soprattutto se ne era garantita la qualità organizzativa, è giusto dare a Cesare che le persone sedute sulle poltrone di via Volta o su quella di via San Quintino che, anni dopo, divenne di corso Re Umberto non sono mai stati individui che si sono soltanto guardati allo specchio e si sono dati un voto per quanto erano belli o erano buoni. Su quelle sedie si è lavorato sempre tanto, oppure si è stati capaci di far lavorare il gruppo dei propri collaboratori. Non è incensare qualcuno o tutti coloro che sono passati da quelle scale, semplicemente basta guardare i passi compiuti dal nostro calcio, la considerazione avuta negli ambienti che contano e, per chi ha vissuto dal di dentro, i successi in puri termini di promozione, organizzazione, qualità del lavoro. Per la questione della simpatia, della egocentricità, persino, a volte, dei parossismi di qualche singolo, è tutta un’altra storia che sarà meglio e più comprensibile raccontare in un altro libro, quando dirò dei tempi moderni, delle nuove teste di comando, di coloro che si affacciano, è noioso scriverlo ma è la realtà, al nuovo millennio.

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Capitolo III

La storia è passata da qui

Questi primi passi nel calcio organizzato, passi che lasciavano intravedere un nuovo entusiasmo del fare, del discutere, dell’organizzare, non potevano, comunque, nascondere la realtà della vita quotidiana, fatta, sì, di episodi personali, a volte anche grandi drammi familiari, ma anche di devastanti tragedie, come accennato, di eclatanti movimenti politici, storici e di costume. Tali cambiamenti o, per lo meno, ciò che succedeva intorno alla nostra comunità era difficile da percepire per la gente comune; rari fogli dei giornali quotidiani, la radio quando c’era, ma anche uno strano uso, qui a Torino e dintorni, del passaparola tramite un tam-tam emesso da un personaggio curioso e insolito: il cantastorie! Non è che costui ti venisse a raccontare del re, Vittorio Emanuele III, che aveva lasciato il trono per ritirarsi a Posillipo nel maggio del ’45 prima di abdicare, della “luogotenenza”, una soluzione provvisoria della questione monarchica, inventata per consentire al figlio Umberto II di mantenersi in carreggiata per il susseguente referendum del 2 giugno 1946, che avrebbe sancito la fine della monarchia e l’esilio perpetuo del nuovo re, e nemmeno ti diceva chi era, sempre nel ’46, il Presidente provvisorio della Repubblica Italiana, il napoletano Enrico De Nicola, grande personaggio di altissima dirittura morale, né che a febbraio dell’ultimo anno di guerra c’era stata la “fondazione” di un vero e proprio spartiacque con le conclusioni della Conferenza di Jalta, in Crimea, a cui avevano partecipato Stalin, Roosevelt e Churchill e che aveva deciso le varie zone d’influenza, politica ed economica, dei tre “Grandi”. Non ti parlava nemmeno del processo di Norimberga, iniziatosi a novembre del 1945 e diventato il più famoso atto d’accusa contro i criminali nazisti, conclusosi nel 1946 con una ventina di condanne a morte, ma neanche che era stato “inventato” un secondo sole, un sole artificiale come la bomba atomica, sganciata da un bombardiere americano il 6 agosto del ’45 su Hiroshima, il cui soffio causò centomila morti giapponesi in dieci secondi e risparmiò la vita di almeno un milione di marines se avessero dovuto conquistare,

19 isola per isola, l’intero Giappone con i suoi fanatici combattenti; non ti cantava che il presidente americano Roosevelt era morto e che gli era subentrato Truman, ai comuni cittadini, francamente, non gliene poteva fregare di meno (Roosevelt chi?) o che le truppe francesi, aih, aih, aih, erano sbarcate nel Vietnam del Nord e che sarebbero state… rogne eterne. No, tutte queste storie e tante altre cose ancora il cantastorie non te le raccontava, lui si dedicava ad altro, ti faceva conoscere, cantandoci attorno, i fatti accaduti vicino a casa, quelli che avevano colpito la coscienza o la fantasia popolare. Ed era un fatto insolito perché in Piemonte e nel torinese, l’istituzione del cantastorie non è che fosse una consuetudine inveterata da chissà quanti anni, ma, comunque, frequentata da alcuni pittoreschi personaggi che sbarcavano il lunario durante le fiere di paese, oppure andavano a parcheggiarsi in quei grandi cortili delle case popolari o meno che Torino possedeva in gran numero sia a Borgo San Paolo, come a Mirafiori, a Barriera di Milano come in centro città. Arrivava, per esempio, alla festa patronale di Borgaro oppure nel cortile delle case popolari di via Revello a Torino, piazzava il suo cavalletto dal quale faceva scendere un drappo bianco che aveva provveduto a dipingere, in modo infantile ma assolutamente capibile, con la storia che, in seguito e a gran voce, declamava: “Villarbasse cascina fatale / nella vasta padana pianura / chi si ferma a guardar le sue mura / tosto un segno di croce si fa”. Ecco, Villarbasse. Forse, oggidì, saranno in molti a chiedersi: embè? Ma per la storia d’Italia, sì, proprio per la nostra storia nazionale, quel nome ha un significato importante, storico, basilare. A Villarbasse, verso la fine del 1945 erano state massacrate dieci persone da quattro “carogne”, farabutti che parevano intrufolati nella politica e che, invece, con la politica avevano nulla da spartire, e la cui condanna a morte, eseguita nel marzo del 1947, sarà proprio l’ultima effettuata in Italia. Ma la vicenda, come dimostrerò, ha avuto una sua drammaticità particolare e in queste pagine, al fine di far sentire palpabile l’atmosfera di quei tempi, mi pare giusto farne una cronaca minuziosa. Il 20 novembre del ’45, una giornata in cui la nebbia aveva cominciato a farla da padrona anche a Villarbasse, un paesino sulla collina morenica a circa venti chilometri dal capoluogo piemontese, quattro balordi, tutti originari di Mezzoiuso, in provincia di Palermo, arrivati a Torino alcuni mesi addietro per “cercare fortuna”, avevano trucidato,

20 per rubare quasi settecentomila lire (una somma notevole per l’epoca in cui un operaio guadagnava duemila lire al mese), dieci persone nella cascina “Simonetto”. Lala, il capobanda, detto “Saporito”, Puleo, La Barbera e D’Ignoti avevano massacrato a bastonate il proprietario della cascina, l’avvocato Massimo Gianoli, i suoi familiari ed alcuni mezzadri presenti in quel momento a tavola per una comune bagna cauda, dopo di che avevano legato i polsi a tutti con del filo di ferro e ne avevano gettati i corpi, appesi ad un blocco di pietra o cemento, in una cisterna situata in fondo all’aia, risparmiando un bambino di un anno o poco più che dormiva sul divano di una camera adiacente. Fino a qui i fatti, per come la stampa dell’epoca li aveva registrati, ma la complessità della strage va vista sotto un’altra luce. Il giorno dopo l’eccidio, un giovane garzone che, come ogni mattina, si recava in cascina per il prelievo del latte, sente il pianto del bimbo ma non trova alcun adulto, nessuno che risponda ai suoi richiami, vuote erano le stanze dell’abitazione, vuote le stalle e gli altri locali da qualsiasi donna o uomo che fosse ed anche gli animali cominciavano a dare segni di sofferenza. Viene dato subito l’allarme e si iniziano le ricerche, sulle prime si pensa ad un rapimento per ottenere un riscatto, ma dei dieci manco l’ombra. Otto giorni dopo, un bracciante della cascina, un certo Enrico Coletto da poco assunto e che suo malgrado diverrà famoso nei paraggi, mentre stava spazzando l’aia notò dei fili di fieno che, frammisti a terriccio, erano “pizzicati” da una lastra di ferro che fungeva da tombino al fondo del cortile, un tombino che proprio perché coperto era sfuggito a chiunque avesse frugato la cascina alla ricerca di qualche indizio che potesse dare un’idea della sparizione degli occupanti. Dopo aver scoperchiato il tombino, che nascondeva una cisterna fatta ad imbuto rovesciato, fu tremendamente colpito dal lezzo inconfondibile della putrefazione che cominciava ad affiorare dal pozzo scoperchiato. Poco dopo i Vigili del Fuoco chiamati da Torino, tirarono a terra dieci corpi, tutti con i polsi legati dal filo di ferro e con gli ancora evidenti segni delle randellate subite. Si saprà, più avanti e dalle autopsie, che alcune di quelle dieci persone erano state gettate nel pozzo ancora vive. Impressionante è la reazione dei torinesi all’apprendere della notizia. Si fa subito vivo un senso di rabbia, poi, a cose conosciute, di sconcerto per un eccidio che appare inconcepibile e che, qualcuno, aveva collegato agli omicidi ancora “imperanti” in quel dopoguerra, ma comunque legati alla politica.

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Allontanati, da subito, questi sospetti, da quel momento carabinieri e polizia cominceranno le indagini, estendendo a trecentosessanta gradi le ricerche dei colpevoli. Dapprima controllano nomi e cognomi di tutti coloro che, negli ultimi mesi, in qualche modo hanno avuto a che fare con la cascina Simonetto. Si scopre che diversi sono stati i mezzadri, i serventi o presunti tali, venuti a cercare lavoro ed una prima traccia viene fornita dal ritrovamento di una etichetta appesa ad una giacca insanguinata trovata nella vigna adiacente alla cascina, poi qualcuno fornisce il nome e il soprannome, il cognome lo si saprà più avanti, di un tale che era stato a servizio dai Gianoli e che in quei giorni non si trovava nei paraggi. Questo tale, con gli altri suoi compari, aveva trovato alloggio, nei giorni precedenti l’eccidio, in una casa di Rivoli, affittata da un compaesano che già da diverse settimane era ritornato in Sicilia con tutta la famiglia. Le susseguenti perquisizioni in quell’appartamento portano alla luce un pezzo di carta annonaria rilasciata a Venaria, dove si scoprirà che era appartenuta a D’Ignoti. L’indagine si fa più stringente quando i carabinieri di Mezzoiuso, in Sicilia, diramano un’informativa nazionale sul ritrovamento di un cadavere. E’ morto, in modo raccapricciante per il metodo con cui è stata eseguita l’ammazzatina, un certo Pietro Lala, detto “Saporito”. E’ lui, è il capobanda dei disperati venuti al nord tra guerra e dopoguerra che hanno commesso il massacro e che ha fatto una brutta fine da subito ritenuta strana per la personalità, effimera, dell’uomo: al suo paese lo chiamavano “u scarso”. Che c’entri la mafia? Pare di sì, pare che qualche capobastone si fosse risentito di cosa il Lala avesse compiuto, di cui, tra l’altro, sembra si vantasse in paese. Evidentemente riconosciuto dalla gente della cascina per aver prestato servizio poco tempo addietro, aveva tentato di passarla liscia uccidendo tutti i testimoni. Si collegano le varie ipotesi e gli altri tre suoi complici, rozzi, analfabeti, con pochi concetti vitali in testa, in capo a quattro mesi si fanno beccare dalle parti di Palermo e vengono tradotti alla carceri Nuove di Torino: si chiamano Giovanni Puleo, Francesco La Barbera e Giovanni D’Ignoti. Il processo, presso la Corte d’Assise di Torino, inizia verso maggio del ’46 e, costantemente, come scrive “La Nuova Stampa”, gli imputati tengono un contegno sfrontato, una bestiale indifferenza che non fa che rendere ancora più aberrante il crimine commesso e le sue implicazioni psicologiche. Pare, come sembrano intuire coloro che hanno seguito il processo fino in fondo, che un tale comportamento

22 fosse dettato dalla certezza di ottenere non più di vent’anni di condanna e che la liberazione, dopo un certo periodo di buona condotta, potesse essere molto più vicina, anche in considerazione del fatto che il Ministro di Grazia e Giustizia, un certo Palmiro Togliatti, aveva appena concesso una amnistia generale, del cui significato, fa notare Giampaolo Pansa nei suoi libri, ci sarebbe da scrivere un libro intero. Conti fatti male perché i giudici affibbiano a quei tre disgraziati la condanna alla pena capitale, tramite fucilazione, proprio come vigeva ancora nelle leggi della nostra neonata repubblica. Dopo gli esiti dei vari gradi d’appello, era stata inoltrata domanda di grazia al Presidente provvisorio dello Stato, che nel 1947 era ancora De Nicola, e quando un cablogramma, giunto a Torino poco prima di mezzanotte del 3 marzo, annunciava che era stata rifiutata, si erano prese le misure necessarie per mettere in atto l’estrema decisione. All’alba del 4 marzo 1947, ancora una grigia giornata, avviene quella che sarà l’ultima esecuzione di una condanna a morte comminata da un tribunale italiano. Infatti “Puleo Giovanni, di Salvatore, La Barbera Francesco, di Luigi e D’Ignoti Giovanni, di Antonio, vengono fucilati in località Basse di Stura a Torino”, come scrive il cronista de “La Nuova Stampa”, che continua: “Le dieci vittime innocenti di Villarbasse possono finalmente aver pace nelle loro tombe”. Anche se altri, nel frattempo, saranno stati condannati a morte, mai più in Italia verrà eseguita la condanna capitale che verrà abolita dai nostri Codici. Alcune considerazioni, tuttavia, mi pare si debbano aggiungere a quanto appena scritto, anche per cogliere il mutamento dei tempi, il clima in cui si viveva, il pensiero comune della gente. Il Capo provvisorio dello Stato, De Nicola, che è utile ricordare essere stato un insigne “principe del Foro”, nel prendere in mano la domanda di grazia valutò con la massima attenzione, è scritto in alcuni interessanti documenti pubblici, i ricorsi della difesa, gli innumerevoli verbali, le ammissioni, le requisitorie degli avvocati e poi, con ponderatezza e senso non comune della giustizia negò la grazia. In quegl’anni, come scrive molto bene e con estrema chiarezza Renzo Rossotti nel suo libro “Villarbasse, cascina fatale”, concedere la grazia a quei tre disgraziati “sarebbe parso inverosimile, soprattutto insultante per qualsiasi comunità civile. Così si spiega perché allora il ricorso venne respinto. Nel 1947 la realtà era cruda. Realtà che usciva dalla guerra, dai bombardamenti, dalle privazioni. L’Italia,

23 diventata una repubblica, stentava a scrollarsi di dosso l’atmosfera di prima, tornavano a casa i prigionieri, i dispersi, molti sopravvissuti ai campi di concentramento”, tuttavia restavano impresse nel cuore e nella mente dei cittadini la brutalità dell’atto, la visione di quella cisterna con i cadaveri immersi nell’acqua putrida e non si voleva provare alcuna misericordia per quella gente. Nell’ultima fase, proprio durante la traduzione dei condannati dalle “Nuove” alle Basse di Stura, credo dove oggi scorre la strada dell’Arrivore, venne dato incarico ad un frate francescano di “seguire l’anima dei tre”, così qualcuno si espresse. Quel frate era il notissimo Padre Ruggero, cappellano per una vita nelle carceri torinesi, che, scrive sempre Rossotti, “doveva traghettare all’aldilà quei tre miserevoli, tre macellai del delitto, che, considerando la giurisprudenza attuale, oggi se la caverebbero forse con qualche cosa di meno dell’ergastolo. Oggi i tre avrebbero percorso il lungo tunnel delle perizie psichiatriche e poi, chiusi in una cella per un po’ di anni, sarebbero vissuti con la speranza, neppure troppo tenue, di un possibile ritorno nella cosiddetta società. Anche la Giustizia ha i suoi tempi, vorremmo quasi dire le sue mode”. Quando i 36 agenti della “Celere”, la metà aveva il moschetto caricato a salve, sciolgono il picchetto d’esecuzione, “giustizia è stata fatta”. Che fossero altri tempi, oltre che dall’anagrafe di ognuno di noi, lo si capisce dal modo di esprimersi che molti giornalisti avevano, dalla routine per l’accadimento di certi episodi, dall’assoluta convinzione di chi scrive l’articolo apparso, martedì 4 marzo 1947, sulla “Cronaca Cittadina” di “La Nuova Stampa” e l’indifferenza di chi lo titola quell’articolo: “I massacratori di Villarbasse fucilati stamane all’alba”. Veramente altri tempi. Tuttavia, e per stare sempre al bel libro di Rossotti, “Villarbasse forse trovava pace. Non sognava che scrollarsi di dosso quella tragedia, cancellarla con tutte le forze, cambiar nome alla cascina, sistemare nuovi alberi, riprendere a vivere. La vita pretende queste accettazioni. C'era nell'aria un annuncio di primavera ma, improvvisamente, il 6 marzo nevicò. Fiocchi larghi, lenti, che volteggiavano nel cielo grigio ma rischiarato da un tenue bagliore rosa. La nevicata non durò molto, ma fu sufficiente a tingere ogni cosa di bianco. Parve una purificazione. Un bianco abbagliante dopo tutto quel buio”. Bellissime parole, pur dettate dall’occasione, ma che mi paiono consone a porre la parola fine ad una grande tragedia.

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Capitolo IV

Quella famosa maglia viola

Parlare degli anni bui della nostra esistenza, come ho appena fatto, vuol dire parlare anche degli anni incerti del nostro calcio, di quel calcio che aveva dovuto, obbligatoriamente, bloccarsi su posizioni di stallo per le gravi conseguenze di una guerra, è anche voler indicare la caparbietà di alcuni giovanotti e di alcuni dirigenti sportivi che, tra mille pericoli, tentavano di assegnare un briciolo di serenità alla popolazione torinese, da sempre molto presente sui campi dove si giocava al calcio. Tra questi coraggiosi c’erano anche i dirigenti e i giocatori che non erano sotto le armi, o perché troppo giovani o perché troppo anziani, del Guerin, società della Barriera di Milano con campo al “Ponchielli”, quello del tombino al centro, del Piemont, club di via Lauro Rossi e campo di gioco al “Maccagno”, area infossata agli inizi del parco della Pellerina, all’angolo degli attuali corso Appio Claudio e corso Lecce, molto conosciuto dai più anziani per la particolarità di avere avuto i cavi elettrici dell’alta tensione che traversavano diagonalmente il terreno di gioco, dell’“Astra” di Borgata Parella, del “Barriera di Nizza”, del “Vanchiglia”, del “Madonna di Campagna”, del “Barcanova”, in regione Barca, del “Parcosparta” a Regio Parco, con lo stadio in piazza Sofia, del ”Dopolavoro ATM” con campo in Via Monginevro, delle varie “Auxilium”, squadre salesiane con campi a Valdocco o all’interno della Casa di Correzione “Ferrante Aporti”, del “Grugliasco”, del “Nichelino”, del “Moncalieri”, di una non meglio definita squadra di Collegno, della “Rivolese” e di molti “undici” militanti negli Enti di Promozione, all’epoca molto forti in quanto a quantità di iscritti, i cui campi principali, a Torino, erano quelli del “Venchi Unica” in Via Monte Ortigara (l’attuale impianto del Pozzomaina) e di Via Lanzo, quasi ai confini con Venaria. Ma esisteva anche una società che farà parlare brillantemente di sé tra non molte stagioni e che si chiamava Sport Club Cenisia, diventata, alla fine del secondo millennio, Associazione Sportiva Cenisia.

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Un cenno particolare per questo sodalizio di Borgo San Paolo, meglio, della Borgata Cenischia viene spontaneo e, leggendo qui sotto, ne capirete il motivo. Con l’inizio della guerra, nel 1940, il “Ceni”, come familiarmente veniva e viene chiamato, fondato nel 1919, non mollò del tutto, continuò, anche se sporadicamente, a disputare partite che dire regolari era solo un eufemismo. Non rare le volte che si doveva interrompere il match al sibilo delle sirene e, senza aspettare il fischio dell'arbitro, correre al più vicino rifugio antiaereo, con una addosso che quasi ti gelava il sangue. Ma anche in queste occasioni non mancava il fatto curioso che, quasi, sdrammatizzava la situazione. Si era verso la fine del '43 ed all'ennesimo suonar di sirena aerea annunciante un prossimo bombardamento, ci fu un fuggi-fuggi generale, di spettatori e di atleti. Rubatto, dirigente, allenatore, massaggiatore, magazziniere e chissà cos'altro ancora, di quei tempi, giunto nel rifugio prese a contare i giocatori. D'un tratto si mise a gridare: "Fiôi, j manca Taricco". Tutti a guardarsi attorno e a contarsi. Era vero, mancava proprio "Cecu" Taricco. Mentre si ragionava sul da farsi ed erano passati quindici minuti, Taricco arrivava trafelato con, lontani, gli echi del bombardamento. Sempre in divisa da gioco ma con un bellissimo paio di scarpe mocassino in mano. "Scuseme, giôanott - erompeva il giocatore - ma se purtavo nen a ca ste scarpe nôve, mia mare an masava!" Era corso, non visto, negli spogliatoi ed aveva recuperato il prezioso indumento per evitare le legnate di sua madre. Pur in quell'ambiente, una risata pazzesca era sgorgata naturale in tutti gli astanti. Come Dio e… qualcun altro volle, anche questa catastrofe finì. E ci si immerse nuovamente, con quello che restava, nella vita calcistica. Ma nel frattempo era sorto il problema del campo di gioco. Eliminato quello di corso Rosselli, dove le Ferrovie dello Stato avevano costruito a suo tempo il “loro” campo e dove per tanti anni le violette avevano impazzato, si cercò una soluzione momentanea, in attesa dell'evolversi urbanistico della città. Si andò in affitto addirittura a Collegno, a destra di corso Francia, prima della ferrovia per Modane, poi un giocatore famoso del Cenisia, Teresio Dutto che, evidentemente, aveva un cervello eccezionale e capacità imprenditoriali non comuni, brigò in modo tale con il sindaco di quei tempi, Negarville, da riuscire ad ottenere il permesso di usufruire del terreno, un vero boschetto in città, situato tra il

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Bocciodromo di via Frejus e il corso Vittorio Emanuele, bloccato all'altezza dell'allora inesistente piazza Adriano e quindi isola verde per la prima periferia cittadina. Ci fu un vero e proprio blitz! Di notte o con il favore del buio Dutto e i compagni, i pochi dirigenti ed un folto gruppo di amici-tifosi, segarono, tagliarono, livellarono e diedero vita all'attuale Campo Cenisia di via Cesana 12. Era giunta l'ora di fare le cose in grande, di elevarsi, di costruire un Cenisia imperiale! Stava per arrivare il primo artefice delle fortune viola: l'industriale tessile Gatto si accingeva a diventare presidente della società. Con Gatto niente fu come prima. Tanta professionalità, allenatori di prestigio, dirigenti assolutamente impareggiabili impressero un'impronta al club che in pochi anni, e siamo negli anni cinquanta, portarono la società a primeggiare in Piemonte, prima ed in Italia subito dopo. Gatto non pensò solo alla prima squadra, ma con l'arrivo di quell'autentico Richelieu che rispondeva al nome di Dario Borgogno (credo il più grande dirigente calcistico che Torino e il Piemonte abbiano espresso), il settore giovanile aumentò esponenzialmente le sue potenzialità. Dal 1954 al 1963, periodo in cui Borgogno ricoprì la carica di Direttore Generale del Cenisia, la società arrivò a militare in Serie D (obiettivamente la si poteva considerare una C attuale) e a vincere quattro scudetti con gli Juniores (o Ragazzi come si chiamava la categoria al tempo dei primi due titoli) ed una Coppa Nazionale Primavera, paragonabile all'attuale ma che si svolgeva tra ben 246 squadre di tutta la nazione, professioniste, semiprofessioniste e dilettanti. Fu un vero boom! Ma come si era arrivati a questi risultati? Prima di tutto, come detto, le capacità manageriali di Gatto e Borgogno. Poi l'inserimento di dirigenti ad hoc, e il segretario Giuliano Molinari fu tra questi ed infine la scelta tecnica degli allenatori. Bertolini, Depetrini, Fusero, Pellini: e chi se li può scordare? Allenatori di tal fatta avrebbero fatto grande qualsiasi squadra, ma chi aveva scelto i giocatori per formare formazioni eccezionali? Certamente con il loro avallo, ma senza il fiuto, le capacità, a volte il cinismo di Borgogno non crediamo si sarebbe giunti a tanto. Molinari, sentito in questi giorni, si schernisce, ma molti tasselli andati a sistemare un organico di già competitivo, erano stati scelti da questi uomini. Non per niente, negli anni a venire, finirono per essere coinvolti in attività dirigenziali ad alto livello nazionale ed

27 internazionale. Insomma, la scuola Cenisia non valeva solo per i calciatori, ma anche per coloro che dell'organizzazione societaria ne avevano fatto un bel trampolino di lancio. Erano i giocatori, comunque, che andavano in campo ed era su di loro che i riflettori si puntavano. Nel 1953/54, l'allenatore Bertolini aveva avuto a disposizione gente come Battara (andato in Serie A con Vicenza e Sampdoria), Ferrero, Marchioretto, Fracasso, Berruto, Segato (il fratello del nazionale), Romero, Bosco (il Gigi juventino), Vaira, Torchio, Gambertoglio, Francone (già del Torino e futuro presidente del Bacigalupo), Cafasso, Dante, Comoglio e lo stesso figlio di Gatto. Questa squadra vinse un campionato di Promozione e si accinse a salire sul carro del semiprofessionismo. Nel 1954 venne varata quella formazione che, nella categoria "Ragazzi", diede inizio ai veri trionfi del settore giovanile. Da Piombino arrivava Roberto Gori, il portierone toscano salirà tutte le vette del calcio italiano e militerà, per tre stagioni, anche nella Lazio. Si formava una coppia di terzini (belli i tempi dei termini semplici semplici!), Procacci e Menaldo, che farà storia. Si instaurava l'era della stirpe Pedrazzoli ed alzava la testa quel virtuoso di Debei (a proposito, quale i ci mettiamo nel cognome?) La formazione più gettonata era: Gori, Procacci, Menaldo, Fantaluppi, Ricci, e Vanzetti (il Matteo delle mille vicende calcistiche), Debei, Sannazzaro, Pedrazzoli, Demaria e Testa. Nel giugno del 1955 il primo alloro è cosa fatta. Nelle finali di Bologna si aggiudicava il titolo tricolore battendo, in semifinale, l'Udinese e sconfiggendo l'Ostia di Roma per 3-1 nella gara decisiva. Ma si era soltanto agli inizi e l'anno dopo la squadra si confermava agli stessi livelli. Campionato 1955/56, sempre la categoria "Ragazzi", molti degli atleti tricolori sono gli stessi ed è Riccardo Pellini, il grande Plin per i tifosi di borgata, a condurre la brigata. Nel frattempo il Presidente Gatto abbandonava le scene calcistiche e Borgogno si accollava la non facile incombenza di guidare la società. Nominato Commissario Straordinario per un breve tempo, traghettava il club nel suo solito impeccabile modo e convinceva il commendator Cillario, consigliere del Torino Calcio, ad assumere la carica di Presidente. La formazione che vinse il secondo scudetto, condotta da Pellini e curata da quel grande masseur che rispondeva al nome di Bazano, era composta soprattutto da Gori, Procacci, Menaldo, Debey, Mina e

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Borca, Gionco, Pedrazzoli II, Geremia, Mazzanti e Torta con Gino Marchioretto e Testa a contorno. Mina aveva due anni in meno dei compagni e, comunque, faceva già parte di questa squadra. L’attuale allenatore dei “Giovanissimi” della CBS era destinato ad una brillante carriera calcistica, ma un disastroso incidente al ginocchio gli troncò la carriera, obbligandolo a secondarie comparsate nei dilettanti fino ad abbandonare il calcio giocato e dedicarsi, ancor giovane, ad allenare frotte di ragazzini in giro per la provincia. Curioso, a proposito, un aneddoto che lega lo scrivente a Mina. Avendo necessità di qualche cura massoterapica, mi ero recato per qualche seduta da Bazano, all’epoca tra i più quotati fisioterapisti di Torino che, oltre al Cenisia, “professava” anche per i privati. Durante una di queste sedute, mentre ero steso sul lettino, mi era caduto l’occhio su un vasetto, posato su una mensola, che conteneva del liquido, forse formalina, ed una non meglio identificata “cosa”: quella cosa era un menisco di Remo Mina, come mi aveva spiegato Bazano, che in quei giorni era stato operato e di cui il massaggiatore aveva voluto trattenere, per studio, il reperto. In seguito, incontrandoci sui vari campi, da avversari, Remo ed io avevamo scherzato su quell’episodio tanto da consentirci di iniziare un’amicizia che non si è mai sopita. A prescindere da Mina, comunque, non si era ancora sazi e la fame di alloro era l’arma micidiale che cementava il Ceni. La stagione dopo, il 1957/58, c'è, forse, la vittoria più esaltante dell'intero ciclo d'oro della società di via Cesana. Il Cenisia si aggiudica la Coppa Nazionale Primavera e può fregiarsi di un emblema particolare, il tricolore a sbarrare lo scudetto in campo bianco. Imporsi a 246 squadre di tutt'Italia e sconfiggere società professionistiche (Sampdoria, Atalanta, Padova: è poco?) e dilettantistiche con una nonchalance impressionante è merito ovviamente dei ragazzi, ma anche di un quadro dirigenziale eccellente: "Società compatta, completa, vertice saldo, vivaio di prim'ordine". Sono le parole di Borgogno, mica di un pifferaio qualsiasi! "La Coppa Primavera non era certamente il Campionato – mi ha detto alcuni anni addietro Dario Borgogno - ma non gli era neanche inferiore, era semplicemente qualche cosa di diverso. Insomma, per spiegarmi meglio, la Coppa Primavera sta al Campionato come la Coppa d'Inghilterra sta al Campionato inglese", L'entusiasmo è alle stelle, la compostezza di Molinari e del Direttore Tecnico Fusero, per una volta, va a farsi benedire: è una vittoria che vale mille punti per il

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Cenisia. Era stato messo in piedi, infatti, un undici che, difficilmente, potrà trovare paragoni nel futuro. Soprattutto si formava una linea mediana che diventerà famosa negli anni: Conta, Mina, Di Gregorio! Secondo chi scrive, in questi tre ragazzi c'era il compendio del gioco del calcio. La grinta di Conta, l'autorità di Mina e l’eleganza di Di Gregorio. Si obietterà, ma su ottant'anni di Ceni non c'è mai stato di meglio? E' probabile, è vero, ma la compattezza di questi tre ragazzi è stata unica. Loro facevano la squadra, loro erano il collante. E poi esiste sempre quella scusante che ti fa dire: chi vinse di più, ma, soprattutto, chi vinse meglio? C’è ancora qualcuno che ricorda la formazione del 1957/58, quella che quasi sembrava uno scioglilingua, quella che Pellini aveva forgiato? Rizzo, Aroasio, Cravero, Conta, Mina e Di Gregorio, Deasti, Navone, Sasso, Poggi e Venturello, più Forte, Ferretti e De Francesco a condire il tutto. Con Cillario e con Borgogno, comunque, la società continuava a primeggiare e il Cenisia insisteva in Serie D. Ormai alcuni ragazzi erano passati in prima squadra e la formazione standard annoverava gente come Di Gregorio, Geremia, Gandiglio, Balzardi, Borca, Ferro, Pedrazzoli I e II, Cafasso, Aroasio e Francone. Geremia, lo squalo delle aree di rigore, Aroasio o dell'eleganza, Francone, la cattiveria messa in un campo di calcio. Ed allenatore era sempre Pellini, mentre con il settore giovanile, si stavano mettendo le basi per un altro ciclo esaltante. A Torino, nel 1961, si erano organizzate miriadi di manifestazioni sportive e culturali per festeggiare il Centenario dell'Unità d'Italia e, tra questi eventi, vi furono anche le finali nazionali del Campionato Juniores (non più categoria Ragazzi) per società professionistiche, semiprofessionistiche (era il caso del Cenisia) e dilettantistiche. A giugno, allo Stadio Comunale, si concretizzò il mito. Per la terza volta il Ceni si aggiudicava un titolo italiano, a cinque anni dall'ultimo tricolore e a tre dalla Coppa Primavera. Era evidente che la casualità di due scudetti non c'entrava niente, era evidente che solo capacità organizzative e tecniche avevano permesso simili performances. Nell'ambiente calcistico l'impresa fece scalpore. Con un nuovo allenatore, con nuovi giocatori, ma con la stessa dirigenza, il Cenisia si poteva fregiare del terzo scudetto italiano. Giovanni Benedetto, il corretto, elegante, sapiente personaggio che ci ha lasciati pochi anni fa (ciao, Giovanni, ti ricorderemo sempre!),

30 aveva potuto assemblare una squadra, intersecando la vecchia guardia con nuovi atleti provenienti da alcune società torinesi. Cipro, il grosso dirigente Luigi Cipro, l'accompagnatore Rosetta, Giuliano Molinari e, ovviamente Cillario e Borgogno furono gli artefici di questo successo organizzativo, prima che tecnico. In quanto alla squadra vi do soltanto i nomi di coloro che la componevano, senza commenti di sorta. Come dire, basta la parola! Pol, Crivellaro, Santhià, Liut, Zanelli, Depetrini, Chiarenza, Ferretti, Caratto, Virano e Laiolo. Nella semifinale, i ragazzi di Benedetto vinsero con la Solbiatese per 2-1, mentre in finale eliminarono il Pescara per 3-2 con reti di Chiarenza, Laiolo e Caratto. Il 1961 fu anche l'anno del Cenisia in… Nazionale. Beppe Zanelli, e Livio Voltolini furono convocati con la nazionale Juniores e si distinsero tra i tanti giocatori professionisti che frequentavano quella squadra. Non è mai più accaduto per nessuna squadra torinese, se si fa eccezione, ovviamente, per il Torino e la Juventus. Ma non era finita, il settore giovanile del Ceni preparava di già i suoi nuovi eroi. In quella stagione, in occasione delle Finali Allievi, che all'epoca si svolgevano fra tutte le società, senza distinzione di serie d'appartenenza, il Cenisia eliminava la Juventus per 4-1, mentre nella settimana precedente aveva schiaffeggiato il Torino per 3-1. Tenete a mente questa formazione: Colombo, Amur, Callegaro, Torassa, Lemonnier, Nicco, Fiandesio, Terreno, Stasi, Piutti, Guzzo. Allenatore? Un certo "Cochi" Sentimenti! E la vita continua. Anche il Cenisia che, come quel famoso lupo, non perde il vizio. Nel 1963, l'ultimo alloro tricolore a coronamento di un decennio che nessuna compagine dilettantistica potrà mai vantare. Il Ceni nel 1962 era ritornato tra i dilettanti e pertanto la finale della Juniores si svolse tra i pari categoria in quel di Firenze. La compagine viola era giunta a questo risultato dopo aver eliminato lo Spartanova nel titolo regionale ed a Vercelli, in un quadrangolare interregionale, la Pro Firenze per 2-1. Nel capoluogo toscano, in finale, si disfece del Quadraro Roma con un secco 2-0 che non ammetteva repliche. Il Cenisia schierava: Riva, Torassa, Boazzo, Pederiva, Rossetti, Callegaro, Fiandesio (Piaser), Allisio, Stasi, Piutti, Lorenzato. Marcatori risultarono Piaser al 17' e Pederiva al 37' della ripresa. Cosa dire ancora di questa gente? Vogliate soltanto notare i nomi di alcuni con quelli, allievi, di due stagioni addietro. Anche se non era proprio l'ora di tirare i remi in barca, tuttavia grosse nubi si addensavano sulla società viola.

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A volte sembra impossibile crederci, ma il destino ce lo disegniamo con le nostre mani. Ed il Ceni se lo progettò, inconsapevolmente, con due fatti gravissimi, anche se di differente peso l'uno dall'altro. Alla fine della stagione 1962/63 lasciarono la società, per approdare a più ampie sponde professionistiche, sia Molinari che Dario Borgogno e nel 1964 periva in un incidente d'auto sull'autostrada Torino-Milano il presidente Cillario. Non fu mai più la stessa cosa. Non fu mai più lo stesso Cenisia. Mai più. La società, forte dell'appoggio con il Torino che Cillario aveva concordato negli anni passati, elesse presidente l'ex giocatore granata Motto e per qualche stagione l'attività proseguì nell'anonimato, ma sempre con decoro. La cessazione della collaborazione con il Torino, avvenuta nel 1967, portò ad un crollo verticale che nessuno si sarebbe aspettato. E dal 1968 il Cenisia entrò in crisi. Crisi nera. Non c'erano più dirigenti, proprio nel senso che mancava il numero, le sostanze economiche erano al lumicino, quei pochi rimasti si dovevano spaccare la schiena in quattro per star dietro ai tanti ragazzi che continuavano ad affollare via Cesana. Vernate, un grande appassionato di sport e del Cenisia da tanto tempo, aveva assunto la carica di Commissario Straordinario per verificare possibilità di rinascita. Ma senza una Presidenza, senza un Consiglio Direttivo, con quattro pur instancabili gatti a condurre la baracca, non c'era un gran margine di riuscita. Tutti coloro che contavano e che, in passato, avevano declamato la loro passione per le violette, si defilarono velocemente ed a Vernate non rimase che accettare la soluzione propostagli da un coriaceo dirigente calcistico, il presidente dell'Europa Calcio, Corrado Parlagreco, fratello di quel Mario Parlagreco, “debordante” dirigente del G. S. Bacigalupo. Era il 1969. Parlagreco aveva fondato, da soli cinque anni, una società di calcio che aveva chiamato Europa. Si era circondato da un solido Consiglio Direttivo e già vantava un ottimo nucleo di giovani calciatori. Dalla sua, inoltre, aveva una modernità di intenti, una dinamicità proverbiale e tanta voglia di emergere, di compiere i passi adatti per far diventare l'Europa Cenisia, questa la nuova denominazione, una vera forza sportiva cittadina. Per ora si cominciava dalla Seconda Categoria, per il resto si doveva provvedere. Ma i tempi erano diversi, la gente era diversa, il volontariato, da solo, non bastava più. Arrivarono, sì, dirigenti capaci, ma mancava la mente eccelsa. Mancava, soprattutto,

32 un Dario Borgogno. "Un parei - dicevano i vecchi calciofili di borgata - uno così, nasce tre volte ogni cento anni; uno l'abbiamo avuto noi, gli altri due chissà dove sono”. E si andò avanti alla meno peggio. Anzi qualche risultato, locale, lo si ottenne pure. Ma chi era abituato a Mina o a Di Gregorio, a Geremia o a Zanelli, a Gori o a Deasti, non poteva che fare paragoni struggenti. Dopo non molti anni, si era nel 1977, anche Parlagreco lasciò la cattedra e la società ritornò a chiamarsi semplicemente Cenisia, come da sempre. Nacque, quindi, il periodo presieduto da Ediliano Mazzoni, olimpionico a Tokyo nel tiro al piattello e si formò un Consiglio Direttivo che comprendeva il commercialista torinese Ferrero, Pietro Rossi, cui era affidata la gestione amministrativa dell'associazione, Andrea Cauda, Maurizio Negrati, Carlo Cortese ed altri. Alla Direzione Sportiva era stato chiamato Italo Ghibellini, dirigente viola da molti anni ed anche con il suo apporto la società si distingueva, palesava quell'eleganza che è quasi insita nell'humus del club. Verso la fine degli anni ottanta, tuttavia, anche Mazzoni si metteva da parte e prima con Mencarani e Sandiano e poi con il loro amico Bersano, si instaurava un nuovo modo di fare calcio. Nel frattempo si era giunti all'inizio degli anni novanta e pareva arrivato il momento della svolta. Il nuovo gruppo dirigenziale che già militava in altre società amatoriali e che aveva, sembrava, un grosso seguito si offerse di prendere decisamente in mano la situazione per dare nuova linfa ed impulso manageriale al Cenisia e alla struttura sportiva di via Cesana. Sulle prime ci fu entusiasmo, poi alcuni passi, tanti, troppi passi più lunghi della gamba portarono al patatrac. I motivi, ancora oscuri agli attuali dirigenti, della grave debacle forse non si conosceranno con esattezza, fatto sta che l'impianto, rifatto completamente nella parte delle tribune che danno su corso Vittorio Emanuele II, venne chiuso e sigillato: ci fu l’intervento del tribunale fallimentare. Tutto il Cenisia, proprio tutto, giocatori, dirigenti, divise da gioco, palloni e quanto ancora serviva al gioco del calcio si ritrovò in mezzo alla strada: letteralmente! Era l'aprile del 1995. Fortunatamente, già all'inizio della stagione 1994/95, il Presidente del Comitato Regionale della FIGC, Salvatore Fusco, data la latitanza della precedente dirigenza che aveva intravisto i gravi problemi economici in arrivo, aveva nominato, quale Commissario Straordinario, l'attuale presidente Luigi Riccetti, esperto uomo di sport dal carisma indiscutibile, con il compito di verificare la reale situazione e di cercare di salvare un notevole patrimonio umano

33 formato da giocatori e dirigenti e di salvaguardare i campionati in corso cui il Cenisia era iscritto. Neanche Riccetti, tuttavia, da solo avrebbe potuto fare un granché mentre la sua abilità consistette nel saper coagulare un ampio gruppo di genitori che si accollarono tanti oneri e pochi onori per uscire da una situazione disastrosa. Fu nominato un nuovo Consiglio Direttivo, con Riccetti presidente e ci si rimboccò le maniche per un tentativo di rinascita che ebbe un magnifico sviluppo ed una reale consistenza. Non bastano, comunque, queste parole a spiegare una resurrezione che ha avuto del miracoloso. Era subentrato qualcosa di più sottile, impalpabile ma epidermico. Era subentrata la fiducia in questo nuovo gruppo dirigenziale. Riccetti e l'avvocato Alessandro Re, vere anime del Ceni, poterono muoversi con sicurezza perché avevano ottenuto via libera dall'approvazione, totale e incondizionata, che il gruppo rifondatore dei genitori aveva loro riservato; c'era stata stima reciproca. "La determinazione di alcuni familiari dei nostri ragazzi - dice ancora oggi Riccetti - è stata capace di farci compiere, con il sorriso sulle labbra, veri salti mortali, ci ha consentito di agire, anche sfacciatamente, per il benessere dei nostri tesserati". Re e Riccetti non lo hanno mai detto, ma è risaputo su quali e quanti problemi personali dovettero cavalcare per portare a casa una pagnotta di pane bianco! Ma la soddisfazione maggiore, i dirigenti del Cenisia la provarono quando poterono constatare l'attaccamento ai colori sociali e la comprensione della situazione da parte della stragrande maggioranza dei giocatori che, benché pressati da succulenti offerte provenienti da società consorelle, accettarono di fermarsi al Ceni, nonostante fossero liberi da qualsivoglia legame regolamentare. Ed hanno avuto ragione. La società ha dovuto ripartire dalla Terza Categoria, ma ha saputo subito farsi valere. Promossa in Seconda e vincente con ben tre categorie giovanili già nella stagione 1997/98, Juniores, Allievi e Giovanissimi, ha conquistato la Coppa Piemonte Allievi nella stessa stagione, mentre la Scuola Calcio con i suoi Pulcini si è palesata grande protagonista in vari tornei vittoriosi. Seguendo la stessa linea, pur con il cambio di alcuni dirigenti, come l’avvocato Re, per esempio, che se n’è andato sbattendo la porta e che, signorilmente, non ha mai voluto rilasciare dichiarazioni o fare polemiche, la società ha continuato a progredire, vincendo in Seconda Categoria, partecipando con diverse squadre giovanili ai Regionali ed

34 infine risultando ancora vincitrice in Prima Categoria ed entrando, nella stagione attuale, in Promozione. Artefici dell’ultima, significativa vittoria sono stati i ragazzi che Donato Santoli, allenatore, anima e vate di questa squadra, aveva guidato nelle ultime stagioni, la cui “rosa” era composta da Tavella, Marco Bisconti, Costantino, Traistaru, Luciano Bisconti, Pianfetti, De Marino, Barbera, Benhamda, Gentile, Guglielmo, Onde, Perrone, Chiara, Mandarà, Dimitri Santoli, Scaccia, Parisi, Dutto, Guglielmetti. Una tale squadra, ovviamente, non aveva fatto tutto da sé, anche se in campo c’erano andati loro, i ragazzi, e pertanto va dato merito a quei dirigenti, con a capo Franco Costantino, che li hanno seguiti, diretti ed organizzati per bene. Restitutio in integrum, dicevano gli antichi e noi crediamo che questa scarna citazione stia ben bene a significare la consapevolezza che l'attuale dirigenza viola ha del futuro, conscia com'è che non si può sempre vivere di gloria e che la realtà attuale incombe pesante. Ma guai a dimenticare. D'altronde, lo dicono in tanti, non si vive di solo pane e la memoria può essere un companatico mica male.

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Capitolo V

Tempi di vera passione

Come il Cenisia, la cui storia mi è parso doveroso dettagliare, il Guerin, la stessa FIGC o il Piemont, come il Vanchiglia, le varie Auxilium o le tante altre piccole realtà sportive cittadine avevano ripreso l’attività, così si erano avuti i primi, faticosi progressi della nostra economia. Prima con gli aiuti dell’UNRRA, poi del Piano Marshall e, non ultimo, per il gran valore di un economista come il piemontese Luigi Einaudi che si oppose all’idea di Scoccimarro, Ministro delle Finanze, di sostituire la lira per ridurre l’inflazione galoppante ed invece fece compiere gli iniziali, decisivi se pur compassati passi al sistema produttivo nazionale, che venne giudicato, dai posteri, un metodo eccezionale di avanzamento effettivo dell’economia. Il tutto dettato, come è ovvio che dovesse accadere, dal nuovo sommovimento politico che la caduta del fascismo aveva provocato. Nel giugno del 1946 c’era stato, come accennato, il referendum su monarchia o repubblica, con la vittoria di quest’ultima, ma anche le elezioni per mandare in parlamento un’Assemblea Costituente che aveva visto prevalere la Democrazia Cristiana, con oltre il 35% dei voti su circa 25 milioni di elettori. Seguiva il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria con il 20,7% e il Partito Comunista Italiano con poco meno del 19% dei suffragi. Si faceva anche notare il Movimento dell’Uomo Qualunque, fondato da quello stranissimo personaggio che rispondeva al nome di Guglielmo Giannini e che raccoglierà un 5,3% dei voti, salvo liquefarsi in breve tempo e confluire poi in più partiti di centro o di destra. A luglio di quello stesso anno entrava in carica il secondo governo De Gasperi, formato da democristiani, comunisti, socialisti e repubblicani. Alcide De Gasperi, oltre alla Presidenza del Consiglio e forte del notevole numero di seggi ottenuto, aveva avuto buon gioco a tenersi anche il Ministero degli Interni, ministero cardine per tenere sott’occhio tutta la nazione e, ad interim, il Ministero degli Esteri che passerà qualche mese dopo a Pietro Nenni.

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Intanto sui nostri confini orientali, in Venezia Giulia, a Fiume, in Dalmazia erano continuati i massacri compiuti dagli slavi vincitori, con gli infoibamenti, le fucilazioni, gli annegamenti (nel 1955, qualcuno proverà a contare le vittime; non ci riuscirà, ma pare che il numero oscillasse tra le quindicimila e le ventimila anime) dei nostri connazionali che non erano ancora venuti via o che non avevano potuto venire via. Tra gli ultimi mesi del 1944 e il marzo del 1947 saranno 250.000 gli istriani, i fiumani, i dalmati che lasceranno le loro terre per sempre, a cui se ne aggiungeranno altri 100.000 negli anni seguenti e quasi 50.000 nel novembre del 1954 dopo che il Memorandum di Londra consentirà il ritorno di Trieste all’Italia ma la definitiva perdita della Zona B (Capodistria, Portorose). I circa 400.000 profughi dell’Esodo, perché tale è stato, rappresenteranno il 97% della popolazione di origini italiane. Molte di queste famiglie saranno costrette ad emigrare nei quattro angoli del mondo, chi in Sud Africa, chi in Canada, in USA, in Argentina, e soprattutto, in Australia, paesi da dove non sono quasi mai ritornate. Di queste vicende, tuttavia, gli “altri” italiani, avvolti nella disperazione di un tremendo dopoguerra, non conosceranno, all’epoca, che alcune sottigliezze e se le avranno conosciute le approfondiranno soltanto cinquant’anni dopo, quando le guerre balcaniche di fine secolo avranno finito per nominare quelle terre: Pola, Fiume, Zara. Chi scrive è una di quelle persone che se n’è venuta via di brutto nel ’45 e desidera sottolineare un piccolo fatto per cercare di far comprendere cos’è stato l’Esodo da quelle terre. Io non ho, mai e volutamente, rimesso piede a casa mia. Tuttavia, una signora che per una strana combinazione del destino ho incontrato qualche mese addietro in una sala d’aspetto d’ospedale, mi aveva riferito di essere nata nel mio stesso paese, Dignano d’Istria, a due chilometri dal mare, verso ovest, in faccia all’isola di Brioni e a dieci, verso sud, verso Pola. Nel discorrere, quella signora mi confermò che quel mio paese, da lei visitato nell’estate precedente e un tempo forte di novemila abitanti, tanti quanti ne aveva Rivoli (Torino) prima della guerra, oggidì contava 200 (duecento) anime! Fate un paragone: oggi Rivoli ha cinquantamila abitanti e contemporaneamente pensate a come può essere un villaggio di duecento residenti e le case vuote ormai cadenti di novemila. I fantasmi, forse, sono tutti laggiù.

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E’ evidente che la mia e altre generazioni a me vicine posseggono un tarlo che si portano appresso da decenni e che difficilmente riusciranno ad estirpare, ma vi prego, se potete, di comprendere lo stato d’animo di molti di noi che neanche dopo sessant’anni riescono a farsene una ragione. Ma non c’era, ovviamente, solo l’Istria che piangeva in quegl’anni, non esisteva soltanto la questione di Trieste. Nel mondo era in corso un cambiamento epocale, la decolonizzazione in Africa e grane grosse una montagna come in India, a Ceylon, in Birmania, in Indocina e nei posti più impensabili del globo, poi l’est europeo sotto il tacco feroce di Mosca, la prima batosta subita dagli arabi nella guerra del 1948 per eliminare da subito il neonato stato di Israele, la dottrina “giustizialista” di un certo generale argentino, Juan Domingo Peròn: occhio, sarà difficile farlo fuori! In Grecia i comunisti di Markos avevano tentato il colpo di stato, ma gli era andata storta perché si erano fidati del confinante Josip Broz, detto maresciallo Tito, e se l’erano presa in quel posto. In Cina, invece, i seguaci di Lenin la facevano da padroni del vapore e non smetteranno di esserlo neanche nel nuovo millennio. Se, come ai giorni nostri, il mondo era un casino continuo, in Italia non è che andasse meglio. I movimenti separatisti, cui faceva comodo legarsi anche quel farabutto di Salvatore Giuliano in Sicilia, creavano un po’ di scompiglio e poi sparivano, i partiti politici cominciavano a farsi arroganti ma, soprattutto, due fatti eclatanti erano arrivati a segnare la vita degli italiani. Il 18 aprile del 1948 c’erano state le prime elezioni politiche della neonata repubblica: il Fronte Popolare, che raggruppava i comunisti, i socialisti ed altri gruppuscoli di sinistra, si era beccato una tale mazzata che camminerà gobbo per anni, salvo disfarsi da subito in due o tre porzioni, mentre la Democrazia Cristiana conquistava la maggioranza assoluta con ben 305 seggi su 574 alla Camera e 131 su 243 al Senato. Le previsioni della vigilia che vedevano le trionfali giaculatorie di un Togliatti, di un Longo, di un Romita o di un Nenni venir sparate in piazze gremitissime (è stato scritto che a Torino, in Piazza San Carlo, pochi giorni prima del voto ci fossero oltre centomila persone ad ascoltarle, mobilitate dagli organi del partito comunista che aveva svuotato anche la provincia), vengono spazzate via, soprattutto, dai Comitati Civici di Gedda che il Vaticano aveva mobilitato e i dollari americani sovvenzionato, consentendo il ribaltamento e la presa del

38 potere alla DC. Era stata una campagna elettorale dai toni accesi, con molto nervosismo, numerosi interventi della polizia e dei carabinieri ma, sostanzialmente, senza alcun grave incidente vero e proprio. Non sarà così, invece, il 14 luglio, quando la notizia dell’attentato a Palmiro Togliatti viene divulgata dalla radio e tutta l’Italia rossa si mobilitò per tentare, come venne detto, la rivoluzione. Fortunatamente l’intelligente Togliatti, benché ferito ed anche seriamente da un povero illuso di nome Antonio Pallante, riuscì a convincere i propri colleghi di partito, prima di entrare in camera operatoria, a “mantenere la calma, a non perdere la testa”. Nonostante questa raccomandazione e nonostante che Longo e Secchia, all’epoca due dei massimi dirigenti del comunismo italiano, si fossero impegnati tutta la giornata e la notte seguente a inoltrare il volere del “Migliore”, così veniva chiamato Togliatti, successe un pandemonio di manifestazioni in mezza Italia. Incidenti gravi, con morti, a Genova, a La Spezia, a Livorno, e ad Abbadia San Salvatore, per un totale di sette caduti tra le forze dell’ordine e altrettante vittime tra i dimostranti. A Torino ci fu l’occupazione di diverse fabbriche, FIAT compresa, con lo stesso Valletta, “quasi” prigioniero, per usare un eufemismo del questore della città e dichiarazione di sciopero generale in tutta la penisola. Tre giorni dopo, tuttavia, la calma cominciò a farla da padrona un po’ dappertutto e con la notizia diramata dai medici di Togliatti che lo dichiararono “fuori pericolo di vita” l’ambiente si rasserenò. Non fu determinante, ma anche la notizia che Gino Bartali aveva vinto una tappa del Tour de France ed aveva conquistato la maglia gialla provvide a calmare gli animi della gente che, come al solito, non aspettava altro per volgere lo sguardo a qualche cosa di meno impegnativo. Nel frattempo, terminato il conflitto mondiale, gli USA, che godevano di una notevole capacità produttiva e di cospicue riserve auree, approntarono un piano economico volto anche ad aumentare in modo rilevante le quote di esportazione. Il famoso e, per certi versi, straordinario Piano Marshall, dal nome del generale George Marshall, già comandante generale delle truppe americane e Segretario di Stato dell'amministrazione Truman, si basava sulla necessità di garantire i livelli di produzione interna statunitense e di ripristinare le capacità commerciali dell'Europa, sostenendo il suo sviluppo produttivo. Dal punto di vista politico l'Europa veniva in questo modo inserita stabilmente nel sistema delle alleanze americane. In sostanza

39 con il piano Marshall, approvato dal Congresso il 3 aprile 1948, gli USA stanziarono circa 17 miliardi di dollari in 4 anni, al fine di permettere la ricostruzione dell'Europa. L'adesione al Piano fu rifiutata dai paesi compresi nell'area di influenza sovietica, era iniziata la “guerra fredda” e Mosca non voleva legami degli USA con i suoi “satelliti”. Risultato: il ritardo economico e produttivo dei paesi dell’est fu, sicuramente, una delle cause principali, negli anni novanta, della sconfitta totale del comunismo in Europa. I fondi, divisi in aiuti gratuiti e aiuti a titolo di prestito, vennero amministrati dall'ECA (Economic Cooperation Administration) ed è indubbio che favorirono l’industria americana, ma riuscirono anche a sollevare le disastrate finanze dei paesi europei prostrati da una lunga guerra. In Italia il Piano, accusato dalla sinistra di finalità essenzialmente politiche per essere utilizzato in funzione elettorale dalle forze dell'area di governo, e che venne, con la solita miopia e ubbidienza a Mosca, privilegiato nei dibattiti e discorsi dei comunisti come un’intrusione indebita nella nazione, tanto che in modo sfacciato elogiavano quanto era stato deciso da Polonia, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Bulgaria e Jugoslavia (come se avessero potuto decidere da sé!), il Piano Marshall, si diceva, a differenza che in alcuni altri paesi europei occidentali, non fu di particolare stimolo alla nostra ripresa industriale. I milioni di dollari avuti in dotazione furono infatti per lo più utilizzati per raggiungere il pareggio del bilancio, mantenendo basso il volume della spesa pubblica, della domanda interna e quindi della produzione. Il concetto, tuttavia, voluto da De Gasperi e, prima ancora, da Einaudi non consentì, è vero, un immediato benessere alla nazione, ma con il pareggio di bilancio si riuscì, qualche anno dopo quando il “lavoro” emerse, ad iniziare e completare una serie di opere pubbliche che non ha avuto uguali in tutto il continente europeo: vedasi, ad esempio, la straordinaria rete di autostrade che attraversò, da ovest ad est e da nord a sud, la penisola nei primi anni sessanta. Da quel momento l’industria dell’auto, un’industria che si dimostrò trainante per l’intero sistema produttivo ed il turismo interno, ma soprattutto, quello estero che portava valuta pregiata, presero una piega estremamente favorevole alle nostre finanze. Un altro esempio a quanto detto ci viene dalla Spagna e dalla Francia che avevano scelto una diversa politica economica. In questi paesi le autostrade, ancora nei primi anni ’70, non esistevano o quasi e il forte flusso turistico si ebbe molti, molti anni dopo il nostro.

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E sicuramente di tutt’altro genere, nei primi mesi del 1949, fu un episodio molto curioso, con dei risvolti anche commoventi, che giustificò la nascita di una società di calcio attiva per quasi un cinquantennio in Torino e poi scomparsa nel nulla. Come ho accennato nelle prime pagine, i calciatori professionisti, non ricordo nemmeno se venivano nominati in tal senso, di Toro e Juve era facile incontrarli al bar del borgo o a passeggio in via Po. In una di queste occasioni Guglielmo Gabetto, il “centrattacco” granata, era diventato amico, ed amici amici Gabetto ne aveva diversi, di un giovane alto, allampanato, dai capelli ondulati come l’epoca e la moda suggerivano di tenere folti. Era il figlio di un ammiraglio della nostra flotta e frequentava, per questioni sportive e per la vicinanza della propria abitazione, il bar di corso Giulio Cesare 6, proprio poco dopo l’iniziale strozzatura di quel corso che ha inizio da Piazza delle Repubblica, Porta Palazzo tanto per capirci. Si chiamava Piero Enria e con Gabetto si incontravano ogni tanto in quel locale frequentato da molti altri “sportivi”, il termine giusto per individuare i patiti del fulbal, della bici o del pallone elastico, ai tempi molto in auge specie con l’assidua frequentazione dello sferisterio di via Napione in cui si poteva anche traversare, scommettere insomma. Enria, con qualche amico, per esempio con Sansoè, figlio del proprietario delle attigue “Telerie SAETA”, attigue al bar, aveva messo su l’idea di formare una squadra di calcio. Non perché fossero dei calciatori sfegatati, di Enria o di Sansoè che calcino anche una sola volta il pallone non si hanno tracce, ma per l’assidua pressione di molti frequentatori di quel bar e di altri amici più giovani che provenivano dal vicino Valdocco. Del giovane Enria si sapeva che era un organizzatore eccellente e che qualche cosa aveva fatto a livello locale, persino un torneo alla buona su quel terreno sgombro, alle spalle di corso Giulio Cesare, che sarebbe diventato la rimessa e il capolinea dei bus di via Fiocchetto. Ma, come nelle migliori famiglie, dindini per iniziare nel modo corretto con il calcio organizzato bene ce n’erano pochi e al pensiero di chiedere a casa quasi veniva uno sciopone e tutti si tiravano indietro. Allora ad Enria venne l’idea giusta. Andò a trovare Gabetto al Bar Vittoria di Via Roma, di cui, pare, fosse uno dei proprietari, gli parlò con passione, confabulò, discusse, quasi tramò alle spalle degli amici cui voleva fare una sorpresa, finché ottenne la promessa che Guglielmo avrebbe provveduto in qualche maniera, con qualche cosa. Verso la fine di marzo, un pomeriggio, proprio poco prima che la

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FIGC di via Ponza chiudesse le iscrizioni per i campionati primaverili, Gabetto si presentò nel bar canonico con un gran pacco avvolto, lo ricordava molto bene Piero Enria quando me lo raccontò la prima volta dieci anni dopo, in una carta a fiori che era stata raccattata chissà dove dal campione granata, ma che, data l’occasione, sembrava fatta apposta per sembrare un pacco regalo. Ma al bar non c’era né Enria, né Sansoè, impegnati sul lavoro ed allora parti una staffetta per cercare di stanarli da qualche parte e portarli al bar. Mezz’ora dopo Enria, che non si era certo messo a correre e che quella flemma mantenne sempre nella sua purtroppo giovane vita, arrivò calmo e composto e prima ancora di aprire il pacco, Gabetto non aveva voluto che alcuno lo toccasse, senza sapere cosa ci fosse dentro abbracciò l’amico e lo ringraziò. Il pacco conteneva dieci maglie rosse fiammanti, con un gran numero bianco sulla schiena da 2 a 11 ed una maglia nera da portiere: era nata l’Associazione Calcio Spartanova. Si seppe dopo che Gabetto non aveva voluto farsi regalare dal Torino un gioco di maglie societarie, sarebbe stato perfino troppo facile, ma era andato a comperarle da un certo Angiono, con negozio in via San Secondo quasi all’angolo con corso Sommeiller, il quale avendolo conosciuto aveva anche tentato di appioppargli un paio di pattini a rotelle di cui, era risaputo in città, Angiono era uno specialista. Poco più di un mese dopo Guglielmo Gabetto moriva con tutti i suoi compagni e dirigenti sulla collina di Superga. Enria, che si era iscritto in FIGC ed aveva cominciato a disputare qualche partita con quelle maglie rosse, dopo la tragedia di Superga vi fece cucire una larga striscia nera verticale, davanti e dietro, in segno di lutto e per ricordare in modo imperituro quel suo grande, grandissimo amico. Da quel momento e come potete notare in almeno una delle foto pubblicate in queste pagine, la maglia rossonera dello Spartanova si caratterizzò in quel modo e fu l’unica maglia, di quel tipo, per molti anni ancora, salvo poi venire copiata con i più disparati colori da altri club della città e del circondario. Quell’inizio d’anno, dunque, mostrò una vivacità encomiabile, tanto che presero vita altre società di cui diremo meglio più avanti, il “Pino Maina”, il “San Mauro”, il “Borgo Rossini”, tanto per citarne alcune. Ma il 1949, il 4 maggio del ’49, viene ricordato, almeno per noi italiani, per la grande tragedia della collina di Superga, contro la cui Basilica andò a schiantarsi l’aereo che trasportava la comitiva granata proveniente da Lisbona. E fu un colpo al cuore per tutti gli italiani!

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La notizia, la ricordo come fosse oggi, mi giunse improvvisa dall’urlo di un ragazzetto, mio compagno di giochi, che se ne uscì a razzo dalla porta di casa propria, il cortile in cui abitavo comprendeva per lo meno le abitazioni di una quindicina di famiglie, gridando il nome di Bacigalupo, solo quello di Bacigalupo e aggiungendo che era morto. Noi quattro o cinque che ancora stazionavamo in cortile, restammo interdetti e non riuscimmo, subito, a comprendere cosa fosse successo. Poco dopo l’amico ci spiegò, tra i singhiozzi, che la radio aveva appena dato l’annuncio dello schianto e che tutti i giocatori del Torino erano morti. Lui, portiere nella nostra squadretta della via, aveva nominato Bacigalupo, il suo unico esempio sportivo, il suo emblema quasi, per farci capire il senso della tragedia. Pareva impossibile. Non ci si capacitava. Non solo noi ragazzetti, ma con chiunque si parlasse non si voleva credere che la squadra granata fosse scomparsa. Ed invece con i diciotto ragazzi granata, i dirigenti, i tecnici della società erano morti anche tre giornalisti al seguito della squadra: Luigi Cavallero di “La Stampa”, Renato Casalbore direttore e fondatore di “Tuttosport” e Renato Tosatti della “Gazzetta del Popolo”, padre di Giorgio Tosatti, il noto giornalista e commentatore televisivo. Il Torino era andato a Lisbona per onorare una promessa di capitan Mazzola, che nella gara tra Italia e Portogallo, svoltasi a Genova il 29 febbraio dello stesso anno, aveva garantito a Francisco Ferreira, capitano del Portogallo e del Benefica, la presenza dell’intera squadra granata in occasione dell’addio al calcio del forte giocatore lusitano. Giocata in scioltezza la gara, il G.212 della LAI prendeva la via per l’Italia nel pomeriggio del 4 maggio e se in un primo tempo si era programmato l’atterraggio alla Malpensa, tanto che il pullman della squadra, il famoso “Conte Rosso”, era andato a Milano a prendere la comitiva, sull’aereo avevano deciso l’arrivo al campo dell’Aeritalia di Torino, sulla cui traiettoria si trovava la Basilica di Superga, ma molti, molti metri più sotto. Per cause che nessuno è mai riuscito a spiegare esattamente, in cui il maltempo che gravava sulla città c’entra comunque, avvenne lo schianto che devastò moralmente una città, se non una nazione. Il giorno dopo, su “La Stampa”, apparve un articolo che portava come titolo “L’angoscia di Torino”: è il più bel esempio che abbiamo trovato, tra i mille che si scrissero in quell’occasione, per descrivere il momento, l’affanno, l’ambiente di una città intera.

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“Verso il mezzogiorno un tenuissimo raggio di sole squarciò le nubi. Fu un attimo soltanto, una schiarita improvvisa, poi la coltre spessa delle nubi si richiuse sulla città. E il tempo cominciò a scorrere, lento, uniforme, fra lo scrosciare della pioggia che era ripresa a cadere con insistenza. Torino sembrava avvolta da un'ombra di melanconia. Quasi un presagio. Trascorse un'ora vuota sulla città, forse si avvertì un brivido inesprimibile, una sensazione di attesa, di angoscia. Ma non era accaduto nulla, nulla pareva dovesse accadere. La pioggia s'infittiva a poco a poco sulle strade, risuonava sulle pietre, continua e con forza sempre maggiore. E la notizia tremenda piombò all'improvviso, tra la gente che percorreva i portici lungo le vie affollate del centro. Giunse come una folgore, si diffuse rapidissima. Qualcuno la ripeteva balbettando. L'apparecchio del Torino è caduto a Superga. Contro la basilica. Una frase sconnessa piena di enorme stupore. Non vi era altro. Non si sapeva da quale parte giungesse e chi l'aveva portata in mezzo alla gente. Non si sapeva nulla e non si capiva nulla. Solo quella frase, alcune parole, un nome. E nessuno credeva. Vi fu come una ribellione, aspra, violenta. La gente si fermava in piccoli crocchi, parlava sottovoce e si muoveva in preda allo sgomento. Si chiedevano notizie più precise, si interrogavano i vicini e tutti ripetevano la stessa cosa, allo stesso modo di prima. La saracinesca del bar Vittoria di via Roma si chiuse lentamente e senza rumore, si spensero le luci all'interno. Il bar di cui Ossola e Gabetto erano proprietari. Dunque era vero. Tutta la città seppe allora in un attimo. Fu come se un peso immane l'avesse schiacciata. Poi la tensione si sciolse. Chi si ribellava ancora con rabbia ed angoscia insieme a quella sciagura troppo grande, a quel fatto impossibile. La gente riprese a camminare sotto i portici, con il capo basso, senza meta. Molti si diressero verso la sede del nostro giornale (all’epoca in Galleria San Federico, ndr) e fermarono tutti quelli che uscivano, chiedendo notizie, cercando una conferma. Era buio ormai, un'ora era trascorsa e la vita cittadina continuava ad essere paralizzata. Nelle vie, nelle case, nei locali, sul tram si parlava dei diciotto ragazzi del Torino: Mazzola, Loik, Gabetto, Bacigalupo, un nome dopo l'altro, uniti insieme, per sempre nell'angoscia di quelle voci. Torino piangeva sui quei diciotto atleti che erano rimasti lassù sotto la pioggia, abbracciati in un tragico viluppo. Piangeva su diciotto vite umane stroncate nel modo più crudele, piangeva sulla sciagura che aveva annullato, d'un solo colpo, una lunga e luminosissima tradizione che non aveva eguali in Italia e pochi riscontri nel mondo.

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Quando grande fosse l'amore che circondava questi atleti lo si è visto ieri sera, poche ore dopo la tragedia. Centinaia migliaia di persone accorsero, come attratte da un richiamo alla basilica di Superga, sfilarono mute e commosse dinanzi al luogo in cui l'aereo era precipitato, sostarono a lungo sotto la pioggia, i vicini si guardavano negli occhi, quasi a cercarvi il brillio di una lacrima e una luce di impossibile conforto". Ai funerali, predisposti dopo qualche giorno nel pieno centro della città, partecipò una folle enorme, si disse duecentomila persone, ed io che ero accompagnato da mio nonno, riuscii a vedere poco o nulla, benché appostato sopra il muretto che disegna l’inferriata di Palazzo Reale, in quanto la sfilata dei camion che trasportavano le bare passava nel centro della piazza prima di girare in via Roma ed io avevo una muraglia umana davanti larga un centinaio di metri, muta come in un incubo. Sarà stata la mia giovane età, sarà stata l’impressione che tutta quella folla mi aveva fatto oppure il silenzio, agghiacciante silenzio, che circondava la cerimonia, fatto sta che nella mia vita non c’è mai stato un simile impatto emotivo per qualsiasi altra cerimonia, funebre e non, cui ho assistito. Per quella stagione sportiva, come è ben risaputo, la Federcalcio stabilì che lo scudetto andasse di diritto al Torino, il quale, in quel momento del campionato, era comunque in testa alla classifica. Le ultime quattro gare furono giocate dai “boys” granata, in cui, tra gli altri, emersero ragazzi come Andrea Francone e Beppe Marchetto, mancati in questi anni del terzo millennio, che lasciarono scie indelebili della loro capacità tecniche e organizzative. Marchetto diventò uno dei migliori “costruttori” di talenti calcistici in tutta la lunga storia di qualità della Scuola Calcio del Torino, mentre Francone, dopo aver “smesso” i pantaloncini corti, prese le redini di una società dilettantistica cittadina, il “Bacigalupo”, e, da presidente, la portò ad alti livelli di qualità sportiva.

Riandando allo Spartanova ed ai suoi inizi, è doveroso constatare come il club della Barriera di Milano si propose a buoni livelli sin dai “primi calci” che diedero i suoi ragazzi in rossonero. Messa in piedi, come detto, la prima squadra di dilettanti, si dovette pensare da subito al settore giovanile perché la voce che qualcuno aveva dato vita, in zona, ad una “sportiva” (questo è l’aggettivo-sostantivo che, all’epoca, si dava ad una società sportiva, in questo caso ad una Associazione

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Calcio) si propagò velocemente ed i ragazzi che volevano dare “quattro calci” cominciavano ad essere in buon numero. Dagli oratori del vicinato, dalle parrocchie di “Gesù Operaio”, della “Madonna della Pace”, dallo stesso “Valdocco” si presentarono in tanti per vestire le nuove casacche cui Enria e qualche amico avevano dato vita. Per prima cosa, come sempre, c’era da individuare un “qualcosa” dove far giocare tutta questa gente, i giovanotti della “Seconda Divisione”, della categoria “Ragazzi”, di quella “Juniores”. Dopo aver girovagato per i pochi campi della barriera, Enria stabilì un accordo con una società consorella che gestiva un impianto a Regio Parco, il “Parcosparta”, club nato prima della guerra e molto noto nel rione, quasi un paese, isolato dal centro città dal fiume Dora a sud e dal torrente Stura a nord. Il Parcosparta aveva una sola squadra che giocava già in Prima Divisione e pertanto fu possibile ospitare lo Spartanova sul campo di Piazza Sofia, dove oggidì sorgono le fungaie di palazzoni, costruiti nei primi anni sessanta quando lo “Sparta”, rimasto solo per aver inglobato il Parcosparta, si vide consegnare e poi eseguire lo sfratto da quel terreno, di cui, comunque, parlerò fra poco. Con i più giovani alla domenica mattina e i dilettanti alla domenica pomeriggio, il sabato era ancora considerato un giorno totalmente lavorativo e quindi fuori dalla programmazione sportiva, finalmente lo “Sparta” aveva il suo “stadio”, il suo “covo”. Non sono termini esagerati perché, in quelle stagioni, il flusso degli spettatori era strabiliante, per qualsiasi gara si giocasse, e, in considerazione del fatto che il biglietto d’ingresso costava molto poco (una comparazione fatta da qualche amico nel 2003, aveva stabilito che il biglietto per una curva dello stadio che oggi costa, quando costa poco, dieci euro, nel 1950 sarebbe costato dieci centesimi di euro entrare in un campo di periferia), giocare a casa propria voleva dire avere un sostegno eccezionale. In Piazza Sofia l’impianto era recintato da lamiere, dipinte di nero (chissà perché negli anni tra le due guerre si dipingevano di nero le recinzioni dei campi di calcio? Vedi il Venchi Unica, vedi il Cenisia, vedi “quello del tombino” in via Ponchielli ed altri) e, pare, tratte da fusti, tipo fusti di petrolio (non so come chiamarli altrimenti!), aperti, appiattiti e sovrapposti gli uni agli altri per raggiungere almeno due metri di altezza. All’interno esisteva una baracca con due spogliatoi, due docce improvvisate, uno sgabuzzino per l’arbitro e una tettoia dove si riponevano gli attrezzi necessari alla manutenzione del campo: il segna righe, la falce per

46 tagliare l’erba, protetta da una custodia in pelle, due o tre sacchi di calce e poco altro. Il campo effettivo di gioco aveva delle buone dimensioni, oltre cinquanta metri per cento, ed era separato dagli spettatori, su due dei quattro lati, da un semplice mancorrente di legno, alto circa un metro, piazzato ben in terra a due metri dalle righe bianche del campo: con questa sola barriera di protezione (in altri campi c’era addirittura una semplice corda) non ricordo, per tutti gli anni che ho frequentato quell’impianto e per quanto mi hanno raccontato dei vecchi dirigenti, alcuna “invasione di campo” o un qualsiasi atto di vandalismo o di violenza verso arbitri o giocatori avversari. Urla, insulti, eccome, ma tutto lì. In quanto ai fine gara, mai una zuffa, mai che il “tifo” andasse oltre le righe; e poi, per pensare a calmare gli animi, c’era sempre, lì vicino e alla domenica pomeriggio, la “pula”, un paio di poliziotti di cui, all’epoca, tutti avevamo timore e rispetto.

Intanto la vita sociale di tutti noi continuava con i soliti tentennamenti dati dai tanti problemi che un dopoguerra, non ancora considerato chiuso, procurava alla popolazione non solo italiana. Il “boom”, come verrà chiamato alcuni anni dopo lo sviluppo economico italiano, era ancora di là da venire e sul fronte internazionale si profilavano scenari preoccupanti o, comunque, di difficile interpretazione per il “popolino” che non aveva informazioni dirette, era tenuto all’oscuro o quasi dei grandi avvenimenti che potevano accadere o stavano accadendo. La radio, le poche pagine dei pur numerosi quotidiani non bastavano a raggiungere la grande massa degli italiani, sempre alle prese con la pagnotta del giorno dopo o con la prospettiva, a volte tragica a volte obbligata, di emigrare in Australia, in Brasile, in Argentina, USA, Canada e mille altri posti maledetti. Così, dopo che era stato eletto Einaudi, il grande, grandissimo piemontese Luigi Einaudi, a primo Presidente della Repubblica (De Nicola era stato il Capo provvisorio dello Stato), dopo che un certo Mao Tse-tung aveva conquistato il potere in Cina, costringendo Chiang Kai-shek, il capo del Kuomintang, a mollare tutto e a rifugiarsi a Formosa (dopo la chiameremo Taiwan), quasi non ce ne accorgemmo, noi ragazzetti tra gli ultimi della scala sociale, che sul 38° parallelo, non quella parte di parallelo che scorre sulla Sicilia, ma dall’altra parte del mondo, in Corea, cominciavano a darsele di santa ragione.

