www.lacompagniadellibro.com Brano tratto da “L’ENCICLOPEDIA DEL CRIMINE” Fratelli Fabbri Editori SALVATORE GIULIANO

Nella tragica Sicilia del dopoguerra, agitata dalle manovre dei separatisti, con l'onnipresente mafia sullo sfondo, emerge la figura di un bandito che, con le sue imprese, diverrà uno dei protagonisti di quegli anni

In Italia, negli anni compresi tra il 1947 e il 1950, due uomini si dividevano gli onori della cronaca e della popolarità, e il loro nome oltrepassò addirittura le frontiere della penisola. Questi due uomini, dei quali si poteva leggere quasi ogni giorno il nome sui giornali e di cui si parlava appassionatamente, non erano né il Papa né il presidente della Repubblica, e nemmeno astri del cinema, della canzone, oppure della politica. Questi due uomini erano Fausto Coppi e Salvatore Giuliano. Accade di rado che i personaggi entrino a far parte della leggenda mentre sono ancora vivi. Salvatore Giuliano è tra i pochi ad avere avuto questo privilegio. È vero anche, però, che il personaggio si prestava al ruolo leggendario : bello, idealista, generoso e soprattutto ribelle era l'ultimo rappresentante in Europa, forse il più riuscito, di quella folta schiera di banditi contadini come Mandrin in Francia, Oleka Doubuch in Ukraina, oppure Crocco e Ninco Nanco in Italia, che hanno sempre fatto battere il cuore delle folle perché sfidano le autorità in nome della giustizia, terrorizzano i ricchi e li spogliano dei loro beni per distribuirli ai poveri. Al pari dei suoi predecessori, Salvatore Giuliano è venuto alla ribalta in un particolare momento storico, propizio proprio a questo genere di epopea. Gli orrori della guerra, le agitazioni, i disordini seguìti alla caduta del fascismo, la presenza del problema siciliano, la presenza cioè di una popolazione non solo affamata in seguito al blocco dal resto d'Italia, ma disorientata anche dal risveglio dei partiti dopo il lungo intorpidimento fascista, turbata e confusa dal miraggio americano, incidevano pesantemente sulla situazione generale. Se Salvatore Giuliano è riuscito a diventare in così poco tempo una figura mitica, fu probabilmente perché incarnava, meglio di chiunque altro, i sogni patetici della Sicilia che si ritrovava ancora una volta « contesa », « occupata » e « tradita ».

Concepito negli Stati Uniti, Giuliano nacque in Sicilia. I suoi genitori, Maria Lombardo e Salvatore Giuliano, erano emigrati all'inizio del secolo, nel 1904. Ma, dopo un soggiorno in America, durato diciotto anni, soggiorno che non li aveva affatto resi ricchi, decisero di tornare al paese, , non lontano da , dove possedevano una casetta e un pezzo di terra. Ciò avvenne durante la tutbolenta estate del 1922, qualche mese prima della marcia su Roma e del colpo di Stato di Mussolini. Era un bravo ragazzo

Salvatore nacque il 16 novembre. Era il quarto figlio dei Giuliano. Costoro avevano già un maschio, Giuseppe, e due bambine, Giuseppina e Mariannina. Al figlio venne imposto il nome del padre, ma, per distinguerlo, fu soprannominato Turiddu, diminutivo dialettale di Salvatore. I genitori di Giuliano formavano una coppia molto affiatata, coraggiosa, rotta alla fatica e interamente dedita ai figli. Da buoni siciliani, Maria e Salvatore ponevano al di sopra di tutto l'unità e la coesione familiare. A quell'epoca - ma non è che da allora le cose siano cambiate molto - la famiglia siciliana costituiva un'unità chiusa in se stessa, che obbediva a regole proprie e che era convinta di non dover rendere conto di nulla a nessuno. Nonostante il lungo soggiorno negli Stati Uniti, la famiglia Giuliano rispettò sempre questa regola ancestrale che nessun « occupante », in venticinque secoli, era riuscito a rompere. Maria non era una bella donna. Tarchiata, il corpo sfasciato dalle maternità e dagli anni di lavoro, aveva mani grandi e un volto rugoso. Ma il disegno delle labbra molto marcato, la fronte alta, e soprattutto gli splendidi occhi neri erano il segno evidente della sua forza di carattere, del suo orgoglio. Salvatore, il padre, era basso come la moglie, ma secco e nodoso come una pianta di vite. Piuttosto taciturno e tranquillo, accettava volentieri di tirarsi in disparte davanti al volere della moglie. Maria era veramente la testa, l'anima e il cuore di casa Giuliano. Turiddu non lasciò mai la Sicilia e trascorse quasi tutta la sua esistenza a Montelepre. Anche se, più tardi, fu costretto ad abbandonare il villaggio natio, non se ne allontanò mai di molto.

Quando raggiunse l'età per imparare a scrivere e leggere, Turiddu si recò a scuola ed ebbe come insegnante un certo Don Caiozzi. La classe nella quale insegnava Caiozzi non doveva essere poi tanto diversa da quella in cui, a Recalmuto, avrebbe insegnato, qualche anno più tardi, lo scrittore Leonardo Sciascia, che la descrisse, nel romanzo La parrocchia di Regalpetra, con queste parole : « Trenta ragazzi che si annoiano, spezzano le lamette da barba per lungo, le piantano nel legno del banco per mezzo centimetro e le pizzicano come le chitarre; si scambiano oscenità che ormai mi tocca far finta di non sentire - tua sorella, tua madre; bestemmiano sputano fanno conigli dai fogli del quaderno, conigli che muovono le lunghe orecchie, un tremito che finisce in una pallottola di carta al mio improvviso richiamo. E barche fanno, cappellucci; o colorano le vignette dei libri adoperando il rosso e il giallo selvaggiamente, fino a strappare la pagina. Si annoiano, poveretti. Altro che favole, grammatica, le città del mondo e quel che produce la Sicilia: alla refezione pensano, appena il bidello suonerà il campanello scapperanno fuori a prendere la ciotola di alluminio, fagioli brodosi con rari occhi di margarina, la scaglia del corned beef, il listello di marmellata che involtano nel foglio degli esercizi e poi vanno leccando per strada, marmellata e inchiostro ». Turiddu, così vuole la leggenda, si dimostrò un buon alunno, studioso e perfino disciplinato. Egli stesso l'ha detto e ripetuto: amava lo studio e ha sempre sofferto del fatto di non aver potuto dedicare maggior tempo alla sua istruzione. Sfortunatamente, quando compì i 13 anni, i genitori furono costretti a tenerlo in casa. Avevano bisogno delle sue braccia-- anche se erano le braccia di un bambino - per sostituire quelle del fratello Giuseppe, chiamato a fare il servizio militare. Turiddu rimpianse la scuola, ma si mise coraggiosamente al lavoro. In seguito, si sforzò, quando gliene rimaneva il tempo, di colmare le proprie lacune. Leggeva molto e un po' di tutto, qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani, purché fosse un libro. Naturalmente, non è che a Montelepre la scelta fosse abbondante. Eppure più tardi, nel corso di un'intervista, Salvatore Giuliano suscitò lo stupore generale affermando che il suo autore americano preferito era . L'infanzia di Turiddu non fu infelice. Al contrario, tutto ci lascia supporre che egli, sia da piccolo sia da adolescente, abbia conosciuto un affetto amorevole da parte dei suoi genitori. Un affetto come lo conoscono la maggior parte dei ragazzi siciliani, se non addirittura maggiore ancora. Salvatore Giuliano era bello e i siciliani sono molto sensibili alla bellezza. Non gli mancò mai l'affetto della madre e delle sorelle che lo adoravano. Era l'affetto della madre ad avere la prevalenza. Un affetto subito ricambiato dal piccolo Turiddu, ricambiato con fervore e con costanza. Un amore viscerale che non cessò mai. Possiamo anche aggiungere che Maria era l'unico essere, l'unica donna che Giuliano abbia amato appassionatamente. Infatti quando ormai era il fuorilegge più celebre del momento, ogni volta che la polizia voleva colpirlo duramente, metteva in galera sua madre. A 15 anni, Turiddu era già un bellissimo ragazzo. Più alto di suo padre, snello, ben proporzionato, possedeva lo sguardo penetrante della madre, la sua bocca sensuale e i suoi folti capelli neri, la fronte e il collo che ricordavano quelli di una statua greca. Passava per un bravo ragazzo, molto sincero, molto religioso. Inoltre era anche un sentimentale. A 18 anni si innamorò di una ragazzina di 14 anni, Mariuccia. Una ragazzina bionda, quanto lui era scuro, e con gli occhi azzurri. Mariuccia possedeva anche una altra attrattiva : suo padre viveva negli Stati Uniti, e tutto quanto aveva un riferimento anche pur minimo con l'America, faceva sognare ad occhi aperti Turiddu, il quale se n'era fatta un'idea attraverso le narrazioni quasi fantastiche di cui lo avevano imbottito i genitori, il fratello e le sorelle, fin da quando era piccolissimo. Questo idillio, durò alcuni anni, finché Giuliano divenne un fuorilegge. Allora Mariuccia partì per l'America, e tutto finì.

Primo contatto con la vita

Turiddu intanto continuava ad aiutare il padre nella coltivazione del loro minuscolo pezzo di terra. Era un lavoro faticoso e poco remunerativo. Ma per tutti i contadini di Montelepre era la stessa cosa. La terra era ingrata e, nonostante secoli di duro lavoro, nulla cambiava mai. E nessuno mai che si ribellasse. Sembrava che a Montelepre nessuno si rendesse conto della propria miseria. D'altronde, da chi si sarebbe potuto sperare aiuto? Chi conosceva l'esistenza di quel paesetto sperduto? Nessuno. Almeno per il momento. Ma se il mondo ignorava Montelepre, bisogna anche riconoscere che Montelepre faceva altrettanto nei confronti del mondo. La Germania hitleriana poteva invadere la Cecoslovacchia, per poi occupare la Polonia, e a Montelepre nessuno se ne dava pensiero. Come del resto accadeva in tutta la Sicilia, a Montelepre sembrava che la gente fosse stata addormentata da vent'anni di fascismo. Infatti, almeno stando alle apparenze, erano secoli che la Sicilia non mostrava un volto così calmo. Il prefetto Mori, inviato a Palermo da Mussolini per combattere la criminalità e per distruggere la mafia, sembrava che fosse riuscito a portare a buon fine il suo difficile incarico. Vero anche, tuttavia, che la repressione era stata durissima : le prigioni erano piene. A chi soggiornava in Sicilia per qualche tempo, come fece notare lo scrittore inglese Gavin Maxwell, « quella calma non significava affatto che il Paese avesse accettato l'ideale fascista, o la sua integrazione con il resto d'Italia, ma significava semplicemente che la popolazione riteneva meglio aspettare la propria ora, come tante volte aveva già fatto nel corso dei secoli ». In realtà - e ben presto se ne avrà la prova - i capimafia più importanti erano riusciti a sfuggire al colonnello Mori, oppure ad accordarsi con lui, e, nell'attesa di giorni migliori avevano cura di non farsi troppo notare. Mussolini aveva idee grandiose sulla Sicilia, di cui voleva fare il centro e il cardine dell'impero che contava di conquistare sulle rive del Mediterraneo. A questo scopo, diede fra l'altro ordine di modernizzare la rete telefonica dell'Isola. La linea telefonica, che partiva da Palermo per collegare Trapani, doveva passare per Montelepre. Turiddu non incontrò difficoltà nel farsi assumere dall'impresa incaricata del lavoro. Si mostrò ben presto così in gamba, che dopo pochi mesi gli fu affidata la direzione di un piccolo gruppo di operai. Ma l'ascesa troppo rapida di questo giovanotto di appena 17 anni, che possedeva già un comportamento e un tono da capo, non piacque ai suoi compagni. Scoppiarono alcune liti, che si fecero sempre più frequenti, e Turiddu venne licenziato. Dopo aver cambiato lavoro tre volte, fece ritorno a casa sua. Era furibondo. Per la prima volta in vita sua, aveva conosciuto l'ingiustizia. Per la verità, la dolcezza rassegnata del padre e l'adorazione della madre e delle sorelle non erano state una buona preparazione per affrontare il duro mondo che lo circondava.

Salvatore non ebbe il tempo di ritornare al lavoro dei campi. L'esercito aveva bisogno anche di lui. L'Italia era sempre in guerra, ma Salvatore non partecipò al conflitto. Aveva appena terminato il corso di addestramento, quando gli alleati sbarcarono in Sicilia.

La mafia risorge dal caos

Era l'alba del 10 luglio 1943. Seguendo le istruzioni del piano Husky, l'VIII Armata al comando del generale Montgomery sbarcò sulla costa sud-est dell'isola, mentre le truppe del generale Patton sbarcavano più a ovest, tra Gela e Licata. Gli inglesi avevano il compito di occupare Catania, poi di congiungersi con gli americani a Messina, dopo che questi avessero conquistato Palermo. Se gli inglesi furono seriamente impegnati dai mezzi corazzati tedeschi, gli americani non incontrarono alcuna resistenza. Anzi, quasi dappertutto trovarono aiuto. Con loro grande sorpresa, i conquistatori ricevettero l'accoglienza che solitamente viene riservata ai liberatori. Questo capovolgimento spettacolare era proprio inatteso? La mafia se ne attribuì subito tutto il merito, provvedendo a far circolare sul proprio conto le voci più lusinghiere. Fu la mafia, per esempio, la prima a suggerire che il celebre gangster newyorkese Lucky Luciano, nato a Lercara Friddi, in provincia di Palermo, e amico dei capimafia locali, aveva dato un aiuto prezioso ai servizi segreti americani. E la notizia venne confermata in seguito dal rapporto Kefauver. In che cosa poteva essere consistito questo aiuto? Semplicemente nell'usufruire dei servigi dei mafiosi per impadronirsi dell'isola con la massima rapidità e facilità. Se Mussolini si era illuso che Mori fosse riuscito ad annientare la mafia, il suo stupore dovette essere grandissimo quando venne a sapere della resurrezione prodigiosa dei grandi capimafia, tra i quali Don e Genco Russo, entrambi nominati dagli alleati sindaci dei loro rispettivi paesi, Villalba e Mussomeli.

