Il libro

a oltre dieci anni Nicholas Sparks incanta i suoi lettori con storie che esplorano i profondi misteri del cuore, confermandosi come uno degli scrittori più cari al pubblico. Ora, in questo nuovo Dromanzo, ci restituisce fiducia nel destino regalandoci il sorprendente racconto di un uomo scampato alla morte grazie a un portafortuna: la foto di una donna sconosciuta, l’amore senza nome a cui è predestinato.

Durante la sua terza missione in Iraq, Logan Thibault, soldato del corpo dei marines, trova nella sabbia la foto di una giovane donna: una bionda sorridente con maliziosi occhi verde giada. Il suo primo istinto è quello di gettarla via. Poi, immaginando che qualcuno la stia cercando, decide di portarla al campo. Dopo alcuni giorni la fotografia è ancora lì: seguendo l’istinto Logan la infila in tasca e da quel momento non se ne separa più. Ben presto la fortuna bussa alla sua porta: dopo una sorprendente vincita a poker, sopravvive miracolosamente a una granata che uccide due dei suoi più cari compagni. Solo il suo migliore amico, Victor, sembra avere una spiegazione per quell’improvvisa buona sorte: la fotografia è il suo amuleto. Tornato in Colorado, Logan non può fare a meno di pensare alla misteriosa donna ritratta nella foto. Convinto di avere con lei un debito, intraprende un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti per rintracciarla. Non può certo immaginare che Elizabeth, la donna forte ma vulnerabile che infine incontrerà a Hampton, nel North Carolina, sia anche la persona che ha atteso per tutta l’esistenza. Travolto dall’attrazione che prova per lei, Logan non fa alcun accenno al suo «portafortuna». Lui ed Elizabeth si trovano coinvolti in un’appassionante storia d’amore, ma il segreto che li separa minaccia di compromettere irrimediabilmente non solo il loro rapporto, ma anche le loro vite. Pieno di sentimento e autentica suspense, Ho cercato il tuo nome è un romanzo indimenticabile sul potere del destino, una storia d’amore toccante, intensa, raccontata in modo magistrale. L’autore

NICHOLAS SPARKS è nato in Nebraska nel 1965 e ha studiato alla University of Notre Dame. Ha scritto numerosi bestseller tradotti in più di quaranta lingue. Dai suoi libri sono stati tratti film celebri come Le parole che non ti ho detto, I passi dell’amore, Le pagine della nostra vita e Come un uragano. Per Frassinelli ha pubblicato anche, con il fratello Micah, Tre settimane, un mondo, un’opera autobiografica. Vive con la moglie e i cinque figli nel North Carolina. www.nicholassparks.com eNewsletter: www.hachettebookgroupusa.com Nicholas Sparks

HO CERCATO IL TUO NOME

Traduzione di Alessandra Petrelli

FRASSINELLI

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio, e qualsiasi riferimento a persone esistenti o esistite, fatti o luoghi reali è puramente casuale.

Titolo originale: The Lucky One © 2009 Nicholas Sparks © 2009 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. Per Edizioni Frassinelli Collana I Blu ISBN-13: 978-88-8832-028-1 Ringraziamenti

crivere non è mai uno sforzo solitario e, come al solito, sono tanti quelli che devo ringraziare per avermi dato l’energia e la capacità di portare a termine il romanzo. Ci sono molte maniere per Srendere omaggio al contributo di quelle persone, così ho pensato di buttarmi sui diversi modi di dire grazie... almeno secondo Google, che ho interpellato subito prima di buttare giù queste righe. (Senza andare a verificare, siete in grado di riconoscere le varie lingue?)

In cima alla lista, naturalmente, c’è mia moglie Cathy. Soprattutto perché riesce a tenermi in equilibrio e concentrato sulle cose davvero importanti nella vita. Ripeto spesso ai miei figli che per loro sarebbe una fortuna se un giorno sposassero una donna come lei. Thank you! Al secondo posto vengono i ragazzi: Miles, Ryan, Landon, Lexie e Savannah, tutti immortalati (in maniera molto, molto discreta) nei nomi di personaggi dei miei romanzi precedenti. Ricevere i loro abbracci è il dono più grande che ci sia. JMuchas gradasi E poi? La mia agente letteraria, Theresa Park, con la quale ho un costante debito di gratitudine. Il rapporto agente-autore a volte può essere insidioso... o così ho sentito dire da altri agenti e autori. In tutta sincerità, per me è stato sempre e soltanto fantastico e meraviglioso collaborare con Theresa, fin dalla nostra prima telefonata nel 1995. È la migliore; non solo intelligente e paziente, ma anche dotata di più buonsenso della maggior parte di quelli che conosco. Danke schòn! Denise DiNovi, amica e complice cinematografica, è un’altra delle benedizioni della mia vita. Ha prodotto tre miei film – Come un uragano, Le parole che non ti ho detto e I passi dell’amore – il che fa di me uno degli autori più fortunati del mondo. Merci beaucoup! David Young, il mitico amministratore delegato di Grand Central Publishing, mi ha sempre dato il massimo sostegno e io sono onorato di lavorare con lui. Arigatò gozaimasu! Jennifer Romanello, amica e addetta stampa, negli ultimi tredici anni ha reso la promozione dei libri un’esperienza assai interessante e gradevole. Grazie! Edna Farley, amica telefonica, pianifica praticamente ogni cosa e affronta tutti i problemi che spuntano durante i viaggi. Non è soltanto straordinaria, ma inguaribilmente ottimista, una qualità che ho imparato ad apprezzare. Tapadh leibh! Howie Sanders, agente cinematografico e amico, è un altro socio del club «Lavoro con quell’autore da molto tempo». E la mia esistenza è migliore per questo. Toda rabal Keya Khayatian, anche lui agente cinematografico, è eccezionale e sempre generosamente disponibile. Merci! O, se preferisci, Mamnoon! Harvey-Jane Kowal e Sona Vogel, le mie redattrici, hanno una pazienza biblica, considerato che io sono costantemente in ritardo sulle scadenze. Devono rimediare a tutte le piccole sviste nei miei romanzi (ok, a volte anche a quelle più grandi) e, purtroppo, non hanno quasi mai molto tempo. Quindi, se trovate un errore (e potrebbe accadere) sappiate che non è colpa loro, ma mia. Loro sono fantastiche in ciò che fanno. A entrambe: Spasìba! Scott Schwimer, il mio legale, racconta barzellette sugli avvocati che lasciano di stucco. È una brava persona e un ottimo amico. Liels paldies! I miei ringraziamenti più sentiti anche a Marty Bowen, Courtenay Valenti, Abby Koons, Sharon Krassney, Lynn Harris e Mark Johnson. Efharistò polì! Alice Arthur, fotografa, è sempre pronta a rispondere alle mie chiamate e scatta splendide foto, di cui le sono grato. Toa chieì O Xie xie! Flag ha realizzato ancora una volta una magnifica copertina. Shukran gazilan! Tom McLaughlin, preside della Epiphany School – una scuola che mia moglie e io abbiamo aiutato a fondare -, ha reso la mia vita più ricca e più piena da quando lavoriamo insieme. Obrigado! E per concludere, a David Simpson, collega allenatore della squadra di corsa della New Bern High School, Mahalo nui loa! P.S. Le lingue sono: inglese, spagnolo, tedesco, francese, giapponese, italiano, gaelico scozzese, ebraico, farsi (persiano), russo, lettone, greco, cinese, arabo, portoghese e havvaiano. Almeno stando alle indicazioni del sito che ho trovato su Internet. Ma chi crede a tutto quello che c’è lì? A Jamie Raab e Dennis Dalrymple

Un anno da ricordare...

e un anno da dimenticare.

Vi sono spiritualmente vicino. HO CERCATO IL TUO NOME Clayton e Thibault

Adesso che li vedeva da vicino, gli piacevano ancora meno. Sia lui sia il cane. Il vicesceriffo Keith Clayton non amava i pastori tedeschi e questo, sebbene se ne stesse tranquillo, gli ricordava Panther, il cane poliziotto dell’agente Kenny Moore, quello addestrato ad attaccare all’inguine non appena riceveva l’ordine. Clayton considerava il collega un idiota, ma era l’essere più vicino a un amico che avesse al dipartimento e doveva riconoscere che aveva un modo di raccontare gli assalti del cane alle parti intime dei sospettati che lo faceva piegare in due dalle risate. E di sicuro Moore avrebbe apprezzato il gruppetto di bagnanti nudiste che lui aveva appena fatto sloggiare. C’erano un paio di studentesse che prendevano la tintarella integrale giù al torrente. Era appostato da pochi minuti e aveva scattato solo qualche foto, quando una terza ragazza era saltata fuori da dietro le ortensie. Si era sbarazzato velocemente della macchina fotografica gettandola nei cespugli alle sue spalle, era sbucato fuori dalla macchia e un istante dopo si era trovato faccia a faccia con la tipa.

«Ma bene, che cosa combiniamo qui?» aveva detto con voce strascicata, tanto per metterla sulla difensiva.

Non gli andava di essere stato beccato a spiare, né era contento della propria battuta d’esordio. Di solito era più brillante. Molto più brillante.

Per fortuna la ragazza era troppo imbarazzata e rischiò addirittura di inciampare indietreggiando. Balbettò qualche parola mentre cercava disperatamente di coprirsi con le mani.

Clayton non si preoccupò di distogliere lo sguardo. Sorrise, invece, fingendo di non notare il suo corpo, come se per lui fosse normale imbattersi in donne nude nel bosco. Aveva già capito che non si era accorta della macchina fotografica.

«Calmati, ora. Che cosa stavate facendo?» chiese.

Lo sapeva perfettamente. Succedeva tutte le estati, specialmente in agosto: le studentesse universitarie, dirette al mare per un ultimo weekend di sole prima dell’inizio del semestre autunnale, a volte facevano una deviazione su una vecchia strada dissestata utilizzata dai boscaioli che si inoltrava per un paio di chilometri nella foresta e approdava a una spiaggetta sassosa diventata famosa come luogo di nudisti. Clayton ci faceva spesso un salto nella vaga speranza di lustrarsi la vista. Due settimane fa aveva visto sei bellezze; oggi ce n’erano tre, e quelle che prima erano sdraiate a prendere il sole adesso stavano cercando di recuperare le magliette. Una di loro era un po’ pienotta, ma le altre due – compresa la brunetta che gli stava di fronte – avevano un corpo da far girare la testa ai ragazzi delle confraternite. E anche ai poliziotti.

«Credevamo che non ci fosse nessuno! Pensavamo fosse un posto tranquillo!» Il suo viso aveva un’aria così innocente che gli venne voglia di dire: Chissà come sarebbe fiero il tuo paparino se sapesse che cosa stava facendo la sua bambina. Lo divertiva immaginare la risposta di lei, ma siccome era in uniforme doveva esprimersi in modo ufficiale. E poi sapeva che stava sfidando la sorte; se si fosse sparsa la voce che l’ufficio dello sceriffo pattugliava la zona, addio studentesse, e a questo non ci voleva pensare.

«Andiamo a parlare con le tue amiche.»

La seguì verso la spiaggetta, scrutandola con gusto mentre lei tentava invano di coprirsi. Una volta arrivati nella radura in riva al fiume, le sue amiche si erano già infilate le magliette. La brunetta si mise a correre verso le altre e afferrò un asciugamano, rovesciando un paio di lattine di birra.

Clayton indicò un albero lì vicino.

«Non avete letto il cartello?»

Al che, tutte e tre rivolsero lo sguardo da quella parte. Come le pecore, sempre in attesa di eseguire qualche ordine, pensò lui. Il cartello, piccolo e parzialmente coperto dai rami più bassi di una quercia, era stato apposto per ordine del giudice Kendrick Clayton, che guarda caso era suo zio.

L’idea dei cartelli era stata proprio di Keith: sapeva che un esplicito divieto avrebbe accresciuto l’attrattiva del luogo. «Non l’abbiamo visto!» esclamò la brunetta voltandosi verso di lui. «Non lo sapevamo. Ci hanno parlato di questo posto solo un paio di giorni fa.»

Mentre protestava, cercava di tener su l’asciugamano; le altre invece erano troppo terrorizzate per fiatare.

Il suo tono lamentoso la faceva sembrare una ragazzina viziata. Il che probabilmente era vero. Avevano tutte quell’aria.

«Non sapevate che in questa contea è vietato mostrarsi nudi in pubblico?»

Le vide impallidire ulteriormente, all’idea che quella piccola trasgressione macchiasse la loro fedina penale. Era divertente stare lì a guardarle, ma poi si rammentò che non doveva esagerare.

«Come ti chiami?»

«Amy», rispose la brunetta. «Amy White.»

«Di dove sei?»

«Chapel Hill, ma sono nata a Charlotte.»

«Noto che vi siete portate dietro degli alcolici. Siete grandi abbastanza?»

Per la prima volta anche le altre due aprirono bocca. «Sissignore.» «Bene, Amy. Ti dirò quello che ho intenzione di fare. Mi fido della vostra buonafede: non avete visto il cartello e poi avete l’età per bere, quindi lascerò perdere. Fingerò di non essere mai stato qui. Basta che promettiate di non raccontare al mio capo che vi ho lasciate andare.» Non potevano crederci.

«Sul serio?»

«Sul serio», confermò lui. «Anch’io sono stato studente, un tempo.» Non era vero, ma gli sembrava una cosa carina da dire. «E ora vi consiglio di rivestirvi. Non si può mai sapere... potrebbe esserci qualche guardone in giro.» Rivolse loro un sorriso smagliante. «E portate via tutte le lattine, d’accordo?»

«Sissignore.» «Bene.» Si voltò per andarsene.

«Tutto qui?»

Si girò verso di loro, sempre sorridendo. «Esatto. Mi raccomando, fate le brave.» Clayton si addentrò tra i cespugli, schivando gli occasionali rami bassi, e si allontanò compiaciuto per come aveva gestito la faccenda. Era stato furbo. Amy gli aveva sorriso e, mentre si voltava, lui aveva accarezzato per un attimo l’idea di tornare indietro per chiederle il numero di telefono. Ma poi aveva preferito lasciare le cose come stavano. Molto probabilmente avrebbero raccontato alle amiche che, pur essendo state beccate dalla polizia, non avevano subito conseguenze. Così si sarebbe sparsa la voce che gli agenti da quelle parti erano tolleranti. In ogni caso, mentre camminava nel bosco, si augurava che le foto fossero venute bene.

Sarebbero state un’ottima aggiunta alla sua collezione. Tutto sommato era stata una giornata positiva. Stava pensando di andare a recuperare la macchina fotogrrafica, quando udì qualcuno fischiare. Girò gli occhi verso la strada sterrata e spuntò all’improvviso lo sconosciuto con il pastore tedesco che camminava piano... sembrrava un hippie anni sessanta. Non era assieme alle ragazze, pensò Clayton. Troppo vecchio per essere uno studente universitario. Aveva capelli lunghi e arruffati e portava sulla schiena uno zaino da cui spuntava un sacco a pelo. Non si trattava di un gitante diretto alla spiaggia; quel tizio aveva l’aria di chi viaggia in autostop e magari dorme all’addiaccio. Non c’era modo di sapere da quanto tempo fosse in giro, ne che cosa avesse visto. Per esempio, un agente che scattava foto? Assolutamente no. Era impossibile. Lui si era appostato lontano dalla strada, inoltre la vegetazione era folta e avrebbe sentito il rumore di qualcuno che si avvicinava. Giusto? Eppure era uno strano posto per un autostoppista. Si trovava nel mezzo del nulla, e l’ultima cosa che Clayton voleva era un branco di hippie che gli rovinasse la spiaggia. A quel punto lo sconosciuto era passato oltre. Era arrivato pressappoco all’altezza dell’auto di servizio e si dirigeva verso la jeep delle ragazze. Clayton uscì sulla strada e si schiarì la gola. L’uomo e il cane si voltarono.

Lui continuò a esaminarli da lontano. L’uomo non sembrava affatto turbato dalla sua apparizione, al pari del cane, e qualcosa nello sguardo di quello sconosciuto lo mise a disagio. Era come se si fosse aspettato di vederlo sbucare fuori. E anche il pastore tedesco. Il cane aveva un’espressione altera e guardinga nello stesso tempo -quasi intelligente – proprio come Panther poco prima di essere lanciato. Clayton provò una stretta allo stomaco. Fece uno sforzo per non pararsi le parti intime.

Continuarono a guardarsi per un po’. Clayton sapeva che la sua uniforme intimidiva la maggior parte della gente. Chiunque, anche se innocente, si innervosiva di fronte ai rappresentanti della legge. Era uno dei motivi per cui gli piaceva essere un agente.

«Ce l’ha il guinzaglio per il cane?» chiese, con un tono autoritario.

«Nello zaino.»

Clayton non riconobbe nessun accento particolare. «Glielo metta.» «Stia tranquillo, non si muoverà finché non glielo dirò io.» «Glielo metta lo stesso.»

Lo sconosciuto si sfilò lo zaino e ci frugò dentro; Clayton allungò il collo, nella speranza di scorgere qualcosa di proibito, tipo droga o armi. Un attimo dopo il guinzaglio era agganciato al collare e l’uomo lo guardava con un’aria di sfida, come a dire: E adesso?

«Che cosa ci fa qui?» domandò Clayton. «L’autostop.» «Certo che si porta dietro un bel bagaglio per essere un autostoppista.» Lo sconosciuto non rispose.

«Oppure si aggirava nella zona... in cerca di qualche spettacolo proibito?»

«È quello che fa la gente da queste parti?»

Clayton non apprezzò il tono, né l’allusione. «Vorrei vedere un suo documento.» Lo sconosciuto si levò di nuovo lo zaino e tirò fuori il passaporto. Mostrò il palmo aperto al cane, per ordinargli di stare fermo, poi fece un passo verso l’agente e glielo porse.

«La patente non ce l’ha?»

«No.»

Clayton lesse il nome, muovendo impercettibilmente le labbra. «Logan Thibault?» L’altro annuì.

«Da dove viene?»

«Colorado.

«Un lungo viaggio.»

Lo sconosciuto non disse niente.

«È diretto in qualche posto in particolare?»

«Arden.»

«E che cosa c’è ad Arden?»

«Non saprei. Non ci sono mai stato.»

Clayton rimase perplesso di fronte a quella risposta. Troppo astuta.

Troppo... arrogante? Troppo qualcosa. Qualunque cosa. All’improvviso capì di non provare simpatia per quel tipo. «Aspetti qui», disse. «Le dispiace se faccio un controllo?»

«Prego, si accomodi.»

Mentre si avvicinava alla macchina, Clayton si voltò e vide lo sconosciuto tirare fuori dallo zaino una ciotola e riempirla d’acqua con una bottiglia.

Come se non avesse un pensiero al mondo.

Adesso scopriremo se è vero. Salito in auto, trasmise via radio il nome sillabandolo e venne interrotto dalla centralinista.

«Si pronuncia Ti-bó’, non ‘Tài-bolt’. È francese.»

«E che cosa me ne importa di come si pronuncia?» «Volevo soltanto...»

«Lascia stare, Marge. Controlla e basta.» «Ha l’aspetto di un francese?»

«Che diavolo ne so di che aspetto ha un francese!» «Sono curiosa. E sta’ calmo. Ho un sacco da fare qui.» Come no, pensò Clayton. Sei molto impegnata a mangiare ciambelle. Marge se ne sbafava una decina al giorno. Doveva pesare almeno centocinquanta chili.

Dal finestrino vide lo sconosciuto accovacciarsi accanto al pastore tedesco e mormorargli all’orecchio mentre quello lappava l’acqua. Che idea, parlare con gli animali. Assurdo. Come se le bestie fossero in grado di capire qualcosa al di là degli ordini basilari. Anche la sua ex moglie lo faceva, e questo avrebbe dovuto metterlo sull’avviso fin da subito.

«Non riesco a trovare niente», annunciò Marge, parlando mentre masticava qualcosa. «Nessuna denuncia pendente di alcun genere.»

«Ne sei sicura?»

«Sì. So fare il mio lavoro.»

Come se avesse ascoltato la conversazione, lo sconosciuto raccolse la ciotola e la rimise nello zaino, poi se lo caricò un’altra volta in spalla.

«Avete ricevuto altre chiamate? Su gente che bighellonava in giro o cose del genere?» «No, è stata una mattinata tranquilla. A proposito, tu dove sei? Tuo padre ti cercava.» Il padre di Clayton era lo sceriffo della contea.

«Digli che torno in ufficio tra poco.»

«Sembra molto arrabbiato.»

«Digli che sono stato fuori di pattuglia, hai capito?» In questo modo penserà che sto lavorando, aggiunse tra sé.

«D’accordo.»

Così va meglio. «Ora devo andare.» Rimise a posto la ricetrasmittente e rimase seduto immobile, provando una punta di delusione. Sarebbe stato divertente vedere come se la cavava in prigione quel tizio, con la sua chioma femminile e tutto il resto. I fratelli Landry se la sarebbero spassata con lui. Erano frequentatori regolari della cella il sabato sera; ubriachi e molesti, disturbavano la quiete pubblica azzuffandosi quasi sempre tra loro. Tranne quando erano dentro, allora se la prendevano con qualcun altro.

Giocherellò con la maniglia della portiera. Che cosa aveva questa volta suo padre? Certo che gli dava proprio sui nervi. Fa’ questo. Fa’ quello. Hai compilato quelle carte? Perché sei in ritardo? Dove sei stato? Gli sarebbe tanto piaciuto mandare il vecchio a quel paese. Era ancora convinto di avere lui il controllo della situazione.

Che importa, si disse. Un giorno o l’altro si sarebbe accorto che non era così. Adesso era ora di spedire via il vagabondo, prima che arrivassero altre ragazze. Quello era considerato un posticino segreto, giusto? I fricchettoni hippie potevano guastare l’atmosfera.

Scese dall’auto e si richiuse la portiera alle spalle. Il cane piegò il muso di lato, fissandolo mentre lui si avvicinava e porgeva il passaporto allo sconosciuto. «Mi scusi per il disturbo, signor...» stavolta sbagliò la pronuncia di proposito. «Stavo solo facendo il mio dovere. A meno che lei non abbia armi o droga nello zaino.»

«Non ne ho.»

«Mi permette di accertarmene personalmente?»

«Direi di no. Quarto Emendamento e tutto il resto.» «Vedo che ha un sacco a pelo con sé. Dorme in campeggio?» «Ieri notte ero nella Burke County.»

Clayton ci rifletté un momento.

«Non ci sono campeggi da queste parti», replicò.

Lo sconosciuto non disse niente.

Fu Clayton a distogliere per primo lo sguardo. «Le consiglio di tenere il suo cane al guinzaglio.» «Non sapevo che in questa contea fosse in vigore una legge in tal senso.» «Non c’è. Lo dico soltanto per il bene del cane. Il traffico è molto intenso sulla statale.» «Lo terrò a mente.»

«Bene, allora.» Clayton fece per andarsene, poi si fermò di nuovo. «Le spiace se le chiedo da quanto tempo è qui?»

«Ero appena arrivato a piedi. Perché, c’è qualche problema?» Il tono di quella risposta lo mise in allarme, ma si ricordò che il tizio non poteva sapere che cosa stava facendo lui. «No, niente.» «Posso andare?»

«Sì, vada.»

Clayton guardò l’uomo e il cane incamminarsi lungo la strada sterrata e poi imboccare un sentiero in mezzo al bosco. Una volta scomparsi, tornò sui propri passi per cercare la macchina fotografica. Frugò nei cespugli, scalciò gli aghi di pino, rifece il percorso un paio di volte. Alla fine cadde in ginocchio, assalito da un crescente senso di panico. L’apparecchio apparteneva all’ufficio dello sceriffo. Lui l’aveva soltanto preso in prestito per quelle «missioni speciali» e suo padre si sarebbe messo a fare un sacco di domande se saltava fuori che era stato perso. O, peggio ancora, se l’avessero ritrovato con dentro le foto delle ragazze nude. Lo sceriffo era molto rigido sul protocollo e il senso di responsabilità.

Erano passati alcuni minuti. In lontananza, sentì il rombo di un motore che veniva acceso. Immaginò fosse quello della jeep delle studentesse. Solo per un istante si soffermò a riflettere su che cosa avrebbero pensato loro, vedendo la sua auto ancora lì. Ma al momento aveva preoccupazioni più gravi.

La macchina fotografica era scomparsa.

Non l’aveva persa. Era sparita. E di sicuro non poteva essersene andata da lì con le sue gambe. Non era neppure possibile che l’avessero trovata le ragazze, considerò. Ciò significava che Taibolt lo aveva preso in giro fin dal principio. Tai-bolt. Prendere in giro. Lui. Incredibile. Aveva capito subito che quel tizio aveva un atteggiamento sospetto, troppo sicuro di sé, troppo sornione.

Ah, ma non l’avrebbe passata liscia, no di certo. Non era ancora nato l’hippie lurido e fricchettone e che parlava con il cane in grado di fregare Keith Clayton.

Scostando i rami bassi tornò sulla strada, con l’idea di raggiungere Logan Thibault e scambiare due chiacchiere. Questo tanto per cominciare. Ma non sarebbe finita lì; questo era sicuro. Il tizio credeva di poter giocare sporco senza pagare le conseguenze? Niente affatto. Non in quella città, quanto meno. E non gli importava niente neppure del cane. Il cane si arrabbiava? Ciao, ciao, cane. Semplice. I pastori tedeschi erano armi... nessun tribunale dello stato lo avrebbe mai smentito.

Una cosa alla volta, si disse. Trova Thibault. Riprenditi la macchina fotografica. Poi pensa al passo successivo.

Solo in quel momento, mentre si avvicinava all’auto, si accorse che entrambe le gomme posteriori erano a terra.

«Come hai detto che ti chiami?»

L’autostoppista si voltò sul sedile anteriore della jeep, parlando sopra il frastuono dell’aria che entrava dai finestrini. «Logan Thibault.» Indicò il retro della macchina. «E lui è Zeus.»

Il pastore tedesco era lì dietro, la lingua penzoloni, il naso sollevato verso il vento mentre viaggiavano veloci in direzione dell’autostrada.

«Bellissimo cane. Io sono Amy. E loro sono Jennifer e Lori.» Thibault si girò a guardarle. «Piacere.»

«Ciao.»

Sembravano turbate. Il che non lo sorprendeva, dopo quello che era successo. «Grazie per il passaggio.»

«Figurati. Hai detto che devi andare a Hampton?»

«Se non è troppo distante.»

«È proprio sulla strada.»

Dopo essersi infilato nel bosco e aver sistemato un paio di cosette, Thibault era tornato sulla sterrata mentre le ragazze stavano partendo. Aveva sporto il pollice, grato di avere Zeus con sé, e loro si erano subito fermate.

A volte le cose vanno proprio per il verso giusto.

Le aveva viste arrivare quel mattino presto – in realtà aveva dormito sulle rocce che davano sulla spiaggetta -ma si era eclissato non appena avevano cominciato a svestirsi. A suo parere quello che facevano rientrava nella categoria «niente di male, niente di brutto» e, a parte lui, non c’era in giro nessun altro. Non sarebbe certo rimasto lì a guardarle. Che importanza aveva se si spogliavano oppure se si travestivano da galline? Non era affar suo, ma a un certo punto aveva scorto una macchina della polizia della Hampton County che risaliva la strada.

Dando una bella occhiata alla faccia dell’agente al volante si era accorto che c’era qualcosa di sbagliato nella sua espressione. Senza rifletterci aveva fatto un giro tagliando per il bosco ed era arrivato in tempo per vedere il poliziotto che controllava la scheda di memoria della sua macchina fotografica e poi scendeva dall’auto chiudendo la portiera senza far rumore. Lo aveva seguito con lo sguardo mentre avanzava con cautela verso il promontorio roccioso. Thibault sapeva perfettamente che quell’uomo poteva essere lì per lavoro, ma aveva la stessa aria del suo Zeus quando aspettava un ghiotto boccone di carne. Troppo esaltata per i suoi gusti.

Così aveva ordinato al cane di restare immobile dov’era, si era tenuto a distanza di sicurezza in modo che il poliziotto non si accorgesse di lui, e il resto del piano era venuto fuori da solo.

Non poteva affrontarlo verbalmente: l’agente avrebbe dichiarato che stava raccogliendo delle prove e le sue affermazioni avrebbero avuto più peso di quelle di uno sconosciuto. Anche un confronto fisico era fuori discussione, soprattutto perché avrebbe causato più problemi che altro, per quanto non gli sarebbe dispiaciuto arrivare a uno scontro diretto con quel tizio. Per fortuna – o sfortunatamente, a seconda del punto di vista – era apparsa la terza ragazza, l’uomo era stato preso dal panico e Thibault aveva visto dov’era finita la macchina fotografica. Dopo averla raccolta da terra avrebbe potuto accontentarsi, ma quel tizio si meritava una lezione. Niente di drammatico, giusto un gesto che preservasse l’onore delle ragazze, permettesse a lui di proseguire il viaggio e rovinasse la giornata al poliziotto. Ecco perché aveva forato i pneumatici dell’auto di servizio. «A proposito», disse Thibault. «Ho trovato la tua macchina fotografica tra i cespugli.» «Non è mia. Lori, Jen, una di voi ha perso la macchina fotografica?» Entrambe negarono.

«Tenetela pure», dichiarò Thibault posandola sul sedile. «Tanto io ne ho già una. E grazie per il passaggio.»

«Sei sicuro? Ha l’aria costosa.»

«Non preoccuparti.»

«Grazie.»

Thibault guardò le ombre che giocavano sul viso di Amy, trovandola attraente come una bellezza di città. Lineamenti scolpiti, pelle olivastra, occhi castani con pagliuzze nocciola. Avrebbe potuto guardarla per ore senza stancarsi.

«Senti... fai qualcosa questo fine settimana?» domandò lei. «Noi andremo tutte insieme alla spiaggia.»

«Grazie per l’invito, ma non posso venire.»

«Scommetto che vai a trovare la tua ragazza, vero?» «Che cosa te lo fa pensare?»

«Te lo leggo in faccia.»

Lui si impose di girare la testa dall’altra parte. «Qualcosa del genere.» 2 Thibault

Era strano pensare alle svolte impreviste nella vita di un uomo. Fino a un anno prima Thibault avrebbe colto al volo l’occasione di passare un fine settimana con Amy e le sue amiche. Probabilmente era proprio quello che gli serviva, ma quando lo lasciarono alla periferia di Hampton in quell’afoso pomeriggio di agosto, lui le salutò con la mano, provando un senso di sollievo. Era stato terribilmente faticoso mantenere una facciata di normalità.

Da quando aveva lasciato il Colorado – erano passati ormai cinque mesi – non aveva mai trascorso volontariamente più di qualche ora con nessuno, a eccezione di un vecchio contadino di Little Rock che lo aveva ospitato per la notte sul soppalco della fattoria, dopo una cena in cui entrambi avevano a stento spiccicato parola. Thibault aveva apprezzato il fatto che il vecchio non sentisse il bisogno di interrogarlo su come fosse capitato lì. Nessuna domanda, nessuna curiosità, nessuna velata allusione. Soltanto la semplice accettazione del fatto che lui non aveva voglia di parlare. Per ricambiare, Thibault si era fermato un paio di giorni aiutandolo a riparare il tetto della stalla prima di tornare per strada, lo zaino in spalla, Zeus alle calcagna.

A parte il breve passaggio che gli avevano offerto le ragazze, era sempre andato a piedi. Dopo aver lasciato le chiavi dell’appartamento al padrone di casa nel marzo precedente, aveva consumato otto paia di scarpe, era sopravvissuto alle lunghe e solitàrie trasferte a forza di barrette energetiche e acqua e una volta, nel Tennessee, si era mangiato cinque interi pancake di fila dopo aver digiunato per quasi tre giorni. Assieme a Zeus aveva attraversato tormente, grandinate, piogge torrenziali e calure così intense da fargli venire le vesciche sulle braccia; aveva visto un tornado all’orizzonte nei pressi di Tulsa, in Oklahoma, e in un paio di casi aveva rischiato di essere colpito da un fulmine. Aveva fatto grandi deviazioni per evitare le arterie principali, allungando di molto il percorso, a volte così, d’impulso. In genere camminava finché non era stanco e a fine giornata cercava un posto in cui accamparsi, un punto qualsiasi dove pensava che lui e Zeus non sarebbero stati disturbati. Di mattina si rimettevano in marcia prima dell’alba, senza dare nell’occhio. Fino a quel momento nessuno li aveva importunati.

Calcolava di percorrere una media di trenta chilometri al giorno, anche se non aveva mai tenuto il conto preciso delle distanze né del tempo. Non era quello lo scopo del viaggio. Probabilmente c’era chi pensava che camminasse per lasciarsi dietro i ricordi del mondo che aveva abbandonato, il che suonava assai romantico; altri credevano che lo facesse solo per il gusto di tenersi in movimento. Ma non era vero neppure questo: gli piaceva camminare e aveva un posto da raggiungere. Tutto qui.

Amava mettersi in marcia quando voleva, all’andatura che voleva, verso il luogo dove voleva essere. Dopo quattro anni passati a eseguire ordini nel corpo dei marines, era il concetto di libertà ad attrarlo.

La madre stava in pensiero per lui, ma del resto era quello che facevano sempre le madri. O quanto meno la sua. La chiamava abbastanza regolarmente per farle sapere che andava tutto bene e di solito dopo era assalito dalla sensazione di non essere giusto con lei. Era già stato via a lungo nei cinque anni precedenti, in Iraq, e ogni volta, prima di partire, aveva ascoltato la sua voce preoccupata che gli raccomandava per telefono di non commettere sciocchezze. Non lo aveva fatto, ma ci era andato vicino in più di un’occasione. E anche se lui non le aveva mai raccontato niente al riguardo, lei leggeva i giornali. «Ci mancava solo questo, adesso», aveva protestato la vigilia di quest’ultima partenza. «Mi sembra tutta una pazzia.»

Forse lo era. Forse no. Ancora non aveva deciso.

«Che ne pensi tu, Zeus?»

Il cane alzò il muso sentendo il proprio nome e gli trotterellò accanto.

«Sì, lo so. Hai fame. Non è una novità.»

Si fermò nel parcheggio di uno squallido motel ai margini della città. Prese la ciotola e ciò che restava del cibo per cani. Mentre Zeus mangiava, Thibault diede un’occhiata alla città davanti a lui.

Hampton non era il posto peggiore che avesse visto, questo era sicuro, ma neppure il migliore. La città sorgeva sulle sponde del South River, una cinquantina di chilometri a nordovest di Wilmington e della costa, e a prima vista non sembrava diversa dalle tante comunità operaie autosufficienti, con una lunga storia alle spalle, che costellavano il Sud degli Stati Uniti. Un paio di semafori dondolavano appesi a cavi volanti, regolando il flusso del traffico diretto verso il ponte sul fiume, e ai lati della via principale c’erano bassi edifici di mattoni che si susseguivano fitti più o meno per un chilometro, con le scritte applicate sulle vetrine di bar, tavole calde o ferramenta. Qua e là crescevano alberi di magnolia le cui radici avevano crepato e sollevato l’asfalto dei marciapiedi. In lontananza riconobbe la vecchia colonnina a righe di un barbiere con tanto di vecchietto regolamentare seduto sulla panca lì di fronte. Sorrise. Era tutto molto pittoresco, come una cartolina degli anni Cinquanta.

Tuttavia, guardando meglio, si rese conto che la prima impressione era fuorviante. Nonostante la posizione centrale sul lungofiume – o forse proprio a causa di essa – colse i segnali di decadenza nei tetti imbarcati, nei mattoni sbriciolati a livello delle fondamenta, nelle chiazze di umidità sull’intonaco appena sopra, che stavano a indicare gravi inondazioni in passato. I negozi erano ancora tutti in attività, ma a giudicare dal parco macchine posteggiato lungo la via, si chiese per quanto tempo ancora avrebbero resistito. I quartieri storici delle piccole città stavano facendo la fine dei dinosauri, e se la cittadina di fronte a lui somigliava alle molte altre che aveva già visitato, di certo c’era una zona commerciale più nuova, sorta intorno a un supermercato di una grossa catena, che avrebbe segnato il destino di quella parte dell’abitato.

Strano, però. Trovarsi lì. Non sapeva bene come si era immaginato Hampton, ma forse non così.

Non aveva importanza. Mentre Zeus finiva di mangiare, lui si domandò quanto tempo avrebbe impiegato a rintracciarla... la donna della fotografia.

La donna che era venuto a incontrare.

Comunque l’avrebbe trovata. Questo era poco ma sicuro. Si caricò lo zaino in spalla. «Hai finito?» Zeus inclinò il muso.

«Andiamo a cercare una camera. Voglio mangiare e farmi una doccia. E anche tu hai bisogno di un bel bagno.» Avanzò di qualche passo prima di accorgersi che il cane non si era mosso.

Si voltò a guardarlo.

«Non fare quella faccia. Hai bisogno di lavarti. Punto. Puzzi.» Zeus rimase immobile.

«Va bene. Fa’ quello che ti pare. Io vado.»

Si diresse verso la reception per registrarsi, sapendo che il cane l’avrebbe seguito. Alla fine Zeus lo seguiva sempre.

Prima di imbattersi in quella fotografia, la vita di Thi-bault aveva seguito i suoi binari. Lui aveva sempre avuto un progetto. Aveva desiderato riuscire a scuola e l’aveva fatto; aveva voluto praticare molti sport e aveva avuto successo più o meno in tutti. Aveva voluto imparare a suonare il piano e il violino ed era diventato abbastanza bravo da comporre musica. Dopo il diploma alla University of Colorado aveva pensato di entrare nei marines e il reclutatore era rimasto stupito che avesse deciso di far parte della truppa, anziché frequentare la scuola ufficiali. Stupito, ma entusiasta. In genere i laureati non amano mischiarsi tra le file dei soldati, mentre era proprio quello che voleva lui.

Il crollo delle Torri Gemelle non aveva influito molto sulla sua decisione.

Arruolarsi gli era sembrata la scelta più naturale, dato che il padre aveva servito nel corpo per venticinque anni. Suo papà aveva cominciato come soldato semplice e aveva finito per diventare uno di quei sergenti brizzolati e dalla mascella volitiva che incutono timore a tutti, tranne alla moglie e ai loro sottoposti. Trattava i propri uomini come se fossero figli; il suo unico obiettivo, soleva ripetere, era riportarli a casa dalla mamma sani e salvi e cresciuti. Nel corso del tempo era stato invitato a una cinquantina di matrimoni dai suoi ragazzi, che non concepivano di sposarsi senza la sua benedizione. Dal punto di vista militare si era guadagnato le più alte onorificenze in Vietnam e aveva prestato servizio a Grenada, Panama, in Bosnia e nella prima guerra del Golfo. Non gli dispiaceva venire trasferito, e il piccolo Logan aveva trascorso l’infanzia passando da una base all’altra in tutto il mondo. Per certi versi era più affezionato a Okinawa che al Colorado e, sebbene il suo giapponese fosse arrugginito, era convinto che una settimana a Tokyo gli sarebbe bastata per rispolverarlo. Come suo padre, immaginava di andare in pensione dopo una carriera nel corpo dei marines, ma diversamente da lui si augurava di vivere abbastanza a lungo da godersela. Thi-bault senior era morto all’improvviso di infarto due anni dopo aver smesso la divisa. Un attimo prima stava spalando la neve nel vialetto, l’attimo successivo non c’era più. All’epoca il figlio aveva quindici anni, e quello era il suo ricordo più vivido per quanto riguardava il periodo precedente l’arruolamento.

Da giovane, essere figlio di un militare confonde un po’ le cose, se non altro perché ci si sposta in continuazione. Amici che vanno e vengono, valigie fatte e disfatte, frequenti traslochi in cui ci si porta dietro solo l’essenziale e, come risultato, pochi appigli. A volte è difficile, ma tempra un ragazzo in una maniera che agli altri risulta incomprensibile. Gli insegna che, sebbene sia inevitabile lasciarsi alle spalle alcune persone, è altrettanto inevitabile che queste vengano sostituite da altre; che ogni posto ha qualcosa di bello – e di brutto – da offrire. Fa crescere in fretta.

Anche gli anni del college erano piuttosto confusi, ma quel capitolo della sua vita aveva caratteristiche proprie. Lo studio durante la settimana, lo svago nei weekend, gli esami, la dieta da fastfood e due ragazze, una delle quali era durata più di un anno. Chiunque abbia frequentato l’università ha storie identiche da raccontare, poche delle quali con un impatto a lungo termine. Alla fine resta solo ciò che hai studiato. In realtà, lui aveva avuto l’impressione che la sua vita cominciasse davvero solo quando era arrivato a Parris Island per l’addestramento di base. Non appena era sceso dalla corriera il sergente istruttore aveva cominciato a sbraitargli nell’orecchio.

Non c’è niente come un sergente istruttore per convincerti che tutto quello che c’è stato prima nella tua vita non conti nulla. Adesso appartenevi a loro, e questo era quanto. Sei uno sportivo? Fammi cinquanta flessioni, campione. Hai la laurea? Monta il fucile, Einstein. Tuo padre era nei marines? Pulisci le latrine come faceva lui ai suoi tempi. I soliti cliché.

Corri, marcia, sull’attenti, striscia nel fango, scala la parete: l’addestramento era esattamente come se l’era immaginato.

Doveva ammettere che la disciplina funzionava quasi sempre. Spezzava le persone, le riduceva in frantumi e alla fine le rimodellava in veri soldati. O almeno era quello che gli dicevano. Lui non si spezzò. Eseguiva gli ordini, teneva la testa bassa, faceva come loro volevano e rimase l’uomo che era stato prima. Ma diventò lo stesso un marine.

Finì nel Primo battaglione, Quinto reggimento, a Camp Pendleton. San Diego era il luogo giusto per lui, clima stupendo, grandi spiagge e donne bellissime. Ma non era destinato a durare. Nel gennaio 2003, appena compiuti ventitré anni, fu spedito in Kuwait per l’operazione Iraqi Freedom. Camp Doha, in una zona industriale di Kuwait City, era stato allestito durante la prima guerra del Golfo e ormai era una città a sé stante.

C’erano una palestra e un Internet Point, uno spaccio, delle mense e una distesa di tende fino all’orizzonte. Un posto pieno di attività reso ancora più frenetico dall’imminente invasione, e la situazione fu caotica fin dal principio. Le sue giornate erano un susseguirsi incessante di riunioni-fiume, addestramento duro ed esercitazioni su piani d’attacco sempre diversi. Aveva indossato la tuta contro le armi chimiche almeno un centinaio di volte. E poi circolavano voci disparate. La cosa più difficile era cercare di orientarsi in quella confusione. Tutti conoscevano qualcuno che conosceva qualcuno che aveva sentito la storia vera. Un giorno la partenza era imminente; quello dopo bisognava aspettare ancora un po’.

Gli iracheni arrivavano da nord e da sud; poi solo da sud e forse neppure da lì. Il nemico aveva armi di distruzione di massa e intendeva usarle; il giorno successivo si diceva che Saddam non le avrebbe usate perché temeva che gli americani avrebbero risposto sganciando bombe atomiche.

Si mormorava che la guardia repubblicana volesse compiere un’azione suicida appena oltre il confine; altri giuravano che sarebbe avvenuta a Baghdad. Altri ancora sostenevano che l’obiettivo erano i pozzi petroliferi.

Per farla breve, nessuno sapeva niente e questo serviva solo a infiammare l’immaginazione dei 150.000 soldati di stanza in Kuwait.

Nella maggioranza i soldati sono ragazzi. La gente tende a dimenticarlo.

Diciotto, diciannove, vent’anni... metà dell’esercito non aveva neppure l’età per comperarsi una birra. Erano sicuri di sé, ben addestrati e ansiosi di partire, ma era impossibile ignorare la realtà di ciò che li aspettava. Una parte di loro sarebbe morta. C’era chi ne parlava apertamente, chi scriveva lettere alla famiglia affidandole al cappellano. Gli animi erano in fermento.

Alcuni soffrivano d’insonnia; altri dormivano il più possibile. Thibault si guardava in giro con un certo distacco. Benvenuti in guerra, gli sembrava di sentire dire dal padre. È sempre così: situazione sotto controllo e tutto a put..ne.

Comunque anche Thibault non era immune alla tensione in aumento e, come gli altri, sentiva il bisogno di uno sfogo. Non poteva proprio farne a meno. Si diede al poker. Il padre gli aveva insegnato a giocare e lui se la cavava... o almeno così pensava. Nelle prime tre settimane perse praticamente tutti i risparmi, bluffando mentre avrebbe dovuto passare, passando mentre avrebbe dovuto restare in gioco. Non erano grosse cifre, e in ogni caso lì non avrebbe avuto molte occasioni di spenderle, ma la cosa lo mise di cattivo umore. Odiava essere battuto.

Cercò di distrarsi lanciandosi in lunghe corse al mattino presto, prima che sorgesse il sole. La temperatura era rigida; sebbene fosse in Medioriente da un mese, continuava a restare sorpreso di quanto potesse far freddo la notte nel deserto. Correva veloce sotto un cielo punteggiato di stelle, il respiro che si condensava in nuvolette.

Verso la fine di uno dei suoi giri, quando era in vista della tenda, rallentò.

Il sole spuntava all’orizzonte, spargendo oro sull’arido paesaggio. Con le mani sui fianchi, riprese fiato e fu allora che notò con la coda dell’occhio una foto semisepolta nella sabbia. Si fermò a raccoglierla. Era stata plastificata, lui la ripulì dalla polvere e la guardò.

Una bionda sorridente con maliziosi occhi verde giada, un paio di jeans e una maglietta con scritto lucky lady. Alle sue spalle, uno striscione: fiera di hampton. Accanto a lei un pastore tedesco con i peli del muso grigi. Tra la folla sullo sfondo spiccavano due giovani vicino alla biglietteria, un po’ sfocati. In lontananza si vedevano tre sempreverdi di quelli che si trovano un po’ dappertutto. Sul retro della foto erano scritte a mano le parole: «Abbi cura di te!non aveva rilevato subito questi dettagli. Il suo primo istinto era stato di gettarla via. E l’aveva quasi fatto, poi aveva pensato che qualcuno doveva averla persa. Qualcuno per cui quella foto aveva un significato particolare.

Tornato al campo, l’aveva attaccata in una bacheca per gli annunci all’ingresso dell’Internet Point, immaginando che tutti i soldati sarebbero passati di lì, prima o poi.

Una settimana dopo nessuno aveva ritirato la fotografia. A quel punto il suo plotone si esercitava tutti i giorni per ore e il poker si era fatto serio.

C’era chi aveva perso migliaia di dollari; si diceva che un caporale fosse sotto di quasi diecimila. Thibault, che non si era più avvicinato al tavolo da gioco dopo gli umilianti esordi, preferiva trascorrere il tempo libero a rimuginare sull’imminente invasione e a chiedersi come avrebbe reagito sotto il fuoco nemico. Avvicinandosi alla bacheca tre giorni prima della partenza, vide la foto ancora appesa e, per un motivo inspiegabile, la prese e se la infilò in tasca.

Victor, il suo migliore amico nella squadra – erano insieme fin dall’addestramento di base – lo convinse a sedersi al tavolo da poker quella sera, nonostante le sue riserve. Sempre a corto di fondi, Thibault cominciò a giocare con prudenza, convinto che non sarebbe durato più di mezz’ora. Passò la mano nelle prime tre partite, poi si ritrovò con una scala nella quarta e un full nella sesta. Aveva sempre delle belle carte – tris, scale, full – e a metà serata si era rifatto delle perdite precedenti. I giocatori iniziali furono sostituiti da altri. Lui rimase. Cambiarono di nuovo i giocatori; lui rimase ancora. La fortuna continuò a sorridergli e all’alba aveva vinto più di quanto avesse guadagnato in sei mesi da arruolato.

Fu solo al momento di alzarsi dal tavolo che si ricordò di avere tenuto in tasca la foto della sconosciuta. Una volta tornato con Victor nella tenda, gliela mostrò, indicandogli le parole sulla maglietta di lei. Il suo amico – figlio di immigrati clandestini che vivevano vicino a Bakersfield, in California – non solo era religioso, ma anche molto superstizioso. Stava attento a segni come lampi, biforcazioni stradali e gatti neri, e prima di partire per il Kuwait gli aveva raccontato di un suo zio che poteva gettarti il malocchio: «Quando ti guarda in un certo modo, è solo questione di tempo prima che tu muoia». Ascoltandolo, a Thibault era sembrato di sentire un ragazzino di dieci anni che racconta storie di fantasmi accanto al falò. Ma non voleva dire niente. Ognuno aveva le sue fissazioni. Quel tizio credeva nei presagi? Benissimo. L’importante era che Victor fosse un tiratore abbastanza bravo da essere stato scelto come cecchino, visto che aveva affidato a lui la propria vita.

Victor guardò la foto prima di restituirgliela. «Hai detto di averla trovata all’alba?» «Esatto.»

«Quello è un momento della giornata molto potente.» «Me l’hai già spiegato.»

«È un segno», dichiarò Victor. «Lei è il tuo portafortuna. Vedi la scritta sulla maglietta, no?» «In effetti stanotte mi ha portato fortuna.»

«Non solo stanotte. C’è una ragione, se hai trovato questa foto. C’è una ragione, se nessuno l’ha reclamata. E c’è una ragione, se oggi l’hai presa.

Era destinata a te soltanto.»

Thibault avrebbe voluto dire qualcosa sul tizio che l’aveva persa e che magari la stava disperatamente cercando, ma preferì tacere. Si sdraiò sulla brandina, le mani intrecciate dietro la testa.

Victor lo imitò. «Sono contento per te», dichiarò. «D’ora in poi la fortuna sarà dalla tua parte.» «Lo spero.»

«Ma non devi mai perdere la foto.»

«No?»

«Altrimenti, l’ funzionerà al contrario.» «Sarebbe a dire?»

«Che sarai sfortunato. E, in guerra, è la peggior cosa che possa capitarti.»

La camera del motel era tanto brutta dentro quanto l’edificio lo era fuori: perline di legno alle pareti, lampadari penzolanti da catenelle, moquette lisa, televisore inchiodato alla mensola. L’arredamento sembrava risalire alla metà degli anni Settanta e non aver più subito modifiche. A Thibault ricordava le stanze dove passava la notte da bambino quando andavano in vacanza nel Sudovest. Si fermavano in posti vicini all’autostrada e a suo papà bastava che fossero relativamente puliti. Sua madre non era tanto d’accordo, ma che cosa poteva farci? Non si trovavano alberghi a quattro stelle lungo le strade, e anche se ci fossero stati, loro non potevano certo permetterseli.

Thibault compì le stesse operazioni del padre quando entrava nella camera di un motel: abbassò il copriletto per assicurarsi che le lenzuola fossero state cambiate, controllò la tenda della doccia per vedere che non fosse ammuffita, cercò eventuali capelli nel lavandino. Nonostante le prevedibili macchie di ruggine, il rubinetto che perdeva e le bruciature di sigaretta, il posto era più pulito di quanto si aspettasse. E anche economico. Aveva pagato in anticipo e in contanti per una settimana, senza che gli facessero domande e che gli venisse applicato un sovrapprezzo per il cane. Tutto sommato, un affare. Bene. Lui non aveva carte di credito o bancomat, nessun recapito postale né un cellulare. Portava con sé praticamente tutto ciò che possedeva. Aveva un conto in banca, a cui poteva attingere se fosse rimasto a secco. Era intestato a una sua società, ma non era ricco.

Non era neppure agiato. La società non faceva utili, era solo un modo per mantenere la privacy.

Piazzò Zeus nella vasca e lo lavò con lo shampoo che teneva nello zaino.

Poi si fece una doccia e si cambiò, indossando gli ultimi indumenti puliti che aveva. Seduto sul letto, sfogliò l’elenco telefonico cercando una cosa in particolare, ma senza fortuna. Prese nota mentalmente di fare il bucato appena ne avesse avuto il tempo, poi decise di andare a mangiare un boccone nel ristorantino che aveva visto poco più avanti sulla strada.

Arrivato lì, non gli permisero di portare dentro Zeus. Non era una novità; il cane si accucciò davanti all’entrata e si addormentò. Thibault ordinò un cheeseburger con patatine, che mandò giù con un milkshake al cioccolato, poi ne chiese un altro per Zeus. Tornato fuori, guardò l’animale divorare il panino in meno di venti secondi e poi alzare il muso pieno di aspettativa verso di lui.

«Mi fa piacere che sia stato di tuo gusto. Andiamo.» Comperò al supermercato una piantina della città e si sedette su una panchina vicino ai giardini pubblici: uno di quei parchi vecchiotti, delimitati sui quattro lati da strade con esercizi commerciali, con grandi alberi ombrosi, giochi per i bambini e molti fiori. Non era affollato; un gruppetto di mamme sedute insieme mentre i ragazzini si divertivano sullo scivolo e sulle altalene.

Esaminò i volti delle donne, per accertarsi che lei non fosse tra di loro, poi si voltò e aprì la cartina prima che si insospettissero per la sua presenza lì.

Le mamme con i figli piccoli diventano sempre nervose quando vedono un uomo da solo indugiare in zona senza uno scopo apparente. Non le biasimava. C’erano troppi pervertiti in giro.

Studiò la piantina e valutò la mossa successiva. Non si illudeva che sarebbe stato facile. Non aveva molte informazioni, dopo tutto. Soltanto una fotografia, senza nome né indirizzo. Nessun numero di telefono.

Nessuna data. Niente, a parte un volto tra la folla.

Ma c’erano alcuni particolari. Aveva esaminato in dettaglio la foto ed era partito da ciò che sapeva. Era stata scattata a Hampton. La donna all’epoca doveva aver passato di poco i vent’anni. Era bella. Possedeva un pastore tedesco o conosceva qualcuno che ce l’aveva. Il suo nome di battesimo cominciava per E. Emma, Elaine, Elise, Ei-leen, Ellen, Emily, Erin, Erica... sembravano i più plausibili, anche se al Sud c’erano nomi tipo Erdine o Elspeth. Era stata alla fiera con qualcuno che poi era partito per l’Iraq. Aveva dato la sua fotografia a questa persona, e in seguito Thibault l’aveva trovata nel febbraio del 2003. Quindi la donna adesso doveva essere vicino ai trenta. In lontananza si vedevano tre alberi sempreverdi.

Queste cose erano certe. Erano dati di fatto.

E poi c’erano le ipotesi, a cominciare da Hampton. Si trattava di un nome piuttosto comune. Una rapida ricerca su Internet aveva rivelato diverse contee e città che si chiamavano così: in South Carolina, Virginia, New Hampshire, Iowa, Nebraska, Georgia. E anche altre. Molte altre. Tra cui, naturalmente, Hampton nell’Hampton County, North Carolina. Sebbene nel paesaggio sullo sfondo non fossero presenti elementi rivelatori, era riuscito comunque a ricavare delle informazioni utili. Non dalla donna, bensì dai giovani in fila alla biglietteria ritratti in secondo piano. Due di loro portavano magliette stampate. Una – con l’immagine di Homer Simpson – non gli era stata di nessun aiuto. L’altra, con la parola davidson scritta sul davanti, dapprincipio non gli aveva suggerito niente, anche se ci aveva pensato su parecchio. Credeva fosse un riferimento alla Harley-Davidson, ma poi un’altra ricerca su Google aveva svelato l’arcano. Davidson era anche il nome di un rinomato college di Charlotte, North Carolina. Selettivo, tosto, specializzato nelle materie umanistiche. Il catalogo della loro libreria mostrava una maglietta con la stessa scritta.

Certo, quella da sola non garantiva che la foto fosse stata scattata proprio nel North Carolina. Forse il ragazzo l’aveva ricevuta in regalo da qualcuno che frequentava quel college; forse era uno studente di un altro stato, forse gli piaceva semplicemente il colore, forse era un ex allievo trasferitosi altrove. In ogni caso Thibault aveva telefonato alla Camera di Commercio di Hampton prima di partire dal Colorado, e aveva scoperto che lì d’estate si teneva una fiera. Un altro buon segno. A quel punto aveva una meta plausibile, ma non certa. Lui presumeva si trattasse del posto giusto.

Eppure, per una ragione che non sapeva spiegarsi, sentiva che era così.

C’erano anche altre ipotesi, che semmai avrebbe preso in considerazione in seguito. Ora la prima cosa da fare era individuare il luogo dove si svolgeva la fiera. Uno dei dettagli che non era riuscito a scoprire su Internet. C’era da sperare che, anche allora, venisse allestita nello stesso punto, e per trovare qualcuno in grado di dargli queste indicazioni doveva chiedere a una delle attività commerciali nei dintorni. Non un negozio di souvenir o di antichità, spesso gestiti da persone arrivate da poco in città, gente che fuggiva dal Nord in cerca di una vita più tranquilla e un clima più mite. No, era meglio rivolgersi per esempio alla locale ferramenta.

Oppure al bar. O all’agenzia immobiliare. Avrebbe deciso strada facendo.

Voleva proprio vedere di persona il luogo esatto dove avevano scattato la foto. Non tanto per farsi un’idea più precisa della donna – questo naturalmente era impossibile – quanto per sapere se c’erano tre alti alberi sempreverdi che crescevano vicini, di quelli con la cima a punta che si trovano un po’ dappertutto. 3 Beth

Beth posò la lattina di Diet Coke, felice che Ben si stesse divertendo alla festa di compleanno del suo amico Zach. Stava giusto pensando che le sarebbe piaciuto non doverlo portare dal padre, quando Melody venne a sedersi al suo fianco.

«Ottima idea, vero? I fucili ad acqua sono un successone.» Melody sorrise, i denti sbiancati un po’ troppo candidi, la pelle un po’ troppo scura, come se fosse appena tornata da una seduta al centro abbronzatura. E probabilmente era così. Era sempre stata molto attenta al suo aspetto fin dai tempi del liceo e ultimamente la sua sembrava essere diventata una vera e propria ossessione.

«Speriamo che non rivolgano contro di noi quei Super Liquidator.» «Che solo ci provino.» Melody si accigliò. «Ho avvertito Zach che, se osava, mandavo tutti a casa.» Si appoggiò allo schienale, mettendosi comoda.

«Che cosa hai combinato quest’estate? Non ti ho vista in giro e non mi hai mai richiamata.» «Lo so, mi spiace. Ma ho vissuto da eremita, avevo un sacco da fare con Nana, il canile e tutto il resto. Non so come sia riuscita lei a cavarsela senza un aiuto per tanto tempo.» «Come sta adesso?»

Nana era la nonna con cui Beth era cresciuta dall’età di tre anni, dopo che i suoi genitori erano morti in un incidente stradale. «Meglio, ma l’ictus è stato un duro colpo. Fatica ancora a muovere il lato sinistro del corpo. Può seguire una parte delle attività, però non ce la fa a gestire anche il canile. E sai quanto sia esigente con se stessa. Ho sempre paura che si strapazzi.»

«Ho visto che è tornata nel coro la domenica scorsa.» Nana faceva parte del coro della chiesa battista da più di trent’anni. Era una delle sue passioni. «Ha voluto andarci a tutti i costi, ma non credo abbia avuto la forza di cantare. Quando è rientrata ha fatto un sonnellino di due ore.» Melody annuì. «Che cosa succederà quando ricomincerà la scuola?» «Non saprei.»

«Hai intenzione di riprendere il tuo lavoro, vero?» «Lo spero.»

«Lo speri? Lo sai che la settimana prossima c’è la riunione degli insegnanti?» Beth non voleva pensarci, e tantomeno parlarne, ma sapeva che l’amica insisteva a fin di bene. «Be’, non è detto che io torni. So che sarebbe una bella grana per la scuola, però non posso lasciare Nana da sola tutto il giorno. Almeno per il momento. E chi le darebbe una mano con i cani?» «Non puoi pagare qualcuno?» propose Melody.

«Ci ho provato. Ti ho raccontato che cosa mi è capitato all’inizio dell’estate? Ho assunto un tizio che si è presentato per un paio di giorni, poi ha mollato il colpo prima del weekend. Lo stesso è accaduto con quello che è venuto dopo. Dopodiché non si è proposto più nessuno. Il cartello cercasi aiutante è sempre lì.»

«David si lamenta sempre della mancanza di buoni impiegati.» «Digli di offrire il salario minimo. Allora sì che avrà di che lamentarsi. Ormai neppure gli studenti delle superiori sono disposti a pulire le gabbie. Dicono che è un lavoro umiliante.» «Ma è vero.»

Beth rise. «Sì, hai ragione», riconobbe. «In ogni caso ormai è fatta. Dubito che cambi qualcosa entro la settimana prossima e, anche se così fosse, ci sono cose peggiori. Mi piace addestrare i cani. Sono molto meno impegnativi dei ragazzi.»

«Come mio figlio?»

«Il tuo era gestibile. Fidati.»

Melody fece un cenno verso Ben. «È cresciuto dall’ultima volta che l’ho visto.» «Si è alzato di quasi due centimetri», rispose Beth, contenta che l’amica se ne fosse accorta. Ben era sempre stato basso per la sua età... nelle foto scolastiche lo mettevano davanti, all’estremità della fila ed era comunque di mezza testa più piccolo del compagno che gli stava accanto.

Il figlio di Melody, Zach, era l’esatto contrario: stava dietro, il più alto della classe.

«Ho sentito dire che Ben non giocherà a calcio quest’autunno», osservò Melody.

«Vuole provare qualcosa di diverso.»

«E cioè?»

«Vuole imparare a suonare il violino. Prenderà lezioni dalla signora Hastings.» «Insegna ancora? Deve avere almeno novant’anni.».

«Però ha la pazienza necessaria per insegnare a un principiante. O almeno è ciò che mi ha detto. E Ben le è molto affezionato. Questa è la cosa fondamentale.»

«Buon per lui», replicò Melody. «Scommetto che se la caverà benissimo.

Zach, però, ci resterà male.»

«Comunque non giocherebbero insieme. Zach entrerà nella squadra giovanile, giusto?» «Se ce la farà.»

«Io ne sono certa.»

E così sarebbe stato. Zach era uno di quei ragazzini naturalmente competitivi e sicuri di sé che si sviluppano precocemente e danno filo da torcere agli altri giocatori meno dotati. Anche adesso, correndo in giro per il giardino con il suo Super Liquidator, Ben non riusciva a stargli dietro.

Per quanto fosse dolce e di buon cuore, lui non era molto sportivo, un fatto che mandava su tutte le furie l’ex marito di Beth. L’anno prima aveva seguito le partite di calcio del figlio seduto sugli spalti con un’espressione truce. Un’altra ragione per cui il bambino non voleva più giocare.

David farà ancora da aiuto allenatore?»

David, il marito di Melody, era un pediatra. «Non sa se ne avrà il tempo.

Da quando Hoskins se n’è andato, lo chiamano in continuazione. Hanno cercato di trovare un altro dottore, ma è difficile. Non sono in molti a volere lavorare in una cittadina di provincia, specie se l’ospedale più vicino è a quarantacinque minuti di macchina. Spesso lui non torna a casa prima delle otto. A volte persino più tardi...»

Beth avvertì l’ansia nella sua voce e immaginò che Melody stesse pensando alla relazione extraconiugale che il marito aveva avuto l’inverno precedente, ma preferì non fare commenti.

«E tu come stai? Ti vedi con qualcuno?»

Beth fece una smorfia. «Nessuno, dopo Adam.»

«Come mai è finita con lui?»

«Non ne ho idea.»

Melody la guardò. «Non ti invidio. A me non è mai piaciuto andare alla ricerca di un fidanzato.» «Già, ma tu almeno eri brava. Io sono una frana.»

«Adesso esageri.»

«No. Comunque, sto bene da sola. Non credo che avrei la forza di ricominciare. Mettermi i bigodini, depilarmi, flirtare, fingere di andare d’accordo con i suoi amici. Mi sembra uno sforzo eccessivo.»

Melody arricciò il naso. «Non ti depili le gambe?» «Certo che sì», rispose lei, e abbassando la voce aggiunse: «Quasi sempre». Si drizzò a sedere.

«Ma hai capito. Uscire con un uomo è dura, soprattutto alla mia età.» «Per favore. Non hai ancora trent’anni e sei uno schianto.» Beth se lo era sentito ripetere fino alla nausea e non era del tutto indifferente al fatto che gli uomini – anche quelli sposati – spesso si voltassero a guardarla quando passava per strada. Nei primi tre anni di insegnamento lì le era capitato solo una volta che un padre si presentasse ai colloqui. Per il resto erano sempre le madri a venire da lei. Un po’ stupita, ne aveva parlato con la nonna, che le aveva spiegato: «Le donne non vogliono che tu resti da sola con i loro mariti, perché sei bella come una zucca matura».

Nana aveva un modo tutto suo di dire le cose. «Dimentichi dove abitiamo», obiettò Beth a Melody. «Non ci sono tanti scapoli della mia età da queste parti. E c’è un motivo, se loro sono ancora single.»

«Non è vero.»

«Forse in una grande città. Ma in provincia? In questa cittadina? Fidati. Ho vissuto qui per tutta la vita. Nelle rare occasioni in cui sono stata invitata fuori, siamo usciti due o tre volte, poi hanno sempre smesso di cercarmi.

Non chiedermi perché. » Agitò la mano in un gesto di filosofica rassegnazione. «Ma non è grave. Ho Ben e Nana. Non vivo mica da sola, circondata da decine di gatti.»

«No. Però hai un sacco di cani.»

«Non sono miei. Appartengono ad altre persone. C’è una bella differenza.»

«Già», sbuffò Melody. «Un’enorme differenza.»

Dall’altra parte del giardino Ben inseguiva il gruppo di ragazzini con il suo fucile ad acqua, quando inciampò e cadde. Gli occhiali gli rotolarono nell’erba. Beth frenò l’impulso di alzarsi per soccorrerlo: l’ultima volta che lo aveva fatto, lo aveva messo chiaramente in imbarazzo. Ben tastò in giro finché non trovò gli occhiali, poi si rialzò e ricominciò a correre.

«Crescono così in fretta, vero?» osservò Melody. «So che è una banalità, ma è vero. Ricordo che, quando me lo diceva mia madre, io pensavo fosse pazza. Non vedevo l’ora che Zach diventasse un po’ più grande. All’epoca aveva le coliche, e da un mese non riuscivo a dormire più di due ore filate per notte. Ed ecco che adesso, in un batter d’occhio, sono pronti per andare alle superiori.»

«Non ancora. Manca un anno.»

«Lo so, ma io sono già in apprensione.»

«E perché?»

«Be’, sai... è un’età difficile. I ragazzi sono in quella fase in cui cominciano a capire il mondo degli adulti senza però avere la maturità per affrontare ciò che accade intorno a loro. Per non parlare di tutte le tentazioni e del fatto che smettono di darti retta come prima, a cui bisogna sommare gli sbalzi d’umore dell’adolescenza. Ti confesso che non sono affatto ansiosa di vedere questa fase. Tu sei un’insegnante. Lo sai bene.»

«Ed è per questo che resto alle elementari.» «Ottima scelta.» Melody si fece taciturna. «Hai sentito di Elliot Spencer?»

«No, sono rimasta tagliata fuori, ricordi?» «Lo hanno beccato a spacciare.»

«Ma ha solo un paio d’anni più di Ben!» «E va ancora alle medie.»

«Adesso sì che mi hai messa in agitazione.» Melody alzò gli occhi al cielo.

«Non è il caso. Se mio figlio assomigliasse di più a Ben, non avrei motivo di essere nervosa. Ben è un bambino all’antica. E sempre educato, gentile, sempre pronto ad aiutare i più piccoli. È molto sensibile. Io, invece, ho Zach.»

«Anche Zach è un bambino straordinario.» «Lo so. Però è sempre stato più difficile di Ben. Ed è più influenzabile di lui.»

«Ma li hai visti giocare? Da dove sto seduta io sembra sia Ben a seguire gli altri.» «Hai capito benissimo che cosa intendo.» In effetti era vero. Fin da piccolo Ben aveva mostrato di voler scegliere da solo la propria strada. Il che era positivo, doveva riconoscere lei, perché era una buona strada.

Sebbene non avesse molti amici, aveva un sacco di interessi a cui si dedicava da solo. Ed erano fior di interessi. Leggeva tanto e giocava a scacchi (un gioco che sembrava capire a livello istintivo) sulla console elettronica ricevuta in regalo per Natale. Gli piaceva anche scrivere e giocare con i cani, che però erano agitati a causa delle lunghe ore di solitudine passate nelle gabbie e in genere lo ignoravano. Trascorreva pomeriggi interi a lanciargli palline da tennis e pochi di loro gliele riportavano.

«Non ci saranno problemi, vedrai.»

«Lo spero.» Melody posò il bicchiere. «È arrivato il momento di andare a prendere la torta, che ne dici? Zach ha l’allenamento alle cinque.» «Farà molto caldo.»

Melody si alzò. «Sono sicura che vorrà portarsi dietro il Super Liquidator.

Per spruzzare l’allenatore.»

«Ti serve aiuto?»

«No, grazie. Resta pure seduta lì a rilassarti. Torno subito.» Beth osservò l’amica che si allontanava e per la prima volta si accorse di quanto fosse dimagrita. Doveva aver perso cinque o sei chili. Era a causa dello stress, pensò. Il tradimento di David l’aveva devastata. Ma diversamente da lei, Melody era decisa a salvare il salvabile. Del resto le loro storie sentimentali erano diverse. David aveva commesso un grosso errore e aveva ferito la moglie, però in generale Beth li aveva sempre considerati una coppia felice. Il suo matrimonio, invece, era stato un fallimento fin dal principio. Proprio come aveva previsto Nana. La nonna sapeva valutare le persone a prima vista e se qualcuno non le piaceva, aveva un modo tutto particolare di dimostrarlo. Quando lei le aveva annunciato di essere incinta e che, invece di andare all’università, si sarebbe sposata con il suo ragazzo, Nana aveva cominciato a scrollare le spalle così spesso ed energicamente che quel gesto era diventato quasi un tic nervoso. Ovviamente all’epoca Beth non ci aveva badato. La nonna non gli ha dato neppure un’occasione, pensava. Non lo conosce affatto. Faremo funzionare le cose tra di noi.

Nossignore, non era successo così. Quel matrimonio era durato meno di nove mesi: Ben aveva cinque settimane quando si erano separati. Nana aveva visto giusto fin da subito.

Melody scomparve dentro casa e rispuntò pochi minuti dopo, seguita dal marito. David portava piatti e posate di plastica e aveva l’aria preoccupata.

Beth notò le ciocche brizzolate sulle tempie e le profonde rughe che gli solcavano la fronte. L’ultima volta che lo aveva visto quelle rughe erano meno marcate.

A volte si chiedeva come sarebbe stata la sua vita da sposata. Non con il suo ex, naturalmente. La sola idea le faceva venire i brividi. Le bastava avere a che fare con lui ogni due fine settimana, grazie tante. Ma con un altro. Uno... migliore. Le sembrava una buona prospettiva, almeno in teoria. In realtà dopo dieci anni si era abituata all’indipendenza e, anche se non era male avere qualcuno con cui condividere le serate e ricevere un bel massaggio alla schiena di tanto in tanto, era altrettanto piacevole poter passare tutto il sabato in pigiama, se ne aveva voglia. Come a volte le capitava di fare con Ben. Le chiamavano le «giornate pigre». Erano le migliori. Si ritagliavano un giorno di ozio completo, in cui si limitavano a guardare un film e ordinare una pizza. Celestiale.

E poi, se le relazioni sentimentali erano difficili, il matrimonio lo era cento volte tanto. Non erano solo Melody e David a lottare per tenere insieme le cose: sembrava che la maggior parte delle coppie lo facesse. Come diceva la nonna? Metti due persone diverse con aspettative diverse sotto lo stesso tetto, e non saranno sempre rose e fiori a primavera.

