accademia nazionale di san luca

Quaderni della didattica

serie diretta da Francesco Moschini Marisa Dalai Emiliani

Disegnare il museo

accademia nazionale di san luca Corso Indice Segnare Disegnare Interpretare Un itinerario nella storia a cura di Marisa Dalai Emiliani Accademia Nazionale di San Luca, Roma 20 febbraio - 3 marzo 2012 9 Musei della ricostruzione in Italia tra disfatta e rivincita della storia

39 Note

50 Bibliografia citata

Questo saggio, pubblicato nel 1982 dalle edizioni di Comunità per il museo veronese di Castelvecchio, viene riproposto nell’ambito del laboratorio “Disegnare il museo”, con poche varianti. È stato ristampato quindi nel volume di Marisa Dalai Emiliani, Per una critica della museografia del Novecento in Italia. Il “saper mostrare” di Carlo Scarpa, Venezia, Regione del Veneto, Marsilio, 2009

Cura redazionale di Laura Bertolaccini. Musei della Ricostruzione in Italia tra disfatta e rivincita della storia Ma, in ogni campo, la nostra epoca ha la mania di voler mostrare le cose solo insieme a ciò che le circonda nella realtà, e di sopprimere così l’essenziale: l’atto dello spirito che le isolò da essa. Si “presenta” un quadro in mezzo a mobili, a soprammobili, a tappezzerie della stessa epoca; insipido scenario nella cui composizione eccellono, negli appartamenti d’oggi, le padrone di casa fino a ieri più ignoranti, le quali ora passano leloro giornate negli archivi e nelle biblioteche, ed in mezzo al quale il capolavoro che guardiamo mentre si pranza non ci dà quella gioia inebriante che solo gli si può chiedere in una Sala di museo, che simboleggia molto meglio con la sua nudità e l’assenza di ogni particolarità gli spazi interiori dove l’artista si è astratto per creare. Marcel Proust, À l’ombre des jeunes filles en fleur(1919)

Solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della Storia (1940)

È stato l’“irregolare” Carlo Scarpa, con i primi lavori di riordino delle Gallerie dell’Accademia di Venezia avviati in sordina fin dal 1946, a segnare inconsapevolmente la fine di un modello museografico che, con rare eccezioni1, aveva resistito a ogni sollecitazione di cambiamento, dall’Italia umbertina fino alla caduta del regime. Una continuità, quella del museo ottocentesco post- unitario di arte antica2 — stipato di opere e oggetti, disposti secondo il criterio positivista, ma già illuminista, dell’ordinamento classificatorio, topografico (per “scuole”), cronologico o tipologico, oppure ambientati in ricostruzioni storicistico-evocative di gusto tardo-romantico3, o ancora semplicemente presentati per nuclei di provenienza4 —, che non aveva trovato se non conferme negli interventi di riordino del primo Novecento (basti ricordare per tutti quelli di Corrado Ricci o Malaguzzi Valeri5) e più tardi, nel ventennio fascista, convalide anche ideologiche o aggiustamenti distratti6, mentre altri erano gli strumenti di persuasione culturale che si preferivano sperimentare. Così, non è un caso che all’appuntamento internazionale di Madrid, nel 1934, per l’importante congresso di museografia organizzato dall’Institut International de Coopération Intellectuelle7, la voce ufficiale dell’Italia non fosse di un “uomo di museo” come per la quasi totalità degli altri paesi, ma quella dell’accademico Ugo Ojetti, affiancato da due archeologi8. E il tema assegnato (o scelto?) era quello delle mostre, Expositions permanentes et Expositions temporaires, a sancire si direbbe una politica museale certo deludente9, ma al contrario una politica espositiva clamorosa, che dall’autoglorificazione della 1. La Pinacoteca di Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista, a Roma nel 1931-1932, Brera a Milano dopo i sarebbe presto potuta passare ai fasti della Mostra Augustea della Romanità bombardamenti della seconda guerra mondiale (1937), destinata a stimolare negli italiani la coscienza imperiale e infine, nel (su concessione del 1939 a Milano, alla Mostra di Leonardo, simbolo della superiorità del genio Ministero per Beni e le Attività Culturali, Archivio italico, esaltato dalla gigantografia dimostrativa, a conclusione del percorso, di Fotografico Brera, Milano). un disegno-progetto per una fonderia di cannoni.

9 La guerra di fatto era imminente e, se i responsabili di vari paesi europei cercavano inutilmente un accordo per la protezione delle opere d’arte in caso di conflitto armato10, una serie di avvenimenti traumatici stava ormai per investire i nostri immobili istituti museali, prima con lo sgombero forzato di migliaia di capolavori in rifugi d’emergenza, nel paese ormai messo a ferro e fuoco da nemici e alleati, poi con le distruzioni e i danni gravi agli edifici che da decenni, quando non da secoli, ne erano i custodi. Non sarebbe possibile oggi nemmeno immaginare le dimensioni della rovina (da cui le collezioni furono fortunatamente in gran parte risparmiate) e lo sforzo fatto per cancellarne i segni se non disponessimo dell’agghiacciante documentazione fotografica conservata negli archivi degli stessi musei, memoria dimenticata e come rimossa di un tempo non poi tanto remoto. Eppure la storia del museo, in Italia, attraversa quelle macerie; e il senso delle scelte fatte dopo il 1945 sfugge se non si confrontano propositi, dichiarazioni e polemiche di allora con quelle immagini. Basta uno sguardo al primo rapporto ufficiale sulla ricostruzione: Musei e Gallerie d’arte in Italia. 1945-195311, pubblicato dal Poligrafico dello Stato in occasione della conferenza generale dell’ICOM12 che si doveva tenere nel luglio del 1953, appunto, tra Genova e Milano, come dire nelle sale riaperte di Palazzo Bianco e di Brera, per capire come la tabula rasa della guerra avesse messo in moto un processo di trasformazione inarrestabile, troppo a lungo rinviato perché si potesse accettare l’idea di un semplice ripristino dello stato quo ante13, per tanti versi impossibile dopo le devastazioni delle bombe e degli spezzoni incendiari. Quella che al direttore generale delle Antichità e Belle Arti appariva come 2. troppo sottili distinguo tra le forme del museo post-risorgimentale e le relative La ricostruita sala Napoleonica “un’opera di valorizzazione e rinnovamento che costituisce, nel suo insieme della a varianti o repliche o sopravvivenze post-giolittiane in periodo fascista, si e per le circostanze che l’hanno determinata, una vera ed alta affermazione Milano, 1951 (foto Francesco decise e si realizzò concretamente l’adeguamento di tutte, o quasi, le strutture dello spirito”14, rappresentava prima di tutto l’occasione per recuperare un Radino, Milano) museali del paese alle esigenze del presente17. ritardo culturale e tecnologico che nessun responsabile di museo, nemmeno In misure e modi diversi, non c’è intervento ricostruttivo o ristrutturazione il più provinciale, era ormai disposto a tollerare. Ma è vero che per non pochi o riallestimento di allora che non riveli lo scacco della filologia, e comunque operatori, i più consapevoli come vedremo (non si deve dimenticare che la l’esercizio della storia come diritto alla critica storica (con le inevitabili caduta del regime aveva provocato un turnover, anche generazionale, nei conseguenze sul piano della conservazione), la diffusa estraneità a un’idea di posti direttivi di molti istituti museali15), a quell’esigenza di svecchiamento storia come stratificazione di documenti e segni, nessuno dei quali può essere si univa anche il rifiuto politico di saldare la nuova vita del museo, con tutta alterato o negato pena la perdita di valore della stessa conoscenza storica. la carica simbolica di cui lo si investiva come custode dei ritrovati valori della In un tempo relativamente breve – ma, avviato nell’immediato dopoguerra, civiltà contro la barbarie e insieme come strumento di crescita civile – un il processo di ricostruzione e riorganizzazione delle strutture culturali si tema, questo, riscoperto da noi e molto insistito16 –, a quanto si percepiva concluderà soltanto negli anni ’60, favorito e in parte deviato dall’economia ormai come l’inerte parodia prebellica del museo stesso, luogo della peggiore del miracolo18 – l’immagine dei nostri musei si modifica almeno quanto, retorica nazionale o di molto private emozioni estetiche, oltre tutto obsoleto contemporaneamente, quella degli interni delle case italiane, in una sorta di sul piano del gusto, anzi del buon gusto. omologazione dei caratteri strutturali, morfologici e insieme dell’arredo degli Non c’era altro partito possibile se non di rompere con quel passato e usare le ambienti espositivi. Ovunque, la tendenza è di articolare le grandi sale, anche conseguenze catastrofiche della guerra (ma anche dove non esistevano ferite se storiche, in “locali più semplici e raccolti”19, grazie anche all’uso di quinte e visibili: e proprio questo dimostra il grado di insofferenza, l’ansia psicologica pannelli mobili; tappezzerie e parati di stoffa, tinteggiature cupe e decorazioni di cambiamento, condivisi ormai indistintamente da tutti gli addetti ai lavori, “in stile” cedono il posto a semplici intonaci dipinti in tonalità chiare e neutre fino ai più alti vertici ministeriali) non soltanto per ripristinare e restaurare, (dall’avorio al grigio perla, fino al bianco assoluto); i quadri, selezionati e ma insieme per “fare nuovo”, per “fare moderno”, per tentare di colmare il diradati (e questo impone la necessità di creare depositi), perdono, con le false gap che la troppo lunga autarchia culturale ed economica aveva determinato cornici, i vari tipi di piedistalli, basi, zoccoli e boiseries che li incastonavano rispetto alla pratica museografica internazionale più avanzata. E questo, precedentemente alle pareti, spaziati, ora, e allineati molto in basso, al livello paradossalmente, a costo di aggravare le lacerazioni che il conflitto aveva dello sguardo dei visitatori; vetrine in cristallo con sostegni metallici, di provocato nelle istituzioni storico-artistiche del paese, a costo di cancellare disegno più o meno razionalista (ma quante volte troppo simili ai modelli proprio dentro al museo, archivio e laboratorio della storia, i segni della “sua” degli stands fieristici), sostituiscono gli armadi a vetri di maggiore ingombro storia. È così che negli anni di fervore della ricostruzione nazionale, evitando che impedivano una visione simultanea degli oggetti, mentre le sculture,

10 11 abbandonati gli appoggi uniformi a muro, conquistano il centro degli ambienti, presentate in modo differenziato e con una ricerca di effetti scenografici. Ma quello che viene configurandosi come il nuovo stile del museo, nei termini di un vero e proprio metalinguaggio20 – a dispetto della teorizzata “neutralità senza tempo” dei dispositivi di un’architettura funzionale21 – trova il suo tratto qualificante nell’illuminazione22. Finisce per il museo l’epoca della penombra: con lo spazio, anche la luce – naturale e zenitale, secondo i dettami della moderna luminotecnica – inonda gli edifici attraverso grandi lucernari di ogni forma e tipo che si inseriscono nei vecchi tetti a falde, mentre si incominciano a sperimentare i primi sistemi di illuminazione artificiale, diretta o diffusa, che, per ammissione di una fonte ministeriale, “erano quasi inesistenti prima della guerra 1939-1945”23, come del resto gli impianti di riscaldamento e controllo igroscopico, di cui almeno gli istituti maggiori vengono ora dotati. Comunque si vogliano giudicare oggi gli esiti di una riforma così imponente – controllabili, sul piano estetico-visivo, non tanto direttamente (a distanza di meno di trent’anni, che cosa è rimasto davvero intatto?), quanto attraverso lo spaccato offerto da alcuni repertori illustrati in successione temporale, dal già ricordato rapporto del 1953, con gli oltre centocinquanta musei “di nuova istituzione, ricostruiti o riordinati”24 che documentava a una data così precoce, al catalogo della Mostra di museologia curata da Piero Sampaolesi per l’XI Triennale milanese25, nel 1957, fino ai volumi patinati, nei primi anni ’60, di Roberto Aloi26 e Michael Brawne27, utili per un confronto con il quadro internazionale, non meno dinamico, a cui avrebbe presto dedicato una mostra di sintesi il Museum of Modern Art di New York28, nel 1966 –, è fuori di dubbio che le proposte italiane più avanzate del secondo dopoguerra non si possono ripensare se non in relazione al contesto che abbiamo appena tentato di delineare: contesto da cui si staccano alcune esperienze con valore di prototipi, espressioni di una originale concezione museografica che è stata 3. ripresa e banalizzata nella medietà degli altri interventi, tra formule generiche “Mostra della ricostruzione nazionale” al Palazzo delle Esposizioni di Roma e timide approssimazioni. nel 1951 (su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Volendo limitare queste riflessioni ad alcuni esempi di una situazione Roma, Istituto per il Catalogo e la settentrionale, cioè di un’area relativamente omogenea e per tradizioni culturali Documentazione, Fototeca Nazionale e per modi della ripresa economica e per segni lasciati dalle stesse vicende E 28283). belliche, non sono poche le figure emergenti di architetti – Franco Albini, Ignazio Gardella, i BBPR o, più appartato, Bruno Ravasi29 – che si incontrano 4. Ranuccio Bianchi Bandinelli, direttore accanto a quella in primo piano di Carlo Scarpa. Ma si deve aggiungere subito generale alle Antichità e Belle Arti tra che la loro presenza, per non dire conquista dello spazio del museo come terreno 1945 e 1947, ritratto davanti a Guernica di Pablo Picasso esposto nel salone delle di sperimentazione progettuale – con un ritardo comunque di oltre vent’anni Cariatidi in Palazzo Reale a Milano nel sul resto d’Europa30 –, è stata il risultato di un’alleanza singolare, nuova per 1954 (courtesy Marcello Barbanera). l’Italia, che i responsabili della rinascita di alcune strutture museografiche, cioè i rispettivi direttori, hanno voluto stringere con i tecnici scelti per il restauro degli edifici e il riallestimento delle collezioni, nella tensione comune verso una sprovincializzazione della nostra cultura. Un’alleanza, o un’intesa tra storici dell’arte e architetti, che è stata politica (o etica, come si preferiva dire allora) prima che intellettuale, in anni in cui la programmazione e la gestione delle attività culturali, in particolare nel settore delle arti visive, non erano ancora né lottizzate né scopertamente strumentalizzate da pubblici amministratori e partiti politici, ma delegate quasi interamente, nella loro specificità di sfera separata, alla competenza e al prestigio scientifico di funzionari ben più autonomi di oggi nelle proprie decisioni e – nei casi almeno che vorremmo rimeditare, dei Musei Civici di Genova, Milano e Verona – capaci di imporre

