SEZIONE LIGURE DEL CAI – STORIA 2005

STORIA DELLA SEZIONE LIGURE (1969-1980) Gianni Pastine Testo inedito

Abbiamo lasciato la nostra storia con la straordinaria impresa compiuta, in prima ascensione invernale, dai giovani Gianni Calcagno e Alessandro Gogna, unitamente ai loro compagni non genovesi, sulla parete Nord Est del Pizzo Badile nelle Alpi Centrali. Con loro, Genova era entrata nel giro del grande alpinismo internazionale e Gogna pensò bene tosto di fornire una autorevolissima conferma. La via aperta da Cassin, Esposito e Tizzoni nel 1938 sullo sperone nord della Punta Walker delle Gran Jorasses non era ancora stata percorsa in ascen- sione solitaria. Nel luglio 1969 Alessandro, accompagnato da Giorgio Volta, noto alpinista della Genova occidentale in quanto residente a Pegli, raggiunse la capanna Leschaux. Il tem- po era splendido e le condizioni accettabili. Giorgio lo accompagnò in una prima ricognizio- ne fino all’attacco. Rientrati al rifugio, il nostro accompagnatore si diede da fare per agevola- re in ogni modo il compito dello scalatore; gli preparò cena, gli mise in ordine l’attrezzatura e, nottetempo, lo accompagnò fino all’attacco trasportandogli quanto possibile. Lo lasciò poi con uno sguardo che era un misto di affetto e di apprensione. Sandro attaccò deciso, in stato di grazia. Andò su superando quasi facilmente i famosi passaggi. Al “pendolo“, si permise anche di proseguire direttamente un tantino prima e, ovviamente, con maggiori difficoltà. Solo alla scorbutica torre rossa fu vicino al dramma. Su ghiaccio non era mai stato il Sandro della roccia, e qui eravamo alle prese con un ghiaccio particolarmente ostico misto a roccia friabile delle peggiori. Non perse la calma e la concentrazione; passò e giunse in vetta al tramonto. Credo che nessuna precedente ascensione fosse stata effettuata senza almeno un bivacco. Il nostro si rese subito conto della pericolosità del procedere in discesa su neve in- stabile e preferì attendere il gelo dell’alba sulla prima lastra rocciosa che incontrò in discesa. Spense la sua frontale mentre a valle si accendevano le luci di Courmayeur: un capolavoro di audacia, ma anche di fredda razionalità. Ho voluto aprire il capitolo con tale eccezionale argomento perché il nostro club non deve dimenticare il proprio fine dominante e anche i suoi uomini migliori.

Intanto la compagine sociale registrava novità importanti. Ettore Marchesini aveva lasciato la presidenza per scadenza di mandato, e la sua sostituzione appariva più problematica del pre- visto, almeno alla oligarchia dominante cui avevo già accennato. La logica successione sa- rebbe toccata a Vittorio Pescia o, in subordine, a chi scrive. Ma eravamo giudicati, per così dire, immaturi. Forse si temeva qualche cambio di rotta un po’ troppo brusco e tutti e due a- vevamo, di recente, fornito segnali non del tutto rassicuranti per chi di dovere. Così Ferry Massa, già saldamente affermato in sede centrale ove avrebbe anche assunto la carica di vice presidente generale, si offrì per un biennio da traghettatore; per la verità, un misto fra i go- verni “balneari” allora di moda e la celebre tessitura di Camillo Benso di Cavour. Trascorse il rituale biennio ed il problema si ripropose. Qui, il nostro tessitore pescò il jolly dal mazzo nella persona di Alberto Fascioli. Per la verità, uno scrupoloso cultore dei regolamenti del sodalizio come Ferry non si accorse, o non volle accorgersi, del fatto che Alberto non avesse l’anzianità sociale prevista per essere eletto alla carica di presidente di sezione; ma, “con Annibale alle porte“,non vi si fece caso. Bisogna dire, con onestà, che il nuovo presidente andò oltre le migliori aspettative. Conosce- va in modo eclettico l’ambiente avendo frequentato la scuola di alpinismo, quindi quella di scialpinismo ove era anche entrato a far parte dell’organico didattico. La sua professione di

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farmacista prima e propagandista scientifico poi lo agevolava nei rapporti pubblici che af- frontava senza soverchio timore reverenziale. Infatti, democratizzò l’ambiente mettendo quanto restava del vecchio “Club“ in condizioni di non nuocere. In ciò fu agevolato dalle nuove sedi di viale Mojon e di piazzetta Luccoli, in successione, che, anche se pur sempre decorose, non possedevano più il fasto di Villetta Serra o di Via SS Giacomo e Filippo 2. La cronica mancanza di riscaldamento invernale fece il resto, sopportata, al limite dell’umorismo, nelle riunioni spesso simili ad una esercitazione di bivacco imprevisto, con relativi automassaggi termoregolatori,ma che, davvero, non potevano conciliarsi con passate pretese aristocratiche. Ebbe termine così una discutibile caratteristica che ci aveva attirato critiche spesso malevole e non del tutto sincere. Soprattutto, Alberto gestì bene la attività so- ciale, rilanciandola avvalendosi anche della ottima opera del segretario Porfirione, che mi preme ricordare per la correttezza, la competenza e la signorilità.

