Istituto secondario di I° Grado Azzarita-De Filippo-Ungaretti

Bari

a.s. 2010-2011

La Questione Meridionale e il Brigantaggio in Puglia

Classe 2B

Hanno coordinato:

prof.ssa Annamaria CENTOLA

prof.ssa Dorotea TOTAGIANCASPRO

D.S. Prof. Giuseppe CAPOZZA

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La questione meridionale fu un grande problema nazionale dell'Italia unita.

Il problema riguardava le condizioni di arretratezza economica e sociale delle province annesse al Piemonte nel 1860-1861 (rispettivamente gli anni della spedizione dei Mille e della proclamazione del Regno d‟Italia).

I governi sabaudi avevano voluto instaurare in queste province un sistema statale e burocratico simile a quello piemontese.

L‟abolizione degli usi e delle terre comuni, le tasse gravanti sulla popolazione, la coscrizione obbligatoria e il regime di occupazione militare con i carabinieri e i bersaglieri, creò nel sud una situazione di forte malcontento.

Da questo malcontento vennero fuori alcuni fenomeni: il brigantaggio, la mafia e l‟emigrazione al nord Italia o all‟estero.

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Dopo l‟unità d‟Italia vi fu un rigetto nei confronti del governo da parte della povera gente del meridione.

Tale rigetto si manifestò fra il 1861 e il 1865 con il fenomeno del brigantaggio.

Il brigantaggio era localizzato in Calabria, Puglia, Campania e dove bande armate di briganti iniziarono vere e proprie azioni di guerriglia nei confronti delle proprietà dei nuovi ricchi.

I briganti si rifugiavano sulle montagne ed erano protetti e nascosti dai contadini poveri; ma ricevettero aiuto anche dal clero e dagli antichi proprietari di terre che tentavano, per mezzo del brigantaggio, di sollevare le campagne e far tornare i Borboni.

Fra i briganti, oltre ai braccianti estenuati dalla miseria, c‟erano anche ex garibaldini sbandati ed ex soldati borbonici.

Non mancavano poi numerose donne audaci e spietate come gli uomini.

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BRIGANTAGGIO PUGLIESE

La Murgia, l‟entroterra tarantino e brindisino, la Daunia: nelle Puglie non tutti sono memori della delicata pagina post-unitaria, che legò il passato borbonico al futuro sabaudo.

In mezzo le mille cronache dei briganti, che condensano folclore, mito nostrano e tanta viva e cruda quotidianità.

È lecito oggi rispolverare un lucido revisionismo storico di quella storia tramandataci dai vincitori?

Per molta gente, le vicende dinamiche dell‟Unità d‟Italia che portarono l‟eroe Garibaldi ed i suoi prodi seguaci a completare la fusione della penisola, attraverso la spedizione simbolo delle gesta risorgimentali, sono lo specchio di quello che è da sempre il more italico.

Una compagine non invincibile, che pur fra stenti e patimenti, riesce nella propria impresa, senza tuttavia trovare un avversario propriamente agguerrito qual era l‟esercito borbonico allo sbando dell‟epoca.

I fatti che portarono gli eroi sabaudi fino a Teano li sappiamo tutti; ma desta una certa impressione rileggere fra gli eventi di microstoria locale ed annotare centinaia d‟episodi di vera e propria guerra civile, simbolo di un cambiamento tutt‟altro che indolore per il mezzogiorno.

Le faide, i regolamenti di conti e le lotte intestine che scissero ogni piccola e grande municipalità, all‟indomani del 1861, non fecero altro che dilaniare ulteriormente i già fragili equilibri socio-economici meridionali.

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Divenne così, una facile propaganda l‟operazione piemontese di tacciare come “brigantesca”, qualsiasi istanza tesa a ripristinare il regime conservatore legittimista.

E la Puglia, al pari di quanto avvenne in Lucania, Campania, Calabria e

Molise, fu insanguinata da una lotta civile, tra invasori piemontesi e nostalgici borbonici, coi primi che imponevano la dura legge della coscrizione coatta, del prelievo fiscale incontrollato e della rivoluzione sociale, che provocò un terremoto in un meridione narcotizzato da decenni di dominio napoletano. Questo scontro tra visioni di vita tanto opposte, che trova un precedente similare nei moti repressi nel 1799, all‟indomani della proclamazione della Repubblica Napoletana, subito ridimensionata dalle forze sanfediste, vide in particolare in Puglia e Lucania il fiorire di formazioni paramilitari partigiane, che fecero della guerriglia e delle imboscate il punto di forza dei cosiddetti “briganti”.

Ma parlare di generici briganti non fornisce forse giustizia alla verve di alcune personalità di questo mondo oscuro ed ambiguo, destinate a restare nella memoria collettiva paesana, per il calibro delle proprie gesta.

È accaduto con nel Vulture potentino, come anche con

Ninco Nanco, Pizzichicchio ed il Crapariello nelle province di Taranto e

Matera, oppure con il Sergente Romano nelle murge baresi e brindisine.

Quest‟ultimo, nativo di Gioia del Colle, è forse una delle figure più carismatiche, emerse nel lungo conflitto tra insorti filoborbonici ed esercito piemontese.

Reduce dall‟esperienza vissuta in prima linea tra le fila dell‟esercito borbonico, il Romano mise a disposizione degli insorti tutta la sua sagacia

5 tattica e l‟acume militare, maturato a contatto con quei territori dell‟agro murgiano che lo videro crescere.

Seminò scompiglio in tutto il sud est barese e nelle municipalità dell‟entroterra talentino, insieme ad un gruppo di fedelissimi, combattendo strenuamente fino alla morte in nome del suo re.

Soldato, dunque prima che bandito: eppure la repressione piemontese fu feroce e siccome in ogni guerra sono i numeri a prevalere spesso sul valore dei singoli, al Sergente Romano non fu concessa alcuna pietà.

Il corpo seviziato fu esposto al pubblico ludibrio e gli ideali per i quali condusse la sua personale guerra colarono a picco assieme a quell‟agognata restaurazione del potere legittimista.

La storia scritta dai vincitori parlò solo di banditi, feroci briganti e criminali senza scrupolo, che compirono ogni scelleratezza immaginabile, per soddisfare i propri appetiti e le proprie bramosie.

Le voci del popolo tramandateci dai nostri nonni parlano invece di una naturale reazione delle masse contadine alle nuove regole imposte dall‟invasore piemontese, che per primo fece ricorso a sistemi violenti e repressivi per garantire un ordine pubblico a sé congeniale.

Se la verità è nel mezzo, dobbiamo dunque dubitare di alcuni contenuti riportati nelle pagine dei nostri libri di storia, perché non si può sacrificare in nome dell‟ovattata e gloriosa Unità d‟Italia, il pesante prezzo di vite umane, costumi ed ideali che dilaniarono il Regno delle Due Sicilie.

