Cosa nostra Il delitto dalla Chiesa

LE “RIVELAZIONI” DEL LIBANESE GHASSAN, LE BUGIE DI SPINONI E GLI STRANI ERRORI DEI

Non c’è nulla 279

I dichiarati propositi di Carlo Alberto Dalla Chiesa di attaccare li radici profonde del potere mafioso e le sue ben note capacità professionali avevano subito reso assai scomodo ed estremamente pericoloso per Cosa Nostra: egli doveva - pertanto - essere eliminato immediatamente ed in modo tanto plateale da mostrare a tutti l'efficienza e la terribile potenza della mafia. Già il 25 aprile 1982 - e, quindi, ancora prima che il generale assumesse l'incarico di prefetto di - Totta Gennaro riferiva ad un ufficiale dei CC. che Dalla Chiesa era molto temuto negli ambienti mafiosi che ancora più temuta era una sua «alleanza» con gli ambienti giudiziari. E Vincenzo Sinagra, un personaggio molto vicino alla famiglia di Corso dei Mille, le cui dichiarazioni e chiamate in correità hanno trovato ampi riscontri, ha confermato: «Prima ancora che il generale giungesse a Palermo come prefetto, negli ambienti da me frequentati si osservava che costui, dopo essersi occupato di terrorismo, veniva a Palermo con l'intenzione di combattere la mafia e che ciò gli sarebbe stato impedito... appresi da Rotolo Salvatore che (rappresentante della famiglia di Corso dei Mille: n.d.r.) voleva la morte» del generale e lo aveva incaricato di seguirne i movimenti. Particolarmente gli aveva segnalato che il generale usava frequentare il ristorante annesso all'albergo Villa Igiea e, comunque, detto albergo, ove, «secondo quanto mi disse il Rotolo, sarebbe stato possibile tendergli un agguato dal mare o meglio approfittando di un momento in cui egli prendeva il bagno a mare. Nulla di particolare circa preparativi di un agguato appresi invece da Vincenzo Sinagra detto Tempesta o da Sinagra Antonio. Costoro, però, più volte mi dissero che il generale non poteva arrivare a nulla poiché sarebbero trascorsi solo giorni se lo sarebbero levati di mezzo». «Fui arrestato l'11 agosto del 1982 e dopo circa venti giorni appresi che l'omicidio del generale Dalla Chiesa era stato consumato. I due Sinagra di cui ho parlato erano già anch'essi arrestati... Parlando fra noi anche dell'omicidio del generale, Sinagra Vincenzo mi fece rilevare che era stato ucciso dopo un breve periodo di permanenza a Palermo cosi come egli mi aveva preannunciato. Nella occasione, Sinagra Vincenzo, il quale cercava di rincuorarmi circa la mia posizione processuale, mi faceva rilevare che Filippo Marchese e gli uomini della sua , nonché i capi delle cosche con cui era collegato erano persone di grandissima potenza e che, pertanto, così come erano riusciti ad eliminare il generale Dalla Chiesa, sarebbero facilmente riusciti ad ottenere per noi il proscioglimento se riuscivamo a mantenere quella situazione di simulata pazzia. Sinagra Vincenzo, nel farmi rilevare la notizia di stampa secondo cui uno dei killers del generale era a bordo di una moto di grossa cilindrata, mi disse che aveva motivo di ritenere che trattavasi di una delle moto a disposizione dell'organizzazione, che venivano nascoste anche nel covo di Sant'Erasmo. Del fatto sembrava certo nonostante non ebbe a riferirmi ulterio

Manca 281 credibilità agli occhi di tutti, la mafia poneva in essere una complessa operazione intesa a sminuirne visibilmente il prestigio, per poi ucciderlo. Cominciava così il susseguirsi, con una cadenza impressionante, una serie di assassinii di matrice mafiosa, che avevano anche il sapore una sfida al Prefetto. Il 7-8-1982 i cadaveri di e Ignazio Pedone venivano trovati dentro un'autovettura, abbandonata significativamente nei pressi della Stazione CC. di Casteldaccia. La presenza dell'auto veniva segnalata alla stessa Stazione con una telefonata anonima. Il 10-8-1982, e cioè lo stesso giorno dell'assassinio di Di Peri Pietro Salvatore, mentre imperversavano gli omicidi nel c.d. triangolo della morte (Casteldaccia, Altavilla e ), perveniva al quotidiano L'0ra di Palermo una telefonata anonima del seguente tenore:

«Siamo i killers del triangolo della morte. L'operazione da noi chiamata Carlo Alberto, in omaggio al prefetto, con l'operazione di stamani l’abbiamo quasi conclusa, dico quasi conclusa».

Infine, ad eliminare ogni dubbio sulla matrice mafìosa dell'assassinio di Dalla Chiesa, il 4-9-1982, alle ore 11.50, perveniva un'altra telefonata alla redazione palermitana del quotidiano La Sicilia di , del seguente tenore: «L'operazione Carlo Alberto si è conclusa». Gli episodi sopra riportati costituiscono una chiara, inequivoca riprova della matrice del delitto Dalla Chiesa. Infatti, se è vero, come e si dimostrato nel capitolo riguardante la guerra di mafia, che tutti quegli eccidi sono stati voluti dai Corleonesi e dai loro alleati per impadronirsi del potere mafioso e se è vero, come è logico ritenere e come è stato riferito da c.d. pentiti, che la presenza in Sicilia di un uomo come Dalla Chiesa poteva intralciare le mire del gruppo emergente, se ne deduce che il delitto Dalla Chiesa non può che essere inscritto nella logica dei Corleonesi, percepibile anche nei sinistri messaggi telefonici ai giornali. Ed è fuori di dubbio che il delitto è stato frutto della decisione dei vertici non solo della mafia palermitana, ma di Cosa Nostra nel suo insieme, con unanimità di consensi: infatti, un delitto così eclatante, comportando, come in effetti è accaduto, una pronta reazione dell'apparato statuale (ne è conferma, fra l'altro, la rapidissima approvazione della legge c.d. Rognoni - Torre) nei confronti di tutta l'organizzazione, postula necessariamente, a pena di gravissimi contrasti interni (che nella fattispecie non sono avvenuti), assoluta unanimità e generalità nella decisione dei vertici. Questa logica conclusione ha trovato conforto in altre risultanze processuali. Il cap. CC. Giampaolo Ganzer, particolarmente distintosi nella repressione del terrorismo, sentito come teste, ha dichiarato:

