UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA

Corso di Laurea Magistrale in Biologia Evoluzionistica

IL LUPO NEL PARCO NAZIONALE DELLE FORESTE CASENTINESI, MONTE FALTERONA E CAMPIGNA: UNO STUDIO DELLE DINAMICHE DI BRANCO CON APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE

The wolf in the Foreste Casentinesi, Monte Falterona and Campigna National Park: a study on pack dynamics with a multidisciplinary approach

Relatore: Prof. Giuseppe Fusco Dipartimento di Biologia

Correlatori: - Dott.ssa Nadia Cappai Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna - Dott. Romolo Caniglia Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale - Dott. Edoardo Velli Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale

Laureanda: Arianna Dissegna

ANNO ACCADEMICO 2017/2018

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INDICE

PREMESSA……………………………………………………………………….1

CAPITOLO 1: INTRODUZIONE………………………………………………...3 1.1 Il Canis lupus italicus………………………………………………….3 1.1.1 Sistematica e morfologia………………………………………....3 1.1.2 Comportamento e riproduzione………………………………….5 1.1.3 Territorialità e comunicazione…………………………………...7 1.1.4 Conservazione e gestione in Italia……………………………….8 1.2 Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi………………………….11 1.2.1 Storia e territorio………………………………………………..11 1.2.2 Flora e fauna……………………………………………………14 1.2.3 Gestione e ricerca scientifica…………………………………...16 1.2.4 Il lupo nel Parco………………………………………………...18

CAPITOLO 2: MATERIALI E METODI………………………………………..21 2.1 Area di studio…………………………………………………………21 2.2 Genetica non-invasiva………………………………………………...22 2.2.1 Campionamento………………………………………………...23 2.2.2 Analisi di laboratorio…………………………………………...25 2.3 Localizzazione dei possibili branchi e ipotesi di parentela……………27 2.4 Wolf howling…………………………………………………………29 2.4.1 Protocollo……………………………………………………….29 2.5 Videotrappolaggio...... 31 2.5.1 Protocollo...... 31 2.6 La lupa “Libera”...... 32

CAPITOLO 3: RISULTATI...... 35 3.1 Genetica non-invasiva...... 35 3.2 Localizzazione dei possibili branchi e ipotesi di parentela...... 39 3.3 Wolf howling...... 47 3.4 Videotrappolaggio...... 52 3.5 La lupa “Libera”...... 57

CAPITOLO 4: DISCUSSIONE...... 63

CAPITOLO 5: CONCLUSIONE...... 69

BIBLIORAFIA/SITOGRAFIA...... 71

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PREMESSA

Dopo un periodo di prolungato isolamento e declino demografico, durante gli anni ’70 la popolazione di lupo appenninico (Canis lupus italicus) ha iniziato un processo di ricolonizzazione naturale di gran parte del suo areale storico che continua tuttora, sia negli Appennini che nelle Alpi (Galaverni et al., 2016). Questo studio è stato condotto nella parte toscana del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, dove il lupo è tornato stabilmente dal 1986. La transizione del lupo da specie minacciata a specie localmente abbondante, richiederebbe un aggiornamento negli approcci di conservazione e gestione, basati su informazioni demografiche affidabili (Kaczensky et al., 2013). Il lupo è però una specie difficile da monitorare, in quanto elusiva e prevalentemente notturna (Galaverni et al., 2016). Per questo motivo, è stato scelto un caso di studio che potesse fornire la maggiore varietà di informazioni, ovvero le dinamiche di branco associate al comportamento della lupa “Libera”, l’unico lupo radiocollarato nel Parco all’interno del progetto Life Wolfnet. Dai rilievi della telemetria satellitare (raccolti dal 2011 al 2012) è nata l’ipotesi che avesse formato un suo branco, occupando un territorio tra due branchi già presenti, individuati dal 2002 (Caniglia et al. 2014). Da marzo ad ottobre del 2017 ho quindi partecipato al monitoraggio del lupo nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, focalizzandomi sull’area di “Libera”, attraverso tre tecniche: genetica non-invasiva, wolf howling e videotrappolaggio. Ho poi integrato i dati prodotti con tutti quelli disponibili sul lupo nell’area dal 2002 al 2017, provenienti da diverse tecniche di monitoraggio. Gli obiettivi di questo studio sono stati quelli di: 1) identificare i possibili nuclei familiari presenti nell’area di studio dal 2002 al 2017, ricostruendo la loro probabile composizione e indagando le dinamiche di branco tramite genetica non-invasiva; 2) confermare la presenza dei nuclei familiari individuati e verificare la loro riproduzione tramite wolf howling, videotrappolaggio e avvistamenti; 3) verificare l’ipotesi che la lupa “Libera” abbia formato un nuovo branco tramite telemetria, genetica non-invasiva, videotrappolaggio e avvistamenti.

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1. INTRODUZIONE

1.1 Il Canis lupus italicus

1.1.1 Sistematica e morfologia

Il lupo (Canis lupus Linnaeus, 1758) è una specie che appartiene all’ordine dei Carnivori, famiglia dei Canidi, genere Canis. È considerato il progenitore del cane domestico (Canis lupus familiaris), la cui origine è stimata attorno ai 15.000 anni fa (Marucco, 2014). Il suo areale attuale è ridotto e frammentario, ma quello originario risultava molto vasto, comprendendo quasi tutte le terre emerse dell’emisfero boreale. Quest’ampia diffusione in ambienti diversi ha prodotto un’alta variabilità fenotipica per peso, colore e dimensioni. Ci sono diverse opinioni riguardo il numero di sottospecie esistenti; tra quelle comunemente accettate, ce ne sono alcune molto ben caratterizzate, come il lupo artico (Canis lupus arctos), con il tipico manto bianco, e il lupo nordamericano (Canis lupus occidentalis), che può raggiungere notevoli dimensioni, fino agli 80 kg di peso. Anche il lupo italico (Canis lupus italicus) (Fig. 1.1), esclusivo della penisola italiana, ha caratteristiche uniche che lo differenziano dalle altre popolazioni. Morfologicamente, ha una colorazione mimetica tipicamente grigio-fulva, con tonalità marroni-rossicce in estate, qualità che già lo differenzia da altre sottospecie che invece possono essere più variabili, da nere a grigio-bianche. Le caratteristiche davvero uniche del mantello sono però le bande scure nella regione dorsale, sulla punta della coda e delle orecchie e sulle zampe anteriori (Fig. 1.2), oltre all’evidente mascherina facciale bianca sulla parte inferiore del muso. Eccezioni al fenotipo classico sono state rinvenute in Italia (es. mantello nero), ma in genere sono state in seguito riconosciute come casi di ibridazione col cane (Apollonio e Mattioli, 2006). Un’altra caratteristica del lupo italico è la taglia ridotta, con un peso medio di 28 kg nelle femmine e di 34 kg nei maschi (Marucco, 2014). La lunghezza varia tra 110 e 148 cm escludendo la coda (che è lunga circa 1/3 del corpo), l’altezza al garrese è circa 50-70 cm e la corporatura è snella ma resistente adatta sia allo scatto che alla corsa prolungata. Nonostante le caratteristiche morfologiche siano così ben definite, non è infrequente che alcune tipologie di cane (Es. pastori tedeschi, pastori belga, cani-lupo cecoslovacchi) siano scambiate per lupi. Per non incorrere in questo errore, oltre alle caratteristiche sopra citate, anche le orecchie erette e arrotondate sono uno dei tratti che rendono possibile riconoscere un lupo da un cane, che invece ha orecchie pendenti o appuntite. Sulla base delle tracce, è possibile distinguere un lupo dalla serie d’impronte, dall’andatura più regolare e ordinata di quella di un

7 cane (Fig. 1.3), con le zampe posteriori che si sovrappongono a quelle anteriori (Fig.1.4), essendo posate sempre sulla stessa linea (Apollonio e Mattioli, 2006). Inoltre, il lupo appenninico è caratterizzato dal punto di vista genetico dalla presenza di un unico ed esclusivo aplotipo mitocondriale, chiamato aplotipo W14, fissato in seguito a un periodo di isolamento geografico dalle altre popolazioni, durato probabilmente qualche secolo. Solo negli ultimi anni sono stati rinvenuti sul suolo italiano, nella parte orientale delle Alpi, lupi con aplotipo diverso, perché provenienti dalla popolazione dinarica della Slovenia (Marucco, 2014).

Figura 1.1 Esemplare di lupo appenninico (Foto di Bruno D’Amicis).

Figura 1.2 Dettaglio delle bande nere sulle zampe anteriori, tipiche del lupo appenninico (Foto di Arianna Dissegna).

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Figura 1.3 Impronte di lupo sulla neve, riconoscibili per la loro disposizione lungo la stessa linea (Foto di Arianna Dissegna).

Figura 1.4 Il lupo, posando le zampe lungo la stessa linea, lascia l’impronta della zampa posteriore in parte sovrapposta a quella della zampa anteriore (Foto di Arianna Dissegna).

1.1.2 Comportamento e riproduzione

Il Canis lupus italicus, come tutte le altre sottospecie di lupo, ha una struttura sociale fondamentale: il branco. Esso è prima di tutto un’unità familiare, composta da una coppia di lupi riproduttivi e dominanti, accompagnata dai cuccioli dell’anno e in genere da qualche figlio di cucciolate precedenti (solo eccezionalmente viene accettato un lupo non imparentato). Questa tendenza all’aggregazione familiare può essere spiegata dalla kin selection, mentre la dimensione del branco è influenzata

9 principalmente dalla disponibilità di prede (Apollonio e Mattioli, 2006). In Italia i branchi sono in media di 4-5 individui, con un minimo di 2 e un massimo di 11, a seconda del periodo dell’anno. Il lupo ha infatti un ciclo riproduttivo che influenza la taglia del branco. In Italia l’accoppiamento tra il maschio e la femmina dominanti avviene ogni anno una sola volta, in un periodo compreso tra gennaio e marzo, in relazione alla latitudine (per esempio nel Sud Italia l’estro è a febbraio, nelle Alpi a marzo). La gestazione dura circa 63 giorni e la cucciolata è mediamente di 3-4 animali (eccezionalmente documentate anche di 7-9 cuccioli). In Italia non è mai stata documentata più di una riproduzione l’anno (Marucco, 2014). Probabilmente, un unico evento riproduttivo per anno permette di concentrare tutte le energie in una sola cucciolata e di aumentarne le possibilità di sopravvivenza. Per mantenere l’esclusività della riproduzione la coppia dominante mette in atto meccanismi di controllo sociale, manifestando aggressività e marcando il territorio. Prima del parto la femmina cerca una tana, che è in genere una cavità naturale (tronchi o anfratti) o una tana abbandonata da altri animali. La sua localizzazione dipende da diversi fattori, tra i quali la disponibilità di risorse come acqua e cibo o la lontananza di fonti di disturbo quali altri branchi. Se possibile, tende a seguire una certa tradizione ed essere la stessa per più anni (Apollonio e Mattioli, 2006). I cuccioli stanno con la madre nella tana per le prime 2-3 settimane di vita, poi iniziano a uscire rimanendo nel “sito di rendez-vous” da giugno ad agosto. Il rendez-vous site, solitamente in una zona remota e indisturbata, è il punto d’incontro tra adulti e cuccioli in estate. I piccoli dunque aspettano lì il ritorno degli adulti andati a cacciare, fino a quando, verso settembre, iniziano a seguire il branco nelle sue attività. Per questo nel periodo autunnale e nel primo inverno si riscontrano i branchi più numerosi, perché i cuccioli dell’estate sono cresciuti e i figli più grandi devono ancora cominciare a disperdersi. La dispersione avviene a inizio primavera, in media verso i 2-3 anni di vita, ovvero dopo aver compiuto 22 mesi, età in cui è raggiunta la maturità sessuale. Il potenziale di dispersione è molto elevato e possono essere percorse grandi distanze, da 10 a 1000 km. I lupi in dispersione possono fondare un nuovo branco con un altro individuo in dispersione, oppure possono insediarsi come dominanti in un branco già esistente (anche in quello di origine). Per questo motivo è frequente che i cambiamenti gerarchici di un branco avvengano in corrispondenza del periodo riproduttivo (Marucco, 2014). L’acquisizione di un nuovo soggetto dominante porta in genere all’uccisione o all’esclusione del dominante precedente. In quest’ultimo caso, l’individuo diventa un reietto e vivrà ai margini del territorio cibandosi di carcasse, senza lasciare tracce evidenti (Apollonio e Mattioli, 2006).

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1.1.3 Territorialità e comunicazione

Il lupo è considerato territoriale se caccia prede stanziali. È quindi questo il caso del lupo appenninico che, cibandosi principalmente di ungulati selvatici sedentari come cervi (Cervus elaphus), cinghiali (Sus scrofa), daini (Dama dama), caprioli (Capreolus capreolus) e mufloni (Ovis orientalis musinon), tende a stabilirsi col proprio branco in un territorio definito. L’areale in questione comprende aree di caccia, sito riproduttivo e percorsi per gli spostamenti. La sua dimensione è variabile ed è influenzata da diversi fattori, come la disponibilità e la distribuzione delle risorse, la densità intraspecifica, le dimensioni del branco, il periodo del ciclo biologico e infine anche da cause antropiche (Apollonio e Mattioli. 2006). Sugli Appennini la dimensione media di un territorio si aggira intorno agli 80 kmq, nelle Alpi può variare dai 100 ai 450 kmq, mentre nell’Europa settentrionale e in Nord America può superare i 1000 kmq. È importante ripetere che l’utilizzo del territorio è stagionale. L’areale utilizzato si riduce attorno al sito di rendez-vous nella stagione estiva, per poi espandersi in autunno inoltrato e in inverno, con movimenti del branco che interessano tutto il territorio (Marucco, 2014). Per difendere la proprietà esclusiva della zona dall’intromissione di altri lupi e per comunicare tra membri dello stesso branco, questi animali ricorrono a marcature visivo-olfattive e acustiche (Apollonio e Mattioli, 2006). Le marcature visivo-olfattive sono urinazioni, raspate e deposizione di escrementi. Generalmente è la coppia dominante a marcare, in luoghi ben visibili, come punti prominenti o all’intersezione di strade e sentieri, per garantire che sia rilevabile da qualsiasi lupo di passaggio. Questo riduce al minimo la possibilità d’incontro diretto tra individui estranei, che potrebbe portare a scontri con esito anche mortale, mentre aiuta gli altri membri del branco a memorizzare i sentieri. Le marcature trasmettono informazioni ormonali, che possono rimanere per settimane o addirittura mesi (Marucco, 2014). Spesso i territori sono in parte sovrapposti, producendo delle zone di buffer che fanno da cuscinetto e che sono frequentate da 2 o più branchi. In questi punti la tendenza a marcare si fa ancora più pronunciata. Per marcature acustiche si intendono invece gli ululati. Sono diverse le espressioni vocali utilizzate dai lupi per comunicare entro e tra branchi, come ringhi, abbai e uggiolii, ma è solo l’ululato che consente di comunicare a grande distanza. La frequenza delle emissioni aumenta in corrispondenza del periodo riproduttivo, con l’aumento dell’aggressività tra i branchi, e nei mesi di luglio e agosto, quando i cuccioli rimangono spesso soli nella zona del rendez-vous e tendono a richiamare gli adulti, che rispondono (Apollonio e Mattioli, 2006).

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1.1.4 Conservazione e gestione in Italia

In Italia il lupo era diffuso nell’intera penisola (eccetto la Sardegna) fino alla metà del XIX secolo, per poi essere deliberatamente eradicato dall’uomo dall’intero arco alpino e dalla Sicilia all’inizio del XX secolo. La sua distribuzione si era ridotta al Centro-Sud Italia, lungo gli Appennini, e alle zone confinanti con le Alpi Dinariche, dove comunque la specie era in declino. Le cause erano varie: riduzione delle prede naturali, deforestazione e persecuzione da parte dell’uomo. Negli anni ’70 un primo studio condotto da Zimen e Boitani (1975) stimò un centinaio di lupi, dislocati in due areali nell’Appennino centro-meridionale, ovvero nel 5% dell’areale originale (Marucco, 2014) (Fig. 1.5). Altre ricerche ipotizzano che in realtà il lupo non scomparve mai completamente neanche dagli Appennini settentrionali, basandosi su osservazioni del periodo (Apollonio e Mattioli, 2006). In ogni caso, il lupo era già stato dichiarato specie protetta in Italia nel 1971, con un decreto ministeriale che ne vietava la caccia (Marucco, 2014). Venne poi ulteriormente protetto in tutta Europa con la Convenzione di Berna nel 1979, che lo inserì in allegato II (specie strettamente protette), proibendone la cattura, l’uccisione, la detenzione e il commercio. Nel 1997 si aggiunse la Direttiva Habitat, che inserì il lupo in allegato D (specie prioritaria, d’interesse comunitario che richiede una protezione rigorosa), proibendone la cattura, l’uccisione, il disturbo, la detenzione, il trasporto, lo scambio e la commercializzazione in Europa (Genovesi, 2002).