Vae victis, guai ai vinti...

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Il Sergente Pasquale Domenico Romano

Il Sergente Pasquale Domenico Romano rappresenta, probabilmente, l'immagine più romantica del brigantaggio.

Nacque a Gioia del Colle il 24 agosto 1833 da una famiglia di pastori, nel

1851 si arruolò nell'Esercito Borbonico dove intraprese una brillante carriera diventando appunto Sergente.

Con l'invasione piemontese e disciolto l'Esercito Borbonico divenne subito comandante del comitato clandestino borbonico del paese natio. Vista però la mancanza di azione del comitato, decise di iniziare la lotta armata. Riuscì a riunire i compagni d'armi borbonici creando la sua prima banda, le prime operazioni, contro la Guardia Nazionale ed i regolari piemontesi erano mirate a procurarsi armi e munizioni. Il 28 luglio 1861 irruppe in Gioia del

Colle costringendo i piemontesi ad abbandonare la città, bisogna dire che per la riuscita dell'azione fu molto importante la partecipazione alla battaglia dei cittadini i quali non nascondevano la propria ammirazione per il Sergente. Bisogna dire che le truppe piemontesi e la Guardia Nazionale per vendicarsi si accanirono contro la sua famiglia ed agli amici più cari, questo procurò nel Romano un astio ancora maggiore contro gli "invasori".

Unita la sua banda con quella del Generale Crocco Carmine Donatelli, nel

1862, bloccò le strade di accesso dapprima per Andria e Corato poi quelle

7 fra Altamura e Toritto tendendo imboscate sia all'esercito che alla Guardia

Nazionale. Inoltre vennero distrutte le masserie di liberali ed ex garibaldini della zona, seminando il panico e facendo strage tra i "traditori del Popolo meridionale". Tutti questi episodi fecero concentrare gli sforzi dell'esercito piemontese e della Guardia Nazionale a reprimere la banda del Sergente

Romano.

Il 1 Dicembre 1862 il Sergente commise un grave errore, bivaccando presso la solita masseria dei Monaci, dove frequentemente, essendoci una cappella, faceva servire pure messa, ritenne inutile mettere delle sentinelle e questo fece avere vita facile al reggimento di fanteria Sabaudo che potè attaccare facilmente, ma il Sergente insieme a pochi altri superstiti riuscì a fuggire. Pur riuscendo ad arruolare altri uomini e a ricominciare con piccoli attacchi a combattere l'esercito Sabaudo, ormai era braccato pericolosamente ed il 4 gennaio 1863 venne intercettato nei boschi presso la natia Gioia del Colle e la sua eroica resistenza fu vana infatti i piemontesi lo uccisero, si dice che prima dell'ultimo respiro riuscì a gridare

EVVIVA O RRE! (riferendosi a Francesco II).

Il suo corpo spogliato della divisa Borbonica fu caricato sopra un mulo ed esposto in Gioia del Colle per un intera settimana.

Con lui finì anche il brigantaggio in Puglia.

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Giuseppe "Ninco Nanco" Summa

Giuseppe "Ninco Nanco" Summa è stato uno dei Capo Briganti più terribile.

Il suo nomignolo si dice derivasse dall'essere balbuziente.

Già nel 1860 era stato condannato alla fucilazione per omicidio ma grazie all'amnistia si salvò. Le sue fortune maggiori derivarono dall'incontro con il

Generale Crocco che lo mise a capo di una delle sue Bande che soleva riunire solo per le operazioni più rischiose. Sul petto portava tantissime medaglie e pur essendo ignorante e molto violento era dotato di grande intelligenza ed intuito. Sapeva anche scegliersi gli amici giusti e al di sopra di ogni sospetto. Nel marzo del 1864 i Carabinieri e la Guardia Nazionale da loro informatori vennero a sapere che Ninco Nanco ed altri due briganti

(Lo Russo e Mangiullo) si trovavano in una pagliaia nei pressi di

Ninco Nanco dopo un accenno di resistenza si arrese, ma quando i carabinieri cercarono di mettergli le manette da una mano ignota partì un colpo di pistola che lo uccise.

Forse fu la mano di qualcuno che voleva impedire che il brigante potesse fare delle rivelazioni compromettenti, in ogni modo il segreto ancora oggi non è stato svelato.

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Gaetano Manzo

Gaetano Manzo era figlio di pastori di Acerno, si avvicinò al brigantaggio quando, nel 1862, Garibaldi con i piemontesi, per bisogno di uomini, imposero la leva forzata tra i giovani del meridione. Dapprima egli non si presentò, poi convintosi (anche perché era già ne era stato ordinato l'arresto...) si arruolò ma ben presto disertò.

Nel 1863 già era diventato un brigante famoso nel salernitano, infatti si era aggregato alla banda Ciardullo. Era specializzato in sequestri di persona di vari possidenti della zona, a molti dei suoi ostaggi soleva tagliare il lobo dell'orecchio per "convincere" i familiari a pagare. Era un uomo dal carattere controverso, infatti riusciva a far coesistere la fede religiosa con una violenza ed una crudeltà non comune. Di lui diceva il prete Don

Francesco Oliviero (era stato un ostaggio della banda Ciardullo): "Gaetano

Manzo era giovane dalle mosse sgherre, occhio cervino, biondo nei capelli, naso un pò schiacciato, piuttosto alto nella persona, signorilmente vestito, il men perverso e disumano fra quegli orsi e iene assetate di sangue e rapine". Fece fortuna sequestrando dapprima due inglesi che gli fecero

"guadagnare" 30.000 ducati d'oro, pagati direttamente dal console inglese e poi due industriali svizzeri all'uscita di uno stabilimento tessile di Fratte presso Salerno, questo sequestro durò quattro mesi e gli frutto 180.000 10 ducati (1865). Uno di essi di nome Isacco Friedli lo descrisse così: "Ritto, fiero, con la mano destra alzata, vestito di panni pittoreschi, appariva come una figura teatrale. La sua testa ha un profilo quasi greco, il naso forte, ben modellato e leggermente aquilino; la fronte è piuttosto piccola, le forti sopracciglia curve, i begli occhi scuri il cui sguardo sembra trapassarti; una splendida folta barba bionda orna la bocca ed il mento forte; i capelli biondi, lucidi e fini, raggiungono quasi le spalle. Il suo comportamento e l'incedere sono fieri, a volte c'è in esso un che di felino". Si costituì nel

1868 a seguito ad un esame di coscienza dovuto alla sua grande fede in

Dio. Processato evitò la condanna a morte e fu condannato ai lavori forzati a vita. In carcere, però fu subito assillato dalla voglia di fuggire, ci riuscì nel novembre del 1871. Il 20 agosto del 1873, per una soffiata di un delatore, i carabinieri fecero irruzione in una casa colonica dove Gaetano

Manzo ed altri sette briganti stavano cenando, ci fu una grande sparatoria in cui rimase ucciso. Nelle sue tasche furono trovate 820 lire d'oro.