«... Il terrorista Michele Galati mi riferì che poteva essere non estraneo all'omicidio Dalla Chiesa sulla base del fatto che, come egli stesso aveva potuto notare, il Leggio, pur dall'interno del carcere, continuava a dirigere le attività della criminalità maliosa e, inoltre, nutriva grave inimicizia nei confronti del gen. Dalla Chiesa, in relazione alla attività svolta da quest'ultimo durante la sua permanenza in Sicilia... Ho avuto modo di apprendere... dal terrorista Bottino Luciano, attualmente detenuto nel carcere di Alessandria, che, durante la sua permanenza a Palmi (sino all'autunno 1982), entrò in contatto con un gruppo di detenuti comuni catanesi, i quali rivendicavano apertamente la paternità dell'omicidio in questione e, anzi, ne facevano oggetto di dimostrazione della efficienza della loro organizzazione. Il Bettini mi ha detto, altresì, che all'interno delle carceri si è realizzata una saldatura fra la criminalità organizzata di tipo eversivo e quella mafìosa, che continua ad avere in Liggio uno dei capi carismatici».

Quanto riferito dal Cap. Ganzer è stato sostanzialmente confermato da Luciano Bettini:

«... All'epoca... dell'omicidio del prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, ero detenuto in Carceri speciali. Non ho mai sentito da parte di detenuti politici la rivendicazione ad organizzazioni terroristiche, di destra o di sinistra, di tale assassinio. Più volte, invece, ho avuto modo di sentire da detenuti comuni, specialmente catanesi, la esaltazione delle organizzazioni siciliane, capaci di aver portato a termine, con perfetta efficienza operativa, l'omicidio. Qualcuno di tali detenuti mi ha anche fatto presente che erano ormai mutati i rapporti tra le organizzazioni siciliane e lo Stato, poiché ogni tentativo di debellarle sarebbe stato stroncato sul piano dell'attacco armato... faccio presente, senza che ciò voglia significare alcuna valutazione da parte mia, che, successivamente all'omicidio Dalla Chiesa, il prestigio dei detenuti catanesi di maggior spicco, nelle carceri speciali, è aumentato in modo incredibile».

Il libanese Ghassan Questo atteggiamento dei vertici di Cosa Nostra nei confronti di qualsiasi tentativo di contenere il fenomeno mafioso e, in particolare, nei confronti di Dalla Chiesa ha ricevuto un'ulteriore, inequivocabile riprova nelle dichiarazioni del libanese Bou Ghebel Ghassan, personaggio chiave nel procedimento penale per l'omicidio del istruttore di questo tribunale, . L'istruttoria relativa ad un traffico di stupefacenti addebitato a Ghassan e ad altri, inizialmente convogliata nel presente procedimento, è stata stralciata, necessitando di ulteriori approfondimenti. Tuttavia, quanto riferito dal Ghassan, oltre che sull'omicidio Chinnici, su quello del prefetto Dalla Chiesa, sul ruolo dei Greco in seno a Cosa Nostra, sul traffico degli stupefacenti e suoi collegamenti fra mafia palermitana e catanese, può essere immediatamente utilizzato. E trattasi, si noti, di dichiarazioni che hanno trovato puntuali riscontri e che sono state ritenute attendibili dai giudici di primo e di secondo grado della Corte di Assise di Caltanissetta nel procedimento per l'omicidio Chinnici (vedi il dispositivo della sentenza della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 14-6-1985). Il Ghassan, da tempo coinvolto in traffici internazionali di vario genere, era in contatto con due palermitani (Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi) per un traffico di stupefacenti fra la Sicilia e Milano. In occasione dei frequenti incontri con Rabito e Scarpisi, era venuto a conoscenza dei preparativi di un attentato contro un magistrato di questo Ufficio o contro l'Alto Commissario e ne aveva informato organismi di polizia giudiziaria (in questa sede non interessa fino a qual punto egli fosse un leale confidente). Dopo qualche giorno, il 29-7-1983, l'attentato si era puntualmente verificato, secondo le precise indicazioni fornite da Ghassan, dilaniando il cons. Chinnici, la sua scorta e il portiere del suo stabile. Nella istruttoria di quel processo il Ghassan dichiarava, fra l'altro:

«Il discorso delle armi e la loro richiesta ad averle e poi il discorso sull'autobomba cominciò a farsi quando furono emessi i mandati di cattura contro i Greco di Ciaculli. Io leggevo, mentre ero con loro, il giornale in cui era scritto che era stato emesso il mandato di cattura nei confronti dei Greco e di altri per l'omicidio Dalla Chiesa. Io lo mostrai a loro dicendo che in Sicilia era successo un “casino” e aggiunsi la considerazione che dovevano essere stati avvertiti dal momento che non era stato arrestato nessuno. Loro mi spiegarono che erano già latitanti perché colpiti da un precedente mandato di cattura in una cosa, ritengo un processo, di 160 persone (ricordo con precisione il loro riferimento a 160 persone: mi ricordo che fu Enzo a dire ciò). In tale occasione dissero che si era sbagliato ad uccidere Dalla Chiesa perché ne era venuto fuori un “casino”, ma dal momento che le cose stavano così bisognava reagire continuando in queste azioni contro tutti quelli che “ficcavano il naso nella mafia”; anzi fecero capire che dovevano usare le armi contro alcuni mafiosi (non specificarono quali, cioè se di cosche avversarie o della stessa cosca che si erano comportati male). Tutti i suddetti dicevano di essere legati alla più grande famiglia di Palermo e cioè ai Greco di Ciaculli e per tale motivo potevano disporre di denaro per tutti i loro bisogni e si sentivano sicuri e protetti e potevano riuscire nelle attività che volevano... ricordo che essi mi dissero che per le armi non avrebbero guadagnato nulla e non avrebbero dovuto guadagnare nulla perché si trattava di una cosa della Famiglia in cui non si doveva guadagnare. Mentre invece il loro guadagno stava tutto nelle basi di morfina... Dai rapporti che ho avuto, ho con sicurezza dedotto (erano cose che mi diceva Enzo) che avevano avuto difficoltà di ottenere la “base” da quando avevano interrotto i rapporti con i catanesi (prima si servivano dei catanesi che trasportavano loro la “base”: non mi spiegarono le ragioni per cui si erano interrotti tali rapporti) e quando era stato arrestato un cinese a Bangkok e forse anche per la nave sequestrata a Suez (non ho capito se questa nave era a loro diretta o se il fatto aveva comunque causato una deficienza nella fornitura della “base”). Essendo loro in queste condizioni vennero a rivolgersi a me e ritengo ad altri per cercare di avere della “base”. Pippo e Maurizio trasportavano eroina bianca da Palermo al “mercato” di Milano... In ordine ai loro rapporti di lavoro essi, come ho detto, dissero che lavoravano per i Greco di Ciaculli; siccome questi sono latitanti facevano capo ad una persona che badava alla raffineria. Quando si lesse sul giornale dei mandati di cattura per il fatto che molti erano rimasti latitanti, io osservai che evidentemente c’era stata una “soffiata”, ma Rabito mi chiarì che già erano latitanti perché erano stati colpiti da mandato di cattura in un precedente processo contro 160 persone. Nella discussione che si intavolò, il Rabito mi diceva che la mafia americana non vede di buon occhio l'attività relativa alla raffìnazione della droga (anzi preferiscono operare in altri settori i grandi boss americani), perché la droga finisce con l'attirare sempre l'attenzione della Polizia. Faccio presente che io gli osservai come mai egli spedisce la droga raffinata in America ed egli mi disse che interessati erano gli appartenenti a livelli medio-bassi della mafia, ma non l'alta mafia che si interessa di altri affari. Nel corso di questa conversazione il Rabito diceva (manifestando non una sua idea, ma riferendo anche quello che riteneva in seno alla famiglia mafìosa alla quale apparteneva), che era risultato un errore l'omicidio Dalla Chiesa in quanto che aveva provocato le reazioni di cui anche i mandati di cattura erano una prova; fece anche un riferimento ai blocchi di patrimoni, dicendo che, mentre in America anche i mafiosi lavorano e pagano le tasse, a Palermo non intendono lavorare se non con la droga e pagare le tasse. Qui solo ora, con i fatti che sono avvenuti, hanno cominciato a capire che gli americani hanno ragione... Il Rabito disse che le famiglie capeggiate dai Greco ai quali egli apparteneva, dovevano operare le uccisioni di cui ho detto, sia per eliminare il singolo che ha operato contro la mafia, in modo che colui che lo va a sostituire si limita nell‘operare perché corre lo stesso rischio, sia per dimostrare la potenza dell'organizzazione mafiosa. In parole povere ho capito che essi si sentivano “merda” e quindi l'avevano contro coloro che avevano provocato questa situazione per cui non interessava più nulla dei danni che la loro reazione poteva provocare... Dell'autobomba si parlò a Taormina il giorno stesso che io telefonai al dr. De Luca. A parlarne furono sia il Rabito che il Michele. Fu prima Michele a dirmelo, dicendo proprio che dovevano usare un sistema come quelli che si usano nel Libano contro coloro che si interessano contro la mafia. Ricordo che disse testualmente: “Salterà anche a Palermo come si fa nei vostri paesi e così salteranno tutti e nessuno potrà fare testimonianza”. Poi arrivò Rabito. Io condussi il discorso in modo di farlo parlare ed il Rabito mi disse che si sarebbe usata la tecnica di fare scoppiare un'auto carica di esplosivo perché le altre tecniche presentavano difficoltà di esecuzione e esponevano l’esecutore ad essere arrestato dagli altri di scorta che erano nella zona. Anche successivamente all'uccisione di Chinnici, parlando con Scarpisi e Rabito, essi si dimostrarono soddisfatti dell'esito raggiunto e ricordo che mi dissero: “vedi come è finita?”».

Alla stregua, dunque, delle confidenze fatte a Ghassan da Rabito e Scarpisi (e, successivamente, dai sedicenti Michele e Maurizio), i responsabili dell'omicidio Dalla Chiesa erano i Greco di Ciaculli, i quali intendevano riservare lo stesso trattamento a tutti coloro che «ficcavano il naso nella mafia». È estremamente significativo che la reazione mafiosa, poi sfociati l'attentato contro il consigliere Chinnici, sia maturata non appena questo Ufficio ha emesso, il 9-7-1983, mandato di cattura contro i più autorevoli esponenti della mafia, fra cui i “corleonesi” Riina e Provenzano, i fratelli Michele e Salvatore Greco, Pietro Vernengo, e così via. Allora, non erano stati ancora individuati, come si è visto, tutti i componenti della “commissione”, ma era stato dimostrato, con l’emissione del mandato di cattura suddetto (concernente, si badi bene, non solo l’omicidio Dalla Chiesa, ma anche quelli di Alfio Ferlito, Stefano Bontate, e gli altri principali episodi criminosi della c.d. guerra di mafia) che erano stati esattamente individuati la matrice ed i moventi di tanti efferati assassinii. Sotto questo aspetto, dunque, l'atroce fine del cons. Rocco Chinnici - del Capo, cioè, di quell'Ufficio che aveva emesso il mandato di cattura in questione e del magistrato che aveva impresso un decisivo impulso alle indagini sulla mafia - costituisce l'amarissima conferma della fondatezza dei risultati raggiunti e della attendibilità delle prove acquisite. Circa i moventi e gli autori del delitto Dalla Chiesa è interessante riportare, anche se non costituisce elemento di prova, un episodio riferito Buscetta - il quale - comunque nulla sa per scienza diretta di quel delitto, perché all'epoca viveva in Brasile. Come si è già accennato nel trattare l'omicidio di Alfio Ferlito, Buscetta e Badalamenti, la sera del 3-9-1982 (e, quindi, qualche ora dopo l’assassinio di di Dalla Chiesa, data la differenza di fuso orario) si trovavano all’hotel Regent di Belem (Brasile) e guardavano la televisione. Quando venne trasmessa la notizia dell'agguato di via Carini, Badalamenti commentò subito che «sicuramente era stato un atto di spavalderia dei Corleonesi, che avevano cosi reagito alla sfida contro la mafia lanciata da Dalla Chiesa». Soggiunse che certamente erano stati impiegati i catanesi - appunto perché più vicini ai Corleonesi - che avevano così ricambiato il favore ricevuto con l'uccisione di Alfio Ferlito e disse ancora che «qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza, troppo ingombrante ormai, del generale...». Ora, ciò che sorprende è la prontezza e la sicurezza con cui il Badalamenti ha saputo analizzare la notizia e individuare cause ed autori dell’eccidio, pervenendo agli stessi risultati raggiunti da questo Ufficio dopo una lunga e faticosa istruttoria. Egli, evidentemente, da navigato capo di Cosa Nostra, conosceva perfettamente tutti i meccanismi dell'organizzazione ed era in grado di inquadrare subito l'episodio. In questo quadro probatorio, già univoco e tranquillante, è venuta ad inscriversi la perizia balistica, che ha dato un suggello di granitica fermezza ai risultati già raggiunti, dimostrando - come più non si sarebbe potuto sperare - che un unico filo conduttore avvince i più importanti delitti della c.d. guerra di mafia all'attentato di via Isidoro Carini. Attraverso la perizia è stato accertato, infatti, che nell'attentato a Dalla Chiesa sono stati adoperati due Kalashnikov: uno è stato sicuramente impiegato anche per il danneggiamento della gioielleria Contino, per l'omicidio di Salvatore Inzerillo, poi il tentato omicidio di , per l'omicidio di Alfio Ferlito e, molto probabilmente, anche per l'omicidio di Stefano Bontate; l'altro è stato usato anche nell'omicidio di Alfio Ferlito. In sostanza, entrambi i Kalashnikov usati per l'attentato a Dalla Chiesa sono stati usati anche nell'agguato ad Alfìo Ferlito e uno di essi, inoltre, è stato adoperato anche per gli assassinii di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo e per l'attentato a Salvatore Contorno. Non occorre qui ripetere quanto si è già ampiamente detto sull'unicità del disegno criminoso che lega i tre - forse più importanti - episodi della guerra di mafia palermitana (omicidi Inzerillo, Bontate e tentato omicidio Contorno), né quanto si è esposto sulla eliminazione di Alfio Ferlito compiuta dalla mafia palermitana e nel precipuo interesse di Nitto Santapaola. Occorre però sottolineare un dato che, per altro, balza evidente. Negli omicidi di Alfio Ferlito e di Carlo Alberto Dalla Chiesa è stato usato un secondo Kalashnikov che, prima di allora, non era stato adoperato nelle vicende criminali esclusivamente palermitane, il che potrebbe significare una partecipazione diretta di elementi del clan Santapaola a questi due delitti, e ciò a prescindere dalla indubbia responsabilità del Santapaola quale vertice della mafia catanese. Trattasi, comunque, di una evidente singolarità che assume un suo particolare significato in vicende mafiose in cui nulla è lasciato al caso. Infatti, come si è già detto altrove, è da escludere (oltre - ovviamente - all'ipotesi che si tratti di armi noleggiate) che l'uso delle stesse armi in tanti diversi episodi criminosi sia da ascrivere a leggerezza, apparendo, invece, il frutto di una ben precisa scelta operativa e costituendo una implicita, ma non meno eloquente, “rivendicazione” della paternità degli attentati. Si ricordi che in occasione del danneggiamento alla gioielleria Contino, l'ignoto sparatore teneva in mano un sacchetto in cui lasciava cadere i bossoli espulsi dal Kalashnikov; e ciò aveva una ben precisa ragione: quella di ritardare al massimo, prima che venisse eseguito l'omicidio di Salvatore Inzerillo, l'insorgere del sospetto, attraverso l'esame dei bossoli, che era in preparazione un attentato. In tutti gli attentati, invece (ad eccezione che per l'omicidio Stefano Bontate) sui luoghi del delitto e sulle autovetture usate dai killer sono state rinvenute decine di bossoli di Kalashnikov.