Figura 1.5 Areale del Lupo in Italia nel 1900 e nel 1973 (da Bocedi R., Bracchi P.G., op. cit).

La popolazione di lupo in Italia ha potuto così riprendersi dagli anni ’70 in poi, fino ad arrivare nel 2012 a circa 800 lupi (Kaczensky et al., 2013), portando la specie a una “condizione di conservazione favorevole”, come si evince dal 3° Rapporto

12 nazionale della Direttiva Habitat trasmesso nel 2013 alla Commissione europea (www.minambiente.it). Un altro studio ha stimato la presenza di circa 1269-1800 esemplari, corrispondenti approssimativamente a 321 branchi, specificando che il numero “potrebbe essere ancora sottostimato” (Galaverni et al., 2015). La stima più recente della dimensione della popolazione, riportata nel Piano di conservazione e gestione del lupo in Italia, proposto a gennaio del 2017 e non ancora approvato, è di circa 150 animali per la popolazione alpina e di 1580 animali, con i valori compresi tra 1070 e 2472, per la popolazione appenninica (Boitani et al. in prep, 2017.) (Fig. 1.6). Tale ripresa numerica è stata raggiunta grazie ad alcune caratteristiche della specie come l’elevata plasticità ecologica e l’alta capacità di dispersione, ma hanno sicuramente contribuito anche l’abbandono dei territori montani a partire dal secondo dopoguerra, la rinaturalizzazione di molte aree e il ripopolamento degli ungulati selvatici (Marucco, 2014). Oltre alle dimensioni della popolazione, a crescere è stato anche l’areale che, nel decennio ’80-’90, si è ampliato del 50% rispetto al decennio precedente, arrivando fino all’Appennino tosco-romagnolo e ligure. Negli anni ’90 il lupo ha continuato la sua espansione verso le Alpi occidentali, arrivando nel 2010 nelle Alpi centro- orientali con una coppia insediata tra Trentino e Veneto, nel Parco Naturale della Lessinia. Questi due lupi, chiamati Giulietta e Slavc, sono il primo caso dopo due secoli (nel 2013) di riproduzione tra un lupo appenninico e un lupo dinarico. Slavc, proveniente dalla Slovenia e munito di radiocollare all’interno del progetto Life Slowolf, ha compiuto una delle dispersioni naturali più significative mai documentate per questa specie.

Figura 1.6 Distribuzione del lupo in Italia nel 2015, ottenuta dalla combinazione e integrazione di dati di varia natura forniti da oltre 150 esperti: in marrone = presenza permanente; in giallo = presenza sporadica; in verde = dati non riaggiornati (Boitani et al. in prep., 2017).

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Nel 2013 un’altra coppia con doppia origine è stata documentata in Friuli, nelle Prealpi pordenonesi. È da tener presente infatti che solo la formazione di una coppia, con la successiva riproduzione e formazione di un branco, può ritenersi come segno del ritorno della specie in un’area (Marucco, 2014). Un ultimo aggiornamento del 2016-2017, riportato nella relazione tecnica del progetto Life WolfAlps del 2017, descrive un’ulteriore crescita della popolazione ed espansione dell’areale, con nuovi branchi e coppie documentate, di cui due branchi e due nuove probabili coppie in Veneto, due nuove coppie in Trentino, una in provincia di Bolzano ed infine una nuova coppia in Friuli Venezia Giulia (Marucco et al., 2017) (Fig. 1.7). Nonostante il ripopolamento del lupo sia stato sin da subito un elemento fondamentale per gli ecosistemi naturali, portando un beneficio anche per “effetto a ombrello” (Genovesi, 2002) su altre specie e sull’ambiente, la continua espansione dell’areale ha messo in evidenza anche la problematica gestionale, connessa in particolare alla predazione di bestiame. Per questo motivo già nel 2002 era stato redatto dall’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (ora Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione dell’Ambiente, ISPRA), il primo Piano d’Azione Nazionale per la Conservazione del lupo, con un mandato di 5 anni e lo scopo di conservare il lupo: 1) mantenendo i livelli numerici e distributivi del predatore nella penisola; 2) assicurando l’incremento numerico e distributivo della popolazione alpina; 3) attenuando i conflitti tra il lupo e le attività umane.

Figura 1.7 Distribuzione minima del lupo nelle Alpi italiane centro-orientali e consistenza delle unità riproduttive (branchi e coppie e dei lupi solitari con territorio stabile per l'anno 2016-2017, sulla base dei dati raccolti dal Progetto LIFE WolfAlps (Marucco et al., 2017).

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Concretamente il piano prevedeva di “promuovere l’avvio di un percorso decisionale allargato alle diverse componenti politiche (ad es. Comitato per la Conservazione del lupo nelle Alpi) e sociali (ad es. Comitato Nazionale lupo), avviare alcune prioritarie azioni di conservazione (espansione delle specie-preda, riduzione di specifiche minacce, ecc.) e promuovere la raccolta delle informazioni giudicate indispensabili per una più efficace conservazione della specie (programma nazionale di monitoraggio, ricerca applicata, ecc.)” (Genovesi, 2002). Il Piano però, non contenendo gli strumenti economici per attivare le misure proposte (Genovesi, 2010), è stato sostanzialmente ignorato nella sua applicazione integrata e coordinata (Boitani et al. in prep., 2017). Sono comunque molte le risorse investite negli indennizzi per i danni prodotti dal lupo e nei progetti LIFE (18 in tutto, alcuni ancora in corso) (www.minambiente.it). Le attività si sono concentrate sulla qualità dell'habitat e sul conflitto con le attività umane, con attività di monitoraggio e stima della popolazione locale di lupo, mentre, in seguito, la concentrazione è andata sul tema del conflitto con le attività umane. Alcuni progetti sono stati innovativi e pioneristici, introducendo la collaborazione con gli allevatori di bestiame domestico, l'adozione di misure di prevenzione quali reti elettrificate e altri tipi di recinti e di cani da guardiania selezionati. Oltre ai progetti LIFE, ci sono state numerose iniziative su scala locale, regionale e a livello di collaborazione tra aree protette (Boitani et al. in prep., 2017). Attualmente il Ministero dell’Ambiente dopo aver predisposto la redazione di un nuovo Piano di gestione per il lupo in Italia, che possa tener conto di tutti i cambiamenti e le nuove informazioni sulla specie dal 2002 ad oggi, ne sta attendendo l’approvazione (www.minambiente.it).

1.2 Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi

1.2.1 Storia e territorio

Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna (Fig. 1.8) è situato nell’Appennino settentrionale e con una superfice di 36.846 ettari comprende un’area montuosa che si estende da nord-ovest a sud-est, con quote che variano tra i 400 e i 1658 m s.l.m. Le vette più alte sono il Monte Falco (1658 m) e il Monte Falterona (1654 m) (www.wikipedia.org). Questi rilievi derivano dallo scontro tettonico tra la zolla africana e la zolla europea avvenuto 45 milioni di anni fa. L’erosione di queste catene montuose portò alla deposizione di detriti che formarono la tipica roccia arenaria di queste montagne. Il sollevamento definitivo dei rilievi nel territorio del parco avvenne 10 milioni di anni

15 fa e fu maggiore a nord, così che i versanti romagnoli sono più ripidi di quelli toscani.

Figura 1.8 Cartina del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Sono segnalati i principali paesi e rilievi, le strade e le due sedi dell’Ente Parco (www.parcoforestecasentinesi.it).

Le precipitazioni sono frequenti in autunno e primavera, a causa delle correnti cariche d’umidità che da nord-est si scontrano con queste montagne. Anche in estate è raro che vi siano periodi di siccità. Il clima è fresco e umido, con un’esposizione al sole leggermente più favorevole sul lato toscano. L’umidità caratteristica è dovuta anche alla copertura boschiva, praticamente continua, che impedisce all’acqua piovana di evaporare rapidamente. Tutta quest’acqua, distribuita lungo il piano pendente originato dal crinale, si raggruppa in ruscellamenti superficiali, che convogliano in torrenti che scorrono verso il Tirreno e l’Adriatico. I corsi d’acqua toscani scorrono su pendii poco scoscesi e convogliano tutti nell’, che sgorga dal Monte Falterona. I corsi d’acqua romagnoli invece scendono velocemente paralleli l’uno all’altro, confluendo in prossimità della foce nel Mar Adriatico. Il territorio del parco è povero però di specchi d’acqua naturali. Le raccolte d’acqua

16 sono poco profonde e per lo più di origine antropica. Di rilievo è solo il lago di Ridracoli, un bacino artificiale che fornisce acqua potabile a quasi tutta la Romagna. La storia delle “foreste demaniali casentinesi” ha origini molto antiche, che risalgono al 1012. In questo anno avviene la donazione di un appezzamento del versante toscano a Romualdo, monaco di Ravenna, da parte di un conte feudatario di Arezzo. Lì nacque Camaldoli, con la costruzione dell’Eremo e del Monastero dei monaci camaldolesi. Anche il resto del Parco possiede una storia antica, risalente ai Conti Guidi, che dominarono su tutto il territorio fino al 1380, quando la Repubblica di Firenze confiscò loro ampi possedimenti che donò all’Opera del Duomo di S. Maria del Fiore. L’Opera si occupò del taglio e della vendita del legname fino al 1785, spesso a scapito delle popolazioni locali che con i “ronchi” (taglio, asporto e appicco di fuoco degli alberi di un appezzamento), cercavano invece di mettere a coltura i terreni. Nella seconda metà del ‘700 l’Opera abbandonò la gestione perché i boschi indeboliti erano poco redditizi. Nel 1818 concesse la foresta ai monaci camaldolesi, che seguirono direttive precise come non tagliare più di seicento abeti bianchi all’anno, ma il bosco non si riprese. Nel 1838 il granduca di Toscana, Leopoldo II, acquistò le foreste casentinesi e affidò il riordino forestale a Karl Simon, suo amministratore delle proprietà forestali. Il piano comprese rimboschimenti di vecchi pascoli e terreni degradati con abete bianco, abete rosso, pino silvestre, specie esotiche e vasti impianti di castagneti. Introdusse anche specie animali: cervi e daini dalla Germania, mufloni dalla Sardegna e uccelli da tutto il mondo. Karl Simon morì nel 1878 e nel 1884 il municipio di Pratovecchio propose l’acquisizione delle foreste da parte dello Stato, ma l’iniziativa decadde e nel 1900 si vende ad un privato, che rivendette a sua volta nel 1906. La proprietà venne finalmente ceduta allo Stato italiano nel 1914, dopo che gli ingenti tagli dei privati avevano spinto la popolazione, che viveva di artigianato del legno, a richiedere l’acquisizione statale. Il territorio venne definito Foreste Demaniali Casentinesi e affidato all’ASFD (Azienza di Stato per le Foreste Demaniali) che si occupò di rimboscare, convertire i boschi cedui in fustaie ed effettuare tagli prudenti, in un’ottica diventata di gestione più conservativa. Questo nuovo approccio fu soprattutto una risposta ai danni apportati dalle due guerre mondiali e condusse nel 1959 all’istituzione della Riserva Integrale di Sasso Fratino, dove vige il divieto d’accesso e di manutenzione della foresta. La consapevolezza dell’importanza dell’ambiente cresceva e in molti auspicavano la creazione di un parco. Il principale sostenitore fu Pietro Zangheri, appassionato di zoologia della provincia di Forlì. Negli anni ’60 promosse il progetto di un parco sul crinale appenninico, che fu istituito nel 1988 come Parco Regionale del Crinale Romagnolo. Nel 1990 il confine venne ampliato e fu stabilito il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Nel 1991 lo Stato italiano emanò la L.N. 394/9 sulle aree protette, sulla base della quale il 12 luglio 1993 il parco fu dotato di un ente di gestione proprio (Cian et al., 2003). Le regioni interessate dall’area del Parco sono l’Emilia-Romagna (18200 ha) e la Toscana (18000 ha), con 3 province coinvolte:

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Forlì-Cesena (18200 ha), Arezzo (14100 ha) e Firenze (3900 ha). I comuni sono invece 11: Bagno di Romagna, Santa Sofia, Premilcuore, Portico – San Benedetto e Tredozio (FC); Chiusi della Verna, Bibbiena, Poppi e Pratovecchio – (AR); Londa e (FI) (Fig. 1.9).

Figura 1.9 Cartina dei comuni compresi nel territorio del Parco Nazionale (www.parcoforestecasentinesi.it).

I terreni del parco sono di diverse proprietà, con 5300 ha del Demanio dello Stato, 18800 ha del Demanio delle Regioni e 12100 ha di privati. Gli abitanti residenti nel Parco sono circa 2000: il numero così basso è dovuto all’esodo verso le città della popolazione nel secondo dopoguerra. Non manca comunque il turismo, grazie soprattutto agli escursionisti che usufruiscono dei circa 650 km di rete sentieristica. La sorveglianza è effettuata dal Raggruppamento Carabinieri Parchi Nazionali, organizzato nel Reparto Carabinieri del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, cui fanno capo 10 comandi stazione (www.parcoforestecasentinesi.it).

1.2.2 Flora e fauna

Complessivamente, la foresta copre oltre l’80% della superficie totale, con eccezione dei fianchi ripidi e rocciosi dei monti e delle poche zone umide e praterie. Le specie vegetali sono oltre un migliaio e distribuite diversamente in base a posizione geografica, conformazione del territorio e clima. Quest’ultimo può essere considerato di transizione, tra clima alpino e clima mediterraneo. Sono presenti due macropaesaggi. Il primo è la fascia montana (> 900 m), dove domina il faggio (Fagus sylvatica), accompagnato dall’acero montano (Acer pseudoplatanus) sopra i 1100 m o dall’abete bianco (Abies alba) sotto i 1100 m. Altre specie sono l’acero riccio (Acer platanoides) e l’olmo montano (Ulmus glabra). La seconda fascia è

18 quella submontana-collinare (500-900 m), caratterizzata da boschi misti con latifoglie decidue come il cerro (Quercus cerris) e l’acero opalo (Acer opalus). Meno frequenti ma comunque presenti, sono anche altre specie arboree come il castagno (Castanea sativa), il tiglio (Tylia platyphyllos), il pero selvatico (Pyrus communis) e il melo selvatico (Malus silvestris). Questo bosco misto è soprattutto presente sui versanti a nord, più umidi e con suolo profondo, mentre sui versanti a sud più caldi predomina la roverella (Quercus pubescens). Infine, solo alla foresta della Lama è presente un bosco umido di notevoli dimensioni caratterizzato dalla presenza di ontani neri (Alnus glutinosa) e salici (Salix spp.). Non è però da dimenticare l’intervento dell’uomo: alcune aree boschive rimangono ceduate, mentre altre sono monospecifiche, con castagni o abeti bianchi. Questo può portare il bosco ad essere più delicato, come quando c’è solo l’abete bianco: i suoi semi cadono sulla lettiera di aghi e non germinano. In altri casi sono presenti specie esotiche come il pino nero (Pinus nigra) e la douglasia (Pseudotsuga menziesii) (Cian et al., 2003). Alcune zone sono comunque quasi intatte grazie alla loro ripidità, come la già citata Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino, le cui faggete vetuste dal 7 luglio 2017 sono state dichiarate Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco (www.parcoforestecasentinesi.it). In ogni caso sono molti i boschi, gli arbusteti e i pascoli di antico utilizzo antropico che stanno tornando ad una situazione più selvatica, equilibrata e autonoma. Se in alcuni casi, come nelle praterie, questo andamento potrebbe essere negativo per le rare specie erbacee e gli uccelli, in altri casi consente il ripristino di corridoi faunistici, fondamentali per la ripresa di molte specie che possono riutilizzare i loro antichi territori, come nel caso del lupo. Sono proprio la vegetazione diffusa e variegata e il territorio ricco di corsi d’acqua a fornire a migliaia di specie animali gli ecosistemi necessari alla loro sopravvivenza. Gli anfibi, in questo parco ricco di umidità, hanno trovato un luogo ideale dove insediarsi e sono presenti con ben 12 specie (Cian et al., 2003). Le più notevoli da segnalare sono l’ululone appenninico (Bombina pachypus), molto fragile e vulnerabile dal punto di vista conservazionistico, la rara salamandrina di Savi (Salamandrina perspicillata) e il geotritone italiano (Speleomantes italicus), esclusivo dell’Appennino e molto difficile da vedere (www.parcoforestecasentinesi.it). I rettili sono meno numerosi, con 9 specie, in quanto prediligono ambienti più soleggiati, poco presenti all’interno del parco. Il ramarro (Lacerta viridis), la vipera comune (Vipera aspis) e il biacco (Coluber viridiflavus) sono alcune delle specie presenti. Gli uccelli sono invece numerosissimi: di specie nidificanti se ne contano almeno 98, a cui si devono aggiungere le svernanti e quelle che sostano per brevi periodi. Un numero così alto si spiega con la varietà di ambienti a disposizione e con la posizione geografica intermedia tra nord e sud. Per questo motivo sono presenti specie alpine come il ciuffolotto (Pyrrhula pyrrhula) come anche specie mediterranee come l’occhiocotto (Sylvia melanocephala). Di particolare rilievo sono la presenza

