In un paese come l’Italia, in cui scarseggiano produzioni culturali in grado di raggiungere le tante persone ancora interessate alle arti, alla letteratura e alla filosofia, pur se estranee allo specialismo accademico, e la divulgazione è spesso realizzata in modo semplicistico e corrivo, qualsiasi opera- zione vòlta a rendere accessibile il sapere «alto», senza banalizzarlo, deve essere salutata con favore. Ciò vale a maggior ragione per un autore come Dante, che continua fortunatamente a stimolare l’in- teresse di molti, come dimostrano da un lato il buon successo di tante iniziative, a partire dalle letture pubbliche, dall’altro l’esperienza di chiunque insegni (in un liceo o all’università): le opere dantesche (non solo la Commedia) sono tra quelle maggiormente in grado di accendere l’interesse degli stu- denti, che ne colgono non solo astrattamente la grandezza, ma anche la capacità di parlare alla mente delle persone del Duemila. Nel 2015 hanno avuto inizio le celebrazioni per il 750° anniversario della sua nascita. Nel 2021 si ricorderanno i settecento anni della sua morte. In questo arco di tempo si sono moltiplicate le iniziative di ogni tipo per raccontare, commentare e approfondire la personalità e l’opera del sommo poeta fiorentino. Con questa collettanea si vuole innanzitutto ricordarlo con al- cune riletture critiche ed esegetiche della sua produzione poetica e contestualmente proporre – a partire dal padre della lingua italiana e insieme delle nostre patrie lettere – altri studi, tra filologia e critica, di altri autori e altre opere del Medioevo e della contemporaneità.

Dino Manca è professore di Filologia della letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Sassari, dove insegna anche Letteratura e filologia sarda. È socio della Società dei Filologi italiani, dell’Asso- ciazione degli Italianisti e dell'Associazione nazionale poeti e scrittori dialettali. È altresì membro del comitato scientifico del Centro di Studi Filologici Sardi. Dirige la collana Filologia della letteratura degli italiani, fa parte della Commissione per L’Edizione Nazionale dell’Opera Omnia di e partecipa ai lavori, in qualità di curatore, della nuova Edizione Nazionale delle Opere di Luigi Piran- «Dentro a la selva antica» dello. La sua attività di ricerca ha riguardato più specificatamente il rapporto tra filologia, linguistica e critica letteraria, con particolare attenzione rivolta alla filologia redazionale e d’autore. Ha curato, tra le altre cose, le prime edizioni critiche delle opere di Grazia Deledda. Ha svolto studi sulla comu- Letture critiche da Dante al Novecento nicazione letteraria dei sardi e sulle questioni relative alla teoria ecdotica, linguistica e letteraria. Sem- pre tra filologia e critica ha scritto sulle opere di Vasco Pratolini e Corrado Alvaro, Salvatore Farina e Giuseppe Dessì, Salvatore e Sebastiano Satta, Antonio Cano e Gerolamo Araolla, Pompeo Calvia e

Francesco Cucca, Gavino Ledda, , Giulio Angioni e . antica» a la selva «Dentro

a cura di La collana «Filologia della letteratura degli Italiani» si propone da una parte di realizzare un si- Dino Manca gnificativo corpus di edizioni critiche e dall’altra di tracciare un’articolata mappa tematica e con- cettuale fatta attraverso ricognizioni ragionate della ricca produzione testuale sarda e italiana. La collana s’inserisce nella più generale e complessa opera di recupero di una testualità pluri- lingue che ha concorso a costruire nei secoli il variegato sistema linguistico e letterario degli italiani.

ISBN 978-88-6025-477-1 e e des des FILOLOGIA DELLA LETTERATURA DEGLI ITALIANI € 22,00

«DENTRO A LA SELVA ANTICA» Letture critiche da Dante al Novecento

a cura di Dino Manca

FILOLOGIA DELLA LETTERATURA DEGLI ITALIANI

Collana di Filologia, linguistica e critica letteraria

EDIZIONI CRITICHE/6 STRUMENTI/8

DIRETTORE Dino Manca

COMITATO SCIENTIFICO Tania Baumann - Università di Sassari Franco Brevini - Università di Bergamo Duilio Caocci - Università di Maria Carosella - Uni- versità di Bari Silvia Chessa - Università di Perugia Antonio Di Silvestro - Università di Catania Maurizio Fiorilla - Università di Roma Tre Maria Teresa Laneri - Università di Sassari Gabriella Macciocca - Università di Cagliari Dino Manca - Università di Sassari Giuseppe Marci - Università di Cagliari Attilio Mastino - Università di Sassari Luigi Matt - Università di Sassari Alessandro Pancheri - Università di Chieti-Pescara Daniele Piccini - Università per Stranieri di Perugia Anna Maria Piredda - Università di Sassari Giambernardo Piroddi - Università di Sassari Bruno Pischedda - Università di Milano Edgar Radtke - Università di Heidelberg Loredana Salis - Università di Sassari Mauro Sarnelli - Università di Sassari Antonio Soro - Università di Roma Tor Vergata Giovanni Strinna - Università di Sassari.

SEGRETERIA DI REDAZIONE

Maria Teresa Laneri - Dino Manca - Gilda Nonnoi - Anna Maria Piredda - Giamber- nardo Piroddi - Loredana Salis - Antonio Soro - Giovanni Strinna.

I volumi pubblicati sono passati al vaglio da studiosi competenti per la specifica disciplina. La valutazione è fatta sia all’interno che all’esterno del comitato scientifico. Il comitato scientifico si avvale di almeno due revisori per la pubblicazione di ogni testo. Il meccanismo di revisione, tra pari, offre garanzia di terzietà, assicurando il rispetto dei criteri identificanti il carattere scientifico delle pubblicazioni.

EDES - Editrice Democratica Sarda Sede legale, piazzale Segni, 1- Sassari Tel. 079 262236 E-mail: [email protected]

ISBN 978-88-6025477-1

Stampa: T.A.S. - Tipografi Associati Sassari Zona industriale Predda Niedda Sud strada 10 - Sassari Tel. 079 262221

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2019

«DENTRO A LA SELVA ANTICA» Letture critiche da Dante al Novecento

a cura di Dino Manca

FILOLOGIA DELLA LETTERATURA DEGLI ITALIANI

INDICE

DINO MANCA Dante e altri autori I

LUIGI MATT Un nuovo strumento di studio (e di lettura): il Vocabolario dantesco 1

ANTONIO SORO «Dentro a la selva antica» (Pg XXVIII 23) 5

«Come d’autunno si levan le foglie»: Caronte virgiliano, Caronte infernale e Catone a confronto in tre similitudini 17

L’incompiuto Convivio 29

Acrostici alla rovescia danteschi come indicatori epifanici: studi recenti su illustri antecedenti letterari e liturgici 41

Riguardo agli influssi di Lapo Gianni su Dante: elementi testuali e analogie 49

Sul mistero di un riflusso pagano in Dante. Le ragioni di un’ispirazione paolina per un acrostico alla rovescia 61

ANTONIO DI SILVESTRO Una nota sulla canzone Ben mi credea (Rvf 207) 75

Damnatum e absolutum: il sonetto Voglia mi sprona (Rvf 211) 83

MILENA GIUFFRIDA Lontananza e fantasticheria nel carteggio Verga-Capuana 95

GABRIELE TANDA Evoluzioni novecentesche dell’umorismo italiano dopo Pirandello 109

Poetiche allo specchio: Pirandello e Dostoevskij a confronto 133

GIAMBERNARDO PIRODDI «Docile fibra». Souffrance e armonia nella poetica del paesaggio Ungarettiana 155

MIRYAM GRASSO L’elaborazione della Luna e i falò: i primi capitoli dal manoscritto alla stampa 181

DINO MANCA «Quella è la mia patria. È là che sono nato»: Biddaxidru e l’universale concreto. La personalità e l’opera di Giuseppe Dessì 193

DANTE E ALTRI AUTORI

Dino Manca

1. Nel Medioevo il primo passo per superare la miriade di parlari italici, come si sa, fu compiuto dai poeti della Scuola siciliana, grazie a un’opera di nobilitazione linguistica passata anche attraverso il confronto costante con il latino e con le forme e i contenuti della coeva lirica occitanica. Dante, che aveva letto i testi in volgare «aulico» siciliano prodotti presso la corte federi- ciana (ma trascritti e contaminati dai copisti toscani), vedeva nella fram- mentazione un ostacolo alla creazione di una lingua sovracomunale che, mediante raffinamento, sarebbe dovuta essere, «illustre», «cardinale» (in quanto cardine, appunto, attorno alla quale avrebbero dovuto ruotare gli altri volgari), «aulica» e «curiale». In realtà il poeta fiorentino non pensava tanto a una lingua nazionale, quanto a un volgare «illustre», appunto, che poeticamente non prescindesse dall’attrazione modellizzante dello stile «su- blime» dei siciliani e degli stilnovisti («tutto ciò che gli italiani fanno in poe- sia si può dire in siciliano»). Petrarca ne continuò l’opera nella direzione di un più selettivo ed esclusivo monolinguismo.1 Dante può essere considerato, dunque, il capostipite di un’autorevole tradizione linguistica e letteraria toscano-centrica, che seppe dare al pluri- linguismo una unità, basata sul volgare fiorentino «illustre», forte e legitti- mante. Questa dinamica centripeta, però, paradossalmente determinò – so- prattutto a partire dalla proposta normativa del Bembo (più vicina al mono- linguismo petrarchesco che al mistilinguismo dantesco) – condizioni di e- sclusione dalle patrie lettere di altre lingue e altre produzioni. Una tale que- stione di portata nazionale non poteva non trovare scaturigine anche dallo scarto esistente tra oralità e scrittura, tra parlato e modello letterario e dal conflitto tra sistemi linguistici diversi. Ancor di più questa interferenza co- municativa si manifestò tra gli scriventi in italiano, lingua d’inappartenenza

1 Cfr. CONTINI 1960; BARBERI SQUAROTTI G.-BRUNI F. 1990.

I

DINO MANCA per molti parlanti delle tante Italie.2 Ma Dante non è stato solo il padre della lingua italiana. Egli è stato an- che il più efficace e potente generatore di senso della nostra letteratura. Il grande faro delle patrie lettere non ha solamente codificato norme linguisti- che, canoni estetici e modelli culturali. Egli ha altresì indicato orizzonti etici, rischiarato universi simbolici e immaginari collettivi, formato ed educato coscienze, trasmesso intelligenza della complessità a intere generazioni di europei.3 Da quale insondabile big bang del genio creativo, ci si chiede, a- vrebbe avuto origine l’universo filosofico, etico ed estetico, sapienziale e simbolico, contenuto nella Comedìa, straordinaria cattedrale gotica in versi e viaggio allegorico-didattico ultramondano che, grazie all’elevata stratifica- zione di senso generato dal suo distillato poetico, ha esercitato nei secoli la forza persuasiva e modellizzante propria dell’opera che mira a collocarsi su un piano di eternità? Può un tale capolavoro essere considerato solamente il frutto del raffinato artigianato compositivo di un sia pur abile artigiano del- la parola informato di una ars dictandi che si è esplicata secondo strutture versificatorie, configurazioni di trame, architetture d’intreccio, escamotage e artifici retorici mutuati sapientemente dal vasto repertorio della tradizione e riadattati magistralmente in un particolare contesto linguistico e culturale? Se fosse solamente questo oltre il piacere tutto cerebrale e molto fine a se stesso della fruizione del testo, nulla accadrebbe. Non si accenderebbero passioni, non si formerebbero coscienze.4 Ed ancora ci si chiede: come è stata letta e accolta l’opera dantesca nei secoli? Quale produzione, circolazione e ricezione? Quale lettura ingenua e quale critica? Per Gadamer, infatti, il significato di un’opera letteraria non si esaurisce nelle intenzioni del suo autore e non rappresenta un fatto statico e immutabile, indifferente alla fruizione e al «dialogo» più o meno critico atti- vato dai suoi lettori. Esso nasce semmai dall’incontro del risultato di un atto creativo (il «farsi» del testo) con le sue diverse interpretazioni e la capacità del lettore di collegarlo con altri testi, di collocarlo dentro un sistema co- municativo, di inserirlo criticamente in un reticolo di relazioni. Esso vive

2 Cfr. CONTINI 1954, pp. 10-13; MIGLIORINI 1960; DE MAURO 1963; DIONISOTTI 1967, pp. 89- 124; DEVOTO-GIACOMELLI 1971; BECCARIA 1975; MENGALDO 1978, pp. 137-200; BRUNI 1987; SERIANNI 1990; STUSSI 1993; MARAZZINI 1994; SERIANNI-TRIFONE 1998; BREVINI 1999; COR- TELLAZZO-MARCATO-DE BLASI-CLIVIO 2002; PATOTA 2017. 3 Cfr. GORNI 2008. 4 Cfr. MANCA 2005, pp. 18-19.

II

nella storia, ri-vive ininterrottamente nella coscienza di chi lo legge, si spo- sta nell’asse diacronico e sincronico, è continuamente interrogato, «inten- zionato» e ri-creato dentro l’orizzonte sempre aperto di un pubblico etero- geneo e composito, che cambia nel tempo e nello spazio. Il rapporto tra emittente e destinatario si fonda, dunque, sulla reciprocità e trova nel testo stesso il suo punto d’incontro, il terreno del dialogo e dell’interazione. Quando, ad esempio, noi leggiamo e interpretiamo la Divina Commedia, non ci limitiamo solamente a ricostruire e a restituire la stratificazione di senso che ha voluto trasmetterci il poeta, ma attualizzando, integrando e aggiungendo nuovi significati, di fatto continuiamo ad infinitum l’opera di costruzione e di ri-codificazione del testo stesso. Inoltre, ciò che il poema dantesco ci dirà dipenderà dal tipo di interrogazioni che siamo in grado di rivolgerle dal nostro punto di vista storico-culturale. E dipenderà dalla no- stra capacità di ricostruire «la domanda alla quale l’opera fu a suo tempo una risposta, giacché l’opera è anche un dialogo con la propria storia».5 Con la lettura si riattiva sempre un circuito della comunicazione che rende l’opera d’arte continuamente «opera aperta»,6 permeabile ad ogni apporto di senso; opera che trascende il suo autore e si consegna alla sedimentata tra- dizione storica, vivendo delle sempre nuove interpretazioni che essa genera. La codificazione del messaggio non può, quindi, fare a meno della sua decodificazione e viceversa. Il lettore reale, dal canto suo, entra nel mondo fittizio, facendosi, per così dire, condurre per mano dall’autore e impe- gnandosi a seguirlo nel suo avvincente percorso, a sospendere le proprie facoltà critiche senza meravigliarsi di nulla, come se tutto fosse vero. Taylor Coleridge, autore, oltre che poeta, di saggi critici sul rapporto tra immagina- zione e fantasia, simbolismo e allegoria, teorizzò la «suspension of disbelief» (la sospensione dell’incredulità), ossia l’accettazione incondizionata, da parte del lettore, di qualsiasi rappresentazione letteraria della realtà, per quanto visionaria, inverosimile e surreale. Di fronte a una tale opera dell’ingegno e della creatività vi sono diverse modalità di approccio. Esiste una lettura in- genua, che si fa per evasione, passatempo, svago e che porta il lettore ad abbandonarsi al piacere del racconto, a identificarsi con i personaggi, ad immedesimarsi nella storia proposta e soprattutto a considerarla «vera»

5 EAGLETON 1998, p. 83. 6 ECO 1962.

III

DINO MANCA

(senza sentire la necessità di comprendere i meccanismi del racconto), e una lettura critica che consiste, invece, nel fruire un’opera letteraria attivando abilità e capacità descrittive, analitiche e decifratorie elevate e mirando – senza concedersi ai processi di immedesimazione, di finzione e di «innamo- ramento» – ad avere piena coscienza delle strutture e dei percorsi di senso che sottendono il messaggio e consapevolezza delle norme che governano il testo (pur stando al gioco del suo auctor). Le due modalità di approccio naturalmente spesso coesistono. Del resto la fortuna di un’opera dipende generalmente dal consenso che essa riscuote presso il suo diversificato e stratificato pubblico, composto sia dal fruitore ingenuo, emotivamente ed esteticamente coinvolto, che esprime il proprio gradimento e apprezzamen- to mediante il giudizio di gusto, sia dal destinatario colto, specialistico, criti- co, che formulando giudizi di valore e stabilendo per la produzione testuale criteri di inclusione ed esclusione (critica, da krínein, «giudicare», kríno, «se- paro», «distinguo» e quindi «giudico») concorre a costruire il canone lettera- rio di un’epoca.7 Il discorso filologico e critico si è avvalso nella storia di idee, conoscen- ze, metodologie, parametri di giudizio, strumenti teorici e pratici, finalizzati all’individuazione, alla classificazione, all’interpretazione e alla valutazione del prodotto letterario, da intendersi sia come sistema-testo che come in- sieme di testi e di opere inserite, diacronicamente e sincronicamente, dentro un più generale sistema integrato della comunicazione (produzione, circola- zione e fruizione). Il metodo è, dunque, la concretizzazione storica di un’idea e di una visione teorica figlia dei tempi. La ricezione è importante quando diventa produttiva e origina la critica. Non ci si può fermare, infatti, all’approccio impressionistico del testo. Si inizia a comprendere in profon- dità quando si comincia a riflettere, a mettere in gioco le proprie categorie interpretative e culturali. E la riflessione ci dice, su Dante, «qualcosa di più dell’informazione specialistica: questo di più è la critica, che esprime la rela- zione tra il testo e la cultura di chi legge. Si può leggere un testo, come spesso ci accade, per puro intrattenimento: ma se lo riapriamo, comincia il pensiero, comincia la critica: e tutto questo non è più ricezione».8

7 Cfr. GADAMER 1972; ECO 1979; JAUSS 1987; ISER 1987. 8 GUGLIELMI 2000.

IV

Premesso questo, appare chiaro, tuttavia, che l’identità di un testo – da- ta, come in ogni sistema, dalla partecipazione solidaristica di tutti i suoi e- lementi – non può esclusivamente essere ricondotta e attribuita al solo atto creativo dell’auctor (soggetto storicamente, culturalmente e linguisticamente determinato), ma piuttosto a figure altre che partecipano alla sua trasmis- sione e riproduzione (copisti) e – soprattutto a partire dall’era Gutenberg – alla realizzazione del manufatto libro, prodotto nell’articolato e meccanizza- to scriptorium di un’officina tipografica: stampatori, compositori, inchiostra- tori, redattori, correttori e revisori revisori testuali.9 Centrale per la critica dantesca è stato l’apporto della filologia, che me- diante l’analisi linguistica e la critica del testo si è proposta di indagare, rico- struire e interpretare, con metodo rigoroso e scientifico, le opere del poeta fiorentino e la loro trasmissione nel tempo e nello spazio. Per il dantista la vera questione ecdotica è, infatti, legata alla complessa tradizione di copia (della Comedìa, come si sa, non possediamo il codice autografo, così come degli scritti minori). Il processo di ricostruzione della volontà ultima del po- eta rispetto alla sua opera, dunque, attiene a tutte le delicate questioni relati- ve all’approntamento di un’edizione ricostruttiva (concernenti la «fenome- nologia della copia»), secondo criteri meccanico-probabilistici che consen- tano, mediante l’individuazione ed emendazione di errori legati alla ripro- duzione del testo e partendo da un certo numero di varianti di tradizione, la scelta per induzione della lezione originale del testo. La grande fortuna e l’enorme diffusione del poema, riprodotto a partire dai primi decenni del ’300 attraverso i più svariati canali (orali e scritti) e con modalità grafiche, codicologiche e librarie diversissime non hanno cer- tamente aiutato il lavoro di classificazione dei testimoni (recano testimo- nianza del dettato più di 800 manoscritti, di cui almeno 80 allestiti nella prima metà del XIV secolo e l’editio princeps, stampata a Foligno nel 1472 da Giovanni Neumeister, aprì la strada a numerose edizioni cinquecentesche, tra cui quella licenziata nel 1502 da Aldo Manuzio e curata da Pietro Bem- bo). La diffusa pratica della trasmissione orizzontale, con ampie e diramate contaminazioni, e di quella attiva, con interpolazioni e alterazioni della le- zione originale (si pensi al solo lavoro emendatorio svolto da Boccaccio),

9 Cfr. QUONDAM 1983, pp. 555-585; STOPPELLI 1987; FAHY 1988, pp. 7-8; TROVATO 1991; HARRIS 1998, pp. 302-303.

V

DINO MANCA l’alta presenza di errori poligenetici e, per converso, l’esiguità di quelli «gui- da», significativi e fenomenologicamente patenti, hanno prodotto nei secoli una crescita esponenziale di difformità di lezione tale da rendere ardimen- tosa l’opera di costituzione di uno stemma codicum e di restituzione del te- sto. Dopo i primi studi della seconda metà del Settecento, condotti con me- todo filologico (ricordiamo la scuola veronese diretta da Bartolomeo Peraz- zini), si deve al filologo tedesco Karl Witte il primo imponente e sistemati- co lavoro di ricognizione ragionata della tradizione testuale del poema fatta attraverso la collazione di circa 400 manoscritti (il cui esito, constatata l’impossibilità di ricostruire uno stemma della tradizione, fu l’allestimento nel 1862 di una sorta di editio variorum incentrata sulla lezione guida del Lau- renziano Santa Croce, codice esemplato da Filippo Villani nel 1390) e all’inglese Edwuard Moore l’approntamento alla fine dell’Ottocento di una edizione critica fondata su 250 codici scelti con il criterio dei loci critici e una constitutio prevalentemente eseguita col metodo della lectio difficilior.10 Il 31 luglio 1888 fu fondata a Firenze, con sede a Palazzo Vecchio (dal 1904 nel Palazzo dell’Arte della Lana), la Società Dantesca Italiana, presie- duta da Pietro Torrigiani (negli anni successivi da Peruzzi, Del Lungo, Ra- jna, Mazzoni, Casella, Contini, Gorni, Pasquini, Ghidetti, Giani, Ciccuto), con lo scopo di promuovere e valorizzare la figura e l’opera del grande poe- ta grazie a bollettini societari e attraverso studi sistematici (poi accolti in «Studi Danteschi», fondati nel 1920 da Michele Barbi), nuove ricerche e in- dagini filologiche (venne fissato un nuovo paradigma di collazione della tradizione del poema che si basava su 396 loci critici), edizioni critiche (nel 1896 fu approntata da Pio Rajna l’edizione del De vulgari eloquentia, nel 1907 da Barbi quella della Vita nuova e nel 1921, in occasione del sesto centenario della morte, insieme al testo critico delle Opere si realizzò una nuova restitutio senza apparato della Comedìa, per la cura di Giuseppe Vandelli), biblioteche, letture pubbliche (Lecturae Dantis), manifestazioni celebrative et alia (tra i so- ci fondatori della Società si ricordano qui, tra gli altri, Ruggero Bonghi, Ce- sare Cantù, Giosuè Carducci, Giuseppe Chiarini, Alessandro D’Ancona, Angelo De Gubernatis, Guido Mazzoni, Ernesto Monaci, Enrico Nencioni, Pio Rajna, Giuseppe Rigutini, Pasquale Villari).11

10 Cfr. BARBI 1938; FOLENA 1965; BOSCHI ROTIROTI 2004; CIOCIOLA 2001; MALATO 2004; TROVATO 2007; BERTELLI 2011; BELLOMO 2012. 11 RUDY ABARDO 1995.

VI

La prima proposta di albero genealogico (due famiglie con archetipo pro- dotto nell’Italia settentrionale) fu avanzata da Mario Casella, che tra il 1923 e il 1924 licenziò una nuova edizione ricostruttiva e un saggio argomentati- vo con commento filologico esplicativo. Dopo la fondamentale edizione critica del 1966-67, curata da Giorgio Petrocchi, La Commedia secondo l’antica vulgata – basata sui ventisette codici ritenuti antecedenti all’intervento di Boccaccio (1355), approntata secondo criteri lachmaniani e riveduta nel 1994 dalla Società Dantesca –, in anni più recenti sono state pubblicate prima l’edizione di Antonio Lanza (1996) – allestita con criteri bedieriani e fondata sul solo codice fiorentino Trivulziano 1080 – poi quella di Federico Sanguineti (2001), fondata sull’Urbinate 366 (la cui patina linguistica è emi- liano-romagnola), magna pars in uno stemma di sette codici.12

Mediante i linguaggi della poesia e dell’arte (e quindi grazie ai poeti e agli artisti) ogni comunità regionale e/o nazionale effettua la transizione model- lizzante e simbolica dal piano della natura a quello della cultura. Perciò per intendere compiutamente la personalità e l’opera del poeta fiorentino è ne- cessario innanzi tutto capire in quale complesso di moventi spirituali e av- venimenti culturali abbia trovato abbrivio e realizzazione il suo processo di maturazione artistica che ha trovato suprema sintesi nella Comedìa. Leggere Dante significa leggere il Medioevo e viceversa.13 L’impero, il papato e i Comuni concorsero a determinare la configurazione politica dell’Italia del suo tempo. Divenuta dopo il crollo dell’impero romano magistra et domina della cultura e unica depositaria della tradizione classica, la Chiesa, una delle grandi istituzioni medievali, aveva continuato nelle comunità monastiche – principali centri di conservazione, elaborazione e diffusione del testo scritto – l’insegnamento della retorica prendendo a modello di stile gli autori greci e latini. Si era pensato di reinterpretare il meglio del patrimonio culturale e letterario dell’antichità alla luce della nuova verità rivelata e di ricollocare gli orientamenti di pensiero e i valori propri dell’età pagana dentro le inedite coordinate di un’età cristiana, che si fondava su una visione finalistica della

12 DANTE ALIGHIERI 1842-43; DANTE ALIGHIERI 1894; DANTE ALIGHIERI 1921; DANTE ALI- GHIERI 1923; DANTE ALIGHIERI 1932; DANTE ALIGHIERI 1966-67; DANTE ALIGHIERI 1995; DANTE ALIGHIERI 2001. Tra gli studi più recenti si segnalano quelli di Paolo Trovato, Giorgio Inglese ed Enrico Malato. 13 Cfr. NARDI 1942.

VII

DINO MANCA storia, una concezione trascendente della vita – concepita come prepara- zione alla beatitudine eterna – e un’idea della cultura che privilegiava la sa- pientia (conoscenza delle cose divine) rispetto alla scientia (conoscenza delle cose temporali).14 Esclusivamente gravitante intorno alla concezione teocentrica, la visione dell’arte venne articolandosi nel Medioevo in tre differenti orientamenti di senso che coesistettero per molti secoli. Il primo, di matrice neoplatonica, concepì l’arte come un mezzo – attraverso la rappresentazione del mondo e della natura – per arrivare a Dio stesso e poterne contemplare la sua bellez- za. Il secondo riconosceva all’arte una qualche utilità pratica, soprattutto quando essa riusciva lucrezianamente a coniugare il bello col buono, il bene dicere con un fine didattico-morale (naturalmente morale cristiana). Il terzo orientamento, ispirato al Platone che aveva bandito la poesia dalla Repub- blica come suscitatrice di passioni e in quanto ritenuta priva di verità e peri- colosa per l’equilibrio affettivo dell’uomo, la considerò incompatibile con l’etica cristiana. Esemplare fu, a tal riguardo, il trattamento riservato dalla Chiesa al teatro e alle sue forme espressive. Sebbene negli scriptoria dei mo- nasteri gli amanuensi continuassero a esemplare le commedie e le tragedie della latinità classica (assai letta fu, ad esempio, l’opera di Terenzio), con la fine del mondo romano l’istituzione teatrale dell’antichità, con la sua com- plessa struttura organizzativa, quasi scomparve. Il teatro come istituzione in sé cessò di esistere, ma continuarono a esi- stere i teatranti e i musici e comunque una teatralità diffusa (joculatores, mimi, scurre, histriones, saltatores, balatrones, thymelici, nugatores, menestriers, troubadors), considerata espressione della cultura pagana (quindi «diabolica»), perché si fondava sull’allettamento formale e sensuale e su un’estetica edonistica fina- lizzata all’intrattenimento e al divertimento (l’attore, che non di rado – fatto riprovevole – non aveva né casa né famiglia, era considerato un vagabondo, senza status, fuori della società, frivolo e ambiguo, votato al piacere e al go- dimento, la cui vanità e il cui sollazzo si contrapponevano alla serietà della catechesi e dell’insegnamento). Furono ritenute blasfeme quelle rappresen- tazioni in cui gli attori modificavano artificiosamente il loro corpo con truc- chi, mascheramenti, smorfie, caricature facciali (si pensi ai mimi) allo scopo di ottenere una falsa apparenza. Per questa ragione il giullare fu anche defi-

14 Cfr. AUERBACH 1960; FROVA 1974 ; LE GOFF 1981; BORSELLINO - PEDULLÀ, 2005.

VIII

nito «turpis», in quanto trasformava l’immagine naturale, opera di Dio, e per questo considerato un peccatore contro natura.15

Nel basso Medioevo la tradizione dei generi antichi venne utilizzata con grande libertà sia nelle corti provenzali (dove nacque una nuova lirica di tema prevalentemente amoroso) sia nelle nuove realtà comunali. Si afferma- rono generi nuovi come la narrativa in versi di argomento cavalleresco (la materia dei poemi antichi venne adattata agli ideali cortesi nei romanzi in versi del ciclo classico), i fabliaux e, nel campo del teatro, la sacra rappresen- tazione e la farsa. L’ars, l’arte, era tèchne, tecnica della costruzione, manifattu- ra, artificio retorico, cultura del fare e del saper fare, dell’intelletto e della mano, e l’artista (lo scultore, il pittore, il poeta così come il maestro di pie- tra e di legname, il fabbro, il vasaio, il calzolaio, il pellicciaio o cuoiaio, il drappiere o il lanaiolo) era innanzitutto considerato un artigiano che con gli strumenti del proprio mestiere dava forma alla materia, fosse essa pietra, legno, ferro, cuoio, seta, lana, colore, parola. In non poche città dell’Italia centro-settentrionale si poteva diventare membri di una corporazione solo dopo aver lavorato per sette anni come apprendista di un mastro e solo do- po aver superato un esame pratico si diventava artigiano qualificato. Le Ar- ti, tramandavano di generazione in generazione i segreti dei vari mestieri, di cui erano gelosissime. Nel XXVI canto del Purgatorio Dante, tramite Gui- nizzelli, definisce Arnaut Daniel, trovatore provenzale del XII secolo e tra i maestri del «trobar clus», come «miglior fabbro del parlar materno». Il «parlar materno» è quello che si apprende dalla madre (per Daniel il volgare occita- nico) e che si contrappone alla grammatica, ossia al latino. Dante conside- rava, dunque, il poeta (l’auctor, da augeo, io creo) un artigiano qualificato della parola e della lingua, che nella sua officina letteraria sapeva coniugare il bel- lo col buono.16 L’attenzione che il Medioevo prestò agli aspetti tecnico-compositivi, re- torico-stilistici e più generalmente formali dell’opera artistica e letteraria non riduceva, infatti, la tensione speculativa e dottrinaria diretta verso i contenuti morali e religiosi e non distraeva il poeta dalle finalità etico- pedagogiche. Con la nascita di una letteratura in volgare anche di tematica

15 Cfr. MOLINARI 1998, pp. 54-60. 16 Cfr. SEGRE-MARTI 1959; CONTINI 1960; BARBERI SQUAROTTI G.- BRUNI F., 1990.

IX

DINO MANCA profana e l’avvio di un processo irreversibile di laicizzazione degli intellet- tuali e di riconoscimento dei letterati in contesti storici, sociali ed economici mutati (dal chierico al laico nel contesto della vita municipale), si assistette anche a un progressivo cambiamento nel senso della graduale diversifica- zione dei fattori portanti e degli scopi della stessa comunicazione orale e scritta, dalla produzione, circolazione e fruizione del testo alle finalità attri- buite all’arte e alla letteratura. Si iniziò a riconoscere e legittimare sia un’estetica prevalentemente edonistica, di intrattenimento e di piacere fine a se stesso, sia una letteratura capace di coniugare il bello a una utilità pratica, non necessariamente legata ai modelli etici cristiani.17 A partire dall’XI secolo iniziarono ad essere redatti manuali di artes dictandi, corpus normativi di arte dello scrivere e del comporre a partire dall’epistola riferibili alla costruzione di qualsiasi testo in prosa, scritto o o- rale, in latino e in volgare, con varie finalità (si pensi all’ars notaria e ai testi regolativi, agli editti, alle bolle papali, alle encicliche, agli statuti, ai contratti) prodotto in contesti situazionali differenti: nelle corti o nelle cancellerie im- periali oppure nelle curie papali o negli studi di giudici e notai. Non è un caso, infatti, che molti dei primi poeti della incipiente produzione in volgare siciliano e toscano furono prima di tutto uomini di diritto e di corte: Gia- como da Lentini, Pier della Vigna, Cino da Pistoia, Guido Guinizzelli. In alcuni casi si trattò di veri e propri trattati di tecniche di scrittura che pren- devano a modello i grandi autori della retorica classica e che furono utilizza- ti sino alla fine del Quattrocento. Nel Duecento furono tradotti in volgare la Rhetorica ad Herennium, di autore incerto (erroneamente attribuita a Cice- rone, probabilmente di Cornificio) e il De inventione di Cicerone. Importante scuola di artes dictandi nacque a Bologna e tra i grandi teorici e maestri dell’XII e del XIII secolo si ricordano Boncompagno da Signa, Guido Fa- ba, Guidotto da Bologna, Brunetto Latini, e gli inglesi Giovanni di Garlan- dia e Goffredo di Vinsauf. Fu Giovanni di Garlandia, uno dei maggiori retori del Medioevo, inse- gnante alle università di Tolosa e di Parigi, autore della Poetria, che distinse quattro stili prosastici: romano, ilariano, tulliano e isidoriano. Lo stile ro- mano (o gregorianus, da papa Gregorio VIII), tipico della curia romana, ven- ne utilizzato dai notai del papa, dai cardinali, dagli arcivescovi, dai vescovi,

17 Cfr. SEGRE-MARTI 1959.

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dai monaci, dai predicatori e liturgisti sino ai funzionari imperiali e si carat- terizzò per la presenza del cursus (planus, tardus, velox, trispondaicus), ossia di clausole, di schemi ritmici fissi che dovevano chiudere il periodo o l’unità ritmica. Le clausole medievali si distinguevano da quelle della prosa classica perché di tipo accentuativo (posizioni toniche e atone) e non più di natura quantitativa (sillabe lunghe, brevi, ancipiti). Lo stile ilariano, da Ilario di Poi- tiers (315-376 ca.), vescovo e dottore della chiesa, si caratterizzò anch’esso come il romano per una prosa regolata dal cursus (il periodo si chiudeva con un quadrisillabo piano) e per una struttura ritmica che riprendeva il verso dell’inno (una specie di settenario sdrucciolo con variazione di accenti). Lo stile tulliano, da Marco Tullio Cicerone, preferito dai maestri di retorica e dai poeti quando scrivevano in prosa, si caratterizzò per la presenza insistita di figure retoriche di parola e di pensiero. Lo stile isidoriano, da Isidoro di Siviglia (570 ca.– 636), vescovo e dottore della chiesa, autore delle Etimolo- gie, si caratterizzò per una prosa poetica, versificata, ritmata e rimata con presenza insistita di figure retoriche del significante, prevalentemente di ri- petizione: rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, anafore, antitesi, fre- quentatio. Questo stile incontrò largo successo nei secoli XI-XII e fu utiliz- zato soprattutto da agiografi, mistici, teologi e filosofi.18 Il Medioevo conservò in larga misura la teoria degli stili elaborata dagli antichi e che si basava su tre grandi livelli: l’alto (grave o tragico), il medio (mediocre o comico), il basso (umile o elegiaco). I criteri di identificazione e di attribuzione, di inclusione e di esclusione, potevano, invece, essere diver- si. Generalmente nella definizione dello stile i maestri medievali (Giovanni di Garlandia e Goffredo di Vinsauf tra tutti) privilegiavano la materia tratta- ta sugli aspetti formali o sulle finalità dell’opera, in linea con la Rota Vergilii (la ruota di Virgilio) in cui si facevano coincidere i livelli di stile (gravis, me- diocris e humilis) ai contenuti delle tre opere fondamentali del poeta latino (la poesia epica dell’Eneide, la poesia didascalica delle Georgiche e la poesia pa- storale delle Bucoliche) con i rispettivi personaggi, luoghi, animali e piante che a loro volta costituivano la simbologia tipica di ognuno degli stili (il ca- vallo, la spada, l’accampamento, l’alloro per l’Eneide, i contadini, i buoi, i campi coltivati e gli aratri per le Georgiche, i pastori, le greggi, il pascolo, il bastone per le Bucoliche). Poteva però capitare che gli stili venissero definiti e

18 Cfr. MORTARA GARAVELLI 1999, pp. 39-46.

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DINO MANCA quindi identificati in relazione anche ad altri aspetti della comunicazione let- teraria, intrinseci o estrinseci al testo: di composizione (formali), di inten- zionalità e scopo (delectare, docere, movere), di ricezione e fruizione (in relazio- ne al pubblico). Nel De vulgari eloquentia, ad esempio, Dante, che distingue per la poesia tre stili (il tragico, il comico e l’elegiaco), non disgiunge gli aspetti di conte- nuto dagli aspetti formali, la materia trattata dalle scelte linguistiche e for- mali. Lo stile tragico, più confacente a raccontare gli argomenti eccezionali e le gesta di guerrieri ed eroi, richiede un «volgare illustre», una «magnifi- cenza dei versi» e una «eccellenza dei vocaboli». Lo stile comico, più conso- no a rappresentare gli argomenti della quotidianità e le vicende delle perso- ne comuni, può attingere a un contingente lessicale meno selezionato e più variegato. Lo stile elegiaco, aperto agli argomenti più vari ma che si nutre di un’ispirazione patetica e malinconica, è per Dante «lo stile degli infelici», cioè, appunto, patetico.

2. Nel 2015 hanno avuto inizio le celebrazioni per il 750° anniversario della nascita di Dante. Nel 2021 si ricorderanno i settecento anni della sua morte. In questo arco di tempo si sono moltiplicate le iniziative di ogni tipo per raccontare, commentare e approfondire l’opera del sommo poeta fio- rentino, padre della lingua italiana e delle patrie lettere. In questa raccolta si vuole ricordarlo con alcuni contributi critici insieme a nuovi studi su altri autori del Medioevo e della contemporaneità: dal monocentrismo di Firen- ze, città che con un idioma municipale ha dato vita a una produzione lette- raria assurta nei secoli a modello unitario nazionale, al policentrismo delle altre Italie. Si inizia con il contributo di Luigi Matt che rende edotto il lettore dell’ultima impresa lessicografica promossa dall’Accademia della Crusca e dall’Opera del Vocabolario Italiano relativamente al Vocabolario dantesco in rete, la cui redazione e supervisione è affidata a illustri studiosi (sono state pubblicate, oltre all’Introduzione, le prime voci) e le cui modalità operative sono sostanzialmente quelle del Tesoro della lingua italiana. Seguono i saggi di Antonio Soro. Dentro a la selva antica intende mostrare come il poeta, ap- prossimandosi all’Eden, avverta in realtà l’inesprimibile timore di trovarsi presso la virgiliana selva di Cuma, sulle orme di Enea che discese scendere negli inferi. Le sensazioni sono rese contrastanti da un conflitto tra perce-

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zioni sensoriali e inquietudini celate e oscure: nonostante l’atmosfera e la natura placida costituiscano una scena ben differente da quella cruda e terri- ficante dei vv. 236 e sgg., vi sono frequenti rimandi intertestuali al VI canto dell’Eneide. La stessa figura di Matelda, della quale Dante fraintende il sorri- so (vv. 76; 79), viene paragonata dal poeta a Proserpina, in un’associazione che, contestualmente, appare certo inopportuna, considerandone il mesto destino. La «bella donna» del giardino, fatta salva la sua storicità, si risolve appieno nell’allegoria, che ne fa un simbolum iustitiae, e il personaggio svela una fisionomia assai simile a quella di Drittura in Rm CIV 35. Accolto nel paradiso terrestre, il poeta è tornato alla giustizia delle origini di cui parla Tommaso. Per eliminare i ricordi dei suoi peccati e degli orrori del mondo, tuttavia, egli dovrà attendere l’acqua del Letè. Fino ad allora persisterà, per lui e per ogni uomo, il pericolo di scambiare la via dell’inferno per la via della redenzione, e di confondere la strada per l’espiazione con quella della perdizione. Nel contributo intitolato «Come d’autunno si levan le foglie» le terzine relati- ve ai tre personaggi posti all’ingresso dei tre Regni (Caronte virgiliano, Ca- ronte infernale e Catone) vengono lette con criterio comparativo. Concen- trandosi, inoltre, sulle similitudini in Aen VI 309-316, Inf III 112-120, Pg II 124-133 si colgono affinità e differenze tra la scena virgiliana e le due scene dantesche. In particolare, il Catone del Purgatorio appare un po’ come un calco del Caronte dell’Eneide, ma ovviamente quella dantesca è una trasfigu- razione in positivo. Inoltre, nella similitudine latina la morte e l’accesso al regno dei morti vengono paragonati al sopravvenire dell’autunno, ed Enea osserva le anime procedere come attratte da un chimerico sole. Nell’Inferno Caronte raduna con violenza gli spiriti. Quando Casella canta, invece, è or- mai giorno e l’intervento di Catone disperde le anime: una reprimenda pa- terna che allontana l’ultima timida suggestione maligna, l’ultima tentazione di ricaduta e incoraggia le anime al cammino purificatore di ascesa fino all’Eden. Da lì si passa alle altezze celesti. L’incompletezza del Convivio, che promette di commentare «quattorcici canzoni» (I I 14-15), con alcuni anticipi sui contenuti (I XII 12 e passim), ha originato varie congetture sugli argomenti programmati (L’incompiuto Convi- vio). L’evidente ricorrenza del 15 (15 trattati incluso il proemio, 15, 15 e 30 i capitoli dei trattati II-IV) ha posto interrogativi sulla struttura, dimentican- do che il primo trattato infrange l’euritmia con appena 13 capitoli: anomalia

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DINO MANCA stridente con l’architettura numerologica. Il totale dei capitoli, 73, risulta in- vero pari al numero dei libri della Biblia Parisiensis, quando si separino Gere- mia e Lamentazioni, in una struttura che verrà ripresa dal Ficino nel Commen- tarium in Convivium Platonis de Amore. Il divulgativo prosimetro, che apre ci- tando Aristotele sulla conoscenza e chiude sull’impenetrabile «secretissimo della divina mente», suggerisce un itinerario, sul filo delle Scritture, dalla fi- losofia razionale alla mistica. Fonte di ispirazione appaiono essere la vita di Tommaso e la Summa, scritta (cfr. Prooemium) per scopi divulgativi, e inter- rotta alla quarta sezione a causa di una folgorante e inenarrabile visione mi- stica, così come tramanda Guglielmo di Tocco nella Ystoriae sancti Thomae de Aquino, redatta per il processo di canonizzazione. Il saggio Acrostici alla rovescia danteschi come indicatori epifanici parte invece dalla scoperta di due acrostici alla rovescia individuati dall’autore (in Pg XXVIII 25-37 e in Pd V 97-109). In questa sede, dopo un breve accenno all’importanza dell’acrostico nel mondo antico pagano, si esplorano le fonti della tradizione cristiana che possono aver ispirato l’inversione, cioè la for- mazione di una parola scorrendo le iniziali delle terzine dal basso verso l’alto, così come nei citati passi danteschi. Il precedente illustre appare esse- re in Boezio, ma anche e soprattutto nella remota tradizione liturgica delle Antiphonae Majores, nelle quali le iniziali delle antifone tradizionali, lette dall’ultima alla prima, compongono una profezia da leggersi alla vigilia di Natale. La funzione dell’acrostico inverso, nel quale si legge una parola «a- scendendo», appare così quella di rammentare agli uomini che il Figlio di Dio, il Logos, entra nel mondo umano per fare ascendere gli uomini dalle bassezze del mondo alle altezze del cielo. Riguardo agli influssi di Lapo Gianni su Dante si concentra sul «iudex ordina- riuset notarius publicus», figura che, anche solo in base alla esile produzione pervenutaci, spesso gli studiosi pongono ai livelli di Guinizelli o Cavalcanti per la levità e la novità dei suoi testi lirici. Se egli è da identificarsi col Lapo Ricevuti, allora possediamo attestazioni documetarie delle sue relazioni con gli Alighieri e della sua amicizia col grande poeta. Pur nell’esiguità dell’opera, che talvolta pecca di artificiosità, di ossessione per le formule, si individua nei due poeti una certa condivisione di temi e leitmotiv. In partico- lare, sembra che la Pietà personificata – uno dei principali topoi stilnovisti – in Ballata, poi che ti compuose amore, abbia affascinato non poco Dante, traen- done ispirazione per delicati tratti femminili.

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Sul mistero di un riflusso pagano in Dante (le ragioni di un’ispirazione paolina per un acrostico alla rovescia) si configura come una parziale retractatio dell’interpretazione fornita da Soro a un acrostico alla rovescia («ecate») che egli scoprì nel 2009 in Pg XVIII 25-37, pubblicando una nota nella quale egli identificava Matelda con la Trivia virgiliana. Tuttavia, a dispetto delle apparenze, i due personaggi in Dante non possono che divergere senza mai incontrarsi, perché già dai tempi di Sofocle Ecate assume definitivamente una fisionomia terrificante, e nel Medioevo essa è sempre associata a magia e stregoneria. Anche a voler vedere nella «bella donna» dell’Eden un perso- naggio ormai spoglio dei caratteri divini, non ci sarebbe per lei comunque posto nel luogo dell’innocenza e della purezza ritrovate. Pertanto, l’acrostico non può far scorgere nulla di mitico in una donna storica asso- ciata dai più a Matilde di Canossa. Il paradigma teologico figurale, invece, orienta verso I Cor 15,26. La morte come ultimo nemico fa la sua ormai i- noffensiva comparsa al confine appena prima dell’Eden, perché «novissima autem inimica destruetur mors». L’acrostico alla rovescia, dunque, non contras- segna un’apparizione; al contrario, esso indica la scomparsa dell’ultimo ne- mico umano, ormai ridotto a una vaga reminiscenza di ciò che nel mondo fu. Dopo Dante ci si concentra su Petrarca e su alcune questioni concer- nenti la sua silloge polimetrica in volgare. Riesaminando parallelamente, a partire dal Codice degli abbozzi (Vat. Lat. 3196), la cronologia della canzone 207 e delle canzoni degli occhi (71-73), Antonio Di Silvestro indaga i rap- porti testuali tra le cantilene oculorum e Ben mi credea (RVF 207), ipotizzando un’anteriorità di quest’ultima sulla base degli elementi lessicali e delle tracce semantiche concernenti la fenomenologia dello sguardo. Il saggio ititolato Damnatum e absolutum analizza invece la funzione che il sonetto Voglia mi sprona (RVF 211) svolge nella costruzione del liber petrarchesco, sia all’interno del Codice degli abbozzi, dove esso si interseca con alcune sequenze testuali significative (ad esempio quella riguardante gli occhi di Laura), sia all’interno dell’idiografo vaticano, dove esso è presente con una serie di va- rianti che ne enfatizzano la facies calendariale. Nell’ultima parte si sottolinea come, a fronte di una scarsa attenzione nella tradizione esegetica, le riscrit- ture quattro-cinquecentesche abbiano sancito, complice la feconda polise- mia del tema del labirinto, la vitalità e attualità di un testo incentrato sulla fe- nomenologia della voglia.

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DINO MANCA

Con il lavoro critico di Milena Giuffrida si passa dalla Toscana alla Sici- lia, dal XIV al XIX secolo. Attraverso la rilettura della corrispondenza tra Giovanni Verga e Luigi Capuana si intende affrontare uno dei temi cruciali della poetica verghiana, quello della lontananza intesa e concepita attraverso la sua difformità prospettica (Lontananza e fantasticheria nel carteggio Verga- Capuana). La scelta di andar via dall’isola fu, infatti, da subito avvertita da Verga come condizione necessaria per realizzarsi come scrittore. Sebbene l’ambiente culturale milanese fosse ricco di stimoli e di sollecitazioni molte- plici, tuttavia l’accettazione di quella dimensione urbana non fu mai totale e incondizionata (il grande romanzo, I Malavoglia, venne concepito come rap- presentazione di una realtà lontana e per molte ragioni antitetica). Molto più che in altre forme letterarie il successo dell’umorismo (e la ri- sata a esso collegata) dipende da variabili connesse alla contingenza sociale e al contesto storico, che rendono salienti per un lettore reale temi e vicen- de sempre differenti. Gli scrittori che si riconoscono nel genere sono quindi sensibili ai cambiamenti di gusto del pubblico, ma cercano anche di univer- salizzare il loro messaggio con procedimenti densi di significato. Autorialità e mutamenti socio-culturali stanno alla base dello studio, proposto da Ga- briele Tanda, sulle evoluzioni dell’umorismo in un arco temporale che va dalla morte di Pirandello alla fine del Novecento (Evoluzioni novecentesche dell’umorismo italiano dopo Pirandello). Un percorso dal fascismo alla contem- poraneità che illustra come i profondi cambiamenti della fisionomia dell’Italia abbiano condizionato i personaggi, il tono e la descrizione della società che popolano la narrativa della risata. A un primo sguardo Pirandello e Dostoevskij sono lontani, fisicamente e cronologicamente, eppure, leggendo attentamente le loro opere, si trova- no somiglianze inaspettate e rivelatorie. Per far risaltare meglio questo le- game si è deciso di confrontare non tanto i riferimenti ai romanzi e alle o- pere teatrali di entrambi, ma le categorie usate dai maggiori critici per inter- pretare i due scrittori. Questo gioco di specchi mostra come esperienze e formazione culturale simili imprimano nelle loro produzioni una forma di- cotomica e cogitabonda, che usa la finzione della follia come strumento let- terario (Poetiche allo specchio: Pirandello e Dostoevskij a confronto). Anche nella poesia ermetica, di cui Giuseppe Ungaretti – oggetto della trattazione di Giambernardo Piroddi («Docile fibra». Souffrance e armonia nella poetica del paesaggio ungarettiana) – fu riconosciuto antesignano ed araldo, la

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modernità ha trovato nuova forma di utilizzazione di una risorsa lirica tanto preziosa quanto antica: il paesaggio e la sua contemplazione. Tale novità ri- siede nell’immediatezza e asciuttezza del correlativo oggettivo eliotiano, che stabilendo un’immediata equivalenza tra percezione ed espressione non in- tende spiegare l’emozione al lettore, ma fargliela avvertire d’emblée. Tuttavia, nella celebre lirica ungarettiana I fiumi ritroviamo chiare tracce di una ragio- nata volontà di studio della fenomenologia-sintomatologia delle emozioni suscitate dal paesaggio; una profonda analisi introspettiva che porterà il po- eta a «riconoscersi docile fibra» e a «credersi in armonia». L’uomo di pena Ungaretti riconosce «meglio» se stesso e la propria essenza se e solo se col- locato all’interno di un ben definito paesaggio ed avendo chiara coscienza di esso; ed il paesaggio si fa, grazie alla densità di un pensiero poetante tra- mato di intertestualità, zeugma lirico funzionale alla condivisione e trasmis- sione di un vissuto emozionale. La natura allegresca, spoglia, cava («doli- na»), deformata («albero mutilato»), prende gradualmente forma lunga e di- stesa nel paesaggio de I fiumi, nella loro acquorea armonia apollinea. Lo scarto lirico ed argomentativo da natura a paesaggio è qui individuabile con chiarezza: i fiumi sono un giardino nella sofferenza (andando à rebours a Le- opardi) della natura «atroce» de L’allegria, o un miraggio nel deserto (restan- do a Ungaretti). È il trait d’union preciso e puntuale tra i vocaboli «fibra» ed «armonia» a suggerire il robusto filo rosso col recanatese, in particolare con il celebre passo zibaldoniano del «giardino della sofferenza», laddove il rap- porto tra le grandezze leopardiane «giardino-ospedale» non è dissimile da quello tra le ungarettiane «fiumi-dolina». Così, nella riflessione allegresca l’irrimediabile fragilità umana che si manifesta nella natura diventa docilità nel paesaggio. Nella sintonia con la doglia universale (natura), il poeta si i- dentifica con il suo paesaggio individuale (I fiumi), senza tuttavia dissolversi in esso: consapevole riconoscimento e non oblio pànico come nel supero- mismo di marca dannunziana. Miryam Grasso propone invece un lavoro filologico su un’importante opera di Cesare Pavese, La luna e i falò. L’autore piemontese compose il suo ultimo romanzo in breve tempo, tra il 18 settembre e il 9 novembre 1949 (come scrisse sul Mestiere di vivere, fu «l’exploit più forte» che avesse mai co- nosciuto). Uno studio accurato dell’autografo, custodito presso l’Archivio «Gozzano-Pavese» di Torino, rivela un vettore correttorio ben caratterizza- to e di non trascurabile significato: la tendenza a una stilizzazione spazio-

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DINO MANCA temporale, il ritorno circolare alla lezione iniziale precedentemente scartata, l’inclinazione a sostituire un termine con il suo opposto. Il contributo criti- co propone una lettura ravvicinata delle carte del manoscritto che conten- gono la lezione dei primi due capitoli dell’opera. Esse rappresentano una testimonianza importante delle fasi iniziali del percorso costitutivo del te- sto, perché contengono in embrione alcuni tratti distintivi del laboratorio di scrittura pavesiano. Dalla Toscana alla Sicilia, dalla Sicilia al Piemonte, dal Piemonte alla Sardegna di Giuseppe Dessì. Accostato da Gianfranco Contini ad autori di respiro europeo come Marcel Proust, Dessì è stato dopo la Deledda il più importante scrittore dell’Isola. Frequentando da ragazzo pastori e contadini, a Villacidro, egli prese coscienza delle sue radici e comprese profondamente quel mondo che tradusse in finzione letteraria. Al liceo «Dettori» di Cagliari conobbe Carlo Varese e Delio Cantimori, che lo incoraggiò a continuare gli studi all’Università di Pisa. Dopo la laurea frequentò il gruppo raccolto at- torno alla rivista «Letteratura». Intrapresa la carriera d’insegnante, nel 1937 fu a Ferrara. Nel 1939 Le Monnier licenziò San Silvano, il suo primo roman- zo. Nominato per «chiara fama» di scrittore Provveditore agli studi, nel 1941 prese servizio a Sassari. Nel 1942 uscì Michele Boschino e nel 1961 Il di- sertore. Nel 1972 vinse il «Premio Strega» con Paese d’ombre. Morì a Roma il 6 luglio 1977. In quel contesto acquistò rilievo l’operazione di quegli scrit- tori, tra i quali Giuseppe Dessì, che hanno saputo unire all'impegno etico e civile l'impegno formale sul piano del linguaggio e delle strutture letterarie. La lettura di filosofi, narratori e poeti come Spinoza, Leibniz, Kant, Scho- penhauer, Nietzsche, Bergson, Proust, Joyce, Einstein, Mann, Hesse, Rilke, Husserl, Merleau-Ponty, Heidegger, e la considerazione più tardi della por- tata eversiva della pittura di Monet, Manet, Pissarro, Sisley, Cézanne, Van Gogh, Gauguin ma soprattutto di Braque e Picasso, offrirono allo scrittore di Villacidro importantissime chiavi di lettura della realtà sarda, quegli stru- menti filosofici, conoscitivi e artistico-compositivi che condizioneranno e informeranno buona parte della sua scrittura sino a Paese d’ombre. Ma già in Michele Boschino si iniziarono a leggere i segni di questa contemporaneità. Modernità nell’approccio demologico ed antropologico, nel relativismo prospettico e conoscitivo (straordinario antidoto contro ogni esclusivismo ed etnocentrismo) – che egli sperimenta come migliore dimostrazione della problematicità (se non talvolta impossibilità) gnoseologica, spesso sconfi-

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nante nell’incomunicabilità – nel rinnovato rapporto fra soggetto e oggetto, fra individuo e realtà, nel rapporto tra tempo fisico e tempo interiore, nell’analisi dell'inconscio e subconscio, nella riduzione fenomenologica at- tuata attraverso la coscienza dei personaggi. Grande è il significato che, nel- la generale poetica dello scrittore, assume la temporalità intesa bergsonia- namente come durata soggettiva, misura del vissuto e del percorso espe- rienziale dell’io, come rapporto imperfetto e non speculare tra tempo inte- riore e tempo fisico (l’oggetto si dà, appunto, per il soggetto). Il flusso me- moriale, se non proprio coscienziale, diventa in Dessì scandaglio conosciti- vo di universi ontologici, ricerca problematica di storie parallele, verticali e concentriche, verso verità spesso rinviate e rimandate all’infinito. Il tutto con un uso sapiente delle tecniche della variazione, del rallentamento e della sospensione ellittica, della ripresa e del disvelamento. La memoria, dunque, diventa la costante, il vero tòpos semantico. La significativa compresenza di differenti tipologie narrative e formali, di molteplici moduli della rappresen- tazione e di strutture superficiali di genere (racconto oggettivo e d’ambiente da una parte, scrittura soggettiva, memoriale e introspettiva dall’altra) e la non trascurabile valenza speculativa e filosofica – soprattutto per la propo- sta metodologica e per la mai risolta tensione gnoseologica – fanno di Dessì autore moderno e di respiro europeo. La Sardegna, «terra di permanenza e non di viaggio», è l’oggetto della sua scrittura e della sua speculazione. Essa diviene il suo correlativo oggettivo, l’equivalente emotivo del pensiero, di uno stato d’animo, di una condizione esistenziale; essa diviene, come per molti artisti sardi, il suo universale concreto.

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UN NUOVO STRUMENTO DI STUDIO (E DI LETTURA): IL VOCABOLARIO DANTESCO

Luigi Matt

In vista del settimo centenario della morte di Dante (2021), l’Accademia della Crusca e l’Opera del Vocabolario Italiano hanno progettato un Voca- bolario dantesco in rete.1 I lavori sono portati avanti da una squadra qualifica- tissima: la commissione scientifica è formata da illustri studiosi (Giancarlo Breschi, Rosario Coluccia, Giovanna Frosini, Lino Leonardi, Paola Manni, Aldo Menichetti, Mirko Tavoni); la redazione delle voci è affidata a giovani linguisti già noti per le loro ricerche. Recentemente sono state pubblicate, oltre all’Introduzione, le prime voci, in numero sufficiente (circa 200) per poter farsi un’idea precisa dei princi- pali aspetti teorici e pratici di questa nuova impresa lessicografica. Il Vocabo- lario dantesco prende vita in un momento in cui – a fronte della mancanza di un dizionario storico “totale” all’altezza dei tempi, lacuna che non pare de- stinata ad essere colmata nel prossimo futuro – si registra nel campo della lessicografia italiana un notevole fermento. Il Vocabolario dantesco riprende in buona parte i metodi e le modalità ope- rative, entrambi collaudatissimi, del Tesoro della lingua italiana, a partire dalla scelta di pubblicare online le voci man mano pronte. La scelta della diffu- sione in rete ha naturalmente il grande vantaggio di mettere a disposizione fin da subito i primi risultati del lavoro, senza doverne attendere la conclu- sione; inoltre, la facile aggiornabilità consente eventuali interventi migliora- tivi in corso d’opera. Una volta che l’impresa sarà conclusa, comunque, è previsto anche l’allestimento di una versione cartacea. Prima di analizzare sinteticamente le caratteristiche del dizionario, è op- portuna un’osservazione preliminare: appare evidente, tanto leggendo l’Introduzione quanto esaminando le voci pubblicate, il carattere anche divul- gativo dell’opera. I criteri sono spiegati con un linguaggio piano e privo di

1 Consultabile all’indirizzo http://www.vocabolariodantesco.it.

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LUIGI MATT tecnicismi non necessari; il trattamento delle voci – pur scientificamente impostato, come è doveroso – le rende leggibili anche per chi non sia del tutto a suo agio con le tecniche lessicografiche. È un aspetto che fa piacere sottolineare, sia per ragioni generali sia pensando allo specifico campo d’indagine del Vocabolario. In un paese come l’Italia, in cui scarseggiano produzioni culturali in grado di raggiungere le tante persone che per fortu- na ancora esistono interessate alle arti, alla letteratura e alla filosofia, pur se estranee allo specialismo accademico, e la divulgazione è spesso realizzata in modo semplicistico e corrivo, qualsiasi operazione vòlta a rendere acces- sibile il sapere “alto” senza banalizzarlo deve essere salutata con favore. Ciò vale a maggior ragione per un autore come Dante, che continua fortunata- mente a stimolare l’interesse di molti, come dimostrano da un lato il buon successo di tante iniziative, a partire dalle letture pubbliche, dall’altro l’esperienza di chiunque insegni (in un liceo o all’università): le opere dante- sche (non solo la Commedia) sono tra quelle maggiormente in grado di ac- cendere l’interesse degli studenti, che ne colgono non solo astrattamente la grandezza, ma anche la capacità di parlare alla mente delle persone del Duemila.

Passiamo agli aspetti più tecnici. Molto felice è la scelta di dare spazio non solo alle voci che si ricavano dall’edizione di riferimento scelta (il testo stabilito da Giorgio Petrocchi secondo l’antica vulgata), ma anche a quelle che derivano da lezioni alternative presenti nella tradizione del poema, noto- riamente ricchissima e molto complessa. Concretamente, quindi, il lemma- rio di base verrà «integrato attraverso un paziente e accurato spoglio della variantistica depositata nell’apparato della stessa edizione Petrocchi o nelle edizioni critiche più recenti [...], nonché in altri singoli contributi prodotti negli ultimi anni in seno al dibattito sul testo del poema». Per dare un’idea precisa di come sono costruite le voci del Vocabolario dantesco, la cosa migliore è analizzarne due, relative a parole molto diverse tra loro, mettendole a confronto: prendiamo il comunissimo sostantivo aba- te e il rarissimo verbo detrudere, il cui significato è «cacciare giù, far precipita- re (all’Inferno)» (le autrici sono rispettivamente Veronica Ricotta e Fiam- metta Papi). Le sezioni Frequenza e Lista forme e index locorum dànno conto del numero di attestazioni dantesche (quattro per il sostantivo, una sola per il verbo), esplicitano le forme concretamente utilizzate (abate è sempre al

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singolare, detrudere compare al participio passato detruso) e indicano i luoghi in cui le parole si ritrovano (per abate andrà notata un’occorrenza nel Fiore, non segnalata come speciale: scelta non scontata dato che l’attribuzione dantesca del poemetto non è ancora passata in giudicato). Nella sezione discorsiva (intitolata Nota), si forniscono sinteticamente tutte le informazioni essenziali: dall’indicazione dell’etimo (il sostantivo de- riva «Dal lat[ino] crist[iano] abbas, dal gr[eco] abbàs, a sua volta dall’ebr[aico] abba “padre”»; il verbo è un «latinismo da detrudere [...], att[estato] nel lat[ino] classico e medievale») alla consistenza nell’italiano an- tico (abate è corrente nei volgari medievali, mentre detrudere è una coniazione di Dante, e non ha avuto séguito al di fuori dei commenti alla Commedia). Una differenza fondamentale nel trattamento delle due voci è proprio la chiamata in causa dei commentatori antichi, che si ha solo per detrudere (per abate sarebbe evidentemente inutile, data la mancanza di incertezze nell’interpretazione del vocabolo); viene dato opportunamente conto degli elementi più interessanti che si possono desumere da quei testi, preziosis- simi per l’intelligenza del poema ma anche per la storia del lessico italiano (e del latino medievale): «Generiche le chiose dei commentatori a Par. 30.146: Benvenuto da Imola si approssima a detruso con “impulsus”, Iacomo della Lana glossa “murirà e serrà portà in quello logo infernale dove è Symon mago”; più preciso Francesco da Buti “sarà rinchiuso ne lo inferno, dove sono li fori nei quali nel XIX canto de la prima cantica finge che siano pian- tati li simoniaci col capo di sotto”». Un’opportunità offerta dalla pubblicazione in rete è l’indicazione siste- matica di alcune risorse (vocabolari, enciclopedie, banche dati) da cui è pos- sibile trarre riscontri, rese immediatamente accessibili da link. Se ne gioverà chiunque voglia intraprendere una ricerca, o anche il semplice lettore curio- so, che potrà trovare informazioni aggiuntive. Particolarmente ricca di spunti è la consultazione dell’Enciclopedia dantesca, da tempo digitalizzata nel sito della Treccani. Ad esempio, per la voce dismagare, l’azione che è solita compiere la «dolce serena» nel canto XIX del Purgatorio («che ’ marinai in mezzo mar dismago») nel Vocabolario dantesco è interpretata così: «il verbo assomma al senso di ‘far perdere le forze’ (per l’incanto delle sirene) quello di ‘distogliere’ i marinai dalla rotta, come esplicitano i versi successivi [...] e come appare dai contesti in cui ricorre il verbo base smagare»; si ricorda inol- tre che Benvenuto da Imola chiosava con ‘disturbare’. Non si fa menzione,

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LUIGI MATT invece, di un’altra possibile lettura, non rara nei commenti novecenteschi: ‘incantare’ (o simili). Quest’omissione si dovrà ad una comprensibile scelta di sintesi: si è evidentemente dato conto solo delle letture considerate più plausibili dall’autrice (Fiammetta Papi). Ma chi aprirà la relativa pagina dell’Enciclopedia dantesca vi troverà anche l’ipotesi che il verbo abbia il valore di ‘incantare, affascinare’. Ogni dizionario ben fatto non solo costituisce un fondamentale stru- mento di lavoro, ma offre a chi ha il gusto per la lingua la possibilità di per- correre in lungo e in largo, seguendo la curiosità e l’estro del momento, «un luogo di passeggio gradevolissimo» (come Giorgio Manganelli definiva il Tommaseo-Bellini), in cui ad ogni svolta possono comparire squarci inattesi o luoghi che pur visti molte volte sembrano sempre avere qualcosa di nuo- vo. È ciò che capita passando un po’ di tempo nella lettura del Vocabolario dantesco, esperienza che si consiglia senza riserve.

