il negro nella balla

Introduzione

L’abbiamo capito come funziona: uno apre la balla degli stracci e ci trova dentro, fra i vestiti, i giubbetti, nei pantaloni, degli oggetti di poco valore, delle conchiglie, un anello di fidanzamento, qualche fotografia, una medaglietta con l’effigie di qualche mezzo santo troppo povero per meritarsi di essere canonizzato, magari delle monetine, poi qualche dollaro. Roba che passa in un’altra tasca di un altro pantalone che prima o poi finirà in un’altra balla di cenci, roba che nessuno richiederà mai indietro e che non cambia la vita di nessuno, nè di chi l’ha persa nè di chi l’ha trovata. Poi arriva un altro che racconta di averne trovati, cuciti nella fodera di una giacca, cento o mille di dollari, e con quei soldi di averci finito di pagare la casa, di averci comprato la cucina o il salotto nuovo per sè o per la figlia e con quello che ne è avanzato di averci portato prima a cena fuori e poi per chiudere la serata anche a bere al bar i colleghi di lavoro (gli altri cenciaioli, ma anche il ragioniere e il padrone della ditta, tutti), con quella piccola fortuna. Nelle balle dei cenci, a Prato, sono state trovate un’infinità di piccole cose, di poco o di nessun valore, oggetti preziosi, persino qualche bigliettone. E’ successo, a Prato. Era normale che potesse succedere. Un giorno accade che arriva quello esagerato e racconta di averci trovato un dente, una perla o un dito, e fino a qui ancora il gioco regge. Che vuoi che sia? Poco male, uno pensa, è roba che a un cenciaiolo non fà impressione. Normale che succeda, anzi. Poi tanto un dente o un dito non servono a nulla, non valgono nulla, non ci compri niente, non ci finisci di pagare la macchina, la cucina o il salotto nuovi, “Con un dito o un dente non ti ci arricchisci più di quanto con i cenci abbia fatto io”. Non scatta nulla in quello che sente il racconto di chi, nei cenci, ci ha trovato un dito o

una perla “A chi la vendo una perla? Io da qui esco alle otto e mezzo di sera, dove vado a venderla una perla? A chi la vendo? Chi ha il tempo dopo dodici ore di lavoro di cercare un orefice a cui vendere una perla? E se poi fosse falsa? Sai che figura andare da un gioielliere in centro a Prato, magari di sabato pomeriggio a chiedergli di comprarsi una perla falsa? Sarei finito, non avrei il coraggio di farmi vedere in giro. Magari ci trovassi una perla, nei cenci, ma che me ne farei? Mi toccherebbe portarla a casa e metterla insieme alle conchiglie, alle fotografie, alle monetine, agli anellini di metallo. Sarebbe una vittoria senza la premiazione, sarebbe come fare fortuna con il commercio della lana delle vigogne in un posto sperduto sulle Ande nel sud del Cile. Su quali strade potrei girare la domenica a esibire i miei sei metri di Mercedes? Sulle mulattiere in mezzo agli indios? Che senso avrebbe? Se trovassi una perla nei cenci sarebbe come quando il mio cognato, tanti anni fa, segnò il gol della vittoria della sua squadra nel torneo estivo dei bar: non mi ricordo esattamente come mai andò per le lunghe, mi pare che durante le eliminatorie ci fu una rissa, il torneo venne sospeso, dissero che non sarebbe ripreso e forse mai più disputato. Poi però, una volta allontanati i soggetti più pericolosi e squalificate le loro squadre, decisero di arrivare in fondo. La finale si giocò allo stadio comunale in notturna un sabato sera di fine luglio. C’era il pienone, forse anche otto-novemila persone. Finì zero a zero. Non c’erano ancora i rigori, all’epoca. La domenica non si potè rigiocare, qualcuno rinunciò per la stanchezza, qualcuno aveva fissato l’ombrellone al mare. La ripetizione fu fatta di mercoledì, era già il 2 agosto, la gente era già partita per le ferie, dovettero giocare in nove contro dieci, allo stadio non c’era nessuno. Il mio cognato segnò il gol decisivo, vinsero uno a zero. Ma nessuno se lo ricorda.” E anche se fosse una bugia, quella del dente, del dito o della perla, sarebbe innocua.

Poi però quando arriva il fanfarone, lo spaccone, quello eccessivo, irriguardoso, l’irrispettoso che racconta di averci trovato un negro intero in una balla di stracci cambia tutto, le cose non sono più quelle di prima. Sovverte gli equilibri, fa saltare il banco, ribalta il tavolo, spariglia il mazzo. Perchè per quanti anni tu possa aver cercato e continuato a cercare e trovare perline, conchiglie, monili, monete, banconote e rotoli di banconote un negro non ce lo dovresti trovare, un negro intero intendo dire. E’ rivoluzionario, un negro tutto intero e dentro una balla di stracci. E’ sovversivo. Inquietante, antitetico, osceno, paradossale, clamoroso, grottesco, fragorosamente ridicolo, penoso e sensazionale al tempo stesso, illogico, straordinariamente fuori luogo, pacchiano, esplosivo nella miseria della sua tragicomicità, buffo per la sua monumentale inadeguatezza. E’ una balena spiaggiata sull’isola di Wight il giorno del concerto, è il frigorifero della vodka al melone nella cantina della base spaziale che va in corto circuito il giorno del primo allunaggio Il negro nella balla è la tragedia dell’estate. Perchè un negro nella balla non ha nessun valore, tranne quello simbolico, perchè non è commerciabile, perchè non ti ci potrai comprare nessun mobile per la cucina e nessun divano nuovo, incomprensibile come lo è agli occhi di un indio la Mercedes di un pratese che ha fatto fortuna esibita la domenica sui sentieri di un villaggio andino nel sud del Cile ai margini dei campi dove pascolano le vigogne. Non è oggetto di scambio in nessuna valuta, è fuori mercato. E se lo diventa, oggetto di mercato, è finita.

Un negro in una balla qualcuno ce lo trovò davvero o è solo una leggenda? Come ci finì esattamente in quella balla, per

un caso, una disgrazia, fu un tranello o ci entrò volontariamente? Ma soprattutto: parlò? E se non parlò, com’è poco probabile ma come hanno tuttavia provato a farci credere, cosa avrebbe voluto dirci? Nel tentativo di dare una risposta alla domanda “Perchè è finito il gioco? Perchè ad un certo punto, senza che ci accorgessimo di niente, è saltato tutto?” e per ricostruire quella vicenda siamo andati in cerca di testimonianze, qualcuna attendibile altre meno, qualcuna attinente altre poco. Qualcuna evasiva, altre solamente elusive. Qualcuna davvero non c’entra niente, e quelle in modo particolare ci sono sembrate le più plausibili in relazione allasolo apparente manifesta illogicità della domanda. Non è molto ma è tutto quello che si poteva fare. Alcuni passi sono stati riportati esattamente come ci sono stati raccontati, alcune parole ed espressioni abbiamo preferito lasciarle in forma colloquiale, sarebbe stato inutile procedere a collocarle in una dimensione letteraria o tradurle in un italiano catodico. Si sarebbe perduto quanto di autentico abbiamo recuperato e la mutazione del linguaggio nel tempo avrebbe definitivamente corrotto l’originalità di quel fatto. Alla fine di questo lavoro possiamo dire di saperne qualcosa (non molto, ma qualcosa) in più. Lungi da noi la presunzione di aver convinto tutti sull’autenticità di quel ritrovamento ma anche ammesso (e non concesso) non sia mai avvenuto si pone un altro interrogativo: il negro nella balla fu delirio individuale o allucinazione collettiva? “A sapello...”

8 settembre

Era nell’aria quell’8 settembre del 1943 che la situazione non sarebbe potuta andare così. Era da troppo tempo che durava quella condizione di incertezza nel paese e in città, di angoscia per la popolazione sottoposta a una minaccia continua, di allarme per le forze dell’ordine, di tensione per i militari, di crisi istituzionale sfociata ormai nell’ingovernabilità, di difficoltà per l’industria, di miseria per i commercianti alle prese con le scarse possibilità dei cittadini, gli scaffali vuoti e la concorrenza spietata della borsa nera. Le istituzioni erano scomparse inghiottite dalla loro stessa vigliaccheria e incapacità, la chiesa lanciava il suo messaggio di dolore nel vuoto, la gente o taceva impaurita o gridava la propria disperazione. Era da troppo tempo che il problema della pedonalizzazione del centro storico doveva essere affrontato e risolto, non si poteva andare avanti così, e l’8 settembre del 1943 malgrado i decreti luogotenenziali che invitavano a non perdere la testa il problema emerse in tutta la sua drammaticità. Fioriere, cartelli, segnalazioni orizzontali, vigili, ausiliari del traffico, studi urbanistici e relativi onerosi compensi agli ingegneri, divieti, divieti a macchia di leopardo, divieti con finestre notturne, divieti con finestre abusive, cordoli in cemento: la popolazione era stremata. Ma quel giorno in particolare, fin dalle prime ore del mattino, si presentava un altro dubbio, coincidente: si sarebbe fatta o no la cerimonia dell’ostensione della sacra cintola? Da qualche giorno i giornali scrivevano che una delegazione di alti ufficiali dell’esercito si trovava in Sicilia per concordare l’armistizio con gli alleati ma i giornali di bugie ne avevano scritte fino ad allora a volontà, però il comitato

di liberazione nazionale aveva annunciato che le cose sarebbero presto cambiate e che avremmo avuto una stampa libera e indipendente.

Proprio gli alleati già da una settimana avevano cominciato a distribuire graziosi regali in città facendo piovere dall’alto dalle fortezze volanti che oscuravano il terso cielo dei pomeriggi tardoestivi enormi uova con la sorpresa, le quali cadendo sulla stazione centrale, oltre che su case e fabbriche, l’avevano fatta crollare. Ed era un peccato perché bella bianca nuova di zecca in quel modo la stazione dei treni non se lo meritava, di venire giù in una nuvola di calcinacci e fumo, tanto che il Nunziati davanti a quello scempio esclamò “In questa città ‘un regna nulla”, attirandosi una volta di più addosso gli odi dei monarchici che lo sospettavano da tempo di avere simpatie anarcoidi. Nel primissimo pomeriggio, mentre nell’ombra della sacrestia i preti preparavano i paramenti per la cerimonia, il vescovo di Pistoia, che a quei tempi faceva diocesi insieme a Prato, fece telegrafare che non sarebbe potuto venire in quanto l’unica macchina a disposizione gli era stata requisita, il servizio ferroviario era stato sospeso e che muoversi su un camion lungo quelle strade sconnesse e troppo scoperte in caso di attacco aereo non sarebbe stato prudente, e che nel frattempo aveva provveduto ad avvisare l’arcivescovado di Firenze dal quale aveva ottenuto la dispensa a rimanersene a Pistoia e a rimandare eventualmente la celebrazione del rito ad un altro momento. Rimandare? A un altro momento? Impossibile, commentò qualcuno, la festa della natività di Maria o si festeggia oggi o non si festeggia più, aggiungendo che sono secoli che a Prato si festeggia per l’8 settembre e anche se in questo momento non c’è nulla da festeggiare, un pò per le bombe

un pò perchè per colpa del nuovo assessore al traffico non si circola davvero più, “questo è un evento sacro che prescinde da ogni fatto umano e per la nostra comunità di fedeli è una ricorrenza per la quale non possiamo mancare di officiare pubblicamente, e all’aperto”. Le parole più o meno furono queste. Proprio in quel momento si affacciò alla porta della chiesa, ma senza entrare, il Tanacca che era uno dei capi dei partigiani che da più di un mese si erano dati alla macchia sulle colline circostanti la città il quale affermò brutale: “O si fa l’ostensione o noialtri si fa pulito dei preti cominciando da qui” il che, come invito, poteva dirsi quantomeno perentorio. Qualche passante, anziani e donne, transitavano veloci nella piazza del duomo assolata cercando di raccogliere informazioni da riportare nella propria strada, nella corte, a casa, riguardo se nel pomeriggio la celebrazione si sarebbe fatta o no. Poi nel pomeriggio dopo le cinque una piccola folla, inizialmente non più di una ventina di persone, si cominciò a radunare sotto al pulpito, sulle scale del duomo, cominciando a bussare al portale della chiesa e più che chiedendo, pretendendo ad alta voce: Si vuole l’ostensione! I preti all’interno si guardarono negli occhi sbalorditi domandandosi sottovoce: E ora? Ma tutta questa gente da dove spunta? Cosa ci fanno in centro? Questi pratesi non si fermano neanche davanti alle ultime disposizioni comunali sulla Ztl! Non hanno paura delle multe? Non hanno paura delle bombe? "Andate a casa, è pericoloso, c’è la polizia municipale in giro con i blocchetti ma soprattutto se passa un aereo e vede gente radunata è capace sgancia una bomba, allontanatevi, e poi le riunioni sono vietate, allontanatevi in nome del Signore!".

Nooo si vuole l’ostensione! venne risposto a più voci, Siamo pronti a tutto, fece uno, ho lasciato anche la macchina in piazza Mercatale in doppia e non me ne frega più di niente! Prima pochi poi sempre di più perché la folla invece che disperdersi aumentava e tra la folla c’erano Tanacca con un cappello a larghe falde calzato in testa, Robusto l’avvinazzato e Ughino della fiaschetteria di via Guasti (“Ho perso metà dei clienti con il nuovo senso unico in via Guasti!”), la moglie di Marmino, il mendicante Rotscilde, il Gabbiani musicista, la Nella camiciaia nel corso, c’era l’Untore che girava con un barattolo e il pennello per ingrassare le serrande in cambio di qualche spicciolo, la Romilda, c’era Gano il magazziniere del Comune che leggeva i manifesti mortuari e tutte le volte commentava "Meno male via anche oggi non ci sono", il Panci della merceria, Oreste il tabaccaio, il fotografo Calamai, insomma c’era tanta gente, forse cinque o seicento persone (secondo la questura non più di cento, secondo i vigilini oltre diecimila) che rumoreggiavano incuranti delle sanzioni e del pericolo di morte che correvano, volevano in tutti i modi l’ostensione sennò non se ne sarebbero andati. E allora il canonico Mascii prese la situazione di petto con tanto di croce che vi portava: "Se il vescovo non può venire l’ostensione la faccio io! La città non può rimanere senza!". Ma eh bah si no boh però non si potrebbe bisognerebbe sarebbe il caso no no no, ma perché no? si, non è ammissibile, si che lo è: queste furono le reazioni immediate degli altri prelati. "Datemi una tonaca appropriata e la reliquia, salgo io sul pulpito e, con rispetto parlando, mi sostituisco a sua eccellenza monsignor il vescovo" e a qualcuno in chiesa sommessamente scappava da ridere, mentre altri si mettevano la mano davanti alla bocca di fronte a tanto ardire: ommamma e ora?

"E ora si fa come ci pare, il vescovo ha paura di venire e l’arcivescovo gli dice resta pure a casa? Ci si pensa da noi, abbiamo sempre dovuto fare da noi, datemi la sacra cintola vado io su" mentre intanto da fuori si sentivano i toni delle voci sempre più alti e, coperte ma non troppo dalle preghiere e dai canti religiosi sia in latino che in pratese, anche qualche imprecazione comprese quelle del Tanacca che si stava sempre di più scaldando, lui e i suoi che gli guardavano le spalle. Vestito di una tonaca verde (che quella bianca e dorata gli sembrava eccessivo e irrispettoso) il canonico Mascii accompagnato da due seminaristi coraggiosi (qualcuno disse sfrontati) verso le 18 e 15 si affaccio dal pulpito con la teca fra le mani provocando il boato della folla che prima si inginocchiò commossa davanti alla meraviglia che tornava a ripetersi e per ricevere la benedizione e poi si alzò in piedi, cominciando a innalzare litanie prima di ispirazione devota poi sempre meno ortodosse scalando sempre più in basso dando la dimostrazione che la gente pur non avendo intenzioni blasfeme era veramente stanca, devota ma stanca. Stanca di patire ed esasperata, e allora si levarono i viva il Mascii, abbasso la guerra, vogliamo il Mascii vescovo di Prato, basta con Pistoia e Firenze, Prato provincia (gridò il Caciolli), viva la pace e poi sempre più sciolti: più pane e pecorino per tutti, è l’ora di basta, la s’ha a fa’ finiha con queste guerre ‘unsenepoppiù, riaprite le fabbriche capezzatori, sfruttatori di’ popolo, affamatori, non si può continuare a finanziare questa sporca guerra con le nostre multe, viva il Mascii, siii viva il Mascii finalmente uno che si fa intendere, fatelo assessore al traffico, fatelo podestà, no che podestà sindaco, no che sindaco e podestà fatelo presidente della provincia, w il Mascii presidente dell’asmiu, dategli un posto da consigliere al consiag, si vole il Mascii in conclave, portaci portaci portaci in europa o

Mascii portaci in europa, no in europa no in america casomai, macchè america idiota in russia, portaci una settimana al mare a Villa Verde o a Calambrone che al mare non ci sono mai stato, Mascii abbassaci le tasse, manda via i cinesi, quali cinesi? arrivano arrivano quelli sono trecento milioni se dicono di partire caro lei si sta freschi e poi, prima in sordina poi sempre più alto nell’aria che intanto imbruniva: pa-pa pa-pa pa-pa pa-pa, sull'aria di una canzone del complesso "Esercito delle sette nazioni" (forse un trio vocale militare) sconosciuta a tutti ma che divenne immediatamente familiare. Per un attimo le due fazioni si guardarono storto, con l’occhio torvo i rossi, con l’occhio sospettoso e accusatorio i , qualcuno si guardò negli occhi più direttamente di altri, sicuramente il motivo non era il coro pa-pa pa-pa diretto al canonico Mascii ma qualche rancore personale recente o antico, sedimentatosi in quegli anni difficili, di silenzi forzati, di privazioni per qualcuno e di facili guadagni per qualcun altro. Qualcuno racconta che il coro, fra il goliardico e l’ironico, partì dalla fazione rossa che assisteva in rispettoso silenzio ma in piedi e senza partecipazione religiosa ma solo emotiva alla cerimonia, ma qualcun altro invece sostiene che invece venne lanciato proprio dalla fazione bianca, più numerosa e con la testa chinata gli uomini o coperta da un velo le donne. Di sicuro fu un momento di sfogo collettivo perché in breve tutta la piazza vi prese parte, prima solo con la voce poi ritmandolo con le mani, sempre più alto verso il pulpito, il campanile, la facciata di marmo a strisce della chiesa, l’impavido Mascii e i due pretini che gli stavano accanto in quali infilarono alla svelta la porticina e rientrarono avendo intuito di averla fatta grossa. Immancabilmente la parte più bigotta e pipiona inorridì e abbassò ancora di più lo sguardo, cominciò a segnarsi

ripetutamente e ogni tanto levare le pupille al cielo alzando il tono della litania sommessa nel tentativo di coprire quel coro umano, profondamente umano, senza nulla di blasfemo a dover essere sinceri ma secondo il loro punto di vista rispettabilissimo, un coro irriverente, inopportuno, indecente. Anche perché molti, sia del settore “moderati” che del “fervidi credenti”, si unirono alla cantilena collettiva. Ma intanto, fra un’alzata di pupille al cielo ed un’altra, qualcuno intravide ne blu la sagoma di una fortezza volante di cui poco dopo si cominciò a sentire il rombo in lontananza e poi sempre più vicino. Un giovane con i ricci cominciò a gridare “Venite venite B 52” e per poco non fu linciato dopodichè la gente cominciò a disperdersi dalla piazza nelle strade circostanti mentre i vigili elevavano verbali a più non posso nel tentativo di far sfollare la gente, complicando invece il deflusso del gregge dei, chi più chi meno, fedeli. Poi suonò anche l’allarme antiaereo e chi potè si infilò nei rifugi, altri nelle cantine e nel giro di pochi minuti chi correva da una parte chi da un’altra in piazza del duomo non c’era più nessuno mentre si era fatto quasi buio. Venuto a conoscenza del fatto che in piazza c’erano comunisti, socialisti, antifascisti in genere, un foglio di informazioni di sinistra che veniva stampato clandestinamente il giorno dopo titolò: Così non si aiuta la rivoluzione! e sotto: Sono solo compagni che sbagliano? Il giornale quotidiano, che usciva nel formato ridotto di una pagina, uscì invece con la notizia dell’avvenuta ostensione della sacra cintola in un articolo di Mario Cervi e Indro Montanelli che però non faceva menzione dei canti e dei cori pronunciati coram populo ma si limitò a titolare, tanto per gettare un po’ di consueto fumo negli occhi: Il canonico Mascii si fa papa per un giorno (con sotto nel sommario: Le diocesi di Pistoia e Firenze sorpassate a sinistra e sopra nell’occhiello: Presto avremo un papa pratese?) a cui poi

seguiva un breve editoriale di un opinionista calvo e con il papillon in cui si interrogava, tanto per cambiare, dove andremo a finire? I soliti moralisti che sempre lontani dalla gente nell’opera di sistematica disinformazione dimostravano di non aver capito niente. Tant’è vero che non andò così. Ci fu l’armistizio, poi la liberazione e la pace e il canonico Mascii venne invitato dall’arcidiocesi a prendersi una pausa di riflessione in un monastero vallombrosano per far ritorno in città dopo qualche anno, quando a Prato era già stato concesso un vescovo proprio, indipendente, non in condominio con Pistoia, tuttavia sempre rigorosamente di provenienza ex stato pontificio. La questione della pedonalizzazione rimase a lungo insoluta, invece. Ancora dopo sessant’anni dalla fine della guerra chi venendo da piazza San Marco infilava il viale Piave si continuava a domandare: Che si potrà? per poi continuare a percorrerlo immobile, glaciale sul sedile sperando di non essere visto dai vigili con un’aria del tipo: non vi provate a fermarmi perchè di divieti non ci capisco nulla, sono in trance e disposto a farmi saltare per aria.

Guerrando Gori

Gentile sig. giornalista di Prato, abbia pazienza se rispondo con qualche anno di ritardo alla Sua del maggio 1999 ma qui a Algebuckina, South Australia, la posta non arriva regolarmente. La One Day Mail Run, la ferrovia che va da Adelaide a Darwin non passa da qui, ma qualche miglio più in là. E il treno postale che ci passa sopra, lo chiamano The Old Ghan, ogni tanto rallenta e mi lancia un sacco di tela con dentro quello che serve per la manutenzione del ponte e altre cose di prima necessità per me e la Shirley, la mia signora, compresa la rarissima posta. Si vede che la lettera che Lei mi inviò anni addietro era rimasta fuori dal sacco e poi dimenticata nell’ufficio postale, me ne dispiace. Sono io in persona il Guerrando Gori che Lei cercava, ben felice di risponderLe nella speranza di esserLe ancora utile dopo tutto questo tempo dall’invio della Sua, ma come Le dicevo innanzi non ricevendo quasi mai posta non ho mai pensato di scendere personalmente al mail office di Coober Pedy, nè loro mi hanno mai avvertito che c’era posta in giacenza, la Sua lettera è spuntata fuori per caso. Ultimamente ho avuto molto da fare con la manutenzione del ponte di ferro e del fiume sottostante, il Neales, che per alcuni mesi l’anno ha poca portata ma quando è a regime è bene trovi il riverbed (mi sfugge la parola italiana) pulito sennò sono dolori. Poi capirà, sono 578 metri di ponte ferroviario, è il più lungo dell’Australia meridionale, tutto di ferro, e io lo controllo personalmente, campata per campata, bullone per bullone, due volte il giorno, la mattina presto (mi alzo sempre alle 5 e mezzo) e il pomeriggio tardi (esco verso le 6 pm). Dalla mia abitazione sull’Algebuckina Waterhole al ponte c’è un miglio, più il miglio e mezzo a piedi sul ponte e un

altro per tornare a casa, due volte il giorno, sono in tutto undici chilometri, un passo per volta, lenti, un’occhiata in basso, a destra, a sinistra e in alto ad ogni passo. Le volte che un treno è annunciato per il mezzo del giorno faccio un giro anche sull’ora delle una e si immagini, ieri che era Santo Stefano c’erano 37 gradi al sole (l’ombra qui non si sa che cosa sia). E diventano quindici chilometri. Qui in Australia mi trovo bene, anzi più che bene. Devo dire che non pensavo mi sarei ambientato bene così, che vuole, io sono nato a Quarrata e tornato a stare in Prato a metà degli anni ’50, ho sempre lavorato alla Piero Gonfiantini & F.llo Cernita e Recupero materiali cenciosi, orario 7-19 dal lunedì al sabato e quando mi sono licenziato e fatto dare la liquidazione pensavo fosse un salto nel vuoto, ma oggi non me ne pento, son contento. Era un pezzetto che avevo quest’ idea. Quando entravo al bar Haiti c’era sempre qualcuno che mi vociava da in fondo alla sala:

O Guerrando o che sei sempre in Italia? Tu se’ più bello di David Niven, tu dovresti andare a Cinecittà, altro che stare a Prato! Anzi non a Cinecittà, a Hollywood, tu se’ un tipo da Hollywood. Ma nemmeno Hollywood, icchè c’è più lontano di Hollywood? Eh Bartolini? Icchè c’è? L’ Australia? Allora Australia Guerrando! Icchè tu’ pigli Guerrando? Fagli un caffè a Guerrandino gli ha da andare in Australia! Piglialo ora perchè laggiù caffè non te ne fanno, ti danno delle pisciate nere e te le mettano in un bicchierone!

Ci sono da parecchi anni ormai qui fra i canguri e i conigli selvatici, ai margini del deserto e della ferrovia (l’unica), ma l’odore dei cenci è come quello del cavolo cotto in cucina e della miseria, ti s’appiccica addosso, ai vestiti, e te lo porti dietro, in America, in Australia, potessi campare mill’anni. Lei mi chiede di raccontare la mia storia e quella del Negro nella Balla ma come avrà capito misteri da svelare non ce ne sono, la mia è la storia di un uomo semplice, non c’è molto da raccontare e mi dà l’idea non le possa né interessare né servire per scrivere il Suo articolo giornalistico. Andare da qui a Coober Pedy ci vogliono più di quattro ore con la macchina della Shirley, la mia quasi signora, quasi non nel senso che non è signora ma nel senso che la nostra unione non è formalizzata, perchè qui è tutto importante, tutto necessario tranne le formalità. Sennò c’è Mintabie, quasi 160 miglia facendo la A87. A scelta. Ma io preferisco Coober Pedy malgrado ci sia una lunga strada di terra battuta dello stesso colore dei campi e delle colline sabbiose intorno e prima di arrivarci c’è da fare la metà di questo percorso su una pista sterrata, fra i sassi. Poi quando arrivi a un grosso pneumatico da camion che fa da cartello stradale sei arrivato a Mount Barry, che sul lato destro ha una pista di atterraggio di aerei ed elicotteri (ogni tanto andiamo a prendere qualche ingegnere di Adelaide che viene a verificare il ponte, l’ultima volta è stato l’anno scorso, forse un anno e mezzo fa, massimo due), lì c’è l’intersezione con la Oodnadatta Road, una lunga strada diritta fino alla città che chiamano sotterranea, perché un tempo era ricca di miniere di opale che sono ancora attive e volendo si possono visitare ma non è che ci venga tantissima gente, chissà perchè. L’Australia è un paese buffo e Coober Pedy è proprio Australia. Australia piena, dura, dura come l’opale. E buffa.

Buffa non tanto per com’è fatto il paese , qui ai margini del deserto di paesi come questo ce ne sono tanti altri, più grandi, più piccoli, come questo. E’ buffa perché gli australiani sono periferici, sanno di stare nella periferia del mondo e un po’ sono orgogliosi, un po’ ci soffrono. Orgogliosi come tutti gli isolani: siciliani, sardi, corsi, neozelandesi, tutti quelli che stanno o che vengono dalle isole si sentono completamente autosufficienti e l’Australia oltretutto è anche un continente, con la sua autosufficienza e con il suo isolamento. Ce l’hanno stampato in faccia l’orgoglio, te lo fanno proprio percepire se ci parli, se hai a che fare con loro, come l’odore di cencio per me. Ma ci soffrono perché sono nostalgici. Sono nostalgici del presente perché il mondo va avanti benissimo, anzi corre, anche senza di loro. Sono nostalgici di quello che avviene mentre loro non ci sono e mentre sono impegnati a coltivare il proprio senso di appartenenza e di orgoglio. E poi si sentono strappati a qualcosa, hanno il senso del distacco, qui sono e siamo tutti lontani da qualcosa: dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, qualcuno dalla galera o dai debiti, oppure da altri paesi europei o dal Pakistan, dalla Cina, dalle Filippine. Ma quelli non europei o asiatici qui ai margini del deserto non ci vengono. Uno che ci venne tanti anni fa c’è rimasto, è qui seppellito, si chiamava Ching Chue, faceva il giardiniere e fu fatto fuori con un colpo di ascia dagli aborigeni, nel giugno del 1888 c’è scritto su una pietra accanto alla tomba. Ce n’è un’altra di tomba altrettanto curiosa, quella di un certo James Helps, che annegò nel fiume durante un’alluvione e sulla pietra c’è scritto, in inglese antico, un verso del Libro dei Proverbi della Bibbia: Non ti vantare del

domani perché non sai quello che può succederti oggi. Dicono che questo Helps venne da queste parti durante il periodo della corsa all’oro. Ogni tanto mi ci fermo a dare un’occhiata per vedere se è tutto a posto, perché prima o poi da queste parte ci verranno i turisti, e a riflettere. Saranno questi paesaggi ampi, questo cielo infinito e questi tramonti ma certi pomeriggi qui ti viene lo struggimento. O forse non sono i paesaggi, qualcosa che non appartiene né alla terra né al cielo ma a quello che uno si porta dentro quando va via, quando viene mandato via, quando arriva qui e poi decide di rimanere. L’Australia è un posto da ex galeotti, però galeotti buffi, e soprattutto ridicoli perché liberati ma ugualmente infelici. Alla Shirley delle volte le dico che qui forse ci si sta meglio da seppelliti che da vivi, lei mi guarda storto e poi ci si fa una risata, e penso che non me ne vorrei mai andare, né da lei né da Algebuckina. E poi gli australiani si vestono in modo buffo, fanno cose buffe, riescono a essere elegantissimi e impacciati nello stesso tempo, disinvolti e goffi, bruschi nei modi ma gentilissimi. Il mese scorso, o forse due, mentre eravamo a Coober Pedy a mangiare una pizza ad un certo punto entra John, il proprietario del locale, camminando sulle mani a capo all’ingiù mentre nel negozio c’erano i clienti anche stranieri. "And for the rejoice of all, here you are a really down under aussie", per la felicità di tutti ecco l’australiano a capo all’ingiù. Troppo forte John, Pasta-Pizza-Heartbeating Gelato, fa la pizza un po’ troppo alta ma dopo quattro ore di macchina sulla D 95 con tutto quel sapore di sabbia in bocca, insieme ad una Coca Cola mi pare la cosa più buona che abbia mai mangiato in vita mia.

La prende anche la Shirley, che anni fa ha lavorato in un ristorante italiano di King’s Cross a Sydney, che poi se ne fa incartare qualche slice e me la riscalda nel microwave oven i due-tre giorni successivi. Ma Lei signor giornalista mi ha chiesto oltre che di parlare di me di raccontarLe del Negro nella Balla, e mi scusi se ho divagato. Non intendo divagare ulteriormente, Le vorrei rispondere alla richiesta che mi fa Signor giornalista e allora arrivo al dunque: per un po’ di anni, quando ero a Prato, ho dato retta a Romeo. Romeo, gli dicevo, io qui non ci sto più bene, sento che ce l’hanno con me per quel fatto, che mi vogliono tagliare fuori. Lascia perdere mi diceva Romeo, e me lo diceva sincero, da fratello maggiore, buttatela dietro le spalle. Ma Romeo, gli dicevo io, è un fatto grosso, non si può mica stare zitti. Io non sto zitto, mi rispondeva, io vo per la mia strada. Quante ne succede dalla mattina alla sera Guerrando? Quante? Non si può mica farne un fatto personale di tutto, ci sono delle cose che semplicemente non ci competono. E’ un meccanismo parcellizzato, mi disse una volta, “parcellizzato”, siamo tutti delle rotelle di un grande ingranaggio, se se ne ferma una le si fermano tutte. Te che vuoi fare? la rotella intaccata o che si mette a girare all’incontrario? vuoi fare il granello di sabbia nella macchina? Non conviene né al macchinario né a te. E allora, vedi, cosa ci vuoi fare? Basta andare da un’altra parte o fare finta di andarci e non pensarci più. Il mondo non è degli eroi, Guerrando, è di noialtri che ci si alza presto la mattina. La vedi la mia bici? Io sono trent’anni che la mattina mi alzo alle sei e mentre pedalo per andare in filatura con il manubrio mando la bici da una parte ma poi mi sento

chiamare da una vocina: Romeo, Romeooo, dove tu vai? Non andare a diritto, gira a destra! E mi ritrovo al bar. Lascio che la strada faccia la strada, che il manubrio faccia il manubrio, mi devo forse mettere contro la strada? di traverso al manubrio? E’ così Guerrando, lascia fare, non ci pensare. Ma io duro. Sono voluto andare avanti, e a diritto. Provai a fare la denuncia del fatto e mi venne detto: lasci un recapito telefonico se ce l’ha, non si allontani tanto da Prato e stia a disposizione! Ma non venni mai richiamato in caserma. Raccontai la cosa alla Camera del Lavoro e mi dissero: Guerrando, ha fatto benissimo a venire a denunciare il fatto, grazie, si prenderanno subito provvedimenti. Poi mentre un impiegato mi riaccompagnava giù per le scale, prendendomi sottobraccio, mi fece: non ne parli con nessuno mi raccomando, si farà un’inchiesta noi, si manderà un ispettore ma non ne parli con nessuno. Il Gonfiantini Piero mi mandò a chiamare e mi disse: o Guerrando, ma un fatto come questo lei la me lo va a raccontare in giro? Non era meglio parlarne prima fra di noi ci si metteva d’accordo su come fare? Signor Piero ha ragione ma lei il sabato mattina in ditta non si fece vedere, io provai a chiamarla sull’ora di desinare ma non ci fu verso rintracciarla. E’ via per lavoro, mi dissero, fa qualche giorno in Versilia e poi parte per l’estero, rientrerà fra una ventina di giorni. Poi dopo averlo raccontato a casa (mi dissero: lascia perdere, o che te ne importa ? era morto quel Negro ? no, e poi anche fosse morto non l’hai mica ammazzato te, si sarà infilato in una Balla poverino per scappare, o ce l’hanno infilato, sono fatti sua. Poi non è scappato a piedi? Vuol dire che morto non era, meglio così, speriamo sia scappato

lontano e non si faccia più vedere ci mancherebbe altro avere negri scappati dalle balle in giro per Prato, se fosse ferito o stesse male qualcuno lo troverà, tanto è nero, si riconosce anche bene) io decisi di tenermi il fatto per me ma poi ragionandone al bar Haiti mi convinsero a denunciare l’avvenimento, a alzare un po’ di polverone, a fare un po’ di puzzo, che di sicuro ci avrei avuto da guadagnare. E’ nel diritto di un cenciaiolo non trovare persone nelle balle degli stracci! sostenevano, finchè si tratta di un dente, di un dito anche anche, passiamoci sopra, ma un essere umano intero no! né bianco né tanto più negro. Da ultimo però di quel Negro lo sapeva mezza Prato, ci scherzava sopra mezza Prato, ma in realtà non ne parlava nessuno, era un trucco per non parlarne. Ma non è vero che non successe nulla, qualcosa successe. A me via via venivano a controllarmi sul lavoro, uno lungo lungo con un cappotto nero e l’accento veneto che non avevo mai visto ogni tanto passava, a volte faceva finta di non guardarmi, a volte mi domandava: Guerrando tutto bene? Mi raccomando si ricordi di spengere le luci stasera, insomma mi rivolgeva la parola per vedere le mie reazioni, se mi fossi innervosito, se avessi avuto comportamenti sospetti quando invece quello sospetto era lui. Hanno fatto mettere la macchinetta dei cartellini, si ricordi di timbrarlo quando esce, sa, ci sono le verifiche in giro, buon lavoro. All’unione degli industriali ne discussero parecchio. Prima cosa compriamo a meno, si dissero, con questa storia del Negro trovato nella balla contestiamogli sempre la qualità a chi ci vende la materia prima, poi vediamo di abbassare un po’ le tariffe dei terzisti e soprattutto, ragazzi, terza cosa, mettiamoci tutti d’accordo per vendere a di più dato che i nostri prodotti sono buoni, meritano, e con i prezzi un pò più alti c’è lavoro per tutti e si tiene in piedi il sistema.

Unanimità su tutte e tre le proposte ma ovviamente usciti da lì nessuno prese minimamente in considerazione l'idea di rispettare la terza. I sindacati ne approfittarono per organizzare un po’ di scioperi. Chi c’è fra le nostre balle? c’era scritto sui cartelli e sugli striscioni. Poi a un politico comunista durante il comizio gli venne da dire: Il giorno in cui fra i cenci troveremo Malcom X…zac! Quello sarà il segnale che darà il via all’azione rivoluzionaria! Ma ormai era tardi, il Negro c’era già stato ed era scappato, alla faccia della rivoluzione proletaria. Venni a sapere che il Panci quello dei carbonizzi, lo prese d’occhio la Finanza, che le verifiche erano incrociate e qualcuno lo incrociarono davvero e fu preso di mira più di altri e che qualcuno invece non venne incrociato nè verificato mai. Per questo fatto e un giro di mazzette so per certo ci rimise il posto il Maggiore Conigliello (mi pare si chiamasse così) il quale un paio di volte venne nel magazzino della ditta insieme al Gonfiantini Piero e al fratello e da lontano mi chiamava: O Guerrando, che ha trovato nessuno oggi nelle balle? Se ne trova uno non se lo faccia scappare eh! Era cambiato il clima, le battute le sentivo più feroci. Quando entravo nel bar mi sentivo chiamare da in fondo alla sala:

Guerrando! Oggi n’ho visti scappare uno di que’ negri, che è scappato a te? Lo sai n’è scappato uno da una ditta in via Pistoiese? Bah, davvero, gliè entrato nel bar tutto sudato e ha chiesto un bianco secco!

E giù risate. Passò un po’ di tempo, ero giù, si vedeva che ero giù, mi pareva che tutti ce l’avessero con me, al bar ci passavo ogni tanto, sempre meno. Una sera entrai e come sempre mi sentirai chiamare da in fondo alla sala:

O Guerrando, o che se’ sempre in questo stato? e io: O in che stato ho a essere? In Australia?

Ecco, lì mi venne il lampo di genio, mi vogliono mandare via? Me ne vo via prima io. Prendo i soldi e me ne vo. Una mattina che stavano transennando l’aiola di piazza San Marco e stavano arrivando un paio di camion e degli operai con tutta un’impalcatura di legno (cosa ci sarà stato sui camion? materiale da costruzione? un macchinario di assortimento per la filatura? che hanno messo su una filatura in piazza San Marco? non lo so, me lo dica Lei signor giornalista) io passai di lì per andare alla stazione e partii dopo aver lasciato metà della mia liquidazione sulla tavola di cucina con accanto un foglio con scritto: Fate voi. A me oggi del Negro sinceramente non me ne interessa più però un po’ mi dispiace perché se m’avessero dato retta ci si sarebbe risparmiati un po’ di pensieri. Non mi dispiace mica di essere venuto qua, si figuri, anzi io il Negro lo ringrazio tutti i giorni. Mi dispiace che un giorno la vita, da diritta che era, ha sterzato da una parte come la bici di Romeo e da lì non è stata più la stessa. Impercettibilmente ogni giorno diversa, parcellizzata avrebbe detto il mio amico Romeo, mai più esattamente la stessa di prima. Lo penso tutti i giorni mentre faccio i 578 metri dell’ Algebuckina Rail Bridge quattro volte ( a volte sei) sotto i 35 gradi dell’estate australiana, e tutto il resto mi sembra

mille anni fa e qualche volta mi domando se ero veramente io. Ma una cosa l’ho imparata, io che ho cercato la verità e un po’ di giustizia, per me e per quel Negro: prima di pretendere di sapere la verità assicurati di poterne reggere il peso perché la verità spesso è un fardello che non si è in grado di reggere. Lei mi chiede di raccontare la storia del Negro nella Balla e io apprezzo molto le domande fatte con cortesia, ritengo che sia dovere di un bravo giornalista di raccontare la verità qualunque ella sia, ma io con tutto il rammarico non credo di poterle essere d’aiuto. Sono passati tanti anni e se prima lo ero oggi non sono più convinto di averlo visto davvero. Ho visto tante altre cose cambiare nella mia vita, e oggi che sono anziano sono già fortunato di poterle ricordare con Lei, qualche volta con la Shirley che mentre mi spalma la Vegemite e il burro sui crackers mi dice: Stop thinking about, David Niven! (più o meno come Romeo). Mi sembrò un Negro, forse lo era davvero, ma lo vidi solo per un attimo, o almeno a distanza di anni mi pare sia stato un attimo perché il tempo che passa e la memoria che se ne va schiacciano la prospettiva delle cose. Forse era un Negro ma potevano essere tante altre cose. Ora La saluto e La ringrazio ancora infinitamente e di cuore di essersi ricordato di me e di avermi contattato, mi scuso ancora se la mia risposta Le giunge dopo così tanto tempo, vado ad aiutare la Shirley a scaricare il pick-up che sta tornando da Mount Barry, sento il motore del furgone e le ruote masticare la sabbia e le pietre in lontananza. E’ l’unico rumore insieme a quello del treno che rompe il brusio che mi arriva dal mondo, un sottofondo lontano, tipo il mare, tipo la radio che avevamo nello stanzone dei cenci, accesa ventiquattr’ore su ventiquattro e che qualche volta

spariva dietro a un monte di stracci e la sera ci si scordava di spengere. Domani si va al mare, ma da qui non è come andare al Forte dei Marmi, da qui ci vogliono due giorni a andare e due a tornare. Io ora Prato essendo passati tanti anni me la raffiguro poco ma mi saluti, se avrà l’occasione di passarci, gli amici del bar Haiti e in particolare Romeo, gli dica che Guerrando Gori sta bene, non porta rancore verso nessuno e li ricorda tutti con affetto.

Stracciarola

Quando le tv erano grandi come scatole di filato e avvicinandosi con gli occhi al vetro massiccio che a fargli knock rispondeva sdeng i colori si scomponevano in infiniti pallini rossi gialli e blu disposti a molecola, accadeva anche che a un certo punto della notte i programmi finivano e cominciava un’altra storia, quella delle tv libere. Ma fino a mezzanotte la Rai sembrava l'Ajax di Rinus Michels, giocava a tutto campo e spadroneggiava. L’8 marzo 1978 fu una bella giornata non proprio di primavera ma quasi, di quelle che comincia a dispiacerti che finiscano e arrivi sera, con tutto che la sera su Rai 2 c’era Odeon (Tutto quanto fa spettacolo era il sottotitolo), un magazine televisivo che io mi ricordo straordinario per grafica e luci, considerato che in Italia la tv a colori c’era da un paio d’anni, e accompagnato da una sigla indimenticabile, Honky Tonky Train Blues, un pezzo scatenato al pianoforte suonato da Keith Emerson. Il tempo di accoccolarsi sulla poltrona, di sfilarsi e lasciar cadere in terra le scarpe di gomma della Canguro e gli spiccioli scivolare giù dalla tasca nelle pieghe fra lo schienale e i cuscini, e dietro il vetro massiccio del televisore appare Prato. La si vedeva solo nell'inquadratura iniziale di un servizio, la si riconosceva dai tetti di case rosso mattone sicuramente del centro, ripresi da un aereo in volo, non si vedeva nient’altro che fosse inconfondibilmente di Prato, nè i soliti monumenti nè le solite piazze, simboli scontati, ma la si riconosceva perfettamente. Un'immagine archetipica. Non c’era scritto da nessuna parte ma sentivo che era Prato prima che la voce fuori campo lo confermasse, erano familiari i colori di quelle tegole, la direzione delle ombre e delle luci, la sfumatura di grigio della strada.

