Disegnare Il Museo

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Disegnare Il Museo ACCADEMIA NAZIONALE DI SAN LUCA Quaderni della didattica serie diretta da Francesco Moschini Marisa Dalai Emiliani Disegnare il museo ACCADEMIA NAZIONALE DI SAN LUCA Corso Indice SEGNARE DISEGNARE INTERPRETARE Un itinerario nella storia a cura di Marisa Dalai Emiliani Accademia Nazionale di San Luca, Roma 20 febbraio - 3 marzo 2012 9 Musei della ricostruzione in Italia tra disfatta e rivincita della storia 39 Note 50 Bibliografia citata Questo saggio, pubblicato nel 1982 dalle edizioni di Comunità per il museo veronese di Castelvecchio, viene riproposto nell’ambito del laboratorio “Disegnare il museo”, con poche varianti. È stato ristampato quindi nel volume di Marisa Dalai Emiliani, Per una critica della museografia del Novecento in Italia. Il “saper mostrare” di Carlo Scarpa, Venezia, Regione del Veneto, Marsilio, 2009 Cura redazionale di Laura Bertolaccini. Musei della Ricostruzione in Italia tra disfatta e rivincita della storia Ma, in ogni campo, la nostra epoca ha la mania di voler mostrare le cose solo insieme a ciò che le circonda nella realtà, e di sopprimere così l’essenziale: l’atto dello spirito che le isolò da essa. Si “presenta” un quadro in mezzo a mobili, a soprammobili, a tappezzerie della stessa epoca; insipido scenario nella cui composizione eccellono, negli appartamenti d’oggi, le padrone di casa fino a ieri più ignoranti, le quali ora passano le loro giornate negli archivi e nelle biblioteche, ed in mezzo al quale il capolavoro che guardiamo mentre si pranza non ci dà quella gioia inebriante che solo gli si può chiedere in una Sala di museo, che simboleggia molto meglio con la sua nudità e l’assenza di ogni particolarità gli spazi interiori dove l’artista si è astratto per creare. Marcel Proust, À l’ombre des jeunes filles en fleur(1919) Solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della Storia (1940) È stato l’“irregolare” Carlo Scarpa, con i primi lavori di riordino delle Gallerie dell’Accademia di Venezia avviati in sordina fin dal 1946, a segnare inconsapevolmente la fine di un modello museografico che, con rare eccezioni1, aveva resistito a ogni sollecitazione di cambiamento, dall’Italia umbertina fino alla caduta del regime. Una continuità, quella del museo ottocentesco post- unitario di arte antica2 — stipato di opere e oggetti, disposti secondo il criterio positivista, ma già illuminista, dell’ordinamento classificatorio, topografico (per “scuole”), cronologico o tipologico, oppure ambientati in ricostruzioni storicistico-evocative di gusto tardo-romantico3, o ancora semplicemente presentati per nuclei di provenienza4 —, che non aveva trovato se non conferme negli interventi di riordino del primo Novecento (basti ricordare per tutti quelli di Corrado Ricci o Malaguzzi Valeri5) e più tardi, nel ventennio fascista, convalide anche ideologiche o aggiustamenti distratti6, mentre altri erano gli strumenti di persuasione culturale che si preferivano sperimentare. Così, non è un caso che all’appuntamento internazionale di Madrid, nel 1934, per l’importante congresso di museografia organizzato dall’Institut International de Coopération Intellectuelle7, la voce ufficiale dell’Italia non fosse di un “uomo di museo” come per la quasi totalità degli altri paesi, ma quella dell’accademico Ugo Ojetti, affiancato da due archeologi8. E il tema assegnato (o scelto?) era quello delle mostre, Expositions permanentes et Expositions temporaires, a sancire si direbbe una politica museale certo deludente9, ma al contrario una politica espositiva clamorosa, che dall’autoglorificazione della 1. La Pinacoteca di Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista, a Roma nel 1931-1932, Brera a Milano dopo i sarebbe presto potuta passare ai fasti della Mostra Augustea della Romanità bombardamenti della seconda guerra mondiale (1937), destinata a stimolare negli italiani la coscienza imperiale e infine, nel (su concessione del 1939 a Milano, alla Mostra di Leonardo, simbolo della superiorità del genio Ministero per Beni e le Attività Culturali, Archivio italico, esaltato dalla gigantografia dimostrativa, a conclusione del percorso, di Fotografico Brera, Milano). un disegno-progetto per una fonderia di cannoni. 