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Raffaele Luongo

Raffaele Luongo appartenente alla Banda di Gaetano Manzo era un abile esploratore. Anche grazie a questa sua abilità a spingersi ben oltre le linee nemiche gli attacchi della banda erano così ben congegnati.

Morì nei pressi di Salerno nel 1872 nel tentativo di forzare un nutrito posto di blocco piemontese.

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Carmine Crocco

Carmine Crocco, detto Donatello (Rionero in Vulture, 5 giugno 1830 –

Portoferraio, 18 giugno 1905), è stato un brigante e rivoluzionario italiano, tra i più noti e rappresentativi del periodo risorgimentale. Era il capo indiscusso delle bande del Vulture-Melfese, sebbene il suo controllo si estese anche ad alcune di Irpinia, Capitanata e Terra di Bari. Le sue scorribande si svolsero fino al Molise, alle zone di Avellino, Foggia, Bari e

Lecce. Nel giro di pochi anni, da umile bracciante divenne comandante di un esercito di duemila uomini, guadagnandosi appellativi come "Generale dei Briganti" o "Generalissimo", combattendo prima nelle file di Giuseppe

Garibaldi, poi con la resistenza borbonica e infine per sé stesso. La consistenza del suo esercito fece della Basilicata il cuore della rivolta antisabauda. In circa quattro anni di latitanza, Crocco fu uno dei più temuti e ricercati fuorilegge del periodo post-unitario e su di lui pendeva una taglia di 20.000 lire.

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Tuttora al centro di pareri discordanti, è considerato un bandito e carnefice per alcuni e un eroe popolare per altri, soprattutto per gli antirisorgimentali del Sud Italia. Carmine si ritrovò arruolato nell'esercito di Ferdinando II, nel primo reggimento d'artiglieria, prima nella guarnigione di Palermo e poi di Gaeta.

L'esperienza militare non durò per molto, poiché Crocco disertò dopo aver ucciso un commilitone. Fu in questo periodo che iniziò ad avere i primi contatti con altri fuorilegge costituendo una banda armata che visse di rapine e furti. Tornato a Rionero, Carmine fu arrestato e rinchiuso nel bagno penale di Brindisi il 13 ottobre 1855, ricevendo una condanna di 19 anni di carcere.

Il 13 dicembre 1859 riuscì ad evadere, nascondendosi nei boschi di

Monticchio. Scappato dal carcere, Carmine venne a sapere tramite don

Decio Lordi, sottoprefetto di Melfi, che avrebbe fatto concedere la grazia ai soldati disertori che appoggiassero la sua campagna militare contro i Borboni (Spedizione dei Mille). Aderì quindi ai moti liberali il 17 agosto 1860, divenendo capo di un cospicuo numero di combattenti.

Crocco e i suoi uomini seguirono Garibaldi fino a Napoli, partecipando 14 anche alla celebre battaglia del Volturno. Tornato vittorioso, Crocco si recò a dal governatore Giacinto Albini, il quale assicurò che l'amnistia sarebbe stata acconsentita. In realtà, le cose andarono in direzione opposta: Carmine non ricevette la grazia e fu arrestato. La sua condanna fu aggravata a causa del sequestro di Michele Anastasia, capitano della

Guardia Civica di Ripacandida, compiuto con l'aiuto di Mastronardi e avvenuto prima dei moti risorgimentali di agosto. Crocco tentò la fuga verso Corfù ma venne sorpreso a e nuovamente incarcerato.

Uscito di galera, Crocco, deluso dalla promessa non mantenuta dal nuovo governo, passò dalla parte della causa legittimista di Francesco II.

Sostenuto dal clero locale e da potenti famiglie come i Fortunato (parenti del meridionalista Giustino), sfruttò il profondo malessere sociale del popolo lucano, riuscendo ad assumere il comando di oltre duemila uomini, di cui la maggior parte erano persone nullatenenti e disilluse dal nuovo governo italiano, oltre che da ex militi del regno borbonico. Al comando di

43 bande, ciascuna affidata ad un sergente coadiuvato da due caporali,

Carmine partì all'attacco sotto il vessillo dei Borbone. Crocco, nel periodo di Pasqua del 1861, conquistò la zona del Vulture nel giro di dieci giorni. Il

7 aprile occupò Lagopesole (rendendo il castello una roccaforte) e il giorno successivo Ripacandida, dove sconfisse la guarnigione locale della Guardia

Nazionale Italiana. Crocco dichiarò subito decaduta l'autorità sabauda e ordinò che fossero esposti nuovamente gli stemmi e i fregi di Francesco II.

Il 10 aprile i briganti entrarono a Venosa e la saccheggiarono, istituendo anche qui una giunta provvisoria. Durante l'occupazione di Venosa, morì,

15 per mano dei briganti, Francesco Nitti, nonno dello statista Francesco

Saverio.

Fu poi la volta di Lavello ed infine di Melfi (15 aprile), dove Crocco fu accolto trionfalmente (anche se alcuni ricordano mestamente l'entrata dei suoi uomini nella città melfitana per via della macabra uccisione e mutilazione del parroco Pasquale Ruggiero). Con l'arrivo di rinforzi piemontesi da Potenza, Bari e Foggia, Carmine fu costretto ad abbandonare

Melfi e, con i suoi fedeli, si spostò verso l'avellinese, occupando, qualche giorno dopo, Aquilonia (a quel tempo chiamata "Carbonara"), Calitri,

Sant'Andrea di Conza e Sant'Angelo dei Lombardi. L'arrivo di Carmine in

Irpinia diede uno scossone a diverse popolazioni locali: comuni come

Trevico e Vallata insorsero contro i piemontesi e sotto la sua influenza si formarono altre bande nella zona comandate da un suo nuovo luogotenente, il brigante Ciriaco Cerrone. L'espansione di Carmine riuscì anche a valicare i confini pugliesi, grazie anche all'appoggio del suo subalterno Giuseppe "Sparviero" Schiavone di Sant'Agata di Puglia, occupando la stessa Sant'Agata, Bovino e Terra di Bari. Nel frattempo,

Crocco venne a sapere che Decio Lordi, colui che sembrava sostenerlo e che gli consigliò di arruolarsi nei garibaldini per evitare il carcere, lo aveva tradito, fornendo ai piemontesi alcuni indizi per catturarlo. Il brigante decise così di punirlo, ordinando ad alcuni suoi uomini di preparargli un'imboscata. Mentre stava lasciando Melfi per prendere la sottoprefettura di Eboli, il signorotto e le sue guardie vennero sorpresi da alcuni briganti che, dopo una breve colluttazione, li costrinsero ad arrendersi. Lordi riuscì a farla franca, scappando con due gendarmi.