In Sicilia nonostante la vittoria di Patton e di Montgomery (la battaglia di Sicilia si era conclusa dopo soli 39 giorni) e nonostante l'euforia quasi generale della popolazione, la situazione non era migliore di quella esistente sul continente. Era il momento dei sanguinosi regolamenti di conti, dell'anarchia e dell'illegalità.

Per tentare di rimediare al disordine del momento gli alleati si affrettarono a mettere in piedi 1'A.M.G.O.T. (Governo militare alleato per i territori occupati), sotto la guida di lord Rennell. Ma ciò significava ignorare completamente l'atteggiamento ancestrale dei siciliani non appena si trovavano davanti un invasore, un occupante. Fin dal tempo delle dominazioni greche e spagnole si rifiutavano a tutti i costi di collaborare. O meglio, accettavano anche di collaborare, ma in cambio di una contropartita. Il do ut des subdolo del più debole davanti al più forte. Indubbiamente i siciliani preferivano di gran lunga gli americani ai fascisti (non bisogna dimenticare che quasi tutti i siciliani avevano qualche parente negli Stati Uniti), ma non li preferivano fino al punto di obbedire loro ciecamente. Soprattutto, c'era il problema dei cibo quotidiano.

Non c'erano più riserve di viveri alimentari. I ponti erano stati distrutti, le strade erano inutilizzabili, i porti continuamente sorvegliati, e per di più, l'A.M.G.O.T. aveva promulgato una legge con la quale venivano vietati i trasporti di alcune derrate da una provincia all'altra. La prima conseguenza di questa legge fu di rafforzare il mercato nero per altro già in atto, ma che allora divenne quasi obbligatorio per non morire di fame. Le razioni ufficiali, quando venivano distribuite, erano appena sufficienti per sopravvivere : 250 grammi di pane e 150 grammi di pasta al giorno. D'altra parte. i contadini si rifiutavano di cedere il loro grano al prezzo ufficiale, quando potevano venderlo a dieci volte tanto, e ricorrevano a tutti i mezzi per sfuggire alla sorveglianza e alla repressione di polizia e i rappresentanti dello Stato, gli eterni nemici. Bisogna capire bene questo atteggiamento dei siciliani nei confronti dei carabinieri, per comprendere la ragione per cui Giuliano ne uccise uno senza esitazione. A quell'epoca, sparare a un carabiniere non era considerato dai siciliani un omicidio nel vero senso della parola. Era, tutt'al più, un gesto di difesa, un gesto che poteva trovare facilmente una giustificazione. Dunque, nel corso di quella calda estate del 1943, la principale attività dei siciliani era il mercato nero a vari livelli, andava cioè dal pugno di farina venduto per poche lire alla compra-vendita per decine di milioni. In cima alla piramide stava la mafia, alla base, i contadini e i cittadini più poveri. Ma, in ogni modo, la mafia rimaneva l'intermediaria privilegiata. Essa sola possedeva i fondi necessari e i mezzi di intimidazione per procurarsi le merci, che ridistribuiva con enormi profitti. Erano dunque sempre i poveri che pagavano di più. La famiglia Giuliano, come tutti a Montelepre, faceva parte di quest'ultimi.

Nascita di un fuorilegge

Congedato dal servizio militare, Turiddu era subito tornato a casa. Che cosa si poteva fare, se non, come facevano tutti, sbarcare il lunario adeguandosi alle circostanze? Con l'approvazione di Salvatore e di Maria, Turiddu e suo fratello Giuseppe organizzarono il traffico di cereali nella zona di Montelepre. Si trattava di un piccolo traffico, i cui utili non erano affatto proporzionati al rischio e alla fatica. Per trasportare due o tre sacchi di una cinquantina di chili, bisognava percorrere parecchi chilometri in piena montagna. Ma Turiddu e Giuseppe erano rotti alla fatica quanto i loro genitori, e quello era un lavoro come un altro. Di solito, lo facevano insieme, ma quel giorno, il 2 settembre 1943, Turiddu si trovava da solo.

Tirandosi dietro il suo mulo che aveva in groppa due sacchi di grano, stava tornando dal villaggio di S. Giuseppe Jato ed era a poco più di quindici chilometri da Montelepre, quando venne fermato da due carabinieri e due guardie campestri, nel luogo chiamato Quarto Mulino. Dovette mostrare la carta d'identità. I carabinieri gli contestarono il reato, perché era vietato trasportare - senza un permesso - cereali da una zona all'altra. Da dove proveniva quel grano? Chi gliel'aveva procurato? A chi andava? Turiddu si rifiutò categoricamente di parlare. La discussione si faceva sempre più aspra, quando apparve un altro contrabbandiere, che si trascinava appresso un mulo carico di sacchi sospetti come quelli di Turiddu. Le due guardie campestri e un carabiniere lo chiamarono a gran voce e gli andarono incontro. Rimasto solo con l'altro carabiniere, Salvatore Giuliano pensò che quello era il momento migliore per agire. Aveva addosso una pistola, ma non avrebbe avuto il tempo di tirarla fuori. Allora si buttò sul carabiniere prendendolo alla sprovvista;_ gli mollò una ginocchiata all'inguine e, cotemporaneamente, gli fece volare di mano il fucile mitragliatore. Poi si mise a correre come un pazzo verso una folta macchia di cespugli, nella quale si tuffò a testa bassa. Risuonarono alcune detonazioni. Turiddu avvertì un forte colpo al fianco che lo rovesciò per terra. Dolore atroce, una folle paura. Sconvolto, estrasse la pistola e sparò su un carabiniere che correva verso di lui. L'uomo fece ancora due passi, come ubriaco, poi si abbatté sulle pietre. Sorpresi per quella reazione, incerti sul da farsi, i tre inseguitori cessarono il fuoco. Turiddu ne approfittò per scappare il più velocemente possibile, benché la ferita lo straziasse. Infine, dopo aver trovato un anfratto tra due rocce, vi scivolò in mezzo per riprendere un po' le forze e aspettare la sera. Quando sopraggiunse il buio, si trascinò fino alla fattoria più vicina, da dove fu trasportato a dorso di mulo fino a Borgetto e lì affidato alle cure di un medico. Turiddu aveva perso molto sangue ed era debolissimo ma la ferita non era grave. La pallottola gli aveva attraversato il fianco destro, ma senza colpire il fegato. In capo a qualche giorno, Turiddu era in piedi e voleva tornarsene a casa. Ma non era possibile. Il carabiniere al quale aveva sparato, era morto. La polizia, che aveva in mano la carta d'identità di Turiddu, lo ricercava per omicidio. Che cosa fare? Costituirsi? Nemmeno parlarne. A Turiddu non rimaneva altra scelta che raggiungere una delle numerose bande di fuorilegge che si nascondevano fra le montagne.

Ribelle senza causa La vita di Turiddu Giuliano potrebbe finire qui. Per questo sarebbe stato sufficiente ben poco : perdersi tra la folla dei suoi simili, in mezzo ai tanti giovani che avevano rotto con la società, che vivevano allora tra le montagne brulle ma sicure della Sicilia. Avrebbe potuto ottenere un posto nella mafia, diventare uno dei tanti assassini prezzolati che per il loro operato ricevevano quattro soldi e una protezione incerta. Invece, è proprio a questo punto che la sua vera vita ha inizio, che il suo destino si svela, che il rozzo contadino di Montelepre comincia la metamorfosi. Da questo momento, la leggenda si confonde con la realtà, ed è difficile stabilire quali siano i fatti autentici, e quali invece siano dovuti alla fantasia. Nonostante un gran numero di documenti (sia pur spesso contraddittori), sarebbe una illusione credere di conoscere tutto, di sapere ogni cosa su Giuliano. Tra il 2 settembre 1943, giorno in cui Turiddu uccise il carabiniere Mancino, e il 15 luglio 1950, data ufficiale della sua morte, sono numerosissime le incertezze, le zone d'ombra impenetrabili, tanto che qualsiasi ricostruzione, per quanto scrupolosa e rispettosa della verità, deve solo toccare o lasciare inspiegati numerosi avvenimenti. Per nascondersi, Turiddu non dovette allontanarsi di molto. Si rifugiò nelle grotte di Calcelrama, sopra Montelepre, un luogo la cui sicurezza era sperimentata da tempo da numerosi rifugiati. Non rischiava certo di morire di fame: tutte le notti, il padre, il fratello, o uno dei suoi tanti cugini gli portavano da mangiare. Quanto ai carabinieri, anche se conoscevano il suo nascondiglio, non avevano alcuna intenzione di andarlo a stanare. Sapevano, per esperienza, che non sarebbero mai riusciti a stanarlo, a meno che non avessero accerchiato ed esplorato capillarmente il dedalo di grotte, operazione questa, per cui ci sarebbero voluti mezzi e forze superiori a quanto potevano disporre.

Turiddu dunque, finché fosse rimasto in quel luogo, era al sicuro. Ma egli non aveva alcuna intenzione di marcire là dentro. Gli mancavano due cose essenziali : la madre e uno scopo nella vita. Turiddu non solo aveva bisogno di agire, ma aveva anche bisogno di sapere perché agiva. L'inattività e l'assenza della madre gli pesavano terribilmente. La sera di Natale, non ce la fece più: discese dalla montagna e raggiunse la sua casa. Non ebbe molto tempo per gioire di quel momento tanto desiderato. Il giorno dopo, all'alba, i carabinieri, probabilmente informati da una « soffiata », oppure per un'intuizione, fecero irruzione a casa dei Giuliano. Turiddu ebbe appena il tempo di scappare passando dal retro. Furiosi per lo smacco subìto, i carabinieri trassero in arresto Salvatore il padre, e alcuni vicini, tra i quali lo zio Francesco Lombardo, fratello di Maria. Il fuggitivo non era andato molto lontano e, dal suo nascondiglio, aveva visto tutto. Corse allora all'uscita del paesetto, scelse un luogo propizio a un'imboscata e attese il passaggio delle camionette con gli arrestati. Era solo, non disponeva che di un fucile contro sette carabinieri, ma tutto ciò non aveva alcuna importanza : era in gioco l'onore della famiglia! Quando le camionette giunsero in quel luogo, Turiddu sparò contro il primo autista, poi contro il secondo. Un morto e un ferito. Gli altri carabinieri si buttarono a terra, aprirono il fuoco con i mitra. Ma Turiddu correva già lontano, invisibile fra i massi e i cespugli. Salvatore padre venne rinchiuso nel carcere di Palermo, mentre Francesco fu internato in quello di . Turiddu tornò a vivere sulla montagna. E là gli venne recapitato, per le solite misteriose vie, un biglietto dello zio. Francesco gli domandava di fargli pervenire una lima. Turiddu decise di portargliela lui stesso. Travestitosi da giardiniere, riuscì a entrare nel piccolo carcere e a consegnare personalmente la lima a Francesco. Poi uscì, senza inconvenienti, e andò ad appostarsi appena fuori del paese, dove attese la notte. Francesco non giunse solo all'appuntamento. Era in compagnia di una dozzina d'altri detenuti, armati fino ai denti. Prima di lasciare la prigione, avevano avuto cura di impadronirsi di tutte le armi delle guardie carcerarie. Francesco e i suoi amici formarono il primo nucleo di quella che presto sarebbe stata chiamata la banda Giuliano. L'evasione di Monreale fece scalpore, e il nome di chi l'aveva organizzata cominciò a circolare di bocca in bocca. Dopo quattro mesi da quando si era dato alla macchia, Salvatore Giuliano non era più uno sconosciuto.

II separatismo

Durante quei quattro mesi, erano accaduti fatti d'ogni genere, sia in Sicilia sia nel resto d'Italia. Arrestato il 24 luglio, Mussolini era stato liberato il 10 settembre dai tedeschi. Intanto, il 3 settembre, il maresciallo Badoglio aveva firmato un'armistizio con gli alleati. Il 13 ottobre, Badoglio aveva dichiarato ufficialmente guerra alla Germania. L'Italia era dunque tagliata in due. In Sicilia, la situazione era alquanto confusa. Inglesi e americani non sapevano dove sbattere la testa, né qual era la strategia migliore per salvaguardare i loro interessi presenti e futuri. Quando i fascisti avevano abbandonato il campo, era sorto un groviglio di partiti politici tra i quali ci si raccapezzava a stento. Il più importante di questi partiti si prefiggeva un preciso obiettivo: il separatismo. La maggior parte dei siciliani era favorevole all'autonomia. Il movimento separatista era nato da un vecchio sogno d'indipendenza, ancora all'epoca di Garibaldi, ottant'anni prima, sogno che né l'unità d'Italia, né il fascismo erano riusciti a infrangere completamente. Nel 1944, la precaria situazione dell'Italia era un ulteriore motivo per i siciliani a volere la separazione, presentandosi ora le condizioni per attuarla. Alcuni separatisti vedevano ancor più lontano: accarezzavano l'idea di diventare americani, di fare della Sicilia il 49° Stato degli USA.