12 13 scelte d’avanguardia correndo anche i rischi dell’impopolarità, perché tetragoni a ogni tentazione di demagogia. È trasparente, riascoltando oggi le loro voci – e le ragioni di Caterina Marcenaro31 a proposito dei lavori di Franco Albini alla Galleria di Palazzo Bianco, riaperta a Genova già nel 1950, e più tardi al Tesoro della cattedrale di San Lorenzo (1954-1956) e a Palazzo Rosso (1961); di Costantino Baroni32 per il Museo dArte Antica del di Milano, progettato dallo Studio BBPR fin dal 1949 ma inaugurato nel 1956; infine, del più giovane Licisco Magagnato33 sull’opera di Carlo Scarpa a Castelvecchio, tra l’avvio nel 1956 e la conclusione nel 1964 — il bisogno di difendere un progetto culturale certo ben diversificato nelle tre autonome e non del tutto contemporanee declinazioni stilistiche, ma, rivisto in prospettiva, consonante per premesse teoriche, motivazioni sociali, interrelazioni e insieme contraddizioni interne all’ideologia di cui era espressione. Costruire un modello di museo antitetico a quello sedimentato nella memoria della città, anziché restituirne l’immagine nella misura del possibile, significava nella temperie culturale italiana di quegli anni, calarsi — e schierarsi — nel vivo di polemiche, al centro delle quali stava il difficile rapporto tra antico e nuovo, tradizione e modernità, ambiente storico e razionalismo contemporaneo, che ovviamente vedeva implicati in prima persona architetti e urbanisti, via via più divisi sulla questione scottante del destino dei centri storici34. Ma il rapporto nuovo-antico investiva direttamente anche le strutture museografiche, non soltanto per il rinnovo indilazionabile degli allestimenti (problema, questo, tangente allo sviluppo in pieno corso del design italiano35), ma perché le collezioni che si andavano recuperando dai rifugi di guerra erano per la quasi totalità da sistemare in edifici storici: e su questi, dopo le recenti distruzioni, occorreva prima di tutto intervenire, decidendo tra le diverse possibili metodologie di ripristino o restauro. È fin troppo noto che il problema concettuale e metodologico del restauro ha attraversato tutta la complessa vicenda della ricostruzione nel nostro paese, in un territorio cioè caratterizzato da un’incomparabile e stratificata sedimentazione storico-culturale; e non si può dimenticare che soltanto nel 1964, con la Carta Internazionale del restauro, a Venezia, si sarebbero unificati e definiti i principi di una sorta di nuovo codice normativo degli interventi di conservazione e recupero, dedotti dal bilancio delle esperienze che per tutto il secondo dopoguerra si erano dovute affrontare in ogni paese d’Europa36. Ma per tenerci al tema specifico del museo, la molteplicità di orientamenti in materia di ricostruzione-restauro è bene esemplificabile con il caso per tanti aspetti emblematico di Milano, dove i bombardamenti del 1943 avevano colpito in misura gravissima la Pinacoteca di Brera e il , la Pinacoteca Ambrosiana, la Galleria d’Arte Moderna, il Castello Sforzesco e il Museo di Scienze Naturali. Nessuno ancora ha ricostruito puntualmente 5. Pianta generale del piano il dibattito, che pure dev’essere stato incandescente, tra i membri delle terreno del Castello Sforzesco, commissioni incaricate di decidere le modalità d’intervento; ma non è difficite Milano, 1948 (Archivio Studio individuare almeno due linee discordanti nell’opzione ben chiara di Fernanda Belgiojoso, Milano). Wittgens37 — dal 1947 soprintendente reggente alle Gallerie della Lombardia 6. — per una soluzione moderata, di ripristino per così dire ammodernato, poiché Pinacoteca Civica del Castello Sforzesco di Milano: — come scriveva — “la difficile subordinazione dell’architettura al quadro l’allestimento della Cancelleria è il tema del museo”38; e, di contro, la convinzione di Costantino Baroni, Ducale di Luca Beltrami nel 39 1903 (Civico Archivio chiamato alla direzione delle Civiche Raccolte dopo la Liberazione , che il Fotografico, Milano). museo dovesse “tentare di realizzarsi come opera d’arte in sé, come uno dei

14 15 7. Cortile interno di Castelvecchio a Verona: i lavori di restauro condotti da Antonio Avena nel 1923-1936 (foto AMC, Verona).

8. Piante del Museo di Castelvecchio di Verona (dalla guida del museo pubblicata a cura di Antonio Avena dalla Libreria dello Stato, Roma 1954).

9. La sequenza delle prime sale del Museo di Castelvecchio di Verona nell’ex fortino napoleonico, ora Galleria delle Sculture, dopo il restauro “in stile” del 1923-1926 (foto AMC, Verona).

10. Esempio di soffitto cassettonato con decorazioni “in stile” nell’allestimento di Antonio Avena del 1923-1926 nel Museo di Castelvecchio di Verona (foto AMC, Verona).

16 17 11. Cortile di Palazzo Bianco a Genova nel primo allestimento del 1893 (Archivio fotografico Comune di Genova).

12. Sala della Duchessa di Galliera nella Galleria di Palazzo Bianco a Genova nel primo allestimento del 1893 (Archivio fotografico Comune di Genova).

13. Sala XI della Galleria di Palazzo Bianco a Genova nel primo allestimento di Franco Albini del 1950 (Archivio fotografico Comune di Genova).

14. Il secondo deposito della Galleria di Palazzo Bianco a Genova nel primo allestimento di Franco Albini del 1950 (Archivio fotografico Comune di Genova).

18 19 15. Il supporto mobile di Franco Albini per il frammento marmoreo di Giovanni Pisano dal Sepolcro di Margherita di Brabante nella Galleria di Palazzo Bianco a Genova nel 1950 (Archivio fotografico Comune di Genova).

16. Il primo allestimento della sala degli Scarlioni di Costantino Baroni nelle Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco di Milano, 1947 (Civico Archivio fotografico, Milano).

20 21 più suggestivi spunti di tematica per la nuova progettazione architettonica”40. esemplare razionalità e armonia: i dipinti sospesi a tondini di ferro scorrenti Dalle rovine di Brera, dove trenta sale su trentaquattro erano state inghiottite su guide pure di ferro, o appoggiati a stilizzati cavalletti su basi antiche di dalle macerie, risorgeva così in tempi brevissimi (1950), grazie all’architetto pietra; la luce naturale delle grandi finestre graduata da tende “alla veneziana” Portaluppi che già era stato responsabile del riordino del 1924 con Ettore o schermata da lastre in ardesia a superficie grezza; l’illuminazione artificiale Modigliani, un edificio-compromesso di impronta approssimativamente ottenuta con lampade fluorescenti a catodo freddo, sospese a una lievissima neoclassica, ma profondamente modificato nella pianta e non senza qualche struttura a vista in cavi di acciaio; un’attrezzatura conservativa ed espositiva indulgenza, sia pure appena suggerita, all’ambientazione “in stile” delle opere, molto funzionale per i depositi (i primi sperimentati con tanta acribia); ad esempio nelle salette ellittiche per i dipinti del Settecento. Il programma di infine, i sedili trasportabili (le “tripoline” in cuoio naturale e legno laccato), nitore e “neutralità” funzionale non impediva, d’altra parte, che il gusto di una che introducevano la sola nota di colore nell’ordito bianco-nero dell’intero élite imprimesse il segno del tempo nella profusione (quanto datata41) dei marmi museo. E la semplice soluzione del teorema si ripeteva identica nelle varie sale, che impreziosivano la nuova Pinacoteca, dalla “nota rara del cosiddetto Nero quasi a confermare la flagrante conciliazione tra il messaggio estetico delle d’Africa che nobilita il Sacrario di Raffaello e Bramante a quella dell’antico opere, la qualità storica recuperata degli spazi e, d’altro lato, la nuda modernità Giallo di Siena nei Gabinetti fiamminghi, ricavati tramezzando la sala degli della presentazione53. “Nell’attuale ordinamento è stato programmaticamente Stranieri per animarne l’originaria struttura un po’ monotona da refettorio” abbandonato il concetto di palazzo ed è stato rigorosamente perseguito quello 42 (F. Wittgens ). E che dire, del resto, del contemporaneo ripristino della casa di museo”54, commentava la direttrice Marcenaro; e nella sua esegesi i criteri di Giangiacomo Poldi Pezzoli, ricostruita “dov’era”, ma sottilmente epurata del riordino (eliminazione di dipinti e marmi di dubbia autenticità o di grado 43 dei caratteri che ne facevano un documento unico dell’eclettismo lombardo ? qualitativamente modesto; eliminazione di tutte le cornici non originali “del Diversa la linea teorica, e di conseguenza le decisioni prese per le strutture più trito falso-gotico o rinascimento o barocco, o anche di gusto ottocentesco”; comunali. Dopo una non breve battaglia di principi, tradotti in progetti e eliminazione di ogni elemento decorativo, di mobili e arredi che “negli controprogetti, sull’area delle scuderie semidistrutte nel giardino di Villa ordinamenti precedenti tendevano alla rievocazione dell’atmosfera dell’antica Belgioioso, ex Villa Reale – restituita senza esitazioni al suo coerente volto abitazione patrizia”55) definivano con lucidità polemica una concezione del neoclassico e alle sue funzioni di Galleria d’Arte Moderna (1949)44 per le opere museo come traduzione fisica, visiva di un indirizzo scientifico della disciplina di Ottocento e primo Novecento –, Ignazio Gardella riusciva a realizzare tra storico-artistica, tesa a selezionare con rigore le opere da mostrare e a disporle in il 1949 e il 1953 il Padiglione d’Arte Contemporanea, primo e solo esempio successione cronologica o per affinità linguistica e di scuola, in modo da veder in Italia, fino all’esperimento di Torino45, di un’architettura concepita con le sale “svolgersi come i preordinati capitoli di un’antologia figurativa”56. Non criteri di reale funzionalità e alta qualificazione formale, ad uso espositivo46. capire che l’opera d’arte doveva essere sottratta alla caotica confusione di valori La responsabilità dell’impostazione museologica, perfettamente coerente con in cui era stata relegata, per essere finalmente “considerata in sé e per sé, libera l’articolazione interna dell’edificio in ambienti diversificati per le collezioni da ogni interferenza esterna”57, avrebbe significato per la Marcenaro tradire di scultura, pittura e grafica, era di Costantino Baroni. Per il quale ben più un impegno morale: quello di attivare la fondamentale funzione di educazione problematici, “travaglio e tormento di lunghi anni”47, si presentavano invece visiva del museo, la sua specifica vocazione a “distinguere tra i documenti di il recupero del Castello Sforzesco e il riordino delle Civiche Raccolte d’Arte una cultura e la vita che li ha prodotti, poiché ciò che rende un documento Antica che vi erano ospitate. artistico vivo, non sono i particolari che ci trasmette di un passato morto, ma È ben vero che la questione si poneva nei termini tipicamente italiani di un il significato che assume in rapporto alla nostra esperienza individuale. Un edificio monumentale, caratterizzato da una propria logica strutturale e spaziale, museo bene organizzato quindi [...] non serve tanto a cristallizzare quanto 58 che era necessario adeguare alle esigenze moderne di percorso, presentazione ad ampliare la sfera dell’esperienza contemporanea” . Queste certezze della e fruizione di una congerie di opere delle più varie epoche e provenienze, direttrice di Palazzo Bianco, ispirate ai principi di un’estetica idealistica – pur nel rispetto della sua fisionomia storica48. Prove convincenti, e recenti, in non parlava forse anche Kenneth Clark proprio allora del museo come di 59 questo senso non mancavano. Basti ricordare, fra le altre, quella del Museo uno spazio platonico, che “deals with essences and ideas” ? – trasferivano la Nazionale di Pisa, trasferito da Sampaolesi nel restaurato convento di San questione cruciale del rapporto nuovo-antico nel museo, dal piano culturale Matteo e allestito con “monacale semplicità... nell’epoca eroica della calce e del o di gusto a quello gnoseologico e ontologico, del riconoscimento di “falso” mattone” (1947)49; o la Galleria Nazionale d’Abruzzo riaperta nella recuperata e “vero”, non arte-non poesia o arte-poesia, in quanto tale parte di un rocca cinquecentesca de L’Aquila50; o ancora la Galleria di Palazzo Bianco, che eterno presente60. Un’impostazione teorica fondamentalmente condivisa da era stato distrutto quasi completamente dai bombardamenti e ricostruito dal Costantino Baroni, ma inquietante se da riferire a tutt’altro contesto, quello Genio Civile fin dall’inizio del 1949, a Genova51: due sedi nuove le prime e in particolare del Castello Sforzesco, a Milano. Come distinguere infatti, qui, profondamente rinnovata l’ultima, in edifici antichi che erano stati liberati dalle intervenendo sulle murature pericolanti dopo gli incendi del 1943, tra “falso” e superfetazioni e restituiti alle forme originarie grazie ai criteri molto attuali di “vero”, in un organismo architettonico non solo storicamente stratificato, ma un restauro critico. Nella severa architettura settecentesca di Palazzo Bianco “interpretato” dalla generosa passione di Luca Beltrami nel corso del restauro era stato compito di Franco Albini52 realizzare poi l’allestimento delle raccolte, integrativo di fine Ottocento; come adeguare alle esigenze espositive la pianta improntato a un’economia di materiali e mezzi che non avrebbe potuto essere del mastio visconteo e sforzesco senza snaturarne il carattere; che cosa salvare più coerente con l’essenzialità della sua proposta anche formale. Un teorema della decorazione delle sale, solo in minima parte originale e così marcatamente espositivo estremamente semplice, che ammetteva un’unica soluzione di attualizzata durante i rifacimenti revivalistici del secolo precedente? E come