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Carmine rimase amareggiato e non credette più ai galantuomini che finora sembravano appoggiarlo.

Nell'agosto 1861 programmò di sciogliere le proprie bande. Il barone piemontese Giulio De Rolland, nominato nuovo governatore della Basilicata al posto del dimissionario Giacomo Racioppi, era disposto a trattare con lui ma il neonato governo non era d'accordo

Crocco tornò sui suoi passi quando il governo borbonico in esilio gli promise rinforzi. Il 22 ottobre 1861, arrivò per ordine del generale borbonico Tommaso Clary, il generale spagnolo José Borjes. Borjes, da poco giunto dalla Calabria, venne a conoscenza, tramite Clary, delle vittoriose gesta di Crocco e organizzò un incontro con lui nel bosco di

Lagopesole. Il generale aveva fiducia nelle capacità del brigante rionerese e vide in lui un valido aiuto per tentare un'insurrezione contro i piemontesi.

Borjes voleva trasformare la sua banda in un esercito regolare, quindi adottando disciplina e precise tattiche militari; inoltre programmò di assoggettare i centri minori, dar loro nuovi ordinamenti di governo e arruolare nuove reclute per poter conquistare Potenza, ancora un solido presidio sabaudo.[25] Carmine gli diede retta, sebbene non nutrisse alcuna simpatia per il generale sin dall'inizio, temendo che Borjes volesse sottrargli il comando dei propri territori (il brigante lo definì un "povero illuso"). Nel frattempo giunse da Potenza un nuovo rinforzo, il francese

Augustin Marie Olivier De Langlais, che si presentò come agente legittimista al servizio dei Borboni. De Langlais, personaggio ambiguo di cui Borjes ebbe a dire nel suo diario «si spaccia come generale e agisce come un imbecille», parteciperà a numerose scorrerie accanto al brigante.

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Partito da Lagopesole, assieme alle sue bande e con l'appoggio bellico di

Borjes di circa 500 uomini, Crocco raggiunse le sponde del Basento, ove riuscì a reclutare nuovi combattenti, e occupò Trivigno, mettendo subito in fuga le guardie nazionali. La popolazione venne soggiogata e costretta ad obbedire ai suoi ordini. Spostandosi nella provincia di Matera, il 5 novembre, conquistò il piccolo centro di Calciano sulla destra del Basento e poi a Garaguso. Durante il tragitto verso Garaguso, Carmine incontrò un parroco, che implorò pietà. A parte qualche evento facinoroso, il paese venne occupato senza particolari disordini. Il mattino seguente fu la volta di Salandra, ben protetta dalle guardie nazionali, ma furono gli uomini di

Crocco ad avere la meglio, grazie anche all'appoggio del popolo, ostile al nuovo governo piemontese. Si proseguì per Craco, ove non avvennero eventi sanguinari a seguito della clemenza richiesta dalla popolazione, e per , facilmente conquistabile essendo abbandonata alla sola popolazione, che accolse calorosamente i briganti. Per fronteggiare l'inarrestabile marcia di Crocco, il sottoprefetto di Matera preparò un esercito di 1200 uomini, composto da un battaglione di fanteria, bersaglieri e guardie nazionali. Questa volta la battaglia, combattuta nei pressi di

Stigliano, fu più ardua del previsto per i briganti e molti di loro perirono, ma anche questa volta i combattenti di Crocco ne uscirono vincitori, grazie anche al contributo del suo "braccio destro" Ninco Nanco che, con soli 100 uomini, adottò una strategia determinante nel mettere in fuga la coalizione avversaria, il cui capitano fu ucciso e decapitato. Conquistati altri paesi come Grassano, Guardia Perticara, San Chirico Raparo e Vaglio, l'esercito di

Crocco giunse nelle vicinanze di Potenza il 16 novembre ma fu subito

18 costretto alla fuga verso Pietragalla a causa di un ex borbone, passato alla parte dei sabaudi, che avvertì quest'ultimi dell'arrivo dei briganti e fornì loro armi in cambio di denaro. Il 22 novembre, i briganti giunsero a Bella e conquistarono Ruvo del Monte, Balvano, Ricigliano e Pescopagano. Con l'arrivo dell'ennesimo rinforzo militare piemontese, Crocco non fu più in grado di sostenere altre battaglie e ordinò ai suoi uomini la ritirata verso i boschi di . Appena tornato, Crocco ruppe i rapporti con il generale Borjes, perché era insicuro di vincere e temeva di diventare suo subalterno. Il generale spagnolo, non sopportando il suo cambio di rotta, si recò a Roma con i suoi 24 uomini per fare rapporto al re ma, catturato dai soldati sabaudi durante il tragitto, venne fucilato assieme ai suoi fedeli a

Tagliacozzo.

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Lettera CROCCO

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Antonio Petrozzi

Petrozzi Antonio nato ad Ascoli e fucilato il 3 Gennaio 1863 in delicetoUn terribile conflitto a fuoco tra il II Squadrone del Reggimento Cavalleggeri

Lucca, comandato dal luogotenente Leuci, e 200 briganti a cavallo, guidati dal capobanda Giuseppe Schiavone di S. Agata di Puglia, avviene nel pomeriggio del 30 marzo 1862 nel tenimento di Ascoli, precisamente in località “Orto dei Noci”. Decimati ed in rotta, inseguiti dai briganti, i

Cavalleggeri fuggono alla volta di Stornarella per chiedere aiuto alla

Guardia Nazionale. Il sindaco, don Domenico Curci, ordina alla guardia di armarsi e combattere al fianco della truppa piemontese, ed invita i cittadini a collaborare per evitare che il paese cada nelle mani dei briganti.

La Guardia armata si porta a gruppi sulle parti alte delle case e sul fortino della Torre, zona di controllo e di difesa. Alcuni cittadini rispondono all‟invito del sindaco; molti lasciano le case, escono dall‟abitato e prendono la via dei campi o quella di Stornara, per andare a chiedere man forte contro i piemontesi a quei cittadini, che sembrano ben informati, ed anche con congruo anticipo, di quanto sta accadendo a Stornarella, e son pronti non solo a dare il proprio aiuto, ma anche ad accogliere a Stornara i briganti, per saccheggiare e “addentare le proprietà”, soprattutto dei liberali. Non pochi, ed in prima posizione figurano molte donne, si adoperano per favorire l‟ingresso a Stornarella dei briganti, dando loro esplicito appoggio ed incoraggiamento, sventolando fazzoletti bianchi e gridando “Viva Francesco II!”. E se il sindaco

21 ordina di resistere ed opporre forza alla forza, dai briganti si ordina alla

Guardia Nazionale, tramite alcuni cittadini, come un tale Gaetano Cringoli, calzolaio, di anni 48, di inalberare la bandiera bianca. A cavallo ed armati di tutto punto, i briganti vestono quasi tutti alla “militare” e molti hanno la tromba. La banda è organizzata militarmente.

