Il bandito Giuliano Salvatore Giuliano e la sua banda

TURIDDU 30 ANNI DOPO

Un prezioso articolo apparso su Storia illustrata alla vigilia del 1980, a quasi trent’anni dalla morte del bandito Salvatore Giuliano di Guido Gerosa

«Di sicuro c'è solo che è morto». È il titolo più famoso nella storia del giornalismo italiano e apparve sull'Europeo nel luglio del 1950, in testa alla grande inchiesta di che, immediatamente dopo il fatto, contestava la versione ufficiale dei sulla fine di Giuliano (il sommario, con un soprassalto di cautela, giustificava: «I meriti dei carabinieri sarebbero gli stessi anche se la versione ufficiale non fosse vera»). Ebbene, a quasi trent'anni di distanza da quel mistero d'Italia, su Giuliano di sicuro si sa ancora soltanto che è morto. È ora quindi di riaprire il dossier su tutta intera la vicenda, anche se ci accorgeremo, sconsolatamente, che i lati misteriosi e insoluti sono innumerevoli. Con quali appoggi autorevoli e complicità il ventenne picciotto di assurse a simbolo del banditismo italiano e fece mobilitare un esercito di carabinieri incaricato di braccarlo? Quale sottile intreccio di rapporti mafia-po1itica-criminalità comune trovò il suo sbocco naturale nelle gesta della banda di Turiddu? La forsennata campagna di sangue che a un certo momento Giuliano scatenò contro i partiti della sinistra era dovuta a un suo feroce anticomunismo nativo o alle fredde strategie dei suoi mandanti? Perché, a partire da un' Ora X la mafia abbandonò al suo destino il «re di Montelepre» e anzi collaborò con i carabinieri dei colonnelli Luca e Paolantonio per distruggerlo? E vi era una ragione reale di montare quella grottesca messinscena che il fiuto infallibile di Besozzi smontò dalle prime battute? Sono interrogativi molto complessi, ai quali è difficile rispondere sommariamente. Ma l'esame di alcuni aspetti, anche minori, della vicenda Giuliano ci consentirà di mettere in luce delle connessioni che fanno meditare.

Il cadavere di Salvatore Giuliano appena ricomposto

Salvatore Giuliano era il quarto figlio di una famiglia che, secondo gli standard del Sud inizio secolo, può dirsi poco numerosa. Il padre emigrò a Brooklyn, vivendovi come carrettiere, nel 1904, ma dopo un ventennio giudicò maturo il momento per tornare a casa e s'imbarcò alla volta della Sicilia con la moglie Maria Lombardo, che da quattro mesi si portava in grembo Turiddu, e con gli altri tre figli. Così a Giuliano, che non la vide mai, rimase in tutta la sua breve vita una nostalgia lancinante dell'America smisurata. Il futuro «re» nacque a Montelepre il 16 novembre 1922, il giorno stesso in cui Mussolini pronunciava a Montecitorio il discorso dell'«aula sorda e grigia». Lo stesso Mussolini qualche anno dopo avrebbe condotto, nell'isola di Giuliano, la furibonda repressione del prefetto Mori, ma nel momento in cui egli diveniva capo del governo la Sicilia aveva un sinistro primato del crimine: vi avveniva un terzo degli omicidi compiuti in tutta Italia. Nel 1922 furono registrati 6.278 assassini in tutta la penisola, e la Sicilia contribuì al pedaggio di sangue con 1920 (nella sola se ne verificarono 1.557, e il distretto palermitano diede un totale di 2.365 fra rapine, sequestri, estorsioni, contro un totale italiano di 8.847). Giuliano è un esempio abbastanza calzante delle teorie secondo cui a monte della delinquenza c'è l'oppressione sociale. Abituato ai soprusi e agli sfruttamenti dei piccoli padroni, sui vent'anni, nella Sicilia della guerra, del fascismo in crisi, dell'invasione, cominciò ad arrangiarsi con i traffici, gli intrallazzi, la borsa nera. Il passaggio degli eserciti alleati rovesciò sulla Sicilia ogni sorta di capi mafiosi, oriundi che negli Stati Uniti avevano aiutato i comandi militari a procurarsi in anticipo le carte topografiche della Sicilia e ad assicurarsi gli appoggi che garantivano una celere conquista. Esiste una celebre foto in cui il braccio destro di Lucky Luciano, Vito Genovese, nell'uniforme dell'esercito degli Stati Uniti, tiene la mano paternamente sulle spalle del giovane Giuliano. Quasi ad indicare una riconosciuta primogenitura. L'avvenimento che doveva decidere la sorte di Turiddu si verifica il 2 settembre 1943, un giorno prima della firma dell'armistizio, tra gli ulivi di Cassibile. Su una cavalcatura macilenta, portando quattro forme di cacio e del grano per la borsa nera, Giuliano si trova a transitare da Quarto Molino, vicino a San Giuseppe Jato, e incrocia una pattuglia di carabinieri. I militi gli vedono il cacio e il grano, s’insospettiscono, gli ordinano di seguirli in caserma. II giovane dirà sempre che si sarebbe sentito «disonorato» se avesse dovuto varcare la soglia dell'alloggio dei carabinieri: prima che possano fermarlo, spicca un balzo e tenta la fuga. Un carabiniere gli scarica l'arma nella pancia. Giuliano sosterrà che, all'avvertire quella gran