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«DENTRO A LA SELVA ANTICA» (PG XXVIII 23)

Antonio Soro

È noto agli studiosi che, per antitesi, Dante stabilisce alcune vaghe ma appariscenti somiglianze tra la scenografia della «silva» virgiliana, la «selva oscura» dell’incipit infernale e l’edenica foresta che Dante trova sul limes dell’Eden. Riguardo alle affinità tra gli ultimi due, la critica si è espressa at- testando che «le differenze tra i due luoghi sono, tuttavia, infinitamente più importanti delle somiglianze».1 Nel merito del sostantivo e dell’aggettivo scelti da Dante per descrivere il luogo naturale introduttivo al paradiso ter- restre, «selva antica», i commentatori da Jacopo della Lana (1324-28) a Bal- dassare Lombardi (1391-92) glossano mantenendosi su un piano didascali- co-morale, con riferimento all’antico luogo dal quale in Genesi fu scacciata la prima coppia in conseguenza del peccato, e così altri («antica: qua nulla est antiquior. Nam in ea locati fuerunt primi parentes»).2 Il primo a riconoscere un intertesto pagano fu Niccolò Tommaseo (1837; ed. 1965), che postillava: «Antica: Aen VI [179]».3 In corrispondenza si legge «itur in antuquam sil- vam», laddove Enea e i compagni si addentrano nella foresta di Cuma in cerca del legname per la pira funebre del defunto Miseno, appena prima che l’eroe trovi il ramo d’oro necessario per accedere al regno dei morti. Inoltre, una reminiscenza abbastanza palese segue immediatamente dopo, quando Dante ricorda di essersi addentrato tra gli alberi «tanto, ch’io | non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi» (vv. 23-24). È facile associare Inf I 10, «Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai». Jacopo della Lana spiegava: «Non potea rive- dere, cioè che con intelletto umano quanto per scienzia naturale non era andato tanto innanzi, e però lo solco nel stradello ch’avea tenuto non potea redire».4 Egli individua dunque un empasse gnoseologico, mentre Francesco

1 HOLLANDER in DANTE 2011, II, p. 240, nota ai vv. 22-24. 2 CHIROMONO [1461] 2004, ad loc. 3 TOMMASEO 1865, p. 492, nota 8. 4 In Dartmouth Dante Project [=DDP], comm. a Pg XXVIII 22-24. I commenti ai versi della

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ANTONIO SORO da Buti (1385-95) spiega eticamente: «non era anco spenta in lui la memoria dei peccati suoi, la quale lo impacciava ancora ne le sue apprensioni, ne le quali sé esercitava».5 Una venatura neoplatonica caratterizza la spiegazione di Cristoforo Landino (1481): «non potea riveder dond'io m'entrassi: entrò l’huomo nello stato della innocentia subito che fu creato, et di questo in- gresso non ci possiamo ricordare, perchè nessuno si ricorda dell’entrata che fa l’anima nel corpo, onde et nella prima cantica dixe “io non so ben ridir chom’io v’entrai”».6 In questo modo viene già introdotto il tema della per- dita di memoria, che si concluderà solo in XXXIII 129, con l’invito di Bea- trice a Matelda a immergere Dante nel fiume Eunoè, perché recuperi la memoria del bene compiuto. L’assenza di un ricordo però era presente an- che in Inf I 11-12 («tant’ era pien di sonno a quel punto | che la verace via abbandonai»). Infatti è stata perduta la memoria della modalità in cui il poe- ta si addentrò nel peccato («com’ i’ v’intrai»). Spiegava Tommaso: «Sed ex hoc non consequitur malitiam moralem, sicut nec somnus quo ligatur usus rationis, moraliter est malus, si sit secundum rationem receptus».7 Ma dato che «ratio et intellectus in homine non possunt esse diversae potentiae»;8 che «ratio superior et inferior, […] nullo modo duae potentiae animae esse possunt»;9 che, infine, la stessa sinderesi è «specialem habitum naturalem» che «dicitur instigare ad bonum, et murmurare de malo»,10 ne consegue che la crisi dei sensi ne genera anche una spirituale. Infatti, «cum anima sit una, potentiae vero plures; […] necesse est inter potentias animae ordinem esse. […] Nam potentiae animae nutritivae sunt priores, in via generationis, po- tentiis animae nutritivae est de potentiis sensitivis respectu intellectiva- rum».11 In tale contesto risultano così evidenti dei parallelismi strutturali, rimanendo da valutare se vi sia o meno comune referenza. In una nota del 200912 l’autore del presente saggio ha segnalato alla critica l’esistenza di un acrostico alla rovescia ai vv. 25-37 del canto, così che, poco prima che Dan-

Commedia, salvo diversa indicazione, saranno estrapolati dal portale. 5 DDP, comm Pg XXVIII 22-33. 6 DDP, comm. Pg XXVIII 22-24. 7 S. Th. I-II 34 1. 8 Ivi, I 79 8. 9 Ivi, I 79 9. 10 Ivi, I 79 12. 11 Ivi, I 77 4. 12 SORO 2009a.

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te confessi che Matelda gli ricorda la giovane Proserpina,13 alle iniziali delle cinque terzine, dall’ultima fin su verso la prima di esse, si può leggere il nome “Ecate”. La pertinenza è risultata evidente, al punto che, insieme a un altro acrostico scoperto quasi contemporaneamente in Pd V 97-109, “Pe- sce”,14 e ai già noti “Vom” (Pg XII 25-58) e “Lve” (Pd XIX 115-141), «rad- doppiano il totale dei ‘veri’ acrostici (da due a quattro) sicuramente presenti nel poema».15 Una prima analisi, dato che appena tre versi dopo l’acrostico compare la «donna soletta» Matelda, aveva indotto a identificare la medesi- ma con la «Trivia». Ma in tempi recenti Soro ha ripreso l’argomento, vol- tando verso un’interpretazione che riconosce un’ispirazione neotestamenta- ria (I Cor 15, 26).16 Tuttavia, nello stesso saggio egli riconosceva l’esistenza di non pochi parallelismi e affinità tra il paesaggio virgiliano di Aen VI, l’incipit dell’Inferno e la natura descritta nelle prime undici terzine di Pg XXVIII. In precedenza aveva potuto riscontrare un caso17 nel quale certe ricorrenti analogie non sono affatto casuali: si tratta di una generale somi- glianza di immagini e di ricercati equivoci linguistici che pongono in corre- lazione Inf I 22-30 e la scenografia della spiaggia del Purgatorio, fin quando Dante e Virgilio giungono ai piedi della montagna (III 46). La conclusione era che Dante nei primi versi dell’Inferno è vittima di un miraggio, persuaso di trovarsi non «al piè d’un colle» generico, bensì alla base della montagna dell’espiazione: un inganno generato dalla mancanza di umiltà, che illude l’uomo di potere ascendere senza prima essersi abbassato. Ma Agostino ammoniva: «Exemplum enim tibi fecit humilando se. Non qui nolebant a convalle plorationis ascendere, compressi sunt ab ipso. Praerompere enim volebant habere ascensum, honpres altos cogitabant, viam humilitatis non cogitabant».18 Di tale illusione

13 «Hecate trium potestatum numen est; ipsa enim est Luna, Diana, Proserpina. Sed solam Proserpinam dicere non potuit propter lucos qui Dianae sunt, item Dianam, quia Avernis ait: unde elegit nomen in quo utrumque constabat. Unde Lucanus de Proserpina ait: “Hecate pars ultima nostrae”» (SERVIUS, Ad Aen VI 118). 14 SORO 2009b. Per un approfondimento recente su questo acrostico alla rovescia si veda PERTILE 2018. 15 HOLLANDER 2011, II, p. 100. 16 Cfr. SORO 2019. 17 SORO 2010. 18 Enarr. in Ps. 119, 1.

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ANTONIO SORO

Dante ci fa partecipi, dipingendoci una scena con vaghe somiglianze con la spiaggia ai piedi del monte del purgatorio. I versi 28-30 fanno perciò parte della similitudine sul naufragio espressa nelle due terzine precedenti. Il naufrago, ingannato dal suo orgoglio, sottomesso dai vizi, crede per un attimo di essere giunto ai piedi del mon- te dell’espiazione, e si appresta a cominciare la salita. Ma le sue debolezze faranno presto a spazzare via il sogno: la spiaggia è in realtà solo una piaggia, il mons è sola- mente un collis e, dunque, quello non è il purgatorio, ma è purtroppo la valle che fa precipitare le anime verso la perdizione. La via dell’inferno si presenta piena di in- canti, il male si traveste da salvezza per perdere le anime. Appare dunque necessa- rio, per cogliere appieno il miraggio di cui è vittima Dante, porre attenzione all’incertezza semantica dei versi 22-30, i quali risultano far parte di un’unica simili- tudine: in essi, il termine «piaggia» di 1.29 andrebbe considerato nel suo duplice ed irriducibile significato, quello di «pendio» e quello di «spiaggia».19

Quel che si intende dimostrare in questa sede è che, così come dopo lo smarrimento nella selva Dante si illude di essere ai piedi del Purgatorio, in modo analogo in prossimità dell’Eden egli ha una vaga, errata impressione di trovarsi nella selva virgiliana di Cuma, laddove Enea si apprestava a scendere negli inferi. Il dubbio che manifestano i poeti dinanzi a Matelda («maravigliando tienvi alcun sospetto», XXVIII 79) appare dovuto proprio a tale sfumato sentore. Già l’incipit ci riporta all’Eneide: «divina foresta spes- sa e viva» (v. 2). Naturalmente ci si interroga sull’aggettivo, di non immedia- ta spiegazione. Jacopo della Lana (1324-1328) tradusse «luogo virtuoso» (ad loc.). Pietro Alighieri (1359-1364) interpreta scrivendo «auctor fingit se in- gredi locum terrestris Paradisi», (ad loc.). A ogni modo, per diverso tempo forse «selva oscura» e la «divina foresta» non vennero associate. Alessandro Vellutello (1544) sembra essere stato il primo a riconoscere che «’l poeta, per la selva oscura […] essere stata intesa da lui per la selva erronea de la presente vita […] ultimamente condotto al paradiso terrestro, ciò è, a lo sta- to de la innocentia, et a l'habito de la virtù intesa per essa divina foresta, la qual poco di sotto, et in altri luoghi, vedremo esser da lui similmente do- mandata selva».20 Vellutello spiega il motivo moralmente, contrapponendo i vizi alle virtù: «perché, sì come prima fu smarrito ne la selva de gli errori e de' vitii, così da quelli purgato, ha ritrovato, come vedremo, la selva de le

19 SORO 2010. 20 In DDP, comm. Pg XXVIII 1-3.

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virtù».21 In generale, le interpretazioni ricondurranno alla Genesi fino a Er- nesto Trucchi che, nel suo commento del 1936, è il primo a opporre «divi- na foresta» e selva pre-infernale: «I tre aggettivi uniti al nome della foresta, divina spessa e viva, mostrano l'antitesi fra questa e la selva, selvaggia, aspra e forte del primo Canto dell'Inferno» (ad loc.). Umberto Bosco e Giovanni Reg- gio (1979) prendono in esame sia il collegamento al primo libro della Bibbia che la referenza endoforica:

La divina foresta: perché l'Eden è stato direttamente creato, anzi piantato da Dio (Gen. II 8). La foresta del Paradiso terrestre è in evidente contrapposizione con la selva selvaggia del I canto dell'Inferno (si noti inoltre la coppia aggettivale in entrambi i casi: aspra e forte quella simboleggiante la vita peccaminosa; spessa e viva la foresta e- denica) e tale contrapposizione non va intesa soltanto nel senso letterale, ma anche in quello allegorico» (ad loc.).

Inoltre «divina foresta» suggerisce «Triviae lucos» di Aen VI 13. Del re- sto Didone «inimica refugit | in nemus umbriferum», vv. 472-473,22 ma anche Ovidio racconta che Medea si dirigeva verso l’antico altare di Ecate, «quas nemus umbrosum secretaque silva tegebat» (Met VII 75). Una volta accer- tato un nesso tra la selva oscura con le sue fiere e la silva virgiliana nella quale si addentra Enea per accedere al regno dei morti, si riconosce un’altra ispi- razione da Aen VI 7-8: ««pars densa ferarum | tecta rapit silvas». Ma soprat- tutto, poco dopo, Dante riferisce proprio così: «lasciai la riva» (XXVIII 4), come pure una schiera di giovani con Enea «emicat […] litus in Hespe- rium» (vv. 5-6). Ma nel Purgatorio ci sono anche le affinità antitetiche, che hanno la fun- zione di esprimere il bisticcio di sensazioni provate dal poeta, il cui intellet- to rimane incapace di qualificare con certezza assoluta il luogo che attraver- sa. Nel Purgatorio Dante va per «la campagna lento lento | su per lo suol che d’ogne parte auliva» (vv. 5-6; ripetizione del lessema iterata al v. 31: bruna bruna (vd. poco oltre), sperimentando sensazioni olfattive opposte a quelle avvertite da Enea, quando giunse «fauci grave olentis Averni» (v. 201); un luogo il cui puzzo ammazza gli uccelli al volo: «Spelunca alta fuit […], | quam super haud ullae poterant impune volantes | tendere inter pinnis: ta-

21 Ibidem. 22 Corsivo nostro.

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ANTONIO SORO lis sese halitus atris faucibus effundens supera ad convexa ferebat» (vv. 237- 241). All’ingresso dell’Eden, al contrario, gli uccelli continuano sereni la lo- ro vita: «non però del loro [delle fronde] esser dritto sparte | tanto, li augel- letti per le cime | lasciasser d’operare ogne lor arte» (vv. 13-15). Una reminiscenza del fiume infernale si avverte, nel XXVIII canto, ai vv. 31-33: «avvegna che si mova bruna bruna | sotto l’ombra perpetua, che mai | raggiar non lascia sole ivi né luna».23 Il ruscello è di una purezza asso- luta ma l’acqua ha tuttavia un colore bruno; «elemento che potrebbe delu- dere le aspettative dei lettori, ma che ha senso se si evoca per contrasto il paesaggio torrido della Sicilia d’agosto».24 Ma qui traspare il confuso ricordo del fiume Acheronte, che condiziona Dante impedendogli di cogliere ap- pieno la limpidezza di quelle acque: «Così sen vanno su per l’onda bruna» (Inf III 118);25 il riferimento, a sua volta, potrebbe essere Aen V 2 («fluctu- sque atros»). Dante viene colpito alla fronte da una brezza delicata e costante, un «so- ave vento;26 | per cui le fronde, tremolando, pronte | piegavano a la parte | u’ la prim’ ombra gitta al santo monte» (vv. 9-12). Dal che «si deduce che il vento del giardino soffia da Est, una direzione propizia […] rispetto all’oscurità della morte».27 Ma, da un punto di vista antitetico, quando al- beggia in oriente, la dea della morte, Ecate, annunciata dalla Sibilla, arriva con la bufera. Similmente ai versi danteschi, un vento agita le chiome, seb- bene si tratti di un movimento d’aria turbinoso e di certo meno rassicuran- te: «Ecce autem primi sub limina solis et ortus | sub pedibus mugire solum et iuga coepta moveri | silvarum» (vv. 255-256). Insomma, l’accesso all’Eden è carico di impressioni ancestrali, provenienti da una mémoire collecti- ve che permane a causa della non ancora raggiunta purezza assoluta del poe- ta. Del resto, Dante fraintende il sorriso di Matelda («forse perch’io rido, | […] maravigliando tienvi alcun sospetto», vv. 76; 79), e da subito la chiama «bella donna» (v. 43), marcando la differenza fra auctor e agens. Ai vv. 49-50 non solo associa alla donna una bellezza sensuale attribuita a un personag- gio mitico, ma, a conferma, il richiamo subitaneo è proprio a Proserpina,

23 Corsivo nostro. 24 Ivi, nota ai vv. 28-33. 25 Corsivo nostro. 26 Cfr. Georg IV 417: «dulcis […] aura». 27 Ivi, pp. 239-240, nota ai vv. 10-12.

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così come in Met V 391-401, nonché nel De raptu Proserpinae).28 E ciò nono- stante Farinata abbia espressamente detto che «non cinquanta volte fia rac- cesa | la faccia de la donna che qui regge»29 identificando la luna tartarea proprio con Proserpina, signora dell’Averno, sposa di Plutone, che era vista come Ecate nel regno dei morti e come Diana sulla terra e nelle selve. Dunque l’associazione fatta da Dante risulta del tutto fuori luogo. Perché egli si confonde, e insistentemente ha il timore di trovarsi all’ingresso dell’Averno? Tommaso scriveva: «…impossibile est intellectum nostrum, secundum praesentis vitae statum, quo passibili corpori coniungitur, daliqui intelligere in actu, nisi co-nvertendo se ad phantasmata».30 E per chiarire fa anche un esempio: «quia hoc quilibet in seipso, experiri potest, quod quan- do aliquis conatur aliquid intelligere, formati aliqua phantasmata sibi per modum exemplorum, in quibus quasi inspiciat quod intelligere studet».31 Il processo conoscitivo, che va dai singolari agli universali, è spiegato ancora dall’Aquinate:

…oportet considerare quod intellectus noster de potentia in actum procedit. Omne autem quod procedit de potentia in actum, prius pervenit ad actum incompletum, qui est medius inter potentiam et actum, quam ad actum perfectum. Actus autem perfectus ad quem pervenit intellectus, est scientia completa, per quam distincte et determinate res cognoscuntur. Actus autem incompletus est scientia imperfecta, per quam sciuntur res indistincte sub quadam confusione: quod enim sic cognoscitur, secundum quid cognoscitur in actu, et quodammodo in potentia. Unde Philosophus dicit … quod «sunt primo nobis manifesta et certa confusa magis; posterius autem cognoscimus distinguendo distincte principia et elementa».32

Perciò, scrive Tommaso, avere una conoscenza imprecisa di un oggetto che contiene molte cose significa avere una conoscenza imprecisa dell’oggetto medesimo. Un grado di conoscenza è conoscere un animale; un grado ulteriore è conoscerlo in quanto irragionevole («irrationale») op-

28 Il riferimento a CLAUDIANO emerge dal comportamento della donna che va «scegliendo fior da fiore» (v. 41): «electis herbis … ratorum spoliatur honos: haec lilia fuscis intexit violis: hanc mollis amaracus ornat; haec graditur stellata rosis, haec alba ligustris» (De raptu Proserpinae II, 127-130). 29 Inf X 79-80. Corsivo nostro. 30 S. Th. I 84 7. 31 Ibidem. 32 Ivi, I 85 3. Corsivo nostro.

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ANTONIO SORO pure ragionevole («rationale»). Perciò l’intelletto umano conosce prima co- me animale e poi come uomo. Dopodiché il teologo si sofferma sui sensi: «Et quia sensus exit de potentia in actum sicut intellectus, idem etiam ordo cognitionis apparet in sensu. […] Est ergo dicendum quod cognitio singula- rium est prior quoad nos quam cognitio universalium, sicut cognitio sensi- tiva quam cognitio intellectiva».33 Bonaventura, dissertando sul «terzo raggio» («veritas morum»), scrive: «Haec sunt novem lumina illustrantia animam, scilicet veritas rerum, vo- cum, morum: rerum, scilicet essentiarum, figurarum, naturarum quantum ad quidditatum differentias occultas, quantum ad quantitatum proportiones manifestas, quantum ad naturarum proprietates mixtas».34 L’anima, egli di- ce, per conoscere ha tre potenze: «animalem, intellectualem, divinam, se- cundum triplicem oculum: carnis, rationis, contemplationis. Primus viget, secundus caligat, tertius excaecatus est».35 Dunque la potenza animale si ri- vela duplice: essa ha il senso e l’immaginazione. Ma «intellectualis etiam est duplex: aut ut considerat universales rationes abstractas, ut abstrahit a loco, tempore et dimensione; aut ut elevatur ad substantias spirituales separatas; et hic sunt duae potentiae, scilicet ratio et intellectus: per ratione confert, per intellectum cognoscit se et substantias spirituales».36 Si può così spiega- re così come i disparati elementi di un paesaggio possano aver tratto in in- ganno il poeta nel passare dai singolari all’universale, scambiando dramma- ticamente la via dell’Eden per la via degli inferi. A caricare ancor più di sug- gestioni ctonie vi è il già menzionato acrostico alla rovescia “Ecate”, dal v. 25 al v. 37 che, termina appena tre versi dalla «donna soletta»;37 aggettivo che, forse, come a estinguere ogni impulso erotico, ne suggerisce una virtù che già Forese attribuì a sua moglie Nella («tanto è a Dio più cara e più di- letta | la vedovella mia, che molto amai, | quanto in bene operare è più so- letta»).38 Lo scrivente ha potuto mostrare in altro volume di questa collana39 che, contrariamente alle prime impressioni, l’acrostico “Ecate” non va letto

33 Ibidem. 34 Collationes in Hexaëmeron, V 22. 35 Ivi, 24. 36 Ibidem. 37 Corsivo nostro. 38 Pg XXIII 91-93; corsivo nostro. 39 Cfr. in questo stesso volume a p. 61: Sul mistero di un riflusso pagano in Dante. Le ragioni di un’ispirazione paolina per un acrostico alla rovescia.

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come si trattasse della vera identità di Matelda (riguardo alla quale, sia per fondate motivazioni filologiche, sia per esigenze paradigmatiche, è bene conservare un calco storico). Infatti anticamente la dea tergemina40 poteva apparire benigna e socievole41 mentre, a cominciare da Sofocle,42 assume caratteristiche terrificanti, divenendo un personaggio anguichiomato. Nel Medioevo a livello popolare ella mostra un volto lugubre, è la signora della stregoneria,43 dei fantasmi errabondi e causa delle possessioni e del culto ai demoni. Ma soprattutto, proprio tanto su Ecate quanto su Apollo pesa il giudizio negativo e derisorio di Agostino, che nel confutare La filosofia degli oracoli di Porfirio, cita due distinti e discordanti responsi considerati divini del pensatore greco. Porfirio infatti oltraggiava Cristo con un aneddoto su Apollo, mentre con un altro lo faceva esaltare da Ecate: «“De Christo au- tem”, inquit, “interrogantibus si est Deus, ait Hecate: ‘Quoniam quidem immortalis anima post corpus ut incedit, nosti; a sapientia autem abscissa semper errat. Viri pietate praestantissimi est illa anima; hanc colunt aliena a se veritate’”».44 La replica di Agostino è quasi sarcastica:

Nos autem neque Apollinem vituperantem Christum neque Hecaten possumus approbare laudantem. Ille quippe tamquam iniquum Christum vult credi, quem iudicibus recta sentientibus dicit occisum; ista hominem piissimum, sed hominem tantum. Una est tamen et illius et huius intentio, ut nolint homines esse Christianos, quia, nisi Christiani erunt, ab eorum erui potestate non pote- runt. Iste vero philosophus, vel potius qui talibus adversus Christianos quasi oraculis credunt, prius faciant, si possunt, ut inter se de ipso Christo Hecate a- tque Apollo concordent eumque aut ambo condemnent aut ambo collaudent. Quod si facere potuissent, nihilo minus nos et vituperatores et laudatores Chri- sti fallaces daemones vitaremus. Cum vero eorum deus et dea inter se de Chri- sto, ille vituperando, ista laudando dissentiant; profecto eis blasphemantibus Christianos non credunt homines, si recte ipsi sentiant».45

40 «…sacerdos | ter centum tonat ore deos, […] tergeminamque Hecaten» (Aen IV509-511; cor- sivo nostro). 41 Cfr., in ESIODO, Theog 411-420; 441-443; ancora, nell’Inno a Demetra di OMERO, nonché nel Peana II di PINDARO (h. Cer. 2, 22-26; 51-61; 438-440; Pi., fr. 52b, 77-79 Maehler). 42 Fr. 535 (RADT). 43 «…di solito Ecate è in prima persona la dea delle maghe, quelle famose come Circe e Me- dea di cui sarebbe addirittura madre (OVIDIO, Met VII 174; 177-178; 192-195)» (CHIRASSI CO- LOMBO 1985, ad voc.). 44 De civ. Dei XIX 23 2. 45 Ivi, XIX 23 3.

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Nella lettera e per tradizione, dunque, il personaggio risulta del tutto in- compatibile col secondo regno cristiano, e rimane solo da approcciare il fe- nomeno sotto il profilo allegorico-morale. Per quel che il sottoscritto ha ri- tenuto di poter dedurre a partire dalla suddetta assenza di un’Ecate benigna nel Medioevo occidentale; dal fatto che lo stesso acrostico termina appena tre versi prima della comparsa dinanzi a Dante della «donna soletta»; dai rimandi numerosi al I canto dell’Inferno e soprattutto al VI dell’Eneide, appa- re abbastanza evidente che l’acrostico alla rovescia descrive, più che un’apparizione di Ecate, una sparizione, esattamente al confine con l’Eden. E ciò in accordo con la Sacra Scrittura, in particolare col già citato I Cor 15, 26: «novissima autem inimica destruetur mors». Tommaso, menzionando Aristotele, in II-II 64 5, biasima il suicidio e osserva che «“ultimum” malorum huius vitae et “maxime terribile” est mors».46 Infatti l’ombra, l’eco di quell’antica inquietante presenza divina ha fine al v. 37, dove Dante con lo sguardo è già arrivato al paradiso terrestre, oltre il mondo umano e transe- unte: «con li occhi passai | di là dal fiumicello, per mirare la gran variazion d’I freschi mai» (vv. 34-36). In quei primi 36 versi del XXVIII canto c’è tut- to il percorso a ritroso dell’umanità, fino a tornare alla radice prima del pec- cato, che è la concupiscenza, focalizzata sulla figura di Matelda, dalla quale Dante appare carnalmente attratto. In tal modo il poeta dà nuovamente vo- ce all’Aquinate, che all’articolo «utrum originale peccatum sit concupiscen- tia», sentenzia che «privatio originalis iustitiae […] est formale in peccato originali: omnis autem alia inordinatio virium animae praecipue in hoc at- tenditur, quod inordinate convertuntur ad bonum commutabile: quae qui- dem inordinatio commun nomine potest dici concupiscentia; formaliter ve- ro, defectus originalis iustitiae».47 Proprio il tema della giustizia, connessa se- condo Tommaso con la colpa originale, suggerisce un altro sentiero inter- pretativo: fatta salva la storicità di Matelda, l’allegoria che la pone alle origi- ni appena riguadagnate da Dante la rende un simbolum iustitiae, e allora il personaggio appare restituirci la prima donna di Rm CIV, cioè la canzone dell’esilio, Tre donne intorno al cor mi son venute. «Drittura», la prima di esse, ha per nome un provenzalismo e «non sembra molto probabile che questo termine abbia un significato più esteso di Giustizia».48 L’accezione è quella

46 I corsivi sono nostri. 47 S. Th., I-II 82 3; corsivo nostro. 48 CONTINI in DANTE 1995, p. 175, n. al v. 35.

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che perviene da Pietro Alighieri che, commentando Inf VI 73 («Giusti son due, e non vi sono intesi»), scrive: «“duo sunt justi” in mundo principaliter, […] primum, scilicet fas, quod est jus divinum et naturale»).49 Ripercorrendo a ritroso la via del male che ebbe origine dalla disobbedienza della prima coppia, Dante è tornato dinanzi alla «originalis iustitiae» di cui parla Tom- maso, per il quale l’aver contravvenuto alla legge divina e naturale con pec- cato originale ha significato la perdita dell’ordine naturale dell’Eden. Egli finalmente può contemplare di nuovo il volto di quella giustizia, anche se il ricordo dei suoi peccati e delle malvagità del mondo ancora lo confonde. Per avere una visione più nitida dovrà attendere l’acqua del «Letè […] | là dove vanno l’anime a lavarsi | quando la colpa pentuta è rimossa» (Inf XIV 136-138). Solo lì potrà essere fugata ogni ambiguità, e l’acqua dell’Eunoè potrà successivamente restituire il ricordo delle opere buone. Prima di allo- ra per qualunque uomo sussisterà l’inganno di scambiare per purgatorio la via degli inferi, e per via degli inferi il sentiero che va all’Eden; amara verità confermata da Agostino nel biasimare la teoria della reincarnazione: «Quo- rum [sanctorum] enim aures piorum ferant post emensam tot tantisque ca- lamitatibus vitam, si tamen vita ista dicenda est, quae potius mors est, ita gravis, ut mors, quae ab hac liberat, mortis huius amore timeatur».50

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49 PIETRO ALIGHIERI, in DDP, comm. Inf VI 73. 50 De civ. Dei XX 20 1.

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ANTONIO SORO

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«COME D’AUTUNNO SI LEVAN LE FOGLIE»: CARONTE VIRGILIANO, CARONTE INFERNALE E CATONE A CONFRONTO IN TRE SIMILITUDINI

Antonio Soro

Superata la porta d’ingresso dell’inferno (III 1-9), Dante viene posto da Virgilio «dentro a le segrete cose» (v. 21). Appena provata l’angoscia nell’udire gridare e bestemmiare nell’area dei pusillanimi e degli angeli igna- vi (vv. 22-51), dove egli osserva senza riuscire a scorgere, nella turba, se non «l’ombra di colui | che fece per viltade il gran rifiuto» (vv. 59-60), finalmen- te il poeta e la sua guida sono lì per giungere «su la trista riviera d’Acheronte» (v. 78). Arrivati in prossimità di essa Dante vede «venir per nave» (v. 82), nella loro direzione, «un vecchio, bianco per antico pelo, | gridando: «Guai a voi, anime prave!» (vv. 83-84). Caronte torna da uno dei suoi innumerevoli viaggi verso l’altra riva, dove le anime, sbarcando, si av- viano all’eterna condanna che vien loro assegnata da Minosse che «giudica e manda secondo ch’avvinghia» (V 6). Il tremendo nocchiero urla da lontano la rovina degli spiriti dannati con un «Guai a voi» che, osserva Giuseppe Campi1, ricalca il «Vae victis! che suonava intollerabile agli orecchi de' Ro- mani, ricordato da Plauto, da Livio e da Floro»; ancor più, ricorda Giacomo Poletto (1894, ad loc.), «rammenta il “veh vobis”, frequente nella Santa Scrit- tura». In particolare, verosimilmente, si ispira proprio ai «Vae vobis» di Lc 6,24-26, coi quali Gesù preannunzia la condanna di coloro che in questa vi- ta si attaccano eccessivamente ai beni e chiudono gli occhi alle necessità del prossimo: «vae vobis divitibus, quia habetis consolationem vestram; vae vobis qui saturatis estis, quia esurietis; vae vobis qui ridetis, nunc quia luge- bitis et flebitis; vae cum bene vobis dixerint omnes homines, secundum ha- ec faciebant prophetis patres eorum». Sono queste le tre categorie di spiriti maledetti traghettati sulla barca di Caronte.

1 1888-93, in DDP.

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ANTONIO SORO

Dopo le sue minacce, questi si rivolge direttamente a Dante, invitandolo a proseguire il cammino per altro itinerario che non la sua imbarcazione (vv. 88-93), poiché quella è la via dei trapassati, dei “doppiamente morti” (cf. Ap 20,6 3 14: «secunda mors»): «E tu che se’ costì, anima viva, | pàrtiti da cotesti che son morti» (vv. 88-89). Si tratta di versi che rammentano quanto disse Caronte all’eroe troiano in Aen VI 388-91: «Quisquis es, arma- tus qui nostra ad flumina tendis, fare age, quid venias, iam istinc, et com- prime gressum». Umbrarum hic locus est, somni noctisque soporae; corpo- ra viva nefas Stygia vectare carina». Virgilio tappa la bocca a Caronte: il vi- aggio è voluto dal cielo, e perciò stia zitto. L’esortazione del «dimonio» a passare il guado con «più lieve legno», cioè con un’altra nave che non sia quella dei morti, che è in realtà mirata ad ostacolare la salvezza dell’anima del poeta, non viene così ovviamente ascoltata (per quanto, in verità, non risulta che Dante e Virgilio si siano mai imbarcati con il nocchiero. Dante al v. 118 osserva lui e gli spiriti mentre «sen vanno su per l’onda bruna», ed egli semplicemente si ritrova all’altra riva – dopo essere svenuto al v. 136 – nel IV canto). I versi dal 100 al 108 sono focalizzati sul binomio rabbia-disperazione dei condannati al castigo eterno: essi bestemmiano Dio, i genitori la l’umanità intera, il luogo e il tempo e il «seme che cresce nei corpi in cui so- no stati generati».2 Mossi da un impulso superiore, i perduti si dirigono al tormento senza fine «la divina giustizia li sprona, | sì che la tema si volve in disio» (vv. 125-126). Chi ancora, nonostante questo, “vive” il conflitto in maniera da esitare, è spinto dal nocchiero senza tanti complimenti: egli chiama con un cenno e «batte col remo qualunque s’adagia» (v. 111). La salita disperata delle anime a bordo della «nave» di Caronte, che pre- sto salperà portando il suo carico di condannati, è resa da Dante con una similitudine che rimanda alla stagione autunnale: gli spiriti levano i piedi dalla riva d’Acheronte lasciando quell’impressione di morte che si percepi- sce nell’osservare lo spogliarsi lento ma inesorabile d’un ramo dalle secche foglie. Ma, non appena dalla riva prende il largo il carico di peccato, subito altre anime si radunano, nella disperata attesa che Caronte torni con la sua nave nuovamente vuota:

2 HOLLANDER 2011, comm. a Inf III 105.

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Come d’autunno si levan le foglie l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie, similmente il mal seme d’Adamo gittansi di quel lito ad una ad una, per cenni come augel per suo richiamo. Così sen vanno su per l’onda bruna, e avanti che sien di là discese, anche di qua nuova schiera s’auna.3

Come è noto, la scena per intero si ispira all’Eneide di Virgilio. Sono di- versi i tratti comuni del Caronte dantesco con quello virgiliano. Certo, poi quest’immagine tradizionale verrà deformata da una sensibilità differente degli antichi commentatori; i quali, nota Robert Hollander, «abituati a trat- tare qualsiasi opera di invenzione come fosse ‘allegorica’, de-storicizzano Caronte».4 E tuttavia, innegabilmente, Dante ricalcò il grande latino anche nel tratteggiare il nocchiero d’Acheronte. Anche se egli definisce il suo per- sonaggio «dimonio, con occhi di bragia», e specifica «che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote» (v. 99), la sua “creazione” appare piuttosto distante dal triste personaggio veduto da Enea, che pur si diceva di lui che è «hor- rendus...| terribili squalore Charon» (vv. 298-99); sul suo volto, inoltre, «stant lumina flamma» (VI 300). Ma l’orrore associato al nocchiero di Virgi- lio è connesso con l’orrore della morte, col lutto. Infatti, al v. 315 ègli è pre- sentato come «tristis», nell’atto di accogliere sulla sua barca alcuni corpi (v. 306: «corpora») ormai privi di vita di respingerne altri. E’ un Caronte già per questo diverso da quello furente della Commedia, che da subito appare come smanioso di anticipare qualche colpo di remo alle anime pigre o restie ad abbandonare la riva d’Acheronte. Oltre a ciò, il nocchiero dell’Eneide trova dinanzi a sé nella folla di trapassati anche i bambini, che Dante collo- ca nel Limbo perché, se non provvisti della necessaria grazia per andare a Dio, non sono neppure colpevoli, e perciò mai li avrebbe posti nelle mani dell’orrido demonio. Il traghettatore dell’Ade invece ha a che fare anche con «pueri innuptaeque puellae | impositique rogis iuvenes ante ora paren- tum» (vv. 307-308). Egli non è mosso dall’ira, ma è contraddistinto da una profondissima tristezza. Del resto, l’antico regno dei morti virgiliano, che

3 Vv. 112-120. 4 HOLLANDER 2011, I, p. 33; comm. al v. 94.

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ANTONIO SORO riservava un premio nei Campi Elisi solo per pochi eletti, accoglie indistin- tamente tutte le ombre, non regolato dalla categoria della pena così marca- tamente come l’inferno di Dante, che è tutto in funzione dei castighi per i peccati commessi in vita. Certo, Minosse, situato in prossimità delle ombre dei suicidi, è definito «quaesitor» al v.432; egli ascolta le vite e le colpe. Più avanti Enea troverà i luoghi della pena del Tartaro custoditi da Tisifone (v. 555), dove balzano in primo piano dannati illustri, quelli che nei miti greco- romani subirono punizioni e castighi dagli dèi:. Titani, Salmoneo, Tizio, Is- sione, Piritoo, le Furie, sono alcuni dei personaggi che, più che espiare una qualche colpa morale, vedono eternata la loro sconfitta così come traman- data dall’epos. Non c’è nessun fattore storico, l’Ade pagano proietta oltre la morte il mito così com’è; le colpe, si può dire, vengono decise sull’Olimpo in ragione delle vittorie o delle disfatte nelle lotte fra le divinità. Nel regno dei morti precristiano - che tutti rende simili, quasi omologa, almeno su un piano letterale - si respira un relativismo etico (colpevoli perché sconfitti) che in Dante non può essere presente neppure in minima parte. Per l’autore della Commedia e per il suo tempo, invece, Caronte, Minosse e vari altri personaggi mitologici sono figure di creature realmente apparse sulla terra, e che ormai si svelano e si cristallizzano nella loro identità diabo- lica. Tuttavia, esistono chiari parallelismi tra i versi che riguardano Caronte nell’Inferno e i versi sul Nocchiero nell’Eneide. Il primo esordisce come «un vecchio, bianco per antico pelo» che arriva su un’efficiente «nave»; quello più antico compare nei panni di un «portior has [...] aquas et flumina servat» (VI 298), che solca le acque per mezzo di una più umile «ratem» (v. 302), una zattera. Il traghettatore dantesco è rabbioso e crudele; quello virgiliano, con la sua profonda mestizia, sembrerebbe più un umile vespillo, come veni- va chiamato dai latini il becchino della povera gente. Le affinità si riscontrano anche nel radunarsi della folla di defunti sulla riva del «mal fiume», come lo chiamerà Catone (Pg I 88). I versi infernali descrivono la crudezza di Caronte nel radunare i perduti, dapprima sempli- cemente «accennando» ad essi, e poi tirando colpi di remo a chi indugia. Eppure, anche la partenza dei dannati – per Dante – e dei corpora – per Vir- gilio – è simile: entrambi i passi sono descritti per mezzo di una similitudine col mondo vegetale ornitologica. Il fogliame secco d’autunno, come avvie- ne un po’ nella letteratura di ogni luogo e tempo, è il topos che suggerisce egregiamente l’idea della caducità della vita umana, destinata un giorno

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all’eterno oblio. Tuttavia, questa rovina definitiva in Dante è posta in rela- zione con il giudizio divino: la morte fisica non è nulla, si è foglie secche solo quando l’anima non si alimenta alla verità divina. Chi chiude gli occhi in peccato mortale, questi è davvero definitivamente morto:

Come d’autunno si levan le foglie l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie, similmente il mal seme d’Adamo gittansi di quel lito ad una ad una, per cenni come augel per suo richiamo. Così sen vanno su per l’onda bruna, e avanti che sien di là discese, anche di qua nuova schiera s’auna.

Le tre terzine prendono tutto da Virgilio. Enea infatti osserva i morti ac- correre verso la zattera di Caronte: tutta quella gente «ruebat», cioè si preci- pitava; un’impazienza che Dante conserva come impulso impresso da Dio ai dannati, ma che è frenata, almeno nelle intenzioni delle anime, dal terrore per i tormenti. In Virgilio, al contrario, quel correre incontro al nocchiero sembrerebbe suggerito dall’urgenza dei trapassati -- pur ormai ridotti ad umbrae di ciò che furono – di acquisire nuovamente un posto tutto loro nel- lo schema cosmico, «tendebantque manus ripae ulterioris amore» (v. 314), quasi come ultima eco del pathos che poterono provare nella vita. La simili- tudine di Virgilio, alla quale Dante si ispirò, riporta gli stessi elementi: de- funti di ogni età, provenienza e risma:

quam multa in silvis autumni frigore primo lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ad alto quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus trans pontum fugat et terris immittit apricis. Stabant orantes primi transmittere cursum tendebantque manus ripae ulterioris amore; navita sed tristis nunc hos nunc accipit illos, ast alios longe submotos arcet harena.5

5 Vv. 309-316.

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Come si vede, i costitutivi fondamentali della similitudine ricorrono; an- che l’onda, che è definita «bruna», cioè «livida» (v. 98), ritorna in Virgilio. Infatti, i dannati «sen vanno su per l’onda bruna», mentre l’eroe osserva il vecchio traghettatore «quos vehit unda, sepulti» (v. 326). Esaminando più in dettaglio la similitudine nei due poemi, quella dantesca mette in primo pia- no il fenomeno della caduta delle foglie, e successivamente presenta, per analogia, il progressivo abbandono della riva da parte degli spiriti, che ven- gono considerati uno ad uno, come per sottolineare che l’individualità rimane ancora; in Virgilio, al contrario, il soggetto è chiaro da subito, poiché ai vv. 305-314 si dice che una folla di madri, mariti, eroi, bambini -accorre alla ri- va così come le foglie secche si addensano progressivamente sul terreno. Tuttavia entrambi si servono di paragoni tra loro piuttosto affini: Virgilio comunica l’idea della morte come semplice fine di ogni attività vitale, e la rende con un fenomeno inesorabile e “passivo”, una caduta gravitazionale. Per una misteriosa legge universale - o forse, al contrario, per un inconscio panpsichismo - tutto alla fine precipita in basso: cose, animali, anime. Un ulteriore paragone nell’Eneide attribuisce il moto e, soprattutto, il radunarsi dei corpora, ad una necessità: è come un’emigrazione indotta e non voluta, un banalissimo andar via degli uccelli causato dal gelo e dall’avanzare della notte rispetto al giorno; un gelo ed un buio che ricordano il freddo e il nulla della morte; che rende i defunti quasi una massa indistinta ormai priva di individualità, divenuta cieca materia dell’eterno panta rei. Per Dante ovviamente non vi è una causalità cieca, ma un impulso in- dotto dalla giustizia divina, e dove vi è da radunare c’è il furore di Caronte a provvedere. Nel canto infernale le anime si radunano come gli uccelli, ma non sono spinte dalla necessità naturale, bensì si raggruppano per «richia- mo», individuate nella moltitudine e chiamate una per una da Caronte, co- me tutti i commentatori hanno messo in evidenza, quasi a riecheggiare il giudizio particolare già emesso riguardo ad ognuna di esse. In definitiva, sia nell’Eneide che nell’Inferno, Caronte è causa del ‘converge- re’ dei defunti: nel primo testo il vecchio nocchiero non deve insistere nel chiamarli; anzi, spesso alcuni deve momentaneamente bloccarli sulla spiag- gia, nonostante la loro smania di attraversare il fiume. Il demone infernale, invece, percuote chiunque si sieda o esiti. I morti, in entrambi i contesti, si radunano come fanno gli uccelli, e il loro lasciar la riva ricorda il cadere del- le foglie secche in autunno.

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Andiamo adesso ad esaminare una scena del Purgatorio, e precisamente II 118-133, dove il custode del secondo regno, Catone, sgrida gli spiriti che temporeggiano nostalgici. Se Catone viene presentato, in I 31, come «un veglio solo», cioè un vecchio degno di onore, una analoga solitudine Dante creava attorno a Caronte, già al suo esordio, ben separandolo dalla folla spaventata. Il nocchiero infernale e il custode del purgatorio esteticamente presentano una certa somiglianza, per quanto il personaggio infernale sia tratteggiato in maniera il più possibile rude e spigolosa, al fine di renderlo ben più abominevole del cencioso e luttuoso personaggio di Virgilio. Il Caronte dantesco è «un vecchio, bianco per antico pelo», al quale col parlare si muovono «le lanose gote» (v. 97). Catone, col suo volto luminoso come il sole e nel suo aspetto nobile di uomo che mai ha svenduto la verità per il proprio tornaconto (vv. 32-33: «degno di tanta reverenza in vista | che più non dee a padre alcun figliuolo»), si presenta con «lunga la barba, e di pel bianco mista» (v. 34). Il grande romano semplicemente sembra appa- rire a Dante, quando egli volge lo sguardo verso il Nord. Il fatto che Dante si trovi a sud rispetto al «veglio», probabilmente, indica che non era assolu- tamente previsto nessun arrivo di una persona vivente, e quindi Catone si è mosso leggermente in ritardo rispetto ai poeti. Perciò, nei versi successivi, manifesterà tutta la sua sorpresa per un evento sconcertante del quale non fu in alcun modo informato, e non riesce a capacitarsi di come un ordina- mento etico assoluto e definitivo abbia consentito di qualcuno dal regno della pena eterna (v. 46: «Son le leggi d’abisso così rotte?»). Comincia un discorso di Virgilio, da “romano” a romano (ma anche da pagano limbicolo a pagano che, invece, dal Limbo fu tratto via dal Cristo), nel quale il grande latino spiega che fu la celeste Beatrice a chiedergli di far da guida al vivo Dante, allo scopo di scamparlo dalla morte eterna. Dopo avergli fatto vedere i gironi infernali, egli dice a Catone, vorrebbe ora «mo- strar quelli spirti | che purgan sé sotto la tua balìa» (vv. 65-66). La captatio benevolentiae include un appello al desiderio di libertà superiore, la stessa che ha permesso la salvezza di Catone: Dante, spiega Virgilio al «veglio», va cer- cando quella libertà vera, dello spirito, che Catone stesso difese strenua- mente a costo della sua stessa vita, al punto da darsi la morte presso Utica; egli morì lì, gli dice Virgilio, «ove lasciasti | la vesta ch’al gran dì sarà sì

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ANTONIO SORO chiara» (v. 75) – verosimilmente un’allusione ad Apc 7,13-14.6 Il poeta poi spiega che sono potuti arrivare fino alla porta del secondo regno perché Dante non è defunto, e lui stesso è fuori dall’inferno vero e proprio (v. 77: «ché questi vive e Minòs me non lega)». Infatti, specifica Virgilio cogliendo la palla al balzo, il cerchio che gli appartiene è quello stesso dove si trova l’amata moglie sua (v. 79: «Marzia tua»), la quale ancora, riferisce, nutre la speranza di essere a sua volta ancora amata da Catone (passo ispirato alla Fars II 341-4, in versi ripresi allegoricamente da Dante in Cv IV XXVIII 16- 19). Ma la speranza di Virgilio è vana: l’amor terreno nulla può se è di osta- colo all’amore divino e al tribunale di Cristo. Ed è perciò che Catone, anche se non dice espressamente di non provare più per Marzia quel sentimento remoto (dice solo che un tempo piacque molto ai suoi occhi, passo che non ha per centro il sentimento ma l’eros, che si rifà a Iud 14,3: «placuit oculis meis», spiegava Sansone, colpito dall’aspetto di una donna filistea che diver- rà sua moglie), risponde tuttavia a Virgilio che quell’affetto antico non po- trebbe aprir loro le porte del Secondo regno. E tuttavia, egli aggiunge, se a patrocinare il pellegrinaggio di Dante vi è una donna celeste, ebbene, allora il cammino per il Purgatorio è certamente consentito, senza che Virgilio debba rivolgergli «lusinghe» (v. 92). Giunta la prima aurora, quando Dante comincia a scorgere il tremolio delle onde, sbarcano nell’isola solitaria nell’enorme oceano (v. 100: «isolet- ta»), nel punto più basso di essa («ad imo ad imo», ibid.). In obbedienza alle raccomandazioni di Catone, giunti dove la rugiada meglio resiste all’evaporazione del sole, lì il maestro mette le mani sull’erbetta che vi cre- sce, ne prende l’acqua e Dante, che comprende quel comportamento, offre il volto ancora rigato delle luride lacrime infernali. L’evento simboleggia la contrizione perfetta del poeta, dopo quella imperfetta nell’osservare i tor- menti nel primo regno. Procedendo per la spiaggia i due poeti, nel II canto, osservano il celere arrivo dell’angelo nocchiero che trasporta sull’isola le anime che devono purgarsi. Dante li ode cantare come ad una sola voce In exitu Isräel de Ae- gypto (v. 46), quando essi, giunti alla riva, vengono benedetti dall’angelo, che poi letteralmente li getta sulla spiaggia (v. 50: «gittar») e riparte veloce per le

6 «Et respondit unus de senioribus et dixit mihi: “Hi, qui amicti sunt stolis albis, qui sunt? Et unde venerunt?”. Et dixit illi: “Domine mi, tu scis”. Et dixit mihi: “Hi sunt, qui venerunt de tri- bolatione magna, et laverunt stolas suas, et dealbaverunt eas in sanguine Agni”».

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rive di Ostia, per prendere le anime che lì lo attendono. Le anime, alla vista dei due pellegrini, chiedono informazioni sulla strada da prendersi per sali- re, ma Virgilio risponde che anche loro sono appena arrivati e inesperti, giunti «per altra via, che fu sì aspra e forte, | che lo salire omai ne parrà gioco» (vv. 65-66). Segue lo stupore dei defunti, che si accalcano intorno al vivo. Uno tra essi si avvicina per abbracciarlo: è Casella, il cui nome è pro- nunciato da Dante al v. 91. Egli, morto da tre mesi, è appena giunto nel purgatorio, con un ritardo verosimilmente dovuto al fatto che «l’angelo nocchiero opera una selezione, lasciando alcuni spiriti un po’ più a lungo nel mondo, nei pressi di Ostia; una sorta di processo di pre-purgazione che si svolge, per così dire, dietro le quinte».7 Grazie al Giubileo del 1300, però, la sua attesa è stata ridotta, poiché il suo desiderio della visione di Dio si è fatto intenso; ciò ha posto fine all’attesa. Ma ecco che la vita passata sembra ritornare con le sue vanità: Dante chiede a Casella, se non gli fosse impedito dalla sua nuova condizione, che canti qualcosa di rasserenante. E Casella intona Amor, che nella mente mi ragio- na, la canzone con la quale Dante introduce il III trattato del Convivio, ove egli tesse le lodi di Filosofia. Tutto intorno a casella si fa il silenzio, e l’ascolto è quasi estatico: per brevi note vi è d’un tratto l’illusione che quella antica vita, caratterizzata da un’estetica ormai superata da una nuova condi- zione spirituale, possa venire rievocata. Ma ogni musica terrena ormai è fuorviante per le anime. La stessa filosofia sarà sempre meno di sostegno a Dante nella scalata verso l’Eden. Se in prossimità del paradiso terrestre sarà necessaria la verità rivelata, alla base della montagna sono richieste invece preghiera, meditazione, sobrietà; e, soprattutto, non si deve indugiare, per- ché i tempi di salita sono lunghissimi. Ed è così che, non appena le anime si cullano con un vano amarcord, appare di nuovo Catone. Il custode del purgatorio, il «veglio onesto» (v. 119), al di là delle sue no- bilissime intenzioni e nelle maniere non violente si comporta in una manie- ra molto simile al «vecchio» Caronte. Se infatti quest’ultimo «batte col remo qualunque s’adagia» (III 111), l’Uticense redarguisce e sprona le anime gri- dando «Che è ciò, spiriti lenti?» (v. 120). Entrambi dunque, ognuno con- formemente alla propria condizione elevazione o bassezza morale, assolve esattamente alla stessa funzione: impedire che le anime siano lente.

7 HOLLANDER 2011, II, p. 16, n. a II 93.

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Dopodiché, ai vv. 124-133, segue ancora una volta, come in Aen VI e in Inf III, una similitudine che associa lo spostamento della folla di anime ad un fenomeno naturale. Ancora una volta esse vengono paragonate agli uc- celli. Solo che, se nelle similitudini precedenti gli uccelli si radunavano, que- sta volta vengono dispersi, così come i colombi lasciano smettono di man- giare e scappano via in presenza di un imminente pericolo:

Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura, queti, sanza mostrar l’usato orgoglio, se cosa appare ond’elli abbian paura, subitamente lasciano star l’esca, perch’ assaliti son da maggior cura; così vid’ io quella masnada fresca lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa, com’ om che va, né sa dove rïesca; né la nostra partita fu men tosta.

Ora riproponiamo le due similitudini precedenti, quella virgiliana:

quam multa in silvis autumni frigore primo lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ad alto quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus trans pontum fugat et terris immittit apricis. Stabant orantes primi transmittere cursum tendebantque manus ripae ulterioris amore; navita sed tristis nunc hos nunc accipit illos, ast alios longe submotos arcet harena.

E, infine, quella dell’Inferno:

Come d’autunno si levan le foglie l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo vede a la terra tutte le sue spoglie, similmente il mal seme d’Adamo gittansi di quel lito ad una ad una, per cenni come augel per suo richiamo. Così sen vanno su per l’onda bruna, e avanti che sien di là discese, anche di qua nuova schiera s’auna.

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Nel Purgatorio la similitudine appare con elementi diversi ma sostanzial- mente simile; le foglie sono sostituite da «biado o loglio», e sulla terraferma le onde non ci sono più, ma si parla di «costa», verso la quale le anime fug- gono, ognuna secondo la direzione suggeritale dall’impeto del momento. Esse si muovono come i colombi che, disturbati nel loro beccare, all’improvviso si alzano in volo e fuggono per svariate direzioni. Noi pos- siamo ancora udire, in queste terzine sul «veglio onesto», l’eco degli uccelli radunati per mezzo di un richiamo descritti nella similitudine infernale; an- cor più lontano, in uno strato inferiore, vediamo i contorni della similitudi- ne più antica dell’Eneide, dove ancora i volatili si radunavano per la migra- zione oltreoceano. Prima erano raccolti, ora qualcosa li spaventa e li disper- de. Eppure, nell’evidenza di una matrice comune fra le tre similitudini, in realtà la terza è, come del resto ci si dovrebbe attendere, profondamente diversa nel significato. Nel purgatorio, infatti, la fuga delle anime come fos- sero uccelli (anch’esse, come gli animali alati, destinate a volare nei cieli!) è una fuga verso la suprema realizzazione. Non così nell’Eneide, dove vi era, nei «corpora», un impulso irresistibile a riassumere una posizione fissa nell’ordinamento cosmico, fosse pure una dimora eterna nel regno dei mor- ti. Il divario risulta ancor maggiore confrontando coi versi dell’Inferno, dove la diabolica spronata di Caronte è finalizzata ad anticipare il più possibile il tormento eterno per gli sciagurati. In conclusione, possiamo dire che la figura di Catone ricalca per certi aspetti quella dell’infernale demone Caronte. Ma questo ricalco fornisce una trasfigurazione positiva degli aspetti che si riscontrano, degradati, nel vec- chio nocchiero infernale. In altre parole, ciò che hanno “in comune” serve per mettere in risalto che nel secondo regno ci si trova davvero dinanzi ad un cammino nuovo: non c’è più la mestizia del logoro vespillo virgiliano, né la cattiveria del nocchiero infernale; le anime non si radunano perché viene meno la vita e si entra nella stagione più buia come nell’Eneide; o perché i colpiti da seconda morte, come foglie appassite, ormai prive dell’alimento dello Spirito divino, “secche”, calano inesorabilmente nell’abisso della per- dizione. Nel purgatorio, al contrario, le anime non si radunano ma si di- sperdono. Ma questo disperdersi è sinonimo di una libertà loro restituita; fuggono perché viene immediatamente troncato dal custode del regno ogni residuo di affetto verso una vita terrena colma di illusioni e di un amore non rivolto verso il suo reale fine (cf. soprattutto il discorso di Virgilio in Pg

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XVII). Se nell’Eneide e nell’Inferno le similitudini esprimevano la morte per mezzo del sopraggiungere dell’autunno, ed Enea osservava le anime andar via come alla ricerca di un illusorio sole (v. 312: «terris immittit apricis»), nel canto di Casella è l’alba: Catone, col suo grido, allontana gli spiriti nostalgici che «lasciano star l’esca». Ricordiamo che «esca» ricorre anche in Rm CVI 110 e in Fiore LVIII 13 nel significato di «cibo con cui si attirano gli animali per catturarli».8 In Pg XIV 145 Dante usa il termine indica un “cedere alla tentazione” (vv. 144-45: «Ma voi prendere l’esca, sì che l’amo | de l’antico avversario a sé vi tira»). Caronte non ha alcuna difficoltà a intendere come un pericolo l’«esca» gettata col canto apparentemente innocuo di Casella che, nella sua capacità seduttiva, ha radunato le anime proprio come, a colpi di remo, Caronte aveva raccolto i dannati. Ma è un attimo: una sgridata per amore e l’ultimo gioco maligno è vanificato. Inizia così la salita dei dispersi i quali, una volta rasserenatisi, possono procedere con il cammino di purga- zione sereni, poiché «veniet ab oriente et occidente et aquilone at austro et accumbent in regno Dei» (Lc 13,29).

BIBLIOGRAFIA

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AA.VV. 1970-1976. Enciclopedia dantesca, 6 voll., Istituto della Enciclopedia Ita- liana Fondata da Giovanni Treccani.

Dartmouth Dante Project [=DDP], https://dante.dartmouth.edu.

ALIGHIERI 2014. Dante A., Opere, II, a c. di Gianfranco Fioravanti, Diego Giunta, Claudio Quaglioni et al., Milano, Mondadori.

HOLLANDER 2011. Robert H., La Commedia di Dante Alighieri, 3 voll., Firenze, Olschki.

8 ENRICO MALATO, ED, 1970-1976, ad voc.

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L’INCOMPIUTO CONVIVIO

Antonio Soro

La palese incompletezza del Convivio, incipit di ogni introduzione e inelu- dibile lacuna per i critici del prosimetro, ha, col tempo, dato spazio all’intuizione (talvolta all’immaginazione) di chi ha cercato di individuare i componimenti mai apparsi, in conseguenza della preannunciata intenzione del poeta di dissertare attorno a «quattordici canzoni» (I I 14), nonché in virtù dei rimandi testuali alle parti non scritte.1 Proprio questi hanno pilota- to le ipotesi. Ma, come noto, solamente un trattato si è potuto dichiarare con apparente certezza che Dante lo avrebbe dedicato alla giustizia: «Di questa vertù inanzi dicerò più pienamente nel quartodecimo trattato» (I XII 12);2 anticipazione ripetuta in IV XXVII 11: «Ma però che di giustizia nel pe- nultimo trattato di questo volume si tratterà». Tuttavia II i 5, parlando del “nascondimento” dell’allegoria, sembra piuttosto orientare verso un sogget- to poetico-retorico o magari estetico: «E perché questo nascondimento fos- se trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà». Il XV trattato è rimasto troppo oscuro anche con l’accenno in I VIII 17-18, per il quale si è ipotizzata la liberalità:

Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, ancora si conviene essere netto d’ogni atto di mercatantia: [cioè si] conviene esser lo dono non domandato. Perché si caro costa quello che si priega, non intendo qui ra- gionare, perché sufficientemente si ragionerà nell’ultimo trattato di questo libro.

Alternativa sarebbero i comportamenti onesti e morali: «Ove è da sapere che li costumi sono beltà dell’anima, cioè le vertudi massimamente, le quali tal volta per vanitadi o per superbia si fanno men belle e men gradite, sì come nell’ultimo trattato vedere si potrà» (III xv 14). Qualcosa si è creduto

1 IV xxvi 8; I XII 12; II I 5; I VIII 18; II XV 14. 2 Le citazioni del Convivio sono tratte dall’edizione critica di Franca Brambilla Ageno (1995) con le correzioni apportate da Gianfranco Fioravanti in ALIGHIERI 2014, I vol.

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ANTONIO SORO di poter indovinare, per il settimo trattato, da IV XXVI 8:

E così infrenato mostra Virgilio, lo maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte dello Eneida ove questa etade si figura: la qual parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro dello Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà…

Tuttavia, riconosceva Maria Simonelli, i richiami interni non bastano a individuare lo schema argomentativo nella sua progressione, ma quantome- no attestano un programma organico. Se si è potuta gettare poca luce sugli argomenti delle prose mancanti, e ancor più permane l’arcano sulle canzoni d’apertura dei trattati.3 Ed è lì che gli ingegni si sono maggiormente adope- rati. Barbi associava al XIV trattato Tre donne intorno al cor (CIV), e al XV Doglia mi reca (CVI). Contini, pur non potendo determinarne la collocazio- ne, aggiungeva Amor, che movi tua vertù da cielo (XC)4 e Poscia ch’amor del tutto m’ha lasciato (LXXXIII).5 Come prudentemente concludeva Simonelli, «volendo restare entro un margine di fondatezza filologica anche le ipotesi già fatte sembrano troppo ardite».6 Giudizio condivisibile, che invita, in mancanza di dati filologici certi, a non forzare Dante entro uno schema prestabilito; ciò per quanto concerne i temi dei trattati mai scritti, le poesie mai accluse e, in ultimo, le fonti letterarie e filosofiche da cui trasse ispira- zione. La conclusione filologica più prudente risulta alfine quella che segue: quattro trattati abbiamo, di quattro trattati si può discettare. Soprattutto quando neppure appaiono palesi gli scopi ultimi del prosimetro. Il Convivio risulta essere di poco antecedente l’Inferno, e pressoché con- temporaneo al De vulgari eloquentia. È difficile ricostruire le vicende riguar- danti la redazione definitiva del trattato, a noi pervenuto coi suoi molti e- nigmi ecdotici tramite copisti, come ebbe a dire Barbi, tra i più approssima- tivi. Il fatto che l’opera sia giunta a noi colma d’errori e lacune fa supporre che lo scartafaccio in mano al copista fosse in pessime condizioni, e ciò perché Dante verosimilmente non si adoperò mai per la sua diffusione, or-

3 Barbi, così come Giorgio Petrocchi collocava le prose tra il 1304 e il 1307; Maria Corti as- segnava i primi tre al biennio 1303-1304, mentre il quarto lo reputava scritto tra il 1306 e il 1308. 4 «Sarà stata destinata al commento del Convivio, ma non possiamo immaginare in quale trat- tato» (GIANFRANCO CONTINI, Rime, Torino, Einaudi, 19875, p. 121). 5 «Che la canzone dovette essere commentata nel Convivio, appare probabilissimo, ma non si hanno precisi argomenti positivi» (Ivi, p. 98). 6 SIMONELLI 1970, p. 194, ad voc.