22 23 pensare comunque a un riordino rigorosamente scientifico e selettivo delle collezioni, insieme a una tecnica e a uno stile davvero moderni di presentazione delle opere, in un ambiente che restasse forzatamente e sia pure parzialmente inautentico? Le risposte a questi interrogativi differivano sottilmente per i responsabili della complessa operazione di recupero: il direttore da un lato, autore del piano organico di diradamento, integrazione, organizzazione didattica del Museo d’Arte Antica e, di contro, i BBPR, cui era stato affidato il progetto della “forma interpretativa del montaggio architettonico”. Scomparso alla vigilia della riapertura, Baroni ha lasciato in pagine poco note memoria della sua esperienza di collaborazione61, che è drammaticamente interessante confrontare con le riflessioni di Ernesto Rogers62. Il richiamo esplicito all’atemporalità dell’arte e al “concetto crociano dell’attualità della storia”63 motivava, per Baroni, una concezione del museo come “organismo vivo e dinamico, capace d’intervenire con spunti freschi e modi disinvolti nella ricca problematica della creatività artistica: quella di ieri non meno che l’altra di oggi”64. Era, la sua, la legittimazione di una proposta liberamente inventiva per l’impaginazione museografica, che cancellasse il ricordo dei “vecchi pretenziosi musei-falansteri stivati a non finire in sedi monumentali, declassate da regge a piranesiani bazar di robivecchi”. Contro “il fascino malato e decadente delle esibizioni necrofile, carenti di passione critica”, ma anche contro “i miti dell’obbiettività storica di uno scientismo presuntuoso e di un agnosticismo da gabinetto anatomico”65, Baroni disegnava l’ipotesi di una museografia interpretativa “parlante anche all’uomo comune, guidato per mano da capolavoro a capolavoro, messo di fronte ad un’opera che per essere capita non ha più bisogno di essere spiegata come cultura... e in un ambiente moderno, consono alla sua sensibilità, dove il capolavoro non deve più ammantarsi della misteriosa venerabilità di sedi antiche e cariche di storia o di colore”66. Ma proprio il “colore” e la “storia”, paradossalmente, costituivano la peculiarità degli ambienti del castello dopo le “fantasiose ricostruzioni beltramiane in pieno clima di eclettismo stilistico”; e valore di documento storico più che di “fatto figurativo puro” rivestivano molte tra le opere conservate, testimoni delle vicende civiche (come ad esempio “l’ingombrante rilievo della demolita Porta Romana, che rispecchia una fase involutiva della grande statuaria romanica lombarda”67), e quindi importanti per definire la fisionomia locale di quello che era pur sempre “uno dei più ragguardevoli musei provinciali del Continente”. Mentre Baroni, da quell’esigente conoscitore e agguerrito filologo e storico appassionato dell’architettura e dell’arte lombarde che era, sottoponeva a un inesorabile processo di revisione critica i materiali delle raccolte e, nei limiti del possibile, lo stesso organismo architettonico, nel corso degli indispensabili lavori di consolidamento statico (si recuperavano così, tra l’altro, le grandi arcate gotiche nella sala della Cancelleria, la volta a padiglione nella sala verde, i lacerti di paesaggio a monocromo, sicuro autografo di Leonardo, prima nascosti dietro tappezzerie e bancali di noce nella sala delle Asse), il progetto di allestimento assumeva invece “i caratteri stilistici del Castello tutto [...] come ingredienti per una orchestrazione romantica d’immediata comunicatività [...] senza voler 68 17. discriminare troppo tra le parti autentiche e quelle apocrife” . Lo sfondamento delle volte dei 18. sotterranei durante i lavori di L’abbassamento del soffitto della La motivazione era nella poetica di Rogers, nella sua ricerca di una forma ristrutturazione nella sala degli sala degli Scarlioni secondo il architettonica “allusiva” capace di attualizzare il senso di una tradizione, Scarlioni nel Castello Sforzesco progetto dello Studio BBPR, 69 di Milano, 1956 (Civico Archivio Milano 1956 (Civico Archivio di entrare in sintonia con un’atmosfera e di interpretarla modernamente ; fotografico, Milano). fotografico, Milano). il risultato, nel caso specifico del Castello Sforzesco, si concretava inun

24 25 19. Enrico Peressutti, progetto per l’allestimento della Pietà Rondanini di Michelangelo 1953-1954 (Archivio Studio Belgiojoso, Milano).

20. Le prove dirette da Costantino Baroni per la collocazione della Pietà Rondanini di Michelangelo nella sala degli Scarlioni del Castello Sforzesco, Milano 1956 (Civico Archivio fotografico, Milano).

21. L’ala di sala Boggian del Museo di Castelvecchio di Verona dopo il bombardamento del 1944 (foto AMC, Verona).

26 27 22. 24. La “Mostra delle tavole imbandite” nella sala Metodo di lavoro di Carlo Scarpa: rimozione dei Quattro Camini della Reggia dei Signori degli intonaci dalla facciata della Galleria delle del Museo di Castelvecchio di Verona nel 1954 Sculture del Museo di Castelvecchio di Verona, (foto AMC, Verona). 20 aprile 1964 (foto AMC, Verona).

23. 25. L’allestimento di Carlo Scarpa dell’affresco Metodo di lavoro di Carlo Scarpa: primo San Giorgio e la Principessa di Pisanello per progetto di infisso per la bifora tardo-gotica la mostra “Da Altichiero a Pisanello”, nella della sala II della Galleria delle Sculture, 1962- Reggia del Museo di Castelvecchio di Verona 1964. Disegno a matita su stampa fotografica, nel 1958 (foto AMC, Verona). 23 x 29 cm (foto AMC, Verona).

28 29 linguaggio analogico, costruito dai BBPR puntando sulla “rudezza” di certi tematizzazione proprio in riferimento al museo come luogo privilegiato materiali, sugli intonaci grezzi, sugli spessori inconsueti dei profili “che dell’esperienza visiva, del rapporto e contatto diretto tra opera e spettatore, ben si accordano alla massiccia architettura degli ambienti”70. Che grazie a era un portato della cultura italiana di quegli anni, che stava rivisitando il questa opzione stilistica si potessero toccare esiti addirittura “metafisici”, ad Movimento Moderno e le avanguardie del Novecento in termini di analisi esempio nella prospettiva scenografica della sala dei portali rinascimentali e formale (attraverso le ricognizioni di Bruno Zevi76, tra l’altro, o la diffusione delle armature, è una prova della densità culturale che sostanziava le diverse del fortunato volume di Sigfried Giedion77) e acquisendo la lezione della soluzioni, preservandole quasi sempre da cadute mimetiche; ma non ne riscatta Gestaltpsychologie tramite soprattutto Rudolf Arnheim78. Ma è vero che la matrice ideologica: che era quella di reinventare il museo come un racconto gli architetti impegnati nella trasformazione del museo trovavano stimoli o una messinscena “popolaresca, facilmente accessibile alla intelligenza delle congeniali nella contemporanea storiografia artistica responsabile dei nuovi masse, alla loro spontanea emotività, al loro bisogno di espressioni spettacolari, fantasiose e grandiose”71. Il registro creativo sembrava mutare soltanto nella ordinamenti museali, attraverso cui facevano il loro ingresso per la prima sofferta72 collocazione della Pietà Rondanini. Isolata nella sua assolutezza di volta nei musei italiani appunto, dopo l’immobilismo durato fino alla guerra, i capolavoro, immessa in uno spazio segreto, tramite la doppia nicchia in pietra principi crociani di un neo-idealistico e formalistico saper vedere79. serena e legno d’ulivo, e sottratta così all’“impossibile” dialogo sia con altre La selezione qualitativa, la rarefazione delle opere spinta fino all’estensione sculture del Rinascimento lombardo, sia con l’architettura monumentale della solitaria di alcuni capolavori, la riduzione del testo pittorico alla sua autonoma sala degli Scarlioni, che non si era esitato a sacrificare sfondando le volte dei presenza, liberata da ogni connotato esteriore e materiale (la cornice), sotterranei per abbassare la superficie del pavimento ed articolarla in diversi ripiani collegati da scale, mentre il soffitto era stato ribassato e la volta rivestita l’esaltazione del pezzo singolo di pittura o scultura, della sua unicità piuttosto con un plafone in legno a carena di nave. che delle sue correlazioni stilistiche e storiche, erano altrettanti indizi dei presupposti estetici che continuavano a informare la ricerca storico-artistica in Subito diventata il richiamo centrale del museo (“quando a un museo capita Italia. E poiché, coerentemente, il momento della conoscenza storica e quello una simile fortuna, non c’è che da pensare il museo come nuovo”73 ripeteva della consapevolezza critica non si davano che inestricabilmente legati, era Baroni, che al Castello Sforzesco l’aveva voluta assicurare dopo aver lottato il giudizio di valore80 a determinare i criteri della collocazione delle opere, a perché il Comune di Milano l’acquistasse), in realtà l’opera di Michelangelo segnalava, proprio per il suo totale straniamento rispetto al luogo fisico e allo definire l’ordine delle sequenze e la stessa articolazione degli ambienti. Per spazio storico che la ospitava, la genesi culturale e insieme le contraddizioni citare un testimone contemporaneo: “Avevamo fatto l’abitudine a musei profonde attraverso cui si andava definendo il nuovo corso della museografia concepiti architettonicamente su scala monumentale, un involucro nel quale italiana. l’opera d’arte veniva successivamente inserita; ma ora questo concetto ha subito una trasformazione totale: le opere d’arte stesse creano l’architettura, Non è un caso, per cominciare, che a Palazzo Bianco come al Castello determinano gli spazi, prescrivendo le proporzioni delle pareti”81. Sforzesco e di lì a poco a Castelvecchio, a Verona, una scultura, e non un dipinto, fosse scelta come simbolo del museo rinnovato: il frammento del La rivendicazione del diritto, non all’accertamento storico in primis, ma Sepolcro di Margherita di Brabante e il non-finito della Pietà, certo perché all’intuizione critica, a cui non poteva non corrispondere la creazione di una sentiti “stupefacentemente moderni”74 oltre che di alto valore espressivo come museografia coraggiosamente interpretativa (come aveva intuito Baroni), il Cangrande, ma ciascun capolavoro individuato e proposto soprattutto per le apriva però la contraddizione forse più profonda all’interno della tendenza straordinarie qualità plastiche e formali, non certo per le sue valenze storiche. che si andava affermando. L’esigenza di una continua revisione di valori in L’esemplarità dell’opera sotto quel profilo suggeriva la centralità e l’esemplarità un museo scientificamente aggiornato e in espansione per l’incremento delle della presentazione: il supporto elevabile e girevole in acciaio per il marmo di raccolte avrebbe infatti richiesto la massima flessibilità e indeterminatezza 82 Giovanni Pisano75, il vano curvo per la Pietà, la passerella sospesa intorno delle strutture espositive ; al contrario, queste costituivano talmente la alla piattaforma aerea di Cangrande. Tre stili: la spoglia, e certo provocatoria, cristallizzazione formale di un sistema di scelte fondate sull’a priori del giudizio tecnologia di Albini esperibile in uno spazio quasi cartesiano, contro il fondale estetico (dello storico dell’arte ordinatore non meno che dell’architetto astratto-concreto di ardesia; la suggestione simbolica – anche per l’uso dei allestitore) da scoraggiare, se non impedire, qualsiasi integrazione o materiali costitutivi toscani, la pietra serena e il legno d’ulivo – del dispositivo spostamento, benché dispositivi accuratamente progettati rendessero possibili dei BBPR; il libero incastro dei piani in cemento a vista di Scarpa, proiettati in teoria future trasformazioni83. all’aperto ma in bilico tra esterno e interno. Identica tuttavia era l’indicazione di Ma quei dispositivi sarebbero rimasti inutilizzati. Silenziosamente, in pochi lettura che suggerivano, identico l’invito a sperimentare un modo radicalmente anni, per un processo inarrestabile innescato dall’economia dei consumi e nuovo di visione, concentrata su un solo oggetto per esplorarlo dall’alto, dal degli sprechi, ma anche dalla strumentalizzazione sempre più spregiudicata basso, in tutte le direzioni e per appropriarsene anche attraverso la “quarta della politica cultural-artistica e dagli effetti sempre più condizionanti dei dimensione”, poiché rinunciare a un punto di vista bloccato e muoversi mass media, i contorni di quel disegno museografico globale, specchio in liberamente nello spazio (o, rovesciando il rapporto, guardare la scultura in positivo e in negativo della società e della cultura progressive del dopoguerra, movimento) significava poterne strutturare la percezione nella durata di un sarebbero stati erosi fino a cancellarne i tratti qualificanti: rimosso il marmo di tempo reale, investire nell’atto visivo tutta la propria carica vitale. Margherita di Brabante da Palazzo Bianco, compromessa o travisata, altrove, È indubbio che questo contributo a un mutamento che si può ben dire la compattezza stilistica con sostituzioni o rimozioni. E notizie di progetti rivoluzionario delle abitudini acquisite nella percezione artistica e la relativa o lavori in corso su strutture ormai “storiche”, quasi sempre ingiustificati

