Turiddu 30 Anni Dopo
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Il bandito Giuliano Salvatore Giuliano e la sua banda TURIDDU 30 ANNI DOPO Un prezioso articolo apparso su Storia illustrata alla vigilia del 1980, a quasi trent’anni dalla morte del bandito Salvatore Giuliano di Guido Gerosa «Di sicuro c'è solo che è morto». È il titolo più famoso nella storia del giornalismo italiano e apparve sull'Europeo nel luglio del 1950, in testa alla grande inchiesta di Tommaso Besozzi che, immediatamente dopo il fatto, contestava la versione ufficiale dei carabinieri sulla fine di Giuliano (il sommario, con un soprassalto di cautela, giustificava: «I meriti dei carabinieri sarebbero gli stessi anche se la versione ufficiale non fosse vera»). Ebbene, a quasi trent'anni di distanza da quel mistero d'Italia, su Giuliano di sicuro si sa ancora soltanto che è morto. È ora quindi di riaprire il dossier su tutta intera la vicenda, anche se ci accorgeremo, sconsolatamente, che i lati misteriosi e insoluti sono innumerevoli. Con quali appoggi autorevoli e complicità il ventenne picciotto di Montelepre assurse a simbolo del banditismo italiano e fece mobilitare un esercito di carabinieri incaricato di braccarlo? Quale sottile intreccio di rapporti mafia-po1itica-criminalità comune trovò il suo sbocco naturale nelle gesta della banda di Turiddu? La forsennata campagna di sangue che a un certo momento Giuliano scatenò contro i partiti della sinistra era dovuta a un suo feroce anticomunismo nativo o alle fredde strategie dei suoi mandanti? Perché, a partire da un' Ora X la mafia abbandonò al suo destino il «re di Montelepre» e anzi collaborò con i carabinieri dei colonnelli Luca e Paolantonio per distruggerlo? E vi era una ragione reale di montare quella grottesca messinscena che il fiuto infallibile di Besozzi smontò dalle prime battute? Sono interrogativi molto complessi, ai quali è difficile rispondere sommariamente. Ma l'esame di alcuni aspetti, anche minori, della vicenda Giuliano ci consentirà di mettere in luce delle connessioni che fanno meditare. Il cadavere di Salvatore Giuliano appena ricomposto Salvatore Giuliano era il quarto figlio di una famiglia che, secondo gli standard del Sud inizio secolo, può dirsi poco numerosa. Il padre emigrò a Brooklyn, vivendovi come carrettiere, nel 1904, ma dopo un ventennio giudicò maturo il momento per tornare a casa e s'imbarcò alla volta della Sicilia con la moglie Maria Lombardo, che da quattro mesi si portava in grembo Turiddu, e con gli altri tre figli. Così a Giuliano, che non la vide mai, rimase in tutta la sua breve vita una nostalgia lancinante dell'America smisurata. Il futuro «re» nacque a Montelepre il 16 novembre 1922, il giorno stesso in cui Mussolini pronunciava a Montecitorio il discorso dell'«aula sorda e grigia». Lo stesso Mussolini qualche anno dopo avrebbe condotto, nell'isola di Giuliano, la furibonda repressione del prefetto Mori, ma nel momento in cui egli diveniva capo del governo la Sicilia aveva un sinistro primato del crimine: vi avveniva un terzo degli omicidi compiuti in tutta Italia. Nel 1922 furono registrati 6.278 assassini in tutta la penisola, e la Sicilia contribuì al pedaggio di sangue con 1920 (nella sola Palermo se ne verificarono 1.557, e il distretto palermitano diede un totale di 2.365 fra rapine, sequestri, estorsioni, contro un totale italiano di 8.847). Giuliano è un esempio abbastanza calzante delle teorie secondo cui a monte della delinquenza c'è l'oppressione sociale. Abituato ai soprusi e agli sfruttamenti dei piccoli padroni, sui vent'anni, nella Sicilia della guerra, del fascismo in crisi, dell'invasione, cominciò ad arrangiarsi con i traffici, gli intrallazzi, la borsa nera. Il passaggio degli eserciti alleati rovesciò sulla Sicilia ogni sorta di capi mafiosi, oriundi che negli Stati Uniti avevano aiutato i comandi militari a procurarsi in anticipo le carte topografiche della Sicilia e ad assicurarsi gli appoggi che garantivano una celere conquista. Esiste una celebre foto in cui il braccio destro di Lucky Luciano, Vito Genovese, nell'uniforme dell'esercito degli Stati Uniti, tiene la mano paternamente sulle spalle del giovane Giuliano. Quasi ad indicare una riconosciuta primogenitura. L'avvenimento che doveva decidere la sorte di Turiddu si verifica il 2 settembre 1943, un giorno prima della firma dell'armistizio, tra gli ulivi di Cassibile. Su una cavalcatura macilenta, portando quattro forme di cacio e del grano per la borsa nera, Giuliano si trova a transitare da Quarto Molino, vicino a San Giuseppe Jato, e incrocia una pattuglia di carabinieri. I militi gli vedono il cacio e il grano, s’insospettiscono, gli ordinano di seguirli in caserma. II giovane dirà sempre che si sarebbe sentito «disonorato» se avesse dovuto varcare la soglia dell'alloggio dei carabinieri: prima che possano fermarlo, spicca un balzo e tenta la fuga. Un carabiniere gli scarica l'arma nella pancia. Giuliano sosterrà che, all'avvertire quella gran frustata calda nel ventre, ebbe la sensazione di star per morire: e volle trovare compagnia per l'ultimo viaggio. Così da pochi metri consumò un caricatore contro