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mai preso interamente dal progetto della Commedia (di più ampio respiro e, in fondo, comprensivo anche delle idee e degli scopi dottrinali del Convivio). Partendo da considerazioni elementari, volendo disporre i trattati in or- dine di importanza, è chiaro che il primo deve precedere i rimanenti tre. Anche se privo di canzone, esso fornisce un panorama complessivo dell’opera, ne rivela gli scopi più manifesti, chiarisce la relazione tra poesie e prose. Segue il secondo trattato, nel quale è chiarito che «questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi» (II I 2). Ma poco prima Dante aveva già preannunciato: «La vivanda di questo convivio saràe di quattordici maniere ordinata, cioè [di] quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate (I I 14). Perciò tutti i dubbi sembrano inequivocabilmente fugati: Dante programmò di scrivere quattordici trattati introdotti da canzone; quindici incluso il proemio orfano di lirica. Ebbene, nonostante l’estrema chiarezza del passo, ci sarebbe da dubitare anche di questa evidenza filologica. Infatti, anche se la cosa può apparire sconcertante, esistono indizi che Dante abbia dichiarato da subito un’intenzione ‘falsa’, o che, in alternativa, successivamente abbia convoglia- to l’intera opera verso un sentiero nuovo, che la facesse apparire, proprio a causa della preannunciata intenzione, sorprendentemente incompiuta. Nella prima ipotesi: uno scrittore può mentire? Certamente sì, può accadere in svariati modi e per disparate ragioni. Nel caso del Convivio: potrebbe essere il poeta-teologo abbia intenzionalmente agito diversamente da quanto pre- annunciato? L’eventualità andrebbe considerata. Senza soffermarci sul caso della «menzogna» come “dissimulazione di verità»,7 considerando la bugia vera e propria, chi scrive può mentire fondamentalmente per due ragioni: la prima, per uno scopo egoistico o subdolo; la seconda, al contrario, per uno scopo educativo, come espediente per suscitare interrogativi non esplicita- bili o che, se posti palesemente, non sortirebbero l’effetto di mettere in crisi il lettore e invogliarlo a oltrepassare quel mistero. Una bugia edificante, in- somma; un accorgimento per far trapelare un senso più elevato di quello letterale – eppure in esso radicato; magari uno stratagemma per un’allegoria in factis. Il Convivio si interrompe quasi bruscamente col IV trattato, lascian-

7 CHIAVACCI-LEONARDI, comm. a Pd XVII 127-129.

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ANTONIO SORO do una sensazione di incompiutezza. E però, non manca chi avverte una sfumata sensazione di completezza:

Ebbene, a dispetto di tutto ciò è pur lecito dire che l’opera così com’è ha una sua organicità e compiutezza, non fosse altro perché, in generale e dentro quella impo- stazione, poco o nulla restava da dire. Si trattava ormai di scendere all’esemplificazione, alla casistica, dopo che nel quarto trattato era stata definita la “forma” generale di ogni possibile virtù.8

A ben vedere, vi sono elementi che inducono a ipotizzare che il Convivio sia effettivamente terminato. È stato notato che la struttura del trattato ri- pete il numero 15:9 quindici dovevano essere i trattati; vi sono quindici capi- toli nel secondo trattato, quindici nel terzo e trenta nel quarto, per un totale dunque di sessanta capitoli. Tuttavia l’euritmia viene meno considerando anche il primo trattato: l’abitudine – in quanto privo di canzone e perché collocato in funzione proemiale – a tenerlo separato dagli altri, porta nor- malmente a non considerare nel conto totale i suoi tredici capitoli, i quali non rispettano la ricorsività del quindici. Tale asimmetria è stata sottovalu- tata o ignorata dai critici, ed è essa che andrebbe invece spiegata. E chiun- que fosse scettico dovrebbe individuare, senza aggirare l’evidente e ricono- sciuta iterazione del 15, una motivazione per tale difformità; imperfezione che non poteva passare inosservata a Dante (nella Divina Commedia, il canto in più dell’Inferno, anch’esso proemiale, era chiaramente necessario per rag- giungere il numero della pienezza, cento). Senza una giustificazione alterna- tiva per la dissimmetria ogni eventuale obiezione risulterebbe assai fragile. Cosa sarebbe costato a Dante aggiungere altri due capitoli, così da averne in totale 15+15+15+30? Sebbene il totale, 75, appaia privo di significato sim- bolico, in tal modo si sarebbe comunque conservata l’armonia architettoni- ca. Una possibile obiezione è che Dante avrebbe potuto pareggiare i conti in un trattato successivo mai scritto, magari portando il numero di capitoli a quindici più due: diciassette, trentadue, o magari quarantasette. Ma ciò sa- rebbe in conflitto con la constatazione dei critici della ricorsività del quindi- ci o di un suo multiplo nei trattati II-IV, e quindi si cadrebbe nuovamente nell’errore di formulare ipotesi su ciò che non esiste, o che non ci sarebbe

8 FENZI 1986, p. 46. 9 Cfr. SIMONELLI 1970.

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affatto pervenuto. La sola evidenza filologica è che Dante nel primo tratta- to si è fermato a tredici, e non sembra un caso. Infatti, 13+15+15+30 fa 73. Questo numero, 73, è di grande valore simbolico. Esso infatti corri- sponde al numero dei libri della Bibbia, che al tempo di Dante era la celebre editio Parisiensis. Il testo sacro cattolico aveva sempre oscillato tra i settanta- due libri di Girolamo (poi fissati dal Concilio di Trento) e i settantatré, quando si separavano Geremia e Lamentazioni. Dante comincia e finisce il trattato col tema della conoscenza, ma passa da una conoscenza razionale («Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere») a una conoscenza inaccessibile all’intelletto se non per grazia divina («Oh quanto e come bello adornamento questo che ne l’ultimo di questa canzone si dà ad essa, chiamando[la] amica di quella di cui la propria ragione nel secretis- simo de la divina mente!»). Il salto da una sapienza umana ai segreti divini, in un itinerario ideale che nel conto dei paragrafi richiama le Sacre Scritture, sembra suggerire che solo il verbum Domini permette all’uomo di oltrepassare la conoscenza intellettua- le. La vera sapienza, quella dell’indicibile esperienza mistica paolina che, so- la, poteva penetrare i misteri più profondi, è custodita dai libri rivelati. Prima di cercare di individuare il significato dell’improvvisa interruzione del Convivio, il quale ricarca una struttura biblica; ci si potrebbe domandare se esista un’altra opera che si imiti tale suddivisione. Esiste, e si tratta di un altro Convivio, posteriore di circa centosessant’anni. Marsilio Ficino, traduttore del Monarchia (1467-1468), nel Prohemio alla versione in volgare del trattato definì l’autore «filosofo poeticho, benché non parlassi in lingua grecha con quel sacro padre de’ philosophi interpretre della verità, Platone; nientedimeno in ispirito parlò in modo con lui, che di molte sententie platoniche adornò e libri suoi».10 Tra novembre 1468 e feb- braio 1469 Ficino scrisse il Commentarium in Convivium Platonis de amore, ovve- ro il suo famoso commento al Simposio. L’opera, in forma dialogica, si apre con un convito, un banchetto imbandito da Lorenzo de’ Medici nella villa di Carreggi, il 7 novembre 1468, per commemorare il grande filosofo greco. Ma Ficino ebbe cura di pubblicare anche un’edizione in volgare della sua opera. Rappresentando anch’egli un convivio, non poteva non avere pre-

10 Supplementum ficinianum, II, a c. di P. O. Kristeller, Firenze, 1937, p. 184.

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ANTONIO SORO sente l’omonimo trattato del suo amato Dante. Infatti, il De amore toscano, così come il Convivio di Dante, si compone complessivamente di 73 parti: 72 capitoli più un proemio dedicatorio; una struttura identica alla di poco ante- cedente versione latina, la quale mancava del solo proemio. La suddivisione della medesima versione latina in settantadue capitoli potrebbe persino al- ludere ai settantadue libri biblici della Vulgata geronimiana, la stessa che poi imporrà il Concilio tridentino. E ciò a prescindere dal fatto che Ficino po- teva disporre anche della Bibbia greca dei LXX, oscillante tra i settanta e i settantadue libri (la stessa Parisiensis, come detto, a seconda che Geremia e Lamentazioni formassero o meno un solo libro, contava settantadue o set- tantatré libri). Non è plausibile che il testo volgare di Ficino conti un nume- ro ‘biblico’ di capitoli – come il Convivio di Dante – per il puro scopo di emulare il grande poeta, perché Marsilio Ficino aveva a cuore che la sua opera imitasse il Simposio. Ficino imita Platone per la forma dialogica, ma nella struttura si è conformato alle scelte di Dante. E questo probabilmente perché sia lui che il grande poeta trecentesco sempre badavano a coniugare filosofia pagana e rivelazione cristiana, così come avvenne quando l’insigne umanista si dedicò alla stesura della Theologia platonica (1469-1474) e del De christiana religione (1476). Del resto, l’identificazione tra filosofia e sapienza aveva una lunga tradizione: «I commentatori altomedievali del De consolatio- ne, memori dell’affermazione di Agostino per cui vera filosofia e vera reli- gione sono la stessa cosa, l’avevano spesso identificata con la Sapienza divi- na così come appare e parla nella Bibbia».11 Ma, se nella storia degli effetti si riscontra l’esistenza di un altro Convivio con la medesima struttura ‘sacra’ scelta da Dante, a chi, all’opposto, tra i predecessori, poteva essersi rifatto l’autore della Commedia redigendo il Con- vivio e conferendogli un’apparenza di sicura incompiutezza? Con che inten- to egli volle concludere, come pare, arrestandosi d’improvviso al quarto trattato dinanzi al folgorante mistero divino?

La Summa Teologica non fu mai terminata dal suo autore, che la scrisse negli ultimi anni della sua vita, tra il 1265 e il 1274, lasciandola incompiuta – come raccontarono i biografi riportando una storia ben nota tra Due e Tre- cento – a causa di una folgorazione di origine divina che avrebbe indotto

11 FIORAVANTI 2014, p. 30.

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Tommaso al silenzio. Pur costituita da tre Partes, l’opera teologica è suddivi- sa in quattro sezioni: la prima sezione, di 119 quaestiones; la seconda, che è in realtà la prima sezione della seconda parte (II-I), di 114 quaestiones; la terza, cioè la seconda sezione della seconda parte (II-II), di 189 quaestiones; la quar- ta ed ultima, infine, cioè la terza parte, è quella incompiuta, con sole 90 quaestiones. Il Supplementum tertiae si deve invece ai discepoli di Tommaso. Le due opere, il Convivio e la Summa, sono accomunate da scopi divulga- tivi e didattici. Il Convivio si proponeva di istruire «qualunque è [per cura] familiare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa con altri simili impediti s’assetti; e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, ché non sono degni di più alto sedere; e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane che la farò loro e gustare e patire».12 La Summa, su un piano differente, era stata redatta perché

Catholicae veritatis doctor non solum provector debet instruere, sed ad eum perti- net etiam incipientes erudire, secundum illud apostoli 1 ad Cor. 3 [1-2], tanquam parvulis in Christo, lsac vobis potum dedi, non escam; propositum nostrae inten- tionis in hoc opere est, ea quae ad Christianam religionem pertinent, eo modo tra- dere, secundum quod congruit ad eruditionem incipientium.13

Dante ammetteva schiettamente i suoi limiti: «io […] non seggio alla be- ata mensa, ma fuggito dalla pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggio- no ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati» (I I 10). Ciò lo poneva distante dall’Aquinate, che alla «beata mensa» invece sedeva. E tuttavia, uno dinanzi alle pietanze, l’altro a raccogliere «quello che cade» dal tavolo dei sapienti, entrambi – ognuno dal proprio livello – si ripropongono di trasformare l’ambrosia per pochi eccel- si in un alimento per tutti. Del resto il pane dantesco era ancora pane di Tommaso: «il pane e la vivanda che devono essere distribuiti agli affamati rimangono in concreto quella filosofia propria dell’Università che gli ordini mendicanti, Domenicani in primo luogo, avevano diffuso fuori dall’istruzione, coprendo tutta l’Europa, e anche l’Italia».14 E così il poeta manifesta l’intenzione di «fare un generale convivio di ch’i’ ho loro mostra-

12 I I 13. 13 Prooemium. 14 FIORAVANTI, p. 42.

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ANTONIO SORO to, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza la quale da loro non potrebbe essere mangiata» (I I 11). Ma il Convivio termina, al settanta- treesimo capitolo, laddove Filosofia, amica di «Nobilitate», è detta avere es- senza specifica («ragione») «nel secretissimo della divina mente», ovvero «nella parte più profonda e nascosta».15 Ma anche il Doctor Angelicus interruppe la Summa alla soglia del mistero. Guglielmo di Tocco, riprendendo la testimonianza di Bartolomeo di Capua (1248-1328; questi, pubblicamente devoto di Tommaso, l’8 agosto 1319 testimoniò al processo di canonizzazione del grande teologo, portando con sé un dettagliato catalogo delle sue opere considerato tra le fonti biografi- che essenziali), racconta la visione:

Simile sed magis stupendum vidit in conventu Neapolitano de praedicto Doctore Frater Dominicus de Caserta sacrista; vir oratione devotus, actione sollicitus, et vir- tute probatus, qui alias habuit visiones mirabiles: qui advertens Fr. Thomam semper de camera sui studii ad ecclesiam ante Matutinas descendere et pulsato ad Matutinas ne videretur ab aliis ad suam cameram festinus redire, semel ipsum curiosus obser- vavit. […] subito audivit de loco, ad quem praedictus Doctor conversus erat ad o- randum cum lacrymis, hujuscemodi vocem prodire de imagine Crucifixi: Thoma bene scripsisti de me. […] Et tunc scribebat tertiam partem Summae de Christi passione et resurrectione. Post quam scripturam parum scripsit propter miranda quae sibi Deus mirabiliter revelavit.16

Nella stessa Ystoriae Sancti Thomae de Aquino, al cap. 47, Guglielmo di Tocco narra che il discepolo Reginaldo [da Piperno] destò Tommaso da un lungo sonno estatico. Al che l’Aquinate, destatosi, gli confidò:

Raynalde fili, tibi in secreto reuelo, prohibens ne in uita mea alicui audeas reuelare. Venit finis scripture mee, quia talia sunt michi reuelata quod ea que scripsi et docui modica michi uidentur, et ex hoc spero in Deo meo quod sicut doctrine mee sic ci- to finis erit et uite. Sicut enim Deus ille mirabilis hiis qui precipui fuerunt in lege, Moysi qui legem iustitie Iudeis attulit et Paulo qui gentibus legem gratie predicauit, supra humanum intellectum plurima reuelauib, sic et huic beato Thome, qui de manu sedentis in throno utriusque legis libellum inuolutum accepit et apertum toti

15 FIORAVANTI, p. 805, nota a IV xxx 6. 16 PRUMMER, LAURENT 1911-1937, p. 108.

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Ecclesie exponendo porrexit, aliquid supernaturale lumen ingenii reuelare placuit, ut maio- ra superesse crederet que naturali intelligentia non uideret.17

E così la grande opera rimase incompiuta. La folgorazione, di origine supernaturale, riguarda un intelletto simile a quello degli angeli, e lo stesso Tommaso aveva previsto la possibilità di conoscere a partire da phantasmata che si formano nella mente umana «per virtù divina»:

Cognitio enim quam per naturalem rationem habemus, duo requirit, scilicet, phan- tasmata ex sensibilibus accepta, et lumen naturale intelligibile, cuius virtute intelligi- biles conceptiones ab eis abstrahimus. Et quantum ad utrumque, iuvatur humana cognitio per revelationem gratiae. Nam et lumen naturale intellectus confortatur per infusionem luminis gratuiti. Et interdum etiam phantasmata in imaginatione homi- nis formantur divinitus, magis exprimentia res divinas, quam ea quae naturaliter a sensibilibus accipimus; sicut apparet in visionibus prophetalibus. [...] Ad secundum dicendum quod ex phantasmatibus, vel a sensu acceptis secundum naturalem ordi- nem, vel divinitus in imaginatione formatis, tanto excellentior cognitio intellectualis habetur, quanto lumen intelligibile in homine fortius fuerit. Et sic per revelationem ex phantasmatibus plenior cognitio accipitur, ex infusione divini luminis (I XII 13).

La fantasia non originata dal mondo sensibile è, in Dante, l’«alta fantasi- a» (cfr. Pg XVII 25; Pd XXXIII 142). Proprio nel Convivio egli chiarì i limiti dell’intelletto:

nostro intelletto, per difetto della virtù dalla quale trae quello ch'el vede, che è virtù organica, cioè la fantasia, non puote a certe cose salire (però che la fantasia nol puo- te aiutare, ché non ha lo di che), sì come sono le sustanze partite da materia; le qua- li, etsi alcuna considerazione di quelle avere potemo, intendere non le potemo né comprendere perfettamente.18

È un limite che oltrepassa la sacra dottrina, per quanto scrive l’Aquinate in I I 6: «Propria autem huius scientiae cognitio est, quae est per revelatio- nem, non autem quae est per naturalem rationem». Ed è per questo suo co- noscere la «divina mente» che la dottrina stessa viene detta sapienza, in sommo grado: «…ut dicitur Rom 1, 19: “quod notum est Dei, manifestum est illis [ai filosofi]"; sed etiam quantum ad id quod notum est sibi soli de

17 Corsivi miei. 18 III IV 9.

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ANTONIO SORO seipso, et aliis per revelationem communicatum. Unde sacra doctrina ma- xime dicitur sapientia» (ibidem). Scrigni di conoscenza per scopi non convergenti e su piani differenti, tanto l’una che l’altra opera appaiono avere come riferimento le Sacre Scrittu- re; entrambe si fermano dove la filosofia più non arriva:

Proprio perché limitata, e pienamente consapevole del suo limite, la filosofia oltre ad essere autosufficiente è anche autonoma: non è ancella di nessuna regina. […] la filosofia ci porta anche a credere che ciò che è irraggiungibile per la ragione umana, e che quindi si colloca nella sfera del miracolo, non è impossibile in assoluto, ma può trovare la sua causa in una mente più alta della nostra, e cioè in quella divina.19

Avendo come primo modello Aristotele, Summa e Convivio, ognuno nel suo ambito, procedono sul piano razionale con una distribuzione quaterna- ria. Il Dottore Angelico venne fermato da una rivelazione soprannaturale che stravolgeva le sua teologia. Dante sembra volersi tenere sulla falsariga di quell’evento miracoloso, che non può che lasciare il lettore smarrito o sconcertato. Sul piano esclusivamente filologico, l’interruzione si spiega ba- nalmente con l’incompletezza constatata nell’immediato. L’allegoria in factis però, dopo un esame strutturale del trattato appare invitare a oltrepassare l’apparenza, considerando che in settantatré capitoli e in quattro partizioni il Convivio traccia il sentiero dalla filosofia razionale alla mistica, e segna il pas- so alla soglia del mistero inaccessibile, secondo quanto testimonia Paolo in II Cor 12, 3-4: «scio huiusmodi hominem sive in corpore sive extra corpus nescio, Deus scit: quoniam raptus est in paradisum: et audivit arcana verba, quæ non licet homini loqui». Fatto salvo l’intento educativo politico del Convivio, il suo pubblico ideale di «molti» lettori che – oltre ai viri populares, appartenenti alle Artes, dal secolo XI sempre più forza motrice della vita economica e civile dei Comuni italiani – era costituito da re, principi, conti, marchesi i quali erano ormai moralmente e culturalmente allo sbando. Quel pubblico aristocratico, restituito a una purezza antica, in possesso di quella nobilitate che è in parte dono della grazia divina e in parte un dono di natu- ra, illuminato alfine da una nuova inenarrabile visione di Dio ‘per essenza’, avrebbe potuto finalmente trovarsi nel giusto animo per la costruzione e la tutela di una civiltà imperiale umana e cristiana. Come scriveva ancora

19 FIORAVANTI, pp. 38-39.

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Tommaso, «cognitio Dei per essentiam, cum sit per gratiam, non competit nisi bonis» (I 12 3). E ancora: «per gratiam perfectior cognitio de Deo habe- tur a nobis, quam per rationem naturalem» (I 13 3). In definitiva, al termine di questa nota che ha la funzione di invitare a ulteriori studi e riflessioni, sembra auspicabile un approfondimento dei rapporti tra Convivio e Summa, tra Convivio e Sacra Scrittura – anzitutto per quanto concerne la struttura del trattato – nonché tra il medesimo testo dantesco – nella sua parabola dall’aristotelismo al mistero divino, nel quale la filosofia ha la «propria ra- gione» – e la tradizione fiorita tra fine Duecento e inizio Trecento riguardo all’interrotta redazione della Summa a causa di una visione di origine celeste che, si narra, stupì Tommaso quasi al punto da fargli apparire inadeguato l’intero suo capolavoro.

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TOMMASO D’AQUINO 1950-1972. La Somma Teologica, 35 voll., Firenze, Salani.

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ACROSTICI ALLA ROVESCIA DANTESCHI COME INDICATORI EPIFANICI: STUDI RECENTI SU ILLUSTRI ANTECEDENTI LETTERARI E LITURGICI

Antonio Soro

L’estetica

Era il 2009 quando lo scrivente dette notizia della scoperta di un primo acrostico alla rovescia nella Divina Commedia ai vv. 97-111 del canto V del Paradiso.1 Terzina per terzina, alle iniziali si poteva leggere “pesce”, in una celebre similitudine nella quale sono centrali la «peschiera» e i «pesci». L’autore della nota allora discusse essenzialmente le impressioni estetiche, anche – e in primis – focalizzando sulla metafisica della luce, e sul conse- quenziale potenziamento semantico. Prima di soffermarsi sull’oggetto di studio si riprendono in breve i punti ermeneutici salienti del fenomeno:

La luce sovrumana nella quale le «ombre» del V canto sembrano immerse, come nell’«acqua il pesce andando al fondo»,2 secondo una similitudine che Dante aveva utilizzata per le anime penitenti avvolte dal fuoco, attira invece Dante sempre più verso le profondità di quella gioia. Proprio in questa implicita antitesi, Dante che ‘e- merge’ alla luce/«ombre» ‘immerse’ nella luce, il poeta cerca di figurare l’azione della gra- zia, che agli occhi del poeta pellegrino si traduce in una organica composizione di luci, sorrisi e armonici movimenti geometrici che eleva l’anima e la ‘avvolge’.3

In effetti, le impressioni visive costituiscono una via ermeneutica privi- legiata per l’interpretazione. Il loro movimento è estremamente vivace; non si tratta di un moto radiale, ma piuttosto di un “guizzo” paragonabile a quello delle scintille che promanano da una fiamma, trasportate verso l’alto da moti convettivi generati dalla salita dei fumi di combustione. Sospinti da un ardore spirituale, attratti da una «pastura» che è un’anima bisognosa, gli

1 SORO 2009. 2 Pg. XXVI 135. 3 SORO 2009.

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ANTONIO SORO spiriti, «ben più di mille splendori» (v. 103) quasi appaiono impazienti di in- contrare Dante per aumentare l’affetto verso Dio, forse come opera di mi- sericordia. Inoltre, «sembra anche possibile che si stiano riferendo a un se- condo e futuro accrescimento del proprio ardore – reciproco e diretto ver- so il protagonista – quando questi si unirà a loro dopo la morte».4 La luce nella quale sono avvolti, di provenienza divina,5 rende Beatrice raggiante al momento del passaggio al cielo di Mercurio, brillando, come il poeta, di luce riflessa dall’empireo. In proposito Cristoforo Landino, che lasciava trapelare la sua ammirazione per l’astrologia,6 scriveva: «giunti a quel cielo Beatrice fu sì lieta in quel lume, che el pianeta ne diventò più lucente. Finge el poeta che Beatrice quanto più sale più diventa lieta, perché l'animo ripie- no di doctrina quanto più alte chose contempla, tanto maggior gaudio pi- gla».7 La visione si tramuta in estasi, contrassegnata da catacresi (v. 97: «la stella […] rise»), alla quale fa seguito l’accorrere dell’«ombra piena di leti- zia». La luce divina, simbolo della verità che trasforma, provenienza divina, vede il poeta protagonista di un’improvvisa trasmutazione ai vv. 97-99. Nella nota del «Bulletin» si notava come la terna luce-pesce-guizzo costituisca un to- pos dantesco, forse in parte inaspettato, perché sarebbe stato forse più effi- cace rendere la salita verso il cielo con una similitudine sugli uccelli. Tutta- via, la simbologia dell’acqua riconduce al fonte battesimale, perché « ... les chrétiens “naissent à la vie éternelle par le baptême”, comme disait déjà Tertullien. C’est pourquoi ils seront très rapidement figurés par de petits poissons».8 Si tratta, nel con- testo cristiano, di un particolare cristologico «simbolo del pasto eucaristico […]. Infine, […] nato dall’acqua battesimale, il cristiano è paragonabile ad un pesciolino ad immagine del Cristo (TERTULLIANO, Trattato del battesimo, I)».9 Per l’antico apologeta cristiano «nos pisciculi secundum ἸΧΘΥΣ nostrum Ie- sum Christum in aqua nascimur nel aliter quam in aqua permanendo salvi sumus».10 La similitudine con una «peschiera ch’è tranquilla e pura» rende la soave quiete di un’anima intenta nella contemplazione sovrumana. In questa mi- stica relazione, il poeta si fa «pastura» per le anime, ed esse divengono ‘pe-

4 HOLLANDER 2011, p. 57, n. al v. 105. 5 «Sanctorum sed enim cunctae lux libera carni | tradetur...». (De civ., XVIII 23). 6 Cfr. GILSON 2003, pp. 94-96. 7 DDP, comm. ai vv. 94-96. 8 URECH 1972, p. 152. 9 CHEVALIER-GHEERBRANT, II, p. 206. 10 De Baptis. I.

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sce’ per lui. Da segnalare, inoltre, la myse en abyme conclusiva, con la quale per un verso Dante segnala l’acrostico al lettore, e per un altro scomunica la sensazione di profondità o di altezze vertiginose: «Pensa, lettor, se quel che qui s'inizia | non procedesse, come tu avresti | di più savere angosciosa ca- rizia!».11 Naturalmente qui il soggetto a cui si allude nel corsivo sono le a- nime stesse, perché con l’iniziale del v. 109 comincia l’acrostico. È davvero interessante notare come Dante abbia reso l’irresistibile afflato mistico ge- nerato dall’immersione nella luce divina, col movimento guizzante, celere e improvviso. I corpi, che fino a poco prima quasi svelavano una nostalgia della carnalità perduta, hanno un’eco lontana nelle umbrae inferorum di paga- na memoria; scampoli incolori della corporeità terrena, ormai agognanti il corpo glorioso che trasfiguri quell’ombra anodina ormai greve per la vita celeste; un’incompiutezza marcata dal paradosso ai vv. 107-108 («…l’ombra piena di letizia | nel folgór chiaro che di lei uscia»). Con l’acrostico, dante affina e perfeziona un quadro nel quale luci e movimenti contemplati con geometrie ierofaniche comunicano al lettore l’intensità di comunione spiri- tuale. La carità è il vero cibo dei salvati, ed è perciò che essi come pesciolini convergono verso il pellegrino. Ormai anche Dante naviga quel mare: quasi un liquido amniotico, premessa di nuova vita per i beati (del resto il pesce simboleggia anche la rinascita nello spirito), che alfine nuotano le gioiose profondità abissali dei cieli. «Les chrétiens “naissent à la vie éternelle par le baptê- me”, comme disait déjà Tertullien. C’est pourquoi ils seront très rapidement figurés par de petits poissons».12 In questo modo si è tracciata una panoramica delle risor- se figurative dell’acrostico inverso alle cinque terzine. Su un altro fronte, invece, una discussione approfondita meriterebbe la tecnica di scrittura, perché il sistema apparve già da tempi antichissimi assai suggestivo e invita- va alla riflessione sull'idea che doveva avere il poeta degli aspetti grafici di una poesia.

11 Vv. 109-111; corsivo nostro. 12 URECH 1972, p. 152.

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ANTONIO SORO

La tradizione pagana e cristiana

Proprio a causa dell’evidenza e della congruenza, “pesce” e l’acrostico di Pg. XXVIII 25-37 – scoperto poco tempo dopo dallo scrivente – «raddop- piano il totale dei "veri" acrostici (da due a quattro) sicuramente presenti nel poema».13 Similmente ha scritto ultimamente Lino Pertile, per il quale «sembra ragionevole ritenere, anche se ancora con qualche margine di in- certezza, che l’acrostico sia volontario e significativo. […] accertata la rarità del fenomeno e la ricercatezza dell’artificio, è giocoforza presumere che l’acrostico faccia parte, a questo punto della narrazione del viaggio del pel- legrino, di una precisa strategia narrativa e sia quindi più significativo che mai».14 La lettura che ne venne data si incentrava sulle immagini, sulle sugge- stioni visive, su luci e movimenti che Dante intendeva comunicare al letto- re. Rimasto probabilmente nascosto proprio a causa dell'inversione, la sua insolita struttura ha però precedenti autorevoli. A prescindere dalla tradi- zione latina (con nomi quali Plauto, Ennio, Optaziano), e alla perpetuazio- ne dell'uso di acrostici nella letteratura provenzale, vi fu un vasto uso dell'artificio nella letteratura cristiana. Nella ricorsività esegetico-scritturale del testo dantesco identificata dagli studi singletoniani, che trovano una conferma anche nei recenti studi di Soro,15 appaiono fondamentali i com- ponimenti poetici degli antecessori cristiani, alcuni celeberrimi. Si rammenta anzitutto l'acronimo greco ΙΧΘΥΣ, che sta per “Ἰησοὺς Χριστὸς Θεοῦ Υἱὸς Σωτήρ”, “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore". Lino Pertile, mostrando che si può «intravedere in filigrana ai canti di Mercurio la lettura dantesca, se non polemica almeno correttiva, o «parziale e interessata», del De civitate Dei, osserva:

Agostino racconta di aver visto un codice greco di carmina della Sibilla Eritrea, uni- ca tra le Sibille ad aver profetizzato l’avvento di Cristo, in cui a un certo punto la se- rie dei capoversi era disposta in tal modo che vi si leggessero le parole ᾿Ιησοῦς Χρειστὸς Θεοῦ υἱὸς σωτήρ, le iniziali delle quali parole formano a loro volta la parola ΙΧΘΥΣ, che in greco, dice Agostino, vuol dire ‘pesce’, in quo nomine mystice in-

13 ROBERT HOLLANDER, La Commedia di Dante Alighieri. 'Purgatorio', p. 100, n. a XII 25-63. 14 PERTILE 2018, pp. 146-146. 15 SORO 2017.

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tellegitur Christus, eo quod in huius mortalitatis abysso velut in aquarum profunditate vivus, hoc est sine peccato, esse potuerit, ossia ‘termine con cui simbolicamente si raffigura il Cristo perché ebbe il potere di rimanere vivo, cioè senza peccato, nell’abisso della nostra mortalità, simile al profondo delle acque’.16

Ancora, la scrittura alla rovescia, sempre in contesto cristiano, si ritrova schematizzata nel De Consolatione Philosophiae, laddove nella sua visione l'au- tore si trova dinanzi a Filosofia, e fornisce una descrizione della sua veste lacerata – tra πρᾶξις e ϑεωρία – da Stoici ed Epicurei, che Boezio reputava alieni alla vera filosofia: «Harum in extremo margine Π Graecum, in supremo ve- ro Θ legebatur intextum atque in utrasque litteras in scalarum modum gradus quidam insigniti videbantur, quibus ab inferiore ad superius elementum esset ascendus» (I 3-5). In qualche modo la continuità ascendente era stata dunque violata. Da tali fonti citate si può intuire l'importanza del fattore direzionale in un acrostico dantesco: il procedere della lettura dall'alto verso il basso individua il pro- cesso mediante il quale la conoscenza teoretica del bene, dono della grazia divina, non resta inattiva nel mondo delle idee, ma viene restituita al mondo come prassi, al servizio dell'uomo e per l'avvento del Regno. Si tratta in- somma del passaggio mediante il quale verbum caro factus est. Dice bene Perti- le quando, dopo avere analizzato la grande croce dell’abside della basilica di Sant’Apollinare in Classe presso Ravenna, luogo sicuramente familiare a Dante, «L’emblema di Cristo-pesce rimanda dunque alla croce, simbolo del- la Redenzione». Soro segnalò in nota che l’antecedente illustre è una parola di origine greca: ΙΧΘΥΣ, che sta per “Ἰησοὺς Χριστὸς Θεοῦ Υἱὸς Σωτήρ”, “Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore”. Il riferimento a Cristo, che risaliva alle prime comunità cristiane, fu noto anche al Medioevo. Qui Pertile ripor- ta un particolare impressionante riferito da Agostino nel De civitate Dei:

Nel XVIII libro del De civitate Dei Agostino racconta di aver visto un codice greco di carmina della Sibilla Eritrea, unica tra le Sibille ad aver profetizzato l’avvento di Cri- sto, in cui a un certo punto la serie dei capoversi era disposta in tal modo che vi si leggessero le parole «᾿Ιησοῦς Χρειστὸς Θεοῦ υἱὸς σωτήρ», le iniziali delle quali parole formano a loro volta la parola ΙΧΘΥΣ, che in greco, dice Agostino, vuol dire ‘pe- sce’, «in quo nomine mystice intellegitur Christus, eo quod in huius mortalitatis abysso velut in aquarum profunditate vivus, hoc est sine peccato, esse potuerit», ossia «termine con cui simbo-

16 PERTILE 2018, p. 147.

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licamente si raffigura il Cristo perché ebbe il potere di rimanere vivo, cioè senza peccato, nell’abisso della nostra mortalità, simile al profondo delle acque».

La liturgia

Il legame fra acrostici e le epifanie è confermato filologicamente da un altro celebre antecedente, che è l'acrostico alla rovescia delle Antiphonae Ma- jores, anch'esse di antichissima tradizione, e che lo stesso Boezio sembra co- noscesse. Per quanto concerne l’utilizzo dell’acrostico nel Medioevo, era «abbastanza popolare nel Medioevo, specialmente nella poesia aulica di e- poca carolingia, sotto l’influenza congiunta della retorica manierista ella tar- da antichità e delle tecniche di scrittura proprie della poesia celtica e germa- nica».17 Tuttavia nota Tilliette che:

conobbe un relativo declino nel corso del Medioevo centrale, prima di tor- nare a trionfare nel corso del XV secolo. […] l’acrostico testimonia l’importanza estrema accordata, da parte degli scrittori medievali, al signifi- cato sacro che essi riconoscono alla lettera: sono spesso delle invocazioni o dei testi di preghiera che si leggono così verticalmente.18

Nel Medioevo si era soliti aggiungere alle sette antifone tradizionali altre invocazioni altri testi cantati, che accompagnavano il Magnificat o il Benedic- tus, e che variavano da luogo a luogo; aggiunte che furono successivamente cancellate nel secolo XVI dal Concilio di Trento e da papa Pio V. Eppure i medievali rimasero talora coscienti che le antifone originali erano sette, ed erano state tramandate conservandone l'ordine, così che si conservò incor- rotto l'acrostico alla rovescia che si legge, eliminata la o vocativa, alle iniziali di ogni invocazione: Sapientia, Adonai, Radix, Clavis, Oriens, Rex, Emma- nuel. «The coherence of the basic group of seven found in medieval antiphoners (O sapientia, O Adonai, O radix Jesse, O clavis David, O oriens, O rex gentium, O Emmanuel), is attested by the acrostic formed by the first letters of the divine epithetsread in reverse: ERO CRAS».19 Come nota lo stesso Dyer, che esprime l’ipotesi di un’origine attorno al VII secolo, per un certo periodo il numero di antifone cambiò, facendo dunque perdere la consape-

17 TILLIETTE 1998, I, p. 14, ad voc. 18 Ibidem. 19 DYER 1995, alla voce «O anthiphons».

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volezza dell’esistenza di un acrostico alla rovescia:

Alcuin (d. 804) list ten O antiphons in De laude Dei. Amalarius of Metz devoted a chap- ter of De ordine antiphonarii (837) to a discussion of these antiphons, but neither his ordering of the chants nor that of other French sources conforms to the arrangement suggested by the acrostic. Since Amalarius’s antiphoner has been lost, the antiphoner of Compiègne (B. N. lat. 17436), from the last third of the 9th century, represents the first appearance of the O antiphons in a liturgical book. Here, as elsewere, they are entered as a group, not distrib- uted according to the days on which they were to be sung.20

Partendo dall'ultima e salendo fino alla prima leggevano ERO CRAS, «domani io ci sarò». La promessa dunque si disvelava nel corso dello svol- gersi degli eventi. Solo perseverando nella preghiera la parola si faceva car- ne, e risalendo a ritroso i giorni dell'attesa si poteva ascoltare la risposta di- vina. È nell'itinerarium vitae che la grazia svela i suoi piani e trasforma l'uo- mo, e ciò giustifica l'inversione, conferendo alla singola lettera del testo. Dunque il sistema di scrittura rovesciato era allusivo dell’epifania redentiva (e in questo modo anche la lettera del testo dantesco si fa essa stessa profe- tica). Come risposta all’afflato umano, che invoca la divinità dagli abissi del peccato, il Figlio di Dio, lui stesso logos, fa il suo ingresso nel mondo umano con un moto ascendente che ricondurrà gli uomini al cielo. Infatti, scriveva Ambrogio: «Spiritus […] venit autem non de loco ad locum, sed a dispositione consti- tutionis ad salutem redemptionis, a gratia unificationis ad gratiam sanctificatio- nis, ut de terris ad caelum, de iniuria ad gloriam, de servitio ad regnum transferat».21 Ecco probabilmente l’essenza mistica della scrittura rovesciata.

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20 Ibidem. 21 De Spiritu Sancto, I 122, in AMBROGIO 1979, p. 139.

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ANTONIO SORO

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RIGUARDO AGLI INFLUSSI DI LAPO GIANNI SU DANTE: ELEMENTI TESTUALI E ANALOGIE

Antonio Soro

Di Lapo Gianni, «iudex ordinarius et notarius publicus» – se è da rite- nersi attendibile la sua identificazione con Lapo Gianni Ricevuti – Mario Marti nell’Enciclopedia dantesca poteva fornire poche disponibili notizie. Vit- torio Celotto, nel Dizionario biografico degli italiani, lo pone direttamente alla voce «Ricevuti, Lapo»:1

Notaio fiorentino, nato probabilmente attorno agli anni Settanta del Duecento. L’Archivio di Stato di Firenze conserva atti da lui rogati tra il 24 maggio 1298 e il 24 maggio 1328: poiché all’epoca occorreva aver compiuto vent’anni per essere am- messi al collegio notarile fiorentino (diciotto se imparentati con un giudice o nota- io), si può calcolare un terminus ante quem della sua nascita negli anni 1278-80. La da- ta andrà però alzata di circa un decennio se (come sembra ormai piuttosto pacifica- mente accettato) egli è da identificare con il rimatore Lapo Gianni, a cui i mano- scritti assegnano diciassette componimenti, che fu sodale di Guido Cavalcanti e di Dante Alighieri, menzionato da quest’ultimo nel De vulgari eloquentia e nel celebre sonetto giovanile [...] Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io.2

Si legge infatti nel documento: «Ego Lapus quondam Gianni Ricevuti de Florentia, imperiali auctoritate iudex ordinarius et notarius publicus, predic- ta omnia et singula…».3 Cosicché per il profilo storico-biografico a oggi ci si deve basare su quanto è noto di Ricevuti, presupponendo la coincidenza tra i due personaggi. Relativamente al Ricevuti, esistono documenti che provano relazioni con gli Alighieri, e direttamente pure con Dante: è questo il caso dell’atto notarile n. 75 del notaio fiorentino Sostegno di Busatto rela-

1 CELOTTO 2016, p. 401, ad voc. 2 Ibidem. 3 MARCHESINI 1894, p. 91. Conservato nel Notarile antecosimiano dell’Archivio di Stato di Fi- renze, n. 11484, già L. 76. In esso «Ricevuti verga in grafia cancelleresca le minute degli atti, sot- toscrivendoli con la formula fissa «Lapus condam Giannis Ricevuti de Florentia, imperiali auc- toritate iudex ordinarius publicusque notarius» (in CELOTTO 2016, p. 401).

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ANTONIO SORO tivo alla condanna di tre cospiratori. Il documento era indirizzato al gonfa- loniere e ai priori, tra i quali il poeta. Dante nomina Lapo solo due volte: in Rm LII 1, nel celeberrimo souhait Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (v. 1); non- ché in DVE I XIII 3 («Sed quanquam fere omnes Tusci in suo turpiloquio sint obtusi, nonnullos vulgaris excellentiam cognovisse sentimus, scilicet Guidonem, Lapum et unum alium, florentinos, et Cinum pistoriensem, quem nune indigne postponimus, non indigne coacti»). Il Salinari, che con- siderava lo Stilnovo terminato con Cino da Pistoia, lo annoverava tra le personalità minori del movimento: il critico vedeva sia Lapo Gianni che Gianni Alfani come stilnovisti sviliti, ormai prigionieri di una sterile imita- zione, «nei quali i modelli cavalcantiani e guinizelliani divengono maniera, ritornano, cioè, privi della tensione intellettuale che li sorreggeva nei due Guidi, svuotati di forza e di significato, anche se non privi di grazia e di dolcezza».4 Dal quel poco che ci è giunto del poeta notaio – 11 ballate, 3 canzoni, 2 stanze e un doppio sonetto – Emilio Pasquini deduceva che Dante era mosso più che altro «da solidarietà affettiva […] quantunque resti inconte- stabile che un certo Dante minore, quello della Ghirlandetta e della Violet- ta, aperto a suggestioni popolareggianti e madrigalesche […] dovette trova- re in Lapo un’udienza immediata, fatta di echi episodici ma non insinceri».5 Lo stesso Pasquini non può celare i momenti artificiosi e poco ispirati, qualche «cincischiata voluta melodica» o sdolcinatura, la banalità generata da un’eccessiva preoccupazione per le formule. Non è semplice qualificare l’atteggiamento di Dante verso Il Fiorentino, e stabilire se si trattasse di mera affezione o se, piuttosto, non vi fosse quantomeno un rigagnolo di condivi- sione di temi e motivi. Talvolta appare con evidenza che l’uno ha tratto i- spirazione dall’altro, laddove alcune terzine dell’esile produzione di Lapo a noi pervenuta ritorna, adattata e trasformata, ma ancora riconoscibile, nella Commedia. È il caso della ballata Questa rosa novella, i cui vv. 11-14

Ben dico, una fiata, levando gli occhi per mirarla fiso, presemi ’l dolce riso

4 SALINARI 1968, p. 40. 5 PASQUINI 1995, p. 688.

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e li occhi suoi lucenti come stella6 riportano immediatamente il lettore alla narrazione di Virgilio a Dante della visita di Beatrice, la quale prega l’antico poeta di accorrere in soccorso di Dante stesso. Egli rammenta il di lei sguardo:

Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella…7

Naturalmente un elemento sparuto non si traduce in una chiara congru- enza, per quanto esso possa apparire suggestivo. Eppure, si può trovare un indizio assai più notevole di un reciproco scambio di temi e topoi tra i due poeti, che si focalizza su uno dei personaggi femminili più enigmatici e deli- cati della Commedia, in sei versi toccanti e anche molto popolari: Pia nota “dei Tolomei”. Personaggio di dubbia collocazione storica, Natalino Sape- gno sembra che espresse per primo un velato dubbio: «la tradizione non è confortata, ma neppure contraddetta, dai documenti d’archivio».8 Varanini9 aveva messo in evidenza l’anacronismo e la dubbia identificazione della donna con una Tolomei. Scettico, constatava che «di una Pia de' Tolomei, peraltro, non si ha traccia di sorta nella pur ricca documentazione riguar- dante quell'antica e nobile famiglia senese; così come non risulta dai docu- menti che Nello abbia avuta una moglie che così si chiamasse, appartenente o meno alla famiglia Tolomei».10 Compiendo una minuziosa analisi delle testimonianze e dei commenti, lo studioso conclude dubita di ogni ricono- scimento nelle terzine di profilo espressamente epigrafico:

È da credere che, oltre l'aura di mistero che avvolge il personaggio e la soavità che ne permea la raffigurazione, anche la dimensione epigrafica dell'episodio, che lo iso- la efficacemente e favorisce un'immediata evocazione della sua protagonista, abbia contribuito alla fortuna della Pia dantesca, nota come ‛Pia de' Tolomei’. Così la fan- tasia popolare chiamò ‛Salto della Contessa’ una parte dello scoscendimento sul

6 Corsivo nostro. 7 Inf II 55-57. 8 Comm. ad loc. 9 VARANINI 1971, ad voc. Sulla stessa linea MORACE 2006. 10 Ibidem.

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ANTONIO SORO

quale s'innalza il castello della Pietra in Maremma; e Pia poté divenire la protagoni- sta di una novella del Bandello, che il narratore immagina di aver appresa dal senese Niccolò Campano, detto lo Strascino; e fornire argomento a quelle rappresentazioni popolari e rusticane che nel senese chiamano ‘bruscelli’ e a novelle in ottave, qual è quella, assai nota, d'impasto eminentemente romantico, di Bartolomeo Sestini. Ma la Pia è sostanzialmente diversa: la sua stessa fortuna ha fatto sì che i rielaboratori ne travisassero i lineamenti avvalendosi degli elementi, forniti dall'esegesi, di più fa- cile e immediata fruizione. L'autentico personaggio dantesco, nella dolcezza ineffa- bile dei suoi tratti, come avvolti in una misteriosa penombra, resta solo consegnato ai celebri versi finali del canto V del Purgatorio.11

Nella pluralità di dubbie collocazioni storiche, pare piuttosto che i vv. 130-36 acquistino spessore semantico soprattutto sul piano allegorico. Il canto è strutturato come trittico: il primo spirito, che esordisce al v. 64, è Jacopo del Cassero, e smette di parlare al v. 84. Dal v. 85 al v. 129 è prota- gonista Buonconte da Montefeltro; agli ultimi sette versi, in chiusura, Pia dei Tolomei. Il primo morì per sgozzamento, e vide «de le sue vene […] far- si in terra laco» (v. 84). Bonconte, invece, fu disperso nella battaglia di Campaldino e trasportato dall’Archiano all’Arno, la cui acqua impetuosa «sciolse al suo petto la croce» e «di sua preda lo coperse e cinse» (V 126-29). Il tema è sempre quello della crudeltà, del male efferato, dinanzi ai quali muore ogni compassione e sembrano esserne sconvolti anche gli elementi naturali, secondo una solida tradizione scritturale vetero e neotestamentaria apocalittica (soprattutto Apc 6, 12-14; 9, 3-11). La vicenda di entrambi i personaggi maschili è contrassegnata dalla mancanza di pietà nei loro con- fronti. La pietà è morta nelle guerre che dilaniarono la Maremma, dove l’orrore e la disumanità presero il sopravvento. Per determinare cosa si in- tendesse per Maremma, il poeta ne chiarifica i confini nel canto XIII dell’Inferno (v. 9), quando li pone «tra Cecina e Corneto». Adolfo Cecilia la definisce come la «regione della Toscana meridionale che si estende anche nel Lazio, giungendo fin verso Civitavecchia, mentre il limite settentrionale è di poco a nord ovest rispetto alla foce del fiume Cecina»:12 si estendeva insomma quasi da Livorno a Viterbo, “città dei papi” che dista da Tarquinia solo 45 chilometri. Sono note le vicende storiche. Il Castrum Viterbi entrò a

11 Ibidem. 12 CECILIA 1971 in ED, ad voc.

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fare parte Patrimonio di San Pietro nell’852, come una delle più importanti province; nel 1194 fu cattedra vescovile; nel 1207 la città ospitò il Parla- mento degli Stati della Chiesa. L’autorità papale strinse il Comune in una morsa avvertita come soffocante, così che ci si rivolse a Federico II nella speranza che un intervento di questi fosse un adeguato argine, se non l’epilogo, per il regime teocratico; scelta politica dalla quale scaturirono le lotte tra guelfi e ghibellini. Battuto Federico nel 1243, il papa si assicurò l’egemonia sulla città stabilendo nella città la propria sede, nel 1270. Ma per la Maremma le disgrazie non terminarono lì. Quando Siena prosperava pa- cifica e nel benessere grazie agli affari con le banche, la salita al trono di Si- cilia di Manfredi di Svevia coinvolse la città nelle strategie di potere penin- sulari, dato che il re l’aveva individuata quale baluardo e roccaforte contro il guelfismo papista. Nel secolo XIII Firenze elaborò i piani per unificare l’intera regione e assoggettarla a sé. La città inglobò territori dopo territori, al punto che Siena vide seriamente minacciata la sua autonomia: per ferma- re i fiorentini non restava che la guerra. Se Montaperti il 4 settembre 1260 aveva garantito provvisoriamente l’indipendenza della città, nel 16-17 giu- gno 1269 la battaglia di Colle Val d’Elsa tra i ghibellini senesi e i guelfi del re di Sicilia Carlo d’Angiò assieme al Comune di Firenze, permise l’insediamento del Governo dei Nove. Per Siena, pur sconfitta, cominciava un periodo prospero; per la Maremma, invece, non era affatto la fine dei combattimenti. Dante fa memoria dei conflitti. Quello del 1260 «è presente all’animo e alla fantasia di Dante con intensità drammatica: già da Montaperti, tra l’altro, vanno spiegati l’ostilità e il risentimento squisitamente municipali di Dante contro i senesi (Inf XIII 115-121; XXIX 109 ss., Pg XIII 115; 151- 154.).13 Colle Val D’Elsa è ricordata in Pg XIII 115 ss. proprio con la vicen- da di Pia. Considerata anche la participazione del poeta a Campaldino, egli doveva avere ben presenti le crudeltà dei conflitti nella Maremma, con quel dolore interiore che in ogni tempo gli uomini di vocazione pacifica provano dinanzi alla guerra e all’odio omicida: è il motivo per il quale, nel canto delle vittime di morte violenta, il sentimento predominante è la pietà. In Cv II X 6 il poeta fornì una definizione dotta e poetica di pietà, nell’accezione cri- stiana tramandata sin da Agostino in De civ. X 1: «E non è pietade quella

13 BARTOLI LANGELI 1971 in En III, p. 1013.

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ANTONIO SORO che crede la volgar gente, cioè dolersi de l’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione: ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni». La ‘Pietà’ è personificata in Vn XIII 9 («madonna la Pietà»); VIII 5 3 («Amor sente a Pietà donne chiamare»); XIII 6 («mettermi ne le braccia del- la Pietà»); ivi, 10 («conviene che io chiami la mia inimica, madonna la Pieta- de»); XIV 12 5 («non poria Pietate»); XIX 8 22 («sola Pietà nostra parte di- fende»); Fiore VII 4 («Se Pietate e Franchez[z]a noll’acora»); XIII 4 («collei Pietà, per sua ambasceria»); XIV 1 («Pietà cominciò poi su’ parlamento»); LXXIX 3 («Franchigia, Cortesia, Pietà, Larghez[z]a»); LXXXIV 7 («E Pieta- te e Franchez[z]a dear miccianza»); CCVIII 7 («Sì c[h]’a Pietà ne prese gran peccato»); CCIX 1 («Vergogna sì venne contra Pietate»); CCXXVI 5 (« E Franchez[z]’ e Pietà da l’altro lato»). Ancora, essa compare in componimen- ti stilnovistici duecenteschi: si ricordi, ad esempio, il sonetto di Dante Con l’altre donne mia vista gabbate (Vn XIV 11-12; v. 5: «Se lo saveste, non poria Pietate»). Inoltre, rammentiamo di Cavalcanti: il sonetto XVII, S’io prego que- sta donna che Pietate (v. 1), la ballata XXVIII, Gli occhi di quella gentil foresetta, (v. 30: «trovar Pietà di tanta cortesia»), il sonetto XLI, Dante, un sospiro messagger del core (v. 7: «“Aiutami, Pietà!”…»; di Lapo Gianni: la ballata III, Gentil don- na cortese e dibonare (v. 33: «ond’ i’ prego Pietate»), la ballata VII, Ballata, poi che ti compuose Amore (v. 36: «nel cerchio delle braccia ove Pietate»); di Dino Fresco- baldi: il sonetto X, In quella parte, ove luce la stella (v. 9: «Pietà non vi si truova segno- ria»); la canzone XVIII, Un sol penser che mi vèn ne la mente (v. 36: «“Vedi Pietà, ch’io la ti reco scorta”; la canzone XIX, Voi che piangete ne lo stato amaro (v. 42: «“Aiutami, Pietà, ch’io non sia morto!”»; di Cino da Pistoia: il sonetto XVI, O- mo, lo cui nome per effetto (v. 4: «ci manda a voi, come Pietà v’ha detto»); la canzone XVII, Deh! Ascoltate come ’l mio sospiro (v. 12: «Sì che vêr di Pietà ell’ha valore»); la canzone XVIII, Amor, la dolce vista di Pietate, al v. 1; il so- netto XX, Disio pur di vederla, e s’eo m’appresso (v. 11: «forse che m’aiterà levar Pietate»); la canzone XXX, I’ non spero che mai per mia salute (v. 4: «Questa sdegnosa – di Pietate amica»; v. 20: «allor contra Pietate…»; v. 27: «Pietanza lo dimostra, ond’è sdegnata»); la canzone XXXI, L’uom che conosce tegno ch’aggi ardire (v. 32: «ne li occhi miei drittamente Pietanza»; v. 37: «Questa Pietate vèn con vôl natura»); la canzone XXXV, Mille volte richiamo’l dì mercede (v. 1; vv. 30-31: «Perché Pietate da Mercé discende, | e Mercé da Pietà…»); la

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canzone XXXVI, L’alta speranza che mi reca Amore (v. 10: «e posa nelle brac- cia di Pietate»); il sonetto XLI, Saper vorrei s’Amor, che venne acceso (v. 8: «se ’l prego di Pietà non l’ha difeso»; v. 11: «ch’innanzi a lei Pietà non farà mot- to»); il sonetto XLIII, Deh! Com sarebbe dolce compagnia (v. 2: «se questa donna e Amore e Pietate»); la canzone XLIV, Non che ’n presenzia de la vista umana (v. 35: «sì che ver me, quando Pietate chiama»); il sonetto LX, Omè! Ch’io sono all’amoroso nodo (v. 6: «l’umile voce ch’a Pietà risponde»; «Aiutami, Pietà, che n’hai valore»); la canzone LXXIII, S’io ismagato sono ed infralito (v. 65: «Da parte di Pietà, prego ciascuno»); il sonetto LXXIX, Bella e gentile amica di Pietate (v. 1); la canzone CIII, Avegna che del m’aggia più per tempo («per voi ri- chiesto Pietate e Amore»; v. 44: «e Pietà priega: “Per Dio, fate resto!”»). Si è certamente dinanzi a un topos dello Stilnovo, sino alle sue più mode- ste e tarde espressioni (ricordiamo il sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io). Che Dante abbia subito l’influenza del gruppo al punto da costruire un personaggio da un motivo ricorrente, personificando la Pietà tra i morti di morte violenta? La chiusura del canto (vv. 130-136) sembra dare consisten- za all’ipotesi, magari anche sul filone evangelico della Passio, come è stato già notò Diana Glenn:

In the recognition of the lexical echo from the drama at Golgotha, the full reso- nance of Pia's words (their highly-charged intensity and biblical import) is made ev- ident, so that her narrative provides a wider focus to the moments of high tension conveyed by Jacopo's and Bonconte's violent and disturbing tales. When linked to the crucified thief's request to Christ, Pia's simple utterance in the 'polite' impera- tive, ricorditi di me, reverberates in a more meaningful way and may be seen as em- blematic of the soul turning to God prior to death and receiving the gift of His in- finite mercy, a powerful message that fittingly and dramatically brings the canto to a close.14

Un rimando forse ancor più contestuale sembrerebbe Ps 105, 4; 6: «Re- cordare mei, Domine […]. Peccavimus cum patribus nostris, inique feci- mus, impie egimus». Il «ricorditi di me», tuttavia, sembrerebbe essere pure esso un topos della letteratura religiosa, generato dalla coscienza che tra que- sto mondo e il mondo ultraterreno è stabilito un abisso (cfr. Lc 16, 26: «in- ter nos et vos chaos magnum firmatum est»), e tale distanza può sgomenta-

14 GLENN 1999.

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ANTONIO SORO re chi ancora vive nella precarietà o teme di restare intrappolato tra le ma- glie della morte: è il caso della Pia che è trattenuta nel cerchio per la purga- zione; analogamente accade al buon ladrone che, pentito, si vede prossimo a scendere nella Geénna, sempre più lontano dal Maestro, di cui immagina il ritorno nel Regno celeste: «Domine, memento mei cum veneris in regnum tuum» (Lc 23, 42).15 Sembra veramente che la personificazione della pietà carichi di senso le terzine più di ogni altra precedente ipotesi. D’altronde proprio l’atteggiamento di Pia verso il poeta pellegrino è sintomatico di sof- ferta partecipazione al dolore altrui. Nelle due terzine finali, la donna si de- finisce «la Pia» (v. 133). «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (v. 134): un par- ticolare che dovrebbe allertare i critici, perché calzato male da un personag- gio di esclusiva consistenza storica. I sei versi vanno assumendo la fisio- nomia di un indovinello, nel quale il personaggio presenta, dietro ai tratti umani, caratteristiche che ne estendono la figura misteriosa al piano allego- rico: «Salsi colui che ‘nnanellata pria | disposando m’avea con la sua gem- ma». «I versi finali del canto», commenta Hollander, «hanno attirato svariati tentativi di comprenderne chiaramente il senso. Tuttavia, in assenza di indi- cazioni precise sui fatti ai quali Dante ha deciso di alludere, non si può esse- re certi».16 Tra le svariate interpretazioni si ricorda ad esempio quella di Gmelin,17 che trova un riferimento ad Aen IV 28-29, dove Didone parla di Sicheo, il marito morto: «ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores / ab- stulit; ille habeat secum servetque sepulchro». Gmelin associa ai versi 135- 136: «salsi colui che ‘nnanellata pria | disposando m’avea con la sua gem- ma». Hollander sente il dovere di osservare la forte differenza tra i contesti: «una moglie che soffre e un marito omicida che prendono il posto di un marito leale e una moglie che vorrebbe rimanergli fedele».18 Varanini cita una chiosa anonima del Laurenziano XL 7:

nella quale […] si fa il nome del sicario di cui si sarebbe servito Nello per l’esecuzione del criminoso disegno: «…fu maritata a uno messer Nello […] vile uomo e poco leale, e dicesi che questa sua donna egli fece morire in Maremma, e uccisela uno che ebbe nome il Magliata da Pionpino, femiglio del detto messer Nel-

15 Corsivo nostro. 16 HOLLANDER 2011, II, p. 42, nota a V 135-136. 17 Comm. ad loc. 18 HOLLANDER 2011, II, p. 42, nota ai vv. 135-136.

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lo, il quale Magliata quando la detta donna si sposòe a messer Nello, egli sì come suo procuratore le diede l’anello per lui».19

In alternativa, ipotizza qualche studioso, potrebbe essere stato il marito di Pia a donarle l’anello del matrimonio. Sembra realmente impossibile an- dare oltre una certa precisione biografica, a causa di fonti indirette e incerte. Qualunque tra le due versioni sia vera, pare che dettagli così irrilevanti con- trastino con la solennità e l’universalità del dramma che si respira. Se ne de- duce che, dal punto di vista figurale, la donna potrebbe avere uno spessore incomparabilmente maggiore di quello mostrato dalla lettera. Per intravede- re la portata dal personaggio, bisogna tornare all’excursus storico e osservare le ultime due terzine nella loro globalità: la Pia ha origine da Siena; l’ha di- strutta l’intera Maremma. L’invito a Dante è di ricordarsi di lei alla fine del suo pellegrinaggio. Che la sua distruzione le giunse dall’intera Maremma, lo sa bene colui che prima le diede l’anello sposandola. Normalmente «disfe- cemi Maremma» è interpretato come «morii in Maremma» (basandosi su Inf VI 42: «tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto»), e «son la Pia» è letto sempli- cemente come «mi chiamo Pia». Ma, nel primo caso, il pronome personale in posizione enclitica suggerisce una traduzione più letterale: «mi uccise la Maremma». Inoltre l’articolo determinativo accanto al nome di persona in questo caso fa la differenza: ella non è una Pia qualsiasi ma la Pia, ovvero la Pia per eccellenza; fiorita con Siena, distrutta o ‘devastata’ dalla Maremma in- tera. Date le precarie testimonianze storiche, la donna non risulta fosse così famosa da meritare una presentazione tanto singolare; e non vi è a tutt’oggi alcuna prova (anzi tutt’altro) che la tragedia della contessa morta in Ma- remma fosse “ben nota” in Toscana, al punto da indicarla ai lettori come «la Pia». Il comportamento dello spirito in realtà pare identificarla: è la sola a- nima della Commedia ad aver premura, prima che per se stessa, per la salute del poeta. Ella gli raccomanda anzitutto il riposo dopo la fatica del pellegri- naggio. L’atteggiamento pietoso è seguito dall’identificazione: «la Pia», l’unica Pia o la Pia per antonomasia. Lo sa colui che «’nnanellata pria | dispo- sando m’aveva con la sua gemma»: questa gemma in realtà non sembra es- sere stata affatto al dito di Pia, ma piuttosto al dito di chi l’aveva “sposata”. Ricordiamo la Pietà personificata degli stilnovisti: nel quinto canto del Pur-

19 VARANINI in ED, IV, pp. 464-465.

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ANTONIO SORO gatorio, con le guerre la pietà scompare dalle menti degli uomini. La pace che Siena aveva faticosamente costruito nella prosperità, viene spazzata via dalle lotte in tutta la regione. L’accusa che Dante rivolge con le parole della don- na è in realtà rivolta al papa: è lui che, fomentando le guerre, tradì in questo modo il voto preso al momento della salita al soglio pontificio. All’atto della sua elezione, infatti, vi era la cerimonia di inanellamento, accompagnata da riti di autoumiliazione. Vi sono prove documentarie che testimoniano l’usanza dei papi di fregiarsi dell’anello sin dall’epoca costantiniana. Succes- sivamente è attestato l’uso di portare almeno due anelli: l’anello piscatorio e l’anello gemmato. Quando venne riesumata la salma di Silvestro II, nel 900, si trovò al dito un grosso anello con uno zaffiro. Analoga scoperta venne fatta con la riesumazione di Bonifacio VIII. Si può dunque far risalire dunque l’uso dell’anello gemmato già al IX secolo; un anello col quale il papa spo- sava la pietà e la compassione verso gli uomini e le creature. Ma Pia accusa appunto il romano pontefice di aver dimenticato quello spirituale connubio con lei, «la pia» per eccellenza. A causa del drammatico divorzio, tradendo la sua missione, il vicarius Petri ha trascinato la Maremma in una serie di or- ribili guerre. Ma proprio la personificazione della pietà ci restituisce, alfine, i pochi versi di Lapo Gianni, confermando la centralità del sodalizio tra lui, Dante, Cavalcanti e Cino da Pistoia. Nella Ballata, poi che ti compuose amore, all’ultima strofa vi sono sei versi sulla «Pietate» personificata, caratterizzati da una forte affinità col personaggio femminile che, nel cerchio dell’Antipurgatorio, accoglie pietosamente il poeta (e che compare appunto proprio per due terzine). Così nella conclusione della Ballata, Lapo scrive: «Tu vedrai la nobile accoglienza | nel cerchio delle braccia ove Pietate | ripara con la gentilezza umana; | e udirai sua dolce intelligenza: | allor conoscerai umilitate | negli atti suoi, se non parla villana» (vv. 35-40).20 La conclusione, come rivela il sintagma «dolce intelligenza», ricalca quella forse antecedente di Guido Cavalcanti, che in Perch’ i’ no spero di tornar giammai (Rm XXXV), ancora all’ultima strofa scrive, ai vv. 41-44:

Voi troverete una donna piacente di sì dolce intelletto21 che vi sarà diletto

20 Corsivi nostri. 21 Corsivo nostro.

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starla davanti ognora.

In Guido ovviamente si tende più ai modelli siciliani e provenzali, a un amore piacevole che parla all’anima sensitiva e che cattura e imprigiona. In Lapo c’è invece un’elevazione ideale, una sublimazione e un tentativo di ri- petizione del cor gentile guinizelliano. Non si sa se sia stato Lapo a prendere spunto da Dante, o viceversa. Ma la Pia di Dante ha parecchio della Pietate di Lapo – in uno schema di chiusura utilizzato anche dal Guinizelli – e tut- tavia è ‘nuova’, poiché il cerchio dove ella «ripara» non è più quello delle braccia accoglienti, ma è la sezione alla base della montagna del Purgatorio. Per il resto i comportamenti corrispondono: la Pia-Pietà accoglie Dante con la «gentilezza», raccomandandogli anzitutto di riposarsi alla fine del suo vi- aggio. E lei è lì, proprio tra morti di morte violenta, a riparare le colpe degli uomini, a parlare e ad agire «con umilitate», nonché anteponendo la salute del poeta ai propri desideri. Ed è lei a chiudere la scena degli spiriti morti violentemente: personificazione sublime di una pietà tanto celebrata nei versi dei poeti, eppure troppo spesso uccisa nei cuori umani, resi aridi dall’odio o induriti dalla guerra. Per concludere: la centralità della figura di Pia e il motivo di ispirazione tratto dalla produzione di Lapo Gianni, indu- cono sempre più a credere che questo autore, tradizionalmente posto ai margini e considerato fondamentalmente un imitatore dello stilnovismo, in realtà abbia avuto per Dante un’importanza quantomeno affettiva. Del re- sto, l’esigenza biblico-figurale nella redazione del poema non permetteva a Dante l’inserimento di un intertesto che non rientrasse negli schemi della teologia morale. Naturalmente, la Pia dantesca è diversa da quella dell’amico: il ‘cerchio’ non è più quello formato da un abbraccio, ma la ba- se circolare della montagna dell’espiazione. Gli atteggiamenti invece corri- spondono: gentilezza e premura la contraddistinguono. E così ella, tanto sospirata e invocata dai poeti d’Amore, personificata dà voce al dolore per l’odio tra gli uomini ed esprime il lamento per gli animi travolti da desideri di efferata vendetta.

BIBLIOGRAFIA

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ANTONIO SORO

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SUL MISTERO DI UN RIFLUSSO PAGANO IN DANTE. LE RAGIONI DI UN’ISPIRAZIONE PAOLINA PER UN ACROSTICO ALLA ROVESCIA

Antonio Soro

L’autore di questo articolo ha avuto occasione, in tempi recenti, di sof- fermarsi sulla divinità greca dei fantasmi e dei sortilegi, che giunge a noi per una tradizione ininterrotta e tuttora fa la sua sporadica comparsa.1 Un mese dopo la scoperta del primo acrostico invertito, PESCE, in Pd V 97-11,2 So- ro poté dare notizia sulla medesima rivista di un altro acrostico inverso in Pg XXVIII 25-37, considerato a oggi da alcuni studiosi, insieme allo stesso PESCE e agli ormai storici VOM in Pg XII 25-63,3 e LVE in Pd XIX 115- 141,4 tra i quattro «sicuramente presenti nel poema».5 Senza soffermarci su quel che può essere letto già nell’articolo che annunciò agli studiosi la sco- perta,6 sarà opportuno tracciare un quadro delle deduzioni permesse da re- centi studi di cultura medievale, specialmente a proposito della popolarità che ebbe Ecate al tempo di Dante. A suo tempo, fu subito evidente che l’acrostico implementa il portato semantico delle terzine, dando una fisio- nomia definita, pur se non di profilo storico-figurale, al personaggio che ac- coglie i poeti nell’Eden. Impossibile fornire un’elencazione esaustiva della critica che si è soffermata su Matelda, nel tentativo di spolparla del carattere mitico-allegorico; come ebbe a dire Hollander, la bibliografia relativa «era già sterminata nel 1873»:7 lo Scartazzini infatti, nel 1874, si era soffermato, domandandosi anzitutto se la donna fosse un personaggio «ideale» o «rea- le». «Non meno di una mezza dozzina di Matelda si vollero dimostrare qual

1 «…nella Teogonia di Esiodo la dea Ecate è una divinità molto vicina ai mortali, assistendoli (quasi) in ogni loro attività, ma allo stesso tempo già connotata da una sorta di ‘capricciosità’, [...]. Ancora benigna appare la Ecate dell’Inno omerico a Demetra e del Peana II di Pindaro […], lad- dove già in Sofocle inizia a mostrare i primi caratteri i primi caratteri mostruosi di una figura ter- rificante e anguicrinita» (SERAFINI 2015, p. 164). 2 Cfr. SORO 2009a. 3 MEDIN 1898, pp. 98-100. 4 FLAMINI 1903. 5 HOLLANDER 2011, II, p. 100, n. ai vv. 25-63. 6 SORO 2009b. 7 HOLLANDER 2011, II, p. 241, n. ai vv. 40-42.

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ANTONIO SORO tipo storico della Matelda di Dante, oltre una dozzina di significazioni alle- goriche le vennero attribuite. A chiunque non vuol contentarsi di riferire semplicemente un paio di opinioni d'altri è pertanto necessario inoltrarsi in questo laberinto. Ardua impresa!». 8 Scartazzini elencava poi una trentina di opere di autori diversi sul tema [avendo dichiaratamente escluso dalla lista i commentatori], dal 1829 al 1873. La prima attribuzione storica che egli menziona è la Matelda «contessa di Toscana», Matilde di Canossa (1046- 1115) coerentemente con una tradizione che va da Jacopo della Lana (1324- 1328) fino a Giuseppe Campi (1888-1893), citando più di 40 nomi. Nella sua lunghissima e minuziosa trattazione storico-espositiva, Scartazzini arri- va a concludere che Matelda sia immagine del ministero sacerdotale:

Non è forse il ministerio ecclesiastico che deve farsi maestro dell'uomo là, dove la scienza puramente umana ha i suoi limiti, come Matelda si fa maestra di Dante là, dove la scienza di Virgilio più non basta? Non è forse il sacerdote il servo della chiesa, dell'autorità spirituale, come Matelda è la ministra di Beatrice? Non è forse il vero sacerdote cristiano il servo de' suoi confratelli, come Matelda è la ministra di Dante? Non compete forse al sacerdote l'immergere il peccator confesso e pentito nel sac.o lavacro, come Matelda immerge Dante nelle acque di Lete? Insomma, Ma- telda nella Divina Commedia fa ciò che al ministerio ecclesiastico compete di fare, né più né meno.9

Come già ricordava Marti nell’Enciclopedia dantesca, un primo dubbio venne espresso dal Venturi10 nel 1732, nel suo commento alla Divina Com- media: «“Per essa è certo che il poeta intende la vita attiva: chi poi ella sia è difficile risaperlo. I commentatori tirando a indovinare suppongono essere la gloriosa e tanto della Chiesa e dell’Italia benemerita contessa Matilde…”. Da allora la contessa non ebbe più pace».11 Tra le diverse ipotesi storiche (Matilde di Toscana, Matilde di Ringelheim, la «donna gentile», Giovanna la donna amata da Guido Cavalcanti, come attestato da Vn XXIV 3). Kir- kham in un suo studio riferisce trentacinque interpretazioni di tipo allegori- co, e lei stessa propone di riconoscere, fatta salva la più tradizionale attribu- zione storica, in Matelda la Saggezza. Vi è ancora nel nostro tempo chi non

8 SCARTAZZINI 1872-1882, in DDP, comm. al v. 148. 9 Ibidem. 10 VENTURI 1732, in DDP, comm. ai Pg XXVIII 40. 11 FORTI 1971, p. 854.

