Il Binomio Giuliano-Scelba Un Mistero Della Repubblica?
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Carlo Ruta Il binomio Giuliano-Scelba Un mistero della Repubblica? Rubbettino Editore 1995 Prologo Sugli scenari che si aprirono con Portella della Ginestra, alcuni quesiti rimangono aperti ancora oggi: fino a che punto quegli eventi tragici videro realmente delle correità di Stato? E quali furono al riguardo le effettive responsabilità, dirette e indirette, di taluni personaggi chiamati in causa per nome dai banditi e da altri? Fra l'oggi e quei lontani avvenimenti vige, a ben vedere, un preciso nesso. Nel pianoro di Portella venne forgiato infatti un peculiare concetto della politica che giunge in sostanza sino a noi. Riaprire quel «giallo», allora, in un momento come l'attuale, mentre si reclamano da un lato i consuntivi di un'epoca, e si cerca dall'altro di legittimare ogni delitto compiuto nei decenni in nome della «ragion di Stato», non può dirsi affatto un esercizio vano. Su quella vicenda, come è noto, le trame e gl'incantesimi non sono mai finiti. Si è andati costantemente in cerca di verità. Di memoriali. Ma le «rivelazioni» che si sono succedute nei decenni sono servite unicamente a celare meglio le cose: scardinando l'unitarietà dei fatti, e riducendo le chiamate in correità a una sorta di burla banditesca. Tutto è così finito nel binario cieco dell'incongruenza, ove hanno avuto buon gioco scandalismi e amenità d'ogni sorta. Nondimeno, restano possibili altre soluzioni di lettura, più attinenti alla logica e alle cose. Ed elementi non ne mancano al riguardo. Talune deposizioni in aula, per esempio, prontamente rilanciate dalla stampa dell'epoca, appaiono oggi, alla luce degli accadimenti successivi, d'importanza decisiva, malgrado su di esse si sia equivocato ad arte per decenni. Certe parole di Pisciotta, depurate del superfluo, possono fornire, in particolare, tracce sorprendenti: forse più di quante se ne potrebbero cavare dal supposto terzo memoriale di Giuliano, di cui s'è alimentato ad arte il mito. Nel riscrivere quella storia, fondamentali appaiono poi non pochi documenti, che nel passato si è cercato in tutti i modi d'invalidare o di minimizzare: dalle lettere che Giuliano inviò ai giornali e ai politici, alle memorie in cui il capobanda spiegò le «sue» ragioni dell'eccidio di Portella; dalla relazione immaginifica del capitano Perenze sulla morte del bandito, avallata da Scelba, al carteggio fra Giuliano e l'ispettore di PS Ciro Verdiani. E così via. Buone ragioni inducono a ritornare insomma su quegli eventi tragici. A riaprire quei fascicoli e a riascoltare quelle voci. Con la consapevolezza, comunque, che nessuna vera riforma morale della politica è oggi realmente possibile, se non si restaura per intero la verità della «prima Repubblica», a partire proprio dal fuoco di Portella, e dal patto delittuoso che in quel pianoro venne consacrato. Capitolo primo La lettera bruciata Ombre di Stato Per introdurci nei labirinti che si diramano da Portella della Ginestra è opportuno partire da una lettera «inesistente»: ricordata e testimoniata in vari tempi e luoghi. È quella di cui parlò per primo il bandito Giovanni Genovese, il 20 gennaio 1948, dinanzi al giudice istruttore di Palermo: La mattina del 27 aprile Giuliano mi venne a trovare nel mio cascinale di Saraceno vicino a Montelepre. C'erano con lui i fratelli Pianelli e Salvatore Ferreri…. Mangiarono, poi si sdraiarono. Cominciammo a chiacchierare. Verso le tre del pomeriggio apparve Pasquale Sciortino, con una lettera per Giuliano; lo chiamò in disparte. Si trassero dietro a una roccia. Lessero insieme la lettera e si misero a bisbigliare fra loro. Doveva essere una lettera importante, perché dopo averla letta Giuliano le diede fuoco e la bruciò. Poi, Sciortino se ne andò. Ed allora, Giuliano si rivolse a me e mi disse: "E' suonata l'ora della nostra liberazione". Al che, io: "Come hai detto?"; E lui: "Bisogna organizzare un'azione contro i comunisti, bisogna sparare in mezzo a loro il primo maggio a Portella della Ginestra". Veniva così fuori una traccia che conterà non poco nel prosieguo della vicenda. Si trattava d'un racconto visivo, limpido, puntato sui dettagli; che dovette perciò apparire assai verosimile a chi lo ascoltava. In effetti, da quella data il Genovese verrà interrogato altre volte sull'argomento, ma non gli accadrà mai di negare, o di «rivedere» quanto detto. Dopo quella deposizione, conferme della missiva vennero da più parti. Ne disse Giuliano nel secondo memoriale, ma solo per precisare ch'essa riguardava l'espatrio del cognato negli USA. Ne parlò in varie circostanze la madre del bandito, che la consegnò a Sciortino per recapitarla al figlio, asserendo che recava la firma autografa del ministro Mario Scelba. Ma su tali affermazioni s'alzò come un vallo protettivo, e