Intanto la attività alpinistica progrediva. Sempre nel luglio 1969 una piccola spedizione rag- giunse le isole Svalbard al limite della banchisa polare. Eravamo alpinisti modesti, non certo di punta: Tina e Giancarlo Berninsone, già allora portatore di serie menomazioni visive, Ar- rigo Giorello, Stefano Sironi della Sottosezione di Bolzaneto, mia moglie Margherita Solari ed io. Fu più l’avventura del successo alpinistico; ma fummo anche, indiscutibilmente, i pri- mi in tal genere (e con i nostri soldi…). Intanto il più grosso giro passava da una affermazio- ne all’altra. Gianni e Lino Calcagno, conducendosi seco Maria Grazia Vianello, si fecero la Poire al Bianco in un ristretto fine settimana. Lorenzo Pomodoro, cresciuto all’ombra di quella primordiale fucina alpinistica che era la parrocchia di San Siro, e Franco Piana, ultimo e prestigioso esponente della “scuola“ bolzanetese, legavano assieme fraternamente e mie- tendo ben presto una impressionante serie di successi alpini. Non dimentichiamo che “Luci”, alias Vittorio Pescia, tenuto in frigorifero presidenziale, tirava, da autentico caposcuola, tali prestigiose fila. Anche la scuola di scialpinismo si affermava. Il primo corso per istruttori nazionali vedeva Lalo Nannelli all’ambito titolo, seguito da Renzo Conte, allora indiscutibilmente lo sciatore alpinista più tecnico. Dino Romano ed io faremo qualche anno di anticamera mentre Bene- detto Ferrando si affermerà invece autorevolmente alla prima. In particolare, il mio titolo fù, come già scritto, più una salvezza da che uno scudetto da Juventus. Morì invece ino- pinatamente il maestro che lo aveva reso possibile. Toni Gobbi, allora davvero la più presti- giosa autorità del settore, mi aveva invitato gratuitamente ad un corso da lui tenuto a Selva di Val Gardena nel marzo 1970. Fu un corso severo che, però, apportò qualità fondamentali alla mia preparazione tecnica. Al suo termine, il richiamo del dovere ospedaliero mi fece declina- re un pressante, amichevole invito alla Haute Route dei Monti Pallidi. Quel richiamo al do- vere mi salvò, con tutta probabilità, la vita. Incredulo appresi, due giorni dopo, la sciagura di cui fu vittima Toni ed alcuni suoi affezionati clienti. Purtroppo aveva commesso un fatale er- rore che, se avesse potuto rifarsi vivo solo per un istante, avrebbe ammesso con la sua innata onestà professionale. Per me, per Lalo Nannelli ed Elio Ghiglione, già suoi affezionati clien- ti, ed altri, sarebbe però per sempre rimasto il maestro. Se ne andava tosto, e piuttosto prematuramente, anche Ettore Marchesini. La sezione perde- va una figura prestigiosa, io un vero maestro nella professione, molta gente, anche umile, un medico capace quanto umano. Ricordo la mattina del 5 gennaio 1971, nella divisione oculi- stica dell’Ospedale di Sampierdarena della quale era primario. Mi fece entrare nel suo studio e mi chiese a chi toccasse il turno festivo del 6 gennaio. Risposi che toccava a me. Guardò fuori dalla finestra e disse: ”Domani vengo io. Vada pure in montagna con questo bel tempo e con tutta la bella neve vicina.”. Ringraziai commosso perché, allora, un gesto del genere era assai poco di moda. Il giorno seguente fu una festa di sole e neve fra Antola e Carmo.

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Due mesi dopo scompariva non senza una ultima e non dimenticata espressione di stima e af- fetto da quel letto dal quale non si sarebbe più alzato. E’ sepolto a Courmayeur, ai piedi di quel Bianco che aveva conosciuto così bene. Poco distante da lui sta la tomba di Laurent Grivel, sua abituale guida: la cordata si è ricomposta. Intanto, finalmente, la sezione rimetteva mano ai propri rifugi. Cessata, purtroppo per sempre più seri motivi di salute, la attività di Giovanni Guderzo, essi erano andati incontro ad una precoce decadenza favorita dalla assenza di una gestione fissa, mentre quella di fondovalle, principalmente per ragioni …fisiopatologiche, appariva sempre più latitante. Era necessaria una persona che ne facesse, sia pure nel tempo libero, il proprio scopo. Era tempo di una stucchevole retorica ricorrente: bisognava “sacrificarsi“ per la sezione e l’invito era, manco a dirlo, rivolto, sia pure senza far nomi, a chi, invece, cercava di continuare nella attività alpi- nistica individuale, anche senza distinguersi in imprese di gran nome. L’invito partiva, abba- stanza anonimo, da chi invece tale attività, fondamentale in un ente che si chiami Club Alpi- no Italiano, non aveva mai praticato o precocemente sepolto. Succede anche oggi, con altre motivazioni, con altri richiami, con la stessa ipocrisia di fondo. Ma, in un ente basato sul di- lettantismo, sul volontariato, il movente deve essere, più che il dovere, il piacere nello svol- gere una attività. Ne traggono giovamento i risultati pratici. Fortunatamente venne fuori l’uomo giusto, favorito dal fatto di essere un imprenditore nel ramo costruzioni e arredamen- ti: Gianni Bisio, scomparso ormai dolorosamente e prematuramente da dieci anni, che invece si dedicò con entusiasmo, passione e competenza ad un settore tanto fondamentale nella vita sezionale. Arrivò ad impiegare propri materiali, a far lavorare propri operai e, metodicamen- te, ridiede vita ad una tradizione che rischiava ormai il degrado e la scomparsa. Alcuni con- soci lo coadiuvarono con entusiasmo, favoriti da inclinazioni se non competenze specifiche. L’opera fu tanto utile ed efficace che il purtroppo necessario passaggio di consegne alla mor- te di Gianni avverrà senza soluzione di continuità. Allora, negli anni settanta, furono gettate le basi che oggi hanno ridato il giusto prestigio moderno a tutta una organizzazione. Si parlò per la prima volta di ambiente montano e della sua tutela. Fino ad allora, poche voci isolate si erano levate a denunciare le devastazioni che il cosiddetto miracolo economico a- veva prodotto in montagna (e non su di essa solo) permettendo specialmente una speculazio- ne edilizia; ma tali voci erano state presto zittite. La maggioranza di governo ed i poteri forti passavano sopra a ben altro, come ad esempio la catastrofe del Vajont, mentre la opposizione taceva. Pareva che il tanto peggio-tanto meglio fosse il suo obiettivo. Inizialmente l’argomento ambiente vide cultori obiettivi e scientificamente preparati. La cosa si estese poi a varie associazioni dalle motivazioni ancora sincere ma dallo scarso peso contrattuale. Il gi- ro di boa avvenne con la crisi petrolifera del 1973-74 quando la politica con la P maiuscola entrò in campo ma per finalità che andavano ben al di là della tutela del paesaggio. Il CAI abboccherà all’amo snaturando via via le proprie finalità e la propria stessa identità. Avremo purtroppo modo di riparlarne. La sede sociale si trasferiva, come già accennato, in Piazzetta Luccoli e Alberto Fascioli la- sciava la presidenza sostituito, finalmente, è il caso di dirlo, da Vittorio Pescia per il qua- driennio 1973-77. Diciamo subito che il nuovo presidente non ebbe vita facile e che le sue proverbiali, folkloristiche sfuriate arrivarono più volte a proposito. Non mancava chi volesse continuare a controllarne l’operato, a incanalarlo e mantenerlo entro determinati binari rite- nuti più ortodossi. La presidenza di “Luci“ fu invece un periodo di utili realizzazioni e di pa- trocinio a prestigiose attività. Purtroppo, fu funestata da troppi davvero inevitabili eventi do- lorosi. Il miglior biglietto da visita esibito dal neo presidente era stata la sua lunga permanenza alla testa della scuola di alpinismo, che aveva portato a posizione di grande prestigio. Consegui- to, in modo anche curioso ma meritatamente, come ho già raccontato in altra pubblicazione, il titolo di istruttore nazionale di alpinismo, aveva curato la crescita di uomini ed ente in mo- do armonico anche se con il suo personalissimo, efficace ma anche frequentemente esplosivo