Il resto del servizio, tutto il servizio, era una ripresa dentro un capannone (di quelli alti, con i soffitti a volta con i lucernari, quelli alla pratese, insomma), un capannone tutto pieno di cenci. La città si intuiva e basta, era una sineddoche, la parte per il tutto, meglio così mi verrebbe da dire perchè - opinione personale - Prato come città è sempre stata orribile come struttura, come contenitore: per le strade, per il 90% delle costruzioni, per la distribuzione sconsiderata di abitazioni e fabbriche, per il verde pubblico mai valorizzato e solamente “sopportato” come intralcio al traffico e alla produzione. Alberi che sarebbero dovuti essere un arredo, una decorazione naturale per la città come le sedie nei bar o le panchine in una stazione ferroviaria e invece sempre poco tollerati come a dire qui non si sosta, non ci si siede, non si aspetta niente, non si perde tempo, si consuma, si paga e poi si va via veloci, lo stesso il “verde” a Prato: qui si lavora, non ci si riposa, non c’è tempo nè di rifiatare nè di distrarsi. Gli alberi? al parco dell'ippodromo. L'ombra? in Galceti. Il fresco? sui ponti del Bisenzio. E sennò via, andare, alè. Chi ha due lire in tasca l'ombra e il fresco vada a cercarseli in Versiliana perchè qui anche solo un ramo che si spezza e cade in strada rischia di ostacolare la circolazione di persone e merci e capitali (un trattato di Schengen su scala cittadina), se poi cade su una macchina può aprire un contenzioso legale infinito e poi, diciamolo, le bellezze artistiche della città vanno valorizzate e quei rami pieni di foglie potrebbero impedire la vista della preziosa formella di un allievo del cognato di Filippino Lippi realizzata in una bottega del Della Robbia prima che sulla vetrina ci scrivessero "saldi fino a esaurimento merce per chiusura attività" e i turisti, i turisti che prima o poi verranno per forza perchè da qui (anche solo per andare là) ci devono passare, in quella formella ci devono picchiare il muso e troppi rami e troppe foglie danno noia.

Comunque in quel servizio non c’era nè Prato nè il reticolo delle sue strade nè il rapporto complicato fra l’agglomerato di case e fabbriche e il verde. In quel servizio all'interno di Odeon a Prato gli avevano, appropriatamente, tolto il nome e l’avevano rinominata Stracciarola. O forse era il titolo di uno spettacolo o di qualche performance che doveva essere rappresentata nel capannone dove, in mezzo alle pareti di balle piene di stracci stava un ring. Non il macchinario di filatura, ma un ring per la boxe, quelli che ti fanno pensare che una volta saliti lassù si può essere qualsiasi cosa, eroi per un giorno o fenomeni da baraccone, un posto eccellente per chi preferisce fingersi acrobata che sentirsi un nano, che ci sia per davvero qualcuno al di sopra che ti ama, un posto eccellente per sfogare sia i pugni della vita che le manie dell’attore. Nel 1978 a parte i mondiali di Argentina dove esplodeva Paolo Rossi e uno di quei fatti criminali dai quali ci sentivamo immuni ma non lo eravamo affatto in città avvenne un fatto storico: venne inaugurata la biblioteca comunale vicino al Castello. Prima c’era solo la Roncioniana, quella dei preti in piazza San Francesco, uno stanzone gelido d'inverno e l'illuminazione solare regolata da un light-jay in tonaca, con i soffitti altissimi e le pareti piene di libri, tomi, cartapecore e pergamene per la consultazione delle quali erano necessarie bolle papali, autorizzazioni vescovili, inquisizioni del santo uffizio e, a discrezione, la pratica diuturna degli esercizi spirituali di Sant'Ignazio di Loyola. La nuova biblioteca, la Lazzerini, in terra aveva la moquette marrone invece delle mattonelle, enormi finestre rettangolari tutte a vetro, senza persiane né tapparelle, solo tende a scomparsa verticali a strisce invece di drappeggi e

velluti, tavoloni laccati chiari invece dei tavoli di legno lavorato. Era bella, razionale, laica, dava l’idea di pulito, veniva voglia di rimanerci a dormire, non era così differente dai salotti che andavano in quegli anni o dagli arredamenti dei bar alla moda che avevano spazzato via il il vecchio, lo sporco, lo stantio. Non c'erano neanche tanti libri negli scaffali quando venne aperta, in modo secondo me da non mettere in soggezione l'utente medio che davanti alla storia del sapere dall'invenzione della scrittura a oggi suddivisa in blocchetti rilegati l'unica reazione che poteva avere era quella del "non ce la farò mai per cui tanto vale non iniziare nemmeno". Era proprio 1978, più millenovecentosettantotto di così non c’era verso. Close to perfection. E comunque in questo capannone nel quale erano capitate chissà chiamate da chi le telecamere di Odeon compariva -a tratti- la faccia eccitata, l’occhio spiritato di Lamberto Muggiani, quello della plurideclamata "a me la macchina la mi serve perché io nella macchina ci porto le donne e io le donne…" e del “Se fosse che Prato la ‘un ci fosse” cantato alla rivista del Buzzi, uno che se fosse nato a New York sarebbe diventato un idolo per gli italoamericani di Broccolino oppure avrebbe frequentato l’Actor Studio e avrebbe interpretato Jake la Motta in Toro Scatenato meglio di De Niro e che invece, per la trasmissione di Brando Giordani e Emilio Ravel, recitava il Tessere o non Tessere Questo è il Dilemma, un componimento “scespiriano” sui dubbi del contoterzista riguardo materia prima, tariffe e profitto. E su quel ring così casual si alternavano un paio di soubrette parruccate e dal rossetto pesante una delle quali stendeva con un pugno un improbabile pugile-ballerino crespo di capigliatura e beigino di carnagione in brache celesti e bretelle; era ovviamente una lettura surreale di un

contesto molto materiale, con le gabbie degli stracci divisi per colore, le cenciaiole in ginocchioni a fare la cernita e gli scarti che diventavano poltiglia e scorrevano negli scarichi multicolori di acqua che sarebbe poi finita nelle gore. Una passava a cento metri da casa mia. Se ci ripenso, a quei gorgoglii e a quei risciaqui che mi sono rimasti nel naso, saranno stati anche schifosi ma erano sinceri. Intanto se ci ho messo il piede qualche volta nel tentativo di saltare da quell’altra parte nel campo del Guasti (il Guasti che giocava nel Prato: per me era Gentile, era Bobby Moore, un campione) quegli acidi non me l’hanno mai corroso, e se oggi quel puzzo fosse in vendita dal Cafissi, da Limoni o alla Chiocciola, lo comprerei. Perchè era il puzzo più bello e sincero che ho mai annusato. Ed era perfettamente intonato alla forma-struttura della Prato disalberata esattamente come la bottiglia verde con il tappo d’oro del Modern Reserve di Polo Ralph Lauren si abbinava a una camicia di Sauro Mazzoni. Poi, nel servizio o forse sarebbe meglio dire nell’apparizione, in quel breve sogno insomma (ora a distanza di tanti anni non è facile tracciare i contorni precisi di una secchiata di colore negli occhi di un ragazzino), a un certo punto appariva un rivestito (un industriale, ossia un cenciaiolo rivestito) che alla intervistatrice raccontava di quello che arrivava a Prato nelle balle di stracci: magliette americane, cappotti, uniformi, bandiere e con essi distintivi, monetine, fotografie nascoste nelle fodere, dollari e una volta, si racconta, ma non è vero eh, si racconta e basta, un Negro. Quella del Negro nella Balla è la leggenda più fantastica che si sia mai sentita nella storia millenaria di Camars e Borgo al Cornio (se mai sono esistite), poi Prato e Stracciarola. Più fantastica delle fiabe e delle storie che ci raccontavano a noi bambini, che i nonni e i genitori in qualche modo modellavano, corrompevano, modificavano per farle tornare

tutte le volte di una loro consequenzialità a volte comprensibile a volte oscura, in un'eterna rincorsa fra logica e razionalità che ti fa crescere consapevole di una sola cosa: che la vita è un momento di felicità fra due momentanee assenze di ragione. A me francamente non è mai fregato nulla di sapere se Biancaneve poi si è sposata con il principe, in quale dei 52 stati U.S.A. fosse Topolinia e se Mazinga l’Impero del Male alla fine lo sconfiggeva davvero. Ma persino di , che è il racconto più bello e commovente del mondo, non mi è mai fregato nulla di sapere se dopo la fine ridiventava di legno, rimaneva buono, tornava a scuola o in bocca al pescecane. Non aveva importanza cosa gli accadeva, gli sarebbe accaduto esattamente quello che sarebbe successo a noi perché Pinocchio eravamo noi, e per questo ci commuoveva. Ma quella del Negro era un’altra storia, mi è sempre rimasta la fame della curiosità di sapere come c’era finito nella balla quel Negro lì (protagonista di una vicenda nè triste nè allegra, mai andata sui giornali e poco commovente, che fava!), e più ancora di chi ce l’aveva messo, cercavo di immaginarmi se era vivo o morto, se era nudo o vestito, se dalla balla dopo che il cenciaiolo l’aveva aperta con quel coltellino ricurvo se n’era uscito da solo o l’avessero tirato fuori a forza, se era scappato con le sue gambe, sudato, puzzolente e con i cenci addosso oppure avevano chiamato la Misericordia oppure caricato sul paperino (che era il mezzo di trasporto del cenciaiolo prima del mulo) e poi portato all’ospedale passando dalla parte vecchia (quella dove ci portavano noi a nascere). Ero curioso di sapere chi c’era andato di mezzo in quella brutta storia e se era stata davvero causa di guai per qualcuno, se qualcuno ne aveva buscate o se si era beccato una denuncia per sequestro di persona, occultamento di

cadavere, furto di Negro e segregazione nella balla, cose di questo tipo. Una leggenda per davvero, altro che l’esistenza degli alieni di cui si sa più o meno tutto in attesa che prima o poi ce lo confermino al tg in un momento in cui “i toni del dibattito politico” si saranno abbassati, un mistero irrisolvibile. Il "cenciaiolo rivestito" nell’intervista ancora una volta non ha dato nessun indizio: forse era l’ultima possibilità di svelare l’arcano prima che la notte del futuro lo inghiottisca per sempre. Pazienza. Quello spettacolo sul ring di ballerini sui pattini sotto l’arco a calce di un capannone poi non lo so se è mai stato rappresentato, se quella musica tipo samba di sottofondo era un caso o voleva evocare Brasilia, la nuova capitale, venuta su dal niente come Prato dagli stracci. Come mi è venuto in mente tutto questo e come l’ho associato? Oggi la biblioteca Lazzerini si è trasferita proprio lì dove nel 1978 scherzando commisero un capolavoro, dove impastando del colore finirono per dipingere un’opera d’arte. Non lo so dov’è finita - e se è mai esistita - quel tipo di televisione che dopo trent’anni ancora fà sognare per quelle luci colorate e le storie che raccontava, non chiedetemi di quella Prato che ricordo come in un sogno. Forse non era nemmeno brutta come mi pare di ricordare, anzi se ci ripenso era proprio bella, magari non bellissima come altre ma era particolare perchè i negri fuggivano allegramente dalle balle senza che facessero scalpore, senza che nessuno si scandalizzasse. Si, era un bel posto particolare, forse era proprio così. Ma soprattutto non chiedetemi nulla di quel Negro perchè a questo punto nè io nè nessun altro saprà dirvi qualcosa di utile a rintracciarlo. Così come, vi prego, non chiedetemi nulla su Camars/Clusium e su Borgo al Cornio, com'erano vestiti i

loro abitanti, se avevano il farfallino, le scarpe da clown e le bretelle, se avevano le strade diritte, se via Sant'Orsola era stretta come ora o quel muro non c'era, se c'erano panchine e alberi e i giardinieri della città stato, regno, ducato o comune che fossero se ne prendevano cura, non chiedetemi nulla perchè non vi saprei proprio rispondere. Ma Stracciarola, ve lo assicuro, è esistita davvero.

Il ragazzo che piovve sulla terra

Sono in fila una mattina d’inverno, chicco sgranato di un rosario di cappotti grigi e di ciuffi come creste di gallo pettinati alla svelta e fatti stare giù con una carezza bagnata. Un portone che si apre e sono risucchiato da una tela di ragno appannata e gelida che mi punta spilli sulle mani e sul viso e mi stringe il collo con le sue mani bianche e glabre fino a levarmi il fiato, ho lasciato alle spalle un tubo catodico che riflette innumerevoli granelli di polvere nel suo cono di luce.

Planet earth is blue and there’s nothing I can do…

Sono stato appena espulso dalla mia navicella spaziale, il morbido e il caldo sono un ricordo, e non c’è niente di buono qui, niente che possa far bene in questo spazio siderale, freddo di unghie che mi graffiano l’epidermide delle poche cose che conosco.

Take your protein pills and put your helmet ….

E’ tutto alle mie spalle, caldo, coperte, la tazza del caffellatte, ultimo domicilio conosciuto il sedile della macchina rossa e la stoffa familiare dei suoi sedili.

Now it’s time to leave the capsule if you dare…

Ho la sensazione di essere sospinto, forse sto marciando, forse sto marciando insieme ad altri astronauti invisibili, le nostre coordinate sono tutte perfettamente calcolate in qualche laboratorio lontano, nascosto e sotterraneo, ma in questo momento ho la sensazione pungente che non sia così, in realtà sto andando verso l’ignoto.

Though I’m past one hundred thousand miles, I’m feeling very still And I think my space ship knows which way to go…

Poco fa stavo per uscire, come un cosmonauta lanciato in orbita e catapultato fuori dalla navicella e adesso sono un feto, già adoro David Bowie mentre mi preparo ad assistere allo show più stravagante, il mio. Davvero nessuno ha mai più visto la luna da vicino dal 1972? Ecco, ora sono dentro, in spazi enormi più della mia mente e delle mie piccole spalle mentre salgo una scala galleggiando su nuvole dipinte, e tutto questo è un po’ angosciante e un po’ ridicolo, quasi innaturale.

Commencing countdown, engines on, Check ignition and may God’s love be with you

Mi sento Il Ragazzo piovuto sulla Terra mentre una familiare sconosciuta mi parla ma non sento chiara la voce, avverto un fruscio nell’auricolare, chiedo a Houston nuove istruzioni che mi sto perdendo.

I’m stepping through the door and I’m floating in a most peculiar way…

Astronauti e Capsule Communicator non parlavano a turno durante i dialoghi fra base spaziale e durante le missioni Apollo ma il sistema era full duplex in modalità Vox, la trasmissione si attivava automaticamente quando il loro microfono captava la voce. Signora maestra, non capisco, durante l’escursione lunare le mie mani sono impegnate, non vedi che mi sto aggrappando ad una penna?

L’unico futuro che potevo immaginarmi in un anno qualsiasi dei ‘70, a mezza strada fra il futuro remoto, quello dello sbarco sulla luna e il passato prossimo, quello (im)possibile di Spazio 1999, era un disegno colorato a pennarelli.

Signora maestra perché nelle foto degli astronauti sulla luna nel cielo non ci sono le stelle?

Uno spazio bianco davanti a me, uno spartito di frequenze irraggiungibili, il foglio cosiddetto protocollo sviluppava una inquietante dimensione orizzontale. Le raccomandazioni della familiare sconosciuta: non importa quanto il tema è lungo, l’importante è il contenuto, erano abbastanza rassicuranti. Quanto spazio avrò per essere Dalla luna, mamma, si vede casa nostra?

Tell my mom I love her very much she know …

Io, un metro e 40 di statura, le mie scarpe numero 38 futuro cittadino di provincia con le estremità in rapido sviluppo più del resto del corpo, come un contadino del medioevo, come un alieno, con in tasca mille lire per la merenda, l’unica estensione della mia mente una bic blu, quante possibilità avevo di avventurarmi lungo un rigo del protocollo con la concreta speranza di non perdermi e tornare a capo? Perché il primo uomo sulla luna rimbalzava e io qui non riesco a farlo?

Your circuiti is dead, there’s something wrong…

Datemi una tuta bianca da astronauta con uno scafandro con un vetro, voglio vedere senza essere visto, voglio che le

parti di me non esplodano e non vadano alla deriva nello spazio nero. I need broadcasting e ho bisogno di farlo subito. Quante speranze potevo avere di non perdere me stesso, la mia propria limitata identità, i miei propri pensieri? E quante di arrivare a ¾ di rigo senza essere completamente in balia dell’ignoto letterario? Di nuotare da riva fino alle boe: ma che scherzi? Quel foglio non del tutto bianco ma con scritto, in alto: Prato, 25 febbraio 1978 era più o meno la distanza fra il patino e le boe del primo bagno al largo. E io, piccolo, dovevo riempire quello spazio con le nozioni sullo spazio acquisite nell’ordine da : Enciclopedia Conoscere, Topolino, Tito Stagno. Staccare la penna bic blu dall’inizio del rigo fu come la prima volta in bici senza rotelle. Mamma, vò (no!), riga bianca per terra laggiù, arrivo (no! no!).

For Here am I, sitting in my tin can far above the moon…

Il futuro ignoto si impadronì di me, delle mie dita, e sulla bic blu cadde la calotta di gelo del soyuz. Mi sto perdendo. Maestra, lo sa che quei fischi che si sentivano nella comunicazione fra il Ground Control di Houston e le capsule delle missioni Apollo non erano fischi e non servivano a passare la comunicazione all’interlocutore ma erano i Toni di Quindar? Poi li chiamavano semplicemente beep ma gli astronauti non li sentivano, noi siamo soli Maestra, siamo qui lei e un piccolo puntino nello spazio e ho tanta paura di perdermi e non sento neanche i beep di casa, mi sento proprio un astronauta…

And the stars very different today …

La mia vita rinasce lungo un’ oscillazione sonora sinusoidale verde a 2,30 del brano. In un supremo sforzo fisico e mentale da causare in soggetti più mingherlini una meningite raccolsi ogni energia ed ogni potere di preveggenza che le letture di Geppo , Il corsaro nero e Pippi Calzalunghe mi conferivano e nuotai agitando le braccine e con le gambe lunghe giù verso il fondo, verso la boa.

Major Tom to Ground Control...Can you hear me Ground Control?

Ecco il futuro, l’ho trovato, le macchine volano! Mamma, mi senti? Mamma, riesci a sentirmi adesso che ho trovato il futuro?

Il Rivera di Galcetello

In tutta la storia dell'educazione, per quanto i migliori esperti in pedagogia ne abbiano ampiamente dibattuto, non si è mai riusciti a individuare un momento nel tempo considerabile in modo più che approssimativo e largamente condiviso come spartiacque fra "età della crescita selvatica" e "secolo della crescita assistita". Anche nel recente passato, nel corso della giornata conclusiva di un congresso internazionale tenutosi ad Ascona sul versante svizzero del Lago Maggiore, di fronte a professori di chiarissima fama ed altre eminenti personalità del settore, il professor Bollea, capostipite della neuropsichiatria italiana, chiamato a riassumere il contenuto di quelle conferenze ed a fissare nuovi orizzonti per la disciplina ebbe a dire: "Sarebbe motivo di vanto e prestigio per la nostra scuola poter stabilire il momento esatto in cui i ragazzetti cessarono di rincorrere le lucertole e imbrattarsi nelle pozzanghere dietro casa e optarono per la cloche di un videogioco e le Pringle. E invece nulla. Dichiaro chiusi i lavori, arrivederci". Lasciando, è facile immaginarlo, la platea dei congressuali a guardarsi nelle palle degli occhi e a navigare mentalmente nel vuoto, come i fratelli Abbagnale in aperto Pacifico, come un centrocampista preso in contropiede nella Roma di Zeman. Io mi sono accontentato di affacciarmi sul passato e di ripensare ad un fatto accaduto sempre negli anni in cui si ambientano questi racconti a un giovanissimo talento del calcio che per questo soprannominarono "il Rivera di Galcetello". Il quale già a sette anni si distingueva sui campetti di periferia per pulizia del tocco di palla, linearità del gioco, stile nel dribbling, essenzialità nel fraseggio. Però taceva. Nel senso che non parlava mai, né in campo né fuori.

Per un po’ di tempo il fatto passo inosservato: a quei tempi, metà anni settanta, ai bambini non era concesso tutto quel dialogo e quella confidenza con gli adulti e gli empirici sistemi educativi della scuola ante decreti delegati poco si curava della capacità espressiva dell’alunno al quale sostanzialmente era richiesto riempire paginate di quaderno di A di B e di O gonfie come sfere, disegnare cipressi con i pennarelli e marciare per file di due. Con il tempo però la cosa cominciò a farsi sospettosa. Una sera, durante una riunione di sportivi al circolo casa della gioventù Don Milton Nesi un allenatore mi pare della Coianese, forse della squadra giovanissimi, prese la parola e dopo essersi alzato in piedi, spento la sigaretta, bevuta una sorsata di amaro Don Bairo e schiarita la voce affermò: il Rivera di Galcetello secondo me avrebbe anche delle possibilità ma dovrebbe imparare a dire due parole (fu più lunga la preparazione all’intervento che l’intervento in sè), suscitando immediatamente il brusio dei presenti e commenti qualcuno discorde ed altri no. Il partito di coloro che erano d’accordo con l’allenatore della Coianese, un esperto di cose di pallone, ebbe la meglio numericamente e con argomenti più convincenti sull’altro. Si percepì dalla chiarezza espositiva di quel concetto che rappresentavano la parte progressista degli intervenuti al dibattito, e forse qualcuno che sostenne quell’idea era addirittura comunista o fiancheggiatore di avanguardie operaistiche ed extraparlamentari tanto assertive e ragionevoli furono le argomentazioni a sostegno dell’opinione testè espressa. Pertanto venne deciso in una risoluzione che fu fatta passare per unanime solo per non decretare il fallimento del summit, che il talento del Rivera di Galcetello sarebbe potuto emergere dagli onori delle cronache locali alla ribalta del calcio solo se si fosse riusciti a farlo parlare.

In un incontro successivo, al quale in diversi arrivarono prevenuti e con intenzioni polemiche l’allenatore del Nuove Fibre, un progressista moderato che imponeva la messa delle 11 ma tollerava rutti e scuregge negli spogliatoi e che soprattutto considerava imprescindibili bicchiere di latte e banana a merenda, stoppò con un gesto paterno della mano il dibattito che già vedeva agitarsi un paio di babbi dirigenti accompagnatori di una non precisata società della zona Prato sud-sud est che arrivarono perfino a sostenere la valenza istruttiva di un par di ceffoni dati a mano aperta ai soggetti troppo problematici come il Rivera di Galcetello, "Noi a Aiolo si fa così. Solo quando ce n’è bisogno, ma si fa così”. Riportata la calma dopo la prevedibile parentesi polemica nel salone del circolo, l’allenatore del Nuove Fibre prese in pugno la situazione con un: capisco la delicatezza del caso e che il ragazzo non è solo una gloria dei quartieri Coiano- Galceti ma ormai di tutta la città, tuttavia queste ultime parole le trovo eccessive, ci penso io, fatemici riflettere. Venne deciso dalla società che deteneva il cartellino del piccolo fenomeno di portare un caso così delicato all’attenzione di qualche psicologo, che oramai si era in pieno 1976 e le luci del futuro lampeggiavano già negli specchietti retrovisori chiedendo strada ed era inutile e dannoso continuare a fare troppo i conservatori in questo benedetto paese eternamente immaturo e provinciale. Con la scusa di un torneo a Sasso Marconi il Rivera di Galcetello venne fatto visitare da un professore di Bologna che dopo avergli fatto vedere delle figure sgradevoli che ricordavano pipistrelli squartati e scoiattoli schiacciati sulla Futa su dei cartelli appesi al muro (pare si tratti di un noto test valutativo ancora applicato, a dimostrazione che occorre più tempo per affermare una certezza che sradicare un pregiudizio) e poi fissato a lungo con gli occhiali sentenziò: il giovane non presenta deficit

dell’apprendimento, l’emisfero cerebrale sinistro risulta più sviluppato, si richiede ulteriore visita specialistica. Stop. Uno psichiatra di Vercelli invece, si seppe soltanto dopo legato a Comunione e Liberazione, si chiuse con il Rivera di Galcetello per un paio d'ore in una stanza dalle pareti chiare e con delle belle poltrone in stile con la tappezzeria a righe bianche e rosse e alla fine disse, prendendo da una parte l’allenatore e il presidente della squadra che si trattava di una questione di neuroni, sinapsi e neurotrasmettitori, una visita che logicamente fu interlocutoria in quanto non chiarì niente, per poi concludere: al ragazzo ci vorrebbe una bella estate con il mio gruppo di scout sulle colline cuneesi: campeggio, camminate e preghiere. Per non essere scortesi dissero che avrebbero preso del tempo per rifletterci, pagarono una sessantina di mila lire di quei tempi, mica roba da ridere, e vennero via. Intanto il Rivera di Galcetello continuava a giocare meravigliosamente, calciando con stile inconfondibile il pallone specialmente sulle punizioni dal limite dell’area di rigore, era sempre fra i primi ad arrivare al campo e fra gli ultimi ad andarsene e andava discretamente bene anche scuola dove, secondo la maestra, qualche volta durante la ricreazione scambiava le figurine e anche qualche parola con i compagni di classe ma, aggiunse, mi guardo bene dal mettermi a sentire cosa si dicono, non è bene turbarli con la presenza adulta nel loro interloquire e la deontologia professionale mi impedisce di riferire il contenuto dei loro discorsi. Quando invece si sapeva perfettamente che le ore di vuoto fra le lezioni in sala professori era un taglia e cuci mostruoso su chiunque a patto che fosse assente. Passò altro tempo e in un’ennesima riunione di tecnici, dirigenti e babbi sciolti questa volta in campo neutro, al bar Katia, si venne quasi alle mani.

Un gruppuscolo convenuto con il chiaro intento di provocare si impossessò del microfono (la riunione era affollata perché il caso era sulla bocca di tutti) e lanciò accuse dirette al presidente della società del Rivera di Galcetello, al suo allenatore, che quasi non riuscì a parlare dalla tensione e dalla rabbia interiore accumulata in quei due anni di sforzi vani e persino il parroco. Voi – sostennero – avete un interesse preciso nel non risolvere questo caso, è evidente. Non solo volete impedire ad un giovane la maturazione psicofisica (non dissero esattamente psicofisica ma il concetto era quello) ma volete tirare per le lunghe questa storia con l’intento di arrivare al quattordicesimo anno di età e poterlo legare alla vostra società con un cartellino pluriennale per poterlo poi rivendere ad una società importante. I vostri viaggi in giro per l’Italia nascondono una manovra oscura, voi siete in trattativa con qualche società del nord, non abbiamo paura a fare nomi, e siamo pronti a denunciarvi. Volarono parole grosse che non sono riferibili, uno di Mezzana con la barba folta e un montgomery apostrofò il presidente del Villa Fiorita con un: criptostrutturalista. Il presidente del Villa Fiorita si guardò per un istante intorno con aria interrogativa non avendo capito né la parola né a chi fosse esattamente diretta ma decise di partire ugualmente caricando un cazzottone che avrebbe come minimo spaccato un labbro all’intellettualoide colla barba. La serata si concluse con l’intervento dei carabinieri che non arrestarono nessuno ma fecero sgombrare la sala e fecero cena con un cappuccino e due paste vizze. La situazione stava sfuggendo di mano ai dirigenti della squadretta che decisero per un altro tentativo terapeutico chiedendo udienza, tramite la Saub, ad un team di psicanalisti viennesi che si dimostrarono cortesi e prontissimi a trattare il caso anche gratis a patto che ne

potessero fare uno studio approfondito e ricavarne un articolo di divulgazione scientifica. Nell’elegante salone dei ricevimenti della Terza Scuola, davanti a qualche tazza di the con i pasticcini e un lontano suono di pianoforte il professor Frankl, noto psicanalista e logopedista, prese la parola e attaccò la lettura di una diagnosi chilometrica: ...un segnale della presenza di un pericolo nell’inconscio… risultato di un conflitto psichico tra desideri inconsci sessuali o aggressivi provenienti dall’Es… l’Io mobilita dei meccanismi di difesa per impedire che pensieri e sentimenti inaccettabili giungano alla consapevolezza cosciente… ecc. ecc. …da qui (pausa studiata): Il Silenzio. E scattarono gli applausi e le congratulazioni, i non c’è di che, ma le pare, complimenti, si figuri, e poi i bravo, grazie, prego, si figuri, ci mancherebbe, tutto merito suo, no tutto merito suo. E quindi? disse timido il presidente della squadretta. Dal fondo della sala un professore più anziano, una specie di Mengele incartapecorito, cacciata fuori da un cassetto una bottiglietta di Ritalin la cominciò ad agitare con un ghigno: dlin-dlin. Professor Schmitz la prego – intervenne Frankl con la sua voce baritonale – metta via quella boccettina o saremo costretti ad espellerla per l’ennesima volta! Ci volle poco per comprendere che anche quel pellegrinaggio era andato a vuoto e mentre i professori si davano la mano e conversavano intensamente in tedesco nessuno si accorse che il presidente, l’allenatore e il Rivera di Galcetello si allontanavano silenziosamente da quel covo di nazisti, non senza fregare un cucchiaino d’argento da una tazza di the. Passò altro tempo, il caso andò via via sgonfiandosi perché per quanto fortissimo nel proprio ruolo di mezzala, bravo a scuola, serio, maturo, coscienzioso, studioso e tutto quanto il Rivera di Galcetello non parlava e gli osservatori e i

dirigenti anche di squadre importanti dopo averlo lodato finivano sempre per scegliere altri più estroversi, loquaci, qualche volta aggressivi e un po’ figli di mignotta, più adatti ad ambienti volgari e materiali e ad un calcio sempre meno arte sempre più baraccone. Ma un giorno del 1983, quando le ruspe arrivarono sul campo del Villa Fiorita per disfarlo e gettare le fondamenta di un complesso di villette a schiera il Rivera di Galcetello finalmente parlò, citando Walter Gropius: “Un architetto o un urbanista degni di questo nome debbono possedere una visione larga e comprensiva per raggiungere una vera sintesi della comunità futura e avere sempre come obiettivo e punto di riferimento costante l’uomo e il suo ambiente e mai l’architetto e il suo Ego”. I talent scouts smisero di seguirlo: per il calcio era definitivamente andato.

L’Ambrosiana

Al campo dell'Ambrosiana il cancello alle due era ancora chiuso ma fuori c’era già una banda cenciosa ad aspettare che arrivasse il Mantelli ad aprire. Portacelo oggi un ragazzetto di 10-12 anni al campo di calcio mezz’ora prima degli allenamenti e lascialo lì, prova a portarcelo e a lasciarcelo, se ti riesce. Solo per prova, per vedere prima di tutto se ti ci rimane, poi quanto ti ci dura e quanti ne ritrovi, se lo ritrovi. Come ci arrivassero quei ragazzi non l’ho mai saputo: qualcuno precocemente dedito al vagabondaggio di sicuro a piedi, qualcuno inevitabilmente a piedi considerata la penuria di mezzi di locomozione di un dodicenne del quartiere Soccorso a metà degli anni ’70, qualcuno forse con l’autobus numero 15 che aveva la fermata proprio di fronte, davanti alle scuole. I figli di papà invece arrivavano accompagnati dal padre o da "chi ne faceva le veci" (come c’era scritto sulle nostre pagelle di cartoncino grigioazzurro) che poteva essere il nonno, il ragioniere della ditta, il ragazzo di bottega, il capo della filatura o il magazziniere del lanificio di rientro al lavoro, sempre però un quarto d’ora-venti minuti prima che aprisse il fatidico cancellino perchè il pre-allenamento era imperdibile. Da quando cominciava la primavera in poi, su quell’ora passava il Morino che aveva un’ape dello stesso colore dei due gusti di gelato che teneva nel frigo appoggiato sul pianale: gialla e bianca. La crema era bianca e il limone era giallo ma nel misurato colpo di spatola che faceva emergere l’acquosa sostanza alla luce i gusti tendevano a confondersi in un’acquetta color calzino dal gusto indefinito e straordinariamente democratico: quello era un gelato adatto per i bambini dei giardini dell’ippodromo, per gli anziani delle panchine e per

i ricoverati che ciabattavano nell’ora del passo fuori dal pronto soccorso completando la terapia con le Nazionali senza filtro e il gelato del Morino. Il gelato del Morino aveva il costo fisso di 200 lire iva inesistente anche dilazionabili in due rate settimanali a patto di poter offrire valide garanzie di solvibilità. Qualche raro esemplare di dodicenne emancipato arrivava al campo a bordo di grintose bici da cross dalla sella lunga e dal poggiaschiena di tubo di metallo cromato, la "canna" tempestata di adesivi del Pratoscarpa e il manubrio da bandiere degli stati americani nordisti confederati, Radioblù (quando era poco viola e molto pratese) e uno persino degli Status Quo che in quegli anni suonavano un pezzo molto ganzo e parecchio da grandi che si intitolava Whatever you want. Mauro invece arrivava trafelato da lontanissimo, lui raccontava di ignoti cortili adiacenti via Arcangeli che avremmo scoperto solo in seguito nelle spedizioni alla ricerca delle tigri della Malesia, dei dirigibili, della ciminiera più alta, dei misteri del triangolo delle Bermude, del Paraguay, delle maschere antigas e delle ultimo etrusco vivente che raccontavano si nascondesse in una caverna in via Cortesi, scacciato dall’avanzare delle fabbriche e della Pratocarni, arrivava con la sua bicicletta arrugginita e il maglione o la giacca della tuta sopra la camicia sempre impataccati dalla pasta a sugo che si era trangugiato appena arrivato da scuola a casa. A volte ho pensato che il rosso dei capelli fosse strettamente connesso alla pasta a sugo e alle patacche sulla tuta ma quel rosso una volta virava al rame una volta all'arancione a seconda della luce del giorno e del sole, sembrava potesse venire via, quello delle patacche mai. Due di quei cenciosi al cancellino, o forse tre, in quanto si somigliavano parecchio fino a quando non facevano la doccia (e non la facevano quasi mai) abitavano lì accanto

nell’unica baraccopoli di Prato, una fila di casette basse mezze in muratura e mezze in altri materiali tra il campo dell’Ambrosiana e il muro della vecchia caserma Settesoldi, una vergogna cittadina squadrata e dai muri completamente scrostati che ospitava al suo interno un lanificio antico con gli operai ormai scheletriti e un’officina meccanica di auto in cui si sbassavano molto bene e molto alla svelta gli assetti delle macchine sportive, ma per riparare un freno ti ci poteva volere anche una settimana: Eh, signora, c’è parecchio lavoro, domenica prossima c'è la coppa Liburna (o qualche altro rally), bisogna che la sua ce la lasci un altro paio di giorni, dicevano "que’ ragazzi" che ragazzi non erano più nel 1975 e che quindi a occhio e croce oggi potrebbero (se fossero) avere una settantacinquina d’anni (s’invecchia, ragazzi, s’invecchia). I baraccati erano tali fino a un certo punto, probabilmente stavano lì per sfizio perchè in realtà erano assegnatari di alloggio popolare dato in subaffitto e probabilmente erano anche proprietari di qualche basso nei quartieri spagnoli di Napoli, una multiproprietà nel senso che al vertice stavano loro e sotto, anche lì, una moltitudine di subaffittuari. Probabilmente erano proprietari di qualche immobile lesionato nella zona delle solfatare a Pozzuoli soggetta a bradisismo e per una provvidenziale crepa nel muro schizzati in vetta alla hit dei baraccati. O forse discendenti di qualche famiglia patrizia con ville al Vomero o a Mergellina, caduta in disgrazia ma troppo di sangue blu per scendere a compromessi con il lavoro, visto e considerato che essere disoccupati nella Prato del 1975 era impossibile: per lavorare ti venivano a tirare giù dal letto alle sei. Può darsi anche fossero ex attori e comparse di qualche film neorealista o di Pasolini, poi rimasti a spasso una volta esauritosi il filone rosselliniano e assassinato l’intellettuale friulano.

Magari c’era anche Franco Citti fra di loro, il quale in fatto di recitazione era rimasto un pò troppo monoespressivo per riciclarsi in pellicole più brillanti ma aveva imparato benissimo l’arte dei baraccati dell’acquedotto alessandrino a Roma che appoggiandosi al rudere e alle catapecchie limitrofe risparmiavano, nella costruzione della loro, tre pareti su quattro. In ogni caso l’esistenza di quelle quattro baracche giustificava l’esistenza di un più enorme baraccone chiamato Ministero della Previdenza Sociale che per il fatto di esistere di qualcosa si doveva per forza occupare e evidentemente qualcuno prendeva sottobanco delle sovvenzioni ministeriali a patto di non smantellare per nessuna ragione quell’insediamento di fortuna. Poi alle due e mezza arrivava il Mantelli, il custode del campo, un personaggio dai capelli corti ben tagliati e dalla faccia antica un po’ medicea e prosciugata dagli abusi di nicotina, un Liccio in chiave moderna e raffinata, gestualità compassata e filosofia di vita a zaffate. Il Mantelli schiavardava il cancellino verde traendo il passe par tout da un ampio portachiavi tintinnante come il campanaccio di un bove attaccato al passante della sua salopette operaia, dipinto da lui come ogni altro articolo in legno/ferro presente al campo e liberava la mandria di bufali fino ad allora chiusa fuori dal recinto di quel Texas polveroso chiamato Ambrosiana. Il mandrione si divideva come i manzi nel far west incanalandosi per corsie di appartenenza, quelli del ’65 da una parte, quelli del ’67 da un’altra (i ’66 chissà), i "tesserati" fra gli eletti (Tu sei tesserato?) mentre i non tesserati finivano negli angoli degli spogliatoi. Se fosse stato possibile vedere la scena dall’alto attraverso un enorme microscopio sarebbe stato come vedere tante molecole: alcune che si approssimano al nucleo componendo mirabili ottetti, completi come strutture arcaiche, sempre

quelle, immodificabili come le caste indiane, altre che si disperdono nel boh e che poi finiscono per essere inghiottiti da uno di quei buchi neri sempre in agguato nello spazio per i cosmonauti inesperti. Da una parte bramini, gli aristocratici, da un’altra, chissà quale, i paria, gli "intoccabili". L’Ambrosiana era profondamente militaresca, ma un militaresco di retrovia per non dire barricadero o di trincea se non addirittura caporettiano. Non a caso si trovava dietro una ex caserma dell'esercito regio. Il cortile polveroso, la piazza d’armi, gli alloggi imbiancati, le furerie e gli alti comandi (lo spogliatoio degli allenatori chissà quali misteri celava), il "minuto mantenimento" (come usavano chiamare il magazzino di una caserma) e poi il deposito munizioni, ovvero uno stanzino simile a un pozzo con uno sportello di legno tinto di verde dal quale con delle reti consunte i prescelti traevano una paranza giallognola di palloni modello Yashin, di gomma ma duri accidentati, simili ad arpasti, a modo loro ortopedici e correttivi. Magliettine di tutti i colori sciamavano in campo qualcuno con la gomma in bocca, qualcuno con le scarpe slacciate, spaghi di cotone abitualmente legati ai manici delle borse (un vezzo) andavano a tenere il calzino senza piede tirato su fino al ginocchio. "Oggi ci allena il Vannucchi" "Noooo" "Vo a casa" "Ho mal di testa". Il Vannucchi era l’allenatore qualche volta in prima qualche volta in seconda, era il preparatore atletico, il "ginnasiarca". Aveva parecchio di Herrera: piccolo, segaligno, la faccia tipica del pratese a cavallo delle guerre, un pò furba un pò sospettosa, con gli occhi a fessura, il nasone e le orecchie un po’ a sventola. Stava di casa nella strada di fronte al Cicognini che si chiama via Atto Vannucci ma ci dev’essere stato un errore, qualche impiegato del Comune deve aver sicuramente

capito male nel trascriverlo sulle mappe catastali perché avrebbe dovuto essere Vannucchi come minimo riconoscimento dovuto a quella figura, ma con tale nome sbagliato è rimasta a conferma che a Prato le cose cominciano sempre con le migliori attenzioni ma poi vengono lasciate a mezzo o finiscono nel disinteresse se non nello scazzo. Il Vannucchi aveva vinto anche uno scudetto allenando la squadra Juniores della più acerrima rivale dell’Ambrosiana, la Zenith, che era un po’ come se in quegli anni Radice dal Torino fosse passato alla Juve, ma noi non si sapeva, si è saputo dopo, e poi che ce ne fregava? Quando ti allenava lui era garantito tornavi a casa con il mal di gambe. Ti faceva correre a mezz’ore intorno al campo, e poi scatti, allunghi, ostacoli da saltare e da passarci sotto, salire e scendere da una montagnola di terra che era rimasta lì da una parte del campo di allenamento ed era diventata arredamento atletico. E poi altre mezz’ore a calciare il pallone Yashin contro il muro con ogni parte del piede, sinistro e destro, stop a decine, a centinaia, con ogni parte del corpo. Colpi di testa da fermo, da ritto, da seduto, dietro a uno, davanti a uno, di fianco a uno (non sempre lo stesso, a girare), poi la forca, persino la forca! Un pallone legato a un filo penzoloni da un ferro ricurvo piantato nel terreno che oscillava e per colpire il quale i ragazzi disegnavano in aria figure fra le più curiose. E poi via scattare. Gli allenamenti del Vannucchi erano un patire, divertimento zero, ma poi per millenni non avresti sbagliato più un stop neanche con un Super Tele su una spiaggia sassosa in un giorno di libeccio. Gli allenamenti del Cambi invece erano quasi tutta partita, un po’ di tecnica, tiri in porta, "addestramento di base" o "apprendimento" come c’era scritto accanto a Capp Plast su

un cartellone mezzo sbiadito ritto su due gambine di metallo rugginoso che reclamizzava la scuola calcio Ambrosiana, un NAGC, un Nucleo Addestramento, come facevi a non andarci armato di almeno un appuntalapis e non tornare come minimo con gli stinchi sbucciati? E poi la parte principale degli allenamenti del Cambi era due squadre a tutto campo, dieci contro dieci, diciotto contro diciassette, bimbi di 10 anni spauriti contro ragazzotti di 13-14, una meraviglia. Mica sempre, ma quando succedeva era una festa. Chi stava in difesa era del gatto. La porta avversaria se la sognava (ai tempi dell’Ambrosiana chiedere a un difensore di salire all’attacco era come far uscire il depresso sul cornicione: rischia di combinare un disastro e difficilmente ti rientra). La regola "vietato andare all'attacco" valeva per molti ma non per tutti, valeva per qualche audace o scellerato in avanscoperta offensiva oltre la linea di mezzo campo fino a che il fischio dalla panchina e l’urlo selvaggio del mister lo riportava alla casella iniziale, e non valeva invece per qualche promosso sul campo con medaglia o per qualche "raccomandato" che aveva la licenza di "salire" sui calci d’angolo ma sulle punizioni già meno. Ma gli audaci, gli scellerati, i temerari, erano sempre alti, cavalloni con le gambe lunghe che inspiravano profondamente prima di partire e in apnea si facevano quegli ottanta/cento metri di campo per arrivare alla porta di là e altrettanti per tornare in difesa in avanzato stato cianotico, viola sulle gote che pompavano disperatamente ossigeno e allucinati negli occhi dalla fatica, con la bocca a culo di gallina nel tentativo di recuperare fiato. E quando rientravano ti guardavano, da quelle facce stremate lassù lunghi com’erano, per dirti: hai visto che ho fatto? tutto il campo mi sono fatto, 80 metri a andare e 80 a

tornare! ma sono tornato eh, sono tornato per non lasciarti solo, sono qui per darti una mano in difesa, ringraziami! Avrei voluto vedere che casino combinavi se ti lasciavo da solo e non fossi tornato, perchè io sono un folle sai? sono capace anche di non tornare se mi gira, che mi importa a me di quello che mi dicono dalla panchina? lo so io come fare, mio nonno da giovane ha giocato nel Prato e lui era uno che quando partiva partiva, giocava difensore e una volta si fece dare il pallone in difesa e scartò tutti quelli del Siena, anzi un paio che erano rimasti fermi a guardare andò lui a cercarli per scartarli e poi dopo averli scartati scartò anche il portiere e fece gol, il suo unico errore ma più che errore fu questione di sfortuna (nonni e babbi di quelli dell'Ambrosiana non avevano sbagliato mai, mai, al massimo potevano aver avuto sfortuna) è stato quello di dare troppo retta al suo allenatore che voleva rimanesse in difesa perchè se avesse fatto di testa sua sarebbe di sicuro andato alla Fiorentina, c'era già il contratto pronto, gli davano lo stipendio che voleva, peccato, ma tanto poi malgrado quell'allenatore che non capiva nulla e lo fece smettere di giocare a calcio da quanto era incompetente mio nonno i soldi li ha fatti lo stesso perchè poi mise su la ditta e tempo tre anni si comprò quattro ville al Forte dei Marmi. Comunque te non andare all'attacco, non salire mai, a parte che non ce la faresti fisicamente guarda che mezza sega sei, ma poi lascia proprio perdere, non ci pensare neanche a passare la metà campo, queste sono cose le posso fare solo io, te ancora no, io poi l’ho fatto neanche tanto per me stesso che fondamentalmente non mi piace fare l’attaccante, anzi mi piace proprio fare il difensore perché gli attaccanti non li posso neanche vedere, li odio, gli ammazzerei tutti da piccini. Anzi ora appena gli avversari vengono all’attacco te lo fo vedere cosa gli fo io agli attaccanti, stammi a vedere e impara ma poi non lo rifare uguale perché come gli tiro io i calci negli stinchi ai difensori te non ce la faresti mai anzi,

grullo come sei a te l’albitro (si, dicevano albitro) t’ammonirebbe subito io invece non mi fo neanche vedere, perchè mio nonno mi ha insegnato come si picchiano gli avversari senza farsi vedere, stendo l'attaccante e poi dico all'albitro: Io? signò albitro no, s’è buttato, e l’albitro male che mi vada mi dà solo punizione contro perchè tanto gli albitri ci cascano, non ci capiscono nulla di pallone e sono tutti grulli sennò non farebbero gli albitri. Eppoi se sono andato un minuto all’attacco l’ho fatto perché avevo il permesso del mister, te ce l’hai il permesso del mister? No, e allora resta qui. E ringraziami che sono rientrato in difesa, ignorante! Questo ti comunicavano, o forse era solo un’impressione mia (che tuttavia ero rimasto in difesa e quindi ancora lucido per comprendere sia il linguaggio verbale affannoso che il non verbale del cavallone di ritorno). Che poi se fosse vero quello che avevo la sensazione mi volessero comunicare (e lo era), oggi non mi sorprende affatto: era un distillato, la quintessenza della filosofia pratese, quella del "lascia fare". Intendiamoci, era un "Lascia fare a me che io posso (ho anche il permesso!) e te no". Era (è) tutta un’altra cosa rispetto al laissez – faire, liberalismo, ossia rispetta le regole ma poi fai come vuoi. No. Era un: tu rispetta le regole, io faccio come voglio (specie se qualcuno mi ha anche dato il permesso che non ha dato a te) e se il permesso non ce l'ho ho il diritto di prendermelo almeno cinque minuti per il semplice motivo che ho ragione, tu non hai il diritto di prenderti nessun permesso perchè a differenza mia hai torto a prescindere. E perchè se mi fai arrabbiare te le dò. Un concetto, quello del "lascia fare" che a Prato ti viene comunicato fin da piccino.