Possono trarsi adesso le conclusioni in ordine alle responsabilità degli imputati dell'omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, della sua giovane consorte, Emanuela Setti Carraro, e dell'agente di scorta. Russo Domenico nonché dei reati connessi (trattasi dei capi 225, 226, 227, 228, 229, 230, 231 dell'epigrafe).

Certamente, le indagini non hanno ancora chiarito tutti gli inquietanti risvolti di questa vicenda, né individuato tutti i mandanti e gli esecutori materiali; tuttavia, è indubbio che l'assassinio di Dalla Chiesa, un delitto cui era interessata l'intera organizzazione, è stato deciso dai vertici di Cosa Nostra, secondo quanto ci si è sforzati di dimostrare nelle pagine che precedono; ne consegue, in base ai principi già esposti nella parte generale, che gli esponenti di maggiore spicco di quel gruppo di potere che ruota attorno ai Corleonesi e che è uscito vincitore dalla c.d. guerra di mafia debbo essere ritenuti responsabili dei delitti ravvisati nell'agguato di via Carini. Per quanto concerne Greco Michele, Greco Salvatore (n. 7-7-1927), Riina Salvatore, Riccobono Rosario, Marchese Filippo, Vernengo Pietro, Greco Giuseppe fu Nicola, Prestifìlippo Mario Giovanni, Provenzano Bernardo, Brusca Bernardo, Scaglione Salvatore, Geraci Antonino (n. 2-1-1917), Calò Giuseppe, Scaduto Giovanni, Motisi Ignazio, Di Carlo Andrea, Santapaola Benedetto, non resta che richiamare quanto si è già ampiamente esposto circa la loro appartenenza ai vertici di Cosa Nostra e, comunque a quel gruppo di potere che ha assunto la direzione della mafia dell’isola, seminando morte e terrore. Per quanto riguarda Mario Prestifìlippo (…) interessanti elementi di giudizio sono stati fomiti da Stefano Calzetta, uno fra i primi imputati che hanno collaborato con la Giustizia parlando, pur senza essere “uomo d'onore”, tutta una serie di particolari sui membri di Cosa Nostra che sono stati di prezioso ausilio nelle indagini istruttorie. Il Calzetta, in particolare, ha riferito che il Prestifìlippo: - si incontrava con Zanca Carmelo e con altri mafiosi nei locali dei “bagni Virzì”, della Edilceramica di Gaetano Tinnirello ed in altri luoghi; - è uno dei killer più pericolosi di Cosa Nostra, come si rileva dall'ammirazione con cui ne parlavano biechi assassini quali Paolo Alfano, Salvatore Rotolo e Pietro Senapa; - non dava confidenza a nessuno e manteneva un atteggiamento serio e sussiegoso mentre i vari Zanca, Tinnirello etc. quando lo vedeva arrivare si precipitavano ad abbracciarlo; - due o tre giorni dopo l'omicidio del prefetto Dalla Chiesa, Mario Prestifìlippo, a bordo di una autovettura BMW guidata dal figlio di Ludovico Risconti (“uomo d'onore”, secondo le indicazioni di Salvatore Contorno) si era portato negli uffici dell'impresa edile di Domenico Federico (anch'egli “uomo d'onore”, secondo la medesima fonte), il quale lo aveva accolto con vivissima cordialità e con grande deferenza. Nell'occasione il Prestifìlippo aveva ancora i capelli biondi con la frangetta, mentre in seguito i suoi capelli divennero castani e la frangetta scomparve.