Proprio così. Anche se non capiva dove Nana andasse a pescare le sue metafore.

Guardò l’ora e calcolò che, appena fosse finita la festa, sarebbe dovuta correre a casa a vedere come stava. Di sicuro l’avrebbe trovata, dietro il banco dell’ufficio, oppure fuori con i cani. Nana era cocciuta. Che importanza aveva se la gamba sinistra la reggeva a malapena? La mia gamba non è perfetta, ma non è neppure fatta di cera. Oppure se poteva cadere e farsi male? Non sono un vaso di porcellana. O se il braccio sinistro era praticamente inutilizzabile? Finché riesco a mangiare la minestra, non mi serve.

Era fatta a modo suo, benedetta donna.

«Ehi, mamma?»

Persa nei suoi pensieri, non si era accorta che Ben si era avvicinato. Aveva il viso lentigginoso madido di sudore. I vestiti erano fradici e sulla maglietta c’erano macchie d’erba che di sicuro non sarebbero più venute via.

«Sì, tesoro?»

«Posso dormire qui da Zach stasera?»

«Credevo che dovesse andare all’allenamento.» «Dopo. Molti bambini rimangono e sua mamma gli ha regalato Guitar Hero per il compleanno.» Lei sapeva la vera ragione per cui glielo chiedeva.

«Stasera non è possibile. Papà passa a prenderti alle cinque.» «Perché non lo chiami tu per domandargli se mi da il permesso?» «Posso provarci. Ma sai com’è...»

Ben annuì e Beth, come sempre, si sentì stringere il cuore. «Sì, lo so», mormorò lui.

Il sole batteva sul parabrezza a temperatura di cottura e lei rimpianse di non aver fatto riparare il condizionatore dell’auto. Con il finestrino abbassato, i capelli le frustavano la faccia. Si ripromise per l’ennesima volta di dargli una bella scorciata. Immaginava di dire alla parrucchiera: Taglia tutto, Terry. Voglio sembrare un uomo. Ma sapeva che avrebbe finito per chiederle la solita spuntatina. In certe cose era una vigliacca.

«Mi pare che voi ragazzi vi siate divertiti.»

«Infatti.»

«Non sai dire altro?»

«Sono stanco, mamma.»

Indicò l’insegna poco più avanti. «Vuoi fermarti a prendere un gelato?»

«Non mi fa bene.»

«Ehi, sono io la mamma qui. Spetta a me dirlo. Pensavo che magari avresti gradito qualcosa di fresco.»

«Non ho fame. Ho appena mangiato la torta.»

«D’accordo, come preferisci. Ma poi non prendertela con me. » «Non lo farò.» Ben si girò verso il finestrino.

«Ehi, campione, va tutto bene?» «Perché devo andare da papà?» La sua voce era appena udibile nel vento.

«Tanto non faremo niente di divertente. Mi manda a letto alle nove, come se fossi ancora in seconda elementare. Non sono mai nemmeno stanco. E domani ci saranno un sacco di lavoretti da sbrigare.»

«Credevo che, dopo la messa, foste invitati a pranzo dal nonno.» «Non voglio andarci lo stesso.»

Neanch’io vorrei lasciarti andare, pensò Beth. Ma che cosa posso fare?

«Perché non ti porti un libro?» propose. «Potrai leggerlo a letto stasera e anche domani, se ti annoi.» «Dici sempre così.»

Non so che altro dire, pensò lei. «Vuoi che passiamo dalla libreria?» «No», fu la risposta. Ma lei capì che non era la verità.

«Be’, io sì. Accompagnami.»

«Va bene.»

«Mi spiace per questa situazione, lo sai.»

«Sì, lo so.»

Andare in libreria non aiutò granché a sollevare il morale di Ben. Sebbene alla fine avesse scelto due gialli degli Hardy Boys, lei aveva riconosciuto la sua posa mesta mentre erano in fila alla cassa. Saliti in macchina, lui aprì un libro e finse di immergersi nella lettura. Beth era sicura che fosse un modo per impedirle di ficcare il naso o di farlo sentire meglio circa l’imminente serata con il padre. A dieci anni Ben era già notevolmente bravo a prevedere le sue mosse.

Lo guardò entrare in casa e dirigersi verso la camera da letto per preparare la borsa. Invece di seguirlo, si mise a sedere sui gradini della veranda, rimpiangendo per la millesima volta di non avere un dondolo. L’aria era ancora afosa e, a giudicare dai guaiti provenienti dal canile sull’altro lato del cortile, anche gli animali dovevano soffrire il caldo. Tese l’orecchio per distinguere qualche rumore che tradisse la presenza della nonna. Se fosse stata in cucina quando loro erano arrivati, di sicuro si sarebbe fatta sentire. Nana era una cacofonia ambulante. Non a causa dell’ictus, era piuttosto qualcosa di insito nella sua personalità. Ormai vicina ai settantasette, rideva sguaiatamente, sbatteva le pentole in cucina, adorava guardare il baseball e alzava la radio a volume assordante tutte le volte che c’era un programma di musica jazz dell’era delle grandi orchestre. Prima di ammalarsi tutti i giorni indossava stivali di gomma, tuta e un enorme cappello di paglia, e percorreva a grandi passi il cortile insegnando ai cani a marciare oppure a restare a cuccia.

Per molto tempo aveva allevato e addestrato con il marito cani da caccia, da guardia, per ciechi e per la polizia. Ora che lui non c’era più, lo faceva solo occasionalmente. Tirare su un cane da guardia richiedeva quattordici mesi e – dato che Nana era capace di innamorarsi di uno scoiattolo in meno di tre secondi – alla fine le si straziava il cuore all’idea di separarsi da un animale a cui si era affezionata. Senza il nonno che le diceva:

«L’abbiamo già venduto, non abbiamo scelta», lei aveva trovato più semplice eliminare quella parte della sua attività.

Adesso gestiva una fiorente scuola di addestramento all’obbedienza. I padroni le lasciavano gli animali per un paio di settimane – un campeggio per amici a quattro zampe, lo definiva – e Nana insegnava loro a sedersi, stare a cuccia, alzarsi, avvicinarsi e seguire. Erano comandi elementari, che qualsiasi cane era in grado di imparare a riconoscere in breve tempo.

Di solito la rotazione bisettimanale comprendeva tra i quindici e i venticinque esemplari, ciascuno dei quali riceveva ogni giorno una ventina di minuti di lezione, dato che non sarebbero riusciti a mantenere l’attenzione più a lungo. La situazione era sostenibile quando c’erano quindici ospiti, ma tenerne venticinque tutti insieme, compreso il fatto che ognuno doveva essere accudito... Per gran parte dell’estate Beth aveva lavorato dodici-tredici ore al giorno.

Il canile era spesso affollato. Non è difficile addestrare un cane ed esistono molti libri sull’argomento. Inoltre la clinica veterinaria locale il sabato mattina offriva corsi per padroni di cani a prezzi modici. Chiunque avrebbe potuto farlo personalmente, invece arrivavano lì fin dalla Florida o dal Tennessee per lasciare che se ne occupasse qualcun altro. Certo, Nana godeva di un’ottima reputazione come addestratrice, ma tutto sommato si limitava a impartire a quei cani un minimo di educazione. Eppure i suoi clienti nutrivano grande riconoscenza verso di lei. E restavano sempre, sempre stupiti dei risultati.

Beth guardò l’ora. Keith sarebbe arrivato di lì a poco. Sebbene avesse dei problemi con lui – Dio solo sapeva se ce n’erano – il suo ex marito aveva ottenuto la custodia congiunta, punto e basta, e lei cercava di fare buon viso, ripetendosi che era importante per Ben trascorrere del tempo con il padre. I maschi hanno bisogno di stare con il papà, in particolare durante l’adolescenza, e doveva ammettere che lui non era un cattivo padre.

Immaturo, questo sì, ma non cattivo. Ogni tanto beveva qualche birra, ma non era un alcolizzato; non si drogava; non era mai stato violento con lei o con il bambino. Andava a messa tutte le domeniche. Aveva un lavoro fisso e pagava puntualmente gli alimenti. O meglio, lo faceva la sua famiglia. I soldi venivano da un fondo, uno dei tanti che avevano costituito nel corso degli anni. E in genere lui si sforzava di tenere la propria sequela ininterrotta di ragazze separata dai weekend che trascorreva con Ben. In genere. Ultimamente era andata meglio, ma lei non si faceva illusioni: ciò non dipendeva tanto da una ritrovata dedizione per il ruolo di genitore, quanto dal fatto che al momento lui si trovava in una fase di transizione tra una fidanzata e l’altra. La cosa più grave era che le ragazze di Keith di solito avevano un’età più vicina a quella di Ben che alla sua, e l’intelligenza di un’insalatiera. Non lo diceva per cattiveria; se n’era accorto anche il bambino. Un paio di mesi prima aveva dovuto aiutarne una a preparare una teglia di maccheroni già pronti.

Tuttavia non era questo che turbava veramente Ben.

Le fidanzate di papà andavano bene: lo trattavano più come un fratello minore che come un figlio. Né erano i lavoretti domestici a contrariarlo, dato che li faceva anche a casa. No, il problema era l’infantile e incessante senso di delusione che Keith provava nei suoi confronti. Keith avrebbe voluto farne un atleta; invece a Ben piaceva suonare il violino. Avrebbe voluto qualcuno con cui andare a caccia; Ben preferiva leggere. Avrebbe voluto che il figlio diventasse un bravo giocatore di baseball o di pallacanestro; invece si era ritrovato con un bambino goffo e miope.

Non si lamentava mai in maniera esplicita, ma non ce n’era bisogno. Bastava vedere l’espressione disgustata con cui lo guardava giocare a calcio, il modo caparbio con cui si rifiutava di congratularsi con lui per aver vinto il torneo di scacchi, la costanza con cui lo spingeva inesorabilmente a essere quello che non era. Il suo atteggiamento faceva imbestialire Beth e al tempo stesso la rattristava, e per Ben era anche peggio. Per anni aveva cercato di accontentare il padre, ma tutti i suoi sforzi erano stati inutili. Come quando Keith si era messo in mente di insegnargli a giocare a baseball. Ben aveva cominciato a esercitarsi con entusiasmo. Dopo un po’, però, il solo pensiero gli faceva venire la nausea.

Se prendeva tre palle di fila, suo padre ne voleva quattro. Se erano quattro, ne voleva cinque. E quando migliorò ancora, Keith pretese che le prendesse tutte. Poi che lo facesse correndo in avanti. E correndo all’indietro. Spostandosi di lato. Mentre si tuffava. Doveva prendere anche quella che lui gli tirava con tutte le forze. E se per caso ne mancava una?

Era la fine del mondo.

Certo, lei gliene aveva parlato. Fino alla nausea. Però gli entrava da un orecchio e gli usciva dall’altro. Sempre la solita vecchia storia. A dispetto

– o forse proprio a causa – della sua immaturità, Keith era testardo e aveva una sua idea su molte cose, compresa l’educazione di Ben. Voleva un figlio fatto in un certo modo e, per Dio, l’avrebbe ottenuto. Com’era prevedibile, alla fine Ben reagiva con la sua classica strategia passivo-aggressiva. Nel caso del baseball, aveva lasciato passare tutte le palle che il padre gli lanciava – persino nei tiri più semplici – ignorando la sua crescente frustrazione, finché Keith non aveva gettato il guantone in terra e si era chiuso in casa a sbollire la rabbia per il resto del pomeriggio. Al che Ben aveva fatto finta di niente, si era trovato un posto all’ombra di un pino e si era messo a leggere nell’attesa che la madre passasse a prenderlo qualche ora dopo.

Ma Beth e il suo ex marito non si davano battaglia solo per il figlio; erano come il fuoco e il ghiaccio. Per la precisione, lui era il fuoco e lei il ghiaccio. Keith era ancora attratto da lei e questo la irritava oltremisura.

Come diavolo faceva a non capire che tra loro non c’era più niente? Glielo ripeteva in continuazione, senza riuscire a scoraggiarlo. Da parte sua, non ricordava neppure più che cosa avesse trovato di così attraente in lui tanti anni prima. Conosceva bene i motivi che l’avevano spinta a sposarlo – era giovane e stupida, in primo luogo, e pure incinta – ma adesso, quando lui la fissava ammiccando, tutto quello che provava era un brivido di raccapriccio. Non era il suo tipo. A essere sincera, non lo era mai stato. Se avesse potuto rimontare il film della sua vita, avrebbe tagliato tutto il pezzo del matrimonio. A parte Ben, naturalmente.

Desiderava tanto che Drake, suo fratello minore, fosse lì. Come sempre quando pensava a lui, fu assalita da un intenso dolore. Tutte le volte che Drake passava a trovarli, Ben lo seguiva come i cani facevano con Nana.

Andavano insieme a caccia di farfalle, oppure si arrampicavano nella casetta sull’albero costruita dal nonno, raggiungibile attraverso un ponticello instabile sospeso sul torrente. A differenza di suo marito, il fratello accettava Ben, e ciò per molti versi lo rendeva più paterno di Keith. Ben lo adorava, e lei adorava Drake per il modo tranquillo con cui stimolava l’autostima del bambino. Una volta lo aveva ringraziato per quello. «Mi piace trascorrere del tempo con lui», era stata la sua semplice risposta.

Dov’era finita Nana? Beth si alzò dai gradini e scorse la luce accesa nell’ufficio, ma dubitava che la nonna fosse seduta al banco. Era più probabile trovarla nei recinti dietro il canile. Mentre attraversava il cortile, sperò che non avesse deciso di portare a spasso un gruppetto di cani. Non sarebbe riuscita a mantenere l’equilibrio – e men che meno a trattenerli – se avessero tirato il guinzaglio. Era convinta che la maggior parte dei cani non si muovesse abbastanza, e il suo era il luogo ideale per farli scorrazzare nel verde. Quasi trenta ettari di terreno, con diversi prati aperti circondati da boschetti vergini, numerosi sentieri e due ruscelli che si gettavano nel South River. La proprietà, comperata per una cifra ridicola cinquant’anni prima, adesso valeva una piccola fortuna. Così almeno aveva detto l’avvocato venuto lì per sentire se Nana fosse intenzionata a vendere.

Beth sapeva perfettamente chi c’era dietro quell’offerta. E anche la nonna, che aveva finto di essere lobotomizzata mentre l’avvocato parlava. Lo fissava con grandi occhi vacui, lasciando cadere a terra un chicco d’uva dopo l’altro e borbottando parole incomprensibili. Lei e la nipote ne avevano riso per ore in seguito. Mentre sbirciava dentro dalla finestra dell’ufficio, la voce di Nana le giunse dall’area dei recinti.

«Ferma... vieni. Brava ragazza! Brava, vieni!»

Girato l’angolo, Beth vide la nonna fare i complimenti a una shih tzu che trotterellava verso di lei. Le ricordava uno di quei cagnolini giocattolo con la carica a molla.

«Che cosa stai facendo, Nana? Non dovresti stare qui fuori.» «Oh, ciao, Beth.» Rispetto a due mesi prima non biasciava quasi più le parole.

Lei si mise le mani sui fianchi. «Non dovresti stare qui fuori da sola», ribadì.

«Mi sono portata il cellulare. Così potevo chiamare, se avessi avuto qualche problema.» «Tu non hai un cellulare.»

«Ho preso il tuo. Te l’ho tolto dalla borsa stamattina.» «Brava. E chi avresti chiamato, allora?»

Evidentemente Nana non ci aveva riflettuto. Corrugando la fronte, si girò verso il cane. «Guarda un po’ contro chi devo combattere, Precious. Te l’avevo detto che questa ragazza è più astuta di una volpe.» Sospirò emettendo un verso da gufo.

Beth capì che stava per cambiare argomento.

«Dov’è Ben?» chiese Nana.

«Dentro, si sta preparando. Va da Keith.»

«Scommetto che la cosa lo esalta. Sei sicura che non si sia nascosto nella casetta sull’albero?» «Tranquilla», disse Beth. «È pur sempre suo padre.»

«Lo credi.»

«Ne sono certa.»

«Sei proprio certa di non essere stata con qualcun altro all’epoca? Neppure un’avventura di una notte con un cameriere, un camionista, oppure un compagno di scuola?» La voce quasi trepidante.

«Nessuna avventura. Te l’ho già ripetuto un migliaio di volte.» Le strizzò l’occhio. «Sì, ma Nana spera sempre che la tua memoria migliori.» «Da quant’è che sei qui all’aperto?»

«Che ore sono?»

«Quasi le quattro.»

«Allora da tre ore.»

«Con questo caldo?»

«Non sono malata, Beth. Ho solo avuto un incidente.» «Hai avuto un ictus.»

«Ma non grave.»

«Non riesci a muovere il braccio sinistro.»

«Finché riesco a mangiare la minestra, non mi serve. Adesso fammi andare da mio nipote. Voglio salutarlo prima che esca.» Si avviarono verso il canile, seguite da Precious, che ansimava veloce, la coda dritta in aria. Una cagna davvero carina.

«Stasera mi piacerebbe mangiare cinese», proseguì Nana. «Tu che ne dici?» «Non ho ancora pensato alla cena.»

«Allora fallo.»

«D’accordo, vada per il cibo cinese. Ma niente roba pesante. Né fritti. Fa troppo caldo.» «Non sei divertente.»

«Però sono sana.»

«È lo stesso. Ehi, visto che sei così sana, ti spiacerebbe riportare Precious nella gabbia? È la numero dodici. Ho sentito una nuova barzelletta e voglio raccontarla a Ben.» «E dove l’hai sentita?»

«Alla radio.»

«Non è sconcia, vero?»

«Certo che no. Per chi mi hai presa?»

«Ti conosco molto bene. Per questo te lo chiedo. Che barzelletta è?» «Due cannibali stanno mangiando un clown e uno fa all’altro: ‘È ottimo con il riso...’» Beth rise. «A Ben piacerà.»

«Bene. Quel povero bambino ha bisogno di qualcosa che lo tiri un po’ su.»

«Sta bene.»

«Come no. Guarda che non sono nata ieri.»

Raggiunto il canile, Nana proseguì verso la casa, zoppicando in maniera più accentuata che al mattino. C’erano stati dei miglioramenti, ma rimaneva ancora molta strada da fare. 4 Thibault

Il corpo dei marines è basato sul numero tre. È una delle prime cose che ti insegnano nell’addestramento di base. Rende più facile capire come funziona. Tre marines formano un nucleo di fuoco, tre nuclei di fuoco formano una squadra, tre squadre formano un plotone, tre plotoni una compagnia, tre compagnie un battaglione e tre battaglioni un reggimento.

Sulla carta, almeno. Quando invasero l’Iraq il loro reggimento era composto anche da elementi di altre unità, tra cui il battaglione fanteria corazzata leggera da ricognizione, battaglioni di fucilieri dell’Undicesimo marines, il Secondo e il Terzo battaglione d’assalto anfibio, la compagnia B del Primo battaglione genio e il battaglione logistico di supporto 115.

Una forza imponente. Pronta a tutto. In totale quasi seimila uomini.

Mentre camminava sotto un cielo che cominciava a imbrunirsi, Thibault ripensò alla notte del suo primo combattimento in territorio nemico. La sua unità, il Primo battaglione del Quinto marines, era entrata nell’Iraq meridionale con l’obiettivo di conquistare i pozzi petroliferi di Rumaylah.

Tutti ricordavano come Saddam Hussein avesse incendiato la maggior parte dei pozzi del Kuwait durante la ritirata nella prima guerra del Golfo, e nessuno voleva che la cosa si ripetesse. Per farla breve, arrivarono in tempo per limitare i danni. Solo sette pozzi erano in fiamme quando riuscirono a occupare l’area. Da lì la squadra di Thibault fu spedita a nord, con l’ordine di avanzare rapidamente verso Baghdad. Il suo reggimento era il più decorato di tutto il corpo dei marines, quindi era stato scelto per guidare l’attacco alla capitale. In tutto, la permanenza di Thibault in Iraq era durata poco più di quattro mesi.

Ormai i particolari di quella sua prima missione per lui erano diventati alquanto confusi. Aveva semplicemente fatto quello che doveva, poi era stato rimpatriato nella base militare di Pendleton. Non lo aveva raccontato a nessuno. Cercava di non pensarci. A parte questo: Ricky Martinez e Bill Kincaid – gli altri due uomini del suo nucleo di fuoco – erano stati i protagonisti di una storia che non avrebbe mai dimenticato.

In quel periodo loro tre avevano vissuto a stretto contatto, condividendo tutto, anche se erano molto diversi per carattere e provenienza. Ricky era nato a Midland, nel Texas, ed era un fanatico del sollevamento pesi e un giocatore di baseball. Bill, che suonava la tromba nella banda del liceo, veniva dallo stato di New York ed era cresciuto in una fattoria con cinque sorelle. A Ricky piacevano le bionde, a Bill le brune; Ricky masticava tabacco, Bill fumava; Ricky amava la musica rap, Bill preferiva il country-western. Non aveva importanza. Si addestravano insieme, mangiavano e dormivano insieme. Parlavano di sport e di politica. Chiacchieravano come fratelli e si facevano scherzi a vicenda. Una mattina Bill si svegliò con un sopracciglio rasato. Il mattino dopo Ricky se li ritrovò rasati tutt’e due.

Thibault imparò a destarsi al minimo rumore e in quel modo riuscì a non subire la stessa sorte. Una sera, dopo essersi sbronzati, si fecero fare dei tatuaggi identici, che testimoniavano la loro fedeltà ai marines.

Dopo tanto tempo passato insieme, erano in grado di anticipare le mosse dei compagni. Ricky e Bill, a turno, avevano salvato la vita a Thibault. Bill lo aveva acciuffato per la giubba mentre lui stava per uscire allo scoperto; pochi istanti dopo un cecchino aveva colpito due uomini lì vicino. In seguito Thibault, in un momento di distrazione, aveva rischiato di essere travolto da un cingolato; quella volta era stato Ricky ad afferrarlo per un braccio. Anche in guerra, c’è chi muore in un incidente d’auto. Basti pensare a Patton.

Dopo aver conquistato i pozzi di petrolio erano arrivati alla periferia di Baghdad con il resto della compagnia. La città non era ancora caduta.

Facevano parte di un convoglio, tre uomini fra mille, e stringevano d’assedio la capitale. A parte il ruggito degli automezzi degli Alleati, tutto era silenzio mentre entravano nei quartieri periferici. Quando si sentirono degli spari provenienti da un vicolo che dava sulla via principale, la squadra di Thibault fu mandata in ricognizione.

Valutarono la scena. Edifici a due o tre piani addossati l’uno all’altro su entrambi i lati della strada sterrata. Un cane randagio che mangiava l’immondizia. La carcassa di un’auto che bruciava a un centinaio di metri di distanza. Aspettarono. Non videro nulla. Aspettarono ancora. Non sentirono nulla. Alla fine Thibault, Ricky e Bill ricevettero l’ordine di attraversare la strada. Ubbidirono, muovendosi in fretta, poi si misero al riparo. Da lì la squadra proseguì, verso l’ignoto.

Quando le detonazioni riecheggiarono di nuovo, non si trattava di uno sparo isolato bensì di raffiche continue di armi automatiche che li intrappolarono in un cerchio di fuoco. Assieme al resto della squadra Thibault, Ricky e Bill si ritrovarono bloccati contro gli stipiti delle porte.

La sparatoria non era durata molto, gli dissero in seguito. Comunque, era bastato. Una pioggia di fuoco scendeva dalle finestre sopra di loro.

Thibault e la sua squadra istintivamente alzarono i fucili e spararono più volte. Sull’altro lato della strada due uomini rimasero feriti, ma i rinforzi non tardarono ad arrivare. Un carro armato avanzò, seguito dalla fanteria leggera. L’aria vibrò quando il cannone emise un lampo e il proiettile colpì il piano superiore di un edificio, mandandolo in frantumi. Lui udiva urla dappertutto e vedeva i civili riversarsi in strada. Le raffiche non si fermavano. Il cane fu colpito e stramazzò a terra. I civili cadevano in avanti, colpiti alla schiena, tra grida e sangue. Un terzo marine fu ferito a una gamba. Thibault, Ricky e Bill erano ancora imprigionati dal fuoco delle pallottole che crivellavano il muro tutt’intorno a loro. Eppure continuavano a sparare. L’aria fu squarciata da un rombo e il piano superiore di un altro edificio crollò. Il tank si stava avvicinando. D’un tratto, il fuoco nemico cominciò ad arrivare da due direzioni diverse. Bill guardò lui; lui guardò Ricky. Sapevano che cosa dovevano fare. Era ora di muoversi, se fossero rimasti lì sarebbero morti. Thibault fu il primo ad alzarsi.

All’improvviso tutto diventò bianco, poi nero.

A Hamtpon, cinque anni dopo, Thibault non ricordava i dettagli, a parte la sensazione di essere stato gettato in una lavatrice. L’esplosione lo scaraventò in mezzo alla strada, le orecchie che gli fischiavano. Il suo amico Victor lo raggiunse immediatamente, assieme a un soldato di un altro reparto. Il carro armato continuò a sparare finché non presero il controllo della strada.

Questo venne a saperlo in seguito, anche il fatto che l’esplosione era stata causata da una granata, probabilmente destinata al carro armato. Aveva mancato la torretta per un soffio e, come se il destino avesse deciso così, era atterrata vicino a loro.

Thibault, illeso, fu caricato su un mezzo di soccorso e nel giro di poco tornò nella squadra. Non fu lo stesso per Ricky e Bill: entrambi furono sepolti con tutti gli onori militari. Ricky avrebbe compiuto ventidue anni la settimana successiva. Bill ne aveva appena venti. Non erano le prime né le uniche vittime del conflitto. La guerra proseguì.

Allora Thibault si sforzò di non pensare ai suoi compagni. Può sembrare cinico, ma in guerra la mente si difende da simili eventi. Era terribile riflettere sulla loro fine, sulla loro assenza, perciò scacciava il pensiero.

Come il resto della squadra. Continuò a fare il soldato, concentrandosi sul fatto di essere ancora vivo. E che gli altri contavano su di lui per sopravvivere.

Ma quel giorno sentiva i ricordi bussare alla porta, dolorosi e struggenti, e li lasciò entrare. Erano nella sua mente mentre percorreva le strade di Hampton, diretto verso i sobborghi dall’altra parte dell’abitato. Seguendo le indicazioni ricevute dal portiere del motel, camminava sul ciglio erboso della Route 54, tenendosi distante dalla carreggiata. Nei suoi lunghi spostamenti a piedi aveva imparato a non fidarsi degli automobilisti. Zeus lo seguiva passo passo, la lingua ciondoloni. Si fermò e gli diede da bere l’acqua rimasta nella bottiglia.

La statale era fiancheggiata da attività commerciali. Un negozio di materassi, un’autofficina, poi un asilo, una stazione di servizio che vendeva anche cibo stantio in vaschette di plastica e due fattorie malandate che sembravano fuori posto, come se il mondo moderno fosse spuntato tutt’intorno a loro. Il che era proprio ciò che era avvenuto, si disse Thibault. Si chiese per quanto tempo i proprietari avrebbero resistito e perché qualcuno volesse vivere in una casa affacciata sulla statale e stretta fra quei brutti edifici.

Le auto sfrecciavano in entrambe le direzioni. Nel cielo si andavano ammassando nubi grigie e vaporose. Annusò la pioggia appena prima che una goccia lo colpisse, e nel giro di pochi passi si scatenò il diluvio. Durò un quarto d’ora, infradiciandolo, poi i nuvoloni si spostarono verso la costa lasciandosi dietro una lieve foschia. Zeus si scrollò l’acqua dal manto. Gli uccelli ripresero il loro canto tra gli alberi mentre l’umidità evaporava dal terreno.

Alla fine raggiunse la zona della fiera. Era deserta. Niente di straordinario, pensò, esaminando l’area. Giusto l’essenziale. Parcheggio sterrato sulla sinistra; un paio di vecchi fienili sulla destra; un vasto prato per le giostre nel mezzo, il tutto delimitato da una catenella di metallo.

Non ebbe bisogno di scavalcare la recinzione, né di guardare la foto.

L’aveva studiata un migliaio di volte. Continuò a camminare cercando di orientarsi, e alla fine scorse il chiosco della biglietteria. Dietro c’era un’apertura ad arco dove si poteva appendere uno striscione. Fece qualche passo, si voltò e provò a inquadrare la scena nell’arco. Era l’angolatura giusta, decise; la fotografia era stata scattata proprio in quel punto.

La struttura del corpo dei marines si basa sul numero tre. Tre uomini per un nucleo di fuoco, tre nuclei di fuoco per una squadra, tre squadre per un plotone. Lui aveva svolto tre missioni in Iraq e, guardando l’orologio, si accorse di essere a Hampton da tre ore. Poco più avanti, esattamente dove previsto, c’erano tre sempreverdi che crescevano vicini.

Thibault tornò sulla statale, certo di essere più vicino a trovare la donna.

Non c’era ancora arrivato, ma non mancava molto.

Lei era stata lì, non c’erano dubbi.

Adesso gli occorreva un nome. Mentre attraversava a piedi il Paese aveva avuto modo di rifletterci a lungo ed era giunto alla conclusione che poteva risolvere la questione in tre modi diversi. Primo, cercare un’associazione di veterani e vedere se qualcuno che aveva combattuto in Iraq la riconosceva. Secondo, recarsi al liceo della città e sfogliare gli annuari scolastici di dieci, quindici anni prima. Oppure, terzo, andare in giro a mostrare la foto alla gente.

Ma non era così semplice. Per quanto riguardava l’associazione di veterani, non ne aveva trovata nessuna sull’elenco telefonico. Siccome era estate, dubitava che la scuola fosse aperta; e anche in questo caso non sarebbe stato facile ottenere l’accesso agli annuari. Quindi restava soltanto la terza opzione, quella di chiedere in giro. Ma a chi domandare?

Stando alla guida turistica gli abitanti di Hampton, North Carolina, erano novemila. E nel resto della contea erano tredicimila. Troppi. La strategia migliore era limitare le ricerche a deteminate categorie. Ancora una volta, partì da ciò che sapeva.

La donna della foto doveva avere adesso circa trent’anni. Era chiaramente carina. Molto bene, si disse, partiamo da Hampton. In una comunità di quelle dimensioni – presumendo un’equa distribuzione tra le varie fasce – si poteva ipotizzare all’incirca la presenza di 2750 bambini da zero ai dieci anni, 2750 ragazzi dai dieci ai venti e 5500 persone tra i venti e i quaranta, ovvero l’età che gli interessava. All’incirca. Di questi, una metà erano maschi e l’altra femmine. Le donne sarebbero state più diffidenti di fronte alle sue domande, soprattutto se effettivamente la conoscevano. Era un forestiero, e dubitava che avrebbero parlato con lui.

Dagli uomini invece avrebbe potuto ricavare qualcosa, se affrontava l’argomento nel modo giusto. Sapeva che quasi tutti i maschi notavano le coetanee attraenti, soprattutto i single. E quanti erano i single maschi della sua età? A occhio e croce un trenta per cento. Tradotto in cifre, sui 900.

Calcolò che l’ottanta per cento di loro vivesse lì all’epoca della foto. Era solo un’ipotesi, ma Hampton gli sembrava una città da cui i giovani tendevano a emigrare, piuttosto che il contrario. Questo riduceva il numero a 720. Poteva dimezzarlo, se prendeva in considerazione solo i maschi che erano tra i venticinque e i trentacinque. Si arrivava così a 360. Immaginava che una buona fetta di questi la conoscesse adesso, se anche lei era single, e forse alcuni di loro cinque anni prima erano stati suoi compagni di scuola. Naturalmente era possibile che lei ora avesse un marito – le ragazze delle piccole città del Sud tendevano a sposarsi presto – ma per il momento lui dava per scontato che fosse libera. Le parole scritte sul retro della foto - «Abbi cura di te! E.» - non gli sembravano abbastanza romantiche per essere rivolte a un fidanzato. Niente «Ti amo» oppure «Mi manchi». Soltanto l’iniziale. Un amico.

Da 9000 a 360 in pochi minuti. Niente male. E abbastanza per cominciare. Partendo dal presupposto che lei abitasse in quella città quando era stata scattata la foto. Che non fosse in gita.

Sapeva che quello era un altro grande punto interrogativo, ma doveva pur iniziare da qualche parte, ed era certo che lei fosse stata lì almeno una volta. Avrebbe scoperto la verità, poi avrebbe proseguito nella sua ricerca basandosi sui fatti.

Dove andavano la sera gli uomini single? Uomini che poteva indurre a parlare? L’ho conosciuta qualche anno fa e mi aveva detto di chiamarla, se tornavo qui in città, ma non ricordo il suo nome e ho perso il numero di telefono...

Bar. Sale da biliardo.

In un posto del genere non dovevano esserci più di tre o quattro locali da frequentare. Nei bar e nelle sale da biliardo c’era il vantaggio dell’alcol, inoltre era sabato. Sarebbero stati pieni. Calcolò che avrebbe ottenuto le risposte che cercava, in un senso o nell’altro, entro le successive dodici ore.

Guardò Zeus. «A quanto pare, dovrai rimanere da solo stasera. Potrei portarti con me, ma dovrei lasciarti fuori e non so quanto tempo ci metterò.»

Zeus continuava a camminare, il muso chino, la lingua penzoloni. Era stanco e accaldato. Non gli dava retta.

«Ti accenderò il condizionatore, va bene?» 5 Clayton

Erano le nove di sabato sera e lui era bloccato in casa a fare il babysitter.

Grandioso. Semplicemente grandioso.

In quale altro modo poteva finire una giornata come quella? Prima, una delle ragazze lo aveva quasi beccato mentre scattava le foto, poi la macchina fotografica del dipartimento era stata rubata, infine le gomme bucate. Peggio ancora, aveva dovuto fornire spiegazioni a suo padre, il signor Sceriffo della contea. Com’era prevedibile, il padre aveva dato fuori di matto e, chissà perché, non aveva creduto alla storia che lui aveva imbastito. Continuava a tempestarlo di domande. Alla fine Clayton avrebbe voluto strozzarlo. Papà poteva anche essere un pezzo grosso per la gente del posto, però non aveva nessun diritto di trattarlo come un idiota.

Comunque, era rimasto fedele alla sua versione: gli era sembrato di vedere qualcuno di sospetto, era andato a controllare ed era passato con le ruote su un paio di chiodi. E la macchina fotografica? Ah, non doveva chiedere a lui. Quel giorno non se l’era nemmeno portata dietro. Niente di straordinario, lo sapeva, ma credibile.

«A me sembrano più squarci da coltello», aveva obiettato il padre, chinandosi a guardare le gomme.

«Te l’ho detto, sono stati dei chiodi.»

«Non ci sono cantieri da quelle parti.»

«Non so nemmeno io come sia potuto accadere! Ti sto solo riferendo quello che è successo.» «Dove sono?»

«E che ne so io? Li ho buttati nel bosco.»

Il padre non pareva convinto, ma Clayton sapeva che era meglio confermare la storia. I guai cominciano quando la gente si mette a ritrattare. È la prima regola di un interrogatorio.

Alla fine lo sceriffo era tornato in ufficio, lui aveva montato le gomme di scorta ed era andato nell’officina per farsi aggiustare quelle forate. Erano passate un paio d’ore ed era in ritardo per l’appuntamento con quell’uomo.

Nessuno, dico, nessuno si prendeva gioco di Keith Clayton, e men che meno un hippie vagabondo.

Passò il resto del pomeriggio girando per le strade di Arden e chiedendo a tutti se l’avessero visto. Era impossibile non notare un tipo come quello, non foss’altro per la bestia che si portava appresso. Ma le sue ricerche rimasero senza esito e questo lo fece infuriare ulteriormente, perché significava che Tai-bolt gli aveva mentito in faccia e lui non se n’era accorto.

Prima o poi lo avrebbe trovato, si disse. A qualunque costo... se non altro per la macchina fotografica. O, per essere più precisi, per le foto.

Soprattutto le altre foto. L’ultima cosa che voleva era che Tai-bolt si presentasse nell’ufficio dello sceriffo e consegnasse quel tesoro a un agente... o peggio, che andasse direttamente al giornale. Tra i due, il dipartimento sarebbe stato il male minore, visto che suo padre avrebbe potuto insabbiare la faccenda.

Certo, sarebbe esploso come una polveriera e lo avrebbe messo in punizione per qualche settimana, ma di sicuro non avrebbe aperto bocca.

Papà non valeva granché sotto molti aspetti, ma in queste cose era un grande.

Il giornale, però... quella era un’altra storia. Certo, il nonno avrebbe fatto qualche pressione perché la cosa passasse sotto silenzio anche lì, ma non c’era modo di pilotare quel genere di informazioni. La notizia era troppo ghiotta e si sarebbe diffusa come un incendio in tutta la città, con o senza articolo. Clayton era già considerato la pecora nera della famiglia, non voleva dare al Vecchio altri motivi per criticarlo. Il nonno non perdeva occasione di sottolineare le sue mancanze. Ancora adesso, ad anni di distanza, gli rinfacciava di avere divorziato da Beth, anche se quello non lo riguardava. E alle riunioni di famiglia si poteva stare certi che avrebbe tirato fuori il fatto che Clayton non era andato all’università. Con i suoi voti avrebbe potuto iscriversi, ma lui non riusciva proprio a immaginarsi di passare altri quattro anni a studiare, così aveva preferito farsi assumere dal padre nel dipartimento di polizia. Questo almeno era bastato a placare le ire del Vecchio. Gli sembrava di aver passato metà della vita a cercare di compiacerlo, ma non aveva scelta.

Anche se non nutriva una particolare simpatia per il Vecchio – suo nonno era un devoto battista del Sud che andava a messa tutte le domeniche e pensava che bere e ballare fossero peccati capitali – sapeva esattamente che cosa quell’uomo si aspettava da lui, e di certo fotografare studentesse nude non rientrava tra le cose lecite. Al pari degli altri scatti, che lo ritraevano assieme a qualche signorina compiacente in atteggiamenti compromettenti. Se fosse saltata fuori, quella storia sarebbe stata «una grande delusione» e il Vecchio non aveva molta pazienza con chi lo deludeva, anche se apparteneva alla famiglia. Anzi, soprattutto in tal caso.

I Clayton vivevano nella Hampton County dal 1753: tra i membri della famiglia si annoveravano giudici, avvocati, dottori, latifondisti; persino il sindaco era imparentato con loro, ma tutti sapevano che il posto a capotavola spettava al Vecchio. Regnava sulla contea come una specie di padrino all’antica, e la maggior parte degli abitanti cantava le sue lodi senza stancarsi di elencare le sue virtù. Il Vecchio si illudeva di essere benvoluto perché sovvenzionava ogni genere di istituzione, dalla biblioteca al teatro alla scuola elementare, mentre in realtà ciò si doveva al fatto che era il proprietario di molti edifici commerciali del centro, oltre che della segheria, entrambi i porticcioli, tre concessionari di automobili, tre complessi di magazzini, l’unico condominio esistente e vasti appezzamenti di terreno agricolo. Questo faceva di lui un uomo ricco e potente e siccome Clayton riceveva la maggior parte dei suoi soldi da fondi di famiglia, non poteva assolutamente rischiare che uno sconosciuto appena arrivato in città lo mettesse nei guai.

Grazie a Dio aveva avuto un figlio nel breve periodo trascorso con Beth, pensò. Il Vecchio aveva la fissa della genealogia e dato che il bambino portava il suo nome – era stata un’idea alquanto astuta, doveva ammetterlo

– lo adorava. Clayton aveva l’impressione che fosse molto più affezionato a Ben, il suo pronipote, che a lui. Oh, Ben era un bravo bambino. Lo sostenevano tutti. E gli voleva bene, anche se a volte era una vera piaga. Guardando dentro dalla veranda, vide che il figlio aveva finito con la cucina ed era tornato a sedersi sul divano.

Avrebbe dovuto raggiungerlo, ma ancora non se la sentiva. Non voleva perdere la pazienza o dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. Si era impegnato a migliorare da questo punto di vista; un paio di mesi prima il Vecchio gli aveva parlato a quattrocchi di quanto fosse importante esercitare «un’influenza positiva». Testa di cazzo. Quella sera il bambino lo aveva già esasperato. Ma invece di dar fuori di matto, lui si era ricordato del Vecchio ed era uscito dalla stanza.

Sembrava che in quel periodo Ben facesse apposta a irritarlo. Non era colpa sua; lui si sforzava di andare d’accordo con il bambino! Ed erano partiti bene. Avevano parlato della scuola, si erano mangiati due hamburger, avevano guardato SportsCenter. Tutto perfetto. Ma poi, orrore, orrore, aveva chiesto a Ben di riordinare la cucina. Era forse pretendere troppo? Negli ultimi giorni non aveva avuto tempo di pulire e sapeva che suo figlio era capace di farlo. Ben aveva risposto di sì, ma era rimasto lì seduto. I minuti passavano e lui non si muoveva. Allora Clayton glielo aveva chiesto di nuovo – sempre in maniera gentile – e gli era parso che Ben alzasse gli occhi al cielo prima di decidersi ad alzarsi. Era bastato. Lui odiava quel comportamento, e Ben lo sapeva. Era come se il bambino conoscesse tutti i tasti giusti da schiacciare per farlo uscire dai gangheri. E così Clayton si era ritrovato fuori in veranda.

Atteggiamenti del genere derivavano dalla mamma; di questo Clayton era sicurissimo. Lei era una donna maledettamente attraente, però non capiva un’acca di come si trasforma un ragazzino in un uomo. Lui non aveva niente in contrario se il figlio prendeva buoni voti, ma che cosa significava che quest’anno non poteva giocare a calcio perché voleva suonare il violino? Che scemenze erano? Il violino? Tanto valeva cominciare a vestirlo di rosa e insegnargli a cavalcare all’amazzone. Clayton faceva del suo meglio per arginare un simile disastro, ma il fatto era che il figlio stava con lui soltanto un giorno e mezzo ogni due settimane. Non c’era da meravigliarsi se impugnava la mazza come una femminuccia. Era troppo impegnato a giocare a scacchi. E tanto perché fosse chiaro a tutti, lui non aveva nessunissima intenzione di morire dalla noia a un saggio di violino.

I suoi pensieri tornarono su Tai-bolt. Sarebbe stato bello se avesse semplicemente lasciato la contea, ma non si illudeva. Quel tipo andava a piedi e non era possibile che raggiungesse i confini entro sera. Che altro?

C’era qualcosa che lo rodeva fin dal mattino e che era riuscito a definire meglio solo ora che aveva preso un po’ di fresco in veranda. Ammesso che il tizio venisse veramente dal Colorado – come gli aveva detto – allora procedeva da ovest verso est. E qual era la città più vicina in quella direzione? Non certo Arden, che si trovava a sudovest di dove si erano incontrati. Invece, sarebbe arrivato nella buona vecchia Hampton, la città dove Keith era cresciuto. Il che significava che poteva trovarsi a meno di un quarto d’ora di macchina da lì.

E dov’era Clayton? Fuori a cercarlo? No, a casa a badare al pupo.

Lanciò un’altra occhiata al figlio attraverso la finestra. Stava leggendo sul divano, l’unica cosa che a quanto pareva gli piacesse fare. A parte suonare il violino. Si chiese se il bambino avesse ereditato almeno qualche gene da lui. Poco probabile. Era un cocco di mamma in tutto e per tutto. Il figlio di Beth.

Beth...

Già, il matrimonio non aveva funzionato. Ma c’era ancora qualcosa tra di loro. Ci sarebbe sempre stato. Lei poteva anche essere noiosa e puntigliosa, ma lui sarebbe sempre rimasto in contatto, non solo per via di Ben, ma anche perché era la donna di gran lunga più bella con cui fosse mai andato a letto. Uno schianto all’epoca, e forse persino meglio ora. Che strano. Come se avesse raggiunto un’età che le si addiceva alla perfezione e avesse smesso di invecchiare da quel momento in poi. Sapeva che non sarebbe durato, la gravità alla fine avrebbe avuto la meglio. Comunque a lui non sarebbe affatto dispiaciuto rotolarsi un po’ tra le lenzuola con Beth.

In nome dei bei vecchi tempi e così, tanto per... rilassarsi.

Magari poteva chiamare Angie. Oppure Kate. La prima aveva vent’anni e lavorava nel negozio di animali; l’altra ventuno e puliva i bagni allo Stratford Inn. Tutt’e due avevano una figuretta niente male ed erano vera dinamite quando si trattava di un po’ di... relax. Era certo che Ben non se la sarebbe presa a male se avesse portato a casa una delle ragazze, comunque doveva prima parlare con loro. Si erano arrabbiate entrambe l’ultima volta che le aveva viste. Avrebbe dovuto scusarsi e fare il galante, e non era sicuro di aver voglia di sentirle masticare rumorosamente la gomma oppure raccontare quello che avevano visto su MTV o letto sul National Enquirer. A volte erano troppo faticose.

Quindi era escluso. Anche andare a cercare Tai-bolt quella sera era escluso. E l’indomani pure, visto che il Vecchio voleva tutti a pranzo a casa sua dopo la messa. In ogni caso era improbabile che quell’hippie, con il cane e lo zaino, rimediasse un passaggio. Quanta strada poteva fare a piedi in un paio di giorni? Trenta chilometri? Quaranta al massimo? Perciò domani pomeriggio sarebbe stato ancora in zona. Lui avrebbe fatto qualche telefonata. Prima o poi avrebbe trovato qualcuno che lo aveva visto. E a quel punto si sarebbe mosso.

Perso nei suoi pensieri, Clayton non sentì la porta d’ingresso che si apriva.

«Papà?»

«Sì?»

«Una telefonata per te.»

«Chi è?»

«Tony.»

«Arrivo.»

Si alzò dalla sedia, chiedendosi che cosa mai potesse volere Tony, quello sfigato, un perditempo che nei bar si sedeva vicino agli agenti, tentando di farsi passare per uno di loro. Probabilmente si domandava dove fosse finito lui e quali programmi avesse per dopo, perché non voleva essere escluso. Che strazio.

Finì la birra mentre rientrava e gettò la lattina nel bidone di metallo. Poi si avvicinò al bancone della cucina e prese il ricevitore.

«Sì?» In sottofondo sentiva le note di una canzone country-western suonata dal jukebox e il rumore di gente che parlava a voce alta. Chissà da dove lo chiamava il perdente.

«Ehi, sono al Decker’s Pool Hall e ho pensato di avvisarti che qui c’è uno strano tizio.» Clayton drizzò le antenne. «Ha un cane? Lo zaino? L’aria stazzonata, come se avesse dormito nei boschi?» «No.»

«Ne sei sicuro?»

«Sì. Sta giocando a biliardo sul retro. Ma senti, te lo volevo dire perché ha una foto della tua ex moglie.»

Preso alla sprovvista, Clayton cercò di fingersi distaccato. «E allora?»

«Credevo ti interessasse saperlo.»

«E perché mi dovrebbe riguardare?»

«Non so.»

«Appunto. Va’ al diavolo.»

Riagganciò, pensando che Tony aveva la segatura al posto del cervello, e lanciò un’occhiata di apprezzamento alla cucina. Linda e ordinata. Il ragazzino aveva fatto un ottimo lavoro, come sempre. Stava quasi per dirglielo, ma poi, vedendolo, non poté fare a meno di notare quanto fosse minuto. Certo, in gran parte dipendeva dalla genetica, lo sviluppo tardivo o precoce e tutto il resto, ma era anche una questione di salute generale.

Alimentazione adeguata, esercizio fisico, tanto riposo. Le cose fondamentali; quelle che tutte le madri dicevano ai figli. E avevano ragione. Se non mangi abbastanza, non puoi crescere. Se non ti alleni, i muscoli non si sviluppano. E quando si rigenera il corpo? Di notte. Mentre si sogna.

Spesso si domandava se Ben dormisse abbastanza a casa di sua madre.

Clayton sapeva che mangiava – si era finito l’hamburger con le patatine – e che era attivo, quindi forse era la mancanza di sonno a impedirgli di crescere. Il bambino non voleva rischiare di rimanere piccolo, vero? Certo che no. E poi lui aveva voglia di stare un po’ da solo. Per fantasticare su quello che avrebbe fatto a Tai-bolt la prossima volta che lo incontrava.

Si schiarì la gola. «Ehi, Ben, non ti sembra che si sia fatto tardi?» 6 Thibault

Di ritorno dalla sala biliardo, Thibault ripensò alla sua seconda missione in Iraq.

Era andata così: Fallujah, primavera 2004. Il suo battaglione assieme ad altre unità, aveva ricevuto l’ordine di fermare l’escalation della violenza iniziata dopo la caduta di Baghdad l’anno prima. I civili temevano per la loro incolumità e cominciarono a lasciare la capitale, riversandosi lungo le vie principali. All’incirca un terzo della popolazione era evacuato in un giorno. Furono impiegati prima l’aeronautica e poi i marines. Si muovevano isolato per isolato, di casa in casa, di stanza in stanza, affrontando alcune delle sparatorie più cruente dall’inizio dell’invasione.

Nel giro di tre giorni controllavano un quarto della città, ma il numero crescente di vittime tra i civili rese necessario dichiarare una tregua. Si decise di abbandonare l’operazione e la maggior parte delle forze si ritirò, compresa la compagnia di Thibault.

Ma non la compagnia al completo.

Nella periferia industriale a sud della città, al plotone di cui faceva parte Thibault fu ordinato di perquisire un edificio dove si diceva fossero nascoste delle armi. Per individuarlo bisognava cercare tra una decina di costruzioni semidistrutte, che formavano un semicerchio accanto a una pompa di benzina abbandonata. Lui e i suoi compagni si avvicinarono, tenendosi a distanza dalla stazione di servizio: metà sulla destra, metà sulla sinistra. Tutto era tranquillo, quando all’improvviso la pompa di benzina esplose. Le fiamme si alzarono verso il cielo, Pesplosione gettò a terra metà degli uomini, fracassando i timpani. Thibault era stordito; la sua visione periferica era buia e tutto il resto sfocato. D’un tratto, una grandine di pallottole piombò su di loro dalle finestre e dai tetti delle case, e dalle carcasse annerite delle automobili nelle strade.

Thibault si ritrovò sdraiato per terra accanto a Victor. Altri due uomini del suo plotone, Matt e Kevin – rispettivamente Cane Pazzo e K-Man – erano lì vicino, e allora scattò l’addestramento. Scattò la fratellanza. Nonostante la carneficina, nonostante la paura, nonostante una morte quasi certa, Victor prese il fucile e, ginocchio a terra, cominciò a sparare sul nemico.

Sparò, ancora e ancora, i movimenti calmi e concentrati, lucidi. Cane Pazzo lo imitò. Si alzarono a uno a uno, formando gruppi di fuoco.

Sparare. Coprire. Spostarsi. Ma il fatto era che non potevano spostarsi, non c’era nessun posto dove andare. Un marine cadde, poi un altro. E un terzo e un quarto.

Quando arrivarono i rinforzi era ormai tardi. Cane Pazzo, colpito all’arteria femorale, nonostante il laccio emostatico era morto dissanguato in pochi minuti. Kevin, colpito alla testa, era morto all’istante. Altri dieci erano rimasti feriti. Soltanto pochi ne uscirono illesi. Tra cui Thibault e Victor.

Uno dei giovani che quella sera aveva conosciuto nella sala biliardo gli ricordava Cane Pazzo. Sembrava proprio suo fratello – stessa altezza e stesso peso, stessi capelli, stesso modo di esprimersi – e per un attimo lui si era chiesto se non lo fosse davvero, anche se era impossibile.

Sapeva di dover agire con prudenza. Nelle piccole comunità i forestieri sono sempre guardati con sospetto e, verso la fine della serata, aveva visto quel tipo ossuto dalla pelle butterata che parlava al telefono a gettoni vicino al bagno, occhieggiandolo nervosamente. Era irrequieto anche prima, e Thibault aveva concluso che stesse chiamando la donna della foto oppure qualcuno legato a lei. I suoi sospetti erano stati confermati quando era uscito dal locale. Com’era prevedibile, il tizio lo aveva seguito fino alla porta per capire da che parte andasse, così lui si era incamminato nella direzione sbagliata, poi era tornato sui suoi passi.

Quando era entrato in quel locale scalcinato aveva superato il bar e si era diretto subito ai biliardi. Aveva identificato a prima vista gli uomini dell’età giusta, la maggior parte dei quali sembrava essere single. Chiese di giocare e partecipò ai brontolii di prammatica. Si mostrò gentile, offrì qualche birra mentre perdeva con discrezione, e tutti cominciarono a sciogliersi un po’. Si informò distrattamente sulla vita sociale in città.

Mancò qualche colpo. Si congratulò quando gli altri ne imbroccavano uno. Alla fine presero a fargli domande. Da dove veniva? Che cosa ci faceva lì?

Lui tergiversava: borbottava qualcosa circa una ragazza e cambiava argomento. Tanto per alimentare la curiosità. Offrì altre birre e, quando glielo chiesero di nuovo, raccontò titubante la sua storia: qualche anno prima era stato lì con un amico alla fiera e aveva conosciuto una ragazza.

Avevano fatto amicizia. Continuava a ripetere quanto fosse bella, e che gli aveva detto di cercarla se fosse tornato in città. Lui intendeva farlo, ma purtroppo non si ricordava il nome. Maledizione.

Non ti ricordi come si chiama? Si stupirono. No, rispose. Non sono mai stato bravo con i nomi. Da piccolo mi hanno colpito dritto in testa con una palla da baseball e la memoria mi gioca brutti scherzi. Aspettò la risata, che arrivò. Però ho una sua foto, aggiunse come se gli fosse venuto in mente solo in quel momento.

Ce l’hai qui con te? Sì, credo di sì.

Si frugò nelle tasche e tirò fuori la fotografia. Gli uomini gli si radunarono intorno. Un istante dopo uno di loro scrollò il capo. Sei sfortunato, amico, disse. È off-limits. È sposata? No, ma diciamo solo che non esce con nessuno. Il suo ex non lo gradirebbe, e ti assicuro che è meglio non pestargli i piedi.

Thibault deglutì. Come si chiama lei?

Beth Green, gli risposero. Insegna alla scuola elementare di Hampton e abita con la nonna che ha un canile, il Sunshine Kennels.

Beth Green. O più precisamente Elizabeth Green, pensò Thibault.

E come Elizabeth.

Giusto in quel momento si era accorto che un tizio a cui aveva mostrato la foto si allontanava furtivamente. Allora sono davvero sfortunato, si disse, rimettendola via.

Si trattenne ancora una mezz’ora per coprire le proprie tracce. Guardò l’uomo dalla pelle butterata fare la telefonata e rimanere deluso da quanto gli rispondeva l’interlocutore. Come un bambino che si è messo nei guai per aver parlato troppo. Bene. Eppure lui sentiva che non sarebbe finita lì.

Offrì altre birre, perse altre partite, lanciò occhiate casuali alla porta per vedere se entrava qualcuno. Non arrivò nessuno. A un certo punto alzò le mani e dichiarò di essere al verde. Quel gioco gli era costato un po’ più di cento dollari. Loro lo salutarono dicendogli di tornare quando voleva.

Li udì appena. La sua mente era occupata da un solo pensiero: adesso aveva un nome da abbinare alla faccia e il passo successivo sarebbe stato quello di incontrarla. 7 Beth

Domenica.

Dopo la messa, quella doveva essere una giornata di riposo, per recuperare le forze e ricaricarsi in vista della settimana successiva. Un giorno da trascorrere in famiglia, cucinando l’arrosto e facendo rilassanti passeggiate lungo il fiume. Magari anche rannicchiandosi sul divano con un buon libro e un bicchiere di vino, o immergendosi in un bagno caldo e profumato.

Beth non voleva passare il tempo a raccogliere cacca di cane dai prati, a pulire le gabbie, ad addestrare dodici animali l’uno dietro l’altro, oppure seduta in un ufficetto soffocante ad aspettare che i padroni venissero a riprendere le loro bestiole, che intanto riposavano rinfrescate dall’aria condizionata. E questo, naturalmente, era proprio quello che aveva fatto da quando era tornata dalla chiesa.

Due cani erano già stati prelevati, altri quattro aspettavano. Nana era stata così gentile da tirarle fuori le schede prima di chiudersi in casa a guardare la partita. Gli Atlanta Braves giocavano contro i New York Mets, e lei aveva per i Braves una passione febbrile che si estendeva a tutti i gadget della squadra. Il che spiegava le tazze da caffè con lo stemma sulla mensola in cucina, i gagliardetti appesi alle pareti, il calendario da tavolo con le foto dei giocatori e la ridicola lampada accanto alla finestra.

Anche con la porta spalancata, nell’ufficio non si respirava. Era una di quelle giornate estive calde e umide perfette solo per nuotare nel fiume.

Beth aveva la camicetta madida di sudore e, siccome portava gli shorts, le gambe le si incollavano continuamente al sedile. Tutte le volte che si spostava sentiva uno schiocco appiccicoso, come quando si stacca il nastro adesivo da uno scatolone.

Sebbene Nana considerasse imperativo tenere i cani al fresco, non si era mai preoccupata di far arrivare l’aria condizionata in quella stanza. «Se hai caldo, apri la porta del canile», diceva sempre, ignorando il fatto che, a differenza di lei, le persone normali non sopportavano l’incessante rumore che proveniva da lì. E quel giorno c’erano un paio di esemplari particolarmente agitati: una coppia di Jack Russel che non aveva smesso di abbaiare da quando Beth era arrivata. Probabilmente erano andati avanti per tutta la notte, pensò, visto che anche gli altri cani sembravano di pessimo umore. Più o meno ogni minuto qualcuno di loro si univa al coro di latrati, e il frastuono raggiungeva picchi assordanti, come se l’unico desiderio di ogni animale fosse manifestare il proprio disagio più forte degli altri.

Beth accarezzò l’idea di andare a prendere un altro bicchiere di acqua ghiacciata, ma aveva la strana sensazione che, non appena si fosse allontanata, sarebbero arrivati i padroni del cocker spaniel. Avevano telefonato una mezz’ora prima dicendo che erano per strada - «Saremo lì tra una decina di minuti!» - e si sarebbero di certo seccati se la loro amata cockerina fosse restata in gabbia un minuto in più del necessario, soprattutto dopo aver passato due settimane lontano da casa.

Ma erano arrivati? Ancora no, naturalmente.

Le dispiaceva per Ben. Lo aveva visto in chiesa con il padre quella mattina e lo aveva trovato giù come al solito. Le aveva telefonato prima di andare a letto la sera precedente, raccontandole che Keith aveva passato buona parte della serata fuori in veranda mentre lui puliva la cucina. Ma perché faceva così? Si domandò lei. Perché non riusciva a godersi la compagnia del figlio? Magari sedendosi a parlare con lui? Ben era un ragazzino estroverso ed espansivo, e non lo diceva perché era sua madre. Sì, ammetteva di essere forse un po’ parziale, ma come insegnante era sempre in mezzo ai bambini e li sapeva giudicare. Ben era sveglio. Ben aveva un incredibile senso dell’umorismo. Ben era naturalmente gentile. Ben era educato. Ben era fantastico, e la faceva impazzire l’idea che Keith fosse troppo stupido per rendersene conto.

Avrebbe tanto preferito essere in casa a fare qualcosa... qualunque cosa. In quell’ufficetto aveva fin troppo tempo per pensare. Non solo a Ben, ma anche a Nana. Alla scuola. E anche al triste stato della sua vita sentimentale, che non mancava mai di deprimerla. Sarebbe stato meraviglioso, si disse, incontrare una persona speciale, qualcuno con cui ridere, qualcuno che amasse Ben quanto lo amava lei. Oppure conoscere un uomo con cui andare fuori a cena e al cinema. Un uomo normale, che si ricordasse di posarsi il tovagliolo sulle ginocchia al ristorante e di tanto in tanto le aprisse la porta. Non era una richiesta irragionevole, giusto? Non aveva mentito a Melody quando le aveva detto che le sue possibilità in città erano limitate, e sebbene fosse la prima a riconoscere di essere piuttosto esigente, a parte il breve intermezzo con Adam aveva passato il resto dell’anno da sola durante i weekend. Quarantanove fine settimana su cinquantadue. Non era esigente fino a quel punto! La pura e semplice verità era che Adam era stato l’unico a invitarla a uscire e, per un motivo che continuava a non capire, all’improvviso aveva smesso di telefonarle. E con questo in pratica si concludeva la storia dei suoi amori degli ultimi anni.

Ma non cascava il mondo, giusto? Finora era sopravvissuta senza una relazione, e poteva andare avanti così. E poi in genere la cosa non la disturbava. Non fosse stata una giornata tanto orribile e soffocante, non se ne sarebbe curata. Il che significava che doveva assolutamente trovare il modo di rinfrescarsi. Altrimenti avrebbe cominciato a pensare al passato, e non voleva farlo per nessun motivo. Afferrò il bicchiere vuoto per andare a riempirlo. E già che c’era, avrebbe preso anche una salvietta da mettere sulla sedia.

Mentre si alzava lanciò un’occhiata all’esterno, poi scrisse su un biglietto torno subito e lo attaccò alla porta dell’ufficio. Fuori il sole picchiava forte e lei cercò riparo all’ombra della vecchia magnolia mentre percorreva il vialetto che portava alla casa in cui era cresciuta. Costruita negli anni Venti, ricordava una bassa e larga fattoria del Sud, con un grande porticato anteriore sormontato da un timpano triangolare. Sul retro, delimitato da una fitta siepe, c’era un giardino ombreggiato da querce secolari con una terrazza coperta dove si poteva mangiare all’aperto. In passato era un posto magnifico, ma come capitava a tanti edifici rurali intorno a Hampton, il tempo e le intemperie avevano lasciato il segno. Il portico si era imbarcato, i pavimenti di legno scricchiolavano e gli infissi delle finestre erano in cattive condizioni. Dentro era più o meno lo stesso; una solida struttura, ma c’era urgente bisogno di interventi di ammodernamento, specialmente in cucina e nei bagni. Nana lo sapeva e ogni tanto parlava di fare questo o quello, ma poi ogni progetto veniva regolarmente archiviato. E Beth doveva ammettere che comunque quella casa conservava ancora tutto il suo fascino. Non solo il giardino – una vera e propria oasi – ma anche gli interni. Nana era un’appassionata di antiquariato e nel corso degli anni aveva comperato una serie di mobili francesi dell’Ottocento. Aveva battuto tutte le vendite di cortile. Si intendeva di pittura e aveva stretto amicizia con parecchi galleristi in tutto il Sud. Non c’era stanza della casa che non fosse decorata con qualche dipinto. Una volta, per curiosità, Beth aveva cercato i nomi di alcuni di quei pittori su Internet e aveva scoperto che altre loro opere erano esposte al Metropolitan Museum di New York e alla Huntington Library di San Marino, in California. Quando ne aveva parlato con Nana, lei aveva ammiccato, dicendo: «È come sorseggiare champagne, vero?» Dietro le sue battute sarcastiche spesso si nascondeva un acume di prima categoria.

Arrivata in veranda, Beth aprì la porta di casa e fu investita da una corrente d’aria fresca. Rimase qualche istante ferma sulla soglia a tirare il fiato.

«Chiudi», le gridò Nana da dentro. «Altrimenti farai entrare il caldo.» Si voltò sulla sedia e scrutò attentamente la nipote. «Sembri sudata.»

«Infatti.»

«Scommetto che oggi l’ufficio è una fornace.»

«Davvero?»

«Avresti dovuto aprire la porta che da sul canile, come ti avevo detto. Ma mai che mi ascolti. Avanti, vieni qui a rinfrescarti un po’.»

Beth indicò il televisore. «Come vanno i Braves?» «Sembrano un mazzo di carote.»

«È un bene o un male?»

«Secondo te le carote sanno giocare a baseball?»

«Direi di no.»

«Ecco, appunto.»

Con un sorrisino, Beth si avviò verso la cucina. Nana diventava sempre irritabile quando i Braves perdevano. Tirò fuori dal freezer un vassoio di cubetti di ghiaccio e li versò nel bicchiere, poi lo riempì d’acqua e bevve una lunga sorsata. Prese una banana dal cesto della frutta e tornò in soggiorno. Si sedette sul bracciolo del divano e, mentre il sudore le si asciugava dalla fronte, si mise a osservare con un occhio Nana e con l’altro la partita. Avrebbe voluto chiedere com’era il punteggio, ma sapeva che la nonna non lo avrebbe apprezzato. Di sicuro non quando i Braves giocavano come un mazzo di carote. Guardò l’ora e sospirò: doveva tornare in ufficio.

«È stato bello stare qui con te, Nana.»

«Anche per me, tesoro. Cerca di non prendere troppo caldo.» «Farò del mio meglio.»

Beth si diresse verso il canile, registrando con un certo disappunto l’assenza di auto nel parcheggio. Dei padroni del cocker spaniel non c’era ancora traccia, però scorse un uomo che stava risalendo il vialetto, seguito da un pastore tedesco. Spirali di polvere si alzavano alle sue spalle e il cane avanzava con la testa ciondoloni e la lingua fuori. Si chiese come mai fossero in giro a quell’ora, in una giornata simile persino gli animali preferivano stare al chiuso. A pensarci bene, era la prima volta che un cliente arrivava a piedi con il suo cane. E non solo: quel tizio non aveva nemmeno chiamato per prendere un appuntamento.

Mentre si avvicinava all’ufficio gli fece un cenno di saluto con la mano e rimase sorpresa quando l’uomo si fermò a guardarla. Anche il cane la guardò, drizzando le orecchie. E il suo primo pensiero fu che somigliava molto a Oliver, il pastore tedesco che Nana aveva portato a casa quando lei aveva tredici anni. Aveva lo stesso pelo nero-rossiccio, lo stesso modo di inclinare il muso, la stessa aria minacciosa di fronte agli sconosciuti.

Comunque Oliver non le aveva mai fatto paura, si disse. Di giorno stava sempre con Drake, ma la notte si metteva accanto al suo letto e si lasciava accarezzare da lei.

A quel punto si accorse che l’uomo non aveva risposto al saluto e non si era ancora mosso. Strano, pensò. Forse si aspettava di vedere Nana.

Siccome aveva il viso in ombra, Beth non riusciva a decifrare la sua espressione. Staccò il biglietto dalla porta dell’ufficio e bloccò il battente in modo che restasse aperto. Si preparò a riceverlo. Girò oltre il banco e, quando vide la sedia di vinile, capì di essersi dimenticata la salvietta.

Tipico.

Prese un modulo dallo schedario e lo mise su una cartelletta, pensando che lo sconosciuto avesse intenzione di lasciare lì il cane. Cercò una penna e l’appoggiò sul banco vicino al foglio proprio mentre l’uomo entrava. Le sorrise guardandola negli occhi, e Beth ammutolì.

C’era qualcosa che la turbava in quello sguardo. Per quanto potesse sembrare pazzesco, lui la fissava come se l’avesse riconosciuta. Lei però non lo aveva mai visto prima, di questo era sicura. Se ne sarebbe ricordata, se non altro perché somigliava a Drake nel modo in cui dominava l’ambiente circostante. Come Drake, era molto alto, con braccia muscolose e spalle larghe. E il suo aspetto aveva un che di ruvido, sottolineato dai jeans e dalla T-shirt scoloriti.

Ma le analogie terminavano lì. Mentre suo fratello aveva occhi color nocciola e portava sempre i capelli corti, gli occhi dell’uomo erano azzurri e i capelli lunghi, quasi incolti. Notò che, sebbene fosse arrivato a piedi, appariva molto meno sudato di lei.

Si sentì improvvisamente a disagio e voltò la testa dall’altra parte. Lui fece un passo verso il banco e, con la coda dell’occhio, lo vide ordinare al cane di stare fermo sul posto, mostrandogli il palmo della mano e alzandolo leggermente. Il cane era già ben addestrato, pensò Beth, quindi l’aveva portato lì in pensione.

«Il suo pastore tedesco è bellissimo», disse, rompendo il silenzio e spingendo in avanti la cartelletta con il modulo. «Una volta anch’io ne avevo uno. Come si chiama?»

«Zeus. E grazie.»

«Ciao, Zeus.»

Il cane piegò il muso di lato.

«Mi serve solo la sua firma qui», continuò lei. «E ci vorrebbe una copia del libretto sanitario. Oppure il nominativo del veterinario.» «Come scusi?»

«Il veterinario. È venuto al canile per lasciare in pensione Zeus, giusto?»

«No», rispose lui. Indicò un punto alle sue spalle. «Veramente ho visto il cartello appeso alla finestra. Sto cercando un lavoro, e mi chiedevo se il posto fosse ancora libero.» «Oh.» Beth proprio non se l’aspettava.

«So che forse prima avrei dovuto telefonare, ma siccome ero già da queste parti ho pensato di passare di persona. Se vuole che torni domani, non c’è problema.»

«No, no, si figuri. Sono solo sorpresa. In genere da noi la gente non viene la domenica a offrirsi per un lavoro.» In effetti non veniva nessuno nemmeno durante la settimana, ma questo lo tralasciò. «Devo avere un modulo di assunzione da qualche parte», disse girandosi verso lo schedario. «Mi dia solo un secondo.» Aprì l’ultimo cassetto e cominciò a frugare tra le cartelline. «Come si chiama?»

«Logan Thibault.»

«È francese?»

«Per parte di padre.»

«Non l’ho mai vista da queste parti.»

«Sono appena arrivato in città.»

«Eccolo.» Tirò fuori il modulo e glielo mise davanti. Mentre lui lo compilava, Beth notò che aveva la pelle del viso indurita, come se avesse passato molto tempo al sole. Alla riga dove andava inserito l’indirizzo si fermò, alzò lo sguardo e per la seconda volta quegli occhi azzurri si fissarono nei suoi. Lei avvertì un formicolio che partiva dalla nuca, e cercò di mascherare il rossore sistemandosi la scollatura della maglietta.

«Non so cosa fare. Come ho detto, sono appena arrivato e alloggio alVHoliday Motor Court. Oppure potrei mettere l’indirizzo di mia madre in Colorado. Quale preferisce?» «Colorado?»

«Sì, lo so. È un po’ lontano da qui.»

«Che cosa l’ha portata a Hampton?»

Tu. Sono venuto a cercarti. «Mi sembra una città carina, e ho deciso di fermarmi.» «Non ha parenti qui?»

«No.»

«Oh», disse lei. Attraente o meno, la sua storia non la convinceva e le fece scattare nella testa un campanello d’allarme. C’era anche qualcos’altro che non quadrava.

Impiegò qualche secondo a capire di che si trattava, dopodiché si allontanò di un passo dal bancone, aumentando la distanza tra loro. «Se è appena arrivato in città, come poteva sapere che al canile cerchiamo personale?

Non ho messo un’inserzione sul giornale questa settimana.»

«Ho letto il cartello.»

«Quando?» Lo fissò socchiudendo gli occhi. «L’ho vista entrare poco fa dal vialetto, e il cartello è appeso qui alla finestra dell’ufficio.»

«Sono già passato stamattina. Mentre camminavamo per la strada Zeus ha sentito i cani abbaiare. È scappato da questa parte e, quando sono venuto a cercarlo, ho notato il cartello. Non c’era nessuno, così ho pensato di ritornare.»

Era plausibile, ma lei aveva la sensazione che mentisse o le tacesse qualcosa. E per quale ragione era venuto lì di nascosto? Per ficcanasare in giro?

Lui si accorse del suo disagio e posò la penna. Tirò fuori il passaporto dalla tasca, lo aprì e lo fece scivolare verso di lei. Beth guardò la foto, poi l’uomo. Il nome era autentico, anche se questo non metteva a tacere i campanelli d’allarme. Nessuno passava per Hampton e decideva di fermarsi così, d’impulso.

