Il Negro Nella Balla
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il negro nella balla Introduzione L’abbiamo capito come funziona: uno apre la balla degli stracci e ci trova dentro, fra i vestiti, i giubbetti, nei pantaloni, degli oggetti di poco valore, delle conchiglie, un anello di fidanzamento, qualche fotografia, una medaglietta con l’effigie di qualche mezzo santo troppo povero per meritarsi di essere canonizzato, magari delle monetine, poi qualche dollaro. Roba che passa in un’altra tasca di un altro pantalone che prima o poi finirà in un’altra balla di cenci, roba che nessuno richiederà mai indietro e che non cambia la vita di nessuno, nè di chi l’ha persa nè di chi l’ha trovata. Poi arriva un altro che racconta di averne trovati, cuciti nella fodera di una giacca, cento o mille di dollari, e con quei soldi di averci finito di pagare la casa, di averci comprato la cucina o il salotto nuovo per sè o per la figlia e con quello che ne è avanzato di averci portato prima a cena fuori e poi per chiudere la serata anche a bere al bar i colleghi di lavoro (gli altri cenciaioli, ma anche il ragioniere e il padrone della ditta, tutti), con quella piccola fortuna. Nelle balle dei cenci, a Prato, sono state trovate un’infinità di piccole cose, di poco o di nessun valore, oggetti preziosi, persino qualche bigliettone. E’ successo, a Prato. Era normale che potesse succedere. Un giorno accade che arriva quello esagerato e racconta di averci trovato un dente, una perla o un dito, e fino a qui ancora il gioco regge. Che vuoi che sia? Poco male, uno pensa, è roba che a un cenciaiolo non fà impressione. Normale che succeda, anzi. Poi tanto un dente o un dito non servono a nulla, non valgono nulla, non ci compri niente, non ci finisci di pagare la macchina, la cucina o il salotto nuovi, “Con un dito o un dente non ti ci arricchisci più di quanto con i cenci abbia fatto io”. Non scatta nulla in quello che sente il racconto di chi, nei cenci, ci ha trovato un dito o una perla “A chi la vendo una perla? Io da qui esco alle otto e mezzo di sera, dove vado a venderla una perla? A chi la vendo? Chi ha il tempo dopo dodici ore di lavoro di cercare un orefice a cui vendere una perla? E se poi fosse falsa? Sai che figura andare da un gioielliere in centro a Prato, magari di sabato pomeriggio a chiedergli di comprarsi una perla falsa? Sarei finito, non avrei il coraggio di farmi vedere in giro. Magari ci trovassi una perla, nei cenci, ma che me ne farei? Mi toccherebbe portarla a casa e metterla insieme alle conchiglie, alle fotografie, alle monetine, agli anellini di metallo. Sarebbe una vittoria senza la premiazione, sarebbe come fare fortuna con il commercio della lana delle vigogne in un posto sperduto sulle Ande nel sud del Cile. Su quali strade potrei girare la domenica a esibire i miei sei metri di Mercedes? Sulle mulattiere in mezzo agli indios? Che senso avrebbe? Se trovassi una perla nei cenci sarebbe come quando il mio cognato, tanti anni fa, segnò il gol della vittoria della sua squadra nel torneo estivo dei bar: non mi ricordo esattamente come mai andò per le lunghe, mi pare che durante le eliminatorie ci fu una rissa, il torneo venne sospeso, dissero che non sarebbe ripreso e forse mai più disputato. Poi però, una volta allontanati i soggetti più pericolosi e squalificate le loro squadre, decisero di arrivare in fondo. La finale si giocò allo stadio comunale in notturna un sabato sera di fine luglio. C’era il pienone, forse anche otto-novemila persone. Finì zero a zero. Non c’erano ancora i rigori, all’epoca. La domenica non si potè rigiocare, qualcuno rinunciò per la stanchezza, qualcuno aveva fissato l’ombrellone al mare. La ripetizione fu fatta di mercoledì, era già il 2 agosto, la gente era già partita per le ferie, dovettero giocare in nove contro dieci, allo stadio non c’era nessuno. Il mio cognato segnò il gol decisivo, vinsero uno a zero. Ma nessuno se lo ricorda.” E anche se fosse una bugia, quella del dente, del dito o della perla, sarebbe innocua. Poi però quando arriva il fanfarone, lo spaccone, quello eccessivo, irriguardoso, l’irrispettoso che racconta di averci trovato un negro intero in una balla di stracci cambia tutto, le cose non sono più quelle di prima. Sovverte gli equilibri, fa saltare il banco, ribalta il tavolo, spariglia il mazzo. Perchè per quanti anni tu possa aver cercato e continuato a cercare e trovare perline, conchiglie, monili, monete, banconote e rotoli di banconote un negro non ce lo dovresti trovare, un negro intero intendo dire. E’ rivoluzionario, un negro tutto intero e dentro una balla di stracci. E’ sovversivo. Inquietante, antitetico, osceno, paradossale, clamoroso, grottesco, fragorosamente ridicolo, penoso e sensazionale al tempo stesso, illogico, straordinariamente fuori luogo, pacchiano, esplosivo nella miseria della sua tragicomicità, buffo per la sua monumentale inadeguatezza. E’ una balena spiaggiata sull’isola di Wight il giorno