30 31 sul piano sia scientifico che funzionale, continuano a susseguirsi in modo allarmante, prima di tutto per l’integrità delle stesse opere conservate. In veste di archeologi museali nostro malgrado, ci troviamo dunque a riflettere sulle ragioni di una vicenda così segnata dai ritmi della “società dello spettacolo” e dell’industria culturale, a meditare sui comportamenti indotti in un pubblico di massa sempre più prigioniero dell’“effimero” di esposizioni e mostre, un pubblico che i musei riformati degli anni ’50 non hanno potuto invece, anche per limiti e contraddizioni interni, catturare e coinvolgere84. Ma proprio il rapporto, che sfiora ormai l’assurdo, tra vita-morte (divenire?) delle istituzioni e politica espositiva, che impone al museo le sue mode e modelli subito consumati, resta da indagare; e tentare di ripensarlo storicamente nell’Italia degli ultimi decenni (senza dimenticarne la preistoria, negli anni ’30) porta dritto a Carlo Scarpa, alla sua versatilità inesauribile ma non riproducibile, anche, al suo divertito e mai dissimulato disimpegno ideologico. Scarpa e le grandi mostre d’arte antica, Scarpa e le mostre- rivelazione dell’arte contemporanea, Scarpa e le Biennali di Venezia85, Scarpa e i musei rinnovati del dopoguerra: è così fitta e complicata la trama di questa parte della sua produzione intellettuale che è davvero difficile dire se siano state le esposizioni, o piuttosto il museo, l’esperienza decisiva nel suo lavoro per la rifondazione della tecnica e dello stile del presentare. È indubbio invece che l’incontro, spesso occasionato proprio dalle mostre, con i protagonisti dell’arte del XX secolo86 che la cultura italiana andava ansiosamente riscoprendo dopo la guerra – e le Biennali costituivano in questo senso un osservatorio privilegiato – ha orientato le sue ricerche; mentre la ricchezza del suo orizzonte culturale, la sua curiosità per forme diverse di espressione artistica, dalla più familiare come i vetri muranesi87 alla più remota come i prodotti della cultura cinese e giapponese, dalla più consacrata come la pittura dei maestri veneziani del Rinascimento alla più dissacrante come l’opera delle avanguardie contemporanee, gli hanno insegnato a evitare distinzioni a priori tra i piani di approccio e a risolvere nei termini rigorosamente moderni di una interpretazione formale puntuale, mai generica, ogni problema di allestimento. Un gioco sottile di citazioni, allusioni e rimandi lega così – per quanto ci consente di verificarlo la precarietà degli apparati espositivi, documentati da disegni e fotografie88 – i primi interventi di riordino delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, realizzati d’intesa con il direttore Vittorio Moschini tra il 1946 e il 194889, all’allestimento della mostra di Paul Klee per la XXIV Biennale, la prima del dopoguerra (1948) e a quello, nel 1949, della mostra di Giovanni Bellini a Palazzo Ducale; e ancora, rinvia dalla sistemazione della sezione storica del Museo Correr a Venezia (1953) alla Mostra dell’Arte Antica Cinese ordinata in Palazzo Ducale (1954), all’allestimento delle prime sale della Galleria degli Uffizi, con Gardella e Michelucci (1954), alle soluzioni studiate per la mostra di Antonello e il Quattrocento siciliano, a (1953), fino al geniale intervento di montaggio del Museo Nazionale d’Arte 90 26. Antica nel restaurato Palazzo Abatellis a , nel 1954 . Carlo Scarpa, studio per il serramento interno della bifora tardo-gotica nella Nel 1956, l’anno in cui gli è conferito con scandalo di molti il premio nazionale sala II della Galleria delle Sculture. Olivetti per l’architettura, Scarpa è a Roma, dove trasforma gli ambienti della Collezione privata (da Murphy 1991, p. 80). Galleria d’Arte Moderna a Villa Giulia in spazi neoplastici, per accogliere 27. 91 la prima vasta retrospettiva in Italia di Piet Mondrian . Questa esperienza Piet Mondrian, Composizione con rosso, costituisce la premessa fondamentale per due tra le sue più mature e raffinate blu, nero, giallo e grigio, 1921, olio su tela, 39,5 x 35 cm, Den Haag Gemeentemuseum proposte museografiche: il progetto di ampliamento della Gipsoteca Canoviana (© 2008 Mondrian | Holtzman Trust c/o a Possagno (1956-1957)92 e la ristrutturazione di Castelvecchio a Verona (1956- HCR International Warrenton, VA).

32 33 1964). Ma sarà ancora una mostra, “Da Altichiero a Pisanello”93, organizzata dal direttore Licisco Magagnato nella Reggia Scaligera profondamente rinnovata, a suggerire le prime coordinate del progetto di metamorfosi riqualificante del castello-museo. Basterebbe il fulmineo, perentorio giudizio di Roberto Longhi – “Verona che, non più di trent’anni fa, metteva a contribuzione le sue più illustri famiglie perché aiutassero a ‘restaurare’ in un gusto da Ristorante Montecchi e Capuleti le sale di Castelvecchio (oggi invece, e proprio in occasione della mostra, ridotte a più rispondente modestia dalle cure dello specialista in materia Carlo Scarpa) non curava punto che, al contempo, le opere murali di Stefano, e persino quelle ammirate da Donatello e dal Vasari, andassero rapidamente in rovina”94– a sottolineare l’importanza culturale e il grado di coraggio di un intervento che la città sembra rifiutare, perché si sente come defraudata del luogo della propria memoria storica – luogo, si vorrebbe precisare, materiale95 quanto simbolico –, incapace di distinguere, dopo una davvero troppo lunga e convinta assuefazione, tra storia e falsificazione della storia96. Proprio a un recupero integrale di autenticità è invece improntato il programma di lavoro di Magagnato e Scarpa, nelle due direzioni di una ricerca delle tracce più antiche nel corpo vivo dell’organismo architettonico, liberato nei limiti del possibile dalle contraffazioni “in stile” soprattutto recenti e, d’altro lato, di un allestimento studiato per esaltare le intrinseche qualità formali di ogni singola opera, per ciascuna determinando le migliori condizioni di visione97. Il tema del restauro e il tema del museo: affrontato, il primo, con una fiducia ancora intatta nella possibilità di attingere all’originario e di restituirlo al presente98, integrandolo, con tutta l’evidenza materica dei suoi lacerti, nell’immagine complessiva dell’edificio come un emozionante palinsesto da decifrare lungo il percorso, non più soltanto interno, del museo; accettato, il museo, anzi assunto e riplasmato come luogo dell’esperienza estetica assoluta, spazio separato ma non astratto perché sottoposto in ogni sua articolazione alle leggi fisiche della luce. Per l’opera d’arte sradicata dal suo contesto e restituita a sua volta per sempre all’autonomia di una propria sfera separata, non si dà così altro rapporto che questo, con la luce e lo spazio del museo, nel momento riattualizzante della fruizione. In questo senso è illuminante seguire il processo di graduale messa a fuoco della presentazione di ogni singolo pezzo, nella traduzione delle idee grafiche in soluzioni concrete, ma soprattutto nel passaggio dalle proposte espositive progettate per la mostra “Da Altichiero a Pisanello” alla sistemazione definitiva delle opere nel museo. Esemplare il caso del San Martino di Avesa, nell’ultima sala della Galleria delle Sculture a piano terra, che per la mostra era stato collocato piuttosto in alto, in una nicchia di profondità minima aperta nello spessore di una quinta in muratura, quasi a suggerire la collocazione originaria del bassorilievo, probabilmente murato nella facciata della chiesa da cui proveniva; la disposizione attuale nel museo lo presenta al contrario nella sua essenzialità formale e fisica di frammento, senza riferimento alcuno alla sua storia o appartenenza territoriale precedente, offerto per l’eterno a una visione integrale, che non è certo turbata dal supporto scuro e lucido in cemento stuccato, “doppio” geometrico del marmo, di cui ripete le dimensioni e la forma quadrata99. 28. 100 Una concezione museografica radicale, quasi di proustiana memoria , quella La bifora tardo-gotica nella sala II della di Scarpa, espressa pienamente anche in termini architettonici: penso in Galleria delle Sculture, da fotogramma della multivisione “Spazio, tempo e luce” particolare alla Galleria delle Sculture, che è tutta un’ironica contestazione di Arno Hammacher, 1982 (foto Arno della precedente struttura funzionale del fortino-deposito di polveri Hammacher).

34 35 30. 29. Il San Martino di Avesa nella Quinta in muratura a nicchia progettata collocazione definitiva di Carlo Scarpa da Carlo Scarpa per la presentazione del 1964 su pannello quadrato in del San Martino di Avesa nella mostra cemento con superficie stuccata. Museo “Da Altichiero a Pisanello” nel Museo di di Castelvecchio di Verona, galleria Castelvecchio di Verona, 1958 (foto AMC, delle Sculture, sala V (foto AMC, Verona). Verona).

36 37 napoleonico (ma anche, rimessa in valore delle integrazioni autentiche – Note bifore, logge, modanature rinascimentali e tardo-gotiche – del “restauro” del 1926), la cui stupefacente palingenesi in museo è avvenuta attraverso un seguito di invenzioni e particolari stranianti. Lo conferma il sottile solco di pietra che, simbolicamente, disegna il perimetro degli ambienti (l’equivalente del piccolo gradino che corre tutt’intorno alle sale della Reggia) e separa l’attacco delle pareti dal piano del pavimento in grandi lastre di cemento, 1 Gli atti del primo importante congresso di museografia, organizzato a Madrid nel 1934 trasformandolo in puro supporto espositivo, appunto, per le sculture. Ma dall’Office International des Musées per la Société des Nations, documentano rari esempi anche al piano superiore, per una serie di accorgimenti tecnici e cromatici, le italiani di riorganizzazione museale secondo criteri “moderni”, in linea cioè con la riforma in pieno corso di gran parte dei musei europei e americani. Si trattava in particolare della pareti non diventano altro che pannelli-sfondo per i dipinti, tranne la sola a cui Galleria Sabauda di Torino, recentemente ristrutturata (mentre Vittorio Viale riallestiva si riconosca funzione portante, che coincide con il muro del camminamento le raccolte civiche torinesi) dal direttore G. Pacchioni, il quale in una scheda (Pacchioni lungo l’Adige ed è trattata a intonaco rustico. 1935, vol. I, pp. 246-247) sintetizzava così i principi — inconfondibilmente crociani più che purovisibilisti — del riordino: “Le point de vue de la mise en valeur des qualités È proprio in sottolineature come questa, non formali né mentali, affidate esthétiques des œuvres, de l’élément à la fois durable et accessible au public des visiteurs, invece all’evidenza sensibile dei materiali impiegati e alle tecniche artigiane a donc prévalu dans l’arrangement des salles d’exposition. Les premiers résultats de cette disposition furent de donner aux œuvres, plus sévèrement selectionnées, tout l’espace di lavorazione, patrimonio di una tradizione costruttiva locale, che il museo que réclame une bonne présentation, d’abandonner la subdivision en écoles et de pouvoir ritrova una relazione concreta con il territorio in cui è radicato e ha una sua enfin créer, dans chaque salle, une disposition hiérarchique des valeurs”. E concludeva, ragione d’essere, diventa veramente museo di una città e della sua cultura101. In per focalizzare le finalità dell’intervento: “laisser à l’œuvre d’art sa pure et entière valeur de création comme expression d’une individualitée, favoriser autour d’elle l’atmosphère questo senso acquistano pregnanza simbolica, nello spessore dei varchi tra le de recueillement et d’émotion qui permet de la contempler en toute liberté”. (Cfr. anche sale della Galleria, le lastre rosa monolitiche di pietra di Prun “visibili ancora Rovere 1935, p. 14). Nel contributo Magagnato 1962a, pp. 54-63, egli sottolinea invece: nelle valli montane del veronese a delimitazione degli antichi poderi”102. “Lo storico futuro potrà datare tra il 1935 e il 1940 il primo periodo di rinnovamento dei musei italiani, con quell’allestimento del museo di Pesaro che è restato esemplare anche per l’immediato dopoguerra”. Anche la responsabilità di quel riordino era di G. Pacchioni. 2 Sui cui caratteri e vicende resta fondamentale il contributo di Emiliani 1979, pp. 1613- 1655. Per una storia anche visiva dei musei italiani si veda il volume I musei 1980, in particolare il saggio Buzzoni 1980, pp. 155-197. Per un confronto tra la configurazione dei musei italiani e quella degli altri paesi, può essere tuttora utile la consultazione di Bazin 1967; e per la Germania, Plagemann 1967. Deludente la rassegna Museo perché 1978. 3 Come è noto, i prototipi delle due ricorrenti tipologie museali del XIX secolo, quella di origine illuministica che organizza le opere come documenti e quella di ispirazione romantica che le presenta come elementi decorativi di un ambiente storico, sono francesi: il Musée des Monuments Français nel suo primo ordinamento, fondato da Alexandre Lenoir a Parigi nel 1791, e l’Hôtel de Cluny, inaugurato a Parigi nel 1843, oggi Musée National du Moyen Âge. 4 è il caso, tra gli altri, della Pinacoteca dell’Accademia Carrara di Bergamo, che solo con l’ordinamento di Corrado Ricci, nel 1912, perse la sua fisionomia di aggregato storico di collezioni e donazioni cittadine, conservando in sale separate soltanto il recente legato Morelli. Cfr. Ricci 1912. Ma ancora negli anni ’30, al Museo del Castello Sforzesco di Milano il direttore Giorgio Nicodemi ordinava in un solo ambiente la raccolta d’arte e cimeli bibliografici Trivulzio (1935). 5 Dei quali ricordiamo, rispettivamente, il riordino della Pinacoteca Nazionale di Brera, tra 1898 e 1903, e della Pinacoteca Nazionale di Bologna, tra 1914 e 1928. 6 Non si vuole sostenere che la fisionomia dei musei italiani in periodo fascista sia rimasta uguale a quella ottocentesca; è certo però che, con le sole eccezioni già segnalate, rimasero sostanzialmente immutati i criteri di ordinamento e di presentazione delle raccolte d’arte antica, salvo qualche intervento di “diradamento”, ma soprattutto non cambiò l’enfasi retorica, marcatamente nazionalistica, dell’immagine che ne fu propagandata in Italia e fuori d’Italia. A differenza che in campo archeologico, pressoché nessuna novità è da registrare anche per l’architettura dei musei d’arte antica, per lo più ospitati in edifici storici. 7 Cfr nota 1. I due imponenti volumi degli atti della conferenza di Madrid, riccamente illustrati, offrono il repertorio forse più completo dei musei europei e americani nella fase critica di codificazione della nuova scienza museografica e di trasformazione architettonica, in senso razionalista e funzionale, dei vecchi istituti. Dalla ricchissima documentazione visiva, che propone tra l’altro esempi di punta come il Gemeentemuseum di H. P. Berlage a L’Aia, allora in costruzione (sarebbe stato inaugurato nel 1936), o il Boymans Museum di A. van der Steur a Rotterdam (1931-1935), sono vistosamente assenti (o quasi) immagini di musei italiani. 8 Cfr. note 1 e 7. I relatori ufficiali italiani erano, con U. Ojetti (Ojetti 1935, vol. I, pp.