frustata calda nel ventre, ebbe la sensazione di star per morire: e volle trovare compagnia per l'ultimo viaggio. Così da pochi metri consumò un caricatore contro il carabiniere. Questi morì più tardi in ospedale: la «disgrazia», come la sorella Mariannina chiamerà quell’episodio, segnò per sempre il destino di Giuliano. Comincia la latitanza sui monti nel corso della quale il bandito amerà farsi ritrarre con il binocolo a tracolla e con un fascio di carte topografiche davanti, come un generale che prepari la battaglia. Era sensibilissimo ai connotati romantici che potessero impressionare l'immaginazione popolare. Al giornalista Jacopo Rizza, che lo intervistò per Oggi, mostrò la sfarzosa fibbia della sua cintura, un gingillo degno di Sandokan: vi figuravano una stella, un'aquila e un leone. «È il mio stemma», spiegò orgogliosamente il bandito. «La stella è la fortuna, l'aquila è l'intelligenza, il leone è la forza». Il trono di sangue di Giuliano si resse soprattutto sulla fitta cortina di che lo proteggeva. «I contadini siciliani», diceva il suo luogotenente , «non sanno mai nulla, non vedono mai nulla. Hanno lo sguardo conficcato nella terra che arano. Nessun poliziotto potrà mai strappare da loro alcuna indicazione». Ma nonostante quella devota protezione, la madre di Giuliano, quando lo vedeva rincasare furtivo e abbracciarla, lo supplicava: «Guardati pure dall'aria, figghiu, non ti fidare». Per questo il fuorilegge non dormiva mai due volte nello stesso posto e si circondò di uomini, che, fin quando non si ersero contro di lui nemici a tutta prova, gli furono fedelissimi. La leggenda vigoreggiata intorno alla figura di Giuliano fa dimenticare, a volte, ch'egli visse tutta la sua grande avventura da giovanissimo. La stagione della collera si svolse nei sette anni di fuoco dal 1943 al 1950: quando scaricò la pistola sul carabiniere, isolandosi così dal consorzio sociale, Turiddu aveva ventun anni; quando fu deposto cadavere nel cortile dell'avvocaticchio De Maria a , ne aveva ventotto. Come potè assurgere in così breve tempo a tanta potenza? Anzitutto, la sua crescita va collocata storicamente in un periodo nel quale nell'isola si era prodotto il più totale vuoto di potere. Gli Americani non si preoccupavano affatto di restaurare la legalità: gli faceva comodo che chi poteva aiutarli e servirli non fosse molestato. C'è un episodio molto indicativo in proposito: un giorno del 1944 i banditi svaligiarono un albergo a Palermo. I carabinieri, subito avvisati, riuscirono a bloccarli e a recuperare la refurtiva; ma un momento dopo ecco profilarsi la spedizione punitiva della Military Police, gli americani che arrivarono, bastonarono i carabinieri e restituirono la refurtiva ai banditi. Si trattava di un clan mafioso che era legato solidamente all'autorità militare di occupazione e perciò godeva dell'immunità assoluta. Per uomini senza scrupoli, questa anarchia legalizzata era l'occasione d'oro per esercitare il dominio incontrastato. Giuliano si trovò ben presto a cavalcare la tigre del disordine politico che si era instaurato nella Sicilia del post-fascismo. Nel 1947 affiderà a un giornalista americano, un uomo dei servizi segreti, la famosa lettera per il presidente Truman: «II nostro sogno è di staccare la Sicilia dall'Italia e poi di annetterla agli Stati Uniti». Nella visuale incerta dell'immediato dopoguerra, la penisola sembrava destinata a essere assoggettata al comunismo; la Trinacria si sarebbe ribellata e, guidata da un pittoresco stato maggiore di aristocratici, di banditi in uniforme, di pezzi da novanta, che in cuor loro si sentivano i Garibaldi del ventesimo secolo, avrebbe reclamato l'onore di essere la quarantanovesima stella dell'Unione americana. Giuliano, che era ovviamente uno sprovveduto in politica, fu probabilmente allettato dalle promesse che gli fecero i capi separatisti nell'incontro di Ponte Sagana. I loro applausi, alla fine del discorso che rivolse loro, lo riscaldarono. Era troppo ingenuo per riuscire a rendersi conto della fitta trama di interessi, di ambizioni, di calcoli di potere, che aveva indotto, nel marzo 1945, un manipolo di personaggi diversissimi a coalizzarsi per innalzare la bandiera della Sicilia separata. Erano della partita il duca don Guglielmo Paternò di Carcaci, feudatario catanese; il barone Stefano La Motta; il barone Giuseppe Cammarata, proprietario terriero palermitano; il barone Giuseppe Tasca; Concetto Gallo; Rosario Cacopardo, avvocato di Messina. I finanziamenti non mancavano, date le immense ricchezze dei patrocinatori dell'impresa: ma occorreva la manodopera criminale, l'arruolamento di un'armata di mercenari disperati al servizio di quell’idea. I clan più immediatamente disponibili erano quelli delle bande Avila e Giuliano. A chi, nelle prime riunioni dei separatisti, obiettò che era immorale servirsi di quei delinquenti, il patriarca