Chi stava in difesa (ma anche a centrocampo) ed era anche basso di statura era doppiamente del gatto, nessuna speranza, solo il rischio di perdersi lassù nel mistero a ottanta/cento metri di distanza, tanto più che qualcuno, da solo, a piedi, così lontano da casa non si era ma allontanato nella vita. Poi quando il giovedì o venerdì pomeriggio finivano gli allenamenti era il momento di leggere le convocazioni, dei fogli attaccati con delle puntine da disegno che in un felice passato avevano conosciuto l’eleganza della cromatura a una tavoletta di legno, la bacheca. Bacheca: un termine tra l’altro anche di difficile pronuncia con tutte quelle c per un dodicenne pratese. Una bacheca con sopra scritti per ogni squadra, ogni categoria, i nomi di chi avrebbe partecipato alla partita del sabato o della domenica. Nulla di sensazionale, i nomi erano sempre quelli, disposti più o meno nello stesso ordine della settimana precedente, delle volte precedenti, a volte in ordine alfabetico ma più spesso in fila per numero di maglia, praticamente la squadra già fatta al venerdì: giammai provocare un turbamento in giovani virgulti orgogliosi e in soggetti naturalmente predisposti ad accigliarsi. Le più stabili solidità poggiano su basi fragilissime. La solitudine dei numeri dall’1 all’11. Ma a 12 anni si è troppo ingenui, troppo. Ambrosiana era nonnismo, e nonnismo non ammette posizioni terze, o si è soggetto o si è oggetto. Il complemento oggetto, quello che risponde alle domande chi? che cosa? non solo non è ammesso ma all'Ambrosiana risultava persino intollerabile. Nessuna interpellanza era concessa, osservanza assoluta alle convocazioni (forse c’era anche una Regola dell’ordine ambrosiano scritta da qualche parte) e in caso di esclusione o di panchina solo possedere buoni uffici presso l'alta corte di giustizia (un ristretto

gruppo di togati che affiancavano gli allenatori) garantiva una sentenza di appello alla solennità delle convocazioni. Una specie di regno di Inghilterra prima della rivoluzione di Cromwell tanto che dopo qualche anno di Ambrosiana ti poteva venir voglia di tutto, di fare il brigatista come di farti prete. Noi ci siamo salvati. Ma come in tutti i sistemi giuridicamente avanzati e socialmente funzionanti esisteva un cuscinetto fra la prima squadra e l'oblio, la squadra Riserve o B, una manica di raccattati che giocava partite contro squadre dai nomi ancora più improbabili di quelle rivali della squadra A. La squadra B fungeva sia da serbatoio in caso di assenze nella prima squadra che a scopi meramente assistenziali, quella si sicuramente mantenuta da qualche fondo riserva per squadre B, confluito chissà come in uno dei mille rivoli di quell'inestricabile sistema di casse mutua di categoria che ha sempre alimentato quel sistema perverso e al tempo stesso caritatevole chiamato Italia. Dopo l’allenamento c’era la doccia. Le docce erano un affare nebbioso nel quale potevi trovarci di tutto. Io mi immaginavo che in mezzo a quei vapori avrei potuto trovarci Furino o Antognoni (Chiarugi no, Chiarugi era uno di quelli che si faceva la doccia a casa) o magari, ancora meglio, i campioni dell’Olanda che i giornali raccontavano portassero in ritiro le fidanzate e fumassero. Magari tra i fumi delle docce ci potevi trovare Cruyff con la fidanzata, una stangona bionda, entrambi nudi e magari mentre praticavano l’amore libero come i nazionali della Svezia che forse avevano come seconda attività dopo il pallone l’attore di giornalini porno ma che poi in campo pur non giocando benissimo correvano più degli italiani che invece stavano in ritiro a settimane senza donne a contare le rughe di Valcareggi, a bere l’acqua di Chianciano e a leggerli quei giornalini porno invece che esserne protagonisti.

Nel repertorio di figure immaginarie di un adolescente di provincia a metà anni settanta, lanciato all'assalto della fortezza tetragona del sesso con l'elmetto dei cataloghi Vestro e la spada del cinema pecoreccio, ci poteva stare anche un campionario di elementi dozzinali come Cruyff sulle spiagge dell'isola di Wight a palleggiare con George Best e fumare spinelli con i Beatles in mezzo a fanciulle nude sul cavallo bianco del Badedas mentre in una capanna i nazionali della Svezia girano films porno che poi finiscono su pellicole difficili da reperire. Cruyff a dire la verità sotto le docce dell'Ambrosiana non ce l’ho mai trovato ma mi sono imbattuto invece nei portieri, anzi, nella confraternita dei portieri. Io non so se i portieri arrivavano tutti insieme su una macchina apposta che andava a prenderli personalmente, uno per uno, a casa e poi li riacccompagnava in gran segreto, magari su corsie preferenziali delimitate da linee blu o scortati da un vigile in moto. Se c’era forse era, mi piace pensare, una Citroen Mehari o la Supercar Gattiger. Non so se arrivassero già cambiati, se si cambiavano in uno spogliatoio a parte che nessuno (a parte i portieri) ha mai visto, se si cambiavano al bar Elena o alle scuole gialle di via del Purgatorio o in macchina, non so come si rivestissero ma soprattutto non ho mai capito come facessero a togliersi di dosso quei chili di mota di cui uscivano ricoperti dal campo di allenamento. Si materializzavano fra i pali ad un certo punto degli allenamenti, al momento dei tiri in porta; prima se ne stavano per i fatti loro a fare allenamenti per loro con esercizi e movimenti inventati per loro, e parlavano fra di loro, cospiravano in segreto e si scambiavano preziose informazioni, si rivelavano misteri indicibili su persone che non si potevano nominare, costruivano un’intricata rete di relazioni personali che poi, la domenica, anche su campi

mai frequentati in precedenza emergeva alla luce del sole per chi la sapeva cogliere e per chi era in grado di interpretare la rituale sequenza di gesti solo all’apparenza scaramantici ma sicuramente appartenenti (si è capito molto dopo, a 12 anni si è troppo ingenui) ad una religione esoterica. Il modo in cui ti guardavano era sempre torvo e non avevano mai una parola buona e ciò era sintomatico, ma non potevamo capire cosa volesse dire, così come il numero infinito di lacci, stringhe, fasce, scotch e nastri adesivi che adoperavano per dita, polsi e ginocchia aveva un significato cabalistico, arcano, ma non potevamo sapere. Con il portiere avversario stabilivano immediatamente una sottile confidenza e complicità, si vedeva che facevano parte della stessa setta, si vedeva dal modo in cui fingevano di scambiarsi informazioni sui guanti, se la presa era migliore con la gomma in un modo piuttosto che in un altro, se il pollice era più libero, se il polso più rinforzato con i guanti di una marca piuttosto che di un'altra: era tutta una pantomima, in realtà si conoscevano e probabilmente si erano visti il giorno prima in qualche bar, scuola, o altro luogo segreto che conoscevano soltanto i portieri (come lo spogliatoio). La loro appartenenza ad un’altra confessione risultava evidente al momento del saluto al pubblico schierati in fila in mezzo al campo. In realtà comunicavano qualcosa fra di loro e a quei 3 o 4 del pubblico disposti solo apparentemente in modo casuale sulla tribuna o alla rete, ma di fatto secondo uno schema stabilito da chi – al riparo delle luci – aveva ideato la Teoria dei Giochi, un’analisi matematica di situazioni di conflitto e uno studio delle decisioni individuali in situazioni in cui vi è interazione fra due o più soggetti, volta al massimo profitto. Forse addirittura qualcosa di più complicato.

I portieri ne sapevano di più, del calcio e della vita. A quindici anni erano già adulti e ti trattavano male come ti poteva trattare male un adulto ma a ventotto erano ancora considerati "giovani portieri". Un mistero, celato anche dalle stratificazioni di mota di cui erano tutti ricoperti a parte la fila dei denti perché il portiere esibiva il sorriso solo alla fine degli allenamenti, difficilmente prima. A fine partita invece erano quasi sempre incazzati e pensavano per i fatti loro. La partita c’era il sabato o la domenica mattina. Ma la partita era un dettaglio. Succedeva che ci si radunava da qualche parte, le borse di plastica gialla che ci aveva regalato Mario Lastrucci volavano nelle bauliere e si partiva per destinazioni ignote. Colli Alti (chi è mai stato ai Colli Alti di Signa a parte il mostro di Firenze?), Carraia di Calenzano, a Soffiano per giocare contro la Cattolica Virtus, a Casermette di Pistoia. Chi ci andava a parte noi e il Pacciani? Ma poi non ricordo nient’altro, solo un grande bottiglione di the a metà fra primo e secondo tempo, fatto due ore prima ma che misteriosamente ancora bruciava la lingua e tanta gente sconosciuta. La domenica pomeriggio poi succedeva che davanti al cancellino verde dell’Ambrosiana qualcuno facesse finta di passarci per caso, con la bici o a piedi, sperando di trovarci qualcuno o addirittura, miracolo!, aperto. A qualcuno mancava non poter prendere per il culo nessuno, a chi veniva preso per il culo mancava non essere oggetto di attenzioni e di prese per il culo. E la domenica pomeriggio e il lunedì erano noiosi, aspettando che il Mantelli tornasse con la bici e l’enorme rumoroso portachiavi ad aprire il cancello del nostro Texas.

Ps

Di quelli del cancellino alle due nessuno è diventato campione. Nessuno era un campione ma Paolo Rossi ci avrebbe riscattati tutti. A segnare tre gol al Brasile ai mondiali dell’82 siamo stati tutti quelli del cancellino dell’Ambrosiana. Forse perché nessun Rivera è mai venuto a farci la predica su come si diventa campioni e a che cosa bisogna rinunciare? Forse perché nessun Del Piero è mai venuto a regalarci magliette dell’ e a farsi fotografare con noi per un cartonato pubblicitario? O forse perché nessun Totti è mai uscito da un pallone uovo sorpresa di polistirolo in mezzo al campo con tanti bambini coglioni a fargli da ala intorno sventolando bandierine giallorosse e dargli il cinque? Forse. Ma i portieri dell’Ambrosiana ancora oggi a 45-50 anni si attende che maturino quando invece a 15 erano già adulti. Io che sono tutt’altro che un campione non ho mai sbagliato uno stop, nemmeno con il Super Tele su una spiaggia sassosa in una giornata di libeccio.

Abomai

Anche Abomai è una figura fra quelle, come altre in questo libro, che con la storia del negro nella Balla c'entrano poco, fra le quali apparentemente non c'è nessuna relazione ma del resto l'unica strada per ricostruire quell'evento è procedere come fosse un puzzle. Svuoti la scatola su un tavolo e osservi per un pò quello che ne esce sperando che magicamente qualche pezzo si sia abbinato da solo. Ci sono pezzi completamente grigi o blu che apparentemente non servono a niente, sono utili solo a completare il disegno a patto di averne altri della stessa tonalità di grigio o di blu, altrimenti rimangono lì all'infinito finche non arrivi ad essi per necessità, e quindi quello che prima non serviva ora serve più o meno come il resto ma solo in un tempo successivo. A meno che non emerga dal mucchio un elemento centrale, che da solo ne raccolga a sè automaticamente altri cinquanta e faccia sostanza e macchia di colore (ma non succede mai, certi pezzi non esistono) quello di ricostruire prima la cornice è l'unico metodo possibile per poter sperare, con pazienza, di arrivare al centro del puzzle e di completare il mosaico. Abomai è uno di quei pezzi non completamente grigi nè completamente blu ma ha la caratteristica di essere un pò deformato e quindi di difficile incastro ma chissà che, se non serve a questa, non possa servire a ricostruire altre storie. Abomai aveva come dicevano ai tempi della Libertas e dell’Olimpia (prima che si fondessero nella Pugilistica Pratese), aveva “incrociato i guanti” con il grande Santini, il campione italiano dei pesi mediomassimi, uno che Benvenuti non volle incontrare mai perché, disse, “L’è troppo un demolitore”.

Era per quello che Abomai aveva una smorfia tipo risata stampata sulla faccia. Avvenne più o meno così, prendetela come me l’hanno raccontata, del resto sono passati tanti anni, “la memoria è come la sera, si scolora” come diceva il Felix al terzo vermouth. Abomai la sera prima dell’incontro con il Santini aveva fatto tardi al lavoro e rientrando, mentre passava davanti al bar Continental, era stato riconosciuto da un gruppo di appassionati di boxe che gli dettero il pronostico senza tanti peli sulla lingua: "Domani tu ne tocchi quanto sette ciuchi". "A me – gli rispose Abomai senza fermarsi, gonfiando il petto e guardandoli con ironia – domani l’altro mi leggerete nella pagina sportiva e il Santini nella colonna del Chiani, il giornalista di cronaca che va a prendere il bollettino dei ricoveri all’ospedale. Poi, fra qualche mese, per sapere di me vi toccherà comprare il New York Times e sulla pagina sportiva leggerete F. C. (nda, non posso fare il nome per esteso) the italian stallion fights tonight. Bonanotte citrulli". La sera dopo, una serata di tarda primavera, c’era un bel po’ di gente nel piazzale dietro la palestra Etruria, al centro del quale era stato montato il ring. Ci furono due o tre incontri fra novizi, tanto per scaldare la serata ed arrivare al cosiddetto match clou Santini (detentore) contro Abomai (sfidante). Sarà stato il secondo forse il terzo round dei tre previsti per la categoria dilettanti di seconda serie e Abomai fino a quel momento si era mosso bene intorno all’avversario che aveva preso fino dal gong il centro del quadrato come sempre avviene ai pugili più esperti e più massicci. Un "Abomai fallo viola!" bello scandito si levò a un certo punto dalla settantina di spettatori seduti intorno al ring sulle sedie, qualcuna di plastica intrecciata prese al bar Buricchi, qualcuna presa alle scuole elementari Guasti. Era

la voce inconfondibile di Riccardone, un irriducibile tifoso del Prato. "Fallo viola come Chiappella!" aggiunse, facendo ridere il pubblico che ciucciava lupini e sbucciava semi di zucca salati. E nel preciso – identico – sputato – istante in cui Abomai accennava a voltarsi con mezza testa per rispondere a Riccardone con una strizzata d’occhio come a dire "ci penso io nanni" il Santini fece partire un cazzotto. Uno sganassone, una pizza, una pezza, un cartone, un pugno da ko al quale Abomai non ebbe modo di replicare, volando in terra due metri più in là. "Frattura scomposta della mandibola con iperestensione del nervo facciale: non operabile. Si teme evoluzione negativa e paresi. Hai visto cosa succedere a prendere le cose sul ridere?" c’era scritto nel referto dell’ortopedico dell’ospedale che venne passato al Chiani, il cronista di nera spicciola de La Nazione. (Si, nei referti di una volta c’era sempre qualcosa di didascalico o consolatorio ad accompagnare la diagnosi, come a dire: un pò te la sei meritata stavolta ti è andata bene la prossima volta stacci più attento, c’era sempre qualcosa di De Amicis o di Dostoevskij nella formazione del medici di un tempo). E Abomai se li era tenuti per sempre, il pugno e una smorfia che somigliava a un sorriso. Nel giro di un paio di mesi a brodini e succhi di frutta la frattura si ricompose, com’era normale che fosse, ma a modo suo e la mascella rimase storta, il piano superiore del volto non in linea con il mento e la bazza, spostati di due o tre centimetri verso sinistra (qualcuno garantisce verso destra ma tanto non fa differenza) e nel pronunciare il suo nome che era F. C. (ho giurato alla famiglia che non l’avrei riportato per esteso) gli veniva a causa della deformità un suono tipo "Abomai", o qualcosa di somigliante, che non

voleva dire niente ma alla fine cominciò a suonare familiare e gli restò di soprannome. "Beato te tu ridi sempre Abomai" gli cominciarono a dire quelli del bar Continental e Abomai tutte le volte una risposta l’accennava ma gli spiritosi da strada e quelli dalla gag facile in generale che puoi incontrare nei bar, si sa, una volta consumata la battuta non ti ascoltano perché non hanno tempo di ascoltare, sono incalzanti, stanno già preparando quella successiva e Abomai rimaneva con la smorfia sotto e il sorriso finto sopra, senza replicare. Tutto questo per essersi distratto un secondo per farsi una mezza risata. A Prato succede. A chi si è girato di spalle mezzo secondo, o chinato a raccattare qualcosa, è successo anche di peggio.

Il Mantelli

Il Mantelli faceva l’imbianchino. Faceva l’imbianchino mentre fumava, forse imbiancando sottraeva del tempo alla sua passione per il fumo, forse si guadagnava da fumare facendo l’imbianchino o forse riempiva i vuoti fra una sigaretta e l’altra imbiancando, perchè non si è mai capito quale fosse la sua attività prevalente, se fare l’imbianchino o fumare. Imbiancava e fumava dalla mattina alla sera, una pennellata e un peo, imbiancava e automaticamente ingialliva quello che aveva appena imbiancato. Aveva una salopette di un marrone meraviglioso che una volta mi ci volli comprare anche un paio di pantaloni di velluto costosi esagerati del solito colore, e non era nè il colore degli spolverini degli operai pratesi che prediligevano il blu Fiat e neanche del colore della congrega degli imbianchini che vestivano chi il bianco, quelli più popolari, chi il nero quelli con un passato da pittore mancato, quelli che si facevano chiamare stuccatori o decoratori. Il Mantelli era unico: arrivava in bici come l’imbianchino della pubblicità dei pennelli Cinghiale ma senza pennello perchè non aveva bisogno di pubblicizzare la sua attività, con una biciclettona nera attrezzata di un mezzo portapacchi dietro. Era il custode del campo dell’Ambrosiana, arrivava alle 14 e 30 precise ad aprire il cancello ondeggiando sulla biciclettona con un basco alla francese in testa, come un operaio di Belleville o un pittore di Montparnasse, però senza la baguette sotto il braccio ma con la sigaretta. Il Mantelli era un artista, non un grossolano imbianchino nè un comune pittore né un decoratore, era un artista vero. E oltretutto un grande custode di campi da calcio, uno dei più grandi in assoluto, il Cambi lo chiamava “Il luminare”, nemmeno fosse un primario.

Le righe del campo da calcio le tracciava a occhio. Caricava di polvere di gesso il carrellino con l’imbuto rivolto verso il basso, prendeva empiricamente le misure strizzando un paio di volte l’occhio verso la sponda opposta del campo e partiva deciso azionando a stantuffo la levetta che lasciava cadere il gesso dall’imbuto, con una delicatezza e una manualità da caposala dell’ospedale alle prese con lo sfigmomanometro. Le righe non gli venivano esattamente orizzontali, avevano una leggera increspatura soprattutto negli ultimi metri quando l’occhio e la mano salda cedevano qualcosa alla pesantezza del carrello e al principio di enfisema ma non fu mai un problema perché al campo dell’Ambrosiana non c’erano ancora tribune e dal basso la zigrinatura delle linee e l’onda che disegnavano in alcuni tratti erano pressoché impercettibili. Tranne quella volta in cui in occasione di una partita del campionato Allievi Regionali fra l’Ambrosiana e la Poliri (una squadra di Firenze che secondo la lectio facilior era l’acronimo di Polisportiva Libertas Rifredi ma che secondo versioni più accreditate era l’unione di Ponte di Mezzo, Lippi e Rifredi) arbitrata da una terna venuta da Siena: un difensore dei loro rinviò una pallaccia che si incarognì nella traiettoria per colpa di qualche stinco o fiancata e piovve sui piedi di un attaccante fiorentino in fuorigioco di un paio di metri buoni buoni. Il segnalinee s’era perso nella lontananza la pedata iniziale del difensore e la deviazione successiva e per valutare il fuorigioco fece riferimento alla riga dell’area di rigore invece che all’ultimo difensore dell’Ambrosiana e a causa dell’inclinazione della riga di gesso non sventolò e lasciò che l’attaccante della Poliri segnasse fra le urla e le proteste. Poi non successe nulla perché l’Ambrosiana alla fine vinse 4-1 ma da quel giorno il vertice dell’area di rigore lato scuole del Purgatorio divenne la "zona Mantelli".

Il Mantelli era un artista vero, al di là di qualche riga storta, e il suo genio non era frutto del caso ma di sapienza e meditazione. La roba che trovava negli spogliatoi dell’Ambrosiana la ricomponeva secondo modelli raggiunti in precedenza solo da Giacometti il surrealista, in un altro stanzino, o meglio un atelier dove si trovava di tutto: una scarpa da calcio accostata ad un lapis caduto da una borsa, una stringa con il manico di uno spazzolone, una mutanda con una tessera dell’autobus. Accostamenti degni delle pareti del museo Dalì di Barcellona. Nello stanzino del Mantelli ho avuto il privilegio di prendere visione di modelli di intimo maschile fin’allora ignoti, mutande nere bordate di oro, i primi boxer, molto larghi, con le stelle e i pianeti disegnati, cose mai più riviste. Si, il mantelli era un surrealista autentico, un De Chirico senza accademia. Con una chiave speciale che teneva custodita appesa a una porta riusciva, con un colpo deciso del quale anche il Lucio Fontana più ispirato sarebbe stato invidioso, ad aprire porte con la serratura tappata dai soliti vandali iconoclasti con la carta igienica bagnata, con un colpo di spazzolone degno dello Scuro dei tempi d’oro era capace di stasare un gabinetto tappato dai calzini appallottolati. La casa del Mantelli era sopra gli spogliatoi se vista da dentro il campo, sopra la cartoleria se vista da fuori, le chiazze d’umido sulle pareti erano visibili da dentro la cartoleria della Edy, che sottostava. Ogni genio e ogni artista hanno un lato pubblico e un lato privato, spesso impronosticabili e inconciliabili. Il Lastrucci, che anche lui frequentava l’Ambrosiana ma in qualità di allenatore, pur essendo il solito imbianchino aveva qualcosa di diverso dal Mantelli, era uno chic tant’è

vero che sullo sportello del furgone aveva scritto “stuccatore-decoratore”. Un raffinato, un gaudente, un lord, un dandy, un Moravia, un Wordsworth, un Sironi, un Lorenzo Bartolini, un Leonetto Tintori, uno che gli spogliatoi non li apriva ma se li faceva aprire. Fumava uguale e imbiancava uguale, ma era diverso. Il Mantelli e il Lastrucci nella loro diversità contribuirono a far cadere molte carte da parati, due innovatori che dettero respiro ad ambienti asfittici e crearono prospettive nuove e profondità di vedute sconosciute laddove erano state negate da un passato oscurantista e colloso. Invece che quei politici di una volta costretti come manichini all’ingessatura dalle loro grisaglie e dalle loro posizioni consolidate, il conduttore di Tribuna Politica Jader Jacobelli avrebbe dovuto invitare il Mantelli e il Lastrucci a parlare di compromesso storico e di "convergenze parallele". Forse oggi in questo paese, se l’arte fosse andata al potere, ci sarebbe più luce e si respirerebbe un’aria diversa.

Il monumento al vento

Volevo solo che quando si spenge l’ultima luce rimanesse una musica accesa che facesse compagnia nella notte. Una musica, un suono che riaccompagnasse a casa gli ultimi che escono di fabbrica del turno di sera e che facesse compagnia ai primi che si alzano, quelli del turno delle 6, mentre si fanno la barba, mentre si preparano il caffè nelle cucine silenziose quando senti solo i suoni del sonno delle case immerse nel buio e il rumore del frigorifero (le bruit du frigò lo chiamano i francesi e poche volte ho sentito parole che rendano così bene l’idea, il francese ha talvolta lo stesso suono del vento). Volevo un lieve fruscio che facesse da carezza a chi rientra solo e si perde nel labirinto dei pensieri, delle cose fatte sbagliate e di quelle ancora da fare, che si spera - anzi devono - per forza venire meglio ma che poi saranno anch’esse sbagliate perché è nel destino delle cose fatte, quello di essere, a distanza di tempo, buffe, ridicole e nella peggiore delle ipotesi, sbagliate. Volevo che il vento, il suono del vento, facesse compagnia a chi scende le scale nell’oscurità e apre il portone sulla strada e si consegna all’abbraccio di un mondo troppe volte ostile, di un mostro sfacciato che ti fruga nelle tasche dell’anima e ti prende tutto beffandosi di chi non ha la forza di opporsi e di togliersi di dosso quelle mani untuose e non può difendersi da quella violenza che alla fine ha un solo nome: vita. Non volevo sciupare nulla, non volevo strappare né un albero né un filo d’erba, volevo salutare il vento, fermarlo con il palmo della mano nella lamiera celeste del cielo delle mattine d’inverno. Gli volevo costruire un nido, un rifugio per quando ha corso troppo e viene da lontano, perché rallentasse e si facesse ingabbiare dolcemente in un reticolo di note che solo una

radio piena di vento può trasmettere e solo un cuore pieno di solitudine può ricevere. Avrei anche voluto un suono che addolcisse la sofferenza dei malati nell’ospedale, dei vecchi nella casa di riposo, dei poveri agli angoli delle strade. Che arruffasse i cartoni sul barroccio di Giuliano Pugi, il Principe Affannato, il più grande psicanalista freudiano che questa città potesse dare alla luce, colui che ha raccolto per decenni gli scarti di una manualità instancabile, patologia di un’oralità vorace stadio anteriore all’inevitabile feroce analità. Che facesse frullare la girandola sul manubrio di messer Celentano, giullare di una corte cenciosa, di una dinastia di regnanti, quella dei pratesi, ai quali un regno non restava che comprarselo facendosi prestare i soldi dalle banche, come i Savoia, volgari e incoscienti, qualche guizzo, molti applausi, qualche caduto sul campo, sensazionali impennate, grandi capitomboli, tanta polvere e l’esilio dalla propria casa, comprata a debito. Un suono di vento che gli entrasse dalle labbra screpolate dal vino da quattro soldi tra le fessure di quella scommessa di dentatura fin dentro la caverna umida a farle prendere aria pulita, a far vibrare quel pianoforte dai tasti scassati di altre note, diverse da quelle sue esotiche, più familiari, ancorché riservate a chi avesse la pazienza di ascoltarle. Un vento che molestasse allegramente Pio chiamandolo da tutte le parti e lo facesse imprecare contro quei cavalieri neri che esistono solo nella sua mente e spuntano dappertutto all’orizzonte del castello dov’è eternamente barricato con la principessa per sempre perduta. Questo era il vento che volevo delicatamente imprigionare e indurre a parlare, a raccontare, a consolarci. Un’antenna, ecco, un’antenna per captare quel vento, questo vento qui di cui vi parlo, avrei voluto costruire.

Un’antenna della quale i pratesi, passandoci vicino con le loro facce incazzate, la risata nervosa, il buco del culo stretto a fessura come gli occhi per non rischiare di vedere e di dover salutare chi gli passa accanto, quello che lasciano dietro e quello che ci sarà davanti non subito ma fra tre giorni, dieci anni, passandoci vicino a quell’antenna, accanto, sotto, nei paraggi, fossero stati obbligati ad alzare la testa un istante, con il collo torto e il ghigno e dire, con celata sorpresa: “Bada che antenna. Senti lì che vento”.

Bulgarelli

Anche di questo fatto, come del resto di tanti altri, se n’era perso il ricordo ma soprattutto resta sospeso fra verità e fantasia perché non ci sono prove, non essendo stato possibile reperire testimonianze attendibili e di conseguenza mai finito sui giornali. Per cui chi lo associa al Negro nella Balla compie un'operazione forzata, come se tutto quello che è ignoto, scarsamente noto o tutt'al più probabile dovesse essere collegato alla vicenda sulla quale qui cerchiamo di fare luce. Noi siamo convintamente fra questi, del resto anche chi negava l'esistenza delle lune di Saturno è stato clamorosamente smentito da chi in segreto, in silenzio, con mediocri chance di riuscita, ha svolto complicati calcoli e formulato modelli che all'apparenza sembravano strampalati e invece si sono rivelati esatti. Andò più o meno così, prendendo per buone le versioni di chi fu presente. Era il periodo in cui venne ultimata la stazione ferroviaria centrale di Prato, i primi di aprile del 1934, non era ancora stata attivata, era ancora un cantiere e la gente il treno continuava ad andarlo a prendere al Serraglio e per questo in pochi assistettero all’evento. In poche parole uno degli operai che aveva lavorato prima alla costruzione della direttissima e poi della stazione si barricò dentro a questa, nel grande atrio centrale appena pavimentato a mosaico, ostruendo il corridoio che portava ai binari con pietre, mattoni e blocchi di cemento e chiudendo le porte a vetri appena installate con dei grossi catenacci forse sganciati da un vagone. Fu un’operazione rapidissima, eseguita approfittando della pausa pranzo che gli operai consumavano in una baracca di lamiera nei pressi dell’attuale salita che porta allo scalo merci.

Al momento di riprendere il lavoro trovarono i portoni chiusi dal di dentro e l’accesso posteriore tappato. "Ma chi ha chiuso?" cominciarono a dirsi, "Chi c’è dentro?" "Ma chi è quel matto dentro con quella lampada in mano?" "Porcamiseria ma quello è quel matto del Bulgarelli, io lo sapevo che prima o poi il Bulgarelli ne combinava qualcuna" "Chi? Chi è? Bulgarelli? Ma chi quello matto di Bologna? Ma che lavorava ancora alla direttissima dopo il casino che combinò quella volta che venne giù da Vernio con la draisina?" (nda, la draisina era quell’aggeggio che usavano gli operai per spostarsi lungo la ferrovia, un carro con quattro ruote con la leva oscillante al centro che in due persone facevano muovere alzandola e abbassandola alternativamente e trasmettendo il movimento alle ruote, quella che si vede nei cartoni animati di Willy il coyote) "Ma com'è che dopo quella volta l’hanno riassunto? Conoscenze? E chi conosceva? Nooo! Davvero? Proprio Lui… in persona? Ah beh si certo di Bologna… ho capito, figuriamoci! Ma come? Raccomandare uno come il Bulgarelli… addirittura… povera Italia in che mani! Dove si andrà a finire! Male, poco lontano, se anche Lui si mette a raccomandare gente come il Bulgarelli, poco lontano e male si va a finire, te lo dico io". "Bulgarelli vieni fuori, boia di un mond léder" gli fece un altro bolognese come lui "Sta’ fermo porcoboia con quel lume a petrolio, è pericoloso! C’è la pece, ci sono le vernici, prende fuoco tutto!". “Bulgarelli non ti sentiamo, urla, urla più forte, cosa? Cosa vuoi? E’ un azione dimostrativa, dice, si è chiuso dentro perché ha delle richieste da fare, che hai? Cosa? Dice il Bulgarelli che ha delle rivendicazioni, boh". "Sòcmel Bulgarelli non romper mica le balle" gli fa ancora il bolognese di prima "Io ciò famiglia a casa ogni minuto di lavoro che perdo me lo tirano via dalla paga, fai il bravo Bulgarelli veh, dagliela su e vieni fuori".

"Vuole che chiamiamo il direttore dei lavori, ha delle richieste da fare il Bulgarelli". "Ha ragione il Bulgarelli" fa un altro "Ci fanno lavorare come negri e ci pagano da fame, fate venire il direttore dei lavori che ci voglio parlare anche me. Bravo Bulgarelli è così che si fa, se non c’eravamo dei poveracci come noialtri volevo vedere chi ci veniva a lavorare alla direttissima, voglio vedere chi li faceva i buchi nelle montagne se non c’erano queste talpe qui che siamo nialtri, porcaccio mondo fatti intendere Bulgarelli che questo pezzente qui che sono me da quando sono alla direttissima sono più le pietre che ho spaccato che le volte che ho rifiatato!". "Si si chiamate il direttore dei lavori, fatelo venire qui che ci vogliamo parlare tutti, e tu Bulgarelli tirala su codesta lampada a petrolio, falla vedere, fai vedere che se non ti danno retta sei pronto a dare fuoco a tutto, chiamate anche un cronista del giornale e un fotografo che gli facciano l’articolo al Bulgarelli!". Nel frattempo, a vedere tutti gli operai fuori dalla stazione, qualche passante in bicicletta si era soffermato e piano piano stavano arrivando dal centro storico degli anziani che approfittavano della giornata primaverile per una passeggiata più qualche sfaccendato, raro per la verità a quei tempi, ma ce n’erano anche di quelli. "Ora arriva con la macchina il direttore dei lavori, non fare il bischero Bulgarelli, tienila giù codesta lampada e non l’agitare che è pericoloso". Dopo una mezz’ora eccoti arrivare da Firenze il direttore dei lavori a bordo di una Balilla mentre tre carabinieri avevano già fatto allontanare gli operai dalle porte della stazione e la piccola folla di curiosi compresi il giornalista e il fotografo che spostandosi cercava di inquadrare quella figura indefinita aldilà della vetrata. L’ingegnere direttore dei lavori, un milanesaccio calvo con un basco in testa, si fece largo fra gli operai e fissando

l’atrio del magnifico edificio della stazione cercò di individuare oltre la porta e il vetro nuovo di zecca la figura del Bulgarelli tenendo sulla fronte una mano tipo visiera. "Chi è questo matto?" fece al geometra "E che cosa vuole si può sapere?" "E’ un certo Bulgarelli, ingegnere, si è barricato dentro la stazione con un lume in mano e del petrolio, dice che ha delle richieste da fare e che se non viene ascoltato minaccia di dare fuoco a tutto", riferì esagerando non poco ma in quel momento la concitazione era tanta. "Uè Bulgarelli mi senti? Mi vedi? Sono il direttore dei lavori in persona, vedi di fare il bravo, quale l’è il problema? Cusa l’è che ci hai? Dillo a me che son qua per ascoltarti, avanti". "Zitti, zitti che non si sente". "Geometra, cusa l’è che ha detto?" fece ancora l’ingegnere "Io mica l’ho capito sapete". "Non ho capito bene neanch’io ma è una rivendicazione sindacale, vuole un aumento della paga di 100 lire la settimana, vuole la pausa pranzo di 45 minuti invece che di mezz’ora e poi il sabato vuole staccare alle 17 invece che alle 19, per lui e per tutti gli altri operai… dico bene Bulgarelli? Poi cosa vuoi? Come hai detto? Urla più forte ti pigliasse un colpo!". "Brutto carogna di un Bulgarelli", biascicava il direttore dei lavori mordendosi il labbro. "Poi dice vuole l’alloggio popolare, non vuole più dormire nella baracca di lamiera ma vuole la casa in muratura, vuole che vengano finite di costruire le case per gli operai della ferrovia quelle lungo il Bisenzio". "Mo brèv Bulgarelli!" fece un operaio anche lui di verso Bologna "Bravo! Hai capito il Bulgarelli!" fecero altri all’unisono "Non fare il bischero, fatti intendere" "Minghia che forte il Bulgarelli" "El Bulgarelli xè propio un duro" "Soccia che forza il Bulgarelli, mò adesso non dargliela mica su eh, mi raccomando, resisti!".

"Silenzio, silenzio, vacca boia, senti Bulgarelli, facciamo una roba" riattaccò il direttore dei lavori "adesso tu la mucchi lì eh? Fra una settimana ci sarà l’inaugurazione della stazione, lo sai no? Lo sai o no che verranno il re e il ministro dei lavori pubblici? Tu adesso non fai minga il pirla, non mi vorrai mica rovinare? Ascolta l’ingegnere che ti vuole bene come un fratello, senti cosa fa adesso l’ingegnere, ti firma un assegno con la paga della settimana anticipata e te lo lascia qui, poi si allontana, tu vieni fora con il lume a petrolio spento, ti cacci in tasca l’assegno e mentre io me ne vado voi riprendete i lavori e non è successo niente, tutto come prima, eh Bulgarelli? Che ne dici?". "Dice che non gli va bene, ingegnere, di assegni con la paga anticipata e aumentata di 100 lire ne vuole trenta e subito, per sé e gli altri operai sennò non esce". "Aaargh!" gridò l’ingegnere fuori di sé mentre si toglieva di testa il basco e lo addentava per la rabbia "Brutto carogna di un bolognese tu mi vuoi far licenziare, tu mi vuoi far passare dei guai a me ma io se non vieni giù fora subito ti stacco la testa sa?" e mentre lo diceva si avventava contro il portone e i vetri nuovi della stazione sputando il basco e cercando di addentare il catenaccio in preda a un attacco d’ira che lasciò tutti a bocca aperta fra il divertito e l’allibito. "Brigadiere aiuto, aiutatemi a staccare l’ingegnere dal catenaccio". "Ingegnere venite via, e voi fate largo, aiutatemi a caricare l’ingegnere in macchina, allontaniamolo altrimenti la situazione rischia di precipitare". I due appuntati crearono con le mani un corridoio fra la folla mentre il brigadiere e il geometra trascinavano di peso in macchina l’ingegnere che continuava a gridare "Datemi il Bulgarelli, datemi quel boia del Bulgarelli che lo voglio

impiccare, strangolare, ci taglio le bale a quel pirla del Bulgarelliii!". Poi non si sa esattamente come andò a finire perché i carabinieri con rispetto ma anche con fermezza allontanarono gli operai (che tuttavia il giorno dopo ripresero il lavoro regolarmente) e i curiosi con il consueto "Circolare! Non c’è niente da vedere, circolare!" e sul giornale non uscì nessun articolo e nessuna foto (anche perché la faccia del Bulgarelli il fotografo non riuscì a inquadrarla mai, negli scatti si vedevano solo i vetri del portale della stazione che riflettevano la luce del pomeriggio primaverile e le ombre della folla assiepata fuori, il caporedattore fece anche una lavata di capo al fotografo). Poi la stazione venne regolarmente inaugurata il 21 aprile del 1934, bella bianca splendente nella giornata assolata, con due fascioni littori ai lati delle porte grossi come alberi, c’era il re con la feluca e il pennacchio in testa accompagnato da autorità politiche con il fez e fuori dalla stazione c’erano i fiaccherai con il calesse a cavalli, bandiere e insegne attaccate ai pali, la fontana nuova bianca di marmo anche quella con lo zampillo nuovo di pacca e le piante alte quanto un ragazzo di quindici anni (non di più). Un cronista di quelli giovani, un po’ più curioso e intraprendente degli altri, nei primi anni sessanta interrogando coloro che al termine dei lavori della direttissima avevano ottenuto l’alloggio nella zona cosiddetta del Cantiere, fra il fiume Bisenzio e la ferrovia, riuscì a sapere che il Bulgarelli, una volta sganciati i catenacci e aperte le porte fu prelevato da due infermieri del neurodeliri e portato in ambulanza al manicomio di San Salvi a Firenze. Su quanto sia rimasto internato e quando dimesso o altro non è dato di sapere, la cartella clinica del Bulgarelli scomparve nel 1957 quando un direttore sanitario venuto a sapere del suo trasferimento ad un altro ospedale

psichiatrico si chiuse dentro l’archivio e minacciando di dare fuoco a tutto strappò alcuni fascicoli, se li mise in bocca, cercò di masticarli e ingoiarli, trattenuto a stento da un portantino. Quel giovane cronista volenteroso un giorno prese anche la Vespa e si recò dalle parti di Pian del Voglio (pare che il Bulgarelli fosse nativo di lì) a intervistare i compaesani per cercare di raccogliere qualche informazione utile all’articolo che intendeva scrivere, qualche notizia, uno straccio di testimonianza su chi era il Bulgarelli e dove fosse andato a finire. Tra quelli che ricordavano qualcosa, molto pochi per la verità (e ci volle un quarto d’ora buono di racconto dei fatti per far venire in mente il personaggio ai frequentatori del bar sport) ognuno disse la sua. Amarcord il Bulgarelli, era un socialista anarchico vicino alle idee di Andrea Costa, disse uno, no era proprio un anarchico aggiunse un altro, uno con la faccia tipica di quelli che aspetta che qualcuno dica la propria per intervenire e dire la sua, era un discepolo di Bakunin e forse anche un amante segreto di Carlo Cafiero. Ma non era quello che tutte le estati andava a raccogliere la frutta a San Giovanni in Persiceto? Va mo là, se è il Bulgarelli che dico io quello era pieno di soldi e il padre lo aveva cacciato di casa perché gli aveva finito i soldi andando a busone e per campare si era trovato un lavoro alla ferrovia. Ma cosa andate baccagliando – fa un altro – quello era un fassistone della prima ora che nel ’22 bastonò un prete e lo tirò fuori di galera il duze in persona e lo mise a lavorare imboscato fra gli operai della ferrovia per farlo sparire un po’ di circolazione! Mo quale anarchico, mo quale fassista? – prese la parola un altro ancora, uno che dicevano aveva fatto l’assessore al Comune per un partito di sinistra - quello era un sabadone

qualunque che oltretutto non era nemmeno originario di qua. "L’era un imbezél" taglio corto la padrona del bar mentre sparecchiava i bicchieri dai tavolini.