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Tutto era cominciato dopo che i giapponesi, bastonati dagli americani e arresisi soltanto dopo lo sganciamento delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, avevano abbandonato la Corea, da loro occupata all’inizio del secondo conflitto mondiale, lasciandola nel caos più totale e facile presa degli appetiti dei comunisti cinesi, da poco affrancatisi da una dura occupazione in Manciuria e da una parvenza di democrazia del Kuomintang, e dei militari sud coreani facenti parte del regime di Syngman Rhee. L'impossibilità di trovare un compromesso che permettesse la riunificazione della Corea aveva esasperato, tra il 1949 e il 1950, le tensioni interne, spingendo il paese verso la guerra civile. Probabilmente sull'onda di rivendicazioni nazionali Kim Il-sung, messosi a capo della Corea del Nord, ordinò al proprio esercito di invadere il sud nel giugno 1950, arrivando, con la sorpresa di un attacco imprevisto, ad occupare il 90% del territorio. Motivi di opportunità internazionale e la ritirata cui furono costrette, in un primo tempo, le truppe del sud, convinsero gli Stati Uniti a intervenire militarmente, appoggiando il governo di Syngman Rhee. L'intervento di Washington fu approvato dalle Nazioni unite che autorizzarono gli stati membri a intervenire militarmente per ristabilire la pace, ci fu anche una piccola “pattuglia” di italiani, quasi tutta gente della Croce Rossa, di cui mai nessuno ha parlato, anche perché l’Italia non era stata ancora ammessa all’Onu. La decisione fu presa grazie all'assenza temporanea dal Consiglio di Sicurezza dell'Unione Sovietica (assenza che consentì, anche, la nascita dello stato di Israele!) con cui Mosca intendeva protestare per il rifiuto occidentale di attribuire il seggio permanente spettante alla Cina della Repubblica Popolare invece che a Formosa (Taiwan), presentatasi, molto prima di Mao, come unico rappresentante del pianeta cinese. Mentre gli stati filostatunitensi appoggiarono la decisione di Washington e inviarono truppe, quelli del blocco socialista si schierarono con il nord accusando il regime del sud di aver iniziato le ostilità: era nata, o meglio, ricominciata la solfa della disinformacia di cui erano e saranno abili propugnatori i dirigenti sovietici del KGB. Il comando delle forze Onu venne affidato al generale statunitense Douglas MacArthur. Nell'agosto 1950 l'esercito nordcoreano controllava, come detto, la maggior parte del sud, tranne una ristretta zona intorno al porto di Pusan. Ma a settembre MacArthur, dimostratosi ancora una volta un abile stratega ed un generale con il coraggio… al punto giusto, riuscì a ribaltare la situazione, facendo

48 sbarcare i marines a Inchon, alle spalle della linea nemica. Il successo di Inchon parve decisivo e, qualche giorno dopo, gli Usa decisero di riunificare la penisola con la forza, sia pur con qualche cautela per evitare l'intervento cinese. Il 7 ottobre ‘50 l'Assemblea generale dell'Onu autorizzò le truppe a superare il confine tra le due Coree al 38° parallelo. Fra ottobre e novembre truppe Usa furono inviate, da MacArthur e contravvenendo una direttiva del proprio governo, a pochi chilometri dallo Ya-lu, il fiume che segna il confine con la Cina, provocando l'intervento non ufficiale di “volontari” cinesi. Lo scontro con i cinesi e le condizioni meteorologiche proibitive (ci furono due inverni con delle temperature a –30°), uniti ai continui ordini che provenivano da Washington, costrinsero la coalizione alla ritirata, dopo la quale il fronte fu riportato al 38° parallelo (marzo 1951). Nonostante la situazione critica e il rischio che il governo di Pechino entrasse in guerra anche formalmente, MacArthur continuava a rilasciare dichiarazioni bellicose, lasciando intendere un possibile ricorso alla bomba atomica. L'intervento moderatore della Gran Bretagna e il prevalere delle "colombe" nell'amministrazione Usa portarono all'allontanamento del generale, sostituito con il più moderato Matthew B. Ridgway. A Washington prevalse la tesi che la guerra dovesse rimanere limitata e nel giugno-luglio del 1951 lo stallo della situazione militare favorì l'apertura di negoziati di pace a Panmunjon, che, incredibile a dirsi, pur se iniziati nel ’51, continuati nel ’52 e conclusisi con il solo armistizio nel ’53, esistono ancora al giorno d’oggi in attesa di una “pace” o di una riunificazione che non sono mai avvenute. La guerra era costata oltre due milioni di morti (circa cinquantamila “occidentali”, quattrocentomila sud coreani ed il resto tra nord coreani e cinesi) e quasi altrettanti feriti tra militari e civili, ma ciò che rende aberrante la “statistica” è il fatto che metà dei morti, si parla di un milione di anime, quasi tutti nord coreani e cinesi, era deceduta per il freddo. E siamo, ricordiamocelo bene, nei primi anni cinquanta, non ai tempi delle invasioni barbariche. In questo caso sorgono due considerazioni. La prima che, come al solito e chissà in quante guerre, ci sono stati dei generali deficienti a dirigere le operazioni e senza avere il minimo senso della dignità umana per i propri subalterni e per la popolazione civile. La seconda che la mia generazione e alcune a me vicine non hanno “percepito”, nei primi anni cinquanta, un tubo di ciò che stava accadendo a dodicimila chilometri di distanza, se non vaghi cenni insignificanti. Se per il Vietnam c’era già la televisione che ci avrebbe portato in casa i

49 primi spezzoni di verità, per quel conflitto avremmo capito qualche cosa soltanto alcuni anni dopo, quando la filmografia americana ci darà da vedere alcuni film epici, tipo I Ponti di Toko-ri, in cui il solito americano la spuntava sul “barbaro” cinese: non è stato proprio così se l’armistizio e, badate bene, nel 2005 si parla ancora e solo di armistizio, esiste sempre sul 38° parallelo, nonostante Mac Arthur fosse arrivato ad occupare l’intera Corea e poi a riportare il confine allo status quo ante. Un’altra guerra senza senso, ma che la guerra fredda, in atto tra l’est e l’ovest del mondo in quelle stagioni e durata sino alla fine degli anni ottanta, non consentiva alternative.

E lo Spartanova? Marciava e progrediva. Nel 1951 Enria, che sapeva vedere lontano come pochi, aveva cominciato a frequentare gli ambienti della Federazione Calcio locale ed aveva incontrato Vittorio Barbotto con il quale intreccerà un’amicizia che non si spezzerà mai. Le squadre rossonere cominciavano a farsi rispettare anche in ambito regionale, andando a vincere a Strambino con la prima squadra e vincendo sul campo dei “ferrovieri” di corso Rosselli con gli “Allievi”. Le scarne cronache del tempo ci riportano pochi dati, ma non sfugge un bella “botta” rimediata contro il Vanchiglia che sul campo amico rifila un quattro a uno ai ragazzi di Enria, guidati in quella occasione, si legge sul ritaglio rintracciato, da un certo Oggero. Sono comunque stagioni in cui Enria sta facendo un bel po’ di apprendistato, individua i dirigenti giusti per compiti ben precisi, qualche allenatore che sappia, per lo meno, tenere il “gruppo”. In quanto ad insegnare i fondamentali, siamo ancora al medioevo. Sono anni in cui il “piedino” lo si ha o non lo si ha, è difficile pensare a quella che più avanti chiameremo “scuola calcio” quando chi viene a giocare in Lega ha già quattordici anni: ecco perché l’oratorio è stata la palestra fondamentale per i giovanissimi dell’epoca. Si va in parrocchia per incontrare gli amici, organizzare partitelle di “tre ore per tempo”, oppure, se si è soli e gli altri devono ancora arrivare, battere e ribattere la palla, o quel “mezzo” pallone, contro il muro della chiesa dove è stata disegnata col gesso la porta di gioco: ecco perché accennavo al “piedino”, alla sensibilità del collo del piede o della punta della scarpa a contatto con fulbal, e se non eri portato… giocavi all’ala mancina che, chissà perché, era il ruolo che non valeva un tubo. Non valeva un tubo per noi ragazzetti, ovviamente, che si fantasticava sulle rovesciate del centrattacco o sul rilancio del

50 centromediano. Sembrano considerazioni patetiche di chi ha vissuto quelle stagioni, ma, purtroppo o fortunatamente, fate voi, il calcio giovanile era proprio così, proprio come ve l’ho descritto.

In quell’anno, comunque, cominciato con una pensata che farà storia in Italia, una pensata che, tradotta, vuol dire la promulgazione della “legge Vanoni”, la legge che ha obbligato, da quel momento, tutti gli italiani a presentare la “Dichiarazione dei Redditi” (e non sarà per nulla una brutta cosa se, da allora, non fossero nate decine di categorie di furbetti che per mestiere faranno i “cercatori di tutte le maniere possibili per non pagare le tasse”), una immane catastrofe si abbatterà su qualche milione di connazionali che vivevano, grosso modo, nel sud ovest del Veneto, in quelle terre a contatto col delta del Po che vengono chiamate Polesine e che per ampiezza di territorio, impatto sull’intera popolazione che, giova ricordarlo, è ancora per la maggior parte contadina e per le conseguenze che innescherà di lì a poco, lascerà scie di disperazione. Il Po, il Grande Fiume come lo chiamano con il massimo rispetto tutti coloro che abitano sulle sue sponde, ha rotto gli argini in diversi punti e lascia nell’angoscia, come detto, milioni di connazionali. Credo non si possa comprendere, oggi, cosa sia stata l’alluvione del Polesine in quel novembre del 1951 se non la si è vissuta, se non la si è vista da dentro. L’Italia era ancora “spezzata” in tre o quattro parti, nel senso che alla povertà congenita del sud, non corrispondeva un nord est ricco e benestante come sarebbe cominciato ad esserlo venticinque anni dopo, l’emigrazione dal Veneto per il resto d’Europa e del mondo era in costante aumento per le più svariate ragioni, il nord ovest aveva, sì, dato cenni di miglioramento economico e quindi di una migliore esistenza dei singoli, ma era ancora circoscritto a pochi centri urbani. Roma navigava col ponentino, non so chi ha lasciato scritto una simile battuta che può essere interpretata in mille modi, e, sopra ogni cosa, mancava la tecnologia, forse sarebbe meglio dire anche se riduttivo al punto giusto, la meccanica. Non esistevano i bulldozer, per lo meno come li conosciamo oggi, le draghe avevano il loro seguito ma non c’erano i mezzi per trasportale con celerità e quei pochi camion, il nostro parco macchine era ancora fermo ai 3RO d’anteguerra, servivano tanto ma servivano a pochi. Ed allora forza a pale e a picconi, a carrette, a barche a remi, alla solita buona volontà fatta di tanti muscoli e di poca considerazione.

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Ma con queste forze resistere alla potenza del fiume, a riparare argini, a sostenere argini, a rafforzare argini era una battaglia persa che, comunque, quei tre o quattromila volontari combatterono con una volontà di ferro, salvo arrendersi all’evidenza quando tre metri d’acqua coprirono Rovigo, Adria, Cavarzere. E… scappi chi può! E’ stata una tragedia immane proprio per i pochi mezzi di aiuto dell’epoca, per quella lotta di nani contro un gigante che, fortunatamente, consentì, in quella devastante bruttura, il verificarsi di una solidarietà tra connazionali che, per la prima volta, stava accadendo in Italia e di cui tra poco darò accenno. Intanto, per fare chiarezza sui fatti, parliamo del tempo, meteorologico, di quel tardo autunno del 1951. Dai primi di novembre piovve incessantemente su tutta l'Italia del nord. Allagamenti si verificarono in Piemonte e Liguria, alcune persone morirono nel comasco per il crollo di tre o quattro case. Lunedì 12 novembre 1951, alla Becca, periferia di Pavia, località di confluenza del Ticino con il Po, le acque raggiungono un livello molto elevato, come, venne detto, mai si era visto. Nell'oltrepo pavese si verificano i primi gravi allagamenti. Da monte a valle, la massa d'acqua continua ad aumentare, via via che gli affluenti di destra e di sinistra la gonfiano. “Le due “rotte” dell'argine destro in provincia di Parma e Reggio non servono ad abbassare il livello e la portata del colmo d'onda. Vengono allagate anche le campagne del Cremonese”, scrive un giornale locale. Mercoledì 14, a Gualtieri, in provincia di Reggio, la pressione della piena di un piccolo affluente, non ricevuta dal Po, rompe gli argini a poche centinaia di metri dal punto di confluenza; il riflusso del Po è violento, il paese è completamente allagato. L'onda di piena procede verso la foce. Centinaia di ettari del territorio polesiano si trovano a quote inferiori al livello del mare. Le prime tracimazioni si verificano tra il 14 e il 15 a Occhiobello, nome tristemente famoso che segnerà l’avvio della tragedia. Sono invase le campagne di Polesella e la fiumana avanza verso Rovigo. L'acqua invade tutta la provincia e una parte delle province di Ferrara e Venezia. Nella notte del 18 novembre viene dato l'ordine di evacuare Rovigo. Stessa sorte tocca ad Adria, Cavarzere e Loreo, che vengono completamente allagate lunedì 19 novembre. L'onda di piena si scarica in mare tra martedì 20 e mercoledì 21 novembre.

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Sino a qui la mera cronaca di un disastro, mentre le implicazioni sono tante, struggenti a volte, drammatiche sempre. Per la grandezza del disastro ci fu, obiettivamente, un numero limitato di morti. Perì annegato o travolto da qualche crollo un centinaio di persone, mentre i danni furono inimmaginabili e mai nessuno riuscì a farne una reale contabilità. Qualche migliaio le case distrutte o danneggiate seriamente, duecentomila le persone costrette ad abbandonare la propria terra e, per la stragrande maggioranza, indotte ad una nuova emigrazione nelle altre regioni italiane o all’estero. Migliaia di ettari di terreno coltivabile ricoperti da due metri di sabbia che non si è mai saputo se sono stati recuperati in pieno. Una cinquantina di ponti andati a ramengo e chissà quanti chilometri di argini da rifare Anche il danno al bestiame fu immane: migliaia e migliaia di suini, bovini e cavalli annegati, senza contare gli animali da compagnia o da lavoro scomparsi in quel limo che si era venuto a formare sui milioni di ettari del delta. Gli stessi terreni che vennero asciugati o si asciugarono soltanto dieci mesi dopo, subirono delle forti modificazioni di cui non è mai stato possibile calcolarne le conseguenze sull’ecosistema. Per rendere ancora più intelligibile la situazione che era venuta a crearsi nelle prime ore dell’esondazione del Po nel delta, mi pare consono andare a leggere ciò che scrisse il “Gazzettino” (quotidiano molto seguito in tutto il Veneto) nel trentesimo anniversario dell’alluvione, su un fatto singolo, specchio del disperante ambiente che causò, purtroppo, il maggior numero di morti dell’alluvione.

“II camion partì da Rovigo a mezzanotte. Era stato requisito alla vetreria Baccaglini, sotto sera, quando le notizie dai lontani argini del Po avevano annunziata una situazione insostenibile". Così, sul "Gazzettino" del 16 novembre 1951, s'inizia il racconto di una tragedia: “Nei pressi di Frassinelle, nelle prime ore dell'alba di giovedì 15 novembre, decine di persone che si trovavano su quel camion annegarono nelle acque limacciose e gelide della rotta. Quattro mesi dopo, il bilancio fu definitivo, agghiacciante: 84 vittime. Quanti erano su quel camion, un vecchio e ammaccato Spa? Quante furono effettivamente le vittime, al di là dei bilanci ufficiali? Quanti si salvarono? Vittorio Padovan, impiegato alla Camera di commercio di Rovigo, 51

53 anni, è uno dei sopravvissuti, uno dei sei scampati "ufficiali". Con Giorgio Bellini, 59 anni, geometra, di Rovigo, fra i pochissimi ancora in vita, in grado di raccontare. “A mezzanotte ci trovammo davanti alla sede dell'Eca, vicino a San Francesco. Ricordo l'ora perché al “Sociale” era da poco terminata una commedia: Johnny Belinda. Alcuni camion erano pronti per partire, si diceva che il Po aveva rotto gli argini; bisognava portare viveri e riportare indietro quanta più gente si sarebbe potuto. Un autocarro stava per partire per Fiesso, era quello del commendator Attilio Baccaglini, titolare di una vetreria. Gli era stato requisito per le operazioni di soccorso. Con un paio di sacchi di viveri partimmo verso Bosaro. Nebbia fitta. In cabina, con Baccaglini, c'era Primo Tramarin, cuoco al collegio Di Rorai, aveva la madre a Fiesso e s'era offerto per far da guida, lui che conosceva la zona. Dietro, nel cassone, Giacomo Conte, usciere in Provincia, Ugo Bertin, Giorgio Bellini ed io, seduti sul tavolato, spalle alla cabina, avvolti nei cappotti. Viaggiammo per più di un'ora, con brevi soste. La strada era difficile, disseminata di roba abbandonata; qualcuno la percorreva in fretta, diretto non so dove. Ad un certo momento sentii che era necessario tornare... Non si passava. Il motivo? Ad un ponte, credo vicino a Roncala, una borgata tra Fiesso e Pincara, l'acqua tracimava da un canale. Impossibile proseguire. Vicino c'era una fattoria. Arrivò gente, volle salire sul camion... C'era da litigare... Salirono in molti... Ne arrivavano da ogni parte. Quanti, non lo so. Il camion era stipato. Gente perfino sul tetto della cabina... lo ero sul parafango sinistro... Sul cofano erano anche Bertin e Tramarin, che indicava la strada nella caligine umida. Proseguimmo piano, liberando la strada anche di un carro, forse messo a bella posta per fermarci. Forse salirono altre persone... Non ricordo. Ricordo invece l'acqua che dai fossati lambiva il ciglio della strada. Poi ci fermammo ... Perché? Il camion era sprofondato nell'acqua che invadeva la strada; il motore si era bloccato. Saranno state le tre di notte. E dopo? Grida, paura, imprecazioni. Ma eravamo ancora tutti all'asciutto, i fari del camion erano accesi, si sperava nei soccorsi. Qualcuno pensò a dei falò con i vestiti; Tramarin propose di scendere e, tutti tenendoci per mano, di far "catena" fino ad una casa che non doveva essere lontana, ma nessuno volle scendere dall'autocarro, anzi cominciarono a prendersela con Tramarin, accusandolo di aver scelto una strada impercorribile. L'acqua continuava a salire, ma per tre ore non accadde niente... Niente nel senso che nessuno morì... Poi, in un

54 paio d'ore... Era già l'alba. L'acqua era arrivata al piano del cassone, la corrente trascinava di tutto: paglia, fascine, attrezzi agricoli, travi, "casotti" per i maiali, pali, botti, mastelli e tante carogne di animali… Il panico. E l'acqua cresceva. Mi aggrappai al bagagliaio fissato sul tetto della cabina, cercando di non vedere, soprattutto cercando di non lasciarmi coinvolgere in azioni disperate”. Padovan prosegue: “Qualcuno che aveva cercato di salire più in alto, sulle sponde del cassone, scivolò, cadde, sparì nell'acqua... Fu la disperazione. Alcuni si tuffarono alla ricerca di qualcosa che galleggiava in prossimità del camion... Tramarin accese una sigaretta, me l’allungò dopo alcune boccate, tirò su il bavero del cappotto e si buttò in acqua... Si suicidò, impazzito... Bellinello (un cinquantenne di Fiesso, che fu tra i superstiti, ndr) si calò in acqua gridando: "Aspettatemi. Vado a prendere un pagaio". L'acqua cresceva sempre più, la gente veniva inghiottita dalla corrente. Freddo, crampi, collassi... Impossibile descrivere. Sul tettuccio della cabina, dove si poteva stare in sei o sette volevano salire in trenta. Precipitavano... Affogavano. Ugo Bertin afferrò una scala a pioli e si allontanò nuotando. Si salvò... Anche Bellini si salvò; ho sentito che fu trovato aggrappato a un pioppo. Io? Restai saldo al bagagliaio; Baccaglini a cavalcioni di uno sportello. Verso le dieci ci trovammo in cinque o sei sul tetto della cabina, con l'acqua ormai alla cintola. Decisi di andare: sentivo che mi sarei salvato. Ci credevo. Scelsi un fasceto di gambi di granoturco e mi ci aggrappai. Mi tenne a galla! Un ragazzino dietro di me (Walter Bolognesi, dodicenne di Fiesso, ndr), salì su una balla di paglia. Si è salvato anche lui. Lo rividi più tardi, al piano più alto di un silos in una fattoria vicino al Canalbianco. A portarmici fu un barcaiolo: ero rimasto in acqua altre tre o quattro ore... Tre giorni dopo seppi che si era salvato anche Baccaglini. Chissà... Se avessimo avuto più coraggio... Ma tutta quell'acqua, quella nebbia, quel freddo, quella desolazione... Ne sono morti tanti in quel camion, forse non tutti 84 erano con noi, forse altri sono stati sorpresi dalla piena sulla strada, in qualche casupola... Ma che differenza fa?”.

Agghiacciante. Ma, come ho accennato qualche pagina addietro, nei giorni susseguenti l’inizio dell’alluvione, prese piede un’idea di un qualche dirigente RAI che lanciò la “Catena della Fraternità”: alle sei del pomeriggio, di ogni pomeriggio per quasi un mese, preannunciato dalle note toccanti del più struggente pezzo musicale che io ricordi,

55 l’Intermezzo della “Cavalleria Rusticana”, la radio segnalava quanto accadeva in quelle disgraziate terre e chiedeva aiuto agli italiani. Era la prima volta che accadeva in Italia e ci furono collette in ogni dove, sul lavoro, a scuola, nei campi da gioco. Ogni sera, mi pare oggi a ricordarlo, appena percepivamo le prime note dell’Intermezzo, stavamo con l’orecchio attaccato alla radio per sapere chi era stato più generoso, sentire i nomi dei donatori, fare a gara, quasi, per una ulteriore raccolta di fondi, quali storie si nascondevano dietro ad un accorato appello. A volte si raccoglievano poche centinaia di lire che venivano portate nei centri che la RAI indicava, ma è certo che tutti, tutti noi ci sentivamo affratellati con quella povera gente. Bellissima pagina di solidarietà, del cui esito, tuttavia, non saprei garantirne gli effetti.

Con lo spettro di qualche tragedia, a volte con una sorta di rassegnazione al peggio, retaggio di una vita di stenti che, occorre ripeterlo, cinque anni di guerra avevano lasciato in molti, moltissimi di noi, lo sport continuava, come era continuato, per quanto possibile, durante la guerra ed anche lo Spartanova si rimetteva all’opera dopo un autunno bestiale che aveva indotto la Federazione Calcio locale a sospendere l’attività calcistica per quasi un mese. Come accennato più volte, tuttavia, era lo sport e il calcio in particolare a dare sempre esempi di serenità. Il gioco della domenica era un toccasana per tanti e lo Spartanova si faceva sotto. Proprio in quegl’anni era cominciata la rivalità con un’altra società torinese che navigava per bene: era il Cenisia che si era costruito il campo in via Cesana, tra corso Vittorio Emanuele II e via Frejus, a fianco di un’antichissima bocciofila e stava dando filo da torcere a chiunque. Non è un accenno casuale, perché per quasi tutti gli anni Cinquanta queste due società rappresenteranno il meglio del calcio giovanile cittadino e videro il Cenisia primeggiare con i suoi due primi titoli tricolori e quell’importantissima Coppa Primavera che rimane il miglior emblema per una società dilettantistica torinese: dargliele sode a qualsiasi squadra italiana di categoria dilettantistica, semi professionistica o professionistica che fosse (Toro e Juve comprese). Il bello è stato (per lo Spartanova, “bello” fino ad un certo punto!) che nelle finali regionali quasi sempre prima era il Cenisia e lo “Sparta” si doveva accontentare della piazza d’onore. Sono questi gli anni del primo giocatore rossonero passato al professionismo, un certo Rambaldelli, torinese purosangue, che si

56 mise in luce per un quinquennio nelle file del Catania, proprio quel Catania il cui campo di gioco restò famoso per una dichiarazione radiofonica che in molti ancora ricordano e che irruppe nelle nostre case in una delle tante domeniche del calcio radiotrasmesso: “Clamoroso al Cibali…”. La Juventus, prima in classifica in quel momento, le stava beccando per 0-1 dal Catania ed il radiocronista, sbalordito pure lui, si intromise nel modo ormai noto, nominando il campo etneo. Quella domenica, con la maglia numero 2, giocava anche Rambaldelli. Intanto lo Spartanova si faceva “madama”, nel senso che assumeva importanza e si “vestiva” elegante, andando a scegliersi una dirigenza di qualità, dei tecnici di prim’ordine ed una sede suntuosa come era quella al primo piano di via Della Rocca, poco prima di arrivare in corso Vittorio Emanuele, a due passi dal Valentino. Dar retro del bar di corso Giulio Cesare al piano nobile di un edificio del centro, il passo si era potuto compiere per l’arrivo di un industriale torinese, Giuseppe Pasquino, con interessi nella meccanica di precisione e da subito eletto presidente, e per l’inserimento nel direttivo, oltre ad Enria e Sansoè, di Enrico Riva, impresario edile cui apparteneva l’alloggio che ospitava la nuova sede, dei fratelli Rollero, che, tutti insieme, davano la “sostanza” per viaggiare da grandi. A direttore sportivo era stato chiamato un personaggio dalla testa proprio “fine” che, purtroppo, si dovrà allontanare dagli ambienti sportivi dopo non molti anni per dei problemi personali che nessuno ha mai compreso ma che dovevano essere molto seri: si chiamava Enzo Fagiolino e saranno in tanti a serbare un prezioso ricordo di un amico vero, di un dirigente capace, di un personaggio quasi unico nel panorama calcistico di quelle stagioni. Fagiolino, centoventi chili di stazza e quasi altrettanti di cervello, ha vissuto lo sport quando ancora ci si muoveva “gratis”, quando anche un dirigente con mille impegni, come era un segretario o un direttore sportivo, prestava la propria opera assolutamente in modo gratuito, quando il calcio giovanile e dilettantistico si faceva solo di sera e solo nei giorni festivi. Per darvi appena un’idea di cos’era e cosa faceva un “segretario” che in questo caso era allo Spartanova ma potevi trovarlo al Vanchiglia o al “Barca”, al “Pino Maina” come al Lucento, vi trascrivo un articolo apparso su “Piemonte Sportivo” di alcuni anni addietro.

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In questo articolo c’è di tutto, la Storia, la filosofia di vita, il carattere, le buone maniere, ma, soprattutto, il senso della correttezza di chi sapeva che poteva contare sui colleghi ed essere corrisposto.

«Si chiamava Pinna. Antonio Pinna. E’ morto pochi giorni fa a novantasei, novantasette anni. Era nato a Torino, come suo padre. Il nonno, invece, funzionario statale del Regno d’Italia, proveniva da Alghero, da quella parte del Regno di Sardegna che faceva fatica ad immedesimarsi nella nuova realtà politica che Carlo Alberto, il re, aveva cercato di assimilare con il Piemonte, la Savoia, Ginevra e Nizza. I Pinna, questi Pinna, erano stati tutti funzionari statali, comunali o, comunque, nella pubblica amministrazione. Il nonno, giunto a Torino verso la metà del secolo diciannovesimo, aveva fatto in tempo, quale dirigente del Ministero delle Finanze, a vivere in diretta la trasformazione del Regno di Sardegna in Regno d’Italia. Era una costante, ai tempi, che i migliori uomini pubblici italiani si trasferissero da una parte all’altra della penisola per amalgamare lo spirito, intimo, concreto, onesto, funzionale del Piemonte con la ancor giovane Italia. Così avveniva che i Brofferio si trasferissero in Calabria e che i Pinna, appunto, se ne venissero a Torino. Ai giorni nostri si parla tanto, quando si vuole significare la “cosa pubblica” che funziona, dell’Austria che sotto Cecco Beppe era “un paese ordinato”. Ma non si tiene conto (lo si dimentica o, peggio, lo si deride) che il Piemonte risorgimentale era una “macchina pubblica” eccezionale. La serietà, l’avvedutezza, il pragmatismo degli amministratori piemontesi sono raramente rammentati al di là del Ticino e degli Appennini liguri, mentre è stata (e lo “è stata”, purtroppo) una caratteristica morale dei piemontesi mai sufficientemente divulgata. Tutta questa premessa per delineare un uomo che ha personificato la Serietà e che anche nello sport, nel calcio, è stato un grande esempio. Antonio Pinna, come è intuibile, è stato un amico di chi scrive. Dopo le otto ore al Comune di Torino, si installava nella segreteria di una società di calcio, lo Spartanova, ahimè scomparsa qualche anno addietro, e lavorava, effettivamente, per altre quattro ore al giorno, festivi compresi, in quanto Pinna non concepiva che la sede societaria rimanesse vuota anche quando i ragazzi giocavano. Sempre assolutamente gratis, sempre assolutamente elegante, sempre con una pacatezza assoluta. Accadeva, raramente ma accadeva, che la signora

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Eulalia (solo un Pinna poteva sposare una donna con questo nome!) gli telefonasse per ricordargli che, di lì a poco, sarebbero arrivati ospiti o che il figlio (divenuto in seguito giocatore rossonero, ndr) doveva essere accompagnato al catechismo: dopo la telefonata, Pinna richiudeva il registro o riponeva il dossier, passava uno straccio, che traeva dall’ultimo cassetto della scrivania, sugli spazi di lavoro per togliere la polvere, copriva la macchina da scrivere e si alzava per andarsene, senza dimenticarsi di informarci che, per lui, si era fatto tardi. Ricordandolo ora, ci viene un sorriso al pensiero dei suoi gesti pacati, della sua parlata quasi accademica, della sua mancanza di accento dialettale. Dopo quasi duecento anni di Piemonte, i Pinna continuavano a parlare italiano, avevano smesso il sardo, ma il dialetto cispadano non era entrato nel loro cranio. Un signore, nella vera accezione del termine. Aveva cominciato nel 1952, poco dopo la fondazione del club rossonero, ed aveva smesso alla fine degli anni ottanta quando le tante primavere avevano cominciato a pesargli sulle gambe, per niente sulla testa che è stata sopraffina sino alla sua scomparsa. “Ciao Pinna”, nessuno lo chiamava per nome e pochissimi “sapevano” dargli del tu, se vorremo ricordare una figura esemplare, un dirigente calcistico che ha contato, eccome, per migliaia di ragazzi e di colleghi, sapremo chi nominare. Un’ultima cosa, Pinna, sappi che il tuo sorriso, solo un sorriso ma grande da qui a là, per la vittoria degli Juniores nel Campionato Regionale del 1961, bissando il successo dell’anno prima, rimarrà nella storia”. Garantito.»

Con i Pinna e i Fagiolino, Enria aveva cooptato anche un bizzarro personaggio (il “bizzarro” ve lo spiego dopo) che masticava football come pochi, che aveva una cura quasi maniacale per la squadra affidatagli e che, per coloro che hanno passato i sessanta, è stato un grande esempio di competenza calcistica: si chiamava Leonis Polchini, Leo per tutti, un maestro. Polchini è rimasto nella testa e, forse, anche nel cuore di molti che hanno frequentato le sue stagioni del calcio, perché non ha allenato soltanto allo “Sparta”, benché avesse trascorso quasi dieci anni con i rossoneri, ma ha fatto cose importanti anche con il “Barcanova” quando suo figlio entrò negli anni giusti per mettersi in mostra in un club che stava spopolando e, soprattutto, con la Rappresentativa regionale juniores (ai tempi una categoria del solo Settore Giovanile).

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Nella selezione piemontese l’aveva chiamato un certo Franco Muratori, uno di quei dirigenti federali che, dove sono stati, hanno sempre “contato” e che, poco dopo, aveva dovuto rimangiarsi la designazione di Polchini per l’ostruzionismo di alcune società “consorelle” e di alcuni colleghi della FIGC i quali si facevano forti di una disposizione della FIGC romana. Comunque credo sia meglio procedere per gradi. Riandando ai progressi dello Spartanova, è doveroso mettere le virgolette su un altro giocatore che Enria aveva potuto accaparrarsi senza spendere una sola lira, sfruttando invece un codicillo del regolamento calcistico: era arrivato a Torino, al seguito della propria famiglia che per ragioni di lavoro stava cambiando residenza, un ragazzetto “mandrogno”, l’alessandrino Roberto Ossella. Ossella aveva delle credenziali di tutto rispetto, avendo già giocato nella “De Martino” (l’attuale “Primavera” dei professionisti) dell’Alessandria con un certo Coscia e un “certo” Rivera che aveva, addirittura, due anni in meno di lui. Non era l’aver giocato con Rivera che dava credito alle sue doti, il “golden boy” era ancora un emerito sconosciuto, quanto essere una pedina della “De Martino” dei grigi. Come detto, Enria sfruttò il fatto del “cambio di residenza da una provincia ad un’altra non confinante” e inserì negli juniores rossoneri il ragazzo senza sborsare un soldo e se anche Ossella non si presentava come un marcantonio, era, è, alto un metro e niente, si sapeva e lo si sarebbe visto nei seguenti trent’anni, che aveva un cranio eccezionale per il gioco del calcio e non solo e, inoltre, possedeva quel famoso “piedino” che non erano tanti a manovrare. Per le fortune dello “Sparta”, comunque, ciò che avvenne qualche anno dopo è stato il vero “colpo” di mercato, perché Ossella, con Polchini, divenne un punto fermo del vivaio locale, sfornando campioncini a iosa ed integrandosi con “Leo” come mai era accaduto prima: Ossella insegnava calcio e Polchini metteva negli Juniores il meglio che passava la parrocchia, inserendo nel cervello dei suoi ragazzi quel valore aggiunto che sarebbe servito negli anni della maturità calcistica di quei ragazzi. Passarono da quelle “forche caudine” Roberto Ciola, Salvatore Raimondi, Renzo Sivornino, Enzo Moderiano, Marcello Bonadonna, Bruno Bernardi, Mario Pasquino, il povero Gigi Colonna, Pasquale Tango, Ernesto Zaffaroni, Lillo Chiarenza, Aldo Scarabosio, Mario Grigiante, Paolo Garnerone, Mario Stinchelli, Gigi Gollessi, Valentino Carbone per accennare appena ad alcuni nomi tra i duecento che

60 hanno imparato calcio da quel Polchini o da quell’Ossella. Fra questi nomi, comunque, ci fu chi raggiunse i professionisti e chi “imperò” nei dilettanti fin quasi ai quarant’anni, chi vinse titoli italiani con altre società, chi diventò un allenatore con i fiocchi e chi la carriera la fece nel giornalismo, come quel Bruno Bernardi, inviato speciale di “La Stampa” e collega nei primissimi anni di “Piemonte Sportivo” che mai dimenticherà le sue origini calcistiche e mai e poi mai dimenticherà un suo compagno di squadra rimasto a ciondolare, al massimo, nel solo borgo natio. La dimostrazione che si è intelligenti e dal cuore ben pulsante mi viene data dalla descrizione di questo piccolo episodio. Nel 2005, poco prima che si aprisse una importante conferenza stampa al Centro Congressi della Regione Piemonte in Torino, con la presenza di pezzi grossi dello sport, delle istituzioni, della politica, Bruno, già seduto sullo scranno degli oratori, mi vide entrare in sala e con un cenno mi chiamò. Gli andai vicino e dopo i baci e gli abbracci, mi disse, con una contentezza che solo dopo ho saputo comprendere: “Sai, Tito, là in fondo alla sala c’è anche Mario Grigiante!”. Non mi aveva accennato ai suoi vicini di tavolo, all’importanza della conferenza, alla sua presenza su quella sedia, lui era felice, sì, proprio felice, di aver rivisto un suo “antico” compagno di squadra: erano passati quarant’anni, era diventato amico di Platini, di Maradona, di Gigi Riva, aveva assistito a finali mondiali e scritto su coppe europee, ma era ancora contento quando rivedeva un amico di gioventù, uno col quale aveva condiviso pallone e sudore sui campi spelacchiati di periferia. Polchini intanto aveva cominciato a vincere alla grande con un gioco che a Torino, nella Torino del calcio giovanile e dilettantistico, nessuno aveva ancora praticato: cominciava a giocare con il libero come, probabilmente, aveva visto fare o aveva letto che faceva il Padova di . In quella squadra, questo ruolo era di Renzo Sivornino che, comunque, si sdoppiava volentieri andando a fare il mediano d’attacco quando la squadra spingeva e indicava a Delton, dalla fascia sinistra, di spostarsi al centro. Quel Delton è chi scrive e da quell’anno farà il “libero” per i restanti vent’anni di gioco che continuerà a praticare. In quanto alle bizzarrie di Leo Polchini, cui ho accennato poco addietro, sono significativi due brevi aneddoti per comprendere il tipo e il suo smisurato amore per il ruolo, per i suoi ragazzi, per lo stesso gioco del pallone.

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Accadde nel giugno del 1961. Il presidente Pasquino aveva voluto che la squadra, in procinto di disputare la finale regionale juniores, trascorresse in ritiro le ultime ventiquattrore prima del match: roba da signori, credetemi! Giocatori, dirigenti e tecnici (io compreso che fungevo da segretario, ora che avevo passato l’età del calcio giovanile) tutti riuniti all’Hotel Bologna di corso Vittorio Emanuele angolo via XX Settembre. Tutto normale dopo il pranzo e la cena del sabato e libera uscita ai ragazzi sino alle 23 e 30. A quell’ora, fatta la conta perché fidarsi dei “gorba” non è mai sicuro, tutti a nanna nelle proprie camere. Mezz’ora dopo sento bussare alla mia ed è Polchini che mi viene a chiedere se lo accompagno a fare una passeggiata in quanto non ha e non gli viene sonno. Mi rivesto e ci facciamo due ore buone di corso Vittorio, corso Massimo D’Azeglio, corso Marconi, via Nizza e, finalmente, ritorno in albergo dopo aver fatto scena muta in quanto l’amico Leo aveva da sciorinare decine di formazioni possibili, ruoli da invertire, modi di giocare. Entro in camera, sono appena assopito (io, in quelle ore il sonno lo stavo patendo) dopo essermi svestito velocemente che sento nuovamente bussare alla porta. Apro ed è ancora Polchini che tenta di rifilarmi una nuova formazione con questo là, quell’altro lì, il terzo in avanti. Non ne posso più, quando è troppo è troppo, e lo mando a stendere: sono le 2 e 30 e credo che lui ci abbia rimuginato per chissà quant’altre ore! Quanto segue, invece, accadeva, molto sovente, in ogni stagione dell’anno. Polchini di mestiere faceva il tranviere e per poter essere libero alla domenica mattina aveva chiesto ed ottenuto dalla Direzione dell’ATM di giocare nella squadra aziendale che militava in Terza Divisione (sarebbe stata poi la Terza Categoria). Quando capitava che la sua squadra, parliamo della Terza Divisione, dovesse giocare alla domenica mattina in concomitanza con la “sua” Juniores dello Spartanova, succedeva ogni volta un accidente. Ma succedeva, sempre, prima di entrare negli spogliatoi. Una domenica era una distorsione alla caviglia destra mentre, accompagnato dal suo dirigente, attraversava la strada ed il dolore era tale da costringerlo a “ritornare” a casa , un’altra volta aveva talmente mal di pancia da farsi ricoverare al pronto soccorso da dove scappava immediatamente. Ma una domenica gli capitò proprio… drammatica! Mentre stava per entrare negli spogliatoi del campo “Tazzoli”, mi pare di ricordare dove oggidì sorge l’impianto di pattinaggio sul ghiaccio, fece la solita

62 scena della distorsione alla caviglia, solo che questa volta fu troppo efficace e realistico e, scivolando sul pavimento bagnato, andò a sbattere sullo spigolo di una porta procurandosi una ferita alla “pelata” da costringerlo veramente al pronto soccorso: cinque punti di sutura e arrivo al campo Falchera appena, appena in tempo per dettare la formazione al suo dirigente! Gli anni passavano senza troppi scossoni e se Pasquino aveva dovuto abbandonare la presidenza, che era ritornata ad Enria, c’era il vivaio che provvedeva a fare il saldo attivo in cassa. Collaborazione con il Torino Calcio, collegamenti con una miriade di società piemontesi e sempre buoni rapporti con tutti, anche se la “volpe” rimaneva volpe e ben difficilmente si trovava qualcuno che masticasse regole e regolamenti come Piero Enria. Gli anni sessanta volgono al termine, sono stati vinti due titoli regionali e già da tempo la società ha portato in giro per l’Europa le sue squadre. Dal ’61 si va in Francia, in Svizzera, in Belgio, in Germania ed è doveroso ricordare, tra tutte le trasferte, i due tornei vinti nel giro di due settimane con titolo regionale perso a Vercelli nella settimana di mezzo. Si era vinto a Losanna con l’Etolie Carouge domenica 5 giugno 1966, grande pubblico, grande pioggia e grande vittoria sui professionisti svizzeri. La settimana dopo Polchini ha le “boie”, nel senso che gli sono venuti a mancare due giocatori che lui ritiene fondamentali, Ciola e Raimondi, e non vuole saperne di seguire la squadra a Vercelli dove è programmata la finale regionale con il Verbania. Se ne va al mare con una scusa che riguarda la famiglia. Risultato? Lo Spartanova è proprio orfana, non scalpita come al solito, non “segue” colui che Enria ha messo al posto di comando per quella giornata e le becca 2-1. Ciao titolo regionale, ciao sogni di gloria per il titolo nazionale che una squadra come quella, a detta di molti, poteva guadagnarsi. La settimana dopo, 19 giugno 1966, si ritorna in Svizzera, questa volta a Ginevra, e si rivince un altro torneo con il Borussia Dortmund. Polchini è tornato, ma i fatti della settimana precedente lasceranno una traccia di amarezza che ben difficilmente verrà cancellata del tutto. Quelle, comunque, sono le stagioni di molti dirigenti e di molti allenatori che si faranno in seguito conoscere anche altrove. Appaiono Giorgio Grimaldi, proveniente dalla “scuola” chivassese di suo padre, il “Maresciallo” come tutti lo conosceranno, un militare che per lo sport farà grandi cose, poi Cosimo Bersano, che comincia con i piccoli rossoneri e finirà allenatore e presidente del Torino Femminile in

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Serie A, quindi Ezio Pascal, una sagoma di “mister” che seppe coinvolgere tutti i suoi giocatori in un bel progetto sportivo finito male e finito male per la sua impazienza nell’attendere che maturassero i giocatori e i tempi. Sarà anche l’ora dei fratelli Panebianco, Lucio ed Enzo, grande tecnico il primo, elegante dirigente il secondo. Lucio Panebianco sarà il primo, qualche anno dopo, a svezzare una bella nidiata di boys che darà grosse soddisfazioni al club e di cui accennerò più avanti. Quando gli anni settanta arrivano sulle nostre schiene, noi del calcio manco ci accorgiamo, si fa per dire, che i destini di tanti saranno cambiati dall’agire di pochi. E con il 1971 arriva una persona che per alcune stagioni farà fare il salto di qualità ulteriore allo Spartanova: si chiama Dario Arman, un industriale dell’indotto auto e sarà da subito eletto a presidente. Lo ha presentato ad Enria un suo impiegato, quel Mario Offidani che dal 1958 è in società a svolgere vari compiti dirigenziali e che diventerà un artista da cabaret prima di accasarsi definitivamente con… moglie e figli. Offidani, un affabulatore eccezionale, barzellettiere di categoria super, saprà circondarsi di tanti amici, ma sarà anche uno di quelli che farà le valige quando il barometro segnerà tempesta in arrivo. E pensare che nel 1961, quando il comune diede lo sfratto allo “Sparta” da piazza Sofia, perché il “precario” del campo, una sorta di affitto e cura, era scaduto e i dirigenti del Parcosparta non avevano informato di niente, quando si cominciò la riqualificazione dell’impianto, spendendo fior di soldoni, quando la società si trovò senza campo e ci fu un fuggi fuggi generale, rimase sulla barca con le sole ed uniche quattro squadre rimaste e fu uno dei soli ed unici quattro dirigenti a tirare il carretto. E’ stato il primo tracollo della società. Senza campo, come detto, senza dirigenti che paventavano salassi dati i debiti per la ristrutturazione effettuata e se l’erano squagliata, con la fuga di circa una trentina di giocatori che non ebbero fiducia nel club, lo Spartanova non mollò del tutto soltanto per Enria, Polchini, Offidani e Delton. A Delton la prima squadra per la domenica pomeriggio, a Polchini gli Juniores della domenica mattina, ancora a Delton gli Juniores B che si alternavano alla domenica mattina e ad Offidani i Giovanissimi, con Enria a fare da ponte per tutte le squadre. Come è facile intuire fu un sacrificio per tutti e ci fu un interscambio tra una giornata e l’altra che mise a dura prova amicizia e sentimenti. Per fortuna gli amici del “Barcanova” che, in quella stagione, avevano solo la squadra dilettanti ed in cui Angelo Pampione doveva ancora affacciarsi, affittarono il campo ai

64 rossoneri salvandoli da… affogare del tutto e consentirono, in quel lasso di tempo, che il Comune finisse la costruzione del campo alla Falchera Vecchia per riservarlo allo Spartanova. Riparlando di Arman è quasi d’obbligo accostarlo al più importante torneo estivo di calcio che si sia organizzato a Torino. L’anno dopo la sua entrata in società, Arman mise sul tappeto un’idea che consisteva nel mettere in cantiere un torneo che potesse interessare la città, o meglio, tutti i quartieri della città: nacque il Palio delle Borgate, la manifestazione che, come si diceva per una famosa rivista di enigmistica, ha vantato il più grande numero di imitazioni nei decenni a venire. Il “Palio”, a cui partecipavano ogni anno ventiquattro tra zone, borgate e rioni cittadini, dovette mettere dei paletti da subito per evitare un affollamento negativo in quanto le iscrizioni che riceveva lo Spartanova erano esorbitanti. Si giocava allo Stadio Ruffini tra fine giugno e i primi di luglio e credo sia stata l’unica occasione per vedere a Torino uno stadio pieno, nei giorni delle finali, che non fosse il Comunale (il “Delle Alpi” era di là da venire). Quando nel dicembre del 1981 si annullò l’evento, lo si fece perché la concorrenza era diventata esagerata, con premi a disposizione che il “Palio” non si poteva permettere. Per far capire, comunque, come veniva considerato il “Palio” dalle autorità pubbliche comunali, vi accenno al colloquio avvenuto tra il presidente dello Spartanova, accompagnato dal suo direttore sportivo, Ermanno Rivero, un esperto dirigente che andrà in FIGC negli anni novanta e l’assessore allo sport della città, allora era Fiorenzo Alfieri, attuale assessore alla coltura di Torino. I funzionari di Alfieri convocano i responsabili dello “Sparta” in via San Francesco da Paola dove, all’epoca, aveva sede l’Assessorato allo Sport e gli chiedono se il “Palio” continuerà nel 1982 e negli anni a venire. Con tutta franchezza il presidente gli risponde che nella prossima stagione ci saranno i “Mondiali” e la TV è un concorrente troppo forte per resistergli, pertanto intendono mollare. In realtà, come detto prima, i costi erano lievitati enormemente e impegnare dieci persone tutto l’anno e altre trenta nei mesi estivi era diventato assolutamente anacronistico, anche in considerazione degli utili molto scarsi che si traevano in quelle ultime edizioni: il costo della vita era aumentato esponenzialmente (anche senza euro!) in quei dieci anni e non valeva più la pena impegnarsi in “imprese” del genere. Del perché ci fosse stata quella convocazione e perché fossero state rivolte certe domande lo si seppe alcuni giorni dopo da un dirigente dell’Assessorato: il Comune aveva intenzione di cambiare

65 l’illuminazione dello Stadio Ruffini soltanto se il “Palio”, che contribuiva con dei bei soldoni d’affitto, fosse continuato. La conseguenza che si ebbe risaltò negli anni a venire in cui venne tolta l’illuminazione ormai fatiscente (si staccarono dalle torri faro e caddero a terra addirittura alcune parabole!) al campo del “Ruffini”, da quel momento riservato alle sole manifestazioni diurne e soltanto nei primi anni novanta venne ripristinata in pompa magna. Con l’annullamento del “Palio” si entrava negli anni ottanta ed anche le squadre si rinnovarono. Un accordo con il Torino consentì ad Enria, orfano di Polchini mancato in quelle stagioni per un tumore all’intestino, uno degli ultimi “colpi grossi” ed uno scambio tra un giocatore rossonero, un certo Varrone, finito poi nell’anonimato e cinque ragazzetti granata farà brillare una squadra per alcune memorabili stagioni. Chi arrivò allo “Sparta” fu Ferruccio Serafino, andato in A con l’Avellino di Vinicio, del presidente Sibilla e di quel Marino abile manager dei giorni nostri al Napoli, Beppe Argentesi, in A con Pisa e Atalanta ed uno dei tanti Esposito, in A con il Cesena, dopo essere ritornato al Torino. Il problema, tuttavia, fu rappresentato dal “Beinasco” del presidente Ronco che si “sostituì” al Cenisia degli anni cinquanta e blocco la via al titolo nazionale con la vittoria in alcune finali regionali: era destino che quel pezzetto di stoffa tricolore Enria non potesse cucirselo sulle proprie maglie! Verso la fine degli anni settanta, per riannodare la nostra storia, Arman cessa di colpo la collaborazione, vende anche l’azienda di tergicristalli ad un gruppo statunitense, mi pare la “Champion” quella delle candele per auto, e scompare, letteralmente. Non ho mai conosciuto il motivo esatto, ma pare che c’entrasse la famiglia, i figli. Lo Spartanova va verso anni difficili, ma ancora pregni di soddisfazioni. Enria deve allontanarsi di qualche spanna, ha da poco annodato interessi economici con altre aziende nel campo della maglieria e deve badare, come è giusto, ai propri affari divenuti importanti. Si apre una stagione di nuovi arrivi con dei bravi tecnici, Luciano Franciscono, quello che porterà in auge la squadra dei “torinisti”, Roberto Casalino, una autorità, letteralmente, sulla panchina, il già citato Lucio Panebianco, che con i primi “torinisti” e altri “prodotti” del vivaio si toglierà un bel po’ di soddisfazioni, Gino Giardina, un maestro per qualche centinaio di “pulcini” arrivati alla Falchera, suo fratello Ciccio, severo al punto giusto, Carlo Panizzari, che ai più

66 grandicelli sapeva, in due sedute di allenamento, imporre uno stop di coscia e un colpo di testa ben fatto, Gerry Gerosa, un professionista nei modi di insegnare calcio, e un gentleman nei modi di comportamento. Ma arrivavano anche dirigenti che avrebbero fatto scuola, come Franco Culetti, il cui figlio Marco, divenuto un ottimo portiere abbandonerà il calcio giocato dopo la laurea in Scienze Motorie e finirà quale preparatore atletico in squadre come Juventus, Avellino, Novara e ancora Juventus, come un “certo” Ivano Gritti, veneziano di Lido, che da semplice genitore-spettatore diventerà il segretario per eccellenza e consigliere nel direttivo, molto ricercato quando la società si sfascerà e finirà al Borgaro del presidente Perona. Poi Mario Fulcheri, uno psichiatra che diverrà cattedratico nella nostra Università e sarà fondamentale per le sponsorizzazioni che saprà ottenere e le idee innovative che porterà in società, quindi Aldo Toffetti, un manager che nessuno ha mai conosciuto senza sorriso (salvo sua moglie, quando le riunioni-fiume del direttivo costringevano alle ore piccole, molto piccole!) e che al pragmatismo univa un innato ottimismo non sempre condiviso e tuttavia indispensabile per cementare le varie facce del sodalizio. Un altro veneziano, questa volta di Chioggia, lascerà anche lui il compito di “solo” genitore e si inserirà nel direttivo del club fino alla sua chiusura, mentre gente come Cerutti, Laura e Franco, Franco Mameli, Angelo Casale, Raffaele Fusco, Michelangelo Fusca ed i tanti che mi è impossibile nominare per non far diventare il tutto un mero elenco telefonico e nulla più, gestiranno squadre e ragazzi negli anni che portano al nuovo millennio, in cui, tuttavia, lo Spartanova non ci sarà. Tralasciando i tanti singoli che, per un verso o un altro, hanno sempre contato molto in società sia per l’impegno che per la professionalità (basti pensare che dal 1949 fino al 1992 nessuno socio, sia esso dirigente o tecnico, ha mai percepito un soldo di rimborso spese, mai, ma che dopo quella data le cose sono cambiate in tutto il mondo del calcio giovanile e dilettantistico e quindi anche allo Spartanova), ritorniamo ad Enria che nel maggio del 1990, a soli sessantacinque anni, ci lascia per sempre. Accade una domenica di maggio, mentre quasi tutti sono al campo Falchera, al campo vecchio, perché l’impianto della Falchera Nuova sta per arrivare ma è ancora da un’altra parte. Si presenta Roberto Ossella con la moglie che cerca il presidente: è appena stato al Nuovo Martini, così lo si chiamava l’attuale Ospedale San Giovanni Bosco,

67 perché nella notte avevano ricoverato Enria e proprio pochi minuti prima era mancato per una complicazione cardiopolmonare. E’ una gran botta. Enria non aveva più alcuna carica in società, se non onorifica, ma era un consigliere, esperto come pochi, per i suoi amici rimasti al posto di comando, ma, soprattutto, Enria aveva ancora molti, molti amici rossoneri che non si capacitavano della sua scomparsa. Non ho nessuna intenzione di osannare un amico per il semplice motivo che ho condiviso con lui trent’anni di sport, voglio, invece, tentare di far comprendere a coloro che Piero Enria non l’hanno conosciuto, come non hanno conosciuto i Pampione del Barcanova o i Tallia del Vanchiglia oppure i Muratori della FIGC, come poteva essere considerato da colleghi, avversari, giocatori un uomo della sua specie. Credo possa essere sufficiente la dichiarazione di Gilberto Andreotti, ex giocatore dello “Sparta”, del “Barca” ed attuale presidente del “BarcanovaSalus” nonché assiduo frequentatore di Enria e della sua famiglia, cui ho chiesto di dare un giudizio su quel, anche suo, grande amico. Gilberto ci pensa qualche attimo, poi va giù sparato e poiché non mi dà il tempo di scrivere le sue impressioni, gli chiedo di ripetersi. “Vedi – mi ridice – Enria possedeva quell'intelligenza cristallina e assoluta, quasi sconvolgente. Riusciva ad affrontare qualsiasi soggetto... vischioso, impasticciato e subito a decantarlo, quasi “purificarlo” e farlo risultare completamente ovvio. Ricordo che una volta, in una riunione pubblica della FIGC, demolì un tizio che disquisiva su una certa teoria organizzativa del gioco del calcio. Enria lo lasciò parlare e parlare, e poi lo stese. Fenomenale. Qualcosa sulla continuità e sulla discontinuità nello sport. Ma la cosa interessante, vedi, è che si poteva giurare che a lui non piaceva farlo. Ecco che cosa lo rendeva assolutamente speciale. Era fondamentalmente modesto e gentile. Ti concedeva sempre il beneficio del dubbio, anziché distruggere le tue idee con la sua logica impeccabile. Ma evitava sempre di umiliare gli altri. In quanto alla nomea di “volpe”, è tutto un altro discorso, più tecnico, meno decifrabile”. Lo Spartanova è ormai sul nuovo impianto, un’area di quasi quarantamila metri quadri, che ha ottenuto, dopo sei anni di discussioni, riunioni, anche diatribe bollenti, dal Comune di Torino: è la struttura della Falchera Nuova, in via degli Ulivi al confine

68 della città con Mappano, la cui gestione privata aprirà la via a simili atti per molte altre società sportive cittadine. Ci sono due campi da calcio, sette da tennis, dodici campi da bocce, una piastra polivalente recintata, dodici spogliatoi, la sede sociale e tanto di quel verde che riempirà gli occhi appena a guardarla. Ma esiste anche un degrado devastante in quasi tutto, sui campi, sulle piastre, sui terreni che paiono un “wild west”. I nuovi dirigenti si mettono di buzzo buono ed investono notevolmente per riportare all’onor del mondo una struttura ormai abbandonata. Si ricostruisce uno dei campi con una pelouse perfetta, si puliscono gli ambienti, si sistemano gli spazi scoscesi, si costruisce un nuovo campo per la scuola calcio ed in poco più di una stagione l’impianto è uno specchio. Nel frattempo le squadre sono aumentate a dodici unità ed i costi lievitano di conseguenza; quando il Comune chiede il conto delle energie, nel 1994, una mazzata scende sul direttivo del club. Ma si fa anche presto a ragionare e portando fatture e note spese in municipio, appare evidente che quanto speso per la ristrutturazione è molto, ma molto di più di quanto chiede l’amministrazione comunale. Il contenzioso si chiude, anche se per arrivarci si dovranno sudare sette camice per il semplice motivo che si è avuto a che fare con funzionari che non sapevano comprendere un lavoro socialmente utile in una borgata “difficile” come la Falchera, mentre il concetto che consentirà a tanti club di respirare “aria buona” non è ancora nato e prenderà vita soltanto una decina di anni dopo. Queste spese enormi, tuttavia, hanno fatto paura a qualcuno e quando Delton deve abbandonare la presidenza per i suoi gravi motivi personali, si innesca un meccanismo che allontana le più belle teste della società. Dapprima va via il prof. Fulcheri, seguito a ruota dall’ing. Carazza. Toffetti, Gritti e Boscolo sono rimasti soli, ma nel 1996 abbandonano anche loro. La nuova dirigenza cerca di salvare il salvabile, ma pare che non ci sia più il collante necessario e sufficiente e nel 1998 ad un anno da compiere cinquant’anni di vita e di storia sportiva lo Spartanova chiude. Per sempre. Una società che pareva costruita sul cemento, di quello duro, che aveva sfornato fior di giocatori e fior di dirigenti, che aveva fatto indice per tanti altri club, non solo della zona, moriva in un limbo silenzioso che faceva male al cuore. Qualcuno aveva tentato di rintracciare i vecchi soci, ma era stata una ricerca vana. Ora, per chiudere questo capitolo in modo mesto ma orgoglioso, vengono alla mente molte di quelle persone che hanno vissuto, tra la

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Barriera di Milano e la Falchera, i migliori anni della propria gioventù ed anche qualche cosa di più. Renzo Chiantor Bovè, un dirigente dalla competenza notevole e dal carisma assoluto, scomparso, purtroppo, pochi mesi addietro; Carlo Pesce, attuale presidente del “Lucento”, grande portierone degli anni cinquanta che non aveva voluto fermarsi al Como, dove lo Spartanova l’aveva mandato in prova e l’allenatore Lamanna gli aveva chiesto di fermarsi un altro giorno per vederlo in partita, perché la “mutua” era finita e suo padre non transigeva oltre: al lavoro, al lavoro si deve andare! Didier Ruggiero, gran bella testa e gran bel “piedino” che diventerà un tecnico di valore alla fine del secondo e all’inizio del terzo millennio, salvo perdersi in rivoli sconosciuti. Ernesto Chiavalon, portiere di belle speranze ma rimaste tali per la sua scelta di diventare fotografo: un grande fotografo, uno dei più grandi al mondo, si farà chiamare Ernst Avalon, incontrerà quasi tutti i cosiddetti “grandi” e proprio qualche anno fa è voluto tornare a casa dalla sua anziana madre dopo aver girato il pianeta in lungo ed in largo. Marcellino Zambon, che prima ha accompagnato i due figli a giocare per tante stagioni e poi si è “accompagnato” a quasi tutte le squadre degli ultimi trent’anni, dirigendo piccoli e grandi con sapienza e maestria. Gino Anatone, Bruno Giuliano, Virgilio Rotta, Gimmy Baralis, Armando Di Napoli, Carlo Conte, Gigi Chieregato, Beppe Poggio, Evo Ferranti, Michele Ciani, Gino Giachin, una schiera di amici che formarono una squadra di “dilettanti” imperante per un decennio alla “Falchera Vecchia” e rimasti legati con una amicizia profonda per il resto della loro vita, anche della breve vita di Giachin che ci ha lasciato nel 2005. Aldo Rabino, don Aldo, gran giocatore, grande uomo, gran sacerdote. Aveva rifiutato ad Enria di andare alla Juventus che lo voleva a tutti i costi e non aveva voluto rimanere neanche allo “Sparta”: era entrato in seminario proprio in quel 1958. Utile ricordare che Barbotto, a quei tempi selezionatore della Rappresentativa, lo aveva voluto con sé benché avesse due anni in meno dei suoi compagni e che lui, prima di Italia-Jugoslavia al Comunale, aveva anche segnato una rete ai ragazzi granata suoi avversari per l’occasione. Questi sono nomi scelti a caso nella memoria, ma finisco la storia rossonera con una citazione tutta particolare.

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In occasione di un nostalgico raduno degli ex dello Spartanova, avvenuto nella primavera del 2004, un vecchio giocatore, di cui non ricordo manco il nome (eravamo una “montagna”, quel giorno) mi si avvicinò, con timidezza quasi, e mi chiese se c’era un certo “ragazzo” in mezzo a noi, un certo Vallerossa. Alla mia risposta affermativa, lo consigliai di girare per i tavoli o nel prato per cercarlo e parlargli. Mi rispose: “Sa, io ho giocato con Vallerossa!”. Non aveva detto che aveva giocato nello Spartanova in tale anno, in quelle certe stagioni, no, lui era stato compagno di squadra di Vallerossa e quello rimaneva il suo migliore ricordo. Quel Vallerossa, Gianni Vallerossa, è il simbolo di tutti coloro che hanno vestito le maglie rossonere: elegante, abile, carismatico, testa fine e ottima educazione. Ce ne fossero!

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Capitolo VI

Un po’ per caso, un po’ per necessità

Siamo ancora ai primi anni del dopoguerra, tante “storie” sono già accadute, altre “narrazioni” sono appena agli inizi, ma in quel 1950 si respirava aria nuova, non foss’altro per il gran movimento che si notava in città. Come ampiamente narrato, eravamo da pochi anni usciti da una guerra tremenda e Torino cominciava appena ad essere ricostruita. Larghi spazi vuoti in quegli isolati che erano stati bersaglio delle bombe americane ed inglesi. Terriccio spianato alla meglio da quelle "draghe" con il grande cassone e il lungo artiglio con la benna imbullonata al fondo, ricordate? Un rumore terribile ed uno sferragliare continuo per alcuni giorni, poi, pulita alla meglio la spianata, si cambiava marciapiede e, pochi isolati più avanti, altri monconi di casa da abbattere e altri giorni di patimento per gli anziani del borgo, finché un altro spiazzo veniva liberato, quindi un ulteriore spostamento dei macchinari e finalmente le "madamine" ricominciavano a respirare. Ma se i "grandi" pativano quell'inferno, eravamo noi bambini a goderci lo spettacolo. Dopo la scuola e prima che il buio imponesse a nostra madre il solito urlo di richiamo: "Giino, subito a casa!" "Maaario, è l'ora dei compiti!", eravamo, a frotte, piazzati sui marciapiedi dirimpetto al cratere delle case diroccate dai bombardamenti. Ci incuriosiva, ci piaceva quel rumore forsennato e poi vedere i "Tre Ro", grandi camion Fiat d'anteguerra, e qualche tumbarell, massicci e corti carretti trainati, al solito, da un enorme cavallo che portavano via le macerie e ritornavano colmi di sabbia per una casa, lì vicino, che si cominciava a costruire, era un "cinematografo" insolito. Il nostro gruppo, sempre il solito, aveva anche "inventato" una specie di lotteria, il cui monte premi era costituito da alcune figurine delle più svariate fogge. Scommettevamo, pensate che decadenza, se il cavallo di monsù Tancredi o quello di Pinot, avrebbe fatto la cacca prima di finire il carico o se, secondo premio, si fosse "scaricato" quando era già nella via. Era facile vincere per chi conosceva gli animali che, come si sa, sono abitudinari e alcuni di noi erano sempre carichi di figurine da scambiare, poi, al sabato pomeriggio quando si trovavano, tutti, all'oratorio.

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In questo ambiente, che è struggente ricordare ora ma che, per l'epoca e per i nostri anni, è un fulgido ritorno al passato, pochi, pochissimi avevano la fortuna di essere sgnur, signori, ed abitare in alloggi con il bagno in casa, anche perché le coabitazioni, con tutte le distruzioni che c'erano state, erano una norma. Ed allora in tanti, tantissimi andavano ai Bagni Pubblici, che scrivo con le iniziali maiuscole perché era un luogo deputato, canonico, di tutto rispetto, per farsi rimettere in sesto da una salutare doccia. Ricordate quelle saponette di "marsiglia" che sarebbero divenute di moda anni dopo nei grandi alberghi? Ricordate quegli asciugami, tutti rigorosamente bianchi, che ti vergognavi di riportare al banco d'entrata se appena appena erano contrassegnati da striature di sudiciume? Allora era meglio consumare tutto il sapone e presentarsi, orgogliosi, all'uscita con l'indumento immacolato pur se fradicio! In questo ambiente, dicevo, quel sabato mattina, di solito il giorno più affollato dagli "impiegati", Raul Casati si era messo in fila, davanti all'ingresso dei Bagni Pubblici di Via San Secondo, proprio all'angolo di dove ora stanzia un mercato rionale. Nella paziente attesa, Casati, tifoso, pur pacato, juventino, sfoggiava all'occhiello del cappotto un distintivo bianconero, mentre un giovanotto al suo fianco ne ostentava uno, granata, del Torino. La discussione era subito nata spontanea e dal grande calcio che dire professionistico, allora, manco ci si sognava, si era passati al calcio dei propri interessi, al calcio dei cortili, dell'oratorio, della strada isolata. I due uomini, Casati aveva quarant'anni, l'altro manco la metà, si infervorarono, correttamente, a tal punto che ne nacque subito una bella amicizia. Il giovanotto si chiamava Gabriele Grimaldi. Grimaldi sapeva, si conoscevano da distante, che Casati era un organizzatore nato, che, dopo aver lasciato lo scautismo, si era dedicato al calcio riunendo questa o quella "banda" di ragazzotti per farli giocare al calcio ed allora gli propose di prendere le redini di quella squadra che stava per far nascere. Squadra! Era un'iperbole che manco si permettevano di denominare tale, ma era, comunque, un gruppo di volenterosi che Grimaldi aveva radunato per andare a dare quattro pedate in Corso Stati Uniti, per lo meno sino a quando non arrivava un civic in bici che li faceva sloggiare. Casati declinò l'offerta, anche se l'idea lo stuzzicava. Ma non era finita lì! Pochi giorni dopo, transitando sotto i portici di Via Sacchi, poco dopo essere uscito dall'agenzia UTET, la grande casa editrice per cui lavorava, Casati, occhieggiando nelle vetrine degli eleganti negozi, scorse Grimaldi intento ad allestirne una di mercerie. Ci fu un

73 affrettato saluto e poi, mentre Raul stava per scantonare, si sentì chiamare a gran voce da Grimaldi che, uscito dal negozio, gli era corso dietro. L'offerta venne reiterata e questa volta le parole accorate del giovane convinsero Raul Casati a darsi un appuntamento, anche se il suo impegno con il "Club degli 11", la solita "banda" di scalmanati del fulbal, in quel momento lo obbligava a non prendere decisioni affrettate. Era un giovedì, pare giovedì 13 marzo, e decisero che si sarebbero visti la domenica mattina successiva. All'appuntamento, fissato in Corso Re Umberto quasi angolo Corso Oporto (da poco si era chiamato Corso Matteotti e non c'era ancora l'abitudine al nuovo nome!), Casati trovò ad attenderlo sette o otto ragazzi e tra questi anche Grimaldi. Parlarono per una buona mezz'ora ed al termine restarono intesi di vedersi all'oratorio salesiano "Crocetta" di Via Piazzi, al pomeriggio di quello stesso giorno, in quanto era in programma una partitella con gli oratoriani. Il sacerdote (allora s'usava chiamarli "reverendo"!) responsabile dello sport salesiano della parrocchia li accolse con giusta premura: sia mai, si sarà detto, che mi faccio scappare altre nuove, giovani anime da coltivare! Prestò loro magliette e calzoncini e li mandò in campo contro i suoi "campioni", squadra già organizzata e forte di un'esperienza di… qualche mese. Dopo il primo tempo i "boys" di Casati perdevano per 3-1, ma nella ripresa, complice una strigliata delle sue (che rimarranno memorabili nella storia del Bacigalupo!), i suoi ragazzi pareggiarono il conto e terminarono l'incontro 3-3. Era nato il Bacigalupo! Casati era ai settimi cieli, i ragazzi gli piacevano e tanto. Erano disciplinati, corretti, ma pieni di grinta da vendere. Lasciò perdere il "Club degli 11" e si dedicò anima e corpo alla nuova formazione che non aveva ancora un nome ufficiale. Il solito "reverendo" della Crocetta gli consigliò di iscriversi ad un torneo a 7 giocatori che avrebbe avuto luogo fra pochi giorni all'oratorio dell'Agnelli, in Corso Unione Sovietica, altro mitico luogo del nostro calcio cittadino. Così avvenne e la nuova formazione sbalordì ancora una volta. Dieci squadre iscritte, nove gare disputate, nove vittorie. Il premio? Una grandissima abbuffata a pane e formaggio dopo l'ultima gara. Tutti ringalluzziti dalla prestazione, i ragazzi e Casati si lasciarono con l'intento di vedersi dopo una settimana. Non accadde proprio così, in quanto due giorni dopo Raul, all'uscita dall'ufficio, se li vide tutti quanti davanti con il proposito, subito espresso, di dare un nome al club e andare a comperare le prime maglie. Conosciamo un rigattiere

74 di Piazza Arbarello, dissero, che ce le da ad un prezzo ragionevole. Il "prezzo ragionevole" tuttavia era ancora troppo alto per le loro finanze, benché tutti i ragazzi e lo stesso Casati si fossero autotassati per l'acquisto. C'era chi le voleva granata, chi le voleva bianconere, chi azzurre ed altri ancora di un giallo canarino. Ma i soldi non bastavano mai. Il negoziante, allora, propose loro uno stock di maglie rimaste da tempo invendute in quanto poco richieste sulla "piazza": erano le maglie nero azzurre dell'Inter! Quello era il prezzo giusto, quelle si comprarono e quelle rimasero per sempre (almeno fino alla fusione con la società KL avvenuta nel 2000 e che oltre al colore delle maglie, cambiò anche il nome: Filadelfia!) le maglie canoniche del Gruppo Sportivo Bacigalupo. Era stata una scelta obbligata, forse non desiderata granché, ma la saccoccia prima di tutto, tanto, dicevano, l'importante era giocare. E il nome? Non ci furono grandi dubbi. Fra pochi giorni sarebbe stato il primo anniversario della scomparsa del e quasi a tutti piaceva quel nome, Bacigalupo, non solo perché era stato un grandissimo giocatore ma perché, era il parere dei più autorevoli ed intelligenti, ricordava loro, per una parte del patronimico, un animale dall'astuzia sopraffina, dalla bellezza intrigante, un vero re, non certo l'orco che gli stupidi e le favole cretine tramandavano. E "Bacigalupo" fu. Ma mica si poteva giocare con le sole magliette. Ed allora cosa escogitò Casati? Offrì un premio, forse il solito abbondante pane e formaggio (all'epoca la fame era ancora tanta!) a colui che avesse offerto la somma maggiore. Sembra incredibile ai giorni nostri, ma il denaro raccolto bastò e avanzò per l'acquisto della restante attrezzatura. Io, ora, posso solo congetturare su tutte le "palle" che i ragazzi raccontarono a casa per estorcere qualche dindino in più, fatto sta che in pochissimo tempo tutto fu pronto per iniziare un'epoca. Anche la sede, perché bisognava pur ritrovarsi da qualche parte a discutere e non doversi accontentare della solita panchina di Corso Re Umberto dove tutto era cominciato, fu scelta a proposito. Vicino a casa di quasi tutti i "boys", dirimpetto ai Bagni Pubblici dove c'era stato l'incontro progenitore: il Bar Maurilio di Via San Secondo quasi angolo Via Legnano. Gli originari artefici di questa stupenda avventura non ancora finita, casualmente incontratisi per l'impellenza di una doccia ristoratrice, ora erano veramente sul "piede di guerra", iniziavano a seguire le orme del "lupo", si approntavano a cinquant'anni di sport che più bello non si può, pur nelle irrinunciabili avversità che, cammin facendo,

75 avrebbero incontrato, ma anche consci di iniziare un'impresa che avrebbe "reso". I nomi? Eccoli: Ugo Annovati, Pierluigi Bellora, Giorgio Bellora, Luigi Calosso, Giovanni Criscuoli, Augusto Garavoglia, Renato Grimaldi, Franco Margaritota, Carlo Rosso, Enrico Zara, Romano Zara e Gabriele Grimaldi, da subito nominato "capitano" della squadra. Quando, non molto tempo dopo, il povero Gabriele scomparve prematuramente, Annovati fu designato nuovo capitano. Raul Casati, dunque, viene nominato presidente, il primo presidente. L'omino, per la sua statura soprattutto, perché spesso è spesso, si guarda attorno velocemente e comincia a circondarsi di validi collaboratori. Pesca un certo Umberto Abrate tra le sue amicizie e ne fa un segretario con i fiocchi, arrivano Filippo Ascheri, Carlo Angiolini, Bruno Dogliotti e Luigi Annovati, padre di Ugo, cooptato a seguire la prima squadra che ancora non gioca in FIGC. Le società dilettantistiche, di quei tempi, costano poco. Non producono ricchezza (quando mai?), ma si mantengono con relativi sforzi economici. Anche il Bacigalupo non fa eccezione e sono sufficienti le quote dei soci per gestire l'intera annata. Il potere d'acquisto della nostra liretta è discreto. Un operaio guadagna venticinquemila lire al mese e per comprare un paio di scarpe bullonate (di cuoio, mica plasticaccia!) bastano quattrocentocinquanta lire. Per darvi un'idea, sarebbe come se, oggi, si dovessero spendere trentacinquemila lire per un paio di scarpe Nike invece delle duecentomila che realmente costano. E quelle duravano cinque campionati di fila, a parte il tormento dei bulloni di cuoio e chiodi che ti facevano dannare! Il "Baci", tuttavia, va con i piedi di piombo, vuole fare le cose per bene. Si inizia, infatti, con il settore giovanile mettendo in cantiere due squadre, una "Allievi" ed una "Juniores". Nel 1952 arriva in società un ragazzino che lascerà una traccia indelebile nella storia del Bacigalupo: si chiama Piergiorgio Palmesino e tutti cominceranno a chiamarlo "Gin". Per ora gioca all'ala, negli Juniores, sulla fascia destra e sa fare gol con facilità. Al tempo, il "Baci" giocava, in affitto, sul campo del "Sassi" e su quel terreno avvengono i "provini", in uno di questi aveva fatto la sua comparsa proprio Palmesino che proveniva dal CSI e, quindi, dall'oratorio salesiano della Crocetta. Finita la stagione e conseguito un doveroso diploma, Gin è addirittura nominato consigliere, anche se deve "emigrare" a Sant'Antonino di Susa per giocare in II Divisione in

76 quanto il Bacigalupo non ha ancora una squadra dilettanti. L'esilio in qualità di giocatore, tuttavia, dura poco poiché l'anno dopo Casati riesce ad iscrivere subito in II Divisione un proprio "undici" che strabilia tutti gli avversari. La "matricola" infatti si classificherà al secondo posto nel girone, vince il campionato la "Carassonese" di Mondovì, e passa per meriti sportivi in I Divisione. Il 1955, comunque, è l'ultimo anno che vede Palmesino vestire, ufficialmente, le casacche nerazzurre, in quanto una serie di infortuni lo obbliga a smettere col calcio giocato e lo spinge ad intraprendere la "carriera" di allenatore. Ma Palmesino non è il solo, anche se la "storia" sarà permeata dal suo operare. Infatti, nato da poco, il "Baci" è già sulla cresta dell'onda ed il fiuto dei suoi dirigenti ha potuto mettere in vetrina gente come Garelli, Franco e Renato Giordano, Cesare Ghezzi, che è stato presidente del Victoria Ivest di Torino, Enzo Pilato, il grande, fantastico giocatore che contribuirà a far conoscere in tutti i lidi della penisola il nome del Bacigalupo. A proposito di Pilato è doveroso segnalare che Enzo fu il primo giocatore nerazzurro a vestire la maglia azzurra della Nazionale Dilettanti, imitato da altri atleti di casa, non ultimo il compianto "capitan" Bini. Poi si distinse Ennio Caretto, che diventerà una "penna" giornalistica di rilevanza mondiale ed è stato direttore del quotidiano "Stampa Sera", ed ancora Piero Angiolini, Giorgio Orella, Giuliano Vasario. Come è facile comprendere non è possibile elencare tutti i ragazzi che hanno vestito le casacche nerazzurre, tuttavia desideriamo porre l'accento sul fatto che la società di Barriera Nizza non è stata soltanto una fucina di atleti, ma anche una scuola di vita e la carriera lavorativa di molti di loro sta a dimostrare che se questi giovanotti saranno stati dotati di molto fosforo, una minuscola porzione sarà stata germinata dalla frequentazione di un ambiente eccezionale. Nel 1956, ancora una svolta. Casati, a riprova delle sue qualità dirigenziali, si accaparra un dirigente che imprimerà un'impronta difficilmente dimenticabile da tutti coloro che hanno mangiato polvere dei campi cittadini e sudore di spogliatoio. E' Mario Parlagreco, che si dimostrerà un grande dirigente societario. Mario proviene dall'Azione Cattolica, dai cui insegnamenti trarrà linfa per le sue idee rivoluzionarie e per i suoi colpi d'intelletto sopraffini ed il primo incontro con i dirigenti del "Baci" avviene proprio a Sassi, sul campo di Sassi. Dal 1947, infatti, Parlagreco ha operato nella famosa "Città dei Ragazzi" di don Arbinolo, situata sui primi contrafforti della strada che porta a Pino Torinese, su quella strada dove tra poco si

77 sarebbero iniziati i lavori della galleria e frequentare il campo di Sassi, a due passi dalla sede di don Arbinolo, per lui è soltanto un'abitudine. Due parole con Casati e l'accordo è fatto, Parlagreco ha ventisei anni ma le idee ben precise ed intende, da subito, mettere sulla bilancia le sue esperienze di organizzatore (anche se, molti anni dopo, si piccherà di essere soprattutto… un allenatore!). La sua intesa con Palmesino, lui sì un "tecnico", è da subito perfetta e Casati lascia fare: ne avrà ben donde! Nel 1957, tanto per non smentire quei tifosi che cominciano a farsi piuttosto numerosi e che costituiranno, negli anni a venire, il nucleo portante dell'intera società con un numero importante di soci, il Bacigalupo di Casati arriva, bello bello, tranquillo tranquillo, in "Promozione". Le squadre giovanili sono diventate sei e il gruppo dirigenziale aumenta notevolmente. Intanto la società necessita di più ampi spazi e la sede viene spostata in Barriera Francia, precisamente in Via Rubiana, a ridosso di Piazza Rivoli. Prima presso il bar Oddone, all'angolo con Via S. Antonino e poco dopo si affitta addirittura una villetta. La ricerca del meglio, del corredo elegante, non soltanto per epatèr les bourgeois, sarà, comunque, una prerogativa di tutti coloro che si sono identificati in questo sodalizio cittadino. Ma non basta. Si guarda oltre, ben oltre i confini daziari della città. A Beinasco, piccolo e industriale borgo alle porte sud ovest di Torino, il calcio è stato dismesso da qualche anno. Ronco, il presidentissimo di questa gloriosa società, deve ancora arrivare e le autorità comunali non hanno progettato alcun centro sportivo per la gioventù beinaschese. Casati, Aschieri, Parlagreco, Palmesino e gli altri colleghi hanno messo l'occhio, da qualche tempo, sul vecchio spazio erboso (proprio niente di più e di meglio) a ridosso del torrente Sangone, sulla strada che porta ad Orbassano, dove chi ha voglia di tirar calci può farlo liberamente e che è stato, nel secondo dopoguerra, il campo sportivo beinaschese per eccellenza. Ma senza alcuna pretesa, ché, in quanto a strutture, esistono solo due porte sgangherate e nulla più. Si fanno quattro conti, si pensa alla logistica e dopo un'attenta analisi partono in quarta a conferire col sindaco. L'accordo si raggiunge relativamente in fretta (ai giorni nostri sarebbero occorsi diversi annetti!) ed il Bacigalupo, finalmente, viene in possesso di un proprio campo di gioco. Le intese prevedono che i torinesi costruiscano la recinzione esterna ed interna dell'impianto, gli spogliatoi e tutte le attrezzature necessarie al buon funzionamento.