Lucio Tasca, padre del barone Giuseppe, rispose ironicamente: «Noi dobbiamo associarci i banditi perché questo fece anche Garibaldi». Giuliano diede appuntamento ai ras del separatismo sulle montagne fra e , a Ponte Sagana. Quando i palermitani arrivarono su un'auto Bianchi nell'anfiteatro scelto per il convegno, si guardarono intorno smarriti, credendo di essere caduti in trappola. Giuliano aveva scelto uno spiazzo dominato da rocce alte e dietro ogni masso e ogni spuntone di roccia sbucava la canna di un fucile. Ma il leader dei banditi si mostrò di buon umore e conciliante; e sfoggiò una genuina commozione quando i baroni lo nominarono sul campo colonnello dell'EVIS (Esercito volontario dell'indipendenza siciliana). Fu ancora più felice quando gli fecero pervenire tra le montagne un'ottantina di uniformi di tipo coloniale, decorate da mostrine rosse e gialle e con il simbolo della Trinacria bene in vista. La storia del separatismo siciliano di quegli anni, o meglio di quei mesi, è ancora tutta da scrivere: e sarebbe bene farlo, anche perché si scoprirebbe che rivela paralleli inquietanti con il terrorismo e con la criminalità, sia comune sia politica, di questi ultimi anni. È certo che Turiddu e i suoi padrini si resero immediatamente conto, nel 1945, che il modo più sicuro per finanziare le operazioni di eversione politica era quello di sequestrare i grandi ricchi dell'isola. E montarono una strategia alla grande, nella quale i suggeritori furono indubbiamente personaggi di molto riguardo nella sfera politica sia locale sia romana, della Roma che stava ricostruendo allora il suo perenne impero. Andrea Finocchiaro Aprile e Antonino Varvaro, gli esponenti siciliani del movimento separatista, che finirono al confino a Ponza, e Concetto Gallo, uno dei loro bracci secolari, erano pedine di una certa importanza, ma in fondo sbiaditi di fronte all'importanza del grande gioco che si svolgeva sopra le loro teste. I veri Clausewitz di questa strategia del terrore siciliana, che si rivelò pleonastica e che venne abbandonata non appena le uccisioni dei sindacalisti di sinistra ebbero affievolito lo slancio del movimento operaio dell'isola e le vittorie elettorali della Democrazia cristiana ebbero disegnato il volto dell'Italia moderata che sarebbe durata per oltre un trentennio, erano da cercarsi altrove: personaggi di grande influenza politica, uomini abituati a reggere abilmente le fila del gioco del potere tra Roma e Palermo, notabili di straordinaria statura, protagonisti al di sopra di ogni sospetto e dominanti nel cielo degli intoccabili. Giuliano fu, dal 1944 al 1949 circa, lo strumento ideale di questo potere. Un ras della delinquenza temibilissimo, che in un paese governato con veri e propri metodi da dominio coloniale come la Sicilia svolgeva addirittura una funzione «governatoriale». I mafiosi erano rimasti subito impressionati dalla sua baldanza: «Guarda che picciotto in gamba è questo qua», dissero allorché lo conobbero, come ha riferito il generale Paolantonio alla Commissione antimafia. Il bandito fu incaricato di spaventare l'isola con i sequestri, le stragi, il terrore destato da un disordine perenne: era un'apparente sovversione, ma in realtà era il modo di far trionfare l'antico ordine dei baroni e della mafia sulla rivolta contadina delineatasi, nonostante tutto, all'indomani dell'invasione alleata. Non a caso i bersagli prediletti di Giuliano furono le Camere del Lavoro, le organizzazioni legate ai partiti della sinistra, i sindacalisti e il coraggioso deputato comunista , strenuo denunciatore della mafia. La sua opera si rivelò così preziosa che i suoi padrini lo fornirono di ogni cosa di cui avesse bisogno. Giuliano poté organizzarsi con ampiezza di mezzi i sequestri, ebbe i soldi per le armi e per l'organizzazione, creò campi di addestramento di tipo militare, organizzò i settori d'intervento e le squadre: per i materiali, per le armi, per i rapimenti. All'apogeo della sua potenza, dispose d'una banda di ottanta uomini, tra i quali c'erano dei personaggi avventurosi e decisi a tutto: Candela, Passatempo, Pisciotta, Badalamenti, Pasquale Sciortino, i fratelli Genovese, Cucinella. Nei sei mesi di maggiore attività, i suoi uomini uccisero diciassette carabinieri e ne ferirono trentacinque. Negli anni dell'ira Montelepre era diventata l'epicentro di una guerriglia insidiosissima. Seimila persone in tutta la zona erano tenute sotto coprifuoco, che veniva annunciato da un banditore con rulli di tamburo. Sulle strade polverose di quell’angolo di Sicilia occidentale ci si muoveva come in un paese occupato durante una guerra: con perquisizioni, posti di blocco, controlli, arresti. Si vedevano code di uomini e donne legati con corde e catene e fatti sfilare in triste parata, di tipo appunto coloniale, lungo la via Castrense di Bella di Montalepre, dove sorgeva la casa dei Giuliano.