«Capisco», disse, assalita dal desiderio di concludere al più presto quella conversazione. «Metta pure l’indirizzo del Colorado. E anche le sue esperienze professionali. In realtà mi basta un numero di telefono dove io possa contattarla.»

Lui la fissò negli occhi. «Però non mi telefonerà.»

Era sveglio, pensò. E schietto. Quindi lo sarebbe stata anche lei. «No.»

L’uomo annuì. «D’accordo. Probabilmente non lo farei neanch’io, in base a quanto le ho detto finora. Ma prima che salti alle conclusioni, potrei aggiungere qualcosa?» «Faccia pure», rispose lei scettica.

«È vero, per il momento alloggio al motel, però ho intenzione di trovare un’abitazione qui nei dintorni. E troverò anche un lavoro.» Il suo sguardo non vacillò. «Ora passiamo al curriculum. Mi sono laureato in antropologia alla University of Colorado nel 2002. Poi mi sono arruolato nei marines e mi sono congedato con onore due anni fa. Non sono mai stato arrestato né accusato di alcunché, non mi sono mai drogato, non sono mai stato licenziato per incompetenza. Sono pronto a fare un test tossicologico e se lo ritiene necessario, può controllare la veridicità di tutte le informazioni che le ho dato. Altrimenti, se le risulta più facile può contattare il mio ex comandante, il quale le confermerà tutto. E anche se la legge non mi obbliga a rispondere a certe domande, non sono sotto trattamento farmacologico di alcun tipo. In altre parole, non sono schizofrenico, né maniaco. Sono soltanto un tizio che cerca lavoro. E ho visto il cartello stamattina.»

Beth non sapeva più che cosa pensare, ma di certo lui l’aveva presa in contropiede.

«Capisco», ripeté, registrando il fatto che si era arruolato nell’esercito.

«Continua a essere una perdita di tempo per me compilare il questionario?» «Non ho ancora deciso». Intuiva che questa volta le stava dicendo la verità, però era altrettanto sicura che la storia fosse più complicata di così. Si morse l’interno della guancia. Aveva bisogno di qualcuno lì al canile. E che cosa preferiva... scoprire a tutti i costi ciò che lui le nascondeva oppure assumere un aiutante? Le stava di fronte, calmo e dritto, ostentando con il suo portamento grande sicurezza di sé. Una posa tipica da militare, pensò accigliandosi. «Perché vuole lavorare qui?» chiese senza celare la propria diffidenza.

«Con una laurea potrebbe trovare qualcosa di meglio in città.»

Lui indicò Zeus. «Mi piacciono i cani.»

«Non è granché remunerativo.»

«Non mi serve molto.»

«Le giornate di lavoro possono essere lunghe.»

«Lo immaginavo.»

«Ha mai lavorato in un canile prima d’ora?»

«No.»

«Capisco.»

Lui sorrise. «Lo ripete spesso.»

«Infatti», ribatté lei. Nota per me: smetti di dirlo. «È proprio sicuro di non conoscere nessuno in città?»

«No.»

«È appena arrivato a Hampton e ha deciso di fermarsi in questo posto.»

«Sì.»

«Dove ha la macchina?»

«Non ce l’ho.»

«E come è arrivato fin qui?»

«A piedi.»

Lei batté le palpebre, perplessa. «Sta dicendo che è venuto a piedi dal Colorado?» «Esatto.»

«Non lo trova strano?»

«Dipende dalle ragioni.»

«E le sue quali sono?»

«Mi piace camminare.»

«Capisco.» Non era riuscita a trattenersi. Afferrò la penna, interdetta.

«Immagino non sia sposato», disse.

«No.»

«Figli?»

«Nessuno. Soltanto io e Zeus. Ma mia madre è ancora viva e sta in Colorado, come le ho detto.» Lei si scostò una ciocca dalla fronte sudata, era al tempo stesso nervosa e confusa. «Continuo a non capire. Attraversa il Paese a piedi, arriva a Hampton, decide che il posto le piace e ora vuole lavorare qui?» «Sì.»

«Non ha altro da aggiungere?»

«No.»

Aprì la bocca per replicare, poi ci ripensò. «Mi scusi un attimo. Devo parlare con una persona.» Beth era in grado di gestire un sacco di cose, ma questa esulava dalle sue capacità. Per quanto si sforzasse di capire, c’era qualcosa che le sfuggiva. Da un certo punto di vista tutto quello che lui aveva dichiarato era sensato, tuttavia preso nel complesso sembrava... sconcertante. Se diceva la verità, era un tipo ben strano; se mentiva, raccontava curiose bugie. In ogni caso le sue motivazioni restavano misteriose. Per questo voleva parlarne con Nana. Se c’era qualcuno che poteva fare un po’ di chiarezza, era sicuramente lei.

Mentre si avvicinava alla casa, si rese conto che purtroppo la partita non era ancora terminata. Sentiva i cronisti dibattere se fosse giusto o meno per i Mets far entrare in campo una riserva. Quando aprì la porta, rimase sorpresa di trovare vuoto il divano davanti al televisore.

«Nana?»

Lei sporse la testa dalla cucina. «Sono qui. Stavo per versarmi un bicchiere di limonata. Ne vuoi anche tu? Posso farcela con una mano sola.»

«In realtà, avrei bisogno di parlarti. Hai un minuto? So che stanno ancora giocando, ma...» Nana fece un gesto di diniego. «Oh, ne ho abbastanza.

Spegni pure. I Braves non possono più vincere e l’ultima cosa che voglio è ascoltare le loro giustificazioni. Odio le scuse. Non c’era ragione di perdere, e lo sanno. Che cosa succede?» Beth entrò in cucina e si appoggiò al bancone mentre Nana versava la limonata dalla brocca. «Hai fame?» le domandò la nonna. «Posso prepararti un sandwich.» «Ho appena mangiato una banana.»

«Non è abbastanza. Sei magra come una mazza da golf. » Senti da che pulpito, pensò Beth. «Magari più tardi. È arrivata una persona a chiedere di quel posto di lavoro. Ora è in ufficio.» «Vuoi dire il tipo carino con il pastore tedesco? Ho immaginato fosse qui per quello. Com’è? Dimmi che il suo sogno è sempre stato pulire le gabbie.» «Lo hai visto?»

«Ma certo.»

«E come hai capito che quel tizio vorrebbe farsi assumere?» «Altrimenti perché saresti venuta da me?»

Beth rise. Nana era sempre un passo avanti a lei. «In ogni caso, credo che dovresti parlargli. Non so come comportarmi con lui. »

«Per caso c’entra la sua capigliatura?»

«Come?»

«I capelli. Lo fanno somigliare un po’ a Tarzan, non trovi?» «Veramente non ci ho fatto caso.» «Eccome se ci hai fatto caso, tesoro. Non mi inganni. Qual è il problema?»

Beth le fece un rapido riassunto del colloquio. Quando lei ebbe finito, Nana rimase seduta in silenzio.

«È venuto a piedi dal Colorado?» chiese dopo un po’.

«Così sostiene.»

«E tu gli credi?»

Beth esitò. «Sì, credo che almeno su quello dica la verità.» «È tanta strada.»

«Lo so.»

«Quanti chilometri sono?»

«Non saprei. Un sacco.»

«È un po’ strano, non trovi?»

«Sì», confermò lei. «E non è tutto.»

«Cioè?»

«Era nei marines.»

Nana sospirò. «Aspetta qui, cara. Vado a parlarci io.» Nei dieci minuti successivi Beth li osservò da dietro le tende della finestra del salotto. Nana non era rimasta in ufficio a parlare con lo sconosciuto, ma l’aveva condotto sulla panchina all’ombra della vecchia magnolia. Il cane sonnecchiava sdraiato ai loro piedi, agitando le orecchie di tanto in tanto per scacciare qualche mosca. Lei non sentiva che cosa si dicevano, ma vedendo l’espressione corrucciata della nonna dedusse che la conversazione non stava andando per il verso giusto. Alla fine Logan Thibault e Zeus ridiscesero il vialetto di ghiaia. Nana li seguì per un po’ con lo sguardo, poi, invece di tornare in casa, si incamminò verso l’ufficio.

Solo a quel punto Beth notò la Volvo station wagon blu che stava arrivando. Il cocker spaniel! Se n’era completamente dimenticata, comunque ora ci avrebbe pensato la nonna, si disse. Ne approfittò per rinfrescarsi con una salvietta umida e bere un altro bicchiere d’acqua.

Dalla cucina udì il cigolio della porta d’ingresso quando Nana rientrò.

«Com’è andata?»

«Bene, direi.»

«Che ne pensi?»

«È stato... interessante. È intelligente ed educato, ma hai ragione tu.

Indubbiamente nasconde qualcosa.»

«Allora cosa facciamo? Devo mettere un’altra inserzione sul giornale?»

«Prima vediamo come se la cava lui.»

Beth non era sicura di aver sentito bene. «Stai dicendo che vuoi assumerlo?» «No, che l’ho già assunto. Comincia mercoledì alle otto.»

«Perché hai preso questa decisione?»

«Mi fido di lui.» Fece un sorriso mesto, come se capisse esattamente che cosa stava pensando Beth. «Anche se è stato un marine.» 8 Thibault

Thibault non voleva tornare in Iraq, però il suo battaglione fu di nuovo mobilitato nel febbraio del 2005. Stavolta il reggimento venne mandato a Ramadi, il capoluogo della provincia di Al Anbar nella zona sudoccidentale di quello che era chiamato «il triangolo della morte».

Thibault vi rimase per sette mesi.

Autobombe e ordigni esplosivi improvvisati erano all’ordine del giorno. Si trattava di congegni semplici ma devastanti: in genere una granata con innesco telecomandato via cellulare. La prima volta che Thibault si era trovato a bordo di un mezzo corazzato incappato in una di quelle bombe, aveva capito che poteva andare molto peggio.

«Sono contento di aver sentito l’esplosione », disse Victor in seguito.

Ormai lui e Thibault erano quasi sempre di pattuglia insieme. «Significa che sono ancora vivo.»

«Che siamo vivi entrambi», precisò Thibault.

«Però preferirei non ripetere l’esperienza.»

«Anch’io.»

Ma non era facile evitarlo. In pattuglia il giorno successivo, ne avevano presa un’altra. Una settimana dopo il loro automezzo fu investito dall’esplosione di un’autobomba, ma Thibault e Victor non erano un’eccezione in tal senso. Durante ogni pattugliamento questo o quel mezzo veniva regolarmente colpito. Molti marines del plotone potevano affermare con sincerità di essere sopravvissuti a due o tre bombe, prima di venire rispediti a Pendleton. Qualcuno addirittura a quattro o cinque. Il loro sergente se l’era cavata sei volte. Era un posto così, e tutti conoscevano la storia di Tony Stevens, il soldato che era uscito indenne da nove esplosioni. Un giornale aveva scritto un articolo su di lui, dal titolo:

«Il marine più fortunato». Era un record che nessuno aveva voglia di superare.

Thibault lo fece. Quando lasciò Ramadi era sopravvissuto a undici. Ma era l’esplosione che aveva mancato a ossessionarlo ancora.

Sarebbe stata la numero numero otto. Victor stava al suo fianco. Sempre la stessa storia, stavolta con una tragica fine. Erano in un convoglio di quattro automezzi che pattugliava una delle vie principali della città. Una granata anticarro centrò il primo cingolato, causando fortunatamente pochi danni, ma costringendo l’intero convoglio a una sosta imprevista. Ai lati della strada c’erano carcasse di auto arrugginite. Cominciò una sparatoria.

Thibault saltò giù dal secondo automezzo per avere una visuale di tiro migliore, e Victor lo seguì. Corsero al riparo e caricarono le armi. A quel punto un’autobomba esplose, distruggendo completamente il mezzo su cui si trovavano fino a pochi istanti prima. Tre marines rimasero uccisi; Victor perse i sensi. Thibault lo trascinò verso il convoglio e, dopo aver recuperato i morti, la pattuglia fece ritorno nella zona sicura.

Fu intorno a quell’epoca che Thibault cominciò a sentire circolare delle voci. Notò che i commilitoni si comportavano in modo strano, come se lo ritenessero per qualche motivo immune alla legge della guerra. Gli altri potevano morire, ma non lui. Inoltre sembravano credere che, mentre Thibault era molto fortunato, chi si trovava in pattuglia con lui avesse la peggio. Nessuno glielo diceva apertamente, però era innegabile che l’atteggiamento dei compagni nei suoi confronti era cambiato. Rimase a Ramadi altri due mesi dopo quell’attentato e le altre bombe a cui sopravvisse non fecero che rafforzare le voci. Diversi soldati iniziarono a evitarlo, e soltanto Victor continuò a trattarlo sempre nello stesso modo.

Verso la fine della missione, mentre erano di guardia a una pompa di benzina, Thibault si accorse che le mani di Victor tremavano mentre si accendeva una sigaretta. Sopra di loro il cielo notturno era punteggiato di stelle.

«Stai bene?» gli chiese. «Sono pronto a tornare a casa», rispose Victor. «Ho fatto la mia parte.»

«Non ti arruolerai di nuovo l’anno prossimo?»

Victor tirò una lunga boccata di sigaretta. «Mia madre vuole che resti vicino a lei e mio fratello mi ha offerto un lavoro nella sua impresa.

Secondo te, sono capace di costruire un tetto?»

«Direi di sì. Sarai un ottimo carpentiere.»

«E anche la mia ragazza, Maria, mi aspetta. La conosco da quando avevo quattordici anni.» «Lo so, me ne hai parlato.»

«La sposerò.»

«Mi hai detto anche questo.»

«Voglio che tu venga al matrimonio.»

Nell’alone della sigaretta di Victor, lui vide l’ombra di un sorriso. «Non mancherei per niente al mondo.»

Rimasero un attimo in silenzio a pensare a un futuro che sembrava incredibilmente distante. «E tu?» chiese Victor tra sbuffi di fumo. «Ti arruolerai di nuovo?»

Thibault scrollò il capo. «No, basta così.»

«Che cosa farai una volta tornato civile?»

«Non so. Per un po’ non farò niente, magari andrò a pesca nel Minnesota.

Un posto fresco e verde, dove stare seduto in barca a rilassarmi.»

Victor sospirò. «Mi sembra bello.»

«Vuoi venire anche tu?»

«Sì.» «Allora ti chiamerò prima di partire», promise Thibault.

«Ci sarò.» Victor rise, poi si schiarì la gola. «Vuoi sapere una cosa?»

«Solo se tu vuoi dirmela.»

«Ti ricordi l’agguato? Quello in cui sono morti Jackson e gli altri due, quando il mezzo è saltato in aria?»

Thibault raccolse un sassolino e lo gettò nel buio. «Sì.» «Mi hai salvato la vita.»

«No. Ti ho solo trascinato via.»

«Thibault, io ti ho seguito. Quando sei balzato giù dal blindato. Volevo restare, però dopo che ti ho visto saltare ho capito che non avevo scelta.»

«Ma di che cosa par...?»

«La foto», lo interruppe Victor. «So che te la porti dietro. Ho seguito la tua fortuna e questo mi ha salvato.»

Dapprincipio Thibault non capiva, poi obiettò incredulo: «È solo una foto, Victor».

«È la fortuna», insistette l’amico, avvicinando il viso al suo. «E tu sei il fortunato. Quando ti sarai congedato, secondo me dovresti andare a cercare la donna della fotografia. La tua storia con lei non è finita.»

«Ma dai...»

«Mi ha salvato.»

«Non ha salvato gli altri, però. Troppi altri.»

Sapevano che il loro battaglione aveva subito in Iraq il maggior numero di perdite rispetto a qualsiasi altro reggimento del corpo dei marines.

«Perché protegge te. E quando sono saltato dal blindato, ero convinto che avrebbe salvato anche me, allo stesso modo in cui tu credi che ti salverà sempre.» «Non è vero», protestò Thibault.

«E allora mi spieghi perché ce l’hai ancora in tasca?» Era venerdì, il terzo giorno di lavoro al canile, e sebbene si fosse gettato alle spalle gran parte della sua vita passata, Thibault era sempre conscio della fotografia che teneva in tasca. Così come delle parole che Victor gli aveva detto quella notte.

Stava portando a spasso un mastino su un sentiero ombreggiato, abbastanza lontano dall’ufficio. Era un cane enorme, grande quasi quanto un danese, e aveva la tendenza di leccargli la mano ogni dieci secondi.

Amichevolmente.

Thibault aveva già imparato a svolgere i compiti di base: nutrire e portare fuori gli animali, pulire le gabbie, fissare gli appuntamenti. Niente di difficile. E forse presto si sarebbe occupato anche dell’addestramento. Il giorno prima Nana gli aveva chiesto di osservarla mentre lavorava con un cane, e il suo metodo non era molto diverso da quello che lui aveva istintivamente adottato con Zeus: ordini chiari, brevi e semplici; indizi visivi, guida ferma con il guinzaglio e tanti elogi. Alla fine erano tornati insieme verso il canile.

«Pensa di essere in grado di fare qualcosa del genere?» gli aveva domandato Nana.

«Sì.»

Lei aveva lanciato un’occhiata a Zeus, che trotterellava dietro di loro. «È più o meno il modo in cui ha addestrato il suo cane, vero?»

«Abbastanza.»

Prima che Nana lo assumesse, Thibault aveva fatto due richieste. La prima era di poter portare Zeus con sé al lavoro. Aveva spiegato che il cane era abituato a stare con lui e non avrebbe reagito bene a lunghe e quotidiane separazioni. Per fortuna lei era stata comprensiva. «Ho lavorato per anni con i pastori tedeschi, e so di che cosa parla. Per me va bene, a patto che non sia d’impiccio.» Zeus non era d’impiccio. Lui aveva subito capito che non era il caso di portarlo dentro il canile quando distribuiva il cibo o puliva le gabbie, perché la sua presenza innervosiva i cani. Ma a parte questo, non creava problemi. Lo seguiva tranquillamente per tutto il giorno e rimaneva accucciato sulla veranda vicino alla porta mentre lui era in ufficio. Quando arrivavano i clienti Zeus si metteva all’erta, come gli era stato insegnato.

Ciò bastava a bloccare la maggior parte della gente, ma un rapido «È tutto a posto» era sufficiente a farlo tornare tranquillo.

La seconda richiesta di Thibault era stata di poter cominciare a lavorare il mercoledì, in modo da trovare prima una sistemazione. Nana si era detta d’accordo. Di ritorno dal canile, quella domenica lui aveva comperato un giornale e aveva letto gli annunci delle case in affitto. Non aveva impiegato molto: ce n’erano solo quattro e ne scartò subito un paio perché troppo grandi.

Per ironia, le altre due case si trovavano ai capi opposti della città. Quella che andò a vedere per prima era appena fuori dal centro storico e si affacciava sul South River. Ottime condizioni. Bel quartiere. Ma non per lui. Gli edifici erano troppo vicini l’uno all’altro. La seconda casa, invece, faceva al caso suo. Si trovava in fondo a una strada sterrata, in una zona rurale al limitare della foresta. Da quel punto poteva tagliare per il bosco per raggiungere il canile, a circa tre chilometri di distanza. Così non avrebbe abbreviato di molto il cammino, però Zeus sarebbe stato libero di scorrazzare. Era una tipica casetta di legno a un piano solo che doveva avere almeno cent’anni, ma ancora in discrete condizioni. Spolverò un vetro e diede un’occhiata all’interno. Anche se c’era bisogno di qualche intervento, pensò, poteva trasferirsi lì subito. La cucina era decisamente vecchio stile e in un angolo c’era una stufa a legna. Il pavimento di assi di pino era deformato e macchiato, e gli armadi probabilmente risalivano all’epoca della costruzione, ma questi particolari aumentavano il fascino dell’ambiente, anziché diminuirlo. Inoltre c’era già tutto il necessario: divano e tavolini bassi, luci, persino un letto.

Thibault telefonò al numero indicato sul cartello e un paio d’ore dopo sentì arrivare l’auto del proprietario. Scambiarono le quattro chiacchiere di rito e lui venne a sapere che il tizio aveva passato vent’anni nell’esercito, di cui sette a Fort Bragg. Aveva ereditato la proprietà dal padre, deceduto due mesi prima. Questa notizia rassicurò Thibault, sapeva che le case erano come le automobili e, se venivano abbandonate a se stesse, andavano rapidamente in rovina. L’affitto gli parve un po’ alto, ma gli serviva un posto dove abitare, e in fretta. Pagò la cauzione più due mesi in anticipo.

Dall’espressione dell’uomo capì che non si aspettava proprio di ricevere tutti quei soldi in contanti.

Thibault dormì nella sua nuova casa il lunedì notte, infilandosi nel sacco a pelo sul letto. Il martedì andò in città e ordinò un materasso in un negozio che gli garantì la consegna per quella sera, poi tornò a casa con lo zaino pieno di lenzuola, asciugamani e detersivi. Con altri due viaggi in città riempì il frigorifero e si procurò piatti, bicchieri e posate, oltre a un sacco da venticinque chili di cibo per cani. Alla fine di quella giornata, per la prima volta da quando era partito dal Colorado rimpianse di non avere un’automobile. Ma aveva trovato una sistemazione, e questo bastava. Era pronto per lavorare.

Da quando aveva cominciato al canile, il mercoledì, aveva trascorso la maggior parte del tempo con Nana. Non aveva visto molto Beth, o Elizabeth, come gli piaceva chiamarla. Lei usciva di casa la mattina e rientrava nel tardo pomeriggio. Nana accennò a riunioni degli insegnanti, il che aveva senso, dato che le scuole sarebbe ricominciate la settimana successiva. A parte gli occasionali saluti, loro due avevano parlato solo il primo giorno, quando lei lo aveva preso da parte, raccomandandogli di tenere d’occhio la nonna. Lui aveva capito cosa intendeva. Era chiaro che Nana aveva avuto un ictus. Dopo le sedute di addestramento al mattino era sfinita e di ritorno verso casa zoppicava in maniera più pronunciata del solito, il che non lo lasciava tranquillo.

Nana gli era simpatica. Aveva un modo di parlare tutto suo. Lo divertiva, e si chiedeva fino a che punto quella fosse una posa. Eccentrica o meno, era intelligente... su questo non c’erano dubbi. Spesso aveva la sensazione che lo stesse valutando, anche durante normalissime conversazioni. Era loquace e non esitava a esprimere le proprie opinioni. In quei pochi giorni aveva cominciato a conoscerla. Lei gli aveva raccontato del marito, del lavoro svolto in passato, dei posti che aveva visitato. Si era anche informata su di lui, e Thibault aveva sempre risposto a tutte le sue domande sulla famiglia e gli studi. Stranamente, però, non gli aveva mai chiesto niente del servizio militare, né se fosse stato in Iraq. Ma era meglio così, perché anche a lui non andava di parlare di quei quattro anni della sua vita. Dal modo in cui Nana evitava con cura l’argomento, sospettava che lei comprendesse la sua reticenza. E forse persino che il periodo trascorso in Iraq aveva qualcosa a che fare con la sua presenza lì.

Davvero una signora sveglia.

Ufficialmente l’orario di lavoro era dalle otto alle cinque. Ufficiosamente lui arrivava alle sette del mattino e di solito si tratteneva fino alle sette di sera. Non gli piaceva andarsene lasciando delle cose in sospeso. Inoltre questo gli permetteva di incontrare Elizabeth quando rientrava. La vicinanza alimenta la familiarità, e la familiarità alimenta l’affiatamento. E ogni volta vederla gli ricordava che era venuto lì a cercarla.

A parte questo, però, le sue ragioni erano piuttosto vaghe. Perché la cercava? Che cosa voleva da lei? Aveva intenzione di rivelarle la verità?

Dove li avrebbe portati quella storia? Mentre era in viaggio dal Colorado si era convinto che avrebbe semplicemente trovato le risposte una volta trovata la donna della fotografia. Ma adesso che l’aveva raggiunta, non si era avvicinato minimamente alla verità rispetto a quando era partito.

Nel frattempo aveva scoperto alcune cose su di lei. Per esempio, che aveva un figlio. Era una notizia abbastanza sorprendente... non aveva mai considerato quella possibilità. Si chiamava Ben e sembrava un bambino simpatico, a quanto poteva giudicare. Nana gli aveva detto che giocava a scacchi e leggeva molto, ma questo era tutto. Da quando aveva cominciato a lavorare, Thibault aveva notato che Ben lo osservava da dietro le tende, oppure sbirciava verso il recinto dove lui era con Nana. Però manteneva le distanze. Thibault si chiedeva se lo facesse di sua volontà oppure per volere della madre.

Probabilmente la seconda.

Era consapevole di non averle fatto una buona impressione a prima vista.

Il modo in cui era rimasto a fissarla in silenzio non l’aveva certo rassicurata. Ma anche se sapeva già che era una bella donna, quella foto sbiadita non lo aveva preparato al calore del suo sorriso, né al modo serio in cui lo scrutava, come se fosse alla ricerca di difetti nascosti. Perso nei propri pensieri, raggiunse il recinto di addestramento. Il mastino ansimava forte e Thibault lo guidò verso il canile. Ordinò a Zeus di mettersi a cuccia e riportò l’animale nella gabbia. Riempì d’acqua tutte le ciotole dei cani, poi passò in ufficio a prendere il sacchetto con il panino che si era portato da casa, e si diresse verso il ruscello.

Gli piaceva mangiare lì. Le acque torbide e la grande quercia con i lunghi rami bassi drappeggiati di rampicanti davano al luogo un’atmosfera preistorica. Anche Zeus l’apprezzava molto. Con la coda dell’occhio notò una casetta tra gli alberi e una passerella di assi sospesa con delle funi, che qualcuno aveva costruito alla bell’e meglio. Come sempre, Zeus era entrato nel torrente fino ai garretti, per rinfrescarsi prima di infilare il muso sott’acqua e abbaiare. Pazzo di un cane.

«Che cosa sta facendo?» chiese una voce.

Thibault si voltò e vide Ben ai margini della radura. «Non ne ho idea», rispose. «Forse abbaia ai pesci.»

Il bambino si tirò su gli occhiali sul naso. «Lo fa spesso?» «Tutte le volte che veniamo qui.»

«È strano», osservò Ben.

«Lo so.»

Zeus registrò la presenza del bambino e, accertatosi che non rappresentava una minaccia, tornò ad abbaiare sott’acqua. Ben rimase ai margini della radura. Thibault addentò il panino.

«Ti ho visto venire qui ieri», disse Ben dopo un po’.

«Ah, sì?»

«Ti ho seguito.»

«Lo avevo immaginato.» «Là c’è la mia casetta sull’albero.» Ben la indicò. «È il mio nascondiglio segreto.» «È bello averne uno», rispose Thibault. Batté con la mano sul ramo accanto a sé. «Vuoi venire a sederti?» «Non posso avvicinarmi troppo.»

«No?»

«La mamma dice che sei un estraneo.»

«Fai bene a dare ascolto a quello che ti dice la mamma.» Ben sembrava soddisfatto della sua risposta, ma incerto sul da farsi. Continuava a guardare lui e Zeus, infine andò a sedersi sul tronco di un albero caduto, poco lontano da loro.

«Lavorerai qui?» chiese a Thibault.

«Ci lavoro di già.»

«No. Volevo dire: non hai intenzione di andartene?» «Non penso.»

Thibault era perplesso. «Perché me lo chiedi?» «Perché gli ultimi due tizi lo hanno fatto. Non gli piaceva pulire la cacca dei cani.» «Non tutti sono disposti a farlo.»

«A te da fastidio?»

«Direi di no.»

«A me non piace l’odore.» Ben fece una smorfia.

«È normale. Io cerco di non badarci.»

Ben si tirò su di nuovo gli occhiali sul naso. «Perché gli hai dato il nome Zeus?» Thibault non riuscì a trattenere un sorriso. Aveva dimenticato quanto potessero essere curiosi i bambini. «Si chiamava già così quando l’ho preso.» «E perché non l’hai cambiato con uno che avevi scelto tu?»

«Non so. Probabilmente non mi è venuto in mente.» «Anche noi avevamo un pastore tedesco. Si chiamava Oliver. » «Ah, sì?»

«È morto.» «Mi dispiace.»

«Non importa», lo tranquillizzò Ben. «Era vecchio.» Thibault finì il panino, rimise il sacchetto vuoto nella borsa e tirò fuori un pacchetto di frutta secca. Vide che Ben lo guardava e glielo offrì.

«Vuoi una mandorla?»

Il bambino scrollò il capo. «Non devo accettare cibo dagli sconosciuti.»

«Giusto. Quanti anni hai?»

«Dieci. E tu?»

« Vento tto.»

«Sembri più vecchio.»

«Anche tu.»

Il bambino sorrise. «Mi chiamo Ben.»

«Piacere di conoscerti, Ben. Io sono Logan Thibault.» «È vero che sei venuto fin qui a piedi dal Colorado?» Thibault lo guardò stupito. «E chi te l’ha detto?»

«Ho sentito la mamma parlare con Nana. Dicevano che la gente normale avrebbe usato la macchina.»

«Hanno ragione.»

«Avevi le gambe stanche?»

«All’inizio sì, ma poi mi sono abituato a camminare. E anche Zeus. Credo proprio che gli piacesse. C’erano sempre cose nuove da vedere e dava la caccia a un sacco di scoiattoli.»

Ben strofinò i piedi avanti e indietro, l’aria assorta. «Zeus sa riportare?»

«Come un vero campione. Ma solo per pochi tiri, poi si stanca. Perché? Vuoi lanciargli un pezzo di legno?» «Posso?»

Thibault si mise la mano a coppa sulla bocca e chiamò Zeus; il cane uscì a balzi dall’acqua, si fermò a pochi passi di distanza e si scrollò per bene.

Teneva lo sguardo fisso sul padrone.

«Prendi un bastone.»

Zeus abbassò il muso sul terreno, rovistando con il naso tra la miriade di rami caduti. Alla fine scelse un bastoncino e trotterellò verso Thibault.

Lui scosse il capo. «Più grosso», disse, e Zeus lo guardò con quella che pareva un’espressione delusa. Poi si voltò, lasciò cadere il legnetto e ricominciò a cercare. «Quando gioca diventa irruente, e se il legno è troppo sottile, lo spezza in due», spiegò Thibault. «Succede sempre.»

Ben annuì con aria seria.

Zeus tornò con un rametto più grosso. Thibault lo ripulì dalle sporgenze, poi glielo restituì. «Portalo a Ben.»

Il cane non capì l’ordine e piegò il muso di lato, le orecchie dritte. Thibault indicò il bambino. «Ben», disse, « bastone. »

Zeus trotterellò verso il ragazzino con il legno in bocca e lo fece cadere ai suoi piedi. Annusò Ben, poi si avvicinò e si lasciò accarezzare.

«Conosce il mio nome?»

«Ora sì.»

«Per sempre?»

«È probabile, adesso che ti ha annusato.»

«Come fa a imparare così in fretta?»

«Lo fa e basta. È abituato a imparare velocemente.» Zeus diede una leccata in faccia a Ben, poi si ritrasse, lo sguardo che saettava dal bambino al legno e viceversa. «Vuole che glielo lanci. È il suo modo di chiedere», spiegò Thibault.

Ben prese il bastone e rimase indeciso per qualche istante. «Posso tirarglielo nell’acqua?» «Gli piacerà molto.»

Ben lo lanciò nel torrente vicino alla riva. Con un balzo, Zeus si tuffò e lo recuperò. Tornò indietro, si fermò per scrollarsi l’acqua di dosso, dopodiché si avvicinò e lasciò cadere il legno.

«Gliel’ho insegnato io. Non voglio che mi bagni», disse Thibault.

«Che bello.»

Thibault sorrise mentre il ragazzino lanciava di nuovo il bastone.

«Che altro sa fare?» chiese Ben girandosi a guardarlo. «Un sacco di cose.

Per esempio... è bravissimo a giocare a nascondino. Dovunque ti metti, ti trova.» «Possiamo provarci qualche volta?» «Quando vuoi.» «Fantastico.

È anche un cane da guardia?»

«Sì, ma in genere è amichevole.»

Mentre finiva di mangiare guardò il ragazzino giocare con il cane. Alla fine Zeus, dopo aver recuperato il bastone, andò a sdraiarsi da una parte e, tenendolo fermo con la zampa, cominciò a mordicchiarlo.

«Significa che si è stancato», disse Thibault a Ben. «Comunque, complimenti per come lanci. Giochi a baseball?»

«L’anno scorso. Ma non so se quest’anno lo farò ancora. Voglio imparare a suonare il violino.» «Da bambino anch’io suonavo il violino», osservò Thibault.

«Davvero?» domandò Ben sorpreso.

«E anche il piano. Per otto anni.»

Zeus sollevò il muso dal bastone, drizzando le orecchie. Un attimo dopo Thibault udì il rumore di qualcuno che si avvicinava nel bosco. La voce di Elizabeth filtrò tra gli alberi.

«Ben?»

«Da questa parte, mamma!»

Thibault sollevò la mano verso Zeus. «A cuccia.»

«Eccoti», disse lei, sbucando nella radura. «Che cosa ci fai qui?» Il suo sorriso si spense alla vista di Thibault e nel suo sguardo lui lesse la domanda: Perché mio figlio è nel bosco con uno sconosciuto? Non sentì il bisogno di difendersi. Non aveva fatto niente di male. Le rivolse un cenno di saluto.

«Salve.»

«Salve», rispose lei cauta. Intanto Ben le stava correndo incontro.

«Dovresti vedere che cosa riesce a fare il suo cane, mamma! È in gambissima. Persino più di Oliver.»

«Magnifico.» Lo cinse con un braccio. «Torniamo a casa? Il pranzo è pronto.» «Lui mi riconosce e poi...»

«Chi?»

«Il cane. Zeus. Conosce il mio nome.»

Lei lanciò un’occhiata a Thibault. «È vero?»

Thibault annuì. «Sì.»

«Ah... bene.»

«Sai una cosa? Anche lui suonava il violino.»

«Chi, Zeus?»

«No, mamma. Il signor Thibault. Da bambino. Suonava il violino.»

«Davvero?» Quella notizia parve sorprenderla. Thibault annuì. «Mia madre era un’appassionata di musica.» Lei fece un sorriso forzato. «Capisco.»

Nonostante il suo evidente disagio, Thibault rise.

«Che cosa c’è da ridere?» chiese Beth, anche se lo sapeva benissimo.

«Niente.»

«Perché sei nervosa, mamma?»

«Non sono nervosa. Solo avresti dovuto dirmi dove andavi.» «Ma vengo sempre qui.»

«Lo so», rispose lei, «però la prossima volta avvertimi.» Così posso tenerti d’occhio e sapere che tu non corri dei rischi, aggiunse mentalmente. Per la seconda volta Thibault afferrò il messaggio.

«È meglio che torni in ufficio», disse, alzandosi. «Voglio controllare l’acqua nella gabbia del mastino. Era molto accaldato, e sono sicuro che ha già svuotato la ciotola. Ci vediamo più tardi, Ben. Arrivederci.» Si voltò.

«Zeus! Andiamo.»

Il cane balzò su e raggiunse il padrone; un istante dopo imboccarono il sentiero.

«Arrivederci, signor Thibault», gridò il bambino.

Lui si voltò, camminando all’indietro. «È stato bello parlare con te, Ben. A proposito, niente signor Thibault. Chiamami Thibault e basta.»

Detto questo si voltò di nuovo in avanti, sentendo il peso dello sguardo di Elizabeth su di sé finché non fu troppo lontano. 9 Clayton

Keith Clayton era sdraiato a letto a fumare una sigaretta nell’attesa che Nikki terminasse di fare la doccia. Pensò a quanto gli piaceva la sua aria selvaggia quando usciva dal bagno con i capelli umidi e spettinati, tanto per distrarsi dal fatto che non sopportava già più la sua presenza.

Era la quarta volta negli ultimi cinque giorni che passava la notte da lui.

Faceva la cassiera al Quick Sto e per un mesetto circa era stato incerto se invitarla a uscire. La sua dentatura non era granché e la pelle del viso un po’ butterata, ma aveva un corpo micidiale... e questo era più che abbastanza, considerato che gli serviva uno sfogo.

Tutta colpa di Beth. Domenica sera, quando lui aveva riaccompagnato Ben, era uscita in veranda con un paio di shorts, una canottiera e un sorriso smagliante alla Far-rah Fawcett. Sebbene fosse diretto a Ben, il suo sorriso gli aveva confermato che quella donna migliorava di anno in anno.

Se lo avesse saputo, forse non le avrebbe concesso il divorzio. E così, se n’era andato pensando a quanto lei fosse carina ed era finito a letto con Nikki poche ore dopo.

Non voleva tornare insieme a Beth, questo era assolutamente escluso.

Tanto per cominciare, lei era troppo esigente e tendeva sempre a mettere in discussione le sue decisioni. Lo aveva scoperto molto tempo prima, e tutte le volte che la vedeva se ne ricordava. Dopo il divorzio non aveva più pensato a lei. Aveva fatto la sua vita, se l’era spassata con un sacco di ragazze diverse, e si era convinto che non si sarebbe mai guardato indietro.

A parte il bambino, naturalmente. Eppure, quando Ben aveva tre o quattro anni, gli era giunta voce che Beth cominciava a vedersi con qualcuno, e la cosa lo aveva disturbato. Un conto erano le sue ragazze... ma per lei era tutta un’altra storia. Non voleva che un tizio qualsiasi prendesse il suo posto pretendendo di fare il padre di Ben. E non gli piaceva neppure l’idea che un altro uomo se la portasse a letto. Non la sopportava proprio.

Conosceva gli uomini, e Beth era ancora molto ingenua al riguardo, se non altro perché lui era stato il suo primo ragazzo. Anzi, era assai probabile che Keith Clayton fosse stato l’unico uomo che avesse mai avuto, e andava bene così, perché le serviva a dare la giusta importanza alle cose. Beth si occupava del loro figlio, e anche se Ben era un po’ delicato, stava facendo un ottimo lavoro con il bambino. Inoltre era una brava persona, e non doveva correre il rischio di farsi spezzare il cuore. Da parte sua, l’avrebbe sempre protetta.

Ma l’altra sera...

Si chiedeva se si fosse vestita in quel modo provocante perché sapeva che lui sarebbe arrivato. Significava qualcosa, no? Un paio di mesi prima lo aveva persino invitato a entrare mentre Ben preparava la borsa. Certo, pioveva a catinelle e Nana aveva continuato a squadrarlo, ma Beth era stata davvero gentile... quasi volesse farsi perdonare.

Del resto anche lei aveva le sue esigenze, era normale. E che male c’era se l’avesse aiutata a soddisfarle di tanto in tanto? Dopo tutto l’aveva già vista nuda, e avevano fatto un figlio insieme. Come si diceva negli anni Settanta? Amici- amanti? Gli sarebbe piaciuta un’esperienza simile con Beth. Bastava che lei non si mettesse a parlare troppo e non lo caricasse di aspettative. Spegnendo la sigaretta, si domandò quale fosse la maniera migliore per proporglielo.

Al contrario di lui, era sola da molto, molto tempo. Ogni tanto qualche tizio le ronzava intorno, ma lui sapeva come sistemarli. Ricordò la chiacchierata che aveva fatto qualche mese prima con Adam. Quello che portava un blazer sopra la maglietta, come se fosse una celebrità di Hollywood. Celebrità o meno, era bianco come un lenzuolo quando lui si era avvicinato al finestrino dopo averlo fermato mentre tornava a casa in macchina dal suo terzo appuntamento con Beth. Avevano ordinato una bottiglia di vino al ristorante; Clayton li aveva spiati dall’altro lato della strada, e quando gli aveva fatto il test con il palloncino il povero Adam era diventato ancora più pallido.

«Ci siamo scolati una bottiglia, eh?» aveva detto lui, ignorando le sue proteste di aver bevuto solo un bicchiere. Quando poi aveva tirato fuori le manette, il tizio sembrava quasi sul punto di svenire, e gli era venuto da ridere.

Ma si era trattenuto: aveva compilato lentamente il verbale, prima di impartirgli il discorsetto che teneva a chiunque fosse interessato a lei. Beth era la sua ex moglie e doveva occuparsi di crescere il bambino. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era farsi coinvolgere da qualcuno che magari voleva semplicemente divertirsi con lei. Era vero che loro due avevano divorziato, però si preoccupava per il suo bene e...

Il tizio aveva capito il messaggio, come del resto tutti gli altri. Non solo per via della famiglia di Clayton, ma anche perché lui si era offerto di eliminare il palloncino e stracciare il verbale se prometteva di lasciarla in pace, e di non dirle assolutamente niente. Non sarebbe stato bello se lei fosse venuta a sapere di quella conversazione. Potevano nascere dei problemi con il bambino, capito? E lui non era tenero con chi causava problemi a suo figlio.

Per essere più sicuro, il giorno dopo aveva aspettato seduto in auto che l’uomo uscisse di casa al mattino. Il tipo era sbiancato di nuovo vedendolo maneggiare il palloncino. La volta successiva che Clayton lo aveva incontrato, Adam era in compagnia di una segretaria dai capelli rossi che lavorava nel suo studio di commercialisti. Il che significava che quello non aveva mai avuto intenzione di mettersi sul serio con Beth. Sperava soltanto in un’avventura veloce.

Bene, non ci sarebbe riuscito.

Beth avrebbe dato fuori di matto se avesse scoperto quello che faceva, ma per fortuna lui non era stato costretto a intervenire spesso. Solo di tanto in tanto, e gli era sempre andata bene.

Perfino la storia delle fotografie delle studentesse era finita bene. La macchina fotografica e la scheda di memoria non erano mai state consegnate né all’ufficio dello sceriffo né al giornale. Il lunedì mattina lui non aveva avuto tempo di cercare quel bastardo hippie, a causa di alcuni documenti da compilare per la contea, ma aveva scoperto che il tipo aveva alloggiato all’holiday Motor Court. Sfortunatamente – o per sua fortuna – aveva già lasciato il motel, e da allora nessuno l’aveva più visto. Probabilmente era ripartito. Tutto sommato, non poteva lamentarsi. In particolare era soddisfatto della sua pensata su Beth: la storia degli amici-amanti. Non era una bella idea? Intrecciò le mani dietro la nuca e si adagiò sui cuscini proprio mentre Nikki usciva dal bagno avvolta in una salvietta, una scia di vapore dietro di sé. Clayton sorrise.

«Vieni qui, Beth.»

Lei si bloccò. «Mi chiamo Nikki.»

«Lo so, però stasera voglio chiamarti Beth.»

«Ma che cosa stai dicendo?»

I suoi occhi lampeggiarono. «Chiudi la bocca e vieni qui, hai capito?»

Dopo un attimo d’esitazione, Nikki obbedì. 10 Beth

Forse lo aveva giudicato male, ammise Beth. Almeno per quanto riguardava il lavoro. Nelle ultime tre settimane Logan Thibault era stato il dipendente perfetto. Anzi, di più. Non solo non aveva perso un giorno, ma arrivava presto per dare da mangiare ai cani, cosa di cui si era sempre occupata Nana prima dell’ictus, e restava lì fino a tardi per spazzare il pavimento dell’ufficio. Una volta lo aveva persino visto pulire i vetri. Le gabbie erano linde come non mai, l’erba del recinto di addestramento veniva tagliata un giorno sì e un giorno no, e lui aveva perfino iniziato a mettere in ordine l’archivio clienti. Beth si sentì quasi in colpa quando gli consegnò il primo stipendio. Sapeva che era appena sufficiente per tirare avanti. Ma lui prese la busta, sorrise, e le disse: «Grazie. È fantastico».

Lei riuscì a rispondere solo con un «prego» pronunciato a mezza voce.

A parte questo, non si erano visti spesso. La scuola era iniziata da poco e Beth si stava ancora riabituando ai ritmi dell’insegnamento, che la obbligavano a passare il pomeriggio chiusa nel suo studio per preparare le lezioni e correggere i compiti. Ben, da parte sua, saltava giù dalla macchina non appena arrivavano a casa per giocare con Zeus. Pareva che i due fossero diventati grandi amici. Quando la loro auto imboccava il vialetto, Zeus cominciava a cercare in giro un legno, poi salutava Ben agitando la testa con il bastone in bocca. Mentre saliva i gradini della veranda lei sentiva il figlio ridere felice e correre assieme al cane per il giardino. Logan – quel nome le sembrava più adatto a lui, anche se si faceva chiamare Thibault – li osservava con l’ombra di un sorriso sulle labbra, prima di rimettersi al lavoro.

Doveva ammettere che le piaceva il suo sorriso e la facilità con cui gli spuntava sul volto quando era con Ben o con Nana. Sapeva che a volte la guerra riusciva a insinuarsi nella psiche di un soldato, rendendogli difficile riadattarsi al mondo civile, ma lui non mostrava nessun segno di disordine da stress post traumatico. Sembrava quasi normale, a parte il fatto di aver attraversato a piedi il Paese, quindi forse non era mai stato in missione oltreoceano. Nana giurava di non averglielo ancora chiesto. Il che era già strano di per sé, ma questa era un’altra storia. In ogni caso lui si era inserito nella loro piccola attività di famiglia meglio di quanto si aspettasse. Un paio di giorni prima, mentre lei era nello studio, Ben aveva attraversato di corsa la casa fino in camera sua e subito dopo era uscito di nuovo rumorosamente. Sbirciando dalla finestra, lo aveva visto giocare a baseball in cortile. Logan gli lanciava la palla, Zeus cercava di intercettarla, e Ben si divertiva da matti a prenderla con la mazza, senza sentirsi sotto pressione come quand’era con il padre.

Non la sorprendeva che Logan e Nana andassero d’accordo, ma la frequenza con cui la nonna parlava di lui a fine giornata e il suo tono entusiasta la lasciavano perplessa. «Ti piacerebbe», affermava, oppure:

«Chissà se conosceva Drake», che era il suo modo per spingerla ad abbandonare le riserve nei confronti di Logan. Nana gli aveva persino permesso di addestrare i cani, un privilegio che non aveva mai concesso a nessun dipendente. E di tanto in tanto riferiva qualche notizia curiosa sul suo passato: aveva trascorso una notte all’aperto vicino a una famiglia di armadilli nel Texas settentrionale, per esempio, oppure da giovane sognava di entrare nel gruppo di ricerca di Koobi Fora, in Kenya, per studiare le origini dell’uomo.

Comunque l’importante era che le cose al canile, dopo una lunga estate di frenesia, cominciassero a prendere un ritmo. Per questo Beth rimase sconvolta quando Nana, a cena, le manifestò la propria intenzione.

«Che cosa significa che andrai via per un po’?»

Nana aggiunse un ricciolo di burro alla sua ciotola di gamberetti. «Non ho più avuto modo di vedere mia sorella dall’incidente, e voglio andare a trovarla. È più anziana di me, sai. E adesso che tu insegni e Ben va a scuola, penso sia il momento giusto per farlo.»

«Chi si occuperà del canile?»

«Thibault. Ormai è diventato bravissimo, anche con l’addestramento. Dice che non gli dispiacerà lavorare qualche ora in più. E che finirà lui di mettere in ordine l’archivio. Ha anche detto che mi accompagnerà a Greensboro, così non dovrai preoccuparti nemmeno di questo. Abbiamo già organizzato tutto.» Sgusciò un gamberetto e lo masticò con gusto.

«Sa guidare?» domandò Beth.

«Ha detto di sì.»

«Ma non ha la patente.»

«La prenderà oggi, alla motorizzazione. Per questa ragione è andato via presto. Ho chiamato Frank, che lo ha iscritto all’esame di guida.»

«Non ha una macchina...»

«Userà il mio furgone.»

«E come ci è andato alla motorizzazione?»

«Con il furgone.»

«Ma non può guidare, non ha la patente!»

«Mi sembra di avertelo già spiegato.» Nana la guardò come se fosse una ritardata.

«E per il coro? Come farai? Sei appena tornata a cantare.» «Tutto a posto.

Ho già informato la direttrice, e ha detto che non ci sono problemi. Anzi, che è un’ottima idea. Naturalmente faccio parte del coro da più tempo di lei, quindi non poteva dirmi di no.» Beth era perplessa. «Quando hai cominciato a programmare tutto? Mi riferisco al fatto di andare a trovare tua sorella.» Nana addentò un altro boccone e finse di pensarci. «Quando lei mi ha chiamata e me l’ha chiesto.» «È quando è stato?» insistette Beth.

«Stamattina.»

«Stamattina?» Beth notò che Ben seguiva con la testa lo scambio di battute come se stesse assistendo a una partita di tennis. Gli lanciò un’occhiataccia, prima di tornare a concentrarsi su Nana. «Sei proprio sicura che sia una buona idea?»

«Come una ciliegina sulla torta», rispose lei con aria determinata. «Che cosa significa?»

«Significa», disse Nana, «che andrò a vedere come sta mia sorella. Ha detto che si annoia e sente la mia mancanza. Mi ha chiesto di andare a trovarla e io ho accettato. Tutto qui.»

«Per quanto tempo intendi stare via?» Beth cercò di arginare un crescente senso di panico.

«Più o meno una settimana.»

«Una settimana?»

Nana si voltò verso Ben. «Credo che tua madre abbia il cerume nelle orecchie. Continua a ripetere tutto quello che dico... forse non sente bene.»

Ben ridacchiò e addentò un gamberetto. Beth li guardò entrambi. A volte, pensò, cenare con quei due era come essere alla mensa con i bambini di seconda elementare.

«E la tua cura?» chiese.

Nana si servì un’altra porzione di gamberetti. «Mi porterò dietro le medicine. Niente mi impedisce di continuare a prenderle.»

«E se ti capitasse qualcosa?»

«Probabilmente per me sarebbe meglio che succedesse lì, non credi?»

«Perché dici così?»

«Adesso che la scuola è cominciata, tu e Ben siete fuori per la maggior parte della giornata e io resto a casa da sola. Thibault non se ne accorgerebbe, se mi sentissi male. Ma quando sarò a Greensboro, starò sempre con mia sorella. E che tu ci creda o no, lei ha il telefono e tutto il resto. Ha smesso di usare i segnali di fumo l’anno scorso.»

Ben scoppiò in un’altra risatina e abbassò lo sguardo sul piatto per non farsi vedere.

«Ma non hai mai lasciato il canile da quando è morto il nonno...»

«Precisamente», la interruppe Nana.

«E...»

Nana le diede un colpetto sulla mano. «Ascolta, so che per qualche giorno sentirai la mancanza del mio spirito arguto, ma così avrai modo di conoscere meglio Thibault. Questo fine settimana rimarrà qui, per aiutarti con il canile.»

«Questo fine settimana? Quando hai intenzione di partire?» «Domani.»

«Domani?» La voce di Beth era uno squittio allarmato.

Nana ammiccò a Ben. «Visto cosa intendo? Cerume.» Dopo aver sparecchiato, Beth uscì in veranda a riflettere. Era consapevole di aver reagito in maniera esagerata con Nana. Ictus o meno, la nonna sapeva badare a se stessa e zia Mimi sarebbe stata contentissima di vederla. La zia ormai faceva fatica a muoversi, e forse quella poteva essere la sua ultima occasione di trascorrere una settimana con la sorella.

Non era tanto il viaggio in sé a preoccuparla, quanto ciò che era emerso dal loro battibecco a tavola: l’inizio di un nuovo ruolo per lei negli anni a venire, un ruolo per cui non si sentiva pronta. Era facile essere la mamma di Ben. Le sue responsabilità in quel caso erano chiare e definite. Ma fare da madre a Nana? La nonna era sempre stata così vitale, così piena di energie, e fino a pochi mesi prima sembrava in perfetta salute. In fondo stava ancora bene, davvero bene, considerato quello che le era capitato.

Però le cose erano cambiate, ora doveva rallentare il ritmo. E, in futuro, sarebbe riuscita lei a tutelarla senza offenderla? A impedirle di guidare con il buio, per esempio. Nana non aveva più la vista di un tempo, eppure continuava a voler andare a fare la spesa in città nel tardo pomeriggio.

Be’, avrebbe affrontato i problemi uno alla volta, a mano a mano che si presentavano, anche se quella era una prospettiva che la agitava. Era già stato abbastanza difficile tenerla a bada l’estate scorsa, quando Nana era consapevole delle sue condizioni fisiche. Che cosa sarebbe successo quando la nonna si fosse rifiutata di riconoscere i propri limiti?

A quel punto vide il furgone di Nana risalire lentamente il vialetto e fermarsi accanto all’ingresso posteriore del canile. Logan scese, si avvicinò al pianale, poi si caricò in spalla un sacco di cibo per cani ed entrò. Quando uscì, Zeus trotterellava al suo fianco, annusandogli la mano; Beth immaginò che lo avesse chiuso in ufficio mentre era via.

Lui scaricò anche gli altri sacchi e, una volta finito, si incamminò verso la casa. Intanto era scesa la sera. In lontananza risuonava l’eco di un tuono e nell’aria si sentiva il canto dei grilli. Beth dubitava che sarebbe scoppiato un temporale; a parte qualche acquazzone sparso, non aveva piovuto per tutta l’estate, ma dall’oceano arrivava un odore di pini e di salsedine, e le tornò in mente una spiaggia dove era stata da bambina. Ricordava ancora i granchi che cercavano riparo dai fasci delle torce tenute in mano da lei, da Drake e dal nonno; il viso della mamma illuminato dall’alone del falò che papà aveva acceso; il marshmallow che prendeva fuoco mentre Nana lo faceva fondere al calore della fiamma. Era uno dei suoi pochi ricordi dei genitori, e non sapeva neppure se fosse del tutto autentico. Forse si confondeva con il racconto di quella serata che Nana le aveva fatto centinaia di volte, dato che era stata l’ultima volta in cui si erano trovati tutti insieme. I genitori di Beth erano morti in un incidente stradale pochi giorni dopo.

«Tutto bene?»

Alzando lo sguardo, vide Logan in piedi sulla veranda. Alla luce del tramonto i suoi lineamenti sembravano più morbidi.

«Sì, bene.» Drizzò la schiena e si lisciò la maglietta. «Stavo pensando.»

«Ho portato le chiavi del furgone, volevo restituirvele prima di andare a casa.» Gliele porse, e lei avrebbe potuto limitarsi a prenderle, invece – forse ancora turbata dal fatto che Nana avesse deciso di partire senza consultarla o forse perché voleva farsi un’idea più precisa di Logan – lo ringraziò, e aggiunse: «È stata una lunga giornata, eh?» Lui non parve sorpreso dal suo invito a conversare. «Non è andata poi tanto male. Ho fatto un mucchio di cose.» «Come per esempio riacquistare il diritto di guidare legalmente?» «Sì, tra l’altro», rispose lui con un vago sorriso.

«I freni ti hanno dato problemi?»

«No, una volta che mi sono abituato allo stridio.»

Lei sorrise. «Chissà come sarà stato contento l’esaminatore.» «Molto, si capiva dalle smorfie che faceva.»

Beth scoppiò a ridere, e rimasero entrambi zitti mentre un lampo illuminava l’orizzonte. Il tuono impiegò diversi secondi ad arrivare, il temporale era ancora lontano. Lei notò che Logan la guardava di nuovo con quella strana espressione di riconoscimento. Lui girò la testa e vide che Zeus si era avvicinato al bosco. Stava lì fermo a fissarlo, come per chiedere: Andiamo a fare una passeggiata? Per sottolineare la richiesta, il cane abbaiò.

«Un attimo di pazienza», gli gridò Logan. Tornò a voltarsi verso Beth. «È rimasto rinchiuso per ore, e adesso ha voglia di gironzolare un po’.»

«Non è quello che sta facendo?»

«Però vuole che lo accompagni. Non mi perde mai di vista.» «Proprio mai?»

«Non può farne a meno. È un cane da pastore, e pensa che io sia il suo gregge.» «Un gregge un po’ piccolo», commentò Beth.

«Sì, ma si sta allargando. Ora comprende anche Ben e Nana.» «È me no?»

Finse di essere offesa.

«Tu non gli hai lanciato un legno», rispose Logan.

«Basta questo?»

«Si accontenta di poco.»

Lei rise di nuovo, colpita dal suo senso dell’umorismo. Cogliendola di sorpresa, lui le chiese: «Ti andrebbe di fare una passeggiata con noi? Per Zeus, anche questo sarebbe considerato un segno di amicizia da parte tua».

«Ah, davvero?» disse lei per prendere tempo.

«Non sono io a stabilire le regole. So soltanto quali sono. E non vorrei mai che tu ti sentissi esclusa.»

Beth esitò un istante, poi pensò che lui voleva solamente essere gentile. Si guardò alle spalle. «Devo avvertire Nana e Ben. »

«Sì, ma non staremo via a lungo. Zeus vuole solo arrivare al torrente e tuffarsi nell’acqua per qualche minuto, prima di tornare indietro. Soffre molto il caldo.» Si dondolò sui talloni, le mani in tasca. «Sei pronta?»

«Va bene, andiamo.»

Scesero dalla veranda e si incamminarono sul vialetto. Zeus trotterellava davanti a loro, controllando di tanto in tanto che lo seguissero.

Camminavano fianco a fianco, mantenendo però una distanza sufficiente per evitare contatti involontari.

«Nana mi ha detto che sei un’insegnante», esordì Logan.

Beth annuì. «Sì, quest’anno ho una seconda elementare.» «E com’è la tua classe?»

«I bambini si comportano bene. Almeno per ora. E ci sono già sette mamme che si sono offerte come collaboratrici volontarie. Il che è positivo.»

Superando il canile, imboccarono il sentierino che portava al torrente. Il sole era ormai sceso dietro gli alberi e il sentiero era in ombra. Mentre camminavano, sentirono altri tuoni lontani.

«Da quanto tempo insegni?»

«Tre anni.»

«Ti piace?» «In genere, sì. Sono circondata da gente in gamba, e così tutto è molto più semplice.» «Ma?»

Lei sembrò non capire la domanda. Lui s’infilò le mani in tasca e proseguì.

«C’è sempre un ‘ma’. Del tipo, mi piace il mio lavoro e i miei colleghi sono fantastici, ma... due di loro hanno l’abitudine di fare sport vestiti da supereroi nei fine settimana, e mi chiedo se non siano un po’ fuori di testa.»

Beth rise. «No, sono tutti normalissimi, davvero. E amo insegnare. Solo che ogni tanto c’è un alunno che viene da una famiglia disastrata, e tu sai che non puoi fare niente per aiutarlo. Questo a volte mi spezza il cuore.»

Fece qualche passo in silenzio. «E tu, che mi dici? Ti piace lavorare qui?»

«Sì.» Sembrava sincero.

«Ma?»

Lui scrollò il capo. «Nessun ma.»

«Non è giusto. Io sono stata sincera.»

«Sì, però tu non stavi parlando con la nipote del capo. A proposito, hai idea di quando voglia partire Nana domani?»

«Non te l’ha detto?»

«No. Pensavo di domandarglielo stasera.»

«Io non lo so, comunque credo dovrai portare fuori i cani prima, in modo che non diventino nervosi.»

Appena giunti al torrente, Zeus si tuffò spruzzando acqua da tutte le parti e abbaiando. Logan e Beth lo guardarono sguazzare, poi lui indicò il ramo basso. Si sedettero, sempre mantenendosi a distanza di sicurezza.

«Quanto ci vuole per andare a Greensboro?» chiese Logan.

«Cinque ore, andata e ritorno. È quasi tutta autostrada.» «Hai idea di quando Nana tornerà a casa?»

«Credo più o meno tra una settimana.»

«Oh...» Sembrava sorpreso.

Perfetto, pensò Beth. Logan era più all’oscuro di lei. «Ho l’impressione che Nana non ti abbia parlato molto dei suoi progetti.»

«Ha detto solo che voleva partire e che io dovevo accompagnarla, quindi avrei fatto meglio a mettermi a posto con la patente. Ah, e che avrei lavorato anche sabato e domenica.»

«Lo immaginavo. Senti, a proposito... questo fine settimana posso cavarmela da sola, nel caso tu abbia da fare...»

«Nessun problema», rispose Logan. «Non ho altri programmi. E poi ci sono alcune cose che ho lasciato indietro e vorrei sistemare. »

«Tipo installare un condizionatore nell’ufficio del canile?» «Pensavo piuttosto di tinteggiare lo stipite della porta e vedere se riesco a sbloccare la finestra.» «Quella che non si apre per via della pittura secca? Buona fortuna. Una volta mio nonno ci provò per un giorno intero utilizzando la lama di un rasoio, e finì con le dita piene di cerotti. Dopodiché la finestra continuò a non aprirsi.» «Certo che non sei molto incoraggiante», commentò Logan.

«Volevo solo metterti in guardia. La cosa buffa è che era stato proprio il nonno a dipingerla. Aveva un capanno pieno di tutti gli attrezzi immaginabili, ma per quanto si applicasse non era dotato di grandi capacità manuali. Direi che era più un visionario che un tipo concreto. Hai visto la casa sull’albero di Ben e il ponte?»

«Da lontano», ammise Logan.

«Un classico esempio. Il nonno impiegò quasi tutta l’estate a costruirla e adesso, ogni volta che Ben ci sale, mi vengono i brividi. Non so proprio come abbia fatto a resistere tutto questo tempo senza crollare. Mi fa paura, ma Ben ci va volentieri, specialmente quando è turbato o nervoso per qualche ragione. La chiama il suo ‘nascondiglio segreto’. Ci si rifugia spesso.» Fece una pausa e lui vide un’ombra fugace attraversarle il viso.

«Comunque, il nonno era un tesoro. Buono e generoso, ci regalò l’infanzia più idilliaca che si possa desiderare.»

«A chi?»

«A me e mio fratello.» Guardò verso l’albero, le cui foglie erano inondate dalla luce argentea della luna. «Nana ti ha raccontato quello che accadde ai miei genitori?»

Logan annuì. «Me ne ha accennato. Mi spiace molto.» Beth aspettò, per vedere se aggiungeva qualcosa, ma non lo fece. «Com’è stato?» domandò allora. «Attraversare il Paese a piedi?» Lui non rispose subito. «È stato... rilassante. Poter andare dove volevo, quando volevo, senza fretta di arrivare.» «Lo fai sembrare una terapia.»

«Credo lo sia stato.» Un sorriso gli illuminò brevemente il viso, poi scomparve. «Per certi versi.» Mentre lui parlava la luce della sera si rifletteva nei suoi occhi dal colore cangiante. «Hai trovato quello che stavi cercando?» domandò lei, l’espressione seria.

Logan restò in silenzio, poi disse: «Sì, in effetti l’ho trovato».

«E?»

«Non so ancora.»

Quella risposta la lasciò perplessa. «Senti, non fraintendermi, ma per qualche ragione non mi sembri uno che si ferma a lungo in un posto.»

«Lo dici perché sai che sono venuto a piedi dal Colorado?» «In parte.»

Lui rise, e Beth si rese conto che era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui aveva chiacchierato con un uomo in maniera così spontanea e rilassata. Con Adam la conversazione era sempre rigida, controllata, come se si sforzassero troppo di fare buona impressione. Non sapeva ancora bene cosa pensare di Logan, ma quanto meno ora i loro rapporti erano diventati amichevoli. Si schiarì la gola. «Senti, a proposito di domani.

Forse sarebbe meglio se prendessi la mia macchina, e io andassi a scuola con il furgone. Mi preoccupa un po’ lo stato dei freni.»

«Devo ammettere che anch’io non sono tranquillo. Comunque credo di poter rimediare. Non per domani, ma durante il weekend.»

«Sai anche riparare le automobili?»

«Sì. In ogni caso i freni non sono difficili da aggiustare. Basteranno delle nuove pastiglie, i dischi non dovrebbero essere rovinati. »

«C’è qualcosa che non sai fare?» domandò Beth, con autentica incredulità.

«Sì.»

Lei rise. «Per fortuna. Comunque parlerò con Nana, sono sicura che sarà d’accordo a usare la mia macchina. E le dirò anche che ci penserò io a dare un’occhiata ai cani quando rientro dalla scuola.»

In quel momento Zeus uscì dall’acqua. Si scrollò, poi si avvicinò a Beth per annusarla prima di leccarle le mani.

«Gli piaccio.»

«Probabilmente ti sta solo assaggiando.»

«Spiritoso», commentò lei. Era il genere di battuta che avrebbe fatto Drake, e all’improvviso sentì di nuovo il bisogno di stare da sola. Si alzò.

«Ora devo andare. Di sicuro si staranno chiedendo dove sono finita.»

Logan si accorse che le nuvole in cielo erano aumentate. «Già, sarà meglio che venga anch’io. Vorrei essere a casa mia prima che cominci a piovere.

Sembra che il temporale si stia avvicinando.»

«Vuoi un passaggio in macchina?» «Ti ringrazio, ma preferisco camminare.»

«Davvero? Non l’avrei mai detto», osservò lei con un sorrisetto furbo.

Ripercorsero il sentiero fino alla casa e, raggiunto il vialetto d’ingresso, Beth tirò fuori la mano dalla tasca dei jeans e gli rivolse un breve cenno di saluto.

«Grazie per la passeggiata, Logan.»

Si aspettava che lui la correggesse, dicendole di chiamarlo Thibault, invece non lo fece. Sollevò leggermente il mento e le sorrise.

«Grazie a te, Elizabeth.»

Il temporale non sarebbe durato a lungo, anche se c’era un disperato bisogno di acqua. Era stata un’estate lunga e asciutta, e sembrava che il caldo non volesse mollare la presa. Mentre sentiva cadere le ultime gocce di pioggia sul tetto di lamiera, Beth pensò al fratello.

Prima di partire Drake le aveva detto che il rumore della pioggia sul tetto sarebbe stata la cosa che gli sarebbe mancata di più, e lei si chiese se avesse rimpianto spesso i temporali estivi del North Carolina mentre era là, in mezzo al deserto. Quell’idea la riempì di tristezza e di nostalgia.

Nana era in camera sua a fare i bagagli per il viaggio, esaltata come Beth non la vedeva da anni. Ben invece era sempre più taciturno a mano a mano che si avvicinava il fine settimana che avrebbe dovuto trascorrere con il padre. E questo significava che lei sarebbe rimasta a casa da sola nel weekend, per la prima volta dopo tanto tempo.

Da sola, a parte Logan.

Ora capiva perché sia Nana sia Ben fossero attratti da lui. Possedeva una tranquillità d’animo assai rara. Una volta tornata a casa si era resa conto che lui non le aveva raccontato niente di nuovo su di sé. Si domandò se tale riservatezza facesse parte del suo carattere oppure fosse dovuta all’esperienza in Iraq.

Perché era stato laggiù, lei ne era certa. Logan non aveva detto nulla in proposito, ma Beth aveva colto qualcosa nella sua espressione quando gli aveva parlato dei genitori... la sua semplice reazione indicava una certa familiarità con la tragedia e la capacità di accettarla come parte della vita.

Forse stava proprio lì il punto. Anche lui era stato un marine, come Drake.

Ma Logan era vivo, mentre Drake non c’era più, e per questo semplice motivo – oltre che per altri più complessi – non riusciva a giudicare quell’uomo con obiettività.

Alzando gli occhi verso le stelle spuntate tra le nubi temporalesche, sentì il dolore per la perdita di Drake bruciare come una ferita aperta. Dopo la morte dei genitori loro due erano stati inseparabili, per un anno avevano persino dormito nello stesso letto. Lui aveva solo un anno di meno, e lei ricordava ancora il suo primo giorno di asilo: per farlo smettere di piangere gli aveva assicurato che lì si sarebbe fatto molti amici e che lo avrebbe aspettato fuori vicino all’altalena per tornare a casa insieme. A differenza di quanto accade a tanti altri fratelli, tra loro non c’era mai stata rivalità.

Lei era la sua fan più entusiasta, e lui un suo incrollabile sostenitore. Per tutte le superiori Beth aveva assistito a incontri di football, di basket e di baseball, incoraggiandolo. Quanto a Drake, era l’unico che sapeva rimanere imperturbabile di fronte ai suoi improvvisi sbalzi d’umore. Il solo motivo di disaccordo tra loro era stato Keith, ma al contrario di Nana, Drake aveva tenuto per sé i propri sentimenti. Lei però sapeva come la pensava e, quando si era separata, si era appoggiata a lui per cercare un nuovo equilibrio come madre single. E sapeva anche che era stato il fratello a impedire a Keith di bussare alla sua porta a notte fonda nei mesi immediatamente successivi. Drake era la sola persona in grado di intimorirlo.

Era sempre stato un ottimo atleta in qualsiasi disciplina, e a dodici anni aveva iniziato anche a praticare la boxe. A diciott’anni combatteva regolarmente contro i soldati di stanza a Fort Bragg e a Camp Lejeune. Era in quel periodo che aveva cominciato a maturare l’idea di entrare nell’esercito.

Non era mai stato uno studente brillante e, dopo un anno di università, capì che lo studio non faceva per lui. Fino a quel momento aveva parlato soltanto con lei del proprio desiderio di arruolarsi. Beth era fiera della sua decisione di servire il Paese, il cuore traboccante d’amore e ammirazione la prima volta che lo aveva visto in divisa. Nonostante l’apprensione quando lui era stato mandato prima in Kuwait, poi in Iraq, lei aveva sempre creduto che ce l’avrebbe fatta. Ma Drake Green non era più tornato a casa.

Ricordava a stento i giorni successivi alla notizia. La morte del fratello l’aveva lasciata con un vuoto che non si sarebbe mai colmato del tutto. Ma il tempo aveva alleviato il dolore. Nell’immediatezza della perdita non lo avrebbe ritenuto possibile, però era innegabile che negli ultimi tempi, quando pensava a Drake, in genere era per ricordare i momenti felici. E anche quando andava a trovarlo al cimitero per parlare con lui, quelle visite non erano più lo strazio di una volta. Ultimamente la tristezza era meno viscerale della rabbia.

Ora però il dolore si era risvegliato, sulla scia della consapevolezza che anche lei – come Nana e Ben – era attratta da Logan, se non altro perché si trovava a suo agio con lui come non le era più capitato con nessuno dopo la morte di Drake.

E c’era un’altra cosa: soltanto Drake la chiamava Elizabeth. Tutti gli altri, i genitori, Nana, il nonno, gli amici, l’avevano sempre chiamata Beth.

Neppure Keith lo aveva mai fatto, ma a essere sinceri non era neppure sicura che l’ex marito sapesse qual era il suo nome completo. Solo per Drake lei era Elizabeth, e solo quando non c’era nessun altro. Era il loro segreto, e lei non riusciva nemmeno a immaginare che impressione le avrebbe fatto sentirsi chiamare così da un’altra persona.

Eppure per qualche motivo sulla bocca di Logan quel nome le era sembrato naturale. 11 Thibault

Nell’autunno del 2007, un anno dopo essersi congedato, Thibault organizzò un incontro con Victor nel Minnesota, un posto dove nessuno dei due era mai stato. Sei mesi prima il suo amico si era sposato, e lui gli aveva fatto da testimone. Era stata l’unica occasione in cui si erano rivisti dopo il congedo. Quando Thibault gli aveva telefonato per proporgli il viaggio, aveva avuto l’impressione che Victor avesse proprio bisogno di passare un po’ di tempo lontano da casa.

Il primo giorno, mentre erano intenti a pescare a bordo di una piccola barca sul lago, era stato Victor a rompere il silenzio.

«Ti capita mai di avere degli incubi?» gli domandò.

Thibault scrollò il capo. «No. E a te?»

«Sì.»

L’aria dell’autunno era frizzante, e una leggera bruma mattutina aleggiava sulla superficie del lago. Ma il cielo era limpido e la temperatura si sarebbe alzata. Si preparava uno spendido pomeriggio.

«Gli stessi di prima?» chiese Thibault.