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Siamo nel 1958 e avviene… l'esodo! Ci si ritrova, quasi tutti i giorni, in Via Sacchi, al capolinea dei pullman per Pinerolo e tutte le squadre aderiscono di buon grado. Non era ancora giunta l'ora dei genitori- piovra e, comunque, i tempi e le condizioni di vita consentivano molta più libertà ai ragazzini che volessero spostarsi, senza rischiare incolumità varie. Era cominciata, da pochi anni, la emigrazione interna degli italiani del sud, attirati da mamma Fiat ed anche i bambini aumentavano di numero in modo esponenziale. Non si trattava di "transumanza", nel senso che quelli che arrivavano difficilmente se ne andavano via ed il lavoro, il tanto lavoro che quegli anni promettevano, era veramente alla portata di mano. Sarà la fortuna, checché ne dicano certi incalliti nostalgici, di Torino e dei torinesi. Tante bocche da sfamare, voleva anche dire tanti corpi da vestire, tanti piedi da calzare, tante case da costruire. Se poi certi idioti affiggevano "certi" cartelli, "Non si affitta ai meridionali", era lo scotto che si doveva pagare, che alcuni hanno dovuto pagare. Ma finirà presto, per poi ricominciare ai tempi nostri con altro tipo di immigrazioni. A dimostrazione, comunque, di cosa sia capace Parlagreco, avviene il primo colpo fenomenale per l'immagine e le future fortune tecniche della società. Viene "inventata" (l'abbiamo scritto tra virgolette poiché, ai giorni nostri, pare impossibile trattarsi di un'invenzione!) da Mario, con l'ausilio tecnico di Palmesino, la Scuola Calcio. Proprio così, la prima scuola di calcio per giovani atleti, che manco esisteva nella mente dei nostri dirigenti federali, viene istituita dal Bacigalupo, Via Rubiana, Torino, Italia! E non era una iniziativa campata in aria, magari solo sulla carta, tante parole e tanto vuoto alle spalle. Tutt'altro, Parlagreco e Palmesino avevano fatto le cose in modo sublime, con tanto di lezioni teoriche, tenute da personaggi illustri e lezioni pratiche che si svolgevano al campo di Beinasco, prima, e al "Galoppatoio", il campo sterrato in Piazza d'Armi davanti allo Stadio Comunale, dopo. Mica "quattro calci alla palla e tutto lì" dice ancora adesso Mario, infervorandosi se qualcuno obietta sulle reali intenzioni educativo-tecniche dei suoi collaboratori, Palmesino in primis. La teoria, a Beinasco, si faceva in un'aula dell'asilo che le gentile suorine locali concedevano gratuitamente alla società, mentre al "Galoppatoio" veniva offerta, dal Comune, una delle palestrine che circondano ancora oggi l'anello vetrato dello Stadio Comunale. Tra gli istruttori, altra invenzione del "Baci" e di cui parleremo tra poco, c'era un certo Renzo Righetti,

79 futuro arbitro internazionale e futuro altissimo dirigente federale del calcio italiano, c'era Franco Muratori che diventerà segretario della Federazione piemontese e che è mancato soltanto pochi anni addietro, c'era Marchetto, il compagno di Francone sia nel Torino che, a fine carriera, nello stesso Bacigalupo e, naturalmente, Gin Palmesino. Finito il ciclo delle lezioni, teoriche e pratiche, si doveva sostenere un esamino e poi veniva rilasciato un attestato che consentiva di proseguire, o meno, la "carriera" nel Bacigalupo: insomma una cosina fatta proprio per bene e che verrà copiata, a man basse, da quasi tutte le società professionistiche, prima di approdare nelle consorelle dilettantistiche. Le prime classi che avevano potuto godere di questa innovazione sono state quelle del 1945, del 1946 e del 1947 e non è un caso che da questi corsi siano usciti fior di giocatori, veri uomini e talentuosi atleti che avrebbero calcato stadi importanti della nostra penisola. I nomi? Cravero, Sina, Palumbo, Piteo, Taricco, Gallo, Balbo e Ghiazza, per citare a memoria. Questi ultimi due erano giocatori che abitavano a Ciriè e, nonostante la distanza, tutti i sabati, usciti da scuola, si prendevano il trenino che faceva scalo in Corso Giulio Cesare, di poi il tram da Porta Palazzo a Porta Nuova ed, infine, il pullman per Beinasco e al ritorno la stessa solfa. Ma non erano eroi dello sport che avevano una gran voglia di calciare una palla! Erano in tanti, al "Baci" e altrove, che si facevano un mazzo tanto per rispondere alle esigenze di un presidente, di un allenatore o dei compagni di squadra. Andava bene così, per tutti. Era la norma o erano i tempi, fate voi! In quello stesso anno, siamo nel 1958, alla sede di Via Rubiana, si presenta un baldo giovanotto che ha già alle spalle un'esperienza tecnico-dirigenziale nelle file di una società del CSI, lo Sporting Bava. Si chiama Enrico Morbidini e lo presenta al presidente Casati un comune amico, Bisognani, allora allenatore. "Morbido", come da subito viene apostrofato, sarà l'uomo delle pubbliche relazioni interne. Forse le sue attenzioni si faranno serrate specialmente nei rapporti con l'altro sesso, fatto sta che Enrico rimarrà in società per i susseguenti quarantotto anni e …continua ad imperversare! Curioso ricordare, in questo momento, come Morbidini sia stato il componente, negli anni della prima maturità, di un trio di allenatori che verrà ricordato come il terzetto di tecnici, sufficientemente vincente, sufficientemente dotato, sufficientemente carismatico, ma che "non ha mai indossato una tuta". Il trio era formato da Parlagreco,

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Morbidini appunto e da un “certo” Luigi Riffo, e la battuta voleva intendere che mai, questi tre signori, avevano potuto permettersi di insegnare uno stop, un esterno, un palleggio e che, semplicemente, erano state le guide di una squadra che altri avevano approntato nei fondamentali di base. Ma i risultati venivano ugualmente e nessuno trovava da ridire. Semplice, oggi, riderci sopra, ché i bambini te li trovi sul campo a sei anni o meno, ma se in quelle stagioni, in cui a giocare si iniziava sui quattordici e quello che avevi imparato non c'era diavolo che riusciva più a variartelo, la "parrocchia" passava tale materiale, tale materiale bisognava adattare e farne di necessità virtù. Forse siamo pressapochisti, ma a mutare i bioritmi dell'allenatore allampanato ci pensava l'oratorio o la strada di periferia, veri maestri per la vita e per un calcio d'antan che non abbisognava di grandi fronzoli e che, comunque, i dotati da madre natura li faceva spuntare ugualmente. Che l’idea, comunque, della Scuola Calcio fosse azzeccata lo sta a dimostrare il II Corso Nazionale di Addestramento N.A.G.C. (il I Corso si era tenuto, nel più assoluto anonimato, l’anno precedente con Palesino che si era beccato il “patentino” di istruttore) organizzato a Coverciano, il centro federale che era stato da poco fondato, ai primi di settembre del 1960. Per il Piemonte erano state scelte tre società, il Cenisia, l'Alessandria e, manco a dirlo, il Bacigalupo. Per il club nerazzurro avevano partecipato Sina e Marilli e l'istruttore dell'intero gruppo piemontese era, ovviamente, Gin Palesino. La Federazione, nel frattempo, aveva fatto una mezza rivoluzione nell'organizzazione dei campionati ed ora la prima squadra del Baci militava in I Categoria (l'attuale Eccellenza). Il suo comportamento era più che dignitoso ed in una occasione era andato a vincere in casa di quel Savigliano che si sarebbe accaparrato il campionato. Quella squadra comprendeva Esposito, Macorini, Pecchioli; Vitrotti, Angiolini e Sattolo; Novena, Ottaviano, Dabbene, Ardissone e Barranco. Intanto nel 1960 Casati smette. Rimarrà ancora per qualche tempo nell'ambito societario, ma il presidente non vuole più farlo. Forse il "Baci" si è fatto troppo grande, forse le responsabilità sono aumentate a dismisura, forse sono i tempi che non gli si addicono più. Opererà ancora in Federazione, farà sentire la sua esperienza in consessi vari, ma al Bacigalupo no, al Bacigalupo lascia il bastone di comando ad altri. Viene eletto presidente in sua vece Sandro Damiani, ma questo gran signore è, nel calcio nerazzurro, una meteora che passerà soltanto

81 qualche anno in seno al sodalizio. Subito dopo, tuttavia, arriva un altro pilastro della società, un grande calciatore (ha giocato in Serie A col Toro!), un vero amatore, come diceva Leo Longanesi di coloro che fanno il proprio lavoro con un'abnegazione da parere innamoramento. E' il terzo presidente e rimarrà in quella carica per oltre vent'anni, salvo riprendere le redini negli anni novanta per un paio di stagioni: si chiama Andrea Francone ed è il 1964. Francone è un innovatore o, più che altro, vuole lasciare un sua impronta, un suo personale marchio di fabbrica. Fa ancora il calciatore, anzi è al Bacigalupo in veste di atleta già da alcune stagioni e dal 1960 anche consigliere, ma le idee ce l'ha ben chiare: massima professionalità, particolare attenzione al settore giovanile, promozione delle attività societarie e potenziamento della prima squadra. Non sono i soliti programmi del nuovo arrivato che vuole sbalordire; lui, Francone, conosce l'ambiente, sa quali siano i limiti economici da non superare e pur avendo ancora le fregole del calciatore che non vuole smettere (e fa bene, non si vive di solo pane ed un buon companatico domenicale ravviva un eventuale sopito entusiasmo!), inizia a muoversi nei meandri della politica che diventeranno abitudinari tra non molti anni. Comprende che un proprio terreno, in Torino, è indispensabile per le fortune a venire di un club che si rispetti e bussa a decine e decine di porte. Sono gli anni del "boom" , la "Vespa" sta per essere soppiantata dalla "Cinquecento" e dalla "Seicento", c'è una gran voglia di muoversi; logico, quindi, che anche il Bacigalupo pensi ad espandersi, ad investire, a muoversi. Per l'espansione butta gli occhi su una spianata di Corso Spezia, a fianco dell'ospedale S.Anna, per gli investimenti provvede di persona e con l'aiuto dei consiglieri, per il "movimento" comincia a contattare… mezza Europa ed attrae molti giovani e molti amici. Ha sempre Palmesino e Parlagreco che gli fan da spalla e si sente in una botte di ferro. Per guardarsi un pochino attorno, per vedere quel che succede nei paraggi, non si può non accennare ad un curioso “periodo storico” che investe il “Baci” e la sua gente. Nel 1965 il calcio torinese ha una grande protagonista, oltre ai due blasonati club professionistici. E' la squadra aziendale della “Castor” che milita in Quarta Serie. La ditta delle "lavatrici", prodotto in auge e che la Castor sforna a milioni di pezzi, vuole dedicarsi a ben altri lidi, pensa al vero professionismo, a quel nuovo modo di intendere il

82 lavoro, un lavoro basato sulla pubblicità e comincia a circolare un vocabolo anglosassone che dominerà il mondo da li a poco: lo “sponsor” e decide di abbandonare il settore dilettantistico. La voce circola in fretta e l'ambiente si surriscalda. Il merito sportivo acquisito dall'industria collegnese fa gola a tanti e poi gli amministratori non vogliono "vendere", vogliono disfarsene. Ma a persone serie. Anche il Bacigalupo, che è in Prima Categoria, ci fa un pensierino. Raduno sbrigativo del Consiglio Direttivo e Francone si fa convincere a tentare la proposta: noi non vi diamo un soldo, ma manteniamo la squadra a nostre spese. Attenzione, la "nostra" squadra, i "nostri" giovani, poiché gli stipendi dei semiprofessionisti sono da capogiro! I dirigenti Castor, pur di eliminare il forte passivo dei costi dei giocatori, si vendono questi ultimi al miglior offerente e concedono al Baci il merito sportivo di disputare la Quarta Serie. Il "plenipotenziario" Parlagreco mandato in avanscoperta, torna in sede con il contratto bel che firmato. Sarà uno sfizio, ma servirà per fare esperienza. Dalla Juventus arrivano per essere messi in risalto dei giovani della Primavera, Vastini, Guccione e Avonto, mentre le restanti pedine le si pescano dai boys di casa: Cravero, Gallo, Moniaci, Evangelista, Bovolenta, Michela, Pozzato e altri. L'allenatore è Cappellino e Parlagreco è il “team manager”, per la verità termine ai tempi non ancora in voga. I cervelli fini di Via Rubiana, comunque, hanno pensato al futuro e pur pescando tra le "vecchie glorie" hanno mantenuto anche la Prima Categoria. Nelle sue file, quell'anno, giocavano Marchetto, lo stesso Francone, Salvagno, Cristino, Toso, Turello e Sergio Rossano. L’avventura, comunque, finisce in fretta ed allora si rinnova il solito tran tran con tanti bambini e ragazzetti da accudire. Questa appena narrata è la “prima stagione” del “Bacigalupo”, quella meno nota, ma per conoscere a fondo le scorribande, le disavventure, i successi, le passioni della gente nerazzurra bisognerà attendere altri capitoli che probabilmente seguiranno questo primo libro. Intanto andiamo a leggere di altri personaggi che hanno “costruito” il calcio a Torino e dintorni.

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Capitolo VII

Tra buoni sentimenti e anni di fuoco

“Smisi di scrivere al computer, mi stiracchiai e andai ad affacciarmi alla finestra, una grande finestra che dava sul Sangone. Era già mezza mattina e non avevo ancora toccato una sigaretta. Pensandoci mi compiacqui. Mentre ero intento ad osservare fisso un cagnolino che scorazzava allegro tra gli alberi lungo il torrente, percepii una melodia che giungeva, mi era parso, dall’alloggio vicino. O forse no, in basso c’era un’auto parcheggiata lungo il marciapiedi ed era possibile che da lì provenisse la musica così attenuata. Mi concentrai e finalmente riuscii a comprendere, a prescindere da dove provenissero i suoni, che chi cantava, sulle note country di Blue Skies, era Willie Nelson, uno dei miei autori preferiti. Me ne stupii al pensiero che anche altri, qui a Beinasco in provincia di Torino, si cullassero con quelle note e ricordai di quando andavo, molti anni addietro, a Torino in Via Cernaia, vicino a Piazza Solferino, in un negozio di dischi molto specializzato che, mi era stato detto, dischi di Willie Nelson ne vendevano tre all’anno. La voce roca, la musicalità innata di quell’uomo mi piacevano proprio tanto. Ci si sentiva quasi, mi avevano assicurato, il profumo del deserto e dell’artemisia, una pianta odorosa che somigliava molto al genepì di casa nostra. Non che io fossi stato nel Nevada, nel Texas o nel New Mexico, ma avevo frequentato, per questioni di lavoro dell’azienda di famiglia, un gruppo di cowboy, proprio così, di cowboy che giravano l’Italia e l’Europa con il loro spettacolo country, dal rodeo vero e proprio alla musica, alle prese col lazo di vitelli e montoni, ed erano stati loro ad inculcarmi quella musica, a farmi affascinare da quella musica. Avevamo anche finito per socializzare: questi parlavano un italiano ciapulato che, comunque, era sempre molto meglio del mio orribile farfugliare in inglese. Ma ciò che mi ha fatto collegare musica e spettacolo era stato il pensiero che in molte di quelle occasioni io c’ero andato con un amico, un grande amico del quale mi onoro di aver condiviso un bel mucchietto di anni giovanili”.

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Cominciare a parlare di una gloriosa società di calcio trascrivendo esattamente quanto mi è stato dichiarato e descrivendo la musica e l’ambiente di Willie Nelson non è certo il massimo della intelligibilità sportiva, ma poiché l’amicizia tra due personaggi che hanno lasciato scie importanti di storia calcistica non solo regionale si è cementata anche con il contorno appena descritto, mi è parso giusto toccare le corde sensibili dell’emotività di Vittorio Ronco e del suo “vecchio compagno di scuola, d’arme e di sport” che risponde al nome di Enzo Bitossi, la mente e il braccio o il braccio e la mente, a scelta, che hanno vinto titoli regionali e scudetti tricolori con il “Beinasco”, il “Corsica Beinasco”, come per breve tempo si era chiamata la società, ed ancora il “Beinasco” che Ronco aveva letteralmente inventato. “E’ vero – insiste ancora Vittorio – poco tempo fa, come ti ho raccontato, mentre ascoltavo, da distante, Willie Nelson, mi è venuto in mente come si era fatta solida un’amicizia che era iniziata sui banchi di scuola”. A questo punto, prima di iniziare a scrivere di quel fenomeno sportivo che fu il Beinasco degli anni settanta, mi viene spontanea una domanda: c’è qualcuno, oltre ai diretti interessati, oltre a qualche addetto ai lavori che si ricordi di quella bellissima stagione dello sport torinese? E’ difficile, infatti, molto difficile interessare il giovane lettore per qualche cosa, anche se qualcosa di speciale, che non sia accaduto… ieri o che non riguardi lo sport professionistico: come ormai è risaputo il calcio degli interessi debordanti è sempre stato un altro. Tuttavia come molti torinesi d’antan ricordano con gusto lo “sfarfallio” delle violette del Cenisia anni cinquanta o sessanta, (c’è stata una mia microscopica indagine!), così non crediate che le vittorie in serie di Bitossi, Ronco e dei loro ragazzi siano un qualche cosa di dimenticato. Non è possibile, infatti, far passare sotto traccia un decennio fantastico, c’è troppa gente che c’ha navigato attorno, che ha goduto come un mandrillo per certe vittorie, per certi “triangolini” tricolori appiccicati alle maglie della stagione successiva. E poi, se la grande stampa, come al solito, scrive di quante pisciate al giorno ha fatto quel tal centravanti o quel magnifico portiere e trova ugualmente spunti per le proprie vendite, c’è sempre qualcuno che se ne sbatte e che sa rinverdire una memoria, che prova nostalgia per le gesta, sì, proprio le “gesta” di quei formidabili personaggi e si fa in quattro per radunare ottanta o cento persone ormai sparse un po’ dovunque. Poi si stupisce,

85 come è capitato, di certe “immagini” che si trova davanti in quel fatidico giorno del ritrovo: ma come, sei proprio tu? E i capelli? Cavolo, con quelle “piume” grigie non ti riconoscevo! Dimmi, ma sono cento o duecento i chili di troppo che hai messo su? Ma lo sai che sei identico, proprio identico a vent’anni fa? Lui, l’interessato, sa che non è vero, che non può essere vero, ma sorride grande così e gli viene perfino il magone se a dirglielo è il suo “antico” allenatore o il suo “vecchio” presidente. Ed allora, come ha fatto Ronco con me, l’uno si racconta all’altro e tutte quelle parole, quei milioni di parole, paiono sempre le stesse e se uno non fa finta di ritenerle attuali, appena pronunciate, perché succede anche questo tra amici veri, capita che si senta arrivare un lamentoso: ancora! Ma è un “ancora!” di simpatia, sgorgato dal cuore, tanto per fare due risate supplementari. Ecco quindi che si ritorna alla piccola storia, a quel racconto che ha fatto iniziare questo capitolo, a quei cenni di personale vicissitudine, mica sempre solenne, mica sempre gradevole ma tuttavia vissuta nei migliori anni della propria gioventù. E quella storia inizia dal Collegio San Giuseppe, il “San Gip” che i torinesi di sabauda memoria ben conoscono, da quella terrazza-cortile tra via Cavour e via Accademia Albertina, dove i “semi convittori” Ronco e Bitossi, prima delle lezioni pomeridiane e dopo un frugale pranzo fatto in velocità, avevano intrecciato i primi dribbling, le prime parate, dove le partitelle di mezz’ora erano veri scontri “celtici”, nel senso che si giocava, certo, al football ma che lo stesso poteva essere scambiato, i libri che narravano di queste battaglie erano appena stati riposti sotto il banco, per uno scontro tra le “truppe romano-galliche e quelle sveve di Ariovisto”, tanta era la foga e la baldanza. Ma era solo apparenza, perché al fischio del “fratello”, l’assistente, che richiamava tutti in classe, veniva a galla l’amicizia, un sentimento vero: “Ti sei fatto male, quando sei caduto? Ma no, che non è niente!” “Pulisciti la faccia che è sporca di terra” e gli passava il proprio fazzoletto lindo. Insistere con questa fraseologia “deamicisiana” non vuole essere un esercizio stucchevole, desidero soltanto puntualizzare l’esistenza vera dei buoni sentimenti che scorrevano tra molti di quei ragazzi e, in special modo, tra due coetanei come Bitossi e Ronco. Questo è il motivo per cui, negli anni a venire, dopo il liceo, i due ragazzi continuarono a frequentarsi, l’uno, Bitossi, calpestando aule e corridoi di Scienze Politiche (finì anche per beccarsi una laurea che, pare, non guasta mai!), l’altro, Ronco, entrando nell’azienda di

86 famiglia, l’allevamento e il commercio di bestiame, e viaggiando sovente in simbiosi come era accaduto per quei spettacoli western, di cui ho accennato poche pagine prima. Logica conseguenza di questa ferrea conoscenza fu quella di mettersi a lavorare insieme per lo sport alcuni anni dopo, in quel 1967 che segna lo spartiacque tra una casualità, ritrovarsi ogni tanto e parlare anche di fulbal, e una programmazione sopraffina, pensare in grande per il calcio del borgo. E’ vero, da quel momento non sarebbero bastati i quattro calci ben dati e poi tutti via per conto proprio, da quel momento si dovette pensare ad organizzare un manipolo di gente affiatata, volenterosa ma con un obiettivo preciso: far crescere esponenzialmente il gioco del calcio a Beinasco, Torino, Italia. Occorre precisare che il calcio a Beinasco, ovviamente, esisteva da tempo, da molto tempo. Su quel prato, sempre lo stesso luogo sulle rive del Sangone e sulla strada che porta a Orbassano, rudimentale luogo di divertimento per le masnà del paese, si giocava dal 1946 e già l'anno dopo veniva inaugurato il primo vero e proprio campo spor- tivo, due porte, una baracca per spogliatoio e soltanto una corda a dividere i giocatori dal pubblico, che doveva diventare il sito deputato per tutte le sfide guerresche dei colori giallo-blu. Le cose procedettero a spron battuto e dopo alcuni anni di categorie amatoriali il Beinasco andava in FIGC e per qualche stagione si mosse con dignità nelle categorie dilettantistiche. In quelle formazioni l'allenatore era sempre un certo Roletti, vero maestro di sport. Nel 1954 il grande salto in I Divisione, dopo la disputa di un campionato eccezionale. Ma il tracollo della società è dietro l'angolo. Paradossalmente le tante vittorie hanno causato il patatrac finale. La compagine di Roletti vince anche in I Divisione e il passaggio in Quarta Serie parrebbe un risultato strepitoso. Non sarà così. In quegli anni i costi, per le continue vittorie e i salti alle categorie superiori, avevano causato un salasso nelle casse societarie, tanto che nella stagione 1953/54 non esisteva neanche la classica lira per il classico lesso di carducciana memoria. In conclusione: il calcio vero, a Beinasco, si ferma e il campo "Spinelli" sarà, per molti anni a venire, soltanto luogo di sfide infinite tra i ragazzini del paese. Nel frattempo, una società emergente di Torino, il Gruppo Sportivo Bacigalupo chiede e ottiene dall'amministrazione comunale l'uso del campo "Spinelli", come predetto poco più di un prato, con l'impegno di costruire gli spogliatoi, con tanto di docce e riscaldamento ed

87 erigere il muro perimetrale di recinzione. Siamo intorno al 1958 e per qualche anno coloro che vorranno giocare al football dovranno vestire le casacche nero-azzurre del Bacigalupo e soltanto quelle. La tifoseria locale, tuttavia, che tanto calore aveva riservato ai ragazzi beinaschesi dei tempi d'oro, non “sente” la nuova società ed i momenti del boom economico risvegliano, in qualche modo, le sopite velleità cittadine. Al Bacigalupo non viene rinnovata la concessione e nel territorio, contemporaneamente, nascono nuove realtà sportive. Beinasco si ingrandisce, tante imprese industriali sorgono come funghi, le antiche casette del borgo sono ormai sommerse da costruzioni multipiani ed anche il calcio ricomincia ad affacciarsi. Dal 1962, infatti, alcune squadre avevano iniziato a contendersi la palma del primato a Beinasco, formando, in certo qual modo due poli di estrazione differente: la parrocchiale "Veritas", poi divenuta "River Plate" e la laica “Unione Sportiva Beinasco”. E’ in questa “stagione”, siamo nel 1967, che il giovane Ronco, un ragazzone di appena ventitre anni, propone di unire le forze e dare corpo ad un club calcistico che possa contendere ai sodalizi torinesi le migliori posizioni dei campionati giovanili: il consenso è unanime e nasce il “Gruppo Sportivo Beinasco” con Enzo Taborelli, il medico condotto del paese, presidente che, tuttavia, lascia il posto a Ronco poco tempo dopo. Ovvio che Vittorio non sia solo, gli appassionati sono tanti e tutti molto giovani come Luigi Brunetto nella prima squadra, Lucio Frau con gli Allievi, Roberto Carbone negli Esordienti e nei “piccoli” che iniziano a dare i primi calci e suo fratello Ernesto, Nene per gli amici, che segue la conduzione della società. Ma serve qualcuno che sappia coniugare la passione con la tecnica, la psicologia di gruppo con il polso del “comandante” e questo personaggio è subito individuato in quel Enzo Bitossi che Vittorio non ha mai perso di vista, come abbiamo visto scorrendo queste righe e che nonostante segua gli Juniores si affaccenda anche nella conduzione tecnica Con Bitossi non è che si lavori subito “in grande”, tuttavia sono i progetti che assumono aspetti importanti. Qualcuno comincia a “sognare” e tutta la manfrina non si rivelerà per nulla effimera. “La speranza è un sogno fatto da svegli!” Mi dirà, infatti, qualche anno dopo Vittorio durante un’intervista per un periodico locale, specificando che non sapeva, o per lo meno non ricordava più dove aveva trovato scritto quella frase che gli era piaciuta tanto e che, in quegl’anni, rispecchiava le aspettative, sue e dei collaboratori. Ma

88 aveva voluto ricordarmela perché tante erano state le volte che quella frase si era sviluppata durante il prosieguo della sua attività calcistica. Aveva sperato di fare un grande club e il sogno fatto in piedi s’era avverato, poi non si era accontentato e la speranza di vincere qualche cosa di importante, mica un titolo italiano, non ancora, si era tramutata in realtà e poi, speranza dopo speranza, il “sogno” fatto in compagnia di altri amici era diventato un qualche cosa di concreto, di indimenticabile. E proprio in queste stagioni che compare nel club un personaggio unico nel suo genere, un uomo che legherà per molti anni, anche se fatti ad intermittenza, il suo nome alle vicende societarie. E’ un capace allenatore, è un ottimo dirigente, è un conoscitore fine di cose calcistiche, abusa soltanto del proprio carattere che in molte occasioni lo fa infiammare, o meglio, lo faceva infiammare che, ormai, l’età ha pensato a raddolcirne i gesti: si chiama Luigi Riffo ed è tuttora un’icona del calcio giovanile torinese. Riffo si era fatto le ossa in un sodalizio di Barriera di Milano, il Tabor, che aveva finito per scomparire dopo essersi fuso con l’Ivest del presidente Furnari. Aveva girovagato un pochino e poi si era “apparentato” con Vittorio Ronco e con il suo Beinsaco, sempre con umiltà e senza strafare, accontentandosi di insegnare calcio ai più piccini, ma portando la sua aria bonaria e le sue grandi capacità aggregative in mezzo ai ragazzi, almeno a quei ragazzi che hanno voluto imparare o migliorarsi nel gioco più bello del mondo. Riandando alla “storia” e dopo alcuni anni di rodaggio, così piace a Ronco definirli, inizia il periodo d'oro. Nel 1973, dopo che Bitossi aveva pian piano costruito la squadra, i Juniores diventano Campioni Regionali battendo nel triangolare finale sia i torinesi del Barcanova che i novaresi del Trecate. Ma non è finita lì. Iniziano le fasi finali per il titolo nazionale e in Lombardia, a Somaglia, poco oltre Lodi e Casalpusterlengo, il Beinasco incontra, negli ottavi di finale, la Vignolese, campione emiliano, nei Quarti l'Osimana, campione marchigiano e tutte due vengono surclassate sotto una caterva di reti: sette gol fatti ed uno subito! In semifinale viene battuto il Novoli di Lecce soltanto ai calci di rigore dopo una tiratissima partita, mentre in finale la Libertas Campidoglio di Roma, ben chiusa in difesa, da filo da torcere ma nulla può contro un calcio di rigore, a pochi minuti dal termine, che laurea i ragazzi di Bitossi Campioni d'Italia per la categoria Juniores. Protagonisti di questa impresa i vari Cecere, Pegolo, Grosso, Silanus e poi Soncin, i due

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Usseglio, De Giorgio, Giradello, Di Corato, La Bella, Durante, Melano e quel grande attaccante che risponde al nome di Paolo Ragazzon. A dirigere tutta la cosiddetta “baracca”, “dalla penna biro al più scalcagnato sottoscarpa”, dirà qualcuno in quegl’anni, Artenio Pieretto e Giancarlo Costa. La storia si ripete nella stagione susseguente. Il Beinasco si riconferma Campione piemontese ma a Fidenza, in Emilia, dopo il secondo turno della fase nazionale, i ragazzi di Bitossi non riescono a proseguire, battuti da un Guastalla in cui militava un “certo” Gene Gnocchi, bravo tecnicamente ma indisponente come pochi, e sfuma così il secondo alloro italiano, perso ai rigori dopo un 1-1 dei tempi regolamentari e supplementari. Ancora, comunque, il Beinasco, guidato in queste stagioni da Bedendo, non demorde, pur se nel 1975, dopo aver acquisito il solito titolo regionale, viene sconfitto, nella fase nazionale, dal "Picchi" di Livorno, e, nel 1976, dall'Aldini di Milano. Poco dopo la FIGC cancella la categoria Juniores dal Settore Giovanile e la “passa” nei dilettanti dove non c'è possibilità di alcuna finale. Ma se questa categoria è stata il fiore all'occhiello della rinascita calcistica beinaschese, saranno gli Allievi Regionali che si fregeranno di ben cinque titoli piemontesi consecutivi, dal 1977 al 1981, con un altro titolo tricolore nel 1980 e ben due finalissime consecutive perse, prima nel 1978, ad Avezzano con il “Flamini” di Roma (1-2) e poi nel 1979, a Vico Equense, con il Levante dopo un 0-0 dei tempi regolamentari, due pali colpiti nei supplementari e il nono rigore a decidere per i liguri. Nel frattempo un'altra fruttuosa fusione, come era avvenuto nel 1967, consente al Beinasco di entrare nelle categorie dilettantistiche più prestigiose. La società "Corsica", il cui nome era tratto dal viale torinese in zona Mirafiori, aveva vinto nel 1977 il campionato di Terza Categoria e nel 1978 quello di Seconda. I validissimi dirigenti di quel sodalizio, presieduta da un vero signore come Giorgio Berti, consci delle notevoli spese che andavano incontro con un impegnativo torneo come quello di Prima, avevano pensato bene di interpellare Vittorio Ronco che, invece, nel settore giovanile aveva una fucina enorme e tecnicamente molto quotata, tale da rimpinguare la prima squadra senza gli inevitabili salassi. L'accordo viene raggiunto in poche sedute e, pareva scontato, l'unione tra due le società porta fortuna al nuovo club: alla fine della prima stagione di fusione, siamo nel giugno 1980,

90 gli Allievi Regionali del "Corsica Beinasco" diventano Campioni d'Italia. Nella finale regionale perdono in casa, 1-2, con lo Spartanova di Torino (chi scrive deve digerire una “mappazza” grande così, in quanto all’epoca presiedeva la società rossonera!), ma riescono a vincere in trasferta, 2-0, e, per differenza reti, adiscono alle finali interregionali e nazionali. Prima i boys di Bitossi eliminano la Pro Sesto e poi il Guastalla, quel Guastalla che pochi anni prima li aveva eliminati dal prosieguo della fase finale, e, nella semifinale, fanno fuori l'USAC di Taranto, mentre in finale, a Grassina di Firenze, sono Campioni italiani eliminando, con un comodo 2-0, l'Orzignano di Pisa. Ha vinto il Corsica Beinasco, certo, ma chi sono stati gli artefici di una tale, sonante vittoria? Eccoli. Cazzulo, Corgiat, Badoglio, Savino, Zurma, Pedone, Pagliero. Quindi Marchioro, Roveri, Deiana, Solarino, Racca, Gatta, Ricci, Mazza, Dessì, Chillè e Sgroi. Diciotto giovanotti superbi. Tutti e diciotto. A questo punto Bitossi è portato in trionfo, letteralmente, e si toglie una gran bella soddisfazione oltre a qualche sassolino visto che c’è già qualcuno che lo critica perché non possiede il “patentino” da allenatore, a dimostrazione che si può insegnare calcio, “calcio e vita” diranno i suoi ragazzi, senza passare dalle forche caudine di qualche corso per “mister” di settore giovanile. Per il tecnico del Corsica Beinasco è veramente come toccare il cielo con un dito e proprio al suo rientro a Torino rilascerà, ad un giornale locale, una dichiarazione che lascia intendere quali possano essere le grandi soddisfazioni che colpiscono un uomo, un uomo di sport: “E’ stata una cosa bellissima che nessuno, mai, potrà levarci dalla pelle e che pochi hanno avuto ed avranno la possibilità di gustare. Sapere di essere i più bravi d’Italia, provare a tutti che non c’è alcuno più forte di te è una sensazione stupenda, incancellabile”. Con Bitossi, comunque, c’è stato un grande staff costituito dai suoi dirigenti Antonio Casile e Arturo Graziano, unitamente all’allenatore in seconda, Pietro Iannucci che merita una citazione a parte per la sua costanza e la sua caparbietà nella vita. Iannucci era un semplice operaio che si faceva, nei cinque giorni feriali della settimana, sempre il primo turno in officina, poi andava a dare una mano ai ragazzi del Beinasco ed infine, di sera, andava a scuola per prendersi un diploma. Tutto qui, direte? Mica è stato il solo! Non è questo il punto, il punto sta nel fatto che Iannucci dopo essersi “beccato” il diploma è riuscito a frequentare l’Università, Facoltà di Medicina, passare tutti gli esami

91 che in quella facoltà sono proprio tanti e molto complessi e diventare medico professionista: se non è testa fine questa! L’epoca d’oro del Beinasco, comunque, non si conclude con questo ultimo titolo nazionale, ma prosegue ancora così bene che nel campionato successivo, è la stagione 1980/1981, rivince il titolo regionale Allievi anche se non riesce a proseguire nella fase nazionale dopo il primo triangolare eliminatorio (ancora una volta mai sconfitti sul campo ed eliminati per differenza reti!) e si comporta egregiamente anche nelle due stagioni successive. Adesso, però, è indispensabile una considerazione approfondita. A scorrere queste righe forse il lettore avrà fatto caso a date, scudetti, squadre, nomi di giocatori, dirigenti, tecnici, ma si sarà mai chiesto come tutto ciò fosse potuto accadere? Reggere per dieci anni ai massimi livelli può essere anche facile per una squadra dilettantistica di Prima Categoria o anche di Promozione che mantenga il nucleo forte della squadra e cambi quelle poche pedine ogni stagione, tanto da conservare la fisionomia vincente, ma per una squadra giovanile che, obbligatoriamente, deve rinnovarsi annata dopo annata, deve cioè sostituire, ogni volta, tutti i “1964” con i “1965”, questi ultimi con i “1966” e così via, per vincere non basta che abbia un “culo” grande come una portaerei, gli necessitano capacità organizzative non comuni, valenze tecniche di chi le guida quelle squadre, “occhio di lince” dei vari tecnici che allenano nelle categorie inferiori e, soprattutto, una direzione impeccabile a mantenere umori e ambienti nel giusto grado coabitativo: per dirla tutta, bisogna essere bravi ad ogni livello! Il Beinasco che ha vinto quattro titoli regionali juniores, cinque titoli regionali allievi, che è andato a disputare quattro finali nazionali giovanili con due scudetti conquistati e che si è accaparrato un’infinità di altre competizioni in quelle dieci stagioni deve essere stata una “corazzata” eccezionale. Come, poi, questa “corazzata” sia affondata tra l’indifferenza dei più è tutta un’altra storia che, comunque, vale la pena raccontare. Come molti sanno, il Beinasco, per ridiventare tale nel terzo millennio e rinverdire glorie mai sopite, ha dovuto passare una trafila niente male, diventando prima “Beinasco/Borgaretto”, poi assumendo il riassuntivo “Beiborg” e, infine, l’antica denominazione di “Beinasco”. Ha riavuto il suo vecchio e ricostruito “Spinelli”, il cui fondo disastrato per gran parte dell’anno (la posizione geografica della tribuna e la sua “ombra” ne è la causa principale) non è che

92 contribuisca ad aumentare il tasso tecnico del gioco praticato, può usufruire delle strutture di Borgaretto, la frazione adiacente a Stupinigi, ma non è ancora riuscito a rientrare tra le società che primeggiano in regione (“ma non ci vorrà molto”, dice Paolo Roscio, braccio destro del presidente). A parte queste note di storia… contemporanea, il Beinasco non è mai morto del tutto, anche se dal 1984 è sprofondato in un limbo talmente improvviso da lasciare stupefatti i non pochi addetti ai lavori e le tante persone che hanno vissuto le “gesta eroiche”. Cosa è potuto accadere per cambiare improvvisamente la fisionomia di una società di calcio? Una diatriba di lavoro e una decisione politico-amministrativa. Proprio così, nel 1984 una causa di lavoro, portata avanti dalla “custode”, che custode non era, del campo “Spinelli” e la susseguente chiusura decretata dal Comune di Beinasco per aver riscontrato una inagibilità degli spogliatoi (quegli spogliatoi costruiti dal “Bacigalupo” e sempre andati alla perfezione per i precedenti venticinque anni) e delle strutture murarie in genere, mette in crisi, crisi nera, la società. In realtà, pare che gli amministratori comunali dell’epoca abbiano preso in prestito “ponzio pilato” e, subodorando anche qualche grossa grana per il Comune, si siano rifatti a qualche norma legislativa inerente la sicurezza degli impianti sportivi o delle costruzioni edili in genere, ed abbiano deciso di chiudere l’intera struttura. In questo modo si toglievano dai piedi una grana grossa come una montagna con l’abile mossa di allontanare la specie di “custode”, intimandole di lasciare l’abitazione “non più agibile”, e lasciando che Ronco si sorbisse la causa che poco prima la “custode” aveva intentato al Beinasco. Nel giro di pochi mesi succede il patatrac. A Borgaretto non esistono ancora le strutture che daranno ospitalità a fine anni novanta, a Beinasco centro non si può giocare, a Fornaci, altra frazione al confine con Torino, il campo, non comunale, è completamente occupato dalle squadre di un’altra società, cosa resta da fare se si vuole sopravvivere? Cercare ospitalità negli impianti dei paesi vicini. E’ dura, ma a Ronco non rimane scelta. Per Vittorio Ronco viene lo sport prima di tutto, lo spirito di abnegazione che è stata la sua bandiera per tutta la vita non viene meno e lui “porta” le sue squadre a Bruino, a Rivalta, a Sangano, perfino a Giaveno. Per ottenere appoggi cambia anche la denominazione sociale, adesso si chiama Unione

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Sportiva Valsangone, che rispecchia di più l’ambito in cui è posizionata la società, ma il primo a farne le spese è il suo splendido settore giovanile. Quale genitore intende sobbarcarsi un tragitto così complicato e disagevole per portare il proprio pargolo a giocare nel “Valsangone”? Non sono molti quelli che seguono Ronco e i suoi amici, più che altro ragazzi del luogo. A tutto ciò si aggiunga quella spinosa questione della “custode” che ha fatto causa, una causa di lavoro come detto, al vecchio “Beinasco” e, di conseguenza, al suo presidente. Non glie ne viene più una diritta a Ronco che, tuttavia, pur mangiando fiele per un bel numero d’anni non perderà, mai, il suo immancabile sorriso e continuerà, imperterrito, nella sua strada. Gli anni passano, anche Bitossi ha smesso, anzi, si è trasferito addirittura a Rimini, ma Ronco insiste. Con il Comune non c’è nulla da fare, le nuove leggi in fatto di sicurezza e conseguente “agibilità” non consentono “manovre aggiranti”, mentre la nuova struttura è ancora di là da venire. Quando gli chiedono dove portare i bambini, c’è qualcuno che addirittura gli chiede: “Sangano dove?” e così per gli altri campi sempre molto “difficili” da raggiungere da parte di certi “torinesi” molto ben abituati in precedenza. Tuttavia le squadre giovanili non sono per nulla degli “undici” da buttare, sanno farsi rispettare in ogni campo avversario, ma fare paragoni con le stagioni precedenti fa solo male al cuore. E poi c’è quella causa di lavoro che sta andando avanti da troppi anni e tra avvocati e udienze varie porta un salasso non indifferente. La storia della causa di lavoro, la mazzata durata diciassette anni, nasce dal fatto che quando, nel 1967, il “Beinasco” ritorna in auge e si trasferisce sul campo “Spinelli” si trova, “giacente”, il “custode” del campo o, comunque, una persona che abita nell’alloggio situato a fianco degli spogliatoi. Questo signore che lavora altrove, ha una moglie, una signora di origini tedesche che diventa una sorta di “madrina” della società, a cui ricorrono un po’ tutti quando c’è qualche necessità “materna”. Viene perfino nominata, simpatica- mente, “dirigente ad honorem” in occasione dei festeggiamenti per il titolo tricolore vinto nel 1973. Il problema, tuttavia, inizia nel 1984 quando la società del presidente Ronco (fate caso: del presidente Ronco), viene chiamata in causa dalla signora predetta, probabilmente sponsorizzata dal marito, che chiede di essere “pagata” per i precedenti quindici anni di “custode” e, di conseguenza, di versare contributi assicurativi e pensionistici, di sottostare a multe di ogni tipo con fisco ed enti di previdenza.

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Ronco è l’intestatario di tutto questo bailamme, in quanto responsabile principe della società (presidente, appunto!), che, tuttavia, prima di mettersi le mani nei capelli inizia la sua “via dolorosa” negli uffici di avvocati vari. Non è possibile, da questi fogli, narrare l’iter completo della causa che tanti scombussolamenti ha causato al sodalizio, si sappia, in ogni modo, che in prima istanza Ronco e il “Beinasco” vengono condannati a pagare una “quantità industriale di denari”, sono parole di Vittorio, che se unita tutta assieme doveva aggirarsi sui settecento milioni di vecchie lire: pazzesco! Segue un ricorso in appello, dove si comincia a vedere molto più chiaro il problema che viene notevolmente ridimensionato, mentre la Cassazione, nei primi mesi del 2001, ribalta totalmente il giudizio iniziale e concede al “Beinasco” e al suo presidente di uscirne completamente immuni e senza dover sborsare una lira, salvo quelle degli avvocati che non sono state certamente poche. Sono passati diciassette anni dalla prima lettera giunta a casa di Ronco nel 1984 e finalmente il “presidentissimo” può dedicarsi completamente al suo club ed ai suoi ragazzi. Chi conosce Ronco da vicino sa perfettamente che questa vicenda ha costituito un grave, gravissimo problema personale protrattosi per oltre tre lustri, senza, tuttavia, palesare cedimenti di sorta e mostrando quel solito savoir-faire che lo ha fatto ben considerare da colleghi, avversari, se ne ha avuti, e tutti i suoi collaboratori. C’è, comunque, una piccola cosa che lo ha ripagato di quelle e di altre vicissitudini che quasi ogni società dilettantistica ha vissuto e che lui sfodera in occasioni come la nostra lunga chiacchierata. Una lettera che gli ha spedito la madre di un suo giocatore e che Ronco mostra con orgoglio. E’ accaduto diversi anni addietro ed è davvero piacevole leggerne il contenuto, constatando il buon senso, la cultura e le capacità cognitive della scrivente. La signora, dunque, si sente in dovere di: «ringraziare tutti coloro che si sono interessati e si interessano a guidare la società, perché molti ragazzi ambiscono a giocare in una squadra così ben organizzata. Mio figlio ha trascorso quattro anni con la sua società; ha sempre giocato per il piacere di giocare, senza porsi traguardi lontani. Assistendo ad una partita di giovanissimi, nel senso di ragazzi molto più giovani di mio figlio, sul cui esito si poteva discutere, un suo dirigente disse: “E’ stata una bella partita, si sono divertiti tutti, quelli che hanno vinto e quelli che hanno perso. Questo è il primo risultato da raggiungere”. Con questo spirito di sportività mio figlio è vissuto in mezzo a tanti giovani e

95 meno giovani, con idee concordi e talvolta discordi. Non si è mai sentito campione; ha sempre inteso il calcio come divertimento e distensione, proprio come gli avete insegnato. Generosità, rinuncia, disposizione ed apertura verso il prossimo sono i sentimenti appresi e rimasti nell’animo di chi ha seguito gli allenamenti, è rimasto in panchina, ha giocato; e continuerà la propria strada, ne sono certa, con il proposito di dare quanto ha ricevuto». Penso possa bastare per significare cosa è stato e cosa continua ad essere il tempo trascorso in una società dilettantistica come il “Beinasco” che non è, certamente, la sola isola felice del nostro calcio ma in cui, siatene sicuri, è insito uno spirito giusto di aggregazione e fratellanza. Come ho accennato prima: “De Amicis non abita più qui”. Ma è anche vero che dopo quarant’anni un qualche merito a Ronco o a Riffo, a Berti o a quel grande, grandissimo allenatore, dirigente, amico e chissà cos’altro ancora che si chiama Bitossi e a tutta quella schiera di appassionati che è passata sulle rive del Sangone, bisogna pur riconoscerla. Forse che no?

In quasi un decennio, quindi, le fortune del “Beinasco” oscillarono lungo una scala di valori medio alti, ma in quegl’anni avvenne anche un cambiamento dei costumi che coinvolse poco o niente il gioco del calcio, ma sconvolse la vita di qualche migliaio di italiani e qualche milione ne subì le conseguenze: erano gli Anni Settanta e tanta di quella “sporcizia” ci cascherà addosso giorno per giorno da impedirci, persino, di essere obiettivi. Queste ultime parole non vogliono essere una dichiarazione ad effetto, più semplicemente intendo dire che la confusione, la sciatteria, la cattiveria, la brutalità, il trasformismo, la furbizia, l’opportunismo, le ruberie, gli omicidi, le stragi e poi i voltagabbana politici, i mercenari della politica, le convenienze per la politica e, ancora, gli eskimo prima sfoggiati e poi sostituiti con il doppio petto quando era giunta l’ora di “sistemarsi”, le bombe “molotov”, la P38, i “covi” e le mille altre maledizioni che hanno dato un connotato a quella stagione non ci hanno consentito di stilare un giudizio sereno. Non l’hanno consentito a me che ho vissuto quegl’anni da giovanotto, ma non l’hanno consentito ad altri perché nei mille articoli e nei cento libri che “mi hanno fatto leggere” non c’è traccia alcuna, e dico alcuna, di obiettività. Tutti, tutti macinano per sé stessi.

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Pertanto quanto narrerò non ho la pretesa che sia totalmente condiviso, ma si sappia che è il punto di vista di chi ha vissuto dentro a quegli episodi. Ci aggiungerò alcune considerazioni personali non smentibili (i dati di fatto sono inconfutabili, sempre!) e non affermerò nemmeno che quegl’anni possano essere stati una “cagata solenne” per tutti (per me, ad esempio, hanno significato mettere sù famiglia, con tutte le gioie, vere e non di facciata, che sono seguite), ma che abbiano complicato la vita di tanti, che abbiamo obnubilato la mente a tanti, che siano stati indice di paura, di pianto, di angoscia per tanti italiani nessuno può negarlo. Che poi a pagare per quei misfatti siano stati quasi esclusivamente dei ragazzi, certamente “burattinati” da qualche adulto rimasto sempre nell’ombra, è confermato dalla Storia. Ma anche tra quei ragazzi, come vedremo, c’erano i soliti furbetti che pensavano alle proprie tasche (oggi pare che potrebbero chiamarli i “furbetti del quartierino”), che vedevano il futuro meglio di altri, che seppero accaparrarsi le amicizie giuste e rifarsi una verginità da proporre nel “mondo civile”, tanto che nel terzo millennio, ben saldi sui loro scranni, pontificano chi da una tv, chi da un comodo carcere, chi da una poltrona del nostro parlamento. Il ’68, dunque. Quel ’68 che, in Italia, è nato per primo a Torino! Non è certo un primato da divulgare con i megafoni, come si potrebbe fare per le tante belle invenzioni che in questa città hanno avuto piede, soprattutto in considerazione del fatto che l’eredità lasciataci non ha portato ad alcun mutamento positivo della società, ma ha lasciato nel limbo una miriade di persone che soltanto in tanti anni di duro lavoro susseguente sono riusciti a venirne fuori L’onda della contestazione che, come si sa, proveniva da Parigi, aveva cominciato a serpeggiare tra gli studenti universitari italiani in quel tiepido autunno. Proprio a “Palazzo Campana”, l’austera costruzione di via Carlo Alberto angolo via Principe Amedeo a Torino, sede oltre che di “Matematica” anche di “Legge” prima che quest’ultima si trasferisse nel costruendo Palazzo Nuovo di via S. Ottavio, ebbero inizio i primi “collettivi”, le prime “liste di proscrizione” dei professori meno accondiscendenti, i primi “scioperi” che fecero saltare decine e decine di lezioni. Poi, visto che “funzionava”, il casino si allargò ad altre Facoltà, ad altre sedi universitarie, ad altre città italiane, istituendo i famosi “27 collettivi” che crearono una barcata di disoccupati intellettuali perché nessuna industria di un certo peso pensava di assumere gente che aveva ottenuto una simile laurea. E da quelle postazioni il movimento

97 prese piede anche nelle scuole medie, dove qualche ripetente prese la palla al balzo e seppe plagiare una bella fetta di ignoranti compagni e compagne di classe. Già a questo punto mi viene da fare una domanda: come mai, se tutto cominciò a Palazzo Campana ove avevano sede la Facoltà di Giurisprudenza, “Legge”, e il Corso di Scienze in Matematica, dove le aule dei due Corsi di Laurea erano separate da nulla più che un corridoio ed una scala bella larga, solo a “Legge” prese piede la protesta e a Matematica se ne stettero tranquilli? C’era forse un assioma che inseriva da una parte i “buoni” e dall’altra i “cattivi”, oppure era più semplice farsi Legge o Lettere o Scienze Politiche che un maledetto Corso scientifico dove perdere un mucchietto di lezioni significava prenderselo in quel posto per tutta la vita e ancora un poco? Non mi si venga a contestare questo dato di fatto (come ho predetto), perché in quell’anno io c’ero, perché io, in quell’autunno, ero lì quasi tutti i giorni a lavorare. Poco dopo cominciarono gli Anni Settanta, che è solo un modo di dire perché dal 1968 al 1983 gli anni “persi” sono stati ben di più, e subentrarono da subito certe nuove abitudini, indubbiamente l’emancipazione giovanile fece un bel salto, si cominciarono a frequentare i soliti locali, sempre i soliti, i “barucci” come un neologismo li chiamò, prima punti di ritrovo esclusivi per il padre, magari per il nonno, non certo per la madre o la nonna e poi “allargati” ai figli. Il ragazzetto, nel “saltare” scuola, non andava più soltanto al cinema “Asti” di via Carlo Alberto, che proiettava, chissà poi perché (!), anche di mattina, ora cominciava a frequentare il solito “baruccio”, sempre quello, cominciava a prendere confidenza con quel cassone a quattro zampe che si chiamava “flipper” e ci perdeva le ore a gonfiarsi gli indici di tutte e due le mani. Il “baruccio” diventava la sua seconda casa, incontrava altri amici, magari qualcuno proprio nuovo che arrivava da chissà dove, ma quando era ora della partitina a flipper andava alla cassa dove “madamin”, neanche tanto giovane, neanche tanto bella, gli cambiava quelle 500 lire di carta, quelle vecchie banconote inconfondibili per il colore verde e giallo e quella testa di una qualche medusa, ci aggiungeva due o tre assegni da 100 o 200 lire, sì, sì proprio assegni emessi da miriadi di tipi strani per la mancanza di monete equivalenti e che durò qualche anno, e proprio lì a fianco trovava la macchinetta in cui ci infilava una monetina, un 50 lire leggero leggero, che gli

98 sputava una pallina di plastica trasparente da cui estraeva o una rotella attorcigliata di liquirizia oppure un’altra pallina di gomma, dura come il ferro, ma che rimbalzava a due metri solo a lasciarla cadere a terra. Ma era il flipper che attraeva, era quel marchingegno, lassù in alto sulla facciata luminosa, con i numeri del record precedente che gli consigliava di insistere, e quando gli riusciva il colpaccio con un putiferio che emetteva la macchina infernale dalle sue viscere con una partita gratis di premio, tanto da far voltare tutti gli avventori, lui gonfiava ‘l casiot (il petto!) e si rimetteva a giocare dopo aver visto azzerare il numeratore e guardato la pallina d’acciaio posizionarsi automaticamente davanti al tirante. Allora gli si facevano attorno gli amici e qualche ragazzina, gli proponevano o tentavano di scroccargli una partita “in due”, un tasto a testa, così, per divertirsi un po’ di più. Ma lui lasciava fare, aveva già ottenuto soddisfazione e ritornava da “madamin” a ordinare uno “stic”, un ghiacciolo, “al tamarindo, per favore” e se lo ciucciava felice. Pareva un’apoteosi, il ragazzetto stava crescendo e manco più sua madre lo sgridava se frequentava il bar, erano tutti amici, molti anche compagni di classe: che paura c’era? Ma proprio questa frequentazione abitudinaria, dei soliti noti, aveva finito per identificare quel locale, quel “baruccio” in un covo di “fascisti”, di “fasci” dicevano i più agguerriti, oppure di comunisti, di “rossi” come venivano nominati quelli di sinistra. E potevano nascere grane. Qualche insulto, qualche scazzottatura in mezzo ai portici, minacce che non pesavano, sembrava, finché successe il patatrac e ci scappò il morto anche al bar. Era il 1° settembre del 1977. Dapprima ci fu un corteo di protesta organizzato da Lotta Continua per ricordare un loro adepto, lo studente Walter Rossi ucciso a Roma, poi, quando pareva che la manifestazione si stesse sciogliendo e, comunque, si doveva considerare finita, un gruppo di una ventina di ragazzi, tutti mascherati, fece irruzione nel bar Angelo Azzurro di via Po, ritenuto un “covo” di fascisti, e lanciava alcune bombe molotov nel locale che prendeva fuoco. Un cliente, il povero Roberto Crescenzio, veniva avvolto dalle fiamme e se pur riuscisse ad uscire dal locale e venisse assistito da alcuni passanti che lo fecero accomodare su una sedia, moriva due giorni dopo in ospedale tra atroci sofferenze. La fotografia di Crescenzio, tutto bruciacchiato ed appoggiato alla sedia come un manichino, ignobile scatto di chissà chi, farà il giro del

99 mondo ma non scalfirà la coscienza degli assassini manco di una riga e la mattanza continuerà, da ambedue le parti, per un bel po’ di anni ancora. Ma questo è stato soltanto l’epilogo tragico di una storia che capitava di leggere o raccontare giorno per giorno, mentre a Torino, quasi come a Milano o a Roma, i “delitti politici” erano stati e continuavano ad essere tanti, come l’assassinio del mite presidente dell’Ordine degli Avvocati Fulvio Croce o del vice direttore del quotidiano “La Stampa” Carlo Casalegno. E se non ci scappava il morto alla Scuola di Amministrazione Aziendale di via Ventimiglia, sempre a Torino, era soltanto perché i “gambizzatori” avevano avuto fretta, in quanto avvertiti, a “metà lavoro”, di qualcosa o qualcuno non proprio amico che stava arrivando. E così ci furono dieci omicidi, sempre politici ovviamente, una ventina e oltre di “gambizzazioni” (alcuni ne porteranno i dolorosi segni per tutta la vita), senza contare le aggressioni pure e semplici o i pestaggi vigliacchi di dieci contro uno. Succedeva anche che qualche fabbrica prendesse fuoco, che qualche negozio saltasse in aria e che violenze di tutti i tipi si perpetrassero in tutte le stagioni di quegl’anni disgraziati. Ovvio che polizia e carabinieri non se ne stavano con le mani in mano, ma certo che la sorpresa di queste continuate aggressioni, quasi sempre innescate da motivi abbietti, che consistevano nel creare terrore, nello spaventare gli inermi, nel cercare di fare la rivoluzione, costrinse le forze dell’ordine ad un lavoro immane di intelligence, di raccolta dei dati su un vasto territorio come quello torinese, e diede i suoi frutti soltanto in un… terzo o quarto tempo dopo, quando entrò in scena il generale Dalla Chiesa e i suoi carabinieri con l’arresto di Curcio e di qualche suo accolito, invertendo la tendenza dei brigatisti sempre… vittoriosi! Ecco, fare la rivoluzione pare sia stato il leitmotiv di tutti coloro che ci misero lo zampino con le varie sigle guerresche e che non sortirono effetto alcuno se non quello di dare disperazione a qualche madre, a qualche padre. Mentre è certo che fu soltanto una scusa per creare tensione nelle istituzioni, perché anche un bambino poteva capire che una rivoluzione era impossibile senza un esercito armato veramente, come dimostrano tutte quelle, vere, che sono successe nel mondo.

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Ma qui si trovavano solo tracce di qualche kalashnikov, di qualche skorpion (questa mitraglietta farà “furori” tra quella gentaglia), di armi che non potevano essere ottenute in tali quantità da pensare ad una guerra totale, ma soltanto ad una guerriglia, pur sanguinosa ma destinata a naufragare nei gangli, compatti se pur eterogenei, delle nostre forze dell’ordine e delle nostre forze armate. Fin qui i praticanti, le braccia, qualche cervello, ma i teorici di tutto il bailamme? E sì, perché quelli sono sempre esistiti, non si sporcano mai le mani e le scarpe sono quasi sempre lucide, ma hanno la biro a portata di mano (i pc sono di là da venire!), dirigono o redigono giornali, scrivono libri che vendono venti copie ma trovano, chissà come mai, sempre un editore pronto a “sacrificarsi”, fanno teatro, anche un po’ di tv e, soprattutto, instillano le idee. Sono in tanti quelli che ce la mettono tutta a fare i poeti, i narratori, i cantastorie, a suggerire slogan, su quali muri scriverli questi slogan, quali striscioni esporre e in quale momento e che dai loro giornali, Controinformazione, Il Manifesto, Lotta Continua, La Voce della Fogna, Il Quotidiano dei Lavoratori sanno essere, di volta in volta, avvocati difensori, firmatari, attori esterrefatti, intervistatori “unicellulari”, nel senso che dimostrano di avere un unico, semplice punto di vista e da quel punto ci scrivono mazzate e dipingono tragedie con una tale indifferenza come fosse la festa di San Gennaro. I più noti, o meglio, coloro che diverranno molto conosciuti in queste ultime stagioni e che hanno saputo riciclarsi al meglio, scrivono o teorizzano su e con Lotta Continua, come Adriano Sofri, il guru, Gad Lerner, l’acrobata, Andrea Marcenaro, il miscredente, il compagno Dario Fo e la compagna Franca Rame, perfino il figlio di questi ultimi due Jacopo, il vignettista, Mario Capanna, il fuori corso per convenienza. Sarà una bella battaglia culturale, se vogliamo chiamarla così, perché in tanti, a parte i suddetti per carità, cominciano a scendere in piazza con poesiole, canti, ambigui soliloqui che danno l’idea dell’ambiente, del momento, dell’aria che si respirava. Sono vaghe testimonianze di una stagione che, come detto, aveva ben poco di razionale, ma che tuttavia sono rimaste a segnalarci la galassia degli opposti estremismi, una galassia forse demenziale ma comunque esistita e che non ha per niente fatto il suo tempo se appena appena ci si guarda alle spalle. Una di queste testimonianze diceva:

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E uccidemmo la noia annoiando la morte e vincemmo soltanto cantando più forte. Ora siamo lontani siamo tutti vicini e lanciamo nel cielo i nostri canti assassini. Massimo Morsello, Canti Assassini

Poi troviamo anche qualche quartina non molto ben “disegnata” che, comunque, lascia un senso di irrequietezza nella sola lettura. Cosa avrà voluto dire quel Morsello? O, ancora, a chi si riferiva? Le mie ricerche si fermano a queste poche note e, in ogni modo, sono caratteristiche del pessimismo neanche troppo latente esistente all’epoca:

E scordammo la casa e il suo caldo com’era per il caldo più freddo di una fredda galera. Massimo Morsello, Canti Assassini

Ovviamente non finisce qui il simbolismo di quei tempi, perché gli slogan che ancora recentemente s’intravedono su qualche muro sbrecciato, rimasto qua e là nella città, possono solo far pensare e se preoccupano è soltanto per qualche accostamento neanche troppo azzardato a certe frange estremiste che in questo millennio si sono riaffacciate alla ribalta della nostra storia più recente. Così troviamo, e sono solo esempi, Piombo al camerata Martinat (un missino ai tempi in auge in corso Francia, sede della “fiamma”), Curcio alla forca (senza commento, ovvio!), 10-100-1000 Mantakas (uno studente greco, appartenente al Fronte universitario di destra, ammazzato a Roma), che si ripeterà per il giornalista torinese Casalegno poco dopo la sua uccisione, e vergognosamente ribadito per i caduti di Nassyria, poi un inquietante Adesso tocca a lui, senza sapere a chi si riferisce e, per finire questo breve elenco, un roboante Bande, bombe, sbarre e tombe, che pare preso a caso dal vocabolario.

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Ma le testimonianze continuano con qualche cosa di più corposo, come questo canto “generazionale” che potrebbe lasciare il segno se solo avesse un seguito, e che abbiamo tratto, come le altre note di questa pagina, dal libro di Luca Telese, Cuori Neri:

Poi una sera di gennaio resta fissa nei pensieri, troppo sangue sparso sopra i marciapiedi, e la tua generazione scagliò al vento le bandiere, gonfiò l’aria di vendetta, senza lutto né preghiere, su quei passi da gigante, per un attimo esitare, scaricando poi la rabbia nelle auto lungo il viale, fra le lacrime ed i vortici di fumo, da quei giorni la promessa di restare tutti figli di nessuno. Francesco Mancinelli, Generazione ‘78

Un “avviso ai naviganti” pare essere il canto seguente che aveva preso di mira Giorgio Almirante, il politico scomparso qualche anno addietro e segretario del Msi per tante stagioni, ex appartenente alla Repubblica Sociale di Salò. Sembra impossibile ai nostri giorni che potessero essere divulgate impunemente cose di questo tipo, ma non c’è da scandalizzarsi se ci si rapporta agli Anni Settanta e a quelle folli giornate:

Se non li conoscete guardate il capobanda e un boia e un assassino colui che li comanda. Sull’orbace s’è indossato la camicia e la cravatta perché resti mascherato tutto il sangue che l’imbratta. …………………… Ora lo riconoscete Almirante sempre quello con il mitra e il manganello ben nascosti nel gilè. Il canzoniere delle Lame: “Se non li conoscete”

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Non è finita, comunque, con queste concioni perché in dieci, quindici anni ne succedono di cose ed una, drammatica e devastante, è il terremoto che colpisce il Friuli nel 1976.

La sera del 6 maggio, poco dopo le nove, proprio quando quasi tutti sono ancora attorno ad un tavolo ed hanno finito cena, una scossa violenta, pari al sesto grado e quattro della scala Richter, causa una serie impressionante di crolli che uccidono mille persone, procurano diverse migliaia di feriti e gettano nel terrore, sconforto e disperazione quasi un milione di persone. L’epicentro è a Gemona, ma Buia, San Daniele, Venzone, Maiano, Osoppo e tanti altri piccoli centri friulani sono quasi rasi al suolo. La scossa è stata sentita in tutta la penisola, a Torino come a Napoli, ma in confronto a quanto è accaduto in Friuli è solo un brevissimo atto di spavento. E’ il caos più totale. Nessuno ci si raccapezza, le strade lungo il corso del basso Tagliamento sono interrotte da crepacci paurosi, case, chiese, gli stessi cimiteri sono devastati. In questo disastro manca di tutto, nelle prime ventiquattrore da fuori non arriva un camion, un elicottero a portare aiuto, pare quasi che ci si sia rassegnati. A Gemona non c’è più l’acqua potabile, mancano le bare, si deve scavare con i pochi mezzi a disposizione, molti usano le mani. Ma la gente del luogo è di altissimo valore morale. Prima di disperarsi, di sacramentare su quello o su questo che non c’è, si ingegna in mille modi ed anche il medico, come il notaio, il negoziante, come il contadino si prestano a dare aiuto al vicino, all’amico meno fortunato. Come racconta Mauro Vallinotto su un numero di “Specchio”, il supplemento di La Stampa uscito nel trentesimo anniversario del terremoto, “Occorreranno giorni prima che Giuseppe Zamberletti, nominato in tutta fretta commissario straordinario alla protezione civile, possa prendere in mano la situazione. Allora arrivano gli elicotteri che scaricano montagne di materiali, viveri, tende da campo nei paesi dell’alto Tagliamento che sono rimasti quasi immuni dalle scosse del sisma, per farne la base dei soccorsi”. Vivido e angosciante è il racconto che il giornalista fa di un piccolo episodio, emblematico del momento che si stava vivendo: “…e dai Gino, non mollare, dai che ce la fai, urla il giovane medico in camice bianco mentre pratica un lungo, disperato massaggio cardiaco all’uomo forse troppo frettolosamente adagiato in una bara di legno scuro, la camicia intrisa di terra e calce. Intorno alcuni soccorritori osservano, apparentemente indifferenti, la lotta di Gino per sopravvivere.

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Quando tutto è finito e Gino non ce l’ha fatta, una mano traccia con vernice bianca un numero sul coperchio della bara di Gino, per distinguerla dalle decine e decine di altre allineate nella luce crepuscolare di quel venerdì 7 maggio 1976, lungo il muro del cimitero di Gemona”. Come sempre avviene, purtroppo, come sempre è avvenuto e come sempre, pare, debba accadere in simili frangenti, non solo in Italia ma abbiamo sentito queste storie un po’ dappertutto nel mondo, gli aiuti governativi stentano ad arrivare. Ma questa volta i friulani non stanno a guardare, non si mettono a piangere, a disperarsi, a lamentarsi con il cronista di turno. I friulani cominciano, immediatamente, a lavorare. Dopo aver “pensato” ai morti, dapprima sgombrano le strade, tutte le strade, cittadine, di paese, provinciali e statali perché è da lì che devono arrivare i soccorsi in fretta, è da lì che si deve muovere la gente per raggiungere le tendopoli, anche di fortuna, subito innalzate fuori degli abitati. E’ crollata anche la caserma della brigata “Julia”, ma i sopravvissuti e i militari delle molte altre caserme del Friuli, ricordarsi sempre che questa è terra di confine (e che confine!), sono i primi che i vari comandanti mettono a lavorare di pala e piccone. Da subito cominciano ad arrivare gli associati dell’ANA, Associazione Nazionale Alpini. Arrivano dal Piemonte, dalla Lombardia, dalla Liguria, dall’Abruzzo e da tante località della penisola: è commovente notare tutti questi ex della “Cuneense”, della “Julia”, della ”Aosta” che si dannano l’anima nei primissimi soccorsi. Poi arrivano gli emigranti del “Fogolar Furlan”, l’associazione dei friulani nel mondo, che in tanti, tantissimi hanno lasciato queste terre negli ultimi cinquant’anni. Arrivano in molte centinaia, dal Belgio, dalla Francia, un bel gruppo anche dall’Australia, arriva un convoglio dalla Germania Occidentale che trasporta quattro ruspe che si dimostreranno determinanti in quei primi giorni, dagli Stati Uniti trentasette ragazzi che non hanno mai visto la terra d’origine dei loro padri, portano nelle valige badili e medicinali di primo soccorso: un segnale forte di solidarietà per chi è stato colpito così tremendamente negli affetti e nelle cose che galvanizza anche i più sfiduciati. Contemporaneamente si muovono gli stessi “Fogolar Furlan” sparsi nella nostra penisola, questi circoli sono attivi, da sempre, in tutte le grandi città italiane, che organizzano vere e proprie autocolonne di soccorso con a capo, di ognuna, un carpentiere. Non è un fatto curioso, molto più semplicemente è organizzazione finissima. I vari

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“Fogolar” si sono telefonati tra di loro, si sono distribuiti i compiti e i circoli italiani hanno il compito di mettere in sicurezza le case, i monumenti, i palazzi storici che si possono ancora salvare. Chi scrive era in quelle settimane subito susseguenti al terremoto a San Daniele ed ha potuto notare come in centro città una marea di traversine, di pali, di ponteggi tenevano in piedi una casa dietro l’altra in attesa del vero consolidamento. E’ doveroso far notare che quando Zamberletti si era insediato a capo della protezione civile che doveva guidare i soccorsi, pur non disponendo in quei primi giorni di nulla se non della propria buona volontà, aveva trovato una collaborazione eccezionale negli abitanti ed aveva coordinato quanto c’era da fare. Come detto prima si era scavato, anche a mani nude e non è un modo di dire, per cercare eventuali superstiti o estrarre i tanti cadaveri, poi si era pensato a sgomberare le strade, quindi a mettere in sicurezza gli stabili di mezzo Friuli, ed infine a dare una sistemazione accettabile agli abitanti. Dalle prime tendopoli si era passati alle seconde case del turismo dell’alta costa adriatica, Monfalcone, Grado, Lignano, messe a disposizione della protezione civile dai proprietari ed infine si era progettato il futuro. Aiutati da tante persone di buon cuore, da alcune istituzioni dalla mentalità aperta e, ancora una volta, dagli emigranti la ricostruzione vera e propria accadde in pochi anni. In molti accesero mutui per rimettere in sesto la casa, la villetta, la cascina confidando in rimborsi che, in molti casi, arrivarono anche dopo diversi lustri, ma, comunque, non se ne stettero con le mani in mano perché “c’era l’obbligo dello Stato ad aiutarli”, nossignori, fecero da sé e fecero le cose per bene. Ora, a distanza di trent’anni, il Friuli si è messo il “vestito della festa”, come dice un amico incontrato per l’occasione dell’anniversario, ma certo che le ferite inferte all’anima di quella gente è ben difficile che vengano completamente rimarginate.