38 39 286-292), R. Paribeni (Paribeni 1935, vol. I, pp. 180-197, con una relazione importante in senso lato alla riforma museografica italiana del dopoguerra, di cui la ristrutturazione per la realtà museografica italiana prevalentemente ospitata in edifici storici, ma svolta con del Museo di Castelvecchio a Verona tra 1956 e 1964 segnò in certo modo l’apice e la banalità disperante) e A. Majuri (Majuri 1935, vol. I, pp. 372-386). Colpisce, nell’economia conclusione, mentre nel riordino della Pinacoteca Nazionale di Bologna (1967; cfr. il dei due voluminosi tomi, l’esiguità dei contributi italiani, confrontata con il rilievo dato, catalogo La Pinacoteca Nazionale 1967) si può scorgere l’inizio di una tendenza e di ad esempio, a temi nuovi come quello dell’illuminazione, a cura di C. S. Stein, il solo un’impostazione museologica (certo più che di una pratica architettonica, dovuta nella architetto invitato (Stein 1935, vol. I, pp. 76-154). fattispecie a Leone Pancaldi) in via di un profondo mutamento. 9 Il rilievo sul ruolo del tutto insignificante assegnato dal regime ai musei in Italia è di 19 Cfr: G. De Angelis d’Ossat 1953, p. 6: “è attraverso lo studio delle caratteristiche Bazin 1967, che ricorda, per contrasto, l’intensa politica museale svolta strumentalmente spaziali e dei rapporti dimensionali che si ricercano oggi le condizioni più atte a favorire nella Germania nazista e in URSS dopo la Rivoluzione d’ottobre. Sull’allestimento della il completo godimento degli oggetti esposti. Così alle sale imponenti per vastità e Mostra di Leonardo del 1939 citata oltre, si veda Pagano 1939, pp. 6-19. ricchezza decorativa si preferiscono locali più semplici e raccolti, nei quali l’attenzione si 10 Si veda in proposito “Mouseion” 1938, interamente dedicato a problemi di diritto concentra più facilmente sulle singole opere, isolate o riunite secondo particolari criteri internazionale, dove è pubblicato il progetto di convenzione, appunto, internazionale “sur di ordinamento”. la protection des patrimoines artistiques et historiques nationaux”. Documento di qualche 20 Su questo tema si veda il classico saggio di Cirese 1977. interesse è anche l’articolo di Bottai 1938, pp. 1-3. Per un bilancio delle distruzioni e dei 21 è questo uno dei motivi ricorrenti nelle relazioni al congresso internazionale di danni al patrimonio storico-artistico italiano, segnaliamo, tra l’altro, Lavagnino 1946. Ma museografia di Madrid del 1934 (cfr. note 1 e 7). L’argomento è ripreso criticamente anche esistono altri repertori, per così dire, di parte, tedeschi prima del 1944 sulle conseguenze in Brawne 1965. della barbarie anglo-americana, o compilati invece dagli alleati a guerra conclusa. 22 Sui nuovi sistemi di illuminazione, oltre al citato rapporto del 1953, che si diffonde 11 Cfr. Musei e Gallerie 1953. particolarmente su questo punto, si veda tra l’altro Sampaolesi 1949, pp. 280-283 12 Come è noto, l’International Council of Museums si costituì, per iniziativa e l’articolo di Carità 1953, pp. 357-364, con qualche rilievo critico sulle soluzioni che dell’UNESCO, nel 1947, raccogliendo e continuando, in particolare attraverso la rivista si stavano adottando. Inoltre il manuale di museografia pubblicato dall’UNESCO quadrimestrale “Museum”, edita dal 1948, l’eredità dell’Office International des Musées, L’organisation des musées 1959, proseguimento ideale e aggiornamento degli atti del che negli anni ’30 aveva coordinato le iniziative del settore per la Société des Nations e di convegno di Madrid del 1934, esplicitamente richiamati nell’introduzione di Evans 1959, cui era stato tra i promotori Henri Focillon. pp. 9-10 e nella conclusione di Rivière 1959, pp. 201-202 (in particolare, si veda Molajoli 13 Come precisava G. De Angelis d’Ossat: “Siffatta opera resa necessaria nei riguardi 1959, pp. 159-199); e ancora, il volume De Felice 1966. di istituti già esistenti prima del 1939 per riportarli, dopo alcuni anni di chiusura, in 23 Cfr. Musei e Gallerie 1953, pp. 11 e 16, dove si precisa la finalità sociale dei nuovi condizione di funzionare, non si è limitata a ripristinare lo stato quo ante, ma si è proposta, impianti: “Tali visite si organizzano non soltanto durante il giorno ma anche, grazie ai ogni qualvolta ciò fosse possibile, di migliorare le condizioni preesistenti, di trasformare nuovi impianti di illuminazione, nelle varie occasioni di apertura notturna degli istituti, cioè un avvenimento doloroso e grave di conseguenze, quale la guerra combattuta sul in modo da agevolarne la frequenza da parte di visitatori impossibilitati a profittare delle suolo stesso del paese, in una occasione propizia per compiere un passo avanti verso una visite diurne. E non è chi non veda l’interesse di iniziative del genere, intese ad estendere più completa e adeguata sistemazione di una parte preziosissima del patrimonio artistico al maggior numero di cittadini i benefici culturali che possono trarsi dalla conoscenza dei nazionale” (De Angelis d’Ossat 1953, p. 5). musei e delle gallerie d’arte”. 14 Cfr. Musei e Gallerie 1953, dalla lettera dedicatoria al ministro della Pubblica Istruzione, 24 Cfr. Musei e Gallerie 1953. Un aspetto curioso, ma trasparente, del volume è l’assoluto Antonio Segni. silenzio sugli autori dei numerosi progetti e interventi architettonici; ma si citano 15 è il caso per esempio, per riferirci ai musei di cui seguiremo più da vicino le vicende, della raramente anche i direttori dei musei in questione. Pinacoteca di Brera a Milano, dove Fernanda Wittgens, che aveva conosciuto le carceri 25 Cfr. Mostra di Museologia 1957, pp. 49-55. fasciste, successe nel 1947 a Ettore Modigliani, allontanato per motivi razziali prima della 26 guerra e reintegrato nelle sue funzioni per un breve periodo, prima della sua scomparsa; di Aloi 1962; e, già prima, Aloi 1960. Costantino Baroni, chiamato a sostituire Giorgio Nicodemi alla direzione delle Civiche 27 Brawne 1965. Raccolte d’Arte del Comune di Milano immediatamente dopo la Liberazione; di Caterina 28 Cfr. il catalogo della mostra al Museum of Modern Art, Museum Architecture 1966. Marcenaro, attiva nella Resistenza genovese, dal 1950 direttore dell’Ufficio di Antichità, Negli Stati Uniti erano state pubblicate anche utili rassegne bibliografiche, in particolare A Belle Arti e Storia del Comune di Genova e responsabile della rinascita delle istituzioni Bibliography 1960. museali della città. 29 Sul lavoro di Bruno Ravasi per il museo di Pavia si veda Peroni 1981, pp. 23-34. 16 La finalità pedagogica e sociale del museo, ignorata durante il ventennio, diventa un tema d’obbligo nella letteratura museografica italiana del dopoguerra. Ricordiamo, tra 30 Prima del congresso internazionale di museografia del 1934, a Madrid, che registrava la molti altri, gli interventi di G. C. Argan su “Museum” (Argan 1950, pp. 286-288; Argan profonda trasformazione in atto nei musei europei e l’impegno crescente degli architetti in 1952, pp. 160-164); e al convegno di museologia tenuto a Perugia il 18-20 marzo 1955 (in questo specifico campo, un documento di grande interesse per conoscere l’atteggiamento occasione del quale si costituì l’Associazione Nazionale dei Musei Italiani, cfr. lo statuto della cultura europea nei confronti della crisi degli istituti museali – che era prima di tutto negli atti), le relazioni di Venturi 1955, pp. 31-36, di Dorfles 1955, pp. 82-87 e, molto crisi di encombrement, entassement, étouffement – è l’inchiesta internazionale Musées 1930. importante perché resoconto di esperienze pionieristiche avviate nella Pinacoteca di Brera Segnaliamo in particolare i contributi Architecture d’abord 1930, pp. 94-109 e Focillon 1930, fin dalla riapertura al pubblico, nel 1950, il rapporto di Wittgens 1955, pp. 57-62. pp. 227-234. 17 La misura della metamorfosi dei musei italiani realizzata in poco più di un decennio 31 Caterina Marcenaro (1906-1976) era stata allieva a Roma di Pietro Toesca, con cui aveva è avvertibile sfogliando il già citato rapporto Musei e Gallerie 1953, che riporta tra le discusso la tesi di perfezionamento sul Viaggio in Italia di Van Dyck (1936) e, dopo avere illustrazioni anche molte immagini delle distruzioni belliche; soltanto un confronto con insegnato storia dell’arte alla facoltà di Magistero di Genova, dal 1950 ricoprì la carica di lo stato delle collezioni e degli allestimenti fino al 1939 permette tuttavia di valutare i direttore dell’Ufficio di Antichità, Belle Arti e Storia del Comune di Genova. I suoi interessi modi e il peso della riforma degli anni ’50. Una breve ma efficace rassegna visiva, sia di ricerca vertevano soprattutto sull’arte genovese, dalla statuaria gotica alla pittura tra Luca pure tagliata su un arco cronologico più ampio, si trova nel volume del Touring Club I Cambiaso e Magnasco (desidero ringraziare la dottoressa Tagliaferro per la collaborazione musei 1980; in particolare Ferretti 1980, pp. 46-79. Di grande utilità, ovviamente, anche la e le notizie che mi ha cortesemente fornito). consultazione di archivi fotografici come quello Alinari. 32 Costantino Baroni (1905-1956), libero docente in storia dell’arte medievale e modema e 18 Per una storia economica degli anni della ricostruzone nazionale e del “miracolo” si in storia e stili dell’architettura dal 1941, assunse la carica di direttore delle Civiche Raccolte veda Castronovo 1975, pp. 251-437, con bibliografia e, inoltre, Salvati 1982. Inutile dire d’Arte del Comune di Milano subito dopo la Liberazione. Si considerava un autodidatta: che parlando di “musei della ricostruzione” non intendiamo riferirci stricto sensu alle cfr. Baroni 1957, pp. 29-34. Importanti le sue ricerche documentarie e i suoi contributi critici vicende del breve periodo postbellico coincidente con un particolare ciclo economico, ma sull’arte lombarda, dalle arti applicate alla scultura gotica, dall’architettura tra Rinascimento