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veda motivi validi per attribuire alla bella donna anche un significato allego- rico, rimandando ancora alla Contessa di Toscana; idea ribadita anche da Claudia Villa.12 Robert Hollander tuttavia resta dell’idea che «Matelda resta […] problematica per almeno tre motivi». Il primo di essi, secondo lo stu- dioso, era che Matilde restava una strenua assertrice del primato della Chie- sa su quello imperiale; secondo, il ritratto giovanile e aggraziato presentatoci da Dante pare in contrasto con quello delle cronache medioevali, che la de- scrivono come «una quasi virago, una donna soldato e sicuramente meno ‘romantica’ di quanto sembra suggerire il ritratto di Dante».13 Infine, Hol- lander riconosce che il ruolo di Matelda nel giardino sembra essere «di na- tura universale» ma, precisa, l’idea è dibattuta perché vi è chi ritiene che ella si trovi ivi solo per specificamente Dante (vd. ad esempio Contini).14 «Qualcuno (forse Charles Singleton) ha detto una volta che sapremmo mol- to più facilmente chi è Matelda se non ce ne venisse mai detto il nome. Nel- la funzione che svolge nel giardino dell’Eden ella è […] una rappresenta- zione di Eva prima della caduta».15 Così, concludeva Hollander, «in quanto nuova […] Eva, Matelda [...] rappresenta la vita attiva…».16 Così, sin dal Venturi era aperta la strada anche verso un’identificazione allegorica. Che però si potesse identificare con Ecate, questo in effetti era del tutto inatte- so. Certo, individuate le affinità intertestuali e i riferimenti alle fonti classi- che la congruenza appariva evidente: sebbene la lettera al v. 26 intenda per «selva antica» l’Eden, la stessa parola richiama Lucrezio: «Principio quod Averna vocantur nomine, […] si forte lacus substratus Avernis. Is locus est Cumas aput…».17 e si deve ricordare che Enea si rivolse alla Sibilla cumana riconoscendo che «nec te | nequiquam lucis Hecate praefecit Avernis».18 Dante appare suggestionato da un’affinità colta da un passo ovidiano, poi- ché in Met. V 388-395 si legge che «silva coronat aquas […]. perpetuum ver est. quo dum Proserpina luco | ludit et aut violas aut candida lilia carpit, | dumque […] paene simul visa est dilectaque raptaque Diti».19 In tal caso, se

12 VILLA 1987. 13 HOLLANDER 2011, II, p. 242, n. ai vv. 40-42. 14 CONTINI 1976. 15 HOLLANDER 2011b, cit., p. 242, n. ai vv. 40-42. 16 Ibidem. 17 De rerum natura VI 740-747, in LUCRETIUS 1966, p. 496. 18 Aen VI 117-118. Cfr. anche v. 564: «sed me cum lucis Hecate praefecit Avernis». 19 OVIDIO 2000.

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ANTONIO SORO davvero è sotteso un ritorno ideale a quei luoghi, bisogna attendersi che, proseguendo, Dante giunga a quelli che gli sembrano i mitici «sette alberi d’oro», laddove Enea colse il ramo indispensabile per l’accesso all’Averno. Ed è quello che accade, nel paesaggio edenico cristianamente trasposto del XXIX canto, dove Dante avrà di fronte «sette alberi d’oro» (v. 43). L’«aura tecta» di Aen VI 13,20 conseguentemente, non è più un tempio pagano. Ri- levante il trasecolamento di Virgilio, il quale «rispuose | con vista carca di stupor non meno»:21 egli infatti nel suo poema parlava di «arbore fetus», e dunque non poteva attendersi la vista dei candelabri, alieni alla Roma paga- na. Ne deriva la conseguenza, già chiara a critici e commentatori, che anche il mito di Ecate in Dante non sia più quello antico. Permane l’identificazione con la primavera, come dimostra il fatto che il suo nome compare alle iniziali delle terzine e l’ultima lettera, cioè la prima vocale del nome, compare solo al v. 40, quando Matelda «là m’apparve». Invero, la prima E del nome della divinità ctonia si trova al v. 25, mentre l’ultima E – che è poi la vocale iniziale – si trova al v. 37: «e là m’apparve…». Dove fini- sce l’acrostico, e non prima, quello è il momento dell’apparizione. La «don- na soletta» viene infatti nominata solo al v. 40, e lo scarto potrebbe avere rilevanza semantica. Ai vv. 49-51 Dante, illuso di incontrare una donna in- namorata di un amor terreno, per effetto della macchia originale che porta in sé stesso non percepisce la purezza della “nuova Eva” che ha dinanzi: la scambia con la rapita del mito claudiano, e confessa alla donna che «tu mi fai rimembrar | dove e qual era Proserpina nel tempo che perdette | la ma- dre di lei, ed ella primavera». Dante è consapevole di esprimere solo un’analogia. Al contrario, Jacopo Alighieri, commentando Inf IX 44 («…la regina de l’etterno pianto»), mostra di non riuscire a distinguere tra Proser- pina ed Ecate, o, per epiclesi, «Trivia»:

Secondo quello che per Ovidio e per gli altri poeti favoleggiando si tratta, la reina dello eterno pianto, la luna s'intende, riducendola nel nome di colei che Dite prese nell'isola di Cicilia cogliendo suoi fiori, la quale Proserpina si chiama. Onde così nominata, reina dello inferno s'intende, si come Dite, cioè Lucifero, Re; della quale ancille e principii di tutto suo seguito sono come nella sopradetta chiosa si conta. E riducendola negli altri suoi due nomi quando Luna si chiama in cielo si considera, e

20 «Iam subeunt Triviae lucos atque aurea tecta» (ibidem). 21 XXIX 56-57.

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quando Diana in luoghi salvatichi e diserti si come in selve o boschi, idea si intende; per li quali tre detti suoi nomi in alcun luogo Trivia si chiama, le cui allegorie tra l'al- tre in loro essere si prendano.22

Eppure la donna del ventottesimo canto ha le straordinarie, volute so- miglianze con la sposa di Plutone: ella si muove nella «selva antica» (v. 22) «e cantando e scegliendo fior da fiore» (v. 41), proprio come, nel De raptu Proserpinae, la giovane, scegliendo «electis […] herbis. | Pratorum spoliatur honos: haec lilia fuscis | intexit violis; hanc mollis amaracus ornat; | haec graditur stellata rosis, haec alba ligustris».23 Naturalmente, più Proserpina o Ecate che sia, il nome stesso di Matelda è già un enigma. Ma Hollander,24 riprendendo J. Goudet,25 rammentava che il nome stesso della donna ha la caratteristica di avere un significato al contrario: ad laetam. Nella sorpresa dell’invertibilità sembra si trovi un’implicita conferma della non casualità dell’acrostico “Ecate”. Matelda dunque, nella sua rappresentazione allegori- ca è latrice di gioia: cioè l’opposto della Trivia, «regina de l’etterno pianto».26 Leggendo in direzione opposta Matelda, sembra suggerire il poeta, ci si al- lontana dall’eterno pianto e la disperazione si converte in letizia. Ed è pro- babilmente questa la chiave di lettura dell’acrostico invertito Ecate, diver- samente quanto lo stesso scrivente aveva interpretato nel 2009. Matelda in- fatti conferma che, l’uomo «per sua difalta qui [nell’Eden] dimorò poco; | per sua difalta in pianto e in affanno | cambiò onesto riso e dolce gioco» (vv. 94-96; corsivo mio). Adesso Dante ha ripercorso il cammino della morte e del do- lore a ritroso. Il suo riso (cfr. v. 76: «rido»), il suo citare «il salmo Delectasti» (v. 80) e, in XXIX 3, fusi in un unico verso, gli emistichi di Ps 31, 1;27 il suo ruolo di guida fino alle acque dell’Eunoè, tutto porta a concludere che la

22 JACOPO ALIGHIERI in DDP, comm. a Inf IX 43-45. 23 II, vv. 127-130, in CLAUDIAN 1969, p. 147. 24 HOLLANDER 1969, p. 152, n. 18: «Dante spelled the name with e rather than i, so that i twill spell ad letam (“toward joy”) backwards, or nearly so». 25 GOUDET 1954. Ma cfr. ancor prima MORPURGO 1950, p. 82. Per la versione anagrammati- ca ad Letèm [= “colei che conduce al Letè”], si veda invece IOLI 1989, p. 160. 26 Inf IX 44. Si ricordi l’«etterno dolore» nell’anafora di apertura di Inf III, che il Dante agens legge timoroso la triplice minaccia sulla porta: una convergenza verso la dannazione, scrisse So- ro, di tre cammini convergenti, sicché la Janua Inferni, in un misterioso ruolo lunare suggerito da Inf XX 127-129, si pone essa stessa come simbolo ecatico, pur se ormai definitivamente scardi- nata dal Risorto (cfr. SORO 2010). 27 Beati quorum remissae sunt iniquitates e quorum tecta sunt peccata (Biblia sacra iuxta vulga- tam versionem, 1969, ad loc.).

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ANTONIO SORO

«bella donna» non abbia nulla a che vedere, anzi sia antitetica alla signora della morte e delle tenebre, della quale il Medioevo conobbe solo il lato te- tro e macabro, e non quello benigno, attestato da fonti greche (vd. n. 1). In effetti, l’ipotesi più plausibile è che l’acrostico alla rovescia non significhi la presenza di Ecate, ma piuttosto la di lei scomparsa, la sua sparizione dalla scena del mondo esattamente all’ingresso nell’Eden. Ma se il riferimento non è a Matelda, come rintracciare la dea ctonia? Va da sé che una divinità pagana, e perlopiù maligna, non solo non può essere presente del secondo e nel terzo regno, ma può comparire nel poema solo come personaggio de- moniaco o per figurazioni retoriche. Un tempo i critici si limitavano al noto giudizio di Dante, che classifica gli dèi pagani come «falsi e bugiardi», nelle parole di Virgilio in Inf I 72; di conseguenza nella Commedia la contamina- zione, coi mitici trasformati in demoni, risulterebbe semplice imitazione let- teraria del mondo classico. Padoan, forse per primo, si accorse che «Dante non poteva mescolare demonologia cristiana e invenzioni poetiche pagane per ragioni meramente letterarie».28 L’errore, comune a tutti i popoli ad ec- cezione degli Ebrei, fu di non saper spiegare correttamente i fenomeni na- turali, nonché gli eventi miracolosi. Fu così che le forze della natura e gli influssi astrali vennero personificati in divinità. Ancora Padoan commenta- va:

…poiché accanto alla divina Provvidenza e agli angeli agiscono da sempre anche le forze del male, anche queste si manifestarono a loro volta ai pagani mediante per- sonificazioni e interventi miracolosi (magici): e quindi per suggestione diabolica – fu l’interpretazione preferita dai Padri della Chiesa – si adorarono entità che erano in realtà emanazioni demoniache. Dii gentium daemonia: non dunque, sic et simpliciter, quelle divinità pagane, false e bugiarde (Inf I 72), erano frutto di pura immaginazio- ne e fantasia, bensì rappresentavano una realtà male interpretata, che perciò richie- deva altra spiegazione e altri nomi.29

Infatti in Cv II IV 2-6 Dante spiega che

li movitori di quelli [i cieli] sono sustanze separate da materia, cioè Intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. […] Altri furono, sì come Plato, […], che

28 PADOAN 1970, p. 372. 29 Ivi, p. 373.

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puosero non solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti del cielo, ma e- ziandio quante sono le spezie de le cose […]. E volsero che sì come le Intelligenze de li cieli sono generatrici di quelli, ciascuna del suo, così queste fossero generatrici de l’altre cose ed essempli, ciascuna de la sua spezie; e chiamale Plato “idee”, che tanto è a dire quanto forme e nature universali. Li gentili li chiamano Dei e Dee, av- vegna che non così filosoficamente intendessero quelle come Plato, e adoravano le loro imagini…

Naturalmente, i personaggi demoniaci non possono che trovarsi nell’Inferno. Di conseguenza, Ecate di Pg XXVIII non può che essere una figurazione retorica, nella quale il mito antico, erronea interpretazione di una forza cosmica, è alfine restituito alla sua realtà. L’acrostico così non racchiude più alcuna entità personale, ma è da leggersi allegoricamente, con quella «allegory of theologians» nella quale «the first or literal sense cannot be fictive but must be true and, in this instance, historical».30 Dante giunge al confine dell’Eden – superando un crocicchio con «un rio», fino a giunge- re alla «gran variazion d’i freschi mai» che contraddistingue una natura pura per noi perduta – da un ambiente descritto riecheggiando Inf I 2-10. Infatti, al v. 26 Dante si dice trasportato «dentro a la selva antica» (corsivo mio) che, osservava già Ragni, con buona probabilità rimanda ad Aen VI 268-271; in particolare si legge che «ibant obscuri […] sub luce maligna est iter in sil- vis». Ma a sua volta i primi versi dell’Inferno svelano parallelismi testuali con quelli di Pg XXVIII. Infatti «selva antica» al v. 26, da intendersi alla lettera come Eden, ricorda le «alacris silvas» virgiliane di Buc V 58 e, nonché le mi- tiche «Alcinoi silvae» di Georg II 87. Ancora, in Buc III 55-57 «…in molli consedimus herba: | et nunc omnis ager, nunc omnis partitur arbos, | nunc frondent silvae» (corsivo mio). Ma è anche vero che «antica» è la selva, del già citato Met. V 388-395, ricorda i «Triviae lucos» di Aen VI 13, nei quali si ad- dentrano Enea e uno «iuvenum manus» al suo seguito, appena sbarcati sul- la costa di Cuma. Inoltre, «antiquam silvam» compare, come notò già Tommaseo, in Aen VI 179, laddove Enea, dopo avere ascoltato le profezie della Sibilla, si appresta ad entrare nella grande e profonda caverna di Aor- no (vv. 236-242), e poco dopo, compiuti i sacrifici, attende l’arrivo di Ecate: «visaeque canes ululare per umbram | adventante dea» (vv. 257-258). La «selva antica» dell’Eden dunque è in parallelo con la «selva oscura», ma si

30 SINGLETON 1954, p. 87.

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ANTONIO SORO tratta di un parallelismo antitetico. Ancora, a prova del fatto che l’analogia sia ricercata, si noti che in Inf I 10 Dante esprime figurativamente il sonno della coscienza riferendo: «Io non so ben ridir com’ i’ v’intrai», riprendendo un topos scritturale e patristico.31 Ma «Dante costruisce un contrasto implici- to tra questa scena e quella in cui era ritratto il suo arrivo nel mondo del peccato nel primo canto del poema».32 Infatti, particolare che già colsero Umberto Bosco e Giovanni Reggio, il parallelismo antitetico appare imme- diato tra il citato verso e i vv. 22-24: «Già m’avean trasportato i lenti passi | dentro a la selva antica tanto, ch’io | non potea rivedere ond’ io mi ‘ntrassi» (corsi- vi miei). Naturalmente l’interrogativo che affiora è anzitutto il perché di tali ricercate somiglianze. Alcuni anni fa Soro, in una nota,33 focalizzò l’attenzione sul termine utilizzato da Dante nel primo canto dell’Inferno per indicare il pendio alla base di un colle: «piaggia». I commentatori interpreta- no basandosi sul latino medievale plagia, «pendio»; «subordinatamente “co- sta”, “spiaggia” (plagia maris)».34 Dopo avere esaminato le traduzioni possi- bili (e opportune), si considerava che «spieggia» era la traduzione corretta per Inf III 92 («per altra riva verrai a piaggia»), dove lo stesso Blasucci anno- tava le diffuse difficoltà di identificazione logistica; se cioè la spiaggia allusa da Dante indicasse la foce del Tevere o piuttosto la riva dove sbarcano le anime del Purgatorio. Come si scriveva allora, proprio quest’ultima acce- zione, che sembrerebbe non essere affatto pertinente con il v. 29 del primo canto – poiché vi è una selva oscura ma non c’è nessun mare –, in realtà ha una relazione tematica stretta con le due terzine precedenti (vv. 22-27), nei quali l’animo di Dante, «ch’ancor fuggiva» (v. 25), è paragonato al naufrago che, scampato al mare e guadagnata la riva, ancora col respiro affannoso, si volta verso l’acqua pericolosa e guarda fissamente. Dopodiché, si conside- rava il fatto che nel Purgatorio Dante ha dinanzi una «montagna», che a Ulis- se parve «alta tanto | quanto veduta non avea alcuna” (Inf XXVI 134-135).

31 Cfr. ad es. Mc 13, 35-36: «Vigilate ergo; nescitis enim quando Dominus domus veniat, […]; ne, cum venerit repente, inveniat vos dormientes» (corsivo mio). Cfr. inoltre AUGUSTINUS, Enarr. in Ps 62, 4: «Quid est vigilare? Utique non dormire. Quid est dormire? Est somnus animae, est somnum corporis. […] Illud autem cavere debemus, ne ipsa anima nostra dormiat» (in SANT’AGOSTINO 1970, p. 394). 32 HOLLANDER 2011, II, p. 240, n. ai vv. 22-24. 33 «…ripresi via per la piaggia diserta» (Inf 1.29), «Electronic Bulletin of the Dante Society of America» [=EBDSA], 2010. 34 BLASUCCI in Enciclopedia dantesca, IV, 1970, ad voc.

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Ma, si scriveva, «nel primo canto infernale rimane l’ambiguità semantica di “colle” sospeso tra collis e mons».35 Così, se Dante comincia la sua peregrina- zione vagando per la «piaggia diserta», una «diserta piaggia» compare in Pg II 62. Sulla «piaggia» marina approdano le anime penitenti al v. 50, nel me- desimo canto: una spiaggia anch’essa deserta («lito diserto», I 130; del resto al v. 118 il poeta ricorda che «noi andavam per lo solingo piano»). Le nume- rose affinità inducevano a concludere che Dante avesse inteso costruire due scenografie assai simili. La similitudine del naufrago al primo canto, dove il suo animo «si volse a retro a rimirar lo passo | che non lasciò già mai per- sona viva» (vv. 26-27), ritorna anche nelle altre due cantiche. Nel Purgatorio, in I 130-132, «Venimmo poi in sul lito diserto, | che mai non vide navicar sue acque | omo, che di tornar sia poscia esperto». In Pd I 7, invece, Dante orgogliosamente proclamava: «L’acqua ch’io prendo già mai non si corse». Ci sono dunque parallelismo strutturali, ambiguità semantiche, nessi sceno- grafici e lessicali che non paiono affatto accidentali, ma piuttosto finalizzati. Il duplice significato di «piaggia», “spiaggia” o “pendio” ai piedi del «colle»; quest’ultimo traducibile sia come “collina” che come “montagna”, rende volutamente ambigue e persino equivocabili le scene, al punto da rassomi- gliare la vicenda a un evento onirico. Un’atmosfera da sogno, o ancor me- glio da ‘illusione’: questa sembra essere la parola chiave; un’illusione che pe- rò sfuma d’improvviso dal v. 32 con l’apparir della prima fiera che sbarra il passo al poeta. Lonza, leone, lupa fanno rovinare il poeta «in basso loco» (v. 61). «il peccatore si illude facilmente di poter ritornare alla santità e alla pu- rezza senza passare per l’umiliazione. Ma «ab exemplo ipsius, ad divinitatem ipsius. Exemplum enim tibi fecit humilando se. Nam qui nolebant a conval- le plorationis ascendere, compressi sunt ab ipso. Praepropere enim volebant habere ascensum, honores altos cogitabant, viam humilitatis non cogitabant».36 Sembra dunque per rendere partecipe il lettore di questa tra- gica illusione che il poeta tratteggia la scena conferendole una vaga somi- glianza con la spiaggia alla base della montagna del secondo regno. È così che il poeta-naufrago, soggiogato dal peccato, si convince di essere già

35 SORO 2010, cit. 36 Enarr. in Ps. 119, 1, in SANT’AGOSTINO 1970, p. 1406. Trad. it.: «dagli esempi di Cristo uomo devi salire alla sua divinità. Egli si è fatto tuo modello umiliandosi: e per questo quei tali che non volevano inizia- re la loro ascesa partendo dalla valle del pianto furono da lui risospinti in basso. Volevano ascendere troppo in fretta, pensavano agli onori delle altezze senza pensare alla via dell'umiltà» (p. 1407).

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ANTONIO SORO all’inizio del cammino di purgazione e, quasi spavaldamente, inizia la salita. Ma la realtà corrotta fa svanire velocemente il sogno: «la spiaggia è in realtà solo una piaggia, il mons è solamente un collise, dunque, quello non è il purga- torio, ma è purtroppo la valle che fa precipitare le anime verso la perdizio- ne; la via dell’inferno si presenta piena di incanti, il male si traveste da sal- vezza per perdere le anime».37 La conclusione era immediata: l’incertezza semantica dei versi di Inf I 22-30 prolunga la similitudine che dovrebbe terminare al v. 27, generandone un’altra complementare che si svela come una vera e propria anfibolia, che sussiste a condizione che si accetti «piag- gia» nel suo duplice e irriducibile significato, di pendio e di spiaggia. In tal modo Dante ha saputo rendere l’astuzia maligna. In che tipo di errore può essere incorso Dante? Sul piano figurativo è l’errore dell’intelletto sui dati annessi alla quiddità:

Obiectum autem proprium intellectus est quidditas rei. Unde circa quidditatem rei, per se loquendo, intellectus non fallitur. Sed circa ea quae circumstant rei essentiam vel quidditatem, intellectus potest falli, dum unum ordinat ad aliud, vel componen- do vel dividendo vel etiam ratiocinando. […]. Per accidens tamen contingit intellec- tum decipi circa quod quid est in rebus compositis; non ex parte organi, […]; sed ex parte compositionis intervenientis circa definitionem.38

In maniera analoga, si ritiene, il poeta ha descritto il paesaggio e gli acca- dimenti in prossimità dell’Eden: in maniera tale, cioè, da comunicare al let- tore la difficoltà umana di concepire finalmente redenta; tanto che, poco prima di incontrare Matelda, in cuor suo si prepara all’incontro con Ecate. Ecate dunque compare sul piano immaginifico, allucinatorio. Infatti, pro- viamo a confrontare i versi 1-36 del XXVIII canto coi versi del VI canto dell’Eneide, così da osservare le numerose affinità, che sembrano costituire uno schema prestabilito. Già l’incipit ci riporta al poema virgiliano: «Vago già di cercar dentro e dintorno | la divina foresta spessa e viva” (vv. 1-2). Jacopo della Lana (1324-1328) spiegava l’aggettivo divina associato alla foresta traducendo «luo- go virtuoso» (ad loc.). Pietro Alighieri (1359-1364) è il primo a riconoscervi l’Eden («auctor fingit se ingredi locum terrestris Paradisi», ad loc.). Forse il

37 SORO 2010, cit. 38 S. Th. I q. 85 a. 6.

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primo a mettere chiaramente a raffronto la selva oscura e la «divina foresta» fu Alessandro Vellutello (1544):

...vedemmo al principio de la precedente cantica, che 'l poeta, per la selva oscura, ne la qual si ritrovò havere smarrito la dritta via, essere stata intesa da lui per la selva erronea de la presente vita, in la qual allhora egli si ritrovò esser invilupato; ma con l'aiuto di Virg. essendo prima disceso a l'Inf., ciò è, mediante l'humana ragione, ha- vendo conosciuto la natura d'ogni vitio, e poi a purgarli havendo salito l'asprissimo monte del Purg., èssi ultimamente condotto al paradiso terrestro, ciò è, a lo stato de la innocentia, et a l'habito de la virtù intesa per essa divina foresta, la qual poco di sotto, et in altri luoghi, vedremo esser da lui similmente domandata selva, perchè, sì come prima fu smarrito ne la selva de gli errori e de' vitii, così da quelli purgato, ha ritrovato, come vedremo, la selva de le virtù.

Per lungo tempo si continua con la stessa interpretazione – del resto corretta dal punto di vista dell’allegoria teologica –, con riferimento esplici- to a Gn I, 2. Tuttavia, il primo che opera un confronto per antitesi con a selva infernale è Ernesto Trucchi (1936): «I tre aggettivi uniti al nome della foresta, divina spessa e viva, mostrano l'antitesi fra questa e la selva, selvag- gia, aspra e forte del primo canto dell'Inferno» (ad loc.). Il suggerimento è ripre- so dal Momigliano (1946-1951), che glossa così la dittologia: «Spessa e viva: […]. Confronta con la «selva selvaggia ed aspra e forte» del I canto dell'In- ferno». Umberto Bosco e Giovanni Reggio (1979) considerano sia la fonte veterotestamentaria che la referenza endoforica: «la divina foresta: perché l'E- den è stato direttamente creato, anzi piantato da Dio (Gen II 8). La foresta del Paradiso terrestre è in evidente contrapposizione con la selva selvaggia del I canto dell'Inferno (si noti inoltre la coppia aggettivale in entrambi i casi: a- spra e forte quella simboleggiante la vita peccaminosa; spessa e viva la foresta edenica) e tale contrapposizione non va intesa soltanto nel senso letterale, ma anche in quello allegorico» (ad loc.). Inoltre esiste una relazione anche «divina foresta» suggerisce «Triviae lucos» del v. 13 (e del resto Didone «i- nimica refugit | in nemus umbriferum» (vv. 472-473; corsivo mio). Cancellati i sette peccati capitali, l’ulteriore passo necessario sarà l’incontro con Beatrice al XXX canto, e il candore dell’anima sarà dichiarato solo nell’ultimo verso dell’ultimo canto («puro e disposto a salire a le stelle»). Dante si trascina an- cora appresso gli spettri, i fantasmi della vita terrena e di peccato, come confermerà il fraintendimento con Matelda, verso la quale rivolgerà uno sguardo carnale, prima di realizzare che la bellezza di Matelda è una bellezza

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ANTONIO SORO trasfigurata. Ma allora perché proprio alla soglia dell’Eden compare, come reminiscenza, la divinità antica della morte? Il fatto che Dante scriva il suo nome alla rovescia sembra, in questo caso, indicare una scomparsa, più che un’apparizione. Rammentiamo infatti che solo col peccato «Invidia autem diaboli mors introivit in orbem terrarum: imitantur autem illum qui sunt ex parte illius».39 Ma, ammonisce San Paolo, «Novissima autem inimica de- struetur mors: omnia enim subjecit pedibus ejus».40 Essendo la morte l’ultimo nemico, non sorprende più che essa si trovi esattamente alla soglia dell’Eden, al cui confine Dio aveva preannunciato all’uomo la morte: che «“ Ecce homo factus est quasi unus ex nobis, ut sciat bonum et malum; nunc ergo, ne mittat manum suam et sumat etiam de ligno vitae et comedat et vivat in aeternum!” Emisit eum Dominus Deus de paradiso Eden».41 Riper- corso quel cammino a ritroso, dinanzi a Matelda e alla natura trasfigurata la morte non è più. In questo senso va letto probabilmente l’acrostico alla ro- vescia, e ciò in conformità alla tradizione medievale, che non avrebbe potu- to accettare in alcun modo una presenza maligna pagana nel secondo regno, se non ridotta a puro simbolo, cristianizzata e ormai del tutto inoffensiva.

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UNA NOTA SULLA CANZONE BEN MI CREDEA (Rvf 207)

Antonio Di Silvestro

La canzone 207 appartiene a uno stadio interno a quella che, nella rico- struzione di Wilkins, è la cosiddetta forma Pre-Malatesta. Si tratta, nello specifico, di testi copiati tra il settembre e l’ottobre 1368, quando Petrarca, lasciando nella prima parte del Vat. Lat. 3195 lo spazio libero per inserirvi in una fase successiva il sonetto 199, trascrive i componimenti dal 200 al 207, mentre nella seconda parte, in cui era già presente la successione 264- 321, aggiunge i nn. 322-326, più un componimento non identificato in quanto sottoposto a rasura. È difficile avanzare ipotesi oggettivamente fondate sulla coerenza di forme intermedie come quella descritta sopra, attribuendo a Ben mi credea il ruolo di testo-ponte tra prima e seconda parte della raccolta. A quest’altezza cronologica, infatti, la campagna di trascrizioni effettuate da Petrarca e Malpaghini non configura l’assetto di un canzoniere seppur provvisorio, a maggior ragione se si pensa che nella canzone, testo eminentemente retro- spettivo, affiorano reminiscenze e allusioni che rimandano alla lirica troba- dorica, siciliana e ai suoi sviluppi cavalcantiani: il «ben amar» (v. 79), il «Ser- vo d’amor» (v. 97), il portare tormento e chiedere perdono del peccato al- trui (vv. 79-80).1 Per certi versi, anzi, Ben mi credea appare una sorta di proto- canzone degli occhi, rispetto alla quale le cantilene contengono una ri- formulazione già avanzata della dinamica dello sguardo come visione beati- ficante e sublimante. A questa linea interpretativa può dare un certo sostegno la diacronia in- terna di testi pur così distanti nell’ordito dei Fragmenta. La composizione del trittico 71-73 va ricondotta non tanto agli anni avignonesi (come sostiene Martinelli),2 quanto piuttosto agli inizi del 1350, e si intreccia con quella di

1 PETRARCA 2005, p. 961. Per le citazioni dal Canzoniere si fa riferimento a PETRARCA 2008. 2 MARTINELLI 1977, pp. 103-148.

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ANTONIO DI SILVESTRO

Ben mi credea per il fatto che nel Vat. Lat. 3196 la c. 6, che ospita una primi- tiva stesura dei vv. 25-30 della canzone 73, e la c. 15, che contiene sul recto le prime tre stanze della canzone 207, sono entrambe occupate sul verso dall’abbozzo di un medesimo testo, ossia la ‘familiare’ 6 del libro XVI. Quest’ultima, cominciata a c. 15v, con la data (registrata da una postilla) del 15 febbraio 1353, fu continuata, essendo appunto il recto occupato dalla canzone 207, sulla c. 6.3 Su quello che è ora il recto di questo foglio si tro- vavano già vergati i citati versi di Poi che per mio destino, che quindi sono ante- riori al febbraio 1353. Per evitare sovrapposizioni e distinguere la scrittura epistolare da quella dei versi volgari, Petrarca ruota il foglio, occupandone tutto il verso, per poi sconfinare, per necessità di spazio, anche sul recto contenente i versi della terza cantilena. Tuttavia, la presenza sullo stesso rec- to di una serie di varianti evolutive incolonnate sul margine destro fa sup- porre un ritorno sul testo di Rvf 73 successivo al 1353.4 Anche per Ben mi credea un ausilio alla ricostruzione cronologica viene dagli scartafacci. Alle prime tre stanze vergate, con scrittura ben spaziata, sul recto della c. 15 vennero aggiunte - come informa la postilla vergata sul margine superiore della pagina - quelle rimanenti «usque ad complemen- tum», fino a quando tutte furono trascritte, un giorno dopo, «in ordine membranis» sul Vat. Lat. 3195.5 Se è certa la data di trascrizione con ag- giunta delle stanze IV-VII e il congedo,6 più labili sono gli elementi a soste- gno di un terminus a quo della stesura, in quanto il testo giacente sugli abboz- zi è già strutturalmente e in parte semanticamente assestato, nonostante al- cuni shifters lessicali indichino la volontà di addivenire a un preciso incastro all’interno di una sequenza testuale in via di sistemazione definitiva. L’expertise paleografica di Petrucci, fatta propria dalla Paolino, colloca la trascrizione di Ben mi credea sugli abbozzi all’altezza del 1340; pertanto la c.

3 Cfr. l’edizione dell’abbozzo in PETRARCA 1933-1942, pp. 215-219. 4 PAOLINO 2000, p. 113. 5 Questo il testo della postilla: «tr(anscripta) in alia papir(o). p(ost) .XXII. a(n)nos .1368. d(o)m(ini)co int(er) nona(m) (et) vesp(er)as .22. octobr(is) . mutat(is) (et) additis . usq(ue) ad (com)p[lem(en)tum] / (et) die lune i(n) vesp(er)is . tr(anscripta). i(n) ord(ine) m(em)branis» (Ivi, p. 270). 6 Non si vuole con questo sostenere che le stanze IV-VII siano state composte al momento della trascrizione in alia papiro. Esse probabilmente giacevano in una carta non pervenuta, e ven- nero prelevate da questa per essere poi contestualmente modificate e aggiunte («mutatis ed addi- tis»).

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15r rientrerebbe nel novero delle carte più antiche dell’elaborazione del Canzoniere (1336-1338).7 Questo anche se la postilla petrarchesca ricondu- ce la trascrizione al 1346, essendo nel 1368 il testo «in alia papiro post XXII annos». Su questa indicazione si appunta l’obiezione di Petrucci,8 che ritiene «XXII» un lapsus per «XXXII». In realtà non vi sono argomenti per soste- nere una cronologia così alta, mentre una data ‘certificata’ dall’autore stesso come il 1346 rende plausibili certe connessioni intertestuali con la gestazio- ne delle cantilenae oculorum. Ipotizzata sulla base di questi dati l’anteriorità di Ben mi credea, o almeno delle prime tre stanze, rispetto al trittico degli occhi, si potrebbe osservare l’iter che la funzione dello sguardo compie in alcuni punti di stazionamento del viaggio interiore petrarchesco. Più che sugli effetti, nella canzone la fe- nomenologia visiva si concentra primariamente sulle dinamiche del vedere. Insomma, una sorta di archeologia dello sguardo di Laura, che diviene da- tore di vita, e che nutre la vita del poeta (la polarità fame amorosa / nutri- mento è una delle più forti isotopie lessicali della canzone): «dal suo bel vol- to / L’involo or uno et or un altro sguardo; / Et di ciò insieme mi nutrico et ardo» (vv. 37-39). Questa storia dello sguardo ha un principio, marcato da ripetuti indicatori temporali: «Li occhi soavi […] / Furmi in sul comin- ciar tanto cortesi» (vv. 14 e 16); «Dal dì che ’n prima que’ begli occhi vidi» (v. 54), che richiama Poi che per mio destino: «Poi ch’io li vidi in prima» (v. 57). Se per un verso non sembra esserci traccia dell’effetto sublimante degli occhi, pur menzionati con alcuni epiteti ‘platonici’ utilizzati nelle canzoni 71-73, per l’altro appaiono in progress degli elementi che creano un paralleli- smo-opposizione con le tre cantilene. Nella prima stanza il «bel lume leggia- dro», con «lume» introdotto già in V1 al posto di «guardo»,9 si lega sia al «dolce lume» di 72, v. 2 sia agli «Occhi leggiadri dove Amor fa nido» di 71, v. 7. Nella seconda stanza, ma stavolta nel passaggio da V1 a V2, la bellezza degli occhi si intensifica con gli attributi divino e alto, contestualmente a un mutamento che sulle virtù ritemprate dell’amante fa prevalere quelle dello sguardo di Madonna: «Gli occhi soavi onde ricevon vita / Tutte le mie ver-

7 PAOLINO 2000, pp. 92-95. 8 Seguito anche da RAFTI 1995, pp. 199 e 219-220. 9 Per comodità di esposizione utilizzeremo le sigle V1 per le carte degli abbozzi e V2 per il Vat. Lat. 3195, seguendo l’edizione di ROMANÒ 1955.

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ANTONIO DI SILVESTRO tù di sue [da lor] bellezze / Furommi [da Mi furo] al cominciar tanto corte- si» → «Li occhi soavi ond’io soglio aver vita / De le divine lor alte bellezze / Furmi in sul cominciar tanto cortesi» (vv. 14-16). L’acquisto di questi epi- teti è un ulteriore segno di ‘sorellanza’ con le canzoni degli occhi, nella pri- ma delle quali campeggia la «divina incredibile bellezza» di cui il poeta ra- giona (71, v. 62). Nella terza stanza le «angeliche faville» a cui l’anima «corre», in contrasto con l’io del poeta che come «cera» torna al «foco» (vv. 30-31), richiama le «Vaghe faville, angeliche, beatrici», dove si accende un piacere «Che dolce- mente […] consuma e strugge» l’amante (72, vv. 37-39), ma anche le «vaghe angeliche faville», lezione appartenente alla terzina rifiutata di 192. Nella stessa stanza, l’uso del verbo involare per indicare la ‘sottrazione’ degli sguardi alla donna: «Così dal suo bel volto / L’involo or uno et or un altro sguardo» (vv. 37-38) richiama la terza cantilena: «Lasso, ma troppo è più quel ch’io ne ’nvolo / Or quinci or quindi» (73, vv. 52-53), con evidente corri- spondenza con la coppia di avverbi e “uno” e “altro”.10 Anche in questo caso vi è un acquisto nel passaggio da V1 a V2, in quanto i vv. 36-37 recita- vano inizialmente: «Più tosto è giunto ove men froda teme / Così contra sua speme», con la rima in –eme che verrà soppressa. Nella quinta stanza, la ricerca impossibile dello sguardo appagante: «Per cercar terra et mar da tutti lidi, / Che mi fecer cangiar vita et costume?» (vv. 56-57) richiama ancora l’ultima cantilena, dove si descrive l’inchiesta frustrata degli occhi beatificanti: «Dico: se ’n quella etate / Ch’al vero honor fur gli animi sì accesi, / L’industria d’alquanti huomini s’avolse / Per diversi paesi, / Poggi et onde passando, et l’honorate / Cose cercando, e ’l più bel fior ne colse» (vv. 31-36).11 Infine, nell’ultima stanza, il «troppo lume» da cui il poe- ta doveva distogliere lo sguardo per sfuggire alla tentazione di Laura-sirena ricorda il «troppo lume» che supera «l’umana vista» e che “annoda” la lin- gua, impedendo di tessere una lode fatta di «parole…nuove» (73, vv. 79- 83). Scrutando i rimandi reciproci, è facile osservare che temi, immagini e lessemi delle canzoni degli occhi si ritrovano nelle prime tre stanze e nella quinta di Ben mi credea, con una ‘presenza’ che si incrementa seguendo

10 PETRARCA 2005, p. 966. 11 Ivi, vol. II, p. 967.

78 l’ordine stesso delle tre canzoni, di cui Poi che per mio destino è maggiormente fruita nella terza e quinta stanza. Leggendo però questi dati nella diacronia da noi ipotizzata, che vede l’anteriorità della canzone rispetto al trittico, si potrebbe immaginare che Petrarca avesse ‘usato’ le prime tre stanze di Ben mi credea come palinsesto delle cantilene, appoggiandosi poi, fra le quattro stanze aggiunte, soprattutto alla quinta, da cui opera ripetuti prelievi in fun- zione di Poi che per mio destino. Altri interventi sulle prime stanze rafforzano la natura retrospettiva di Ben mi credea, canzone con la quale Petrarca ripercorre, anzi anticipa il «gio- venile errore» del sonetto proemiale, a cui sembra porgere (lo ha notato Santagata)12 il coté della lettura a dispetto di quello dell’ascolto-voce. Così ai vv. 4-6: «Or poi che dond’io viva non impetro / Come far soglio, a che condotto m’àj / Amor tu ’l sai che tal arte m’insegnj» (V1) → «Or poi che da madonna i’ non impetro / L’usata aita, a che condutto m’ài, / Tu ’l vedi amor, che tal’arte m’insegni» (V2). L’introduzione di madonna è frutto di una correzione introdotta su rasura direttamente sull’idiografo, al fine di rendere la richiesta di aiuto una forma di appello diretto all’altro. Il v. 13, come recita la postilla che lo accompagna («hoc addo. nunc .1368. Iovis post vesperas. octobris .19.»), è un’aggiunta posteriore, porta- trice di una serie di soluzioni alternative accompagnate dal consueto hic pla- cet: «che ’n gioventù peccar [vel fallire] è men vergogna»; «giovenil peccato [vel fallir] è men vergogna»; «che ’n gioventù fallir è men vergogna». Quella che era una soluzione opzionale, ossia il verbo fallire, viene promossa a te- sto; in tal modo Petrarca, e insieme con l’aggettivo giovenile, preferito al più prosastico gioventù, fissa nella ne varietur due temi-chiave del sonetto proe- miale, ossia il «giovenile errore» (qui un più deterministico fallir) e il «Di me medesmo meco mi vergogno». Altro luogo di forte polarizzazione di senso sono i vv. 25-26, il primo dei quali reca la lezione «Così poi che la vostra man m’è chiusa», con le al- ternative «poi che m’ebbe pietà la sua man chiusa», «pietate e voi m’avete la man chiusa», e ancora «Poi che vostra pietosa man m’è chiusa», per giunge- re in V2 a «Se le man di Pietà Invidia m’à chiuse». Si passa dunque attraver-

12 PETRARCA 1996, p. 897.

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ANTONIO DI SILVESTRO so un crescendo di attori: la donna; Pietà con le sue mani prima chiuse13 e poi congiunte; nuovamente la sola donna, con pietà che diventa attributo delle mani; infine l’Invidia, nuovo interlocutore da intendere come «disa- more verso il bene altrui».14 Al v. 26 la «fame» si approfondisce in V2 come «Fame amorosa», con rimando alla «fames animorum» dell’agostiniano De vita beata15 e al campo semantico della fame-nutrimento (ad es. i «frali et fa- melici miei spirti» del v. 60). Al v. 36 il rifacimento sopprime «froda», forse contestualmente all’eliminazione di «inganni» al v. 2 (una delle primissime correzioni su V1), anche se il sostantivo verrà rimesso in circolo nel Canzo- niere a contrappeso di «Fame amorosa»: «O chiuso inganno et amorosa froda» (253, v. 7). Elementi di tangenza tra Ben mi credea e le canzoni degli occhi sono se- gnalati nei commenti quattro-cinquecenteschi. Per il v. 55, «[gli occhi] Che mi fecer cangiar vita et costume» Gesualdo ipotizza due spiegazioni, nella prima delle quali («havendolo tolto da la volgare vita»; la seconda parafrasi risulta incongrua, in quanto il verso viene legato sintatticamente al successi- vo «Per cercar terra et mar da tutti i lidi») chiama in causa, tra gli altri ri- mandi, proprio Gentil mia donna: «Questa è la vista ch’a ben far m’induce, / E che mi scorge al glorioso fine, / Questa sola dal vulgo m’allontana» (72, vv. 7-9).16 Inoltre, quando colui che si appaga «di foco et lume» afferma che non si addice ad Amore «l’esser sì parco», l’esegesi richiama Perché la vita è breve, dove la domanda rivolta ai «lumi del ciel» è dello stesso tenore di quel- la di Ben mi credea: «perché si rado / Mi date quel dond’io mai non son sa- tio?» (71, vv. 70-71).17 Anche Vellutello, sempre per la quinta stanza, cita la seconda cantilena (v. 61 e sgg.), dove il poeta dice di sforzarsi al fine di esse- re adeguato all’«alta speranza» e al «foco gentil» di cui arde.18

13 L’immagine delle mani di pietà è in Rvf 322, riferita alla fattura dei versi: «Mai non vedran- no le mie luci asciutte / con le parti de l’animo tranquille / Quelle note, ov’Amor par che sfavil- le, / Et Pietà di sua man l’abbia construtte» (vv. 1-4). 14 PETRARCA 2005, p. 964. 15 Ibidem. 16 Il Petrarcha colla spositione di Misser Giovanni Andrea Gesualdo, Stampato in Vinegia, per Gio- vann’Antonio di Nicolini et fratelli da Sabbio, 1533, c. 256v. 17 Ivi, c. 257r. 18 Il Petrarca con l’espositione d’Alessandro Vellutello e con più utili cose in diversi luoghi di quella novissi- mamente da lui aggiunte et ristampate, In Vinegia, per Giovann’Antonio di Nicolini da Sabio, 1541, c. 124v.

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A differenziare Ben mi credea dal trittico delle cantilene, oltre che ai tratti sopra accennati di un ‘protostilnovismo’, con il conseguente linguaggio del- la servitù d’amore che echeggia nel finale appello al lettore-vassallo, è anche l’andamento sentenzioso (già notato da lettori come Muratori), che ritma lo snodarsi della canzone soprattutto a partire dalle stanze aggiunte (con il preludio ‘giovanile’ di «Che ’n giovenil fallir è men vergogna», v. 13): «Ch’un bel morir tutta la vita honora» (v. 65); «Ché ben muor chi morendo esce di doglia» (v. 91); «Ben non à il mondo, che ’l mio mal pareggi» (v. 98). Questa intensificazione aforismatica, che contrappunta i frequenti appelli ad Amore («tu ’l vedi Amor», v. 6; «Amor, et vo’ ben dirti», v. 61; «Amor, i’ ’l so», v. 68), rafforza la natura ricapitolativa del testo,19 che, nella sua dialet- tica temporale e nel suo voluto ‘sbilanciamento’ semantico, avrebbe forse potuto candidarsi a testo eponimo della sezione ‘in morte’.

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19 Questa intertestualità ‘diffusa’ veniva sottolineata da Sebastiano Fausto da Longiano, che invitava il lettore ad un giudizio cauto su un testo che nei suoi diffusi riecheggiamenti sembra cadere, ad un lettura superficiale, in qualche contraddizione: «Questa canzone è assai facile, dif- fusamente dice quel che con brevitade tocca qua e là, per tutto ’l canzoniere, et a chi di ciò non ha riguardo parrà che spesso incorra in qualche contrarietade. Pone dui tempi e dui modi, l’uno dall’altro molto differente» (Il Petrarcha col commento di M. Sebastiano Fausto da Longiano con rimario et epiteti in ordine d’alphabeto. Nuovamente stampato, in Vinegia a San Moyse, al segno dell’Angelo Raphael, per Francesco di Alessandro Bindoni, e Mapheo Pasini, compagni, 1532, cc. 198v-199r).

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ANTONIO DI SILVESTRO

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DAMNATUM E ABSOLUTUM: IL SONETTO VOGLIA MI SPRONA (RVF 211)

Antonio Di Silvestro

La particolarità del sonetto Voglia mi sprona nella storia redazionale dei Fragmenta sta nel suo essere collegato a testi degli abbozzi destinati alla Forma Chigi, e presenti nelle cc. 3, 4 e 5 del Vat. Lat. 3196. Si tratta di una ‘giunta’ alla forma Pre-Chigi o Correggio1 (che fa capo a due raccolte di ri- ferimento),2 formata in totale da 20 sonetti, dai quali solo il 211 verrà esclu- so. I testi in questione, distribuiti nelle citate carte degli scartafacci, sono: 145-147, 150-156 (quest’ultimo in doppia redazione), 159-160, 211, 297- 298, 300-303, oltre alla ‘dispersa’ Quella che ’l giovenil mio core avinse. Voglia mi sprona si trova sul verso della c. 5, sulla quale sono vergati testi destinati all’ampliamento della sola prima parte. Questa carta viene riempita da Petrarca contestualmente alla 3v, dove egli trascrive la stesura definitiva di I’ vidi in terra angelici costumi.3 Il sonetto 211 è coinvolto quindi, a partire dagli scartafacci, in uno dei nuclei genetici più importanti nella trasformazione ed evoluzione dei Frag- menta. Tanto più significativa è la sua presenza in questa ‘staffetta’ tra i fogli del Petrarca scrittore e copista, in quanto esso è interessato da un ripescag- gio tardivo dopo un lungo oblio.4 La postilla che accompagna il nostro so- netto recita infatti: «Miru(m) h(un)c ca(n)cell(atum) (et) da(m)natu(m) p(ost) m(u)ltos a(n)nos ca(s)u relegens absolvj. (et) tr(anscripsi). i(n) ord(ine) stati(m), no(n) obst(ante) .1369. Iu(n)ij .22. hora .23. ven(er)is».

1 Sulla Pre-Chigi cfr., anche per ulteriore bibliografia, SANTAGATA 2004, pp. 139-183. 2 Il riferimento è a WILKINS 1951, da integrare con M. Santagata, Le redazioni, in PETRARCA, Canzoniere/Santagata, pp. CCVI-CCVII. 3 Per la ricostruzione dei tempi di scrittura delle cc. 3-5 cfr. PAOLINO 2000, pp. 119-123. 4 Scorrendo le postille petrarchesche, non sono in verità molti i componimenti coinvolti in questo tardivo ‘pentimento’ e riassunzione nel corpo testuale del Canzoniere: tra essi il primo dei sonetti del guanto, O bella man (199), che riemerge dopo una notte ‘insonne’ in quanto «vetustis- simus ante XXV annos», e che reca una datazione (19 maggio 1368) abbastanza vicina a quella di Voglia mi sprona, oltre a presentare una dinamica di revisione che non si arresta agli abbozzi, asse- standosi solo nell’idiografo.

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L’autore, dopo aver condannato e conseguentemente accantonato per molti anni il sonetto dal costruendo liber, lo rilegge «per caso», recuperando la po- esia e trascrivendola in pulito sul Vat. Lat. 3195. Una vicenda, inquadrabile nella complessa dinamica di rilettura-riscrittura del Petrarca, che molto so- miglia alla ‘mitizzazione’ del destino della propria lirica nell’epistola di aper- tura delle Familiares:

Confusis itaque circumventus literarum cumulis et informi papiro obsitus, primum quidem cepi impetum cuncta flammis exurere et laborem inglorium vitare; deinde, ut cogitationes e cogitationibus erumpunt, ‘Et quid’ inquam, ‘prohibet, velut e spe- cula fessum longo itinere viatorem, in terga respicere et gradatim adolescentie tue curas me- tientem recognoscere?’ Vicit hec sententia; sicut enim non magnificus, sic non inamenus labor visus est, quid quo tempore cogitassem recordari. [5] Sed temere congesta nullo or- dine versanti, mirum dictu quam discolor et quam turbida rerum facies occurreret; ut quedam, non tam specie illorum quam intellectus mei acie mutata, vix ipse cognoscerem; alia vero non sine voluptate quadam retroacti temporis memoriam excitarent.5

Questo passo abbastanza conosciuto esplicita un nodo di riflessioni che sono implicate nel damnare e nell’absolvere della postilla (con cui condivide lo ‘stupore’ suggerito dal mirum): lo sguardo retrospettivo sulla propria giovi- nezza simile a quello del viandante che osserva da un’altura; il desiderio di ricostruire i pensieri di un tempo; il fatto che a cambiare sia l’autore-lettore, e non l’opera. Questa interpretazione della rilettura (e revisione) di Voglia mi sprona diviene ancor più persuasiva se pensiamo che in fase di trascrizione in ordine si rafforza la facies calendariale del sonetto: Petrarca infatti interviene in extremis sull’idiografo vaticano, sostituendo su rasura alla primitiva ver- sione del v. 12 l’indicazione dell’anno «Mille trecento ventisette»,6 rimanen- do invece immutata la segnalazione nel verso successivo della feria sexta apri- lis: «Su l’ora prima, il dì sesto d’aprile». Peraltro, alla scansione epigrafica del genetliaco amoroso dell’ultima terzina fa da pendant la nota funebre del son. 336, trascritto (secondo la ricostruzione di Wilkins) tra il 1369 e il 1371-72:7

5 PETRARCA, Rerum familiarium libri, in Opere, pp. 241-242 (corsivi miei). 6 Per le citazioni dal Canzoniere si fa riferimento a PETRARCA, Rerum vulgarium fragmen- ta/Savoca. 7 WILKINS 1951, p. 175. Tornami a mente è il primo della serie dei 31 componimenti del Vat. Lat. 3195 sottoposto a riordino da Petrarca attraverso una numerazione araba. Il son. 336, in- sieme alla Canzone alla Vergine, conserva ab origine la sua posizione.

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«Sai che ’n mille trecento quarantotto, / Il dì sesto d’aprile, in l’ora prima, / Del corpo uscìo quell’anima beata». Ritorniamo all’‘archeologia’ del testo. Con le cc. 3-5 degli abbozzi, che preparano il passaggio verso la forma Chigi, siamo (giusta le indicazioni provenienti dalle postille) nel 1359-1360, anni in cui Petrarca, con il sonetto conclusivo della Correggio (292), aveva ipotizzato già una ‘dimissione’ dal racconto in «rime sparse» della propria vita dimidiata tra cielo e terra, tra peccato e redenzione. Un sonetto come Voglia mi sprona si poneva tuttavia ben oltre la storia narrata nella Pre-Chigi, a maggior ragione perché in aper- tura esso esalta la forza passionale ma distruttiva di una pulsione d’amore priva (per dirla col Dante della Vita nova) del «fedele consiglio della ragio- ne». Un dato tanto più degno di nota se si considera che buona parte dei testi presenti nella citata sezione degli scartafacci si inserisce in un ‘ciclo’ di lode degli occhi di Laura (154-160), al cui interno è compreso quello del ‘pianto’ (155-158).8 Tuttavia Voglia mi sprona, pur nella sua eccentricità nar- rativa, è collocato in modo coerente sia nel novero dei testi precedenti (il trittico 145-147, che giace sulla medesima facciata 5r degli abbozzi), sia nel contesto generato da quelli successivi, tra cui In qual parte del ciel, in quale ydea (159). L’incipit «Voglia mi sprona» è fortemente connesso con quello di 147, «Quando ’l voler che con duo sproni ardenti», mentre il secondo emistichio del. v. 1, «mi guida et scorge» si trova nella stessa posizione sillabica di 147, v. 2: «mi mena et regge». E ancora, l’ardore del desiderio rovescia in negati- vo l’«ardente vertute» di 146, v. 1.9 Al sonetto che segue nella trascrizione in ordine10 di V2 si lega la probabile traslazione di un verso della prima stesura dell’ultima terzina, «Lasso me, insieme presi l’amo et l’esca», che diviene «In tale stella presi l’esca et l’amo» (212, v. 14). Ciò che accomuna in modo stringente i due sonetti è il riferimento cronologico nella medesima posi- zione versale: «Mille trecento ventisette, a punto» / «Così venti anni…».11

8 Sul ciclo del pianto cfr. FORESTI 1936; CHIORBOLI 1948. 9 Rosanna Bettarini segnala anche un collegamento «con il cumulo di sostanze beatificanti» di 146: vertute, onestate, valor, piacer (PETRARCA, Canzoniere. «Rerum vulgarium fragmenta»/Bettarini, vol. II, p. 986). 10 Per comodità di esposizione utilizzeremo le sigle V1 per le carte degli abbozzi e V2 per il Vat. Lat. 3195, seguendo l’edizione di ROMANÒ 1955. 11 F. Jones ritiene che il trasferimento della prima redazione del v. 14 di 211 al finale di 212 deponga per una anteriorità di Voglia mi sprona (JONES 1989).

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Se l’autodatazione di 212 lo riporta con certezza al 1347,12 per il 211 è più probabile che la data di composizione segua alla morte di Laura. Un riferi- mento sicuro per l’analoga cura dei dettagli è la nota obituaria del Virgilio Ambrosiano, probabilmente redatta nel 1351 o poco dopo.13 La seriorità di composizione rispetto alla morte di Laura si può motivare sia con la necessità di offrire una cronologia il più possibile oggettiva, frutto di una riflessione e sistemazione post eventum, sia con l’urgenza emotiva e poetica che induce l’autore a riprendere il testo, modificandolo all’altezza del 1369 per consolidare, come rilevato in precedenza, i legami con l’intelaiatura del libro. Ma ancora più emblematica è la capacità petrarchesca di incastrare, in sede di revisione in ordine, questo sonetto in un’altra serie calendariale, non meno pregnante di quella inscritta nei testi della c. 5 degli scartafacci. È probabile che questo inserimento ‘tardivo’ nella nuova sequenza del Canzoniere abbia determinato gli interventi su rasura attuati su V2, che ri- guardano i vv. 10-11, 12 e 14. L’ultima terzina, che espunge «Lasso, che in- seme presi l’amo et l’esca» (del cui trasferimento con variatio in 212 informa una postilla leggibile solo nel Casanatense: «R(escripsi) h(oc). q(ui)a removj de tr(anscriptis). q(ui)a videt(ur) e(ss)e alibi m(eliu)s.»),14 sostituendolo con il verso-data «Mille trecento ventisette a punto», è oggetto di una nota par- zialmente decifrabile negli abbozzi: «pauc(a) p(ost)ea, die .27. i(n) vesp(er)is mutavj fine», le cui difficoltà di lettura si incrementano nella parte finale, trascritta da Vattasso con «et de hoc f(inis) erit al(ius)».15 Si tratta, fatta sal- va la correzione con spostamento del verso citato, di una differente dispositio degli elementi, in una sorta di climax discendente che pone in primo piano la scansione perentoria, distesa in due versi, della feria sexta aprilis, per poi descrivere lo smarrimento del soggetto in quello che, nel sonetto 224, sarà «un lungo error in cieco laberinto». In questo modo si crea un efficace pa-

12 Ma la data di trascrizione su V2 è riconducibile allo stesso torno di tempo del son. prece- dente. 13 PETRARCA, Canzoniere/Santagata, p. 907. «Laurea […] primum oculis meis apparuit sub primum adolescentie mee tempus anno Domini M°III°XXVII° die Vj° mensis Aprilis […] hora matutina» (PETRARCA, Le postille al Virgilio Ambrosiano, vol. I, p. 390). 14 ROMANÒ 1955, p. 101; PAOLINO 2000, p. 212. 15 Ivi, p. 213. Poco convincente, in questa integrazione, il futuro erit nel contesto di un’annotazione al passato (ma così anche Ubaldini, Mestica, Appel, Salvo Cozzo e Pelaez). Più coerente la lettura «v. h. fine esset aliud» del Casanatense e di CESAREO 1898, p. 17. Le varie proposte interpretative sono elencate in ROMANÒ 1955, p. 101.

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rallelismo con la seconda terzina di 212, anch’essa aperta da un meno epi- grafico monito calendiariale («Così venti anni…»), in cui, forse per com- penso con il vocativo «O grave et lungo affanno»,16 Petrarca riversa il rifiu- tato «Lasso, che inseme presi l’amo et l’esca», privandolo dell’incipit elegiaco, sostituito dall’oggettività delle stelle-destino, e invertendo, in funzione delle rime, i due topic dell’invescamento amoroso: «In tale stella presi l’esca et l’amo» In Voglia mi sprona appare per la prima volta nei Rvf il lemma laberinto, presente già nella prima redazione della terzina finale, anche se al verso di attacco. Esso ritorna, come accennato, solo in 224, v. 4 e ha numerose atte- stazioni nelle opere latine, soprattutto nelle lettere in prosa e nelle Epystolae metricae.17 In particolare, nell’epistola III 21 l’immagine iconizza un «paesag- gio simbolico»,18 con gran parte dei termini-chiave dell’invischiamento e della trappola d’amore: «in laqueos recidi», «laberinthia claustra», «errore- sque novos». Res ingens tempusque breve est: hec summa malorum. Inscius in laqueos recidi. Quid singula verbis Expediam cecumque chaos, laberinthia claustra, Erroresque novos et inextricabile septum, Solicito quod turba gratu miserabilis ambit, Amissumque semel nequit unquam attingere limen?19

La metafora del carcere e del labirinto è spesso riferita alla curia avigno- nese, alla quale si può ricondurre l’immagine del ricadere nei lacci (presente anche nell’epistola successiva: «laqueos ut nuper in istos / inciderim»);20 tut- tavia ciò non esclude il riferimento alla trappola d’amore, e quindi ad una caratteristica bivalenza semantica di questa sfera lessicale.21 Essa concerne in primis il sostantivo error, che rinvia al v. 4 di 224, «Un lungo error in cieco

16 Il vocativo di questo verso è stato ripristinato, contro tutti gli editori, nell’edizione critica di G. Savoca (PETRARCA, Rerum vulgarium fragmenta/Savoca, p. 339). 17 VECCHI GALLI 2008, pp. 363-365. 18 Ivi, p. 364. 19 PETRARCA, Le epistole metriche, III 21, vv. 1-6. Il testo di questa edizione, oggi pressoché ir- reperibile, è confluito nell’Opera omnia di Petrarca in CD-Rom curata da Pasquale Stoppelli (Ro- ma, Lexis, 1997). 20 Ivi, III 22, vv. 27-28. 21 È quanto nota D. De’ Rossetti in PETRARCHAE, Poëmata minora quae extant omnia, vol. II, p. 396.

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ANTONIO DI SILVESTRO laberinto»,22 che a sua volta rimanda alla ‘senile’ I 3, dove l’immagine assur- ge a emblema della negatività della vita umana.23 La datazione dell’epistola 21 al 1351 (sostenuta da Magrini e Foresti)24 sarebbe pressoché coeva a quella di 211, e potrebbe spiegare il trasferimen- to e il mutuo interscambio di metafore, immagini, emblemi tra l’epistola e i due sonetti del ‘labirinto’. Questi riferimenti intertestuali ci indirizzano ad una lettura ‘rallentata’ di Voglia mi sprona. Il sonetto, nella limpidezza della sua scansione metrico- sintattica, svela una dominante ritmica affidata ai sostantivi, entità personi- ficate che introducono movimento in una situazione apparentemente stati- ca. Nella prima quartina Voglia, Amor, Piacer, Usanza, Speranza interpretano la sopita conflittualità del soggetto, in cui i sensi predominano sulla ragione e ogni desiderio sorge irrazionalmente da un altro (vv. 7-8). La voglia, con- trapposta in 101 alla ragione («La voglia et la ragion combattuto ànno»), si può per un verso considerare una variatio sinonimica di Amore, con cui condivide nel sistema dei Fragmenta l’azione dello spronare (117, v. 12; 127, v. 1; 178, v. 1, oltre al citato incipit di 147), per l’altro si configura (lo nota Ge- sualdo) con una forma differente dall’appetito, essendo questo legato al «senso», quella al «buono, e ragionevole».25 Il piacere è lo stesso di 146, v. 7 («O piacer onde l’ali al bel viso ergo»),26 ma esso si dirama dalle cantilenae oculorum: «Pigro da sé, ma ’l gran piacer lo sprona» (71, v. 9); «Sostien ch’io vada ove ’l piacer mi spigne» (71,v. 48); «ove ’l piacer s’accende / Che dol- cemente mi consuma et strugge» (72, vv. 38-39); e ancora: «Da begli occhi un piacer sì caldo piove» (165, v. 7). La lezione precedente del v. 2 «[Spe- ranza mi] spinge», cui sottentrerà «tira», richiama tra l’altro la canzone 71, v. 48, mentre in sinonimia i due verbi si trovano in 247,v. 13, in riferimento alla «lingua»: «Amor la spinge et tira».

22 Per l’errore come peregrinatio cfr. Rvf 126, v. 51; 161, v. 7; 340, v. 49. 23 «O fallax vita hominum! Nec definimus hic longas et tam brevi spatio inexplicabiles spes ordiri. O laborum campus asperrimus, o errorum inscrutabilis labyrinthus, o gemituum trux pa- lestra!» (PETRARCA, Res seniles Libri I-IV, p. 40). Nella ‘familiare’ XII 10 2 il tema viene declinato in chiave esistenziale: «tum demum vivere et valere incipiam cum invenero huius exitum labirin- thi» (PETRARCA, Opere, p. 748). 24 Cfr. MAGRINI 1907, pp. 157-159; FORESTI 1977, pp. 260 e 270-273. 25 Il Petrarcha colla spositione di Misser Giovanni Andrea Gesualdo, Stampato in Vinegia, per Giovann’Antonio di Nicolini et fratelli da Sabbio, 1533, c. 235v. 26 PETRARCA, Canzoniere. «Rerum vulgarium fragmkenta»/Bettarini, vol. II, p. 987.

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Ai vv. 10-11 la successione delle correzioni si attesta su una reductio del ragionare e parlare della donna in favore delle più essenziali «dolci parole»: 1) «Soave honesto ragionar m’invesca / e l’angelica voce dolce humile», stesura iniziale da cui cade subito l’epiteto angelico, preferibilmente riservato agli occhi,27 ma che ritroviamo nelle «angeliche parole» di 181, v. 13 e 275, v. 5; 2) «Animo antiquo in nova età m’invesca / E ’l dolce ragionar con voce humile», il cui primo verso si ritrova in 99, v. 8: «È per lassar più l’animo invescato», mentre il secondo rifluirà in 359, v. 4: «Con quel suo dolce ra- gionare accorto»; 3) la variazione del solo v. 11, «E ’l parlar dolce accorto honesto humi- le», variante scarsamente leggibile della precedente stesura, disseminata nel «dolce parlare» di 205, v. 3, 245, v. 5 e 348, v. 4 e nel «parlar saggio humile» di 297, v. 8, sonetto peraltro appartenente alla compagine delle cc. 3-5. Il secondo di questi stadi correttori è superato per la troppo schematica opposizione tra «Animo antiquo» e «nova età», mentre il generico invescare è rafforzato dall’acquisto dafneo dei «rami» (si pensi alla chiusura di Apollo, s’ancor vive il bel desio [34], dove negli abbozzi le «braccia» diventano «rami»). La dilatazione del momento dell’invescarsi del cuore viene dalla grana foni- co-sillabica di «soavemente», adoperato in contesto ossimorico in 213, v. 13 («soavemente rotti»), ma forse suggerito dal «soavemente» di 159, v. 11, so- netto partecipe della medesima campagna di trascrizione dagli scartafacci in funzione della imminente forma Chigi. Peraltro in quest’ultimo componi- mento l’avverbio è corretto su «angelicamente», anche per dissimilazione con gli «angelici costumi» della versione definitiva di 156, dopo il primo get- to abbozzato sulla c. 5v. Nella tradizione dei commenti dal ’400 al ’700 Voglia mi sprona non offre particolari spunti esegetici, né in relazione al testo ne varietur né in rapporto alle correzioni che si sviluppano tra gli abbozzi e l’idiografo vaticano. Vellu- tello ne fornisce una parafrasi asciutta e denotativa, definendolo «facile per se stesso».28 Muratori e Tassoni sottolineano invece la scarsa poeticità

27 Per la distribuzione dell’aggettivo rispondente a equilibrio del sistema, dove angelico tende a essere un iperpetrarchismo, cfr. CONTINI, Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, in CONTINI 1970, pp. 16-17; PETRARCA, Canzoniere. «Rerum vulgarium fragmkenta»/Bettarini, nota a 192, v. 12, vol. II, p. 889. Cfr. anche nota a 159, v. 11, vol. I, p. 758. 28 Le volgari opere del Petrarcha con la esposizione di Alessandro Vellutello da Lucca, stampate in Vinegia, per Giovanniantonio et fratelli da Sabbio, 1525, c. 109r.