Gli americani erano al corrente di queste aspirazioni e, prima dello sbarco, avevano fatto di tutto per favorirle e incoraggiarle. Ma dopo lo sbarco la situazione era molto diversa. L'Italia ufficiale, quella del re e del Papa, era un loro alleato. Essi non potevano sostenere apertamente i separatisti. Nello stesso tempo, era impossibile agli americani abbandonare da un giorno all'altro i loro protetti. Fecero in modo, perciò, nell'attesa che la situazione si chiarificasse da sola, di mantenere lo statu quo. Vennero fondati, in gran parte sotto la protezione degli alleati, un corpo di guerriglia chiamato EVIS (esercito volontario per l'indipendenza della Sicilia) e il MIS' (movimento indipendentista siciliano) fondato dal deputato Andrea Finocchiaro Aprile e dal figlio di un ex sindaco di Catania, il deputato Concetto Gallo. En-trambi erano valenti oratori e capipopolo. Tra le loro fila militavano parecchi aristocratici. I più in vista erano il duca di Carcaci e il barone Stefano La Motta. Il MIS era strutturato come un partito : aveva il suo simbolo, le tre gambe (emblema della Trinacria), distribuiva volantini, organizzava riunioni, pubblicava un giornale, L'Indipendenza siciliana, il cui scopo principale era di sparare a zero contro i suoi più acerrimi nemici : la monarchia, il comunismo e il clericalismo. Agli inizi del 1944, il MIS tese ufficialmente la mano alla mafia. In una riunione elettorale a Bagheria, Finocchiaro Aprile disse « Se la mafia non esistesse, bisognerebbe inventarla. Io sono amico della mafia, benché mi proclami ufficialmente un oppositore del crimine e della violenza! » La mafia, insomma, aderì al separatismo, ma, come scrisse , « nel suo solito modo, contraddistinto da promesse mormorate, piuttosto che pronunciate ad alta voce, da gran pacche sulle spalle, da gesti di consenso, ma senza un impegno esplicito ». Tuttavia, il tempo passava e non giocava a favore dei separatisti. Il 27 aprile 1945, Mussolini veniva arrestato dalla Resistenza italiana e giustiziato il giorno dopo. In luglio, il governo di Badoglio dichiarò guerra al Giappone. L'Italia non era più tagliata in due, ormai faceva la sua parte come alleata « intera ». In questo caso, era sempre più difficile, per gli americani, continuare a sostenere, anche segretamente, il movimento separatista. Così, intuendo che sarebbe stato ben presto abbandonato, il MIS pensò che la sua ultima possibilità stava nell'azione diretta, nella quale si lanciò il più rapidamente possibile. Messi con le spalle al muro, si pensava, gli americani sarebbero forse ritornati sulla loro decisione. Ma che tattica bisognava adottare? C'era bisogno di uomini pronti a combattere, bisognava ricorrere all'EVIS, l'armata dei volontari, cercando di rafforzarla il più possibile. Dove si potevano reclutare truppe fresche? t logico supporre che Finocchiaro Aprile e Gallo girarono la domanda agli specialisti, e cioè ai capimafia. Si pensò a Salvatore Giuliano. Le sue idee politiche erano molto note, così come la sua audacia e il suo senso dell'onore erano una garanzia.

Nascita di un capo

Durante il 1945, Turiddu non aveva buttato via il suo tempo. Dotato di un vero senso del comando, si era messo ben presto alla testa degli uomini che lo circondavano. Per il momento, però, la banda svolgeva un'attività molto limitata ed evitava il più possibile gli scontri a fuoco con i carabinieri. A volte, spinta dalla necessità, la banda Giuliano raggiungeva la pianura per taglieggiare qualche ricco proprietario terriero, al quale estorceva denaro e prodotti agricoli; già allora aveva preso l'abitudine di distribuire una parte del bottino ai contadini e ai pastori più poveri di Montelepre, il cui aiuto si faceva di giorno in giorno sempre più prezioso. Va da sé che questi attacchi contro le grandi proprietà, di cui la mafia era spesso protettrice ufficiale, si concludevano con qualche piccolo scontro con essa. Giuliano non temeva questi scontri.

In altri tempi la mafia avrebbe reagito molto più severamente, ma essa non si era ancora organizzata bene nelle campagne, per cui preferiva aspettare.

Giuliano era dunque conosciuto dalla mafia e probabilmente da don Calogero Vizzini, il quale, benché il giovane bandito si fosse misurato con i suoi picciotti, ben presto aveva capito che Salvatore poteva venirgli utile. Si dice che fu proprio don Calogero a parlare per la prima volta di Salvatore ai leaders separatisti. In ogni caso, don Calogero non fu mai presente agli incontri dei separatisti con il giovane ribelle. Il primo incontro ebbe luogo sul colle Rigano, non lontano dalla caserma dei carabinieri di Bellolampo, nella fattoria dei fratelli Genovese (che ben presto entreranno a far parte della banda Giuliano). Finocchiaro Aprile e Gallo erano presenti. Si erano scomodati perché volevano valutare di persona quel giovanotto di cui avevano sentito parlare tanto bene. Non vennero delusi. L'autorità di Turiddu, il suo carattere deciso, il suo odio feroce nei confronti dei carabinieri, il suo ardente patriottismo e la sua rapidità di decisione impressionarono favorevolmente i due leaders separatisti. Senza esporre a Salvatore il piano completo, Finocchiaro Aprile e Gallo gli proposero di unirsi alle file dell'EVIS, con il titolo di colonnello. Queste parole non convinsero Giuliano. Egli domandò assicurazioni più serie.

- Se non riusciremo a vincere - disse Gallo, con tono di profonda serietà - sarete eletto capo della polizia e, in seguito, forse, ministro della Giustizia... In questo modo, Gallo aveva gettato parecchio fumo negli occhi di quel contadino. Salvatore Giuliano reagì con molta abilità e disse che doveva consultarsi con i suoi amici, prima di poter dare una risposta. Il secondo abboccamento ebbe luogo a Pontesagana, a metà strada tra Montelepre e S. Giuseppe Jato. Questa volta, Finocchiaro Aprile e Gallo si erano fatti accompagnare da altre personalità separatiste, il duca Carcaci, il barone La Motta e Giuseppe Tasca, figlio di don Lucio. Dopoaver fatto le presentazioni, Gallo invitò Giuliano a dare la risposta. Dal giorno del loro primo incontro, Giuliano aveva avuto il tempo di informarsi sulle attività dei MIS e sugli effettivi dell'EVIS. Probabilmente, aveva anche avuto contatti con i responsabili della mafia, a Monreale oppure a Palermo. In ogni caso, Giuliano sapeva perfettamente che cosa voleva; ed espose le proprie condizioni.

Le più importanti, almeno per lui, erano queste : essere amnistiato il piy in fretta possibile, ottenere carta bianca nella scelta dei suoi uomini, avere denaro, per procurarsi armi, munizioni e uniformi per potersi preparare convenientemente. Lieti di cavarsela così a buon mercato, gli interlocutori di Giuliano si affrettarono a rassicurarlo che, per quanto riguardava l'amnistia, non c'era alcun problema, e gli lasciarono anche piena autonomia per il reclutamento degli uomini. Circa il problema dei finanziamenti, Giuliano chiese dieci milioni. Non poco. Dopo una lunga discussione, venne pattuito di istituire un fondo di un milione di lire, con l'intesa che alle uniformi non doveva pensare Giuliano. In verità, solo la mafia, che non aveva inviato alcun rappresentante a quelle riunioni, ma che però le aveva organizzate, preparate e dirette stando dietro le quinte, ne conosceva esattamente la posta. La mafia non ignorava certo il valore che avevano le promesse fatte a Giuliano, né lo sporco compito che gli era riservato. Essa sapeva inoltre che il bandito non sarebbe mai stato amnistiato e che, per quanto riguardava le armi e i soldi, se la sarebbe dovuta cavare da solo andando a cercarli là dove si trovavano : dai carabinieri e dai ricchi. Giuliano non era un cinico. Pensava che tra lui e coloro che gli avevano dimostrato tanta fiducia - come tra gli appartenenti al MIS e gli accoliti della mafia - ci fosse un impegno di collaborare lealmente. Era convinto, soprattutto, di servire una nobile causa, quella della Sicilia alleata con la America. E non bisogna dimenticare che Salvatore Giuliano considerava l'America come la sua seconda patria. Nell'attesa, Giuliano si era impegnato a mettere insieme una piccola armata, la migliore e la più efficace possibile. Mantenne la parola data. Se l'EVIS avesse avuto tra le sue fila parecchi « colonnelli » dello stesso valore di Giuliano, forse sarebbe riuscita nei suoi intenti. Salvatore cominciò con il completare la sua piccola banda. Il reclutamento non si dimostrò difficile. La notizia della sua promozione si era velocemente diffusa, e i giovani affluivano con entusiasmo. Egli non li accolse tutti. Più che al numero, Salvatore guardava alla qualità. Voleva soprattutto uomini sui quali potesse contare ciecamente. Preferiva quelli di cui conosceva già la famiglia. Per quanto riguardava i suoi parenti, cugini e zii costituivano il nocciolo del suo « stato maggiore ». Salvatore credeva moltissimo nel legame di sangue. Tra parenti, il tradimento rappresentava un delitto talmente grave, che si poteva escludere a priori. O almeno, così Giuliano aveva imparato dai suoi, ed egli vi credette per tutta la vita.

Il suo stato maggiore era composto da una quindicina di uomini; tra gli altri, c'erano Cucchiara e Terranova, due noti capibanda, Candela e Badelamenti, i fratelli Genovese e i fratelli Cucinella, Pasquale Sciortino, suo futuro cognato. Tutti costoro avevano più o meno un passato da fuorilegge, e Salvatore poteva contare sulla loro esperienza, se non proprio sulla loro disciplina. C'erano poi alcuni individui isolati, che vivevano al margine : Vittorio Vitale, l'armaiolo, Di Lorenzo, un musicista che impartiva a Salvatore qualche lezione di chitarra, infine un certo Passatempo. Quest'ultimo aveva la reputazione di essere l'intellettuale del gruppo, o almeno il più istruito. Erano tutti uomini rudi, a volte difficili da guidare, ma sui quali Giuliano poteva contare. Tuttavia, non fu tra essi che scelse il suo braccio destro e confidente. Per questo ruolo delicato, Giuliano aveva bisogno di una persona nella quale riporre cieca fiducia. Per questo compito, scelse il cugino , figlio di una sorella di sua madre. I due cugini erano cresciuti praticamente insieme. Salvatore voleva molto bene a Gaspare, bene come a un fratello, anzi, più che a un fratello. Un giorno si erano fatti un taglio sul polso, avevano mescolato il loro sangue e si erano giurati fedeltà eterna. Entrambi erano dei bei ragazzi, ma non si assomigliavano affatto. Gaspare era più nervoso, più magro, più agile, ma anche più superficiale. Era più bravo nel dissimulare, nell'adattarsi alle situazioni delicate, ma non era tutto d'un pezzo come Giuliano. Un testimone lo descrisse così : « Un bel ragazzo, curato fisicamente : aveva capelli folti e ricci, eccezionalmente lunghi, ciglia lunghissime e baffetti molto curati. Il taglio delle labbra era sensuale, ma anche un po' crudele ». Questo ritratto rivela qualcosa di femminile e di narcisistico nel carattere di Gaspare Pisciotta. Il suo attaccamento a Salvatore era dettato da affetto, da ammirazione e da sottomissione. Gaspare sopporterà dal cugino ciò che mai avrebbe sopportato da qualsiasi altra persona : l'umiliazione. Un giorno, venuto a sapere che Gaspare aveva violentato una ragazza, Salvatore gli ordinò di spogliarsi nudo, lo legò al tronco di un albero e lo frustò a sangue. Ma se Salvatore conosceva alla perfezione i punti deboli del fratello d'arme, non dubitò mai della sua fedeltà cieca. Tutti, pensava Salvatore, un giorno o l'altro avrebbero potuto anche tradirlo, tranne Maria e Gaspare. Si sbagliava solo a metà. Alla fine dell'agosto 1945, Giuliano ricevette un messaggio del MIS, nel quale gli veniva comunicato che il gran giorno si avvicinava e che perciò doveva tenersi pronto. Salvatore rispose che non lo era, che sarebbe stato pronto solo di lì a tre o quattro mesi, e che sarebbe stata una pazzia tentare qualche azione prima di allora. Ma il MIS, incalzato dai suoi membri più politicizzati, non tenne conto dell'avvertimento di Giuliano. Gli effettivi dell'EVIS erano a quel tempo circa 5 000, secondo quanto si diceva, ma probabilmente la cifra era esagerata. Questa « armata » era divisa in due battaglioni : uno comandato da Concetto Gallo (successore di Canepa, ucciso tre mesi prima), il cui quartier generale era situato a San Mauro Caltagirone, nella provincia di Catania. Il secondo battaglione obbediva agli ordini di Giuliano ed era di stanza sulle montagne intorno a Montelepre.

Senza che, apparentemente, l'azione fosse stata concordata con Giuliano, Gallo, negli ultimi giorni di settembre 1945, diede il via alla sollevazione armata. Fu una sconfitta totale. Al primo scontro con i carabinieri e la polizia, gli uomini di Gallo scapparono sulle montagne, abbandonando il loro. capo. Il governo italiano aspettava solo questa occasione per agire e farla finita, una volta per tutte, con il MIS. Il 3 ottobre, Finocchiaro Aprile fu arrestato a Messina e confinato nell'isola di Ponza dove, qualche settimana dopo, venne raggiunto da Gallo. Ormai dichiarato fuorilegge, al pari di ogni propaganda separatista, il MIS era stato privato dei suoi principali capi politici. Giuliano era rimasto solo. Ma le sue truppe erano efficienti e ben armate; inoltre, prima di uscire di scena, Gallo aveva trasmesso a Giuliano i suoi poteri e lo aveva segnalato all'attenzione di tutti, dichiarandolo « eroe dell'indipendenza siciliana ». Nascita di un eroe

La situazione era per lo meno strana. Il MIS si era sciolto, l'EVIS si era coperto di ridicolo, nessuno credeva più nella vittoria dei separatisti, e un oscuro bandito, che ancora non aveva mosso un dito, veniva proclamato « eroe ». Probabilmente, Giuliano stesso rimase sorpreso nel ricevere quel titolo che ancora non aveva meritato. Che fare? Rifiutarlo, come una decorazione senza troppo valore, oppure accettarlo e cercare di esserne degno? Giuliano era libero di scegliere. Nulla lo obbligava più a rispettare gli accordi presi con un partito così miserabilmente naufragato. Abbandonato a se stesso e senza quel prestigioso titolo di « eroe » Giuliano forse avrebbe potuto scegliere con più calma. Ma la definizione di « eroe » aveva in sé una forza tale, emanava un fascino così profondo che egli non poté resistere ed accettò la sfida che gli era stata lanciata: dar nuova luce alla fiamma moribonda dell'indipendenza siciliana.