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stile. Ci voleva anche quello perché la sua forza di carattere lo guidò anche nei momenti dif- ficili che, appunto, non mancarono. Non ci voleva un banale quanto doloroso incidente ad un allievo, Leone, verso il termine di una esercitazione, nella famigliare Baiarda. Presto, in una tragica e rapida successione morirono Mauro Costi, per sfinimento al termine di una tremen- da giornata di maltempo e a pochi passi dal rifugio Torino al Colle del Gigante, Angelo Rob- biano, addirittura sul facile sentiero del Monte Chetif a Courmayeur, e Lorenzo Pomodoro con i compagni Pisoni, Orlandini e Roggero sulla cresta della Mirandola al Pisanino, nelle Alpi Apuane. Purtroppo, le sciagure alpinistiche, contrariamente a quanto si è soliti afferma- re, non avvengono mai per sola fatalità. Abbiamo visto il caso emblematico di Toni Gobbi. Tuttavia, almeno nel caso di Angelo Robbiano, la sorte era stata davvero maligna. Era stato accettato al corso di alpinismo, praticamente, in quanto medico, malgrado l’età. Ma nessuno aveva dovuto pentirsi della scelta e non solo per la perizia professionale già così nota nel principale ospedale cittadino. Luci incassò come incassa un padre o un fratello, forse di più e volle, nonostante tutto, andare avanti. Due nuovi bivacchi fissi, quindi un terzo, furono costruiti in punti strategici delle Alpi Marit- time che ancora erano privi di un valido appoggio, ricordando appunto Costi, il vecchio ac- cademico Guiglia, alla cui realizzazione la famiglia contribuì in misura determinante, e più tardi un nuovo bivacco più funzionale presso quello del Baus, ripristinato esso pure. Ma l’opera fondamentale fu la ricostruzione moderna del rifugio Genova al lago del Chiotas, sul versante sud orientale dell’Argentera. Determinante fu la sovvenzione dell’ENEL che aveva dovuto far sparire il vecchio rifugio Genova nel nuovo, necessario invaso idroelettrico; ma fondamentale fu l’operato professionale di Roberto Nam, l’apporto gestionale di diversi ben noti consoci della sottosezione di Bolzaneto, ma soprattutto la regia del presidente di sezio- ne. Da vero caposcuola, nonostante le dure prove riferite, il nostro incoraggiò e favorì una attivi- tà alpinistica cittadina di crescente prestigio. Cominciò con il tirare le fila di una spedizione all’Annapurna nel 1973. Vi partecipavano Gogna e Calcagno e il nostro ne curò con passio- ne l’organizzazione. Purtroppo la spedizione fu funestata ed interrotta da un grave incidente. Una grossa valanga cancellò un campo intermedio seppellendovi gli alpinisti Cerruti e Rava. Fu triste però la conseguenza diretta della sciagura. La spedizione si scisse fra chi voleva no- nostante tutto continuare, Machetto e Calcagno, mentre gli altri componenti, fra cui Gogna, preferivano rinunciare. Fu una brutta frattura morale che si ricompose faticosamente ma non completamente. Essa metteva così a nudo le differenti caratteristiche dei due maggiori prota- gonisti del nostro alpinismo cittadino. Gianni Calcagno, probabilmente, non avrebbe mai sa- lito, da solo, la nord delle , ma Alessandro Gogna non ebbe uguale tenacia nell’extraeuropeo dove invece Gianni brillerà mietendo una seria incredibile di prestigiosi successi. Avrei giurato su una sua sorta di invulnerabilità, come Heckmair e Cassin: e invece … Intanto, Franco Piana, socio a Bolzaneto ove rappresentava la più moderna continuazione di una solida tradizione, saliva al Nevado Huandoy,in Perù, con Lorenzo Pomodoro. Era una associazione davvero ben assortita e armonica. Il destino l’avrebbe scissa presto per ricom- porla di là, perché anche Franco, più tardi, non tornerà da un Everest per il quale era partito tanto malvolentieri… Ma Gianni Calcagno andava avanti. Trovata l’intesa con il biellese Guido Machetto, scalò in puro stile alpino una nuova difficile via sui 7708 metri del Tirich Mir, segnando addirittura una tappa fondamentale nell’alpinismo extraeuropeo. Ebbi l’onore di presentarlo in una sera- ta che illustrava l’avvenimento. Non esagerai quando dissi che l’Europa aveva ancora uomi- ni. Calcagno divenne un autentico specialista di quell’angolo di montagne asiatiche perché, poco dopo, fu l’uomo di punta di una spedizione al Tirich West che annoverava, oltre ai pre- stigiosi accademici piemontesi Vidoni e Piazzo, i professionisti valsesiani De Tomasi e En- zio, grandi guide del .

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Torniamo a casa per registrare la pubblicazione della Guida Appennino Ligure frutto della appassionata e meticolosa ricerca di Attilio Sabbadini e Euro Montagna. Euro proseguirà con successo in tale filone pubblicistico curando, stavolta per la collana “Guida Monti d’Italia“, la nuova guida delle Alpi Apuane con il pisano Angelo Nerli, quella delle Alpi Liguri con Lorenzo Montaldo, e quella delle Alpi Marittime, in due volumi, sempre con Lorenzo Mon- taldo e con il sanremese Francesco Salesi: un operato che si commenta da solo. Euro non mancò di far registrare due prime ascensioni in stile moderno sulle pareti nord e sud del Ca- stello della Pietra. Fu laboriosa soprattutto la via sulla parete nord che richiese il lavoro di chiodatura a pressione nel tempo di parecchi giorni a tappe successive. Nella prima parte dell’opera Euro si giovò soprattutto dell’assistenza paziente della moglie, davvero canoniz- zabile almeno sotto il profilo delle divagazioni alpinistiche del coniuge. Sulla parete sud, Eu- ro si fece accompagnare da Giorgio Scabazzi, noto nella Giovane Montagna. Fra i ripetitori della parete nord annoveriamo il noto e prestigioso accademico torinese Guido Rossa, di cui dovremo invece purtroppo scrivere più avanti. Sempre sulla parete sud del Castello, Torrione Grande, Euro, con curiosi stratagemmi artificiali utili su una roccia ostica come il conglome- rato della Valle Scrivia, aprì una via molto spettacolare. Mentre scrivo, ricorrono nella mia mente i versi introduttivi del XXXIII canto dell’Inferno della Divina Commedia. Con deci- sione politica che è meglio non commentare, il Castello della Pietra è stato recentemente chiuso alla attività alpinistica.