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ANTONIO DI SILVESTRO dell’ultima terzina,29 a maggior ragione per il fatto che essa, con l’inserimento ‘puntuale’ dell’anno sulla precedente notazione di ora, giorno e mese, crea una sorta di «iperrealismo cronologico»,30 rafforzando per con- trasto l’immagine polisemica del labirinto. Se si guarda all’ampia fortuna di questo motivo, che ha pochissimi pre- cedenti nella poesia italiana anteriore a Petrarca, è verosimile che il poeta abbia creato un emblema speculare alla figurazione archetipica del labirinto come cronotopo dell’esperienza del peccato. Questa immagine in controlu- ce, e forse nella sua primitiva intentio, si può cogliere nel ‘travestimento’ spi- rituale di Petrarca operato da Girolamo Malipiero, dove la «voglia» viene riabilitata insieme all’amore come guida al Dio incarnato, in contrapposto al «senso» che trasporta «altrove» e che uccide la ragione. È naturale allora che alla «cieca et disleale scorta» di Amore sottentri la «mal fida scorta» del cor- po. Nella preghiera affidata alle terzine la data sacra del «dì sesto d’aprile» è ricondotta alla sua radice cristologica, con la connessa speranza di uscire dal labirinto del vizio:

Voglia mi sprona, amor mi guida et scorge A te IESU: ma altrove mi trasporta Il senso et tua pietà pur mi conforta, Et la man destra al cor già stanco porge. Ond’hora il tristo spirto mio s’accorge Essergli il corpo una mal fida scorta, E che dal senso la ragion è morta, Quando da te favor non gli risorge. Però Signor benigno, almo et gentile Per quel amor, ch’a bei rami t’ha giunto; Ove soavemente il cor s’invesca, Ti priego, scorgi l’alma mia a tal punto, Che per speranza de l’eterno aprile, Dal labirinto d’ogni vitio n’esca.31

29 Le Rime di Francesco Petrarca. Riscontrate co i Testi a penna della Libreria Estense, e co i fragmenti dell’Originale d’esso Poeta. S’aggiungono le considerazioni rivedute e ampliate d’Alessandro Tassoni, le annota- zioni di Girolamo Muzio e le osservazioni di Lodovico Antonio Muratori. Nuova edizione accresciuta nel fine d’una giunta e d’alcune composizioni del medesimo Petrarca e d’altri Autori, Venezia, Presso Sebastian Co- leti, 1727, p. 639. 30 VECCHI GALLI 2008, p. 367. 31 Il Petrarca spirituale, novamente ristampato, et dall’auttore con nuova additione reconosciuto, Venezia, 1545. Fondamentale il rinvio all’analisi di QUONDAM, Riscrittura, citazione e parodia. Il Petrarca spi- rituale di Girolamo Malipiero, in QUONDAM 1991, pp. 203-262.

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Per contro, una delle riprese più fedeli è nel Canzoniere di Giusto de’ Conti, raffinato interprete quattrocentesco della lezione petrarchesca, un sonetto del quale presenta le terzine ricalcate (soprattutto la prima) su Vo- glia mi sprona, per l’enumeratio delle virtù e la medesima tournure sintattica, con epilogo proprio sulla parola laberinto:

Quella mentita forma, in cui m’apparse La mia dolce nemica il giorno, ch'io Per mirar ella me puosi in oblio, Le rime a ben ritrarla oggi son scarse. Ma, benché falsamente se uman farse Parea ver me il sembiante altero et pio, Qual meraviglia, se d’un bel disio Di smisurato amore il mio core arse? Valor, virtù, belleza, et leggiadria, Orgoglio ascoso in un pietoso giro Acerbamente al dolce m’han sospinto: Poi del mio error vergogna all’alma invia Altretanto dolor quanto è il martiro; Et veggio et erro in questo laberinto.32

Anche Lorenzo de’ Medici, reinterpretando Era il giorno ch’al sol si scolora- ro (Rvf 3), inseriva in un’aura mitica e pagana il tempo dell’innamoramento, attribuendo al labirinto la medesima funzione di irretimento senza uscita:

Facile e dolce all’entrar fu la via; or non ha questo laberinto uscita, e sono in loco dove sempre io ardo!33

Caratteristica di Voglia mi sprona è una sorta di progressione semantica delle sostanze accumulantesi nella lettura, che lascia poi il campo a uno spazio ‘vuoto’ qual è quello del labirinto. Uno spazio che attende di es- sere riempito (e lo sarà in effetti compiutamente nella riscrittura in ordine dell’idiografo vaticano) di quei tempi del sacro che per Petrarca costitui- scono le tappe di un itinerario conoscitivo personale, che si fa universale

32 DE’ CONTI, Canzoniere, XLI. 33 DE’ MEDICI, Canzoniere, vol. II, p. 386.

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ANTONIO DI SILVESTRO tramite un’esperienza condivisa (l’«ove sia chi per prova…» di Rvf 1) tra coloro che hanno intelletto d’amore.

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LONTANANZA E FANTASTICHERIA NEL CARTEGGIO VERGA-CAPUANA

Milena Giuffrida

«Ho visto annunziati altri tuoi lavori e fra questi le novelle […] non pubblicarle in Sicilia, te ne scongiuro. Nei tuoi scritti c’è un certo profumo delle rive dell’Arno che non può che perdersi qui».1 Siamo nel 1872 e Gio- vanni Verga si trova a Catania, dopo aver trascorso alcuni anni a Firenze. Dal consiglio dato all’amico Capuana si evince però che, nonostante i sensi di colpa e la continua nostalgia di casa, ha la consapevolezza che per pro- durre qualcosa di davvero interessante bisogna vivere al centro del mondo e, quindi, uscire dalla Sicilia.2 Infatti, la scelta di trasferirsi a Firenze prima, a Milano poi, fu avvertita da Verga come «condizione necessaria per realizzarsi come scrittore».3 Vi- vere in un centro importante, come fu Firenze negli anni in cui fu capitale del Regno d’Italia4 e come poi fu Milano dagli anni Settanta, permetteva di entrare in contatto con i grandi editori e quindi di avere maggiori possibilità di fare dell’arte dello scrivere un mestiere a tutti gli effetti. È questo, ad e- sempio, il motivo che spinge Capuana a lasciare Mineo a metà degli anni Sessanta, nel ’77 e poi ancora nell’82. Ma per Verga non è solo una questio- ne di opportunità di lavoro, bensì di stimolo intellettuale. Non erano il me- todo, la tenacia, l’assiduità al lavoro a mancargli a Catania – e la mole della sua primissima produzione lo dimostra –, ma la necessità di respirare

1 Verga a Capuana, Catania, aprile 1872, in RAYA 1984, p. 20. 2 C’è da precisare che la città di Catania e la Sicilia in generale dall’Unità in poi conobbero un periodo di risveglio sia sul piano urbanistico-industriale che su quello politico-culturale (cfr. GIARRIZZO 1987, pp. XIX-LVII). 3 MANGANARO 2014, pp. 61-62. 4 «Firenze è davvero il centro della vita politica e intellettuale d'Italia: qui si vive in un'altra atmosfera, di cui non potrebbe farsi alcuna idea chi non l'avesse provato, e per diventare qualche cosa bisogna vivere al contatto di quelle illustrazioni, vivere in mezzo a questo movimento inces- sante, farsi conoscere, respirarne l'aria, insomma. Ti ripeto è indispensabile incominciare da qui la sua strada, non si può fare a meno di riescire a qualche cosa» (G. Verga a M. Verga, Firenze, 7 maggio 1869, in VERGA 2011, pp. 93-95). Sulla scelta di andare a Firenze cfr. anche GAMBACOR- TI 1994, pp. 9-33.

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MILENA GIUFFRIDA un’aria diversa, di ampliare i propri orizzonti culturali: «abbandonare i valori del passato e aderire al moderno, cercare lì lo scopo dell’esistenza, appare sin da ora a Verga come una colpa e, insieme, una necessità oggettiva e im- prescindibile».5 A Milano Verga troverà la giusta dimensione per fare maturare la sua ar- te e fare il salto di qualità: «Chissà che parlandoti io della bella Milano non riesca a crearti nella mente cotesta atmosfera di sogni che ti occorre per far- ci schiudere quelli che ti fermentano da tempo nell'anima?».6 L’atmosfera è proprio quella «di Banche e di Imprese industriali» contro la quale arringava con fare scapigliato nella coeva prefazione a Eva, ma che lo affascinava e nutriva la sua mente:

Non è più un sentimento d’elevazione artistica che c’invade e ci turba, quasi ci fac- cia mancare sotto i piedi la terra, ma una soddisfazione di benessere materiale che appaga l’occhio e sazia le esigenze utilitarie della nuova atmosfera dentro la quale noi respiriamo e ci agitiamo febbrilmente. Allora quel vasto edificio [la Galleria Vit- torio Emanuele, ndr.] […] lo sentiamo palpitare con l’ansie dei nostri bisogni fatti- zii, colle smanie dei nostri godimenti sensuali, colle agitazioni d’ogni natura che sti- molano le produzioni vertiginose delle industrie, delle arti, delle scienze; gli vediamo prendere l’aspetto d’un tempio, non meno sacro del Duomo, dove si celebri e si sa- crifichi incessantemente, con pompa, con magnificenza, al gran Dio della società moderna, al Lavoro; e ci riconciliamo subito con essa, e chiudiamo gli occhi anche alle proteste del nostro gusto d’artista.7

L’ekphrasis di Capuana ci trasporta in una città che doveva apparire agli occhi dei giovani siciliani come qualcosa di stupefacente, così diversa dai loro luoghi natii perché brulicante di vita, in incessante movimento, ma an- che creatrice di artifici, tentatrice, controversa:

Io immagino te, venuto improvvisamente dalla quiete tranquilla della nostra Sicilia, te artista, poeta, matto, impressionabile, nervoso come me, a sentirti penetrare da tutta questa febbre violenta di vita in tutte le sue più ardenti manifestazioni, l’amore, l’arte, la soddisfazione del cuore, le misteriose ebbrezze del lavoro, pioverti da tutte

5 LUPERINI 2005, p. 37. 6 Verga a Capuana, Milano, 5 aprile 1873, in RAYA 1984, p. 25. 7 CAPUANA 1881, pp. 51-52.

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le parti, dall’attività degli altri, dalla pubblicità qualche volta clamorosa, pettegola i- rosa, dagli occhi delle belle donne, dai facili amori, o dalle attrattive pudiche.8

Per quanto Capuana dichiarasse sovente di volersi stabilire in maniera fissa a Milano, di preferire la metropoli alla noiosa Mineo, probabilmente la febbre di vita che secondo Verga avrebbe dovuto penetrarlo e incitarlo al lavoro non ebbe grande presa. D’altronde il critico si dimostrò autore proli- fico anche e soprattutto da Mineo, dove videro la luce quasi tutti i suoi vo- lumi, sebbene le opere più mature artisticamente, la Giacinta e il Marchese di Rocca Verdina, furono frutto della riflessione elaborata durante gli anni mila- nesi e romani. Verga, invece, ha bisogno di essere investito dalla frenesia della città moderna, ha bisogno di Milano per essere produttivo:

Sì, Milano è proprio bella, amico mio, e credimi che qualche volta c’è proprio biso- gno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni, e restare al lavoro. Ma queste seduzioni istesse sono fomite, eccitamento continuo al lavoro, sono l’aria re- spirabile perché viva la mente; ed il cuore, lungi dal farci torto non serve spesso che a rinvigorirla. Provasi davvero la febbre di fare; in mezzo a cotesta folla briosa, se- ducente, bella, che ti si aggira attorno provi il bisogno di isolarti, assai meglio di come se tu passi in una solitaria campagna. E la solitudine ti è popolata da tutte le larve affascinanti che ti hanno sorriso per le vie e che sono diventate patrimonio della tua mente.9

La mente di Verga necessita delle seduzioni di Milano per poter mettersi in moto, ha bisogno di essere attraversata dalla folla e di trattenere l’immagine di questa. Nei momenti di solitudine, necessari, la mente riela- bora e vagheggia quelle immagini, spingendo lo scrittore a lavorare, a fare, a preferire la scrittura al soddisfacimento del godimento immediato che la cit- tà gli offre in maniera seduttiva. Milano è una «Babilonia», una realtà fatta da «certe piccole cose che ci fanno piccini alla lor volta, e ci danno forze da giganti».10 Un’atmosfera da assaporare, dalla quale lasciarsi trasportare, an- che se solo fino a un certo punto.

8 Verga a Capuana, Milano, 13 marzo 1874, in RAYA 1984, p. 30. 9 Verga a Capuana, Milano, 5 aprile 1873, ivi, pp. 25-26. 10 Verga a Capuana, Milano, 13 marzo 1874, ivi, p. 30.

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L’accettazione della modernità, del progresso – come lo definisce lo stesso scrittore – in Verga non è completa, sebbene questa gli appaia inevi- tabile. Il primo grande romanzo, I Malavoglia, viene concepito da subito come rappresentazione di una realtà antitetica rispetto a quella caotica e materialista incarnata da Milano. Già nel ’79, scrivendo a Capuana, Verga dichiara che avrebbe voluto dare al romanzo (a quell’altezza cronologica ha ancora il titolo di Padron ‘Ntoni) una «impronta di fresco e sereno raccogli- mento che avrebbe dovuto fare un immenso contrasto con le passioni tur- binose e incessanti delle grandi città, con quei bisogni fattizii, e quell'altra prospettiva delle idee o direi anche dei sentimenti».11 È uno scarto quello che Verga vuole riprodurre, tra i valori del passato e la modernità incalzan- te. E lo vorrebbe fare anche nella forma, visto che l’«impronta di sereno raccoglimento» sarebbe possibile da ottenere solo se il lettore riuscisse ad immedesimarsi pienamente nei personaggi. Questa idea di contrasto viene quasi a cadere nella prefazione al romanzo pubblicata, nella quale l’autore punta maggiormente sul concetto del vinto e sulla rappresentazione ogget- tiva, non giudicante, della realtà. La ritroviamo invece nella prefazione rifiu- tata da Treves:

Quando vi siete trovati di notte nelle vie deserte di una grande città, davanti al fana- le spento e col sigaro in bocca, non vi ha colpito l’impressione straordinaria che produce in voi quella calma? […] Di fantasticheria in fantasticheria tutta questa gen- te che si travaglia ancora col pensiero, che si agita e vive, vi sfila davanti, per le vie buie, come in un giorno di festa, in una processione fantasmagorica in cui passano tutti gli appetiti, tutte le febbri, tutte le avidità, tutte le aspirazioni grandi e piccine; […] Davanti alle scintille del vostro sigaro allora passano in rivista dei visi pallidi o accesi che cercano qualche cosa, sempre. E quella folla nera, che popola le vie buie, cammina, cammina tutta verso un punto solo, pigiandosi, accalcandosi, sorpassan- dosi brutalmente.12

11 Verga a Capuana, Catania, 14 marzo 1879, ivi, p. 80. 12 VERGA 2014, p. 343. Francesco Branciforti individua il motivo della scelta della seconda prefazione da parte di Treves e poi Verga nel superamento della necessità di un espediente narra- tivo per avviare la fantasticheria: «Col crescere e maturare la materia del reale (la visione della vita), non più episodio narrativo d’un bozzetto, ma storia ciclica dell’umano destino, non era più necessario o non serviva più lo schermo metaforico del ‘trasognamento’, che, comunque rinno- vato, era un ‘attacco’ mistificatorio, un riferimento nebuloso alla tecnica dell’invenzione» (BRAN- CIFORTI 1984, p. 33).

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La calma, condizione necessaria per la speculazione, la riflessione, viene prodotta nell’osservatore dalla momentanea interruzione del movimento cittadino, dalla sospensione del caos; non dalla sua assenza tout court, giacché solo «in mezzo a cotesta folla briosa, […] provi il bisogno di isolarti, assai meglio di come se tu passi in una solitaria campagna». Solo immergendosi in quella vita, entrando a far parte di quella fiumana che avanza, lo scrittore acquisisce la competenza per poter osservare, registrare e anche giudicare i compagni di cammino, soprattutto quelli che, vinti dall’impetuosità della corrente, si accasciano e soccombono. Verga avverte che non solo i suoi scritti, ma anche quelli dell’amico Ca- puana hanno davvero uno spirito diverso, che risente dell’aria febbrile di Milano:

Nelle altre [novelle, ndr.], specie in Ebe e in Cecilia, c'è una grazia più disinvolta, un profumo di qualcosa che dovea respirare l'autore scrivendone, un tocco più sicuro se non più magistrale. Ho provato anch'io come un altro genere di vita, altri oriz- zonti, slarghino il far, la mente, la mano, e m'è parso di vedere in te il riflesso di quel che ho provato.13

Se è vero che anche Capuana crede che vivere nel cuore dell’industria culturale italiana aiuti l’intelletto a non assopirsi, non crederà mai, a diffe- renza di Verga, che questa sia la condizione necessaria per poter scrivere. D’altronde se ne ha un primo avviso già durante l’esperienza romana dei primi anni Ottanta, quando orienterà il suo pensiero in direzione marcata- mente naturalistica e svilupperà la «convinzione che uno dei principali re- quisiti di un’arte autenticamente verista sia quello di un’ambientazione geo- grafica il più possibile precisa e delimitata».14 A proposito di Vita dei campi scrive nel 1880:

Questi suoi contadini non sono soltanto siciliani, ma più particolarmente di quella piccola regione che sta, come dissi, fra Monte Lauro e Mineo. tolti di lì, anche nella stessa Sicilia, si troverebbero fuori posto. I loro sentimenti, le loro idee, sono il ne- cessario prodotto del clima, della conformazione del suolo, degli aspetti della natu-

13 Verga a Capuana, Catania, 30 giugno 1877, in RAYA 1984, p. 56. 14 TANTERI 1989, p. 36.

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ra, degli usi, delle tradizioni che costituiscono col loro insieme il carattere particola- re di quell’antica regione greco-sicula.15

E ancora, sui Malavoglia: «Questi pescatori sono dei veri pescatori sici- liani, anzi di Trezza, e non rassomigliano a nessuno dei personaggi d’altri romanzi».16 Lo scrittore verista rappresenterebbe quindi le realtà che cono- sce meglio, tanto che molti dei lavori di Capuana hanno un’ambientazione siculo-mineola. Come ha già osservato Tanteri, «si deve dunque prendere atto, in definitiva, dell’esistenza di una limitazione, di ordine – per così dire – spaziale, del concetto di vero in quanto oggetto di riproduzione artistica nel pensiero (e nell’opera) di Capuana».17 Questa decisa interpretazione del- la poetica verista verrà ribadita dal mineolo fino agli scritti critici più tardi. In Per l’arte (1885), Capuana affronta la questione del rapporto realtà- immaginazione nel romanzo moderno:

Il romanziere, il novelliere guarda di qua e di là, osserva, prende nota. Se non poggia un piede sopra un fatto vero, non si crede punto sicuro, e non si avventura a metter l'altro innanzi. Il Verga […] quando gli vien l'idea di foggiare in forma artistica i suoi contadini, non si limita soltanto a raccogliere delle generalità, ma circoscrive il suo terreno. Non gli basta che quei suoi personaggi siano italiani - il contadino italiano è un'astrattezza - egli va più in là, vuole che siano siciliani: molto di più e di più con- creto. Credete voi che n'abbia assai? Nemmeno per sogno. Ha bisogno che siano proprio d'una provincia, d'una città, d'un pezzettino di terra largo quanto la palma della sua mano. Allora soltanto si ferma.18

Nel gennaio 1894, in risposta alle accuse mosse da Boutet all’indomani dei Fasci siciliani, Capuana sottolinea: «Da artista coscenzioso, minuzioso quasi, il Verga non è mai uscito nelle novelle fuori della sua provincia di Ca- tania; io, più timido di lui, non sono uscito fuori del territorio della mia cit- taduzza».19 Questo convincimento probabilmente opera in lui quasi come inconscia giustificazione alla sua reclusione tra le mura del paese natale, dove comun- que poteva osservare un campionario di tipi umani certamente originale nel

15 CAPUANA 1880, p. 216. 16 CAPUANA 1881b, p. 274. 17 TANTERI 1989, p. 39. 18 CAPUANA 1994, p. 12. 19 CAPUANA 1973, p. 204.

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panorama della letteratura italiana e, di conseguenza, fare buona letteratura. I risultati, se furono egregi, non raggiunsero certo il livello dei due romanzi maggiori, fatta eccezione per le raccolte di fiabe, il cui straordinario valore è dato proprio dal caratteristico approccio di Capuana alle tradizioni popolari e dalla sua particolare rivisitazione della materia folclorica.20 Non si tratta quindi di un’idea transitoria ma di una convinzione profondamente radica- ta, «una sorta di miopia critica dello scrittore di Mineo, il quale sembra spesso non riuscire a cogliere pienamente la più ampia prospettiva in cui i drammi di quelle creature [i personaggi delle novelle di Verga, ndr.] si proiettano, acquistando una dimensione (in senso esistenziale e in senso storico-sociale) universalmente umana».21 Lo stesso Verga aveva più volte espresso la sua posizione sul tema della rappresentazione minuziosa del ve- ro, anche se in maniera un po’ naif, in riferimento alla composizione di Pa- dron ‘Ntoni:

Pel Padron 'Ntoni penso d'andare a stare una settimana o due, a lavoro finito, ad Aci Trezza onde dare il tono locale. A lavoro finito però, e a te non sembrerà strano cotesto, che da lontano in questo genere di lavori l'ottica qualche volta, quasi sem- pre, è più efficace ed artistica, se non più giusta, e da vicino i colori son troppo sbiaditi quando non sono già sulla tavolozza.22

Difficile fraintendere questa dichiarazione: Verga non ha intenzione di offrire un quadro di genere sui pescatori siciliani, ma vuole affrontare un tema di più ampio respiro (le conseguenze della modernità nelle società a struttura arcaica), calando sé stesso e il lettore nel cuore del problema. Da qui la necessità sì di dare il «tono locale», ma in un modo che potesse co- munque risultare intellegibile al pubblico nazionale. Verga non concepisce il romanzo «come una riproduzione speculare, come un trasferimento mec- canico del mondo esterno all’interno dell’opera, ma come esito di un lavoro

20 Cfr. BARSOTTI 1984, p. 88. Anche Verga aveva da subito apprezzato le fiabe per lo stesso motivo: «Le ho lette tutte l’una dopo l’altra e di seguito con interesse vero non solo per lo studio artistico della forma, ma per quello che ci ho sentito sotto di schiettamente e profondamente compenetrato così col carattere nostro isolano che il paesaggio, e le figure nostrane mi si dise- gnano spontaneamente dianzi a quella vergine poesia» (Verga a Capuana, Milano, 24 settembre 1882, in RAYA 1984, p. 169). Ma cfr. MANGANARO 2014, pp. 117-125. 21 TANTERI 1989, p. 39. Lo studioso rileva come Capuana si serva della stessa idea nell’interpretazione delle novelle di altri autori veristi, come De Roberto e Remigio Zena (ibidem). 22 Verga a Capuana, Milano, 17 maggio 1878, in RAYA 1984, p. 61.

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MILENA GIUFFRIDA di “ricostruzione intellettuale”, ossia di un processo di conoscenza storica e di mediazione e di generalizzazione estetica».23 Si tratta di quello che Asor Rosa ha definito come principio ottico di lontananza, il quale «s’ha da in- tendere sia in senso strettamente geografico sia in senso psicologico e fan- tastico».24 In realtà è possibile, come ha fatto Andrea Manganaro, estendere questo discorso a tutte le opere dello scrittore catanese, il quale ambienta i suoi romanzi in luoghi sempre diversi rispetto a quelli nei quali li compone. Una peccatrice è ambientato a Catania, ma scritto a Firenze; Eva a Firenze, ma scritto a Milano; le vicende di Tigre reale, scritto a Milano, si svolgono nella provincia di Catania, così come le novelle veriste e I Malavoglia sono am- bientati in Sicilia, ma composti durante il soggiorno milanese. Solo in Storia di una capinera si realizza la compresenza tra l’ambientazione del romanzo e la dimora dell’autore, ma la sua composizione risale al momento nel quale «proprio alla dimensione di reclusione rappresentata nel romanzo Verga si stava sottraendo […] con la partenza per l’allora capitale d’Italia».25 In maniera estremamente lucida lo scrittore, lo si è visto, intuisce che la maniera per fare risaltare maggiormente il dramma dei vinti è quello di una ricostruzione che parta dal punto di vista opposto, quello delle metropoli frenetica. A Capuana confessa infatti:

Ma forse non sarà male dall'altro canto che io li consideri da una certa distanza in mezzo all'attività di una città come Milano o Firenze. Non ti pare che per noi l'a- spetto di certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? e che mai riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando fac- ciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi?26

Non è però tanto la componente mitica della semplice realtà popolare che Verga vuole fare risaltare dallo scarto prospettico,27 quanto quella sociale, legata alle «prime irrequietudini pel benessere». Chiaramente l’interesse del catanese non era quello di denunciare le condizioni di miseria nelle quali i

23 MANGANARO 2011, p. 92. 24 ASOR ROSA 1995, p. 763. 25 MANGANARO 2014, p. 66, ma cfr. tutto il capitolo La città esclusa, ivi, pp. 59-73. 26 Verga a Capuana, Catania, 14 marzo 1879, in RAYA 1984, p. 80. 27 Come sostiene invece Asor Rosa (cfr. ASOR ROSA 1995, pp. 763-64).

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pescatori di Trezza probabilmente vivevano, ma quello di contribuire all’indagine conoscitiva nei confronti del Meridione che la classe dirigente del Regno stava portando avanti proprio in quegli stessi anni, in modo da conoscerne le contraddizioni ed evitare l’esplodere della questione sociale.28 La manifestazione dell’«osservazione coscienziosa» e il realismo alla manie- ra di Verga29 si esplicitano diversamente da quello dei naturalisti – e diver- samente da quanto vedeva Capuana –, e cioè attraverso la ricostruzione, la fantasticheria. «È significativo che Verga, ogni qual volta immagina se stes- so nell’atto di ricreare o ritrovare nella propria mente il mondo popolare siciliano, si rappresenti in atto di fantasticare».30 L’immaginazione è un espe- diente che serve allo scrittore per avvicinare il suo lettore ai personaggi, per favorire l’identificazione del pubblico, il quale crede di essere diverso dai pescatori di Trezza, ma in realtà nutre le loro stesse ambizioni, percorre lo stesso cammino. La fantasticheria potrebbe essere annoverata tra le tecni- che di “traduzione” antropologica e linguistica adoperate nei Malavoglia.31 Dice lo scrittore al lettore, nella prefazione inedita al romanzo:

Avete creduto di cedere ad una divagazione della fantasia e non fate che subire il sentimento dell’attività umana incessante e fatale che esiste attorno di voi ed in voi stesso. Avete cercato tutto cotesto movimento e cotesta vita che tace attorno a voi, perché li sentite dentro di voi.32

Il primo a dover superare la lontananza tra sé e i personaggi è ovviamente lo stesso autore, il quale si serve dell’espediente della fantasticheria per cela- re il suo avvicinamento, la sua regressione alla parte «più genuina e autenti- ca del proprio io»: una regressione «dall’esteriorità borghese-mondana

28 Per la ricostruzione dei rapporti tra l’Inchiesta sulla Sicilia nel 1876 di Franchetti e Sonnino, l’inchiesta agraria promossa dal Parlamento e la composizione dei Malavoglia cfr. LUPERINI 2005a e MANGANARO 2014, pp. 59-74. 29 Cfr. Verga a Salvatore Paola Verdura, Milano, 21 aprile 1878, in VERGA 1972, p. 752. 30 ASOR ROSA 1995, pp. 764-65. Il critico riepiloga tutti i luoghi nei quali Verga si ritrae in at- to di fantasticare sulle sue storie. Tra questi: la prefazione a Eva, l’incipit di Nedda, la novella Fan- tasticheria e la prefazione rifiutata ai Malavoglia. Verga parla di fantasmagoria riferendosi al ciclo dei vinti anche nella lettera a Verdura (cfr. ivi, pp. 765-66). 31 Cfr. ALFIERI 2006. 32 VERGA 2014, p. 343.

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MILENA GIUFFRIDA all’interiorità dello spirito, dall’alto verso il basso, dalla superficie esterna dell’esperienza verso il profondo»:33

Verga trasferisce la propria vicenda privata in una pubblica, il proprio dramma di scrittore diviso fra romanticismo e pessimismo o scetticismo materialistico nella storia di un paese siciliano appena “lambito” dal progresso e di una nazione italiana ormai pienamente entrata nell’orizzonte della modernità.34

Lo scrittore è anch’esso travolto dalla fiumana, anche e soprattutto per- ché artista in una società mercificata, ed è un «osservatore meno frettoloso degli altri»; per questo ha il diritto di raccontare le loro storie e di partecipa- re al loro dolore. L’immaginazione, la fantasia, acquistano quindi un ruolo fondamentale nella composizione dell’opera, in quanto sono motori della creazione artistica, più dell’osservazione minuta dei fatti diversi. Per quanto la poetica di Capuana risenta maggiormente dell’influsso del determinismo naturalistico, anche lo scrittore di Mineo è profondamente convinto dell’importanza dell’immaginazione nel processo compositivo. Tuttavia propenderà sempre per una soluzione intermedia tra i due aspetti, osserva- zione minuta e immaginazione: «il più piccolo squilibrio d’elementi, dalla parte dell’immaginazione o dalla parte della riflessione, producono un dan- no, una deformità nell’organismo dell’opera d’arte»,35 dove per riflessione Capuana intende «l’osservazione positiva nell’analisi scientifica».36 Ciò che comunque conta è che il soggetto a cui è dedicata la narrazione di un romanzo, di una novella, diventino arte. Per raggiungere questo risul- tato gli scrittori devono essere capaci di conferire la giusta forma ai loro soggetti. La forma dipende totalmente dalle capacità immaginative dello

33 ASOR ROSA 1995, p. 767. 34 LUPERINI 2005b, p. 31. Il travestimento non vale solo per I Malavoglia e le altre opere ana- lizzate da Luperini, ma in maniera ancora più esplicita per Di là dal mare, novella delle Rusticane. 35 CAPUANA 1988, p. 91. 36 Ibidem. Capuana individua un esempio del mancato equilibrio tra i due elementi nel ro- manzo di Daudet Les rois en exil, roman parisien, pubblicato nel 1879. Qui, la rappresentazione di vicende realmente accadute e di personaggi facilmente riconoscibili e conosciuti da tutti com- promette la riuscita del romanzo, perché determina nel lettore la sovrapposizione del giudizio tra ciò che sa del personaggio e ciò che sa della persona in carne e ossa: «nessun libro meglio del suo prova quanto sia pericoloso il lasciare infiltrare nell’opera d’arte anche il più piccolo elemento estraneo alla sua essenza elevata. […] questo piccolo elemento è bastato per ridurre quasi ineffi- cace la sua creazione: la realtà è più forte di questa e rende impossibile il piacere estetico» (Ivi, pp. 99-100).

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scrittore: «per l’opera d’arte poco importa il sapere ch’esso [il personaggio, ndr.] abbia o no davvero esistito, quanto la potente immaginazione dello scrittore giunge a renderlo vivo e a interessarci a suoi casi».37 Un esempio virtuoso è quello della Lupa di Giovanni Verga. Capuana sostiene di averla conosciuta davvero, di ricordare la sua abitazione nei pressi di Mineo, e di aver avuto modo di vederla diverse volte per le campagne. Pertanto: «La Lupa si potrebbe dire un semplice fatto diverso. In quelle otto pagine non c’è un particolare che non sia vero, intendo dire che non sia accaduto real- mente così. L’autore non ha inventato nulla; ha trovato, ha indovinato la forma, che è quanto dire: ha fatto tutto».38 Nel saggio Per l’arte Capuana affronta empiricamente il problema rac- contando un fatto di cronaca e poi interrogando il suo immaginario interlo- cutore sulla natura di quella narrazione. Il soggetto è originale e interessan- te, i fatti sono tutti esplicitati e in essi c’è già una storia, una vicenda com- piuta. Ma si può parlare di opera d’arte? Non ancora, perché è necessario che prima il narratore indovini «l’intimo processo» che guida le azioni del personaggio e lo rifaccia organicamente tal quale. «Organicamente significa che non basta indovinarlo, penetrarlo, scio- glierlo nel crogiuolo dell'analisi; questa è un'operazione preparatoria; non dobbiamo mai dimenticare che arte vuol dir forma».39 Ha giustamente notato Marina Paladini Musitelli che Capuana fa appello alla capacità intuitiva dello scrittore, una sorta di immaginazione «di carattere critico, necessaria non solo al romanziere ma allo scienziato stesso per far parlare i fatti e ricostrui- re il loro processo».40 Il mineolo non aveva mai accettato pienamente i det- tami del positivismo come filosofia interpretante, come visione del mondo, ma ne aveva accolto il metodo scientifico come unico procedimento d’analisi valido per la conoscenza della multiforme società contemporane- a.41 Ma per una visione totalizzante e sintetica della realtà, il critico rimane sempre all’interno dei confini della filosofia idealista, hegeliana, desanctisia- na e demeisiana, per la quale l’arte è forma: «Tutto il contenuto possibile, a

37 Ibidem. 38 Ivi, p. 76. 39 CAPUANA 1994, p. 139. 40 PALADINI MUSITELLI 1984, p. 24. 41 Cfr. ROMBOLI 2007, p 95.

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MILENA GIUFFRIDA patto però che egli prenda forma vitale per via dell’immaginazione creatri- ce».42

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EVOLUZIONI NOVECENTESCHE DELL’UMORISMO ITALIANO DOPO PIRANDELLO

Gabriele Tanda

Il rapporto tra letteratura e società è sempre stato molto stretto: l’influenza reciproca ci informa dei mutamenti e dell’evoluzione che en- trambe subiscono. Tra i generi letterari che sono maggiormente a contatto con il pubblico e che da questo subiscono i maggiori influssi c’è l’umorismo. La definizione precisa del genere letterario sembra sempre sfuggente, ma si potrebbe sfiorare andando per opposizioni contrastive. L’umorismo è di- verso dal comico in quanto sfrutta i meccanismi della risata non solo per divertire, ma anche per proporre dei momenti di scarto dal pensiero consu- eto, e andare a colpire quei luoghi comuni che invece la comicità usa come strumento, come dato acquisito e immutabile. La differenza tra i due generi viene a marcarsi anche sulle strategie compositive: la comicità spesso usa stratagemmi ripetuti e topici (come scambi di persona) fini a sé stessi, men- tre l’umorismo li utilizza per sottolineare delle incongruenze sociali e inte- riori del personaggio. Da una parte l’ideologia del tempo come materia su cui contendere, dall’altra lo stesso impianto di idee sfruttato come strumen- to di gioco da lasciare intatto. D’altronde il genere in questione si distanzia anche dalla satira per la sua attitudine ad evitare il dato attuale, l’obiettivo chiaro della risata non è un personaggio specifico vicino al potere o una po- lemica legata a dinamiche di un determinato periodo storico, ma un senti- mento generale che ha a che fare con qualcosa di più profondo, di più na- scosto rispetto al viso di un politico.1 Un genere, quello umoristico, che si pone quindi tra lo stereotipo immutabile e l’attualità più stringente, quasi a cercare una sintesi tra i due estremi unendo gli umori di un periodo per di- stillarli in una dimensione universale. È anche per questo che la lettura dei capisaldi del genere riesce ad affascinare e divertire anche a distanza di se- coli senza subire i contraccolpi del tempo. Il Don Chisciotte o il Tristram

1 Vedi ECO 1981 e GULOTTA-FORABOSCO-MUSU 2001.

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GABRIELE TANDA

Shandy sono opere – che per quanto popolari, legate al loro periodo storico e alla nazione di nascita – mantengono una qualità letteraria che riesce an- cora ad appassionare il lettore. Le caratteristiche individuate, non sono delle leggi fisiche che indicano un valore di soglia oltre al quale si presenta un netto cambiamento di stato, ma un limite di coscienza legato alla sensibilità del lettore che percepirà o meno il distacco dall’attualità politica e dal mero uso dello stereotipo topi- co. Se è piuttosto facile, anche se un po’ sommario, individuare i connotati dei tre maggiori generi della risata, lo è molto meno comprendere cosa è l’umorismo nella realtà quotidiana. Moltissime teorie si sono succedute nel passato, ma negli ultimi trent’anni sono stati usati degli strumenti nuovi per scandagliare meglio il fenomeno. Le generiche peculiarità individuate trovano una loro base anche all’interno delle nuove sperimentazioni delle neuroscienze. La maggiore complessità cognitiva dell’umorismo non è una semplice supposizione criti- ca, ma è un dato che si evidenzia con alcuni riscontri scientifici. La reazione alla lettura di testi comici è differente da quella di un testo più strutturato che pure pretenda la risata.2 Questo perché l’enigma – che ogni stratagem- ma che ha come fine il divertimento propone – ha una soluzione meno immediata che, di conseguenza, richiede maggiori facoltà, non solo culturali ma anche esperienziali.3 Il processo di decodifica dell’incongruenza tra i modelli che il soggetto detiene (script) e quelli che il testo racconta può av- venire in momenti diversi, ma in tutti la divergenza non è risolta in maniera completa e razionale come avverrebbe nel comico.4 Ciò che viene messo in atto è una sorta di logica incoerente, che ha in sé, nello stesso momento, i caratteri della razionalità e del suo opposto.5 Una coesistenza che apre spi- ragli di senso lontani dai ragionamenti consueti.

2 Vedi OZAWA-MATSUO 2000. 3 Vedi RUSKIN-RUCH 2008, BONAIUTO-GIANNINI 2003 E RITCHIE 2009. 4 Vedi ORING 2003 e ATTARDO-HEMPELMANN-DI MAIO 2001. 5 «Ho chiamato local logic, quella che occupa una posizione intermedia tra il pensiero logico e quello patologico. Nel primo caso, le regole della logica mantengono un continuo controllo; i problemi affrontati e le soluzioni trovate sono tutte su un piano realistico; e non c'è spazio per la fantasia o la comprensione dell'assurdo. Il pensiero patologico, d'altra parte, è caratterizzato da una separazione dalla realtà e il suo processo concettuale non tiene conto delle regole della logi- ca. La fantasia e l'assurdo hanno il controllo e sono percepiti come realtà. Il pensiero logico loca- le utilizza e apprezza sia la logica che la fantasia senza con-fonderle e offre soluzioni che coin- volgono l'una o l'altra come richiesto dal contesto» (trad. mia), ZIV 1984, p. 98.

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Questo gradiente di complessità differenzia eventi in realtà molto vicini tra loro, e che fanno parte di un’unica famiglia di procedimenti mentali le- gati alla risata che gli studi (psicologici, neuroscientifici e antropologici) spesso trattano in maniera indistinta. Il meccanismo ambiguo dell’umorismo ha infatti forti legami con tutti i fenomeni che riguardano l’ambito del riso. Un processo estremamente complesso che aziona aree mentali profonde e istintuali in stretto collegamento con le parti più super- ficiali e legate alla coscienza.6 La risata, quella piena e istintiva, è del resto una reazione fisica e irrefrenabile ad uno stimolo culturale e sociale che si è compreso in un lasso di tempo molto breve. La rete neurale viene messa alla prova e crea ponti emotivi nella conoscenza. Un meccanismo che viene persino usato in maniera terapeutica con il reframing che consiste nel costrui- re un percorso di guarigione da traumi e paure attraverso l’uso del riso, ca- pace di far sbiadire il carico negativo legato a specifici eventi o concetti.7 Un potere che però può essere ambiguo come ci rivelano le funzioni sociali che l’ilarità può avere. Attraverso la risata si cementano o si formano gruppi, ma allo stesso tempo si isolano gli individui estranei;8 si affrontano argomenti difficili e tabuizzati risemantizzandoli con un approccio di disinnesco, un superamen- to della morale che però può degenerare nel cinismo;9 si gestiscono le situa- zioni di trauma e di crisi ma, all’eccesso, si potrebbe produrre una certa in- sensibilità.10 Un potere ambiguo di cui si potrebbero fare altri esempi, ma ciò che accomuna tutti questi usi è che il riso non può fare a meno di una rete di relazioni in cui inserirsi: non avviene mai in uno spazio privo di con- testo. Sono le conseguenze su quest’ultimo a decretare la positività o la ne- gatività della risata: uno strumento comunicativo efficace, ma molto affila- to. Anche nella scrittura l’umorismo non si inserisce in un immaginario strettamente soggettivo (come per esempio può essere la poesia lirica più criptica), ma ha necessità di comunicare attraverso lo sfruttamento della mentalità diffusa e della cultura coeva per arrivare, attraverso una reazione ilare, ad una messa in crisi di quelle idee sfruttate per ridere. Risulta essere

6 MOBBS-GREICIUS 2003. 7 MARTIN 2007. 8 LAUB COSER 1959 e LAUB COSER 1960. 9 MCGRAW-WARREN 2010 e BERGER 1999. 10 Vedi MORAN-MASSAM 1997 e SBATELLA-MOLTENI 2008.

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GABRIELE TANDA quasi una riflessione illogica sulle idee che conformano il lettore e l’autore stesso. Questa però non è la sede adatta per esplorare tutte le teorie che hanno provato a fare chiarezza su un tema tanto stimolante quanto complesso. I dibattiti sono stati anche accesi e hanno coinvolto differenti discipline, esi- stono riviste specializzate11 e enciclopedie dedicate al tema,12 inoltre l’ambiguità del fenomeno ha polarizzato le posizioni, creando un proliferare di opinioni e punti di vista. Al contrario, in questo contesto, ha particolare utilità l’intuizione proposta da Lipovietsky e Minois. Per i due studiosi di sociologia e storia della cultura l’epoca contemporanea si potrebbe identifi- care come l’età dell’umorismo. I mutamenti che il consumismo ha imposto alla società e al costume alla metà del Novecento hanno portato una paral- lela svalutazione delle idee più forti che i secoli precedenti avevano edifica- to. La religione, la politica e la morale civile hanno progressivamente perso terreno a favore di una ideologia fatta di edonismo, indifferenza e cinismo. Un processo che non è stato immediato, ma lento e a macchia di leopardo ma che ha coinvolto gran parte dell’Occidente. La nuova mentalità, che ha origine anche nel nichilismo di inizio secolo, ha trovato nell’umorismo il suo mezzo espressivo necessario e principale:

Proprio il boom dei bisogni, con la cultura edonistica che lo accompagna, ha reso possibile sia l’espansione umoristica sia il declassamento delle forme cerimoniose della comunicazione. La società, il cui valore cardine diventa la felicità di massa, è indotta inesorabilmente a produrre e consumare su grande scala segni adatti a que- sto nuovo ethos, ossia messaggi gai, felici, atti a procurare in qualsiasi momento, al maggior numero di persone, un premio di soddisfazione diretta. Il codice umoristi- co è davvero il complemento, l’«aroma spirituale» dell’edonismo di massa.13

Ciò che si propaga nella nuova società è una sorta di allegro nichilismo legato ad una coazione al divertimento: «Il mondo deve ridere per camuffare la perdita di senso».14 Ma per poter diffondersi in maniera capillare, lo hu- mor ha necessità di trasformare alcune sue caratteristiche principali: la sua capacità critica diviene una vis destruens mirata ad ogni assunto serio; il suo

11 «HUMOR. International Journal of Humor Research» diretta da Thomas Ford. 12 ATTARDO 2014. 13 LIPOVETSKY 2014, p. 172. 14 MINOIS 2004, p. 680.

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riferirsi al soggetto come entità capace di raziocinio si modifica in culto dell’Ego e della persona; la sua funzione di difesa, di «meccanismo di co- raggio»,15 per affrontare il mondo si muta in una barriera di cinismo per al- lontanare il portato emotivo del reale. In definitiva l’umorismo di massa è superficiale e pervasivo, escludente con chi cerca di postulare qualcosa di differente dall’esistente: «ridere è obbligatorio, gli animi tristi vengono e- sclusi, la festa deve essere permanente».16 L’umorismo, che nei secoli è stato mezzo di coscienza e liberazione dal potere oppressivo delle tradizioni più reazionarie, nell’epoca del consumismo viene utilizzato come uno strumen- to per raffreddare il pensiero: «Ridere di tutto significa adattarsi a tutto, a- bolire il bene e il male per essere cool».17 Se il riso è però un obbligo sociale, spesso vuoto e distanziante, perde la sua dimensione gioiosa e liberatoria. Ciò che si viene a creare è un paradossale mondo triste che è circondato da risate, in una costrizione al riso che diventa psicotica e nevrotica. Anche la politica viene investita di questi nuovi registri. Il riso si tramuta in oppio dei popoli perché sostituisce il dibattito sulle idee, «diviene un so- stituto del ragionamento e della prova».18 Il pubblico rifugge la tragedia e gradisce maggiormente lo spettacolo, la commedia delle parti: slogan ripetu- ti come pubblicità, diatribe simili alle baruffe clownesche, tirate sempre più caricaturali con il politichese che si fonde al paradosso prima e si carica di inglesismi poi, promesse sempre più irrealizzabili ed eclatanti. È per quello che, nella società della festa, del divertimento e dell’edonismo, la politica cerca di porsi in maniera informale, sfruttando il meccanismo economico della fidelizzazione al marchio più che della profondità di argomentazione. Il modello umano di riferimento è ipercompetitivo ma distaccato, come gli eroi dei film d’azione americani – capaci di ironia prima di uccidere a sangue freddo. Concentrato nell’auto-miglioramento e nell’edificazione di un sé solido, autotelico e slegato da rapporti significativi con gli altri. Non esiste un’identità forte perché c’è una generale retorica del tutto è possibile e del cambiamento costante: in questa maniera diviene tutto indistinto. Nul- la è davvero proprio, ma niente è davvero alieno. La ormai diffusa locuzio- ne di “società liquida” è anche questo. In un simile stato di cose però le bat-

15 SBATELLA-MOLTEMI 2008, p. 47. 16 MINOIS 2004, p. 679. 17 Ivi, p. 730. 18 Ivi, p. 737.

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GABRIELE TANDA tute hanno meno coinvolgimento emotivo su cui fare presa e sono meno efficaci:

Il fatto è che il riso gira a vuoto; è diventato ormai solo un fuoco di paglia genera- lizzato all’interno di un piatto consenso sociale. Un tempo il vigore della comicità era dato dal contrasto con la serietà: serietà dello Stato, della religione, del sacro, della morale, del lavoro e dell’ideologia.19

Il riso collettivo, e in genere la società umoristica finora descritta, è in contrasto con l’individualismo classico: esalta il gregarismo, la standardizza- zione dello humor, l’assenza del soggetto in favore di un esternazione della personalità, una sua spettacolarizzazione nella moda e nella tecnologia. Questo ha come conseguenza che «la festa obbligatoria e perpetua, come soluzione collettiva all’angoscia di un mondo che ha perduto il suo signifi- cato, rende impossibile la forma individuale del riso che è l’umorismo».20 Ecco il paradosso principale: in questo tipo di società non si riesce più a fruire dell’umorismo vero e proprio. E allora che fine ha fatto il genere let- terario? Si è modificato per riuscire ad esprimere davvero il nuovo corso sociale? Sono queste le domande che segnano il vero punto di partenza di questa trattazione. Ma prima di ricercare le risposte a questi quesiti, credo siano necessarie alcune precisazioni. Questo processo non è stato contemporaneo ed eguale in tutto il mondo occidentale. Il suo radicamento è dipeso soprattutto da tre fattori: la cultura di partenza, la situazione economica e gli eventi storici che hanno influenzato il modo di concepire la realtà. Dal primo punto di vista, l’Italia dell’inizio del Novecento presenta una frammentazione di immaginario e dialetti che andrà ad unificarsi in parte dopo la prima guerra mondiale. Ma anche dopo questo evento esisterà an- cora una forte divisione tra cultura alta e quella popolare, ancora piuttosto lontana da quella di massa e molto vicina alle influenze ecclesiastiche. Un umorismo degli umili che si esprime in modi molto diversi e che ha spesso obiettivi molto differenti da quello colto. Durante il fascismo, il regime cer- ca una forzosa unificazione linguistica e la costruzione di un immaginario

19 Ivi, p. 763. 20 Ivi, p. 745.

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comune, attraverso i media, riuscendoci solo in minima parte. Nel periodo mussoliniano d’altronde la censura e il forte controllo del regime della mag- gioranza degli organi di stampa, renderà l’umorismo uno dei campi di e- spressione di un dissenso occultato dall’ambiguità tipica del genere.21 L’economia italiana era però poco cambiata: una grande mole di persone lavorava ancora nelle campagne e le città erano ancora legate al modello tradizionale ottocentesco piuttosto che a quello della metropoli industriale della contemporaneità. Fu solo dopo il secondo conflitto mondiale che il tessuto socio-economico si trasformò radicalmente, prima nelle sue struttu- re produttive e poi, lentamente, con una “mutazione antropologica” degli italiani. Fu proprio dalla metà degli anni Sessanta in poi che si andrà a dif- fondere il consumismo, prodromo di quella società dell’umorismo di massa che Lipovetsky e Minois hanno teorizzato. La società però era ancora immersa in un contesto storico ancora molto politicizzato e violento. Il periodo del terrorismo che portò instabilità e ten- sione, non aiutava ad un mutamento dei registri. I giovani soprattutto erano immersi in una temperie culturale che li portava alla seriosità e all’uso anche caricaturale di un lessico legato alle ideologie. Solo dagli anni Ottanta ci fu un netto cambio di registro e il pieno instaurarsi della società del consumo, dell’edonismo e quindi dell’umorismo. Ma il lessico dello spettacolo massi- ficato ebbe un picco negli anni Novanta, con l’avvento nella società del ber- lusconismo. Un’ipostasi che dal 2008 andrà verso un netto declino, frutto di un’ulteriore mutazione economico-sociale dovuta a due fattori epocali: la crisi economica e l’avvento degli smartphone. Eventi che non solo hanno cambiato la fruizione della maggior parte dei prodotti culturali, ma anche i loro contenuti, producendo umori differenti dal passato e infrangendo il mito della crescita e del consumo illimitato. L’illusione di una festa costante si è infranta nella crisi economica più dura della storia italiana. Fissando un periodo su cui indagare letterariamente dunque porremo come data di inizio il 1936, segnata dalla morte di Pirandello, mentre come anno di chiusura il 2008. Il dettaglio dell’analisi sarà naturalmente più saldo e preciso nelle stagioni criticamente più consolidate, mentre si diraderà av- vicinandosi alla più stretta contemporaneità.

21 Vedi DE CAPRIO 1990 per lo humor sotto dittatura confronta anche DAVIES 2007.

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Alla morte dello scrittore di Girgenti, il genere umoristico è molto popo- lare, soprattutto nella versione teorizzata dal premio Nobel.22 La situazione politica in Italia rende difficile la sua libera espressione, ma aguzza l’ingegno degli scrittori. È da notare infatti come esistano tre approcci diversi all’umorismo in questo periodo: il primo era quello di sfruttare l’immaginario surreale, meno realistico e più legato all’assurdo, che negli anni Trenta e Quaranta iniziava a prendere sempre più piede nelle poetiche letterarie europee; un’altra via per poter esprimere la risata era quella legata alle piccole cose familiari e umili; mentre l’ultima possibilità era quella di un confronto sulle ideologie più laterali del regime, i miti costruiti e posticci che però non si riferivano direttamente al fascismo. Le opzioni sono rara- mente specializzazioni stilistiche, ma vengono piuttosto usate mescolate o sviluppate in diverse opere dallo stesso autore. Alberto Savinio, ad esempio, all’inizio della sua carriera, usa volentieri dei temi e dei modi ascrivibili al Surrealismo. Pur non accettando comple- tamente l’inserimento nella corrente letteraria, lo scrittore cosmopolita ne è palesemente affascinato e influenzato. Similmente anche se non è propria- mente uno scrittore umoristico usa spesso i suoi meccanismi. Ma è solo una prima fase, durante gli anni Venti conoscerà direttamente Pirandello, e con lui collaborerà per il teatro. L’esperienza lo porterà negli anni Trenta e Qua- ranta a distaccarsi sempre più decisamente dalla narrazione per approdare ad un saggismo soggettivo e creativo.23 Proprio questa fase sarà venata di un sotterraneo ed elegante umorismo conoscitivo24 che lo porterà a sfrutta- re la contraddizione come metodo di ricerca. Una risata spesso “di testa”, e non “di pancia”, perché tutta legata alle capacità di comprendere i riferi- menti all’immaginario letterario e culturale del periodo. Un divertimento che scaturisce dalla capacità saviniana di collegare ciò che normalmente non si potrebbe collegare. Un’unione di opposti che crea uno scarto dalla norma logica e per questo capace di stupire. Queste tecniche e tematiche non cre- ano attriti con il regime tranne quando i suoi assurdi ponti logici si innalza- no per toccare i miti fondativi della cultura patria, come Leopardi.25 Sostan-

22 PIRANDELLO 2006. 23 Vedi BELLINI 2012. 24 Vedi TANDA 2016. 25 A causa di un suo pezzo su Leopardi, «Omnibus» verrà chiuso dal Minculpop.

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zialmente però un approccio simile, estremamente libertario ma non diret- tamente d’opposizione, non lo farà cadere nella rete censoria della dittatura. Come d’altronde la censura non toccherà mai Cesare Zavattini. L’autore durante il fascismo, quindi prima di giungere alla scrittura per il cinema, scrisse opere narrative di tono umoristico. In realtà libri come I poveri sono matti e Parliamo tanto di me, letti ora hanno perso la loro punta ilare, e invece hanno acuito i loro vertici di surrealtà e assurdo. Nessun riferimento diretto alla società a lui coeva, ma piuttosto una sperimentazione estrema quasi al limite dell’avanguardia. L’impossibilità di un’opposizione diretta portò anche a concentrarsi su aspetti minori della mentalità di regime, come farà Vitaliano Brancati ne Il bell’Antonio e soprattutto nel Don Giovanni in Sicilia. Nella costruzione pro- pagandistica fascista, il maschio doveva essere donnaiolo ma anche padre di famiglia, operoso e virile. L’autore di Pachino opporrà a questa visione dei personaggi deboli, libertini teorici che non hanno in particolare stima né il sesso praticato, né le responsabilità. Ognuno a modo suo tenta di mantene- re un recinto di libertà interiore. L’umorismo che deriva è conseguenza di questo scollamento tra realtà e interiorità: c’è una discrepanza tra i valori sociali e personali, ma anche tra professioni pubbliche e concreta aderenza a ciò che si mostra, e questo crea uno scarto umoristico che viene attivato solo in chi sente come risibili queste ipocrisie.26 Altro approccio avrà Giovannino Guareschi che sceglierà di raccontare gli oggetti umili e i sentimenti semplici della sua esistenza. L’umorismo de La scoperta di Milano, come anche delle successive raccolte di racconti fami- liari, si basa su una risata dolce e solo a tratti amarognola: ciò che fa sorride- re sono le piccole vicissitudini e i siparietti coniugali, che però mostrano una famiglia semplice e lontana dalla retorica. Le opere di più intensa in- venzione, come Il destino si chiama Clotilde e Il marito in collegio, si rifanno inve- ce al genere picaresco e allo stesso tempo borghese. Sono vicende ambien- tate nella società medio-alta e mostrano tutto il posticcio di tanti bovarismi letterari. Anche qui la derisione si appunta su miti marginali, sono opere di intrattenimento, che mantengono una brillantezza surreale molto più con- creta di un Zavattini.27 Opere di grande qualità queste ultime, anche se non

26 Vedi FERRETTI 1998. 27 Vedi CONTI 2008.

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GABRIELE TANDA impegnate, che rappresentano le migliori prove del genere di questo perio- do. Altra prova notevole e per molti versi lungimirante, anche se un po’ ri- petitiva, sono I diari di Gino Cornabò di . L’autore – che vedremo meglio in seguito – durante i primi anni Quaranta ritrae con preci- sione il piccolo borghese italiano vittima della propaganda magniloquente di Mussolini. È un’opera rabbiosa, che usa il protagonista come un bersa- glio, una caricatura che convoglia la vanagloria, l’egocentrismo e la retorica dell’italiano fascista medio. Un’opera che verrà data alle stampe sulle riviste e che non impensierirà la censura, perché non direttamente in contrasto con il regime, anche se contraria alle sue basi socio-antropologiche. Un e- sempio che avrà dei padri come La famiglia De-Tappetti di Gandolin, ma an- che degli eredi, come il ragionier Fantozzi. La transizione dalla dittatura al dopoguerra creò condizioni economiche e culturali diverse. Con la sconfitta dell’Italia e del fascismo, i miti naziona- listici entrarono in crisi, e si ripristinò una ampia – ma non totale – libertà di stampa. Allo stesso tempo dall’America arrivarono nuovi fondi per ripar- tire. Proprio a causa di questa fase di ricostruzione e dell’ottimismo diffuso, la popolazione italiana apprezzò solo in parte chi creava polemiche politi- che, come il «Candido» guareschiano, preferendo invece chi si faceva porta- tore di una risata maggiormente solare e ottimistica. Guareschi nei primi anni del dopoguerra pubblicò opere d’impegno co- me Italia provvisoria, in cui raccontava gli anni delle macerie e degli eventi post-bellici, ma anche i suoi ricordi dei campi d’internamento. Una memo- rialistica che trovò come risvolto polemico fin da subito le colonne del «Candido». Eppure, anche in questa nuova temperie, ciò che lo fece più ap- prezzare furono opere distanti da queste, come la saga del Piccolo mondo, quella di don Camillo e Peppone, oppure le sue opere familiari. La sua ani- ma più fantasiosa era svanita, a favore di una battaglia culturale che voleva rifarsi del silenzio subito negli anni precedenti. I suoi colleghi Giovanni Mosca e Carlo Manzoni, si unirono a lui nell’impegno ebdomadario, ma per un tempo più breve. Entrambi si lanciarono negli anni Cinquanta e Sessanta in altri generi: Mosca tornò alla tipologia frequentata nella sua giovinezza, quella di una scrittura legata all’infanzia, e alla scuola, un umorismo elegia- co; mentre Manzoni esplorò la parodia del genere poliziesco-noir di stampo americano. In entrambi i casi la loro scrittura perde quei caratteri satirici ti-

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pici del Guareschi baffuto. Un importante ritorno alla narrativa è invece quello di Achille Campani- le. In questi anni forse il miglior interprete della nuova mentalità. Campani- le infatti limitò il suo surrealismo nonsense, tipico degli anni Venti e dei primi Trenta, per iniziare – dopo una crisi compositiva durata fino agli anni Qua- ranta – a scrivere di temi maggiormente concreti. Non c’è un abbandono del suo piglio tipico, ma un adattamento: l’assurdo vivifica scritti più brevi uniti in raccolte che esprimono i temi e i toni più differenti. L’idea di rac- colte è specchio delle nuove necessità: riviste, radio e altri media irrompono nella società degli anni Cinquanta. Campanile, che si doveva inserire in un nuovo panorama, sente di doversi adattare e coagula il suo talento nella forma breve. Nelle narrazioni lunghe invece, la realtà viene trattata con fan- tasia, senza però sconfinare nella frammentazione della prima fase. Il mag- giore esempio di questo nuovo corso è Il povero Piero: il romanzo tratta della morte di un piccolo borghese cittadino, la narrazione procede per piccole vicende legate alla routine mortuaria. Il fatto importante è che tutto assume un connotato comico, ogni gesto ha risvolti che sembrano sconfiggere la tristezza legata al lutto, tutto è come preso da una reversibilità gioiosa. La morte, che aveva funestato moltissime case italiane durante la guerra, nel romanzo campaniliano viene sconfitta. Non è più motivo di tristezza, ma di allegria. Un romanzo ottimistico, che riesce a ragionare su un tema tipico di Campanile e che si fa portatore del nuovo spirito di rinascita che si stava diffondendo in Italia. Un Paese che fino ai primi anni Sessanta si rinnova in profondità soprat- tutto a livello economico. Solo dal 1962, con i primi scioperi e con le prime generazioni post-belliche, la mutazione sociale inizia a manifestarsi anche nelle fasce di popolazione più tradizionalmente restie ai cambiamenti.