Salvatore Giuliano sorprese tutti, e per primi lo stesso Gallo e lo stesso Finocchiaro Aprile. Quando tutti ritenevano completamente distrutto l'EVIS, Giuliano sferrò la propria offensiva il 26 dicembre 1945. Con solo 80 uomini, fece una incursione nella caserma dei carabinieri di Bellolampo. L'attacco venne lanciato con rapidità e decisione. Dopo aver buttato giù le porte servendosi di esplosivo, Giuliano e i suoi uomini penetrarono nella caserma, la saccheggiarono e rubarono tutte le armi contenute nell'armeria. Da entrambe le parti le perdite umane furono minime. Tre giorni dopo, Giuliano ritentò la stessa operazione contro la caserma Grisi; il 3 gennaio 1946, toccò alla caserma di Pioppo; il 5 a quella di Borghetto; il 7, a quella di Montelepre; sempre il 7, Giuliano accettò di misurarsi con una piccola colonna blindata che le autorità avevano lanciato al suo inseguimento con il compito di distruggere lui e la sua « armata ». Lo scontro ebbe luogo in cima al monte Oro, sopra Montelepre. Il terreno non si prestava minimamente all'impiego di automezzi. Giuliano, dopo aver piantato il vessillo separatista in cima al monte, si divertì a molestare gli avversari per qualche ora, poi, con il favore delle tenebre, sparì. Il giorno dopo, mentre tutti lo credevano a nord di Montelepre, Giuliano si era appostato a sud. In pieno centro di , attaccò una camionetta della polizia. Dopo quest'ultima impresa, per due settimane Giuliano non fece più parlare di sé. Ma, il 23 gennaio, la banda Giuliano assaltava il treno Palermo-Trapani e, senza ricorrere assolutamente alla violenza e alla brutalità, anzi, con la più grande cortesia e calma - come riferirono le stesse vittime - alleggerì i passeggeri di tutti i loro soldi e gioielli, secondo la migliore tradizione western. Due giorni dopo, 25 gennaio, attaccò la prigione di Monreale; il 26, la stazione-radio di Uditore e un deposito militare; il 27, la stazione-radio di Palermo; il 4 febbraio terrorizzava la regione di Camporeale; l'8, sulla strada PalermoMontelepre distruggeva due camionette di carabinieri; l'11, ripeté con la corriera che faceva servizio tra Gibellina-Partanna-Trapani, l'impresa messa a segno il 23 gennaio con il treno Palermo-Trapani. Solo sei settimane dopo aver iniziato l'azione di guerriglia, Giuliano poteva vantarsi di un seguito di successi, e tutti strepitosi. Il suo nome era celebre in Italia e anche fuori. A Roma il governo era inquieto. Il nuovo presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, chiese spiegazioni a Palermo. Il comandante dei carabinieri, generale Branca, rispose il 18 febbraio. Nel suo rapporto, tra l'altro scriveva : «Attiro l'attenzione sul fatto che il movimento separatista e la mafia hanno fatto causa comune e che i capi dell'EVIS sono da ricercare sempre di più tra i capi mafiosi...». De Gasperi, che non condivideva troppo l'opinione del generale - Giuliano non si doveva alla mafia, bensì a Gallo e a Finocchiaro Aprile - incaricò il ministro dell'Interno, Romita, di trovare un'intesa con i due dirigenti politici del MIS, al fine di sbarazzarsi del bandito. I due confinati di Ponza non chiedevano di meglio che di vendersi l'anima in cambio della libertà, e soprattutto in cambio della possibilità di ritornare alla politica. Il primo a ottenere questi benefici fu Finocchiaro Aprile. Rimesso in libertà il 4 marzo, fece subito questa dichiarazione alla stampa t Gli scopi e i doveri del movimento separatista sono stati travisati dagli avversari : i separatisti sono italiani e intendono rimanere tali ». Lo stesso giorno, quasi in risposta, Giuliano attaccava l'ufficio postale di Palermo, distruggendolo completamente. Gallo si fece convincere con maggior fatica. Per punirlo, fu rimesso in libertà cinque mesi più tardi, il 16 agosto. Egli, tuttavia, era riuscito a strappare a Romita la promessa che il governo avrebbe accordato un'amnistia generale a tutti coloro che si erano arruolati tra le fila dell'EVIS. Tutti? Non proprio. Facevano eccezione i delinquenti per reati comuni, tra i quali c'era naturalmente Salvatore Giuliano. Questi avvenimenti colpirono Giuliano meno della notizia che sua madre e le sue due sorelle erano state arrestate. Nulla lo poteva colpire di più, con il risultato di spingerlo ad agire con sempre maggior violenza. Giuliano si scatenò : gli attacchi contro le forze dell'ordine si fecero sempre più frequenti e sempre più sanguinosi. A Palermo, si capì finalmente quali erano i sentimenti che spingevano il giovane fuorilegge a comportarsi in quel modo : la madre e le due sorelle furono rimesse in libertà nel giro di 23 giorni.

Il 10 maggio saliva sul trono d'Italia Umberto II che succedeva al padre. Il suo regno sarebbe durato solo tre settimane, ma in quel breve lasso di tempo venne presa una decisione importante : il 17 maggio, Umberto II accordava l'autonomia regionale alla Sicilia. Si trattava di un favore accordato ai separatisti, e nello stesso tempo la morte delle loro ambizioni. Il potere vero restava a Roma. Secondo le sue inveterate abitudini, la mafia si limitò a prendere nota del fatto compiuto. Giuliano non si comportò allo stesso modo. Bisognava pensare, però, che egli era l'unico perdente in tutta quella storia. Tutti erano stati graziati, tranne lui. La sua prima reazione fu di continuare la lotta, anche a costo di rimanere isolato e senza appoggi, una lotta contro tutto e tutti. Per far comprendere bene che non aveva alcuna intenzione di arrendersi, fondò un proprio movimento di liberazione, il MASCA (movimento per l'annessione della Sicilia alla confederazione americana). Intanto, in seguito al referendum del 2 giugno 1946 Umberto II perdeva il trono. Il regno d'Italia diventava la repubblica italiana. Si aprì un periodo agitato : il Sud, a maggioranza monarchica, era scontento; i partiti si agitavano freneticamente, i politicanti mercanteggiavano spesso in maniera poco pulita; i comunisti lottavano sempre più accanitamente contro la mafia - la lotta aveva avuto inizio con una vera e propria dichiarazione di guerra, il 16 settembre 1944, quando il comunista Li Causi, nel corso di una riunione elettorale a Villalba, feudo di don Calogero Vizzini, era stato fatto segno a un colpo di fucile, ben presto seguito dall'assassinio di numerosi sindacalisti. Malgrado tutti questi disordini, e forse proprio a causa di essi, il personaggio di Salvatore Giuliano apparì improvvisamente agli occhi dei siciliani sotto una luce diversa. La sua immagine assumeva una dimensione nuova. Fino allora, ciò che veniva maggiormente apprezzato era il suo coraggio e i suoi successi contro le forze dell'ordine, così malviste dai siciliani. Tutti avevano riso quando Giuliano le aveva coperte di ridicolo, e tutti avevano applaudito all'assalto del treno di Palermo. Ma quelle manifestazioni di favore non avevano oltrepassato lo stadio di complicità epidermica e di indulgenza suscitata dall'ammirazione. Nel '46, invece, il sentimento popolare nei suoi confronti era molto più profondo. Si mescolava al rispetto e a una specie di riconoscenza, la riconoscenza dei poveri per chi, fra loro, è riuscito a incutere paura ai ricchi. Tutt'a un tratto, i siciliani, da una parte disorientati, scoprivano dall'altra di essere fieri di quel giovanotto che dava realtà ai loro sogni. Senza saperlo lui stesso, Salvatore Giuliano stava passando dagli onori della cronaca alla ballata popolare, seguitissima in Sicilia, e questo poteva essere considerato il primo passo verso quell'alone di leggenda che lo avrebbe sempre seguito.

Nascita della leggenda

Da sempre, Giuliano aveva l'abitudine di firmare ogni sua impresa. Dovunque Giuliano era passato, venivano trovati, sui muri delle caserme, oppure appuntati al petto delle sue vittime, slogan separatisti, o frasi in cui venivano spiegate le ragioni che avevano spinto la banda Giuliano ad agire. Giuliano con due dei suoi uomini

Tra i vecchi temi se ne aggiunse un altro : « Giuliano non ruba ai poveri ». La prima volta che venne scoperto un tale motto, fu sul cadavere di un membro della stessa banda Giuliano, che - lo si venne a sapere più tardi - aveva rubato due botti di vino a un vecchio contadino la cui moglie era ammalata. In seguito, subirono la stessa sorte altri banditi. Giuliano si era eletto dunque a difensore ufficiale dei poveri. Non esitò nemmeno a giustiziare un commerciante di Montelepre, parente di uno dei suoi luogotenenti, Terranova, perché vendeva a credito, ma esigeva interessi così forti, che i suoi clienti potevano pagarlo solo vendendo i propri beni. Dopo l'usuraio, fu la volta di un impiegato postale, sempre di Montelepre. Salvatore Abate aveva la pessima abitudine di rubare le lettere e i pacchi provenienti dagli Stati Uniti. Questi contenevano molto spesso del denaro, oppure generi alquanto rari, dalla vendita dei quali si poteva ottenere un buon compenso. Giuliano venne a saperlo ed emise subito la sua sentenza definitiva - Io non tollererò mai l'ingiustizia; sono dalla sua parte, l'amo per se stessa. Come altri banditi prima di lui - Mandrin, Cartouche - e come anche numerosi anarchici vissuti ai primi del Novecento, Giuliano aveva deciso che rubare ai ricchi per dare ai poveri era fare un servizio alla giustizia e, probabilmente anche farsi un buon nome. Si raccontava che un vecchietto, il quale doveva venire cacciato da casa sua, trovò, una mattina, al suo risveglio una piccola fortuna sul comodino; anche un contadino, i cui raccolti erano andati distrutti, ricevette un regalo dello stesso genere. Ben presto, in tutta la Conca d'Oro, la piana di Palermo, i dintorni di Montelepre, fino a , questo genere di miracolo si moltiplicava sempre più spesso. Tutti questi soldi, Giuliano doveva ben trovarli da qualche parte. Ma, se non esitava a sparare sui carabinieri, evitava qualsiasi spargimento di sangue nel procurarsi i fondi necessari alla sua opera di filantropo. Si accontentava di rapire, oppure di far rapire, i più ricchi proprietari terrieri dei dintorni, e di imporre un riscatto proporzionato alla loro ricchezza. In questo lavoro, certamente, la mafia gli forniva un aiuto prezioso. È probabile, anzi, che fosse proprio la mafia a designare le vittime. Il ruolo che essa interpretava era, come sempre, duplice. Da una parte pretendeva denaro dai proprietari per difenderli, dall'altra una percentuale sulle somme che Giuliano ricava dai rapimenti - si è parlato del 10% - in cambio dei servigi che gli rendeva. Nelle mani di Giuliano passarono diverse centinaia di milioni. Ma lui non teneva mai troppo per sé, e nemmeno la sua famiglia beneficiò delle sue elargizioni. Mai si sparse la voce di un « tesoro di Giuliano », e neppure ne parla la leggenda.