In quell’anno, tuttavia, non sono pochi gli episodi che attirano l’attenzione del mondo intero. Ricordiamoci sempre che sono le stagioni del terrorismo, nazionale ed internazionale, e su questo filone accade un fatto che colpirà l’opinione pubblica non solo italiana per i tempi, le distanze, le implicazioni politiche e la solita, incrollabile “voglia di sopravvivere” di un popolo intero: Israele. Il racconto che ne ho fatto, sfogliando giornali d’epoca, sembra la sceneggiatura di un film d’azione o di guerra, fate voi, ed invece è tutto maledettamente vero.

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Negli ultimi giorni di giugno il servizio segreto israeliano, il Mossad, è in agitazione. Le antenne di Tel Aviv diffondono fonogrammi di allarme: nata dagli avvenimenti del Libano (una guerra intestina dai contorni… contorti!) c'è da attendersi una nuova ondata di terrorismo palestinese. Previsione esatta. Il 27 giugno 1976, una domenica, un airbus francese, il 300 B4 in servizio sulla linea Tel Aviv - Parigi, è dirottato poco dopo il decollo da Atene. A bordo vi sono 275 persone, un centinaio è di nazionalità israeliana. È il periodo delle vacanze: il terrorismo sembra un incubo lontano. Nessuno ha fatto caso, ad Atene, a due tedeschi, tra cui una donna, e a due arabi che salgono con grossi sacchi sulle spalle. Eppure il 4 giugno la radio libanese ha annunciato un accordo militare firmato tra l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di Arafat e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) di Habash, sostenuto dall'Iraq, dalla Libia e dalla Algeria. I palestinesi, massacrati dagli obici dei falangisti di Beirut e traditi dai “fratelli” siriani, realizzano un'unione sacra. Il Fronte popolare marxista per la liberazione della Palestina si assume la paternità del dirottamento dell'airbus dell’Air France. La sigla è nuova, sostiene il Mossad, ma il cervello è sempre quello di Wadi Haddad, compagno di strada di George Habash e capo delle operazioni, come già nel FPLP. Habash è un medico di quarantasei anni. Ha legami, insiste ancora il Mossad, con il gruppo dei latino- americani di Carlos, con quello dei tedeschi della banda Baader- Meinhof e quello dei giapponesi dell'Armata Rossa. Si attribuisce a Habash il recente rapimento e l'assassinio di Francis Meloy, l’ambasciatore americano a Beirut, avvenuto il 16 giugno, per provocare, sostiene sempre il Mossad, l'intervento americano in Libano. L’airbus, fatto uno scalo a Bengasi, in Libia, prosegue e atterra nell'aeroporto di Entebbe, in Uganda. I passeggeri e l'equipaggio sono ammassati in una palazzina all’interno dell’aeroporto. I passeggeri non liberati sono 93, tutti con passaporto israeliano. In più c'è l'equipaggio, tutto francese. I dirottatori diramano un primo annuncio minaccioso: “Uccideremo i passeggeri se il primo luglio non saranno portati a Entebbe, liberi, cinquantatre nostri compagni”. Molti sono detenuti nelle carceri di Israele. Nell’elenco figurano sei membri della banda Baader-Meinhof. Poi c'è Amparo Silvia Masmala, una donna intima di Carlos. L'ultimatum del gruppo terrorista, che si è battezzato “Haffa”, scade alle undici del mattino di giovedì. L'ambasciatore di Francia in Uganda, alle 10,20

107 del primo luglio, annuncia che Israele accetta di negoziare. Per la prima volta Tel Aviv sembra cedere al ricatto del terrorismo. In realtà fin dalla notte di domenica si studiava la possibilità di un'azione militare. Un raid fulmineo, l'Operazione Tuono, come viene denominato il “viaggio” di settemila e passa chilometri e la liberazione degli ostaggi. “Bisognava guadagnare tempo”, dice il premier Rabin. I terroristi offrono una possibilità: ecco che rinviano l'ultimatum di 72 ore. I generali d'Israele esultano: sono sicuri, adesso, di poter realizzare il raid. Però si continua a fingere e il generale Zeevi, il 2 luglio, venerdì, è spedito a Parigi come negoziatore. È la notte fra il 3 e il 4 luglio. Sono le ore 0,01: il primo dei quattro “Hercules” dell'esercito israeliano atterra nell'aeroporto di Entebbe. “Ha un minuto di ritardo sul previsto”, dice come battuta uno dei ragazzi delle forze speciali che sono giunti da una mezz’ora, in volo da Nairobi, capitale del Kenia che ha concesso il sorvolo del proprio territorio. Tutti gli aerei sono guidati da terra da queste truppe speciali con la stella di Davide. Dagli “Hercules”, che in gran segreto sono passati sul Mar Rosso, hanno deviato sul Kenia per arrivare rapidi e devastanti in Uganda, scendono uomini e mezzi. Ore 0,05: si comincia a sparare. Ore 0,08: gli ostaggi chiusi nella palazzina dell'aeroporto sono liberati. I terroristi sono uccisi. Si sapeva che due di essi erano di nazionalità tedesca ed i loro nomi verranno ben presto fatti: Wilfried Boese (passa per un editore) e Gabriele Kroecher Tiedemann. Sono amici di Carlos. Gabriele è una donna di piccola statura che partecipò al rapimento dei ministri dell'OPEC. Ore 0,12: anche i soldati ugandesi si accorgono del raid e dall'alto di una torre di controllo, fanno fuoco sugli israeliani. È ferito il capo delle forze d'assalto, Yoni Netanyahu, fratello dell’ex primo ministro, che morirà poco prima di salire su uno degli aerei.. Ore 0,15: i dieci Mig dell'esercito ugandese sono distrutti a terra dagli israeliani, per evitare “disagi”, dirà uno dei partecipanti, sulla via del ritorno. Ore 0,37: il primo dei quattro “Hercules” con gli ostaggi lascia il cam- po di Entebbe. Ore 1,17: l’Operazione Tuono è terminata. È durata un'ora e 16 minuti: venti militari ugandesi sono rimasti uccisi. Amin Dada, il presidente, dormiva in una villa a sette chilometri da Entebbe. Aveva accolto i terroristi con questa battuta: “Welcome in Uganda”. C'è chi l'accusa di essere stato un complice, ma non è che fosse un

108 gran “cervello” e, probabilmente, voleva soltanto mettersi in mostra davanti al mondo intero. Rimane, comunque, l’eccezionale impresa delle forze speciali israeliane che hanno compiuto un raid impressionante per celerità e prontezza e micidiale per il destino dei dirottatori. Negli anni seguenti, di questo episodio, ne verranno fatti ben tre film, due prodotti dagli americani ed uno dagli israeliani, La lunga notte di Entebbe, I leoni della guerra e La notte dei falchi, che rimarranno, comunque, circoscritti e del raid in Uganda si farà in fretta a dimenticarsene. Chissà perché? Un’idea, tuttavia, io ce l’avrei, ma non è questo il momento per sviscerarla.

A Torino, intanto, gli avvenimenti di un certo peso continuavano. Uno, importante per gli eventi politici che seguirono, è stata la marcia dei 40.000, i quarantamila “quadri” della FIAT che ne avevano le scatole piene dei sindacati rossi e dei loro mentori politici. Dopo il comizio di Berlinguer davanti ai cancelli di Mirafiori e dopo 35 giorni di scioperi, assemblee, pestaggi, bagarre, mobilitazioni, nonostante fosse ancora fresco il ricordo dell’omicidio del capo del personale Carlo Ghiglieno, un tam-tam silenzioso ma convincente arriva nelle case dei capi, dei “capetti” FIAT. Uno telefona all’altro, da Torino a Piossasco, da Chivasso a Rivalta e il 14 ottobre del 1980 si danno appuntamento al Teatro Nuovo di corso Massimo d’Azeglio, al Valentino. Luigi Arisio, uno di loro, aveva convocato una riunione per discutere delle problematiche sorte ancora in quei giorni e pensava di vedere arrivare non più di mille persone. Invece si ritrovano in quarantamila e d’un fiato decidono di marciare per le vie e i corsi della città, senza gridare slogan, inalberando solo qualche cartello: era ora di riappropriarsi della fabbrica e continuare a lavorare. E’ uno schiaffo morale per Berlinguer, per Luciano Lama, il sindacalista della CGIL, che costringe i sindacati a mollare: non rialzeranno mai più la schiena. Non più con questa arroganza. La lotta al sistema, stronzate insulse strombazzate dagli studenti più politicizzati, mette in “castigo” un bel po’ di torinesi, non ci si raccapezza più nelle dichiarazioni, nei manifesti, negli striscioni di un’infinita serie di sigle che confondono. Dopo Lotta Continua, lc come la chiamano gli adepti, che arriva, si afferma e si ferma più di altre, ci sono le Volanti Rosse, Avanguardia Operaia (dove di operaio ci sono due o tre assenteisti cronici e basta), il Fronte della Gioventù (che si affanna a dichiarasi totalmente nella

109 legalità del partito, il Msi), Soccorso Rosso (molto ben organizzati), Terza Posizione (picchiatori di destra), Democrazia proletaria (sostantivo e aggettivo che, uniti, sono senza senso), un generico Movimento studentesco che era solo di sinistra e che non sapevi mai come volesse presentarsi, un’altra decine di sigle minori e infine i clandestini, i brigatisti di Prima Linea (sempre rossi e passati poi in secondo piano), quelli neri dei Nar, Nuclei Armati Rivoluzionari, ma soprattutto gli appartenenti alle Brigate Rosse, il vero manipolo di “ammazzasette” comunisti che insanguineranno Torino e l’Italia intera. Tuttavia neanche questo marasma di gente votata alla futura rivoluzione che non arrivava mai, precludeva una vita sociale effettiva, una vita sportiva fatta di appassionati, di praticanti, di spettatori, forse ci fu una vera e propria contrapposizione a quanto accadeva da trascinare nello sport e verso lo sport una gran massa di torinesi. Lasciando stare il grande calcio con la Juventus, otto scudetti dal 1972 al 1983 e con il Torino che, comunque, vinse uno strabiliante campionato proprio nel 1976, è doveroso accennare a tutte le altre discipline sportive che avevano “imperato” in quelle stagioni a Torino. Fulcro di certi sport, dell’animazione, dell’aggregazione effettiva fu il parco Ruffini, passato a tal nome dopo essersi chiamato Valentino Nuovo, con un civettuolo stadio mica male, prima chiamato “Napoleone”, chissà perché, e poi intitolato a Primo Nebiolo, uno dei più grandi dirigenti, torinese, dello sport mondiale. Ma in quel parco c’è anche un Palazzetto dello Sport, costruito dieci anni prima, che dopo aver ospitato concerti musicali di un certo pregio, passarono di lì, per esempio, gli Intillimani e i Genesis, offrì spettacoli eccellenti con la pallavolo, uno sport rinato ed entrato nel cuore dei torinesi dopo le Universiadi del 1970, in cui la nostra Nazionale vinse la medaglia d’oro. Su quella scia si costruì una squadra portentosa, la Klippan, che vinse un po’ tutto e di cui si serba, tra le altre meraviglie, proprio la finale tricolore persa nel “suo” Palazzetto contro la Panini Modena, ma davanti a più di settemila spettatori: un record che gli Anni Settanta si portano ancora appresso. Tanti torinesi che potessero seguire coloro che non facevano calcio si era avuto, qualche anno prima, soltanto con l’arrivo del Tour de France allo Stadio Comunale in cui vinse, davanti a trentamila sfegatati “supporters”, un “certo” Nino Defilippis, sprinter torinese di quelli buoni, che non riuscì manco a dire una parola, dopo l’arrivo in

110 volata sulla terra rossa della pista di casa sua, per l’emozione del momento e per tutti quei concittadini che applaudivano come matti. Ma non c’era solo la bici, che, comunque, esibiva fior di campioni in varie riunioni al Motovelodromo di corso Casale, e la pallavolo a furoreggiare, anche se quest’ultimo sport mise al mondo una squadra fortissima e contribuì a far maturare quel formidabile atleta che si chiamava e si chiama Gianni Lanfranco, divenuto in seguito un’industriale del materiale sportivo, o uno splendido allenatore (lui preferirebbe dire “istruttore”) come Silvano Prandi, no, no di certo, perché c’era anche quel mecenate di Accorsi che riempiva le palestre con i suoi spettacoli di pugilato, aveva pensato in grande la Sisport che ospitava nei suoi campi d’allenamento gente come Mennea e la Simeoni (mica serve un commento?), la pallacanestro femminile andava a vincere in Europa, il rugby lottava per i vertici, ed eravamo forti nel baseball, nel basket maschile, nella pallanuoto, nell’hockey su ghiaccio e su pista, cose mai più viste in questi anni, se non addirittura scomparse. Servirebbe un libro corposo per narrare lo sport degli Anni Settanta, che non furono, l’avete appena letto, solo anni di merda e servirebbe anche un bel dibattito per venire a comprendere come mai siano sprofondati nel nulla o quasi, da quei livelli, quasi tutti gli sport citati. Forse l’impatto avuto dalle Olimpiadi Invernali di Torino 2006 ci darà la possibilità di far ricrescere qualche cosa, ma ne dubitiamo moltissimo anche in considerazione del fatto che da subito, i soloni che ci guidano, hanno cominciato a parlare di “Grandi Eventi”, di motivazioni per riempire i “palazzoni” costruiti, ricostruiti o rifatti ed allora il solo pensiero che ogni “Evento” costerà una montagna di soldi ed un biglietto per andarli a vedere quasi mezzo milione di vecchie lire ci fa incazzare oltre misura. Non si può sempre far leva sui “volontari”, bisogna impostare un progetto per andare incontro a quei dirigenti, questi sì volontari effettivi, che tengono ancora in piedi il volley, il basket, l’hockey e tanti altri sport minori (minori rispetto a cosa, a chi?) e tentare di farli rinascere, ma industriali che investano o “donino” non se ne intravedono più e gli atleti migliori corrono, sempre e soltanto, verso il dio denaro. La vedo male. Non la vedo male, invece, per il calcio dilettantistico e giovanile perché un assessore “furbo” (ho virgolettato il vocabolo perché molti, ormai, danno un altro significato al termine), una persona intelligente, con evidenti ed ampie capacità di convinzione, parliamo di Renato Montabone, ha saputo dare alla “città sportiva” un aspetto magnifico con la costruzione di venticinque campi in erba sintetica, impiantati su

111 altrettante strutture esistenti e, a loro volta, messe in grado di funzionare al meglio da dirigenti sportivi invogliati e già operanti su quel medesimo territorio: è stato uno sviluppo a catena che lo spettatore disattento o, comunque, disinformato non ha da subito compreso. Invece il manto erboso sintetico omaggiato dal Comune, oltre ad un forte sconto sul costo delle energie, ha convinto la tale società, sempre formata da soli volontari veri, a dotarsi di una tribuna coperta, la tal’altra a costruire, ex novo, due campetti per il calcio a cinque, una terza a pavimentare i passaggi interni, una quarta ad inserire perfino fioriere all’ingresso e così via tanto da presentare Torino Sportiva come la città italiana o forse non solo italiana, prima in classifica per bellezza, funzionalità e risparmio di gestione. Insomma, i tanti soldi pubblici spesi “renderanno” entro pochi anni un gran bel interesse in incremento dei praticanti, in sicurezza, in colpo d’occhio (che, sempre, ci deve essere…) ed in ecologia: la polvere di quel determinato terreno, a volte spaventosa quando il vento soffiava forte, non ci sarà più alcuno che se la digerirà, fosse il giocatore, il dirigente o lo spettatore, ma, soprattutto, quel condomino che ha o aveva l’abitazione proprio sopra il campo di gioco. Se poi, di questi giorni, vengono a galla problematiche e discussioni sulla salute pubblica che riguardano l’intaso dei campi in erba sintetica, problematiche tutte da verificare e del cui fondamento scientifico siamo ancora scettici, nulla toglie di bello a quanto s’è fatto. Un gran bel “pacchetto all inclusive” da esportare, sempre che altrove ci siano amministratori che possano attingere dai finanziamenti tipo Olimpiadi che, si sa, arrivano tra capo e collo soltanto ogni cinquant’anni. Intanto Montabone ne ha approfittato ed altri, per altri grandi eventi, no. Il tutto è successo sempre a Torino.

Siamo arrivati all’oggi con tutto ciò che comporta misurarsi con le scorie del terzo millennio, ma ciò che è certo è che non ci si potrà scordare di quei bellissimi e tremendi, audaci e miserevoli, spudorati e onesti Anni Settanta. Forse le obiezioni a questi vocaboli contrapposti potranno essere di tanti, ma nello stesso tempo in tanti potranno riconoscersi in essi come è successo a me. Credo, allora, che sia tempo di andare a sentire un’altra storia, anzi di andare a leggere altre storie.

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Capitolo VIII

Con il pallone di fianco

La primavera si fa attendere, il freddo infatti è ancora intenso pur se non pizzica come è accaduto nei mesi scorsi e la galaverna della notte ha lasciato scie di umidità sui bordi dell’asfalto, ciò nonostante tre ragazzetti, imbacuccati nelle loro tute e nei caschi protettivi, a cavallo delle rispettive biciclette da corsa si profilano, sagome inconfondibili, sulla statale dei Laghi, quel percorso che i “corridori” conoscono proprio bene e che comprende Giaveno, lo scollinamento del Colle Braida dopo Valgioie, lo sfioro della Sacra di San Michele e la discesa fino all’incrocio dei due laghi per riprendere verso Trana. Quando mi passano accanto, scz… scz… scz, senti solo lo sfrecciare silenzioso dei tubolari mentre loro viaggiano compatti sullo stradone che, giungendo dal bivio Giaveno–Avigliana, porta a Sangano. Li vedo girare a sinistra e portarsi fuori paese sulle prime brevi rampe che salgono a Reano, verso Villarbasse; sull’ultimo tornante, con una curva a gomito che porta sul piano i tre giovanotti sanno di essere all’ultima fatica ché, dopo, ci sarà solo discesa sino a Rivoli, a Torino. Quello che regge la fila, il più grosso dei tre, “spara” una serie di comandi, incomprensibili per chiunque data l’afonia dettata dalla fatica, ma intelligibili per gli altri suoi compagni che iniziano una serie di scatti. Il più bravo, o il più fresco, dopo pochi metri ha già messo cinque o sei macchine tra lui e gli altri e continua a pestare sui pedali. Li vedo scomparire tra la vegetazione, brulla per la stagione, ma comunque una muraglia per densità. Pochi minuti dopo, all’altezza di Corbiglia, frazione di Villarbasse, sui primi contrafforti della collina morenica che circonda ad ovest Torino, li scorgo di nuovo, viaggiano ormai in scioltezza, tutti ricompattati, addirittura chiacchierano con le mani alzate dal manubrio: l’allenamento “serio” è finito, non resta che tornare a casa, prima che faccia buio, per una bella doccia ristoratrice. Ma perché parlare di un semplice allenamento con la bici, una bici che sarà anche da corsa ma che se è solo un allenamento fatto in tre non

113 crea alcun fascino, non attrae nemmeno quei pochi automobilisti che, come me, stanno andando verso casa? La risposta è persino troppo banale: il ricordo. Rivedo in quei ragazzi un amico che ha frequentato l’ambiente e di cui, ancora oggi, serba una struggente malinconia. Rivedo la sua gioventù e la mia, ovviamente, pur se indirizzata ad altri obiettivi, rivedo specialmente i suoi racconti fatti con semplicità, senza commistioni auliche con chicchessia, ripenso, infine, a quelle comuni “riunioni” in cui si tirava tardi la sera per sentire Catullo Ciacci che, prima di parlare di “bici” e di calcio giovanile, era un rito, inneggiava al suo Toro, ai suoi granata del momento e l’immagine di Toni Marrocu mi si presenta nitida e dettagliata. Marrocu, nato a Torino anche se il cognome gli consegna delle origini sarde, non ha mai giocato al calcio, né da bambino né da grandicello, salvo rari “scontri” in età quasi matura, ma ha coltivato una passione grande grande per il ciclismo che ha praticato da dilettante prima di unirla al calcio organizzato quando le conoscenze e i desideri… familiari lo indirizzarono a scegliersi un impegno fisso e consentire che il ciclismo diventasse, più che altro, una scorribanda amatoriale lungo le splendide sponde del Po. Ma le belle immagini di quei “tempi eroici” non si inaridiscono, non scompaiono per niente dalla mente di Antonio. Anzi, mi dice: “Pare ieri che correvo la mia prima corsa con la maglia grigia a strisce verdi del “Vanchiglietta” o, qualche anno dopo, con quella biancoverde della “Gimca-Covolo”, per finire, anche e soprattutto per questioni di lavoro, con le maglie biancoblu della “Lancia”. Bei tempi, certo per le tante primavere in meno, ma anche per le soddisfazioni che la bici gli dava, per quegli arrivi in corso Peschiera, poco prima di piazza Sabotino, tra una marea di gente che si assiepava nei controviali, dove un applauso non si negava manco al novantaseiesimo, l’ultimo cioè, che arrivava dopo mezz’ora, ma, orgoglioso, non era “fuori tempo massimo”. E la Torino-Ronco Canavese, con quella maledetta salita in cui il solito Aldo Bianco svettava per primo, salvo beccarle regolarmente all’arrivo in volata dal compagno di squadra Giulio Di Muro? E la Torino-Bardonecchia che vinse il suo compagno Ernesto Fantone, quel ragazzo che, fattosi uomo, si vide togliere dalla vita la figlia e il suo fidanzato morti nell’incendio del cinema Statuto e ne rimase segnato per sempre? Poi il “Gran Premio Città di Asti” che Marrocu, gli pare di ricordare nell’edizione del ’58, si fece sfuggire per un soffio mentre era in fuga

114 con un certo Costantino Cardia e a quattro chilometri dall’arrivo, dalle parti dello stadio astigiano, una maledetta foratura vanificò il suo sforzo. Cardia proseguì, ma il continuo voltarsi per verificare la situazione gli procurò il congiungimento con altri tre avversari che lo beffarono in volata. Ci fu perfino un bel litigio a fine corsa, tra Cardia e Marrocu, quando quest’ultimo seppe che l’altro si era fatto fregare come un pirla: il premio della vincita (cinquemila lire!) era andato altrove e Antonio non si dava pace per la grande occasione persa; avevano “concordato la volata” e poi si sarebbero divisi il premio. Erano cinquemila lire del ’58, mica un pacchetto di patatine, bellezza! Di queste cose, con Catullo e con gli amici, se ne raccontarono in quantità, come, per un certo periodo degli anni ottanta, si finì per parlare, sera dopo sera, settimana dopo settimana, di una società che stava assumendo contorni da prim’attrice e che era, ormai, considerata un punto di riferimento per coloro che volevano le cose “fatte bene”: si parlava del “Barcanova”. A scontornare le vicende del “Barcanova”, a rendere autonoma una storia che si prefigurava molto interessante, era stato, sì, Toni Marrocu e sua moglie Anna, anche lei una vera appassionata del calcio in tutte le salse, con i loro accenni a quel titolo, a quel campionato, a quella particolare gara finita sei a sei in via Centallo, ma, poco alla volta, si erano focalizzati i racconti dei tanti ex giocatori, di quel certo dirigente o ex allenatore che venivano, ogni tanto, a trovare Ciacci e che, ogni tanto, battevano il chiodo su una gara fantastica, su una “Coppa Primavera” con ventimila spettatori paganti al “Comunale”, con una storia “nuova” che nuova era soltanto per chi non c’era mai stato prima, attorno a quel tavolo. Dopo che Catullo Ciacci se ne andò in cielo, non riprendemmo più le nostre solite chiacchierate attorno a due formaggi, un bel salame marchigiano e due bottiglie di barbaresco, no, non ci vedemmo quasi più tutti assieme, ma continuammo, quelle storie, ad approfondirle sugli spalti dei tanti e tanti campetti di periferia che siamo riusciti a frequentare. In questo modo è scaturita una storia del tutto particolare che ha avuto, quale doveroso epicentro, il “Barcanova”.

La Stura, la Barca, Bertolla, “roba distanta”, dicevano ancora nel 1945 coloro che spiegavano ad uno sconosciuto interlocutore dove potevano trovarsi quei luoghi. E difatti il torrente Stura (qualcuno mi deve ancora spiegare perché un “fiume”, alla cui confluenza con il Po

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è largo oltre cento metri, si deve chiamare torrente!) segnava un confine abissale tra la città e quella “barriera”, la Regione Barca come la toponomastica comunale chiamava il luogo, che veniva raggiunta solo da traghetti di fortuna, mentre il ponte non era ancora stato ricostruito e quello più vicino era a qualche chilometro. I “lavandai” della Barca e, soprattutto, di Bertolla avevano quasi il monopolio di quei passaggi obbligati che, tuttavia, tra breve scompariranno con la ricostruzione del ponte vero e proprio. “In un isolamento che non si poteva chiamare “dorato” ma che, comunque, veniva vissuto dai cittadini locali con una sorta di compiacimento per i loro commerci che “tiravano”, per le loro, pur piccole, industrie che davano lavoro sicuro, anche due realtà sportive erano nate, da decenni, e si erano sempre dispiegate sul territorio con vera baldanza”. Sembra il “bollettino del maresciallo Diaz”, mentre è soltanto la descrizione di un ambiente che un giornale dell’epoca, il “Paese Sportivo”, metteva nero su bianco al momento di presentare quello che sarà un torneo di calcio d’eccellenza: la “Coppa Primavera” ideata dal “Barcanova” e dal suo presidente Brusasco nel 1948. La società era nata nel 1920, aveva fatto giocare le sue squadre un po’ in FIGC, con i dilettanti, e un po’ nell’ULIC con le squadre dei giovani (pare errato, per quei tempi, chiamarle “giovanili” in quanto ci giocavano ragazzi di quattordici a fianco di giovanotti di ventuno!) ed era vissuta sulla passione di un gruppo di volenterosi in cui spiccava un certo Giovanni Necco, detto anche Nekita, uno dei tanti Necco, dei vari Gribaudo, dei molti Pampione che affolleranno la contrada. Giovanni Necco con il fratello Francesco, Cichin, e con, ovviamente, alcuni altri appassionati, praticamente rifondarono la società che negli anni della guerra aveva completamente smesso di mandare in campo le sue vecchie squadre. Vestirono i soliti colori rossoblu e continuarono a chiamarla “Unione Sportiva Barca”, proprio come si chiamava il rione, anzi la “Regione Barca”, tanto per darvi un’idea di cosa fossero le periferie di Torino. Alla riunione della rifondazione, come ci racconta Renato Tavella in un suo saggio, “erano presenti i signori Raviola, Pellegrino, Beccuti, Agostini, Bosco, Vittonetto, Monticone, Boffa, Necco (vari!), Defilippi, Coda, Mazzucchetti, Milone, Taricco, Nicco, Scarafiotti, Rocchia, Benedetto del Vascello, Boero, Pairotti, Brino, Minozzi, Fiore, Matta, Miccoli, Ceresero, Ciocchetti, Vaschetto e Scapino”. Una marea di gente per una sola squadra e per un piccolo campo, proprio dietro alla parrocchia di via Damiano Chiesa. Ma già nel 1946 le cose cominciarono a farsi

116 notevoli. Dapprima si trovò una nuova sede sociale che, anno dopo anno, cambiò varie volte ma sempre nella “Regione”, quindi venne individuato anche il campo, il leggendario campo su un terreno di via Centallo messo a disposizione dalla famiglia Rosso, che si mantenne tale sino al 2004 quando la società dovette fare le valige e unirsi ad un altro club. Ma questa è storia del poi, ora andiamo a quei primi passi del dopoguerra. E l’inaugurazione del nuovo impianto, con la solita corda a dividere giocatori e pubblico, avvenne in pompa magna con tanto di fascia tricolore e inno nazionale. Alla partita iniziale venne chiamato il vicino di casa, il “Bertolla”, che rifilò quattro pere ai rossoblu ma si… giocò la partecipazione alla prima edizione della “Coppa Primavera” di due anni dopo. Pochi mesi, comunque, ed era già ora di crisi in quanto i principali finanziatori, un certo Raviola e un certo Beccuti, lasciarono il club: in tutti i sensi! In “braghe di tela” per la mancanza di soldini e con molta confusione per il futuro che non si proponeva roseo. Ancora una volta ci pensò il Nekita, Giovanni Necco, che prese al balzo una conoscenza, fattasi nel frattempo amicizia, e cooptò Gino Brusasco, in quel momento in odore di maglia granata del Torino, e lo convinse a diventare il presidente del Barca. Fu una vera svolta sportiva. Grandi idee, promozione per i giovani del borgo, e, subito dopo, l’istituzione di un torneo che per qualche decina di edizioni sarà una vetrina per gli amatori del calcio spettacolo, la “Coppa Primavera”. In quella prima edizione, in cui la società era diventata con l’arrivo di Brusasco “Unione Sportiva Barcanova”, vennero invitate società dal nome strano, o, comunque, affini alla politica, all’industria o, forse, alla storia. Parteciparono, state a leggere, squadre come il G. S. Unità, probabili dipendenti del giornale comunista, U. S. Snia, dopolavoristi dell’importante industria tessile, A. C. Pelnova, forse un’azienda di pellami, G. S. Pietro Micca (?) e poi le rinomate U. S. Volpianese, la vicina G. S. Parcosparta, un A. C. Amatori e il Barcanova stesso. E’ gustoso annotare, e statene certi che è un segno di considerazione per il Barcanova, che il Comitato d’Onore era formato da gente come Giglio Panza, direttore di Paese Sportivo (da non confondere con Piemonte Sportivo che nascerà un decennio dopo), Giuseppe Vernate e Francesco Berta, del Cenisia ma anche in FIGC, Domenico Accossato, il grande, consentitemi, Domenico Accossato scomparso poco tempo fa, Maggiorino Allasia, titolare del bar “Maggiorino” di

117 via S. Francesco d’Assisi, vero covo per tutti, e dico proprio tutti gli sportivi che “contavano” in città, Domenico Giari, dell’AIA regionale, Antonio De Filippi, titolare del ristorante omonimo e punto di ristoro per “quelli della Barca che avevano fame di cose buone”, come diceva una sua pubblicità e molti altri che sono anonimi, oggi, soltanto perché il tempo mi ha fregato e non ne ricordo più le sembianze. L’anno dopo ancora la “Coppa Primavera”, questa volta con la partecipazione di squadre come il Milan (che vinse), come l’Aurora di Mondovì, la Sampdoria di Genova, il Ciriè che veleggiava in Serie C, ma il fatto eclatante fu una delle tante esondazioni della Stura che, quella volta, sommerse il campo di via Centallo sotto trenta centimetri di fango. Cosa fare? Manco un minimo dubbio, Accossato, Benedetto, Pampione (Michele), Cichin Necco, Bosco, Gribaudo (Giovanni) e, ovviamente, tutti i loro colleghi si rimboccarono le maniche e a forza di pale e carriole portarono via il fango e, con quella “scusa”, costruirono anche una bella rete di recinzione interna che dividesse gli atleti dagli spettatori: il campo del “Barca” era più bello di prima, molto più bello di prima! Sono di quelle stagioni le visite di Ferruccio Novo, indimenticato presidente del “Grande Torino”, di , il Commissario Tecnico dei due titoli mondiali vinti e dell’oro olimpico del ’36, di Carlo Bergoglio, il famoso Carlin di Tuttosport al campo di via Centallo e non erano visite di curiosità perché lì, in quel rettangolo di gioco, andavano in scena alcuni dei più bei spettacoli di calcio giovanile e dilettantistico che si ricordi. Dopo quelle intense annate anche Gino Brusasco non vuole più avere grossi pesi sulle spalle e propone alla presidenza Aldo Ferrari, un commerciante del centro città che, tuttavia, dopo una sola stagione lascia il bastone di comando a Lorenzo Curtino, con un consigliere che sarà uno delle colonne portanti del club, quel Paolo Gribaudo, diventato a sua volta presidente in due diverse occasioni. Come succede a tante realtà sportive dilettantistiche, comunque, arrivano anche i periodi grigi in cui pare che niente possa porre rimedio a squadre senza mordente, a risultati bislacchi, ad “aridità” di cassa. Si decide, anche, di sospendere la Coppa Primavera in attesa di tempi migliori e si naviga a vista, in attesa di qualche approdo consistente. Verso la fine degli anni cinquanta, pare di essere arrivati nel porto giusto. Si propone un certo signor Deorsola, un commerciante all’ingrosso che, tuttavia, oltre alla presidenza, pretende, in considerazione dell’aiuto economico che fornisce, anche

118 il cambio della denominazione sociale: è la volta dell’Unione Sportiva Deorsola-Barca. Ma non è finita, perché Deorsola cambia pure i colori sociali che diventano giallo canarino. Pazienza, dicono i “vecchi”, basta riemergere. Ed infatti nei tre campionati, Prima Divisione, Ragazzi e Giovanissimi, a cui partecipa il “Deorsola-Barca” non si otterranno cose stratosferiche, ma un qualcosa di decoroso consente di affermare che la strada giusta per rinverdire i fasti è questa. Sbagliato. Dodici mesi dopo il suo ingresso in società, Deorsola e la sua ditta si tirano fuori e al Barcanova è come prima, anzi, peggio di prima. Ci si rivolge, ancora una volta, ai soliti noti che hanno sempre “tirato il gruppo”, a quelli del borgo, di una “Regione Barca” che sa fare da sé. E presidente viene nominato quel gran signore che risponde al nome di Paolo Gribaudo, uno che tutti alla Barca conoscono ed apprezzano. Vice sono nominati Carreggio e Audenino. “Era ora”, dicono alcuni, ma si sbagliano. Gribaudo e l’amico Galuppi, con il quale si è misurato in tanti anni di avventure sportive, intendono riprendersi alla grande. Mettono insieme un bel gruppo di boys, gente del calibro di Sibilla, Pasquino, Scarafiotti, Paporello, Bo, Beltrame, Gariglio, Canetti, Della Casa, Saladini e Fenzi, che quasi andavano a vincere in Prima Divisione, ma è l’intero gruppo delle squadre che non va oltre ad un decoroso risultato generale. Inoltre anche Gribaudo va a capitare in un momento di grande lavoro per la sua azienda e, seppure a malincuore, lascia. Starà sempre al fianco del sodalizio, ma non può permettersi il bastone di comando che pretende tempo, tempo e ancora tempo a disposizione. Arriva Mario Ghiradello alla presidenza, ma sono i momenti che la “parrocchia” non passa granché e pur con un direttivo di qualità, i risultati sportivi latitano. Sono, comunque, della partita, con Ghirardello, i fedeli Audenino, Careggio, Lana, Giovanni Nicco, Galuppi e molti altri, mentre fa la sua prima apparizione nei “quadri” Gioacchino Cascione, il siciliano della Barca che si ostina a parlare piemontese e non ne azzecca una giusta: lo si vedrà per i seguenti quarant’anni al botteghino di via Centallo e lo si apprezzerà per la sua dedizione alla causa. Anche questa volta non centra il “bollettino del maresciallo Diaz”, ma rende bene l’idea. Come si sarà potuto notare, è un banale tran-tran che la società assorbe ma non digerisce. Non digerisce al punto che verso metà anni sessanta, entra di nuovo in crisi. Come ho scritto miliardi di volte e me

119 ne scuso per la ripetizione, sono i cicli negativi delle società dilettantistiche, cui manco il “Barca” si sottrae. Ma proprio nel mezzo del guado, quando non si sa se è meglio un passo avanti o due indietro, si fa vedere una persona che cambierà totalmente, ma proprio da cima a fondo, le sorti del club: arriva Angelo Pampione. Detta così, parrebbe la solita solfa, ma è meglio andare a leggersi qualche cosa di dettagliato e poi sparare giudizi. Pampione era rossoblu da sempre, era nato nella “regione”, aveva gli amici quasi tutti lì, ma non si era ancora inserito nella società perché il lavoro lo portava, sempre, in giro per l’Italia. Addirittura abitava a Varese con tutta la famiglia. Tuttavia, quando qualcuno gli raccontò che le cose, al “Barcanova”, stavano precipitando, che non esisteva manco il classico lesso di carducciana memoria, che, come scrive Tavella su Pampione, “non avevano manco l’undicesimo giocatore da mandare in campo”, Angelo ne parlò in casa e in accordo con la signora Elda, la moglie, decise di dare una mano alla “sportiva” della sua terra. Sapevano, i Pampione, che stavano ormai per ritornare a Torino, che i progetti di lavoro si erano trasformati in modo tale da pensare, anche, ad un impegno con i rossoblu. E così successe, a metà del 1962 accettò la presidenza e, come ho scritto altrove, “partì il treno rossoblu che, finora, non si è mai fermato”. In quel momento il direttivo della società era formato da Paolo Gribaudo e Valerio Gallocchio alla vice presidenza, dai consiglieri Carreggio, Racca, De Maria, Cascione, Lelli, Cardinale, Milone, Viano, Carli, i fratelli Galuppi, Croveri, Gambero, Battista Gallocchio, Grasso, Torre e Rosso. Per la direzione tecnica si era ancora una volta chiamato il Nekita, con Bo, Paschero e Scarafiotti a dargli una mano. Gran bel gruppo, in numeri e qualità per chi conosce o ha conosciuto questa gente. Che fossero tornati i tempi dell’era Brusasco lo si era notato subito in quel settembre quando venne istituito il NAGC alla “Barca”, uno dei primi dopo quelli del “Baci”, del Toro e della Juve e dal ritorno, nella Pasqua che precedette l’insediamento di Pampione di cui ormai si conosceva il suo arrivo, della “Coppa Primavera”. Fu indubbiamente l’anno della spinta, ma fatta con pazienza, con forza, sì, ma dosata per non ottenere scossoni debilitanti. Pampione si dimostra grande in ogni occasione, sia organizzativa, tecnica o anche solo comportamentale. Dopo una brevissima parentesi

120 in cui deve obbligatoriamente assentarsi torna sul ponte di comando per portare in società allenatori di valore come Marchiò, Selva, Cavallo e, soprattutto, riesce ad accaparrarsi Leo Polchini che così bene ha fatto e stava facendo allo “Spartanova”. Polchini, come oggidì avviene quasi sempre, si porta appresso un gruppo di giocatori rossoneri, Masetto, Moderiano, Valentino Carbone, Camposeo e non avviene una rottura tra Enria e Pampione stesso, soltanto perché il presidente “barcanovino” trova un accordo con lo “Sparta” come saprà fare, sempre, con tutte le società con le quali avrà da collaborare. Nasce in quei giorni la nomea, meritata, di un Pampione vero signore, intenditore di calcio e di calciatori, organizzatore dalla mano ferrea ma, comunque comprensiva. In quella prima formazione allenata da Polchini, venivano schierati i fratelli Tagliarino, Sartore, Trombini, capitano e attuale direttore sportivo della società, Vigna, Tavella, Carli e i quattro appena sopra citati: una formazione di quelle “storiche” per il club di via Centallo. Poco dopo è giunta l’ora dei festeggiamenti. Il Barcanova ha compiuto cinquant’anni e in quel 1970 anche la “Coppa Primavera” si rifà il trucco con partecipazioni di lusso. Ne scrive, sulle pagine di “La Stampa”, anche Giovanni Arpino, un mito piemontese per la cultura e per lo sport, che Tavella riporta nel suo saggio: “Viviamo in tempi di strambe kermesse, sia che ci si dondoli sui trattori motocrossistici, sia che si assista, in ogni angolo del mondo, ad ogni tipo di cantagiro, mille chilometri, carreras, seigiorni, circuiti, festivals del motore e dello scontro. Il Grande Barnum parasportivo ha un suo calendario clamoroso ed allettante. Ma le manifestazioni autentiche, dove non c’è trucco, dove il gesto atletico non è mai da confondersi con la recita e l’esibizionismo fine a se stesso, sono piuttosto rare. La Coppa Primavera è tra queste: coerente, specifica, sobria fino all’osso. Chi non sa di calcio non può fiutarne il clima”. E in questo tipo di clima, appare come allenatore un certo Tito Beltrame che, smessi i panni del giocatore barcanovino, si dimostrerà un “mister” con i fiocchi, salvo, nelle ultime stagioni del secondo millennio riciclarsi come dirigente federale e venire apprezzato anche in quella veste. Silvio Scarafiotti è sempre con i più piccini ad insegnare calcio, ma a sorprendere è ancora il Nekita, al secolo Giovanni Necco, a cui viene confermato il compito di direttore tecnico. Con Pampione presidente, Brusasco presidente onorario, ci sono i “soliti” Paolo Gribaudo, Nicodemo Boscolo, i fratelli Gallocchio e la solita schiera numerosa di amici fidati.

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Ma Pampione, come in quella storiella che racconta “dell’occhio del padrone che ingrassa il cavallo”, vede lungo, lontano lontano ed ha capito che non basta fare una telefonata da casa o dall’ufficio a quel tal dirigente o a quel tal allenatore, per far funzionare al meglio le cose, Pampione si impegna in prima persona e mentre delega ad altri, forse al figlio Mimmo che sta crescendo bene, le questioni di lavoro personali, al campo del “Barca” è sempre presente. Tutti i giorni, sette giorni su sette. I risultati si vedono presto. Titoli regionali con le varie squadre giovanili, gli Juniores, per esempio, nel 1976, oppure gli Allievi nel 1977, collaborazioni importanti con Torino e Juventus dalle quali ottiene dei prestiti di valore, adatti a rinforzare le squadre ma anche ad attirare le nuove leve che a Torino e dintorni sanno ormai dove porre l’occhio: insomma se negli anni cinquanta, a Torino, era svettato il “Cenisia”, negli anni sessanta lo “Spartanova”, adesso e per un bel po’ sarà il turno del “Barcanova”. Ovvio che altri club affilino gli artigli, vedi il “Beinasco” di Bitossi e Ronco, ma se parliamo della sola Torino la classifica è quella che vi ho descritto. Negli anni susseguenti, sono sempre i successi eclatanti a far sorridere la dirigenza rossoblu e dieci vittorie consecutive in quel premio chiamato “Oscar”, una sorta di classifica tra le migliori società della provincia, ideata dagli amici Frassinelli e Sburlati con un punteggio del tutto particolare che somma i valori di tutte le squadre di ciascuna società iscritta in FIGC, non sono solo “caramelle”; come anche l’aver vinto il “SuperOscar”, torneo pre campionato di elite, per sette volte dal 1981 al 2000 ed essersi ripetuta nel 2002 con la nuova denominazione di “BarcanovaSalus” va considerato alla stregua di un successo eclatante. All’epoca di Pampione arrivano pezzi da novanta, come Ercole Rabitti nel 1984, a dirigere il settore tecnico al posto del Nekita che va a godersi un meritato riposo e alcuni giocatori, ceduti alle squadre professionistiche, raggiungono vette di rilievo: Padovano, Contratto, Gatti e Cappellino per citarne alcuni. Dopo tutto questo palmares, dopo aver ottenuto posizioni di prestigio, proprio mentre si è all’apice del calcio giovanile piemontese, in un freddo pomeriggio di febbraio del 1986, si sparge la notizia che è mancato Angelo Pampione. Non è che Pampione fosse ammalato, che avesse nascosto un male incurabile o altre diavolerie simili, macché, una banale, maledetta caduta sul terreno ghiacciato del suo piccolo stadio di via Centallo, proprio davanti agli spogliatoi e avvenuta una decina di giorni

122 addietro, gli aveva creato delle gravi complicazioni respiratorie, forse la frattura di qualche costola, tali da togliergli la vita. Non è solo il “Barcanova” in lutto, lo è tutto il mondo sportivo cittadino, quello delle istituzioni, della stampa, dei media. Le parole che seguono non vogliono essere una sorta di incensatura, men che meno l'agiografia di un personaggio del calcio giovanile che ha segnato (e come li ha segnati!) gli anni in cui è vissuto. Non vogliono esserlo perché Angelo Pampione, modesto e schivo, non lo avrebbe desiderato. Sappiamo anche che mi bacchetterebbe per queste poche righe che sto scrivendo, perché il mitico, grande Presidente del Barcanova proprio non aveva mai voglia di "apparire". Era uno che faceva, non uno che diceva che si sarebbe dovuto fare. Era un uomo dall'intelligenza fina, che soltanto i veri signori, nella vita come nello sport, non ti facevano mai pesare, non ti si "opponevano", non ti pre- varicavano. Mai. E' facile cadere nel patetico quando si tratteggia qualcuno che non c'è più, quando si tenta di descriverne il buon carattere con poche righe, ma se anche riterrete di intravedere sembianze deformi, vi pregherei di passare oltre: è tutto vero! Negli anni della sua vita sportiva, e parlo solo di sport, Pampione si impose. Nei consessi, nelle frequenti riunioni con altri colleghi delle società torinesi consorelle che mai si stancava di promuovere per valutare miglioramenti, per significare appoggi aggregativi, la sua leggera parlata cispadana, il suo pacato interloquire, i suoi interventi sempre mirati erano divenuti una costante. Mai che alzasse la voce, mai che si accalorasse, era convincente comunque. Un giorno, durante una visita al “suo” campo, mi disse: "Sa caro amico -non siamo mai riusciti a darci del tu, come, d’altronde, avveniva tra le persone di una certa stagione della vita – qual’ è una delle mie più grandi soddisfazioni? Ricevere la telefonata, a volte ogni settimana, a volte una volta il mese, dei miei ex giocatori che sono passati a grandi mete. Mi basta, mi riempie di tenerezza e mi fa considerare che, forse, ho lavorato bene". Si riferiva, per esempio, a Contratto che dalla Fiorentina o dalla Nazionale gli telefonava ogni domenica mattina, perché era certo di trovarlo al campo, per salutarlo, semplicemente per salutarlo. Questo era un uomo per bene. Dice Renato Tavella, lo scrittore che cito sovente perché oltre ad essere stato un giocatore rossoblu è stato anche il biografo della società, nel suo solito saggio: “La figura di Angiolino era già mitica

123 quand’era in vita, ora che non c’è più è leggenda. E sostituire una leggenda è impossibile”. Parrebbe, ma i “soliti noti della Regione” hanno saputo andare a lezione in quegl’anni dalla persona giusta e quindi torna ancora una volta Paolo Gribaudo a prendere le briglie del club. Con lui c’è anche Mimmo Pampione, il figlio del presidente, ed ha tempo da vendere, ormai, anche Domenico Accossato che, in pensione, si rende disponibile a continuare l’opera con maggiore lena di prima, se necessita. E necessita proprio per non rompere… il filo, per proseguire con lo stesso entusiasmo, anche se acciaccati nel morale. Ecco allora arrivare un titolo regionale nella categoria Giovanissimi, è il 1990, ecco che la Coppa Primavera raggiunge la sua ventottesima edizione e la finale, allo Stadio Comunale, si disputa davanti a ventimila spettatori. Quel decennio, quindi, si chiude con buoni risultati tecnici per il “Barcanova”, mentre in giro per il globo è la solita tiritera di guai.

Nel 1983, il 13 febbraio dell’83, si scatena l’inferno nel cinema Statuto di via Cibrario a Torino. Dapprima viene data la notizia che un incendio si è sviluppato nel cinema, ma non si accenna a feriti o a morti. Uno pensa, danno un film mediocre, “La capra”, ci sarà stata poca gente. Ma è domenica, una domenica pomeriggio e in sala sono in tanti, come in tutti i cinema cittadini di quelle giornate festive. Poi si sparge la voce che ci sono già cinque o sei vittime ed allora in molti sono a chiedersi dove possa essere la propria figlia o quel nonno col nipotino. La frenesia per la paura monta, sono in tanti che non avendo notizie dei propri familiari si avvicinano alla sala. E’ un disastro di proporzioni enormi, la più grande tragedia dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale: i morti saranno 64! Fra loro anche due bambini, Andrea di undici anni e Giuseppina di sette. Questo bilancio, comunque, arriva soltanto più tardi, al momento c’è la “liquefazione”, letteralmente, dell’intera sala e di un garage situato a fianco. Raccolgo da “La Stampa” una scarna cronaca fatta in occasione di una ricorrenza: “La storia del rogo allo Statuto è presto raccontata. Ore 18,10 scoppia l’incendio, le uscite di sicurezza sono chiuse, i materiali sono sbagliati, i gas che si sviluppano uccidono quasi all’istante, un gruppo fugge nei bagni e muore lì, uno sopra l’altro, pochi riescono a uscire. E’ accaduto allo Statuto, poteva accadere in decine di altri luoghi”.

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Ad una notizia devastante, una forse triste ma, comunque, quasi doverosa. Nel 1985 lo zoo di corso Casale chiude. Non più giraffe e manco un ippopotamo a risvegliare la meraviglia dei bambini torinesi. Non più quella giraffa che aveva leccato la faccia alla bambina del portinaio di via Alfieri con una lingua “lunga un metro” ed era scappata via gridando, non più quell’ippopotamo che mentre usciva dal suo riparo e si immetteva nello spazio all’aperto del proprio recinto, sgaghizzava a ripetizione irrorando quattro o cinque persone che si erano avvicinate un po’ troppo al cordolo di protezione. Comunque è stata una decisione giusta, perché in tal modo si sono sistemate tutte le bestie in cattività dentro a parchi meglio attrezzati in giro per la penisola. Peccato per i più giovani che, se non saranno fortunati da potersi permettere un safari in Africa, dovranno accontentarsi d’ora in poi di qualche filmato del National Geographic per vedere come è fatto un licaone o un bradipo tridattilo. L’anno dopo, invece, lo spettro di Hiroshina cade sulle nostre teste. Nell’Unione Sovietica, in quella regione chiamata Ucraina (lo stato nazionale è ancora di là da venire), a non molti chilometri da Kiev, esiste una cittadina dal nome assolutamente sconosciuto, credo, anche ai connazionali russi: Cernobyl! Impareremo a pronunciarlo subito perché nella mattina del 26 aprile di quel 1986 esplode un reattore della locale centrale elettronucleare, provocando la fusione del nocciolo e la fuoriuscita di una ingente quantità di materiale radioattivo. Come, un di poi, ci è stato spiegato un’infinità di volte non c’è alcuna possibilità di intervenire per mettere in sicurezza la falla che è enorme e gravissima; l’uomo, per quante protezioni si metta addosso, se interviene o si avvicina in quei primi momenti è condannato ad una morte sicura. Ed allora quegli elicotteristi, quei tecnici, quegli operai che, per primi, tentarono di raffreddare il reattore o che gettarono le prime tonnellate di sabbia sulla costruzione vanno considerati dei grandissimi eroi, anche se nessuno (ed erano in molti a sapere!) aveva detto loro che sarebbero andati incontro a morte certa, come poi è avvenuto realmente. Nessuno di quei ragazzi, nessuno di quegli eroi sono sopravissuti. Quando le autorità sovietiche si decidono ad informare la propria popolazione, le autorità sanitarie delle nazioni confinanti e l’intera Europa, il tempo trascorso è notevole ed i danni arrecati saranno enormi. Dopo quattro giorni, quattro lunghi maledetti giorni, vengono evacuate oltre centocinquantamila persone abitanti nei dintorni di Cernobyl, ma la nube radioattiva che si è formata sopra alla centrale

125 diventa impressionante con, è stato calcolato dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità, 10 mSv (millisievert), e per favore non chiedetemi cosa siano i millisievert. A causa dei venti contrari che in quei giorni spirano da est, la paura attanaglia gli ucraini, i bielorussi che sono i più vicini alla centrale esplosa, ma anche i polacchi, gli ungheresi e i romeni che confinano direttamente. In Italia, come altrove, viene consigliato di lavare qualsiasi ortaggio o frutto che si compera e di lavarlo assolutamente bene. Subentra, come logico e naturale, una psicosi da “nucleare” che farà sorgere un movimento in tutta la penisola, i “verdi”, abilitati, d’ora in poi, a dire tutte le sciocchezze possibili ed immaginabili per tirare l’acqua al proprio mulino politico e contribuiranno, con un referendum apposito, ad annullare la costruzione di qualsiasi altra centrale elettronucleare nel nostro paese e a bloccare l’attività di quelle esistenti. Risultato? Abbiamo due centrali di enorme potenza in Francia a pochi chilometri da Torino, altrettante in Slovenia, vicino a Trieste, e se qualcuna di queste dovesse esplodere o avere dei guasti, il nord e il centro Italia sarebbe nelle stesse condizioni dell’Ucraina e della Bielorussia del 1986: con una bella differenza, però. Primo, non saranno centrali nostre e per le responsabilità potremo attaccarci… al tram. Secondo, le centrali straniere cui ho accennato sono costruite, tutte, con dei sistemi modernissimi di sicurezza. Terzo, le nostre non funzionano più ma costano un’iradiddio per la sola manutenzione e stoccaggio delle barre d’uranio. Quarto, siamo costretti a comperare energia elettrica dai paesi confinanti. Quinto, visti i costi attuali del petrolio e la misera consistenza delle energie alternative (vento, sole, mare) qualche centrale nucleare ben costruita ci metterebbe al sicuro per diversi decenni. Sesto, ad avvalorare questa tesi sta la certezza che se Cernobyl e altre centrali russe non fossero state costruite con quella pochezza di tecnologia e con una minima serie di accorgimenti di sicurezza in più (ma ai russi mancavano i rubli necessari!), non ci sarebbe stato alcun guasto e alcuna paura susseguente. Settimo e ultimo, è bello, bellissimo ricevere in vacanza nelle nostre case al mare, come in quaranta nazioni nel mondo, qualche centinaio di bambini orfani ucraini e bielorussi, ma cosa hanno a che fare con Cernobyl questi bambini che se fossero nati in quel momento avrebbero di già vent’anni, mentre la mortalità è scomparsa, come dice sempre l’OMS, dall’anno dopo l’esplosione della centrale? Chiedetevelo, chiedete lumi a qualche sapientone.

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In mezzo ai soliti affanni del mondo, e la storia, statene certi, ogni tanto si ripete in un modo o nell’altro, il Barcanova viveva molto decorosamente il dopo Pampione. Gribaudo, comunque, non era il solo degli “antichi”, in quanto la mancanza di Pampione aveva cementato il gruppo e quindi restavano sempre i Giorgio Lovato, i Piergiorgio Trombini, i Giancarlo Borghetto, gente destinata a dirigere squadre o a dirigere settori tecnici. E poi Alberto Sarto, con il già citato Antonio Marrocu e sua moglie Anna a dividersi la segreteria, l’intramontabile Gioacchino Cascione ed entravano in quella che sarebbe stata una nuova fetta di storia sportiva Francesco Zanghi, Enrico Ruffino, tanto per rinverdire il blasone che era stato dei Polchini o dei Rabitti. Intanto nel 1990 aveva lasciato la presidenza Paolo Gribaudo ed era arrivato un personaggio noto a livello nazionale per la “potenza” della famiglia, Gianmario Gabetti, proprietario, tra l’altro, della “Pallacanestro Philips Milano” che, tuttavia, oberato dai molti impegni, lascerà dopo non molte stagioni e gli subentrerà Jose Parrella, un alto dirigente amministrativo ospedaliero che si affaccia al calcio giovanile e dilettantistico e che guiderà la società per tutti quegli anni che mancano alla fusione con il “Salus” di Enzo Panzeri. Nelle stagioni che portano al duemila, altri titoli di prestigio si aggiungono in casa rossoblu, come, per esempio, la vittoria nel torneo “Caduti di Superga” del 1994, 1995, 1996 e, soprattutto, il primo posto nel “Tappari”, manifestazione di alto prestigio organizzata dal “Lucento”, del ’95 e del ’96, rifilando un pesante cappotto alle squadre professionistiche, cosa mai accaduta prima e manco dopo, per una società dilettantistica. Ma la grossa soddisfazione, nel nugolo dei titoli regionali conquistati, avuta dai ragazzi della classe 1984, si può considerare unica per la progressione ottenuta. Nel 1998 la squadra composta dai vari Menso, Proietti, Sinisi, Sarcinelli, Tomatis, Rosso, Spina, Trivieri, Invito, Vianello, Todisco, Falciani, Vailatti, Tolo, Massena, Beltramo, Simonetti, Bernardo e Prinzivalli e guidata da Ruffino, va a vincere il titolo di campione regionale Giovanissimi. L’anno dopo, nella categoria MiniAllievi con allenatore Massimo Gardano, si classificano al primo posto nel “torneo” regionale e, dulcis in fundo, nel 2000 sono ancora campioni regionali tra gli Allievi, guidati da Giorgio Lovato. La corsa per il titolo nazionale non ha buon esito, ma se fate caso alle sequenze e all’annata interessata, è indubbiamente una “stagione” da vivere con il fiatone per stare dietro a quei ragazzi formidabili, a quei

127 allenatori, a quella dirigenza che ha consentito la formazione del gruppo molto vincente. Come mi ha detto recentemente Carlo Clovis che, se qualcuno non si scandalizzasse, aggiungerei insieme a Winston, il suo bellissimo e inseparabile cane: “Ce ne siamo tolte delle soddisfazioni in questi anni, ma, dopo averci fatto il callo, è di nuovo ora dei traguardi più ambiti che la nuova presidenza si è data come obiettivo principale”. Non è ancora ora, comunque, di pensare al futuro immediato, perché nel 2002 avviene un episodio che si dimostrerà ancora una volta azzeccato ma che, tuttavia, farà da spartiacque nel modo di concepire la “società del borgo”, della regione. Avviene la fusione tra il Barcanova ed una società amica, nata in Borgo Vittoria ma con l’attività calcistica nei campi della Barriera di Milano, proprio a ridosso di quel ponte che da ottantadue anni segna il confine tra “noi e gli altri”, come diceva, ogni tanto, Domenico Accossato: è l’Unione Sportiva “Salus” del presidente Panzeri e la nuova società si chiamerà Unione Sportiva Dilettantistica “BarcanovaSalus”. Molti sono i motivi che inducono quel tale sodalizio calcistico o quella polisportiva ad unirsi, a fondersi con analoghe realtà del vicinato o meno; ne sono accadute di tutti i generi, specialmente negli ultimi vent’anni, da quando, cioè, le spese per la sopravvivenza dei club sportivi sono diventate sovente insostenibili o, comunque, molto, ma molto pesanti da sopportare. Ma al Barcanova, mi pare di capire, così come al Salus, non era una questione di soli denari, si voleva unire le forze per aumentare la potenzialità, per elevare il tasso tecnico di qualche squadra e, da parte Salus, la necessità di essere più competitivi non era un fattore secondario. Inoltre al Barcanova stava per accadere una cosa che non era mai stata prevista e che, pur essendone a conoscenza da alcuni anni, non si era mai posto rimedio: l’area su cui sorgeva l’impianto di via Centallo doveva essere venduta per inderogabili necessità dei proprietari, gli eredi della famiglia Rosso che, nel 1946, aveva dato in concessione il terreno al Barcanova. Una bella mazzata che, in ogni modo, pare sia stata gestita non molto bene e di cui, mi è stato detto in modo non molto intelligibile forse per non rimestare troppo il coltello nella piaga, si sarebbe potuto avere un altro esito. Non ho la possibilità di essere chiaro in questa polemica, ma certo che pur nella signorilità delle espressioni, qualcuno non ha mai digerito bene lo svolgimento della trattativa, se trattativa c’è stata.

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A conti fatti il “Barca” si è trovato con i soli campetti di via Occimiano, sempre alla Barca ma spostati verso nord est, di proprietà comunale e usati da qualche tempo per gli allenamenti, ma era ovvio che non sarebbero stati né sufficienti né adatti ad ospitare tutte le squadre, dalla Prima Categoria alla Scuola Calcio. I due direttivi, allora, cominciarono ad incontrarsi nel 2001 e conclusero la fusione decidendo subito la nuova denominazione sociale e stabilendo i campi da gioco a disposizione. Si poteva avere quello di via Casteldelfino angolo corso Grosseto, proprietà Michelin (poi abbandonato), quello di via Sempione che, aveva promesso il Comune, stava per essere trasformato in “sintetico”, e i due campetti di via Occimiano: non era un tutt’uno ma, per lo meno, era abbondante. I due presidenti, Parrella del “Barca” e Panzeri del “Salus”, lasciarono il posto a Paolo Ardissone e loro vennero nominati vicepresidenti con un consiglio di gran peso ed un numero di squadre impressionante. Che fosse un “incontro” ben fatto, lo si vide immediatamente perché nel 2002 la nuova società riuscì a vincere il “SuperOscar”, il torneo precampionato tra i migliori club della provincia. Ma nelle realtà sportive dilettantistiche, non si dovrebbe mai “dormire”, mai pensare che tutto è a posto, che non rimane altro che stare a guardare quanto sono bravi, belli e buoni i nostri ragazzi. Mai. A metà luglio del 2004, quando uno che non è proprio un ragazzo e non frequenta movida di sorta, se ne sta sul terrazzo di casa a godersi quei soffi di aria fresca che, all’una di notte, danno un certo sollievo, proprio in quel momento riceve una telefonata. Non può essere suo figlio che ha chiamato da New York pochi minuti prima, e nemmeno qualche amico che vuole invitarlo ai Murazzi, quando mai! A Gilberto Andreotti, perché è di lui che parlo, quasi gli girano quando va a prendere il cordles per rispondere. Mi pare di vedere la scena (come me l’ha raccontata un comune amico), con un Andreotti scontroso e la faccia tosta di chi chiama. E’ il “Barca”, anzi è il “BarcanovaSalus”, materializzatosi in qualcuno che forse sarà stato Sarto e forse no a chiamare e chiede se ci possa essere un colloquio urgente, in quanto il direttivo che si sta svolgendo in quelle ore, non cava un ragno dal buco dopo le dimissioni di Ardissone. Due parole per comprendere come stanno realmente le cose e poi appuntamento per il giorno dopo. E il giorno dopo Andreotti accetta la presidenza, con il sottinteso principio che d’ora in poi sarà lui a dettare le linee guida, pur con l’aiuto di tutti e, in special modo, di Enzo Panzeri.

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Gilberto Andreotti è stato giocatore nelle giovanili del Barcanova per poi passare al Torino e allo Spartanova degli anni sessanta. Ha poi proseguito con una buona carriera tra i semi professionisti, dimostrando, sempre, quel carattere di merda come giocatore e un carattere eccezionale, semplice e generoso, come uomo e imprenditore. A proposito del carattere di Andreotti, che è uno, come molti dei suo predecessori, della Regione, e che del Barca è stato socio sostenitore per tantissimo tempo, circola una curiosa storiella di quando giocava nello Spartanova. In una gara di un torneo giovanile in Belgio, categoria juniores, cui partecipava lo Spartanova dei primi anni sessanta, Andreotti, che aveva subito un fallo ma che aveva proseguito per quella, non scritta, regola del vantaggio, si era visto fermare dall’arbitro che, invece di usare il fischietto, gli aveva gridato di fermarsi, “mangiaspaghetti di un italiano”! A quelle parole, udite da buona parte dei giocatori, dai dirigenti e dal pubblico che si era messo a ridere, Andreotti aveva reagito urlando all’arbitro di chiedere scusa. Questi, invece, gli aveva riso in faccia e se n’era andato, proseguendo nel gioco. Gilberto non ci pensò due volte e mentre il direttore di gara era circondato da tutti i giocatori italiani e dall’allenatore, che era Polchini, gli arrivò alle spalle e gli rifilò una “carezza” alla nuca pelata. A quel gesto, indubbiamente scorretto ma effettuato in un momento di rabbia per l’insulto ricevuto, seguì una richiesta alla società di indicare chi era stato l’artefice della “carezza” che l’arbitro non aveva potuto vedere. I dirigenti dello Spartanova non avevano manco notato, in quel marasma, chi poteva essere stato e non fecero alcun nome. All’arrivo in Italia, la società si vide arrivare una lettera della nostra Federazione che, su indicazione dell’UEFA (a sua volta sollecitata dall’AIA belga), ingiungeva di comunicare il nome di quel tal giocatore che aveva dato il “buffetto” all’arbitro. Pur essendo venuta a conoscere, ovviamente, chi ne era stato l’artefice, il club di Enria non incolpò nessuno ed allora l’UEFA comminò un anno di allontanamento della società da qualsiasi manifestazione sportiva all’estero. Poco male in rapporto all’insulto ricevuto e, comunque, venne ricompensata da una lettera della società belga, organizzatrice del torneo a Charleroi, che chiedeva scusa per l’operato di quel certo arbitro ed invitava il club torinese alla prossima edizione possibile della manifestazione, come poi avvenne per cinque o sei altre volte. E Andreotti? Naturalmente non fece una piega, pur conscio del suo peccato veniale, e, comunque, quel suo sorriso

130 sornione che in tanti cominciavano a conoscere, si dispiegò sul suo viso come sarebbe successo nei seguenti quarant’anni. Il nuovo presidente del “Barca”, intanto, aveva subito pensato alla “casa” della società ed in tal senso aveva cominciato ad agire, preoccupandosi inoltre di rinforzare gli organici, tecnici e dirigenziali, con la venuta di Gino Giardina, di Mario Grigiante, di Mario Pasquino, di Guido Masetto, i suoi fidi che da anni frequenta e di cui conosce qualità… e difetti. Ma alle indubbie soddisfazioni con le squadre, non corrispondeva alcun progresso con il progetto edilizio che aveva presentato alla Circoscrizione e agli Assessorati competenti: Andreotti voleva donare un buona estensione di terreno, di sua proprietà, al Comune, se questo glie ne cedeva una fetta dieci volte minore da aggiungere ad altra già a disposizione in Regione Barca, su cui costruire il proprio, nuovo impianto sportivo. Sempre alla Barca, anzi quasi a Bertolla che, comunque, sono due rioni parenti molto stretti. Ma non se n’è fatto nulla, perché qualcuno, va a sapere con esattezza chi e se in Comune o in Circoscrizione, ha posto il veto. Ora il lavoro ai fianchi della dirigenza rossoblu non si è bloccata, perché una mezza rivoluzione urbanistica sui campi di via Occimiano è in atto su proposta della società che non ha digerito lo stop al progetto precedente ad opera del Comune. Su insistenza dell’Assessorato allo Sport, che costruirà un campo in erba sintetica, il “BarcanovaSalus” penserà a tutto il resto, spogliatoi nuovi, tribuna e recinzioni adatte, in modo tale che il quartiere, ormai ingranditosi notevolmente, possa ospitare, ancora per un bel po’, le partite dei ragazzi del Barcanova diventato anche Salus, ma rimasto e probabilmente per sempre, con le radici oltre il ponte della Stura. Come avrebbe voluto Brusasco, Accossato, Pampione ed i tanti appassionati che hanno messo un piede nella Regione Barca.

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Capitolo IX

Metti che una fiaba…

Pare impossibile supporre, immaginare che un dirigente d’azienda, un funzionario statale, un architetto, anche un semplice battilastra, tutta gente seriosa che, durante le ore canoniche della giornata lavorativa, al massimo ti degnano d’uno sguardo, en passant, si vestano con i panni dello… specchio magico, del cavaliere azzurro, dell’albero alla base del quale il cavallo del cavaliere azzurro è andato a fare pipì. Come si faccia, poi, a vestirsi da specchio magico o da albero, alla base del quale… etc, etc, mi risulta difficile pensarlo, specie se il concetto è rivolto a delle persone adulte, a dei padri di famiglia, a dei… sostegni morali della comunità. Il tutto parrebbe una barzelletta raccontata in qualche momento di relax, durante una sosta sotto il gazebo del campo “Ex Venchi Unica”, quello che gestisce la società Pozzomaina in via Monte Ortigara a Torino. Ed invece è tutto vero, è realmente successo, pur se un bel numero di anni addietro, quando, forse, la poesia dell’essere sovrastava quella dell’apparire e certe commedie o certe fiabe non erano realtà da preoccupare, ma stemperavano animi, coagulavano cervelli, aumentavano la certezza che, stare assieme, fosse proprio la cosa giusta da farsi. Ed allora, visto che voglio raccontarvi di certa gente che ha cominciato quasi sessanta anni fa a fare football, parto da circa metà strada, da quel “salone delle feste, concesso in uso gratuito nel 1988 da un sindacato che aveva sede via Frejus a Torino”. E parto da Ottavio Porta, perché il “regista” di tutta questa pochade, una vaudeville in tutti i sensi, è stato proprio il vulcanico presidente dell’attuale società grigia-rosso-blu. In quella stagione, ovvio che non era ancora avvenuta la fusione tra lo “Sport Club Pino Maina” e l’”Unione Sportiva PozzoStrada”, ma mi è parso gradevole iniziare a parlare di un palcoscenico, degli “attori” che ci stavano sopra e delle grasse, grosse risate che un bel numero di persone si erano fatte in quella occasione. Prima, comunque, qualche dato di fatto.

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Pozzo Strada, come tutti sanno, è il nome di un quartiere, antichissimo quartiere della città di Torino. E’ nella terza Circoscrizione ed ha come asse, se non primario almeno secondario, la via Bardonecchia che parte da corso Racconigi e finisce in corso Brunelleschi. In quella via che, pare, si chiamasse strada antica di Francia, esattamente mille anni prima e dico mille per dare una data fissa non un’approssimazione casuale, a fianco della chiesa della “Natività di Maria Vergine”, la più antica chiesa di Torino dopo quella della “Consolata”, e che sorge all’angolo dell’attuale via Marsigli, esisteva un pozzo dove, pare, il “ceco di Briancon”, così chiamato perché stava “scarpinando” da Torino verso la Savoia, bevendo l’acqua di quel pozzo riebbe la vista e, ovviamente, si gridò al miracolo. E’ sempre ovvio che questa è una storia tramandata dai nostri avi e con il rispetto che si deve sempre dare agli antichi, ci crediamo; la realtà rimane che per quel fatto miracoloso la borgata, il rione, la zona, chiamatela come volete, assunse il nome di Pozzo sulla Strada di Francia, da cui, per semplificare la vita un po’ a tutti, venne chiamata Pozzo Strada. La conseguenza di ciò, si fa per dire, quasi mille anni dopo, precisamente nel 1975, fu che si ebbe la nascita di una buona realtà sportiva che venne chiamata Unione Sportiva PozzoStrada, leggetelo tutto attaccato, mi raccomando. Primo presidente, un caro amico ridotto purtroppo a vegetare su un letto da qualche anno, fu Felice Assalto che non ci mise molto ad accaparrarsi gente in gamba e, comunque, che facesse progredire la società iscritta in quelle stagioni nel CSI con una sola squadra di amatori. Uno di questi fu Ottavio Porta, all’epoca impiegato all’Aeritalia, divenuta in seguito Alenia come, sempre in seguito, divenne un abile sindacalista anche Porta. Acquisito come allenatore Guido Calcatelli, come segretario Walter Pianca e qualche altro amico, per esempio Tiberio Baraldo e Giulio D’Amato a fare da supporto, Calcatelli e Porta iniziarono una sorta di scuola calcio nelle palestre della borgata, perché il campo diurno da usare manco se lo sognavano. Nel 1980, finalmente, oltre ad avere uno spazio pseudo erboso a disposizione, i due ottennero anche la disponibilità pomeridiana di qualche allenatore e così diedero inizio alla loro corsa… se non verso il milione, come dice una attuale pubblicità televisiva, almeno alle alte sfere del calcio giovanile. Per i dilettanti c’era ancora tempo. In questi anni si formarono diverse squadre di buon livello ed un gruppo si farà particolarmente ricordare per la grande amicizia che molti di quei ragazzi hanno mantenuto per la loro vita di adulti; così

133 nel 1981 la formazione Esordienti, allenata da Franco Pellerino, schierava Poggio, Attamante, De Lodi, Mortellaro, Strocco, Mainardi, Rosanigo, Miozzo, che era anche il capitano della masnada, D'amato, Fontana, Riviezzo oltre a Cingolani, Buono, Cicchella, D'Elia e Mirabelli. Alcuni di questi ultimi, con Scalise in porta e poi Bologna, Saponaro (scomparso giovanissimo pochi anni dopo), Lisbona, Longo, Maletti, Marinaro, Passalacqua e con Sgambellone mister, andranno a vincere un campionato Allievi nel 1983 e nel 1984, con l’aggiunta di Vallario, Pagano, Falcone e Rossi saranno ancora protagonisti in quella che allora si chiamava la categoria principe, gli Allievi Eccellenza. Quando Porta assume la vicepresidenza, dopo aver avuto la responsabilità della Scuola Calcio ufficiale, e quasi l’ora che Assalto abbandoni e al suo posto subentra Silvio Franchino. Siamo nel 1986 ed anche sulla spinta di un genitore che diverrà molto noto in seguito, l’attuale procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli che aveva i due figli inseriti nel club, e con le abili manovre dirigenziali del gruppo storico, come lo chiama Porta, formato da Osvaldo D’Ancona, Gerardo Senatore, Pietro Bueti, Elio Polce, Umberto De Conciliis, Carlo Mainardi, Enrico Cattarello, Teresa e Giuseppe Nisticò i progressi furono evidenti e perfino la presidenza venne cambiata con l’arrivo di Giuseppe Silvestre. Proprio nel momento che le squadre stavano cominciando a marciare, quando l’ambiente era diventato amichevole e spassionato, quando quasi tutto assumeva l’aria di cosa ben fatta, una bastonata cadeva sull’intera società rossoblu. A Pasqua del 1987, dopo un torneo vittorioso dei pulcini in quel di Cascine Vica, mentre tutta la comitiva gaudente si avviava con le proprie auto a Valdellatorre per il più classico dei picnic, un incidente d’auto stroncava la giovane vita di Giuseppe Nisticò, marito di Teresa e padre dei due “pulcini” Fabio e Alessandro, divenuti nel terzo millennio pilastri della prima squadra e del settore tecnico societario. Giuseppe morì sul colpo, la moglie Teresa rimase ferita gravemente ma se la cavò e con il suo carattere forte e gioioso dovette adattarsi in fretta a superare le tribolazioni del momento, perché aveva da pensare a i due bambini, i quali, per un caso fortuito o perché “protetti dall’alto”, come osò dire Ottavio in quella occasione, erano sull’auto di un dirigente, Pietro Bueti, che non fu coinvolta nell’incidente.