Il Nieri

“Fate benissimo a cercare di saperne di più sulla storia del Negro nella Balla. Non avete da fare niente dalla mattina alla sera? Fate benissimo. Non avessi da fare nulla neanch’io verrei con voi a cercarlo. Mi ci sveglierei anche alle sei. Sai come sarebbe bello alzarsi un’ora prima, all’alba, quando l’aria è pulita e ancora non c’è traffico, trovarsi tutti e quattro o cinque quanti siamo in pasticceria, un’occhiata alla gazzetta, un bel latte macchiato, due ciambelle e poi via con la jeep o il mercedes tutto il giorno alla ricerca del Negro nella Balla? Che meraviglia! Lo farei di mestiere, lo farei anche gratis. Però mi rimarrebbe sempre il dubbio se sto facendo la cosa giusta o sto perdendo tempo, oh non fatevi una brutta opinione di me come di quello scettico o di chi prende le cose troppo sul serio, ma almeno il beneficio del dubbio me lo farei venire. Mi sembrate quello che tempo fa venne da me e mi fa: O Nieri te che ci credi nel capitalismo e nel liberismo? Diavolo se ci credo, lavorando vent’anni come un matto mi sono comprato casa, non è capitalismo questo? E ho tutti i sabati pomeriggio liberi dal lavoro, dimmi se non è liberismo, figurati se non ci credo, dimmi di cosa hai bisogno. Di nulla ho bisogno, mi fa, da domani divento capitalista anch’io: voglio andare in banca a chiedere un prestito, buongiorno vorrei un prestito, volentieri quanto le serve? Mi bastano centocinquanta-duecentomila euro, certo che cosa ci può offrire in garanzia? Niente, gli rispondo, mi servono per diventare capitalista, se ero già capitalista non glieli venivo a chiedere, certamente ci sembra logico, mi risponderanno, e si potrebbe sapere eventualmente a che cosa le serviranno? Ad aprire una banca, ovvio, dal momento che sono capitalista o apro una banca o ne compro una già

aperta così duro anche meno fatica, mi sembra evidente, cosa dovrei fare con duecentomila euro? Aprire un’azienda per poi dover via via venire a chiedervi ancora soldi? Sarebbe liberismo questo? Anche ammettendo che voi la consideriate un debito, la cifra che mi concedete, sarebbe liberismo moltiplicare i debiti? oppure dovrei rischiarli? Per vederli finire magari in mani di anticapitalisti che operano per distruggere il libero mercato, di lobbisti, di usurai, di statalisti, di socialdemocratici, di sostenitori della nazionalizzazione delle banche mentre noi, io e lei, nel liberismo e nel capitalismo ci crediamo entrambi? Ancora peggio. Mettiamoci in società, fatemi diventare banchiere anche me, facciamoci concorrenza e nello stesso tempo estendiamo la rete dei servizi bancari, estendiamo il mercato, come il sano capitalismo liberista sostiene! Prestiamoci a vicenda i soldi e diventiamo tutti correntisti di tutti nelle valute più diverse e in un flusso continuo e inarrestabile di denaro poco costoso in un immane, solenne, religioso, comunismo bancario. Ma è possibile che le teorie più avanzate agli economisti gliele debba sempre pensare io? Dico bene Nieri? Dici benissimo, hai appena inaugurato la new age finanziaria, più che un’economia di scambio hai gettato le basi di un’orgia monetaria dove oltretutto non c’è bisogno di nessuna precauzione perchè fino a che tutto scorre non c’è rischio, il male tanto si sa, da qualche parte c’è, l’importante è che giri, il problema è quando si ferma. Dici benissimo. Voi con questa cosa del Negro nella Balla mi sembrate uguali. Ma perlomeno visto che siete sicuri c’è stato e vi siete convinti di volerlo rintracciare io vi domando a cosa vi serve? Che cosa ve ne fate se lo ritrovate?

Fatemi capire: pensate che qualcuno abbia bisogno, oggi, qui, a Prato, in Italia ...perchè Prato è Italia, non dategli retta agli scrittori che scrivono il contrario perchè gli scrittori sono corrotti, e parecchi di questi scrittori prima erano giornalisti disposti a scrivere qualsiasi cosa e per chiunque e per diventare giornalisti si sono fatti quasi tutti raccomandare e prima di farsi raccomandare per diventare giornalisti avevano la tessera di qualche partito o portavano la borsa di qualche politico e prima ancora si sono fatti raccomandare per avere un sessanta alle superiori, per non dire delle raccomandazioni che sono andati in giro a chiedere per nascere perchè quelli che oggi sarebbero bravi scrittori e giornalisti corretti non è che non hanno avuto la possibilità di diventarlo, non ci sono perchè non hanno avuto proprio la raccomandazione per nascere. Non date retta a chi vi dice ma Prato non è qui non è là, noi siamo diversi, noi siamo così e non siamo cosà, quelli sono capaci di dirlo di voi e di qualsiasi altra città, Prato è in Italia, è in Italia fino al collo, ve lo dice il Nieri. Ma non ve ne accorgete che il Negro nella Balla in un posto come questo, oggi, qui in Italia, per com’è stata una volta e per com’è ora non ci starebbe mai, non ci starebbe neanche un attimo? Ma non vi guardate mai intorno per rendervi conto cosa siamo diventati? Non c’è più distanza fra niente, c’è solo tempo per andare da un posto a un altro, le distanze sono sparite, ci vuole solo del tempo per continuare a percorrerle. Ma il triplo del tempo che ci voleva prima, il quadruplo, ci vuole, ora. E allora? Tanto più che in certi momenti, in certi giorni della settimana, le devi percorrere stando fermo o meglio non le percorri più perchè sei fermo in una fila, in una colonna di macchine dove le famiglie entrano per stare insieme quelle due o tre ore che ti separano fra la solitudine a casa e la solitudine in un altro posto non lontano ma fuori di casa dove non vedi l’ora di tornarci, a casa.

Hanno cementato tutto, ma non lo vedete? Siamo diventati un’enorme Miami dove tutto è, lontano o vicino, non fa differenza, in fila: case, negozi, capannoni, cantieri, cocktail bar, spiaggia, mobilifici, ospedale, ancora case, villette, palazzi, cimitero, il contadino, ancora cantieri, case sfitte, capannoni vuoti, il mare, un giardino, una campagna, ancora case. Tutto in fila. Senza divertimento. Magari fosse Miami. Siamo diventati una Miami sfigata dove i cacciatori vanno a prendere cinghiali extracomunitari ai quali viene offerto vitto e alloggio per ripopolare e farsi sparare in campagne ormai asfittiche una volta considerate di lusso perchè nel frattempo è sparito tutto e poi si sparano fra di sè perchè ormai non c’è più distanza fra niente, sparano addosso alle case perchè ci sono case dappertutto, sparano ai carpentieri che lavorano alla costruzione di un inceneritore che si mangia un altro pezzo di campagna perchè ormai ci sono cantieri, muratori, carpentieri e inceneritori dappertutto. Tutti hanno la tosse, sempre, estate e inverno. Perchè escono e rientrano da auto parcheggiate a due metri dalle loro abitazioni, dai bar, dai campi di calcetto sintetici dai quali se ne vanno sgassando un pò di piombo su altri carciofi arrivati dopo che a loro volta faranno lo stesso per poi andare a smaltire l’inutile mal di gambe procurato da uno sforzo violento e fasullo su tavoli dove si consuma cibo spazzatura e poi in letti appoggiati a pareti di pochi centimetri di spessore, dall’altra parte delle quali riposa un malato, una coppia, uno sconosciuto, o un altro che era avversario nella stessa partita oppure si è andato a procurare lo stesso mal di gambe ma su un altro campo di calcetto di prima generazione (quella cancerogena), tutti, indistintamente, affacciati nei loro cubi di scarsa consistenza e materiale scadente su parcheggi condominiali dove le macchine non smettono mai di scivolare in ogni ora del giorno e della notte.

Ci accontentiamo di un benessere misero scambiato per felicità solo perchè è comodo e a basso costo. Locali dai muri stuccati pastello, albicocca o crema, lisci, perfettamente spianati, senza asperità, perchè anche il muro in stile, a mattoni o rustico ha fatto il suo tempo, la minima ruvidità, l’attrito, è di disturbo. Locali in cui, il giovedì o il venerdì (perchè il sabato è bello stare in famiglia a sbocconcellare la torta della nonna) la gente si autoinfligge sbronze replicanti altre diecimila sbronze precedenti e già preventivate dal lunedì mattina per poi uscire fuori dai locali piangendo e imprecando “nessuno mi vuole bene, sono un disgraziato, mi ammazzo” ma per finta, autointrospezione uguale a zero. Muri stuccati che altrimenti non si intonerebbero con aperitivi composti da associazioni impossibili di liquori di qualità scadente, che solo per il fatto di avere colori scioccanti e gusti dissonanti devono avere per forza un luogo di origine tanto siamo abituati a collocare il bizzarro, il freak, l’assurdo e persino l’inesistente in un posto lontano ma possibile (e perchè no? con pochi euro in più replicabile ovunque e pure meglio dell’originale). Disgustosi ma serviti in enormi bicchieri che danno l’impressione di essere eleganti solo per il fatto di essere rappresentazioni megalitiche di bicchieri, così come le macchine, con cui non ci si sposta (cosa ti vuoi spostare ormai che tutti i posti sono uguali?) si trasferisce e irrimediabilmente si impone altrove la propria presenza, sono parodie di carrarmati, di carrozze, di sottomarini, di balene, di mongolfiere, di navicelle intergalattiche con le quali muoviamo esecrate obesità e venerate magrezze alla ricerca di una sempre diversa supernova dove possibilmente ci sia un pò meno casino dell’altra o di più, dipende quanto non abbiamo voglia di parlare e di ascoltare. Divani bianchi nei dehors dei locali foderati di pellicole trasparenti e riscaldati da funghi che ambirebbero a

rendere il primo strato dell’atmosfera un posto eternamente mite come il parco di Galceti a maggio sono eleganti e ridicoli come un elefante in stivali bianchi che canta Dusty Springfield truccato da drag queen. Poi a casa, in case sempre più piccole, sempre più vicine le une alle altre non sia mai dovesse calare una nuova glaciazione dalla quale ci salveremo solo alitandoci addosso reciprocamente e offrendo con un sorriso alla vicina la borsa dell’acqua calda, case in cui, toh che caso, abbiamo tutti gli stessi piatti, lo stesso lampadario, la stessa candela mangiafumo, lo stesso tappeto dei locali (di uno dei locali, perchè sono tutti uguali, gli arredamenti sono cinque o sei ma sono standard, ma a noi ci piace lasciare una traccia dell’immenso affetto di cui siamo capaci da qualche parte in particolare e pertanto ne investiamo uno della sacralità di luogo del cuore), cose che, sarà la furba disposizione delle luci, sarà il vetro plastificato di bicchieri che guardandoci attraverso modifica la prospettiva e la dimensione delle cose, sono tutte uguali, fatte tutte nello stesso posto e importate dalla stesa ditta scritta nell’etichetta in fondo sotto made in china. Compreso il buddha in scarto radioattivo spacciato per giada birmana che ammicca benevolo e a nessuno nega una benedizione fra i cd di Ligabue e la cassetta del gatto. Il lavoro? Boh, un giorno si un altro no che tanto il piumone che abbandoniamo la mattina ci riscalda tutti nello stesso modo, a noi come in Finlandia, in Galizia o nel Connecticut e nel quale, la sera, dopo un menù da 3,90 cassa integrazione sulla tangenziale, non sappiamo se troveremo affetto o solitudine ma di sicuro le nostre rassicuranti puzze, quelle si, perchè in casa le finestre si aprono poco che gli orari del riscaldamento centralizzato sono più rigidi della temperatura fuori. Basta mi fermo qui perchè mi viene da vomitare, e non posso neanche vomitare perchè ho parecchio da fare.

Date retta al Nieri, il Negro nella Balla non lo cercate, tanto da qui riscapperebbe. Poi fate come vi pare tanto a voattri pratesi non c’è mai verso dirvi niente”.

Firenze se fosse

Firenze è come un romanzo, per me lo è stato. E come un romanzo è il retro di copertina a farlo, più che il contenuto. Quelle due o dieci righe non sono uno spot, il riassunto, la presentazione, la sintesi, sono di più, sono l’essenza stessa del romanzo, il significato, l’intrinseco, il concettuale quando il romanzo non è che significante, l’esterno, il formale.

Una questione di qualità, o una formalità, non ricordo più bene, una formalità

Talvolta sono l’essenziale, altro da leggere oltre a quella o quelle poche righe, non c’è. Altre volte sono qualcosa di diverso e persino di più dell’essenziale, sono l’indispensabile, sono la definizione estetica. Non succede mai che chi scrive il romanzo scriva anche quelle righe di presentazione o di critica. Se succede rientra nella categoria dei geni, dei geni dispettosi oltretutto.

Io ero un genio senza essere dispettoso.

Il critico sta all’opera d’arte come i tifosi allo stadio, anzi no, molto di più, come gli spettatori al cinema, se l’opera non ha il critico non è neanche un’opera. E’ un manufatto, un accessorio, una decorazione, una presenza sospesa, un elemento dadaista, un personaggio in cerca d’autore. E’ il critico che la prende, la definisce, se la rigira fra le mani l’opera non ancora d’arte, la lancia, ne osserva l’effetto

e la scia luminosa, illude, gioca di prestigio, gigioneggia, la palleggia.

Io ero tifoso, spettatore, critico. Sono stato palleggiatore, prestigiatore, rifinitore.

Chi pensa che Firenze sia i suoi palazzi, i suoi lungarni, le sue discoteche alle Cascine, pensa di essere stato a Firenze ma in realtà se c’è stato, c’è stato da straniero. Firenze è sempre stata lì con le sue strade, le sue vetrine, le sue fiaschetterie, i night, il suo teatrino di personaggi caratteristici colorati, sempre quelli, marionette, stenterelli. Qualcuno doveva prenderla in mano, soffiargli via la polvere, annaffiare le strade, caricare le molle di quei pupazzi. Io ho soffiato via quella polvere, annaffiato quelle strade, dato la vita a quei burattini scarichi, fermi, stanchi. Sono stato il Pneuma (πνεύμα, per chi ha fatto il classico) di una Firenze che non c’è più. E se la polvere non fosse stata soffiata chi avrebbe mai scoperto la Casa del Popolo di Settignano per farla diventare la Rokkoteca Brighton? Sarebbe rimasta lì selvatica, bella e inutile come l’America. La Rokkoteca fino al 1980 era uno stanzone un po’ squallido buono per il gioco delle carte e di qualche ballo liscio il fine settimana, una cantina come tante, povera di musica, vuota di colori, metri cubici conquistati dal socialismo reale al capitalismo “alla buona”. Ci portai a suonare i Diaframma appena nati, Miro, Gianni, Leandro, Nicola, il Fiumani con le sue schitarrate potenti, di cane randagio non più rabbioso, mi dicevano Sono i Cure, sono i Joy Division, No ragazzi, questi sono di qui, sono roba mia, nostra. E la gente quello stanzone cominciò a riempirlo il venerdì sera mentre le ultime lagne del punk in disfacimento

morivano per rinascere in forme diverse dalle proprie ceneri sulla cresta spumosa, un po’ gelida un po’ ruffiana della New Wave, i suoi sint analogici, gli arrangiamenti con i bassi che penetravano nei polmoni e accarezzavano il cervello, quei magici finali con il sax ruffiano che dava un senso di notturno. Arrivavano anche presto, volevano sentire altri gruppi prima, raggiungere il climax un po’ per volta, e allora gli detti di tutto a quelli della Rokkoteca: gruppi di liceali “Guai a te se torni dopo mezzanotte e mezzo!” che picchiavano come forsennati sui tamburi della Ddrumm, smanettavano i bassi e gracchiavano nei microfoni che ogni tanto lanciavano un fischio lancinante, gruppi di metallari di periferia, li portavo io da Prato con la Citroen CX, manici di chitarre fuori dai finestrini e corde che saltavano facendo Zing!, altri gruppi di simpatici disperati vestiti di stracci colorati e cappotti di lana che facevano il verso ai Pistols, ai Doobie Brothers, ai Pink Floyd, a Marley, ai Saxon, agli Smiths, agli Electric Light Orchestra. Se non si fosse data una spolverata a Firenze non ci sarebbe stato il Tenax, che prima dell’inverno 1981 era un arnese semiabusivo costruito fuori dalla Casa del Popolo di Peretola, anche quello una sala da ballo che avevano chiamato il Chittitoccò, una roba da checche di periferia. Poi ci portai a suonare i Cafè Caracas che erano Ghigo alla chitarra, Renzo alla batteria e Raf voce e basso: la risposta fiorentina ai Police me li chiamarono. Poi il Lanco, grande bassista, grande voce, il momento clou delle sue esibizioni era la coda strumentale al pezzo, quando correva dall’uno all’altro dei suoi tre musicisti incitandoli estasiato della loro performance. Il fatto che non esistessero, che fossero immaginari, era il tocco in più di intensità. Da qui Firenze, che era un paesone e basta, molto provinciale, smise di essere la scenografia perfetta di Amici

Miei e diventò una città con un capo e una coda, europea quanto bastava senza mai sbracarsi e diventare metropoli, senza mai diventare troppo internazionale. Prese, per dirla nel modo con cui facevo arrabbiare i fiorentini e facevo divertire i pratesi, l’aspetto di sobborgo artistico di una città moderna e proiettata verso il futuro come Prato. Grande, grande Firenze di quegli anni, piena di tettone, di darkettone, di punkinare, belle, cento anni avanti alle pratesi, volti bianchi, occhi truccati pesanti, alle dieci di sera ancora si trascinavano le gambe ma all’una di notte erano a mille, e così avanti fino alle cinque di mattina e poi ancora dopo, alle sette del mattino erano stupende con il trucco sfatto, il rossetto sbavato sui denti bianchissimi, i capelli colorati da pazze. Qualcuna era impiegata, qualcuna era studentessa, qualcuna disoccupata, qualcuna non faceva nulla o per scelta o per possibilità, ma tutte il giovedì, il venerdì, qualche volta il sabato, erano allo stesso modo in tiro, suppergiù alla solita ora in parti diverse della città, in Via degli Alfani come a Novoli, in un condominio di Viale Gran Bretagna come in una vecchia casa con i muri anneriti di Via dei Serragli, nessuna sorprendentemente uguale a nessun’altra, c’era sempre un particolare, una ricercatezza, una raffinatezza del tutto personale che le contraddistingueva. Ragazze meravigliose che se la tiravano alla grande, quasi più delle pratesi (quasi), ma con l’intelligenza di arrivare fino a un certo punto. Poi si sdavano, con le bocche impastate di fumo e di alcool, persino le parolacce sembravano musica, la musica dei gruppi che portavo in giro, qualcuna ad un certo punto spariva per i fatti suoi, qualcuna tirava mattina come un treno, qualcuna ti veniva vicino e ti si strusciava come nessuna pratese sapeva fare, ti portava via con una

macchina ghiaccia con i vetri appannati, ti regalavano una parte di loro, solo una parte, su scale di pietra serena di palazzi antichi del centro storico, buie, le calze strappate, gli anfibi sporchi, mezzi slacciati. L’altra parte la tenevano per loro, o forse la davano il giorno dopo a qualche professionista con lo studio in un attico, il loro fidanzato ufficiale, o forse mi piace pensare che la parte più profonda non l’hanno mai data veramente a nessuno. Profondamente sguaiate, profondamente pudiche e riservate, profondamente fiorentine. Una meraviglia. “Sed modo senectus morbus est carmen vitae immoderata hic est” mi disse una mentre mi accartocciavo su di lei sulle enormi scale del suo palazzo una notte di giugno. Non ho mai capito cosa volesse dire ma il giorno dopo lo scrissi a pennarello sul parafango della Vespa. “Firenze è una città dove la vita è sperimentata” scrisse qualcuno sicuramente non fiorentino, “mentre a Prato è praticata”, aggiunsi io che fiorentino non ero né lo sono mai stato. Definizioni per una città che non aveva voglia di definirsi, era stanca di avere etichette e di conseguenza non poteva e non voleva più definire, etichettare, collocare chi gli stava accanto.

L’impressione di nostalgia che si può cogliere è semplicemente nell’aria, è un senso di paura al quale siamo abituati.

Architettura, moda, fotografia, arti grafiche e la prima videoarte, performance, scrittura, graffiti primitivi, installazioni, radiofonia e libero broadcasting, questa era la Firenze del Tenax che faticava ad autodefinirsi ma sapeva vendersi molto bene.

Fitting maximum waste into diminuishing spaces

Troppo centrale e al tempo stesso troppo periferica per essere del popolino, tutta un’altra cosa rispetto alla Firenze del mercato centrale, delle botteghe artigiane, della schiacciata e della ribollita, delle urla fra i banchi di San Lorenzo e di Via dell’Ariento, dei negozi di souvenir per turisti o di quelli di passaggio che pensavano fosse tutta lì, tra affreschi, monumenti e i negozi di Via della Vigna Nuova. Quella era una Firenze notturna, esclusiva, che dalle vetrine e dai lungarni ci passava solo la mattina presto, dopo aver fatto un salto al Plegine in Santa Maria Novella, al Discipline (che era il Banana Moon dopo aver cambiato nome ed essere diventato “duro e dark”), al Lo Feodo in Borgo Pinti, alla Buccia al Nuovo Pignone o allo Space per un bombolone e un cappuccino prima di andare a letto. Anche quello del Banana Moon in Borgo Albizi era un altro mondo, un pò freak e molto gay, di artisti senza prospettive e di travestiti con un grande futuro dietro le spalle, di baffi e di camperos, di capelli pettinati e occhiali con la montatura di tartaruga. Un’aria vivace e ammiccante, scoglionata ma profondamente ambiziosa e arrivista. Davvero niente a che fare con l’immagine classica di Firenze. Un affare episodico e estemporaneo. Nostalgia del futuro. “Ti ci senti al posto giusto al momento giusto” disse (o scrisse) sempre quel qualcuno non fiorentino, che ha lasciato qualche riga sul retro di copertina di quella Firenze. Scritta rossa su etichetta nera di bottiglia di Chianti. La Firenze antagonista, venne scritto, o detto, quella di una generazione che ha appreso la lezione: il segreto è stare dalla parte della domanda e non della risposta.

Un’ intuizione che non era scritta sul retro di nessun romanzo.

I personaggi che celebra – i perdenti, i romantici, gli outsider sfigati – non sono più esterni, sono diventati lui stesso.

Firenze, città autoreferenziale e autocentrata, più volte dagli altoparlanti della stazione ho sentito annunciare: il treno proveniente da Firenze Santa Maria Novella e diretto a Firenze Santa Maria Novella…”. La città autistica la definii una volta. Ma nessuno a Firenze mi prese in considerazione. Eppure organizzavo tutto io in quel periodo, partecipavo a tutto e di tutto scrivevo, sulle riviste, sui quotidiani brevi articoli di cronaca mondana, recensioni per Rockerilla e Mucchio Selvaggio, qualche volta anche per Melody Maker di cui all’epoca era editore Mike Oldfield quando nel 1980 vennero in tour in Italia i Pretenders e i Police, scrissi un articolo sui New Order che una sera suonarono in pantaloni corti e sandali con gli occhi (memorabile), poi comunicati stampa, di tutto insomma, disegnavo manifesti e correvo in tipografia a ritirarli e poi distribuirli in giro, mi occupavo dei biglietti per le serate e i concerti, la Siae, un lavoro frenetico di testa, di gambe e di Vespa, dalle 11 del mattino fino a notte fonda, la scintillante notte fiorentina. Vendevo anche i preziosi vinili della Gnegno Records. Ero sempre il primo ad alzarmi, il primo ad arrivare nei posti, accendere le luci, l’ultimo ad andarsene, a spengerle, quando tutti, che fossero gli Inti Illimani, che fosse Nick Cave, se n’erano andati. Tutto questo per anni, sette giorni (e sette notti) su sette: exploited, but happy. Ero fatto di lavoro, di impegni, di appuntamenti, di responsabilità, di luci, suoni, colori, immagini, piume,

travestimenti, paillettes, gilet damascati, pantaloni di pelle, magliette della Fila, stivali di cuoio, vitamine abarth, anfetamine, cosine buone dal mondo, “sorelle fendi”, di “s’il vous plaite”,di tutto. Poi una sera sopra una pizza margherita senza neanche la birra ma una Coca Cola alla spina la spina si staccò davvero e arrivò il black-out. Per me si spensero le luci e per lungo tempo non seppi nulla di nessuno, a nessuno volli far sapere di me. Il tramonto degli anni ’80 fu anche il mio tramonto, la fine più prevedibile di un sogno di carta, bruciarsi, la fine più stupida di ogni stupida rock star da usare e gettare.

I said send me a sign to save my life ‘cause at this moment in time there’s nothing certain in These days of mine

Su quello che è avvenuto dopo ho riflettuto a lungo come non avevo mai fatto prima, ma senza giungere a nulla di preciso. Sono avvenuti dei fatti un po’ dolorosi. Non gravi, per carità, le cose brutte e gravi della vita sono altre e del resto bene o male si sono superati anche quelli. Ma mi fecero cambiare, anzi, ci fecero cambiare. Ci fecero cambiare il modo di vestire, ci levammo quasi tutti gli anfibi per delle scarpe di cuoio qualcuno con le stringhe qualcuno chiuse o intrecciate sopra, più a serio. Si videro scarpe marroni, anonime, di chi avrebbe avuto qualcosa da dire ma era meglio se non parlava. Chi aveva la sfumatura alta si fece allungare un po’ i capelli sul collo non così tanto da pettinarli ma anche quelli più a serio. Chi li aveva lunghi cominciò a pettinarli all’indietro, poi a raccoglierli in una coda ma per fortuna durò poco, pochissimo. Meglio per lui.

Le basette sparirono, scorciate di 3-4 centimetri, tanto da confondersi con i capelli, un po’ pelose, mozzate, brutte, inguardabili per noi che ne avevamo sempre curato religiosamente la forma. Si cominciarono a vedere degli orribili pizzetti, baffo e mutanda. Di pantaloni rimasero negli armadi quelli più recenti (quelli più vecchi vennero dati ai poveri e ai terremotati della Macedonia dalla zia del Bettazzi che un pomeriggio fece il giro delle case quando noi non c’eravamo a raccogliere un po’ di roba per la Croce Rossa), quelli a vita alta e con i fianchi ampi, Levis 501 o altri modelli di tela qualcuno di velluto a costine strette che vederceli addosso l’uno a l’altro ci fece riflettere, ma da soli, in privato. Qualcuno finì gli esami all’università, qualcuno si fidanzò o sposò e ritornò di casa da un’altra parte, qualcuno prese la macchina più grossa e a Firenze di sera ci tornava per conto suo ma frequentando altri giri e altri posti, si seppe proprio quei giri e posti che anni prima si sarebbe detto: Nooo, o gnamo ! Ci si mise anche di mezzo la sfortuna, e forse la solita delinquenza veramente da quattro soldi perché a G. (mi ha pregato di non fare il nome) durante un trasloco sparì una scatola di cartone enorme in cui aveva riposto musicassette con le nostre voci, remix, bootlegs e poi fanzine, locandine, biglietti di concerti e un 33 giri dei PIL firmato da John Lydon in persona che, si raccontava, di passaggio a Firenze per un concerto, erano tutti insieme il tempo di girarsi era sparito in albergo per una notte bravona con la sorella del Cerretani. E’ rimasto poco se non qualche ricordo bruciacchiato. Le cose si sono evolute? Non c’è dubbio. Si sono deteriorate? Assolutamente si.

Sono cambiate un’altra volta le forme lasciando inalterato il contenuto? Ho pensato anche che fosse così ma non ne sono convinto.

“Struggle after struggle – year after year The atmosphere’s a fine blend of ice I’m almost stone cold dead In a town called Malice”

Un giorno, tempo fa, passai da Bruno che sapevo era rimasto alla grande nel giro della musica e degli eventi, mi face salire su in ufficio, baci e abbracci, bisogna sentirsi, bisogna rivederci, allora dimmi un po’ di te e di quegli altri, senti anzi, dimmi un po’ che vorresti fare però lasciami un curricula perché ora io sono a posto, non ho bisogno di nessuno, ho un paio di ragazzi a farmi da stagisti e per il momento sono coperto casomai risentiamoci più in qua. Era finita, mi ero perduto alcuni passaggi ed ero rimasto solo io a credere che non lo fosse. Io, le due righe sul retro di copertina di un romanzo.

Pratilia lo shopping center (dov’era più bello spendere)

Il futuro era una Ritmo celeste quando cominciarono a tirare su il cubo marrone lungo la vecchia Firenze-Mare accanto alla pineta del Banci. Ci girarono anche una scena di Berlinguer ti voglio bene, quattro geniali pigliapolli di periferia alle prese con Dio e il comunismo. Appena finito il cubo cominciò a riempirsi di negozi di tutti i generi, dai dischi agli acquari, dai tappeti persiani al modellismo alla polenta fritta alla riparazione di tacchi alla duplicazioni delle chiavi, fino al supermercato, che in Italia era una scoperta di una decina di anni prima o poco più. Una meraviglia, di sintesi, un’esplosione di luci e colori. Il mondo fino ad allora era stato in bianco e nero, da quel giorno in cui inaugurarono Pratilia tutto il nero finì in quel tappeto di linoleum che asciugava le scarpe bagnate di pioggia, attutiva i rumori, accompagnava lungo le vetrine come un’immobile scala mobile orizzontale, rimandando verso l’alto effluvi di petrolio ben trattato che quando il petrolio lo tratti bene ti sa dare soddisfazioni come pochi altri. Racchiuso tutto il nero in una superficie, del mondo che era stato fino allora rimase solo il bianco per la soddisfazione di chi voleva comprare o solo fare finta, in realtà lasciarsi coccolare dalle luci, dagli sguardi, da un altro centro, poco storico e molto moderno invece, alla faccia di quelle strade del vecchio centro, quello definito storico, ossia strade pavimentate male, viuzze sempre le stesse, monumenti affaticati di cui non fregava più nulla a nessuno, negozi vecchi, chiassini puzzolenti di fogna, di piscio e di umanità anziana e malaticcia.

Un altro centro, finalmente, attrattivo di una gravità che era facile pronosticare permanente perchè già un cantante di avanguardia ne parlava nel testo di una canzone. Alla discoteca prima Joy Joy poi Pacha nascevano amori che vivevano la loro apoteosi nella pineta vicina, che qualche volta proseguivano sulle spiagge della Versilia e più spesso finivano il sabato dopo tra un 33 giri nuovo e le dita sporche di maionese di una patatina fritta. Amori così, amori di ketchup e di linoleum. Andò avanti in questo modo per una decina d’anni, poi qualche negozio cominciò a chiudere: per trasferirsi dicevano, ma qualcuno non ci credette, e difatti qualche negozio non riaprì. Era il declino. Era finita ma non ce ne volevamo accorgere. Qualcuno aveva messo un sassolino nel nostro macchinario perfetto, ma terribilmente fragile come tutti gli esseri perfetti. La perfezione non può avere figli? Meglio. Che ce ne fregava a noi concettuali delle afflizioni di una Sylvia Plath? Altre Pratilie non ne vogliamo, ci basta questa. Una sera di una primavera fine anni ‘80 in cui si festeggiava una (non) promozione del Prato c’erano luci e aperitivi, i gamberetti in salsa rosa sulla terrazza della piscina ma sotto, in the cube, era quasi tutto spento. I grandi corridoi marroni e quasi bui erano già la cantina dove erano finita la nostra adolescenza, i nostri quindici anni spensierati e disperati. La cosa peggiore non fu la fine immediata, la festa di addio, la sbronza presa per non pensare e il giro di chiave conclusivo, ma la lenta agonia. L'enorme brick viveva ancora amputato di tre dei suoi quattro enormi arti la sera su lato della discoteca, che ancora per un pò si popolò, e poi negli anni successivi all’assassinio del Pacha continuò a affollarsi, la notte, ma di un’umanità diversa, fetente, complice silenziosa ed essa

stessa colpevole di quel mostro assassino malvivente che imputridiva cibandosi golosamente e in modo ripugnante dei resti dei nostri sogni infranti. Sul lato di qua invece il cubo cominciava a scrostarsi ma sopportava ancora tutto nell’illusione di rilanciarsi e tornare a illuminarsi di nuovo e a vivere la favola degli ottanta che erano declinati in un floscio cartone di illusioni perdute e di musica imperdibile. Sopravviveva, perchè di vita non si poteva più parlare, nell’illusione di far nascere ancora un amore e di vedersi corteggiato da un’ultima coda di lattine colorate sgranate dalla bocca del casello Prato go west. Per abbattere una volta per tutte quel simulacro di felicità effimera hanno atteso anni, lo hanno lasciato morire di stenti come un animale sacro in un fetido canile per poi una volta indebolito e tolta via la dignità, stuprarlo nella luce violenta e falsa di un mattino d’agosto, calcolando la sua fine in un momento di nostra estrema debolezza, dopo averci caricato di paure, meditando la nostra incapacità di reagire. Chi ha mosso quella palla di ferro oscillante manovrata da un braccio meccanico non poteva non sapere, a meno che non venisse da fuori, ma sono sicuro che non venisse da fuori, ci conosceva, ci aveva visti felici e si voleva vendicare, ce l’aveva con noi. Io, personalmente, oggi preparo la mia di vendetta, in silenzio, fredda, com'è giusto che ci si cibi delle vendette, spietata, perchè cagherò nel sottoscala di quel palazzo che ci costruiranno sopra, un’altra chiesa senza religione né fedeli, un altro municipio per una folla che non ha più cittadinanza, un cubo questa volta ontologicamente privato di senso, già malato dentro di inutilità e con un’eredità troppo pesante per le sue deboli spalle considerati i materiali scadenti che usano oggi per fabbricare e che ai

lavori stavolta quei quattro pigliapolli di Vergaio non parteciperanno. Poi tornato a casa soddisfatto della mia impresa metterò su I just called to say i love you che, questo ve lo posso garantire perché me l’hanno detto a New York, Stevie Wonder scrisse appositamente per l’inaugurazione del primo shopping center del vecchio continente; poi non potè venire a cantarla di persona per non so quali altri impegni ma se ci ripensate bene doveva essere vero per forza perchè quando quella canzone lì suonava nei corridoi di Pratilia vi ricordate? vibrava tutto.

Io Giulia e Daniele

Era una mattina di settembre di quelle che da un’altra parte del mondo si sarebbe potuto dire: è limpida. Ma non lo era, perchè a Prato il cielo non era mai perfettamente limpido tranne qualche ora la sera tardi o la mattina molto presto, aveva sempre una pulviscolo di cencio, un sapore di peluria, un odore di telaio unto e c’era sempre qualcosa di sporco nell’aria per cui ogni ringhiera imbrattava le mani e le allegava e lo potevi sentire quando sfregavi i polpastrelli l’uno contro l’altro e ti pareva di aver toccato i ferri di un caminetto, oppure la stessa sensazione di quando da piccino a scuola ti rimaneva nelle mani il nero e il legno della matita che appuntavi, e quella che c’era nell’aria era una polvere che così come sporcava i finestrini delle macchine, imbiancava i mobili in salotto, nello stesso modo in cui appannava i vetri delle finestre di casa, faceva sembrare vecchia la carrozzeria della macchina anche dopo tre giorni che l’avevi comprata. A me a forza di smanettare il gas e di staccare la frizione a metà, mai fino in fondo come invece mi aveva consigliato sapientemente il concessionario, la Vespa s’era fermata e uno davanti a casa mi aveva detto Te la riparo io perché questo Tommaso si vantava di sapere mettere le mani su ogni tipo di motorino, dal 48 cc fino alla Zundapp di uno che aveva grippato scendendo giù da Baragazza e - raccontavano - s’era fatto tutta la 325 in folle rizzandosi ogni tanto sui pedali per alleggerire il peso sulla moto e non perdere velocità e rischiando di fermare la spinta solo fra Usella e Vaiano, all’altezza della villa del Magnolfi. Nessun altro meglio di lui, diceva di sè stesso, sapeva truccare i motorini, compreso quel fenomeno della Pietà, il Musta o Mustang non ho mai saputo di preciso come lo chiamassero, perché da Tommaso arrivavi vergine con la padella di ordinanza sotto come scarico del motore e ne

uscivi uomo, sverginato dei fermini e con l’espansione liberata che tradotto in numeri erano quegli 8-10 km orari in più (a secondo dell’olio che ci mettevi) e quelle sei- settemila mila lire in più di benzina la settimana da cacciare. Tommaso invece era soprannominato il Pagano, anche lui non so per quale motivo ma mi immaginavo che fosse legato al nome di battesimo che portava, quello del discepolo incredulo. Doveva essere un soprannome per forza quello di "pagano" perchè se fosse stato pagano ossia non cristiano per davvero non sarebbe stato nemmeno battezzato e difficilmente poteva portare il nome di un santo, e comunque io oltre ad avere pudore di indagare sulla religiosità di un sedicente meccanico di motorini in ogni caso il massimo livello di paganesimo che riuscivo a concepire era rimanere fuori dalla messa la domenica mattina a fumare di nascosto con altri pagani invece che entrare. Il pagano aveva una faccia tirata come il rivestimento di una poltrona, tenuta da delle graffette ai quattro angoli e con un paio di pieghe nel mezzo intorno a dei falsi bottoni da schienale, sembrava Chet Baker uscito dal Caprice la mattina alle sei e diceva che le sue marmitte rendevano di più perchè erano di fabbricazione straniera, non avevano il bollino del ministero dei trasporti e le andavano a prendere personalmente lui e suo amico di notte, quando le marmitte sbarcavano a Grosseto, senza specificare se a Marina o all’Argentario, e ci andavano una volta in macchina una volta in motore e quando arrivavano alla colonna di Montarrenti dalle parti di Siena (non facevano la superstrada per dare meno nell’occhio) siccome c’era spesso una macchina dei Carabinieri ferma di pattuglia copriva la targa annodandoci sopra una sciarpa della Fiorentina. Poi però altri ragazzi più grandi di me gli avevano portato i loro motori da mettere a punto per una gara di cross la

domenica dopo e la mia Vespa era finita sotto un Cagiva Aletta e un Ktm le cui manopole di spugna erano più alte di mezzo metro del manubrio della mia Vespa che infatti era sparita dietro ai giganti della strada e parevano le braccia di una gru sospesa su una costruzione ancora da cominciare, insomma una settimana consecutiva di Ripassa, te lo finisco domani. E allora per andare a scuola avevo deciso di prendere l’autobus, che tanto la mattina si stava bene e alzarmi mezz’ora prima non mi faceva fatica. Così avevo il tempo di scegliermi la camicia fra le quindici o sedici a quadretti tutte uguali comprate dal Logli, la cintura da abbinare ai jeans e quando ne avevo voglia i calzini adatti alle scarpe, ma non sempre perchè la regola era che il calzino si metteva a novembre e si levava il 12 marzo che se cadeva di sabato o domenica prevedeva il primo bagno in mare, in caso di maltempo bastava infilarci con le gambe. Mentre in casa tutti dormivano e si sentivano appena i primi movimenti dei corpi sulle reti e qualche respiro più frequente degli altri che preannunciava un risveglio ancora da venire io mi pettinavo con la radio del bagno accesa appoggiata sul termosifone e con la porta chiusa senza chiave e mi davo il gel dalle parti, sopra le orecchie, schiacciando con le mani i capelli che sulle tempie mi si gonfiavano sempre ma quelli senza passarci il pettine sopra che le righe per orizzontale tipo onda non le tolleravo. Poi uscivo, all’ora in cui gli operai entravano, e l’aria frescolina di settembre invece che di ciminiera aveva ancora il gusto dolciastro e un pò stoppaccioso di latte macchiato e di pezze bagnate di follatura. Prendevo l’autobus giallo numero 15 che aveva gli angoli stondati e dentro, per terra, un nero slavato e consumato da chissà quante scarpe quasi tutte dozzinali ma forse anche qualche Desert Boot e qualche Adidas modello Country bianche con le righe verdi, poi il metallo bianco sporco alle

pareti e in fondo una scritta a pennarello, una sola, che era mezza scancellata, Den den ciulo chiatto c’era scritto, dove mi ci fissavo sempre un minuto tutti i giorni per cercare di interpretarla meglio e mi immaginavo chi potesse averla scritta: uno del villaggio Gescal, avevo realizzato, dato che l’autobus veniva da quelle parti lì e poi ci ritornava passando sopra un ponte sull’autostrada, e apparentemente quella scritta non voleva dire nulla ma il modo primitivo di esprimersi di quelle popolazioni sorte alloctone in periferia nascondeva un mondo di non facile comprensione e io mi ci perdevo nella ricerca di un significato a quel graffito, ma non per più di un minuto perchè alla prima curva il paleontologo che era in me ritornava alla realtà di un mattino ancora fresco e di una splendida giornata che, questo si capiva senza bisogno di interpretazioni, comincia sempre con un'alba timida. Poi in piazza San Domenico facevo colazione al vecchio bar Marisa che rimaneva sull’angolo, una bisca per accaniti giocatori di briscola da mille lire a partita situata fra un tabernacolo e la sede della democrazia cristiana, dove i muri erano foderati di legno a listelli che avevano lo stesso colore dello spolverino di Ivo il barista, il quale dal fatto non fosse nè maleducato nè gentile dedussi fosse pratesissimo, e aveva la testa un pò a pera e i capelli radi e pettinati come quello della pubblicità dell’olio Sasso che poi ho scoperto si chiamava Mulè ma solo molti anni dopo quando c’era già internet perché fino allora era rimasto “il falso grasso dell’olio Sasso” così come Ivo era semplicemente quello "del bar Marisa". Poi verso le 7 e 40, quando si cominciavano a vedere le donnine e gli omìni con il pacco di carta marroncina da pane che uscivano dal forno e il giornalaio aveva già finito di mettere la locandina nella sua custodia di metallo arrivava l’autobus stavolta arancione perché era nuovo, comprato quando anche quelli di Montemurlo e Calenzano avevano

cominciato ad andare alle scuole, e proveniva da un’altra strada rispetto a quella da cui ero venuto io e si riconosceva perchè era lungo come un siluro e una cifra più moderno del mio, anche perchè doveva distinguersi da tutti gli altri mezzi di trasporto in quanto quelli di Montemurlo e Calenzano a scuola fino ad allora c’erano andati poco e il mondo, quando non si è andati a scuola, lo si riconosce essenzialmente dai colori più che dalle scritte. L’autobus quando arrivava era ordinatissimo, tutti seduti, uno o due al massimo in piedi, quasi sempre ragazze accanto all’autista (l’autista di autobus rappresentava l’ultimo stadio del processo di trasformazione da uomo in playboy, dopo l’autista della Cap c’era come minimo il Pozzo di Beatrice a Firenze o la Bussola, dopodichè la dissoluzione morale) ma diventava affollato prima di ripartire, cosicchè quella fermata era cruciale, ma a me non fregava niente, ci salivo anche per ultimo perchè non avevo da conquistare nessun posto, nè da mettermi vicino a nessuno e non mi importava di stare seduto per non dovere, nel caso, cederlo a qualche vecchio che fosse salito dopo di me, ma questo non per scortesia, che sapevo perfettamente come funzionava in quanto educato alle scuole private, ma perchè il mondo degli autobus non mi apparteneva e io ero lì solo per caso, perché avevo la vespa a riparare. Era importante che lo tenessi a mente, poiché ero un casuale turista della mia città che alle 7 della mattina non avevo mai visto e la scoprivo un po’ diversa da come la conoscevo, ma nel giro di un’ora al massimo sarebbe tornata purtroppo quella di sempre, quella di strade inutilmente storte, di edifici tirati su troppo alla svelta e da gente che aveva troppo da fare che pensare allo stile di una palazzina perchè risultassero eleganti e di camion che ai semafori scureggiavano un denso fumo nero che alcuni anziani facevano annusare ai nipoti affermando "respira profondamente, figliolo, questa è la tua città".