La lettera a De Gasperi

Malgrado i suoi successi, Giuliano doveva far fronte a difficoltà di ogni genere, interne ed esterne. L'unità della sua banda era ben lontana dall'essere perfetta. Alcuni luogotenenti, Terranova per primo, non approvavano la guerra intrapresa da Giuliano per prestigio. Poiché il MIS aveva perso ogni credito, dato che la maggior parte dei suoi capi aveva cambiato bandiera, e poiché l'EVIS era stato dichiarato fuorilegge, essi non vedevano la ragione per continuare quella guerriglia senza scopo. Interesse di tutti era ridiventare quello che erano realmente : dei banditi. Infine, invece di distribuire ai quattro venti i fondi che ottenevano con i rapimenti, volevano che venisse istituito un tesoro di guerra che permettesse loro, quando la situazione si fosse fatta insostenibile, di emigrare e di rifarsi un'esistenza altrove. Giuliano da questo orecchio non ci sentiva. Le sue ambizioni erano politiche, ed egli, nei panni di un bandito a riposo, non si vedeva proprio. Quanto ai soldi, se proprio non li disprezzava, non ne sentiva affatto il bisogno per sé. Li considerava semmai come un'arma supplementare, come un mezzo per accrescere il proprio prestigio e il proprio potere, assicurandosi, grazie ad essi, la riconoscenza e l'appoggio dei contadini poveri. Cercava di spiegare tutto questo ai suoi uomini, ma costoro lo seguivano sempre meno, e Salvatore era costretto a usare la maniera forte. All'esterno, il rischio di cadere in trappola era ancora più grande e pericoloso. La gloria che Giuliano stava conquistandosi, attirava verso di lui l'attenzione di tutti, e in particolar modo l'attenzione dei partiti di destra, che si preparavano già per le elezioni che si sarebbero tenute nell'aprile del 1947. Questi partiti sapevano quanto Salvatore Giuliano fosse impulsivo, generoso, emotivo e temevano una sua presa di posizione a sinistra, nella quale avrebbe trascinato seguaci e ammiratori. Per la verità, questi timori erano infondati. Americanofilo convinto, Giuliano aveva in odio i comunisti. A Maria doveva un giorno dichiarare

- A qualcuno il voto devo pur darlo, ci penserò, ma non voterò mai per i comunisti, perché essi non rispettano la legge dell'onore che è, per me, la più importante di tutte le leggi esistenti. Si dice che, a quell'epoca, Giuliano si incontrasse segretamente e più volte con gli esponenti monarchici. È molto probabile : costoro erano, nella maggior parte dei casi, ex separatisti, il loro unico scopo era di mantenere intatti i propri privilegi di fronte alla minaccia socialista. Probabilmente, Giuliano non s'incontrò con i capi ufficiali del partito che non avevano alcun interesse a compromettersi con lui. In compenso, è certo che Giuliano ebbe numerosi contatti con il principe Alliata. I due si conoscevano da alcuni anni e si stimavano reciprocamente. Si sa ben poco di questi incontri, ma è certa una cosa: Alliata promise a Giuliano che, in caso di sconfitta, gli avrebbe offerto - e avrebbe offerto anche ai suoi amici - un rifugio sicuro in Sud America, dove il principe aveva dei possedimenti. Probabilmente, Alliata aveva chiesto al bandito il suo appoggio e il suo aiuto in vista delle future elezioni. La risposta di Giuliano fu evasiva; egli non aveva alcuna ragione per credere al successo dei monarchici. Il 15 agosto, per mettere le cose in chiaro, indirizzò al quotidiano L'Ora una lettera aperta al presidente del consiglio Alcide De Gasperi. Nella lettera, Giuliano esprimeva il proprio rammarico per aver constatato che, dopo le elezioni di giugno, i deputati non avevano mantenuto la promessa di aiutare i poveri. Non solo non era stato fatto nulla in loro favore, ma la vita, che andava rincarando ogni giorno, rendeva l'esistenza delle classi popolari sempre più precarie. In compenso, i ricchi stavano meglio che mai e sembrava che traessero grandi vantaggi dall'inflazione. Con queste premesse, nessuno doveva meravigliarsi che lui, Giuliano, rubasse ai ricchi per dare ai poveri. Così facendo, egli si assumeva semplicemente le responsabilità che i politici avevano rifiutato e restituiva alla giustizia il posto che essa avrebbe dovuto occupare. La lettera di Giuliano terminava con un appello ai carabinieri, esortandoli a prendere coscienza che essi erano semplici « strumenti nelle mani dei ricchi, i quali li obbligavano a combattere contro i loro fratelli nella miseria, per difendere i privilegi degli oppressori ». Il governo rispose offrendo una taglia su Salvatore Giuliano e inviando un contingente di mille uomini a Montelepre. Qualche giorno dopo, Maria, la madre di Giuliano, venne nuovamente arrestata e rinchiusa nel carcere di Palermo.

La lettera a Truman

All'inizio del 1947, la fama di Giuliano, ormai diffusa in tutta la Sicilia e in tutto il continente, oltrepassò i confini d'Italia. Ma anche se i giornali citavano spessissimo il suo nome, nessun giornalista era ancora riuscito a intervistarlo. Per questo, enorme fu la sorpresa quando si venne a sapere che Salvatore Giuliano era stato intervistato, non solo, ma che l'intervistatore era l'americano Michael Stern. Per la verità, la nazionalità di Stern aveva giocato a suo favore. Salvatore Giuliano non sarebbe stato to capace di rifiutare nulla all'America.

L'intervista fece scalpore. Soprattutto a Roma dove provocò, da parte della sinistra, una valanga di proteste contro il nuovo ministro degli Interni , un siciliano, accusato di essere né più né meno, il complice del suo patriota nell'odio per il comunismo. Ma tutto ciò era ben poca cosa se paragonato alla tempesta che si scatenò contro il ministro quando si venne a sapere di una lettera che Giuliano aveva inviato al presidente Truman tramite Stern. La lettera, piena di ingenuità non portava nulla di nuovo che fosse utile alla conoscenza del suo autore, la cui americofilia era ben conosciuta. L'unico segno dei tempi stava nel fatto che un banditucolo di 24 anni, qualche tempo prima completamente sconosciuto, si rivolgeva pubblicamente al presidente degli Stati Uniti. « Caro Presidente Truman, Se non vi disturbo, e se il mio messaggio non vi trova mal disposto, vogliate accettare l'umile appello di un giovane che è molto lontano dall'America, per quanto sia assai noto, e vi chiede aiuto per la realizzazione di un sogno che fino a oggi non è riuscito ad avverare. Permettete che mi presenti. Il mio nome è Salvatore Giuliano. I giornalisti hanno fatto di me o un eroe leggendario o un delinquente comune. Suppongo che nemmeno voi abbiate un'idea chiara di quel che io sono. Se voi me lo permettete, vi dirò in breve la mia storia nella sua vera successione. Quando avevo ventun anni - per la precisione nel settembre del 1943 - dopo una rissa che mi portò a uccidere un poliziotto italiano, il quale aveva cercato di ammazzarmi, diventai un fuorilegge. Non mi restava altro che il mio sublime e sacro attaccamento alla mia terra siciliana. Sono stato annessionista sin dalla fanciulezza, ma a causa della dittatura fascista, non ho potuto mostrare palesemente i miei sentimenti. Per quanto fossi latitante, seguivo da vicino la libertà politica portata dagli americani, e solo allora pensai di avverare quello che per tanto tempo era stato il mio sogno. Per tradurre in realtà il mio ideale mi unii ai membri del Movimento per l'indipendenza siciliana. Il nostro sogno era di staccare la Sicilia dall'Italia, e poi di annetterla agli Stati Uniti. Nel 1944 i muri della maggior parte delle città siciliane, compresa Palermo, furono coperti di manifesti in cui si vedeva un uomo (io stesso) che taglia la catena che tiene la Sicilia legata all'Italia, mentre un altro uomo, in America, tiene un'altra catena a cui è unita la Sicilia. Quest'ultimo è il simbolo della mia speranza che la Sicilia venga annessa agli Stati Uniti. Per spiegarmi meglio accludo la fotografia... Ci occorre la cosa più essenziale : il vostro appoggio morale. Voi potreste, e a ragione, chiedere "Qual è il fattore più importante che vi spinge a questa lotta per la separazione dall'Italia? E inoltre, perché volete che la vostra splendida isola diventi la 49' stella americana? " Ecco la mia risposta

I - Perché con la guerra perduta, noi ci troviamo in uno stato disastroso, e cadremo facilmente preda degli stranieri, specialmente dei russi, che ambiscono ad affacciarsi sul Mediterraneo. Se questo dovesse accadere, ne deriverebbero conseguenze di enorme importanza, come voi sapete. II - Perché in 87 anni di unità nazionale, o, per essere esatti, in 87 anni di schiavitù all'Italia, siamo stati depredati e trattati come una misera colonia. Come scrisse giustamente Alfredo Oriani in uno dei suoi articoli "il cancro legato al piede dell'Italia". Non vogliamo assolutamente rimanere uniti a una nazione che considera la Sicilia una terra di cui ci si serve solo in caso di bisogno, per poi abbandonarla come una cosa cattiva e fastidiosa, quando non serve più. Per queste ragioni noi vogliamo unirci agli Stati Uniti d'America. La nostra organizzazione è ' ormai interamente compiuta; abbiamo già un partito antibolscevico pronto a tutto, per eliminare il comunismo dalla nostra amata isola. Non possiamo tollerare più oltre il dilagare della canea rossa. Il loro capo, Stalin, che come voi ben sapete, manda milioni su milioni per conquistare il cuore del nostro popolo - con il solito sistema politico basato sulla falsità - ha in qualche misura incontrato i favori della popolazione. Ma noi, fortunatamente, noi non crediamo al paradiso che Stalin ci ha promesso. Noi risveglieremo la coscienza del popolo, scacciando il comunismo dalla nostra nobile terra, che fu fatta per la democrazia. Noi non permetteremo a questa gente ignobile di toglierci la libertà, che per noi siciliani è il più essenziale e il più prezioso elemento di vita... Signore, vi preghiamo di ricordare che centinaia di migliaia di uomini aspettano d'essere liberati. Permettete, caro signore, che vi ossequi il vostro umilissimo e devoto servitore Giuliano »

Portella della Ginestra Il risultato delle elezioni dell'aprile 1947 per l'istituzione di un parlamento regionale siciliano, causò una profonda sorpresa: si verificò una vera e propria marea di voti in favore della sinistra. Il Blocco del Popolo, che riuniva tutti i partiti di sinistra, ottenne 567 392 voti, quasi il 30%. La DC ne ottenne solo 399 860, seguita dai Qualunquisti con 312 283 voti e infine dal Partito Monarchico che ottenne solo 185 865 voti. Si può facilmente indovinare la reazione degli amici di Giuliano - mafia inclusa - al successo della sinistra. Essi compresero che era giunto il momento di reagire e decisero che bisognava impiegare ogni mezzo per far fronte al « pericolo comunista ». Uno di questi mezzi era Giuliano. Senza perdere altro tempo, alcuni elementi di destra si misero in contatto con il fuorilegge. Secondo Michele Pantaleone, i primi a prendere contatto furono i monarchici, tramite un avvocato di Montelepre, Cusumano Geloso. Poi fu la volta dei democratici-cristiani, rappresentati da « alcuni agenti elettorali, quali il cavaliere Santa Flores di Partinico, e Leonardo Renda, segretario della sezione DC di Alcamo ». (1) Tutti offrirono al giovane bandito l'impunità in cambio del suo aiuto elettorale. Questa volta, Giuliano accettò senza mercanteggiare. La Democrazia Cristiana e il Partito Monarchico non rappresentavano forse la maggioranza, la forza politica che già governava la Sicilia e l'Italia? Chi richiedeva i suoi servigi? Chi lo incaricava di agire per difendere i suoi interessi? Il potere costituito, naturalmente. Una settimana dopo i vari incontri, Giuliano si trovava a Saracino, quando suo cognato, Sciortino, gli consegnò una lettera. Giuliano la lesse, in disparte, in maniera che gli altri non potessero leggerne il contenuto, poi si affrettò a- bruciarla. La sera stessa, diceva a uno dei fratelli Genovese, Giovanni - L'ora della nostra liberazione è arrivata. Non si è mai riusciti a conoscere il contenuto esatto della lettera, né chi l'avesse inviata a Giuliano. Gli unici a dividere il segreto con il bandito furono, forse, Genovese e Gaspare Pisciotta. Si è quasi certi che la lettera fu all'origine del massacro di Portella della Ginestra. Si può anche supporre che essa fu la principale ragione dell'assassinio del suo destinatario. Giuliano incaricò Giovanni Genovese e Sciortino di comunicare ai membri più importanti della banda, una trentina circa, il seguente ordine : tutti dovevano trovarsi, la sera del 30 aprile 1947, nella regione di Cippi, non lontano da Montelepre. Giuliano giunse per ultimo all'appuntamento. Esordì dicendo ai compagni che la lotta contro i comunisti aveva inizio. Quelle parole non suscitarono alcuna obiezione. Poi, Giuliano impartì le istruzioni per il giorno dopo e, fin dall'alba, la banda, divisa in tre squadre, si diresse verso Portella della Ginestra. Portella della Ginestra è situata sulla sommità di uno stretto passaggio tra le montagne, uno dei passi attraverso i quali si raggiunge la valle dello Jato. Ma cediamo la parola a Gaetano Falzone : (2) « Una lunga tradizione, interrotta dal fascismo, voleva che tutti gli anni i contadini di celebrassero, nei dintorni di quello che veniva chiamato il Passo di Barbato, la festa del 1° maggio. Si trattava di una festa campestre, più che di una manifestazione politica; ed era proprio così che il dottor Nicola Arbato, un uomo bonario, voleva che fosse. Erano le prime ore del pomeriggio, quando un oratore salì sul palco per pronunciare qualche modesta parola di commemorazione. Ma non riuscì nemmeno a cominciare, perché alcune raffiche di mitra falciarono la folla pacificamente riunita. Undici morti e ventisette feriti rimasero sul terreno. Guliano ordinò ai suoi uomini di ritirarsi e, insieme con solo undici di loro si allontanò passando per i campi di un certo Strasatto. Nell'attraversare quella proprietà, incontrò Bussellini, il guardiano, e, dopo averlo costretto a indicargli la strada giusta, lo uccise e ne nascose il cadavere ». Che cosa era dunque accaduto? Giuliano aveva volontariamente permesso che la sua aureola di « difensore della giustizia dei poveri » andasse in frantumi? Certamente no. Forse si era trattato di un incidente, di uno spaventoso errore. Giuliano non negò mai la propria responsabilità ma, nel suo memoriale su Portella della Ginestra, che venne presentato nell'aprile 1951 ai giudici della Corte di Viterbo, egli scrive che la sua intenzione era di « sparare a circa venti metri al di sopra della folla, affinché, sentendo fischiare le pallottole, essa si spaventasse, e la festa venisse interrotta. » Se i fatti si svolsero in tutt'altra maniera e se l'attacco si concluse in un « modo tragico e incredibile » fu, sempre secondo Giuliano « perché ad alcuni la mano tremò, oppure perché non furono capaci di agire nel modo dovuto ». Ciò che dice Giuliano sembra degno di fede. La sparatoria durò una decina di minuti, e sul posto furono ritrovati più di 800 bossoli. Se i banditi avessero sparato deliberatamente sulla folla, le vittime sarebbero state centinaia. D'altra parte, alcuni testimoni raccontarono di aver udito provenire, proprio da dove i banditi erano appostati, un grido : « Disgraziati! Che cosa fate? » Dopo Portella della Ginestra, Giuliano se ne stette tranquillo per alcune settimane. Senza dubbio, il bandito aveva bisogno di riflettere e anche di « mandar giù » il boccone amaro rappresentato da quel massacro. Tuttavia, egli non abbandonò i suoi alleati, né i suoi obiettivi. La sua lotta contro i comunisti riprese rapidamente con rinnovata energia. Ma da allora Giuliano fece la massima attenzione a non provocare vittime innocenti. Il 24 giugno, attaccò, anche con bombe, le sedi del Partito Comunista a Partinico, Borgetto, Cinisi, e la sede del Partito Socialista di Monreale. Qualche giorno dopo, la stessa sorte toccò alle sedi di Bioppo, San Giuseppe Jato, San Cipirello e Casini. Ovunque passava, la banda Giuliano distribuiva migliaia di volantini e ricopriva i muri con scritte che dicevano : « Morte ai comunisti! Viva Giuliano, liberatore della Sicilia! » Questa serie di azioni, seguite al massacro di Portella della Ginestra, suscitò reazioni un po' ovunque in Italia, ma soprattutto a Roma. Vi furono scioperi di protesta, una seduta straordinaria al Senato, interrogazioni alla Camera. La stampa di sinistra attaccò ancora una volta Scelba, accusando la sua politica siciliana e il suo uomo, Messana, capo della polizia di essere d'accordo con Giuliano e con la mafia per cercare di distruggere il Partito Comunista nell'isola. Quanto allo stesso Messana, del quale nessuno ignorava la simpatia per i separatisti, con tutta probabilità non fece nulla per molestare Giuliano, nello svolgimento della sua crociata di « salvatore pubblico ». Anche Messana non rimase sulla scena a lungo. In un tentativo di placare la compagine della sinistra, Scelba trasferì Messana e nominò al suo posto Verdiani, il cui ruolo nel caso Giuliano sarà ancora più importante e più oscuro. Le elezioni politiche ebbero luogo il 18 aprile 1948. E l'operato di Giuliano portò i suoi frutti : un trionfo della destra, e soprattutto del centro. Il bandito di Montelepre poteva essere contento. Aveva mantenuto i patti. Toccava adesso alla controparte mostrare la sua buona volontà nei confronti di Giuliano, mantenendo le promesse.