Tra lo strepitio ed i nitriti dei cavalli, la detonazione degli spari di doppiette e carabine, il fragore delle armi, il suono delle trombe, le urla assordanti dei combattenti, le voci confuse dei convenuti, si svolge nella

Capitanata, a danno delle truppe regolari, uno dei più drammatici e movimentati scontri di quel terribile 1862 che, con il 1861, “fu indubbiamente il più grave del brigantaggio... per la ferocia con la quale le singole bande offesero e si difesero”.

Tre ore di “gagliardo fuoco”, dalle 21 alla mezzanotte. Tre ore di sgomento, terrore, morte o di entusiasmo, secondo il caso, in cui Stornarella, e di riflesso anche Stornara, vive la notte forse più violenta della sua storia.

L‟aiuto della Guardia Nazionale e dei pochi cittadini volenterosi non è valso ad evitare morte e spargimento di sangue tra i Cavalleggeri. Nessuno però della Guardia, nessuno dei cittadini di Stornarella e Stornara cade, viene ferito o subisce danno alle proprie cose. E se brucia il “lamione”, non è contro la proprietà che si consuma il danno, ma un modo per comunicare un messaggio, forse proprio agli abitanti di Stornara2.

Scompare nel cuore della notte, complici le fitte tenebre, sulla strada che mena ad Ascoli, l‟esercito dei “legittimisti”, tutti, uomini e cavalli, indenni.

Al luogotenente Leuci non rimane che contare e ricomporre i caduti, in tutto diciassette, soccorrere i feriti, recuperare armi, oggetti militari e

22 cavalli, adire, come di rito, le vie burocratiche per informare le autorità competenti e chiedere giustizia.

Stornarella, illuminata per tre ore a giorno, prima dagli spazi, poi anche dall‟incendio del “lamione”, che dura per tutto il giorno successivo, rimane in uno stato di agitazione. Calma non regna neppure a Stornara, già mobilitata ad accogliere i briganti, dopo aver mandato il suo contingente a combattere a Stornarella.

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E lettere di Petrozzi

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CHI ERA IL BRIGANTE GABRIELE GALARDI?

Gabriele Galardi, alias “Jalarde”, classe 1824, originario di San Paolo

Civitate, fu uno dei tanti briganti che nel periodo 1861– 64 imperversarono sul Gargano con ruberie ed uccisioni, ai danni di proprietari e cittadini ed affrontando in vari combattimenti, nel nome e nel simbolo dei re Borboni, le truppe piemontesi e gli allora “cacciatori di taglia”, come Rebecchi, La

Cecilia ed altri.

Di lui ne fa cenno lo stesso La Cecilia di San Severo, nel suo diario, pubblicato con il titolo “A caccia di briganti in terra di Puglia”, Quaderni del

Sud/Lacaita 1985. Dove, in nota si dice che Gabriele fu Rosario, originario di San Paolo Civitate, guardiano di anni 37 si distinse nel giugno 1861, durante le invasioni dei Comuni di San Marco in Lamis e di Rignano

Garganico, per la “particolare violenza con cui operò “misfatti e delitti contro le persone e le proprietà private. 25

Ebbe come compagni “al duol” in quei frangenti i sammarchesi Agostino

Nardella, alias Potecaro, ucciso in combattimento sulla Via per Rignano

Garganico il 4 giugno di quell‟anno (una delle cause a spingere le orde brigantesche ad invadere il paese), Angelo Maria Del Sambro, alias Lu

Zambre, contadino di 35 anni fucilato il 29 giugno 1962, Aniello Rendina e

Carlo Gaggiano, alias Carlicelli (del primo non si sa niente, il secondo, bracciante di 30 anni, fu ucciso dai suoi stessi compagni nel dicembre

1862).

In particolare, si rese protagonista e complice di malefatte, oltre che di Del

Sambro e del suo compaesano Nicandro Polignone, dei rignanesi Francesco

Caterina, alias Franceschiello, guardiano presso i marchesi Cappelli, e dei fratelli Nisi, che resero veramente difficile la vita a La Cecilia. Sempre nello stesso manoscritto si racconta dell‟assedio alla masseria dei Gabriele, da cui sfuggirono i suddetti briganti, a seguito di un errore tattico dei loro inseguitori, che si limitarono ad arrestare due briganti - pastori più una donna, prelevando nel contempo 1700 pecore e 5 capre, che furono restituite ai legittimi proprietari.

Qualche anno dopo, Polignone e Galardi si presentarono alle autorità provinciali, dichiarandosi disposti a collaborare. Ottenuta la grazia, si diedero di nuovo alla macchia.

Il fatto suscitò una dura critica della giunta municipale di San Severo nei confronti del prefetto De Ferrario e del Generale Mazé De La Roche, dimostratisi in tale occasione assai buoni ed ingenui. Fin qui la storia documentale. Il resto è storia orale, tramandata di generazione in

26 generazione, intrisa di fatti, in alcuni casi veritieri in altri arricchiti dalla fantasia.

In primo luogo, Galardi non fece la fine degli altri, cioè si salvò dalla cattura e dalla fucilazione, trovando rifugio in caverne e nascondigli più remoti ed impenetrabili del Gargano.

Si sa che il rifugio preferito fu una misteriosa caverna, grotta Paglicci, alle pendici di Rignano, che rese famosa a quei tempi, non solo per via della sua lunga permanenza, ma anche perché qui si riunivano i più importanti briganti e malfattori dell‟epoca (Vardarelli, Caruso, Schiavone ed altri).

In proposito si dice che qui fu sepolto il loro tesoro, mai trovato, neppure da Leonardo Esposito, il cercatore sannicandrese che vi consumò l‟intera esistenza negli anni 1950 –60 senza trovare mai niente.

Invece, come si sa il tesoro vero c‟era e c‟è ancora e di valore incalcolabile.

Il riferimento è ai quarantamila reperti e passa venuti alla luce in questi ultimi decenni, riferiti al Paleolitico, a cui potrebbero aggiungersi tanti altri ancora, grazie all‟opera di un altro tipo di ricercatori: gli archeologi.

Si sa ancora che il brigante era molto conosciuto dal popolo rignanese.

Tant‟è che ebbe rapporti anche di tipo amoroso.

Di un suo figlio, nato morto, se ne parla nell‟apposito registro, conservato nell‟archivio parrocchiale. Ed è tutto (ADV).