Come si sarà notato il periodo dal 1936 al 1962 della narrativa umoristi- ca è caratterizzato da uno spiccato gusto per il surreale (come in Savinio e Zavattini), ma anche da un apprezzamento per i sentimenti dolci e nostalgi- ci (come Mosca e Guareschi). La vena perfida è solo parzialmente appro- fondita dal Cornabò di Campanile, mentre per il resto si esprimerà soprattut- to nei periodici del dopoguerra. Altro aspetto importante da sottolineare è l’orientamento politico degli umoristi di questo arco temporale: per la mag- gior parte sono conservatori oppure apolitici. Pochi e minori sono gli scrit-

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GABRIELE TANDA tori schierati a sinistra. La risata narrativa fa parte perlopiù di una cultura borghese. La prima svolta avviene nel 1963, quando verrà fondato a Palermo il Gruppo 63. La neo-avanguardia non era direttamente interessata a produrre umorismo, ma era affascinata dalle modalità compositive del genere. Ven- nero approfondite le esperienze di molti scrittori, soprattutto quella di Campanile, da critici come Oreste Del Buono e Umberto Eco. I due posero in risalto come l’anti-romanzo e lo scardinamento della trama lineare in funzione decostruttiva fossero già presenti nei libri mirati alla risata. Una simile attenzione si legò però ad un generale sospetto verso il fine per cui era usata: il divertimento del pubblico era visto con diffidenza. D’altronde la letteratura per il Gruppo 63 aveva una funzione di contestazione delle vecchie forme, sia compositive che mentali, una rivoluzione artistica che aveva in sé una grande forza polemica e ben poco ilare. Vicini ma non organici alla neoavanguardia furono e . Il primo iniziò la sua carriera accostandosi al racconto delle piccole realtà provinciali, in seguito comporrà una trilogia dall’umorismo davvero innovativo. Malerba, infatti, prenderà spunto da quei metodi com- positivi surreali e onirici del periodo precedente, ma aggiungendovi una co- scienza sociale affilata. Ne Il serpente, Salto mortale e Il protagonista i punti di vista si frammentano o trovano interpreti singolari, ma soprattutto si fanno portavoce di un malessere inedito dato dalla nuova modernità. I personaggi infatti sono riflessi da una miriade di specchi, per scoprirsi soli e rifiutati. Il solipsismo diventa mendace, onirico oppure frammentato tra parti dello stesso corpo: lo spettro dell’implosione psicologica è imminente. Eppure si ride, nervosamente e a metà, perché Malerba riesce a far divertire destabi- lizzando con una scrittura stratificata, ma godibile. Gianni Celati invece preferirà un’altra strada. Anche lui sarà autore di una sorta di saga, formata da Comiche, Le avventura di Guizzardi, La banda dei sospiri e infine Lunario del paradiso. In questi quattro libri a differenza di Ma- lerba l’umorismo vorrebbe passare non dal punto di vista, ma soprattutto dalla organizzazione del testo. L’intuizione che lo guida è quella di superare l’umorismo mentale e raffinato per approdare ad una risata simile a quella corporea del comico, fatta di ruzzoloni e gags.28 L’autore vuole fare della

28 VITI 2016, p. 15.

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lingua corpo: l’uso arbitrario dell’italiano causa errori – esaltati da Celati – e inversioni dello standard linguistico, una contestazione verbale che passa dalle gaffes e dalle increspature espressive, cadute idealmente simili a quelle che un clown può inscenare durante un suo spettacolo. Il risultato però non comunica spontaneità né leggerezza ma premeditazione, e procura una dif- ficoltà nella lettura che rompe il piacere che si vorrebbe comicamente spen- sierato. Uno stratagemma ripetuto che alla lunga diviene ripetitivo, come alcuni avanguardisti noteranno.29 Lontani dalla via sperimentale alla risata, si trovano due scrittori legati ad una tradizione che si sta trasformando: Marcello Marchesi e Ennio Flaiano. Il primo fin dagli anni del dopoguerra si avvicinerà alla pubblicità e ai nuovi media, soprattutto con l’arrivo della televisione si impegnerà nel creare slo- gan e reclames. Per questo si può affermare che sia uno dei primi copywriter professionisti della storia italiana. La sua dote di battutista, usata per i me- dia, verrà successivamente utilizzata per scrivere poesie e racconti critici del mondo consumistico che si stava sempre più instaurando in Italia, una so- cietà che lui stesso aveva aiutato a plasmare. Non è un caso quindi che i suoi testi esplorino con convinzione anche l’autocritica. Una scrittura quin- di che è immersa nella cultura dello spettacolo e del commercio che si muove verso una problematizzazione di ciò che era e ciò che è divenuta l’Italia. Vertice della produzione narrativa marchesiana è l’opera Sette zie. Anche in questo caso la dimensione del reale va a mescolarsi con quella o- nirica. Roma diventa un luogo di contatto tra dimensioni temporali, ma an- che emotive: il ricordo perso che si fonde con il presente, gli spiriti e le sen- sazioni – anche linguistiche – che si risvegliano. Un ritorno ironico ed ele- giaco, ma allo stesso tempo capace di una prospettiva sul presente. Anche il tardo Flaiano tematizza il nuovo mondo del consumo e dei media. La sua è una riflessione umoristica sulla trasformazione in atto. Un mutamento che solo negli anni Settanta si sta diffondendo in tutta la popo- lazione e che prima toccherà la parte di società più sensibile ai cambiamenti. Se gli anni Cinquanta erano il momento di Diario notturno e Una e una notte, gli anni Settanta sono quelli de Il gioco e il massacro e de Le ombre bianche. Nei primi la società è come in fuga sia da sé stessa sia dal mondo che la circon- da: un’alterità che non riconosce e che la turba. Negli anni Settanta il per-

29 BARILLI 2007.

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GABRIELE TANDA corso è compiuto e ciò che Flaiano vuole raccontare con un riso beffardo e disperato è proprio il risultato caricaturale che si è venuto a produrre.30 Non angeli caduti, ma uomini decaduti, “demoni meschini”, verrebbe da dire usando il titolo di un romanzo russo, che hanno perso la loro luce per diventare ombre di loro stessi. La bontà e l’ottimismo sembrano scomparsi, le piccole cose di cattivo gusto si son fatte ciarliere e raccapriccianti e a Flaiano sembra non restare che riderci sopra. Di un’epoca di transizione, ma che ormai è un prologo della piena socie- tà del consumo e quindi umoristica, è l’opera di Paolo Villaggio. Per certi versi centrale per comprendere il mutato umore della società perché larga- mente popolare e diffusa anche nella lingua comune.31 La cattiveria flaianea contagia una saga che sembra avere i caratteri del comico, ma che li supera per il suo risvolto emotivamente ambiguo. La saga di Fantozzi ha una strut- tura a sketch che si susseguono senza che le conseguenze del precedente in- fluenzino il successivo: le vicende fantozziane avvengono come in un in- ferno terreno in cui ciò che vale e l’umiliazione della pena. Un personaggio che viene vilipeso, picchiato, ferito gravemente, ma che nell’episodio suc- cessivo è nuovamente sano e pronto per subire ulteriori colpi del caso. Il meccanismo è prettamente comico, se non fosse che chi subisce mostra sentimenti e umanità. Ciò che si inserisce nel meccanismo della risata è un processo emotivo che porta lo spettatore a parteggiare con l’aguzzino. Un vuoto coscienziale che quando si colma lascia un gusto amaro nella bocca sorridente. L’intuizione geniale villaggiana sta in questo: creare una vittima che faccia sfogare le frustrazioni del nuovo cittadino consumatore. Un uo- mo che deve essere vincente, bello e di successo, ma che raramente lo è davvero. Ciò che viene offeso è quindi un riflesso goffo dello spettatore, che sembra incapace di riconoscersi se non successivamente: quasi una ca- tarsi attraverso una catabasi. Il personaggio di Fantozzi è uno spartiacque tra l’umorismo precedente e quello successivo. La società degli anni Ottanta, in cui il personaggio del ragioniere avrà maggior successo, è fatta di nuovi media come la televisione privata, ma anche di una incipiente globalizzazione. Nascono le diverse cul- ture metropolitane e i giovani si staccano sempre maggiormente dalla poli-

30 Vedi RUOZZI 2012. 31 Vedi BURATTO 2003.

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tica per sperimentare una via edonistica all’esistenza. Una società quindi che è pienamente contemporanea e umoristica. Proprio in questi anni la politica inizia a mutare caratteri con l’avvento di Craxi e dei socialisti, che imposta- rono la loro comunicazione ad una informalità nuova, con uno sfoggio del- la propria vita privata di divertimento e spregiudicatezza. La mutazione che Flaiano aveva indicato e Villaggio aveva mostrato con efficacia non lascia indifferenti gli intellettuali. Parte della cultura, infatti, cerca di contrastarla con il mezzo della narrativa umoristica. Soprattutto Stefano Benni produrrà dei romanzi che tematizzano uno scontro tra per- sonaggi buoni, spesso adolescenti, e una frangia di personaggi che vogliono corrompere il mondo, spesso con i connotati simili ad una pseudo-dittatura. L’ambiente, la gratuità e la fantasia sono messe in pericolo da un sistema arrembante che ha la volontà di monetizzare, di controllare e imbruttire qualsiasi cosa.32 La particolarità di questo umorismo è che riprende lo sguardo infantile e stuporoso tipico della fase post-bellica, aggiungendo pe- rò un sottotesto politico e una punta di immaginazione che non arriva alla pienezza del surreale. L’essere schierato però non arriva quasi mai alla satira diretta, ma piuttosto sfrutta saltuariamente l’umorismo nero, come in L’ultima lacrima. Una produzione quella benniana che rischia di ripetersi e di appiattire i personaggi in un manicheismo fiabesco. Altra reazione alla nuova società è l’umorismo di Cavazzoni che, durante le prime opere, si mantiene sui temi di un umorismo colto, con l’uso della parodia di testi antichi come bestiari e agiografie, oppure il canto elegiaco di un mondo stravagante, fatto di uomini capaci di originalità in contrasto con un vivere omologato dal benessere.33 Eremiti e santi vengono usati come reagente per un’analisi della realtà che possa mettere in risalto le brutture e le bassezze della contemporaneità. Un percorso che arriva fino ad un pro- gressivo avvicinamento alla caricatura. La reazione alla società edonistica e dello spettacolo, arriva al parossi- smo con la salita al potere di Silvio Berlusconi nel 1994. L’umorismo si mantiene vivo negli autori citati, ma viene superato spesso dalla preponde- ranza della satira politica che diviene capillare e onnipresente. Televisione, stampa e immaginario vengono polarizzati in due opposti schieramenti.

32 MAGNI 2015. 33 BONFILI 2014.

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L’anti-berlusconismo è satirico e sempre più andrà ad acquisire un tono moralisticheggiante; il berlusconismo invece userà i termini di un comico caricaturale e da barzelletta: da una parte Corrado Guzzanti e Serena Dan- dini, dall’altra il Bagaglino. D’altronde lo stesso Presidente del Consiglio usa i registri della risata nei suoi comizi e negli incontri internazionali. La serietà dell’argomentazione perde presa sulla comunicazione politica che diventa più nettamente spettacolo. Capace di essere voce critica di questo nuovo panorama è Daniele Luttazzi che riuscirà a farsi continuatore di un umori- smo nero che ha come padri Flaiano e Villaggio, oltre che una buona dose di comici statunitensi. Nel percorso di questo saggio il dato più significativo è il mutamento del registro umoristico. Tra gli anni Sessanta e Settanta cambiano il codice e i metodi di fruizione della risata e muta anche il sostrato politico che stava alla base del genere. Una rivoluzione che è parallela al mutamento socio- culturale ipotizzato da Minois e Lipovetsky. Negli autori della prima parte cronologica ciò che ha particolare attenzione è lo scontro contro l’architettura razionale dell’individuo. Un interesse che è derivato dal surrea- lismo e dall’eco che arrivava dalle avanguardie storiche. L’assurdo, il ragio- namento laterale, la peripezia paradossale sono molto presenti in questi au- tori. Al contrario, nella parte finale del secolo i narratori sembrano concen- trati soprattutto sul rapporto critico con la modernità – che acquista un va- lore centrale – e con la tematizzazione della difformità. Personaggi patolo- gici e insoliti prenderanno il netto sopravvento su quelli eccentrici ma sani degli anni prima. In parallelo con questo spostamento, anche il gioco con sé stessi è molto cambiato. Nei brani di Savinio, Guareschi, Mosca e altri si ritrova una forte impronta autobiografica, una sfida cognitiva o mnemonica con sé stessi: come se la competizione contro la razionalità pretendesse un’inevitabile messa in discussione della persona reale. In Malerba, Celati, Villaggio e altri questo aspetto si perde in favore di una narrazione in cui un protagonista, lontano dall’autore, viene inserito in un contesto ostile. La problematizzazione autoriale cambia oggetto: dall’io alla società.

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POETICHE ALLO SPECCHIO: PIRANDELLO E DOSTOEVSKIJ A CONFRONTO

Gabriele Tanda

Ad uno sguardo disattento le opere di Dostoevskij e Pirandello possono sembrare molto distanti. Eppure sarebbe un errore valutarle come inacco- stabili: molti passi biografici sono comuni e alcuni elementi della loro poeti- ca piuttosto simili. I due autori però non si sono conosciuti in maniera di- retta, e neppure le opere del primo sono state lette in maniera integrale e affidabile dal secondo,1 almeno così presto da poterne influenzare il teatro e la narrativa. La loro vicinanza è dunque più profonda e indiretta. La loro formazione ha in comune la lettura approfondita dei naturalisti francesi e lo studio della filosofia tedesca. Fu romantica in entrambi l’influenza dell’idealismo nell’idea di arte (Goethe per Pirandello,2 Schiller per Dostoevskij) e di creazione. Riferimenti culturali comuni che vengono accompagnati da esperienze parallele: sia l’uno che l’altro arrivarono nella capitale del loro Paese da un luogo di origine molto legato alle tradizioni (Pirandello dalla Sicilia e Dostoevskij da Mosca). L’esperienza della grande città darà loro una percezione di magnificenza architettonica accompagnata dalla meschinità e piccolezza della grande mole di funzionari legati al pote- re. Passarono del tempo in Germania, paese che tutti e due valuteranno come terra del futuro: un avvenire ambiguo perché fonte di fascinazione, perdizione e mutamento morale. Sia nell’autore russo che in quello italiano si ritrova un percorso politico similare: in gioventù vicini a idee rivoluziona- rie, nell’età adulta si spostarono verso posizioni radicali e conservatrici. Se queste somiglianze sono responsabilità del caso e hanno una valenza aneddotica, le coincidenze su un piano del pensiero diventano più rilevanti.

1 Le prime traduzioni ben curate in italiano sono databili intorno agli anni Venti del Nove- cento. In precedenza le traduzioni sono parziali e poco accurate. Vedi GUARNIERI ORTOLANI 1947. 2 Per approfondire nel dettaglio vedi SAHLFELD 2004.

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Sia Pirandello che Dostoevskij vedono nel positivismo un orizzonte filoso- fico limitante e disumano. Soprattutto il determinismo viene percepito co- me una gabbia in cui l’uomo viene rinchiuso e depauperato dei suoi grandi doni interiori. Sono due post-romantici che vivono il lento superamento del positivismo e l’incipiente mutamento della società tradizionale in borghese (Dostoevskij) e di massa (Pirandello): sono ambedue scrittori della crisi data dalle trasformazioni della modernità, di cui sono fortemente critici. Una sensibilità simile e il medesimo idòla da criticare che fanno risaltare la loro vicinanza, soprattutto andando a sovrapporre le più usate categorie inter- pretative. Prendiamo come esempi le tre più conosciute: umorismo, forma- vita e follia per Pirandello e carnevalesco, polifonia e sottosuolo per Dosto- evskij. Nelle due edizioni del suo saggio sull’umorismo3 noteremo che lo scrit- tore di Girgenti fa di sé uno dei prosecutori della linea umoristica della let- teratura italiana, mentre Bachtin indicherà nel romanziere russo la massima vetta del genere carnevalesco, due filoni che hanno una stretta parentela: l’umorismo è un genere serio-comico che deriva probabilmente il suo spiri- to dal carnevale. Eppure il tono dei due corpus sembra molto differente. Do- stoevskij narra la tenebra immersa in una coinvolgente febbre morale, tutto sembra cupo ma in realtà non mancano i momenti parodici, come la lettura di Merci fatta da Karmasinov ne I demoni,4 in cui la maschera seria di perso- naggi finti si sgretola. Parodia e serietà appartengono a due tipologie diverse di personaggi. Questa dicotomia si mantiene anche in Pirandello, da una parte le maschere, dall’altra chi ha scoperto la propria reale dimensione esi- stenziale. In nessuno dei due però c’è davvero da ridere: la tensione e la ra- zionalità smorzano l’ilarità. Nell’umorismo di Pirandello non c’è mai una denuncia senza compren- sione e compassione: l’autore russo non potrebbe che concordare con que- sto assunto. La denuncia, molto presente nelle opere dostoevskiane, non è mai categorica o distaccata: è sempre portata all’interno del condannato per illuminarne i meccanismi razionali e, soprattutto, risvegliare le facoltà empa- tiche del lettore. Riprendendo degli esempi proposti da Pirandello, po- tremmo dire che Dostoevskij ha in sé quella tolleranza e apertura alle opi-

3 Per una più dettagliata analisi del percorso che porterà alla formalizzazione de L’umorismo vedi PUPINO 2008, pp. 27-36. 4 DOSTOEVSKIJ 2011, pp. 488-492.

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nioni altrui di Machiavelli. Sempre dagli esempi proposti nel saggio del 1908 si può trarre un altro spunto: lo scrittore umorista può avere delle convin- zioni, anche forti e radicate, ma nelle sue opere esse si vedranno declinate non retoricamente, ma sminuite in personaggi che le negano profondamen- te. Il drammaturgo cita Don Abbondio come antitesi del coraggio della fe- de, parto però di uno scrittore profondamente religioso. Non succede così a molti dei personaggi del grande romanziere russo? Lui scrittore ortodosso e nazionalista pone i suoi ideali nel corpo di personaggi che li degradano, che li negano e li vituperano, messi in costante contrasto con dei campioni di ciò che professava. Eppure sia per il padre de I promessi sposi, sia per il pa- dre de I demoni i frutti migliori sono proprio questi personaggi negativi: Lu- cia come Tichon sono appiattiti nel dorato della propria icona, Don Ab- bondio e Stavrogin vivono nelle luci radenti e caravaggesche della loro am- biguità. Altri studiosi hanno individuato questa somiglianza tra i due concetti. Elio Gioanola indica nove punti di contatto tra il genere carnevalesco e l’umorismo:5 1) carattere composito e scomposto di questi testi; 2) vicinan- za al popolare-dialettale; 3) funzione di smascheramento; 4) contenuti filo- sofici e raziocinanti; 5) il rovescio e il contrario; 6) la visione dall’alto o da lontano; 7) processo di incoronazione e scoronazione; 8) sdoppiamento e doppio; 9) fine dell’eroe unitario epico-tragico. Punti di contatto che per- tengono pienamente allo scrittore russo ma non all’italiano, soprattutto per un aspetto: in Pirandello il folle prende la corona e la mantiene con tutte le forze, non accetta più di essere scoronato e impone le sue leggi del caos. Enrico IV, per fare solo l’esempio più eclatante, uccide per rimanere nella sua condizione di re, per essere indipendente e potente (anche se di un mondo fittizio, ma per l’autore è piuttosto irrilevante). Oltre a questo detta- glio il carnevalesco è molto forte in Pirandello, sia nella sua chiave psichica di sfogo e di espressione di veementi tensioni interiori, sia di influenza stili- stica di una letteratura alternativa, opposta a quella lirica e apollinea incen- sata da Croce. Ma non solo, il rovesciamento tipico del carnevale diventa sistematico e norma: non c’è solo il fascino verso questo mondo al contra- rio, ma una affermazione programmatica di onnipervasività del caos. Tutto è carnevale e perciò la trasgressione è regola: il potere è detenuto da folli

5 GIOANOLA 1997.

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GABRIELE TANDA mentre una pletora di signore Poponiche si sbraccia sul palco senza essere sfiorata dal ridicolo, perché niente è serio e tutto è relativo. La grande intui- zione dello scrittore siciliano è quella di portare ad un estremo potere la finzione carnevalesca – un inconscio razionalizzato che vedremo essere si- mile al sottosuolo – e dare il potere a dei fool scespiriani: il risultato è un e- quilibrio instabile pronto a deflagrare nel palco meta-teatrale. In gioco, dunque, non c’è solo la psiche, ma anche i rapporti di essa con il mondo, perché nel carnevale c’è una profonda confusione dei piani della realtà e della virtualità – come nel meta-teatro – tra personaggio che il soggetto vuole o deve rappresentare, soprattutto a sé stesso, e la persona reale. Adriano Tilgher, nel 1922, individuò il dualismo “forma e vita” nell’opera di Pirandello,6 dando riconoscimento critico e filosofico alla pro- duzione dello scrittore. La formula, che ebbe vasto successo, esprime in maniera rigorosa e sistematica pensieri e intuizioni che facevano già parte della poetica pirandelliana:7 la vita intesa come un fluire inarrestabile e cao- tico di eventi e sentimenti, influenze e pulsioni; la forma intesa come la ne- cessaria struttura che l’uomo crea per vivere in società e avere una coerenza individuale, ma anche come quelle forme organiche in cui la natura si mani- festa. Una dialettica che è prodotta dalla necessità della vita di crearsi una forma momentanea e la conseguente impossibilità di bloccarsi in essa. La coppia – contrastiva e complementare insieme – non è una novità concet- tuale nella storia del pensiero artistico e non, e si potrebbe accostare ad al- tre dicotomie come Super-Io – Es o anche alla classica physis – nomos, tutt’e due sicuramente conosciute dallo scrittore siciliano. In Dostoevskij una ve- ra e propria dicotomia tra forma e vita nei termini pirandelliani non esiste, ma non mancano delle dicotomie assimilabili. Difatti, non abbiamo la con- cezione di istituzioni, ruoli o costumi sociali paragonabili a forme che con- trastano il normale fluire dell’esistenza. Abbiamo piuttosto una dicotomia tra idealità e concretezza: insomma, pensiero contro vita. Gli abitanti del sottosuolo sono degli uomini cogitanti, un raziocinio ipertrofico che esalta la libertà astratta, la compresenza di tutte le possibilità, ma che sminuisce la vita concreta. Si realizza – in tutte le opere mature del romanziere russo – una divisione tra l’uomo singolo ideologo e la comunità, formata da indivi-

6 TILGHER 1922. 7 PIRANDELLO 2006, p. 938.

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dui reali e tangibili che affrontano le vicissitudini quotidiane. Le forme so- ciali, quindi, sono viste in chiave positiva, come entità vissute senza infin- gimenti dialettici che danno struttura e senso. La vita è, al contrario, il fluire indistinto delle opportunità – sempre mutevole come è mutevole la fantasia – che però rischia di cadere nel non senso, nell’astrazione. Rispettivamente, i due poli della contraddizione richiamano differenti mondi morali: da una parte le scelte fatte in funzione dell’uomo concreto, mosse dal sentimento unito all’intelletto; all’opposto una etica ultra-ragionata e argomentata pa- rossisticamente, dimentica, però, dell’uomo in carne e ossa. Da un lato la compassione, dall’altra la pietà generica. Ma la scelta di una forma morale arbitraria – ipercompensata con il ragionamento – allo scontro con il popo- lo crolla: l’atto crea la realtà della persona, l’azione rivela la vera forma dell’individuo. D’altronde la società non è vista come una moltitudine indi- stinta, ma come individui perfettamente strutturati che dialogano soggetti- vamente con il protagonista: non esiste la massa, ma la comunità dove l’individuo trova il significato del suo stare al mondo. Nei drammi pirandelliani non viene mai messa in scena la perdita di senno – per quanto una vulgata veda nell’autore siciliano un esploratore della malattia mentale – ma piuttosto il suo opposto: l’ipertrofia della ragio- ne.8 Nessun personaggio si chiude in un mondo schizoide. Non si è in- somma, usando un vocabolario psicoanalitico, di fronte a delle psicosi, ma è più corretto parlare di nevrosi, proprio perché l’esame di realtà viene supe- rato da tutti i personaggi. Anzi, i personaggi “folli” hanno una profonda consapevolezza della società e delle sue regole e non si alienano da esse nell’irrazionalità illogica, preferendo scagliarsi contro di essa con sofismi e argomentazioni che tendono a creare cortocircuiti negli ascoltatori: il loro obiettivo, infatti, è creare una crisi nell’altro, oppure la sua radicale distru- zione. La follia ragionata ha le radici ben precise in un evento traumatico più o meno grave o da un percorso di auto-coscienza – la rottura del cielo di carta – che genera un processo di relativizzazione delle regole sociali e morali. Arrivati ad un distaccato scetticismo, i protagonisti filosofeggiano su tematiche generali che si presentano loro in un caso particolare, e non limitano, quindi, il loro cavillare logico alle sole sensazioni personali o al ca-

8 Cfr. MANOTTA 1998.

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GABRIELE TANDA so presente. La reale follia è, piuttosto, un pericolo che viene fuggito:9 la caduta nel puro istinto e nel profondo inconscio è negata e respinta anche per questioni legate alla biografia dell’autore.10 La pazzia pirandelliana ha, invece, radici tutte letterarie che affondano nel fool, una delle figure più inte- ressanti del teatro scespiriano. La figura è originata dal matto di corte:

Il court-fool [...] si caratterizza quale persona che si guadagna da vivere grazie alle sue facezie, alla sua ingenuità (vera o simulata), mantenuto dal padrone che lo possiede come proprietà privata. In cambio di questa dipendenza, il fool ottiene la divisa che indica la sua singolarità [...] e la libertà di parola.11

L’insanità mentale è dunque una finzione, una maschera che libera. All’interno della corte la fascinazione popolare e lo spregio ecclesiale convi- vono: il fool può dire la verità ma, sbeffeggiato, non verrà preso sul serio e, pur nella libertà di parola, la sua azione sarà totalmente legata alla volontà altrui. Esistevano due tipologie di fool artificial basate sul registro comico uti- lizzato: il sweet e il bitter. I primi, i “dolci”, avevano una comicità gioviale e benevola in cui l’ironia rimandava a realtà stabili e salde; i secondi, gli “ama- ri”, avevano invece un umorismo più disilluso e disincantato e facevano ri- ferimento a realtà problematiche. Shakespeare utilizzava questa figura nel ruolo di «icona del caos, ma di un disordine controllato dal potere che gli conferisce un limitato diritto d’infrazione».12 Il Bardo mirava a creare un contraltare a una struttura ge- rarchica in primo piano: la corte reale. Questa scelta derivava dalla crisi so- cio-culturale del periodo elisabettiano e giacomiano. Oltre agli strascichi del conflitto religioso, non bisogna dimenticare «la caduta dei valori del passa- to, la paura di fronte al nuovo, alla “new philosophy” che secondo quanto scrive John Donne “calls all in doubt”».13 Una situazione simile a quella pi- randelliana. Il fool è dunque un agente disvelante, che toglie le maschere so- ciali e mostra al di sotto delle apparenze la reale essenza dei personaggi ma

9 «In Pirandello la follia rappresenta più una possibilità che una condizione, ma questa possi- bilità è la condizione di tutta l’opera» in GIOANOLA 1990, p. 121. 10 La moglie dello scrittore infatti soffriva di turbe psichiche e ossessionò il marito con la sua gelosia patologica, vedi GIUDICE 1980. 11 MULLINI 1983, p. 23 (i corsivi del testo). 12 Ivi, p. 24. 13 Ivi, p. 32.

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anche la verità degli accadimenti. D’altronde è anche l’unico personaggio- attore che può mostrare chiara consapevolezza che ciò che si sta svolgendo sul palco altro non è che una messa in scena e, perciò, ha facoltà di parlare anche col pubblico e commentare direttamente la rappresentazione: «il fool sembra avvertire che il tutto è finzione e che si sta aggirando in mezzo a maschere e non a persone; ma non ha il potere, perché l’autore stesso non glielo concede, di interferire in modo determinante sulla vicenda scenica».14 Sa, conosce, ma non può agire se non con parole. Se è certo che Pirandello conoscesse Shakespeare, è possibile che abbia riadattato questo ruolo tradizionale? In entrambi i casi ci si trova di fronte a persone al di fuori e allo stesso tempo all’interno della società dominante; in entrambi i casi i personaggi sono consapevoli che si sta vivendo una messa in scena – quelli inglesi si riferiscono a quella concreta del palco, quelli dell’italiano ad una rappresentazione sociale più ampia –; entrambi i perso- naggi corrompono il linguaggio per ottenere una vittoria contro una società che si vuole criticare aspramente. È ovvio che non tutti i caratteri del per- sonaggio d’ispirazione siano trasposti nella nuova figura pirandelliana, ma è innegabile che una forte influenza ci sia. Anche in Dosteovskij esiste un legame tradizionale con la figura del fol- le. Le prime letture dostoevskiane in Europa parlavano di personaggi al li- mite della salute mentale, affetti da una sorta di deliri: febbricitanti e con- vulsi sia nei loro atti che nei loro pensieri. Ma si può davvero parlare di fol- lia? Anche qui – come in Pirandello – i personaggi reputabili “folli” sono afflitti da un’ipertrofia della ragione, che arriva al parossismo dovuto al fat- to che ciò a cui pensano, l’idea, è diventata il fulcro della loro vita: sono, in definitiva, dei monomaniaci. Tutti i personaggi “folli” sono infatti figli dell’anonimo protagonista di Memorie dal sottosuolo, un essere umano che ha reciso i ponti con il mondo rinchiudendosi in un solipsismo allucinato dove Ego e mondo perdono le loro vere proporzioni, ridimensionate solo dall’azione e dalla conseguente sconfitta. La solitudine prima, il contrasto con la società poi: come Pirandello. Ma se nello scrittore d’Agrigento il so- lipsismo è dato da una netta conoscenza delle regole del gioco sociale – na- ta da esperienze pregresse – destinando così i suoi personaggi alla vittoria; in Dostoevskij ciò non succede: la solitudine cogitante porta solo a delle a-

14 Ivi, p. 52.

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GABRIELE TANDA strazioni, ad errate convinzioni. Ma questo perché accade? Nei folli piran- delliani la prospettiva da cui arriva la logica relativizzante è il nulla, tutto sembra indifferente, ma spesso è una maschera per coprire le vere ragioni del singolo: i personaggi dell’italiano non hanno niente da difendere se non loro stessi e la loro incerta identità. I personaggi dostoevskiani sono la loro idea, e quando questa crolla, li colpisce lo stesso destino. I folli di Dostoe- vskij sono knave,15 furfanti, che si oppongono agli jurodivyi,16 ai folli in Dio. Proprio questi ultimi sono delle figure estremamente importanti per la ca- ratterizzazione di alcuni personaggi del romanziere russo. Jurodivyi è il ter- mine che indica dei santi ortodossi che fingevano la follia per poter predica- re con maggiore incisività. Per comprenderne l’influenza si pensi che uno di questi è San Basilio a cui è dedicata la cattedrale policroma della piazza del Cremlino. La jurodstvo (“follia in Cristo” appunto) da cui lui venne colto era una follia profetica che lo portò anche a denunciare le malefatte dei ricchi boiari e addirittura dello zar Ivan il Terribile, che però ne era devotissimo. Il riferimento della follia in Cristo in Russia era quindi fortissimo e si legava a due fattori basilari: il profetismo e la capacità di proporre il Vangelo al di fuori della via canonica, in un modo che rovesciava la gerarchia di valori quotidiani. Nella maggioranza dei casi non erano dei veri malati mentali, ma piuttosto dei religiosi che usavano consapevolmente l’arma della follia per sprezzare l’onore terreno e il fariseismo e, di contro, avvicinarsi alla povertà evangelica e ai peccatori con l’intento di redimerli. Nei romanzi dostoevskiani si confrontano quindi due tipi di folli, antite- tici tra loro. Il folle terreno, amaro e nichilista e il folle santo, dolce e disar- mante per il suo spirito puro. Da una parte Raskol’nikov, Ivan Karamazov e Kirillov, dall’altra Alëša Karamazov e soprattutto il principe Myškin, vero jurodivyi di tutta la produzione dell’autore russo. I knave e gli jurodivyi sono dunque portatori di diverse istanze umane: gli uni del titanismo raziocinan- te, dell’uomo che fa legge a sé; gli altri dell’uomo inserito in una comunità e che si mette al servizio di essa, anche con il proprio sacrificio. I primi sono pronti ad uccidere per la loro idea, i secondi a morire per la loro comunità. Altra categoria interpretativa estremamente importante per comprende- re le opere dello scrittore russo è la polifonia. Secondo il critico Michail Ba-

15 Termine di derivazione scespiriana e che si oppone al fool vero e proprio vedi MULLINI 1983. 16 Vedi Jean Leclercq, L’idiota e la tradizione cristiana, in GRACIOTTI 1981.

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chtin – che alla fine degli anni Venti descriverà questa caratteristica – Do- stoevskij crea un mondo costantemente mediato dalle coscienze dei perso- naggi che hanno volontà e visioni del mondo autonome, anche in contrasto con la visione dello scrittore. Se, infatti, il romanzo monologico presenta una coscienza autoriale che ha un controllo completo e un sotteso giudizio sul mondo raccontato, nella polifonia questo viene superato, facendo calare il punto di vista e l’ideologia del narratore in una figura secondaria che ha possibilità di espressione simili a quelle degli altri personaggi. Il punto di vi- sta scompare o meglio cerca di essere mediato da una coscienza individuale presente nella vicenda: tutto deve passare attraverso le persone e la loro vi- sione. «La verità sull’uomo in bocca altrui, non rivolta a lui dialogicamente, cioè la verità esterna, diventa un’umiliante e mortificante menzogna».17 L’autocoscienza dell’individuo è centrale, è lì che si crea il dialogo silenzioso delle coscienze. La descrizione del personaggio non racchiude un giudizio dell’autore, «vediamo non chi è, ma come egli prende coscienza di sé».18 Questo meccanismo in Pirandello capita raramente nel teatro. La coscienza dell’individuo è già formata e la società aumenta il suo grado di entropia ad ogni scena fino ad arrivare alla soglia dell’esplosione: il contrasto, che all’inizio è solo uno scambio di battute ironiche, si surriscalda fino al gesto estremo o fino al momento di rottura definitiva. La mentalità altrui è spesso già immaginata e il protagonista ha risposte pronte e immediate: sa già dove deve e può colpire per ottenere ragione. Due casi dove il protagonista prende coscienza di sé davanti al pubblico sono invece Tutto per bene e Uno, nessuno e centomila. In questi il dibattito – nella pièce anche corale – diventa centrale. Nel romanzo vincono i doppi pensieri: le opinioni altrui infatti vengono ascoltate da Moscarda e successivamente rimuginate costantemen- te in un colloquio interiore asfissiante. Nel dramma, al contrario, chi la fa da padrone è il dialogo sull’altro e con l’altro: Martino Lori prende vera co- scienza di sé solo quando scopre le conversazioni e le opinioni altrui su di lui. Prima di ciò nemmeno lo spettatore ha piena coscienza del passato e dell’identità del consigliere di Stato. D’altronde nei romanzi, e soprattutto nei drammi, pirandelliani il drammaturgo cerca di sparire: viene meno quel- la critica che Bachtin aveva fatto al teatro scespiriano di monologia sottinte-

17 BACHTIN 1968, p. 81. 18 Ivi, p. 66.

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GABRIELE TANDA sa. I valori di fondo della società rappresentata, infatti, vengono messi in dubbio frontalmente, in modo da aprire una breccia ad una coscienza di- versa che spezza la monologia. L’idea polifonica era presente in Pirandello già dal 1899 come dimostra L’azione parlata. L’azione parlata del titolo, spie- ga Pirandello, altro non è che «la parola che sia l’azione stessa parlata, la pa- rola viva che muova, l’espressione immediata, connaturata con l’azione, la frase unica, che non può esser che quella, propria a quel dato personaggio in quella data situazione»:19 ogni personaggio, quindi, dovrebbe essere iden- tificato con un linguaggio suo proprio che non solo lo caratterizzi, ma che mostri un’azione interiore, un movimento sottotraccia che sia proprio di quella data figura. All’atto pratico della scrittura, l’ideale professato nell’articolo apparso nel 1899 su «Il Marzocco», verrà seguito solo in parte. Ogni personaggio, all’interno di ogni singola opera teatrale, avrà un caratte- re proprio, anche a rischio di cadere nel “macchiettistico” (come la signora Onoria, la padrona di casa in Vestire gli ignudi, o come Madama Pace nei Sei personaggi in cerca d’autore): ognuno impersonerà una ben determinata visione del mondo con propri comportamenti precipui, ma questi faranno parte di famiglie determinate, interpretabili come dei ruoli base, quasi come delle maschere. Una simile caratterizzazione è sicuramente influenzata dal siste- ma dei ruoli vigente nel teatro italiano a cavallo tra il XIX e il XX secolo, che prevedeva attori specializzati in tipologie precise di recitazione, quali, per esempio, il padre nobile, il brillante e l’amoroso.20 Oltre a questi punti di tangenza, nella maggior parte delle opere pirandelliane i protagonisti hanno un ruolo preponderante che fa scomparire gli altri punti di vista, non c’è vero dibattito costruttivo se non forse ne I vecchi e i giovani. È questo è il più netto discrimine tra i due autori: in Dostoevskij tutto, anche l’identità, passa dalla vita comunitaria, in Pirandello tutto passa dall’individuo. Pur es- sendoci molti elementi accostabili, una vera e propria polifonia, quindi, non può esserci perché non c’è una eguale possibilità di espressione di tutte le mentalità né la compresenza di differenti prospettive sulla realtà. Una scoperta letteraria tra le più significative di Dostoevskij è la dimen- sione del sottosuolo: in ogni essere umano non c’è solo una parte conscia e

19 PIRANDELLO 2006, p. 448. 20 Per un approfondimento sul sistema dei ruoli del teatro Otto-Novecentesco vedi JANDEL- LI 2002.

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positiva, ma anche una nascosta e distruttiva. L’individuazione è precedente a Freud e alla psicanalisi e rispetto ad essa ha delle caratteristiche più tur- banti, perché più radicali, consce e meno controllabili. Il sottosuolo che il romanziere decide di sondare non ha una possibilità di normalizzazione, non è visto come essenza destabilizzante e perciò pericolosa dell’uomo: il sottosuolo è un nucleo irriducibile di forza di volontà, pura libertà allo stato di potenza. La base di questa rivelazione è che «la vita [...] contraddice ogni logica. Si predica un valore e poi, in realtà, non se ne tiene nessun conto. La scala dei beni è soggettiva e irrazionale e l’uomo demolisce di continuo tut- te le classificazioni e infrange tutti i sistemi inventati dai cosiddetti amici del genere umano per la sua presunta felicità».21 L’uomo del sottosuolo è chi sceglie la libertà anche a discapito della propria felicità.22 Davanti alla molti- tudine l’uomo singolo – e solo – rivendica la possibilità della sua auto- affermazione capricciosa e narcisistica senza ordine né sistema: siamo da- vanti ad un superuomo che crea una legge pro domo sua e a se stante, ma una legge che può ricadere solo su di sé, poiché il distacco dal consesso umano lo squalifica da una reale influenza su di esso, se non in chiave distruttiva. «In esso l’uomo non vuole essere legato a nulla tranne che al proprio arbi- trio e alla propria fantasia e respinge perfino l’idea della propria coerenza».23 Non è follia e non è istinto, è l’interiorità che ognuno cerca di nascondere a sé e agli altri: una libertà che si impernia di arbitrio e di incoerenza, ma che messa a contatto con la realtà deflagra in una sofferenza profonda: il singo- lo rinchiuso nel sottosuolo vive nell’illusione di sé, del mondo e della vita. Il contatto con la realtà è terribile perché porta alla scoperta della vere dimen- sioni di questi tre elementi. Girard nel suo Menzogna romantica e verità romanzesca interpreterà il sotto- suolo come luogo dove il singolo borghese cerca in tutti i modi di trovare una sua dimensione di autenticità e di libertà, ma in realtà desidera ancor più profondamente e in maniera nostalgica gli altri, diventando loro schia-

21 CANTONI 1975, p. 75. 22 «L’uomo interiore, cioè l’uomo del sottosuolo [...] è l’uomo che si ribella agli ideali prefigurati dalla logica e dalla morale del positivismo umanitario e di ogni altro catechismo filosofico, riaf- fermando il diritto di essere liberamente se stesso, anche col sacrificio della propria felicità e del proprio benessere» (corsivi del testo), (ivi, p. 68). 23 Ibidem.

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GABRIELE TANDA vo.24 Desidera terribilmente la comunità, brama diventare influente e che il suo valore sia diffusamente riconosciuto, vive per gli altri, pur disprezzan- doli e fuggendoli. La volontà di liberazione e autonomia è idealizzata, ma in realtà mai realizzata: l’uomo del sottosuolo è per questo il più schiavo di tutti. La visione girardiana sembra negare quella di Cantoni – rappresentativa di molte posizioni critiche – ma in realtà le due interpretazioni si possono compenetrare. Il sottosuolo non è più la libertà pienamente espressa di Cantoni, ma è il suo anelito che si deve scontrare con la pervasività delle regole sociali moderne che si basano proprio sul desiderio triangolare25 por- tato al parossismo. L’uomo del sottosuolo grazie alla propria autocoscienza arriva a percepire il suo nulla, ma non lo vuole accettare, ne ha terrore e perciò si costruisce un mondo ideale in cui lui può regnare in netta con- trapposizioni agli altri, da cui però desidera il consenso. Il suo regno può esprimersi solo nella solitudine, appena esce dal suo eremo ha due sole pos- sibilità: il masochismo – vissuto con i pseudo-amici di Memorie dal sottosuolo – o il sadismo – messo in pratica con la prostituta del romanzo. Ricapitolando gli aspetti di una categoria dostoevskiana centrale. Il sot- tosuolo è l’interiorità premorale e prelogica dell’uomo che però nasce da un surplus di coscienza personale e sociale, un’interiorità che nega rabbiosa- mente la morale comune e che si fonda sull’arbitrio – capriccio e incoeren- za – e sulla superbia – iper-considerazione di sé stessi. Il rinchiudersi nel sottosuolo è sinonimo di isolamento dal mondo e allo stesso tempo nostal- gia della vita, ma anche volontà di consenso e di pieno inserimento in un gruppo. È allo stesso tempo il rifugio di un’istanza di libertà profonda e immaginifica data dalla compresenza di tutte le opzioni pensabili. Solo l’azione può limitare le possibilità, far riconsiderare il reale valore del perso- naggio e farlo rientrare nel mondo, ma l’azione sarà anche la sua condanna perché inevitabile limite all’infinità delle scelte e ad una libertà concettuale. Il contrasto interiore è parte indubbia della poetica di Pirandello e si su- stanzia in soggetti iper-coscienti dell’oppressione delle regole sociali, scissi

24 «L’eroe vuole esprimere l’orgoglio e la sofferenza di essere unico, si crede sul punto di ab- bracciare la particolarità assoluta, ma finisce in un principio di applicazione universale, sbocca in una formula quasi algebrica nella sua anonimità» GIRARD 2005, p. 224. 25 Meccanismo alla base del vivere umano – secondo GIRARD 2005 – che vede il desiderio verso un oggetto o una persona legato alla volontà di imitazione di un terzo.

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tra desiderio di una libera espressione della loro pura essenza e la necessità profonda di stare in società soggiogati loro malgrado alle sue regole: la sof- ferenza dei personaggi pirandelliani è data dalla pressione della maschera sul viso del soggetto. Le reazioni fredde che Leone Gala e Angelo Baldovino (rispettivamente protagonisti de Il giuoco delle parti e Il piacere dell’onestà) hanno alla scoperta del tentativo di reificarli fatta dagli altri personaggi, sono tipi- camente da uomo del sottosuolo: capricciose, superbe e anche sadiche. La sofferenza è perciò un dolore da conferma della propria visione del mondo e delle proprie convinzioni, non, come accade nel romanziere russo, perché il mondo fa rivalutare le convinzioni del singolo portandolo ad un ripensa- mento o all’annichilimento. La società non è vissuta con regole contrastive, ma con le sue stesse regole portate ad una coerenza parossistica. Non c’è un’utopia sociale di cambiamento dei rapporti: è impossibile. C’è piuttosto un tentativo di unificare la personalità reale – o almeno preservarla – con il consesso degli uomini. Non si ha quindi una legge pro domo sua opposta alla legge della società, ma una morale formale usata allo scopo di crearsi uno spazio di libertà dove poter essere sé stessi: un sottosuolo rinnovato. Cantoni afferma che il sottosuolo è «la sfera prelogica della antinomia, del- la contraddizione non risolta e non inquadrata in alcuna legge, dell’ambivalenza, il mondo psichico della incandescenza non ancora cristal- lizzata in una forma»26 ed ecco quindi che si potrebbe dire, senza grosse forzature, che il sottosuolo è quello che Pirandello percepiva come vita in contrasto con la forma. La situazione che Dostoevskij ci propone è una di aperto contrasto, ma anche di aperta ignoranza: l’uomo di pensiero ignora la realtà del mondo e della società. Quella che invece produce l’autore ita- liano è una situazione di compromesso: la conoscenza delle regole permette di vivere nella società e, contemporaneamente, nel sottosuolo. D’altronde questo luogo della mente è anche «una sfera ambigua in cui l’uomo scopre la propria intimità e la ritrae dalla dispersione nel mondo, ma è anche l’orizzonte tragico della propria solitudine».27 In Pirandello c’è il tentativo disperato di preservazione dell’essenza individuale e al contempo di lotta contro la solitudine. La conclusione delle vicende presenta o il fal- limento dell’equilibro tra individuo e società oppure la sua vittoria: il prota-

26 CANTONI 1975, p. 82. 27 CANTONI 1975, p. 94.

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GABRIELE TANDA gonista è costretto a ricadere nel proprio sottosuolo solitario (Il giuoco delle parti e Enrico IV), oppure si inserisce in una società che è stata vinta (Pensaci Giacomino!). Anche perché la società borghese è una selva oscura in cui l’unica legge è la concorrenza spietata e disumana: o si vince o si perde. Questo concetto è quindi interpretabile come un approfondimento della libertà interiore dato dalla contemplazione vertiginosa della illimitata possi- bilità. Ma appena si agisce nel mondo le probabilità di scelta diminuiscono: l’azione è il limite naturale del sottosuolo. Si può creare un’antinomia tra fatto e sottosuolo: l’uno è l’opposto dell’altro. Più si agisce nel mondo, più le opzioni diminuiscono e la personalità viene a manifestarsi e a limitare il poter essere dell’individuo. Il fatto, dunque, diventa un gancio che costringe al confronto, non tanto con il mondo, ma con la propria personalità che si va via via identificando e si pone fatalmente in contrasto con i desideri e con l’essenza che si era individuata in solitudine. La fuga dalla responsabili- tà e la lotta per l’identità che avvengono nel teatro pirandelliano in una sor- ta di “ordalia dell’ingegno” sono un procrastinare questo scontro. Si viene a creare un’altro contrasto: l’essenza contro la personalità, ciò che pensiamo di essere e ciò che è in noi, conflitto che è simile al classico: ethos antropoi daimon.28 Perciò esistono due contrasti che in Dostoevskij sono unificati e che in Pirandello invece sono per lo più scissi: tra sottosuolo e società e tra fatto e possibilità. Nello scrittore russo l’idea porta al fatto e insieme al con- trasto con una società sconosciuta; nel drammaturgo, invece, con la società si può creare un arduo equilibrio armato, ma con sé stessi, invece, lo scon- tro è terribile. Si potrà obiettare come il fatto crei una limitazione delle pos- sibilità, più per l’intervento del giudizio esterno degli altri che per una pro- pria scelta. Ma Pirandello è chiaro in questo, la coscienza è la società in noi, gli altri sono già dentro di noi, ma finché si rimane nella irresponsabilità del sottosuolo, essi non hanno potere; appena si agisce gli altri entrano in noi, e se non li si vince attraverso argomentazioni, si vedrà il proprio sottosuolo, la propria vita, limitarsi in una forma edificata da altri. Da questo ultimo punto emerge l’importanza per entrambi gli scrittori del fatto. Raccontato nella sua essenzialità, è fuorviante: l’interiorità dell’individuo è essenziale nelle vicende da loro narrate. Entrambi infatti

28 Detto eracliteo dalla duplice traduzione: “il carattere è il demone dell’uomo” cioé quello che deve combattere e soggiogare, oppure “il carattere è il divino dentro l’uomo” cioé una parti- cella di armonia cosmica che va coltivata.

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raccontano di personaggi e della loro evoluzione personale, non raccontano storie: la trama ha un ruolo di sfondo nell’economia della loro poetica. Un superamento del Naturalismo e del Verismo che si attua abbandonando il distacco e facendosi coinvolgere. Ma oltre ad un elemento di matrice stori- co-letteraria, l’evento passato è una strategia centrale in molte opere dei due autori. Raskol’nikov, Stavrogin e i fratelli Karamazov si dimenano dentro le conseguenze di una azione passata e la colpa ossessiona anche il padre dei Sei personaggi in cerca d’autore29 e Romeo Daddi di Non si sa come. L’evento- gancio può non avere i connotati di un crimine ma anche solo di una rive- lazione, come per Vitangelo Moscarda. L’azione significa una profonda ri- velazione interiore che il protagonista subisce, ma se nello scrittore russo questa è accettata perché riporta il singolo, l’eretico, nell’alveo della comu- nità; in Pirandello questo assume i connotati dell’ingiustizia. La coscienza del singolo è in un costante mutamento, l’azione è una rivelazione parziale e passeggera di ciò che si era, ma capace di creare delle conseguenze durature e bloccare l’uomo in un’etichetta che lo perseguiterà nel futuro: scegliere di agire è la sorgente della forma, l’opposto della vita. Per questo le sembianze di alcuni protagonisti pirandelliani assumono i connotati di tentatori, e non di criminali:30 si vuole spingere gli antagonisti ad agire per rinchiuderli in una forma che li porterà alla perdizione o alla morte. Un’opera di convin- cimento portata avanti con la dialettica, in una sfida di intelletto che ha co- me obiettivo quello di vincere “un’ordalia dell’ingegno” che decreterà chi potrà continuare ad esistere pienamente. In Dostoevskij questo aspetto non esiste, perché non ci può essere vera sfida tra un’entità che ha il monopolio della verità e della coscienza e il singolo individuo solipsistico: ogni tentati- vo è un ragionamento vuoto destinato a soccombere. I due scrittori mostrano molti punti di contatto – alcuni non toccati per motivi di spazio da questa trattazione – dovuti con tutta probabilità ad una formazione e a vicende comuni. Le somiglianze sono metodologiche e te- matiche, mentre le differenze dipendono dall’ovvia distanza cronologica e geografica. La centralità dell’interiorità umana in contrasto con la volontà deterministica di una certa cultura produce personaggi che usano la raziona-

29 «quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dun- que un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo», PIRANDELLO 1986, p. 701. 30 Il miglior esempio è Leone Gala de Il giuco delle parti in PIRANDELLO 1986.

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GABRIELE TANDA lità per trovare una libertà nuova e senza legami. Anche il rapporto con la follia è simile, perché si rifà ad una tradizione di matti finti che usano l’etichetta di insanità per poter sfuggire ai vincoli del senso comune. Nell’alveo del pensiero del periodo – il riferimento è soprattutto a Kierke- gaard31 – entrambi si confrontano con l’angoscia della possibilità, opposta in entrambi i casi alla potenza dell’azione e della rivelazione che ne conse- gue. Due dei massimi artisti della letteratura mondiale accomunati da una sensibilità simile e dalle reazioni alla crisi che investiva la loro società a ca- vallo di due secoli.

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Giambernardo Piroddi

A Giorgio Mameli

Il ruolo che il paesaggio, la sua percezione e di seguito rappresentazione lirica hanno in letteratura e più specificamente in poesia non può certamen- te essere, in sé e per sé, argomento nuovo d’indagine. Sempre nuova, tutta- via, può essere la maniera in cui si legge l’Erlebnis che del paesaggio un au- tore manifesti, tenendo presente, con Bàrberi Squarotti, che «la letteratura non è mai semplicemente descrizione, emozione, passione del cuore e nep- pure acribia della tecnica, che porti al puro piacere della filologia […] è piut- tosto reinvenzione e citazione di altri precedenti autori e testi; è commento, variazione, sviluppo successivo di ritmi, di concetti, di immagini, fino al punto in cui l’opera sia adeguata composizione di allusione al passato e di creazione nuova».1 L’esperienza del paesaggio ha dunque una funzione in qualche modo fondativa dell’espressione poetica, gravida di implicazioni estetiche e filoso- fiche. Non può prescindere dal sentimento prima e dalla cognizione poi dell’estraneità, o quantomeno dell’alterità, rispetto all’uomo, della natura, abisso insondabile cui il filosofo, l’artista, il poeta coi versi s’incarica di dare forma: ed il pensiero del paesaggio si fa pensiero poetante sul paesaggio. Ciò naturalmente non accade soltanto nell’ambito della lirica moderna, né faticheremo ad individuare nell’estrema valenza analogico-emotiva di tale Leitmotiv una costante della poesia di ogni tempo.2 Senza dubbio la modernità trova, anche nella poesia ermetica di cui Giu- seppe Ungaretti fu antesignano ed araldo, nuova forma di utilizzazione di

1 SQUAROTTI 2003, p. 9. Dello stesso autore relativamente ad Ungaretti si vedano SQUAROT- TI 1958, pp. 108-18; SQUAROTTI 1972, pp. 171-81; SQUAROTTI 1981, pp. 247-61; SQUAROTTI 1989, pp. 11-23. 2 Sul paesaggio in letteratura, filosofia e arte tra gli altri: JAKOB 2005; ROMAGNOLI 1982, pp. 431-559; SANGIRARDI 2006; DOLFI 2011, pp. 655-75.

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GIAMBERNARDO PIRODDI tale preziosa risorsa lirica, che molto deve all’immediatezza ed asciuttezza del correlativo oggettivo. Grazie ad esso, il paesaggio ungarettiano di volta in volta si iconizza in potenti immagini, oggettivazione di emozioni sempre differerenti (la solarità africana dell’infanzia, Parigi, il Carso, l’incanto mitiz- zante dell’antico Lazio), cerziorando così il sicuro portato della poetica elio- tiana la quale, stabilendo un’immediata equivalenza tra percezione ed e- spressione, non intende spiegare l’emozione al lettore ma fargliela avvertire d’emblée. Tuttavia, nella celebre lirica ungarettiana dal titolo I fiumi aggallano chia- re tracce di una ragionata volontà di ‘esegesi’ della fenomenologia e della sintomatologia delle emozioni suscitate dal paesaggio; una profonda analisi introspettiva che porterà il poeta a ‘riconoscersi docile fibra’ e a ‘credersi in armonia’. I numerosi studi sull’autore3 non hanno certamente mancato di attribui- re al ruolo del paesaggio nella poetica ungarettiana il carattere di ‘funzione’ (la «funzione-paesaggio») intesa come «matrice strutturale della sua lirica»:4 paesaggio esteriore in cui petrarchescamente si reverbera l’interiorità del poeta riflettendone le emozioni;5 paesaggio che è presa di coscienza, come accade ne L’allegria, della tragicità di un intero momento storico incarnato nelle vicissitudini che il poeta va attraversando.6 In una nota intervista rilasciata a Ferdinando Camon, rispondendo ad una domanda riguardante la raccolta Sentimento del tempo, Ungaretti precisava che protagonista della sua poesia non è primieramente il paesaggio, ma l’uomo:

L’uomo è subito presente nella mia poesia, e prevalendo su tutto.7

Se l’uomo vince su tutto, il paesaggio dall’uomo cantato non può che umanizzarsi e, con esiti estremi e in ossequio alla dura legge del correlativo

3 Si vedano, tra gli altri, tutti gli Atti dei convegni ungarettiani a cura di: FAVA GUZZETTA - GENNARO - LUISI - MUSARRA 2005; BRUSCIA - CECCARINI - PETRUCCIANI - SCONOCCHIA - VER- DENELLI 1993; BRAMBILLA 1989; TORDI 1983; BO - PETRUCCIANI - BRUSCIA - ANGELINI - CAR- DONE - ROSSI 1981. 4 DE MICHELIS 2012, p. 19. 5 Cfr. ALONSO 1961, pp. 73-120; ANDREANO 1994; CAMBON 1976. 6 Sull’Ungaretti de L’allegria ed il rapporto con Bergson: CURI 1995, pp. 221-62. 7 UNGARETTI 2000, p. 838 (anche in CAMON 1982).

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oggettivo, carnificarsi (o scarnificarsi: «brandello di muro»).8 Tuttavia, stando al dettato lirico de I fiumi, l’uomo di pena Ungaretti, pur prevalendo – con la sua pena – indubbiamente su tutto, riconosce «meglio» se stesso e la propria essenza se collocato all’interno di un ben definito pae- saggio ed avendo chiara coscienza di esso. Maggiormente la suggestione pa- esistica è definita («i miei fiumi»), tanto più egli si riconosce: ed il paesaggio è lirico zeugma funzionale alla condivisione e trasmissione di un vissuto e- mozionale d’égal à égal: dall’uomo-autore all’uomo-lettore. Prendiamo in esame la lirica Paesaggio (da Sentimento del Tempo, 1920).9 Qui un cronista-poeta quadripartisce le ventiquattro ore della giornata in piccoli idilli descrittivi, brevi frame o appunti pittorici, come vergati sulla ta- volozza da un artista impressionista. Stante che l’uomo deve prevalere su tutto, ciò tuttavia non significa necessariamente che il paesaggio non possa essere protagonista. La mattina sin dal suo nascere appare consustanzial- mente relata all’acqua ed al concetto di freschezza; l’uomo indubbiamente prevale, nella misura in cui ciò che è inanimato acquista tratti distintivi dell’essere umano, quali il pensiero:

MATTINA Ha una corona di freschi pensieri, Splende nell’acqua fiorita.

Successivamente, l’arrivo del meriggio spalanca la porta alla ‘poetica de- gli eccessi’ che l’autore svilupperà in altre opere: «demonio meridiano»,10 miraggio, secchezza, abbacinamento. Concetti che si riverberano nella sin- tassi che diviene, tramite il polisindeto, ossessiva, tracimante:

MERIGGIO Le montagne si sono ridotte a deboli fumi e l’invadente deserto formicola d’impazienze e anche il sonno turba e anche le statue si turbano.

Con un tramonto che si cela nel mare, la sera è ritratta nello scoprire la propria nudità, come se insieme ad essa tutto il creato si vergognasse, fi-

8 UNGARETTI 1969, p. 51 (San Martino del Carso, v. 4). 9 UNGARETTI 1969, p. 104. Sul Sentimento del tempo cfr. l’edizione critica a cura di ANGELICA - MAGGI ROMANO 1988. 10 UNGARETTI 1949.

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GIAMBERNARDO PIRODDI nalmente diretto verso una consunzione estrema, quasi scotto di un peccato originale da scontare:

SERA Mentre infiammandosi s’avvede ch’è nuda, il florido carnato nel mare fattosi verde bottiglia, non è piú che madreperla. Quel moto di vergogna delle cose svela per un momento, dando ragione dell’umana malinconia, il consumarsi senza fine di tutto.

Il paesaggio notturno è estenuazione e dissolvenza (la percezione di ciò è anche uditiva); la notte è portatrice di verità, repentinamente svela (più che rivelare) il vero volto del poeta al poeta:

NOTTE Tutto si è esteso, si è attenuato, si è confuso. Fischi di treni partiti. Ecco appare, non essendoci piú testimoni, anche il mio vero viso, stanco e deluso.

Mattina, meriggio, sera, notte. Una è la natura, che si distende nella mol- teplicità del paesaggio e nelle soluzioni di continuità che l’uomo le ha asse- gnato. Tale distensione non può trovar spazio nell’Allegria, dove il paesag- gio coincide ab imis con una natura al suo ‘grado zero’, spoglia, all’origine (nostri i corsivi):

Dall’atrocità della natura spoglia dell’Allegria passai dunque a un mondo [quello del Sen- timento del tempo] dove prendeva forma mitica la storia nel suo trascorrere millenario e nella sua immediatezza.11

Una natura tragicamente spoglia ed informe prende dunque gradual- mente forma nel paesaggio. Paesaggio che nel Sentimento del tempo si carica d’un «trascorrere millenario», di cui tuttavia intravediamo significativo se- gnacolo già nell’Allegria. Il corso millenario dei Fiumi, le loro acque irrime- diabilmente trascorse da un lato ed il perenne riflusso nel ‘qui ed ora’ («nella sua immediatezza») dall’altro, li ritroviamo concettualmente uniti nel sin-

11 UNGARETTI 2000, p. 838.

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tagma «ho ripassato le epoche della mia vita».12 La memoria bergsoniana- mente rifluisce ad inondare il presente, in un’immediatezza che è anche spaziale, vigorosamente espressa nei deittici («questo è L’isonzo […] questo è il Serchio […] questo è il Nilo […] questa è la Senna»).13 Si intravede quindi già nella poetica allegresca, lì dove l’atrocità bellica va di pari passo con la frattura e la frammentazione («albero mutilato», «doli- na») che segnano la natura, l’imbozzolarsi d’una tregua apollinea, di una di- stensione; dilatazione serena di una natura drammaticamente franta e spo- glia in paesaggio ‘lungo’ e disteso:

I Fiumi è una poesia dell’allegria lunga; di solito, a quei tempi, ero breve, spesso bre- vissimo, laconico: alcuni vocaboli deposti nel silenzio come un lampo nella notte, un gruppo fulmineo di immagini, mi bastavano ad evocare il paesaggio sorgente d’improvviso ad incontrarne tanti altri nella memoria».14

Il locus amoenus dei Fiumi vive ed è eternamente vivo nella memoria, nella sua ‘durata’. Tale sforzo dilatatorio, d’impronta bergsoniana, pare riverbe- rarsi nell’aggettivo ‘lunga’, con cui Ungaretti definisce la lirica in oggetto e l’argomento che la sostanzia. ‘Lunghezza’ è, per il poeta, il sostantivo me- glio adatto a definire il paesaggio. Brevità franta e mutilazione delimitano invece incessantemente i confini della natura allegresca: spoglia, svuotata, cava («dolina»), informe, deformata («albero mutilato»). Tuttavia, il suo graduale ‘prender forma’ lunga e distesa nel paesaggio de I fiumi rappresenta il dirigersi della stessa verso una (più umana ed uma- nizzante) armonia apollinea. La natura, pertanto, evolve in paesaggio: l’atrocità lacerata e franta, arida e «prosciugata» (come la pietra del San Mi- chele)15 sfocia nel paesaggio acquoreo, equilibrato e composto de I fiumi. Se indubbiamente in Ungaretti esiste una «piena di luce»,16 l’abbacinamento desertico17 e l’avanzata inesorabile del «demonio meridia-

12 ID. 1969, p. 44. 13 ID. 1969, p. 44-45. 14 UNGARETTI 1969, p. 517. 15 Ivi, p. 41 (Sono una creatura). 16 UNGARETTI 1974, p. 70. Su Ungaretti e la ‘poesia della luce’ cfr. BARONCINI 2012, pp. 34-52. 17 «Il sole già cade a piombo; tutto ora è sospeso e turbato; ogni moto è coperto, ogni rumore soffocato. Non è un’ora d’ombra, né un’ora di luce. É l’ora della monotonia estrema. Questa è l’ora cieca; questa è l’ora di notte del deserto. Non si distinguono più le rocce tarlate, tigna bian- castra tra la sabbia. Le fini ondulazioni della sabbia anch’esse sono naufragate nella fitta trama dei raggi che battono uguali da tutte le parti. Non c’è più né cielo né terra. Tutto ha un rovente

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GIAMBERNARDO PIRODDI no», non troviamo il corrispondente pendant di una piena d’acqua. I Fiumi non conoscono eccessi, paiono viceversa correlativo oggettivo di un’armonia interiore in cui il poeta conosce e ritrova se stesso:

Ho ripassato le epoche della mia vita

questi sono i miei fiumi

Un ‘ripasso’ che pare coincidere, mutato nomine, con i «freschi pensieri» e con «l’acqua fiorita» della mattina di Paesaggio:

Paesaggio I fiumi

MATTINA Stamani mi sono disteso Ha una corona di freschi pensieri, in un’urna d’acqua […] Splende nell’acqua fiorita. ho ripassato le epoche della mia vita

Lo scarto lirico ed argomentativo, potremmo dire, da natura a paesaggio è individuabile con chiarezza proprio nella lirica I fiumi: eccezione ‘lunga’ alla regola ‘breve’ di cui scriveva l’autore. Qui parole e immagini evocano, dalla natura «atroce» de L’allegria, un paesaggio mattinale (e mai serotino o not- turno) che risponde a compiuti canoni estetici esaltanti l’equilibrio e l’armonia. uguale colore giallo grigio, nel quale vi muovete a stento, ma come dentro una nube. Ah! se non fosse quella frustata che dalla pianta dei piedi vi scioglie il sangue in una canzone, rauca, malin- conica, maledetta, direste che questo è il nulla. Essa entra nel sangue come l’esperienza di questa luce assoluta che si logora sull’aridità. E, dal segreto della terra, come un’eco di tanta sofferenza, percepite come uno spaccarsi strozzato nel sangue. Non c’è una locusta a quest’ora, non una di quelle locuste di cui, come i gatti, il nomade è ghiotto. [...]. Non c’è una locusta a quest’ora, non un camaleonte, non un porcospino, non una lucertola, non uno scorpione; non c’è una quaglia, né uno sciacallo, né uno scarabeo; né una vipera cornuta; ma inciampo nello scheletro d’un me- hari che farà musica stanotte quando il vento marino gli passerà tra le costole; a quell’ora esso sarà come un erpice della luna; allora lo Ualad-Ali per sorprendermi col suo bastone scaverà la sabbia e mostrerà con un inchino la testa del mehari che s’è mummificata; poi, senza toccarla, facendo cadere la sabbia col piede, la ricoprirà con cura» (UNGARETTI 1961, pp. 84-85)

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Nel perpetuo avvicendarsi di nascita e distruzione delle forme organiche e inanimate (la foscoliana «forza operosa» che «affatica di moto in moto»), nell’incessante fluire evenemenziale che estenua e si estenua ad libitum (l’ungarettiano «consumarsi senza fine di tutto»), ecco una raro intervallo armonico in cui l’uomo può aver tregua e riconoscersi:

Ma quelle occulte mani che m’intridono mi regalano la rara felicità

Nell’isola felice dei Fiumi l’armonia del paesaggio è tanto felice quanto rara: giardino nella sofferenza (andando à rebours a Leopardi), miraggio nel deserto (restando ad Ungaretti), eppure edenica armonia di edeniche remi- niscenze. A contrastare l’arida cattività terragna nella depressione dolinica, l’ubertà di una terra genesiaca bagnata da fiumi: non Pison, non Ghicon, non Tigri, non Eufrate, ma Isonzo, Serchio, Nilo, Senna (i suoi fiumi). Men- tre il ‘grado zero’ del paesaggio, ovvero la «natura spoglia», campeggia nei primi otto versi della lirica:

Mi tengo a quest’albero mutilato abbandonato in questa dolina che ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo e guardo il passaggio quieto delle nuvole sulla luna

I singoli elementi in cui la natura si manifesta al soggetto percepente – albero mutilato, dolina – non hanno l’armonia di un paesaggio. Questo su- bentra dopo, in seconda battuta, entro un lungo e conchiuso flashback: vive di (e in) una rimembranza. L’armonizzazione della natura atroce e spoglia (esasperata verticalità dell’albero mutilato e della dolina) ha luogo nella di- stesa orizzontalità dei Fiumi: risultante di un continuum di «intensificazione e

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GIAMBERNARDO PIRODDI purificazione»18 in cui la natura si fa paesaggio grazie all’impressione (con- cetti assai caro al Vermeer amato da Ungaretti) delle sue singole parti sullo sguardo di chi la osserva; non più franta, ma distesa. La verticalità notturna della dolina in cui il poeta è tragicamente «abbandonato» si oppone all’orizzontalità diurna («Scade flessuosa la pianura d’acqua»)19 della mattina ‘liquida’ in cui egli stesso si distende e si abbandona: sua sponte, come una reli- quia (e non «abbandonato» come un cadavere):

Stamani mi sono disteso in un’urna d’acqua e come una reliquia ho riposato

Apollinee sono le aurore ungarettiane, lì dove come in una tela divisioni- sta segantiniana il sole nascente con pittoriche fibre filamentose «affascina abbaglia e invade tutta la natura sottomettendola al suo influsso».20 Urna d’acqua e sole mattutino ricompaiono sovente, oggetto di continui riflussi intratestuali, all’interno della stessa raccolta (corsivi nostri):

Nelle sue urne il sole ancora segreto si bagna.[…] Il vero amore è una quiete accesa, e la godo diffusa dall’ala alabastrina d’una mattina immobile.21

La mattina è immota, come un’urna ed una reliquia, in misura inversa- mente proporzionale all’inarrestabile avanzata del «demonio meridiano» che senza sosta «sparge spazio» e «acceca mete».22 Viceversa, l’acqua è dominio della mattina e delle sue aurore anche ne I fiumi, dove il poeta ricorda nella desolazione notturna quanto gli è accaduto la mattina, come chiaramente si desume dalla chiusa che ci riporta alla dolina ed alla sua «corolla di tene-

18 SIMMEL 1985, p. 74. 19 UNGARETTI 1969, p. 107 (Silenzio in Liguria). 20 DAMIGELLA 1999, p. 42. 21 UNGARETTI 1969, p. 107. 22 ID. 1974, p. 122.

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bre»:23 vocabolo appartenente al lessico botanico e variante della «corona di freschi pensieri», che parrebbe estrinsecare una chiara necessità di variatio (corolla-corona) nell’indefessa operazione di rielaborazione intratestuale as- sai ricorrente nello stile del poeta:

Ora ch’è notte che la mia vita mi pare una corolla di tenebre

L’acqua sta al ricordo dei Fiumi come il deserto al presente della dolina. Negli ultimi quattro versi della lirica si riaffaccia pertanto la spoglia desola- zione, secondo un movimento di ring composition (natura-paesaggio-natura). Natura ch’è matrigna all’uomo, cui il paesaggio fluviale diviene indispensa- bile fonte di sopravvivenza. Se la notte è «corolla di tenebre», la mattina «splende fiorita»; fiore d’oscurità fonda da un lato, petali di luminosità gen- tile (e non abbacinamento meridiano) dall’altro. Ed è in questa luminosità che la reliquia «si sente riavere»:24

Ho tirato su le mie quattr’ossa e me ne sono andato come un acrobata sull’acqua

L’acrobata, scheletro vivificato dall’acqua, non può portare il suo equili- brio danzante nel presente della dolina, poiché non vi è e non può esservi «spettacolo» alcuno in quella desolazione. Può egli invece esibirsi seguendo l’armonica partitura di una totalizzante unità estetica, nel ricordo di un pae- saggio apollineo. Paesaggio che conserva la propria individualità («I miei fiumi») e che è tale grazie allo sguardo dell’uomo-poeta, il quale configura e armonizza, benché sempre in forma di unità distinte (Isonzo, Serchio, Sen- na, Nilo), ciò che risulta dalle sue percezioni, collocandolo entro una spa-

23 «Coròlla [dal lat. corōlla ‘coroncina’. In botanica, la parte più appariscente del fiore, costituita dai petali riuniti in uno o più verticilli all’interno del calice, in modo da circondare gli organi ri- produttori del fiore» (Enciclopedia Treccani, ad v. ‘coròlla’). 24 UNGARETTI 1969, p. 36.