Intanto, fra gli altri, dovevamo registrare la scomparsa di due anziani consoci ben meritevoli. Roberto Hacker, germanico di nascita ma da molto tempo residente a Genova, grande appas- sionato delle nostre montagne, soprattutto delle Alpi Liguri, era noto per aver messo in palio, per oltre trenta anni, un trofeo sotto forma di coppa intestata al suo nome e destinato alla più rilevante attività alpinistica annuale fra i soci della nostra sezione, sottosezioni comprese. La non consecutività, prevista dal regolamento, favorì la sua assegnazione ad un buon numero di soci, tutti peraltro meritevoli. L’altro consocio era Gian Battista “Bacci“ Campoantico, figura dalla spiccata affabilità e si- gnorilità che si era distinta nella conduzioni di innumerevoli gite sociali nel nostro Appenni- no che conosceva capillarmente. Nel suo testamento gratificò la sezione di un lascito che verrà utilissimo al momento opportuno.

Pescia era ormai vicino al termine del mandato presidenziale. Purtroppo gli toccavano in sor- te ancora fatti dolorosi. In mare, davanti alla nostra riviera, nel quasi impossibile tentativo di disincagliare un’ancora a ben diciassette metri di profondità, moriva Marco Falchero che era stato il compagno di Mauro Costi in quella tremenda avventura che si era conclusa nella se- parazione di due compagni ormai oltre il limite delle capacità intellettive umane e con la morte di Mauro. Marco era sopravvissuto senza potersi rendere ben conto di quanto accadu- to. Ora la morte riuniva anch’essi. Ma il peggio accadde a Luci poco oltre l’attacco di una difficile via sulla parete nord della Cima del Dragonet, in un angolo suggestivo ma poco battuto delle Alpi Marittime. Guidava la cordata Giorgio Nicora che era ormai più di una promessa alpinistica, cresciuto anch’egli all’ombra della scuola di alpinismo della nostra sezione. Se avesse, più approssimativamente, passato la corda dietro ad uno spuntone, probabilmente tutto si sarebbe risolto in un grosso spavento; invece Giorgio, nel superare un delicato passaggio in traversata, mise una fettuccia attorno ad uno spuntone e collegò la corda che lo legava a Luci in un regolamentare “rinvio“. Quando tirò la fettuccia lo spuntone rivelò la propria fragilità. Giorgio precipitò con una e- sclamazione ma lo spuntone travolse e ruppe la corda di cordata. Egli volò per almeno ottan- ta metri con conseguenze inevitabili mentre Luci rimaneva stupefatto e inorridito con il moncone di corda in mano. Purtroppo, data anche la selvaggia solitudine del luogo, le scelte lasciavano poche alternative. Luci, forse pensando ad un ormai impossibile soccorso

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all’amico, si fece forza, attraversò fino a raggiungere una meno difficile via sulla parete della Cima dell’Asta Soprana e la scalò per centinaia di metri fino a superare la nevosa cornice sommitale. Era giugno e la neve era ancora abbondante. Scese sul versante opposto e, final- mente, sul sentiero più frequentato del rifugio Morelli, incontrò chi lo accompagnò a Terme di Valdieri ove potè dare un allarme peraltro ormai inutile. Il corpo di Giorgio potè essere re- cuperato solo nella giornata successiva. Presentava segni inequivocabili di una morte istan- tanea al momento dell’impatto della caduta. Un altro figlio, possiamo ben dire così, che lo lasciava. “Lasciò” anch’egli. Abbandonò l’alpinismo attivo, e ne aveva ben donde, ma dopo aver fornito una prova che può essere davvero considerata patrimonio di pochi.

Il rinnovo delle cariche sociali del 1977 vide l’elezione alla presidenza di Gino Felolo, con Gianni Calcagno e Gianni Bisio alla vice presidenza. Ancora una volta Ferry Massa aveva ti- rato i fili della vicenda dietro le quinte (ma non troppo). Felolo aveva una buona conoscenza dell’ambiente ed una solida esperienza in campo amministrativo derivata dal suo tipo di la- voro; tuttavia la scelta era caduta su di lui soprattutto perché, al “regista“ Ferry, appariva l’uomo giusto, in grado di dedicarsi più alla sezione che alla montagna. Non era proprio così perché, almeno in un recente passato, la frequenza alla montagna non era certo mancata an- che se di qualità non eccelsa. Massa era più uomo di CAI che di montagna, come già il suo amico, non dimenticato, Tonino Saviotti; ma, di quest’ultimo, non aveva gli slanci spontanei che, un giorno, gli avevano fatto dire, con una punta di amarezza: “la montagna unisce, il club alpino divide!”. Quel che accadeva troppo spesso come anche in quel frangente. Pur- troppo la presidenza Felolo non giunse a termine causa un fatto morboso abbastanza serio che richiese intervento chirurgico peraltro dall’esito positivo; tuttavia la cosa gli costò una invalidità temporanea che lo costrinse a lasciare la carica e la frequenza alla montagna per un periodo abbastanza lungo. In quella occasione ritenni di dover passar sopra a contrasti di fondo sorti fra noi già nella scuola di scialpinismo. Quanta verità stava nelle citata afferma- zione del compianto Tonino Saviotti! Ma quando mi trovai davanti ad un uomo costretto in un letto d’ospedale volli dimenticare ogni divergenza. Più tardi, quando le parti si invertiran- no, la visita mi verrà restituita unitamente ad altra persona con cui avevo avuto occasione di polemizzare. Gianni Calcagno resse la presidenza per sei mesi, in attesa della nuova scadenza elettorale: l’uomo di montagna funzionò egregiamente; né aveva trascurato la propria attività nella scuola di alpinismo dove eccelleva didatticamente nonostante l’assenza di titoli specifici che, per la verità, non si curava di ottenere e, soprattutto, di dedicarvi il tempo necessario per ot- tenerli. Con il fratello Lino, ottimo alpinista forse troppo dimenticato sotto l’ombra fraterna, e gli al- lora autentici “delfini“ Dotti e Casaleggio, diresse un corso avanzato con un risultato alpini- stico lusinghiero. Voglio ricordare gli allievi usciti idonei da quel corso: Bertone, Carmine, Demeneghi, Molfino, Osemont, Pesce, Trincherini e Valentini. Nel frattempo lasciavo la direzione della scuola di scialpinismo quando un ricambio appariva logico. Purtroppo, nel corso successivo, poco sotto la vetta del famigliare Breithorn, un insi- dioso crepaccio nascosto costò la vita a Mario Lercari e Franca Caprioglio. Forse non filò tutto come da manuale; ma preferisco solo ricordare il coraggio di Franco Porcile che, affi- dandosi “solo” alle valide braccia di Turi Minotti, si calò in quel pozzo mortale per circa trenta metri per tentare l’impossibile. Con la scadenza del mandato presidenziale, esercitato ad interim da Calcagno, i numi tutelari residui pensarono a me. Forse era un po’ tardi. Forse mi mancava l’entusiasmo di qualche anno prima; ma ancora una volta prevalse la voce del dovere. Avevo, è inutile dirlo, addosso gli occhi di tutti, e le precedenti difficoltà di Pescia ne erano solo una conferma. Optai per quella prudenza, in verità stretta parente della paura ragionata, che aveva caratterizzato la mia attività alpinistica e non essa solo. Inoltre, non avevo vissuto