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Lettera del fattore

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IL BRIGANTAGGIO

"zona del Gargano"

Stiamo come asini in mezzo ai suoni

Passiamo ora ad analizzare le condizioni delle popolazioni garganiche nel periodo post-unitario. Incisivo è il ritratto che ci fa il liberale Tardio:

"In tre classi si divide il nostro popolo: in quella del cozzismo, che comprende i nove decimi della popolazione, ed è fatta di persone ignoranti, addette alla pastorizia e alla coltura delle terre; le altre due classi sono composte da Preti e da Galantuomini, i quali per l‟alta influenza che godono sulla massa la dominano fino alla tirannia.

La prima, mi giova ripeterlo, non è capace di fare cosa da sé, perché le mancano i due principali elementi per agire, intiera coscienza di ciò che fa e scopo dell‟azione". Da questo semplice quadro si può capire che la popolazione era soggetta a facili influenze da parte di chiunque avesse una certa cultura come ad esempio i preti che parteciparono alle rivolte, ma come spesso avviene, grazie alle loro amicizie evitarono il peggio. La prima

29 reazione avviene nel 1860 ovvero quando si sparge la voce che un diavolo ed eretico (così lo definivano i preti) di nome Garibaldi sbarcava in Sicilia.

La rivolta partì da Vico e fu guidata dagli esponenti più in vista come il sindaco, i preti e i galantuomini. Ma non porta nulla di concreto perché in poco tempo si ristabilisce la calma. Già in questa prima sommossa si nota una sottovalutazione del problema da parte del governo, l‟incapacità delle

Guardie Nazionali, ma soprattutto una prima presa di coscienza di classe e del proprio miserabile stato da parte dei poveri contadini. Intanto si avvicinava la fatidica data del 21 ottobre, giorno del plebiscito. Quando si riuscì a votare lo si fece sotto lo sguardo vigile di esponenti filo- governativi. Per cui l‟esito finale lo si può già immaginare. Solo per la cronaca: 54.256 a favore dell‟unità d‟Italia; 996 contrari. Dopo gli scontri del plebiscito l‟inverno passò tra riunioni in casa di esponenti di spicco.

Tra i tanti c‟è il Veneziani che anche con l‟aiuto di soldati sbandati organizzò, per il giorno dopo la Pasqua del „61 una rivolta. L‟obiettivo del

Veneziani era quello di sollevare tutto il Gargano, avendo avuto contatti con fidati esponenti di Monte S. Angelo, Rodi, Ischitella.

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I rivoltosi partirono dalla chiesa dei cappuccini alla volta di Vico inneggiando a Francesco II. La reazione riuscì e l‟occupazione durò per ben una settimana, ma non ci furono saccheggi. La notizia della rivolta si sparse subito nel Gargano senza provocare agitazioni. Infatti il governatore mandò rinforzi a Monte S. Angelo e negli altri comuni.

Dopo tante richieste arrivò la guardia nazionale a ristabilire la calma, imprigionando tanta gente per la più innocente. Quelli che riuscirono a fuggire si rifugiarono nei boschi vicini e dai loro covi mandavano biglietti con cui minacciavano i proprietari di bruciare le loro proprietà se non portavano cibo, armi e soldi. È utile riportare un frammento significativo di un biglietto minatorio fatto recapitare a un latifondista di Vieste:

"Gendelissima Donna Chilina Nobile, noi ti fammo conoscere che ci avite mantare mille e due cento ducati subito domani matina alle ore doteci, e se voi non le mantate questi Denare sarete ammassagrate tutta la masseria delle vacche, e tutto ciò che tinite per la campagnia e mantate anco la spesa per due cento uomini, quartro barile di vine, dieci pare di casecavalli quartre tomoli di pane tre rotoli di tabacco, una dozzina di carta,e cinque baccotti di sicarii, e mantatelo per la stessa persona che vi porta la llettera e fate lo riscotto di tutto ciò che mantate e non altro da dirvi e sono il sig.

Maggiore della Cavalleria Luigi Palumbo"

Poi iniziarono ad occupare i vari comuni. Iniziarono da Vico in cui costrinsero i liberali ad abbandonare il paese e saccheggiarono molte case.

In questa azione ebbe un ruolo di spicco Luigi Palumbo alias il "Principe"

31 che entrò in città acclamato da tutti; fece liberare tutti quelli rinchiusi in galera; creò una nuova amministrazione. Poi toccò a Vieste che fu saccheggiata. Ma un cruccio del "Principe" era quello di invadere Monte S.

Angelo; tentò il Sabato Santo ma fu respinto. Non ci riuscirà mai. I briganti continuavano a stare arroccati nelle montagne, ma anche per loro si prospettavano giorni difficili. Infatti il popolo si riuniva in leghe contro questi e lo stato d‟assedio gli riduceva i viveri. Per cui, anche con l‟aiuto dei preti, molti si consegnavano per avere salva la vita. Ma non tutti lo fecero.

Infatti Pietro Iacovelangelo alias il "Pezzente" fu ucciso e impiccato. La madre fu costretta a mangiare sotto il corpo del figlio impiccato. Stessa sorte toccò a Michele Caruso preso e fucilato. Non va dimenticata l‟inchiesta parlamentare con la conseguente legge Pica-Peruzzi. Questa prevedeva l‟istituzione dei tribunali militari; la fucilazione dei colpevoli; diminuzione della pena per chi si consegnava. Furono messe anche taglie sulle teste dei briganti. Restava in libertà, come ultimo baluardo, solo

Palumbo. Trovandosi in una casa in località "piano dell‟Incudine" nel bosco

Quarto, su segnalazione del sig. Raimondi si appostarono due uomini della guardia nazionale, lo colpirono alla testa con una scure e tramortito lo portarono in paese. Con la caduta di Palumbo il brigantaggio nel Gargano era sconfitto. L‟unità d‟Italia si doveva fare, non importava a spese di chi. Il brigantaggio va condannato, però lo si può giustificare se pensiamo che

Francesco II era solo una scusa, e che quindi i poveri contadini volevano solo giustizia, dignità e soprattutto cibo. Il nuovo governo ha pensato solo a reprimere il brigantaggio, non ad estirparlo, eliminando quindi i motivi di fondo. Per cui alla fine di questo "fenomeno" al governo restava da

32 risolvere la "questione meridionale" poiché mentre al nord "il treno economia già marciava, qui, ancora in condizioni feudali, si doveva ancora costruire", e l‟aiuto del governo fu solo un mare di parole.

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Il bando di Murat contro il brigantaggio nel Gargano

Foggia – Si nascondevano nelle foreste del Gargano, scendevano raramente a depredare le masserie del Tavoliere ma quando lo facevano lasciavano il segno. Nella Montagna non c‟era sentiero che non conoscessero, non c‟era attività che non aggredissero, non c‟era proprietà sulla quale non esercitassero pressione o non pretendessero regalìe, l‟antenato dell‟odierno “pizzo”. Non c‟era ragazza che se desiderata non finisse nelle loro mani. Li chiamavano briganti, né più né meno, ma erano i tagliagole che infestavano la Capitanata durante il regno francese di Napoli e che nei primi del 1800 predavano poderi e aziende agricole, spogliando l‟economia del foggiano.