Alla seconda curva dell’autobus mi dovetti girare per aggrapparmi e mentre a una donna seduta, una di quelli seduti dalla partenza, e forse ancora prima della partenza, magari dalla sera precedente quando faceva capolinea in via di Oste a Montemurlo, cadeva una borsa accanto alle mie adidas nuove, mi accorsi di lei. Anzi, Lei. La potrei descrivere in ogni minimo particolare, perchè me li ricordo tutti perfettamente i particolari che prima facevano, poi composero e alla fine furono Lei, ma un dettaglio in più o in meno non fa nessuna differenza quando riconosci una persona, quando la riconosci dentro. Era lei, che poi mi disse si chiamava Giulia quando scendemmo alla fermata della scuola ed ogni passo che facevamo era nella stessa direzione, sulle stesse strisce pedonali, verso lo stesso cancello, per andare a farci mangiare vivi dalla stessa aula con i soffitti basi di cartongesso e le pareti di cemento e i finestroni che si aprivano dal basso per razionarci anche l’aria che si respirava. Andiamo al mare, le dissi, è l’ultimo giorno buono per andarci, le lezioni cominciano sul serio da domani, se non ci andiamo oggi non ci andiamo più. Misi la sua borsa color caffè piena di G stampate in nero dentro il mio borsone da calcio blu e rosso dove c’era di tutto, penne, mine spezzate, fogli da disegno tecnico arrotolati e smangiucchiati ai margini, un libro dalla copertina grigia che mi era servito per l’ultimo esame di riparazione di una materia scientifica che non avevo nessuna forza di volontà nè capacità di imparare (e che infatti non imparai) e poi c’erano un paio di calzettoni gialli senza il piede e dei lacci di colore diverso per tenerli fermi agli stinchi. La sua borsa dentro la mia era bellissima da vedere, sembrava un’immagine della sigla del telefilm Un uomo in casa con la chiave inglese accanto al phon e la scarpa da

calcio fra un sandalo con il tacco e una ciabatta con la zeppa. Ma in quella scuola gli accostamenti inusuali non costituivano materia di insegnamento. Mi sembrava di possederla, con la sua borsa dentro la mia, era qualcosa di profondamente intimo e di sensuale, era un possederla senza averla ma soltanto standole vicino e fondendo le mie cose con le sue. Dai andiamo, facciamo una corsa, prendiamo il primo treno però che non posso tornare a casa tardi disse lei, e si volò all’indietro rifacendo il percorso di pochi minuti prima (prima di unirci intimamente con la borsa sua dentro la borsa mia), correndo verso la stazione che non era lontana più di dieci minuti a piedi. E mentre si correva e la tenevo per la mano, la mia destra nella sua sinistra, con la borsa sulla spalla Giulia mi chiedeva le cose e - io che non avevo mai fumato una sigaretta e facevo venti giri di campo di corsa senza fiatone - sarà stata l’emozione sarà stata l’alba timida che lasciava il posto alla mattinata solforosa, alle 8 e 5 ora pratese mi sentii prima stringere la gola e poi strozzare che avrei potuto tossire e persino riuscire a dirle qualcosa di molto personale che non ero sicuro potesse riguardare entrambi. Passato il ponte vidi arrivare verso di noi il vespone di Daniele, bello, giallo, inconfondibile come l’aereo del Tempesti nel piazzale del lanificio sull’autostrada, che viaggiava una volta e mezzo più degli altri e faceva il doppio del rumore, lo riconobbi subito mentre puntava diritto ai piedi di Giulia per spaventarla e inchiodava con tutti e due i freni, lui che la conosceva benissimo abitandoci quasi accanto di casa. Forca eh? beati voi, dove andate? ci fa, Mare gli si rispose, te? io attacco a lavorare da un’altra parte stamani, un’officina, non so di preciso cosa mi mettono a fare ma so di sicuro che non ne ho voglia, ho fatto tre giorni di ferie quest’anno e sono di già stanco, e in ritardo.

E allora vieni con noi gli fa Giulia, si piglia il treno. Che cosa? le fa Daniele (che non diceva Icchè come gli altri pratesi perchè malgrado avesse finito a malapena le medie aveva la mamma mi pare del Veneto e insieme ai genitori avevano abitato qualche anno in Belgio e poi a Milano dove il babbo dirigeva i lavori nei cantieri edili), io in treno? ma che sei fuori? Io sono contrario ai mezzi pubblici, il treno non lo piglio, mi voglio fare i fatti mia, mi piace cantare e incazzarmi con la gente mentre viaggio, mi piace sentirmi libero, non lo vedi? non porto nemmeno il casco. Lo vedo, e allora? e allora montate! in tre? eh, certo, in tre! no ho paura gli fa Giulia, macchè paura ti metti nel mezzo ti si schiaccia per bene non ti vede nessuno, tieni ti dò il casco, e mentre lo tirava fuori da sotto la sella con una mano con l’altra teneva in moto il vespone e lo girava con un movimento telescopico del braccio nell’altro senso, opposto a quello da cui lui veniva, e montarci sopra in tre con Giulia nel mezzo fu tutt’uno, tempo dieci secondi Daniele sgassava direzione mare. Io che ero rimasto mezzo fuori con il culo spingevo in avanti senza potermi fare forza con i piedi che penzolavano fuori dalla pedana e cercavano almeno il pedale dell’accensione per avere un minimo di appoggio, Daniele, padrone assoluto del mezzo, non si era tirato avanti più di dieci centimetri e Giulia con una mano cercava la cinghia della sella e trovava quando la mia coscia quando i bottoni dei miei jeans ed era tutto un ridere ma senza poter farmi sentire dall’imbarazzo, mentre con l’altra mano teneva un lembo della tuta da lavoro di Daniele e ogni tanto mi pareva di vedere quando mi muovevo per spostare la borsa che tenevo rovesciata dietro la schiena, mi pareva di vedere che gli cercasse le costole, i fianchi per stringerglieli. Se avessi provato a pensare qualcosa sarebbe finita dietro, nella scia del vento, nel rombo della vespa che sgassava. Da dire non c’era niente, invece.

I capelli di Daniele erano immobili nel gel potente che li fissava, e invece che tagliare l’aria pareva invece che l’aria gli venisse addosso con tutta la forza che aveva (con cui lui la sfidava a 90 all’ora) ma senza riuscire a smuoverlo, così agganciato al manubrio e con i piedi in posizione strategica e sprezzanti delle regole areodinamiche, uno ritto appoggiato all’interno della bandina del vespone e uno mezzo fuori pronto alla frenata secca e all’appoggio a terra. E allora il vento se la rifaceva con i capelli di Giulia facendo mulinello e li alzava, li riabbassava, li faceva impazzire in un vortice biondo che mi accarezzava la faccia e mi spazzava la bocca e il naso fino a che con uno strattone non mi schiacciai ancora di più verso di lei e le appoggiai la faccia contro la sua nuca facendogli da fermaglio per quegli aghi gialli che mi ubriacavano più del vento, più della velocità. Per rientrare sulla sella con il culo che avevo ancora mezzo fuori mi agganciai ad un passante dei suoi jeans e la sentii fremere al contatto delle nostre cinture massicce, il suo cuoio contro la mia fibbia, e lei ebbe un fremito e mi disse qualcosa voltandosi appena con gli occhi semichiusi ma non capii che cosa mi stava dicendo per via del vento, del casino che faceva la vespa che ruggiva come un trattore e per colpa - si fa per dire - di una macchina che avevamo dietro da un pezzo e non ci riusciva a sorpassare perchè Daniele la teneva dietro e gli tappava le traiettorie come con gli avversari su una pista di Formula Uno e ogni tanto quando la strada era meno diritta si divertiva a staccarla. Poi la macchina, un macchinone lungo e brutto tipo una Volvo o una Saab, si rifaceva sotto e mi ringhiava a una fiatata dalle mie adidas nuove. Sul dirizzone prima di arrivare a Pescia mentre provavo a sistemare le stecchette dei Ray Ban dietro gli orecchi di Giulia sentii che la Volvo o la Saab non c’era più ma c’era

un altro rumore che mi abbaiava dietro la schiena, più morbido di quell’altro ma altrettanto continuo. Passa, passa, oppassa! gli feci con la mano sinistra (che tanto Daniele non ti fa passare, ora si ride) e oppassa una volta ovvappigliatteloinquelposto un’altra volta alla fine mi girai su me stesso di un quarto per dargli un’occhiataccia e non era più il macchinone brutto e scuro ma una macchina bianca con delle righe con scritto "...di Pescia" e una palettina rossa fuori dal finestrino. Daniele ci sono i vigili! lo chiamo, i vigili? si, i vigili! e lui, che non diceva icchè, per fare lo spiritoso: I vigili che cosa? Dai dai, o ti fermi o siamo nei guai che tanto siamo nei guai uguale, ormai la targa ce l’hanno presa... Ah si? sarà difficile me l’abbiano presa, fa Daniele, ce l’ho sotto la sella, No cazzo Daniele te non sei normale, ora siamo nei guai per davvero, te e noi, e mentre dicevo questo spingevo i miei ginocchi contro le cosce di Giulia per farla diventare piccina e farla sparire nell'infantile tentativo di nasconderla al radar dei vigili. Vai Daniele vai, gli faceva Giulia con il filino di voce di quella bambina stupida adorabile che era, non ti fermare, mentre io pensavo Questa è più pazza di lui, si vede proprio che stanno accanto di casa, sono due deficienti uguali era inevitabile che fossi amico di tutti e due però me ne sarei dovuto accorgere prima che sulla vespa con un deficiente con i capelli pieni di gel e una bambina adorabile e stupida non ci sarei dovuto mai salire! e mentre lo dicevo la finii per pensare anch’io una sciocchezza del tipo Non ti fermare Daniele, inventati qualcosa, come quella volta... Come quella volta che si stava giocando una partita di campionato in casa e si stava perdendo uno a zero a pochi minuti dalla fine, erano andati tutti in avanti, si rischiava di brutto di prendere lo 0-2 e io che giocavo ala ero andato in difesa per evitare di beccare il contropiede che tanto dalla parte dove avrei dovuto attaccare io c’era un tale

affollamento di terzini, attaccanti e mediani che volavano solo polvere e calci nelle caviglie e non si passava neanche con la pistola. Ero andato io in difesa perché cominciai a pensare quello che un allenatore di calcio non dovrebbe mai dire ad un suo giocatore il quale se comincia a pensare in questa maniera ha finito di essere un calciatore: mi sta bene anche perdere 0-1, non voglio prendere altri gol, preferisco che perdiamo 0- 1 ad un altro risultato e vedervi andare via dicendo abbiamo avuto solo sfortuna, così stasera alla vostra ragazza o al bar potrete dire abbiamo perso solo per sfortuna, piuttosto che perdere 0-2 o a 0-3 e non avere nulla da dire nè io a voi nè voi alla vostra ragazza; mi sta bene così, a me va bene perdere di un solo gol sapendo che avremmo potuto perdere anche 0-2, 0-3 e magari anche di più e mi sta bene, perchè dovrebbe anche stare bene a voi, che voi possiate dire in giro abbiamo perso solo di uno ma è stato solo un caso, domenica prossima sarà un’altra storia. Un pallone respinto dalla difesa mi arrivò sui piedi e mentre mi prendevo quei cinque secondi per decidere se ributtarlo nella mischia o tentare l’azione personale (che tanto davanti c’era un muro di energumeni abbrutiti dalla fatica con le braccia penzoloni e la bava alla bocca, di tutti i colori, rosso, blu, giallo, azzurro, arbitro compreso, non le maglie ma le bave) mi sento chiamare da Daniele che faceva il portiere, scemo come tutti i portieri e capace di tutto come gli scemi. Dalla, mi urla, Dalla e intanto era salito a centrocampo, e io Ma che ti dò scemo? tornatene in porta non vedi che sto difendendo lo 0-1 e oltretutto hanno lasciato solo me a difenderlo? dovrebbe farlo lui e non lo sta facendo, l'allenatore che ci sta urlando di attaccare e di buttare il pallone in avanti, ma ci sto pensando io a te, a voi e a quello che potrete raccontare stasera al bar o alla vostra ragazza, anche alla tua se ne hai ancora una che ti sopporta, scemo,

e mentre alla fine abdicavo al pensare e quella palla gliela davo pregavo: Per favore inventati qualcosa te, te che sei scemo. Daniele alto in quella maniera con il ciuffo pettinato e con il maglione rosso della e senza più i guanti che si era levato per l’assalto finale con il pallone ai piedi fece finta di puntare la porta e invece si butta sulla destra, ne scarta uno, ne scarta un altro, un ciccione che gli si aggrappa al maglione rosso e poi rientra secco mentre io penso: Inventati qualcosa, l’hai persa ormai, o ti inventi qualcosa ora o sei completamente scemo come pensavo! E mentre i nostri erano fermi immobili ad aspettare che Daniele si inventasse qualcosa per uscire da una palla persa di sicuro con un tocco leggero si fa mezzo metro di spazio fra tre o quattro bruti mandandone un paio in terra nella polveraia e, mentre io penso, O ti inventi qualcosa ora o sei finito, lui ti pennella un cross perfetto sul piede dell’attaccante più vicino alla porta avversaria, facendo passare il pallone preciso preciso tra la spalla e il collo del difensore che lo marcava che provò a colpirlo di testa facendo un movimento ridicolo tipo smorfia di ubriaco colto da emiparesi, l’occhio strabuzzato e la lingua mezza di fuori che mi pare ancora di vederla, insomma il difensore la manca e il pallone finisce al bacio sulla punta del piede dell’attaccante che sorpreso dal cross, dalla smorfia del difensore, dalla sorpresa stessa di vedersi consegnata sulla stringa della scarpa una palla che non aveva nè avrebbe mai più rivisto in vita sua, l’accarezzò, lui che era un metro e ottanta di muscoli, parastinchi e orecchino, la mandò sul palo e poi fuori, un gol fatto e strafatto ma buttato via da un caprone che fino a un istante prima si sbracciava come un naufrago per farsi passare il pallone convinto che non solo avrebbe segnato, ma avrebbe segnato di potenza, di cattiveria, avrebbe sfondato la rete e poi avrebbe corso come

un cretino gesticolando come un cretino ma che invece, con il pallone perfetto sulla punta del piede, te lo spedisce fuori. Sempre così finisce quando le cose ti vengono regalate perfette, senza fatica, a domanda. E mentre Daniele se ne tornava in porta mandandolo a quel paese alto, pettinato e con l’aria strafottente, con lo stesso passo misurato con cui era salito a metà campo e si era bevuto mezza squadra avversaria io mi sentivo di aver scoperto che cos’era il Genio. Ne ebbi chiara, nitida la percezione, che il Genio è solo un istante. Dura per sempre ma è solo un istante. E questa volta che ti inventi, Genio? pensavo mentre avevo i vigili in marcatura a uomo aspettando che con una fiancata mi spedissero addosso alla bandierina del calcio d’angolo? No no questo non è possibile, non ci possono speronare e farci sfasciare contro un muro o un'altra macchina, maledetti telefilm anni 80 che vedo, cercavo di convincermi, ma il vento, il freddo che cominciavo a sentire e la paura mi facevano pensare anche a questo. Il Genio si inventò che mentre il semaforo stava diventando giallo puntò deciso l’incrocio che a diritto vai dentro le mura di Pescia e a sinistra prosegui per Lucca, levando un pò di gas ma tenendo perfettamente il centro della strada e illudendo i vigili che si sarebbe fermato, magari nel mezzo all’incrocio, per creare un pò di panico e eventualmente riuscire a scappare in seconda battuta quando i vigili si sarebbero a loro volta fermati e scesi, ma mentre il semaforo da giallo diventava rosso dette l’ultima sgassata, secca, imprevedibile, che la testa di Giulia rimbalzò sui miei naso e labbro e io per poco non mi cappottavo all’indietro finendo di schiena sull’incrocio della statale pesciatina e nelle grinfie dei vigili assassini. Mentre le macchine ferme alle due strade laterali accennavano a muoversi noi eravamo già oltre l’incrocio, già

liberi, smarcati, svincolati, senza targa, senza cervello, ma liberi. Sul monte Quiesa ci si fermò ad un bar, Giulia prese una spuma e un ovetto di cioccolata, io un cappuccino che avevo le braccia intorpidite per colpa della borsa che mi spostavo dalla spalla destra alla sinistra ogni cinque minuti quando sentivo cominciavano a frizzolare, mentre Daniele da un telefono a gettoni lo sentivamo discutere, prima con calma, con la voce suadente, confidenziale, si sentiva stava parlando con una donna, poi più deciso: E allora passami Coso, Coso lì, non mi viene il nome, passamelo, fammici parlare a me! e la telefonata era finita bruscamente, con una parolaccia, e un Domattina non mi aspettare, non me ne frega nulla, fai come ti pare, e poi un clic, due o tre clic che alla prima la cornetta non gli s’era riagganciata. E poi il glu-glu-glu di sei o sette gettoni che il telefono di metallo si era inghiottito. Ma Daniele non era turbato neanche un pò, tornò da noi con la voce che aveva prima con la donna per telefono e l’aria del mimportassai, accarezzo Giulia e gli levò un moscerino dai capelli prima di rimodellare i suoi. Si riprese il vespone e giù verso Viareggio a randola scrollandoci di dosso l’aria freddina della montagna e facendoci accarezzare dal sole giallo come il vespone mentre Giulia cantava le canzoni di Vasco, io gli facevo il parlato di Colpa d’Alfredo e Ultimo Domicilio Conosciuto e Daniele faceva la batteria e l’accompagnamento con il clacson mentre le donnine con i panni in mano sul ciglio della strada ci guardavano stupite, gli omìni dentro le 127 ci fissavano come se si venisse da Marte, verdi, deformi e per giunta vestiti anche strani e i cani abbaiavano perchè il casino che si faceva lo si poteva sentire da un chilometro prima che si passasse. Per evitare di fermarsi ad un altro giallo che stava diventando rosso Daniele si buttò a destra ad un incrocio

invece di attraversarlo e si prese una strada sconosciuta lungo un fosso e con i lecci dalle parti che forse portava a Camaiore perchè al mare ci si arrivò un quarto d’ora (e un paio di sorpassi a bastardo) dopo dalla via del Secco che sboccava proprio davanti all’Arlecchino e al bagno Riviera dove Giulia andava d’estate. Daniele levò il gas e inchiodò lì di fronte e noi, dietro, una volta ancora, la centesima, si fu rimbalzati in avanti e ci venne istintivo afferrarci per le braccia e per quello che capitava per evitare di volare di sotto al vespone. Con le gambe inteccherite si scese e Daniele entrò per primo dentro l’Arlecchino salutando con un rutto che la ragazza al banco di sicuro sentì perchè si voltò verso la porta. Fu un atto orribile e meraviglioso, tipo la nascita di una creatura, di un’insolenza irripetibile, di una maleducazione ammirevole, di una volgarità luminosa e inimitabile. Ho la presunzione di ricordarmelo solo io, a distanza di tanti anni, immagino non se lo ricordi la ragazza dietro al banco che una barista chissà quanti ne ha sentiti di rutti e altre insolenze (una barista è una donna di grande coraggio con tutte le aggressioni che può subire), non se lo ricorderà di certo Daniele che chissà quante volte ha salutato aggredendo, non se lo ricorderà certamente Giulia che dopo un attimo avrà sicuramente dimenticato, come avrebbe dimenticato subito qualsiasi volgarità a patto fosse di Daniele, come avrà dimenticato un’infinità di altre cose compreso me. Viareggio quando arrivammo sembrava ancora mezza addormentata, e invece saranno state più delle undici, noi c’eravamo mangiati la strada (con tutto che c’eravamo fermati un paio di volte a fare benzina perchè il vespone beveva come un muratore al sole e a un certo punto, dopo Lucca, Daniele aveva infilato la mano nel motore e con la chiave inglese dato una registrata al carburatore, o a una vite, non lo so di preciso, perchè ogni tanto si sentiva fare

clen-clen da dentro specialmente quando la buttava a manetta sui dirizzoni) e invece le macchine di Viareggio andavano lente, la gente era lenta che pareva non si fossero ancora ripresi dalla fatica dell’estate e da tutti i soldi che noi, noialtri di Prato, gli s’era portato. Oddio, Daniele pochi gliene aveva portati, perchè quell’estate c’era venuto non più di due o tre volte la sera e sempre verso Marina di Massa dato che avevano conosciuto delle ragazze di là e lui s’era messo con una che gli sembrava parlasse milanese e che invece era carrarina, e quando l’aveva scoperto (con sorpresa, da sottolineare, s’era sorpreso parecchio che non fosse milanese) c’era rimasto un pò male perchè pensava che lei fosse figlia di qualche riccone con la villa al Forte. Poi scoprì che invece che in San Babila abitava vicino alla ferrovia all’Avenza, dove caricano il marmo sui treni merci e l’aveva lasciata quasi subito. E quindi di soldi ai logali gliene aveva portati pochi anche perchè la mattina si buttavano a dormire sulla spiaggia libera e verso una cert’ora ritornavano a Prato. Un pò s’era pentito di averla lasciata, la Cosa (neanche di lei ovviamente si ricordava il nome, se lo avesse detto io me lo ricorderei sicuramente) perchè era parecchio bella, non come Giulia ma bella anche lei, ma poi avevano cominciato lui e quegli altri a andare a Montecatini e gli era passata di mente, mentre lei qualche volta ancora lo chiamava ma poi finiva in discussione e si riattaccavano il telefono in faccia perchè lui le rinfacciava di non essere di Milano, di averlo illuso con quella parlata strana dei carrarini che sembrava milanese ma invece non lo era per niente e di avergli fatto credere che fosse ricca, così tanto ricca da mettergli in testa che avrebbe potuto trasferirsi a Milano e trovare lavoro all'Alfa Romeo o magari non fare niente e campare con i soldi della famiglia sanbabilina.

La Giulia invece di soldi gliene aveva lasciati un bel pò perchè tutti gli anni prendevano la casa al Lido per almeno due o tre mesi, andavano al bagno Riviera ombrello, lettino, due sdraio e la sedia e lei usciva quasi tutte le sere, anche solo per un gelato, e una volta la settimana lei, babbo, mamma, fratello e la nonna e gli zii andavano a mangiare da Mario alla Lanterna, e lei prendeva il cocktail di gamberetti in salsa rosa come antipasto perchè una sera lo aveva visto prendere a Piervittorio Tondelli (lo scrittore di cui era innamorata) in un ristorante a Bologna, il risotto alla pescatora (ne lasciava sempre più di mezzo) e la pizza Napoli (Ma senza acciughe e anche senza capperi – aveva detto una sera al cameriere – E allora signorina una Margherita! Si una Margherita okkey, ma Napoli, perchè Giulia era fatta così). Io per colpa di tre materie da riparare a settembre di soldi ai logali gliene avevo portati pochi, ero rimasto parecchio a casa, studiando quelle tre ore il giorno per due mesi senza capire niente ma proprio niente di più (nè di meno) di quello che non avevo ostinatamente capito fino a maggio. Poi c’erano stati i mondiali che si erano portati via un mese intero con una settimana di tempo supplementare per riprendersi e quelle vhs viste e riviste notte e giorno, avanti e indietro da consumare il nastro e insomma gli esami a settembre non erano andati esattamente come l’Italia a Madrid. Sulla passeggiata di Viareggio il motore del vespone si spense come un decatizzo a cui fossero andate le pezze di traverso, con un lungo buuuuuuu e una fumata, ma bianca, però siccome lo faceva sempre e sembrava gli facesse anche bene farlo, non c’era da preoccuparsi. Daniele tirò fuori da sotto la sella la targa e la sventolò tenendola fra pollice e indice, tipo polaroid, a presa per il culo mentre Giulia gli strattonava il braccio urlandogli Scemo, scemo, ora la riattacchi, si poteva andare in galera

per colpa tua e della targa e io Davvero oh, che scemo, ma come si fa a essere scemi in questo modo? che poi era la stessa cosa detta un pò diversamente, Giulia arrabbiata anche perchè lo conosceva e sapeva che con lui andava sempre a finire così e io come a dire Lasciamo fare che c’è andata anche troppo bene, ci si poteva anche rimanere secchi a quell’incrocio. Poi buttai la borsa per terra lasciandola cadere da dietro la schiena perchè il braccio ormai s’era anchilosato e tutti e tre, tempo quei venti secondi in cui ci stiracchiavamo sbadigliando, guardammo dalla stessa parte, verso una striscia di mare che faceva capolino tra due muri e due file di cabine di legno, sotto un traguardo di metallo con il nome del bagno sopra e si cominciò a correre infilandoci in quel budello di accesso della passeggiata alla spiaggia, io per primo, Daniele secondo e Giulia terza perchè intanto si era levata le Superga e mentre correva gliene cadde una dalle mani e dovette fermarsi a raccattarla mentre dalla porta della direzione del bagno usciva l’odore della pomarola e una canzone di qualche anno prima che faceva How long has this been going on. Perchè a Viareggio quando ci leviamo dalle palle noi che li chiamiamo "i logali" si fanno nostalgici, danno fuoco agli stupidi dischi hit dell'estate e ricominciano a sentire robe di dieci anni prima. La sabbia era tiepida, non calda bollente come d’estate ma tiepida, riscaldata il giusto, il giusto per i ginocchi ancora intorpiditi dalla fatica di stare in tre sulla sella per più di due ore e si cascò tutti per terra vicino a una barca a vela mezza coperta da un telo e tutta inclinata da una parte che l’albero faceva un ombra lunga lunga e i capelli di Giulia, in ginocchioni nell’ombra dell’albero, avevano il colore della cenere e un occhio, un occhio solo, quello alla luce che invece quell’altro era nel filo d’ombra del pennone, di un verde che non avevo mai visto. Era lei. Lo sapevo perché ce l’avevo dentro.

Mentre Daniele si stendeva sulla sabbia, allungava le braccia, si prendeva i pollici con l’altra mano e si stirava facendo gni-gni sbadigliando e tossicchiando il catarro di qualche sigaretta notturna mi avvicinai a Giulia per baciarla, bella com’era, ferma com’era, con un occhio aperto ed uno chiuso, o almeno mi pareva che lo fosse perchè era nella penombra malgrado la piena luce, ma quando ero vicino a lei, immobile, in ginocchio con le mani appoggiate sulle cosce con le Superga accanto e i capelli lunghi sulle spalle mi sentii afferrare da dietro da Daniele che con un balzo alla Tacconi mi aveva agguantato per i fianchi Aaaaaaah! Ti ho beccato eh! Che volevi fare? e mi scaraventò in terra con tutto il suo peso su di me, con quelle sue braccione scure senza un pelo che mi stringevano in una morsa. E mentre mi soffocava senza farmi male, ed era un soffocare morbido, Giulia saltò sulla schiena di lui e quindi su di me e lui insieme ma non ne sentivo il peso mentre lei tirava i capelli a lui e lui l’aveva resa quasi inoffensiva con un rapido movimento del braccio che le bloccava una mano e le torceva le dita. E mentre lei gridava e rideva e lui rideva e tossiva schiacciato com’era fra di noi io che avevo la bocca e mezza guancia nella sabbia approfittai della situazione e la ribaltai disarcionandoli entrambi e si cominciò a rotolare per sfuggirci l’un l’altro che tutti avevamo voglia di morderci, abbracciarci e ancora morderci e farci un pò ridere e un pò soffrire. Per gioco. Fare come i gattini, giocare come loro. Graffiarci e fare le fusa, proprio come i gatti, e come i gatti dentro ai giorni e le notti incontrarsi e poi guardarsi negli occhi. E rotolando si arrivo fino alla chiglia della barca, ed eravamo riscaldati e un pò sudati, con un pò di sabbia nei capelli e sui vestiti, vicini, abbracciati, io guardavo lei, lui guardava me e lei guardava lui, e poi gli sguardi trovavano

nuovi incroci e nuove complicità, ci si voleva bene, con qualche granello di sabbia sulle labbra lì dove, nell’ombra dell’albero della barca senza vela, la sabbia era grigia. Poi una ventata che portava odore di fritto ci fece sciogliere dal lungo abbraccio e rialzarci e correre ancora verso la passeggiata, saltando sopra un ammasso di cartoni bianchi con scritto Pommes Frites in rosso ci si fiondò a prendere Fish & Chips, si camminò sul molo e si fece il giro dei negozi dove Daniele si provò un paio di pantaloni grigi così attillati che sembrava Sting sul lungomare di Brighton in Quadrophenia, alto, con la faccia da stronzo, sempre bugiardo e Giulia un paio di All Star rosa, bella, sempre bella qualsiasi scarpe, qualsiasi maglietta e qualsiasi pantaloni si mettesse, e io mi feci applicare sul giubbino verde un target con i colori della bandiera inglese e una toppa con scritto Mods e la freccia all’insù degli Who. Mi pareva a ricordarlo ora che si fosse bellissimi, sfrontati, esagerati, originali, pieni di vita e innamorati. Il nostro momento era quello, the perfect day, non ce ne sono tanti a pensarci bene, con il tempo ne arrivano altri ma chissà perché la mente ritorna sempre su pochi, talvolta uno solo. Uno solo perché è un incastro perfetto di casualità, destino e presenza, la convergenza di tre elementi in un luogo preciso, in uno spazio che non appartiene al normale corso delle cose, al di fuori della realtà di tutti i giorni. Un’opportunità ancora più perfetta di quella ipotizzata da Hesse, la nostra, perché se per un caso l’avessimo persa noi non l’avrebbe potuta cogliere nessun altro. Solo noi. E allora è inevitabile pensare che da una parte scorre la vita con la sua imprescindibile, necessaria materialità, accanto, nascosta, un’altra dimensione, quella delle idee, dei ricordi e dei pensieri e ancora più nascosta, forse parallela ma secondo me contromano rispetto al senso del

flusso delle altre due dimensioni, passa la linea dei ricordi più forti, indelebili. Ma quello era il momento di esserci, il momento di essere vissuto, poi forse, ma questo non lo potevamo sapere solo intuire, sarebbe arrivato il momento del ricordo. Due tempi perfetti esserci e vivere, uno imperfetto quello di ricordare. E così il vespone che intanto si era raffreddato e di nuovo stiepidito con il solicino di fine estate e al secondo colpo di pedivella ricominciò a latrare al padrone come quei cani che se ne stanno buoni e ti abbaiano forte solo quando ti riconoscono di là dal cancello, e alla prima sgassata decisa si impennò di un dieci centimetri buoni e ricominciò a mangiarsi la strada come fosse nuovo, nuovo di pacca. Ci si bevve il Montemagno, la campagna lucchese, fra i puzzi di scarico di cartiera e gli odori del mosto del vino, di nuovo Pescia dove a quel serbatoio grosso come la palla del silos del Chiti in fondo al Pantano di Montemurlo venne sete e si tracannò altre otto carte da mille di benza e a noi ci toccò nasconderci dietro il capanno del distributore per paura che ripassassero i vigili e ci riconoscessero, e poi l’ippodromo di Montecatini e il Serravalle mentre dei nuvoloni neri si addensavano scendendo giù dalle montagne di fronte verdi scure come pasticche Valda ciucciate e poi appiccicate su un muro di calce grigia. Dopo Pistoia si prese anche un acquazzone, vestiti leggeri e sabbiosi com’eravamo, mentre Giulia mi teneva più forte i pantaloni per una cucitura con una mano e con l’altra infilava le unghie nel fianco di Daniele che non mollò il gas neanche di un millimetro, lo tenne a stecca per tutta la durata del temporale, e le gocce d’acqua ci si infilavano dappertutto, nella maglietta, lungo la schiena, e le pozze mi frustavano le caviglie e Giulia strizzò più forte gli occhi perchè i goccioloni a 80 e passa all’ora bucavano di brutto.

Non ci dicemmo nulla in quel tratto di strada, ci eravamo detti poche cose dalla ripartenza fino a prima che piovesse, poi su di noi cadde insieme all’acqua, il silenzio. Alla fine arrivammo a Prato quasi asciutti, umidi solo i jeans e le adidas che bagnate erano di un blu ancora più bello, si lasciò Giulia a casa sua e Daniele mi riaccompagnò proprio mentre l’autobus numero 15 veniva giù dal centro e ripartiva dalla fermata con il suo consueto lamento di vecchio uggioso con il radiatore affannato. Quel giorno con l’ultimo bacio e abbraccio veloce, che avevamo sforato alla grande tutti gli orari di rientro possibili, finì lì con la mezza promessa che prima che venisse il freddo si sarebbe ritornati, magari organizzandoci meglio prima. Ma poi la scuola cominciò davvero e non lo so come, pensavo avvenisse l’inverso ma quei due metri di distanza fra il mio banco e Giulia aumentavano sempre di più come passavano i giorni e si alternavano i compiti, le interrogazioni, le ore di officina meccanica e i disegni tecnici sempre più impiastricciati e mangiati ai bordi. Continuavo a non capire niente di quella materia dove mi avevano accannato, tutto normale, tutto come prima. Due o tre giorni dopo Tommaso il Pagano, mi ridette la Vespa riparata e smisi di prendere l’autobus per andare a scuola. Riavevo indietro qualcosa, stavo perdendo qualcos’altro. Daniele invece cominciò a venire agli allenamenti sempre più di rado, poi solo il sabato pomeriggio e la domenica mattina alle partite, sempre alto, con i capelli un pò più lunghi ma sempre pettinato, poi una volta venne con un altro motore invece che il vespone giallo che non feci in tempo a vedere ma sentii dal rumore che non era lui, poi non venne più, dissero che aveva trovato lavoro in un’officina dalle parti di Montale. Oggi, Giulia non l’ho più vista.

Credo si sia sposata con un avvocato, ho sentito dire che si candidò alle elezioni comunali per un partito di centrodestra nel paese dov’è tornata a stare. Anche Daniele saranno trent’anni che non lo rivedo, meno forse una volta, ma non sono sicuro che fosse lui ma sicuramente doveva esserlo anche se non lo riconobbi con assoluta certezza ma sono cose che le senti. Un giorno, passando dalla stessa strada dove abitava ma immaginavo non abitasse più da tempo, mi sembrò di vederlo rientrare con un macchinone lungo forse una Volvo o forse una Saab, che non mi sembrò poi in fondo così brutto come tanti anni prima (un macchinone comunque non da lui), rientrava dentro un cortile mentre dalla finestra una donna abbronzata, con le rughe intorno agli occhi, molto bella ma sicuramente più vecchia di lui, lo osservava parcheggiare con un mazzo di chiavi in mano pronta a lanciargliele per farlo salire. A me di recente, passando in macchina dal Lido di Camaiore insieme ad altri che si volevano fermare a prendere un aperitivo all’Arlecchino prima di cena, guidando mi venne tutto questo alla mente e non ce la feci, dissi loro Arriviamo al Forte ormai che ci siamo, e andammo a diritto. Però non resistetti a non guardare e dallo specchietto retrovisore vidi che da sopra l’Arlecchino hanno coperto con un pannello e forse tolto l’insegna della Coca Cola e messo tre bandiere che fra le luci e qualche goccia di pioggia sul vetro non ho riconosciuto.

Claudio Pelagatti

Claudio Pelagatti incominciò a perdere i capelli nel 1981 e malgrado i vent’anni, la poca conoscenza di sé e delle cose del mondo comprese immediatamente di non poterselo permettere. Stavano arrivando facendosi largo a colpi di spazzola gli anni dei ciuffi e lui, educato secondo i canoni del rigore e della formalità, capì che rischiava di finire in controtendenza. Era risaputo ormai, dagli insegnamenti ricevuti ma anche da quello che si sentiva dire in giro, a scuola, per la strada, in tv nei "Programmi dell’accesso", uno spazio autogestito che cominciò ad andare in onda nel 1975 il quale secondo il curatore era un luogo di espressione libera e autentica dove "si suggerivano modi diversi di comunicazione ed espressione", era risaputo che in quegli anni agitati fosse fin troppo facile dalla controtendenza passare alla zona grigia dell’informalità, per poi varcare la soglia del disimpegno e infine consegnarsi alla deriva dell’autonomia per concludere poi l’amara parabola, irreversibilmente come in una spirale maledetta, nella calvizie dalla quale non si torna più indietro. Questo non piaceva a Claudio Pelagatti che percepiva questo percorso simile in tutto e per tutto alle fasi attraverso le quali si scivola nel baratro della tossicodipendenza, una versione a tappe e diluita nel tempo del minaccioso e famigerato "dalla sigaretta si passa facilmente all’eroina"; la percepiva come una deriva morale che non gli apparteneva per formazione e verso la quale opponeva anche un rifiuto linguistico, non concependo che un disagio profondo, quello del rifiuto della calvizie e delle imposizioni, lo si potesse verbalizzare fino a un punto tale da non rimanerne in qualche maniera corrotti dentro.

Le parole complicate scoprivano risvolti troppo profondi e oscuri dell’interiorità, aprivano squarci in quel velo un po’ perbenista e ipocrita quanto vogliamo ma tuttavia collante necessario a tenere insieme una società in fase di disgregazione, fenomeno perfettamente rappresentato dalla stempiatura dell’individuo post esistenzialista. E infatti Pelagatti taceva. Il turbamento che gli provocava un lento e silenzioso aprirsi allo sconosciuto altro da sé quello si che lo percepiva distintamente malgrado il frastuono crescente di quegli anni di passaggio dalle vespe truccate alle utilitarie di seconda mano, di pari passo con la caduta dei capelli che lentamente ma inesorabilmente gli danneggiava una capigliatura avuta in eredità da una famiglia non sarebbe riconoscente dire di vedute chiuse ma un po’ rigida, estremamente riluttante se aprire o no la persiana su quegli anni di passaggio, un po’ smarmittati e conseguentemente rumorosi e sgradevoli. Non lo aiutavano certo i clips su Videomusic di Brian Ferry che con il ciuffo untuoso bucava il video con un atteggiamento fra il tenebroso e l’aggressivo: c’era troppo del sessuale in quelle pose ammiccanti e quelle donne che nelle immagini tv gli si concedevano facilmente. Nel rapporto con le donne, gli era stato trasmesso negli anni dell’adolescenza, occorre misura e certe manifestazioni esibizionistiche di virilità maschile e di prorompente femminilità lo convinsero del fatto che nel sesso la misura conta, anche più dei capelli. Questa fu senz’altro una riflessione positiva che lo aiutò a strutturare meglio una personalità che altrimenti si sarebbe potuta definire fragile, con ripercussioni psicosomatiche di cui soffriva anche il bulbo pilifero. Ad accentuare il senso di depersonalizzazione contribuì parecchio anche Sandy Marton che dall’alto di una statura ciclopica faceva piovere lunghe ciocche bionde che lo

facevano somigliare, nell’immaginario del Pelagatti, alla gorgone Euriale che nella mitologia greca rappresentava la perversione sessuale. In quello scorcio di anni ‘80 in cui imperversano i capelli cotonati, alti, oppure lunghi, piastrati o permanentati, l’apparizione sugli schermi di Cesare Ragazzi fu uno squarcio di verità in un mondo ipertricotico e Claudio Pelagatti cominciò ad aver ben chiaro che si può amare o odiare la moda, si può essere intransigenti o permissivi, si può essere esigenti o desiderosi di un effimero divertimento e quindi schiudersi a nuove pettinature, nuovi orizzonti e nuovi modelli comportamentali scevri di tabù e inibizioni. Glielo comunicò a suo modo anche Jerry, il buttafuori del Pacha: "Claudio cerca di prendere le cose come vengono, la vita che cos’è se non una pizza ai frutti di mare con le cozze già ciucciate da un altro?". Volando per una vacanza a New York nel 1990 ebbe nitida la sensazione che a novemila piedi da terra l’aria è rarefatta, le ideologie ancora di più e il passato ci si può lasciare - volendo - alle spalle. Insieme al maglione di raffinata ciniglia che comprò a NY con un grande rombo davanti composto di piccoli dadi simile a quello della sigla del Tg 1 e che cominciò a indossare infilato nella cintura dei pantaloni insieme ad un paio di occhiali con la montatura degna di Elton John e uno stivaletto colorato con il tacco alto, il Pelagatti cominciò ad opporre rifiuto al suo passato, prima fumando in casa alla presenza dei genitori poi escludendo dal parlato e provando crescente repulsione verso le frasi fatte e dozzinali come "col tempo e la paglia matura la nespola e la canaglia", "icchè ci va ci vole", il triviale "ogni buco è pertuso" (anche nella sua versione pratesizzata "in guerra ogni buho è trincea"), i luoghi comuni, i facili costumi, e gli intercalare come "cioè", "nella misura in cui", "ammettummaaddire" ritenendoli

oscurantisti, disgustosi, retaggio di un passato frustrante e persino sessuofobici. Seguirono anni che, solo successivamente però, il Pelagatti definì di "presa di coscienza" ammiccando autoironicamente sul termine "presa", anni vissuti con un po’ di leggera follia e i primi lustrini, anni fatti di nuove conoscenze, di nuovi giri e nuove esperienze, lontane da quel cinereo trascorso in ambienti soffocanti il lato gaio della personalità, ottusi, e da quelle mura familiari a proposito delle quali un amico particolarmente caro gli fece capire che "the love that you need you will never find at home" rubando le parole e il tono di voce a Jimmy Somerville. La scintilla del cambiamento scattò una sera all’ex bar Vienna, oggi ristorante fashion spinto, in occasione di una cena fra amici, e galeotti furono il lampadario a gocce di vetro, le sedie argentee con intarsi barocchi, il divanetto leopardato, la cucina rarefatta, gli ammiccamenti. Oggi Claudio Pelagatti ha fatto pace con il suo vissuto tormentato e risolto il problema della calvizie grazie al prezioso aiuto di un impiantista tricologo conosciuto a Torre del Lago con il quale convive dalle parti di Montecatini.