«Peggio», rispose Victor. Riavvolse la lenza e la gettò di nuovo. «Vedo gente morta.» Fece un mezzo sorriso triste, il viso solcato da rughe di stanchezza. «Ti ricordi quel film con Bruce Willis? Il sesto senso.»

Thibault annuì.

«È qualcosa del genere.» Tacque, improvvisamente serio. «Nei miei sogni rivivo tutto quello che abbiamo passato, però... nella maggior parte dei casi vengo ferito, grido per chiamare aiuto, ma non arriva nessuno, e allora mi rendo conto che anche tutti gli altri sono stati colpiti. E mi sento morire a poco a poco.» Si strofinò gli occhi prima di proseguire. «Per quanto sia dura, non è niente rispetto a quando mi capita di vederli durante il giorno... i compagni morti, intendo. Magari sono al supermercato, e li vedo lì in piedi a bloccare un corridoio. Oppure sono a terra sanguinanti, con i paramedici che tentano di soccorrerli. Ma non emettono mai neppure un suono. Si limitano a guardarmi, come se fosse colpa mia se sono stati feriti, oppure se devono morire. Allora batto le palpebre, faccio un profondo respiro e loro scompaiono.» Si fermò. «Ho paura di diventare pazzo.»

«Ne hai parlato con qualcuno?» domandò Thibault.

«No, con nessuno. A parte mia moglie, ma quando le racconto queste storie si spaventa e scoppia a piangere. Così non ne parlo più neppure con lei.»

Thibault non disse niente.

«Aspetta un bambino, sai», annunciò Victor.

Thibault sorrise, aggrappandosi a quel raggio di speranza.

«Congratulazioni.» «Grazie. È un maschio. Lo chiamerò Logan.»

Lui si drizzò a sedere e gli fece un cenno con la testa. «Ne sono onorato.»

«A volte mi spaventa... l’idea di avere un figlio. Temo di non saper essere un buon padre.» Voltò lo sguardo verso l’acqua.

«Sarai un ottimo papà», gli assicurò Thibault.

«Può darsi.»

Lui aspettò che continuasse.

«Non ho più la pazienza di un tempo. Mi arrabbio subito. So che sono piccole cose, insignificanti, ma per qualche motivo non riesco a trattenermi. E anche se mi sforzo di ricacciare indietro la rabbia, a volte esplode lo stesso. Finora non mi ha mai causato problemi, però mi chiedo per quanto tempo ancora potrò tenerla chiusa dentro di me sperando che passi.» Spostò leggermente la canna da pesca. «Capita anche a te?» «In certi casi», ammise Thibault.

«Ma non tanto spesso?»

«No.»

«Già, mi ero dimenticato che per te è diverso. Per via della foto, intendo.»

Thibault scrollò il capo. «Non è vero. Non è stato facile nemmeno per me.

Non riesco a camminare per strada senza guardarmi indietro, o controllare le finestre sopra di me per accertarmi che nessuno mi punti contro un fucile. E spesso mi sembra di non saper più fare una conversazione normale con la gente. Non riesco a capire gran parte dei loro problemi. Chi lavora dove e quanto guadagna, che cosa c’è in televisione, o chi esce con chi. Mi verrebbe da dire: e chi se ne frega?» «Non sei mai stato un gran parlatore», sbuffò Victor.

«Grazie tante.»

«E quanto al guardarsi le spalle, è normale. Lo faccio anch’io.»

«Davvero?»

«Finora, però, nessun fucile.»

Thibault rise piano. «È un bene, no?» Poi, siccome voleva cambiare argomento, domandò: «Come va il lavoro sui tetti?»

«D’estate fa caldo.»

«Come in Iraq?»

«No, neanche lontanamente. Però fa caldo lo stesso.» Victor sorrise. «Mi hanno promosso. Adesso sono caposquadra.»

«Buon per te. Come sta Maria?»

«Il pancione cresce, ma è contenta. Ed è tutta la mia vita. Sono tanto felice di averla sposata.» Era quasi meravigliato dalla propria fortuna. «Mi fa piacere.»

«Non esiste niente come l’amore. Dovresti provare.» Thibault assunse un’aria enigmatica. «Chissà, forse un giorno.» Elizabeth.

Aveva visto qualcosa attraversare il suo viso quando l’aveva chiamata così, un’emozione che non era riuscito a identificare. Quel nome catturava la sua essenza più di un semplice «Beth». Aveva un’eleganza che si addiceva alle sue movenze aggraziate e, sebbene non volesse farlo, le sillabe gli erano uscite di bocca suo malgrado.

Sulla via di casa ripensò alla loro conversazione e a come gli fosse sembrato naturale stare seduto accanto a lei. Gli era parsa più rilassata, ma intuiva che, al pari di Nana, non sapeva ancora bene che cosa pensare di lui.

Il venerdì mattina si accertò di aver sistemato tutto prima di accompagnare Nana a Greensboro con la macchina di Elizabeth. Zeus viaggiava sul sedile posteriore e tenne la testa fuori dal finestrino per quasi tutto il tragitto, vigile e attento a ogni cambiamento d’odore e del paesaggio. Era stata Nana a decidere di portarlo con loro. «A Beth non dispiacerà», disse. «E la mia valigia possiamo metterla nel portabagagli.»

Il viaggio di ritorno fino a Hampton sembrò durare meno, e quando imboccò il vialetto della casa fu contento di scorgere Ben in cortile con in mano una palla. Zeus balzò subito incontro al bambino, che gliela tirò. Il cane si precipitò a recuperare la palla, le orecchie all’indietro, la lingua penzoloni. Quando poi Elizabeth uscì in veranda, Thibault pensò che era una delle donne più belle che avesse mai visto. Vestita con una camicetta a maniche corte e un paio di calzoncini che mettevano in risalto le gambe affusolate, gli rivolse un amichevole cenno di saluto e lui dovette fare uno sforzo per non rimanere lì inebetito a fissarla.

«Ehi, Thibault!» lo chiamò Ben. Stava inseguendo Zeus, che sfrecciava stringendo la palla tra i denti, fiero della propria abilità di restare sempre qualche passo avanti rispetto al ragazzino.

«Ciao, Ben! Com’è andata a scuola?» «Una noia!» gridò lui di rimando. «E il lavoro?»

«Benissimo!»

Ben continuò a correre. «Ah, ok!»

Da quando era cominciata la scuola avevano preso l’abitudine di scambiarsi queste battute tutti giorni. Thibault rise mentre Beth scendeva dalla veranda.

«Ciao, Logan.»

«Ciao, Elizabeth.»

Lei si appoggiò con la schiena alla balaustra, sorridendo. «Com’è andato il viaggio?» «Niente male.»

«Deve esserti sembrato strano, però.»

«In che senso?»

«Quand’è stata l’ultima volta che hai guidato per cinque ore di fila?» Lui si grattò la nuca. «Non saprei. Parecchio tempo fa.» «Nana mi ha detto che eri un po’ irrequieto al volante, come se non riuscissi a metterti comodo sul sedile.» Indicò alle proprie spalle. «Le ho appena parlato al telefono.

Ha già chiamato due volte.» «Già stufa?»

«No. Prima voleva parlare con Ben. Per sapere com’era andata a scuola.»

«E?»

«Lui le ha risposto che si era annoiato.»

«Se non altro è coerente.»

«Questo sì, ma vorrei che ogni tanto dicesse qualcosa di diverso. Tipo: ‘Ho imparato un sacco di cose e mi sono divertito tantissimo’. Il sogno di tutte le madri, giusto?»

«Naturalmente. » «Hai sete?» gli chiese. «Stamattina Nana ha preparato della limonata.»

«Sì, grazie. Però forse prima dovrei controllare le ciotole dell’acqua dei cani.» «Già fatto.» Lei si girò e andò alla porta, tenendogliela aperta.

«Accomodati. Arrivo tra un secondo.» Lui salì i gradini, si fermò a pulirsi le scarpe ed entrò. Notò subito i mobili antichi e i dipinti appesi alle pareti.

Sembrava il salotto di una residenza di campagna, pensò. Si era immaginato qualcosa di completamente diverso.

«Casa tua è molto bella», disse a voce alta.

«Grazie.» Lei sporse la testa dalla cucina. «Non c’eri mai stato?» «No.»

«Pensavo di sì. Dai pure un’occhiata in giro.»

Scomparve di nuovo e Thibault si mise a gironzolare per la stanza, apprezzando in particolare la collezione di statuine di ceramica Hummel nella credenza. Gli erano sempre piaciute.

Sulla mensola del camino scorse una serie di fotografie e si avvicinò per guardarle. Due o tre erano di Ben, compresa una in cui gli mancavano un paio di incisivi. Accanto c’erano una bella immagine di Elizabeth in tocco e toga, in piedi accanto ai nonni, e un’altra di Nana con il marito. In un angolo notò il ritratto di un giovane marine in divisa.

Era il soldato che aveva perso la foto in Iraq?

«Quello è Drake», gli disse lei da dietro. «Mio fratello.» Thibault si voltò.

«Più grande o più piccolo?»

«Di un anno più piccolo.»

Gli porse il bicchiere di limonata senza aggiungere altro e lui intuì che l’argomento era chiuso. Lei fece un passo verso la porta d’ingresso.

«Usciamo in veranda. Sono stata in casa tutto il giorno e poi voglio tenere d’occhio Ben. Ha l’abitudine di allontanarsi.»

Si misero a sedere sui gradini. Il sole faceva capolino tra le nubi, ma l’ombra della tettoia li riparava. Elizabeth si scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Scusa. È il meglio che posso offrirti. Ho cercato di convincere Nana a comperare un dondolo, ma lei dice che fa troppo country. »

In lontananza Ben e Zeus correvano nell’erba, e il bambino rideva cercando di strappare un legno dalla bocca del cane. Elizabeth sorrise. «Gli fa bene sfogarsi un po’.

Oggi ha avuto la sua prima lezione di violino, e non ha potuto giocare dopo la scuola.» «Gli è piaciuta?»

«Sì, o almeno così ha detto.» Si voltò verso di lui. «A te piaceva suonare, da bambino?» «Quasi sempre. Finché non sono cresciuto.»

«Lasciami indovinare. A quel punto sei passato alle ragazze e allo sport, vero?» «Non dimenticare le macchine.»

«Tipico», sbuffò lei. «Comunque sono felice che abbia deciso lui di farlo.

Ha sempre manifestato interesse per la musica, e la sua insegnante è davvero in gamba. Oltre che molto paziente.»

«È perfetto, allora.»

Lei lo scrutò. «Non so perché, ma mi sembri più un tipo da chitarra elettrica che da violino.» «È perché sono venuto fin qui a piedi dal Colorado?» «Non dimenticare la capigliatura.»

«Sono stato rasato per anni.»

«Poi le forbici sono entrate in sciopero, giusto?»

«Qualcosa del genere.»

Lei sorrise e prese il bicchiere. Nel silenzio che seguì Thibault si guardò intorno. Al di là del prato uno stormo di starne si levò in volo dagli alberi, muovendosi all’unisono prima di posarsi sul lato opposto. Il cielo era solcato da nubi bianche e vaporose, continuamente rimodellate dalla brezza pomeridiana. Lui sentì lo sguardo di Elizabeth su di sé.

«Non sei uno che sente il bisogno di parlare in continuazione, vero?» disse lei.

«No.»

«La maggior parte della gente non sa apprezzare il silenzio. Non possono fare a meno di parlare.» «Anch’io parlo. Solo che prima voglio avere qualcosa da dire.» «Sarà dura per te, a Hampton. Qui gli unici argomenti sono la famiglia, i vicini, il tempo oppure le probabilità che la squadra di football delle superiori vinca il campionato.» «Dici sul serio?»

«Alla lunga è noioso.»

Lui annuì. «Posso capirlo.» Bevve un’altra sorsata, svuotando il bicchiere.

«Allora, come è messa la squadra di football quest’anno?»

Lei rise. «Esattamente.» Gli prese il bicchiere. «Ne vuoi ancora?» «No, grazie. Sto bene così. Era molto rinfrescante.» Elizabeth posò il bicchiere accanto al proprio. «Fatta in casa. Nana ha spremuto personalmente i limoni.» Lui annuì. «Ho notato che ha i bicipiti alla Braccio di Ferro.» Lei passò un dito sul bordo del bicchiere, ancora una volta colpita dal suo senso dell’umorismo. «Mi sa che questo fine settimana saremo soltanto tu e io.» «Perché, Ben dove andrà?»

«Dal padre. Sta con lui un sabato sì e uno no.»

«Davvero?»

Lei sospirò. «Però non gli piace andare a casa sua. Non lo fa mai volentieri.» Thibault annuì, osservando Ben in lontananza.

«Niente da dire?» lo incalzò lei.

«Non saprei che cosa dire esattamente.»

«Ma se dovessi dire qualcosa...» «Direi che probabilmente tuo figlio ha i suoi buoni motivi.» «E io ti risponderei che hai ragione.»

«Voi due non andate d’accordo?» domandò Thibault, cauto.

«In realtà non posso lamentarmi. Non siamo affiatati, però ce la caviamo.

È Ben che non va d’accordo con il padre. Il mio ex marito lo critica sempre», gli confidò. «Penso che avrebbe voluto un bambino diverso.»

«Allora perché lasci che Ben vada a casa sua?» Posò su di lei uno sguardo dall’intensità sorprendente.

«Perché non ho scelta.»

«C’è sempre una possibiltà di scelta.»

«Non in questo caso.» Si sporse di lato e colse un fiore spuntato accanto alle scale. «Il padre ha ottenuto la custodia congiunta, e se cercassi di oppormi il tribunale potrebbe emettere una sentenza in suo favore. Il risultato sarebbe che Ben dovrebbe stare con lui persino più di adesso.»

«Non mi sembra giusto.»

«Infatti non lo è. Ma per il momento posso solo cercare di convincere mio figlio ad adattarsi alla situazione. »

«Mi pare di capire che è una storia piuttosto complicata.» Lei rise. «Non immagini neppure quanto.»

«Ne vuoi parlare?»

«Preferirei di no.»

Thibault avrebbe voluto insistere, ma si bloccò vedendo che Ben si stava avvicinando alla veranda. Era sudato fradicio, paonazzo in viso. Gli occhiali gli erano scivolati un po’ di traverso. Zeus gli veniva dietro, ansimando con la lingua di fuori. «Ciao, mamma!»

«Ciao, tesoro. Ti sei divertito?»

Il cane leccò la mano di Thibault prima di crollare ai suoi piedi.

«Zeus è fantastico! Ci hai visti giocare con il legno?» «Certo», rispose lei, abbracciandolo. Gli passò una mano tra i capelli. «Sei accaldato. Dovresti bere un po’ d’acqua.» «Va bene. Thibault e Zeus si fermeranno per cena?»

«Veramente non ne abbiamo parlato.»

Ben si tirò su gli occhiali sul naso, senza rendersi conto che erano storti.

«Stasera ci sono i tacos», annunciò a Thibault. «Devi provarli. La mamma prepara la salsa e tutto il resto.»

«Di sicuro saranno buonissimi», rispose lui in tono neutro.

«Ne riparliamo, d’accordo?» Elizabeth tolse i fili d’erba dalla maglietta del bambino. «Adesso vai dentro a prendere un bicchiere d’acqua. E non dimenticarti di lavare le mani.»

«Voglio giocare a nascondino con Zeus», piagnucolò Ben. «Thibault ha detto che potevo.» «Non adesso», replicò lei.

«Posso portare Zeus con me? Ha sete anche lui.»

«È meglio lasciarlo qua fuori. Gli daremo da bere. Che cosa ti è successo agli occhiali?» Ignorando le sue proteste, lei glieli sfilò. «Ci vorrà solo un secondo.» Piegò la montatura, controllò il lavoro fatto, poi la piegò di nuovo prima di restituirli al figlio. «Provali ora.» Ben lanciò un’occhiata furtiva a Thibault mentre se li metteva; lui finse di non accorgersene e si chinò ad accarezzare Zeus. Elizabeth inarcò la schiena all’indietro per guardare meglio.

«Perfetti», dichiarò.

«Ok», concordò Ben. Si avviò su per le scale, aprì la porta e la richiuse facendola sbattere. Quando se ne fu andato, Elizabeth si rivolse a Thibault. «L’ho messo in imbarazzo.»

«È quello che fanno le madri.»

«Grazie tante», replicò lei, sarcastica. «Mi spieghi cos’è questa storia del giocare a nascondino con Zeus?»

«Oh, quando eravamo al torrente mi ha chiesto che cosa sapesse fare Zeus, e io gliel’ho detto. Ma non è necessario giocarci proprio stasera.»

«No, va bene», rispose lei, prendendo il bicchiere di limonata. Fece tintinnare i cubetti di ghiaccio, assorta, poi si girò verso di lui. «Ti andrebbe di fermarti a cena da noi?»

Thibault la guardò negli occhi. «Sì», rispose. «Molto volentieri.» «Ci sono solo tacos», precisò Elizabeth.

«Ho sentito, e mi fai un regalo. Io li adoro.» Sorrise alzandosi. «Adesso vado a dare un po’ d’acqua al mio amico. Scommetto che ha pure fame. Ti spiace se prendo un po’ di cibo dal canile per lui?»

«Figurati, ce n’è in abbondanza. Qualcuno ne ha scaricati parecchi sacchi giusto ieri.» «Chi può essere stato?»

«Non saprei. Qualche capellone di passaggio, forse.» «Io credevo fosse un veterano laureato.»

«Fa lo stesso.» Lei prese il bicchiere e si alzò a sua volta. «Vado a controllare che Ben si lavi per bene. Tende a dimenticarselo. Ci vediamo tra poco.»

Al canile, Thibault riempì le ciotole di Zeus con acqua e cibo, poi si sedette in una delle gabbie vuote. Zeus si prese il suo tempo, bevendo un pochino, addentando qualche boccone, lanciandogli di tanto in tanto un’occhiata come per chiedere: Perché mi guardi? Thibault taceva; sapeva che qualsiasi commento avrebbe rallentato ulteriormente le operazioni.

Preferì invece andare a controllare gli altri cani. Erano tutti a posto e tranquilli. Spense le luci dell’ufficio e chiuse a chiave la porta prima di tornare verso la casa. Zeus lo seguiva con il naso a terra. Giunti alla porta, fece segno al cane di accucciarsi, poi la aprì.

«È permesso?»

«Entra pure. Sono in cucina.»

Thibault la raggiunse. Elizabeth si era messa un grembiule e stava facendo rosolare la carne macinata. Sul bancone accanto a lei c’era una bottiglia aperta di birra.

«Dov’è Ben?» domandò lui.

«Sotto la doccia. Dovrebbe scendere tra poco.» Aggiunse alla carne dell’acqua e un po’ di condimento per tacos, poi si lavò le mani. Dopo essersele asciugate sul grembiule, prese una bottiglia di birra. «Ne vuoi una anche tu? Io la bevo sempre con i tacos.»

«Sì, grazie.»

Si appoggiò al bancone e si guardò intorno. Per certi versi la cucina gli ricordava quella della casa che aveva affittato – armadietti di legno, lavandino in acciaio, apparecchiature antiquate e un piccolo tavolo da pranzo sistemato sotto la finestra – ma in migliori condizioni, con un tocco femminile qua e là. Un vaso di fiori, una ciotola di frutta, tendine a vetro.

Tutto molto accogliente.

Elizabeth tirò fuori dal frigorifero un cespo di lattuga, qualche pomodoro, un pezzo di formaggio e li posò sul bancone vicino al tagliere. Vi aggiunse peperoni verdi e cipolle, poi estrasse un coltello e una grattugia dal cassetto. Cominciò ad affettare le verdure.

«Ti serve una mano?»

Lei gli lanciò un’occhiata scettica. «Non dirmi che, oltre ad addestrare cani, riparare automobili e suonare il violino, sei anche un grande cuoco.»

«Non mi allargherei troppo, ma ci so fare in cucina. Mi preparo la cena tutte le sere.» «Sul serio? Che cos’hai mangiato ieri sera?» «Tramezzino al tacchino con i sottaceti.»

«E la sera prima?»

«Tramezzino al tacchino senza sottaceti.»

Lei rise. «Quand’è stata l’ultima volta che ti sei cucinato un pasto caldo?»

Lui fece finta di concentrarsi. «Vediamo... lunedì: fagioli e salsicce.»

Elizabeth si mostrò impressionata. «Devo ricredermi. Come te la cavi a grattugiare il formaggio?» «In questo sono un vero esperto.»

«Bene», disse lei. «Da quella parte, sotto il mixer, c’è una ciotola. Non serve che grattugi tutto il pezzo. Ben di solito mangia due tacos e io soltanto uno. Il resto è per te. »

Thibault posò la birra sul bancone e tirò fuori la ciotola dalla credenza.

Dopo essersi lavato le mani, scartò il formaggio e si mise al lavoro. Ogni tanto lanciava un’occhiata furtiva a Elizabeth che, terminato di affettare la cipolla, era passata al peperone. Poi toccò al pomodoro. Il coltello danzava preciso, i movimenti rapidi e regolari.

«Sei davvero molto veloce.»

«C’è stato un tempo in cui volevo avere un ristorante tutto mio», rispose lei senza interrompersi.

«E quando è stato?»

«Avevo quindici anni. Per il mio compleanno chiesi persino un set di coltelli Ginsu.» «Vuoi dire quelli che vengono reclamizzati a tarda notte?

Nelle pubblicità dove il presentatore dimostra che possono tagliare anche una lattina?» «Proprio quelli.»

«E li hai avuti?»

«Ne sto usando uno proprio adesso.» Lui sorrise. «Non avevo mai conosciuto qualcuno che ammettesse di averli comperati. » «Ora lo conosci», replicò lei. Si girò a guardarlo. «Sognavo di aprire un locale a Charleston o Savannah, di pubblicare un libro con le mie ricette e proporle in televisione. Lo so, è pazzesco. In ogni caso passai l’estate a esercitarmi. Tagliavo tutto quello che mi capitava, il più velocemente possibile, finché diventai abile quasi quanto il tizio della pubblicità. Dappertutto c’erano contenitori pieni di zucchine e carote che avevo colto nell’orto. Nana non ne poteva più, perché era costretta a cucinare verdure tutti giorni.» Thibault spostò da una parte il mucchietto di formaggio grattugiato. «E poi, che cosa accadde?» «L’estate finì, e finirono anche le verdure.»

«Ah», fece lui, sorpreso da quanto lei fosse carina anche con il grembiule.

«Bene», disse Elizabeth tirando fuori un altro tegame da sotto i fornelli, «è il momento di preparare la salsa.»

Versò una scatola di pelati, poi vi aggiunse cipolle e peperoni con una spruzzata di tabasco, sale e pepe. Mescolò il tutto e accese il fuoco portandolo a media temperatura.

«E una tua ricetta?»

«Di Nana. A Ben non piacciono le pietanze troppo speziate, così lei si è inventata questa salsa.» Thibault rinvoltò il resto del formaggio. «E adesso?» «Abbiamo quasi finito. Devo solo pulire l’insalata.

Ah, poi riscaldare nel forno i tacos da riempire. Lascerò cuocere piano la carne e la salsa per un po’.»

«Che ne dici se penso io ai tacos?»

Lei gli porse la placca e accese il forno. «Basta aprirli leggermente. Tre per noi due e per te tutti quelli che vuoi. Ma c’è ancora tempo.»

Thibault obbedì mentre lei finiva di preparare l’insalata. Elizabeth posò tre piatti sul bancone, poi prese la birra e indicò la porta della cucina. «Usciamo sul retro. Voglio mostrarti una cosa.»

Lui la seguì fuori, e si fermò ad ammirare la vista che si godeva dalla terrazza coperta. Un’alta siepe delimitava un giardino con i vialetti in acciottolato e aiuole circolari dove crescevano cornioli; al centro, una fontana a tre bocche alimentava una grande vasca con le carpe koi.

«Accidenti», mormorò lui. «È incantevole.»

«Non te lo aspettavi, vero? È davvero notevole, ma dovresti vederlo in primavera. Tutti gli anni Nana e io piantiamo centinaia di tulipani, giunchiglie e lillà, che cominciano a fiorire subito dopo le azalee e i cornioli. Da marzo alla fine di luglio il giardino è uno dei posti più belli della terra. E guarda laggiù, sotto quella siepe più bassa.» Indicò a destra.

«Lì si trova il nostro magnifico orto.»

«Nana non mi ha mai detto che faceva giardinaggio.» «Non mi stupisce.

Questa era una passione che condivideva con il nonno. Siccome il canile è sul davanti, volevano trasformare il giardino in una specie di oasi segreta dove potersi rifugiare per scappare dal lavoro, i cani, i padroni degli animali... perfino i dipendenti. Naturalmente ogni tanto li aiutavamo anche Drake e io, e in seguito Ben, ma per la maggior parte del tempo era un’attività riservata a loro due. È l’unico progetto del nonno che sia davvero riuscito. E dopo che lui è morto Nana ha deciso di conservarlo com’era, in suo ricordo.» «È incredibile», commentò Thibault.

«Quando eravamo piccoli per noi non era così piacevole. Non potevamo venire a giocare qui dietro, solo a piantare bulbi. Tutte le feste di compleanno si svolgevano nel prato sul davanti che separa la casa dal canile e, nei due giorni precedenti, dovevamo raccogliere tutte le cacche per evitare che qualcuno le calpestasse inavvertitamente.»

«Mi rendo conto che in effetti sarebbe stato un deterrente...» «Ehi!» chiamò una voce dalla cucina. «Dove siete finiti?» Elizabeth si girò.

«Siamo qui fuori, tesoro. Sto mostrando il giardino a Thibault.» Ben uscì, in maglietta nera e calzoncini mimetici. «Dov’è Zeus? Sono pronto a farmi cercare da lui.» «Tra poco mangiamo. Giocherai dopo cena.»

«Ma mamma...»

«È meglio aspettare quando fa buio», intervenne Thibault. «Così potrai nasconderti sul serio. E anche Zeus si divertirà di più.»

«Che cosa possiamo fare intanto?»

«Nana mi ha detto che sai giocare a scacchi.»

Ben gli lanciò un’occhiata scettica. «E tu sei capace?» «Forse non sono bravo come te, però me la cavo.» «Ok.» Ben si grattò il braccio. «Dov’è Zeus?»

«Sulla veranda.»

«Posso andare da lui?»

«Prima devi apparecchiare la tavola», gli ordinò Elizabeth. «E non c’è molto tempo. La cena è quasi pronta.»

«Va bene», rispose, voltandosi. «Grazie.»

Mentre lui correva via, Elizabeth si sporse oltre Thibault, mettendosi le mani a coppa davanti alla bocca. «Non scordarti di apparecchiare!»

Ben si bloccò. Aprì un cassetto, afferrò tre forchette e le gettò sul tavolo come un mazziere di Las Vegas con le carte, poi fece lo stesso con i piatti che erano sul bancone. In totale impiegò meno di dieci secondi – e si vedeva – prima di scomparire. Elizabeth era allibita. «Prima dell’arrivo di Zeus, mio figlio era un bambino tranquillo e gestibile. Dopo la scuola leggeva molto e studiava, adesso invece non vuole fare altro che giocare con il tuo cane», commentò.

Thibault assunse un’aria colpevole. «Mi dispiace.» «Non preoccuparti.

Credimi, mi piace un po’ di... tranquillità, come a tutte le madri, ma è bello vederlo così esaltato.» «Perché non gli prendi un cane tutto suo?» «Lo farò. Tra un po’. Prima devo capire come si mettono le cose con Nana.» Bevve un sorso di birra. «Torniamo dentro, credo che il forno sia caldo.»

Una volta in cucina, infilò la placca nel forno, poi mescolò la carne e la salsa e le versò nelle ciotole. Mentre lei le portava in tavola con un pacco di tovaglioli di carta, Thibault aggiustò posate e piatti, poi prese il formaggio, la lattuga e i pomodori. Guardò Elizabeth posare la birra sul tavolo, e rimase di nuovo colpito dalla sua spontanea bellezza.

«Vai tu a chiamare Ben?»

Lui si costrinse a distogliere lo sguardo. «Certo», rispose.

Il bambino era seduto in veranda ad accarezzare morbidamente la schiena di Zeus, che ansimava ancora.

«Lo hai fatto stancare», osservò Thibault.

«Sono piuttosto veloce a correre», affermò Ben.

«Andiamo? La cena è in tavola.»

Ben si alzò e Zeus sollevò il muso. «Tu resta qui», gli ordinò Thibault. Il cane abbassò le orecchie come se fosse stato punito, poi tornò a posare il muso tra le zampe.

Non appena si furono seduti, Ben cominciò a farcire un tacos di ripieno.

«Mi piacerebbe sapere di più sul tuo viaggio a piedi per il Paese», disse Elizabeth.

«Anche a me», le fece eco Ben prendendo una cucchiaiata di salsa.

Thibault si distese un tovagliolo sulle gambe. «Che cosa vi interessa di preciso?» «Perché non parti dal principio?» replicò Elizabeth.

Per un attimo lui pensò di raccontare la verità: tutto era cominciato con una fotografia nel deserto del Kuwait. Ma non poteva farlo. Allora iniziò dalla fredda mattina di marzo in cui si era messo in spalla lo zaino e si era incamminato sul ciglio della strada. Raccontò loro le cose che aveva visto

– soffermandosi in particolare, per la gioia di Ben, su tutti gli animali selvatici incontrati – e descrisse alcuni personaggi interessanti che aveva conosciuto. Elizabeth parve rendersi conto che non era abituato a parlare tanto di sé, e intervenne con qualche domanda ogni volta che lui sembrava a corto di idee. Alla fine gli chiese dei suoi studi di antropologia, e fu divertita dalla reazione del figlio quando scoprì che l’uomo seduto a tavola con loro «dissotterrava scheletri veri». Anche Ben fece delle domande: Hai fratelli o sorelle? No. Eri sportivo? Sì, ma non sono mai stato un campione. Qual è la tua squadra di calcio preferita? I Denver Bron-cos, naturalmente. Elizabeth ascoltava, seguendo con interesse il loro dialogo.

A poco a poco la luce che entrava di traverso dalla finestra si affievolì, gettando la cucina nella penombra. Finirono di mangiare e, dopo aver chiesto il permesso, Ben tornò da Zeus in veranda. Thibault aiutò Elizabeth a sparecchiare e caricare la lavastoviglie. Infrangendo una regola che si era data da sola, lei si stappò una seconda birra e ne offrì un’altra anche a lui prima di scappare dal calore della cucina e uscire all’aperto.

Là fuori faceva decisamente più fresco. Una brezza leggera muoveva piano le foglie sugli alberi, Ben e Zeus avevano ricominciato a giocare e la risata del bambino vibrava nell’aria. Elizabeth si appoggiò alla ringhiera per guardare il figlio, e Thibault dovette fare uno sforzo per non fissarla.

Nessuno dei due sentiva il bisogno di parlare e, mentre beveva una lunga sorsata di birra, lui si chiese come diavolo sarebbe andata a finire quella storia. 12 Beth

Al calar della sera Beth era in piedi sulla terrazza a guardare Logan, tutto concentrato sulla scacchiera che aveva davanti. Quest’uomo mi piace, si disse, trovando il pensiero al tempo stesso sorprendente e naturale.

Erano alla seconda partita, e lui stava riflettendo sulla mossa successiva.

Ben aveva vinto alla grande la prima, ma Logan non se l’era presa, chiedendogli addirittura dove avesse sbagliato. Avevano risistemato i pezzi sulla scacchiera e il bambino gli aveva mostrato gli errori commessi con l’alfiere e la regina, e poi con il cavallo.

«Accidenti», aveva esclamato Logan sorridendo. «Sei davvero un campione.» Beth si ricordò come aveva reagito il suo ex marito in un caso simile. Un paio di anni prima lui e il figlio avevano giocato, e quando Ben aveva vinto, Keith aveva rovesciato la scacchiera ed era uscito impetuosamente dalla stanza. Poi, mentre il bambino stava raccogliendo i pezzi sparsi sul pavimento, era rientrato, e invece di scusarsi aveva dichiarato che gli scacchi erano una perdita di tempo e che Ben avrebbe fatto meglio a dedicarsi a qualcosa di più importante, come studiare oppure esercitarsi con la mazza da baseball, visto che era «bravo a colpire la palla come un cieco».

A volte le veniva proprio voglia di strozzarlo.

Si rese conto che Logan era di nuovo in difficoltà. Anche se non era un’esperta, capiva che quando Ben studiava il suo avversario, anziché la scacchiera, la fine era vicina.

La cosa che le piaceva di più della scena era che, nonostante la concentrazione richiesta dal gioco, i due riuscissero comunque... a parlare.

Della scuola di Ben, di com’era Zeus da cucciolo, e siccome l’altro mostrava un sincero interesse, il bambino fece qualche rivelazione che la lasciò sorpresa, tipo che un paio di volte un suo compagno di classe gli aveva rubato il pranzo, e che lui aveva una cotta per una bambina di nome Cici. Logan non gli diede consigli; invece, chiese a Ben che cosa pensava di fare in proposito. In base alla sua esperienza Elizabeth sapeva che in genere gli uomini, quando tu ti confidavi, si sentivano in obbligo di offrire un’opinione, anche se tutto ciò che volevi da loro era semplicemente che ti ascoltassero.

L’istintiva riservatezza di Logan pareva in effetti lasciare a Ben lo spazio per esprimersi. Evidentemente quell’uomo era sicuro di sé, e non si sforzava di dimostrare che andava d’accordo con suo figlio.

Nelle poche storie sentimentali degli ultimi anni, lei aveva scoperto che la maggior parte dei suoi corteggiatori fingeva che Ben non esistesse – rivolgendogli a stento la parola – oppure si mostrava esageratamente espansiva nei confronti del bambino. Fin da piccolo Ben li sgamava subito, e siccome se ne accorgeva anche lei, questo metteva fine alla storia. Cioè, quando non erano loro a sparire all’improvviso.

In silenzio, Logan contemplava la scacchiera, le dita posate sul cavallo, per poi spostarsi sul pedone. Ben inarcò leggermente un sopracciglio, ma lui non ci badò e mosse il pedone in avanti.

Il bambino spostò a sua volta un pezzo senza esitare, e lei sapeva che questo era un brutto segno per l’avversario. Pochi minuti dopo Logan comprese che, qualunque mossa avesse fatto, non poteva sottrarre il re allo scacco matto.

«Mi hai incastrato», dichiarò.

«Già», confermò Ben.

«Pensavo di aver giocato meglio, stavolta.»

«Infatti», affermò Ben.

«E allora?»

«Fino alla seconda mossa.» Logan rise. «Che cos’è, umorismo da scacchista?»

«Conosco un sacco di battute come questa», replicò il ragazzino, chiaramente fiero di sé. Indicò il giardino. «È abbastanza buio adesso?»

«Direi di sì. Pronto a giocare, Zeus?»

Il cane drizzò le orecchie inclinando il muso. Quando Logan e Ben si alzarono, scattò su.

«Vieni anche tu, mamma?»

Beth si alzò a sua volta. «Eccomi.»

Procedendo nell’oscurità, raggiunsero il fronte della casa. Beth si fermò davanti ai gradini d’ingresso. «Forse dovrei prendere una torcia.»

«Non voglio barare!» protestò Ben.

«Ma rischi di perderti nel buio.»

«Non si perderà», le assicurò Logan. «Vedrai che Zeus lo troverà.» «Facile dirlo quando non si tratta di tuo figlio.»

«Non mi succederà niente», confermò Ben.

Lei li guardò entrambi. Non si sentiva del tutto tranquilla, ma Logan non sembrava affatto preoccupato. «E va bene», disse con un sospiro. «Allora la prendo per me, d’accordo?»

«Ok», concordò Ben. «Che cosa devo fare?»

«Nasconditi», disse Logan. «E io manderò Zeus a cercarti.» «Posso nascondermi dove voglio?»

«Perché non vai da quella parte?» suggerì Logan, indicando un’area boschiva alla destra del sentiero che portava al torrente. «Non vorrei che tu cadessi in acqua accidentalmente. E poi lì la tua traccia sarà fresca. Ricordi che prima di cena avete giocato qui sul prato? Ora, una volta che lui ti trova, tu devi seguirlo, d’accordo? Così non ti perderai.»

Ben guardò verso gli alberi. «Va bene. Come faccio a essere sicuro che lui non sbircerà?» «Lo chiuderò dentro e conterò fino a cento prima di lasciarlo uscire.» «Non gli permetterai di guardare?»

«Promesso.» Logan si rivolse a Zeus. «Andiamo», ordinò. Si avvicinò alla porta d’ingresso, poi si bloccò. «Posso?»

Beth annuì. «Nessun problema.»

Logan fece entrare Zeus, poi richiuse la porta. «Bene, siamo pronti.» Ben si mise a correre verso il bosco, mentre lui cominciava a contare a voce alta. Senza fermarsi, il bambino gridò: «Conta più piano!» La sua figura si fuse con l’oscurità, scomparendo alla vista ancor prima di raggiungere gli alberi.

Beth incrociò le braccia. «Devo ammettere che la cosa non mi piace.» «E perché?»

«Mio figlio che si nasconde nel bosco di notte? Brrr, mi vengono i brividi.» «Non ci sono pericoli. Zeus lo troverà in un paio di minuti al massimo.» «Vedo che hai una fiducia sconfinata nel tuo cane.» Logan sorrise e per un momento restarono lì in piedi sulla veranda a godersi la serata. L’aria, tiepida e umida ma non più afosa, aveva lo stesso odore della terra: un misto di quercia, pino e humus. Come al solito quell’aroma ricordò a Beth che – sebbene il mondo fosse in costante cambiamento – quel luogo sarebbe rimasto sempre lo stesso.

Era consapevole che Logan l’aveva guardata per tutta la sera, sforzandosi di non darlo a vedere, e sapeva di aver fatto lo stesso con lui. La sua attenzione era gratificante. Era lusingata che lui la trovasse attraente, ma senza mostrare l’urgenza o il crudo desiderio che spesso avvertiva in altri uomini. Logan sembrava soddisfatto di starle semplicemente accanto, ed era proprio ciò di cui lei aveva bisogno.

«Sono felice che tu ti sia fermato a cena», gli disse, a corto di altri argomenti. «Ben si sta divertendo un sacco.» «Anch’io sono contento.»

«Sei stato molto bravo con lui prima. A giocare a scacchi, intendo.» «Non è difficile.»

«Non dovrebbe, vero?»

Lui esitò. «Stiamo parlando di nuovo del tuo ex?»

«È così ovvio?» Si appoggiò con la schiena a un montante. «Comunque hai ragione. Sto parlando del mio ex marito. Quell’idiota.»

Logan si appoggiò al montante sull’altro lato della scala, di fronte a lei.

«E?» «Vorrei solo che si comportasse in maniera diversa.» Lui si chiese se doveva dire qualcosa. Alla fine preferì tacere.

«Non ti piacerebbe», proseguì lei spontaneamente. «Per quel che vale, credo che neanche tu gli andresti a genio.»

«No?»

«No. E puoi ritenerti fortunato. Non perdi niente.» Logan la fissò intensamente, senza parlare. Forse si ricordava il modo in cui lei lo aveva zittito l’ultima volta, pensò Elizabeth scostandosi i capelli dagli occhi.

«Vuoi sapere com’è andata?» «Solo se tu hai voglia di raccontarmelo», rispose Logan.

Lei fece un sospiro. «È la solita storia... io ero una liceale ingenua e avventata, lui aveva qualche anno più di me, ma andavamo nella stessa chiesa fin da piccoli, perciò lo conoscevo. Cominciammo a frequentarci pochi mesi prima che prendessi il diploma. La sua è una famiglia agiata, ed era sempre uscito con le ragazze più in vista, così credo di essermi lasciata affascinare. Evitai di vedere alcuni problemi evidenti, trovai scuse per altri e, prima che me ne rendessi conto, ero incinta. Tutto d’un tratto la mia vita... cambiò. Quell’autunno non sarei andata all’università, e non sapevo cosa volesse dire essere madre, figurarsi poi una madre single; insomma, non avevo la più pallida idea di come affrontare la situazione. L’ultima cosa al mondo che mi aspettavo era che lui mi chiedesse di sposarlo. Ma per qualche ragione lo fece, io gli dissi di sì e, sebbene mi fossi sforzata di credere che avrebbe funzionato e abbia fatto di tutto per convincere Nana che avevo ragione, entrambi capimmo di aver commesso un errore prima ancora che l’inchiostro sul nostro certificato di matrimonio fosse asciutto. In realtà non avevamo assolutamente niente in comune.

Litigavamo quasi sempre, e alla fine ci separammo poco dopo la nascita di Ben. Allora mi sentii veramente persa.»

Logan intrecciò le dita delle mani. «Però questo non ti ha fermata.» «In che senso?»

«Non ti ha impedito di frequentare l’università e diventare insegnante. Di essere una madre single.» Sorrise. «E riuscire a tirare avanti in qualche modo.»

Lei gli rivolse un sorriso riconoscente. «Con l’aiuto di Nana.» «Fa lo stesso.» Accavallò le gambe e finse di esaminarla, prima di fare una smorfia. «Sicché eri una testa calda?» «Alle superiori? Oh, decisamente sì.»

«Stento a crederlo.»

«Credi pure quel che ti pare.»

«E come te la sei cavata con l’università?»

«Intendi dire per il fatto di Ben? Non fu facile. Ma avevo già dei crediti, e questo mi facilitò la partenza, poi frequentai dei corsi nella scuola locale quando mio figlio era ancora un lattante. Andavo a lezione solo due o tre giorni alla settimana, mentre Nana si occupava di lui, e studiavo nel tempo libero dagli impegni di mamma. Feci lo stesso quando mi trasferii all’università di Wilmington, che era abbastanza vicina da permettermi di tornare a casa la sera. Impiegai sei anni per prendere la laurea, ma non volevo approfittare troppo di Nana, né dare al mio ex motivi per chiedere la custodia esclusiva. All’epoca ci avrebbe provato, se non altro perché ne aveva la possibilità.»

«Sembra un tipo amabile.»

Lei fece una smorfia. «Non immagini quanto.» «Vuoi che gli dia una lezione?»

Lei scoppiò a ridere. «È buffo, sai? Un tempo avrei accettato volentieri la tua proposta, ma ora non più. In realtà è solo... immaturo. È convinto che tutte le donne siano pazze di lui, si arrabbia per stupidaggini, e da la colpa agli altri quando le cose vanno male. A trentun anni ne dimostra sedici, se mi capisci.» Con la coda dell’occhio si accorse che Logan la stava guardando. «Ma basta parlare di lui. Raccontami qualcosa di te.»

«Che cosa vorresti sapere?»

«Qualsiasi cosa. Non so. Come mai ti sei laureato in antropologia?» Logan ci pensò su un momento. «Questione di personalità, immagino.» «Cosa significa?»

«Durante il primo anno al college ho capito che non mi interessava una laurea in materie scientifiche, come ingegneria o economia e commercio, e ho cominciato a parlare con gli studenti che seguivano le discipline umanistiche. I più interessanti erano quelli di antropologia. E io volevo essere interessante.»

«Scherzi?»

«Niente affatto. Fu questo che mi indusse a frequentare i corsi propedeutici. A quel punto mi resi conto che l’antropologia è una grande mescolanza di storia, supposizioni e mistero, tutte cose che mi affascinavano. Rimasi folgorato.»

«E le feste delle confraternite?»

«Non facevano per me.»

«Le partite di football?»

«Niente.»

«Ti è mai venuto il dubbio di esserti perso la parte migliore della vita da studente?» «No.»

«Neppure a me», concordò lei. «Almeno non dopo Ben.» Lui annuì e indicò il bosco. «Secondo te, è ora di mandare Zeus a cercarlo?» «Oddio!» esclamò lei, in preda al panico. «Riuscirà a trovarlo, vero? Quanto tempo è passato?» «Non tanto. Cinque minuti, forse. Stai tranquilla.» Logan andò ad aprire la porta. Zeus trotterellò fuori scodinzolando, scese le scale, sollevò una zampa sul lato della veranda, poi tornò su da loro.

«Dov’è Ben?» gli domandò Logan.

Zeus drizzò le orecchie. Logan puntò un dito verso gli alberi. «Cerca Ben.» Il cane posò il muso a terra e cominciò ad avanzare in semicerchio, annusando. Nel giro di pochi secondi trovò la pista e scomparve nell’oscurità.

«Dobbiamo seguirlo?» domandò Beth.

«Vuoi?»

«Sì.»

«Allora andiamo.»

Avevano appena raggiunto la prima fila di alberi, quando udirono Zeus abbaiare allegramente. Subito dopo riconobbero la voce di Ben che emetteva un grido di gioia. Beth si voltò verso Logan, il quale si limitò ad alzare le spalle.

«Allora avevi ragione!» esclamò lei. «Quanto tempo ha impiegato? Meno di due minuti?» «Per lui non era difficile. Sapevo che Ben non poteva essersi allontanato troppo.» «Qual è stata la pista più lunga che è riuscito a seguire?» «Una volta ha fiutato la traccia di un cervo per una decina di chilometri. E sarebbe andato avanti ancora, se non fosse finito contro una staccionata. Eravamo nel Ten-nessee.» «Perché inseguivate un cervo?»

«Per farlo esercitare. È un cane intelligente. Si diverte a imparare, e a mettere in pratica le sue doti.» In quel momento Zeus uscì zampettando dagli alberi, con il bambino subito dietro.

«È stato incredibile!» esclamò Ben. «Mi è venuto dritto incontro. E io non facevo neanche un rumore!»

«Vuoi riprovarci?» domandò Logan. «Posso?» supplicò Ben.

«Se tua madre è d’accordo.»

Ben si girò verso Elizabeth, che alzò le mani in aria. «Per me fate pure.»

«Ok, allora richiudilo in casa. Stavolta mi nasconderò per bene», dichiarò Ben.

«D’accordo», rispose Logan.

La seconda volta che Ben si nascose, Zeus lo trovò dentro un albero. La terza, dopo che Ben era tornato sui propri passi nel tentativo di depistarlo, lo trovò a qualche centinaio di metri di distanza, nella sua casetta sull’albero in riva al torrente. Beth non ne rimase entusiasta; l’instabile ponte e la traballante piattaforma sembravano molto più pericolosi di notte, ma a quel punto Ben si era stancato di giocare.

Logan li seguì in casa. Dopo aver augurato la buona notte al bambino esausto, si rivolse alla madre. «Ti ringrazio per la splendida serata, ma credo sia ora di andare», disse.

Sebbene fossero quasi le dieci, lei non era ancora pronta a lasciarlo.

«Vuoi un passaggio?» gli chiese. «Ben si addormenterà nel giro di pochi minuti, e potrei accompagnarti in macchina.»

«Grazie per l’offerta, ma non disturbarti. Mi piace camminare.» «L’ho capito. Non so molto di te, ma questo sì.» Gli sorrise. «Ci vediamo domani, giusto?» «Sarò qui alle sette.»

«Penserò io a dar da mangiare ai cani, se preferisci arrivare un po’ più tardi.» «Non c’è problema. E poi, voglio salutare Ben prima che esca.

Sono sicuro che farà piacere anche a Zeus. Il poveretto non saprà cosa fare tutto il giorno senza il suo amico.» «Benissimo, allora...» Si strinse le braccia al corpo, un po’ delusa di vederlo andare via subito.

«Potresti prestarmi il furgone domani? Voglio fare un salto in città a comperare quello che mi serve per sistemare i freni. Altrimenti posso anche andarci a piedi.»

Lei sorrise. «No, no, va benissimo. Devo solo accompagnare Ben dal padre e sbrigare qualche commissione, ma nel caso non ti vedessi metterò le chiavi sotto il tappetino dal lato del guidatore.»

«Perfetto», rispose lui. La guardò negli occhi. «Buona notte, Elizabeth.»

«Buona notte, Logan.»

Una volta che se ne fu andato, Beth entrò in camera di Ben per dargli un altro bacio sulla guancia, poi si ritirò nella sua stanza. Ripercorse gli avvenimenti della serata mentre si spogliava, riflettendo sul mistero di Logan Thibault.

Lui era diverso da come si aspettava, pensò. Ma era normale, si disse subito dopo, dato che fino a quella sera non lo aveva mai frequentato.

Ciononostante, si considerava abbastanza matura da riconoscere la verità quando ce l’aveva davanti.

Logan era effettivamente diverso dagli altri uomini che conosceva. Dio solo sapeva quale abisso lo separava da Keith. E anche da tutti quelli con cui era uscita dopo il divorzio. La maggior parte di loro si era comportata in modo abbastanza scontato; per quanto cercassero di mostrarsi cortesi e affascinanti, o per quanto fossero rozzi e volgari, dai loro gesti traspariva un unico obiettivo, ovvero portarla a letto. «Roba da maschi», la definiva Nana. E Nana non si sbagliava.

Con Logan, invece... ecco, era proprio quello il punto. Non riusciva a capire che cosa volesse da lei. Sapeva che la trovava attraente, e che apprezzava la sua compagnia. Ma a parte questo, lei non riusciva neppure lontanamente a immaginare quali fossero le sue intenzioni, visto che sembrava apprezzare allo stesso modo anche la compagnia di Ben. In un certo senso, ragionò, la trattava come i mariti delle sue amiche: Sei carina e interessante, però io sono già impegnato.

Forse anche lui era impegnato. Forse aveva una ragazza in Colorado, oppure aveva appena rotto con l’amore della sua vita e si stava ancora riprendendo. A ripensarci, si rese conto che sebbene le avesse descritto le cose che aveva visto e fatto durante il viaggio a piedi per il Paese, lei continuava a non sapere perché l’avesse intrapreso, né come mai avesse deciso di concluderlo proprio a Hampton. La sua storia non era tanto misteriosa, quanto segreta, il che era strano. Se aveva imparato una cosa sugli uomini era che amavano molto parlare di se stessi: il lavoro, gli hobby, le imprese realizzate, le motivazioni. Logan, invece, era assolutamente riservato. Davvero strano.

In ogni caso, concluse, stava dando troppa importanza alla faccenda. In fondo non erano mica usciti insieme. Era stata più che altro una serata tra amici: tacos, scacchi, e quattro chiacchiere. Una cosa di famiglia.

Si infilò il pigiama e prese una rivista dal comodino. Sfogliò distrattamente le pagine prima di spegnere la luce. Ma appena chiuse gli occhi, cominciò a visualizzare il suo viso... il modo in cui alzava leggermente gli angoli della bocca quando lei diceva una battuta, oppure in cui aggrottava la fronte quando era concentrato. Continuò a girarsi e rigirarsi nel letto, senza riuscire a dormire, chiedendosi se per caso, magari, anche Logan fosse sveglio e stesse pensando a lei. 13 Thibault

Thibault osservava Victor lanciare la lenza nelle fresche acque del lago del Minnesota. Era un sabato mattina senza nuvole. L’aria era immobile, il lago rifletteva il cielo limpido. Erano usciti a pescare molto presto, prima che arrivasse la folla di villeggianti con moto d’acqua e motoscafi. Era il loro ultimo giorno di vacanza; l’indomani sarebbero ripartiti entrambi.

Quella sera avevano progettato di mangiare una bella bistecca nel miglior ristorante del posto.

«Secondo me riuscirai a trovare questa donna», annunciò Victor senza preavviso.

Thibault stava riavvolgendo la lenza. «Chi?»

«La donna della foto che ti porta fortuna.»

Lanciò un’occhiata perplessa all’amico. «Ma di che cosa parli?» «Quando ti metterai a cercarla... penso che la troverai. » Thibault esaminò accuratamente l’amo e gettò di nuovo la lenza. «Non ho intenzione di andare a cercarla.» «Lo dici ora, ma lo farai.»

Lui scrollò il capo. «No. E anche se volessi, non saprei come fare.»

«Troverai il modo.» Victor sembrava molto convinto.

Thibault lo fissò. «Perché stiamo parlando di questa cosa?» «Perché», spiegò Victor, «non è ancora finita.»

«Credi a me, è finita.»

«So che lo pensi. Ma non è così.»

Thibault aveva imparato ormai da tempo che, quando partiva con un argomento, Victor continuava a insistere finché non aveva esposto chiaramente il proprio punto di vista. Siccome non voleva trascorrere così la loro ultima giornata di vacanza, pensò che forse valeva la pena di esaurire una volta per tutte la questione.

«D’accordo», disse con un sospiro. «Perché non è finita?» Victor alzò le spalle. «Perché non c’è equilibrio.»

«Non c’è equilibrio», ripeté Thibault in tono distaccato.

«Esatto», confermò l’altro. «Hai capito?»

«No.»

Victor sbuffò. «Mettiamo che qualcuno venga a rifare il tetto a casa tua.

Lavora con impegno, e alla fine viene pagato. Solo a quel punto è finita.

Ma nel tuo caso, con la fotografia, è come se il tetto fosse stato riparato, e il proprietario non avesse pagato il compenso. Finché non lo farà, non ci sarà equilibrio.»

«Intendi dire che sono debitore nei confronti di questa donna?» La voce di Thibault tradiva tutto il suo scetticismo.

«Proprio così. La foto ti ha protetto e ti ha portato fortuna. Ma finché non salderai il tuo debito, la questione rimane aperta», ribadì.

Thibault prese una lattina di gazzosa dalla borsa frigo. Ne offrì una anche a Victor. «Mi auguro tu ti renda conto che stai dicendo un’assurdità.»

Victor accettò la bibita con un cenno del capo. «Per qualcuno può essere così. Ma alla fine andrai a cercarla. Tutto questo ha uno scopo più grande.

È il tuo destino.»

«Il mio destino.»

«Sì.»

«E che cosa significa?» «Non lo so, ma lo scoprirai quando arriverai là.»

Thibault rimase zitto, rimpiangendo che l’amico avesse tirato in ballo l’argomento. Victor lo studiò.

«Forse», speculò, «siete destinati a mettervi insieme.» «Io non sono innamorato di lei, Victor.»

«No?»

«No», ribadì lui.

«Eppure», osservò Victor, «ci pensi spesso.»

Thibault non replicò, perché su questo non c’era niente da dire.

Il sabato mattina Thibault arrivò presto al canile e si mise subito al lavoro, riempiendo le ciotole, pulendo le gabbie e occupandosi dell’addestramento. Intanto Ben giocava con Zeus, finché Elizabeth non lo chiamò in casa per prepararsi. Dalla veranda lei gli rivolse un cenno di saluto con la mano, e anche a distanza lui vide che era turbata.

Cominciò a far uscire i cani; di solito li portava in giro a gruppi di tre, assieme a Zeus. Giunto nel bosco li lasciava liberi, ma loro avevano la tendenza a seguirlo ovunque andasse. Thibault cercava di cambiare sempre strada, dato che la novità del percorso stimolava la curiosità dei cani.

Come le persone, anche gli animali si annoiavano a fare tutti i giorni la stessa cosa. In genere le uscite duravano una trentina di minuti e a un certo punto si accorse che la macchina di Elizabeth non c’era più, quindi immaginò che lei fosse andata ad accompagnare Ben dal padre.

Quell’uomo non gli era simpatico, in base ai racconti che aveva sentito.

Gli sembrava un tizio insopportabile, ma non stava a lui giudicare; poteva solo limitarsi ad ascoltare Elizabeth quando si sfogava. Non ne sapeva abbastanza per dare un consiglio, e comunque lei non glielo chiedeva. In sostanza, non era affar suo. Ma allora, che ci faceva in quel posto? Gli tornò in mente il dialogo con Victor, e capì che era lì soprattutto per via di ciò che l’amico gli aveva detto quel mattino al lago. E per quello che era accaduto in seguito, naturalmente.

Scacciò il ricordo. Non voleva tornarci su. Non ora.

Richiamati i cani, Thibault si diresse verso le gabbie. Dopo averli rinchiusi andò nel capanno degli attrezzi. Accese la luce all’interno e rimase stupito di fronte agli scaffali stracolmi: sembrava un negozio di ferramenta.

Esaminò i ripiani, frugò nelle cassette e tra gli utensili sul banco da lavoro del nonno di Elizabeth. Alla fine scelse alcuni attrezzi e li caricò sul furgone. Come promesso, lei aveva lasciato le chiavi sotto il tappetino.

Thibault fece manovra e partì per il negozio di autoricambi che ricordava vagamente di aver visto vicino al centro.

Trovò quanto gli occorreva e tornò a casa nel giro di mezz’ora. Sistemò il cric, sollevò il furgone, poi tolse la prima ruota. Fissò all’indietro il pistone con la pinza e levò la pastiglia consumata, controllò lo stato dei dischi e inserì una nuova pastiglia, dopodiché rimontò la ruota e ripeté il processo con le altre.

Stava sistemando il terzo freno quando udì la macchina di Elizabeth fermarsi accanto al furgone. Si girò a guardarla e, mentre scendeva, si rese conto che era stata via a lungo.

«Come va?» domandò lei.

«Ho quasi finito.»

«Davvero?» Sembrava sinceramente stupita.

«Si tratta solo delle pastiglie. Niente di che.»

«Parli come un chirurgo. È solo un’appendicite.»

«Vuoi imparare a farlo?» domandò Thibault, levando gli occhi verso la sua figura che si stagliava contro il cielo. «Quanto tempo ci vuole?»

«Non molto.» Alzò le spalle. «Una decina di minuti.» «Davvero?» esclamò lei. «D’accordo. Prima porto dentro la spesa.» «Ti occorre aiuto?»

«No, ho soltanto un paio di borse.»

Thibault rimontò la ruota e passò all’ultima. Elizabeth lo raggiunse mentre stava svitando i bulloni. Quando gli si accovacciò accanto, lui percepì il lieve profumo di una lozione al cocco che doveva essersi spalmata sul corpo quella mattina.

«Prima di tutto, togli la ruota...» cominciò, e proseguì spiegandole pazientemente ogni fase. Alla fine abbassò il cric e iniziò a radunare gli attrezzi.

«Sembra fin troppo facile. Potrei riuscirci persino io», commentò lei.

«È probabile.»

«Allora perché costa tanto dal meccanico?»

«Non ne ho idea.»

«Ho scelto la professione sbagliata», dichiarò Elizabeth alzandosi e raccogliendosi i capelli in una morbida coda. «In ogni caso, grazie. Era da un po’ che volevo farli aggiustare.»

«Figurati.»

«Hai fame? Ho comperato del tacchino per i tramezzini. E i sottaceti.»

«Mmm, delizioso», rispose lui.

Pranzarono sulla terrazza che dava sul giardino. Elizabeth sembrava ancora turbata, comunque gli raccontò com’era crescere in una cittadina di provincia del Sud, dove tutti si conoscevano. Alcuni aneddoti erano divertenti, anche se Thibault riconobbe che preferiva un’esistenza più anonima.

«Chissà perché, ma non mi sorprende», osservò lei. Dopo pranzo lui tornò al lavoro, mentre Elizabeth passò il pomeriggio a pulire la casa. Al contrario di suo nonno Thibault riuscì a sbloccare la finestra dell’ufficio, tuttavia l’impresa si rivelò più ardua che sistemare i freni. Per quanto carteggiasse, non fu semplice nemmeno richiuderla e riaprirla. Alla fine tinteggiò tutto il telaio.

Una volta terminato con il canile erano quasi le cinque e, sebbene potesse andarsene, preferì fermarsi ancora un po’ a mettere in ordine l’archivio, in modo da portarsi avanti per l’indomani. Rimase in ufficio un altro paio d’ore, e a un certo punto vide Zeus alzarsi e dirigersi verso la porta.

«Mi sorprende che tu sia ancora qui», disse Elizabeth dalla soglia. «Ho visto la luce, e credevo te la fossi dimenticata accesa.»

«Non mi capita mai.»

Lei indicò le pile di fascicoli sulla scrivania. «Non so dirti quanto ti sia riconoscente. L’estate scorsa Nana ha cercato di convincermi a riorganizzare l’archivio, ma io ho spudoratamente rimandato la cosa.»

«Una vera fortuna per me», dichiarò lui.

«Mi sento quasi in colpa...»

«Ti crederei, se non avessi quell’aria furba. Notizie di Ben o di Nana?»

«Sì», rispose lei. «Nana sta benissimo, Ben malissimo. Non che mi abbia raccontato molto, ma l’ho capito dalla voce.» «Mi dispiace», disse lui, sincero.

Lei alzò le spalle quasi stizzita, poi afferrò la maniglia. La fece girare su e giù, come se fosse interessata al meccanismo. Sospirò. «Mi aiuteresti a preparare il gelato?»

«Come scusa?» Posò la cartellina che teneva in mano.

«Mi piace molto il gelato fatto in casa. Non c’è niente di meglio quando fa caldo, ma non è divertente prepararlo da soli.»

«Non credo di aver mai...» «Allora non sai che cosa ti perdi. Ci stai?»

Il suo entusiasmo infantile era contagioso. «E va bene», rispose lui. «Sarà una nuova esperienza.» «Faccio un salto al negozio per comperare l’occorrente. Torno subito.» «Non sarebbe più pratico comperare direttamente il gelato?» I suoi occhi lampeggiarono. «Non è la stessa cosa!

Vedrai. Sarò di ritorno tra pochi minuti.» Mantenne la parola. Thibault ebbe giusto il tempo di riordinare la scrivania e controllare un’ultima volta i cani prima di sentire l’auto di lei risalire il vialetto. Le andò incontro e la guardò scendere dalla macchina.

«Ti spiace portare dentro la busta con il ghiaccio tritato?» gli chiese Elizabeth. «E sul sedile posteriore.»

La seguì in casa, e mise la busta nel freezer mentre lei sistemava gli ingredienti sul bancone.

«Puoi prendere la gelatiera? È nella dispensa. Sul ripiano in alto a sinistra.» Thibault uscì dalla dispensa con una gelatiera a manovella che sembrava avere almeno cinquant’anni. «È questa?» «Esatto.»

«Funziona ancora?» si meravigliò lui.

«Perfettamente. È incredibile, vero? Nana la ricevette come regalo di nozze, e continuiamo a usarla. Fa un gelato squisito.»

Thibault la appoggiò sul bancone, poi si mise accanto a lei. «Che cosa dobbiamo fare?» «Se ti va di girare la manovella, io preparerò l’impasto.»

«D’accordo.»

Lei tirò fuori un frullatore elettrico e un misurino. Versò nel bicchiere del frullatore tre tazze di zucchero e una di farina, mescolò con un cucchiaio, poi aggiunse tre uova, un quarto di panna, tre cucchiaini di estratto di vaniglia, e accese l’apparecchio. Terminò con un goccio di latte e versò il tutto nel contenitore della gelatiera, che riempì di ghiaccio frantumato e salgemma.

«Siamo pronti», annunciò, consegnandogli la gelatiera. Prese il resto del ghiaccio e del sale. «Dobbiamo uscire. Bisogna farlo in veranda, altrimenti non è lo stesso.»

«Ah.»

Prese posto accanto a lui sui gradini, un po’ più vicina di quanto avesse fatto il giorno precedente. Reggendo la gelatiera tra le gambe Thibault cominciò a girare la manovella, sorpreso di quanto ruotasse facilmente.

«Grazie dell’aiuto», gli disse lei. «Ho proprio bisogno di un bel gelato. È stata una giornataccia.» «Davvero?»

Si voltò a guardarlo abbozzando un sorriso. «Sei molto bravo, sai.» «A fare cosa?»

«A dire ‘davvero?’ quando qualcuno fa un’osservazione. Basta questo per indurre una persona a parlare, senza apparire troppo invadenti o ficcanaso.

»

«Davvero?»

Lei ridacchiò. «Davvero», ripeté. «La maggior parte della gente al tuo posto avrebbe detto ‘che cosa è successo?’ oppure ‘perché?’»

«D’accordo. Che cosa è successo? Perché è stata una giornataccia?»

Elizabeth fece una smorfia. «Mah, stamattina Ben era di pessimo umore mentre preparava la sua roba, e alla fine io ho alzato la voce gridandogli di sbrigarsi, dato che ci stava mettendo un secolo. In genere al padre non piace che arrivi in ritardo, e invece oggi... Be’, sembrava quasi si fosse dimenticato del suo arrivo. Ho dovuto bussare a lungo alla porta prima che venisse ad aprire, e poi ho capito che si era appena alzato dal letto. Se avessi saputo che stava ancora dormendo non sarei stata così severa con Ben. Mi sento ancora in colpa. Inoltre, mentre mi allontanavo, ho visto mio figlio portare fuori la spazzatura, perché il caro vecchio paparino è troppo pigro per farlo. Dopodiché ho passato la giornata a pulire, e non è andata così male per il primo paio d’ore. Ma alla fine avevo proprio bisogno di un gelato.» «Non ha l’aria di un sabato rilassante.» «Infatti», borbottò lei, e si capiva che stava valutando se fosse il caso di continuare. C’era qualcos’altro che la turbava. Elizabeth fece un respiro profondo. «Oggi è il compleanno di mio fratello», disse con un lievissimo tremito nella voce. «Ecco dove sono stata dopo aver lasciato Ben. Gli ho portato i fiori al cimitero.»

Thibault sentì un groppo in gola, ripensando alla foto che aveva visto sulla mensola del camino. Anche se sospettava che il fratello fosse rimasto ucciso, non ne aveva mai avuto la conferma. Capì perché lei non volesse restare da sola quella sera.

«È una cosa molto triste», affermò in tono comprensivo.

«È vero», confermò Elizabeth. «Ti sarebbe piaciuto, era simpatico a tutti.»

«Ne sono sicuro.»

Lei si intrecciò le mani in grembo. «A Nana era passato di mente. Questo pomeriggio se n’è ricordata, così mi ha telefonato per dirmi quanto le spiaceva non essere qui. Era quasi in lacrime, ma io le ho risposto di non preoccuparsi, che non aveva importanza.»

«E importante, invece. Lui era tuo fratello, e ti manca.» Un sorriso malinconico le illuminò il viso, poi si spense. «Tu me lo ricordi, sai», mormorò. «Non tanto nell’aspetto, quanto nel modo di fare. Me ne sono accorta la prima volta che sei entrato in ufficio a chiedere un lavoro. Mi sembravi dello stesso stampo. Forse perché anche tu sei stato nei marines.»

«Può darsi», disse lui. «In realtà lì ho conosciuto gente di tutti i tipi.»

«Non ne dubito.» Tacque, piegò le ginocchia al petto e se le abbracciò strette. «A te piaceva? Essere un marine?» «A volte.»

«Non sempre?»

«No.»

«Drake ne era entusiasta. Amava ogni cosa.» Sembrava incantata dal movimento della manovella mentre rievocava il passato. «Ricordo il periodo in cui si preparava l’invasione. Con Camp Lejeune a meno di un’ora di distanza da qui, la notizia era sulla bocca di tutti. Io avevo paura per lui, soprattutto dopo aver sentito parlare di armi chimiche e di commando suicidi, ma vuoi sapere di che cosa si preoccupava mio fratello?»

«Cosa?»

«Di una foto. Una stupida vecchia foto. Non è assurdo?» Quelle parole inaspettate gli provocarono un soprassalto, ma Thibault si sforzò di mantenersi esteriormente calmo.

«Me l’aveva scattata quell’anno alla fiera», riprese lei. «Era l’ultimo fine settimana che passavamo insieme prima che si arruolasse e, dopo aver fatto i soliti giri, ci allontanammo per starcene un po’ da soli. Ci sedemmo sotto un pino a parlare per ore e a guardare la ruota panoramica. Era altissima, tutta illuminata, e sentivamo le esclamazioni di stupore dei bambini mentre girava nel limpido cielo estivo. Parlammo di mamma e papà, chiedendoci come sarebbero diventati, se avrebbero avuto i capelli grigi, se noi saremmo rimasti qui a Hampton o ci saremmo trasferiti, e ricordo che alzai gli occhi verso il cielo. All’improvviso vidi passare una stella cadente e pensai che in qualche modo loro ci stessero ascoltando.»

Fece una pausa, poi riprese. «Lui aveva fatto plastificare la foto e l’aveva tenuta con sé durante tutto il periodo di addestramento. Una volta arrivato in Iraq, mi spedì una e-mail dicendomi che l’aveva persa e chiedendomi se potevo mandargliene una copia. A me sembrava una pazzia, ma io non ero lì con lui e non potevo sapere quello che stava passando, così gli risposi che l’avrei fatto. Però non riuscii a spedirgliela subito. Non chiedermi perché. E come se avessi avuto un blocco mentale. Voglio dire, avevo messo il dischetto nella borsa, ma tutte le volte che passavo dal supermercato mi dimenticavo di farla stampare. E prima che me ne rendessi conto, l’invasione era cominciata. Alla fine gliela mandai, ma la busta mi venne restituita ancora chiusa. Drake morì durante la prima settimana di guerra.»

Lo guardò da sopra le ginocchia. «Cinque giorni. Fu il tempo che sopravvisse. E io non ebbi modo di dargli l’unica cosa che voleva da me.

Sai come mi fa sentire questo?» Thibault fu assalito dalla nausea. «Non so che dire.» «Non c’è niente da dire», replicò lei. «È solo una di quelle storie terribili, incredibilmente tristi. E adesso... oggi, continuo a pensare che il suo ricordo sta svanendo.

Nana lo sta dimenticando, Ben se l’è dimenticato. Se non altro mio figlio posso in parte capirlo. Non aveva neanche cinque anni quando Drake fu ucciso, e sai come funziona la memoria. I ricordi dell’infanzia sono pochi e frammentari. Ma lo zio era molto bravo con lui, si divertiva a stare in sua compagnia.» Alzò le spalle. «Un po’ come te.» Thibault avrebbe preferito che non l’avesse detto. Questo non è il mio posto...

«Non volevo assumerti», proseguì lei, senza far caso al suo turbamento.

«Lo sapevi?» «Sì.»

«Dipendeva dal fatto che eri venuto fin qui a piedi dal Colorado, ma soprattuto che eri stato nei marines.»

Lui annuì e, nel silenzio che seguì, lei controllò la gelatiera. «Ci vuole altro ghiaccio», disse. Aprì il coperchio, lo aggiunse, poi gliela restituì.

«Perché sei qui?» domandò alla fine.

Pur sapendo perfettamente che cosa intendeva, lui finse di non capire.

«Perché mi hai chiesto di rimanere.»

«No, voglio dire: perché sei qui a Hampton? E questa volta voglio la verità.» Thibault annaspò in cerca di una spiegazione. «Mi sembrava un posto carino, e finora non mi sono sbagliato.» Elizabeth attese invano che lui proseguisse, poi si accigliò. «C’entra qualcosa quello che è accaduto quando eri in Iraq, vero?» Fu il suo silenzio a tradirlo.

«Quanto tempo sei stato laggiù?» gli domandò.

Lui si agitò sul gradino, restio a parlarne. «Quale delle volte?» «Quante volte ci sei andato?»

«Tre.» «Hai partecipato a molti combattimenti?»

«Sì.»

«E te la sei sempre cavata.»

«Sì.»

Lei serrò le labbra, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. «Perché tu sì e mio fratello no?» Lui girò la manovella quattro volte prima di rispondere con una bugia. «Non lo so.» Quando Elizabeth rientrò in casa a prendere le coppette e i cucchiaini per il gelato, Thibault resistette alla tentazione di chiamare Zeus e andarsene all’istante – prima di cambiare idea – per poi tornarsene in Colorado.

Continuava a pensare alla fotografia che teneva in tasca, quella che Drake aveva perso. Thibault l’aveva trovata, Drake era morto, e ora lui era lì, nella casa dove l’altro era cresciuto, a passare il tempo con la sorella rimasta sola.

A prima vista era tutto così improbabile che, mentre cercava di riprendersi dallo choc, si concentrò sui fatti. La fotografia era soltanto questo: un’immagine di Elizabeth scattata dal fratello. Non esistevano portafortuna o cose simili. Lui era sopravvissuto alla ferma in Iraq, come del resto la maggior parte dei commilitoni. Quasi tutto il suo plotone, compreso Victor, era tornato a casa. Ma alcuni erano morti – fra cui Drake – e sebbene fosse tragico, ciò non aveva niente a che vedere con la fotografia.