40 41 e Barocco alla pittura del Seicento. Non vanno dimenticate inoltre le grandi mostre che aucun compte du goût et des intentions du donateur, transformer l’ancienne collection organizzò per l’Ente Manifestazioni Milanesi con la consulenza scientifica di Roberto privée en un musée public nécessairement incomplet et sans unité réelle? Là encore on opta Longhi, in particolare quella di “Caravaggio” (1951) e dei “Pittori della realtà” (1952). pour une solution de compromis: on reconstruisit une demeure seigneuriale plutôt qu’un musée, mais en s’efforçant de ne pas trop encombrer les salles, d’améliorer la présentation 33 Licisco Magagnato, allievo di Giuseppe Fiocco e Sergio Bettini, ma anche di Luigi et de grouper les objets de façon rationnelle” (Argan 1952, p. 162). Il ripristino del museo Stefanini e Concetto Marchesi all’Universita di Padova, dopo aver diretto per alcuni anni il fu affidato all’architetto F. Reggiori. Museo di Bassano, divenne direttore dei Musei veronesi dal 1° ottobre 1955. 44 Nel dattiloscritto di Vittorio Viale sull’attività di Baroni (cfr. nota 39, p. 2), si può 34 Tra le voci più significative ricordiamo quella di Ernesto Rogers dalle colonne di leggere in proposito: “Esemplare è certamente la sistemazione che nel 1949 egli diede negli “Casabella-Continuità” (si vedano in particolare gli editoriali Rogers 1954, pp. 1-3; ambienti della Villa Reale alle raccolte ottocentesche della Galleria d’Arte Moderna, fra le Rogers 1955a, pp. 3-6; Rogers 1955b, pp. 45-52, con interventi tra gli altri di F. Albini, C. quali operò una scelta oculata per gusto, e ammirevole per coraggio, quale altro direttore Aymonino, P. Bottoni, G. Canella, G. De Carlo, C. Melograni); gli interventi di B. Zevi, o da mai avrebbe osato di fare. E si deve, io penso, a Baroni l’idea di costruire in un recesso lui sollecitati, a sostegno del linguaggio modemo dell’architettura sulla rivista “Architettura. della Villa il Padiglione così modernamente e razionalmente progettato dall’architetto Cronache e storia” (dal 1955); l’azione di R. Pane (Pane 1956) e le denunce di A. Cederna Gardella per l’esposizione di opere d’arte contemporanea che così rimangono staccate, ma (Cederna 1956). Ma già prima, si consultino gli atti dei convegni dell’Istituto Nazionale di non divise dalle raccolte ottocentesche: applicazione di un ottimo criterio museografico, Urbanistica (I problemi urbanistici 1949), quelli di “Italia Nostra” (in particolare, Firenze e lodevole esempio di rispetto ad un monumento e ad un giardino antichi, per nulla lesi 1957, cfr. “Bollettino di Italia Nostra” 1957), fino al convegno di Gubbio dell’ANCSA nella loro unità e nella loro pianta”. (Associazione Nazionale Centri Storici), Salvaguardia 1960, che segnava il superamento di una visione “monumentalistica” del problema, impostato per la prima volta nei suoi termini 45 Il progetto di C. Bassi e G. Boschetti per la Civica Galleria d’Arte Moderna di Torino, anche socio-politici. da costruire sull’area del vecchio edificio del Calderini distrutto da un bombardamento nel 1942, risultò vincitore nel concorso che era stato appositamente bandito nell’estate del 35 Cfr. Fossati 1972. Fossati ha affrontato la tematica relativa agli allestimenti museografici 1952, ma fu realizzato soltanto tra il 1954 e il 1959. Sul contenitore architettonico si veda del dopoguerra nel contesto della storia del design italiano, con particolare riferimento a F. Viale 1953. Albini, C. Scarpa, E. Rogers; ottima la documentazione fotografica, sia dei progetti che delle realizzazioni; ampia la bibliografia. 46 Cfr. Argan 1954, pp. 10-16; Ponti 1954, p. 15. Si veda inoltre il fascicolo Padiglione d’Arte 1978, pubblicato dalla Direzione delle Civiche Raccolte d’Arte in occasione della 36 Un’intelligente analisi della dialettica restauro-antirestauro, vista nella sua dimensione riapertura al pubblico. L’originalità della proposta di Gardella si può misurare in rapporto sia culturale che politica, è nel volume di La Monica 1974, con ampia antologia di testi (che alle più note realizzazioni museografiche del dopoguerra: Yale University Art Gallery a comprende anche la Carta di Venezia del 1964); utile anche la parte antologica, che si riferisce New Haven (Connecticut), di Louis J. Kahn (1953); Museo Kröller-Müller a Otterlo, di per il dopoguerra principalmente alle posizioni di Brandi, Brancacci, Bonelli, in Mazzei Henry van de Velde (1930-1954); Stedelijk Museum ad Amsterdam, progetto dell’Ufficio 1980. Può essere molto interessante confrontare gli atti del I Congrès 1957, con quelli del Tecnico Comunale (1954); Kunsthalle a Darmstadt, di Theo Pabst (1956); Kunsthaus a secondo, tenuto a Venezia nel 1964 (II Congrès 1964), per misurare il progressivo processo Zurigo, di H. e K. Pfister (1955-1958); Cullinan Hall, Museum of Fine Arts a Houston di normalizzazione e codificazione delle metodologie (a Parigi, P. Gazzola presentava un (Texas), di L. Mies van der Rohe (1958); Louisiana Museum a Humlebaek (Danimarca), rapporto sul restauro dei ponti storici in Italia, tra cui quello per anastilosi di Castelvecchio, di J. Bo e V. Wohlert (1958); The Solomon R. Guggenheim Museum a New York, di cfr. Gazzola 1957). Frank Lloyd Wright (1956-1959); The National Museum of Western Art a Tokyo, di 37 Sulla figura di Fernanda Wittgens (1903-1957), sul suo ruolo nella ripresa culturale del Le Corbusier (1959); Musée Maison de la Culture a Le Havre, di G. Lagneau (1961); il dopoguerra a Milano, non è possibile consultare che il testo della commemorazione ufficiale Museum fur die Kunst des XX Jahrunderts a Vienna, di K. Schwanzer (1958-1962); la tenuta da Francesco Flora al l’11 gennaio 1958, cfr. Flora 1958. Un breve Neue Nationalgalerie a Berlino, di L. Mies van der Rohe (1966; il “Progetto per il museo profilo biografico, con brani delle lettere dal carcere fascista, in Ragghianti 1958b, pp. 2-3. di una piccola città”, di Mies, risaliva al 1942). Inutile sottolineare che si trattava per lo più 38 Wittgens 1950, pp. 359-364; ma si veda anche Wittgens 1957. L’ordinamento della di istituti per la conservazione-promozione dell’arte contemporanea. pinacoteca “per scuole” non fu sensibilmente modificato. 47 Dal dattiloscritto di Vittorio Viale (cfr. nota 39, p. 2). 39 Su Costantino Baroni, soprattutto sulla sua attività museografica ed espositiva – mentre 48 Il tema era stato impostato fin dal 1934 nei suoi termini generali al Congresso di quella scientifica attende ancora uno studio critico che possa valutare e valorizzare anche museografia di Madrid (cfr. Paribeni 1935, vol. I, pp. 180-197). Significativo il caustico i numerosi inediti, il corpus imponente delle ricerche interrotte – la lettura più intelligente scetticismo di Baroni: “Non è il caso di nascondere che, trattandosi ancora una volta di e meno di circostanza rimane quella di Vittorio Viale, cfr. dattiloscritto (alla Biblioteca del reperire il difficile e, si direbbe, improbabile (suggestivo però negli esiti positivi) rapporto Castello Sforzesco) della commemorazione tenuta a un anno dalla scomparsa, nel 1957. tra il monumento antico e la visualizzazione singola di opere riunite in un tracciato 40 Baroni 1956a, p. 170. museografico di necessità convenzionale, la soluzione...” (Baroni 1956b, p. 144). 49 41 Lo stesso gusto caratterizzava il ripristino del Museo di Capodimonte, a Napoli, Cfr. Musei e Gallerie 1953, pp. 19-23, con illustrazioni; inoltre la scheda relativa in Aloi realizzato dal direttore B. Molajoli con l’apporto tecnico dell’architetto E. B. De Felice; 1962, pp. 221-228. La citazione è tratta da Magagnato 1957, pp. 70-72. per l’impostazione di B. Molajoli si veda tra l’altro Musei antichi 1958. 50 Cfr. Musei e Gallerie 1953, pp. 19-23, con illustrazioni; inoltre Moretti s.d. 42 Wittgens 1950, pp. 359-364, dove si spiega l’alternanza di marmi modemi e antichi, 51 I primi restauri sono documentati in Musei e Gallerie 1953, pp. 49-52. Una breve storia recuperati all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Ben diverso lo stile della Galleria della del palazzo in Botto,Tagliaferro 1977; un’ampia ricostruzione delle vicende dell’edificio, Pittura veneta e lombarda, realizzata da F. Albini con L. Castiglioni nel 1949. con fonti bibliografiche e documentarie, in Poleggi 1968. 43 Un’analisi di quelle scelte in Mottola Molfino 1982, pp. 13-61. G.C. Argan, dopo 52 Su Franco Albini (1905-1977) si veda Franco Albini. Architettura e design 1979; inoltre aver osservato che “tout les musées italiens ont une histoire et celle-ci se manifeste dans Franco Albini. Architetture per un museo 1980 (disegni e progetti per il Tesoro di San la façon dont les collections ont été formées et enrichies; la structure d’une collection Lorenzo a Genova), entrambi con bibliografia. Per la sua concezione museografica, ancienne constitue un témoignage important pour l’histoire du goût”, così commentava: Albini 1958, pp. 25-31. “Au Musée Poldi-Pezzoli, le même conservateur [F. Wittgens] a dû résoudre un problème 53 Utili precisazioni tecniche sull’allestimento si possono trovare in Piva 1978. Per moins général mais plus compliqué. Le Musée Poldi-Pezzoli avait été constitué au siècle un’acuta lettura critica si veda Grimoldi 1979, pp. 78-79, di cui tuttavia non è condivisibile dernier par un collectionneur d’un goût très raffiné mais quelque peu influencé par le la contrapposizione tra scelte museologiche (arretrate) e soluzioni museografiche romantisme de son époque et grand amateur d’objets anciens. A côté des tableaux d’un (progressive). intérêt exceptionnel, ce musée renfermait des sculptures, des bronzes, des armes, des étoffes, des tapis, des meubles, des bibelots divers; l’ensemble donnait une impression 54 Cfr. Marcenaro 1950, p. 3; un resoconto molto analitico e appassionatamente polemico seigneuriale, mais quelque peu confuse et désordonnée. Le bâtiment ayant été entièrement dei criteri museologici seguiti nella riorganizzazione della Galleria è nell’ampio contributo détruit par les bombardements, on se trouva devant une alternative: fallait-il recréer di Marcenaro 1954, p. 257, da cui citiamo: “Toujours à des fins éducatives, on a établi l’ambiance primitive, avec l’anachronisme romantique du cabinet dantesque ou, sans tenir les plans en abandonnant le concept de palais pour s’en tenir rigoureusement à celui

42 43 de musée; en d’autres termes, l’œuvre d’art à été considérée non plus comme l’élément traccia storica di U. Corno 1956, pp. 150-162; ma per i travagliati primi anni di vita delle décoratif d’un ensemble, mais comme un monde en soi, suffisant pour provoquer le istituzioni culturali ospitate nel Castello consigliamo la lettura, densa di riferimenti alla dialogue avec le visiteur. Afin de ne pas troubler ce dialogue, et autant que les locaux situazione politica e culturale della città, di Beltrami 1912. préexistants le permettaient, on a rigoureusement évité dans l’aménagement des diverses 62 Belgioioso, Peressutti, Rogers 1956, pp. 188-195; inoltre, Il rinnovo 1956, pp. 50-70, salles tout embellissement revetant un caractère décoratif par la matière, la forme ou la con il saggio critico di Samonà 1956, pp. 51-53. Interessante il commento contemporaneo couleur” (p. 257). di Paci 1959, pp. 83-115; e successivamente di Bonfanti, Porta 1973. 55 Marcenaro 1950, p. 3. 63 Cfr. Baroni 1956a, p. 175: “Tale atto di fede nel museo come istituto pedagogicamente 56 Marcenaro 1950, p. 3. Anche Marcenaro 1954, pp. 252-253 : “Le fait même que de e socialmente più che giustificato, quando ne sia innovata ab imis la configurazione grands spécialistes posent en principe la nécessité de conserver telles quelles toutes trasferendolo dalla sfera operativa dell’automatismo burocratico a quella di una anciennes collections privées qui, devenues publiques, ont perdue leur ancienne fonction convinzione attivistica imperniata sul concetto crociano della attualità della storia, economique et decorative en entrant dans le domaine culturel, montre qu’il regne encore riscuote oggi il duplice avallo dell’eccezionale esito di popolarità delle maggiori quelque confusion en matière de muséologie. Le risque serait alors que le muséographe, mostre d’arte antica del dopoguerra, nelle quali un nuovo tipo di museo, più libero da qui a sa place dans le monde de la culture, ne fasse figure de gardien uniquement soucieux schemi rigidamente didattici, era abbozzato in ambienti moderni ignari della scomoda de la conservation physique des objets qui lui sont confiés; d’autre parte, le maintien du magniloquenza di sedi monumentali trascinate come pesante eredità di un passato morto, status quo ante dans les anciennes collections arriverait a s’opposer, en bien des points, à e dei più felici interventi di chirurgia museotecnica i quali hanno riabilitato di fronte cette science encore jeune qui est l’histoire de l’art”. all’opinione pubblica il museo vivo, dinamico, modernamente attrezzato, culminando, 57 particolarmente nell’ultimo decennio, in fatti clamorosi e talvolta anche allarmanti nel Marcenaro 1950, p. 3 e Marcenaro 1954, pp. 253 e 254: “En effet, le musée ne doit pas loro oltranzismo iconoclasta; giustificati comunque perlomeno come doverosa reazione être une exposition improvisée de reliques ou d’objets précieux, car cela reviendrait à en all’ignavia più o meno colpevole della cultura ufficiale, tanto quella universitaria quanto faire un chaos, à confondre la soif d’acquérir avec l’exercice du sens critique, l’information l’altra propriamente burocratica. Un ponte è stato in tal modo gettato tra il museo avec la connaissance et l’on manquerait ainsi a la fonction éducative essentielle du musée... accademico di ieri e il museo immaginario vagheggiato dalla poetica sensibilità di André Plus l’écart est grand, et plus nettement l’œuvre a pu être isolée de la génération qui l’a Malraux sul piano di quell’arte atemporale il cui diritto alla cittadinanza culturale è produite, plus notre réaction est immédiate et vive, plus la prise de contact est féconde. En reperito, al di fuori di ogni distinzione spazio-temporale, nelle motivazioni medesime un certain sens, le passé ne peut revivre que parce que nous nous méprenons à son sujet. del furor poeticus, nella necessitata corrispondenza di emozione intuitiva e di verbale C’est par son étrangeté ainsi que par son caractère fragmentaire que le passé peut enrichir estrinsecazione. E su questo ponte il pubblico transita sempre più compiaciuto, oggi che le présent d’allusions, de suggestions, de significations certainement étrangères a l’époque”. l’Italia sta rapidamente recuperando in questo campo il tempo perduto, uscendo anzi 58 Traduzione da Marcenaro 1954, p. 254. dal confronto con l’estero tutt’altro che umiliata”. Era una riforma “oltranzista” dalla quale prendeva invece le distanze il museografo G. Bazin (primo docente di museografia 59 Clark 1954, p. 83. all’école du Louvre, dal 1941), che sembra avvertisse il ritardo culturale sia degli architetti 60 Marcenaro 1954: “Cette solution a soulevé quelques critiques, certains déplorant cette sia dei colleghi storici dell’arte italiani: “Le ‘fonctionnalisme muséologique’ lui même, association du nouveau et de l’ancien. Une telle critique ne me semble cependant pas entrevu vers 1930 comme la phase définitive et la plus respectueuse de l’autonomie de fondée; tout problème culturel - et l’on ne saurait nier que la muséographie en soit un - l’objet, est en passe de devenir démodé, sauf en Italie où on l’éprouve avec une passion doit se résoudre en termes non d’ancien ou de nouveau, mais de vrai ou de faux. L’objet qui s’explique par le désir de se débarrasser d’un académisme étouffant... l’académisme de la culture est de chercher la vérité, quand bien même on serait loin d’être certain de fasciste” (Bazin 1954, pp. 93-96). la découvrir”. La distinzione tra “falso” e “vero”, portata fino alle estreme conseguenze 64 Baroni 1956a, p. 168. nel restauro critico di Palazzo Rosso (i lavori, iniziati nel 1953, si protrassero fino al 65 1960), avrebbe condotto la Marcenaro a rimuovere senza esitazioni tracce significative Ibidem, pp. 168, 170 e 173, passim. della storia del monumento (come i cospicui interventi neoclassici di Gaetano Cantoni), 66 Ibidem, p. 175. bollandole di “manomissioni” e “violazioni architettoniche del palazzo”. Vero e proprio 67 lbidem, pp. 181-182. manifesto programmatico di una teoria del restauro e una filosofia dell’arte che oggi sentiamo lontani dalla nostra cultura, ma di cui non possiamo non riconoscere la storicità 68 Belgioioso, Peressutti, Rogers 1956, pp. 188-189. e l’assoluta coerenza in rapporto all’identica matrice neo-idealistica crociana, è il saggio di 69 Rogers 1968. Marcenaro 1961, pubblicato su “Paragone”, una rivista “insospettabile” - e anche questo 70 è importante per capire le ragioni di un momento culturale. Ne riportiamo alcuni passi Belgioioso, Peressutti, Rogers 1956, pp. 189-190. emblematici: “Certo le ferree clausole della donazione [di Maria Brignole Sale al Comune 71 Ibidem, p. 189. La matrice romantica di una simile impostazione, che individuava di Genova, nel 1874], pur comprensibili negli anni della loro espressione, irrigidivano il nel museo non uno strumento conoscitivo, non il luogo della consapevolezza storico- monumento e le sue raccolte in un immobilismo che, se documentava parzialmente il culturale di una collettività, ma piuttosto un medium capace di trasmettere alle masse gusto e il costume di una stirpe al tramonto, falsava la conoscenza della sua splendida emozioni estetiche non certo di primo grado, e che proprio in tal senso prefigurava la crescita, codificando la corruzione dei documenti d’arte in cui si riflette... La serie degli funzione che alle arti visive sarebbe ben presto stata assegnata da una strumentalizzazione sconci era consumata e uno dei documenti felici dell’estremo barocco genovese all’alba sempre più spregiudicata della politica espositiva, non può naturalmente far dimenticare del 1910 era ridotto a un testo confuso e illeggibile. Quando nel 1950 il problema della l’engagement di Rogers: “Siamo consapevoli che lavoriamo per una società e che la riparazione del palazzo divenne impellente, la soluzione si presentava duplice: o riparare il vogliamo democratica” (riportato in Paci 1959, p. 102). monumento alla luce della sua configurazione prebellica confermando gli sconci interventi 72 citati, o restaurarlo liberandolo dalle sovrapposizioni e dagli inserimenti disformi dalla Sulla estenuante ricerca di una soluzione museografica adeguata al “clima poetico assolutamente incomparabile” della Pietà, che dopo l’acquisto nel 1952 era stata collocata sua virtualità originaria. Il Consiglio Comunale di Genova deliberò il restauro, che fu provvisoriamente nella Cappella Ducale, si legga l’emozionante resoconto di Baroni amministrativamente iniziato, pur con tutte le cautele tecniche e legali, in un’atmosfera di 1956a, pp. 184-185. Come è noto, i lavori di ristrutturazione della sala degli Scarlioni ostilità incredibile, nel 1953. I lavori condotti dal direttore delle Belle Arti del Comune furono terminati solo a due anni dalla scomparsa di Baroni. Un imponente dossier con l’architetto Franco Albini, sono stati informati alle citate planimetrie del 1677... Le conservato nel Gabinetto fotografco del Castello Sforzesco documenta tappa per tappa strutture originarie del corpo nobile sono state reperite tutte, nessuna esclusa, sotto il il “metodo degli esperimenti successivi” o del “fare e disfare” che fu seguito utilizzando velame degli interventi citati... Nessun arbitrio è stato commesso, tranne che in misura un simulacro in gesso della scultura (opera del bravissimo formatore dell’Accademia di minima e sempre per inderogabili esigenze museografiche” (pp. 35-36). Brera, “Garibuldin”), montato su un carrello mobile. Ringrazio Leo Di Marzo per le 61 In due saggi, Baroni 1956b, pp. 139-146, e Baroni 1956a, pp. 168-186, pubblicati in informazioni che ha voluto gentilmente darmi sul filo dei suoi ricordi di testimone dei fascicolo poche settimane dopo la scomparsa del direttore e in occasione della riapertura lavori oltre che di responsabile della documentazione fotografica, così vasta e analitica da del museo, nel marzo 1956; inoltre, in un suo articolo (Baroni 1956c) pubblicato postumo consentire una ricostruzione puntuale dell’intero intervento di recupero (così lo definiva sul “Popolo di Milano”, di cui era collaboratore. Nello stesso fascicolo del 1956, utile la Baroni) del Castello Sforzesco.