19 dell’aquila reale (Aquila chrysaetos), nelle rupi del versante romagnolo, e del picchio nero (Dryocopus martius), il più grande picchio europeo generalmente distribuito sulle Alpi e sull’Appennino centro-meridionale. Per quanto riguarda i mammiferi, gli ungulati hanno vissuto una storia di riduzione e ripopolamento nel territorio del parco. Il cervo (Cervus elaphus) e il cinghiale (Sus scrofa), entrambi parte della fauna originaria del parco, si estinsero nel XVIII secolo a causa dell’attività venatoria. I cervi vennero reintrodotti da Karl Simon e ulteriori immissioni vennero eseguite nel secondo dopoguerra. I cinghiali furono invece rilasciati dalle associazioni venatorie negli anni ’70-’80, sebbene fossero incroci con razze centroeuropee più prolifiche e voraci. Il capriolo (Capreolus capreolus) invece, nonostante la fatica a reggere la concorrenza con i cervi, non scomparve mai dal parco, anzi, fu proprio nelle foreste demaniali che si rifugiò durante il secondo dopoguerra, per poi ripopolare l’Appennino. Daini (Dama dama) e mufloni (Ovis orientalis musimon), infine, vennero introdotti da Karl Simon e si estinsero più volte e più volte furono reintrodotti. Il daino ora è presente in buon numero, diversamente dal muflone che invece è presente con pochissimi esemplari (Cian et al., 2003). Tra i carnivori si segnalano la martora (Martes martes), la puzzola (Mustela putorius) (Ragni et al., 2015), la faina (Martes foina), la donnola (Mustela nivalis), il tasso (Meles meles), la volpe (Vulpes vulpes) (Cian et al., 2003) e il gatto selvatico (Felis silvestris silvestris) (Velli et al., 2015). Ci sono poi presenti altri mammiferi come per esempio toporagni, arvicole e topi selvatici di diverse specie, lo scoiattolo (Sciurus vulgaris), il ghiro (Glis glis), nonché il più raro quercino (Eliomys quercinus) e il moscardino (Muscardinus subterraneus). Infine, c’è l’enorme gruppo degli invertebrati, elementi fondamentali delle reti trofiche degli ecosistemi del parco, con numerose specie di lombrichi, crostacei, centopiedi, millepiedi, opilionidi, aracnidi e insetti. Di particolare impatto visivo in primavera e in estate sono i coleotteri e le farfalle. Una delle specie più notevoli è la Rosalia alpina, tipico coleottero delle faggete vetuste (Cian et al., 2003).

1.2.3 Gestione e ricerca scientifica

A livello gestionale, il territorio del Parco è ripartito in 4 zone a tutela differenziata (Fig. 1.10), come previsto dal Piano del Parco riportato nel sito ufficiale: - Zona A di riserva integrale: comprende aree di eccezionale valore naturalistico, in cui l’antropizzazione è assente o di scarso rilievo e nelle quali l’ambiente naturale è conservato nella sua integrità; sono destinate alla salvaguardia ed al mantenimento degli equilibri biologici ed ambientali in atto, alla prevenzione ed all’eliminazione di eventuali fattori di disturbo endogeni ed esogeni. Con una superficie di circa 924 ha, questa zona comprende le Riserve Naturali Integrali di Sassofratino, della Pietra e di Monte Falco.

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- Zona B: è la zona nella quale le attività consentite sono finalizzate al miglioramento della complessità degli ecosistemi, al mantenimento di equilibri naturali e colturali, all’esaltazione ed alla conservazione degli elementi di forte caratterizzazione paesaggistica, storica, monumentale, ancorché non coerenti con le caratteristiche di naturalità peculiari della zona stessa. Nella zona B vengono conservate le caratteristiche naturali, nello stato più indisturbato possibile. La naturalità è mantenuta attraverso la mera protezione, l'intervento attivo dell'Ente ed il mantenimento dei soli usi didattici, educativi, divulgativi, ricreativi ed agro-silvo- pastorali tradizionali, compatibili con la conservazione delle caratteristiche di massima naturalità. Comprende gran parte delle foreste demaniali regionali, il complesso monumentale della Verna e le Riserve Naturali Biogenetiche dello Stato (Camaldoli, Scodella, Campigna e Badia Prataglia). - Zona C: essa è caratterizzata dalla presenza di risorse naturali, paesaggistiche ed ambientali meritevoli di protezione e valorizzazione. Comprende aree d’interesse naturalistico, caratterizzate dal fatto che l'attività umana ha conformato l'aspetto dei luoghi e l'ambiente portandolo allo stato attuale meritevole di protezione, le quali dovranno essere oggetto di tutela paesaggistica attraverso il mantenimento dell'equilibrio tra il sistema insediativo e quello naturale. - Zona D: comprende tutti i centri urbani e le loro previste espansioni, nonché aree a destinazione produttiva tradizionale, piccoli centri di valore storico e di valenza turistica.

Figura 1.10 Ripartizione del Parco in 4 zone a tutela differenziale (www.parcoforestecasentinesi.it).

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Con una tale varietà di ambienti e specie, promuovere la ricerca scientifica in quest’area protetta diventa un compito fondamentale, che, come ricordato nel sito del Parco, è “da intendersi come strumento di conoscenza al servizio della conservazione.”. Le ricerche promosse sono state molteplici negli anni e coinvolgono vari ambiti: dal progetto di un atlante sulla biodiversità della flora vascolare dell’Università di Firenze, alla ricerca sulle faggete vetuste di Sasso Fratino dell’Università della Tuscia; dal monitoraggio della chirotterofauna gestito dalla Cooperativa Dream, all’annuale censimento del cervo al bramito dove partecipano centinaia di volontari. A tutte queste ricerche vanno aggiunti i progetti di tirocinio e i turni di volontariato nel Parco, che rappresentano un’ulteriore fonte di informazioni sulla natura e lo stato del territorio. Sono diversi anche i progetti Life a cui il Parco ha aderito negli anni, ad esempio: LIFE WETFLYAMPHIBIA, che prevede azioni di conservazione di anfibi e lepidotteri di particolare interesse e degli ambienti ad essi associati; LIFE EREMITA, che ha come obiettivo quello di valorizzare i dati raccolti su alcuni invertebrati legati al legno morto e alle acque ferme (www.parcoforestecasentinesi.it).

1.2.4 Il lupo nel Parco

Il lupo, storicamente presente in questo territorio, fu intensamente cacciato all’inizio del ‘900 fino a quando, nel 1937, fu documentata l’ultima uccisione di un esemplare a Bagno di Romagna. Fino agli anni ’50, in base alle segnalazioni riportate, sembrava comunque essere ancora documentata la presenza, ma, dagli anni sessanta, gli avvistamenti diminuirono fino a quasi scomparire. È nel 1985 che si hanno le prime nuove segnalazioni certe del ritorno del lupo nel parco, con riproduzione documentata. Negli anni successivi continuano a essere confermati dei branchi insediati in territori stabili e con riproduzioni regolari. (Matteucci, 2000). Nel 2002 il Parco iniziò ufficialmente un progetto di ricerca nel proprio territorio in collaborazione con l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), che prevedeva un protocollo di raccolta intensiva di presunti campioni fecali di lupo. L’obiettivo era di genotipizzare gli individui, stabilirne il sesso, verificarne le parentele e, georeferenziando la posizione del campione raccolto, ipotizzare gli areali dei branchi, identificando anche possibili casi di dispersione (ISPRA, 2009). Oltre al campionamento genetico non invasivo, il Parco, in collaborazione con l’ex Corpo Forestale dello Stato, ha eseguito il monitoraggio con altri metodi, come il wolf howling (Mencucci, 2010). Importante è stato anche il progetto LIFE WOLFNET, portato avanti dall’1/1/2010 al 31/12/2013, che prevedeva “lo sviluppo e messa in pratica di modelli teorici per la protezione e gestione del lupo nel contesto appenninico attraverso una metodologia che sia condivisa e coordinata tra le molteplici istituzioni, enti, associazioni e operatori territoriali” (www.lifewolf.net). All’interno di questo progetto erano previste anche

22 delle catture, autorizzate dal Ministero dell’Ambiente, come parte delle azioni mirate ad approfondire la conoscenza di questo predatore ottenendo dati rilevanti per: - valutare l’entità e la tipologia degli spostamenti; - definire degli home range e delle core area; - rilevare attività di predazione su animali selvatici e domestici; - localizzare i siti di rendez-vous; - stimare la consistenza numerica e capire la dinamica dei branchi di appartenenza degli animali radiocollarati. La modalità di cattura prevedeva l’utilizzo di lacci atraumatici, collocati nelle aree maggiormente frequentate dai diversi branchi, e l’impiego di strumenti per la teleanestesia (cerbottana o carabina lanciasiringhe). La limitazione degli eventi traumatici e dello stress da cattura era assicurata dall’installazione di un sistema di allarme radio avanzato (ATS™ o Telonics™), che rilevava lo scatto della trappola segnalandolo agli operatori e permettendo l’arrivo degli stessi sul sito di cattura in tempi rapidi. Dopo due mesi dall’inizio delle attività di cattura, fu finalmente presa una femmina nella notte del 25 aprile 2011, festa della Liberazione: la lupa fu chiamata “Libera” ed è stata l’unico esemplare munito di radiocollare all’interno del progetto LIFE WOLFNET (Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, 2011) (Fig. 1.11).

Figura 1.11 La lupa "Libera" anestetizzata (Foto da archivio del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna).

Da quest’esperienza nacque poi il Wolfnet 2.0, progetto finanziato dal Ministero dell’Ambiente con le “Direttive per l’indirizzo delle attività dirette alla conservazione della biodiversità”, ed in collaborazione con il Parco Nazionale della

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Majella (capofila), il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emilano, il parco Nazionale dei Sibillini e il Parco Nazionale del Gran Sasso. Il Progetto Wolfnet 2.0 include una serie di azioni riguardanti il monitoraggio del lupo con l’adozione di varie tecniche (videotrappolaggio e wolf howling, campionamento genetico non invasivo), accompagnato da azioni di tutela e mitigazione del conflitto. Il tutto per poter gestire al meglio il ritorno ormai avvenuto del lupo che, all’interno del Parco come in altre località italiane, sta aumentando in numero e densità, arrivando nel 2017 a 13 branchi ipotizzati (Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, 2017).

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2) MATERIALI E METODI

2.1 Area di studio

Figura 2.1 Area di studio, evidenziata all'interno dell'ovale arancione.

L’area di studio (Fig. 2.1) è stata scelta sovrapponendo due tipi di dati pregressi georeferenziati: il poligono convesso derivato dai punti di telemetria di Libera nel 2011 e la posizione dei genotipi di due branchi descritti dal 2002 al 2009 (Caniglia et al., 2014). Essa è inclusa nella parte toscana del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, nelle province di Firenze e Arezzo ed è essenzialmente compresa tra il crinale montuoso che separa la Toscana dall’Emilia Romagna, a nord-est, e il confine del Parco, a sud-ovest, con limite a sud-est negli abitati di Camaldoli e Moggiona e a nord-ovest nell’abitato di San Godenzo, per un’area totale di circa 11.700 ettari. I comuni interessati sono: San Godenzo, Londa, Pratovecchio-Stia e Poppi. L’area include il Monte Tufone (1305 m), il Monte Giogarello (1351 m), il Monte Gabrendo (1485 m), il Monte Falco (1657 m) e il Monte Falterona (1654 m). Sono presenti altri rilievi di altezza minore, i quali discendono lentamente rimanendo a quote collinari di circa 500 m. La vegetazione a quote più basse è composta principalmente da boschi misti (frassino, ginestra, carpino, roverella), mentre, salendo di quota si trovano soprattutto cerrete e faggete. Sono presenti anche castagneti e abetine di origine antropica. Le radure sono rare ma presenti, ed

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è possibile avvistare con relativa frequenza branchi di cervi (Fig. 2.2). Sono presenti anche altri ungulati, come cinghiali, daini e caprioli, più altri piccoli mammiferi carnivori come volpi, faine e tassi. Il clima è generalmente fresco e umido, quasi alpino nei punti più alti, con frequenti nevicate in inverno. Le precipitazioni sono abbondanti soprattutto in autunno e primavera. La zona è ricca di ruscelli che confluiscono nei diversi avvallamenti, tra cui la sorgente dell’Arno sul Monte Falterona. Le strade asfaltate sono poche, cosa che rende la maggior parte dell’area accessibile solo tramite strade sterrate o sentieri. Le aree abitate sono in numero esiguo e generalmente raggruppate in paesi di pochi abitanti, eccetto che per piccoli campeggi, rifugi, allevamenti, coltivazioni e/o agriturismi che sono invece sparsi nel territorio e isolati; sono presenti animali domestici come cani, pecore, capre e cavalli, generalmente gestiti e tenuti in apposite strutture (Cian et al., 2003).

Figura 2.2 Cervo maschio fotografato entro l’area di studio, nel periodo del bramito (Foto di Libero Middei).

2.2 Genetica non-invasiva

Il campionamento genetico non-invasivo consiste nella raccolta e nelle analisi di campioni biologici (feci, urine, tracce di sangue, pelo) che sono raccolti sul campo senza la necessità di un contatto diretto con l’animale, che non viene in alcun modo disturbato. Questa tecnica è ideale per lo studio di specie che, come il lupo, sono elusive e difficilmente contattabili. Tramite le feci è quindi possibile ricavare DNA proveniente dalle cellule di sfaldamento dell’epitelio intestinale e, georeferenziando

26 ogni campione raccolto, i genotipi ricavati possono essere localizzati nello spazio e nel tempo. Questa tipologia di dati permette di individuare i nuclei familiari e stimare fenomeni di turnover e dispersione (Caniglia et al., 2010).