Uno dei tanti rastrellamenti nelle campagne attorno a Montelepre

Sembravano tornati gli anni risorgimentali della repressione del banditismo nel Sud. Il grosso paese di Montelepre era circondato da un esercito di carabinieri, polizia, carri armati, artiglierie, il reggimento «Garibaldi», le divisioni Sassari e Ariete, per sino gli alpini. Una guerriglia da Africa paesana, che impegnava migliaia di uomini e gettava spesso il discredito e addirittura il ridicolo sullo Stato italiano, impotente di fronte a un bandito che aveva le movenze di un Robin Hood con la coppola, che si pretendeva difensore dei deboli e degli oppressi. Ancor prima dei «paras» in Algeria, i carabinieri impegnati contro Giuliano ricorsero all'arma della tortura, con maschere antigas il cui tubo veniva riempito di acqua e sale e che venivano compresse sul viso del disgraziato sospetto di essere un appartenente o un favoreggiatore della banda Giuliano, come Pasquale Sciortino ha riferito nel 1970 all'Antimafia. Gli interrogatori venivano inaspriti da una sequela interminabile di pugni e calci.

Ammanettati, i prigionieri Venivano picchiati e spesso subivano vere e proprie torture da parte dei carabinieri

Ma Giuliano, nella sua lotta testarda e fanatica, non era da meno. Una volta gli portarono un ragazzo che era stato scoperto tra le macchie della montagna mentre osservava i movimenti degli uomini della banda. Il capo lo interrogò, non riuscì a ottenere nulla da quel giovane che aveva gli occhi fuori dalla testa per il terrore; alfine, stanco, ordinò che si procedesse a formare il plotone d'esecuzione. Quando il pastorello atterrito fu davanti al manipolo di banditi che spianavano il fucile, Giuliano esclamò a voce altissima: «Io Salvatore Giuliano ti uccido in nome di Dio e del popolo della Sicilia». Sul cadavere il bandito fece affiggere un cartello: «Così Giuliano tratta le spie». Così si creava di giorno in giorno la leggenda del terribile capobanda. Molte donne dell'isola, attratte dal fascino romantico del fuorilegge, avrebbero voluto raggiungerlo in montagna e passare con lui le notti all'addiaccio. Ma Giuliano resisteva loro: si diceva che con immenso ardimento si avventurasse fino a Palermo, dove in spregio ai carabinieri penetrava in qualche antico palazzo ed espugnava il letto di qualche principessa: nomi di nobiltà auguste, risalenti ai cavalieri Normanni. Il solo amore che si concesse tra le montagne fu, forse, quello con la giornalista svedese Maria Cilyacus, che lo raggiunse romanticamente e riuscì ad intervistarlo. Nell'introduzione al secondo volume dell'inchiesta della Commissione Antimafia (1973) si legge: «Giuliano, riuscì a fare, nella sua lunga carriera criminosa, ben 430 vittime, sempre, purtroppo, protetto nell'inaccessibilità del suo rifugio dalla non malcelata protezione della mafia» . Ma a un certo momento questa protezione cadde, venne a mancare. Uno degli inquirenti di allora ha ammesso: «Abbiamo preso Giuliano solo quando la mafia lo ha mollato». Perché la mafia sì fosse schierata a sostegno del bandito, lo abbiamo visto: gli rendeva servigi troppo preziosi e segnalati. Ma perché lo abbandonò, e da quale momento preciso? Questo è più difficile a dirsi, e i cadaveri di quattordici persone che in un modo o nell'altro stavano fornendo delle chiavi per capirlo ammoniscono sulla complessità del problema. Forse la strage di Portella delle Ginestre offre qualche indicazione. Il 20 aprile 1947 c'erano state le elezioni regionali e le forze della sinistra coalizzate nel Blocco del Popolo avevano ottenuto significative affermazioni nel triangolo -San Cipirello-San Giuseppe Jato. Un certo panico aveva cominciato a diffondersi tra i padroni delle masserie, i latifondisti, i grandi agrari. Il 1° maggio 1947, quasi un ammonimento, avvenne, nella piana di Portella delle Ginestre, dove si stava celebrando la Festa del Lavoro con molti carretti siciliani e con qualche simbolica bandiera rossa, una delle prime stragi della storia italiana del dopoguerra. Un testimone, Salvatore Fusco, ha raccontato nel 1975 a Giancarlo Graziosi della Domenica del Corriere che quel mattino con tre amici stava andando a caccia nella montagna sopra Portella. Furono fermati e catturati da alcuni uomini armati che gli ficcarono i fucili contro le reni. Poi arrivò un altro uomo, ben vestito, con abiti militari, che Fusco riconobbe per Giuliano, e che dopo averli fatti perquisire domandò loro: «Siete comunisti?». Lo videro impartire gli ordini per la strage e quindi lui stesso si mise alla