i giudici viterbesi conclusero che la donna era comandata da altri, e anzitutto dall'avvocato di Pisciotta Anselmo Crisafulli. La denunzia, piuttosto clamorosa, venne perciò invalidata come «non rispondente al vero», ed espunta dal processo. Della lettera disse, in vari tempi, anche Gaspare Pisciotta, alterando però i giochi, con lo scopo presumibile di lasciare margini d'accordo con coloro che avevano diretto, nelle ombre, la partita di Portella e il dopo. Nell'interrogatorio del 15 gennaio 1951,cinque settimane dopo essere stato arrestato dalla PS, dichiarò, in particolare, che Giuliano l'aveva informato d'avere ricevuto, tramite un deputato, una missiva di Scelba che gli prometteva l'amnistia in cambio d'un coinvolgimento elettorale in favore della DC. Al dibattimento di Viterbo, asserì invece di aver letto lui stesso la lettera posseduta da Giuliano, recante un messaggio autografo del ministro, nei termini seguenti: «Caro Giuliano, noi siamo sull'orlo della sconfitta del comunismo, con il vostro e con il nostro aiuto noi possiamo distruggere il comunismo. Qualora la vittoria sarà nostra, voi avrete l'immunità su tutto». Sostenne inoltre che la missiva era stata portata negli USA da Pasquale Sciortino. A sentenza conclusa (3 maggio 1952), operando una curiosa giravolta, dirà infine: «Verrà il giorno che rivelerò chi ha scritto quella lettera che Sciortino portò a Giuliano il 27 aprile del 1947 e che Giuliano dette immediatamente alle fiamme». Il mutare versione è una tecnica ordinaria nei processi di banditismo e mafia. È infatti una buona norma per non cadere in fallo; per occultare; resistere agli interrogatori e ai confronti più stringenti; mandare messaggi, dicendo e negando insieme, o alludendo; in ultimo, per chiamare alla trattativa. E così avvenne all'assise di Viterbo, ove tutto si svolse nell'equivoco della parola. Sulle correità politiche, in particolare, fu un continuo altalenare di accuse e di correzioni, atte a intorbidare, affinché solo coloro che intendevano i codici banditeschi, per avere comandato i delitti, potessero cavarne il senso. A questo si sommava poi l'equivoco della scrittura: la sapiente gestione del verbalizzare, che consentiva di falsare oltremodo le dichiarazioni dei banditi, e che fu determinante nella vicenda di Pisciotta, di cui si dirà meglio più avanti. Ci fu tuttavia, come s'è visto sopra, un elemento indiscusso: l'esistenza della lettera. E gli stessi giudici, dinanzi all'assoluto collimare delle deposizioni, e dei documenti via via ricevuti, dovettero prenderne atto, come si ricava dal seguente passo della sentenza: È da ritenere assolutamente certo il fatto relativo a una lettera che nel pomeriggio di un giorno non esattamente precisato ma che, si disse, non possa andare al di là del 27 oppure del 28 aprile 1947, a Giuliano fu recapitata dal cognato Pasquale Sciortino, mentre il capo dei banditi trovasi presso la masseria dei fratelli Giovanni e Giuseppe Genovese. Che la lettera portata a Giuliano abbia una qualche relazione con il delitto che, a distanza di qualche giorno soltanto fu consumato da Giuliano e dalla banda da lui guidata, pare alla corte non possa essere posto in dubbio. Ne sono indici esatti e precisi i seguenti elementi: la lettera fu letta da Giuliano e dal cognato, fuori della presenza di coloro che, pure facendo parte della banda, trovavansi in quel momento presenti. Appena compiuta la lettera fu bruciata. In tal senso i magistrati viterbesi, pur ossequiosi ai voleri della politica, parvero mostrarsi conseguenti. In effetti, per comprovare l'esistenza storica d'una persona non è necessario che si ritrovino le spoglie. Ma la lettera venne nel contempo resa nulla. Si sostenne infatti che Giuliano già da tempo meditava lezioni ai comunisti, e che non poteva correre alcuna relazione fra quel messaggio e l'esistenza eventuale di mandanti. La sentenza fu anzi categorica in proposito: … È necessario porre una limitazione alla ricerca della causale: questa può essere ricercata soltanto in Giuliano, poiché fu in costui che sorse l'idea criminosa di agire, sia a Portella della Ginestra, sia contro le sedi del partito comunista di vari paesi della provincia di Palermo; idea criminosa cui prestarono la loro piena adesione coloro che componevano la banda per il vincolo che legava essi a chi era il capo dell'organizzazione. E si andò oltre, negando in sostanza ogni politicità all'eccidio anche sul piano delle vittime, giacché erano stati colpiti, in larga parte, contadini che non conducevano militanza di partito. Già non può dirsi che tutti coloro che parteciparono alla riunione di Portella della Ginestra per la celebrazione del giorno destinato alla festa del lavoro fossero appartenenti a un partito o ad un determinato partito politico; se appartenenti ad un partito politico possono dirsi i più di coloro che si