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solo in montagna. Confessai subito la mia incompetenza economico amministrativa sce- gliendo nel frattempo quelli che conoscevo come collaudati esperti oltre che uomini dalla adamantina onestà. Ebbi da loro la più competente e leale collaborazione che ricambiai con la più totale fiducia. Giacomo Cossu e Paolo Rosati sono quindi nomi che tengo ben presenti nella mia memoria. Con loro non dimentico il cassiere Edmondo Tosi ed anche il segretario amministrativo Adolfo Tarchi. Ebbi un incondizionato e disinteressato quanto determinante aiuto. Anche essere uomo di CAI non era cosa affatto facile ed ora lo toccavo con mano. Nel mio quadriennio fui confortato dalla amichevole ma funzionalmente valida vice presidenza di Gianpaolo Nannelli e Vittorio Pescia prima, Paolo Rosati e Gianni Bisio dopo. Abbiamo perso, per crudeli malattie, Gianpaolo e Gianni, due grandi amici, due grandi maestri di vita: con loro, da tempo ammalato, anche Giovanni Guderzo che si portava via un pezzo impor- tante della nostra gioventù. Paolo sopravvisse con coraggio e spirito di adattamento ad un grave incidente stradale ed alla minorazione permanente che ne seguì: Da qualche tempo l’ho perso di vista. Gli dedico queste righe mentre lo riabbraccerei volentieri. Allora mi era stato davvero vicino condividendo anche responsabilità impegnative. Pescia resta e la cosa mi gratifica. Se lo merita, in una ritrovata serenità dopo tanti guai passati. Allora non mi ne- gò qualche effervescente, esplosiva esternazione. Per colpa sua, i miei consigli direttivi tra- dizionalmente nemici delle ore piccole ebbero qualche ritardo. Non sarebbe nemmeno stato lui! Fu un periodo denso di avvenimenti cui cercai di adattare la mia funzione più che di agire da protagonista. Da qualche tempo, ad esempio, si era messo in luce il fenomeno Finale Ligure dove, per primi, Eugenio e Gianluigi Vaccari avevano scoperto un autentico nuovo mondo arrampicatorio. La roccia saldissima, un misto fra calcare ed arenaria, favoriva, lo sviluppo di itinerari, da brevi monolunghezze di corda fino a vere vie di oltre duecento metri di disli- vello. Va però detto che, di vero facile,o medio facile, alla portata anche di arrampicatori modesti, non vi fosse nulla o quasi, caratteristica che, oggi, non è mutata, se si eccettua il di- vertente ma unico spigolo nord della Rocca di Perti. Sulla scia dei Vaccari, primi salitori di vie prestigiose tutt’oggi, arrivarono i migliori alpinisti ed arrampicatori del momento a co- minciare da Gianni Calcagno e Sandro Grillo. La zona è oggi celebre a livello internazionale ed ha contribuito in maniera fondamentale ad un salto di qualità tecnico. I Vaccari non erano solo arrampicatori nè individui sconosciuti. Le loro imprese alpinistiche, anche se non nume- rosissime e sopratutto non intensive, avevano l’impronta dalla padronanza del terreno e della tecnica oltre che della accurata preparazione del proprio fisico: una cresta sud della Aiguille Noire con un solo bivacco; una via Cassin alla nord delle Jorasses con un bivacco quasi in vetta; la stessa cosa per la Solleder al Civetta mentre la Ovest della Noire era superata in giornata! Ci sapevano fare come altri se non meglio di altri anche se erano dei pessimi agenti pubblicitari di sè stessi.

Mentre la scuola di scialpinismo conduceva due consecutivi corsi regionali liguri per istrut- tori, grazie anche alla qualificata collaborazione di noti elementi del ponente ligure come Carlo Aureli, Vittorio Bigio e Gianni Salesi, Gianni Calcagno, sulla spinta della qualificata attività della scuola di alpinismo, proponeva una spedizione extraeuropea in Hindukush, ter- ritorio da lui ben conosciuto, con il preciso scopo di introdurre a tale moderna attività chi ne fosse praticamente digiuno. Vi aderirono il fratello Lino, Nando Dotti, Sergio Casaleggio, Serafino Grisoni e Margherita Solari. La spedizione era prevista per l’anno del centenario di fondazione della nostra sezio- ne, il 1979; così, nella estate 1978, una nutrita attività alpina, preceduta da allenamenti pe- riodici ed intensivi anche nei dintorni della stessa città, parve preludere al meglio. Erano sta- te superate prestigiose ascensioni: la parete nord dell’Aiguille du Plan, i canali Cordier e Couturier all’Aiguille Verte,la parete nord dell’Aiguille de Triolet, la via della Sentinella Rossa al Monte Bianco, il canale Gervasutti al Mont Blanc du Tacul e altre, favorite da un