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Anche se difficili da digerire, queste mazzate pare ti facciano più forte se hai il carattere giusto, se sei circondato dalle persone giuste, se tu stesso hai la testa un po’ meno che quadrata. E così un anno dopo venne l’idea di quella “recita”, di quella fiaba trasformata dai personaggi sportivi che, con pazienza, a volte con rassegnazione e di questo spiegherò, ma soprattutto con una discreta inventiva misero in “cartellone” Garbaneve, una sorta di Biancaneve adattata agli attori con relativi cognomi che passava il convento del PozzoStrada. Fu un successone talmente grande che… non si rifece mai più. Scherzi a parte, la commediola, la fiaba, la pochade, chiamiamola come si vuole, si guadagnò il successo del numeroso pubblico presente, non solo dirigenti, non solo genitori, non solo amici di parte, ma fu talmente affaticante, talmente impegnativa per essere stata fatta bene, che scoraggiò nel proseguire. In ogni caso c’era stato Piero Garbarino, un omone alto due metri che diede il nome alla storia di Garba…neve e che, pare, sia stato con Porta l’ideatore della festa di fine anno. Ma si era anche intrufolato l’architetto Polce, uno dei sette nani, poi c’era stato Lello Donna che si immedesimò talmente bene nella strega che si specchiava da non mollare il trucco per tutte le feste natalizie. Ci fu poi la rassegnazione (come vi avevo prima accennato) fatta persona… nella persona di Gerardo Senatore, che rappresentava addirittura lo specchio in cui si specchiava la strega: ma ve lo figurate un uomo di quarant’anni che si traveste da specchio? Coordinati dal narratore, il fine dicitore Carlo Mainardi, con l’intrattenimento di Ciro Vicinanza che girava per la sala per cercare di fare cassa vendendo noccioline e anche accendini per quei disgraziati di fumatori, apparve anche l’albero che significava il bosco, una grande interpretazione… muta di Giovanni Maina, come muti o quasi furono Tarquinio Marras nelle vesti di un pescatore (ma c’è il pescatore nella vera fiaba di Biancaneve?) e Renato Bersano in quelle del falegname che, per tutta l’ora e mezza che durò lo spettacolo, non fece altro che passare una finta sega su un finto pezzo di legno, facendo finta, con la bocca, di segare. Ma non era finita qui, perché gli altri sei nani non li vuoi mettere? Eccoli: Nino Saraceno, alto un metro e cinque, Nino Gioia, un metro e dieci, Pino Raso, detto Maradona, novantacinque centimetri, Paolo Mariotto, un metro e sei centimetri ben contati, Toni Fiannaca, il più alto, un metro e quindici e, infine, il metro e dodici di Vincenzo Santeramo.

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Le cretinate che vi ho raccontato poc’anzi vi parranno cretinate pure e semplici solo se non avrete potuto assistere alla commedia fiabesca o alla fiaba commediata di quell’inverno del 1988 che, comunque, presuppose quasi due mesi di prove nella palestra della scuola vicino al campo, sempre in gran segreto. Ma oltre alle risate, infinite, di chi ebbe il coraggio di assistervi, furono le risultanze aggregative addizionali che quella festa riuscì a trasmettere nel gruppo del “PozzoStrada”, da leggersi sempre “tuttattaccato”, e che consentì a Ottavio Porta di salire sulla cadrega più impegnativa e più importante e condurre in porto una fusione che consentì ancora, sei anni dopo, la nascita della Polisportiva Pozzomaina, da leggersi anche questa volta, obbligatoriamente, “tuttattaccato”. Nel lasso di tempo che intercorse tra la pantomima e la fusione, giova ricordare che sia il “Pino Maina” che il “PozzoStrada” giocavano con tutte le loro squadre sullo stesso campo di via Monte Ortigara, il classico “ex Venchi Unica”, così chiamato perché prima dell’ultima guerra pare che il terreno appartenesse alla fabbrica di cioccolato “Venchi Unica” che, tuttavia, cedette il terreno, non fabbricabile per il piano regolatore del tempo, al Comune e da questi passò in gestione al Centro Sportivo Italiano. E, come dicevo, giocando fianco a fianco, a parte qualche puntata ai vicini “campetti” del “Trecate”, campi che andavano bene per il gioco delle bocce più che al gioco del calcio, si finì per diventare amici, si finì, come avviene tra persone intelligenti, per progettare qualche cosa in comune. Fu un matrimonio molto ben riuscito, concordato tra Caronni, presidente “Maina” e Porta, Presidente “PozzoStrada”, tanto che tutt’oggi il club si mantiene nell’elite del calcio nostrano. Fu insignito Porta della presidenza con Enrico Pessone, un veterano del “Maina” con quarant’anni di militanza, alla vice presidenza, unitamente a De Conciliis, in “chiave” “PozzoStrada”. Ma ciò che contribuì a far partire col piede giusto la nuova società, penso siano state le dichiarazioni dei due soci, al momento più autorevoli, del “Maina”, Pessone e Carbone, che dettarono la condicio sine qua non per una firma sotto il verbale della fusione: presidente avrebbe dovuto essere Porta! Ottavio incassò l’inaspettata stima dei due colleghi di parte…avversa e partì una bella, nuova realtà sportiva. Non tutti, come si evince da alcune chiacchiere raccolte in questi anni, da parte “Pino Maina” furono d’accordo, ma quella parte che non fu d’accordo era ormai lontana dal club e quindi filosofare su cose che

136 non si conoscono, su realtà che ti sono distanti non è manco simpatico e, comunque, inutile, se non sciocco. Finora ho dato nota di una mezza storia, di una storia della metà della torta, mentre, per la verità, l’altra metà, il “Pino Maina”, ha ben altri natali che si identificano in quel dopoguerra dove avevano trovato spazio altre realtà torinesi ed in cui il “Pino Maina” aveva, da subito, svolto un ruolo primario. Non è facile, a volte, e in specie quando mancano documenti effettivi, individuare la causa di un evento, come è potuto nascere un club di calcio, quando, in questo specifico caso, anche i pochi soci fondatori che sino ad ieri potevi trovare sugli spalti di qualche campetto, sono venuti a mancare. Allora vai a cercare qualche anziano, qualche giovanotto di ottant’anni, qualcuno dalla memoria ferrea e unisci questi dati, a volte solo impressioni, ai tuoi ricordi che, comunque, hanno avuto uno sviluppo temporale notevole. E quindi ne scrivi. Nel 1949, c’è chi dice a giugno, chi a settembre, un gruppetto di amici in cui, comunque già si distingueva tra loro il capo carismatico, Francesco Viecca, commerciante di abiti nella centralissima, centrale per il Borgo San Paolo, piazza Sabotino, concluse una serie di riunioni con l’idea di far nascere una società di calcio. Viecca propose di dare al club il nome di Pino Maina, giocatore-portiere del Torino scomparso da poco tempo che aveva sempre abitato nel quartiere, il popolare Borgo San Paolo, ed era diventato un suo amico con la frequentazione costante del negozio: tutti approvarono e nacque così il “Gruppo Sportivo Pino Maina”, maglie grigie, proprio come quelle da portiere che Maina indossava nel Toro e campo di gioco, per ora, in corso Rosselli, impianto del Dopolavoro Ferroviario che in molti sfruttavano data la carenza di strutture sportive esistenti in città. Come ho accennato non è sopravvissuto alcuno dei soci fondatori della società, ma uno che nel 1951, due anni dopo la fondazione, già metteva testa e gambe nel club si trova ancora ed è quel signore, nella vera accezione del termine, di Gino Caracciolo. Per la sua figura defilata, per il suo discorrere pacato Caracciolo è stato, dalla massa di persone che hanno frequentato il “Maina” e, in seguito, il “Pozzomaina”, sicuramente sottovalutato, mentre oltre ad essere un uomo intelligente, oltre a possedere una conoscenza fina delle cose di calcio che pochi, ve lo garantisco, gli stanno alla pari, si mantiene con una signorilità unica nel direttivo del club anche all’inizio di questo millennio. E se non fosse per quella maledetta cataratta che gli preclude compiti più impegnativi, sarebbe ancora in

137 mezzo all’impianto a fare, a proporre, anche a discutere con Porta e gli altri amici dei progetti per il futuro: e son quasi ottanta primavere che si porta sulle spalle! Sono, comunque, i cenni di Caracciolo a farci capire il valore di certi personaggi che hanno vestito il “grigio” o hanno gravitato nella dirigenza “grigia”, come Viecca, d’accordo, ma anche come Giulio Lupo, nel club dal 1949 ai primi anni novanta, abile dirigente societario e pure federale con incarichi nella Lega Giovanile, prima e nel Comitato Regionale LND, poi. Se Lupo fu per tanti anni un deus ex machina con la sua esperienza, la sua capacità aggregativa, va anche ricordato Luigi Bernardi, segretario negli anni cinquanta e cugino di quel Bruno Bernardi che passò una stagione nei “grigi” prima di trasferirsi nello “Spartanova” e di lì percorrere i sentieri, le strade e le autostrade del giornalismo sportivo. Passata la sfuriata delle prime stagioni vissute con una spinta quasi da sfegatati, dato l’entusiasmo con il quale si vivevano quei campionati primordiali, arrivava Leandro Sganzetta, altro pilastro che fu eletto presidente nel 1962, quando per Viecca era l’ora di smettere con gli impegni troppo severi che una società come il “Pino Maina”, cresciuta notevolmente, comportava. Con Sganzetta la sede di via Monginevro 28, proprio alle spalle del negozio di Viecca, venne abbandonata per una ben più capiente in via Cesana 74, mentre il campo restava sempre quello di corso Rosselli. Ma prima ancora che Sganzetta lasciasse la sua impronta sulla società, aveva mosso i primi passi di giocatore quell’Enrico Pessone che, intrufolatosi nei giovanissimi del 1955, divenne, al tempo della fusione con il “PozzoStrada”, vicepresidente con De Conciliis. E Pessone non è stato uno che è volato sopra un cinquantennio, quasi, con superficialità, Enrico Pessone ha lasciato il segno con i suoi mille incarichi, le sue storie di allenatore, istruttore, direttore tecnico, dopo aver giocato per le “mille” stagioni della propria gioventù con la stessa maglia ed aver incontrato amici di ogni levatura. Cosa dire di Nello Governato che passato al Torino e, quindi, alla Lazio ha rinverdito le sue esperienze giovanili andando a ricoprire diversi incarichi dirigenziali in società professionistiche? Come accennare a Roberto Carbone e a Casile che fecero grande il “Maina” con il loro impegno costante, appassionato e che, come con Pessone, si concluse soltanto in queste ultime stagioni? E Albano e Natalini, troppo, troppo presto scomparsi da questa vita. Sono alcuni dei nomi che hanno percorso il tratto di via sportiva del “Maina” e che quando Sganzetta,

138 per motivi di salute, dovette abbandonare, continuarono ad impegnarsi. Dopo Sganzetta, che, comunque, riuscì a portare le sue squadre nello “stadiolo” di via Frejus angolo via Cesana, in coabitazione con un “Cenisia” ormai in una delle fasi calanti di quasi tutti i club dilettantistici, nel 1977 venne eletto presidente Lorenzo Vanara che mantenne la carica per un bel numero di anni e che contribuì al consolidamento nell’ambiente cittadino di una società tra le meglio organizzate. E’ doveroso notare che negli anni sessanta, primi dei settanta i sodalizi cittadini che facevano calcio erano, si e no, una trentina contro l’oltre un centinaio dei giorni nostri e che, quindi, se volevi inserirti in una delle squadre di quelle società dovevi essere proprio bravo, perché il “setaccio” era fine fine e non sempre ti riusciva di giocare in Lega e dovevi accontentarti di un Ente di Promozione. Intanto il “Maina” andava a vincere con gli Allievi Regionali, si ripeteva con gli Allievi Provinciali qualche anno dopo e perfino con la squadra “Primavera”, una sorta di juniores d’elite. Ma questi sono solo accenni doverosi, mentre le tante squadre mietevano allori un po’ dappertutto. Negli anni ottanta la società otteneva, anch’essa, il campo di via Monte Ortigara (il “Venchi Unica”) e la sede veniva trasportata in via Bionnaz, in quella Borgata Lesna che, per quelle alchimie tra società o per i soliti giochi di convenienza, veniva aggiunto, come sostantivo, al nome originale: Sport Club “Pino Maina – Borgata Lesna”. Non era cambiato nulla, soltanto il club aveva tentato di rinforzarsi, ed ora, dopo una breve parentesi con Giuseppe Cantone presidente, aveva un’altra guida che si chiamava Leopoldo Base. Proprio negli anni in cui il “PozzoStrada” si improvvisava “Carro di Tespi” e metteva in scena il “Garbaneve”, di cui ho parlato prima, la società grigia compiva quarant’anni di vita. Un bel traguardo, non c’è che dire, con festeggiamenti, tornei internazionali per i giovani della società, e sempre con Giulio Lupo a dare un’occhiata su come si lavorava. E sì, Lupo ormai era diventato presidente onorario, ma non disdegnava alcune puntate sia sul campo che in sede sociale, dove trovavi un Pierfrancesco Garbero oppure un Giovanni Gianella in segreteria; dove c’era anche Francesco Cloralio e Enzo Bottari, rimasto, quest’ultimo, sempre trait d’union tra la società e la FIGC locale e… continua ad esserlo. Nel direttivo partecipava ancora Giuseppe Magnasco, Virginio Ferrero e si manteneva a galla quel

139 simpaticone di Maurizio Ciarlone, tanto lungo quanto largo, ma ben dotato come allenatore. Inoltre, proprio per fare da specchio a quaranta stagioni di calcio, è bello ricordare Roberto Carbone, che oltre a dirigere calcio nel “Maina” di quei decenni, in un depliant pubblicato in occasione dell’anniversario dei quarant’anni della fondazione, dava un senso ad un passato fatto di vera passione e di puro sentimento: “…quarant’anni senza un presidente-padrone, senza legami politici di sorta o agganci confessionali, senza alcun fine di lucro, ma solo per amore del calcio, un amore incredibile…”. Un amore incredibile: per tutti coloro che hanno vissuto i primi anni di quella maglia grigia, sono soltanto parole da ingerire, da gustare. Nel 1993, proprio quando le due società “consorelle” stanno parlandosi ed è in atto soltanto il “fidanzamento”, diventa presidente Alberto Caronni. E quando i “genitori”, i vecchiacci o i caporioni, delle due società decidono che il matrimonio s’ha da fare, la fusione è accelerata e si compie con un gran accordo tra le parti: patti chiari, nomi certi, e obiettivi consistenti. E’ il 1994. In quel momento la nuova società mette in campo una ventina di squadre che, l’anno dopo, con la dovuta scrematura dovuta, anche, all’impossibilità di contenere tutta quella massa di quasi cinquecento giocatori nel campo di via Monte Ortigara, il tasso tecnico si eleva ed i successi ottenuti da lì in avanti stanno a dimostrare quanto le ragioni erano valide per un’unione, per un “matrimonio” tra due realtà che, prima, si guardavano in cagnesco (inutile nascondere che ai tempi della prima coabitazione ci fosse una grossa rivalità tra le parti!) e che, poi, valutando i tantissimi pro ed i pochi contro, si è trasformata nell’attuale “Pozzomaina”, quella che è entrata nel “SuperOscar”, che disputa tutte le categorie regionali e che una seconda spina dorsale le viene fornita dalle molte signore che aiutano, organizzano, dirigono come, ad esempio Lina Iannone, Rita Castellano, Anna Cuccari e quell’autentico vulcano che è Teresa Nisticò. Non so chi fosse in possesso di quell’imprinting necessario a far funzionare le cose per bene, certo che, per rubare al professor Danilo Mainardi, docente di etologia nell’Università di Pavia, un concetto biologico che ben si adatta a spiegare la ottima riuscita di un’unione, non posso non notare che: «nella fase dell'imprinting, definita anche di "socializzazione primaria" il cucciolo (la società neonata) prende confidenza con cose, persone e stimoli che vanno a formare in lui una sorta di eredità culturale, di cui fanno parte anche i comportamenti

140 acquisiti. Si tratta di un bagaglio assimilabile a quello genetico, almeno dal punto di vista della mancanza assoluta di plasticità e flessibilità. Per questo è fondamentale sapere come intervenire in questo delicato momento, diversamente si rischia di compromettere per sempre il sano sviluppo del proprio amico (ciascuna delle due parti della nuova società): una cattiva esperienza o la mancanza di esperienze utili a socializzare con gli altri rimarranno impresse per sempre e predisporranno gli amici a paure, incertezze e aggressività. E' necessario invece che nell'arco di questo anno (la stagione sportiva 1994-1995) il cucciolo (sempre il nuovo club) sia incoraggiato a fare esperienze positive, ad avere contatti con l'ambiente circostante, con le persone, con gli altri amici, perché solo così il suo rapporto con il padrone (il pallone) sarà sereno e affiatato». Ditemi voi se le parole virgolettate appena scritte, non paiono adatte a descrivere il dovuto comportamento di alcuni amici che vanno a coabitare ed, invece, si rivolgono solo a degli animali. Ma, come le persone intelligenti sanno, noi dagli animali abbiamo solo da imparare. Adesso c’è una dirigenza tutta nuova, con Ottavio Porta ancora presidente, con Umberto De Conciliis e Teresa Calabrese vice, con una schiera dei soliti fidati amici che conducono una “baracca” diventata molto impegnativa da quando il Comune ha costruito il “sintetico” e la società di è fatta due campi per il calcio a 5, una tribuna coperta, ha abbellito gli spazi comuni dando una vivacità a tutto l’ambiente, dalla mattina a notte fonda, che impegna ma non preoccupa perché i tanti giovani a circolare sono soltanto una parte, anche se la più importante, del principio su cui si basano le società di calcio dilettantistiche. E’ il 2005, chi per un verso, chi per un altro, sono stati centinaia coloro che si sono sciroppati anni e anni di calcio giocato e di calcio organizzato nello stesso sodalizio, ma non riesco a rintracciarne uno, dopo aver parlato con tanti, che non ripeterebbe gli stessi passi, che non accetterebbe le stesse esperienze. Ovvio che ho parlato con i più acuti, con i più pronti, perché sono loro che della storia sanno darne il giusto senso, la giusta misura.

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Capitolo X

Da una grammatica presa a calci ad un calcio tutto rosa

Scena primaria: un viale alberato. Uno dei tanti bellissimi viali che arrivano sino al centro storico di Torino, una città dall’urbanistica splendida, quasi unica in Europa, se non fosse stata ridotta ad un cesso, per sporcizia e manie di grandezza, negli ultimi anni. Nonostante ciò, Torino è bella. E’ bella con i suoi viali, già detto, con i suoi palazzi barocchi, le sue architetture liberty, le sue piazze incastonate tra il Po e la sua stupenda, inimitabile verde collina, meglio sarebbe incopiabile, visti i precedenti, se non fosse un vocabolo orribile. E’ molto, molto bella specialmente nei giorni “olimpici” dopo che migliaia di volontari l’hanno ripulita, dopo che i bravissimi organizzatori delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006 ne hanno fatto un ritratto ben curato e speciale per turisti stranieri e peninsulari, con un dubbio sui conti che paiono sbilenchi e che tutto finisca tra poco. E’ bella anche senza la FIAT che è quasi sparita dopo aver venduto un secolo della propria storia per farne dei centro congressi o dei supermercati o non si sa cosa. Ancora, non si sa cosa. E’ bella anche senza il Salone dell’Auto, senza “un centomila” dipendenti della “Feroce” che non ci sono più al Lingotto, a Rivalta, non ci saranno a Mirafiori e in trecentodue altre aziende. Ma pazienza, vorrà dire che questa gente dai coglioni quadri saprà riciclarsi o tornerà al sud, dove, per lo meno, c’è un bel sole, crescono un bel po’ di pomodori che continueranno a venire raccolti da senegalesi o pakistani, ma che per lo meno, questa gente, avrà la ventura di sbattere la testa contro il muro di casa propria, di quella casa che era rimasta ai padri, ai nonni e che adesso, sì, che gli viene bene che sia ancora sua. E’ bella perché chi ci abita, che sia autoctono o immigrato, si è intriso dell’ambiente antico e sa sempre inventarsene delle nuove. Forse, ma dico solo forse, ha cominciato a pensare, purtroppo ha solo iniziato, a come non farsele continuamente rubare queste cose nuove. E se vogliamo anche solo accennare ad una piccola cosa, proprio piccola

142 piccola, ma che nessuno, ripeto nessuno, in giro per la penisola è riuscito ad imitare, benché sia stato sollecitato, benché abbia chiesto lumi, benché ci abbia provato più e più volte, allora accenniamo al torneo “Un Pallone di Speranza”, manifestazione di calcio tra studenti detenuti nel carcere delle “Vallette” e studenti esterni appartenenti a molti istituti medi superiori della città e provincia, che dura da novembre a maggio di ogni stagione da sei anni in qua, in simbiosi tra i dirigenti del calcio, della scuola, della polizia penitenziaria e dell’amministrazione carceraria, tutta gente di Torino. Se volete saggiare, anche solo saggiare la difficoltà di organizzare un simile giochino chiedete a Guido Caffo, ex docente di educazione fisica stanziato a Pinerolo ed attuale responsabile dell’Attività Scolastica della FIGC regionale, chiedete, provate a chiederglielo! Oppure fate una chiacchierata con Pietro Buffa, il direttore del carcere “Lorusso e Cutugno” delle Vallette, e lui vi spiegherà cosa significa “castellare”, cosa significa una manifestazione come quella all’interno di un carcere, dove molti dei detenuti-studenti fanno tanti di quei sogni, appunto, costruiscono castelli in aria, che viene la pelle d’oca. Torino è bella nonostante gli vogliano propinare un pezzo di ferro, dipinto di rosso e fatto ad arco, quale futuro simbolo della città. Un arco rosso che sarà alto, si e no, la metà della Mole e non arriva nemmeno a superrare tre o quattro campanili sparsi per il comune. Per diventare un simbolo, qualsiasi cosa la si voglia proporre, dovrebbe avere una caratteristica eccellente, come ha Parigi con la Tour Eiffel, come Roma con il Colosseo, come Londra con il Big Ben e via dicendo, ma un arco, spatarato nel nulla della periferia, tenuto su obliquo da cavi d’acciaio, gran bel esempio di arte contemporanea, cosa dimostra? Che siamo storti? Che siamo moderni? Che guardiamo al futuro? Che siamo ignoranti e non capiamo un tubo di niente? Il mio amico Bovio, al momento dell’inaugurazione di quel coso, propose di fare come a Disneyland: spargere sulla superficie ovest del coso un bello strato di caramello ed incollarci tre o quattro milioni di pastiglie Valda! Così come a Disneyland ci vanno in tanti per dare una ciucciata allo zucchero filato, da noi arriverebbero frotte di turisti per dare una leccatina alla base del nuovo simbolo, rosso verso est, verde verso ovest e… lascerebbero un gran bel segno di affetto. Salvo che non gradiscano la menta! Infine, ma non alla fine di tutto, Torino è bella perché qualcuno, un pur minuscolo spezzone, parla ancora il torinese.

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Non il dialetto ciapulato, aggrovigliato, rovinato da chi non lo conosce più, non lo sente, non lo capta più in casa, nel cortile, sul tram, luoghi canonici di un tempo che, giustamente, sta scomparendo, no, non quel dialetto lì. Intendo quello dei Farassino, dei Balocco, intendo le loro poesie, intendo quel ‘l 6 ‘d via Cuni, che è un emblema di buona letteratura. Esagerato? Ve lo dice un esule istriano, un torinese trapiantato, senza tema di smentite. Ve lo dice una signora, una professoressa di lettere ultra sessantenne, che non si permette di pronunciare un verbo in torinese perché farebbe ridere i polli, ma che quando va a sentire un amico attore dialettale e lo sente declamare ‘l 6 ‘d via Cuni (per gli stranieri: il 6 di via Cuneo!) le viene il magone, per l’intensità della poesia, per i contenuti letterari specialissimi. Torino, quindi, è bella nonostante. E adesso ritorno alle prime due parole del capitolo, perché mi sono accorto di essere un vecchiaccio malinconico che si è lasciato prendere la mano. E parlo della scena, forse sarebbe stato meglio dire del palcoscenico in quanto gli attori che hanno attirato la mia attenzione sono alcune persone, giovani madri, qualche copia di nonni in attesa che il loro figlio o nipote termini l’allenamento ed alcuni altrettanto giovani ragazzi che stanno chiacchierando in attesa di cominciarlo quell’allenamento. Sono ancora seduti sulla piccola tribuna di quel campo sportivo, proprio alla fine di quel viale che mi ha dato lo spunto per iniziare la tiritera. E lì, seduto sull’ultimo gradone del parterre, chi ti trovo? Bruno Bovio, il mio amico, quella testa fine con la quale ho iniziato il dialogo di questo libro. Sta parlando fitto fitto con una persona che, a giudicare dalle piume bianchissime che si ritrova in testa, deve avere pressappoco la stessa età e non s’accorge manco del mio arrivo. Vista l’occasione di starlo a sentire di nascosto, gli passo alle spalle e mi apposto, pregustando lo spasso. Già dalle prime parole capisco che me la farò addosso dal ridere, capisco che il Bruno sta maltrattando qualcuno o qualcosa, qualche modo di dire, qualche luogo comune. Mentre i ragazzi si avviano, vocianti, negli spogliatoi, mentre le madri (ce n’è una mozzafiato, elegantissima in jeans neri e giubbotto bianco con pelliccia rigorosamente finta, coscia lunga e, si intuisce, petto ipertrofico che…), i padri, gli zii, i nonni, le cugine, una cognata e quattro sorelle maggiori continuano a dare sfoggio di una lingua italiana perfetta: sì, perfetta per un vietnamita!

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Uno dei giovanotti, liceo scientifico dichiarato, poco prima aveva urlato: “Dih, pirla, non ti ho aspettato alla fermata del bus, perché pensavo che tu eri già andato al campo!” Ed un altro, scuola sconosciuta ma con… probabile frequentazione di uno stage alla “Sorbona” francese: “Sabato sera sono andato in disco con Jessica. Lei voleva portare sua sorella di quindici anni ed io gli ho detto di andare a cagare!” Poi una giovane signora, cittadinanza torinese con inflessioni romano- umbro-tosco-campano-emiliane: “Io non ho mai detto che la Marina portava sfiga se veniva con noi, sei stata te ad averlo detto!” Ed è a questo punto che il Bruno sbotta: “Ma li senti? Non senti che congiuntivi, che pronomi passati sotto il pestapietre?” Queste sono le cose, più di un football mal giocato, che lo fanno andare in bestia. Con un mezzo decibel in più del solito, che, per lui, significa essere paragonato alle sirene dei pompieri, si rivolge al suo, per ora, sconosciuto interlocutore. “Ma hai sentito? Ha detto sei stato te? Tu, sei stato!” “Io? No di certo, guarda che ti sbagli” “Ma Armandino, non hai capito un tubo, Polifemo d’un Polifemo!” “Polifemo? E che significa?” “Significa che sei un ebete come il ciclope: chiedi, chiedi ad Ulisse se Polifemo non era un ignorante. Oltretutto, ‘sto ciclope, aveva una visione della vita bislacca e ristretta per via dell’occhio solo, ecco perché sinonimo di Polifemo è la persona cretina” “Però trattarmi così… per cosa poi?” - dice l’amico sempre più stupito dalla veemenza del Bruno nel segnalare i tanti errori verbali. “Ma no, che è soltanto uno sfogo rivolto ad altri, non certo a te che sei una persona stupenda. Sarà una sciocchezza, ma è il principio che mi fa incavolare. Intendo dire che non si dice “sei stato te”, ma “sei stato tu” ed è un errore comune ad una bella cifra di italiani, per di più ripetuta in tv mille e mille volte soprattutto da coloro che pretendono di darci lezioni sul sapere, tanto che dalla massa viene ormai considerato un dogma. Passi quando lo senti in una finction, dove di non dialettale a volte c’è soltanto il titolo, ma nei consessi culturali, giornalistici, politici, bah! Ma fosse solo per i pronomi sarebbe una pagliuzza, è che in giro la lingua italiana viene maltrattata da tanti, da troppa gente. Pensa al “gli” rivolto ad una donna, pensa al “eri” che doveva essere un “fossi”. Ma vadino, vadino pure a…” Il dialogo si ferma qui, Bruno Bovio non vuol andare oltre, non è nel suo stile, ma quel “vadino” è tutta una poesia, una suo specialissimo

145 modo di evidenziare una stortura. Con il quasi silenzio che si è venuto a creare, anche l’interlocutore misterioso di Bovio si volta, si guarda attorno, mi scorge e mi sorride grande così: è Armando Pontanari, un caro amico, toscanaccio maledetto, già dirigente di calcio di una società ora scomparsa e da una ventina d’anni interprete particolare del calcio femminile torinese, con la responsabilità organizzativa alla Juventus, quella delle donne. Il calcio in rosa non è che sia nato con Pontanari, no di certo, ma non siamo molto distanti se accenniamo al fatto che a Torino le cose in grande sono collimate con l’entrata in scena di questo e di altri quattro o cinque personaggi che hanno finito per innamorarsi di una disciplina sportiva come raramente è capitato ad altre figure che hanno pure lasciato il segno nel mondo calcistico di casa nostra. Cosa è dunque accaduto dalle nostre parti circa trent’anni addietro per far voltare la testa a tanti spettatori che inizialmente guardavano al calcio femminile come ad un qualche cosa di alieno, quasi curioso, inadatto alle ragazze? Come mi racconta Roberto Scrofani, uno dei “padri fondatori” dell’organizzazione calcistica femminile a Torino, il percorso non fu per nulla facile e dovette abbattere tanti di quegli ostacoli che, oggi giorno, pare impossibile siano potuti esistere. Questa storia non vuole narrare quanto la tale società ha compiuto o come la tal’altra si sia evoluta, ma intende fare un unico racconto del calcio femminile a Torino perché le singole unità hanno convissuto, o hanno dovuto convivere, tutte assieme per rendere il movimento forte e accettato. Ogni club, in pratica, è stato costretto a far fare del sano esercizio sportivo alle proprie associate e, contemporaneamente, cercare di convincere l’ambiente, forse maschilista, forse soltanto ignorante del problema, che il calcio femminile può vivere di luce propria. Il tutto, a livello nazionale, si era mosso agli inizi degli anni settanta, con la “messa in cantiere” e il susseguente “varo” delle prime squadre di calcio femminile, anche se un barlume di organizzazione esisteva a fine anni sessanta con la FICF, Federazione Italiana Calcio Femminile, del tutto staccata dalla Federazione Calcio dei maschi, che univa alla Lombardia, al Piemonte e alla Liguria alcune squadre del centro Italia e della Campania. Poche righe sopra ho scritto squadre non società, nel senso che ogni club associato aveva una sola squadra per iniziare il proprio cammino e il settore giovanile era ancora un qualché di fantasioso.

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Quel “barlume”, appena nominato, di organizzazione era nato nel 1968, con una riunione svoltasi a Viareggio a cui aveva preso parte anche il “nostro” Annibale Di Brita, attuale segretario della Delegazione del calcio femminile piemontese, proveniente, tanto per non smentire l’andazzo, dal settore arbitrale: è evidente che i migliori dirigenti calcistici, forse, si formano proprio dopo aver fatto l’arbitro. In quell’occasione viene anche varata una sorta di “campionato” di Serie A con due gironi, nord e sud, e dieci squadre di ragazze a contendersi il titolo, tra i mesi di maggio e di settembre. Vince una squadra di Genova dopo la gara di finale svoltasi a Pisa contro una formazione romana: i termini, obbligatoriamente generici, lo sono perché non ho trovato uno straccio di archivio che mi abbia fornito con esattezza nomi e cognomi dei, o meglio, delle protagoniste. Bastano, tuttavia, due sole annate e già viene a galla una scissione. Una metà circa delle iscritte alla FICF si allontana e fonda una seconda associazione di calcio femminile, la FIFGC, Federazione Italiana Femminile Giuoco Calcio, presieduta da un certo Aleandro Franchi. Vengono quindi ad esistere due campionati che daranno anche due vincitrici come il “Gomma Gomma” di Milano e il “Real Torino”. Questa suddivisione non suona bene e qualcuno di polso, o, come dice un mio amico, con i coglioni quadri come l’avvocato romano Giovanni Trabucco, riunisce i due gruppi a Firenze e dopo averli fatti discutere per due giorni filati, li convince a confluire in un’unica associazione che si chiamerà, d’ora in poi, FIGCF, Federazione Italiana Giuoco Calcio Femminile, anche se è esistito un interregno in cui la voce “Unita” farà parte dell’acronimo finale. Ovviamente Trabucco, nulla a che fare con il nostro Trabucco degli anni cinquanta e sessanta, viene nominato presidente, carica che manterrà sino al 1986 quando il calcio delle femmine entrerà nella FIGC e farà parte della Lega Nazionale Dilettanti, all’epoca guidata da Antonio Richieri. Non tutto era andato come i dirigenti del calcio femminile volevano, perché prima c’era stata una richiesta al CONI di essere associata come disciplina a sé stante. Quando il CONI rispose picche, dopo probabili manovre pressanti dei “maschietti”, Richieri prima convocò tutti i Delegati regionali (questa era la carica dei vari responsabili) e quindi diede le “dritte” che consistevano, soprattutto, nell’affermare che la FIGC si sarebbe fatta carico di ogni spesa e che la “Divisione” sarebbe stata trattata alla pari.

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A questo punto ritorniamo a Torino, perché è il calcio che ci interessa direttamente, e notiamo che nel 1982 anche nella nostra città viene istituito un Comitato Regionale, per la verità la sede era a Moncalieri, in strada Genova, con a capo Piero Scrofani, il papà dell’attuale segretario del Comitato Regionale LND, che era ancora giudice sportivo dei dilettanti ma che si accollava volentieri, in puro spirito di volontariato, l’organizzazione locale delle ragazze. Sarà stata la sua autorevolezza, d’altronde chi scrive l’ha conosciuto così bene che buon dirlo a ragione, sarà stata la sua esperienza di cose calcistiche, fatto sta che nel 1984 Piero Scrofani è chiamato a Roma a dirigere la “Lega Regionale”, organo del calcio femminile che sovrintendeva ai campionati di tutt’Italia. Sono quelli gli anni in cui, a Torino e dintorni, si formano e si conformano alcune società di peso come il “Torino Femminile” con a capo, in tutti i sensi, Cosimo Bersano, uno dei primi dirigenti a capire il calcio giovanile femminile, la “JuvePiemonte”, l’”Andezeno”, il “Moncalieri”, il “Piossasco”, proprio la società di calcio femminile in cui è nato Franco Borgiattino, il “Real Torino” di cui abbiamo dato cenno e che era allenata da Gigi Marcheggiani, poi quella “Juventus Femminile”, fondata da Giuseppe Gloria e che Armando Pontanari, Sergio Massa, Franco Deserto terranno, quasi, a battesimo in quelle prime stagioni. Ovvio che il panorama regionale è molto più allargato, ma i nomi appena scritti appartengono alla realtà del calcio femminile torinese, pur con gli spostamenti, le variazioni, le scomparse e le ricomparse che avvengono, periodicamente, nel nostro mondo… sportivo e quindi anche nel calcio delle ragazze. Proprio mentre Scrofani vola, letteralmente, a Roma, assume la responsabilità del Comitato torinese il figlio Roberto, che nelle ore lasciate libere dal lavoro si sciroppava da casa propria il lavoro organizzativo delle squadre piemontesi e valdostane. Poiché il movimento si espande, Scrofani individua una sede vera e propria ed è autorizzato ad affittare un alloggio in via Paolini, dalle parti dell’attuale Palazzo di Giustizia, che condivide con alcuni dirigenti, come il solito Di Brita, incaricato delle designazioni arbitrali oppure Biagio Cariali, quale segretario. Sarà, comunque, una zona… galeotta, in quanto proprio per la frequentazione della sede di via Paolini, Roberto Scrofani conoscerà la moglie Rosanna, che ha negozio proprio lì davanti, e con la quale non potrà, negli anni della

148 senilità e dei soli… ricordi, non parlare di calcio se vorrà o vorranno accennare ai loro primi approcci felici. Le spese, comunque, sono sempre esagerate per un calcio che non decolla e Scrofani deve abbandonare via Paolini tre anni dopo e ritornare a casa propria per organizzare ciò che passa il convento. Pur con tutte queste difficoltà, sempre superate con l’appoggio di pochi amici, nel 1988, quando già il calcio femminile fa parte della Lega Dilettanti nella FIGC, viene ancora individuata una sede decorosa, questa volta in via Bologna, alla Barriera di Milano, anche perché da Roma arrivano alcune lirette in più che consentono il trasloco. Ma perché il calcio femminile che, come detto, è ormai un inquilino della LND, dalla LND del Piemonte viene rifiutato? Non è facile dare una risposta precisa, ma una cosa è certa e se anche non chiarisce il tutto, dà, per lo meno, una mezza idea. Presidente del Comitato Regionale Piemonte e Valle d’Aosta della Lega Nazionale Dilettanti, in quegli anni è Salvatore Fusco. Fusco, a detta di molti ed io che l’ho conosciuto bene ne do conferma, è stato un grande dirigente del calcio federale. Competente, appassionato, legato al proprio lavoro in Comitato da trascurare sovente i propri interessi personali. Ma con un carattere impossibile. Salvatore Fusco, quando gestiva la Federazione torinese, era addirittura ossessionato che qualche cosa gli sfuggisse di mano, che una qualsiasi operazione andasse oltre alla sua… vista o alla sicurezza dei suoi proponimenti che, comunque, erano sempre mirati a migliorare, diceva lui, il lavoro dei collaboratori. Pare che ad un certo momento della sua presidenza, me l’hanno riferito e quindi non è una conoscenza diretta, avesse sistemato anche il fax del Comitato, oltre a quello personale, nel proprio ufficio per non farsi sfuggire alcunché arrivasse in Federazione. Con i propositi organizzativi di questo tipo, è facile andare a cercare il motivo per cui Fusco, e quindi la FIGC dei dilettanti in Piemonte, non volesse avere un corpo estraneo al suo interno. Non per nulla, quando Scrofani andò in via Volta per perorare la propria causa, fece ben due ore di anticamera seduto su quella poltroncina che ancora oggi fa bella mostra di sé nello stesso luogo, ma non ottenne nulla. Nel 1989, tuttavia, anche a queste contrarietà viene posto rimedio; è lo stesso Fusco, pareva quasi onnipotente all’epoca, che un giorno decide di fare un “regalo” al calcio femminile e, di conseguenza, a Roberto Scrofani: viene concessa una stanza, una sola sia chiaro, nella sede del Comitato Provinciale di Torino, all’epoca situato in via San Quintino, 4.

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E’ una gran bella svolta, perché finalmente tutto il calcio è sulla stessa linea d’onda, anche se, notare bene, Scrofani, Di Brita e company devono farsi il Comunicato Ufficiale per conto proprio e su quello della LND non appare per nulla. Ma Fusco, è doveroso dirlo, pur dopo probabili elucubrazioni di chissà quale tipo, dopo pensieri profondi su quella o su quell’altra persona, ha sempre, o quasi sempre, saputo ritornare sui propri passi, ha sempre, o quasi sempre, saputo accettare chi lavorava bene. E a Scrofani, nonostante le tre o quattro lettere di dimissioni presentate e sempre da Fusco rifiutate, viene addirittura proposto di abbandonare il proprio lavoro e di farsi assumere dal CONI: come del resto avviene nel 1991, anno in cui assume la carica di segretario del Comitato Regionale LND e deve abbandonare il calcio femminile. Ma per quelle stagioni non è solo questione del calcio federale, quello dell’istituzione, sono anche i momenti del singolo, dell’episodio da rimarcare, del personaggio da segnalare. E’ bello, infatti, narrare dell’incontro che Beppe Gloria, presidente della Juventus, volle assolutamente combinare con i genitori di che, se non vado errato, al tempo abitava a Collegno. I genitori della Guarino non volevano assolutamente che la ragazzina giocasse a calcio e quindi che nemmeno facesse i dovuti allenamenti. Gloria chiese aiuto a Scrofani, il quale con l’autorevolezza della carica combinò l’appuntamento in casa Guarino e, insieme, riuscirono a convincere papà e mamma di Rita che quel friciulin poteva avere un futuro nel calcio come, poi, avvenne realmente con la Serie A, la Nazionale e i vari impegni promozionali e tecnici in giro per la penisola. E cosa successe con l’acquisto di un cellulare nel 1991 da parte della dirigenza della Juventus? Qui è Armando Pontanari, già diventato il factotum della società, che si fa sotto e racconta che, avuta l’autorizzazione ad acquistare, a rate, uno di quei “mattoni” che si chiamavano “telefoni cellulari” e non ancora “telefonini”, lo pagò ben settecentomila lire. Le prime due rate, le cui ricevute bancarie arrivarono in società, furono regolarmente pagate dal club, mentre per le altre otto nessuno volle assumersi il peso e Pontanari che aveva firmato il contratto dovette scucire quanto mancava al saldo. Chi conosce l’Armandino può supporre soltanto la faccia che gli venne fuori e il rosario di belle parole che recitò a bassissima voce, come suo solito senza scomporsi e con signorilità. Il bello della storia sta nel fatto che quando arrivò Gloria da fuori città rimborsò Pontanari e che

150 lui, mai e poi mai, vide o prese in mano quel telefono cellulare. Che fine abbia fatto, quel maledetto apparecchio, non me l’ha voluto dire o non ha saputo dirmelo, certo è che qualche sospetto, a distanza di quindici anni, gli gira ancora addosso. Su e giù per la scala del tempo, viene bene raccontare a Pontanari di quando, nel 1987, con la squadra in A e con due straniere in squadra, due americanine tutto pepe che parevano adatte a far fare sconquassi alla squadra, subirono tante di quelle sconfitte da retrocedere in . Ma come, si dissero i dirigenti, noi spendiamo una barca di soldi e quelle due vengono in vacanza in Italia? Mandarono a quel loro paese le due straniere e ritornarono alle squadre autoctone, senza fare drammi, senza che il declassamento scalfisse la loro passione. La Juventus Femminile, nella ormai sua lunga storia, ha avuto innumerevoli personaggi che hanno gravitato attorno ad essa ed hanno lasciato un pur minimo segno della loro professionalità come Ezio Bertuzzo, Flavio Macorig e il già citato Gigi Marcheggiani, tutti allenatori di squadre importanti. Ma sono passate da qui anche la ben nota Rita Guarino, divenuta anche capitana della Nazionale maggiore, la Giorgià Duò, Adriana Miravalle, Federica Margotta, Francesca Valetto, o le attuali Jessica Allena, Laura Calà e Simona Franzero, ragazze che hanno raggiunto più che rispettabili traguardi con le varie selezioni nazionali o regionali. Ma in questo elenco è anche doveroso citare Franco Deserto, schivo ad ogni ribalta, ma capace ed operativo come pochi negli anni della sua dirigenza bianconera. Ovvio che una squadra come la Juventus Femminile, in questo caso occorre dire una società visto che anche le più piccole possono finalmente trovare posto nelle categorie giovanili, abbia avuto nugoli di dirigenti o, comunque, di persone che hanno seguito, diretto e consigliato nel club, ma ci sono sempre alcuni che emergono vuoi per un fatto, un aneddoto, la storia stessa che si ripete, come sta accadendo a Rita Guarino che in questi anni del terzo millennio ha messo in piedi un impegnativo progetto che vede coinvolta la società con alcune scuole elementari e medie inferiori, con la stessa nascita della Scuola Calcio e conferenze con i genitori per spiegare l’ambiente del calcio femminile. Già l’ambiente. E’ da tempo, quasi dall’inizio del calcio femminile che circola la solita, cattiva voce dell’omosessualità femminile trasbordante. E’ giusto accennarne ed è giusto che le persone più preparate di questa disciplina ne parlino a largo raggio per affermare che la devianza, anche se molti, nel 2005, mi prenderebbero a sberle

151 solo perché uso tale termine, è assolutamente nella norma, proprio come avviene in qualsiasi altro sport, sia maschile che femminile. Nel calcio delle ragazze è stato portato alla ribalta perché è un gioco di squadra e, come in tutte le “squadre”, c’è il bianco, il nero, il rosso e il blu, nel senso che tanti “tipi” morfologici o esistenziali possono vivere e, comunque, convivere tranquillamente. Perché, in ogni modo, non si è mai tirato in ballo il basket femminile, la pallamano femminile, il volley femminile e tutti gli altri sport di squadra femminili dove i problemi sono identici? Perché nel calcio, è grave dirlo ma lo si deve dire, c’è il “popolo bue” a fare da megafono, manca la cultura vera dell’educazione fisica ed una pagliuzza fuori posto viene ingrandita come fosse una trave. In ogni buon conto, come ha rilevato la presidente nazionale Natalina Levati in una sua recente intervista, l’attenzione al problema in queste ultime stagioni è stato massimo tale da far considerare proprio secondaria l’intera questione. Ritornando a parlare di calcio giocato, devo obbligatoriamente parlare del Torino Calcio Femminile che “non è una squadra, una società”, ma un’entità sportiva formata da una sola persona! E’ una battuta, ma credo sia indicativa di cosa si pensi del Torino femminile e del suo presidente Cosimo Bersano. Presidente forse è riduttivo, in quanto Bersano con questo “suo” splendido giocattolo ne ha fatte e combinate, letteralmente, di tutti i colori. Ha cominciato come allenatore, ha proseguito come presidente, è ritornato ad allenare, ha seguito la squadre delle Esordienti e quella delle Under 18, ha fatto il semplice tifoso, ha urlato quando doveva (tanto), ha riso poche, pochissime volte perché non fa parte del suo DNA (al massimo ha sorriso per tre secondi!), si è sobbarcato, con qualche familiare e qualche amico, la custodia della sede, la cura del campo, è andato a protestare in Comune, a Venaria, in chissà quante occasioni, ha cercato sponsor che qualche volta ha trovato ed altre volte ha mandato a stendere, è passato per le alte sfere federali nazionali con qualche incarico un po’ di più che onorifico, ma è rimasto il Bersano di sempre: quello che è vissuto di calcio, con il calcio, per il calcio da tutta una vita o giù di lì. Tanto la Juventus Femminile ha cambiato nomi, abbinamenti, presidenti, quanto il Torino Femminile è rimasto con la stessa identità, con lo stesso Bersano, in qualsiasi veste potesse apparire, a condurre la solfa societaria.

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Non è un male per la Juve che vuole esistere a tutti i costi, ma non lo è nemmeno per il Torino che ha mantenuto le stesse caratteristiche e non si è fatto fagocitare da un presidente padrone, ma da un grande appassionato. Se poi, come per tutte le persone dal carattere di ferro o di merda, fate voi, c’entra anche la passione non è certo da condannare. Forse parrebbe esagerato parlare di una sola persona, quando si cita una società, e se lo sembra allora andiamo a scartabellare annuari e giornali e vediamo che dal 1981, anno in cui Bersano ha fondato il club, si sono evidenziate tantissime “creature”, così Cosimo le chiama a volte per una rampogna, di più per un complimento, come, ad esempio, la , nazionale dei giorni nostri e “bomber” di quelli esagerati. Ma se la Panico è l’attuale emblema del calcio giocato, come non citare Giancarlo Padovan, una autentica sorpresa per chi non lo conosceva, come chi scrive, nelle vesti di allenatore della prima squadra da ormai tre stagioni, dopo essere stato anche selezionatore della Rappresentativa regionale femminile. In effetti pensavo di valutare la sua padronanza con il “boccio” soltanto con la tanta esperienza giornalistica acquisita negli anni, mentre l’attuale direttore di “Tuttosport” è un vero competente, di quelli che vengono dal campo e non, o non solo, dalla scrivania come tanti colleghi che sovente blaterano da scranni televisivi senza aver mai messo un paio di scarpe bullonate o una tuta da allenatore. I nomi, comunque, sono un’infinità, ma non posso passare sotto silenzio ragazze come Paola Cardia, protagonista ai Mondiali di Calcio Femminile del Messico nel 1972, come , Nausica Pedersoli, Daniela Monelli, come Antonella Carta o , come , tutte giovani con i piedi buoni, per usare la sfruttatissima espressione di . Ma i successi del Torino di Cosimo Bersano sono una montagna e l’ultimo se l’è conquistato Roberto Panigali che è andato a vincere il titolo tricolore nella scora stagione con la squadra Primavera. E se Panigali è arrivato là in cima, un po’ merito l’avrà anche avuto Patrizio Cossalter che dirige da tempo il settore giovanile oppure no? Poi ci sono stati gli Ezio D’Herin, allenatore con un carisma notevole, e ci sono i dirigenti, quelli che da anni, se non decenni tirano il carretto come Alberto Cerutti, Giuseppina Grupi e Erminio Bruno, tutte persone che lasciano la ribalta ad altri ma che tirano i fili dello spettacolo con la loro spassionata bravura.

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Per ritornare al calcio organizzato, quello federale, che, attualmente, si fa dalla solita unica stanza di corso Re Umberto a Torino, è anche giusto accennare che esistono nel torinese altre realtà calcistiche, di cui, tuttavia, non mi è possibile darne nota ampiamente per il semplice fatto che vorrò narrarne le gesta nel prossimo libro in modo realmente esauriente. Michelangelo Notariello, delegato regionale per il calcio femminile del Piemonte e della Valle d’Aosta, un signore posato, di poche parole e di molti fatti, si è espresso, durante un recente consesso delle società affiliate, con una frase che, credo, possa far da chiusura ad un capitolo come questo delle ragazze nel calcio: “Abbiamo fatto una lunga strada per tentare di avvicinare, in tecnica e notorietà, il calcio dei nostri cugini maschi. Non ci è stato possibile raggiungere tutti i nostri obiettivi per una serie di motivi che è facile intuire anche solo visionando i palinsesti televisivi, notoriamente specchio di ciò che la gente preferisce, tuttavia vi garantisco, e ve lo garantiscono le tante, stupende nostre ragazze, che in quanto a tecnica, spettacolo e gioia di partecipare non siamo secondi a nessuno. Per ora, ma solo per ora, può bastare”.

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Capitolo XI

Un’esperienza unica

Lasciare i primordi del calcio “rosa”, per addentrarsi in altri ricordi a volte può sembrare stucchevole o pretestuoso, ma poiché il mio narrare si orienta su quanto ho vissuto direttamente e su quello che mi è stato raccontato da persone decisamente affidabili, ritengo che descrivere una straordinaria “avventura”, vissuta in stagioni particolari della storia del mondo o della propria esistenza, si stacchi da qualsivoglia legame cronologico e vada accettata per il suo interesse che, garantisco, è di una vivacità unica. Dunque.

Ognuno di noi, ciascun individuo che non abbia trascorso la propria gioventù da pidocchio (e mi venga perdonata l'irriverenza per coloro che non hanno proprio, proprio potuto!), serba nell'intimo dell'animo alcuni momenti fulgidi, vissuti in modo stupefacente. Possono anche non aver stravolto la propria esistenza, chè, di questi mutamenti, se ne può fare tranquillamente a meno, ma la semplice considerazione di aver partecipato ad un evento straordinario, in splendida armonia con alcuni coetanei di cui si serba uno struggente ricordo, è un fattore appagante, che riempie d'orgoglio, che ti consente di affermare, gonfiando il petto: c'ero anch'io! Sono sensazioni, queste, palpabili, quasi materiali quando certi sguardi di fuoco sfrecciano tra gli astanti o sospiri di commozione tratti da una memoria mai sopita erompono commoventi, quando l'attenzione di tutti coloro che siedono in quella saletta, dietro al bar della vecchia sede del campo di gioco di Corso Spezia, “covo” del “G. S. Bacigalupo” (quello che oggi è il “Filadelfia”) si rivolge, smaniosa, all'oratore che ha cominciato a parlare di quel famoso, epocale, indimenticato viaggio in Unione Sovietica. Anzi, come si voleva che si dicesse, come certuni imponevano che si dicesse, nell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. In URSS, insomma. In quella saletta c’è un bel po’ di teste bianche, nel senso che o sono bianchi i capelli, manco grigi, o non ci sono proprio, segno che quando ci si ritrova, anche per una semplice merenda sinoira, i presenti hanno parecchie primavere sulle spalle. “Che nessuno dubiti –

155 interviene scherzoso, ma neanche tanto, Cesare Ferrero, il padrone di casa – della nostra gioventù, perché se anche non appare, la testa ed il cuore sono di vent’anni!” Una grassa risata corale e qualche pernacchia di coloro che hanno qualche anno in meno fanno seguito alla battuta, mentre qualcuno fa cenno all’amico che si era assunto l’incarico di “narratore” di dare inizio alla storia. Quel “qualcuno” è Maurizio Laudi, Giudice Sportivo della Lega Nazionale Professionisti della FIGC per molte stagioni, con incarichi importanti nella magistratura ordinaria e appartenuto alla combriccola nerazzurra degli anni sessanta. E si comincia. Adesso che basta andare, al giovedì, in una qualsiasi agenzia di viaggi, per partire, destinazione Brasile, al sabato, oppure al martedì per iniziare il viaggio per l'Afganistan il lunedì mattina susseguente, sembra una barzelletta raccontare di un tour effettuato nella terra dei kazaki, degli uzbeki e dei kirghisi, ma se pensiamo che sino al 1967, anno di questa straordinaria avventura di Laudi & Company, gli italiani partiti, volontariamente, per le steppe kazake o le tundre kirghise si potevano contare sulle dita delle mani, la trasferta nell'impero sovietico dei ragazzi del “Bacigalupo” ha dello stupefacente. Ed ancora. Se pensate che al termine di questa esperienza e soltanto per un caso fortuito o, meglio, per una trasmissione andata in onda sulla nostra televisione di stato il cui nome molto noto all’epoca era TV7, si mossero persino la CIA americana, il nostro Ministero degli Esteri, il Foreing Office inglese e scrisse della storia anche il New York Times, vi farete un'idea dell'iperbole turistico-sportiva vissuta. Se credete che siano soltanto battute ad effetto vi sbagliate, mentre vi chiedo di pazientare e di andare a leggervi l'intero racconto e ne trarrete le dovute conclusioni. Ma come era potuto maturare un simile progetto? Chi era stato l'alto papavero che aveva consentito il viaggio? In Italia, ai tempi, non muoveva foglia che il PCI non volesse in materia di rapporti con l'URSS e le pubbliche relazioni o, più chiaramente, la propaganda politica era un'arma che nessuno sapeva far fruttare meglio dei pronipoti italiani di Marx. A Torino, come nel resto d'Italia, esisteva ed esiste tuttora, un Ente di Promozione, che si chiama UISP e che era l'emanazione sportiva del PCI. Niente di straordinario, tanto che la DC aveva il CSI, il PSI organizzava l'AICS e così via. Di straordinario c'era che questo Ente possedeva dei dirigenti sportivi con i fiocchi, veri manager dello sport amatoriale e che, se pur politicizzati, avevano la mente apertissima,

156 attenti alla propaganda, d'accordo, ma consci che le discipline sportive facevano bene non solo allo spirito, come ci hanno propinato in tanti per tanti anni, ma soprattutto al corpo e che il calcio, in particolare, poteva diventare, come è diventato, un veicolo promozionale di un'efficacia unica. L'UISP, dunque, a Torino era guidata da un personaggio che, di famiglia, sapeva navigare in quasi tutti gli sport, il fratello era presidente della boxe piemontese, e che, in qualità di consigliere comunale, era avvezzo a districarsi nei meandri del politichese: si chiamava Ermanno Marchiaro. Marchiaro "riceve l'ordine" di mandare una squadra di calcio in giro per la Russia. Mica quattro brocchetti e sette ragazzotti raccattati chissà dove; da Mosca volevano una signora squadra da far confrontare con alcune loro compagini che militavano nel massimo campionato locale. L'ordine è di inviare, comunque, dei dilettanti; i professionisti non interessano per svariati motivi e, comunque, ai primi di settembre, quando si deve partire, Torino e Juventus hanno il campionato in corso. Marchiaro raduna gli amici, si fanno alcune telefonate e, in un niente, viene convocato il presidente del Gruppo Sportivo Bacigalupo, Andrea Francone, già calciatore del Torino subito dopo Superga ed un grande, grandissimo dirigente sportivo scomparso l’anno scorso ad appena settantadue anni. Marchiaro espone l'offerta, gli prospetta un viaggio senza precedenti e, poi, dice, "è tutto gratis!". Francone non si fa pregare, ma poiché la trasferta è senz'altro impegnativa gli chiede alcuni giorni di riflessione. Andrea, invece, ha già deciso, ma da volpe e lupo com'è, pensa a rinforzare la squadra poiché sa, ormai, che andrà ad affrontare una sorta di calciatori professionisti, anche se professionisti di stato. Contatta alcuni esperti giovanotti e quando riceve l'assenso si presenta nella sede UISP, ci pare di ricordare che fosse in Via Accademia Albertina, e dà il consenso definitivo. Siamo ai primi di agosto del 1967 e Francone chiama il suo amico Gionco dal Chieri, invita Ottavio Guala (futuro presidente ASCOM) che non si fa pregare, convince Marchetto a tornare dalle ferie, con Sergio Rossano è facile ("lui andrebbe anche a piedi!") e "obbliga" a seguirlo una schiera dei suoi giovani: Tosatto, Lanfranco, "Mecu" Martinello, Tirone, Turello, Sina, Cravero, Castelli, il fratello Michele Francone ed un giovane Maurizio Laudi. Proprio lui, "quel" Laudi, il

157 futuro, come detto, giudice sportivo della Lega Calcio professionisti italiana e futuro alto esponente della "giustizia" ordinaria. Ovviamente, per andare in campo c'è anche Andrea Francone, ancora gran bel piedino, mentre l'accompagnatore ufficiale è lo stesso Ermanno Marchiaro. Esperiti i preparativi burocratici, si è pronti per la tournée all'est e la partenza viene fissata per l'ultimo lunedì di agosto. Saranno quindici giorni fantastici e ne capiteranno di tutti i colori. Quel lunedì sera, dunque, un marasma alla stazione torinese di Porta Nuova. La comitiva del “Baci”, elegantissima in una divisa di rappresentanza con i pantaloni color tabacco e la giacca blu che attira gli sguardi di mille ed una pulzella, prende il via. Del gruppo fanno parte, oltre agli atleti e dirigenti nerazzurri, anche due funzionari Uisp, di cui uno è quella bella persona di Pierino Pauletto, futuro giudice sportivo della Lega Nazionale Dilettanti del Piemonte, mentre l’altro, non ci si ricorda più il nome, si rivelerà uno scassacoglioni di prima categoria. Ma va bene così, va molto bene così, l'entusiasmo è alle stelle e non sarà certo l'ometto che rovinerà la festa. Il tragitto prevede fermate a Milano, cambio del treno, poi Vienna, Katowice in Polonia, Varsavia, Brest, sul confine russo dove si ricambia vettore in quanto lo scartamento delle ferrovie sovietiche è differente dal resto del mondo, Minsk e, finalmente Mosca. A Mosca si arriva che un'afa tremenda attanaglia la città e tutti coloro che ci vivono; si pernotta in un enorme albergo, a pochi passi dalla Piazza Rossa, in cui, se lo ricorda perfettamente Maurizio Laudi, c'erano tante di quelle zanzare che la stragrande maggioranza "aveva persino la targa!". Le notizie, in occidente, sulla situazione ambientale russa sono talmente frammentarie ed i luoghi comuni sono talmente radicati che quasi tutti i componenti la comitiva si erano armati di giacconi e cappotti pesanti, pensando che, laggiù (o lassù?) il ghiaccio rappresentato nelle sparute cartoline che si possedevano a Torino fosse perenne e che il caldo fosse una prerogativa delle sole zone del Mar Nero. Sbagliato e i ragazzi se ne accorgono subito. Non cambieranno granché le cose a ridosso dei confini con la Cina, e i segni dell'aviazione insettivora incontrata a Mosca stenteranno a stemperarsi. Il mattino dopo, aeroporto moscovita di Vnukovo, uno dei tre terminal che possiede la grande città, e partenza per il profondo sud est della vasta nazione russa. No, errore, sovietica.

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Per la prima volta e la storia si ripeterà all'infinito, Sergio Rossano comincia a farsela sotto: ha timore del volo, succede a tantissimi, ma il suo carattere non ne risentirà e le sue imminenti imprese pedatorie non saranno affatto guastate da questo inconveniente psicologico. Inoltre, per un grosso guaio ortopedico che capiterà ad un suo compagno di squadra, Rossano sarà colui che mai e poi mai, qualunque cosa gli sarà accaduto o gli accadrà in futuro nella vita, potrà dimenticarsi di questa trasferta. Seguiteci. Mentre il Tupolev prende il balzo con destinazione Taskent, capitale della Repubblica Socialista dell'Uzbekistan, i ragazzi appaiono stranamente quieti, ognuno al proprio posto, composti, assorti in chissà quali pensieri. Chi osserva il panorama sottostante, chi non toglie gli occhi dalle gambe, stupende, della hostess con gli occhi a mandorla che veicola su e giù per la carlinga e chi, ancora, tenta di leggere un giornale italiano acquistato all'aeroporto nella mattinata. Quando qualcuno si accorge che il quotidiano è di quattro giorni addietro e che le notizie le si conosceva prima della partenza da Torino, scoppia una tale risata collettiva che mette in allarme hostess e steward. Ci pensa, comunque, Laudi che, in inglese, spiega loro l'equivoco e tutto torna alla normalità. Intanto il Tupolev va, la giornata è tersa e la visione straordinaria della steppa russa, del deserto kazako e, quasi al termine del volo, del Lago d'Aral vengono fotografati mentalmente dall'intera comitiva. Sul Lago d'Aral un eccentrico gioco della natura, colpisce indelebilmente coloro che, dal finestrino, osservano il paesaggio: la fortissima salinazione del grande specchio d'acqua, si scontra con l'atmosfera rovente del vicino deserto di Kyzylkum e propone una sorta di miraggio che allibisce i nostri ragazzi. Pare di vedere migliaia di cristalli proiettati verso il cielo e, quindi, verso l'aereo, una sorta di gioco laser in anticipo sui tempi! Ovviamente questa spiegazione non è frutto della loro conoscenza scientifica, ma semplicemente risulta essere il chiarimento dato dall'interprete russo, un ingegnere minerario adibito alla bisogna e che accompagnerà la comitiva per tutto il percorso sovietico. Ma non c'è solo l'ingegnere ad accompagnare il “Baci”, a Mosca è salita un'altra persona che fungerà, "anche", da interprete e che lascerà un ricordo struggente in più di un giocatore. E' una fantastica bionda, molto giovane ma anche lei laureata. Ci si ricorda soltanto il nome, Anjey, ma dicono che sia sufficiente. Coscia lunga, petto ipertrofico, modi gentili, fascino assassino ed un portamento di tal classe da costringere più d'uno dei ragazzi a fantasticare oltre il

159 dovuto. Uno di loro, no. Uno di loro si vedrà costretto a versare qualche lacrimuccia di commozione al momento del distacco. Ma andiamo per gradi. A Taskent, breve sosta e poi tutti a bordo di un piccolo bimotore delle linee aeree interne e partenza per Fergana, grosso centro uzbeko alle falde dei primi contrafforti che portano alle montagne infinite del Pamir, tra l'Hindukush e il Karakorum. Al di là, sulla destra, c'è l'Afganistan ed il Pakistan, al centro l'India e, sulla sinistra, un immenso "pianeta": Zhongguo, China, la Cina del miliardo di cinesi! C'è da stare senza fiato, quando il velivolo si avvicina a Fergana, con quelle montagne che van su, su, alte come è alto il cielo! Il pilota, forse per un omaggio agli ospiti italiani, compie un paio di giri sopra Fergana e si porta verso il Pamir; "Mecu" Martinello rimane tre minuti con la bocca aperta, trasecolato, mentre una hostess indica una spaccatura tra quei monti e, con la massima naturalezza, dice essere Passo Uzbel, "solo" 7146 metri sul livello del mare. E le montagne accanto, allora? Meglio non pensarci che è l'ora dell'atterraggio, Rossano si fa il segno della croce ma, come sempre, non succede niente di male. Gli diranno che hanno affidato la loro cura ai migliori piloti dell'aviazione sovietica, ma Sergio se ne impipa di queste rassicurazioni e continuerà a raggrinzire le dita dei piedi ad ogni pur semplice scossone. L'arrivo a Fergana, grosso centro industriale uzbeko (questa è la zona dell'URSS asiatica più densamente popolata) ha dell'incredibile per dei giovanotti che queste esperienze manco le sognavano e che soltanto per alcuni di loro, Francone, Marchetto, si poteva parlare di "bagno di folla" avuto in precedenza. I tovarish hanno fatto le cose per bene, hanno preparato un'accoglienza che ha del commovente e che si ripeterà in ogni stadio, in ogni luogo che la comitiva italiana visiterà da qui alla fine del viaggio. All'aeroporto, fuori del terminal, li aspetta una folla calcolata in un migliaio di persone, con banda municipale, fiori agli ospiti e tante di quelle bandierine italiane che bimbi ed adulti sventolano con gioia: quel che stupisce è la genuinità della popolazione che grida "Italia, Italianski" ad ogni movimento dei ragazzi e se esiste una "claque" tra di essa è ben camuffata. Dopo una giornata di giusto riposo per acclimatarsi al fuso orario e prendere fiato dopo le calorose manifestazioni di accoglienza, la comitiva viene portata a visitare i kolkoz, le fattorie collettive vanto

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(per ora!) della vita sociale sovietica. Il giorno dopo, alla sera, è la volta della prima partita in programma. Stadio Leninskiye, un piccolo "catino" che, dice Francone, assomiglia e di molto al vecchio "Filadelfia", contro la squadra locale che milita in una sorta di Serie B sovietica. Il pubblico è foltissimo, all'incirca quindicimila persone, ma l'entusiasmo che ci mette nel distribuire applausi, agli ospiti ed agli ospitanti, pare raddoppiare le presenze e la commozione è forte. Si perde 3-0 ma, credeteci, il risultato è l'ultima cosa che in questi momenti interessa, proprio l'ultima, anche se i nerazzurri (da queste parti hanno persino pensato che la squadra in campo fosse l'Inter di Milano, famosa anche in quelle lande, per i vari Corso, Mazzola, Suarez!) si impegnano notevolmente. Lo scombussolamento è tanto e la stanchezza comincia a farsi sentire anche in giovani virgulti. In questa occasione, tra le tante piccole o grandi avventure che capiteranno, succede un fatto che ha del tenero. Martinello, gran classe in campo e possanza atletica notevole, nell'andare a raccogliere un pallone finito contro la rete di recinzione dietro la propria porta, si sente toccare la spalla da uno spettatore. Si volta e lo spettatore è una… spettatrice che gli allunga un bigliettino quadrettato. Lui l'afferra, le sorride e se lo mette nel taschino dei pantaloni (all'epoca la divisa di gioco comprendeva anche questo) e ritorna a giocare. Più tardi, negli spogliatoi, Martinello si ricorderà del biglietto e tenterà di leggerlo. La grafia è in inglese ed allora si rivolge a Laudi: "Mauri, per favore, mi dici cosa c'è scritto?" C'era un nome, un indirizzo ed un numero di telefono. Le cronache non ci dicono del prosieguo della storia, ma dubitiamo che abbia avuto un seguito. La sera del giorno dopo, altra partenza, sempre in aereo, per Andizhan, altro centro industriale al confine tra l'Uzbekistan ed il Kirghizistan. Le distanze, in URSS sono sempre notevoli e il mezzo più sicuro e comodo è comunque l'aereo: ma Rossano non ci si abitua! Andizhan, l'antica Angijan, centro di raccolta delle carovaniere che percorrevano nel medioevo e oltre la "via della seta", quella pista che dalla Cina, via Samarcanda, arrivava ad Aleppo nel Mediterraneo e poi Venezia o Marsiglia o Malaga, è un'oasi di verde nel deserto brullo, grigio e secco delle alture del Pamir. Stessa accoglienza, stesso bagno di folla con in più, nelle vie cittadine, alcuni grandi striscioni scritti in italiano che inneggiavano agli ospiti. Uno di questi, "Benvenuti Cari Amici", apparirà nella fotografia, ritraente alcuni giocatori, che, giorni dopo, pubblicherà il giornale "Stampa Sera" di Torino.

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La sera dell'arrivo, prima di recarsi al Circo di Mosca dove i meticolosi organizzatori hanno stabilito che si faccia presenza, si ha una lieta sorpresa. Viene a trovare la comitiva un distinta signora in pelliccia, pensate fuori fa quasi 30°, che si presenta come Ernesta Grassano di Voghera, trasferitosi da anni ad Andizhan con il marito, tecnico minerario. La commozione è tanta per un pezzo d'Italia a così grande distanza ed al momento del commiato la nostra connazionale avrà un attimo di turbamento. Poche ore dopo, nel grande teatro ove si esibisce il Circo di Mosca, altra emozione grande. All'entrata nel palco degli italiani, un grande applauso accoglie l'intera comitiva e l'Inno di Mameli suonato dall'orchestra del circo suggella un incontro indimenticabile. Nel frattempo più d'uno aveva notato la strana atmosfera che circondava le vie della città uzbeka, la scarna illuminazione esterna, i rarissimi passanti serali, in grosso contrasto con l'animazione del mattino e del pomeriggio. Per di più che continui passaggi di mezzi militari cingolati, di alcuni tanks e trasporti truppe, quasi da parere un pattugliamento, avevano preoccupato non poco i ragazzi. Aveva, comunque, provveduto la bella Anjey (chissà perché stava sempre vicina a Rossano?) a rassicurare gli astanti, informando che erano soltanto misure di sicurezza, dato che ci si trovava ai confini con la Cina. La spiegazione totale la si ebbe poco dopo quando Marchiaro chiarì che l'anno precedente, 1966, c'era stata una vera e propria guerra tra russi e cinesi lungo le sponde dei fiumi Amur e Ussuri, fiumi che segnano il confine dei due grandi paesi per un lungo tratto nell'estremo est del continente, dalle parti di Kabarovsk. Pace o armistizio non erano mai stati firmati e quindi i controlli dei confini erano doverosi. Le rassicurazioni erano convincenti e poi, si diceva, "l'orso russo" incute sempre timore e tratta in modo impareggiabile i suoi ospiti. Tuttavia gli accompagnatori locali continuavano a raccomandare prudenza, consigliavano di non uscire, di sera, dall'albergo, di stare tranquilli che “mamma Russia vigila su di voi!” E se questo era vero, lo era molto di più per l'accoglienza che continuavano a riceve i ragazzi del Bacigalupo. Mangiate stratosferiche, alberghi di prim'ordine, ristoranti (sempre in albergo) con portate che ti facevano ricordare le strepitose trattorie langarole ed i vini del Monferrato. Una pacchia! Ma si sa, i giovani non sarebbero giovani se non fossero un po' anche pazzi. E qui Laudi, con la compagnia di Tosatto, ne combina una delle sue. Spirito libero, poco

162 amante delle costrizioni obbligatorie, Laudi decide di verificare di persona in quale posto si è andato a ficcare. Attraversa, sempre con Tosatto, la hall dell'albergo, si reca nel giardino che circonda l'edificio e si appresta a scavalcare il muro di cinta per vivere, come piace a lui, la città. Non fa in tempo a mettere i piedi per terra dall'altra parte che si sente afferrare per la collottola da due enormi manone appartenenti ad un poliziotto che, come era stato detto, vigilava sulla comitiva. In quel preciso momento Laudi, rivive in due attimi l'intera sua ancor breve vita.

Alla fine del fulminante revival, mentre si sentiva forse spacciato, aveva pensato al proprio funerale, al funerale di Maurizio Laudi da Torino, Italia, ex giocatore del River, acquistato per tre palloni ed un paio di scarpe bullonate dal Bacigalupo, gratificato dei gradi di capitano per una sola partita in cui aveva sbagliato volutamente anche un calcio di rigore perché lo riteneva ingiusto per gli avversari, ex studente di giurisprudenza, ex presidente delle vecchie glorie del Baci (se ci sarebbe arrivato!), ma rimasto coerentemente uomo libero, con proprie idee espresse in modo libero, amico di un certo Parlagreco di cui ricordava ancora una lettera giuntagli per posta a casa in cui veniva incoraggiato, come i propri compagni, a continuare l'attività dopo una batosta subita da una squadra avversaria. Da uomo incorporeo aveva anche potuto sentir tessere gli elogi funebri da un notabile della propria città che era tutto un inno alla sua schiettezza, alla sua libertà di pensiero. Quando poi il corteo funebre aveva iniziato la sua faticosa salita al camposanto (di un uomo morto si dice, sempre, "se lo sono portato su", intendendo, in uno, l'atto fisico del trasporto al loculo del quinto gradino e quello metafisico dell'assunzione al cielo!) Laudi si era perso dietro ad una sua fantasia. Aveva immaginato che una gigantesca operazione di polizia, la polizia sovietica, avesse portato a termine la schedatura di tutta la comitiva: per ognuno era stata redatta una scheda veritiera, sulla quale, cioè, erano segnate le colpe nascoste, i vizi segreti, i difetti negati, i pensieri muti. Si era quindi domandato cosa ci sarebbe stato scritto sulla sua. Dopo una specie di veloce bilancio, aveva concluso: "nulla!". Era nata, allora, una sorta di paragone tra se e gli altri compagni di viaggio ed aveva pensato a come sarebbe stato descritto, in Italia, dalla fantasia popolare. Con le mani attanagliate a quel pallone che non aveva voluto calciare in porta e che, sempre la credenza popolare, pensava fosse un pirla,

163 oppure con due alucce che gli spuntavano dalle scapole e che l'avrebbero immortalato tra i ragazzi d'oro da santificare?