Non a caso, venne rivolto alla repressione del brigantaggio uno dei primi provvedimenti diGioacchino Murat, salito sul trono di Napoli nel luglio de11808. Per porre termine agli orrori ai danni delle popolazioni pugliesi, mise al bando chiunque venisse sorpreso con le armi in pugno, decretò il giudizio sommario per quanti fossero colti con le armi in pugno, giunse a vietare provvedimenti di clemenza, pose una taglia fino a 500 ducati sulla testa dei banditi e minacciò confische di beni e rappresaglie ancora più

34 gravi contro chiunque aiutasse i malviventi. Per i parenti dei fuorilegge, poi, erano previste misure severe. Se poi qualcuno era stato costretto con la forza ad offrire assistenza ai malviventi, aveva tempo solo fino alle sei ore successive per la denuncia, prima di essere trattato alla pari dei briganti e dei favoreggiatori.

Non era certo sereno il volto del Sud all‟inizio del XIX secolo: strade malsicure, furti, ricatti, sequestri, una pressione intollerabile, che Murat si proponeva di cancellare in breve tempo, esattamente come avevano fatto e faranno successivamente i Borboni. Il brigantaggio in Capitanata è stato endemico, soprattutto nelle inesplorabili foreste garganiche, “ospitali” solo per gli uomini alla macchia. Nessuno ha nostalgia di quei predoni, nessuno dedica loro poemi, romanzi, opere teatrali. Quei i proto-briganti non sembrano eroi romantici né fanno sospirare le donne dei nostri giorni.

Mezzo secolo dopo, quegli stessi territori, per le stesse ragioni di impenetrabilità, ospitarono una parentesi di brigantaggio questa volta molto mitizzata invece dalla cultura meridionale, che ne ha fatto campioni di una resistenza sudista all‟invasore piemontese.

Anche nell‟anno che celebra il 150° dell‟unità, se ne parla con rispetto:

Briganti con la “B” maiuscola, antenati dei partigiani antifascisti. Un grande innamoramento del Mezzogiorno verso i suoi ribelli, che si nascondevano nelle foreste del Gargano, depredavano le masserie del Tavoliere, dominavano la Montagna, aggredivano le proprietà, pretendevano beni e riscatti. Esattamente come i loro antenati repressi da Borboni e francesi. Ma sembra che il sangue dei liberali versato nel nome di Franceschiello non faccia orrore. Non merita nemmeno la compassione riservata ai giacobini

35 vittime delle orde di Ruffo, nel 1799, che sempre nel nome dei Borboni sgozzavano e bruciavano vivi “li signuri”.

Oggi, la ragione politica dei meridionalisti legge la storia con una lente diversa ed esalta il brigantaggio postunitario, lo nobilita, lo rende ribellismo. Però, “male stavano e male staranno”: Pino Pisicchio raffredda il romanticismo della lotta dei “cafoni” riportandola coi piedi per terra, a pestare il sangue dei caduti: i signori, i massari, i soldati massacrati e gli stessi briganti, sterminati dalla repressione. Il parlamentare e scrittore pugliese lo fa nella prefazione di un piccolo e intenso libretto, pubblicato da Levante (46 pag. 6 euro), che raccoglie l‟atto unico teatrale di Luigi

Angiuli “Briganti e Piemontesi”.

L‟autore è anche il narratore nello spettacolo: un monologo con l‟accompagnamento del cantastorie polistrumentista Carmine Damiani e della suonatrice di tammorra Marianna Ruggieri, che eseguono musiche popolari. Angioli sostiene che “quella del Meridione, del Regno delle Due

Sicilie, non fu un‟annessione indolore, i Piemontesi operarono una vera conquista, uccidendo con spietatezza, razziando, distruggendo e impossessandosi di tutto ciò che era trasferibile al Nord, incominciando dal tesoro del Banco di Napoli”. Parla di 700.000 “terroni che ci rimisero la vita, tra combattenti, civili e deportati.

Lo scienziato Cesare Lombroso usò 500 teste di Briganti per studiare la conformazione cranica dei delinquenti nati”. Non si tratta “di recriminare – afferma – ma di puntualizzare la storia, affinché alcune verità vengano definitivamente acquisite”.

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Per una verità sostenuta di occupazione del Settentrione ai danni del

Meridione, una identità cercata tra Nord e Sud da un grande scrittore, cinquant‟anni fa, in maniera talvolta stralunata ma straordinariamente creativa.

Giovanni Arpino– di padre napoletano, non va dimenticato – alla vigilia del centenario dell‟unità scrisse con “leggerezza poetica e stile chiaro, sciolto e disinvolto”, “Le mille e una Italia”, appena ristampato per i tipi Lindau, 244 pag. 19,50 euro.

Il piccolo Marco di De Amicis viaggiava dagli Appennini alle Ande per ritrovare la mamma. Il dodicenne Riccio di Arpino parte dalla Sicilia verso il

Monte Bianco, a ricongiungersi al padre che lavora al traforo. E attraversa l‟Italia, la nuova Italia unificata. “È un racconto fantastico dedicato al nostro

Paese, alla sua storia, alle sue tradizioni e ai suoi eroi. Lungo un percorso in cui gli spazi geografici si intrecciano con i tempi della storia, Riccio

Tumarrano incontra figure e uomini illustri di ogni epoca, che lo aiutano a comprendere i tratti, spesso irrisolti e contraddittori, della nostra nazione”.

Ci sono Garibaldi e Cavour ovviamente, ma anche Annibale, Machiavelli,

Galileo, Mussolini, Ferruccio Parri e la guerra partigiana nelle Langhe, perfino un vecchio Pulcinella, Papà Cervi e il Beato Cottolengo. “Ma è un‟Italia diversa da quella dei libri di scuola, un‟Italia imprevedibile e piena di speranza”, scrive Arpino in una nota al testo. E lo storico Giovanni De

Luna, in uno dei due interventi di presentazione della nuova edizione – l‟altro è di Mariarosa Masoero – sottolinea ora a sua volta quanto motivata e positiva fosse l‟Italia del Centenario, non ancora disillusa e divisa come quella del Centocinquantenario.

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I briganti non furono "criminali comuni", come pensava la maggioranza al governo, ma un esercito di ribelli che non conoscevano altra forma di lotta se non quella violenta.

Del resto, tenuti per secoli nell'ignoranza e nella miseria, i contadini meridionali non avevano ancora maturato una conoscenza politica dei loro diritti e quindi non avrebbero mai potuto agire con mezzi legali.