Quest'ultima affermazione del Calzetta va posta in correlazione con un fatto verificatosi nelle prime indagini dopo l'omicidio del prefetto. Il brig. della P.S. Carella Luigi, trovandosi a passare la mattina del 3-9-1982 in compagnia del V. brig. Crescenzi Luigi, a bordo di una Fiat 127, nei pressi del luogo dell'attentato, aveva notato una Suzuki GSX 750, di colore blu, ed una Honda colore rosso, che procedevano appaiate. A bordo della Suzuki vi erano due giovani, mentre alla guida dell'Honda vi era un giovane biondo e piuttosto esile. Trattavasi certamente delle due motociclette poi usate nell'attentato, poiché il Carella, vedendo la Suzuki rinvenuta accanto alle due macchine in fiamme, si è detto certo che era lo stesso motociclo da lui notato la mattina. Ora, il fatto che il Prestifìlippo addirittura si tingesse i capelli e ne cambiasse la foggia, dopo che i giornali avevano dato risalto al colore dei capelli del guidatore della motocicletta Honda, non può non assumere un valore indiziante; e ciò specie in un contesto in cui il Prestifìlippo - materialmente coinvolto, come si è visto, anche nel tentato omicidio di Salvatore Contorno - è gravato da specifici ed univoci elementi quale killer di fiducia di . Carmelo Zanca e Tommaso Spadaro, nei cui confronti, come si è spie-gato più volte, non sono stati raccolti elementi sufficientemente univoci di reità, debbono essere prosciolti. Nunzio Salafia, Salvatore Genovese ed Antonino Ragona sono stati accusati degli omicidi in questione e dei reati connessi, sul presupposto della loro partecipazione all'omicidio di Alfio Ferlito e dell'uso, quindi, della stessa arma usata per quest'ultimo omicidio. La dimostrata insufficienza degli elementi a loro carico in ordine all'omicidio Ferlito non può non riflettersi anche - ed a maggior ragione - sulle imputazioni concernenti l'agguato di via Carini. Non può - tuttavia - sottacersi che gli alibi forniti dai prevenuti sono tutti falliti: in ultimo, Genovese Salvatore aveva sostenuto che il 3-9-1982 aveva ricevuto la visita del Salafia, il quale era in compagnia del cognato della moglie. Quest'ultimo, però, identificato per Fusco Vincenzo, ha riferito che ciò era avvenuto il giorno precedente o il giorno successivo al 3-9-1982 e certamente non il 3-9-1982, perché proprio quel giorno gli era nato il primogenito ed egli non era uscito di casa. A ciò si aggiunge che è pervenuta una relazione di servizio del comm. capo della P.S., dr. Filippi, del 18-12-1982 in cui si riferisce che, ancora una volta una fonte confidenziale indicava come partecipanti all’assassinio Dalla Chiesa, fra gli altri, Salafia, Ragona e Genovese. Numerosi e complessi accertamenti sono stati svolti in proposito, ma non è stato acquisito alcun elemento di riscontro a carico di prevenuti; rimane, quindi, soltanto l'anonima fonte informativa, che - ovviamente - non può costituire elemento di prova.