il carabiniere. Questi morì più tardi in ospedale: la «disgrazia», come la sorella Mariannina chiamerà quell’episodio, segnò per sempre il destino di Giuliano. Comincia la latitanza sui monti nel corso della quale il bandito amerà farsi ritrarre con il binocolo a tracolla e con un fascio di carte topografiche davanti, come un generale che prepari la battaglia. Era sensibilissimo ai connotati romantici che potessero impressionare l'immaginazione popolare. Al giornalista Jacopo Rizza, che lo intervistò per Oggi, mostrò la sfarzosa fibbia della sua cintura, un gingillo degno di Sandokan: vi figuravano una stella, un'aquila e un leone. «È il mio stemma», spiegò orgogliosamente il bandito. «La stella è la fortuna, l'aquila è l'intelligenza, il leone è la forza». Il trono di sangue di Giuliano si resse soprattutto sulla fitta cortina di omertà che lo proteggeva. «I contadini siciliani», diceva il suo luogotenente Gaspare Pisciotta, «non sanno mai nulla, non vedono mai nulla. Hanno lo sguardo conficcato nella terra che arano. Nessun poliziotto potrà mai strappare da loro alcuna indicazione». Ma nonostante quella devota protezione, la madre di Giuliano, quando lo vedeva rincasare furtivo e abbracciarla, lo supplicava: «Guardati pure dall'aria, figghiu, non ti fidare». Per questo il fuorilegge non dormiva mai due volte nello stesso posto e si circondò di uomini, che, fin quando non si ersero contro di lui nemici a tutta prova, gli furono fedelissimi. La leggenda vigoreggiata intorno alla figura di Giuliano fa dimenticare, a volte, ch'egli visse tutta la sua grande avventura da giovanissimo. La stagione della collera si svolse nei sette anni di fuoco dal 1943 al 1950: quando scaricò la pistola sul carabiniere, isolandosi così dal consorzio sociale, Turiddu aveva ventun anni; quando fu deposto cadavere nel cortile dell'avvocaticchio De Maria a Castelvetrano, ne aveva ventotto. Come potè assurgere in così breve tempo a tanta potenza? Anzitutto, la sua crescita va collocata storicamente in un periodo nel quale nell'isola si era prodotto il più totale vuoto di potere. Gli Americani non si preoccupavano affatto di restaurare la legalità: gli faceva comodo che chi poteva aiutarli e servirli non fosse molestato. C'è un episodio molto indicativo in proposito: un giorno del 1944 i banditi svaligiarono un albergo a Palermo. I carabinieri, subito avvisati, riuscirono a bloccarli e a recuperare la refurtiva; ma un momento dopo ecco profilarsi la spedizione punitiva della Military Police, gli americani che arrivarono, bastonarono i carabinieri e restituirono la refurtiva ai banditi. Si trattava di un clan mafioso che era legato solidamente all'autorità militare di occupazione e perciò godeva dell'immunità assoluta. Per uomini senza scrupoli, questa anarchia legalizzata era l'occasione d'oro per esercitare il dominio incontrastato. Giuliano si trovò ben presto a cavalcare la tigre del disordine politico che si era instaurato nella Sicilia del post-fascismo. Nel 1947 affiderà a un giornalista americano, un uomo dei servizi segreti, la famosa lettera per il presidente Truman: «II nostro sogno è di staccare la Sicilia dall'Italia e poi di annetterla agli Stati Uniti». Nella visuale incerta dell'immediato dopoguerra, la penisola sembrava destinata a essere assoggettata al comunismo; la Trinacria si sarebbe ribellata e, guidata da un pittoresco stato maggiore di aristocratici, di banditi in uniforme, di pezzi da novanta, che in cuor loro si sentivano i Garibaldi del ventesimo secolo, avrebbe reclamato l'onore di essere la quarantanovesima stella dell'Unione americana. Giuliano, che era ovviamente uno sprovveduto in politica, fu probabilmente allettato dalle promesse che gli fecero i capi separatisti nell'incontro di Ponte Sagana. I loro applausi, alla fine del discorso che rivolse loro, lo riscaldarono. Era troppo ingenuo per riuscire a rendersi conto della fitta trama di interessi, di ambizioni, di calcoli di potere, che aveva indotto, nel marzo 1945, un manipolo di personaggi diversissimi a coalizzarsi per innalzare la bandiera della Sicilia separata. Erano della partita il duca don Guglielmo Paternò di Carcaci, feudatario catanese; il barone Stefano La Motta; il barone Giuseppe Cammarata, proprietario terriero palermitano; il barone Giuseppe Tasca; Concetto Gallo; Rosario Cacopardo, avvocato di Messina. I finanziamenti non mancavano, date le immense ricchezze dei patrocinatori dell'impresa: ma occorreva la manodopera criminale, l'arruolamento di un'armata di mercenari disperati al servizio di quell’idea. I clan più immediatamente disponibili erano quelli delle bande Avila e Giuliano. A chi, nelle prime riunioni dei separatisti, obiettò che era immorale servirsi di quei delinquenti, il patriarca Lucio Tasca, padre del barone Giuseppe, rispose ironicamente: «Noi dobbiamo associarci i banditi perché questo fece anche Garibaldi». Giuliano diede appuntamento ai ras del separatismo sulle montagne fra Monreale e Partinico, a Ponte Sagana. Quando i palermitani arrivarono su un'auto Bianchi nell'anfiteatro scelto per il convegno, si guardarono intorno smarriti, credendo di essere caduti in trappola.