La rottura

Nel corso dei giorni seguenti, Giuliano non ricevette alcuna notizia dai suoi amici monarchici e democristiani. Nell'euforia del successo, essi dovevano essersi dimenticati di invitarlo ai festeggiamenti della loro vittoria comune. Turiddu aspettò ancora una settimana, poi si decise a sollecitare il conto dei suoi servigi, cioè e soprattutto, l'amnistia per sé e per i suoi uomini. Uno alla volta, rivide Geloso, il cavaliere Santa Flores e Leonardo Renda. Tutti furono estremamente cortesi con lui, ma le loro risposte erano molto evasive. Certo, Giuliano poteva contare sulla parola che avevano dato : ogni promessa è debito, ma una decisione così importante come l'amnistia non dipendeva direttamente da loro. Solo Roma poteva prenderla. Ma Roma era lontana: Giuliano doveva dunque pazientare e non prendersela. Ogni cosa a suo tempo. Giuliano rimase molto irritato dal ritardo e decise di rapire Bernardino Mattarella che era stato nominato sottosegretario ai Trasporti, non appena si fosse presentata l'occasione propizia. Nel frattempo, dopo aver aspettato inutilmente un altro mese, Giuliano decise di passare all'azione. Il primo a cadere sotto i suoi colpi fu il cavaliere Santa Flores. Poi fu la volta dell'uomo di fiducia di Flores: Carlo Guarino. Giuliano e i suoi uomini fecero irruzione a casa sua, in pieno giorno, e massacrarono a colpi di mitra Guarino, il figlio di tre anni e un amico di passaggio, un certo Francesco Gulino. Questa selvaggia ritorsione non diede alcun frutto a Giuliano, tranne l'ostilità di una parte della mafia, quella che veniva chiamata « la vecchia mafia », per distinguerla dalla mafia più recente che era sorta dopo lo sbarco alleato. Giuliano capì ben presto in che vespaio si fosse cacciato. Ma era troppo tardi per tornare indietro. D'altra parte, egli pensava di essere ancora abbastanza potente, credeva di avere abbastanza carte da giocare e di poter contare su sufficienti appoggi per ispirare paura ai suoi nemici.

La carta più importante in suo possesso era tutto ciò che conosceva, molto coni promettente, su persone che occupavano posti importanti. Tra l'altro, c'era la famosa lettera che aveva ricevuto il giorno prima del massacro di Portella della Ginestra. Sfortunatamente, l'aveva distrutta. Ma che importava? Poteva pur sempre scrivere lutto quanto sapeva, con nomi e cognomi, date, luoghi di incontro e argomenti discussi. Giuliano perciò si ritirò qualche giorno L nella casa di un amico, per mettere in pratica la sua idea. Non appena ebbe terminato il breve « memoriale », lo nascose in un posto sicuro, poi fece in modo che gli interessati venissero a sapere della sua esistenza. A buon intenditor, poche parole. Dopo di che, si sentì molto meglio. Quei pochi fogli di carta lo avrebbero protetto dalle fucilate dei suoi nemici molto meglio di qualunque corazza. I suoi luogotenenti, in particolare Terranova e il cognato Sciortino, ragionavano in maniera diversa. Persuasi ormai che i politicanti non avrebbero tenuto fede alle loro promesse e che la mafia non li avrebbe più lasciati in pace, avevano un unico desiderio: abbandonare l'isola il più in fretta possibile. Giuliano cercò invano di trattenerli. Terranova, conducendo con sé parte dei suoi uomini, se ne andò per primo. Salì, a Castellammare del Golfo, su una piccola imbarcazione clandestina, alla volta della . Sciortino voleva emigrare negli Stati Uniti. Benché la moglie fosse in prigione, non aveva nessuna voglia di aspettare che venisse rimessa in libertà. Lei avrebbe potuto raggiungerlo più tardi. La cosa più importante era mettersi al sicuro. Accompagnando il cognato al luogo d'imbarco, gli affidò il suo « memoriale », raccomandandogli di non separarsene mai; lui, Turiddu, gli stava affidando la sua stessa vita. Sciortino promise, abbracciò Giuliano e salì a bordo.

Nei giorni successivi per Giuliano ci fu un piacevole intermezzo. Il « riposo del guerriero » fu rappresentato da una giornalista svedese, una certa Maria Scyliakus. In realtà, la donna era molto meno graziosa di quanto la rese la fantasia popolare, ma si trattava di una persona vivace, intelligente e piacevole. Trascorse tre giorni con Giuliano che, sempre secondo la leggenda, pagò del suo, il che permise alla giovane giornalista di pubblicare un articolo, su un settimanale francese, con il titolo: « Il mio amato bandito ». Questo rapporto fece clamore. Infatti quasi nulla si sa sugli amori di Turiddu, tanto che su di lui sono sorti sospetti abbastanza consueti in simili casi, di omosessualità. Misogino, certo, non era : si mostrava sempre cortese e deferente di fronte a una donna e non mancava mai di prenderne le difese. Recentemente, su rotocalchi italiani sono apparse interviste a un giovane che ha dichiarato di essere figlio di Giuliano; la stessa sorella del bandito, feroce custode della sua memoria, dopo aver conosciuto il ragazzo non avrebbe escluso tale possibilità.

Tuttavia, la conclusione più verosimile è che l'amore e il sesso abbiano occupato nella vita del bandito poco spazio : più importante, forse, era il suo fucile mitragliatore, sul calcio del quale, il compagno Castrense Madonia aveva inciso queste parole : «Dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio ». E sarebbe stato il suo motto.

L'inizio della fine

Il 15 luglio 1948, Maria venne arrestata di nuovo. Su di lei questa volta pesava l'accusa di complicità in estorsione e in ratto. Fu condannata a 5 anni di reclusione. Salvatore, il marito, in carcere contemporaneamente a lei, fu confinato nell'isola di Ustica, anche lui per un periodo di 5 anni. Tre mesi più tardi, in ottobre, fu la volta di Giuseppina e del marito Gaio. Secondo il suo solito, Giuliano si precipitò in soccorso della famiglia, ma a dispetto dei suoi ripetuti interventi e delle sue insistenze presso amici « sicuri » (persone che occupavano cariche molto importanti nella polizia e nella magistratura), non riuscì ad ottenere alcuna riduzione delle pene per i suoi. Le cose intanto non accennavano a cambiare e Giuliano cozzava contro una barriera invisibile che ritardava i suoi progetti.

Giuliano non tardò a capire che questa barriera era la mafia e, per tentare di abbattere l'insidioso accerchiamento, reagì in maniera brutale. Decise di realizzare il suo vecchio progetto di rapire Mattarella. La sera del 7 agosto 1948, appostò i suoi uomini sulla strada, tra Alcamo e Calatafimi, fermò e perquisì tutte le vetture che transitavano. Gli avevano detto che Mattarella doveva rientrare per quella strada, dopo aver inaugurato i nuovi lavori per il porto di Castellammare del Golfo. Ma il sottosegretario fece un'altra strada, e Giuliano, con le pive nel sacco, smobilitò il posto di blocco. Ma non si scoraggiò e progettò di mettere le mani su un personaggio anche più importante : lo stesso capo della mafia, Don Calogero Vizzini. Secondo Michele Pantaleone, (3) « Don Calò sapeva di essere in pericolo. Dopo l'episodio di Mattarella, egli rimase per alcune settimane rinchiuso nell'albergo Sole di Palermo, non osando farsi vedere in giro. Due uomini di sua fiducia, armati fino ai denti, Rosario Calderone e Salvatore Mazzarese, dormivano nella sua stessa camera, mentre un gruppo numeroso di amici montava la guardia nella hall dell'albergo e nella piazza di fronte. Un giorno, non potendo fare a meno di andare a Villalba, uscì di nascosto da una porticina secondaria dell'albergo, lasciando i guardiani al loro posto per ingannare il bandito.

Giuliano tuttavia venne a sapere che sarebbe tornato il giorno dopo e fece appostare trenta uomini sulla strada tra Bolognetta e Villabate dove Don Calò avrebbe dovuto passare. La macchina del Vizzini passò effettivamente, ma i banditi vi trovarono soltanto l'autista, la valigia, e tale Vincenzo Longo, che, spaventatissimo, corse, contro ogni costume dell' "onorata società", a denunciare il fatto alla polizia. Don Calò, invece, aveva fatto la strada sul furgoncino di un ortolano, nascosto tra le ceste di verdura. Giuliano aveva dovuto fare affidamento su un "amico" di Villabate, che aveva subito avvertito il vecchio capomafia di Bolognetta. Serafino di Bari, amico fraterno di Don Calò. » In seguito a questo duplice insuccesso, Giuliano sfogò la propria collera sugli odiati carabinieri. A Torretta, ne uccise uno e ne ferì dieci; a Portella della Paglia ne uccise quattro; un altro a Partinico. Qualche giorno dopo, attaccò nuovamente la caserma di Bellolampo: otto carabinieri morti, nove feriti.

Gli stessi siciliani vivevano ormai nel terrore, mentre quasi tutta la stampa italiana sollecitava il governo perché finalmente prendesse le misure necessarie a por fine a quella carneficina. Qualche giorno più tardi, il 25 agosto 1948, nel corso di un lungo colloquio tra il ministro degli Interni Mario Scelba e il presidente della Regione Siciliana, l'onorevole Franco Restivo, venne deciso di sopprimere l'ispettorato generale di polizia per la Sicilia e di fondare il C.F.R.B. (Corpo delle forze per la repressione del banditismo), agli ordini del colonnello Luca.

La trappola

Piccolo, magro e calvo, la faccia marcata da rughe profonde, il nuovo avversario che veniva contrapposto a Giuliano, era molto meno innocuo di quanto apparisse a prima vista.

Il colonnello Ugo Luca proveniva dal S.I.M. (Servizio Investigativo Militare) e i suoi brillanti successi durante la campagna d'Africa gli avevano fruttato il soprannome di « Lawrence di Libia ». Lui stesso aveva scelto il suo comandante in seconda nella persona del capitano Antonio Perenze, già suo subalterno in Africa. Perenze era un uomo di circa quarant'anni, corpulento, allegro e gioviale, che portava baffetti curatissimi.

Prima di sbarcare a Palermo, Luca aveva attentamente studiato il nuovo caso di cui doveva interessarsi e ne aveva appreso tutti i particolari. Scelba gli aveva dato carta bianca. In cambio, gli chiedeva solo una cosa: riuscire, e il più rapidamente possibile, anche per far tacere gli attacchi, sempre più violenti e pericolosi, dei suoi avversari politici di sinistra. Luca cominciò con il decretare lo « stato d'emergenza » nel quadrilatero compreso tra , Alcamo, Gibellina, Corleone e Monreale. Una tale decisione conferiva ai carabinieri, comandati adesso da Luca, poteri eccezionali, che permettevano, da una parte, di neutralizzare l'azione della polizia agli ordini dell'ispettore Verdiani, del quale Luca aveva ottime ragioni per diffidare, dall'altra, di assicurarsi la collaborazione della « vecchia mafia », la cui politica tradizionale era di scendere a patti con il più forte. Giuliano si rese subito conto di quanto valesse il suo nuovo avversario. - La sua è una tattica intelligente - confidò a Gaspare Pisciotta. - Muove le zampe con cautela e astuzia, ma non mi prenderà mai. Non lascerò l'isola finché mia madre non sarà stata liberata dalla prigione. Benché riconoscesse il valore dell'uomo che aveva ricevuto l'incarico di abbatterlo, Giuliano non era affatto intimorito; anzi appariva risoluto più che mai a difendersi.