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GIAMBERNARDO PIRODDI zialità semplificata (questo è, questo è) funzionale ad individuare in quel pae- saggio ed in ciò ch’esso rappresenta una meta destinale, un orizzonte di senso: l’armonia. Il silenzio spettrale della dolina cessa dove comincia l’apollinea mutezza dei fiumi. Tale poetica del paesaggio è la risultante di un atteggiamento prima selettivo (si pensi ancora alla lirica Paesaggio), poi unifi- cante ed armonizzante: orientato cioè verso la costruzione di un’unità di senso che vuol essere, appunto, armonico. Quando ciò non avviene, suben- tra il «supplizio»:

Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia

Al contrario dell’armonia acquorea dei Fiumi, il supplizio (o «travaglio») non necessita di essere presentificato nel ricordo. È sempre presente, i suoi correlativi oggettivi non devono essere richiamati alla memoria perché di essi il presente è dolorosamente materiato («dolina», «albero mutilato», «languore»). A dover essere richiamato nel presente è il ricordo del paesag- gio («questa è la mia nostalgia»)25, grazie al quale il poeta può esperire e ri- generare l’armonia dei Fiumi. ‘Credersi in armonia’: il peculiare uso riflessivo del verbum putandi unga- rettiano, preferito ad un assai maggiormente prevedibile verbum sentiendi (‘sen- tirsi in armonia’) è spia indicativa di come, per il poeta, la percezione dell’armonia sia assolutamente a posteriori: vincolata al preventivo credersi (o ritenersi) in essa. Credersi, ovvero ‘fingersi’ nella mente e nella memoria l’armonia dei Fiumi, è indispensabile: nella dolina notturna, di fianco all’albero mutilato, non c’è armonia. Questo termine, che ritroviamo nella lirica in una posizione chiave, oltre ad essere grecismo molto comune in poesia (documentato da Dante al No- vecento), in maggiore o minor misura relato alla speculazione filosofico- cosmologica, epistemologica e psicologica ma sempre ed in ogni caso con diretto rimando ai concetti di ordine e simmetria, è senz’altro sostantivo ben addentro al lessico di Giacomo Leopardi; ed è a nostro avviso proprio su tale couche terminologica e concettuale leopardiana che s’innesta e suben-

25 UNGARETTI 1969, p. 45.

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tra negli allegreschi Fiumi il concetto di armonia. A questo proposito non dimenticheremo che negli scritti ungarettiani il nome di Leopardi è fra quelli che più occorrono (insieme a Mallarmé ed E- liot).26 Né tralasceremo la lapidaria confessio autobiografica del poeta che in una lettera a Giovanni Papini scriveva, in merito alle letture della sua adole- scenza, «m’ero insanguinato di Leopardi»:27 potente presa di coscienza che amplificava, nell’efficacissimo sintagma, tutto il trauma di quell’ineluttabile deflorazione, intellettuale e psicologica, che nella delicata «complessione» (per dirla con Leopardi) del giovane Ungaretti doveva aver causato la cono- scenza del recanatese (e del suo universale «arido vero»). Pertanto, anche in forza di questi significativi elementi, potremo ipotiz- zare vi sia più di una ragionevole e motivata consonanza fra l’armonia dei Fiumi e quella dei «sovrumani silenzi» leopardiani, laddove il ‘credersi in ar- monia’ di Ungaretti («mi credo») richiama non poco il leopardiano ‘fingersi nel pensiero’ (‘mi fingo’)28 gli «infiniti spazi e sovrumani silenzi». Per Leo- pardi il naufragio è nel mare dell’immaginazione, per Ungaretti nel ricordo dei fiumi. Ad unirli non è tanto (o soltanto) l’elemento acquoreo, indub- biamente in comune, ma soprattutto il tandem concettuale armonia- pensiero. Il paesaggio dei Fiumi è sempre possibile e attualizzabile se ‘ci si crede’ in armonia; il dolce naufragio nel mare può sempre accadere se lo ‘si finge’ nel pensiero. Pertanto, il supplizio di cui parla Ungaretti è generato dalla mancanza di ‘finzione’, in senso leopardiano, dell’armonia. Ora, dalla lettura della lirica non si può non evincere come il ‘credersi in armonia’ sia posto dal poeta in osmotica relazione con il ‘riconoscersi doci- le fibra’. Ed è a sua volta il riconoscersi «docile fibra» a generare armonia

26 Cfr. UNGARETTI 1974; UNGARETTI 2000; DOLFI 2001, pp. 121-33. DOLFI 1995, pp. 183-97; DOLFI 1981, pp. 987-99 27 Cfr. UNGARETTI - DE ROBERTIS 1984, p. 38. 28 «Il vocabolo fingo oltre ad avere un valore di durata, oltre ad essere venuto ad affermare il valo- re d’illusione della poesia, possiede anche il valore di riferirsi ad una realtà assente, sebbene signi- ficata dalle parole, le quali la distruggono nel significarla, la rendono assente nel significarla – possiede anche il valore di riferirsi ad una realtà assente che costituisce la nostra effusione nel sogno, costituisce uno dei nostri modi di conoscere la nostra vera realtà – dicevo, oltre a tali va- lori, fingo ha un contenuto d’ironia. Tale contenuto, non è solo nei diversi termini della sua durata che viene ad esprimere. È più profondo. Denota uno dei caratteri essenziali della poesia nata con il Romanticismo. In Mallarmé la fede nel miracolo della poesia potrà essere più assoluta. In Leo- pardi l’ironia verrà sempre a rammentarci, nei più alti momenti, che anche il dono della poesia è illusione. Per ironia intendiamo quell’umana disposizione dello spirito che in ogni atto vede im- plicita la sua contraddizione» (UNGARETTI, Lezioni su Leopardi, in UNGARETTI 2000, p. 974).

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(giacché il non credersi-non riconoscersi genera supplizio). ‘Fibra-armonia’ è pertanto il trait d’union che suggerisce il filo rosso con Leopardi:

Questo è l’Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell’universo

Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia

«Docile fibra / dell’universo». Se il trittico potrebbe, già da solo, concet- tualmente rimandare in senso lato al recanatese, alle vertigini di solitudine del pastore errante che interroga la luna o dell’islandese che nulla può con- tro la natura, è tuttavia il lemma fibra in particolar modo ad essere a nostro avviso importante indizio intertestuale che rimanda direttamente a Leopar- di, ed in particolare al “giardino della sofferenza”: passo zibaldoniano ora- mai celebre che il poeta de L’allegria cita scopertamente in un suo scritto dal titolo [Il pensiero di Leopardi].29 A partire da una spietata quanto lucida osservazione della realtà, il reca- natese arriverà in esso a concludere che ogni essere vivente patisce un di- sarmonico stato di souffrance:

Ogni giardino è quasi un vasto ospitale […] se questi esseri sentono, o vogliamo di- re, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere.30

L’intera esistenza è, per sua natura ed intima essenza, imperfezione, di- sarmonia celata in un ossimoro: quello del giardino-ospedale (armonico vs disarmonico):

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessi- tà. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma

29 UNGARETTI 1974, pp. 324-43. 30 LEOPARDI, Zibaldone, 4176.

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tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.31

Sono le medesime parole che Ungaretti pedissequamente riporta, virgo- lettandole, nel suo saggio:

Egli [Leopardi] vede ogni singola parte del creato, egli vede che ha in sé corruzione, ch’è mortale, che sopporta le conseguenze della sua origine peccaminosa. «Tutte le cose, al loro modo, patiscono necessariamente»:32 l’appassire, il perire! «Non gli uomini solamente, ma il genere umano. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi».33

Erano dunque ben noti al poeta questi precisi frammenti della riflessio- ne zibaldoniana che, quanto ad un’armonia sempre insidiata dal supplizio, risultavano exempla di sicura efficacia modellizzante:

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno.34

Benché col termine ‘individuo’ possa intendersi, come da dizionario, ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie, o ogni orga- nismo animale o vegetale che non può essere suddiviso senza perdere le sue caratteristiche strutturali, appare chiaro come qui l’intenzionalità autorale leopardiana intenda stabilire una equivalenza tra i vegetali e gli individui ov- vero gli esseri umani, entrambi affratellati da una suprema sofferenza. È la medesima equazione che stabilisce Ungaretti equiparandosi ad una «docile fibra»: ogni individuo è «docile fibra» dell’universo. Così come l’«istato di souffrance» di cui scrive Leopardi non è dissimile dal «travaglio» cui è volto Ungaretti come «qualsiasi / fibra creata»:

Volti al travaglio

31 LEOPARDI, Zib., 4175. 32 Cit. da LEOPARDI, Zib., 4175. 33 Cit. da LEOPARDI, Zib., 4175. 34 LEOPARDI, Zib., 4175.

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come una qualsiasi fibra creata perché ci lamentiamo noi?35

Il paesaggio dei Fiumi sta alla desolazione della dolina come il giardino leopardiano alla ‘doglia universale’. Rara è la felicità, anche in un giardino dove tutto dovrebbe essere felice:

Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassi- sce.36

Il languore è nel giardino. Qualcosa langue37 anche in questo hortus con- clusus di bellezza, così come languisce un circo non durante, ma solo «pri- ma» e «dopo lo spettacolo». Che vi sia o meno qui consapevole o inconsa- pevole reminescenza del Langueur verlainiano, ci limiteremo a rilevare che il languore c’è, dapprima, in Leopardi. E lo spettacolo che nessun languore può tangere sta nel flashback dei Fiumi: nel mezzo l’armonia, in una intangi- bile rimembranza (prima e dopo il ricordo della Mattina c’è il presente not- turno – o lo «stagno di buio»38 – della dolina). Tale «languore» (o nelle varianti sinonimiche ungarettiane «supplizio», «travaglio») è per il poeta consustanziale al ‘grado zero’ del paesaggio (la na- tura atroce) ed è esterno al paesaggio dei Fiumi; mentre per Leopardi, di cui Ungaretti dirà «egli è pessimista, subito, sino dalla sua prima parola, e sem- pre, sino all’ultima»,39 il «patimento» è nascostamente pervasivo, inelutta- bilmente interno anche al giardino. Tuttavia, se Ungaretti se non si credesse in armonia (o se non ‘si fingesse’ la stessa) avvertirebbe il supplizio anche in mezzo ai Fiumi. Soltanto credendosi in armonia anche uno scheletro di quattr’ossa può danzare, nell’acqua, come un acrobata.

Ma veniamo ora al sintagma che più ci interessa, «fibra», ed alla ipotiz- zabile intertestualità con Leopardi (corsivi nostri):

35 UNGARETTI 1969, p. 38 (Destino). 36 LEOPARDI, Zibaldone, 4175 37 Cfr. UNGARETTI 1969, p. 47: «Fermato a due sassi / languisco / sotto questa / volta appannata / di cielo» (Monotonia). 38 UNGARETTI 1969, p. 48 (La notte bella). 39 ID. 1974, p. 326.

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Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vi- tali. Il dolce mele si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza in- dicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini.40

Rileviamo qui in sintagmi immediatamente contigui sia il «supplizio» («indicibili tormenti») caro ad Ungaretti, che la «fibra». «Fibre delicatissime» sta, come risulta evidente dalla lettura dell’intero passo zibaldoniano, per fibre fragili: da qui, a nostro avviso, proviene la «docile fibra» ungarettiana. L’opzione ungarettiana per l’aggettivo «docile» rappresenterebbe il ricercato scarto intertestuale dal «delicatissime» leopardiano. Riconoscersi, nell’armonia dei Fiumi, pur sempre una docile fibra equi- vale a riconoscere, come nella lirica Destino, che «qualsiasi / fibra creata» è sempre volta «al travaglio». Tale docilità è serena agnizione della propria condizione esistenziale, riconoscimento ed ammissione, confessio cordis e co- scienza piena della propria ineluttabile fragilità (o leopardiana delicatezza): quella che muove l’«involontaria rivolta» di Fratelli:

[…] involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità41

La preferenza accordata dal poeta, anche in altre liriche, al vocabolo ‘fi- bra’ come parimenti ad altri termini provenienti dal lessico botanico («co- rolla», «filamenti», «petali»), più che rimandare a taluni Leitmotiv del lessico crepuscolare di stampo pascoliano (o allo stesso Pascoli ed alla sua sua in- transigente «cura di botanico dotto»42 o entomologo), può essere concet- tualmente radicata in maniera più salda nel differente orientamento di senso che Leopardi conferisce all’uso di tale lessico; sempre piegandolo ad evi- denziare esasperatamente la smisurata fragilità delle più piccole piante del giardino e con esse di ogni essere umano:

Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorel-

40 LEOPARDI, Zib., 4176. 41 UNGARETTI 1969, p. 39. 42 Cfr. OJETTI 1895, pp. 139-41.

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lini.43

Non esiste dunque arcadica armonia («dolce mele») senza «indicibili tormenti» (o «supplizio») di quegli stessi fiori dagli arcadi cantati; paesaggio apollineo senza natura matrigna; «spettacolo» senza «languore»:

In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta.44

In tale, estrema, coscienza del supplizio non può non essere in buona parte radicata quella ‘poetica degli eccessi’ e della desertificazione- calcinazione-ossificazione ungarettiana di cui il passo dello Zibaldone sem- brerebbe contenere una tutt’altro che velata profezia:

Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco.45

Il rapporto tra le grandezze leopardiane ‘giardino-ospedale’ non è dissi- mile da quello delle ungarettiane ‘fiumi-dolina.’ La dolina è un «vasto ospi- tale», i fiumi sono acquoreo hortus conclusus: distante dalla dolina ma pur sempre temporaneo, come il ricordo. Armonia non regna nel giardino, né l’acqua dei Fiumi può essere esente da supplizio. Non è dato pertanto all’uomo essere tout court in armonia. Egli può invece, sempre ed ovunque, credersi in armonia (ovvero riconoscersi docile fibra di una universale doglia) per esserlo. L’endiadi concettuale ‘fibra-filamento’, alla conclusione del passo zibal- doniano, può illuminare ancora meglio il legame tra il recanatese ed Unga- retti (nostri i corsivi):

Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stri- toli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro.46

43 LEOPARDI, Zib., 4176. 44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Ibidem.

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La fibra è filamento: parte viva e «dilicata» d’un tutto. La liaison ‘delicato- fibra’ torna poi, riferita esclusivamente agli esseri umani, sempre nello Zi- baldone, laddove Leopardi pone l’accento sul fatto che ciò che è delicato è intrinsecamente soggetto a guastarsi molto facilmente. L’essere umano- uomo di pena Ungaretti è pertanto la parte più debole all’interno della per- fezione paesistica de I fiumi:

Una macchina dilicata (cioè più diligentemente e perfettamente organizzata) è più facile a guastarsi che una rozza: ma ciò non toglie che la non sia più perfetta di que- sta, e che andando come deve andare non vada meglio della rozza, supponendole anche tutt’e due in uno stesso genere, come due orologi. Così l’uomo è più dilicato assai di tutti gli altri animali, sì nella costruzione esterna, sì nelle fibre intellettuali.47

È a ragione di queste «fibre intellettuali» che soltanto l’uomo-docile fibra Ungaretti – e con lui ogni uomo – può domandarsi:

Volti al travaglio come una qualsiasi fibra creata perché ci lamentiamo noi?

Perché noi, fra tante innumerevoli sorelle fibre volte al travaglio? Un in- terrogativo che risuona, in altra forma ma identico nella sostanza, in Fratelli («involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità»), e che for- temente ricorda le proposizioni interrogative rivolte alla luna dal pastore er- rante del Canto notturno:

Ed io godo ancor poco, o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: dimmi: perché giacendo a bell’agio, ozioso, s’appaga ogni animale; me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?48

47 LEOPARDI, Zib., 2567-68. 48 ID., Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 126-32.

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GIAMBERNARDO PIRODDI

L’angolazione concettuale di messa a fuoco dei quesiti è la medesima, per Ungaretti e per Leopardi, ed a rispondere potrebbe essere lo stesso Le- opardi, già citato, dello Zibaldone:

L’uomo è più dilicato assai di tutti gli altri animali, sì nella costruzione e- sterna, sì nelle fibre intellettuali.

L’essere umano è volto al travaglio come qualsiasi altra fibra, ma non è una fibra come le altre. Sono le sue fibre intellettuali a renderlo più senzien- te dei fiori, delle corolle, degli insetti, delle piante del giardino. Più senziente – e dunque ancor più sofferente – perché maggiormente e meglio ‘ricono- scente’ il proprio «basso stato e frale» di uomo di pena, cui tuttavia basta un punto interrogativo per farsi coraggio:

Chiuso fra cose mortali (Anche il cielo stellato finirà) Perché bramo Dio?49

Alla più perfetta delicatezza dell’essere umano segue, anche in Leopardi, la coessenziale sua somma fragilità:

E perciò egli è senza dubbio il più perfetto nella scala degli animali. Ma ciò non pro- va ch’egli sia più perfettibile; bensì più guastabile, appunto perchè più delicato. E d’altra parte l’esser più facile a guastarsi, non toglie che non sia veramente la più per- fetta delle creature terrestri, come ogni cosa lo dimostra.50

Nella riflessione ungarettiana la fragilità umana che si manifesta nella na- tura diventa docilità nel paesaggio. In esso, la fragilità è più sopportabile, perché il credersi in armonia la trasfigura. Alla natura ci si oppone («invo- lontaria rivolta»), come in Leopardi. Al paesaggio ci si arrende docilmente, grazie al credersi-fingersi l’armonia tramite ricordo e immaginazione. Per questa ragione in un equilibrato paesaggio acquoreo è più semplice ricono- scersi:

qui meglio

49 UNGARETTI 1969, p. 35 (Dannazione). 50 LEOPARDI, Zibaldone, 2568.

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mi sono riconosciuto

È un preciso itinerarium mentis nutrito di studiate quanto puntuali dico- tomie, adeguatamente riassumibili nella seguente quadripartizione:

Natura → Paesaggio

rivolta → acquiescenza

fragilità → docilità

supplizio → armonia

Con beneficio di (letterario) inventario e mutatis mutandis: da una parte la rivolta dell’Islandese, dall’altra la coscienza del «basso stato e frale» ginestri- no. Quest’ultimo è la «docilità» cui il poeta si vota:

Resto docile all’inclinazione dell’universo sereno51

Si tratta di una delle svariate riformulazioni della «docile fibra» (come anche la «immagine / passeggera / presa in un giro / immortale» in cui il poeta parimenti ‘si riconosce’),52 che come tessere dello stesso colore in un ideale cubo di Rubik di versi attendono di essere pazientemente ricomposte in un’unica faccia. Sino ad evidenziare nella maniera più chiara come l’essere presenti alla (consapevoli della) propria fragilità è il passo decisivo verso la docilità a quella che è l’«inclinazione / dell’universo». Ed in tale cosmico clinamen la sintonia è con la ‘doglia universale’ di Leopardi:

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessi- tà. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.

51 UNGARETTI 1969, p. 26 (A riposo). 52 ID., p. 86 (Sereno).

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GIAMBERNARDO PIRODDI

L’uomo ungarettiano accetta, docilmente sublimandola nell’armonia, la dimensione tragica della vita. Su tale sostrato filosofico (leopardiano) si in- nesta l’intero discorso poetico dei Fiumi. Quel paesaggio esteriore non si materializzerebbe nel ricordo senza quello, interiore, dell’armonia: ovvero il credersi docile fibra. Atto dell’intelletto che prevale sulla «involontaria rivol- ta», al fine di

[…] superare ogni frattura […] trovare in me, e nelle parole allora trovate, l’armonia.53

Riconoscersi docile fibra non trasmuta l’uomo di pena. Egli resta tale, e la sua armonia non è alchemica albedo di alcuna nigredo: semplicemente, Un- garetti è in armonia col suo essere uomo di pena. In questa sintonia con la doglia universale (natura), il poeta si identifica con il suo paesaggio individu- ale (i fiumi). È in armonia con esso, ma non si dissolve in esso. Si riconosce in ciascuna di quelle pur fluide individualità (Isonzo, Serchio, Nilo, Senna), senza tuttavia disciogliervi la propria. L’identità permane perché c’è consa- pevole riconoscimento e non oblio pànico.54 Se di panismo nell’àmbito degli studi ungarettiani si è parlato e si può parlare, senz’altro esso è un panismo armonico. Che è in sé ipso facto un os- simoro (al pari di un Dioniso apollineo), certamente non riconducibile al panismo superomistico di marca dannunziana. Quest’ultimo, tuttavia, può essere ottimo punto di partenza per meglio tentare di definire il primo.55 Nella poetica del Vate la relazione di sensuale medesimezza ch’egli stabi- lisce col mondo vegetale e animale (e la reciproca umanizzazione di questi), fa sì che il soggetto si dissolva nella natura, diventi paesaggio (La pioggia nel pineto) e irrimediabilmente perda la propria storicità. Storicità che invece nei Fiumi non solo resta, ma è esaltata. Non vi è difatti qui cupio dissolvi o oblio di sé bensì l’opposto: riconoscersi, appurarsi, sapersi fibra, filamento, auto- noma «parte viva» di un tutto.

53 UNGARETTI 1969, p. 510. Della «ricerca costante di armonia e di ordine» come «macroidea» della Weltanschauung ungarettiana ha scritto Franco Musarra, definendola come lo sforzo indefes- so da parte di un io che «si pone dialetticamente di fronte alla realtà», nella misura in cui «si pone la domanda di fondo sul come inquadrare l’unità e la particolarità dell’io nella molteplicità e nella generalità dell’essere» (MUSARRA 1992, p. 20). 54 Cfr. GENNARO 2004; CONTINI 1974, pp. 43-53. 55 Cfr. ANCESCHI 1976.

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Se l’estasi pànica in D’Annunzio necessita la perdita della coscienza, l’armonia ungarettiana implica il riconoscersi fibra. Indiamento, oblio e fu- sione nel primo; nella seconda, lucida consapevolezza della propria fragilità- docilità. L’atteso e ricercato smarrimento dell’individualità («Non ho più nome»)56 che il Vate canta, agognandolo, nella liturgia pànica di Meriggio, non può ritrovarsi nel Meriggio ungarettiano; così come questa e varie altre differenze riscontrabili nel rapporto uomo-paesaggio nei citati autori sono riconducibili ad un’altra, più irriducibile: quella per cui un superuomo non può essere un uomo di pena. Il primo ambisce – e solo a lui è dato – sugge- re il pomo estatico:

L’Estate si matura sul mio capo come un pomo che promesso mi sia, che cogliere io debba con la mia mano, che suggere io debba con le mie labbra solo. Perduta è ogni traccia dell’uomo.57

‘Riconoscersi docile fibra’ è invece alla portata di tutti. Di tutti gli uomi- ni di pena, ‘docili fibre’ heideggerianamente gettate nell’esistenza. Una co- scienza di sé risvegliata da un’acqua («qui meglio / mi sono riconosciuto») che non può per ciò stesso essere «letèa / obliviosa».58 Per queste ragioni il Serchio di D’annunzio non è quello di Ungaretti: oblio il primo, memoria millenaria il secondo; foce indistinta cui solo l’eletto può accedere da un la- to; dall’altro, fiume che ha nome e da generazioni bagna braccia stanche e mani rugose:

Questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil’anni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre.

56 D’ANNUNZIO, Meriggio (da Alcyone), v. 68. 57 D’ANNUNZIO, Meriggio, vv. 57-65. 58 Ivi, vv. 37-38.

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Se ogni «duolo / umano […] abbandona»59 il Vate a un passo dall’indiamento e dal non aver più nome, è viceversa proprio la coscienza del dolore permanente ad accordare in armonia la fibra di Ungaretti. Che l’identità la mantiene: a «Ungaretti / uomo di pena» il nome resta. Come all’acrobata le sue quattr’ossa, viva reliquia di una docile fibra.

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L’elaborazione della Luna e i falò: i primi capitoli dal manoscritto alla stampa

Miryam Grasso

La luna e i falò fu scritto da Pavese con una rapidità straordinaria: appena due mesi, dal settembre al novembre del ’49. Egli definì la scrittura dell’opera «l’exploit più forte» che avesse mai conosciuto.1 Una stesura così agevole e quasi priva di intoppi fu probabilmente frutto di una gestazione molto prolungata, di un percorso partito dalla scrittura dei racconti giovanili e dei primi versi. Presso l’Archivio «Guido Gozzano – Cesare Pavese» si conservano un manoscritto autografo e un dattiloscritto con correzioni autografe del ro- manzo. Il manoscritto (M), segnato «AP I 10», è custodito presso il Fondo Sini. Il faldone comprende 301 carte, 15 delle quali contengono gli appunti preparatori. Le carte sono nella quasi totalità a grana retinata, di mm 272 x 206, vergate solo sul recto, per la maggior parte con inchiostro nero, e nume- rate progressivamente da Pavese. Fanno eccezione le carte che contengono gli appunti di lavoro (287-301), che hanno vario formato, la carta 91, un fo- glietto di mm 120 x 140 che contiene sul recto due brani del capitolo X, e le carte 262-266 di mm. 278 x 208.2 Quasi tutti gli appunti di lavoro sono datati, così come sono datate le prime carte di ogni capitolo. Le date estreme degli appunti sono 7 giugno 1949 e 6 novembre 1949, mentre per quanto riguarda i capitoli esse sono 18 settembre 1949 e 9 novembre 1949. La progettazione del romanzo procede quindi pressoché di pari passo con la stesura. Le varianti di solito precedono la lezione cassata o sono collocate nell’interlinea superiore o inferiore. Spesso l’autore scarta le varianti intro- dotte in un secondo momento, scegliendo di mantenere la lezione già a te-

1 PAVESE 2014, p. 375. 2 Per una descrizione dei testimoni si rimanda a C. SENSI, Notizie sul testo, in: PAVESE 2000, pp. 1081-1104.

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MIRYAM GRASSO sto. A volte nessuna delle due varianti è cassata, non è chiaro se per dimen- ticanza o perché Pavese si riserva la possibilità di scegliere tra le alternative nel passaggio alla stampa. Talvolta egli sfrutta anche i margini della carta, solitamente per aggiunte. Il dattiloscritto (D) appartiene invece al Fondo Einaudi, ed è segnato «FE 16 – Romanzi IV». Comprende 133 carte di mm 287 x 210, utilizzate solo sul recto e numerate in alto a destra con numerazione araba, mentre i capitoli seguono la numerazione romana. La prima carta di ogni capitolo riporta in alto a destra la data di composizione; essa, a differenza della nu- merazione delle pagine, è manoscritta. Il dattiloscritto si caratterizza per al- cuni interventi manoscritti in inchiostro nero, consistenti per lo più in e- spunzioni, in sostituzioni o aggiunte inserite in interlinea o nei margini. Si è scelto di focalizzare l’attenzione sulle carte di M contenenti i primi due capitoli del romanzo perché testimoniano le fasi iniziali del processo creativo e contengono in embrione tutte le caratteristiche del lavoro pave- siano sulla Luna e i falò. Si tratta di 22 carte in totale, del tutto conformi alle altre per qualità e dimensioni. Il primo e il secondo capitolo occupano cia- scuno 11 carte, e a conclusione di entrambi – quindi in MI.11 e in MII.113 – sono trascritti alcuni appunti di lavoro. La prima variante che leggiamo in MI.1 è «torno oggi»  «sono torna- to». L’intervento testimonia la tendenza a una stilizzazione spazio- temporale, con l’eliminazione di elementi che forniscono una contestualiz- zazione storica precisa. Si tratta di una tendenza attestata nell’elaborazione di tutto il romanzo. Il fine di Pavese non è quello di costruire una narrazio- ne realistica, ma di creare un persistente alone mitico e quasi fiabesco. In questo caso, attraverso l’eliminazione del deittico «oggi», il ritorno di An- guilla non è più collocato in un momento ben definito, ossia nello stesso giorno in cui il narratore inizia a raccontare; sappiamo che è semplicemente avvenuto in un passato non lontano dal momento della narrazione, ma non ci è dato sapere quando. Con la modifica introdotta qualche riga dopo, «di sicuro»  «è quasi certo», l’autore procede nella stessa direzione, preferen- do una locuzione avverbiale che attenua la certezza di quanto affermato

3 Le carte del manoscritto seguono la numerazione apposta dall’autore nell’angolo superiore destro. Sono identificate dalla lettera corrispondente al testimone, seguita dal numero romano del capitolo e dal numero arabo della pagina separati da un punto.

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(«Qui non ci sono nato»). In MII.2 «di trent’anni fa» è sostituito con «di una volta»; è annullata così la precisione del riferimento temporale, con lo spo- stamento a un momento imprecisato del passato. A livello morfologico segue questa direzione la sostituzione del passato o dell’imperfetto con il presente. Si tratta di quello che Elisabetta Soletti de- finisce passaggio dall’imperfetto narrativo al «presente ‘epico’» :4 «facevo»  «faccio» (MII.3); «camminava»  «cammina»; «buttavano»  «buttano» (MII.3). Un’altra tendenza frequente tipica del metodo di lavoro pavesiano con- siste nel ritorno circolare alla lezione iniziale precedentemente scartata, con una preferenza per la ricorsività semantica ad alto potenziale simbolico. Si tratta di un fenomeno frequente nel manoscritto, e attestato anche tra le carte dei primi due capitoli: «valga e duri»  «duri e valga»  «valga e duri» (MI.1); «dell’ospedale»  «di Alba»  «dell’ospedale» (MI.2); «municipio»  «paese»  «municipio» (MI.3); «cambiati, nuovi»  «aperti, diversi»  «cambiati» (MI.5); «sotto»  «lungo»  «sotto» (MII.1); «mie colline»  «colline mie»  «mie colline» (MII.1); «passo a trovarlo»  «casco da lui»  «passo a trovarlo» (MII.3). Talvolta Pavese recupera direttamente la le- zione cassata, senza indugiare prima su una o più varianti intermedie. Ma anche nel passaggio dal manoscritto al dattiloscritto si verifica spesso un recupero della lezione originaria di M, o direttamente oppure con una modifica manoscritta: «stanze» (MI.8)  «alloggi» (MI.8)  «alloggi» (D, p. 3)  «stanze» (D, p. 3); «le promesse» (MII.2)  «gli abbracciamenti» (MII.2)  «i giuramenti» (MII.2)  «le promesse» (D, p. 4); «un anno»  «quest’anno» (MII.3)  «quest’anno» (D, p. 5)  «un anno» (D, p. 5); «So- no vecchio»  «Ho quarant’anni» (MII.10)  «Sono vecchio» (D, p. 8). Talvolta le oscillazioni coinvolgono scelte di tipo prettamente linguisti- co. Sempre in MI.1 sono presenti due varianti alternative, «vengo» e (in in- terlinea superiore) «schiudo». Alla fine Pavese propende per «vengo», non marcato diatopicamente, rinunciando a una patina regionale più marcata; nessuna delle varianti è però cassata in M, probabilmente perché l’autore preferisce riservarsi la possibilità di decidere in un secondo momento. Sempre sulla stessa carta, però, opera una scelta di segno opposto: «cesta» è

4 SOLETTI 2000, p. 1171.

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MIRYAM GRASSO cassato a favore del dialettale – ma legittimato dall’uso letterario – «cava- gno»5. Altre due varianti adiafore si trovano sempre in MI.1; si tratta di «somi- gliano» ed «equivalgono»; a prevalere sarà poi la seconda lezione, con il pas- saggio da una situazione di semplice somiglianza tra tutti gli uomini, tra «tutte le carni», a una di uguaglianza6. Verso la ricerca di una maggiore precisione lessicale è invece orientato l’intervento in MII.3: l’odore della casa di Nuto è inizialmente «di vernice, di colla e di legno», poi «di legno fresco, di fiori e di trucioli», con la crea- zione di un’allitterazione. In MI.1 la lezione precedente a «di farsi terra e paese» era «di farsi terra, di non essere più lui». La variante testimonia come l’idea dell’allontanamento e del successivo ritorno al paese («mettere radici») fosse associata a un cambiamento radicale della propria identità, per mezzo di un riattingimento che consiste nel «farsi terra», nel farsi cioè tutt’uno con l’origine, al punto tale da perdere se stessi. Pavese preferisce però scartare questa lezione. Poco più avanti prosegue scrivendo: «perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione», che in prece- denza era però: «perché la sua carne valga e duri di più di quella di un altro». Come nel caso di «somigliano»  «equivalgono», l’autore definisce una condizione di maggiore uguaglianza, eliminando ogni parvenza di competi- zione. Il termine di paragone, la carne «di un altro», è infatti sostituito da «un comune frutto di stagione» (che diviene poi «un comune giro di stagio- ne»). Nel definire le origini della madre di Anguilla, inizialmente Pavese scri- ve: «magari non veniva neanche da fuori, magari era una figlia di signori di Alba», facendo riferimento alla provenienza geografica del personaggio. Nella lezione definitiva, invece, l’autore fa riferimento alla sola estrazione sociale: «magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo». In questo modo elimina anche il riferimento geo- grafico preciso, «Alba». Eliminando il toponimo, l’autore accentua l’alone di

5 Il termine era già stato utilizzato, tra gli altri, da Pascoli e Montale. Cfr. Grande dizionario del- la lingua italiana, Vol. II, p. 901. 6 «Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono […]». Cfr. PAVESE 2015, p. 3.

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indefinitezza del quale abbiamo parlato in precedenza. Egli preferisce sem- pre luoghi più lontani da Santo Stefano Belbo, inquadrando le vicende del romanzo in un’area geografica più vasta e meno circostanziata, oppure pro- cede eliminando in toto il riferimento a una città precisa. Inizialmente il pro- tagonista proviene «da Canelli, da Calosso o Calamandrana», poi modificato in «da Cassinasco, da Mango o perché no da Cravanzana» (MI.1) e poi in «da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana» (D, p. 1), con un progressivo allargarsi dell’area geografica interessata nel passaggio da M a D e un’accrescimento dell’indeterminatezza relativa alle orgini di Anguilla – in maniera coerente con le scelte fatte nell’incipit del romanzo relativamente alle coordinate temporali. Nel margine inferiore della carta MII.11 è presente un appunto di lavoro secondo il quale Anguilla avrebbe dovuto sentire parlare di Nuto a «Cassi- nasco», che diviene poi «Oakland», con un notevole allungarsi della distanza geografica. «Cassinasco» alla carta MIII.3 è inizialmnte il luogo dal quale proviene l’uomo che parla di Nuto a Oakland; ma il toponimo è poi modi- ficato in «Canelli», con un iniziale avvicinamento (ma Canelli è la porta del mondo),7 per poi divenire «Bubbio» con un ulteriore allontanamento. Nella carta successiva «a Canelli» è modificato in «nell’Alessandrino», e la gara delle bande si svolge prima a «Castino», poi con uno spostamento a nord ad «Agliano» e poi, con un ulteriore allontanamento, a «Nizza» (fa riferimento a Nizza Monferrato). Alla carta MI.2 è cassato un brano che trascriviamo di seguito, registran- do anche la stratificazione delle varianti8:

e fruttavo cinque lire al mese a 1quei poveri fittavoli 2quelli che mi allevarono. 1Non sono il solo 1ache tro 1bbastardino che i fittavoli poveri 2A quel tempo i fittavoli po- veri preferivano un bastardino come me a un figlio vero, 1qual è quel figlio che ren- deva cinque lire? 2perché l’ospedale pagava

7 Cfr. ivi, p. 46 8 Le varianti successive alla prima, quando presenti e se introdotte con la stessa tipologia di intervento, sono state numerate progressivamente a partire dalla seconda, con un numero pre- messo a esponente di ciascuna in prossimità del punto di attacco della variante. In caso di più strati, le varianti sono contrassegnate progressivamente con il numero e una lettera dell’alfabeto. La lezione precedente è da intendersi cassata.

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Il brano è preceduto da «Se sono cresciuto in questo paese» (con «in questo paese» aggiunto in interlinea), ed è così riscritto nella versione defi- nitiva:

devo dir grazie alla Virgilia, a Padrino, tutta gente che adesso è morta che non c’è più, anche se loro mi hanno preso e allevato, soltanto perché l’ospedale gli passava la mesata. Su queste colline quarant’anni fa c’erano dei dannati pezzenti che per ve- dere uno scudo d’argento si caricavano un bastardo dell’ospedale, oltre ai figli che avevano già.

«che adesso è morta» e «che non c’è più» sono nel manoscritto due va- rianti adiafore; nel passaggio alla stampa Pavese preferirà la lezione più eu- femistica «che non c’è più». È inoltre aggiunto l’elemento della gratitudine da parte di Anguilla nei confronti di chi lo ha allevato, assente nella versio- ne cassata. Nella versione finale, Anguilla sembra giustificare la scelta della famiglia adottiva e di chi sceglie di adottare un orfano; li designa con termi- ni come «dannati» o «pezzenti» (nessuna delle due lezioni è cassata nel ma- noscritto), e spiega che l’unico modo per «vedere uno scudo d’argento» era farsi carico di «un bastardo dell’ospedale». Per quanto riguarda invece il ritorno in Gaminella, raccontato nelle carte 4-6 del primo capitolo, nella descrizione del pendio della collina le varianti rendono evidente l’intenzione di rappresentare un paesaggio aspro e inospi- tale. Il pendio è prima «dolce», poi «piano», e infine, con significato oppo- sto, «insensibile» (MI.5). Corrisponde alla stessa intenzione l’espunzione, in «era come come scorticato dall’inverno, un inverno asciutto e sereno», di «un inverno asciutto e sereno» (MI.5), perché in questo paesaggio non può esserci spazio per la serenità. L’espressione è cassata probabilmente anche per evitare una contraddizione interna: un inverno che scortica non può es- sere sereno. Infine, se inizialmente la collina digrada «sempre enorme e pia- na», in un secondo momento digrada «gigantesca». Condensando i due ag- gettivi nell’unico «gigantesca» lo scrittore riesce a trasmettere un maggiore senso di inquietudine, rendendo anche meglio l’idea dell’imponenza della collina. Per descrivere il casotto, Pavese si serve di pochi, essenziali elementi: la parete, la finestra e il fico, che gli appaiono sempre uguali. In particolare, la «finestra» era inizialmente «sporca» e poi «spruzzata» di «verderame»; divie- ne poi «finestretta», con il diminutivo che aggiunge una connotazione affet-

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tiva. A «finestretta» e «fico» aggiunge poi in interlinea due aggettivi, rispetti- vamente «vuota» e «storto» (cfr. MI.5); le due immagini della «finestretta vuota» e del «fico storto» sono correlativi oggettivi di un senso di abbando- no, malessere e smarrimento, accresciuto poi dalla scoperta che gli alberi e la terra intorno sono cambiati. La macchia dei noccioli è «sparita», inizial- mente «diventata», poi «ridotta una stoppia di meliga», con «ridotta» che tra- smette la delusione del protagonista e anticipa l’affermazione successiva: «Ma non mi ero aspettato di non trovare più i noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito». In questa direzione va anche l’espunzione dell’espressione «Meno male che» (MI.5), che inizialmente precedeva «Chi adesso stava nel casotto non era più così pezzente come noi»: è eliminata anche la più picco- la sensazione di sollievo, perché Anguilla non appartiene davvero a quei luoghi e e qualunque mutamento, come un «cambiamento di colture», può scoraggiare la ricerca delle sue radici. La sensazione di precarietà è trasmes- sa anche dall’immagine degli «alloggi di città» che, dopo il trasloco, riman- gono come «gusci vuoti»; inizialmente definiti «disponibili, aperti a tutti» dall’autore, divengono – dopo una serie di ripensamenti sull’ordine delle parole – «disponibili, morti» (MI.7). «Meno male che» si ritrova alla stessa carta, quando Anguilla è consolato e rassicurato dalla visione della collina del Salto che, come da lezione espunta per evitare una ripetizione, è «come l’avevo sempre vista», con gli alberi, i sentieri e le cascine che sono «come li avevo veduti giorno per giorno, anno per anno»9. Alla carta MI.8 è presente un brano cassato. A «Così questo paese, dove non sono nato,» segue:

e che quando voglio stringerlo mi sfugge di mano, mi seguì dappertutto nel mondo, prima a Nizza, poi a Genova in caserma, poi nel porto, poi sul mare. Ormai è un anno che lo tengo d’occhio e ci scappo da Genova

Il brano, modificato e riscritto alla carta successiva («Da un anno che lo tengo d’occhio, e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano»), è cassato in MI.8 perché Pavese preferisce lasciare spazio alla riflessione sulla necessità di avere un paese:

9 «veduti» in MI.7 sostituisce in interlinea la lezione non cassata «conosciuti». Si tratta di altre due varianti adiafore.

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Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano nelle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandie- ra e i pugni rotti. Si fa l’uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano a Alba. C’è Nuto, il mio amico dell’Orto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gu- sto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettar- ti.

«Uno gira per mare e per terra» è una possibile rielaborazione di «mi se- guì dappertutto … poi sul mare». In MI.10 leggiamo la versione iniziale della ‘lezione’ di Nuto, «per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne», che era più attenuata: «1non muoversi 2non uscire dalla valle ha i suoi vantaggi». Con questa mo- difica al testo, Pavese rende l’uscita dalla valle e l’abbandono dell’Eden un processo irreversibile: si può tornare all’Eden, ma vivervi dopo essersene andati è impossibile. Questa visione contrasta con quella che ha inizialmen- te Anguilla: «un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via» e poi di tornare – perché la gente, le piante, la terra rimangono lì ad aspet- tarti. Se all’inizio del romanzo Anguilla afferma che «un paese ci vuole» per ritornarvi, perché resta ad aspettare chi se ne va, alla fine del romanzo è la lezione di Nuto a rivelarsi veritiera: le facce, le voci e le mani che avrebbero dovuto riconoscerlo non ci sono più, e lo stesso Anguilla è ormai irrime- diabilmente cambiato, insieme al suo paese: «non ero più di quella casa, non ero più come Cinto, il mondo mi aveva cambiato».10 Alla fine del capitolo I, in MI.11, sono trascritti alcuni appunti di lavoro. Si tratta di una sequenza nella quale l’autore abbozza l’incipit del capitolo successivo (in nota registriamo l’apparato delle varianti):11

10 Ivi, p. 60. 11 La parentesi quadra chiusa delimita la porzione di testo che è stata oggetto di modifiche. Di seguito si fornisce l’elenco delle abbreviazioni e dei segni convenzionali adoperati: agg. in interl. sup. = aggiunto in interlinea superiore; agg. nel marg. sin/dex = aggiunto nel margine sini- tro/destro; in interl. sopra/sotto xyz cass. = aggiunta in interlinea sopra o sotto la lezione preceden- te cassata; precede/segue cass. = cassata prima o dopo la parola di riferimento; da = derivata par- zialmente dalla lezione anteriore; su = ricalcata sulla lezione precedente. Le altre didascalie de- scrittive sono sempre in corsivo.

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Ma quest’anno qualcosa è successo. Ci sono venuto per la festa d’agosto e mi sono piantato sulla piazza del paese, all’albergo della Posta. Sono così grande e grosso che poi più nessuno mi conosce, e neanch’io conosco qualcuno in paese. Ai tempi ch’ero ragazzo e poi giovanotto ve- nivo in paese soltanto quando potevo; gli ultimi tempi la mia vita era alla Mora e bastava. Il paese è più in su nella valle prima di Gaminella e del Salto; dal paese alla piana delle albere sotto di noi l’acqua metteva mezz’ora.

grande] da grand’e e poi giovanotto] in interl. sotto e poi giovanotto ven cass. sol- tanto quando potevo] precede cass. solo ogni vo volta che ogni tanto; venivo in pae- se alla Mora e bastava.] in interl. sotto a Canelli cass. Il paese … mezz’ora.] agg. nel margine sinistro

Nella versione definitiva del brano nel manoscritto, trascritta alla carta successiva, Pavese si avvicina progressivamente alla versione della stampa attraverso una serie di interventi correttori:

Ma quest’estate sono sceso all’albergo dell’Angelo, sulla piazza del paese dove più nessuno mi conosce, tanto sono grand’e grosso. Neanch’io in pae- se conosco nessuno; ai miei tempi ci si veniva di rado, si viveva sulle strade, per le rive, nelle aie. Il paese è molto in su nella valle, l’acqua del Belbo pas- sa davanti alla chiesa mezz’ora prima di allargarsi sotto le mie colline. Ero venuto per guardarmi intorno e càpito che è la festa della Madonna d’agosto.

dell'Angelo] dell’ da della Angelo in interl. sopra Posta cass. più] precede ta cass. di rado] segue in paese cass. nelle] su sulle aie] in interl. sopra [†] cass. Il] su il passa] da passava a sua volta da passa davanti alla] in interl. sopra sotto la cass. mezz’ora] in interl. superiore è molto tempo cass. allargarsi] precede alla cass.; su slargarsi sotto] precede sotto le dopo il giro. cass.; in interl. sopra sotto cass. e lungo in interl. inf. cass. le mie colline] inizialmente l’ordine era stato modificato in le colline mie mediante un segno di inversione, poi cassato. Ero] in interl. sopra Sono cass. E] segue mi cass. càpito] da capi- tava della Madonna] agg. in interl. sup.

L’albergo «della Posta» è adesso l’albergo «dell’Angelo». L’occasione del ritorno è la medesima, ma Pavese preferisce spostarla alla fine del periodo per focalizzare subito l’attenzione sul senso di estraneità provato da Anguil- la (nessuno lo conosce, e nemmeno lui conosce nessuno).

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Nel dattiloscritto Pavese approda alla versione finale12. Attraverso le correzioni manoscritte elimina il «Ma» iniziale e in alcuni casi modifica l’indicativo presente in indicativo imperfetto:

Quest’estate sono sceso all’albergo dell’Angelo, sulla piazza del paese, dove più nes- suno mi conosceva, tanto sono grand’e grosso. Neanch’io in paese conoscevo nes- suno; ai miei tempi ci si veniva di rado, si viveva sulla strada, per le rive, nelle aie. Il paese è molto in su nella valle, l’acqua del Belbo passa davanti alla chiesa mezz’ora prima di allargarsi sotto le mie colline. Ero venuto per riposarmi un quindici giorni, e càpito che è la Madonna d’agosto.

La festa permette ad Anguilla di nascondersi nella folla: «il va e vieni del- la gente di fuori mimetizza anche me». Con interventi successivi sul testo, Pavese definisce meglio che cosa permette ad Anguilla di confondersi tra la gente; cassa infatti «mimetizza anche me», aggiungendo «la confusione e il baccano della piazza» cui segue inizialmente «mimetizzano anche uno come me», che poi viene modificato in «mimetizzerebbero anche un negro». In MII.4 il numero della carta è ricalcato su «5». La carta riporta alcune frasi cassate molto simili a quelle iniziali della carta 5. In MII.4 leggiamo: «ci sono ancora su queste colline. Non dico soltanto i bastardi» cassato; in MII.5, invece, «non ce l’hanno fatta? Non sai quanti meschini ci sono anco- ra su queste colline». L’attuale carta MII.4 contiene probabilmente una se- conda stesura; Pavese, arrivato alle prime righe della carta MII.5, potrebbe aver deciso di riscrivere anche il testo contenuto nella carta precedente (che però è andata perduta). In MII.7 è espunto un elenco di pietanze. Non è facile ricostruire la ge- rarchia delle cassature, che sono ripetute e stratificate: «tagliatelle e tartufi, lasagne e fegatini, tagliatelle nel brodo, e bolliti galline e la lepre, salame e insalata, salame e formaggio, oca ripiena, lasagna nel brodo, manzo, arrosto, sottaceti. E bevevano». La frase modificata dopo l’espunzione è decisamen- te più sintetica: «Ma i piatti erano sempre gli stessi». È travagliata anche la stesura in MII.8, nella quale si descrivono i gesti fatti dalle donne per prepa-

12 Nella stampa è eliminata solo la virgola che segue «giorni».

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rare il cibo: «versare, tagliare»  «mescere, scoperchiare»  «grattugiare, mescere»  «grattugiare, impastare, farcire, scoperchiare». In calce al secondo capitolo, datato 20 settembre, Pavese annota l’avvio del capitolo seguente: «Di Nuto musicante sentii parlare a Oakland»13, con Oakland preceduto da «Cassinasco» cassato e il conseguente salto dal Pie- monte agli Stati Uniti. Accanto, Pavese trascrive una scaletta nella quale progetta il contenuto dei capitoli successivi:

III Beni – visite, acquisti, vecchi casotti IV trovati i due sepolti prima che andassi a vedere la Mora. IV Mora, rapida. VI Storie rievocate grandezze mitiche / amori quindi fuga

La scaletta viene ricopiata tra gli appunti di lavoro con la sola aggiunta di «(Saltone, strada)» accanto a «Storie rievocate». Sulla stessa carta, sotto que- sto appunto, Pavese aggiunge la seguente scaletta per appuntare in maniera più dettagliata quello che sarà il contenuto del terzo e del sesto capitolo:

IIIB. Cinto e magia infantile (fuochi – esodo – boschi –) IIIC Passeggiate con Nuto VIB Strada fresca della Mora adolescente VIC Grande festa ascensione.

Anche se gli elementi indicati saranno presenti nei capitoli successivi con qualche inversione dell’ordine, lo schema non è rispettato: il terzo capitolo, in particolare – come anticipa già la sostituzione di «Cassinasco» con «Oa- kland» – è interamente dedicato non ai beni e ai vecchi casotti, ma al ricor- do della vita in America. Il ritrovamento dei due cadaveri, inoltre, non av- verrà prima del capitolo X, dopo che si racconta rapidamente della Mora.14

13 L’incipit alla carta successiva sarà: «Di Nuto musicante avevo avuto notizie addirittura in America». 14 PAVESE 2015, p. 45.

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BIBLIOGRAFIA

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PAVESE 2015. Cesare P., La luna e i falò, Torino, Einaudi.

PAVESE 2000. Cesare P., Tutti i romanzi, a c. di M. Guglielminetti, Torino, Ei- naudi.

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Grande dizionario della lingua italiana, a c. di S. Battaglia, Torino, Utet, 1961.

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«QUELLA È LA MIA PATRIA. È LÀ CHE SONO NATO». BIDDAXIDRU E L’UNIVERSALE CONCRETO. LA PERSONALITÀ E L’OPERA DI GIUSEPPE DESSÌ

Dino Manca

L’opera d’esordio di Giuseppe Dessì, La sposa in città, fu pubblicata nel 1939. Il libro, che chiuse il suo noviziato letterario, catapultò l’autore alla ribalta del panorama letterario nazionale. Dallo studio delle primitive tradi- zioni avantestuali risulta che i nuclei generativi dei racconti risalgano agli inizi degli anni Trenta e che l’idea della pubblicazione della silloge cominci a concretizzarsi negli ultimi mesi del 1935.1 Dopo una genesi lunga e tormen- tata e l’attenta cura dell’amico Varese, la casa editrice Guanda licenziò il vo- lume. La raccolta, che comprende undici racconti usciti su varie riviste tra il ’30 e il ’38 (La sposa in città, Un ospite di Marsiglia, La città rotonda, Giuoco inter- rotto, I piedi sotto il muro, Il cane e il vento, Le amiche, La rivedremo in Paradiso, Una collana, Inverno, Cacciatore distratto, da una primitiva scelta furono poi esclusi i racconti Risveglio, Il cavallo e Nascita di un uomo), costituì la sua prima palestra narrativa interamente realizzata nella forma breve e declinata secondo mo- dalità compositive differenti, all’insegna dello sperimentalismo e della versa- tilità espressiva. Si trovano, infatti, il meta-racconto incipitario, l’orditura diegetica dipanata nella forma dialogica, il racconto di formazione, quello sospeso tra fantasia «autarchico-primigenia» e realtà, la memoria lirica e psi- cologica che si esplica in un dimensione intima e privata («la realtà mi sfug- giva»), alternandosi con la narrazione oggettiva di tradizione naturalistica (cifra stilistica questa che, per quanto in embrione, anticiperà il doppio rac-

1 La tradizione dell’opera di Giuseppe Dessì si trova conservata nella Sala Manoscritti dell’Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti», costituito presso il Gabinetto Vieusseux a Firenze. Per più di vent’anni le carte erano state custodite a Roma, in via Prisciano 75, in casa di Luisa Babini, compagna dello scrittore dal 1954 e sua seconda moglie dall’aprile del 1972. L’intenzione di donare gli scritti del marito all’«Archivio Bonsanti» risale alla fine degli anni No- vanta ed è testimoniata da una lettera datata 6 gennaio 1997, anche se il vero atto formale di tra- sferimento delle carte è certificato da uno scritto del 21 gennaio 2000 indirizzato all’allora Presi- dente del Gabinetto Vieusseux Giovanni Ferrara e al Direttore Enzo Siciliano. Cfr. DESSÌ 2002.

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DINO MANCA conto di Michele Boschino), i ricordi finemente resi con un abile gioco di echi, rimandi e suggestioni evocative, il mondo degli affetti e del vissuto, un cer- to determinismo esistenziale, il filo rosso dell’autobiografismo, infine, che alla fine tiene il tutto, connotandolo di valenze molteplici (i luoghi, i perso- naggi, gli animali e gli oggetti ricorrenti nella sua produzione successiva). In La città rotonda, ad esempio, racconto pubblicato sull’«Orto» nel 1934, primo in ordine di tempo e molto apprezzato da Ragghianti e Capitini («è la tua novella migliore, perché c’è maggiore movimento lirico»), la trasposi- zione in finzione letteraria del rapporto tra un ragazzo e il suo insegnante, degli studi interrotti e del caseificio del nonno rimanda inequivocabilmente al vissuto autorale. Apre la silloge il racconto eponimo La sposa in città, nel quale la voce riflette sulla propria biografia intellettuale e umana, sul rap- porto tra soggetto-creatore e oggetto-mondo, letteratura e realtà, scrittura creativa e conoscenza, sulla sua isola, infine, sospesa tra tradizione e mo- dernità. Segue Un’ospite di Marsiglia, che lo stesso Dessì negli anni successivi ricorderà come uno dei suoi migliori («cambierei pochissime cose, se do- vessi ripubblicarlo ora»), dapprima pubblicato sull’«Orto», nel luglio del 1938, poi in Racconti vecchi e nuovi dalla casa editrice Einaudi nel 1945. Anche questo è un racconto autobiografico (nonostante la trama sia «inventata di sana pianta») che ripropone con fine lirismo e «rara delicatezza», per dirla con Momigliano, i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, gli animali, gli og- getti e soprattutto la sua gente (c’è Cagliari, con il Poetto, Marsiglia, e dietro i nomi inventati dei personaggi – Paulette, Beniamino, Valeria, Albertina, Giorgio – ci sono i profili, i caratteri e le sfumature psicologie dei propri familiari). Giuoco interrotto, che avrebbe dovuto dare il titolo alla raccolta, uscì per la prima volta su «Portanova» nel marzo del 1932, anch’esso ripubblicato nei Racconti vecchi e nuovi e sempre nel ’54, col titolo Fuggire lontano, ripropo- sto in un contesto antologico. Lunga genesi compositiva conobbe anche I piedi sotto il muro (inizialmente I piedi contro il muro, poi I piedi al muro), il cui discorso narrativo, che per resa estetica piacque a Varese, trasfigura la storia della problematica amicizia tra Gilla e Vagulanu. Iniziato a comporre nei primi anni Trenta, il racconto venne pubblicato in versione ridotta sulla «Stampa» il 28 gennaio 1937. Mentre Il cane e il vento, che si risolve tutto in sede scenica e dialogica e il cui titolo ricorda un’opera della Deledda (Canne al vento), non convinse il cri-

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tico Giannino Marescalchi, Le amiche, composto nel ’35 e uscito un anno dopo sull’«Orto», incontrò invece il lusinghiero giudizio di Carlo Salani. In- verno fu dapprima ospitato dal «Corriere Padano» nel febbraio del 1937 e sempre sulla terza pagina della «Stampa», prima di uscire in volume, furono pubblicati La rivedremo in Paradiso (racconto interessante per le sue istituzioni narrative), Una collana e Cacciatore distratto (rispettivamente nell’ottobre- novembre del ’37 e nel gennaio del 1938).

Due mesi dopo l’uscita della raccolta La sposa in città e dopo il rifiuto di Vallecchi e Mondadori la fiorentina Le Monnier licenziò San Silvano, il suo primo romanzo. In realtà l’originaria stesura, accompagnata da una decan- tazione duratura (Ritorno a San Silvano), fu del 1934 e la sua elaborazione si intrecciò in modo fecondo con quella dei primi racconti. Una nuova edi- zione riveduta in alcuni luoghi del testo uscì nel 1962 nella «Biblioteca di letteratura» della Feltrinelli, diretta da Giorgio Bassani. L’opera, dedicata a Varese, riscosse un grande successo di pubblico, incontrando i larghi favori della critica. Tra i tanti estimatori si ricordano Giaime Pintor, Pietro Pan- crazi, Silvio Benco e Gianfranco Contini, che nell’aprile del 1939 sulla rivi- sta «Letteratura» accostò l’autore a scrittori di fama europea come Alain- Fournier e Marcel Proust:

Quando scrissi San Silvano pensavo a un grande romanzo che non ero ancora matu- ro per scrivere. San Silvano fu come un ripiego, un esperimento, nel quale tuttavia c’è come un riflesso di quello che andavo maturando, e che ancora oggi non ho scritto. Può anche darsi che, nel frattempo, qualcosa di assai diverso si sia maturato. Forse io vagheggiavo astrattamente un’opera di cui romanzi e racconti scritti, realiz- zati, sono come i frutti che si sono formati sui rami nel corso delle stagioni. Mi affa- scinava un raccontare che non avesse inizio né fine, come un cerchio; un raccontare che potesse iniziare in qualsiasi momento della storia, o finire come un canto dell’Ariosto.2

L’asse centrale dell’impalcatura diegetica ruota intorno al vissuto, alla pragmatica e alle dinamiche di relazione intercorrenti tra i fratelli Alicandia, Giulio, Elisa e Pinocchio (Pino), rimasti orfani in giovanissima età (anche se è sulla figura di Giacomo che «si avvia uno dei primi tentativi del roman-

2 DESSÌ 2011 (29 dicembre 1961).

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DINO MANCA zo»).3 La fonte di emittenza narrativa coincide con la prospettiva, a focaliz- zazione prevalentemente fissa, di Pinocchio, voce interna e implicata nella vicenda. Al centro dei fatti si staglia la figura di Elisa, rimasta a San Silvano, dopo la partenza dei fratelli, a custodire la casa e a rappresentare il mondo primigenio delle origini (Elisa è San Silvano e per estensione la Sardegna stessa). Giulio, invece, vive in Continente da molti anni. Figura di intellettu- ale impegnato, affezionato alle sue verità scientifiche, egli «non è capace di parlare» se non «a forza di schemi». Pinocchio, io narrante, sta in mezzo tra il mondo continentale, severo e nordico di Giulio e quello isolano, privato e mitico di Elisa. Ciò che li lega, anche nell’incomprensione, è l’amore frater- no:

Pinocchio, Giulio ed Elisa rappresentano tempi diversi della storia e della vita: Elisa quello favoloso, mitico dell’infanzia, Giulio quello razionale, oggettivo del momento presente, e Pinocchio quello della proiezione in interiore hominis, dell’interrogazione dei sentimenti e della loro esplosione.4

I due fratelli, soprattutto Giulio, sono convinti che la donna, con la quale negli anni hanno stretto una sorta di sodalizio intellettuale e umano basato sulle buone letture e sullo scambio culturale, viva infelicemente il rapporto col marito, Vincenzo, una «persona volgare», possidente dai diversi interes- si, che dopo il matrimonio condivide con lei la sua casa di Pontario. Col tempo i rapporti si complicano, consumandosi nell’incomprensione. In lei i fratelli avevano cercato quella madre e compagna che era venuta a mancare (recisione traumatica del cordone ombelicale con la madre-terra?); una ri- cerca egoistica che porterà Elisa, comunque felice delle sue scelte, a vivere nel malinteso la propria regressione solipsistica. Giulio e Pinocchio proget- tano di portarla via da Pontario per ricostituire oltremare le passate consue- tudini di relazione (per i due la salvezza è altrove, per lei no). La ricerca dell’io è tutta tesa al recupero, attraverso il ricordo, di un sentimento del tempo irrimediabilmente perduto:

[Elisa] sentiva il bisogno di confidare a me quelle labili ombre quasi per dar loro la

3 DOLFI 2003, p. 9. 4 Ivi, p. 21.

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consistenza che hanno solo le cose che anche qualche altro conosce.5

La vita scorre sino a quando Giulio e Pinocchio non sono costretti a rientrare in Sardegna dalla sorella malata, che adesso aspetta un bambino. Per l’io narrante San Silvano va assumendo i contorni della trasfigurazione fantastica («scopro con meraviglia che non v’è nessuna differenza tra questo viaggiare e lo starmene sdraiato sul mio letto»), diventando lo spa- zio che proustianamente schiude, tramite la sua percezione, gli accessi della memoria e attiva i processi rimemorativi, tramutandosi in paesaggio interio- re, verità metaforica, modo «non tanto di conoscere la realtà quanto di ri- crearla», forse per capirla meglio:

San Silvano era la patria dove io, come gli animali selvatici nel bosco, e gli uccelli nell’aria, mi ritrovavo agio, e la lontananza dei suoi boschi era sempre stata per me una grande fatica.6

Elisa morirà di parto (come la Valentina di Paese d’ombre) prima che i fratelli possano rivederla, parlarle e capire fino in fondo le sue verità nasco- ste. Morirà anche perché non è stata compresa, perché è stata «lasciata sola nel suo vivere e nel suo morire e i pensieri degli altri non hanno aiutato la sua vita». A questo punto la sicurezza di Giulio fletterà dinanzi al dolore, al dubbio e alla consapevolezza dell’errore. La morte di Elisa coincide con la morte di San Silvano, rappresenta la scomparsa di un microcosmo affettivo e valoriale e la fine di un tempo, quello dell’infanzia, a lei e al suo ricordo indissolubilmente legati. Ma paradossalmente la perdita porterà con sé e per Pinocchio, nel desiderare e recuperare con la memoria un mondo diverso, lontano dalla stanchezza e dalla sofferenza, ancorché alla ricerca delle ra- gioni della sua angoscia, l’intima rinascita.