mitragliatrice e snocciolò il rosario di due lunghi caricatori sulla gente che celebrava la festa del socialismo. La strage si risolse in un tragico bilancio di undici morti, ventisei feriti gravi, dodici animali uccisi. Si calcolò che i banditi che avevano sparato erano una dozzina e avevano sviluppato una massa di fuoco incredibile. Chi volle quella strage? È uno dei punti fermi del discorso su Giuliano. Si sa che Pasquale Sciortino, il «compagno d'armi» e cognato del bandito, pochi giorni prima dell'eccidio portò a Giliano una lettera che venne letta e subito bruciata. Il traditore Pisciotta al processo di Viterbo fece tre nomi di mandanti: il principe Giovanni Francesco Alliata e l’onorevole Leone Marchesano, monarchici; l’onorevole , grande notabile democristiano. Naturalmente quando la stampa riprese quei nomi, vi furono smentite, querele, duelli; e i processi che seguirono scagionarono quei personaggi da ogni responsabilità: anzi, come dice l'Antimafia, «non è stato possibile rinvenire nemmeno elementi indizianti». Ma il delitto maturò sicuramente in un clima allucinante. «Fra Diavolo», al secolo Salvatore Ferreri, un bandito di Giuliano che in realtà faceva il confidente della polizia, pochi giorni prima di Portella avvisò i suoi amici della Questura che stava maturando qualcosa di molto grosso. Era sul punto di andare a fare il suo rapporto quando venne convocato d'urgenza nella caserma dei carabinieri. La versione ufficiale è che a un certo momento Ferreri si ribellò a chi lo stava interrogando, tentò di saltargli addosso; il capitano dei carabinieri Gianlombardo allora, per legittima difesa, mise la mano alla pistola e lo uccise. Con ogni probabilità, negli ultimi mesi della sua vita Giuliano era diventato scomodo per tutti e i suoi padrini non sapevano come sbarazzarsene: tanto che egli pensò molte volte alla fuga nel paese d'origine, gli Stati Uniti, dove s'illudeva di trovare molte coperture. E invece il 5 luglio 1950, alle sei in punto, arriva al ministero dell'Interno a Roma (era ministro ) questo dispaccio spedito venti minuti prima da Palermo: «Da Castelvetrano (Trapani) colonnello Luca segnala che ore 3.30 oggi dopo inseguimento centro quell'abitato et conflitto sostenuto da squadriglia Centro Forze Repressione Banditismo rimaneva ucciso bandito Salvatore Giuliano punto Nessuna perdita parte nostra punto Cadavere piantonato disposizione autorità giudiziaria punto Riserva particolari alt Maggiore Latronico Palermo». Sulla testa del famoso bandito c'era fino a quel momento una taglia di 50 milioni. Ora il suo cadavere stava mutando rapidamente fattezze, nella decomposizione provocata dalla morte, nel cortile arroventato della casa dell'«avvocaticchio» Gregorio De Maria, che lo aveva ospitato. Il cadavere del terrore di Montelepre presentava «alcune abrasioni al viso e sei ferite di arma da fuoco calibro 9, tre delle quali trapassanti». La morte era stata «determinata da imponente emorragia interna, da lesioni bilaterali dei polmoni e dell'aorta discendente», il corpo era coricato a pancia contro il suolo, con le ferite nella parte anteriore destra e un enorme grumo di sangue rappreso sulla schiena. Un cronista borbottò subito: «Non avevo, mai visto il sangue andar su in salita». Giuliano indossava i pantaloni di tela, era senza mutande e portava al dito un anello. Deposti accanto al cadavere c'erano il mitra, la pistola americana, il tascapane e una banconota, che più tardi nessuno seppe dire se era da dieci o da cinquanta lire. Nessuna traccia, nella casa, del famoso memoriale in cui Giuliano aveva annotato con il puntiglio dell' autodidatta le istruzioni dei suoi misteriosi, mandanti, o delle centinaia di documenti nei quali diceva consistere la sua difesa. Fu recuperato un elenco di nomi, e l'allora colonnello Paolantonio, grande protagonista di quell'operazione, sperava che si cominciasse subito a mettere le mani su di loro. «Ma appena morto Giuliano», egli ha poi raccontato all'Antimafia, durante la seduta del 22 ottobre 1969, «ci dispersero rapidamente, dicendoci che il banditismo era finito». Il capitano dei carabinieri Antonio Perenze avanzò la versione ufficiale. Un confidente aveva portato i militi a Castelvetrano sulle orme di Giuliano ed essi, individuatolo, avevano impegnato con il bandito una sparatoria di tre quarti d'ora. Il re di Montelepre aveva scaricato un intero caricatore di mitra - 40 colpi - e al dodicesimo colpo del secondo caricatore l'arma si era inceppata. I carabinieri avevano esploso 211 colpi. Una vera