Per accattivarsi ancora di più gli uomini che gli erano rimasti fedeli e per reclutarne di nuovi, Giuliano aveva bisogno di soldi, di parecchi soldi. Per questa ragione portò a termine, uno dopo l'altro numerosissimi rapimenti. Deputati, baroni, duchi e perfino il principe di Valdina, contribuirono con i loro riscatti a mettere nelle tasche di Giuliano un centinaio di milioni. Quindi ben rifornito di soldi e con il morale delle sue truppe risollevato, Giuliano si lanciò nuovamente in una serie di attacchi contro i carabinieri, come se volesse dimostrare all'avversario che le sue forze erano sempre intatte, malgrado la defezione della mafia, lo « stato di emergenza » e i duemila uomini che ora presidiavano Montelepre. Quella manifestazione di forza non impressionò affatto il colonnello Luca. Quest'ultimo lavorava in silenzio, un modo di fare che gli era perfettamente congeniale. La collaborazione con la mafia cominciava a dare i suoi frutti. Come dice Michele Pantaleone (4) : « Ciò che non aveva saputo (oppure non aveva voluto) fare la polizia, gli uomini della mafia lo fecero in quattro e quattr'otto. Il C.F.R.B. venne prestissimo a conoscenza di tutti i nomi dei complici di Giuliano e non fu molto difficile seguirne gli spostamenti. Ogni volta che un uomo della banda si arrischiava a scendere dalle montagne, finiva irrimediabilmente fra le mani dei carabinieri ». Informato dalla mafia che Terranova, Francesco Paolo Motisi e Francesco Pisciotta erano in Tunisia, Luca li fece arrestare per mezzo dell'Interpol; Candela, rientrato clandestinamente in Sicilia, venne ucciso dai carabinieri. Mannino fu arrestato grazie a una trappola tesa dal capomafia Antonio Miceli. Qualche giorno dopo, il principale luogotenente di Giuliano, Giuseppe Cucinella veniva catturato. Anche lui era stato tradito. Alla mafia erano occorsi solo pochi mesi per mettere nelle mani di Luca quasi tutti gli uomini di Giuliano. All'inizio della primavera del 1950, in libertà rimaneva solo un pugno di uomini. Luca aveva raggiunto il primo obiettivo del suo piano : isolare il bandito.

Costui comprese di avere perso la partita. Grazie alla mafia e cioè agli stessi siciliani, Roma aveva vinto Palermo. Giuliano rimase profondamente addolorato. Non solo avevano tradito e abbandonato lui, ma il suo Paese, la sua cara Sicilia era stata venduta una volta di più. Egli ormai non poteva fare più nulla per la Sicilia e fu assalito da vari pensieri: dopotutto aveva solo ventisette anni, un nome, parecchi quattrini. Poteva facilmente rifarsi una vita altrove, forse in America. A questo punto Giuliano decise di partire ma, come già aveva detto a Gaspare, non sarebbe mai partito finché sua madre fosse stata rinchiusa in carcere. Fu per trovare una soluzione a questo problema che Giuliano si incontrò ancora una volta con l'ispettore Verdiani.

Il ruolo di Verdiani nell'ultima parte del caso Giuliano è singolare. Non si è mai riusciti a spiegarlo con chiarezza. Che cosa lo legava a Giuliano? Per chi in realtà Verdiani lavorava? Quali erano i motivi che improntavano le sue azioni? Tutte domande che sono rimaste senza una risposta. Il suo superiore era lo stesso che impartiva ordini a Luca. Eppure, i due uomini non cessavano un istante di mettersi i bastoni tra le ruote. I loro alleati nella mafia non erano gli stessi. Se Luca collaborava con la « vecchia mafia » Verdiani aveva soprattutto a che fare con la nuova mafia. Infine se il primo desiderava che il problema venisse regolato sul posto con la morte del bandito, il secondo desiderava che Giuliano emigrasse. Entrambi erano tuttavia d'accordo su un punto essenziale non bisognava a nessun costo prendere Giuliano vivo. Un processo pubblico avrebbe coinvolto troppa gente nota. La giovane repubblica italiana era ancora troppo fragile per potersi permettere -una cosa simile. Giuliano e Verdiani si misero facilmente d'accordo. Il loro patto era semplice in cambio della libertà di Maria, il bandito s'impegnava ad abbandonare la Sicilia e, una volta esiliato, a non aprire bocca e a non pubblicare nulla di compromettente per i suoi ex amici e complici. Verdiani credette a occhi chiusi alle promesse di Giuliano. Il rispetto del bandito per la parola data era conosciuto ovunque. Sembra che anche Giuliano si fosse accontentato delle promesse a parole di Verdiani. L'ispettore, il 31 dicembre 1949, lasciò la Sicilia e si stabilì a Roma. Ma i negoziati continuarono, grazie a Miceli, capomafia di Monreale, che faceva da intermediario. E sembrarono anche sul punto di sfociare in un accordo. Il 23 gennaio 1950, Maria venne rimessa in libertà. Nulla più tratteneva Giuliano in Sicilia. II bandito aspettava solo che gli venissero consegnati i documenti necessari a emigrare. Sappiamo che Miceli si recò a Roma nel marzo, per risolvere, insieme con Verdiani, quest'ultima formalità. Poi nessuno più sentì parlare di*Giuliano, tanto che si sparse la voce che il bandito aveva già abbandonato l'isola. Si diceva in giro addirittura che egli si fosse trasferito nell'Africa del Nord, che si fosse arruolato nella Legione Straniera.

Altri sparsero la voce che era stato visto negli Stati Uniti. Ma non c'era nulla di vero in tutto ciò. Giuliano era sempre in Sicilia, senza dubbio un po' nervoso, perché i documenti promessi da Verdiani tardavano a giungere, ma sempre fiducioso nei suoi amici e sicuro della propria immunità. Su quest'ultimo punto, almeno, egli si sbagliava. Ma non poteva sapere che Sciortino era stato derubato del memoriale che lui gli aveva affidato. Oramai, liberati da quella spada di Damocle, i suoi nemici non avevano più alcuna ragione di temerlo. La morte di Giuliano mancava solo di una buona messinscena. L'ultimo atto della sua esistenza era praticamente già pronto.

La morte

Il 14 luglio 1950, alle sei del mattino. Scelba fu svegliato da una telefonata del capo della polizia, il generale D'Antoni. - Onorevole, stamane all'alba il bandito Giuliano è morto a in uno scontro con le forze per la repressione del banditismo - disse costui. - Benissimo - rispose Scelba - ci vedremo più tardi al Viminale e ascolterò il vostro rapporto. Verso le otto, il ministro era nel suo ufficio, dove ricevette ben presto la visita del presidente del consiglio Alcide De Gasperi, andato per congratularsi con lui. Più tardi nel corso della mattina, dopo aver ascoltato il rapporto di D'Antoni, Scelba concesse una conferenza stampa a un'orda di giornalisti curiosi e affamati di notizie. Ma le risposte e le spiegazioni del ministro furono così vaghe ed evasive che la maggior parte dei giornalisti decise di salire sul primo aereo in partenza per la Sicilia, per saperne di più.

Nel frattempo, a Castelvetrano, una piccola città situata nel Sud-Ovest dell'isola, non lontano da Selinunte, nella casa dell'avvocato De Maria, al centro di un piccolo cortile, giaceva il cadavere di un uomo. La scena venne descritta con queste parole da un giornalista : « Sdraiato su un fianco, la faccia a mangiare la polvere, un ginocchio ripiegato e il braccio destro steso parallelo al corpo, l'uomo aveva infilato al medio della mano destra un brillante enorme. Indossava una maglietta senza maniche, un paio di pantaloni di tela, calzini e sandali. Aveva le mani pulite, curate, mentre i capelli erano in disordine, come se si fosse appena alzato dal letto, e sulle guance una barba di due giorni. Sul fianco destro, pendeva una fondina di pistola, aperta; l'arma che quella fondina aveva contenuto stava ad alcuni centimetri dalla faccia dell'uomo, bagnata da un rivolo di sangue, in parte assorbito dalla polvere, mentre accanto alla mano destra stava un mitragliatore Beretta. La maglietta, in origine bianca, sembrava adesso la maglietta di un'uniforme separatista, mezza chiara e mezza scura, poiché una enorme chiazza di sangue ne aveva macchiato una parte in rosso scarlatto». Verso mezzogiorno, il corpo, che ancora non era stato ufficialmente identificato, venne chiuso nella camera ardente del cimitero. Completamente nudo, fu deposto su una lunga lastra di pietra ovale, e poiché il caldo si faceva ormai intenso, tutt'attorno vennero posti blocchi di ghiaccio che assumevano l'aspetto di uno strano feretro. I giornalisti, che giungevano sempre più numerosi, dovettero attendere fino a sera, finché il capitano Perenze diede loro le prime notizie. Il corpo di Salvatore Giuliano dopo il presunto conflitto a fuoco coi Carabinieri

Perenze, abitualmente cortese e gioviale, apparve ai giornalisti « esausto come dopo una caccia all'uomo durata cinque giorni e cinque notti. Parlava solo con l'aiuto delle sigarette che gli venivano offerte e che egli fumava ininterrottamente ». Cominciò la conferenza dicendo che era completamente all'oscuro della ragione per cui Giuliano si era recato a Castelvetrano, poi diede la propria versione dei fatti : « Dalle nove della sera alle due del mattino, lui e i suoi uomini avevano atteso, nascosti nell'ombra. Alle tre e quindici, videro due uomini avanzare per via Cagini; si distinguevano nettamente i loro fucili. Quattro carabinieri si fecero loro incontro e intimarono l'alt. I due uomini si volsero e tentarono di fuggire, ma un milite li inseguì da vicino, mentre gli altri tre prendevano per un breve vicolo per tagliar loro la strada. Giuliano fu riconosciuto subito; era a testa nuda, e non si poteva sbagliare, erano i suoi lineamenti; la strada era ben illuminata. A un certo punto, il bandito che lo accompagnava fuggì in uno stretto passaggio oscuro, ma i carabinieri lo lasciarono andare perché volevano occuparsi solo di Giuliano... Poi cominciò una violenta sparatoria. Il brigante si difese bene, grazie anche a un accorgimento che gli consentiva di tenere un secondo caricatore nel calcio del mitra. La sua lotta per la vita durò fino alle tre e cinquanta; cioè per trentacinque minuti. Correva a zig zag da un lato all'altro della strada, si rifugiava dietro questo o quel muro, muovendosi di continuo per uno spazio di un chilometro, finché era entrato in un cortiletto chiuso. Perenze, con una raffica di mitra, aveva abbattuto il bandito intrappolato. Giuliano non morì all'istante; per dieci minuti continuò a rantolare, ma senza articolare una sola parola, e senza pronunciare una maledizione o una invocazione. Alle quattro e dieci precise, tutto era finito ». Prima della conferenza stampa di Perenze, nel pomeriggio, Maria, accompagnata da Giuseppina e dal genero Francesco Caglio, si era recata a riconoscere il figlio. Uscendo dalla camera mortuaria, le guance bagnate di lacrime, aveva improvvisamente gridato in direzione della folla che la guardava passare - L'hanno tradito! L'hanno tradito! Dopo che la donna se ne fu andata, il professore Gabrio aveva eseguito l'autopsia. I risultati completi non furono mai resi noti. Semplicemente fu dichiarato che la ferita che aveva causato la morte era « la perforazione del cuore da tergo ». Terminata l'autopsia, i giornalisti furono ammessi nella stanza mortuaria. Se la maggior parte di essi fu sorpresa per la giovane età di Giuliano e parlò ai lettori di un « bel giovanotto addormentato » o della « calma bellezza di un adolescente sfiancato », altri, più curiosi, notarono alcuni particolari molto strani : « sotto la grossa macchia, sul lato destro del dorso, non c'era ferita alcuna » scrisse uno di loro. « Solo sul lato sinistro, dove il sangue era scarso, c'erano due ferite, sotto la scapola sinistra; altri fori si trovavano sulla mano e sul braccio destro e sul corpo, proprio accanto al gomito destro. Eppure, data la posizione in cui il corpo era stato trovato steso nel cortile, il sangue che aveva inzuppato la camiciola non poteva essere sgorgato da una di queste ferite ». In serata si venne a sapere che Maria si era recata a trovare il sindaco di Palermo per supplicarlo che gli venisse reso il corpo del figlio. - Ora appartiene solo a me - aveva detto la donna al sindaco. - Voi non avete più niente a che fare con lui. Le autorità in un primo momento si rifiutarono di consegnare il corpo, con il pretesto che il limite di tempo ufficiale era scaduto e che il cadavere doveva essere seppellito a Castelvetrano. Ma nel giro di quattro giorni, Maria finì per spuntarla e il corpo fu trasportato a Montelepre in una suntuosa cassa di ebano e rame. «Io ho assassinato Giuliano»

I giornalisti non avevano aspettato che Giuliano venisse seppellito per manifestare il loro scetticismo riguardo la versione ufficiale sui fatti accaduti a Castelvetrano. Non era occorsa molta fatica per scoprire che « i fatti non si erano svolti come il capitano Perenze li aveva raccontati ». Secondo tutte le testimonianze degne di fede che i giornalisti erano riusciti a raccogliere, appariva evidente che non erano stati sparati più di cinque o sei colpi di pistola, colpi tutti esplosi nel cortile. Erano state udite anche due raffiche di mitra, molto vicine e molto brevi. Alcuni contadini di Castelvetrano, abitanti proprio nelle stradine che erano state teatro della tragedia, non avevano udito il minimo rumore che potesse somigliare a una caccia all'uomo. Secondo la loro testimonianza, tutto era accaduto nella casa dell'avvocato, in un lasso di tempo brevissimo. La stampa, sempre più insistentemente ripeteva la parola che Maria aveva lanciato alla folla tradimento. Questa spiegazione sembrava sempre più plausibile a tutti : se Giuliano era morto, era perché qualcuno l'aveva tradito. E chi avrebbe potuto tradirlo se non qualcuno che gli era vicino? Venne fatta la lista di coloro che ancora erano En libertà. Ce n'erano sette : Gaspare Pisciotta, Mannino, Badalamenti, Passatempo, Madonia, Zito e Vitale. Tutti in genere escludevano Gaspare Pisciotta. Si sapeva che era il cugino e l'amico del cuore di Giuliano. L'uomo che invece con più frequenza veniva indicato era Frank Mannino.