Anche se il brano precedente è stato liberamente tratto e… manomesso da un romanzo di Camilleri, la realtà fu molto più prosaica e Laudi e Tosatto furono, semplicemente, riportati all'interno dell'albergo e consegnati agli esterrefatti accompagnatori che non s'erano accorti di nulla. Non risulta se ci sia stata una verifica al fondo dei pantaloni dei due ragazzi, certo è che furono attimi, pochi attimi, di apprensione. Terminata, e bene, l'avventura, si ripensa a giocare. La sera dopo l'incontro con i poliziotti uzbechi, il Baci va giocare in un altro stadio stracolmo e se la partita viene ancora persa, per 1-0, capiterà un accidente che contribuirà a scaldare l'ambiente e, forse, a rendere, se possibile, ancora più amici due già grandi amici. In una azione di gioco, verso la fine del match, Walter Cravero subisce un tackle che gli procura, si saprà dopo, la frattura del perone. Dopo la gara tutti di corsa all'ospedale per verificare la situazione medica dell'elegante terzino: ingessatura dell'arto e rilascio quasi immediato. Cravero che ha già dimenticato l'incidente in quanto il trattamento, in tutti i sensi, ricevuto lo ha appagato oltre misura, pensa soltanto ad una cosa: ed adesso come farò a seguirvi, mica mi mandano da solo a casa? Niente paura, ci pensa Sergio Rossano. Da quel momento Rossano sarà la stampella di Cravero. Se lo carica sulle spalle, letteralmente sempre e per tutti i dieci giorni rimanenti, e se lo porta a spasso ovunque si rechi il Bacigalupo. Meno quando deve "parlare" con Anjey! Gran bell'esempio di ferrea amicizia, tanto che la proposta di dare il cambio a Sergio non viene neanche presa in considerazione da quest'ultimo. Unica consolazione viene data dall'esenzione dai leggeri allenamenti a cui Rossano non partecipa che in parte, in quanto i muscoli se li “scalda” di per sé. Due giorni dopo l'incidente a Cravero che ha ancora il gesso non del tutto pietrificato (ma ci pensano le spalle di Rossano!), si vola a Frunze, grande metropoli, capitale della Repubblica Socialista del Kighizistan, due milioni di abitanti e solite forze militari a circondare la città. Qui sono ancora più numerose perché la vicinanza coi cinesi e minima. Ancora accoglienze entusiastiche, calore di un pubblico che si credeva freddo e che freddo non lo sarà mai. Alla sera visita in un teatro con,

164 per i ragazzi, un nostalgico Inno di Mameli suonato alla vigliacca e cantato da tutti, ma proprio tutti i nostri connazionali. Ci sarà anche l'incontro con un personaggio che in Russia è un idolo e che, in quelle settimane, si esibisce a Frunze. Si chiama Popov ed è un clown super famoso anche in occidente. Al ritorno in albergo dopo le spassose prove di Popov, altro incontro eccezionale, che causerà non pochi sommovimenti tra tanti 007 occidentali e che costringerà alcune prestigiose testate giornalistiche mondiali ad occuparsi del Bacigalupo. Mentre l'intera comitiva sosta nella solita hall dell'albergo, si precipita verso di essa un signore di alta statura e che pare affannato. E' Vittorio Citterich, corrispondente della RAI da Mosca. Ha appena visto una miriade di manifesti murari che annunciano una partita della Nazionale italiana contro la squadra del Frunze, militante nella Serie A sovietica. Ma come, dice subito Citterich, l'Italia azzurra viene in URSS, a Frunze e nessuno me lo viene a dire? Ma, in Italia, si sa che anche da queste parti il calcio è un veicolo promozionale importante, che qui, gli stadi, sono sempre pieni? L'equivoco viene presto chiarito e Citterich, che era venuto in Kirghizistan, a Frunze, per la "prima" dell'opera pucciniana "Tosca", se ne ritorna più tranquillo a teatro. Ci vediamo domani allo stadio, dice, e così ci saluteremo. In quelle tre gare disputate, la televisione di stato sovietica era sempre stata presente con trasmissioni in diretta dell'evento, ma questa volta anche i cineoperatori di Citterich si occuperanno del caso e l'episodio verrà riversato sui nostri teleschermi durante una trasmissione, "TV7", che ai tempi imperava in quanto a servizi politici e di costume. La storia avrà ancora un seguito di tutt'altra natura. La partita, anche questa volta, viene persa, 2-1, ma i trentamila presenti sugli spalti, più che meno, dello Stadio Lenin, sempre lo stesso nome in migliaia di località, strade, monumenti e palazzi, riserveranno tanti di quegli applausi a nostri giocatori come rare volte si è visto da un pubblico esterno verso la squadra avversaria. Ora si deve ritornare. Il giorno dopo partenza per Mosca e qui ci si ferma un paio di giorni che vengono ben spesi con visite alla città, ai musei più importanti ed ai grandi magazzini GUM. Dall'aeroporto intercontinentale di Sheremetjevo si parte per Zurigo. Non prima di aver fatto qualche acquisto nel Beriozka, negozi in cui si vende di tutto ma solo agli occidentali, dello scalo moscovita. Le solite

165 matrioshka, bambole di legno che si trovano in ogni dove, ma proprio dappertutto, attirano l'attenzione di Castelli che, evidentemente disattento (dicono che "puntasse" esclusivamente le ragazze brune!), si accorge della loro caratteristica soltanto a bordo dell'aviogetto. Ci penserà Lanfranco che gli cederà una delle sue. A questo punto avviene il fatto più struggente e tenero dell'intero viaggio. A questo punto si scopriranno gli altarini. Quando tutti sono ormai a bordo, ci si accorge che manca Sergio Rossano. Rapido consulto tra gli astanti e poi qualcuno dice di guardare fuori dai finestrini. Francone, ancora in piedi, si sporge dalla scaletta e scorge il compagno abbracciato alla bellissima Anjey. I due sono appoggiati al fianco del bus che ha portato i passeggeri dal terminal ai piedi dell'aereo e mentre Sergio accarezza i capelli della ragazza, lei scoppia in un pianto irrefrenabile. Pochi attimi e la ragazza scappa , per poi fermarsi con le spalle voltate a pochi passi da Rossano. Lui se ne viene via e sale, mentre Anjey, lentamente, si allontana dallo spiazzale. La si vedrà ancora per un istante quando il velivolo inizierà a rullare sulla pista, quasi un'ombra disperata con le braccia alzate. Rossano, per alcune ore se ne starà rintanato sul suo sedile, silenzioso e pensieroso, ma il terrore per il volo lo attanaglierà ugualmente tanto che solo all'arrivo riassumerà i colori normali del volto, salvo riprendere il pallore di prima per l'ultima definitiva tappa. Da Zurigo, quindi, ultimo salto a Linate e poche ore dopo si è a casa. Ma non è finita. Nella settimana successiva, infatti, prima "Stampa Sera", nelle pagine dello sport, e poi la trasmissione televisiva "TV7" con un servizio eclatante di Vittorio Citterich sulla situazione ai confini russo-cinesi, in cui verranno proiettati spezzoni della gara giocata a Frunze dal “Baci”, smuoverà ben determinati ambienti. Inizia il "New York Times" con il pubblicare una corrispondenza da Mosca, nella quale il giornalista illustra per filo e per segno il viaggio del Bacigalupo, "famous soccer's team of Turin" dice nel pezzo. Contemporaneamente il corrispondente da Roma del grande giornale statunitense, Leon Lenoir, evidentemente strigliato dai suoi superiori, chiede un colloquio al presidente Francone. Ormai si sa tutto in giro e Lenoir dovrà accontentarsi di stringere amicizia con i nerazzurri di cui, per alcune stagioni, si farà anche socio. Ma Francone è sempre più stupito; riceve strane telefonate dalla Prefettura torinese, emanazione del Ministero degli Interni, gli chiedono ragguagli ancora da Roma, non si sa bene se dagli Esteri o

166 dall'ambasciata americana, anche se l'accento del tale che parla al telefono non è proprio del paese di Dante ed infine si fa vivo un brillante personaggio, Brian Glanville, famoso telecronista della BBC inglese. Glanville viene persino in Via Rubiana, sede del “Baci” ed è accompagnato da un eccentrico signore, alto, biondo, allampanato che per tutto il colloquio non dice una parola che è una, salvo salutare con un "by" quando ci si lascia. Poco dopo la BBC trasmetterà, lo ha comunicato Glanville a cose fatte, un servizio sulla Russia ed il Bacigalupo ci farà una gran bella figura. Non stupitevi di questi interessamenti, perché sono ancora i tempi della "guerra fredda" e gli occidentali sono sempre sul chi vive per coloro che vanno in Russia e che ci stanno quindici giorni. Ma la vicenda finisce lì e poco dopo anche il “Baci” deve pensare alle sue squadre, alla vita sportiva di tutti i giorni e lo stesso Laudi deve impegnarsi in quel corso di laurea che segnerà la sua vita e che gli consentirà di entrare a far parte della Federazione Italiana Giuoco Calcio, prima al Comitato Regionale LND e poi nelle alte sfere. La trasferta, tuttavia, farà epoca e per tanto, tanto tempo se ne continuerà a parlare, almeno sotto l'aspetto dell'esperienza vissuta. D'altronde se si pensa che ancora oggi, come conferma Laudi durante il nostro lungo colloquio, vengono ricordati persino i minimi particolari del viaggio non si può non considerare fantastica la "spedizione" nerazzurra ai confini con la Cina.

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Capitolo XII

L’arbitro di calcio, ma chi è?

Una componente importante… sbagliato, una componente proprio determinante del gioco del calcio è il direttore di gara, il tanto bistrattato arbitro. Ovvio, vero? Parlare di coloro che in giacchetta nera, e di questi tempi quasi in technicolor, dirigono il traffico delle migliaia di gare settimanali che si svolgono nella nostra regione è un fatto doveroso. Chi segue da vicino gli aspetti del reclutamento, formazione, disciplina, aggiornamento di questi ragazzi ed anche di alcune ragazze non può non essere in disaccordo con quei luoghi comuni che identificano i “fischietti” come una sorta di frustrati che sfogano le proprie insicurezze su di un campo di gioco, come un genia di presuntuosi che colpiscono i deboli e proteggono i forti, come, soprattutto, una congrega di incompetenti che non fanno altro che rovinare partite, il loro ambiente e i loro risultati: queste sono baggianate che soltanto l’acredine dei meno intelligenti o il livore di qualche ottuso tifoso può ancora portare in giro per le nostre tribune. Prima, tuttavia, di andare a fondo su questo aspetto, di parlare cioè dell’organizzazione arbitrale a Torino e dintorni, di come è nata, di come si evoluta, desidero sottoporre al lettore alcuni raccontini, tutti veri, tutti sacrosantamente veri, che riguardano ciò che esiste a lato di un arbitro, ciò che non si vede, quale è lo spirito (mi verrebbe da dire: l’anima) di quella certa persona che fa, anche, l’arbitro, dopo aver sgobbato, come tutti, cinque giorni su sette sul proprio posto di lavoro o di studio. L’autore delle righe che seguono e che non vuole essere citato ma di cui si intuisce nome e cognome, non è il solo a palesare simili comportamenti, non è soltanto lui a “tirare la carretta” carica di cose intelligenti. Sono una bella schiera questi ragazzi che sembrano decidere le sorti di una gara, di un campionato dei dilettanti o di un torneo giovanile ed invece valgono tanto quanto un centravanti che fa trenta gol a stagione o, anche, di un portiere che ne “azzecca poche” in quella determinata domenica: hanno la stessa passione, la stessa volontà, non sono

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effimeri, hanno costanza ed una solida preparazione, ma possono sbagliare, come succede a quasi tutti gli umani. Ciò che deve farli considerare coscienziosamente è il fatto che, nove volte su dieci, possiedono una cultura di base molto superiore al giocatore, sovente coetaneo, che incontrano domenica dopo domenica, altrimenti avrebbero scelto un’altra strada e non quella, difficile e “pericolosa”, del dirigere una gara di football. Le piccole storie che leggerete qui di seguito vogliono soltanto far comprendere, prima, come il calcio aiuti e, dopo, come le esperienze arbitrali, il concetto di essere sopra le parti mettono in condizione la “persona” di essere enormemente più sensibile verso coloro che sono stati tanto più sfortunati nella vita. Ed è una gratificazione.

La prima storia. “Marco, ora giovane adulto, ha manifestato il primo episodio psicotico cinque anni fa, concluse un'infanzia e un'adolescenza apparentemente normali. Primo ricovero dopo due anni, quando non è stato più possibile contenere con terapia a domicilio la sintomatologia e l'angoscia conseguente. Nei ricoveri in Ospedale a Villa Cristina, Marco ha frequentato alcuni laboratori per pochi incontri, poiché emergeva una caduta di autostima collegata ai suoi ricordi scolastici. L'unica attività nella quale ciò non accadeva era quella del gruppo calcio, attraverso la quale Marco recuperava sicurezza e capacità di relazionarsi con i compagni, attingendo alla passione per la squadra del cuore e alla profonda conoscenza delle vicende del campionato nazionale. Dopo la dimissione è nata quasi per gioco la possibilità di prolungare la partecipazione al gruppo: allenatore nella palestra della circoscrizione con cui si stavano prendendo accordi. Si è impegnato con serietà professionale in questo compito, preparandosi a trasmettere la tecnica con l'osservazione attenta degli allenamenti "ufficiali". In questo percorso sembra acquisire sempre più capacità di adeguamento alla realtà, autoaffermazione, coesione delle funzioni relazionali e di autonomia emotiva. La sua storia fa riflettere. Gli psichiatri affermerebbero che la palestra ha per lui una funzione di "area transizionale" nella quale, appoggiandosi a figure terapeutiche positive, Marco può sperimentare il funzionamento di un Io più coeso. A me piace

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pensare che la palestra vera sia anche una palestra metaforica, dove la malattia è un pallone che con un calcio vola lontano almeno per un po': se ben lanciato, può fruttare la vittoria personale e della squadra. Oggi Marco ha un lavoro, ed è sempre disponibile ad aiutare gli altri in una associazione di volontariato”. La seconda. “Giovanni, uno psicotico grave, mi incontra sul campo di calcio per la prima volta. Gli dicono che io sono un arbitro internazionale e lui, ridendo di gusto, risponde: Sì, vabbè, e io sono Napoleone! Testuale”. La terza. “Luca, che soffre di autismo e di grave depressione, solitamente non si relaziona con nessuno. Mi riconosce nello spogliatoio e, con enorme stupore del suo terapeuta, anche lui presente, mi chiede perché due anni prima in una particolare partita abbia dato un rigore contro la sua squadra del cuore, espellendo pure un giocatore”. Imbarazzante. Queste sono state piccole storie di ragazzi cresciuti nell'attesa di diventare grandi giocando a pallone, e di ragazzi che hanno visto la vita farsi gioco di loro stessi. Ma esistono ancora altre esperienze che vale la pena leggere. La quarta, determinante. “A Villa Cristina e con l'Associazione di Volontariato A.G.A.P.E. che attiva un nostro gruppo calcio, abbiamo sperimentato la sensazione di aprire canali di comunicazione altrimenti ostruiti o non realizzabili a causa della patologia. Sono cattolico e penso che la Provvidenza si serva anche di questi canali. Il calcio è stato, in un torneo interno che abbiamo chiamato, emblematicamente, "Sportiva-Mente", il pretesto per comunicare fra persone attraverso l'organizzazione di una squadra con ruoli ben precisi, dal magazziniere al presidente, dall'allenatore al capitano: abbiamo percepito soprattutto speranze! Gli arbitri che per volontariato hanno diretto le gare non conoscevano squadre e giocatori composti da quattro “utenti” e sette operatori. Sottoposti ad un semplice test, gli arbitri hanno dato tutti risposte inquietanti e sorprendenti. Alla richiesta di distinguere fra operatori e utenti li hanno confusi

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clamorosamente! Troppo spesso, quando ci sentivamo in dovere di dire a noi stessi che quella persona, paziente ricoverato, non ce l'avrebbe fatta a giocare a pallone ci siamo sbagliati. Questo errore è la nostra gioia più grande. Abbandonati i modelli psichiatrici, ci siamo accorti che i ragazzi, e noi con loro, gioivano nel mettersi in gioco, nel rivedersi nei filmati delle partite, nello schierarsi a centrocampo, durante l'appello dell'arbitro nello spogliatoio. Il sentirsi parte integrante ed utile alla squadra cancellava le delusioni patite, ci confermava nelle attese e rafforzava nella speranza di un futuro più sereno, fatto di solidarietà e giustizia. Tutti ci sentivamo protagonisti, considerati persone, attori di uno spettacolo che era la vita stessa: calciatori”. Il football ha fatto questo e molto altro, l’arbitro di calcio ne è stato il filo conduttore. Una conclusione. “Se nelle grandi ribalte il calcio, troppo spesso, "chiude" i canali di comunicazione, nelle occasioni appena descritte li apre più di quanto sia immaginabile. Nelle partite e negli allenamenti che svolgiamo insieme due volte la settimana (formazioni miste di “utenti”, operatori e volontari) accadono cose miracolose. Persone che normalmente non si relazionano con medici, infermieri o psicoterapeuti, partecipano a discussioni sulla tattica, sulla formazione o su quanto accaduto durante la partita. Inoltre il fatto di ritrovarci tutti nello spogliatoio (luogo aggregante e di grande complicità) con la stessa divisa mette operatori ed utenti sullo stesso piano, senza distinzioni. Penso ad un ragazzo che ha una patologia molto grave: non tollera il benché minimo contatto fisico con altre persone. Se lo sfiori urla. Ma quando gioca cambia, se segna un gol è lui che corre ad abbracciare gli altri: incredibile! Rivivendo le mie domeniche arbitrali, spesso alcune persone che in terapia vengono curati per la loro agitazione, mi dicono: "Hai sbagliato perché sei nervoso, devi stare più calmo". Ecco, è questo per me il vero messaggio del calcio. Non (o non solo) quello che sovente, la domenica, degenera nelle polemiche. Persone depresse o con patologie psichiatriche vivono, grazie al pallone, la parte sana che hanno dentro: tutti

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in divisa come giocatori di serie A, non ci sono "malati" e non malati. Non sono, non siamo soli in questa attività di volontariato: con me (capito, vero?) e il presidente della nostra Associazione Paolo Ravizza (assistente arbitrale in Serie C) abbiamo trovato amici che collaborano con noi. Anche personaggi di spicco come l'amico e collega , l’altro arbitro , l'incredibile Marco Berry, prestigiatore e "iena": sono queste le iene che amo, non quelle che talvolta si incontrano anche sui campi di gioco. E con loro tanti altri amici che ci consentono di progredire nelle nostre terapie di recupero”.

Dopo aver dato un’idea di come l’arbitro può proporsi quando ha raggiunto un certo traguardo, perché è indubbio che la notorietà aiuta ma è il “cervello” che ti porta… più avanti, è ora di parlare della rinascita, della crescita e del rituale sviluppo dell’Associazione Italiana Arbitri a Torino. Come ho anticipato alcuni capitoli prima, nel secondo dopoguerra il calcio aveva da subito ripreso le sue funzioni di aggregazione, di allegria, di spensieratezza. E da subito si era data un’organizzazione capillare, regione per regione, provincia per provincia e, in questo caso che parliamo di arbitri, sezione per sezione. A Torino l’AIA si è riformata in contemporanea, viene da dire obbligatoriamente, con le altre componenti del calcio ed aveva cominciato a funzionare egregiamente. Partendo da quella stanzetta di via Ponza 2, al piano rialzato di quel solito caseggiato dove c’era tutto il calcio di casa nostra, anche i responsabili dell’AIA, appena nominati, cominciarono a tirare le fila. Da quando, nel 1911 a Milano, alcuni volenterosi come , Umberto Meazza, Enrico Canfari, Luigi Bosisio avevano fondato l’AIA e dopo la Grande Guerra avevano esteso il proselitismo istituendo una serie di capillari “sezioni” sul nostro territorio, l’organizzazione aveva assunto molto peso in quanto investita ufficialmente dalla FIGC di organizzare la direzione di tutte le gare di calcio che si svolgevano in Italia. Nel 1926 per ragioni che non sono riuscito a sapere e che nessun testo è riuscito a spiegarmi, l’AIA è sempre stato una sorta di “società segreta” gelosa della propria autonomia fino all’eccesso, l’Associazione Italiana Arbitri si sciolse e venne costituito il C.I.T.A. (Comitato Italiano Tecnico Arbitrale), sempre guidato da Giovanni

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Mauro, vero e proprio “padre” della categoria. La stessa rivista ufficiale dell’associazione, “L’Arbitro”, che già in quelle stagioni usciva con una certa regolarità a rappresentare i direttori di gara, ci passa sopra a questa notizia, e continua imperterrita a discorrere, meglio, a scrivere, dei fatti suoi senza intavolare discussioni sul cambiamento: è probabile che c’entri il regime, siamo da poco entrati nel “ventennio”, ma sono solo ipotesi che vi passo per quello che valgono. Nel 1945, a fine del ’45, proprio mentre iniziamo la nostra storia, il CITA, tuttavia, esala gli ultimi respiri e ritorna a chiamarsi AIA ripartendo, come detto poco sopra, da via Ponza. E’ di quei tempi l’ingresso di De Michelis, di Mainero, di Giari, di un segretario AIA che farà strada nel calcio piemontese, un certo Felice Trentin, diventato in seguito uno dei padri fondatori del calcio moderno locale e, quando la sede degli arbitri viene trasferita in via Bogino, si ricordano i Rigat, i Cavallari e subentra sempre, l’ottenimento di una sede separata va in questa direzione, quella voglia di autonomia dalla FIGC che sarà vanificata nel 1960, come detto in un capitolo precedente, dal commissario straordinario Zauli che obbligherà i “fischietti” a diventare Settore Arbitrale nell’ambito, fraterno ma imperativo, della Federcalcio. Ma per tornare ai primordi, va sottolineato che ci fosse entusiasmo, come è capibile, per un “movimento” che si metteva a girare per il verso giusto e tanta voglia di fare, e ancora di fare, di ritornare a fare le cose per bene, come nei dilettanti e tra i ragazzi si sono sempre fatte, con le dovute millesimali eccezioni che stanno lì a confermare le tante regole che si sono rispettate. A dimostrazione di come potesse essere lo spirito, la passione, la grande voglia di indossare la camicia bianca e la giacchetta nera o di impugnare il fischietto, vi sottopongo un sorta di rapporto, di articolo, non so bene cosa, che un arbitro ha scritto nei primi mesi del dopoguerra e se le parole in corsivo vi pareranno fuori posto non abbiate dubbi, non sono state scritte a caso o per un errore tipografico, significano semplicemente che quella gente, quegl’arbitri erano delle persone straordinarie che manco i vocaboli prima espressi possono dare l’idea piena del loro carattere. Questo “pezzo” l’ho scovato negli archivi nazionali dell’AIA, durante le mie ricerche, e se fate attenzione al senso del contenuto, ai vocaboli, aulici qualche volta, che quest’arbitro usa, alla pacatezza dello scrivere anche dopo la legnata che si è beccato, a certe

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descrizioni rassegnate della location, maledetto termine anglosassone che, comunque, è consono alla definizione del luogo in cui si svolge la gara (la corda che separa giocatori da pubblico, lo spogliatoio dell’arbitro a cinquecento metri dal campo, in un ristorante, magari dello sponsor della squadra!), ne trarrete una bella lezione su come era molto difficile operare e su come, tuttavia, si doveva andare avanti. L’ultimo passo, poi, del dopo partita, quello in cui il “nostro” Cattaneo, ancora sanguinante, passa tra una folla silenziosa e, si intuisce, quasi vergognosa di cosa è stato fatto al direttore di gara, sembra tratto dal libro “Cuore”: l’eroe che avanza e fende la folla ammutolita! Eccovi il racconto.

“Anno 1946: girone di andata, ultima gara cha doveva decidere il “campione d'inverno” del campionato di Prima Divisione, fra le squadre del Menaggio e dell'Olgiatese. A me l'onore e la responsabilità di dirigere una competizione che si preannunziava assai impegnativa. Parto alla ore 8,00 da Rovellasca (all'estremità sud del comasco) e, in treno, mi dirigo a Como dove mi fermo nella mia Sezione, nella quale era in corso una importante riunione (tecnica) tenuta dal presidente dalla Lega Regionale (della Lombardia, ndr), Dino Ciceri. Saluti, scambio di opinioni, raccomandazioni, auguri, e via alla volta di Menaggio. Sono accompagnato dall'anziano collega Caglio ed, in corriera, giungiamo a destinazione alle ore 11,30. Ci rechiamo al ristorante dove consumiamo una leggerissima colazione che non comprometta la direzione della gara. Alla fine domandiamo l'ubicazione del campo di giuoco e veniamo a sapere che il campo è collocato a cinquecento metri di distanza (da fare a piedi) ma con lo spogliatoio dell'Arbitro lì, al ristorante. I nostri informatori erano i dirigenti del Menaggio che, con grande cordialità e premurosa sollecitudine, si offrono di accompagnarci. Alle ore 14 sul campo. Constato che tutto è regolare: la corda di recinzione ben tirata, cartellini e appello in ordine, i giuocatori in perfetta tenuta, tutto a posto. La giornata è bella e serena, ma gli spettatori che si erano ammassati dietro le corda mi sembravano un po’ troppo eccitati: avevano ragione i colleghi, sarebbe stata una partita difficile!

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Fischio il segnale di inizio partita, e tutto procede nel migliore dei modi sino alla fine del primo tempo: competizione serrata, veloce, un po’ nervosa ma corretta, risultato 1 a 0 per i locali. L'intervallo lo trascorriamo sul campo ed in piedi; una bevanda, i complimenti del collega e l'augurio di proseguire così. Fischio l'inizio del secondo tempo e, dopo un solo quarto d'ora, i locali segnano e rafforzano il vantaggio 2 a 0, poi si chiudono in difesa ad attuano un chiaro ostruzionismo per non far passare i giuocatori avversari; diventano nervosi e praticano un giuoco violento e pericoloso, finché al 37’ del secondo tempo sono costretto ad assegnare un calcio di rigore a favore dagli ospiti; decisione infallibile: nessuna contestazione, tiro e rete; vantaggio compromesso, 2 a 1 per i locali. Segno l'ora del goal; mi avvio verso il centro campo.... dove non riesco ad arrivare perché un fanatico mi raggiunge dietro la spalla, mi rivolta e mi assesta un forte pugno sul labbro superiore: una profonda ferita, molto sangue che cola sul viso e sulla camicia, un po’ di confusione ed allontanamento dell'energumeno. Che fare? Decido di continuare al fine di evitare un maggior disordine, ma nella mente segno che il risultato della partita è ormai scontato. Trascorro gli ultimi otto minuti con grande sofferenza, ma riesco ad essere imparziale sino alla fine. Con il collega Caglio e con il dirigente Sig. Cerati (si suppone dei padroni di casa, ndr) ritorno al “mio” spogliatoio (a 500 mt.) passando fra una folla silenziosa. Mi lavo e la ferita appare evidente e seria. Mi rivesto e vengo accompagnato all'ambula- torio dai dirigenti locali; quattro punti di sutura al labbro superiore ed un dente rotto. Ed ora bisogna pensare al ritorno; ci sono due possibilità: ritornare in camion con la squadra dall'Olgiatese; oppure con il battello delle ore 18, attraversare il lago (di Como, ndr) sino a Varenna, poi viaggiare sul treno sino a Milano e con un altro treno arrivare al paesello alle ore 23. Scarto la prima soluzione per coerenza alla correttezza, viaggio cinque ore (anziché i normali 70 minuti). Giunto a casa, era notte, stendo il rapporto. Il lunedì, di prima mattina, vado dal mio Presidente, Mauri, il quale constata, si congratula ed approva. Al lunedì pomeriggio mi reco a Milano, dal fiduciario William Motta che constata la veridicità del mio rapporto. E viene l'importante.

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Il mercoledì pomeriggio, sorpreso, mi trovo in casa un signore che, levato un assegno in bianco, mi invita ed apporvi le cifra che volevo per risarcimento danni. Rifiuto infastidito, lo invito ad uscire; ma quello insiste perché, fuori, ci sono i dirigenti del Menaggio che vogliono parlarmi; era tra loro pure il presidente (assente sul campo). Scambio di idee sulla gara domenicale, nuova offerta di soldi, seguita da doveroso rifiuto, e comunicazione cha avrei ricevuto dalla Lega un supplemento di rapporto. Cha strano modo di vivere lo sport a quei tempi! Come mai potevano sapere, quei signori, ciò che avrebbero fatto gli organi giudicanti? Il venerdì ricevo, tramite espresso, l'invito ad effettuare il supplemento di rapporto. Al sabato pomeriggio sono in Lega dal fiduciario Sig. Motta al quale, presentato il documento in bianco, racconto tutto ciò che era accaduto, ora per ora, invito per invito, pressione su pressione. Motta sbianca in volto, mi accompagna dal Presidente dalla Lega Ciceri e tutto ha fine. Approvazione del mio primo rapporto, applicazione dell'allora art. 50, L. 5.000 di multa al Menaggio e risarcimento danni. E per me lieto fine: a termine stagione passo a disposizione all'organo superiore FAI (Interregionale) e poi in IV Serie. Pierino Cattaneo”

Il vero capolavoro, a mio giudizio, di questo scritto sta in quelle tre parole, tre verbi che il suo presidente di sezione profferisce o che, comunque, l’arbitro riporta: “il quale constata, si congratula ed approva”. Fenomenale, stringatissimo modo di dichiarare una cosa ben fatta. A Torino, intanto, la sezione viene spostata in via Sacchi, quasi all’angolo con il cavalcaferrovia di corso Sommeiller, ospitata nei locali del Dopolavoro Ferroviario. Siamo nel 1961 e dal 1955 ne è presidente il prof. Osvaldo Savio, cui seguirà poco dopo il fratello Ermanno. In quelle stagioni fa anche la sua apparizione un ragazzo di ventiquattro anni che diverrà un vero e proprio personaggio del nostro sport e che vedremo in tutte le “salse” calcistiche dei seguenti quarantacinque anni: si chiama Sergio Boccalatte ed a parte le centinaia di colleghi che incontrerà sul suo cammino, saprà essere un vero punto di riferimento allorquando diverrà dirigente del Comitato Regionale. Boccalatte arriva tardi a dirigere gare, anche se non è il tempo di cominciare a sedici anni come le “leve” di queste ultime

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stagioni stanno a dimostrare, e comunque fa in tempo a prendersi qualche soddisfazione girovagando per i campi della regione. All’epoca gli iscritti alla sezione torinese sono duecentocinquanta circa e la partecipazione, come ricorda sempre Boccalatte, è molto attiva tanto che nelle riunioni tecniche settimanali molti sono costretti a starsene in piedi al fondo della sala. Sono anni in cui in molti si mettono in mostra: chi per dirigere gare e chi per dirigere arbitri! Ai Bonetto e ai Liverani, in campo nazionale, fa seguito un Gianfranco Brocca che quando smetterà di correre sui campi, continuerà, con la sua flemma, a “correre” per i locali della AIA, prima, e della FIGC, Settore Giovanile e Scolastico, dopo. Ma si metterà in luce anche quel che, nei Mondiali del 1978, dirigerà la finale tra Argentina e Olanda. Intanto l’organizzazione arbitrale locale si evolveva e alla Sezione veniva accostato il Comitato Regionale Arbitri con un’altra figura dai compiti delicati ed impegnativi: il CAR, Commissario Arbitri Regionale, una sorta di responsabile tecnico dei direttori di gara. A Ferdinando Lombardi, a Gabriele Montalenti, a Gualtiero Pane, a Ugo Dallolio, si aggiunsero dirigenti come Romaldo Rostagno, come Antonio Trono, Domenico Lops, come Pietro Biasizzo, Felice Viterbo e, buon ultimo in ordine di tempo, Paolo Baldacci. Ovvio che queste persone sono state la punta dell’iceberg, mentre in ogni Comitato ed in ogni Sezione hanno “giostrato” decine e decine di dirigenti arbitrali che, comunque, hanno mandato in giro per il mondo ragazzi come gli stessi Trono e Lops, come il figlio di quest’ultimo, Giorgio, come l’internazionale per svariate stagioni e poi designatore insieme a Bergamo, Pierluigi Pairetto, suo padre Antonio che meriterebbe un libro a parte solo per lui, come Alfredo Trentalange, la cui gentilezza e modi di comportamento possono essere considerati da manuale e come Roberto Rosetti, uno dei migliori in assoluto. E’ a questo punto, dopo aver parlato della frequentazione delle sezioni, dei loro dirigenti e dei tanti associati che mi viene bene segnalare una lettera che un arbitro italiano, per la precisione di origini abruzzesi ma dislocato in mezza Italia per questioni di lavoro, ha inviato ai propri dirigenti chiedendo comprensione per le sue condizioni di vita. E’ una lettera accorata, che fa male al cuore quando si pensa che viene scritta da una persona che fa enormi sacrifici per conciliare la direzione delle gare con le esigenze della famiglia e quelle del lavoro,

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quindi della sua stessa esistenza. Siamo negli anni ottanta ed è proprio una vita da… arbitri quella che ci viene descritta in questo spaccato.

“Sono un arbitro ormai da anni. Iniziai così, senza tanta convinzione, ed ora a causa della mia vita particolare che sto vivendo, sono alquanto sconfortato ed amareggiato. Dopo sette anni di intensa attività arbitrale, mi chiedo se sono davvero un appassionato di tale sport: senza ombra di dubbio non posso che rispondere positivamente, visto che è stato con molta passione e con grande forza di volontà che ho superato e tuttora sto superando momenti critici e fortemente negativi. Causa il lavoro che svolgo conduco una vita difficile, senza tanti spazi alla mia vita privata che è pure disturbata nella tranquillità e nella serenità, in quei rari momenti di cui posso usufruire. Presto servizio presso l'Azienda Autonoma delle FF.SS. e attualmente lavoro a Vasto (Chieti) e avendo i genitori a San Benedetto del Tronto (Ascoli), mia città nativa, quotidianamente affronto un viaggio di circa 250 km, sei ore di treno tra andata e ritorno; mattino con dure levatacce e a casa solo a notte; questo ormai da quattro anni. Se le mie sfortune fossero tutte qui, non avrei modo di biasimare altri, nonostante la già stressante routine quotidiana, c'è da aggiungere che sono ormai circa cinque anni che “traghetto” gli Appennini poiché ogni venerdì, appena termino il servizio, parto direttamente da Vasto e vado a trovare la mia famiglia a Viareggio (Lucca) circa 650 km con dodici ore di viaggio. Vado a Viareggio a trovare serenità e pace, a degustare quelle misere gocce di piacere di questa tanto travagliata esistenza, a trovare anche il tempo di passare qualche ora a conversare con i miei compagni di Sezione e a fare un po' di moto per tenermi preparato alle designazioni. Purtroppo la mia vita coniugale e con essa anche la mia serenità, svaniscono allo scadere delle ventuno della Domenica poiché inizia il viaggio del ritorno per essere in servizio alle sette e trenta a Vasto giusto il tempo per maledire quel lavoro che è solo la mia condanna.

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Sono ormai anni che provo ogni strada per un agognato trasferimento a Viareggio o almeno nei pressi, ma ho provato la sensazione di essere abbandonato al mio destino. Capirete quindi che la mia passione per l'arbitro viene ridimensionata e, non potendo partecipare assiduamente alla “vita sezionale”, devo accontentarmi di restare agli ultimi gradini di una carriera che mi avrebbe tanto attratto. Vi chiedo comprensione e un po' di umana solidarietà perché questa è vita che esaspera, che innervosisce, piena di incubi, ne sono come allucinato e perseguitato: una vita ai confini dell'assurdo. La mia famiglia, nata già all'insegna della rassegnazione, come può aspirare a un po' di felicità...? Sono umiliato anche se purtroppo questa è una triste realtà. Se potessi, Vi chiederei un aiuto ma mi accontento quasi, anche solamente della Vostra partecipazione alla mia sventura. Benedetto Spano”

Io non so se nel frattempo l’amico Spano ha trovato la sistemazione lavorativa che agognava o se, al contrario, si è “dismesso” o l’hanno “dismesso”, per usare un termine che, forse, solo nel settore arbitrale è ancora usato, certo è che queste parole di uno struggimento unico fanno riflettere, o meglio, fanno comprendere cosa vuol dire far parte di un determinato “sistema” a cui, nonostante tutto, si vuole bene e da cui non si chiede altro che comprensione. Ed in fatto di comprensione, di “bilanciamento” delle situazioni, è anche simpatico raccontare di un “record” che una terna arbitrale ha stabilito quasi trent’anni addietro. Un cronista, evidentemente con molto spirito, descrive il “record” appena conquistato sulla rivista della categoria.

“Ore 1,30 di lunedì 7 febbraio 1977. Con uno stratagemma la terna arbitrale, dopo un assedio di oltre nove ore, riesce a lasciare indenne lo stadio di Ascoli. Si era disputata la gara Ascoli-Cagliari diretta dal milanese Ruggero Mascia, con la collaborazione di Giancarlo Gruppi della sezione di Milano e dell’aretino Gianfranco Bertini. E’ un record nazionale, superato in campo internazionale soltanto dal generale Custer nell’assedio dei Sioux del 25 giugno 1876”

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Non male per quando le cose finiscono bene e si possono prendere in giro gli stessi direttore di gara, serve a stemperare, forse a comprendere sino in fondo cosa passa per la testa a quei ragazzi, quasi sempre nell’occhio del ciclone. Ho voluto inframmezzare a una storia soltanto locale, com’è quella delle sezioni e del Comitato Regionale Arbitri di cui sto per farne una breve sintesi storica, alcuni interventi di associati AIA che con Torino nulla hanno da spartire se non per una condivisa appartenenza, ma è bene sottolineare che queste storie, tutte vere, sarebbero potute accadere tranquillamente nelle nostre contrade e pertanto venire descritte con nomi e località familiari soltanto se avessi potuto consultare archivi locali e non avessi dovuto, invece, rivolgermi ad alcuni depositari di… memorie ormai veramente sopite e soltanto da loro conservate in alcune riviste e nel proprio cranio sapiente. Ed a proposito di Sezioni, necessita segnalare l’aumento della “popolazione arbitrale” che va di pari passo con l’aumento della “popolazione calcistica”. Proprio per stare al passo con i tempi che impongono numeri sempre maggiori e direzioni di gara il più possibile precise, sorgono le Sezioni periferiche in giro per il Piemonte e la Valle d’Aosta. A Torino e nei suoi dintorni immediati, dopo la capostipite “Torino”, capitanata negli anni da Savio, Montalenti, Rostagno, Trono, Lops, De Fazio, Giudice, De Bonis, Fabbri e Malacart, sono nate le sezioni di Collegno e, qualche anno dopo, di Nichelino. A Collegno si inizia con Mario Pesando per passare, nel 1988, a Giorgio Ripanti (che aveva come vice il “futuro” Biasizzo!), quindi arriva Armando Piccato che in queste stagioni ha passato la mano a Gioacchino Annaloro. Sin qui i nomi, ma è certo che dietro a queste persone appena nominate c’è la solita passione, la solita voglia di crescere, di insegnare il “mestiere” nel modo migliore possibile anche con quella autorevolezza che, a volte, qualcuno ha scambiato per pignoleria o, peggio, per “distinzione di casta”. E’ noto, infatti, che la severità è insita nel dirigere, “arbitrare”, qualsiasi tipo di “tenzone” e se si vuole stare sopra le parti il ruolo è quello di parlare poco o nulla, di farsi vedere trasparenti, nel senso di non farsi notare: questi tipi di comportamenti, da sempre accettati da coloro che si iscrivono anche al primo corso per diventare arbitri, hanno disegnato l’ambiente e, di conseguenza, la categoria. Con questi concetti ben in mente, Antonio Pairetto, raccogliendo le istanze di alcuni arbitri iscritti a Torino ma abitanti nella zona, decise di fondare la sezione di Nichelino che divenne, negli anni, la più

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numerosa del Piemonte dopo quella del capoluogo. Antonio Pairetto, figura carismatica negli ultimi trent’anni del calcio giocato e organizzato, mancato improvvisamente nel febbraio del 2005, a cui, comunque, l’attuale presidente, Olinto Besio, ha voluto intestare la sezione, è stato un punto di riferimento eccezionale per i tanti che hanno pestato l’erba dei campi di calcio di tutta la regione. Come ha riferito Enrico Borio, suo grande amico e dirigente arbitrale per molte stagioni, in occasione dei funerali cui ha partecipato una moltitudine di persone: “Antonio era autorevole e colmo di quel buon senso che distingue le persone intelligenti. Se n’è perso lo stampo, ormai. Lo rimpiangeremo sempre”. Aneddoti, segnalazioni, fatti curiosi e, molte volte, gratificanti. E’ stata questa la scelta che ho fatto per parlare degli arbitri, dei “direttori di gara” delle migliaia di partite che ogni stagione si svolgono nella nostra regione, con una grossa percentuale a Torino e dintorni. Più che i nomi ho privilegiato la filosofia di vita di un arbitro di calcio, la sua compostezza, il suo valore culturale nel contesto di una disciplina sportiva che non è “fatta” soltanto di attori rozzi e ineducati, ma che, comunque, è abitata da gente per lo più negata alla proprietà di linguaggio e al valore della cultura in senso lato. Non è così per l’arbitro e se se ne vuole avere una forte riprova basta partecipare ad un raduno precampionato e parlare con quei ragazzi e con i loro maestri.

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Capitolo XIII

Scorza dura, ma…

Ci sono amici, dirigenti societari, appassionati di fulbal, chiamateli come volete, che sono nati al calcio per “germinazione spontanea”. Paiono una cosa unica con lo sport che li appassiona e, a volte, non si riesce a comprendere come facciano a compendiare la loro vita di relazione con… la relazione di tanti matti veramente legati al calcio. Un giorno che, con uno di questi signori, eravamo seduti, fianco a fianco, sugli scalini della tribunetta del campo di via Gottardo, ci eravamo trovati per assistere ad una finale di un torneo per bambini cui la sua società aveva partecipato, lui ruppe il silenzio che durava da qualche minuto, indicandomi un piccolo stormo di merli che “beccava” sul prato del campo di gioco. “Mi piacciono molto, gli uccelli, ma sono i gabbiani che mi fanno uno straordinario effetto”. Sulle prime non avevo compreso il significato di quella esternazione, fino a pochi minuti prima avevamo chiacchierato di calcio, di problemi del calcio, ma quando lui continuò mi resi conto del suo pensiero, del suo modo di essere e, soprattutto, che stava parlando maledettamente sul serio: “Tutte le volte che sono andato in vacanza al mare cercavo gli scogli per avere un posto adatto alla pesca. Mentre ero posizionato ed in attesa, a volte una lunga attesa perché non è e non era che fossi un pescatore granché dotato, ho cominciato ad osservare i gabbiani che, costantemente, volteggiavano a pochi metri dall’acqua e proprio davanti alla mia postazione cercando di farmi fesso ogni qualvolta una preda spuntava dal pelo dell’acqua; poi li ho osservati meglio e ho cominciato a chiedermi come facessero a stare quasi immobili, basculando in uno spazio di neanche un metro, con dei quasi inavvertibili movimenti d’ala. Fantastici, mi sono detto, mica sono elicotteri! Ho smesso di andare a pescare, ma andavo, quando potevo, su quegli stessi scogli a vedere i gabbiani che libravano davanti a me e, dato che non pescavo nulla, mi ero deciso a comperare qualche pesciolino dal bottegaio che aveva una bancarella proprio a pochi metri dalla battigia. Li guardavo, gli buttavo qualche pesce che loro, immediatamente, riuscivano a carpire, ma soprattutto

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li stavo ad osservare per qualche decina di minuti. Mi sono reso conto, in questo modo, da quale fantastica bellezza siamo circondati: io, ora, dei gabbiani so quasi tutto, ma una cosa nessuno mi ha mai saputo chiarire. Come fanno quegli uccelli a librarsi, quasi fermi, movendo appena appena una parte d’ala?”. Finita l’esternazione, capisce il mio stupore e mi guarda dal basso verso l’alto, lui, da seduto, si è chinato a raccogliere una pagliuzza, ma non aggiunge altro. Forse intuisce di non trovare condivisione sullo stesso argomento, mentre la mia è pura ignoranza che tuttavia mi fa pensare a quell’omone tanto delicato, a un amico che credevo votato al pragmatismo ed invece ha perfino pensieri profondi… sull’esistenza del trascendente che fa librare i gabbiani. Questa è la premessa per conoscere meglio un dirigente di calcio che con la sua società si è “librato” per tante, tante stagioni con pacatezza, serietà ed ha contribuito a far crescere per bene un’infinità di ragazzi. Qualche stagione addietro, in un periodo non proprio felicissimo ma comunque di cambiamento, avevo incontrato quest’amico e l’avevo osservato, a volte da vicino, a volte per interposta persona, ma sufficiente per ottenere il profilo esatto di una persona per bene, di cui conoscerete tra breve il nome e il cognome. Così, ne avevo scritto.

E’ là. In quelle due stanzette, al fondo del cortile, borgo antico, Barriera di Milano, che sta imballando le ultime cose. Li porta bene, molto bene, ma ha passato i sessant'anni; ben oltre quaranta di calcio giocato, organizzato, diretto; qualche gioia, qualche soddisfazione grande, tanta nostalgia e non poca amarezza. Si chiama Bruno Zerbin ed è il presidente della Società Sportiva Borgo Rossini di Torino e non sta tirando i remi in barca. Semplicemente deve cambiare aria, deve tra- slocare, deve, deve... Già, quella in cui troviamo Zerbin è l'ultima sede della società e le troppe lirette che è obbligato a sborsare per l'affitto l'hanno costretto a disdire il contratto. Ma l'anno nero non si staglia con l'abbandono del ritrovo sociale, c'è anche la grana dei "Giovanissimi": "Sai - mi dice - mi hanno portato via ben dieci ragazzini in questi ultimi giorni (i soliti club amici!) me ne sono rimasti sette ed ho dovuto disdire l’iscrizione già fatta a suo tempo, con il risultato che probabilmente mi rifileranno mezzo milione di multa ".

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Ma non c'è rabbia nella sua voce, è, come al solito, pacato, da gran signore. L'amarezza, tuttavia, la si coglie palpabile dal suo sguardo, da qualche venatura della parlata. Ed allora il pensiero ci ritorna agli anni passati, agli anni che Zerbin serba, orgoglioso, nella memoria ed appesi alle pareti di quelle due stanzette, con le tante fotografie che lo circondano. Nota il nostro sguardo e con un filo di voce indica le foto e dice: "Quelle le porto via per ultime!" Nata nel 1949 (pochi anni fa, nella più assoluta sordina, ha compiuto cinquant'anni) l’Unione Sportiva Borgo Rossini ha vissuto dieci lustri di decorosissima esistenza, inventata da quel eccezionale personaggio che risponde al nome di Evaristo Maghini, un uomo che il mondo del calcio torinese si vanta di aver posseduto e che è scomparso nel 1992. Zerbin che aveva smesso di giocare nel 1965, si era fatta la morosa andandosi a scegliere proprio la figlia di Maghini, cadendo, si fa per dire, nella brace di quel vulcanico presidente che non ci aveva messo un niente ad accaparrarsi un nuovo dirigente. Allora si giocava nel campo del "Borgo Rossini" (terreno comunale situato in Corso Vercelli, prima di Corso Sempione) che solo in questo modo era da tutti conosciuto. Maghini, l’Evaristo come gli piaceva essere chiamato dagli amici, era arrivato da Ferrara poco prima dell’inizio della guerra ed in pochi anni si era costruito la fama di ottimo dirigente di calcio, tanto da convincere l’amministrazione comunale a farsi assegnare quello spazio erboso, circondato da qualche cascina e poche case della borgata, e costruirci un bell’impianto di calcio. Con le sue sole forze e con qualche amico che non lo ha mai abbandonato, aveva costruito una “baracca” per gli spogliatoi, rullato il campo, tracciato e tentato di seminare (troppa gente che ci giocava, poche speranze che il fondo rimanesse intatto!) e, attorno, aveva tirato quattro paletti che contenevano la “corda”, l’unica recinzione interna che divideva atleti dagli spettatori, come s’usava all’epoca. Quando i figli erano ormai cresciuti e lui aveva molto più tempo a disposizione, ci lavorava a tutto spiano, tutti i pomeriggi a tagliare erba, spianare le buche del campo, rattoppare una porta presa a calci da qualche avversario che non aveva gradito subire una batosta sul campo, radunare gente per guidare le sue numerose squadre, perfino far giocare uno dei suoi figli che

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diverrà un bel giocatore nel Toro dei Vatta, dei Cozzolino, mentre Zerbin cominciava a fare i primi passi seguendo qualche squadretta. Belle battaglie nel quartiere e non solo nel borgo e grossi sorrisi di soddisfazione per certe gagliarde vittorie ottenute in quei tempi. Alcuni anni dopo arrivano alcuni uomini di spicco, si consolidano le fila dirigenziali e il Borgo Rossini è una delle poche realtà cittadine che, in quelle stagioni, siamo negli anni settanta/ottanta, riesce a costruirsi un proprio impianto di gioco: si va a giocare in Via Reiss Romoli, poco oltre Piazza Rebaudengo, su di un terreno che un privato intende vendere alle Ferrovie ma che non ha nessuna fretta: “Non si preoccupi signor Maghini, hanno da passare anni prima che qualcuno voglia comprarmi ‘sto pezzo di terra, proprio a fianco della ferrovia per Milano!”. Qui Maghini compie un atto di ingenuità che, per la volpe che era, in molti si stupiranno. D’altronde, si era detto, chi va comperare un terreno proprio a fianco di una ferrovia così battuta? Confidando nelle sole parole e pensando che il terreno potesse stare nelle sue mani per chissà quanti lustri (e poi, mi aveva anche confidato, “l’usucapione varrà ben qualche cosa!”) costruisce due campi di calcio, uno da tennis, una sede, un bar e molto, molto decoro. Le squadre, da quattro che erano, diventano dieci; si comincia a pensare alla grande, si ottengono vittorie importanti. Ma dopo pochissimi anni il patatrac, senza che si possa far prevalere alcuna usucapione di sorta. Il privato, senza manco pensare di rivolgersi a Maghini per informarlo di cosa sta succedendo, vende alle Ferrovie di Stato il terreno su cui sorge l’impianto che dovrà servire per deposito o chissà cosa ed il "Rossini" deve sloggiare e si deve ricominciare da capo. Ma ci pensate? Ti sei costruito, in muratura e con tutti i crismi dell’idoneità, una sede, degli spogliatoi, una sala riunioni con bar annesso, il campo da tennis, lo stesso terreno per il calcio e devi andartelo a prendere … altrove? Una legnata che Evaristo Maghini, ormai su con gli anni, non è mai riuscito ad assorbire. Ancora campi comunali in affitto, ancora a girare per la città. Si gioca al "Ponchielli", al "Mercadante", al "Falchera". Meno male che qualche amico Zerbin e Maghini ce l'hanno ancora ed

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ecco, infatti, che arriva il carrozziere Lacerenza, nuovo presidente, con velleità bellicose. Lacerenza compie veri sacrifici, si impegna, ma senza un sottobosco efficace, lui e Zerbin, nel frattempo orfano di Maghini che ha lasciato questa vita terrena, non bastano, pur contando su una discreta schiera di collaboratori. E si pensa ad un ridimensionamento notevole e, soprattutto, costante, irrefrenabile. Ora la storia più recente. Una squadra in Terza Categoria ed una nei Pulcini, tanto per ricominciare, come sempre. Ma Zerbin non molla, come si è detto, semplicemente gioca al risparmio. Un amico, Panzeri del Salus, gli ha concesso un angolo della sua sede al Parco Sempione, dove ci metteranno un tavolo, un armadio e un telefono e così i tre milioni all'anno risparmiati serviranno per gestire meglio le squadre. Perché, ci si chiede, il Borgo Rossini va avanti, nonostante tutto? C'è una facile risposta che, probabilmente, si sarà sentita in altre occasioni. La passione per lo stare assieme, per far giocare undici, o poco più, ragazzi della borgata, per sentirsi in fami- glia anche fuori delle mura amiche. Da qualche anno Bruno Zerbin è in pensione, può dedicare molte ore in più al suo "Rossini", ma gira il mondo sempre con signorilità, con compostezza, con qualche rimpianto, ma senza smaniare troppo per un fulgido passato ormai lontano. I lamenti ai posteri, semmai! Certo che è stata dura!

In questi ultimissimi tempi, tuttavia, Zerbin pare aver trovato una soluzione. Ha chiacchierato, poi discusso, infine deciso di unirsi con un’altra realtà sportiva della zona: ha combinato una fusione con il “River Mosso”, una vecchia società che è sempre vissuta con decoro e che ha il campo e la sede sociale al fondo della Barriera di Milano, poco prima di entrare in Falchera. Il “River Mosso” è di scorza dura, ha goduto di buoni appoggi da soci che hanno fatto politica, e parlo della politica del PCI ed evoluzioni varie, proprio vicino a casa ma che, comunque, non ha mai mischiato le due cose: i tanti soci per far giocare al calcio una miriade di giovanotti e uno sguardo attento all’evolversi delle varie situazioni della zona. Quando qualcuno notava quella bandiera rossa con la falce e il martello sventolare gagliarda quasi di fianco all’ingresso del

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campo, c’era sempre l’amico, il dirigente che ti spiegava: “Brava gente, ma altra parrocchia!”. Anche questa società aveva i suoi numerosi anni di esistenza sportiva, tanto che già nel 1951 aveva cominciato a far muovere i primi passi ai suoi ragazzi, tutti assolutamente del borgo. Aveva cominciato Gerardo Pomarico, mai sufficientemente ricordato per la svolta data allo sport del quartiere, in quell’estate afosa che sarebbe sfociata in un autunno drammatico con l’alluvione catastrofica del Polesine, a contattare, uno per uno, i primi undici boys, pagando addirittura a rate l’iscrizione nell’UISP, l’ente di promozione sportiva più vicino alle idee politiche di Pomarico. Non era una vera e propria società, perché gli undici giocatori facevano tutto da sé, sbrigavano quelle misere pratiche burocratiche, si lavavano gli indumenti di gioco e, chi in bici e chi in tram, si facevano domenicalmente le trasferte per andare a giocare, sempre in trasferta poiché un campo proprio non c’era e si vagava per la città e la provincia dove l’UISP ti mandava. C’era stato anche un sorta di contatto con la parrocchia che sorge da anni sul corso Vercelli, a due passi da dove aveva sede il “River Mosso”, nella sezione rionale del Partito Comunista e poco prima del villaggio SNIA, quello SNIA che, con i propri dipendenti e con i figli di questi dipendenti, darà tante masnà alle fortune biancorosse. Ma andare d’accordo con don Dughera, il parroco, pare fosse impossibile e per non far nascere altre storie, sul tipo di quelle narrate da Guareschi con il suo don Camillo e il suo Peppone, Pomarico aveva preferito fare dietro-front e fare tutto da sé. Ma come si era “fatto” il binomio, “River Mosso”, che avrebbe sancito oltre cinquant’anni di sport? Il primo sostantivo, pare ovvio per chi conosce la zona, deriva dal torrente (fiume) Stura che, in quella parte della periferia, scorre parallelo a cento metri da corso Vercelli e nel cui interstizio tra via e fiume esisteva la sezione del PCI, che aveva dato ospitalità, come detto, alla polisportiva. Il secondo sostantivo è derivato dal cognome di un ragazzo, Luigi Mosso, che abitava a “Pietra Alta”, la località della vecchia Torino sempre lungo la Stura, e che, nel 1944, era stato ucciso in uno scontro tra partigiani delle Brigate Garibaldi e le formazioni nazifasciste sulle montagne dell’alto Canavese, a cui la sezione del PCI aveva intestato la propria sede sociale. In considerazione, quindi, dell’amicizia di molti con Luigi Mosso, della frequentazione del partito e della vicinanza del fiume, il “river”, dare il nome alla società era stata una logica conseguenza.

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Con la solita storia dei pochi dati certi o, per lo meno, della mancanza di archivi che narrino di queste vicende, scrivere con esattezza di una realtà sportiva, evidentemente esistita già da quelle stagioni, mi porta ad essere impreciso, ma, comunque, ancora in possesso di alcuni nomi, forse basilari, forse soltanto più chiacchierati di altri. E così, dopo aver detto che presidente era stato nominato Mavillo Tecchiati (non è un errore, ma, incredibile, si chiama proprio Mavillo), accenno a Gigi Fiaccabrino, pare giocasse da centrattacco, proprio a fianco della mezz’ala sinistra Pomarico, con all’estrema sinistra un certo Carlo Bertocco. Ma di quegl’anni si ricordano anche Giorgio Bighetti, Pierino Crivellaro, e, per finire la mia breve lista, Francesco Piazza, detto “Cece” non si sa perché. Quelli non sono solo anni del “basta partecipare”, perché il “River” vince due campionati Amatori nell’UISP e comincia a dar segni di “vita vera” anche oltre Stura, va a giocare sulla pelouse del Motovelodromo, a volte anche sull’appena costruito campetto di Via Sempione, ma dopo poche stagioni torna nel dimenticatoio per le solite magagne: spese tante, lire pochissime! Chi scrive non è quel povero di spirito che pensa soltanto al gioco del calcio fatto bene se si faceva in FIGC, tuttavia non posso esimermi dal raccontare che gli Enti di Promozione, forti numericamente, pensavano molto alla politica e poco alla promozione sportiva, tanto che, tecnicamente, tra una Seconda Divisione e una squadra di Amatori c’era un abisso. Quando la FIGC, per contrastare gli Enti che portavano “via dal tavolo”, così si espresse Trabucco nei primi anni cinquanta, molte società e, di conseguenza, tanti quattrini, decise di dar vita alla Terza Divisione il paragone tecnico di prima non resse, ma era, comunque, un paragone tra i meno bravi. Per questa ragione e per il fatto che al “River Mosso” si faceva più politica che sport, in molti della Torino nord snobbavano la società e nell’intera città trovare dieci persone che conoscessero la polisportiva di via Cavagnolo era proprio difficile. E’ certo che saranno in tanti a contestarmi questa opinione, tuttavia se si vuole rimanere sereni ed analizzare la situazione di quelle stagioni non ci sono storie: andava bene il calcio tanto per dare quattro calci, ma se volevi qualche cosa di veramente sostanzioso dovevi andare altrove. E i nomi delle società del vicinato, attive in quegli anni, stanno proprio lì a dimostrarlo: Spartanova, Barcanova, Vanchiglia. L’ambiente, comunque, si muove ed è di quell’anno, il 1960, l’arrivo di due personaggi che daranno un ben altro carattere alle fortune del

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club: si fanno vedere Pierino Pauletto, futuro ed attuale giudice sportivo nella Lega Nazionale Dilettanti del Piemonte e Pino Bonfratello, un manager dello sport con un occhio alla gestione amministrativa e due a quella sportiva. Nasce il settore giovanile, che prima era appena abbozzato e mai fatto nascere, proprio sull’onda della forte immigrazione che a Torino aveva riempito ed allargato le periferie. Sono periodi di confusione, di tanta gente che arriva e di altra che se ne va, ma comunque anni di entusiasmo con tante squadre che andranno quasi sempre a giocare nell’UISP e che la dirigenza non vuole abbandonare per questioni di fratellanza… politica. Pare che la categoria “Piccoli Azzurri”, inventata in UISP negli anni settanta, sia nata dalla spinta dei soci del “River Mosso” che avevano tanti di quei bimbetti e non volevano mandarli via. Arrivano e si fermano i Franco Terminiello, i fratelli Lospinoso, e fa la sua comparsa un certo Pino Stramaglia, quasi l’atleta simbolo del “River”, che, comunque, se ne va a giocare poco dopo in FIGC, raggiunge traguardi discreti e ritornerà negli anni ottanta come direttore sportivo di qualità, sia per l’esperienza acquisita che per le capacità intrinseche che Stramaglia indubbiamente possiede. Pur se la Polisportiva si è ampliata, con alcune discipline anche non sportive, occupandosi addirittura del disagio giovanile, è il calcio la calamita per tanti e così appaiono come giocatori e rimangono come dirigenti Ivan De Filippi, Luigino Liguori, Franco Lupino e Giuseppe Migliaccio: è un bel segno che servirà, eccome, per i momenti bui che, quasi tutti, vivono nella loro esistenza e, quindi, anche il “River”. Dopo la diaspora accaduta negli anni sessanta con la sede portata al “Circolo Martorelli”, altro circolo di sinistra, dopo l’esperienza della semi costruzione di un campo di calcio in piazza Respighi, subito abortito per le solite decisioni degli amministratori pubblici di costruire case per gli immigrati, dopo la chiusura, vai a cercare il motivo, del “Circolo Martorelli”, si ritorna presso la Stura per rimanerci all’infinito. Sono Bonfratello, Mogni e Tecchiati a caldeggiare il ritorno anche perché pare ci sia in vista la disponibilità di un terreno. E così avviene, dissodando quella mezza collinetta, cinquanta metri di terreno in più del necessario, che fa da argine al torrente, lavorando come pazzi di pala, piccone, cazzuola e martello nasce il campo del “River Mosso”: per ora sono soltanto novanta metri per quarantacinque, ma il primo, grande passo è compiuto.

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Presidente è sempre Mavillo Tecchiati, mentre Bonfratello, chiamato da Filiberto Rossi, è entrato a far parte integrante dell’UISP, pur allungando sovente l’occhio sugli amici del “River”. Nel Consiglio Direttivo sono entrati Giuseppe Bologna, Carmine Colucci, Piero Galli, Gino Venera e Franco Pellegrino, con Donato Torraco segretario. Come è risaputo la politica è una “brutta bestia”, specie quando tocca gli estremi di uno o l’altro degli schieramenti, e così il “River” subisce una vigliacca dimostrazione di come si possa essere deficienti: un incendio doloso distrugge tutta la struttura della sede, degli spogliatoi. La risposta dei dirigenti biancorossi, comunque, è repentina e ricostruiscono il tutto in poche settimane, sostituendo la costruzione in legno con una in mattoni e cemento. E’ stato un gesto intelligente invece di tentare ritorsioni contro la parte politica avversa che, si diceva, avesse causato l’incendio. E’ il 1979. Le attività, come predetto, al “River” sono innumerevoli, ma con il nuovo decennio la prospettiva del calcio cambia ed avviene la prima iscrizione in FIGC. Da principio si iscrivono le formazioni giovanili e poi, come logica consiglia, anche i dilettanti. Mentre Tecchiati è ancora presidente, si presenta anche Roberto Arena, abile nel dirigere calcio ed a pensare… alla filosofia del calcio con poco pragmatismo e qualche risultato che va, comunque, verso i canoni della politica. Probabilmente sono macigni, ma Arena ne fa buon uso e quando comprende che il calcio è anche agonismo, riesce a farsi strada in altre società di buona levatura. In quel direttivo c’è ancora Pino Stramaglia che, benché tentato dalle magie di qualche società che vuole sembrare… professionista, se ne va con l’amico Franco Capasa a cercar fortuna altrove e quando ambedue capiscono che la serenità del fare calcio non ha prezzo, se ne ritornano a casa per starci per sempre. Passano i dirigenti, passano i presidenti da Tecchiati a GianBeppe Migliardi, da questo a Vittorio Parmeggiani e poi a De Serio, ma il “River” si consolida e si conferma sul territorio. Si va verso il terzo millennio con progetti attuati, con alcuni solo sulla carta, con attenzione al sociale che, forse, ha riscontro in pochissime, ma proprio poche, società cittadine, e ci si imbatte in una di quelle stangate per cui in molti si potrebbero piegare, se non spezzare: è accaduta l’alluvione, nel 2000, e la Stura straripa anche in quelle contrade. E’ ottobre, le squadre sono già tutte attive, e mezzo metro di acqua e fango va a coprire terreno, uffici, magazzini e spogliatoi.

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Io stesso che ho vissuto, come giornalista al seguito di una troupe televisiva, proprio i momenti subito susseguenti all’alluvione ero presente nell’impianto del “River”, come poco dopo sarò in quello dell’altra società sulle sponde di quel torrente (chiamatelo torrente!), l’”Ardor” del presidente Giuliani, e vi garantisco che faceva male al cuore vedere tutto quel disastro accaduto a della gente che lavorava per la sola passione di far divertire trecento ragazzi. Se solo potete pensare che queste espressioni siano la solita demagogica tiritera di chi non può esprimersi diversamente, allora vi auguro di passare una esperienza analoga. Su quell’acqua, su quel fango galleggiava di tutto ma le decine di maglie da gioco, strappate dagli scaffali del magazzino della società, facevano impressione, facevano male al cuore, davano l’idea, piena e corrodente, che tutto fosse sprofondato in qualche cosa di irreparabile. Non fu così perché il giorno dopo Antonio De Serio, in società dal 1980 ma presidente dal 1992, aveva radunato i suoi “ragazzi”, quelli di venti e quelli di quaranta, quelli di quindici e quelli di sessanta, ed aveva cominciato a “risanare”. Forte fu anche l’urgente appello che il presidente del Comitato Regionale LND, Nino Inversi, quello del Comitato Regionale SGS, Giorgio Bergesio e del presidente nazionale LND, Carlo Tavecchio, volato immediatamente a Torino da Roma, fecero alle società piemontesi, alle istituzioni tutte durante una riunione organizzata a Caluso per verificare il disastro ed agire di conseguenza. Siamo all’oggi, con il “Borgo Rossini” e il “River Mosso” in un unico ganglio che si chiama “River Mosso-Rossini”. I due nomi sempre ben distinti, tanto per far capire che la storia, quella forse soltanto sportiva ma, comunque, una storia che ha interessato due generazioni e un migliaio di “attori”, è passata dalla Barriera di Milano, sfiorando prima la Dora e poi la Stura, quasi a significare un percorso comune di gente che ha avuto un chiodo fisso chiamato gioco del calcio. Non è così semplice come sembra, chiedete a Bruno Zerbin, chiedete ad Antonio De Serio, l’attuale presidente che si è fatto le ossa dai salesiani del Don Bosco di Asti prima di approdare a Valdocco e poi passare il ponte che porta a quelle case SNIA dove tutto, o quasi, è cominciato.

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Capitolo XIV

La storia vera di Elio Bandiera che… a quella partita proprio non c’era!

Vi garantisco che è veramente piacevole mettersi a scrivere, a raccontare di certe persone. Sono questi i momenti che ci si rapporta a cosa può essere, o può essere stata l’amicizia. Le poche note che seguiranno vogliono essere soltanto un omaggio ad uno dei tanti personaggi che hanno fatto grande lo sport nostrano, ma purtroppo non ho fatto in tempo a raccogliere tutto quanto Elio Bandiera, un dirigente societario torinese di alto spessore che tra breve conoscerete nei dettagli, avrebbe potuto raccontarmi di sé e dei tanti che con lui hanno vissuto quelle “primavere”. E per raccontare degnamente di Bandiera ho fatto il verso al titolo di una commedia di Dario Fo, quando sono venuto a sapere che anche a lui era accaduta una vicissitudine che, forse, gli avrebbe potuto cambiare la vita ed invece proseguì come lui se l’era disegnata con molto anticipo: con tatto e molta intelligenza. Tutto nasce da un equivoco. Passata la buriana che il secondo dopoguerra aveva creato, ritrovata la dovuta serenità dopo varie scorribande di lavoro, trascorse in giro per l'Europa, Elio Bandiera si era trovato a bazzicare nelle prime società sportive organizzate che cominciavano a proliferare in una Torino battagliera, in cui lavoro e immigrazione erano i dettami di un concetto di vita che non mancherà di lasciare strascichi, anche amari, per i decenni a venire. Come dicevamo, dunque, Bandiera, che nell'anteguerra aveva militato nella squadra del “Pilonetto” allora partecipante al campionato U.L.I.C. (i cosiddetti "liberi"), non si era certo distinto per essere un giocatore eccezionale. Indisciplinato e tanto indipendente, si allenava quando voleva, quando il caso e la sua volontà predominavano. Risultato? Erano più le volte che se ne stava in tribuna, di quante entrava in campo per dirigere l'orchestra. E sì, perché già allora, il "nostro" dimostrava spiccate tendenze a comandare! Tuttavia, il presidente di una società della Barriera di Milano, il “Sociale” di corso Vercelli (dal nome del bar che ospitava la sede del

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club), lo mandò a chiamare per proporgli di prendere in mano la prima squadra che, a quel tempo, militava in Seconda Divisione. "Sai - gli disse - ti ho visto giocare qualche tempo fa contro di noi e mi piacerebbe che trasferissi il tuo carattere nel nostro sodalizio". Bandiera rimase di stucco e poiché le gare che aveva giocato non erano certamente in gran numero, si ricordava perfettamente di non aver mai giocato contro il "Sociale". "Presidente - si permise di ribattere Bandiera - io in quella gara di cui parla non c'ero affatto, lei forse confonde persona". Il presidente, convinto che il giovanotto facesse resistenza, lo lusingò con in mille modi, gli costruì attorno tutta una serie di sdolcinature eleganti che convinsero Bandiera a far parte del “Sociale”. Ma non come giocatore, di cui ormai aveva completamente abbandonato le vestigia, bensì in qualità di dirigente. Per questo fortuito, casuale incontro Elio Bandiera nacque allo sport. E nacque un generale a cinque stelle del calcio giovanile e dilettantistico torinese. Non è facile rimanere sul piedistallo per oltre cinquant'anni se non si possiedono attributi consistenti, ma non è neanche facile rimanerci da protagonista. Ed invece la passionaccia, la costanza, il saper scegliere collaboratori adeguati ha consentito a Bandiera di diventare il vegliardo del calcio cittadino con quell'aura di rispetto che tutti gli hanno riconosciuto. Lasciato il Sociale per ritornare a casa (all'epoca, la Barriera di Milano, rispetto alla sua Barriera Nizza, era su un altro pianeta in quanto a concetti e rivalità cittadine!), constatato che il calcio giocato non faceva più per lui, fondò l'Unione Sportiva Millefonti. Fra i soliti alti e le alterne fortune, nel 1970 Bandiera pensa alla fusione con una emergente squadra sponsorizzata dalla casa di spedizioni Traco. Nasce il Millefonti Traco e Bandiera diventa il Presidente. Si comincia a pensare in grande, si fanno progetti interessanti. Ora il campo è quello di Corso Spezia. L'interesse per le vicende del calcio non solo giocato lo attanagliano sempre più; è tra i fondatori della mitica Aspicalcio, Associazione Piemontese Società di Calcio, che diventerà un asse importante per lo sviluppo del nostro sport a Torino e dintorni. Con lui ci sono gli Enria, i Pampione, i Tallia, i Righetti, gente che ha saputo lasciare un'impronta indelebile nell'ambiente e che si proporranno come interlocutori determinanti per i “padroni” di Via Volta.

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Parallelamente continua a curare le sue vicende sportive personali e dopo l'esperienza con la Traco di Giribaldi, si unisce con la squadra parrocchiale del Vianney. Siamo nel 1979 e questi continui connubi altro non dicono che la continua ricerca di partners affidabili e solidi per poter compendiare le scelte tecniche delle squadre con il maledetto bisogno di pecunia sonante. Ma non è finita qui. Solo un anno dopo si ritorna single per subito accasarsi con il Pertusa dell'amico Righetti. Per tre stagioni le cose filano lisce, poi l'incontro con un suo ex giocatore, Gianluigi Regis, divenuto manager di rango nell'industria metalmeccanica, lo convince a piantare tutto, categoria, fusione, anche qualche vecchio amico e si decide per la nascita dell'attuale Nizza Millefonti: siamo nell'estate del 1983. Regis è il presidente, Bandiera il suo Vice; si parte dalla Terza Categoria ed è subito successo. La sede ora è nella Bocciofila Nizza di Via Ventimiglia, in cui sono confluite tutte le attività sportive che i vari soci avevano nella zona. Si forma un direttivo solido, si mettono le basi per l'esplosione di successi che condurrà la prima squadra sino al Campionato Nazionale Dilettanti. La mente, occulta o palese, fate voi, è sempre Elio Bandiera, anche se Regis pensa alla grande ed immette quei capitali che consentiranno voli non solo pindarici. Ottenuta la gestione del Campo Agnelli di Via Sarpi, la società pensa in un primo tempo soprattutto alla squadra maggiore, poi acquista, letteralmente, un intero settore giovanile. Gioca al "Sandretto" di Collegno, costruito dalle Industrie Regis, ed infine approda all'attuale struttura del "Robaldo" al Lingotto, ai confini con Nichelino. Finalmente i "rossoverdi", i colori sono sempre quelli che Bandiera inaugurò tanti anni addietro, ora hanno un proprio campo su cui lavorare. Ma anche per lui viene il tempo del ritiro. Da qualche tempo Elio Bandiera ha lasciato il calcio, anche la posizione di Presidente Onorario del Nizza. L'età è avanzata spietatamente; ha lasciato, come si suol dire, spazio ai giovani. Si gode il suo successo sportivo con un distacco che solo i grandi signori del calcio sanno palesare con nonchalance. La mente sportiva sopraffina, il culto per il ben fatto, l'astuzia calcistica, anche un cinismo che a volte non guasta in un ambiente di volpi e di lupi, sono ormai alle spalle. Ora sa ancora appoggiare i gomiti, mica tanto, ogni tanto, sulla scrivania della sua azienda di

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mobili che ha lasciato condurre al figlio Giorgio e si guarda attorno con quel solito sorrisino canagliesco che incute rispetto e che gli fa dire: "E se ricominciassimo da capo?". Non è più stato possibile. Elio è scomparso proprio pochi mesi addietro, nel maggio del 2005, e se n’è andato senza “scorta”, senza roboanti “coccodrilli”, né manifesti di sorta. Per Elio, ormai, tutto il resto è silenzio, ma quanti ricordi vissuti assieme, quante serate “perse” attorno ad un tavolo, con un chinotto, sì, sì, proprio il chinotto che piaceva tanto o una birra per compagnia, a discutere di programmi, di iniziative per il calcio torinese, mica per se stessi. E’ stata, come ha ricordato un comune amico il giorno del funerale, una “bella stagione vissuta alla grande”.

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Capitolo XV

Un vescovo, qualche frate e… Pier Augusto Righetti

Mai, che io possa ricordare, una persona sola ha saputo costruire e far funzionare una società di calcio. Che “societas” sarebbe, se non ci fossero altri interpreti oltre che se stessi? Tuttavia molti sono gli uomini che hanno legato il proprio nome in modo indissolubile ad un club, in questo caso ad un club calcistico, ed hanno finito per farsi identificare con quel sodalizio, con le gesta di quella determinata società. Uno che non è sfuggito a questo destino è Pier Augusto Righetti che, ininterrottamente, dal 1955 ha legato le proprie fortune, ovviamente sportive, a quelle della società Pertusa. Pertusa! Strano sostantivo, se fate mente locale. A prima vista parrebbe una storpiatura del dialetto locale, il torinese che un pochino si eleva, non foss'altro nelle cadenze, sul piemontese in senso lato, ma non è così. Allora un nome esageratamente di fantasia? Nemmeno. La storia, la nostra storia, e qui entriamo nella storia vera, possiede ben altre radici. Partiamo addirittura da un secolo e mezzo addietro, da quella Torino che non era più capitale d'Italia, che stentava a digerire la rôberia (così l'avrebbero chiamata per tanto, tanto tempo ancora i torinesi) perpetrata, obbligatoriamente diciamo oggidì, dai politici di Vittorio Emanuele II, che stava in ansia al pensiero che gli portassero via anche l'Arsenale e gli opifici militari sul cui lavoro campavano migliaia di cittadini nostrani, che si era vista ridotta a borgo periferico, ma che sarebbe rinata, come ha sempre saputo fare, inventandosi decine e decine di nuove, eccelse idee. Che poi, queste idee, abbiano continuato a rubargliele è tutta un'altra narrazione. Torino, dunque, ai tempi dell'Unità d'Italia. Una Torino nobile, anche borghese, una Torino moderna che sapeva intravedere il proprio futuro, la ferrovia che partiva da Porta Nuova era uno dei segni dello sviluppo che si voleva per la città, ma anche una Torino arrabbiata, come s'è visto, per di più dai difficili rapporti di collaborazione con gli ordini ecclesiastici romani, con la Santa Sede.