Noi, eroi

La generazione dei disimpegnati ci hanno definito, ci hanno chiamati disinteressati. Quelli del "voi poco partecipi mentre noi invece" oppure quelli del "noi abbiamo fatto il ‘68 e il ’77 in piazza, voi invece che avete fatto oltre ad ascoltare i Duran Duran in cameretta?", quelli che hanno la verità in una tasca e una mazzetta di banconote nell’altra ci hanno fatto a pezzi, si sono sfogati con noi, ci hanno detto che eravamo distratti, egoisti, viziati, annoiati e edonisti. Si, ci hanno detto così, ce l’ha detto qualche eskimo immacolato riciclatosi nella redazione de la Repubblica, ce l’ha ripetuto uno di quegli agitatori di professione riparati in Rai o da Feltrinelli, ce l’ha rammentato uno di quei sobillatori a gettone salvati all’anonimato da Mediaset, ce l’ha ricordato qualche inanellato e ipertatuato lookologo sedicente giornalista con il culto del cafonal. Tutti contro di noi: i criptointellettualoidi, i gruppettari, gli individualisti e i sociologi, gli ortodossi di sinistra, i rivoluzionari à la page, i radical chic e i destroidi, quelli che si riempiono la bocca e le tasche con i Valori, i bigotti e poi i peggiori di tutti, gli iperliberali anticlericali che in articulo mortis vedono la luce si convertono a centottanta gradi dopo una vita di bava alla bocca contro gli osservanti e i loro padroni in tonaca: ce l’hanno avuta tutti con noi e a morte, siamo stati oggetti delle attenzioni di tutti questi soggetti. Come? Disimpegnati a noi? Edonista a me? Avrei qualcosa da dire, così mi sfogo, fatemi sedere cinque minuti e portatemi un Americano con parecchio bitter Campari che da ora in avanti ne ho per tutti. Comincio col dire che noi siamo quelli nati in piena guerra del Vietnam, della quale qui si sapeva poco se non per quei sintetici bollettini del telegiornale letti da uno Zavoli o un Tito Stagno particolarmente laconici, seduti su una poltrona

evidentemente scomoda per la postura che assumevano con a malapena mezzo busto a spuntare da dietro la scrivania e alle spalle una cartina che segnava gli spostamenti delle truppe, i pezzi di foresta perduti e conquistati, un telegiornale che nascondeva sotto un velo grigio piombo come le giacche dei giornalisti una verità orrenda. Una verità che ci avrebbero raccontato con sfoggio di corpi bucati da pallottole e cervelli bruciati Francis Ford Coppola e Oliver Stone qualche anno più tardi. L’antipasto ce lo dette il monolitico John Wayne con Berretti Verdi, una vergognosa rileccata militarista interpretata da un personaggio odioso che ha contribuito più di ogni altro a rendere antipatica l’America (qualcuno dei sedicenti intellettuali nostri fratelli maggiori l’aveva invece scambiato per un eroe buono perché disinfestava le praterie del west dagli indiani ciabattoni e puzzolenti), un uomo dannoso, catastrofico per l’immagine di quel paese quasi quanto D’annunzio per la cultura italiana, e poi Taxi Driver del 1976 che mi fecero vedere per caso in un cinema all’aperto estivo pensando si trattasse di una commedia brillante newyorkese, ma alla terza scena mi ritrovai una pudica mano familiare sugli occhi e alla quarta eravamo già in strada a prendere un censoreo gelato dal Cervetti. Il Cacciatore del 1978 e Apocalypse Now del 1979 ci fecero passare una volta per tutte la voglia di giocare con i soldatini (che sarebbe stata anche l’ora) e ci spinsero ad applicarci con dedizione all’autoerotismo, senonchè i giapponesi, con sulla pelle e nell’anima il senso di colpa di chi ha combattuto una guerra e ne è rimasto superstite ai suoi simili e nella testa la sudditanza atomica piegata a esigenze commerciali, ci stavano già proponendo gli ineffabili mostri spaziali e gli invincibili eroi del bene, ma a noi di proiettili, missili e razzi rotanti, noi che il colonnello Kurtz ci aveva raccontato l’orrore del Vietnam – solo una guerra fra le mille altre guerre del secolo scorso e di questo

in corso ma particolarmente lunga, devastante come tutte le cose troppo lunghe che a un certo punto cominciano a trascinarsi, marcire e lasciare dietro di loro solo rancore marcio e odio putrefatto – noi ormai di divise, armi, elmetti e mitragliatrici non ne avevamo più voglia, avevamo solo voglia di lavarci i denti (cosa che i sessantottini disdegnavano nel timore che dentifricio, sapone e deodorante contaminassero la miserevole purezza della condizione proletaria sintomatica di una beatitudine a venire prossimamente su questi schermi) con il sapore di fresco del Palmolive, del Crest o del Colgate ma comprati al mercatino di Livorno e voglia di metterci addosso il bomber da aviatore come quindici anni prima i Beatles le giacche dell’esercito napoleonico. Per esorcizzare, direbbero quelli che si intendono di totem e soprattutto di tabù. A noi ci bastava avere l’alito fresco, o almeno un sapore in bocca diverso dai soliti atavici minestroni riscaldati maleodoranti di retorica. Poi la seconda ondata di films sul Vietnam fra 1986 e ‘87 (Full Metal Jacket, Hamburger Hill, Platoon, Vietnam, La grande fuga) arrivarono precisi precisi per farci passare la voglia, quei pochi che ne avessero avuta, di partire per il servizio militare. Rambo nel frattempo ci aveva fatto quasi sorridere: a 14 anni benché in piena tempesta ormonale con annessa aggressività puberale soffrivamo già di un antimilitarismo cinematografico di ritorno che avrebbe fatto impallidire Bertrand Russell e Fabrizio De Andrè, e lo sceriffo cattivo che si incaponisce nel volergli dare la caccia ci stava sulle palle anche senza che il regista ce lo dipingesse come gretto e violento. Dopo i vietcong e i marines ecco i reduci, o meglio i sopravvissuti, che in America chiamano Veterani perchè fa meno effetto.

Come definire la vecchiaia "anni d’argento", un eufemismo coniato dai conformisti sempre a caccia del corretto in quanto organici alla società del benessere a tutti i costi, per la quale anche alla dignitosa terza età va attribuito un valore di mercato possibilmente non in moneta deperibile ma in metallo pregiato. I Veterani: nome da squadra di football per dei mutilati, talvolta senza gambe, senza la vista e talvolta con il cervello bruciato. A 16 anni avevamo già il pelo sullo stomaco di uno Zack Mayo, cresciuto al piano di sopra di un bordello vicino a una base navale della US Army nelle Filippine (bugiardo, lo raccontava lui quando si presenta a West Point ma non era vero, come noi del resto, nessuno era nato a Cuba o a Wounded Knee ma istintivamente ci veniva da parteggiare per Carlo Alberto Juantorena eroe olimpico della rivoluzione cubana e per i Sioux, inconsapevoli eroi di documentari in memoriam). Noi, i leggeri, gli spensierati, i menefreghisti, siamo quelli che quando avevamo due anni di età i finocchi, i fascisti e i pedofili viareggini che galleggiavano a pelo d’acqua fra la darsena e la pineta di Levante ci mostrarono come si rapisce un bambino e lo si sotterra sulla spiaggia rimanendo impuniti dopo anni di processo e di errori giudiziari. Noi, gli individualisti, siamo quelli che sempre nel 1969 ci venne regalata l’immagine di piazza Fontana sconvolta con dei contadini rivestiti per il venerdì in città, gente che nelle cascine dormiva sui materassi di foglie di pannocchie, corpi fatti saltare e poi appoggiati sulla strada, un’immagine che lì per lì, a Prato come dovunque, riuscì poco più che a lasciare senza parole, perché del tutto inattesa ma della quale per anni e anni se ne sarebbe avvertito l’eco, sempre più doloroso perché eternamente senza spiegazioni,

esattamente come il giorno in cui la banca dell’agricoltura venne giù. Dopo i fascisti, i pedofili, i finocchi e i "veterani" ci spiegarono delicatamente - con piazza Fontana - cos’erano gli anarchici. Noi siamo quelli che nel 1973 ci fecero vedere sempre allo stesso telegiornale, un po’ meno grigio ma non ancora colorato, che un bambino dal cognome che ricordava un popolare dolce natalizio non necessariamente dopo rapito doveva essere violentato e sepolto ma poteva essere tenuto anche un po’ di tempo segregato per un finale finalmente lieto. Non ci hanno fatto mancare nulla, pensavamo che i sardi sul continente si occupassero solo di pecorino e di montare i cavalli del palio di Siena ma in realtà fuori dalle stalle erano crudeli rapitori che perseguivano follemente due obiettivi contrapposti, la secessione dall’Italia e il finanziamento del Cagliari in serie A, riuniti in una banda tanto segreta e probabilmente tanto stracciona da non potersi permettere neanche un nome, Anonima: come le società per azioni di una volta prima che gli economisti individuassero in tale appellativo qualcosa di estremamente poco attraente per gli investitori e le ribattezzassero spa. Quello dei primi anni ’70 era un telegiornale senza colori, ma il rosso e il nero sapevano perfettamente come agitarlo fino a farli materializzare in un pugno che sfondava il vetro e invadeva i salotti, le cucine, macchiava dei colori del sangue fresco e raggrumato le nostre tovaglie ricamate coi fiori, le tazze, i bicchieri, i nostri grembiuli con i colletti bianchi con o senza fiocco, i nostri pensieri. In quell’enorme macchia, quando più rossa quando più nera, c’era tutto: le sparatorie da saloon all’ufficio delle poste, le rapine alle banche puntuali come il meteo del mitico Bernacca, le foto dei carabinieri morti sparati nelle loro espressioni da cornice sulla credenza nei piccoli

riquadri bollati uso patente, commissari integerrimi, magistrati tutti di un pezzo ora sdraiati sulla strada vicino a una macchina con la scientifica intorno, c’erano operai vittime di movimenti operai, politici, tutto. Benvenute brigate rosse, ben arrivati a Moretti, Senzani, Peci e Curcio e saluti anche agli oscurantisti dell’altra sponda, ovvero a chi ci raccontò che a iscriversi all’università di Pisa o di Trento o leggere troppi libri faceva venire voglia di sparare a te o a chi ti sentiva parlare dei libri che aveva letto. Dovetti cercare un rifugio per Topolino ma soprattutto per il Giornalino di Gian Burrasca e I ragazzi della via Pal, non si poteva mai sapere che avessero un contenuto insurrezionale o rivoltoso. E ora fammi bere un altro sorso di quest’Americano e poi fammene portare un altro, con meno Campari e più vermouth che ho bisogno di un po’ di dolce in bocca, e poi senti questa. Quando una domenica alla Domenica Sportiva fecero vedere un gol di un ragazzo esordiente nella Roma che aveva la disgrazia di chiamarsi Curcio in quegli anni (infatti non fece carriera, anzi lo fecero sparire subito chissà dove, magari sta ancora a Regina Coeli ed è una delle migliaia di vittime di errore giudiziario) pensai che presto le brigate rosse sarebbero arrivate anche nell’album delle figurine Panini, ma non nella Juventus perché erano tutti buoni e forti anche più forti del babbo del Poli che assomigliava a Anastasi e guidava la stessa Fiat 124 (perchè Anastasi era uno da 124 non certo da Jaguar, come il babbo del Poli, e il massimo di chic che si poteva concedere era il gomito sul finestrino aperto) ma neanche nella Fiorentina, perché Firenze è quasi casa, è vicina a Prato, e si sa che a Prato non può succedere nulla perchè noi siamo i meglio del mondo e i fiorentini che non sono proprio come noi i pratesi

ma sono buoni anche loro sono brava gente e non possono di certo mettersi a sparare. Dopo gli americani, i russi, i cinesi e i vietcong, i finocchi, i pedofili, i fascisti, gli anarchici, i sardi, benvenuti a quelli che si definivano combattenti per il comunismo ma che i comunisti ripugnavano: una cosa complicatissima che sarà stata vera di sicuro ma che per capirla ci volevano anni e anni, a meno che uno non avesse già avuto a che fare con gli americani e avesse già perfettamente chiara la distinzione fra bene e male. (Forte questo accostamento fra etica e America, merita di ritornarci sopra per un’altra pubblicazione). Noi, gli scazzati a mezza strada fra Vasco Rossi (ma troppo stanchi anche per aver la forza di fare colazione con un toast la mattina, troppa fatica) e gli Spandau Ballet (ma senza quelle camice da ricchioni), siamo quelli che hanno sfidato il solleone e il freddo sulla sella di un motorino, quelli che andare a Vaiano o a Montemurlo d’inverno era un viaggio con le correnti di aria fredda che ti aggredivano dopo il ponte alla Dogaia sulla vecchia Montalese e subito dopo la Madonna della Tosse, alle propaggini di quella vallata gelida. Oggi no: dall’indefinita fine di Prato all’indefinito inizio di Montemurlo la temperatura è costante, estate e inverno, è come attraversare la Manica nel sottopassaggio, solita temperatura, solito paesaggio, solito puzzo di chiuso. Siamo quelli che allo stadio hanno lottato contro i bolognesi, loro avevano le lame, noi le mani nude. Loro venivano dalla serie A, avevano combattuto e forse vinto o forse le avevano prese dalla Fossa dei Leoni, noi venivamo da Quarrata, da trasferte in bici con il nonno, il cappellino di carta in testa e i panini al formaggio. Li abbiamo vinti e ricacciati indietro, rispediti a Bologna sul loro treno, e alla villa del palco eravamo in tanti, quando il loro treno è passato avevamo le loro vite in un pugno, li

avremmo potuti sterminare se avessimo voluto, ma nessuno si fece niente, tutti tornarono a casa quella sera, chi in pizzeria con la ragazza, chi in famiglia a vedere il Tenerone di Drive In. Dopo gli americani, i russi, i cinesi e i vietcong, i pederasti, i pedofili, i fascisti, gli anarchici, i sardi, i comunisti combattenti, benvenuti anche ai bolognesi. Che "bolognese" in quegli anni poteva voler dire tutto: dalla mortadella a Gigi e Andrea, da Radio Alice a Lucio Dalla alle balere dove si esibiva quello di “Riccione viale Ceccarini”, dai tossicomani stesi in piazza Maggiore alla comunità di Muccioli (che, come le droghe leggere, ancora ci devono spiegare se ha fatto bene o male), dalla nebbia quattro mesi l’anno al basket alle donne prosperose fino al sesso orale. Che figata Bologna, altro che Prato, con che coraggio avremmo potuto sterminarli quella domenica alla villa del palco, parliamoci chiaro? Noi siamo quelli che ieri giocavano con le bilie di vetro e i tappini sull’asfalto e oggi facciamo la raccolta differenziata (anche per colore) della bottiglia e persino dei tappini di plastica di cui la Coop dopo averli raccolti non si sa cosa se ne faccia dicendo in giro che servono per aiutare i bambini poveri dell’Africa (forse qualche fondazione vicina alla banca Unipol ha investito nel Ciad in enormi tappinodromi per lo svago delle popolazioni subsahariane sponsorizzati da investitori ebrei?), facciamo la raccolta differenziata quando la generazione che ci ha preceduto lasciava le siringhe dell’eroina nei giardini dove andavamo a giocare. Non tutti, ovviamente, ma molti di quelli che sono sopravvissuti alle pere sono quelli che dai pulpiti ecologisti fino a ieri ci insegnavano pazientemente come a degli alunni deficienti in quale cassonetto va l’alluminio e in quale la carta degli scontrini ma che ancora dibattono senza trovare una soluzione (tipico degli ex tossici parlare a vuoto per ore) su dove debba andare il tetrapak.

Al variopinto pantheon della nostra gioventù composto di americani, russi, cinesi, vietcong, pederasti, pedofili, fascisti, anarchici, stragisti, sardi, comunisti combattenti, bolognesi si aggiungevano i drogati. Si, ci hanno convinti che un mondo più pulito è una necessità per il pianeta, che è un dovere verso le generazioni che sono già arrivate e che verranno, che è giusto per noi (ma dov’è il mondo più pulito rispetto a trent’anni fa? Nel fatto che hanno coperto le gore e che l’acqua di scarico dopo un acquazzone riemerge dalle fogne dove l’hanno sepolta? Sono pulite le campagne dove pensando di andare per asparagi e rughette respiri a pieni polmoni sopra una discarica di immondizia e rifiuti radioattivi?) e che è giusto soprattutto per le generazioni che verranno. Che noi ci siamo fatti precisi ed europei, ci siamo lasciati imporre il fair play e il politically correct l’avranno capito le generazioni successive alla nostra? L’avrà capito la generazione successiva alla nostra, quelli che oggi hanno tra i 15 e i 20 anni che ci siamo trasformati in consapevoli ecologisti per loro? Se ne accorgeranno che stiamo differenziando come matti anche per loro pagando fortune in tasse sui rifiuti mentre loro piastrellano le piazze di brick dell’Esthate vuoti dopo averli presi a calci e mosaicano le strade di bicchieri di plastica per la birra dopo essersi sbronzati maledicendo la generazione prima di loro che ha devastato il pianeta e gli sta rubando il futuro? Occhio giovani che abbiamo un principio di artrosi per colpa del freddo preso in vespa tanti anni fa ma siamo parecchio cattivi e se ci mettiamo d’accordo e non paghiamo la Tarsu quest’anno voi vi ritrovano sommersi dalle cartacce della pizza al taglio e dalle bottiglie di Ceres in cui navigate. Si, siamo proprio noi, la mia generazione di menefreghisti e immaturi, quelli che oggi per andare a gettare un rifiuto nel

cassonetto giusto ci facciamo anche cinque chilometri e ci lasciamo tre euro di benzina con la macchina al minimo, sfiorando appena con il piede il pedale del gas, scivolando le strade, a regime basso, per inquinare il meno possibile e perchè i cassonetti ormai stanno sparendo a causa della loro bruttezza che deturpa il paesaggio urbano quando, con quello che si paga di tassa sui rifiuti, potrebbero essere foderati di stoffa di Roberto Cavalli e una delle tante eccellenze del made in Italy come la caciotta, la vernaccia o i tondini in ghisa che come si fanno noi in Corea se lo sognano sempre per lo stesso motivo, perchè noi italiani siamo i meglio del mondo. Noi poveri imbecilli del ‘67 siamo quelli che ancora oggi percorrono tangenziali intasate, ingorgate, infognate, che giriamo come la merda nei tubi su strade che quando abbiamo preso la patente erano mezze vuote di giorno e completamente vuote di notte: chi se non noi? Noi siamo quelli che hanno fatto il militare negli anni ’80, quelli a cui avevano messo in testa ci fosse un nemico che premeva sulle frontiere del Friuli Venezia Giulia che ci potesse invadere o tirare i missili, e allora ci ammassavano nelle caserme ghiacce marmate di Aviano, Manzano, Casarsa della Delizia, per impedire che i comunisti (ma quelli veri, quelli coi baffi e il colbacco, quelli cattivi che dicevano Da! e Niet! mentre i nostri erano suppergiù come noi e magari ci abitavano anche accanto di casa) conquistassero le terre dov’era nato e cresciuto Dino Zoff. Dovevamo impedirlo con il Fal e il Garand uno scempio del genere (la casa natale di Zoff doveva rimanere italiana!), i due fucili della seconda guerra mondiale che ci davano con diecimila raccomandazioni (nemmeno funzionassero per davvero!) con le canne rifinite da decenni di inutilizzo e lucidate come calcagni di calzini vecchi, consumate come i ditoni della statua di San Pietro da olio e straccio di generazioni di burbe, marmittoni, razzi, missili, dovevamo

difenderla a costo della vita la patria di Carnera, Capello e Collovati, indottrinati che quella meraviglia di patria vinta a tavolino nelle due guerre precedenti fosse da difendere a tutti i costi, al costo di un anno di vita civile. E dove non ci si fosse riusciti con il Fal e il Garand si doveva provare tappando gli spifferi con i piumini Ciesse e buttando i materassi contro portoni e vetrate, con le mani e i piedi freddi e con la faccia affettata dai rasoi d’ordinanza Bic che tagliavano come la lama di una scimitarra bengalese e portavano via pelo, brufolo e neo. Con la sveglia alle sei e la faccia devastata dalla rasatura quotidiana mi domando come avremmo potuto ricacciare indietro l’esercito dei sanguinari Milosevic e Arkan quando al massimo avremmo potuto riconoscere il maresciallo Tito per averlo visto in foto che al di là di tutto sembrava uno zio di quelli che stanno verso Sant’Angelo a Lecore, un contadinaccio dai modi un po’ bruschi ma affidabile perché riusciva a tenere tutto in casa lo zinganaio dei parenti rom e con un paio di urlacci farsi rispettare anche dai comunisti della Russia? Come avremmo potuto? Dovevamo difendere una provincia dell’ex impero austroungarico dalla minaccia della riconquista dei serbi assassini dell’erede al trono che minacciavano di riprendersi Treviso, Verona e Bergamo. Pensa un po’ che perdite! Ad averlo saputo prima che quelli di Treviso, Verona, Bergamo, Bressanone, Brescia e Cassano Magnago non avevano nessuna voglia di rimanere in Italia ci saremmo risparmiati il furto di un anno di vita e la rapina organizzata ai nostri danni dall’associazione a delinquere composta da ministero della difesa, trattorie del Friuli e ferrovie dello stato. Non siamo stati altro, per questo paese, che una tassa da riscuotere.

Forse l’8% di quello che ci è costato fare il servizio militare andava per la ricostruzione delle case terremotate nel 1976, ma ne dubito. Comunque ci hanno trattati come fossimo un’accisa da mettersi in tasca. Mentre qualcuno partiva per il militare e qualcun altro già tornava, mentre qualcuno si affannava a rimandare cercando di rimanere disperatamente agganciato a qualche esame universitario e qualcuno stava a casa ad aspettare una telefonata di raccomandazione, si cominciò a sentir parlare di glasnost e perestroika che tradotte in italiano volevano dire: i dollari americani e i pesos vaticani stanno facendo andare in ruggine la cortina di ferro lasciando penetrare dalla parte in cui c’erano i comunisti da combattere la plastica e annesse occidentali mollezze. Ma noi non lo sapevamo, e continuammo a cercare sulla roulette di Montecitorio un politico democristiano o un socialista su cui puntare forte per ottenere un congedo secco da riforma per insufficienza toracica o favismo o sul più malleabile avvicinamento a casa. Appena finito il servizio militare, puntati decisi sul sottosegretario un paio di milionazzi chi con risultati soddisfacenti chi meno, e in un anno salvata la Patria vinta al Risiko nei gloriosi 130 anni precedenti di Re-Re (Regno- Repubblica, un avvicendarsi di regimi sempre raccontataci dai funamboli della retorica come una meravigliosa avventura biancorossevverde) accadde quello che era difficile prevedere ma che era da un pezzo nell’aria senza che nessuno ovviamente ci spiegasse (tutti complici dello sfruttamento alle nostre famiglie messo in atto da paninoteche, pizzerie e trattorie del lombardoveneto), stava per accadere quello che nessuno ci raccontava e che invece era nell’aria: la caduta del muro. Vedemmo gli inflessibili tedeschi dell’est piegarsi e contorcersi in tutti i modi per attraversare il muro preso a

picconate e passare da ogni breccia e da ogni fessura. Qualcuno anche tranquillamente dal Check Point Charlie che fino a poco prima ci faceva pensare: se passano da lì con tutti gli americani che ci proteggono per noi dell’ovest potrebbe essere la fine. I dopatissimi atleti della Germania Est, costruiti in laboratori segreti da perversi medici metà scienziati e metà vivisezionatori che facevano incetta di medaglie nell’atletica e nel nuoto, visti da vicino erano quattro sfigati con il baffetto e il capello corto davanti e lungo dietro che al suono di Go west dei Pet shop boys e ubriachi di liquore al ginepro marciavano ordinatissimi si ricongiungevano a pasciuti berlinesi dell’ovest, anche loro con il baffetto e il capello alla Littbarski ma con il giubbetto di pelle meno consumato e un po’ più di carne addosso. Tutti a dire: ha ha! ecco perché gli atleti dell’est erano forti negli sport individuali e non nel calcio, era perché si drogavano! Noi mica invece. Lasciamo fare quelli della generazione precedente la nostra che lasciavano le siringhe appoggiate per ritto nei giardini dove giocavamo per introdurci alla droga fin da bambini, ma prendi proprio il calcio. Uno come Maradona si che è un grande campione, dicevano beatificando l'ennesimo tossicodipendente, lui non ha mica bisogno di drogarsi, quello si che è un , perché ha talento e basta, non ha bisogno né di allenarsi né di drogarsi come fanno invece quelli dell’est. E infatti non si allenava e la domenica la pipì nelle provette gliela faceva l’ultima delle riserve, quella che si allenava, andava a letto presto il sabato sera, non giocava mai e guadagnava in un anno quanto Maradona in 3 minuti. Che poi quelli della Germania Est e dell’Europa orientale in generale non sapessero giocare a calcio era una sciocchezza che poteva essere raccontata solo da quel cotechino di Giuanin Brera, convinto che a pallone, decentemente, si

potesse giocare solo dalla linea del Po (quella che noi gli difendevamo nelle caserme della periferia di Udine) in su e in particolare a Milano in zona civica - San Siro. Gli altri, per Brera, terroni, francesi, inglesi, argentini, pugliesi, toscani e dell’est, erano tutti esseri inferiori, minorati fisici rispetto ai lumbard e pippe nel giocare a calcio. Antognoni infatti era milanese, Platini brianzolo, Ardiles della valbrembana, Panenka di Cinisello Balsamo, Paolo Rossi di Seregno, l'Innocenti di Varese, il Lastrucci di Lambrate. Ma và, và, vecchio barbogio. Mentre invece quelli dell’Europa orientale erano il Brasile quando ancora in Brasile il pallone era di pietra, altro che il Trapattoni che picchiava come un metalmeccanico di San Donato Milanese o Sandrino del Mazzola che faceva il ballo del mattone su una gamba sola. Austriaci, ungheresi e cecoslovacchi accarezzavano il pallone palleggiandolo per mezz’ore e potevano giocarci 90 minuti senza mai alzarlo di un metro da terra quando ancora in Inghilterra qualcuno lo prendeva con le mani e puntava a meta rimanendoci male se gli fischiavano fallo, scatenando la rissa e poi andare a finirsi di ubriacare in qualche pub (perchè gli inglesi, questo è vero c’è da dirlo, hanno rotto da sempre le palle a tutti con il rugby, le risse da sbronzi e con quelle chitarrine elettriche). Quelli dell’est erano forti a pallone quando ancora a Milano andavano in giro vestiti di pellicce, mugugnando in longobardo e raccogliendo i frutti spontanei della terra o dell'albero degli zoccoli. La prima edizione del campionato del mondo, che sarebbe stata vinta a mani basse anche si fosse giocata sulla spiaggia della darsena a Viareggio da una delle nazioni danubiane, venne disputata nel posto più irraggiungibile per un ungherese, l’Uruguay.

La Fifa non mandò gli inviti, raccontò che si sarebbe giocato in Cina invece che in Uruguay, non volle che il mondiale venisse pubblicizzato sui giornali, sconsigliò mezzo mondo ad andarci, diceva c'era pericolo, sabotò le navi, bucò i palloni, giocarono le partite di notte affinché non partecipasse e non vincesse l’Austria o l’Ungheria che ad un Uruguay o Argentina ne avrebbe tranquillamente fatti 7 o 8 anche giocando in ciabatte. Infatti vinse l’Uruguay, una specie di dittatura come l’Italia del ‘34 e del ‘38: pallone e manganello con Ungheria e Cecoslovacchia battute in finale. Fifa per la federazione internazionale del calcio non poteva essere nome più appropriato. Nel frattempo la Germania altra dittatura peggio dell’Italia e molto peggio dell’Uruguay nel 1936 occupava l’Austria, altra terra di artisti del pallone mentre qualcuno, come "cartavelina" Sindelar, uno dei migliori fra questi artisti, scompariva in qualche campo di rieducazione per calciatori troppo bravi (con viva soddisfazione dell’Arrighe, il normalizzatore per eccellenza dei giocatori bravi). Poi venne la guerra e la maggior parte di quella generazione di eleganti palleggiatori fu mandata al fronte e poi nei campi di concentramento. Non è un’invenzione cinematografica che per organizzare una partita di calcio decente nel 1944 bisognasse andare lì a ripescare i giocatori e rimetterli in piedi con iniezioni di minestra di pane, quella di Fuga per la vittoria era una banda di internati di varie nazionalità (e quelli che stavano peggio, i più macilenti e scheletriti, erano per l’appunto magiari, boemi, moravi che per fargli tornare la voglia di giocare a pallone una volta liberati sarebbe passato qualche anno). E mentre il merito di quella sorprendente vittoria contro la nazionale nazista se lo prendeva tutto Edison Arantes Do Nascimento uscendo dallo stadio Colombes di Parigi fra la

folla che lo mimetizzava di abiti civili, poco più a est, a Yalta, Pelè ricompariva come testimonial della inviato da Blatter a fianco di Churchill, Roosevelt e Stalin per decidere quanti mondiali avrebbe vinto il Brasile nel futuro assetto internazionale (sempre a discapito della Cecoslovacchia e dell’Ungheria). A noi ci hanno raccontato tutta un’altra storia e nel 1989 non potevamo saperlo com’era andata per davvero. Le atlete della Germania Est che ci dicevano fossero uomini con gli attributi ridimensionati da robuste iniezioni di ormoni prelevati in chissà quale nefasto esperimento, nel 1989 mentre entravano a Berlino Ovest non erano che misere donnette dal vestito a fiori e con il cappottino liso produzione di misera tessitura bulgara o macedone, giusto con un po’ di peluria sul mento causata dalle privazioni e dall’eccesso alimentare di patate e altri tuberi di varia natura. La Tv ci mostrò che quelli pensavamo fossero freaks gonfi di steroidi e anabolizzanti o nemici pronti a invaderci erano uguali a noi, ma molto più straccioni, o forse lo erano davvero organismi modificati e barbari pronti a invaderci ma la Tv probabilmente con l’intento di farci commuovere (si sa com’è fatta la televisione), ce li fece vedere mentre provavano a demolire un muro enorme a colpi di piccone (un colpo di piccone, quattro colpi di tosse) oppure a scavalcarlo mentre i vopos li guardavano passare immobili tanto che parevano finti (e forse anche commossi). Un altro Americano, grazie, questo con più soda che ho da finire il ragionamento. Quelli dell’est, quelli che gli dovevamo sparare addosso perchè stavano per invaderci, erano diventati nostri amici e fratelli, presto sarebbero stati anche un possibile mercato e clienti per Prato, solo che non avevano soldi per i vestiti di lana buona e di taglio elegante ma giusto quelli per comprarsi un hot dog con il wurstel più succulento di quello

dell’est, i crauti più freschi e le salse più saporite annaffiati dalla birra non comunista e dalla Coca Cola. A noi ci stavano convincendo che con il cardato e la stoffa da poco prezzo non si sarebbe andati da nessuna parte e nel frattempo, di nascosto, chiusi in qualche grattacielo o in qualche sotterraneo, lavoravano per aprire il mercato a un oceano di straccioni con in tasca milioni di marchi dell’est e di zloty svalutati che al cambio corrispondevano a pochi dollari con i quali non si sarebbero potuti mai permettere i vestiti di lana pettinata o di mohair che a Prato si erano attrezzati a fare aspettando il nuovo boom dell’economia capitalistica. Al massimo si potevano permettere uno sciccoso guardaroba di pronto moda cinese. Stavano preparando una fregatura di proporzioni colossali. Qualche pratese prevedendo scenari complicati per l’industria manifatturiera si provò anche a intentare una causa civile nei confronti dei membri partecipanti ai negoziati detti Uruguay Round, quei paesi che prima erano nel Gatt e che dopo pochi anni avrebbero dato vita a quella meravigliosa creatura tentacolare chiamata World Trading Organization, una causa per concorrenza sleale, ma un avvocato che aveva lo studio in via Rinaldesca li sconsigliò: Lasciate fare, qui ci si picchia il capo. Noi, gli illusi, i delusi, i soggetti da moralizzare, siamo quelli che abbiamo assistito a tutto questo e non solo, abbiamo assistito alla fine della banca di Prato. Fino agli anni in cui andavamo a scuola e quando abbiamo cominciato ad affacciarci al mondo del lavoro, noi paninari, noi dark, noi tamarri, c’era la Cassa, qualsiasi cosa c’era la Cassa. Comprare un macchinario, ampliare la ditta, comprare un terreno sul quale ampliare la ditta, chiedere un mutuo, un leasing, un prestito, un po’ di soldi per andare a cena a Filettole o al Piranha, c’era la Cassa.

Investimento? Ma che scherzi davvero? Non li toccare i tuoi, mettili via, c’è la Cassa! Debiti? Ovvienvia, non esistono i debiti, ci pensa la Cassa! Prato era come Atlanta: invece che Coca Cola City, Cassa City. La Cassa di risparmi e depositi di Prato sponsorizzava ogni cosa, persino la squadra di pong che nel 1985, nessuno lo sa, vinse lo scudetto. Ci giocavano i migliori giocatori italiani, Massimo Costantini, il giovanissimo aretino Francesco Manneschi, il cinese Lu (l’anno dopo invece arrivò Lo) e il Paolo Gori della libreria accanto a Mattonella che ancora ogni tanto si affacciano sulla porta, lui e quella montatura degli occhiali che si porta sul naso, e se non si fosse sempre di fretta verrebbe voglia di andare a prendere le racchette e rinchiudersi nella palestra del Buzzi dove negli anni ’80 c’erano i tavoli a pomeriggi interi a gareggiare in schiacciate e recuperi miracolosi. La Cassa era la finanza cattolica che sosteneva l’economia capitalista ma scarsamente liberista di una città governata dai comunisti e dove quelli meglio sistemati erano i socialisti, una triangolazione straordinaria possibile solo in Italia, una quadrupla convergenza parallela che poteva durare se tutti i ganci fossero rimasti al loro posto, ma prima qualche vite, poi qualche dado cominciarono a saltare e poco prima che i topi cominciassero a buttarsi dalla nave il meccanismo si sgangherò completamente. Giusto in tempo per farci esclamare, a noi che da poco eravamo nel lavoro o stavamo per entrarci, a noi che stavamo per investire (investire, che mito, che parola, ancora si usa benché non investa più nessuno in nessun campo da più di vent’anni!): che paese, l’Italia! Giusto in tempo per far dire a noi, a noi Yuppies, a noi rampanti cresciuti con il mito del prestito e del successo: che città, Prato!

Avessero fatto un videoclip di noi ci avrebbero rappresentati come l’impiegato impazzito che sale in vetta alla collina si slaccia la cravatta e il bottone della camicia e lancia nel vuoto la sua valigetta 24 ore. Perchè no? con una bella canzone dei Pink floyd in sottofondo. Le generazioni prima della nostra avevano avuto il boom pompato da massicce iniezioni di dollari che avevano fatto ripartire l’economia e l’industria, avevano avuto l’occupazione quasi piena garantita dalle continue svalutazioni della lira (dal letto ti venivano a tirare giù la mattina per andare a lavorare, dal letto!) e dall’esplosione dell’impiego nel pubblico (tutti in Comune! tutti nell’Usl! tutti al ministero!). Si, siamo noi, quelli di La Spezia, di Reggio e di Trento, siamo noi quelli che ancora vanno a vedere il Prato come se tutto fosse normale, come se questi ultimi trenta e più anni di inutile dittatura (quella del Toccafondi è la dittatura più inutile della storia occidentale, il presidente di calcio a impatto zero è un'invenzione pratese, il Prato è la squadra placebo, non fa nè bene nè male, ti fa solo stare tranquillo sapere che c’è) non ci fossero stati, quelli che quando guardiamo una partita in Tv ci meravigliamo che il colore del pallone non è più bianco e nero a esagoni cuciti, che sui nostri televisori Ld Hd non riconosciamo più le maglie della nostra squadra, a volte ci capita di essere per tutti e due o contro tutti e due, e ancora le guardiamo. Noi siamo quelli che quando ci chiedono "Scusi via delle Pleiadi?" rispondiamo "Icchè? Indove?". Siamo quelli che quando passiamo da quel vialone lì dove una volta non c’era niente (ma niente) e in fondo vediamo lo spicchio d’arancia, la fetta di panettone, la colonna crollata, la scimitarra rigirata, la buccia di patata davanti a un museo che si chiama come un giocatore del Bologna ci chiediamo ancora: perché?

E da quando non c’è più l’enorme spicchio di mandarino metallico ci domandiamo: chi l’avrà preso? E soprattutto: cosa se ne saranno fatti? Poi però dopo averci riflettuto quattro secondi non ce ne frega giustamente più nulla perché lì c’era solo per caso e prima o poi qualcuno l’avrebbe sicuramente portato via perché tanto a Prato è risaputo "un regna nulla". Ce lo chiediamo dove può essere finita la buccia di limone solo perché eravamo abituati a vederla e ci viene spontaneo chiederci che fine può aver fatto ma eravamo consapevoli e lo siamo tuttora che lì c’era per caso, era solo appoggiata nell’attesa che la mettessero da un’altra parte o la facessero sparire. Tutto talmente anormale da risultare normalissimo. Ma attenti, moralisti, voi che ci avete bollati e catalogati come vacui e disimpegnati, perchè verrà un giorno che senza rivoluzioni, senza spargimenti di sangue, senza che nessuno si prenda una manganellata nè che venga tirato un petardo nè rovesciato un cassonetto (ai quali teniamo perchè con quello che paghiamo di tassa sui rifiuti ormai ce li siamo comprati e ricomprati un centinaio per uno, sono nostri) verrà un giorno eccome se verrà che tutto tornerà a posto, al suo posto, dove non ci sarà più spazio per voi. Perchè noi siamo la storia del mondo, il passato, il presente e il futuro. Noi, antieroi. Di un mondo fottuto, corrotto, inquinato, malvivente, puttaniere, politicizzato, rinfinocchito, volgare, sessuomane, sessuofobico, sessista (e tante altre cose) che non abbiamo voluto noi ma ce lo siamo ritrovato, con il rischio oltretutto di finire con i sandalini sopra una siringa messa per ritto da quelli prima di noi.

Gordon Pub

Mi sarebbe piaciuto se qualche riga di introduzione, di conclusione o di intrusione me l’avesse potuta scrivere Pier Vittorio Tondelli, uno strano soggetto capace di masticare e assaporare fino in fondo la vita nel breve tempo che gli è stato concesso, scrivere di essa e di tutte le cose belle che uno può leggere e poi di andarsene presto dopo aver riferito quello che aveva da riferire, e oltretutto averlo riferito in maniera sublime. Mi sarebbe piaciuto che quanto di postmoderno c’era già nella Prato di fine anni ’70 primi ’80 avesse avuto il tempo di raccontarlo lui, che lo aveva annusato e intravisto, se in quegli anni non fosse stato troppo impegnato in scorribande notturne sulle colline reggiane e lungo la via Emilia "a Carpi! a Carpi!" che era, nell’età postmoderna, una piccola Prato della bassa padana. Mi sarebbe piaciuto, ma solo per farmi due risate, che di sicuro a quel tempo non ne avrei capito il senso, che me l’avesse raccontata lui personalmente davanti a un bicchiere da cucina pieno di vino rosso con quella sua vocetta da checca intellettuale emiliana una cosa di quelle che si divertiva come un matto a scrivere sui suoi libri facendogliela declinare alla pratese in un "autostrada Firenze - Divertimento che sventra e stupra il paesaggio rurale, prendendo lo slancio da Pratilia (primo tempio del consumismo) e tagliando da una parte il vorticoso processo di modernizzazione e dall’altra la civiltà contadina con le sue tradizioni e regole escludendola o costringendola ad un ruolo marginale e subalterno, quasi schiavistico, amputandogli le sue capacità relazionali e affettive". Sarei morto di gioia se, dopo averle scritte e coperte con un gomito mentre le scriveva su un foglio, me le avesse passate per farmele leggere per farmi morire di gioia.

L’avrei capito fin da subito che il mondo non sarebbe più stato uguale se il concetto di campagna cementata o di città rurale me lo avesse spiegato prendendomi Berlinguer ti voglio bene e interpretandomi la metafora dei quattro bischerotti che dal cavalcavia della Firenze - Godimento si fanno passare il futuro che arriva e il nuovo che avanza sotto i piedi, con un piede dalla parte della modernizzazione e l’altro nella civiltà contadina. Dai microfoni di Radio Strega gli avrei chiesto di raccontare della trasformazione delle osterie di una volta in paninoteche, chi meglio di lui sempre alle prese negli anni della formazione giovanile, che sarebbe stato l’intero percorso della sua sfortunata e irripetibile esistenza, sempre alla ricerca di qualcosa che potesse dissetare il cuore, l’avrebbe potuto raccontare? Gli avrei lasciato il microfono aperto e facendo finta di intervistarlo (ma non ci sarebbe stato nessun bisogno di fargli nessuna domanda) lo avrei abbandonato al deliquio verbale, dandogli di occhiolino ogni tanto e facendogli segni con le mani su quando calcare un concetto, cattivo e poetico come solo le checche sanno essere: ora cattivo Piervi, ora poesia, vai. O altrimenti lo avrei portato al Gordon Pub di via del Castagno dove sedendoci al tavolaccio di legno a sinistra, sulla panca addossata al muro avremmo raccolto proseliti e interlocutori nella complicata disquisizione su quando, dove, come e perché i vecchi circoli cominciarono a puzzare e a scomparire in favore di videobar, birrerie e pub, soffermandoci di volta in volta su elementi significativi e fatti salienti come quello per cui in questi posti all’inizio era sempre possibile bere una bottiglia di vino decente e poi non lo fu più. Però gli avrei chiesto anche, in un momento di confidenza, di come andasse la sua ultima storia.

Per bere il vino, mi avrebbe spiegato Tondelli, bisognava avere un po’ di tempo a disposizione e una certa rilassatezza che invece il contesto frastornante dell’osteria trasformata in bar impediva e allora avvenne che qualcuno di questi locali il vino cominciò a non servirlo più, altri a versare nelle bottiglie i cartoni di tavernello che anche se non venivano consumati subito potevano rimanere lì alcuni giorni che tanto il vino avrebbe avuto lo stesso sapore. Poi lo avrei interrotto e avremmo parlato un po’ di come il tempo e la noia siano capaci di corrompere i sentimenti. Quei circoli allora si disfecero di vecchi arredi che per quanto di legno cattivo e plastica avevano segnato un’epoca, l’epoca di interminabili dibattiti sulla politica, su che senso avesse fare politica, sul significato di prendere parte ma anche di non esserci, di essere altrove, di conquistare il proprio spazio nel mondo o di opporre resistenza al mondo e fare battaglie collettive, individuali e interiori. Ma su questo Piervi mi avrebbe seguito solo un pò, nel giro di qualche minuto si sarebbe sbarazzato della mia presenza spostando il discorso sulle caratteristiche dei frequentatori di un posto assurdo, pertanto normalissimo, come il Gordon Pym Pub di via del castagno, propaggine commerciale della sezione del Partito Comunista Italiano intitolata all'onorevole compagno deputato Mario Alicata. Mi avrebbe risposto ridendo che la sua ultima storia lo faceva soffrire, poi avrebbe puntato gli occhi sui riccioli neri di quello alto con la camicia aperta sul davanti appena entrato. Avremmo osservato con sommo godimento gli avventori: gli anziani caffè corretto sambuca o stravecchio, i sindacalisti da quattro ore in fabbrica quattro in Camera del Lavoro e quattro di bancone del Gordon (in famiglia solo quattro schiaffi), l'avvocato fuori orario che si concede un whisky doppio prima di tornare in studio a istruire una causa, indugia con il motore in folle al semaforo e poi invece fa un

salto a vedere cosa passa il marciapiede a Calenzano, i giocatori di schedina incalliti, il gommista con le unghie pulite (ce ne sarà da qualche parte almeno uno, no? perchè non al Gordon quindi?), quello che alle 21 esce di casa per comprare le sigarette con la tuta e i mocassini dicendo torno fra cinque minuti, entra al Gordon, sente che qualcuno parla di corna (un fatto che lo riguarda) e ci fa chiusura, i giovani casual, i giovani in divisa da giovane, i Golden Drakes con le pance extralarge i gilet di pelle gli stivalacci sformati che pretenderebbero di entrare con le Harley, fanno finta di incazzarsi perchè non gli viene permesso e poi recitano la pantomima degli offesi "noi qua non ci mettiamo più piede, anzi ringrazia il tuo dio che non sfasciamo tutto" poi arriva uno dei soci del circolo, gioca la parte del conciliante, li fa rientrare dallo scazzo e loro si fanno portare la birra fuori sul marciapiede perchè sono ancora troppo impermaliti per entrare e cominciano a fare casino sulla porta del pub, gli appassionati di birra che si muovono in gruppo, raccolgono i sottobicchieri e si cuciono sul dietro del giubbotto la spugna con stampata la marca preferita, gli sfigati, quelli che hanno appena riaccompagnato la fidanzata a casa, la fidanzata che si è fatta riaccompagnare a casa dal fidanzato che tanto sta lontano e non può sapere (non essendoci ancora i telefonini) che lei è uscita di nuovo, quello con i debiti che fa capolino solo quando quello con i crediti (suoi) se n'è andato, i fans dei panini di Alfredo o della patata fritta del Bini che Alfredo invoca dalla cucina al bancone con il tradizionale "Bini dueee". E poi ci saremmo raccontati ancora una volta di quella sera del 1984 (io e Piervittorio c'eravamo perchè le persone speciali ci sono sempre) in cui al Gordon Pub capitò Keith Haring che solo noi naturalmente riconoscemmo benchè il personaggio per quanto trasandato non poteva passare inosservato.