La stampa arzigogolava su mille ipotesi, quando scoppiò una nuova bomba: Luca annunciò l'arresto di Badalamenti, Madonna, Zito, Vitale e Mannino. In un primo momento, si credette che il sensazionale arresto risalisse alle ultime ore, poi invece si venne a sapere con sorpresa che i cinque uomini erano stati catturati prima della morte del loro capo. Si sparse la voce che la sensazionale cattura era dovuta alla mafia. Di tutti i banditi che avevano fatto tremare la Sicilia intera, ne restavano solo due in libertà: Passatempo e Pisciotta. A sua volta, quest'ultimo sarebbe stato ben presto catturato. La gloria di tale arresto non fu dei carabinieri di Luca, ma dei poliziotti dell'ispettore Marziano, il successore di Verdiani. Si era in dicembre, un po' prima di Natale. Incatenato e guardato a vista come se fosse stato una tigre, Gaspare Pisciotta raggiunse i compagni a Viterbo, dove ben presto sarebbe cominciato un processo alquanto noioso, ma al quale una sola rivelazione del nuovo e illustre accusato diede improvvisamente un tale interesse da appassionare l'opinione pubblica. - Io, Gaspare Pisciotta, ho assassinato Giuliano durante il sonno. Questo avvenne dietro accordo personale con il signor Scelba, ministro degli Interni. Gaspare : l'assassino di Turiddu... Giovanni che diventava Giuda! C'era da non crederci.

II processo di Viterbo Fu un Gaspare Pisciotta pallido e teso, ma più elegante, più bello e provocante che mai, che si presentò sul banco degli imputati. Giuliano morto, toccava a lui, adesso, vendicarsi. Pisciotta parve averne coscienza e sembrò volersi mostrare degno di questo ruolo. Come se desiderasse dare un tono nuovo al processo, cominciò col fare una professione di fede: - Io non ho venduto la mia anima, anche se mi hanno offerto milioni! Io sono venuto qui a testimoniare di mia spontanea volontà e nessuno mi ha catturato. Vengo a veder fatta giustizia. Gli venne chiesto di parlare innanzitutto di Portella della Ginestra, poiché quel massacro era ufficialmente l'oggetto del processo. - Rigetto con disprezzo - disse - l'accusa di aver preso parte a quel macello. Io non sono un bandito che uccide o che ruba. Facevo parte della banda a causa dell'EVIS ed ero agli ordini di Giuliano come generale politico. Abbiamo combattuto agli ordini di Finocchiaro Aprile, del duca di Carcaci, del barone Stefano La Motta e di Gallo. Gallo ha ammazzato otto carabinieri, e ora lo chiamano « onorevole » ! Pisciotta parlò poi delle proposte fatte a Giuliano dai partiti, in seguito al successo del Blocco Popolare alle elezioni del 1947. - Lo avvisai di non fidarsi di quella gente, perché alcuni lo avevano già tradito e di certo lo avrebbero tradito ancora, ma lui non volle darmi ascolto. Confermò poi che i democratici cristiani avevano promesso l'amnistia a Giuliano, se avessero vinto le elezioni, o almeno un rifugio in Brasile in caso di smacco. Ma ancora una volta non avevano tenuto fede alla parola data. - Ogni volta Scelba si è rimangiato la parola. Mattarella e Cusumano andarono a Roma a chiedere per noi amnistia completa, ma Scelba rinnegò le sue promesse.

A proposito della misteriosa lettera recapitata a Giuliano, alcuni giorni prima del massacro di Portella della Ginestra, Pisciotta rispose che lui non l'aveva letta, ma che il suo amico Giuliano gliene aveva rivelato il contenuto. Essa diceva, press'a poco così : « Mio caro Giuliano, siamo alla vigilia della caduta del comunismo. Coi nostri sforzi uniti possiamo distruggerlo definitivamente, poi la vittoria sarà nostra, voi avrete immunità completa ». Era firmata, sempre secondo Pisciotta : Mario Scelba. Non si potevano prendere tutte le dichiarazioni di Pisciotta per oro colato; ma esse erano una manna per i giornalisti, mentre aggravavano le tensioni già esistenti nel governo. Scelba stesso faticava a nascondere il proprio imbarazzo. Non essendosi un giorno potuto recare a una riunione ministeriale, per ragioni di salute, un settimanale milanese definì l'indisposizione di Scelba come « una leggera pisciottite... » Ma Pisciotta non aveva ancora finito con le sue dichiarazioni, e quanto disse in seguito a proposito del colonnello Luca dell'ispettore Verdiani ebbe lo stesso effetto di soffiare sul fuoco. Pisciotta raccontò di aver proposto a Verdiani di consegnarli Giuliano. Ora, non solo l'ispettore aveva rifiutato il suo aiuto, ma l'aveva addirittura minacciato di fargli la pelle se avesse tentato una qualsiasi azione contro il bandito. Aggiunse addirittura che Verdiani progettava di far assassinare Luca, ma che lui, Pisciotta, era riuscito a evitare in tempo il progetto. Infine, affermò che Luca, per mezzo del suo avvocato, gli aveva proposto da parte di Scelba un assegno di cinquanta milioni purché, durante il processo, tenesse la bocca chiusa. Una domanda ancora non era stata fatta a Pisciotta, eppure era sulla bocca di tutti, fin dall'inizio: perché e come, dal momento che lui stesso si accusava di aver ucciso Giuliano, aveva deciso di compiere quel delitto, aveva deciso di uccidere un uomo che così a lungo gli era stato amico e fratello d'armi? La prima parte della risposta di Pisciotta sembrò quasi una dichiarazione di odio e di accusa nei confronti dei suoi giudici. - Ho ucciso Giuliano perché voi me lo avete fatto uccidere, perché non osavate lasciarlo in vita! Poi cercò di spiegare il suo comportamento, cercò di giustificarsi. - Con mio profondo dispiacere, sono stato obbligato a ucciderlo per metter fine a tutti quegli ammazzamenti e perché, altrimenti, Giuliano ci avrebbe annientati tutti. Dopo questa confessione, a Pisciotta passò la voglia di parlare e fu molto difficile ottenere da lui una versione dei fatti. A un certo punto, fu avanzata l'ipotesi che Pisciotta avesse somministrato un sonnifero a Giuliano e che poi l'avesse ucciso nel sonno, cosa questa abbastanza verosimile, perché i due dormivano sovente nello stesso letto. Pisciotta sembrò ridestarsi dal suo torpore solo quando il colonnello Luca venne chiamato a deporre. - Bisogna porgli le seguenti domande, Vostro Onore - gridò. - È stato p no in contatto con me? Mi ha chiesto o no di procurargli il memoriale di Giuliano riguardante Portella della Ginestra, promettendomi una ricompensa di due milioni? Sono stato io o no quello che l'ha informato degli accordi intercorsi tra Giuliano e Verdiani? Gaspare Pisciotta

La deposizione di Luca non fu di grande aiuto per chiarire i fatti. E tuttavia egli fornì una versione plausibile del suo incontro con Pisciotta. Tutto era cominciato con l'arresto di Mannino e di Madonia, arresto facilitato da un mafioso di Monreale, Ignazio Miceli. Essendo venuto a conoscenza della verità Giuliano fece rapire Miceli, poi incaricò Pisciotta di farlo fuori. Ma invece di obbedire, Pisciotta propose al prigioniero uno scambio : la sua vita contro un abboccamento con il colonnello Luca. Miceli diede la propria parola e l'incontro ebbe luogo qualche tempo dopo nella casa del mafioso. Fu un Pisciotta nervoso, febbricitante, tormentato da accessi di tosse, che si offrì di aiutare il colonnello a sbarazzarsi di Giuliano. In cambio della sua collaborazione, gli chiese la promessa di intervenire personalmente in suo favore nel caso che fosse stato catturato, e una lettera, firmata di suo proprio pugno da Scelba, con la quale gli veniva garantita l'amnistia completa. Luca accettò. Trascorse ancora qualche tempo, poi il colonnello fece avere a Pisciotta il documento richiesto. Beninteso, si trattava di un falso. Dopo la deposizione di Luca, il processo fu insabbiato, e si comprese ormai che la verità non sarebbe saltata fuori. A cominciare da Pisciotta, per finire con Luca, era evidente che tutti avevano deposto il falso. A un certo punto, sorse il dubbio che Pisciotta non avesse nemmeno ucciso di sua propria mano il cugino Giuliano. Una tale azione sembrava impossibile. Non era infatti Pisciotta trasalito violentemente quando Marotta fece la sua deposizione? Marotta era un amico di Maria Giuliano : in lui si poteva riporre una certa fiducia. Era inoltre stato una delle ultime persone ad incontrarsi con Giuliano. L'11 luglio era stata recapitata a Giuliano una lettera urgente di Verdiani. Il bandito aprì la missiva in presenza di Marotta, poi esclamò - Tutti mi hanno tradito, ma non crederò mai che anche Gaspare Pisciotta... mai! - La figura di Giuliano uscì ingrandita dal processo di Viterbo. Lo stesso pubblico ministero ebbe parole di elogio per il bandito, perché non aveva voluto rivelare i nomi dei compagni presenti a Portella della Ginestra. Invece riservò a Pisciotta una requisitoria finale durissima. E il cugino di Giuliano, nonostante l'intervento di Luca in suo favore, fu condannato ai lavori forzati a vita.

II nero e il bianco Il sipario era calato su quell'inglorioso processo e tutto sembrava finito. Ma non fu così. Uno dopo l'altro, tutti i testimoni che sapevano qualcosa, e soprattutto quelli che avevano minacciato di parlare, furono soppressi. Il -primo al quale toccò una simile sorte fu Passatempo: il suo cadavere venne rinvenuto sulla strada di Montelepre, crivellato di pallottole. Poi si venne a sapere della morte di Verdiani. Qual era stata la causa del decesso? Crisi cardiaca? Suicidio? Avvelenamento? Non lo si seppe mai con precisione, era un mistero. Luca e Perenze riuscirono a cavarsela ... con una promozione. Rimaneva solo un testimone importante. Il più pericoloso: Gaspare Pisciotta, rinchiuso nel carcere dell'Ucciardone a Palermo. Pisciotta sembrava voler farsi dimenticare. Si era dedicato a lavori di tappezzeria ed eseguiva dei bellissimi ricami. Ma, all'improvviso, nel dicembre 1953, corse voce che aveva deciso di vuotare il sacco. Proprio per questa ragione, aveva inoltrato domanda per essere ammesso a un colloquio con il procuratore di Palermo. Ma, come è noto, la giustizia italiana va per le lunghe e fece aspettare Pisciotta. L'8 febbraio 1954, a Roma, Mario Scelba veniva eletto Presidente del Consiglio. Il giorno dopo, Pisciotta, mentre stava in compagnia del padre e di una guardia carceraria bevve una tazza di caffè. Pochi istanti dopo, fu colto da violenti dolori allo stomaco e si rotolò per terra, gridando che era stato avvelenato. Non fu possibile salvarlo. Un'ora dopo, era già cadavere. L'autopsia rivelò che aveva ingerito una forte dose di stricnina, sufficiente ad ammazzare 40 cani. Fu accusato il padre, che divideva la stessa cella, di aver assassinato Gaspare, dietro ordine della mafia. L'anziano uomo fu condannato in prima istanza a trent'anni di reclusione, ma, nel processo d'appello, la precedente sentenza venne annullata per insufficienza di prove. L'inchiesta così ebbe fine. Oggi, ad anni di distanza, quando ormai quasi tutti gli interpreti del dramma sono scomparsi dalla scena, adesso che Giuliano ha raggiunto, nelle ballate popolari, gli eroi della sua infanzia, Carlo Magno e i suoi paladini, ancora la verità su alcuni episodi della sua vita non è stata accertata, e neppure le circostanze esatte della sua morte. Se Gaspare Pisciotta rimane, e nella leggenda e nei libri che trattano del caso Giuliano, come il principale colpevole, i siciliani, in genere, sono restii nell'accordargli questo privilegio. Senza dubbio, Pisciotta era un uomo invidioso, tormentato e debole, ma non poteva uccidere l'amico e cugino con il quale aveva stretto un patto di sangue. Tutto ciò di cui oggi possiamo essere abbastanza certi è che Giuliano non fu ucciso il 14 luglio a Castelvetrano, ma probabilmente due giorni prima, a Monreale. Occorsero dunque quarant'otto ore prima che gli assassini si mettessero d'accordo con i loro clienti e che questi ultimi imbastissero la messinscena adatta. Oggi, il piccolo e polveroso cimitero di Montelepre è divenuto un luogo di pellegrinaggio. Ci si reca là ad ammirare la splendida tomba di marmo bianco dell'ultimo eroe siciliano. Non lontano da questa tomba, c'è anche quella di Pisciotta, di marmo nero. Il bianco e il nero, il Bene e il Male. Questo dualismo, indispensabile alla leggenda, non è affatto soddisfacente per lo spirito della verità.