Era la guerra. E per quanto riguardava lui, era lì perché aveva deciso di rintracciare la donna della foto. Non c’entravano niente il destino o la magia.

Però sono venuto a cercarla per via di Victor..

Batté le palpebre per allontanare l’idea. Quella di Victor era pura superstizione, si disse. Non poteva essere vero. Almeno non tutto.

Zeus parve intuire il suo conflitto interiore e alzò la testa per guardarlo. Le orecchie diritte, emise un guaito soffocato, poi salì i gradini e andò a leccargli la mano. Lui gli sollevò il muso e il cane gli diede una leccata sul viso.

«Che cosa ci faccio in questo posto?» bisbigliò Thibault. «Perché ci sono venuto?» Mentre aspettava una risposta che non sarebbe arrivata, udì la porta di casa sbattere alle sue spalle.

«Parli da solo o con il tuo cane?» domandò Elizabeth.

«Entrambe le cose», rispose lui.

Si mise seduta al suo fianco e gli porse il cucchiaio. «Che cosa stavi dicendo?» «Niente di importante», rispose. Fece segno a Zeus di accucciarsi e il cane si rannicchiò sul gradino, nel tentativo di restare vicino a entrambi.

Elizabeth aprì il contenitore e versò un po’ di gelato nelle coppette. «Spero ti piaccia», disse porgendogliene una. Assaggiò una cucchiaiata, poi si voltò a guardarlo con aria seria. «Vorrei scusarmi con te.»

«Di che cosa?»

«Per quello che ho detto prima... quando mi sono chiesta perché tu ce l’hai fatta e mio fratello no.» «È una domanda legittima.» Lui si agitò, a disagio sotto il suo sguardo penetrante.

«Non è vero», ribatté lei. «E ho sbagliato a domandarlo a te. Quindi ti chiedo scusa.» «Non preoccuparti.»

Mangiò un’altra cucchiaiata di gelato, incerta se proseguire. «Sai quando ti ho detto che non volevo assumerti perché eri stato nei marines?»

Lui annuì.

«Non mi sono spiegata bene. Non era perché mi ricordavi Drake, ma a causa del modo in cui lui è morto.» Batté il cucchiaino contro la coppetta.

«Drake fu ucciso da fuoco amico.»

Thibault girò la testa verso di lei.

«Naturalmente da principio non lo sapevamo. Continuavano a tenerci all’oscuro. ‘Le indagini proseguono’, oppure ‘stiamo esaminando le circostanze’, cose del genere. Ci vollero mesi per scoprire come era morto, e anche allora non riuscimmo a farci dire chi era il responsabile.»

Si fermò un istante per cercare le parole giuste. «Non mi sembrava giusto, capisci? Cioè, so che si è trattato di un incidente, che non lo hanno ucciso volontariamente, ma se una cosa del genere accadesse qui negli Stati Uniti, qualcuno verrebbe accusato di omicidio colposo. Mentre se succede in Iraq nessuno vuole che emerga la verità. Né ora né mai.»

«Perché me lo racconti?» chiese Thibault con voce calma.

«Perché è il vero motivo per cui non ti volevo qui. Dopo aver scoperto quello che era successo, ogni volta che vedevo un marine mi chiedevo: Sarà stato lui a uccidere Drake? Oppure: È uno che sta coprendo chi l’ha ucciso? Sapevo che era sbagliato, ma non potevo farne a meno. E dopo un po’ la rabbia che provavo è diventata parte di me, come se fosse l’unica maniera per tenere a bada il dolore. Non mi piaceva quello che ero diventata, ma ero bloccata in quell’orribile circolo vizioso di interrogativi e responsabilità. Poi tu sei comparso dal nulla, a chiedere un lavoro. E

Nana, pur conoscendo benissimo i miei sentimenti... e forse proprio per questo... ha deciso di assumerti.»

Posò da un lato la coppetta. «Per questa ragione ti ho evitato nelle prime settimane. Ero convinta di non avere niente da dirti, anche perché molto probabilmente te ne saresti andato via presto come tutti gli altri. Invece non lo hai fatto. Al contrario, lavori sodo e ti fermi fino a tardi, sei fantastico con Nana e con mio figlio... e all’improvviso non sei più tanto un soldato quanto un uomo qualunque.» Tacque, poi gli diede un colpetto con il ginocchio. «E non solo. Sei un uomo che permette a una donna emotiva di blaterare all’infinito senza interromperla.»

Lui ricambiò la ginocchiata, per dimostrarle che era tutto a posto. «Oggi è il compleanno di Drake.» «È vero.» Lei alzò la coppetta. «Al mio fratellino Drake», disse.

Thibault alzò a sua volta la coppa e brindò con lei. «A Drake», ripeté.

Zeus guaì e li guardò con aria trepidante. Nonostante la tensione del momento, Elizabeth gli arruffò la pelliccia. «A te non serve un brindisi.

Questo è il momento di Drake.»

Il cane la fissò e piegò il muso di lato, e lei scoppiò a ridere.

«Bla, bla, bla. Non capisce una parola di quello che dico.» «È vero, ma ha capito che eri turbata. Ecco perché ti è rimasto vicino.» «È davvero sorprendente. Non credo di aver mai incontrato un cane così sensibile e ben addestrato. Lo ha detto anche Nana, e credimi, non è cosa da poco.»

«Grazie. Tutta questione di geni», si schermì lui.

«Bene. Ora tocca a te parlare. Praticamente ormai conosci tutti i miei segreti. » «Che cosa vuoi sapere?»

Lei prese il cucchiaino e mangiò un altro boccone di gelato prima di chiedere: «Sei mai stato innamorato?»

Vedendolo stupito dalla sua sfrontatezza, agitò una mano in aria. «Non provare neppure a pensare che è una domanda troppo personale. Dopo tutto quello che ti ho rivelato di me. Avanti, confessa.»

«Una volta», ammise lui.

«Di recente?»

«No, parecchi anni fa. Quando ero al college.»

«Che tipo era?»

Thibault cercò la parola giusta: «Terrena».

Lei non commentò, ma la sua espressione diceva chiaramente che voleva saperne di più.

«E va bene», concesse lui. «Era una dell’ultimo anno, e amava i Birkenstock e le gonne a balze. Detestava truccarsi. Scriveva articoli per il giornale studentesco e sosteneva le cause di praticamente tutta l’umanità, a parte i maschi bianchi e i ricchi. Oh, ed era anche vegetariana.»

Lo scrutò attentamente. «Non so perché, ma non riesco a vederti assieme a una ragazza del genere.» «Nemmeno io. E neppure lei. Almeno alla lunga.

Ma per un po’ fu incredibilmente facile ignorare le lampanti differenze tra noi. E fu quello che facemmo.» «Quanto tempo durò?»

«Un po’ più di un anno.»

«Hai più avuto sue notizie?»

Lui scrollò il capo. «Mai.»

«E per il resto?»

«A parte un paio di cotte da liceale, è tutto. Ma tieni conto che negli ultimi cinque anni non sono stato troppo propenso a legarmi sentimentalmente.»

«Già, immagino.»

Zeus si alzò e fissò nell’oscurità, le orecchie che fremevano. All’erta. Un istante dopo Thibault udì il rumore smorzato del motore di un’automobile e, in lontananza, scorse tra gli alberi il bagliore diffuso dei fari. Qualcuno stava risalendo il vialetto. Elizabeth aggrottò la fronte, perplessa, quando una berlina spuntò lentamente dalla curva e si avvicinò alla casa. Sebbene le luci della veranda non arrivassero fin lì, Thibault riconobbe la macchina e si drizzò a sedere. Si trattava dello sceriffo o di uno dei suoi agenti.

Anche Elizabeth la riconobbe. «Non promette niente di buono», borbottò.

«Secondo te, che cosa vogliono?»

Lei si alzò. «Non c’è nessun loro. È solo un lui. Per la precisione, il mio ex.» Scese i gradini. «Tu aspetta qui, ci penso io.»

Thibault fece segno a Zeus di sedersi e stare fermo mentre l’auto si arrestava accanto a quella di Elizabeth sul lato della casa. Attraverso i cespugli vide aprirsi la portiera del passeggero, e Ben scese trascinandosi dietro lo zaino. Si incamminò verso la madre a testa bassa. Quando si aprì anche la portiera del guidatore comparve il vicesceriffo Keith Clayton.

Zeus emise un sordo brontolio, pronto a scattare non appena il padrone gli avesse dato l’ordine di attaccare l’uomo. Elizabeth si girò a guardarlo sorpresa, ma quando Ben fu sotto la luce, Thibault notò subito che era senza occhiali e aveva un livido bluastro intorno all’occhio. Nello stesso momento se ne accorse anche lei.

«Che cosa è successo?» esclamò correndo verso il figlio. Si accovacciò per guardarlo meglio. «Che cosa hai fatto?»

«Non è niente», rispose Clayton, avvicinandosi a sua volta. «Soltanto una botta.» Ben girò la testa di lato, per non farsi vedere dalla madre.

«Che fine hanno fatto i suoi occhiali?» chiese lei, senza riuscire ancora a capire. «Lo hai picchiato?»

«No che non l’ho picchiato. Cristo! Non lo farei mai. Ma per chi mi hai preso? È stata la palla.» Elizabeth non parve ascoltarlo, e rimase concentrata sul figlio. «Ti senti bene? Che brutto livido! Che cosa è successo, tesoro? Ti si sono rotti gli occhiali?» Sapeva che lui non avrebbe parlato finché il padre non se ne fosse andato. Sollevandogli il viso, vide che aveva una piccola emorragia all’occhio, causata dai capillari rotti.

«Con quanta forza gliel’hai tirata?» domandò, l’aria inorridita.

«Non tanto forte. È solo un graffio. L’occhio è a posto, e siamo anche riusciti ad aggiustare gli occhiali con lo scotch.»

«Non è solo un graffio!» Elizabeth alzò la voce, controllandosi a stento.

«Smettila di comportarti come se fosse colpa mia!» latrò Clayton.

«È colpa tua!»

«È lui che ha sbagliato a prenderla! Stavamo giocando. È stato un incidente, Cristo santo! Non è così, Ben? Ce la stavamo spassando, vero?» Ben teneva lo sguardo fisso a terra. «Sì», mormorò.

«Dille quello che è successo. Dille che non è stata colpa mia. Avanti.» Ben si dondolava da un piede all’altro. «Stavamo giocando a baseball. Non sono riuscito a prendere la palla e mi è finita sull’occhio.» Le mostrò gli occhiali che aveva in mano, tenuti insieme malamente da due pezzi di nastro adesivo. «Papà me li ha riparati.» Clayton alzò i palmi. «Visto?

Niente di che. Può capitare. Fa parte del gioco.» «Quando è successo?» domandò Elizabeth.

«Qualche ora fa.»

«E non mi hai chiamata?»

«No, l’ho portato al pronto soccorso.»

«Al pronto soccorso?»

«E dove, altrimenti? Dovevo farlo vedere da un dottore, così siamo andati in ospedale. Mi sono comportato da genitore responsabile, proprio come hai fatto tu quando scivolò dall’altalena e si ruppe il braccio. E se ricordi bene, in quell’occasione non me la presi con te, proprio come non mi arrabbio quando lo lasci giocare nella casetta sull’albero. Quell’affare è una vera trappola.»

Lei era troppo scioccata per parlare, e Clayton continuò, disgustato. «In ogni caso, è stato lui a volere tornare qui.»

«Bene», disse Elizabeth, ancora frastornata. Un muscolo le guizzava nella mandibola. Rivolse un cenno di congedo a Clayton. «Non mi interessa.

Vattene. Adesso ci penso io.»

Cingendo Ben per le spalle, cominciò ad allontanarsi e in quel momento Clayton scorse Thibault seduto in veranda a fissarlo. Sgranò gli occhi, poi lo fulminò con lo sguardo. Si incamminò verso di lui.

«Che cosa ci fai tu qui?» domandò. Thibault continuò a guardarlo senza muoversi. Il brontolio di Zeus si fece più minaccioso.

«Che cosa ci fa lui qui, Beth?»

«Vattene, Keith. Ne riparliamo domani.» Si girò dall’altra parte.

«Non puoi andartene così», sbraitò Clayton, afferrandola per un braccio.

«Ti ho fatto una domanda.»

Zeus ringhiò e le sue zampe posteriori cominciarono a fremere. Solo allora Clayton parve accorgersi del pastore tedesco, con i denti scoperti e la pelliccia sollevata sulla schiena.

«Se fossi in te, le lascerei il braccio», disse Thibault. Il suo tono era calmo, si trattava più di un suggerimento che di un ordine. «Immediatamente.»

Alla vista del cane, Clayton lasciò subito la presa. Mentre Elizabeth e Ben si rifugiavano in veranda, lui fissò Thibault con uno sguardo carico di odio. Zeus fece un passo in avanti, senza smettere di ringhiare.

«Penso che faresti bene ad andartene», aggiunse Thibault a bassa voce.

Clayton esitò un istante, poi indietreggiò. Imprecò sottovoce mentre tornava a grandi passi verso la macchina, apriva la portiera e la richiudeva sbattendola.

Thibault accarezzò Zeus. «Bravo», gli sussurrò.

Clayton fece retromarcia, poi compì una goffa inversione e ripartì sgommando. Solo quando i fanalini di coda non furono più visibili, Zeus abbassò il pelo. Scodinzolò vedendo Ben avvicinarsi.

«Ciao, Zeus.»

Il cane lanciò un’occhiata al padrone. «Vai», annunciò Thibault lasciandolo libero. Zeus trotterellò incontro a Ben, come a dire: Bentornato a casa! Si mise ad annusarlo mentre il bambino gli dava qualche colpetto affettuoso sulla schiena. «Ti sono mancato, vero?» domandò Ben tutto compiaciuto. «Anche tu...»

«Vieni, tesoro», lo chiamò Elizabeth. «Entriamo, così ti metto il ghiaccio sull’occhio. E voglio vederlo bene alla luce.» Mentre loro aprivano la porta di casa, lui si alzò dai gradini.

«Ciao, Thibault», lo salutò il bambino.

«Ciao, Ben.»

«Posso giocare con Zeus domani?»

«Se la tua mamma è d’accordo, per me va bene.» Dall’espressione di Elizabeth comprese che lei voleva rimanere sola con il figlio. «È ora di andare», disse. «Si sta facendo tardi e domani devo alzarmi presto.»

«Grazie», rispose lei. «Ti sono riconoscente. E scusami per quello che è successo.» «Non c’è niente di cui scusarsi.»

Fece qualche passo lungo il vialetto, poi si girò verso la casa. Scorse dei movimenti dietro la tenda del salotto.

Guardando le ombre delle due figure al di là della finestra, pensò che stava finalmente cominciando a capire il motivo per cui era lì. 14 Clayton

Tra tutti i posti al mondo, proprio a casa di Beth doveva incontrare quel tizio. Quante probabilità c’erano di trovarlo lì? Maledettamente poche, questo era sicuro.

Lo odiava. Anzi, voleva cancellarlo dalla faccia della terra. Non solo per via del furto della macchina fotografica e degli squarci alle gomme – anche se per quello scherzo si meritava di passare un po’ di tempo in cella con un paio di tossicomani aggressivi – ma perché Taibolt, che lo aveva già preso in giro una volta, gli aveva fatto fare la figura del pappamolla di fronte a Beth.

Se fossi in te, le lascerei il braccio, era già abbastanza negativo. Ma poi?

Oh, ora veniva il bello. Immediatamente... Penso che faresti bene ad andartene, il tutto pronunciato con il tono serio, determinato, che Clayton stesso usava con i criminali. E lui lo aveva fatto, si era allontanato con la coda tra le gambe, il che peggiorava le cose.

Di norma non avrebbe esitato a rispondere per le rime, anche in presenza di Beth e Ben. Nessuno poteva dargli ordini impunemente, e lui avrebbe chiarito all’istante una volta per tutte che il tizio aveva appena commesso l’errore più grosso della sua vita. Ma era rimasto bloccato.

Proprio così! E questo solo perché all’improvviso si era trovato davanti Cujo, pronto a lanciarsi sul cavallo dei suoi pantaloni come se fosse il buffet degli aperitivi. Al buio, quel cane assomigliava a un lupo idrofobo, e lui non aveva potuto fare a meno di ricordare le storie raccapriccianti che Kenny Moore gli raccontava su Panther.

In ogni caso, che cavolo ci faceva Taibolt da Beth? Perché diavolo era lì?

Sembrava ci fosse un malvagio piano cosmico per rovinargli una giornata nata già storta... con quel moccioso piagnucoloso di Ben che era arrivato a mezzogiorno e aveva subito cominciato a lamentarsi di dover portare fuori la spazzatura.

Lui era un tipo paziente, però era stufo dell’atteggiamento del bambino.

Veramente stufo, ed era per questo che gli aveva fatto anche pulire la cucina e il bagno, tanto perché capisse come andava il mondo, quello vero, dove imparare a comportarsi in modo decente era fondamentale. Il potere del pensiero positivo e tutta quella roba. Poi, si sa che le mamme viziano, e i papà devono insegnare ai figli che nessuno ti regala niente, giusto? E il bambino era davvero bravo con le pulizie, quindi per Clayton la cosa finiva lì. Per distrarlo, dopo gli aveva proposto di giocare a baseball. Chi non avrebbe voluto esercitarsi con il proprio padre in un sabato pomeriggio come quello?

Ben. Ecco chi.

Sono stanco. Fa molto caldo, papà. Dobbiamo proprio? Una stupida scusa dopo l’altra, finché erano usciti, e il bambino si era chiuso a riccio e non aveva più detto una parola. Peggio ancora, per quanto lui gli ripetesse di stare attento alla dannata palla, Ben non riusciva a colpirla perché non ci provava neppure. Lo faceva di proposito, senza dubbio. E figurarsi se correva a prenderla dopo averla mancata. Naturalmente no. Suo figlio era troppo impegnato a tenere il muso mentre agitava in aria la mazza come un cieco.

Alla fine, aveva perso la pazienza. Si stava sforzando di passare un bel pomeriggio insieme, ma il figlio faceva di tutto per rovinarglielo e sì, effettivamente forse l’ultima volta aveva tirato la palla un po’ troppo forte.

Però lui non c’entrava con ciò che era successo dopo. Se il bambino avesse prestato più attenzione, la palla non gli sarebbe rimbalzata sul guanto e Ben non sarebbe scoppiato a piangere come un lattante... come se fosse in punto di morte o qualcosa del genere. Come se fosse l’unico bambino nella storia del mondo ad aver ricevuto un rimbalzo in faccia.

Ma non era quello il punto. Il bambino si era fatto male. Comunque niente di grave, e il livido sarebbe passato in un paio di settimane. Tra un anno Ben avrebbe dimenticato del tutto l’incidente oppure si sarebbe vantato con gli amici di essersi fatto un occhio nero giocando a baseball. Beth, viceversa, non glielo avrebbe mai perdonato. Sarebbe rimasta arrabbiata con lui per molto, moltissimo tempo, anche se era stata più colpa di Ben che sua. Non riusciva proprio a capire che tutti bambini ricordano con orgoglio le ferite sportive.

Quella sera lei avuto una reazione esagerata, ma non gliene voleva per questo. Era normale che una madre si spaventasse, e Clayton si era preparato. Era convinto di aver gestito la faccenda abbastanza bene, sino alla fine, quando aveva visto il tizio seduto con il cane sulla veranda come se fosse a casa sua.

Logan Taibolt.

Si ricordava il suo nome, ovviamente. L’aveva cercato per diversi giorni senza esito, poi aveva archiviato le ricerche, convinto che avesse lasciato la città. Era impossibile che nessuno notasse un tizio con un cane, giusto?

Era per questo che alla fine aveva smesso di chiedere in giro se qualcuno l’avesse visto.

Che stupido.

Ma adesso? Come doveva procedere di fronte a quella... nuova svolta negli eventi? Si sarebbe occupato di Logan Taibolt, questo era poco ma sicuro, e non si sarebbe fatto cogliere di nuovo con la guardia abbassata. Prima di agire, però, aveva bisogno di informazioni. Dove abitava il tizio, dove lavorava, che luoghi frequentava. Dove poteva sorprenderlo da solo.

Non era così semplice, soprattutto per via del cane. Aveva la sensazione che Taibot e il suo pastore tedesco non si separassero praticamente mai.

Ma avrebbe trovato una soluzione.

Inoltre doveva scoprire che cosa c’era tra Beth e quel tipo. Non gli era giunta voce che lei frequentasse qualche uomo dopo quell’idiota di Adam.

Stentava a credere che uscisse con Taibolt, anche perché era sempre al corrente di quello che combinava Beth. Francamente, poi, non riusciva proprio a immaginarsela con lui. Lei era andata all’università; l’ultima cosa che le interessava nella vita era uno sbandato capitato per caso in città. E che non aveva nemmeno la macchina.

Ma Taibolt era lì con lei un sabato sera, e questo era un segno. Da qualche parte, c’era qualcosa che non capiva. Ci pensò su, chiedendosi se il tipo lavorasse lì al canile... In ogni caso l’avrebbe scoperto facilmente, a quel punto avrebbe sistemato le cose e il signor Logan Taibolt si sarebbe ritrovato a maledire il giorno in cui aveva messo piede nella città dei Clayton. 15 Beth

La domenica fu la giornata più calda di tutta l’estate, con un tasso di umidità altissimo e temperature vertiginose. I laghi del Piedmont avevano iniziato a ritirarsi, nella città di Raleigh l’acqua era stata razionata e nella parte orientale dello stato i raccolti si stavano seccando sotto il sole implacabile. Nelle ultime tre settimane i boschi si erano trasformati in legna da ardere, e sarebbe bastata una cicca di sigaretta lanciata distrattamente oppure un fulmine per incendiarli.

Fuori dalle gabbie con l’aria condizionata i cani soffrivano da morire, e persino Logan cominciava a risentire del caldo. Abbreviò le sedute di allenamento a cinque minuti ciascuna, e quando li portava a spasso la sua meta era sempre il torrente, dove potevano sguazzare nell’acqua per rinfrescarsi. Zeus si era bagnato almeno una decina di volte e, quando Ben aveva cercato di tirargli la palla non appena tornato dalla messa, il cane aveva mostrato solo un tiepido interesse. Allora Ben aveva sistemato un ventilatore sulla veranda indirizzandolo verso di lui e gli si era seduto accanto a leggere L’assassinio di Roger Ackroyd, uno dei pochi romanzi di Agatha Christie che non avesse ancora finito. Scambiò qualche battuta con Logan, poi si immerse nella lettura.

Era il genere di sonnolento pomeriggio domenicale che Beth apprezzava di più, a parte il fatto che tutte le volte che vedeva il livido sul viso del figlio, e gli occhiali malamente aggiustati, provava un impeto di rabbia nei confronti dell’ex marito. L’indomani avrebbe dovuto portare Ben dall’ottico per farglieli sistemare. A dispetto di ciò che aveva affermato, Keith aveva lanciato la palla con troppa forza e lei si chiedeva che genere di uomo potesse fare una cosa del genere a un ragazzino di dieci anni.

Il genere alla Keith Clayton, ovviamente.

Una cosa era aver commesso un errore sposandolo, si disse, tutt’altra dover pagare a vita per quell’unico sbaglio. Il rapporto di Ben con il padre sembrava peggiorare di giorno in giorno. Certo, il bambino aveva bisogno di una figura maschile di riferimento, e Keith era suo padre, tuttavia... A volte pensava di prendere il figlio e andarsene da lì. Stabilirsi in un’altra parte del Paese e ricominciare daccapo. Era facile immaginare che, se solo ne avesse avuto il coraggio, i suoi guai sarebbero finiti. Ma in realtà le cose non stavano così. Il coraggio lei ce l’aveva; era tutto il resto a rendere il progetto irrealizzabile. Persino se Nana fosse stata nella condizione di occuparsi del canile da sola, e non lo era, Keith l’avrebbe rintracciata ovunque. Glielo avrebbe imposto il Vecchio, e il tribunale, dove sedeva il giudice Kendrick Clayton, sarebbe intervenuto. Molto probabilmente Keith avrebbe ottenuto la custodia esclusiva. Se ne sarebbe assicurato lo zio; era questa la minaccia implicita sin dal divorzio, una minaccia che lei doveva prendere sul serio in quella contea. Magari avrebbe potuto ricorrere in appello, ma quanto tempo ci sarebbe voluto? Dodici? Diciotto mesi? Non se la sentiva di abbandonare Ben per quel periodo. E l’ultima cosa che desiderava era che il bambino dovesse andare a vivere con il padre.

La verità era che Keith non voleva la custodia esclusiva, e con il passare degli anni loro due erano giunti a un tacito accòrdo: lui teneva Ben il più raramente possibile, ma abbastanza da soddisfare il Vecchio. Non era giusto da parte loro usare il figlio come una pedina, ma lei non vedeva alternative. Non poteva rischiare di perderlo. Inoltre i soldi degli alimenti pagati da Keith provenivano dal Vecchio, che non avrebbe mai lasciato andare via il bambino.

Alla gente piaceva credere di essere libera di scegliersi la propria vita, però Beth aveva imparato che a volte la scelta era illusoria. Quanto meno a Hampton, dove i Clayton facevano il bello e il cattivo tempo. Il Vecchio era sempre gentile quando lo incontravano in chiesa la domenica mattina, e sebbene da anni fosse interessato a comperare la proprietà di Nana, non aveva mai forzato le cose per costringerle a vendere. Fino a quel momento.

Beth sapeva che tutti i Clayton non esitavano a usare il loro potere quando gli faceva comodo. Ognuno di loro era cresciuto con la convinzione di appartenere a una famiglia speciale – persino eletta – e per questo lei era rimasta stupita la sera prima quando Keith se n’era andato docilmente da casa sua.

Per fortuna c’erano lì Logan e Zeus. Logan aveva gestito benìssimo la situazione, poi aveva avuto anche la sensibiltà di capire che lei voleva restare da sola con suo figlio. Quell’uomo si mostrava sempre calmo e determinato, pensò. Quando gli aveva parlato di Drake, non l’aveva mai interrotta per spostare la conversazione su di sé, né le aveva offerto consigli. Era uno dei motivi per cui Logan le ispirava fiducia, e che l’avevano spinta ad aprirsi. Siccome era il compleanno di Drake, si sentiva un po’ strana e malinconica, ma era perfettamente consapevole di quello che stava facendo. Innnanzitutto era stata lei a chiedergli di restare, e forse in fondo in fondo desiderava condividere con lui le proprie emozioni.

«Mamma?»

Si voltò verso Ben. Il suo occhio aveva ancora un aspetto orribile, ma lei finse di non notarlo. «Che cosa c’è, tesoro?»

«Abbiamo dei sacchi della spazzatura? E delle cannucce?» «Certo.

Perché?»

«Thibault mi insegnerà a costruire un aquilone, poi proveremo a farlo volare.» «Mi sembra un’idea fantastica.»

«Ha detto che da bambino li costruiva spesso, e che volavano benissimo.»

Lei sorrise. «Non ti serve altro materiale?»

«Ho già preso il filo di nylon e il nastro adesivo. Erano nella rimessa del nonno.» Beth scorse Logan dall’altra parte del cortile.

«Ehi, Thibault!» lo chiamò Ben ad alta voce. «Sei pronto?» «Io sì. E tu?» gridò lui di rimando.

«Quasi. Mi mancano solo le cannucce e i sacchi della spazzatura.» Logan fece un cenno d’assenso. A mano a mano che si avvicinava, Beth notò la linea delle spalle, la vita stretta. Non era la prima volta che ammirava il suo fisico, ma si rese conto che ora lo stava fissando... con desiderio. Colta dall’imbarazzo, si voltò e posò una mano sulla spalla di Ben. «I sacchi della spazzatura sono sotto il lavandino e le cannucce nella dispensa, vicino ai biscotti. Riesci a trovarli da solo?» «Certo», rispose Ben. Poi, rivolto a Logan: «Torno tra un secondo». Logan raggiunse i gradini della veranda mentre il bambino entrava in casa.

«Così volete costruire un aquilone?» domandò lei, nel contempo sorpresa e impressionata.

«Ben mi ha detto che si annoiava.»

«Davvero ne sei capace?»

«Non è difficile come sembra. Vuoi aiutarci?»

«No», rispose Beth. Così da vicino, notò che il sudore gli faceva aderire la maglietta al petto, e quella vista la turbò. «Lo lascio fare volentieri a voi due. È una cosa da maschi. Però vi porterò da bere la limonata. E poi, se ti va, puoi fermarti a cena. Niente di che, Ben ha chiesto la pasta e gli hot dog.»

Logan annuì. «Accetto volentieri.»

Il bambino uscì dalla casa, con i sacchetti in una mano e le cannucce nell’altra. Nonostante i lividi e gli occhiali storti, aveva un’aria felice.

«Li ho trovati!» esclamò. «Cominciamo?»

Logan indugiò a guardare Beth negli occhi, e lei si sentì avvampare prima di girare il capo. Lui sorrise a Ben.

«Quando vuoi.»

Beth non poté fare a meno di osservarli mentre costruivano l’aquilone.

Erano seduti al tavolo da picnic accanto alla grande quercia, con Zeus accucciato a terra, e di tanto in tanto il vento portava fin lì il suono delle loro voci: Logan spiegava a Ben che cosa fare, e Ben gli domandava se andava bene così. Chiaramente si stavano godendo il loro piccolo progetto; Ben chiacchierava tutto allegro e, se sbagliava qualcosa, Logan rimediava con un po’ di nastro adesivo.

Quanto tempo era passato da quando lei era arrossita perché un uomo la guardava? Si domandò se questa nuova timidezza fosse dovuta al fatto che Nana era via. Nelle ultime due notti aveva avuto la sensazione di essere finalmente da sola per la prima volta in vita sua. Dopo tutto si era trasferita da casa della nonna a quella di Keith, per poi tornare da Nana. E sebbene apprezzasse la sua compagnia e la stabilità che ciò le assicurava, sentiva il desiderio di condurre un’esistenza diversa, da donna adulta e indipendente.

Dopo la separazione da Keith aveva avuto bisogno di Nana per crescere Ben; poi suo fratello e il nonno erano morti, e loro due avevano dovuto sostenersi a vicenda. Infine, Nana aveva avuto l’ictus, e ora non avrebbe più potuto lasciarla.

In quel momento, tuttavia, aveva davanti a sé l’immagine di come sarebbe stata la sua vita in circostanze diverse. Le starne svolazzavano da un albero all’altro, e lei era seduta da sola sulla veranda ad assistere a una scena che la riconciliava con il mondo. Anche da quella distanza coglieva la concentrazione di Ben mentre Logan gli mostrava come rifinire l’aquilone.

Di tanto in tanto Logan si sporgeva in avanti per dargli qualche indicazione, e il suo atteggiamento paziente e sicuro non toglieva nulla al divertimento del bambino. Il fatto che riuscisse a ottenere dei risultati, correggendo gli errori di Ben senza mai arrabbiarsi né spazientirsi, le fece provare un impeto di gratitudine e affetto nei suoi confronti. Era ancora meravigliata da quel comportamento quando li vide spostarsi al centro del prato. Logan teneva l’aquilone alto sopra la testa mentre Ben svolgeva il filo da pesca. Poi si mise a correre, seguito da Logan che fece prendere vento all’aquilone prima di lasciarlo andare. Logan si fermò, levò lo sguardo al cielo mentre l’aquilone si librava nell’aria e, quando applaudì per la gioia di Ben, lei pensò che era vero... a volte le cose più semplici possono diventare straordinarie se sono fatte assieme alle persone giuste.

Nana telefonò per dire che sarebbe tornata il venerdì successivo, e durante la sua assenza Logan cenò lì tutte le sere. In genere era Ben a pregarlo di rimanere, ma il mercoledì fu chiaro a Beth che, se lui era contento di passare del tempo con loro, era più che felice di lasciare a Be.i l’iniziativa.

Forse, pensò, era inesperto quanto lei nei rapporti sentimentali.

Dopo cena di solito facevano una passeggiata. Ben e Zeus correvano avanti sul sentiero che portava al torrente, mentre lei e Logan li seguivano; una sera si erano diretti in città, fermandosi sulle banchine del South River. A volte parlavano del più e del meno – di quello che era successo sul lavoro, a scuola o al canile – altre volte a lui bastava camminare al suo fianco senza dire molto. Dato che Logan amava stare in silenzio, anche lei piano piano cominciò ad apprezzarlo.

Tra loro, però, stava innegabilmente succedendo qualcosa. Beth si sentiva attratta da lui. A scuola, mentre era circondata dai suoi alunni di seconda, ogni tanto le capitava di pensare a Logan e di chiedersi che cosa stesse facendo in quel momento. Si rese conto che aspettava con ansia il momento di tornare a casa per rivederlo.

Il giovedì sera presero il furgone di Nana e andarono in città a mangiare una pizza. Per quanto potesse apparire assurdo, Beth aveva la sensazione che si trattasse di un appuntamento romantico, sebbene in compagnia di un ragazzino di dieci anni e di un cane.

Con il pavimento di mattonelle consunte, i tavoli da picnic e le pareti rivestite di legno, la pizzeria aveva un’atmosfera intima e famigliare, in parte perché il proprietario non rinnovava l’arredamento da quando Beth era bambina. Nella saletta sul retro i videogiochi a disposizione risalivano all’inizio degli anni Ottanta: Pac-Man, Millipede e Asteroids. Godevano comunque della stessa popolarità di allora, forse per via del fatto che in città non esisteva una sala giochi.

Beth amava molto quel locale. Luigi, il proprietario, e sua moglie Maria, entrambi sulla sessantina, ci lavoravano sette dei giorni su sette e abitavano in un appartamento al piano di sopra. Senza figli, erano genitori adottivi di quasi tutti gli adolescenti in città, e accoglievano chiunque con una disponibilità incondizionata.

Quella sera c’era il solito mix di clienti: famiglie con bambini, due uomini in giacca e cravatta che sembravano appena usciti dallo studio legale lì accanto, qualche coppia piuttosto avanti con gli anni e gruppetti di teenager qua e là. Maria sorrise raggiante vedendo entrare Beth e Ben. Era piccola e tonda, con i capelli scuri e un’espressione amabile. Andò loro incontro prendendo il menu di volata.

«Ciao, Beth. Ciao, Ben.» Passando davanti alla cucina infilò dentro la testa per un attimo. «Luigi! Vieni un po’ a vedere chi c’è.»

Faceva così ogni volta che Beth si recava alla pizzeria e, sebbene lei sapesse che accoglieva tutti con identico affetto, la cosa la faceva sentire comunque speciale.

Luigi si affrettò a uscire dalla cucina. «Che piacere rivederti!» esclamò.

«Sono contento che tu sia venuta a trovarci!»

Maria posò una mano sulla spalla del bambino. «Sei proprio cresciuto, Ben! Ormai sei diventato un ometto. E tu, Beth, sei sempre bella come il sole.»

«Grazie, Maria», rispose lei. «Come stai?»

«Al solito. Non ho un momento di pace. E tu invece insegni ancora, giusto?» «Sì», confermò Beth. Un attimo dopo l’espressione di Maria si fece seria e lei intuì quale sarebbe stata la domanda successiva. Nelle città di provincia niente restava un segreto.

«E come sta Nana?»

«Meglio, grazie. E tornata in piedi e attiva.»

«Sì, ho saputo che è andata a trovare sua sorella.»

«Chi te l’ha detto?» chiese Beth senza riuscire a mascherare la sorpresa.

«Non mi ricordo.» Maria alzò le spalle. «La gente parla, io ascolto.» Parve notare solo in quel momento la presenza di Logan. «E lui chi è?»

«Questo è il mio amico Logan Thibault», rispose Beth sforzandosi di non arrossire.

«Sei nuovo in città? Non ti ho mai visto.» Maria lo esaminò da capo a piedi con evidente curiosità.

«Mi sono appena trasferito qui.»

«Bene, sappi che sei in compagnia dei due miei clienti preferiti.» Fece loro segno di accomodarsi. «Venite, vi trovo un posto in un séparé.» Maria si avviò e posò il menu sul tavolo mentre loro si mettevano a sedere.

«Tè ghiacciato per tutti?»

«Volentieri, grazie, Maria», rispose Beth. Non appena la donna si fu allontanata, si girò verso Logan. «Il suo tè ghiacciato è il migliore della zona. Spero non ti dispiaccia se ho ordinato anche per te.»

«Figurati.»

«Mi dai qualche moneta?» chiese Ben. «Voglio giocare ai videogiochi.»

«Ci avrei scommesso», rispose Beth infilando la mano nella borsa. «Ecco, divertiti», disse. «E non dar retta agli sconosciuti.» «Mamma, ho dieci anni», ribatté lui esasperato. «Mica cinque.» Guardò il figlio dirigersi verso i videogiochi, sorridendo per la sua reazione. A volte si comportava come se frequentasse già le superiori.

«Questo posto è davvero molto caratteristico», osservò Logan.

«E si mangia pure benissimo. Fanno delle pizze che sono la fine del mondo. Come la preferisci?» Lui si grattò il mento. «Mmm... vediamo.

Molto aglio e acciughe extra.» Lei arricciò il naso. «Davvero?»

«Scherzavo. Mi piacciono tutte. Ordina pure quello che prendete di solito.» «A Ben piace la pizza con il salame piccante.»

«Allora vada per quella.»

Lei lo guardò sorridendo. «Te l’ha mai detto nessuno che ti accontenti di poco?» «Ultimamente no», rispose lui. «Ma del resto, non ho avuto occasione di frequentare molta gente mentre camminavo.» «Ti sei mai sentito solo?»

«No, per fortuna avevo Zeus. È un buon ascoltatore.» «Però non può partecipare alla conversazione.»

«Questo è vero, ma non si è mai nemmeno lamentato per la fatica. La maggior parte della gente lo avrebbe fatto.»

«Io no.» Beth si gettò una ciocca di capelli dietro la spalla.

Logan non disse niente.

«Parlo sul serio», protestò lei. «Non avrei avuto nessuna difficoltà ad attraversare a piedi il Paese.» Logan non disse niente.

«E va bene, hai ragione tu. Forse qualche volta mi sarei lamentata.» Lui rise, poi si guardò intorno nel locale. «Quante persone conosci qui dentro?» Lei dette un’occhiata e fece il conto. «Di vista, la maggior parte.

E veramente... forse una trentina.» Lui calcolò che si trattava di più della metà degli avventori. «Che effetto fa?» «Ti riferisci al fatto che tutti si conoscano? Tradimenti, lavori persi, abuso di droghe o di alcol, incidenti d’auto... quelli pesano. In ogni caso se sei come me, un’anima candida come la neve trasportata dal vento, non è poi così faticoso.» Lui sorrise.

«Sei davvero una persona invidiabile.» «Decisamente sì. Fidati. Diciamo solo che puoi ritenerti fortunato a essere seduto al mio tavolo.» «Su questo non ho dubbi», replicò lui.

Maria arrivò con il tè. Prima di andarsene, ammiccò a Beth per farle capire che approvava la scelta di Logan e si aspettava di scoprire in seguito se tra loro ci fosse qualcosa.

Bevvero un sorso.

«Che te ne pare?»

«E molto dolce», rispose Logan. «Però è gustoso.» Beth annuì, poi asciugò la condensa all’esterno del bicchiere con un tovagliolo di carta. «Per quanto tempo hai intenzione di trattenerti a Hampton?» domandò.

«Non capisco.»

«Non sei di queste parti, hai una laurea, fai un lavoro che la maggior parte della gente detesterebbe e fra l’altro per due soldi. Non credo ci sia molto da capire.» «Non ho intenzione di licenziarmi», rispose lui.

«Non è quello che ti ho chiesto. Per quanto tempo intendi restare a Hampton? Rispondi sinceramente.»

Il suo tono non ammetteva scuse, e lui non faticò a immaginarsela mentre ristabiliva l’ordine in una classe di alunni indisciplinati. «Sinceramente?

Non lo so. E lo dico perché negli ultimi cinque anni ho imparato a non dare mai niente per scontato.»

«Sarà anche vero, ma non mi hai ancora risposto.» Lui colse una nota di delusione nella sua voce e cercò di trovare le parole giuste. «Senti questo», disse alla fine. «Per ora qui sto bene. Mi piace il mio lavoro, mi piace un sacco Nana, mi piace stare con Ben, e al momento non ho intenzione di lasciare Hampton nell’immediato futuro. Ti basta come risposta?» Beth provò un brivido di eccitazione per il modo in cui i suoi occhi le scrutavano il volto mentre parlava. Si sporse in avanti a sua volta. «Mi pare che tu abbia tralasciato qualcosa d’importante nel tuo elenco di cose che ti piacciono.» «E sarebbe?»

«Me.» Lo fissò in attesa di una reazione, le labbra curvate in un sorrisetto malizioso.

«Devo essermene dimenticato», replicò lui abbozzando un sorriso.

«Non credo.»

«Sono timido.»

«Ritenta.»

Lui scrollò il capo. «Sono a corto di idee.»

Lei lo guardò ammiccando. «Ti darò l’opportunità di pensarci, e forse ti verrà in mente qualcosa. Possiamo riparlarne in seguito.»

«Mi sembra giusto. Quando?»

Lei strinse le mani intorno al bicchiere, assalita da uno strano nervosismo. «Sei libero sabato sera?» Non riuscì a capire se la sua richiesta l’avesse colto di sorpresa.

«Sabato sera va benissimo.» Lui sollevò il bicchiere e bevve una lunga sorsata di tè ghiacciato, senza mai smettere di guardarla.

Nessuno dei due notò che Ben era tornato al tavolo.

«Avete già ordinato la pizza?»

Sdraiata a letto quella sera, Beth fissava il soffitto chiedendosi che diavolo le avesse preso.

C’erano tante buone ragioni per evitare di fare quello che aveva fatto. Non conosceva ancora bene né lui né il suo passato. Quell’uomo continuava a tenerle nascosta la ragione che lo aveva portato a Hampton, perciò non si fidava di lei, di conseguenza nemmeno lei si fidava. E c’era dell’altro: lui lavorava al canile... per Nana e nelle immediate vicinanze di casa. Che cosa sarebbe successo se tra loro non avesse funzionato? E se lui avesse avuto... delle aspettative che lei non era disposta a soddisfare? Sarebbe tornato al lavoro il lunedì? Oppure Nana si sarebbe ritrovata di nuovo tutto sulle sue spalle? Così lei sarebbe stata costretta a lasciare l’insegnamento per aiutarla.

Tutta la faccenda presentava un sacco di potenziali problemi, e più ci pensava, più si convinceva di aver commesso un terribile errore. Eppure... era stanca di stare da sola. Amava suo figlio e amava anche Nana, ma il tempo passato con Logan negli ultimi giorni le aveva fatto tornare in mente ciò che si stava perdendo. Le piacevano le loro passeggiate dopo cena, le piaceva il modo in cui lui la guardava, e soprattutto le piaceva il suo rapporto con Ben.

Inoltre, le risultava ridicolmente facile immaginarsi a vivere con Logan.

Sapeva di non avere elementi sufficienti per poter dare un simile giudizio, ma non poteva negare quanto le suggeriva l’istinto.

Possibile che fosse lui quello giusto?

Non era il caso di spingersi tanto in là, si disse. Finora non avevano neppure avuto un vero e proprio appuntamento. Era facile idealizzare qualcuno che si conosceva appena.

Si mise a sedere, sprimacciò il cuscino, poi tornò a coricarsi. Sarebbero usciti da soli una volta per vedere come andava. Non poteva negare di nutrire delle speranze, però la cosa finiva lì. Lui le piaceva, ma di sicuro non lo amava. Almeno non ancora. 16 Thibault

Il sabato sera Thibault era seduto sul divano a chiedersi se stesse facendo la cosa giusta.

In un altro luogo e in un altro momento non avrebbe avuto dubbi. Si sentiva attratto da Elizabeth, questo era sicuro. Gli piacevano la sua schiettezza e la sua intelligenza, il suo vivace senso dell’umorismo e naturalmente il suo aspetto, e non riusciva proprio a immaginare come mai fosse rimasta single per tanto tempo. Ma non era in un altro luogo e un altro momento, e non c’era niente di normale in quella situazione. Aveva tenuto con sé la sua foto per più di cinque anni. Aveva attraversato il Paese per cercarla. Era arrivato a Hampton e aveva accettato un lavoro che gli permettesse di starle vicino. Aveva fatto amicizia con sua nonna, suo figlio, e poi con lei. E adesso mancavano pochi minuti al loro primo appuntamento romantico.

Lui era arrivato lì per un motivo preciso, si disse, quello che lo aveva spinto a partire dal Colorado. Alla fine aveva seguito il consiglio di Victor.

Tuttavia, non era ancora sicuro che incontrarla – entrare nella sua vita – fosse giusto. E neppure che non lo fosse.

Sapeva soltanto che non vedeva l’ora di trascorrere una serata da solo con lei. Il giorno prima ci aveva pensato incessantemente durante il viaggio per andare a prendere Nana. Al ritorno, la donna aveva chiacchierato di tutto, dalla politica alla salute della sorella, poi lo aveva guardato ammiccando.

«Sicché uscirai con la nipote del boss, eh?»

Thibault si agitò sul sedile. «Te l’ha detto.»

«Naturale. Comunque era inevitabile che prima o poi accadesse. Due giovani belli e soli? Lo prevedevo già quando ti ho assunto.» Thibault rimase in silenzio, e Nana proseguì con la voce velata di malinconia.

«È dolce come un melone maturo», disse. «A volte sto in ansia per lei.»

«Lo so», rispose Thibault.

Il loro dialogo si era chiuso lì, ma tanto era bastato per fargli capire che aveva la benedizione di Nana, una persona che contava molto nella vita di Elizabeth.

Ora, mentre calava la sera, scorse dalla finestra la sua auto che risaliva il vialetto, sobbalzando sulle buche. Lei non gli aveva detto dove sarebbero andati, solo che non doveva preoccuparsi di vestirsi in modo formale.

Thibault uscì sulla veranda, seguito da Zeus. Quando Elizabeth scese dalla macchina, rimase incantato dalla sua bellezza.

Indossava i jeans e una camicetta crema che metteva in risalto la pelle abbronzata. I capelli color miele le sfioravano la scollatura e, alla fioca luce della veranda, lui notò che si era truccata con un filo di mascara.

Aveva un’aria allo stesso tempo naturale e misteriosamente seducente.

Il cane le andò incontro scodinzolando.

«Ciao, Zeus. Ti sono mancata? È passato solo un giorno.» Lo accarezzò e Zeus mugolò, prima di leccarle le mani. «Che accoglienza affettuosa», disse lei, alzando gli occhi su Thibault. «Come va? Sono in ritardo?»

Lui si sforzò di assumere un tono disinvolto. «Bene», rispose. «Sei in perfetto orario. Sono felice che tu ce l’abbia fatta ad arrivare.»

«Pensavi non ci sarei riuscita?»

«Il posto non è facile da trovare.»

«Dimentichi che questa è la mia terra.» Indicò la casa. «Allora è qui che abiti?» «Esatto.»

«È carino», commentò lei guardandosi intorno. «È quello che ti aspettavi?»

«Direi di sì. Una casa solida. Essenziale. Un po’ appartata.» Lui sorrise, poi ordinò a Zeus di tornare sulla veranda e di rimanere lì.

Scese i gradini e la raggiunse.

«Ti fidi a lasciarlo lì fuori?» gli domandò lei.

«Stai tranquilla. Non si muoverà.»

«Ma staremo via ore.»

«Lo so.»

«È incredibile.»

«I cani non hanno il senso del tempo. Nel giro di un minuto non ricorderà più niente, se non il fatto che deve restare lì. Ma senza sapere il perché.»

«Dove hai imparato tutte queste cose sull’addestramento dei cani?» domandò Elizabeth incuriosita.

«In gran parte dai libri.»

«Ti piace leggere?»

«Sì. Ti sorprende?» chiese lui divertito.

«In effetti, sì. Non è facile portarsi dietro libri quando si attraversa a piedi il Paese.» «Basta lasciarli da qualche parte dopo aver finito di leggerli.»

Raggiunsero la macchina, e Thibault le aprì la portiera. Elizabeth scosse il capo. «Ti ho invitato io, ma preferisco che sia tu a guidare», disse.

«E io che pensavo di uscire con una donna emancipata», protestò lui.

«Io sono una donna emancipata. Però guiderai tu. E pagherai anche il conto.» Lui rise e l’accompagnò sull’altro lato della macchina. Una volta saliti, lei lanciò un’occhiata verso la veranda. Zeus appariva confuso e lo sentì mugolare di nuovo.

«Mi sembra triste.»

«Probabilmente lo è. Ci separiamo raramente.»

«Sei cattivo», lo rimproverò lei in tono scherzoso.

Lui sorrise e ingranò la retromarcia. «Devo andare verso il centro?» «No, stasera andiamo fuori città. Prendi l’autostrada e dirigiti verso la costa.

Non arriveremo fino alla spiaggia, ma c’è un bel locale poco prima. Ti dico io quando devi svoltare.» Thibault seguì le sue indicazioni, inoltrandosi nella campagna alla luce del tramonto. Nel giro di pochi minuti raggiunsero l’autostrada; mentre l’auto prendeva velocità, gli alberi ai bordi della strada gettavano ombre scure nell’abitacolo.

«Parlami di Zeus», disse lei.

«Che cosa vuoi sapere?»

«Perché hai preso proprio un pastore tedesco?»

Avrebbe potuto dirle: Perché una donna in una foto ne aveva uno, ma non lo fece. «L’ho comperato in Germania», raccontò invece. «Sono andato a sceglierlo dalla cucciolata.»

«Sul serio?»

Lui annuì. «In Germania il cane da pastore è una specie di simbolo nazionale, come l’aquila calva in America, e lì gli allevatori prendono molto sul serio il loro lavoro. Io volevo un cane robusto e intelligente, e Zeus proviene da una lunga linea di campioni di Schutzhund.»

«Che cos’è lo Schutzhund?»

«Una serie di ‘test di efficienza’ in cui vengono valutate le caratteristiche fisiche e caratteriali dei cani ai fini dell’allevamento e della riproduzione. È una specie di gara che dura due giorni e comprende prove di vario genere. Visto il suo pedigree, Zeus è stato selezionato come cane sia da difesa sia da ricerca.»

«Ti sei occupato personalmente del suo addestramento», osservò lei in tono ammirato.

«Da quando aveva sei mesi. E, mentre venivamo qui dal Colorado, ho lavorato con lui ogni giorno.»

«Zeus è straordinario. Puoi sempre darlo a Ben, se vuoi. Gli piacerebbe molto.» Thibault non rispose.

Elizabeth notò la sua espressione e si sporse verso di lui. «Scherzavo. So quando sei legato al tuo cane.»

Thibault avvertì il calore del suo corpo contro il fianco. «Se non sono troppo indiscreto, qual è stata la reazione di Ben quando ha saputo che stasera uscivi con me?» chiese.

«Non ha fatto una piega. Lui e Nana avevavo già noleggiato le videocassette per passare la serata a guardare film insieme.»

«Lo fanno spesso?»

«Un tempo sì, ma questa è la prima volta da quando Nana si è sentita male.

Ben ci teneva tanto. Lei prepara il popcorn e gli permette di restare alzato fino a tardi.»

«Al contrario di sua madre.»

«Naturalmente.» Sorrise. «Che cosa hai fatto di bello oggi?» «Ho dato una sistemata alla casa... le pulizie, il bucato, la spesa, quel genere di cose.»

«Notevole. Sei davvero un animale domestico. Tendi le lenzuola così bene che dopo si può far rimbalzare una monetina sul letto, vero?» «Certo.»

«Devi insegnarlo a Ben.» «Con piacere.»

Fuori cominciavano a spuntare le prime stelle e i fari della macchina illuminavano le svolte della strada.

«Dove siamo diretti esattamente?» domandò Thibault.

«Ti piacciono i crostacei?»

«Li adoro.»

«Perfetto. Un ottimo inizio. E lo shag dancing}»

«Non so neppure cosa sia.»

«Mah, diciamo solo che dovrai imparare in fretta.» Quaranta minuti dopo Thibault si trovò di fronte a un magazzino. Elizabeth lo aveva indirizzato verso la zona industriale di Wilmington, poi avevano parcheggiato davanti a un edificio a tre piani con un rivestimento di vecchie assi. Non era molto diverso dalle costruzioni circostanti, a parte un centinaio di macchine parcheggiate nello spiazzo e una stretta passerella di legno che correva tutt’intorno, decorata con semplici fili di luci natalizie bianche.

«Come si chiama questo posto?»

«Shagging for Crabs.»

«Originale. Ma fatico a immaginarmelo come una vera e propria attrazione turistica.» «Infatti non lo è. È riservato esclusivamente alla gente del posto.

Me ne ha parlato una mia amica dell’università, e mi è venuta voglia di venirci.» «Non ci sei mai stata prima?»

«No», rispose lei. «Però pare sia divertente.»

Detto questo, si incamminò verso la passerella scricchiolante. Davanti a loro il fiume scintillava come se fosse illuminato da sotto. Il rumore della musica che proveniva dall’interno era sempre più forte. Quando aprirono la porta, li investì come un’ondata, assieme all’aroma di crostacei e di burro. Thibault si fermò un istante a osservare la scena.

L’ampio salone era nudo e disadorno. Nella parte anteriore si vedevano decine di tavoli da picnic con tovaglie di plastica bianche e rosse. Erano tutti occupati, e su ognuno c’era un secchio pieno di granchi, piccole brocche con il burro fuso e delle scodelle. I commensali avevano bavaglioni di plastica, prendevano i granchi dal secchio in comune e mangiavano con le dita. La birra sembrava l’unica bevanda disponibile.

In fondo, sul lato che dava sul fiume, scorse il bancone di un bar, sempre ammesso che lo si potesse definire tale. Non era altro che un tavolaccio di legno grezzo appoggiato su barili di legno. La gente si affollava lì intorno.

Sul fianco del locale c’era la cucina. La cosa che lo colpì più di tutto fu il palco sistemato dalla parte opposta della sala, dove una band suonava My Girl dei Temptations. Almeno un centinaio di persone si agitava sulla pista davanti al palco, seguendo i passi prestabiliti di un ballo a lui sconosciuto.

«Uau», esclamò Thibault sopra il frastuono.

Una donna esile sulla quarantina con i capelli rossi e il grembiule si avvicinò. «Salve», li salutò con voce strascicata. «Volete mangiare o ballare?»

«Entrambe le cose», rispose Elizabeth.

«I vostri nomi?»

Loro due si scambiarono un’occhiata. «Elizabeth...» disse lui.

«E Logan», aggiunse lei.

La donna annotò i nomi su un taccuino. «L’ultima domanda. Chiasso o famiglia?» Elizabeth la guardò sconcertata. «Come, scusi?»

La donna fece un palloncino con la gomma da masticare. «È la prima volta che venite qui, vero?» «Sì.»

«Allora funziona così. Dovete condividere il tavolo. È la regola della casa. E potete scegliere tra chiasso, cioè un tavolo con un sacco di energia, e famiglia, che in genere è un po’ più tranquillo. Certo, io non posso garantirvi come sarà il vostro tavolo, vi chiedo solo cosa preferite. Quindi, chiasso o famiglia?»

Elizabeth e Thibault si scambiarono di nuovo un’occhiata e giunsero alla medesima conclusione.

«Chiasso», risposero insieme.

Finirono a un tavolo con sei studenti universitari di Wilmington. La cameriera li presentò come Matt, Sarah, Tim, Allison, Megan e Steve, e loro alzarono le bottiglie di birra in segno di saluto, esclamando: «Ciao, Elizabeth! Ciao, Logan! Che granchi ci siamo fatti!»

Thibault trattenne una risata - «granchio» era un modo gergale per indicare un’esperienza sessuale indescrivibile – ma poi rimase sconcertato quando vide che gli altri lo guardavano pieni di aspettativa.

La cameriera gli venne in aiuto. «Devi rispondere: ‘Anche noi vogliamo i granchi, soprattutto se possiamo farceli con voi’.»

A questo punto Thibault scoppiò a ridere, imitato da Elizabeth, poi pronunciarono insieme le parole di quel rituale.

Si sedettero l’uno di fronte all’altra. Elizabeth si mise accanto a Steve, che non fece nulla per nascondere il fatto che la trovava decisamente attraente, mentre Thibault si accomodò vicino a Megan, che non dimostrò il benché minimo interesse nei suoi confronti, essendo molto più attratta da Matt.

Una cameriera grassottella e scapigliata passò di corsa davanti al loro tavolo, chiedendo: «Ancora granchi?»

«Quando vuoi, bellezza», replicarono in coro gli studenti. Tutt’intorno Thibault sentì risuonare la stessa risposta. Esisteva anche l’alternativa:

«Non posso credere che tu mi dia dei granchi», per significare che non ne servivano più.

Il cibo era di prima qualità. Il menu prevedeva un solo piatto preparato in un solo modo, e ogni secchio era servito con tovaglioli e bavaglioni extra.

Gli avanzi venivano gettati al centro del tavolo – anche questa era una tradizione – e di tanto in tanto alcuni ragazzi con il grembiule arrivavano per spazzarli via.

Come previsto, gli studenti erano molto chiassosi. Una sequela ininterrotta di battute scherzose, un sacco di innocente interesse per Elizabeth e due birre ciascuno contribuirono a metterli di buonumore. Dopo cena Thibault ed Elizabeth andarono a ripulirsi alla toilette. Quando lei uscì, lo prese sottobraccio.

«Sei pronto a scuoterti in uno shagì» domandò allusiva.

«Non ne sono tanto sicuro. Come si fa?»

«Imparare a ballare lo shag è come imparare a essere del Sud. A rilassarsi ascoltando l’oceano e sentendo la musica.»

«Mi pare di capire che tu lo abbia già fatto in passato.» «Un paio di volte», rispose lei con falsa modestia.

«M’insegnerai?»

«Sarò la tua partner. Ma la lezione comincia alle nove.» «La lezione?»

«Ogni sabato sera. Per questo c’è tanta gente. Fanno una lezione per i principianti mentre gli altri prendono fiato, e noi seguiremo le loro indicazioni.»

«Che ore sono adesso?»

Lei guardò l’orologio. «È ora di imparare lo shag.» Elizabeth ballava molto meglio di quanto avesse lasciato intendere, e questo fortunatamente fece fare anche a lui una bella figura in pista. Ma la parte più interessante era quella specie di scarica elettrica che provava tutte le volte che si toccavano, e la fragranza che sentiva quando la faceva girare tenendola per mano, un misto di calore e profumo. Con i capelli arricciati dall’umidità e la pelle lucida di sudore, lei aveva un’aria naturale e indomita. Di tanto in tanto gli lanciava un’occhiata, le labbra socchiuse in un sorriso ammiccante, come se si rendesse perfettamente conto dell’effetto che gli faceva. Quando i musicisti decisero di prendersi una pausa, il suo primo impulso fu di lasciare la pista con gli altri, ma Elizabeth lo bloccò mentre dagli altoparlanti si diffondevano le note iniziali di Unforgettable di Nat King Cole. Lo guardò negli occhi, e lui seppe cosa fare.

Senza parlare, la cinse in vita con un braccio, le prese la mano e l’avvicinò a sé continuando a sostenere il suo sguardo, poi piano piano iniziarono a muoversi a ritmo con la musica, girando in tondo.

Thibault si rese conto vagamente delle coppie che li raggiungevano sulla pista da ballo. Mentre la musica suonava in sottofondo Elizabeth si lasciò andare contro di lui, che riusciva a sentire il suo lento e languido respiro.

Chiuse gli occhi mentre lei gli appoggiava la testa sulla spalla, e in quel momento nient’altro aveva importanza. Né la canzone, né il locale, né le altre coppie intorno a loro. Soltanto lei. Si abbandonò alla sensazione del suo corpo premuto contro il proprio, e continuarono a girare lentamente sul pavimento cosparso di segatura, persi in un mondo che sembrava creato apposta per loro due.

Mentre tornavano indietro in silenzio per le strade buie Thibault le teneva la mano e lei gli accarezzava piano la pelle con il pollice. Imboccando il vialetto di casa poco prima delle undici, lui vide che Zeus era ancora sdraiato in veranda. Fermò la macchina e si voltò a guardarla.

«È stata una bellissima serata», mormorò. Si aspettava che lei gli dicesse lo stesso, invece rimase sorpreso dalle sue parole.

«Non vuoi invitarmi a entrare?» suggerì.

«Sì», rispose lui semplicemente.

Zeus si mise a sedere quando Thibault aprì la portiera a Elizabeth e si alzò in piedi quando lei scese. Cominciò a scodinzolare.

«Ciao, Zeus», lo salutò lei.

«Vieni», ordinò Thibault, e il cane scese i gradini a grandi balzi correndo verso di loro. Si mise a saltellare, lanciando guaiti di gioia. Con la bocca semiaperta in una specie di sorriso, si lasciò coccolare.

«Gli siamo mancati», disse Elizabeth accovacciandosi. «Non è forse così, bel cagnone?» Zeus la leccò in faccia. Lei si rialzò arricciando il naso, poi si pulì il viso. «Che maleducazione.»

«Non per lui.» Thibault indicò la casa. «Sei pronta? Però ti avverto: non aspettarti granché.» «Ce l’hai una birra in fresco?»

«Sì.»

«Allora non c’è da preoccuparsi.»

S’incamminarono insieme verso la porta d’ingresso. Thibault l’aprì e girò l’interruttore: una lampada a stelo gettò un alone fioco su una poltrona vicino alla finestra. Al centro della stanza c’era un tavolino basso con sopra due candele, di fronte a un divano a due posti. Sia il divano sia la poltrona erano ricoperti con dei teli blu scuro. Una piccola libreria con qualche libro era appoggiata contro la parete. Un portariviste vuoto e un’altra lampada a stelo completavano l’arredamento.

La pulizia, però, era impeccabile. Thibault aveva provveduto quel giorno a passare lo straccio sul pavimento di legno, pulire i vetri e spolverare la stanza. Non gli piaceva il disordine e odiava la sporcizia. La sabbia che s’infilava dappertutto in Iraq aveva soltanto rafforzato questa sua inclinazione alla pulizia.

Elizabeth diede un’occhiata in giro prima di entrare nel salotto.

«Mi piace», disse. «Dove hai trovato i mobili?»

«Erano già qui», rispose lui.

«Il che spiega le coperture di stoffa.»

«Esattamente.»

«Niente televisore?»

«No.» «Niente radio?»

«No.»

«Come passi il tempo quando sei a casa?»

«Dormendo.»

«E poi?»

«Leggendo.»

«Romanzi?»

«No», rispose lui, poi ci ripensò. «Veramente qualcuno sì. Ma in genere biografie e libri di storia.» «Nessun testo di antropologia?»

«Ho un libro di Richard Leakey», disse lui. «Ma non mi piacciono i pesanti saggi che sembrano andare per la maggiore di questi tempi, e comunque non sono facilmente reperibili in un posto come Hampton.»

Lei fece un giro per la stanza, accarezzando la copertura del divano. «Che cosa ha scritto?» «Chi? Leakey?»

Lei sorrise. «Sì.»

Thibault si sforzò di dare una risposta sintetica. «Il libro di Leakey tratta principalmente delle conseguenze di una somma di fattori sulla storia evolutiva dell’uomo moderno, dando particolare enfasi all’influenza esercitata dalla creazione di utensili e armi sull’evoluzione dell’Homo sapiens.»

Lei non riuscì a trattenere una risata, ma lui capì che era rimasta colpita dalla sua spiegazione.

«Che ne diresti di quella birra?» chiese.

«Torno subito», rispose lui. «Fa’ come se fossi a casa tua.» Ricomparve poco dopo con due bottiglie e una scatola di fiammiferi. Elizabeth si era seduta sul divano; lui le porse una birra e si mise accanto a lei, posando i fiammiferi sul tavolino.

Elizabeth li prese e ne accese uno, guardando la fiammella guizzare di vita.

Con un gesto fluido l’avvicinò agli stoppini, accese le candele e soffiò sul fiammifero.

Thibault si alzò per spegnere la lampada. Quando tornò a sedersi, si mise più vicino a lei e la osservò mentre fissava le candele, il volto per metà in ombra. Bevve un sorso di birra, domandandosi a che cosa stesse pensando.

«Sai quando è stata l’ultima volta che mi sono trovata in compagnia di un uomo a lume di candela?» gli chiese Elizabeth, voltandosi a guardarlo.

«No», rispose lui.

«È una domanda trabocchetto. La risposta è: mai.» Aveva un’aria stupita.

«Non è strano? Sono stata sposata, ho un figlio, e una cosa del genere non mi era mai capitata.» Esitò. «Se vuoi sapere la verità, è la prima volta che vado a casa di un uomo da quando ho divorziato.» Sembrava quasi intimidita.

«Dimmi una cosa», riprese, il viso a pochi centimetri dal suo. «Mi avresti invitata a entrare se non te lo avessi proposto io? Voglio una risposta sincera. Se menti, me ne accorgerò.»

Thibault posò la bottiglia che teneva in mano. «Non lo so.» «Perché no?»

Lo incalzò lei. «Che cosa c’è in me che...» «Non ha niente a che fare con te», la interruppe lui.

«La cosa riguarda piuttosto Nana e quello che potrebbe pensare.» «Perché è il tuo capo?»

«Perché è tua nonna. Perché la rispetto. Ma, soprattutto, perché rispetto te.

È stata una serata magnifica. Non ricordo di aver trascorso un momento altrettanto bello con qualcuno negli ultimi cinque anni.» «Però non mi avresti chiesto di entrare.» Elizabeth sembrava sconcertata.

«Non ho detto questo. Solo che non lo sapevo.»

«Il che equivale a un no.»

«Stavo cercando un modo per farlo senza offenderti, ma tu mi hai battuto sul tempo. Comunque, se vuoi sapere se desideravo invitarti, allora la risposta è sì.»

Le diede un colpetto con il ginocchio. «Da cosa deriva tutto questo turbamento?» «Diciamo che finora non ho avuto molta fortuna con gli uomini.» Thibault alzò un braccio, e lei appoggiò la testa contro la sua spalla.

«Dapprincipio non ci ho fatto caso», continuò, «ero così impegnata con Ben e la scuola da non avere tempo per pensare ad altro. Poi, notando che continuava a succedere, cominciai a chiedermi se non dipendesse da me.

Mi comportavo male? Non prestavo abbastanza attenzione? Avevo un odore cattivo?» Cercò di sorridere, ma non riuscì a mascherare la tristezza.

«Ogni tanto mi capitava qualcuno con cui mi sembrava di andare d’accordo, poi all’improvviso lui non si faceva più sentire. Non solo smetteva di telefonarmi, ma se ci incontravamo per caso qualche tempo dopo, mi evitava come se avessi la peste. Non riuscivo proprio a capirlo, e questo mi preoccupava. Mi umiliava. Con il tempo è diventato sempre più difficile dare la colpa agli altri, e alla fine mi sono convinta che c’è qualcosa di sbagliato in me. Forse è destino che io debba trascorrere la vita da sola.»

«Non c’è niente di sbagliato in te», rispose lui, stringendole il braccio per infonderle sicurezza.

«Prova a cercare. Sono certa che alla fine lo troverai.» Thibault avvertì tutta la sofferenza dietro quella battuta di spirito. «No», affermò. «Non penso sia possibile.» «Come sei tenero.»

«Sono sincero.»

Gli sorrise e bevve un sorso di birra. «Quasi sempre.» «Non credi che io sia sincero?» Lei alzò le spalle. «Come ho detto, quasi sempre.» «E questo cosa significa?»

Lei posò la bottiglia sul tavolino e radunò le idee. «Ti considero un uomo fantastico. Sei intelligente, ti impegni nel lavoro, sei gentile, e sei bravissimo con Ben. Questo lo so, o almeno credo di saperlo, perché lo vedo. Ma è quello che non so a lasciarmi qualche dubbio su di te. Mi ripeto che ti conosco, però se ci penso mi rendo conto che non è così. Che tipo eri all’università? Che cosa hai fatto dopo? Non lo so. So che sei stato in Iraq e che sei venuto fin qui a piedi dal Colorado, ma non so per quale motivo. Quando te lo chiedo, tu rispondi soltanto: ‘Hampton mi sembra un bel posto’. Sei colto e hai una laurea, ma ti accontenti di lavorare per il salario minimo. E se ti chiedo perché, tu rispondi che ti piacciono i cani.»

Si passò una mano tra i capelli. «In effetti penso che tu mi stia dicendo la verità. Solo che non la dici tutta. E la parte che tralasci è proprio quella che mi aiuterebbe a capire che tipo sei.»

Ascoltandola, Thibault cercò di non pensare alle altre cose che non le aveva detto. Non se la sentiva di rivelarle tutto, Elizabeth non gli avrebbe mai creduto, eppure... voleva che sapesse chi era veramente. Soprattutto, si rese conto che voleva essere accettato da lei.

«Se non parlo dell’Iraq è perché non mi piace ricordare quel periodo della mia vita», esordì.

«Non sei costretto a raccontarmelo, se preferisci...» «Voglio farlo», la interruppe lui con voce pacata. «So che leggi i giornali, quindi ti sarai fatta un’idea. Ma la realtà è molto diversa, e non esiste un modo per fartela capire. È qualcosa che devi aver vissuto in prima persona. Voglio dire, per la maggior parte del tempo la situazione non era così negativa come forse puoi pensare. Molto spesso, quasi sempre, non c’erano grandi difficoltà.

Per me, anzi, era più facile che per gli altri, dato che non avevo né moglie né figli. Avevo i miei amici, la mia routine. Eseguivo gli ordini. Ma a volte era dura. Molto dura. Talmente dura da farmi desiderare di dimenticare di essere mai stato lì.» Lei rimase in silenzio, poi fece un profondo respiro.

«E adesso sei qui a Hampton per via di ciò che accadde in Iraq?» Lui staccò lentamente l’etichetta dalla bottiglia, grattando il vetro con l’unghia.

«In un certo senso, sì», rispose.

Elizabeth percepì la sua esitazione e gli posò una mano sul braccio. Fu come se il calore delle sue dita sciogliesse un nodo dentro di lui.

«Victor era il mio migliore amico in Iraq», cominciò a raccontare Thibault.

«Era con me durante tutt’e tre le missioni. La nostra unità subì molte perdite, e alla fine mi sentii pronto a lasciarmi alle spalle quell’esperienza.

In effetti ci riuscii, in gran parte, ma per Victor non fu altrettanto facile.

Continuava a pensarci. Una volta congedati ciascuno andò per la sua strada, e tentammo di reinserirci nella società civile. Lui tornò a casa sua in California, io tornai in Colorado, ma sai una cosa? Avevamo ancora bisogno l’uno dell’altro. Ci sentivamo per telefono, ci scrivevamo e-mail in cui fingevamo entrambi di non trovare niente di strano nel fatto che, mentre noi avevamo trascorso gli ultimi quattro anni rischiando ogni giorno la vita, qui la gente si comportava come se fosse la fine del mondo se gli fregavano il posto al parcheggio, o se il caffè al bar non era abbastanza caldo. Alla fine, organizzammo una battuta di pesca insieme nel Minnesota...»

S’interruppe, restio a ricordare ciò che era successo. Bevve una lunga sorsata di birra e posò la bottiglia sul tavolino prima di continuare.