Grande è il significato che, nella generale poetica dello scrittore, assume la temporalità proustianamente intesa come durata soggettiva, misura del vissuto e del percorso esperienziale dell’«io», come rapporto imperfetto e non speculare tra tempo interiore e tempo fisico:

5 DESSÌ 2003, p. 48. 6 Ivi, p. 41.

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Il tempo lì non è un tempo collettivo, sociale, è un tempo individuale, soggettivo, che non ha legge, inconcepibile per qualsiasi italiano della penisola, e forse per qual- siasi europeo.7

Il flusso memoriale, se non proprio coscienziale, diventa scandaglio co- noscitivo di universi ontologici, ricerca problematica di storie parallele, ver- ticali e concentriche, verso verità spesso rinviate e rimandate all’infinito. Il tutto è realizzato con un uso sapiente delle tecniche della variazione, del ral- lentamento e della sospensione ellittica, della ripresa e del disvelamento. La memoria diventa la costante, il vero tòpos semantico:

Da molto tempo mi son fatto la convinzione che i fatti non hanno alcuna impor- tanza: per questo è inutile notarli. Non i fatti contano né la loro concatenazione di causa e di effetto (che è una interpretazione astratta, meccanica) ma la loro trama, il loro fluire. E ho sempre preferito sentirli fluire nella memoria. Una nota che fissa un fatto sul diario mi dà tristezza come una fotografia; mi ripugna. Come se forzassi la natura del fatto stesso chiudendolo in una cornice artificiale e morta di tempo.8

Nella struttura segnica del racconto dessiano, fra le unità descrittive, più che gli attributi fisici prevalgono quelli psicologici e fra le unità funzio- nali si distinguono le eidetiche (riguardanti la processualità interiore degli esi- stenti) che si rapportano al codice semico-simbolico e alla struttura antro- pologica dei personaggi. La forma che gli avvenimenti assumono nella libe- ra dinamica dell’esposizione è, come scritto, ricca di sfasature temporali. Il confronto fra l’ordine degli accadimenti nel racconto-narrazione e l’ordine degli stessi nella storia-diegesi evidenzia sistematiche anacronie, ripetute e indicative distorsioni temporali che connotano, in termini anche simbolici, l’impianto narrativo. Un lavoro di destrutturazione della parafrasi integrati- va della fabula – già estrapolata e asciugata delle numerose unità circostan- ziali e completive – ci consegna, infatti, un racconto caratterizzato da una struttura a recuperi analettici multipli, da un continuo ondivagare fra un non sempre ben definito adesso narrativo ed excursus regressivi con flash- back riassuntivi che ricostruiscono in modo quasi pulviscolare le tranches di

7 DESSÌ 1966, p. 5. 8 DESSÌ 1999, p. 80.

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un prima. Spesso di carattere generico, continuativo, iterativo e singolativo sono infatti le determinazioni temporali («un giorno», «alcuni anni prima», «sui vent’anni», «parecchie volte a distanza di tempo») e l’utilizzo del verbo all’imperfetto è funzionale a determinare un flusso temporale indetermina- to, durativo e iterativo. In questo quadro la categoria del tempo si dilata e si frantuma nello spa- zio, che è altresì spazio verticale, dell’anima, dell’immaginazione e del vissu- to. La memoria, individuale, familiare e collettiva, si convoglia entro percorsi apparentemente immotivati e distanti che s’intersecano e si risolvono inve- ce sullo sfondo di un paesaggio carsico, in una tramatura fitta puntellata di recuperi gestiti da una coscienza narrante depositaria di una verità ontologi- ca di cui investe gli agenti e che, nel sapiente atto della rappresentazione, di- venta la verità stessa dei personaggi che interagiscono in vario modo e a di- versi livelli. L’io-narrante, proiezione per certi versi di un io-autorale, conosce bene il microcosmo trasfigurato in finzione letteraria; lo conosce dall’interno, tanto da insinuarsi, confondendosi e mimetizzandosi («è come il fondo di un lago pieno d’incanti: bisogna appena toccarlo con il piede e subito risali- re sulla superficie»). Egli si rivela figlio e voce fedele della coscienza di quel mondo:

Non è vero che Vincenzo conosca la campagna meglio di me: lui sa sfruttarla me- glio, ma io la conosco più intimamente di lui, e sono certo che se tornassi a San Sil- vano fra venti anni dopo essere vissuto a Milano o a Londra, tornando e sentendo la ruvidezza di questi tronchi, l’odore amaro di queste foglie, l'erba piegata dal vento sfiorarmi le gambe, io riacquisterei questa conoscenza perfetta della campagna. Che è conoscenza di questa campagna. Un giorno, ad Assisi, dove ero stato a trovare un amico sul finire della primavera, dopo un lungo soggiorno cittadino, mi sentii, mi svegliai in mezzo alla campagna. Intorno grano verde, odore della terra ricca di [-] riscaldata dal sole, l’odore della estate che si avanzava, uno di quegli annunci che ti fanno sentire la stagione che viene quasi spiritualmente; l’estate, l’autunno. Eppure io in quella ricchezza della natura, in mezzo a tutto quel verde, a quei monti lontani dalle linee ampie e calme, mi sentii rapire da quell’odore verso San Silvano, rico- nobbi San Silvano, la sola campagna che io conosco e possiedo come possiedo il mio corpo. Nessuno conosce e ama così San Silvano […]9

9 DESSÌ 1999, p. 71.

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Il passato non si conserva, si costruisce partendo dal presente, e la sua struttura dipende dalle circostanze dell’evocazione e si modifica con esse. Per dirla con Merlau-Ponty, i ricordi non sono nella coscienza, ma è la co- scienza stessa che costituisce il ricordo ponendo il passato come passato. Infatti, è il presente il vero tempo del nostro esistere:

Il tempo: è un pensiero – se così si può dire – che mi inebria. Passato, presente e fu- turo: momenti dello spirito, aspetti di un «eterno presente».10

Il passato in Dessì non è una linea di demarcazione astratta ma un frammento della durata che avvolge il passato e il futuro. La memoria affet- tiva non è altro che la risurrezione dei sentimenti sotto forma di ricordi. Ri- surrezione spesso proustianamente suscitata da uno stimolo sensoriale, pre- valentemente visivo ma non di rado anche uditivo e olfattivo. Solo attraver- so la memoria si ricostruisce la propria identità personale e si dà un fonda- mento alla coscienza di sé, che sta alla base della conoscenza stessa. Senza memoria, infatti, vengono meno i legami con le proprie radici, si disperde il proprio «io», ci si destruttura e si vive drammaticamente sospesi fra ordine e caos, fra pulsioni interne e cogenze esterne. Senza memoria e senza con- sapevolezza si cessa di essere coscienza progettante e si vive il proprio pre- sente con angoscia e paura, sospesi sull’«abisso del nulla»:

[…] gli uomini di oggi vivono tutto al presente. Non trovano nel passato una norma e non trovano nel futuro sufficiente ispirazione. E nata la filosofia dell’atto puro, è nato Picasso, che non continua neppure se stesso, ma è sempre diverso perché esi- ste per lui soltanto l’attimo in cui crea. Ti ricordi «Il Gallo» di Picasso? Si può dire il suo simbolo. Il suo vivere è come l’amore per il gallo: istantaneo, puntuale. Rotti i ponti con il passato (anche nell’interno della propria vita e nei suoi limiti), rotti i ponti con il futuro. Per questo dà quel senso di travisamento. È l’angoscia di noi mo- derni per questo sentirsi sospesi nel nulla.11

Il romanzo Michele Boschino è invece giunto sino a noi attraverso redazio- ni autografe non compiute (tre quaderni di abbozzi che precedono le reda- zioni strutturalmente compiute e la stesura definitiva del romanzo e che

10 Ivi, p. 175. 11 Ivi, pp. 175-176.

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documentano i nuclei generativi e le primitive fasi di elaborazione dell’opera), mediante redazioni strutturalmente compiute ma non ancora considerate definitive (tre elaborati dattiloscritti e un’ultima bozza di stam- pa con correzioni manoscritte della prima edizione Mondadori), tramite re- dazioni parziali (due articoli usciti rispettivamente su rivista quindicinale e mensile, i cui testi corrispondono in larga parte al VI − con brani del X − e al XIII capitolo del romanzo), attraverso, infine, redazioni compiute e con- siderate definitive (due edizioni a stampa autorizzate, la prima del 1942 − edizione Mondadori «Lo Specchio» − la seconda del 1975 − edizione Mon- dadori «Scrittori italiani e stranieri»). Esso è un «doppio racconto», ciascuno con propria fonte di emittenza narrativa, proprio orientamento ideologico e orizzonte percettivo, proprio incrocio di punti di vista con rispettivi percorsi conoscitivi, proprie situa- zioni pratico-esistenziali dinanzi alle quali si pongono in relazione gli eventi narrati, non sempre legati fra loro e, tuttavia, complementari e funzionali a una storia principale. Episodi apparentemente diversi confluiscono, in mo- do non di rado speculare, nell’alveo di un percorso condiviso riproducen- done il paradigma diegetico. Tutto ruota intorno a Michele Boschino, vero centro di gravità, alla sua storia, al suo vissuto, alla sfera pragmatica in cui è coinvolto, alla sua visione del mondo e della vita. Questa sorta di «racconto ripetuto» sembra ripercorrere − secondo direzioni, orientamenti e prospet- tive differenti − il corso di un fiume, in un certo qual modo metafora della vita di un contadino del centro Sardegna, vittima di soprusi e rancori che lui stesso vorrebbe a un certo punto dimenticare per poter finalmente morire in pace:

Cose e gesti che ritornano, situazioni che si ripetono, dovrebbero vivere nel libro come un albero vive nella campagna; vivere e rivelarsi dai diversi punti di vista da cui l’occhio dello scrittore e del lettore lo guardano, e nei mille possibili e taciuti punti di vista. Avere in sé queste mille possibilità come cose reali. Credo che tutto il libro sia impostato in questo senso. Ci sono due punti di vista che interferiscono, quello oggettivo e quello soggettivo del giovane e della introspezione, ma il raccon- to è solo apparentemente continuato: in realtà è ripetuto […] Tutto sta in questa ri- petizione, in questo aprire due punti differenti sull’orizzonte, da cui convergono due raggi in un solo punto. Vorrei che si sentisse la possibilità di mille altri raggi. Il lettore, nel mio ideale, dovrebbe sentire, al di là della più rigorosa precisione della

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mia immagine, il desiderio fantastico di ripensarla.12

Si tratta di un viaggio, soprattutto in un caso, dal forte taglio analitico- memoriale, condotto in profondità da due narratori diversi per statuto e funzione, attraverso una marcata alterazione dell’ordine lineare degli eventi. La prima istanza produttrice del discorso narrativo richiama un narratore onnisciente, extradiegetico ed eterodiegetico. La seconda, più complessa, ricorda un narratore omodiegetico, rappresentato, protagonista, testimone (diretto e indiretto) e implicato nella vicenda (l’io narrante racconta innanzi- tutto se stesso, e fa di una parte della sua vita l’oggetto del racconto); emit- tente della narrazione e agente della storia, quest’ultimo gravita intorno al pianeta Boschino:

Boschino era ancora bambino, quando suo padre cominciò a essere in urto coi fra- telli, a causa di una piccola eredità che essi non volevano riconoscergli. A quanto ho capito, si trattava di un giogo di vecchi buoi. Questi fratelli, zii di Boschino, non a- vevano nessun diritto all’eredità, tanto è vero che ricorsero a minacce e finirono per passare alle vie di fatto: più volte picchiarono a sangue il padre di Boschino. Finché costui, stanco, un giorno reagì e spaccò la testa a uno dei fratelli. Fu denunciato e condannato a due anni di reclusione [...] Conoscendo bene i fratelli, esortò sempre suo figlio a evitare con loro ogni relazione, per l’avvenire, anche se avessero mostra- to di essergli amici. Boschino invece, dopo la morte del padre, si riconciliò con loro. Aveva comprato un terreno da mettere a vigna […] intestato, forse per errore, a uno degli zii, che ne pagava anche le tasse; e la vedova lo rimborsava anno per an- no. Da alcuni anni però, quando Boschino comperò il terreno, questo rimborso non veniva fatto. Boschino detrasse questa esigua somma dal prezzo del terreno che pagò alla vedova, per versarla allo zio, che già precedentemente s’era impegnato a far la voltura a suo favore. Lo zio però trascurò, in buona o in mala fede, di far la voltura, e i figli, dopo la sua morte, non vollero più sentire ragioni e pretendevano d’impadronirsi della parte intestata a loro che era al centro del terreno comprato da Boschino. Ci fu una prima causa, perduta, naturalmente, dai cugini. Rinasceva così, sotto altra forma, l’antica contesa […]13

Attraverso il racconto «oggettivo» il narratore cerca, nella prima parte, di spiegare i fatti al lettore («un racconto oggettivo poteva essere bello poteva

12 Lettera di Giuseppe Dessì a Carlo Varese, 1947 [ DESSÌ 1941, pp. 32-33; VARESE 1975a, p. VII. 13 DESSÌ 2011, pp. 183-185.

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mettere me in comunicazione con gli altri più di quanto non potesse farlo il racconto intimistico. Michele Boschino nacque per soddisfare questa esigen- za»). In verità, però, a ben vedere giganteggia piuttosto una sorta di «io» dimidiato, scisso, posto tra due universi semiotici connotati che tuttavia – pur nella conflittualità dei codici e nella dialettica ideologica – coesistono e si compenetrano, inducendo la voce a una narrazione pluridiscorsiva e a tratti mimetica.

Del resto questo è stato uno dei tratti distintivi della scrittura letteraria in Sardegna, almeno dopo l’unificazione e a partire soprattutto dall’opera della Deledda.14 Una delle questioni dirimenti che gli autori più avvertiti e consa- pevoli dovettero affrontare da un punto di vista narrativo fu, infatti, come tenere insieme cultura osservata (il mondo sardo) e cultura osservante (sar- do-italica); come costruire un narratore capace di raccogliere lo straordina- rio bagaglio conoscitivo di un autore implicito figlio del suo mondo e pro- fondo conoscitore dei suoi codici: un narratore che, ponendosi a una di- stanza minima dall’universo rappresentato, sapesse nello stesso tempo rac- contare l’anima e il vissuto della sua gente a un pubblico d’oltremare:

Per noi Sardi la cosa è molto diversa. Abbiamo un modo diverso di essere Italiani, o di diventarlo. Noi non parliamo un dialetto italiano, anche se, volgarmente, il sardo è definito tale. Si tratta di una lingua, non di un dialetto. Non una lingua dotta, ma pur sempre una lingua a sé, per la sua struttura morfologica e sintattica e per il suo lessico. […] Non vi è dunque, tra la lingua materna di noi Sardi e la lingua italiana quella continuità, quella possibilità di graduali passaggi e ritorni che esiste invece fra i dialetti italiani e la lingua comune.15

Anche in questo caso, come già in San Silvano, il narratore conosce bene il microcosmo raccontato; lo conosce dall’interno, tanto da insinuarsi, con- fondendosi e mimetizzandosi, ad esempio, in non pochi eventi verbali, so- prattutto scenici. Altri usi linguistici regionali dell’italiano, forme d’uso co- mune e della colloquialità, modi di dire e significati idiomatici, anche nelle parti discorsive e descrittive (che rimandano più direttamente alla fonte di emittenza), confermano questa consuetudine codificatoria. Intenti mimetici

14 Cfr. MANCA 2010. 15 G. DESSÌ 1951, pp. 965-970.

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DINO MANCA e modulazioni del parlato si celano anche nelle frequenti iterazioni retoriche (anadiplosi, epanadiplosi, epanalessi) poste in essere dalla voce narrante:

«Io, quando gli ho parlato la prima volta, mi è sembrato un uomo giusto, sincero»; «non farti vedere a piangere da tua madre»; «a volte la gente non sanno quello che dicono»; gli saltarono addosso e cominciarono a menar botte, che se conti- nuavano ancora un poco lo lasciavano morto; Ma a me mi giudicherà; non vor- rei aver contribuito anch’io a farti un’opinione sbagliata; La terra affittata rendeva meno sì, ma rendeva ogni anno nella stessa misura; Pensava a Michele, ai figli di Michele, e ai figli dei figli; accrescere la roba del padre, che era roba sua, ingrandi- re la casa del padre, che pure era sua.16

L’uso, inoltre, del trasposto in stile indiretto nel riferire i discorsi e i pen- sieri dei personaggi a volte determina, secondo un effetto di transfert, un cer- to grado di mediazione e imitazione che riduce la distanza fra lettore ed esi- stenti accrescendo nello stesso tempo il livello di verosimiglianza narrativa:

Ecco cosa avevano fatto i testimoni della difesa, la gente! Cosa sarebbe accaduto ora, se dalla deposizione di Antonio Màsala, o da qualche altro indizio, si scopriva che c’erano anche Cosimo Aneris e lui, quella sera? O se la stessa persona che aveva avvertito Antonio Màsala faceva la spia? Chi lo avrebbe difeso? Chi avrebbe credu- to che lui stesso aveva subito una violenza? Meglio non pensarci neppure. Non con- tava nulla essere onesti e miti come suo padre. Nulla!17

E tutto ciò, per gli scrittori in lingua italiana, sarebbe dovuto accadere senza rinunciare – pena l’insuccesso editoriale e la fuoriuscita da quei criteri inclusivi che andavano definendo i canoni estetici e letterari «nazionali» – all’attrazione secolare e legittimante del modello toscano. Sarebbe sufficien- te, a tal riguardo, dare una scorsa al contingente lessicale dei romanzi des- siani anche nella loro evoluzione stratigrafica, per capire il certosino lavoro di ricerca e di selezione svolto sui dizionari, il Tommaseo su tutti (ritrecine, basto, noria, gora, profenda, maglio, scerbare, accestire, in traversare, mallo, cimolo, callaia, gerla, mastello, muglio, beccaio, coltella, mezzaria, crescio- ne, apio, sala, sgonfiotti, barbicaia, staggiano, abbarcato, comperò, giovine, danari et alia):

16 Cfr. MANCA 2011, p. LI. 17 Ivi, p. 44.

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Ma chi si senta di addentrarsi nell’isola per proprio conto, rinunciando agli itinerari prestabiliti, chi vuol vedere le cose come stanno veramente, non correrà nessun ri- schio di perdersi. Anche se la faccia di questi uomini e di queste donne è dura e chiusa. Sono ospitali e silenziosi […] e parlano un italiano corretto, stranamente li- bresco, imparato a scuola.18

Nel secondo racconto, a forte connotazione psicologica, si accentuano significativamente le incrinature (in parte già presenti nel primo) degli schemi canonici della rappresentazione. La narrazione si snoda attraverso una successione di eventi interiori che accompagnano lo stesso sviluppo narrativo. Alla logica obiettiva e spazio-temporale dei fatti, pur sperimenta- ta e volutamente cercata, si sostituisce la coscienza particolare e frammenta- ria del personaggio, con effetti d’ingrandimento dell’episodio rievocato qua- si a scapito dell’economia dell’insieme:

Ho portato avanti per un bel po’ questo romanzo, ma a un certo punto mi risvegliò l’antico amore per le cose che solo nel segreto si conoscono, che solo violando il segreto, magari di un’altra persona, si riescono a penetrare. Il racconto oggettivo viene lasciato in tronco e il libro continu alla voce dell’io.19

La dissoluzione dell’ordine lineare degli eventi è data ora, non più da un narratore onnisciente, ma è il risultato di una percezione tutta soggettiva della durata, lì dove cioè il tempo si riduce e dilata secondo lo stato di coscienza del giovane intellettuale, Filippo, che racconta in prima istanza il proprio essere in relazione; il ritmo del racconto è lo stesso del suo flusso memoriale e coscienziale. Pensieri, retrospezioni, ricordi, riflessioni, immagini, concor- rono a costruire quella struttura a recuperi analettici multipli che smateria- lizza, polverizzandolo, il tempo diegetico e lo trasforma, per il personaggio protagonista, in tempo interiore. Il tempo storico si confonde col tempo psicologico, soggettivo e pulviscolare. La massa compatta del reale – come significato, come storia e come gerarchia di valori – si frantuma, ricosti- tuendosi sotto forma di differenti galassie di senso. La realtà assume così aspetti diversi secondo i punti di vista e l’angolazione prospettica. La memo-

18 DESSÌ 1961c., p.12 19 TOSCANI 1973, p. 5.

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DINO MANCA ria dell’io narrante, secondo la dinamica dei cerchi concentrici, finisce quasi fatalmente (grazie per altro all’aiuto di personaggi come Maria e Linda con i quali lo studente istituisce una serie di relazioni) con l’inglobare, nel dilatar- si, la memoria e il vissuto di Boschino. Il lettore si trova piacevolmente coinvolto in un viaggio à rébours, a ritro- so, perduto tra i sentieri più reconditi della mente e dell’anima, in una trama intimistica di ricordi, di sensazioni, di flash-back, partecipe di un’opera di ri- piegamento su se stessi, alla ricerca di un tempo perduto, ora ritrovato e ri- vissuto, quello dell’infanzia e della vita del giovane studente, che interseca, a un certo punto, il tempo immobile del vecchio ortolano. Si assiste a un la- voro di scavo, di riesumazione e riabilitazione alla ricerca di un senso, di un file rouge, in un momento favorevole e gradito, segnato da una sorta di beata solitudo che diviene balsamo e lenimento di un presente segnato dall’immobilità fisica (l’evocazione, intesa come atto di coscienza del pre- sente, non può non rimanere condizionata dall’adesso temporale). Passato e presente si alternano e si sovrappongono in un susseguirsi, a tratti sfumato, di accadimenti e figure inestricabilmente legate fra loro; una successione che si dissolve nell’indefinitezza temporale e nell’impercettibile confine che talvolta corre fra pensiero e realtà. Il tempo della memoria diventa tempo elastico, fluido e soggettivo, della fantasia e della trasfigurazione, di là della realtà, su una dimensione altra che non tollera la misura oggettiva:

Vale la pena di scrivere solo per raccontare fatti che non sono accaduti, o per «travi- sare», trasformare, rivivere con la fantasia fuori del tempo reale, nel tempo della memo- ria, i fatti accaduti. Vale la pena di parlare di Elisa, che non è mai esistita, e di Bo- schino, che continua, completa, interpreta, spiega Giuseppe Rasino […]20

Si attiva così un percorso conoscitivo (ma anche riabilitativo) volto a comprendere le ragioni, la profondità e la validità morale del mondo di Bo- schino guardato dagli altri con ritrosia e sospetto. Un mondo per certi versi lontano, insondabile, statico, che mette a dura prova la capacità decifratoria del protagonista, Filippo, il giovane intellettuale cittadino (proiezione auto- rale?), espressione di una cultura osservante, ciononostante figlia in qualche modo di quella osservata, contadina, primitiva, archetipica, sardofona (Bo-

20 DESSÌ 1999, p. 81.

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schino è l’«uomo dei boschi», la Sardegna arcaica). Due mondi, due culture, due orientamenti prospettici, due Sardegne, dunque (come già in San Silva- no); o, se si vuole, due generazioni che, nel caso di Filippo e Michele, rie- scono a dialogare e a momenti a intendersi. Ma anche altre due isole coesi- stenti e confliggenti, attraversano i racconti: degli «olivi» e degli «olivastri», del lavoro e della grassazione, del rispetto e dell’invidia, della pace e della violenza, della giustizia e della sopraffazione. La seconda agisce sulla prima come un tarlo, condizionandola e ostacolandola. Una molteplicità di codici e sistemi valoriali cerca tuttavia di ricomporsi grazie a una volontà vitalistica tesa a conoscere e a capire quella diversità morale e antropologica, se non anche ad apprezzarne e a valorizzarne il portato su se stessi, sul proprio presente e sulla definizione di un’identità individuale e collettiva. Spesso, infatti, nell’alterità e nella ricerca dell’altro disveliamo e ritroviamo noi stes- si. La conoscenza, si sa, non è data senza tempo e senza luogo, e il luogo, come entità storica e culturale, esiste; luogo inteso come testo-cultura, spa- zio umanizzato e modellato, universo percettivo e simbolico. Nell’opera di Dessì prevale su tutto un paesaggio sardo, a morfologia agraria, specchio di una comunità contadina autosufficiente e arcaica, legata al suo territorio, condizionata, nelle sue attività e nella sua quotidianità laboriosa, dal ritmo delle stagioni. I luoghi e gli ambienti non hanno una mera funzione esorna- tiva, quanto piuttosto conoscitiva. Essi sono presentati attraverso l’orizzonte percettivo del personaggio protagonista e attraverso l’influenza che esercitano sulla sua psiche. I pensieri e i ricordi si rapportano ai luoghi sentiti e amati, percepiti sensorialmente ed emotivamente. Lo spazio fisico e naturale si traduce in luogo dell’anima, condizione dell’essere e dell’esistere, talvolta sentimento inesprimibile, ai limiti dell’incomunicabilità:

Forse anche l’amore per i luoghi è solitario e inesprimibile come l’amore per le per- sone […] Ripensando alla terrazza di Giarrana, ora che sono qui immobile, in que- sto letto, mi pare di poter ritrovare tutta la mia vita in quel ricordo. E anche questo sentimento è solitario, incomunicabile. Mia madre entra nella stanza, si siede accan- to a me. Non sa quello che penso, che sento. Inutile tentare di dirglielo, se lei stessa non lo capisce, se dal profondo del suo essere non è mosso lo stesso sentimento, lo stesso pensiero. Entro quell’orizzonte, nell’amore di quel luogo che è soltanto mio, in quel bisogno di andarmene, di ritornare, nella nostalgia che continuava a durare

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anche quando ero tornato, tutta la mia vita si delimita, si sistema, diventa compren- sibile come se la leggessi narrata in un libro.21

La presenza simultanea di differenti tipologie narrative e formali (rac- conto oggettivo e d’ambiente da una parte, scrittura soggettiva, memoriale e introspettiva dall’altra) e la non trascurabile valenza speculativa e filosofica – soprattutto per la proposta metodologica e per la mai risolta tensione gnoseologica – fanno di questo romanzo, paradigmatico, una sorta di labo- ratorio sperimentale che rende Dessì autore moderno e di respiro europeo («Michele Boschino è uno dei primi “meta romanzi” della nostra narrativa proprio secondo l’accezione di Moravia»).22 La Sardegna, terra di «permanenza e non di viaggio», è il vero prota- gonista della sua scrittura e della sua speculazione. Essa diventa il correlati- vo oggettivo, l’equivalente emotivo del pensiero, di uno stato d’animo, di una condizione esistenziale; essa si tramuta, come peraltro accade a molti artisti sardi, nel suo universale concreto:

Non so più nemmeno se il mio sia amore o fastidio, rabbia di essere nato lì, rabbia di essere legato ancora a questa terra troppo vecchia e tanto lontana dal mondo nel quale vivo – dall’Italia, voglio dire. Eppure quella è la mia patria. È là che sono nato. È là che ho passato gli anni più importanti della mia vita, l’infanzia e l’adolescenza. Là c’è la casa di mio nonno, di mio padre: case e tombe. Ma ciò che conta di più è che là io mi sento forte, intelligente, anzi onnisciente. Immergo la mano nell’acqua del Tirso, del Temo, del Rio Mannu, e so di che cosa è fatta quell’acqua. Raccolgo un sasso, e ho di quel sasso una conoscenza che arriva fino all’atomo, fino alla mo- lecola. È là che ho letto per la prima volta Leibnitz e Spinoza senza bisogno di tra- duzione o di note a piè di pagina. Là mi sono sentito solo al centro dell’Universo come un astronauta. E per questo sono geloso della mia Isola. Geloso di tutto ciò che la rende volgare, turistica.23

E la modernità della narrativa di Dessì risiede proprio nella lettura che egli dà della sua isola, terra peculiare, multiforme e complessa, i cui caratteri distintivi – oltre a quello dell’insularità che ne ha in modi diversi condizio- nata l’evoluzione culturale e storica – sono quelli del plurilinguismo e del

21 MANCA 2011, p. 209. 22 TANDA 1984, p. 119. 23 DESSÌ 1961C, p. 13.

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policentrismo. Una frammentazione interna mai risolta che si specifica in una dicotomia di base fra zone costiere e pianeggianti, non precluse ai traf- fici, più aperte verso l’esterno, percorse non sporadicamente da tendenze insediative favorevoli all’urbanizzazione (la Cagliari di Filippo), e zone in- terne, spesso contigue alle coste, elevate e di difficile accesso, a economia agro-pastorale, meno permeabili agli influssi esterni, che generano sensi e comportamenti d’identità locale, di cui l’arcaicità linguistica e la conservati- vità culturale appaiono manifestazioni espressive (la Sigalesa e la Mamusa di Boschino). Dessì, che a suo modo era stato quell’io dimidiato (sia il contadino Bo- schino → Villacidro che lo studente Filippo → Cagliari), capisce che l’identità è il frutto di un processo storico polimorfo e dinamico, che va co- nosciuto e interpretato, e che la caratterizzazione della Sardegna è data da elementi tradizionali e non che convivono e dalla compresenza di differenti culture (urbana, rurale, pastorale). Soprattutto comprende che il rispetto della complessità e della diversità passa prima di tutto attraverso la riattiva- zione di un circuito interno della memoria, della conoscenza e della comu- nicazione che sostenga la crescita di una consapevolezza sempre maggiore di sé, della propria identità e della propria Storia. La Sardegna di Boschino non è la Sardegna di Filippo (città versus cam- pagna). Quella del vecchio ortolano è una Sardegna diversa, figlia di un tempo remoto, ripetitivo e mitico, con proprie lingue, propri valori, propri criteri distintivi, propri reticoli di esclusione e inclusione, proprie leggi e proprie consuetudini, effetto di un millenario processo di adattamento alle difficili condizioni naturali. L’aver creduto di poter penetrare quel microco- smo attraverso codici e strumenti impropri, ha creato per secoli quello iato comunicativo fra potere costituito e società sarda, e fra Sardegna e Sarde- gna, che è stato fonte d’incomprensioni e causa d’irriducibile ribellione:

Colliva mi diceva dell’ostinazione di Boschino. Mi diceva che ha dovuto lottare per fare i suoi interessi. Non ha parlato di Boschino con quel disprezzo che hanno per i contadini gli avvocati che sono stati costretti a lavorare in provincia per tanti anni. Non lo ha trattato neppure da ignorante. Secondo lui l’ostinazione di Boschino di- pende dal fatto che Boschino ha una concezione preistorica del diritto. Gli ho chiesto se non sarebbe stato il caso di secondare il più possibile quest’idea preistorica del di- ritto, senza portare la contesa alle conseguenze estreme, cioè alla espropriazione delle povere case e dei piccoli poderi dei parenti, all’asta, ecc. ecc. È rimasto un po-

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co soprapensiero, poi ha detto che in teoria forse si poteva. In teoria, non in prati- ca.24

Nell’ottobre del 1945 la casa editrice Einaudi gli pubblicò Racconti vecchi e nuovi, silloge di venti composizioni brevi che, come suggerisce il titolo, in parte erano già state editate da Guanda in La sposa in città (Giuoco interrotto, Inverno, Una collana, La rivedremo in Paradiso, Un ospite di Marsiglia, Cacciatore distratto), in parte erano uscite su giornali e riviste tra il 1937 e il 1942 (Incon- tro nel buio, Ricordo fuori del tempo, Un bambino quieto, L’insonnia, Suor Emanuela, Vigilia, Ritratto, Le aquile, Gli amanti, Saluto a Pietro Quendespuitas, Lebda, Pae- saggio, Innocenza di Barbara, La cometa). Ritorna la poetica della memoria e il tema dominante è quello dell’infanzia, del suo recupero rimemorativo e co- scienziale che può anche sconfinare nelle regressioni prenatali, alla ricerca del proprio essere per capire il proprio esistere (Ricordo fuori del tempo, pubblica- to sulla «Stampa» nel 1937 e su «Riscossa» nel 1945), o che scandaglia soli- tudini infantili, colte in realtà temporali diverse, aurorali, attraverso il sa- piente gioco dei silenzi e della memoria ripetuta (Un bambino quieto e Suor Emanuela, entrambi usciti sulla «Stampa» nel 1939, oppure La cometa, pub- blicato sulla «Prosa» e riproposto sulla rivista francese «L’Age nouveau» nel 1951, nell’Isola dell’Angelo e in Lei era l’acqua):

La somma di questi destini ricordava a Francesco la cometa vista nel cielo cupo, profondissimo, di tra i monti, in un’epoca imprecisata e lontana dell’infanzia. Fin dal tempo in cui Valeria aveva smesso di cantare in coro con le sorelle sulla terrazza, cioè quando la loro bellezza cominciava a spandersi come luce lunare su tutte le al- tre, la via che essa avrebbe dovuto seguire era già tracciata. 25

A dicembre iniziò la composizione dell’Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, romanzo che verosimilmente aveva iniziato a concepire già nel 1934 – nel gennaio di quell’anno aveva infatti inviato a Capitini uno schema di racconto «sotto forma di diario di Giacomo» – e che propose in cinque puntate, da maggio a ottobre del 1948, al «Ponte». Il romanzo, rielaborato, verrà ripubblicato nel 1959 con la casa editrice veneziana Sodalizio del libro

24 MANCA 2011, p. 216. 25 DESSÌ 1966, p. 56.

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(illustrazioni di Renato Guttuso). La storia, organizzata in quindici capitoli, riproduce secondo modelli bergsoniani la parabola esistenziale di Giacomo Scarbo, figura tanto ricorrente quanto rarefatta e indistinta, dentro la circo- larità narrativa di Dessì. Orfano di madre (Josephine), quando il padre Massimo si è già rispo- sato con Alina, Giacomo cresce in casa di una zia paterna, Maria. Nono- stante gli sforzi del genitore e le premure della giovane matrigna, da subito la sua infanzia appare segnata dalla solitudine e dall’incomunicabilità. Que- sta sorta di analfabetismo relazionale svanirà solo quando in lui si attuerà il processo di interiorizzazione che, attraverso la memoria, salderà passato e presente; solo quando i ricordi e le fantasie gli chiariranno le connessioni segrete che regolano il mondo, e gli sapranno fornire pertanto gli strumenti della conoscenza di sé e degli altri. Accanto al protagonista, Alina e Massi- mo, «delineati da un sublime tratteggio stilistico, pur nell’opposta alterità dovuta a un antitetico rapporto col passato, e quindi con la memoria,»26 chiudono mirabilmente l’architettura narrativa:

Giacomo è quello che io avrei voluto essere e non sono stato una specie di mio ide- ale alter-ego.27

Nel 1947 Dessì iniziò a scrivere Storia del principe Lui, prosa ricca di implicazioni tematiche, ambientata in un regno immaginario, che la Mon- dadori gli pubblicherà nel ’49. Composto secondo la forma e gli espedienti della favola – favola per adulti, storia fantastica ma anche politica – il rac- conto lungo risulta essere un unicum nella sua produzione («L’ho scritta in un mese. Non è favola per ragazzi»). Il romanzo I passeri – appartenente al ciclo Alicandia-Scarbo (secondo per elaborazione) – fu invece geneticamente concepito nei primi anni Cin- quanta (all’autunno del 1952 risale, infatti, la prima stesura del testo, uscito a puntate l’anno successivo sul «Ponte») e pubblicato nel 1955 dalla casa e- ditrice pisana Nistri-Lischi, nella collana «Il Castelletto» diretta da Niccolò Gallo (che contestualmente pubblicava anche Gli ultimi anni di Clelia Trotti di Giorgio Bassani e Il taglio del bosco di Carlo Cassola), dopo essere stato scar-

26 DOLFI 2004, p. 11. 27 Lettera di Giuseppe Dessí ad Anna Dolfi, Roma, 19 novembre 1973.

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DINO MANCA tato da Einaudi (pesò soprattutto il giudizio di Natalia Ginzburg) e dopo un significativo lavoro di editing e di revisione della struttura segnica del raccon- to (oltre l’ordo, l’incipit e il finale, furono emendati anche alcuni nomi dei personaggi). Il romanzo, che ottenne il premio Salento e conobbe una ri- scrittura teatrale nel 1959 (Qui non c’è guerra), fu ripubblicato da Mondadori nel 1965. Il giudizio della critica fu discorde: incontrò i favori di Bo, Binni, Salinari e Caproni, ma anche le perplessità di Montale, Bàrberi Squarotti, Del Buono e Manacorda:

[…] personaggio [Susanna] ricco di quelle caratteristiche letterarie che vanno gene- ricamente sotto il nome di neorealismo, che sta a testimoniare la volontà di Dessì di uscire dal suo mondo poetico, nonostante sia ricco, ma che potrebbe chiuderlo in una torre d’avorio.28

Pur superando in parte il lirismo autobiografico delle opere precedenti, per sperimentare inediti percorsi di matrice neorealista, resta il fatto che an- che con I passeri Dessì continui a nutrirsi, nella sua complessità e allusività rappresentativa, della migliore tradizione introspettiva novecentesca. Non è affatto fuorviante ricordare, ad esempio, che, a proposito di contestualizza- zioni e intertestualità, la genesi del romanzo coincise con quella del Metello pratoliniano, primo della trilogia Una storia italiana, diventato, con argomen- tazioni diverse, oggetto di un dibattito partecipato, aspro e divisivo, pro- mosso soprattutto dagli esponenti più autorevoli della critica marxista e so- ciologica: un dibattito che andò molto oltre lo specifico letterario e il reale valore del libro. Il romanzo maturò geneticamente in un periodo cruciale del vissuto dell’autore e in una temperie ricca di fermenti e di nuove parole d’ordine. Il mutato contesto storico – che, dopo la tragica esperienza del secondo conflitto mondiale e la lotta partigiana, andava ponendo interrogativi inedi- ti, culturali ed etici – richiamò molti intellettuali e scrittori della sua genera- zione (Vittorini, Pavese, Moravia, Bernari, Alvaro, Fenoglio, Pasolini, Cal- vino), a un rinnovato impegno morale e civile adeguato alle incerte condi- zioni del presente e alle profonde trasformazioni in atto, e impose una ride- finizione del loro ruolo e della loro funzione nelle istituzioni e nella società.

28 MANACORDA 1954, p. 198.

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Già nel primo dopoguerra la letteratura divenne, soprattutto attraverso il genere romanzo e le riviste – insieme ai linguaggi del cinema e delle arti –, lo strumento dell’impegno (engagement) e il veicolo privilegiato di messaggi sempre più connotati dal realismo storico e sociale, volti al superamento del tradizionale iato tra intellettuali e popolo («popolo» da intendersi, gramscia- namente, come classe subalterna piuttosto che, in senso romantico, come «popolo-nazione»). Anche il Pratolini delle «cronache» familiari, il narratore dell’epica del quotidiano fiorentino (del Borgo San Frediano, di Santa Croce, di via de’ Magazzini, di via del Corno, di San Niccolò, del Mugnone) negli anni Cin- quanta avvertì la necessità, per comprendere meglio gli «effetti» della crisi, di ritornare alle fonti, alle «cause», di collocare in una dimensione diacronica la varia umanità che animava i vicoli dell’antica città e di rappresentarne let- terariamente il suo «tipico» (popolare, aristocratico, piccolo o medio bor- ghese che fosse). Solo risalendo il fiume della Storia e solo restando ancora- ti a essa si potevano infatti comprendere le contraddizioni del presente («i fatti quotidiani portati sul piano della storia»). Fu un evidente cambio di prospettiva e di approccio, non di oggetto di scrittura. Rimase Firenze con la sua gente, restò il vissuto, la soggettività e l’intimità dei suoi personaggi, sempre più calati in particolari contesti crono-topici scelti per valenza e rappresentatività storico-politica e sociale: dalla memoria familiare a quella cronachistica; dalla storia locale a quella nazionale. Si doveva completare la dinamica dei centri concentrici per comprendere meglio quell’universale concreto: il quartiere, la città, lo stato.29 Analogo ragionamento potrebbe essere fatto per il Dessì che da I passeri arriva a Paese d’ombre passando per Il disertore:

I passeri è il racconto della fine della guerra in Sardegna. Perché in Sardegna? Mi si chiederà ancora una volta. Perché, a parte le ragioni storiche ed artistiche che ri- chiederebbero un troppo lungo discorso, come ci spiegano Spinoza, Leibniz, Ein- stein e Merleau-Ponty, ogni punto dell’universo è anche al centro dell’universo. Qui finiscono la guerra e il fascismo: nella piazzetta dove io giocavo con un grillo legato a uno spago che, come un talismano che mi rendesse invisibile, mi consentiva di vi- vere in mezzo agli uomini, isolato da essi e autonomo. Con la fine della guerra e del fascismo è finito anche il potere di simili talismani. Si può vivere soltanto in mezzo

29 Cfr. MANCA 2018b.

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agli altri e con gli altri. Si deve fare a meno dei grilli legati a uno spago.30

La materia dell’intreccio – gestito da un narratore eterodiegetico, se- condo le modalità prospettiche della focalizzazione interna variabile (con uso del discorso indiretto libero) – si pone in linea di continuità con Intro- duzione alla vita di Giacomo Scarbo, la cui diegesi si ferma al periodo dell’adolescenza del protagonista (ne I passeri se ne descrive l’eroica, anche se presunta, morte nelle brigate internazionali). La storia, ambientata a Or- dena, immaginario paese della Sardegna meridionale, dopo l’8 settembre 1943, in un’isola occupata dalle truppe anglo-americane, si dipana insieme allo svolgersi delle vicende esistenziali di due giovani donne, Rita e Susanna, che si intersecano e a tratti sovrappongono, gravitando intorno alla figura del conte Massimo Scarbo, un vecchio vedovo, «inchiodato» in un letto (la figura dell’allettato è un altro topos della narrativa dessiana), padre di Gia- como, ragazzo sensibile e in conflitto con l’autorità paterna, partito per combattere contro i falangisti nella guerra di Spagna:

Eppure i miei lettori conoscono le vicende della sua vita breve e avventurosa: una storia scritta per cenni, per allusioni, per frammenti, che si trovano sparsi in più li- bri, nei quali ogni tanto il nome di Giacomo Scarbo riappare come un emblema. So- lo in uno, l’Introduzione alla vita di G.S., si parla esplicitamente di lui, della sua infan- zia. L’Introduzione alla vita è la prefazione (questa volta senza bisogno di spiegazioni, di giustificazioni) al libro che un giorno scriverò su questo amico mai esistito al qua- le avrei voluto somigliare. 31

Il Giacomo fanciullo dell’Introduzione, adesso disperso in terra ispanica, è il pensiero ricorrente del conte, che non accetta l’dea della sua morte. È il fantasma che popola i suoi ricordi e tormenta un presente lacerato dai ri- morsi e dai sensi di colpa. Rita, vittima innocente delle sue disgrazie, incar- nazione della semplicità e della solitudine («per questo parlava con i passe- ri»), innamorata di Giovanni, che prima di andare al fronte aveva cercato di sposarla, è ostacolata dal padre che disapprova il rapporto col militare ro- magnolo. Abbandonata la casa paterna va così a vivere con la zia Leonia:

30 DESSÌ 1955 [1965], p. XII. 31 Ibid.

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Il cancello cigolò e Rita riconobbe con sollievo il passo scalzo della vecchia. Troppe ore aveva passato nella casa vuota, troppe ore di solitudine.32

Rita coltiva un’amicizia, fatta di intime confidenze, con Susanna, go- vernante protettiva e fedele di casa Scarbo, ragazza espansiva e ribelle, che ciarla di sesso e amicizie particolari e alla quale rivela la propria gravidanza. L’amica, donna d’esperienza, le consiglia di abortire e, così facendo, di «le- varsi il pensiero» («si noti il coraggio di farlo in età pacelliana»). Un altro giorno riesce a confessarle, dopo un periodo di incomprensibile mutismo, di essere stata violentata da due militari che avevano ucciso un giovane sol- dato col quale aveva trascorso una notte. Attorno alle due ragazze, a Scarbo e alla sua eredità (la roba) agiscono altri personaggi, tra i quali due nipoti, Manlio Spada, giovane medico e re- duce di guerra (aiuterà Rita dopo lo stupro), cresciuto dal conte quasi come un figlio, e l’avido Timoteo De Luna, presunto erede. La vicenda si compli- ca quando Scarbo muore e Timoteo tenta di bruciare la lettera testamenta- ria dello zio, con la quale destina i propri beni alla governante. Ma il testa- mento, consegnato nelle mani di Rita, è custodito e preservato nella casa di Leonia. I sospetti cadono allora su Susanna, che viene arrestata per furto. L’intrigo si scioglie nel momento in cui Cabruno, medico e amico di Scar- bo, ricevuta la lettera scagiona la ragazza disvelando le ultime volontà del conte:

Nella parte finale del racconto, quando gli eventi subiscono una traumatica torsione, Rita riflette sul rapporto di reciprocità che annoda la memoria all’oblio, che le si configura come il tessuto attraverso cui il percorso vitale si perpetua e si rinnova; e scopre la legge che permette di esistere al di là delle più dure prove: le esistenze, specie le più umili, sono come i passeri, sopravvivono alle stagioni e si ripresentano col loro pigolio incessante e quasi fastidioso – segno di una rinnovata vitalità.33

Nel 1957 furono pubblicate le due sillogi di racconti Isola dell’Angelo (Isola dell’Angelo, I segreti, La cometa, La mia trisavola Letizia, Lei era l’acqua, Il bacio, La capanna, Black, La frana), nella collana «Aretusa» della casa editrice sicilia- na Sciascia (per la quale l’anno dopo ottenne il Premio Puccini-Senigallia e

32 Ivi, p.1. 33 MADRIGNANI 2004, p. 7.

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DINO MANCA che nel 1966 sarà interamente rieditata dalla Mondadori nella raccolta Lei era l’acqua) e La ballerina di carta con la bolognese Cappelli (La mano della bambina, I violenti, La ballerina di carta, La magnolia, Fuga di Marta, La paura, Il fidanzato, La verità, Succederà qualcosa, Paese d’ombra, Giovani sposi, La rondine, Le scarpe nere, Caccia alle tortore, Oh Martina, La ragazza nel bosco, L’uomo dal cappello, Lo sbaglio, Il colera, La felicità, Un canto, La clessidra, L’utilitaria, Il grande Lama, La bambina malata). In autunno su «Botteghe oscure» uscì invece il racconto scenico La giustizia, con il quale si affermò come autore teatrale. Il testo fu riproposto insieme a Qui non c’è guerra nel 1959 dalla Feltrinelli nella raccolta Racconti drammatici, e rappresentato nello stesso anno prima al Tea- tro Stabile di Torino, poi al Quirino di Roma (ottenendo il premio Saint Vincent e il Nettuno d’oro al Festival della prosa di Bologna), infine a Bue- nos Aires nel 1960 (oltre a essere trasmesso in televisione il cinque marzo del 1961).

Difficilmente nelle pagine degli autori sardi manca la Storia, quella «brutale», per dirla con Le Lannou, quella connotata da invasioni e coloniz- zazioni oppressive e violente, e con essa la memoria della guerra, il tema bellico come filo rosso della «sarditudine». Dai guerrieri nuragici ai resisten- ti di epoca romana, dalle milizie giudicali che combatterono gli eserciti cata- lano-aragonesi ai reggimenti formati da soldati sardi di età spagnola, dalle campagne risorgimentali del Regno di Sardegna al mito del «tamburino sar- do» di deamicisiana memoria, il riconoscimento del sacrificio e soprattutto l’esaltazione del coraggio e del «valore dei Sardi in guerra» – per parafrasa- re il titolo di un famoso libro di Medardo Riccio34 – sono stati per secoli topoi (quando non veri e propri cliché rappresentativi) ricorrenti nelle pagine di quei poeti, scrittori e cronisti che hanno cantato e narrato, spesso vicini ai modi delle «leggende circonfuse di superbo splendore», di un popolo «che non lascia mai le armi». Nella storia della Sardegna un posto particolare, nell’immaginario col- lettivo, ha certamente occupato la Grande Guerra e con essa il mito della Brigata Sassari. Il mito sulla «virtù guerriera», sulla costanza d’ardimento, sullo sprezzo del pericolo, sulla sublimità del sacrificio, sul senso d’appartenenza, fu in larga parte meritato e conquistato sul campo, in parte

34 RICCIO 1917-1920.

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strumentalmente costruito dalla propaganda militare, dalla stampa e dalla memorialistica del dopoguerra. Reclutata su base regionale, la «Sassari» di- venne leggendaria per il valore dimostrato dopo la conquista delle trincee sul Carso, i sanguinosi assalti sull’Altipiano di Asiago, l’eroica resistenza sulla Bainsizza e sul Piave. «Diavoli rossi» (dimonios, diavoli) era il termine con il quale i nemici chiamavano i soldati sardi (Die roten Teufels), alludendo al colore rosso delle mostrine e alla violenza dei loro attacchi. La storia della prima guerra mondiale fu dunque, per l’Isola, soprat- tutto la storia di questa brigata.35 E per quanto paradossale possa sembra- re, proprio nelle trincee i sardi maturarono quel sentimento dell’identità e dello stare insieme che già dall’immediato dopoguerra si tradusse in con- sapevolezza culturale e politica («si ses italianu, faedda sardu!», se sei italiano, parla sardo!). Identità da intendersi come memoria individuale e collettiva, modalità d’essere e senso dell’appartenenza, ma anche (e forse in virtù di ciò) come destino condiviso di sacrificio per una «patria» considerata lon- tana; ritrovata contezza di essere vittime, piuttosto che eroi, di un proces- so storico-esperienziale estraneo alle proprie radici e ai propri bisogni. Molti sardi, dunque, al fronte realizzarono, nella difficoltà e nel pericolo, che il vero «nemico» non era più il proprio compaesano o il proprio vicino di pascolo, ma un’intera lontana nazione. Su queste basi e per il riscatto e- conomico e sociale della loro terra i reduci, tra i quali Emilio Lussu e Ca- millo Bellieni, diedero vita prima a un movimento di ex-combattenti e subi- to dopo a un partito di matrice autonomista e federalista, il Partito Sardo d’Azione.36 I tragici avvenimenti della Grande Guerra non poterono ovviamente non trovare riscontro nelle opere degli scrittori e dei poeti in lingua italia- na e sarda che, direttamente o indirettamente, al fronte o a casa, conobbe- ro il dramma del conflitto. Fra tutti merita di essere ricordata l’esperienza umana e intellettuale di Emilio Lussu, che prese parte direttamente come ufficiale di complemento e la cui tragica esperienza gli ispirò negli anni Trenta, durante gli anni parigini e dietro la sollecitazione dello stesso Sal- vemini, l’opera che lo rese famoso al grande pubblico e che diventò un classico della letteratura della grande guerra: Un anno sull’Altipiano (nel

35 Cfr. FOIS 1981. 36 Cfr. LUSSU 1976; BELLIENI 1985.

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1970 il libro conoscerà la trasposizione dalla pagina allo schermo a opera di Francesco Rosi, Uomini contro).37 Leggendo Lussu, Giuseppe Dessì poté comprendere meglio la «que- stione sarda», le aspirazioni identitarie, il rapporto tra modernità e tradizio- ne, quella «sardità» che aveva radici storiche, culturali ed etiche profonde. Nel 1960 lo scrittore di Villacidro si ispirò al capolavoro del leggendario ca- pitano durante la redazione de La trincea, soggetto per uno sceneggiato tele- visivo della RAI (l’atto unico fu mandato in onda dal secondo canale il giorno della sua inaugurazione, avvenuta il 4 novembre 1961), in cui si rac- contano le fasi cruciali della conquista della linea «dei razzi» da parte della Brigata Sassari, episodio di cui fu protagonista anche il padre dello scrittore. E di quegli anni fu Il disertore, pubblicato per la prima volta nel 1958 su «Botteghe oscure», il cui redattore capo era l’amico Bassani. Meno diret- to a celebrare e a esaltare le «gesta eroiche» dei nostri soldati al fronte, e semmai più orientato a denunciare la drammaticità e le contraddizioni del conflitto, l’opera venne presto considerata – insieme a La trincea e a Un anno sull’Altipiano – tra le migliori sulla Grande Guerra (ottenne il premio Bagut- ta ed entrò tra le finaliste al premio Viareggio, riscuotendo un grande suc- cesso di pubblico in Italia e all’estero). Oggetto come tanti suoi elaborati di un lungo processo revisorio – a partire da un articolato avantesto (Il monumento e Il disertore), per finire alla geminazione in forma di racconto autonomo di alcune unità narrative (Se- greto, Offerta, Ottocento lire) –, il romanzo uscì in volume nel 1961 nella «Bi- blioteca di letteratura» della casa editrice Feltrinelli (dopo il rifiuto di Mon- dadori, che però lo rieditò nel 1974 e nel 1976). Nel 1983, infine, il testo conobbe la trasposizione cinematografica. Il film, prodotto da RAI2 e diret- to e sceneggiato da Giuliana Berlinguer, oltre che da Massimo Felisatti (l’attrice greca Irene Papas interpretò il ruolo di Mariangela Eca, Omero Antonutti quello di Don Coi e Mattia Sbragia impersonò Saverio), fu pre- sentato in concorso alla 40ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia Negli anni immediatamente successivi al conflitto, agli albori del fasci- smo, in un piccolo borgo del Medio Campidano, Cuadu (in sardo «nasco- sto, segreto», dal latino cubare) Mariangela Eca, madre di due soldati, Gio-

37 Cfr. LUSSU 1938 [1945; 1960].

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vanni e Saverio, l’uno morto in battaglia e l’altro dato per disperso, chiusa in un dolore muto e «senza lacrime» (nella sua rappresentazione letteraria è forte il richiamo alla figura archetipica della Madre dell’ucciso di Francesco Ciusa), ostile alla guerra e a ogni sua retorica, dopo quattro anni devolve tutti i suoi risparmi al comitato che si occupa dell’erezione di un monumen- to ai caduti. La comunità non comprende le ragioni di tanta prodigalità, che va ben oltre le stesse possibilità economiche della donna, per una celebra- zione così lontana dal suo animus e dalle sue convinzioni:

Quando si parlò e si discusse per la prima volta del monumento, Mariangela Eca non ne ebbe nemmeno sentore. I suoi due ragazzi erano morti da più di quattro an- ni, ma per lei era come se quel tempo non fosse passato. […] La guerra era stata una grande sciagura per tutti, non per lei soltanto. Milioni di uomini avevano lascia- to la casa vuota, milioni di uomini, in tutti i paesi: e dopo, altri flagelli s’erano abbat- tuti sull’umanità intera.38

Solo Don Pietro Coi, viceparroco di Cuadu, suo vicino di casa, al quale da una ventina d’anni sbriga le faccende domestiche, conosce il motivo se- greto. La ragione sta nel fatto che Saverio è in realtà un disertore, fuggito dalle trincee e venuto a morire nei boschi di Baddimanna, dopo aver sparato al suo capitano, che lo aveva colpito con uno scudiscio. Don Coi si dibatte tra lo scrupolo di aver aiutato un criminale e l’esigenza di perseguire una giustizia più giusta di quella delle leggi. Mariangela, che per amore del figlio agisce affinché nulla trapeli, è convinta che la pietra del monumento, nel quale saranno impressi a imperitura memoria i nomi dei figli, sarà quella che tutto potrà silenziare e redimere. Riemerge il «conflitto dei codici», il con- trasto fra etica individuale e senso del dovere, fra adesione al «patriottismo» di una nazione alla quale non ci si sente di appartenere e attaccamento alla propria terra e alle proprie radici, tra sacrificio umano e insensatezza della guerra:

Come poteva lui, prete Coi, peccatore, soggetto a debolezze e a compromessi, pigro e vile di fronte alle storture del mondo, come poteva giudicare quell’uomo che accettava tutta intera la responsabilità di un gesto compiuto quasi automaticamente e del quale si riteneva responsabile come se lo avesse

38 DESSÌ 1961 [1974; 1976; 1997].

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compiuto con fredda determinazione e calcolo? Quell’atto che secondo la legge degli uomini comportava la fucilazione alla schiena, non aveva peso. L’uomo che giaceva ai suoi piedi non era responsabile della morte del capitano P. più di quanto non ne fosse responsabile egli stesso, prete Coi. Perciò la formula sacramentale che egli avrebbe pronunciato si sarebbe riferi- ta non tanto a quel delitto, di cui il giovane si credeva responsabile, quanto a tutti i peccati che brulicano nell’umana natura, ai quali, in quel momento, Save- rio certo non pensava, ma che pure erano scritti nella sua faccia di uomo. Egli lo avrebbe liberato, come un tempo lo aveva liberato dai vermi. «Recita l’atto di contrizione» gli disse con la rudezza che gli era abituale. Saverio non lo sapeva. Non era più andato a confessarsi. Non osservava il precetto pasquale. Era di quelli che lo chiamavano senza cerimonie prete Coi. Si sdraiò sul letto di frasche e si coprì la faccia, scosso dai singhiozzi. Il prete recitò l’atto di contrizione anche per lui, tenendogli una mano sulla fronte.39

Nel 1964 fu pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli il dramma in quat- tro atti Eleonora d’Arborea, dopo un lungo lavoro di studio e di ricerca («i giudicati mi affascinano enormemente: essi rappresentano un cinquan- tennio nel quale i sardi hanno potuto essere veramente se stessi»). Il rac- conto scenico, trasmesso alla radio in primavera, ruota intorno alla figura della donna-regina, che «ha solo un riferimento occasionale e fortuito con la figura storica», alla sua statura morale e alla straordinaria capacità di gover- nare i drammatici eventi che colpiscono il regno, la famiglia e gli affetti. Non appena il re d’Aragona apprende che Lianora, alla morte del padre (Mariano IV) e del fratello (Ugone III), può diventare giudicessa del re- gno di Arborea (l’unico rimasto a fronteggiare l’attacco degli stranieri) – ricollegandosi alla tradizione dell’antico diritto sardo, per cui le donne pos- sono succedere sul trono al loro padre o al loro fratello – convoca suo ma- rito, Brancaleone Doria, signore genovese, padrone di terre e uomo di guer- ra, e gli comunica che al suo posto gli deve esser consegnato il figlio Fede- rico da affidare alla custodia di Bernardo Senesterra, a Cagliari, fino a che raggiunga un’età adatta per venire in Spagna e servire a Corte. Nel caso Brancaleone non riesca a consegnare il figlio deve rimanere in città a di- sposizione del Governatore per indurre la moglie all’obbedienza. In caso contrario il Re invierà il suo esercito. Brancaleone viene così inviato sot-

39 Ibid.

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to scorta nella fortezza di Cagliari:

Sala delle udienze del Palazzo dei giudici di Arborea di Oristano, un tavolo lungo con seg- giole attorno. In fondo un tronetto. Eleonora d’Arborea e padre Lorenzo, prevosto di Arda- ra. Poi Federico [figlio di Eleonora e Brancaleone Doria, 9 anni] e il Marchese de Valientes [ambasciatore del re di Aragona].

[…] ELEONORA. Perché a lui piacciano i titoli, e sapeva che il Re, per prima cosa, gli avrebbe dato un titolo. Branca Doria si è sempre lasciato incantare da queste co- se: conte, marchese... È un mercante di Genova: gli fanno effetto, a lui. Come se non si sapesse che i re questi titoli li danno a cani e a porci. Non c'è soldato di ventura che non possa aspirare a diventare marchese di... Ah! Ma noi, noi no: noi siamo giudici d’Arborea. Non abbiamo l’investitura del Re, né dell’Imperatore, del Papa ce ne...

PADRE LORENZO, interrompendola severamente. Eh!

ELEONORA. Noi l’investitura l’abbiamo dal popolo.

PADRE LORENZO, dopo che tutti e due sono stati un poco in silenzio a guardarsi. Che parole grosse! Il re, l’imperatore... il papa... il popolo...

ELEONORA. Il popolo ci crea giudici. Ed è la volontà del popolo...40

Eleonora matura la consapevolezza che il potere di giudice non deriva dai re ma dal popolo e al popolo deve rispondere del suo operato. Per que- sto vuole la benedizione da padre Lorenzo. La regina, che affronta gli A- ragonesi in due lunghe guerre, lotta per realizzare uno stato nazionale indipendente, fondato sulle leggi della Carta de Logu, ma è sconfitta dalla peste («nella Sardegna che descrivo c’è la Sardegna di oggi. La nostra è una terra da sempre in mano agli stranieri e sottoposta allo sfruttamento»). Ni- cola Tanda ha scritto che il racconto drammatico di Dessì rappresenta, per i Sardi, quel che l’Adelchi ha rappresentato per l’Italia risorgimentale: un’opera nazionale e popolare.41 Due anni dopo uscirono con la Mondadori i racconti di storie intime

40 DESSÌ 1964 [1995]. 41 Ibid.

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Lei era l’acqua e con le edizioni Il Polifilo Scoperta della Sardegna, raccolta an- tologica corredata di tavole e immagini degli scritti di ventiquattro autori italiani e stranieri, dalla metà del Settecento alla contemporaneità, che do- cumentano le varie tappe della storia sarda e il profilo della sua civiltà.

Con Paese d’ombre, pubblicato nel 1972 da Mondadori, Dessì con- cluse la sua parabola letteraria e artistica (La scelta, incompiuto, fu pub- blicato postumo). La materia del romanzo, che vinse il premio Strega e ottenne un largo successo di pubblico, si compone di cinque macro- unità narrative, ognuna delle quali corrisponde a un periodo della vita del protagonista Angelo Uras: dai dieci ai sessant’anni, da quando il vec- chio conte Francesco Fulgheri, avvocato e ricco possidente anticonfor- mista, lo nomina suo erede a quando, diventato sindaco del paese, con- vintamente si adopera per il bene e gli interessi della comunità, sino alla vecchiaia, al perpetuarsi della stirpe e della storia familiare e sociale vista e considerata attraverso il nuovo protagonismo dei figli e dei nipoti. La trama è familiare e di formazione insieme (e per il personaggio di maturazione), ma Paese d’ombre non poteva non essere anche l’ultimo suo romanzo autobiografico, proiezione e trasposizione del vissuto autorale (Norbio, alle falde del Monte Linas, è Villacidro, e Francesco Fulgheri, che sposerà Maria Cristina, la figlia di Angelo Uras, ricorda Francesco Dessì Fulgheri, nome del padre). Come già per Il disertore, sullo sfondo c’è la Storia, grande e piccola, individuale, familiare e collettiva, che si dilata secondo la consueta dinamica dei centri concentrici: c’è la vita di Angelo, «uomo nuovo», che crede nel progresso e nella giustizia sociale, la storia degli Uras e dei Fulgheri (la madre Sofia, la moglie Valentina, morta di parto, la figlia Maria Cristina, Francesco e donna Margherita Fulgheri, sua seconda moglie), quella di Villacidro e della Sardegna (Pan- taleo Mummìa e l’Editto delle chiudende, la guerra delle tariffe con la Francia e la crisi del sistema creditizio isolano, il depauperamento delle risorse e la distruzione dei boschi, lo sviluppo delle miniere del Sulcis- Iglesiente e lo sfruttamento dei lavoratori, lo sciopero di Buggerru e i moti cagliaritani contro il carovita), la storia italiana e, infine, quella eu- ropea (sino alla prima guerra mondiale). Soprattutto un episodio del libro, insieme al parto di Valentina, colpirà per forza rappresentativa e simbolica i suoi tanti lettori. Nella

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storia della Sardegna e del movimento operaio italiano, tra le lotte per la di- fesa dei diritti dei lavoratori, ci sono poche date emblematiche come il 4 settembre 1904, quando tre minatori rimasero uccisi dai colpi di fucile dei soldati accorsi per sedare uno dei primi scioperi dell’Italia unita. Il 3 set- tembre l’ingegnere turco Achille Georgiades, direttore delle miniere della «Societé anonime des mines de Malfidano» di Buggerru – piccolo centro minerario della Sardegna sud occidentale – dirama una circolare con la quale comuni- ca che, a partire dal giorno successivo, la pausa tra i due turni di lavoro è ridotta di un’ora. È l’ennesima ingiustizia che devono subire i lavoratori, da tempo sfruttati e angariati dalla miseria e dalla fatica rude. La reazione è immediata. Centinaia di minatori in sciopero circondano il villino del diret- tore. I militari di guardia li accolgono con i fucili spianati e quando gli ope- rai cominciano a lanciare pietre, aprono il fuoco ad altezza d’uomo. Due minatori, Felice Littera e Salvatore Montixi – quest’ultimo padre di sei figli – restano sul terreno. Un terzo, Giustino Pittau, morirà di lì a poco in o- spedale:

Dal fondo della piazza volò un sasso che passò sopra la folla e finì contro i vetri della falegnameria. Fu l’inizio di un crescendo. I sassi ormai cadevano fitti quando, nel panico di un istante che sarebbe difficile scomporre nella sua fulminea succes- sione cronologica, qualcuno, rimasto sempre sconosciuto, diede un ordine secco ed energico che i soldati eseguirono automaticamente. Come un solo uomo si ferma- rono, puntarono a terra il calcio dei fucili, inastarono la baionetta; poi con un gesto rapido, sicuro, fecero scorrere il carrello di caricamento, misero la pallottola in can- na. Non tutti lasciarono partire il colpo, ma molti lo fecero e furono soddisfatti del loro gesto. Quella cartuccia li avrebbe salvati. Più tardi, durante l’inchiesta, risultò che i fucili avevano sparato da soli e che le autorità ignoravano che i soldati avesse- ro le giberne piene di cartucce. […] La notizia della strage rimbalzò per tutta l’Italia operaia. A Milano fu comunicata alla folla durante un comizio di protesta e provocò uno sciopero generale in tutta la Penisola. Solo in Sardegna rimase senza eco, e il silenzio di Buggerru, dopo la strage, in quel triste pomeriggio di settembre, era il simbolo del silenzio di tutta l’isola nella com- pagine nazionale.42

La tradizione dell’opera, testuale e avantestuale, certifica che la ge- nesi è lunga (almeno dieci anni), faticosa e ricca di ripensamenti.

42 DESSÌ 1972 [1975; 1998], pp. 326-327 [1998].

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Nell’alveo principale del fiume narrativo e diegetico ancora una volta convogliano tante microstorie che definiscono, alla fine del loro percor- so evolutivo, il paradigma stesso del racconto. La scrittura creativa di Dessì è fatta di monadi, di frammenti, di unità narrative autonome, di storie inizialmente e apparentemente distanti tra loro, che a un certo punto si ritrovano e si intrecciano, dando vita a un sistema più grande, la cui identità è data dal contributo delle singole parti simbioticamente combinate. Nella rappresentazione dessiana la realtà si scompone e ri- compone in un continuo ed elegante gioco di rimandi e di verità differi- te. Il policentrismo delle sue opere e la polifonia, discorsiva e prospetti- ca, sono nient’altro che il risultato di questa articolazione, anche struttu- rale, che si fa unità, cifra di uno stile, connotatum letterario e poetico. O- gni elemento può essere centro e nel contempo periferia, dipende dal pun- to di vista. Questa interscambiabilità segnica e crono-topica investe esi- stenti ed eventi, nomi di personaggi e di luoghi, pragmatiche e profondi- tà ontologiche. Peraltro la varietà del significante non di rado nasconde una univocità del significato. San Silvano, Sigalesa, Cuadu, Ruinalta, Norbio si traducono Biddaxidru. Villacidro e lo sfondo non neutrale della Sardegna e della sua storia rappresentano l’universale concreto, il centro dal quale si può e si deve raccontare al mondo la «fatica del vivere» e l’epica del quotidiano di un’umanità malfatata e dolente. Già con altri romanzi abbiamo sottolineato la straordinaria modernità narrativa e filo- sofica dello scrittore sardo. Paese d’ombre, il suo capolavoro, conferma e sancisce tutto questo.

Anche nella scrittura di Dessì, così come già in quella della Deledda e di tanti autori sardi, si è realizzata, attraverso la trasfigurazione artistica e metaforica dell’isola, la sublimazione di un inconscio collettivo, im- menso archivio di simboli e miti che si è tramandato nel tempo, di gene- razione in generazione, e che si è strutturato attorno ad archetipi fondan- ti, a fantasie e a immagini primordiali e condivise, a modelli originari d’esperienza sedimentati nelle profondità della psiche non solo dell’individuo ma di un intero popolo. La ricorrenza di temi, motivi, fi- gure, situazioni, percezioni, visioni del mondo e della vita deriva dall’enorme serbatoio di esperienze, che devono la loro esistenza all’ereditarietà sociale di una comunità millenaria antropologicamente

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connotata. Queste possibilità ereditate di rappresentazioni e una tale predispo- sizione a riprodurre forme e immagini archetipiche, che corrispondono alle esperienze storicamente e culturalmente compiute dalla propria gen- te nello sviluppo storico di una coscienza individuale e collettiva, si so- stanziano letterariamente in topoi e isotopie sememiche che trovano ma- gistrale compiutezza in molte opere letterarie. La descrizione e la perce- zione del paesaggio, il rapporto con la natura e con la madre terra, una certa idea della vita e della storia, il sentimento dell’identità e dell’appartenenza, la concezione del tempo e del mito, la rappresenta- zione dei personaggi, il tema della nostalgia e della memoria, l’idea d’insularità e di frontiera, il rapporto con l’altro, l’altrove e lo straniero, determinano percorsi semantici ricorrenti e ossessivamente incombenti, che dicono molto su una certa idea o immagine della Sardegna e sul for- te senso dell’identità e dell’appartenenza:

Qui sono solo, se voglio, tra la maestà dei monti e la solennità degli alberi. Vi è va- rietà, vita, espressione, in ogni forma colossale e in ogni filo d’erba, in ogni corolla appassita. Io amo questi luoghi […]43

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