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bel tempo e da ottimali condizioni dell’alta montagna che oggi rimpiangiamo quasi senza speranza dopo le più recenti vicende meteoglaciologiche. Le ascensioni furono anche supera- te con notevole padronanza del terreno e della necessaria tecnica. Tuttavia, il diavolo vi mise la coda quando si era ormai vicini alla partenza. Una ascensione primaverile al Monte Bian- co per lo sperone della Brenva, condotta invero in condizioni meteorologiche sfavorevoli, anche previste, fece sfiorare la tragedia. Una fortuita caduta in un crepaccio di Gianni Calca- gno ebbe come conseguenza immediata un serio infortunio al fratello Lino, che ne aveva ret- to il relativo strappo, infortunio che, unito al maltempo imperversante, bloccò i partecipanti all’impresa in un peraltro provvidenziale crepaccio. Dopo una prima notte di bivacco, Gianni Calcagno e Dotti scesero faticosamente all’Aiguille du Midi per allertare i soccorsi mentre Casaleggio e Grisoni rimanevano presso l’immobilizzato Lino. Finalmente, in una pausa del maltempo, fu possibile un soccorso aereo; ma le conseguenze fisiche furono gravi per Lino Calcagno, Serafino Grisoni e Nando Dotti colpiti da congelamenti. Notevole era stata la pro- va di Sergio Casaleggio, sul piano fisico come morale, in aiuto a Lino Calcagno e Serafino Grisoni presto anch’egli in difficoltà complice un equipaggiamento insufficiente. La parteci- pazione degli infortunati alla spedizione era da considerarsi compromessa mentre la spedi- zione stessa rischiò la compromissione definitiva. Calcagno era comunque intenzionato ad andare avanti quando anche un banale quanto disastroso furto con destrezza, avvenuto nell’esercizio commerciale dove lavorava, asportò l’intero denaro necessario appena ritirato dalla banca: qualcuno l’aveva evidentemente seguito! Gianni era abituato a volare troppo al- to per preoccuparsi di simili bassezze che però, ora, sembravano mandare a monte tutto più che le bufere della Brenva. Vi fu chi seppe essere generoso, chi seppe ulteriormente interpor- re i propri buoni uffici presso chi di dovere e la spedizione, finalmente, partì. Calcagno, con il materiale, si avviò con un automezzo messo a disposizione, con relativo autista, dalla Fiat Iveco, interessata ad un viaggio dall’Italia al Pakistan, via terra, andata e ritorno. Casaleggio, il medico Lorenzo Repetto e Margherita, mia moglie, partirono da Genova in aereo unita- mente al rinforzo preventivato dal capo spedizione: l’accademico Tullio Vidoni di Borgose- sia e la guida alpina Alberto Enzio (Berti), sempre Valsesiano, di Alagna, già suoi compagni in precedente spedizione nella zona. La cosa non mi dispiaceva e lo dissi al pubblico della Fiera del Mare, presentando la spedizione in qualità di presidente di sezione. Ero legato alla Valsesia da lontani e affettuosi ricordi di famiglia. Ma il solito diavolo era sempre lì, a met- terci la coda: un incidente stradale, in Turchia, occorso all’automezzo Iveco, non provocò guai peggiori per buona sorte; ma l’automezzo dovette essere sostituito con ulteriore ritardo. Finalmente, era ormai piena estate, i partecipanti alla spedizione poterono riunirsi a Rawal- pindi e Chitral per incamminarsi verso l’Hindukush. Ma le contrarietà erano tutt’altro che fi- nite. Il Noshaq, primo e più adatto obiettivo, era inagibile. Si trovava sul confine afgano al di là del quale infuriava una feroce guerriglia islamica contro invasori sovietici ed i “santuari” della guerriglia si trovavano proprio in Pakistan presso i nostri. Ci si spostò allora nel gruppo dei Tirich già conosciuto da Gianni, Tullio e Berti; ma la ascensione diretta del Tirich est, secondo obiettivo, era sbarrata da un pericolosissimo ghiacciaio esposto a micidiali frane di seracchi. Non restava che la traversata dei Tirich, a partire dal colle dei Cecoslovacchi, già salito da Calcagno durante una precedente ascensione al Tirch Mir cui abbiamo accennato in precedenza. Ma la meta cominciava con l’escludere Margherita. Si trattava di un lungo per- corso di cresta, in traversata, oltre i settemila metri d’altezza, ove era necessario portarsi die- tro tutto il non poco necessario, risparmiando però, inevitabilmente, sui mezzi di sicurezza. Ognuno doveva contare sopratutto su sè stesso. La cosa fu autorevolmente portata a termine da Gianni, Tullio, Berti e Sergio Casaleggio che, però, rischiò grosso. Rimasto inevitabil- mente indietro, perse il contatto con i compagni nel maltempo sul Tirich centrale e, solo con un disperato sforzo di volontà, oltre che con una buona dose di fortuna, li raggiunse al campo stabilito alla base dell’ultima vetta in programma, che gli altri avevano già scalato e da dove discesero poi, con Sergio ormai in abbastanza precarie condizioni. Appena possibile, “Lolli”,

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il medico, lo curò efficacemente permettendogli di cavarsela senza conseguenze salvo una perdita di peso che, oggi, davvero, nessuno riuscirebbe ad immaginare. Ma il fatto morale prestava il fianco a non poche osservazioni critiche. Anche Sergio, sia pure diversamente da Margherita, non era obiettivamente del tutto all’altezza dell’impresa, almeno se confrontato con gli altri tre. La sua ottima preparazione fisica, la buona tecnica e la buona esperienza al- pina di ascensioni anche molto difficili, non bastava. Gli mancava quella esperienza che le buone intenzioni preliminari della spedizione gli avrebbero permesso di acquisire, ma che non aveva potuto già acquisire per la specifica occasione. Va detto con sincerità che, sia pure con l’attenuante di una incredibile serie di contrarietà, in alcune delle quali aveva comunque un pizzico di responsabilità,Gianni Calcagno trascurò la sua funzione di capo spedizione per sfruttare, con chi ne fosse in grado, l’ormai unica possibilità di successo che gli restava. Con un senno di poi, peraltro non così distante dalla realtà, una meta più aderente alla loro obiet- tiva qualità, andava scelta sia per Sergio che per Margherita, il cui curriculum alpinistico non era poi così da poco, la cui facile adattabilità all’alta quota, il cui morale erano noti. Resta, onestamente, da vedere se Sergio avrebbe accettato volentieri un ruolo inevitabilmente se- condario; ma il capo spedizione non scelse nulla, non predispose nulla, lasciò alla sua ine- sperienza ed al suo orgoglio la scelta. Sergio ottenne comunque un successo al di là di ogni obiettiva aspettativa: con qualche rischio di troppo! Infatti, mentre la prime avvisaglie sul di- vario fra lui e gli altri tre componenti l’avanguardia si erano già manifestate fin dal primo giorno, un ordine, questo sì, del capo spedizione aveva proprio ingiunto a lui di ritirare ben cinquecento metri di corde fisse dal canale dei Cecoslovacchi. Tale obiettivamente inutile ri- tiro precludeva anche ogni possibile ritirata. Era infatti impensabile un ripiegamento solitario senza attrezzatura idonea. Margherita restò invece con un pugno di mosche in mano, in im- maginabili condizioni di depressione morale quando almeno una meta, laggiù di secondo piano, ma, almeno per lei significativa, sarebbe stata alla sua portata. Non si tenne conto neppure di una sua lunga, solitaria e pericolosa marcia su ghiacciaio per compiere una dove- rosa missione di appoggio. Ebbe successo collettivo solo una spedizione sociale, a carattere escursionistico, con la sorprendente partecipazione di un nutrito numero di consoci e diretta magistralmente,sopratutto sul piano organizzativo, da Gino Della Casa che avrebbe poi ulte- riormente dimostrato un autentico talento specifico. Ma i malumori troppo facilmente conse- cutivi alla spedizione alpinistica esplosero già al campo base, mettendo a nudo, se ancora fosse stata necessaria una dimostrazione, le storicamente note spigolosità di carattere e tem- peramento di troppi alpinisti sopratutto di punta, venute fuori sopratutto in simili frangenti. Esse proseguirono fino all’interno del consiglio direttivo del CAI con un penoso strascico polemico faticosamente ricomposto con il tempo e la buona volontà. Gianni continuerà in una impressionante successione di imprese che lo porteranno a scalare ben cinque ottomila fra cui un in soli tre giorni, andata e ritorno dal campo base, ed il versante Diamir del Nanga Parbat. La sua morte ci sorprenderà tutti dolorosamente increduli. Sergio e Margherita riprenderanno una attività che dimostrerà con i fatti quanto obiettivamente meritassero in quella occasione. Resta da dire, doverosamente, di Tullio e Berti, tenutisi più discretamente ai margini delle polemiche. Tullio è scomparso sui monti di casa per il solito banale inciden- te, ma dopo avere, con un ultimo gesto di generosità, posto in salvo i due comagni; Berti è tornato ad accompagnare clienti sul Rosa; ma non va dimenticato come il suo senso di re- sponsabilità professionale di guida gli avesse fatto compiere un unico gesto di aiuto a Sergio in difficoltà nel raggiungere l’ultimo campo dopo aver valicato il Tirich di mezzo nella bufe- ra. Prima di chiudere una vicenda che avrebbe potuto essere migliore,resta da dire di un libro edito di recente, riesumando note che Gianni, in vita, aveva tenuto nascoste, commentato an- che a sproposito da chi non era presente nei fatti e nel tempo, mentre tali fatti accadevano. La storia postuma è, di regola, la più veritiera; purtroppo, non lo è apparsa in tale specifico caso.