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In quest'ambiente, di fervore, di nervosismo, comunque di novità, entra in scena un personaggio importante, di rilevantissima presenza nel capoluogo piemontese: l'Arcivescovo di Torino, monsignor Lorenzo Gastaldi. Cosa c'entra un prete nella storia del Pertusa? C'entra, c'entra. Gastaldi non è un sacerdote qualsiasi, non è una persona che accetta ordini se sa che sono bislacchi, ha una grande personalità, una cultura notevole derivatogli, soprattutto, dall'essere un rosminiano, un fervente percettore della filosofia e della teologia di Antonio Rosmini, ha viaggiato come missionario in Gran Bretagna, ha avuto sulle proprie spalle, in precedenza, delle grandi responsabilità, e se anche la stragrande maggioranza dei suoi diocesani lo appoggia, sono i pochi che "contano", i pochi che hanno le braccia lunghe a sbarrargli la strada. Di mezzo c'è anche la questione del "regio exequatur", l'informativa al Governo della nomina dei vescovi che, stante il braccio di ferro tra il Vaticano e l’Autorità italiana, in questa occasione era stato ignorato. Di qui, le ire e le riserve poste dai "democratici" da una parte, l'esultanza ed il senso di liberazione dei "cattolici" dall'altra. Ma delle diatribe tra l'Arcivescovo di Torino e l'"ordine costituito" non vogliamo occuparcene direttamente, ciò che vogliamo segnalare è che Lorenzo Gastaldi, a dimostrazione del suo alto valore morale, aveva donato gran parte dei suoi averi, ottenuti, quale primogenito, alla morte del padre e che un suo cascinale, denominato "La Pertusa", situato sull'asse sinistro della ferrovia, proprio all'altezza di quella che anche allora era la Barriera di Nizza, era stato regalato, in parti uguali, ai frati cappuccini e ai padri rosminiani: agli uni perché costruissero un oratorio, agli altri perché erigessero una scuola per i bambini più poveri della città. E così avvenne veramente. L'Istituto Rosmini si erge, elegante e austero proprio in Via Nizza, all’angolo dell'attuale Via Rosmini, mentre la chiesa del Sacro Cuore di Gesù, sempre in Via Nizza, con il suo piccolo oratorio di Via Brugnone e il suo rabberciato campo di calcio, è il segno più tangibile possibile dell'aggregazione tra sport e cura apostolica, tra attenzione al corpo e diligenza per l'anima. In quell'Oratorio nacque, si sviluppò e crebbe esponenzialmente il Pertusa, non ancora Biglieri. Ma perché quel particolare nome? A questo punto il racconto diventa facile e rassicurante. All'altezza, in Via Nizza, della chiesa del Sacro Cuore di Gesù, esiste, sull'altro

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fronte della ferrovia, quindi sul lato destro dello scorrimento della stessa, l'Ospedale Umberto I dell'Ordine Mauriziano. La ferrovia ne divide i confini, ma soprattutto in considerazione del fatto che centocinquant'anni fa non esistevano i sovrappassi di Corso Sommeiller, né di Corso Dante, era stato costruito un piccolo tunnel pedonale, 'l pertus, come chiamavano il "buco" in dialetto, che collegava le due zone cittadine. Ecco perché il podere, la proprietà dell'arcivescovo Gastaldi che sovrastava tunnel e dintorni, era stata chiamata "La Pertusa", proprio per quel passaggio sotterraneo di notevole importanza per i torinesi dell'epoca. Da qui facile spiegare perché Righetti volle chiamare la sua società proprio Pertusa. Righetti? Sì, sì, proprio Pier Augusto Righetti, che “forse” non esisteva, nel 1870, ma che nel 1955, come anticipato, ebbe modo di dare inizio all'avventura gialloverde, partendo dall'oratorio del Sacro Cuore con un colpo d'acchito tutto suo: decisione, competenza, qualche manciata di cinismo e soprattutto molta signorilità. Dunque si frequenta l'oratorio. E' un far comune, per quelle stagioni, dove il "reverendo", così ancora lo si chiamava il prete, il più delle volte è l'austera guida di un ambiente molto familiare, conosciuto, quasi obbligatorio. I costumi subiranno, tra non molto, una variazione epocale, ma per quegli anni, a dieci dalla fine della guerra, i punti di riferimento sono ben conosciuti. E' vero, è arrivata la "vespa" che comincia a far scorazzare i giovani e i meno giovani, ma il divertimento, l'allegria, la spensieratezza, anche una certa sicurezza si trovano soltanto all'oratorio. E' lì, in quei luoghi canonici per un ragazzino che cresce o per un giovane che vuol maturare bene, che si acquisiscono le note giuste, che si intavolano amicizie, certune destinate a durare l'intera vita terrena e forse… anche oltre, è all'oratorio che si combinano i primi guai seri: come fare, alla sera, a dire a nostra madre che le scarpe, comprate “appena” due anni addietro, si sono squarciate nel colpire, male, il pallone? Bel guaio sul serio, cui avremo cercato di porvi rimedio con un grosso elastico, tratto da una camera d'aria, da passare attorno alla tomaia. Ma come, dice qualcuno, speravate che nessuno, in casa, se ne accorgesse? Speravamo e basta o, al massimo, speravamo che la sberla a noi destinata riuscissimo a scansarla di quel tanto da non far venire la tentazione alla mamma di ripetersi e, ancora, di quel tanto da non lasciare "impronte" sulla guancia sinistra!

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In questa atmosfera che dire "goliardica" è solo un eufemismo, l'Oratorio del Sacro Cuore di Gesù è la casa, effettiva, di un bel manipolo di ragazzi che, finita scuola, si precipitano in Via Brugnone a sfogare con corse e pallonate le "reprimenda mattutine" del maestro o del professore, a raccontarsi le personali, a volte speculari, vicende della giornata. Qui non c'è il "reverendo", al Sacro Cuore, come sinteticamente lo si chiama, la guida è data da un frate, da un frate cappuccino ed in molti, lungo i tanti anni trascorsi in quella sede, si riveleranno degli amici grandissimi prima ancora che dei seri pastori di Cristo. Se pensate che siano soltanto luoghi comuni, questi che vi stiamo raccontando, probabilmente non ci siamo espressi bene; se qualcuno, di una certa età, pensa di aver già sentito questa solfa e non vuole porre altra attenzione, allora ha vissuto troppo in fretta la propria gioventù e quindi sarebbe il caso di leggere qualche altra riga per comprendere fino a quanto gli "assistenti" oratoriali del Gruppo Sportivo Pertusa, Biglieri in pectore, hanno "contato" nel rapporto con i ragazzi delle varie squadre e con i ragazzi stessi, intesi come varia umanità, come "gregge", ma soprattutto come nucleo sportivo. Per essere più convincenti, vi invitiamo a parlare con alcuni dei vecchi, vecchissimi dirigenti del Pertusa, data l’avanzata età sono ormai soltanto spettatori, ma che hanno voluto ringraziare ugualmente la Società per i begli anni che ha consentito loro di vivere, ed hanno nominato, nelle loro storie sportive, due soli personaggi: uno è Pier Augusto Righetti, ovvio, esiste da sempre, l'unico altro è frate Berardo, al secolo Angelo Mollo, l'assistente oratoriano degli anni fulgidi della loro meglio gioventù. Avete inteso? Fra' Berardo, l'amico, il consigliere, l'aiuto, anche il dirigente di calcio quando occorreva. E ce ne saranno altri… I frati cappuccini, dunque, sono serviti da collante in quel lontano 1955, hanno consentito che si formasse un vero sodalizio, che si desse una dirigenza allo stesso, che si scegliessero i primi sette giocatori e li si mandasse in giro per la provincia a dar pedate ad un pallone. Prima un passaggio in chiesa a sentir messa, poi una chiacchierata con Giorgio Emanuel, nominato presidente e poi, via, ad iniziare una bella storia. Avrebbe confidato, Emanuel, qualche anno dopo ad un amico: "Mi erano subito piaciuti quei sette forsennati, avevano voglia di fare le cose per bene, avevano grinta, determinazione. Credo che anche senza la spinta di Pier Augusto mi sarei intrufolato tra di loro". I sette

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"forsennati" erano Cremilli, Vastani, Massucco, Ulrico Righetti, Giacometti, Tagliano e Borgogno. La prima formazione, che già vestiva una maglia verde con i bordi gialli, era nata e si era tolta la soddisfazione di arrivare terza nella "Coppa De Gasperi", istituita dall'UDA Sport, emanazione del calcio giovanile del Centro Sportivo Italiano, per onorare il grande statista trentino scomparso l'anno precedente. Per ora c'è quella sola squadra, per di più con un organico ridotto al lumicino giusto utile per i tornei giovanili, ma non è questione di molto tempo perché altri ragazzi si affianchino al gruppo. Si ricomincia con un torneo a nove giocatori, altri nove che Pier Augusto Righetti ha cooptato tra i frequentatori dell'oratorio e che il presidente Emanuel catechizza uno ad uno, e non nel senso ecumenico, per il nuovo campionato, sempre nell'UDA Sport. Come noterete in qualche occasione, lungo la lettura del testo, la signorilità di comportamento viene evidenziata più volte e diventerà una costante nella vita societaria del club. Parrebbe uno snobismo, ma non è assolutamente così, parrebbe una chiusura alla vulgata, ma vi assicuriamo che era ed è semplicemente questione di carattere, di educazione ricevuta, di semplicissimo buon senso: arrivasse il figlio dell'avvocato, del medico o del battilastra di via Saluzzo l'accoglienza era sempre la stessa. E quei "nove" allora, era la stagione '56/'57, vanno a vincere la Coppa Frassati, il primo alloro importante di casa gialloverde. Chi erano? Pansone, Pappalepore, Bianco, Barocco, Allia, Moretti, Menegatti, Fersini e Piovano, con l'aggiunta di Borgialli quando serviva, guidati da Cavallero, il "mister" di tante stagioni e sostenuti da padre Arcangelo, un frate con i "piedi buoni" si direbbe oggidì che, purtroppo, o fortunatamente (vai a distinguere il punto di vista!) non ha mai messo in pratica. La società, adesso, è un vero club, organizzato e sistemato a dovere, anche se il campo ridotto dell'oratorio non basta più e ci si deve arrangiare con affitti di strutture diverse, anche distanti. In quegli anni l'impiantistica sportiva è ben misera cosa a Torino, come, d'altronde, in gran parte della penisola, ma sta per arrivare il 1961, il Centenario dell'Unità d'Italia, e la nostra città, Torino ritorna in auge per dieci mesi, allestirà una miriade di iniziative sportive, ospiterà convegni, gare di finale di cento e cento sport, proprio in quelle strutture che negli anni precedenti sono state progettate ed ora si finiscono di costruire. Si inaugurano nel '61 il Palazzetto dello Sport al "Valentino

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Nuovo", come impropriamente veniva chiamato il Parco Ruffini, lo stesso Stadio Ruffini viene totalmente ristrutturato, e, importante per le società dilettantistiche, vengono costruiti tantissimi campi di calcio nelle periferie della città. Sorgono, per esempio, il "Mercadante" e la "Falchera" a nord, il "Trecate" e il "Servais" ad ovest, il "Roveda" e il "Robaldo" a sud, il "Ponchielli" ad est. Con un sodalizio in espansione, ovvio che anche i risultati siano almeno soddisfacenti, se non importanti, come in alcune occasioni succede. Quei "nove" ora sono una squadra "vera" e l'allenatore è sempre Cavallero, che, con i suoi ragazzi, si toglie la soddisfazione di vincere una finale provinciale del CSI, battendo il Volpiano per 2-0. In squadra c'è sempre Allia, Pappalepore, Fersini, Barocco, Moretti, Bianco e Menegatti, ma si sono aggiunti elementi importanti per i destini di quel gruppo. E' arrivato Fantinuoli, Giustiniani, Reinero e quell'Errani, portiere "pazzo", come, dicono, deve esserlo un numero uno, quanto simpatico e che Fantinuoli ricorda ancora oggi per le sue stravaganze. Era sempre "elettrico", attento, ma nelle uscite, quando gridava il "mia!", nelle prime volte che accadeva lo ascoltavano tutti e, sovente, si beccavano la "pera" perché il pallone o lo scavalcava finendo in rete o gli sgusciava dalle mani ancora "inesperte", ma dopo averlo conosciuto per bene, non gli davano più retta e lui, d'altronde, si dimostrava il buon portiere che fondamentalmente era. Nel 1960, entrati nella categoria Ragazzi, la bella “masnada” va a vincere il campionato piemontese, venendo premiata con una “suntuosa cena” da consumarsi nel refettorio dell’oratorio con tutti i dirigenti e gli “assistenti in saio” che ormai sono parte integrante dell’equipe. Sono comunque anni di giuste soddisfazioni. E’ sempre Fantinuoli che ricorda il bell’ambiente (avevano accettato anche lui, un brocco di terzino che si sarebbe comunque rifatto in seguito!), la vera amicizia con i frati, con padre Felicissimo, per esempio, che morirà pochi anni dopo in un incidente stradale con altri confratelli, e non si stancherà di raccontare quella famosa trasferta a Tortona, per iniziare la corsa verso il titolo italiano di categoria. “Partiti alle 10 del mattino dalla sede - racconta ancora Fantinuoli - fummo bloccati dal passaggio del Giro d’Italia poco prima di Alessandria ed arrivammo a Tortona, per incontrare gli avversari liguri, pochi minuti prima dell’inizio della gara. Perdemmo 3-2 ed i nostri sogni tricolori si infransero sulle colline del tortonese”.

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Quelle sono ancora stagioni "primitive", con un calcio quasi ingenuo, che consentono, comunque, anche qualche bella soddisfazione. Alcune "scorpacciate" eseguite nei tornei dell'Agnelli, a Valdocco, al "Venchi Unica" di Pozzo Strada, siglano un periodo "tecnicamente" d'oro, coronato da una vittoria al Campionato Provinciale "Ragazzi B" del CSI che viene colta nel 1962. Il merito va tutto a gente come Tamagnone, come Bertino, Tosetti, Chiavario, Bodini, come Prola, Robino, Prato, Frola, Raffaele, Coris e un certo Mauro Grieco. Ma chi è l'allenatore: ancora Cavallero! E chi sono gli accompagnatori? Fra' Berardo e padre Giancrisostomo, il cui nome, tardo bizantino, è tutto un programma. Abbiamo accennato a quel "certo Mauro Grieco", che già dal '59 frequenta l'oratorio per un motivo semplice… o semplicemente motivato, abita a due passi dal Sacro Cuore e ciò che lo attrae, sono le sue precise parole di quasi cinquant'anni dopo, è: "Sentivo sempre un gran vociare, la dentro, un gran casino costruito da voci giovanili ed allora avevo cominciato ad affacciarmi, dapprima timidamente e poi, invogliato da qualche amico, quasi con prepotenza. Ho passato dei bellissimi anni in quell'ambiente, ho fatto, da calciatore, tutto il settore giovanile". Mauro è il capostipite di una vera dinastia dei Grieco in casa gialloverde, di cui narreremo nello svilupparsi della storia con cadenza obbligata e frequenza costante. Per ora Mauro Grieco appare "solo" come un giocatore, emigrerà in altri lidi, quasi apparentati, e tornerà in queste stagioni esaltanti che il Pertusa Biglieri sta vivendo, con veste di prim'attore. Inoltre si intravede Prato, già ben piazzato in società, che sarà il cardine di un gruppo di giocatori in arrivo dall'ateneo torinese. Ma c'è tempo, andiamo per gradi. Infatti, quelli, paiono tempi di cambiamento, la mutazione è palpabile, si avverte nell'aria. La decisione di tanti ragazzi di affiancarsi a quelle squadre, l'impegno (vuoi mettere quanto il pallone calamiti le tante anime del borgo?) che i Padri profondono nell'aiutare, consigliare, correggere, suggeriscono al presidente Giorgio Emanuel, a Pier Augusto Righetti, giovane liceale che "veleggia in loco" ormai da tempo, di verificare la consistenza del loro giovane sodalizio. I due, fra' Berardo e altri si guardano in faccia, ammiccano per qualche secondo e poi scoppiano a ridere tutti assieme: “ma che consistenza e consistenza, qui, oggi, il problema è uno solo, c'è da verificare se la FIAT "1100" di Emanuel si rimette in moto, perché, nel pomeriggio c'è da andare a giocare a Robaldo!” Già, proprio la mitica "1100" grigia che il Righetti fratello, quell’Ulrico che sarà l’unico calciatore

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della genia, nei mesi scorsi durante una chiacchierata aveva ricordato con nostalgia e con un breve batticuore al pensiero delle mille scorrazzate per Torino e provincia, carica come una scatola di sardine, di giocatori, dirigenti e materiali vari. "Ma tutti non potevate entrarci ed allora come si faceva?" "Semplice - aveva risposto nell'occasione Ulrico - un buon numero andava in macchina, altri in tram o in pullman se si giocava in provincia, oppure, se la trasferta era comoda, anche in bici". Dov'era il problema, allora, se la "1100" si metteva in moto? Parrebbe una battuta, neanche tanto originale, ma la spensieratezza, fatta ovviamente di gioventù, di pensieri semplici, permeava tutti coloro che facevano gruppo al Sacro Cuore e se si doveva usare la bici di Pinin, il macellaio di Via Petrarca, con uno sulla sella ed un altro sul tubo per andare a giocare fino a Regio Parco, andava bene così, per tutti. Non ci si sentiva eroi dello sport, per carità, lo facevano in tanti, erano gli anni giusti, che non consentivano smancerie o considerazioni da alta borghesia. E l'interesse aumenta. Pur se Emanuel dispensa ramanzine, (e tutti lo ricorderanno proprio come un secondo papà e gli vorranno un bene dell'anima!), pur se minaccerà di mandare, coloro che intendevano… battere la fiacca, ad allenarsi nelle vicine Scuderie di "Avandero", notissima ditta di traslochi dell'epoca che usava ancora carri e cavalli, situata tra l'oratorio e la ferrovia, chiamando a gran voce lo stalliere Scovero, un amico che stava sempre alla battuta ed appariva ogni tanto a "minacciare" il malcapitato, il Pertusa si afferma. Recepisce nuovi giocatori e nuovi dirigenti ed è della "famiglia" anche Luciano Spilotri, cooptato da Pier Augusto Righetti che ha bisogno di "specialisti". A Spilotri propone la funzione di "cassiere", qualifica, pare, per niente ambita e che significava una serie di incarichi variegati, tipo l'ufficialità al botteghino per i miseri incassi del tempo, scambiandosi sovente il posto con Beppe Ordazzo, altro "nuovo" di cui sentiremo ancora parlare, oppure il controllo di maglie e palloni ed un occhio ai conti veri e propri che, comunque, si dimostrano una cosa semplice semplice per la velleità dei fondi, sempre scarsi da far paura. Questa è una costante di quasi tutte le società sportive dilettantistiche, in qualsiasi epoca si viva, ma quando Spilotri, che aveva accettato il compito per l'autorevolezza e la furbizia di chi glielo aveva proposto, lo racconta, congiungendo le mani a mo' di preghiera e allargando gli occhi a dismisura, pare proprio di sentirsi in mano, palpabili, le due-lire-due che componevano il fondo cassa, ben sapendo, comunque, che giorno per

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giorno tutto veniva regolato. Ma se gli stati d'animo possono far intendere apprensioni che è giusto descrivere ma da non prendersi troppo sul serio, la serenità regna sovrana tanto che la società si trasferisce, armi e bagagli, in "Lega", come veniva chiamata la FIGC in periferia e, partendo dalla Terza Categoria si affianca a sodalizi di primaria importanza operanti in città. Intanto una società consorella, il G. S. Bacigalupo, fondata pochi anni prima del Pertusa e con sede nelle vicinanze, ha ottenuto la concessione dal comune di Torino per costruire e gestire un terreno di gioco situato in Corso Spezia all'angolo con Via Ventimiglia, proprio di fronte all'ospedale Sant'Anna, ed il Pertusa, con la sua solita abilità di intavolare trattative, ottiene qualche spazio su quell'impianto e vi fa giocare la prima squadra. Una prima squadra che va a vincere il suo primo titolo in Federcalcio, conquistando il passaggio in II Categoria con Benoni, Cassanego I e II, Allia, Manfrinati, Pisciotta, Alessandria, Caramia, Fantino, Perdomi, Merlo, uno della "dinastia" Grieco, Antonio, Fersini e Prato. L'allenatore è il solito Cavallero e i dirigenti che seguono la squadra si chiamano Robino, Maniero e Gargano. Bel colpo per Emanuel, Righetti, Cavallero e fra' Berardo che se pur continuano a tenere le riunioni, tecniche, organizzative o… spirituali, nel teatrino interrato della parrocchia di Via Brugnone, intanto stanno pensando ad un vero e proprio settore giovanile da organizzare e mandare in orbita. Non è che la società abbia soltanto la prima squadra, anche se è quella che crea conoscenze, visibilità e attrattive, perché esistono gli juniores, gli allievi, i giovanissimi, ma è un fatto estemporaneo, messo in piedi perché è peccato mortale mandare via i tanti ragazzi che arrivano in Via Brugnone dove ancora si fanno allenamenti e partitelle. "Non occorre molto ingegno, Einstein vive, se vive, altrove, servono uomini pazienti, predisposti e capaci", sono le solite, pragmatiche parole di Pier Augusto Righetti mentre chiacchiera con i suoi collaboratori. La persona giusta arriva. Lo ricorda perfettamente Beppe Di Palma, un dirigente che sarà ricordato oltre che per i suoi meriti di conduzione, anche per la sua infallibile capacità culinaria, per i suoi "famosi pasta e fagioli", mai sufficientemente osannati, come aggiunge Spilotri. Quella persona è Sergio Lotto. Sergio frequenta gli uffici della Federazione, intavola una ferrea amicizia con Righetti e si fa convincere ad entrare nella nuova impresa. Diverrà, in seguito, selezionatore di varie Rappresentative, torinesi e piemontesi, assumerà altri incarichi di prestigio in FIGC, ma finirà per ritirarsi,

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anzitempo aggiungiamo noi, dal mondo del calcio, forse in polemica con qualcuno delle alte sfere, forse per dei suoi motivi personalissimi che non ha mai spiegato a nessuno, fatto sta che al momento della pensione, pur in forze, andrà in "eremo" da qualche località della Liguria e di lui si perderanno le tracce in città. Ma gli arrivi non sono al lumicino, "uno bravo che resta e cinque schiappe che vanno", la fine degli anni sessanta dimostra che la società è piena di vitalità, che sa destreggiarsi tra lupi ed agnelli, meglio i primi un po' meno i secondi, tra coloro che ormai popolano, numerosi, l'ambiente del calcio nostrano. Già, perché la concorrenza si è fatta serrata, si comincia a parlare in gruppo, nascono i primi approcci per radunare dirigenti delle varie società cittadine, gente con gli attributi giusti ed a volte persin troppo robusti, che, comunque, partoriranno qualche cosa di interessante fra qualche stagione. Righetti, il Pier Augusto abile traghettatore come ce lo dimostrerà in cento e cento occasioni, e non si pensi a Caronte di virgiliana o dantesca memoria altrimenti s'incazza, usa contornarsi di gente in gamba, anche solo parente del Pertusa, come quel Franco Muratori, prematuramente scomparso e mai troppo rimpianto, dirigente federale finissimo, prima, e associativo, poi, con un cranio da Richelieu ed i tratti da Sancio Pancha (com'è vero che l'abito non fa il monaco!), che sarà un consigliere esterno del Pertusa, vuoi per vicinanza domiciliare, vuoi per simpatia e di cui coloro che vogliono bene a questo sport non possono non conservarne l'emblema in uno dei loro cassetti della memoria, oppure, dicevamo di Righetti, usa raggiungere amici per raccontargli una barzelletta, poi per chiedere loro un piccolo, proprio un piccolo favore, tipo "se non hai nulla da fare, domenica mi mancherebbe l'ometto che porta il secchio dell'acqua", per concludere che senza di lui, di quel certo amico, la società sarebbe persa e terminare davvero con l'entrata, in pompa magna o forse neanche tanto magna, di un bel dirigente in casa gialloverde. Questa, per sommi capi, è la storia di Paolo Pagnone, di Mimmo Buffa, con l'aggravante di farsi fregare per bene e passare da giocatore a dirigente, del "geo", come ormai tutti chiamano un abilissimo manager amministrativo, informatico e chissà cos'altro che risponde al nome di Franco Aimonetti, quindi di Mimmo Chianale e di molti altri che stanno mettendo il "becco" in società. Per ora è il caso di nominarli, fra qualche… libro, di questa gente, ne sentiremo delle belle.

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Capitolo XVI

Il calcio, la politica e tanta autarchia

Avete presente quei lunghi, lunghissimi treni che negli anni cinquanta arrivavano a Porta Nuova scaricando lungo le pensiline miriadi di immigrati meridionali e tonnellate di valige di cartone, legate con lo spago, che lasciavano trapelare sapori infiniti tra il peperoncino e il limone, magliette sudate e fragranza di mandarini? Erano gli odori, profumi, quasi gli “umori” di casa propria, della propria terra che tanti nostri connazionali si portavano appresso, nella speranza di ottenere un impatto meno traumatico di quello che era loro stato “disegnato” nei mesi precedenti. Proprio da uno di quei treni, accompagnato da un cugino più grande e dalla di lui moglie, tenendo per mano il fratello minore Giuseppe, Franco Maiorano era sceso una sera di giugno del 1959, proveniente da Ischitella, paesino delle Puglie nei paraggi del più noto Rodi Garganico, provincia di Foggia. Il primo impatto, appena fuori della stazione, fu strabiliante, così lo ricorda ancora oggi a distanza di quasi cinquant’anni, con la verdeggiante Piazza Carlo Felice e quell’ampia arteria stradale e i suoi alti palazzi che si stagliavano proprio davanti a lui: via Roma. Lui arrivava da un paesino, situato su una collina a pochi chilometri dal mare, e la casa più grande, ben tre piani, era il Palazzo dei Pinto, residenza settecentesca degli antichi principi di Ischitella, ma sapeva benissimo che ormai quelle vestigia erano d’altre epoche e che per vivere, sopravvivere quasi, bisognava cercare altre strade. Come poteva ragionare in tal modo un bambino di soli undici anni, che si trascinava un fratello di sei, pur accompagnato da due parenti adulti? Maiorano aveva dovuto crescere in fretta e sentendo cosa dicevano gli anziani vicino a casa che già cominciavano a ricevere notizie dal nord, dai figli o dai nipoti emigrati, si era messo in testa di arrivare in fretta a Torino. Finite le elementari, ne aveva discusso con i genitori, anche con veemenza e poi aveva convinto il cugino a prenderlo con se. Quest’ultimo e la moglie avevano rassicurato padre e madre di Franco

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che sarebbero stati sempre assieme e, tanto per dare assicurazione maggiore, si erano “caricati” anche il fratellino. Supportata da un altro parente (è la vecchia storia di tutti gli emigranti, il cui “paisà” arrivato prima aiuta il nuovo arrivato!) che aveva promesso alloggio, la comitiva di pugliesi inizia la nuova, nuovissima avventura. Con il tram numero “6”, come aveva scritto il cugino, che faceva, all’epoca, capolinea tra via Sacchi e via San Secondo nelle vicinanze della stazione, giungono sino alla Barriera Francia, poco prima di Piazza Massaua e da lì si fanno alcuni chilometri a piedi sino a Grugliasco, poco dopo il cavalcaferrovia di Borgata Paradiso, frazione di Collegno. Le valige pesano un accidenti, ma l’entusiasmo è alle stelle e quasi non s’accorgono della fatica. Il “paisà”, qui uso un termine non proprio pugliese, anche se molto noto, soltanto per far comprendere meglio la situazione, li accoglie in casa propria: una casa in affitto a due metri dalla ferrovia per Modane con due stanze e il cesso in fondo al cortile. C’è solo un piccolo problema, con loro quattro fanno sette le persone che devono arrangiarsi in quelle due camere. Ma, ovvio che sì, i problemi si sormontano in fretta quando c’è entusiasmo. Ora che aveva messo piede a Torino, per la verità nel suo hinterland, ma queste sono solo sottigliezze che non hanno mai contato nulla, si sentiva un re ed aveva cominciato a fantasticare già da quella prima notte, da quel primo sonno che era iniziato pochi minuti dopo essersi steso su un sottile materasso, insieme al fratello Giuseppe, Pino, come in tanti fra qualche anno lo chiameranno affettuosamente. I suoi sogni che nessuno vedeva tranne lui stesso, ovviamente, avevano dei fondali color verde acqua, proprio come aveva visto mille volte in quel mare vicino a casa, in quel mare nel quale aveva nuotato, si era tuffato, aveva sguazzato bambinetto. Ma neanche quando si svegliava, in quei primi tempi, il fondale cambiava e lui progettava, in silenzio o al massimo parlando sottovoce col fratellino che ancora non comprendeva appieno le sue idee, la sua vita futura. Non è andato proprio come le fantasticherie di quegl’anni gli avevano fatto supporre, Hollywood sta da un’altra parte, tuttavia non si può lamentare perché dopo aver messo su una bellissima famiglia ed alcune aziende nel campo metalmeccanico, anche nel calcio si è potuto prendere certe soddisfazioni. Ma sono andato troppo in fretta, è meglio ritornare a quei primi anni sessanta e raccontare l’intera vicenda.

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Oggi, supporre di andare a lavorare ad undici anni è impossibile. Primo perché si va contro la legge, secondo perché sarebbe una bella coltellata al cuore di quel bambino e terzo, credo, perché mancherebbe il coraggio anche al più becero di genitore. Ma in quei tempi per molti non c’era scelta e quindi anche Maiorano dovette darsi da fare. Se ne sta qualche settimana a bighellonare, guadandosi attorno, facendo le prime conoscenze e a fine autunno trova posto in una boita da meccanico, proprio a due passi da quella casa lungo la ferrovia. Franco Maiorano, non molto alto ma robusto e con una folta capigliatura che gli “darà” sempre qualche anno in più, ha barato sull’età e poiché il lavoro c’è e tanto, il titolare non fa una piega e lo assume. A undici anni, a mille chilometri da casa, con ottomila lire di stipendio a settimana, non gli chiedono manco un documento, chi mai, basta l’indirizzo di casa e, si vede a prima vista, tanta voglia di lavorare. Cinque giorni e mezzo su sette ed anche qualche ora di straordinario, così, senza una piega, tanto non guasta mai. Qualche anno dopo, proprio quando una ditta che diverrà famosa negli anni novanta anche come branca sportiva e si “beccherà” un titolo di campione d’Italia nel calcio a 5, l’ITCA di Grugliasco, lo adocchia e gli propone un posto da apprendista, è giunta l’ora di non barare più e per Maiorano i suoi sedici anni sono proprio quelli veri. Fra poco sarà anche ora di proseguire con gli studi, assolutamente serali, e meritarsi il diploma di scuola media, ma intanto ha cominciato a dare un’occhiata a quella gente, compagni di lavoro che nelle ore della sosta tirano calci ad un pallone nel cortile della fabbrica dove i titolari, è qui l’indice di chi con il calcio ci marcerà molti lustri dopo, hanno fatto costruire due porte vere pur in uno spazio ridotto. Il calcio gli è sempre piaciuto anche se lo ha praticato quasi per conto proprio: come si dice, quattro calci a rimbalzo contro un muro sotto casa e nulla più. Ma alla squadra, a inserirsi in una squadra per dirigere calcio, anche se non sa ancora cosa voglia dire veramente, comincia a pensarci. E gli anni, come le stagioni, corrono veloci. Non lo sa, o non lo vuole dire, va a sapere perché, ma da un po’ la politica lo sta appassionando. Lui giura che non è mai stato fatto alcun calcolo opportunistico, ma certo che quando un certo Scarrone, un amico incontrato nel borgo e con il quale aveva cominciato a frequentarsi, lo porta in un circolo del Partito Socialista Italiano, intestato a Giacomo Matteotti, in borgata Lesna proprio ai confini con Grugliasco, la sua vita comincia ad avere una sterzata.

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Alla ITCA ha fatto una discreta carriera, perché, dicono i suoi capi, bravo è bravo ma soprattutto ha un carattere di ferro e con il calcio inizia a darsi del tu: ha fondato una società con, per ora, una sola squadra a cui ha dato il nome del circolo socialista in cui bazzica, Matteotti, anteposto dal nome di una famosa squadra scozzese, il Rangers di Glasgow. Nasce il “Rangers Matteotti” a cui, per una sorta di bizzarria che non si è mai spiegato e di cui non ricorda manco l’ideatore che non è certo stato lui, affibbia il genitivo sassone al primo vocabolo facendo diventare il sodalizio “Associazione Sportiva Ranger’s Matteotti”. E’ il 1968. Nella società calcistica, con Maiorano c’è suo fratello Pino che, ormai, lo sorregge alla grande nella vita familiare. Poi si sono aggiunti Gino Collino, Michele Cipriani, due amici dei primi tempi ed un certo Salvatore Camarda che rimarrà in società sino alla sua scomparsa avvenuta in modo tragico e di cui tutti i frequentatori dei “Rangers”, così verrà da ora nominato il club e che alcuni giornali locali chiameranno con un aggettivo forse improprio ma comunque accattivante, i “forestali”, porteranno un indelebile ricordo. Camarda, infatti, ormai su con gli anni, è mancato nel suo letto, viveva da solo in un alloggio popolare di Grugliasco, ma è stato ritrovato soltanto una decina di giorni dopo la sua morte, avvenuta probabilmente per infarto, quando la sua assenza, quasi quotidiana, dal campo sportivo dei “Rangers” aveva creato qualche sospetto. Che fosse diventato un po’ troppo misogino non aveva stupito più di tanto, racconta Maiorano a cui vengono i luccichii agli occhi solo a parlarne, ma in molti avevano pensato che il periodo molto freddo della stagione, eravamo in pieno inverno, avesse consigliato a Salvatore di rintanarsi in casa, ed invece erano dovuti intervenire i vigili del fuoco, allertati dai carabinieri e questi ultimi da Maiorano. Quando, in occasione della commemorazione di Salvatore nella chiesa parrocchiale situata proprio di fronte all’attuale impianto di gioco, i fedeli appresero che Camarda era morto, ci fu un senso di stupore e di estrema pietà: “Ma come, quel vecchietto con quella piccola bici che girava nella borgata?” “Ma lo sa che mi aveva dipinto l’insegna del negozio in modo assolutamente gratuito?” Era vero, l’ho saputo, Salvatore era diventato un personaggio caratteristico della zona, sempre con belle maniere, mai imbronciato e con un sorriso accattivante, sovente a girare con quella bici

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sgangherata e senza freni che, tanto, bastava poco a fermarsi per la velocità che usava! Era anche un artista, aveva perfino frequentato l’Accademia di Belle Arti in via Accademia Albertina a Torino e si ingegnava nel dipingere cartelloni quando la società ne aveva bisogno. Qualche anno addietro, ultrasessantenne, aveva scritto al senatore Andreotti (avevano tenuto un contatto epistolare per qualche loro motivo!) perché intercedesse presso i dirigenti dell’Accademia Albertina al fine di fargli frequentare gli ultimi due anni dell’Accademia. Andreotti gli rispose (ho visto la lettera ed è inutile nascondervi che sono rimasto di sasso!) e qualche giorno dopo lo chiamarono dall’Accademia: ma non fu possibile accontentarlo per questione di orari e, forse, di età. Nel frattempo, in quel primo anno di vita, la società, anzi, la squadra, perché in tutto Maiorano e company erano riusciti a racimolare undici ragazzetti (fra cui il fratello Pino), gioca negli enti di promozione su campi di gioco che l’Ente propone di volta in volta, ma ha già adocchiato un terreno, lasciato incolto nel comune di Grugliasco, proprio lungo la ferrovia di Modane, quella che, proseguendo per qualche chilometro, Maiorano aveva incontrato nei primi giorni del suo arrivo a Torino e che, per il grande sferragliare dei treni a tutte le ore, non consentiva di dormire. Non consentiva agli altri, forse, perché ad un ragazzino come lui bastava avere un pagliericcio sotto la schiena e poi gli veniva anche qualche russata! In quanto al campo, era un po’ complicato arrivarci, ma se partivi da Torino, lungo l’asse di via Monginevro, incrociavi strada della Pronda e poi eri subito in mezzo a campi di meliga e di grano. Quella zona, spoglia di qualsiasi fabbricato, fra non molti anni diverrà la Borgata Paradiso di Grugliasco (esiste con lo stesso nome anche a Collegno e, difatti, sono adiacenti), si costruirà il sovrappasso che porterà al centro del comune delle “gru” senza passare da corso Francia e si munirà di una urbanistica niente male… se non fosse per quella ferrovia che taglia in due la borgata e la stessa strada della Pronda, metà a Torino e metà a Grugliasco. Maiorano e i suo collaboratori ottengono, probabilmente con l’aiuto degli amici socialisti già piazzati in comune, una concessione provvisoria su quel terreno e cominciano a lavorarci con buona lena. Nelle ore libere da lavoro ed impegni con la squadra, affittando un caterpillar, spianano il fondo e tirano su una baracca, ma proprio una baracca, con due soli muri in mattoni ed il resto in lamiera ed assi di legno: il tutto è pronto, lungo quello che dopo qualche anno si

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chiamerà corso Tirreno, per l’inaugurazione che avviene in pompa magna nel giugno del 1969. Nasce qualcosa di surreale, ve lo garantisco, perché essendo stato invitato all’inaugurazione ed arrivando da via Monginevro non riuscivo a vedere dov’era quell’impianto sportivo: letteralmente era nascosto dalle alte piante di mais e grano che in quel mese erano al massimo della coltura e poiché esisteva una sola stradina zigzagante tra i campi (di lì a poco il comune la asfalterà!), per arrivarci ci voleva, quasi, la bussola. Non c’era una sola casa o casetta ad orientarti, solo colture agricole, non si vedeva manco la recinzione della ferrovia e, quindi, quando sbucavi dalla stradina nello spiazzo ricavato a parcheggio davanti alla baracca degli spogliatoi, pareva di essere arrivati in mezzo… ad un’isola. L’entusiasmo continua e con esso la voglia di ingrandirsi. Si sparge la voce, si cominciano a radunare i bambini che bazzicano in Grugliasco, poi a borgata Lesna di Torino o sul versante collegnese di corso Francia e si formano, in pochissimo tempo, altre tre squadre tutte giovanili. Arrivano dei nuovi dirigenti, alcuni si improvvisano allenatori o istruttori che dir si voglia e la società assume una connotazione importante, quasi un punto di riferimento per molti di coloro che cominciano a frequentare la borgata dopo essere venuti a viverci. Il ridisegno urbanistico della zona, avvenuto proprio negli anni subito susseguenti all’inaugurazione del campo, la costruzione della “fungaia” di abitazioni, alcune di ottimo carattere residenziale ed altre vere e proprio case popolari, contribuiranno a far diventare “città” quel paese che era prima Grugliasco, obbligando, tuttavia, lo smantellamento del campo di gioco. E’ così che nasce l’impianto attuale (presto, ed intendo nel 2007, destinato ad essere, anche lui, abbandonato in quanto sono previsti, su quell’asse stradale che va dal capolinea della Metropolitana torinese alla costruenda fermata ferroviaria presso l’Università, sede di Grugliasco, viali, parcheggi, passerelle pedonali ed altre diavolerie urbanistiche), dopo che il Comune propone il terreno tra le case popolari che, nel frattempo, sono state costruite per accogliere le migliaia di immigrati meridionali che vogliono spostarsi da Torino città per farsi più vicini ai posti di lavoro, alle fabbriche ormai emigrate, anche loro, nell’hinterland torinese. Anche qui solo baracche, solo luoghi posticci perché a voler essere solo, e Maiorano avrà tanti amici ma i tanti soldoni per mandare in

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campo le tante squadre li tirerà fuori sempre e soltanto lui, qualche cosa devi concedere e, per ora, la concede all’eleganza, alla comodità. Ma il “pres”, come lo chiamano con affetto i suoi, batte imperterrito le tante strade che portano ad un calcio essenziale. Con i dilettanti in Seconda Categoria, una nuova Juniores e altre cinque squadre nel settore giovanile, viene il tempo di pensare alla struttura a come farla più ricettiva. Sparisce parte delle baracche, chè, di baracca, hanno ormai soltanto il tetto in lamiera e, con l’amico Cipriani a dirigere i lavori, costruisce quattro spogliatoi, uno per l’arbitro e una sala riunioni-bar in mattoni e cemento con tanto di perlinato a rendere più accogliente l’ambiente. Perfino la Scuola Calcio trova la sua sistemazione e se i risultati tecnici di eccellenza sono limitati alla prima squadra che sale in Prima Categoria, i tanti “undici” che giocano nei “Rangers” danno una vera sembianza di club che avanza o, per lo meno, che tenta di acquartierarsi nell’elite del calcio locale. Sono gli anni in cui appare un dirigente che coabiterà per oltre vent’anni con Maiorano, Bruno Amodio, napoletano verace, che unisce le indubbie capacità organizzative a qualche mugugno per quando le cose non girano nel verso giusto e farà la sua comparsa anche Giorgio Salemi, sempre con i dilettanti e sempre abile a destreggiarsi tra i vari “umori” degli allenatori che accompagnerà. Arrivano, infatti, allenatori come Renato Berrone, come Nicola Rago e, specialmente, come Michele Chinelli che sapranno dare una bella sterzata al senso della qualità tecnica delle squadre. Poi sarà Pino Maiorano che dirigerà il settore tecnico e che, ancor troppo giovane, lascerà questa terra per una grave malattia nel 1991 ed al quale verrà intestata la Scuola Calcio della società. Scuola calcio a cui presteranno la loro opera Enzo Mazzeo, Marco Salaroli, Piero Ferrero, Andrea Gurzì, Lele Carotenuto, Salvatore Innamorato, Mauro Bricarello, Gianni Duggento e Antonio Musciagli. Prima che intervengano persone che, pur per qualche stagione, non si faranno dimenticare per il lavoro svolto, è indispensabile segnalare Giusy Albano, da tanti anni a fare conti e dirigere la sede con autorevolezza e buon senso, quindi Annamaria Quaglia, abilissima direttrice della scuola calcio delle ultime stagioni, oppure Didier Ruggiero, il “mister” dei risultati brillanti, come Adamo Casaburo, Luciano Covoni, inseparabile dirigente delle squadre di Pino Maiorano, come Fiorentino La Padula, Francesco Purpora, Ezio Razzetto, prima giocatore di classe e poi “mister” con le squadre Allievi e Juniores, Fabio Vargiu, Giuseppe Carbonaro, Enzo Boero,

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Giovanni Carotenuto, oltre ai recenti Daniele Trogu, Giuseppe Beretti, Antonio Anzoletti. Ovvio che non solo questi hanno frequentato i “Rangers”, che qualche rompiballe, per usare un termine morbido, sono stati anche protagonisti nelle tante stagioni del calcio giallorossoblu, come, protagonisti, lo sono stati tanti altri elementi nelle società torinesi e del circondario, ma mica si possono nominare se non si ha una conoscenza diretta e quindi vado a disegnare soltanto coloro che hanno lasciato un segno nei club che ho conosciuto a fondo, dimenticando, sono certo che accadrà, molti nomi per mera questione di spazio e… di memoria. Ora, giunti nel terzo millennio, dicono, ai “Rangers”, che è di nuovo tempo per farsi un mazzo tanto! Difatti, anche l’impianto sportivo di via San Gregorio Magno, quell’impianto sorto in mezzo alle case popolari di Borgata Paradiso a Grugliasco, per la cui esistenza (o meglio, per l’esistenza delle tante famiglie di immigrati bisognosi) il presidente Maiorano non ha mai voluto che alcuno pagasse una sola lira di iscrizione, mai, è destinato a sparire: devono rifare l’urbanistica della zona e, gioco forza, si deve sloggiare. Ma dove? Proposte fatte, tante, risultati ottenuti, nessuno. Maiorano: “In trentotto anni di esistenza della società non ho mai chiesto alcuna sovvenzione ad alcuno, né c’è mai stato qualcuno che me ne abbia offerta una. Mi sono sempre costruito terreni, recinzioni, spogliatoi, servizi con le mie sole forze e quelle dei miei collaboratori. Ora che vogliono (il Comune, ndr) sbattere giù il campo e tutto il resto, spero che almeno mi rimborsino di tutto il lavoro fatto, costruendomi una piccola sede ed un campetto per gli allenamenti”. Non è una grande pretesa se si considera che le strutture in muratura dell’attuale impianto non sono recuperabili e andranno al macero, tuttavia esistono grossi dubbi che i “Rangers” possano essere aiutati veramente. In questi ultimi mesi (fine 2005, fine della nostra storia) pare crescere un accordo dei “Rangers” con il Comune di Grugliasco e il CUS Torino, gestore dell’area sportiva situata nella stessa borgata, ma le difficoltà sono tante e, a volte, paiono incomprensibili, non insormontabili, proprio incomprensibili. A quando la programmazione dell’ultima, effettiva puntata di una telenovela infinita, prima che un’altra società sportiva sparisca per sempre?

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Capitolo XVII

“Viaggiare” da soli e lasciare il segno

Esistono, nel mondo calcistico che ho visitato per decenni, alcune persone che si sono ritagliate un proprio piedistallo. Pur facendo parte di società sportive, il loro modo di presentarsi, di operare, oserei dire, di essere è stato un qualche cosa di assolutamente personale, tanto da “disegnare” una figura che è stata sempre riconosciuta importante, ma che, nel mio caso, ha voluto significare una sorta di monumento, di trofeo al migliore nel campo in cui ha operato. Ed il “campo”, non sempre è stato quello di gioco come potrete osservare andandovi a leggere queste prossime note.

Angelo Zambruni Quella mattina, una giornata grigia e gonfia di nebbia nonostante fosse già fine marzo, non fischiava il vento e manco infuriava la bufera ma, lassù, sul costone del Musinè, orientato verso Val della Torre, faceva ancora un freddo diavolo. Le scarpe rotte facevano parte della canzone partigiana, mentre loro, la pattuglia dei ragazzi, il più vecchio aveva ventidue anni, erano ben equipaggiati e soltanto “Salsino” (chissà perché si era scelto quel nome di battaglia!) aveva un revolver e due granate, mentre gli altri oltre alle bombe si trascinavano sulla schiena un ben lucidato Sten. Il gruppo era venuto da Mompellato, aveva sfiorato Rubiana passando sul greto del torrente e tenendosi sulla sinistra il Curt, la montagna che fa da contrapposto al più alto Musinè dove aveva intenzione di salire per controllare la strada militare che arrivava da Caselette. Era passata un’informazione che i tedeschi volessero fare un rastrellamento proprio nei luoghi all’imbocco della Valsusa e dalla Brigata era stato dato l’ordine di andare a controllare. Con “Giorgio”, vent’anni e già il più esperto, c’era il “Beccuti”, il “Riva”, c’era “Marietto” e un’altra dozzina di compagni, tra cui un certo “Peretti” che di nome, in realtà, faceva Angelo. I ragazzi non fanno in tempo ad appostarsi che, col binocolo di “Marietto”, scorgono una colonna di militari. Sembrano proprio tanti, sia delle Brigate Nere fasciste che dei

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tedeschi delle SS. Evidentemente hanno passato nella notte Caselette ed ormai sono oltre le ultime case di Milanere e stanno salendo verso il costone dove è appostata la pattuglia di partigiani “esploratori”. Quando, dopo aver preso nota dei movimenti, stanno per ripiegare, vengono scorti dalle avanguardie nazifasciste che cominciano a prenderli di mira con fucilate e qualche colpo di mortaio. Sono ancora molto distanti e le stesse fucilate sono più che altro sparate a caso. Per colmo di sfortuna, nel momento in cui “Peretti” si sposta verso il basso per prendere il sentiero che i suoi compagni hanno già imboccato e tentare di sfuggire all’accerchiamento, un colpo di “91” lo raggiunge in pieno petto. Subito soccorso dai compagni, che se lo caricano sulle spalle e fuggono verso Almese, “Peretti” viene portato in una cascina dove sanno di trovare degli amici e qui viene nascosto per l’intera giornata. Nel “corpo medico” della Brigata, era una delle “Garibaldi”, a cui fanno appello i compagni non c’è manco un medico e l’unico infermiere che si presenta alla cascina non è in grado di operare. Angelo Zambruni, il “Peretti” di cui stiamo parlando, il futuro segretario del settore giovanile del Tornio calcio, viene, medicato alla meglio, nascosto in un carro di fieno e, il giorno dopo, portato a Torino per essere visitato da un medico amico. Rabberciato alla belle meglio, riuscirà a nascondere l'accaduto ed a rientrare in ferrovia dove si metterà a lavorare come niente fosse, pur dovendo limitare le operazioni militari per la sua menomazione. A guerra finita, pochi lo sanno, riceverà una Croce Bronzea di Guerra, ma la pallottola rimarrà conficcata nel costato e non sarà più possibile estrargliela. Ora, a ottant’anni suonati, quel piombo è ancora li e lui dice che se lo porterà nella tomba: “Il più tardi possibile, se Dio vorrà”. Narrare di un personaggio pubblico, che tale è diventato per le conoscenze acquisite e per la frequentazione continua dei tanti che hanno masticato calcio a Torino, pur del nostro calcio giovanile, potrebbe voler dire ripetersi. Raccontare, infatti, di Angelo Zambruni e di tutto quanto ha fatto nel calcio, col calcio, per il calcio non basterebbero enciclopedie per riempire tutte le pagine che occorrerebbero. Ripercorrere oltre sessant'anni di vita sportiva e, di questi, quarantasette nell’Associazione Calcio Torino, è un po' come partire dall'età della pietra e tornare ai nostri giorni. Non posso farcela, ed allora lo tratteggio soltanto, ne do riscontro con alcuni cenni e, volutamente, vado sul personale.

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I suoi "ragazzi del Filadelfia" comprenderanno e se avranno la ventura di notare questa pagina, ne sono certo, un chilo di nostalgia se lo “faranno” per colazione. Zambruni, dunque, nasce in Lomellina, a Rosasco, in provincia di Pavia, appena al di là del fiume Sesia e a due passi da Vercelli, ma comunque lombardo. Finisce le scuole e già a sedici anni si trasferisce a Torino. Entra in Ferrovia e poco dopo viene promosso nell'ufficio ragioneria del Lingotto. Siamo in piena guerra e con l'abitazione a due passi dallo scalo ferroviario, ripetutamente fatto bersaglio dei bombardamenti alleati, se la vede brutta in più di un'occasione. E' in quel periodo che conosce alcuni compagni che gli instillano quei principi di libertà che si porterà appresso per tutta la vita. Entra, lui giovanetto come tanti all'epoca, nelle formazioni partigiane della "Garibaldi" e, come appena narrato, in una delle operazioni militari cui partecipa, si becca anche una pallottola di fucile in pieno petto. Finita la carneficina, è lo sport che lo attrae come accadeva di già cinque anni prima. Dopo quel famoso “Barriera Nizza” in cui aveva cominciato a giocare, “ala destra che ragionava più che scattare come un matto”, con un certo Conte, divenuto in seguito segretario del “Nizza Millefonti”, società assurta ai grandi traguardi di fine millennio per poi cadere nell’anonimato, va a giocare in Seconda Divisione nel “Cavoretto” che disputava le sue partite interne nel vecchio e famoso campo del "Galoppatoio" di Piazza d'Armi. Ma Angelo è proprio bravo ed allora lo chiamano al "Guerin", Prima Divisione, dove incontra un dirigente, più volte nominato in queste pagine, che farà una carriera stupefacente nel calcio nazionale ed internazionale: quel Dario Borgogno che, passato al Cenisia nel 1955 e di lì in Federazione, coprirà tutti gli incarichi più importanti nel nostro calcio che conta. Nel 1953 ritorna, come allenatore, al “Barriera Nizza” e dopo poche stagioni viene notato dal presidente dell’AC Torino, Lievore, che lo convince, insieme a due baldi atleti, Ferrero e Lanfranco, a trasferirsi nel club granata. E' il 1955 e da subito Zambruni viene nominato segretario del settore giovanile del Torino, incarico che non abbandonerà più se non per andare in pensione. Comporrà, con l'avvocato Sergio Cozzolino, un binomio dirigenziale e organizzativo del calcio giovanile che non ha avuto uguali nell'intera storia del calcio italiano e che porterà a rivestire le maglie granata della prima squadra una miriade di giocatori di talento. Tutto questo

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supportato, sino agli anni novanta, da quel vero "animale" calcistico che risponde al nome di Sergio Vatta. Vatta aveva fatto una gavetta niente male, con i “campi di raccolta” per i profughi giuliani e dalmati, le partite venti contro venti nel grande cortile delle “Casermette” dell’attuale via Veglia, dove aveva anche conosciuto un buon giocatore come Gianmarinaro, atleta del Torino di subito dopo la tragedia di Superga ed aveva militato in varie squadre, come, per esempio, la Fiumana del presidente Federico Czimeg. Diventato allenatore professionista aveva allenato ad Ivrea, a Casale ed era approdato al Torino verso la fine degli anni sessanta. Zambruni, Vatta e l’avvocato Cozzolino si fregeranno di titoli tri- colori di ogni specie, di Tornei di Viareggio a iosa, di Coppe Italia a manciate, senza parlare dei tornei vinti in tutta Europa e oltre. Vieri, Poletti, Agroppi, Rosato, Ferrini, Albrigi, Fossati, Pulici. Rampanti, Mozzini, Cereser, Zaccarelli, Garella, Dossena, Novellino, Mandorlini, Sclosa, Cravero, Fuser, Comi, Dino Baggio, Delli Carri, Falcone, Lentini, Cois, Bobo Vieri possono bastare? Quando ancora esisteva il “Filadelfia”, inteso come campo delle squadre giovanili granata, l’ufficio di segreteria era situato in quello stanzone sotto le gradinate del vecchio impianto, appena si entrava nell’antistadio, subito a destra, ed era una sorta di “monumento al calcio giovanile”, con centinaia di gagliardetti e decine e decine di coppe sistemate un po’ ovunque. In quello stanzone avevano una scrivania ciascuno sia Cozzolino che Zambruni, un solo telefono, un paio di armadi e poche altre suppellettili; anche Vatta, quando doveva parlare di qualche problema o impostare un qualsiasi progetto con Cozzolino, oppure si doveva informare di un certo giocatore con Zambruni, non poteva che accomodarsi su una sedia sistemata a fianco delle due scrivanie e sciorinare il quesito. Salvo prendersi l’avvocato sotto braccio e farsi qualche vasca nell’antistadio: quelli erano momenti delicati che mai, nessuno, osava interrompere. Tutto qui, nella maniera più spartana e più semplice possibile, pur con la deferenza che tutti, giocatori e dirigenti, avevano per quelle persone. E semplice e cortese era, in ogni occasione, Angelo Zambruni, che aveva saputo intrecciare una collaborazione eccezionale con molte società dilettantistiche e giovanili torinesi, tanto che i rapporti con quel settore della società granata saranno sempre improntati al più schietto cameratismo.

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“Cecu” Grosso Ho letto, da qualche parte, che "conoscere è ricordare". Ed è vero. Se fate un attimo mente locale, quando incontrate un vecchio amico, la prima cosa sulla quale vi soffermate è il ricordo dei tempi andati. Sarà segno di nostalgia, qualche maligno dirà che potrebbe essere indice di andropausa, oppure l'egocentrismo del calciofilo inveterato, fatto sta che accade, è accaduto. Nel mondo dello sport, poi, c'è quasi un senso di sublime compiacimento a parlare del passato, delle gesta passate, degli atleti, bravi o meno bravi, che si sono avvicendati nella storia di una società di calcio. Ma è inevitabile, a volte piacevole, sovente gustoso. Come quando capitavi, non molti anni addietro, al Circolo "Cerea", in Corso Moncalieri a Torino (la sede della Juventus, in piazza Crimea, aveva abolito il “Circolo” e un luogo per far ritrovare gli antichi si doveva pur scovare!) per cercare di incontrare uno o due, rimasti, dei vecchi personaggi che avevano disegnato il settore giovanile del club bianconero. C’erano giornate, specialmente d’inverno, con pochissima gente all’interno, la nebbia sul corso e lungo le sponde del Po teneva lontano i più, qualcuno giocava a bocce al coperto, altri si facevano la partitina a carte, qualcuno chiacchierava e scherzava. Ma pareva una cosa intima, quasi un peccato andare a disturbare. C’era Giovanni Viola, l'ex portierone juventino che pareva ancora un giovanotto e che in questi anni, benché non faccia più scorribande di sorta, lo ritrovi ogni tanto, a braccetto della signora, nelle vie che circondano il Comitato della FIGC (ed è sempre un piacere anche solo salutarlo), c’era Rava, Depetrini, Grosso e qualche loro amico a fare da contorno, con i soliti commenti che se non accendevano mischie “sotto porta”, mandavano a “dar via il …” in fretta, in fretta. In quelle giornate in cui l’attenzione di Francesco "Cecu" Grosso, in coppia con Viola, era al massimo perché stava contendendo una vittoria a scopa agli avversari, non dovevi manco respirare e se non eri pronto a battere in ritirata ed infilare il cancello d’ingresso del circolo più che in fretta, ti arrivava un boia fauss da far paura, subito seguito da certe battute al pepe che facevano sganasciare la combriccola. Dopo un po’ avevo capito la solfa e il “va dar via…” se lo beccavano loro, sempre nella più totale compostezza, come se fosse la prassi della congrega… collegiale. Quando, poi, terminava il "match" s'iniziava a parlare di calcio. Fu proprio dopo aver capito l’antifona che, un poco alla volta, con Grosso divenni amico e scambiai opinioni, pareri, sentenze, tanto da

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riuscire a venire a conoscere anche alcuni dettagli della sua vita sportiva che, obiettivamente, significa soprattutto la sua vita in casa juventina. “Cecu” Grosso, il mister di cento formazioni giovanili bianconere, ha sempre quella venatura cispadana nella sua parlata che lo rende inconfondibile; come la giovialità e la pacatezza di piemontese che Viola, ancora in quelle stagioni, continuava a punzecchiare. A volte c’era la tentazione in me di lasciarli fare perché, vi garantisco, era uno spasso, ma se uno dei due era sul punto di far cadere le carte e arrendersi, allora era meglio, come detto, che mi allontanassi dai paraggi. In Grosso, che ha vestito per un secolo le casacche bianconere, non c’è mai stata la tentazione di fare fagotto ed andare ad allenare altrove. “E’ solo dal 1936 che ho cominciato a respirare… juventino”, mi dice quasi a rimproverarmi se pensa che possa nutrire dubbi sulle sue radici e, seppure abbia toccato anche altri lidi nella sua carriera di giocatore- allenatore, ha sempre visitato luoghi in cui l’aggancio con la casa madre era dietro l’angolo. Dunque dal ’36 nei boys juventini e salto in prima squadra nella stagione 1940/1941 a diciotto anni appena compiuti. Giocò contro la Fiorentina a Firenze e beccò una tale legnata, 1-5, che se lo ricordò per un bel po’ di primavere. In quella Fiorentina giocava gente come Menti, Trevisan, Valcareggi che gli lenirono, appena, appena, la ferita del cappotto subito. Dopo la guerra andò, in prestito, in Serie B al Como e ritornò alla Juventus per rimanerci, come giocatore, fino al 1950. Come lui stesso conferma, non fu mai un titolare fisso, ma, comunque, oltre quaranta presenze in Serie A non sono da buttare. Pareva giunta l’ora di smettere le braghe corte e darsi a qualche mansione dirigenziale e tecnica. Macchè, continuò come giocatore nell’Empoli, Serie B, come giocatotore-allenatore nel Castellamare che dalla Serie C portò in B, e fini per rientrare in Piemonte dove smise definitivamente con un paio di campionati nella Valenzana. Adesso era diventato “grande”, nel senso che era arrivata l’ora di essere adulto del tutto e poiché con la Juventus i rapporti non si erano mai interrotti, nel 1959 entrò nello staff tecnico della società bianconera. Cominciarono annate di grandi soddisfazioni, anche se all'inizio, nonostante la strada fosse tutta in discesa per via della politica societaria, fu un piccolo problema nel lasciare i pantaloncini corti ed indossare la tuta: si sentiva ancora un giocatore e non gli era

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stato facile adattarsi. “Ma queste ultime parole non scriverle perché, se no, a Viola… ai ven da rie!”. Se si è compresa la sottigliezza, sarà certamente più facile comprendere il carattere del personaggio che, comunque, con le possibilità che la società gli aveva messo a disposizione riuscì a formare un vivaio che forse, all’interno, non ha avuto imitazioni in quanto a qualità. Tra Allievi, Juniores e Primavera, Grosso e i suoi ragazzi erano riusciti a vincere tre o quattro titoli italiani e vennero “svezzati” atleti del calibro di Bettega, Causio, Furino, , Maggiora (un ragazzo, come assicura Grosso, che avrebbe meritato ben altre platee), Galderisi, Pin e tanti, tanti altri che ci vorrebbe un annuario del calcio per elencarli tutti. Mauro De Riggi, uno dei suoi ultimi pupilli, incontrato poco tempo fa sugli spalti di un campo della provincia, ha avuto bellissime espressioni nei suoi confronti, a dimostrazione, se ce ne fosse la necessità, che il rapporto con i suoi ex allievi è sempre stato speciale. E, infatti, ad una precisa domanda in tal senso, Grosso risponde: “Con un buon numero di ragazzi ho ancora scambi di battute, lettere, telefonate, opinioni. Molti altri li ho persi di vista, come sempre succede, com'è umano che avvenga. Tuttavia ho la presunzione di affermare che rarissime sono state le incomprensioni e se ciò è inevitabile che succeda, beh, è un piccolo cruccio che mi porto appreso”. In questi ultimi anni, dopo che era andato in pensione, dopo che aveva abbandonato anche il compito di osservatore che il responsabile del settore giovanile dell’epoca, Beppe Furino, gli aveva assegnato, aveva acconsentito ad aiutare un amico, presidente di una società di calcio, e quando quella società, lo “Spartanova”, era scomparsa anche lui aveva smesso del tutto. In quanto alla Juve, ovvio che l’innamoramento non è mai finito, forse si è tramutato in amore, ma lui preferisce la prima scelta perché, dice, “Il tempo dell’innamoramento è la fase più bella, intensa, gioiosa della vita e così voglio ricordarmi la mia società”. Quando, nell’ultima occasione che ho avuto di incontrare “Cecu”, l’ho visto appassionarsi e strigliare l’amico per una partita a scopa, sono ritornato con la memoria ai suo cento anni del “Combi”, alle tante ore di allenamento, alle migliaia di gare ufficiali e mi sono fatto un’idea quasi completa di una persona per bene.

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Marino Guglielminotti Siamo a Torino, manco nei dintorni, proprio a Torino e vorrei, o forse devo, parlare di una persona che è il vice sindaco ad Aosta, che fa anche l’Assessore all’Urbanistica nello stesso capoluogo valligiano e che, per tradizione di famiglia, è appartenuto ad una società calcistica della Valle d’Aosta, la Polisportiva “Giorgio Elter”, sempre di Aosta. Ma non sono fuori posto, perché Marino Guglieminotti, ecco chi è, non vive di calcio, ma con il calcio si è fatto conoscere e, da Torino, agisce per l’interesse di molti che hanno un campo e giocano in FIGC. Pare un indovinello ed allora è meglio che chiarisca. Guglielminotti abita a Torino ormai da molte stagioni, in una villetta che sfiora i casermoni della Falchera e si sciroppa una barcata di chilometri ogni giorno per il solito, grande amore per la famiglia. Ma non va soltanto in Valle, Marino, sovente è a Giaveno, oppure a Valenza, a volte a Verbania o a Fossano e così sempre in giro per le due regioni del nostro Comitato Regionale della Lega Nazionale Dilettanti. Ma perché, si potrebbe chiedere qualcuno, questo signore viaggia come una spia? Forse che sia un novello “Forrest Gump”? La cosa è molto più semplice ed ha una sua storia ben precisa. Marino Guglielminotti, come predetto, ha giocato nella squadra di famiglia, la “Giorgio Elter”, diventata anche Polisportiva “ANPI Elter”, per un bel mucchietto di stagioni, ha vinto campionati di Seconda, Prima Categoria, ha militato anche in Promozione sempre con lo stesso sodalizio e si è tolto non poche soddisfazioni ricevendo alcuni riconoscimenti tecnici per la sua attività di calciatore. Ho detto “squadra di famiglia”, anche se avrei potuto dire “società di famiglia” in quanto nella sua lunga storia ha avviato vivai e squadre juniores, perché il club era stato fondato dal padre Ernesto e sempre da questi finanziato. Alla morte prematura del padre, colpito da un male incurabile nel 1987, Marino ne prende il posto e soltanto i troppi incarichi, politici, istituzionali e tecnico-sportivi federali, lo costringono ad abbandonare la società nel 1999. Forse non è ancora chiaro per nulla cosa c’entri questo signore con il calcio torinese, ed allora proseguo nelle spiegazioni. Dopo aver pestato tutti i campi di calcio possibili per una trentina d’anni, Guglielminotti è andato anche ad occupare il posto di Consigliere regionale LND dal 1978 al 1980, in rappresentanza della Valle d’Aosta, è stato nominato Ispettore nazionale della FIGC per la Lega Dilettanti nel 1988 e, qui veniamo al dunque, è stato nominato, prima, vice fiduciario regionale per i Campi Sportivi nel 1990 e, poi,

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Fiduciario Regionale nel 2002, confermato dal presidente Inversi anche nel 2005. Cosa significa questa ultima mansione che, se lasciata a se stessa, non dice un tubo? Sta ad indicare che buona parte dei campi sportivi del Piemonte e della Valle d’Aosta, su cui giocano le nostre squadre dilettantistiche, è stato omologato dall’ingegner Marino Guglielminotti. Adesso è probabile che sia chiaro il motivo per cui racconto di un certo ingegnere valdostano, con laurea in Ingegneria Civile al Politecnico di Torino, ufficio a Torino e in Aosta e abitazione in Torino. Guglielminotti, persona schiva e tutt’altro che avvezza a palcoscenici di sorta, ha “girato come una spia”, eufemismo che ben si addice ad una persona discreta, ha conosciuto presidenti, segretari, direttori generali di quasi tutte le società iscritte in FIGC ed ha mollato fior di omologazioni per consentire di far giocare le nostre ottocento e passa società, con le loro seimila squadre, tutti i sabati e tutte le domeniche di ogni santissimo anno. Ma per omologare un campo di gioco che, detto per inciso, riguarda anche spogliatoi, recinzioni, la lunghezza e la larghezza degli spazi per destinazione, i centimetri dei pali delle porte, i portoni e i cancelli, non basta avere il regolamento da una parte e un modulo da riempire dall’altra, necessita anche tanto buonsenso e Guglielminotti è sempre pronto, come è accaduto nel fatto che sto per raccontarvi, a dispensarne a manciate quando serve, quando non c’è alternativa. In una domenica di giugno di qualche anno fa, incontro Marino che sta avviandosi verso un paese della cintura torinese per visionare un campo di calcio: notate bene, va a visionare! Curioso per quel tipo di lavoro che non ho mai visto mettere in pratica, lo seguo e assisto ad un colloquio con il presidente di una piccola società che deve giocare su quel campo comunale, costruito da pochissimo, ma di cui gli amministratori comunali manco si sono sognati, fino a quel momento, di richiedere una qualsiasi omologazione di sorta. Spazi enormi del terreno per destinazione, porte da gioco a norma, spogliatoi perfetti. Un solo guaio, la recinzione interna ed esterna è molto bassa, a volte non raggiunge manco i due metri per la sopraelevazione del terreno esterno. Unico consiglio che può dare è di rinforzare o rifare la recinzione e poi di richiamarlo per la firma sul verbale. Quel presidente si rivolge al Comune interessato che aveva fatto costruire il campo da degli evidenti incapaci e chiede di provvedere alla nuova recinzione. Lui, da

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parte sua, avrebbe provveduto alla sistemazione delle recinzioni interne difettose. Risultato? Il Comune sta per spendere una barcata di milioni, si era ancora prima del 2002, ma la recinzione che si sta costruendo con una sopraelevazione che parte dal muretto elevato per tutto il perimetro della struttura lascia uno scalino bello comodo a quei malintenzionati che volessero, se pur a fatica, saltare all’interno del campo di gioco. Una casuale visita di Guglielminotti, eseguita nella settimana susseguente agli inizi dei lavori, fa rilevare l’errore e il costo inutile di quanto si sta costruendo, togliendo dalle grane la società di calcio e facendo compiere un risparmio notevole al comune proprietario della struttura sportiva. Non è il fatto appena descritto che concede la professionalità ad una persona che sa far bene il proprio mestiere, certo che se Guglielminotti se ne fosse fregato altamente, qualcuno avrebbe pianto lacrime amare: si parlava di quasi cento milioni di lire del 2001. Non è certo la sua biografia completa, ma quel che risulta sicuro è che Marino Guglielminotti, nel calcio di Torino e dintorni, ha saputo “contare” come pochi, e non solo in senso figurato.

Carmelo Lucà Non è alto, non è grosso, non è nemmeno simpatico a tutti, e lo afferma lui stesso con convinzione e se ne fa perfino un vanto, ma come per il Guglielminotti di prima, Carmelo Lucà è uno che conta. Questa volta non si tratta di ingegneria, non si parla di metri o centimetri, più semplicemente Lucà è una persona importante nel suo ambito che è quello dell’Associazione Italiana Allenatori di Calcio. A parte gli associati che, di questi anni, non possono farne a meno, sono ben poche le persone che hanno una qualche dimestichezza con i compiti, addirittura i doveri, probabilmente le informative a cui segretari, presidenti, revisori dei conti dell’AIAC, così è meglio conosciuta nell’ambiente, devono dare riscontro. E, tanto per mettere del nero che conta su dei fogli bianchi, si sappia che l’AIAC è entrata a pieno diritto nella stanza dei bottoni della FIGC, in seguito alla “Legge Meandri” per lo sport, componendo con le tre Leghe, con l’AIC (Associazione Italiana Calciatori), l’AIA (Associazione Italiana Arbitri), il Settore Tecnico e con il Settore Giovanile e Scolastico, il Consiglio Federale, quell’organismo che traccia il cammino del calcio in Italia.

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Logico, comunque, che tutto questo intreccio non è germinato adesso e che la sua bella storia, quasi propedeutica a quanto sta capitando nel terzo millennio, è cominciata nel cosiddetti anni eroici del calcio organizzato. Lucà è sempre tra i pensatori di queste novità e benché abbia una sua tradizione di istruttore, allenatore, direttore tecnico e quindi direttore sportivo, è lui che mette il becco, quello decisivo, nelle idee che sorgono a certe “teste” fini degli anni sessanta, della fine degli anni sessanta. In quelle stagioni un certo geometra Zani, poi nominato primo presidente, mette d’accordo un po’ di gente che vuole fare associazione e fa nascere l’AIAC, indicando Pinacci quale primo responsabile in Piemonte degli allenatori che volevano darsi una regolata burocratico-amministrativa. I gruppi nascono in tutte le regioni italiane e cominciano a diventare una buona forza d’urto. E’ nel Corso Allenatori del 1971, il primo tenutosi a Torino, che Lucà si becca il patentino e già con lui si evidenziano Giovanni Benedetto, stupenda persona che un male incurabile si è portato via troppo, troppo presto, Piergiorgio “Gin” Palmesino, Antonio Ferroglio ed altri. Sono tempi grami per le “finanze” necessarie a far funzionare l’associazione ed allora si decide che verranno nominati nel direttivo del Gruppo Regionale Piemonte e Valle d’Aosta dell’AIAC e saranno preminenti nelle decisioni, soltanto coloro che pagheranno nei tempi giusti la quota associativa. E’ una bella mossa che smuove le acque e che consente di vivacizzare la “congrega”, tanto che nel 1975 Carmelo Lucà ha la bella idea di radunare un po’ di gente per discutere dei problemi degli allenatori. Il consesso si fa, un lunedì di febbraio, nel cinema dell’oratorio del “San Michele Rua”, alla Barriera di Milano, con una riunione informale cui partecipa anche , allenatore della Juventus e quindi tesserato AIAC del Piemonte, poi Francesco Trabucco, Pasero, Gigi Gabetto, Taverna e pochi altri che, comunque, decidono di dar vita ad un AIAC provinciale. In quella occasione viene nominato presidente del “provinciale” l’avvocato Pasero, gran bella figura di allenatore, con Lucà segretario e entrano a far parte del direttivo Ezio Dilej, Gin Palmesino, Giancarlo Bertolini, Antonio Ferroglio. Subito dopo si raccolgono le adesioni delle altre province, al cui interno si è riusciti a formare un Gruppo, e così gli allenatori di Cuneo, Asti, Alessandria, Aosta, Vercelli e Novara confluiscono nel Gruppo Regionale di cui Giovanni Benedetto sarà nominato presidente.

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Ma il processo di espansione non è per niente completato, perché ora si fanno sotto le molte AIAC sparse per la penisola e le “poltrone” cominciano ad essere appetibili a tanti. E difatti l’avvocato Pasero sarà chiamato nel direttivo nazionale, mentre anche Lucà metterà a frutto la sua professione e si candiderà nei Revisori dei Conti che è poi l’organismo che consente di muoversi a tutta la “truppa” associata. Non ci riesce, ma intanto l’amo per ottenere le buone amicizie è stato gettato. Passo, passo, calmo, calmo ché, d’altronde, per chi conosce Lucà è nel suo DNA o, per lo meno, in quello delle sue “gambe” (non c’è mai stato nessuno che ha visto… correre Lucà e quelli che gli hanno giocato insieme hanno certamente oltre cent’anni e sono senza memoria!), il nostro amico ha saputo proporsi come una delle persone più affidabili, anche se il carattere non è malleabile come qualcuno penserebbe guardandolo seduto alla sua scrivania e con quel sorriso sornione, tanto da assumere cariche che manterrà per… i secoli a venire. In questi anni, infatti, Carmelo è sempre segretario del Gruppo Regionale Piemonte e Valle d’Aosta dell’AIAC, quel Gruppo di cui da qualche tempo è presidente Giancarlo Bertolini, è nel collegio dei Revisori dei Conti nazionale, carica ottenuta e confermata nell’ultima votazione in cui è avvenuto, anche, il cambio della guardia alla presidenza, con Ulivieri a prendere il posto di Vicini, passato al Settore Tecnico, ma ciò che rende la nostra piccola storia densa di significato e che fa intendere lo “spessore” del personaggio è stato l’aver constatato che Carmelo Lucà, da Torino, è stato l’associato più votato tra tutti coloro, segretari, revisori dei conti, probiviri, presidenti e vice, che si sono candidati per una qualsiasi carica. Non male per un torinese che, evidentemente, sa fare le cose per bene.

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Capitolo XVIII

Il calcio “nobile” del Lascaris

Pensa che roba, sono passati cinquant’anni, anzi cinquantuno, ed ancora non si trova la persona “giusta”, più che giusta affidabile e, forse, più che affidabile “nobile” al punto tale da affermare che il sostantivo dei Marchesi Lascaris e, di conseguenza del Gruppo Sportivo “Lascaris” di Pianezza, Torino, Italia, si pronunci con l’accento sulla seconda sillaba o, come qualche austero, museale, barocco di storico pretende, sulla prima. E’ un bel discorrere, forse anche un bel discutere ma non si è mai fatto avanti qualcuno che, con documenti alla mano, possa dirti qual è quella benedetta pronuncia, anche perché di eredi della casata non ne è rimasta manco l’ombra. Ovvio che la questione è solo accademica, ma quando senti una lettrice di telegiornale che pronuncia: “…si è svolta a Palazzo Làscaris…” ed intende la sede del Consiglio Regionale del Piemonte, quando neanche l’Enciclopedia di Torino, curata da Massimo Centini, prende posizione e scrive mille volte Lascaris senza accento alcuno e, quando, infine, il “nobile”, ma per tutt’altre ragioni, Francesco Trabucco, attuale presidente del sodalizio sportivo, afferma di fare, o meglio, di dire come proprio si vuole, mi sento in dovere di essere autonomo e di seguire Centini, scrivendo Lascaris e pronunciando Lascàris. Mi viene meno cacofonico, più consono. Ho voluto fare il discolo (si dice ancora così di un rompiballe?), per introdurre nel modo più significativo la storia di un gruppo di appassionati che ha fatto del calcio a Pianezza un blasone di signorilità, prima ancora che un fattore puramente sportivo. A Pianezza non esiste soltanto il “Lascaris”, il calcio lo fa, e da più tempo, anche l’Unione Sportiva Dilettantistica “Pianezza” e di questa bella gente ne parlerò in un altro libro, ma i risultati sportivi più significativi pervengono dai bianconeri della “Benefica”, come per tante stagioni si è chiamata la zona in cui aveva scorazzato il “Lascaris” e, comunque, l’aggancio storico mi ha consentito di parlare di nobiltà quando, quest’ultima dote, ormai significa ben altro.