sfida all'OK Corral. Giuliano era balzato dentro il cortile di De Maria e là Perenze gli aveva sparato l'ultimo colpo, che lo aveva fatto crollare pancia in giù. Questa versione era ancora calda che Tommaso Besozzi, uno dei più grandi giornalisti di cronaca vissuti in Italia, la smontava, telefonando i suoi dubbi al suo giornale «L'Europeo». Alessandro Minardi, il redattore capo che sostituiva il famoso direttore Arrigo Benedetti, in quei giorni a Parigi, vi prepose il titolo che è rimasto gloriosamente nella storia del giornalismo italiano: «Di sicuro c'è solo che è morto». Besozzi distruggeva punto per punto le tesi dei carabinieri. Come mai la gente che dormiva con le finestre spalancate nel luglio torrido di Castelvetrano non aveva sentito quell'alluvione di spari? Perché non si trovava neppure un testimone di quella rocambolesca sparatoria western? Besozzi azzardò per primo, poco dopo, la versione più probabile della fine di Giuliano, che però a sua volta non è affatto sicura. Il bandito era trapassato dal sonno alla morte senza accorgersene. Nella casa di De Maria egli dormiva pancia in giù, proteggendosi la testa con le mani, e questo spiegherebbe la posizione del suo corpo nel cortile: chi lo uccise lo avrebbe poi trasportato là, adagiandolo al suolo nella stessa posizione in cui la morte lo aveva colto. Secondo Besozzi, era stato Pisciotta a uccidere. Il bandito era terrorizzato dal cugino, perciò gli aveva fatto sciogliere un narcotico nel caffè. Quando lo vide immoto come un macigno, gli si avvicinò, tremando verga a verga, e gli scaricò una pallottola contro la nuca. Ma la mano oscillava e il proiettile si conficcò nella spalla. Con il secondo lo ferì all'ascella, poi infierì sul cadavere e fuggì disperato nella notte, reggendo in mano i pantaloni ammorbati e fetenti perché se l'era fatta addosso. Lo accolse una «1100» dei carabinieri, che fissarono l'assassino con occhi carichi di disprezzo e presero a gran carriera la via di Palermo. E questa sarebbe stata la vera morte di Giuliano. Trent'anni dopo, questa versione, raccontata nel libro oggi introvabile di Tommaso Besozzi, regge ancora? Sì e no. Giuliano era stato scaricato dalla mafia e vi è perciò l'ipotesi che sia stato qualche personaggio della mafia, e non il traditore Pisciotta, ad assumersi l'onore dell'esecuzione. Contro questa possibilità stanno le numerose descrizioni dell'approccio di Pisciotta ai carabinieri e dei suoi maneggi per eliminare il cugino: che si ricavano soprattutto dai racconti del maresciallo Lo Bianco, uno dei massimi protagonisti - con Luca, Paolantonio, Perenze -dell'operazione. C'è anche la possibilità che Giuliano non sia stato ucciso a Castelvetrano bensì a Monreale. Il cadavere sarebbe stato introdotto nel baule di una macchina e portato sino al cortile di De Maria, per la grande mistificazione. Pisciotta al processo di Viterbo si attribuì la paternità del delitto. Ammise di avere assassinato l'amico nel modo ricostruito da Besozzi. Perenze avrebbe attuato poi la messinscena, sparando una raffica di mitra su un cadavere. Ma in mezzo a tante bugie, è il caso di credere a Pisciotta? Il bandito spiegò a Viterbo di essere terrorizzato da una santissima trinità, onnipotente in Sicilia e incredibilmente unita: mafia, polizia e banditi. Pisciotta aveva paura della vendetta di quella Trimurti: infatti il 9 febbraio 1954 fu avvelenato nel carcere dell'Ucciardone a Palermo, uno dei quattordici morti di una catena incredibile. Quindi di sicuro c'è ancora solo che Giuliano è morto. Tutto il resto - il legame Giuliano-separatisti-mafia; il rapporto mafia-politica-banditismo; i nomi degli uomini politici che furono i veri mandanti della strage di Portella delle Ginestre; la meccanica esatta della morte di Salvatore Giuliano e il «tradimento» che portò alla sua sconfitta, sono ancora tenacemente avvolti nelle nebbie, come tanti altri misteri della recente storia d'Italia. Frank Mannino per esempio, uno degli uomini di Giuliano liberati da poco, sostiene che il bandito fu ucciso dalla mafia e non da Pisciotta. L'antico fuorilegge, rilasciato dopo quasi trent'anni, non ha voluto tornare in Sicilia ma ha scelto Genova come sua sede. Di chi ha paura, a tanta distanza di tempo? Probabilmente degli stessi uomini che hanno operato, nel trentennio, l'ecatombe di quattordici testimoni. Anche questa è una storia di enorme interesse e di agghiacciante attualità. Una catena ininterrotta di strane morti e di oscure vendette si snoda lungo tutto questo trentennio e ha colpito un fitto