Fra una birra rossa e una chiara ordinò una focaccia con cipolle e ketchup e nel chiacchierare sommesso con un amico (che ricordo perfettamente per le due enormi basette pelose) incideva con un coltellino nel legno delle figure esili ma molto nitide con degli enormi peni tondeggianti. Chissà dove sono finiti quei tavolini che solo dopo pochi anni sarebbero stati quotati milioni? Se fosse praticata l'archeologia da pub qualcuno avrebbe un indizio dove andare a cercare. Ma sono contento che oggi il Gordon sia quasi tutto cambiato, che abbiano abbattuto un muro, rimbiancato con colori vividi, aperto un varco, costruito nuovi bagni e che i frequentatori si siano completamente rigenerati, e anche Tondelli lo sarebbe. Non avremmo tollerato, quando l'altra sera dopo tanto tempo e senza più Piervittorio ci sono passato davanti, di ritrovarlo come venti anni prima, ingombro dei poco familiari ormai fantasmi di quegli anni dissipati e caotici, non maledetti, affatto eroici e forse nemmeno sbagliati. Solo sfortunati.

Kiss me Moore

La mattina del 1974 in cui Guerrando Gori chiuse la porta di casa dietro di sé lasciandosi alle spalle gli odori della notte e di cavolo bollito e con una borsa di tela dello Sport 2000 si diresse incontro al destino che partiva alle 7,56 dalla stazione centrale, gli operai del Comune arrivarono in piazza San Marco con un paio di furgoni carrozzati Pasino con il pianale scoperto e cominciarono a scaricare tubi, tavole di legno, dadi, viti, giunture ma non i rivetti che ci sarebbero tornati a prenderli più tardi così per perdere un pò di tempo. In poco più di mezz'ora quell'aiola bistonda dall'erba più gialla che verde era riempita e transennata. Poi gli operai se ne andarono al bar San Marco a fare colazione mentre il cielo si abbassava gonfio di pioggia, tanto che qualcuno di loro si stava già stropicciando le mani pregustandosi un acquazzone durata 8,30-12,30 di quelli che dalla porta a vetri del bar guardi fuori commentando: "Mezza giornata pagata dal contribuente buttata via, proprio un peccato". Nel 1974 esistevano ancora gli operai, erano visibili, talvolta anche dietro il vetro di un bar ed esistevano - sono sempre esistiti - i contribuenti. C'era coscienza di classe, "il socialismo era come l'universo, in espansione", tutto era politico e il Cile e la Cina erano per l'appunto laboratori politici, espressione coniata dal Binda che una sera davanti alla televisione in bianco e nero in una sezione di periferia del Pci che dava un servizio sulla situazione cilena arguì "Bada che laboratorio!", prontamente corretto da un dirigente seduto accanto a lui "Politico ovviamente", "Si si logico, un laboratorio politico", espressione che poi finì su una pubblicazione ciclostilata da diffondere alle masse e poi transitata nell'uso corrente degli analisti, tutta gente laureata in sociologia e materie affini

che alla definizione di "laboratorio politico" col piffero che c'era arrivata e che in sezione si facevano vedere solo su invito accompagnato da opportuno rimborso spese di trasferta a carico dell'operaio che stavolta era compagno, operaio e contribuente al tempo stesso. In Cile e in Cina eccome se lo sapevano di essere collocati in "laboratori politici", dolori se ne erano consapevoli!, ma si creò un'incomprensione fra il poco che questi popoli erano in grado di comunicare con la scarsità di mezzi perlopiù censurati dal regime e l'ancora meno che gli analisti erano in grado di percepire, tanto che questi ultimi elaborarono una definizione ulteriore, più avanzata, un pò più radical e clamorosamente più chic (quasi Vivienne Westwood), quella di Think tank: "Siamo un laboratorio politico!" "Non capiamo da qua, che cosa siete? un think tank?". Ma il Binda aveva capito tutto: "In Cile sarà anche un gran laboratorio (politico) però a giocano parecchio bene", cogliendo un nesso fondamentale fra regimi dittatoriali e sport al punto che qualcuno dei dirigenti della sezione pensò che il Binda fosse un sociologo laureato a Trento, qualcuno che avesse studiato alla scuola di partito a Frattocchie e qualcun altro gli propose l'incarico di "Addetto ai rapporti con la DDR", un ruolo non precipuo nell'attività della cellula ma sicuramente non marginale perchè prima o poi una delegazione di tedeschi dell'est si sarebbe recata in visita insieme a qualche atleta per un'esibizione sui 400 metri ostacoli e la sezione di periferia perlomeno avrebbe potuto avere il Binda da proporre in quella disciplina, che non era certo la sua specialità ma che perlomeno non parlava di sè stesso in terza persona il che non è mai gradevole, tanto più in presenza di compagni di oltrecortina, che talvolta venivano rapiti dall'horror vacui provocato loro dal corrotto occidente e si giocavano, chiedendo l'asilo politico, il rimborso trasferta del ministero dello sport o della Stasi.

Inoltre nel 1974 il portiere di riserva del Real Madrid si stava per infortunare seriamente e, abbandonata la panchina e la camiseta delle merengues, nel giro di poco avrebbe lanciato con "Un'altra vita un altro amore ti darò" un inno generazionale, destinato a ricomporre l'annosa questione del "quello che è privato è anche politico o un parcheggio poco illuminato dietro una discoteca a Campi Bisenzio è da considerarsi pubblico ma con le dovute riserve?". Alla risoluzione dell'interrogativo dette un contributo fondamentale Bendit Cohn che sostenne l'importanza di attaccare al vetro socchiuso dei giornali e di lasciare il parcheggio libero dai preservativi usati, inaugurando la stagione ecologica, quella di dare risposte nuove alle domande vecchie (o usate) semplicemente riciclandole in interrogativi nuovi, come già faceva da un pezzo il Baroncelli. In un angolo del bar San Marco sedeva infatti tale Baroncelli, nome di battaglia "il prode Nerio" che interrogava sè stesso e gli astanti (l'astanteria, così veniva soprannominato il ristretto circolo di illuminati che gli dava spago nelle sue elucubrazioni) su uno di quei dilemmi che quotidianamente, ma non più di una mezz'ora per volta, lo tormentavano: "Ho sbagliato io a portare il mi'genero la domenica a Tizzana, a Larciano e a Tobbianella di Montale per svagarsi. Ho sbagliato io, era meglio se non ce lo portavo. Me ne dovevo accorgere quando mi cominciò a fare: guarda Nerio, guarda come si vede bene il cielo da quassù, sembra di toccarlo, anzi pare quasi ti tocchi lui, non ti senti toccato dentro Nerio? Lì avrei dovuto smettere di portarlo a svagarsi dai pensieri del lavoro, avrei fatto meglio a lasciarlo andare in ditta a contare le casse di filato come faceva da qualche mese alla domenica. Un giorno mi fa: ma te Nerio ci credi agli Ufo? No Gianni non ci credo, o forse si ci credo ma non lo so, è una

domanda difficile. E lui: io mi domando e dico come si fa a non credere agli Ufo, certo che a te Nerio e a tutti voi il telegiornale, la tribuna politica, tutte quelle bischerate scritte sui giornali, i politici, la chiesa, a voi vi hanno proprio rincoglionito eh. No Gianni gli rispondo io, non è che non ci credo perchè mi hanno stordito i politici o i preti, è che non lo so, non ho tanto tempo per pensarci, colpa mia è vero lo riconosco, sono un pò distratto, un pò è che si invecchia sarà anche quello, insomma gli stavo dietro con il ragionamento, gli volevo dare una risposta, mi accorgevo che questa cosa degli Ufo lo prendeva parecchio e lo volevo assecondare. Sbagliavo a fare così, ho fatto peggio. Finchè l'altro giorno a tavola davanti al telegiornale riattaccò con gli Ufo e io gli feci, deciso: Gianni, te portami una mezza prova che gli Ufo esistono e io non solo comincio a crederci ma faccio di più, vengo su a Tobbianella con te e il telescopio a vederli atterrare, te lo prometto, spengo il televisore che ci rincoglionisce tutti, anzi lo vendo, lo fo venire a prendere da Emmaus e ti giuro vengo con te la notte su sopra Montale a vedere gli Ufo, ma portami una prova, mezza prova, me ne basta un quarto di prova ma portamela. Non pretendere, insistetti, che io ci creda così sulla parola Gianni, sennò se credo a te sai a quanta gente dovrei credere tutti i santi giorni? Portami mezza prova, un quartino di prova, una fotografia, una figurina, qualcosa che sia credibile però. E' come se mi dicessi: lo sai che in Brasile c'è un ragazzino di 16 anni che segna quattro gol a partita? Ci credi vero? Ci devi credere. Sei un rincoglionito e un ottuso se non ci credi. Io ci credo, hai voglia te Gianni se ci credo che in Brasile ci possa essere un ragazzetto di 16 anni che in serie A brasiliana segna quattro gol a partita, ce ne sono tanti di giocatori bravi di 16 anni in Brasile, hai voglia se ci credo, però non ti dico un filmato ma almeno una foto di questo

ragazzino fammela vedere, una foto, una figurina, qualcosa, sennò come faccio a crederci? Certo che però non mi devi portare la foto di un omino verde alto un metro con le antenne e con sette gambe con la maglia del Flamengo addosso dicendomi: questo ragazzino è un fenomeno, segna quattro-cinque gol a partita, bisogna andare laggiù con i soldi in mano e comprare il cartellino sennò arriva qualche procuratore importante e ci soffia l'affare oppure ancora peggio i cacciatori di organi e lo fanno a pezzi, perchè è logico non ti creda. Mi spiego?". Questo era il dubbio quotidiano del "prode Nerio" in un angolo del bar San Marco mentre nel bar dalla parte opposta della piazza, al Vittoria, Guerrando prendeva un cappuccino insieme ai primi operai del turno della mattina "O Guerrando, o che parti?" "Si parto, per me possono costruire quante filature vogliono anche in mezzo alla piazza, io me ne vado". Dalla finestra si sentiva la Marianna, uno dei primi travestiti di Prato (uno dei primi si fa per dire, era almeno una decina d'anni che le - peraltro rarissime - volte si annusava l'odore di un travestito si continuava a dire: uno dei primi a Prato, cominciavano ad essercene una quindicina ormai ma tutte le volte era sempre "uno dei primi", la provincia è anche questo) che interpretava a suo modo Mina "Io vedo tutte quante le mie amiche son tranquille più di meee...come le faranno a essere tranquille a me mi gira i cogliomberi dalla mattina alla seraaa...". Gli operai del San Marco stavano aspettando un Tir con il rimorchio carico di non si sa quanti di preciso pezzi di marmo, che da qualche parte, non si sa da quale, doveva arrivare, ed era in ritardo. Uno di loro si fece cambiare 100 lire con un gettone telefonico e prese in mano la cornetta di un apparecchio di metallo grigio appeso al muro e fece ruotare un numero con il prefisso.

Dall'altra parte nessuna risposta tanto che l'operaio si rivolse agli altri dicendo : "Ragazzi, questa è la solita fregatura, a Firenze sono sempre a letto" "E allora che si fa? Si ricarica tutto sul camion?" "Aspettiamo un altro pò, se non arriva nessuno si transenna tutto, si mette un po’ di birilli per terra e un pò di cartelli intorno alla piazza e si lascia tutto così fino a nuovo ordine". Fuori, intanto, stava arrivando una 127 sul giallognolo di quelle che una volta facevano su e giù per le autostrade con il solo scopo di intralciare il normale scorrimento delle auto le quali, vedendo questo mezzo con qualche presunzione di autorità solo per aver scritto Società Autostrade sullo sportello e un lampeggiante sul tettino, inchiodavano per prudenza ma con grande rischio di tamponamenti a catena e di intoppare per una giornata buona il tratto Bologna Casalecchio-Orte con i consueti ricoveri per principio di congelamento a Pian del Voglio e i rituali dispersi nella bufera a Roncobilaccio dove poi, al pronto soccorso, si ripetevano le pietose scene di bisunti camionisti calabresi e di casuali automobilisti romani assiderati e storditi ai quali l'appuntato della Stradale offriva un cordiale e nel redigere il verbale era tenuto a rivolgere la tradizionale domanda: anche lei come gli altri si è visto venire incontro un vecchio lo sguardo profondo e un fazzoletto al collo? Poi si attivavano le ricerche di questo famigerato vecchio di Roncobilaccio che secondo qualcuno aveva persino una bomba in mano e secondo altri offriva vino e sigarette vere, ma come sempre il giudice istruttore manteneva sul caso "il massimo riserbo" e passavano i mesi fino a che la mano di qualche stanco magistrato avellinese o di Torre Annunziata archiviava il fascicolo dopo aver derubricato il caso da "tentata strage aggravata" a "presunto contrabbando" e poi si rilassava sulla poltrona ascoltando un romanzo a puntate di Cronin sul secondo canale radio.

La 127 aveva il lampeggiante spento tenuto fermo con una mano allungata fuori dal finestrino. Quello dell'autogru che aveva in appalto i lavori si agitava e le sue parole si perdevano nel rumore del motore a gasolio: "Non arrivano? Mi fanno perdere una giornata...ho da smontare un capannone di macchinari in via Bologna per la settimana nuova!". "Abbia pazienza, sono dovuti tornare indietro perchè dal casello non ci passavano". "Passeranno da Capalle...". "Sono dovuti tornare indietro anche da lì, dal sottopassaggio non ci passavano". "Passeranno dal Ponte Petrino allora....". "Anche da lì sono dovuti tornare indietro…". "Allora ditegli di passare dal Poggio a Caiano e di venire su per via Roma". "C’è il sottopassaggio al Soccorso, si figuri se riescono a passarci da lì". "Ma fateli girare al macrolotto e passare per Paperino allora!". "Siamo nel 1974, macrolotti non ce ne sono, siamo ancora in quello zero e nemmeno c'è la via Baciacavallo". "Ha ragione anche lei, ma allora vanno fatti entrambi, che posso perdere le giornate di lavoro così io? Ma si può sapere cosa fa quest’amministrazione comunale?”. Insomma, quando c’erano dei ritardi da Firenze gira e rigira era sempre colpa dell’amministrazione comunale, di assessori nullafacenti e del sindaco che secondo i consiglieri di opposizione invece faceva tutto lui tranne il sindaco, andava a prendere ordini a Firenze, si faceva dettare l'agenda dagli industriali in via Valentini (la stessa agenda che a fine anno gli regalavano) e andava alla frontiera persino a giugno con un colbacco in testa a ritirare borse piene di rubli e consegnava dossier per un certo signor Mitrokin, a volte tutto nella stessa mattinata.

Per quel giorno non se ne fece di niente, vennero messi un po’ di birilli a caso, qualche cartello sparpagliato con frecce in tutte le direzioni, persino per aria e il traffico logicamente impazzì anche a causa di quelle due gocce d’acqua per le quali anche chi era in casa senza fare niente prese la macchina e si precipitò nel traffico. Comunque a parte qualche imprecazione estemporanea nessuno si accorse di niente. Poi il giorno dopo quando s'era fatta quasi l'ora di desinare, le sirene e le moto dei vigili, palette che stoppavano e deviavano verso la periferia, la piazza venne in fretta evacuata dalle macchine, la città rallentò intorno al monumento che arrivava. Campionario di commenti raccolti al volo: dice ci sono due autotreni fermi e non possono andare avanti con i lavori, quali lavori?, di preciso non lo so dice ci fanno una filatura di marmo, macchè filatura di marmo rifanno porta fiorentina di marmo, portano una filatura da Firenze, smontano una filatura a Prato e la rimontano a Firenze, svuotano le filature di Prato dai pratesi e ci mettono a lavorare i fiorentini mentre i pratesi li mettono chi in Regione, chi custode agli Uffizi, chi gli danno una botteguccia in via de'Neri o in piazza San Lorenzo coi fiaschettini del Chianti appesi fuori, hanno trovato il marmo in piazza San Marco?, ci gostruiscan l'agropoli (disse un meridionale), non è una filatura di marmo è un gigante di marmo forse una piramide, ecco il gigante smontato in trenta pezzi, uuuh guarda il gigante! chissà com’è il gigante da montato, chissà quant’è alto, chissa chi è soprattutto, chi sarà? che cosa rappresenterà? che lo sa lei io non lo so, speriamo non sia una altro obelisco brutto come quello in piazza San Francesco, o icchè la dice quell’obelisco è proprio bello, bello cheaccei brutto un si sa come, brutto come il monumento ai caduti, come si permette lei di dare di brutto al monumento ai caduti? lo sa che io ero balilla di picchetto

armato il giorno lo smarrimessano?, ah son contento per lei che ha fatto il balilla ma l’obelisco e il catafalco in piazza delle carceri non si possono vedere nessun dei due, via la mi faccia il piacere stia zitto ignorante, ignorante a me ma mi faccia il piacere lei è antico come il paleo, le porto rispetto perché la potrebbe essere il mi’ nonno, giovani o che leticate per una volta che c’è una novità a Prato? vu’ siete buffi però sempre a lamentarvi che in questa città non succede mai nulla e il giorno succede qualcosa subito a criticare, è vero ha ragione la signora lei è un disfattista, e lei un antipratese, me lo venga a dire nel muso, ma sul giornale non c’è scritto nulla di che monumento sia?, mah speriamo non sia qualcosa che gli avanza a Firenze e ce lo rifilano a noi, speriamo serva, macchè serva a cosa deve servire un monumento speriamo sia bello semmai scusi eh questa è una città che prima o poi nel turismo dovrà investire, turismo? no no qui si sta bene fra noialtri altro che il turismo per farsene d’icchè del turismo, speriamo serva invece come serve il ponte che hanno fatto quattro anni fa perché io ad andare alla Pietà ora ci metto meno prima mi toccava a fare tutto il giro, già davvero o come si faceva prima che facessero il ponte di via Machiavelli?, male si faceva!, no che ponte di via Machiavelli ponte di via arcivescovo Martini casomai, l’è via Machiavelli, no l’è ancora via arcivescovo Martini, Machiavelli, Martini, Machiavelli, Martinelli ehm...la mi fa imbrogliare, sa che cos'è lei? un baciapile, e lei è un massone anticlericale, eh comunque prima che facessero il ponte si faceva parecchio meglio perché io sto lì e ora c’è traffico e prima non ce n’era, eccone un altro, ma di che colore è questo monumento?, è bianco la un lo vede? in Comune lo volevano rosso ma rossi gli avevano finiti, ah ah ah grullo, ma si può sapere chi l’ha fatto?, Tiziano!, Tiziano chie?, scherzavo, ah mi pareva, via ho da finire di fare la spesa ripasso dopo se ho tempo, la mi saluti il grullo del su’ marito (poeretta o che gli fa ancora da

mangiare al marito? ha più corna in capo lei che un cesto di lumache), (ma chi la cosa?), (bah lei...shhh), via vo via anch’io, ah ecco di chi è di Moore!, Mur? o chi sarebbe ?, è uno scultore inglese, tutti noi si raccattano, glielo potevano far fare a Romano Battaglioli è tanto bravo, davvero brava signora al Battaglioli glielo dovevano far fare come se non ci se n'avesse di artisti bravi a Prato! ce li abbiamo in casa gli artisti bravi e si vanno a comprare fuori, si ma tanto il Battaglioli a quest’ora non poteva venire a montare il monumento cià l’edicola, se non ci passano dal ponte gli posso dare qualcosa che ho in casa io da mettere in mezzo alla piazza la mi’ socera di bischerate la ne compra tante ho il tinello pieno, digli che il monumento lo diano a Giuliano Gori che se lo metta in giardino a Santomato, prima o poi a qualcuno gli verrà l'idea di comprare un capannone dove metterci questi porcai poi ci scrive sulla facciata "museo d'arte contemporanea" vedrai qualche giapponesino con la reflex ci viene di sicuro, essele museo quello?, si signore essele museo meglio che quello di new york dale me diecimila lile e fale quante fotoglafie la vole. Ovviamente nessuno sapeva di cosa si trattasse di preciso, erano tutti in disaccordo su tutto e con chiunque ma non c'era nessuno che non avesse un'opinione convinta o un pregiudizio sprezzante da esprimere. Ma sul fatto che gli autotreni avessero sbagliato strada erano tutti d’accordo, seppur in maniera diversa: dovevano passare da, no avrebbero dovuto svoltare a, se facevano la superstrada sarebbe stato meglio perché, no perché si sarebbero trovati a… e allora, si ho capito ma girando a… si sarebbero trovati in… e allora, esattamente ci puoi arrivare solo da lì, si ma anche prendendo per, ah si volendo anche prendendo per ma avrebbero fatto il giro di Peppe. Confermando un dato di fatto ben noto agli osservatori più attenti, pochissimi per la verità e proprio per questo particolarmente acuti, che quando un pratese racconta un

fatto si deve sempre soffermare su dove sia accaduto con esattezza, tornando anche più volte indietro nella narrazione e riflettendoci ripetutamente fino a scordarsi di raccontare il fatto a cui faceva riferimento e invece intraprendere un’altra discussione non sul fatto in sé ma su dove può essere accaduto, che alla fine diventa l’unica cosa rilevante Per questo, grazie agli osservatori più attenti, pochi ma acuti, tutto il mondo ormai sa che se sul marciapiede di Piccadilly Circus un venerdì alle 18, sull’isola pedonale di Times Square a Manhattan, in piazza Tien an Men nel 1989, nel mare della tranquillità sulla luna nel luglio del 1969, sulla piazza Rossa a ottobre, in centro a Parigi nel 1968, a Pukhet durante lo tsunami, in uno qualsiasi dei luoghi suddetti se vedi due tizi che discutono animatamente o sbraitando su quale strada hanno fatto per arrivare, chi ci ha messo meno, quale strada avrebbero dovuto fare per fare prima (infischiandosene di qualsiasi cosa gli succede intorno) puoi stare sicuro che sono pratesi. Una volta un pratese fu sentito proprio con queste orecchie mentre spiegava ad un altro pratese come girare in macchina per la California: "Io conosco una scorciatoia per arrivare a Sacramento che non conosce nessuno, da Los Angeles prendi la tangenziale, vai pure tranquillo a 160 perchè nel primo tratto autovelox e polizia non ci sono mai, poi però rallenta e esci alla seconda stradina a destra, fai quella, non c'è mai nessuno e in cinque minuti d'orologio sei proprio nel centro storico a Sacramento dietro la casa della famiglia Bradford. Gli americani non la conoscono, la conosco solo io. Si okay c'è da fare duecento metri contromano ma ne vale la pena e poi se ti dovessero fermare i vigili, gli dici che sei italiano, sei di Prato, conosci il Nesi, poi qui i vigili non sono mica ignoranti come i ciuchi come quelli di Prato, se hai un sacchetto di cantuccini lo tiri fuori

e gliene offri due vedrai non ti fanno nulla perchè noi pratesi siamo i meglio". Ci misero dieci giorni a montarlo il monumento, una volta che fu ben chiaro a tutti che di un monumento e di nessun'altra cosa si trattava (e ce ne volle per farlo entrare in certe zucche dure come il travertino che era un monumento di marmo, da una signora di via Pomeria sui 55-60 anni ci dovette andare tre o quattro volte a casa il messo comunale a spiegare che si trattava di un monumento perchè questa si era messa in testa di denunciare il Comune per i disagi alla circolazione e le prime volte non apriva la porta convinta fossero i testimoni di Geova poi quando le dissero era venuto il messo comunale con dei fogli e delle spiegazioni si era impuntata ancora di più barricandosi in casa stizzita) con gli operai chiusi dentro il cantiere recintato con le tavole di legno guardinghi e bardati come gli etruschi di Veio assediati dai romani senza capirci niente su da che parte cominciare a sovrapporre quei blocchi di marmo inerti e inespressivi, fra i sospetti della gente e le imprecazioni del proprietario dell'autogru che aveva si in appalto i lavori ma soprattutto aveva urgenza di smontare una fabbrica in via Bologna per rimontarla non si sa dove. Il barista del Vittoria disse distrattamente mentre con un cencino rimuoveva la brinatura di zucchero dal bancone: "Una filatura di marmo? Guerrando ha fatto bene a partire per l'Australia, in una filatura di marmo non ci avrebbe mai lavorato". Alla fine una volta montata a strati come un panettone farcito, la Forma Squadrata Con Taglio di Henry Moore a qualcuno ispirò subito fiducia, ad altri per niente, qualcuno la trovò familiare, qualcun altro se ne accorse una decina d'anni dopo quando apparve su una rivista e subito disse "questo posto dev'essere Berlino o Pietrasanta, peccato noi a Prato di artistico non ci abbiamo niente", qualcuno potè

millantare un Picasso prima maniera in città e qualcun altro più terra terra ci riconobbe Altafini mentre segnava di testa contro il Napoli e per un critico d'arte che scriveva sul quotidiano locale ebbe "il culo rivolto al passato, l'occhio bianco, fisso e spalancato, rivolto al destino ma un pò di traverso rispetto al viale Piave". Ma nessuno nel 1974 ebbe il coraggio di chiamarlo buco torto.

Niente sarà più come prima

Mi riceve nel suo buffo salotto con la tappezzeria damascata a fiori, qualche bottiglia polverosa di liquore dietro un vetro, la ridicola ikebana con i suoi fili illuminati, altri oggetti senza il loro compagno, si capisce da questo che da qui qualcuno è passato e si è portato via qualcosa. Anche il nome della strada dove abita evoca cose passate: via del melograno, città vecchia. "Credo che certi ricordi siano un atto di memoria unilaterale. Una pausa del tempo in cui sei. Un posto che non corrisponde, ma che c’è. E certe cose te le porti dietro, anche quando ritorni al tempo corrente". Io e te sappiamo com'è andata, forse anche altri lo sanno ma hanno ritenuto meglio per le loro esistenze attuali tacere su com'è effettivamente andata. Non che riparlarne oggi possa servire a qualcosa, chi era a conoscenza dei fatti che hanno portato alla fine di quell'esperienza li ha tenuti per sè e con gli anni si sarà ampiamente assolto, perchè l'unico perdono umano possibile è darsi una giustificazione, anche la più strampalata. I rimorsi si soffocano soprattutto così. Del resto fosti tu, con il tuo gesto salvifico, a tirare giù il sipario. E quelle parole che lasciasti scritte a penna sull'etichetta della bottiglia "dopo queste fiamme di musica e poesia nulla sarà più uguale a prima" a noi hanno calmato per sempre il dolore. "Il rancore è un sentimento inutile. C’è gente che mi ha fatto stare male di cui oggi non ricordo neanche il nome" mi ricordo dicesti l'ultima volta che ti incontrai, ma non era vero che lo pensavi, e tutti e due lo sapevamo che ci stavamo prendendo, con profonda sincerità, in giro. Cisvo a rivederlo oggi, dopo tanti anni, mi pare ancora più surreale così allampanato e con quella testa allungata, le

basette di ordinanza ed evidenti sintomi di eccesso ormonale tipico dell’età pubere stampati sul volto. Sembra stia insieme con il nastro adesivo, ho quasi paura che di colpo mi si sfasci, come fosse un vecchio pupazzo di cui, giocando, hai abusato. Fuori piove. Da qualche altra parte del mondo il cielo dovrà pur aprirsi. E se non si apre da solo perché non andiamo ad aprirlo noi? Intervistarlo è quasi impossibile, qualsiasi domanda gli fai ti risponde con una frase ad effetto, uno slogan dei suoi, lancia un sasso senza preoccuparsi dello schianto che potrà fare e delle onde che potrà propagare. Se non fosse solo un cervello connesso ad un imprecisato numero di ossa (non ci giurerei ci siano ancora tutte non avendo il Cisvo trattato il suo corpo esattamente come un tempio) tenute insieme da qualche articolazione arrugginita potrei persino dire che è feroce.

"Ogni persona è, tra le altre cose, un oggetto facile da rompere e difficile da riparare".

Ci passiamo fra le mani qualche vecchia fotografia di un concerto che non riusciamo a ricordare ma i cui particolari ci sembrano di ieri, la ressa ai cancelli, la gente sotto il palco a pogare, la sbronza collettiva di luci, suoni, musica e alcool a buon mercato. Il presentatore con la giacca di paillettes blu e i capelli impomatati lo introduceva, lui e la band, come Don King avrebbe introdotto il match clou della riunione del New Year’s Eve al Caesar Palace, una lunga litania di titoli, onorificenze conquistate sul campo e di aggettivi che avevano lo studiato proposito di eccitare e incattivire gli animi dei più scalmanati sotto il palco i quali finivano per scaldarsi ancora di più e cominciavano a vomitare insulti e tirare la roba.

"La musica di Cisvo e dei Lokomotive Lipsia ha orrore delle teorie e schiude all’immediatezza della percezione perché nasce da una percezione immediata, dal fluire opalescente di immagini rese in pennellate sciolte di suono, incline alla scarsezza di particolari di chi dipinge quadri di intimità, fragili nenie, ritoccati con la pazienza di chi, nell’angoscia, sa attendere la felicità" scrissi di te poco prima del tuo tramonto, e ci fa ridere, perchè riuscivamo a parlarci di noi e a toccarci dentro solo parlando volgare e scrivendo sofisticato. Hai avuto successo Cisvo, lo sai? "Dici che ho avuto successo? No, non sono io che ho avuto successo, la verità è che il mondo è talmente sciatto che persino uno come me ha avuto delle opportunità". Non mi convinci, tantopiù se lo dici con quella faccia lì. Invece io sembro stupido se ti dico che il tuo basso elettrico spento fa un rumore assordante? "Un basso quando è spento non fa nessun rumore, è spento e basta, se qualche onda sonora continua a propagarsi non è colpa mia, non me ne sono mai preoccupato di dove andassero a sfasciarsi quei suoni, una volta usciti erano di chiunque, non avevo più nessun potere su di loro, non erano neanche più miei". Per questo, esattamente per questo ti vorrei chiedere del futuro, anche qui se non mi avessi già dato la tua risposta molto tempo fa, quando il futuro era più facile suonarlo che raccontarlo.

The future is unwritten but I got it in my guitar pickin’ thumb.

"Guardare il futuro è come guardare controluce. Non vedi davanti ma sai che qualcosa c’è. E in quel caso l’immaginazione funziona come occhiali da sole".

Lo scrivo, mi sta bene anche questa spiegazione, ma ti avverto che te la sei cavata con poco. Gli vorrei dire anche grazie di questa non intervista, di questo colloquio a due con sé stessi, di questa chiacchierata surreale se non sapessi già la sua risposta: "No sono io che ringrazio te perché questa è l’ultima intervista che concedo. Da oggi io sono un ex e di quegli anni non voglio più parlarne né sentirne parlare". Lo sguardo ammiccante nel frattempo si è spento, la camicia aperta sul petto ricomposta, l’aria ribelle appannata. Lo scotch che lo teneva insieme adesso non lo tiene più. La poltrona del buffo salotto a fiori accanto alla mia è vuota. Queste sono le domande che avrei voluto fargli se… queste sono forse le risposte che mi avrebbe dato sempre se forse… Fuori ha smesso di piovere, il pomeriggio stanco adesso allunga le sue ombre blu e arancioni. Ciao Cisvo, hai ancora bisogno dello scotch lassù?

Fabio Casini

Sono Fabio, ho 43 anni, sono in galera in attesa di giudizio. Due settimane fa di mercoledì, giorno dei colloqui, ero di turno in cucina come aiuto cuoco, il lavoro che ho chiesto e mi hanno assegnato, e mi stavo cambiando in cella quando è venuta la guardia a chiamarmi per avvertirmi che c'erano persone in parlatorio per me. Non aspettavo nessuno. I genitori non li ho più e l'avvocatessa, dopo avermi comunicato che l'istanza di scarcerazione al tribunale della libertà era stata rigettata mi aveva avvertito che la mia ragazza non sarebbe venuta a trovarmi, perchè non ce la faceva a vedermi qua dentro e aveva deciso di prendersi un pò di tempo per sè, era riuscita ad accedere grazie a un direttore di filiale compiacente a un conto corrente cifrato sul quale avevo depositato qualche migliaio di euro, li aveva prelevati e lasciato scritto su un foglio fatto recapitare allo studio legale che se ne sarebbe andata ospite da amici lontano da Prato e che per qualche giorno avrebbe tenuto il cellulare spento. E in una borsa del Tennis Club Etruria lasciata davanti alla porta dell'ufficio dell'avvocatessa aveva messo un pò di biancheria pulita, una stecca di sigarette, dei biscotti al plasmon e una decina di fogli da cinquanta appallottolati. In parlatorio mi stavano aspettando due ragazzi di poco più di venti anni, ancora troppo giovani per essere laureati, me ne potevo accorgere persino io che da un pezzo non frequento giovani e non mi sono mai laureato, i quali mi dissero essere volontari di un centro recupero per ex tossicodipendenti e giocatori d'azzardo, si erano rivolti alla direzione del carcere per qualche nominativo con cui essere messi in contatto in grado di aiutarli a portare avanti un progetto di sostegno e reinserimento basato sul monitoraggio e la raccolta di dati e testimonianze di chi, dopo aver frequentato certi ambienti, stava affrontando la

fase giudiziaria e in un futuro, potenzialmente, rientrare nella società ripulito e ben intenzionato. Chissà perchè gli avevano dato il mio, fra tutti gli "utenti" di questa struttura, ma perlomeno mi onorava il fatto che gli avessero dato solo il mio. Presentandomi con la tuta di bianca addosso, un paio di Nike alte e i capelli più lunghi del normale pettinati all'indietro pensai che nel giro di qualche minuto dopo avermi esposto la cosa mi ringraziassero di essere sceso in parlatorio, che non ero esattamente quello che si aspettavano, mi salutassero facendomi gli auguri e se ne andassero pensando che "questo c'è ancora dentro tutto" andandosi a cercare un altro soggetto da intervistare e monitorare. Invece furono molto amichevoli, mi illustrarono il progetto con umiltà, senza porsi su nessun piedistallo come invece sospettavo, gli avrei voluto dire " sono dentro da nemmeno un mese come fate a essere già qui? give me time to realise my crime!", come Boy George quando attacca Do you really want to hurt me, e invece dissi loro "chiedetemi pure qualsiasi cosa, sono qua dentro, tranne che fare da mangiare per 300 persone due volte al giorno non ho da fare quasi niente", il tono della conversazione a quel punto si fece più confidenziale e mi dissero che da una persona con un minimo di istruzione come sarei io (le superiori le ho finite e con un buon voto in sessantesimi) avrebbero gradito qualcosa di scritto, un racconto della mia vicenda, una specie di autobiografia criminale (il mio nome sarebbe rimasto segreto o citato solo sotto autorizzazione) che forse sarebbe stata utile per una tesi di laurea o magari per una pubblicazione utile agli addetti e, se il progetto avesse racimolato in giro per enti pubblici di qualche ulteriore sovvenzione, persino tradotta in chiave teatrale e recitata in qualche residenza protetta, in un piccolo teatro e perchè no,

anche in carcere. Sarei diventato il ghost writer di un autore di testi di teatroterapia. Non male per un ex industriale ex narcotrafficante attualmente detenuto e coinvolto in una faccenda di ristorazione di massa, altrimenti detto italian job. Chiesi: "E che nome gli avere dato al vostro progetto?" "Veramente ancora non ha un nome, pensavamo a qualcosa che ricordasse l'atto di assumersi le proprie responsabilità e di scontarle, raccoglierle, impacchettarle e poi spedirle lontano da sè per poter ricominciare, non sappiamo di preciso, non è facile perchè il nome del progetto quando lo si presenta è molto importante, dev'essere di impatto, deve colpire la fantasia, oppure pensavamo ad un accostamento fra il nero che si ha dentro e l'atto di chiuderlo in un sacco e affidarlo al mare, allontanarlo, oppure scacciare il nero ballando (Dancing in the dark sarebbe bellissimo), insomma ancora non abbiamo deciso ma dobbiamo pensarci su bene perchè come abbiamo detto è molto importante". "Bello, qualunque nome alla fine venga fuori mi sembra siate sulla rotta giusta e per quanto mi riguarda ve lo approvo, così sulla fiducia". "Allora possiamo contare sulla tua collaborazione, Fabio, ti diamo un paio di settimane di tempo, o anche qualche giorno in più se ne hai bisogno, per raccontarci la sua storia e descrivere in linea di massima come hai intenzione di affrontare il carcere se verrai condannato e poi la fase del reinserimento". "Volentieri, ho tutto in testa, sono in attesa di giudizio ma per quello che mi riguarda il giudizio su chi sono e cosa ho fatto me lo sono già dato. Spero però che la sentenza del giudice sia molto, molto più mite". E da due settimane ormai me ne sto qui, con la penna in mano appoggiato a una tovaglia di plastica a fiori macchiata di caffè, in cella insieme ad altri cinque attori che non sono amici nè nemici, di cui non mi fido ma al

tempo stesso ho imparato a non aver paura, che hanno tutti i giorni le stesse facce anche se un giorno piangono, un giorno litigano, un giorno sbroccano e si minacciano di morte e il giorno dopo si abbracciano e rifanno pace. Il loro si che è teatro, la loro rappresentazione di questa realtà ristretta è sublime così come enfatici sono i testi, un melodramma autentico. Qualche volta i dialoghi sono poco comprensibili, il copione ripetitivo, la loro credibilità scarsa ma si sanno muovere, c’è poco da fare. Interpretano la loro parte di pregiudicati o in attesa di giudizio più che dignitosamente. Conoscono alla perfezione l’arte del lamento e dello scarico delle responsabilità. Peccato solo che nel mio testo per loro non ci sia spazio: quando avrò terminato di scrivere queste tre o quattro pagine che in mano al regista giusto diventeranno testo teatrale psicoterapeutico loro al massimo potranno recitare il ruolo di comparse. Perchè c’è stato un tempo in cui io ero qualcuno e questi in cella con me al massimo avrebbero pregato per avere lavoro da me, si sarebbero scannati fra di loro pur di lavorare per me, li avrei potuti selezionare, mandare allo sbaraglio, farli diventare ricchi se avessi voluto, o rovinarli, farli arrestare o sparare, dare loro una partita di merce sbagliata, fasulla, alterata, li avrei potuti far fuori dai miei rivali se avessi voluto, avrei avuto potere di vita o di morte su di loro. Ero il loro regista fuori e potrei esserlo qua dentro. Uno regista, attore o comparsa ci nasce perchè nella vita è questione di ruoli, o stai sopra o stai sotto, non c'è niente da fare, e mentre comparse (o attori) ci si inventa registi invece non ci si improvvisa. Per questo oggi ho deciso di raccontare e di provare a spiegare come un regista può finire in cella insieme ai suoi attori e alle sue comparse.