Le menzogne di Giuseppe Spinoni e i dubbi sull’operato dei carabinieri Resta da esaminare la posizione di Alvaro Nicola, coimputato nell'attentato a Dalla Chiesa, a seguito delle accuse mosse da Spinoni Giuseppe. Alcuni giorni dopo l'attentato a Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 29-9-1982, i CC di Palermo presentavano alla locale Procura della Repubblica un rapporto con le dichiarazioni rese all'Arma di Bergamo dallo Spinoni, il quale asseriva di essere stato testimone oculare all'omicidio Dalla Chiesa e di avere visto, in particolare, che le raffiche di mitra contro la vettura A112 del prefetto erano state esplose da un individuo seduto nel sedile posteriore di una BMW, da lui riconosciuto per Alvaro Nicola, suo compagno di detenzione alcuni anni prima. I CC. precisavano che l'Arma di Bergamo aveva accertato l'effettiva presenza dello Spinoni, il 3-9-1982, a Palermo, per motivi di lavoro. Il 4-10-1982, in Bergamo, Giuseppe Spinoni veniva sentito da magistrati di questa Procura della Repubblica e, nel confermare di avere assisito all'agguato forniva una ricostruzione dei fatti compatibile con le risultanze della generica: riconosceva fotograficamente Alvaro Nicola come il killer che aveva sparato contro la A112 e riconosceva altresì Benedetto Santapaola come l'autista della BMW, in due fotografie raffiguranti persone a prima vista, diverse, ma portanti entrambi annotate sul verso le generalità del Santapaola. Lo Spinoni si mostrava assai preoccupato per la sua incolumità e chiedeva adeguata protezione. Sulla scorta di questi elementi, il P.M. emetteva lo stesso 4-10-1982 ordine di cattura contro Alvaro Nicola e Benedetto Santapaola per i delitti configurati nell'agguato di via Carini. L'Alvaro, tratto in arresto, protestava la sua assoluta estraneità ai fatti contestatigli e negava di essere mai andato a Palermo. Il tribunale della libertà, in sede di riesame, confermava l'ordine di cattura. L'11-10-1982, la Procura della Repubblica emetteva ordine di cattura anche contro Nunzio Salafia, Antonino Ragona e Salvatore Genovese, per gli stessi fatti contestati ad Alvaro ed a Santapaola. Il 14-10-1982, i magistrati del P.M. sentivano nuovamente a Bergamo Giuseppe Spinoni, il quale, oltre a confermare la precedente dichiarazione asseriva di avere riconosciuto nelle fotografie di Salafia, Ragona e Genovese, pubblicate sui giornali, due persone che, in compagnia di un terzo individuo, avevano pranzato al Self Service della stazione ferroviaria di Palermo dove aveva pranzato anch'egli, verso le 13 del 3-9-1982. Quest'ufficio, investito il 15-10-1982 della formale istruzione, richiedeva alla Polizia Giudiziaria di svolgere gli opportuni controlli sulle dichiarazioni dello Spinoni, e, intanto, lo assumeva ancora in esame, a Roma, il 22-11-1982. Anche stavolta lo Spinoni confermava la sua versione dei fatti e denunciava che, il 13-11-1982, mentre percorreva, a bordo della sua vettura, l'autostrada Milano-Bergamo, era stato oggetto di un attentato ad opera di sconosciuti, i quali, da un'altra auto, avevano esploso contro di lui dei colpi d'arma da fuoco che fortunatamente avevano attinto soltanto la macchina, mandando in frantumi il vetro anteriore. Qualche giorno dopo, il 16-11-1982, era stato avvicinato da due individui, conosciuti soltanto di vista, che gli avevano consigliato di ritrattare quanto riferito sull'omicidio Dalla Chiesa. Lo Spinoni, però, a domande specifiche sui suoi movimenti a Palermo e ad (dove assumeva di essersi portato alla guida di un pullman carico di turisti stranieri prima di giungere a Palermo), rispondeva in maniera imprecisa, talché le riserve iniziali sulla sua attendibilità aumentavano e prendeva corpo il sospetto che l'attentato e le intimidazioni che sosteneva di aver subito fossero un tentativo per “puntellare” le sue poco convincenti dichiarazioni. Appariva - quindi - necessario, onde verificare l'attendibilità del teste, convocare lo Spinoni a Palermo per una ricognizione dei luoghi in cui asseriva di avere assistito all'eccidio. Egli tentava di evitare, in tutti i modi, di venire a Palermo, perfino rivolgendosi alla stampa e dicendosi vittima di una sorta di congiura che lo voleva spedire a Palermo per farlo ammazzare dalla mafia. Ne veniva allora disposto l'accompagnamento per l'11-12-1982. Intanto, il 7-12-1982, i CC. di Palermo presentavano un rapporto in cui ponevano in evidenza che, a seguito delle specifiche indagini delegate da questo Ufficio, era stata accertata la falsità di parecchie circostanze riferite dallo Spinoni per dar veste di credibilità alle sue dichiarazioni, e segnalavano che il teste, già il 19-10-1981, aveva denunciato alla questura di Bergamo di avere assistito, nei pressi della casa circondariale S. Vittore di Milano, ad un omicidio che, in realtà, non era mai avvenuto. Lo Spinoni veniva quindi accompagnato in Sicilia; prima ad Agrigento, dove si accertava che egli era stato nel 1981 e non nel 1982; e poi a Palermo, dove indicava ai CC., come luogo dell'agguato, la via Giacinto Carini e non già, come avrebbe dovuto, la via Isidoro Carini, sita in tutt'altra zona della città. A questo punto, Spinoni veniva nuovamente interrogato ma, con incredibile sfrontatezza, insisteva nel dire di avere assistito all'omicidio di Dalla Chiesa, anche se ammetteva che gran parte delle circostanze di contorno riferite erano false. Veniva, pertanto, arrestato in via provvisoria per falsa testimonianza e, finalmente, l'indomani si decideva ad ammettere di avere mentito su tutta la linea, sostenendo di essere stato indotto a formulare le false accuse da tali Lemma Gerardo e Lemma Pasquale, che gli avevano promesso danaro e gli avevano anche dato degli assegni; assumeva di avere subito, in seguito, un'aggressione da parte di costoro e di un terzo individuo a lui sconosciuto. Il 12-12-1982, veniva emesso mandato di cattura contro lo Spinoni per il delitto di falsa testimonianza; ed il 15-12-1982, dopo un ulteriore interrogatorio che consentiva di accertarne la totale estraneità ai fatti, veniva disposta l'immediata scarcerazione di Nicola Alvaro per mancanza sufficienti indizi. Venivano, intanto, proseguiti gli interrogatori dello Spinoni, che continuava a rendere versioni contrastanti e palesemente mendaci. Nell'interrogatorio del 15-12-1982, a specifiche contestazioni, sosteneva che qualcuno, nella Caserma di CC. di Bergamo, gli aveva raccontato le modalità dell’agguato a Dalla Chiesa e gli aveva mostrato delle fotografie, identiche a quelle poi esibitegli dai magistrati del P.M. di Palermo. Il 21-12-1982, questo Ufficio emetteva mandato di cattura nei confronti dello Spinoni per i delitti di calunnia in danno di Alvaro Nicola e di Lemma Gerardo e Pasquale nonché per quello di ricettazione di un modulo di patente di guida e per quello di falso in patente (infatti, all'atto del suo arresto, veniva rinvenuta addosso allo Spinoni una patente di guida, a lui intestata, contraffatta e compilata mediante utilizzazione di un modulo in bianco, facente parte di un gruppo di stampati rubati al P.R.A. di Siracusa il 10-6- 1981). Il prevenuto, interrogato nella stessa giornata, riferiva che, la sera dell'omicidio di Dalla Chiesa, si trovava in realtà a Venezia ed aveva pernottato in un albergo di quella città; soggiungeva che la patente falsa gli era stata fornita, previo compenso di lit. 350.000, da un certo “Mario” di Bergamo, il cui numero telefonico era annotato nella sua rubrica telefonica, sequestratagli all'atto dell'arresto. Il giorno successivo (22-12-1982) chiedeva di conferire coll'istruttore e affermava che era stato indotto ad accusare il Santapaola dal m.llo Molinari dei CC. di Bergamo che gli aveva raccontato le modalità dello agguato e gli aveva anche esibito le fotografie della persona, poi da lui indicata come 'autista dell'Alvaro (e, cioè, di Nitto Santapaola). Subito dopo, però, il prevenuto ritrattava quanto aveva dichiarato nei confronti del m.llo Molinari. L'11-1-1983, veniva emesso nei confronti del prevenuto ulteriore mandato di cattura per i delitti di simulazione di reato, in relazione alle sue precedenti denunzie di avere subito un attentato e di essere stato picchiato per ritrattare le accuse contro Alvaro e Santapaola; nuovamente interrogato, anche stavolta rendeva dichiarazioni evasive e palesemente mendaci. Il 1-3-1983, infine, lo Spinoni chiedeva ancora di conferire con l’istruttore e riferiva che, ad indurlo a riconoscere le fotografie del Santapaola era stato il cap. Grassi dei CC. di Bergamo. Ciò premesso, per orientarsi in questo groviglio di accuse e di smentite dello Spinoni, bisogna partire da un dato sicuro, e cioè dal fatto accertato che la sera del 3-9-1982 egli aveva preso alloggio presso l'hotel Continental di Venezia, ripartendo il giorno successivo, e che il 4-9-1982, alle ore 12, aveva presentato alla Squadra Mobile di Mestre denunzia di furto di un pullman che, a suo dire, aveva parcheggiato in quella via Martiri della Libertà alle ore 16 del 3-9-1982. È chiaro, dunque, che la sera dell'agguato a Dalla Chiesa egli non poteva trovarsi a Palermo. E’ possibile che la denunzia del furto del pullman costituisca un'altra delle tante truffe ordite dallo Spinoni, ma non può dubitarsi della sua presenza a Venezia la sera del 3-9-1982 per un semplice ordine di considerazioni:

- anzitutto, perché è documentata la sua presenza in un albergo di quella città, dove ha esibito la sua vera carta di identità; - in secondo luogo, perché, se fosse stato a Palermo a tarda sera (non si riesce fra l'altro ad ipotizzare un motivo plausibile della sua presenza in questa città, essendo rimasto escluso che fosse venuto con una comitiva di turisti), ben difficilmente l'indomani mattina, tenuto conto dei collegamenti tra Palermo e Venezia, avrebbe potuto trovarsi alle ore 12 presso la Squadra Mobile di Mestre, come è stato accertato.