44 45 73 Baroni 1956a, p. 184. La coraggiosa politica di acquisti e integrazioni qualitativamente avanguardie storiche sul modo di guardare alle opere d’arte antica. molto alti delle collezioni civiche - d’arte antica non meno che di arte contemporaneana -, 76 è appena il caso di ricordare il valore di rottura e la diffusione di opere come Zevi 1945 perseguita da Baroni come “strategia degli interventi di colmatura delle lacune più o Zevi 1950; per non dire di Zevi 1948, vero e proprio breviario del ceto medio italiano gravi”, costituisce certo uno tra i suoi maggiori meriti, ma insieme conferma sia la piena colto in tema di lettura del linguaggio architettonico per almeno due decenni; importante autonomia delle sue decisioni, sia le contraddizioni irrisolte del suo progetto museografico per il clima culturale di allora anche Argan 1951. complessivo. Da un lato infatti - e mi riferisco in particolare al Museo d’Arte Antica - 77 l’obiettivo di una ricomposizione dell’ordito e della trama dell’arte lombarda, in tutte Cfr. Giedion 1954. le sue componenti spazio-temporali, come dire territoriali e storiche, e insieme in tutti i 78 Cfr. Arnheim 1961. livelli di produzione, fino alle varie forme di arte applicata, sembra gli fosse ben presente. 79 Basti pensare alla proposta esemplare di ricostruzione, in un preciso spazio fisico del Marangoni 1942 - “il classico manuale per imparare a leggere un’opera d’arte” secondo Museo, della Cappella del Tribunale di Provvisione, con tutte le tele seicentesche che la lo slogan della pubblicità editoriale -, scritto nel 1933, fu ripubblicato dall’editore Garzanti ornavano ricollocate in un sistema di reciproci rapporti filologicamente verificati: una nel 1947 e conobbe ancora una diffusione grandissima nel secondo dopoguerra. Citiamo soluzione espositiva (documentata fotograficamente in tutte le sue fasi di ipotesi, progetto, dall’introduzione, aggiunta appunto nel 1947 : “Ma il bello dell’arte non è - come tutti approssimazione, prova e controprova) che ne anticipava altre ben note, realizzate ormai sanno in teoria, ma non sempre all’atto pratico - il bello della natura, ma consiste alcuni anni più tardi da Cesare Gnudi e Andrea Emiliani alla Pinacoteca Nazionale di invece in una così alta trascendenza lirica che soltanto può apprezzare chi sia preparato a Bologna e subito assunte a modello sul piano del metodo, come la sala degli affreschi intendere il linguaggio che ogni artista si foggia per potersi esprimere, ossia la forma” (18a vitaleschi dalla chiesa di Santa Apollonia a Mezzaratta. Ma proprio la specificità locale edizione nel 1956). delle collezioni del Castello Sforzesco sembrava d’altra parte provocare l’insofferenza 80 Basterà ricordare uno degli assiomi dell’estetica di Benedetto Croce: “La vera di Baroni, quasi per un vincolo imposto alla sua esigenza di qualità. In questo senso è interpretazione storica e la vera critica estetica coincidono” (Croce 1910, p. 42). Sulla significativo, almeno quanto il dépaysement della Pietà Rondanini apparentemente del questione del giudizio artistico si rilegga la classica introduzione di Venturi del 1936 tutto inavvertito nell’appassionato orgoglio civico del momento dell’acquisto, il desiderio (edizione consultata Venturi 1964, pp. 19-46). S’intende che all’interno della storiografia di inserire il nobile Crocifisso ligneo tosco-laziale della fine del XII secolo “nell’esiguità artistica italiana del secondo dopoguerra si possono e si devono fare molti distinguo; la del tracciato didattico a cui era affidata poco più che la sporadica eco di una tradizione prospettiva storica ci permette però di cogliere sempre più nitidamente i tratti crociani e plastica già illustre come quella della scultura romanica”. E questo nell’illusione di purovisibilisti che costituivano il retroterra teorico comune, più o meno consapevolmente “ristabilire l’equilibrio dei valori”, poiché altrimenti “il pubblico più ignaro rischiava di accettato, contestato o semplicemente rimosso. Sul pensiero estetico di Croce si vedano essere fuorviato nel suo giudizio dalla preponderanza numerica, oltrecché di mole, di quei i saggi: D’Angelo 1982 e Boncompagni 1982. Sulla Pura Visibilità, La critica d’arte 1977 marmi di scuola campionese per mezzo dei quali esordisce, arrochita di provincialità, la (pubblicata però fin dal 1949 nelle edizioni fiorentine L’Arco). nuova temperie gotica lombarda” (ibidem, p. 192). 81 Bruno Zevi (1958), citato da Brawne 1965, p. 30. 74 La definizione è ancora una volta di Costantino Baroni (ibidem, p. 184) e richiama alla 82 memoria altri indizi sulle preferenze estetiche e il gusto di quegli anni. Per esempio, lo Il tema della flessibilità delle strutture museografiche era discusso, tra l’altro, nell’articolo stile di presentazione di Guernica, in occasione della prima mostra in Italia di opere di di Argan 1955, pp. 64-67 Picasso, organizzata nel 1953 a Roma da Lionello Venturi e nel 1954 a Milano da Franco 83 Oltre alle precisazioni di Caterina Marcenaro in proposito (Marcenaro 1954) è Russoli. Il consenso di Picasso per la concessione di Guernica alla replica milanese si veramente istruttiva la lettura del contributo dell’ingegnere E. Ghiringhelli, direttore potè ottenere soltanto quando Attilio Rossi (che ringrazio per la testimonianza) vinse dell’Ufficio Tecnico del Comune di Milano (Ghiringhelli 1956, pp. 196-200). Con la nuda le resistenze dell’artista prospettandogli la possibilità che l’opera venisse esposta, sola, evidenza delle cifre - che consentono, tra l’altro, di valutare l’enorme sforzo economico nel grande spazio del salone delle Cariatidi in Palazzo Reale, che recava ancora i tragici compiuto - vi si parla di “ben n. 4000 spinotti speciali in ferro, murati per poter permettere segni del bombardamento e dell’incendio del 1943. Un’ambientazione consonante e di una facile collocazione delle mensole per le attuali e future esigenze in caso di spostamenti profonda suggestione, tanto più che la sala venne riaperta per la prima volta dopo la o collocamento di nuovi pezzi”. guerra proprio in occasione della mostra. Ma pochi sanno che, riparato il soffitto in parte 84 crollato (già affrescato da Hayez), si dovettero fermare di furia i decoratori che avevano Un’analisi storica e visiva del rapporto musei-esposizioni in Italia dal secondo iniziato il ripristino del partito ornamentale, per non guastare l’“effetto” di devastazione. dopoguerra è nel contributo di Ferretti 1980. Ma le ragioni dell’insuccesso del programma 75 museografico di allora - e sono le stesse ragioni che provocheranno la crisi di identità e il Un’accurata descrizione del congegno è in Piva 1978, p. 36, con illustrazioni. “processo per il museo” negli anni ’70 - erano in realtà intrinseche all’istituzione, in quanto Abbastanza stranamente, Caterina Marcenaro non analizza nel suo saggio sul riordino parte del sistema di trasmissione culturale di una società e quindi, benché teoricamente di Palazzo Bianco le potenzialità visive della sofisticata tecnologia del supporto, ma “aperta a tutti”, luogo di selezione sociale, strumento di legittimazione di privilegi culturali giustifica la soluzione con un argomento filologico: “Cette solution a suscité bien des di classe: in questo senso non hanno perduto di valore e credibilità i risultati della ben nota commentaires qui n’ont pas tous été favorables. Outres que ni les sources ni les documents inchiesta sul pubblico dei musei europei (cfr. Bourdieu, Darbel 1972). è comunque fuori ne contiennent d’indications qui auraient permis de presenter cette pièce dans son cadre di dubbio - e nell’indagine di Bourdieu e Darbel non se ne è tenuto abbastanza conto - che primitif, son caractère fragmentaire laissait une entière liberté a cet égard. D’autre part, en proprio la nuova forma del museo che si era venuta definendo negli anni ’30 in Europa, raison de sa valeur, il fallait en faciliter le plus possible l’examen; aussi a-t-on cherché à e negli anni ’50 in Italia, aveva reso più ardue le condizioni di fruizione dell’opera d’arte isoler cette œuvre et à la placer sur un support mobile. Le fait qu’une telle mobilité ait été per un pubblico impreparato e già potenzialmente escluso dall’esperienza estetica. Questa obtenue à l’aide d’une articulation télescopique d’acier électriquement commandée ne doit costituisce anzi un’altra delle contraddizioni di fondo su cui riflettere: il progetto di un pas être interprété comme un manque de respect envers Giovanni Pisano, mais comme museo finalmente democratico, capace di svolgere la propria funzione sociale attraverso la preuve d’une attitude humble et probe devant l’œuvre d’art. Si cette pièce avait été un’efficace educazione visiva (ma non storica) - questa ideologia progressiva era comune placée sur quelque socle ou au creux d’une niche de marbre, cette présentation, d’ailleurs alle proposte sia straniere che italiane, pur con lo scarto cronologico di vent’anni - si arbitraire et posant l’épineuse question du vrai et du faux, aurait écrasé le fragment, ne fondava sui principi di un’estetica e di una storiografia purovisibiliste (si pensi al peso fût-ce qu’en raison des dimensions relatives, créé une confusion dans l’esprit du public et di Focillon e della sua Vie des formes 1934, per la riforma museografica degli anni ’30), troublé l’atmosphère de pureté et de silence qui me parait indispensable dès qu’un visiteur, con declinazioni neo-idealistiche nel nostro paese, che di fatto negavano la possibilità surtout non averti, se trouve en face d’un chef-d’œuvre” (Marcenaro 1954, pp. 257-258). di qualsiasi mediazione tra arte e fruitore, di qualsiasi connessione tra opera e contesto Il rifiuto critico di quella soluzione muove oggi dalla consapevolezza che si tradivano così storico-territoriale, assegnando all’architettura del museo il compito di creare le condizioni le condizioni originarie di visione (l’unicità e fissità del punto di vista, l’illuminazione per un dialogo diretto e silenzioso, per un’esperienza ineffabile. Antitetico l’approccio del costante o variabile secondo il ritmo diurno delle ore, delle stagioni ecc): ma è chiaro che convegno di Montecatini (27-30 marzo 1980) Mediamuseo. I Rassegna internazionale dei la concezione museografica che si esprimeva negli allestimenti di Albini, come in altri di media museali, a cura di G. Celant, all’insegna del trionfo di un’anodina pratica e teoria punta negli anni ’50 in Italia, non diversamente che, negli anni ’30, nei musei riformati di delle comunicazioni. altri paesi, assumeva proprio la decontestualizzazione e frammentarietà dell’opera d’arte come stimolo e ragione (alibi?) per la struttura globalmente straniante del museo. Non 85 Per cui si veda: Romanelli 1976. Inoltre Massa 1980, pp. 11-19. Scarpa fu responsabile era d’altra parte estranea a quella prassi una sorta di proiezione di certe proposte delle di allestimenti alle seguenti Biennali: XXIV-1948; XXV-1950; XXVI-1952; XXVII-1954