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Chi meglio, quindi, di un socio fondatore della “sportiva” come Ernesto Gianotti poteva dare alcuni cenni “sontuosi” sui primi passi, come sempre difficili, pesanti, faticosi del G. S. “Lascaris”? Ho voluto, così, trascrivere una sua prefazione ad un bel libro sulla società che una dozzina di anni addietro era stato dato alle stampe e in seguito sarà facile capire perché ho mischiato lo sport e la nobiltà. “A distanza di tanti anni dalla fondazione del G. S. Lascaris, penso sia una cosa giusta e doverosa riassumere e raccontare, a chi è venuto dopo, come si sono svolti quei lontani periodi, sempre sperando che la memoria non mi tradisca. In effetti, oltre che ai miei ricordi, farò ricorso a tutti quei documenti, scritti, fotografie conservati gelosamente nel mio archivio personale e che riguardano le prime attività della squadra (badate bene, Gianotti dice, squadra, una sola squadra, il concetto di società verrà molto tempo dopo, ndr) negli anni dal 1954 al 1957. Mi sono deciso a narrare e riepilogare quella lontana storia sportiva anche dietro inviti ed esortazioni che mi sono stati rivolti da parecchi "miei" ragazzi di allora e da alcuni dirigenti attuali del G.S. Lascaris. Il raccontare a distanza di tanti anni e in tempi così profondamente mutati, evoluti e moderni come quelli attuali, una storia fatta di tanta passione per il calcio e con così miseri mezzi economici a disposizione, penso sia una cosa che potrebbe anche suscitare un senso di ironia per chi non l'ha vissuta, ma nello stesso tempo un sentimento di orgoglio per coloro che in quei lontani giorni hanno preso parte attiva alla creazione ed allo sviluppo di quella squadra. Nell'autunno del 1954, avevo già giocato con discreta fortuna in diverse squadre di calcio a livello dilettantistico ed avevo acquisito una discreta esperienza in fatto di "prendere a calci un pallone". In quel periodo, frequentando l'Oratorio di S. Luigi presso la parrocchia di Pianezza, si avvertiva la necessità ed il desiderio fra i giovani che frequentavano l'Oratorio stesso, di costituire una squadra di calcio e potere dare cosi sfogo alla loro grande passione per quello sport. Così, quasi per caso, parlando e discutendo con il Vice Curato di quei tempi, Teologo Don Boano (notare il maiuscolo per i termini connotativi, ndr), mi venne l'idea di formare una

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squadra vera e propria di ragazzi che allora avevano pochi anni meno di me. Si diede così inizio ai lavori di conoscenza, di preparazione, di inviti rivolti anche ai giovani che non frequentavano l'Oratorio, per i primi allenamenti che venivano svolti nel piccolo cortile del vecchio Oratorio di Pianezza. In quella prima fase della costituzione della neo squadra ebbi molto aiuto e conforto dai fraterni amici Mauro Ramello, Franco Vernetti, Aldo Gili, Gino Ferrero ed altri ancora che presero a collaborare ognuno nel proprio ramo di competenza. Il nome di G.S. Lascaris, con il quale fu denominata la squa- dra, fu suggerito dal nome della Villa Lascaris che confinava con l'Oratorio. Desidero ancora mettere in evidenza la preziosa e fattiva collaborazione del Teologo Don Boano che con la sua instancabile opera ebbe un ruolo determinante in quel periodo. In quei tempi non esisteva nel territorio di Pianezza nessun campo di calcio in quanto l'unico terreno da gioco era sito in Alpignano e su di esso, oltre alle squadre calcistiche di Alpignano, poteva giocare, secondo gli accordi di allora, l'unica squadra già esistente in Pianezza e cioè la U.S. Pianezza. Si poneva quindi, come primo ed importante problema, la ricerca di un terreno sul quale potere dare inizio in forma uffi- ciale alla nostra neonata attività agonistica. Fu quindi grazie all'interessamento del solerte Teologo Don Boano, che si entrò in contatto con i "Missionari della Consolata", i quali, nel loro complesso posto nell'interno del Castello di Alpignano, possedevano un campo da gioco che era non regolamentare come misure e dimensioni, ma che era idoneo a risolvere almeno inizialmente il nostro problema. Ci fu quindi concesso di potere svolgere su quel terreno le nostre prime partite ed i nostri primi allenamenti. In seguito e dopo accordi presi con le Società Calcistiche di Alpignano e di Pianezza, anche il G.S. Lascaris ottenne il nullaosta per usufruire del campo da gioco di Alpignano. Un altro problema non meno importante da risolvere era quello di provvedere per gli indumenti e le attrezzature da gioco: un problema non indifferente per chi come noi non aveva alcun mezzo di appoggio finanziario. Fu quindi con

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l'aiuto della Parrocchia (voglio qui menzionare e ringraziare il Parroco di allora Don Cossai) e di tutti noi che con molti sacrifici si trovò il modo di risolvere quella vitale necessità ed anche con l'aiuto economico che venne offerto in seguito dal secondo Presidente del G.S. Sig. Aldo Perino. A questo punto voglio rammentare che il primo Presidente del neonato G.S. Lascaris fu il Sig. Mauro Ramello - Direttore Tecnico e Factotum, Ernesto Gianotti - Assistente Religioso, Don Boano - Consiglieri: Franco Vernetti, Aldo Gili, Gino Ferrero. Per quanto riguarda le scarpe da gioco, mi ricordo che quasi tutti i ragazzi di allora, provvedevano di tasca pro- pria a procurarsele, naturalmente con gli aiuti famigliari. Le tute necessarie per gli allenamenti furono acquistate dal sottoscritto, dal Pres. Ramello e dal Teologo Don Boano a prezzo scontato presso il Centro Sportivo Italiano. Presso il medesimo C.S.I. venne iscritto il neonato G.S. Lascaris al fine di potere avere la possibilità effettiva di partecipare e potere organizzare i Tornei di calcio a carattere giovanile e dilettantistico… Nell'anno 1955 un altro problema sorgeva per il G.S. Lascaris: con l'abbattimento del vecchio Oratorio Parrocchiale e nell'attesa della costruzione del nuovo edificio, veniva a man- care la nostra sede naturale dove si svolgeva tutta l'attività organizzativa della Squadra, che nel frattempo aveva ampliato tutti gli impegni di partecipazione e di organizzazione a gare e tornei. Venivano di fatto a mancare, oltre che la sede legale, anche materialmente i locali idonei ai ritrovi, alla vestizione dei giocatori, al deposito di tutta l'attrezzatura sportiva. In quel periodo quindi tutto quanto concerne l'attività sportiva del G.S. Lascaris fu trasferita, concentrata ed ospitata presso l'abitazione del sottoscritto in via Gramsci 45: di conseguenza divenne un impegno normale per mia madre, provvedere al lavaggio ed alla conservazione degli indumenti da gioco... Tutte queste considerazioni, oggi potrebbero essere consi- derate anacronistiche e molto problematiche, ma allora tutti i problemi fin qui elencati erano affrontati con tanto entusiasmo e con tanta voglia di superare ogni ostacolo al fine di potere appagare in tutti noi, dal primo dirigente all'ultimo giocatore, la grande e disinteressata passione che ci univa: la passione veramente sportiva per il calcio”.

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Parole che fanno bene al cuore, che ci consolano dei tempi meramente utilitaristici che stiamo vivendo e che, comunque, sono lo specchio, come avrete notato in altri capitoli precedenti, di cosa voleva dire vivere con poco, accontentarsi di quel poco, non smaniare per un “lusso” che manco veniva concepito. Poco dopo la fondazione del “Lascaris”, tuttavia, è di nuovo ora di segnalare come e quale vento tira in giro per il mondo.

Forse le notizie arrivano “lente”, forse non è ancora in uso il sistema di interrompere le trasmissioni radiofoniche, in quel momento, alle ore 24 circa del 25 luglio 1956, va in onda “Notturno dall’Italia” con sola musica, mentre la televisione, da poco apparsa nelle nostre case, ha già chiuso le trasmissioni, fatto sta che dell’affondamento dell’”Andrea Doria”, lo stupendo transatlantico italiano varato nei cantieri “Ansaldo”, avvenuto esattamente alle ore 23,15 del 25 luglio, lo veniamo a sapere soltanto nelle prime ore del mattino quando il giornaleradio ci informa dell’impatto con la nave svedese “Stockholm”: c’è già una quarantina di morti ma il numero, fortunatamente, non cambierà di molto. Gioiello italiano, fortemente voluto da Alcide de Gasperi, impareggiabile per eleganza, lusso e stile, il 18 Luglio del ‘56 il transatlantico Andrea Doria salpò da Genova alla volta di New York per una delle sue frequenti traversate intercontinentali. Erano i tempi in cui l’Italia usciva dalla crisi della Seconda Guerra mondiale; migliaia di emigranti italiani continuavano tuttavia a sbarcare ogni anno sulle coste degli Stati Uniti, alla ricerca di una vita migliore nella ''terra dell’abbondanza''. Per dare un’idea completa o, comunque, far sentire vicino il senso della catastrofe che quel naufragio significò, trascrivo ciò che un giornalista ha scritto al momento di fare la recensione di un libro, edito negli Stati Uniti, che racconta nei dettagli la tragedia. “Tra di loro, quel 18 luglio, si imbarcò la famiglia Burzio: accompagnata dai nonni, una bambina di 9 anni di nome Piera stava raggiungendo Vivina, la madre mai conosciuta, rifugiatasi negli Stati Uniti pochi mesi dopo il parto in cerca di salari più alti. Piera ed i suoi nonni salirono sull’Andrea Doria senza troppi festeggiamenti, senza troppo entusiasmo nei confronti dell’America, spaventati e preoccupati del loro destino tanto quanto lo era stata Vivina al momento di lasciare in Italia la sua unica figlia. La nonna di Piera odiava il mare e ne aveva paura.

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Ma una settimana dopo, alla vigilia dell’arrivo a New York, l’eccitazione, la curiosità, l’euforia di riunire la famiglia Burzio avevano preso il sopravvento sui timori iniziali. Piera non aspettava altro che vedere la Statua della Libertà, ma non la vide: quando l’Ile de France, il transatlantico francese che aveva salvato i passeggeri dell’Andrea Doria dal naufragio, superò Liberty Island, la bimba stava dormendo profondamente, dopo la notte più lunga della sua vita. Il 25 Luglio, alle 23,15, l’Andrea Doria era stato colpito a morte dalla nave svedese Stockholm, che ne trafisse la fiancata destra, complici errori di rotta, una nebbia fittissima e fatali ingenuità. Morirono 47 persone, la stragrande maggioranza delle quali al momento dell’impatto. Alle 10.09 del mattino successivo, mentre lo Stockolm attraccava faticosamente a New York con la prua distrutta, e l’Ile de France portava in salvo i passeggeri superstiti, l’Andrea Doria affondò nei pressi di Nantucket, dove a tutt’oggi riposa il suo relitto. Poteva essere una tragedia di ben altre dimensioni, e pareggiare i circa 1500 morti del Titanic; si trasformò invece nel ''più grande salvataggio marittimo della storia'', come lo definisce oggi il libro ''Alive on the Andrea Doria: the greatest sea rescue in history'' di Pierrette Simpson, la nostra Piera cresciuta e divenuta americana. Un libro importante perché offre per la prima volta al pubblico statunitense una ricostruzione della drammatica vicenda diversa da quella che, ingiustamente, passò alla storia: anche a causa di stereotipi e pregiudizi (la ''freddezza'' nordica contrapposta alla ''caoticità'', alla ''disorganizzazione'' e alla ''vigliaccheria'' italiane), il pubblico internazionale si convinse presto che le cause del disastro erano da attribuirsi senz’altro ad un errore dell’Andrea Doria. All’epoca, il processo si concluse con un accordo extragiudiziale, senza attribuzione di responsabilità; ma questo risultato servì ad alleggerire le spese processuali dei Lloyds di Londra, compagnia assicuratrice di entrambi i transatlantici, più che a fare giustizia. Tra l’equipaggio dell’Andrea Doria rimase vivo il rancore per questa sentenza parziale, che non stabiliva la completa responsabilità di un errore umano da parte svedese, come molti anni dopo fu dimostrato da una rapporto inedito del Ministero della Marina Mercantile Italiano. Troppo tardi per cancellare un

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pregiudizio ormai radicato tra il pubblico internazionale, troppo tardi per rivendicare la memoria del Capitano Piero Calamai: a detta di chi lo conosceva, un uomo di grande moralità, esperienza e coraggio”. Ormai è una storia vecchia, ma in quegli italiani che hanno vissuto, in diretta, la tragedia dell’affondamento con le implicazioni che per l’immaginario collettivo hanno voluto significare, quella storia non si è mai sopita e soltanto in questi ultimi tempi si sono rinfrancati venendo a conoscere l’intera verità. Un documentario, curato da un tecnico americano, John Carrothers, e pieno di nuovi documenti, getta nuova luce sulla dinamica di quella notte e ribadisce, per intero, che la colpa dell'incidente fu degli svedesi. In quella occasione Carrothers aveva scritto al comandante Piero Calamai una lunga lettera in cui spiegava di chi era stata la colpa della collisione. Il Comandante Calamai non lesse mai quella lettera, pochi giorni prima di riceverla era morto.

Come se non bastasse l’affondamento della nostra bella nave a scoraggiare milioni di italiani, pochi giorni dopo una tragedia ben più grande viene a colpire l’Europa intera e l’Italia in particolare. E’ l’8 agosto 1956, Marcinelle, sobborgo operaio di Charleroi, in Belgio, miniera di carbone Bois de Cazier, pozzo Saint Charles, ore 8. Nella corsa di risalita alla superficie, la gabbia, alla quale è stato malamente agganciato un carrello pieno di materiale di scavo, sbattendo contro le pareti del pozzo sradica una putrella, trancia i fili della corrente elettrica e la condotta dell'olio. È l'inizio dell'inferno, di una tragedia europea, soprattutto italiana. La miniera, quella miniera, aveva attratto lavoratori belgi, tedeschi, olandesi, polacchi, greci e tanti italiani che, avendo creduto all'offerta di lavoro in Belgio promessa dall'accordo bilaterale italo-belga del '46, avevano lasciato i loro paesi con la speranza di un avvenire migliore per se e per le proprie famiglie. Quell’accordo era figlio di una Italia povera, segnata da una fame di secoli e di emigranti che partivano in giro per il mondo. Gli italiani che giunsero a Marcinelle furono una “vera e propria merce di scambio” tra i governi italiano e belga che, come detto, nel giugno 1946 siglarono un accordo che venne chiamato “minatori- cabone”: l’Italia forniva manodopera in cambio di carbone (il 39,51 per cento della manodopera totale). Dal 1946 al 1956 furono centinaia

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i minatori che perirono nei tragici pozzi del Belgio, almeno uno a settimana. Quel giorno di agosto, comunque, lo spavento tolse il respiro a coloro che, situati in superficie all’imbocco del pozzo, avevano visto l’inizio dell’incidente e capirono immediatamente quale disastro si stava preparando. Non si sbagliavano. Soffocati, annegati, sepolti uno sull’altro furono tirati su, nei giorni susseguenti, 262 cadaveri, di cui 132 erano italiani. In realtà non c’è mai stata una contabilità esatta perché, negli anni, c’è chi ha scritto che i morti italiani furono 139, chi 134, mentre il governo belga si guardò bene da intervenire in questi conteggi, come non si fece mai carico, in quel dopoguerra, di tutte le nefandezze contro la sicurezza che furono compiute dagli industriali locali e dallo stato belga stesso, a volte proprietario diretto di miniere. E pensare, come avviene quasi sempre in questo tipo di tragedie, che sarebbe bastato poco per scongiurare il pericolo, come, d’altronde, la dinamica dell’innesco sta a dimostrare ampiamente. In quei giorni i nostri giornali titolano a caratteri cubitali: “La tragedia di Marcinelle è totale. Tutti morti a quota –1035”. I soccorritori, subito all’opera in quel giorno d’agosto, tentano in tutti i modi, anche con ardite manovre di scavo parallelo, ma la profondità è eccessiva per qualsiasi tipo di aiuto che non sia quello fatto pervenire attraverso lo stesso tunnel. E da quel tunnel viene espulsa solo acqua putrefatta, che sa purtroppo di morte. Per giorni e giorni i familiari, gli amici delle vittime si assiepano attorno ai cancelli d’ingresso alla miniera, chiedono notizie, si disperano quando vanno a vedere l’elenco che i dirigenti minerari man mano appendono a quegli stessi cancelli e vi trovano scritto il nome del proprio caro. Ad un certo momento, dopo il terzo o quarto giorno dallo scoppio, si ha anche una reazione rabbiosa per il comportamento della polizia che tratta ruvidamente, molto ruvidamente i congiunti dei minatori scomparsi. Dovrà intervenire il nostro ambasciatore che farà allontanare quei poliziotti con la sensibilità di una pietra. Ma la consapevolezza che la tragedia si sarebbe potuta comunque evitare, rimarrà come un marchio indelebile nelle coscienze di un bel mucchio di persone che sapevano e non avevano parlato. “Anche l’ultima umana speranza si è spenta, - scrisse “La Stampa” il 1 settembre 1956 - qualche decina di corpi ancora mancano al triste computo. Ma si sa che sono laggiù nel buio del tunnel, in attesa di una qualche mano pietosa che li raccolga”.

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Potrebbe anche bastare per quell’anno maledetto, ma invece esiste un’aria di guerra che pare palpabile e così veniamo a sapere che in Polonia, come poco dopo in Ungheria e sul Canale di Suez se le stanno dando di nuovo secche e stanno per esserci delle carneficine vere e proprie.

I quindicimila operai della fabbrica di locomotive, carri ferroviari e materiali militari “Zispo” di Poznan, duecento chilometri ad ovest di Varsavia, esasperati da un lungo ed infruttuoso tentativo di ottenere, attraverso la via delle trattative, qualche risultato in merito alle richieste presentate al governo polacco (riguardanti sostanzialmente l'aumento dei salari e la riduzione dei ritmi di lavoro), a metà settembre del 1956 scendono per le strade della città dando vita ad una manifestazione di protesta che in poche ore raggiunge le proporzioni di una vera e propria sollevazione. Le forze di polizia, sostenute da reparti militari, sia polacchi che sovietici di stanza in Polonia, impiegheranno alcuni giorni ad avere ragione dei manifestanti ed a ristabilire l'ordine, ma i morti sono varie decine ed alcune centinaia i feriti. La rivolta di Poznan costituisce il primo serio segnale d'allarme riguardo alla stabilità delle democrazie popolari e, nello stesso tempo, segna un vero e proprio spartiacque all'interno del Partito Comunista Polacco, inasprendo il dibattito in tutto il paese. Ben più gravi si riveleranno i fatti d’Ungheria che sveleranno al mondo la vera faccia del comunismo sovietico. Mi è parso significativo, per fare d’antefatto a quanto stava succedendo a Budapest e nelle maggiori città ungheresi, trascrivere l’inizio di una corrispondenza che Indro Montanelli, uno dei pochi giornalisti presenti in quel momento nella nazione magiara, era riuscito a mandare al “Corriere della Sera” proprio quando, ormai, aveva capito cosa era successo e cosa stava ancora succedendo. “Questa è la storia della battaglia di Budapest, e il lettore ci perdoni se la riferiamo con tanto ritardo. Mentre la combattevano, i russi ci tolsero il mezzo di raccontarla; e, in fondo, non ci resta che ringraziarli per averci tolto solo questo. È una storia parziale, naturalmente, come del resto lo sono tutte le storie. Non abbiamo che due occhi e siamo stati costretti a servircene con parsimonia, usandone uno per osservare ciò che succedeva a Budapest e l'altro per sorvegliare che non succedesse altrettanto a noi. Tenete a mente che nessuno ha visto tutto. Vi dico solo quello che ho vi-

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sto io. E vi chiedo preventivamente scusa se vi parrà troppo poco. Il 2 sera, la popolazione di Budapest andò a letto convinta che le autorità avessero fatto male a proibire la partita di calcio che avrebbe dovuto svolgersi l'indomani al Nepstadion con la nazionale svedese. La trovavano una precauzione esa- gerata e rimpiangevano di non poter acclamare nel redivivo Puskas, oltre che il grande campione e capitano della squadra, l'eroe dell'insurrezione. In quel momento, tutto il Paese era già sotto il controllo militare sovietico, ma non ci credeva. Non ci credevo nemmeno io che, impigliato la notte precedente in una colonna di carri armati russi, ero stato involontariamente testimone oculare dell'occupazione. La tecnica di quel colpo a sorpresa era stata semplicissima. Una colonna di carri, calata dalla Cecoslovacchia sul far del crepuscolo, tagliò la frontiera con l'Austria. La tagliò materialmente, disponendo un'enorme autoblindo di traverso alla strada: era quella in cui io stesso diedi di capo alle due del mattino e che mi intimò: «Nazad!», indietro. Tornando precipitosamente sui nostri passi, trovammo tutte le città, che avevamo lasciato poche ore prima in mano ai patrioti, presidiate dai carri sovietici. Stavano lì a ogni crocicchio, schiacciati al suolo come enormi immobili blatte. Le pattuglie degli insorti in armi non facevano nulla contro di essi. Solo, mettevano un grande impegno a raccogliersi in capannelli davanti alla bocca dei loro cannoni. E lì seguitavano a discutere con la fascia tricolore al braccio, lo stemma di Kossuth all'occhiello, vociferando insulti contro i russi…”. Ed ecco l’antefatto all’antefatto. La sera del 23 ottobre 1956, migliaia di manifestanti riempiono le strade di Budapest in segno di solidarietà con l’immensa protesta del mese precedente fatta dagli operai e dagli studenti della Polonia. Protesta che fu così massiccia e con tante vittime nelle fabbriche di Poznan, che Mosca dovette combinare con Varsavia un mutamento di uomini alla testa della sua… colonia polacca. Intanto alcuni ragazzi, a Budapest, rovesciano la statua gigante di Stalin nel parco municipale. È la prima volta che un simbolo simile viene abbattuto! L’apparato del Partito è preso dal panico. La polizia manifestamente non vuole sparare. I soldati sovietici di stanza in città discutono. Non vogliono sparare sulla folla che, d’altra parte, non è

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aggressiva, ma partecipa a una specie di festa, tanto che crede di potersi esprimere finalmente in pubblico. Invece è l’inizio delle “cento ore di Budapest”, dei cinque giorni di combattimenti nelle strade. In un primo tempo, il 24 ottobre, al mattino, Andreas Hegedus viene sostituito come Primo Ministro da Imre Nagy. Ma il 25, una decina di città vede a sua volta la stessa sollevazione. I blindati sovietici nella capitale sparano contro ogni assembramento. Quel 25 ottobre, Geroe cede il posto a Janos Kadar. Per diversi giorni Hegedus e Kadar fanno credere ad una nuova era: dei non comunisti entrano al governo! Ciò non impedisce che, ancora il 27 ottobre, le truppe russe rimangano attorno ai palazzi ufficiali. Alcuni insorti attaccano in diverse strade. Cinque radio clandestine trasmettono nel paese. Vengono distribuiti giornali ciclostilati dagli insorti. In provincia nascono alcuni consigli di fabbrica. Il 29 ottobre, viene annunciato lo scioglimento dell’AVH, la maledetta “Gestapo” ungherese. Il 31 ottobre il cardinale Mindzenty esce dalla residenza sorvegliata dove veniva custodito dopo la sua prima scarcerazione, nel 1955. Quello stesso giorno i blindati sovietici si ritirano dalla capitale. Mosca invia sul posto, apparentemente per negoziare, Michail Suslov e Anastas Mikoyan, mentre Yuri Andropov, a quel tempo ambasciatore in Ungheria, poi capo del KGB ed infine primo segretario del partito, assicura che le divisioni dell’URSS iniziano a lasciare il paese. In realtà, le truppe sovietiche vengono stanziate sui confini, mentre altre unità si preparano, dopo la Romania, la Cecoslovacchia e la Germania dell’Est, a stabilizzarsi in forze nei punti strategici del paese. Il 4 novembre, dopo quattro giorni di false trattative, per guadagnare tempo, i carri armati sovietici entrano a Budapest. Alcune unità del KGB, dal giorno 2, erano giunte all’aeroporto della capitale. Dal 4 novembre al 9 dicembre, i combattimenti continuano in diversi quartieri della periferia di Budapest e in provincia. Il 9, gli operai delle segherie di Cespel, come quelli di Gyor, di Pecs e di altri centri industriali resistono con le loro povere armi leggere o con le bottiglie molotov. Giungono sul posto dei rinforzi mongoli, veri “artisti” sanguinari, e Kadar assume la direzione delle operazioni. Il cardinale Mindzenty si rifugia appena in tempo nella legazione americana. Imre Nagy si è dovuto rifugiare nei locali dell’Ambasciata di Jugoslavia. Ancora alla fine del mese di ottobre aveva creduto che il clan sovietico che lo proteggeva e lo aveva spinto avanti, avrebbe

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continuato a proteggerlo. Crede, anche, che jugoslavi e romeni, i quali gli propongono di andare a Bucarest, lo proteggeranno. In realtà, il 26 novembre, Kadar lo ha accusato ufficialmente di essere sceso a patti con i contro-rivoluzionari, gli jugoslavi lo consegnano ai sovietici che lo arrestano ed il mese dopo verrà fucilato. Il 12 dicembre, quando viene proclamata la legge marziale, il paese viene paralizzato da uno sciopero generale dei lavoratori, che durerà fino al 13 gennaio 1957, quando viene decisa la pena di morte contro tutti gli scioperanti. Il 20 marzo, Kadar si reca a Mosca a rendere omaggio all’intervento sovietico. Il 27 aprile firmerà accordi di "stazionamento temporaneo" delle truppe sovietiche in Ungheria. Vi rimarranno per altri trentadue anni. Per coloro che fossero poco a conoscenza delle conseguenze di quella rivolta, vi do un breve elenco di cosa successe a “qualche” migliaio di magiari. In cinque mesi, 46.000 morti. 75.000 deportati in Russia, di cui 8.000 non sono mai ritornati. Duecentoventotto esecuzioni a cura del governo Kadar, un ungherese. Altri 25.000 ungheresi si erano “dati alla macchia”, come scrisse il giornale filo governativo, ed in realtà scapparono dall’Ungheria sin dal novembre del 1956 (tra questi anche il grande Puskas, che finì al Real Madrid ed è ancora in vita sebbene male in arnese per via, ovviamente, dell’età avanzata). Un numero imprecisato è scomparso, mentre dal 1960 al 1963 c’erano ancora circa 36.000 ungheresi deportati in Unione Sovietica, di cui, comunque, non c’è stato più nessuno che ha potuto fare alcun tipo di conteggio. Neanche con la glasnost, neanche con la dissoluzione dell’Unione Sovietica.

Proprio in quei giorni, come ho accennato, in medioriente stavano di nuovo bisticciando! E’ un eufemismo, si capisce e pertanto quella che verrà chiamata la seconda guerra israelo-araba, in realtà è una brutta faccenda che coinvolge, anche, Israele, ma che è stata preparata da due delle superpotenze (si chiameranno così ancora per poco!), Francia e Gran Bretagna. Le due potenze coloniali si proponevano di sconfiggere e possibilmente rovesciare il regime di Gamal Abd en-Nasser, colpevole soprattutto, ai loro occhi, di aver nazionalizzato il canale di Suez (26 luglio 1956) e di appoggiare la lotta per l'indipendenza algerina. Il governo israeliano, dal canto suo, intendeva infliggere un colpo preventivo alle forze armate egiziane di cui era in corso

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l'ammodernamento con materiale sovietico. Il 29 ottobre 1956 sferrò pertanto una fulminea offensiva nel Sinai, destinata ufficialmente a distruggere le basi di guerriglieri palestinesi in territorio egiziano. Con il pretesto di separare i contendenti ed evitare minacce alla navigazione lungo il canale, Gran Bretagna e Francia intimarono un ultimatum, scaduto il quale (31 ottobre) iniziarono a loro volta le operazioni contro l'Egitto. I tre paesi aggressori ottennero una rapida vittoria militare, a cui seguì peraltro una pesante sconfitta politica, perché, quella che venne definita l'ultima impresa coloniale, fu condannata non soltanto dall'Onu con una risoluzione che intimava il ritiro delle forze israeliane e l'invio di un contingente di "caschi blu" e dall'Urss, che, pur impegnata nella repressione della rivolta in Ungheria, minacciò il ricorso ai missili nucleari, ma anche dal governo Usa, il cui presidente Eisenhower non era per niente soddisfatto di essere stato tenuto all’oscuro del blitz. Nei primi mesi del 1957 Israele dovette pertanto restituire all'Egitto il Sinai occupato, in cambio di garanzie sulla libertà di navigazione attraverso gli stretti di Tiran e il golfo di Aqabah, tra il mar Rosso e il porto israeliano di Eilat. Nello stesso tempo il governo israeliano rendeva noto che avrebbe considerato casus belli qualsiasi minaccia araba alla suddetta libertà; il canale di Suez, bloccato da navi autoaffondate per ordine egiziano, restò chiuso. Come disse il generale Sharon alcuni anni dopo, quella era stata solo una prova per saggiare le forze arabe e di che forza saranno lo dimostrerà la guerra del 1967, la “guerra dei sei giorni”.

E il Lascaris? Non era più il tempo della “due posti”, la bicicletta, di cui, obbligatoriamente, ogni giocatore convocato doveva munirsi per andare a giocare, ad esempio, a Grugliasco, come diceva l’avviso di convocazione esposto in bacheca il 15 maggio del 1956 e nemmeno che bisognava portare con sé una borsa per “mettere il materiale da gioco”, no i tempi si stavano evolvendo, ma, tuttavia, anche se non si portavano più i calzoni alla zuava, le cose erano sempre di una semplicità commovente. La “Voce del Popolo”, periodico della Curia, scriveva che “martedì scorso, alle ore 21, in parrocchia, ha avuto luogo la distribuzione delle medaglie vinte al torneo di Rivoli, con la consegna effettuata da Gianotti Ernesto ai vari Miletto, Gogo, Aielli, Sticca, Scala, Miniotti, Pigliafiori, Alemanno, Moda, Borca, Vignolini, Masciocchi e Piantanida”

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Fino a quei periodi il “Lascaris” giocava con le maglie che… capitavano, nel senso che ci si inchinava al “mecenate” che regalava una divisa da gioco, di qualunque colore fosse, ma all’inizio degli anni sessanta, con presidente Lelio Bettini, la scelta definitiva cadde sulle maglie bianconere, con le solite strisce verticali, e se chiedete a qualcuno dei “vecchi” il motivo per questa scelta non ci sarà anima che vi risponderà: pare che, comunque, c’entrasse una neanche tanto velata simpatia per la “vecchia signora” torinese. Con l’apprendistato delle prime stagioni, la società si manteneva bene in sella nei primi campionati dilettantistici cui aveva partecipato e proprio nel 1961 rientra in società un ragazzo che sarà capace, con la sua inventiva, la sua correttezza, il suo carisma di portare a grossi traguardi il club bianconero nelle stagioni a venire: è Francesco Trabucco. Nel “raccontare” Trabucco si rischia di cadere nel demagogico, ma chi ha conosciuto questo signore (ormai, il “ragazzo” se lo scorda anche lui!), e non parlo dei suoi concittadini o dei suoi amici di società, non potrà non constatare come la “biografia” che segue, biografia che accompagna comunque il suo stesso sodalizio, corrisponda all’esatto scorrere di quelle stagioni, all’esatto modo di un dirigente del calcio di casa nostra, del calcio giovanile e dilettantistico. Dunque. Ci sono, rare ma ci sono, certe persone che paiono predestinate al governo, al comando. La frequentazione di certi specifici ambienti, il dialogo pacato ma pungente al punto giusto, proprio di coloro che "devono" essere ascoltati e il pragmatismo del fare, riescono a farcele individuare, queste rare persone, tra il magma dei consessi, delle assemblee, delle riunioni di settore. E’ lì che abbiamo incontrato e conosciuto l’attuale presidente del G. S. “Lascaris”. Se Trabucco avrà dato una scorsa a qualche aforisma, e probabilmente l'avrà fatto visto il mestiere che sinora ha esercitato, si riconoscerà nel pensiero di uno sconosciuto “pensatore” che mi è capitato alcune volte di leggere: “Le cause non determinano il carattere della persona, ma soltanto il manifestarsi di questo carattere, cioè le azioni”. In queste poche parole è racchiuso, se ci fate caso, l'intero successo del suo club, del sodalizio che "governa" da venticinque anni. A questo proposito, un esempio. Un tempo, a Nereo Rocco, quando era giunto ormai anche per lui il momento di lasciare, avevano proposto di fare il presidente. Ma lui, il grandissimo conduttore di uomini e di situazioni, aveva sentenziato:

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“Mi no son paron de barca, a mi me piase far el comandante de ‘sta barca”. Ecco, Trabucco, che per la sua signorilità, per i suoi meriti, per le sue capacità e i suoi impegni nel club bianconero potrebbe assumere tutte e due le qualifiche, preferisce fare il “comandante”, guidare, cioè, l’intera barca e non stare solo a rimirarsi nello specchio di una “proprietà” che si è guadagnato in anni di partecipazione appassionata e cosciente. Il Lascaris, infatti, è cresciuto, si è fatto grande proprio sulle "azioni" compiute giorno per giorno dal suo presidente. Sul costante impegno di Trabucco, infatti, la società “lascarina” ha fondato le sue fortune, palesando il carattere di chi l'ha guidata e facendosi individuare per la signorilità dei comportamenti.. E' un gran pregio, ove si consideri che le vittorie sul campo possono sì far pesare un giudizio, ma sono i tratti, gli atteggiamenti del gruppo che decidono delle opinioni. E su queste mi baso per procedere oltre. Trabucco aveva iniziato a giocare, come tanti giovani della sua età, proprio nella squadra oratoriana del “Lascaris”, quella che Gianotti ha descritto qualche pagina addietro e che ancora non militava in FIGC, per seguire, un di poi, nel “San Pancrazio”, un club scomparso in pochi anni e che, pare, avesse a quel tempo mire più ambiziose. Si trasferisce quindi nell'Alpignano e in seguito nella Rivolese. In quest’ultima società comincia a guardarsi attorno, a vedere come funzionano i club organizzati. Erano, come il solito Gianotti ha sottolineato, tempi eroici in quanto l’abnegazione per far parte di una squadra non aveva barriere che ne frenassero la corsa: se lo ricorda ben bene “Cecu” quando partiva dalla sua abitazione di San Pancrazio, a Pianezza, con la “lambretta” del padre per andare fino a Rivoli, parcheggiare la motoretta sotto l’androne della stazione di Rivoli, scaldarsi le mani sui cilindri dello scooter perché in certe domeniche faceva talmente freddo che non sapeva se le mani gliele avevano staccate dalle braccia e prendere il filobus con tutti i suoi compagni per andare a giocare al “Combi”, contro quella Juventus che era allenata da Grosso. In queste occasioni, con la memoria che lavora, gli vengono in mente quei suoi compagni, a volte erano solo undici perché nella partita non esistevano sostituzioni di sorta, ed ha la memoria fissa su un certo Rivo, su Rossati, su Barison, un portiere matto come pochi, sulla gran tecnica di Laurini che farà una discreta carriera nel calcio, quindi Trombini, Trovasi, Giusti e quel “fenomeno” di dirigente che si chiamava Franco Tuninetti, per citarne solo alcuni.

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E se lo ricorda bene, Francesco, quell’anno perché sarà l’ultimo da “straniero” e sarà il primo della sua nuova “ripartenza” con la squadra di casa. Ricomincia prima come giocatore, poi allenatore, quindi dirigente e nel 1977 prende in mano il bastone di comando e diventa presidente. Detto così sembra una banalità, ma a trentacinque anni assumersi la responsabilità di guidare un club di calcio, non è da tutti. Prende il posto del compianto Lelio Bettini e si accinge a costruire un gran bel giocattolo. Si contorna di dirigenti assai capaci, di istruttori fini, di allenatori competenti e dà una spallata al calcio torinese di città che sino a quel tempo aveva quasi esclusivamente dettato legge. Sforna giocatori di valore che finiranno per saggiare l'erba degli stadi più blasonati: Sergio Cannarozzi, Ferrarese, , Rocco Pagano, Fabio Artico, Di Bari, Scaglia, D'Agostino e sono i primi che trae da quei famosi cassetti della memoria. Anche lui, comunque, qualche scheletro nell'armadio ce l'ha, nel senso che qualche amarezza gli è pur rimasta in gola, non sempre è domenica. Ed allora come non ricordare la semifinale di Coppa Italia persa ai rigori in quel di Lanciano, Toscana, che poteva schiudergli il passaggio al Campionato Nazionale Dilettanti? Ma si guarisce in fretta e si pensa subito al prossimo eventuale successo. Ora Trabucco è tutt'altro che appagato. Non è che sia un'incontentabile, semplicemente il palato, ormai da diverse stagioni, si è fatto fino e una vittoria tira l'altra. "E' il gruppo che mi autorizza all'ottimismo - mi dice con enfasi - un gruppo di collaboratori eccellenti, affiatati. Un Consiglio Direttivo di gente impegnata, non solo nomi scritti su un cartello a ben figurare". Sembra la soluzione del teorema di tanti, che pochi riescono a risolvere: mai pensare di essere "il solo", il migliore, l'inaffondabile. Se hai carattere, saprai sceglierti le persone giuste. Sembra facile. Ma con il riassunto della “storia” di Trabucco, non si è fatta la storia del “Lascaris”, perché la società ha avuto una sua complessa e completa vita sociale, ha avuto attori di prima grandezza e, soprattutto, è doveroso accennare a quel torneo di calcio giovanile, il “Trofeo Lascaris”, ormai diventato un tradizionale appuntamento per coloro che vogliono lo spettacolo del calcio genuino e la tecnica di squadre che sono tutte con un blasone di eccellenza. Proprio per parlare del “Trofeo Lascaris”, è un dovere parlare anche del settore giovanile della società, quel settore che ha fatto conoscere il club in lidi non solo regionali e che, come appena accennato poche

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righe addietro, è diventata la vetrina luccicante per i tanti ragazzi di Pianezza, di Torino e dell’intero circondario che vogliano entrare in una società organizzata bene. Ecco perché non sarebbe corretto lasciare al solo Trabucco il merito di una così grande crescita, perché Giuseppe Damiano che con lui ha ideato e messo in cantiere le prime edizioni del “Trofeo”, è stato un dirigente con i fiocchi, come i vari Toni Siviero e Mauro Cervelli, ambedue vice presidenti in due differenti periodi. Ma, a sentire Trabucco che racconta aneddoti su aneddoti, è stato l’ottenimento del terreno di gioco di via Claviere a far fare la svolta, organizzativa e di conseguenza tecnica alla società. “E’ stato come un secondo innamoramento”, dicono convinti i tanti dirigenti che mi circondano in quel momento, perché in quel 1984, quando l’amministrazione comunale di Pianezza concesse l’autorizzazione a gestire il futuribile impianto, è stato come incontrare la “morosa” giusta. Pietro Sburlati, segretario per qualche “secolo” del club, si appassiona perfino (lui che è di una compostezza unica!) quando parla della costruzione della nuova sede, del bar e uffici annessi. Non gli fa manco una piega la presa in giro dei compagni d’avventura che gli ricordano il momento dello scavo per piazzare le fondamenta e della sua scivolata nel buco stesso: poche escoriazioni e risate a non finire. Ma anche questi episodi fanno carattere, fanno aggregazione. Ne è convinto anche Gianpaolo Guerini quando scrive, sul libro celebrativo della società, i suo primi calci, la modestia degli impianti e il valore di un’amicizia che è rimasta tale per decenni e decenni. Pochi nomi scritti, tante memorie nell’aria. E le memorie mi dicono anche di Mario Mensio, uno dei giocatori della prima stagione, socio fondatore ed ancora nel direttivo della società, di Ottavino Andreotti, indispensabile sponsor ed amico per tanti anni, vice presidente, direttore generale e non solo manager della sua azienda: come a dire, chi si avvicina al “Lascaris” ne rimane “fulminato”! Quando Davide Capello arriva nel 1997, si pensa ad una puntata di curiosità, mentre si dimostrerà il solito, impareggiabile sostegno che Trabucco e il “Lascaris” hanno saputo conquistarsi. La sua azienda di installazioni fieristiche che esporta in tutto il mondo l’ingegno dei torinesi, in senso lato ovviamente, potrebbe impegnarlo oltre misura ed invece Capello riesce sempre a disegnarsi una fetta di tempo buono per il club e per le tante, sono sedici nel 2005, squadre schierate.

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Con questi prim’attori ci sono i moltissimi dirigenti, i tanti istruttori, gli allenatori e per non fare un noioso elenco do atto che Franco Tassini, Renato Pontremoli, Antonio Siviero, Calisto Noale e Piero Gadano ne sono una degna rappresentanza.

“Avevo impiegato il mio tempo a costruire una città al riparo da abusi e ingiustizie. Dedicando tutto l'impegno e la passione che potevo, vedevo questo ideale crescere e prendere vita, e il mio spirito si alimentava e traeva nutrimento dalla vitalità di ciò che avevo creato. Con il passare del tempo mi circondai dei migliori cavalieri, e grazie alle loro formidabili gesta si affermava il mito di “Lascaris”, e si diffondeva di terra in terra e di confine in confine. Numerosi cominciarono ad affluire i cavalieri in cerca di gloria, e per questo “Lascaris” fu definita patria di cavalleria ed eccellenza. Combattendo sempre per la giusta causa riuscivo a pacare la mia sete di giustizia e onore, ma si sa, le insidie per un cavaliere si nascondono ovunque, anche dopo le vittorie più prestigiose. Da buon cavaliere non ho mai abbassato la guardia e non mi sono lasciato sorprendere dall'oblio che reca la gloria, questo perché ho conosciuto la vanità, sorella maggiore dell'orgoglio, ed ho visto tanti, cavalieri e nobili, dispersi dalla sua seduzione. Orgoglio e umiltà ... due qualità contrapposte, eppur entrambe necessarie per fare un buon cavaliere. I migliori col tempo hanno imparato a dosarle, i meno cauti hanno fatto abuso d'orgoglio peccando di vanità. Ho combattuto e lottato duramente per il bene di “Lascaris” ed ho tratto parecchi dispiaceri, ma anche molte soddisfazioni. Intorno a me, i miei migliori amici, quelli con cui avevo condiviso gli stessi ideali e lottato fianco a fianco ... tutti, uno a uno, li avevo visti mentre trovavano persone disposte a corrispondere il loro amore. In nessun altro luogo simile ho potuto osservare tanta manifestazione di sentimento e d'amore, tal che ogni uomo che ha vissuto abbastanza nel nostro regno è pronto a testimoniare di esserne rimasto profondamente coinvolto”.

Non fatevi ingannare, volutamente ho scritto in corsivo “Lascaris” per nascondere il nome che c’è sotto e fra poco capirete tutto. Tuttavia, se fate appena, appena mente locale, in queste parole potrete trovare molte assonanze con la società di Pianezza.

“Camelot, terra di cavalleria, giustizia, ma soprattutto amore. Re Artù”

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Capitolo XIX

Tra il Po, la collina e tanta, tanta voglia di fare

E’ una mattinata festiva qualunque, si va verso mezza primavera e l’aria, già tersa per una leggera brezza che arriva da sud est, non riesce ancora a scaldare. Ci sono due “giovanotti” che, all’aspetto, potrebbero avere ottant’anni ciascuno, si stanno avviando verso le sponde del fiume. Sono carichi di “salmerie” indistinguibili, ma, a guardare poi bene, sembrano arnesi per la pesca. E così. I due vanno a pescare nel Po, in quel fiume che ha segnato, scosso, vivacizzato, impaurito la vita di una cittadina che sta a “cavallo” delle sue rive, che ne ha grande stima ed anche un po’ di timore: è San Mauro Torinese. La collina, il fiume, un fiume che per gli anni a cui ci riferiamo aveva ancora le acque pulite, vengono descritti da un amico giornalista, Aristide Tutino, il mio maestro, con impagabile abilità per arrivare a descrivere i primi vagiti di una società di calcio che farà strada, in tutti i sensi, nel mondo calcistico italiano: è l’Unione Sportiva San Mauro.

“Lungo gli argini del Grande Fiume, che proprio tanto grande ancora non era, i pescatori, peculiare caratteristica sanmaurese di quegli anni, con gesti misurati, quasi pigri, trascorrevano sereni le ore di quel tempo tutto sommato tranquillo, vissuto senza affanni, giorno dopo giorno, con le stagioni che erano davvero quattro, con inverni terribili, primavere ariose, estati caldissime ed autunni dolci e coloratissimi. La gente viveva in una dimensione davvero umana, improponibile ed incredibile agli occhi dei nostri giovani d'oggi. La televisione non era neppure nei sogni di Guglielmo Marconi e la gente si soffermava, perché nessuno aveva fretta, a chiacchierare volentieri, fuori dalle osterie, sui gradini di casa, per strada. Fu in quel clima che il calcio locale mosse i primi passi, noncurante, o all'oscuro, della famosa “Carta di Viareggio” che proprio nel 1926 aveva sancito la saldatura tra sport e Regime stabilendo che “non solo il Presidente del Comitato Olimpico,

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ma anche quelli delle varie Federazioni fossero, anziché eletti dalle assemblee, nominati dal Capo del Governo”. I calciatori erano divisi in due categorie: dilettanti e non dilettanti. La “Carta” escludeva in linea di principio l'ipotesi del tesseramento di giocatori stranieri, tuttavia se ne ammettevano due per società, ma allineabili uno solo per partita ed esclusivamente per il campionato 1926/27. A San Mauro tutto questo non veniva neppure preso in considerazione perché al pari di tanti altri borghi con storie sportive assai comuni, il calcio era inteso come sfida strapaesana da giocarsi per tenere alto il gonfalone che il Podestà del luogo affidava ipoteticamente, di volta in volta, ai baldi giovani in calzoni corti chiamati a difendere il buon nome del paese. Così nacque la prima squadra di calcio, fatta in economia, senza pretese, con pochi allenamenti e con “premi partita” rappresentati da salame genuino e barbera imbottigliata in proprio. Ma il calcio sanmaurese, inconsciamente, ebbe le sue origini proprio in quel clima, con una squadra d'avventura della quale, e questo è il primo fatto che rivestirà grande importanza per il futuro calcistico locale, faceva parte un certo Giovanni Pilone, che diventerà, nel 1949, alla “rifondazione” vera della “sportiva”, il primo presidente della prima società calcistica legalmente costituita. Con lui, nella stessa squadra, giocò anche Carmelo Terzuolo che nel futuribile entrerà nel Consiglio Direttivo ed in seguito manterrà l’incarico di segretario per decenni”.

Bello, vero, “vedere” quelle stagioni con la fantasia di un abile narratore. Bello anche per il raffronto della vita che conduciamo nel 2005 e quella che si poteva “vivere” nel 1925, senza fare l’occhiolino a chicchessia tipo di politica. Con la guerra alle spalle e pur con le preoccupazioni che quegli anni arrecavano, lo spirito giusto per far festa con il calcio non era scemato e quando un gruppo di amici si autoconvocò all’ex Albergo Reale si capì subito che stava per iniziare una gran bella avventura. Come detto, il primo presidente fu Pilone che aveva come vice Alberto Rabbi e quale segretario Alessandro Golio. C’era già il medico sociale, il dottor Giuseppe Scippa, che diventerà un personaggio determinante per le fortune della “Sportiva”.

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Curioso annotare che nell’unica squadra messa in cantiere in quel settembre del 1949, c’era anche un certo Ardolino Vomiero, Arduino per tutti, e tra i consiglieri figurava uno dei tanti Mazzucchetti di San Mauro, quel Luigi Mazzucchetti, cugino dell’attuale vice presidente. L’articolo IV dello Statuto sociale, redatto quella sera stessa, stabiliva che: “Per tutte le categorie dei Soci la quota mensile è unica, cioè di lire 100 come tassa d’entrata e di lire 100 come contributo mensile”. Mamma mia che nostalgia, a leggere certe frasi! Ma non è finita qui con le sorprese, perché pochi giorni dopo ci fu una cerimonia pubblica e ufficiale di “battesimo” del nuovo sodalizio e la madrina fu nientemeno che la signora Valletta, moglie del professor Vittorio Valletta, presidente della FIAT, ma, soprattutto, cittadino residente a San Mauro Torinese. Ma a parte le sorprese, si mise subito in luce la voglia di fare bene con la squadra, di alzare il tasso tecnico, di farsi conoscere nel vicinato e non solo. E, come racconta Vomiero che quei giorni li visse in diretta, ci fu una voglia matta di mettersi in proprio, nel senso di farsi la sede, di riunirsi, di acquisire nuovi soci. E niente poté fermare i dirigenti sanmauresi che riuscirono a superare difficoltà di ogni genere. Tutti si tassarono per una ulteriore quota societaria, naturalmente a fondo perduto; si provvide a riattare il campo, di proprietà comunale, divenuto per gli eventi bellici completamente inagibile e non più utilizzato. Anche il grave problema della sede e degli spogliatoi alla fine, poi vedremo come, trovò una soddisfacente soluzione. Inizialmente gli atleti si cambiavano presso l'Albergo Aquila o in una saletta del bar Randone e raggiungevano il campo percorrendo la stradina lungo l'argine del Po. Il fatto poteva anche rappresentare una digressione piacevole e rilassante prima della partita, ma certamente non dopo, quando i giocatori, soprattutto nella cattiva stagione, finivano la gara piuttosto imbrattati di fango e bagnati come pulcini. Furono, quelli, quattro anni di rodaggio, ricchi di esperienze nuove, di emozioni, delusioni, anche riscatti. La base di partenza per la costruzione della nuova sede fu una “baracca”, una sorta di prefabbricato dell’epoca, che sorgeva a fianco della caserma dei Carabinieri, là dove oggi passa via 25 Aprile. Si era nel pieno periodo della ricostruzione post-bellica e la ditta Borini, una delle tante interessate ad opere edilizie, stava operando per conto dell'allora SIP. Questa ditta aveva terminato la sua opera e si era trasferita spostando il cantiere ma lasciando in San Mauro una “baracca” che era servita quale deposito di materiali da lavoro.

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I responsabili della “Sportiva”, si recarono dalla ditta proprietaria della baracca e riuscirono ad ottenerla senza sborsare una lira. Divenuti improvvisamente “proprietari” a loro volta di un immobile, tutto sembrò facile. Grazie all'intervento del Comune e alla tenacia del vicepresidente Rabbi la baracca si trasformò ben presto in una vera sede con due spogliatoi e relative docce, una saletta per la dirigenza, una sala-bar, un pergolato e due giochi da bocce. Fu una mossa astuta, quest'ultima, perché proprio questi due giochi furono quelli che attrassero molti nuovi soci… e relative quote sociali, che permisero alla “Sportiva” di crescere. Ed infatti nel 1952 la squadra riuscì a passare dalla Seconda alla Prima Divisione e nel 1956, quando il presidente era diventato Carlo Trivero, dalla Prima Divisione alla Promozione. Un successo di grande portata che però fu vanificato per mancanza di mezzi finanziari adeguati ed attrezzature necessarie che erano richieste per la disputa di campionati di una certa importanza. Mancava la recinzione del campo ed inoltre gli spogliatoi, corpo unico con la sede, non erano adiacenti al terreno di gioco. Fu inevitabile rinunciare al salto di categoria ma si trattò solo di un intermezzo, anche se spiacevolmente forzato. Il problema, però, si ripropose al termine del campionato 1959 quando dopo avere vinto nuovamente il titolo di Prima Divisione, il San Mauro fu inserito in Promozione. Risultò determinante l'intervento del dottor Scippa, che era sempre medico sociale oltre che medico condotto del paese: grazie alla sua mediazione il CONI concesse il “primo contributo della storia” alla società sanmaurese in ragione di settecentomila lire, cui si aggiunse un sostanzioso contributo dei soci ed il frutto di una sottoscrizione quasi popolare. Venne così recintato il campo e furono costruiti i nuovi spogliatoi. Un San Mauro proprio moderno era bel che fatto. Ora presidente era diventato Dino Storari e nello stesso tempo, tra i tanti dirigenti e tecnici che si affacciavano, anche e soprattutto per curare il settore giovanile che stava “maturando” alla grande, erano arrivati Pietro Bussolo e Giuseppe Scarrone. Questi due “istruttori” si impegnarono per una marea di stagioni, resistettero sulla breccia sino ai primi anni novanta e vantano di aver “allevato” gente come , come Fimognari, Riccardo e Mauro, Stefano Borla, Massimo Tosoni, Giovanni Ossola e chissà quant’altri giovanotti che delle belle speranze ne hanno fatto solo un ricordo. A questo proposito è molto simpatico far conoscere cosa ne pensa un professionista come Camolese dei suoi primi anni in maglia gialloblu.

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“Io, come molti - dice Giancarlo - non sono nato "imparato", così, d'improvviso, ho avuto per forza dei maestri, magari improvvisati ma comunque colmi di umanità e senso pratico ed allora mi piace “scoprire” che le prime lezioni le ho avute al San Mauro del presidente Sardi da un certo Bussolo, il primo mister che aveva saputo "raccattare" nel borgo un'accolita di ragazzini nati nel '58 a cui aveva affiancato il "minuscolo" Camolese, del '61, perché, forse, aveva intravisto qualche cosa di particolare in me”. Poi continua: “Di quegli anni ho un ricordo indelebile, di quelle stagioni sportive piene di spensieratezza, di quei compagni che, ancora oggi, so nominare uno ad uno soppesando una vecchia foto ormai sbiadita. Come ricordo sempre il signor Cigliano, il dirigente del San Mauro che aveva un negozio in paese e che mi aveva consigliato caldamente di insistere con la "pelota", proprio così, della “pelota” aveva detto più volte”. Se le gesta di Camolese sono del poi, è utile ricordare che, finalmente, il dottor Scippa accetta la presidenza della società e siamo nel 1963. In quella stagione si mette in luce la squadra di Prima Categoria che era composta dal povero Dri in porta, mancato per il solito, maledetto male incurabile pochi anni fa, poi Garnerone, Orlando, Gaito, Leone, Migliore, Boero, Cigliano, Viano, Bosco, Nespoli e Provaglio. Tutta gente molto in gamba che aveva un trascorso in varie rappresentative regionali e che il San Mauro era riuscito ad accaparrarsi per formare una delle solite, solide formazioni di dilettanti. Quando Scippa smette, nel 1966, diventa l’epoca di Stefano Sardi che continuerà a trasformare una “masnada di bambini, in uomini veri prima ancora”, come diceva sovente il grande amico scomparso, di calciatori interessanti”. Nei quasi dieci anni di presidenza Sardi nasce una forte collaborazione con il Torino Calcio di cui, Sardi, era anche un consigliere, ed è in quelle stagioni che il settore giovanile del San Mauro compie passi da gigante, inserendosi nel novero dei vivai più apprezzati e la stessa organizzazione viene migliorata con l’inaugurazione di una nuova sede sociale. Quando Sardi viene a mancare prematuramente nel 1975, c’è un gran vuoto da colmare non soltanto fisico, ma la società ha saputo reagire bene e alla commissione formata da Cigliano, Terzuolo e Vomiero e voluta dallo stesso Sardi nel ’73 quando le sue condizioni di salute facevano prevedere il peggio, succede Carlo Richetti, presidente per quattro annate.

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Ma in quelle stagioni, quando, come sempre, il calcio giovanile e dilettantistico leniva ferite che altri avevano provveduto a inferire, cosa succedeva a Torino o nel resto del mondo? La guerra in Vietnam, iniziata nei primi anni sessanta, si fa per dire, perché quella povera gente era da decenni in guerra con tutti, assumeva toni altamente drammatici con il contingente di soldati americani portato a cinquecentomila uomini e a un dieci per cento di morti. Tutto, come si sa, era nato per tentare di frenare l’avanzata del comunismo nel sud est asiatico, mentre se si fosse potuto avere uno “specchio magico”, sarebbe bastato attendere una ventina d’anni e il comunismo, come è veramente accaduto, si sarebbe sciolto da solo. Ma con i se non si fa la storia e queste mie considerazioni sono stupidate scritte più che altro per stemperare la tanta acredine che quel pensiero, quel concetto, quella filosofia aveva creato in giro per il globo. In Italia, intanto, l’inizio del 1968 si apre con tante speranze che nascondono cosa accadrà nel decennio successivo e oltre, ma queste speranze cadono subito nel vuoto perché il 14 di gennaio un terremoto si abbatte sulla Sicilia occidentale. L’epicentro è nel Belice, provincia di Trapani, e causa circa trecento morti. Sono distrutti interi paesi e soprattutto sono colpiti Gibellina, Montevago, Santa Ninfa, Salaparuta e Poggioreale. Questi nomi saranno noti nel tempo perché della ricostruzione del Belice se ne parlerà per anni e se ne continua a parlare ancora oggi che siamo nel 2005. Oltre al Belice, comunque, si doveva registrare qualche cosa di molto, molto interessante. Ricordate la mattina del 21 luglio del 1969? Tanti di noi erano incollati allo schermo del televisore, i tanti per lo meno che avevano un apparecchio televisivo, e da quello schermo appariva Tito Stagno, dagli studi di Roma e, in collegamento da Houston, Stati uniti d’America, Ruggero Orlando: i due giornalisti ci stavano raccontando dello sbarco dei primi uomini sulla luna! Da qualche giorno era partito l’Apollo 11 da Cape Canaveral, Florida, con i tre astronauti a bordo e le trasmissioni sull’evento si susseguivano ora dopo ora. Sulle prime non si aveva molta fiducia della riuscita dello sbarco, ma quando il LEM (imparammo in fretta termini che mesi prima manco ci sognavamo di interpretare), cominciò a staccarsi dalla capsula, l’affanno ci prese e fu un susseguirsi di trasmissioni che tenevano col fiato sospeso.

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Non so a voi, ma certo che a me fece un certo effetto e fui perfino orgoglioso di quella pedata data alla polvere lunare da Neil Armstrong. Ma quella bella atmosfera che si respirava a luglio, scompare del tutto a dicembre quando una bomba, piazzata nelle sede della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, esplode causando la morte di 17 persone e il ferimento di quasi novanta. E’ una vigliaccata che, purtroppo, verrà presa d’esempio da altri o dagli stessi, va a sapere, perché dopo quarant’anni non sappiamo ancora nulla di certo. Forse possiamo sorridere, oggi, del fatto che la canzone cantata da Serge Gainsbourg e Jane Birkin, Je t’aime, moi non plus, venga tolta dalla “Hit Parade”, un programma radiofonico della RAI, in quanto ritenuta oscena, certo è che quella voglia di ridere, come ho raccontato qualche capitolo addietro, ci verrà a mancare per un bel po’ di tempo. E’ tuttavia simpatico, sempre oggi e tanto per spezzare atmosfere di merda, notare fotografie che riportano cartelloni pubblicitari di quelle stagioni. Alcuni banali, altri innovativi, altri ancora eccezionali. Uno diceva “Chi VESPA mangia le mele. Chi non VESPA, no!”, un altro, appariva sulla Domenica del Corriere ed era una straordinaria raccolta di Jacovitti che chiudeva quella serie della “Domenica” con la sua solita, inimitata verve.

Il “San Mauro”, comunque, non si smentisce e seppure con qualche ritardo nella programmazione, pur compensato da diversi viaggi in giro per l’Europa con le squadre giovanili, arriva l’era della presidenza Vomiero. Oddio, chiamare “era” il tempo della presidenza di Arduino è decisamente riduttivo, perché seppur il “ragazzo” non sia più tale, quel ragazzo che aveva vestito i colori gialloblu nel ’49, Vomiero è sempre rimasto in società, sia con compiti amministrativi che tecnici. Vomiero, come è facile intuire da queste parole, è un’istituzione a San Mauro e nel “San Mauro”, anche perché è una cosa facile, semplice esserlo. Qui i dirigenti non vengono e partono il giorno dopo, chi viene al “San Mauro” viene per restarci e lasciare un qualche segno. Arduino Vomiero viene dalla scuola dell’olio di gomito, quella scuola che ne ha forgiata di gente per bene. Finiti gli studi e pur restando, come detto, sempre accanto alla “Sportiva”, ha colto la palla al balzo degli anni giusti e fattosi presentare da monsignor Davide Corino, allora di casa a San Mauro, era entrato alla FIAT. Poco dopo, tuttavia, veniva chiamato dal proprietario di un’industria meccanica di alta precisione col quale si accordava e

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restava a lavorare in quei paraggi, fino ad arrivare a dirigerla, per decine e decine di anni. Questo per dimostrare di che pasta sono fatte certe persone e da chi desiderano attorniarsi per compiere, almeno, il proprio dovere. Un dovere, prettamente sportivo, che compiranno alcuni dirigenti sempre ricordati per la loro intelligenza e per la solita abnegazione nel lavorare con i ragazzi. Sono i Marcello Ferrero, Mauro Montecchini, Bruno Nocera, Antonio Pronzato, Giovanni Benedetto, diventato l’attuale presidente del club, Alberto Tinivella, Silvano Paggetti e Ferdinando Moglia. Proprio su quest’ultimo nome mi voglio soffermare, non foss’altro perché mi onoro di essergli stato amico. Con l’arrivo di Moglia e, occorre dirlo, di Silvano Paggetti, il settore giovanile raggiunge vette che solo in questi ultimi anni si sono equivalse. Ma non è l’aspetto tecnico che voglio sottolineare, è quello umano, comportamentale, perché quando Ferdinando se n’è andato in cielo, a metà anni novanta, non c’era soltanto mezza San Mauro a piangere, c’erano i tanti, tantissimi amici di Torino, di Chivasso, di Ivrea, di Pianezza, di Grugliasco, di Borgaro e di chissà quant’altri posti, a significare quanto ha contato uno così nel mondo dello sport. Un gruppo di suoi ragazzi, quei ragazzi che erano diventati dirigenti o allenatori nel suo “San Mauro”, avevano voluto mandargli l’ultimo saluto con una lettera che avevano fatto pubblicare sul periodico che, tutti, seguivamo in quel periodo. Diceva:

“Nando, per l’ultima volta vogliamo scriverti, anche se siamo certi che, da lassù, conoscerai in anticipo queste poche righe. Per prima cosa, sappi che ci sei scoppiato dentro al cuore. E’ una frase sibillina, lo sappiamo, ma non ci è venuto in mente niente che potesse significare meglio il senso di sconforto, la nostalgia dei tuoi gesti pacati, la chiarezza del tuo dire. Con la concretezza che ti ha distinto e che, tra l’altro, ha fatto grande grande il “San Mauro”, ci dirai: è sempre così per i vecchi amici che non ci sono più! Forse è vero, ma, Nando, se c’è qualcuno nel mondo del calcio dilettantistico che ha contato, se c’è qualcuno che ha saputo star bene insieme agli altri, che ha posseduto capacità di comprensione, beh, questo sei stato tu. Ed allora consentici, una volta tanto, per l’ultima volta, di spedirti il nostro pensiero. Non fare come quegli anonimi superstiti fanti del Piave, che al passaggio del generale

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sedentario scrivevano sulle rovine di un ponte: “Non cerchiamo encomi”. Se potessi ci bacchetteresti sulle dita, anche questo sappiamo, ma tu sei stato un generale da medaglia, hai voluto bene ai tuoi fanti (i tuoi ragazzi in casacca gialloblu), ai tuoi sottoposti, ai tuoi superiori. E quindi desideriamo, anzi vogliamo, che anche coloro che di Nando Moglia conoscevano appena il nome o, al di più, sapevano delle sue mansioni sportive, possano trarre un esempio edificante. E’ il minimo. Ora terminiamo Nando, non vogliamo imbarazzarti. Cercheremo, noi come tua moglie, i tuoi familiari, come la tua gente di San Mauro, di essere forti nel dolore, come avresti voluto tu. E’ il massimo.

Quando scompare Moglia, presidente della società è diventato Alessandro Cherio, mentre, come suo solito, Vomiero si è fatto da parte e continua a contribuire alle fortune sanmauresi. Cherio ha idee nuove, forse si dicono moderne ma, comunque, ama privilegiare il settore giovanile. Ed ha la vista lunga se intravede, in un genitore che porta il figlio a giocare da Grugliasco a San Mauro, un futuro manager sportivo di prim’ordine: è Roberto Gagna. E’ vero che Gagna ha seguito un amico, l’allenatore Mauro Bersi, a San Mauro; è vero che l’importante risulta essere il fatto che suo figlio Alberto sia contento della squadra e dei compagni che ha incontrato, ma la considerazione che Gagna si sciroppa una barcata di chilometri (lavora vicino a Biella e abita, come detto, vicino a Grugliasco) per essere sempre presente al “San Mauro”, viene considerato come il valore aggiunto di un dirigente sportivo in pectore. Così sarà. Roberto dapprima viene nominato dirigente della squadra in cui gioca il figlio, come avviene per caterve di genitori, poi, però, insieme a Guglielmo Miele, un amico di cui condivide pensieri e parole, viene cooptato nel direttivo e nel 1993 diventa direttore generale e vice presidente operativo: Cherio, Vomiero, Mazzucchetti, Benedetto o chi per essi hanno saputo scegliere! Rimane infatti nei direttivi sia con presidente Mazzucchetti e, nel 2004, con Benedetto. Gagna, intanto si fa strada, apre collaborazioni importanti anche con la Federazione, idea e organizza ogni sorta di manifestazione, si fa sentire in pubblico, diventa, per dirla tutta, una delle figure più significative del nostro panorama calcistico regionale.

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Da qualche anno, per tentare di smorzare pericolose angolature con realtà calcistiche zonali e, soprattutto, per far diventare il “San Mauro” una forza calcistica importante, si sono avverate alcune fusioni che hanno sostituito la denominazione ma hanno assolutamente rinforzato la struttura portante. La società è diventata Unione Sportiva Dilettantistica “SanMauroPianese” con tre campi a disposizioni ed un bacino d’utenza notevolmente aumentato.

All'inizio del mese di marzo dell'anno 1991 si verificò sulle Alpi centrali, a cavallo del confine italo-austriaco, un fenomeno naturale assai singolare: una corrente d’aria calda, proveniente dall’Africa e carica di sabbia sahariana, si scontrò ad alta quota con una corrente fredda, provocando una precipitazione di neve mista a sabbia. I ghiacciai e i nevai si coprirono di un leggero strato di sabbia e assunsero un colore giallo scuro. Col sopraggiungere dell’estate un secondo eccezionale evento sconvolse la zona: la temperatura era rimasta per un lungo periodo di due gradi al di sopra della media stagionale. Il processo di ritiro dei ghiacciai, già molto evidente negli ultimi anni, si accentuò per la presenza della sottile coltre di sabbia che, colpita dai raggi solari, si era surriscaldata. Avevano trovato Otzi, la mummia del Similaun. E allora? Allora ho voluto portare la fine della storia al punto in cui era cominciata, con una stupefacente visione della natura, quella natura, integra e solare, i cui ritmi si confacevano, per un verso, sia ai cittadini di San Mauro che seppero nutrirsi del sale della saggezza, della tranquillità, del gesto misurato per lasciare ai posteri una gran bella realtà sportiva, e per l’altro, a quel povero diavolo di cacciatore o di guerriero in fuga di cinquemila anni fa che soltanto la natura ci ha concesso di conoscere. La natura, proprio come è il Po, come la collina circostante. E’ naturale che sia così.

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Capitolo XX

Chiudo questo primo libro con un articolo che Giorgio Tosatti, giornalista di “chiara fama” e figlio del Tosatti, giornalista anche lui, scomparso a Superga con i ragazzi del Toro, aveva scritto per il sito web della LND e riportato, con il suo consenso, su una rivistina del Settore Giovanile e Scolastico della FIGC nei primi anni del nuovo millennio. Sono, i suoi, dolcissimi ricordi di quando, ragazzetto, giocava al calcio e non aveva ancora cominciato il suo “viaggiare” per i grandi quotidiani nazionali. Ciò che mi ha convinto a ripubblicare queste righe non è stato il nome altisonante dell’autore, nossignori, sono state alcune parole che Tosatti usa quando ricorda le sue “drammatiche” partite del secondo dopoguerra, quando raffronta la soddisfazione dell’aver giocato, pur nei dilettanti, con quella dell’aver visto, quando… ma è meglio che andiate a leggervi questa struggente memoria.

Un calcio che vale di Giorgio Tosatti

Ho giocato al calcio fin quando gli impegni giornalistici non me l'hanno impedito. Militai per diverse stagioni in una società dilettantistica torinese, l'U.S. Cittadella che, mi pare di ricordare, era iscritta in uno dei vari campionati di un Ente di Promozione, forse il CSI, forse l’UISP. Parlo, grosso modo, di quaranta, cinquanta anni fa. Giocavo discretamente; una miopia di cospicue dimensioni m'impedì di andare oltre certi livelli, non esistevano ancora le lenti a contatto e gli occhiali (fissati alla testa con un elastico) rappresentavano un bel handicap ed un rischio. Sovente gli avversari cercavano di farteli saltare e di colpirli. Si giocava di solito la domenica mattina; d'estate si partecipava ai tornei notturni. E' ormai passata una vita eppure ho un ricordo nitidissimo di quel periodo; certe partite, certi episodi, certi giocate

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sono fotografate per sempre nella mia memoria. Talvolta mi diverto a farle scorrere, a riviverle e provo ancora l'emozione di allora. Perché nessuna soddisfazione professionale (e qualcuna l'ho avuta) mi ha dato la gioia, il piacere fisico, la felicità di quelle partite. Le trasferte in tram nei sobborghi di Torino; i brevi viaggi in treno o in corriera (di macchine ce ne erano poche) nelle cittadine di provincia dove venivamo accolti con dichiarata antipatia ed un manifesto disprezzo per i signorini di città. I campi di terra battuta, sovente con muri e recinti così vicini alla linea d'out da rappresentare un pericolo niente male; d'inverno certi fondi erano lastre di ghiaccio. Rarissimi, quasi inesistenti, i terreni da gioco con l'erba: non i prati perfetti di adesso che sembrano moquette, ma qualche ciuffo verde, fosse pure gramigna. Molte porte non avevano la rete; le dimensioni dei campi oscillavano a secondo dello spazio strappato al cemento: ce n'erano di larghi e lunghi, di stretti e corti, di grandi e di piccolissimi. Le scarpe da calcio (ma non tutti le avevano) erano irte di bulloni e pesavano tonnellate: delle armi improprie. Passavi ore a scrostarvi il fango. Quelle attuali sono scarpini da ballo: avrebbero avuto vita brevissima. Il pallone sembrava di piombo; ne sporgeva una stringa che ti marchiava la fronte quando colpivi con forza. Nei giorni di neve e di pioggia il campo diventava un impasto di fango, acqua e pietrisco; per smuovere di qualche metro il pallone dovevi picchiarvi sopra calci tremendi. Gli spogliatoi erano quasi sempre stanze, corridoi, atri adibiti a questo scopo del tutto occasionale; talvolta dovevi cambiarti ai bordi del terreno. Rarissime le docce, inesistente l'acqua calda: impensabile un simile lusso. Uscivi da quelle partite scorticato, pieno di ferite e lividi, esausto; non era un calcio che consentisse di risparmiarsi, di amministrare le forze, di fare ragionamenti tattici. Erano battaglie all'ultimo sangue. Esistevano rivalità fortissime fra rione e rione, fra quelli di Torino e la provincia: guai a tirarsi indietro. Mi viene da sorridere sentendo i calciatori lamentarsi perché il terreno non è perfetto, qualche zolla cede, hanno fatto un viaggio disagiato, il pubblico era ostile, ecc. ecc. A quei tempi il calcio era un gioco molto virile a tutti i livelli: dal Grande Torino alle nostre squadrette di amatori. Però ci si picchiava con estrema lealtà, all'inglese: difficile vedere gente rotolarsi per terra fingendo di essere stata colpita. Se restavi giù a lungo ti avevano proprio fatto male. Chi si lamentava per le botte ricevute veniva preso in giro dal pubblico. Che era molto

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partecipe, molto caldo, ma competente: applaudiva anche gli avversari se giocavano meglio. Nonostante tanto agonismo e certe tenacissime rivalità di borgata, non ricordo neppure un'aggressione alla mia squadra o all'arbitro. Direte: che c'entra tutto questo con la Lega Dilettanti o col Settore Giovanile? C'entra perché il calcio praticato è immensamente superiore, più bello, più appagante del calcio visto. Persino se sei un mezzo brocco, persino se le sconfitte sono più numerose delle vittorie, persino se ti costa sacrifici e disagi, persino se allo stadio giocano Pelè e Maradona. Vedo calcio da un'infinità di tempo e ne ho visto il meglio: ci sono campioni, squadre, partite che mi hanno dato grandi emozioni ed autentico divertimento. Ma non cambierei neppure Italia-Germania del '70 e la finalissima dell'82 in Spagna con le partitelle che disputavo tanti anni fa nell'U.S. Cittadella di cui conservo religiosamente una medaglia e qualche foto, tra i pochissimi cimeli tenuti. Da quando prevale la logica del calcio-spettacolo, da quando questo sport e diventato soprattutto uno strumento nelle mani di chi ne sfrutta la popolarità per farsi conoscere, concludere affari vantaggiosi, promuovere socialmente, appagare la propria vanità, vendere dei prodotti, mi sembra si sia spezzata quella catena ideale che univa il grande calcio alla sua base. Ci si dimentica quanti italiani lo praticano per sottolineare soltanto il numero di chi lo guarda; ci si preoccupa dei problemi relativi agli stranieri, agli arbitri professionisti, ai bilanci di chi spende decine di miliardi in una campagna acquisti e ci si dimentica della carenza di campi, di strutture, di aiuti, dell'indispensabile per quei due milioni e passa di calciatori dilettanti che sono la vera forza, anche morale, del settore. Si discute sui compensi di cui hanno bisogno Lanese e soci per arbitrare al meglio e ci si dimentica dei ventimila e passa arbitri che attendono per mesi di riavere i soldi sborsati per andare a dirigere partite in cui, non di rado, vengono trattati in modo incivile. Avete letto campagne di stampa per costruire campi dove mancano, per fornire vestiario e palloni a giovani che non ne hanno, per aumentare i contributi alle migliaia di società su cui pesa anche economicamente il calcio nazionale? No, vero? Conta solo il grande circo, ridondante di miliardi e moviole, mediocrità spacciate per fuoriclasse, giudizi drogati ed una competitività feroce fino alla slealtà.

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Il guaio maggiore è che questa interpretazione del calcio finisce per ripercuotersi in modo negativo anche presso la base; per molti dilettanti questo gioco è diventato una professione; i vizi, gli eccessi, i trucchi, il cinismo dei "grandi" sono diventati un modello da imitare. Mi domando se esistono ancora la felicità, la voglia d'avventura, la partecipazione totale, l'ingenuità, la grinta con cui tanti anni fa io ed i miei coetanei vivevamo la nostra partita domenicale; se c'è ancora la gioia fisica della sfida, quello spirito che ci portava a godere come una conquista i nostri modestissimi premi partita: una pizza e una birra, in settimana, per festeggiare la vittoria e riparlarne. Questo è il calcio che vale e credo si dovrebbe fare di più, tutti insieme, per difenderne le virtù ed allargarne i confini.

Se questi capitoli vi hanno anche appena, appena interessato, vi do appuntamento alla prossima stagione, quando con le tante storie ancora da raccontare, in uno spaccato di vita e di sport cercherò di far comprendere cos’è stato il calcio per alcuni e come molti altri l’hanno intensamente vissuto.

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