2.2.1 Campionamento

Le attività di campionamento genetico non-invasivo che ho svolto personalmente si sono svolte da marzo a giugno del 2017, inserendosi nell’ambito dei progetti di monitoraggio del lupo del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, che si svolgono ogni anno dal 2002 (con una pausa negli anni 2014-2015). I campioni fecali sono stati da me raccolti lungo 35 differenti transetti, entro e nei dintorni dell’area della lupa radiocollarata “Libera”, uscendo in media 3 volte a settimana, per un totale di circa 350 km percorsi. I genotipi ottenuti da questi campioni sono stati aggiunti a quelli già identificati in precedenza, ottenuti da campioni raccolti principalmente dal personale dell’ex CTA-CSF (Coordinamento Territoriale per l’Ambiente del Corpo Forestale dello Stato), ora Raggruppamento Carabinieri Parchi Nazionali, organizzato nel Reparto Carabinieri del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, con occasionali collaborazioni con ricercatori, studenti, dipendenti e volontari del Parco. Data l’ampiezza del territorio del Parco e la variabilità di risorse disponibili negli anni, il campionamento è stato eseguito prevalentemente lungo transetti prefissati di lunghezza variabile scelti opportunamente lungo sentieri e strade sterrate, noti per essere abitualmente percorsi dai lupi, in modo da coprire tutta l’area in tutti i mesi dell’anno con una frequenza di 1-2 uscite a settimana. Nei periodi invernali la presenza di neve ha consentito, tramite sessioni di snow-tracking fuori pista, di raccogliere campioni ben conservati (grazie alla bassa temperatura) e probabilmente appartenenti non solo agli individui dominanti, che in genere marcano esclusivamente lungo i sentieri, ma anche ad altri membri di eventuali gruppi familiari (Caniglia et al., 2010). La ricerca di materiale campionabile si è concentrata principalmente su escrementi freschi (Fig. 2.3), di una settimana al massimo, ovvero con matrice ancora umida (fino a 1 giorno) o con matrice secca ma ancora presente (fino a 1 settimana). I parametri morfologici considerati per ridurre al minimo la possibilità di campionare escrementi appartenenti ad altre specie sono: il diametro, superiore a 20-25 mm, un odore molto acre e intenso (prodotto dalle ghiandole precaudali, generalmente atrofizzate nel cane) e il contenuto delle feci, costituito da resti delle prede come ossa, peli e denti (Marucco, 2014). Il campionamento, che richiede l’utilizzo di guanti monouso, inizialmente prevedeva l’asportazione di una porzione di fatta di 2-3 cm³, che veniva conservata in contenitori etichettati di plastica con 50 ml (rapporto 3:1 col campione) di etanolo 95%, precedentemente distribuiti ai collaboratori (Caniglia et al., 2010). Le

27 provette venivano poi conservate a -20 °C, in attesa delle analisi genetiche (Caniglia et al., 2014). Dal 2016 in poi è stato introdotto un altro protocollo, fornito dall’ISPRA, che utilizza dei tamponi (cotton-fioc sterili) che vanno strofinati ripetutamente sulla superficie della fatta, preferibilmente sullo strato di muco (se ancora presente). L’estremità del cotton-fioc va poi inserita in una provetta tipo eppendorf etichettata da 1,5 ml con all’interno già presente del reagente di conservazione (lysis buffer ATL, 275 μl). La provetta chiusa è conservata a temperatura ambiente fino al momento delle analisi genetiche (ISPRA, 2016). Per ogni escremento campionato è stata compilata un’apposita scheda (cartacea o digitale tramite l’applicazione ODK collect per smartphone), associata ad un codice identificativo univoco, alla data e alle coordinate prese tramite GPS, oltre ad altre informazioni utili all’interpretazione successiva dei dati (tracciatura su neve, freschezza del campione ecc.) (Fig. 2.4). In questo modo è stato possibile georeferenziare e associare a una data ogni genotipo ottenuto da un campione.

Figura 2.3 Escremento con matrice ancora presente e umida, probabilmente di 1 o 2 giorni, e perciò campionabile (Foto di Arianna Dissegna).

Figura 2.4 Compilazione tramite smartphone di una scheda ODK. L'escremento nella foto non era campionabile e perciò è stato semplicemente segnalato riportando le coordinate tramite GPS (Foto di Libero Middei).

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2.2.2 Analisi di laboratorio

Le analisi genetiche sono state effettuate dal personale del Laboratorio dell’Area per la Conservazione dell’ISPRA, attraverso una convenzione stipulata tra i due enti. I campioni, arrivati in laboratorio, sono stati sottoposti all’estrazione del DNA, usando il Qiagen DNeasy Blood and Tissue Kit ottimizzato per i campioni di tipo fecale e utilizzabile sulla piattaforma robotica MultiPROBE IIᴱˣ Robotic Liquid Handling System. Le estrazioni di campioni non-invasivi sono sempre state effettuate in locali dedicati al DNA non-invasivo e alle procedure di lavoro pre- amplificazione, sotto cappe a flusso laminare ultravioletto, seguendo un protocollo multi-tube (compresi i controlli positivi e negativi). Per la genotipizzazione degli individui sono stati scelti 12 loci microsatellite (STR – short tandem repeats) autosomici di origine canina, scelti per il loro alto polimorfismo e l’affidabilità nella distinzione tra cane e lupo: 5 tetranucleotidi (FH2004, FH2079, FH2088, FH2096, FH2137) e 7 dinucleotidi (CPH2, CPH4, CPH5, CPH8, CPH12, C09.250, C20.253) (Caniglia et al., 2014). Tali loci sono stati selezionati anche in base al fatto che assicurassero delle probabilità di identità (PID, la probabilità che due individui scelti a caso nella popolazione abbiano lo stesso genotipo) sufficientemente basse da distinguere tra loro individui anche strettamente imparentati. (Caniglia et al., 2010). Tutti i campioni tipizzati con i microsatelliti sono stati anche sottoposti a sessaggio molecolare con l’amplificazione delle sequenze del gene ZFX/ZFY (zync finger protein), presente nei cromosomi sessuali. Dopo la PCR il prodotto è stato tagliato con l’enzima di restrizione TaqI che riconosce e taglia la sequenza TC-GA, esclusiva del cromosoma Y. In questo modo gli individui di sesso maschile sono stati riconosciuti per il genotipo eterozigote, mentre il sesso femminile per il genotipo omozigote (Caniglia et al., 2010). L’identificazione degli aplotipi materni è avvenuta sequenziando 350 bp della regione di controllo del DNA mitocondriale, che permette di diagnosticare l’aplotipo tipico del lupo appenninico W14. Per gli aplotipi paterni invece sono stati tipizzati 4 microsatelliti presenti nel cromosoma Y (MS34A, MS34B, MSY41A, MS41B). I loci STR autosomici e legati al cromosoma Y sono stati amplificati utilizzando il Qiagen Multiplex PCR Kit ed un termociclatore GeneAmp PCR System 9700, con il profilo termico: 94 °C per 15 min, 94 °C per 30 s, 57 °C per 90 s, 72 °C per 60 s (sono 40 cicli per i campioni fecali), con la fase finale di estensione a 72 °C per 10 min. Per l’amplificazione sono stati usati volumi di 10 μl: 2 μl di DNA estratto dai campioni fecali, 5 μl di Qiagen Multiplex PCR Kit, 1 μl di soluzione Qiagen Q, 0,4 μM di deossinucleotide trifosfato, da 0,1 a 0,4 μl di 10 μM mix di primer e acqua priva di RNasi per arrivare al volume finale. La regione di controllo mitocondriale è stata amplificata in una PCR con volume di 10 μl, di cui 1-2 μl di soluzione di DNA, 0,3 pmol di primer (L-Pro e H350) e con profilo termico: 94 °C per 2 min, 94 °C per 15 s, 55 °C per 15 s, 72 °C per 30 s (40 cicli), con l’estensione finale di 5 min a 72 °C. I prodotti di

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PCR sono stati purificati con esonuclasi/fosfatasi alcalina e sequenziati in entrambe le direzioni con il kit Applied Biosystems Big Dye Terminator con i seguenti passaggi: 96 °C per 10 s, 55 °C per 5 s e 60 °C per l’estensione finale di 4 min (25 cicli). Le sequenze di DNA e i microsatelliti sono stati poi analizzati con un sequenziatore automatico 3130XL ABI, con il software ABI SeqScape 2.5 per le sequenze e Genemapper 4.0 per i microsatelliti. Tutti i genotipi individuali ottenuti sono stati assegnati alla propria popolazione di origine usando 168 genotipi di lupo di riferimento (76 femmine e 92 maschi), selezionati casualmente dai lupi trovati morti negli ultimi 20 anni in tutta Italia. È stato fatto un accertamento per assicurarsi che i lupi selezionati avessero un fenotipo tipico del mantello e nessun segno di ibridazione. Inoltre sono stati utilizzati come riferimento per le popolazioni di cane 115 genotipi di cani di taglia medio-grande (50 femmine e 65 maschi) provenienti dalle zone rurali italiane (Caniglia et al., 2014). I campioni fecali, anche se raccolti poco dopo la deposizione, sono soggetti a condizioni ambientali (raggi UV, escursioni termiche, umidità, funghi e batteri) che degradano consistentemente la qualità del DNA contenuto. Per questa ragione, nonostante l’ottimizzazione dei protocolli di estrazione ed amplificazione la resa di tipizzazione è solitamente di circa il 50% ed i genotipi possono contenere errori di genotipizzazione. Gli errori più comuni sono il dropout allelico (ADO), ovvero la mancata amplificazione di uno dei due alleli in casi di eterozigosi che porta a dei falsi genotipi omozigoti, ed i falsi alleli (FA), causati da contaminazioni o dall’amplificazione di DNA aspecifici. Per limitare tali possibili errori tipici delle genotipizzazioni di campioni non-invasivi sono state effettuate quattro amplificazioni indipendenti (repliche) per ogni campione ad ogni locus analizzato (approccio multi-tube; Taberlet et al 1996). Sono stati quindi accettati come genotipi omozigoti quelli in cui uno ed un solo allele sia stato osservato almeno tre volte su quattro repliche e come genotipi eterozigoti quelli in cui i due alleli siano stati osservati almeno due volte. Per evitare sprechi di tempo e di reagenti è stata fatta una selezione qualitativa iniziale dei campioni (screening), amplificandoli preliminarmente soltanto a tre dei 12 loci (FH2096, FH2137 e CPH8), ed ultimando le analisi con 4 repliche agli altri 9 loci solo per i campioni con una resa di PCR allo screening di qualità maggiore del 50%. I campioni che non soddisfacevano questi criteri sono stati analizzati altre 4 volte (recuperi) prima di essere definitivamente accettati o scartati. Tutte le repliche sono state sottoposte a una valutazione di affidabilità con il programma Reliotype, che utilizza le frequenze alleliche dei loci usati e una stima del dropout allelico per calcolare una probabilità di affidabilità (R) del genotipo multilocus. Sono stati ritenuti affidabili solo i genotipi con un valore di R > 95% e a partire dalle repliche ottenute da ciascun locus è stato individuato il genotipo di consenso con il programma Gimlet v.l.3.3. È stata posta particolare attenzione a tutti i genotipi che sono stati campionati una volta soltanto e che si differenziano per un solo allele, essendo ancora possibile

30 l’errore di dropout allelico, facendo ulteriori repliche ai loci simili (Caniglia et al., 2010). Per assegnare alle popolazioni di lupo o di cane i genotipi ottenuti ed individuare eventuali casi di ibridazione è stato utilizzato un modello bayesiano implementato nel programma Structure 2.3. Il modello utilizza genotipi multilocus per evidenziare la presenza di gruppi geneticamente distinti e assegnare gli individui ai gruppi (con una probabilità compresa tra 0,80 e 1,00), assumendo che ci siano K raggruppamenti. In questo caso, i genotipi utilizzati sono stati assegnati al gruppo “lupo” o al gruppo “cane”, con un valore soglia q = 0.95. Il programma ha eseguito 5 repliche di 10⁴ burn-in seguite da 10⁵ interazioni di catena di Markov Monte Carlo, selezionando il modello “admixture” (ogni individuo può avere antenati in più di una popolazione parentale). I genotipi con q intermedio sono stati considerati presunti ibridi e sono state fatte ulteriori analisi con genotipi simulati con HybridLab e usando aplotipi mtDNA e Y-STR diagnostici (Caniglia et al., 2014).

2.3 Localizzazione dei possibili nuclei familiari e ipotesi di parentela

Basandosi sull’organizzazione territoriale e gerarchica dei lupi (Mech e Boitani, 2003), i possibili nuclei familiari sono stati localizzati e ricostruiti nella loro composizione partendo dai seguenti presupposti: 1) i diversi branchi generalmente non hanno areali sovrapposti, perciò i rispettivi membri tenderanno ad essere campionati in aree diverse (Apollonio et al., 2004; Kusak et al., 2005); 2) gli individui dominanti marcano assiduamente i loro territori con feci e urine e saranno quindi campionati più frequentemente degli individui subordinati o transienti (Zub et al., 2003); 3) in Italia non è mai stata documentata più di una riproduzione l’anno e la coppia dominante mantiene l’esclusività della riproduzione con meccanismi di controllo sociale (Apollonio e Mattioli, 2004; Marucco, 2014;); 4) le coppie riproduttive si riproducono per almeno una stagione, venendo perciò campionate per un tempo più lungo rispetto ai figli o ai transienti (Mech e Boitani, 2003); 5) i pedigree dei nuclei familiari potranno essere ricostruiti con i genotipi ricavati dai marcatori molecolari (Caniglia et al., 2014). I genotipi individuati entro l’area di studio sono stati inizialmente suddivisi per quinquennio (2002-2006; 2007-2011; 2012-2017), in base agli anni di campionamento, per potersi focalizzare su ridotti gruppi di dati. È da sottolineare che le analisi di parentela sono state sviluppate senza considerare a priori i risultati ottenuti nell’articolo di riferimento del 2014 di Caniglia et al.

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Per localizzare i branchi presenti in ogni quinquennio sono stati realizzati i minimi poligoni convessi relativi a ciascun individuo tramite il programma QGIS, utilizzando come punti tutti i campionamenti entro l’area di studio di ogni genotipo, considerando come territori di possibili branchi le aree di sovrapposizione dei poligoni. Tutti gli esemplari con campionamenti anche al di fuori dell’area di studio sono stati considerati possibili esemplari in dispersione e per la produzione dei poligoni questi punti sono stati esclusi. Le analisi di parentela sono state effettuate utilizzando il programma Parente 1.2 (Cercueil et al., 2002), che consente di trovare il trios figlio + madre + padre in base alle compatibilità alleliche. Il file di input è una tabella con il codice univoco, il sesso e i dati genotipici di ogni individuo. Per rendere le analisi più scorrevoli, si è preferito dividere i genotipi in gruppi in base ai branchi localizzati nella fase precedente, sempre divisi per quinquenni. I genotipi di appartenenza incerta, a causa di campionamenti tra due o in più areali, sono stati analizzati entro più branchi e, se necessario per ulteriori verifiche di parentela, sono state eseguite analisi tra individui che non erano stati confrontati a causa della suddivisione in quinquenni. Il programma può restituire anche un valore di probabilità, che non è però molto affidabile in mancanza di dati relativi a data di nascita, età e morte dell’individuo. Non avendo a disposizione questo tipo di informazioni, sono stati selezionati come probabili solo i trios nei quali i genitori fossero stati campionati insieme per almeno 2 anni e prima o nello stesso anno del figlio. Per verificare l’affidabilità delle ipotesi selezionate in base a questi criteri, sono stati controllati gli aplotipi del cromosoma Y nelle parentele padre-figlio per scartare eventuali situazioni di incompatibilità. Successivamente, tra le possibili coppie di genitori rimaste, per ricostruire i pedigree più probabili si sono usati in successione i seguenti criteri: 1) se una coppia è l’unica presente per almeno un anno, è probabilmente la coppia dominante in quell’anno e in tutti gli altri anni in cui è presente; 2) se in questa coppia uno dei due individui smette di essere campionato mentre l’altro è ancora rilevato negli anni successivi, è probabilmente rimasto dominante ma con un altro compagno/a; 3) in caso di più coppie possibili nello stesso anno, la coppia più probabile è quella campionata più a lungo anche in altri anni. Nel caso di anni con dati insufficienti per avanzare delle ipotesi di relazione genitori-figlio, sono state eseguite delle verifiche di compatibilità allelica tra gli individui entro i gruppi individuati, considerando come possibili parenti (genitore- figlio o fratelli) le coppie di genotipi con almeno il 50% di compatibilità. Per lo stesso motivo, tra individui di sesso maschile è stata controllata la presenza degli stessi aplotipi nel cromosoma Y. Concluse queste analisi con le inferenze delle parentele più probabili, è stata ricostruita per ogni nucleo familiare individuato un’ipotesi di pedigree, ponendo le coppie di genitori individuate e i relativi figli in successione, in base all’anno di campionamento. Infine, sono stati ottenuti i minimi poligoni convessi dei nuclei

32 familiari identificati utilizzando i campionamenti degli individui inseriti nei pedigree ipotetici.

2.4 Wolf Howling

Il wolf howling è una tecnica di censimento del lupo che consente di individuare e localizzare i singoli soggetti o i nuclei familiari sfruttando la tendenza del lupo a ululare. La tecnica prevede l’emissione di ululati che tendono a stimolare le risposte vocali da parte dei lupi, le quali possono essere udite dall’uomo fino a circa due chilometri di distanza. Questa tecnica può essere utile per: determinare la presenza o l’assenza della specie nell’area, per stimare il numero minimo d’individui o per accertare l’avvenuta riproduzione in caso di risposta dei cuccioli (Harrington & Mech, 1982). Ci sono molte variabili in questo metodo, ma esiste una prassi di riferimento descritta da Harrington e Mech che prevede la divisione dell’area di studio in settori (in base ad altre informazioni raccolte in precedenza) e l’emissione di ululati per 2-3 notti di seguito con equipaggi di almeno 2 operatori che censiscono contemporaneamente ogni area. Per ogni punto di stimolazione sono previsti tre cicli di ululati (singoli e non di gruppo), ripetuti a 2 minuti di intervallo, con il primo ciclo eseguito a volume più basso per aumentare la probabilità di risposta dei lupi più vicini che potrebbero altrimenti venire intimiditi. Le condizioni ideali suggerite sono quelle di stimolare nelle ore notturne e crepuscolari, in assenza di vento e pioggia e in punti elevati che permettono una più ampia diffusione possibile del suono nel territorio circostante. La simulazione dell’ululato può avvenire a voce o con l’ausilio di una registrazione emessa da un megafono (Marucco, 2014).