46 47 e XXVIII-1956 (Padiglione del Venezuela); XXIX-1958; XXX-1960; XXXI-1962; 95 Infatti le eminenti famiglie veronesi e vari enti, tra cui molte banche cittadine, avevano XXXII-1964; XXXIII-1966; XXXIV-1968; XXXVI-1972. contribuito generosamente alla trasformazione di Castelvecchio in museo, nel 1924-1926, 86 Tra le mostre di cui curò gli allestimenti, ricordiamo in particolare quelle di Arturo con finanziamenti e anche donazioni di arredi (non sempre autentici): lo testimoniavano i Martini (Venezia, XXIII Biennale, 1942); Paul Klee (Venezia, XXIV Biennale, 1948); cartigli e le epigrafi “in stile” inseriti nella decorazione di ciascuna sala. Toulouse-Lautrec (Venezia, 1952); Piet Mondrian (Roma, 1956); Alberto Viani (Venezia, 96 Nel contributo Marinelli 1982, sono ben documentati i caratteri del “falso storico” XXIX Biennale, 1958); Frank Lloyd Wright (Milano, XII Triennale, 1960); Erik creato con il restauro e l’allestimento di Castelvecchio nel 1924-1926, “falso storico” che Mendelsohn (Venezia, XXX Biennale, 1960); Giorgio Morandi e Lucio Fontana (Venezia, era del resto perfettamente rispondente ai criteri architettonici e urbanistici con cui, nel XXXIII Biennale, 1966); Arturo Martini (Treviso, 1967). corso del ventennio, sarebbe stata costruita la nuova immagine dell’intera città. Su questo 87 Cfr. la recensione di Magagnato 1960, pp. 85-88 alla mostra allestita da Carlo Scarpa tema si veda: Verona 1900-1960 1979. Il modello espositivo cui si ispirò Avena sembra nel Palazzo della Gran Guardia, a Verona. Scarpa aveva lavorato a Murano, nella fornace essere stato quello di Palazzo Davanzati a Firenze, restaurato e arredato per l’iniziativa Venini, tra il 1935 e il 1940. Una funzione di grande rilievo avrebbe riservato ai vetri privata di uno dei più celebri antiquari di inizio secolo, Elia Volpi, in collaborazione con di Murano anche nell’allestimento della mostra “Il senso del colore e il dominio delle il pittore Silvio Zanoli. Citato come caso esemplare di “ambientalismo storicizzante” con acque”, Padiglione del Veneto all’esposizione torinese “Italia 1961”. finalità collezionistico-commerciali da Ferretti 1980. 97 88 Un regesto illustrato (ma non del tutto completo) delle opere di Scarpa è in Carlo Sottolineava significativamente questo aspetto, recensendo la mostra, Ragghianti 1958a, Scarpa: Frammenti 1981 e precedentemente in “Controspazio” 1972, con l’ottimo pp. 56-61; e il rammarico di Cesare Brandi davanti all’affresco del San Giorgio di Pisanello, saggio di Brusatin 1972, pp. 2-28. Una buona documentazione fotografica, anche degli che dalla chiesa di Sant’Anastasia venne esposto nella Reggia per la mostra del 1958: “... allestimenti espositivi dei primi anni, correda i contributi di Mazzariol 1955, pp. 340-369 non vedremo mai più questi corvi!”, rivela la “sete di visione”, proprio nell’accezione di e di Bettini 1960, pp. 140-187. Burckhardt e Wölfflin, che la nuova metodologia espositiva appagava, con le sue distanze ravvicinate, il “testo” abbassato al livello dello sguardo, l’intensità di luce ecc., sia pure a 89 Cfr. Moschini 1948, pp. 85-90; Moschini 1957, pp. 74-82; Moschini 1960, pp. 353-362. costo di tradire le condizioni originarie di lettura delle opere (non nel caso dell’affresco Sulla figura di Vittorio Moschini (1896-1976), allievo di Adolfo Venturi e “ammiratore di di Pisanello, comunque, che si poteva guardare inizialmente, sembra, da una passerella in Benedetto Croce”, si veda il profilo tracciato da Valcanover 1976, pp. 283-285. Nel primo legno). Sono grata a Licisco Magagnato per gran parte delle precisazioni e osservazioni, dei suoi resoconti, Moschini ricordava: “Durante la guerra progettammo con l’architetto anche su questo punto. Carlo Scarpa il nuovo grande edificio occorrente per ampliare le Gallerie nonché la 98 sistemazione delle sale vecchie e nuove, pur senza insistere nei particolari perché troppo La tesi del restauro critico (che “distingue nettamente tra antico e moderno”), anzi del sentivamo quanto tutto ciò fosse irreale. Naturalmente ci siamo poi guardati bene dal restauro creativo contrapposto polemicamente al restauro filologico, era espressa con riprendere quel progetto per realizzarlo a tutti i costi senza tener conto della situazione molta coerenza da Licisco Magagnato, nelle premesse teoriche ancora una volta crociane generale e rimandando a tempo indeterminato la riapertura delle Gallerie al pubblico, e nei riferimenti alla impostazione concettuale di Renato Bonelli (cfr. Bonelli 1960): si che ha ben diritto di rivedere i suoi quadri comunque disposti. Tuttavia non per questo si veda in particolare Magagnato 1959, pp. 60-66; Magagnato 1962b, pp. 44-50; Magagnato pensò a rimettere tutto a posto com’era” (Moschini 1948, pp. 86-87). Desidero ringraziare 1964. La correttezza metodologica con cui i vari interventi di restauro furono condotti a per le cortesi precisazioni Sandra Moschini Marconi. Castelvecchio è del resto testimoniata sia dal recupero di elementi architettonici occultati come la romanica porta del Morbio, sia dall’individuazione dei pochi lacerti di decorazione 90 Fu a Palermo nel 1954, in occasione di un primo incontro dei direttori dei musei italiani, cui a fresco originaria, là dove esistevano, sia dalla rimessa in valore delle opere — significative avrebbe fatto seguito l’anno successivo, a Perugia, il convegno istitutivo dell’Associazione non soltanto sul piano qualitativo — selezionate per il museo, sia dalla riqualificazione Nazionale dei Musei, che Licisco Magagnato ebbe modo di conoscere e apprezzare architettonica dello stesso corpo di fabbrica napoleonico, che era stato privato della l’intervento museografico di Scarpa; da quell’esperienza sarebbe maturata la decisione, nel propria identità storica con le demolizioni-integrazioni del 1924-1926. Insomma, nessun 1956, di affidargli il restauro di Castelvecchio. Com’è noto, era stato Giovanni Carandente Viaggio di Attila verso le origini a Castelvecchio (cfr. “Bollettino di Italia Nostra” 1971, ad offrire a Scarpa l’opportunità di lavorare in Sicilia, incaricandolo dell’allestimento della 79), ma insieme nessuna concessione al “pittoresco romantico della scenografia fortilizia” mostra di Antonello a Messina, nel 1953; a Palermo, dove Palazzo Abatellis dopo i gravi (E. Rogers), a differenza che al Castello Sforzesco di Milano. Le varie fasi e il metodo danni provocati dalla guerra era già stato restaurato dal soprintendente ai Monumenti, seguito nel corso dei lavori di restauro sono del resto documentati capillarmente dai A. Dillon, Scarpa fu chiamato da Giorgio Vigni, soprintendente alle Gallerie della Sicilia. materiali fotografici e grafici conservati nell’archivio del museo. 91 Cfr. Bucarelli 1957, pp. 786-789, con buon corredo illustrativo. Nel catalogo della 99 Una prospettiva critica importante per chiarire questi aspetti del lavoro di Scarpa rimane mostra (Piet Mondrian 1956), introdotto da P. Oud, manca invece qualsiasi riferimento quella di Bettini 1960, pp. 140-187, ispirata ai principi di un’estetica fenomenologica. all’autore dell’allestimento, che aveva ricevuto l’incarico grazie alla mediazione di Estremamente penetrante anche l’intervista realizzata per la televisione italiana da Maurizio Giovanni Carandente. Cascavilla nel 1972: Un’ora con Carlo Scarpa, nella serie programmata da Gastone Favero. 92 Cfr. Ampliamento della Gipsoteca 1958, pp. 8-14. 100 Per un confronto della concezione di museo in Proust e in Valéry, rimando al saggio 93 Cfr. Da Altichiero 1958. Il taglio cronologico della mostra, focalizzata sull’arte del ricco di stimoli di Adorno 1972, pp. 175-188. Trecento e Quattrocento veronese, certamente influì sull’ordinamento definitivo del 101 Nel significato antropologico che Andrea Emiliani ha chiarito in vari saggi e attraverso museo, dove l’arte barocca è presente soltanto con un gruppo molto selezionato di il suo concreto lavoro, in particolare nell’impostazione scientifica e operativa delle ricerche dipinti, nelle ultime sale. Ma se è vero che nell’impostazione dei musei italiani degli condotte dall’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali dell’Emilia Romagna (cfr. anni ’50 (si pensi per esempio a quelli già ricordati di Pisa, 1949, e L’Aquila, 1951, di nuova Emiliani 1974c). Si veda in particolare anche Emiliani 1974b. istituzione), il baricentro delle collezioni cadeva spesso tra Gotico e Rinascimento, è 102 anche vero che nelle raccolte del museo veronese questo squilibrio già esisteva. Sarebbe Cfr. Brusatin 1972, p. 20. Ma si guardi anche Architettura nei monti 1982. Sul rapporto comunque auspicabile, visto che ragioni economiche non consentirono di realizzarli a tra museo e territorio urbano, alcune puntuali osservazioni in Gavazza, Magnani 1982, suo tempo, che si provvedesse per il museo di Castelvecchio alla creazione di razionali pp. 13-20. depositi, dove le opere fossero facilmente consultabili per gli studiosi, reperendo spazi adeguati. Per l’ordinamento e l’allestimento, che rappresentano una delle espressioni più coerenti in Italia di una fase ormai storica della nostra cultura museografica, s’impone invece ad evidenza la scelta della conservazione globale, secondo un’indicazione generale di Emiliani 1974b, pp. 51-56. Va da sé che si dovranno contemporaneamente costruire per il pubblico dei fruitori tutti i necessari strumenti di lettura ai fini di una ri-contestualizzazione delle opere (dai dipinti alle sculture, agli stessi elementi architettonici inseriti come segni disarticolati nella facciata del museo oltre un secolo fa e provenienti da palazzi veronesi scomparsi). 94 Cfr. Longhi 1958, pp. 3-11.

48 49 Bibliografia citata Bonelli 1960 R. Bonelli, Restauro e architettura, Venezia 1960. Castronovo 1975 V. Castronovo, La storia economica, parte IV, in Bonfanti, Porta 1973 Storia d’Italia. Dall’Unità a oggi, Torino 1975, pp. Adorno 1972 Baroni 1956a E. Bonfanti, M. Porta, Città, Museo e Architettura, 251-437. il gruppo BBPR nella cultura architettonica italiana, T. W. Adorno, Valéry, Proust e il museo (1953), in C. Baroni, Interesse del museo, in Museo d’Arte 1932-1970, Firenze 1973. Cederna 1956 Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino 1972, Antica al Castello Sforzesco, fascicolo monografico pp. 175-188. di “Città di Milano”, 73, 3, marzo 1956, pp. 168-186. A. Cederna, I vandali in casa, 1956. Bottai 1938 Albini 1958 Baroni 1956b G. Bottai, Salvaguardia dei capolavori dell’ingegno in Cirese 1977 tempo di guerra, in “Critica d’arte”, 1938, III, pp. 1-3. F. Albini, Funzioni e architettura del museo, in “La C. Baroni, Significato di un recupero, in Museo d’Arte A. M. 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54 55 Finito di stampare nel mese di febbraio 2012 da Beniamini GD&P - Roma

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