La politica di repressione adottata nei confronti dei briganti fu durissima.

Per debellare il fenomeno furono impiegati 120.000 soldati (pari alla metà dell‟esercito italiano) comandati dal generale Cialdini. Si scatenò una vera e propria guerra intestina che portò ad un numero molto elevato di morti in particolare fra i briganti e i contadini che li appoggiavano.

Fu tra prigioni a vita, fucilazioni e uccisioni varie che il fenomeno del brigantaggio venne debellato nel 1865.

Le conseguenze furono un ulteriore aumento del divario fra nord e sud e un‟esaltazione dei briganti la cui figura venne paragonata, nell‟immaginario popolare, a quella di “eroi buoni”.

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Foggia – Da periferia a centro dell‟impero risorgimentale. Il Gargano terra di briganti e di antieroi. Aura di carboneria, odore di Borboni e di Savoia.

Rosso Garibaldi e nero delle toghe ecclesiastiche.

Centocinquant‟anni dopo, la Società di Storia Patria per la Puglia (sez.

Gargano) e l‟Amministrazione Comunale di Manfredonia, hanno sfondato i battenti sbarrati dell‟entroterra garganico, vi sono penetrati, appiattendo le pieghe del tempo e dello spazio, per scoprire e perlustrare ciò che la Storia vi ha lasciato impresso. Mostre, convegni e spettacoli teatrali. La cultura si pone a riverenza del passato, lo celebra, lo ricorda.

Nasce così “Il Gargano nel Risorgimento”, come un impegno differenziato che coinvolgerà, oltre al centro sipontino, anche i comuni di San Marco in

Lamis, Rodi e Vieste, per un discorso che toccherà anche le vicende di

Ischitella e Cagnano Varano e personaggi cruciali come Michelangelo

Manicone.

LA MOSTRA – S‟intitola “Personaggi e problematiche risorgimentali” e sarà ospitata a San Marco in Lamis presso il salone della Biblioteca del

Convento di San Matteo. Un lungo cammino attraverso quello che fu il mondo Ottocentesco, attraverso ciò che ha contribuito alla costruzione, embrionale ma risolutiva, dello Stato unitario italiano. La mostra occuperà un periodo di tempo di un mese, cogliendo i mesi di aprile e maggio.

I CONVEGNI – Non una sola occasione, non un solo argomento. Come detto, l‟anniversario dell‟unificazione italica sarà proficua occasione di spolvero dei gioielli risorgimentali di famiglia.

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Una maniera per rintuzzare il fuoco della memoria, per rivangare personaggi ed episodi strettamente connessi con le vicende della nostra terra dauna. Apertura a Manfredonia, venerdì 18. Presso l‟Auditorium di

Palazzo dei Celestini,

(inizio ore 9.30 ed i saluti delle autorità politiche e militari), relazioneranno

Domenico Scaramuzzi (“Rapporto fra Stato e Chiesa in Padre Manicone”) e padre Mario Villani (“Il Risorgimento nella Biblioteca del Convento di San

Matteo”).

Una settimana dopo spazio (sempre in quel di Manfredonia) alle vicende di

San Marco in Lamis, con gli interventi di Giuseppe Soccio (“Questioni demaniali nel periodo risorgimentale”) e Michele Vigilante (“Angelo

Calvitto, un sarto di San Marco in Lamis martire del Risorgimento”).

Con il mese di marzo – quello dell‟anniversario vero e proprio – ci si avventura nel cuore del discorso.

Il giorno 4 (a partire dalle 10) la Capitanata risorgimentale rivivrà nelle parole di Cristanziano Serricchio (“I moti del 1820-21 in Capitanata e l‟azione di Gian Tommaso Giordani”) e di Michele Ferri (“Un episodio di storia lccale nel 1848″); l‟11 – stessa ora, sempre ai Celestini – sarà la volta della Chiesa nelle relazioni di Lorenzo Pellegrino (“Le opere pie a

Manfredonia prima e dopo l‟Unità d‟Italia”) e di Alberto Cavallini (“L‟azione della Chiesa locale durante il Risorgimento”); un giorno dopo lo spegnimento delle 150 candeline, il 18 marzo, la discettazione si dirigerà verso sfumature più marcatamente sociali grazie alle relazioni di Nunzia

Quitadamo (“I nullatenenti e il Risorgimento”) e Matteo Siena (“Il brigantaggio nel Gargano”). Chiuderà gli eventi manfredoniani, la giornata

40 di studio del 25, quando ad intervenire saranno Pasquale Ognissanti

(“L‟università sipontina nell‟Ottocento”) e Nunzio Tomaiuoli (“Chiese e conventi garganici durante il Risorgimento”).

Monte. Nella città dell‟Angelo, il Centro Congressi Le Clarisse, farà da sfondo alle tre giornate dell‟1, 8 e 15 aprile. La prima (a partire dalle ore

9.30), con la partecipazione di Marco Trotta (“Il 1799 a Monte S. Angelo”) e

Giuseppe Piemontese (“Il Gargano dalla rivoluzione napoletata ai galantuomini”); la seconda, partecipanti Michele D‟Arienzo (“L‟Unità d‟Italia e Monte S. Angelo”), Nunzia Quitadamo (torna su “I nullatenenti e il

Risorgimento”) e Cristianziano Serricchio (stesso “I moti del 1820-21 in

Capitanata e l‟azione di Gian Tommaso Giorda”); la terza, ed ultima, con lo spostamento in terra montanara delle argomentazioni di Cavallini ed

Ognissanti.

Gli appuntamenti di Rodi e Cagnano chioseranno la fase di studio. Il 29 aprile, nel primo centro (Auditorium “F. Fiorentino” Istituto Superiore Del

Giudice), le discussioni di Anna Maria Ariano (“Notizie risorgimentali a

Ischitella in P. Ciro Cannarozzi”), Leonarda Crisetti (“Leonarda Crisetti

Carmelo Palladino: oltre il Risorgimento”), Teresa Rauzino (“La “gloriosa rivoluzione del 1860” nella memoria di Carmela Damiani”) e Pietro Saggese

(“Rodi nel Risorgimento”) precederanno di un paio di settimane la chiosa fissata a Cagnano Varano (16 e 30 aprile presso l‟Aula Magna Licei Scienze umane e Linguistico). In primis, sarà la volta di Leonarda Crisetti (“La funzione dell‟idroscalo di San Nicola Imbuti nella prima guerra mondiale”) e

Teresa Rauzino (“Il Gargano nord nel Risorgimento”); poi, oltre alla prima

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(il 30 relazionerà a proposito di “Carmelo Palladino: oltre il Risorgimento”), discetterà Claudio Contastucci (“I 150 anni dell‟Unità: quale senso”).

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