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Precedette di poco la vicenda appena presa in esame quella tragica dell’assassinio dell’accademico del CAI Guido Rossa da parte di un gruppo rivoluzionario armato denomi- nato “brigate rosse”. La vicenda è notissima alla pubblica opinione. Guido, operaio specia- lizzato metalmeccanico, lavorava da tempo presso la Italsider di Cornigliano, dopo essersi trasferito a Genova da Torino per motivi famigliari. Iscritto al Partito Comunista Italiano e membro attivo della Confederazione Generale Italiana del Lavoro, aveva sorpreso, in fabbri- ca, un compagno di lavoro che distribuiva volantini propagandistici delle “brigate rosse”. Obiettività storica vuole far osservare come le idee massimaliste del nostro non fossero poi così distanti da quelle del gruppo rivoluzionario in questione; tuttavia, il partito ed il sindaca- to a lui affine avevano preso netta posizione contraria a tale gruppo “deviazionista”, se vo- gliamo usare una nota e pertinente terminologia politica, che appunto si discostava da una li- nea politica di piena adesione al metodo democratico, scelta da partito e sindacato almeno sul piano formale. Guido stava alle direttive del partito senza discutere e denunciò il compa- gno di lavoro testimoniando poi, da solo, al processo penale che ne seguì. Fu la sua pratica condanna a morte che il gruppo terroristico eseguì sotto casa sua, mentre stava per recarsi al lavoro, secondo un noto e collaudato copione che affonda le radici anche nel passato. Ma la nostra pubblicazione non ha come scopo un fatto storico politico quanto il suo riflesso nel mondo alpinistico del quale l’ucciso faceva parte a pieno ed autorevole titolo. Dopo la sua tragica morte fu affermato come egli avesse voluto abbandonare l’alpinismo per dedicarsi meglio al mondo sindacale,anche causa la delusione che aveva provato conoscendo l’alpinismo genovese.Si tratta di due tesi collegate che non è molto difficile confutare. Il tut- to prese le mosse da una lettera che Guido Rossa scrisse all’amico Ottavio Bastrenta, notaio in Aosta e accademico del CAI pure lui, oltre che politicamente abbastanza affine, recente- mente scomparso dopo lunga malattia. Guido Rossa iniziò lo scritto mettendo in dubbio le finalità della comune attività alpinistica definita inutile come in effetti è. Proseguì afferman- do se non fosse il caso di dedicarsi più all’operato sindacale in conseguenza pratica delle proprie opinioni politiche: lo scritto proseguiva poi dilungandosi in alcune pagine fitte e den- se di considerazioni di filosofia politica e di economia pianificata. Nell’ultima pagina però, quasi come volesse dire “basta, parliamo d’altro”, Guido chiedeva all’amico di mettersi in contatto con comune conoscenza chiavarese per programmare una ascensione invernale nelle Alpi Apuane. Ottavio, già residente a Chiavari quando, frequentata l’università a Genova, vi faceva pratica notarile, conosceva assai bene tali montagne. Con il comune amico, che era poi l’ingegnere Franco Chiarella, allora presidente della locale sezione del CAI, aveva fre- quentato capillarmente quel gruppo montuoso, specie in inverno, effettuandovi, fra le altre, numerose prime ascensioni. L’accordo vi fu e una nuova difficile via, assai poco ripetuta, fu aperta sulla parete ovest del Monte Pisanino. Come la mettevamo con la rinuncia all’inutile alpinismo? Evidentemente, i lettori della sunnominata lettera si erano arrestati ai primi capo- versi, paghi di un tema facilmente sfruttabile ai loro fini anche perchè la lettura di quanto se- guiva era quanto mai difficile come quasi tutti i testi ufficiali del marxismo. Non giunsero quindi a quella conclusione che avrebbe smentito una tesi che faceva al caso loro. Evidente- mente, la loro fede marxista assomigliava molto a quella di non pochi cattolici praticanti un po’ per modo di dire. Quanto alla delusione provocata dall’ambiente alpinistico genovese, va detto, con sincerità, che solo un suo esponente, forse il più prestigioso, lo deluse. Guido si era recato nell’esercizio commerciale dove lavorava per invitarlo ad organizzare i lavoratori del commercio dal punto di vista sindacale e ne aveva ricevuto un rifiuto condito anche da un invito poco urbano. L’interlocutore del nostro aveva anch’egli una fede: in sè stesso e nel proprio successo personale; ma il resto, cioè quanto ne fosse estraneo, non lo interessava e non intendeva occuparsene. Non per nulla, ad esempio, ostentava il suo costante astensioni- smo elettorale. Tuttavia, tale caso a parte, Guido fu bene accolto nell’ambiente alpinistico genovese anche da chi non ne condividesse opinioni politiche e religiose. La prova migliore fu fornita in occasione di una incredibile tragedia che lo colpì nei primi tempi di permanenza

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nella nostra città con la morte del primo figlio in tenera età, per cause fortuite. Perchè quindi propalare una distorsione della realtà a piene mani? Probabilmente, nelle intenzioni degli au- tori, l’idealizzazione del “martire” poteva coprire una coscienza non del tutto tranquilla per- chè Guido, nonostante la sua appartenenza ad un organismo politico sindacale che ne aveva approvato l’operato incondizionatamente, era stato poi lasciato solo all’atto pratico. L’alpinista accademico, autore di ben due percorsi solitari della cresta Sud della Aiguille Noire de Peuterey, il secondo dei quali in sole cinque ore, non aveva avuto problemi con la solitudine; ma, almeno in tal caso, la montagna fu certo più amica, anche se sempre inutile.