«Era l’autunno scorso e... io ero davvero felicissimo di vederlo. Non parlammo delle missioni in Iraq, non ce n’era bisogno. Per entrambi era sufficiente passare qualche giorno con qualcuno che aveva vissuto le tue stesse esperienze. Victor all’epoca stava abbastanza bene. Non aveva ancora superato del tutto il trauma, ma ci stava provando. Si era sposato, sua moglie stava per avere un bambino e ricordo di aver pensato che, sebbene fosse ancora tormentato da incubi e visioni, piano piano avrebbe ritrovato la serenità.»

La guardò con un’espressione angosciata.

«L’ultimo giorno andammo a pesca di mattina presto. C’eravamo solo noi due sulla nostra barchetta a remi e, quando ci spingemmo al largo, le acque del lago erano lisce come il vetro, dato che eravamo i primi a solcarle.

Tutto intorno a noi era tranquillo, a un certo punto un falco volò sopra la nostra testa, e io osservai pieno di meraviglia la sua immagine riflessa scivolare sull’acqua...» Si fermò, assorto in quel ricordo. «Volevamo finire di pescare prima che arrivasse troppa gente; più tardi saremmo andati in città a mangiarci una bella bistecca. Una piccola festicciola per celebrare la fine della nostra vacanza. Ma per qualche motivo non ci accorgemmo del passare del tempo e finimmo per restare fuori troppo a lungo.»

Cominciò a massaggiarsi la fronte, cercando di mantenere un contegno.

«Avevo già visto quell’imbarcazione. Non so perché avessi notato proprio quella. Forse dipendeva dalla mia esperienza in Iraq, ma pensai che dovevo tenerla d’occhio. Però era strano. Non faceva niente di diverso dalle altre barche sul lago. A bordo c’era un gruppo di adolescenti che si divertivano: sci d’acqua, immersioni. Erano in sei, tre maschi e tre femmine, e si capiva che volevano approfittare di quelle ultime giornate di caldo e di bel tempo.»

Quando riprese a parlare aveva la voce arrochita. «La sentii avvicinarsi», disse, «e capii subito che eravamo nei guai. Una barca lanciata a tutta velocità nella tua direzione fa un rombo particolare. E come se il rumore del motore restasse indietro per un millesimo di secondo e solo il tuo inconscio lo percepisse. Voltai la testa giusto in tempo per vedere la prua venirci addosso a cinquanta chilometri l’ora.» Unì le mani premendo i polpastrelli tra di loro. «Anche Victor si accorse di quanto stava accadendo, e ricordo ancora la sua espressione... un terribile misto di paura e stupore... la stessa che avevo visto sulla faccia dei miei amici in Iraq appena prima che morissimo.»

Fece un lento sospiro. «L’imbarcazione tagliò lo scafo a metà. Colpì Victor alla testa uccidendolo sul colpo. Un attimo prima stavamo parlando di quanto lui fosse felice di essersi sposato e quello dopo il mio amico, il miglior amico che abbia mai avuto, era morto.»

Elizabeth gli posò la mano sul ginocchio e lo strinse. Era impallidita. «Mi dispiace tanto...» Lui non parve sentirla.

«Non è giusto, capisci? Sopravvivere a tre missioni in Iraq, alle peggiori battaglie... e poi finire ammazzati durante una battuta di pesca. Non ha senso. Dopo di allora, non so, ero molto provato. Non fisicamente, ma mentalmente. Era come se fossi precipitato in un abisso senza fine. Mi lasciai andare. Non mangiavo, dormivo al massimo qualche ora per notte, e a volte non riuscivo a smettere di piangere. Victor mi aveva raccontato di essere tormentato da visioni di soldati morti, e cominciai a vederli anch’io.

Tutto d’un tratto la guerra era tornata in primo piano. Ogni volta che cercavo di addormentarmi, vedevo Victor oppure scene degli scontri a cui avevamo partecipato, e cominciavo a tremare come una foglia. L’unica cosa che mi impedì di andare completamente fuori di testa fu Zeus.»

Si girò a guardare Elizabeth. Nonostante i ricordi, rimase colpito dalla bellezza dei suoi lineamenti e dalla massa dorata dei suoi capelli.

Il viso di lei esprimeva compassione. «Non so che cosa dire. » «Neanch’io.

Non riesco a farmene una ragione.»

«Sai che non è stata colpa tua, vero?»

«Certo», borbottò lui. «Ma non è finita qui.» Posò una mano sulla sua, consapevole di essersi spinto troppo in là nel racconto per potersi fermare.

«A Victor piaceva parlare del destino», riprese infine. «Credeva profondamente in quel genere di cose, e il nostro ultimo giorno di vacanza mi disse che avrei riconosciuto il mio destino quando l’avessi incontrato.

Non riuscivo a smettere di pensarci, mentre soffrivo per lui. Continuavo a sentirglielo ripetere e a poco a poco, pur non sapendo dove cercarlo, mi resi conto che il mio destino non era in Colorado. Alla fine preparai lo zaino e mi misi in cammino. Mia madre credeva fossi impazzito. Ma a ogni passo che facevo lungo la strada io stavo meglio. Come se avessi bisogno di viaggiare per guarire. Quando arrivai a Hampton capii che non era più necessario camminare. Questo era il posto che dovevo raggiungere.»

«Perciò ti sei fermato.»

«Esatto.» «E il tuo destino?»

Lui non rispose. Aveva detto tutto ciò che poteva, e non voleva mentirle.

Vide la mano di Elizabeth sotto la sua, e all’improvviso ebbe l’impressione che fosse tutto sbagliato. Doveva mettere subito fine a quella storia, si disse. Alzarsi dal divano e riaccompagnarla alla macchina. Augurarle la buona notte e andarsene prima dell’alba. Ma non riusciva a pronunciare frasi di congedo, né ad alzarsi dal divano. Qualcosa di misterioso lo tratteneva, impedendogli di farlo, e allora si voltò a guardarla con un crescente senso di stupore. Aveva attraversato a piedi metà del Paese alla ricerca di una donna che conosceva solo in foto e aveva finito per innamorarsi a poco a poco, ma ineluttabilmente, di quella bellissima donna reale e vulnerabile che lo faceva sentire vivo come non gli era più capitato da prima della guerra. Non capiva fino in fondo quel sentimento, però era impossibile negarlo.

L’espressione di Elizabeth gli diede conferma che era ricambiato, così l’attirò lentamente a sé. Avvicinando il viso a quello di lei, avvertì il calore del suo respiro mentre le sfiorava le labbra una volta, poi un’altra, prima di baciarla sul serio.

Affondando le mani nei suoi capelli, la baciò con tutto se stesso: quello che era e quello che avrebbe voluto essere. Udì un lieve mormorio soddisfatto quando la cinse con le braccia. Socchiuse leggermente la bocca per permettere alle loro lingue di incontrarsi, e a quel punto ebbe la certezza che era la donna giusta per lui, che ciò che stava accadendo era giusto per entrambi. Le sfiorò le guance e il collo, mordicchiandola delicatamente, poi tornò a baciarla sulle labbra. Si alzarono dal divano, sempre abbracciati, e lui la condusse in camera da letto.

Fecero l’amore senza fretta. Thibault si muoveva piano sopra di lei, desiderando che non finisse mai mentre le mormorava paroline dolci. Sentì il corpo di lei fremere ripetutamente di piacere. Dopo, rimase raggomitolata sul suo braccio, il corpo acciambellato e sazio. Parlarono, risero, si coccolarono, fecero l’amore una seconda volta, poi lui si sdraiò sul fianco, guardandola negli occhi e seguendo il profilo della sua guancia con un dito. Le parole gli sgorgarono dal cuore, parole che non avrebbe mai immaginato di dire a qualcuno.

«Ti amo, Elizabeth», mormorò, ed era la pura verità. Lei gli prese la mano e gli baciò le dita a una a una.

«Anch’io ti amo, Logan.» 17 Clayton

Keith Clayton guardò Beth uscire dalla casa, perfettamente consapevole di ciò che era accaduto all’interno. Più ci pensava, più gli veniva voglia di seguirla e di farle un bel discorsetto non appena fosse tornata a casa sua.

Spiegarle bene la situazione, tanto perché capisse che certe cose non erano accettabili. Magari con un paio di schiaffi, non troppo forti, però abbastanza da lasciarle intendere che parlava sul serio. In ogni caso non sarebbe servito a niente. E poi lui non avrebbe mai picchiato Beth; non era quel genere di uomo.

Ma che cosa diamine stava succedendo? Poteva andare peggio di così?

Primo, salta fuori che il tizio lavora al canile. Poi cenano insieme per qualche sera a casa di lei, scambiandosi una serie di occhiate melense da film strappalacrime. Infine – qui sta l’inghippo – vanno in quel locale da ballo per sfigati, dopodiché, anche se le tende erano chiuse, non c’erano dubbi che lei avesse cominciato a darci dentro come una sgualdrina.

Probabilmente sul divano. Perché aveva bevuto troppo.

Ricordava i bei tempi. Le davi da bere un po’ di vino – continuando a riempirle il bicchiere quando era distratta – oppure le mettevi una spruzzata di vodka nella birra, aspettavi che cominciasse a biascicare le parole, e finivi per spassartela alla grande lì in salotto. L’alcol aveva un effetto straordinario su di lei. La facevi sbronzare, e non solo non sapeva più dirti di no, ma diventava una tigre. Appostato fuori dalla casa, lui non aveva fatto fatica a immaginarsela mentre si spogliava. Se non fosse stato così arrabbiato, magari si sarebbe pure eccitato pensando che lei era lì dentro nuda, tutta calda e sudata. Ma il punto era un altro: il suo non era certo un comportamento da brava madre, giusto?

Sapeva già come finiva la cosa. Una volta che avesse cominciato ad andare a letto con il tipo con cui usciva, quel comportamento sarebbe diventato normale e accettabile. E dopo un po’ avrebbe fatto sesso anche con altri tizi. Semplice. Uno avrebbe portato a due, poi a quattro, cinque, dieci, venti, e lui non voleva certo che una sfilza di uomini entrassero nella vita di Ben, ammiccandogli mentre aspettavano di portare fuori Beth, come a dire: Tua madre è davvero un tipo focoso, sai?

Non avrebbe permesso che accadesse. Beth era stupida come la maggior parte delle donne, ed era per questo che lui l’aveva protetta in tutti quegli anni. Ci era riuscito alla perfezione, sino a quando Taibolt non era arrivato in città.

Quell’uomo era un incubo ambulante. Sembrava che il suo unico intento fosse rovinare l’esistenza a Keith Clayton.

Ma non ci sarebbe riuscito, giusto?

Nel corso dell’ultima settimana aveva scoperto parecchie cosette su Taibolt. Non solo che lavorava al canile -tra l’altro, come c’era finito? - ma che abitava in una casupola mezzo diroccata al limitare del bosco. E dopo aver fatto qualche telefonata in tono ufficiale alle autorità del Colorado, il resto era saltato fuori per cortesia professionale. Sapeva che Tai-bolt si era laureato alla University of Colorado. Che era stato con i marines in Iraq, dove aveva ricevuto un paio di riconoscimenti. Ma l’aspetto più interessante era che, nel suo plotone, circolava voce che lui avesse fatto un patto col diavolo per restare vivo.

Chissà che cosa ne avrebbe pensato Beth, si chiese.

Da parte sua, non ci credeva. Aveva conosciuto diversi marines, e in genere erano solidi come una roccia. Però, evidentemente, doveva esserci qualcosa di losco in quello, se i suoi compagni non si fidavano di lui.

E che senso aveva attraversare a piedi il Paese per fermarsi proprio qui?

Tai-bolt non conosceva nessuno in città, e a quanto pareva non ci era mai stato prima. Altra cosa losca. Aveva la netta sensazione che la risposta fosse davanti ai suoi occhi, ma che non riuscisse a vederla. Poco importava, prima o poi ci sarebbe arrivato. Come sempre.

Clayton continuava a fissare la casa, determinato a dare una lezione a quel tizio. Ma non adesso, si disse. Non quella notte. Non con il cane tra i piedi. La settimana prossima, magari. Quando Tai-bolt era al lavoro.

Ecco, era questo a renderlo diverso dagli altri. La maggior parte della gente si comportava come i delinquenti, che prima agivano e dopo si preoccupavano delle conseguenze. Keith Clayton no. Lui prima pensava.

Pianificava. Prevedeva. Il che spiegava perché non si fosse mosso finora, anche se li aveva visti entrare in casa insieme, anche se sapeva che cosa stava succedendo lì dentro, anche se aveva guardato Beth uscire con la faccia accesa e i capelli scomposti. In fondo era tutta una questione di potere, e in quel momento il potere ce l’aveva Tai-bolt. Per via della scheda di memoria. La scheda con le foto che avrebbero potuto chiudere i rubinetti delle entrate di Clayton.

Ma il potere non era niente, se non veniva usato. E Taibolt non lo aveva fatto. Quindi non si rendeva conto di quello che aveva in mano, o si era sbarazzato della scheda oppure era il genere di persona che bada ai fatti propri.

Forse tutt’e tre le cose insieme.

Clayton doveva accertarsene. In prima persona, per così dire. Il che significava cercare la scheda. Se ce l’aveva ancora il tizio, l’avrebbe trovata e distrutta. Così il potere sarebbe tornato a lui e Taibolt avrebbe ricevuto quello che si meritava. E se invece Taibolt l’avesse buttata via subito dopo aver preso la macchina fotografica? Tanto meglio. Lo avrebbe sistemato, e le cose sarebbero tornate alla normalità tra lui e Beth. Era quello l’importante.

Dannazione, se era bella, quando era uscita dalla casa. C’era qualcosa di eccitante e di sexy nel guardarla sapendo quello che aveva fatto, anche se con Tai-bolt. Era passato parecchio tempo dall’ultima volta che lei era stata con un uomo, e aveva un’aria... diversa. Soprattutto, lui sapeva che ora era pronta a chiedere di meglio.

Quell’idea degli amici-amanti si faceva sempre più allettante. 18 Beth

«Immagino che ti sia divertita», disse Nana con voce strascicata.

Era domenica mattina e Beth era appena inciampata nel tavolo in cucina.

Ben dormiva ancora di sopra.

«In effetti, sì», rispose lei sbadigliando.

«E allora?»

«Allora... niente.»

«Sei rincasata piuttosto tardi, considerato che non hai fatto niente.» «Non era tanto tardi. Vedi? Sono già in piedi e vispa.» Infilò la testa nel frigorifero, poi richiuse lo sportello senza prendere niente. «Ora sarei rimbambita dal sonno, se avessi fatto le ore piccole. E comunque, perché tanta curiosità?» «Volevo solo sapere se avrò ancora il mio aiutante lunedì.» Nana si versò una tazza di caffè e si lasciò cadere su una sedia.

«Non capisco perché non dovresti.»

«Così è andata bene?»

Stavolta Beth tardò a rispondere, e ripensò alla serata appena trascorsa.

Mescolando il caffè, provò un senso di felicità che non sentiva da molto tempo. «Sì», confermò. «È andata bene.»

Nei giorni successivi Beth trascorse più tempo possibile con Logan, cercando di non farsi notare da Ben. Comportarsi con discrezione le sembrava conforme al consiglio che avrebbe dato un consulente famigliare a proposito dei rapporti sentimentali, quando c’erano di mezzo i bambini. Ma in fondo lei sapeva che il motivo non era solo quello. C’era qualcosa di eccitante nel far finta che tra loro non fosse cambiato nulla; circondava il rapporto di un alone di segretezza, quasi fosse una relazione illecita.

Naturalmente Nana non si lasciava ingannare. Di tanto in tanto, mentre loro due erano impegnati a mantenere un’elaborata messinscena, borbottava frasi senza senso del tipo «cammelli nel Sahara» oppure «trecce e scarpette». Quando era da sola con Logan, Beth cercava di dare un senso a quei borbottii. Il primo sembrava implicare che erano fatti l’uno per l’altra; il significato del secondo rimase oscuro più a lungo, finché Logan suggerì che forse aveva «qualcosa a che vedere con Raperonzolo e Cenerentola.»

Favole. Ma di quelle belle, con il lieto fine. Nana voleva essere carina, senza apparire sdolcinata.

Quei momenti rubati avevano un’intensità quasi onirica. Beth era sensibilissima a ogni gesto o movimento di lui, esaltata dal suo modo tranquillo di prenderle la mano mentre camminavano dietro Ben durante le passeggiate serali, per poi lasciargliela subito non appena il bambino si voltava verso di loro. Aveva un sesto senso per intuire a che distanza si trovasse Ben – di sicuro sviluppato durante la vita militare – e lei gli era riconoscente perché non sembrava minimamente contrariato dal suo desiderio di tenere segrete le cose.

Con suo sollievo, Logan continuava a trattare Ben come prima. Il lunedì era arrivato con un piccolo set di arco e frecce comperato al negozio di articoli sportivi. Lui e Ben avevano passato un’ora a tirare al bersaglio, impiegando la maggior parte del tempo a cercare le frecce finite in spinosi cespugli di agrifoglio o incastrate tra i rami degli alberi. Alla fine erano entrambi coperti di graffi fino ai gomiti. Dopo cena, si misero a giocare a scacchi in salotto mentre Beth e Nana pulivano la cucina. Lei stava asciugando i piatti, quando giunse alla conclusione che avrebbe potuto amare Logan per sempre, anche solo per il modo in cui trattava suo figlio.

Nonostante cercassero di mantenere un basso profilo, trovavano comunque delle scuse per rimanere da soli. Il martedì, quando rincasò da scuola, lei si accorse che Logan aveva sistemato un dondolo in veranda, con il permesso di Nana, in modo da «non dover più stare seduto sui gradini». Mentre Ben era a lezione di musica, Elizabeth rimase lì accanto a lui a farsi cullare dolcemente. Il mercoledì andarono insieme in città a comperare una scorta di cibo per cani. Semplici attività quotidiane, ma le bastava stare da sola con Logan. A volte, quando erano sul furgone, lui le cingeva le spalle con un braccio e lei gli si appoggiava contro, assaporando il momento di intimità.

Pensava spesso a lui quando era a scuola, cercando di immaginarsi cosa stesse facendo. Con gli occhi della mente lo vedeva con la camicia appiccicata alla pelle per il sudore e i muscoli degli avambracci che si flettevano mentre addestrava i cani. Il giovedì mattina, mentre Logan e Zeus risalivano il vialetto all’inizio della giornata, lei si girò verso Nana che, seduta al tavolo in cucina, era intenta a infilarsi gli stivali di gomma, un compito reso più difficile dalla scarsa forza che aveva nel braccio. Beth si schiarì la gola.

«Ci sono problemi se Logan si prende un giorno libero?» domandò.

Nana non si preoccupò di nascondere un sorrisetto malizioso. «Perché?»

«Volevo andare via con lui oggi. Noi due soltanto.» «E la scuola?»

Era già vestita, il pranzo impacchettato. «Posso telefonare per dire che non sto bene.» «Ah», fece Nana.

«Io lo amo, Nana», confessò lei di slancio.

Nana scrollò la testa, ma gli occhi le luccicavano. «Mi stavo giusto chiedendo quando ti saresti decisa ad ammetterlo, invece di farmi inventare tutti quegli sciocchi indovinelli.»

«Scusami.»

Nana si alzò e batté i piedi un paio di volte per controllare che gli stivali le calzassero bene. Un sottile strato di terra si formò sul pavimento. «Credo di potermela cavare da sola oggi. Probabilmente mi farà bene.

Ultimamente ho guardato troppa televisione.»

Beth si scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Grazie.» «Figurati.

Basta che non diventi un’abitudine. È l’aiutante migliore che abbiamo mai avuto.» Passarono il pomeriggio abbracciati, facendo ripetutamente l’amore, e quando venne l’ora di rientrare – voleva essere lì nel momento in cui Ben tornava da scuola – Elizabeth aveva ormai la certezza che Logan l’amasse quanto lei lo amava, e che anche lui cominciasse a pensare di trascorrere il resto della vita insieme.

L’unica nota stonata nella sua felicità assoluta era la sensazione che qualcosa lo tormentasse. Non dipendeva da lei, di questo era sicura. Né dal loro rapporto; il suo modo di comportarsi quando erano da soli bastava a dimostrare il contrario. Era qualcos’altro, che lei non sapeva definire, ma riflettendoci si ricordò di averlo notato per la prima volta martedì pomeriggio, subito dopo essere tornata a casa con Ben.

Il bambino, come al solito, era schizzato fuori dall’auto per correre a giocare con Zeus. E mentre parlava con Nana nell’ufficio del canile, lei aveva scorto Logan in piedi in cortile, le mani in tasca, assorto nei pensieri. Poi, quando erano saliti insieme sul furgone e lui le aveva cinto le spalle con il braccio, si era resa conto che continuava a essere pensieroso.

E quella sera, dopo la partita a scacchi con Ben, era uscito in veranda da solo.

Beth lo aveva raggiunto pochi minuti dopo, sedendosi accanto a lui sul dondolo.

«C’è qualcosa che ti preoccupa?» si decise a domandare alla fine.

Lui non rispose subito. «Non lo so», disse.

«Ce l’hai con me per qualche motivo?»

Lui scrollò il capo sorridendo. «Niente affatto.»

«Che cosa succede?»

Lui esitò ancora. «Non lo so», ripeté.

Lei lo guardò di sottecchi. «Vuoi parlarmene?»

«Sì», rispose. «Ma non ora.» Il sabato, dato che Ben era da suo padre, decisero di fare una gita a Sunset Beach, vicino a Wilmington.

La stagione estiva volgeva al termine e, a parte poche persone che passeggiavano in riva al mare, la spiaggia era deserta. Le acque dell’oceano, riscaldate dalla corrente del Golfo, avevano ancora una temperatura gradevole e loro erano entrati fino al ginocchio. Logan tirava una pallina da tennis verso il largo, e Zeus se la spassava un mondo, nuotando furiosamente e abbaiando di tanto in tanto come per indurre la pallina a restare ferma in un punto.

Lei aveva portato un cestino e, quando Zeus si stancò, trovarono un posto riparato dove mettersi seduti su un telo. Metodicamente, Beth tirò fuori gli ingredienti per preparare i panini e affettò la frutta fresca. Mentre mangiavano, un peschereccio passò al largo e Logan lo seguì a lungo con lo sguardo, la stessa aria preoccupata che lei aveva notato di tanto in tanto per tutta la settimana.

«Hai di nuovo quello sguardo», gli disse infine.

«Quale sguardo?»

«Sputa il rospo», replicò lei. «Che cosa c’è che non va? E non voglio risposte vaghe stavolta.» «Va tutto bene», disse lui, girandosi a guardarla negli occhi. «So di esserti sembrato un po’ distratto negli ultimi giorni, ma sto cercando di capire una cosa.» «Che cosa, esattamente?»

«Il motivo per cui stiamo insieme.»

Lei ebbe un tuffo al cuore. Non era quello che si aspettava di sentire, e raggelò.

«Mi sono espresso male», si affrettò a dire lui. «Non è come credi.

Pensavo piuttosto a come mai si sia creata questa opportunità. Non ha senso.»

Lei si accigliò. «Continuo a non capire.»

Zeus, che era sdraiato accanto a loro, sollevò il muso per osservare il volo di uno stormo di gabbiani che atterrò poco distante. I pesci saettavano nell’acqua vicino alla riva per mangiare i granchietti nascosti nella sabbia. Logan li guardò per un po’ prima di proseguire. Quando parlò, la sua voce era ferma, come quella di un professore che spiega la sua materia.

«Dal mio punto di vista ci troviamo di fronte a questo: una donna intelligente, affascinante, bella, meno che trentenne, spiritosa e appassionata. E, quando vuole, anche molto sexy.» Le rivolse un sorriso ammiccante prima di aggiungere: «In altre parole, un vero e proprio bocconcino». Fece una pausa. «Fermami, se ti metto in imbarazzo.»

Lei gli batté la mano sul ginocchio. «Stai andando benissimo. Prosegui.»

Lui si passò una mano tra i capelli, nervoso. «È quello che ho cercato di capire. Ci ho riflettuto molto negli ultimi giorni.» Lei tentò invano di seguire il filo dei suoi pensieri. Stavolta, invece di dargli una pacca, gli strinse il ginocchio. «Devi imparare a essere più chiaro. Ancora non capisco.» Per la prima volta da quando lo conosceva, vide un lampo di impazienza attraversargli lo sguardo. Scomparve subito, e Beth intuì che era rivolto più a se stesso che a di lei.

«Insomma, non ha senso che tu non abbia avuto nessuna storia dopo il divorzio.» Fece una pausa per cercare le parole giuste. «Certo, hai un figlio, e per alcuni uomini ciò potrebbe essere un ostacolo. Ma del resto non nascondi il fatto di essere madre, e presumo che in una cittadina come questa tutti conoscano la tua situazione. Ho ragione?»

Lei esitò. «Sì.»

«Gli uomini che ti hanno chiesto di uscire sapevano già che tu avevi un figlio, no?» «Sì.»

Lui la fissò con aria interrogativa. «Allora, dove sono finiti?» Zeus le posò la testa in grembo e lei cominciò ad accarezzarlo dietro le orecchie, mentre si metteva sempre più sulla difensiva.

«Che importanza ha?» domandò. «Sinceramente, non credo che queste domande mi facciano molto piacere. Quello che è avvenuto in passato è affar mio, e non posso cambiarlo, e comunque non ho nessuna intenzione di starmene seduta qui a farmi interrogare da te sui miei ex... quando li ho conosciuti, come è finita. Io sono quella che sono e credevo che tu, più di ogni altro, l’avresti capito, signor Sono-venuto-a-piedi-dal-Colorado-ma-non-chiedermi-perché. »

Lui rimase in silenzio a riflettere. Quando parlò di nuovo la sua voce tradiva una nota di inaspettata tenerezza.

«Scusami, non volevo farti arrabbiare. L’ho detto solo perché trovo che tu sia la donna più speciale che io abbia mai incontrato.» Fece una pausa per permetterle di comprendere bene il senso delle sue parole. «Sono convinto che molti, conoscendoti, la penserebbero come me. E siccome hai frequentato altri uomini immagino che, soprattutto qui dove le donne libere della tua età sono poche, loro si siano accorti di quanto tu sia eccezionale. Certo, forse alcuni non erano il tuo tipo, così hai lasciato perdere. Ma gli altri? Quelli che ti piacevano? A un certo punto ci sarà pur stato qualcuno con cui stava per scoccare la scintilla.»

Raccolse una manciata di sabbia e allargò lentamente le dita, lasciando scivolare i granelli sulla spiaggia. «Ecco su cosa stavo riflettendo. È assai poco plausibile che non ci fosse nessuno interessato a te, e invece mi hai detto tu stessa di non avere avuto molta fortuna con gli uomini.»

Strofinò la mano sul telo. «Fin qui il ragionamento non fa una grinza, vero?» Elizabeth lo guardò, stupita dalla sua perspicacia. «Sì», rispose.

«Ci hai pensato pure tu, vero?»

«A volte, sì», ammise. «Ma non ti pare di dare troppo peso alla cosa?

Anche se io fossi perfetta come sostieni, non scordare che i tempi sono cambiati. Oggi ci sono in giro moltissime donne sole che corrispondono a quella descrizione.»

«Può darsi.»

«Però non ne sei convinto.»

«No.» I suoi occhi azzurri la scrutarono con aria determinata.

«Che cosa c’è? Credi ci sia sotto qualche complotto?» Invece di risponderle direttamente, prese un’altra manciata di sabbia. «Che mi dici del tuo ex marito?» le chiese. «Cosa c’entra lui adesso?»

«Mi piacerebbe sapere che ne pensa dei tuoi appuntamenti sentimentali.»

«Sono sicura che non gli importi minimamente. E non capisco perché tu lo tiri in ballo.» Logan aprì la mano di scatto, facendo cadere la sabbia.

«Perché», rispose a bassa voce, girandosi dalla sua parte, «sospetto sia stato lui a entrare in casa mia l’altro giorno.» 19 Thibault

Sabato sera, dopo che Elizabeth se n’era andata, Thibault trovò Victor seduto in salotto, con indosso i pantaloncini e la casacca che portava il giorno in cui era morto.

Nel vederselo davanti rimase paralizzato. Lo fissò allibito. Non era possibile, non stava succedendo davvero. Thibault sapeva che Victor non c’era più, era stato sepolto nel piccolo cimitero di Bakersfield. E che Zeus avrebbe reagito se ci fosse stato qualcuno in casa, invece di dirigersi tranquillamente verso la ciotola dell’acqua.

Nel silenzio, Victor sorrise. «C’è dell’altro», disse, la voce rauca e profetica.

Thibault chiuse gli occhi e, quando li riaprì, il suo amico era sparito.

Chiaramente non era mai stato lì.

Gli era già capitato di rivedere Victor dopo che era morto. La prima volta era stata al suo funerale, quando Thibault, entrando in chiesa, se lo era visto in piedi in fondo alla navata. «Non è colpa tua», aveva detto Victor prima di scomparire. Gli si era chiusa la gola ed era corso fuori senza fiato.

La seconda apparizione si era verificata poco prima che lui partisse dal Colorado: era accaduto al supermercato, mentre frugava nel portafoglio per calcolare quante birre potesse comperare. Era un periodo in cui beveva molto e, mentre contava le banconote, aveva scorto una figura con la coda dell’occhio. Victor scrollò il capo, senza parlare. Non ce n’era bisogno.

Thibault capì che gli stava dicendo di smettere di bere.

E ora questo.

Thibault non credeva ai fantasmi, e sapeva che l’immagine di Victor non era reale. Non c’erano spettri a tormentarlo, nessun visitatore dall’aldilà, nessun’anima inquieta con un messaggio da consegnare. Si trattava di un parto dell’immaginazione, ed era stato il suo inconscio a creare quell’immagine. Dopo tutto Victor era l’unica persona a cui lui avesse mai dato ascolto.

Non doveva sentirsi in colpa per l’incidente in barca. Erano stati quei ragazzi a investirli, ed erano rimasti sconvolti e traumatizzati quanto lui dalla morte di Victor. Per quanto riguardava il bere, Thibault era consapevole che la birra gli faceva più male che bene, ma per qualche motivo era stato più facile farselo dire da Victor.

L’ultima cosa che si aspettava, però, era di vedere l’amico un’altra volta.

Ripensò alle parole di Victor – C’è dell’altro – e si chiese se si riferissero alla sua recente conversazione con Elizabeth. Gli sembrava di no, ma non riusciva a vederci chiaro, e ciò lo turbava. Tuttavia, più si sforzava di trovare una risposta, più questa sembrava sfuggirgli. L’inconscio a volte fa scherzi del genere.

Entrò in cucina per bere un bicchiere di latte, riempì la ciotola di Zeus, poi andò in camera sua. Si sdraiò sul letto a riflettere su quello che aveva detto a Elizabeth.

Ci aveva pensato molto prima di decidersi a parlargliene. Non era neppure sicuro del risultato che sperava di ottenere, a parte forse cercare di aprirle gli occhi sul fatto che Keith Clayton controllava la sua vita ben più di quanto lei immaginasse.

Thibault lo sospettava da tempo, e ne aveva avuto la conferma quando si era accorto che qualcuno era entrato in casa sua. Poteva trattarsi di un ladro qualsiasi, intenzionato a rubare qualche oggetto da vendere facilmente al banco dei pegni... ma c’era qualcosa di strano. Nessuna confusione. Niente di rotto o di sparso in giro. Nessun mobile spostato.

Eppure, quasi tutto era stato «rimesso a posto».

Il copriletto gli aveva fornito il primo indizio. Presentava una piccola grinza... doveva averlo sistemato qualcuno che non sapeva rimboccare le coperte in stile militare. Anche gli indumenti nei cassetti presentavano le stesse anomalie: una sgualcitura qui, una manica piegata male là. Non solo erano entrati in casa sua mentre lui non c’era, ma avevano anche perquisito le stanze scrupolosamente.

Perché? Thibault non possedeva niente di valore. Sarebbe bastato dare un’occhiata dalla finestra per rendersene conto. Il soggiorno era privo di qualsiasi apparecchiatura elettronica e la seconda camera da letto completamente vuota, mentre la stanza in cui lui dormiva conteneva soltanto il letto, un comodino e una lampada. A parte le stoviglie, gli utensili e un vecchissimo apriscatole elettrico sul bancone, anche la cucina era vuota. Nella dispensa c’era solo cibo per cani, un filone di pane e un barattolo di burro di arachidi. Però qualcuno si era preso la briga di perquisire la casa da cima a fondo, guardando persino sotto il materasso.

Qualcuno che aveva esaminato diligentemente tutti i cassetti rimettendo poi a posto ogni cosa.

Nessun atto vandalico per non aver trovato niente di valore. Nessun segno di rabbia per quell’inutile perdita di tempo. L’intruso, al contrario, aveva cercato di cancellare le proprie tracce.

Chiunque fosse entrato non lo aveva fatto per rubare, bensì per cercare qualcosa. Qualcosa di preciso. Thibault non aveva impiegato molto a capire di che si trattasse e chi fosse l’autore di quel gesto.

Keith Clayton rivoleva la sua macchina fotografica. O meglio, la scheda di memoria. Probabilmente perché le fotografie registrate potevano metterlo nei guai. Non occorreva una grande intelligenza per arrivarci, considerando quello che l’uomo stava facendo la prima volta che si erano incontrati.

Bene, così Clayton voleva pararsi il culo. Ma non era ancora finita. C’era qualcos’altro, che riguardava Elizabeth e la sua sfortunata vita sentimentale.

A questo proposito gli era tornata in mente una frase che aveva sentito la sera del suo arrivo, mentre bazzicava vicino al tavolo da biliardo mostrando la suo foto agli abitanti del luogo. Che cosa aveva detto uno di loro? Gli ci volle un po’ per ricordare le parole esatte, e Thibault rimpianse di non avervi prestato maggiore attenzione. Allora era concentrato sull’impresa di scoprire il nome di Elizabeth, e non ci aveva badato: un errore. Con il senno di poi, capiva c’era qualcosa di minaccioso nelle implicazioni di quella battuta. ... diciamo solo che non esce con nessuno. Il suo ex non lo gradirebbe, e ti assicuro che è meglio non pestargli i piedi.

Ripensò a quello che sapeva di Keith Clayton. Apparteneva a una ricca famiglia. Era un bullo. Un attaccabrighe. In una posizione in cui poteva abusare del proprio potere. Era uno convinto di poter fare sempre impunemente tutto quello che voleva?

Thibault non ne aveva le prove, ma ciò era coerente con il quadro generale.

Clayton non voleva che Elizabeth uscisse con altri uomini; Elizabeth non aveva avuto nessuna storia seria negli ultimi dieci anni. A volte lei stessa si chiedeva perché, ma non aveva neppure preso in considerazione un possibile legame tra l’ex marito e i suoi fallimenti sentimentali. Per Thibault, invece, era assai probabile che Clayton avesse manipolato persone ed eventi, e da quel punto di vista controllasse ancora la vita di Elizabeth. Il fatto che conoscesse i suoi movimenti significava che l’aveva spiata per anni. Esattamente come continuava a fare anche adesso.

Non era difficile immaginare in che modo Clayton avesse dissuaso i corteggiatori della sua ex moglie, ma per il momento si era tenuto a debita distanza da Thibault. Finora lui non lo aveva sorpreso a spiare da lontano, né aveva notato niente di insolito. Però Clayton era entrato di nascosto a casa sua a cercare la macchina fotografica quando sapeva che era al lavoro.

Si stava preparando per le grandi manovre?

Probabilmente sì. Ma la domanda era: a quale scopo? Quantomeno per cacciare Thibault dalla città. Eppure, lui non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che non fosse ancora finita. Come aveva detto Victor, c’era dell’altro.

Non poteva riferire apertamente a Elizabeth i commenti che aveva sentito nella sala biliardo. Per farlo avrebbe dovuto rivelarle la storia della foto, e non era ancora il momento. Allora aveva cercato di indirizzarla sulla strada giusta, sperando che cominciasse lei stessa a trarre le debite conclusioni.

Una volta scoperto fino a che punto Clayton era pronto a sabotare la vita privata di Elizabeth, loro avrebbero potuto affrontare insieme ogni sua mossa. Si amavano. Sapevano che cosa aspettarsi. Sarebbe andato tutto bene.

Era questa la ragione per cui era giunto fin lì? Per innamorarsi di Elizabeth e costruirsi una vita assieme a lei? Era questo il suo destino?

Per qualche motivo, la cosa non lo convinceva. Le parole di Victor sembravano confermarglielo. C’era un altro motivo per la sua venuta lì.

Innamorarsi di Elizabeth forse ne faceva parte. Ma non era tutto. Stava per succedere qualcosa.

C’è dell’altro.

Thibault dormì per tutta la notte senza svegliarsi, come gli capitava sempre da quando era giunto nel North Carolina. Era un’abitudine militare, o più precisamente un’abitudine da combattimento, qualcosa che aveva imparato per necessità. I soldati stanchi commettono degli errori. Glielo aveva detto suo padre. Glielo avevano ripetuto tutti gli ufficiali che aveva conosciuto.

La sua esperienza di guerra aveva confermato la veridicità di tale affermazione. Aveva imparato a dormire quando era il momento di farlo, anche in mezzo al caos più totale, in modo da recuperare le energie per il giorno dopo.

A parte un breve periodo subito dopo la morte di Victor, il sonno per lui non era mai stato problema. Gli piaceva dormire, e lasciare che i suoi pensieri fluissero nei sogni. Quando si svegliò la domenica mattina ebbe la visione di una ruota con tanti raggi che partivano dal centro.

Senza sapere perché, qualche minuto dopo, mentre portava fuori Zeus, venne improvvisamente colpito dalla consapevolezza che Elizabeth non era il centro della ruota, come aveva inconsapevolmente presunto. Si rese conto, invece, che tutto quanto era accaduto dal suo arrivo a Hampton ruotava intorno a Keith Clayton.

Dopo tutto era stato Clayton la prima persona che aveva incontrato in città.

Lui aveva preso la macchina fotografica di Clayton. Clayton ed Elizabeth erano stati sposati. Clayton era il padre di Ben. Clayton aveva sabotato le relazioni sentimentali di Elizabeth. Clayton li aveva visti passare la serata insieme quando aveva riportato a casa Ben con l’occhio nero; in altre parole, era stato il primo a sapere di loro due. Clayton era entrato di nascosto in casa sua. Clayton, e non Elizabeth, era il motivo del suo arrivo a Hampton.

Da lontano giunse il rombo profondo e minaccioso di un tuono. Stava per arrivare un temporale e la pesantezza dell’aria lasciava intendere che sarebbe stato violento.

A parte quello che gli aveva raccontato Elizabeth, lui aveva pochissime informazioni sul suo ex marito, pensò Thibault. Mentre cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia tornò in casa. Più tardi sarebbe andato in biblioteca. Doveva condurre una piccola ricerca, per farsi un’idea migliore di Hampton e del ruolo che i Clayton avevano in città. 20 Beth

«La cosa non mi sorprende», sbuffò Nana. «Il tuo povero ex marito sarebbe capace di tutto.» «Non è ancora defunto, sai.»

Nana sospirò. «La speranza è l’ultima a morire.»

Beth bevve un sorso di caffè. Era domenica, ed erano appena rientrate dalla messa. Quella mattina, per la prima volta dopo l’ictus, Nana aveva eseguito un breve assolo e lei aveva preferito non distrarla prima con le proprie preoccupazioni. Sapeva quanto fosse importante il coro per la nonna.

«Non mi sei di grande aiuto», disse.

«Che aiuto dovrei darti?» domandò Nana.

«Volevo dire soltanto...»

Nana si sporse sulla tavola. «Ho già capito benissimo. E se mi chiedi se è possibile che Keith sia entrato di nascosto in casa di Thibault, io ti rispondo che la cosa non mi sorprenderebbe. Quell’uomo non mi è mai piaciuto.»

«Ma che mi dici...»

«Non c’è motivo di inalberarsi tanto.»

«Non mi sto inalberando.»

Nana non le badò. «Hai l’aria stanca. Vuoi dell’altro caffè? Oppure una fetta di pane tostato alla cannella?»

Beth scrollò il capo. «Non ho fame.»

«Devi sforzarti di mangiare lo stesso. Hai già saltato la colazione.» Si alzò da tavola. «Preparerò i toast.» Beth rinunciò a discutere. Quando Nana si metteva in mente una cosa, non c’era verso di farle cambiare idea.

«E che ne pensi del resto? Del fatto che Keith possa avere a che fare con...» Lasciò la frase in sospeso.

Nana infilò due fette nel tostapane. «Scoraggiare i tuoi spasimanti? Te lo ripeto ancora, quell’uomo sarebbe capace di tutto. E in effetti ciò spiegherebbe molte cose, non trovi?»

«Ma non ha senso. So che lui frequenta un sacco di donne, e non ha mai detto di voler tornare assieme a me. Che cosa dovrebbe importargliene se esco con qualcuno oppure no?»

«Gliene importa perché non è altro che un bambino viziato», dichiarò Nana. Versò una cucchiaiata di burro in una padella e accese il fornello.

«Tu eri il suo giocattolo, e anche se ora ne ha di nuovi, non vuole che nessuno usi i vecchi.»

Beth si agitò sulla seggiola. «Non credo di apprezzare questa similitudine.» «L’unica cosa che conta è stabilire se sia vera.»

«Tu pensi che lo sia?»

«Non ho detto questo, solo che non mi sorprenderebbe affatto. E non fingere di esserne stupita. Ho visto il modo in cui ti guarda. Mi fa venire i brividi, e tutte le volte devo sforzarmi di non tirargli addosso una palettata di cacca di cane.»

Beth sorrise, poi tornò subito seria. Quando i toast furono pronti, Nana li sistemò in un piatto. Vi versò sopra il burro fuso e li cosparse di zucchero e cannella. Quindi posò il piatto di fronte a lei.

«Ecco. Mangia qualcosa. Ultimamente sei scheletrica.» «Ho sempre il mio solito peso.»

«Che non è sufficiente. Non lo è mai stato. Se non stai attenta, una ventata ti porterà via.» Indicò il cielo fuori dalla finestra e tornò a sedersi. «Stavolta sarà grosso. Ed è meglio così. Abbiamo bisogno di pioggia.

Spero non ci siano ululatori nel canile.»

Gli ululatori erano i cani che avevano paura dei temporali. Beth capì che quella parentesi sul tempo era un modo per cambiare argomento. Nana di solito le offriva sempre una via d’uscita, ma mentre addentava il pane si ricordò che c’era un’altra cosa di cui voleva parlarle.

«Credo si siano già incontrati», disse.

«Chi? Thibault e il perdente?»

Beth alzò le mani. «Ti prego, non chiamarlo così. So che non ti piace, ma è pur sempre il padre di Ben, e non voglio che ti scappi di bocca una cosa del genere quando c’è il bambino...»

Nana sorrise contrita. «Hai ragione», dichiarò. «Ti chiedo scusa, non lo farò più. Ora vai avanti.» «Ricordi che ti ho raccontato della sera in cui Keith ha riportato a casa Ben con un occhio nero? Tu eri da tua sorella...»

Aspettò che Nana annuisse. «Ci ho ripensato ieri. Al momento non ci avevo fatto caso, ma quando Keith ha visto Logan, non ha chiesto chi era.

Invece, è stato come se gli si fosse accesa una lampadina e si è subito arrabbiato. Ha detto una frase tipo: ‘Che cosa ci fai tu qui?’» «Quindi?»

Nana la guardò con aria perplessa.

«Non era tanto sorpreso per il fatto che c’era un uomo a casa mia, quanto che si trattasse proprio di Logan. Come se lui fosse l’ultima persona che si aspettava di incontrare lì.»

«Che cosa ne dice Thibault?»

«Non ne abbiamo parlato. Però avrebbe senso, no? Pensare che si fossero già incontrati, visto tra l’altro che lui ritiene sia stato Keith a frugare in casa sua.»

«Forse», ammise Nana. «Però non so. Thibault ti ha detto che cosa secondo lui stava cercando il tuo ex marito?»

«No», rispose Beth. «Ha detto soltanto che non c’era molto da trovare.»

«È un modo un po’ vago di rispondere.»

«Mmm», concordò Beth. Addentò svogliata un altro boccone di pane.

Nana si sporse in avanti. «E anche questo ti preoccupa?» «Un pochino», rispose Beth con un piccolo cenno d’assenso.

«Perché hai la sensazione che lui ti nasconda qualcosa?» Vedendo che la nipote non rispondeva, le prese la mano sul tavolo. «Temo che tu ti stia preoccupando per le cose sbagliate. Può darsi che sia stato Keith a entrare in casa di Thibault, oppure no. Può darsi che si fossero incontrati prima, oppure no. Ma niente di tutto questo è importante come sapere se Keith ha lavorato contro di te dietro le quinte. Al tuo posto io mi concentrerei su quello, dato che è la cosa che ti riguarda più da vicino.» Fece una pausa per lasciare che le sue parole facessero effetto. «Ho visto come si comporta con te Thibault, ed è evidente quanto ti è affezionato. Per me ti ha parlato dei suoi sospetti perché non vuole che gli succeda quello che è accaduto agli altri uomini con cui sei uscita.» «Dunque secondo te Logan ha ragione?» «Sì», confermò Nana. «Tu non credi?» Beth impiegò parecchio tempo a rispondere. «Sì, lo penso anch’io.» Una cosa era pensarlo; tutt’altra averne la certezza. Dopo quella conversazione Beth si infilò un paio di jeans, prese l’impermeabile e andò in città. Aveva cominciato a piovere sul serio da un paio d’ore, un vero e proprio diluvio con raffiche di venti tropicali che dalla Georgia era risalito fino al South Carolina. Si prevedevano da quindici a venti centimetri di pioggia nelle ventiquattr’ore successive, e altre due tempeste tropicali erano in arrivo dal Golfo del Messico. La calda estate secca era ufficialmente terminata.

Beth stentava a vedere fuori dal parabrezza nonostante il tergicristallo andasse a tutta velocità. Le fogne iniziavano a straripare, e durante il tragitto verso la città lei notò che si erano formati ruscelletti d’acqua a fianco delle strade. Per ora il South River non si era alzato di livello, ma era alimentato da parecchi affluenti e le sue acque potevano tracimare. La città era in grado di affrontare un’inondazione; temporali come quelli erano frequenti nella regione, e la maggior parte degli edifici si trovava abbastanza lontano dalle rive da evitare di subire danni, tranne in casi eccezionali. La strada che portava al canile, invece, correva parallela al fiume e quando c’erano forti temporali o durante gli uragani a volte si allagava, rendendo pericoloso il passaggio. Per il momento non era successo, si disse, ma quella settimana la situazione rischiava di complicarsi.

Mentre guidava, ripensò alla conversazione con Nana.

Fino a ieri le cose le sembravano molto più semplici, adesso però continuava a farsi delle domande. Riguardo a Keith, ma anche a Logan. Se davvero loro due si erano già incontrati, perché Logan non glielo aveva detto? E che cosa stava cercando Keith a casa di Logan? In qualità di vicesceriffo, aveva accesso a ogni genere di informazione personale, quindi poteva trattarsi di qualcosa che c’entrava con il suo lavoro. E allora che cos’era? Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a immaginarselo.

Keith...

E se Nana e Logan avessero avuto ragione? Partendo dal presupposto che così fosse – in effetti, dopo averci riflettuto, le sembrava probabile – come mai lei non se n’era accorta?

Era difficile ammettere di essere stata cieca. Lo conosceva bene ormai da più di dieci anni, e sebbene non lo considerasse uno stinco di santo, l’idea che lui sabotasse deliberatamente la sua vita privata non le aveva neppure sfiorato la mente. Chi poteva fare una cosa del genere? E perché? La spiegazione data da Nana, che lui la considerasse un giocattolo che non voleva condividere con nessuno, era così verosimile da farle provare un brivido alla nuca.

La cosa più sorprendente era che, pur vivendo in una piccola città, dove era quasi impossibile mantenere un segreto, lei non ne avesse mai saputo nulla. Questo la induceva a dubitare degli amici e dei vicini, ma soprattutto degli uomini con cui era uscita. Perché non erano stati capaci di dire semplicemente a Keith di farsi gli affari suoi?

Perché, si rispose da sola, era un Clayton. E quegli uomini non discutevano con lui per lo stesso motivo per cui lei non faceva pressioni su Keith quando si trattava di Ben. A volte era più facile accettare la situazione, che combattere per cambiarla. Quanto odiava quella famiglia.

Ma non doveva trarre conclusioni affrettate. Il fatto che Logan e Nana sospettassero di Keith non significava necessariamente che lui fosse colpevole, si disse. E questo era il motivo per cui si era spinta in città.

Girò a sinistra all’incrocio principale, dirigendosi verso un quartiere storico, dominato da belle case con ampie verande. Le strade erano fiancheggiate da alberi imponenti, in gran parte centenari, e lei ricordò che da bambina quello era il suo quartiere preferito. Tra le famiglie che abitavano lì c’era la tradizione di decorare riccamente gli esterni durante le vacanze, un’abitudine che dava alla zona un’atmosfera allegra e pittoresca.

Quella dov’era diretta si trovava a metà della strada, e già da lontano lei scorse la macchina di lui parcheggiata sotto la tettoia. Dietro ce n’era un’altra, quindi non era da solo, ma Beth non aveva voglia di ripassare un’altra volta. Parcheggiò davanti alla casa, tirò su il cappuccio dell’impermeabile e s’incamminò nella pioggia battente.

Schivò le pozzanghere che si erano formate sul marciapiede e salì i gradini della veranda. Dalla finestra vide una lampada accesa in un angolo del salotto; il televisore lì accanto stava trasmettendo una gara automobilistica.

Doveva essere stato il visitatore a insistere per guardarla; era del tutto escluso che il padrone di casa lo avesse fatto volontariamente. Odiava quel genere, lei lo sapeva.

Suonò il campanello e fece un piccolo passo indietro. Lui comparve sulla soglia e impiegò solo un istante per riconoscerla. La sua espressione manifestava un misto di sorpresa e curiosità, oltre a una traccia di qualcosa che Beth non si aspettava: paura.

L’uomo lanciò un’occhiata veloce alla strada in entrambe le direzioni prima di posare gli occhi su di lei.

«Beth», disse. «Che cosa ci fai qui?»

«Ciao, Adam.» Gli sorrise. «Potresti dedicarmi un paio di minuti? Vorrei parlarti di una cosa.» «Non sono solo», rispose lui a bassa voce. «Non è il momento adatto.» In quell’istante una voce femminile chiese dall’interno:

«Chi è?» «Ti prego», lo supplicò Beth.

Per un attimo lui parve valutare l’ipotesi di chiuderle la porta in faccia, poi sospirò rassegnato. «Un’amica», rispose girandosi verso l’altra. «Vengo subito.»

Una giovane donna comparve immediatamente dietro la sua spalla, con in mano una birra e indosso un paio di jeans e una maglietta troppo aderenti.

Beth la riconobbe: era una delle segretarie dell’ufficio di Adam. Si chiamava Noelle, o qualcosa del genere.

«Che cosa vuole?» chiese Noelle. Il suo tono lasciava intendere chiaramente che anche lei aveva riconosciuto Beth.

«Non lo so», rispose Adam. «È arrivata qui senza avvisare» «Ma io voglio vedere la gara», protestò lei imbronciata, cingendolo possessivamente in vita.

«Lo so», rispose lui. «Non ci metterò molto.» Esitò vedendo l’espressione di Noelle. «Te lo prometto», la rassicurò.

Beth si chiese se Adam avesse sempre avuto quel tono frignante e, in questo caso, come mai non se ne fosse accorta. Forse lui aveva cercato di nasconderlo, oppure lei si era sforzata di ignorarlo. Era più incline a credere alla seconda ipotesi, e questo le fece provare una lieve delusione.

Adam uscì in veranda e si richiuse la porta alle spalle. Mentre la guardava, lei non riuscì a capire se fosse spaventato o arrabbiato. Oppure entrambe le cose.

«Che cosa c’è di tanto importante?» le domandò con petulanza.

«Niente», ribatté lei. «Sono passata solo per farti una domanda.» «A che proposito?»

Beth lo costrinse a fissarla negli occhi. «Voglio sapere il motivo per cui non mi hai più richiamata dopo la nostra cena.»

«Che cosa?» Lui si dondolava sul posto, come un cavallo ombroso. «Stai scherzando.» «Per niente.»

«Non l’ho fatto e basta, hai capito? Non funzionava. Mi spiace. Sei venuta per questo? Perché ti porgessi le mie scuse?»

Sembrava un lamento, e lei si chiese per quale motivo fosse uscita con lui.

«No, non sono venuta per avere le tue scuse.»

«Allora perché? Senti, ho compagnia.» Indicò con il pollice alle sue spalle.

«Devo andare.» Mentre la domanda restava sospesa nell’aria, Adam tornò a guardarsi intorno con aria preoccupata, e Beth comprese quello che stava accadendo.

«Hai paura di lui, vero?» disse.

Adam si sforzò di restare impassibile, ma lei capì di aver colto nel segno.

«Di chi? Che cosa stai dicendo?»

«Di Keith Clayton. Il mio ex marito.»

Adam aprì la bocca per replicare e non gli uscì neppure una sillaba.

Deglutì nervosamente, poi cercò di negare. «Non capisco cosa c’entri adesso.»

Lei gli si avvicinò di un passo. «Che cosa ti ha fatto? Ti ha minacciato? Ti ha spaventato?» «No! Non voglio parlare», rispose lui. Si girò verso la porta e afferrò la maniglia. Lei lo prese per un braccio e avvicinò il viso al suo. Adam tese i muscoli, poi si rilassò.

«L’ha fatto, vero?» insistette Beth.

«Non posso parlare di questo.» Esitò. «Lui...»

Sebbene sospettasse che Logan e Nana avessero ragione, sebbene fosse stato l’istinto a indurla ad andare lì, fu come se qualcosa dentro di lei crollasse di fronte all’ammissione di Adam. «Che cosa ti ha fatto?»

«Non posso dirtelo. Dovresti capirlo meglio di chiunque altro. Sai che tipo è. Lui...» Lasciò la frase in sospeso, come se si fosse reso conto improvvisamente di aver detto troppo.

«Lui che cosa?»

Adam scrollò il capo. «Niente. Non farà proprio niente.» Raddrizzò le spalle. «Tra di noi non ha funzionato. Mettiamola così.»

Aprì la porta. Si fermò, facendo un profondo respiro, e lei si chiese se stesse per cambiare idea.

«Ti prego di non tornare più qui», le disse.

Beth era seduta sul dondolo in veranda, a guardare la pioggia che scrosciava, i vestiti ancora bagnati. Nana l’aveva lasciata da sola con i suoi pensieri, limitandosi a portarle una tazza di tè caldo e un biscotto fatto in casa prima di tornare dentro senza dire una parola.

Bevve svogliatamente un sorso di tè. Non sentiva freddo; nonostante il diluvio, l’aria era tiepida e tutt’intorno a lei volute di nebbia salivano dal terreno. In lontananza il vialetto sembrava svanire nel grigiore indistinto.

Il suo ex marito sarebbe arrivato presto. Keith Clayton. Ogni tanto pronunciava sottovoce quel nome, come se fosse un’oscenità.

Non riusciva a crederci. No, al contrario. Ci credeva eccome. Anche se aveva voglia di dare uno schiaffo ad Adam per la sua vigliaccheria, non poteva biasimarlo del tutto. Era un tipo simpatico, ma di sicuro non un marcantonio. Non avrebbe avuto nessuna chance in uno scontro fisico con il suo ex.

Però non le aveva nemmeno rivelato in che modo Keith fosse riuscito a intimidirlo. Del resto non era difficile immaginarlo; lei sapeva che Adam aveva affittato il suo ufficio dalla famiglia Clayton, che possedeva quasi tutti gli edifici commerciali del centro. Keith aveva giocato la carta dell’affitto? Oppure quella del poliziotto? Fino a dove si era spinto? Mentre se ne stava lì in veranda, cercò di calcolare con precisione quante volte ciò fosse accaduto. Non erano state molte, forse cinque o sei le relazioni finite più o meno allo stesso modo improvviso e inspiegabile, come con Adam. Contando anche Frank... e quando era successo? Sette anni prima? Possibile che lui la seguisse, la spiasse da tutto quel tempo?

Quella scoperta le fece venire la nausea.

E Adam...

E tutti quei tipi che si accucciavano e abbassavano le orecchie non appena Keith faceva la voce grossa? Certo, lui apparteneva a una famiglia potente, per di più era anche un poliziotto, ma perché non riuscivano a comportarsi da veri uomini? A dirgli di farsi gli affari suoi? E come mai non avevano quantomeno il coraggio di venire a raccontarle la cosa? Invece, si allontanavano con la coda tra le gambe. Tra loro e Keith, non si poteva certo dire che fosse stata fortunata in amore. Era colpa sua se sceglieva individui così deludenti?

Forse sì, ammise. Ma non era quello il punto. Il fatto era che Keith aveva agito nell’ombra per mantenere la situazione esattamente come voleva.

Come se lei fosse una sua proprietà.

L’idea le fece provare un nuovo impeto di nausea, e desiderò che Logan fosse lì. Non perché tra poco Keith sarebbe arrivato a portare Ben. Non aveva bisogno di lui per questo. Keith non le aveva mai fatto paura, perché in fondo sapeva che era soltanto un bullo, e i bulli erano pronti a farsi da parte non appena trovavano qualcuno che teneva loro testa. Era la ragione per cui neanche Nana lo temeva. E neppure Drake, il che aveva sempre innervosito Keith.

No, voleva che Logan fosse lì perché era bravo ad ascoltare, e non avrebbe interrotto il suo sfogo, non avrebbe cercato di risolvere il suo problema, né si sarebbe annoiato anche se lei avesse ripetuto cento volte: «Non posso credere che l’abbia fatto davvero». L’avrebbe lasciata parlare.

D’altronde, pensò, l’ultima cosa che voleva era parlare per sfogare la rabbia. Molto meglio lasciarla cuocere a fuoco lento. Nell’affrontare Keith la collera le serviva per essere più mordace, ma al tempo stesso non doveva perdere il controllo. Se si fosse messa a gridare, lui avrebbe semplicemente negato tutto e se ne sarebbe andato a testa alta. L’obiettivo era fare in modo che Keith rimanesse fuori dalla sua vita privata – specie ora che vi era entrato Logan – senza che questo rendesse i fine settimana di Ben con il padre ancora più infernali.

No, meglio che Logan non fosse lì. Keith avrebbe potuto reagire in maniera esagerata se lo avesse visto, magari perfino provocarlo, e questo era rischioso. Se Logan avesse anche soltanto accennato a toccare il suo ex, si sarebbe ritrovato in prigione per molto, molto tempo. Più tardi gliene avrebbe parlato, per essere sicura che capisse come funzionavano le cose lì a Hampton. Ma per il momento doveva concentrarsi su Keith.

Vide spuntare i fari in lontananza, e la macchina dapprima parve liquefarsi, poi solidificarsi a mano a mano che si avvicinava alla casa.

Nana sbirciò fuori dalla finestra prima di chiudere le tende. Beth si alzò dal dondolo e rimase sul bordo della veranda mentre la portiera del passeggero si spalancava. Ben scese reggendo in mano lo zaino e finì dentro una pozzanghera, inzaccherandosi le scarpe. Senza farci caso, salì di corsa i gradini.

«Ciao, mamma», disse. Si abbracciarono, poi lui la guardò in viso.

«Possiamo mangiare gli spaghetti stasera?»

«Certo, tesoro. Com’è andato il fine settimana?»

Ben alzò le spalle. «Come al solito.»

«Capisco», rispose lei. «Senti, perché non vai dentro a cambiarti? Nana ha appena fatto i biscotti. E togliti le scarpe bagnate.»

«Tu non vieni?»

«Ti raggiungo tra un attimo. Devo parlare con tuo padre.» «Perché?»

«Non preoccuparti. Non riguarda te.»

Lui cercò di interpretare la sua espressione, e Beth gli posò una mano sulla spalla. «Su, entra. Nana ti aspetta.»

Mentre Ben entrava, Keith abbassò il finestrino di un paio di dita. «Ci siamo divertiti un casino questo fine settimana! Non credergli se ti dice qualcosa di diverso.»

Aveva un tono arrogante e sicuro di sé. Probabilmente, pensò lei, perché non c’era traccia di Logan.

Fece un passo avanti. «Hai un minuto?» gli gridò.

Lui la scrutò dalla fessura del finestrino, poi mise in folle e spense il motore. Aprì la portiera, scese e si affrettò verso la veranda. Una volta al riparo scrollò la testa, facendo volare in giro qualche goccia d’acqua, poi le sorrise. Probabilmente credeva di essere sexy.

«Che cosa c’è?» domandò. «Come ti ho detto, io e Ben ci siamo divertiti un sacco.» «Gli hai dato di nuovo l’incarico di pulire la cucina?» Il suo sorriso spavaldo scomparve. «Che cosa vuoi Beth?» «Non ti scaldare così.

Ti ho solo fatto una domanda.» Lui la fissò, contrariato. «Io non vengo a dirti che cosa devi fare quando Ben è con te, e mi aspetto che tu mi usi la stessa cortesia. Allora, di che cosa volevi parlarmi?» «Di alcune cosette.»

Nonostante il disgusto che provava, si costrinse a sorridere e indicò il dondolo. «Ti va di sederti?» Keith era stupito. «Certo», rispose. «Ma non posso fermarmi a lungo. Ho dei progetti per la serata.» Come no, pensò lei.

Può darsi che sia vero, oppure vuole solo farmelo credere. Aveva sentito mille volte quell’affermazione da dopo il divorzio.

Si sedettero sul dondolo, e lui lo spinse avanti e indietro prima di appoggiarsi alla spalliera allargando le braccia. «E perfetto. Lo hai messo qui tu?»

Lei cercò di stargli il più distante possibile. «No, Logan.» «Logan?»

«Logan Thibault. Lavora per Nana al canile. Ti ricordi? Lo hai conosciuto.» Keith si grattò il mento. «Il tizio che era qui l’altra volta?» Come se tu non lo sapessi. «Sì, lui.»

«Ed è contento di pulire le gabbie e raccogliere schifezze?» domandò.

Beth non abboccò all’amo. «Uh-huh.»

Keith sbuffò. «Meglio lui di me», e si voltò verso di lei. «Allora, che cosa succede?» Beth soppesò con cura le parole. «Per me non è facile parlartene, ma...» Fece una pausa per stuzzicare la sua curiosità.

«Che c’è?»

Lei raddrizzò la schiena. «L’altro giorno, una mia amica mi ha riferito una cosa che mi ha lasciata perplessa.»

«Che cosa ti ha detto?» Keith si chinò verso di lei, diffidente.

«Prima voglio precisare che si tratta soltanto di un pettegolezzo. L’amica dell’amica di un’amica ha sentito qualcosa, e alla fine la voce è arrivata fino a me. Riguarda te.»

Lui aveva un’espressione incuriosita. «Hai tutta la mia attenzione.»

«Quello che ha detto è...» Esitò. «Che in passato tu mi hai seguita quando uscivo con degli uomini. E poi hai fatto capire ad alcuni di loro che dovevano smettere di frequentarmi.» Evitò volutamente di guardarlo mentre parlava, ma con la coda dell’occhio vide il suo volto raggelare.

Non era semplicemente scioccato. Aveva l’aria colpevole. Strinse le labbra per trattenere l’impulso di insultarlo.

La faccia di Keith si rilassò. «È assurdo.» Tamburellò con le dita sulla gamba. «E chi te l’ha detto?» «Non ha importanza.» Beth fece un gesto vago con la mano. «Tanto non la conosci.» «Sono curioso», insistette lui.

«Non ha importanza», ripeté lei. «Dato che non è vero, giusto?» «Certo che no. Come hai potuto anche solo pensare una cosa del genere?»

Bugiardo! Gridò Beth dentro di sé. Lui scrollò il capo. «A me sembra che dovresti sceglierti meglio le amiche. E, sinceramente, mi offende anche un po’ parlare di questa cosa.»

Lei si sforzò di sorridere. «Naturalmente io le ho risposto che si sbagliava.» «Però volevi esserne sicura chiedendolo direttamente a me.»

Colse una traccia di collera nella sua voce, e si fece più cauta.

«Già che venivi qui», rispose in un tono casuale. «Inoltre ci conosciamo abbastanza da non avere segreti tra di noi.» Lo guardò con gli occhioni spalancati, come la vittima innocente di un malinteso. «Ti dispiace che te l’abbia chiesto?»

«No, però, anche solo pensarlo...» Keith gettò in aria le mani.

«Io non l’ho mai pensato. Comunque volevo informarti, perché immaginavo ti sarebbe interessato sapere quello che dice la gente di te alle tue spalle. Non mi piace che parlino del padre di Ben in questi termini, e l’ho chiarito subito.»

Le sue parole ebbero l’effetto desiderato: lui gonfiò il petto, pieno di legittimo orgoglio.

«Grazie di avermi difeso.»

«Non è successo niente di grave. Sai quanti pettegolezzi girano. È il vizio di tutte le piccole città.» Sorrise. «Allora, come va? Il lavoro tutto bene?»

«Come sempre. E com’è la tua classe quest’anno?» «I bambini sono bravi.

Almeno per il momento.»

«Buon per te», disse lui. Indicò il cortile. «Un bel temporale, eh? Si riesce a malapena a vedere la strada.»

«Stavo pensando lo stesso mentre arrivavi. Sembra incredibile. Ieri in spiaggia il tempo era splendido.»

«Sei stata in spiaggia?» Beth annuì. «Con Logan. Ormai ci frequentiamo da un po’.» «Ah», fece lui. «Mi pare che la cosa stia diventando seria.» Lei gli scoccò un’occhiata obliqua. «Non dirmi che la mia amica aveva ragione su di te.» «No, naturalmente no.»

Finse di ridere divertita. «Lo so bene. Stavo scherzando. Comunque no, ancora non c’è niente di serio, però è una persona fantastica.»

Lui unì le mani. «E che cosa ne pensa Nana?»

«Perché me lo chiedi?»

Keith cambiò posizione sul cuscino. «Intendo dire che certe situazioni possono diventare complicate.»

«Quali situazioni?»

«Quel tizio è un dipendente del canile, e sai come sono i tribunali di questi tempi. Tu ti stai esponendo al rischio di una denuncia per molestie sessuali sul lavoro.»

«Lui non farebbe mai niente...»

Keith le spiegò con calma la situazione, come se stesse rivolgendosi a un bambino. «Fidati di me. E quello che dicono sempre. Però pensaci. Lui non ha legami nella comunità e, se lavora per Nana, dubito che disponga di molti soldi. Senza offesa, ma ricordati che la tua famiglia possiede diversi terreni. Quindi, se fossi in te, terrei gli occhi bene aperti.»

Aveva un’aria convincente e premurosa. Sembrava un amico che si preoccupava solo per il suo benessere. Che bravo attore, pensò lei.

«La casa e la terra appartengono a Nana. Non a me.» «Tu sai che cosa sono capaci di fare gli avvocati.» Certo, si disse Beth. Ricordo quello che ha fatto il tuo alle udienze per stabilire la custodia di Ben. «Non credo che questo sarà un problema. Ma ne parlerò con Nana», concesse.

«Ottima idea.» Sembrava compiaciuto.

«Comunque sono contenta di non essermi sbagliata nei tuoi confronti.» «In che senso?»

«Sai, sul fatto che per te non è un problema se esco con Logan. A parte le tue preoccupazioni per un’eventuale denuncia. Devo ammettere che lui mi piace molto.»

Keith scavallò le gambe. «Non è che non ci sia proprio nessun problema.»

«Ma se hai appena detto...»

«Non m’interessa con chi esci. Però mi importa, eccome, di chi fai entrare nella vita di mio figlio, perché gli voglio bene.»

«È giustissimo. Ma non capisco che cosa c’entri Ben adesso», protestò lei.

«Ascolta, Beth... da questo punto di vista tu sei un’ingenua. Mentre io nel mio lavoro vedo cose terribili in continuazione, quindi devo proteggere il bambino. Magari quell’uomo è un violento o addirittura un pervertito che una volta ha...»

«Non è niente del genere», lo interruppe Beth. Nonostante tutto, non poté fare a meno di arrossire. «Gli abbiamo chiesto informazioni sul suo passato.»

«Potrebbe avere mentito. Non è difficile crearsi una nuova identità. Per esempio, sei sicura che il suo vero nome sia Logan? Da queste parti nessuno lo conosce. Hai per caso parlato con qualche suo vecchio amico?

O con qualcuno della sua famiglia?»

«No...»

«Vedi? Devi stare attenta. E non lo dico soltanto per Ben. Anche per te. Ci sono un sacco di malintenzionati in giro, che non sono ancora in galera proprio perché hanno imparato a camuffarsi.»

«Adesso ne parli come se fosse un criminale!»

«Niente affatto. Potrebbe essere la persona più carina e responsabile del mondo. Sto solo dicendo che tu non puoi sapere chi sia veramente. E finché non lo scopri, meglio andarci cauti. Anche tu leggi i giornali e guardi la tivù, quindi capisci cosa intendo. Non voglio che accada qualcosa di male a Ben. Né vederti soffrire.»

Beth aprì la bocca per ribattere, ma per la prima volta da quando si era seduta sul dondolo con il suo ex, non trovò nulla da dire. 21 Clayton

Seduto al volante della macchina, Clayton era dannatamente soddisfatto di sé.

Aveva dovuto pensare in fretta, tuttavia, vista la piega presa dalla conversazione, gli era andata molto meglio del previsto. Qualcuno aveva fatto la spia e, mentre guidava, cercò di capire chi potesse essere stato. In genere nelle piccole città non esistevano segreti, ma a parte lui, gli unici al corrente della cosa erano i pochi uomini a cui aveva tenuto il suo discorsetto.

Forse si trattava di uno di loro, però ne dubitava. Erano tutti dei vigliacchi, nessuno escluso, ed erano già passati ad altro. Non c’era motivo che dicessero qualcosa. Perfino quel deficiente di Adam si era trovato una ragazza, e questo rendeva assai improbabile che si fosse messo a parlare proprio adesso.

Del resto, poteva anche essere semplicemente una voce. Per nutrire sospetti su di lui bastava collegare gli indizi. Una bella donna che viene scaricata più volte senza un motivo apparente... e, ripensandoci, forse lui aveva accennato qualcosa a Moore o persino a Tony, e qualcuno magari lo aveva sentito, anche se non era mai stato così stupido né così sbronzo da entrare nei dettagli. Si rendeva conto dei problemi che avrebbe potuto causare a suo padre, soprattutto dato che di solito ricorreva a minacce collegate alle forze dell’ordine.

Non dava troppo credito a Beth quando sosteneva di essere stata informata da un’amica. Poteva benissimo trattarsi di un uomo come di una donna; invece era abbastanza sicuro che lei avesse ricevuto quell’informazione di recente. Conoscendola bene, sapeva che non si sarebbe tenuta dentro a lungo una cosa del genere.

Clayton era passato a prendere Ben il sabato mattina, e lei non gli aveva detto nulla. Per sua stessa ammissione, Beth quel giorno era stata in spiaggia con Tai- bolt. La domenica mattina lui l’aveva vista alla messa e nel tardo pomeriggio l’aveva trovata in casa. Con chi aveva parlato? E quando?

Probabilmente si trattava di Nana, concluse. Quella donna era sempre stata una spina nel fianco per lui. E anche per il Vecchio. Negli ultimi quattro o cinque anni il nonno aveva cercato di convincerla a vendere la sua terra per poterci costruire sopra. Non solo si affacciava sul fiume, ma c’erano anche due torrenti. La gente che si trasferiva dal Nord amava le proprietà lungo il fiume. Ma il Vecchio accettava senza battere ciglio le risposte negative di Nana; per qualche ragione lei gli stava simpatica.

Probabilmente perché frequentavano la stessa chiesa, una cosa che Nana non reputava altrettanto rilevante quando si trattava del suo ex genero.