Escluso, quindi, che lo Spinoni abbia assistito all'eccidio, è conseguenziale che l'Alvaro, gravato soltanto dalle accuse del primo, debba essere prosciolto con ampia formula liberatoria. Resta, quindi, da capire perché Spinoni abbia deciso di formulare delle accuse delle quali - inevitabilmente - sarebbe stata accertata l'infondatezza. E qui sovviene la perizia psichiatrica eseguita sul predetto che ha accertato come il prevenuto, pur sano di mente, abbia una personalità psicopatica di tipo isterico, con chiara tendenza a mentire anche nelle cose più futili, pur di attirare su di sé l'attenzione. L'istrionismo è un tratto caratteristico di questo gruppo di psicopatici, che comprende gli pseudologi (o mitomani) e gli “pseudologi truffatori”. In quest'ultima categoria rientrano gli individui con tendenza alle vanterie e la cui condotta configura - più o meno chiaramente - reati di truffa o millanteria; lo Spinoni, conclude il perito, appartiene alla seconda varietà, cioè alla varietà di “pseudologi truffatori”, delle “personalità psicopatiche isteriche”. La vocazione dello Spinoni alla millanteria ed alla calunnia si era già manifestata nel 1973 quando aveva formulato false accuse nei confronti dello stesso Nicola Alvaro e di tale Bresolin Guido in ordine al sequestro di persona di Mirko Panattoni e, nel 1981, quando aveva reso dichiarazioni fantasiose su un omicidio. E il suo cartellino biografico, redatto dai CC. di Bergamo, è eloquente: vi sono annotati, infatti, i suoi numerosi precedenti per truffa, furti, falso, ed emissione di assegni a vuoto ed ivi è indicato come “megalomane”. C'è da chiedersi allora come mai si sia dato credito ad una perso come Spinoni, tanto da definirlo - come hanno fatto i CC. di Bergamo in un telex inviato ai colleghi palermitani – “attendibile”, ancora prima effettuare un qualche controllo delle sue dichiarazioni (il telex è del 15-9-1982) e quando tutte le circostanze deponevano obiettivamente contro l’attendibilità del teste. La personalità psicopatica e truffaldina dello Spinoni si è manifestata anche nel comportamento processuale tenuto dopo la scoperta delle sue menzogne. Egli, infatti, pur ammettendo - dopo estenuanti interrogatori e dopo l'arresto per falsa testimonianza - le sue falsità, imbastiva accuse inconsistenti nei confronti di Lemma Gerardo e Pasquale. È stato però accertato dai CC. di Bergamo che lo Spinoni era riuscito a farsi consegnare dai Lemma degli assegni per somme non indifferenti, vantando delle amicizie presso la Prefettura di Milano e presso l'Arma e permettendo, quindi, il rilascio della patente di guida a favore di Lemma Francesco, benché invalido, e la riapertura di un bar del suocero di Lemma Pasquale, chiuso per motivi di pubblica sicurezza. È escluso, quindi, che gli assegni dei Lemma (che lo Spinoni possedeva o aveva utilizzato) fossero il compenso delle calunniose accuse per il delitto Dalla Chiesa ed appare evidente che il prevenuto ha tentato di coinvolgerli in una grave vicenda, sfruttando le tracce documentali (assegni) di altri reati da lui commessi. Lo Spinoni ha mentito anche sulla provenienza della patente di guida falsificata di cui era in possesso. Egli, infatti, aveva sostenuto di averla ricevuta da un certo “Mario” di cui aveva annotato il numero telefonico; è stato accertato, invece, che la utenza annotata corrisponde a tale Valsecchi Natale, deceduto, nella cui situazione di famiglia non figura alcuna persona a nome Mario. Va precisato, altresì, che il fatto che il modulo di patente di guida sia stato rubato a Siracusa è un argomento indubbiamente suggestivo, poiché ci riporta alla zona di residenza di Nunzio Salafia e dei suoi fidi; l'argomento, però, almeno allo stato, non è molto rilevante poiché, come è stato accertato, dei ben 8.870 moduli in bianco rubati a Siracusa nessuno e stato rintracciato in Sicilia, mentre ne sono stati sequestrati circa un migliaio prevalentemente nell'Italia Settentrionale, in possesso a pregiudicati per reati comuni. Per quanto riguarda, poi, la chiamata in causa dei CC. di Bergamo, è da valutare se costoro abbiano intenzionalmente indotto lo Spinoni a formulare false accuse nei confronti non tanto di Alvaro Nicola, quanto di Benedetto Santapaola, sicuramente coinvolto nell'agguato di via Carini, come emerso per altra via. Lo Spinoni, nell'insistere di avere avuto suggerito il nome di Santapaola dal cap. Grassi, ha fatto presente di avere appuntato i nomi del Santapaola e di Alvaro su un foglietto che teneva nella sua vettura e che aveva mostrato al suo amico Bruno Gabrieli ancor prima di essere sentito dai CC. Ebbene, il Gabrieli ha dichiarato che, il 6 o al massimo il 7-9-1982, lo Spinoni gli aveva dato un passaggio con la sua vettura e, lungo la strada, gli aveva indicato un nome scritto su un foglio di carta, custodito nel vano portaoggetti; questo nome era solo quello di Nicola Alvaro. In proposito gli aveva confidato di avere assistito all'assassinio di Dalla Chiesa e di avere riconosciuto nell'Alvaro uno dei killer, ma si era mostrato indeciso se denunziare o meno quanto aveva visto. Viene smentita, dunque, dallo stesso Gabrieli - che lo Spinoni aveva chiamato a conferma della sua tesi - qualsiasi indicazioni da parte di chicchessia del nome di Santapaola, mentre viene confermato l'originario proposito dello Spinoni di denunziare - ancora una volta - l'Alvaro nei cui confronti egli aveva motivi di astio in quanto una volta, come egli stesso ha ammesso, l'Alvaro lo aveva fatto picchiare in carcere. Resta da spiegare, però, una vicenda abbastanza singolare: quella, cioè, del riconoscimento fotografico di Santapaola operato dallo Spinoni. Come si è già accennato, quest'ultimo, sentito dai magistrati del P.M., aveva riconosciuto Nitto