gruppo di persone di cui si può ragionevolmente ritenere che conoscessero le responsabilità sulla fine di Giuliano. Il 4 marzo 1952 morì improvvisamente l'ispettore di P.S. Ciro Verdiani e sul suo cadavere non venne mai eseguita l'autopsia. Verdiani aveva stabilito un buon contatto con i Miceli, personaggi legati alla mafia di Monreale: erano stati loro a convincere Giuliano a trasferirsi da Montelepre a Castelvetrano. L'8 agosto 1952 i carabinieri scovarono e uccisero, in un conflitto a fuoco nelle campagne del Trapanese, Salvatore Passatempo detto «il boia», un uomo che era stato molto vicino a Giuliano. Il 9 febbraio 1954 Gaspare Pisciotta, dopo aver sorbito una tazzina di caffè, morì tra orribili spasimi nel carcere dell’Ucciardone. Vennero incriminati il suo stesso padre Salvatore, la guardia carceraria Ignazio Salvaggio e il detenuto Filippo Riolo, ma furono prosciolti prima ancora di arrivare al processo. Il 3 marzo 1954 era carnevale a Palermo. Otto detenuti celebrarono gaiamente la festa con cibi mandati loro all’Ucciardone dai fratelli Genovese, «big» della banda Giuliano. Ad un tratto Angelo Russo, dopo aver tracannato un bicchiere di vino, crollò al suolo, mostrando gli stessi sintomi di Pisciotta. Dieci minuti dopo moriva in infermeria, mentre tutti i suoi compagni vomitavano disperatamente il cibo ingoiato. Nel 1955 morì in circostanze misteriose anche l'avvocato Geloso Cusumano, di cui al processo di Viterbo si era detto che aveva portato a Giuliano, come ambasciatore, le volontà dei «mandanti» della strage di Portella. Il 20 settembre 1960 fu assassinato con nove colpi di pistola, mentre rincasava, Nitto Minasola di Monreale: si era trasferito a San Giuseppe Jato perché là sperava di sfuggire alla vendetta. Secondo molte testimonianze, aveva messo in contatto Pisciotta con i carabinieri e aveva fatto cadere in trappola anche Mannino, Badalamenti, Madonia. Filippo Riolo, il detenuto che era stato incriminato per la morte di Pisciotta, si aggiunse alla tragica lista il 29 luglio 1961, fulminato da una scarica di pallettoni proprio mentre si trovava sulla soglia di casa. Da non collegare con questa catena di morti misteriose sembra quella, avvenuta per causa naturale, cioè infarto, il 4 luglio 1967, curiosamente a 17 anni esatti dalla sua massima operazione militare, del generale Ugo Luca, l'architetto della fine del bandito Giuliano. Dopo il successo della sua azione, si era ritirato in pensione e aveva l'hobby di collezionare orologi. Il 5 maggio 1971 venne assassinato il procuratore della Repubblica di Palermo, : con una raffica di mitra, mentre percorreva in auto una via della capitale siciliana. Scaglione era forse depositario di un segreto. Pisciotta lo aveva chiamato nella sua cella pochi giorni prima di morire, e gli aveva forse confidato molte cose sui mandanti di Portella e sul ricamo tra mafia e politica. Il 26 dicembre 1974 vennero massacrati a raffiche di mitra Giuseppe Gulino di 71 anni, l'armiere della banda Giuliano, e la moglie Antonina. Angelo Genovese era uno dei tre famosi fratelli che avevano seguito Giuliano alla macchia: fu trucidato a colpi di lupara sul monte Sagana, teatro delle gesta del re di Montelepre, mentre i suoi fratelli Giuseppe e Giovanni, ergastolani, avevano già avuto restituita la libertà. Il 25 maggio 1975 venne ucciso a Palermo Filippo Fazzone; e, nel dicembre, Remo Corrao di Corleone, esponenti della banda che erano stati coinvolti nei sequestri di persona che servivano a finanziare l'esercito di Giuliano. L’incredibile lista è completata da Benedetto Pecoraro, assassinato il 28 aprile 1978, e da Vito Sciortino, che lo segue due giorni dopo. Da questa catena di delitti si ricava facilmente che esistono segreti gelosamente custoditi su quella storia di trent'anni fa e che ogni piccolo spiraglio aperto anche incautamente su quella verità nascosta può costare la vita dì un uomo. Oppure ci sono vendette che maturano lentamente sotto le ceneri. «A volte si può essere uccisi per sgarri fatti trent'anni fa», ha detto Boris Giuliano, capo della Mobile di Palermo, ad Adriano Baglivo, un giornalista del «Corriere della Sera» che ha condotto una documentatissima inchiesta su questa allucinante sinfonia per un massacro. Ci sono uomini che sanno certamente, sia dalla parte della legge sia da quella della banda Giuliano, ma le bocche sono sigillate, com'è nella migliore tradizione. Giuseppe Genovese, l'uomo che nel 1945 fece incontrare Giuliano con i capi del separatismo a Sagana, è uscito di carcere nel 