Tuttavia, non riusciva a levarsi dalla mente che ci fosse lo zampino di Taibolt. Ma come diavolo aveva fatto a scoprirlo? Si erano visti solo un paio di volte, e non era possibile che avesse intuito la verità da quegli incontri.

Però, la visitina che aveva fatto a casa sua? Clayton ci pensò un po’ su, prima di scartare l’idea. Era entrato e uscito in venti minuti e non aveva dovuto nemmeno forzare la serratura, visto che il tizio non si preoccupava di chiudere a chiave la porta. Non aveva preso niente, pertanto era impossibile che Tai-bolt si fosse accorto che qualcuno era stato lì, no? E anche in caso contrario, perché avrebbe dovuto pensare proprio a Clayton?

Comunque, la teoria che Tai-bolt fosse in qualche modo coinvolto gli sembrava credibile. Non aveva avuto altro che problemi da quando quel tizio era arrivato in città. Quindi metteva Tai-bolt ai primi posti nella sua lista di gente che avrebbe fatto meglio a badare agli affari propri. Non vedeva l’ora di dargli una lezione.

In ogni caso non doveva agire impulsivamente. Era ancora compiaciuto con se stesso per come se l’era cavata con Beth. Poteva essere un disastro.

Non si aspettava proprio che lei gli chiedesse se fosse intervenuto nelle sue storie sentimentali, ma aveva parato bene il colpo. Era riuscito a negarlo in maniera convincente, e le aveva pure instillato qualche dubbio su Tai-bolt.

A giudicare dalla sua espressione, era chiaro che finora Beth non aveva visto la cosa sotto certi aspetti... e soprattutto lui l’aveva convinta a pensarci per il bene di Ben. Chissà. Magari alla fine sarebbe stata lei a lasciare Tai-bolt, e a farlo uscire di scena.

Clayton guidava piano, assaporando il gusto della vittoria. Si chiese se fosse il caso di festeggiare con una birra, poi decise di no. Non poteva rischiare di mettersi a parlare della faccenda. Forse era proprio così che si era cacciato nei guai.

Svoltò all’incrocio e passò davanti a una serie di villette ben tenute con grandi giardini. Lui abitava in fondo a quella via privata; i suoi vicini erano un dottore e un avvocato. Non se la passava per niente male, si disse.

Solo quando imboccò il vialetto notò un uomo in piedi sul marciapiede.

Mentre rallentava vide il cane accucciato al suo fianco, allora frenò bruscamente, battendo le palpebre incredulo. Piantò lì la macchina e, nonostante la pioggia, scese di slancio dirigendosi verso Tai-bolt.

Zeus ringhiò, scivolando in avanti. Lui si bloccò. Tai-bolt alzò una mano e il cane rimase fermo sul posto.

«Che cosa diavolo ci fai qui?» gridò Clayton, per farsi sentire sopra lo scroscio della pioggia.

«Ti aspettavo», rispose Tai-bolt. «Penso sia giunto il momento di scambiare quattro chiacchiere.» «Perché diavolo dovrei parlare con te?» sbottò lui, sprezzante.

«Lo sai benissimo.»

Quelle parole non gli piacquero affatto, ma non si sarebbe lasciato intimidire da un hippie. Né ora né mai.

«Quello che so è che stai vagabondando. In questa contea è un reato.»

«Non mi arresterai.» Stava giusto pensando di farlo. «Al posto tuo non ne sarei tanto sicuro.»

Tai-bolt continuò a fissarlo con aria di sfida. Clayton avrebbe voluto levargli quell’espressione arrogante dalla faccia con un bel pugno. Ma c’era l’onnipresente Cujo.

«Che cosa vuoi?»

«Noi due dobbiamo parlare.» Il suo tono era neutro e determinato.

«Non ho proprio niente da dirti», replicò Clayton, furioso. «Adesso io vado a casa. Se ti vedo ancora qui mentre salgo in veranda, ti denuncerò per oltraggio a pubblico ufficiale.»

Si incamminò lungo il vialetto, diretto verso la porta.

«Non sei riuscito a trovare la scheda», gli urlò dietro Tai-bolt.

Clayton si fermò, voltandosi. «Che cosa?»

«La scheda di memoria», precisò Tai-bolt. «L’hai cercata dappertutto a casa mia. Hai frugato nei cassetti, sotto il materasso, negli armadi.»

«Non sono mai entrato in casa tua.» Lo guardò socchiudendo gli occhi.

«Invece sì», ribatté lui. «Lunedì scorso, mentre io ero al lavoro.»

«Dimostralo», abbaiò.

«Il sensore di movimento ha acceso la telecamera nascosta nel camino.

Immaginavo che prima o poi saresti entrato per tentare di recuperare la scheda in mio possesso.»

Clayton provò una stretta allo stomaco mentre si chiedeva se Tai-bolt stesse bluffando. Forse sì o forse no; non sapeva dirlo.

«Menti.»

«Allora vattene pure. Sarò ben lieto di consegnare il nastro al giornale o all’ufficio dello sceriffo.» «Che cosa vuoi?»

«Te l’ho già detto, per noi è giunto il momento di parlare.» «A che proposito?»

«Del fatto che sei un gran sacco di merda.» Pronunciò quelle parole lentamente. «Scatti foto alle studentesse mentre prendono il sole nude.

Cosa ne penserebbe tuo nonno? Cosa direbbe la gente se la notizia comparisse sul giornale? E credi che tuo padre, come sceriffo della contea, sarebbe felice di sapere che ti sei intrufolato in quel modo in casa mia?»

Clayton sentì un’altra fastidiosa stretta allo stomaco. «Che cosa vuoi?» ripeté con voce stridula.

Tai-bolt continuava a fissarlo, immobile.

«Voglio che tu impari a comportarti meglio», gli disse.

«E cioè?»

«Te lo spiego subito. Primo: d’ora in poi tieniti fuori dalla vita privata di Elizabeth.» Clayton non capiva. «Chi è Elizabeth?»

«La tua ex moglie.»

«Vuoi dire Beth?»

«Hai interferito in tutte le sue relazioni da quando avete divorziato. Lo sai tu, e lo so io. E adesso ne è informata anche lei. Non deve succedere di nuovo. Mai più. Siamo d’accordo?»

Clayton non rispose.

«Secondo: stai lontano da me. Ciò significa da casa mia, dal mio lavoro e da tutto il resto. Intesi?» Clayton rimase zitto.

«Eterzo, ricordati sempre questo.» Alzò la mano con il palmo rivolto all’infuori, come se pronunciasse un giuramento. «Se cercherai di sfogare con Ben la rabbia che provi nei miei confronti, dovrai risponderne a me personalmente.» Clayton si sentì rizzare i capelli sulla nuca. «È una minaccia?» «No», rispose Tai-bolt, «è la pura verità. Se farai queste tre cose, non ci saranno problemi. Nessuno verrà a conoscenza di quello che hai combinato.»

Clayton strinse la mascella.

Mentre Zeus rimaneva fermo al suo posto, Tai-bolt si avvicinò, mettendosi faccia a faccia con lui. Gli parlò con la voce calma che aveva usato fino a quel momento.

«Ascoltami bene: tu non hai mai incontrato uno come me, prima. Ti assicuro che non ti conviene avermi come nemico.»

Detto questo, si voltò e si allontanò sul vialetto. Zeus continuò a fissare Clayton finché non udì il comando di richiamo. Allora trotterellò verso Tai-bolt, lasciando Keith sotto la pioggia a chiedersi come una situazione così perfetta fosse potuta precipitare all’improvviso. 22 Thibault

«Da grande voglio fare l’astronauta», annunciò Ben.

Stavano giocando a scacchi sulla terrazza coperta, e Thibault era intento a riflettere sulla mossa successiva. Non aveva ancora vinto neanche una partita e il fatto che il bambino avesse cominciato a chiacchierare gli pareva un brutto segno. Avevano giocato spesso a scacchi ultimamente; dall’inizio di ottobre – erano passati ormai nove giorni – non aveva mai smesso di piovere. La parte orientale dello stato era già inondata e gli affluenti dei fiumi continuavano a ingrossarsi.

«Bene.»

«Oppure il pompiere.»

Thibault annuì. «Io ho conosciuto qualche pompiere.» «O magari il dottore.»

«Mmm», disse Thibault. Allungò la mano verso l’alfiere.

«Io non lo farei», lo avvisò Ben.

Thibault alzò lo sguardo.

«So cosa hai in mente», spiegò Ben, «ma non funzionerà.» «Che cosa dovrei fare, allora?»

«Un’altra mossa.»

Thibault ritirò la mano. Un conto era perdere, tutt’altro perdere in continuazione. E poi Ben sembrava diventare sempre più bravo. La partita precedente si era chiusa in ventun mosse.

«Ti piacerebbe visitare la mia casetta sull’albero?» chiese Ben. «È proprio bella. Ha una grossa piattaforma sopra il torrente e un ponte sospeso.» «Certo.»

«Non ora, però. Magari un’altra volta.»

«Magnifico», disse Thibault allungando la mano verso la torre.

«Io non muoverei neanche quella.»

Thibault aggrottò la fronte mentre Ben si appoggiava alla spalliera. «Il mio è solo un consiglio», aggiunse.

«Che cosa dovrei fare?»

Ben alzò le spalle. «Quello che vuoi», rispose con l’aria e la voce di un bambino di dieci anni qual era.

«A parte muovere l’alfiere o la torre?»

Gli indicò la scacchiera. «E l’altro alfiere. Conoscendoti, sarà la tua prossima scelta, visto che stai cercando di difendere il cavallo. Ma non funzionerà lo stesso, perché io sacrificherò l’alfiere e sposterò la regina per mangiare quel pedone. Così bloccherò la tua regina e, una volta fatto l’arrocco, muoverò il cavallo lì. Ancora due mosse e ti darò scacco matto.»

Thibault si portò una mano al mento. «Ho qualche possibilità di vincere la partita?» «No.»

«Quante mosse mi restano?»

«Da tre a sette, dipende.»

«Forse allora sarebbe meglio cominciarne una nuova.» Ben si alzò gli occhiali sul naso. «Forse sì.»

Potevi dirmelo prima.»

«Sembravi così concentrato. Non volevo disturbarti.> La partita successiva non andò meglio. Anzi, fu peggio perché Elizabeth si era seduta al suo fianco e faticava a trattenere le risatine mentre lui e Ben si scambiavano le solite battute. In quelle sere di pioggia Thibault si era sempre fermato lì a cena. Dopo mangiato il bambino andava di sopra a fare la doccia e Nana spediva loro due fuori in veranda intanto che puliva la cucina, dicendo frasi del tipo:

«Riordinare per me è naturale quanto per una scimmia girare nuda».

Era un modo per permettergli di restare un po’ da solo con Elizabeth prima di tornare a casa, e tutte le volte Thibault restava sorpreso da come Nana, non appena finito il lavoro, smettesse di essere il suo capo per calarsi con disinvoltura nei panni della nonna della sua fidanzata.

Ormai si stava facendo tardi. Nana era al telefono, Elizabeth era tornata dentro per mettere a letto Ben, e Thibault, seduto sul dondolo, sentiva la stanchezza pesargli sulle spalle. Non aveva dormito molto dopo il suo confronto con Clayton. La sera del loro incontro – non sapendo come l’uomo avrebbe reagito – era rimasto a casa sua e, dopo aver spento le luci in camera da letto, era uscito sul retro scavalcando la finestra e si era appostato nel bosco, assieme a Zeus. Nonostante la pioggia era rimasto fuori a lungo, in attesa di Clayton. La notte successiva si era messo di guardia a casa di Elizabeth; la terza notte aveva fatto la spola tra le due case. La pioggia incessante non era un problema; si portava dietro un paio di teli mimetici impermeabili per tenere all’asciutto lui e il cane. Il giorno dopo, però, era faticoso lavorare avendo riposato solo qualche ora prima dell’alba. Così aveva cominciato ad alternare le notti di guardia.

Comunque, non avrebbe smesso di vigilare. Quell’uomo era imprevedibile, pericoloso, e Thibault stava sempre all’erta mentre lavorava al canile e quando andava in città a sbrigare delle commissioni. La sera, per tornare a casa, sceglieva ogni volta tragitti diversi, attraversando le zone boscose di corsa e guardandosi alle spalle lungo la strada per assicurarsi che Clayton non lo seguisse. Non aveva paura di lui, ma non era nemmeno stupido. Clayton apparteneva alla famiglia più importante della Hampton County, ed era anche un poliziotto, il che lo preoccupava molto. E se avesse piazzato qualcosa di compromettente – droga, refurtiva, persino un’arma usata per un delitto – a casa sua? Per poi denunciarlo e fare in modo che venissero trovate le prove? Per lui sarebbe stato facile.

Thibault era sicuro che qualsiasi tribunale della contea avrebbe dato più peso alla testimonianza di un agente di polizia che alla parola di un forestiero, a dispetto dell’inconsistenza delle prove o della validità del suo alibi. Se a ciò si aggiungevano le bustarelle e l’influenza dei Clayton, sarebbe stato un gioco da ragazzi produrre testimoni pronti ad accusare Thibault di qualsiasi reato.

L’aspetto più inquietante era che riteneva Clayton capacissimo di compiere quelle azioni, per questo motivo era andato a parlargli e gli aveva detto della scheda e del nastro registrato. Sebbene non avesse in mano nessuna delle due cose – aveva distrutto la scheda subito dopo aver preso la macchina fotografica, e si era inventato sul momento la storia della telecamera nascosta – bluffare gli era sembrato l’unico modo per guadagnare un po’ di tempo. L’ostilità che Clayton nutriva nei suoi confronti era forte. E visto quello che aveva fatto finora, quell’uomo non si sarebbe fermato davanti a niente pur di sbarazzarsi di un rivale.

Le minacce di informare il giornale e lo sceriffo, e l’accenno al nonno, erano serviti a rendere credibile il bluff. Sapeva che Clayton era alla ricerca della scheda con le foto perché temeva che Thibault potesse usarla per metterlo nei guai nel suo lavoro, ma anche – era bastata una piccola ricerca nella biblioteca locale per capirlo – con la sua illustre famiglia.

Il problema dei bluff, tuttavia, era che funzionavano finché non venivano scoperti. Quanto tempo sarebbe passato prima che Clayton lo smascherasse? Qualche settimana? Un mese? Un po’ di più? E poi? In quel momento Clayton pensava che il rivale fosse in vantaggio, e di certo questo non faceva che aumentare il suo risentimento. Prima o poi la rabbia avrebbe preso il sopravvento e sarebbe esplosa contro di lui, Elizabeth e Ben. Se Thibault non avesse dato seguito alle proprie minacce – tirando fuori la scheda o il nastro registrato – Clayton si sarebbe sentito libero di agire come meglio credeva.

Thibault non aveva ancora deciso cosa fare. Non riusciva proprio a immaginare di lasciare Elizabeth... e neppure Ben e Nana. Più restava a Hampton, più sentiva che quello era il suo posto, quindi non solo doveva tenere d’occhio Clayton, ma anche cercare di evitarlo il più possibile. La sua unica speranza era che, alla lunga, l’uomo accettasse la situazione, rassegnandosi al peggio. Anche se era molto improbabile.

«Hai di nuovo quello sguardo», disse Elizabeth aprendo la porta alle sue spalle. «Sono solo stanco dopo una settimana di lavoro. Pensavo che l’afa fosse micidiale, ma almeno dal caldo puoi ripararti. Mentre la pioggia ti entra nelle ossa.»

Lei gli si sedette accanto sul dondolo. «Non ti piace sentirti fradicio?»

«Diciamo che non è il massimo.»

« Capisco. »

«Però non è un grosso problema. Il più delle volte non mi da fastidio, e comunque è meglio che mi bagni io piuttosto che Nana. E poi domani è venerdì, giusto?»

Lei gli sorrise. «Stasera ti riaccompagno a casa in macchina. E niente obiezioni.» «Va bene.»

Elizabeth sbirciò dentro dalla finestra, prima di girarsi di nuovo verso di lui. «Eri sincero quando hai detto che sapevi suonare il pianoforte, vero?»

«Sì.»

«Quand’è stata l’ultima volta che lo hai fatto?»

Lui cercò di ricordare. «Due o tre anni fa.»

«In Iraq?»

Annuì. «Per il compleanno di un ufficiale in comando. Era un appassionato di Willie Smith, uno dei più grandi pianisti jazz degli anni Quaranta e Cinquanta. Quando si sparse la voce che sapevo suonare, mi costrinsero a esibirmi.»

«In Iraq», ripeté lei, senza nascondere il proprio stupore.

«Anche i marines ogni tanto hanno bisogno di rilassarsi.» Lei si scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Quindi sei capace di leggere la musica.» «Naturale», confermò lui. «Perché? Vuoi che insegni a Ben?»

Sembrava che lei non lo avesse ascoltato. «E in chiesa? Ci vai mai?» Lui si girò a guardarla.

«Ho la sensazione che questo nostro dialogo non serva solo a conoscerci meglio.» «Mentre ero in casa, ho sentito Nana parlare al telefono. Sai quanto sia affezionata al coro, no? E che ha appena ricominciato a cantare come solista.» Lui ci pensò un po’ su prima di rispondere, senza preoccuparsi di mascherare la propria diffidenza per la piega presa dalla conversazione. «Sì.» «Questa domenica canterà un pezzo più lungo. È molto esaltata all’idea.» «Tu no?»

«Abbastanza.» Sospirò. «Purtroppo ieri Abigail è caduta e si è rotta un polso. È quello di cui stava discutendo Nana con la direttrice.»

«Chi è Abigail?»

«La pianista della chiesa. Accompagna il coro tutte le domeniche.»

Elizabeth cominciò a dondolarsi avanti e indietro, guardando la pioggia.

«Nana ha detto che avrebbe trovato un sostituto. Anzi, l’ha promesso.»

«Ah, sì?»

«Pare che abbia già in mente qualcuno.»

«Capisco.»

Elizabeth alzò le spalle. «Ho ritenuto giusto informarti. Sono sicura che tra poco Nana verrà qui a parlartene, e non volevo ti cogliesse impreparato.»

«Te ne sono grato.»

Thibault rimase in silenzio per un po’ e lei gli appoggiò la mano sul ginocchio. «Che cosa ne pensi?»

«In realtà, temo di non avere scelta.»

«Certo che puoi scegliere. Nana non ti costringerà a farlo.» «Anche se ha promesso di trovare una soluzione?» «Probabilmente capirebbe. Con il tempo.» Si portò la mano al petto. «Una volta che il suo cuore spezzato sarà guarito, sono certa che ti perdonerà perfino.» «Ah», fece lui.

«E ciò non peggiorerà le sue condizioni di salute. Nonostante l’ictus e la terribile delusione provata, non dovrà mettersi a letto né niente del genere.»

Thibault abbozzò un sorriso. «Non ti sembra di esagerare un po’?» Gli occhi di Elizabeth lampeggiarono maliziosi. «Può darsi. Ma la domanda è: lo farai?» «Suppongo di sì.»

«Bene. Quindi domani dovrai esercitarti.» «D’accordo.»

«Potrebbe essere impegnativo. Le prove del venerdì durano sempre molto.

Prendono sul serio la loro musica, sai?»

«Magnifico», rispose lui con un sospiro.

«Vedila in questo modo: non dovrai lavorare sotto la pioggia per tutto il giorno.»

«Magnifico», ripeté lui.

Lei lo baciò sulla guancia. «Sei un uomo generoso.

Farò il tifo per te in silenzio dai banchi della chiesa.» «Grazie.»

«Oh, quando arriva Nana, non farle capire che te l’ho detto.»

«Sarò muto come un pesce.»

«E cerca di mostrarti un po’ più entusiasta. Magari perfino onorato. Come se stentassi a credere che ti sia stata offerta un’opportunità del genere.»

«Non posso limitarmi ad accettare e basta?»

«No. Come ho detto, per Nana il coro è molto importante.» «D’accordo», disse lui. Le prese la mano. «Ti rendi conto che potevi semplicemente chiedermelo, senza inscenare tutta questa manfrina per farmi sentire colpevole?» «Lo so», rispose lei. «Ma era decisamente più divertente così.» Come se avesse aspettato un segno, Nana uscì in veranda. Lanciò loro un breve sorriso, poi si appoggiò alla ringhiera e lo guardò.

«Hai più suonato il piano di recente?» domandò.

Thibault dovette fare uno sforzo per non scoppiare a ridere.

Thibault si incontrò con la direttrice del coro il pomeriggio seguente e – nonostante l’iniziale sgomento alla vista di jeans, T-shirt e capelli lunghi – la donna non impiegò molto a capire che lui non solo sapeva suonare, ma era addirittura un esperto musicista. Una volta sgranchite le dita, commise pochissimi errori, anche se in questo fu aiutato dal fatto che i pezzi scelti non erano eccessivamente difficili. Dopo le prove arrivò il reverendo a spiegargli come si sarebbe svolta la funzione.

Nel frattempo Nana sorrideva tutta soddisfatta mentre spiegava alle amiche che lui lavorava al canile e usciva con Beth. Thibault sentiva su di sé gli occhi delle coriste che lo guardavano con malcelata curiosità e, nella maggior parte dei casi, approvazione.

Mentre uscivano, Nana lo prese sottobraccio. «Sei stato meglio di un’anatra ammaestrata», gli disse.

«Grazie», replicò lui, perplesso.

«Ti va di guidare un po’?»

«Dove andiamo?»

«Wilmington. Se partiamo subito, riuscirai a tornare in tempo per invitare Beth fuori a cena. Baderò io a Ben.»

«Che cosa devo comperare?»

«Una giacca sportiva e dei calzoni di tela. Una camicia elegante. Per me vai benissimo anche in jeans, ma se suonerai il pianoforte, domenica a messa dovrai vestirti un po’ meglio.» «Ah», fece lui, sapendo di non avere voce in capitolo.

Quella sera, mentre cenavano alla Cantina, l’unico ristorante messicano in città, Elizabeth fissò Thibault da sopra il bordo del suo bicchiere di Margarita. «Ti rendi conto che ormai sei pappa e ciccia?» domandò.

«Con Nana?»

«Non la smetteva più di ripetere quanto tu sia stato bravo ed educato con le sue amiche, e rispettoso con il reverendo.»

«Da come lo dici, si aspettava che mi comportassi da troglodita.» Lei rise.

«Forse. Ho saputo che oggi ti sei presentato da lei tutto infangato.» «Però mi sono fatto la doccia e mi sono cambiato, prima di andare.» «Lo so. Mi ha raccontato anche questo.»

«E che altro?»

«Oggi le coriste impazzivano per te.»

«L’ha detto lei?»

«No, ma gliel’ho letto in faccia. È naturale. Non capita tutti i giorni che uno sconosciuto giovane e bello entri nella loro chiesa e le folgori al piano.

Come potevano non sdilinquirsi?»

«Secondo me, stai esagerando.»

«Secondo me», replicò lei sfiorando con il dito l’orlo del bicchiere e assaggiando il sale, «hai ancora molto da imparare sulla vita in una piccola città del Sud. Si tratta di un evento epocale. Abigail suonava alla messa da quindici anni.»

«Non ho intenzione di prendere il suo posto. È solo una sostituzione temporanea.» «Meglio ancora. In questo modo la gente potrà fare confronti fra voi due. Ne parleranno per secoli.» «È così che passate il tempo qui?»

«Esatto», confermò lei. «A proposito, non c’è modo migliore per essere accettati dalla comunità.» «Non mi interessa essere accettato da nessuno, a parte te.» «Sempre galante.» Gli sorrise. «Allora senti questa. Keith diventerà furibondo.» «Perché?»

«Perché frequenta la chiesa. Ben sarà con lui domenica quando suonerai, e Keith resterà di sasso nel vedere come tutti apprezzano la tua disponibilità a dare una mano.»

«Non penso sia una buona idea irritarlo ancora di più. Mi preoccupa già quello che può fare adesso.»

«Non può fare proprio niente. Ormai io so quello che ha combinato.»

«Non ne sarei tanto sicuro», la mise in guardia Thi-bault.

«Perché dici così?»

Thibault guardò i tavoli affollati intorno a loro. Come se gli avesse letto nel pensiero, lei si alzò dal suo posto e andò a sederglisi accanto. «Dai, raccontami tutto», bisbigliò.

Lui bevve un sorso di birra. Posò la bottiglia sul tavolo, poi le riferì gli incontri che aveva avuto con il suo ex marito da quando era arrivato in città. Mentre Thibault parlava, l’espressione di Beth passò più volte dal disgusto al divertimento per poi stabilizzarsi su una leggera inquietudine.

«Dovevi parlarmene prima», gli disse accigliata.

«Ho cominciato a preoccuparmi sul serio solo quando è entrato di nascosto in casa mia.» «Pensi davvero che sarebbe capace di farti arrestare?» «Tu lo conosci meglio di me.»

Lei si accorse che le era passato l’appetito. «Credevo di conoscerlo.»

Siccome Ben era con il padre – una circostanza che le sembrava un po’ surreale, alla luce delle recenti scoperte -quel sabato Thibault ed Elizabeth andarono a fare un giro a Raleigh. Pranzarono in un caffè del centro, poi visitarono il museo di storia naturale; la sera si diressero a Chapel Hill. Il North Carolina giocava contro il Clemson e la partita veniva trasmessa sul canale sportivo. I bar erano gremiti di ragazzi che la guardavano su schermi giganti. Quando Thibault li sentì esultare e gridare come se il destino del mondo dipendesse dal risultato di quell’incontro, pensò ai loro coetanei di stanza in Iraq.

Non si trattennero a lungo. Dopo un’ora Elizabeth era pronta a tornare indietro. S’incamminarono verso la macchina, tenendosi abbracciati, e lei gli posò la testa sulla spalla. «È stato bello», disse. «Ma c’era troppa confusione.»

«Il fatto è che stai invecchiando.»

Lei lo strinse in vita, apprezzando i suoi muscoli sodi. «Attento a come parli, giovane, altrimenti stanotte andrai in bianco.»

«Giovane?» ripeté lui.

«È un vezzeggiativo. Lo uso con tutti i ragazzi con cui esco.» «Proprio tutti?»

«Sì, anche con gli sconosciuti per la verità. Per esempio, se mi cedono il posto sull’autobus, rispondo: ‘Grazie, giovane’.»

«Questo mi fa sentire speciale.»

«Ci credo.»

Camminarono in Franklin Street in mezzo alla folla di studenti, guardando le vetrine e assorbendo l’energia di quella vita spensierata. Thibault capiva perché lei avesse voluto venire lì. Era qualcosa che le era mancato a causa di Ben. Eppure, sebbene il suo divertimento fosse evidente, non appariva affatto malinconica né amareggiata per quello che si era perduta da ragazza. Anzi, sembrava più che altro un’antropologa che studia con interesse culture sconosciute. Quando glielo disse, Elizabeth alzò gli occhi al cielo.

«Non rovinarmi la serata. Ti assicuro che i miei pensieri non sono così profondi. Volevo soltanto uscire e divertirmi un po’.»

Andarono a casa di Thibault e restarono alzati fino a tardi, parlando, baciandosi e facendo l’amore. Quando si svegliò al mattino, lui trovò Elizabeth sdraiata lì accanto a fissarlo. «Che cosa stai facendo?» mormorò, la voce impastata di sonno.

«Ti guardo», rispose lei.

«Perché?»

«Perché mi va.»

Sorridendo, le accarezzò il braccio con un dito, felice che lei fosse entrata nella sua vita. «Sei davvero bellissima, Elizabeth.»

«Lo so.»

«Tutto qui? Un semplice ‘lo so’?» chiese lui, fingendosi offeso dalla sua scarsa espansività.

«Non cominciare a diventare appiccicoso con me. Non mi piacciono i tipi troppo emotivi.» «E io non credo di amare le donne che nascondono le loro emozioni.» Lei sorrise e si chinò a baciarlo. «Mi sono divertita moltissimo ieri.» «Anch’io.»

«Dico sul serio. Queste ultime settimane passate con te sono state le migliori della mia vita. E ieri, noi due da soli... non hai idea di quello che ho provato. Ero... una donna e basta. Non una madre, non una maestra, non una nipote. Soltanto io. Non mi capitava da molto tempo.»

«Siamo già usciti insieme altre volte.»

«Lo so. Ma adesso è diverso.»

Lei stava parlando del futuro, un futuro che aveva acquistato una chiarezza e uno scopo mai avuti prima. Guardandola, lui comprese esattamente il senso delle sue parole.

«E ora cosa faremo?» domandò, serio.

Lei lo baciò di nuovo, il respiro sulle sue labbra caldo e umido. «Ci alziamo. Tra un paio d’ore dovrai essere in chiesa.» Gli diede una pacca sul fianco.

«Manca ancora un sacco di tempo.» «Per te, forse. Ma io sono qui, e i miei vestiti no. Su, alzati e preparati, mentre io faccio un salto a casa a cambiarmi.»

«Quegli abiti da chiesa sono scomodi.»

«È vero», rispose lei, «ma non hai scelta. E sai una cosa?» Gli prese la mano. «Anche tu sei bellissimo, Logan.» 23 Beth

«Mi piace davvero, Nana», disse Beth.

In piedi nel bagno, cercava di lisciarsi i capelli con la piastra, anche se la pioggia avrebbe vanificato tutti i suoi sforzi. Dopo la breve pausa del giorno precedente, la prima delle due tempeste tropicali previste era arrivata sulla regione.

«È il momento di essere sincera con me. Non ti piace soltanto. Pensi che sia quello giusto.» «È così evidente?» chiese Beth incredula.

«Altroché. Potresti benissimo sederti in veranda a sfogliare una margherita.» Beth rise. «Che tu ci creda o meno, l’ho capita.»

Nana fece un gesto vago con la mano. «Statisticamente, è possibile. Il punto è che so che ti piace... ma tu gli piaci?»

«Sì, Nana.»

«Hai afferrato bene cosa intendo?»

«Sì.»

«Volevo solo esserne sicura», replicò Nana. Si guardò allo specchio e si aggiustò i capelli. «Perché lui piace anche a me.»

Andò in macchina con Nana a casa di Logan, attraversando la campagna sotto la pioggia battente. Gli incessanti temporali avevano gonfiato il fiume; anche se l’acqua non aveva ancora raggiunto il livello stradale, poco ci mancava. Ancora qualche giorno, pensò Beth, e alcune strade sarebbero state chiuse. I negozi più vicini al fiume avrebbero eretto barricate con sacchi di sabbia per evitare che si rovinassero le merci.

«Mi chiedo quanti verranno in chiesa oggi», osservò Beth. «Riesco a malapena a vedere oltre il parabrezza.» «Un po’ di pioggia non basterà a tenere la gente lontana dal Signore», declamò Nana.

«Non si tratta semplicemente di un po’ di pioggia. Hai visto il fiume?»

«Sì. È decisamente arrabbiato.»

«Se cresce ancora, è probabile che resteremo isolate dalla città.» «Si sistemerà tutto, vedrai», dichiarò Nana.

Beth le lanciò un’occhiata. «Vedo che sei di buonumore oggi.» «Perché, tu no? Sei stata fuori tutta la notte.»

«Nana», protestò Beth.

«Non ti sto giudicando. La mia era una semplice constatazione. Sei una donna adulta, ed è la tua vita.»

Ormai Beth era da tempo avvezza a simili dichiarazioni della nonna. «Ti ringrazio.» «Le cose vanno bene? Nonostante i tentativi di sabotaggio del tuo ex?» «Direi di sì.»

«Credi sia un tipo da legami duraturi?»

«Penso che sia un po’ presto per dirlo. Ci stiamo ancora conoscendo.»

Nana si sporse in avanti e asciugò la condensa sul vetro. Il velo di umidità scomparve momentaneamente, ma rimasero le impronte delle dita. «Io lo capii fin dal primo istante che tuo nonno era quello giusto.» «Il nonno mi ha raccontato che vi siete frequentati per sei mesi prima che ti facesse la dichiarazione.» «È vero. Questo non toglie che gli avrei risposto di sì anche prima. L’avevo deciso quasi subito. So che può sembrare assurdo, ma stare con lui era come il pane con il burro fin dal principio.» Socchiuse gli occhi e sorrise dolcemente, persa nei ricordi. «Un giorno eravamo seduti al parco. Doveva essere la seconda o la terza volta che uscivamo da soli e stavamo parlando degli uccelli che si vedono nelle nostre campagne, quando un ragazzino, chiaramente un figlio di contadini, si avvicinò incuriosito. Aveva la faccia sporca, era scalzo, con gli abiti stracciati e non della sua misura. Tuo nonno gli strizzò l’occhio, come a dire che poteva restare, e il ragazzino fece un timido sorriso. Rimasi commossa, pensando che era un uomo buono.» Fece una pausa. «Riprese a parlare, conosceva praticamente i nomi di tutte le specie di uccelli. Ci spiegò se erano migratori e dove facevano il nido e quale fosse il loro richiamo. Dopo un po’ il ragazzino si mise a sedere, incantato dalle parole di tuo nonno che rendeva tutto... ecco, affascinante. Lui aveva una voce profonda e melodiosa e, mentre lo ascoltavo, ebbi la sensazione che fosse una di quelle persone che non riescono a restare arrabbiate per più di qualche minuto. Non sarebbe mai stato capace di provare risentimento o amarezza, mi dissi, e in quel momento intuii che era il genere di uomo che rimane fedele alla sua donna per tutta la vita. Così decisi all’istante di sposarlo.»

«È una storia meravigliosa», disse Beth.

«Tuo nonno era meraviglioso. E quando un uomo è così speciale, lo capisci subito. Lo senti istintivamente, e sai con assoluta certezza che, qualunque cosa accada, non ti deluderà.»

A questo punto Beth aveva raggiunto la casa di Logan e, quando imboccò il vialetto sobbalzando tra le pozzanghere fangose, lo scorse in piedi sulla veranda, con una giacca sportiva e un paio di calzoni appena stirati.

La salutò con la mano, e lei non riuscì a trattenere un sorriso smagliante.

La funzione iniziò e finì con la musica. L’assolo di Nana fu accolto da un sincero applauso e il reverendo si complimentò con il coro, ringraziando in particolare Logan per la sua disponibilità e Nana per avere testimoniato il miracolo della grazia di Dio, anche di fronte a una dura prova.

Il sermone era stato incisivo, interessante e pervaso dall’umile consapevolezza che le vie del Signore a volte sono misteriose; Beth si rese conto che le sue spiccate doti di predicatore erano una delle ragioni per cui l’affluenza dei parrocchiani continuava ad aumentare.

Aveva assistito alla messa dalla balconata. Tutte le volte che Ben era con il padre per il fine settimana, si metteva sempre nello stesso posto, in modo che il figlio sapesse dove trovarla. Di solito si scambiavano qualche occhiata durante la funzione, ma quel giorno Ben continuava a voltarsi a guardarla, impressionato dalla bravura del suo amico Thibault. Comunque Beth si teneva a distanza. Non per via di quello che aveva scoperto sul suo ex – anche se sarebbe bastato – ma per rendere le cose più semplici al piccolo. Nonostante i suoi impulsi passionali, in chiesa Keith si comportava come se la presenza dell’ex moglie fosse un pericoloso elemento di disturbo del clan. Il Vecchio era seduto in prima fila, con la famiglia dispiegata ai lati e nella fila posteriore. Aveva in mano la Bibbia per seguire la lettura dei testi sacri e ascoltava attentamente tutto ciò che diceva il reverendo. Cantava ogni parola di ogni inno. Era l’unico a cui Beth fosse affezionata, era sempre stato equo con lei e impeccabilmente educato, al contrario di quasi tutti i suoi parenti. Dopo la messa, se capitava loro di incontrarsi per caso, lui le faceva sempre qualche complimento per il suo aspetto e per come educava Ben, che grazie a lei stava diventando un ragazzino come si deve.

Il Vecchio parlava sinceramente, ma c’era anche una linea di confine invalicabile: Beth capiva che non doveva agitare le acque. Anche se la considerava un genitore migliore di Keith, per lui restava il fatto che Ben era, e sarebbe sempre rimasto, un Clayton.

Tuttavia, lei provava simpatia nei suoi confronti, nonostante tutto, nonostante Keith, nonostante il confine invalicabile. Anche a Ben era simpatico, e Beth aveva l’impressione che il più delle volte il Vecchio chiedesse a Keith di andare a trovarlo per evitare che il bambino rimanesse da solo con il padre tutto il fine settimana.

Quei pensieri, però, erano rimasti lontani dalla sua mente mentre ascoltava Logan suonare il piano. Dapprima non sapeva bene cosa aspettarsi. Quanti avevano preso lezioni? Quanti affermavano di saperlo fare? Ma capì subito che Logan aveva un talento eccezionale. Le sue dita si spostavano fluide e veloci sulla tastiera; non sembrava neppure aver bisogno di leggere lo spartito. Invece, mentre Nana cantava, stava concentrato su di lei, mantenendo un ritmo perfetto, più preoccupato dell’esecuzione canora che del proprio accompagnamento.

Mentre lui continuava a suonare, Beth non poté fare a meno di ripensare alla storia che Nana le aveva raccontato in macchina. Estraniandosi dalla messa, ricordò le piacevoli conversazioni con Logan, la sensazione che le dava il suo solido abbraccio, il suo atteggiamento spontaneo con Ben.

Certo, restavano ancora molti punti oscuri, ma una cosa lei la sapeva: Logan la completava perfettamente. La conoscenza non è tutto, si disse, e in quel momento comprese che, per dirla con le parole di Nana, lui era il pane per il suo burro.

Dopo la funzione Beth rimase in disparte, a guardare Logan che veniva acclamato come una rockstar. Sì, era vero, una rockstar con ammiratrici che riscuotevano la pensione sociale, ma a quanto poteva giudicare lui sembrava al tempo stesso lusingato e stordito da quella inaspettata notorietà.

A un certo punto si accorse che le lanciava uno sguardo implorante, una muta richiesta d’aiuto. Lei si limitò a sorridergli. Il reverendo si avvicinò per ringraziarlo una seconda volta, proponendogli di continuare a suonare anche dopo che Abigail fosse guarita. «Sono sicuro che potremmo trovare una soluzione», affermò.

Beth fu molto stupita di vedere che anche il Vecchio, accompagnato da Ben, si avvicinava a Logan. Come Mosé che divide le acque, non dovette aspettare in mezzo alla folla per porgere le sue congratulazioni. Lei scorse Keith in lontananza, la sua espressione era un misto di rabbia e di disgusto.

«Complimenti, giovanotto», disse il Vecchio, porgendogli la mano. «Suoni come se avessi un dono divino.»

Dalla faccia di Logan, Beth comprese che in qualche modo aveva riconosciuto il suo interlocutore.

Logan strinse la mano al Vecchio. «Grazie, signore.» «Lavora al canile con Nana», si intromise Ben. «E credo che lui e la mamma escano insieme.» A queste parole, sulla folla calò il silenzio, interrotto da qualche colpetto di tosse.

Il Vecchio fissò Logan con aria imperscrutabile. «È così?» domandò.

«Sissignore», rispose lui.

Il Vecchio non disse nulla.

«È stato anche un marine», proseguì Ben, senza rendersi conto della tensione che serpeggiava intorno a loro. Il Vecchio parve stupito, allora Logan confermò con un cenno del capo. «Primo battaglione, Quinto reggimento a Pendleton, signore.» Dopo una pausa significativa, il Vecchio assentì. «Allora ti ringrazio anche per il servizio reso al Paese. Oggi hai fatto davvero un ottimo lavoro.» «Grazie, signore», ripeté Logan.

«Come sei stato cortese», osservò Beth una volta a casa. Non aveva detto niente finché non era rimasta sola con Logan. Fuori, il prato cominciava a somigliare a un lago e la pioggia continuava a cadere incessante. Lungo la via del ritorno erano passati a prendere Zeus, che adesso era accucciato ai loro piedi.

«Che c’è di strano? Dovevo essere sgarbato?»

Lei fece una smorfia. «Sai bene a che cosa mi riferisco. » «Lui non c’entra con Keith. Dubito che sappia cosa sta combinando il nipote. Secondo te, dovevo informarlo?» «Niente affatto.»

«Appunto. A proposito, mi è caduto lo sguardo sul tuo ex marito mentre parlavo con suo nonno. Sembrava avesse appena ingoiato un rospo. »

«Te ne sei accorto anche tu, allora? In effetti era davvero buffo.» «Non credo proprio che abbia gradito la cosa.»

«E chi se ne importa», ribatté lei. «Quel verme se lo merita.» Logan annuì e lei gli si strusciò contro. Lui la cinse con un braccio e la strinse a sé.

«Eri davvero molto bello mentre suonavi il pianoforte.» «Dici sul serio?»

«Anche se ero in chiesa, non ho potuto evitare di fare certi pensieri su di te. Dovresti portare più spesso la giacca.»

«Il mio lavoro non prevede la giacca.»

«Può darsi che la tua ragazza invece sì.»

Logan finse di essere perplesso. «Perché, ho la ragazza?» Lei gli diede un pizzicotto, poi lo baciò sulla guancia. «Grazie di essere venuto a Hampton.

E di aver deciso di restare.» Lui sorrise. «Non avevo altra scelta.» Due ore più tardi, subito dopo pranzo, Beth vide la macchina del suo ex marito attraversare velocemente le pozzanghere mentre risaliva il vialetto.

Ben scese, e Keith ingranò la retromarcia e si allontanò prima ancora che il figlio avesse raggiunto i gradini della veranda.

«Ciao, mamma! Ciao, Thibault!»

Logan lo salutò con la mano mentre Beth si alzava. «Ciao, tesoro», disse, abbracciandolo. «Come è andata?»

«Non ho dovuto pulire la cucina e nemmeno portare fuori la spazzatura.»

«Bene», disse lei.

«E sai una cosa?»

«Che cosa?»

Ben si scrollò l’acqua dall’impermeabile. «Voglio imparare a suonare il piano.» Beth sorrise, non ne era per nulla sorpresa.

«Ehi, Thibault?»

Logan sollevò il mento. «Sì?»

«Vuoi vedere la mia casetta sull’albero?»

Beth si intromise. «Ma tesoro... con questo tempo, non credo sia una buona idea.» «Dai, mamma. L’ha costruita il nonno. E ci sono stato anche un paio di giorni fa.» «Nel frattempo il livello del torrente sarà cresciuto.»

«Ti prego. Non staremo via a lungo. E Thibault mi resterà sempre vicino.»

Beth, suo malgrado, acconsentì. 24 Clayton

Clayton non voleva crederci, comunque il Vecchio aveva davvero fatto i complimenti a Tai-bolt dopo la messa. Gli stringeva la mano, trattandolo come se fosse una specie di eroe, mentre Ben continuava a guardare il tizio come se fosse in padreterno.

Era riuscito a non toccare una birra per tutto il giorno, ma dopo aver riportato Ben a casa della madre se n’era scolate quattro. Forse avrebbe finito la confezione da dodici prima di andare a letto. In quelle due settimane aveva bevuto un sacco. Sapeva di stare esagerando, però era l’unico modo per dimenticare il suo ultimo incontro con Tai-bolt.

Sentì squillare il telefono. Di nuovo. La quarta volta in un paio d’ore, ma non era dell’umore giusto per rispondere.

Ebbene, lo ammetteva. Aveva sottovalutato l’avversario. Tai-bolt era stato un passo avanti a lui fin dal principio. Pensava che Ben fosse bravo a provocarlo, ma quel tizio lanciava bombe. Anzi, sparava missili cruise con micidiale precisione, e il suo bersaglio era la completa distruzione della vita di Clayton. Lui non si era neppure accorto che stavano arrivando.

Neanche una volta.

Era più che irritante, soprattutto dato che la situazione continuava a peggiorare. Ormai eravamo al punto che Tai-bolt gli diceva quello che lui doveva fare. Gli dava ordini, come se fosse un pivello sul suo libro paga e, per quanto Clayton si sforzasse, non riusciva a trovare una via d’uscita.

Magari Tai-bolt aveva mentito a proposito della telecamera nascosta.

Doveva essere così, per forza... nessuno era tanto astuto. Ma se non era un bluff?

Clayton aprì il frigorifero e prese la quinta birra, per tenersi calmo. Chi poteva dire che cosa avesse in mente quel tipo? Bevve una lunga sorsata, sperando che l’alcol facesse effetto in fretta, stordendolo.

Non capiva come fosse potuto accadere. Lui era il vicesceriffo, e l’altro un forestiero. Clayton doveva detenere il potere, invece era seduto in una cucina sporca perché non aveva chiesto a Ben di metterla in ordine per paura che lo riferisse... il che poteva comportare la fine della sua comoda esistenza.

Perché quel tizio ce l’aveva con lui? Non era stato Clayton a creare dei problemi, era Tai-bolt a rendere le cose difficili e, tanto per girare il coltello nella piaga, andava pure a letto con Beth.

Bevve un altro sorso, dicendosi che non era affatto giusto. Sprofondato nell’autocommiserazione, si rese conto a malapena che qualcuno bussava alla porta d’ingresso. Si alzò dal tavolo e attraversò il salotto barcollando.

Quando aprì la porta si trovò davanti Tony, con l’aria di un topo bagnato.

Come se non bastasse, adesso ci si metteva pure quello sfigato.

Tony fece un piccolo passo indietro. «Ehi, amico. Come va? Stavi bevendo?» «Che cosa vuoi?» Non era dell’umore giusto nemmeno per avere intorno gente.

«Ho provato a telefonarti, ma non rispondevi.»

«Arriva al punto.»

«Non ti si è visto molto ultimamente.»

«Ho avuto da fare. E anche adesso, quindi smamma.» Stava per chiudere la porta, ma Tony alzò una mano.

«Aspetta! Devo dirti una cosa», belò. «È importante.» «Che c’è?»

«Ricordi quella volta che ti ho telefonato? Che so, sarà stato un paio di mesi fa.» «No.»

«Ma sì, ti ho chiamato dal Decker’s, dove c’era uno che stava mostrando in giro la foto di Beth.» «E allora?» «L’ho incontrato di nuovo oggi.» Si scostò dagli occhi una ciocca di capelli unti. «Ed era con la tua ex moglie.»

«Che cosa stai dicendo?»

«Dopo la messa. Parlava con Beth, e anche con tuo nonno. Era l’uomo che ha suonato il piano in chiesa.»

Nonostante la sbornia, le idee di Clayton cominciarono a schiarirsi. Alla fine riuscì a fare mente locale. Era successo il fine settimana in cui Taibolt gli aveva sottratto la macchina fotografica.

«Ne sei sicuro?»

«Sì, come no. L’ho riconoscerei ovunque.»

«E aveva una foto di Beth?»

«Te l’ho già detto. L’ho vista con i miei occhi. Mi è sembrato strano, sai?

E poi oggi i due erano insieme. Pensavo volessi saperlo.»

Clayton registrò le informazioni. «Descrivimi com’era esattamente la foto.» Quello sfigato di Tony aveva una memoria incredibile, e Clayton non impiegò molto a farsi raccontare tutta la storia. La fotografia risaliva a qualche anno fa ed era stata scattata alla fiera. Tai-bolt non si ricordava come si chiamasse la ragazza, però la stava cercando.

Dopo che Tony se ne fu andato, Clayton rifletté su ciò che gli aveva detto l’amico.

Non era credibile che Tai-bolt fosse stato lì con Beth cinque anni prima e poi avesse dimenticato il suo nome. Quindi, dove aveva trovato quella foto? Aveva attraversato a piedi il Paese per cercarla? E in tal caso, che cosa significava?

Era un maniaco che l’aveva presa di mira?

Non poteva ancora dirlo, comunque c’era qualcosa che non andava. E Beth, ingenua come al solito, non solo se l’era portato a letto, ma l’aveva anche fatto entrare nella vita di Ben.

Corrugò la fronte. La cosa non gli piaceva. Proprio per niente... ed era sicuro che non sarebbe piaciuta neppure a Beth. 25 Thibault

«Allora ci siamo, eh?»

Anche se avevano camminato nel bosco, Thibault era completamente fradicio quando raggiunsero la casetta sull’albero. L’acqua gli grondava dall’impermeabile e aveva i pantaloni nuovi bagnati fino al ginocchio. I calzini erano fastidiosamente umidi. Da parte sua, Ben era infagottato in una cerata con il cappuccio e calzava gli stivali di gomma di Nana. Gli restava fuori solo il viso, e non sembrava fare caso alla pioggia.

«Ci si arriva da qui. È fantastico, vero?» Il bambino indicò una quercia sulla riva del torrente. Alcune tavolette di legno erano inchiodate a un lato del tronco. «Dobbiamo arrampicarci su questa scaletta, così potremo attraversare il ponte.»

Thibault si accorse con una certa apprensione che il torrente si era molto ingrossato e la corrente era impetuosa.

Alzando lo sguardo, vide un ponticello di assi con le funi di sostegno sfilacciate che portava dalla quercia a una piattaforma in mezzo al torrente, sostenuta da quattro pali di legno; da lì un’altra passerella di corda arrivava fino alla piattaforma della casetta sull’albero. Notò i detriti che si erano accumulati intorno ai sostegni. Temeva che gli incessanti temporali degli ultimi giorni e la corrente del fiume avessero indebolito i sostegni della piattaforma. Prima che potesse fermarlo, Ben aveva già scalato il tronco della quercia.

Gli sorrise dall’alto tutto soddisfatto. «Avanti! Che cosa aspetti?» Thibault sollevò il braccio per proteggersi il viso dalla pioggia, in preda a uno strano timore. «Non penso sia una buona idea...» «Sei un coniglio!» lo prese in giro Ben. Cominciò la traversata, il ponte che ondeggiava pericolosamente sotto i suoi piedi.

«Aspetta!» gridò lui. Ma a quel punto Ben aveva raggiunto la piattaforma centrale. Thibault si arrampicò sulla scaletta di legno e posò un piede con cautela sul ponte di corda. Le assi intrise d’acqua si piegarono sotto il suo peso.

Non appena Ben lo vide avvicinarsi, percorse l’ultimo tratto della passerella verso la casetta. Thibault trattenne il fiato quando il bambino saltò sulla piattaforma, che si inclinò ma per fortuna resistette. Ben si voltò a guardarlo.

«Torna indietro!» gli urlò Thibault. «Non credo che il ponte possa reggere il mio peso.» «Stai tranquillo. L’ha costruito mio nonno!»

«Per favore, Ben!»

«Coniglio!» gridò di nuovo il bambino.

Evidentemente per Ben si trattava di un gioco. Thibault diede un’altra occhiata al ponte e concluse che, muovendosi lentamente, poteva farcela.

Anche se il bambino aveva corso, sollecitando molto la struttura fatiscente.

Cominciò ad avanzare sulle assi vecchie e fradice. Senza dubbio erano completamente marce. Il pensiero di Thibault andò subito alla foto che teneva in tasca. Il torrente sotto di lui scorreva vorticoso.

Non c’era tempo da perdere. Piano piano raggiunse la piattaforma centrale, poi si accinse a percorrere l’ultimo tratto. Dubitava che la piattaforma della casetta avrebbe sorretto il peso di tutt’e due. La fotografia nella tasca bruciava come se avesse preso fuoco.

«Ti raggiungo dentro», disse Thibault in tono disinvolto. «Non c’è bisogno che aspetti sotto la pioggia un vecchio come me.»

Ben fece una risata e s’infilò nella casetta sull’albero. Thibault tirò un sospiro di sollievo mentre percorreva il ponte traballante fino alla piattaforma. Con un balzo, evitò quest’ultima e piombò direttamente nella casetta.

«È qui che tengo le mie carte dei Pokémon», spiegò Ben, senza badare al modo in cui lui era entrato. Indicò alcune scatole di latta. «Ho anche un Charizard e un Mewtwo.» Thibault si asciugò il viso riprendendosi dallo spavento, poi si mise a sedere per terra. «Stupendo», commentò, mentre sul pavimento di assi grezze vicino a lui si formavano pozze d’acqua.

Si guardò intorno nel minuscolo spazio. C’erano giocattoli ammucchiati ai lati e una finestra senza vetri che esponeva alle intemperie buona parte dell’interno. L’unico arredo era un pouf in un angolo.

«Questo è il mio rifugio segreto», dichiarò Ben, lasciandosi cadere sopra.

«Ah, sì?»

«Ci vengo quando sono arrabbiato. Per esempio, quando i compagni a scuola si comportano male con me.»

Thibault si appoggiò con la schiena alla parete, scrollandosi via l’acqua dalle maniche. «Che cosa ti fanno?»

«Le solite cose, sai. Mi prendono in giro per come gioco a pallacanestro o a calcio o perché porto gli occhiali.»

«Deve essere dura.»

«Non ci faccio troppo caso.»

Il bambino non sembrava rendersi conto di essersi appena contraddetto, e Thibault proseguì: «Che cos’è che ti piace di più di questo posto?»

«La pace», rispose Ben. «Quando sono qui nessuno mi fa domande o mi rifila dei lavoretti. Posso starmene seduto a pensare. »

Thibault annuì. «Hai ragione.» Guardando dalla finestra, vide che il vento si era rinforzato e la pioggia cadeva di traverso. La tempesta stava infuriando.

«A che cosa pensi adesso?» chiese al ragazzino.

Ben lo guardò. «Non vedo l’ora di diventare grande.» Fece una pausa.

«Vorrei essere più alto.» «Perché?» «C’è un mio compagno di classe che se la prende sempre con me. È cattivo. Ieri alla mensa mi ha buttato a terra con uno spintone.»

La casetta oscillò sotto una folata di vento particolarmente forte. Thibault ebbe di nuovo l’impressione che la foto bruciasse e, istintivamente, infilò la mano in tasca per toccarla. Senza sapere perché, e prima di rendersi conto di cosa stava facendo, la tirò fuori.

Il vento continuava a ululare e i rami degli alberi sbattevano contro la struttura di legno. Ogni minuto che passava la pioggia ingrossava il torrente. All’improvviso un’immagine affiorò alla mente di Thibault: la piattaforma sospesa crollava e Ben finiva nelle acque limacciose.

«Voglio darti una cosa», dichiarò d’impulso. «Vedrai che ti sarà utile per risolvere il tuo problema.» «Che cos’è?»

Thibault deglutì. «Una foto della tua mamma.»

Ben la prese e la guardò, incuriosito. «Che cosa devo farci?» Thibault si sporse in avanti e batté il dito su un angolo della foto. «Basta che la tieni con te. Il mio amico Victor diceva che era un portafortuna. E che mi aveva protetto in Iraq.» «Sul serio?»

Era proprio quello il punto, giusto? Dopo una lunga pausa, Thibault annuì.

«Te lo garantisco.» «Forte.»

«Mi fai un piacere?» domandò Thibault.

«Cosa?»

«Non parlarne con nessuno. Questo resterà un segreto tra noi due, va bene?

E mi prometti che la porterai sempre con te?»

Ben ci pensò su. «Posso piegarla?»

«Sì, non credo che conti.» Ben restò ancora un attimo a pensarci. «D’accordo», rispose alla fine, piegando in due la foto e infilandosela in tasca. «Grazie.»

Negli ultimi cinque anni non si era mai separato dalla foto – se non temporaneamente – e il senso di perdita che l’assalì lo lasciò disorientato.

Thibault non si aspettava di avvertirne l’assenza in maniera così acuta.

Mentre osservava Ben attraversare il ponte, lanciò uno sguardo al torrente impetuoso e quella sensazione si intensificò. Quando il bambino fu in salvo, lui uscì riluttante sulla piattaforma, poi s’incamminò il più in fretta possibile.

Si sentiva vulnerabile mentre avanzava un passo dopo l’altro, cercando di ignorare la certezza che il ponte sarebbe crollato, e il fatto di non avere più la foto con sé. Una volta raggiunta la quercia sull’altra sponda fece un sospiro di sollievo, scosso. Eppure, mentre scendeva la scaletta, ebbe di nuovo il chiaro presentimento che quella storia non era ancora finita... anzi, che fosse appena cominciata. 26 Beth

Il mercoledì mattina Beth guardava fuori dalla finestra dell’aula durante la pausa pranzo. Non aveva mai visto niente del genere; gli uragani e i tornadi non erano niente a paragone della serie di tempeste che si era abbattuta di recente sulla Hampton County, e su tutte le altre contee da Raleigh alla costa. Il problema era che, contrariamente al solito, stavolta non si erano spostate velocemente al largo. Invece, avevano indugiato nell’entroterra, gonfiando tutti i fiumi fino ai livelli di guardia. I piccoli insediamenti lungo lo stretto di Pamlico, il Neuse e Cape Fear avevano già l’acqua che arrivava al ginocchio e la città di Hampton sarebbe stata la prossima. Ancora un paio di giorni di pioggia e in centro si sarebbe potuto girare in canoa.

La contea aveva già decretato la chiusura delle scuole per il resto della settimana, dal momento che gli scuolabus non potevano più circolare.

Naturalmente Ben era esaltato all’idea di restare a casa a giocare nelle pozzanghere con Zeus, ma Beth non era altrettanto contenta. I quotidiani e i notiziari locali avevano annunciato che, sebbene il South River avesse già raggiunto livelli preoccupanti, la situazione era destinata a peggiorare, vista la portata degli affluenti che alimentavano l’ondata di piena. I due torrenti che normalmente scorrevano a qualche centinaio di metri dal canile ora erano visibili dalle finestre di casa, e Logan teneva gli animali lontano dalle rive a causa dei detriti portati dalla corrente.

Essere costretti a stare al chiuso era dura per i bambini. Dopo pranzo, invece di fare ricreazione, sarebbero ritornati subito in classe, dove in teoria avrebbero dovuto impegnarsi in attività tranquille. In realtà i bambini avevano bisogno di sfogare le energie. Per anni Beth aveva chiesto che, in giornate di pioggia come quella, si sgombrasse la mensa per permettere ai ragazzi di correre e giocare lì per una ventina di minuti, in modo che poi riuscissero a concentrarsi sulle lezioni del pomeriggio. Non era possibile, le veniva risposto, per motivi di regolamento, di competenze, sindacali, di salute e sicurezza. Ogni volta le facevano un lungo discorso, che alla fine le sembrava ruotare esclusivamente intorno alle patatine fritte.

Della serie: Non possiamo rischiare che un bambino scivoli su una patatina fritta, oppure: Se scivolassero sulle patatine fritte, la scuola verrebbe denunciata, o ancora: Gli addetti dovrebbero rinegoziare il contratto se non spazzassero via le patatine fritte all’orario previsto, e per finire: Se qualcuno scivolasse su una patatina fritta caduta per terra, i bambini potrebbero essere esposti ad agenti patogeni.

Benvenuta nel mondo dei burocrati, pensò Beth. Tanto non toccava loro insegnare a un gruppo di alunni rimasto rinchiuso in classe tutto il giorno senza valvole di sfogo.

In genere lei pranzava in sala professori, ma voleva approfittare della pausa per preparare le attività del pomeriggio. Stava allestendo una postazione di tiro alla sagoma in un angolo dell’aula – la teneva nell’armadio a muro proprio per simili emergenze – quando notò un movimento sulla porta. Si voltò e impiegò solo un istante a riconoscere l’uomo. Aveva la giacca dell’uniforme bagnata e qualche goccia d’acqua gli scendeva dalla cintura a cui era appesa la pistola. Reggeva in mano una cartellina di carta.

«Ciao, Beth», disse a voce bassa. «Hai un minuto?» Lei si alzò. «Che cosa c’è, Keith?»

«Sono venuto a scusarmi», rispose lui. Aveva un’aria triste e pentita. «So che non hai molto tempo, ma volevo parlarti quando eri sola. Immaginavo di trovarti qui, comunque, se preferisci, possiamo incontrarci in un altro momento.»

Lei guardò l’ora. «Ho cinque minuti», disse.

Keith entrò nell’aula e fece per chiudere la porta. Si fermò a metà, chiedendole il permesso. Beth annuì, desiderosa soltanto di sbarazzarsi del suo ex il prima possibile. Lui le andò incontro, rimanendo a rispettosa distanza.

«Come ho detto, sono venuto a chiederti scusa.»

«Di che cosa?»

«A proposito delle voci che hai sentito sul mio conto», rispose. «Non sono stato del tutto sincero con te.»

Lei incrociò le braccia sul petto. «In altre parole, mi hai mentito», dichiarò.

«Sì.»

«Mi hai mentito in faccia.»

«Sì.»

«In che senso?»

«Mi hai chiesto se avessi mai intimidito i tizi con cui uscivi in passato.

Non credo di averlo fatto, però non ti ho detto che ho parlato con qualcuno di loro.»

«Hai parlato con qualcuno di loro.»

«SI.»

Lei si sforzò di tenere a bada la collera. «E... allora? Ti dispiace di averlo fatto, o di aver mentito?» «Entrambe le cose. Non avrei dovuto comportarmi in quel modo.» Fece una pausa. «So che tra noi non ci sono stati ottimi rapporti dopo il divorzio, e anche che tu pensi di aver commesso un errore sposandomi. Hai ragione. Non eravamo fatti l’uno per l’altra, e questo lo accetto. Ma insieme... e voglio essere onesto, è quasi tutto merito tuo... abbiamo fatto un figlio fantastico. Forse penserai che non sono il padre migliore del mondo, ma non ho mai rimpianto neppure per un istante di aver avuto Ben, e sono contento che lui viva con te per la maggior parte del tempo. È un bambino eccezionale, e tu sei una bravissima madre.» Beth non sapeva che cosa dire. Vedendo che taceva, Keith proseguì.

«Però, ci sono delle cose che non posso ignorare. Come ti ho detto, mi preoccupo di chi entra nella vita di Ben, che siano amici, conoscenti, o persino gente che gli presenti tu. So che non è giusto, e che probabilmente la consideri un’intrusione nelle tue scelte personali, ma io sono fatto così.

A essere sincero, non credo che da questo punto di vista riuscirò mai a stare tranquillo.»

«Stai forse dicendo che continuerai a seguirmi per sempre?» «No», si affrettò a dire lui. «Non succederà più. Ti sto solo spiegando perché l’ho fatto in passato. E puoi fidarti, non ho minacciato quei tizi, né ho cercato di intimidirli. Gli ho solo parlato. Ho spiegato loro che Ben significava molto per me e che essere suo padre era la cosa più importante della mia vita. Forse non sarai d’accordo con il mio modo di educarlo, ma prova a pensare a com’era la situazione qualche anno fa. Un tempo gli piaceva venire da me. Adesso non più. Ma io sono ancora lo stesso, è lui che è cambiato. Non in maniera negativa; crescere è normale, ed è quello che sta facendo Ben. Forse io ho solo bisogno di capire e di accettare il fatto che ormai sta diventando grande.» Lei non rispose. Keith la guardò facendo un profondo respiro. «Ho anche detto a quegli uomini che non volevo ti spezzassero il cuore. Può sembrare un atteggiamento possessivo, ma non era nelle mie intenzioni. L’ho detto soltanto per proteggerti, proprio come avrebbe fatto Drake. Frasi del tipo: ‘Se ti piace, se la rispetti, allora cerca di trattarla come si deve, altrimenti lascia perdere’.» Alzò le spalle. «Non so. Forse alcuni di loro l’hanno presa nel modo sbagliato, perché sono un poliziotto, o per via del mio cognome, ma non posso farci niente. Credimi, l’ultima cosa che desidero è che tu sia infelice. Forse tra noi non ha funzionato, ma sei la madre di mio figlio, e tale resterai sempre.» Keith chinò la testa, strusciando i piedi sul pavimento. «Hai tutte le ragioni per essere in collera con me. Ho sbagliato.» «Puoi ben dirlo.» Beth rimase dov’era, a braccia conserte.

«Ti ripeto che mi dispiace, e che non succederà più.» Lei non rispose subito. «Va bene», disse alla fine. «Guarda che ti tengo d’occhio.» Lui le rivolse un umile sorriso. «Mi sembra giusto.» «C’è altro?» Beth prese dal fondo dell’armadio tre sacchi imbottiti di polistirolo.

«Sì, volevo parlarti anche di Logan Thibault. C’è qualcosa che dovresti sapere su di lui.» Lei sollevò le mani per bloccarlo. «Non provarci nemmeno.» Keith non si lasciò dissuadere. Fece un passo avanti, stropicciando con le dita la tesa del cappello. «Non ho intenzione di affrontarlo personalmente, se tu non vuoi. Ma ti assicuro, Beth, è una cosa grave. Altrimenti non sarei qui a raccontartela. Sai che ci tengo a te.» La sua sfacciata insolenza la lasciò senza fiato. «E io dovrei credere che ti sta a cuore il mio bene, quando hai appena ammesso di avermi spiata per anni? E di aver fatto fallire ogni mia possibile relazione sentimentale?» «Quello che devo dirti non c’entra niente con questo.» «Lasciami indovinare... pensi che lui faccia uso di droghe, giusto?» «Non ne ho idea.

Ma devo informarti che non è stato sincero con te.» «Che cosa ne sai tu?

Adesso vattene. Non voglio più parlare con te, non voglio sentire quello che hai da dire...» «Allora domandaglielo tu stessa», la interruppe Clayton.

«Chiedigli se è venuto qui a Hampton per cercarti.» «Basta così», dichiarò lei avanzando verso la porta. «E se provi anche solo a sfiorarmi mentre esci, giuro che mi metterò a gridare.» Lo superò, e stava per varcare la soglia quando Keith fece un sospiro teatrale.

«Chiedigli della fotografia», disse.

Le sue parole la bloccarono. «Che cosa?»

Keith aveva un’aria seria come non mai. «La foto che ha avuto da Drake.» 27 Clayton

Dalla faccia di lei Clayton comprese di aver catturato la sua attenzione, anche se forse Beth non capiva bene le implicazioni.

«Lui ha una tua fotografia», le spiegò, «e al suo arrivo in città l’ha mostrata da Decker’s chiedendo il tuo nome. Tony era lì quella sera, e l’ha vista. In realtà mi ha chiamato subito, perché aveva l’impressione che la storia raccontata dal tizio fosse strana, ma io al momento non gli diedi molto peso. Domenica scorsa, tuttavia, Tony è passato da me per dirmi che aveva riconosciuto Thibault vedendolo suonare il pianoforte in chiesa.»

Beth lo guardava in silenzio.

«Non so se sia stato Drake a dargliela o se gliel’abbia presa lui. In ogni caso, questa è l’unica spiegazione possibile. Sia Drake sia Thibault erano nei marines e, secondo Tony, la foto era stata scattata qualche anno fa.»

Clayton esitò. «Tu pensi che in questo modo io voglia sbarazzarmi anche di lui, ma non ho nessuna intenzione di andare a parlargli. Credo che dovresti farlo tu, però, e non lo dico perché sono il tuo ex marito. Ti do questo consiglio come vicesceriffo. »

Beth voleva andarsene, ma le sembrava di avere i piedi inchiodati sul posto.

«Pensaci. Lui aveva la tua foto e, basandosi solo su quella, ha attraversato a piedi il Paese per trovarti. Non so perché, ma posso indovinare facilmente. Era ossessionato da te ancor prima di conoscerti, come succede a chi sviluppa una fissazione per una stella del cinema. E allora, che cosa ha fatto? Ti ha rintracciata, solo che non gli bastava vederti da lontano, e nemmeno incontrarti. Ha avuto bisogno di entrare nella tua vita. È così che si comportano i maniaci pericolosi, Beth.»

Il suo tono era calmo e professionale, e questo non fece che aumentare il senso di angoscia che lei provava.

«A giudicare dalla tua espressione, capisco che eri all’oscuro di tutto. Ora ti starai domandando se io dico la verità, oppure se mento, e le mie credenziali sono tutt’altro che perfette. Ma ti prego, per il bene di Ben, per il tuo bene, chiedi a lui. Posso essere presente anch’io, se vuoi, oppure posso mandare un altro agente, se preferisci così. Puoi anche chiamare qualcuno di cui ti fidi, la tua amica Melody, per esempio. Voglio solo che tu capisca quanto è grave la situazione. Quanto... è inquietante e sinistra. È roba con cui non si scherza, e non mi stancherò mai di ripeterti che devi prenderla sul serio.»

Posò la cartellina che aveva in mano sul banco più vicino. «Qui ci sono alcune informazioni generali su Logan Thibault. Non ho avuto il tempo di scavare più a fondo, e potrei finire nei guai anche solamente per averti mostrato questi documenti, ma siccome non so che cos’altro lui ti abbia taciuto...» Lasciò la frase a metà, poi alzò lo sguardo su di lei.

«Pensa a ciò che ti ho detto. È sii prudente, mi raccomando.» 28 Beth

Riusciva a malapena a vedere fuori dal parabrezza, ma stavolta non c’entrava tanto la pioggia, quanto la sua incapacità a concentrarsi sulla guida. Dopo che Keith se n’era andato, aveva continuato a fissare incredula la cartellina, cercando di dare un senso a ciò che l’ex marito le aveva raccontato.

Logan aveva la fotografia che lei aveva dato a Drake... Logan era ossessionato da lei... Logan aveva deciso di cercarla... Logan l’aveva rintracciata.

Faticava a respirare, e aveva dovuto fare uno sforzo disumano per arrivare fino all’ufficio del direttore e informarlo che doveva assolutamente tornare a casa. Guardandola in faccia, lui aveva acconsentito, e si era offerto di sostituirla per il resto del pomeriggio. Beth lo aveva anche informato che Nana sarebbe passata a prendere Ben alla fine delle lezioni.

Mentre era in macchina, la sua mente saettava da un’immagine all’altra, in un caleidoscopio visivo, sonoro e olfattivo. Cercava di convincersi che Keith le aveva mentito, di trovare un modo per razionalizzare ciò che le aveva detto. Era possibile, soprattutto considerando il suo comportamento in passato, eppure...

Keith si era mostrato serio, professionale, e le aveva dato un’informazione che lei poteva benissimo controllare. Sapeva che lei lo avrebbe chiesto a Logan... voleva che glielo chiedesse... il che significava...

Strinse il volante, assalita dalla febbrile necessità di parlare con Logan. Lui avrebbe chiarito tutto. Doveva poter chiarire tutto quanto.

L’acqua del fiume aveva invaso la strada, ma assorta nei propri pensieri Beth non se ne accorse finché non ci piombò dentro. Si piegò di scatto in avanti, mentre l’auto rallentava fin quasi a fermarsi. Il fiume scorreva tutt’intorno e lei temeva che si spegnesse il motore, invece la macchina continuò ad avanzare nell’acqua sempre più profonda, prima di emergere finalmente in un punto dove la carreggiata era più alta. Quando raggiunse casa, Beth non sapeva più che cosa provava, a parte una gran confusione. Un attimo prima si sentiva arrabbiata, tradita e manipolata; quello successivo era sicura che non fosse vero, che Keith le avesse mentito di nuovo.

Mentre percorreva il vialetto, scrutò i prati spazzati dal vento e dalla pioggia in cerca di Logan.

Davanti a lei, nella bruma, scorse le luci accese in casa. Per un attimo valutò l’idea di parlare con Nana, nella speranza che la lucidità e il buonsenso della nonna raddrizzassero ogni cosa. Ma quando notò le luci dell’ufficio e la porta socchiusa, sentì un nodo in gola. Svoltò in quella direzione, dicendosi che Logan non poteva avere la fotografia, che si era trattato soltanto di un malinteso. Avanzò tra le pozzanghere melmose e vide Zeus accovacciato sulla veranda accanto alla porta dell’ufficio, il muso sollevato.

Si fermò, scese di corsa e salì in veranda, la pioggia che le sferzava il viso.

Zeus le andò incontro, annusandole la mano. Lei lo ignorò ed entrò, aspettandosi di trovare Lo-gan alla scrivania.

Non era lì. La porta che dava sul canile era aperta. Facendosi forza, si fermò lì in mezzo, mentre una figura si muoveva nel corridoio in penombra. Aspettò che Logan tornasse nella stanza.