Confesserò su queste tre o quattro pagine come si diventa il cuoco dei propri sguatteri, ma senza dimenticare chi sono io e cosa sono loro, che gli attori e le comparse, senza un regista, semplicemente non esistono. Sto esagerando si, me ne rendo conto, non ho mai avuto questo potere in realtà. e questo ruolo da boss che sto assumendo è fasullo ma mi sto allenando a scrivere di quello che mi è successo, voglio giocare a prendere sul serio questa opportunità che mi è capitata, scrivere. Racconto la storia partendo dalla fine: sono dentro perchè accusato di traffico di droga internazionale. Tre anni fa, quando avevo una ditta mia, se me lo avessero previsto non solo non ci avrei creduto ma li avrei mandati a quel paese. Non immaginavo che a quel paese, e prima di quello in molti altri, mai visti, fantastici, presto ci sarei andato io. Quasi che oggi, ora, mentre viene su il ventesimo caffè da stamani, bruciato come tutti gli altri diciannove perchè le comparse nella mia cella giocano a fare i protagonisti dimenticandosi anche di una macchina da caffè sul fornello, mi pare normale anche essere qui, naturale conclusione di un’ubriacatura di sole, di mare, di porti, di donne, di miglia marine, di Sugar Brown, di dollari nel cellophane nascosti in un sottofondo di mogano nella stiva di un veliero. Succede che non si spiega come accade. Avrei detto: non esiste, non esiste proprio. Esiste però quel quartiere laggiù, di cui ne intravedo uno spicchio se mi piego all’indietro sulla sedia da campeggio della cella, è il quartiere dove sono nato, dove quando sono nato c’erano solo poche case nei campi e una sola strada vera, asfaltata, che sapeva da dove veniva e sapeva dove andare. Poi le altre case sono venute su dopo, in pochi anni, bianche e un pò gracili perchè tirate su troppo in fretta tanto che io mi immaginavo fossero provvisorie, che un giorno sarebbero

venuti un architetto e dei muratori, avrebbero dato dei "buoni" o degli inviti agli abitanti per andare a trascorrere qualche giorno, al massimo un mese, in un albergo del centro o in uno più moderno dalle parti dell’autostrada mentre loro avrebbero buttato giù le case e ricostruite più solide, come la mia che c’era già da anni, più grandi, con le scale meno tristi e, non si sa come, con le strade fra i palazzi più ampie di quello che erano. E forse, anzi sicuramente perchè non c’era motivo di dubitarne, gli abitanti sarebbero tornati più felici da quella vacanza edilizia, più contenti di tornare a stare in case più grandi, con le cucine più spaziose dove non c’era bisogno di addossare il tavolo ad una parete e di mettere una panca di legno al muro, dove con due o tre bagni non avrebbero dovuto fare le corse al mattino o la fila per non doverlo trovare occupato o sporco di schiuma da barba, di capelli o di mutande gettate in un angolo. Case comode, case grandi da benestanti, come la mia. Lo chiamarono, quel quartiere, "zona verde" forse perchè nelle intenzioni sarebbe dovuto essere simile a un parco con delle case, o forse perchè doveva dare l’idea di un posto giovane, su misura per i giovani, dove anche i vecchi vestiti di nero saliti dalla Sicilia o dalla Calabria, che di italiano sapevano quattro parole per giunta pronunciate male si sarebbero sentiti meno inutili e forse più giovani anche loro. Invece venne su un agglomerato di case e palazzi di altezza e colori diversi, qualcuno con gli angoli aguzzi qualcuno più morbido, per fortuna, così che le strade che contemporaneamente gli venivano asfaltate intorno erano riconoscibili, più di quanto non lo fossero per i nomi che le venivano date, nomi di posti strani e di battaglie perse (vinte da qualcuno e perse da qualcun altro) ma tanto si sa, vinte da quello che ha pagato di più per vincerle per cui lo sconfitto, più che sconfitto, è solo uno che è rimasto fregato e allora tanto valeva mettere a quelle strade soltanto i nomi

dei vincitori di quelle battaglie, anche per non ricordare agli sconfitti di essere stati fregati. Non esiste, non esiste proprio lo potresti dire di quello che mi è successo così come lo potresti dire dei palazzi della "zona verde", di come hanno fatto a venire su in quel modo, di come si sono popolati di sconosciuti che poi sono diventati del posto tanto che oggi quando si parla del mio quartiere si parla inevitabilmente di "loro", delle loro macchine fuori moda, del loro modo di parlare e dei bar che frequentano. In questo quartiere ci sono cresciuto, sono nato che era verde, sono venuto su che aveva questo nome appiccicato addosso e ora dalla finestra della cella, ora che verde non lo è più, sento che ha il più incredibile dei profumi, quello che non mi sarei mai aspettato, quello della libertà, quello del mare. Non del mare prossimo alla costa, con la sua schiuma e il suo inestricabile intreccio di increspature ma quello aperto, del Mediterraneo al largo delle Baleari, dei Caraibi nello stretto fra la schiena pelosa di verde e grigio del vulcano di Montserrat e le spiagge di Guadalupa, il mare con la spuma bianca e le onde lunghe, piatte come enormi tappeti di luce di cobalto. O dell’Atlantico quando ti lasci alle spalle le Bahamas e le luci di Nassau che di notte brillano a non so quanti nodi di distanza che a un certo punto, quando non le vedi più, hai la sensazione di essertene andato di casa ma di portarti dietro insieme alla corrente calda del Golfo i suoi odori di cucina, di bietola, di cassapanca, di vino annacquato, di minestra lasciata nella credenza dalla mamma per quando torni di notte da fuori con gli amici. Mi hanno arrestato quattro mesi fa in mare aperto, fra non mi ricordo esattamente quale meridiano e quale parallelo perchè a un certo punto, anche in pieno oceano, la bussola diventa un accessorio, torna a essere strumento e non direzione obbligata perchè il mare è come le strade della

"zona verde", ha i suoi percorsi che diventano familiari a chi ci vive. Le onde e le correnti non sono fiocchi di neve, sono sempre uguali, sono una sicurezza, loro conoscono te e tu conosci loro, è un rapporto di fiducia reciproca che si crea solo in mare, in condizioni di libertà. E’ così: le onde, in prossimità delle isole di Capo Verde, si lasciano increspare fra maggio e giugno sempre nella stessa direzione dagli stessi venti, come le foglie degli alberi al Guado a Narnali, perchè i delfini che ti attraversano gioiosi la strada a Curaçao sono come i ragazzi quando escono correndo e vociando dalle scuole elementari di via Montalese, perchè gli alberi delle barche a vela che incroci a Tenerife sono i semafori della tangenziale, i mulinelli che fa il vento in Boulevard de l'Arsenàl al porto di Dakar sono uguali a quelli di via San Martino per Galceti, il mare forza quattro fra Sant Helena e il Gambia è come le buche di via Senio. Succede anche che quello che immagini, quello che vorresti avvenisse, è un ribaltamento di percentuali. Fino a che hai una ditta tua e le cose vanno più o meno bene ti senti al sicuro all'ottanta per cento e metti in preventivo un margine di rischio all’incirca del venti, che oscilla e tende ad abbassarsi oppure esplodere quando ti chiudi la porta dell'ufficio alle spalle e osservi il traffico di persone, camion e macchinari nel piazzale. E' l'ufficio della ditta in cui entri perchè sei figlio di, anche se non te ne frega niente, i tuoi interessi sarebbero altri, magari quello di farti crescere i capelli, farsi vedere in centro alle ore giuste e nei posti giusti e raccontare di essere un attore, sennò iscriverti all'accademia di belle arti a Firenze per chiudersi il giorno, quando è freddo, nei laboratori e d'estate nel cortile a fumare e aspettare l'ora dell'aperitivo o di cena per andare a casa di qualche fuori sede o di qualche fiorentino emancipato a progettare

installazioni sul Mac, guardare dvd di registi emergenti, mangiare pastasciutta, bere birra, invitare qualche fiorentina o altre fuori sede, meglio se straniere, molto straniere e metter loro le mani addosso dappertutto e provarci su un futon buttato in un angolo del salotto o sul letto di qualche sconosciuto coinquilino. Oppure invece ti piacerebbe viaggiare, iscriverti a qualche università americana per studiare letteratura e leggere le poesie di Walt Withman, farti tutte le ragazze del campus, con particolare predilezione per quelle meno eleganti, quelle volgari, che si ubriacano e pisciano in pubblico come gli uomini, entrare senza invito a una di quelle stupide feste di iniziazione della confraternita deltagammaomega, tirarsi dietro per spregio succhi di frutta e patatine e vomitare su tappeti e divani e farsi buttare fuori di peso dai vigilantes e lanciare dei fuck off da lontano con il dito medio alzato, farti venire a trovare almeno due volte l'anno dai tuoi e pretendere siano vestiti come facoltosi elettori repubblicani del Maine, mentre tu abitualmente puzzi e ti vesti grunge come i Nirvana. Magari invece di entrare in ditta ti sarebbe piaciuto partire con un furgone Volkswagen alla ricerca delle origini del misterioso accordo in mu maggiore, per capire se lo ha inventato Donald Fagen degli Steely Dan laggiù negli States oppure lo si trova anche più vicino, magari a Londra in Every breath you take mascherato da add9. O altrimenti girare per il mondo con un catalogo rappresentando profumi macrobiotici ed essenze di fiori coltivati in un terreno acquistato con degli amici dalle parti di Certaldo o di Cortona, oppure abbigliamento da surf di gusto retrò, o futuristici veicoli a tre ruote alimentati a Cutty Sark, a olio di colza, a perossido di idrogeno, a urina di bue muschiato, a rosso di Capezzana, a acqua del Bisenzio che è sempre la meglio di tutte, insomma tutti i carburanti possibili non convenzionali e alternativi al

petrolio e all'ideologia di sfruttamento che gli sta dietro, perchè è bellissimo essere rappresentanti intercontinentali del bene, sapere di poter metterlo in tasca alle compagnie multinazionali fino a rovinarle mentre invece a causa del rosso di Capezzana e di un tuffo nell'acqua del Bisenzio non è mai morto nessuno. Forse qualcuno si a dire la verità, e forse anche per il Cutty Sark ma quanti potranno essere? Un numero irrisorio per il quale Fabio Casini non verrà mai accusato di niente e potrà girare nei paesi in via di sviluppo, del terzo e quarto mondo, in giacca cravatta bermuda e sandali, accolto come un eroe buono da popoli festanti che gli offriranno prodotti tipici, cocktails esotici, onorificenze come la presidenza della circoscrizione centro di Libreville nel Gabon, il cavalierato del lavoro in Giamaica e lo ius primae noctis sulle fanciulle in età da matrimonio delle isole Andamane. Poi però mano mano che le tue mansioni e la tua responsabilità in quella ditta aumentano, capisci che quei soldi che in casa tua sono sempre arrivati ma non sapevi esattamente, semplicemente dal portafoglio gonfio in una tasca di una giacca da uomo appoggiata sullo schienale di una poltrona (nessuno dei babbi che rientrano alle otto o alle nove di sera appendono la loro giacca a un attaccapanni o a un armadio dopo averla spazzolata, la buttano su una poltrona), quei soldi un giorno ti accorgi che sei tu a poterli muovere, gestire, contare, andare a ritirare, depositare, contrattare, pretendere, e che se arrivi dieci minuti prima la mattina e te ne vai per ultimo la sera possono essere dieci, venti, cinquanta volte di più e non ti arrivano più dal portafoglio nella tasca che il babbo getta sulla poltrona quando rientra in casa ma ti arrivano direttamente nelle mani e ne sei padrone. E ti chiamano yuppie, qualcuno pottino, e al ristorante a Firenze o in Versilia "signore" accompagnandoti la sedia alle spalle.

Poi arriva una macchina più grande, perchè ci vuole, dalla quale togli via subito la plastica dai sedili perchè sai che durerà poco, te la vuoi godere al massimo fin dal primo giorno, qualche mese, forse al massimo un anno e poi ne arriverà un’altra più grande, più potente, magari l’ultima versione dello stesso modello se è la migliore in circolazione, un altro modello invece se sei in concorrenza con qualcuno, ovviamente più accessoriata e di un colore più vistoso di quello con cui sei in competizione. L'ho presa davvero sul serio la proposta che mi hanno fatto, di scrivere, e non solo perchè fondamentalmente non ho da fare niente, ma perchè a dire la verità non aspettavo altro e tutto quello che è successo dall'inizio a oggi, compreso quello che non ho fatto, l'università a cui non sono andato, le polizze assicurative ai guatemaltechi che non ho venduto, l'accademia che non ho frequentato, gli accordi in mu minore che non ho rintracciato non vedevo l'ora di poterlo raccontare. E anche per una questione di libertà: ora che non sono libero posso permettermi di scrivere a differenza di quando invece lo ero. Poter segnare la pagina con l'inchiostro è affermare che questa pagina è solo mia e qui sono libero di raccontare la mia, di storie. Fuori non ero libero di inventarla, ne percorrevo una, come percorrere un'autostrada senza limiti di velocità nè caselli dove pagare pedaggio. Qui dentro, dove i percorsi sono tortuosi e le strade strette, come nel mio quartiere, se guardo nello specchietto retrovisore riesco a vedere tutto. Forse, nei limiti del possibile, anche a scriverlo.

Il movimento delle cose e delle persone nel piazzale davanti la ditta ti dà un valore aggiunto di sicurezza a quell'ottanta per cento di certezze acquisite: finchè tutto si muove ci sono altissime possibilità che continui a farlo.

Se la frequenza delle oscillazioni rimane costante in quel tratto che prendi come unità di misura della tua angoscia recondita che va dal cancello, passando per l'ingresso dei fornitori, transita per il parcheggio dei container e arriva all'uscita dei camion con la merce e degli operai dalla finestra dell'ufficio, continui a stare dentro quell'ottanta. Altrimenti, se la frequenza del transito diminuisce, sale in proporzione e cresce in misura superiore al venti la percentuale di rischio, e ci sono giorni in cui ti concentri sulle cose che si muovono immaginandoti cosa sarebbe se invece di un veicolo al minuto fosse uno ogni quattro, invece di cento metri di tessuto fossero trenta, se sulla fattura del benzinaio fossero seicento litri di gasolio da pagare invece che di duemila, se il fatturato di questo mese si abbassasse di trentamila euro, se le porte fra un ufficio e un altro non continuassero a sbattere come stanno facendo ora, se l'aria condizionata improvvisamente smettesse di funzionare e i telefoni di squillare. Per quanti esercizi mentali tu possa fare con la faccia schiacciata al vetro della finestra, la porta dell'ufficio chiusa alle spalle e il cellulare spento come se spengendo il cellulare fosse possibile isolarsi, e per quanto tu possa immaginare come sarebbe se per un attimo le cose, semplicemente, smettessero di essere come sono, non servirebbe comunque a niente, le cose non cambiano. E che le vie di fuga sono soltanto tre: una in assenza di ossigeno, lenta, trasformarsi in gas e svanire, la più difficile da praticare ma anche la più silenziosa, la seconda la combustione cioè diventare fiamma e salire in alto, la più spettacolare, la terza l'esplosione, la più rumorosa, fragorosa, sensazionale. E allora succede che il mare da appuntamento estivo o sporadica rassegna invernale diventa un appuntamento notturno consueto, succede semplicemente perchè l'ottanta resta ottanta e il venti resta venti, le cose ci vuole un attimo

perchè vadano male ma talvolta ci mettono secoli a cambiare di una virgola, tutto resta com'è: i grandi sistemi tendono ad autoconservarsi. Mi ha sempre incuriosito pensare come sarebbe, se si realizzasse, quella cosa della giustizia su questa terra, quella per cui chi nasce ricco dovrebbe morire povero e viceversa. Una cosa ridicola. Impossibile che accada, possibilità infinitamente inferiori al venti per cento. Però da ragazzo mi immaginavo si potesse rappresentarla attraverso il disegno e la pittura, questa remota eventualità, per quello avrei voluto imparare a dipingere, o tutt'al più a scriverla. Nell'attesa di un'interruzione di frequenza, di una miracolosa Funzione Permanente o di una concatenazione di eventi ti lasci alle spalle quello che si muove indipendentemente dalla tua volontà, che per quanto ti possa allontanare di notte il mattino dopo troverai uguale al giorno prima, e prendi l’autostrada che ha i suoi riti, uguali e di segno opposto a quelli del giorno, l'autostrada con il suo autogrill, le sigarette e i cd che diventano un antipasto familiare di sostanziose portate notturne che, come nei ristoranti che via via cambiano gestione, non sempre sono di qualità ma sono cucinate da mani furbe che sanno come fare a mantenerle allettanti. E conosci Anna, o una delle tante Anna che popolano la vita notturna dall'altra capo della Firenze-Divertimento. Anna ha ventitre, forse al massimo ventiquattro anni perchè ha il tono di voce basso di chi ha imparato che vivendo la notte e limitando al massimo la propria attività diurna a qualche spesa al supermercato, a un caffè con cornetto e occhiali scuri sul tavolino appartato di un bar dove altri pranzano o fanno aperitivo, a un corso di lingua o di computer ma solo per compiacere chi ti dice che quel tipo di vita – notturna – non potrà durare per sempre e che prima o poi non solo dovrai ma forse addirittura ti toccherà

cercarti un lavoro "normale", chi fa quel tipo di vita prima o poi finisce per attirare su di sè il giudizio di chi invece vive di giorno e solo per questo si definisce una persona normale con il diritto di definire nella migliore delle ipotesi stravagante chi vive la notte. Anna forse non si chiama nemmeno così perchè chi vive la notte, per i motivi suddetti o per motivi artistici, usa uno pseudonimo. A me va bene non sapere il suo nome vero, mi sta bene chiamarla Anna perchè vivendo io una vita non autentica, quella di una fabbrica che vive di un'esistenza propria indipendente dalla mia e fregandosene dei miei pensieri, ritengo del tutto normale avere una fidanzata provvisoria di diciotto anni più giovane che vive di notte e che porta uno pseudonimo. L’ho conosciuta allo Skylab, una discoteca sul lungomare, o meglio nel parcheggio dello Skylab, io insieme ad altri usciti dal ristorante e diretti a un tavolo prenotato con secchielli pieni di ghiaccio e champagne, lei insieme ad altri usciti da una macchina indefinibile vestiti in maniera impossibile, tre coriandoli chiassosi sparati fra le luci dei fari e un riflettore verde in procinto di animare la notte di altri manichini come me in Charcoal Grey 210 con i capelli pettinati con la riga da una parte. Prima non ero così, o meglio non mi vestivo così, il mio era un look da puntatore informale, esempio un pantalone da quattrocento euro con sopra un maglione da pescatore trovato in fondo a un armadio, i capelli curati, corti ma tagliati male di chi si è appena alzato perchè è troppo impegnato dalla vita e dorme nelle tregue che l’eterna bufera che lo circonda, a lui anticonvenzionale warrior metropolitano con le tasche rigonfie, gli concede. Scarpa solida, di cuoio, anche un numero o due sopra, perchè deve offrire stabilità, deve fare rumore quando arrivi, ti deve precedere, presentare, fà biglietto da visita, come il profumo, come l’odore del sigaro, mi ricorda tanto

quella di zio che lui si che era un puntatore, era uno che con la scarpa di cuoio ci andava anche a caccia di vigogne e poi perchè tante altre cose che sono segreti del puntatore informale. Del look del puntatore faceva parte anche l’aria famelica di chi, casualmente perchè da un’altra parte ma molto lontana ha tutto, in quel momento si trova ad aver bisogno di tutto. Persino un filo di sete in una giornata umida di novembre dove, normalmente, uno degli ultimi pensieri che ti possano passare per la testa è quello di bere e in ogni caso potresti resistere serenamente senza nessuna conseguenza per l’organismo un’altra ora o due, è una scusa per scatenare l’animale predatore nascosto sotto le vesti eleganti e trasandate al tempo stesso del puntatore famelico. Inquadri un bar elegante al bancone del quale c’è una donna e entri chiedendo, cortesemente, un bicchier d’acqua. E’ un’aggressione lievissima, appena percettibile, perchè la barista specialmente se non è scafata esiterà un istante nel pensare se darti acqua di rubinetto nel primo bicchiere che acciuffa o una minerale naturale con basso contenuto di stronzio e elementi analoghi in un calice raffinato, pensando anche se sei uno che normalmente frequenta tutti i giorni, consuma e paga per cui sarebbe scortese farti pagare un misero bicchier d’acqua o sei uno di passaggio, al quale per un fondo di bottiglia svanito puoi chiedere anche un euro. In quella frazione di tempo la belva odora il sangue, ma con aria apparentemente disinvolta, persino un pò trafelata di chi ha sete per davvero: in realtà la preda inconsapevole si sta giocando la sopravvivenza. Perchè se la reazione della barista è pronta, professionale, lucida del tipo “eccoti l’acqua più buona che abbiamo nel bicchiere esattamente quello da acqua buona” il puntatore appoggerà i gomiti e la figura al banco assaporando quella pisciatina con l’intensità ieratica e un pò sofferente di un

pellegrino scalzo giunto fino alle sorgenti del Gange, ponendosi nei confronti della barista in un rapporto di padrona-schiavo. “Appena ho bevuto frustami, anzi frustami subito così, con l’acqua in bocca”. Se la preda, incerta, offrirà il bicchiere dal vetro mediocre pieno fino all’orlo di acqua di tubatura il puntatore sciorinerà un plurisperimentato repertorio di facce disgustate e quasi lo allontanerà (non moriva di sete fino a due secondi prima?) bevendone al massimo un sorso cercando di provocare nella preda ferita un sentimento di colpa. In entrambi i casi è pronto un copione da recitare allo scopo di circuire la vittima prescelta dalla bestia predatrice, che sostiene la sua recita su una sperimentata postura del corpo poggiato solo su una delle due barche carenate in cuoio, mentre l’altra ticchetta insistentemente come a dire il mio tempo (e anche il tuo se potessi vedere il mio piede da dietro il banco) è contato. Ma questo ero io qualche anno fa. Un uomo sui quaranta, invece, quello che sono io oggi non ha più bisogno di quell’attrezzatura da battaglione da sbarco all’assalto del Miraglia e non è mai fuori posto con un completo di Brioni addosso, una camicia Oxford di Luigi Borrelli, una cravatta Hermes e le scarpe di Testoni. Ma può sentirsi talmente incompleto e disarmato quando nel parcheggio di una discoteca incontra un animale notturno truccato di nero e blu con corpetto, crinoline e anfibi slacciati come un angelo gotico che potrebbe morire all’istante.

Poi è inevitabile che andando spesso al mare e lasciando traccia di sè nei locali costosi dove le luci sapientemente orientate fanno brillare rettangolini di plastica magnetizzati che aprono porte e spezzano righe, quando la stagione si fa più mite finisci in qualche festa vip sopra uno yacht dove si condensa un distillato della vendemmia di

quella vita notturna, foraggiata da magnati dell’entroterra o da bucanieri provenienti da approdi ignoti e dai cieli più azzurri che la finanza conosca e a bordo di quegli scafi immacolati puoi sentire, accompagnati dalla risacca, cose come: “Meglio stare sulla barca che in giro per le strade o per i locali, al Seven non si entra, c’è una fila fuori che arriva a Fiumetto. E meglio anche stare su uno yacht che in galera. Cosa avete fatto per cena, pennette all’astice? Ho appena saputo dal mio commercialista che il Nanni ha fatto un buco di tre miliardi, la famiglia è al Forte e ancora non sa niente, non raccontatelo in giro, lasciamogli godere le vacanze fino a settembre perchè poi quando rientrano rischiano di trovare i sigilli alla villa di Prato. Massimo è convinto che dopo toccherà a lui. Sta pensando di spostare la barca a Montecarlo finchè è in tempo. Si è comprato il posto barca tramite una finanziaria lussemburghese e l'ha intestata a una società off. Ho fatto delle bellissime foto con la Reflex l’altra settimana al largo della Smeralda, in una si vede perfettamente uno squaletto che sbrana uno dei fratelli Puccini, i pellettieri di Santa Croce. Quale di preciso non lo so ma di sicuro si libera un posto barca al molo di Viareggio, peccato sia uno di quelli piccoli e che la barca del Nanni non c'entri. Soldi non ne girano più, come siete messi su a Milano? Nell’ultimo mese ho passato tutti i venerdì e i sabati mattina in ditta, se non mollo un pò la mia sposina mi pianta e se ne torna dai suoi a Chicago. Ho comprato un quadro di un pittore non quotato, mi sa che l’ho pagato troppo ma quando ti prende la fame di arte non c’è bistecca che può saziarti. Avete saputo che Sanesi sta trasferendo la ditta pezzo pezzo in Cina? Si hanno il comunismo che è peggio della grande muraglia ma ha trovato il varco giusto, ogni pezzo che manda in Cina lo scambia con un cinese che arriva qua e sono tutti contenti, lui e i comunisti. I cinesini non lo so ma vedrai sono contenti anche loro, meglio un pugno di riso in un garage in via Pistoiese che litigarsi

l’erba con le capre. Saranno anche comunisti, e dei peggiori, ma non hanno i sindacati che rompono le palle. L’altra notte ho sognato delle tartarughe blu chissà cosa vorrà dire? Mi versate un pò di whisky che sia d’annata però! La Bussola da quando non c’è più Sergio è finita. Che tempi, mi dispiace per voi che non li avete vissuti, non cambierei mai i miei sessant'anni con i vostri trenta, e tantomeno il conto in banca. Gianluigi su in Brianza aveva ingrandito il mobilificio comprandone un altro dall'altra parte della provinciale, si era messo in mente di far costruire un sottopassaggio a sue spese poi però ha trovato la scorciatoia, tramite l'ingegnere ha passato la mazzetta a un assessore che ha fatto chiudere la statale per lavori. Dopo tre mesi la provinciale è diventata comunale e poi strada privata e ora passa un chilometro più in là. Il Ricca non sta bene, pensava di avere il colesterolo alto poi il dottore gli ha ordinato altri esami e gli hanno trovato una malattia rara del sangue. Fra un pò toccherà a lui. L’ho vista la macchina che hai preso ma se lo dicevi a me che ti interessava quel modello lì te lo facevo importare senza pagare tasse, giravi con la targa americana e le multe che prendevi arrivavano a una società delle Bermuda, voglio vedere come faceva il Comune a riscuoterle. Ce ne sono ancora tartine di quelle con il salmone? Senza burro mi raccomando che il dottore mi ha detto di non mangiare dopo mezzanotte. E neanche bere. Vada al diavolo. Voglio morire da vivo, io. Sara, due anni fa seduta dove adesso sei tu c'era Carla Bruni. Non prenderla male eh. Con la Bubi ci farei volentieri tre o quattro giri, con quei venti grammi di silicone in faccia ti viene voglia di sbatterla per vedere se rimbalza. Ormai farmi i fatti altrui dalla mattina alla sera non è più nemmeno divertente, è diventata la parte principale del mio lavoro, una specie di aggiornamento professionale. Il Didi ha licenziato un marinaio perchè quattro fissi non se li può più permettere, io quest’anno più di venti giorni di mare

non li potrò fare mentre la mia segretaria ha un mese pieno di ferie oltre a tredicesima e quattordicesima, io non capisco come si possa essere arrivati a questo punto. Bella questa canzone come si intitola? I'm not alone dei 10 cc? Mai sentiti però bella. Temo di soffrire di nichilofobia, la paura di non aver paura di nulla, è terribile, ti fa sentire a volte morto a volte vivo. Il marito della Sissi se la fa con un’insegnante di danza, una vecchia fanatica con una faccia da bambola russa, secondo me la Sissi lo sa ma fa finta di niente perchè ora come ora gli conviene, quello è uno da trentamila euro al mese. Specchio e bancomat, please, che ci facciamo un giro di pista, ho anche la cannuccia d'oro nuova, me l'hanno regalata con un biglietto: Questa tira come un caminetto, buon viaggio". Mi piace guardare le luci del porto e delle barche che escono al largo nel nero della notte perchè mi sento libero di respirare, mi fanno pensare a posti inconsueti e percorsi diversi, mi piacciono meno le chiacchiere e i pettegolezzi, mi annoiano, mi tengono ancorato alla materia di cui siamo fatti e mi riportano inevitabilmente allo stesso punto dal quale scappo. Però sono un sottofondo, come la musica da discoteca, quasi sempre brutta ma tutti dobbiamo far finta sia bella o divertente per il fatto che se non ci fosse non avrebbe senso nemmeno lo stare in tanti in un contenitore di un'eleganza pacchiana come la discoteca con le facce dipinte di sorrisi ipocriti. Siamo la tribù degli aperitivi sugli yacht, sulla terra ferma sciamiamo come cavallette, come una piaga dell'antico Egitto. Muoviamo disordinati fra luci e ondate di colore dal centro che i negozi rendono un salotto. Assumiamo varie forme, facciamo chiasso, siamo un fiume in piena che dirige l'alluvione verso i rifugi sull'acqua. Siamo immagini colorate ma sotto il colore niente.

E una sera, succede che con il drink in una mano lisci con l’altra le rifiniture dorate e i pomelli del ponte di uno di quegli yacht mentre fai il vago con il proprietario che ti chiederà “Vuoi sapere cosa costa un gioiellino come questo?” e allora ti informerai sul prezzo e comincerai a girare per moli e cantieri facendo due conti su quello che ti potrà costare una barca, ma a quel punto non sarà più un problema di soldi e nemmeno di prestigio o di immagine perchè a quel punto la prossima frontiera possibile, l’unica destinazione plausibile sarà la barca, e avrai chiara la sensazione che sulla barca ci sei già salito da un pò, hai già mollato l’ancora, sei già fuori dal porto delle cose normali e il lavoro, una famiglia se ce l’hai, i vecchi amici entreranno tutto e tutti a far parte di quello che puoi fare alle quattro del pomeriggio come le sei del mattino. Il mondo assume una forma indistinta, a un certo punto, sempre con i suoi colori molto nitidi, ancora più netti, sempre più decisi, sempre più da una parte e i suoi grigi, sempre più dall’altra parte, sempre più diffusi. Come si spiega tutto questo? Si spiega che succede, non che avviene che è una cosa diversa, che non saprei spiegare perchè le cose avvengono, avviene – anzi succede – che succede. Succede che una sera di giugno di due anni fa, i pomelli e gli scorrimano di ottone della mia barca nuova di zecca erano ancora perfettamente lucidi di cantiere, gli intarsi di legno ancora freschi di coppale, la chiglia bianchissima sia sopra che sotto il pelo dell’acqua, era la prima sera che ricevevo ospiti sul mio dodici metri. Amici, quelli vecchi sempre meno, gente nuova, qualche sconosciuto, qualcuno straniero: il popolo della nautica, del diporto, una popolazione vaga e varia, molto convenzionale e nello stesso tempo poco formale riguardo la nazionalità. Succede che una sera mentre il giradischi (il primo accessorio di arredamento che ho comprato, un giradischi

d'antiquariato) suona Love’s Theme di Barry White mi trovo a fianco di Juan, un colombiano con il quale avevo già sbocciato in giro per locali e su altre barche, forse conosciuto proprio su quella di un milanese proprietario di uno dei locali in cui si esibiva Anna. Si esibiva perchè da un pò di tempo ormai si è trasferita a casa mia, non vive più la notte ma ha mantenuto gli orari dormendo sonni che presumo di una certa regolarità dalle nove del mattino alle quattro del pomeriggio grazie a dei tranquillanti leggeri che compensano l’effetto degli aiutini pomeridiano e serale assunti con the verde e banana. Ora è sul ponte, insieme a altre galline, ha sempre il suo fascino assente. Da qui dove sono seduto le vedo le gambe. La conversazione è piacevole, di chi sa intrattenere e sa ascoltare perchè il tempo è dalla loro e l’orologio, come la bussola, è solo un accessorio e Juan mi fa: "Questa è una bella barca, elegante, veloce, io ho un’attività che non chiamerei proprio azienda ma che funziona molto bene ed è estremamente redditizia di cui ho il piacere di essere in una certa misura manager. Il Venezuela è oggi il posto del mondo dal quale parte la quantità maggiore di cocaina. Vi arriva dalla Colombia e dal Perù ma anche lo stesso Venezuela è un paese produttore. Ci sono società solo in teoria di import-export ma in pratica di copertura. E’ molto sicuro ma per ogni eventualità e per il riciclo del denaro le isole dei Caraibi sono lì accanto. Io non ho una flotta ma ho persone molto fidate che possiedono yacht, barche a vela, catamarani e persino motonavi. Mi farebbe piacere poter collaborare con una persona come te, elegante e pertanto insospettabile, perchè a fare una traversata con un carico di droga sono capaci tutti ma non tutti sono altrettanto capaci di dirigere un’azienda come sei capace tu, di indossare vestiti come i tuoi e di circondarsi di persone di livello. Un uomo lo si riconosce dalle persone che frequenta e dalla donna che ha a fianco e di te so che mi potrei fidare”.

Un uomo secondo me invece lo si riconosce fra il secondo e il terzo bicchiere, solo lì è autentico, e chi è ancora lucido e in grado di farti una proposta del genere dopo quattro bicchieri e tre pippate non è un uomo, è un diavolo, ma a bordo di uno yacht non puoi stare a sottilizzare, questa è la verità. Le attenzioni lusingano, specialmente noi dive annoiate in cerca di nuove emozioni e di qualche centinaio di migliaia di euro di cui si potrebbe fare serenamente anche a meno se questa maledetta vita da vip munito di natante non fosse così dispendiosa. Poi una barca è come un’auto di lusso, non può stare parcheggiata, ha bisogno del mare come ne ho bisogno io. E avviene, o forse succede, il milagro: le percentuali finalmente si ribaltano. All'ottanta per cento diventi a rischio al venti invincibile, ma non percepisci esattamente nè rischio nè vittoria nè sconfitta nè paura, ci sei solo tu, il mare, i dollari, le rotte da seguire, l’Interpol e la cocaina. Succede che funziona così.

Poi succede, senza che sia inevitabile, non c'è nessuna consequenzialità con il fatto di avere una barca ma succede, non è affatto scontato che debba succedere ma ormai ho preso per buona l'ipotesi che possa capitare a chiunque se c'è almeno una ragione perchè succeda. Succede perchè se è vero che la logica ti porta da A a B e l'immaginazione ti porta dovunque, è vero anche che i conti mai fatti con il passato possono portarti dove non avresti mai pensato. Succede che ti trovi a fare un carico di droga al largo delle coste brasiliane o venezuelane su una piattaforma montata e rismontata nel giro di poche ore da una banda di organizzatissimi narcotrafficanti, professionisti al massimo livello nel loro ramo, e noi skipper, pony express della blanca, della falopa, della frula, della milonga, della pala,

della papusa, ci disperdiamo in ogni direzione, prendendo chi la rotta del sud pacifico, altri quella atlantica verso gli Stati Uniti, il Canada e l’Europa mentre a me tocca, per mia scelta, stanco di fare sempre lo stesso tratto di mare che a un certo punto diventa sempre uguale come la Firenze-Mare di notte, di puntare su Sant’Helena che negli ultimi tempi era diventata insieme a Costa d’Avorio, Ghana e Nigeria uno degli approdi più sicuri allo scopo di creare infiniti rivoli di distribuzione e suddividere al massimo le partite di cocaina, con il risultato di aumentarne il più possibile il prezzo al dettaglio e minimizzando, rendendosi il meno possibile intercettabili, il rischio di sequestro. Gli skipper sono l'avanguardia dei cartelli della droga, sempre più aggressivi verso il mercato, sempre più spietati nel disegno espansionistico, tanto che ormai la maggior parte della coca, in tutto il mondo, oggi viene trasportata per mare e cercare di bloccarne il flusso è un'impresa ai limiti dell'impossibile. Ogni tanto qualcuno lo prendono. Ma è pur sempre una questione di percentuali. Quando mi hanno arrestato mi ricordo soprattutto che mi venne una gran voglia di dormire, non lo chiamerei sonno ma proprio bisogno assoluto di dormire, forse i nervi stavano cedendo, forse non potevo pensare a quello che sarebbe successo dopo e a quello che mi stavo lasciando alle spalle, non lo so davvero, una sensazione di abbandono, di impossibilità di gestire quello che stava cambiando, di sopravvenuta incapacità di calcolare ulteriormente le percentuali, insieme ai numeri, ai grammi, ai nodi, ai dollari, alla rotta, a dove fosse Anna, a quante sono le palazzine di nuova costruzione che non ho visto crescere negli ultimi due anni alla "zona verde".

Questa è la mia storia, una parte almeno della storia, la parte che spero possa interessare a quei due laureandi,

servire a qualcosa, per il loro progetto di recupero e di sostegno, il teatro, o il nero o quello che è. A me è servito scriverla. Ci sono un pò troppi Poi e Succede, di sicuro se si stanno laureando in psicologia ne dedurranno la mia ansia di dare una concatenazione logica a quello che è avvenuto, forse ci sono anche troppi calcoli di percentuali che stanno solo nella mia testa, anche questo è sintomatico di angoscia, e di volerla contenere. Nel frattempo che la scrivevo, questa storia, ho riposizionato i Poi e i Succede declinandoli al tempo presente, ho tirato fuori il nero dalla balla che ora, potete anche sorridere, è qui accanto a me. Anche questo temo che ammetterlo non deponga in mio favore in prospettiva futura, per il mio recupero e il mio reinserimento sociale, ma va bene così. In certi momenti è come quando sento l'attacco di Everybody wants to rule the world dei Tears for fear che ora sta passando su Radio "zona verde" 103, è una sensazione bellissima, mi pare che tutto, tutte le volte, possa ricominciare daccapo e che il passato, se c'è stato, non debba essere per forza una cosa indecente di cui vergognarsi perchè altrimenti quell'accostamento di note non sarebbe spiegabile, sarebbe solamente "successo", mentre invece è tuttora. Per quello che mi riguarda, aggiungo come nota a piè di pagina, un titolo come "Il nero fuori dalla balla" andrebbe benissimo. Oppure anche: “Siamo incredibilmente troppo attaccati alle cose”.

Gnola

Gnola ci provò in tutti i modi a spiegarmelo come si scrive un libro. Allora vedi, essenzialmente un libro lo fa quello che c’è scritto sul retro di copertina, se la recensione te la fa qualcuno importante il libro potrà avere anche le pagine bianche, è già venduto, e anche se non è venduto hai un contratto per il prossimo assicurato. Se poi fra parentesi accanto al nome di chi te lo recensisce c’è scritto il nome del giornale per cui scrive è probabile che ti sei perso la metà dei potenziali lettori che leggono un giornale concorrente (concorrente per finta, ovviamente) ma ti sei assicurato i suoi, magari poi ne vendi dieci copie ma se qualcuno chiede “Com’è il libro di?” “Bello” “Lo hai letto?” “No ma ho letto la recensione di Y” anche se non ne vendi hai il gradimento garantito. Per il resto scrivi quello che ti pare ma scrivilo bene, okay? C’è bisogno di cose scritte bene, comprensibili, che non siano troppo difficili perché poi la gente ci crede qualche pagina poi si sente presa in giro, abbandona, ti butta da una parte e non ti compra più. Scrivi comprensibile e non prendere per il culo la gente capito? Non ti provare a prendere per il culo nessuno tanto meno me che se me ne accorgo ti butto da una parte, non ti compro più e non ti passo più a prendere quando sei senza macchina. Puoi anche fare degli errori, persino di ortografia, sono ammissibili persino quelli pensa un po’ cosa arrivo a dirti, ma curali, sbaglia per bene. Ovvero: non scrivere veloce e non sbagliare per precipitazione che la gente se ne accorge perché tutti scrivono, scrivono e-mail, scrivono sui social network, scrivono con il computer lettere di protesta e di disdetta, scrivono sms, scrivono continuamente.

E anche se non sanno scrivere nemmeno i loro pensieri più elementari si accorgerebbero immediatamente di un tuo errore commesso per precipitazione (non sto a dirti quali sono, mi hai capito perfettamente). Se chi ti legge si accorge che scrivi per soldi e che il tuo tempo e le righe che scrivi sono denaro sei fregato, avrebbero tutto il diritto di venirti a cercare a casa, e lo farei anch’io. Per cui se ci vuoi mettere qualche errore, persino di ortografia, metticelo: ma curalo, fai in modo che diventi un capolavoro di errore. Lo stesso vale nella vita, non so se mi hai capito. Tieni sempre lo sguardo alto va bene? Alto nel senso di ampio, lungo, periferico, non perdere mai di vista il particolare, è il particolare che fa la differenza, lasciatelo dire da questo vecchio dandy, occupati anche, ma non ti ci perdere, delle piccole cose quotidiane, dei litigi, nei rancori, degli accessi di rabbia, occupatene solo un attimo e poi lascia perdere tutto questo, questa non è letteratura, è spazzatura, chi scrive questa roba è un meschino che scrive spazzatura. Quindi adopera un linguaggio che faccia effetto, elevato, elegante, ricercato se puoi e persino di difficile comprensione se vuoi (ma sii chiaro nei concetti, te l’ho già detto e a me le cose piace dirle una volta sola), cerca di essere raffinato che la vita è quella che è e la gente ha bisogno di sentirsi raccontata la propria vita ma meglio di quella che è e soprattutto con parole diverse da quelle che sente e che è abituata ad usare, fai finta di essere importante tu e li farai sentire importanti anche loro. Gioca furbo con i tuoi lettori, la gente ama i furbi, raccontagli cose a loro vicine a che sembrino lontane nel tempo e nello spazio tanto che a un certo punto si debbano chiedere: e se succedesse a me? Ma questo mi è successo! Oddio che emozione questo potrei essere io!

Parla sempre la loro lingua, ma con un altro accento, in modo che avvertano che sei dei loro ma che si può essere diversi da quello che si è e perdere sè stessi, le proprie origini persino il proprio accento, se solo uno avesse il coraggio di allontanarsi per un attimo facendo anche solo finta di dire: non torno più. E parla con la loro voce: molti di quelli che ti leggono non possono parlare, non possono per sé stessi ma soprattutto – e questa è una scusa vigliacca e quindi umana, profondamente umana – non parlano per non danneggiare coloro che hanno intorno e che dicono dipendano da loro. Tu lo sai che non è vero, nessuno dipende da nessuno tranne - forse - sé stessi (e non ci giurerei). Ma tu continua a farglielo credere. Non fare la stupidaggine di raccontargli qualcosa di diverso del tipo “Ehi bello, lo sai che sei solo ?” “Lo sai che quelli che tu pensi dipendano da te non solo non è vero ma se potessero se ne andrebbero?”. Non farlo, sia chiaro, promettimelo. Non fare la sciocchezza di sobillare i tuoi lettori. La gente è una bomba a orologeria che non esplode mai, ma non infiammarli fino al punto di farli esplodere. Oggi, qui, persino uno come te se ascolta i consigli del vecchio Gnola ha la speranza di vendere qualche libro. Nel mondo che eventualmente verrà se li indurrai a fare la rivoluzione ai libri potrebbe succedere come in Fahreneit 451, quindi non ti conviene sobillarli. Ricordati, questo è importante, falli credere ai miracoli. Non stare a spiegarglieli, non ti provare a raccontare come si fanno, passagli solo il messaggio che stanno leggendo un bel libro e che Gnola ha dato dei buoni consigli a qualcuno che lo sapesse scrivere, non è un miracolo questo? Però scrivi duro, non avere paura di impressionare, i tuoi libri – come disse John Irving a proposito dei suoi – saranno

sempre perfino troppo dolci e indulgenti di fronte alla realtà. Non commettere l’errore di ritirarti dal mondo per scrivere la storia che vuoi raccontare, lo so che da soli, isolati, si scrivono le cose migliori, i pensieri sono più puliti, i concetti si fanno più nitidi, ma quelli (pochi o tanti) che raggiungerai, chiunque raggiungerai lo percepirà subito se le cose che scrivi le hai sentite per davvero oppure solamente immaginate. Tutti viviamo una realtà fatta di spazi stretti: scrivi quando sei infastidito dalle ristrettezze di qualsiasi tipo esse siano, e non quando ti senti libero da vincoli, da preoccupazioni o lontano dal fastidio che ti può dare la gente. Il grande problema sono le distanze fra le persone, c’è una distanza minima da rispettare, che ogni tanto può essere anche infranta, ma poi va ripristinata, è una questione di sopravvivenza e qualche volta non ti dico la felicità ma la serenità è nel rispetto delle distanze. Chi ti legge non pretende di trovarsi per miracolo sulla cima di un monte ma cerca una chiave per aprire la sua gabbia esattamente come stai facendo tu scrivendo, digli com’è fatta la chiave, spiegagli come riconoscerla, come infilarla nella toppa e da che parte girare, poi ognuno andrà dalla parte che vuole e magari non ci penserà minimamente a venirti a infastidire nella tua solitudine, andrà per i fatti suoi da un’altra parte. Scrivi, amico, e non ti preoccupare di quanto tempo passerà prima che qualcuno ti venga a dire: complimenti, che bel libro! oppure che schifezza di libro ma come ti vengono in mente queste cagate? Gli “altri” sono abissi, sono strapiombi. Quando lanci un sasso nell’abisso non sai quanto devi aspettare prima di sentirne il tonfo o il rimbalzo, non puoi sapere se raggiungerà il fondo o in quale punto dello strapiombo potrà rimbalzare. Succede, a volte, che quando tocca le pareti o il

fondo sei già lontano e di aver lanciato quel sasso non lo ricordi più. Funziona così. Raccontagli storie ma non passargli il messaggio di poter diventare le storie che racconti. Fondamentalmente, per quanto possa essere triste la vita di quello che ti legge non la cambierebbe mai con quella di qualcun altro. L’invidia per i personaggi di un libro dura solo un attimo: guardiamoci in faccia, nessuno vorrebbe vivere su un Boeing transcontinentale anche se mille volte al giorno vorrebbe salirci sopra, nessuno vorrebbe stare una vita in Giamaica a farsi di erba, chiunque se potesse fuggirebbe dall’Avantpop di un romanzo di Foster Wallace, nelle atmosfere della Santacroce la gente ci vive costantemente ma gli ripugna l’idea di quel degrado, in un faro sull’atlantico di un romanzo di Ruiz Zafon nessuno passerebbe un fine settimana, nel castello dei frati de Il Nome della Rosa nessuno passerebbe una nottata. Accompagnali dove vuoi ma dagli la certezza di tornare: apprenderanno che quando si va da qualche parte e poi si torna, si torna migliori, come prima ma migliori. Non dirgli mai che fai la loro stessa vita, chi ti legge ha bisogno di disprezzarti perché non fai la sua stessa vita, ha bisogno di sentirsi migliore di te e che se non parla come te, non scrive come te e non pensa come te è solo perché loro la mattina deve alzarsi presto e pensare a portare in giro la catena che ha al piede, deve pagare le tasse e le bollette e se non avesse tutti questi casini parlerebbe, scriverebbe e penserebbe meglio di te. Fagli pensare che hai una vitaccia, che sei uno sfigato che nell’esistenza ha deciso di prendere un computer e inseguire i fantasmi che hai nella testa per poi, sporco vestito male e con i pidocchi, andare a mendicare per case editrici per poi ancora tornare nella tua catapecchia piena di bottiglie vuote, portacenere pieni e con il letto sfatto, e se è andata

bene con una battona al fianco e in mano un sacchetto del Mac Donald. Faglielo pensare, non negarglielo. E non stare mai pagine e pagine a raccontargli di puttane, tequila, sbronze, risse con i portoricani, omicidi assortiti. Non saresti credibile, nessuno vive in quelle condizioni e la tua scrittura deve andare al buono che c’è in ognuno, deve grattare i via i pregiudizi, la vergogna, un enorme strato di fango, l’ipocrisia e il perbenismo poi scendere dentro e inseguire il buono, andare ad agguantarlo e tirarlo fuori per poter dire: ecco il buono, l’ho trovato, hai visto che ce l’avevi anche te? La gente vuole quello, e sebbene legga i gialli più efferati e veda i film più truculenti poi ha solo voglia di tornare a casa con la fidanzata a farsi coccolare su divani morbidosi pieni di pupazzi di peluche. Che schifo. Però lo sappiamo io e te, quindi fammi la cortesia di regalargli la certezza di avere il buono dentro e che scavando un po’ lo troveranno. La filosofia sono duemila anni che cerca un barlume di consolazione all’idea della morte, solo a quello serve, e non ci è mai riuscita. Alla gente della filosofia non frega niente perchè alla morte non ci vuole pensare, e fa bene, vuole pensare alla vita, vuole insegnamenti per la vita, cerca consolazione dalla vita, non dalla morte. Poi fa finta di disprezzarli questi consigli ma si aggrapperebbe dovunque per averne, tu digli ragazzi sono qui per aiutarvi, ho qualcosa per voi, ve lo metto qui poi fatene quello che vi pare, mi giro non voglio neanche vedere chi lo prende e quanto ci mette a prenderlo, i primi che lo prenderanno saranno i più fortunati ma poi va bene lo stesso anche se lo prendi dopo, io sono contento di darvelo perché a me è servito: la vita è poco più che una televendita.

In fondo, mi disse Gnola, ognuno è alla ricerca della più grande rassicurazione che ci possa essere, quella di mettersi nelle mani di qualcuno più grande, più sicuro, più forte. Scrivi questo .