Santapaola su ben due fotografìe che raffiguravano personaggi apparentemente diversi, ma che portavano annotate entrambe, sul retro, le generalità del Santapaola. Una delle fotografie del Santapaola era contenuta in un album fotografico approntato dai CC. di Palermo, mentre l'altra era stata reperita da un funzionario della Criminalpol di Palermo. Ebbene, come hanno riferito in seguito i CC. di Palermo con rapporto del 20- 12-1982, la fotografia da loro indicata come raffigurante Nitto Santapaola corrisponde, invece, a quella del pregiudicato di Salemi, Gucciardi Antonino. Si sarebbe trattato - così è stato confermato dal cap. CC. di Marsala, Nicolò Gebbia e dal ten. col. di Giuseppe Mirone - di un accidentale scambio di fotografie dovuto a errore. In sintesi, nei primi di ottobre 1982 ed in previsione della imminente trasferta a Bergamo per l'audizione dello Spinoni, era stato richiesto al Gruppo CC. di Trapani di trasmettere le fotografie del Santapaola scattate in occasione del suo arresto, avvenuto in territorio di Campobello di Ma zara, il 13-8-1980. Poiché la foto segnaletica del Gucciardi, arrestato in Salemi il 10-8-1980, era stata impressa nella stessa pellicola utilizzata per i rilievi fotografici del Santapaola e degli altri individui arrestati insieme a lui (Mangion Francesco, Agate Mariano e Romeo Rosario), anche i fotogrammi relativi al Gucciardi erano finiti nella stessa busta. Quando era pervenuta la richiesta, dall'Arma di Palermo, delle fotografìe del Santapaola, per mera svista era stata prelevata la fotografìa del Gucciardi, ritenendo che si trattasse del Santapaola. Ma se così stanno le cose, sembra certo che Giuseppe Spinoni, prima di deporre, aveva già visionato le fotografie che gli sarebbero state poi esibite dal magistrato. Egli, infatti, ha indicato come autista della BMW sia l'individuo raffigurato nella foto del Gucciardi (sul retro della quale vi erano le generalità del Santapaola), sia il vero Santapaola della foto mostratagli dal funzionario di Polizia. Lo Spinoni, sulla cui inattendibilità è superfluo spendere ulteriori parole, ha spiegato di avere riconosciuto entrambe le fotografie come raffiguranti la stessa persona, perché “lo sguardo sembrava identico”. Ma la giustificazione è risibile: basta guardare le due foto per rendersi conto che i due soggetti sono differenti. Il fatto ancora più singolare è che lo Spinoni, dopo aver riconosciuto fotograficamente il Santapaola, teneva a precisare che l'individuo da lui riconosciuto “portava i baffi” al momento in cui lo aveva visto alla guida della BMW. Ebbene, come è stato accertato dai CC. di Palermo, la fotografia applicata al cartellino segnaletico del Gucciardi raffigura lo stesso individuo della foto trasmessa come quella di Santapaola, ma con dei vistosi baffi. È lecito dedurne, allora, che lo Spinoni ha visto, come se fossero di Santapaola, sia la fotografia di Gucciardi Antonino con i baffi, sia quella senza baffi. E poiché le due foto sono state scattate in tempi diversi è inverosimile, a questo punto, la tesi del fotogramma finito per errore nella busta relativa a Santapaola. Qui - però - le indagini si sono arenate, poiché, fermo restando che le dichiarazioni del ten. col. Mirone e del cap. Gebbia sembrano attendibili, non si è più in grado di stabilire chi abbia mostrato le foto a Spinoni. Al riguardo, giova considerare che, secondo le concordi dichiarazioni dei militari dell'Arma coinvolti in questa strana storia, le fotografie sarebbero state trasmesse da Trapani a Palermo nei primi di ottobre 1982, e ciò nell'imminenza della trasferta per Bergamo dei magistrati di questa Procura della Repubblica. Però, prima di allora, il 15-9-1982 lo Spinoni, sentito a sommarie informazioni testimoniali da un maresciallo dei CC. di Palermo (m.llo mag. Giovanni Provenzano), pur senza parlare del Santapaola, aveva fornito la seguente descrizione dell'autista della BMW: “capelli molto ricci che gli coprivano le orecchie, aveva baffi neri ampi». Basta guardare la fotografia del cartellino segnaletico di Gucciardi per rendersi conto che essa corrisponde in pieno alla descrizione dello Spinoni. Deve necessariamente ipotizzarsi, dunque, che, essendosi già addensati i sospetti sul Santapaola per la strage di via Carini, qualcuno abbia mostrato allo Spinoni le fotografie del Gucciardi come se fossero di Santapaola. È possibile che colui o coloro che hanno esibito le fotografie fossero in buona fede, mentre sembra meno agevole ipotizzare la stessa buona fede da parte di chi ha trasmesso le due fotografie (con e senza baffi) del Gucciardi, indicandole come quelle del Santapaola. Le responsabilità sono - in ogni caso - gravi; sembra tuttavia da escludere una qualsiasi responsabilità dei CC. di Palermo, poiché nell'album fotografico da loro allestito la fotografia del Gucciardi è unica e senza baffi, senza dire che è stato proprio il Nucleo Operativo dei CC. Di Palermo a dare impulso alle indagini ed a scoprire lo scambio di fotografie. Non resta, quindi, che trarre la sconsolante conclusione che ancora una volta, nelle indagini riguardanti il Santapaola, le cose non sono andate per il verso giusto e che soltanto la rapidissima scoperta della falsità delle accuse costruite sul suo conto ha impedito che le univoche prove esistenti a suo carico si intorbidassero. Lo Spinoni, quindi, dovrà essere rinviato a giudizio per rispondere dei contestati delitti di falsa testimonianza (capo 443), calunnia continuata (capi 444 e 445), ricettazione di un modulo di patente di guida (capo 446), falso in patente (capo 447) e simulazione di reato (capi 448 e 449).

Fonte: Ordinanza di rinvio a giudizio dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo contro 475 presunti mafiosi dell’8 novembre 1985.