9 La guerra di fatto era imminente e, se i responsabili di vari paesi europei cercavano inutilmente un accordo per la protezione delle opere d’arte in caso di conflitto armato10, una serie di avvenimenti traumatici stava ormai per investire i nostri immobili istituti museali, prima con lo sgombero forzato di migliaia di capolavori in rifugi d’emergenza, nel paese ormai messo a ferro e fuoco da nemici e alleati, poi con le distruzioni e i danni gravi agli edifici che da decenni, quando non da secoli, ne erano i custodi. Non sarebbe possibile oggi nemmeno immaginare le dimensioni della rovina (da cui le collezioni furono fortunatamente in gran parte risparmiate) e lo sforzo fatto per cancellarne i segni se non disponessimo dell’agghiacciante documentazione fotografica conservata negli archivi degli stessi musei, memoria dimenticata e come rimossa di un tempo non poi tanto remoto. Eppure la storia del museo, in Italia, attraversa quelle macerie; e il senso delle scelte fatte dopo il 1945 sfugge se non si confrontano propositi, dichiarazioni e polemiche di allora con quelle immagini. Basta uno sguardo al primo rapporto ufficiale sulla ricostruzione: Musei e Gallerie d’arte in Italia. 1945-195311, pubblicato dal Poligrafico dello Stato in occasione della conferenza generale dell’ICOM12 che si doveva tenere nel luglio del 1953, appunto, tra Genova e Milano, come dire nelle sale riaperte di Palazzo Bianco e di Brera, per capire come la tabula rasa della guerra avesse messo in moto un processo di trasformazione inarrestabile, troppo a lungo rinviato perché si potesse accettare l’idea di un semplice ripristino dello stato quo ante13, per tanti versi impossibile dopo le devastazioni delle bombe e degli spezzoni incendiari. Quella che al direttore generale delle Antichità e Belle Arti appariva come 2. troppo sottili distinguo tra le forme del museo post-risorgimentale e le relative La ricostruita sala Napoleonica “un’opera di valorizzazione e rinnovamento che costituisce, nel suo insieme della Pinacoteca di Brera a varianti o repliche o sopravvivenze post-giolittiane in periodo fascista, si e per le circostanze che l’hanno determinata, una vera ed alta affermazione Milano, 1951 (foto Francesco decise e si realizzò concretamente l’adeguamento di tutte, o quasi, le strutture dello spirito”14, rappresentava prima di tutto l’occasione per recuperare un Radino, Milano) museali del paese alle esigenze del presente17. ritardo culturale e tecnologico che nessun responsabile di museo, nemmeno In misure e modi diversi, non c’è intervento ricostruttivo o ristrutturazione il più provinciale, era ormai disposto a tollerare. Ma è vero che per non pochi o riallestimento di allora che non riveli lo scacco della filologia, e comunque operatori, i più consapevoli come vedremo (non si deve dimenticare che la l’esercizio della storia come diritto alla critica storica (con le inevitabili caduta del regime aveva provocato un turnover, anche generazionale, nei conseguenze sul piano della conservazione), la diffusa estraneità a un’idea di posti direttivi di molti istituti museali15), a quell’esigenza di svecchiamento storia come stratificazione di documenti e segni, nessuno dei quali può essere si univa anche il rifiuto politico di saldare la nuova vita del museo, con tutta alterato o negato pena la perdita di valore della stessa conoscenza storica. la carica simbolica di cui lo si investiva come custode dei ritrovati valori della In un tempo relativamente breve – ma, avviato nell’immediato dopoguerra, civiltà contro la barbarie e insieme come strumento di crescita civile – un il processo di ricostruzione e riorganizzazione delle strutture culturali si tema, questo, riscoperto da noi e molto insistito16 –, a quanto si percepiva concluderà soltanto negli anni ’60, favorito e in parte deviato dall’economia ormai come l’inerte parodia prebellica del museo stesso, luogo della peggiore del miracolo18 – l’immagine dei nostri musei si modifica almeno quanto, retorica nazionale o di molto private emozioni estetiche, oltre tutto obsoleto contemporaneamente, quella degli interni delle case italiane, in una sorta di sul piano del gusto, anzi del buon gusto. omologazione dei caratteri strutturali, morfologici e insieme dell’arredo degli Non c’era altro partito possibile se non di rompere con quel passato e usare le ambienti espositivi. Ovunque, la tendenza è di articolare le grandi sale, anche conseguenze catastrofiche della guerra (ma anche dove non esistevano ferite se storiche, in “locali più semplici e raccolti”19, grazie anche all’uso di quinte e visibili: e proprio questo dimostra il grado di insofferenza, l’ansia psicologica pannelli mobili; tappezzerie e parati di stoffa, tinteggiature cupe e decorazioni di cambiamento, condivisi ormai indistintamente da tutti gli addetti ai lavori, “in stile” cedono il posto a semplici intonaci dipinti in tonalità chiare e neutre fino ai più alti vertici ministeriali) non soltanto per ripristinare e restaurare, (dall’avorio al grigio perla, fino al bianco assoluto); i quadri, selezionati e ma insieme per “fare nuovo”, per “fare moderno”, per tentare di colmare il diradati (e questo impone la necessità di creare depositi), perdono, con le false gap che la troppo lunga autarchia culturale ed economica aveva determinato cornici, i vari tipi di piedistalli,
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