1966, dopo diciassette anni, e non ha mai aperto bocca. Gestisce una grossa azienda zootecnica vicino a Partinico. A chi gli chiede cosa fosse andato a fare Turiddu da Concetto Gallo, dal duca di Carcaci e dal barone La Motta, risponde sorridendo: «Giuliano venne a Sagana per avere cibo, pane e formaggio. Non dovevano darglielo? Scortesia sarebbe stata». E non va più in là. Tacciono tutti appassionatamente : Francesco Tinercia «bastarduni»; Giuseppe Di Misa «lu figghiu di lu zù Michelangelo»; Domenico Di Pretti, che con i fratelli Cucinella e Vincenzo Sapienza assaltò la sezione comunista di Borgetto e che ora fa il pastore a Montelepre, in mezzo a molta miseria. Francesco Paolo Motisi appena uscito dal carcere si è trasferito a Genova, sede prediletta da molti di questi ex protagonisti. Francesco Abbate è nella Legione straniera. Vito Mazzola, già cassiere della banda, che ebbe spesso Giuliano ospite in casa sua, celato in un rifugio occultato da cacche di animali, è uno dei pastori più ricchi di Montelepre. È considerato uno dei massimi testimoni sul fatto che a Cippi, a fine aprile 1947, si svolse una riunione tra Giuliano, Antonino Terranova, Frank Mannino, i fratelli Genovese, Pisciotta, Sciortino e Badalamenti e che in quell'occasione Giuliano disse agli amici che bisognava svolgere «l'incarico» di Portella delle Ginestre. Né si sbottonano Giacomo Lombardo, il cugino di Giuliano, che con la moglie gestisce un negozio di alimentari a Palermo, o l'avvocaticchio di Castelvetrano, Gregorio De Maria, che ospitò il bandito per sei mesi nella sua casa ma che sostiene di avere scambiato con lui ogni giorno solo poche parole sui cibi che desiderava per i pasti. De Maria sottolinea fatalisticamente: «Sono stato vittima della mafia, alla quale non si può disubbidire pena la morte». Questa presenza oscura e incombente e allucinante della mafia è il leit motiv della leggenda di Giuliano, viva e incomprensibile dopo trent'anni. È la mafia che cuce le bocche a triplo filo, che sigilla i cuori in un segreto che perdura oltre la morte. Pino Maretta, l'uomo che forse convinse Giuliano ad andare a Castelvetrano, scuote la testa: «Avrei tante cose da dire, ma finiranno con me nella tomba». Lui e Ignazio Miceli e Domenico Albano e Nitto Minasela ebbero probabilmente un ruolo'1 nel mandare il re di Montelepre in contro al suo destino. Ma nessuno di essi può parlare. Patti di sangue conclusi trent'anni fa legano questi uomini a una indissolubile fedeltà. Si sa che l'allora colonnello Luca aveva arrestato Pino Maretta e lo rilasciò solo quando questi gli fece «la promessa di procurargli cose buone». Giuseppe Cucinella, scarcerato dopo 23 anni, dice: «Non parliamo del passato, sono solo un malato». Pietro Lo Bello, panettiere del forno di Castelvetrano vicino alla casa del De Maria, ringrazia ancora oggi dopo trent'anni il cielo, che suggerì a lui e ai suoi due garzoni di non farsi vedere quando sentì trambusto quella notte. «Se avessi; guardato dentro; quel cortile, forse mi avrebbero ucciso».Il capitano Perenze ha vissuto in questi ultimi anni a Portici, facendo il consulente di un centro di studi religiosi: recentemente si è spostato spesso tra Napoli e Bari. È fedele anche lui al giuramento del silenzio. Il generale Paolantonio ha parlato solo con l'Antimafia, ma si fa strada sempre di più la convinzione che nell'Operazione Giuliano egli sia stato il numero uno, ancora più importante di Luca: è un valoroso militare, che si è fatto le ossa in Africa, è molto astuto e avrebbe infinite cose da raccontare. Ma probabilmente anche lui porterà il suo segreto nella tomba. Il maresciallo Bicchicchi, dopo varie peripezie, è approdato a Bergamo e si limita a sorridere dall'alto di un viso arguto e intelligente. «Come fate a pensare», dice, «chele gesta di Giuliano fossero state montate dalla mafia contro le sinistre se tutti gli avvocati degli uomini della banda Giuliano erano famosi comunisti?». Accomuna i protagonisti della fine di Giuliano un solo tenacissimo giuramento firmato col sangue. Chi fa torto alla parola data, sia dalla parte della legge o sia da quella della macchia, sia Fra Diavolo o Javert, sia Robin Hood o il carabiniere, paga trasformandosi in «cadavere eccellente». E la prospettiva non piace a nessuno. Perché su tutti i superstiti e sopravvissuti di questo mistero d'Italia insoluto da trent'anni pesa la maledizione del faraone con la coppola, dell'incredibile Turiddu che, anche lui, si è portato i suoi segreti nella bara.

Fonte: Storia Illustrata, aprile 1979