2.4.1 Protocollo

Le sessioni di wolf howling da me eseguite, in totale 11, si sono svolte entro l’area di studio in 14 differenti punti di emissione da inizio agosto a inizio ottobre del 2017, in collaborazione con il Reparto carabinieri, i volontari e i tirocinanti del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi. Per le successive analisi, oltre alle risposte ottenute dalla mia indagine, sono stati utilizzati tutti gli ululati corali segnalati entro l’area di studio dal 2002 al 2017, divisi per quinquenni, con lo scopo di valutare eventuali corrispondenze con i minimi poligoni convessi dei nuclei familiari ipotizzati con i genotipi, in particolare verificando l’avvenuta riproduzione, con la localizzazione dei siti di rendez-vous. Queste informazioni derivano dall’attività di wolf howling che negli anni è stata svolta dal CTA del Corpo Forestale dello Stato (ora Reparto carabinieri PNFC), nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, spesso con la collaborazione di

33 ricercatori, volontari, tirocinanti e studenti. Nel 2006 le sessioni sono state eseguite su tutto il territorio nei mesi di settembre e novembre con l’impiego simultaneo di diverse squadre, che, dalle ore 20.00 e alle ore 5.00, percorrevano 200 km per notte con i mezzi di servizio. I punti di emissione all’interno del Parco erano 200 e in ogni punto, dopo l’emissione, si passavano 5 minuti in ascolto, riportando su scheda cartacea l’esito (Mencucci et al., 2010). Negli anni successivi, compreso il 2017, un tale sforzo di campionamento non è stato sempre possibile e l'attività è stata principalmente effettuata in maniera opportunistica da squadre che operavano generalmente in modo autonomo l’una dall’altra dalla fine di luglio alla metà di settembre, per avere la massima possibilità di correlare le risposte ottenute con i siti riproduttivi. Le uscite sono state svolte in genere 2 volte a settimana e ogni sera veniva seguito un percorso diverso costituito da 2-3 punti da cui eseguire l’emissione (generalmente punti elevati che si affacciano su vallate) e la finestra temporale per le emissioni è stata dalle 18.30 alle 24.00. Le emissioni, che potevano essere sia ululati singoli che di gruppo in base al livello di stimolazione che si riteneva necessario (ululato singolo meno stimolante, ululato di gruppo più stimolante), erano eseguibili da ogni punto assegnato in numero massimo di 3, intervallate da 5 minuti di ascolto. In caso di risposta, per conferma, è stato concesso di eseguire una sola ulteriore emissione per verificare la localizzazione della risposta In caso di avvenuta risposta da parte dei lupi la sessione poteva continuare, sugli altri punti previsti, solo se le direzioni di lancio e la distanza dal punto precedente erano sufficienti a non stimolare ulteriormente gli esemplari già contattati. Solo nel caso di assenza di risposta o risposte non chiare è stato possibile ripetere il sondaggio nei giorni successivi in percorsi già monitorati. Alcuni lanci sono stati eseguiti anche nelle serate dell’annuale censimento del cervo al bramito a fine settembre, approfittando dell’elevato numero di personale e volontari distribuiti nel territorio. Di ogni lancio è stato riportato l’esito, sia in caso negativo che positivo, attraverso le modalità di comunicazione concordate, che nel 2015 ha previsto la sostituzione della scheda cartacea con l’uso dell‘applicazione ODK collect, che permette la compilazione e l’invio diretto dei dati al database comune, tramite smartphone o dal pc. In ogni punto d’emissione sono state segnate le coordinate, l’orario e la direzione del lancio. In caso di risposta, sono state riportate la direzione di provenienza in gradi rispetto il nord, la stima della distanza in metri o chilometri, il numero minimo di esemplari distinguibili e la presenza di cuccioli. Questi dati permettono di ipotizzare su mappa il punto da cui è arrivato l’ululato. Oltre all’esito sono state riportate nelle note le osservazioni della serata, soprattutto elementi che inficiavano la possibilità di distinguere nitidamente gli ululati, come la presenza di disturbo antropico (musica alta proveniente da un paese vicino, passaggio di macchine), bramiti di cervi, ecc. Salvo necessità particolari si sono evitate le stimolazioni sonore nel periodo riproduttivo, quindi da febbraio (accoppiamenti) fino a tutto giugno (primo svezzamento dei cuccioli). In generale,

34 si è ritenuto opportuno limitare l'attività solo alle effettive necessità scientifiche e di monitoraggio.

2.5 Videotrappolaggio

Il video-fototrappolaggio è una delle tecniche più utilizzate per le indagini faunistiche. Le trappole video-fotografiche (TVF) sono degli strumenti di ricerca non-invasivi di recente diffusione, non solo tra i ricercatori ma anche tra gli appassionati. Sono dispositivi di piccole dimensioni, alimentati sia da batterie interne che esterne, che associano un dispositivo di ripresa video-fotografica ad un sensore di movimento. È generalmente presente anche un illuminatore invisibile a led infrarossi, che permette di produrre immagini nitide in bianco e nero in assenza di luce, essenziale per monitorare quelle specie che, come il lupo, hanno attività prevalentemente notturna. Sono programmabili negli orari di funzionamento e nella durata delle riprese. Le immagini o i video sono rilevati generalmente senza disturbo per la specie e archiviati in formato digitale in una scheda SD. Ogni file contiene automaticamente la data e l’ora del rilevamento. Il lupo, a differenza di altre specie, è difficilmente riconoscibile individualmente (eccetto casi di menomazioni o altre caratteristiche particolari), per cui il video-fototrappolaggio rimane una tecnica principalmente utilizzata per verificare la presenza della specie, stimare il numero minimo di lupi in un branco, individuare fenotipi anomali che potrebbero indicare ibridazione e documentare la presenza di cuccioli confermando l’avvenuta riproduzione (Marucco, 2014).

2.5.1 Protocollo

Le attività di videotrappolaggio all’interno della mia indagine hanno riguardato, nel mese di ottobre, la disposizione di 3 videotrappole in punti strategici selezionati per la vicinanza a risposte incerte ottenute tramite wolf howling, con lo specifico scopo di verificare le riproduzioni dei branchi. Oltre ai filmati ottenuti da queste sessioni, sono stati considerati in questo studio tutte le foto e i video derivanti dalle sessioni di foto-videotrappolaggio, eseguite dal 2010 al 2017, entro l’area di studio dal CTA del Corpo Forestale dello Stato (ora Reparto carabinieri PNFC) e da altre sessioni svolte da dipendenti, collaboratori e tirocinanti del Parco, con l’obiettivo di verificare la presenza di gruppi di 2 o più individui in corrispondenza dei minimi poligoni convessi dei nuclei familiari ipotizzati in precedenza con i genotipi. Sono stati considerati particolarmente rilevanti anche video con esemplari nell’atto di marcare o accompagnati da cuccioli, indicatori della presenza stabile di un branco e della sua riproduzione.

35

Le TVF utilizzate per ottenere questi dati sono IR-PLUS 110° 940 nm, munite di lucchetto di sicurezza Python Cable, collegate a una batteria esterna da 6 v e con all’interno una scheda SD da 16 GB. Dal 2010 al 2014 questo tipo di monitoraggio avveniva in modo variabile e opportunistico in tutto il territorio del parco e gli avvistamenti venivano riportati su scheda cartacea, segnando la posizione della videotrappola, il numero degli adulti, il numero dei cuccioli e una breve descrizione (es. lupi riconoscibili individualmente, scena di caccia ecc.). Dal 2015 in poi, con la nascita del progetto Wolfnet 2.0, il monitoraggio tramite TVF è stato svolto in maniera sistematica sia all’interno che appena fuori i confini dell’area protetta, principalmente nei mesi invernali e con impostata la ripresa di 1 minuto dopo lo scatto. Tutti i video registrati all’interno del progetto Wolfnet 2.0 sono stati visualizzati e dotati di un codice univoco. È stato poi creato un database Excel in cui, a ogni video, è associata la posizione della videotrappola, il numero di individui adulti e cuccioli (se possibile segnalandone il sesso), eventuali individui/branchi riconoscibili e la presenza di comportamenti territoriali, rappresentati dalle marcature odorose quali defecazione, urinazione e raspata. L’urinazione in particolare consente il riconoscimento dello stato sociale dei lupi (dominante o subordinato) e del sesso. Gli esemplari dominanti, infatti, sono individuabili perché generalmente sono gli unici a urinare con una delle zampe posteriori sollevata: i maschi ruotando il bacino (RLU = raised-leg urination) e le femmine flettendo l’arto verso il ventre (FLU = flexed-leg urination). Questo comportamento non si osserva negli esemplari subordinati che tendono invece a urinare in posizione accovacciata (SQU = squat urination). È inoltre tipico della coppia dominante, soprattutto se neo-formata, eseguire una doppia marcatura, ovvero urinare o defecare nello stesso punto (Apollonio e Mattioli, 2006). Oltre alla segnalazione di questi comportamenti la visualizzazione dei video prevedeva la notificazione di altre componenti rilevanti della scena (es. caccia, gioco, ululati, ecc.). Sono state anche considerate le segnalazioni di avvistamenti di gruppi di lupi o di cuccioli entro l’area di studio dal 2002 al 2017, ovvero osservazioni occasionali di privati o dipendenti del Parco riportate su schede faunistiche dall’ex CTA del Corpo Forestale dello Stato (ora Reparto carabinieri PNFC). Anche queste segnalazioni sono state confrontate con i minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari individuati, per rilevare eventuali corrispondenze.

2.6 La lupa “Libera”

I dati di posizione della lupa “Libera” sono stati raccolti da un collare GPS che era stato prodotto dall’azienda svedese Televilt, modello Tellus GSM Basic Collar, dotato di sensore di mortalità e di attività. Il peso del collare, alimentato con il pacco

36 batteria denominato 1D, è di circa 600 g, mentre la larghezza è di 40 mm. Oltre al GPS, il collare manteneva anche il sistema VHF, che ha permesso un monitoraggio tramite telemetria tradizionale per seguire l’animale con una localizzazione ogni 10 minuti per le 48 ore successive al rilascio (Fig. 2.5). Successivamente sono passati ad una localizzazione ogni ora per i 5 giorni successivi, proseguendo gradualmente verso la frequenza di localizzazioni del protocollo operativo standard che ne prevede 12 al giorno e, al passaggio dalla telemetria VHF a quella GPS. La ricezione dei dati via GPS è stata effettuata tramite il ricevitore RCD-04 della Televilt e la frequenza delle localizzazioni radiotelemetriche degli animali monitorati attraverso i collari GPS è stata programmata in modo da ottimizzare la durata dei dispositivi (almeno annuale). Al momento della cattura, in base alla dentatura (Fig. 2.6), l’età della lupa è stata stimata attorno ai 3 anni (Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, 2011). Dai punti di posizione provenienti dal radiocollare è stato ricavato il minimo poligono convesso, che è stato confrontato con i poligoni ottenuti precedentemente dai probabili nuclei familiari con l’obiettivo di verificare con quale di questi si sovrapponesse maggiormente. Successivamente i punti di posizione raccolti dal radiocollare sono stati suddivisi per ogni mese e confrontati con la posizione dei poligoni dei nuclei familiari ipotizzati, per osservare nel dettaglio le zone che hanno coinvolto gli spostamenti della lupa. Sono state inoltre considerate le posizioni dei campioni genetici, dei filmati e degli avvistamenti riguardanti la lupa (riconoscibile dagli altri lupi per essere ancora in possesso del radiocollare, a causa del mancato funzionamento del meccanismo di sgancio detto drop-off), con lo scopo di confrontare i movimenti della lupa negli anni con i minimi poligoni convessi dei probabili nuclei familiari individuati.

Figura 2.5 "Libera" al momento del rilascio, munita di radiocollare.

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Figura 2.6 Dettaglio della dentatura della lupa "Libera" al momento della cattura (Foto dall’archivio del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna).

38

3) RISULTATI

3.1 Genetica non-invasiva

Nel corso dell’indagine da me svolta ho rinvenuto 260 escrementi di presunto canide, 42 (16%) dei quali sono stati campionati perché il loro aspetto faceva ipotizzare si trattasse di materiale biologico abbastanza fresco. Dalle analisi genetiche, 20 (47.6%) di essi sono risultati appartenere a lupo e 2 (4.8%) al cane domestico, mentre per i restanti 20 (47.6%) non è stato possibile identificare la specie di appartenenza (Fig. 3.1). In tutto sono stati genotipizzati 18 campioni (42.8%), per un totale di 10 genotipi individuali (6 maschi e 4 femmine) (Fig. 3.2). Oltre ai dati ottenuti dalla mia indagine, sono stati selezionati anche altri 234 campioni di lupo raccolti nell’area di studio dal 2002 al 2017, corrispondenti a 52 genotipi. Quindi il numero totale di campioni utilizzati per le successive analisi sulle dinamiche di popolazione e di branco è stato di 252, corrispondenti a 62 genotipi (Fig. 3.3). Il numero medio di campioni fecali per anno è di 15.7, mentre quello dei genotipi è di 7; il numero massimo di campioni e rispettivi genotipi ottenuti è del 2007, con valori di 60 e 21, mentre il minimo di 0 è degli anni 2014- 2015 (Fig. 3.4). I singoli individui sono stati campionati da 1 a 22 volte, con una media di 4 campionamenti per genotipo, ma il 43.5% è stato campionato una volta soltanto. Gli esemplari sono stati campionati per intervalli di tempo che vanno da 1 a 7 anni, in media 2 anni di campionamento a individuo, con il 61.3% dei genotipi campionato per un anno soltanto (Tabella 1). Tra gli esemplari campionati nell’area di studio, 38 sono maschi e 24 sono femmine (rapporto sessi 1.6), tutti con fenotipo del mantello tipico e aplotipo mitocondriale W14, esclusivo del lupo appenninico. Nessun esemplare ibrido è stato rilevato entro l’area di studio.

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Figura 3.1 Dettagli del campionamento da me svolto entro l'area di studio.

Figura 3.2 Localizzazione dei 10 genotipi ottenuti da 18 campioni raccolti durante la mia indagine.

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Figura 3.3 I 62 genotipi selezionati entro l'area di studio, evidenziati con diversi colori.

Numero campioni e genotipi per anno 70 60 60

50 38 40

30 24 23 21 21 20 16 17 12 12 9 9 10 9 11 11 8 7 6 7 7 10 4 5 4 4 3 3 2 00 0 0 0 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017

Campioni Genotipi

Figura 3.4 Grafico con i campioni raccolti e i genotipi individuati ogni anno.

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Tabella 1 Elenco degli individui campionati entro l'area di studio. Per ogni esemplare è indicato: il codice identificativo univoco (in grigio), il sesso,3.2 il numeroLocalizzazione di campionamenti dei perpossibili anno (in gradazioninuclei familiari dall’azzurro e al ipotesi blu) e infine di laparentela somma dei campionamenti e degli anni totali (dal bianco al rosso). In giallo sono evidenziati gli anni in cui l’individuo è stato campionato fuori dall’area di studio. 42

3.2 Localizzazione dei possibili nuclei familiari e ipotesi di parentela

La divisione dei genotipi in quinquenni e la sovrapposizione dei minimi poligoni convessi di ogni individuo, ha permesso di ipotizzare il numero di nuclei familiari presenti nell’area di studio in tutti i quinquenni presi in considerazione. Nel quinquennio 2002-2006 sono stati individuati entro l’area di studio 18 genotipi (12 maschi e 6 femmine) appartenenti a 64 campioni (1 genotipo ogni 3.5 campioni). È stato possibile realizzare 6 minimi poligoni convessi: 4 si sovrappongono a nord-ovest del Monte Tufone (genotipi WFO3M, WFO5F, WFO86M, WFO99M), in una zona che comprende il Monte Falterona e il comune di San Godenzo; altri 2 si sovrappongono a sud-est del Monte Tufone, avvicinandosi al paese di Camaldoli (genotipi WFO24F e WFO34M) (Fig. 3.5). Questo lascia presupporre la presenza di almeno due nuclei familiari: il primo ipoteticamente composto da 13 individui, il secondo ipoteticamente composto da 5 individui. Non sono presenti genotipi che potrebbero essere considerati di appartenenza incerta. Un genotipo, WFO34M, è stato campionato anche al di fuori dell’area di studio.