del concerto, è il frigorifero della vodka al melone nella cantina della base spaziale che va in corto circuito il giorno del primo allunaggio Il negro nella balla è la tragedia dell’estate. Perchè un negro nella balla non ha nessun valore, tranne quello simbolico, perchè non è commerciabile, perchè non ti ci potrai comprare nessun mobile per la cucina e nessun divano nuovo, incomprensibile come lo è agli occhi di un indio la Mercedes di un pratese che ha fatto fortuna esibita la domenica sui sentieri di un villaggio andino nel sud del Cile ai margini dei campi dove pascolano le vigogne. Non è oggetto di scambio in nessuna valuta, è fuori mercato. E se lo diventa, oggetto di mercato, è finita. Un negro in una balla qualcuno ce lo trovò davvero o è solo una leggenda? Come ci finì esattamente in quella balla, per un caso, una disgrazia, fu un tranello o ci entrò volontariamente? Ma soprattutto: parlò? E se non parlò, com’è poco probabile ma come hanno tuttavia provato a farci credere, cosa avrebbe voluto dirci? Nel tentativo di dare una risposta alla domanda “Perchè è finito il gioco? Perchè ad un certo punto, senza che ci accorgessimo di niente, è saltato tutto?” e per ricostruire quella vicenda siamo andati in cerca di testimonianze, qualcuna attendibile altre meno, qualcuna attinente altre poco. Qualcuna evasiva, altre solamente elusive. Qualcuna davvero non c’entra niente, e quelle in modo particolare ci sono sembrate le più plausibili in relazione allasolo apparente manifesta illogicità della domanda. Non è molto ma è tutto quello che si poteva fare. Alcuni passi sono stati riportati esattamente come ci sono stati raccontati, alcune parole ed espressioni abbiamo preferito lasciarle in forma colloquiale, sarebbe stato inutile procedere a collocarle in una dimensione letteraria o tradurle in un italiano catodico. Si sarebbe perduto quanto di autentico abbiamo recuperato e la mutazione del linguaggio nel tempo avrebbe definitivamente corrotto l’originalità di quel fatto. Alla fine di questo lavoro possiamo dire di saperne qualcosa (non molto, ma qualcosa) in più. Lungi da noi la presunzione di aver convinto tutti sull’autenticità di quel ritrovamento ma anche ammesso (e non concesso) non sia mai avvenuto si pone un altro interrogativo: il negro nella balla fu delirio individuale o allucinazione collettiva? “A sapello...” 8 settembre Era nell’aria quell’8 settembre del 1943 che la situazione non sarebbe potuta andare avanti così. Era da troppo tempo che durava quella condizione di incertezza nel paese e in città, di angoscia per la popolazione sottoposta a una minaccia continua, di allarme per le forze dell’ordine, di tensione per i militari, di crisi istituzionale sfociata ormai nell’ingovernabilità, di difficoltà per l’industria, di miseria per i commercianti alle prese con le scarse possibilità dei cittadini, gli scaffali vuoti e la concorrenza spietata della borsa nera. Le istituzioni erano scomparse inghiottite dalla loro stessa vigliaccheria e incapacità, la chiesa lanciava il suo messaggio di dolore nel vuoto, la gente o taceva impaurita o gridava la propria disperazione. Era da troppo tempo che il problema della pedonalizzazione del centro storico doveva essere affrontato e risolto, non si poteva andare avanti così, e l’8 settembre del 1943 malgrado i decreti luogotenenziali che invitavano a non perdere la testa il problema emerse in tutta la sua drammaticità. Fioriere, cartelli, segnalazioni orizzontali, vigili, ausiliari del traffico, studi urbanistici e relativi onerosi compensi agli ingegneri, divieti, divieti a macchia di leopardo, divieti con finestre notturne, divieti con finestre abusive, cordoli in cemento: la popolazione era stremata. Ma quel giorno in particolare, fin dalle prime ore del mattino, si presentava un altro dubbio, coincidente: si sarebbe fatta o no la cerimonia dell’ostensione della sacra cintola? Da qualche giorno i giornali scrivevano che una delegazione di alti ufficiali dell’esercito si trovava in Sicilia per concordare l’armistizio con gli alleati ma i giornali di bugie ne avevano scritte fino ad allora a volontà, però il comitato di liberazione nazionale aveva annunciato che le cose sarebbero presto cambiate e che avremmo avuto una stampa libera e indipendente. Proprio gli alleati già da una settimana avevano cominciato a distribuire graziosi regali in città facendo piovere dall’alto dalle fortezze volanti che oscuravano il terso cielo dei pomeriggi tardoestivi enormi uova con la sorpresa, le quali cadendo sulla stazione centrale, oltre che su case e fabbriche, l’avevano fatta crollare. Ed era un peccato perché bella bianca nuova di zecca in quel modo la stazione dei treni non se lo meritava, di venire giù in una nuvola di calcinacci e fumo, tanto che il Nunziati davanti a quello scempio esclamò “In questa città ‘un regna nulla”, attirandosi una volta di più addosso gli odi dei monarchici che lo sospettavano da tempo di avere simpatie anarcoidi.