«Ciao, Elizabeth», la salutò lui. «Non mi aspettavo di vederti qui...» Si interruppe. «Che cosa è successo?»

Restò lì a fissarlo, travolta dalle emozioni. A quel punto non sapeva più da dove cominciare né che cosa dire. Logan attese in silenzio, intuendo la sua agitazione.

Beth chiuse gli occhi, prossima al pianto, poi fece un faticoso respiro.

«Perché sei venuto a Hampton?» gli chiese alla fine. «Ti prego, voglio la verità.»

Lui non si mosse. «Te l’ho già detta.»

«Mi hai detto proprio tutto?»

Logan ebbe un attimo di esitazione. «Non ti ho mai mentito», mormorò. «Non ti ho chiesto questo!» ribatté lei, stizzita. «Dimmi se mi hai tenuto nascosto qualcosa!» Lui la scrutò attentamente. «Chi ti ha messo in testa questa idea?» «Non ha nessuna importanza!» sbottò. Ora era davvero arrabbiata. «Voglio sapere perché sei venuto a Hampton!» «Ti ho detto...»

«Tu hai una mia foto?»

Logan tacque.

«Rispondi!» Fece un passo verso di lui, sbattendogli in faccia la domanda.

«Tu hai una mia foto?» Non sapeva come avrebbe reagito, ma a parte un lieve sospiro, Logan non mosse un muscolo.

«Sì», disse.

«È quella che avevo dato a Drake?»

«Sì», ripeté Logan.

A queste parole le sue speranze caddero l’una dietro l’altra come una fila di tessere del domino. Di colpo, tutto aveva senso: il suo modo di guardarla al loro primo incontro, il motivo per cui aveva accettato un lavoro così mal pagato, il fatto che fosse diventato amico di Nana e di Ben, e tutti i suoi discorsi sul destino...

Lui aveva quella foto. Si era spinto fino a Hampton per rintracciarla.

L’aveva braccata come una preda.

All’improvviso si sentì soffocare.

«Oh, mio Dio.»

«Non è come pensi tu...»

Logan tese la mano, e lei la guardò distrattamente prima di rendersi conto di ciò che stava accadendo. Con un sussulto indietreggiò, aveva un disperato bisogno di allontanarsi da lui. Era stata tutta una menzogna... «Non mi toccare!»

«Elizabeth...»

«Mi chiamo Beth!»

Lo guardò come se fosse un estraneo, finché lui abbassò il braccio.

La sua voce era poco più di un sussurro mentre diceva: «Posso spiegarti...»

«Spiegare che cosa?» lo interruppe lei. «Che hai rubato la foto a mio fratello? Che hai attraversato a piedi il Paese per cercarmi? Che ti sei innamorato di un’immagine...» «Non è andata così», protestò Logan.

Lei non lo ascoltò. Continuava a fissarlo, chiedendosi se ci fosse mai stato qualcosa di vero tra loro.

«Mi hai perseguitata...» disse, quasi parlando tra sé. «Mi hai mentito. Mi hai usata.» «Tu non capisci...»

«Capire? Come puoi pretendere che io capisca?»

«Non ho rubato la foto», dichiarò lui con un tono fermo e controllato. «La trovai in Kuwait e la attaccai a una bacheca, dove pensavo che il legittimo proprietario l’avrebbe vista. Ma nessuno venne a ritirarla.»

«E così... l’hai ripresa tu?» Scrollò il capo, incredula. «Perché? Ti eri fatto qualche idea balorda su di me?»

«No», gridò lui, alzando la voce per la prima volta. Beth ne fu impressionata, e la sua mente rallentò, almeno per un attimo. «Sono venuto qui perché te lo dovevo.»

«Me lo dovevi? Si può sapere che cosa significa?» «La foto... mi ha salvato.»

Lei lo aveva sentito chiaramente, ma non riusciva a comprendere il senso delle sue parole. Aspettò una spiegazione e, nel silenzio che seguì, le trovò in qualche modo... agghiaccianti. Le venne la pelle d’oca e fece un altro passo indietro. «Chi sei?» sibilò. «Che cosa vuoi da me?» «Non voglio proprio niente. E tu sai chi sono.»

«No, invece! Non so nulla di te!»

«Lascia che ti spieghi...»

«Allora spiegami perché, se sei così puro e innocente, non mi hai parlato della fotografia la prima volta che ci siamo incontrati!» urlò, la voce che echeggiava nella stanza. Con gli occhi della mente rivide Drake e tutto quanto era successo la sera in cui era stata scattata la foto. Gli puntò contro un dito. «Come mai non mi hai detto: ‘Ho trovato questa in Iraq, e ho pensato che tu la volessi indietro’? Come mai sei stato zitto anche quando ti ho raccontato di Drake?»

«Non so...»

«Non era tua quella foto! Non lo capisci? L’avevo data a mio fratello, non a te! Era sua, e tu non avevi nessun diritto di tenertela!»

«Non intendevo fare niente di male», mormorò lui.

Lei lo incenerì con lo sguardo.

«Tutta questa storia è soltanto una messinscena, vero? Hai trovato la foto e ti sei creato... una fantasia perversa, in cui avevi il ruolo di protagonista.

Mi hai ingannata fin dal primo momento! Ti sei preso il tempo per capire come diventare il mio tipo ideale. Poi, essendo ossessionato da me, sei venuto qui a recitare la parte facendo in modo che mi innamorassi di te.»

Vide Logan trasalire, e proseguì.

«Avevi pianificato tutto! È stato morboso, sleale da parte tua, e non riesco a credere di essere caduta nella trappola.»

Lui si dondolava leggermente sui talloni, annichilito dalle sue parole.

«Ammetto che volevo conoscerti», affermò, «ma non per il motivo che pensi tu. Può sembrare assurdo, però alla fine ero giunto alla conclusione che quella fotografia mi aveva protetto dal pericolo, e che per questo... io mi sentivo in un certo senso in debito nei tuoi confronti, anche se non avevo idea di che cosa ciò significasse o dove mi avrebbe portato.

Comunque ti assicuro che non ho progettato niente dal momento del mio arrivo. Ho accettato il lavoro, e solo dopo un po’ ho capito di essermi innamorato di te.»

L’espressione di Beth rimase dura mentre lui parlava.

«Ti rendi conto di quello che stai dicendo?»

«Ero sicuro che non mi avresti creduto. Ecco perché non ti ho...» «Non cercare di giustificare le tue bugie! Ti sei fatto prendere da una fantasia perversa, e non vuoi neppure ammetterlo.» «Ora smettila!» gridò lui. «Tu non mi ascolti. Non fai il minimo sforzo per comprendere quello che ti dico.» «Perché dovrei? Mi hai mentito fin dal principio. Mi hai usata fin dal principio.» «Io non ti ho usata», replicò Logan, raddrizzando la schiena per darsi un contegno. «E non ti ho mentito a proposito della foto. Non te ne ho parlato solo perché avevo paura che tu mi considerassi un pazzo.»

Beth sollevò le mani. «Non dare la colpa a me, adesso. Sei stato tu a ingannarmi! Sei stato tu ad avere dei segreti! Io ti ho raccontato tutto! Ti ho dato il mio cuore! Ho lasciato che mio figlio si affezionasse a te!» esclamò. La sua voce era sempre più rotta e aveva le lacrime agli occhi.

«Sono venuta a letto con te perché mi illudevo di potermi fidare. Ma adesso ho capito di essermi sbagliata. Pensi che io sia felice di sapere che tutta questa storia era soltanto una specie di farsa?» «Per favore, Elizabeth... Beth... ascoltami, ti prego.» «Non voglio ascoltare! Sono già stata ingannata a sufficienza.» «Non fare così.»

«Che cosa mi vuoi dire?» gridò lei. «Che eri ossessionato da una fotografia e sei venuto a cercarmi perché credi che ti abbia protetto dal pericolo? È una pazzia, e la cosa peggiore è che non ti rendi neanche conto che la tua spiegazione ti fa sembrare paranoico!»

Logan la fissò in silenzio, serrando la mascella. Lei tremava dalla rabbia. Non ne poteva più, ne aveva abbastanza di lui.

«La rivoglio indietro», dichiarò a denti stretti. «Voglio la foto che avevo dato a Drake.»

Vedendo che Logan non rispondeva, allungò la mano verso il davanzale e afferrò un vaso di fiori. Glielo lanciò contro, urlando: «Dov’è? La voglio!»

Lui si abbassò e il vaso lo superò fischiando e andando a frantumarsi contro il muro alle sue spalle. Per la prima volta Zeus abbaiò, confuso.

«Non è tua!» ribadì lei.

Logan si raddrizzò. «Non ce l’ho più.»

«Dov’è?»

Lui tardò un attimo a rispondere. «L’ho data a Ben.» Lei socchiuse gli occhi. «Vattene.»

Logan esitò, poi si diresse alla porta. Beth si scostò, tenendosi a distanza da lui. Zeus li guardò entrambi, e alla fine trotterellò verso il padrone.

Giunto sulla soglia, Logan si fermò.

«Giuro sulla mia vita che non sono venuto qui per innamorarmi di te, né per cercare di farti innamorare di me. Ma è successo.»

Lei lo guardò implacabile. «Ti ho detto di andartene, e parlavo sul serio.»

Allora lui si voltò e si incamminò sotto la pioggia scrosciante. 29 Thibault

Nonostante il temporale Thibault non aveva nessuna voglia di tornare a casa. Voleva rimanere fuori; non gli sembrava giusto stare al caldo e all’asciutto. Voleva punirsi per ciò che aveva fatto, per tutte le bugie che aveva detto.

Beth aveva ragione: non era stato sincero. Anche se lo avevano ferito alcune frasi crudeli e la sua ostinazione a non ascoltare, lei aveva tutto il diritto di sentirsi tradita. Ma non capiva neppure lui fino in fondo il motivo per cui l’aveva cercata, neppure quando tentava di tradurlo in parole. Si rendeva conto che le sue azioni potevano farlo sembrare un pazzo paranoico. E in effetti lui era ossessionato, ma non nel modo che lei immaginava.

Avrebbe dovuto parlarle della fotografia subito dopo il suo arrivo, pensò, sforzandosi di ricordare come mai avesse taciuto. Molto probabilmente Beth sarebbe rimasta sorpresa e gli avrebbe fatto qualche domanda, ma la cosa sarebbe finita lì. Nana lo avrebbe assunto ugualmente, e non sarebbe accaduto niente del genere.

Il suo impulso più forte era quello di tornare indietro. Voleva spiegarle, raccontarle tutta la storia fin dal principio.

Non l’avrebbe fatto, però. Beth aveva bisogno di tempo per riflettere... o quanto meno per stare lontana da lui. Tempo per guarire e forse, ma soltanto forse, comprendere che il Thibault che lei aveva finito per amare era l’unico Thibault esistente. Si domandava se il tempo da solo sarebbe bastato a condurla al perdono.

Stava affondando nel fango; guardando una macchina che passava lentamente per la strada si accorse che l’acqua arrivava al semiasse. Di fronte a lui vide il fiume che aveva invaso la carreggiata. Decise di tagliare per i boschi. Forse era l’ultima volta che percorreva quel tragitto. Forse era giunto il momento di tornare in Colorado. Continuò a camminare. Le foglie autunnali, ancora fitte, gli offrivano un parziale riparo dalla pioggia e, mentre si inoltrava nei boschi, sentiva crescere a ogni passo la distanza tra loro. 30 Beth

Dopo aver fatto la doccia, Beth era in piedi in camera da letto con indosso una T- shirt extralarge, quando Nana infilò dentro la testa.

«Vuoi parlarne?» le chiese. Indicò la finestra con il pollice. «Mi hanno telefonato da scuola per dirmi che stavi tornando a casa. Il direttore sembrava un po’ preoccupato, e poco dopo ti ho vista entrare in ufficio. Ho pensato che voi due aveste litigato.»

«Non è un semplice litigio, Nana», disse Beth in tono sconfortato.

«Questo l’ho capito quando ho visto che lui se ne andava. E che tu sei rimasta a lungo in veranda.» Beth annuì.

«Si tratta di Ben? Ha fatto del male al bambino? Oppure a te?» «No, niente del genere.»

«Bene. Perché quella è l’unica cosa che non si può rimediare.» «Dubito che anche questa sia rimediabile.»

Nana guardò fuori dalla finestra, poi fece un profondo sospiro. «Immagino che stasera toccherà a me dar da mangiare ai cani, vero?»

Beth le lanciò un’occhiataccia. «Grazie per la comprensione.» «Micini e aceri», replicò Nana, con un vago gesto della mano.

Beth ci pensò su per un po’, poi sbuffò spazientita. «Che cosa significa?»

«Non significa proprio niente, ma per un secondo è servito a farti smettere di autocommiserarti. » «Tu non capisci...»

«Prova a spiegare.»

Beth alzò gli occhi. «Mi ha presa di mira, Nana. Per cinque anni. Poi ha attraversato a piedi il Paese per venire a cercarmi. Era ossessionato.»

Nana rimase stranamente silenziosa. «Perché non parti dal principio», suggerì, sedendosi sul letto.

Beth non aveva voglia di parlarne, ma pensò che era meglio farlo una volta per tutte. Cominciò dalla visita di Keith a scuola e, in una ventina di minuti, raccontò la propria tormentosa incertezza mentre tornava a casa e infine il confronto con Logan. Quando ebbe finito, Nana intrecciò le mani in grembo.

«Dunque Thibault ha ammesso di avere la fotografia? E, per dirla con le tue parole, ha blaterato che si tratta di una specie di portafortuna e ha affermato di essere venuto qui perché sentiva di essere in debito con te?»

Beth annuì. «Più o meno.»

«Che cosa intendeva per portafortuna?»

«Non lo so.»

«Non gliel’hai chiesto?»

«Non mi importava, Nana. È una storia talmente... sinistra e stramba. Chi farebbe una cosa del genere?»

Nana aggrottò le sopracciglia. «Ammetto che suona strano, ma penso che al posto tuo avrei voluto capire meglio perché lui crede che la foto lo protegga dal pericolo.»

«Che importanza ha?»

«Tu non c’eri», spiegò Nana con enfasi. «Non hai vissuto le sue esperienze. Forse ti stava dicendo la verità.»

Beth fece una smorfia. «La foto non è un portafortuna. Questa è una pazzia.» «Può darsi», ribatté Nana, «ma sono al mondo da abbastanza tempo da sapere che in guerra ne succedono di cose strane. I soldati finiscono per diventare superstiziosi, e se pensano che qualcosa serva a tenerli in vita, che male c’è?» Beth sospirò. «Una cosa è credere nella fortuna. Tutt’altra essere ossessionati da una fotografia e inseguire la persona che c’è sopra.» Nana le posò una mano sul ginocchio. «A volte tutti ci comportiamo in modo un po’ folle.» «Ma non così», insistette Beth.

«C’è qualcosa di spaventoso in tutto questo.» Nana rimase un attimo in silenzio, prima di fare un sospiro. «Forse hai ragione tu.» Alzò le spalle.

Beth la guardò, sopraffatta all’improvviso da una grande stanchezza. «Mi faresti un favore?» «Che cosa?»

«Potresti telefonare al direttore per chiedergli di riaccompagnare a casa Ben dopo la scuola? Non voglio che tu guidi con questo tempo, ma io proprio non ho la forza di andare a prenderlo.» 31 Clayton

Clayton cercò invano di evitare il lago che si era formato davanti a casa di Beth, ma i suoi stivali sprofondarono nel fango. Soffocò l’impulso di abbandonarsi a una serie di imprecazioni. La finestra accanto alla porta d’ingresso era socchiusa, e Nana avrebbe potuto sentirlo. Nonostante l’età, quella donna aveva l’udito di un falco e l’ultima cosa che voleva era farle una cattiva impressione. Lo biasimava già abbastanza.

Salì i gradini della veranda e bussò. Ci fu un movimento all’interno, scorse il viso di Beth alla finestra e alla fine lei venne ad aprirgli.

«Keith? Che cosa ci fai qui?»

«Ero in ansia», rispose lui. «Volevo assicurarmi che fosse tutto a posto.»

«È tutto a posto», confermò lei.

«Quell’uomo è ancora qui? Vuoi che gli parli io?»

«No. Se n’è andato. Non so dove sia adesso.»

Clayton si dondolò sui piedi, cercando di assumere un’espressione contrita. «Mi spiace molto per questa storia, e che sia toccato proprio a me informarti. So che ti piaceva veramente.»

Beth annuì, serrando le labbra.

«Volevo anche dirti che non devi essere troppo dura con te stessa. Come ti ho spiegato, gli individui di quel genere... imparano a camuffarsi. Sono degli psicopatici, e tu non potevi saperlo.»

Beth incrociò le braccia. «Non mi va di parlare di questo argomento.»

Clayton alzò le mani e, rendendosi conto di essersi spinto troppo in là, fece marcia indietro. «Hai ragione. Non sono fatti miei, soprattutto visto il modo disdicevole in cui mi sono comportato con te in passato.» Si infilò il pollice nella cintura e fece un sorriso forzato. «Desideravo solo accertarmi che tu stessi bene.» «Sto bene. E ti ringrazio.»

Clayton si voltò per andarsene, poi si fermò. «Meno male che, stando a quello che mi ha raccontato Ben, Thi-bault è stato sempre molto gentile e corretto nei suoi confronti. »

Lei lo guardò, stupefatta.

«Volevo dirtelo perché in caso contrario, se fosse accaduto qualcosa a Ben, quell’uomo si sarebbe pentito di essere nato. Sarei pronto a morire per difendere nostro figlio. E so che per te è lo stesso. Ecco perché sei una mamma tanto brava. In vita mia ho commesso una valanga di errori, ma sono orgoglioso di averti lasciato mano libera nell’allevare Ben.»

Beth annuì, cercando di fermare le lacrime, poi girò la testa. Quando Clayton la vide asciugarsi gli occhi, fece un passo verso di lei.

«Ehi», disse con voce tenera. «È normale che tu adesso sia turbata, ma credimi, hai fatto la cosa giusta. Con il tempo troverai qualcuno che ti vuole bene veramente, e sono sicuro che sarà un tipo fantastico. Te lo meriti.»

Lei singhiozzò e Clayton si avvicinò. Istintivamente, Beth si rifugiò tra le sue braccia. «Su, vedrai che tutto si sistemerà», la consolò lui, e per un po’ rimasero sulla veranda, i loro corpi uniti mentre la teneva stretta.

Clayton non si fermò a lungo. Non ce n’era bisogno: aveva ottenuto quello che voleva. Ora Beth lo vedeva come l’amico gentile, premuroso e compassionevole, come una persona che voleva porre rimedio ai propri peccati. L’abbraccio era stato solo la ciliegina sulla torta... niente di preventivato, comunque una degna conclusione del loro incontro.

Non avrebbe commesso l’errore di affrettare le cose. Lei aveva bisogno di un po’ di tempo per dimenticare Tai-bolt. Anche se quel tizio era un asociale, e anche se lasciava la città, non si potevano accendere e spegnere i sentimenti con un interruttore. Ma sarebbero stati superati, questo era inevitabile come la pioggia che continuava a cadere. Il passo successivo: assicurarsi che Tai-bolt fosse ripartito per il Colorado.

E poi? Fare il bravo. Magari invitare Beth a fermarsi quando portava Ben a casa sua, chiederle di restare per un barbecue. Avere un atteggiamento amichevole e disinvolto, in modo che lei non sospettasse di nulla, poi proporle di uscire assieme a Ben una sera durante la settimana. Era essenziale tenere queste manovre nascoste agli occhi penetranti di Nana, il che significava tenersi lontano da lì. Beth sarebbe stata confusa per qualche settimana, ma quella donna era in grado di pensare lucidamente, e l’ultima cosa che lui desiderava era che mettesse una pulce nell’orecchio della nipote.

In seguito, una volta ricominciato a frequentarsi, avrebbero bevuto qualche birra quando Ben era a letto... un’idea nata sul momento. Magari poteva versare nel suo bicchiere un po’ di vodka, così lei non sarebbe stata in grado di tornare a casa in auto. Poi offrirle il letto matrimoniale, mentre lui avrebbe dormito sul divano. Si sarebbe comportato da perfetto gentiluomo, e intanto avanti con la birra. Quattro chiacchiere sui vecchi tempi, quelli belli, e lasciarla piangere per Tai-bolt. Lasciare che le sue emozioni scorressero liberamente e farle scivolare un braccio intorno alle spalle, per confortarla.

Mise in moto la macchina, sorridendo al pensiero di ciò che sarebbe successo dopo. 32 Beth

Beth non dormì bene, e si svegliò esausta.

Nella notte la tempesta aveva infuriato, portando venti forti e una pioggia torrenziale che superava alla grande il diluvio dei giorni precedenti.

Guardando fuori dalla finestra, notò che l’ufficio sembrava sorgere su un’isoletta in mezzo all’oceano. La sera prima aveva spostato l’auto in un punto più elevato, vicino alla magnolia, che ora era diventato un’altra isoletta. Il furgone di Nana, invece, era immerso nell’acqua fino al pianale, però se l’era sempre cavata bene durante le inondazioni, e per fortuna i freni erano stati aggiustati. Altrimenti sarebbero rimaste appiedate.

Il giorno prima lo aveva usato per andare in centro comperare il pane e il latte, ma aveva fatto un viaggio a vuoto. Tutti i negozi erano chiusi, gli unici veicoli in circolazione erano i pickup e i SUV del dipartimento di polizia. Mezza città era ormai senza elettricità, anche se per il momento casa loro era stata risparmiata. L’unica buona notizia, pensò Beth, era che quella doveva essere l’ultima giornata di tempesta; dall’indomani, stando alle previsioni, il livello delle acque avrebbe cominciato a scendere.

Si sedette sul dondolo in veranda mentre Nana e Ben giocavano a ramino in cucina. Era l’unico gioco di carte in cui i due fossero alla pari, e così il bambino non si annoiava. Più tardi magari lei gli avrebbe dato il permesso di uscire in cortile, facendogli indossare solo il costume da bagno. Sarebbe stato inutile tentare di proteggerlo dalla pioggia, si disse. Quella mattina, quando era andata a dar da mangiare ai cani, si era accorta che l’impermeabile non serviva a niente.

Mentre sentiva la pioggia tamburellare sul tetto, le tornò in mente Drake.

Per l’ennesima volta rimpianse di non poter parlare con il fratello, e si chiese che cosa le avrebbe detto della fotografia. Anche lui era convinto del suo potere? Drake non era mai stato particolarmente superstizioso, ma lei provava una stretta al cuore tutte le volte che ripensava all’impiegabile panico che lo aveva assalito dopo la perdita di quella foto.

Nana aveva ragione. Lei non sapeva che cosa avesse passato Drake in guerra, né quali fossero state le esperienze di Logan. Per quanto cercasse di tenersi informata, le notizie non le sembravano reali. Fece uno sforzo per immaginarsi lo stress di quei soldati che si trovavano a migliaia di chilometri da casa, con indosso giubbotti antiproiettile, in mezzo a gente che parlava una lingua sconosciuta, a dover lottare per restare vivi. Era davvero così difficile credere che, in quelle condizioni, lui si fosse aggrappato a qualcosa che pensava potesse proteggerlo?

No, si disse. Non era diverso dal temersi al collo la medaglietta di San Cristoforo o portare con sé una zampetta di coniglio. Non importava se non c’erano spiegazioni razionali... la logica non c’entrava nulla. Né bisognava avere una fede cieca nei poteri magici. Se serviva a farti sentire più al sicuro, bastava quello.

Ma perché poi aveva voluto rintracciarla? Perché fissarsi su di lei? Era quello che Beth non riusciva proprio a capire. Per quanto dubitasse delle intenzioni di Keith... e persino del suo tentativo di apparire sinceramente preoccupato per lei... doveva ammettere che quello strano comportamento la turbava molto.

Che cosa aveva detto Logan? Qualcosa sul fatto di esserle debitore? Per avergli salvato la vita, immaginò lei. Ma in che modo?

Scrollò il capo, sfinita da quella ridda di pensieri. Alzò gli occhi quando sentì la porta aprirsi cigolando.

«Ciao, mamma.»

«Ciao, tesoro.»

Ben la raggiunse e si mise seduto accanto a lei. «Dov’è Thibault? Non l’ho ancora visto.» «Non verrà», rispose Beth.

«A causa della pioggia?»

Lei non gli aveva ancora detto nulla, né era pronta a farlo. «Aveva un impegno», improvvisò.

«Ok», rispose Ben. Guardò il cortile invaso dall’acqua. «Non si vede più nemmeno l’erba.» «È vero. Comunque la tempesta dovrebbe finire presto.» «È già successo così? Quando eri piccola?»

«Un paio di volte. Ma sempre per via di un uragano.» Lui annuì, poi si tirò sugli occhiali. Lei gli passò una mano tra i capelli.

«Ho saputo che Logan ti ha dato una cosa.»

«Non posso parlarne», replicò Ben in tono serio. «È un segreto.» «Alla tua mamma puoi dirlo. Sono brava a mantenere i segreti.» «Bella mossa», la canzonò lui. «Ma io non ci casco.» Lei sorrise e si appoggiò alla spalliera, spingendo il dondolo con i piedi. «Non importa, tanto so già della foto.»

Ben la guardò, chiedendosi che cosa sapesse.

«Ma sì», proseguì Beth, «quella che serve come protezione.» Il bambino curvò le spalle. «Te l’ha detto lui?»

«Certo.»

«Oh», sospirò, la sua delusione più che evidente. «Mi aveva detto che era un segreto tra noi due.» «Ce l’hai con te? Mi piacerebbe vederla.»

Dopo un attimo di esitazione, Ben infilò la mano in tasca. Tirò fuori la foto piegata in due e gliela porse. Beth l’aprì e fu assalita da un’ondata di ricordi: il suo ultimo fine settimana con Drake e la loro chiacchierata, la ruota panoramica e la stella cadente.

«Ti ha detto qualcos’altro, quando te l’ha data?» chiese, restituendogli la fotografia. «A parte che doveva restare un segreto tra voi.»

«Ha detto che per il suo amico Victor era un portafortuna, e che lo aveva protetto in Iraq.» Il cuore prese a batterle più forte, e avvicinò la faccia a Ben.

«Il suo amico Victor la considerava un portafortuna?» «Esatto.» Ben annuì. «È quello che mi ha detto lui.» «Ne sei sicuro?» «Ma certo.»

Beth guardò il figlio, combattuta fra troppe emozioni. 33 Thibault

Thibault aveva infilato nello zaino le sue poche provviste. Il vento soffiava a raffiche e la pioggia era ancora intensa, ma lui aveva camminato anche con un clima peggiore. Tuttavia, non riusciva a trovare la forza per uscire di casa.

Un conto era stato arrivare fin lì a piedi; tutt’altro andarsene. Si sentiva diverso. Quando era partito dal Colorado era solo e disincantato; lì invece la sua vita gli sembrava piena e appagante. Almeno fino al giorno prima.

Zeus si era finalmente accucciato in un angolo. Aveva passato gran parte della giornata camminando avanti e indietro irrequieto, perché lui non lo aveva portato fuori. Tutte le volte che Thibault si alzava per andare a prendere un bicchiere d’acqua, il cane gli correva incontro per segnalargli che era ora di fare una passeggiata.

A metà pomeriggio il cielo era già buio. La tempesta continuava a sferzare la casa, anche se lui intuiva che si trattava ormai della coda: come un pesce appena catturato all’amo, il maltempo non aveva intenzione di mollare facilmente.

Thibualt si sforzava di non pensare a quanto era accaduto, né a come avrebbe potuto evitarlo: era perfettamente inutile. Aveva rovinato tutto, semplice, e non si può cambiare il passato. In vita sua aveva sempre cercato di non soffermarsi su quello a cui non c’era rimedio, ma stavolta temeva che non sarebbe stato così facile per lui lasciarsi ogni cosa alle spalle e guardare avanti.

Nel contempo continuava ad avere la sensazione che non fosse ancora finita, che restasse qualcosa di incompiuto. Era solo per il fatto di avere perso un’opportunità? No, c’era dell’altro; la sua esperienza in guerra gli aveva insegnato a fidarsi dell’istinto, anche quando la ragione gli diceva il contrario. Sapeva di dover lasciare Hampton, se non altro per allontanarsi il più possibile da Keith Clayton – non si illudeva che quell’uomo prima o poi avrebbe perdonato e dimenticato – eppure non riusciva a costringersi a uscire. Clayton era il fulcro di tutto. Clayton, assieme a Ben e a Elizabeth, era la ragione del suo arrivo lì. Solo che non riusciva a capire perché o che cosa dovesse fare.

Zeus si alzò dall’angolo e trotterellò verso la finestra. Un attimo dopo qualcuno bussò alla porta. Thibault si irrigidì, ma il cane sbirciò fuori e cominciò a scodinzolare.

Lui andò ad aprire e si trovò davanti Elizabeth. Rimase paralizzato. Per un istante si guardarono senza parlare.

«Ciao, Logan», disse lei alla fine.

«Ciao, Elizabeth.»

Un sorriso fugace, quasi impercettibile, le illuminò i tratti del volto. Lui si chiese se se l’era soltanto immaginato.

«Posso entrare?»

Si fece da parte e rimase a guardarla mentre si toglieva l’impermeabile, i capelli biondi che emergevano dal cappuccio. Beth glielo porse, incerta, e lui lo appese al pomello della porta.

«Sono contento di vederti», le disse.

Zeus le annusò la mano e lei lo accarezzò dietro le orecchie, prima di rivolgere la sua attenzione a Thibault.

«Possiamo parlare?»

«Se vuoi.» Le indicò il divano, ed Elizabeth si mise a sedere in un angolo.

Lui si accomodò nell’angolo opposto.

«Perché hai dato la foto a Ben?» domandò lei senza preamboli.

Thibault fissò nel vuoto, in cerca di una spiegazione che non peggiorasse le cose. Da dove cominciare?

«Dimmelo in dieci parole», suggerì Beth, intuendo i suoi dubbi. «Partiremo da lì.» Thibault si massaggiò la fronte con la mano, poi sospirò, spostando lo sguardo su di lei. «Perché pensavo che lo avrebbe protetto.» «Proteggerlo? Da che cosa?»

«Eravamo nella casetta sull’albero... I temporali hanno indebolito tutta la struttura, compreso il ponte. Ben non dovrebbe più andare lì. Sta per crollare.»

Lei lo fissava con uno sguardo intenso e determinato. «Perché non l’hai tenuta tu?» «Perché avevo la sensazione che ne avesse più bisogno lui.»

«Dato che lo avrebbe protetto.»

Thibault annuì. «Sì.»

Beth giocherellò con il rivestimento del divano, poi tornò a guardarlo.

«Allora credi davvero a quello che hai detto? Al fatto che la fotografia sia una specie di portafortuna?»

Zeus lo raggiunse e si accucciò ai suoi piedi. «Può darsi», rispose Thibault.

Lei si sporse in avanti. «Perché non mi racconti tutta la storia?» Con lo sguardo fisso sul pavimento, i gomiti appoggiati alle ginocchia, Thibault cominciò a raccontarle titubante l’intera saga della fotografia. Iniziò dalle partite di poker in Kuwait, poi parlò dell’ordigno che gli aveva fatto perdere i sensi e dello scontro a fuoco a Fallujah. Descrisse in dettaglio le autobombe e gli attentati a cui era sopravvissuto a Ramadi, compreso il giorno in cui Victor aveva dichiarato che la fotografia aveva salvato la vita a entrambi. Parlò della reazione dei suoi commilitoni e della diffidenza che era sorta in loro.

Tacque, e si voltò a guardarla.

«Nonostante tutto, però, io continuavo a non crederci. Victor, invece, sì.

Fin dal principio. Il mio amico credeva in quel genere di cose, e io gli davo corda perché capivo che per lui era importante. Ma dentro di me ero scettico.» Unì le mani e la sua voce si addolcì. «Durante quell’ultimo fine settimana insieme Victor mi disse che ero in debito con la donna della foto perché mi aveva protetto, e che finché non avessi saldato quel debito non ci sarebbe stato equilibrio. Affermò che il mio destino era trovarla. Pochi minuti dopo Victor morì, e io rimasi illeso. Neppure allora ci credetti. Però cominciai a vedere il suo fantasma...»

Con voce rotta le parlò di quelle visioni, evitando di incontrare i suoi occhi per paura di leggervi sconcerto. Alla fine sospirò. «Il resto lo sai già. Ero sconvolto, quindi decisi di partire. Sì, mi misi in cammino per rintracciarti, ma non perché fossi ossessionato o volessi farmi amare a ogni costo da te.

Lo feci perché Victor aveva detto che era il mio destino, e continuavo a vedere il suo fantasma. Non sapevo che cosa sarebbe successo una volta qui. E poi, a un certo punto lungo il viaggio, diventò una sfida il fatto di riuscire a trovarti... quanto tempo ci avrei messo e cose del genere. Quando alla fine giunsi al canile e lessi il cartello cercasi AIUTANTE, pensai che sarebbe stato un modo per ripagare il mio debito. Presentarmi per quel posto mi parve giusto. Proprio come quando io e Ben eravamo nella casetta sull’albero; dare la foto a lui in quel momento era la cosa giusta da fare. Ma non riuscirei a spiegare queste sensazioni nemmeno se ci provassi...»

«Hai dato a Ben la foto perché lo proteggesse», ripeté Elizabeth.

«Suona pazzesco, vero? È così.»

Lei rimase per un istante in silenzio a riflettere. E poi: «Perché non mi hai raccontato tutto subito?» «Avrei dovuto farlo», riconobbe lui. «L’unica spiegazione che mi viene in mente è che mi ero portato dietro la foto per cinque anni, e non ero pronto a separarmene prima di aver compreso il suo scopo.» «Adesso pensi di averlo capito?»

Lui si chinò ad accarezzare Zeus, poi si voltò a guardarla. «Non ne sono del tutto sicuro. Posso soltanto dire che quanto è accaduto tra noi non è cominciato quando trovai la foto. Ma il giorno in cui ho messo piede al canile. È stato allora che per la prima volta tu sei diventata reale ai miei occhi, e più ti conoscevo, più mi sentivo a mio agio con me stesso. Felice e vivo come non mi capitava da molti anni. Come se noi due fossimo destinati l’uno all’altra.»

«Il tuo destino?» Beth lo guardò diffidente. «No... non in quel senso. Non c’entra niente la foto, o il viaggio fin qui, né quanto diceva Victor. È solo che non avevo mai incontrato una donna come te prima, e sono sicuro che non mi accadrà più. Io ti amo, Elizabeth... e soprattutto mi piaci. Mi piace passare il tempo con te.»

Lei lo fissò con aria imperscrutabile. Poi parlò in tono pragmatico. «Ti rendi conto che resta comunque una storia pazzesca? Sembra l’opera di un fanatico ossessivo.»

«Lo so», concordò Thibault. «Credimi, a volte anch’io ho l’impressione di essere un po’ fuori di testa.»

«Che cosa faresti se ti dicessi di andartene da Hampton e sparire dalla mia vita?» lo mise alla prova Elizabeth.

«Me ne andrei, e non mi vedresti né mi sentiresti mai più.» Quelle parole rimasero sospese nell’aria, dense di significato. Lei si allontanò sul divano e si voltò dall’altra parte, offesa, poi tornò a girarsi di scatto verso di lui.

«Nemmeno una telefonata} Dopo tutto quello che c’è stato tra noi?» Tirò su con il naso. «Non posso crederci.»

Lui venne assalito da un’ondata di sollievo quando si rese conto che stava scherzando. Rilasciò il respiro trattenuto inconsapevolmente, e sorrise.

«Lo farei, se fosse necessario per convincerti che non sono uno psicopatico-» «Lo trovo patetico. Almeno una telefonata sarebbe l’obbligo.» Si avvicinò in modo impercettibile a lei sul divano. «Lo terrò a mente.» «Sai che non devi raccontare in giro questa storia, se intendi rimanere qui, vero?» Logan si spostò ancora, in maniera più evidente.

«Posso sopportarlo.» «E se ti aspetti un aumento di stipendio solo perché esci con la nipote del capo, puoi scordartelo.» «D’accordo. Ce la farò.»

«Mi chiedo proprio come. Non hai neppure un’auto.» A quel punto Thibault le era scivolato accanto, e quando lei si girò i suoi capelli gli sfiorarono la spalla. Si chinò a baciarle il collo. «Mi inventerò qualcosa», mormorò, poi la baciò sulla bocca. Restarono a lungo abbracciati sul divano. Poi lui la portò in camera da letto e fecero l’amore. Il loro amplesso fu appassionato, rabbioso e compassionevole, rude e tenero come le loro emozioni. Alla fine Thibault si mise su un fianco a guardarla. Le sfiorò la guancia con un dito e lei glielo baciò.

«Credo che tu possa rimanere», bisbigliò Elizabeth. 34 Clayton

Clayton fissava la casa incredulo, le nocche bianche a furia di stringere il volante. Aveva provato a battere più volte le palpebre, ma la scena non cambiava: il furgone posteggiato lì davanti, la coppia che si baciava sul divano, Tai-bolt che conduceva Beth in camera da letto.

Beth e Tai-bolt insieme. A ogni minuto che passava la rabbia montava infrangendosi in ondate sempre più violente dentro di lui. Tutti i suoi piani perfetti andati in fumo. E Tai-bolt lo aveva fregato un’altra volta.

Strinse le labbra. Era tentato di piombare su di loro, ma c’era quel maledetto cane. Di nuovo. Era già stato abbastanza duro stare lì a spiarli dall’auto con il binocolo senza farsi notare.

Tai-bolt. Il cane. Beth...

Diede un pugno al volante. Com’era potuto accadere? Beth non aveva ascoltato i suoi avvertimenti? Non capiva quale pericolo stesse correndo?

Non le interessava nulla di Ben?

Era escluso che quello psicopatico entrasse nella vita di suo figlio.

Impossibile.

Per niente al mondo.

Doveva aspettarselo. Immaginare quanto fosse stupida Beth. Anche se era una donna adulta, continuava a essere ingenua come una bambina. Vedeva in Tai-bolt ciò che voleva, ignorando l’evidenza.

Ma quella storia sarebbe finita. Più prima che poi. Lui le avrebbe aperto gli occhi, a qualsiasi costo. 35 Thibault

Thibault salutò Elizabeth con un bacio sulla porta di casa, poi si lasciò cadere sul divano, sentendosi sfinito e sollevato al tempo stesso. Era inebriato dalla consapevolezza di essere stato perdonato. Il fatto che quella donna avesse compreso il perché del tortuoso viaggio che lo aveva condotto fin lì era quasi un miracolo. Lei lo accettava con tutti i suoi difetti: una cosa che lui non avrebbe mai ritenuto possibile.

Elizabeth lo aveva invitato a cena, e Thibault aveva deciso di raggiungerla più tardi, dopo un meritato sonnellino per recuperare le energie.

Aveva assolutamente bisogno di riposare un po’, ma prima doveva portare fuori Zeus. Andò sulla veranda posteriore a prendere la cerata, e il cane lo seguì guardandolo con interesse.

«Sì, usciamo», disse lui. «Dammi solo il tempo di vestirmi.» Zeus cominciò ad abbaiare e balzare di qua e di là tutto eccitato, come un cerbiatto. Corse verso la porta, poi tornò da Thibault.

«Sto facendo il più in fretta possibile. Rilassati.»

Zeus continuava a saltargli intorno.

«Rilassati», ripeté lui. Il cane lo guardò con aria implorante, prima di accucciarsi controvoglia.

Thibault si infilò la cerata, e un paio di stivali di gomma, poi aprì la porta.

Zeus si precipitò fuori e affondò con le zampe nel terreno fangoso. A differenza della proprietà di Nana, quella casa era costruita su una lieve altura e l’acqua si raccoglieva qualche centinaio di metri più in basso. Zeus si diresse verso il bosco, poi tornò sul prato, quindi girò nei pressi del vialetto di ghiaia, sfogando la gioia con grandi balzi. Thibault lo osservava sorridendo. Capisco bene che cosa provi, pensò. Trascorsero qualche minuto fuori, vagando sotto la pioggia. Il cielo era grigio piombo, carico di nubi temporalesche. Il vento si era rinforzato e Thibault sentiva le folate d’aria umida sferzargli le guance. Non aveva importanza; per la prima volta da anni si sentiva veramente libero.

In fondo al vialetto notò che le tracce dei pneumatici del furgone erano già quasi del tutto cancellate. Presto l’acqua avrebbe lisciato il terreno.

Tuttavia qualcosa catturò la sua attenzione. Il suo primo pensiero fu che le gomme che avevano lasciato quelle impronte gli sembravano troppo larghe.

Si avvicinò per guardare meglio, dicendosi che probabilmente Elizabeth – andando avanti e indietro – era passata due volte negli stessi punti. Ma giunto sul bordo del vialetto si rese conto di essersi sbagliato. C’erano due tracce diverse, in arrivo e in partenza. Due veicoli. Inizialmente non riuscì a capire.

La sua mente si mise a lavorare alacremente, mettendo i vari pezzi del puzzle al loro posto. Qualcun altro era stato lì. Non aveva senso, a meno che...

Guardò il sentiero che conduceva al canile passando per il bosco. In quel momento il vento e la pioggia si scatenarono, e Thibault socchiuse gli occhi trattenendo il respiro. Poi si mise a correre con andatura regolare.

Anche la sua mente correva, calcolando quanto ci sarebbe voluto per arrivare là. Sperava di fare in tempo. 36 Beth

Il destino volle che Nana fosse nell’ufficio del canile quando Keith piombò in casa chiudendosi la porta alle spalle, come se fosse lui il padrone. Perfino dalla cucina Beh notò che aveva le vene del collo gonfie.

Lui la fissò stringendo i pugni.

Mentre Keith attraversava furioso il salotto, Beth sentì qualcosa svanire dentro di sé; al suo posto si instaurò la paura. Non lo aveva mai visto così, e indietreggiò fin contro gli armadietti. Keith la sorprese, fermandosi sulla soglia della stanza. Le sorrise, ma la sua espressione era strana, una caricatura grottesca e demenziale di ciò che sarebbe dovuto essere.

«Ti chiedo umilmente scusa per l’irruzione», le disse con eccessiva cortesia, «ma dobbiamo parlare.»

«Che cosa ci fai qui? Non puoi entrare in questa maniera...» «Prepari la cena, eh?» esclamò lui. «Ricordo quando la preparavi per me.» «Vattene, Keith», replicò lei con voce roca.

«Non andrò da nessuna parte», rispose lui, guardandola come se avesse di fronte un’incapace. Indicò la sedia. «Perché non ti metti lì un attimo?»

«Non voglio sedermi», bisbigliò lei, odiandosi per il modo in cui la sua voce tradiva la paura. «Voglio che tu te ne vada.»

«Non succederà», replicò lui. Sorrise di nuovo, ma anche il secondo tentativo gli riuscì male. Nel suo sguardo c’era una fissità inquietante. Il cuore di Beth accelerò.

«Mi dai una birra, per favore?» chiese Keith. «E stata una giornata lunga in ufficio, non so se mi spiego.»

Lei deglutì, impietrita. «Non ne ho più.» Lui annuì e girò lo sguardo per la cucina, quindi tornò a fissarlo su di lei.

Indicò un punto. «Ce n’è una proprio lì, accanto ai fornelli. Deve essercene un’altra da qualche parte. Ti spiace se do un’occhiata in frigorifero?» Non attese risposta. Si alzò e aprì il frigo, allungando il braccio verso il ripiano inferiore. Quando lo tirò fuori teneva in mano una bottiglia. «Trovata», annunciò. La stappò guardando Beth. «Ti eri sbagliata, eh?» Bevve una lunga sorsata e le strizzò l’occhio.

Lei si sforzò di restare calma. «Che cosa vuoi, Keith?» «Ma, sai, ho fatto un salto... per sentire se c’era qualcosa che dovevi dirmi.» «A che proposito?» domandò Beth, provando una stretta allo stomaco.

«A proposito di Tai-bolt», rispose lui.

Lei non badò a come aveva storpiato il nome. «Non capisco di che cosa parli.» Keith beve un’altra sorsata, rigirandosi la birra in bocca mentre annuiva. Deglutì sonoramente. «Venendo qui, immaginavo che mi avresti risposto così», affermò in tono quasi conviviale. «Ma ti conosco meglio di quanto tu pensi.» Le rivolse un cenno con la bottiglia. «C’è stato un tempo, in passato, in cui non ero affatto sicuro di conoscerti, ma negli ultimi anni le cose sono cambiate. Crescere un figlio insieme serve a legare davvero una coppia, non credi?» Lei non rispose.

«È questo il motivo per cui sono qui, sai? Per via di Ben. Perché io voglio il meglio per lui, e non mi sembra che tu abbia le idee ben chiare sull’argomento.»

Fece un passo verso di lei e bevve un’altra lunga sorsata di birra. La bottiglia era già quasi vuota. Si asciugò la bocca con il dorso della mano prima di continuare. «Vedi, ho pensato che noi due non siamo sempre stati in ottimi rapporti. E questo non è un bene per Ben. Lui ha bisogno di sapere che andiamo ancora d’accordo. Che siamo amici. Non credi sia un buon esempio per lui? Il fatto che, anche se hanno divorziato, i suoi genitori possono restare amici?»

Non le piaceva affatto il tono di quel farneticante monologo, ma aveva paura a interromperlo. Quello era un Keith Clayton diverso... pericoloso.

«Io sono convinto che sia importante», proseguì lui. Si avvicinò ulteriormente. «Anzi, non riesco a trovare niente di più importante.» «Stai lontano da me», gli intimò Beth. «Non sai che cosa dici», la rimproverò lui. «Negli ultimi giorni non hai affatto le idee chiare. »

A mano a mano che lui avanzava, lei indietreggiava lungo il bancone della cucina, cercando di tenerlo sempre davanti a sé.

«Resta dove sei. Ti avverto.»

Lui continuava ad avanzare, fissandola con quegli occhi vacui. «Vedi che cosa intendo? Ti comporti come se pensassi che io voglia farti del male.

Non ti farei mai, mai del male. Dovresti saperlo.»

«Sei pazzo.»

«Niente affatto. Un po’ arrabbiato, forse, ma non pazzo.» Quando le sorrise di nuovo, la vacuità dello sguardo sparì e lei provò un tuffo al cuore. Keith proseguì. «Lo sai che, anche dopo tutto quello che mi hai fatto passare, io continuo a trovarti bellissima?»

Era preoccupata dalla direzione che stava prendendo la cosa. Ormai era arrivata nell’angolo, e non aveva più spazio per muoversi. «Adesso vattene, per favore. Ben è di sopra e Nana tornerà da un momento all’altro...»

«Voglio soltanto un bacio. È chiedere troppo?»

Lei non era sicura di aver sentito bene. «Un bacio?» ripeté a pappagallo.

«Per il momento», disse Keith. «Solo un bacio. In nome dei vecchi tempi.

Poi me ne andrò. Buono buono. Te lo prometto.»

«Non ho intenzione di baciarti», rispose lei, sbigottita.

Lui ormai le stava addosso. «Lo farai», affermò. «E poi farai dell’altro, più tardi. Ma per adesso mi basta un bacio.»

Lei inarcò all’indietro la schiena, cercando di sottrarsi. «Ti prego, Keith.

Non voglio. Non voglio baciarti.» «Su, non è così difficile», disse lui. Si chinò in avanti e lei girò la testa di lato. Keith l’afferrò per le braccia. Mentre le avvicinava le labbra all’orecchio, Beth sentì battere forte il cuore.

«Mi fai male!» ansimò.

«Ora ti spiego, Beth», mormorò lui, il suo alito caldo sul collo. «Se non vuoi baciarmi, va bene. Lo accetterò. Ma ho deciso che dobbiamo diventare un po’ più che amici.»

«Vattene», sibilò lei, e con una risata Keith la lasciò libera.

«Come vuoi.» Fece un passo indietro. «Non c’è problema. Me ne vado.

Ma lascia che ti dica cosa succederà se non troviamo una soluzione.»

«Vattene!» gridò Beth.

«Secondo me dovremmo uscire... insieme, ogni tanto. E non accetto un no come risposta.» Il modo in cui aveva detto «insieme» le fece venire i brividi. Beth non riusciva a credere alle sue orecchie.

«Dopo tutto, ti avevo avvertito su Tai-bolt», aggiunse. «E invece oggi tu dov’eri? A casa sua. È stato un grosso errore. Vedi, per me sarà molto facile denunciarlo per molestie e comportamento persecutorio nei tuoi confronti. Queste cose fanno di lui un individuo pericoloso, ma tu evidentemente non te ne accorgi. E così metti in pericolo anche Ben.»

Aveva un’espressione neutra. Beth rimase paralizzata nel sentire quelle parole.

«A questo punto mi costringi ad andare in tribunale a riferire quello che sta succedendo. E sono sicuro che stavolta otterrò la custodia esclusiva.»

«Non lo faresti mai», bisbigliò lei.

«Invece lo farò. A meno che...» La sua evidente soddisfazione rendeva il tutto ancora più raccapricciante. Fece una pausa a effetto, poi riprese a parlarle in tono paternalistico. «Te lo spiego in modo semplice. Primo: tu dici a Tai-bolt che non lo vuoi vedere mai più. Poi che deve andarsene dalla città. Dopodiché usciremo insieme. In nome dei vecchi tempi. O così, oppure Ben verrà a vivere da me.»

«Io non verrò a vivere con te!» gridò una vocina dalla porta.

Beth guardò alle spalle di Keith e vide Ben, con l’aria sconvolta, che cominciava a indietreggiare. «Non lo farò mai e poi mai!»

Poi il bambino si voltò e corse via, sbattendo la porta d’ingresso prima di sparire in mezzo alla tempesta. 37 Clayton

Beth cercò di oltrepassare Clayton, ma lui la bloccò afferrandola di nuovo per un braccio.

«Non abbiamo ancora finito», ringhiò.

«È scappato fuori!»

«Se la caverà. E io voglio accertarmi che tu abbia capito bene come andranno le cose tra noi.» Senza la minima esitazione, Beth gli diede uno schiaffo con la mano libera. Lui sussultò e la lasciò andare. Allora lei lo spintonò all’indietro con tutta la forza che aveva, intuendo che era ancora sorpreso.

«Vattene di qui, maledizione!» urlò. Non appena lui ebbe ripreso l’equilibrio, lo colpì al petto. «Sono stufa di sentirmi dire da te e dalla tua famiglia che cosa posso o non posso fare, e d’ora in poi non tollererò più le vostre imposizioni!»

«Peccato che non hai scelta», ribatté lui con naturalezza. «Non permetterò mai che Ben stia vicino a quel tuo fidanzato.»

Invece di rispondergli, lei lo superò di slancio e corse verso la porta.

«Dove vai!» gridò lui. «Dobbiamo ancora chiarire le cose.» Lei attraversò impetuosamente il soggiorno. «Vado a cercare Ben.» «È solo un po’ di pioggia!»

«E un diluvio, se non te ne sei accorto.»

La guardò uscire in veranda, e si aspettava che trovasse lì Ben, invece lei girò la testa a destra e a sinistra poi scomparve dalla vista. Un lampo squarciò il cielo seguito a breve distanza da un tuono. Molto vicino.

Troppo vicino. Clayton raggiunse la porta e vide che Beth aveva raggiunto la ringhiera e scrutava il cortile. Subito dopo scorse Nana che si avvicinava con l’ombrello. «Hai visto Ben?» le gridò Beth.

«No», rispose Nana, lo sguardo confuso mentre la pioggia scrosciava tutt’intorno a lei. «Sono appena arrivata. Che cosa sta succedendo?» Si bloccò alla vista di Clayton. «Che cosa ci fa lui qui?» domandò.

«Non ti è passato davanti?» chiese Beth correndo verso i gradini.

«Non è niente di grave», intervenne Clayton, che voleva finire il suo discorso. «Tornerà...» Beth si bloccò di scatto e si girò a guardarlo. Lui si accorse che la rabbia sul suo viso era stata sostituita dal terrore. Il frastuono del temporale all’improvviso sembrava molto lontano.

«Che cosa c’è?» le chiese.

«La casetta sull’albero...»

Clayton impiegò solo un istante a rielaborare quelle parole, poi provò una stretta al cuore.

Un attimo dopo correvano entrambi verso il bosco. 38 Thibault, Beth e Clayton

Thibault raggiunse finalmente il vialetto del canile, gli stivali appesantiti dal fango. Zeus teneva il passo al suo fianco, in mezzo all’acqua che arrivava al ginocchio. Un po’ più avanti si vedevano le sagome della macchina, del furgone e di un SUV. Avvicinandosi, lui scorse le luci sul tetto del fuoristrada e capì che Clayton era lì.

Nonostante la stanchezza, avanzò deciso, arrancando nel fango. Zeus entrava e usciva dall’acqua come un delfino che salta tra le onde. Più Thibault correva forte, più la distanza sembrava aumentare, ma alla fine superò l’ufficio e girò verso la casa. Solo allora si accorse di Nana in piedi sulla veranda, che puntava una torcia verso il bosco.

Si capiva anche da lontano che era terrorizzata.

«Nana!» la chiamò lui nel frastuono del temporale. La donna si girò dalla sua parte e lo illuminò con il fascio della torcia.

«Thibault?»

Lui compì faticosamente gli ultimi passi. La pioggia lo sferzava e la luce fioca gli annebbiava la vista. Rallentò per riprendere fiato.

«Che cosa è successo?» urlò.

«Ben è scappato!» gridò Nana di rimando.

«Che cosa vuol dire ‘scappato’? C’è stato qualche problema?» «Non lo so!» urlò lei. «C’era Clayton qui e poi Beth è uscita a cercare Ben... e poi insieme sono corsi verso il torrente. Li ho sentiti parlare della casetta sull’albero.» Un attimo dopo Thibault scattava in direzione del bosco, tallonato da Zeus.

Avevano il viso e le mani pieni di graffi mentre si facevano strada fra i rami agitati dal vento. Il sentiero era ostruito da grossi pezzi di alberi caduti che costringevano Beth e Keith a inoltrarsi nel sottobosco per aggirarli. Beth era già caduta un paio di volte; alle sue spalle, aveva sentito cascare anche Keith. Il fango era denso e viscoso; a un certo punto lei perse una scarpa, ma non si fermò a recuperarla.

La casetta sull’albero. Il torrente in piena. Soltanto l’adrenalina e la paura le impedivano di vomitare. Con l’occhio della mente vedeva il figlio sul ponte che crollava di colpo.

Camminando nella penombra inciampò di nuovo su un tronco marcito e avvertì una fitta lancinante al piede. Si rialzò il più in fretta possibile, cercando di non badare al dolore, ma quando appoggiò il peso del corpo sul piede, la caviglia cedette facendola stramazzare a terra.

Keith l’aveva raggiunta e la sollevò senza dire una parola. Tenendole un braccio intorno alla vita, la trascinò avanti.

Entrambi sapevano che Ben era in pericolo.

Clayton doveva fare un grande sforzo per non lasciarsi prendere dal panico. Si ripeteva che Ben era intelligente, e che avrebbe riconosciuto il pericolo, senza rischiare inutilmente. Non era un ragazzino molto coraggioso, si disse. E per la prima e unica volta in vita sua ne fu contento.

Mentre procedeva a fatica nel sottobosco, con Beth che zoppicava al suo fianco, Clayton non poteva ignorare quello che vedeva. Appena sotto di loro, il torrente scorreva ampio, impetuoso e veloce come non mai.

Thibault correva più forte che poteva, avanzando in mezzo al fango e la pioggia, lottando per non rallentare, ma faticando sempre più a tenere quell’andatura disperata. Rami e foglie gli frustavano il viso e le braccia, provocandogli tagli di cui non si accorgeva neppure.

Mentre correva, si liberò della giacca della cerata e della camicia.

Ci sono quasi, continuava a ripetersi. Manca poco.

E nei recessi più remoti della sua mente, udiva l’eco della voce di Victor: C’è dell’altro. Beth sentiva le ossa del piede scricchiolare a ogni passo e fitte lancinanti in tutta la gamba, ma si trattenne dal gridare o dal piangere.

Vicino alla casetta sull’albero il torrente era ancora più ampio, la corrente vorticosa. L’acqua formava delle piccole onde intorno ai rami caduti lungo le rive sommerse. Il corso del torrente era pieno di detriti, abbastanza da travolgere o tramortire chiunque vi fosse caduto dentro.

La pioggia continuava a scrosciare. Il vento staccò un altro ramo, che si abbatté sul terreno a pochi metri da lì. Il fango sembrava risucchiare tutte le loro energie.

Lei però sapeva che erano arrivati alla quercia: oltre la cortina di pioggia scorse il ponte di corda, come un lacero albero maestro in un porto nebbioso. Il suo sguardo andò dalla scaletta di assi al ponte e alla piattaforma centrale: le acque del torrente la investivano con violenza, e i detriti si accumulavano lì intorno. Spostò lo sguardo verso la piattaforma della casetta, notando la forte inclinazione dell’ultimo tratto della passerella. Era sospesa a pochi centimetri dall’acqua perché la piattaforma in fondo al ponte aveva ceduto.

Come in un incubo, all’improvviso vide Ben nel torrente in piena, aggrappato al ponte di corda sotto quella piattaforma. Solo allora si concesse di urlare.

Clayton fu assalito dal terrore non appena scorse Ben aggrappato alle funi sfilacciate del ponte. Cercò freneticamente di capire che cosa era meglio fare.

Non c’era tempo per raggiungere l’altra riva a nuoto.

«Resta lì!» gridò a Beth, mentre andava verso la scaletta sulla quercia. Si arrampicò e si mise a correre sul ponte, nel disperato tentativo di raggiungere il figlio. Vide che la piattaforma della casetta stava affondando. Presto la forza della corrente l’avrebbe strappata via dal supporto.

Dopo qualche passo le assi marce si spezzarono e Clayton precipitò attraverso la piattaforma centrale, rompendosi le costole e piombando in acqua. All’ultimo istante riuscì ad afferrare una fune. Tenne salda la presa mentre andava sotto. La corrente lo spingeva e la fune si tese. La strinse più forte, e scalciò selvaggiamente per tornare in superficie.

Riaffiorò con la testa, prese una boccata d’aria e fu trafitto da un dolore lacerante al torace. In preda al panico si aggrappò alla fune anche con l’altra mano, lottando contro la corrente.

Rimase così, dolorante, con i rami che gli sferzavano il corpo trascinati dalla forza degli elementi. L’acqua lo colpiva in viso, annebbiandogli la vista, soffocandolo, rendendogli impossibile pensare ad altro che alla mera sopravvivenza. Preso dalla lotta, non si accorse che i pali della piattaforma centrale si inclinavano per via del suo peso e cominciavano a cedere alla violenza della piena.

Beth cercò di camminare zoppicando. Fece tre passi poi cadde di nuovo. Si portò le mani alla bocca e gridò verso l’altra riva.

«Spostati lungo il ponte, Ben! Allontanati dalla piattaforma! Puoi farcela!»

Non sapeva se lui l’avesse sentita, ma un istante dopo lo vide spuntare da sotto la piattaforma e spostarsi lentamente verso la corrente più forte al centro del torrente. Verso suo padre...

Keith annaspava, riusciva a reggersi a stento...

Tutto sembrava accelerare e rallentare al tempo stesso, quando all’improvviso scorse un movimento in lontananza, un po’ più in alto sul torrente. Con la coda dell’occhio vide Logan che si toglieva gli stivali e i calzoni della cerata.

Un attimo dopo lui si tuffò in acqua, seguito da Zeus.

Clayton sapeva di non poter resistere ancora a lungo. Il dolore alle costole era insopportabile, e la corrente continuava a sommergerlo. Riusciva a stento a respirare e lottava contro la morte che, di colpo, gli sembrava imminente.

La corrente implacabile spostava Thibault di un metro verso il basso per ogni mezzo metro che lui guadagnava di traverso. Sapeva che, una volta raggiunta l’altra sponda, sarebbe potuto tornare indietro via terra, ma non aveva tutto quel tempo. Concentrandosi su Ben, riprese a battere i piedi.

Un tronco lo colpì, facendolo andare sott’acqua per un momento. Quando riaffiorò, disorientato, vide Zeus che nuotava tenacemente alle sue spalle. Si riprese, poi ricominciò a scalciare e a pagaiare con la forza della disperazione. Sconfortato, si rese conto di non aver ancora raggiunto neppure il centro del torrente.

Beth vide Ben avanzare cauto lungo il ponte traballante, e si trascinò più vicino alla riva.

«Avanti!» gridò singhiozzando. «Puoi farcela! Resisti, piccolo!» A metà strada, Thibault si scontrò con la piattaforma centrale del ponte ormai sommersa. Rotolò tra le onde, senza controllo; un istante dopo andò a sbattere contro Clayton. In preda al panico, Clayton si attaccò al suo braccio con una mano, tirandolo sotto. Thibault si divincolò cercando a tentoni la fune, e afferrandola nel momento in cui l’altro la mollava.

Clayton si aggrappò a lui, arrampicandosi sul suo corpo nel disperato tentativo di riemergere per respirare.

Thibault lottava sottacqua, reggendosi alla fune con la mano senza riuscire a liberarsi da Clayton. Gli sembrava che i polmoni fossero sul punto di esplodergli e il panico stava per rimpossessarsi di lui.

In quell’istante i pali si piegarono ulteriormente, troppo sollecitati dal peso dei due uomini, e con uno schianto la piattaforma cedette.

Beth aveva guardato Keith e Logan lottare appena prima che la piattaforma centrale crollasse. Sull’altra riva anche la piattaforma della casetta precipitò nell’acqua è Ben fu portato via dalla corrente. Con orrore, lei si accorse che si teneva ancora aggrappato alla fune ancorata alla piattaforma centrale, che ora giaceva di traverso nel letto del torrente.

Zeus si stava avvicinando a Logan e Keith quando la piattaforma si sollevò all’improvviso, come una conchiglia che rotola tra le onde, e si spezzò.

Zeus scomparve, stava accadendo tutto troppo in fretta: Beth non vedeva più ne Logan né Keith e, scrutando disperatamente le acque, riuscì a scorgere a stento la testa di Ben, un puntino in mezzo ai detriti.

Udì le grida stridule del bambino, che lottava per tenere la testa fuori dall’acqua. Beth si rialzò e zoppicò in avanti, cercando disperatamente di non perderlo di vista e poi come in un sogno divenuto realtà, vide una testa scura e affusolata che avanzava decisa verso suo figlio Zeus. Udì Ben chiamare il cane, e sentì il cuore traboccare di gioia.

Avanzò zoppicando, cadde, si rialzò e proseguì per qualche metro, poi cadde di nuovo. Alla fine si mise a strisciare in avanti, usando i rami come appiglio mentre cercava di seguire la scena. Zeus e Ben diventavano sempre più piccoli a mano a mano che la corrente li trascinava via, ma il cane si stava avvicinando.

E poi, di colpo, le due figure si unirono e Zeus invertì subito la rotta, nuotando verso la riva del torrente e portandosi dietro Ben che si reggeva alla sua coda.

«Batti i piedi, piccolo! Batti i piedi!» gridò lei.

Saltellando, zoppicando, strisciando, Beth avanzava ancora, nel vano tentativo di tenere il passo con la corrente. Ben e Zeus venivano trascinati lontano. Lei si sforzava di non perderli d’occhio: avevano raggiunto il centro del torrente... no, l’avevano superato.

Continuava a spingersi avanti, con gli ultimi brandelli di forze che le restavano, lo sguardo fisso su di loro, agendo ormai per istinto. Invece del dolore, sentiva il battito del proprio cuore a ogni passo.

Ancora un terzo della distanza fino alla riva del torrente... la corrente era meno impetuosa... ora soltanto un quarto...

Beth andava avanti, con tenacia, aggrappandosi ai rami. Per un attimo le fronde le nascosero la vista del torrente, ma dopo qualche secondo disperato tornò a vederli.

C’erano quasi... un barlume di sollievo si insinuò in lei... mancava pochissimo...

Ti prego, Dio... solo un pochino ancora...

Poi arrivarono. I piedi di Ben toccarono il fondo, e lasciò andare il cane.

Zeus si lanciò in avanti e toccò terra pure lui. Beth affrettò il passo mentre loro uscivano dall’acqua. Zeus crollò non appena fu sulla riva. Ben stramazzò un attimo dopo.

Quando lei li raggiunse il cane si era rialzato, le zampe tremanti per lo sforzo, fradicio e ansimante.

Beth si gettò a terra accanto al figlio e lo fece sedere. Lui cominciò a tossire a ritmo con Zeus.

«Stai bene?» singhiozzò lei.

«Sì», ansimò Ben. Tossì di nuovo e si asciugò l’acqua dalla faccia. «Ero spaventato, ma avevo in tasca la foto. Thibault ha detto che mi avrebbe protetto.» Si soffiò il naso. «Dov’è papà? Dov’è Thibault?»

A queste parole, scoppiarono tutti e due a piangere.

Epilogo Due mesi dopo

Beth guardò nello specchietto retrovisore e sorrise alla vista di Zeus accucciato sul pianale del furgone, il muso rivolto controvento. Ben stava seduto accanto a lei. Era cresciuto molto negli ultimi mesi, ma ancora non era abbastanza alto da appoggiare comodamente il gomito al finestrino.

Finalmente la temperatura era diventata più mite dopo un lungo periodo di freddo intenso, e mancavano meno di due settimane a Natale. L’afa e le tempeste di ottobre erano ormai un ricordo lontano. Durante quelle inondazioni di portata eccezionale il centro di Hampton era stato invaso dalle acque, così come molte altre località della regione, e sei persone avevano perso la vita.

Nonostante tutto quello che era successo, Beth si sentiva quasi... in pace per la prima volta da parecchio tempo. Sin dal momento del funerale si era interrogata sul senso degli eventi straordinari che avevano portato a quel fatidico giorno. Sapeva che molti in città non condividevano le sue scelte.

Ogni tanto le arrivava all’orecchio qualche pettegolezzo, ma in genere non ci badava. Se c’era una cosa che Logan le aveva insegnato era che a volte bisogna basarsi esclusivamente sulla fiducia in se stessi e nel proprio istinto.

Per fortuna le condizioni di Nana continuavano a migliorare; subito dopo «l’incidente» - come lei lo chiamava- Beth e soprattutto Ben avevano trovato un prezioso sostegno nella sua originale saggezza e nella sua incrollabile forza. Ormai Nana cantava regolarmente nel coro, si occupava della casa e dei cani, aveva recuperato l’uso di entrambe le mani e zoppicava solo se era molto stanca. Quando Beth si era tolta il gesso – si era rotta quattro ossa del piede ed era rimasta ingessata per cinque settimane – camminava come lei. Nana l’aveva presa in giro, gongolando all’idea che anche qualcun altro fosse invalido.

Da allora Ben era decisamente cambiato, si disse, il che in parte la preoccupava e in parte la riempiva di orgoglio. Sopravvivere a quella drammatica esperienza gli aveva dato una nuova sicurezza di sé, che lui manifestava anche con i compagni di scuola. Ogni tanto lei si chiedeva se fosse per via della foto che teneva in tasca. Era tutta spiegazzata e la plastificazione cominciava a staccarsi, ma Ben non voleva separarsene, e se la portava dietro dappertutto. Beth supponeva che, crescendo, avrebbe abbandonato quella mania, ma chi poteva dirlo? Era un’eredità ricevuta da Logan, e come tale aveva un significato speciale per lui.

Naturalmente la perdita era stata dolorosa per Ben. Sebbene ne parlasse raramente, lei sapeva che per certi versi si riteneva responsabile. A volte gli capitava ancora di avere degli incubi, e gridava nel sonno chiamando Keith o Logan. Quando lo svegliava, lui le raccontava sempre lo stesso sogno. La corrente del fiume lo trascinava via, stava per morire, poi vedeva Zeus accorrere in suo aiuto. Nel sogno gli afferrava la coda, ma non riusciva a stringerla. Provava ripetutamente ad aggrapparsi, invano, allora si rendeva conto che Zeus non aveva più coda e a quel punto – come se guardasse la scena dal di fuori – si vedeva annaspare e annegare.

Arrivata al cimitero, Beth parcheggiò al solito posto. Aveva con sé due vasi di fiori. Per prima cosa, come d’abitudine, raggiunse la tomba di Drake e rimase qualche istante assorta nei ricordi prima di strappare le erbacce intorno alla lapide e sistemare il vaso lì accanto. Poi si diresse all’altra tomba. Aveva riservato per questa i fiori più belli: era il suo compleanno, e voleva essere certa che lui venisse ricordato.

Zeus trotterellava in giro, annusando ed esplorando il territorio, e Ben lo seguiva. Aveva amato quel cane fin dal primo momento, ma ora i due erano diventati praticamente inseparabili. Sembrava quasi che Zeus si rendesse conto di avergli salvato la vita e che, nella sua mente canina, avesse deciso che ormai erano uniti da un legame particolare. Di notte dormiva in corridoio davanti alla camera di Ben. Quando Beth si alzava per andare in bagno, spesso lo vedeva accanto al letto del figlio, a vegliare sul sonno del suo adorato compagno.

Il lutto è un processo complicato, e lei e Ben lo stavano ancora affrontando. A volte Beth aveva la sensazione che i loro ricordi si scontrassero con il dolore della perdita, perché, nonostante l’eroismo che contrassegnava la prova finale, non sempre i comportamenti e le azioni erano stati positivi. Ma nel complesso lei pensava a Keith Clayton con un senso di vera gratitudine. Non avrebbe mai dimenticato il modo in cui l’aveva sorretta quando era caduta quel giorno. Né che alla fine era morto nel tentativo di salvare il figlio.

Questo era molto importante. Anzi, fondamentale e – lasciando perdere i difetti – era quella l’immagine che voleva conservare di lui. Per il suo bene, sperava che anche Ben finisse per ricordarlo così, senza rimorsi e con la certezza assoluta che il padre lo aveva amato, pur non essendo stato il più delle volte capace di dimostrarlo.

Quanto a lei, era contenta che ci fosse Logan ad aspettarla al suo ritorno a casa. Si era offerto di accompagnarla al cimitero, ma Beth sapeva che avrebbe preferito rimanere lì. Era sabato e gli piaceva trascorrere la mattina vagando per la proprietà in solitudine, facendo qualche riparazione e costruendo una nuova casetta sull’albero per Ben in giardino. Più tardi avrebbero decorato insieme l’albero di Natale. Lei si stava abituando ai suoi ritmi e ai suoi umori, e aveva imparato a riconoscere i taciti segnali che le inviava. Nel bene e nel male, con i suoi punti di forza e le sue debolezze, lui le apparteneva per sempre.

Mentre imboccava il vialetto di casa, scorse Logan che scendeva i gradini della veranda e lo salutò con la mano.

Anche lei gli apparteneva per sempre, con tutte le sue imperfezioni.

Prendere o lasciare, pensò. Ognuno è quello che è.

Logan si avvicinò, sorridendo come se le avesse letto nel pensiero, e allargò le braccia per accoglierla. Indice

Clayton e Thibault 2 Thibault 3 Beth 4 Thibault 5 Clayton 6 Thibault 7 Beth 8 Thibault 9 Clayton 10 Beth 11 Thibault 12 Beth 13 Thibault 14 Clayton 15 Beth 16 Thibault 17 Clayton 18 Beth 19 Thibault 20 Beth 21 Clayton 22 Thibault 23 Beth 24 Clayton 25 Thibault 26 Beth 27 Clayton 28 Beth 29 Thibault 30 Beth 31 Clayton 32 Beth 33 Thibault 34 Clayton 35 Thibault 36 Beth 37 Clayton 38 Thibault, Beth e Clayton