Figura 3.5 Genotipi e minimi poligoni convessi individuati nell'area di studio nel quinquennio 2002-2006.

Nel quinquennio 2007-2011 sono stati individuati entro l’area di studio 35 genotipi (20 maschi e 15 femmine) appartenenti a 148 campioni (1 genotipo ogni 4.2 campioni). È stato possibile realizzare 14 minimi poligoni convessi: 7 si sovrappongono a nord-ovest del Monte Tufone (genotipi WFO5F, WFO86M, WFO102M, WFO103F, WFO106F, WFO111M e WFO129F), in una zona che comprende il Monte Falterona e il comune di San Godenzo; 7 si sovrappongono a

43 sud-est del Monte Tufone, avvicinandosi al paese di Camaldoli (genotipi WFO24F, WFO34M, WFO114F, WFO119F, WFO125M, WFO134M, WFO156M) (Fig. 3.6). Questo lascia presupporre la presenza di almeno due nuclei familiari: il primo ipoteticamente composto da 16 individui; il secondo ipoteticamente composto da 16 individui. Quattro genotipi potrebbero essere di appartenenza incerta perché campionati solo sul Monte Tufone (W1160F, WFO116M, WFO132M e WFO140M). Gli individui WFO111M, WFO125M, WFO130M e WFO147M sono stati campionati anche al di fuori dell’area di studio.

Figura 3.6 Genotipi e minimi poligoni convessi individuati nell'area di studio nel quinquennio 2007-2011.

Nel quinquennio 2012-2017 sono stati individuati entro l’area di studio 22 genotipi (13 maschi e 9 femmine) appartenenti a 49 campioni (1 genotipo ogni 2.2 campioni). È stato possibile realizzare 8 minimi poligoni convessi: 2 si sovrappongono a ovest del Monte Tufone (genotipi WFO179M e WFO209M), 3 si sovrappongono sopra di esso (genotipi WFO181M, WFO214F e WFO217M) e 3 si sovrappongono in una zona a sud-est dello stesso (genotipi WFO114F, WFO194F e in piccola parte WFO205F) (Fig. 3.7). Questo lascia presupporre la presenza di tre nuclei familiari: il primo ipoteticamente composto da 8 individui; il secondo ipoteticamente composto da 7 individui; il terzo ipoteticamente composto da 5 individui. Due genotipi potrebbero essere di appartenenza incerta perché campionati in territori di diversi ipotetici nuclei familiari (WFO193F e WFO213F). Un genotipo, WFO156, è stato campionato anche al di fuori dell’area di studio.

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Figura 3.7 Genotipi e minimi poligoni convessi individuati nell'area di studio nel quinquennio 2012-2017.

La posizione dei minimi poligoni convessi nei diversi quinquenni fa presupporre che due nuclei familiari possano essere presenti dal 2002: il primo a nord-ovest del Monte Tufone, chiamato in questo studio “Falterona” per la presenza di questo monte nel proprio territorio; il secondo a sud-est del Monte Tufone, chiamato in questo studio “Vallolmo”, per la presenza di una valle omonima all’interno del territorio. Un terzo nucleo, chiamato “Tufone” in questo studio per la sua collocazione, sembrerebbe essersi invece formato dal 2012 in poi. Per le analisi di parentela effettuate con il software Parente 1.2, i genotipi sono stati dunque divisi in 7 gruppi, secondo i quinquenni e i nuclei familiari individuati (Tabella 2). Le analisi hanno portato a 347 ipotesi di trios figlio-madre-padre: 176 per il nucleo familiare Falterona (67 nel quinquennio 2002-2006, 109 nel quinquennio 2007- 2011, nessuna nel quinquennio 2012-2017); 148 per il nucleo familiare Vallolmo (3 nel quinquennio 2002-2006, 143 nel quinquennio 2007-2011, 2 nel quinquennio 2012-2017); 13 per il nucleo familiare Tufone nel quinquennio 2012-2017. Un’ulteriore analisi, con i genotipi del nucleo familiare Falterona raggruppati nell’intervallo di anni dal 2010 al 2017, ha aggiunto altre 27 ipotesi di parentela, per un totale di 203 ipotesi di trios figlio-madre-padre per il branco Falterona. In totale sono quindi 374 trios figlio-madre-padre, composti da 51 genotipi su 62 presi in considerazione (82.3%). I criteri di selezione delle parentele più probabili, che prevedevano di considerare solo i trios con le coppie di genitori campionate assieme per almeno 2 anni e in anni precedenti o contemporanei alla presenza del figlio, hanno fatto scendere il numero

45 delle ipotesi di parentela da 374 a 61, comprendenti 42 dei 62 genotipi inseriti inizialmente nelle analisi (67.7%) (Tabella 3).

Tabella 2 Divisione dei genotipi in ipotetici nuclei familiari nei diversi quinquenni. I nomi dei branchi sono presi da località significative e centrali dei territori individuati. I genotipi segnati in marrone sono di appartenenza incerta e perciò analizzati entro più ipotetici nuclei familiari.

Tabella 3 Ipotesi di parentela (trios figlio-madre-padre) possibili per ogni probabile nucleo familiare individuato. I criteri di selezione prevedevano di considerare possibili solo le coppie di genitori campionate per almeno due anni assieme e in anni precedenti o contemporanei ai figli.

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Per il nucleo familiare Falterona, le ipotesi di parentela sono 32 e coinvolgono 18 individui (11 maschi e 7 femmine), con 12 possibili coppie di genitori (5 maschi e 6 femmine). Per il nucleo familiare Vallolmo, le ipotesi di parentela sono 24 e coinvolgono 17 individui (9 maschi e 8 femmine), con 10 possibili coppie di genitori (5 maschi e 3 femmine). Per il nucleo familiare Tufone, le ipotesi di parentela sono 5 e coinvolgono 7 individui (1 maschio e 6 femmine), con 1 sola possibile coppia di genitori. In tutte queste ipotesi le parentele padre-figlio hanno presentato aplotipi del cromosoma Y compatibili. Tra le possibili coppie rimaste, per ricostruire i pedigree più probabili per ogni ipotetico nucleo familiare, i criteri utilizzati (1 - se una coppia è l’unica presente per almeno un anno, è probabilmente la coppia dominante in tutti gli anni in cui è presente; 2 - se in questa coppia uno dei due individui smette di essere campionato mentre l’altro è ancora rilevato, è probabilmente rimasto dominante ma con un altro compagno/a; 3 - in caso di più coppie possibili nello stesso anno, la coppia più probabile è quella campionata più a lungo) hanno portato alla ricostruzione di ipotesi di pedigree per tutti i nuclei familiari individuati. Per il nucleo familiare Falterona, questi criteri hanno selezionato 3 coppie: WFO5F+WFO3M dal 2002 al 2006; WFO5F+WFO86M dal 2006 al 2008; WFO129F+WFO111M dal 2009 al 2010 (Tabella 4). Per il nucleo familiare Vallolmo, questi criteri hanno selezionato 3 coppie: WFO24F+WFO19M dal 2003 al 2004; WFO24F+WFO34M dal 2006 al 2008; WFO114F+WFO125M dal 2008 al 2013 (Tabella 5). Per il nucleo familiare Tufone, una sola coppia è possibile: W1160F+WFO181M dal 2012 al 2016 (Tabella 6).

Tabella 4 Ipotetico nucleo familiare Falterona: le coppie considerate più probabili sono 3 ed evidenziate con bordi rossi.

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Tabella 5 Ipotetico nucleo familiare Vallolmo: le coppie considerate più probabili sono 3 ed evidenziate con bordi rossi.

Tabella 6 Ipotetico nucleo familiare Tufone: è possibile una sola coppia.

Per gli anni senza ipotesi genitori-figlio, si è cercato di identificare possibili parentele (genitore-figlio o fratelli) tra gli individui dei nuclei familiari ipotizzati. Sono state eseguite quindi delle verifiche di compatibilità allelica che nel caso di valori superiori al 50% e per gli esemplari di sesso maschile, del 100% sul cromosoma Y. I dati sul nucleo familiare Falterona non producono alcuna ipotesi di parentela genitori-figli dal 2013 al 2017. Gli individui campionati in quel territorio e in quegli anni (WFO204M, WFO209M, WFO210M, WFO211M, WFO212M e WFO216M) possiedono tra di loro una compatibilità allelica superiore al 50% e gli aplotipi del cromosoma Y sono tutti compatibili. I dati sul nucleo familiare Vallolmo non producono ipotesi di parentela genitori-figli dal 2014 al 2017 (anche nel 2006, ma in quell’anno non sono stati genotipizzati campioni in quel territorio). Gli individui campionati in quell’area (WFO194F e WFO205F) possiedono compatibilità allelica inferiore al 50%, escludendo in questo modo la possibilità che si tratti di individui tra loro imparentati. Per ogni possibile nucleo familiare individuato, è stato così possibile ricostruire delle ipotesi di pedigree. Per il nucleo familiare Falterona (Fig. 3.8), la prima coppia considerata più probabile nel 2002 è la coppia composta da WFO3M e WFO5F, che è stata campionata fino al 2006 e dalle analisi di parentela risulta aver avuto 4 figli: WFO37M, WFO38F, WFO48F e WFO99M. La successiva coppia più probabile, dal 2006 al 2008, è composta ancora dalla femmina WFO5F, con un altro maschio, WFO86M. I figli ipotetici sono 4: WFO106F, WFO107M, WFO128F e WFO129F. Quest’ultima femmina è componente della coppia più probabile successiva, nel 2009 e 2010, composta appunto da WFO129F e il maschio WFO111M. I figli ipotetici di questa coppia sono 2, WFO164M e WFO176M. Dal 2013 in poi non sono presenti coppie dominanti ipotetiche. Gli individui campionati in quegli anni

48 sono però ipotetici parenti, presentando compatibilità allelica superiore al 50% e del 100%negli aplotipi del cromosoma Y, diversi dagli ultimi individui campionati prima di loro WFO111M e WFO179M. Non è possibile però ipotizzare se si tratti di parentele genitore-figlio o fratello-fratello.

Figura 3.8 Ipotesi di pedrigree del probabile nucleo familiare Falterona. Il codice univoco identificativo del genotipo è stato abbreviato al solo numero, mentre il sesso è rappresentato dalla forma del simbolo (quadrato=maschio, cerchio=femmina). Gli individui colorati di azzurro sono gli ipotetici maschi riproduttivi, in rosa invece sono le ipotetiche femmine riproduttive. Ogni simbolo di ogni individuo è posizionato in corrispondenza dell’anno del suo primo campionamento, con una freccia tratteggiata indicante il numero di anni successivi in cui è stato campionato. Nel 2013 e 2016 i simboli contenenti un punto interrogativo indicano la mancanza di ipotetici genitori ma la probabile parentela tra gli individui campionati.

Per il nucleo familiare Vallolmo (Fig. 3.9), la prima coppia considerata più probabile è composta da WFO19M e WFO24F, nel 2003 e 2004. I figli ipotetici sono 2, WFO33M e WFO43M. La coppia più probabile successiva è sempre composta dalla femmina WFO24F, con un altro maschio, WFO34M. I figli ipotetici sono 4: WFO101F, WFO114F, WFO121F e WFO143F. Uno di questi, la femmina WFO114F, è parte della coppia più probabile successiva, insieme al maschio WFO125M. Il programma Parente ipotizza un solo figlio, W1160F, che è il genotipo della lupa “Libera”.

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Figura 3.9 Ipotesi di pedrigree del probabile nucleo familiare Vallolmo. Il codice univoco identificativo del genotipo è stato abbreviato al solo numero, mentre il sesso è rappresentato dalla forma del simbolo (quadrato=maschio, cerchio=femmina). Gli individui colorati di azzurro sono gli ipotetici maschi riproduttivi, in rosa invece sono le ipotetiche femmine riproduttive. In evidenza con un colore acceso è segnata la lupa “Libera”. Ogni simbolo di ogni individuo è posizionato in corrispondenza dell’anno del suo primo campionamento, con una freccia tratteggiata indicante il numero di anni successivi in cui è stato campionato. Dal 2013 non si sono ottenute ipotesi di parentela tra gli individui campionati nel territorio del presunto branco.

Per il nucleo familiare Tufone (Fig. 3.10), è presente una sola coppia probabile, composta da W1160F (la lupa “Libera”) e WFO181M. I figli ipotetici sono 5: WFO193F, WFO199F, WFO213F, WFO214F e WFO218F.

Figura 3.10 Ipotesi di pedrigree del probabile nucleo familiare Tufone. Il codice univoco identificativo del genotipo è stato abbreviato al solo numero, mentre il sesso è rappresentato dalla forma del simbolo (quadrato=maschio, cerchio=femmina). Gli individui colorati di azzurro sono gli ipotetici maschi riproduttivi, in rosa invece sono le ipotetiche femmine riproduttive. Ogni simbolo di ogni individuo è posizionato in corrispondenza dell’anno del suo primo campionamento, con una freccia tratteggiata indicante il numero di anni successivi in cui è stato campionato.

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Dai pedigree, si sono ottenuti i minimi poligoni convessi per ogni nucleo familiare ipotizzato (Fig. 3.11).

Figura 3.11 Minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari, ottenuti dai campioni degli individui inseriti nei pedrigree.

3.3 Wolf howling

Le sessioni di wolf howling da me eseguite hanno dato esito positivo in 3 (18.75%) delle 16 postazioni utilizzate. In altre 3 (18.75%) postazioni sono state ricevute solo risposte da parte di cani, sempre provenienti da case abitate, mentre nelle restanti 10 (62.5%) l’esito è stato negativo o incerto (e perciò non considerato nelle analisi) (Fig. 3.12). Le emissioni effettuate in totale sono state 63 (in media 5.7 a uscita, 3.9 a postazione), dalle quali è stata ottenuta risposta da parte di cani in 3 casi (5%), incerta in 3 casi (5%) e positiva in 9 casi (14.2%). Tra le emissioni con esito positivo, 4 volte le risposte sono state di singoli individui (44.4%), 2 volte di gruppi di adulti (22.2%) e 2 volte di gruppi con cuccioli (22.2%), in una delle quali sono stati 2 i gruppi con cuccioli a rispondere. Le risposte da parte di un branco con cuccioli sono da considerarsi perciò 3: una dalla postazione numero 7 e due, nello stesso momento, da due gruppi distinti dalla postazione numero 9 (Fig. 3.13). Le risposte di gruppo raccolte dalla mia indagine sono perciò 5, di cui 3 con cuccioli. Oltre alle risposte ottenute nel corso della mia indagine, sono stati utilizzati i dati riguardanti 60 ululati di gruppo segnalati dal 2002 al 2017 entro l’area di studio, tra i quali 24 di branchi con cuccioli (40%). In totale sono perciò 66 ululati di gruppo

51 segnalati in 16 anni (4.1 all’anno), di cui 30 di branchi con cuccioli (45%, 1.9 all’anno) (Fig. 3.14). L’anno con più segnalazioni è il 2014, con 17 ululati di gruppo ascoltati, 6 dei quali con presenza di cuccioli. Gli anni 2002, 2009 e 2012 invece, non hanno segnalazioni riportate di ululati corali entro l’area di studio (Fig. 3.15).

Figura 3.12 Esiti delle 16 postazioni utilizzate nella mia indagine.

Figura 3.13 Ululati ascoltati nel corso della mia indagine. Le risposte indicate dalle frecce gialle indicano le 2 risposte corali con cuccioli sentite nello stesso momento dalla stessa postazione d’ascolto.

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Figura 3.14 Ululati corali dal 2002 al 2017. I triangoli rappresentano risposte di gruppi di adulti, le stelle rappresentano le risposte corali con cuccioli.

Figura 3.15 Ululati corali senza e con cuccioli segnalati dal 2002 al 2017.

Visualizzando le localizzazioni gli ululati corali suddivisi per quinquennio, si sono ottenute delle corrispondenze con i minimi poligoni convessi dei nuclei familiari individuati precedentemente (tramite i genotipi) in tutti e tre i quinquenni. Nel quinquennio 2002-2006 sono stati rilevati 5 ululati corali, di cui 3 con cuccioli (Fig. 3.16): 1 senza cuccioli e 1 con cuccioli a nord-ovest del Monte Tufone, 1 senza cuccioli e 2 con cuccioli a sud-est, in accordo con i 2 minimi poligoni convessi dei 2 probabili nuclei familiari individuati in quel periodo.