Ci stiamo avvicinando alla conclusione.Ma non possiamo dimenticare due significative vi- cende. La prima fu un’opera prestata da un qualificato gruppo di soci in una località devasta- ta dal terremoto dell’Irpinia. Il consiglio direttivo sezionale decise di rispondere fattivamente all’appello lanciato in quella occasione dal presidente dela Repubblica Pertini alla televisio- ne. Fu così possibile, grazie ai finanziamenti stanziati ed all’operato diretto di consoci, ridare un tetto ed i necessari servizi ad una famiglia che aveva perso la sua abitazione a causa del sisma. Purtroppo l’opera dei nostri agì senza alcuna collaborazione pubblica nè privata loca- le, là dove si trovavano ad operare, come i nostri, solo genieri militari tedeschi e volontari civili olandesi. Dovetti però attestare per due volte consecutive la gratuità del nostro operato che era ovviamente sottintesa. La seconda vicenda ci riguardò più da vicino, sulla montagna appenninica più cara ai geno- vesi. La morte di Vittorio Musante, gestore dell’omonima locanda sita presso la cima del Monte Antola, lasciò sola la sorella Albina, ormai anziana, che si trovò presto nella impossi- bilità di proseguire la gestione e dovette scendere a valle a Bavastrelli sua località di origine, nel comune di Propata. Fu allora che il centro studi culturali della Valle Scrivia, con sede a Busalla a Villa Borzino, contattò la sezione Ligure del CAI ed il comitato regionale ligure della FIE, nella persona dei rispettivi presidenti, chi scrive e Franco Guerriero, ben noto nell’ambiente escursionistico cittadino. Si trattava di reperire i fondi per l’acquisto di stabili e terreni, di proprietà Musante, sulla montagna, restaurare ed attivare la locanda e l’attiguo rifugio Bensa da tempo inattivo. Svolta una opportuna propaganda nell’ambito di nostra competenza e presso le necessarie strutture ed autorità pubbliche, la cosa parve ben avviarsi tanto che un regolare contratto di vendita veniva firmato in Bavastrelli dai rappresentanti di CAI e FIE e dalle sorelle Albina ed Angiolina Musante proprietarie superstiti. Una grande manifestazione ebbe luogo sulla vetta della montagna a sostegno dell’iniziativa ed un’altra era avviata in un teatro cittadino quando il sindaco di Propata gelò tutti affermando che i Musante non avrebbero più venduto ma affittato per trent’anni al suo comune mentre la pro- vincia di Genova sosteneva la sua iniziativa. Restammo sconcertati e lo divenimmo più anco- ra quando ci giunse notizia del come la regione e la Cassa di Risparmio, che avevano già stanziato cospicui fondi a nostro favore per far fronte all’operazione, li avessero storna- ti,con insolita rapidità, a favore della provincia di Genova e del comune di Propata. Con due rappresentanti del centro culturale della Valle Scrivia mi recai a Bavastrelli per sapere, a viva voce dalle sorelle Musante, cosa fosse nel frattempo accaduto. Le due donne anziane riusci- rono a riferire, fra l’imbarazzo ed il timore, di essere state intimidite e costrette a rinnegare il contratto sottoscritto con noi per firmarne uno con il comune di Propata nei termini riferiti. Si trattava di una pressione psicologica inaudita ed anche insolita, nel nostro territorio, detta- ta da possibili e inconfessate motivazioni ufficialmente oscure. La rapidità ed anche la bruta- lità dell’agire, secondo un noto ma, presso di noi, come ripetiamo, insolito costume, poteva significare sostanzialmente “nessuno deve sapere”; quindi nessun “estraneo” deve mettervi le mani. Reagimmo pubblicamente e subito ci piovvero addosso le critiche di tutte le testate giornalistiche, comprese quelle indipendenti di informazione meno una, che indicavano CAI e FIE come “enti privatistici quindi inaffidabili” (sic!). Ovviamente solo una forza politica minoritaria e dallo scarso peso contrattuale si schierò dalla nostra parte. Non solo. Doveva-

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mo registrare il tiepido e quasi disinteressato atteggiamento delle nostre sottosezioni mentre la consorella ULE si schierava apertamente sul fronte opposto come anche, “tu quoque” la Giovane Montagna. Quanto alle associazioni ambientaliste, che ovviamente avevano in un primo tempo sposato la nostra causa, sentito il richiamo di una foresta evidentemente loro più affine, passarono armi a bagagli nel campo opposto giungendo anche ad approvare l’apertura di una sia pur rudimentale rotabile di accesso al rifugio che avevamo avversato sempre, assieme, da quasi un ventennio, quando oltretutto una teleferica di servizio, assai più pratica e funzionale, veniva rifiutata con risibili argomentazioni. Incontreremo più tardi at- teggiamenti analoghi, gestiti dai poi auspicati e costituiti enti parco, spacciati per “cultura del territorio”, forse per indorare la pillola ad una diffusa ed ostinata opposizione dei residenti. Restò con noi, al suo posto, solo la fedele FIE ed i promotori dell’iniziativa busallesi. Ma di fronte alla potenza pubblica dovemmo abbandonare il campo per subire ancora incredibili, spudoratamente false maldicenze da un nuovo gestore, già da noi proposto dietro sue pres- santi richieste, e poi, secondo ben noto costume, passato dalla parte del più forte o meglio, in soccorso del vincitore.

Chiudevo la mia presidenza con la profonda amarezza suscitata dalla vicenda appena riferita ed una ulteriore conferma di una crescente sfiducia in individui ed enti conosciuti per via della mia attività professionale, privata come, allora, pubblica. Lasciavo però la presidenza nelle sicure mani di Roberto Nam, così utili sopratutto in un importante settore di attività do- ve contava la sua professionalità. Ero ancora nel miglior sviluppo della attività alpinistica. Mia moglie rientrava dall’Himalaya del Garwahal con il primo settemila in tasca (il Trisul). Anche Sergio Casaleggio aveva voluto essere con me e con mio suocero ad attenderla all’aeroporto di Linate. I poco simpatici ricordi dell’Hyndukush potevano svanire. Si andava avanti in quella che è ormai più cronaca che storia.

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