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Figura 3.16 Risposte corali di lupo nel quinquennio 2002-2006 a confronto con i minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari. I triangoli rappresentano risposte di gruppi di adulti, le stelle rappresentano le risposte corali con cuccioli.

Nel quinquennio 2007-2011 sono stati rilevati 4 ululati corali senza cuccioli e 9 con cuccioli (Fig. 3.17): 3 senza cuccioli e 3 con cuccioli a nord-ovest del Monte Tufone, 1 senza cuccioli e 6 con cuccioli a sud-est, corrispondenti ai 2 minimi poligoni convessi dei 2 probabili nuclei familiari individuati in quel periodo.

Figura 3.17 Risposte corali di lupo nel quinquennio 2007-2011 a confronto con i minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari. I triangoli rappresentano risposte di gruppi di adulti, le stelle rappresentano le risposte corali con cuccioli.

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Nel quinquennio 2012-2017 sono stati rilevati 30 ululati corali senza cuccioli e 18 con cuccioli (Fig. 3.18), La distribuzione delle risposte, sia di soli adulti che di gruppi con cuccioli, è diversa rispetto ai 2 quinquenni precedenti: alcune risposte sono ancora a nord-ovest del Monte Tufone, altre sono a sud-est dello stesso, mentre altre ancora si collocano sopra o nei dintorni del monte. Questa situazione è in accordo con i 3 minimi poligoni convessi dei 3 probabili nuclei familiari individuati in quel periodo, tutti e 3 con eventi riproduttivi documentati.

Figura 3.18 Risposte corali di lupo nel quinquennio 2012-2017 a confronto con i minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari. I triangoli rappresentano risposte di gruppi di adulti, le stelle rappresentano le risposte corali con cuccioli.

Andando a visualizzare esclusivamente gli ululati corali con cuccioli (Fig. 3.19), documentati dal 2004 al 2017 (eccetto che nell’anno 2012), è stato possibile individuare 2 zone in cui le risposte si concentrano con continuità: una a nord-ovest del Monte Tufone, in una località chiamata Poggio Porciglie, con riproduzioni documentate nel 2006, 2010, 2011, 2013, 2015, 2016, 2017; una a sud-est del Monte Tufone, in una località chiamata Poggio Metà D’Olmo, con riproduzioni documentate nel 2004, 2006, 2010, 2011, 2013, 2014, 2017. Queste localizzazioni rientrano nei due minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari Falterona e Vallolmo. Negli anni 2014 e 2015 invece, oltre ai due gruppi individuati in precedenza, sono state segnalate alcune risposte con cuccioli in 2 nuove località: nel 2014 in località Campamoli e nel 2015 in località Monte Gabrendo. Entrambe le localizzazioni rientrano nel minimo poligono convesso dell’ipotetico nucleo familiare Tufone. Nel 2017 il rilevamento di 2 distinte risposte corali con cuccioli, contemporanee, fa presupporre la presenza di due nuclei familiari con rendez-vous vicini. Uno di questi, in località Campigialli, rientrerebbe nel minimo poligono convesso dell’ipotetico nucleo familiare Tufone; il secondo, localizzato in località

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Poggio Metà D’Olmo, fa parte del gruppo delle risposte con cuccioli rientranti nel minimo poligono convesso dell’ipotetico nucleo familiare Vallolmo.

Figura 3.19 Risposte corali con cuccioli segnalate dal 2004 al 2017 a confronto con i minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari.

3.4 Videotrappolaggio

Le sessioni di videotrappolaggio effettuate nel corso della mia indagine hanno fornito la registrazione di un totale di 42 video di lupi (in media 14 video per videotrappola): tra questi, in 20 video (47.6%) è stato ripreso un singolo esemplare, mentre negli altri 22 (52.4%) sono stati ripresi gruppi di 2 o più esemplari. La postazione più produttiva è stata la numero 2 (Fig. 3.20) con un totale di 18 (42.8%) video registrati, mentre quella meno produttiva è stata la numero 3, con 10 (23.8%) riprese effettuate; la videotrappola numero 1 ha invece registrato 14 video (33.4%) (Fig. 3.21). Il gruppo di lupi più numeroso, costituito da 7 individui, è stato ripreso dalla videotrappola numero 2; la numero 1 invece ha ripreso al massimo 3 individui, mentre la numero 3 un massimo di 6. In tutte e 3 le postazioni sono stati filmati episodi di marcatura, mentre solo con la numero 3 è stato possibile filmare per 4 volte un gruppo di massimo 4 cuccioli (Fig. 3.22). È stato inoltre possibile utilizzare altri video raccolti dalle diverse postazioni utilizzate entro l’area di studio negli anni, complessivamente 26: da un massimo di 13 nel 2017 a un minimo di 2 negli anni 2013 e 2014 (in media 5.9 videotrappole disposte ogni anno) (Fig. 3.23). I video recuperati di lupi in gruppi di 2 o più

56 individui sono stati 296, per un totale di 321 video (in media 40 video all’anno), filmati da tutte le postazioni considerate entro l’area di studio, in congruenza con l’ipotesi della presenza di diversi nuclei familiari (Fig. 3.24). L’anno con più video raccolti è il 2015, con 106 riprese totali, mentre gli anni con meno video sono il 2012 e il 2014, con 4 video registrati (Fig. 3.25). Tra i video, 28 sono di marcature (8.7%) e 16 di cuccioli (5%) (Fig. 3.26). Gli episodi di marcatura del territorio, registrati negli ultimi 3 anni (2015-2017) sono stati ripresi in 3 zone distinte, ovvero a ovest del Monte Tufone, sopra il Monte Tufone e a sud-est dello stesso. Questo è solo in parte in accordo con i 3 nuclei familiari ipotizzati precedentemente, perché molti punti si trovano al confine o al di fuori dei poligoni. Gli eventi riproduttivi documentati sono 2: uno in una zona di sovrapposizione tra il minimo poligono convesso dell’ipotetico nucleo familiare Tufone e di quello di Vallolmo; l’altro è nella parte a sud-est dell’area di studio, fuori dal minimo poligono convesso dell’ipotetico nucleo familiare Vallolmo.

Figura 3.20 Videotrappole posizionate nel corso della mia indagine: la n° 1, in località “Le Balze”; la n° 2, in località “Case Gaviserri”; la n° 3, in località “Alta Moggiona”. Come evidenziato dalla stella rossa, solo la postazione n° 2 ha ripreso dei cuccioli.

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Figura 3.21 Numero di video registrati da ogni videotrappola durante la mia indagine.

Figura 3.22 Immagine estratta da uno dei filmati della videotrappola n° 2. Si possono distinguere 2 cuccioli, di taglia visibilmente ridotta rispetto all’adulto sulla destra (26/10/2017 ore 22:32, dall’archivio del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna).

Figura 3.23 Numero di postazioni di videotrappolaggio utilizzate ogni anno entro l’area di studio.

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Figura 3.24 Totale delle postazioni utilizzate dal 2010 al 2017 confrontate con i minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari. Da tutte le videotrappole sono emersi video di lupi in gruppi di 2 o più esemplari.

Figura 3.25 Numero di video ottenuti per anno dal 2010 al 2017, con riportato anche il numero dei filmati di episodi di marcatura e di riproduzione.

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Figura 3.26 Posizioni delle videotrappole che hanno filmato marcature e/o cuccioli, confrontate con i minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari.

Gli avvistamenti segnalati dal 2002 al 2017 sono stati in totale 13 (in media 0.8 per anno): 12 di gruppi di lupi adulti (92.3%) e 1 di un cucciolo (7.7%) (Fig. 3.27). Gli anni con più avvistamenti sono stati il 2007 e il 2010, con 3 segnalazioni, mentre non si riportano segnalazioni per 9 anni dei 16 considerati (Fig. 3.28). Gli avvistamenti si distribuiscono su tutta l’area di studio, rientrando in tutti i 3 minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari. Di particolare rilievo è l’avvistamento di un cucciolo nel 2016 in vicinanza del Monte Tufone, in località Poggio Morgante, corrispondente alla presunta presenza del nucleo familiare Tufone in quel periodo in quel territorio.

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Figura 3.27 Avvistamenti di lupi segnalati dal 2002 al 2017.

Figura 3.28 Numero degli avvistamenti di lupi (gruppi di adulti e cuccioli) riportati per anno, dal 2002 al 2017.

3.4 La lupa “Libera”

Il minimo poligono convesso della lupa “Libera”, ottenuto dai 2624 punti di posizione raccolti da aprile 2011 a maggio 2012 dal radiocollare, ha un’area di 124.472 kmq e tende a sovrapporsi in parte con i poligoni di tutti i nuclei familiari

61 ipotizzati (Fig. 3.29): il poligono di “Libera” include completamente il poligono dell’ipotetico nucleo familiare Tufone, in gran parte quello del gruppo Vallolmo, mentre la sovrapposizione con l’ipotetico nucleo familiare Falterona è solo parziale. La congruenza maggiore sembra dunque essere quella con l’ipotetico nucleo familiare Tufone. I punti di posizione sembrano concentrarsi su una linea che da nord-est a sud-ovest fiancheggia il Monte Tufone, ulteriore dato congruente con l’ipotesi che Libera sia membro dell’ipotetico nucleo familiare Tufone. I punti di posizione suddivisi per ogni mese di campionamento telemetrico di “Libera” (da aprile 2011 a maggio 2012), mostrano come la lupa sia stata inizialmente in una zona ad est del Monte Tufone, verso il territorio dell’ipotetico nucleo familiare Vallolmo, per poi posizionarsi sopra il monte, muovendosi verso ovest. Questo tipo d’informazione risulta congruente con l’ipotesi che “Libera” sia figlia di una coppia dell’ipotetico nucleo familiare Vallolmo e perciò provenga da quel branco, per poi spostarsi nel nucleo familiare Tufone. Andando a visualizzare nello specifico i campionamenti genetici della lupa “Libera” (Fig. 3.30), che possiede il codice identificativo del genotipo W1160F, si è visto che sono stati complessivamente 4, distribuiti in un intervallo di tempo di 6 anni: 2 nel 2011, 1 nel 2012, 1 nel 2016. La zona di campionamento, evidenziata dal minimo poligono convesso ottenuto, appare molto delimitata, al centro dell’area di studio, congruente con l‘ipotetico nucleo familiare Tufone. Anche i video che ritraggono la lupa sono in totale 4, filmati da 4 diverse postazioni di videotrappolaggio in un intervallo di 7 anni (Fig. 3.31): 1 nel 2011, 2 nel 2012, 1 nel 2017. Le videotrappole che hanno ripreso questo esemplare sono vicine tra loro ed essenzialmente raccolte nella zona dell’ipotetico nucleo familiare Tufone, eccetto la videotrappola che ha filmato la lupa nel 2011, che era stata posizionata più a est delle altre verso il territorio dell’ipotetico nucleo familiare Vallolmo. Anche queste informazioni risultano congruenti con l’ipotesi che “Libera” possa provenire dall’ipotetico nucleo familiare Vallolmo per poi stabilirsi nell’ipotetico nucleo familiare Tufone. Inoltre, in uno dei filmati del 2012, in data 5 novembre, la lupa “Libera” è stata ripresa in compagnia di un altro esemplare (Fig. 3.32), in atteggiamento giocoso. Questo dato è in linea con l’ipotesi della formazione di un nuovo branco da parte della lupa. Infine, un solo avvistamento della lupa “Libera” è stato segnalato, nel 2012 (Fig. 3.33). La segnalazione riporta che la lupa si trovava in compagnia di un altro esemplare, con il quale stava cercando di predare un cinghiale. La posizione dell’avvistamento è nei pressi del Monte Tufone, congruente con il territorio dell’ipotetico nucleo familiare Tufone.

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Figura 3.29 Punti di posizione del radiocollare della lupa “Libera” e minimo poligono convesso derivato da essi, sovrapposti ai poligoni dei genotipi degli ipotetici nuclei familiari.

Figura 3.30 Punti dei campionamenti genetici della lupa “Libera” (genotipo W1160F) e minimo poligono convesso derivato da essi, sovrapposti ai poligoni dei genotipi degli ipotetici nuclei familiari.

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Figura 3.31 Posizioni delle 4 videotrappole che hanno ripreso la lupa “Libera”, sovrapposte ai poligoni dei genotipi degli ipotetici nuclei familiari. La lupa è stata riconosciuta tra gli altri lupi perché l’unica nel territorio del Parco Nazionale ad essere in possesso del radiocollare.

Figura 3.32 Immagine estratta dal filmato, datato 5 novembre 2012, che ritrae la lupa “Libera” (riconoscibile per la grossa banda nera sul collo dovuta al radiocollare) in atteggiamento giocoso con un altro esemplare (Foto dall’archivio del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna).

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Figura 3.33 Unico avvistamento della lupa “Libera”, risalente al 2012, sovrapposto ai poligoni dei genotipi degli ipotetici nuclei familiari. La lupa è stata avvistata in compagnia di un altro esemplare, per un totale di 2 individui.

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4) DISCUSSIONE

Nonostante uno sforzo di campionamento variabile nel tempo e nello spazio, l’integrazione dei dati raccolti in 16 anni di monitoraggio, tramite genetica non- invasiva e altre metodologie, ha permesso di avanzare delle ipotesi fra loro coerenti sulla struttura e sulle dinamiche della popolazione di lupo in un’area di studio entro il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Un monitoraggio di questo tipo, basato sulla genetica non-invasiva integrata con altre informazioni, svolto da più collaboratori e protratto nel tempo, ha dimostrato anche in altri studi (Marucco et al., 2012; Scandura et al., 2012; Granroth‑Wilding et al., 2017) di essere una valida opzione per ricostruire pedigree multi-generazionali e seguire le dinamiche di riproduzione e dispersione dei branchi. Nessuno di questi studi però utilizzava anche dati di radiotelemetria, che forniscono una miglior definizione delle dinamiche di branco (Scandura et al., 2012).

I campioni fecali di lupo raccolti durante la mia indagine hanno avuto una resa di genotipizzazione del 42%, comparabile con quella di altri studi di genetica non- invasiva (48.5%, Galaverni et al., 2012; 44%, Caniglia et al., 2014). Non sono stati rilevati ibridi lupo-cane o individui melanici, come emerso dalle analisi pregresse svolte entro la stessa area di studio (Caniglia et al., 2014). L’analisi di 62 genotipi di lupo, rilevati entro l’area di studio in 16 anni, ha permesso di individuare due branchi dal 2002 al 2017, come noto per il periodo 2002-2009 (Caniglia et al., 2014). Dal 2012 è stato identificato un possibile nuovo nucleo familiare, localizzato tra i due già presenti nel territorio. L’essere riusciti a individuare dei nuclei familiari tramite la sovrapposizione dei minimi poligoni convessi dei genotipi è in linea con la tendenza dei diversi branchi a non avere areali sovrapposti (Mech & Boitani, 2003; Apollonio et al., 2004; Kusak et al., 2005). Le analisi di parentela hanno permesso di ricostruire delle ipotesi di pedigree in tutti e tre i nuclei familiari individuati. Gli individui inclusi nei pedigree proposti sono 37 (59.7%) sui 62 inizialmente considerati. Dal 2013 al 2017 però, nei nuclei familiari Falterona e Vallolmo non sono presenti ipotesi di coppie riproduttive. In quel periodo di tempo infatti, sono stati campionati solo maschi nel nucleo familiare Falterona (7), e solo femmine nel nucleo familiare Vallolmo (2). Non campionare la coppia riproduttiva di un branco è raro, per la tendenza degli individui dominanti a marcare insieme il territorio, ma è possibile (Caniglia et al., 2014). È inoltre da considerare che nel 2014 e nel 2015 il campionamento genetico non è stato effettuato nel Parco, azzerando in quegli anni il numero di genotipi disponibili per le ipotesi di parentela. Nel territorio del nucleo familiare Tufone invece, il ricampionamento nel 2016 della stessa coppia individuata nel 2013, ovvero prima della pausa del 2014-2015, ha permesso di realizzare un’ipotesi di pedigree.

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Confrontando i pedigree ottenuti in questo studio con i risultati del lavoro di Caniglia et al. (2014), che utilizzava un software diverso, Colony, è emersa una congruenza con le coppie riproduttive e i rispettivi figli ipotizzati dal 2002 al 2009. Le coppie riproduttive più probabili in questo studio sono 7 e presentano dinamiche simili nei nuclei familiari Falterona e Vallolmo: un caso di turnover del solo maschio dominante (mentre la femmina dominante rimane la stessa) e un caso di turnover della femmina dominante in cui è una figlia a sostituire la madre, unendosi con un maschio non imparentato arrivato dopo un periodo di dispersione. Il nucleo familiare Tufone invece, sembrerebbe presentare una dinamica diversa, con la figlia di una coppia dominante che forma un nuovo nucleo familiare, stabilendosi in un territorio limitrofo al branco d’origine, insieme a un maschio non imparentato. Non sono stati documentati in questo studio casi di dispersione femminile al di fuori dell’area di studio, mentre per gli esemplari di sesso maschile si contano 6 casi. Non sono inoltre stati documentati casi di femmine che si insediano in un branco già esistente diverso da quello d’origine. Anche in altri studi (Vonholdt et al., 2008; Galaverni et al., 2012; Caniglia et al., 2014; Granroth-Wilding et al., 2017) è emerso come la dinamica più frequente sia una tendenza femminile verso la dispersione entro branchi e territori conosciuti, in contrasto con la tendenza maschile di andare in dispersione per lunghe distanze verso nuovi branchi e nuovi territori (Granroth-Wilding et al., 2017), un comportamento presente anche in altre specie di canidi sociali come il licaone (Lycaon pictus) (McNutt, 1996). Una spiegazione a questa tendenza può essere trovata nel vantaggio di evitare fenomeni di inbreeding, che diminuiscono con l’acquisizione di comportamenti che evitano accoppiamenti incestuosi (Vonholdt et al., 2008).

Le sessioni di wolf howling da me svolte hanno avuto una percentuale di risposta del 14.2%, comparabile o superiore a quella di altri studi (12.6%, Gazzola et al., 2002; 14%, Apollonio et al., 2004; 3.7%, Alboni, 2006). La divisione in quinquenni dei 66 ululati di gruppo totali ha evidenziato delle corrispondenze con gli areali dei minimi poligoni convessi degli ipotetici nuclei familiari, confermando i due probabili branchi Falterona e Vallolmo e, con la segnalazione nel 2014 di un nuovo punto di risposta con cuccioli, di un nuovo nucleo familiare corrispondente al branco Tufone. L’uso della tecnica del wolf howling per ottenere aggiornamenti sul numero di branchi presenti in un territorio è stato impiegato con successo anche in altri studi (Apollonio et al., 2004; Alboni, 2006; Marucco et al., 2012; Bassi et al., 2015). Analizzando nel dettaglio le sole risposte corali con cuccioli, è emersa una continuità nella localizzazione dei siti di rendez-vous entro i territori dei nuclei familiari Falterona e Vallolmo: dal 2006 al 2017 per il primo (12 anni) e dal 2004 al 2017 per il secondo (14 anni). Un riutilizzo del sito di rendez-vous così prolungato da parte di un branco è stato documentato anche in un altro studio condotto sugli Appennini (Capitani et al., 2006). Come riportato in uno studio di Ciucci et al. (1997), la stabilità di un branco presso un sito è generalmente dovuta

68 alla sua posizione ottimale, distante dai centri abitati ma prossima a fonti di cibo disponibili. Alcuni studi (Capitani et al., 2006; Bassi et al., 2015) hanno provato ad individuare le variabili che influenzano maggiormente la scelta del sito di rendez- vous ed entrambi hanno ottenuto come parametro più influente la vicinanza ad un’area protetta, dato che concorda con il presente studio. Nel lavoro di Capitani et al. (2006), anche la distanza dalla presenza umana sembra essere un parametro importante, mentre nello studio di Bassi et al. (2015) anche l’altitudine (tra gli 800 m e i 1200 m) sembra essere un parametro rilevante, anche se ipotizzano possa essere legato ad una minore probabilità di entrare in contatto col disturbo antropico e ad una maggiore copertura boschiva e densità di ungulati. Tutti questi fattori si riscontrano nelle zone dei siti riproduttivi dei gruppi Falterona e Vallolmo, entrambi posti ad un’altitudine attorno i 900-1100 m, in zone prive di centri abitati e strade ma con una ricca copertura boschiva e una numerosa comunità di ungulati. Un'altra spiegazione proposta da Capitani et al. (2006) a questo comportamento è la fedeltà al sito, della femmina riproduttiva o della coppia, che potrebbe essere valida anche per questo studio, in particolare per le femmine WFO5F (Falterona) e WFO24F (Vallolmo), entrambe campionate per 7 anni, dal 2002 al 2008. Focalizzandosi invece sulle risposte corali con cuccioli segnalate dal 2014 in poi, entro il territorio del nucleo familiare Tufone, si evince come negli anni la localizzazione del sito di rendez-vous sia cambiata. Un caso analogo è stato documentato da Capitani et al. (2006), dove un branco ha spostato il sito riproduttivo ogni anno nel corso dell’indagine, nonostante la persistenza dello stesso maschio dominante. Riprendendo i parametri più importanti citati precedentemente per la scelta del sito di rendez-vous, è possibile ipotizzare che il territorio del branco Tufone non abbia caratteristiche ottimali per la riproduzione. L’areale del branco, infatti, include una strada asfaltata, una delle poche che tramite il Passo della Calla collega il alla Romagna, attraversando il territorio dell’area protetta. Lungo questa strada sono presenti alcune abitazioni, agriturismi, colonie per vacanze e rifugi per escursionisti, che rendono la zona molto frequentata soprattutto in estate. Anche se non è possibile escludere altri parametri, è probabile che una situazione di questo tipo possa aver spinto la coppia dominante a cambiare sito riproduttivo nel corso degli anni. Una situazione incerta emerge infine dalle sessioni di wolf howling del 2017, dove sono stati rilevati contemporaneamente due gruppi distinti di lupi con cuccioli, a circa 2 km di distanza l’uno dall’altro. Le ipotesi che si possono avanzare sono due: o un branco è stato stimolato in un momento in cui era diviso in due gruppi con presenti sia adulti che cuccioli, oppure si tratta di due nuclei familiari con siti riproduttivi molto vicini. La data della risposta è il 17 agosto, un momento in cui i cuccioli avranno avuto poco più di 3 mesi di vita. A quest’età, i cuccioli tendono ancora a rimanere nel sito di rendez-vous (Palacios et al., 2016), ma sono abbastanza sviluppati da poter iniziare a esplorare il territorio circostante (Mech & Boitani, 2003). Nonostante questo, è norma generale considerare la presenza di cuccioli determinante per distinguere branchi diversi sentiti ululare a qualche

69 chilometro di distanza (Palacios et al., 2016). L’ipotesi principale è perciò quella che si tratti di due gruppi distinti, ovvero i branchi Tufone e Vallolmo. Nel complesso, il fatto che i siti riproduttivi dei branchi Falterona e Vallolmo siano stati rilevati nella stessa zona negli anni, fa emergere l’ipotesi che la formazione di un nuovo branco abbia provocato una contrazione dei loro areali, piuttosto che un loro spostamento.

I 321 filmati raccolti tramite videotrappolaggio entro l’area di studio, dal 2010 al 2017, hanno permesso di documentare la presenza di gruppi di individui in tutti i tre territori degli ipotetici nuclei familiari. Non sono stati filmati individui ibridi o melanici entro l’area di studio, risultato congruente con ciò che è emerso dalla genetica. La combinazione del videotrappolaggio con la genetica non-invasiva per il rilevamento di eventuali individui ibridi o dal fenotipo anomalo è stata utilizzata con successo anche in altri studi (Galaverni et al., 2012; Canu et al., 2017). Gli episodi di marcatura registrati si concentrano in tre zone, in parte corrispondenti ai territori dei probabili nuclei familiari, in parte al di fuori di essi. In particolare, è presente una concentrazione degli episodi di marcatura a sud-est del territorio del branco Vallolmo. Dal confronto con le informazioni disponibili sugli altri branchi del Parco tramite il monitoraggio con wolf howling, emerge la presenza di un altro branco a est di Vallolmo, a Badia Prataglia, già documentato nel 2007 da Caniglia et al. (2014), e dal 2016 di un nuovo branco con cuccioli vicino al paese di Moggiona, a sud del branco Vallolmo. Questo consente di ipotizzare che la zona sia maggiormente marcata perché punto di confine tra tre possibili branchi, comportamento riportato in altri studi (Apollonio & Mattioli, 2006). È stato anche possibile confermare l’avvenuta riproduzione di nuclei familiari, come in altri studi che hanno utilizzato questa tecnica (Galaverni et al., 2012; Canu et al., 2017). Nel 2016 sono stati filmati 5 cuccioli e nel 2017 invece 4, corrispondenti al numero medio di 4-5 individui per cucciolata stimato in Italia (Apollonio & Mattioli, 2006). L’identità dei branchi in questione può essere ipotizzata esclusivamente in base alla posizione della videotrappola, a causa della limitata variabilità morfologica del lupo appenninico che rende questa tecnica limitata per distinguere gli individui e di conseguenza i diversi branchi (Marucco, 2014). La riproduzione del 2016 è stata rilevata a sud del territorio del branco Vallolmo, a una distanza di circa 5 km dal sito di rendez-vous del branco. Il filmato risale al mese di novembre, periodo in cui i cuccioli iniziano a seguire le attività del branco, per cui potenzialmente si potrebbe trattare della cucciolata del branco Vallolmo. Controllando però come citato sopra le informazioni sugli altri branchi monitorati nel Parco, è emerso che nel 2016 un branco con cuccioli è stato rilevato vicino al paese di Moggiona tramite wolf howling, ovvero a sud del branco Vallolmo. Questa informazione permette di ipotizzare che questa riproduzione non appartenga al branco Vallolmo, ma ad un altro branco. La riproduzione del 2017

70 invece ricade nel territorio del branco Tufone, facendo ipotizzare che i cuccioli dei video appartengano a questo nucleo familiare. Gli avvistamenti segnalati entro l’area di studio dal 2002 al 2017 hanno confermato la presenza di gruppi di individui in tutti e tre i territori dei possibili nuclei familiari. Sono perciò stati informativi, come in altri studi che hanno integrato gli avvistamenti ad altri dati raccolti sul campo (Apollonio et al., 2004; Capitani et al., 2006; Marucco et al., 2012; Bassi et al., 2015). Due avvistamenti, nel 2016 e nel 2017, ricadono nettamente fuori dai confine dei territori dei nuclei familiari, a sud del gruppo Vallolmo, nella zona del nuovo branco individuato nel 2016, già citato sopra. A settembre del 2016 è stato avvistato un cucciolo entro il territorio del nucleo familiare Tufone. La località della segnalazione, Poggio Morgante, è prossima alla posizione del rendez-vous documentata nel 2015. È probabile perciò che si tratti di un cucciolo del branco Tufone, confermando l’avvenuta riproduzione del nucleo familiare in quell’anno.

Il radiocollare di “Libera” ha fornito informazioni sulle posizioni della lupa per 14 mesi, un po’ più del tempo consigliato per ottenere delle informazioni affidabili sull’home range di un lupo, che è di almeno 9-12 mesi (Okarma et al., 1998). Il minimo poligono convesso in cui ricadono i punti di posizione ha un’area di 124 kmq, leggermente inferiore rispetto ad altri lupi radiocollarati in Italia e in Europa, che presentano home range di 141-294 kmq (Ciucci et al., 1997; Okarma et al., 1998; Findo & Chovancova, 2004; Kusak et al., 2005). Il valore rientra comunque nell’intrevallo di 80-240 kmq documentato per i branchi dell’Europa meridionale (Okarma et al., 1998). Dalla sovrapposizione del poligono di Libera con i territori dei branchi individuati, emerge una maggiore congruenza con il nucleo familiare Tufone. Visualizzando invece i punti di posizione della lupa divisi per mese, è emerso che nei primi mesi è stata rilevata entro il territorio del branco Vallolmo, per poi stabilizzarsi entro il territorio del branco Tufone. Questi risultati sono coerenti con le ipotesi di parentela, che propongono Libera come figlia della coppia riproduttiva del nucleo familiare Vallolmo e successivamente come femmina riproduttiva in un nuovo branco adiacente, con un maschio non imparentato. Il tipo di dinamica che potrebbe spiegare questi risultati viene descritta da Mech & Boitani (2003): “Un lupo può trovare l’occasione di riprodursi in un territorio saturo: 1) diventando il nuovo riproduttore del branco natale o formando un branco ad esso vicino; 2) diventando un riproduttore extra; 3) ritagliandosi un territorio dal mosaico di branchi già presenti; 4) usurpando un riproduttore in carica in un branco esistente. […] Esiste perciò anche la strategia di formare un branco vicino a quello d’origine, strategia che può coinvolgere sia un maschio che una femmina. Quindi, un esemplare starà nei pressi di uno dei margini del territorio d’origine aspettando un compagno e formando un branco adiacente o sovrapposto, fenomeno definito come budding.”.

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Altri dati riguardanti la lupa sembrano confermare l’ipotesi del “budding”. Filmata da sola nel 2011 in una zona verso il territorio del presunto branco Vallolmo, nel 2012 viene sia filmata che avvistata in vicinanza del Monte Tufone in compagnia di un altro esemplare. Infine, è dal 2012 che viene campionata geneticamente nello stesso territorio dove è presente un altro individuo, un maschio (WFO181M), fino al 2016. La lupa infatti non è stata campionata geneticamente nel 2017, ma solo filmata nel mese di gennaio. A marzo 2017, con la stessa videotrappola nella stessa postazione, è stata filmata un’altra femmina marcare (tramite FLU = flexed leg urination). Ovviamente, questo non è sufficiente ad avanzare l’ipotesi che ci sia stato un cambio nella femmina dominante: anche gli individui subordinati possono presentare occasionali tendenze a marcare (Marucco, 2014). Un proseguimento nel monitoraggio della specie nell’area potrà confermare o meno il cambio della femmina dominante.

Da questo studio emerge perciò la presenza di tre branchi entro un’area di studio di circa 117 kmq. Un’area con questa estensione corrisponderebbe circa al valore medio dell’areale stimato per un branco in Italia, ovvero 100 kmq (Corsi et al., 1999). Negli anni diversi studi, condotti negli Appennini, documentano un range di 50-200 kmq negli areali dei branchi monitorati (Ciucci et al., 1997; Apollonio et al., 2004; Scandura et al., 2012; Galaverni et al., 2012). Considerando l’areale più piccolo individuato, attorno ai 50 kmq, si direbbe che l’area di studio possa contenere 2 branchi, cosa effettivamente documentata fino al 2012. La formazione di un nuovo nucleo familiare fa perciò emergere la possibilità che un branco possa restringere ulteriormente il proprio areale, con un ulteriore aumento della densità della popolazione.

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5) CONCLUSIONI

Il lupo in Italia è presente con uno stato di conservazione soddisfacente e la popolazione continua a crescere (Galaverni et al., 2015). Per questo è necessaria una corretta gestione della specie, per assicurare la persistenza delle popolazioni e minimizzare i conflitti con le attività antropiche. È dunque necessaria una conoscenza dei parametri di distribuzione, abbondanza e tendenze demografiche delle popolazioni (Boitani et al. 2017, in prep.), ma gli studi, soprattutto sul comportamento spaziale del lupo in Italia, sono ancora pochi e le informazioni limitate (Scandura et al., 2012). Proprio per questo la lupa “Libera” rappresenta un caso interessante, che fa luce su una possibile dinamica con cui un lupo può fondare un nuovo branco in un territorio già densamente popolato degli Appennini settentrionali. Questo studio ha raccolto dati provenienti da un monitoraggio prolungato di 16 anni, portato avanti da molti collaboratori diversi con uno sforzo di campionamento variabile nel tempo e nello spazio. Nonostante questo, l’integrazione delle informazioni raccolte con diverse tecniche ha consentito di confermare l’ipotesi di partenza, sottolineando la validità di un approccio multidisciplinare e continuativo nello studio di questa specie. La presenza di tre branchi individuati entro un’area di circa 117 kmq suggerisce che la popolazione di lupo possa ancora crescere in densità, sebbene non sia ancora chiaro fino a che punto un areale possa restringersi e il legame che questo fenomeno abbia con le risorse disponibili. È probabile che questo aumento della popolazione possa presentarsi esclusivamente in aree protette con alta densità di ungulati, come il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, ma non è da escludere che possa manifestarsi anche in aree non protette, aumentando il rischio di conflitto con le attività antropiche. Saranno necessarie ulteriori indagini per conoscere questo fenomeno e pianificare così una gestione della specie basata su dati aggiornati.

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